poloniaeuropae Storie.Spazi.Idee in rete

Ricordare la seconda guerra mondiale

n. 1/2010 In copertina: dettaglio da Pablo Picasso, Visage de Femme (5 décembre 1950), disegno di una serie di 29 intitolata Visages de la Paix, edita in volume da Cercle d'Art nel 1951 insieme a 29 poemi di Paul Eluard, e riproposta ora sotto forma di piatti in ceramica da Galerie l’Art e la Paix Éditeur © Succession Picasso, Paris.

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poloniaeuropae 2010 3 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

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RICORDARE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Paolo Morawski Ai nostri lettori

GUERRA POLACCA, EUROPEA, MONDIALE

Norman Davies, Włodzimierz Kalicki Polacchi, nazisti, sovietici, alleati, americani, europei (due interviste) Sandra Cavallucci La seconda Repubblica di Polonia nel 1939: tra mito e verità storica Francesco M. Cataluccio La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo Christian Bernardo La Svizzera e gli internati militari: dall’armata dell’Est del generale Charles Denis Bourbaki alla seconda Divisione fanti fucilieri del generale Bronisław Prugar-Ketling John e Carol Garrard Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado

POLACCHI, TEDESCHI

Giuseppe [Józef] Czapski Sull’insurrezione di Varsavia. Lettera aperta a Giacomo Maritain e Francesco Mauriac, del 5 ottobre 1944 Jacek Zygmunt Sawicki Lotte per il monumento in ricordo dell’insurrezione di Varsavia del 1944 Marianne Birthler, Joachim Gauck, Anna Kaminsky Festeggiare il 1989 significa anche ricordarsi del 1939. Lettera degli intellettuali tedeschi per il 70° anniversario del patto Hitler-Stalin del 23 agosto 1939

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Józef Michalik, Robert Zollitsch Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale polacca S.E. Józef Michalik e del Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi S.E. Robert Zollitsch in occasione del 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale, il 1° settembre 1939 Basil Kerski Cambia il clima, cambiano le narrazioni. Appunti su come i tedeschi ricordano la guerra e sui contrasti polacco-tedeschi intorno al “Centro contro le espulsioni”

POLACCHI, UCRAINI, RUSSI

Paolo Morawski Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo Krystyna Kalinowska Moskwa Il museo virtuale Kresy-Siberia Vincenzo Maria Palmieri I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń pubblicati su “La vita italiana” (luglio 1943) Kazimierz Karbowski François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta del 1943 sul massacro di Katyń Paolo Morawski Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe» e la manipolazione della verità Aleksandr Šelepin Lettera sull’eliminazione dei prigionieri polacchi del capo del KGB a Nikita Sergeevič Chruščёv, primo segretario del Comitato centrale del PCUS, scritta il 3 marzo 1959 Joanna Żelazko I russi e Katyń oggi Redazione di “poloniaeuropae” Settantesimo anniversario dell’aggressione di Hitler alla Polonia Adam Michnik Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin sulla seconda guerra mondiale e i rapporti tra polacchi e russi. Con una nota su Katyń, tra storia e propaganda Francesco Maria Cannatà “Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo

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L’ODISSEA DEL SECONDO CORPO D’ARMATA POLACCO

Gustaw Herling-Grudziński L’ultimo capitolo (25 agosto 1969) Józef Czapski, Gustaw Herling-Grudziński Dialogo intorno al Comandante, il generale Władysław Anders, in occasione della sua scomparsa (1970) Gustaw Herling-Grudziński Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca». Pagine dal Diario scritto di notte (1984-1994), a cura di Marta Herling Marta Herling Una lapide di sasso nel gulag. Sulle tracce di Gustaw Herling da Ercevo a Montecassino Giuseppe Campana 1943-1947. Il secondo Corpo d’armata polacco in Italia Mieczysław Rasiej Il mio lungo cammino verso Torino Alberto Turinetti di Priero Una grande e terribile battaglia, ma non tutto accadde a Montecassino e Cassino Valentino Rossetti “Dal Volturno a Cassino” — un sito italiano dedicato alle battaglie di Cassino Lutz Klinkhammer Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in , lungo la linea Gustav, a Montecassino Helena Janeczek Venti tombe con la stella di Davide nel cimitero polacco di Montecassino Fondazione romana J. S. Umiastowska Opere riguardanti il secondo Corpo d’armata polacco possedute dalla biblioteca della Fondazione (aprile 2010) Mario Fratesi Le ricerche sul secondo Corpo d’armata polacco in Italia. L’attività svolta dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche Basil Kerski La rivista “Kultura” di Jerzy Giedroyc Redazione di “Kultura” Il primo editoriale della rivista dell’emigrazione polacca (1946)

poloniaeuropae 2010 7 indice

MEMORIE UNITE E DIVISE

Parlamento Europeo Sul 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi l'8 maggio 1945 Parlamento Europeo Sui crimini di guerra commessi dai regimi totalitari Parlamento Europeo Sulla proclamazione del 23 agosto “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” Simone Sibilio Seconda guerra mondiale e cinema documentario: alcune memorie della riva sud del Mediterraneo

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Ai nostri lettori di Paolo Morawski

indagare il «volto di una cultura di cui sappiamo soltanto che esiste e che noi amiamo senza poterne ancora individuare le risonanze». A parlare così nel 1938 era il romanziere, filosofo e drammaturgo francese Albert Camus in riferimento al Mediter- raneo. Oggi è la vecchia Europa rinnovata che ci appare esuberante di vita in tutti gli ambiti della creatività, veemente nella sua diversità, forte del contrasto tra i suoi molti sud, nord, est, ovest. Quest’Europa giovane eppure saggia, rivolta indietro quanto proiet- tata in avanti vorremmo coglierla attraverso una finestra particolare — quella polacca; e attraverso un filtro peculiare — quello italiano. Ragionare sulla Polonia dall’Italia in modo non esclusivo; introdurre nuove curiosità verso un paese lontano e al contempo vicino; in- seguire più vasti lidi europei immettendo un fattore di benefica distanza dalle vicende tanto polacche quanto italiane — ecco le prime disordinate ambizioni di poloniaeuropae. poloniaeuropae non nasce da alcuna pressante necessità del momento. La sua ur- genza, semmai, è data dalla passione per il confronto, dall’interesse per l’effervescente simultaneità dei tempi storici, dalla costante attenzione per la traduzione. Traduzione da una lingua all’altra ma, con intenti più larghi, traduzione da una sensibilità e cul- tura a un’altra. Consapevoli del fatto che in Europa — e non solo nell’ambito dell’UE — le prospettive bilaterali hanno la loro importanza, certo, ma solo se arricchite da una visione d’insieme, continentale, allargata a est e a sud all’intero spazio euro-mediter- raneo: dal Baltico al Mar Nero all’Atlantico. Uno spazio che — come la stessa Polonia, come la stessa Italia, come ieri l’Est e oggi il Centro-Est — si presenta plurale, etero- geneo, differenziato, dinamico, non esattamente delimitabile, mutante. Storie. Spazi. Idee in rete — recita il sottotitolo di poloniaeuropae. Storie: perché quello che ci lega e divide come europei è, oltre alla lingua, in- nanzitutto la storia, ciò che riconosciamo come tradizione; quindi i “nostri” modi diversi o comuni di intendere i fatti, talvolta gli stessi fatti, donde un plurale di narrazioni in- dividuali e collettive, antiche o recenti quando non in atto, che difficilmente si lasciano ricondurre a un unico denominatore. Spazi: perché non c’è storia senza geografia, tempo senza spazio, fatto senza luogo, contenuto senza contenitore — e viceversa. Ricordarlo non è banale. “Spazio” evoca più aperte estensioni, più ampi cieli e orizzonti, fisici e mentali.

poloniaeuropae 2010 9 Ai nostri lettori

Idee: parola sempre giovane, meno lisa forse di “dialoghi” o di “incontri”, che co- munque ricerchiamo. Le idee racchiudono forme di incontro, di dialogo. Evocano un senso di ebollizione creativa, vitale. Il dialogo, un muoversi generoso in avanti e indietro. L’incontro, un senso di accoglienza, un andare verso. E richiama pure, nell’etimologia, il corpo a corpo, meglio se critico, con l’altro — tema, oggetto, territorio, persona o gruppo umano che sia. In rete: qui i contenuti sono gratuiti. In rete possiamo raggiungere tutti gli inte- ressati. La rete è réseau, network. Il titolo poloniaeuropae unisce due parole declinate in latino. In latino, per ab- bracciare ciò che è diviso. In latino si è costruito gran parte del sapere che le diverse aree del continente si sono trasmesse nel corso dei secoli in tutti i campi. In latino si sono incontrati mille anni fa i primi “polacchi” con i primi “italiani”. Il latino: lingua viva finché il mondo classico e il pensiero antico continuano a esserci contemporanei. Non solo, dunque, per un fatto grafico, per gusto estetico. Per una questione di radici pro- fonde. Il primo campo visivo di poloniaeuropae riguarda la seconda guerra mondiale con particolare attenzione al modo in cui, attorno alle singole vicende belliche e della rico- struzione, le esperienze e i punti di vista dei polacchi si intersecano con altre sensibilità e altri punti di vista, in patria e all’estero. Nel prisma della guerra si è scomposta l’in- tera Europa. La cesura del 1939-45 ha segnato la “fine del mondo di ieri”. Oggi il futuro del continente si gioca anche in relazione alla capacità di costruire un minimo territorio comune sul piano delle memorie, per ora divise. 14 marzo 2010. Grazie all’apporto fondamentale dell’Ufficio Consolare dell’Amba- sciata della Repubblica di Polonia a Roma e della Fondazione Romana J.S. Umiastowska di Roma, inauguriamo poloniaeuropae.

Paolo Morawski. Nato a Varsavia (1955). Vive e lavora a Roma. Dirigente RAI. Studioso di storia europea. È co-coordinatore di “pl.it — annuario italiano di argomenti polacchi”. Col- labora a “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, a “Polonia Włoska” e alle attività scien- tifiche della Fondazione romana J.S. Umiastowska di Roma. Con il fratello Andrea Morawski ha scritto Polonia Mon amour. Dalle Indie d'Europa alle Indie d'America (Ediesse, Roma 2006). Dal libro è nato poi il blog “Polonia mon amour” (www.polonia-mon- amour.eu). Con Jacques Le Goff ha scritto per i licei italiani il manuale Età medievale (Marietti, Milano 1988).

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Guerra polacca, europea, mondiale

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Polacchi, nazisti, sovietici, alleati, americani, europei (due interviste)1

di Norman Davies, Włodzimierz Kalicki

Traduzione di Urszula Jasińska

Nel 1939 i polacchi si sono comportati molto bene. Il bilancio di sei anni di guerra2

Włodzimierz Kalicki: Era proprio inevitabile che i venti anni della Polonia indi- pendente dovessero finire con il settembre 1939? Norman Davies: Dopo la prima guerra mondiale due grandi stati europei, la Ger- mania e la Russia sovietica, non hanno mai accettato l’assetto politico stabilito a Ver- sailles. Negli anni Venti e Trenta, agendo di nascosto, ma il più delle volte apertamente, mirarono a rovesciare l’assetto costituitosi in Europa. Erano, dunque, legati da un obiet- tivo comune e da lunghe tradizioni di cooperazione come, ad esempio, durante le spar- tizioni della Polonia. E la Polonia, per sua sfortuna, si trovava giusto tra questi due grandi stati. Per di più, la Francia e la Gran Bretagna, pur avendo concluso un’alleanza difen- siva con Varsavia, non intendevano affatto rispettare i patti. In quella configurazione geopolitica la seconda Repubblica polacca non aveva nessuna chance di sopravvivere.

W.K. — Quindi la propaganda tedesca aveva ragione a definire la seconda Repub- blica di Polonia uno Stato stagionale, Saisonstaat? N.D. — I tedeschi sapevano quel che dicevano, perché distruggere la Polonia era nei loro intenti. Ma i tedeschi non erano gli unici a considerare la Polonia un fenomeno transitorio. L’assetto mondiale dell’inizio del XX secolo si era formato nell’Ottocento. A quell’epoca non esistevano entità come lo Stato polacco, i Paesi baltici, la Jugosla- via o la Cecoslovacchia. Per i politici, non solo quelli di Berlino o del Cremlino, ma anche francesi, inglesi o americani, queste entità statali erano come bizzarri tumori:

1 Questo testo presenta, per la prima volta in traduzione italiana, alcuni significativi passaggi di due interviste di Włodzimierz Kalicki a Norman Davies. Si ringrazia “Gazeta Wyborcza” e, in par- ticolare, Włodzimierz Kalicki ed Ewa Sobulska, per averne autorizzato la traduzione e pubblica- zione in italiano. 2 NORMAN DAVIES, W 1939 r. Polacy się świetnie spisali, z prof. Normanem Daviesem rozmawia Włodzi- mierz Kalicki, “Gazeta Wyborcza”, 23-08-2009 (http://wyborcza.pl/1,97737,6952313,Norman_Davies__W_1939_r__Polacy_sie_swietnie_spisali.html).

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questa espressione infelice, magari pure offensiva, rende però l’idea di quanto fossero pericolosi gli umori allora. Gli anni Trenta costituiscono, infatti, l’epoca degli imperia- lismi. I cosiddetti leader democratici consideravano del tutto naturale l’esistenza di potenze investite di diritti e privilegi speciali.

W.K. — Quali? N.D. — Le potenze annoveravano tra i loro privilegi quello di decidere sul destino degli stati più piccoli. Nell’Europa centrale la Cecoslovacchia era il pupillo dell’Occi- dente, una specie di prima della classe. A Praga si rispettavano sempre con un certo ri- gore le procedure democratiche, non si manifestavano tendenze autoritarie diffuse in altri paesi nati dopo la prima guerra mondiale. In Boemia vivevano tantissimi tedeschi, pertanto i cechi erano filorussi, in senso strategico non ideologico. Anche questo pia- ceva molto all’Occidente. Ma quando la Germania rivendicò i Sudeti, al colloquio con Hitler, Chamberlain e Daladier neanche pensarono a invitare i cechi. Alle loro spalle, nel 1938 consegnarono i Sudeti a Hitler lasciando in pratica tutto il Paese in pasto al Terzo Reich. Così si sono comportati gli occidentali con il loro pupillo. E in quella stessa classe la Polonia faceva parte degli alunni più scarsi, quelli che siedono nell’ultimo banco, non ascoltano i professori e creano sempre confusione. Quello polacco, non era un par- tner comodo per Francia e Gran Bretagna. Non si prestava al ruolo di palla da giocare. Piłsudski e il suo gruppo consideravano la Russia un nemico irriducibile. Cercavano di condurre una politica estera piuttosto indipendente; anzi, avevano l’ambizione di svol- gere il ruolo di potenza regionale. Tutto questo a Parigi e a Londra suscitava irritazione, anzi, ostilità. Che noia questi polacchi e i loro eterni problemi con tutti i vicini: tede- schi, russi, cechi… Con chi e a quale gioco stanno veramente giocando?

W.K. — Verso la fine della sua vita Piłsudski propose a Parigi una guerra preven- tiva contro i tedeschi. N.D. — La guerra di prevenzione sembra avere un senso nell’ottica di oggi, ma al- lora era impensabile. Sull’Europa pesava ancora l’ombra degli enormi sacrifici della prima guerra mondiale. Distruggere la pace senza un motivo drastico, provocare di nuovo milioni di vittime: questo per le società democratiche era inaccettabile. Non c’è da prendersela con Parigi se, quando fu sondata su questo argomento, ignorò la propo- sta polacca.

W.K. — Però c’è da prendersela con Parigi per non aver reagito per molti anni al ravvicinamento e alla cooperazione tra Berlino e Mosca, a partire dagli accordi di Rapallo nel 1922. Le esercitazioni tedesche con armi anticarro e l’aviazione in assetto offensivo, esercitazioni che i vincitori della prima guerra mondiale avevano vietato ai tedeschi, erano puntate non solo contro la Polonia, ma in generale contro l’ordine di Versailles. N.D. — Non è così semplice. Lei vede la cooperazione tedesco-sovietica dalla pro- spettiva di oggi, tenendo a mente il patto Ribbentrop-Molotov e il 17 settembre 1939. Tuttavia all’epoca di Rapallo in Germania imperversavano iperinflazione, caos e fame; la Russia era dominata da una povertà indescrivibile, stretta — manco a dirlo — in una morsa di fame. Nessuno in Europa vedeva le loro relazioni come una pericolosa alleanza

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tra due potenze economiche e militari, ma piuttosto come una tresca tra storpi, come nei quadri di Breughel. È ovvio che chiunque era sano di mente non aveva dubbi sul grande potenziale di entrambi gli Stati; però, a quanto era dato prevedere, quelle potenzialità non sarebbero state sfruttate che molti anni dopo, forse addirittura con la generazione successiva. Molti politici responsabili in Europa, vedendo l’isolamento di Mosca e di Berlino, giungevano alla conclusione opposta: collaborano tra loro perché noi li trattiamo come dei paria. La sicurezza in Europa ci impone però di trattarli meglio. Ecco perché negli anni Venti si sono fatti notevoli sforzi per far rientrare Berlino nel con- certo diplomatico; perché si è fatto finta di non vedere come la Germania eludeva le restrizioni del Trattato di Versailles; e perché negli anni Trenta l’URSS è stata accolta con soddisfazione nella Lega delle Nazioni.

W.K. — C’era qualche chance per Varsavia di creare con Praga una compatta coalizione militare che trattenesse Hitler dalla spartizione della Cecoslovacchia e salvasse la Polonia dalla disfatta di settembre? N.D. — Lo spazio per migliorare le relazioni polacco-ceche non mancava, ma non era quella la chiave di volta della situazione. Tutti in Europa erano fissati con l’idea che solo la posizione delle grandi potenze avesse un peso. Anche se i polacchi si fossero messi d’accordo con i cechi, ciò non avrebbe avuto grande rilevanza sullo scacchiere della grande politica. E senza l’appoggio dell’Occidente le forze armate cecoslovacche e polacche non erano in grado di affrontare Hitler. Del resto la Boemia era minata dalla minoranza tedesca e politicamente paralizzata. Il ché non significa che bisognava occupare i territori sul fiume Olše. Questa mossa ha dato all’Europa la bruttissima impressione che Varsavia fosse alleata con Hitler. Nessuno in Occidente ricordava le ori- gini del problema delle regioni sull’Olza, né sapeva che nel 1919 i Boemi avevano rotto l’accordo con la Polonia occupando le zone abitate da molti polacchi.

W.K. — Nel 1939 era ipotizzabile qualche compromesso tra la Polonia e il Terzo Reich? E se lo era, avrebbe portato vantaggio alla prima? N.D. — Poche cose in politica sono impossibili in assoluto. Nel 1929, una persona sana di mente avrebbe forse potuto pensare che dieci anni dopo i primi ministri britannico e francese, sotto il diktat di Berlino, avrebbero costretto la Cecoslovacchia a capitolare e a rendere alla Germania una parte del loro Paese? In Europa, fino al marzo 1939, ogni alleanza o cambio di alleanza era possibile. Un’alleanza con la Polo- nia, naturalmente non astratta ma puntata contro l’URSS, rimaneva per Hitler una que- stione aperta. Il Führer sondò su questo terreno i colonnelli polacchi al governo. In teoria le élite politiche e militari polacche non avrebbero dovuto essere restie a col- laborare con la Germania; si dà il caso che venti anni prima gli stessi uomini, in uniforme da legionari, erano stati compagni d’arme con i soldati austriaci e tedeschi; e, fianco a fianco, avevano combattuto insieme contro i russi. Ma durante la prima guerra mondiale la Germania e l’Impero austro-ungarico furono partner politici e militari del tutto rispettabili. Con loro ci si poteva accordare e, in genere, aspettarsi che avrebbero rispettato gli impe- gni. È vero, i territori polacchi erano logorati dalla politica economica di Berlino e di Vienna, ma questo era dovuto allo sforzo bellico, non al proposito politico di logorare la nazione po- lacca. Del resto i tedeschi e le nazioni dell’impero non se la passavano molto meglio.

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Hitler non era il kaiser. I colonnelli polacchi al potere conoscevano bene il suo regime. Abbastanza bene per non avere illusioni. Infatti, siamo già dopo la notte dei lunghi coltelli, la notte dei cristalli, dopo la destabilizzazione della Cecoslovacchia con l’aiuto della minoranza tedesca. Ogni politico dotato di buon naso doveva aver capito che Berlino non era un partner degno di questo nome. Quindi, il ministro Józef Beck, rifiutando i suggerimenti di Hitler, ha fatto quello che avrebbe dovuto fare. Natural- mente sulla sua decisione ha influito anche l’assicurazione di sostegno data alla Polo- nia dagli alleati occidentali. Legarsi a Hitler significava per certi versi andare alla catastrofe. Non bisogna pensare alla Seconda Repubblica come alla Polonia attuale. Oggi è un paese etnicamente uniforme, allora le minoranze rappresentavano uno dei problemi più gravi per lo Stato. Se Varsavia fosse salita sul treno di Hitler, prima o poi sarebbe scoppiata la questione ucraina. Gli ucraini formavano la minoranza più numerosa in Polonia. I tedeschi avevano già certe tradizioni di cooperazione con gli ucraini. Penso che molto presto i territori orientali polacchi sarebbero passati sotto un qualche protettorato tedesco o governo militare, e la Polonia ne avrebbe perso completamente il controllo. La seconda questione è il destino degli ebrei polacchi. Verso la fine della guerra i nazisti hanno dimostrato una volontà fanatica e ideologica di sterminare gli ebrei europei. Se il governo polacco avesse imboccato la via delle concessioni nei confronti di Berlino, non sarebbe stato in grado di difendere dallo sterminio i cittadini polacchi di nazionalità ebrea. Hitler pretese la consegna degli ebrei perfino da Mussolini. Il Duce esitò e i tedeschi dovettero aspettare. Ma dopo la caduta di Mussolini le SS tentarono in ogni dove di raggiungere gli ebrei italiani. Scendere a compromessi con Hitler significava fare i conti con la prospettiva che un giorno egli avrebbe rivendicato non solo il corridoio della Pomerania, ma anche il via libera per il passaggio della Wermacht in Polonia. Anzi, avrebbe chiesto la partecipa- zione dei soldati polacchi alla spedizione contro Mosca. Un tale scenario rappresentava per la Polonia una catastrofe in ogni caso: sia se la guerra fosse stata vinta dalla coali- zione degli alleati occidentali con Stalin, sia se Hitler avesse vinto la guerra o solo l’avesse protratta di qualche anno. No, un compromesso con Hitler non era pensabile, e nella primavera del 1939 tutti in Polonia lo capivano perfettamente.

W.K. — Tutti in Polonia, ad eccezione di alcuni comunisti, sapevano anche perfettamente che l’URSS era una reale minaccia per il loro Paese. Perché l’Occidente non voleva vederlo? N.D. — I politici dotati di lucidità non si facevano la benché minima illusione sul comunismo. Churchill paragonava i comunisti ai babbuini. Ma le amministrazioni fran- cese, britannica e americana subivano la notevole influenza degli agenti di diversione sovietici. E molti politici, peraltro seri, nutrivano sul comunismo ingenue illusioni. Le cose d’importanza chiave sono successe però nella seconda metà degli anni Trenta. Quando il Terzo Reich uscì dalla Lega delle Nazioni e l’Unione Sovietica entrò a farne parte, tutti pensarono che Stalin fosse un politico moderato, un partner nella comune difesa dal fascismo. In Occidente quasi tutti consideravano il fascismo più

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pericoloso del comunismo. Perché? Da una parte Stalin mascherava benissimo le sue intenzioni, dall’altra la guerra civile in Spagna aveva fatto da banco di prova. Con la vittoria dei fascisti aiutati da Hitler l’Occidente rimase ossessionato dall’idea di un solo nemico, un solo uomo distruttore della pace: Hitler. Ma se i repubblicani avessero sconfitto il generale Franco con l’aiuto di Stalin, l’Europa avrebbe considerato Stalin il suo nemico numero uno.

W.K. — Alla vigilia della guerra, cercando di formare una coalizione efficace contro il Terzo Reich, gli alleati accettarono che l’Armata Rossa entrasse in Polonia per combattere i tedeschi. Non si rendevano conto delle conseguenze dell’invito rivolto alle divisioni sovietiche? O forse ammettevano cinicamente che dopo la sconfitta di Hitler la Polonia sarebbe stata data per persa? N.D. — Dopo il 1920 i polacchi sapevano perfettamente quello che l’Armata Rossa era. L’Occidente invece ragionava nei termini della prima guerra mondiale, quando le truppe britanniche e poi americane erano entrate in Francia per combattere i tedeschi e, dopo la vittoria, salutate con mazzi di fiori, erano tornate a casa. Penso che i politici inglesi e francesi semplicemente non si fossero posti il problema delle conseguenze di un eventuale via libera del governo polacco all’entrata delle truppe sovietiche in Polonia. Certo, sarebbe stato come invitare la volpe nel pollaio. Recentemente sono stato in Estonia dove ho saputo i particolari di come andò con l’ingresso delle truppe sovie- tiche in quel paese. Nel 1940 Stalin estorse ai Paesi baltici il consenso all’entrata del- l’Armata Rossa e alla costruzione di basi militari sovietiche. Così, oltre ai militari, arrivarono migliaia di operai con la scusa di dover costruire le infrastrutture. E furono proprio loro, gli operai, a marciare poi su Tallin, a organizzare comizi, azioni di prote- sta, disordini, per far cadere il governo. L’Armata Rossa non vi partecipò, ma era evidente che si sarebbe mossa, se il governo avesse solo tentato di difendersi. Proba- bilmente in Polonia Stalin avrebbe avuto il compito facilitato, perché nei territori orien- tali una parte sostanziale di biancoruteni [bielorussi] e di ucraini avrebbe appoggiato i sovietici. Era imperativo per Varsavia rifiutare l’idea di far entrare l’Armata Rossa nel Paese: sarebbe stato un suicidio.

W.K. — Il 17 settembre alle 16:00, a Kuty, sul confine polacco-rumeno, si tenne una riunione con la partecipazione del governo polacco, del presidente Mościcki e del comandante in capo, maresciallo Rydz-Śmigły. Né in quell’occasione, né in seguito, le autorità polacche si decisero a dichiarare ufficialmente la guerra all’aggressore so- vietico. Fu un errore? N.D. — Errore sarebbe stato dichiarare la guerra. Agli occhi di Londra e Parigi, la Russia, seppur bolscevica, era un potenziale alleato strategico. Il 22 giugno 1941, giorno dell’attacco di Hiter all’Unione Sovietica, gli alleati occidentali avrebbero rinunciato alla causa polacca. La dichiarazione di guerra a Stalin avrebbe portato alla Polonia solo danni e nessun vantaggio. Non avrebbe evitato né il crimine di Katyń, né le deportazioni di massa dei polacchi. Se il governo polacco in esilio, dopo l’attacco di Hitler all’URSS e sotto le pressioni di Churchill, non avesse concluso in fretta il trattato di pace con Stalin, certamente non sarebbe stato possibile formare l’armata polacca in URSS al

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comando del generale Anders e, così, portare via decine di migliaia di polacchi dal- l’Unione Sovietica. Dopo la guerra, durante i negoziati dei tre Grandi sui confini, la Polonia si sarebbe trovata in una posizione peggiore.

W.K. — L’epopea del governo in esilio e delle battaglie delle forze armate polac- che in Occidente aveva essenzialmente un obiettivo supremo: ricostruire lo Stato democratico entro i confini dell’anteguerra. Invece il governo del generale Sikorski non ha mai preso di punta la questione dei confini orientali né nelle relazioni con gli alleati occidentali, né nei colloqui con Stalin. N.D. — In Francia Sikorski si è trovato in una situazione molto difficile. Il governo polacco rimaneva sotto la stretta sorveglianza dei francesi, lasciato alla loro mercé. Premere su Parigi sulla questione dei confini con l’URSS non era nemmeno pensabile. A quel tempo — prima della caduta folgorante della Francia — la sconfitta della Polonia in settembre appariva ancora molto rapida e di poco stile.

W.K. — E dopo la caduta della Francia, quando gli inglesi temevano un’invasione tedesca, quando gli aviatori polacchi difesero i cieli d’Inghilterra? N.D. — Nella battaglia d’Inghilterra un aviatore su dieci era polacco. Credo che il loro impegno è stato decisivo per la sconfitta della . Gli aviatori polacchi hanno probabilmente salvato la Gran Bretagna. Ma i loro meriti non si traducevano direttamente in una maggiore forza politica del governo polacco, soprattutto nella que- stione del confine orientale. L’opinione dell’Occidente era contraria ai polacchi per quanto riguardava i loro territori orientali. Su questo pesava il retaggio delle sparti- zioni. Nel 1939, quando l’Armata Rossa invase i territori orientali, l’ambasciatore po- lacco a Londra, conte Raczyński, pubblicò sulla stampa una dichiarazione di protesta. La reazione fu immediata: gli esperti britannici, tra cui l’allora direttore del mio istituto di Londra, sir Bernard Pares, lo attaccarono perché per loro quei territori erano russi. La propaganda zarista per anni li aveva martellati con l’idea che i russi, i bielo- russi e gli ucraini erano tutti la stessa cosa. Quindi Sikorski doveva muoversi in un con- testo non solo d’ignoranza, ma addirittura di false conoscenze storiche da parte dei partner britannici. Per Churchill la cosa più importante era l’impegno dei sovietici nella guerra con- tro Hitler. Evitava screzi col Cremlino come il diavolo l’acquasanta. Sikorski non poteva contare su da lui per un appoggio nella questione dei confini.

W.K. — Sikorsi avrebbe mai potuto estorcere da Stalin una qualche dichiarazione sul confine con la Polonia? N.D. — Senza un sostegno deciso degli alleati, no. Stalin non aveva intenzione di fare dichiarazioni nemmeno nell’autunno 1941, quando la Wermacht stava alle porte di Mosca. E poi, man mano che l’Armata Rossa riportava successive vittorie, men che mai fu propenso a fare concessioni alla Polonia.

W.K. — Però sotto la pressione congiunta di Churchill e Roosevelt avrebbe ceduto? N.D. — Può darsi, in qualche misura, perché non era certamente possibile mante- nere il confine orientale della Polonia tale quale, vale a dire com’era prima della

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guerra. Forse si sarebbe potuto negoziare un confine lungo la linea Curzon, ma con essenziali ritocchi a favore della Polonia. Il problema è che né Churchill, né Roosevelt mai intavolarono con Stalin un di- scorso serio sul confine orientale polacco. Ciò era alquanto comprensibile nella prima fase della guerra. L’Armata Rossa si sobbarcava il peso di fermare Hitler, teneva impe- gnate le forze principali della Wermacht, subendo danni giganteschi. Le forze di terra britanniche, dopo la sventurata campagna del 1940 in Francia, erano in disfacimento. Gli Stati Uniti, in tempo di pace avevano una fortissima marina militare; ma il loro eser- cito, nel 1939, era quasi sette volte inferiore all’armata polacca! Però, verso la fine della guerra, gli Alleati disponevano ormai di enormi forze di terra, e nell’aria erano molto più potenti dei sovietici. Ciò nonostante, anche allora sulla questione dei confini rimasero muti. Eppure avevano degli argomenti validi. Infatti, grazie ai rifornimenti americani di armi e di mezzi l’Armata Rossa aveva potuto riportare eclatanti vittorie e avanzare rapidamente verso ovest. Stalin non voleva conflitti con i suoi alleati, anche perché dopo la guerra avrebbe dovuto collaborare con loro nella gestione della Ger- mania distrutta. Prevedeva, in cooperazione con le altre grandi potenze, di strappare alla Germania enormi riparazioni di guerra senza le quali risollevare l’URSS dalle ma- cerie della guerra sarebbe stato molto difficile. Voleva, inoltre, svolgere un ruolo importante nell’Organizzazione delle Nazioni Unite progettata dall’Occidente. Infine, l’elemento forse più importante: Roosevelt aveva dichiarato a Jalta che al massimo entro due anni dopo la guerra, l’armata americana sarebbe tornata oltre l’oceano. È facile indovinare che Stalin tenesse moltissimo a che questa ipotesi si realizzasse. In- vece, in caso di conflitto palese, gli americani sarebbero potuti rimanere in Europa. Forse il rientro degli americani oltre oceano sarebbe valso, per Stalin, qualche concessione in merito al confine polacco. In fin dei conti la Polonia — i presupposti per crederlo c’erano tutti — si sarebbe trovata comunque nella sfera d’influenza sovietica. Gli alleati avevano in mano carte valide da giocare, ma non le hanno mai usate per la causa dei confini polacchi. E nemmeno per definire con chiarezza la sfera d’influenza sovietica in Europa dopo la guerra.

W.K. — Perché? N.D. — Fino allo sbarco in Normandia Churchill e Roosevelt si trovavano in posizione di disagio: non avevano ancora mantenuto la promessa di creare il secondo fronte. Non era una posizione propizia per mettere Stalin con le spalle al muro. Gli americani com- battevano una seconda guerra sul Pacifico — contro il Giappone — che forse per loro, a dispetto delle dichiarazione ufficiali di Washington, era più importante della guerra in Europa. Contavano sull’aiuto di Stalin per sconfiggere il Giappone. In quella situazione gli interessi della Polonia non avevano per Roosevelt grande importanza. Certo, gli ame- ricani trattavano i polacchi da amici, ma solo se le loro strade convergevano.

W.K. — Sikorski non poteva premere su Roosevelt? N.D. — Nella seconda guerra mondiale la Polonia ebbe la sfortuna di essere sem- pre coalizzata con l’alleato più debole. All’inizio con la Francia e, alla fine della guerra, con la Gran Bretagna che stava perdendo terreno. Churchill dovette ridimensionare sempre più i suoi obiettivi, perfino quelli che riguardavano la Gran Bretagna, figuria-

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moci quelli polacchi. Washington non aveva impegni formali verso il governo polacco non avendo firmato con esso alcun trattato di alleanza. Del resto è un comportamento tipico per la politica americana: non legarsi con i trattati, ma sistemare tutto in modo informale, a voce. Quando Sikorski è morto a Gibilterra, non c’era più nessuno a sollecitare la que- stione del confine. Sikorski era stato a Londra sin dall’estate 1940, aveva autorità. Invece Stanisław Mikołajczyk non era un interlocutore né per Churchill, né per Roose- velt. Quando Mikołajczyk, prima dei colloqui a Mosca, incontrò Roosevelt, questi gli diede qualche pacca sulle spalle dicendo di non preoccuparsi che tanto tutto sarebbe andato per il meglio. Tutto qui. Dopo l’insurrezione di Varsavia del 1944 Churchill con Roosevelt addirittura boicottarono Mikołajczyk.

W.K. — Però quando Roosevelt era in corsa per il terzo mandato, la comunità polacca in America ebbe una chance per costringerlo a fare qualche dichiarazione sui confini. N.D. — È vero che nel 1944 la Polonia ebbe la più grande importanza politica di tutta la sua storia. Roosevelt era a capo del Partito democratico. Partito sostenuto dai sindacati. E nei sindacati contavano molto Detroit, Chicago, Cleveland, grandi agglo- merati industriali in cui gli operai di origine polacca avevano un ruolo chiave. Ma Roo- sevelt era circondato da ammiratori di Stalin. Il suo consigliere principale, Harry Hopkins, era molto probabilmente un agente infiltrato sovietico. Quando la delegazione delle comunità polacche in America incontrò Roosevelt, i suoi consiglieri inscenarono quell’incontro così: il presidente seduto sulla sedia a rotelle e, sullo sfondo, la carta geografica della Polonia con i confini dell’anteguerra. Roosevelt non ha detto: vi pro- metto questi confini. Niente impegni. E gli emigrati polacchi che non avevano alcuna esperienza politica, si sono immaginati da soli che quell’ottimo presidente parteggiasse per la Polonia, e non hanno chiesto altro. Non bisogna nemmeno incolpare i politici in esilio per non aver posto la questione dei confini all’ordine del giorno della coalizione. L’esperienza della prima guerra mon- diale, infatti, era diversa: decisioni del genere si deliberavano nella conferenza di pace. Durante la guerra c’era da fare una cosa sola: battersi dalla parte giusta. E i polacchi l’hanno fatto. A Londra, Narvik, Tobruk, Falaise, Monte Cassino. Mettiamo le cose in chiaro: durante la guerra il governo polacco in esilio non aveva in pratica nessuna voce in capitolo riguardo ai confini. Se mai fosse stato possibile ap- portare qualche cambiamento al tracciato dei confini che la Polonia ha attualmente, que- sto dipendeva esclusivamente dalla volontà dei tre Grandi: Stalin, Churchill e Roosevelt.

W.K. — E sarebbe stato possibile? N.D. — Ritengo fosse realistica la possibilità di lasciare Leopoli [oggi L’viv, in Ucraina] dalla parte polacca. Prima della conferenza di Teheran, Stalin capiva bene che in via di principio c’era l’assenso di concedergli vantaggi territoriali, ma non si era an- cora stabilito quali. A Teheran Churchill dichiarò che accettava la linea Curzon come base per la discussione. Al suo ritorno a Londra commissionò agli esperti del Foreign Of- fice un’analisi delle diverse opzioni per il tracciato del confine vicino a Leopoli. Furono elaborate quattro proposte. Ciascuna di esse lasciava Lwów dalla parte polacca.

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Se Roosevelt avesse appoggiato la posizione di Churchill probabilmente oggi il confine polacco-ucraino passerebbe a est di Lwów. Ma il secondo giorno della confe- renza di Teheran il presidente americano, senza informarne Churchill, incontrò Stalin in privato. Durante quell’incontro Roosevelt affermò che non ci sarebbero stati pro- blemi circa il confine polacco-sovietico. Stalin lo capì al volo: poteva prendersi anche Lvov. Però la questione dei confini va vista in un’ottica d’insieme. Se Lwów fosse ri- masto dalla parte polacca, non è detto che Stalin avrebbe voluto poi ricompensare i suoi clienti, i comunisti polacchi, dividendo la Prussia orientale tedesca. Non si sa nem- meno se avrebbe voluto premere, contro la posizione degli alleati, per la consegna alla Polonia dell’intera Bassa Slesia fino al fiume Neiss. E anche di Stettino. Infatti, alla conferenza di Potsdam Churchill si impuntò sul fatto che Breslau [oggi Wrocław, in Po- lonia] doveva essere tedesca. S’impuntò per motivi sentimentali. Da giovane ufficiale, ancora prima della prima guerra, aveva partecipato a Breslau alle grandi manovre mi- litari dell’armata del kaiser e si vede che quel soggiorno gli aveva lasciato dei bei ri- cordi. Insistendo sulla linea Oder-Neiss, Stalin voleva mettere i polacchi nella situazione di eterno confronto con la Germania. E ci riuscì. Infatti questa situazione è durata mezzo secolo e anche oggi, a Varsavia, c’è chi pensa esattamente come voleva il ge- neralissimo.

W.K. — Dopo la guerra molti polacchi ritenevano che le soluzioni decise dai tre Grandi fossero per la Polonia una catastrofe storica. N.D. — Credo che il bilancio non sia univoco. Con la perdita dei territori orientali si è perso un importante retaggio storico e culturale. Ma quella regione, prima della guerra scarsamente sviluppata, fu distrutta come nessun’altra nella storia dell’Europa. Una Polonia controllata da Stalin, dietro la cortina di ferro, senza il piano Marshall, come avrebbe fatto a sobbarcarsene la ricostruzione? Che cosa sarebbe successo se, dopo il crollo del comunismo, la minoranza di qualche milione di ucraini, insediata nei territori orientali polacchi, si fosse trovata con il proprio Stato dietro il confine? Una seconda Jugoslavia a portata di mano? La Polonia di oggi è strutturata essenzialmente secondo la ricetta di Stalin. Il co- munismo è sparito, il dominio del Cremlino idem, ma lo Stato è rimasto compatto, uninazionale. Bisogna rendersi conto che i polacchi non hanno avuto influenza né sulle vicende della Polonia nella seconda guerra mondiale, né sulla forma della Polonia po- stbellica. Nel senso che né sui campi di battaglia, né nei gabinetti diplomatici avreb- bero potuto ottenere più di tanto. Molto invece avrebbero potuto perdere. E comunque sono riusciti a evitare errori che sarebbero costati moltissimo. Penso che sia un bilan- cio rispettabile per i sei anni di battaglie cominciate il 1°settembre 1939.

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Ripensare la seconda guerra mondiale3

Włodzimierz Kalicki: Sulla seconda guerra mondiale sono stati scritti più di dieci mila libri. Perché a sessant’anni anni dalla guerra ha ritenuto necessario scrivere un nuovo libro di sintesi intitolato L’Europa in guerra? 4 Norman Davies: C’è una famosa foto di Vladimir Lenin che arringa la folla nel 1917. Lev Trockij sta al suo fianco. Poi la foto è stata ritoccata per cancellare Trockij. Il più influente commissario di Lenin era svanito. Per 70 anni in URSS non c’era modo di sapere chi fosse per davvero, quali idee avesse in realtà. Falsare il ricordo del passato è possibile, e non solo in un paese totalitario quale era l’URSS. In Polonia questo sta avvenendo sotto i nostri occhi. Ancora non è stata scritta una storia di Solidarność rigorosa, completa, obiettiva, e già un gruppo politico si è messo a modificarla, ad aggiustarla secondo i propri bisogni. Sotto gli occhi atto- niti dei testimoni di quelle vicende si cancellano dalle carte della storia non solo sin- goli individui, ma interi gruppi politici. Una cosa simile è successa con l’immagine della seconda guerra mondiale. Gli stati partecipanti hanno creato ad uso proprio delle visioni singole, mistificate del grande conflitto. Le società e gli storici le hanno accettate. Le mitologie della seconda guerra, soprattutto in Europa, a settant’anni anni dalla sua fine, rimangono tuttora più forti della conoscenza vera.

W.K. — La storia è stata sempre scritta perlopiù dai vincitori. N.D. — Questo era vero nei tempi lontani, ma la storiografia moderna ha elaborato versioni coerenti praticamente di tutti i conflitti della storia. Col passare del tempo tra gli studiosi di tutto il mondo, quelli seri, è stato raggiunto un consenso. Non cono- sco uno storico responsabile che affermi, per esempio, che la prima guerra non sia co- minciata nel 1914. Invece l’inizio della seconda guerra è poco chiaro, nebuloso, percepito in modi di- versi. É un’illusione pensare che tutti lo identifichino con la data del 1 settembre 1939. Nella storiografia sovietica e russa prevale la mitologia della grande guerra per la Patria, la «Grande guerra patriottica»; e volutamente si lasciano nell’ombra i primi anni del conflitto. Questo ovviamente per creare l’impressione che l’URSS fosse solo vittima dell’attacco della Germania di Hitler e non avesse niente a che vedere con gli atti di aggressione precedenti. Per i russi la guerra è cominciata nel giugno 1941.

3 NORMAN DAVIES, II wojna, wydanie poprawione, z prof. Normanem Daviesem rozmawia Włodzi- mierz Kalicki, “Gazeta Wyborcza”, 31-10-2008 [http://wyborcza.pl/1,97737,5863390,II_wojna__wydanie_poprawione.html]. 4 Si tratta di Norman Davies, Europa walczy 1939-1945. Nie takie proste zwycięstwo, Znak 2008; traduzione in polacco di: Europe at War 1939–1945: No Simple Victory, Pan Macmillan Publishers, London 2006 (n.d.r.).

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Per gli americani lo stesso nel 1941, ma nel mese di dicembre, quando gli USA at- taccati dal Giappone hanno cominciato i combattimenti. Naturalmente ogni storico americano sa che cosa è accaduto nel 1939, ma oltre oceano quelle vicende, nel rac- conto, appartengono al preludio della guerra. Esiste un’altra ottica ancora. Per coloro che ritengono l’Olocausto il tema prin- cipe della guerra, questa comincia nel 1941 con la messa in funzione della macchina na- zista per lo sterminio industriale degli ebrei. Tutto quello che era successo prima ne costuisce soltanto la premessa.

W.K. — L’immagine della guerra che lei descrive [nel suo nuovo libro] è partico- larmente lugubre: la seconda guerra in Europa come braccio di ferro tra il Terzo Reich e l’URSS. In questo braccio di ferro le democrazie, dall’inizio alla fine, avevano ben poco da dire. E ancora: uno scontro tra due gangster totalitari intorno ai quali le democrazie in veste di camerieri si fanno in quattro, servendo panini, cioè qualche aiuto materiale, al gangster che rappresenta il male minore; e solo alla fine si uniscono efficacemente nella lotta finale. N.D. — È stato un conflitto a triangolo, ma, in effetti, il fatto più importante era il braccio di ferro tra la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin. La guerra contro il Terzo Reich è stata vinta dall’URSS. L’Armata Rossa ha riportato le sue vittorie decisive, a Stalingrado e a Kursk, quando gli esigui eserciti alleati combattevano sui fronti perife- rici, insignificanti per la sorte della guerra, mentre Londra e Washington erano occupati prima di tutto a conquistare il controllo strategico sulle vie di comunicazione nel- l’Atlantico. Basti pensare che Hitler mandò in Africa solo una quindicina di divisioni, mentre sul fronte orientale qualche centinaio. La storiografia occidentale non ne vuole parlare, preferisce occuparsi degli scontri sul fronte occidentale. L’Armata Rossa univa consapevolmente la quantità e la qualità. Laddove la qualità non era sufficiente, senza battere ciglio sacrificava la vita di migliaia di soldati.

W.K. — Se gli alleati non avessero invaso la Francia e creato il secondo fronte, Stalin avrebbe vinto lo stesso con Hitler? N.D. — Credo che avrebbe vinto e l’Europa sarebbe diventata una grande Unione Sovietica. Ma la mistificazione dell’immagine della guerra in Occidente non si limita al sottovalutare l’enorme contributo dell’URSS alla vittoria. Quando Churchill optò per collaborare con Stalin, disse pubblicamente che doveva sedersi al tavolo con il diavolo per sistemare la faccenda con Hitler. Per lui fu il male necessario. Gli americani non capivano che si trattava di collaborare con il diavolo. Sono più moralizzatori degli inglesi, perciò avevano bisogno di credere che tutto era a posto. La società, l’armata, i politici venivano nutriti dalla propaganda che mostrava l’URSS come una democrazia che si batteva spalla a spalla con l’America per la causa comune. Quasi tutti accettavano quell’immagine della Russia sovietica e dello zio Joe, un democratico sincero. E così è rimasto fino ad oggi. Non possiamo pensare e scrivere di Stalin, nostro alleato, mostrandolo come un grande criminale, senza macchiare la nostra memoria sulla guerra, la nostra meravi- gliosa vittoria pagata con tanto sangue. Per fare un ragionamento onesto su questa

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guerra sarebbe stato necessario rivalutare anche la propria partecipazione al conflitto. Mentire a se stessi che i gulag e il tremendo terrore staliniano non erano mai esistiti era più facile. Quel bisogno era talmente forte che persino nel periodo della guerra fredda, quando la propaganda occidentale addirittura demonizzava l’Unione Sovietica, nessuno si azzardò a parlare male dei crimini sovietici perpetrati durante la guerra. Qual è stata la reazione quando Solženicyn negli anni Settanta svelò le dimensioni dell’oppressione comunista? Tutti in Occidente davano tacitamente per scontato che il Gulag avesse funzionato negli anni Trenta, dopodiché fosse scomparso, per riprendere le sue attività all’indomani della guerra. L’ho sperimentato sulla mia pelle. Gli storici di Oxford, i miei colleghi, parlano senza riserve del terrore sovietico, ma mai nel contesto della seconda guerra. Il dibat- tito sulla guerra assume una dimensione diversa in cui le conoscenze sullo stalinismo di colpo svaniscono. Non si può infangare la nostra gloriosa vittoria. Eppure, quella vitto- ria non è stata né gloriosa, né del tutto nostra.

W.K. — Sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza dei rifornimenti americani di armi e mezzi dati all’URSS. N.D. — Questi aiuti furono senz’altro enormi, ma la maggior parte dei rifornimenti arrivò in URSS quando l’esito della guerra era ormai deciso. Del resto anche senza i carri armati e gli aerei americani l’Armata Rossa se la sarebbe cavata benissimo. Di fondamentale importanza furono invece le forniture di camion, ben- zina e vettovaglie. I russi non ne avevano. L’Armata Rossa avrebbe comunque battuto i tedeschi, ma grazie ai camion e alle jeep degli americani fu in grado di farlo in un baleno, in tempi davvero da capogiro. Infatti l’operazione Bagration5 o la presa della Bielorussa rappresentarono in termini militari, piuttosto che una marcia, una corsa vittoriosa. Dopo che l’Armata Rossa batté le divisioni corazzate tedesche a Kursk, i tedeschi furono incapaci di condurre una qualsivoglia offensiva strategica. Ma per sfruttare quel vantaggio occorreva la mobilità dei russi. E gliela offrirono gli americani. Grazie alle loro forniture, Stalin guadagnò almeno sei mesi, oltre alla libertà d’azione sul piano strate- gico. Così poté permettersi di fermare le sue divisioni nei pressi di una Varsavia in mano agli insorti e di occupare una parte consistente dei Balcani.

W.K. — Gli americani se ne rendevano conto? N.D. — Per loro era uguale. Ponevano solo una condizione: Hitler non doveva vin- cere sul fronte orientale. Per loro questo fronte non aveva alcuna importanza politica, ma esclusivamente militare.

5 Era il nome in codice dato dai sovietici alla grande offensiva vittoriosa dell’Armata Rossa nel- l’estate 1944 in Bielorussia e nella Polonia orientale. Combattuta contemporaneamente allo sbarco in Normandia sul fronte occidentale, l’operazione Bagration costituì probabilmente l’offensiva so- vietica maggiormente riuscita di tutta la guerra sul fronte orientale. In termini di perdite umane e materiali fu la più pesante sconfitta subita dalla Wehrmacht tedesca durante il conflitto, ancor più grave della stessa battaglia di Stalingrado (n.d.r.).

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W.K. — Roosevelt non ha mai voluto porre condizioni politiche in cambio dei rifornimenti? N.D. — Gli americani hanno dato ai russi tutto sulla parola, senza un pezzo di carta e senza il controllo sull’uso degli aiuti. Non sappiamo se gli alleati, ponendo qualche condizione politica, avrebbero ottenuto da Stalin qualcosa di essenziale. Eppure un argomento ce l’avevano, magari più valido degli aiuti materiali. Stalin contava molto sull’Occidente nella prospettiva dell’organizzazione delle riparazioni di guerra a carico della Germania. Sapeva che dopo la prima guerra mondiale i tedeschi avevano efficacemente eluso il pagamento dei danni, mentre lui progettava di rico- struire l’URSS con i soldi spremuti ai tedeschi. Per questo aveva bisogno di una buona cooperazione con gli americani. Ma loro nemmeno tentarono con lui un discorso da uomo a uomo.

W.K. — Perché? N.D. — Perché militarmente gli americani erano più deboli dei russi. Portavano avanti, infatti, due guerre: con Hitler e con il Giappone. E nonostante le loro dichiara- zioni ufficiali non è mica tanto sicuro che la guerra in Europa fosse per loro la più importante. Non volevano rischiare delle beghe con Stalin.

W.K. — Una monografia onesta sulla seconda guerra mondiale è solo un esercizio in cui si tratta di interpretare correttamente le conoscenze dettagliate disponibili al giorno d’oggi? O ci sono ancora aspetti importanti, ma del tutto sconosciuti, nella storia di questa guerra? N.D. — A tutt’oggi sappiamo molto poco su uno dei momenti chiave della guerra: il confronto tra Berlino e Mosca nell’autunno 1940. Dopo la vittoria lampo sulla Fran- cia, Hitler aveva in mano carte molto forti. In Occidente gli rimaneva solo un avversa- rio, la Gran Bretagna, militarmente molto fiacca, separata dal canale che, pur ostacolando l’invasione delle Isole, rendeva altrettanto difficile un’eventuale incur- sione britannica sul continente. A quanto pare, Hitler fece allora un tentativo di stabi- lizzare la situazione nell’Europa dominata dal Terzo Reich. Suggerì a Stalin di indirizzare l’espansione sovietica al sud, verso i mari caldi. Stalin esigeva però il ritiro delle truppe tedesche dalla Finlandia, chiedeva il diritto di prendere la Romania e voleva assicurarsi un dominio effettivo sulla Turchia. Ancora oggi non sappiamo come Stalin valutasse quella situazione, quali opzioni prendesse in considerazione, che cosa volesse ottenere in definitiva. Gli storici sono d’accordo nell’assumere che dopo la caduta della Francia, Stalin temeva Hitler. Probabilmente è vero, c’erano motivi per averne paura. Non sappiamo se Stalin vedesse chiaro la situazione e giocasse a mente fredda secondo un piano prestabilito, o, colto dalla nevrosi, prendesse decisioni senza riflettere sulle conse- guenze. Io non escludo nessuna di queste possibilità.

W.K. — Queste lacune nelle conoscenze si estendono fino al giugno 1941. Non esi- ste ancora una spiegazione convincente sul perché l’Armata Rossa fosse del tutto impreparata alla guerra contro il Terzo Reich. N.D. — È vero. Non sappiamo perché le forze armate sovietiche siano state dislo-

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cate lontano verso ovest, giusto nei pressi del nuovo confine tedesco-sovietico stabilito dal patto Ribbentrop-Molotov, abbandonando così le potenti fortificazioni predisposte da anni più a est, sul confine sovietico-polacco d’anteguerra. Di conseguenze le linee di rifornimento sovietiche si allungarono drammaticamente; l’aviazione sovietica con- centrata sotto il naso dei tedeschi era esposta a un attacco repentino. È molto strano, giacché il raggruppamento di tutti gli aerei vicino alla linea di confine offendeva ogni principio di difesa. E infatti, nei primi giorni dell’operazione Barbarossa6 da parte tedesca, l’aviazione sovietica, sebbene molto più numerosa dell’avversaria, fu prati- camente annientata dalla Luftwaffe. C’è un’altra cosa, ancora più strana. Poco prima dell’attacco tedesco, i coman- danti sovietici di grado inferiore avevano chiesto ai loro capi di ritirare l’aviazione all’interno del paese, di allontanarla dal confine. Il vertice non acconsentì. Per completare il mistero arriva il fatto accaduto nella notte tra il 21 e il 22 giu- gno. La macchina da guerra tedesca è pronta, gli ordini di attaccare all’alba sono par- titi. All’una di notte, tre ore prima dell’attacco, un soldato comunista tedesco diserta, attraversa a nuoto il Bug raggiunge i sovietici e li avverte che la Wermacht sta per attaccare. L’informazione è talmente importante che il comandante sovietico chiama il Cremlino. Al ché Stalin, invece di chiedere che il disertore sia interrogato e conse- gnato a Mosca, invece di impartire ordini operativi, ordina di fucilarlo. Capisco che poteva non aver creduto a tale informazione. Ma perché subito fucilarlo? La sua mossa ha tutta l’aria di eliminare un testimone scomodo, ma testimone di che cosa? Forse dell’ingenuità politica di Stalin, forse della sua indecisione. Ecco un’altra domanda senza risposta. Non so perché Stalin abbia esposto l’Armata Rossa all’attacco tedesco. Spero sol- tanto di aver descritto bene l’attuale stato delle nostre conoscenze su questi fatti.

W.K. — Gli archivi britannici e americani nascondono ancora la spiegazione di qual- che mistero importante della seconda guerra? N.D. — Non lo escludo. Pochissime ricerche sono state condotte sulla trasmissione delle informazioni durante la guerra. Invece è un aspetto fondamentale delle decisioni più importanti prese dagli alleati occidentali e da Stalin. Le decisioni del presidente Roosevelt e, generalmente, lo stile della sua politica nei confronti dell’Europa centro- rientale e della Polonia in particolare, suscitano spesso tra i polacchi reazioni di stizza.

6 L’operazione Barbarossa, che prese il nome dall’imperatore Federico Barbarossa (Unternehmen Barbarossa), era il nome in codice tedesco per l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. Prese avvio il 22 giugno 1941, aprendo a est il più grande teatro di operazioni della seconda guerra mondiale. L’avanzata tedesca si esaurì con la battaglia di Mosca dell’au- tunno-inverno 1941-1942; e fallì tra l’estate del 1942 e l’inverno (febbraio) 1943 con la battaglia di Stalingrado, che segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l’inizio della controffensiva sovietica verso ovest.

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Ebbene sì, gli americani non si curavano del fronte orientale, erano felici che, a com- battere e a vincere lì, ci fossero i sovietici. Perciò erano propensi ad accettare le ri- chieste sovietiche: giacché versate il sangue al posto nostro, avrete pur diritto di ottenere qualcosa in cambio. Sospetto però che molte decisioni prese dalla Casa Bianca a vantaggio del Crem- lino siano dovute non tanto alla mancanza d’interesse, quanto all’assimilazione di in- formazioni sovietiche. Sono convinto che lo spionaggio americano assorbiva in modo acritico sia le informazioni spionistiche manipolate dai russi, sia le informazioni pre- confezionate sulla situazione dell’URSS e del fronte orientale. Un’altra questione è l’attività degli agenti di diversione sovietici infiltrati nell’amministrazione americana. Sappiamo per esempio che Harry Hopkins, consigliere di fiducia più vicino al presi- dente Roosevelt, era un uomo del Cremlino, ma sicuramente si potrebbero scoprire altri personaggi del genere. Sarebbe interessante fare una ricerca negli archivi per mettere in luce le dimensioni e gli effetti di queste infiltrazioni; varrebbe anche la pena di ritornare al progetto Venona utilizzato dopo la guerra dallo spionaggio bri- tannico per decodificare i messaggi segreti spediti dai sovietici durante il conflitto. Nelle ricerche sulla seconda guerra la trasmissione e il controllo delle informazioni rimane ancora un campo vergine. Bisogna sempre tenere conto del materiale nuovo che può venire a galla cam- biando l’immagine del passato. Nel 1994 gli storici hanno scoperto per caso, negli archivi dei partiti comunisti occidentali, degli appunti scritti, il 19 agosto 1939, da uno dei membri esteri del Comintern durante un discorso di Stalin al politburo sovietico. Stalin esponeva le ragioni e i contenuti dei suoi piani politici. Annunciava la prossima distruzione della Polonia e l’annessione della Galizia ucraina; e, in una prospettiva più lunga, prefigurava una tattica finalizzata a far protrarre al massimo il conflitto tra Germania da una parte e Francia e Gran Bretagna dall’altra.

W.K. — Lo si poteva intuire osservando le svolte delle politica sovietica. N.D. — Questi appunti dimostrano che il capo della Russia sovietica, alla vigilia della guerra, non era un osservatore passivo e innocente che reagiva unicamente alla mutevole situazione politica — come spesso si è cercato di presentarlo — bensì un po- litico determinato a prender parte alla grande guerra europea che avrebbe cancellato i confini nel Vecchio Continente. Soltanto che intendeva attaccare dopo tre, quattro anni di conflitto a Occidente, quando Germania, Francia e Inghilterra avessero esaurito le forze. Stalin credeva che, dal punto di vista militare, l’imminente guerra tedesco- francese avrebbe grosso modo ricalcato la staticità degli scontri avvenuti sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale. Ragionando a freddo, il persistere della Gran Bretagna a impegnarsi nella guerra era estremamente rischioso. Nessuna società di assicurazioni responsabile avrebbe assicurato una tale politica.

W.K. — Quali sono le importanti questioni della seconda guerra riguardanti la Polonia che, secondo lei, non sono state tuttora chiarite? N.D. — Ce n’è ancora qualcuna. Per esempio la questione del confine orientale. Quasi tutti gli storici polacchi sostenevano che alla conferenza di Teheran [novembre

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1943] Churchill e Roosevelt avessero accettato di spostare il confine orientale polacco sulla linea Curzon. Lasciando, cioè, sottinteso che il futuro di quel confine fosse stato suggellato a Teheran. Invece Churchill ha detto — lo sappiamo dagli stenogrammi bri- tannici dei colloqui registrati in inglese — che la linea Curzon poteva costituire «the basis of discussion». Ossia: cominciamo a parlare del confine partendo dalla linea Curzon. È tutta un’altra cosa rispetto al dichiararsi d’accordo con questa linea. Al suo ritorno a Londra Churchill commissionò ai suoi funzionari l’elaborazione di diverse opzioni per il tracciato del futuro confine polacco-sovietico. Predisposero quat- tro proposte diverse. Tutte prevedevano di lasciare Lwów dalla parte polacca. Quindi, agli occhi di Churchill, la questione di Lwów non solo non era ormai decisa a svantag- gio della Polonia, ma si sarebbe dovuta risolvere a suo favore. Il secondo giorno della conferenza di Teheran, Roosevelt, all’insaputa di Churchill, incontrò Stalin in privato e gli disse che non ci sarebbero stati problemi circa il confine polacco-sovietico. In parole povere, diede a Stalin la luce verde per regolare la que- stione per il verso suo. Fino ad oggi non mi risulta chiarito quali fossero le ragioni per cui Stalin ignorò la posizione di Churchill in una questione tanto importante. Avrà capito Stalin il suo ragionamento? In questo contesto sarebbe importante accertare quali parole ed espres- sioni ha utilizzato durante il loro colloquio l’interprete di Churchill e se ha trasmesso fedelmente le sfumature del discorso del premier britannico. Uno degli interpreti inglesi alla conferenza di Teheran, Hugh Longie, vive ancora. Nonostante l’età molto avanzata e i problemi di salute ha conservato una mente lucida e una buona memoria. L’avevo contattato per sentirlo al riguardo. Purtroppo non è stato lui a tradurre il colloquio di Churchill circa il confine polacco. Forse paragonando gli stenogrammi inglesi e russi si potrebbe capire qualcosa in più? Questo esempio dimostra bene fino a che punto lo storico impegnato in un’opera di sintesi dipende dai risultati dei colleghi che si occupano di ricerche particolari. Da una parte, scrivere una sintesi è possibile grazie al lavoro meticoloso degli speciali- sti, dall’altra, è impossibile approfondire da soli i problemi che loro non hanno affrontato.

W.K. — La guerra sul fronte orientale, quello decisivo, era una lotta tra quantità e qualità… N.D. — Mio suocero [polacco] raccontava di come in un bosco a Porąbka aveva visto l’Armata Rossa per la prima volta. Era il gennaio del 1945. In prima linea avanzava la fanteria, perfettamente armata, in tute bianche, sugli sci. Dopo di loro passava la seconda onda, un’orda di asiatici selvaggi in stracci, uniformi a pezzi, sacchi in spalla, arraffando tutto quello che era mangiabile. Dietro ancora correva la terza ondata: agenti dell’NKVD, in eleganti montoni rovesciati, su jeep americane, sparando a ogni soldato sovietico rimasto indietro. L’Armata Rossa univa consapevolmente e sapiente- mente la quantità con la qualità, naturalmente laddove poteva raggiungerla, per esem- pio nell’aviazione tattica, nelle unità corazzate. Ma quando la qualità non bastava, senza battere ciglio sacrificava la vita di centinaia di migliaia di soldati.

W.K. — La seconda guerra ha dimostrato che il soldato di uno Stato totalitario,

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schiavizzato, sottoposto al terrore dai suoi, sul fronte esterno non combatte peggio, anzi, forse meglio, del soldato di uno Stato democratico, uomo libero, consapevole dei valori per i quali si sta battendo. È molto inquietante. N.D. — Non è così semplice. L’Armata Rossa ha sfornato milioni di disertori, la più grande quantità di disertori nella storia. Nella prima fase della guerra i soldati sovietici si consegnavano in massa alla prigionia; in poco tempo i tedeschi presero cinque milioni di prigionieri. D’altro canto i soldati dell’Armata Rossa si battevano con un incredibile disprezzo per la morte. Dalle relazioni tedesche sappiamo che la disperazione degli “Ivan” era terrificante, morivano in massa, ma dietro di loro pro- cedevano in file altri soldati: avanti, avanti e avanti ancora. Forse andavano avanti, esponendo il petto alle pallottole tedesche, solo perché rimanere indietro significava ricevere un colpo sicuro nella schiena dall’unità di sbarramento dell’NKVD? È una buona domanda. L’Unione Sovietica avrebbe battuto i tedeschi anche senza le jeep americane, ma grazie ad esse ha potuto farlo in tempi da capogiro. Non sono uno psicologo, ma mi domando se uno schiavo sovietico tirato fuori dal kolchoz, dalla fabbrica, dalla paura quotidiana, in un certo senso non si sentisse li- bero, rischiando la morte e anche morendo armi in mano. Era l’unico momento in cui poteva sentirsi libero. Per questo andava avanti gridando: «per la Patria, per Stalin, hurrah!» In URSS la guerra ha mobilitato la società a un punto tale che nessuno, nemmeno Stalin, avrebbe potuto prevedere prima. L’evacuazione dell’industria dalla parte eu- ropea dell’URSS agli Urali e fino in Siberia fu un successo inimmaginabile. Le fabbri- che, dislocate nell’agosto 1941 dall’Ucraina a Magnitogorsk, già in dicembre sfornavano i primi carri armati perfettamente funzionanti!

W.K. — Questa guerra ha avuto come conseguenza degli enormi spostamenti forzati di popolazione. Oggi parleremmo di purghe etniche. Ammessa tutta la crudeltà in essi implicita, ammesso il giudizio morale oggi chiaramente negativo, tali sfollamenti di masse di civili non hanno forse contribuito alla stabilità politica dell’Europa? N.D. — Guardo la questione dal punto di vista personale. La famiglia di mia mo- glie ha perso tutto a Lwów, è stata costretta a partire con una sola valigia. Non rie- sco a vedere aspetti positivi nell’espulsione politica di masse umane. In tali atti non vi era alcuna giustizia, si trattò di brutali decisioni belliche. La guerra è crudele non solo durante le azioni militari, ma anche dopo, nelle sue conseguenze. Per me è cu- rioso che Churchill e Roosevelt, senza battere ciglio, abbiano partecipato allo spo- stamento dei confini polacchi e abbiano contribuito alla decisione di trasferire a ovest milioni di tedeschi. Eppure sapevano benissimo quale sarebbe stato il costo umano delle loro scelte.

W.K. — Il tempo della guerra si conclude simbolicamente con il processo di Norimberga. A prescindere dalle colpe degli imputati nazisti, quel processo spesso ebbe poco a che vedere con gli standard del diritto internazionale. N.D. — Per la parte sovietica a Norimberga fece la sua comparsa [Andrej]

poloniaeuropae 2010 29 Polacchi, nazisti, sovietici, ...

Vishinskij, il procuratore dei processi dimostrativi sovietici prima della guerra. Sen- z’altro sarebbe dovuto comparire in quel tribunale, ma sul banco degli imputati. Insomma, non era un tribunale internazionale, ma il tribunale dei vincitori che giudicavano gli sconfitti. Ha condannato giustamente il Terzo Reich, ma ha evitato in tutti i possibili modi di ragionare sulle azioni compiute dagli alleati contro la legge. Il finale di Norimberga è stato come la vittoria in questa guerra: moralmente equi- voco e, anni dopo, del tutto mistificato.

Norman Davies, storico britannico di origini gallesi, nato nel 1939, vive tra Oxford e Cracovia. È stato docente di Storia in diverse università della Gran Bretagna (a Oxford e, dal 1985 al 1996, alla School of Slavonic and East European Studies all’Università di Londra), degli Stati Uniti e del Giappone. Collaboratore di “The Times” e di “The New York Review of Books”, ha pubblicato vari libri particolarmente attenti alla storia della Polonia e dell’Europa centrorientale. Tra questi, tradotti in italiano: La rivolta. Varsa- via 1944: la tragedia di una città tra Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2004; e Storia d’Eu- ropa, in 2 volumi, Bruno Mondadori, Milano 2006. Con Roger Moorhouse ha scritto anche: Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Bruno Mondadori, Milano 2008. Il suo ultimo libro è dedicato alla seconda guerra mondiale: Europe at War 1939—1945: No Simple Victory, Pan Macmillan Publishers, London 2006.

Włodzimierz Kalicki, nato nel 1954, scrittore e giornalista polacco. Negli anni Settanta e Ottanta ha scritto per “Kultura” e collaborato con la stampa clandestina e cattolica. Durante la legge marziale, l’Associazione clandestina dei giornalisti polacchi gli conferì il premio “Jerzy Zieliński”. Lavora come giornalista alla “Gazeta Wyborcza” sin dalla sua fondazione. È vincitore di prestigiosi premi, tra cui il premio polacco-tedesco dell’As- sociazione dei giornalisti polacchi (1997), il “Pulitzer polacco 1998”, il Premio “Dariusz Fikus” (2000), il Premio Grand Press (2000). Ha pubblicato tra l’altro Ostatni jeniec wielkiej wojny. Polacy i Niemcy po 1945 roku (2002).

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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939: tra mito e verità storica

di Sandra Cavallucci

Intorno alla seconda Repubblica di Polonia e alla sua élite politica — soprattutto quella degli anni Trenta — sono fioriti infiniti miti e leggende. Sono innumerevoli le cri- tiche mosse alla politica polacca del periodo 1938-39 e sono tante le “leggende nere” che circondano le scelte di Varsavia in quegli anni cruciali. Il principale protagonista di quelle scelte fu il ministro degli Esteri Józef Beck, anch’egli giudicato negativamente dai suoi contemporanei e successivamente dagli storici. Questo articolo si propone di sfatare le credenze più comuni e popolari relative alla Polonia di quella epoca, rimet- tendo in prospettiva i principali temi che hanno alimentato le critiche degli storici e dei pubblicisti.

Collaborazione segreta tra la Polonia e la Germania nel 1938?

Le voci di una presunta collaborazione segreta tra la Polonia e la Germania risali- vano al 1934, quando i due Paesi avevano firmato una dichiarazione di non aggressione (26 gennaio). Da quel momento, soprattutto ad opera della diplomazia francese e so- vietica, si iniziò a sospettare che Varsavia e Berlino si fossero accordate per andare oltre lo spirito del patto di non aggressione. In realtà non vi era nessun protocollo se- greto e non vi erano intese sovversive tra i due firmatari. Tuttavia le voci non cessarono. Anzi, aumentarono nel corso del tempo anche a causa dei ripetuti inviti tedeschi rivolti alla Polonia affinché questa si unisse al patto anti-Comintern. Quelle congetture tro- varono nuove presunte conferme durante le crisi del 1938. In marzo la Germania annetté l’Austria (Anschluss). Le grandi potenze, che fino a poco prima avevano considerato la sovranità dell’Austria il simbolo della pace di Ver- sailles, non reagirono. Dal canto suo, la Polonia colse l’occasione per sciogliere una di- sputa ventennale nel settore settentrionale. Tra la Polonia e la Lituania non intercorrevano rapporti regolari, a causa della controversia relativa al possesso della città di Vilnius, occupata dalla Polonia nell’immediato dopoguerra e costantemente ri- vendicata dalla Lituania. Sull’onda emotiva dovuta all’Anschluss e in seguito a un inci- dente di frontiera, Varsavia inviò alla Lituania un ultimatum per instaurare normali relazioni diplomatiche L’iniziativa ebbe successo, ma i già diffusi sospetti di una coo- perazione segreta polacco-tedesca trovarono conferma nella coincidenza di metodi e tempi tra l’azione tedesca in Austria e quella polacca in Lituania. Poco dopo, la crisi cecoslovacca fornì nuova linfa a quei sospetti. Le relazioni tra Praga e Varsavia erano offuscate dall’occupazione cecoslovacca del distretto di Teschen nei primi anni del dopoguerra. Non vi erano alleanze tra i due Paesi, che si guardavano reciprocamente con una ostilità quasi patologica. Durante la crisi del 1938, Varsavia fu

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accusata di non volersi impegnare nella difesa della Cecoslovacchia (peraltro Praga era alleata della Francia che si era ormai adattata all’appeasement). In realtà Beck aveva richiesto legittimamente, per la minoranza polacca presente in quel Paese, la clausola della nazione più favorita. Ciò significava che ogni concessione accordata alla popola- zione tedesca in Cecoslovacchia doveva essere estesa anche a quella polacca. Date le sempre maggiori richieste tedesche, la Polonia si trovò prigioniera della sua rivendica- zione: dall’autonomia, al plebiscito alla cessione del territorio. Anche in questo caso fu Hitler a dettare l’andamento dei tempi e delle modalità e la Polonia vi si adattò. Quando, infine, la crisi fu risolta con la conferenza di Monaco (29-30 settembre, peral- tro senza la partecipazione cecoslovacca), i rappresentanti polacchi non furono invitati e le loro richieste furono lasciate in sospeso, come pure quelle avanzate dall’Ungheria. Per Beck la conferenza fu la consacrazione di un «sistema che governava l’Europa mercanteggiando in conciliaboli accessibili solo alle grandi potenze e senza alcuna par- tecipazione — neppure ufficiosa — dei paesi più direttamente interessati» [J. Beck, Der- nier Rapport, 1951, p. 165]. La reazione non si fece attendere e, lungi da essere concordata con la Germania, rappresentò una semplice riaffermazione della pari di- gnità della Polonia rispetto agli altri Paesi e una chiara protesta contro i metodi e le de- cisioni della conferenza di Monaco. Anche in questo caso Varsavia inviò con successo un ultimatum con cui reclamava la cessione di Teschen. Praga capitolò e la crisi si chiuse rapidamente con l’occupazione polacca del distretto conteso. Mentre l’Europa tirava un sospiro di sollievo per aver sventato il pericolo di guerra (provocato dalle richieste di Hitler), la Polonia fu considerata uno sciacallo per aver partecipato avidamente al banchetto di spartizione della Cecoslovacchia; paradossal- mente l’uomo della strada la condannò come responsabile di tutto quanto aveva dovuto subire Praga. All’apparenza Varsavia aveva nuovamente agito di concerto con la Ger- mania. La realtà era molto più sfumata. Vi erano state molte consultazioni tra la Ger- mania e la Polonia, soprattutto sul tema delle rivendicazioni ungheresi che — se accolte — avrebbero permesso la realizzazione della contiguità territoriale polacco-ungherese. Tuttavia non era stato concordato alcunché. Hitler aveva lasciato intendere di essere disposto perfino a riconoscere l’intangibilità dei confini orientali per assicurarsi la neu- tralità polacca nella crisi cecoslovacca; e la Polonia aveva inutilmente tentato di ven- dere al meglio la sua neutralità, che avrebbe avuto un grande peso solo se le democrazie occidentali avessero deciso di non cedere alle richieste tedesche. Non è un caso che le proposte tedesche furono lasciate cadere subito dopo la conferenza di Monaco, per es- sere riprese di lì a poco con un tono nuovo e più incisivo. Infatti la prospettiva dell’occupazione polacca di Teschen aveva reso necessario concordare con i tedeschi la demarcazione delle rispettive zone, poiché le minoranze erano mescolate e le infrastrutture dei territori occupati interessavano sia Berlino sia Varsavia. Fu proprio nel clima di dialogo che si era instaurato sull’onda della crisi ce- coslovacca che il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop presentò ai polacchi la proposta di una «soluzione globale» (Gesamtlösung) delle questioni pendenti tra i due Paesi: la Germania voleva il ritorno di Danzica al Reich e la costruzione di collegamenti extraterritoriali attraverso il Corridoio; la Polonia avrebbe ottenuto garanzie per i suoi interessi a Danzica e — in ipotesi — una proroga della dichiarazione del 1934 con una eventuale garanzia per la frontiera. Era il 24 ottobre 1938 e da quel momento niente

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sarebbe stato più come prima nelle relazioni bilaterali, poiché le richieste tedesche erano per molti aspetti inaccettabili. Vi furono alcuni scambi successivi che furono interpretati come una ulteriore con- valida della cooperazione tedesco-polacca. Nel gennaio 1939 Beck incontro Hitler e Rib- bentrop a Berchesgaden; poco dopo Ribbentrop si recò a Varsavia in visita ufficiale, in un’atmosfera di calda cordialità. Tuttavia i temi della «soluzione globale» pesavano già gravemente tra i due Paesi e di lì a poco sarebbero sfociati nella “guerra dei nervi”, che sarebbe terminata solo il 1°settembre 1939 con l’attacco tedesco alla Polonia. I sospetti occidentali, d’altro canto, si attenuarono soltanto quando la Gran Bre- tagna, a seguito della violazione tedesca degli accordi di Monaco (occupazione di Praga, marzo 1939), propose a Beck una garanzia per l’indipendenza della Polonia. Beck ac- cettò immediatamente e, con una certa sorpresa, i britannici scoprirono che la Polo- nia in realtà temeva Hitler ed era pronta a opporsi al revisionismo tedesco. La garanzia fu annunciata il 31 marzo ed elaborata poco dopo durante la visita di Beck a Londra. A quel punto fu chiaro che non vi era, né vi era mai stata, una intesa sovversiva tra Var- savia e Berlino.

La politica di equilibrio polacca era un goffo tentativo di «tenere il piede in due staffe»?

Fin dai primi anni della ritrovata indipendenza, la Polonia aveva cercato di co- struire un sistema di sicurezza efficace. Nel 1921, con la Francia, era stata stipulata una alleanza in chiave antitedesca che, per la Germania, prospettava il rischio di un con- flitto su due fronti; nello stesso anno la Polonia e la Romania firmarono un trattato di- fensivo in funzione antirussa. Questi due accordi, rigorosamente bilaterali, nei primi Anni Venti soddisfacevano le esigenze di sicurezza di Varsavia, poiché la Germania e l’Unione Sovietica versavano in condizioni di oggettiva debolezza. La situazione, però, mutò nel 1925, a causa della riconciliazione franco-tedesca consacrata negli accordi di Locarno. In quella occasione, infatti, le grandi potenze distinsero tra le frontiere occi- dentali della Germania, meritevoli di una garanzia internazionale speciale, e quelle orientali. Questa discriminazione fu appena temperata da alcuni accordi di arbitrato. Nelle parole di Beck, «la Germania era stata solennemente invitata ad attaccare a est» [J. Beck, Dernier Rapport, 1951, p. 268]. Da quel momento — e fino al 1939 — i fran- cesi tentarono di alleggerire l’alleanza franco-polacca del 1921 e di temperare gli au- tomatismi in essa previsti. La fiducia tra Parigi e Varsavia ne risentì e non fu mai ristabilita del tutto. Dopo Locarno, che aveva messo in evidenza i limiti della disponibilità francese nel- l’Europa centrorientale, la Polonia decise di percorrere autonomamente la strada della riconciliazione con i due grandi Paesi vicini. Nel 1932 fu firmato un accordo di non ag- gressione con l’Unione Sovietica e nel 1934 fu sottoscritto un documento analogo con la Germania. I due accordi rappresentavano, nel medio periodo, una valida garanzia di sicurezza per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza della Polonia. Essi di- vennero i principali pilastri della politica internazionale polacca lungo l’asse est-ovest, da cui — come le tre spartizioni del tardo XVIII secolo avevano insegnato — dipendeva

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l’esistenza del Paese. Dal 1934 Varsavia operò tutte le sue scelte considerando soprat- tutto le possibili ripercussioni che esse avrebbero potuto avere nelle relazioni con la Germania e con l’Unione Sovietica. In altre parole, la Polonia adottò la cosiddetta “po- litica di equilibrio”, basata sulla constatazione che una collaborazione troppo stretta con uno dei due grandi vicini avrebbe inevitabilmente provocato la reazione dell’altro. Da ciò derivava la necessità di mantenere le migliori relazioni possibili con Mosca e Ber- lino: la Polonia avrebbe dovuto rifiutare ogni iniziativa multilaterale che non com- prendesse entrambi i vicini. Dunque, si trattava semplicemente di evitare che la Polonia si trovasse nella scomoda situazione di dover optare tra la Germania e l’Unione Sovie- tica. La politica di equilibrio presupponeva che il conflitto ideologico nazi-sovietico fosse insuperabile. In questo senso, nella visione di Beck, l’ascesa al potere di Hitler rappresentava una garanzia che la cooperazione tra Mosca e Berlino, nei fatti inaugu- rata a Rapallo nel 1922 e poi rinnovata nel 1926, fosse ormai preclusa. In ipotesi, se l’equilibrio non avesse funzionato, cioè se le relazioni con uno dei vi- cini si fossero deteriorate, le alleanze del 1921 con la Francia e la Romania avrebbero puntellato il sistema. La Francia, minacciando il confine renano, avrebbe costretto la Germania a dividere le forze; la Romania avrebbe fornito qualche aiuto nel caso di ag- gressione sovietica. Sul versante orientale erano utili anche le ottime relazioni con il Giappone che — pur essendo ideologicamente schierato — poteva essere informalmente un valido alleato, poiché minacciava l’Unione Sovietica nel settore asiatico. La politica di equilibrio — talvolta definita «di equidistanza» — è stata criticata e giudicata negativamente dai contemporanei di Beck, che probabilmente non la capi- vano, e successivamente dagli storici. Essa è stata considerata sia il frutto di impossi- bili acrobatismi politici, sia l’espressione di una propensione filotedesca. Certamente i polacchi, nel periodo tra le due guerre mondiali, trovavano più facilmente un linguag- gio comune con i tedeschi, piuttosto che con i francesi o con i britannici. Tuttavia, in realtà, essi nutrivano una profonda diffidenza nei confronti dei sovietici. Di conse- guenza, le relazioni con Berlino erano molto vivaci, mentre quelle con Mosca erano tie- pide e limitate agli scambi strettamente necessari. In ogni caso la cordialità polacco-tedesca aveva limiti ben precisi, che coincidevano con la sovranità e l’inte- grità territoriale della Polonia. Quanto agli acrobatismi politici, basta considerare la difficile posizione geopolitica della Polonia per capirne i motivi. In realtà, lungi da essere il risultato di scelte scon- siderate, l’equilibrio era espressione della intrinseca fragilità del Paese: esclusa l’alle- anza con uno dei due ingombranti vicini, che avrebbe trasformato la Polonia in uno Stato vassallo, l’unica alternativa valida sull’asse est-ovest era una rigorosa neutralità. Per usare le parole di Beck, vi erano due cose «impossibili dal punto di vista della Po- lonia, cioè la dipendenza della sua politica da Mosca o da Berlino». Infatti, «se la Polo- nia avesse reso la sua politica dipendente da una delle due potenze [Germania e Unione Sovietica], essa avrebbe cessato di essere un elemento di pace e stabilità per divenire un potenziale elemento di conflitto» [Documenti diplomatici polacchi: Polskie doku- menty dyplomatyczne. 1939 styczeń-wrzesień, 4 aprile 1939]. Risultano ora più comprensibili le ragioni che portarono la Polonia a rifiutare co- stantemente di far parte delle combinazioni multilaterali di volta in volta proposte.

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Così i polacchi disattesero gli inviti francesi a partecipare alla cosiddetta Locarno Orien- tale (1934), che prevedeva la partecipazione sovietica ma per la quale difficilmente avrebbe avuto il sostegno tedesco; negarono ai tedeschi la loro adesione al patto anti- Comintern, ideologicamente schierato contro l’Unione Sovietica; infine respinsero le iniziative delle democrazie occidentali tese alla creazione di un «fronte della pace» (estate 1939), che comprendeva l’Unione Sovietica ed era chiaramente diretto contro la Germania. Varsavia, dunque, non teneva il «piede in due staffe», non tentava di «cavalcare due cavalli allo stesso tempo», ma privilegiava gli impegni bilaterali e ben determinati a discapito delle dichiarazioni di principio e degli schieramenti multilaterali. Tra gli ac- cordi bilaterali, quelli di non aggressione del 1932 e del 1934 con i Paesi limitrofi ave- vano la priorità. Nonostante le apparenze, Varsavia rifiutava — in modo assoluto e da molti ritenuto irragionevole — di scegliere a favore della Germania o dell’Unione So- vietica. Questa politica funzionò bene fino alla conferenza di Monaco del 1938, che modi- ficò l’assetto dell’Europa centrale. Da quel momento, la Germania non fu più disposta a tollerare la neutralità polacca. Tuttavia, la proposta di «soluzione globale» del 24 ot- tobre era incompatibile con i principi della ragion di stato polacca (sovranità, integrità territoriale, indipendenza). Se accettata, l’avrebbe trasformato in un paese vassallo della Germania. In quelle circostanze, l’equilibrio — sul versante occidentale — fu man- tenuto artificiosamente, nella consapevolezza che le relazioni con la Germania erano «basate sulla convinzione delle più alte autorità tedesche che, nel prossimo conflitto tedesco-sovietico, la Polonia sarebbe stata l’alleato naturale del Reich». In quelle cir- costanze «tutta la politica di buon vicinato inaugurata nel 1934 poteva facilmente ri- velarsi soltanto una finzione» [Diario di Jan Szembek: Diariusz i teki Jana Szembeka, vol. IV, 10 dicembre 1938]. Nonostante la priorità data alle buone relazioni con Mosca e Berlino, come punto di riferimento rimasero sempre le democrazie occidentali: la Francia, ma soprattutto la Gran Bretagna. Beck infatti sapeva che, in un conflitto europeo, la Polonia non avrebbe mai potuto trovarsi a fianco della Germania o dell’Unione Sovietica, ma avrebbe dovuto schierarsi con Londra e Parigi. In questo senso, la garanzia britannica del 31 marzo 1939 completava la struttura dell’equilibrio, poiché raccordava l’alleanza franco-polacca del 1921 alla (presunta) volontà britannica di sbarrare il passo a Hitler. L’epilogo della politica di equilibrio non fu certamente positivo. L’intera struttura era basata sugli accordi di non aggressione con l’Unione Sovietica e la Germania, e sulle alleanze con la Francia, la Romania e la Gran Bretagna. Il 1° settembre 1939 venne meno l’accordo di non aggressione con la Germania (che peraltro era già stato denun- ciato da Hitler il 28 aprile). Nei mesi precedenti, le alleanze con la Francia e la Gran Bretagna avevano dato luogo a scambi di delegazioni militari in preparazione dell’im- minente conflitto con il Reich. Durante i colloqui che si erano susseguiti dal mese di maggio, i polacchi avevano acquisito la certezza che, in caso di attacco tedesco, gli al- leati avrebbero fornito in modo immediato e automatico tutta l’assistenza possibile, e avrebbero intrapreso i bombardamenti degli obiettivi militari in territorio tedesco per costringere il nemico a dividere le sue forze. Le promesse occidentali erano state ri- badite a più riprese e la sostanza degli impegni non era mai stata messa in discussione,

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neppure dopo l’imbarazzante fallimento dei negoziati anglo-franco-polacchi per la con- cessione di un prestito destinato a rafforzare il potenziale bellico della Polonia. I polac- chi, del resto, non avevano motivo di dubitare delle dichiarazioni di Gamelin, di Clayton e di Ironside. Tuttavia, nonostante l’inizio del conflitto, Parigi e Londra non avevano ri- nunciato a salvare la pace. L’intervento in aiuto di Varsavia non fu né automatico né im- mediato e le dichiarazioni di guerra alleate giunsero soltanto il 3 settembre. A Varsavia si salutò l’entrata in guerra degli alleati con entusiasmo, in attesa del dispiegamento del potenziale bellico anglo-francese. Tutto sommato, alla data del 3 settembre, la struttura dell’equilibrio, con il suo meccanismo di contro-assicurazione, poteva ancora dare un’impressione di efficacia: la Germania aveva attaccato, ma le alleanze occidentali si stavano attivando secondo quando stabilito. Occorreva solo at- tendere che le previste (e promesse) operazioni belliche francesi e britanniche capo- volgessero l’esito del conflitto. È su questo aspetto che la politica di equilibrio mostrò la sua debolezza. Infatti, nel giro di qualche giorno, fu chiaro che Francia e Gran Bretagna non avevano intenzione di rispettare gli impegni. Gli appelli rivolti da Varsavia agli alleati non furono ascoltati e il governo polacco iniziò a battere in ritirata. Il versante occidentale dell’equilibrio si sgretolò, e con esso la fiducia nei confronti degli alleati (fu allora che si iniziò a par- lare di «tradimento» anglo-francese). Rimaneva invece invariata la situazione nel settore orientale. Dal punto di vista formale le relazioni tra Mosca e Varsavia erano irreprensibili. Anzi, poco prima del- l’inizio delle ostilità (e poco dopo la firma del patto nazi-sovietico!), il 27 agosto, i so- vietici avevano offerto a Varsavia forniture di materie prime strategiche nell’ambito dei normali scambi commerciali bilaterali. E il 2 settembre, l’ambasciatore sovietico a Varsavia rinnovò l’offerta. Ancora l’8 settembre, i sovietici riconfermarono la loro vo- lontà di rispettare la dichiarazione di non aggressione del 1932 [Polish White Book, n. 170 e 172]. Dunque, nel breve periodo, i polacchi non avevano motivo di sospettare un muta- mento di rotta della politica di Mosca: secondo le loro valutazioni, l’Unione Sovietica non avrebbe partecipato a un conflitto europeo, salvo scendere in campo all’ultimo momento (quando i contendenti fossero stati stremati) per determinare l’esito finale dello scontro. Fu quindi con una certa sorpresa che i polacchi accolsero la notizia della mobilitazione sovietica (9 settembre), ma non nutrirono eccessivi sospetti quando l’am- basciatore Sharonov lasciò il paese con il pretesto di dover comunicare con Mosca. L’equilibrio a est crollò improvvisamente il 17 settembre, quando l’ambasciatore polacco Grzybowski ricevette una nota con la quale i sovietici comunicavano la loro de- cisione di entrare in territorio polacco per tutelare le minoranze ucraina e bielorussa. Nella nota si prendeva atto del collasso della Polonia di fronte all’attacco tedesco e si denunciavano tutti i trattati in vigore tra Mosca e Varsavia: dal trattato di Riga del marzo 1921, che aveva posto fine alla guerra russo-polacca dell’immediato dopoguerra, alla dichiarazione di non aggressione del 1932 (che era stata riconfermata nel novem- bre 1938 ed era valida fino al 1945). In quelle gravi circostanze, i polacchi rinunciarono a chiedere alla Romania l’adempimento degli impegni derivanti dall’alleanza del 1921. L’equilibrio dunque non aveva retto la prova del conflitto e tutti i presupposti su cui essa si basava erano venuti meno: le promesse occidentali non avevano funzionato con-

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tro la Germania e ora, ancora una volta, gli appelli agli alleati non avevano esito positivo, nonostante il riconoscimento formale del governo polacco “in esilio”; le valutazioni sulla politica sovietica si erano dimostrate profondamente errate, soprattutto per quanto ri- guardava la priorità del conflitto ideologico nelle relazioni tedesco-sovietiche. Lo scenario che si prospettò il 17 settembre era il peggiore in assoluto e inevita- bilmente la Polonia fu costretta a subire una nuova spartizione, non avendo, da sola, la forza per opporvisi.

La seconda guerra mondiale è scoppiata per Danzica?

Dopo la garanzia britannica all’indipendenza della Polonia (31 marzo 1939), tra- sformata in alleanza provvisoria il 6 aprile, l’attenzione internazionale era rivolta a Danzica. Era infatti evidente che Hitler, dopo aver ottenuto giustizia per i tedeschi dei Sudeti, aveva intenzione di risolvere una volta per tutte la situazione della popolazione tedesca nella città. La questione assunse una particolare risonanza pubblica quando il giornalista fran- cese Marcel Déat pubblicò un articolo intitolato Mourir pour Dantzig? [L’Œuvre, 4 mag- gio 1939]. La risposta all’interrogativo di Déat era ovviamente negativa, ma in realtà si trattava di capire quanto la Francia e la Gran Bretagna fossero vincolate alla difesa dello status quo di Danzica. Nell’era dell’appeasement, cioè dell’acquiescenza britannica (e francese) alle ri- chieste di Hitler in nome del mantenimento della pace europea, il tema di Danzica di- veniva la chiave di lettura della visione delle democrazie occidentali rispetto all’Europa centrale e orientale. Il dibattito relativo all’assetto alla foce della Vistola non era una novità. Già nei primi anni del dopoguerra la soluzione scelta per garantire alla Polonia uno libero sbocco al mare era stata aspramente criticata (ovviamente dai tedeschi, ma anche dai britan- nici). Dopo la garanzia del 31 marzo, il tema tornò ad accendere le polemiche, soprat- tutto in relazione alla qualità dell’impegno di Londra e di Parigi in difesa delle decisioni di Versailles. Annunciando la garanzia, il primo ministro britannico Neville Chamberlain si era im- pegnato a fornire in modo immediato tutto l’aiuto possibile, qualora «una qualsiasi azione avesse minacciato chiaramente l’indipendenza della Polonia e il governo polacco avesse ritenuto di vitale importanza resistere con tutte le forze nazionali» [Poland in the British Parliament. 1939-1945, 31 marzo 1939]. Nonostante l’apparente svolta nella politica di Londra, che fino a quel momento aveva guardato a quella regione europea con distacco, la dichiarazione di Chamberlain si prestava a svariate interpretazioni. La scelta del ter- mine «indipendenza» pareva infatti alludere alla possibilità di mutamenti pacifici del- l’assetto territoriale: la Gran Bretagna (e con essa la Francia) non si obbligava a difendere l’integrità territoriale della Polonia, bensì la sua indipendenza. Si trattava di nozioni so- stanzialmente diverse, poiché la garanzia britannica non si sarebbe attivata nel caso di rettifiche della frontiera polacco-tedesca, a meno che la Polonia non avesse deciso di mettere in campo tutto il suo potenziale bellico. D’altro canto, una piccola erosione del territorio polacco non avrebbe certamente messo a rischio l’indipendenza del paese.

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Sul tema della garanzia britannica, si innestano molte considerazioni più generali. Era la fine dell’appeasement? Si stava ingannando la Polonia, alimentando le illusioni sulla fermezza di propositi di Londra? All’epoca, la stampa diede ampia risonanza a tutte le ambiguità della dichiarazione di Chamberlain, che evidentemente non presup- poneva l’accettazione dello status quo territoriale. Inoltre la garanzia aveva un valore puramente simbolico, poiché non erano stati previsti strumenti concreti di aiuto per Var- savia (crediti, forniture militari, etc.). Ancora oggi gli storici discutono di questi argo- menti, ma probabilmente con un problema di fondo relativo alla chiave di lettura. Infatti, se si ribalta la tradizionale prospettiva “occidentale”, la garanzia britannica assume un significato completamente diverso. Beck non era uno sprovveduto e, quando si recò a Londra per definire i termini del- l’alleanza, era consapevole delle ambiguità della formula di Chamberlain. Con un abile negoziato egli riuscì a far includere il caso dell’annessione di Danzica alla Germania in un protocollo, secondo il quale nell’eventualità di «altre» azioni tedesche che avessero minacciato chiaramente l’indipendenza polacca e a cui la Polonia avesse deciso di op- porsi con la forza, il governo britannico avrebbe fornito aiuto immediato [documento originale in Archiwum Akt Nowych, Ministerstwo Spraw Zagranicznych, c. 108a, 6 aprile 1939, promemoria sulla questione di Danzica]. A prescindere dalla voluta vaghezza della formula del 31 marzo, la nozione di indipendenza rispondeva in modo più efficace alle esigenze polacche ed era più elastica rispetto a quella di integrità territoriale. Para- dossalmente, in considerazione del particolare status di Danzica, la scelta britannica dei termini comprendeva anche il caso della città libera. Infatti, a seguito di lunghe discussioni alla conferenza della pace, Danzica era stata trasformata in uno stato in miniatura con sovranità limitata e dipendente dalla Società delle Nazioni. Dunque la “città libera” non apparteneva né alla Germania, né alla Polonia, pur essendo compresa nell’area doganale polacca. La Polonia godeva di una serie di prerogative economiche che le garantivano il libero accesso al mare, mentre la Germania non aveva diritti formalmente riconosciuti ma, sul piano poli- tico, poteva esercitare una grande influenza a livello locale. Soltanto tenendo presente la singolare situazione di Danzica è possibile perce- pire le sfumature della garanzia britannica. Infatti, se Chamberlain avesse optato per la nozione di integrità territoriale, automaticamente la città libera sarebbe stata esclusa dalla garanzia. Al contrario, il concetto di indipendenza comprendeva anche Danzica poiché, se la città fosse stata annessa alla Germania, la Polonia avrebbe perso la sua indipendenza economica e, di conseguenza, quella politica. Tutto considerato, nella primavera-estate 1939 un colpo di mano tedesco per l’annessione di Danzica era più che probabile. L’alleanza con Londra era quindi, per la Polonia, uno strumento formidabile e valido erga omnes. Peraltro Beck aveva iniziato a negoziare con la Germania ben prima dell’annun- cio della garanzia britannica. Ribbentrop aveva rilanciato i temi della «soluzione glo- bale» il 21 marzo. Il 25 Beck aveva proposto di risolvere la questione di Danzica con un condominium bilaterale che sostituisse la Società delle Nazioni e che garantisse, a un tempo, il libero sviluppo della popolazione tedesca e le prerogative economiche polacche. Era invece esclusa una semplice annessione della città al Reich, che avrebbe subordinato il libero esercizio dei diritti riconosciuti alla Polonia alla (opinabile) buona

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volontà tedesca. L’altro aspetto della «soluzione globale» riguardava la richiesta di comunicazioni extraterritoriali attraverso il corridoio da e per la Prussia orientale. In questo ambito, Beck era pronto ad accordare ogni possibile facilitazione di transito — da trattare sul piano tecnico — ma sempre e comunque nei limiti posti dalla sovra- nità polacca. In altre parole, Varsavia era pronta a rimuovere tutti gli ostacoli al tran- sito attraverso il suo territorio, ma Berlino doveva rinunciare all’idea dell’extraterritorialità [Polish White Book, n. 62]. La garanzia britannica migliorò in generale la posizione strategica di Varsavia, ma fornì a Hitler il pretesto per denunciare la dichiarazione di non aggressione del 1934 [discorso al Reichstag, 28 aprile]. Beck non si fece intimidire e replicò pubblicamente il 5 maggio, dando voce ai sentimenti antitedeschi della nazione, tracciando in modo chiaro i limiti del non possumus del paese e lanciando un monito: «La pace è un bene prezioso e auspicabile. La nostra generazione, insanguinata dalle guerre, merita si- curamente un periodo di pace. Tuttavia, se la pace ha un prezzo elevato, questo prezzo, come tutte le cose di questo mondo, è quantificabile. Per noi polacchi la no- zione di una pace a qualsiasi prezzo non esiste. C’è solo una cosa che, nella vita degli uomini, dei popoli e degli Stati, non ha prezzo — ed è l’onore» [Polish White Book, n. 77]. Dal quel momento, la disputa polacco-tedesca innescata dalla «soluzione glo- bale» assunse una valenza internazionale. Era ormai in gioco il prestigio dei due paesi. Si delineava la “guerra dei nervi”, che avrebbe interessato anche la Francia e la Gran Bretagna in virtù delle alleanze con Varsavia. Nonostante l’inasprimento della vertenza con la Germania, fino all’attacco te- desco la Polonia non rifiutò mai il negoziato con Berlino, né l’idea di un compromesso. Tuttavia il negoziato doveva essere paritario, non imposto con la minaccia dell’uso della forza; e ogni soluzione doveva necessariamente rispettare la sovranità polacca. Infine, poiché erano stati i tedeschi ad avanzare le richieste, l’iniziativa degli even- tuali negoziati sarebbe dovuta provenire dalla Germania. In definitiva, dunque, la guerra non scoppiò per Danzica, poiché Danzica non era polacca e poiché Beck era sempre stato favorevole a un mutamento dello status della città. La Germania e la Polonia avrebbero potuto trovare un’intesa bilaterale per go- vernare congiuntamente la città, senza il condizionamento della Società delle Na- zioni. Casomai, almeno dal punto di vista causale, il conflitto fu innescato dal rifiuto categorico di Beck circa la nozione di extraterritorialità per i collegamenti attraverso il corridoio. In altre parole, per Danzica l’approccio polacco era sempre stato possi- bilista e conciliante, per l’extraterritorialità no. Dunque, se è vero che la Polonia fu l’unico paese a opporsi chiaramente alle pretese di Hitler, è altrettanto vero che Beck aveva una posizione negativa soltanto per gli aspetti minori della «soluzione globale», non per la città libera di Danzica. Basta considerare che quando la città proclamò la sua indipendenza (il 23 agosto, in violazione dello Statuto della Società delle Nazioni), la reazione polacca fu estremamente moderata e di natura diplomatica. La questione di Danzica fu poi travolta dagli eventi che si susseguirono nell’ultima settimana di pace e dai contraccolpi del patto Ribbentrop-Molotov, che diede a Hitler la certezza di non incontrare resistenza nella sua campagna contro il paese (l’unico) che aveva osato rifiutare le sue magnanime offerte.

poloniaeuropae 2010 39 La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...

Riflessioni finali

Oltre ai “miti” brevemente analizzati, ve ne sarebbero molti altri da ricollocare in prospettiva storica: i progetti di aggregazione dei paesi dell’Europa centrale e orien- tale, giudicati come espressione di ambizioni da grande potenza; la diffidenza nei con- fronti della Francia; il costante rifiuto di intavolare un dialogo costruttivo con Mosca, perfino nelle ultime settimane di pace; la mancata previsione del patto nazi-sovietico; la cieca fiducia nelle promesse occidentali; l’incapacità di una intera classe dirigente e militare. Questi e tanti altri temi hanno pesato in modo negativo sugli studi relativi alla seconda Repubblica di Polonia, generalmente valutata secondo preconcetti che avevano origine in Francia e in Unione Sovietica. Tuttavia le scelte polacche del 1938- 1939 avevano motivazioni logiche che si possono comprendere soltanto guardando al- l’Europa con gli occhi di Varsavia e in particolare del ministro degli Esteri Józef Beck. Del resto, nell’estate 1939, chi poteva prevedere che cosa sarebbe accaduto? Le notizie di una imminente convergenza tra Germania e Unione Sovietica circolavano già molto tempo prima della effettiva stipulazione dell’accordo del 23 agosto. Ma furono pochi gli statisti europei che prestarono fede a tali voci. Beck, come la maggior parte dei suoi contemporanei, attribuiva al conflitto ideologico molta, forse troppa, impor- tanza. In definitiva, quando il patto Ribbentrop-Molotov fu stipulato, il ministro non cambiò idea, anche perché Mosca e Berlino avevano sottoscritto un semplice trattato di non aggressione. Peraltro Beck non conosceva il contenuto del protocollo segreto al- legato al patto nazi-sovietico e non poteva sospettare che Stalin e Hitler si fossero ac- cordati per spartirsi l’Europa orientale, Polonia compresa. E i pochi che, invece, erano ben informati non trasmisero le informazioni a Varsavia. Quando la Germania attaccò, la Polonia, in teoria, aveva le alleanze giuste per so- stenere il confronto. Forse peccando di ingenuità, Beck era convinto che Parigi e Lon- dra avrebbero onorato gli impegni. Per il ministro, che aveva una mentalità prettamente militare e intrisa di patriottismo, la parola data aveva il suo valore e gli alleati avevano promesso molto nei mesi precedenti all’inizio delle ostilità. Egli non poteva sapere — né concepire — che nella programmazione militare anglo-francese, la Polonia fosse stata considerata una “causa persa” a priori. Non erano stati previsti strumenti di intervento e di assistenza per dare concretezza alle alleanze, poiché ogni finanziamento o mate- riale bellico sarebbe stato “sprecato”. La visione strategica anglo-francese legava il destino della Polonia all’esito finale del conflitto, non al suo rafforzamento tempora- neo. Il fallimento dei negoziati finanziari per la concessione di un credito e di materiali militari destinati all’esercito polacco era dovuto proprio alla mancanza di una pianifi- cazione militare che comprendesse la Polonia. Dunque, per parte anglo-francese, le al- leanze erano realmente uno strumento di natura più politica e psicologica che tattica e militare. Ma per Beck questi erano risvolti inconcepibili, dato che gli impegni alleati erano stati ribaditi solennemente in più occasioni. Beck pagò i suoi errori di valutazione con la sconfitta e la prigionia. La Polonia do- vette subire la sua quarta spartizione nonostante le alleanza “giuste”, poiché da sola non poteva far fronte alle forze tedesche e sovietiche. Tuttavia, forse, proprio queste alleanze “giuste”, alla fine del conflitto fecero sì che il paese fosse restaurato nella sua semi-indipendenza e non fosse del tutto assorbito dall’URSS.

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Sandra Cavallucci, insegna Storia dell'Europa orientale alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze e Storia contemporanea europea a studenti stranieri presso l'Istituto Lorenzo de’ Medici (Firenze). Ha conseguito il dottorato in Storia delle relazioni internazionali a Firenze, dove si è anche laureata in Scienze Politiche. Si interessa soprattutto di Eu- ropa orientale, in particolare di Polonia. Ha pubblicato alcuni articoli su problematiche polacche e a breve uscirà una sua monografia sulla Polonia alla vigilia del conflitto, presso l’editore Rubbettino.

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La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo1

di Francesco M. Cataluccio

La Polonia, nel 1939, fu non soltanto vittima dell’attacco concordato di due grandi potenze, ma anche il terreno dove, per la prima volta nel nostro secolo, fu messa in pra- tica una guerra di annientamento sostenuta da motivazioni ideologiche. Come ha so- stenuto lo storico tedesco Ernst Nolte, nel suo controverso libro Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-19452: «sulle due rive del Bug agirono in immediata prossimità le conseguenze delle due rivoluzioni che avevano scritto l’an- nientamento di un nemico sul loro vessillo». Né la Germania né l’URSS tentarono di dar vita, in Polonia, ad un governo collaborazionista del tipo di quello di Vichy in Fran- cia. Sin dall’inizio — come del resto era scritto nelle clausole segrete del patto Rib- bentrop-Molotov — ambedue le potenze fecero in modo di cancellare nuovamente la Polonia dalle carte geografiche e ridurre la sua popolazione al rango di schiavi. Durante i colloqui per la firma del «Trattato di amicizia sui confini» (firmato il 28 settembre 1939) i tedeschi posero la questione di uno Stato polacco sotto il controllo della Germania e dell’URSS. Hitler era sollecitato in questo senso da Mussolini, che an- cora il 5 gennaio del 1940 gli scriverà:

Questo popolo, che è stato vergognosamente tradito dalla sua classe diri- gente, politica e militare, che — come Voi stesso avete cavallerescamente rico- nosciuto nel vostro discorso a Danzica — si è battuto valorosamente, è degno di un trattamento che non fornisca pretesti ai nostri avversari. Sono convinto che non potrà mai costituire pericolo per il grande Reich la costituzione di una Polonia li- mitata e disarmata, esclusivamente polacca e affrancata dagli ebrei [...].

Ma per i sovietici la Polonia non poteva continuare ad esistere in quanto «avrebbe ostacolato ogni futura relazione tra Germania e URSS». La parte sovietica della Polonia fu di fatto annessa; mentre una gran parte del settore conquistato dai tedeschi, il 12 ottobre, fu trasformata in «General Gouvernament» dove fu insediato come governa- tore (il 26 ottobre) Hans Frank.

1 Questo testo è la relazione tenuta il 13 ottobre 1989 al convegno internazionale Cinquant’anni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale (Genova, 13-14 ottobre 1989) promosso dall’Isti- tuto storico della resistenza in Liguria e pubblicato nell’Annale dell’Istituto, “Storia e memorie” (Genova 1991). 2 Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, 1987 (trad. it. Sansoni, Firenze 1988).

poloniaeuropae 2010 45 La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo

Nella zona occupata dai sovietici si ebbero espropriazioni e deportazioni (circa un milione e mezzo di persone furono inviate in Siberia) e fucilazioni dei «nemici di classe»; nella zona occupata dai tedeschi ci fu lo sterminio programmato della intelligenzja polacca e della popolazione ebraica. Come nota il Nolte:

Le misure prese dalle SS furono una semplice copia dei metodi sovietici, ma una copia a cui mancava una qualsiasi capacità di attrazione e di persuasione per- ché destinata soltanto a mettere una nazione contro l’altra. (...) La conduzione della guerra da parte della Unione Sovietica era caratterizzata dal genocidio, tut- tavia i genocidi di Hitler sono di un’altra categoria. La differenza non è quantitativa. (...) Hitler fece dello sterminio un principio e chiese subito di eliminare i rappre- sentanti della intelligenzja polacca. Nel suo caso era invertito il rapporto tra il mezzo e lo scopo. La fine della guerra non avrebbe fatto cessare il genocidio, ma al contrario la vittoria doveva renderlo possibile in proporzioni più estese.

Fino al 22 giugno 1941, data dell’invasione nazista dell’URSS, la politica delle due potenze verso la Polonia fu sostanzialmente simile e frequenti furono gli episodi di collaborazione contro i partigiani polacchi. Del resto il patto Ribbentrop-Molotov — che di fatto fu un patto per la spartizione di una parte dell’Europa centrale e della re- gione baltica — prevedeva questa collaborazione tra due sistemi apparentemente molto diversi, ma con obiettivi e metodi assai uguali. I rapporti tra Germania e URSS non si erano mai interrotti, nemmeno dopo il 1933. Litvinov, alla fine di quell’anno (dopo, quindi, l’incendio del Reichstag e la liquida- zione del KPD, il Partito comunista di Germania) sostenne apertamente che la politica interna tedesca non avrebbe avuto influenza sul rapporto tra i due paesi: «Compren- diamo i sentimenti dei compagni tedeschi ma non ci facciamo guidare dai sentimenti. Possiamo mantenere buoni rapporti con qualsiasi regime, anche fascista». La Polonia divenne ad un certo punto il perno dell’accordo tra Germania ed URSS. E fu quest’ul- tima a spingere perché ciò avvenisse. In questa direzione andarono i ripetuti inter- venti di Kandelakim, capo della missione commerciale sovietica a Berlino, uomo di fiducia di Stalin. I sovietici erano convinti che la divisione della Polonia fosse un mezzo per rendersi amico Hitler e allontanare le sue mire sull’URSS e, allo stesso tempo, con- sideravano la parte orientale di questo paese (Vilna, Leopoli, la Bielorussia) come territori naturalmente appartenenti alla Russia. Fino a Monaco i tedeschi cercarono un accordo con i polacchi. Ma la questione di Danzica si rivelò insormontabile. Il 6 gen- naio 1939, a Berchtesgaden, Hitler chiese a Beck che la Polonia diventasse alleata della Germania contro l’URSS, con l’obiettivo di spartirsi assieme l’Ucraina. Il rifiuto polacco di trattare su Danzica, e l’atteggiamento della Francia e della Gran Bretagna, spinsero la Germania verso l’URSS, che si muoveva con sempre più vigore verso un accordo con Hitler. L’atteggiamento polacco va spiegato con l’orgoglio nazionale ma anche con la paura. Un esempio chiarificatore è la risposta data dall’ambasciatore polacco a Roma Wieniawa- Dugoszowski, il 15 maggio del 1939, a Galeazzo Ciano che cercava di convincere il governo polacco a «concedere qualche comunicazione sul litorale alla Germania»:

46 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Di comunicazioni con la Prussia Orientale la Germania ne ha parecchie. Noi le concediamo ogni facilitazione e le potremmo ancora concedere vantaggi tecnici. In alcun modo però possiamo abdicare ai nostri diritti sovrani poiché sap- piamo, noi polacchi, come sa benissimo anche lei e lo sa la Germania, ecco per- ché insisto tanto, che ogni minima concessione in tal senso porta ad ulteriori concessioni sino alla perdita completa della sovranità. La contesa verte pertanto sui nostri diritti sovrani, sulla nostra sovranità e non su una strada, su un binario, viadotto o tunnel che sia3.

Per gli stessi motivi, alla fine di aprile, erano falliti a Parigi, i colloqui tra francesi, britannici e sovietici per un patto anti-tedesco. I polacchi avevano rifiutato il transito delle divisioni sovietiche sul proprio terri- torio. Il 4 maggio fu messo da parte il filo-occidentale Litvinov e sostituito con Molotov, che iniziò subito le trattative con i tedeschi. Il nuovo incontro che si tenne, a giugno, tra Francia, Inghilterra e URSS, a Mosca, fu soltanto una farsa: con la Russia che già pre- parava il patto con Hitler, e la Polonia sempre più irremovibile e convinta che questo fosse l’unico atteggiamento per evitare la guerra (del resto Beck si sentiva sicuro dei due patti stipulati, in primavera, con i francesi e gli inglesi). La conferenza di Monaco, e la successiva occupazione dei Sudeti da parte dei te- deschi e dei polacchi, nell’autunno del 1938, coincide con l’intensificazione dei rap- porti tra sovietici e tedeschi. Commentando la vicenda di Monaco, il viceministro degli Affari esteri sovietico disse all’ambasciatore francese a Mosca, Couloudre, la famosa frase: «Ora non abbiamo nessun’altra via che la quarta spartizione della Po- lonia». Alcuni giorni dopo, Schulenburg (ambasciatore tedesco a Mosca dal 1932) e Litvinov firmarono un accordo che impegnava i due paesi ad astenersi da attacchi re- ciproci. Il patto Ribbentrop-Molotov venne preceduto, durante tutta la prima metà del 1939, da grossi accordi commerciali. Quando, nel marzo del 1939, la Polonia respinse definitivamente le proposte te- desche su Danzica, Hitler firmò (il 3 aprile) le direttive per l’attacco contro questo paese e Stalin, al XVIII congresso del partito, attaccò le potenze occidentali, che davano il loro appoggio alla Polonia. Su tutti i piani, gli interessi sovietici e tedeschi venivano, per il momento, a coincidere. Ci sono due domande a cui bisogna cercare di rispondere riguardo al patto Rib- bentrop-Molotov: 1. Perché l’URSS si decise ad un’alleanza con Hitler e non con i paesi occi- dentali? Perché i paesi occidentali non potevano dargli quello che gli dette Hitler, è la risposta che dà lo storico Leon Grosfeld4. L’alleanza con l’Occidente avrebbe potuto significare il coinvolgimento dell’URSS in una guerra di difesa contro la

3 Cfr. J. CHUDEK, Z raportów ambasadorskich Wieniawy-Dugosławskiego, Warszawa 1957. 4 Cfr. L. GROSFELD, Polskie aspekty stosunków niemiecko-sowieckich w przededniu i pierwszym okre- sie II wojny światowej, in “Krytyka”, n. 7, 1980.

poloniaeuropae 2010 47 La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo

Germania, mentre l’alleanza con la Germania gli garantì non soltanto la neutra- lità, quanto il non incorrere in un rischio militare, ma, al massimo in una spedi- zione di carattere pacificatorio. Così almeno la situazione appariva nel 1939. Inoltre, l’alleanza con l’Occidente non permetteva nessuna conquista territoriale e realizzazione delle aspirazioni imperiali della Russia (una parte della Polonia, i paesi baltici, un pezzo di Romania); 2. Chi fu l’iniziatore e il promotore dell’alleanza? Tutto fa supporre che fu l’URSS: i primi avvicinamenti; il tentativo di abbattere l’impasse sia riguardo al patto di non aggressione che al protocollo aggiuntivo; gli accordi di Mosca del 28 settembre 1939; l’opposizione alla formazione di un qualsivoglia (seppur di fac- ciata) Stato polacco. Nell’ambito di una strategia globale, in particolare per quanto riguarda il rapporto con l’Inghilterra, Hitler si adeguò a questa iniziativa, facendo anche molte concessioni.

Un grandissimo significato ebbe l’aspetto economico dell’alleanza (soprattutto riguardo alle materie prime sovietiche e alle strade di transito, per motivi strategici della Germania, nella campagna militare verso l’occidente). Il 22 agosto, lo stesso giorno in cui Ribbentrop lasciava Mosca, dopo la firma del patto, Hitler disse ad una riunione di generali:

L’annichilimento della Polonia sta al primo posto. L’obiettivo è l’elimina- zione delle forze vitali, non il raggiungimento di un confine specifico [...]. Io pre- parerò un pretesto propagandistico per scatenare la guerra, non importa se sia credibile. La vittoria non richiede che si dica o non la verità. Ciò che è importante all’inizio e durante la guerra non è la ragione, ma la vittoria. Non bisogna avere pietà. Si proceda brutalmente. Ottanta milioni di persone devono ottenere ciò di cui hanno diritto [...]. Il più forte ha ragione. Ci vuole la massima durezza.

Il 25 agosto Hitler dette l’ordine che l’attacco alla Polonia iniziasse la mattina se- guente. Ciò che fermò la Germania fu la notizia che la Gran Bretagna e la Polonia avevano firmato, a Londra, un patto di mutua assistenza. Il patto prevedeva: 1. assistenza reciproca in caso di aggressione diretta o indiretta o qualsivoglia pres- sione economica; 2. stava al partner colpito richiedere l’intervento dell’altro; 3. nonostante l’accordo non prevedesse la garanzia delle frontiere, era chiaro che ogni tentativo di mutarle con la forza veniva considerato una aggressione. Come nel patto Ribbentrop-Molotov, anche questo patto conteneva una clausola se- greta nella quale si diceva che il III Reich era «la potenza europea» che poteva essere l’aggressore. Questo accordo che di fatto trascinò la Gran Bretagna e la Francia a «morire per Danzica», fu per buona parte merito del ministro degli esteri polacco Beck, di solito molto bistrattato dalla storiografia corrente che lo considera uno degli artefici della sconfitta polacca. Il problema è semmai un altro: sia la Polonia che gli alleati occidentali furono vittime di un equivoco. Ambedue sottovalutarono la forza della Germania e sopravvalu-

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tarono quella della Polonia (dotata di un esercito mal armato, con strategie antiquate, schierato tutto sul fronte orientale per respingere i nemici tradizionali: i russi) e la ca- pacità di intervento di inglesi e francesi e la loro possibilità di farlo in tempi rapidi. Il patto anglo-polacco fu subito annunciato nella speranza che servisse a fermare Hitler. Egli infatti ritirò l’ordine di attacco, il che non impedì però di entrare in azione ad un certo Alfred Naujocks che, dal 15 agosto, con uno speciale distaccamento vestito con uniformi polacche, e comprendente dei prigionieri tedeschi prelevati dai campi di concentramento per essere ammazzati nell’azione simulata, era pronto ad attaccare la stazione radio vicino a Gleiwitz. Questa «provocazione polacca» fu comunque riprepa- rata per il 31 agosto. Negli ultimi giorni di agosto ripresero le trattative diplomatiche: ci furono ancora incontri informali tedesco-polacchi; uno scambio di lettere tra il premier francese e Hitler; alcuni contatti tra Londra e Berlino; un tentativo di mediazione di Mussolini che non era ancora pronto per la guerra. Ma nessuno era ormai in grado di fermare un mec- canismo che era stato messo in piedi da anni. L’invasione della Polonia appare oggi, a distanza di tempo, una tragedia ineluttabile; e il gioco diplomatico di quei mesi che la precedettero solo un paravento per un mondo e delle culture che avevano ancora bisogno di salvare, nonostante tutto, le forme. Così, la Polonia, che aveva annunciato la mobilitazione generale il 29 agosto, fu co- stretta a ritirarla per le pressioni delle ambasciate occidentali che «non volevano dare pretesti a Hitler». Il primo settembre le truppe tedesche varcarono la frontiera senza una formale di- chiarazione di guerra. La Polonia si trovava nel caos più totale. L’esercito fu immedia- tamente spostato ad ovest (lasciando ai confini con l’URSS solo i KOP, le guardie di frontiera). Questo fu un grave errore, perché i tedeschi riuscirono a spezzare il fronte in più punti e molte divisioni polacche si trovarono in pochi giorni con i nemici alle spalle. La «nuova guerra», veloce e indiscriminatamente distruttiva, rese impossibile ai polacchi una difesa che non si basasse soltanto su episodi di eroismo disperato. I polacchi ebbero 200 mila tra morti e feriti, e 400 mila soldati fatti prigionieri dai tedeschi (che ebbero circa 45 mila tra morti e feriti). Già il 3 settembre iniziarono le trattative tra tedeschi e sovietici per un impegno diretto di questi ultimi nel conflitto e per una definizione precisa della spartizione della Polonia. Molotov però sosteneva che l’ingresso nel conflitto della Gran Bretagna e della Francia aveva modificato la situazione in quanto l’URSS «doveva salvaguardare i propri interessi di paese neutrale». In realtà l’intenzione di Mosca era quella di far avanzare il più possibile le truppe tedesche in modo da poter dichiarare che la Polonia era ormai un paese collassato e che bisognava salvaguardare le minoranze bielorusse ed ucraine che si trovavano nel suo territorio.

5 Komunisticeskij Internacional, XXI, n. 8/9, agosto - settembre 1939, p. 45.

poloniaeuropae 2010 49 La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo

Sulla stampa sovietica si accusava la Polonia di aver provocato il conflitto. Nella pubblicazione ufficiale del Comintern5 si sosteneva che: «I capitalisti polacchi e i grandi proprietari terrieri, ispirati dall’Inghilterra e dalla Francia hanno voluto il conflitto e portato il popolo polacco alla guerra». L’editoriale della “Pravda” del 14 settembre, intitolato «Le cause interne della sconfitta militare polacca», dava una giustificazione teorica alla futura aggressione. La Germania riuscì a convincere l’URSS ad invadere la Polonia, e ad affrettare i tempi (il 10 settembre Molotov aveva informato Schulenburg che tre milioni di soldati sovietici erano già mobilitati, ma che occorrevano almeno tre settimane per comple- tare la loro preparazione), facendo sapere a Stalin che un armistizio con i polacchi era imminente e che quindi la Russia rischiava di dover scatenare una nuova guerra, con il suo tardivo intervento. All’alba del 17 settembre le truppe sovietiche, tra la sorpresa dei polacchi, var- carono il confine. L’invasione della Polonia fu facile: l’URSS ebbe 737 morti e 1862 fe- riti (secondo la dichiarazione di Molotov, durante la sessione del Soviet supremo del 31 ottobre). L’invasione sovietica affrettò la fuga del governo polacco, attraverso la Romania fino al porto di Costanza. L’abbandono del maresciallo Rydz-Smigly gettò il paese ancor più nel caos mentre le truppe tedesche e russe davano prova di grande coordinamento e collaborazione. I sovietici avanzarono velocemente, senza quasi incontrare resistenza. Passarono il Bug e poi, rispettando la seconda delle quattro clausole segrete del Patto Ribbentrop-Molotov, si ritirarono al di qua del fiume, che divenne anche dopo la guerra il confine tra Polonia e Unione Sovietica. Come nella parte occupata dai tedeschi, anche se in misura quantitativamente minore, molti soldati e poliziotti polacchi, nonché civili, furono fucilati. In molte cit- tadine però le truppe sovietiche vennero accolte col pane e il sale. Di fatto un terzo della popolazione polacca, a causa della politica del governo contro le nazionalità del periodo tra le due guerre, non si sentiva legata alle sorti del paese. Ma anche molti di coloro che vedevano benevolmente l’invasione sovietica del paese (come, ad esempio, i comunisti di Vilna e Leopoli) furono deportati, incarcerati o fatti fuori dall’NKVD. Come ha notato Jan Gross6, in quella parte della Polonia fu messo in atto un «ter- rore pedagogico» per preparare il terreno alla sovietizzazione del paese. L’occupazione, nel senso classico del termine, non era il fine dei sovietici: essi puntavano a trasferire in quella parte di Polonia il sistema di tipo sovietico. A differenza dei tedeschi «spera- vano non di rendere schiavi, ma che la gente si autorendesse schiava di sua volontà». La differenza rispetto ai tedeschi era anche che per essi la «germanizzazione» del ter- ritorio era un obiettivo secondario. Sfruttamento economico e sterminio erano gli obiet- tivi di Hitler. Il «salto di qualità» tedesco fu nel comportamento rispetto agli ebrei (che in Polonia erano circa 3 milioni): la reclusione nei ghetti e l’annientamento nei campi di concentramento.

6 Cfr. J. T. GROSS, I. GRUDZINSKA-GROSS, «W czterdziestym nas matko na Sybir zesłali...». Polska a Rosja 1939-1942, London 1983.

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Rispetto ai polacchi, il «salto di qualità» fu l’idea di Himler di sottrarre i figli alle famiglie polacche di «buona razza» e spedirli in Germania per incrementare la razza ariana (dalla regione di Zamość, ad esempio, furono deportati 30 mila ragazzini). Per queste ragioni, i polacchi trovarono molto più difficile (sempre che ne avessero voglia) collaborare con i tedeschi che con i sovietici e cospirare contro i sovietici piuttosto che contro i tedeschi (per combattere i quali le formazioni partigiane entrarono in azione già nell’ottobre 1939).

Francesco M. Cataluccio (1955) ha studiato Filosofia e Letteratura a Firenze e a Var- savia. Dal 1989, ha lavorato nell’editoria (Feltrinelli, Bruno Mondadori, Bollati Borin- ghieri). È autore di numerosi saggi sulla cultura e la storia della Polonia e del Centro Europa ed è stato curatore delle opere di Witold Gombrowicz (presso Feltrinelli) e delle opere complete di Bruno Schulz (Einaudi, Torino 2001 e Siruela, Madrid 2009). Ha scritto: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, Torino 2004; tradotto in spagnolo e polacco); Che fine faranno i libri? (nottetempo, Roma, 2010); Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, Palermo 2010).

poloniaeuropae 2010 51 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

La Svizzera e gli internati militari: dall’armata dell’Est del generale Charles Denis Bourbaki alla seconda Divisione fanti fucilieri del generale Bronisław Prugar-Ketling

di Christian Bernardo

L’internamento di militari stranieri in Svizzera durante la seconda guerra mondiale è un tema che è stato accantonato per molti anni, anzi lasciato nel dimenticatoio. L’ar- gomento rappresenta, al contrario, un prezioso spunto per rimettere in moto la rifles- sione su un importante periodo storico che, in svariati modi, toccò il suolo elvetico. Inevitabilmente, nel momento in cui lo storico decide di affrontare tali delicate e purtroppo trascurate vicissitudini del passato, la sua attenzione non può non posarsi sui soldati polacchi ovvero sul gruppo nazionale che in modo numericamente più con- sistente fu “ospite” dei tanti campi d’internamento per militari predisposti dalle auto- rità svizzere. Al riguardo, la storiografia ci impone di ricordare alcuni eventi che hanno avuto luogo molto prima dell’ultimo conflitto mondiale, dando vita ad una specifica tradizione di rapporti amicali tra la Confederazione e la Polonia. Tra il XVIII e il XX secolo, diverse generazioni di polacchi trovarono rifugio in Sviz- zera. La prima presenza di rifugiati polacchi in terra elvetica risultò dall’insuccesso dell’insurrezione di Kościuszko1 nel 1794 e fece seguito alla conseguente terza sparti- zione della Polonia nel 1795. Anche il XIX secolo vide molti polacchi rifugiarsi nella Confederazione, in particolare dopo le insurrezioni del 1831, del 1848 e del 1863. La Svizzera diede a questi bisognosi asilo, sostegno e un’attività lavorativa. Essi poterono studiare e scrivere articoli in cui trovarono il modo di esprimere i propri sentimenti in difesa della patria e della sua indipendenza2. Dopo la prima guerra mondiale, ridivenuta la Polonia uno stato sovrano, i rapporti con la Confederazione assunsero una natura esclusivamente culturale ed economica. Tuttavia, dopo il 1° settembre 1939, le vicende belliche spinsero nuovamente i polacchi a dovere lasciare la propria patria per trovare asilo in Svizzera in quanto paese neutro3.

1 Tadeusz Andrzej Bonawentura Kościuszko (1746-1817), ingegnere polacco, combatté per l’indi- pendenza degli Stati Uniti, dove si conquistò i gradi di generale di Brigata, e poi della Polonia, che lo decorò con la Croce al Valore Virtuti Militari. Nel 1794 capeggiò il tentativo insurrezionale di li- berare Polonia e Lituania dall’influenza dell’Impero russo, fallito il quale la Polonia venne spartita per la terza volta e l’Austria, la Russia e la Prussia si annessero la parte restante della nazione, che per più di 120 anni cessò di esistere. Kościuszko morì in esilio in Svizzera (Soletta). 2 Cfr. R. MULLIS, Die Internierung polnischer Soldaten in der Schweiz 1940-1945, MilBro 2014, Mili- tärbibliothek Basel 2003, p. 51. 3 Helvétie, terre d’accueil. Espoir et vie quotidienne des internés polonais en Suisse 1940-1946, Fondation Archivum Helveto-Polonicum Fribourg, Editions Noir sur Blanc, Montricher 2000, pp. 20 e 22.

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Per quanto concerne la questione dell’internamento militare, è opportuno citare un caso decisamente eclatante. Se la Svizzera accolse soldati stranieri sul proprio territorio durante la seconda guerra mondiale, ebbene non si trattò di una prima volta. Infatti, durante il biennio 1870-1871, in pieno conflitto franco-prussiano, le mal equi- paggiate4 truppe francesi del generale Charles Denis Bourbaki, composte da circa 87 mila anime, furono costrette a riparare in territorio elvetico. Ogni genere di mate- riale, tra cui soprattutto armamenti e munizioni, dovette essere lasciato alla frontiera secondo quanto imponevano le convenzioni dell’epoca. Successivamente, tutti i militari e 12 mila cavalli poterono varcare la frontiera ed entrare nella Confederazione. La popolazione svizzera si prodigò in maniera esemplare per assistere questa immensa fiumana bisognosa, fino a quando, tra il 13 e il 22 marzo 1871, i soldati francesi pote- rono rimpatriare5. Questo evento straordinario è stato qui evidenziato per i suoi parallelismi con l’en- trata nella Confederazione delle truppe franco-polacche nel giugno 1940 e la successiva presenza per qualche anno dei soldati polacchi in Svizzera6. Le truppe di Bourbaki, di- sorganizzate e demoralizzate, vennero respinte verso la frontiera svizzera. Quali furono invece le iniziali vicissitudini dei militari polacchi al momento in cui furono costretti ad affrontare una nuova ed inaspettata realtà politica e sociale? Dopo l’invasione e l’occupazione nazista della Polonia il 1°settembre 1939, un nu- mero non indifferente di soldati polacchi riuscì, dopo aver attraversato la Romania e l’Ungheria, ad entrare in Francia. Qui ripararono il governo polacco in esilio, lo stato maggiore e il comandante in capo, il generale Władysław Sikorski. I soldati arrivati in territorio transalpino si unirono agli immigrati polacchi già presenti nell’esagono: così si riuscì a ricostituire l’esercito. Tale atto fu legittimato dal trattato franco-polacco del 21 settembre 1939, confermato successivamente nel gennaio 1940, che dava appunto facoltà di ricomporre un esercito polacco in territorio francese, il quale, tuttavia, do- veva essere sottomesso allo stato maggiore francese per quel che concerneva l’orga- nizzazione e i piani operativi7. Dal novembre 1939, quindi, a seguito del primo consistente arrivo di soldati po- lacchi, ci fu la possibilità di creare la prima Divisione di granatieri (1 Dywizją Grena- dierów), sotto il comando diretto del generale Bronisław Duch8. Successivamente, nei dintorni di Parthenay, nel Dipartimento Deux-Sèvres, si costituì una seconda Divisione,

4 Nella lingua francese è rimasta l’espressione peggiorativa «l’armée à Bourbaki» per indicare un gruppo di persone mal equipaggiate, con le divise fuori ordinanza. 5 P. M ORATH, Les internés militaires en Suisse pendant la 2e Guerre Mondiale. Le cas des polonais de la division Prugar, Biblioteca militare federale e del servizio storico, n. 20, Bern 2006, p. 7. 6 O. GRIVAT, Internés en Suisse 1939-1945, Ketty et Alexandre éditeurs, Chapelle-sur-Moudon 1995, p. 15. 7 Helvétie, terre d’accueil, cit. p. 28. 8 Il generale Bronisław Bolesław Duch (1896-1980), dalla Francia sarebbe poi passato in Gran Bre- tagna (1940), in Canada (1941), nuovamente in Gran Bretagna (1942), poi in Palestina (1943), in- fine in Italia (1943-1945) dove, nell’ambito del secondo Corpo d’armata, comandò la terza Divisione di fanteria “Fucilieri di Carpazia” [3 Dywizja Strzelców Karpackich]. Dopo la guerra Duch riparò a Londra, dove fu attivo nelle fila dell’emigrazione polacca.

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alla cui testa venne nominato il generale Bronisław Prugar-Ketling9. Al fine di ottimiz- zare la possibilità di combattere contro le truppe di carristi tedesche, fu necessario aumentare gli effettivi della seconda Divisione creando quattro reggimenti di fanteria, uno di artiglieria leggera, uno di artiglieria pesante e più unità di sostegno. A questa divisione rafforzata venne dato il nome di seconda Divisione fanti fucilieri (2 Dywizja Strzelców Pieszych). Il totale degli effettivi dell’esercito polacco in Francia ammontò alla fine ad oltre 82 mila uomini, di cui 50 mila erano immigrati polacchi già risiedenti in territorio francese10. Si tratta ora di comprendere meglio le motivazioni che dal punto di vista tattico- militare spinsero le truppe polacche e francesi a entrare in Svizzera, e quindi a creare le condizioni per la loro accoglienza e il loro successivo internamento. Il 10 maggio 1940 l’esercito tedesco aveva attaccato l’Olanda e il Belgio, ripropo- nendo la stessa identica strategia di manovra per entrare in Francia già utilizzata durante il primo conflitto mondiale. Dopo la disfatta della Somme e di Amiens, lo stato maggiore francese fu obbligato a ricorrere alle riserve. Il 19 maggio la seconda Divisione fanti fucilieri polacca fu inviata al fronte partendo da Parthenay, Airvault, Saint-Loup e La Ferrière11. L’obiettivo della manovra era di accorpare la seconda Divisione al 45° Corpo d’armata francese del generale Marius Daille, così da consolidare le difese alla frontiera francese tra Belfort e la Svizzera. Ma l’esito fu negativo: i tedeschi riuscirono a raggiungere la frontiera nei dintorni di Besançon e Pontarlier a una velocità inaspettata. Accerchiati, senza munizioni e messi alle strette proprio come settant’anni prima era accaduto alle truppe del generale Bourbaki, i soldati franco-polacchi furono costretti a chiedere di rifugiarsi nella Confederazione. Il consenso a tale richiesta fu dato dal consigliere federale Pilet-Golaz il 18 giugno 1940, dato che lo stato dramma- tico in cui versavano le truppe non poteva non essere preso in seria considerazione. La notte del 19 giugno 1940 le truppe in fuga passarono attraverso i primi paesi di frontiera del territorio giurassiano: Epiquerez, Goumois, Brémoncour, Réclère e Chau- four12. Il grosso delle truppe era costituito da 16 mila francesi e 12 mila polacchi, a cui vanno aggiunti 5.800 cavalli e 1.600 veicoli militari. Tre mila soldati seguitarono ad entrare in Svizzera anche nei giorni successivi. La seconda Divisione fanti fucilieri era, come già accennato, costituita per il 70% da emigrati polacchi fuggiti dalla miseria dopo la prima guerra mondiale. Essi ripararono

9 Cfr. R. MULLIS, op. cit., p. 6. Il generale Prugar-Ketling fu ufficiale di riserva dell’esercito au- striaco durante la Grande guerra. Nel 1939, alla testa dell’11a Divisione polacca, combatté tra Leo- poli e Cracovia contro le truppe di Hitler, ma venne fatto prigioniero. Riuscì successivamente ad attraversare la Romania e raggiungere la Francia, dove si mise agli ordini del generale Sikorski, capo del governo polacco in esilio. Per ulteriori approfondimenti cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 18. Du- rante il suo internamento in Svizzera Prugar-Ketling scrisse, quasi a caldo, una ricostruzione della campagna polacca del 1939, spesso citata come fonte: BRONISŁAW PRUGAR-KETLING, Aby dochować wierności, Wyd. Odpowiedzialność i Czyn, Warszawa 1990. 10 Helvétie, terre d’accueil, cit. p. 28. 11 Ibidem. 12 O. GRIVAT, op. cit., p. 19; R. MULLIS, op. cit., p. 10.

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in Francia e riuscirono a trovare un’occupazione come minatori nelle miniere del Nord. Il 30% restante era composto da quadri dell’esercito e da soldati giunti in territorio francese dopo svariate vicissitudini. Molti di loro erano studenti costretti dalla guerra ad interrompere gli studi13. Oltre alla seconda Divisione polacca di Ketling, bisogna tenere anche in considerazione i 500 soldati inquadrati nella prima Divisione di grana- tieri, i quali, a seguito del tallonamento dei tedeschi, furono costretti anch’essi a spin- gersi fino in Svizzera14. Volendo, quindi, tirare le somme degli effettivi militari entrati nel territorio svizzero, possiamo constatare che tra il 19 giugno e il 10 luglio 1940, circa 13 mila sol- dati polacchi furono costretti a cercare rifugio nella Confederazione. Secondo un cen- simento15 del 1° agosto 1940, vennero contati più precisamente un totale di 29.507 francesi, 12.531 polacchi, 639 belgi, 74 inglesi e 1 spagnolo. Tra cavalli e muli, invece, il totale ammontò a ben 5.897.

All’inizio, a questa immensa fiumana si dovette trovare un alloggio non disde- gnando di ricorrere a notevoli capacità di improvvisazione; ad esempio, svariate volte furono visti soldati bivaccare in alcune chiese. In proposito vale la pena di riportare la testimonianza di un cittadino giurassiano: «Rivedo questi bravi polacchi, dall’equipag- giamento superbo, con una presenza piena di dignità, alloggiare nell’antico e famoso collegio romano e fare ogni sera la loro preghiera in comune, inginocchiati davanti all’altare prima di addormentarsi sotto lo sguardo compassionevole del crocifisso; ormai la loro unica speranza»16. Benché possa sembrare ovvio, va ribadito che i contingenti militari, al momento del loro ingresso in Svizzera, furono obbligati ad abbandonare armi e munizioni. Un prezioso elemento di arricchimento del quadro d’insieme è dato dall’analisi di quali furono, in linea del tutto generale, le impressioni della popolazione svizzera al primo incontro coi soldati polacchi. È indubbio che il riscontro fu positivo perché, a livello di- sciplinare, essi si comportarono in modo ineccepibile. Ciò trova conferma soprattutto nel confronto con la condotta dei militari francesi. Infatti, questi ultimi, a seguito di vari ac- cadimenti particolarmente drammatici, mostrarono inequivocabili segni di sofferenza sia fisica, sia morale. Per quel che concerne, invece, i soldati polacchi, essi lasciarono di sé un’ottima impressione, come dà ad intendere la testimonianza di un altro osservatore giurassiano: «Un reggimento polacco si dirige verso la stazione di Delémont, in un ordine perfetto. La sfilata è magnifica… Si è colpiti dalla fiamma nel loro sguardo, il loro viso in- telligente, fiero e di una sorprendente distinzione. Un ufficiale marcia in testa ad ogni re- parto. È la grande parata di una nazione che non vuole morire»17. Ciò che è opportuno non omettere, anzi che merita di essere sottolineato nuovamente, è che la Svizzera fu “costretta” ad accogliere così tanti richiedenti in cerca di aiuto e pro-

13 Per ulteriori approfondimenti cfr. C. BERNARDO, Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento, Armando Dadò Editore, Locarno 2010, pp. 61-67. 14 P. M ORATH, op. cit., p. 7; Hélvetie, terre d’accueil, op. cit., p. 32. 15 Cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 17. 16 A. MEMBREZ, E. JUILLERAT, Remous de Guerre aux frontières du Jura, citato in O. GRIVAT, cit., p. 19. 17 Cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 18.

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tezione, in quanto paese neutrale nel rispetto dei principi della Convenzione dell’Aia. Tuttavia, non tutti i soldati polacchi accettarono in modo incondizionato la loro nuova situazione. Infatti, molti, soprattutto i più giovani, mal sopportavano l’idea di essere stati sconfitti. Di conseguenza, furono numerosi coloro i quali, per evitare il con- trollo alla frontiera, si presentarono in tenuta civile. Il loro scopo era di riorganizzarsi e ripartire per l’Inghilterra onde continuare la lotta contro la Germania nazista e la Russia sovietica18. Il problema della fuga si fece di conseguenza incalzante. La responsabilità che la Svizzera si era assunta comportava, inoltre, ingenti costi economici. Per attenuarne il carico, vennero concessi oltre che dalla Confederazione stessa, anche da organizzazioni private sempre maggiori finanziamenti per la gestione generale del problema dei rifugiati. In quanto al governo collaborazionista di Vichy, esso ottenne il consenso da parte tedesca a fare tornare in Francia i propri soldati: circa 29.700, tra gennaio e febbraio 1941. I militari polacchi non erano inclusi in quella disposizione di rimpatrio. Possiamo facilmente intuire quale fosse la loro condizione morale e psicologica: oltre a subire gli andamenti bellici, soffrivano per la grande incertezza relativa al futuro della patria, in- vasa e mutilata sia dai nazisti, sia dai sovietici. Le reazioni a questo diffuso stato d’animo furono diverse. Molti dei soldati polacchi desideravano solo una cosa: tornare a casa per proseguire la vita di sempre, nonostante la duplice invasione. Molti ufficiali, invece, avrebbero ripreso volentieri a combattere aiutando gli inglesi. Altri soldati an- cora, specie quelli che risiedevano in Francia già prima del conflitto, non riuscivano a comprendere perché si vietasse loro di tornare nell’esagono, soprattutto dopo aver combattuto insieme ai francesi. Non mancava neppure chi sperava nella rinascita di una “Grande Polonia” sul modello di quella di prima delle spartizioni. La gestione di così tanti e diversi problemi dei militari polacchi internati in Svizzera non era semplice e rap- presentò la prima sfida da affrontare e risolvere per le autorità elvetiche. Alla fine po- lacchi e svizzeri sarebbero riusciti a convivere per il lungo lustro del conflitto mondiale; e ciò in virtù di compromessi assolutamente non scontati, attraverso i quali molti ele- menti positivi avrebbero visto la luce. I soldati polacchi in Svizzera, più di quanto asettici documenti possano far traspa- rire, hanno lasciato traccia di sé non soltanto sul territorio della Confederazione Elve- tica, ma anche e soprattutto nell’animo e nel cuore di coloro che ebbero modo di vivere con o vicino a questi dimenticati protagonisti della storia svizzera — che è, in definitiva, storia europea.

Christian Bernardo, nasce a Bellinzona, in Canton Ticino (Svizzera), da genitori italiani nel novembre 1981. Si trasferisce a Lugano nel 1987. Nel 2008 si laurea in Storia e Do- cumentazione Storica presso la cattedra di Storia dei Paesi Slavi dell’Università degli Studi di Milano. Si sta ora abilitando per l’insegnamento della Storia presso il Diparti- mento della formazione e dell’apprendimento di Locarno. Ha scritto: Internati polac- chi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento, Armando Dadò Editore, Locarno 2010.

18 Ivi, p. 21.

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Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado

di John e Carol Garrard

Il saggio è ripreso da Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX secolo, a cura di Giovanni Maddalena e Pietro Tosco, Rubbettino Editore, Soveria Man- nelli 2007, pp. 69-87. Si ringraziano gli autori e l’editore per la gentile concessione. Il volume curato da Giovanni Maddalena e Pietro Tosco raccoglie i lavori del con- vegno internazionale dedicato allo scrittore russo Vasilij Grossman per il centenario della nascita, svoltosi a Torino dal 12 al 13 gennaio 2006. Recita la quarta di copertina: «Vasilij Grossman (1905-1964) è uno degli scrittori più importanti e più ignorati del XX secolo. Il tema di Vita e destino, il capolavoro che lo inserisce tra i classici della letteratura, è l’assoluta irriducibilità del singolo uomo a qualsiasi forma di potere. Tale forza umile e infinita è testimoniata dalle grandi do- mande sul significato dell’esistenza, sulla sua misteriosa bellezza, sul permanente ane- lito alla felicità che definiscono il cuore e la ragione dell’uomo anche dentro le circostanze più drammatiche della vita. Nell’inferno della battaglia di Stalingrado, Gros- sman scoprì la propria libertà e la intravide, nascosta, in tutti i gesti degli uomini. In nome di questa libertà fu il primo a patire: il manoscritto del romanzo fu sequestrato dal KGB nel 1961 e Grossman morì senza poterne vedere né prevedere la pubblicazione, che avvenne solo vent’anni più tardi in Occidente. Grossman comincia solo ora a essere oggetto di studi specialistici. Questo volume vuole raccogliere i primi frutti di tali ana- lisi e costituisce il primo passo verso la conoscenza completa della vita e dell’opera del grande autore russo».

John Garrard, è professore di Studi russi presso la University of Arizona. Insieme a sua moglie, la dott.ssa Carol Garrard, ha scritto diversi libri sulla letteratura russa, tra i quali The Bones of Berdichev: The Life and Fate of Vasily Grossman (New York 1996) la più completa biografia esistente sull’autore russo; e Russian Orthodoxy Re- surgent: Faith and Power in the New Russia (Princeton University Press 2008).

poloniaeuropae 2010 1 IL ROMANZO DELLA LIBERTÀ ROMANZO DELLA IL Vasilij Grossman (1905-1964) è uno degli giovanni maddalena, è ricercatore scrittori più importanti e più ignorati del XX di filosofia teoretica presso l’Università secolo. del Molise. Si occupa in particolare Il tema di Vita e destino, il capolavoro di filosofia americana e dei rapporti tra che lo inserisce tra i classici della letteratura, fenomenologia, logica e metafisica. IL ROMANZO è l’assoluta irriducibilità del singolo uomo Oltre a numerosi saggi sul pragmatismo a qualsiasi forma di potere. Tale forza umile e la filosofia contemporanea su riviste e infinita è testimoniata dalle grandi nazionali e internazionali, ha pubblicato domande sul significato dell’esistenza, sulla monografie sul pensiero di MacIntyre sua misteriosa bellezza, sul permanente (Cuneo 2000) e di C.S. Peirce (Torino DELLA LIBERTÀ anelito alla felicità che definiscono il cuore 2003). Ha curato e tradotto per i classici e la ragione dell’uomo anche dentro della Utet l’antologia di Peirce, Scritti scelti VASILIJ GROSSMAN le circostanze più drammatiche della vita. (Torino 2005). Nell’inferno della battaglia di Stalingrado, TRA I CLASSICI DEL XX SECOLO Grossman scoprì la propria libertà e la intravide, nascosta, in tutti i gesti degli pietro tosco, è laureato in Letterature uomini. In nome di questa libertà fu Moderne Comparate presso l’Università A CURA DI GIOVANNI MADDALENA il primo a patire: il manoscritto del romanzo di Torino. Ha studiato in particolare fu sequestrato dal kgb nel 1961 e Grossman l’influenza della letteratura americana nella E PIETRO TOSCO morì senza poterne vedere né prevedere produzione giovanile di Pavese con il prof. la pubblicazione, che avvenne solo vent’anni Marziano Guglielminetti. Collabora con più tardi in Occidente. alcune riviste ed è tra i curatori della mostra Grossman comincia solo ora a essere «Vita e destino. Il romanzo della libertà oggetto di studi specialistici. Questo volume e la battaglia di Stalingrado». Attualmente vuole raccogliere i primi frutti di tali analisi sta facendo studi specifici sull’opera di e costituisce il primo passo verso Vasilij Grossman. la conoscenza completa della vita e dell’opera del grande autore russo. Rubbettino

€ 18,00 Rubbettino john e carol garrard

Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado

Vasilij Grossman, ufficiale dell’Armata Rossa e corrisponden- te del giornale militare «Stella Rossa» scrisse nel suo diario che l’inizio dell’offensiva tedesca nell’estate del 1942 – quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione – «avrebbe deciso tutte le questioni e tutti i destini». La sua predizione si avverò. L’of- fensiva della Wehrmacht terminò con la battaglia di Stalingra- do, il punto di svolta della guerra e del suo destino personale. Il generale David Ortenberg, l’editore in capo della «Stella Rossa» durante la guerra, ci ha detto in un colloquio persona- le che questo periodo fu «il momento d’oro» della vita di Gros- sman. La corrispondenza privata di Grossman conferma que- sta affermazione. Dopo due mesi del più intenso combatti- mento ravvicinato dell’intera guerra, egli scrisse a suo padre: «Non ho desiderio di lasciare questo posto. Anche se la situa- zione è migliorata, voglio ancora stare in un luogo dove ho po- tuto testimoniare i tempi peggiori» (garrard 1996, p. 159). Anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, egli proiettò le proprie emozioni riguardo alla battaglia nella fine di Vita e destino, la sua ricostruzione romanzesca della batta- glia. Krymov, un commissario dell’Armata Rossa, a cui Gros- sman prestò molte delle sue esperienze personali, oltre che il suo grado nell’esercito, viene arrestato dall’nkvd. Lo trovia- mo ora giacere alla Lubjanka, sanguinante, dopo essere stato preso a pugni. Krymov ricorda a come «libero e felice, solo qualche settimana prima se ne stesse spensierato dentro il cra- tere di una bomba e sulla sua testa fischiasse l’acciaio» (vd, p. 772). 70

«Libero e felice» non è proprio il modo in cui descriveremmo la condizione degli uomini che combattevano a Stalingrado. La visione di Grossman sulla paradossale natura della libertà di Sta- lingrado comporta la sua analisi più profonda della condizione umana e della unicità di ogni singolo individuo. Si tratta anche della sua accusa più lucida nei confronti dello Stato sovietico, il quale, salvato da questi stessi soldati, si preparava a trattarli in modo così ingiusto. Ora la stessa Unione Sovietica è stata getta- ta nel dimenticatoio della storia; la sola battaglia che rimane co- me eredità della seconda guerra mondiale è quella per la verità e la memoria. Questo volume offre un’occasione d’oro sia per noi occidentali sia per i cittadini della Federazione Russa per pagare il nostro tributo ai soldati dell’Armata Rossa della guarnigione di Stalingrado e allo scrittore che ha registrato il loro austero corag- gio, un coraggio che ha cambiato il corso della storia umana. «Libertà» a Stalingrado voleva dire innanzitutto libertà dal- l’nkvd. La polizia segreta normalmente stazionava al sicuro nelle retrovie sparando a chiunque cercasse di ritirarsi. Ma non c’erano «retrovie» dentro la città, visto che l’Armata Rossa do- veva combattere su tutti i fronti con alle proprie spalle il fiu- me Volga. L’nkvd prudentemente si era accampato sulla sicu- ra riva est del Volga. Qui gli argini del fiume si ergono ripidi e l’Armata Rossa aveva scavato gallerie per la propria artiglieria e per i razzi Katjuˇsa. Sulla riva est la posta veniva consegnata, i soldati venivano denunciati e l’nkvd faceva il buono e il cat- tivo tempo [strutted and fretted]. La sicurezza della riva est era così allettante che la maggior parte dei comandanti dell’Arma- ta Rossa vi aveva installato i quartieri generali dei reggimenti delle divisioni spostandoli di nascosto dalla riva ovest dove in- fieriva il combattimento strada per strada. Appena il generale Vasilij Cujkovˇ aveva preso il comando della 62ª armata, le sue prime direttive furono di ordinare a tutti i comandanti di tor- nare nelle rovine della città e di impedire ogni ritirata attraver- so il fiume sotto la minaccia della pena di morte. A Cujkovˇ fu ordinato di resistere a tutti i costi, mentre il maresciallo Georgij Zukovˇ preparava una controffensiva. Né finalmente libero... 71 a Stalin né allo stato maggiore sovietico importava in che mo- do e a che prezzo ciò poteva essere ottenuto. La guarnigione di Stalingrado poteva condurre il combattimento per le strade così come la situazione della battaglia lo richiedeva, ignoran- do «la mentalità del Partito» (partijnost’). Un commento dei quaderni di Grossman riassume la situazione: «nella difesa di Stalingrado i comandanti di divisione basarono i propri calco- li più sul sangue che sul filo spinato» (grossman 1989, p. 363). Tale affermazione è pressoché identica a quella che lo stesso Cujkovˇ riferisce ai suoi comandanti riguardo alla mis- sione: stavano guadagnando tempo e «il tempo è sangue». L’Armata Rossa pagò veramente con il sangue. Il combat- timento cittadino era cominciato ai primi di settembre del 1942 dopo che un terrificante raid della Luftwaffe aveva ucci- so circa 40.000 civili. Ma non appena le forze tedesche ave- vano cominciato a entrare nella città vera e propria, si erano trovate a combattere casa per casa e strada per strada all’inter- no delle rovine di edifici massicci e molto resistenti. Il terreno di battaglia fu ridotto a crateri e a macerie in fiamme. Vale la pena scorrere una lunga citazione del diario di un luogotenen- te della 24ª divisione Panzer a causa della sua rilevanza per ca- pire le condizioni del combattimento cittadino:

Abbiamo combattuto per quindici giorni per una sola casa con morta- li, granate, pistole di baionette... i cadaveri sono stipati nelle cantine, sui pianerottoli e sulle scale. Il fronte è un corridoio tra camere bom- bardate; e il sottile soffitto tra i 2 piani. C’è una lotta senza pause da mezzogiorno fino a sera. Ci bombardiamo l’un l’altro da piano a piano con le nostre facce nere e sudate; nel mezzo di esplosioni, di nuvole di fumo e polvere, di colpi di mortaio di fiumi di sangue, di frammenti di mobili e di esseri umani... chiedete a qualsiasi soldato che cosa voglia dire mezz’ora di combattimento corpo a corpo in una lotta del genere. E immaginate Stalingrado dopo 80 giorni e 80 notti di combattimen- ti corpo a corpo. La strada non si misura più a metri, ma a cadaveri... gli animali fuggono da quest’inferno, le pietre più dure non possono sostenerlo a lungo, solo gli uomini resistono (clark 1985, p. 238). 72

La situazione era altrettanto orrenda per entrambi i conten- denti, eppure quando Vasilij Grossman scrive a suo padre in dicembre, quasi nello stesso identico momento, dichiara che «il peggiore di tutti tempi» è anche il migliore di tutti tempi. I tedeschi alla fine occuparono il 99 per cento della città. L’1 per cento della città che non presero includeva un numero ad hoc di unità dell’Armata Rossa dislocate in punti strategici e una minuscola linea continua di terra ancora tenuta dal ge- nerale Cujkovˇ e dai suoi uomini lungo il Volga. Questo «fron- te» alla fine si riduceva a circa 300 metri di roccia bombarda- ta e di fango. Ma includeva l’area di attracco per i traghetti del Volga e per la linea di rifornimento della guarnigione. Ogni rinforzo, cartuccia, medicazione e razione di cibo di cui Cujkovˇ e i suoi uomini avevano bisogno doveva passare attra- verso il fiume; ogni ferito doveva essere evacuato dai traghetti di nuovo attraverso il fiume. Se i traghetti del Volga fossero sta- ti fermati definitivamente, la linea dei rifornimenti sarebbe stata tagliata. Se la linea dei rifornimenti fosse stata tagliata, al- lora la guarnigione di Stalingrado sarebbe stata effettivamente circondata. Una volta circondata, sparata l’ultima pallottola e mangiata l’ultima razione, non ci sarebbe stata scelta per que- sta piccola e coraggiosa banda di uomini se non arrendersi, vit- tima ancora una volta di un accerchiamento come quelli che avevano già stroncato intere armate come era successo a Go- mel, Vjaz’ma-Brjansk, Smolensk e Kiev. La strategia dei tede- schi era semplice: ogni loro offensiva tendeva a conquistare l’attraversamento del Volga. Cujkov,ˇ però, aveva elaborato un piano che impediva ai te- deschi di raggiungere il fiume. Aveva organizzato i suoi uomi- ni in unità di combattenti che comprendevano dai 10 ai 20 elementi e aveva messo ogni squadra in edifici-chiave nel cuo- re della città, parte dell’1 per cento della mappa della città era tenuta dai sovietici. Ogni struttura fortificata era responsabile di alcune intersezioni cruciali delle strade. In Vita e destino il commissario Krymov visita uno di questi castelli in miniatura chiamato «la casa di Grekov». Queste strutture agivano come finalmente libero... 73 degli «spartiacque» incanalando i carri armati nazisti in percor- si obbligati sui quali Cujkovˇ aveva puntato la sua limitata arti- glieria. Quando i carri armati apparivano in queste vie predi- sposte in cui si muovevano a fatica, si trovavano ad affrontare il fuoco delle armi pesanti di Cujkov.ˇ Una volta bloccati, le pic- cole unità combattevano corpo a corpo con la fanteria tedesca. Il piano di Cujkovˇ spezzò il pugno d’acciaio dei panzer e le co- lonne di carri armati poterono così esser rese vulnerabili in un combattimento ravvicinato. Fu un piano brillante che annul- lò la superiorità tedesca di uomini e di mezzi. Indebolì perfi- no la virtuale supremazia aerea perché la Luftwaffe non poteva bombardare visto che i propri uomini erano mischiati ai nemi- ci nel combattimento corpo a corpo con i soldati dell’Armata Rossa. Ma fu una missione suicida per gli uomini che dovevano reggere la strategia di Cujkov.ˇ Il generale tedesco Friedrich Pau- lus cominciò il combattimento cittadino con cinque divisioni panzer, ciascuna delle quali completa di carri armati e armi. La situazione dell’Armata Rossa era opposta. Il generale Cujkovˇ dice nelle sue memorie che quando prese il comando della guar- nigione di Stalingrado aveva 40 carri operativi e una «riserva» di 19. Cujkovˇ non dice che cosa voleva dire per un soldato del- l’Armata Rossa combattere a Stalingrado. Grossman riempie questo vuoto. Krymov, l’alter ego di Grossman in quanto com- missario dell’Armata Rossa, alla fine di Vita e destino, dice ai suoi torturatori della Lubjanka: «dovreste essere mandati ad af- frontare un attacco di carri armati senza nient’altro che i fuci- li»1. Questa battuta del romanzo mostra una terribile realtà: gli uomini dell’Armata Rossa venivano davvero mandati ad af- frontare i carri armati con nient’altro che i fucili. Per di più, i tedeschi avevano un’enorme supremazia nel- l’artiglieria pesante. Quando il genio individuava il sito di una

1. Il testo è tratto dalla traduzione inglese (grossman 1986, p. 786), che dif- ferisce leggermente da quella italiana nella quale non compare il riferimento ai «fu- cili», che è invece presente nell’edizione originale. 74 di queste unità, ne segnava le coordinate sulle mappe. Le armi tedesche a lunga gittata e le bombe Stuka li avrebbero allora ri- dotti a schegge di materia fluttuanti in un enorme cratere. Grossman capì che cosa voleva dire tenere una di queste mini- fortezze. Tutti i russi rimasti all’interno della «casa di Grekov» moriranno quando la casa sarà cancellata dal fuoco tedesco. Gli storici militari confermano il massacro: quando i tedeschi si arresero il 3 febbraio del 1943, molte delle divisioni dell’Ar- mata Rossa formate da 10.000 uomini si erano ridotte a me- no di 100 sopravvissuti, il che significa che della guarnigione di Stalingrado solo un uomo su 100 era sopravvissuto. Questo era l’inferno nel quale Grossman voleva entrare a tutti i costi. Ne aveva avuto l’occasione ai primi di ottobre del 1942, quando il generale Ortenberg gli aveva mandato un mes- saggio urgente domandandogli del materiale sulla divisione delle guardie del generale Aleksandr Rodimcev. Grossman de- cise che la sua presenza fisica nella città era necessaria e, quin- di, domandò a Ortenberg il permesso di attraversare il Volga da est a ovest. Una volta arrivato sulla riva ovest non trovò su- periori della Sezione Politica a dirgli che cosa fare o dove anda- re, perché essi erano rimasti al sicuro sull’altro lato del Volga. Per i successivi 100 giorni circa, egli fu libero di andare dovun- que volesse, e approfittò appieno di questa pericolosa libertà. Era estasiato dall’assenza dei papaveri di Partito e dell’nkvd e si mosse senza risparmio. La sua totale assenza di paura gli con- quistò il rispetto dell’Armata Rossa; i soldati non lo considera- rono un giornalista, ma uno di loro. I suoi articoli scritti da Stalingrado gli assicurarono fama nazionale. Probabilmente il pezzo più rilevante per ciò che si vuole mettere in luce, “L’asse di tensione principale”, è un tributo allo straordinario coraggio della divisione siberiana del colonnello Gurt’ev. Questo reso- conto apparve sulla prima pagina della «Stella Rossa» e fu su- bito ristampato sulla «Pravda». La sua frase «l’eroismo era di- ventato un fatto quotidiano, lo stile della divisione e dei suoi uomini» (grossman 1999, p. 74) fu abbreviato in uno slo- gan popolare: «l’erosimo è diventato un fatto quotidiano». Gli finalmente libero... 75 uomini di Gurt’ev si trovavano sulla collina del Mamaev Kur- gan che domina la città. Uno dei punti più infuocati della bat- taglia, la linea diretta per il Volga. Non ci furono letteralmen- te sopravvissuti in molti settori della battaglia per il Mamaev Kurgan. Grossman, come conferma il generale Ortenberg, «passò molti giorni con una divisione di Gurt’ev sul Mamaev Kurgan» e tuttavia non ricevette neanche un graffio, benché una granata gli rotolasse fra le gambe, mancando poi di esplo- dere. Mentre le pallottole sfioravano soltanto la sua testa, gli uomini che stavano di fianco a lui venivano colpiti a morte. I soldati cominciarono a chiamarlo «Grossman il fortunato». Dopo che “L’asse di tensione principale” uscì sulla «Prav- da», Il’ja Erenburg disse a Grossman: «ora puoi avere tutto quello che chiedi». Ma Grossman non chiese nulla. Qualche soldo [perks] in più avrebbe certamente aiutato sua moglie Ol- ga Michajlovna o suo padre che si lamentava continuamente della situazione del luogo in cui era stato evacuato. La man- canza di egoismo di Grossman fu probabilmente una risposta personale al coraggio mostrato dalla divisione siberiana. Per una singolare eccezione «il trentesimo del colonnello Gurt’ev fu la sola divisione russa ad aver combattuto in Stalingrado do- po la metà di settembre che non fu né promossa allo stato di guardia né ricompensata con l’encomio di un’unità» (kerr 1978, p. 202)2. È chiaro che cosa significhi questa omissione. Quasi certamente questi uomini provenivano dai battaglioni di punizione, gli infami ˇstrafbaty nei cui ranghi (non solo tra quelli inviati a Stalingrado) solo quattro uomini su 100 so- pravviveranno alla guerra. Di nuovo, in Vita e destino, Gros- sman ci introduce in questo pezzo di verità. Fa sì che Krymov urli contro i suoi ben pasciuti torturatori alla Lubjanka: «voi, porci, dovreste essere mandati in distaccamento penale... ad affrontare un carro armato senza nient’altro che i fucili»3. In

2. Secondo Kerr, la sola altra divisione a essere altrettanto maltrattata fu la 112ª, la divisone Sologub. 3. Si veda la nota 1. 76 questo passaggio Grossman rivela che cosa significa l’orrore del combattimento cittadino per molti soldati della guarnigione dell’Armata Rossa. Grossman conosceva questa verità e, anche se questi fatti sarebbero stati inaccettabili per la censura sovie- tica, era determinato a farli conoscere. Gli uomini di questo battaglione erano siberiani, famosi per essere taciturni. Tuttavia, ciascuno emerge nell’articolo di Grossman come un essere umano unico4. Il colonnello Gurt’ev, un uomo dal quale ogni altro trovava difficile strappare più di un da o net, si confidò con Grossman per sei ore. La tecnica di intervista di Grossman era più simile al counseling che al gior- nalismo. Non prendeva appunti. Non voleva che gli uomini fossero attenti, mentre parlavano con lui. Preferiva che inci- dessero i loro famosi cucchiai di legno così che potessero con- centrarsi sulle loro mani invece che guardare lui negli occhi. Questi uomini, così coraggiosi in combattimento, erano ter- rificati dall’essere intervistati da un commissario dell’Armata Rossa e dal poter dire qualcosa che mettesse un compagno nei pasticci. Allora Grossman li faceva rilassare parlando innanzi tutto della caccia o delle loro famiglie. Di notte avrebbe poi scritto l’intera conversazione registrata dalla sua formidabile memoria e poi l’avrebbe riformulata. La tecnica di Grossman permetteva a uomini in continua tensione di aprirsi. Ogni «Ivan» dell’Armata Rossa è idiosincratico. Un soldato dice che è contento dei suoi «900 grammi di pane e dei pasti caldi por-

4. Questa osservazione è vera per tutti i reportages di Grossman da Stalingrado. Nel suo altrettanto famoso «Vista da Cechov»ˇ (grossman 1999, pp. 52-62) egli ci dà un ritratto di un giovane cecchino dallo strano nome: Cechov.ˇ In Siberia era abituato a cacciare e sapeva come giacere immobile per ore nella neve. La sua in- fanzia difficile con un padre alcolizzato gli aveva insegnato molte cose della vita. Ora, egli era determinato a non permettere ai tedeschi di camminare orgogliosa- mente a testa alta nella sua città, essi avrebbero nascosto la testa tra le spalle, per la paura di essere colpiti. Cechovˇ faceva chinare la testa alla «razza padrona», li faceva strisciare, nascondersi di luogo in luogo e infine collassare, morti, tra le macerie con una pallottola nel cranio. La freddezza di un cecchino professionista si combina nel- l’articolo di Grossman con gli affettuosi e particolareggiati dettagli su che cosa vo- lesse dire essere un giovane soldato dell’Armata Rossa. finalmente libero... 77 tati in containers due volte al giorno» – il tipo di dettaglio che è importante per i soldati su qualsiasi fronte. Il punto che in- dividualizza ogni uomo era semplice; Grossman sapeva che erano stati stigmatizzati dal loro stesso esercito con l’etichetta di ˇstrafbaty (ovviamente in un contesto più ampio, i tedeschi avevano insultato le popolazioni slave etichettandole come un- termenshen, “subumane”). L’intero reportage di Grossman a Stalingrado mostra la futilità delle etichette. Ciò che importa- va a Stalingrado era il tipo di soldato che eri. Grossman adottò deliberatamente un’istanza narrativa molto pacata. Egli richiama i suoi compatrioti a onorare il co- raggio. La sua voce non è mai stridente e ciò innalza «L’asse di tensione principale» al di sopra del livello della propaganda militare. Il basso profilo della voce narrativa corrisponde al- l’autoimmagine degli uomini descritti:

I suoi uomini non potevano rendersi conto dei cambiamenti psicologi- ci prodottisi in loro nel corso del mese che avevano passato in quell’in- ferno, sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado. Credeva- no di essere rimasti quel che erano sempre stati […]. (grossman 1999, p. 73).

Ma se gli uomini non erano consapevoli del cambiamento o erano incapaci di esprimerlo a parole, Grossman non lo era. Qui Grossman accenna a un altro tipo di «libertà» presente a Stalingrado, la libertà dal sospetto, dall’interferenza e dal co- stante assillo del Partito. Gli uomini della divisione siberiana erano uniti dalla fiducia, una qualità del tutto assente dalla vi- ta sovietica. In uno degli ultimi articoli che firmò sulla «Stella Rossa» prima di essere riassegnato, Grossman scrisse che «la fe- de reciproca unì l’intero fronte di Stalingrado dal comandan- te in capo ai soldati di ogni rango e di ogni linea». Da quella fede e da quella fiducia uscì la libertà che «generò la vittoria». Secondo Grossman fu precisamente durante i giorni più terri- bili del combattimento che la città distrutta fu la capitale del- la terra della libertà. 78

La paradossale libertà garantita all’Armata Rossa durante il combattimento cittadino cambiò letteralmente il corso della sto- ria. Resistendo contro forze sovrastanti, la guarnigione di Stalin- grado fece commettere ai tedeschi un errore catastrofico. Essi so- vrastimarono le forze del generale Cujkovˇ 5. Ciò li condusse a un fatale errore di calcolo. I tedeschi vedevano le proprie riser- ve esaurirsi nel combattimento, il loro orgoglio li convinse che i russi dovevano sprecare le proprie riserve nella battaglia allo stesso modo. Credendo che le forze dei russi si stessero esau- rendo con uguale, se non con maggiore, rapidità, esclusero una controffensiva russa per mancanza di riserve. Per tutta la durata del combattimento cittadino, il ministero della propaganda di Goebbels vantava il fatto che a Stalingrado si stesse consuman- do la «più grande battaglia di logoramento» mai combattuta. Era vero. Ma Goebbels commise un errore di presunzione. Erano i tedeschi, e non l’Armata Rossa, che stavano perdendo, per feriti e per stanchezza, tutte le proprie divisioni sul terreno. Allo stesso tempo, il maresciallo Zukov,ˇ stava costruendo al di là del Volga un’enorme forza di uomini e mezzi su un fronte di attacco di 40 miglia. Con un freddo calcolo egli fornì il minimo di rinforzi alla 62ª armata di Cujkov.ˇ Nei due me- si critici, dal 1° di settembre al 1° di novembre, solo «cinque di- visioni furono mandate al di là del Volga, il minimo indispen- sabile per coprire le immense perdite» (clark 1985, p. 232)6.

5. Alan Clark, lavorando sulle fonti primarie degli archivi tedeschi ha descritto l’errore in questi termini: «La vi armata, per un comprensibile desiderio di giusti- ficare la richiesta di ulteriori rinforzi e di enfatizzare il compito che stava svolgen- do, tendeva a riportare la presenza di divisioni nemiche laddove c’erano soltanto reggimenti o persino battaglioni, assumendo la presenza della divisione di apparte- nenza ogni volta che una delle formazioni subordinate venivano rilevate. Dato il numero delle unità che Cujkovˇ aveva dislocato in parti diverse della città, il calco- lo abituale della vi armata immaginò le forze russe cinque o sei volte più numero- se di quelle reali […]». 6. L’uso del termine «immense perdite» da parte di Clark è ripetuto da molti ve- terani dell’Armata Rossa per identificare la normale abitudine di Stalin nell’uso del- le truppe. Quest’orrenda prodigalità con cui gli uomini erano spesi avrà conseguen- ze demografiche devastanti per l’Unione Sovietica post-bellica. finalmente libero... 79

Gli organi di propaganda di Goebbels non potevano credere che la vi armata tedesca, il fiore all’occhiello della Werhmacht, fosse costretta allo stallo da soldati dell’Armata Rossa infinita- mente inferiori di numero e di armi. Paulus continuò con la stessa tattica, cercando di colpire i russi sempre con gli stessi metodi costosi e dispersivi. Il suo ultimo attacco fu lanciato l’11 novembre 1942. Finì in una serie di violente battaglie corpo a corpo, alle volte combattute nelle fogne, alle volte nei crateri dove prima si trovava una «casa di Grekov». Il combattimento fu feroce, da nessuna delle due parti vi furono prigionieri. Ben- ché fosse molto inferiore di numero (il rapporto era di più di dieci a uno) e non potesse contare né sui carri armati né sulla forza aerea dei tedeschi, la guarnigione di Stalingrado resistet- te ancora. La calma sul campo di battaglia del 18 di novembre indicava che entrambi gli eserciti erano ora a corto di munizio- ni. Cujkovˇ adesso aveva terminato anche le razioni di cibo, an- che se i suoi uomini avevano ancora della vodka. Ma la vi ar- mata era finita. Le sue ultime riserve erano state distrutte. Mentre quelli che Grossman descrive come «i calcoli basa- ti sul sangue» confondevano i tedeschi, il maresciallo Zukovˇ non stava sprecando il tempo pagato a tal prezzo. Egli aveva spostato in zona una fanteria di mezzo milione di uomini, 230 reggimenti di artiglieria e 115 reggimenti armati di missili Katjuˇsa. Posizionò 900 nuovi T-34 sui loro fianchi. Ora il momento della controffensiva era a portata di mano. La mat- tina del 19 novembre 1942 – ossia solo qualche ora dopo il de- finitivo spegnersi dell’ultima offensiva tedesca – Zukovˇ sca- tenò il fuoco di sbarramento e la sua armata con tutti i suoi uo- mini e i suoi mezzi si rovesciò al di là del Volga. Si trattava del- la maggior forza di uomini e armi che l’Armata Rossa avesse mai dispiegato dal momento dell’invasione. Essi spianarono l’armata romena che teneva i fianchi dell’esercito tedesco. En- trambi i bracci della tenaglia oltrepassarono la città. Il 23 no- vembre si riunirono al ponte di Kalaˇc, la linea di rifornimen- to tedesca sul fiume Don, il condotto per ogni cartuccia, me- dicamento e razione alimentare che giungeva alla vi armata. 80

Così i russi tagliarono la linea di rifornimento tedesca e bloc- carono di fatto la via della fuga. Ora i ruoli erano invertiti. In- vece dell’Armata Rossa circondata su tre lati con le spalle al Volga, ora era la Wehrmacht a essere circondata. Essi erano ora le vittime del terribile «doppio accerchiamento» che è sempre stato il sogno di ogni comandante militare fin dalla classica vit- toria di Annibale sui romani a Canne. Dentro il calderone, o kessel, come lo chiamavano i tedeschi, più di 250.000 uomi- ni erano bloccati senza speranza. Nel suo capolavoro narrativo Barbarossa, Alan Clark sinte- tizza perfettamente che cosa significava l’accerchiamento del- la vi armata:

[...] questo brillante colpo segnò in ogni suo aspetto – per la sua tem- pistica, la sua potenza e il modo in cui sfruttò la disposizione stessa del nemico – un cambiamento completo e definitivo nell’equilibrio stra- tegico tra i due contendenti. Da questo momento in avanti l’Armata Rossa mantenne l’iniziativa e, benché i tedeschi cercassero in molte oc- casioni (e alle volte con successo) di rovesciare questo equilibrio, i lo- ro sforzi risultarono al massimo dei tentativi tatticamente significati- vi. A partire dal novembre 1942 l’atteggiamento della Wehrmacht sul fronte est fu fondamentalmente un atteggiamento difensivo (clark 1985, p. 249).

Vasilij Grossman era sul posto e in Vita e destino descrisse la natura dell’errore tedesco con la stessa chiarezza di uno stori- co professionista, ma con molto anticipo:

Stalingrado continuava a resistere, come prima gli attacchi tedeschi non fruttavano vittorie decisive benché i contingenti impiegati fossero mas- sicci e dei logorati reggimenti sovietici rimanesse solo qualche decina di uomini. Queste poche decine di soldati si erano accollate tutto il peso di quegli scontri tremendi, e pure avevano in sé una forza che riusciva a disorientare tutte le aspettative del nemico. I tedeschi non riuscivano a capacitarsi del fatto che la loro potenza potesse essere disintegrata da un pugno di uomini. Erano convinti che le riserve sovietiche fossero de- finalmente libero... 81 stinate a sostenere ed alimentare la difesa di Stalingrado. I soldati che respinsero sulle rive del Volga gli attacchi delle divisioni di Paulus, fu- rono i veri strateghi dell’offensiva di Stalingrado (vd, p. 485).

Una volta che nei tedeschi accerchiati si era spenta la speranza di un sostegno esterno la loro resa era inevitabile, un proble- ma scacchistico che aspettava solo di essere risolto con mosse obbligate. Le ultime truppe della zona nord di Stalingrado fu- rono prese prigioniere dai sovietici tra l’1 e il 3 febbraio 1943, mentre il grosso delle forze, compreso Paulus (che Hitler ave- va appena nominato maresciallo) e 30 dei suoi generali, erano stati catturati due giorni prima. Quale fu, però, il destino degli uomini la cui “libertà” ave- va conquistato questa magnifica e decisiva vittoria? Dal mo- mento in cui la vi armata perse ogni realistica possibilità di fuggire o di essere soccorsa, cominciò a svanire anche la libertà dell’Armata Rossa dall’interferenza dell’nkvd. La polizia se- greta si precipitò di nuovo nella città. Dopo l’arresa la «Stella Rossa» inneggiava a Stalin, che non aveva mai lasciato il Crem- lino, come all’architetto della Canne del Volga. Sfortunata- mente, la libertà dall’nkvd che il Partito aveva garantito per 100 giorni, non era che un mezzo per un fine. Il generale Or- tenberg ordinò a Grossman di lasciare Stalingrado il 3 gennaio 1943, quasi un mese esatto prima dell’arresa definitiva, ma sei settimane dopo l’accerchiamento del 23 novembre che aveva ipotecato la sconfitta finale della Germania. Konstantin Simo- nov, il perfetto ragazzo modello di Partito, lo sostituì. Quan- do Grossman partì, la città che era stata la capitale della “li- bertà” stava tornando a essere solo un insieme di rovine di un’altra città distrutta, ancora una volta sotto il controllo del Partito e dell’nkvd. In Vita e destino Grossman scrive la vera storia di come la libertà dal controllo di Partito avesse «generato la vittoria». So- lo che era una visione che non poteva essere pubblicata all’in- terno dell’Unione Sovietica. Grossman se ne accorse lenta- mente. Come ha riferito la sua stretta amica Ekaterina Zabo- 82 lockaja in un’intervista: «era un bambino in queste cose». Par- rebbe che Grossman pensasse che la mentalità da «banda di fratelli» della guarnigione di Stalingrado potesse permanere nel pieno degli anni ’60. Persino dopo che gli uomini del kgb perquisirono il suo appartamento e si impadronirono di tutto ciò che trovarono di Vita e destino – comprese le bobine della macchina da scrivere – Grossman cercò di liberare il proprio libro dalla prigionia. Scrisse una lettera al Segretario del pcus, Nikita Chruˇsˇcëv, che a sua volta era stato a Stalingrado duran- te il combattimento cittadino, chiedendogli aiuto per riavere il suo manoscritto. Fu convocato al Cremlino il 23 luglio 1962 per incontrare Michajl Suslov, il responsabile dell’ideologia del Partito. Grossman scrisse a memoria la conversazione appena tor- nato nel suo appartamento. Suslov disse di non aver letto per- sonalmente il romanzo, ma di avere davanti a sé delle note dei «recensori», cioè dei cani da guardia [watchdog] del kgb. Il suo commento è interessante:

Perché dovremmo aggiungere il suo libro alle bombe atomiche che i no- stri nemici sono pronti a lanciarci contro? Questa pubblicazione aiute- rebbe soltanto i nostri nemici. Pubblicare il suo libro accrescerebbe so- lo il numero delle vittime7.

7. Grossman scrisse l’intero testo del dialogo con Suslov quando a sera tornò nel suo appartamento. La sua stupefacente memoria non lo aveva abbandonato. L’in- tero testo è pubblicato in appendice a garrard 1996, pp. 357-360. La traduzio- ne in inglese è di John Garrard. Anche la provenienza del resoconto grossmaniano di questo incontro è istruttiva. Quando morì lasciò cinque pagine manoscritte nel suo appartamento, il che significa che esse giunsero in possesso di sua moglie Ol’- ga Michajlovna. Nel 1964 ella accettò una richiesta formale dei burocrati dell’U- nione degli Scrittori di depositare le note nella speciale collezione degli archivi di Stato della letteratura. Ella raccontò in seguito, a uno sconvolto e orripilato Semën Lipkin, amico di Grossman, di essere stata pregata dal Segretario della sezione mo- scovita dell’Unione degli Scrittori, che casualmente era un ufficiale del kgb, il ge- nerale Ilyin (garrard 1996, pp. 308-309). La traduzione di John Garrard di que- sto documento finora inaccessibile ci apre uno squarcio sul modo in cui gli appa- raticik del pcus, fino ai più alti livelli, trattassero con scrittori problematici come Grossman. finalmente libero... 83

Suslov fa poi un’affermazione che dimostra che i cervelli del kgb avevano prestato particolare attenzione ai passaggi sul modo in cui la vittoria di Stalingrado era stata raggiunta:

Come avremmo potuto trionfare nella guerra con il tipo di persone che lei descrive? […] se accettiamo ciò che lei dice, allora è impossibile ca- pire come mai abbiamo vinto la guerra. Secondo lei non avremmo mai dovuto vincere. È impossibile capire perché abbiamo vinto (garrard 1996, p. 358).

Con «noi», ovviamente, Suslov intende il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, non l’Armata Rossa. Nel 1962 la linea del Partito sulla vittoria ottenuta grazie alla guida di Stalin era cambiata; ora gli osanna inneggiavano al Partito che aveva compiuto il miracolo sul Volga. Suslov non era mai stato in prima linea durante la guerra. Dal suo punto di vista, come aveva detto, «era impossibile capire perché abbiamo vinto». Grossman era stato lì e aveva dimostrato che i soldati comuni avevano vinto a Stalingrado perché essi, in quei critici 100 giorni, erano stati liberi dalla guida del Partito. Il Partito avrebbe anche potuto riconoscere il ruolo dell’Armata Rossa, ma rifletteva la conquista dei soldati in uno specchio distorto. Dopo l’incontro con Suslov, Grossman si rese conto che il manoscritto non gli sarebbe mai stato restituito né pubblicato durante la sua vita. I restanti due anni della sua vita furono estremamente difficili e pieni di dolore. La fama conquistata a Stalingrado, tuttavia, gli fornì qualche protezione. Non morì alla Lubjanka, ma in ospedale (il 14 settembre 1964), di can- cro allo stomaco. Tecnicamente, dunque, morì di «cause na- turali», anche se è verosimile pensare che l’onnipresente sorve- glianza del kgb, degli informatori, delle spie, il sequestro dei manoscritti, la rimozione dei suoi libri dalle biblioteche e la ri- duzione del suo status a quello di «non persona», affrettarono la sua fine. In un certo senso, fu fortunato a morire allora. Il 14 settembre 1964 quasi tutti i posti importanti del comando dell’esercito erano occupati da soldati che avevano servito con 84 o sotto Chruˇsˇcëv durante i tre mesi critici a Stalingrado8. In fondo erano stati anche i compagni d’arme di Grossman. Chruˇsˇcëvˇ fu destituito soltanto un mese dopo la morte di Grossman. Il nuovo leader, Leonid Breˇznev, non era stato a Stalingrado e non condivideva alcun senso di fratellanza con coloro che vi erano stati (Breˇznev era stato un commissario di Partito nel Caucaso; un ghostwriter gonfiò il suo contributo molto modesto allo sforzo bellico in una grandiosa memoria che valse a conquistargli premi letterari conferiti molto gene- rosamente dai sicofanti dell’Unione Sovietica degli scrittori). Breˇznev concluse la lunga campagna, durata 18 anni, per ascri- vere la vittoria al pcus. Suslov, la nemesi di Grossman dal giorno in cui al Cremlino aveva paragonato Vita e destino a una bomba, guidò il blitz della propaganda. Lazar Lazarev ha de- scritto eloquentemente il nuovo ritornello come «suona, suo- na, o tuono vittorioso!»9. Il Partito aveva mischiato le genui- ne memorie popolari della vittoria con l’ideologia sovietica. E il Partito non aveva alcuna intenzione di riconoscere il ruolo di Vasilij Grossman. La cinica denigrazione da parte del Partito del contribu- to di Grossman alla vittoria di Stalingrado si può vedere in plastico rilievo sulla scena del più grande monumento alla vittoria, il gigantesco complesso memoriale a Volgogrado (Chruˇsˇcëvˇ aveva rinominato la città durante la sua campagna anti-staliniana). Durante il suo mandato come Segretario Ge- nerale del pcus, Breˇznev fece costruire venti enormi memo- riali alla Grande Guerra Patriottica: quello di Volgogrado è il più grande di tutti. Fu inaugurato nel 1967 sul Mamaev Kur- gan per festeggiare il cinquantesimo anniversario della Rivolu-

8. Per una lista completa degli uomini e delle loro posizioni (che prenderebbe troppo spazio) si rimanda a clark 1985, p. 464. Grossman fece un errore politi- co a Stalingrado non intervistando Chruˇsˇcëv. Pare che il leader sovietico ne fosse ri- masto ferito e che prendesse l’omissione come un’offesa personale. 9. Si veda la discussione di questa e altre importanti verità sulla guerra nell’arti- colo di Lazarev “Russian Literature on the War and historical Truth” in garrard 1993, p. 42. Lazarev è un veterano decorato della Seconda guerra mondiale. finalmente libero... 85 zione bolscevica e collegare così il Partito con la vittoria sulla vi armata tedesca. La collina del Mamaev Kurgan domina ancora la città. Qui, nel mezzo di sparatorie letali, Grossman aveva realizza- to le sue interviste. Aveva passato giorni e giorni sotto i bom- bardamenti tedeschi. E proprio qui, dove aveva condiviso con i soldati il pericolo, il Partito si rifiutò di pronunciare il suo nome. Per aggiungere al danno la beffa, una citazione presa da «L’asse di tensione principale» di Grossman fu scol- pita in lettere alte quasi due metri sul muro che conduce al mausoleo:

Un uragano di acciaio li colpiva in viso, ma continuavano ad avanzare. Un terrore superstizioso si impadronì del nemico: erano degli uomini questi che attaccavano? Erano mortali? (grossman 1999, p. 69).

Ma né la fonte di queste parole né il loro autore sono menzio- nati da qualche parte. Lo stesso silenzio permane all’interno del grande mausoleo del complesso memoriale. Sotto la cupo- la, la mano di un gigante innalza una torcia. Sui lati della cu- pola sono scolpiti i nomi dell’enorme numero di cittadini e di soldati che morirono a Stalingrado. Ancora una volta vediamo delle parole di Grossman, la risposta che i soldati dell’Armata Rossa diedero alla domanda dei tedeschi, questa volta incisa in oro alla base della gigantesca cupola. Tuttavia, le sue parole so- no di nuovo citate senza fonte:

Sì, noi eravamo davvero mortali e pochi di noi sopravvissero, ma tutti abbiamo adempiuto al nostro dovere di patrioti davanti alla santa ma- dre Russia.

La madre Russia stessa è personificata sul Mamaev Kurgan da un’immensa statua che sguaina la propria spada e chiama i suoi figli a difendere Stalingrado dagli invasori. Vasilij Grossman fu uno di quei figli che rispose alla chiamata, ma il Partito ha can- cellato il suo nome. 86

Si tratta qui del classico monumento di guerra sovietico: un capolavoro di disinformazione fissato nella pietra. L’im- menso complesso di Volgogrado onora palesemente i soldati dell’Armata Rossa che vinsero la battaglia e il corrispondente di guerra che, senza morire, scrisse un tributo al loro sacrifi- cio. Tuttavia, cancella l’identità sia dei soldati – quasi certa- mente un battaglione di punizione – sia dell’autore delle paro- le. Persino oggi, come testimonia Mark Burman, un corri- spondente della bbc che ha recentemente visitato il mausoleo sul Mamaev Kurgan, le guide ufficiali pretendono ancora di non sapere chi ha scritto queste parole, anche se il Partito Co- munista dell’Unione Sovietica non controlla più il paese. Que- sto silenzio dà ragione alle menzogne del Partito sui veri eroi di Stalingrado. Grossman è stato ed è l’uomo che ha raccontato la verità sulla guerra, sulla sua battaglia più epica e sui suoi segreti più oscuri. L’Unione Sovietica e la sua ideologia marxista-lenini- sta sono scomparse, ma i russi (e i non russi cittadini della Fe- derazione) lottano ancora per capire una guerra che fu com- battuta principalmente sulla loro terra e la cui vittoria fu pa- gata a un prezzo tale che tuttora le statistiche demografiche della nazione ne risentono. Questa lotta andrà avanti per tut- to questo secolo, e forse di più. Mentre le memorie individua- li dei sopravvissuti svaniscono, si sta forgiando una memoria collettiva. Tutti i galantuomini sono chiamati a servire nella guerra contro la dimenticanza. Ancora vivo nei suoi libri, Grossman ci chiama, ovunque noi siamo, a farci carico del far- dello della storia e a ricordare i veri vincitori di Stalingrado: i soldati della 62ª armata di Cujkov,ˇ che cambiarono il senso della «forza del destino»10 contro la Wehrmacht e salvarono il pianeta dal fascismo.

10. Winston Churchill usò questa memorabile espressione «hinge of fate» come titolo di uno dei suoi libri in cui descrive la battaglia di Stalingrado. finalmente libero... 87 riferimenti bibliografici clark a. 1985 Barbarossa: The Russian-German Conflict 1941-45, Quill, New York (se- cond edition). grossman v. 1984 Vita e destino, Jaca Book, Milano. 1986 Life and Fate, Harper&Row, New York. 1989 “Zapisnye Kniˇzki” in Gody voiny, Ogiz, Moskva. 1999 Anni di guerra, l’ancora, Napoli. garrard j. e c. (a cura di) 1993 World War 2 and the Soviet People, S. Martin Press, New York. garrard j. e c. 1996 The Bones of Berdichev: The Life and Fate of Vasily Grossman, The Free Press, New York. kerr w. 1978 The Secret of Stalingrad, Doubleday, New York. n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Polacchi, tedeschi

poloniaeuropae 2010 61 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Sull’insurrezione di Varsavia. Lettera aperta a Giacomo Maritain e Francesco Mauriac, del 5 ottobre 19441

di Giuseppe [Józef] Czapski

Ho avuto la fortuna di conoscervi nei miei anni di tirocinio a Parigi. Ammiravo la vostra integrità di pensatori, di scrittori, il vostro coraggio. Per me, straniero, voi non eravate soltanto Maritain o Mauriac, voi eravate la Francia, una tra- dizione d’integrità intellettuale, un’atmosfera che si sentiva presso gli scrittori ed i pensatori francesi, dai conservatori fino ai rivoluzionari (beninteso, con delle ecce- zioni). Tutta l’opinione della Francia è stata sconvolta per la difesa di un solo uomo con- dannato ingiustamente2, perché voi ben giudicavate che si trattava allora di un princi- pio, la cui violazione accettata produrrebbe un abbassamento, uno sprofondamento della morale francese. Voi avete avuto allora Zola, e avete avuto Peguy. Ai miei tempi, a Parigi, Lei dirigeva, Giacomo, una revisione di tutta una filosofia. Lei lottava per la filosofia e la morale cattolica, che erano allora più che impopolari negli ambienti intellettuali della Francia. E con ciò si «comprometteva» doppiamente, attirando verso la Sua fede... dei pubblicani. È allora che Benda parlava del «Tradimento dei chierichi», Halévy della «Deca- denza della libertà» e Gide ci insegnava che cos’è «lo Spirito non preconcetto». E più tardi, Bernanos e Lei, Mauriac, difendevate gli spagnuoli e i baschi antifran- chisti massacrati. Lei Maritain gli ebrei perseguitati, e Gide, credente del comunismo, aveva il coraggio di scrivere il suo libro: «Ritorno dall’URSS». Potevamo essere «per» o «contro» le vostre affermazioni o i vostri principii, ma eravate per noi un esempio di non-conformismo. Perciò, ci sforzavamo nel nostro paese di condurre le nostre lotte nello stesso spi- rito di probità intellettuale. La maggioranza di voialtri credeva troppo facilmente che il mondo finisse col Reno, altri che non cominciasse che a Mosca, e non sapevano nep- pure che vi erano da noi degli uomini che lavoravano da generazioni per lo stesso com- pito, e che difendevano il medesimo patrimonio. Ma che succede ora?

1 La lettera, qui riportata tale e quale, nella versione dell’epoca, fu stampata nel 1944 in italiano in forma di piccolo libro di 16 pagine dalla Drukarnia Polowa A[rmii] P[olskiej] [na] W[schodzie], creata inizialmente in Palestina. Una precedente versione in polacco venne pubblicata sulla rivista «Orzeł Biały», n. 34, 1944. 2 L’affare Dreyfus.

poloniaeuropae 2010 63 Sull’insurrezione di Varsavia...

Al momento del vostro ritorno nella vostra capitale liberata, la nostra si è solle- vata per un combattimento col suo oppressore, ed è appena caduta, cambiata in un mucchio di macerie, in condizioni senza uguali. Si tratta di un caso di coscienza euro- pea. Siamo in diritto di aspettare dagli scrittori e pensatori francesi, quali li abbiamo sempre conosciuti, una parola in difesa delle vittime, che sarebbe anche stata una parola in difesa dell’onore e della coscienza cristiana dell’Europa; ora, nulla di simile ci è ancora pervenuto. È difficile parlare di Varsavia, perché ciò che succede laggiù sorpassa i limiti della nostra immaginazione. Una città avente più abitanti di Roma d’ante-guerra, più grande di Los Angeles e due volte più grande di Lione, è rasa al suolo, l’esercito sotterraneo [clandestino], tutta la popolazione combattendo senza viveri, senza armi, non sotto- mettendosi, per quanto da settimane Varsavia manchi d’acqua, devastata da febbre tifoidea e scarlattina, difendendo selvaggiamente ogni casa, e affermando davanti al mondo la propria volontà di indipendenza. Le nostre Chiese, le nostre biblioteche, l’Università di Varsavia, i nostri palazzi storici e migliaia di case dove si rifugiavano più di un milione e mezzo di uomini, sono distrutte. Il numero dei morti e dei feriti è calcolato a duecentomila. Per il campo di transito di Pruszków sono passati fino al 27 settembre 243 mila ci- vili, evacuati per forza dai tedeschi (una piazza enorme, senza la minima installazione sanitaria, centinaia di cadaveri insepolti, fucilazioni nel campo stesso). Questi disgraziati erano le madri, le mogli, i bambini dei soldati polacchi che com- battevano a Varsavia e combattono su tutti i fronti. Valgono qualcosa questi soldati, se i capi degli eserciti alleati li onorano di affidar loro i compiti più ardui e pieni di responsabilità; questi soldati, che hanno conquistato Montecassino e Ancona, hanno preso parte ai più duri combattimenti di Falaise e di Ar- nhem; e sempre con questa fede irragionevole: che vi è al mondo una giustizia e che il sangue versato non è mai sangue versato inutilmente. Presento in breve alcuni fatti. Nell’ottobre 1943, il movimento clandestino polacco riceve dal suo governo a Londra l’ordine di collaborare con le truppe sovietiche. Questa collaborazione si inizia all’entrata delle truppe russe in Polonia, l’insurrezione della capitale ne è un termine logico. Le truppe sovietiche entrano a Praga (sobborghi di Varsavia) e la radio russa, il 30 luglio, lancia un appello alla popolazione di Varsavia di cui cito alcune frasi: «Tutta la popolazione della città deve unirsi intorno all’esercito della resistenza. Cittadini di Varsavia, alle armi! Attaccate i tedeschi, facilitate il passaggio della Vistola alle truppe sovietiche. Un milione di abitanti è un esercito di un milione di uomini che combattono per la libertà della Polonia». Contemporaneamente, le autorità tedesche ordinano l’evacuazione totale della popolazione della città. Spinta dalla radio sovietica, minacciata di sterminio, Varsavia si solleva. Varsavia è il più importante nodo di comunicazioni di tutto il fronte orientale. L’insurrezione blocca queste arterie, sconvolge i piani dell’alto comando della Wehrmacht, chiude in questo settore forze considerevoli.

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Tattica russa: il comando sovietico rifiuta di concedere un qualsiasi aiuto a Varsa- via, innalza ostacoli contro l’opera di soccorso intrapresa dagli alleati, rifiuta l’uso delle sue basi aeree e mantiene questa interdizione durante quarantanove giornate decisive per la sorte di Varsavia quando tali soccorsi potevano ancora essere efficaci, e si decide finalmente ad un «gesto magnanimo», intorno al quale la propaganda russa fa gran chiasso, gesto consistente nel lancio tardivo di armi e viveri, effettuato quando si sapeva già ch’era troppo tardi per salvare Varsavia. L’unica causa della caduta di Varsavia è la mancanza assoluta di ogni aiuto, durante il primo periodo dell’insurrezione, da parte di coloro che potevano e dovevano conce- derlo. Nell’ultima fase dell’insurrezione, allorché il destino di Varsavia era già segnato, giunsero i soccorsi, troppo tardivi, e, del resto, insufficienti. L’unica operazione di gran larghezza fu effettuata dall’aviazione americana, con 400 fortezze volanti. Ma per quanto l’80% del materiale lanciato col paracadute cadesse in mano ai polacchi, si trat- tava di vettovagliamento sufficiente appena per due giorni. Un aiuto concesso senza ritardo dai russi durante la prima fase dell’insurrezione avrebbe senza dubbio prodotto la liberazione di Varsavia, salvando la capitale dalla distruzione totale, e risparmiando ai suoi abitanti orribili sofferenze e la morte. Questo scorcio di fatti dice ben poco se la nostra fantasia non vi collabora. Non conoscete il grido di pericolo della radio di Varsavia? Lo suppongo, perché vi sono delle forze nel mondo che vogliono soffocare questi richiami di soccorso. Vi è una propaganda che fin dalla creazione, nel 1939, della frontiera Molotov-Ribbentrop, si è specializzata nel metodo di propagare tesi che non rispondono a verità alcuna; e ve n’è un’altra parallela e che ha molto successo nei paesi democratici d’oggi, di non sentire i fatti fastidiosi. Ma non vi è nessuno in questi paesi che voglia vedere la verità, che voglia sapere ciò che vale, ciò che soffre un paese, anche se non si è in grado di portargli aiuto? Leggiamo nei radiogrammi di Varsavia di questi ultimi due mesi dei richiami inin- terrotti di aiuto in materiale di guerra e in viveri, il 27 agosto ancora la radio ci informa che l’esercito del paese dà tutto il suo sforzo per aiutare l’esercito sovietico, lo fa credendo che questa collaborazione nella battaglia potrà creare una base di giusto accomodamento fra i due paesi. Sostenuta dalle ottimistiche emissioni [trasmissioni] delle radio alleate, le notizie di enormi bombardamenti in Germania, la popolazione non cessava dal credere in un forte aiuto degli alleati stessi e aspettava questi soccorsi come nell’anno 1863 i nostri insorti credendo nell’aiuto di Napoleone III, ed anche all’arrivo di Garibaldi, con il suo esercito, attendevano la riscossa. La radio del 29 agosto ci disse: «La capitale della Romania, appena due giorni dopo essere insorta contro i suoi alleati di ieri, riceve un aiuto per il quale noi chiamiamo da 26 giorni e che Varsavia aspetta senza ricevere. Bisogna essere nemici per cinque anni e non tra i più fedeli alleati per ricevere un aiuto?». Seguiamo attraverso la radio la de- scrizione delle donne che, nel fumo degli incendi, durante l’attacco della Centrale te- lefonica, prendono parte all’azione, nei lavori dei vigili del fuoco e degli zappatori. Seguiamo la lotta nel vecchio quartiere della città, uno dei più bei monumenti dell’ar- chitettura in Polonia, che non esiste più. La sua cattedrale gotica di San Giovanni è oggi un mucchio di ceneri.

poloniaeuropae 2010 65 Sull’insurrezione di Varsavia...

Veniamo anche a conoscenza della presa dell’edificio della polizia, che precedeva l’annientamento dei tedeschi nella chiesa della Santa Croce dove si era formata una piazzaforte (vi era sepolto il cuore di Chopin). Bisogna conoscere queste chiese storiche, che ci sono familiari fin dalla nostra in- fanzia, questi tranquilli caffè dove trascorrevamo le nostre ore di riposo, trasformati in fortezze, prese e riprese da noi e dai tedeschi, per poter immaginare in parte l’atro- cità dei combattimenti nella nostra capitale. I varsaviani sono informati dalle radio delle vittorie degli alleati sui fronti del- l’Occidente, e anche del discorso di Churchill, insistente sulla cessione ai russi delle no- stre provincie orientali. «Dobbiamo forse perdere la Polonia per questo lungo e sanguinoso martirio?» grida la radio di Varsavia. «Varsavia combatte per i diritti e la libertà, non soltanto per sé, ma anche per tutta la Polonia. Varsavia non cessa di aspettare, di ascoltare le voci del lontano Occidente, ed è il discorso di Churchill che ci giunge... Tutto diventa più chiaro, al momento in cui diveniamo coscienti che la Polonia è senza forza, esangue, che con una Polonia simile non si ha più bisogno di contare». E poi questa frase: «Abbiamo dato ciò che potevamo e abbiamo così poco contribuito alla soluzione della questione polacca. Sono le parole ed il pensiero di tutta Varsavia». Ma in tutti questi comunicati vi è ancora una riserva di speranza, essi spirano la gioia del combattimento di un popolo, per cinque anni selvaggiamente soggiogato. Dopo essersi ritirati, i russi rioccupano Praga, il sobborgo sulla riva destra della Vistola. Ed ecco che dopo il primo entusiasmo di un così vicino aiuto, giungono le noti- zie delle deportazioni. Leggiamo nel comunicato del 30 settembre: «Nessuno al mondo ci vuole ascol- tare... Vi è qualcuno che tiene a che la nazione polacca cessi d’esistere... Non pos- siamo capire per quali cause e quali fini l’Inghilterra permetta alla Russia di tormentarci... Nel momento in cui scoppiò la rivolta, non vi erano a Varsavia né armi, né munizioni. Le abbiamo guadagnate sui tedeschi perdendo un uomo ogni due fucili. Ci si lasciò senza aiuto, perché l’Inghilterra ha deciso che l’aiuto per la Polonia non si calcoli. Un troppo grande aiuto per un paese così piccolo, dicevano gli uomini politici inglesi... Varsavia combatteva con fucili contro cannoni, con granate contro carri ar- mati. Combattevamo sotto l’artiglieria e le bombe tedesche. Eppure avevamo dei mo- menti di gioia: il primo era l’entrata degli eserciti sovietici a Praga, e l’altro l’arrivo degli apparecchi americani. Solo oggi ci accorgiamo di come ci siamo illusi, rallegran- doci dell’entrata dei russi, credendo che non ricomincerebbero i loro atti del 1939. E soltanto ora vediamo ch’essi sono venuti in Polonia per perderci». I difensori ricevono notizie definitive, secondo le quali i russi deportano la popo- lazione in Siberia. Scoppia una collera, un rancore contro gli alleati. È per questo, allora, che si è combattuto, che si è distrutta la propria capitale? Nella radio del 2 ottobre, abbiamo parole piene di fiele contro gli alleati. È molto possibile che gli abitanti di Varsavia non abbiano avuto un’idea chiara delle difficoltà da sormontare per organizzare un efficace aiuto degli alleati. Ma pur tuttavia queste voci strazianti di una popolazione in pericolo devono essere ascoltate dal mondo. Que- sti richiami non giungono a voi «perché sono autentici». Oh, se fossero stati redatti da uffici di propaganda di Mosca, di Berlino, di Londra o di Washington, li avreste intesi in

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tutte le emissioni, tutti i giornali li citerebbero nelle loro postille. Ma queste frasi in- sanguinate, spesso sgarbate, questi richiami contraddittori di rancore e di tenerezza in- viati da una città in fuoco non vi giungono. Questa popolazione ricorda che abbiamo perso durante la battaglia aerea di Lon- dra il 40% dell’effettivo della nostra aviazione che ha preso parte alla difesa, che i polacchi combattono oggi su tutti i fronti. Il comunicato del 2 ottobre, alle 7 di sera, ci dice: «L’aiuto non viene da nessuna parte. Gli eserciti del generale Rokossovski3 as- sassinano i nostri fratelli». È con queste frasi che incomincia il comunicato. «I russi hanno ordinato l’evacuazione da Varsavia (del sobborgo occupato da loro) dei vecchi e dei bambini. Gli uomini fra i 14 e i 60 anni sono mandati in Siberia». E dopo alcune pa- role fra le più dure verso gli alleati: «Sappiate che già oggi centinaia di migliaia di po- lacchi sono morti per voi. Dovete subito portarci aiuto. Noi soccombiamo... Ci si chiama la «preoccupazione dei popoli combattenti». Perché? Per il sangue versato o perché siamo un popolo che vuol vivere, respirare l’aria libera? E osavate proclamare il motto: «Combattiamo per la libertà dei popoli soggiogati». «Ci avete persi in un labirinto di menzogne. E ci rivolgiamo ora agli uomini giusti, a coloro che non hanno vangato la fossa sotto il popolo polacco estenuato. Cambiate il mondo, che vada su un’altra strada, se è necessario, non abbiate paura di cambiare guide. Perché non fate questo sforzo? Perché non aiutereste coloro che periscono? Abbiamo una sola strada davanti a noi, la strada nell’altro mondo. Ricordate che sono gli spettri dei cadaveri di domani che vi par- lano. Abbiamo perso la fiducia nell’uomo, nei suoi sentimenti, nella sua lealtà, e ab- biamo in fondo al nostro animo un’amarezza mortale contro coloro che hanno distrutto il nostro paese». E dopo queste frasi di sanguinante rancore, un’altra, fatta di tene- rezza: «Sappiamo che non interpreterete male ciò che diciamo. Siamo stati così a lungo ingannati, ed ora ancora di più, ma crediamo sempre». Vedo già degli uomini «moderni» e scettici sorridere con una benevola superiorità: «Che popolo romantico, che sogni scaduti di libertà delle Nazioni, di giustizia». Ma so che nessuno di voi, Mauritain, Mauriac, si permetterà di sorridere. Cito alcuni passaggi del comunicato del 3 ottobre: «Varsavia disgraziata, non vinta, combatte ancora. Non riceviamo aiuto da nessuno, Rokossovski distrugge i resti della po- polazione polacca. A Varsavia vi è un pugno di soldati estenuati fino all’ultimo. Le

3 Konstantin Konstantinovič Rokossovskij (1986-1968), generale sovietico di origine polacca (Konstanty Ksawerowicz Rokossowski). Nel 1941 comandante del Corpo d’armata ad ovest di Mosca e nel 1942 quello del settore del Don. Soprannominato nel 1943 "L’invincibile", dopo la battaglia di Stalingrado e promosso a generale d’armata. Nel 1944 diresse il fronte della Russia Bianca e co- mandò la controffensiva sovietica dal Dniepr fino alla Vistola, fermandosi alle porte orientali di Var- savia, senza aiutare gli insorti polacchi. Nel 1945 occupò Stettino. Come maresciallo dell’URSS e poi anche maresciallo polacco, dal 1949 al 1956 fu ministro della Difesa della Polonia comunista e, comandante supremo dell’esercito polacco; e dal 1952 al 1956 esercitò pure le funzioni di vice premier della Repubblica popolare di Polonia (PRL). Dopo il “disgelo” del 1956 rientrò in URSS, su espressa richiesta dei comunisti polacchi.

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donne, i bambini e le madri con i loro piccoli muoiono di fame. È stato proclamato ieri l’ordine del generale Rokossovski che esige l’evacuazione della popolazione di Varsavia (riva destra occupata dai russi). In Siberia vanno i soldati dell’esercito nazionale; ai lavori forzati vanno gli eroi di Varsavia che muore. Dov’è la lealtà umana? Esigiamo da voi aiuto. L’aiuto deve venire subito, capite, subito per Varsavia che muore. Non vi è tempo da perdere, crediamo soltanto in voi. Solo in voi abbiamo fiducia». Ancora questa speranza, questa fiducia non spenta negli alleati. «È oggi che rin- comincia la strada polacca in Siberia, una via lunga e lontana. Una via che è un peri- colo anche per l’Inghilterra. Il patrimonio di tante generazioni è stato distrutto. La capitale dei grandi uomini, la capitale della Polonia bruciata... Soldati dell’indipen- denza e della Costituzione, avete fatto tutto ciò che dovevate fare, avete salvato l’onore della città insanguinata e morente. Avete posto il suo onore più in alto della vostra vita, voi, gli uomini della Polonia sotterranea. Varsavia vi ha ricevuti come una madre, vi ha nascosti nelle sue cantine, e quando le bombe tedesche volevano strap- parle i vostri cadaveri, vi copriva con le sue macerie. Allevati da tutto il paese polacco, di cui Varsavia è una parte, non ne avete ceduto una particella senza com- battere. Gloria e onore a voi. Iniziamo oggi una lunga via nell’incognito. Dobbiamo abbandonare con dolore queste care macerie, queste pietre che ancor oggi sono un pericolo per gli occupanti. Abbiamo il diritto di parlare a nome dei polacchi, e ce ne serviamo per dirvi che è nostro desiderio che ogni polacco conosca le parole ed i richiami che Varsavia lancia nel mondo, da molto tempo. Sappiamo che le ore dei tedeschi sono contate. Il popolo polacco era, è e sarà. Il nostro popolo non perirà. I truffatori, per quanto barbari essi siano, non riusciranno ad assassinare un eroico po- polo di 30 milioni». Questo stesso comunicato ci porta l’ultimo ordine del giorno del capo del solle- vamento, il generale Bór4. Ne cito alcuni frammenti: «Abbiamo combattuto per uno scopo nobile. La liberazione del popolo polacco e di tutti gli stati che dividono la sua sorte. Abbiamo combattuto per il ritorno di un giusto ordine per tutti nell’Europa del dopo guerra, per una sicurezza di tutti i suoi cittadini. Per la rinascita del mondo. Non ci è stato dato di finire questo combattimento. Abbiamo dovuto cedere alla forza, ma i nostri eserciti all’estero combattono, e la lotta per la Polonia e per la libertà non finisce qui a Varsavia. La capitolazione della capitale non prova che abbiamo cessato di lottare contro i tedeschi. La Polonia, che ha combattuto contro di loro durante i cin- que anni dell’occupazione, ora, dopo una perdita così dolorosa, in una situazione

4 Tadeusz Komorowski (1895-1966), politico e militare polacco, detto Bór-Komorowski, da uno dei suoi nomi di battaglia: “Bór” (la Foresta). Prese parte attiva alla resistenza contro l’occupazione della Polonia da parte della Germania nazista. Nel 1941 fu nominato vice comandante e nel marzo 1943 comandante dell’esercito polacco clandestino (AK-Armia Krajowa). Con l’appoggio del go- verno polacco in esilio a Londra decise e diresse l’insurrezione di Varsavia nel 1944. Dopo la scon- fitta fu imprigionato in Germania. Alla fine della guerra andò in esilio a Londra, dove svolse un ruolo attivo nell’emigrazione polacca. Dal 1947 al 1949 fu primo ministro del governo polacco in esilio.

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politica atroce, non cesserà di lottare. Le esigenze di Mosca sono peggiori della resa degli eserciti al nemico. Preferiamo morire piuttosto che accettarle. I sovieti volevano deportarci e distruggerci come le diecimila vittime di Katyń5. Non ci è stato dato aiuto, abbiamo combattuto senza questo, abbiamo fatto il nostro dovere fino alla fine... Sono sicuro che le ore della Germania, contro la quale combattiamo, sono contate». È la fine del combattimento di sessantatre giorni. La sconfitta. Contemporaneamente alla lotta condotta a Varsavia, si organizzava nel mondo in- tero un’attività febbrile e ben diretta, avente per fine di calunniare gli uomini della re- sistenza polacca. Dopo un’accanita lotta contro il capo del nostro esercito, il generale [Kazimierz] Sosnkowski, che in un ordine del giorno constatava apertamente l’insuffi- cienza dell’aiuto degli alleati, vi è ora una campagna contro il generale [Tadeusz] Bór- Komorowski, capo della difesa di Varsavia, e oggi capo di tutte le nostre forze armate. I telegrammi di Mosca qualificano per «criminali» i capi responsabili dell’insurre- zione che hanno essi stessi incoraggiata con tutte le loro forze, esigendola. Un giornale americano, letto da migliaia di soldati, pensa bene di mettere in grandi caratteri: «I polacchi fuggono da Varsavia». Non so se questo redattore americano si per- metterebbe di parlare di fuga se si trattasse di soldati americani che si fossero battuti per sessantatre giorni, circondati da un nemico cento volte più forte, senz’armi e quasi senza aiuto dai loro alleati. E ancora con la prospettiva di essere accusati di tradimento e deportati in fondo alla Russia. E con ciò, altre notizie ancora ci pervengono dalla Polonia. La terribile prigione di Maidanek, presso Lublino (tutta la stampa mondiale ne par- lava come di un centro di atrocità tedesche) è piena oggi di 2500 soldati polacchi del nostro esercito sotterraneo. La differenza consiste unicamente nel fatto che i tedeschi tenevano a Maidanek la popolazione civile e stranieri che vi si portavano da altri paesi dell’Europa, mentre i sovieti, in nome della lotta comune contro i tedeschi, vi hanno messo dei soldati che hanno combattuto e che potrebbero ancora combattere contro l’esercito tedesco. Gli ufficiali dei battaglioni polacchi che hanno preso parte alla conquista di Wilno con gli eserciti sovietici, invitati a pranzo il giorno della vittoria dal comando russo, sono stati arrestati sul posto. Il loro destino è sconosciuto. Fino al 25 settembre sono state deportate da Wilno diecimila persone, per il momento a Kalouga [Kaluga], nel centro della Russia. Un telegramma ci informa che le deportazioni, le fucilazioni dell’elemento polacco sono più numerose che nell’anno 1939. Ma sapete almeno che cos’erano queste deportazioni del 1939 e 1940? Sapete che vi era un milione e mezzo di uomini, di donne e di bambini che sono stati deportati fino

5 Nel 1944 si pensava che nelle fosse di Katyń si trovassero i corpi di circa 10-11 mila ufficiali po- lacchi (mentre le vittime ritrovate sono “solo” 4421). Ancora non si sapeva che i massacri erano avvenuti in varie località.

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ai confini dell’URSS e che una parte enorme di questi deportati è già morta di fame, di freddo, di miseria? Che non vi è quasi nessun polacco che non vi abbia perso parenti stretti? Una Nazione di trenta milioni è votata ad una definitiva distruzione biologica da due Stati totalitari di 80 e di 180 milioni. Questo paese, che per primo ha detto «no» a Hitler, con una capitale ridotta in ceneri, non può nemmeno farsi ascoltare, la sua bocca sanguinante deve essere ancora imbavagliata, e si dice che sia necessario in nome della causa comune. Ma qual è questa causa comune? Dopo che si è sotterrata la Carta Atlan- tica e che si vuol regalare alla Russia metà del territorio polacco, dandoci promesse di ricompense dalla parte dell’ovest, come se la Patria fosse un armadio che si trasporta di posto in posto. Ci ricorderemo sempre, con commossa riconoscenza, che vi sono stati degli avia- tori britannici, sud-africani, australiani, americani, che sono morti tentando di portare soccorso alla capitale della Polonia. Siamo oggi informati che Churchill ha reso omaggio solenne ai difensori di Varsa- via alla Camera dei Comuni. Siamo riconoscenti per queste belle parole ripetute dalla stampa mondiale, che «Varsavia ha subito sofferenze e privazioni che nulla sorpassa, anche fra tutte le disgrazie di questa guerra». Ma non salveranno più Varsavia. Vi è un detto polacco che dice: «Utile come incenso per i morti». E poi queste commoventi parole alla Camera dei Comuni non erano accompagnate da alcuna prova di comprensione per il senso, il fine di questi combattimenti: la libertà e l’integrità della Repubblica. Capiamo bene come gli uomini politici abbiano le loro grandi e le loro piccole com- binazioni, e come la tattica imbrogli spesso gli scrittori, il cui compito è stato sempre quello di dire la verità; sono loro che dicevano: «Accuso», che «Non potevano tacere», che erano «Al disopra della mischia». So bene dove si trovano quelli che sono rimasti in Germania, in Russia, in Polonia, se ve ne sono ancora che non sono stati uccisi. Sono tutti votati al silenzio, torturati nei campi, dall’Olanda fino al Pacifico. Ma dove sono i grandi scrittori inglesi, americani? Perché tacciono? Ammetto che vi sia poca materia nel dramma polacco per un brillante paradosso di Bernard Shaw, ma dov’è il sottile Aldous Huxley, Sinclair Lewis, [Theodore] Dreiser? Silenzio completo dei grandi scrittori. Sono anch’essi ridotti al silenzio dalla censura? Capisco che sia scomodo parlare oggi della Polonia, che è infinitamente più facile tacere o ripetere riproduzioni semplicistiche o false sulla Polonia, paese dei «landlords» e dei rea- zionari. Queste voci così comode, accettate oggi da una parte della stampa mondiale detta progredita, sarebbero un’inciviltà sotto la penna di uno scrittore degno di questo nome. Forse mai la mancanza della Francia, questo vuoto che ha formato la sua disfatta nel 1940, ci apparve più evidente e più tragica. Ma è a voi, scrittori e pensatori francesi che tornate oggi nella vostra patria ferita, provata ma liberata, nella vostra Parigi quasi intatta, è a voi che si rivolgono la nostra speranza e la nostra fiducia, la nostra speranza che rifarete la coscienza mondiale, continuerete una tradizione che è la vostra. Non riuscirete a ricreare l’autorità della Francia se non lottate ugualmente per le Nazioni che difendono e incarnano gli stessi principi di civiltà.

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La causa della Polonia e di tutti i popoli dell’Europa come essa assoggettati, dopo cinque anni di guerra mondiale, è una causa della morale e della coscienza del mondo. Se per un giuoco di così dette esigenze politiche, la Francia, come gli altri, si disinteresserà della loro sorte, cesserete dall’essere agli occhi del mondo ciò che era- vate — gli apportatori di un patrimonio comune, i difensori delle idee universali. Par- tecipereste col vostro silenzio alla distruzione, forse per sempre, del prestigio, così caro a noi tutti, del prestigio intellettuale e morale della Francia nel mondo.

Józef Marian Franciszek Czapski (1896-1993), artista polacco, pittore, saggista. Durante la seconda guerra mondiale subì la prigionia nei campi di concentramento so- vietici. Rilasciato nel 1941, raggiunge l’armata polacca in URSS del generale Władysław Anders, per incarico del quale partì senza esito alla ricerca degli ufficiali polacchi “scomparsi” (4 mila dei quali ritrovati poi a Katyń). Esperienze che raccontò in Ricordi di Starobielsk (Roma 1945) [prima edizione polacca: Oddział Kultury i Prasy 2 Korpusu, 1944] e in Na nieludzkiej ziemi [Terra disumana] (Instytut Literacki, 1949). Nel 1943- 44 combatté col secondo Corpo polacco in Italia. Nel 1946 emigrò a Parigi, dove fu tra i cofondatori di «Kultura», la principale rivista dell’emigrazione polacca. Nel 1950 fu tra gli organizzatori del Congresso della libertà della cultura a Berlino.

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Lotte per il monumento in ricordo dell’insurrezione di Varsavia del 19441

di Jacek Zygmunt Sawicki

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

6 luglio 1945. Nel corso di una grande manifestazione alla centrale elettrica di Varsavia, gli operai lanciano l’idea di costruire un monumento all’insurrezione di Var- savia e inviano un appello in proposito al nuovo governo e alle nuove autorità citta- dine. Tre giorni dopo, la stampa pubblica la delibera del plenum del Consiglio dei sindacati concernente la colletta di denaro per il — come fu allora chiamato — “Monu- mento agli Eroi della capitale”. È anche indetto un concorso per il progetto architet- tonico… Nel 1946 nasce un’altra idea: formare un tumulo con le macerie della capitale (fino a 150 metri di altezza). Ma prevale l’iniziativa del giornale del pomeriggio “Express Wieczorny”, che nel luglio del 1946 torna all’idea del monumento. Si ottiene per que- sto scopo la considerevole somma di oltre un milione di złoty, frutto di donazioni. Sempre nel 1946, viene eretto il primo “Monumento all’Insurrezione di Varsavia”, ma non a Varsavia. Fin dall’inizio la lotta per i simboli legati all’insurrezione oltrepassa i confini della capitale. Questo estendersi della questione oltre la città è favorito dal- l’esodo degli abitanti di Varsavia. Ne è un esempio l’iniziativa di costruire un “Monu- mento all’Insurrezione” a Słupsk: con il sostegno del reverendo Jan Zieia, l’idea viene lanciata da ex insorti che, dopo la guerra, si sono stabiliti in Pomerania, sulle rive del Baltico. Il monumento è inaugurato il 15 settembre 1946.

«Tombe coperte di erbacce»

Anche a Varsavia sembra che tutto vada nella direzione migliore. È in corso un vi- vace dibattito sulla forma, sull’ubicazione e sul nome del monumento. Quest’ultimo aspetto è fluttuante: in un primo momento si parla di un monumento “all’Insorto”, più tardi di un monumento “ai Combattenti di Varsavia”, infine di un monumento “ai Com- battenti per la Libertà e per la Democrazia”. Tuttavia, verso la fine del 1946, l’argo-

1 JACEK ZYGMUNT SAWICKI, Walka o pomnik, “Tygodnik Powszechny”, 20 luglio 2009. Si ringrazia l’autore e la rivista per aver autorizzato questa traduzione e pubblicazione in italiano (http://tygodnik.onet.pl/35,0,30793,walka_opomnik,artykul.html).

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mento viene “silenziato” dall’alto. L’anno dopo, dell’iniziativa si ricorda soltanto il quotidiano d’opposizione “Gazeta Ludowa”, organo del PSL-Polskie Stronnictwo Ludowe [Partito popolare polacco]. A dire il vero, per via dei molteplici interrogativi che essa suscita, della questione si occupa il congresso dell’Unione dei partecipanti alla lotta ar- mata per l’indipendenza. È anche costituito un Comitato per la costruzione del monu- mento di cui sono membri onorari il presidente della Polonia Bolesław Bierut, il primo ministro Józef Cyrankiewicz e il generale Marian Spychalski; presidente del Comitato è nominato il generale Franciszek Jóźwiak (partigiano dell’Armia Ludowa, l’Esercito po- polare di liberazione). La cerimonia della posa della prima pietra viene programmata per il 1°settembre 1948, in modo che i riferimenti all’insurrezione siano il meno pos- sibile diretti. Tutto sommato, i comunisti sono riusciti a risolvere la questione. Per il momento. Dopo una pausa di qualche anno — quando per aver fatto parte dell’Armia Kra- jowa (Esercito nazionale di liberazione2) si poteva finire in galera — il primo settembre 1948 ebbe nuovamente luogo una cerimonia al cimitero Powązki. «La forza con la quale ai tempi del comunismo si volevano cancellare dalla memoria varie questioni — scrive Marcin Kula nelle sue riflessioni sulla memoria e l’oblio — conferma in modo inequivo- cabile come, in fin dei conti, le cose fossero molto radicate nella memoria. Molto spesso risultava che tutto ciò che era azzittito fosse perfettamente ricordato da tutti coloro che dovevano ricordare». Uno dei capi dell’insurrezione, Jan Mazurkiewicz “Radosław”, dopo essere uscito di prigione, diresse i suoi primi passi a Powązki. Con amarezza avrebbe scritto più tardi: «Le tombe coperte da erbacce, croci marcite e ribaltate, soprattutto sulle tombe di “Parasol”, “Miotła” e “Żywiciel”, il monumento pieno di crepe: cadono le lastre dallo zoccolo di granito, le catene tutte intorno rotte, nell’insieme una spaventosa visione di abbandono e trascuratezza».

L’insurrezione ovvero un episodio

Le cose sarebbero cambiate. Nel 1956, sull’onda del “disgelo”, la stampa iniziò a pubblicare le numerose lettere alla redazione che illustravano le emozioni della molti- tudine degli ex soldati dell’Armia Krajowa e di altre organizzazioni indipendentiste. Il dibattito in corso costituiva per loro il ritorno nella società e la restituzione dell’onore

2 L’AK-Armia Krajowa [Esercito nazionale o dell’interno] fu il principale movimento di resistenza clandestina nella Polonia occupata prima dalla Germania nazista e poi dall’URSS, e fu anche una delle più grandi organizzazioni di resistenza europee durante la seconda guerra mondiale. L’Armia Krajowa costituì il braccio armato di quello che successivamente fu definito lo Stato clandestino polacco. Nominalmente apolitico, l’AK rifletté soprattutto gli orientamenti nazionalisti e antico- munisti dei suoi membri, che tesero ad accentuarsi con il crescere della minaccia comunista. I co- munisti crearono invece la GL-Gwardia Ludowa [Guardia popolare], dal luglio del 1943 denominata AL-Armia Ludowa [Esercito popolare].

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e della giustizia. Ciò venne suffragato da una successiva valanga di denaro spontanea- mente indirizzata alle redazioni degli organi di stampa di Varsavia e dagli interventi che invitavano alla costruzione del monumento agli insorti della capitale. Alla vigilia dell’anniversario dell’insurrezione, il 31 luglio 1956, la stampa diffuse un’informativa sulla delibera emanata dal Consiglio nazionale della capitale, riguar- dante la costruzione del “Monumento agli Insorti di Varsavia” e la costituzione a tal fine di un Comitato sociale. «In questa maniera — si spiegava — sarà onorata la memo- ria dei soldati della Guardia e dell’Armia Ludowa, dell’Armia Krajowa e dei Battaglioni contadini, dei reparti del RPPS (Partito operaio dei socialisti polacchi), dei combattenti del Ghetto, delle vittime del terrore, del sangue dei soldati dell’esercito polacco del 1939 e del 1945 e dei soldati dell’esercito sovietico che parteciparono alla liberazione della capitale; sarà onorata la lotta eroica di tutti gli abitanti della capitale contro la violenza del nemico». Annuncio veniva fatto che il monumento sarebbe sorto nel quin- dicesimo anniversario dell’insurrezione. A chi dedicare il monumento — la questione continuava a essere sollevata, più volte. Il potere si rendeva conto delle aspettative sociali. Per questa ragione, nascon- deva il fatto di stare dietro a tutto. Perciò, quattro giorni dopo, nelle notizie delle agenzie di stampa riguardanti la prima seduta del Comitato sociale si poté leggere che solo nel corso del dibattito era stato deciso di costruire «un monumento in onore dei patrioti caduti a Varsavia negli anni 1939-1945 e di non erigere un monumento o mo- numenti dedicati ai singoli episodi delle battaglie che si sono svolte a Varsavia, per esempio alla sola insurrezione».

La barricata rimossa

Passò il 1959. Nel 1960 le autorità della PRL-Polska Rzeczpospolita Ludowa [Re- pubblica popolare di Polonia] continuavano a comportarsi in modo da limitare le cele- brazioni dell’anniversario dell’insurrezione. Sulla stampa fu ripreso unicamente il dibattito intorno alla costruzione del “Monumento agli Eroi di Varsavia”. «Il monumento sarà costruito col denaro della società — ricordava “Kurier Polski” — donato con grande generosità dalle singole persone. Nella questione del monumento è stato investito un enorme potenziale emotivo degli abitanti di Varsavia, ma non solo. E sarebbe oltre- modo sbagliato se le decisioni prese eludessero tali sentimenti umani, se si volesse rea- lizzare un progetto tale da fargli crescere intorno un’atmosfera di ostilità». Questa fu la risposta alla decisione di realizzare il controverso progetto di Marian Konieczny: rappresentava la figura di una fanciulla seminuda con in mano una spada che simboleggiava Nike. Le autorità non acconsentirono al fatto che nella scultura comme- morativa ci fossero riferimenti diretti all’insurrezione di Varsavia; dal progetto di Ko- nieczny fu cancellato il motivo della barricata. Per la società, che associava il monumento al nome iniziale degli “Insorti di Varsavia”, tale proposta era inaccettabile. Così come lo erano le iniziative dietro le quinte, come per esempio destinare il denaro raccolto alla costruzione di una delle scuole del “Millennio”, di una Casa del veterano o di un ospedale. Ebbe inizio un’on- data di proteste inviate alla stampa o addirittura all’Ufficio delle lettere del Comitato

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centrale del POUP [Partito operaio unificato polacco]. Il dibattito condotto in quel- l’occasione, a causa delle limitazioni poste agli interventi, assunse carattere ora serio ora derisorio. Per esempio, Erik Lipiński pubblicò nel calendario illustrato “Stolica” [La capitale] per l’anno 1961 l’umoristico Varsavia nel 2001: «È stato indetto il nuovo, tren- tottesimo concorso per il monumento agli eroi di Varsavia. Il primo premio è andato al progetto con lo stemma “Non oggi, allora domani”: rappresenta uno scoiattolo disteso sulla schiena con una nocciola tra le zampe. Come si vuole dimostrare, nessuno dei membri della giuria e dei partecipanti al concorso ha più idea di che cosa si tratti nel suddetto concorso» (il testo finì al Comitato centrale del POUP come segnale degli stati d’animo diffusi). Per elevare il rango delle celebrazioni della festa del 22 luglio — allora una delle principali feste della PRL — il 20 luglio si provvide a inaugurare il monumento di Konieczny, chiamato il “Monumento agli Eroi di Varsavia”, cercando volutamente di far perdere la sua genesi, ossia l’iniziativa di onorare gli insorti di Varsavia. E nuovamente cadde una coltre di silenzio.

L’agente “R-70” riferisce

Quando, nel 1980, nacque Solidarność, in contemporanea cominciarono a sorgere strutture parallele, alternative allo Stato comunista, e fiorì l’editoria clandestina. Al- l’epoca i comunisti persero il controllo su molte aree sociali. Nello stesso tempo, negli anni 1980-81, si andò accentuando la polarizzazione negli ambienti dei combattenti: la distanza nei confronti delle celebrazioni ufficiali diveniva manifesta, mentre nelle chiese crescevano i partecipanti alle messe patriottiche. Nel novembre 1980, nell’atmosfera di euforia, si tornò all’idea del “Monumento all’Insurrezione”. L’iniziativa nacque nel circolo territoriale del PTTK [Associazione po- lacca turistico-paesaggistica] del centro storico della capitale. Nel febbraio 1981, si diede inizio alla costituzione del Comitato della capitale per la costruzione del monu- mento all’insurrezione di Varsavia del 1944; si formò anche il Comitato d’onore. Le au- torità cercavano di disturbare, ma al loro operato mancava la determinazione di un tempo. Dal settembre 1981 i servizi di sicurezza cominciarono a ricevere informazioni pre- cise riguardanti il monumento. Le trasmetteva un loro collaboratore segreto “R-70” che era riuscito ad insinuarsi nell’ambiente dei combattenti e al quale era stato addi- rittura proposto di entrare a far parte del Comitato per la costruzione del monumento. Nel frattempo, poiché l’idea del monumento rispondeva alle urgenze sociali, il pro- getto si conquistò un ampio appoggio; pertanto non fu più possibile insabbiarlo. Si po- teva tutt’al più mettere in moto una ennesima manipolazione ma anche questa a tempo determinato. Il progetto si arricchì subito di ulteriori iniziative. Il 1° ottobre 1981, gli artisti or- ganizzarono, nella sala dei congressi del palazzo della Cultura, un «Grande concerto di Varsavia». Nei corridoi venne allestita una vendita di opere d’arte. I soldi raccolti e gli onorari furono destinati alla costruzione del monumento. In precedenza, il 1° settem- bre, a Varsavia era iniziata una colletta pubblica per lo stesso scopo.

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Ambiti di libertà

Più tardi, già durante lo stato di guerra, le autorità acconsentirono alla ripresa ex novo dell’idea di erigere un monumento o di creare un museo dell’insurrezione, a con- dizione che non si trattasse di iniziative intese contro il sistema, che la gente le ac- cettasse e che si potesse sfruttare tutto ciò per pacificare gli umori sociali. Il principio era anche quello di “cogliere l’occasione” per rafforzare le tradizioni della sinistra. Per esempio, venne dato al direttivo dello ZBoWiD [Unione dei combattenti per la libertà e la democrazia] il sostegno per realizzare, nel febbraio del 1982, un progetto di co- struzione del “Monumento ai Caduti nella Difesa del Potere Popolare”, comunemente chiamato “obelisk” [obelisco]. Nel 1983 (lo stato di guerra era stato appena abolito il 22 luglio) le celebrazioni dell’anniversario dell’insurrezione si divisero — così com’era successo negli anni pre- cedenti — fra cerimonie ufficiali e cerimonie indipendenti. Le cerimonie al cimitero Powązki richiamarono così tanta folla che, nel documento del reparto informazione del Comitato centrale del POUP, si parlava di «centinaia di migliaia di abitanti di Varsavia venuti quel giorno a rendere onore alle tombe degli insorti». All’epoca si aprì la possibilità di realizzare nuove iniziative sociali riguardanti la memoria dell’insurrezione. A quanto pare con una sola riserva: che non si andasse al di là del significato locale. In tal modo si riuscì a collocare in via Podwale il “Monumento al Piccolo Insorto”, realizzato secondo il progetto di Jerzy Jarnuszkiewicz. Si trattò di un’iniziativa degli scout della divisione “Eroi di Varsavia” dell’Unione degli scout po- lacchi, i quali si riallacciarono all’idea di Jan Brzechwa del 1948. Si potrebbe aggiun- gere che questo monumento si inseriva nell’ambito della libertà concessa dalle autorità: infatti, già da anni si poteva parlare della presenza di bambini nell’insurrezione. Ma nessuno si era reso conto della portata emotiva di questa simbologia. Poco dopo, in via Dworkowa, venne inaugurato un monumento che commemorava i soldati della divisione “Baszta”, trucidati dai tedeschi. L’anno dopo, nel parco “Mokotowski”, fu inaugurato il monumento “Mokotów che combatte 1944” (entrambi realizzati secondo il progetto di Eugeniusz Ajewski).

Contrasti sul nome

A cavallo tra il 1983 e il 1984, scoppiò una querelle intorno al nome contestato del “Monumento all’Insurrezione di Varsavia”. Le autorità utilizzarono come pretesto, tra l’altro, la delibera del direttivo varsaviano dello ZBoWiD approvata nell’ottobre 1981 e firmata dal presidente del Circolo degli ambienti della resistenza, l’ex insorto Leszek Jaskółowski, nella quale si leggeva: «Il nome del monumento va cambiato in “Monu- mento agli Insorti di Varsavia”. (…) Il nome del monumento ha un significato essenziale (…). L’insurrezione di Varsavia è solo la definizione di un fatto storico oggettivo, men- tre l’elemento che dovrebbe essere onorato secondo le intenzioni dei progettisti è l’eroica lotta dei soldati dell’insurrezione e di tutta la popolazione di Varsavia». Le autorità definirono la propria posizione in una nota del Comitato centrale del Partito del giugno 1983. Vi si spiegava che il nome “Monumento all’Insurrezione di

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Varsavia” avrebbe suggerito di modificare «la fondamentale posizione politica nei con- fronti di questo fatto avvenuto nella seconda guerra mondiale»; e tale intenzione da parte delle autorità — come si poteva ben immaginare — non c’era. Secondo le ottimistiche impostazioni del 1981, il monumento si sarebbe dovuto erigere in occasione del quarantesimo anniversario dell’insurrezione. Il Comitato so- ciale risolse addirittura il problema dell’ubicazione e indisse un concorso architettonico. Ma una successiva nota del marzo del 1984, messa a punto dalla Sezione propaganda del Comitato interno del Partito, segnalò che le autorità non avrebbero ceduto e suggerì la direzione che si sarebbe dovuta prendere per raggiungere una soluzione auspicabile: «La questione del nome del monumento suscita molte controversie. La stragrande maggio- ranza dei membri del Comitato per la costruzione del monumento si schiera a favore del nome “Monumento all’Insurrezione di Varsavia”. Tale stato di cose provoca reazioni negative in parte degli ambienti di Varsavia vicini allo ZBoWiD e soprattutto agli ex soldati dell’AL (Armia Ludowa) e della GL (Gwardia Ludowa), ma anche al Circolo degli ambienti della resistenza e dei soldati dell’insurrezione di Varsavia presso il direttivo varsaviano dello ZBoWid. Tra l’altro, proprio questi ambienti hanno lanciato la propo- sta che il monumento portasse il nome di “Insorti di Varsavia” oppure di “Soldati del- l’Insurrezione di Varsavia”. Il compagno Włodzimierz Sokorski [Presidente dello ZBoWiD] ha fatto diversi tentativi a tale proposito, ottenendo l’appoggio del generale Mazur- kiewicz “Radosław”. La questione non è stata risolta».

In dirittura d’arrivo

Mazurkiewicz spiegò più tardi che la sua intenzione era quella di salvare l’inizia- tiva che le autorità cercavano di soffocare. In parte egli voleva anche difendere la Com- missione nazionale della resistenza presso lo ZBoWiD, da lui diretta, la quale considerava l’iniziativa del Comitato sociale come un attacco al suo operato. Il con- flitto fu risolto per via amministrativa. Il 17 luglio 1984, prima delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario del- l’insurrezione, l’attività del Comitato sociale venne sospesa. Al suo posto fu chiamato il direttivo provvisorio del Comitato per la costruzione del monumento agli eroi del- l’insurrezione di Varsavia del 1944, la cui direzione venne affidata a Mazurkiewicz. A quell’epoca, il Settore propaganda e agitazione del Comitato interno e il Settore ideologico del Comitato centrale del Partito rilasciarono un documento comune che defi- niva il programma delle celebrazioni per la muratura dell’atto di erezione sotto il “Monu- mento agli Eroi dell’Insurrezione di Varsavia”. Si decise che alla cerimonia in piazza Krasiński avrebbe preso parte il primo segretario del Comitato centrale del POUP e presidente del Consiglio dei ministri, Wojciech Jaruzelski, nonché i rappresentanti del POUP e dello Stato. Mazurkiewicz avrebbe dovuto apporre la firma sotto l’atto di erezione a nome dei com- battenti. Venne rifiutata la proposta dei combattenti di benedire il luogo destinato al mo- numento. Le autorità giustificarono tale rifiuto con la volontà di «non costituire — come si leggeva nel documento del Comitato centrale — un precedente gravido di conseguenze a lungo raggio». Alla fine, una modesta cerimonia di benedizione ebbe comunque luogo lo stesso giorno ma senza partecipazione del pubblico, soltanto in presenza dei servizi di sicurezza.

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Negli anni successivi i progressi nella costruzione del “Monumento agli Eroi dell’Insurrezione di Varsavia” suscitarono attenzione e preoccupazione. All’indirizzo del Comitato giungevano continuamente voci che criticavano il progetto di Wincenty Kućma in via di realizzazione e che chiedevano la convocazione di un nuovo concorso. Alla fine furono i combattenti stessi a porre fine alla controversia. Nel marzo del 1988 venne pubblicizzato il punto di vista comune dei presidenti di quarantatre ambienti legati all’insurrezione, che rappresentavano oltre ventimila membri dello ZBoWiD di Varsavia. I presidenti lanciarono un appello di appoggio ai lavori ancora in corso del monumento, spiegando che esso avrebbe costituito il simbolo della fine del periodo dei torti, delle umiliazioni, delle persecuzioni e delle errate valutazioni che in passato avevano colpito i soldati di tutte le formazioni dell’esercito clandestino; e avrebbe portato a compi- mento ciò che si era aspettato per oltre quarant’anni. Il monumento fu inaugurato il 1° settembre 1989, ormai nella nuova situazione politica.

Jacek Zygmunt Sawicki è storico e cineasta, lavora presso l’IPN [Istituto della memo- ria nazionale]. Autore del film documentario sul generale Pełczyński e del libro Bitwa o prawdę. Historia zmagań o pamięć Powstania warszawskiego 1944-1989, Wydaw- nictwo DiG, Warszawa 2005.

poloniaeuropae 2010 79 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Festeggiare il 1989 significa anche ricordarsi del 1939. Lettera degli intellettuali tedeschi per il 70°anniversario del patto Hitler-Stalin del 23 agosto 19391

di Marianne Birthler, Joachim Gauck, Anna Kaminsky

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

In tutta l’Europa celebriamo il ventesimo anniversario del tramonto delle dittature comuniste dell’Europa centrorientale. Cerimonie e conferenze, mostre e film ricordano il coraggio di molte persone che, con pacifiche proteste, non solo hanno abbattuto la dittatura, ma hanno anche gettato le fondamenta per la democrazia e hanno contribuito ad eliminare la divisione della Germania e dell’Europa. La seconda guerra mondiale è stata la causa della divisione e della prigionia comunista dell’Europa orientale e centrale durata oltre quattro decenni. Per questa ragione, con vergogna e tristezza, ricordiamo a noi stessi il giorno 1° settembre 1939 quando la Germania nazista invase la Polonia. Otto giorni prima la Germania e l’Unione Sovietica avevano firmato quello scellerato patto tedesco-sovietico in virtù del quale entrambi gli Stati totalitari si erano spartiti tra loro i paesi baltici, la Polonia, la Fin- landia e la Romania. L’invasione tedesca e sovietica della Polonia, nel settembre 1939, è stata il prelu- dio di una guerra devastante, senza precedenti, mediante la quale i tedeschi hanno inflitto ai loro vicini nell’intera Europa, soprattutto in Polonia, ma anche in Unione Sovietica, sofferenze indicibili. Dopo la liberazione dell’Europa e della Germania dal nazismo, in tutti gli Stati era diffusa la speranza che il futuro sarebbe stato riempito dal vivere in democrazia e libertà. Molti, tuttavia, provarono un’amara delusione. L’Unione Sovietica introdusse un nuovo regime negli Stati dell’Europa centrorien- tale, indeboliti dalla guerra e dai governi nazisti, e in una parte della Germania. Ciò ebbe conseguenze catastrofiche per le società, per le economie, per le culture, come anche per una moltitudine di persone che subirono persecuzioni oppure persero la vita in quanto cercarono di opporsi ai comunisti. Sui tedeschi grava la grande responsabilità per lo sterminio degli ebrei europei, per

1 Das Jahr 1989 feiern, heißt auch, sich an 1939 zu erinnern! Eine Erklärung zum 70. Jahrestag des Hitler-Stalin-Pakts am 23. August: l’appello — disponibile in tedesco, inglese, polacco, russo, ceco, ungherese — fu redatto il 19 agosto 2009 per iniziativa di Marianne Birthler, Anna Kaminsky, Ulrich Mählert, Wolfgang Templin, e raccolse oltre 300 firme di politici, studiosi, artisti, tra cui quelle di Rita Süssmuth e Joachim Gauck. Vedi: www.23august1939.de.

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la persecuzione e l’eccidio di rom, omosessuali, disabili e di tutti coloro che i nazisti ritenevano elementi asociali, oppure di fedeli di altre confessioni; e anche per i milioni di persone che sono perite in guerra. Siamo consapevoli — anche se ciò è doloroso — che se non ci fosse stata la seconda guerra mondiale scatenata dai tedeschi, non ci sarebbero stati i regimi comunisti in Eu- ropa centrorientale né le divisioni del continente e della Germania. Quando oggi, nel 2009, gettiamo uno sguardo sulla storia dell’Europa e della Ger- mania del XX secolo, lo facciamo memori del disastro procurato dal nazionalsocialismo. Ma al tempo stesso siamo felici che l’odierna Germania sia a pieno diritto un membro rispettato della comunità delle nazioni europee. Con gratitudine e rispetto pensiamo nel contempo a tutti coloro che, nell’arco di questi quattro decenni dopo il 1945, osarono, nonostante l’enorme rischio, lanciare la loro sfida ai dittatori comunisti chiedendo libertà e democrazia. Molti pagarono ciò con la vita. Le rivolte nella Repubblica Democratica Tedesca, in Ungheria, in Cecoslovacchia, come anche quelle che scoppiavano in continuazione in Polonia, per quattro decadi hanno tenuto vive le speranze di libertà e di democrazia. Non dimenticheremo che, soprattutto i polacchi, combattendo per la vostra e la nostra libertà, hanno inferto i primi colpi al sistema comunista. Ringraziamo anche i membri di Carta 77 cecoslovacca che ci hanno esortato a vivere nella verità. Ricor- diamo tutti quelli che hanno spianato la strada alla democrazia in Ungheria e che nel- l’estate 1989 hanno aperto la cortina di ferro. Molto prima della perestrojka, i dissidenti sovietici si erano impegnati nella difesa dei diritti dell’uomo. Infine, ringraziamo nella stessa misura tutte le persone che, in Occidente, non hanno mai voluto rassegnarsi all’esistenza della cortina di ferro e delle dittature co- muniste e che hanno preteso l’osservanza dei diritti dell’uomo dando il loro appoggio ai dissidenti. La rivoluzione pacifica da essi condotta ha permesso ai paesi dell’Europa centrorientale di riacquistare la libertà perduta cinquant’anni fa, la sovranità nazionale e il diritto all’autodeterminazione. Proprio queste rivoluzioni hanno causato la fine della divisione delle due Germanie e dell’Europa. Quando, dopo la caduta della dittatura del SED-Sozialistische Einheitspartei Deut- schlands [Partito socialista unificato di Germania], abbiamo iniziato l’unificazione delle due Germanie, la fiducia dataci dai nostri vicini è stata per noi un dono prezioso. Come conseguenza della rivoluzione pacifica, tutti i tedeschi, per la prima volta nella loro storia, possono vivere in libertà, democrazia e prosperità entro frontiere riconosciute, godendo del rispetto e dell’amicizia dei vicini. Come il 1939, così anche l’anno 1989 è divenuto, sia pure in maniera molto di- versa, l’anno del destino europeo. L’Europa libera e democratica dev’essere consape- vole della propria storia. Ha bisogno di serbare memoria dell’epoca comunista e del suo crollo. Il primo passo è stato compiuto: in aprile il Parlamento europeo per la prima volta ha riconosciuto tale responsabilità. L’Europa deve continuare ad andare avanti per questa strada e ha bisogno di un’at- tiva e responsabile cultura della memoria. Grazie ad essa le future generazioni diven- teranno più vigili e reagiranno nel caso in cui nel mondo dovesse riapparire un regime autoritario.

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Tra i primi firmatari

Marianne Birthler, Bundesbeauftragte für die Stasi-Unterlagen (BStU) (Berlin), Dr. h.c. Joachim Gauck, Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin), Dr. Anna Kaminsky, v.i.S.dP., Bundesstiftung zur Aufarbeitung der SED-Diktatur (Berlin), Hans Altendorf, BStU (Berlin), Dr. Andreas H. Apelt, Deutsche Gesellschaft (Berlin), Prof. Dr. Jörg Baberowski, Humboldt-Universität zu Berlin (Berlin), Prof. Dr. Arnulf Baring, Histori- ker, Publizist (Berlin), Michael Beleites, Landesbeauftragter für die Stasiunterlagen (Dresden), Parlamentarischer Staatssekretär Dr. Christoph Bergner, Bundesministerium des Innern (Berlin), Prof. Dr. Dieter Bingen, Deutsches. Polen-Institut (Darmstadt), Wolfgang Börnsen (Bönstrup) MdB, Schleswig-Holstein, Staatssekretär a.D. Klaus Bölling, Publizist (Berlin), Dr. Martin Böttger, BStU (Berlin), Heidi Bohley, Verein Zeit- Geschichte(n) (Halle/Saale), Hansgeorg Bräutigam, Richter i. R. (Berlin), Dr. Matthias Buchholz, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Dr. Karl Corino, Journalist, Literatur- kritiker (Tübingen), Michael Cramer, Mitglied des Europaparlaments (Berlin), Eberhard Diepgen, Regierender Bürgermeister a.D., Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin), Dr. Lothar Dittmer, Körber-Stiftung (Hamburg), Dr. Klaus von Dohnany, Bundesminister und Erster Bürgermeister a.D. (Hamburg), Prof. Dr. Jost Dülffer, Universität zu Köln (Köln), Prof. Dr. Rainer Eckert, Zeitgeschichtliches Forum (Leipzig), Oberst Dr. Hans Ehlert, Militärgeschichtliches Forschungsamt (Potsdam), Ruth Ellerbrock, Landeszen- trale für politische Bildung Berlin (Berlin), Jürgen Engert, Journalist (Berlin), Rainer Eppelmann, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Wieland Förster, Künstler (Oranienburg), Annemarie Franke, Stiftung Kreisau (Breslau), Dr. h.c. Karl Wilhelm Fricke, Publizist (Köln), Ralf Fücks, Heinrich-Böll-Stiftung (Berlin), Christian Führer, Pfarrer i. R. (Leipzig), Prof. Dr. Hansjörg Geiger, Staatssekretär a.D. (Berlin), Prof. Ines Geipel, Schriftstellerin (Berlin), Ute Gramm, Bürgerkomitee Sachsen-Anhalt e.V. (Magdeburg), Prof. Hans Hendrik Grimmling, Maler (Berlin), Dr. Robert Grünbaum, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Monika Grütters, MdB, Stiftung Branden- burger Tor (Berlin), Martin Gutzeit, Landesbeauftragter für die Stasi-Unterlagen (Berlin), Dr. Helge Heidemeyer, BStU (Berlin), Oberst Dr. Winfried Heinemann, Mili- tärgeschichtliches Forschungsamt (Potsdam), Prof. Dr. Hans-Olaf Henkel, Bank of Ame- rica (Berlin), Prof. Dr. Günter Heydemann, Universität Leipzig (Leipzig), Helga Hirsch, Publizistin (Berlin), Jan Hoesch, Roger Loewig Gesellschaft e.V. (Berlin), Irmtraut Hollitzer und Siegfried Hollitzer, Bürgerkomitee Leipzig e.V. (Leipzig), Prof. Dr. Hans Walter Hütter, Stiftung Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland (Bonn), Dr. Jens Hüttmann, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Maybrit Illner, Journalistin (Berlin), Prof. Dr. Hartmut Jäckel, Historiker (Berlin), Martin Jankowski, Schriftsteller (Berlin), Margot Jann, Frauenkreis der ehemaligen Hoheneckerinnen (Teltow), Dr. Karsten Jedlitschka, BStU (Berlin), Günter Jeschonnek, Regisseur und Autor (Berlin), Prof. Dr. Ralf Jessen, Historiker (Köln), Dr. Carlo Jordan, Forschungs- und Gedenkstätte Normannenstraße (Berlin), Matthias Jung, Wahlforscher (Mannheim), Prof. Dr. Friedrich P. Kahlenberg, Archivar (Boppard), Siegfried T. Kasparick, Amt. Bischof in der Evan- gelischen Kirche in Mitteldeutschland (Wittenberg), Bettina Kielhorn, Beratungsstelle “Gegenwind” (Berlin), Dr. Axel Klausmeier, Stiftung Berliner Mauer (Berlin), Prof. Dr. Christoph Kleßmann, Historiker (Potsdam), Freya Klier, Schriftstellerin und Doku-

poloniaeuropae 2010 83 Festeggiare il 1989, significa anche ricordarsi del 1939!...

mentarfilmerin (Berlin), Uwe Kolbe, Schriftsteller (Berlin), Klaus Kordon, Schriftstel- ler (Berlin), Hartmut Koschyk, MdB, Parlamentarische Geschäftsführer der CSU-Lan- desgruppe im Deutschen Bundestag (Goldkronach), Dr. Ilko-Sascha Kowalczuk, BStU (Berlin), Dr. Günter Kröber, Rechtsanwalt (Leipzig), Thomas Krüger, Bundeszentrale für politische Bildung (Bonn), Angelika Krüger-Leißner, MdB, Filmpolitische Spreche- rin der SPD-Bundestagsfraktion (Berlin), Dr. Hanna-Renate Laurien, Senatorin a.D. (Berlin), Dr. Peter Lautzas, Verband der Geschichtslehrer Deutschlands (Mainz), Robert Lebegern, Deutsch-Deutsches Museum Mödlareuth (Mödlareuth), Doris Lieber- mann, Publizistin (Berlin), Dr. h.c. Erich Loest, Schriftsteller (Leipzig), Bernd Lüdke- meier, Landeszentrale für politische Bildung Sachsen-Anhalt (Magdeburg), Dr. Ulrich Mählert, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Dr. Peter Maser, Historiker (Bad Kösen), Markus Meckel, MdB, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Dr. Dr. h.c. mult. Horst Möller, Institut für Zeitgeschichte (München), Helmut Morsbach, DEFA- Stiftung (Berlin), Jörn Mothes, Ministerium für Bildung, Wissenschaft und Kultur Mec- klenburg-Vorpommern (Schwerin), Dr. Daniela Münkel, BStU (Berlin), Dr. Ehrhart Neubert, Historiker (Erfurt), Hildigund Neubert, Landesbeauftragte für die Stasi- Unterlagen (Erfurt), Uwe Neumärker, Stiftung Denkmal für die ermordeten Juden Euro- pas (Berlin), Prof. Dr. Paul Nolte, FU Berlin (Berlin), Günter Nooke, Menschenrechtsbe- auftragter der Bundesregierung (Berlin), Dr. Marc-Dietrich Ohse, Deutschland Archiv (Hannover), Hans-Joachim Otto, MdB, Vorsitzender des Ausschusses für Kultur und Medien des Deutschen Bundestages (Frankfurt am Main), Marita Pagels-Heineking, Landesbeauftragte für die Stasi-Unterlagen (Schwerin), Martin-Michael Passauer, Generalsuperintendent a.D. (Berlin), Prof. Dr. Alexander von Plato, Historiker (Stade), Gerd Poppe, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Ulrike Poppe, Evangelische Akade- mie zu Berlin (Berlin), Lutz Rathenow, Schriftsteller (Berlin), Steffen Reiche, MdB, Mitglied des Bundestagsausschuss für Kultur und Medien (Potsdam), Prof. Dr. Dr. h.c. Gerhard A. Ritter, Historiker (Berlin), Dr. Volker Rodekamp, Stadtgeschichtliches Mu- seum (Leipzig), Prof. Lea Rosh, Kommunikation und Medien GmbH (Berlin), Dr. Sabine Roß, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Robert Rückel, DDR-Museum (Berlin), Prof. Dr. Reinhard Rürup, Historiker (Berlin), Dr. habil. Jürgen Runge, Halle (Saale), Günter Saathoff, Stiftung “Erinnerung, Verantwortung und Zukunft” (Berlin), Birgit Sa- lamon, BStU (Berlin), Dr. Manfred Sapper, Zeitschrift Osteuropa (Berlin), Christoph Schaefgen, Generalstaatsanwalt a.D (Berlin), Wolfgang Schenk, Hauptschullehrer i.R. (Berlin), Dr. Dieter Schiffmann, Landeszentrale für politische Bildung Rheinland-Pfalz (Mainz), Eva Schlichenmaier-Schenk, Studienrätin (Berlin), Franz-Josef Schlichting, Landeszentrale für politische Bildung Thüringen (Erfurt), Cornelia Schmalz-Jacobsen, Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin), Jochen Schmidt, Landeszentrale für poli- tische Bildung Mecklenburg-Vorpommern (Schwerin), Dr. Jürgen Schmude, Bundesmini- ster a.D (Moers), Peter Schneider, Schriftsteller (Berlin), Andreas Schönfelder, Umweltbibliothek (Großhennersdorf), Prof. Dr. Richard Schröder, Humboldt Universi- tät zu Berlin (Berlin), Werner Schulz, Mitglied des Europaparlaments (Berlin), Uwe Schwabe, Archiv Bürgerbewegung Leipzig e.V (Leipzig), Ulrich Schwarz, Journalist (Berlin), Dr. Hannes Schwenger, Autor (Berlin), Dr. h.c. Rudolf Seiters, Präsident des Deutschen Roten Kreuzes, Bundesminister a.D. (Berlin), Tom Sello, Robert Havemann- Gesellschaft (Berlin), Ilse Spittmann-Rühle, Journalistin (Köln), Friede Springer,

84 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Verlegerin (Berlin), Prof. Dr. Peter Steinbach, Universität Mannheim (Mannheim), Prof. Dr. Eckart D. Stratenschulte, Europäische Akademie Berlin (Berlin), Dr. Walter Süß, BStU (Berlin), Prof. Dr. Rita Süssmuth, Bundestagspräsidentin a.D. (Berlin), Wolfgang Templin, Publizist (Berlin), Joachim Trenkner, Journalist (Berlin), Prof. Dr. Stefan Troebst, Geisteswissenschaftliches Zentrum für Geschichte und Kultur Ostmitteleuro- pas (Leipzig), Prof. Dr. Johannes Tuchel, Gedenkstätte Deutscher Widerstand (Berlin), Prof. Dr. Hans-Joachim Veen, Stiftung Ettersberg (Weimar), Friedrich Veitl, Verleger (Berlin), Siegfried Vergin, Politiker (Mannheim), Prof. Dr. Bernhard Vogel, Konrad- Adenauer-Stiftung (St. Augustin), Dr. Hans-Jochen Vogel, Gegen Vergessen — Für Demokratie (München), Jürgen Wahl, Publizist, ehem. Vorsitzender des AK Ostfragen des Zentralkomitees der deutschen Katholiken (Bonn), Christoph Waitz, MdB, Deut- scher Bundestag (Berlin), Rainer Wagner, Union der Opferverbände kommunistischer Gewaltherrschaft (Berlin), Joachim Walther, Schriftsteller (Berlin), Matthias Waschit- schka, Verein Zeit-Geschichte(n) (Halle), Prof. Dr. Dr. h.c. Hermann Weber, Universi- tät Mannheim (Mannheim), Konrad Weiß, Publizist (Berlin), Reinhard Weißhuhn, Robert-Havemann-Gesellschaft (Berlin), Dr. Gerhard Wettig, Historiker (Kommen), Wolfgang Wieland, MdB, Sprecher für Innere Sicherheit der grünen Fraktion (Berlin), Prof. Dr. Manfred Wilke, Historiker (Berlin), Prof. Dr. Heinrich August Winkler, Humboldt-Universität zu Berlin (Berlin), Hans-Eberhard Zahn, Bund Freiheit der Wissenschaft (Berlin).

poloniaeuropae 2010 85 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Dichiarazione 1 del Presidente della Conferenza episcopale polacca S.E. Józef Michalik e del Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi S.E. Robert Zollitsch in occasione del 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale, il 1°settembre 1939

Traduzione a cura dell’agenzia SIR

1 — Settant’anni fa, il 1°settembre del 1939, le forze armate della Germania in- vasero la Polonia. Ebbe così inizio la seconda guerra mondiale. I numerosi sopravvissuti — nel contesto del prossimo anniversario — sentiranno di nuovo rivivere i dolorosi ricordi del tempo di violenze, abusi, sopraffazioni, i ricordi dei familiari più stretti, dei parenti e degli amici trucidati, della patria perduta. Ricordando quel giorno, ancora una volta ci rendiamo conto quanto le esperienze della guerra mondiale hanno profondamente pe- netrato la memoria delle persone e dei popoli. Alcune delle ferite tuttora restano aperte. La memoria della guerra oggi viene però inquadrata in un contesto nuovo. La ge- nerazione dei superstiti alla seconda guerra mondiale — dei testimoni oculari di quegli anni — se ne sta andando. Se ne sta andando anche la generazione di coloro che hanno avuto il coraggio di pronunciare le parole di pentimento e di perdono, aprendo un nuovo capitolo nella storia dei nostri popoli. Oggi è quindi necessario impegnarsi affinché le nuove generazioni acquisiscano e conservino una corretta conoscenza della seconda guerra mondiale. Abbiamo bisogno non solo di un onesto bilancio delle atrocità del pas- sato, ma dobbiamo anche rinunciare agli stereotipi che rendono più problematica un’esatta comprensione di quei tempi e possono minare la fiducia costruita, nonostante tutte le difficoltà, tra polacchi e tedeschi. Anche oggi, non meno di quanto fosse ne- cessario nel passato, abbiamo bisogno di un impegno dinamico in favore della pace e dell’educazione delle generazioni libere dall’odio, capaci di costruire una società ba- sata sulla dignità dell’uomo. Sappiamo che la pace dipende da ciascuno di noi: dalla nostra volontà, dai nostri atteggiamenti, dalle parole e dai gesti di buona volontà, dalla capacità di riconoscere le colpe e quella di perdonare e infine, da quanto siamo capaci di guardare al futuro senza essere esclusivamente incatenati al passato.

1 Nata per iniziativa dei vescovi polacchi, la dichiarazione congiunta ha suscitato molto interesse nel mondo ecclesiale e politico in Germania e in Polonia, ed è stata riportata per intero dai mag- giori quotidiani nazionali. A rafforzarne il senso, domenica 30 agosto 2009 il metropolita Georg Sterzinsky ha celebrato nella cattedrale di Berlino la messa per tutte le vittime della seconda guerra mondiale e per la pace nel mondo, con la partecipazione dei vescovi della Polonia e della Germania. La versione italiana del testo è stata pubblicata sul sito dell’episcopato polacco (http://www.episkopat.pl/?a=dokumentyKEP&doc=2009825_2)

poloniaeuropae 2010 87 Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale...

Il ricordo e la memoria

2 — La guerra è in definitiva «il fallimento di ogni autentico umanesimo» ed «è sempre una sconfitta dell’umanità» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXXII Giornata mondiale della Pace 1999. Discorso al Corpo diplomatico, 13 gennaio 2003). Quelle pa- role si riferiscono alla seconda guerra mondiale in una maniera del tutto particolare. Quella guerra non fu simile alle altre. La Germania nazionalsocialista scatenò in Europa la guerra nel corso della quale sono stati apertamente negati i principi morali e i diritti fondamentali dell’uomo. Nell’Europa Orientale quella guerra ebbe lo scopo di annien- tare e di rendere schiavi interi popoli. Colpiti da una politica di sterminio, finalizzata alla sottomissione dell’intero popolo, furono soprattutto i leader della società polacca, gli studiosi, l’intellighenzia, compreso il clero e i religiosi. Oggi ricordiamo le milioni di vittime di quella guerra, coloro che furono perseguitati e trucidati a causa dell’ideolo- gia razzista, della loro provenienza o della fede che professavano. Ricordiamo gli ebrei di tutta Europa, vittime del crimine contro l’umanità qual fu l’Olocausto, i sinti e i rom, i disabili mentali e le élite dei popoli dell’Europa Centrale e Orientale. Non possiamo inoltre dimenticare coloro che di fronte al pericolo — sacrificando la propria vita — op- posero un’attiva resistenza alle barbarie di quel tempo. Oggi la Chiesa venera alcuni di loro come martiri. Il nostro ricordo si trasforma in preghiera per le vittime della guerra e in preghiera per la pace: «Non più gli uni contro gli altri, non più, mai! ... Non più la guerra» (Paolo VI, Discorso all’ONU, 4 ottobre 1945).

3 — Dopo la fine della seconda guerra mondiale le sorti dei nostri popoli hanno preso delle strade diverse. In seguito alla decisione delle potenze vincitrici, la Polo- nia si trovò nell’area dell’influenza dell’Unione Sovietica il che fu recepito dalla so- cietà polacca come una nuova forma di occupazione e provocò ulteriori sofferenze, vittime, deportazioni e trasferimenti forzati. Per la Polonia ebbe così inizio una realtà che durò fino ai primi anni Novanta, una realtà di coercizione e isolamento che resero più difficile lo sviluppo economico e l’accesso alle nuove tecnologie. Le sorti degli stessi tedeschi non furono uguali. Mentre in Europa Occidentale poco dopo il 1945 ini- ziò la ricostruzione di una libera società civile, gli abitanti della parte orientale della Germania (la Repubblica Democratica Tedesca) dovettero acconsentire alla superio- rità sovietica e al sistema sociale comunista. Il regime vigente in Polonia promuoveva un’ufficiale amicizia con la RDT, fomentando l’odio verso la Germania Federale con delle minacce di un «revisionismo» tedesco alleato con «l’imperialismo» americano. Le conseguenze dell’aggressione di Hitler le patirono anche coloro che avevano perso le proprie case, il lascito dei loro padri. I primi fra loro furono i polacchi che erano non solo vittime di eventi bellici e dell’occupazione del Paese da parte delle truppe straniere ma allo stesso modo vittime delle deportazioni forzate conseguenti a operazioni di guerra da parte della Germania nazifascista e dell’Unione Sovietica. A se- guito dei piani di espansione sovietica volti a introdurre un nuovo ordine sul territorio dell’Europa Centrale e Orientale, e come conseguenza delle decisioni delle potenze vincitrici, numerosi tedeschi hanno ugualmente sofferto sia alla fine della guerra sia successivamente, come profughi e deportati. In quel contesto vogliamo ricordare il messaggio congiunto delle Conferenze epi-

88 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

scopali polacca e tedesca del dicembre 1995: «Solo la verità ci farà liberi; la verità che non abbellisce nulla e non trascura nulla, che non tace niente e che non cerca di pa- reggiare le offese» (cfr. Gv 8, 32). In questo spirito, data la criminale aggressione della Germania nazista, l’entità delle offese a seguito arrecate ai polacchi da parte dei tedeschi, e delle offese subite dai tedeschi soggetti alle deportazioni forzate e alla perdita della loro patria, ripetiamo insieme le parole: «Perdoniamo, e chiediamo perdono». Insieme, noi vescovi tedeschi e polacchi, condanniamo i crimini di guerra. Inoltre, concordiamo nella condanna delle deportazioni forzate senza dimenticare tuttavia l’in- trinseco nesso di successione degli eventi.

4 — Con gratitudine ricordiamo oggi tutti coloro che, nonostante l’atroce espe- rienza, dopo la fine della guerra, lavorarono a favore della riconciliazione sia tra i no- stri popoli sia tra tutti i popoli europei. In modo particolare ricordiamo, quale indice della riconciliazione, il gesto dei ve- scovi polacchi che, nel 1965, durante il Concilio che volgeva alla fine, per primi tesero la mano ai loro confratelli tedeschi. La risposta dei vescovi tedeschi testimoniava la loro apertura al dono di un nuovo inizio. Con gratitudine ricordiamo inoltre le numerose iniziative in favore della pace e della riconciliazione che furono lanciate dai cristiani e da altri gruppi delle società civili, polacca e tedesca, e successivamente approfonditi sul piano politico. Non bisogna però tacere sul fatto che la via della riconciliazione e della collabora- zione seguita da allora dalla Chiesa in entrambi i Paesi fu a volte difficile, onerosa e non priva di malintesi. Ma questo ci è servito per imparare che gli elementi imprescindibili del processo di costruzione del bene comune sono pazienza, delicatezza e verità. Con immensa riconoscenza evochiamo qui il ricordo degli aiuti organizzati, e atti- vati spontaneamente, da parte dei cattolici e della società tedesca per gli abitanti della Polonia i quali in seguito al crollo del sistema economico comunista nel 1980 si trova- rono sull’orlo di una catastrofe umanitaria. Allora vennero allacciati i legami di solida- rietà e di amicizia tra le famiglie, le parrocchie e gli altri soggetti della società civile. Così iniziò un vero processo di avvicinamento, di conoscenza e di accettazione reci- proca. Quell’incalcolabile patrimonio delle relazioni sociali dovrebbe essere con cura conservato anche nel futuro. Invitiamo tutti coloro che tengono alle relazioni di buon vicinato nella casa euro- pea a cercare con sempre maggior impegno di costruire un futuro comune, senza vol- tarsi in maniera selettiva verso il passato. Tutti abbiamo bisogno di guardare al futuro verso il quale vogliamo procedere senza dimenticare e senza svalutare però la verità storica in tutti i suoi aspetti. A tale scopo sono senz’altro utili i lavori della commissione congiunta che si occupa della stesura del manuale di storia comune: quella polacca e tedesca. Auspichiamo che quel lavoro sia presto terminato e che il volume siffatto di- venga per le giovani generazioni di Germania e Polonia una preziosa fonte di conoscenza del nostro passato, difficile e carico di esperienze. Ci appelliamo anche agli operatori dei mass media: giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione affin- ché siano all’altezza delle responsabilità per l’atmosfera di crescente fiducia tra po- lacchi e tedeschi.

poloniaeuropae 2010 89 Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale...

La costruzione del futuro

5 — Bisogna affermare che, anche se i passi verso la riconciliazione compiuti nei decenni passati hanno portato dei buoni frutti, le esperienze della guerra e degli anni successivi hanno tutt’ora una notevole rilevanza nelle relazioni tra i nostri popoli. Al- cune tendenze presenti nella società civile o nel mondo politico svelano i tentativi di un uso propagandistico delle ferite inferte, volto a fomentare i risentimenti risultanti da un’interpretazione partigiana della storia. La Chiesa, in modo costante e deciso in- tende pronunciarsi contro un simile allontanamento dalla verità storica, invitando a rendere più intenso il dialogo, sempre legato alla disponibilità di sentire le ragioni del- l’altra parte. I tedeschi e i polacchi debbono volgere insieme la loro attenzione verso coloro che soffrono tutt’ora a causa delle traumatiche esperienze conseguenti alla guerra, all’occupazione del Paese da parte di forze straniere, dalla perdita dell’eredità e a causa del disprezzo patito dall’uomo. Tale atteggiamento verso il passato e i suoi effetti non racchiude affatto i nostri popoli in una prigione del passato. Al contrario «la cura del passato» di cui più volte ha parlato Giovanni Paolo II — da un punto di vista psi- cologico, culturale e politico — crea lo spazio nel quale, con necessaria concretezza, si possono trovare delle risposte alle sempre nuove domande. Il ricordo non ci incatena al passato, ci rende invece liberi per il futuro. A quell’idea è dedicata una serie di ini- ziative nelle quali sono impegnati congiuntamente i cattolici polacchi e tedeschi. Ne co- stituiscono esempio il Centro di Dialogo e di Preghiera nelle vicinanze dell’ex campo di concentramento di Auschwitz, l’Opera Massimiliano Kolbe, così come la Fondazione Massimiliano Kolbe sorta nel 2007.

La testimonianza della Chiesa

6 — La pace tra i popoli, basata sulla giustizia e sulla riconciliazione, non ci è data una volta per tutte. Va costruita giorno dopo giorno, e può fiorire solo se tutti siamo pronti a riconoscere le nostre responsabilità. Il dono della pace deve essere vissuto nel proprio cuore come un grande valore, e solo in tal modo la pace potrà dif- fondersi nelle famiglie, nelle varie organizzazioni sociali, infine raggiungendo l’in- tera comunità delle nazioni. Solo nel clima del perdono e della riconciliazione, della giustizia, dell’amore e della verità può svilupparsi una cultura della pace al servizio del bene comune. Come Chiesa siamo convinti che Dio è la più profonda Fonte della Pace. Una grande rilevanza hanno quindi le azioni degli uomini che dal Vangelo traggono le loro più pro- fonde motivazioni per il servizio alla vera pace. Così per prima cosa, invitiamo tutti a pregare per la pace, invogliandoli a organizzare degli incontri che aiutino la conoscenza, il rispetto e l’accettazione reciproci. Invitiamo i giovani a imparare la lingua dei popoli limitrofi, e di conoscere la loro cultura con la quale condividiamo le comuni radici cri- stiane. Invitiamo a collaborare le istituzioni ecclesiali in Polonia e in Germania, auspi- cando una comune opera di evangelizzazione del mondo, per dare risposte alle sfide umanitarie che nascono in diverse parti del nostro pianeta, soprattutto in Africa, il con- tinente più vicino all’Europa. Le Chiese in Germania e in Polonia dispongono di un no- tevole potenziale di uomini e mezzi, e proprio per questa ragione la nostra collaborazione

90 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

può portare abbondanti frutti. Le esperienze di violenza e di abusi che ricordiamo in oc- casione dell’anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale dovrebbero in ma- niera particolare renderci più sensibili all’esigenza di libertà religiosa che manca a molti cristiani nel mondo, facendoci diventare più attenti alla necessità di solidarietà con coloro i cui diritti umani non vengono rispettati. L’ideale della cultura della pace che deve sempre essere intesa quale cultura della vita ci spinge, come Chiesa, a impegnarci in modo deciso a favore del sostegno alla famiglia e alla difesa della vita umana dal con- cepimento alla morte naturale. Come uomini riconciliati, e che continuano il cammino di riconciliazione, vogliamo dare al mondo contemporaneo l’esempio di una nuova cultura di pace, verità, giustizia e amore.

7 — La riconciliazione tra i nostri popoli è un dono che possiamo apportare alla sto- ria dell’Europa unita. Nonostante, a volte, tensioni, incomprensioni, interessi partico- lari non manchino mai in una famiglia di popoli, vale la pena ricordare il fondamentale passo storico costituito dall’integrazione europea. Non possiamo lasciarci sfuggire l’op- portunità di costruire la pace, offerta dall’unificazione dei popoli dell’Europa. Ci ap- pelliamo a tutti affinché, sia attraverso la preghiera che l’azione, non cessino di impegnarsi per la costruzione dell’unità europea. Solo così potremo continuare a be- neficiare della pace. Affidiamo la speranza di una riconciliazione definitiva tra i nostri popoli nell’am- bito della comunità europea al Signore che, in Gesù Cristo, ci ha offerto la pace. Vo- gliamo corrispondere a quel dono, diventando noi stessi portatori di pace. Siamo testimoni del Principe della Pace! Che Maria Regina della Polonia cui affidiamo la sorte dei tedeschi e dei polacchi, dell’Europa e del mondo, ci accompagni nel nostro cammino.

Varsavia-Bonn, 25 agosto 2009

Firmatari: Józef Michalik, Presidente della Conferenza episcopale polacca Robert Zollitsch, Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi Wiktor Skworc, Presidente del Gruppo per i contatti con la Conferenza dei vescovi tedeschi Ludwig Schick, Presidente del Gruppo per i contatti con la Conferenza episcopale polacca

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Cambia il clima, cambiano le narrazioni. Appunti su come i tedeschi ricordano la guerra e sui contrasti polacco-tedeschi intorno al “Centro contro le espulsioni”

di Basil Kerski

Traduzione di Alessandro Amenta

Alla fine degli anni Novanta, Erika Steinbach, deputata della CDU e presidente della Lega degli espulsi [Bund der Vertriebenen], avanzò la proposta di creare una nuova isti- tuzione per ricordare il destino dei profughi tedeschi dell’Europa centrorientale. A quel tempo l’idea di un “Centro contro le espulsioni” non ebbe particolare risonanza nel- l’opinione pubblica tedesca e incontrò subito una reazione ferma e distaccata da parte degli addetti ai lavori. Agli occhi degli esperti della politica storica della Repubblica Fe- derale Tedesca questa proposta sembrava poco comprensibile, perché in base a una legge sugli esuli, dalla fine degli anni Cinquanta lo Stato tedesco non solo finanziava la loro in- tegrazione sociale, ma sosteneva anche diverse associazioni che si occupavano dell’ere- dità culturale tedesca all’est e delle sorti dei profughi tedeschi. La reazione suscitata inizialmente dalla proposta di Steinbach riguardava allora il senso di questa nuova istituzione. I giornalisti e gli storici tedeschi si chiedevano se non si trattasse per caso di un tentativo di introdurre vecchi modelli interpretativi nel nuovo paesaggio della memoria che si stava delineando a Berlino. Dopo l’unificazione della Germania erano sorti nuovi musei storici e nuove istitu- zioni: il Museo degli ebrei tedeschi, il Monumento alle vittime dell’Olocausto, la Topo- grafia del terrore o il Museo di storia tedesca.

Diffidenza nei confronti della Lega degli espulsi

La mancanza di entusiasmo nei confronti del progetto di un Centro contro le espul- sioni non derivava solo dalla diffidenza verso Erika Steinbach, molto critica sul tema del confine polacco-tedesco e sull’entrata della Polonia nell’Unione Europea. A suscitare so- spetti erano anche la tradizione politica e le interpretazioni storiche della Lega di cui era presidente. Negli anni Cinquanta e Sessanta la Lega degli espulsi rappresentava tutte le opzioni politiche della Repubblica Federale Tedesca. Nonostante questo pluralismo, dava una lettura controversa del Terzo Reich e della guerra. Basta dare uno sguardo alla Carta degli espulsi, il documento fondativo dell’associazione risalente al 1950, che Erika Steinbach cita spesso. Per la Lega degli espulsi questo documento rappresentava un gesto di riconciliazione paragonabile addirittura alla lettera dei vescovi polacchi del 1965. Que- sto paragone, però, è incomprensibile. Nella Carta non c’è alcun riferimento all’Olocau- sto o al problema della responsabilità politica dei tedeschi per i crimini del Terzo Reich, né c’è traccia di un’autocritica che potrebbe infondere fiducia nei vicini.

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La responsabilità collettiva della comunità

La responsabilità politica della comunità è un concetto tratto dalle famose lezioni di Karl Jaspers del 1946. Il filosofo tedesco affermava che di fronte alla storia esistono diverse dimensioni della colpa. Abbiamo una colpa criminale, vale a dire una respon- sabilità diretta per i crimini nazisti. Ma se facciamo parte di un popolo e ci identifi- chiamo in esso, allora siamo politicamente responsabili per tutta la comunità. Le riflessioni di Jaspers mostrano che la resa dei conti con il passato non si risolve in una domanda sulla propria responsabilità. Se siamo parte di un popolo o di una collet- tività più grande, dobbiamo porci domande che oltrepassano l’orizzonte limitato della responsabilità personale. Questo modo di pensare è stato incarnato al meglio da Willy Brandt. Il cancelliere socialdemocratico (vittima del Terzo Reich, emigrante, profugo e an- tinazista) si è inginocchiato davanti al Monumento alle vittime del ghetto di Varsavia e si è assunto la responsabilità per i crimini commessi dai suoi connazionali. Quello di Brandt non è stato solo il gesto di un capo di governo, è stato anche il gesto di un patriota te- desco che aveva capito bene il problema della responsabilità politica del suo popolo. Nella Carta degli espulsi questa elevata cultura della riflessione storica che in- fonde fiducia nei vicini è del tutto assente. Inoltre, gli esuli tedeschi si definiscono tra le maggiori vittime della guerra, chiedono aiuto, perdonano gli altri per crimini non meglio identificati. È un documento molto strano e rappresenta un passo poco credibile verso la riconciliazione.

Il popolo come ostaggio

Il documento in questione è uno dei tentativi che i tedeschi hanno fatto per venire a patti col loro passato. Dopo una denazificazione malriuscita da parte degli alleati, la Re- pubblica Federale Tedesca è sorta sulla base di un certo consenso. Da un lato regnava un atteggiamento negativo nei confronti del Terzo Reich e i dirigenti politici dei maggiori partiti, come Adenauer e Schumacher, erano diventati i simboli della resistenza tedesca al nazismo. Dall’altro lato, però, si era venuta a creare una certa interpretazione della storia: quella, appunto, sulla quale fino ad oggi si basa la Lega degli espulsi, ossia l’idea che Hitler e le elite naziste avevano soggiogato il popolo e lo avevano tenuto in ostaggio. In questo modo la responsabilità per i crimini è addossata soltanto alla cerchia della «di- rigenza nazista». Questo è un modo di pensare discutibile, perché manca la dimensione della responsabilità politica del popolo. In democrazia ci domandiamo non solo quale sia il ruolo dei carnefici, ma anche quello di chi sta a guardare. Un’altra caratteristica di questo modo di pensare, che si era fatto strada negli anni Cinquanta, era lo spostamento della responsabilità dall’inizio alla fine della guerra. Invece di occuparci delle cause della guerra, in Germania c’è chi ha iniziato a concentrarsi sulla catastrofe umanitaria degli ul- timi anni del conflitto. Il numero maggiore di vittime civili e militari si è avuto, infatti, negli ultimi dodici mesi di guerra. Il grande cataclisma del 1944-1945 è diventato un punto di riferimento, e i tedeschi non ricordano la guerra nella sua dimensione politica, ma in quella della catastrofe personale. Questi sono punti di riferimento molto importanti per noi polacchi quando riflettiamo su come influire sui dibattiti tedeschi.

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Domande difficili per la generazione postbellica

Negli anni Sessanta il clima del dibattito in Germania occidentale è iniziato a cam- biare, e allo stesso tempo è cambiato anche il ruolo della Lega degli espulsi. Sotto la spinta di eventi come il Processo di Auschwitz a Francoforte sul Meno, i figli della guerra hanno cominciato a porre domande difficili. A quel tempo, vent’anni dopo le lezioni di Jaspers, la Germania era infine pronta alla discussione che il filosofo tedesco aveva in- vocato subito dopo la fine della guerra. L’atteggiamento della Germania nei confronti dei nuovi confini e della perdita dei territori tedeschi diventava una questione cen- trale. La maggioranza di coloro che avevano perso la propria patria a est, l’avevano ri- trovata a ovest e avevano iniziato a prendere le distanze dalla Lega degli espulsi. Avevano accettato i nuovi confini occidentali della Polonia e, invece di reiterare ste- reotipi negativi, avevano preferito cercare un’intesa. Un momento centrale di svolta è rappresentato dalla visita del cancelliere Brandt a Varsavia nel 1970 e dall’accordo tra Repubblica Popolare di Polonia e Repubblica Federale approvato dal Bundestag. Molti tedeschi dell’est iniziarono allora a impegnarsi nella costruzione di nuove iniziative te- desco-polacche. Alla fine degli anni Novanta è cambiato qualcosa nel modo in cui i tedeschi si rac- contano la guerra? Penso di sì. Alcuni rappresentanti della generazione ideologica del Ses- santotto hanno cominciato a guardare in maniera critica alle loro radici e hanno “scoperto” la questione delle vittime di guerra e degli esuli tedeschi. Dimentichi delle sue tradizioni politiche, hanno iniziato a considerare la Lega degli espulsi come un’organiz- zazione di raduno delle vittime di un crimine. (In proposito vale la pena precisare che tale organizzazione non rappresenta affatto la maggioranza dei tedeschi originari dell’est). C’è anche un altro fattore che influisce sul modo in cui oggi i tedeschi discutono della guerra. Negli anni Sessanta e Settanta la generazione dei figli della guerra e del periodo postbellico poneva domande critiche ai propri genitori e ai propri nonni, a per- sone cioè che avevano vissuto la guerra da persone adulte. Ora invece chi sono i testi- moni della guerra? Persone nate negli anni Trenta o Quaranta, che durante la guerra erano giovani o addirittura bambini; esse appartengono dunque al novero delle vittime della catastrofe. Oggi come oggi nelle famiglie tedesche non troviamo più persone po- tenzialmente responsabili dei crimini del Terzo Reich. Il rapporto dei giovani tedeschi nei confronti delle generazioni precedenti è cambiato: sta cambiando il clima della me- moria collettiva e del dialogo tra le generazioni. Lo storico tedesco Norbert Frei ha de- finito il fenomeno che regna attualmente come una nuova «attenuazione del giudizio». Viviamo in tempi in cui la testimonianza individuale è molto importante e viene parti- colarmente messa in mostra dai media. Così, d’un tratto è uscito fuori che, oggi, la maggioranza dei tedeschi è costituita da vittime di un sistema totalitario.

Astrazioni politiche

A fronte di questo insieme di cambiamenti molto importanti nella sensibilità col- lettiva, le discussioni sulle dimensioni della colpa nello spirito di Jaspers e sui crimini nazisti stanno diventando un’astrazione politica e non una testimonianza viva. Da que-

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sto punto di vista, la fine degli anni Novanta rappresenta un momento di svolta legato alla nascita di un nuovo fattore emotivo dovuto a una certa stanchezza verso l’intensa discussione sui crimini del Terzo Reich. Molti tedeschi sono convinti che la Germania de- mocratica abbia fatto i conti con quel periodo in maniera esemplare. In effetti ci sono molti motivi per giudicare positivamente la sua politica storica. A ciò bisogna aggiun- gere che la questione del Terzo Reich ha cominciato a scivolare in secondo piano, men- tre la difficile resa dei conti con l’eredità comunista della Repubblica Democratica Tedesca è diventata il principale argomento di discussione. Non che la stragrande mag- gioranza dei tedeschi abbia messo in discussione il suo giudizio critico verso il Terzo Reich, ma sono cambiate le generazioni, è cambiato il clima delle conversazioni fami- liari e il baricentro del discorso storico. In questo nuovo contesto ha fatto la sua com- parsa Erika Steinbach, che di fatto afferma le stesse cose che la Lega degli espulsi sostiene da decenni. Un elemento importante nel dibattito tedesco sul tema delle migrazioni forzate nel XX secolo è rappresentato dall’esperienza della guerra nei Balcani. Insieme ai loro al- leati della NATO, i tedeschi si sono impegnati in difesa dei civili perseguitati in quelle terre, molti dei quali espulsi dai territori natii. A questo discorso si è agganciata in modo molto intelligente Erika Steinbach. Lo ha potuto fare perché una parte dei tedeschi non ha dimenticato il motivo per cui la Lega degli espulsi veniva criticata negli anni Settanta e Ottanta. In quanto rappresentante dell’ala nazionalista della CDU, Steinbach è riuscita anche ad ottenere l’appoggio dei conservatori tedeschi, che si trovano in accordo con la sensibilità e la visione storica della Lega degli espulsi. Ciononostante, bisogna sot- tolineare che una parte rilevante dei politici tedeschi sa benissimo che Erika Steinbach è una figura controversa e che le critiche polacche non riguardano il ricordo delle vit- time delle migrazioni forzate, ma solo l’interpretazione che ne da la Lega degli espulsi. Quando Erika Steinbach ha proposto di creare un Centro contro le espulsioni, in pochi hanno preso sul serio la sua idea, perché nessuno credeva che avesse appoggi politici e pos- sibilità di successo. Se ha iniziato ad acquistare visibilità nella scena politica tedesca, Steinbach lo deve anche alla demonizzazione che subisce da parte polacca. Possiamo ri- cordare qui la copertina di un numero di “Wprost” del 2003 che rappresentava una Stein- bach in uniforme nazista seduta a cavalcioni sul cancelliere Schröder. L’intenzione del settimanale era di rappresentarla come il cavallo di Troia dei socialdemocratici tedeschi in Europa. Ma perché proprio Steinbach avrebbe dovuto essere il cavallo di Troia di Schrö- der? Questo politico, per quanto poco simpatico, non voleva avere nulla a che fare con lei. Steinbach ha fatto il suo ingresso nel dibattito politico tedesco grazie ai polacchi che l’hanno demonizzata, in quanto vittima dei media polacchi e in quanto persona continua- mente citata nei dibattiti polacchi. Di contro, pochi media tedeschi hanno fanno notare che i polacchi hanno buoni motivi per criticare la Lega degli espulsi. C’è di più. Hanno igno- rato il fatto che anche i polacchi hanno cose importanti da dire sulla seconda guerra mon- diale, sulle sue conseguenze per i tedeschi e sull’eredità culturale tedesca all’est.

Il dibattito polacco-tedesco sulla memoria delle migrazioni forzate

Fino ad oggi, nel dibattito polacco-tedesco si è sentita troppo poco la voce delle

96 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

élite politiche polacche che, basandosi su esempi concreti, criticano i modelli interpre- tativi della storia proposti da Erika Steinbach e dalla Lega degli espulsi. La Polonia non ha indicato in maniera chiara i criteri in base ai quali una mostra permanente sul tema a Berlino (uno dei cavalli di battaglia di Steinbach e della Lega) potrebbe commemorare le vittime tedesche della guerra in modo accettabile per la maggioranza dei polacchi. Possiamo citare concretamente due mostre tedesche: Erzwungene Wege [Strade forzate], a cura della stessa Erika Steinbach, e Flucht, Vertreibung, Versöhnung [Fuga, espulsione, riconciliazione], organizzata dal governo federale. Purtroppo, entrambe le mostre hanno inserito la fuga e le migrazioni forzate di persone di lingua tedesca in un contesto di genocidi e pulizie etniche. Ambedue erano basate su materiali statistici controversi, che parlano di quindici milioni di profughi tedeschi dal 1945 a oggi. Nes- suna delle due mostre aveva un atteggiamento critico verso il pensiero politico della Lega degli espulsi; e tutte e due accettavano senza discutere la definizione etnica di popolo tedesco. Nell’una come nell’altra iniziativa era assente ogni riflessione sul mul- ticulturalismo dell’Europa centrale. Prima del 1939, per esempio, un cittadino di Poz- nań o di Toruń era un cittadino polacco che parlasse tedesco o polacco; e nel 1945, che parlasse tedesco o polacco, poteva trovarsi a scappare dai sovietici. Insieme a queste persone è scomparso il multiculturalismo della Polonia oppure è scomparsa solo l’ere- dità tedesca all’est? Questa prospettiva non è stata presentata dai curatori di nessuna delle due mostre. Non sto dicendo che le migrazioni forzate durante e dopo la guerra debbano essere ricordate secondo la sensibilità storica dei polacchi. Dico solo che non devono essere mostrate nemmeno secondo l’ottica della Lega degli espulsi. La mostra permanente di Berlino dovrebbe partire dalla contemporaneità e chiedersi dov’è che l’eredità cultu- rale tedesca e l’espulsione dei tedeschi costituiscono ancora un problema vivo. Il ricordo dell’espulsione dei tedeschi (o di coloro che le autorità totalitarie definivano tali) è un importante tema di riflessione storica per i polacchi di Olsztyn, Danzica o Wrocław. Per questo il motivo conduttore della mostra permanente non dovrebbe essere il ricordo delle «vittime di guerra tedesche», ma la distruzione del tessuto multiculturale del- l’Europa centrale ad opera dei regimi totalitari. Tra le risposte credibili ed efficaci c’è la creazione di iniziative espositive o di isti- tuzioni polacche. Una voce importante, anche nel dibattito tedesco sulla memoria e sulla storia, può essere il Museo della seconda guerra mondiale di Danzica. Un luogo in cui conservare la memoria dei civili tedeschi vittime della guerra, ma dove la respon- sabilità politica per la guerra e le sue conseguenze vengano chiamate con il loro nome.

Basil Kerski, vive a Berlino; politologo, giornalista, capo redattore del mensile bilingue polacco-tedesco “DIALOG”, membro del comitato di redazione del quadrimestrale di Danzica “Przegląd Polityczny”, membro del Consiglio del Centro europeo Solidarność di Danzica. Tra i suoi ultimi libri su temi polacco-tedeschi, ricordiamo: Homer na placu Poczdamskim. Szkice polsko-niemieckie (Lublin 2008).

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Polacchi, ucraini, russi

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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo1

di Paolo Morawski

Nella lunga durata

Polacchi e ucraini vivono fianco a fianco da secoli. Oggi la Polonia è uno Stato et- nicamente omogeneo in cui, su 38 milioni di abitanti, i polacchi veri e propri rappre- sentano quasi il 97%, mentre le minoranze nazionali ed etniche non superano complessivamente il milione di persone2. Ufficialmente in Ucraina risiedono circa 220 mila polacchi (ma sarebbero un milione) e in Polonia circa 27 mila ucraini (ma sareb- bero dieci volte di più). Nel censimento del 2002 il 97,8% dei polacchi ha affermato di parlare a casa polacco e il 93% si è dichiarato cattolico a fronte di un 2% di fedeli or- todossi. In passato il Paese non era così prettamente nazionale. Nel censimento del 1931 la seconda Rzeczpospolita3 appariva composita. Sul piano linguistico i polacchi di madrelingua rappresentavano il 69% del totale, i parlanti ucraino/ruteno il 14%, yiddish quasi il 9%, bielorusso il 3%, tedesco il 2%, russo come lituano lo 0,4%. Si dichiaravano allora cattolici romani il 65% degli abitanti, cattolici di rito greco il 10%, ortodossi il 12%, di religione ebraica il 10%. Vivaci, anche se numericamente esili, erano le minoranze rom (30-50 mila), ceche, tartare, armene, karaime, slovacche, casciube. Rielaborando queste informazioni si stima oggi che da un punto di vista etnico-nazionale i polacchi costituissero nel 1931 il 64-65% della popolazione (vale a dire circa 20,6 milioni di per- sone su un totale di circa 32 milioni di cittadini), gli ucraini il 16% (inclusi ruteni e lem- chi), gli ebrei il 10% circa, i bielorussi il 5-6%, i tedeschi il 2,6%, i lituani e i russi intorno all’1%. Va inoltre aggiunto che la seconda Repubblica polacca era inegualmente popo-

1 Una prima versione di questo testo col titolo: Acqua sulle sciabole. Polonia e Ucraina, è stata pub- blicata nel volume miscellaneo curato da GUIDO CRAINZ, RAOUL PUPO, SILVIA SALVATICI, Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli editore, Roma 2008, pp. 223-245. 2 Fra slesiani, tedeschi, bielorussi, ucraini, zingari, lituani, lemchi, slovacchi, ebrei, russi, cechi, armeni, tartari… Vedi Raport z wyników Narodowego Spisu Powszechnego Ludności i Mieszkań 2002 e Mały Rocznik Statystyczny 2007 (ambedue online: www.stat.gov.pl). 3 La seconda Rzeczpospolita (in italiano: Repubblica) è il termine di cui si serve la storiografia po- lacca per definire lo Stato polacco rinato nel 1918, dopo 123 anni di spartizioni — (prima con un sistema politico democratico, parlamentare e multipartitico, poi autoritario-presidenziale dopo il colpo di Stato del maggio del 1926). L’uso del termine “seconda Rzeczpospolita” serviva a sotto- lineare la continuità ideale con la Polonia di prima delle spartizioni, ovvero con la “prima Rzecz- pospolita” polacca (1454-1795), che era una originalissima “Repubblica nobiliare”, detta anche Respublica. Il termine Respublica (in latino) era uno dei più diffusi nell’antico linguaggio politico polacco. Spesso costituiva un sinonimo di Stato polacco e veniva usato in alternativa al termine Re- gnum.

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lata in senso diagonale da ovest (Poznań) verso sud-est (Lwów). I polacchi abitavano in maggioranza l’ovest del Paese insieme alla minoranza tedesca, gli ucraini il sud-est, i bielorussi e i lituani il nord-est, mentre gli ebrei prevalevano in molti ambiti urbani4. Il fianco orientale della Polonia negli anni Venti e Trenta era in realtà poco, talvolta molto poco “polacco”. Come segnalano cifre e percentuali, in meno di un secolo il rapporto tra polacchi e non polacchi si è modificato profondamente. L’alterità è diventata una relazione con la sfera del “di fuori”, mentre dopo la prima guerra mondiale riguardava la sfera del “di dentro”. Se nella seconda Repubblica rinata dallo sconquasso dei grandi imperi europei era prioritario, per la ricostruzione dello Stato e dell’unità della nazione, l’incastro fra le differenti componenti linguistiche, religiose, etnico-nazionali interne — ovvero la dialettica tra maggioranza e minoranze, quindi la convivenza tra vicini di casa — ora il tema cruciale concerne le relazioni tra la Polonia e i paesi limitrofi, quindi con l’Unione Europea e la NATO. Non è solo una condizione polacca. “Polonia” è il nome di un insieme di territori europei (pianure, laghi, fiumi, monti, coste) che hanno avuto nei secoli con- fini assai mutevoli, specie a est. Dopo una fase di lunga e fortunata espansione, questo spazio “polacco” che abbracciava vaste schiere di non polacchi, ha avuto una storia sempre più complicata dal XVII-XVIII secolo in poi, con tendenza alla contrazione fino al completo dissolvimento. Scomparsa la Polonia dalla carta d’Europa, agli inizi del No- vecento un gran numero di polacchi viveva ancora nel ricordo (e nel mito) della Re- spublica polacca ante 1772 ovvero di quella Rzeczpospolita di “Ambedue le Nazioni” che dalla fine del Medioevo aveva saldato sotto un unico scettro il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania. In quanto privi di un proprio Stato, i polacchi dell’Ottocento e del primo Novecento proiettavano la speranza dell’avvenire dentro a una patria imma- ginaria in quanto sognata5. Nell’attesa di un risorgimento, essi rielaborarono il passato a vantaggio della propria sopravvivenza col linguaggio del tempo; ovvero di un’epoca di dilaganti e aggressivi nazionalismi. Così “polonizzarono” mentalmente uno spazio- tempo che era stato multietnico, plurilingue e multiconfessionale, polarizzato ma asim- metrico, attraversato da innumerevoli e fluttuanti frontiere. Oggi quello stesso spazio della Respublica di una volta è diviso in maniera già più stabile in un cospicuo numero di entità statali distinte e tendenzialmente omogenee sul piano etnico, che cercano di avere relazioni reciproche possibilmente paritarie. A questo insieme di radicali trasformazioni si è giunti dopo una lunga serie di im- mani tragedie, in particolare quella della seconda guerra mondiale, esperienza cata- strofica per la Polonia e per tutta l’Europa centrorientale.

4 Z. SUŁOWSKI, J. SKARBEK (a cura di), Mniejszości narodowe i religijne w Europie Środkowo-Wschod- niej, Instytut Europy Środkowo-Wschodniej, Lublin 1995, pp. 13-14 e p. 20; J. TOMASZEWSKI, Mniej- szości narodowe w Polsce w XX wieku, Editions Spotkania, Warszawa 1991, p. 23. Altrettanto significativi i dati del censimento del 1921: polacchi 69%, ucraini/ruteni 15%, ebrei 8%, bielorussi 4%, tedeschi 4%. Il 62% si professava cattolico, il 12% ortodosso, l’11% greco-ortodosso, l’11% di re- ligione ebraica, il 4% protestante. 5 Cfr. i saggi e l’antologia di J. PROKOP, K. JAWORSKA, Letteratura e nazione. Studi sull’immaginario collettivo nell’Ottocento polacco, Editrice Tirrenia Stampatori, Torino 1990.

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Una dolorosa quanto difficile contabilità

Per i polacchi la seconda guerra mondiale è scoppiata due volte. Il 1°settembre 1939 con l’invasione nazista che avrebbe annesso al Terzo Reich quasi la metà della Po- lonia occidentale, mentre la restante parte sarebbe andata a costituire il Governato- rato generale (Generalgouvernement), sorta di protettorato coloniale senza alcuna forma di sovranità sotto ferreo controllo nazista. E una seconda volta il 17 settembre 1939, quando l’Armata Rossa attaccò a sua volta la Repubblica polacca impadronendosi della metà orientale (il 51,5% del paese dove abitavano circa 13,5 milioni di abitanti, per quasi la metà di lingua polacca). Il Paese fu spartito dai due aggressori ritoccando appena i protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov, in cui nell’agosto 1939 si erano definite le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione Sovietica in vista del futuro conflitto. Sebbene in alcuni casi l’Armata rossa venisse festosamente accolta da mino- ranze ucraine, bielorusse ed ebraiche, alla brutalità nazista si sommò quasi subito la brutalità sovietica. L’incorporazione delle terre polacche nel dominio dell’URSS durò 21 mesi. Per le- gittimare la «sovrana volontà popolare» nell’ottobre 1939 i sovietici fecero svolgere ai polacchi “libere” elezioni. Ma sotto la (falsa) patente di legalità furono quasi due anni di terrore che cominciarono con le bestiali uccisioni dei proprietari terrieri polacchi («signori») da parte di gruppi di sbandati, in maggioranza ucraini. Sotto il controllo del- l’Armata rossa avvennero poi ripetute ondate di arresti, confische, requisizioni, nazio- nalizzazioni. Repressioni a tappeto contrastarono ogni fede religiosa e attività politica, sociale, economica, culturale che non fosse comunista o favorevole all’URSS. Furono in- sediati nei posti di comando e a tutti i livelli gerarchici i quadri comunisti inviati da Mosca, coadiuvati da un vasto apparato di spie e informatori. Tutto ciò che era polacco (dalla lingua ai monumenti, dalle indicazioni stradali alla moneta al passaporto) venne sistematicamente “sovietizzato”, quindi a seconda dei casi “ucrainizzato”, “bielorus- sizzato”, “russizzato”. Su 250 mila soldati polacchi fatti prigionieri dai sovietici, una parte (circa 43 mila) fu «restituita» ai nazisti. Decine di migliaia di civili vennero col- piti da arresti eseguiti a caso per demoralizzare la popolazione. Un decimo forse della società fu imprigionato per «tradimento», «spionaggio», «anticomunismo», «attività reazionarie» e «controrivoluzionarie» o per «passaggio illegale della frontiera» (per quanto incoerente possa oggi sembrare, tra il 1939 e il 1941 molti polacchi, anche ebrei, cercarono scampo dal terrore sovietico nel Generalgouvernement nazista). Alla Repubblica socialista sovietica ucraina furono annessi circa 90 mila km2 di ter- ritorio polacco, dove vivevano allora 8 milioni di abitanti, di cui 2 milioni di polacchi et- nici. Se il regime di occupazione sovietico fu per questi ultimi particolarmente duro, difficile era stata fino a quel momento la loro sorte. Su quelle terre agli inizi del Nove- cento la minoranza polacca contava circa un milione di individui (in maggioranza a Kiev, a Odessa e nel basso Dnipro, a Zitomir). L’influenza e il ruolo dei polacchi nello spazio ucraino cominciò invero a declinare dopo la Rivoluzione russa e soprattutto dopo il Trat- tato di Riga (1921), col quale polacchi e sovietici si divisero i territori contesi anche da bielorussi e ucraini (i quali diedero vita in quel periodo a più entità statali separate, tra cui la Repubblica nazionale dell’Ucraina occidentale e la Repubblica popolare ucraina). Nel 1926 nell’Ucraina sovietica la minoranza polacca ammontava a circa 650 mila abitanti.

poloniaeuropae 2010 103 Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo

Quasi un quinto di essi venne eliminato durante le carestie e il terrore degli anni Trenta (repressioni, arresti, collettivizzazione forzata, lotta contro i cattolici, i controrivoluzio- nari e i nazionalisti, deportazioni fino in Kazakistan). Dati questi precedenti, non sor- prenderà il fatto che, nelle terre ex polacche annesse all’URSS nel 1945, la liquidazione delle strutture statali polacche andò di pari passo con l’eliminazione degli «elementi so- cialmente pericolosi». Essendo i polacchi generalmente in cima alla piramide economica e sociale, la repressione toccò soprattutto (anche se non esclusivamente) la minoranza polacca, sovrapponendosi e intersecandosi con i locali conflitti etnici. Tra violenta sovie- tizzazione, lotte di classe e lotte fra nazionalità il numero delle vittime fu particolar- mente alto. Non meno di 80 mila, ma forse 130 mila furono i polacchi uccisi tra il 1939 e il 1941 sulle terre ex polacche della Galizia orientale e della Volinia. In linea generale un’esorbitante schiera di «nemici» (di classe, del comunismo, dell’URSS) venne deportato dalla Polonia orientale verso l’Unione Sovietica, senza di- stinzioni di sesso o di età, spesso dividendo tra loro i familiari. Vi erano militari polac- chi di tutti i gradi, poliziotti e gendarmi, agenti della forestale e guardie di confine, guardie carcerarie e agenti dei servizi segreti, attivisti sociali e politici, e pure impie- gati e alti funzionari dello Stato, imprenditori, proprietari immobiliari e terrieri, intel- lighenzia professionale e artigiani, intellettuali, professori universitari, insegnanti, ecclesiastici in prevalenza cattolici, e profughi fuggiti verso est davanti all’avanzata tedesca. In centinaia di migliaia, dopo settimane allucinanti di viaggio in treno, parti consistenti di popolazione polacca approdarono così negli sprofondi della Siberia, in Kazakistan, in località calmucche e kirghize, in sistemazioni primitive e condizioni cli- matiche spesso impossibili (temperature di meno 40 gradi). Ancora oggi è difficile sta- bilire quanti finirono nei gulag sovietici e nelle miniere del circolo polare. Le fonti polacche parlano di 1 milione circa di deportati (1,7 milioni secondo le stime dell’emi- grazione polacca in USA a tutt’oggi citate)6. Le fonti sovietiche finora accessibili7 do- cumentano — solamente — il trasferimento verso est di circa 320 mila polacchi. Gli abitanti non etnicamente polacchi (lituani, bielorussi, ucraini, ebrei) delle terre orien- tali appartenenti alla Polonia tra le due guerre sono stati forse conteggiati dalle fonti sovietiche insieme ad altre nazionalità? Di certo mancano all’appello da mezzo milione a un milione di “polacchi”. Quanti di essi morirono subito (uccisi, torturati)? Quanti du- rante il loro trasferimento coatto: il 30%, il 10% o lo 0,7%? Quanti i deceduti di stenti, di fame, di freddo, di malattia una volta insediati in URSS: 15-20 mila o molti di più? Quanti i morti a causa delle durissime condizioni di lavoro nei gulag? Dai campi di con- centramento sovietici taluni riuscirono a salvarsi: circa 120 mila polacchi approdarono sotto la guida del generale Władysław Anders nel Vicino Oriente raggiungendovi nel 1942 le truppe alleate; altri 100-200 mila polacchi vennero arruolati nell’Armata rossa;

6 Vedi www.electronicmuseum.ca. Il sito contiene anche l’elenco nominativo di tutte le vittime di Katyń. Grazie a Carol Celinska Dove del Kresy-Siberia group per le sue indicazioni cartografiche. 7 Le fonti sovietiche dettagliano quattro deportazioni verso l’URSS dai territori dell’odierne Ucraina, Bielorussia e Lituania, allora parte orientale della Polonia: nel febbraio 1940 (140 mila deportati), nell’aprile 1940 (61 mila), nel giugno 1940 (78 mila), nella primavera 1941 (34-44 mila polacchi, ma i deportati furono 90 mila contando anche lituani, lettoni, estoni, moldovi).

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circa 250-300 mila (?) fecero ritorno tra il 1945 e il 1947 in Polonia. Di quanti, costretti a rimanere in URSS anche dopo la fine della guerra, si è persa ogni traccia?8 L’invasore sovietico “tagliò la testa” alla società polacca. Le élite e l’intellighen- zia polacche (in misura minore anche ucraine, bielorusse ed ebraiche) vennero non solo imprigionate o deportate ma anche deliberatamente eliminate dagli organi responsa- bili della sicurezza di Stato (l’NKVD o Commissariato del Popolo per gli Affari Interni). Fucilati senza sentenza, perlopiù uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse co- muni: questo sarà il tristissimo destino nell’aprile-maggio 1940 di circa 14.700 polac- chi, in maggioranza ufficiali (di carriera e di complemento) dell’esercito, di cui si sono ritrovati i corpi in varie località russe, bielorusse, ucraine (Char’kov, Kalinin, Miednoje), di cui la più famosa è, vicino alla città di Smolensk, la foresta di Katyń. Katyń è diven- tato il nome-simbolo dell’eccidio di cui furono vittime in totale circa 22 mila polacchi (ne mancano all’appello almeno altri 7 mila assassinati in altri luoghi). Katyń fu un cri- mine eccezionale persino nell’ambito dei sanguinari metodi dello stalinismo9.

Dopo il terrore sovietico, il terrore nazista e il terrore ucraino

Dal 22 giugno 1941, con la rottura dell’alleanza tra Hitler e Stalin, l’attacco nazi- sta all’URSS portò altri lutti e altre brutali repressioni. L’NKVD nel ritirarsi uccise quasi 10 mila prigionieri polacchi. In un vortice di crudeltà che durò fino al 1944, nella Polo- nia orientale passata sotto comando tedesco si generalizzò quanto era già accaduto nella metà occidentale: un’estrema violenza tesa a fare posto ai tedeschi in cerca di “spazio vitale” da germanizzare e a ridurre i cittadini polacchi in manodopera coatta a basso costo, spaurita, deculturata, priva di identità. Almeno 200 mila polacchi vennero da lì inviati nei campi di concentramento e ai lavori forzati nel Terzo Reich. Il culmine dell’oppressione si ebbe nel 1942-43 con il dilagare di condanne a morte, fucilazioni, impiccagioni, esecuzioni pubbliche che non risparmiarono né polacchi né cattolici. E ciò mentre in tutto il paese iniziava lo sterminio degli ebrei polacchi (che erano circa 3,35 milioni nel 1939), già sottoposti a durissima prova fin dai primi giorni dell’occupazione nazista della Polonia occidentale. Dapprima furono rinchiusi in circa 400 ghetti, «cimi- teri dei vivi» dalle condizioni di vita col passare del tempo sempre più estreme. A par- tire dalla fine del 1941 vennero sistematicamente avviati verso i campi della morte,

8 Gli storici (polacchi inclusi) tendono oggi ad allinearsi su valori più bassi che in passato. Secondo i dati emersi dagli archivi ex sovietici, le vittime polacche dal 1939 alla fine della seconda guerra mondiale sarebbero 300-400 mila. Ma per quanto “basso” possa essere il numero dei morti o dei deportati, si tratta di centinaia di migliaia di esseri umani: uomini, donne, anziani, fanciulli, bam- bini, militari ma soprattutto civili — il che comunque fa riflettere. Per una critica delle cifre so- vietiche vedi: J. TRZNADEL, Spór o całość. Polska 1939-2004, Wydawnictwo Antyk-Marcin Dybowski, Warszawa 2004, pp. 54-62. 9 Per i contributi più recenti sul tema: A. M. CIENCIALA, N. S. LEBEDEVA, W. MATERSKI (a cura di), Katyń: A Crime Without Punishment (Annals of Communism Series), Yale University Press 2007. Al «clas- sicidio» sovietico fa riferimento VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe. Il massacro di Katyń, il Mulino, Bologna 2006, p. 49 e sg.

poloniaeuropae 2010 105 Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo

dove, nel 1942-44 ne furono assassinati circa 1,8 milioni. Altri ebrei polacchi morirono nei ghetti o nei campi di lavoro tedeschi, circa 200 mila vennero ammazzati dai reparti speciali (Einsatzgruppen). Alla fine della guerra circa 3 milioni di ebrei polacchi (di cui 2 milioni provenienti dalla Polonia orientale) sarebbero venuti meno. Mentre il fronte avanzava verso est, il perdurare delle violenze alzava la soglia di ac- cettazione del male. La morte divenne realtà quotidiana, normalità, abitudine. Con la rot- tura della reciproca fiducia sociale e l’ingrandirsi delle divisioni in ambito locale venne meno quasi ogni forma di solidarietà. Nell’ex Galizia orientale e in Volinia si trovarono a lot- tare contro gli invasori tedeschi (ma anche gli uni contro gli altri) ucraini, polacchi e russi. Gli ucraini volevano l’indipendenza: erano prevalentemente anti-URSS (date anche le re- pressioni subite), quindi anti-polacchi, infine in parte anti-nazisti (nonostante le propensioni filo-tedesche)10. I polacchi si dividevano tra la maggioranza dei sostenitori del governo in esilio a Londra (la resistenza dell’AK-Armia Krajowa) e la minoranza dei sostenitori dei co- munisti sovietici (AL-Armia Ludowa). I russi si spaccavano tra partigiani comunisti e reparti cosacchi comandati dall’occupante nazista. È in questo caotico e particolare contesto che s’infiammò il conflitto ucraino-polacco, in parte attizzato dai tedeschi che volevano divi- dere l’eventuale fronte degli «schiavi» slavi. Per gli ucraini i vicini polacchi erano i «nemici» che sin dalla prima guerra mondiale negavano ogni loro aspirazione all’indipendenza; che tra le due guerre avevano brutalmente cercato di polonizzarli (arrestando le élite, bru- ciando i villaggi, distruggendo le chiese, chiudendo le scuole, creando dei campi di prigio- nia); e che anche durante il conflitto cominciato nel 1939 continuavano a definire “polacche” terre in cui erano chiaramente in minoranza, terre con le quali i nazionalisti ra- dicali ucraini volevano costruire il proprio Stato indipendente, depurandolo dell’elemento polacco. Per la popolazione polacca le crudeltà ucraine si innestarono sulle crudeltà nazi- ste senza soluzione di continuità. Tra il 1943 e il 1945, in pieno disfacimento tedesco cau- sato della controffensiva sovietica, i nazionalisti dell’OUN-B (Orhanizacija Ukrajinśkych Nacjonalistiw-Bandery), gli estremisti della paramilitare UPA (Ukrajinśka Powstanśka Ar- mija) e altri partigiani o sbandati ucraini, sentendosi le mani libere, incendiarono intere campagne e uccisero — con zappe, falci, forconi, asce, accette, scuri, mannaie — circa 80- 100 mila civili polacchi nelle campagne della Volinia e Galizia ex polacche. A fronte di tanta bestialità che non risparmiò né donne né bambini, i sopravvissuti talvolta risposero vendi- candosi con violenza (uccidendo circa 20 mila civili ucraini), perlopiù si strinsero nelle grandi città o fuggirono di proposito verso il Generalgouvernement (dei circa 300 mila fuggiaschi nel 1943-1944 molti finirono in Germania ai lavori forzati). La contabilità del sangue versato e delle vessazioni subite non riguarda ovviamente solo i polacchi, anche se in questa sede si è scelto di evidenziare le sofferenze polac- che. Tra gli stessi storici polacchi si dibatte non solo delle dimensioni della tragedia che si è consumata negli anni Quaranta in Volinia e nell’ex Galizia orientale, ma anche

10 Rispetto ai polacchi gli ucraini beneficiarono di un trattamento relativamente migliore da parte dei tedeschi nel Generalgouvernement; e in Volinia molti di essi collaborarono con gli occupanti nazisti e parteciparono ai loro crimini in una misura che non ha riscontri nel caso polacco (vedi per es. gli 11 mila volontari ucraini della divisione SS-Galizien). Queste circostanze certamente con- tribuirono a inasprire ulteriormente i rapporti polacco-ucraini.

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della natura criminale delle azioni anti-polacche compiute soprattutto dall’UPA: «lotte fra diverse formazioni partigiane», «crimini di guerra», «assassinii di massa», «pulizia etnica» o vero e proprio «genocidio»11.

Il ritorno dei sovietici

La ritirata tedesca lasciò irrisolte le questioni etnico-nazionali. Nel gennaio 1944 i re- parti sovietici, attraversando la frontiera polacca in Volinia, trovarono nei reparti della po- lacca AK piena collaborazione in funzione anti-tedesca. Quasi subito però l’Armata Rossa cominciò a reprimere i resistenti polacchi disarmandoli, arrestandoli, deportandoli in URSS. Era chiaro: l’«alleato» con la falce e il martello stava impossessandosi del territorio ante- guerra dell’ex Repubblica polacca. Così, fin dal gennaio 1944 nelle terre poi passate alle re- pubbliche sovietiche di Lituania, Bielorussia e Ucraina, i polacchi si trovarono sottoposti alla contemporanea pressione degli ambienti nazionalisti locali, particolarmente ostili ai po- lacchi nel loro anelito indipendentista, e delle autorità sovietiche (Armata Rossa e NKVD). Per motivi diversi tutti i contendenti cercavano di spezzare la resistenza polacca, quindi di espellere i polacchi verso la Polonia centrale e occidentale. Prendendo a pretesto la dena- zificazione e la lotta contro chi aveva «collaborato con i tedeschi», i vincitori sovietici ar- restarono, condannarono, deportarono polacchi in tutti gli ambiti sociali per obbligarli a partire. Spostando le frontiere della Polonia di circa 250 km verso ovest, i grandi accordi internazionali sanciti a Potsdam nell’agosto 1945 diedero il colpo finale al processo di de- polonizzazione delle terre orientali. Alla fine del 1945 la resistenza polacca nell’Ucraina so- vietica non esisteva più. Con qualche variante, allo stesso risultato si giunse infine in Lituania e in Bielorussia. La lotta clandestina dei resistenti polacchi continuò fino al 1956, ma solo nei confini della Polonia postbellica12. Con l’aiuto degli organi dell’NKVD i sovietici sparsero un tale terrore che, tra il 1944 e il 1948, furono «volontariamente rimpatriati» in treno dall’Ucraina (di fatto trasferiti in modo coatto) circa 800 mila polacchi (tra cui 33 mila ebrei polacchi e 10 mila polac- chi-ucraini). Una seconda ondata di partenze nel 1955-1959 “alleggerì” l’Ucraina di altri circa 80 mila polacchi. Alla fine degli anni Cinquanta secondo le statistiche ufficiali — comunque difficili da maneggiare dato il loro carattere propagandistico — la minoranza polacca in Ucraina contava 360 mila individui, di cui solo il 19% parlava polacco; nel 1989, sempre secondo le stesse fonti, 219 mila persone di cui solo il 12% parlanti polacco13. In

11 Z. KONIECZNY (a cura di), Zbrodnie nacjonalistów ukraińskich na ludności cywilnej w południowo- wschodniej Polsce (1942-1947), Polski Związek Wschodni, Przemyśl 2001; W. SIEMASZKO, E. SIEMA- SZKO, Ludobójstwo dokonane przez nacjonalistów ukraińskich na ludności polskiej Wołynia 1939-1945, 2 vol., Wydawnictwo von Borowiecky, Warszawa 2000. 12 A lottare nel 1944-1956 in modo organizzato contro la sovietizzazione furono in tutto circa 120- 180 mila polacchi, anche giovani, su scala nazionale, regionale, locale. A nascondersi nei boschi nel dopoguerra rimasero in circa 20 mila. Erano 13-17 mila nel 1945, la metà nel 1946, poche centinaia dopo l’amnistia del 1947. Cfr. R. WNUK, S. POLESZAK, A. JACZYŃSKA, M. ŚLADECKA (a cura di), Atlas polskiego podziemia niepodległościowego 1944—1956, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa-Lublin 2007. 13 G. HRYCIUK, Polacy na Ukrainie, “Acta Universitatis Wratislaviensis”, n. 1668, Historia CXVIII, Wrocław 1995, pp. 407-429.

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base agli stessi accordi, fino al 1946 vennero evacuati in senso contrario, dalla Polonia verso la RSS Ucraina, circa 500 mila ucraini, molti dei quali terminarono la loro vita in Si- beria (dove nello stesso periodo finirono anche molti resistenti e anticomunisti polacchi). Tra la comunità degli ucraini rimasti nei confini della nuova Polonia il senso di identità e il sentimento nazionale restarono tuttavia vivi, creando un sostrato fertile per la lotta in- dipendentista, antisovietica e antipolacca, dei partigiani dell’UPA. Questi si servivano del retroterra polacco come base per le proprie azioni di «resistenza» in Ucraina, dove la loro «guerra partigiana» contro gli occupanti sovietici — guerra a lungo sconosciuta: un vero e proprio tabù — venne vinta da questi ultimi a costi altissimi (decine di migliaia di vittime e di ucraini deportati nel fondo dell’URSS)14. Alla fine, col pretesto di un atten- tato e probabilmente su ispirazione di Mosca (i servizi segreti polacchi erano strettamente controllati da quelli sovietici), Varsavia ricorse all’esercito. Nel corso dell’Akcja “Wisła” (Azione “Vistola”, 1947), in virtù della loro «responsabilità collettiva» per le azioni del- l’UPA, le autorità polacche fecero deportare dai territori del sud-est a ridosso della fron- tiera con l’Ucraina oltre 140 mila ucraini, di fatto cittadini polacchi, sparpagliandoli verso le terre settentrionali e occidentali della nuova Polonia, già forzatamente «liberate» dai tedeschi. L’Azione “Vistola” è stata di recente riconosciuta ufficialmente come un atto «contro i diritti umani»15. Simbolo di quel periodo nefasto resta ancora oggi nell’imma- ginario ucraino il campo di concentramento di Jaworzno, nella Slesia, dove i polacchi op- pressero, torturarono e anche uccisero circa 4 mila dei propri concittadini lemco-ucraini.

Cesure

La complessa traiettoria del Novecento, con al centro gli esiti terribili della seconda guerra mondiale, ha segnato una profonda lacerazione nell’immaginario collettivo po- lacco. Mezzo millennio di presenza polacca (etnica, culturale, politica) oltre il Bug è fi- nito tra immani violenze. Legami e contatti plurisecolari sono stati recisi. Cambiando più volte forma, la carta etnografica polacca da pluri è passata a mono. Stermini, massacri, spostamenti di frontiere e trasferimenti forzati di milioni e milioni di persone hanno ina- ridito la tradizionale capacità polacca di convivere con i non polacchi, di condividere con loro uno stesso destino nel medesimo territorio. Per di più i polacchi si sono spesso sen- titi soli, umiliati, attaccati, traditi, accerchiati, vittime di una sorte avversa e crudele. Così nelle mentalità come nei comportamenti sociali si è fatta largamente strada l’avversione,

14 G. MOTYKA, Ukraińska partyzantka 1942-1960. Działalność Organizacji Ukraińskich Nacjonalistów i Ukraińskiej Powstańczej Armii, Instytut Studiów Politycznych PAN-Oficyna Wydawnicza Rytm, Warzawa 2006. 15 Così i presidenti polacco e ucraino nel documento sottoscritto in occasione del sessantesimo an- niversario dell’Akcja “Wisła”: Wspólne oświadczenie Prezydenta RP i Prezydenta Ukrainy z okazji 60-tej rocznicy Akcji “Wisła”, Warszawa 2007 (online: www.pis.org.pl/article.php?id=7233). Sulla deportazione degli ucraini vedi G. MOTYKA, Tak było w Bieszczadach. Walki polsko-ukraińskie 1943- 1948, Oficyna Wydawnicza Volumen, Warszawa 1999. Sulla de-germanizzazione delle terre poi po- lacche ha scritto con efficacia D. ARTICO, “Terre riconquistate”. De-germanizzazione e polonizzazione della Bassa Slesia dopo la II Guerra mondiale, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006.

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talvolta il malanimo verso gli altri, lo straniero, il diverso, i vicini. Il regime coloniale in- staurato in Polonia da Stalin dopo il 1945 e l’esperienza della PRL-Polska Rzeczpospolita Ludowa (Repubblica popolare polacca)16 non hanno modificato tale situazione, semmai l’hanno aggravata, al meglio congelata. Il 1989-1991 ha affrancato milioni di persone. Ma i sentimenti polacco-ucraini si sono trovati fortemente condizionati dal peso della storia, dal ricordo ancora attuale dei drammi della seconda guerra mondiale e perfino dall’eco non ancora spenta dei conflitti avvenuti alla fine della prima guerra mondiale. Erano allora (e ancora sono) vive migliaia di persone direttamente coinvolte in tali vicende insieme alle decine di migliaia di familiari e amici delle vittime. L’importanza che ambedue le parti attribuiscono ai propri simboli e luoghi di memoria “nazionali” (monumenti, cimiteri, località che ricordano le vittime delle guerre, delle repressioni politiche e dei crimini contro i civili) ha dunque una sua ragion d’essere. Tanto più che al tempo dell’URSS nulla si è fatto per attenuare le conseguenze di tante sanguinose lacerazioni. Anzi, per quasi mezzo secolo si sono lasciate deliberatamente aperte le piaghe, per far durare le incomprensioni e i reciproci pregiudizi, per alimentare il con- trasto tra opposti nazionalismi. I contatti privati tra polacchi della Polonia e polacchi in Ucraina erano contrastati, se non proprio impediti. Agli occhi degli ucraini dell’Ucraina so- vietica gli ucraini della PRL erano «stranieri». Ogni riferimento alle più delicate questioni riguardanti la comune esperienza storica apparteneva alla sfera dei tabù. La regola era il silenzio. Per evitare che gli abitanti dei paesi satelliti fossero tentati di unirsi tra loro, il si- stema sovietico aveva eretto tra i singoli paesi poderose barriere anche mentali che si sono incrinate solo a cavallo degli anni Ottanta-Novanta17. La coabitazione polacco-ucraina e ucraino-polacca è, dunque, solo agli inizi, e così la reciproca conoscenza. Senza nulla togliere al fatto che il dialogo sia stato avviato sin dal dopoguerra negli ambienti dell’emigrazione (per esempio nell’ambito della rivista “Kul- tura” di Parigi) e poi in quelli dell’opposizione18, e pur mettendo in conto che in Polonia la riconciliazione è cominciata prima che in Ucraina, il desiderio di comunicare con i vicini in- terni ed esterni, quindi di conoscere la verità sulla propria storia comune non ha alle spalle una lunga tradizione — come accade invece in Europa occidentale. Ciò spiega la carica di emozionalità liberata nell’Ottantanove. Non finiva solo il comunismo: finiva con un ritardo spaventoso anche la seconda e per certi versi pure la prima guerra mondiale. Questa du-

16 La Repubblica Popolare di Polonia (Polska Rzeczpospolita Ludowa, PRL) fu il nome ufficiale della Polonia dal 1952 al 1989. Pur essendo i comunisti al potere dal 1944, la nuova denominazione fu adottata con l'entrata in vigore della Costituzione del 1952. Tale costituzione definiva la Polonia come uno Stato socialista, attribuendo per legge la guida politica del Paese al Partito Comunista, ufficialmente chiamato Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR, Polska Zjednoczona Partia Ro- botnicza), perché formato dalla fusione fra comunisti e socialisti. 17 T. S TEGNER (a cura di), Polacy o Ukraińcach, Ukraińcy o Polakach, Gdańsk 1993; R. TORZECKI, Po- lacy i Ukraińcy. Sprawa ukraińska w czasie II wojny światowej na terenie II Rzeczypospolitej, Wy- dawnictwo PWN, Warszawa 1993; P. KOSIEWSKI, G. MOTYKA (a cura di), Historycy polscy i ukrainscy wobec problemów XX wieku, Universitas, Kraków 2000. 18 Sul tema si potrà leggere: B. BERDYCHOWSKA (a cura di), Jerzy Giedroyc - emigracja ukraińska. Listy 1950-1982, Czytelnik, Warszawa 2004; e B. KERSKI, A. S. KOWALCZYK, Polska i Ukraina. Rozmowy z Boh- danem Osadczukiem, seconda edizione allargata e aggiornata, Kolegium Europy Wschodniej im. Jana Nowaka-Jeziorańskiego, Wrocław 2008.

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plice/triplice fine ha rimesso in circolazione molti fantasmi del passato. Donde la difficoltà di quest’ultimo ventennio non solo a disinnescare l’emotività, con il suo corollario di com- portamenti aggressivi/difensivi, ma anche a evitare la strumentalizzazione politica dei fatti dolorosi. In un clima di raggiunta normalità oggi in ambedue i paesi il rapporto tra maggio- ranza e minoranza è innovativo e importante (in Ucraina interessa quasi il 30% dei cittadini che si dichiarano non ucraini, in Polonia solo il 2% della popolazione non polacca). Se tale rapporto si iscrive nella quotidiana dialettica democratica, non figura tuttavia nell’elenco delle priorità del momento, alle quali appartiene invece la (ri)costruzione dell’identità na- zionale. In Polonia come in Ucraina l’obiettivo principe è consolidare la rinascita dello Stato- nazione, processo tuttora in corso con forza proporzionale alla durezza con la quale il comunismo sovietico ha attaccato in nome dell’internazionalismo operaio le tradizioni e i sentimenti nazionali. Non a caso nelle mutue relazioni sia interne che esterne hanno un ruolo ancora preponderante i rapporti a livello istituzionale, ufficiale, bilaterale; a testi- monianza del fatto che da ambo i lati della frontiera un modello di politica delle naziona- lità non si è ancora stabilizzato. A complicare le mediazioni e i contatti è l’intreccio tra fisionomia nazionale e identità confessionale, tra Stato e Chiese. I polacchi in Ucraina sono in genere cattolici romani (insieme ad altre minoranze ungheresi, slovacche e in parte ru- mene); gli ucraini in Polonia sono invece in prevalenza grecocattolici oppure ortodossi (come le minoranze bielorusse o russe). La politicizzazione di tali differenze religiose è stata sva- riate volte fonte di tensioni e di accuse (di polonizzazione o di ucrainizzazione) che sono rimbalzate da una parte all’altra del confine polacco-ucraino perpetuando taluni stereotipi negativi e, peggio, rivitalizzando l’immagine del nemico.

Piste di ricerca

Vent’anni dopo il 1989 a che punto sono le relazioni polacco-ucraine? Ecco alcune risposte19, tutte veritiere. Ottime: le migliori nella storia. Con nessun altro paese al mondo la Polonia ha con- tatti così intensi. La volontà politica di riconciliarsi è ormai un dato strutturale. Se- condo una tradizione a lungo minoritaria, ma non per questo meno solida20, si vuole definitivamente gettare « acqua sulle sciabole in segno di pace, alleanza, fratellanza»21. Normali: come è d’uso tra Stati sovrani, indipendenti, europei, e perdipiù vicini. In movimento: la strada del dialogo è in salita, ma ogni dolorosa ricorrenza è oc-

19 Per un primo tentativo di bilancio in italiano si rimanda a P. MORAWSKI, La Polonia nello specchio ucraino. Note di lettura, “pl.it — Rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, “Polonia 1939- 1989: la quarta spartizione”, Lithos Editrice, Roma, pp. 523-557. 20 Utilissima antologia che raccoglie un secolo di interessanti e rari materiali: P. KOWAL, M. ZUCHNIAK, J. OŁDAKOWSKI (a cura di), Nie jesteśmy ukrainofilami. Polska myśl polityczna wobec Ukraińców i Ukrainy. Antologia Tekstów, Kolegium Europy Wschodniej, Wrocław 2002. 21 Così la Dichiarazione comune di comprensione e riconciliazione firmata il 21 maggio 1997 dai pre- sidenti polacco Kwaśniewski e ucraino Kučma: Wspólne oświadczenie Prezydentów Rzeczypospo- litej Polskiej i Ukrainy o porozumieniu i pojednaniu, Kijów 21-05-1997 (online: www.bbn.gov.pl/index.php?lin=5&last=183&idtext=393).

110 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

casione per un positivo passo in avanti; dal 1989 in poi non ne sono mancati22. Dietro la facciata, difficili e mutevoli: a dispetto della retorica sul «partenariato strategico», la Polonia non è prioritaria per l’Ucraina e viceversa. La Polonia essendo dentro e l’Ucraina fuori dall’UE, tra i due paesi si sta approfondendo e non colmando il divario non solo economico, reso più tangibile dalle difficoltà che incontra l’Ucraina a staccarsi dal proprio sovietismo e ad allentare la dipendenza dalla nuova Russia. La politica orientale polacca, fiore all’occhiello di tutti i governi posteriori all’Ottanta- nove, è oggi accusata nella stessa Polonia di debolezza, incoerenza, inconsistenza23. In sostanza irrisolte: la rappacificazione degli animi non riguarda le società nella loro interezza. Nell’Ucraina dell’ovest i sentimenti anti-polacchi sono più acuti che a Kiev o nell’Ucraina dell’est. In Polonia le inchieste sul campo dimostrano che le tensioni tra polacchi e ucraini non si sono del tutto spente24. Da una parte brucia ancora l’Azione “Vistola”; dall’altra parte sono i massacri commessi 65 anni fa in Volinia e Galizia ad ac- cendere la sensibilità di molti ambienti polacchi, anche estremi. Questi, in sintesi, si pongono almeno due obiettivi: commemorare le vittime polacche con un «segno tangi- bile» (monumento e/o centro studi) che sottolinei la barbarie delle stragi ucraine25; quindi contrapporsi in modo «adeguato» alla (supposta o reale) rinascita del nazionali- smo ucraino e ai tentativi, estremamente controversi nella stessa Ucraina, di riabilitare e glorificare i militanti dell’UPA26. Confrontati a tante opposte valutazioni gli studiosi, più che semplificare hanno ne- cessità di complicare il quadro. Tra polacchi e ucraini esiste una effettiva circolazione di persone e di idee, una fitta rete di contatti e di scambi, una compenetrazione dei più sva-

22 Importanti gesti comuni: in Ucraina l’11 luglio 2003 a Pawliwka, già Poryck (in ricordo delle vit- time polacche della Volinia), e il 24 giugno 2005 nel cimitero di Orląt (L’viv) per le vittime polac- che della guerra polacco-ucraina del 1918-1920. In quell’occasione si sono celebrate anche le vittime ucraine che lottavano dall’altra parte della barricata. Inoltre l’incontro in Polonia il 13 maggio 2006 a Pawłokoma, vicino Przemyśl (in ricordo delle vittime ucraine). 23 Il dibattito sulle debolezze della politica orientale polacca dura da due decenni. Per citare un solo esempio il primo effetto dell’allargamento dell’area Schengen è stata la crisi polacco-ucraina sul traffico (e le code) di frontiera che si è protratta per i primi tre mesi del 2008. Vedi: M. KACE- WICZ, Gorzka prawda. Skończył się romantyczny okres w relacjach Warszawy i Kijowa, “Newsweek Polska”, N. 14/08, p. 6; A. ERLINGER, Ukraine: Good Neighbors Needed, “Transitions On Line”, 12-02- 2008; P. KOWAL, Wschodni błąd Tuska, “Gazeta Wyborcza”, 8-02-2008; J. KUCHARCZYK, Poland: War- saw’s New Waltz, “Transitions On Line”, 5-02-2008; T. SERWETNYK, Tracimy w oczach Ukraińców, “Rzeczpospolita”, 30-01-2008; P. KOŚCIŃSKI, Musimy być aktywni na Wschodzie, “Rzeczpospolita”, 29- 01-2008; B. OSADCZUK, Jak Donald Tusk przegrał Ukrainę, “Rzeczpospolita”, 28-01-2008; B. OSADC- ZUK, Schengen rozdzieliło Polskę i Ukrainę, “Rzeczpospolita”, 23-01-2008. 24 J. WOJCIECHOWSKA, Wołyniak: bez ich “przepraszam” nie da się rozmawiać z Ukraińcami, pp. 70-79, e ID., Piszę: “Ukrainiec” ludzie czytają: “obcy”, “zły”, pp. 77-79, in “Borussia”, 41, 2007. Su recenti polemiche con gli ucraini ortodossi: M. WOJCIECHOWSKI, U prezydenta nie widzą prawosławnych, “Ga- zeta Wyborcza”, 15-04-2008. 25 Si accusa la politica di praticare una strategia dei “due pesi e due misure” tesa da una parte a ingigantire le colpe polacche e d’altra parte a calare il silenzio su tutti i crimini ucraini che po- trebbero (o si crede potrebbero) incrinare le relazioni ucraino-polacche. In altre parole si sacrifi- cherebbero verità e dovuto omaggio alle vittime sull’altare dei buoni rapporti. 26 Per una sintesi sulle tensioni primaverili: M. WOJCIECHOWSKI, Polska-Ukraina. Nie ma jednej pa- mięci, “Gazeta Wyborcza”, 22-04-2008.

poloniaeuropae 2010 111 Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo

riati ambienti che non ha precedenti. La “rivoluzione arancione” dell’inverno 2004 ha stimolato in Polonia un’ondata di nuova empatia verso l’Ucraina contemporanea, susci- tando in tutti i polacchi un sincero interesse per quel paese, ravvivato sul piano media- tico dall’organizzazione congiunta degli europei di calcio nel 2012. Eppure, secondo gli scettici, anche dopo la “rivoluzione arancione” la Polonia «guarda a Est con la schiena»27. Questa osservazione sottolinea la forza magnetica dell’Occidente che attrae la maggio- ranza delle attenzioni ed energie polacche. Ma significa anche — in positivo — che i po- lacchi non rivendicano le “patrie perdute” a est né pianificano di recuperarle. Il ritorno al passato non è all’ordine del giorno: una pietra sopra. D’altro canto se la Polonia volge lo sguardo altrove è perché — in negativo — accusa un ritardo mentale. Non vi è infatti proporzione tra le trasformazioni geopolitiche degli ultimi decenni (crollo dei muri, fine dell’URSS, allargamenti dell’UE) e il modo in cui i polacchi continuano a guardare se- condo vecchi prismi al loro est (in particolare alla vicina Ucraina). Un’adeguata svolta spi- rituale non è ancora avvenuta, i polacchi poco s’interessano alla storia e alla cultura ucraine (lo stesso dicasi della loro curiosità per gli altri paesi dell’area). Secondo i poli- tologi, la questione fondamentale è la dimensione orientale della Polonia e dell’Unione Europea. La posta in gioco sarebbe in sostanza geo-storica: trasformare il fattore di de- bolezza della Polonia (la sua perifericità, il suo essere paraurti tra l’Est e l’Ovest del con- tinente) in forza (il suo diventare spazio di mediazione, di incontro, eventualmente di sintesi tra l’Ovest e l’Est del continente, tra l’UE e le sue nuove periferie orientali). Il che significa che il dialogo tra polacchi e ucraini è (ancora) tutto da costruire28. Sul piano della ricerca storica è invece innegabile che negli ultimi vent’anni gli studiosi sia polacchi sia ucraini sono riusciti a compiere un enorme lavoro di “ecologia della storia”. Fermo restando che ciascuna storiografia coltiva il proprio “cortile mne- monico”29, lunghi tratti di strada sono stati percorsi unitamente, con reciproco pro- fitto30. Vent’anni — il tempo di una generazione — non bastano tuttavia a sgrovigliare tutti i nodi, a risolvere l’insieme delle vecchie contese. Oggi il punto di partenza è co- stituito dall’esser riusciti a palesare che vi è distanza su talune questioni, diversità di pesi e misure, disaccordo sul peso relativo dei singoli eventi. L’accordo è dunque sul- l’evidenza delle reciproche differenze di visuale, accento, interpretazione. Se i fatti possono ormai dirsi assodati, la nuova frontiera del dialogo polacco-

27 BOHDAN SKARADZIŃSKI, Uwaga na Wschód, Biblioteka “Więzi”, Warszawa 2007. 28 L. WŁODEK-BIERNAT (a cura di), Po co nam te narody? Debata w Klubie “Goście Gazety”, dibattito con A. Michnik, M. Nouschi, G. Schwan, R. Traba, “Gazeta Wyborcza”, 16-02-2008. 29 Sul dibattito in Ucraina una utilissima messa a punto di T. STRYJEK, Jakiej przeszłości potrzebuje przyszłość? Interpretacje dziejów narodowych w historiografii i debacie publicznej na Ukrainie 1991-2004, Instytut Studiów Politycznych PAN-Oficyna Wydawnicza Rytm, Warzawa 2007. Su ele- menti del dibattito in Polonia si leggerà in italiano P. MORAWSKI, Memorie e politiche della storia in Polonia, “pl.it — Rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2007, “La Polonia tra identità nazio- nale e appartenenza europea”, Lithos Editrice, Roma, pp. 332-362. 30 R. NIEDZIELKO (a cura di), Polska-Ukraina: trudna odpowiedź. Dokumentacja spotkań historyków (1994-2001), kronika wydarzeń na Wołyniu i w Galicji Wschodniej (1939-1945), Naczelna Dyrekcja Archiwów Panstwowych- Ośrodek Karta, Warszawa 2003; e Polska-Ukraina: trudne pytania (1918- 48), voll. I-IX, Ośrodek Karta, Warszawa 1998-2002.

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ucraino è il superamento del proprio «egoismo del dolore» in cui ciascuno si limita alla propria esperienza, al proprio punto di vista e prisma particolare. Se tali generalizza- zioni sono lecite, ai polacchi interessa evidenziare prevalentemente l’estremismo dei nazionalisti ucraini dell’OUN-B e dell’UPA, la loro ideologia anti-polacca, i massacri di polacchi che essi hanno compiuto nella prima metà degli anni Quaranta in Volinia e Ga- lizia, quindi le loro attività (criminali) nella Polonia del sud-est dopo il 1945. Gli ucraini da parte loro esaltano la resistenza anti-sovietica e anti-nazista dell’UPA31; e puntano il dito contro le azioni anti-ucraine dell’AK e contro l’ignominia polacca dell’Akcja “Wisła”. Inoltre gli studiosi ucraini chiedono a quelli polacchi di allargare il raggio della riflessione, di guardare indietro nel tempo riportando in primo piano due principali or- dini di fatti (per limitarci qui al XX secolo). Innanzitutto i cattivi trattamenti inflitti agli ucraini dai governi della seconda Repubblica polacca, la cui contraddittoria politica verso le minoranze ebbe esiti amari e fu fonte di tensioni e di irrisolti contrasti. In se- condo luogo, e in precedenza, il fatto che la seconda Repubblica fosse riuscita a stabi- lizzare le sue frontiere orientali solo al prezzo di tre guerre: con l’Ucraina (1918-1919), con la Lituania (1919-1920) e soprattutto con la Russia bolscevica (1919-1920). Al ter- mine del primo di questi conflitti armati la Polonia vittoriosa poté annettersi l’ex Gali- zia orientale polacca e la Volinia, aumentando così il suo carattere multietnico, ma anche la forza dell’opposizione ucraina interna. Mentre al termine della guerra polacco- ucraina contro i sovietici, la pace di Riga (1921) fu il “tradimento” polacco che mise fine per un lungo periodo alle speranze indipendentiste degli ucraini occidentali.

Dal dia-logo al poli-logo

Ogni seria discussione che riguardi la «memoria collettiva» delle popolazioni, le «pagine bianche» o le «macchie nere» della storia, è per definizione ardua. Ancor più spossante è la fatica di ragionare sui “grumi di fatti”, nel duplice senso di sangue rap- preso e di eventi coagulati. Polacchi e ucraini hanno deciso dopo l’Ottantanove di ri- conciliarsi, di cicatrizzare le ferite del passato. Per una efficace ecologia della storia, l’approccio bilaterale è condizione necessaria ma non sufficiente. Si prenda l’esempio di Tłuste-Tovste, nell’Ucraina occidentale, a metà strada tra Ternopil’ e Chernivtsi. È una cittadina tri-nazionale che nel 1900 contava 3778 abitanti, di cui 1077 grecocattolici (di lingua ucraina), circa 400 cattolici romani (di lingua polacca) e oltre due mila ebrei (par- lanti jiddish e polacco)32. Oppure l’esempio di Lemberg-Lemberik-Lwów-Lvov-L’viv così descritta da Leopold Unger: «città di tre nazioni: polacchi, ucraini ed ebrei (non con- tando armeni, karaimi, tartari, ecc.), città di tre aspirazioni/ambizioni, tre filosofie,

31 Sulle polemiche che suscitano all’estero e tra gli stessi ucraini i tentativi di riabilitazione dei combattenti dell’OUN e dell’UPA, vedi G. MOTYKA, Ukraińska partyzantka, op. cit., pp. 651-660. 32 B. BERDYCHOWSKA, Ukraina: ludzie i ksiąszki, Kolegium Europy Wschodniej, Wrocław 2006, pp. 9-32. Si veda anche l’interessante sito che cerca di raccontare la storia del luogo da tre prospettive di- verse: www.tovste.info/index.php.

poloniaeuropae 2010 113 Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo

lingue, religioni e di un numero infinito di conflitti che s’intersecano». «I miei genitori — racconta Unger — sono nati, si sono sposati e hanno messo su famiglia in Austria, hanno costruito la loro esistenza nella Polonia indipendente, sono morti nella Germa- nia nazista, sono stati sepolti in una tomba sconosciuta nell’Ucraina sovietica. Tutto ciò senza mai cambiare indirizzo in via Gródecka 99 a Lwów»33. In tutti questi casi, una sola è la conclusione: i territori non sono mai uniformi. Piuttosto sono simili alle zone di frontiera, vale a dire che dobbiamo immaginarli come complesse aree di transizione, di intersezione, di scambi e di dinamici incontri umani, in cui la mescolanza anche sul piano dei sentimenti di appartenenza è moneta corrente. In altri termini: il dialogo po- lacco-ucraino non riguarda esclusivamente polacchi e ucraini. Anche gli ebrei, i russi, i bielorussi, i tedeschi o i cechi o gli armeni hanno molto da dirci in proposito. È dunque necessario passare dal dia-logo al poli-logo a rafforzamento della convinzione che anche la particolare rappacificazione polacco-ucraina è questione europea34.

33 Dal blog di Leopold Unger (http://unger.blox.pl/html), Mój berliński kadysz, 19-09-2007. 34 Per un approccio ad ampio spettro che cerca di spiegare al lettore (tedesco in questo caso, nella traduzione polacca) la complessità di ciò che è accaduto in Polonia nel corso della seconda guerra mondiale, legando in un quadro d’insieme le diverse popolazioni che sono state allora “mandate via (anche lontano), cacciate, espulse, sfrattate, sgomberate, forzatamente sloggiate, confinate, esiliate, portate via, evacuate, deportate, tolte, eliminate (da un dato territorio), allontanate, tra- sferite, costrette a emigrare o a scappare, portate altrove, spostate (nello spazio)”, e quelle che sono poi “tornate” o sono state “rimpatriate”, vedi THOMAS URBAN, Utracone ojczyzny, Czytelnik, Warszawa 2007.

114 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Il museo virtuale Kresy-Siberia

di Krystyna Kalinowska Moskwa

Si sono incontrati su Internet

L’idea di un museo in rete, dedicato ai deportati polacchi in Siberia, è nata oltre i confini della Polonia. I suoi ideatori vivono in diversi paesi, sparsi nei vari continenti. Non hanno una sede, né uno studio, né questo è il loro lavoro fisso. Ad unirli è stata la ricerca delle loro origini, delle radici familiari che affondano in terra polacca. «Siamo i discendenti dei deportati in Siberia [Sybiracy o Sybiraki]. Parliamo po- lacco. Della storia della mia famiglia non sapevo un granché. Ho cominciato a inte- ressarmene solo quando sono diventato padre», racconta Stefan Wiśniowski, nato in Canada, attualmente residente a Sydney, presidente della Fondazione Kresy-Siberia, con sede a Varsavia1. Suo nonno Lucjan venne deportato ad Archangel’sk con il figlio Zbigniew, padre di Stefan.

Per i miei figli ho cominciato a indagare su come e perché mio padre fosse finito in Canada. Ho saputo che se adesso sono vivo è grazie all’eroismo della nonna, la quale riuscì per miracolo a tenere in vita mio padre in Siberia. E quando sono venuto a conoscenza della nostra storia, ho iniziato a fare scorrerie su Inter- net e, così, mi sono imbattuto in un gruppo di persone che avevano un destino si- mile al mio. All’inizio eravamo in otto. Ci scambiavamo ricordi e fotografie. Ci faceva riflettere il fatto di come fosse possibile che ovunque la gente fosse a co- noscenza dei campi di concentramento, dell’Olocausto, del bombardamento di Pearl Harbour e di altri orrori della seconda guerra mondiale, mentre soltanto pochi sapevano quel che era accaduto ai cittadini polacchi dei territori orientali della Polonia (Kresy2). Essi hanno vissuto l’inferno. Eppure di tutto ciò, fuori della Polonia, nelle lezioni di storia a scuola non si dice nulla.

Col tempo questo piccolo gruppo di discussione su Internet, formatosi nel 2001, ha iniziato a crescere. Oggi conta oltre novecento membri. La maggior parte di loro vive in Polonia, negli Stati Uniti d’America, in Gran Bretagna, in Canada, in Australia, in

1 www.kresy-siberia.org 2 Kresy, maschile plurale in polacco: si tratta delle “terre”, delle “marche”, delle “distese” orien- tali appartenute alla Polonia prima delle spartizioni di fine Settecento e poi, con estensione già ridotta, tra le due guerre mondiali. In seguito allo spostamento verso ovest delle frontiere polac- che dopo il 1945, queste terre fanno parte oggi delle odierne repubbliche di Lituania, Bielorussia e Ucraina.

poloniaeuropae 2010 115 Il museo virtuale Kresy-Siberia

Nuova Zelanda, in Sudafrica, ma alcuni vivono anche in Italia, in Argentina e nella lon- tana Russia. Sono gli ex deportati polacchi in Siberia che, durante l’esilio, hanno vinto la loro battaglia per la vita e che dopo la guerra si sono stabiliti fuori dei confini della patria polacca; così anche i loro figli. Tra essi ci sono ex prigionieri dei campi di lavoro, soldati dell’esercito di Anders e le loro famiglie. Ora, sempre più spesso, si associano alle loro iniziative nipoti e pronipoti. L’età dei membri della rete oscilla così tra i 24 e gli 84 anni o addirittura oltre. Vogliono fare ricerche, vogliono fissare nella memoria e far conoscere la storia dei «cittadini polacchi deportati, imprigionati e trucidati dal- l’apparato repressivo sovietico durante la seconda guerra mondiale». A questo scopo, nel 2008, hanno costituito prima un Comitato promotore del Museo virtuale Kresy- Siberia e, poi, la Fondazione Kresy-Siberia con sede a Varsavia, per dare inizio ai lavori per la realizzazione di questo progetto unico nel suo genere.

Salvare le tracce

Ecco una testimonianza sulla fine di una famiglia:

Furono portati via il 14 aprile 1940. Entrambi — Paulina e Piotr Konopka, pro- prietari di un’azienda agricola di settanta ettari situata nei pressi di Białystok, ge- nitori di sei figli — avevano 67 anni. Furono spinti in un vagone sovraccarico di un treno merci sovietico. In condizioni disumane raggiunsero, dopo alcune settimane di viaggio, Pavlodar, in Kazakistan. Da lì furono condotti in una steppa profonda e lasciati su territori desolati. Pare che col tempo abbiano imparato a mangiare le bucce di patate, sembra che Piotr si sia rifiutato di uscire per andare al lavoro e pare che sia morto per primo. Quando la moglie lo seguì — questo non si sa. Non si sa dove siano le loro tombe, sempre che queste esistano realmente. Forse i loro corpi sono stati buttati in una fossa e ricoperti di calce.

Perché il destino ha riservato loro tale sorte? Perché erano polacchi, proprietari terrieri e vivevano sui territori orientali del Paese, perché avevano dato un’istruzione ai figli; e i figli — ingegneri — come ufficiali dell’esercito polacco avevano difeso la Polonia all’inizio della seconda guerra mondiale e, nel 1940, erano finiti nei campi per i prigionieri di guerra. Questa è stata la loro colpa. Questa singola storia esemplare non ha avuto ancora il suo epilogo. I discendenti, i nipoti dei deportati, continuano a cercare i luoghi della deportazione e il luogo del riposo eterno dei loro avi. Fino a questo momento non esiste una registrazione completa di tutte le persone deportate dai territori orientali verso i luoghi più remoti della Rus- sia. Si stanno realizzando dei database e degli indici delle persone cacciate dalle loro case, imprigionate, trucidate nel lontano Oriente. Tuttavia, gli storici polacchi non rie- scono ad avere pieno accesso agli archivi dei servizi di sicurezza sovietici che potreb- bero documentare tali crimini. Si parla di centinaia di migliaia, ma addirittura di un milione di vittime. Esse vengono definite col termine Sybirak, anche se non tutti i deportati polacchi sono finiti in Siberia. Dalle memorie, dalle ricerche storiche, dai documenti di famiglia, da brevi filmati veniamo a conoscere il loro dramma, la loro

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“geenna”, le condizioni disumane della loro vita. Al riguardo le notizie aumentano a partire dal 1990. Ma ci sono vittime il cui nome non figura in alcun elenco, nessuna fonte le menziona. Eppure sono persone esistite; hanno avuto una famiglia, dei vicini; sono rimaste nella memoria dei loro cari. Da qualche parte ci deve pur essere una qual- che loro traccia. Cercare di rintracciare e di salvare dall’oblio ogni singola vita che fu condannata dal totalitarismo sovietico alla sofferenza e all’umiliazione; documentare, approfon- dire, scolpire nella memoria nazionale, trasmettere tale bagaglio di informazioni alle future generazioni, diffonderle nella storia mondiale — ecco il compito del Museo virtuale Kresy-Siberia, che è stato inaugurato a Varsavia, nella sede del Senato della Repubblica di Polonia, il 17 settembre 2009, nel settantesimo anniversario dell’invasione sovietica della Polonia. Lo stesso giorno le ambasciate polacche a Londra, Toronto e Sydney e, più tardi, a Washington, hanno organizzato un solenne “primo clic”.

Virtuale non significa morto

«Anche se il Museo raccoglie avvenimenti ed esperienze tragiche, desideriamo im- primere ad esso il carattere di un monumento vivo all’eroismo delle centinaia di migliaia di cittadini polacchi che hanno combattuto per sopravvivere all’esilio e in seguito hanno lottato per una Polonia libera», dice Aneta Hoffmann, direttrice generale del Museo virtuale Kresy-Siberia.

Abbiamo progettato venticinque sale, ciascuna dedicata a un argo- mento. In ognuna di esse, accanto ad un’ampia descrizione storica, sa- ranno presentate le relazioni dei testimoni, fotografie e documenti filmati. Una parte importante del Museo è costituita dal muro della Me- moria sul quale sono scritti i nomi delle vittime della repressione sovie- tica (oltre 32 mila fino ad ora), dai quali partono i link che conducono al database e ai documenti. Stiamo progettando mostre temporanee e pure delle sale della Memoria individuali. Qui sarà possibile raccogliere docu- menti personali e cimeli riguardanti le sorti delle singole famiglie, che narreranno ai navigatori su Internet di tutto il mondo questa pagina della nostra storia bellica. Prevediamo due versioni linguistiche: una in polacco e l’altra in inglese e, in seguito, anche una in russo. Quello che siamo riusciti a realizzare fino a questo momento si può vedere all’indirizzo www.kresy-siberia.org.

Il Museo è una grande iniziativa storica e informatica della Fondazione Kresy- Siberia, ma una iniziativa ovviamente assai esigente. L’attuazione del programma espo- sitivo e operativo delle pagine/sale museali, prevista per i prossimi due anni, non è possibile senza significativi contributi finanziari. Così, per esempio, la registrazione audiovisiva dei ricordi degli ultimi testimoni oculari e dei protagonisti di quegli avve- nimenti. Sono necessarie attrezzature e personale. La documentazione deve essere verificata ed elaborata da storici competenti. Col passar del tempo appaiono nuove

poloniaeuropae 2010 117 Il museo virtuale Kresy-Siberia

tecnologie, pertanto è indispensabile un continuo aggiornamento. La modernizzazione della programmazione esige il controllo da parte dei migliori informatici. Sottolinea in proposito Aneta Hoffmann:

Cerchiamo continuamente degli sponsor. La tematica e la portata mondiale del Museo ci obbligano ad assicurare al nostro avamposto virtuale un livello altis- simo. Siamo molto contenti del fatto che tante persone rispondano al nostro ap- pello, non limitandosi solo a un gesto di cordialità, ma dandoci anche sostegno finanziario. Noi esistiamo grazie a ciò. Godiamo dell’appoggio di numerose persone in vista nel mondo della scienza e della politica, e del sostegno delle organizza- zioni dei polacchi all’estero. Tra le personalità favorevolmente disposte nei nostri confronti c’è, tra gli altri, il professor Zbigniew Brzeziński, ex consigliere del pre- sidente degli Stati Uniti per le questioni riguardanti la sicurezza, e Michael Schu- drich, rabbino capo della Polonia.

Il presidente della Fondazione Kresy-Siberia, Stefan Wiśniowski, è venuto da Sydney insieme al padre in occasione dell’inaugurazione a Varsavia della prima tappa della costituzione del Museo. Al parlamento polacco ha detto: «Vorremmo dire ai Sybiracy [deportati in Siberia] ancora in vita: guardate, questo è il vostro museo, ab- biamo vinto, salveremo tutti dall’oblio». Occorre aggiungere che il Museo nasce in gran misura grazie alle persone che de- dicano a questa idea il loro tempo libero fuori dagli impegni professionali. La stessa Aneta Hoffmann, che in Polonia è a capo dell’iniziativa, è una giovane economista con un incarico di grande responsabilità e madre di due bambini. A nome del direttivo della Fondazione, rivolgiamo il seguente appello:

Se voi, o i vostri conoscenti, siete in possesso di documenti, fotografie o il- lustrazioni sconosciute riguardanti questo capitolo della storia polacca, vi pre- ghiamo di mettervi in contatto con noi. Tali documenti potranno essere utili per arricchire le sale e le gallerie del Museo. Inoltre, raccogliamo e registriamo le te- stimonianze degli ex deportati in Siberia [Sybiracy] e degli ex abitanti dei territori orientali della Polonia [Kresowianie o Kresowiacy o przesiedleńcy z kresów] sparsi per il mondo.

Fundacja Kresy-Syberia ul. Krakowskie Przedmieście 64, 00-322 Warszawa, Polska - Tel. +48 22 5569055 [email protected]

Krystyna Kalinowska Moskwa, polonista e giornalista. Ha lavorato alla radio polacca e in teatro come responsabile letteraria. Dal 1992 al 2006 è stata amministratrice della Biblioteca e del Centro di studi di Roma dell’Accademia Polacca delle Scienze (PAN).

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I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń pubblicati su “La vita italiana” (luglio 1943)

di Vincenzo Maria Palmieri

Sabato Santo 24 aprile sono stato telefonicamente avvisato che il Governo germa- nico mi aveva, col consenso delle nostre Autorità, designato a far parte di una Com- missione internazionale, invitata a recarsi immediatamente al fronte russo presso Smolensk, onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyń. Avevo già letto qualche notizia sull’argomento nei nostri giornali, senza certo sup- porre che avrei avuto l’onore e la responsabilità di dare il mio contributo, ed in una forma così solenne, ad un giudizio scientifico collegiale sulla triste scoperta. La domenica di Pasqua ero già in viaggio per Roma, e di lì, espletate le necessarie formalità, proseguii in aereo per Berlino, dove la Commissione era convocata per il martedì 27. Colà ci trovammo infatti in 14, appartenenti ai seguenti Paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Olanda, Protettorato di Boemia e Mora- via, Rumenia, Slovacchia, Spagna, Svizzera ed Ungheria; il delegato spagnolo, prof. Piga, aveva però talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile pro- seguire, sicché, con suo e nostro rammarico, riprese la via di Madrid. Il delegato fran- cese, prof. Costédoat, generale medico, inviato dal suo Governo, prese parte ai lavori della Commissione come osservatore. In due aeroplani militari ripartimmo subito via Varsavia, per Smolensk, dove siamo stati ospiti del Quartier generale tedesco. A Smolensk ha pure sede il servizio medico-legale del gruppo di armate del fronte centrale tedesco-russo, diretto dal valente collega prof. Buhtz, ordinario di medicina legale dell’Università di Breslavia, il che ci ha permesso di avere a disposizione i mezzi tecnici ed il personale ausiliario di cui avevamo bisogno.

Riassumiamo anzitutto i fatti che hanno dato origine all’inchiesta. Verso la fine del febbraio di quest’anno, nel bosco al margine della strada Krasnibor- Katyń, circa al km. 14,5 da Smolensk, un gruppo di operai alle dipendenze dell’Auto- rità militare tedesca, mise allo scoperto una fossa comune, nella quale giacevano numerosissimi cadaveri. Tale ritrovamento non fu propriamente casuale, anzi era il risultato di scavi di sag- gio, a seguito delle deposizioni raccolte dalla polizia militare germanica tra gli abitanti del luogo, secondo cui dal marzo ai principi di maggio 1940 ogni giorno erano giunti alla stazione ferroviaria di Gniesdowo parecchi vagoni, nei quali viaggiavano militari rico- noscibili anche da lontano per le uniformi, come ufficiali polacchi, e raramente qual- che civile.

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Erano ad attendere costoro degli autocarri, che li trasportavano rapidamente in di- rezione di Katyń; la strada anzidetta è orlata per la lunghezza da 3 a 4 chilometri da un bosco, il quale da vari anni era notoriamente prescelto per le esecuzioni della Gepeù; il comprensorio d’altronde faceva parte di una stazione di riposo per alti funzionari della polizia segreta sovietica, il cui fabbricato è in suggestiva anzi romantica posizione presso un’ansa del Dnieper all’estremità sud-occidentale della selva. Testimoni oculari dell’ulteriore destino dei prigionieri non ce n’erano stati, poiché l’ingresso del bosco era precluso agli estranei; si udirono però colpi d’arma da fuoco e grida, il che fece ritenere che fossero stati giustiziati in massa. Scoppiata la guerra tra la Germania e la Russia nel giugno 1941, Smolensk fu oc- cupata nell’autunno successivo dalle truppe tedesche; nella primavera del 1942, po- lacchi al seguito di un’unita germanica che attraversava la zona iniziarono, su indicazioni di abitanti del luogo, scavi di saggio nella foresta di Katyń, che condussero allo scoprimento di cadaveri. Le due piccole croci di betulla lasciate sul luogo furono, nel marzo 1943, il punto di partenza dei sondaggi iniziati dalle Autorità militari tede- sche, in maniera sistematica. Questi furono coronati dal più completo ed insieme raccapricciante successo; ad 1,5 metri circa di profondità, fu potuta circoscrivere una fossa delle dimensioni di m. 28 x 16, la quale conteneva press’a poco 2.500-3.000 cadaveri. I saggi proseguirono tutt’intorno e dettero in altri sei punti risultato positivo; piut- tostocché di altre sei distinte fosse, sembra peraltro che esse ne costituiscono una sola, di ampiezza duplice o triplice di quella già completamente esplorata.

Sin dal primo incontro dei membri della Commissione internazionale a Berlino, la sera del 27 aprile, furono stabilite le direttive generali dell’inchiesta che si andava compiendo. Premesso che il compito era — e non poteva concepirsi diversamente — puramente scientifico, la Commissione diveniva un collegio peritale internazionale, incaricato di compiere accertamenti medico-legali tanatologici, ed i quesiti che ci proponemmo fu- rono quegli stessi che il magistrato suole prospettare ai periti in occasione del ritrova- mento di uno o più cadaveri: 1) identificazione dei cadaveri; 2) causa della morte; 3) epoca a cui questa risale.

Per assolvere tali compiti la Commissione si è servita dei seguenti mezzi: a) sopraluogo; b) interrogatorio dei testi; c) esame di documenti trovati addosso ai cadaveri; d) esame esterno di un gran numero di cadaveri; e) autopsie di alcuni di essi. Le Autorità militari germaniche hanno messo a nostra disposizione tutti i mezzi, di ogni genere, di cui potessimo aver bisogno ed hanno cercato di facilitare in ogni modo l’esecuzione del nostro compito. Sede ufficiale della Commissione è stata la città di Smolensk, o più esattamente

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quanto di essa è rimasto o è stato riadattato dopo l’incendio totale provocato dai russi prima di abbandonarla. La bella città sul Dnieper, posta sulla grande strada storica che dal Baltico mena al mar Nero, collegando il Nord all’Oriente Europeo, ha sempre rappresentato un punto di confluenza di popoli, di commerci, ed all’occorrenza di scontri guerreschi, come nel 1812, durante l’epopea napoleonica, ed ora nel 1941. Dei suoi numerosi monumenti storici ed artistici sopravvivono la Cattedrale (orto- dossa) ricostruita nel secolo XVII, trasformata dai bolscevichi in museo antireligioso ed ora restituita al culto, le antiche mura di cinta ed il monumento, fatto erigere nel 1912, a ricordo del centenario della battaglia franco-russa. La Commissione fu alloggiata nell’ex albergo Molotoff, ora Haus der Wehrmacht, al centro della città. Un autobus, costantemente a nostra disposizione, faceva la spola tra la città ed i luoghi che volevamo visitare. Anzitutto la foresta di Katyń, a circa km. 15 da Smolensk, come ho detto. Il caratteristico odore della materia organica in decomposizione ci avverte che siamo giunti; delle sentinelle ed un recinto di ferro spinato inibiscono l’ingresso della zona, cui il pubblico può accedere solo in ore determinate e con guida. Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pen- nello di Michelangelo, ci si scopre improvvisamente dinanzi; in una radura declinante tra magri pini e betulle, ancor più miseri al confronto dei robusti esemplari della selva cir- costante, grandi fosse a gradinate contengono centinaia di cadaveri accatastati in istrati sovrapposti; tutti in posizione ventrale, e per lo più con le gambe distese. Le fosse sono profonde vari metri e gli strati numerosi; le salme vi sembrano di- sposte con un certo ordine alla periferia, piuttosto alla rinfusa al centro. Sul terreno libero tra una fossa e l’altra sono poi disposti in serie, uno accanto al- l’altro, i cadaveri già esumati: tutti sono completamente vestiti; circa la metà di essi ha le mani legate al dorso. Lo stato di conservazione è generalmente discreto, il che è evidentemente in rap- porto al clima freddo della zona ed ancor più al terreno sabbioso nel quale i cadaveri sono stati inumati. Si possono osservare diversi gradi e forme di decomposizione, subordinatamente alla disposizione dei cadaveri nella fossa e tra loro; quelli alla superficie ed ai margini del blocco cadaverico versano in uno stato più o meno avanzato di mummificazione, mentre negli strati intermedi sono evidenti anche processi di macerazione, dovuti al confluire degli umori organici degli strati superiori. Su numerosi tavoli già predisposti facciamo portare delle salme da noi stessi indi- cate, sia tra quelle giacenti tuttora nelle fosse, sia tra quelle già esumate, e ciascuno inizia le proprie osservazioni, dettandone i risultati al segretario.

La prima fase dell’esame macroscopico concerne l’identificazione. I cadaveri sono, come ho detto, completamente vestiti e gli abiti sono facilmente riconoscibili come uniformi invernali di ufficiali polacchi: cappotto militare con gradi, giacca di cuoio, divisa, decorazioni, stivali; anche la biancheria è completa, con tutti gli annessi, bretelle, cinghie, giarrettiere. Uniforme e biancheria si adattano perfettamente alle dimensioni della salma; tutto

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è abbottonato ed indossato in ordine; l’impregnazione di umori organici, le pieghe degli abiti, la loro perfetta adesione alle particolarità dei tessuti cadaverici, fanno concludere che quegli individui sono stati inumati con l’uniforme portata al momento della morte. La visita delle tasche porta generalmente al rinvenimento di portafogli, lettere, gior- nali, carte dalle quali si desume in oltre due terzi dei casi la precisa identità del cadavere. La leggibilità dei documenti è per lo più soddisfacente, e per la interpretazione ci avvaliamo di interpreti giurati, egualmente a nostra disposizione. È frequente il reperto di bocchini o portasigarette di legno, che portano incisa la parola Kosielsk nome di un campo di concentramento sovietico; vi si trovano pure borse da tabacco, scatole di sigarette e di fiammiferi polacche, parecchie banconote polac- che, nonché spiccioli egualmente polacchi, non però oggetti di valore (anelli, orologi), ad eccezione di qualche medaglia; protesi dentarie di oro sono invece conservate; in un caso da me esaminato mancava peraltro l’intera dentatura, che dall’esame degli al- veoli, si deduceva essere stata sostituita da tempo da una protesi completa. La Commissione ha poi proceduto all’esame testimoniale di parecchi contadini russi della località, i quali hanno confermato le dichiarazioni già note circa l’arrivo dei treni carichi di ufficiali polacchi alla stazione di Gniesdowo tra il marzo e l’aprile 1940, il loro successivo trasporto mediante autocarri nella foresta di Katyń, le grida, i colpi d’arma da fuoco uditi, e la scomparsa di tutti quei militari. Per completare il sopralluogo, ci siamo pure recati alla stazione ferroviaria di Gnie- sdowo ed al villaggio di Katyń, ed abbiamo visitato la villa già adibita a luogo di riposo degli agenti della Ghepeù, ora occupata dagli ufficiali tedeschi. I documenti repertati sulle salme già esaminate sono raccolti in un ufficio della po- lizia campale germanica a poche centinaia di metri dalla foresta, e colà abbiamo speso alcune ore ad esaminarli. II materiale non fa davvero difetto: tessere, lettere, fotografie, diarii, giornali, oggetti personali. Tutti i documenti sinora raccolti lasciano concludere senz’ombra di dubbio che i ca- daveri appartengono ad ufficiali polacchi, che dopo l’occupazione della Polonia Orien- tale, da parte delle armate russe, nell’ottobre 1939, sono stati trasferiti in campi di concentramento, specialmente a Kosielsk ed a Starobel’sk. Dai diarii si desume che questi campi di concentramento furono sciolti nei primi mesi del 1940 e gli ufficiali avviati verso occidente, e quindi verso la Patria. Particolarmente interessante al riguardo è il diario del maggiore Siolski che descrive dettagliatamente la sorte del convoglio dalla partenza dal campo di Kosielsk il 7 aprile 1940; il viaggio per Jelnia, Smolensk fino a Gniesdowo. Il 9 aprile, nelle prime ore del mat- tino i prigionieri furono fatti salire su autocarri che, fortemente scortati, si diressero verso la foresta di Katyń. Le ultime note di Siolski sono scritte nel bosco, molto proba- bilmente pochi minuti prima dell’esecuzione; l’ufficiale si meraviglia dei maltrattamenti improvvisamente inferti ai prigionieri, e si domanda perché essi hanno dovuto consegnare temperini, orologi, ecc., mentre pensavano di essere restituiti alle loro famiglie. La quasi totalità dei giustiziati appartiene all’ufficialato, di tutti i gradi, da sot- totenente a generale di brigata; pochissimi borghesi ed un solo cappellano militare; se- condo gli abitanti del luogo si dovrebbero trovare anche donne e soldati finlandesi e lituani.

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Il numero dei cadaveri può valutarsi a circa 10.000. L’intervento della Croce Rossa polacca facilita il compito della identificazione; fino al 30 aprile sono stati esumati 812 cadaveri, di cui 583 sono stati immediatamente identificati; per altri 150-200 erano in corso trattamenti chimici sui documenti in modo da ripristinare la leggibilità del testo; si può presumere che solo nel 5% l’identità delle vittime rimarrà sconosciuta.

Il secondo quesito propostoci era quello della causa della morte di questi ufficiali polacchi. Esso fu assolto mediante l’esame esterno di gran numero di cadaveri, completato in parecchi casi dall’autopsia. Il risultato di queste indagini fu assolutamente univoco: tutti, senz’alcuna ecce- zione, i cadaveri portavano la traccia di un colpo di arma da fuoco alla nuca, general- mente nella lamina orizzontale dell’occipitale, in prossimità del margine posteriore del forame omonimo; raramente i fori di entrata erano duplici, in un solo caso — proprio uno di quelli da me esaminati — triplice. Il proiettile aveva traversato il cervelletto ed il cervello diagonalmente, uscendo al sommo del capo o alla fronte, press’a poco sulla linea d’impianto dei capelli; rara- mente era rimasto nella cavità cranica, come in un caso capitato alla mia osservazione. Il calibro del proiettile è costantemente inferiore ad 8 millimetri; quello da me re- pertato misura 7,65. Il colpo è stato esploso a contatto o ad immediata vicinanza; ne fanno fede il fre- quente reperto di residui di carica nel foro osseo e le linee di frattura che da esso si di- partono. Talvolta queste fratture sono estese ed interessano uno od ambedue gli occipitali; in qualche caso una linea di frattura congiunge il forame di entrata con quello di uscita; raramente si osserva un vero e proprio scoppio del cranio. Nessun’altra lesione si osserva sul resto del corpo, ad eccezione di qualche rara fe- rita a croce d’arma da punta, facilmente identificabile per una baionetta a quattro spi- goli; queste lesioni non hanno interessato organi vitali, anzi sono piuttosto superficiali. Se ne conclude che la causa unica ed esclusiva della morte è stata per tutti i casi uno (raramente due, eccezionalmente più) colpi d’arma da fuoco di calibro inferiore ad 8 mm., esplosi a contatto o a bruciapelo in un punto determinato della regione nucale; il decesso ha dovuto essere immediato. L’uniformità della causa letifera, della sede della lesione, del calibro dell’arma, dello stesso decorso del proiettile su di un numero così notevole di vittime fa ritenere per certo essersi trattato di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone partico- larmente esperte. Aggiungasi che le stesse caratteristiche si riscontrano in cadaveri di civili, ritrovati nella stessa zona, e, secondo le deposizioni raccolte dagli abitanti del luogo, questo ge- nere di esecuzione sarebbe tipicamente quello in uso presso gli agenti della Ghepeù, il che verrebbe pure confermato dal tipo di legatura delle mani al dorso, che è comune nei civili giustiziati in Russia. In un caso da noi esaminato in quei giorni è risultato che l’ufficiale polacco, oltre al solito colpo alla nuca, presentava la traccia di un proiettile strisciante su di un parietale, di cui aveva interessato soltanto il tavolato esterno. Ne abbiamo concluso che il proiet-

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tile, dopo aver attraversato il cranio di un’altra vittima, aveva colpito il soggetto già morto e giacente al suolo. Questa circostanza lascia ritenere che l’esecuzione sia avve- nuta nella stessa fossa, per evitare l’incomodo del trasporto, e che i giustiziandi fossero disposti con la testa flessa in avanti ed in basso, probabilmente in ginocchio.

Il terzo ed ultimo quesito propostoci è stato quello dell’epoca cui la morte delle vittime poteva farsi risalire. Secondo le deposizioni raccolte, le esecuzioni erano avvenute tra il marzo e l’aprile 1940, cioè esattamente tre anni fa. Poteva questa retrodatazione venir confermata obiettivamente? Gli elementi che ci hanno servito per la formulazione del giudizio peritale sono stati di vario genere, e precisamente: 1) anatomo-patologici; 2) botanici; 3) documentari; 4) entomologici. Lo stato di conservazione dei cadaveri e la loro parziale mummificazione potevano darci in proposito elementi alquanto vaghi, facendoci al più presumere che il decesso risalisse ad oltre un anno; una maggiore precisazione è stata possibile, applicando i ri- sultati di alcune precedenti osservazioni del prof. Orsòs, membro della nostra Com- missione e professore di medicina legale e criminalistica all’Università di Budapest. Egli ha, cioè, fatto rilevare nella cavità cranica di alcuni cadaveri un’incrostazione calcareo-tufacea a più strati alla superficie della massa cerebrale già ridotta in purea omogenea argillosa, che, in base alla sua esperienza, non si osserva nei cadaveri inu- mati da meno di tre anni. In lunghi anni di esperienza tanatologica su cadaveri, esumati dopo almeno 3-4 anni dalla morte, il prof. Orsòs ha osservato nella fossa cranica posteriore di scheletri altrimenti completamente intatti, alterazioni consistenti in rammollimenti, erosioni, carie, depositi duri e talora addirittura perdite di sostanza. Nelle zone rammollite ambedue le parti laterali dell’occipitale e la metà inferiore della squama potevano venire talora arrotolate come croste di pane umido; durante il dis- seccamento tuttavia la zona ossea decalcificata si lacerava e si deformava spontaneamente. La limitazione dell’alterazione ad una zona così circoscritta poteva far pensare a qualche processo morboso dell’osso, per esempio ad una lesione tubercolare, o ad una metastasi blastoma tosa, il che tuttavia era escluso in base alla anamnesi. Queste alterazioni sono state costantemente notate in quella parte del cavo cra- nico nelle immediate vicinanze della quale la poltiglia cerebrale ispessita si era da lungo tempo adagiata; sulla superficie di quest’ultima, in prossimità dell’osso si era invece co- stituito un deposito calcareo-tufaceo, grigiastro bianco-sporco o giallo-ocra chiaro, fal- ciforme, che dava subito all’occhio. La superficie anteriore di questo aggregato untuoso è formata da uno strato fine- mente cristallino, di notevole resistenza, che si ispessisce progressivamente a gradi- nate e si solleva verso il mezzo dell’osso sino a raggiungere l’altezza di 33 mm. e lo spessore di 10; attraverso il forame occipitale esso si estende anche in basso sull’arti- colazione occipito-atlantoidea.

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Chimicamente è costituito da sostanze inorganiche nella proporzione di oltre il 75%, per il 15% di sostanze organiche e per circa il 10% di acqua. La parte inorganica ri- sulta nella quasi totalità di calcio e fosfato di magnesio. Si tratta di modificazioni post-mortali, corrispondenti ad uno stato avanzato di pu- trefazione, consistenti in decalcificazione ed eliminazione di una concrezione, che l’Or- sòs ha paragonato ad un “pseudocallo”. La sua origine viene così interpretata: col progressivo raggrinzarsi del cervello si accumulano nella poltiglia residua fosfati, grassi ed acidi grassi; in presenza dell’ossi- geno dell’aria gli acidi grassi ed il fosforo agiscono decalcificando l’osso circostante, sot- traendogli calcio e magnesio, che si depositano sulla superficie cerebrale costituendo lo “pseudocallo”. La nostra attenzione si è rivolta anche alle piante, magre betulle e pini, esistenti sul terreno delle fosse, ed abbiamo cercalo di stabilirne l’età, facendone prelevare qualche esemplare per esaminarlo, e richiedendo all’uopo anche l’ausilio di un perito forestale, che ci è stato fornito nella persona del sig. von Herff. Dalla dichiarazione ri- lasciata da questi risulta che si tratta di piante cresciute male all’ombra di alberi più grossi; la loro età era di almeno cinque anni, ma il trapianto in quella sede aveva do- vuto avvenire circa tre anni or sono. Questa conclusione è stata confermata anche da qualcuno dei membri della Commissione particolarmente esperto in botanica. Inoltre tutti i documenti trovati sui cadaveri (lettere, diarii, giornali) sono esatta- mente riferibili ad un’epoca che varia dall’autunno 1939 all’aprile 1940; il più recente documento sin’allora rinvenuto era costituito da un giornale russo del 22 aprile 1940. Aggiungasi infine che la mancanza assoluta di insetti e di larve sui cadaveri porta a ritenere che le esecuzioni e le inumazioni abbiano avuto luogo in una stagione fredda. Al termine dei suoi lavori la Commissione ha redatto una breve relazione peritale, di cui trascrivo esattamente le conclusioni:

«Nella foresta di Katyń la Commissione ha esaminato sepolture in massa di uffi- ciali polacchi, delle quali sinora sette sono state aperte. «Da queste sono stati esumati sinora 982 cadaveri, esaminati ed in parte aulop- siati, e già identificati nella proporzione di circa il 70 per cento. «La causa della morte è esclusivamente riferibile a colpi di arma da fuoco alla nuca. «Dalle testimonianze emergenti da lettere, diarii, giornali trovati addosso alle salme si rileva che le esecuzioni hanno dovuto aver luogo nei mesi di marzo e di aprile 1940. «Con queste conclusioni stanno in perfetta concordanza i reperti, descritti nella relazione nelle fosse e sui singoli cadaveri degli ufficiali polacchi».

Aggiungo che queste conclusioni sono state adottate e sottoscritte all’unanimità, e che anche nella discussione preparatoria nessun dissenso si è manifestato tra i mem- bri della Commissione.

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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta del 1943 sul massacro di Katyń1

di Kazimierz Karbowski

Traduzione di Patrick Chaloum

Il 13 aprile 1943 la radio tedesca annunciò il ritrovamento in una fossa comune di cadaveri di ufficiali polacchi scomparsi dalla primavera del 1940, nella foresta di Katyń, nei pressi di Smolensk, una regione che fino [dal settembre 1939] al giugno del 1941 [at- tacco nazista all’URSS] aveva fatto parte dell’Unione Sovietica. Da successive ricerche risultò trattarsi quasi esclusivamente di ufficiali precedentemente detenuti nel campo di Kozielsk. La notizia suscitò emozioni contrastanti nell’opinione pubblica. Da un lato, for- niva il primo indizio concreto sulla possibile sorte di quei prigionieri polacchi, dei quali non si avevano più notizie da tre anni; dall’altro però, il comunicato sembrava poco cre- dibile, poiché proveniva dal governo di Hitler, il quale da parte sua aveva già ordinato omicidi di massa nei territori polacchi e sovietici sotto occupazione tedesca; aveva co- struito campi di concentramento e di annientamento come Auschwitz, Treblinka ed altri ancora; e stava portando a compimento nell’aprile del 1943 — con la sanguinaria re- pressione della rivolta del ghetto di Varsavia — il genocidio di milioni di ebrei polacchi. A metà aprile i tedeschi organizzarono alcune visite per delle delegazioni in mag- gioranza polacche a Smolensk e a Katyń. Furono invitati anche alcuni giornalisti stra- nieri accreditati a Berlino. Fonti polacche2 e americane3 indicano che tra loro si trovava un certo «Signor Schnetzet del giornale svizzero “Der Bund”». In effetti, nell’edizione di “Der Bund” di lunedì 15 aprile 1943 troviamo un articolo dal titolo: Smolensk oggi. Tel. dal nostro corrispondente. Berlino 14 aprile. L’autore raccontava la sua visita a Smolensk, e riportava la versione dei tedeschi sulla scoperta dei cadaveri di ufficiali po- lacchi a Katyń, senza però prendere posizione sui possibili responsabili del massacro. Il suo commento era: «Durante questa guerra sono già stati commessi tanti misfatti, sarà poi compito degli storici chiarire obiettivamente le reali responsabilità»4.

1 Si ringrazia l’autore per la gentile autorizzazione a tradurre questo testo inedito in italiano, di cui una più ampia versione in francese è stata pubblicata dal “Bulletin de la Société des Sciences Médicales du Grand Duché de Luxembourg”, n. 1, 2004, pp. 41-61 (http://www.ssm.lu/pdfs/bssm_04_1_8.pdf). 2 [ZDZISŁAW STAHL], Zbrodnia katyńska w świetle dokumetów, Gryf, Londyn, 1950, p. 191. 3 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest massacre: hearings before the Select Committee to Con- duct an Investigation of the Facts, Evidence and Circumstances of the Katyn Forest massacre. Eighty-second session, Government Printing Office, Washington 1952, Part 5, p. 1719. 4 «Der Bund», Nr. 177, Morgen-Ausgabe, Bern, Donnerstag, 15 April 1943, p. 2.

poloniaeuropae 2010 127 François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...

Dopo l’annuncio tedesco, la Croce Rossa tedesca5, il governo polacco in esilio a Londra6 e la Croce Rossa polacca di Varsavia7 chiesero, indipendentemente gli uni dagli altri, che un comitato d’inchiesta del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) fosse inviato a Katyń. Queste richieste non sortirono alcun effetto, poiché il governo so- vietico non aveva inoltrato alcuna richiesta in tal senso e il CICR non era disposto a farsi carico di una tale missione senza l’accordo di tutte le parti in causa8. In un arti- colo apparso quarantasei anni dopo, Paul Stauffer, ex ambasciatore della Svizzera in Polonia, precisò che «quella presa di posizione da parte del CICR poteva essere inter- pretata come un favore reso a Mosca»9. Messo sotto pressione dal primo ministro inglese Winston Churchill, che temeva fosse messa in pericolo l’alleanza con i sovietici, il governo polacco in esilio rinunciò in seguito alla richiesta d’indagini fatta al CICR. Ciò nonostante il governo sovietico, con- siderando un atto di ostilità nei propri confronti quella richiesta di indagini imparziali avanzata a suo tempo dai polacchi, il 26 aprile 1943, ruppe le relazioni diplomatiche con il governo polacco in esilio10. Nel frattempo i tedeschi decisero di riunire autonomamente una commissione di esperti internazionali con l’incarico di esaminare le fosse comuni di Katyń. Il 22 aprile 1943 un certo dottor Steiner, medico del consolato generale tedesco a Ginevra, a nome del ministro della Salute del Reich tedesco chiese al direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Ginevra, il professor François Naville, se volesse e potesse par- tire il 26 aprile per far parte del collegio di esperti in questione11.

“L’affaire Katyń” e le sue ripercussioni a Ginevra e a Berna

In una lettera datata 23 aprile 1943, indirizzata al «Signor ministro Pierre Bonna, Dipartimento politico federale, e al Servizio della salute del Dipartimento militare fe- derale», il Professor Naville informava di aver ricevuto da parte del Reich la richiesta di recarsi a Smolensk «assieme ad altri medici legali di paesi neutrali» al fine di colla- borare all’identificazione degli ufficiali polacchi i cui corpi erano stati trovati sepolti in una foresta nei pressi di quella città. Chiedeva al Dipartimento politico federale «se vi fossero obiezioni nel caso avesse accettato questa missione», e al Servizio della sa- lute di accordargli l’autorizzazione a lasciare la Svizzera, probabilmente per un periodo

5 Amtliches Material zum Massenmord von Katyn, Deutsche Informationsstelle, Deutscher Verlag, Berlin 1943, p. 140. 6 HENRI DE MONTFORT, Massacre de Katyn, Crime Russe ou Crime Allemand?, La Table Ronde, Paris 1966 (Presses de la Cité, 1969), pp. 43-44. 7 Amtliches Material..., op. cit., p. 137. 8 ivi, p. 139, p. 141. 9 PAUL STAUFFER, Die Schweiz und die Tragödie von Katyn, “Schweizer Monatshefte”, H. 11, Nov. 1989, p. 902. 10 HENRI DE MONTFORT, op. cit., pp. 53-55. 11 Archives du CICR, Archives privés F. Naville, (Cote FN) Nr. 2.

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di otto giorni. Il Ministro Bonna gli rispose il giorno seguente con un telegramma che re- citava: «senza ulteriori informazioni su commissione esperti neutrali costituita dalle autorità tedesche non vediamo per parte nostra alcun motivo opporci a che voi intra- prendiate viaggio a titolo privato e sotto vostra unica responsabilità, se ottenete congedo militare»12. Come risulta da alcuni appunti personali datati 23 e 24 aprile 1943 di E. de Haller13, delegato del Consiglio federale per le opere di mutuo soccorso internazionale e agente di collegamento del Dipartimento politico federale presso il CICR, il CICR era in contatto telefonico con il ministro Bonna e con il professor Naville, in merito al previsto viaggio di quest’ultimo a Smolensk e Katyń. De Haller riporta la dichiarazione di Paul Ruegger del CICR — che il Professor Naville aveva chiamato — secondo la quale egli aveva «rac- comandato al sig. Naville di consultare il Dipartimento politico federale». Il parere di Ruegger era che «fosse auspicabile che il sig. Naville desse seguito alla richiesta del Reich, se non altro per attenuare l’effetto della risposta (negativa) data dal CICR a Berlino. Se fossimo stati al posto del sig. Naville, non accetteremmo tutta questa fretta: chiederemmo di conoscere la composizione della commissione d’inchiesta, i termini del suo mandato eccetera». De Haller darà conto in seguito del suo colloquio telefonico del 24 aprile con il ministro Bonna, annotando: «Constatiamo che non vi è alcun motivo per opporsi al viaggio del sig. Naville. Il telegramma indirizzato a quest’ultimo il giorno stesso è stato redatto proprio durante quel colloquio telefonico». Avendo ottenuto il congedo militare, il 26 aprile il professor Naville partì con il treno per Berlino, dove l’indomani incontrò il ministro plenipotenziario della Svizzera, Hans Frölicher, e fece conoscenza anche degli undici membri stranieri del collegio di esperti in viaggio per Smolensk e Katyń. Egli era l’unico rappresentante di un paese veramente neutrale. Tutti gli altri medici provenivano da paesi alleati della Germania, oppure occupati o controllati dalla Germania14. Trasferita il 28 aprile 1943 da Berlino a Smolensk in aereo, la commissione di esperti visitò, tra il 28 e il 30 aprile, le fosse comuni nella foresta di Katyń. I medici eseguirono delle autopsie su alcuni cadaveri di ufficiali polacchi, esaminarono i docu- menti personali ritrovati, come lettere e appunti, e interrogarono alcuni testimoni russi. In un rapporto del 30 aprile 1943 si rilevava che «la causa della morte, per tutti i cadaveri, è da attribuire a un colpo alla nuca». «In base alle testimonianze, alle lettere, ai diari personali e ai giornali trovati vi- cino ai cadaveri, risulta che le esecuzioni abbiano avuto luogo durante i mesi di marzo e aprile 1940»15. Poiché a quella data, e fino all’estate del 1941, il territorio nel quale furono scoperti i cadaveri si trovava sotto l’egemonia sovietica, l’indicazione relativa

12 ivi, Nr. 3. 13 Archives fédérales suisses, Berne. E 2001 (E) 11 Bd. 139. B. 55. 11. 43 b. Dossier: «Entsendung von Ärzten durch das Int. Rote Kreuz nach Russland (Smolensk) zur Identifizierung von Leichen pol- nischer Offiziere», E. DE HALLER, Affaire de la fosse commune de Katyn (Smolensk). 14 HENRI DE MONTFORT, op.cit., p. 62-64. 15 Amtliches Material..., op. cit., pp. 114-118.

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al momento del decesso degli ufficiali polacchi equivaleva ad attribuire ai sovietici la responsabilità di quegli omicidi. Tornato a Ginevra il professor Naville fu contattato dal consolato tedesco, su ri- chiesta del Dipartimento degli Affari esteri della Germania, e gli fu chiesto di rendere una testimonianza radiofonica sui fatti di Katyń. Egli rifiutò, dichiarando che si sarebbe espresso in pubblico o alla radio solo nel caso in cui l’attività della commissione e i ri- sultati dell’inchiesta fossero stati presentati in forme erronee16. Nove anni più tardi, il professor Naville spiegò davanti alla Commissione del Congresso americano che il suo rifiuto fu condizionato dal fatto che egli si riteneva uno scienziato e un medico e non un propagandista17. Nel settembre 1943, la regione di Smolensk fu riconquistata dalle truppe sovieti- che. Nel gennaio 1944, una commissione di esperti, costituita unicamente da cittadini sovietici, sotto la presidenza del chirurgo e accademico [Nikolay Nilovich] Burdenko, eseguì nuove autopsie sui cadaveri degli ufficiali polacchi nelle fosse comuni di Katyń. Dalle loro conclusioni risultava che «lo stato dei cadaveri mostra che la morte risale ap- prossimativamente a due anni addietro, ossia al tardo autunno 1941», e che sarebbero stati dunque i tedeschi in quel periodo ad uccidere quegli ufficiali18. Sulla base di quella perizia, il procuratore sovietico colonnello [Yuri] Pokrovski (o Pokrovsky) accusò i tedeschi, il 13 e 14 febbraio 1946, di fronte al Tribunale interna- zionale per i crimini di guerra di Norimberga, «di aver assassinato 11 mila ufficiali po- lacchi nella foresta di Katyń». Lo specialista bulgaro di medicina legale, il dottor [Marko Antonov] Markov, ex membro della commissione internazionale di esperti nel 1943, venne tra altri a testimoniare. Alla fine della guerra, egli era stato accusato in Bulga- ria — che si trovava a quel tempo sotto dominazione sovietica — di collaborazionismo con i tedeschi, per aver preso parte alla perizia di Katyń. Al Tribunale di Norimberga, il dottor Markov dichiarò che nel 1943 aveva agito sotto costrizione dei tedeschi e che solo per quel motivo allora egli aveva firmato il protocollo della commissione di esperti19. La difesa di [Hermann] Göring chiese allora di chiamare a testimoniare il profes- sor Naville, che dichiarò però di non poter né modificare né aggiungere nulla al verbale che aveva firmato nel 1943 e che riteneva pertanto inutile una sua testimonianza20. Alla fine il Tribunale di Norimberga non fece alcun accenno al massacro di Katyń nella sentenza emessa nei confronti dei tedeschi il 30 settembre e il 1°ottobre 1943. Quel tribunale — costituito da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica — ri- nunciò a pronunciarsi sulla questione della responsabilità di quel massacro21.

16 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn…, op. cit., p. 1408 (Fotografia di una lettera del 6 maggio 1943 del Consolato di Germania a Ginevra alla Legazione della Germania a Berna). 17 ivi, p. 1614. 18 HENRI DE MONTFORT, op.cit., pp. 131-135. 19 ivi, pp. 180-183. 20 ivi, p. 181. 21 ivi, p. 184.

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Anche dopo quel processo, la tesi che tendeva ad attribuire ai tedeschi la respon- sabilità dell’uccisione degli ufficiali polacchi a Katyń apparve fondata non solo in Unione Sovietica, ma anche nei paesi suoi satelliti e nel resto del mondo, agli occhi di tutti i comunisti. Al Gran Consiglio di Ginevra, il deputato del Partito del lavoro (comunista) Jean Vincent l’11 settembre 1946 presentò un’interrogazione sul ruolo ricoperto dal profes- sor Naville, direttore dell’Istituto di medicina legale di Ginevra, nei fatti rimasti tri- stemente noti come il «Massacro di Katyń». Egli citò i risultati della commissione d’inchiesta sovietica, così come le dichiarazioni del dottor Markov di fronte al Tribunale di Norimberga, sostenendo che «il massacro di Katyń è stato incontestabilmente opera dei tedeschi». Vincent chiese di sapere a quali condizioni il professor Naville avesse ac- cettato la missione propostagli dai tedeschi a Katyń, «se quella missione era stata re- munerata, se il Consiglio di Stato avesse autorizzato il dott. Naville a intraprendere quel viaggio e, se sì, chi avesse incassato gli onorari versati dal governo tedesco». In ri- sposta a Vincent, Albert Picot, vice presidente del Consiglio di Stato, fece rilevare che le domande riguardavano solo Naville, al quale sarebbero state trasmesse22. Il professor Naville rispose il 24 settembre 1946 con una lettera dattilografata di 13 pagine e mezzo indirizzata al «Signor consigliere di Stato incaricato del Dipartimento della pubblica istruzione», nella quale rendeva noto che le critiche formulate dal de- putato Vincent lo obbligavano «a sciogliere per la prima volta la riserva che mi ero in- tenzionalmente imposta da più di tre anni»; e che «il signor Vincent porterà la responsabilità delle conseguenze di ogni sorta che potrebbero risultarne, sia sul piano nazionale che su quello internazionale». Il professor Naville descrisse le «condizioni di chiamata ed accettazione» della sua missione a Katyń e ricordò di aver ricevuto il 24 aprile 1943 l’autorizzazione a partire da parte del ministro Bonna, del Dipartimento politico federale23. Egli «rassicurò» il deputato Vincent: «Non ho… chiesto né ricevuto da nessuno né oro, né argento, né doni, né ricompense, né vantaggi, né promesse di qualsivoglia na- tura. Quando un paese è smembrato quasi simultaneamente dagli eserciti di due potenti vicini, e trapela la notizia dell’uccisione di circa 10 mila dei suoi ufficiali prigionieri, col- pevoli solo di aver difeso la propria patria, quando si cerca di sapere come ciò sia po- tuto accadere, non si può avere l’indecenza di chiedere onorari per recarsi sul posto e cercare di sollevare un lembo del velo che cela al resto del mondo le circostanze di un atto così vile e così contrario agli usi della guerra». Il professor Naville descrisse poi dettagliatamente le condizioni in cui si erano svolti il lavoro e gli accertamenti condotti dalla commissione di esperti a Katyń, sotto- lineando che, contrariamente a una recente affermazione del medico legale bulgaro il dottor Markov, «abbiamo potuto procedere in tutta libertà ai nostri lavori di perizia» e

22 Mémorial des Séances du Grand Conseil d’Etat de Genève, Session du 11 septembre 1946, pp. 1275-1276 e pp. 1279-1280. 23 Archives du CICR, Archives privées F. Naville, (Cote FN) Nr. 23.

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alla redazione del rapporto finale, e che egli stesso aveva «circolato alquanto libera- mente a Katyń come a Berlino senza essere in alcun modo accompagnato o sorvegliato». Aggiungeva poi di ignorare se il dottor Markov «avesse potuto subire pressioni dalle au- torità del suo paese, sia prima di recarsi a Katyń, sia nel momento in cui ha ritirato la propria firma, quando è stato accusato di collaborazionismo e ha dichiarato di aver agito sotto costrizione; eppure egli sicuramente non ha subito costrizioni né pressione alcuna durante i lavori della commissione della quale faceva parte». Il professor Naville confermò le conclusioni della perizia del 1943, criticando le affermazioni e la relazione finale della commissione d’inchiesta russa del gennaio 1944 su Katyń. Egli spiegò che, firmando il rapporto del 1943, non aveva «in alcun modo cercato di fare un favore ai tedeschi, ma esclusivamente ai polacchi e alla Verità». Il professor Naville ricordò la propria ostilità nei confronti dei tedeschi e dei capi del regime nazista, e riferì di non aver nascosto a Katyń quel che pensava «della respon- sabilità morale (dei tedeschi) in quei fatti, perché furono loro a scatenare la guerra e ad invadere per primi la Polonia, anche se [noi esperti] concludevamo a favore della loro innocenza nella morte degli ufficiali polacchi». La sua lettera del 24 settembre 1946 terminava rilevando che i medici legali devono «cercare di servire prima di tutta la Verità... senza preoccuparsi delle critiche e dell’ostilità di chi a volte vuole intral- ciare la nostra oggettività e imparzialità. Possa il nostro motto rimanere per sempre quello che onora ancora qualche tomba: Vitam impendere vero (consacrare la propria vita alla verità)». Questo resoconto del professor Naville è dettagliato, obbiettivo e intelligibile. Con un’unica eccezione. Strana e infondata rimane la sua supposizione che il massacro di Katyń «è stato perpetrato da subalterni, all’insaputa degli alti dirigenti politici e mili- tari russi e della Direzione generale dei campi di prigionia russi». Temendo che dal suo rapporto potessero derivare conseguenze politiche impreve- dibili, il professor Naville suggeriva, prima di trasmettere il proprio testo al Gran Consiglio, di prendere contatto con il Dipartimento politico federale, dal quale aveva ricevuto a suo tempo l’autorizzazione a partecipare alla perizia in questione. Il Consigliere di Stato di Ginevra Albert Picot consultò allora il Consigliere federale Max Petitpierre, che rispose il 24 ottobre 1946 in maniera decisamente negativa24. Rilevava fra altre cose che:

— Una discussione pubblica sul massacro di Katyń in seno al vostro Gran Consiglio potrebbe avere ripercussioni incresciose sulle nostre relazioni con l’URSS e, in qualche misura, rendere più difficile la nostra posizione internazionale, in parti- colare le nostre relazioni con le Nazioni Unite... — … penso che il Consiglio di Stato dovrebbe astenersi dal leggere il resoconto del professor Naville. Tale lettura, fatta da un membro del Consiglio di Stato, potrebbe insinuare l’idea che questi avalli con la sua autorità le conclusioni del professor Na- ville.

24 Archives fédérales suisses, Berne, E 2800 1967/59, vol. 26-27, dossier 26/4. Lettera del 24 ot- tobre 1946 indirizzata ad Albert Picot.

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— ... sarei grato al Consiglio di Stato se fossi tenuto esclusivamente a rispondere alle precise domande poste dal deputato on. Vincent e a dare la mia opinione sui rimproveri mossi contro il professor Naville, senza dover rendere noto il conte- nuto del suo rapporto...

Il Consiglio di Stato di Ginevra non accolse il parere del capo del Dipartimento po- litico federale. Il 18 gennaio 1947, Picot, diventato presidente del Consiglio di Stato e vice presidente del Consiglio nazionale, dava lettura ai deputati di gran parte del rap- porto del professor Naville, rilevando che «Il Consiglio di Stato …. non ha alcun rim- provero da rivolgere al dott. Naville, distinto scienziato, eccellente medico legale... che non è venuto meno ad alcuna regola di dignità professionale, né ad alcuna legge del- l’onore»25. Due giorni più tardi quel testo apparve sulla “Tribune de Genève”26. La lettura della relazione del professor Naville ebbe varie ripercussioni. Per primo fu il deputato comunista Vincent a rimproverargli nuovamente di aver accettato l’in- carico di recarsi a Katyń per procedere a quella perizia e — basandosi sulle fonti sovie- tiche — sostenne che nel caso Katyń, «si è trattato di uno spaventoso massacro perpetrato dai tedeschi sospinti dalla loro volontà... di sterminio dei popoli slavi». Nella sua replica Picot precisò che «è una Polonia libera, un governo polacco scelto... con ele- zioni effettuate in totale libertà... che potrà, un giorno, cercare la verità»27. Su richiesta del consigliere federale Petitpierre, E. de Haller gli inviò, il 30 gennaio, una nota riservata sui propri ricordi delle circostanze nelle quali il professor Naville aveva partecipato alle riesumazioni di Katyń28. Vi criticava la decisione di quest’ultimo di aver accettato l’invito delle autorità tedesche a prender parte all’inchiesta, dicendo di ricordare che nell’aprile 1943 egli fosse personalmente convinto «dell’inopportunità che uno svizzero vi fosse coinvolto». De Haller faceva così passare sotto silenzio il parere — da lui stesso riportato nell’aprile 1943 — di Ruegger, del CICR, secondo il quale sarebbe stato «auspicabile che il sig. Naville desse seguito all’invito del Reich», ricor- dando inoltre che un medico svedese e uno spagnolo si erano sottratti a quel compito e che il professor Naville era di fatto l’unico esperto rappresentante di un paese real- mente neutrale. In una lettera del 10 febbraio 1947, indirizzata al Consiglio di Stato di Ginevra, il consigliere federale Petitpierre esprimeva il proprio disappunto per la lettura della re- lazione del professor Naville fatta da un membro del Consiglio di Stato, e criticava — sulla base delle informazioni di de Haller citate sopra — la decisione del professor Na- ville di prendere parte, nella primavera del 1943, alla commissione d’inchiesta sul mas- sacro di Katyń. Petitpierre rendeva noto che il ministro plenipotenziario dell’URSS, così

25 Mémorial des Séances du Grand Conseil d’Etat de Genève, Session du 18 janvier 1947, pp. 38-54. 26 “La Tribune de Genève”, 20/01/1947, p. 9. 27 Mémorial des Séances…, op. cit., pp. 53-54. 28 Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139 B 55.11.43 b. Nota riservata di E. de Hal- ler al consigliere federale Petitpierre.

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come il ministro della Polonia, avevano vivamente protestato per le dichiarazioni rese da Picot e chiedeva ulteriori informazioni per poter fornire le necessarie spiegazioni ai due ministri29. Il 21 febbraio, il Consiglio di Stato di Ginevra inviava in risposta al Dipartimento politico federale il «memoriale» della seduta del 18 gennaio 194730, che costituirà in seguito la base di un promemoria consegnato al ministro plenipotenziario sovietico Koulagenkov (o Kulazenkov). Vi si spiegava tra l’altro che «non si potrebbe pretendere... che il presidente del governo ginevrino si sia fatto difensore della tesi hitleriana sul- l’affare di Katyń e abbia assunto, in ciò, un atteggiamento ostile nei riguardi del governo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche»31. Sembra che il governo sovietico abbia infine accettato in silenzio questa spiegazione. Il caso tornò ancora alla ribalta nella primavera del 1952, quando una commis- sione del Congresso americano, riunita in seduta a Francoforte, in Germania, indagando sul massacro di Katyń volle interrogare il professor Naville. Questi chiese l’autorizza- zione del Dipartimento politico federale e ricevette tale risposta il 18 aprile 1952: «Si tratta di una questione privata che non riguarda le autorità federali. Pertanto non dob- biamo, in linea di principio, né concedere né negare tale autorizzazione...», ma «non vi è alcun dubbio sul fatto che il suo viaggio, come la volta precedente, non mancherà di suscitare reazioni sia in Svizzera, sia da parte della rappresentanza dell’URSS a Berna» e che... «la sua partecipazione a questa nuova inchiesta... ci pare poco auspi- cabile»32. Nonostante queste raccomandazioni, il professor Naville decise di recarsi a testi- moniare. Il 26 aprile 1952 rese, a Francoforte, una deposizione dettagliata33, che con- fermava tutte le conclusioni del 1943. Ribadiva inoltre quel che aveva già dichiarato nella sua relazione al Gran Consiglio di Ginevra nel 1946, in particolare l’indipendenza con la quale lui e i suoi colleghi avevano lavorato a Katyń. Quattro altri medici legali che avevano fatto parte della commissione internazionale nel 1943, i dottori Edward Lucas Miloslavich (Croazia), Helge Tramsen (Danimarca), Ferenc Orsós (Ungheria) e Vin- cenzo Mario Palmieri (Italia), dichiararono in modo analogo, davanti al Comitato ame- ricano, di aver avuto totale libertà di azione nelle loro indagini34.

29 Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139 B. 55.11.43 a, dossier: «Participation du CICR à l’identification des corps d’officiers polonais trouvés près de Smolensk». Lettera indiriz- zata al Consiglio di Stato di Ginevra del 10 febbraio 1947. 30 ivi. Lettera del Consiglio di Stato di Ginevra al consigliere federale Petitpierre del 21 febbraio 1947. 31 Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139. B. 55.11.43 a. Promemoria del 19 marzo 1947. 32 Archives du CICR, Archives privées F. Naville, (Cote FN) Nr. 29. 33 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn..., op. cit., p. 1602-1615. 34 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest Massacre. Interim Report of the Select Committee to Conduct an Investigation and study of the Facts, Evidence, and Circumstances of the Katyn Forest Massacre, Union Calendar No. 762, 82d Congress, 2d Session, House Report No. 2430, VIII, Testimony of International Medical Commission, Government Printing Office, Washington 1952, pp. 21-23.

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La commissione del Senato americano concluse all’unanimità che la polizia poli- tica sovietica, il NKVD, era responsabile del massacro di Katyń e probabilmente anche di altri due, avvenuti in località ancora sconosciute nel 1952. La Commissione ritenne che il caso dovesse essere portato davanti a una corte internazionale di giustizia. Le Na- zioni Unite avrebbero dovuto sentirsi in obbligo di mostrare al mondo che il «Katyńismo» costituiva un piano diabolico dei sovietici, che mirava alla conquista del mondo35. Que- ste raccomandazioni della commissione non ebbero purtroppo alcun seguito. Negli anni che seguirono, anche dopo il suo ritiro in pensione, il professor Naville continuò a interessarsi vivamente all’«affaire Katyń». Egli raccolse libri, opuscoli, ar- ticoli di giornale e materiale iconografico su quel massacro, anche alcuni reperti pro- venienti dalle fosse comuni, e intrecciò una corrispondenza con personalità polacche e straniere. Alla sua morte, la figlia, Valentine Aubert-Naville, e il nipote, il professor Gabriel Aubert, continuarono per molti anni, fino al 1995, ad arricchire quella volu- minosa documentazione, consegnandola infine agli Archivi del CICR, dove è tuttora conservata. Altri documenti risalenti al periodo 1943-1952 e riguardanti il professor Naville sono consultabili negli Archivi federali svizzeri a Berna e negli Archivi di Stato di Ginevra. Ciò nonostante, è singolare il fatto che, nei ricordi pubblicati dopo la morte del professor Naville, nella stampa quotidiana e medica non venga mai fatta menzione — salvo rare eccezioni — della sua partecipazione nel 1943, alla commissione interna- zionale d’inchiesta sul massacro di Katyń. Si trovano invece descrizioni molto detta- gliate sulla sua implicazione nell’«affaire Katyń» in un libro polacco: Zbrodnia Katyńska, pubblicato a Londra36 in forma anonima da Zdzisław Stahl37; in un libro fran- cese di Henri de Montfort, Massacre de Katyn, Crime Russe ou Crime Allemand?, pub- blicato a Parigi38; infine, in un articolo di Paul Stauffer, Die Schweiz und Katyń, pubblicato sul “Schweizerische Monatshefte” nel novembre 198939.

Gli sviluppi dell’«affaire Katyń» fino ai giorni nostri

Ancora negli anni Ottanta, i punti di vista sull’«affaire Katyń» erano rimasti pra- ticamente immutati. Il blocco comunista continuava a sostenere la responsabilità dei tedeschi nel massacro. Nel 1985, il governo (comunista) polacco eresse a Varsavia un monumento alla memoria dei morti di Katyń, sul quale si poteva leggere che essi furono

35 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest Massacre. Final Report of the Select Committee to conduct an Investigation and Study of the Facts, Evidence, and Circumstances of the Katyn Forest Massacre, Union Calendar No. 792, 82d Congress, 2d Session, House Report No. 2505, XI, Conclusions, Government Printing Office, Washington 1952, pp. 37-38. 36 [ZDZISŁAW STAHL], op.cit., pp. 150-155. 37 JERZY ŁOJEK [LEOPOLD JERZEWSKI], Dzieje sprawy Katynia, Versus, Białystok 1989, p. 70. 38 HENRI DE MONTFORT, op.cit., pp. 73-86. 39 PAUL STAUFFER, op.cit., pp. 905-916.

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vittime del «fascismo hitleriano»40. Nel mondo libero continuava a predominare l’in- certezza. La stampa internazionale — anche quella svizzera — pretendeva, ancora nel 1983 e 1984, che «il caso è rimasto irrisolto» e che «tedeschi e sovietici si rimandano la responsabilità della morte di quegli ufficiali»41. Nel 1985 l’ascesa al potere di Gorbačëv in Unione Sovietica, cui seguì una certa li- beralizzazione del regime comunista, permise, alla fine degli anni Ottanta, ad alcuni storici progressisti russi quali Sergej Charlomov, Natalia Lebedeva, W.S. Parsadanova, Jurij Zoria ed altri ancora di occuparsi del massacro di Katyń42. I risultati delle loro ri- cerche concordavano a tal punto da rendere impossibile per le autorità sovietiche con- tinuare a negare il loro coinvolgimento in quel massacro. Il 19 aprile 1990 l’agenzia di stampa ufficiale sovietica TASS confermò che i mili- tari polacchi dei campi di prigionia di Kozielsk, Ostaškov e Starobilsk erano stati con- segnati nell’aprile e nel maggio 1940 alla polizia politica NKVD, che da allora se ne era persa ogni traccia e che si trattava di uno dei più spaventosi crimini staliniani43. Più tardi fu precisato che i 6.311 prigionieri del campo di Ostaškov erano stati assassinati a Kalinin (Tver’) e sepolti lì vicino, nella località di Mednoe, e che le spoglie dei 3.280 ufficiali del campo di Starobilsk — giustiziati negli edifici del NKVD a Char’kov — si tro- vavano in una foresta vicino a quella città. Infine si apprese che le fosse comuni di Katyń contengono 4.421 corpi (e non 10 mila, 11 mila, o 12 mila, come si era sostenuto in precedenza) di ufficiali precedentemente detenuti nel campo di Kozielsk44. In que- sta vicenda rimane, in effetti, ancora un interrogativo: dove si trovano i cadaveri dei 7.305 militari polacchi rimanenti, assassinati in altri luoghi? Secondo recenti informa- zioni, gran parte di loro sarebbero stati assassinati nella prigione di Kiev in Ucraina e in seguito sepolti nella vicina località di Bykivnia46. Dobbiamo precisare che, da parecchio tempo ormai, si usa comprendere sotto la nozione di «affaire Katyń» non solo il massacro di Katyń in senso stretto, ma anche altri massacri di militari polacchi perpetrati dal NKVD staliniano nel 1940, soprattutto quelli avvenuti a Char’kov e a Tver’. Il 14 ottobre 1992, il presidente russo Boris El’cin trasmise al presidente polacco Lech Wałęsa un fascicolo — fino ad allora rimasto strettamente riservato — contenente

40 H. RYCHENER, Granit, Kreuz und eine Lüge. Das neue Katyn-Denkmal als Geschichtsfälschung, “Der Bund”», 25/04/1986, p. 3. 41 ATS/AFP, Soutien à «Solidarność», Feuille d’Avis de Neuchâtel / l’Express, 3 novembre 1983, p. 27; M. JÖRIMANN, Les interrogations de l’Histoire. Les fossés de Katyn, GHI (Genève Home Infor- mations), 25 ottobre 1984, p. III. 42 W. FALIN, Nota per Gorbačëv del 22 febbraio 1990 (in russo con traduzione polacca), Instytut Stu- diów Politycznych Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 1992, pp. 118-125; J. ZORIA, Droga do prawdy o Katyniu, in Rosja a Katyń, Karta, Warszawa 1994, pp. 63-89 (traduzione dal russo al polacco). 43 Eingeständnis Moskaus zum Mord von Katyn, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, , 14-15/04/1990, p. 2. 44 Massengrab in der Ukraine entdeckt, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 15/06/1990, p. 4 ; Katyn und zwei weitere Massengräber in der USSR, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 27-28/07/1991, p. 4. 46 A. KOLA, II Archeologiczne badania sondazowe i prace ekshumacyjne w Bykowni w 2001 roku, “Przeszłość i Pamięc. Biuletyn Rady Ochrony Pamięci Walk i Męczeństwa”, Warszawa 2001, n. 4 (21), pp. 123-125.

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i documenti dell’Ufficio politico del Partito comunista sovietico su quel caso. Vi si leg- geva che Stalin ed altri dirigenti del Partito avevano ordinato quei massacri il 5 marzo 1940 e che nel marzo 1959 il segretario generale del Partito Chruščёv aveva ordinato la distruzione dei 21.857 fascicoli personali delle vittime47. Nel 2000 ha avuto luogo l’inaugurazione solenne dei cimiteri a Char’kov, Katyń e Mednoe48. Eppure, né le iscrizioni in quei cimiteri, né i funzionari russi e ucraini pre- senti alle cerimonie, hanno citato espressamente i responsabili staliniani di quei crimini. Per contro gli assassinati sono definiti come «vittime del totalitarismo»49. In questo modo il profano potrebbe di nuovo chiedersi di quale «totalitarismo» si tratta: di quello hitleriano o di quello staliniano? I governi sia russo che ucraino non si sono d’altronde mai scusati ufficialmente con il popolo polacco per quei massacri né hanno portato in giudizio i funzionari del NKVD ancora vivi, co-esecutori degli omicidi. Negli ultimi anni, i rappresentanti del Partito russo nazional-bolscevico (che conta circa 8 mila membri) hanno auspicato — nell’ambito di una campagna antipolacca estre- mamente aggressiva — il «rinnovo» del patto Molotov-Ribbentrop. Essi sostengono, con- tro ogni evidenza e buon senso, che furono i tedeschi ad assassinare i militari polacchi a Katyń e in altre località50.

Epilogo

Il professor François Naville ha notevolmente contribuito, nella sua qualità di ri- conosciuto specialista in medicina legale e di perito di un paese neutrale, a fare chia- rezza sulle circostanze del massacro degli ufficiali polacchi a Katyń. Ebbe il coraggio di difendere — con il solo appoggio del Consigliere di Stato di Ginevra Albert Picot (che era d’altronde suo cugino e amico) — il suo punto di vista davanti a un deputato comunista molto aggressivo, e senza alcun sostegno da parte del CICR e del Dipartimento politico federale. Queste istituzioni agirono in un modo strettamente pragmatico, con l’unico scopo — sembrerebbe — di non offendere il governo sovietico e di evitare complicazioni di- plomatiche. Come i giudici del Tribunale di Norimberga, preferirono semplicemente “non sapere” chi fosse il responsabile del massacro di Katyń. Il professor Naville ha compiuto pienamente il suo dovere scientifico e civico, nel rispetto della deontologia professionale. Ha anche ricoperto un ruolo storico, decidendo di recarsi a Katyń, firmando assieme agli altri periti la relazione sulle osservazioni fatte

47 Uebergabe von Dokumenten zu Katyn an Polen. Stalins Politbüro für den Massenmord veran- twortlich, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 15/10/1992, p. 1; Dokumenty Katyńia. Decyzja, Inter- press, Warszawa 1992, p. 20, p. 28. 48 Polen und Russen gedenken des Massenmordes von Katyn, “NZZ Neue Zürcher Zeitung”, 29- 30/07/2000, p. 2. 49 KAZIMIERZ KARBOWSKI, Bogen um die Vergangenheit, “Der Bund”, 18/03/1999, p. 5. 50 E. GRUNER-ZARNOCH, Starobielsk w oczach ocalałych jeńców, Recto, Szczecin 2001, pp. 287-288.

poloniaeuropae 2010 137 François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...

nel corso delle autopsie e riaffermando in seguito la loro autenticità. Come già men- zionato, egli stesso chiarì, che con ciò non aveva «in alcun modo cercato di fare un fa- vore ai tedeschi, ma esclusivamente ai polacchi e alla Verità». Egli ha realmente reso un enorme servigio al popolo polacco e in particolare alla memoria di diverse migliaia di militari polacchi crudelmente assassinati. Per di più, in questa circostanza, ha salvaguardato l’onore della Svizzera. Stranamente, il governo della Polonia, ormai indipendente dal 1990, non ha sinora [marzo 2004] dato il giusto riconoscimento ai servigi resi dal professor Naville al popolo polacco. Questo oblio è forse inscritto nella natura umana? In effetti, già il 7 ottobre 1800 il barone Georges Cuvier, in un elogio pronunciato all’Istituto di Francia in onore di Louis-Guillaume Lemonnier, dichiarava: «Gli uomini sono ingiusti nella distribuzione della gloria. In effetti, riservano il primo posto nella loro memoria a coloro che gli uo- mini li hanno distrutti, il secondo a quelli che li hanno divertiti; a malapena ne rimane uno [di posto] per quelli che li hanno serviti»51.

Kazimierz Karbowski, dottore medico, è professore al Dipartimento di Neurologia del- l’Università di Berna, Svizzera. Come lui stesso spiega, ha scritto questo articolo, in quanto suo padre, il dottor Bronisław Karbowski di Varsavia, maggiore nelle truppe mediche dell’esercito polacco, fu assassinato all’età di 55 anni, nella primavera del 1940 — assieme a migliaia di altri prigionieri di guerra del campo di Starobilsk — a Char’kov, in Ucraina, dalla polizia politica sovietica NKVD. La sua email è: [email protected].

51 G. CUVIER, Eloge historique de Louis-G. Lemonnier, in Recueil des éloges historiques de l’Insti- tut Royal de France, tome premier, Levrault, Strasbourg-Paris 1819, pp. 83-107. Ringraziamenti [di K. KARBOWSKI]. La dottoressa Ewa Gruner-Zarnoch, di Szczecin in Polonia, presidente dell’Associa- zione delle famiglie delle vittime di Katyń, ha incoraggiato l’autore ad occuparsi di questo tema. Parecchie persone gli hanno accordato la loro preziosa collaborazione nel corso delle sue ricerche bibliografiche. Essi sono, in ordine alfabetico: Margrit Armoneit dell’archivio del giornale “Der Bund” a Berna; Fabrizio Bensi, archivista del CICR a Ginevra; Max e Elisabeth Broennimann di Fra- uenkappelen, vicino Berna; Pia Burkhalter, bibliotecaria dell’Istituto di storia della medicina del- l’Università di Berna; le collaboratrici del Servizio di documentazione del giornale “La Tribune de Genève”; Cora Couchepin, bibliotecaria della facoltà di Medicina dell’Università di Ginevra; Pierre Flückiger, assistente archivista, Archivio di Stato di Ginevra; Margrit Hirsi, Ufficio federale della salute pubblica, Sezione esami delle professioni mediche; Barbara Lothamer, di “Schweizerische Osteuropa-Bibliothek” a Berna; Philip Rieder, Istituto Louis Jeantet di Storia della medicina del- l’Università di Ginevra; Werner Schubert, professore di filologia classica dell’Università di Berna; Ruth Stalder degli Archivi federali svizzeri a Berna; Nicole Curti di Ginevra, Elisabeth Curti-Kar- bowski di Berna e Martine Konorski di Parigi, rispettivamente le nipoti e la figlia dell’autore, hanno corretto il testo francese. Infine il professor Gabriel Aubert di Ginevra, nipote del professor Fran- çois Naville, ha fornito all’autore importanti informazioni biografiche, e messo a sua disposizione una fotografia del professor Naville. A tutte queste persone, l’autore [K. K.] rivolge i suoi vivi e sentiti ringraziamenti.

138 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe» e la manipolazione della verità

di Paolo Morawski

Tra i suoi molti contributi alla sociologia politica e alla storiografia contemporanea Victor Zaslavsky (1937-2009) sarà ricordato per le sue originali riflessioni sul sistema sovietico, conosciuto dall’interno e studiato in tutte le fasi dell’ascesa, della stabilità, del crollo, delle conseguenze e del suo superamento. Non fosse che per le sue analisi sullo stalinismo, egli ha arricchito in maniera notevole il dibattito storiografico e poli- tico internazionale1. Particolarmente importante è stato, ad esempio, il suo contributo alla definizione e circolazione in un ambito sempre più vasto, a partire dalla fine degli anni Novanta, del concetto di «pulizia di classe» per definire quella politica dello Stato sovietico «di- retta alla soppressione o addirittura allo sterminio delle classi indesiderate», «nemi- che, aliene o semplicemente superflue»; tesa cioè alla eliminazione fisica di «corpi estranei e nocivi», di «interi gruppi sociali realmente esistenti e intere aggregazioni umane individuate sulla base di certe caratteristiche ascrittive e arbitrarie, suggerite dall’ideologia dominante del regime totalitario». L’esigenza ideologica del marxismo- leninismo di creare una società nuova attraverso «i metodi “scientifici” dell’igiene so- ciale e della “purificazione” dell’organismo sociale dal “contagio borghese”», si manifestò sin dai primi anni della Russia rivoluzionaria. Le vittime venivano eliminate non per quello che avevano fatto, «ma per quel che erano, cioè per essere nate nella classe sociale sbagliata». Lo stalinismo poi diede un’enorme spinta al terrore totali- tario, che divenne molto più esteso e “popolare”, nel senso che il concetto di «nemico di classe» fu «sostituito durante le grandi purghe degli anni 1936-1938 da un nuovo concetto di “nemico del popolo”, allargando così i limiti concettuali e l’applicazione pratica dell’azione repressiva». Il terrore di massa colpì e liquidò i cosiddetti kulaki, la categoria dei contadini agiati; ma distrusse anche — alla vigilia della seconda guerra mondiale — l’alto comando dell’esercito sovietico («oltre quarantamila ufficiali, so- prattutto di grado superiore»); ed eliminò pure — specie negli anni 1948-1953 — «una parte notevole» dell’élite culturale ebraica. La macchina del terrore di massa messa a punto nell’arco di oltre un ventennio in URSS contro i nemici interni fu «replicata e addirittura perfezionata» nel processo di so- vietizzazione dell’Europa orientale e dei paesi baltici, processo attuato in un arco di

1 Per un ritratto della personalità dell’uomo e dello studioso, si veda Ricordo di Victor Zaslavsky sul sito dell’AISSECO-Associazione italiana studi di storia dell’Europa centrale e orientale (http://host.uniroma3.it/associazioni/aissecoit/maestri/zaslavsky.htm).

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tempo concentrato «di circa tre-quattro anni» e realizzato «anche grazie al terrore to- talitario, la cui intensità era a volte superiore a quella in atto nell’Unione Sovietica»2. In questo contesto di estrema violenza vanno interpretati, secondo Victor Zaslavsky, i massacri compiuti dai sovietici durante la seconda guerra mondiale sul fronte occidentale, nel periodo in cui Hitler e Stalin erano alleati (1939-1941). Tali mas- sacri colpirono in particolare circa 22-25 mila «nemici di classe» polacchi già internati in campi di concentramento o detenuti in prigioni sovietiche: in maggioranza ufficiali e sottufficiali dell’esercito, della polizia, delle guardie di frontiera, della gendarmeria, in servizio attivo o riservisti; ma anche poliziotti, gendarmi, guardie carcerarie e di confine, agenti dei servizi segreti e del controspionaggio; quindi intellettuali, profes- sori universitari, insegnanti, funzionari e alti funzionari, proprietari terrieri, imprendi- tori, preti cattolici; infine «membri di varie organizzazioni controrivoluzionarie e di resistenza e di diversa matrice controrivoluzionaria, traditori, spie e sabotatori». Il più noto di questi massacri fu quello avvenuto nella foresta di Katyń nella primavera del 1940, in quanto i corpi di oltre 4 mila ufficiali polacchi uccisi con un colpo di pistola alla nuca e poi seppelliti in fosse comuni vennero trovati nel 1943 dai nazisti, allorché a loro volta essi occuparono quelle aree dopo aver attaccato l’URSS nell’estate del 1941. Ma per “massacro di Katyń” s’intende oggi, per estensione, l’insieme dei 22-25 mila polacchi uccisi dai sovietici in varie località dell’URSS tra il 1939 e il 1941. La scoperta nazista del 1943 fu l’inizio di una guerra di propaganda e disinforma- zione destinata a durare decenni. I tedeschi accusarono immediatamente i sovietici del crimine, e a ragione. Ma il regime staliniano cercò di scaricare la responsabilità per il massacro sui tedeschi, orchestrando una campagna di falsificazione, cui gli alleati du- rante la guerra non ritennero di opporsi — un atteggiamento di connivenza che perdurò anche nel dopoguerra (soprattutto da parte britannica) per ragioni di opportunità, per Realpolitik e, soit disant, per “favorire la distensione”. In URSS i documenti compro- vanti la colpa sovietica furono nascosti nell’archivio supersegreto del Politbjuro e tutti i successivi governi sovietici fino a Michail Gorbačëv rifiutarono di ammetterne l’esi- stenza. Per Victor Zaslavsky studiare Katyń fu forse “un obbligo morale”: «Ho sempre pen- sato che dovesse essere proprio un russo a riportare per primo alla luce quelle vicende», disse una volta3. Basandosi sui documenti resi pubblici soltanto dopo lo scioglimento del- l’Unione Sovietica, in un saggio breve e incisivo — Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 19984; poi ampliato e arricchito di ulteriori documenti nel frattempo venuti alla luce, in: Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bolo-

2 Tutte le precedenti citazioni sono tratte da VICTOR ZASLAVSKY, Il nemico oggettivo: il totalitarismo sovietico e i suoi bersagli interni, in GULag. Il sistema dei Lager in URSS, a cura di Marcello Flores, Francesca Gori, Mazzotta, Milano 2002, pp. 29-37. 3 Citato da PIERLUIGI MENNITTI, Ricordo di Victor Zaslavsky, nel blog «Walking class», venerdì 27 no- vembre 2009 (http://walkingclass.blogspot.com/2009/11/ricordo-di-victor-zaslavsky.html). 4 Si veda anche VICTOR ZASLAVSKY, The Katyn Massacre: Class Cleansing as Totalitarian Praxis, «Telos», n. 14, Winter 1999, pp. 67-107.

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gna 2006 (ultima edizione 2009) — lo storico russo ricostruì l’intera vicenda trattandola come un caso esemplare, appunto, della politica di «pulizia di classe» condotta dal re- gime totalitario staliniano nei paesi della sua orbita. Per definire questo specifico crimine era essenziale per Zaslavsky sottolineare «il ruolo dell’ideologia come guida per il terrore». Il «classicidio» operato a Katyń andava distinto dalla pulizia etnica, da altre forme di violenza e da altri massacri. E neppure poteva definirsi come un genocidio, seppur “selettivo”. A differenza dell’Olocausto nazista, infatti, «le repressioni non erano dirette contro i polacchi in quanto tali, bensì contro alcune categorie all’interno della società polacca», ovvero contro «tutti i nemici giurati del potere sovietico, pieni di odio verso il sistema sovietico», «nemici inveterati e incorreggibili del potere sovietico» — per usare il linguaggio sovietico dei documenti dell’epoca. Contro questi prigionieri di guerra polacchi, il capo della poli- zia segreta Lavrentij Pavlovič Berija chiese una «soluzione finale» ossia l’applicazione della «più alta misura punitiva: la fucilazione». Non solo, ma con la stessa «procedura speciale» tutta la fascia lungo la linea di confine tra URSS e Reich avrebbe dovuto es- sere «ripulita» e le famiglie delle vittime — «donne, bambini e vecchi, i cui beni erano stati confiscati» — deportate per dieci anni nell’Asia sovietica. L’esecuzione della classe dirigente polacca nell’aprile 1940 nei vari Katyń, scriveva pertanto Zaslavsky, «può essere compresa appieno soltanto se la si considera come un episodio del gene- rale processo di “pulizia di classe” cui furono sottoposti i territori polacchi caduti sotto il dominio sovietico»5. Pulizia di classe di rara intensità ed estensione dal momento che in circa 20 mesi (settembre 1939-giugno 1941) almeno mezzo milione di polacchi abi- tanti nelle terre orientali della Polonia invase dall’URSS subì imprigionamenti, depor- tazioni e fucilazioni. Nel dibattito ancora aperto sui totalitarismi, dunque, «il massacro di Katyń rap- presenta un caso emblematico della politica di “pulizia di classe”, come Auschwitz di quella di “pulizia etnica”»6.

Victor Zaslavsky considerava Katyń un caso esemplare anche sul piano della dure- vole opera di manipolazione della storia e della memoria, manipolazione continuata fino al crollo dell’impero sovietico: «una gigantesca operazione di falsificazione, oc- cultamento e rimozione della verità che non ha paragoni nella storia contemporanea»7. Non a caso la prima versione di Pulizia di classe insisteva già nel titolo sul binomio cri- mine e menzogna. L’ultima versione dedica al rapporto tra la verità, il silenzio e le «montagne di bugie e di disinformazione» tutta la seconda parte del libro (pp. 61-127)8.

5 Citazioni da VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bologna 2006, in particolare dal capitolo III, Il classicidio o la pulizia di classe, pp. 49-60. 6 Ivi, p. 11. 7 Ivi, p. 7. 8 Nel dettaglio, i capitoli: IV (Il massacro di Katyn: la ricerca dei responsabili), V (La menzogna so- vietica e la complicità occidentale), VI (Politici e storici di fronte alla versione ufficiale sovietica), VII (Il silenzio di Gorbaciov), VIII (Il caso Katyn: una lezione per la storiografia e per la politica).

poloniaeuropae 2010 141 Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe»...

A più riprese quantità di documenti importanti sul caso Katyń vennero distrutti dai dirigenti sovietici per non lasciare “alcuna traccia”. Si tratta di una questione non se- condaria che Zaslavsky analizzò in dettaglio, in relazione tra l’altro a una lettera che il capo del KGB Aleksander Šelepin scrisse il 3 marzo 1959 a Nikita Sergeevič Chruščёv, primo segretario del Comitato centrale del PCUS. Lettera particolarmente significativa perché le argomentazioni di Šelepin convinsero il Politbjuro a distruggere molti docu- menti compromettenti, in particolare i fascicoli personali degli ufficiali polacchi. Victor Zaslavsky ha definito questa lettera «uno dei più impressionanti documenti sulla tecnologia dell’organizzazione e del mantenimento della menzogna nella storia contemporanea». Egli ha pienamente ragione nel scrivere che: «La lettera di Šelepin dovrebbe entrare nei manuali di storia come monito affinché non si perda la capacità critica davanti alle “versioni ufficiali” degli avvenimenti». Al suo seguito, «la citiamo per intero»9.

Lettera sull’eliminazione dei prigionieri polacchi di Aleksandr Šelepin, capo del KGB, a Nikita Sergeevič Chruščёv, primo segretario del Comitato cen- trale del PCUS, scritta il 3 marzo 195910

Segretissimo Al compagno Chruščёv N.S.

Il Comitato per la Sicurezza di Stato presso il Consiglio dei Ministri dell’URSS dal 1940 conserva fascicoli individuali e altri materiali riguardanti i prigionieri e gli ufficiali internati, i gendarmi, gli agenti di polizia, i proprietari terrieri ecc., rappresentanti della Polonia ex borghese fucilati lo stesso anno. Secondo le disposizioni della speciale trojka del NKVD dell’URSS furono fucilati 21.857 uomini, di cui: nel bosco di Katyn (pro- vincia di Smolensk) 4.421 uomini, nel campo di Starobilsk vicino Char’kov 3.820 uomini, nel campo di Ostaškov (provincia di Kalilin) 6.311 uomini, mentre 7.305 uomini furono fucilati negli altri campi e nelle prigioni dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale. L’intera operazione per l’eliminazione delle persone suddette è stata condotta sulla base della Delibera del CC del PCUS del 5 marzo 1940. I detenuti sono stati condannati alla massima pena sulla base dei fascicoli indivi- duali in archivio riguardanti il loro status di prigionieri di guerra e internati nel 1939.

9 In VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe..., op. cit., p. 79 e p. 82. 10 Ivi, pp. 79-81. Nella nota 22 di p. 83 l’autore precisa che «La lettera si trova in APRF [Archivio del presidente della Federazione Russa], f. 3, busta sigillata n. 1. Pubblicato in «Voprosy istorii», 1993, n. 1, pp. 20-21 (trad. di M.G. Perugini)». Ringrazio vivamente Elena Aga-Rossi per avermi au- torizzato a riproporre questo eccezionale documento in questa sede.

142 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Dal momento in cui è stata eseguita l’operazione suddetta, cioè dal 1940, non sono state fornite ad alcuno informazioni su questi fatti e tutti i fascicoli individuali, per un totale di 21.857, sono conservati in un locale sigillato. Per gli organi sovietici, questi fascicoli individuali non presentano alcun interesse operativo né valore storico. È difficile che possano avere un interesse effettivo per i nostri amici polacchi. Al contrario, circostanze imprevedibili, possono condurre alla rivelazione dell’operazione compiuta, con tutte le conseguenze spiacevoli per il nostro Stato. Tanto più che relativamente alle fucilazioni nel bosco di Katyn esiste una versione ufficiale, confermata dall’inchiesta avviata per iniziativa degli organi del potere sovietico nel 1944 dalla Commissione chiamata: «Commissione speciale per l’accerta- mento e l’indagine della fucilazione compiuta dagli invasori nazifascisti degli ufficiali polacchi prigionieri di guerra nel bosco di Katyn». Secondo le conclusioni di questa commissione, tutti i polacchi liquidati sono stati eliminati dagli occupanti tedeschi. I materiali dell’inchiesta hanno avuto in quel periodo larga diffusione sulla stampa sovietica e straniera. Le conclusioni della com- missione si sono solidamente radicate nell’opinione pubblica internazionale. A partire da quanto esposto risulta opportuno distruggere tutti i fascicoli individuali riguardanti le persone fucilate nel 1940 nell’operazione suddetta. Per rispondere alle possibili richieste di informazioni del CC del PCUS o del governo Sovietico si possono tenere i protocolli della seduta della trojka del NKVD dell’URSS, che ha condannato le persone in oggetto alla fucilazione, e gli atti riguar- danti l’esecuzione delle decisioni della trojka. Il numero di questi documenti è esiguo, e si possono conservare in una cartella speciale. In allegato la proposta di delibera del CC del PCUS.

Il Presidente del Comitato per la Sicurezza di Stato presso il Consiglio dei Ministri dell’URSS A. Šelepin

poloniaeuropae 2010 143 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

I russi e Katyń oggi1

di Joanna Żelazko

Traduzione di Alessandro Amenta

Sono da poco trascorsi settant’anni dal massacro dei sottufficiali e degli ufficiali dell’esercito polacco e del Corpo di difesa di frontiera, dei poliziotti e dei funzionari della Guardia carceraria. Furono condannati a morte senza un regolare processo in quanto «elementi controrivoluzionari irrecuperabili», con decisione del 5 marzo 1940 dei membri del Politbjuro del Comitato centrale del Partito comunista di tutta l’Unione (quello bolscevico) sulla base dell’art. 58 punto 13 del codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa del 1929. Secondo le autorità sovietiche erano «nemici accaniti e incorreggibili dell’autorità sovietica»2 e pertanto meritavano un si- mile trattamento. Vennero uccisi dai funzionari del Commissariato del popolo degli Affari Interni [d’ora in poi, NKVD] nel bosco vicino Katyń, a Pjatihatki nei pressi di Char’kov e a Kalinin (l’attuale Tver’). Il luogo di sepoltura dei corpi venne scrupolosamente ma- scherato in modo che il massacro restasse segreto. Per molto tempo non si è saputo nulla del destino dei polacchi rinchiusi nei cosiddetti campi speciali. È vero che la scoperta dei corpi degli ufficiali polacchi nel bosco di Katyń da parte dei tedeschi nella primavera del 1943 pose fine alla ricerca degli “scomparsi”, ma allo stesso tempo dette inizio alla controversia su chi fossero i responsabili del massacro. Nei decenni successivi, su questo argomento circolarono due opinioni discordanti. La prima, diffusa in “Occidente”, sostenuta dall’emigrazione polacca e confermata dalla stampa illegale in Polonia, accusava del massacro i sovietici. La seconda, imposta dall’URSS, rappresentava la versione ufficiale in Polonia e nei paesi dell’Europa cen- trorientale: sosteneva che i responsabili fossero i tedeschi3. L’atteggiamento delle autorità sovietiche iniziò a cambiare con l’accordo del 21 aprile 1987 sulla creazione di una Commissione polacco-sovietica per il chiarimento di problemi di natura storica. Una delle questioni aperte era proprio l’uccisione degli ufficiali polacchi nei campi speciali. Nel luglio del 1988 il segretario generale del Co- mitato centrale del Partito comunista sovietico Michail Gorbačëv incontrò una rappre- sentanza di intellettuali polacchi al Castello reale di Varsavia. In quell’occasione

1 Una versione più ampia di questo articolo si trova nel libro W kręgu historii Europy Wschodniej. Studia i szkice, a cura di Paweł Chmielewski, Albin Głowacki, Łódź 2010. Si ringrazia Joanna Żelazko per la gentile concessione. Sul tema si veda anche J. ŻELAZKO, Pamięć i propaganda. Sprawa Katy- nia po 1945 r., in Represje Sowieckie Wobec Narodów Europy 1944-1956, a cura di Rogut Dariusz, Adamczyk Arkadiusz, Atena, Zelów 2005, pp. 393-426. 2 S. JACZYŃSKI, Polscy jeńcy wojenni w ZSRR. Wrzesień 1939-maj 1940, cz. II, WPH 1996, n. 3, pp. 330-331. 3 J. ŻELAZKO, Pamięć i propaganda. Sprawa Katynia po 1945 r., in Represje sowieckie Wobec Naro- dów Europy 1944-1956, a cura di D. Rogut e A. Adamczyk, Zelów 2005, pp. 394-426.

poloniaeuropae 2010 145 I russi e Katyń oggi

affermò che negli archivi sovietici non c’era alcuna traccia di documenti sul massacro di Katyń. I materiali resi noti negli anni successivi dimostrarono che questa tesi, diffusa strenuamente dall’URSS, era una menzogna e che i lavori della Commissione servivano solo a creare l’apparenza di una “ricerca della verità”. Alla fine degli anni Ottanta, il massacro di Katyń era un argomento che la stampa sovietica affrontava difficilmente. Aleksej Pamjatnych scrisse alcune lettere aperte ai quotidiani. Solo la redazione di “Moskovskie Novosti” dimostrò interesse verso questo tema. In un numero dell’aprile del 1989 pubblicò un articolo di Pamjatnych e Akuličev intitolato Katyn’: podtverdit’ ili oprovergnut’ [Katyń: confermare o smentire], che però non suscitò alcuna reazione da parte delle autorità. Lo stesso quotidiano pubblicò anche O čem molčit Katyňskij les? [Cosa tace il bosco di Katyń?] di Gennadij Žavoronkov. Nel- l’articolo venivano riportate le testimonianze di Michail Krivožercov e Aleksander Kosi- ński sul fatto che dal 1935 al 1941 le unità speciali dell’NKVD avevano ucciso uomini di diverse nazionalità nel bosco di Katyń. Ciò confermava che anche nel 1940 erano avve- nute esecuzioni di massa in quel luogo. Una svolta nella ricerca della verità si ebbe poco prima del crollo dell’URSS. Nel 1990 gli atti dell’Archivio speciale e dell’Archivio centrale di Stato della Direzione ge- nerale degli archivi presso il Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica furono messi a disposizione degli storici sovietici. Tra loro c’erano Natal’ja Lebedeva, Valentina Par- sadanova e Jurij Zoria. Quello stesso anno venne firmata anche la Dichiarazione di col- laborazione in materia di cultura, scienza ed educazione, grazie alla quale gli storici e gli archivisti polacchi ottennero un accesso limitato agli archivi sovietici. Ufficialmente ottennero l’autorizzazione a cercare materiali riguardanti la sorte dei prigionieri di guerra e degli internati nei campi sovietici di nazionalità polacca. Un effetto della maggiore libertà di ricerca fu la scoperta da parte degli studiosi so- vietici di materiali interessanti. Nel marzo del 1990 la stampa sovietica pubblicò un comu- nicato sul ritrovamento da parte dalla professoressa Lebedeva di nuovi documenti che confermavano la fucilazione degli ufficiali polacchi da parte dell’NKVD, pubblicati due mesi dopo sul mensile “Meždunarodnaja žizn’”. Anche se oggi questi documenti non sono consi- derati particolarmente importanti, perché non documentano direttamente il massacro, Le- bedeva era riuscita comunque a trarne le giuste conclusioni. Dopo averli confrontati con i materiali di altri archivi, aveva finalmente rintracciato informazioni che confermavano la responsabilità dell’NKVD. Lebedeva aveva trovato una disposizione del 28 gennaio 1940 in cui il generale Vasil’ij Ulrich, capo del Collegio militare della Corte suprema dell’URSS, or- dinava che i prigionieri di guerra fossero giudicati dai tribunali militari dell’NKVD. Anche i documenti dell’Archivio centrale di Stato e dell’Archivio centrale di Stato dell’Armata rossa costituiscono una prova che dall’autunno del 1939 alla primavera del 1940 i polacchi erano rinchiusi nei campi di Kozielsk, Starobel’sk [oggi Starobilsk] e Ostaškov per poi essere affi- dati alla direzione dell’NKVD dei distretti di Smolensk, Char’kov e Kalinin. Dopo aver par- lato sinteticamente delle sue scoperte sulla stampa, Lebedeva le espose in maniera più approfondita nel libro Katyn’: Prestuplenie protiv čelovečestva [Katyń: un massacro con- tro l’umanità] del 1994, pubblicato nel 1997 anche in Polonia4.

4 N. LEBIEDIEWA [N. LEBEDEVA], Katyń — zbrodnia przeciwko ludzkości, Warszawa 1997.

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Nel 1990 la questione di Katyń venne trattata su quattro numeri di “Vojenno Isto- ričeski Žurnal”. Uno degli articoli più interessanti era Nurinberskij bumerang [Il bume- rang di Norimberga] di Jurij Zoria, in cui l’autore metteva a confronto documenti dell’Archivio speciale con pubblicazioni occidentali e materiali del Tribunale militare in- ternazionale di Norimberga5. Vale la pena notare che in quello stesso periodo “Vojenno Istoričeski Žurnal” pubblicò anche degli articoli sui soldati sovietici fatti prigionieri dai polacchi negli anni 1919-1920. L’improvviso interesse verso questo argomento era chia- ramente una “risposta” alle numerose pubblicazioni sul massacro di Katyń. In una di- sposizione del 1990 Gorbačëv ordinava infatti all’Accademia delle scienze e al Comitato di sicurezza nazionale di «cercare, insieme ad altre istituzioni e organizzazioni, qua- lunque materiale che dimostri le colpe dei polacchi e che possa costituire un contrap- peso alla questione di Katyń»6. Questo testimonia che l’ostacolo maggiore alla “scoperta” di documenti su Katyń era l’ostilità delle autorità sovietiche e non il fatto che realmente questi materiali non esistessero. Gli autori delle “scoperte” scelsero di pubblicarli prima sulla stampa perché rappresentava il mezzo d’informazione più veloce per raggiungere un pubblico di massa. Sin dagli inizi della sua attività, l’associazione Memorial7, registrata nel 1989, ha cer- cato di chiarire diversi aspetti del massacro di Katyń. Ancora oggi, collabora con organiz- zazioni non governative polacche per presentare una valutazione corretta, da un punto di vista morale, dei crimini commessi sui prigionieri di Kozielsk, Starobel’sk e Ostaškov. Cerca anche di scoprire e trasmettere ai polacchi qualunque documentazione riguardante Katyń. Cerca infine di ridare dignità alle vittime e di ottenere un risarcimento per le loro famiglie. A fronte del numero sempre maggiore di pubblicazioni, anche nella stampa sovietica, sui crimini commessi contro i prigionieri di guerra polacchi, le autorità sovietiche rico- nobbero che era inutile continuare a nascondere la documentazione su Katyń. Il 13 aprile 1990, attualmente celebrato come Giornata mondiale di Katyń, a Mosca venne pubbli- cata una dichiarazione dell’agenzia TASS8. Il comunicato confermava la responsabilità dell’NKVD per lo sterminio degli ufficiali polacchi nella primavera (da aprile a giugno) del 1940. Vennero incolpati personalmente Lavrentij Berija e Vsevolod Merkulov. Il comunicato mentiva dicendo che solo «recenti ricerche d’archivio» avevano permesso di accertare l’identità dei responsabili del massacro. In ogni caso si trattò di una grande novità: per la prima volta dopo mezzo secolo le autorità sovietiche rendevano pubblica la verità e ammettevano le proprie colpe per il massacro di Katyń. In realtà, i documenti più importanti su Katyń erano sempre stati nelle mani del presidente sovietico. Un anno prima, il 22 marzo 1989, Eduard Ševardnadze, Valentin Falin e Vladimir Krjučkov ave- vano creato presso il Comitato centrale del Partito un file segreto denominato Sul pro-

5 JU. N. ZORIA, Niurinberskij bumierang, “Wojenno-Istoriczeskij Żurnał”, 1990, 6, pp. 47-57. 6 I. JAŻBOROWSKA [I. JAŽBOROVSKAJA], Kierunki i poglądy w historiografii rosyjskiej w sprawie zbrodni katyńskiej, in Zbrodnia katyńska w oczach współczesnych Rosjan, Warszawa 2007, pp. 47-48. 7 Obscestvo Memorial: associazione che si occupa di studi storici, della diffusione di informazioni sulle vittime delle repressioni staliniste e sovietiche e della difesa dei diritti umani nei paesi del- l’ex URSS. 8 Oświadczenie TASS w sprawie odpowiedzialności za zbrodnię w Lesie Katyńskim, WPH 1990, 1-2, pp. 363.

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blema di Katyń. Essi non avevano dubbi sul fatto che il protocollo della Commissione Burdenko mentisse e proponevano che le autorità valutassero se non fosse meglio sve- lare la verità. Sempre il 13 aprile 1990 Michail Gorbačëv trasmise al presidente polacco Wojciech Jaruzelski la prima parte dei materiali riguardanti i prigionieri di guerra polacchi in URSS. Si trattava delle prime due cartelle contenenti la corrispondenza e le annotazioni di diversi anelli dell’NKVD e 45 elenchi con i nomi dei prigionieri di Kozielsk, inviati al comando del campo dalla Commissione dell’NKVD sui prigionieri di guerra. Tutti gli elenchi erano datati aprile e maggio 1940. Tra i materiali trasmessi c’erano anche documenti riguardanti i prigionieri di guerra di Starobel’sk e Ostaškov. Questa era la prova che fino a quel momento i russi avevano mentito sulla sorte dei po- lacchi rinchiusi nei campi speciali. Il 22 giugno 1990 le autorità polacche ricevettero ulteriori documenti riguardanti questioni connesse all’organizzazione dei luoghi di iso- lamento e alla creazione di un elenco di tutti i prigionieri. I sovietici acconsentirono anche a effettuare delle ricerche nella regione di Char’kov e Mednoe. Le esumazioni, che vennero portate avanti dal 25 luglio al 30 agosto 1991, confermarono che in quei luoghi erano stati sepolti i polacchi internati nei campi di Starobel’sk e Ostaškov. Poco dopo questi avvenimenti, nel 1991 uscì il libro di Vladimir Abarinov intitolato Katynskij labirint. L’autore aveva esaminato la documentazione degli eserciti dell’NKVD che scortavano i detenuti e aveva confrontato le mansioni da loro svolte nella primavera del 1940 con le date in cui i prigionieri polacchi erano stati portati via dai campi speciali. Ne aveva dedotto che questi soldati avevano il compito di scortare i prigionieri al luogo della loro fucilazione. Tuttavia non potevano essere loro gli assassini, visto il tempo limi- tato di cui disponevano. Questo era invece compito dei funzionari delle strutture locali dell’NKVD9. Abarinov aveva anche intervistato i testimoni degli avvenimenti e aveva uti- lizzato informazioni contenute nelle lettere giunte alla redazione di “Literaturnaja Ga- zeta”. Queste nuove conclusioni spiegavano alcuni particolari del massacro, soprattutto rispetto ai suoi esecutori diretti. L’edizione polacca del libro è stata pubblicata nel 200710. I documenti trasmessi il 14 ottobre 1992 al presidente polacco Lech Wałęsa permisero di vedere gli avvenimenti sotto una luce completamente nuova11. Le autorità sovietiche avevano deciso di rendere noti i materiali più importanti su Katyń, ma men- tirono nuovamente dicendo di averli appena scoperti. In questo modo cercavano di can- cellare il fatto che sino a quel momento ne avevano negato l’esistenza. Tra questi c’era il fondamentale Pacchetto 1, contenente la proposta di Berija di sterminare 25.700 prigionieri di guerra polacchi e un estratto del protocollo della seduta del Politbjuro del 5 marzo 1940, durante la quale tale proposta era stata accolta ed erano state stabilite le modalità con cui metterla in atto. Altri trenta documenti illustravano come la verità sul massacro era stata insabbiata fino al 1989. I criteri con cui erano stati selezionati questi materiali non vennero rivelati, ed era chiaro che la documentazione trasmessa era incompleta.

9 V. A BARINOV, Katynskij labirint, Moskva 1991, p. 40. 10 W. ABARINOW [V. ABARINOV], Oprawcy z Katynia, Znak, Kraków 2007, pp. 245-291. 11 Katyń. Dokumenty ludobójstwa. Dokumenty i materiały archiwalne przekazane Polsce 14 paźd- ziernika 1992 r., Warszawa 1992.

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Nel novembre 1992 una delegazione polacca a Mosca acquisì nuovi materiali d’ar- chivio riguardanti la sorte dei polacchi nei territori orientali negli anni 1939-1951. Si trattava di cinquantanove documenti sul funzionamento dei campi di prigionia, sul tra- sporto in URSS degli ufficiali e dei soldati polacchi internati in Lituania, sullo scambio di prigionieri di guerra tra URSS e Terzo Reich. Una parte dei documenti acquisiti dalla Direzione generale degli archivi di Stato polacchi e dalla Commissione militare per gli archivi è stata pubblicata a cura di un team di studiosi polacco-russi nei quattro volumi di Katyń. Dokumenty zbrodni [Katyń. Documenti di un massacro]12. Poiché la Polonia era ormai entrata in possesso di un numero elevato di documenti sul massacro di Katyń, la Procura polacca e il ministero della Giustizia chiesero alle forze di po- lizia sovietiche di avviare un’indagine. In seguito alle insistenze dei polacchi, nella prima- vera del 1990 le procure di Char’kov in Ucraina e di Tver’ in Russia aprirono un’indagine. Sei mesi dopo, a cavallo tra ottobre e novembre, azioni simili vennero intraprese dalla Procura militare generale dell’Unione Sovietica. I lavori vennero diretti dal colonnello Aleksandr Tre- teckij. Parallelamente, i procuratori polacchi raccolsero materiali che potevano essere d’aiuto nell’indagine e li trasmisero all’Unione Sovietica. Presso la Procura generale della Re- pubblica di Polonia queste operazioni vennero coordinate dal procuratore Stefan Śnieżko. Tra i circa mille testimoni interrogati nel corso dell’indagine, le testimonianze più importanti si rivelarono quelle di Mitrofan Syromjatnikov, che negli anni 1939-1941 era stato consigliere anziano della prigione interna dell’NKVD a Char’kov13, e Dmitrii S. Tokarev, nel 1940 capo del- l’NKVD di Kalinin (Tver’). Quest’ultimo raccontò con pedante minuzia lo svolgimento del massacro, fornendo dettagli tecnici e organizzativi14. Non tutti i testimoni, però, si dimo- strarono così collaborativi. Il maggiore Pëtr K. Soprunenko, capo del Consiglio per i prigio- nieri di guerra, disse ai procuratori: «non sono a conoscenza degli ordini della dirigenza dell’NKVD sull’eliminazione di prigionieri di guerra polacchi»15. Considerata la posizione ri- coperta da Soprunenko nel 1940, grazie alla quale poteva avere accesso a documenti se- greti, queste affermazioni sembrano del tutto assurde. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la nascita della Federazione Russa, l’indagine passò nelle mani della Procura generale russa, sotto la direzione del sottocolonnello Anatolij Jablokov, a cui venne affidata nella primavera del 1992. Dopo quattordici anni, l’indagine fu archiviata il 21 settembre 2004. Nessuno venne accusato. La Russia non riconosce il massacro di Katyń come genocidio16, ma solo come crimine comune ormai

12 Katyń. Dokumenty zbrodni: t. 1, Jeńcy niewypowiedzianej wojny. Sierpień 1939 — marzec 1940, a cura di W. Materski, Warszawa 1995; t. 2, Zagłada. Marzec — Czerwiec 1940, a cura di W. Mater- ski e A. Belerska, Warszawa 1998; t. 3, Losy ocalałych. Lipiec 1940 — marzec 1943, a cura di W. Ma- terski e A. Belerska, Warszawa 2001; t. 4, Echa Katynia. Kwiecień 1943 — marzec 2005, a cura di W. Materski e A. Belerska, Warszawa 2006. 13 Zeznania Syromiatnikowa, WPH 1995, 1-2, pp. 423-438. 14 Zeznanie Tokariewa, a cura di M. Tarczyński, “Zeszyty Katyńskie”, n. 3, 1994. 15 M. HARZ, Pierwsze zeznanie Soprunienki, in II półwiecze zbrodni. Katyń — Twer — Charków, Warszawa 1995, p. 144. 16 Con un decreto del 9 XII 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha accolto la Conven- zione per la prevenzione e la repressione del crimine per genocidio, in cui si afferma che: «per genocidio si intende ciascuno degli atti […] commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».

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caduto in prescrizione. Pertanto la procura russa non muoverà alcuna accusa, sebbene nel corso del procedimento siano state accertate le generalità degli esecutori diretti e questi siano tuttora in vita. Purtroppo non sappiamo neppure se e chi sia stato ricono- sciuto come potenziale esecutore, perché agli inizi del marzo del 2005 la Procura mili- tare della Federazione Russa, nonostante le promesse fatte, si è rifiutata di trasmettere alla Polonia una copia dei 183 tomi degli atti d’indagine. I russi hanno dichiarato che 116 di questi tomi sono coperti dal segreto di Stato e pertanto non possono essere messi a disposizione dei polacchi. La procura non ha rivelato neppure i nomi dei responsabili del massacro, perché le loro generalità si trovano nei documenti segreti. I russi hanno avuto paura di assumersi la responsabilità morale per il massacro di Katyń, perché que- sto avrebbe gettato un’ombra sulla potenza e i successi dell’Unione Sovietica. Inoltre, c’era il rischio che questo costituisse un precedente per altri crimini risalenti allo stesso periodo e potesse dare il via ad eventuali rivendicazioni finanziarie da parte delle famiglie delle vittime. Ufficialmente la Russia annovera il massacro di Katyń tra i crimini comuni. In verità il punto b dell’art. 3 della legge della Federazione Russa del 18 ottobre 1991 pre- vede che le vittime di repressioni politiche vengano riabilitate per legge. Tuttavia, anche se la Polonia ritiene che i prigionieri di guerra uccisi a Katyń, Char’kov e Tver’ meritino di essere riconosciuti innocenti almeno post-mortem, le autorità russe sono di parere contrario. Per questo motivo il Comitato di Katyń17 ha presentato una denuncia per omicidio all’Istituto della memoria nazionale [Instytut Pamięci Narodowej, IPN]. Sulla base di questa denuncia, il 30 novembre 2004 l’IPN ha avviato un’indagine su «omicidi di massa per fucilazione commessi su non meno di 21.768 cittadini polacchi». Lo scopo principale del procedimento è stabilire l’elenco completo delle vittime, i nomi dei responsabili del crimine (dai mandanti agli esecutori diretti), le circostanze riguardanti la decisione di eliminare i polacchi e la sua realizzazione. Purtroppo i tribunali polacchi non hanno la possibilità di condannare i colpevoli anche se ne venisse accertata l’identità e se fossero ancora vivi, perché la legge russa non consente l’estradizione dei suoi cittadini agli organi di giustizia di altri paesi18. Le famiglie delle vittime stanno cercando di ottenere dai tribunali russi la riabilitazione di singoli individui. Questo creerebbe un precedente giuridico e permetterebbe di ottenere sentenze simili per le altre vittime di questo crimine. Sinora questi tentativi non hanno avuto alcun successo. Al contrario, nell’ottobre del 2008 il procuratore militare russo Igor Blizejev ha affermato che «alcuni ufficiali polacchi uccisi a Katyń potevano essere spie, sabotatori e terroristi, pertanto esistevano le basi per una loro repressione»19.

17 Il Komitet Katyński (Federacja Rodzin Katyńskich) è una Ong polacca nata nel 1992 che ha per finalità di raccogliere gli sforzi di quanti in Polonia mantengono viva la memoria delle vittime po- lacche di tutti i crimini commessi dai sovietici. Tra le iniziative più note promosse dalla Federa- zione, l’apertura dei cimiteri militari polacchi a Katyń, Mednoe e Char’kov (n.d.r.). 18 S. KALBARCZYK, Zbrodnia. Droga do prawdy. Kara? Katyń po 65 latach, “Biuletyn IPN”, n. 5-6 (52- 53), 2005 p. 70. 19 P. K OŚCIŃSKI, Dywersanci z Katynia, “Rzeczpospolita”, 25-10-2008, n. 251 (5182).

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Per i lettori russi una pubblicazione importante è stata sicuramente Katyn’. Pre- stuplenie v range gosudarstvennoj tajny [Katyń. Un crimine coperto dal segreto di Stato] di Inessa Jažborovskaja, Anatolij Jablokov e Jurij Zoria, pubblicato anche in Polonia nel 1998. Questo libro ha permesso ai russi di conoscere la storia delle men- zogne sul massacro di Katyń mostrando come le informazioni su questa vicenda siano state insabbiate e falsificate dalle autorità sovietiche dal 1944 fino al 1990 e come, alla fine, la verità sia stata svelata. Essendo stato scritto da studiosi e giornalisti russi, questo libro ha maggiori possibilità di raggiungere i lettori russi rispetto a quelli di autori stranieri20. In un altro libro pubblicato nel 2007, Jažborovskaja, Jablokov e Parsadanova hanno attuato un’interessante analisi dei rapporti polacco-sovietici e polacco-russi sulla que- stione di Katyń. Gli autori si sono concentrati sul periodo iniziale e su quello finale, esaminando la situazione geopolitica della Polonia dal 1939 alla fine della seconda guerra mondiale e la politica staliniana nei confronti dei polacchi, per arrivare sino al- l’insabbiamento e poi al chiarimento degli aspetti controversi della vicenda negli anni Novanta21. Gli autori concludono che per far evolvere in maniera costruttiva i rapporti russo-polacchi è necessario liberarsi dell’eredità del totalitarismo, anche se questo richiederà tempo e buona volontà da entrambe le parti. Molti storici e giornalisti russi che si occupano della vicenda di Katyń pubblicano i loro lavori anche in polacco. Que- sto non solo consente di diffondere le loro idee in Polonia, ma è una conferma che pure gli studiosi russi si impegnano a svelare la verità. Anche i siti internet russi si occupano dell’argomento, che in questo modo rag- giunge un pubblico giovane. Nel 1999 Jurij Krasilnikov ha creato un sito interamente dedicato a Katyń che contiene le domande più frequenti sul massacro, articoli e fram- menti di libri, copie di documenti, mappe e fotografie. Ma non è l’unico. Esiste anche il sito di Aleksej Pamjatnych e Sergej Romanov che contiene principalmente documenti riguardanti il massacro e fotografie delle recenti esumazioni, come quelle avvenute a Mednoe. C’è anche il sito di Sergej Strygin, un seguace della versione di Muchin, secondo il quale l’NKVD non è responsabile del massacro di Katyń. Esistono anche i siti ufficiali di organizzazioni e associazioni, come Memorial, dei complessi cimiteriali di Katyń e Mednoe, dei difensori dei diritti umani. Purtroppo, accanto a studiosi e giornalisti impegnati attivamente a scoprire e dif- fondere la verità, in Russia esistono persone che non solo dubitano delle responsabilità dei funzionari dell’NKVD e delle autorità sovietiche, ma cercano anche di dimostrare che i responsabili del massacro sono stati i tedeschi. Tra i più attivi in questo senso c’è Jurij Muchin, autore di Katynskij detektiv [Il giallo di Katyń]22 e Antirossijskaja podlost’ [La vigliaccheria antirussa]23. Entrambi i libri espongono la tesi della responsabilità

20 I. JAŻBOROWSKA, A. JABŁOKOW, J. ZORIA [I. JAŽBOROVSKAJA, A. JABLOKOV, JU. ZORIA], Katyń. Zbrodnia chro- niona tajemnicą państwową, Warszawa 1998, pp. 8-9. 21 I. JAŽBOROVSKAJA, A. JABLOKOV, V. PARSADANOVA, Katynskij sindrom v sovetsko-pol’skich i rossijsko- pol’skich otnošenijach, Moskva 2007, pp. 380-394. 22 J. MUCHIN, Katynskij detektiv, Moskva 1995. 23 Idem, Antirossijskaja podlost’. Naučno-istoričeskij analiz. Rassledovanie fal’sifikacii Katynskogo dela Pol’šej i Generalnoj prokuraturoj Rossii s cel’ju razžeč’ nenavist’ poljakov k russkim, Moskva 2003, p. 5.

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tedesca per il massacro e hanno un atteggiamento ostile verso chiunque pensi il con- trario. Muchin accusa persino le famiglie delle vittime di essere mosse dal desiderio di arricchirsi grazie ai risarcimenti della Russia. Secondo lui è per colpa dei polacchi se le indagini russe vanno per le lunghe, perché i polacchi temono che portando la causa in tribunale le loro accuse si rivelerebbero infondate. Muchin afferma anche che i tede- schi conoscevano i nomi delle persone uccise a Katyń perché erano stati loro a com- mettere il massacro. Considera poi una menzogna propagandistica la tesi che dopo l’occupazione di Smolensk nel 1941 l’archivio dell’NKDV locale sia finito in mano ai tedeschi. In Antirossijskaja podlost’ afferma che i corpi scoperti durante le recenti esu- mazioni nei pressi di Char’kov appartengono a criminali fucilati e a prigionieri tedeschi morti nei campi, mentre i polacchi affermano «falsamente» che si tratta dei loro uffi- ciali rinchiusi nel campo di Starobel’sk. Affermazioni scioccanti e scandalose, che mettono in dubbio la responsabilità dell’NKVD per il massacro dei prigionieri di guerra polacchi, non vengono pronunciate solo da studiosi e giornalisti controversi, ma anche da deputati della Duma di Stato russa. Lo scopo è di creare un’immagine positiva della missione della Russia nel mondo. Viktor Iluchin (deputato del Partito comunista russo) nega completamente la responsabilità dell’NKVD e sostiene invece le argomentazioni contenute nel rapporto della Commissione Burdenko24 del 1944. Sulla stessa linea è pure lo scrittore Vladimir Žucharaj (ex militare, generale e luogotenente, dottore di ricerca in storia), secondo il quale i documenti che incolpano del massacro le autorità sovietiche e l’NKVD, sco- perti negli anni Novanta, sono dei falsi. Secondo lui a fabbricarli sarebbe stata l’Intelligence britannica, che li avrebbe poi immessi nel circuito degli archivi dopo la morte di Stalin25. Sergej Stygin ha invece fondato l’Esercito della volontà del popolo, i cui attivisti hanno manifestato il 4 novembre 2005 davanti all’ambasciata polacca a Mosca. Stygin e i suoi seguaci sono dell’opinione che le accuse contro l’NKVD per i mas- sacri di Katyń, Char’kov e Kalinin (Tver’) sono solo menzogne, e sono convinti che i polacchi agiscano spinti dal desiderio di ottenere risarcimenti dalla Federazione Russa. L’ex primo segretario della Lega degli scrittori dell’URSS, Vladimir Karpov, nel libro Generalissimus, pubblicato a Mosca nel 2000, afferma che fino ad oggi non è stato ancora accertato se i responsabili del massacro siano i tedeschi o i russi26. Con

24 Nel gennaio 1944, avendo riconquistato la zona di Katyń, i sovietici istituirono una compiacente “Commissione speciale per la determinazione e investigazione dell’uccisione di prigionieri di guerra polacchi da parte degli invasori fascisti tedeschi nella foresta di Katyń”, guidata dal Presidente del- l’Accademia di Scienza Medica dell’URSS Nikolaj Burdenko. Composta da rappresentanti solo so- vietici, la Commissione riesumò nuovamente i corpi e giunse alla «conclusione» che delle esecuzioni di massa dei prigionieri di guerra polacchi nella foresta di Katyń… «nel 1941»… erano responsabili gli «invasori tedeschi». Su questa base, nel 1946, al processo di Norimberga l’URSS cercò di accusare la Germania per le uccisioni di Katyń, ma di fronte all’efficace difesa degli av- vocati tedeschi, la questione passò nel dimenticatoio: Katyń non è menzionata in nessuna delle sen- tenze di Norimberga (n.d.r.). 25 W. ABARINOW [V. ABARINOV], Zbrodnia chroniona całym autorytetem państwa rosyjskiego, in Zbrod- nia katyńska w oczach…, pp. 35-36. 26 I. JAŻBOROWSKA [I. JAŽBOROVSKAJA], Kierunki i poglądy w historiografii rosyjskiej w sprawie zbrodni katyńskiej, in Zbrodnia katyńska w oczach…, pp. 55-56.

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tono simile scrive anche Vladislav Šved nel libro Tajna Katyni [Il mistero di Katyń], pub- blicato nel 2007. L’autore mette in dubbio l’attendibilità dei documenti che confer- mano la responsabilità dei dirigenti sovietici e dei funzionari dell’NKVD. Afferma che il numero dei polacchi trucidati è stato gonfiato e i documenti che testimoniano della responsabilità sovietica sono stati falsificati27. Nell’autunno del 2007, subito dopo la prima del film Katyń di Andrzej Wajda, sulla stampa russa sono apparsi alcuni articoli in cui si difendeva la versione staliniana degli eventi, come quello pubblicato su “Niezavisimoja Gazeta” da Nikolaj Varsegov, repor- ter di “Konsomolskaja Pravda”, e da Aleksandr Šyrokorad. Gli autori basano la loro tesi sulle conclusioni contenute nel protocollo della Commissione Burdenko, anche se que- sto documento è stato messo in discussione non solo dagli storici polacchi, ma anche da quelli russi. Nello stesso periodo, Sergej Strygin e Vladislav Šved sono stati ospiti del programma “Postscriptum” di Aleksej Puškov in onda il 3 novembre 2007 sulla rete mo- scovita TWC. I due hanno cercato di convincere i telespettatori che le testimonianze di Dmitrii Tokarev sull’uccisione dei polacchi nella primavera del 1940 erano false e hanno messo in discussione l’autenticità dei documenti che confermano le responsabilità di Stalin e dell’NKVD28. A Mosca il film di Wajda è stato presentato il 18 marzo 2008, suscitando un grande interesse. Tra gli spettatori c’erano rappresentanti del mondo della scienza, della reli- gione, della politica, di organizzazioni non governative e di associazioni per la difesa dei diritti umani. Il giorno successivo “Rossijskaja Gazeta” ha pubblicato un’intervista con il regista, il quale spiegava che il film non era stato girato contro la Russia, ma voleva mostrare la verità su uno dei crimini di Stalin. Nello stesso numero, però, il quotidiano ha pubblicato anche un commento di Aleksandr Sabov che confuta l’autenticità dell’or- dine di uccidere i polacchi emesso da Berija il 5 marzo 1940. Attualmente i membri della Federazione delle famiglie di Katyń (associazione che riunisce le famiglie delle vittime)29 intendono sottoporre la questione alla Corte Internazionale dell’Aja. Anche se ottenessero un verdetto favorevole, però, la co- scienza dei russi non cambierebbe. Cercare di modellarla mostrando la verità è com- pito di studiosi, giornalisti e insegnanti. Coloro che provano ancora a falsificare la storia del massacro di Katyń sono pochi e le loro argomentazioni sono messe in di- scussione dalla maggioranza degli studiosi. Però godono comunque di un certo se- guito. Così come i tedeschi hanno dovuto confrontarsi con le loro responsabilità per i crimini del nazismo dopo la fine della seconda guerra mondiale, così i cittadini della Federazione Russa devono accettare il fatto di essere i successori “delle realizza-

27 Eadem, Katyńska konfrontacja historii i polityki w Rosji, in Zbrodnia katyńska. Między prawdą a kłamstwem, a cura di M. Tarczyński, Warszawa 2008, p. 133. 28 A. PAMIATNYCH [A. PAMJATNYCH], Rosyjskie publikacje ostatnich miesięcy na temat Katynia. Film Andrzeja Wajdy i jego rola w problematyce katyńskiej w Rosji, in Zbrodnia katyńska. Między prawdą…, pp. 150-152. 29 Vedi nota 17.

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zioni” del regime staliniano. In quanto russi contemporanei, devono affrontare il dif- ficile compito di elaborare una formula che metta insieme il fatto di essere gli eredi delle azioni dei loro predecessori e il fatto di non avere una diretta e personale re- sponsabilità per tali azioni.

Joanna Żelazko, dottore di ricerca in scienze umanistiche, lavora all’IPN-Instytut Pa- mięci Narodowej, sezione di Łódź. Studia in particolare le questioni legate all’attività dei servizi di sicurezza e dell’amministrazione della giustizia in Polonia negli anni 1944- 1956. Autrice di vari libri e articoli scientifici e divulgativi. Tra le sue monografie: “Lu- dowa” sprawiedliwość. Skazani przez Wojskowy Sąd Rejonowy w Łodzi (1946—1955), Łódź 2007.

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Settantesimo anniversario dell’aggressione di Hitler alla Polonia

Il 70° anniversario dell’aggressione di Hitler alla Polonia che ha dato avvio alla se- conda guerra mondiale è stato celebrato il 1° settembre 2009 in Polonia, a Danzica, nelle rovine del forte di Westerplatte, la penisola fortificata polacca, dove tutto per così dire cominciò. Si è trattato di una cerimonia piena di sorprese, alla quale hanno partecipato, tra i vari protagonisti stranieri, la cancelliera tedesca Angela Merkel e Vla- dimir Putin. La presenza del premier russo in Polonia era già di per sé un evento, e come tale è stato ampiamente sottolineato. Ma Putin ha fatto di più scrivendo una lettera aperta ai polacchi dal tono conciliante sulle «ombre del passato» che «oggi e nel futuro non dovrebbero offuscare la cooperazione tra Russia e Polonia». Ha con- dannato come «immorale» il patto di non aggressione stretto da Hitler e Stalin nel- l’agosto 1939 alle spalle della Polonia, chiedendo al contempo di porre gli eventi nel loro contesto ricordando gli accordi di Monaco del 1938 e le responsabilità di Francia e Gran Bretagna nell’aver pesato sui destini della Cecoslovacchia: «hanno rovinato tutte le speranze di formare un fronte comune» nella lotta contro il nazi-fascismo. Ha detto di comprendere i sentimenti polacchi sull’eccidio di Katyń perpetrato per mano sovietica nel 1940 e ha proposto di riconoscere i cimiteri di Katyń e Mednoe come sim- boli «del rimpianto e del perdono reciproco», chiedendo al tempo stesso «gratitudine e rispetto per le tombe dei soldati russi sepolti in terra polacca». Ha invitato infine i polacchi a «imparare le lezioni della storia», a non leggerla in modo selettivo cercando motivo di recriminazioni.

La lettera è stata pubblicata il 31 agosto 2009 in prima pagina su “Gazeta Wy- borcza”, il maggiore quotidiano polacco1. Il testo di Putin ha suscitato una ridda di commenti e sentimenti misti: sorpresa, molto interesse, qualche plauso, qualche cri- tica. Il commento più interessante è venuto dal fondatore stesso di “Gazeta Wyborcza”, il giornalista e storico Adam Michnik, che ha risposto con l’articolo di seguito riportato e in polacco intitolato: Non è andata esattamente così [come Lei scrive], signor Putin…2.

1 VLADIMIR PUTIN, List Putina do Polaków, “Gazeta Wyborcza”, 31/08/2009 (http://wyborcza.pl/1,75477,6983945,List_Putina_do_Polakow___pelna_wersja.html). 2 ADAM MICHNIK, To niezupełnie było tak, panie Putin…, “Gazeta Wyborcza”, 01/09/2009. (http://wyborcza.pl/1,101422,6986045,To_niezupelnie_bylo_tak__panie_Putin___.html). Si ringrazia “Gazeta Wyborcza” e in particolare Adam Michnik ed Ewa Sobulska per avere autoriz- zato la traduzione e pubblicazione di questo testo inedito in Italia.

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Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin sulla seconda guerra mondiale e i rapporti tra polacchi e russi

di Adam Michnik

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

Pubblicando l’articolo di Vladimir Putin, “Gazeta Wyborcza” si è fatta guidare dal- l’idea che il lettore polacco abbia il diritto di conoscere le opinioni del primo ministro della Russia di prima mano. Il dialogo polacco-russo, anche se costellato di ostacoli, è una grande conquista degli ultimi vent’anni. La Russia è uno dei più importanti Stati del mondo. Per i polacchi è un paese con un particolare significato. Per questa ragione, ospi- tiamo sulle colonne del nostro giornale le opinioni di scrittori, politici o scienziati russi. Ricordiamo anche quanto dobbiamo alle trasformazioni democratiche in Russia ini- ziate da Michail Gorbačëv e da Boris El’cin. E quanto dobbiamo agli oppositori demo- cratici russi che hanno dimostrato al mondo come sia possibile vivere senza menzogna. La voce di Vladimir Putin, oggi il più importante politico della Russia, costituisce un fatto significativo. Sullo sfondo della retorica aggressiva dei nazionalisti panrussi, che ripetono oggi le menzogne della propaganda stalinista — secondo cui «la Polonia è stata la prima alleata di Hitler» e il crimine di Katyń è stato opera dei tedeschi — la sua voce risuona in maniera del tutto diversa. Vladimir Putin scrive chiaramente che proprio i polacchi, per primi, hanno sbarrato la strada agli aggressori hitleriani. Per questa ragione, vorrei che questo mio articolo fosse letto con attenzione dagli sciovinisti panrussi. Nell’articolo del primo ministro russo c’è una nota di apprensione riguardo al fu- turo, un futuro di pace e fondato sulla cooperazione e sul dialogo. Condividiamo tale preoccupazione. Perciò, approfittiamo di questa occasione per dialogare.

Merita piena stima il linguaggio con il quale il premier Putin scrive sui tedeschi che hanno avversato il nazismo e sulla riconciliazione russo-tedesca. Sono stati gli an- tinazisti tedeschi a svolgere un ruolo chiave in quest’opera di riconciliazione; sono stati loro a opporsi alla lugubre tradizione simboleggiata dal telegramma di Stalin a Hitler sull’«amicizia suggellata col sangue». Noi, in Polonia, dobbiamo ricordare con lo stesso rispetto quei russi che si sono opposti allo stalinismo e alla dittatura brežneviana: Andrej Sacharov, Aleksandr Solže- nicyn, Sergej Kovalëv e Josif Brodskij, Vasilij Grossman oppure gli uomini dell’associa- zione storica internazionale Memorial. Vorremmo che quella stessa sensibilità che il capo del governo russo manifesta per gli antifascisti tedeschi fosse rivolta, in ugual misura, alle vittime del terrore staliniano: lituani, ucraini, estoni e lettoni. Tutto ciò è richiesto a noi, uomini del ventunesimo se-

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colo, dal rispetto dovuto alla memoria di coloro che combatterono per la libertà. Ogni popolo ha una sua propria memoria storica. Il polacco e l’ucraino, il russo e il tedesco valutano, ciascuno in modo diverso, gli avvenimenti storici. Tuttavia, noi po- lacchi non vogliamo costruire la nostra memoria su una menzogna storica. E crediamo che ciò non lo voglia neppure il capo del governo della Federazione Russa. Per noi il patto Ribbentrop-Molotov ha determinato la quarta spartizione della Po- lonia e la cancellazione dello Stato polacco dalla carta d’Europa. Immediata conse- guenza di questo patto fu l’aggressione armata dello Stato di Hitler alla Polonia, il 1° settembre 1939 e, il 17 settembre, l’aggressione armata da parte dello Stato di Stalin. Poi venne il tempo delle crudeli persecuzioni a danno dei cittadini del nostro Stato, come i crimini nella foresta di Palmira e nella foresta di Katyń. La Polonia cadde vittima di due imperialismi totalitari. Vladimir Putin ricorda giustamente «l’aspetto etico della politica» e scrive che «il carattere immorale del patto Ribbentrop-Molotov è stato giudicato in modo inequivo- cabile dal parlamento» dell’URSS. E ripete: «Senza alcun dubbio si può pienamente condannare il patto Ribbentrop-Molotov, firmato nell’agosto del 1939». Continuando, il primo ministro russo ricorda il contesto: l’Anschluss, il «complotto» di Monaco. Tali considerazioni sono azzeccate. Questi sono gli errori fatali che hanno com- messo gli stati dell’Europa democratica. Ma ci è difficile essere d’accordo sul fatto che il vile, opportunistico e amorale consenso dato all’espansione hitleriana sia messo sullo stesso piano della comune aggressione hitleriano-staliniana contro la Polonia. Gli eserciti inglese e francese non sono entrati insieme in Cecoslovacchia per occupare il paese. Il premier Putin ricorda anche l’entrata delle divisioni polacche nella regione di Zaolzie [oltre il fiume Olza]. Consideriamo questa azione come un errore storico della politica estera polacca e, comunque la si voglia giustificare, rimane sempre un errore vergognoso e degno di condanna. Ma neanche qui riusciamo a ravvisare alcuna simme- tria. Basta confrontare l’atteggiamento — senz’altro deplorevole — dell’amministra- zione polacca in Zaolzie con il comportamento dell’amministrazione staliniana sui territori polacchi occupati dopo il 17 settembre. I polacchi non organizzarono nessuna deportazione, per non parlare dei crimini come quello di Katyń. Il premier Putin accenna anche alla «tragica sorte dei soldati russi che furono im- prigionati durante la guerra del 1920». Se volessi essere maligno, ricorderei che nel 1941, cercando una simmetria fra i danni causati dai polacchi ai russi e quelli causati dai russi ai polacchi, Josif Vissarionovič Stalin richiamò alla memoria del generale Wła- dysław Sikorski la presenza dei polacchi al Cremlino e l’occupazione polacca di Mosca dei primi anni del XVII secolo. Cerchiamo di essere seri: tutta la verità sul destino di quei prigionieri sovietici del 1920 ha da essere svelata. Ma non ricorderemo mai abbastanza che nessuno di loro è stato ucciso con un colpo dietro la nuca. Mai un politico polacco ha pronunciato quella orrenda frase, cioè, che finalmente era sparita dalle carte geografiche la Cecoslovacchia, «bastardo deforme del Trattato di Versailles». Eppure queste precise parole vennero pronunciate nell’ottobre del 1939 a proposito della Polonia da Vjačeslav Molotov, ministro sovietico degli Affari esteri. I polacchi non passeranno mai sopra queste parole, non le scorderemo mai. Esse fanno parte della nostra memoria nazionale. Per noi — come per numerosi democratici russi

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— Stalin è stato un criminale e un aggressore. In quanto artefice dello Stato del Gulag poteva essere pienamente paragonato a Hitler. È ovvio che ciò non diminuisce la nostra gratitudine e la nostra ammirazione per l’eroismo delle centinaia di migliaia di soldati dell’Armata Rossa che perirono in terra polacca durante la guerra contro l’occupante hitleriano. La cura delle loro tombe è dovere di noi polacchi. Il premier Putin scrive che era- vamo insieme nella coalizione antihitleriana il Giorno della Vittoria. Ebbene, signor primo ministro, non tutti siamo stati insieme. Aleksandr Solženicyn e Leopold Okulicki — per ricordare soltanto questi due nomi simbolici — quel giorno erano rinchiusi nelle galere staliniane in attesa di un processo. In questi destini è racchiuso il simbolo che non ci è permesso dimenticare.

Le dispute storiche sono rischiose e possono portare a «speculare sulla memoria». Vogliamo evitarlo, vogliamo lasciare la storia agli storici. Per questo rivolgiamo un ap- pello affinché agli storici venga consentito l’accesso agli archivi di entrambi i paesi. Teniamo in modo particolare a che siano resi noti tutti i materiali riguardanti i crimini di Katyń. Sarà per i polacchi un ottimo segnale. Il premier Putin scrive che nelle relazioni russo-polacche si vedono i primi segni di una nuova logica, quella del dialogo e della cooperazione. Anche i polacchi desiderano il dia- logo, la riconciliazione e la cooperazione fondata sulla verità, la libertà e l’uguaglianza. Bisogna superare il modo di ragionare tipico della guerra fredda basato sulle ca- tegorie della politica «della zona di influenza» oppure «dell’estero vicino». Tale poli- tica genera sempre conflitti quando viene attuata dalle grandi potenze dell’Europa, dell’Asia o dell’America Latina. Comprendiamo la dura realtà del mondo della politica. Per questa ragione guar- diamo alla Russia con speranza e, al contempo, con inquietudine. Ci rallegrano le con- quiste della cultura e della scienza russa. Ci inquietano, invece, i tragici avvenimenti del Caucaso, l’uccisione dei giornalisti indipendenti e degli attivisti sociali, l’ennesimo processo a Michail Chodorkovskij. Abbiamo letto l’articolo del premier russo con speranza e fede: con la speranza in un futuro migliore nelle relazioni russo-polacche e con la fede nel futuro della demo- crazia in Russia. Tale fede e tale speranza intendiamo coltivare.

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Katyń, tra storia e propaganda3

di Adam Michnik

Traduzione di Alessandro Amenta

Ormai sappiamo tutta la verità su come è scoppiata la guerra, sul patto Ribbentrop- Molotov e il protocollo segreto, sulla «coltellata alle spalle» e la quarta spartizione della Polonia, sul dramma della Polonia vinta e occupata da due regimi banditi. Sap- piamo tutto anche sul massacro di Katyń. Questa verità non la conoscono solo i polacchi. La conoscono tutti, russi compresi. Solo chi falsifica la storia, e a farlo non sono in pochi, può negare i crimini nazisti, come le camere a gas, o quelli stalinisti, come Katyń. Ne sono una prova i numerosi studi di storici tedeschi e russi. Questi storici, che scrivono la verità sul passato totalitario, sono messaggeri di un futuro migliore. Grazie a un’amara resa dei conti con la memoria, costruiscono un mondo migliore. I polacchi devono essere riconoscenti a tutti loro, agli storici tedeschi e a quelli russi. Non c’è modo di cancellare il passato dalla politica, perché non si può cancellarlo dalla memoria delle persone. Gli storici sono i suoi custodi. Per questo uno storico scru- poloso è al servizio della verità e non di questa o quella congiuntura politica che usa il passato come un’arma per colpire gli oppositori. Pertanto le discussioni se il massacro di Katyń debba essere definito un crimine di guerra o un genocidio, sono discussioni sterili. Chi scatena una disputa politica intorno a questa differenza di opinioni dimostra disprezzo per i morti e per un futuro migliore costruito sulla verità e sulla riconciliazione. Lo scopo di questa disputa non è infatti quello di rendere omaggio alle vittime, ma quello di fare lo sgambetto agli oppositori di oggi. Uno storico scrupoloso non prende parte agli schiamazzi della propaganda di partito che accende l’odio verso i nemici di ieri. Uno storico scrupoloso insegna a capire la sto- ria e il contesto; insegna a capire non solo le proprie ragioni, ma anche quelle degli altri. Nazioni diverse hanno infatti il diritto di ricordare in maniera diversa il settembre 1939. Della storia, cari politici, è stato detto che è maestra di vita; non è stato detto che è maestra di odio e di bugie.

3 ADAM MICHNIK, Katyń - historia i propaganda, “Gazeta Wyborcza”, 17/09/2009 (http://wyborcza.pl/1,101422,7048149,Katyn___historia_i_propaganda.html). Si ringrazia l’autore ed Ewa Sobulska per aver consentito la traduzione e pubblicazione di questo testo inedito in Italia.

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“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo

di Francesco Maria Cannatà

La “guerra dei trent’anni” del XX secolo ha lasciato ferite profonde nella memo- ria dei popoli europei. Non solo l’oriente del continente è stato teatro di atti di violenza senza pari. Conflitti mondiali, rivoluzioni e guerre civili, colpi di Stato e dittature, ca- restia e grande terrore, nazionalsocialismo, sterminio degli ebrei, gulag, guerre di fron- tiera e conflitti nazionali, deportazioni e pulizie etniche sono momenti intrecciati e difficilmente separabili anche quando avvengono a distanza di decenni l’uno dall’al- tro. Il Novecento, secolo “estremo”, patrimonio comune del nostro continente, è però interpretato a modo proprio da ogni nazione. Ogni Stato ha il proprio XX secolo. Ogni memoria nazionale autorappresentandosi come contromemoria si contrappone alle altre e le prepara allo scontro. La battaglia russo-estone dell’aprile 2007 causata dallo spo- stamento del monumento al soldato sovietico dal centro di Tallin ne è la prova. Gli eredi dei soldati sovietici che hanno combattuto per la liberazione dei territori baltici dal- l’occupazione tedesca e di quelli estoni vittime dopo l’occupazione nazista di quella dell’Armata Rossa non sono riusciti a trovare un linguaggio comune. Non è stato un caso isolato. Tensioni appaiono anche tra Polonia e Ucraina quando si tratta di giudicare per- sonaggi che per Kiev sono “eroi”, mentre Varsavia e Mosca (una volta tanto unite) li giudicano “terroristi”: così nel caso di Stepan Bandera1. Paradossale quanto accaduto in Georgia lo scorso dicembre quando il governo di Tblisi per far saltare in aria in fretta e furia il monumento al milite ignoto della seconda guerra mondiale di Kutaisi, ha cau- sato delle vittime tra i cittadini della seconda città georgiana. In Europa centrale e orientale, storia e memoria fanno parte della vita quotidiana. Nonostante europeizzazione e globalizzazione i conflitti sul piano delle reminiscenze e dei ricordi si moltiplicano. Dal 1989 adattamenti, elaborazioni e rivalutazioni si intrec- ciano in maniera tempestosa. Con conseguenze ambigue. Cadono tabù, spariscono punti oscuri.

1 Stepan Bandera (1909-1959), politico ucraino, uno dei leader del movimento nazionalistico ucraino nella Galizia polacca (oggi Ucraina occidentale). Durante la seconda guerra mondiale fu il capo della Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN-B: Orhanizacija Ukrajinśkych Nacjonali- stiw-Bandery), e anche il fondatore dell’UPA-Armata insurrezionale ucraina (Ukrajinśka Powstan- śka Armija). Nel giugno 1941 fu Bandera a proclamare a Leopoli l’indipendenza di uno Stato ucraino che si voleva alleato di Hitler in funzione antisovietica, un’ipotesi presto scartata dallo stesso Hi- tler. Tra il 1943 e il 1945, i nazionalisti dell’OUN-B e gli estremisti della paramilitare UPA e altri partigiani o sbandati ucraini attuarono una radicale pulizia etnica nelle campagne della Volinia e Galizia ex polacche uccidendo circa 80-100 mila civili polacchi. La lotta indipendentista, antiso- vietica e antipolacca, dei partigiani dell’UPA continuò nel dopoguerra. Bandera rimase in Germa- nia, dove morì avvelenato dal KGB.

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Cresce la conoscenza storica di quanto accaduto a Katyń, Solovki2, Katowice3, Kaunas4, Bełżec5. Non si arresta però la battaglia per la gestione del passato. La storia, infatti, è una moneta con valore di scambio politico. Ogni soggetto in gioco — politici, governi, ammini- strazioni — punta a un proprio obiettivo. Storia e anamnesi pubblica diventano risorse del potere. Servono a creare legittimazioni, a mobilitare persone, sono usate per integrare e legittimare. Si dibatte di “politica della storia”, si parla di “ricerca di memoria” e di “iden- tità storica”, ma spesso si tratta solo di “battaglie politiche combattute in costume storico”. Solo così si può definire l’atteggiamento dei diversi attori in campo quando si arrogano so- vranità interpretative, quando tentano di omogeneizzare la storia per fissarla a una verità definitiva, per mitizzarla, ideologizzarla, col risultato di creare nuovi tabù. Nel 2004 un gruppo di storici polacchi annunciava che Varsavia aveva bisogno di «svi- luppare e diffondere la propria politica del passato». Se il nome dato a questa discussione — polityka historyczna, politica della storia — rivelava l’influenza in Polonia del dibattito tede- sco sulla Geschichtspolitik, i tentativi di prendere le distanze dalla pubblicistica tedesca por- tava a una varietà di definizioni da parte polacca: patriottismo affermativo, rielaborazione del passato, politica del passato — sono le altre denominazioni date a queste tendenza. L’intervento della politica nel dibattito sulla storia e sulle rappresentazioni collet- tive di essa, nei paesi ex socialisti tentava di definirsi attraverso una serie di provvedimenti tra loro assai diversi ma che rivelano i metodi e le dimensioni della politica di costruzione della storia negli Stati usciti dall’ultimo passato totalitario del continente. In particolare, il movimento dava vita alla nascita di Istituti della memoria nazionale in Polonia e Ucraina; di un Museo contro l’occupazione sovietica in Georgia; di interventi normativi e legislativi in Russia. Così nel maggio 2009 il presidente Dmitrij Anatol’evič Medvedev ha fatto na- scere per decreto una Commissione che ha il compito di «contrastare ogni falsificazione della storia contraria agli interessi di Mosca». La Commissione, priva di storici di profes- sione, parte da una interpretazione «vera» degli eventi e prevede pene di carattere pe- nale per chi si fa portavoce di punti di vista «difformi» dalla vulgata statale. In Russia, paese dove ora più forte è il tentativo dello Stato di monopolizzare il rac- conto storico e la riflessione sulla memoria, l’intervento attivo della politica inizia in ritardo rispetto ai paesi vicini e ha un carattere piuttosto reattivo. Prima dell’inter- vento di Medvedev, quattro sono stati i momenti centrali dell’offensiva del Cremlino. In occasione del 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale, Vladi- mir Putin, allora presidente della Federazione Russa, sottolinea la «sacralità» della vit- toria per ribadire la narrativa di una «Unione Sovietica innocente», assalita brutalmente

2 Isole del Mar Bianco fino al 1917 sede della spiritualità ortodossa, dopo la rivoluzione bolscevica diventate luogo di detenzione per dissidenti e tutti gli irregolari anti-sovietici. 3 Cittadina polacca a circa 260 km a sudovest di Varsavia. L’8 settembre 1939 la Werhmacht in- cendia la Grande Sinagoga. È controverso il ruolo svolto dalla popolazione locale nell’avvenimento. Tra il settembre 1939 e l’aprile 1941 vengono deportati 8300 ebrei. 4 Attualmente è la seconda città della Lituania. Nel 1940 fu invasa dalle truppe sovietiche, nel 1941 da quelle tedesche che l'occuparono fino al 1944. Furono massacrati (vicino al Forte IX) migliaia di ebrei tedeschi ed austriaci, tra i quali il noto storico e pedagogo Willy Cohn. 5 A Bełżec, nella Polonia occupata, è stato costruito il primo campo di sterminio tedesco dove sono stati uccisi 434.500 ebrei oltre a un numero sconosciuto di polacchi e zingari. La mancanza di so- pravvissuti, è la ragione del fatto che il campo è quasi sconosciuto.

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da «un aggressore inumano». L’Armata Rossa è l’esercito che avanza per fermarsi solo quando libera tutto il «genere umano». Spiegando che «il bene ha trionfato sul male e la libertà sulla tirannia», l’ex presidente russo da una dimensione mistica alla vittoria ed esclude ogni punto di vista alternativo. Pochi giorni dopo le parole di Putin, il 15 maggio 2005, avviene il secondo passo. Il movimento giovanile Nashi manifesta a Mosca. Sessantamila giovani incontrano i vete- rani della seconda guerra mondiale giurando di «ricordare la guerra, difendere la patria». Nel 2006 è la volta del mondo accademico. La pubblicazione del manuale di sto- ria di A.V. Filippov, Novejshaja Istorija Rossii 1945-2006, mette il suggello scientifico a quanto avvenuto l’anno prima. Infine nell’inverno 2009 arriva la dichiarazione di Sergej Shoigu, ministro federale per le Situazioni d’emergenza, sul «bisogno di una legge che sancisca le conseguenze legali di ogni affermazione “scorretta” sulla storia della Grande Guerra Patriottica». Attualmente la Duma sta esaminando due disegni che vanno nella direzione auspicata dal ministro. Questi momenti diversi della vita interna della Russia puntano a ribadire che la vit- toria nel secondo conflitto mondiale è non solo il baricentro del rapporto storia-memo- ria-verità del nuovo Stato, ma deve anche diventare momento centrale dell’identità della popolazione della Federazione. La vicenda del manuale di storia di Filippov fa, inoltre, capire i modi attraverso i quali è possibile influenzare le scelte dell’opinione pubblica senza interventi diretti dello Stato. Il volume di Filippov nella sua prima edizione ha avuto una tiratura di 250 mila copie. In casi simili il numero dei volumi in circolazione va dai 5 mila ai 15 mila esemplari. Stampare 250 mila copie di un manuale di storia è una deci- sione politica. La casa editrice Prosveshchenie deve aver ricevuto in anticipo assicurazioni che la domanda del volume avrebbe coperto una offerta cosi rilevante. Il sociologo Boris Dubin ha condensato nel giudizio «povertà di simboli» la propria dia- gnosi sulla società russa attuale. In precedenza il filosofo Assen Ignatev aveva parlato di «vuoto postcomunista». Nel 2002 il presidente Boris El’cin, lanciando il concorso per una “nuova idea per la Russia”, riteneva che «ogni momento della storia russa aveva avuto la sua ideologia, noi invece ne siamo privi». Il timore di dar vita a una società priva di convinzioni, senza punti di riferimento culturali, moralmente disunita, incapace di resistere ai modelli esterni, ha avuto il suo momento di parossismo nel periodo delle “rivoluzioni arancioni”, tutte viste come un attacco ai valori più profondi della Russia. Da qui lo sforzo di difendere e promuovere la “corretta” interpretazione della storia fondandola sullo stesso mito dell’URSS post-staliniana. Anche la recente recessione globale e le sue conseguenze sulla Federazione hanno spinto a riflettere sul modello di sviluppo avviato dopo la dissoluzione sovietica e la crisi del 19986. Lo scorso febbraio Medvedev, ritenendo necessario affrontare direttamente

6 Nell’agosto 1998, dopo diversi mesi di una crisi partita con la fine del boom delle tigri asiatiche, il governo russo annuncia la svalutazione del rublo, la moratoria unilaterale del proprio debito e il falli- mento di quello interno. Tutte le obbligazioni a breve (Gko) in scadenza alla fine del 1999 sono di- chiarate nulle. In un mese i prezzi aumentano del 50%; in poche settimane la valuta russa perde un terzo del proprio valore, molte banche scompaiono portandosi con se i risparmi di milioni di cittadini che ave- vano investito, consigliati dalle autorità, su titoli bidone. Davanti allo sbando economico si affloscia tutto il sistema el’ciniano. Dopo quella sovietica, è la seconda crisi di sistema russa in pochi anni. La ripresa avviene grazie alla svalutazione della moneta, l’aumento delle esportazioni che ne consegue, la ripresa dei consumi interni e la crescita del prezzo delle materie prime, costante dal 2000 al 2008.

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la questione della “via” russa, ha utilizzato i principali canali televisivi nazionali per rivol- gersi in maniera insolita ai suoi concittadini: «nella nostra vita è molto importante dire la verità e affrontare anche le questioni più difficili con franchezza e onestà» — ha affermato il giurista di Pietroburgo. L’intervento si è rivelato il momento iniziale di un 2009 che il pre- sidente russo ha voluto dedicare a questo tema, al punto che il rapporto tra “verità”, “sto- ria”, “memoria” e “vita sociale e intellettuale” del suo paese è sembrato costituire una sua peculiare priorità. Si tratta comunque di temi che nel 2009 il calendario delle ricorrenze ha imposto non solo alla Russia: novantesimo anniversario della Conferenza di pace di Parigi, settant’anni dal patto Molotov-Ribbentrop e dallo scoppio della seconda guerra mondiale, sessantesimo della nascita delle due Germanie, ventennale della caduta del Muro di Ber- lino. A una tale serie di appuntamenti si aggiunge il nodo di Katyń: nella primavera 2010 compirà settant’anni l’esecuzione di massa da parte del NKVD, i servizi speciali sovietici, di circa ventiduemila ufficiali, soldati e civili polacchi. Il quadro continentale dei rapporti tra storia e memoria è chiaro nella sua com- plessità e, in tale scenario, le relazioni tra Polonia e Russia possono essere definite “un luogo” della memoria europea. Obbligo alla memoria e diritto all’oblio, è stato il ti- tolo, non a caso, di una serie di conferenze internazionali su questo particolare aspetto dei rapporti tra Mosca e Varsavia organizzate nell’ottobre 2009 nella capitale federale da parte di diverse istituzioni politiche e culturali dei due paesi Nei primi giorni dello scorso mese di febbraio i media russi hanno riservato un’assai li- mitata attenzione alla telefonata fatta da Vladimir Putin a Donald Tusk, con la quale il primo ministro russo ha invitato il collega polacco a prendere parte alle manifestazioni di cordoglio previste a Katyń nell’aprile 2010. È la prima volta che i due paesi si apprestano a commemorare insieme un evento che, per i polacchi, è il simbolo centrale dell’oppressione e del terrore che la Polonia ha subito durante l’occupazione sovietica nella prima fase della seconda guerra mondiale (1939-1941). Ma il significato reale del gesto del primo ministro russo sarà comprensibile solo al momento dell’incontro. Putin ha sempre agito pragmati- camente verso Varsavia. Il primo viaggio nei paesi ex socialisti l’allora presidente russo lo ha compiuto nel gennaio 2002 proprio in Polonia e il quotidiano francese “Le Monde” dava atto all’allora presidente russo di un «successo d’immagine». Nel 2008 è stato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha esprimersi con “nuovi toni” e a “sorprendere” i media inter- nazionali per la disponibilità dimostrata verso le esigenze del governo Tusk. La procura mi- litare russa, invece, ha archiviato le indagini su Katyń nel 2004. Negli anni successivi la Corte suprema di Mosca ha confermato la validità giuridica di questa scelta. Essa fa infu- riare i polacchi, ma difficilmente verranno accolte le richiesta delle famiglie degli uccisi, le quali chiedono un processo che riconosca il carattere di «genocidio» della strage, di- chiari «colpevoli» i colpevoli e riabiliti le vittime. Secondo le autorità russe i documenti clas- sificati segreti devono restare tali, per il resto tutte le persone sospettate per gli omicidi commessi sono comunque morte. In sintesi, da parte russa si ragiona in “modo nuovo” sul patto Stalin-Hitler, ma non si vuole veramente toccare la questione Katyń. Certo, «il patto col diavolo» — cosi Sebastian Haffner, uno dei più importanti pubblicisti tedeschi del XX se- colo ha definito l’accordo Hitler-Stalin — è stato ufficialmente condannato dall’URSS, ma la Russia cerca di mantenere posizioni più sfumate. Ma non è un caso se i documenti siano venuti fuori e siano stati pubblicati in un momento di transizione tra un sistema politico e un altro. Esiste una memoria capace di sollevare i propri sepolcri a prescindere dagli inte-

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ressi che viola o dei rapporti che mette in discussione? Secondo i dirigenti della Federazione russa no. Eppure le relazioni con la Polonia — il paese più importante insieme alla RDT dei satelliti socialisti — vengono stimolati addirittura dal capo del governo e dal mini- stro degli Esteri federali. Ciò era impossibile al tempo della diarchia dei fratelli Jaro- sław e Lech Kaczyński. Tuttavia, anche nel favorevole contesto di oggi, su Katyń difficilmente a Mosca si arriverà al processo verificatore e riparatore voluto da Varsa- via. Lo stesso silenzio che in Russia ha avvolto il gesto di invito di Putin a Tusk, è stato successivamente riservato alla dichiarazione comune My pomnim o proshlom, no du- maem o budushchem [Ricordiamo il passato, ma pensiamo al futuro], sottoscritta dal presidente del Senato della Repubblica di Polonia Bogdan Borusewicz e dal presidente del Consiglio federale del Parlamento russo Sergej Mironov. Si tratta di un documento pubblico a suo modo notevole non solo per l’affermazione che alla base dei nuovi rap- porti russo-polacchi vi è: «l’azione di Solidarność e di Michail Gorbačëv». La presa di po- sizione dei due alti rappresentanti di Mosca e Varsavia è stata pubblicata su “Gazeta Wyborcza”, il quotidiano più letto in Polonia. In Russia, invece, è apparsa solo sulla “Rossiskaja Gazeta”, una sorta di Gazzetta ufficiale federale che pochi leggono. Dun- que, di fatto, è rimasta del tutto sconosciuta all’opinione pubblica federale. Più che giustificare gli atteggiamenti si tratta di capire. Tra i paesi che cercano o hanno cercato di superare il proprio passato totalitario, la Russia ha scelto il metodo più contrad- dittorio. Rinnegare il comunismo mettendo a fondamento e al centro della storia della nuova Russia la seconda guerra mondiale, ovvero un avvenimento legato comunque al pas- sato totalitario, ha reso impossibile la ricercata separazione tra la guerra vittoriosa, da una parte, e gli eventi accaduti prima o contemporaneamente ad essa, dall’altra. Così facendo, inoltre, viene cancellata ogni responsabilità e colpa, poiché non si prendono in considera- zione tutti i fatti storici. Una mia cara amica, persona laureata e colta che segue gli avve- nimenti contemporanei, ha confessato di aver appreso di Katyń solo in occasione dell’uscita del film del regista polacco Andrzej Wajda. A venti anni circa dalla fine dell’Unione Sovie- tica, i cittadini russi non sono in grado di valutare obiettivamente il livello delle responsa- bilità storiche dell’URSS verso gli altri paesi, Federazione russa compresa. Il solo paese europeo in cui sia possibile paragonare il cammino intrapreso dalla Rus- sia contemporanea, la Germania, è stato “spinto” su quella strada dalla sconfitta militare della Wehrmacht e dall’aiuto-costrizione degli alleati che non hanno lasciato ai tedeschi altra scelta, se non quella di fare tabula rasa del proprio passato. Con una sostanziale dif- ferenza: la fine della guerra fredda, se ha comportato tante umiliazioni alla Russia e alla sua popolazione, non è stata segnata da una riconoscibile sconfitta sul campo di battaglia — come è avvenuto alla fine della prima guerra mondiale con la “capitolazione” dello za- rismo. Quando Vladimir Putin diventa primo ministro nel 1999 per poi venire eletto presi- dente della Federazione Russa nel 2000, trova un paese in piena «dissoluzione ideologica e spirituale» — secondo la formula di un pubblicista tedesco — ma non battuto in maniera netta. Il travaglio che ha portato Bonn e, in seguito, Berlino a passare al setaccio passato e memoria nazionali — un processo durato secondo August Winkler, storico del “lungo cam- mino” tedesco verso Occidente, fino al collasso della Repubblica Democratica Tedesca — è stato accompagnato dalla scelta dell’integrazione sovranazionale europea: «I tedeschi che si proteggono da se stessi» abbracciando l’Europa. C’è stata un’altra fase importante della transizione russa, vale a dire l’età dell’inco-

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scienza sperimentale di Boris El’cin negli anni Novanta. Ma essa ha reso sgomenti gli stessi russi. Non poteva pertanto diventare il momento dell’identificazione culturale e nazionale della Russia postcomunista. Anche la scelta dalle élite putiniane — tentare di fondare l’au- tocoscienza della nazione su un passato, l’URSS, che in altri momenti razionalmente si rin- nega — non sembra essere un progetto di lunga durata. Si può presumere che a breve il dibattito su quale “idea” debba essere alla base della collettività federale tornerà attuale.

Date queste premesse torniamo a chiederci come l’URSS-Russia abbia affrontato uno dei più imponenti momenti della politica internazionale del XX secolo, cioè il patto Rib- bentrop-Molotov, con annesso protocollo segreto. Fino all’ultimo il regime comunista so- vietico ha ritenuto il patto una mossa obbligata: un provvedimento strategico che trovava giustificazione nella necessità di far fronte ai piani aggressivi di Hitler e dell’intero Occi- dente. Il voltafaccia di Mosca, che ad un tratto si alleava con Berlino, non veniva spiegato tuttavia solo in termini di utilità geopolitica. Dopo la «separazione violenta» avvenuta du- rante il primo conflitto mondiale, la guerra civile nell’impero zarista e la rivoluzione russa, i popoli ucraino e bielorusso «rientravano» nel seno della madre patria — nella narrazione, come si vede, un posto importante occupa la questione della «giustizia storica» e, anche, gli evidenti vantaggi per i baltici: l’ingresso delle truppe sovietiche e l’accorpamento nel- l’URSS ne evitava il vassallaggio verso la Germania nazista. Ma la responsabilità ultima del- l’accordo tra la patria del comunismo e la Germania nazista spettava a Francia e Inghilterra. Parigi e Londra, con la loro politica di appeasement, la loro titubanza e mancanza di volontà di cooperazione con l’URSS, avevano «costretto» Stalin a compiere il passo fatale. Sul tema degli allegati segreti al patto, invece, la chiusura era totale. Le divisioni in sfere d’influenza dei territori baltici e polacchi erano per i sovietici — e per qualche russo lo sono ancora — falsità inventate dall’Occidente. L’Unione Sovietica ha sempre negato la loro esistenza. Ancora durante la perestrojka, Gorbačëv e il suo entourage — compreso Aleksandr Jakovlev, responsabile ideologico del piano di riforme del Partito — negavano che negli archivi sovietici esistesse l’originale del trattato. Un atteggiamento che si rivelò alla lunga insostenibile. La crisi progressiva del regime comunista non poté non incidere sugli atteggiamenti da tenere nei confronti del patto e del suo protocollo segreto. Il tema, pe- raltro, era stato fonte di dissenso persino nelle fasi di maggiore repressione intellettuale. La scelta di collaborare con la Germania nazista aveva sollevato dubbi e suscitato critiche anche nei periodi in cui il mondo accademico e scientifico sovietico era costretto ad assu- mere posizioni unitarie su ogni argomento di una certa importanza. Non è dunque affatto un caso se, con la libertà di discussione innescata dalla glasnost, siano immediatamente tor- nati all’ordine del giorno sia il trattato di amicizia con la Germania del 23 agosto 1939 sia l’allegato patto sulla modifica delle frontiere del 28 settembre dello stesso anno. Fonda- mentale fu in quel frangente la pressione baltica. Estonia, Lettonia e Lituania non avevano mai accettato il punto di vista ufficiale diffuso dal Cremlino, al contrario avevano sempre messo in discussione e contestato la moralità politica dell’alleanza russo-tedesca. Già nel 1983 la Lituania aveva pubblicato la versione in lingua russa dei due documenti. Nel 1989 ne era seguita una nuova edizione che arricchiva la versione di sei anni prima con l’ag- giunta di epistolari diplomatici, discorsi, dichiarazioni pubbliche dei leader dei due Stati e commenti stampa sull’accordo. L’uscita del libro, se destò scalpore negli ambienti acca- demici e nella vita politica dell’URSS, non modificò però la posizione ufficiale. La pubbli-

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cazione, infatti, era in realtà una raccolta di fotocopie degli atti pubblicata in una edizione tascabile accessibile a tutti. Alcune fotocopie recavano in calce la firma del ministro degli Esteri sovietico in caratteri latini: tanto bastò per metterne in discussione l’autenticità! La prudenza di Gorbačëv sulla questione è in fondo comprensibile. L’uomo che doveva decidere su questo dossier esplosivo intendeva riformare l’URSS allo scopo di salvare tutto il salvabile dell’esperienza della rivoluzione del 1917. Ammettere l’esistenza del trattato rendeva impossibile negare il nesso tra la collaborazione sovietico-tedesca nel 1939 e l’ini- zio della seconda guerra mondiale. Ammettere la possibilità che la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin avessero sottoscritto un trattato che regolava la spartizione dell’Europa orientale sconfessava la rappresentazione che aveva portato al conflitto, in particolare sconfessava tutta la narrazione sovietica che faceva iniziare la guerra nell’estate del 1941 con l’attacco nazista all’URSS. Ma bloccare la discussione sul trattato nell’estate del suo 50° anniversario si rivela im- possibile. Nel giugno 1989, durante la sua prima sessione, il Congresso dei deputati del po- polo dell’URSS crea una Commissione speciale per la valutazione giuridica e politica del patto di non aggressione russo-tedesco. L’organo parlamentare prende atto dell’esistenza del trattato, che viene “riconosciuto” così dal potere sovietico. Del patto sottolinea però il venir meno giuridico nel momento in cui, il 22 luglio 1941, la Germania attacca l’URSS. Presa visione della relazione della Commissione, il Congresso condanna patto e protocollo; li rinnega dichiarandoli «non validi» dal punto di vista giuridico «sin dal momento della firma». Sottolineando però che «non è stato possibile trovare l’originale del patto né negli archivi sovietici né in quelli stranieri», l’organo sovietico sembra non essersi completa- mente liberato dalle ambiguità del passato. La ricerca della copia autentica del documento tedesco-sovietico è stata, in effetti, par- ticolarmente ardua. Un decreto del presidente El’cin che imponeva il trasferimento dei do- cumenti in possesso del Partito comunista russo all’Archivio di Stato della Federazione Russa, il solo avente il diritto di classificarli, venne attuato solo in parte. Il Comitato centrale del Par- tito comunista dell’Unione Sovietica consegnò “una scelta” di materiali del proprio archivio. Nel 1992 lo studioso di storia militare, generale Dimitrij Volkogonov, trovò nell’archivio del PCUS un catalogo siglato: Mappa speciale. Strettamente segreta. Si trattava del testo sovie- tico e degli originali tedeschi del patto Hitler-Stalin. Nel marzo 1993 i documenti vennero pubblicati dalla rivista di storia moderna e contemporanea “Novaja i novejshaja istorija”7. Bisogna dunque dare atto al Congresso di aver condannato la collaborazione tedesco- sovietica, incurante della tempesta che si sarebbe potuta scatenare in una società già molto divisa. Si trattò di un momento quanto mai cruciale anche per la politica della glasnost di Gorbačëv, poiché era la dimostrazione che, una volta messo in moto, il metodo della cri- tica non si fermava davanti ad alcun ostacolo. Condannando il trattato, il Congresso dei deputati del popolo dell’URSS ha senza dubbio compiuto un passo coraggioso su un argo- mento riguardante uno dei momenti più importanti della storia nazionale del XX secolo —

7 L’autenticità di questi documenti è stata messa in discussione anche recentemente dal Partito comunista della Federazione russa sul suo sito internet. I deputati della Duma, affermando nel maggio 2008 che la questione riguarda la storia e gli storici, e sottolineando di riconoscersi nella dichiarazione politica del Congresso dei deputati del popolo dell’URSS, hanno messo un punto de- finitivo alla discussione.

poloniaeuropae 2010 167 “Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo

la Grande guerra patriottica. In effetti la sacralizzazione della vittoria nel conflitto che più di ogni altro è costato in vite umane e distruzioni economiche al paese, al popolo e al suo esercito, è stata parte fondante dell’educazione civica del dopoguerra e pilastro di tutta l’autorappresentazione propagandistica sovietica. L’analisi obiettiva del patto e del proto- collo segreto mise, invece, in discussione il quadro complessivo dato fino ad allora per scon- tato — l’URSS vittima di un’aggressione. Anche la politica estera dell’Unione Sovietica, basata sul mantenimento della pace come assunto e sull’ingresso nel secondo conflitto mondiale solo nel 1941, dovette essere vista a quel punto in una luce diversa. I dirigenti so- vietici si trovarono prigionieri di un dilemma che si è poi trasferito alle élite russe. Non am- mettere l’immoralità politica e giuridica del patto per i leader sovietici significava compromettersi davanti agli occhi del mondo. Ammetterla, voleva dire scuotere il proprio albero politico e ideologico, e mettere in mano assi straordinari da giocare agli Stati che più avevano sofferto del patto (Polonia, Repubbliche baltiche) e che erano inflessibili nella loro richiesta di sovranità assoluta. Esattamente due anni dopo la condanna del patto da parte del Congresso dei depu- tati del popolo, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si dissolve. Ci si sarebbe at- teso che la condanna del 1989 avrebbe facilitato una corretta valutazione del passato sovietico in Russia, il principale tra gli Stati successori dell’URSS. Invece i politici della Fe- derazione Russa non hanno osato seguire la strada indicata dai predecessori sovietici. Anche perché per i dirigenti russi ammettere limpidamente le responsabilità sovietiche, vuol dire dare all’autocoscienza della Federazione, basata quasi esclusivamente sul mito della guerra e della vittoria, fondamenta traballanti. Nel 2005 gli Stati baltici ormai membri dell’UE — soprattutto la Lettonia — hanno chiesto a Mosca una pubblica dichiarazione di scuse per la sottoscrizione da parte dell’URSS del trattato del 1939. La risposta negativa di Putin fu netta: non ha senso «ripetere ogni anno condanne già espresse». Per il presidente russo: «quello che c’era da dire è stato detto». Il tema, dunque, per Mosca è chiuso. Putin lo ri- peterà quattro anni dopo a Danzica in occasione delle manifestazioni ufficiali del 70° an- niversario dello scoppio della seconda guerra mondiale: l’URSS doveva «garantire interessi e sicurezza delle proprie frontiere occidentali. Il patto Molotov-Ribbentrop è stato firmato per tali ragioni». Se la Russia esprime un evidente malessere a confrontarsi con il passato sovietico e con quanto avvenuto durante la seconda guerra mondiale, è proprio perché ha scelto come racconto storico fondante lo stesso mito con cui l’URSS ha tentato di superare la crisi dello stalinismo, vale a dire la vittoria ottenuta nella seconda guerra mondiale. Dopo l’esplosione di gioia del maggio 1945, in URSS ricordare le prospettive aperte dalla vittoria equivaleva a sfidare il ghiacciaio staliniano. Solo a partire dal 1965 è stato possibile tornare a celebrare in grande stile la disfatta nazifascista. C’è comunque da parte russa una evidente differenza di trattamento tra il patto russo- tedesco e Katyń. Perché? Le due questioni rimandano certamente a momenti storici diversi, ma se si fanno delle domande informali il succo delle risposte russe è il seguente. Il patto Hitler-Stalin è un momento nelle relazioni tra due nazioni europee: «gli Hitler passano, resta il grande popolo tedesco» — sembra abbia detto Stalin. Queste relazioni sono mute- voli e al tempo stesso costanti; e sono tenute sotto osservazione da alcuni paesi molto sen- sibili al riguardo, come si è capito quando nel 2006, nel pieno del dibattito energetico continentale, l’allora ministro della Difesa polacco Radosław Sikorski, riferendosi al progetto di gasdotto russo-tedesco del Mare del Nord, paventò «il ritorno di un nuovo patto Ribben-

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trop-Molotov». Lo stesso paragone era stato peraltro evocato a Varsavia quando la RDT in- citava in modo molto chiaro a reprimere il movimento di Solidarność. Come interpretare la chiave di lettura riproposta da Sikorski all’annuncio della cooperazione energetica tra Mosca e Berlino? «Una sottolineatura (involontaria?) che i rapporti con la Germania sono la prio- rità continentale di Mosca» — è la risposta datami da un gruppo di amici moscoviti con una certa dose di humour. «Certo bisogna capire le sensibilità polacche. Sono nel solco della tra- dizione di Locarno, nella tradizione Molotov-Ribbentrop, appunto. Dimostrano però che Varsavia non distingue ancora tra Prussia e Germania e tra URSS e Russia. Ovviamente anche noi dovremo capire che il tempo del Granducato di Varsavia è finito». Il dibattito storico-memorialistico sul patto Molotov-Ribbentrop è stato segnato dalla decisione del Congresso dei deputati del popolo dell’URSS — un passo su cui si sono infranti tutti i tentativi revisionistici. Invece il giudizio sugli avvenimenti di Katyń è sospeso e molto dipenderà da quanto dirà Putin il giorno della commemorazione della strage alla presenza di Tusk. Ovviamente la Russia non è un monolite e il suo primo ministro tenta di essere un punto di mediazione e di equilibrio tra interessi, opzioni e lobby diverse. Al momento il di- battito storico federale è riassumibile in quattro opzioni: • Massimo di apertura e di libera discussione. È la posizione dell’associazione Memo- rial, di altri gruppi che difendono i diritti umani e di settori del mondo accademico. Essi ri- tengono che anche le più difficili questioni storiche vadano affrontate senza diktat da parte della politica; • Relativismo storico. I fatti vanno considerati in maniera arbitraria e la storia, nel suo essere utile alla battaglia politica del momento, può anche essere manipolata. «Non è possibile rispondere alle questioni del XXI secolo con gli argomenti del XX» — cosi il polito- logo Leonid Radzikhovskij sulla “Rossiskaja Gazeta” in un articolo intitolato Istoricheskie bitvy [Battaglie storiche], del giugno 2009; • Negazionismo. Il presidente della Commissione presidenziale contro le falsificazioni della storia che danneggiano la Russia, ha dichiarato che questo organo «si batterà per la difesa della storia russa dagli attacchi disonesti per distorcerla»; • Tra le forze politiche solo il Partito democratico russo Yabloko ha scritto che il «su- peramento dello stalinismo è la premessa indispensabile per la modernizzazione russa nel XXI secolo». Se togliamo il primo punto, alle commemorazioni di Katyń Putin potrebbe farsi porta- tore di una qualsiasi delle altre tre opzioni. Dalla scelta del primo ministro russo dipenderà non solo la modernizzazione della Russia, ma anche il suo rapporto con la verità.

Francesco Maria Cannatà è attualmente corrispondente da Mosca dell’AGI—Agenzia Giornalistica Italia. Ha fondato il sito “quadranteuropa” (www.quadranteuropa.it). Collaboratore di “Limes” e di altre pubblicazioni italiane e tedesche. È stato responsa- bile della rassegna della stampa estera presso l’archivio del quotidiano “La Repubblica”. Come fotogiornalista ha seguito gli avvenimenti che dall’Ottantanove fino alle guerre postsovietiche hanno cambiato il profilo del continente europeo. Ha conseguito il Dot- torato di ricerca in Storia dell’idea d’Europa con una tesi sulle riforme amministrative di Pietro il Grande e l’abolizione del SS. Sinodo. Si è laureato in Storia dell’Europa orien- tale all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi sul ruolo politico del Patriarcato di Mosca dopo la dissoluzione dell’URSS.

poloniaeuropae 2010 169 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

L’odissea del secondo Corpo d’armata polacco

poloniaeuropae 2010 171 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)1

di Gustaw Herling-Grudziński

Traduzione di Marta Herling

Dalla descrizione di Waterloo nei primi capitoli della Certosa di Parma, la cui let- tura affascinò profondamente l’autore di Guerra e pace, apprendiamo cos’è una bat- taglia per coloro che vi hanno preso parte. Non un insieme dai tratti chiari ed evidenti animato da un solo respiro e sottoposto a una sua logica, ma una massa di episodi cao- tici, a malapena collegati fra di loro, talvolta puramente casuali. Solo in seguito accade che si metta ordine nel caos, che si modelli il magma in nome di tali o altre “leggi e sen- tenze della Storia”, che si creino leggende e miti, che si interpreti con chiarezza il signi- ficato sottinteso nel testo di geroglifici sanguinanti e confusi, che si individuino linee diritte di svolgimento nel turbinio convulso degli eventi. La Waterloo caotica, osservata con gli occhi di Fabrizio del Dongo, si ricompone nelle pagine de I Miserabili di Victor Hugo, nel quadro armonico della battaglia, disegnato dalla mano della provvidenza. Al fato — o se si preferisce, allo Spirito della Storia — è sufficiente una pioggerella nella notte fra il 17 e 18 giugno 1815, per preparare un terreno sufficientemente scivoloso alla sconfitta di Napoleone, pianificata dall’alto. Ai comandanti ed ai soldati delle reali battaglie, ancora libere dall’aurea della leggenda, è naturalmente più vicino lo sguardo di Stendhal.

Mi è accaduto spesso — scrive il generale Anders nel suo libro Senza l’ul- timo capitolo2 — di osservare le rappresentazioni di battaglie celebri. Il coman- dante su un’altura, con il cannocchiale poggiato sugli occhi, segue il corso della lotta, ne vede i progressi e gli ostacoli, incita, dà gli ordini, dirige. Queste rap- presentazioni mi appaiono simili a quelle che già da molto tempo abbiamo potuto contemplare sui bassorilievi antichi, che mostravano battaglie di alcuni secoli fa.

1 GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział (25 agosto 1969), pubblicato in “Kultura”, n. 10, 1969; e raccolto poi in Id., Godzina cieni. Eseje [L’ora d’ombra. Saggi], Znak, Kraków 1991; trad. it., GUSTAW HERLING, Il pellegrino della libertà. Saggi e racconti, a cura di Marta Herling, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006, pp. 55-59. 2 WŁADISŁAW ANDERS, Bez ostatniego rozdziału. Wspomnienia z lat 1936-1946 [Senza l’ultimo capi- tolo. Ricordi degli anni 1936-1946], London 1959. Traduzione italiana: WŁADISŁAW ANDERS, Un’armata in esilio, Cappelli, Bologna 1950 (Testimoni: collana di memorie diari e documenti, 13).

poloniaeuropae 2010 173 L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)

Oggi una battaglia non si svolge nel raggio degli occhi o del cannocchiale del co- mandante, ma oramai ha qualcosa che è veramente difficile da immaginare: ovun- que sia, ma sicuramente lì sulle pendici di Montecassino, dove il nostro soldato all’attacco ad ogni passo entrava in una zona minata, mentre i tedeschi in difesa erano assestati come in un agguato preparato meticolosamente e più volte riu- scito. L’oscurità totale della notte e del fumo: non si vedeva nulla a pochi passi di distanza. Persino i soldati della stessa divisione in marcia o tentando di avanzare in marcia, cadevano sotto il fuoco nemico e si rialzavano di nuovo, fra le esplosioni vicine o in mezzo a loro, perdevano il collegamento col gruppo e si ritrovavano a mala pena, non si rendevano conto della situazione in cui erano… Senza dubbio anche questa battaglia aveva una sua logica d’insieme ma nessuno era in grado di intravederla. E in queste particolari condizioni ognuno vedeva meno di quanto di solito accade nelle odierne battaglie, perché con lo sguardo non penetrava nean- che nell’oscurità più vicina, che era il suo principale riparo, anche se incerto.

In questo quadro della battaglia di Montecassino, mi riconosco pienamente come uno di coloro che vi hanno preso parte. Riaffiorano brandelli confusi di ricordi. La brec- cia oscura della salita, la notte fra il 16 e 17 maggio, con le scarpe avvolte in sacchi, sull’altura 593, fino al momento in cui i tedeschi, lanciando nel cielo un razzo, muta- rono la notte in giorno, e la via della nostra pattuglia, in un macello. Come abbiamo po- tuto raggiungere, l’osservatore d’artiglieria e io con l’apparecchio radiofonico sulle spalle, la vetta del colle fra i soldati che cadevano intorno a noi? Come abbiamo potuto, nel corso di tutta la giornata del 17 maggio, condurre il fuoco dell’artiglieria dal cre- paccio roccioso e poco profondo, in prossimità dei fortini tedeschi? Come sull’imbrunire siamo potuti scendere giù fino alla Casetta del dottore? Nella Casetta del dottore piena zeppa di soldati, i brandelli dei ricordi diventano più intensi. Rammento i dialoghi nel- l’oscurità, in cui ci chiedevamo se la battaglia sarebbe stata vinta o persa: ne sapevamo così poco quella notte fra il 17 e il 18 maggio, poco prima che la bandiera della vitto- ria venisse innalzata sull’Abbazia. Ricordo anche la supplica di un soldato di collega- mento che con una voce cantilenante cercava di convincere il suo comandante che il cavo estratto dalla Casetta del dottore (per le difficoltà nella comunicazione radiofo- nica) non era stato subito sminuzzato dalle lame dei tedeschi che incessantemente lo avevano sfiorato. In questa sua istanza non vi era nessun sfoggio di bravura, ma sola- mente il ripetersi continuo della stessa frase: «Anch’io voglio dare il mio contributo». Può darsi che ricordo questi due episodi perché hanno rappresentato, almeno per me, una sintesi perfetta della battaglia: i suoi esiti incerti fino alla fine, la sua altissima tensione sopportata da tutti fino allo stremo e che nella fraseologia dei comunicati di guerra veniva di solito definita come “volontà di vittoria”. È stata senza dubbio una battaglia grande. L’abbiamo fortemente voluta, abbiamo vissuto con la mente rivolta a lei in Pa- lestina, in Iraq, in Egitto, addestrandoci nel deserto, ascoltando le notizie che pro- venivano dalla Polonia. È facile oggi affermare che cinque mesi dopo Teheran era oramai politicamente inutile. È altrettanto facile esprimere oggi un giudizio analogo, se non ancora più categorico, sull’insurrezione di Varsavia. Esistono processi che una

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volta messi in moto e continuamente alimentati, non si possono arrestare a un passo dal loro compimento senza rischiare una disfatta spirituale per lunghi anni a venire. La storia dell’Armia Krajowa3 tendeva fin dall’inizio verso l’insurrezione, così come nella storia del secondo Corpo4 era scolpita fin dall’inizio la Battaglia. Non eravamo dei condottieri: e lo testimonia tra l’altro la rivolta della quinta Divisione — che fu troppo presto sedata, o meglio scongiurata in modo miope dal comando del secondo Corpo — alla vigilia del disarmo dell’esercito e del suo imbarco su una nave diretta in Inghil- terra. Eravamo, lontano dai confini del nostro paese, compagni d’arme dei soldati del- l’Armia Krajowa. Durante le celebrazioni ad agosto dei venticinque anni dalla battaglia di Montecassino, è mancato un segno che testimoniasse questo fatto semplice ed evi- dente: avrebbe potuto essere posta all’ingresso del cimitero una simbolica lapide se- polcrale alla memoria di Grot-Rowecki5. A testimoniare che i venticinque anni dalla battaglia erano allo stesso tempo i venticinque anni dall’insurrezione. Da alcuni anni abito vicino all’antico campo di battaglia, dunque mi accade spesso di farlo visitare agli amici e conoscenti che vengono da queste parti. Una volta ho detto a qualcuno che è l’ultimo cimitero della Repubblica polacca. E la stessa identica osservazione mi è stata fatta in seguito da Maria Dąbrowska e Anna Kowalska6, dopo una visita al cimi- tero. Nella ricorrenza dei venticinque anni dalla battaglia, sono state celebrate nell’ultimo cimitero della Repubblica polacca quattro funzioni religiose: cattolica, uniate, ebrea ed evangelica (purtroppo è stata dimenticata la cerimonia greco-ortodossa). La parola “ultimo” è risuonata fra le alture che circondano l’Abbazia con una eco multiforme. La cerimonia celebrata a Montecassino era anche l’ultimo capitolo dell’emigrazione degli anni della guerra. In uno degli articoli scritti in occasione dell’anniversario della battaglia, leggo che i polacchi hanno un «sussulto di orgoglio» nel sentir risuonare il nome Montecassino, poiché come «nazione cavalleresca» pongono «la lotta a visiera scoperta»

3 Esercito nazionale: la principale formazione della resistenza antinazista, che ebbe un ruolo fon- damentale nell’insurrezione di Varsavia. 4 Il secondo Corpo dell’esercito polacco in esilio, costituito dal generale Anders nei territori del- l’Unione Sovietica in seguito all’accordo sottoscritto fra Sikorski e Maiskij nel 1941, fu «un eser- cito — come lo ha definito Herling nel testo inedito di una conferenza tenuta all’Istituto polacco di Roma il 10 giugno 1998 — di ex prigionieri dei campi sovietici al comando di un ex prigioniero». 5 Il generale Stefan Rowecki (1895-1944): dal 1940 comandante delle forze armate in Polonia sotto l’occupazione tedesca (Zwz-Armia Krajowa), nella fase finale della guerra diresse la preparazione del piano dell’insurrezione di Varsavia. Arrestato il 30 giugno 1943, fu ucciso dai tedeschi nel lager di Sachsenhausen nell’agosto 1944. 6 La scrittrice Maria Dąbrowska (1889-1965) si è affermata con la raccolta di novelle e racconti Lud- zie stamtąd, 1925 (trad. it.: Erbe selvatiche. Gente di là, Feltrinelli, Milano 1961); e poi con il ro- manzo in quattro volumi Noce i dnie [Le notti e i giorni], 1932-1934, saga di due generazioni di una famiglia polacca negli anni bui dal 1880 al 1914. Anna Kowalska (1903-1969) autrice di novelle, rac- conti e romanzi, molti dei quali ambientati a Leopoli dove è nata e ha vissuto fino agli anni della guerra. Dal 1954 a Varsavia ha svolto un ruolo attivo nell’organizzazione della vita culturale in Po- lonia nel secondo dopoguerra.

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al di sopra della «lotta nascosta e clandestina», e preferiscono «l’alloro dei condottieri vittoriosi» al «martirio dei Traugutt»7. Non mi intendo di psicologia immutabile delle na- zioni (in particolare ex definitione “cavalleresche”), ma so che ai polacchi da allora è rimasta solo la via della lotta più o meno nascosta e clandestina. Il 15 agosto a Monte- cassino vi è stato il commiato da un’epoca definitivamente conclusa.

7 Romuald Traugutt, nella fase finale dell’insurrezione polacca del 1863, assunse il potere del go- verno provvisorio che doveva guidare la resistenza clandestina contro l’esercito russo, in attesa e nella speranza di un intervento delle potenze occidentali. Il tentativo fallì e l’insurrezione si con- cluse con una drammatica sconfitta e una brutale repressione.

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Dialogo intorno al Comandante, il generale Władysław Anders, in occasione della sua scomparsa (1970)1

di Józef Czapski, Gustaw Herling-Grudziński

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

Gustaw Herling-Grudziński: — Il giorno della mia partenza per recarmi ai funerali del generale Anders, ricevetti per posta l’ultimo numero di “Tygodnik Powszechny” con un articolo di Andrzej Kijowski intitolato La nostra guerra di Troia2. Lo lessi lungo la strada da Napoli a Monte Cassino. La mattina presto di una domenica di maggio, gli inquilini di un palazzo di Varsa- via vengono svegliati da alcuni ciechi che fanno musica con violino e armonica. Cantano canzoni di guerra, tra cui una ben nota sulla battaglia di Monte Cassino. Senti un po’ qual è stata la riflessione di Kijowski: «La nostra guerra di Troia. Uno era il suo soldato, un altro il suo generale, un altro il suo prigioniero, un altro costretto all’esilio per causa sua, un altro l’ha osservata di nascosto, ad un uno ha rubato l’infanzia, ad un altro ha avvelenato la vita attraverso i ricordi altrui; al suo cospetto siamo tutti sempre più uguali, perché il tempo allontana da essa tutti noi allo stesso modo, non liberandoci, però, dalla dipendenza che essa impone alle nostre anime… Tutti i conflitti gravi tra noi risvegliano gli echi di questa guerra passata da tempo, come se noi tutti continuassimo a prendere da essa — quasi fosse una centrale elettrica — energia, scuotimenti, stimoli. Non mi riferisco soltanto ai conflitti internazionali, che sono il risultato di questioni po- litiche non risolte fino in fondo, ma anche a quei conflitti generati dalla contrapposi- zione degli atteggiamenti di principio assunti nei confronti della vita sociale, come anche nei confronti della vita in generale… Quando i giovani insorgono contro il potere, come accadde in Francia e in altri paesi due anni fa, oppure quando il figlio litiga con il padre a cena, tale conflitto, se avrà slancio e gravità, attraverso una sua contorta di- ramazione si congiungerà sempre e comunque con ciò che avvenne un quarto di secolo fa. Andarono Caparbi e Folli — cantano i ciechi; volano le monete avvolte nella carta, i bambini le raccolgono e le infilano nelle tasche dei musicisti. Questa guerra ha co- stretto l’umanità (in Europa) al massimo della sofferenza, dello sforzo e del coraggio, diventando la misura di quello che l’essere umano può… Com’era semplice allora sce- gliere la causa giusta e com’era facile credere nella sua vittoria. Almeno oggi ci sem-

1 JÓZEF CZAPSKI, GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Dialog o Dowódcy, “Kultura”, Lipiec-Sierpień 1970, pp. 15-25. Si ringraziano in particolare Marta Herling e Henryk Giedroyc per aver autorizzato la traduzione e pubblicazione di questo testo fino a oggi inedito in Italia. 2 “Tygodnik Powszechny”, n. 21, 1970; rist. in A. KIJOWSKI, Gdybym był królem, Poznań 1988.

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bra così». Il concerto del cortile di Varsavia volge al termine, i ciechi siedono sul mu- retto che circonda il giardino dell’asilo, facendo scivolare le monete tra le dita con il capo alzato verso il giovane sole. Durante il funerale del Comandante a Monte Cassino, spesso alzavamo la testa in direzione del giovane sole di primavera, facendo scivolare tra le dita gli anni da tempo trascorsi. Noi, ciechi, con il soldo di guerra dei ricordi buoni e cattivi, delle speranze deluse, delle illusioni perdute? «La centrale elettrica nascosta» dalla quale continuano ad arrivare ai polacchi «correnti, scuotimenti, stimoli» percettibili dalle dita? Centi- naia di uomini sullo sfondo bianco del cimitero, numerosi nelle loro divise militari tirate fuori dalla naftalina. Sono stato lì nell’agosto dell’anno scorso, alla cerimonia del ven- ticinquesimo anniversario della battaglia. Scrissi allora che questo era l’ultimo capi- tolo dell’emigrazione bellica3. Ora c’è ancora un epilogo: la tomba proprio quasi nel punto in cui nove mesi fa sedeva il Generale, accomiatandosi dai suoi soldati vivi e morti. Naturalmente i ricordi tornano alla tappa russa del nostro percorso. Dopo un mese e mezzo di cammino dal lager sul Mar Bianco, raggiunsi, all’inizio del marzo 1942, la de- cima Divisione che si stava formando a Lugovoj nel Kazakistan. Allo stremo delle forze, con gli stracci del lager, affamato, coperto da ulcere. Fui condotto alla tenda dove si trovavano alcuni soldati rimessi in piedi alla meno peggio, anche loro o prigionieri o deportati; mi fu concesso di rimanere sdraiato sul materasso anche all’ora della sveglia. Scavando nella memoria, non bisogna vergognarsi dei nostri momenti sentimentali. Quando sentii un canto corale polacco, ringraziai Dio di essere solo nella tenda. Forse tutti quegli esuli dai lager e dalle deportazioni, vivi per metà, piangevano il primo giorno dopo il risveglio nell’esercito? Eravamo un’armata di prigionieri, comandata da un prigioniero e ricostruita con il consenso resistente delle guardie carcerarie. Dico «il consenso resistente», perché una volta, mentre venivo dal lager, mi è successo di chie- dere aiuto a un comando sovietico per poter continuare il mio viaggio; fui invogliato ad abbandonare l’idea di raggiungere l’esercito polacco e ad entrare nella Krasnaja Armija [Armata Rossa].

Józef Czapski: — Sei stato al funerale del Generale, lo hai salutato a Monte Cas- sino, dove hai combattuto sotto il suo comando (io a quell’epoca «distribuivo giornali») — ti invidio. La morte del Generale, che da molto tempo sembrava inevitabilmente vicina, mi toccò più di quanto mi potessi aspettare, misurai allora la mia devozione a quest’uomo, ma c’era di più: c’era la sensazione di un filo rotto, un filo che negli ultimi anni legava tutti noi soprattutto simbolicamente. Il suo destino, le sue gesta erano la nostra storia. Parli dei ricordi russi che ritornano, del tuo viaggio allo stremo delle forze da un «mondo a parte» all’esercito, e in queste poche frasi, parlando di te, parli del destino di migliaia di polacchi che affluivano nell’esercito dall’intera URSS. Quanti non hanno

3 Cfr. GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział, “Kultura”, n. 10, 1969; trad. it., L’ultimo capi- tolo, qui riproposto (vedi nell’indice in www.poloniaeuropae.eu).

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raggiunto quell’esercito! «Se si iniziasse a formare un esercito polacco in qualsiasi posto, lo raggiungerei anche in ginocchio» — mi disse ancora a Starobel’sk il maggiore Adam Sołtan, capo dello Stato maggiore del Generale Anders durante la campagna di settembre. Tale sogno non si avverò né per lui né per tanti altri, ma si avverò per noi. Nei miei ricordi riguardanti il Generale domina la tappa russa. Solo allora vidi l’uomo, percepii il suo spessore, e non un “Kmicic”, di cui si innamoravano tutte le donne (così lo vidi nel 1917), bensì un capo. Claudicante, col bastone, cera terrea, venne da noi a Grjazovec dritto dritto dalla Lubianka, e ci chiamò di nuovo in servizio attivo. Era la fine dell’agosto del 1941. Dopo alcune settimane, quando nel nostro esercito che si stava formando a sud, l’incomprensibile assenza di tutti gli ufficiali e sottufficiali dei tre campi, Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov (ad eccezione dei quattrocento di Grjazovec), divenne la nostra os- sessione, Anders mi nominò capo delle ricerche degli ufficiali e soldati dispersi. Allora, lavorando sotto il suo diretto comando, per oltre sei mesi ebbi tempo di osservarlo. Mi colpì la sua calma, la sua concentrazione, il controllo dei movimenti e la capacità — in caso di bisogno — di prendere una decisione immediata. Impegnato a costituire l’eser- cito in condizioni apparentemente impossibili, Anders sembrava, anche allora, non solo non dimenticare le ricerche e le richieste, ma addirittura dava priorità alla questione. Il Generale reagiva immediatamente a ogni notizia sulle tracce o sulla speranza che vi fossero tracce degli ufficiali che tardavano a presentarsi. Impegnandosi senza riserve, si rendeva inviso alle più alte istanze sovietiche, indirizzando loro incessanti richieste, inondando le autorità sovietiche di telegrammi, chiedendo ai capi dei lager e a quelli dell’NKVD il rilascio immediato di tutti i polacchi. Il nome Katyń allora ci era assoluta- mente ignoto. Tuttavia, ritornando con il pensiero a quell’epoca, penso istintivamente al Generale e lo associo non soltanto a Monte Cassino, ma anche a Katyń. Uno degli ultimi interventi pubblici del Generale, se non addirittura l’ultimo, ebbe luogo durante la riunione svoltasi a Londra in occasione dell’anniversario di Katyń. Il Generale si era scusato con i presenti per il fatto di dover parlare seduto. Parlava molto piano, sapeva che non solo i giorni della sua vita erano contati, ma anche i battiti del suo cuore. E, forse, per questa ragione, volle prendere ancora una volta la parola per manifestare la sua fedeltà ai compagni d’armi là caduti.

Gustaw Herling-Grudziński: — La questione riguardante il trasferimento dall’URSS. Tra gli argomenti a favore usati più di frequente dal Generale, c’erano in prevalenza ra- gioni tecniche e militari: la riduzione del rancio, le difficoltà per quel che concerneva l’armamento e l’addestramento, la minaccia di divisione delle unità polacche (cosa che chiaramente avrebbe dovuto avere a lungo termine conseguenze politiche facilmente prevedibili); Anders, nella sua ultima intervista, mette in secondo piano le resistenze psicologiche e morali dell’esercito dei prigionieri, convinto che queste potessero essere superate. Gli argomenti contro, rappresentati nel modo più completo dal pro- fessor Kot, riducevano l’intero problema alla questione dell’ambizione personale del Generale: «Ciò che accadde fu colpa del gruppo di alti ufficiali, ma a partire da un certo momento divenne principalmente colpa di Anders, il quale permise che si accen- desse in lui la rivalità col generale Sikorski, con il conseguente trasferimento del- l’esercito polacco fuori della Russia col pretesto di salvare delle vite umane. La massa

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dei soldati in Russia che adorava Sikorski non aveva alcuna ambizione personale e avrebbe obbedito ad ogni suo comando andando su ogni fronte. Tale moltitudine, no- nostante le ingiustizie subite in Russia, aveva sempre in mente il fatto che Hitler e l’in- vasione tedesca erano stati la causa prima delle loro disgrazie… Il fatto di spaventare successivamente i soldati, col dire che cosa sarebbe stato di loro se fossero andati al fronte dal lato russo, fu aggiunto ad arte per calmare la coscienza del Generale». Secondo me, sia Anders sia Kot dicono solo una parte di verità. Per quanto riguarda il primo, gli ostacoli tecnici e militari non erano i più importanti; mentre erano impor- tanti i timori politici più che giustificati alla luce dell’esperienza, come anche le resi- stenze psicologiche e morali che Anders prima della morte inutilmente relegò nell’ombra; suppongo che egli non sia stato del tutto sincero nella sua ultima intervi- sta, nel corso della quale assicurava che, durante la formazione della divisione polacca in URSS, la sua valutazione sulle possibilità militari della Russia, nello scontro con i te- deschi, non era stata estremamente pessimistica; in realtà, egli prendeva in conside- razione una sconfitta della Russia. Per quanto riguarda l’altro, io, come appartenente alla «massa dei soldati in Russia», sono pronto senza esitazione ad essere d’accordo con Kot, affermando che non avevamo alcuna ambizione personale (?), che avremmo se- guito ogni comando, saremmo andati su ogni fronte e che ricordavamo bene quale fosse la principale causa delle nostre sventure; ma non era affatto una cosa così semplice, «nonostante le ingiustizie subite in Russia»; tacevamo in generale (sia per il senso di disciplina sia per il timore che sentivamo nei confronti di onnipresenti agenti o delatori dell’NKVD), macinavamo in silenzio incessantemente le ingiustizie subite, ci sentivamo «su una terra disumana», in una situazione moralmente falsa; non poteva essere altri- menti in un esercito composto da vittime di conquiste e sopraffazioni e, per di più, costituito per la maggior parte da abitanti di una regione dello Stato polacco contestata da Stalin. Era, quindi, difficile prevedere in che modo si sarebbe comportato il nostro esercito a fianco del persecutore di ieri, trasformatosi nell’arco di una notte di giugno del 1941 nell’«alleato dei nostri alleati»; del resto, la storia non è fatta di se, basti dire che se è dovere di un buon capo mettere l’esercito a lui subordinato in condizioni psicologiche e morali accettabili, allora Anders ha compiuto il suo dovere, portandoci via dalla Russia. Tra parentesi, quando negli anni Cinquanta incontrai il professor Kot a Londra, questi, dopo aver ascoltato i miei racconti, non era sicuro al cento per cento della giustezza della sua presa di posizione. Sorge la domanda quale sia stato l’apporto di Anders alla questione basilare delle relazioni polacco-sovietiche. Nulla. È lecito dubitare sul fatto che, nonostante tutta la sua buona volontà, Sikorski abbia dato qualcosa di più oltre al momento di una breve congiuntura che diede un frutto concreto, cioè riuscire a strappare dalle galere, dai lager e dalle deportazioni centomila persone, poi portate via da Anders in Persia. Con una volontà ancora più determinata di quella di Sikorski, lo stesso Beneš non ha dato un grande contributo alle relazioni tra Cecoslovacchia e Unione Sovietica, tranne il fatto di rimandare la sentenza di tre anni. Questo nostro comune “nulla” era la conseguenza del sovietico “tutto”. A mio avviso, si potrebbe riassumere la tappa russa di Anders in questo modo: un capo responsabile, ma non politico, in una situazione in cui la stessa politica ufficiale polacca si avvicinava sempre più alla quadratura del cerchio.

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Józef Czapski: — Tocchi le questioni più controverse: la questione del trasferi- mento dall’URSS e dei motivi che portarono a tale decisione, della serie di mosse del Generale che non sempre seguivano la linea dei piani politici di Sikorski e del suo più devoto rappresentante, l’ambasciatore Kot a Kujbyšev. Non ho dubbi che, alla base degli attriti che ebbero luogo allora, ci fosse una differente valutazione della situa- zione da parte di Sikorski e di Anders. Quest’ultimo, fin dai primi momenti, era molto scettico per quanto riguardava l’eventualità di una leale collaborazione tra le autorità sovietiche e l’esercito polacco, ma dopo alcuni mesi in Anders si era cristallizzata la convinzione che la costituzione di un esercito polacco, in grado di affrontare le batta- glie, sarebbe stata impossibile nelle condizioni sovietiche. Eppure, proprio Anders cercò di creare, con onestà, questo esercito senza armi, malnutrito, circondato da un nugolo di spie. Mi sembra che tu non tenga in giusto conto l’argomentazione di primo piano, cioè l’aspetto tecnico-militare, argomentazione che non era ovviamente unica ma di grande rilevanza. Qui vorrei citare le conversazioni, a suo tempo trascritte, di Anders con il capitano di cavalleria Klimkowski, tenutesi nel maggio o giugno del 1942 in mia presenza. Klim- kowski all’improvviso se ne uscì, durante la prima colazione, con la tesi secondo la quale l’esercito polacco sarebbe dovuto rimanere in Russia. «Non dire sciocchezze — sbottò Anders — che esercito può essere questo con il di- ciotto per cento di uomini malati di cecità crepuscolare a causa dell’avitaminosi, senza armi; te lo puoi immaginare questo esercito come qualcosa di diverso dalla carne per i cannoni dei bolscevichi?». La percezione del clima che regnava nell’esercito e l’istinto del capo che con- traddistingueva Anders lo mettevano in una posizione molto concreta rispetto alle intenzioni di allora della “grande” politica nei confronti della Russia; di una politica che in realtà si mostrava sovente una finzione irreale. L’argomentazione del professor Kot, del resto formulata in modo tanto drastico dopo alcuni anni, che riconduceva il tutto all’ambizione personale di Anders e alla sua rivalità con Sikorski, non regge alla critica. Lo sforzo di Anders, compiuto nella prima fase mirante alla cooperazione con la Russia, ci sembra sincero e totale, nonostante le selvagge condizioni in cui era costretto a costituire l’esercito. La convinzione che il trasferimento dell’esercito fuori della Russia fosse l’unica soluzione ebbe in lui un lungo processo di incubazione, ma nel momento in cui tale soluzione gli sembrò l’unica pos- sibile, la assunse in pieno pronto a mettersi contro Mosca, contro gli inglesi in Persia e contro il nostro governo a Londra, mettendolo ogni volta davanti al fatto compiuto. Oggi, guardando la realtà dopo che sono trascorsi tanti anni, quel, come tu dici, “tutto” russo avrebbe cancellato i tentativi di una politica che avesse preteso di lasciare l’eser- cito in Russia. Parlo di quella politica che l’ambasciatore Kot avrebbe voluto e tentava di realizzare fino in fondo contro tutti.

Gustaw Herling Grudziński: — Sono stato in Medio Oriente da soldato semplice e non so nulla di sicuro circa gli attriti o i contrasti fra Anders e Sikorski. Forse tu cono- sci queste cose in maniera un po’ più precisa. Il periodo precedente alla partenza per l’Italia mi si configura dal punto di vista della massa dei soldati semplici, così come ho scritto a margine delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della battaglia

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di Monte Cassino: «Volevamo la battaglia, vivevamo con questo pensiero in Palestina, in Iraq, in Egitto, addestrandoci nel deserto, ascoltando le notizie che provenivano dalla Polonia». Ciò suona in maniera patetica, ma è la verità. Quando oggi ci si domanda se, passati cinque mesi dopo Teheran, la nostra partecipazione alla battaglia fosse oppor- tuna, alzo le spalle. In quella battaglia c’era una specie di corsa alla purificazione dalla sconfitta, dall’abbrutimento, dalle sofferenze, dall’oppressione in cui viveva il nostro paese, dalla lunga attesa nel deserto. Subito dopo essere arrivato dall’Egitto, mi sono ammalato gravemente, ma non appena fui dimesso dall’ospedale britannico nei pressi di Salerno, corsi come un invasato al reparto per giungere in tempo, ancora molto de- bilitato. A proposito, ricordi forse che ci siamo conosciuti là a Campobasso… Sì, questa era e sarà per me sempre una grande battaglia, ci siamo battuti in essa sotto il co- mando di un bravo capo. Ma mettiamo da parte gli umori soldateschi. Anche dal punto di vista politico Monte Cassino ha avuto il suo significato, come l’ultimo tentativo di rea- lizzare il piano “balcanico” di Churchill. Quando, dopo la conquista di Roma, una vit- toria rapida e totale nell’ambito della campagna italiana era alla nostra immediata portata, quando le ventotto divisioni di Alexander inseguivano le ventuno malmesse di- visioni di Kesselring e noi, passeggiando, avremmo potuto quasi raggiungere le Alpi, fer- mandoci alle frontiere dell’Europa centrale, su richiesta di Eisenhower e di Marshall sono state ritirate dall’Italia sette divisioni destinate all’invasione della Francia meri- dionale. Questo feroce inseguimento si trasformò in una lenta corsa a ostacoli, il fronte italiano si era raffreddato e finì in secondo piano. Solo allora divenne chiaro che il piano “balcanico” era definitivamente fallito. E solo allora ci si poté domandare se la nostra partecipazione alla campagna d’Italia per forza di cose rallentata avesse un senso. Non so se Anders si chiedesse ciò seriamente. So soltanto che da quel momento la nostra «guerra di Troia», nella sua tratta occidentale, divenne unicamente un simbolo e che, di fronte a ciò, bisognava custodire fino in fondo tale simbolo. Dopo Jalta non ci è rimasto altro che rifiutarci di consegnare le armi agli inglesi e obbligarli ad internarci sotto gli occhi del mondo. Queste erano le premesse della rivolta della quinta Divisione alla quale presi parte anch’io. Anders, come ricordi, era indignato, per due ragioni credo: in primo luogo (cosa che del resto disse in faccia al capo della quinta Divisione, Generale Sulik), si prevedeva il repentino scoppio di una nuova guerra. In secondo luogo (che in qualche modo si lega al primo) ci teneva a non inasprire i rapporti con gli inglesi malgrado Jalta. A mio avviso, in questo caso ci deluse in quanto nostro capo e dimostrò uno scarso discernimento. Personalmente ritengo piuttosto credibile la sua intervista ri- lasciata al quotidiano svizzero “Die Tat”. Lo si può giustificare con quel disorientamento politico (almeno credo e aggiungo, per essere giusti, abbastanza diffuso tra gli emi- grati) a conclusione della seconda guerra mondiale. Di Londra preferisco non parlare, anche se ci sono vissuto per circa cinque anni, dal 1947 al 1952. Mi sembra, tuttavia, che, sia allora sia dopo, Anders sarebbe dovuto rimanere in disparte, lontano «dai biasimevoli litigi». Egli era soltanto un eccellente ed eroico comandante e dopo la guerra il suo ruolo non era altro se non quello di cedere il posto alla leggenda.

Józef Czapski: — Parlando degli umori della massa dei soldati, «volevamo la bat- taglia, vivevamo con questo pensiero in Palestina, in Iraq e in Egitto» — tu accenni agli

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attriti e ai contrasti di allora tra Anders e Sikorski, sottolineando che io avrei dovuto sa- perne un po’ di più. Sì, per forza di cose, è così. La tensione nei rapporti di allora tra Sikorski e Anders era dovuta alla critica, feroce e diffusa nel Corpo d’armata, verso la politica di Sikorski nei confronti della Russia. Gli si rimproverava morbidezza ed arren- devolezza nei riguardi di ogni persona che provenisse dalla Russia, mentre sembrava che la politica sovietica verso la Polonia esigesse reazioni determinate e violente. E per di più ci cadde come un fulmine Katyń. Il Corpo d’armata, insieme ad Anders, era lontano da Londra non solo dal punto di vista geografico; le pressioni del governo inglese sul go- verno polacco, l’atteggiamento del governo nei riguardi della politica degli alleati per i quali già allora non irritare la Russia era un dogma, tutti questi elementi erano sotto- valutati nel Vicino Oriente. Klimkowski, a quel tempo luogotenente di Anders, stava cristallizzando una corrente estremamente antigovernativa all’interno dell’esercito e cercava di creare tra i giovani ufficiali un centro di cospirazione fortemente ostile a Sikorski. Anders lo tollerò per un certo periodo di tempo, considerando probabilmente questa febbre di giovani ufficiali come una sorta di argomento o una specie di atout nel gioco con Sikorski. Tutto il carisma di Klimkowski nell’esercito poggiava sulla convin- zione che egli fosse il portavoce dei pensieri e delle indicazioni del comandante. Quando, ad un certo punto, Klimkowski venne allontanato da un giorno all’altro dalla cerchia più stretta del generale Anders, praticamente cessò di esistere e la cospira- zione finì nel nulla. Oggi ci sembra che ci sia stato un solo momento grave, quando Anders stesso era deciso a dire di no al capo supremo assumendosi tutte le conseguenze di ciò. Nel pe- riodo in cui Sikorski arrivò nel Vicino Oriente, durante una grande riunione con gli uffi- ciali convocata senza avvisare Anders, parlando dell’imminente partenza dell’esercito per l’Italia allo scopo di combattere, disse che il generale Anders avrebbe potuto sce- gliere: o conservare il comando di tutte le forze nel Vicino Oriente e in Italia, rimanendo da solo in Palestina, oppure rinunciare alla propria carica e comandare l’esercito sul campo di battaglia. Questo genere di proposta di divisione e di scelta fu per Anders una sorpresa. Da quel momento — fino al giorno in cui Sikorski si accomiatò dall’esercito a Bagdad — interruppe con lui praticamente qualsiasi dialogo. «Parlavo con lui del bel tempo, del paesaggio e di belle donne» — mi disse Anders. A Bagdad si sarebbe dovuta prendere la decisione definitiva, e Sikorski sapeva che Anders non avrebbe ceduto il comando sull’intero esercito di stanza in Oriente di sua volontà e che non avrebbe rinunciato al comando diretto delle operazioni sul fronte. Sikorski, allora, cedette. Chi conosceva Anders sapeva bene che egli possedeva un’ap- passionata volontà di potere: non sarebbe stato un comodo subordinato né avrebbe ce- duto senza lottare il potere già acquisito. Allora, nel Vicino Oriente, Sikorski era ormai un uomo stanco, consumato dalle responsabilità per l’insieme della questione polacca, coinvolto nel desiderio di unire tutti i polacchi — sotto il suo comando naturalmente — e, inoltre, i suoi atteggiamenti vanitosi, quasi infantili, non gli guadagnavano nuovi se- guaci. Anders era al massimo delle forze e dell’ambizione e sapeva di poter assoluta- mente contare sull’esercito nel Vicino Oriente. A Bagdad Sikorski si rese conto di tutto ciò e la volontà di Anders ebbe la meglio. Il capo supremo dovette allora prendere atto della situazione e così salvò l’esercito dalla minaccia di una contesa. Talvolta mi ri- cordo di un mio ulteriore e ultimo incontro con lui al Cairo. Mi disse allora: «Mi ricono-

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sca di aver agito bene venendo da voi, così sono riuscito ad appianare molti malintesi e molte difficoltà. Bisogna assolutamente lavorare tutti insieme, occorre mitigare i dissidi». Che cosa potrei aggiungere a proposito di Monte Cassino? Forse una sola cosa: gli attacchi della stampa comunista e di quella non comunista — secondo cui Anders spre- cava disinvoltamente il sangue dei suoi soldati — erano profondamente ingiusti. Non scorderò mai la conversazione con lui svoltasi poche settimane prima della battaglia, quando mi convocò a Campobasso. Non sapevo nulla del fatto che avrebbe accettato la proposta del comando inglese e che le divisioni polacche avrebbero dovuto compiere l’attacco frontale a Monte Cassino. Parlava poco, era assorto nei suoi pensieri e quasi totalmente solo. Lo vedo ancora davanti alla tenda, tra gli ulivi — non so se ricordo bene, all’orizzonte si profilava la sagoma del monastero? Mi disse soltanto «sai mi sono assunto una grande responsabilità» e all’improvviso, proprio in quel momento, mi parve profondamente se stesso: un capo il cui intero pensiero andava in un’unica direzione — come fare per affrontare tale responsabilità, come assolvere questo compito. L’ho visto molte volte durante la battaglia di Monte Cassino. La sua sorprendente calma in questa incredibile tensione colpiva tutti noi. Non parlerò di quella che tu chiami «rivolta» della quinta Divisione, semplicemente perché ho dei vuoti di memoria. Mi ricordo solo che, durante quel mio colloquio con Anders, intuii la sua reazione estremamente negativa ad ogni tentativo di dimostra- zione contro gli inglesi o contro gli alleati. Era profondamente convinto del fatto che fosse nostro dovere mantenere la nostra lealtà, dal momento che la guerra non era an- cora finita e si stavano stratificando le decisioni politiche; pertanto ogni rivolta del- l’esercito ci avrebbe danneggiati agli occhi del mondo.

Gustaw Herling-Grudziński: — Un giorno, poco prima della battaglia, trasporta- vamo sui muli gli approvvigionamenti, quando all’improvviso di lato comparve una pic- cola jeep con Anders seduto dentro. Ci salutò rivolgendoci qualche domanda veloce e concreta. Fu questo il mio unico incontro con lui durante la guerra, se non teniamo conto delle cerimonie per la decorazione degli ufficiali ad Ancona, dove egli assisteva Sosnkowski. Non gli era rimasto molto del suo sguardo magnetico quando gli fui pre- sentato a Londra, nel 1968, e quando, un anno dopo, parlai brevemente con lui in occasione delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della battaglia. Aveva conservato un’eccellente memoria, ma erano come dei bagliori che apparivano nel- l’assenza che allargava sempre più la sua ombra. Ho visto morire il mio vecchio comandante. Bisogna tornare indietro al punto di partenza, all’articolo di Kijowski sulla matti- nata di maggio varsaviana. «Tutti i conflitti gravi tra noi risvegliano gli echi di questa guerra passata da tempo, come se noi tutti continuassimo a prendere da essa — quasi fosse una centrale elettrica — energia, scuotimenti, stimoli». Se è veramente una «cen- trale elettrica», lo è solo nella leggenda. Qui non posso non citare il brano conclusivo della mia nota pubblicata su “Kultura” di ottobre dell’anno scorso. «Le celebrazioni per Monte Cassino sono state l’ultimo capitolo dell’emigrazione bellica. Leggo in uno degli articoli scritti in occasione dell’anniversario che i Polacchi provano “un brivido di or- goglio” al suono del nome di Monte Cassino, perché in quanto “popolo cavalleresco”

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apprezzano di più “la battaglia con la visiera alzata” anziché “la lotta clandestina e sotterranea”, e al “martirio dei Traugutt” preferiscono “l’alloro dei comandanti vincitori”. Non mi intendo dell’immutabile psicologia dei popoli (soprattutto di quelli ex definitione “cavallereschi”), so comunque che ai polacchi, da allora, rimane solo la via della lotta più o meno nascosta e clandestina. Il 15 agosto a Monte Cassino è stato dato l’addio a un’epoca che si è definitivamente chiusa»4. Il 23 maggio di quest’anno su di essa è stata posta una pietra tombale con la scritta: Władysław Anders, Generale di Corpo d’armata, nato l’11 agosto 1892 a Błonie, morto il 12 maggio 1970 a Londra.

Józef Czapski: — Questa pietra tombale chiude, come dici tu, l’ultimo capitolo dell’emigrazione bellica. Ma proprio oggi bisogna ricordare che Anders è stato anche il principale costruttore di quella “piccola Polonia” che si costituì in Iraq e in Italia; i suoi contorni, il suo significato profondo esulavano di gran lunga dal compito puramente militare dell’esercito. Ma che cos’era questa “piccola Polonia” in Oriente? Soldati provenienti dalla Russia con alle spalle anni nei campi sovietici; soldati da Tobruk già con una bella pagina di guerra; donne soldato che durante la guerra svolsero un ruolo molto importante nei servizi ausiliari; soldati — quasi bambini — e tra questi più di uno era ritornato analfabeta nei kolchoz. Grazie ad Anders, sorge nell’esercito un ampio e articolato sistema d’istruzione: ginnasi, istituti tecnici, in Palestina, in Egitto, in Libano e in seguito in Italia. Verso la fine della guerra, circa quattromila giovani frequentano i ginnasi e le università a Bei- rut, a Roma, a Milano e a Torino. Nello stesso tempo il Corpo crea e amplia il settore editoriale, dove si pubblicano centinaia di testi scolastici a partire dalla letteratura classica e moderna fino ai volumetti dei poeti dell’esercito, libri illustrati, e perfino un’edizione di Pan Tadeusz che viene distribuita in diecimila copie. Inoltre, il Comandante si trova di fronte a problemi dovuti alla composizione ete- rogenea dell’esercito nazionale. Questo esercito in grande percentuale era formato da minoranze nazionali: ucraini accanto ai lituani, ebrei accanto ai bielorussi. D’intesa con il vescovo Gawlina, Anders ordina di far stampare libri di preghiera greco-cattolici, ammette nell’esercito cappellani ucraini; agli ucraini, che nell’URSS si fingevano po- lacchi cattolici romani per paura dell’NKVD e degli ufficiali con atteggiamenti sciovini- sti, concede di aggiustare i cambiamenti anagrafici. E la questione ebraica di quest’esercito? A partire da Buzuluk il Comandante, nei suoi interventi, sottolineava con forza che tra i cittadini polacchi, soldati della Repubblica di Polonia, non c’era né ci poteva essere disparità di trattamento. Quindi, non c’erano sintomi di antisemiti- smo o palesi ingiustizie? C’erano, ma sarebbe falso attribuirli ad Anders; tante volte sono stato testimone di situazioni in cui proprio Anders cercava di appianare o di cancellare in- giustizie del genere. Il divieto di Anders, impartito non solo alla gendarmeria polacca, ma anche a quella inglese, di inseguire i numerosi soldati ebrei che avevano disertato il no- stro esercito in Palestina, è un elemento molto caratteristico. «Essi hanno una doppia

4 GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, cit.

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lealtà: nei confronti della Polonia e per la lotta in favore d’Israele — tocca a loro sce- gliere». Coloro che rimasero nelle file del nostro esercito combatterono insieme a noi e molti di loro riposano oggi nel cimitero di Monte Cassino, accanto a polacchi, ucraini, bielorussi o lituani. Anders, questo ufficiale di carriera, era capace — quando si rendeva necessario — di spezzare la routine, di cancellare la distanza tra ufficiale e soldato semplice, di- stanza che non pochi ufficiali desideravano aumentare e irrigidire. Attribuire, per esem- pio, ai soldati semplici impiegati nel reparto della propaganda e dell’istruzione il rango di PRO (Public Relations Officer) contrastava con tutte le tradizioni militari non soltanto polacche, ma anche inglesi. In un periodo in cui in Polonia non vi era alla luce del sole nemmeno un’università, una scuola media o una casa editrice, quando regnava la massima segregazione nazio- nale ed era in atto lo sterminio dell’intero popolo ebreo in territorio polacco, il tenta- tivo del generale Anders di creare, nell’ambito dell’esercito in esilio, una struttura sociale viva, forte e al contempo flessibile, com’è nella migliore tradizione liberale, di una società plurinazionale e pluriconfessionale, dovrebbe scolpirsi nella nostra memo- ria come suo testamento per il futuro.

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Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca». Pagine dal Diario scritto di notte (1984—1994) di Gustaw Herling- Grudziński

a cura di Marta Herling1

Traduzione di Alessandro Amenta

18 maggio 1984

Commozione, soprattutto commozione; sarà sempre così ogni volta che ritorno a Montecassino. Siamo arrivati molto presto. Il primo giorno di una vera, tardiva prima- vera quest’anno, sotto un sole cocente il campo di battaglia e il cimitero. Su qualche tomba i nomi dei caduti erano leggermente sbiaditi, i pori sulle lapidi erano più grandi, il travertino è una pietra bella ma infida. Sì, è successo qui, e là… Cos’è successo là? È difficile disperdere la nebbia che serpeggia capricciosa nella memoria. Esattamente quaranta anni fa, la mattina del 18 maggio, andavo con la pattuglia che stava sminando il sentiero per le rovine dell’Abbazia; si vedeva già la bandiera bianco-rossa che era stata issata all’alba. Sulla strada ci imbattemmo in un gruppo di soldati: semidistesi intorno alla sporgenza rocciosa, stavano ascoltando le parole del loro comandante, un georgiano al servizio dell’esercito polacco; con voce tonante e un piacevole accento russo li stava convincendo, con l’aiuto di una «concatenazione logica di fatti di natura militare», che «noi polacchi abbiamo vinto la seconda guerra mondiale»… Prima delle dieci iniziarono ad affluire in massa alla cerimonia. Alla rinfusa e in gruppi in assetto miliare; in abiti civili e in uniformi ornate di medaglie; vecchi e giovani; uomini, donne e bambini; con cartelli con su scritto «Canada», «Inghilterra», «Sandomierz»; con le bandiere e gli striscioni di Solidarność. Secondo gli esperti, a occhio c’erano quattromila persone al momento dell’inizio della cerimonia. La cerimonia fu strana, per non dire ambigua; un piccolo, triste e amaro postscriptum all’ultimo capitolo2, scritto in carattere ridotto. La tradizione dell’ultimo cimitero della Repubblica polacca era stata rimossa nel «ripostiglio della storia»: non ci furono

1 Le pagine sono tratte dall’ultima edizione integrale di GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Dziennik pisany nocą, in Id., Pisma zebrane, pod red. Z. Kudelskiego, t. 6, Dziennik pisany nocą 1984-1988, Czy- telnik, Warszawa 1996, pp. 50-51; t. 10, Dziennik pisany nocą 1993-1996, Czytelnik, Warszawa 1998, pp. 57-58; 213-14. 2 Il riferimento è a: GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział (25 agosto 1969), “Kultura”, n. 10, 1969; trad. it. L’ultimo capitolo, qui riproposto, cfr. l’indice di “poloniaeuropae”(www.polonia- europae.eu).

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funzioni di altre confessioni religiose, come nel 1969. Nel sermone del primate Glemp non venne pronunziato neppure una volta il nome di [Władysław] Anders; un fatto non da poco, nel quarantesimo anniversario della battaglia. In compenso, vicino all’altare qualcuno tenne per tutto il tempo un grande ritratto di [Władysław] Sikorski3 su un bastone. Era una storia “addomesticata”. Il primate disse innanzitutto che i polacchi venerano tre monti: Jasna Góra, il Vaticano e Montecassino, vale a dire «il monte sa- crificale dell’esercito polacco». Poi, che il mondo si aspetta dai polacchi solo sangue, ma ne è stato versato abbastanza, anche troppo; e che nel motto «per la vostra e la nostra libertà» è giunta l’ora di mettere l’accento su «nostra». Sulla via di ritorno verso Napoli, rimuginando sul postscriptum di Montecassino, mi consolavo con il discorso tenuto il giorno prima da Giovanni Paolo II ai pellegrini polacchi, pubblicato oggi su “L’Osservatore Romano”. In questo discorso c’erano la com- prensione del significato della nostra battaglia e la piena consapevolezza di un nuovo capitolo nella lotta dei polacchi, che è seguito subito dopo quell’ultimo capitolo di quindici anni fa e, malgrado le sconfitte, perdura ancora.

20 maggio 1993

Paolo Morawski (figlio di Stanisław August), un giovane storico pieno di talento che la mancanza di prospettive accademiche ha spinto a lavorare per il terzo canale della radio italiana, sta preparando un programma sugli stranieri in Italia. Mi ha dato il microfono per mezz’ora chiedendomi di parlare della prima ondata di polacchi, soldati che per un motivo o per un altro avevano deciso di stabilirsi qui. Mentre parlavo, mi sono ricordato del lontano episodio di Falconara. Dopo la guerra, gli inglesi si comportavano in maniera indecente in Italia, per dirla con un eufemismo. Residui di “stile imperialista” gli imponevano di considerare gli ita- liani come dei natives, una razza inferiore. La conseguenza nel nostro caso fu che al mo- mento della partenza del secondo Corpo dall’Italia per l’Inghilterra, i soldati polacchi sposati con donne italiane furono esclusi da questo “beneficio degli alleati”. Ovvia- mente Anders avrebbe dovuto protestare e minacciare che l’intero Corpo non si sa- rebbe mosso dall’Italia senza i suoi compagni sposati con delle filthy Italian women, ma Anders aveva molta fretta, perché, secondo le sue idee sullo scoppio di una terza guerra mondiale, da un giorno all’altro l’Armata Rossa avrebbe attaccato dalla Jugoslavia at- traverso l’Adriatico. E così venne organizzato un campo a Falconara, sulla costa adria- tica, dove i soldati polacchi sposati con delle italiane dovevano aspettare di emigrare in altri paesi meno sensibili a questioni di razza o rassegnarsi pian piano all’idea di ri- manere in Italia (come alla fine è successo). Ero andato a Falconara su richiesta di Jerzy

3 Władysław Sikorski (1881-1943), generale e politico polacco, durante la seconda guerra mondiale fu primo ministro del governo polacco in esilio e anche comandante in capo e ispettore generale delle forze armate polacche. Fu molto filo-britannico. La sua morte alimentò numerose conget- ture e teorie di complotti perché l’aereo su cui viaggiava precipitò in circostanze misteriose presso Gibilterra. Durante gli anni del regime comunista in Polonia, la sua figura fu minimizzata e la sua memoria messa in ombra.

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Giedroyc, ci avevo trascorso due tristi giornate e avevo descritto la vicenda in un reportage dal tono amaro, riportando tra l’altro il fatto che il colonnello Emeryk Czapski (che Józio4 non sopportava) aveva cominciato per conto dei francesi un silenzioso arruolamento per il bacino carbonifero del nord della Francia (una specie di tratta degli schiavi). In realtà non avevo fatto nomi, ma questo Czapski si riconobbe subito nel reportage e un bel giorno alla nostra casa oltre il Tevere venne a bussare nel ruolo di padrino Pawełek Zdziechowski, che a quel tempo conoscevo poco. Spiegai a Pawełek che il mio basso rango militare e la mia misera posizione sociale non mi permettevano di battermi a duello con un uomo che era conte e colonnello, ci scherzammo su davanti a una tazza di tè e stringemmo un’amicizia durata anni, fino alla sua morte a Parigi.

Varsavia, 5 — 11 maggio 1994

Artur Międzyrzecki5, mio compagno d’armi nel secondo Corpo, ha deciso di unire l’incontro al Pen Club con l’autore venuto da Napoli al cinquantesimo anniversario della bat- taglia di Montecassino. Questo ha spinto alcune persone a fare domande sulla battaglia. Nell’arco di mezzo secolo non ho cambiato idea sull’argomento. Dopo Teheran, questa battaglia era politicamente inutile; i soldati lo sapevano meglio di Anders, irre- movibile nella sua visione della terza guerra mondiale. Dal punto di vista psicologico era inevitabile, i soldati la desideravano tanto ardentemente quanto Anders, che alla fin fine avrebbe potuto tirarsi indietro grazie a un accordo con i suoi superiori alleati. In Vicino Oriente ci eravamo preparati per anni a questa battaglia, la sognavamo nelle tende in mezzo al deserto, si sarebbe spezzato qualcosa di fondamentale se fosse stata annullata all’ultimo minuto. È stata una grande battaglia, una battaglia sacrificale; sono contento che il destino mi abbia permesso di prendervi parte. Tra i soldati del secondo Corpo, forse sono quello che abita più vicino al campo di battaglia e al cimitero. Un tempo (prima della malattia) ci andavo spesso, da solo o con ospiti venuti dalla Polonia. Una volta, anni fa, mi era capitato di portare a Monte- cassino Maria Dąbrowska e Anna Kowalska6. “Questo è l’ultimo cimitero della Repubblica

4 Józio: diminutivo di Józef Czapski che era il cugino di Emeryk [August Hutten-]Czapski. Józef Czapski (1896-1993), pittore, saggista, scrittore, co-fondatore del mensile dell’emigrazione po- lacca “Kultura”, visse dopo la guerra in Francia, a Parigi. Emeryk [August Hutten-]Czapski (1897- 1979), politico, militare e diplomatico, emigrò invece dopo la guerra in Italia, a Roma. 5 Artur Międzyrzecki (1922-1996), deportato in Unione Sovietica nel 1940-42; entrò poi a far parte dell’esercito polacco in Medio Oriente e partecipò col secondo Corpo alla campagna d’Italia. Si sta- bilì in Francia fino al 1949. Rientrato in Polonia, fu redattore di “Nowa Kultura” e di “Poezja”; dal 1991, presidente del Pen Club polacco. Autore di poesie, racconti, romanzi, saggi letterari e tra- duzioni dalla letteratura francese, russa e americana. 6 La scrittrice Maria Dąbrowska (1889-1965) si è affermata con la raccolta di novelle e racconti Lud- zie stamtąd, 1925 (trad. it: Erbe selvatiche. Gente di là, Feltrinelli, Milano 1961); e poi con il ro- manzo in quattro volumi Noce i dnie [Le notti e i giorni], 1932-1934, saga di due generazioni di una famiglia polacca negli anni bui dal 1880 al 1914. Anna Kowalska (1903-1969) autrice di novelle, rac- conti e romanzi, molti dei quali ambientati a Leopoli dove è nata e ha vissuto fino agli anni della guerra. Dal 1954 a Varsavia ha svolto un ruolo attivo nell’organizzazione della vita culturale in Po- lonia nel secondo dopoguerra.

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polacca”, dissi alla Dąbrowska. Lei annuì commossa e sussurrò piano: “Ha ragione, ha assolutamente ragione”. Nel venticinquesimo anniversario della battaglia, con Anders ancora vivo e pre- sente, nell’ultimo cimitero della Repubblica polacca vennero celebrate funzioni reli- giose officiate contemporaneamente tra le tombe per le anime di soldati di tutte le confessioni. Nel quarantesimo anniversario della battaglia ci si limitò a una messa cat- tolica celebrata dal cardinal [Władysław] Rubin. L’omelia venne pronunciata dal pri- mate [Józef] Glemp. Senza saperlo, stava sulla tomba di Anders, parlava del suo argomento preferito, «nemmeno una goccia di sangue polacco», e fece un miracolo non da poco: ignorò il nome del Comandante. Dieci anni fa il suo sermone è stato l’equiva- lente oratorio del gesto compiuto da [Wojciech] Jaruzelski, che aveva girato ostenta- tamente la testa dalla tomba di Anders per chinarla in raccoglimento su quella adiacente del generale [Bolesław Bronisław] Duch («questo era permesso»)7. L’affronto fatto dal primate Glemp ai soldati che avevano partecipato alla battaglia venne ripa- rato da Giovanni Paolo II con un articolo in polacco pubblicato sulle pagine dell’“Os- servatore Romano”. Il mio intervento al Pen Club creò scompiglio. Un impiegato del ministero degli Esteri avvisò il suo superiore, Stefan Frankiewicz telefonò al nunzio apostolico. Ma tornare alla vecchia tradizione delle funzioni in tutte le confessioni religiose nel giro di appena una settimana sembrava poco realistico. (Aggiunta successiva. Sono riusciti comunque a metter su in fretta e furia una fun- zione ecumenica incompiuta. Questo è stato l’unico punto luminoso — ho il diritto di essere orgoglioso! — nelle scandalose, ridicole celebrazioni organizzate dalle più alte autorità polacche).

7 Il riferimento è alla cerimonia che si tenne nel gennaio 1987 a Montecassino alla presenza del ge- nerale Jaruzelski, che Herling così commenta nel Dziennik pisany nocą 1984-1988, cit., p. 288-89, alla data del 15 gennaio: «Montecassino è stato il teatro di una cerimonia personale e davvero “storica”. Al suono dell’inno nazionale il Generale [Jaruzelski] assunse il simbolico comando sullo spirito del migliaio di caduti, designando come loro comandante nell’oltretomba il generale Duch al posto di Anders, da lui ostentatamente ignorato». E aggiunge: «Gli osservatori degli incontri e dei momenti “storici” [della visita di Jaruzelski in Italia] e “i cosiddetti oppositori” in Polonia di- spongono ora di un abbondante materiale su cui riflettere». Nella battaglia di Montecassino il ge- nerale Bolesław Bronisław Duch (1885-1980) comandava la terza Divisione fanteria “Carpazi” del secondo Corpo polacco.

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Una lapide di sasso nel gulag. Sulle tracce di Gustaw Herling da Ercevo a Montecassino

di Marta Herling

Dal 13 settembre 2009 una targa incisa su un masso di pietra prelevato dai boschi che circondano il villaggio di Ercevo nella regione di Archangel’sk, ricorda con queste parole la prigionia di Gustaw Herling nel campo sovietico:

GUSTAW HERLING – GRUDZIŃSKI 1919 – 2000 PISARZ POLSKI, AUTOR “INNEGO SWIATA” WIĘZIEŃ LAGRU W JERCEWIE 1940 – 1942

Il testo compare in russo e in polacco1. Il masso di pietra che si erge su una base di sassi impastati nel cemento, è imponente nella sua grandezza, e nella forma richiama una figura umana la cui forza ed energia sono racchiuse nella roccia, che la comprende e l’avvolge, non lasciando intravedere le braccia, le gambe né il volto. Un corpo rac- colto in sé e allo stesso tempo eretto, leggermente chino verso destra, che si staglia nella sua immobilità inflessibile, sullo sfondo degli alberi e dei tetti spioventi delle casupole di Ercevo. È il prigioniero. Fermo e in movimento. Oggi chi l’osserva sulla via principale del villaggio, che egli ogni giorno percorreva all’alba per recarsi al cosid- detto «lavoro correttivo» nei boschi e nelle lande circostanti e al calar della sera per rientrare nella sua baracca nel campo, percepisce attraverso quel masso di pietra che lo scolpisce, il peso immane della pena e della sofferenza che ha vissuto e a cui è riuscito a sopravvivere. Il 13 settembre il sasso nel gulag era cinto dall’alto in basso, dalla spalla inclinata a destra ai piedi a sinistra, da un nastro rosso-bianco dei colori della Polonia. Lo circondavano ai lati e dietro coloro che lo hanno voluto deporre lì e hanno promosso la cerimonia in memoria di Gustaw Herling a Ercevo quel giorno. La nostra delegazione polacca partita da Varsavia per la Federazione Russa ha percorso nel suo viaggio, le tappe del prigioniero. San Pietroburgo — Vologda — Ercevo. Ne facevano parte: Tomasz Merta, viceministro della Cultura e del Patrimonio nazionale della Repubblica di Polonia, Michał Michalski, direttore del Dipartimento del patrimo- nio culturale del ministero, ed io. A San Pietroburgo siamo stati accolti dal console ge- nerale della Repubblica di Polonia Jarosław Drozd, dal direttore dell’Istituto polacco di San Pietroburgo Cezary Karpiński, dai vice-consoli Alina Karpińska e Zbigniew Piotrowski;

1 GUSTAW HERLING – GRUDZIŃSKI / 1919 – 2000 / SCRITTORE POLACCO, AUTORE DI “UN MONDO A PARTE”/ PRIGIONIERO DEL LAGER DI ERCEVO 1940 – 1942

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nella sede consolare e dell’Istituto si è svolto un incontro conviviale con la partecipa- zione dei giornalisti russi invitati a una conferenza stampa. Per la prima volta assistevo a un dialogo polacco-russo, al mescolarsi in tonalità nette e melodiose, delle due lingue. Agli ospiti russi i rappresentanti del governo di Varsavia e del corpo diplomatico polacco raccontavano e spiegavano le vicissitudini e la biografia del loro concittadino Gustaw Herling in terra sovietica, quella che Józef Czapski in un suo celebre libro aveva definito «Terre inhumaine»2. In quel racconto — che aveva la cadenza di un resoconto chiaro e preciso, dai toni distesi che le circostanze consentivano, di fatti ed eventi che erano all’origine della cerimonia che si sarebbe compiuta due giorni dopo a Ercevo — vi era, e chiaramente affiorava, una pagina centrale della storia della Polonia e del- l’Unione Sovietica nel Novecento. Fra le tante impressioni suscitate in me dal dialogo al quale assistevo (circondata dalla cordiale premura delle signore del consolato), due in particolare vorrei ricordare. Gran parte di ciò che veniva raccontato appariva ignoto agli ascoltatori e ai giornalisti russi presenti, e testimoniava la forza e la verità delle parole con le quali mio padre concluse la sua prefazione alla prima edizione russa di Un mondo a parte, pubblicata a Londra nel 1986 («Un sogno impossibile» … «devo ammet- tere che non me lo sarei mai aspettato»):

Non si può sfuggire ai fantasmi del passato con il silenzio. Se qualcosa può avvicinare i polacchi ai russi questo è proprio una conversazione ad alta voce sulle offese fatte e la coscienza della sofferenza comune. Proprio questa sofferenza comune, sofferenza di tutti i detenuti dell’impero dei campi di concentramento staliniani, sta alla fonte di Un mondo a parte. Dalla sofferenza comune nasce la speranza comune3.

La conversazione franca e aperta nella sede del Consolato di Polonia a San Pietro- burgo, con la quale veniva annunciato e spiegato il significato della cerimonia di inau- gurazione della lapide di sasso a Ercevo in memoria di Herling (voluta dalle autorità polacche e autorizzata da quelle russe), mostrava anche il cammino percorso e quello ancora da percorrere affinché si realizzasse fino in fondo l’auspicio espresso nella successiva introduzione dell’autore all’edizione moscovita di Un mondo a parte, pub- blicata nel 1990:

Il corso degli avvenimenti in URSS ha oltrepassato i desideri che avevo un quarto di secolo fa. Tutto ciò mi dà una profonda gioia. E non soltanto una gioia personale, di autore, soddisfazione provata da ogni scrittore di fronte a una nuova edizione del proprio libro. La mia gioia è — se la si può così definire — pubblica. Se Un mondo a parte esce a Mosca per le edizioni Progress (dopo Arcipelago Gulag di Solženicyn e i Racconti della Kolyma di Šalamov, e seguendo propriamente la

2 J. CZAPSKI, Terre inhumaine, L’Age d’Homme, Paris 1978. 3 G. HERLING, Prefazione all’edizione russa, in Id., Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, p. 285.

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strada aperta da questi due grandi scrittori russi), allora è chiaro che i cambia- menti che ha portato con sé la “glasnost” permettendo di “guardare nello spec- chio del passato”, sono irreversibili. È difficile sopravvalutare il significato di questo fatto per il formarsi di rapporti polacco-russi autenticamente amichevoli, perché fondati sulla verità e sincerità. Un mondo a parte, edito a Mosca, ha dato un piccolo contributo a questo storico processo4.

Venti anni dopo questa pagina, ho avuto io, sua figlia, la possibilità inaspettata di partecipare a una tappa importante ed altamente simbolica, di «questo storico processo». L’altra impressione che ricordo di quell’intrecciarsi di discorsi polacchi e russi nella sala del Consolato, era che il nostro viaggio, gli incontri “bilaterali” che erano stati or- ganizzati e la cerimonia a Ercevo, si svolgevano nella ricorrenza dei settant’anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. E non era un caso che per scoprire la lapide a Ercevo, fosse stata scelta la data del mese di settembre 2009. Mentre ascoltavo quei discorsi, riecheggiavano ancora nella mia mente le parole pronunciate durante le celebrazioni a Danzica dal cancelliere Merkel, dal capo del governo Tusk, dal presidente Putin, che tanta eco hanno avuto nell’opinione pubblica e nella stampa internazionale. Anche noi ci trovavamo a ricordare un pezzo di storia, che ebbe la sua origine dallo scoppio della guerra con la duplice invasione nazista e sovietica della Polonia, il suo svolgimento nei territori orientali della Polonia occupati dall’Armata Rossa e da lì nel «mondo a parte» del gulag, per poi confluire nell’esercito costituito dal generale Wła- dysław Anders in Medio Oriente, fino alla campagna d’Italia e alla battaglia di Monte- cassino. Tutto questo riascoltavo dalle parole della delegazione polacca che presentava alla stampa russa, il programma delle celebrazioni in memoria di Gustaw Herling a Ercevo. E mi ritornavano in mente frammenti di pagine autobiografiche di mio padre:

Quando è scoppiata la guerra sono andato via da Varsavia seguendo l’ap- pello lanciato alla radio dal maresciallo Umiastowski, il quale richiamava gli uomini ad andare verso oriente, poiché riteneva probabilmente che saremmo riusciti ad arrestare la pressione dei tedeschi e ad organizzare una qualche resistenza mili- tare. Ma era un’illusione. Mi sono diretto verso il Bug, con un terribile senso di sofferenza perché non ero nell’esercito, e non potevo in qualche modo contribuire alla battaglia, anche se già si sapeva che era una lotta senza speranza. Incontrai lungo la via una pattuglia a cavallo, tre uomini che avevano con sé anche un cavallo libero. Chiesi se potevo unirmi a loro e così abbiamo cavalcato per circa quattro ore fino al momento in cui è giunta la notizia che l’esercito sovietico aveva invaso la Polonia il 17 settembre, e quel piccolo drappello si è sciolto5.

4 G. HERLING, Alcune parole d’introduzione all’edizione moscovita, ibid. p. 286. 5 Il brano è tratto da Z. KUDELSKI, Opowieść autobiograficzna Gustawa Herlinga Grudzińskiego [Rac- conto autobiografico di G.H.G.] (1996), cit. da: M. HERLING, L’insurrezione in alcune pagine di Gustaw Herling, in 1944: Varsavia brucia. Atti del convegno internazionale: L’insurrezione di Varsavia tra guerra e dopoguerra, a cura di K. Jaworska, Edizioni dell’Orso, Torino 2006, pp. 99-100.

poloniaeuropae 2010 193 Una lapide di sasso nel gulag...

A fine ottobre del 1939 mi recai da Varsavia alla mia casa di famiglia nei pressi di Kielce, per una visita di commiato. Avevo già maturato la decisione di varcare il Bug, e di intraprendere da lì il tragitto da nord o da sud, verso Occidente (…). Un mese dopo scendevo da un treno a Małkin con una folla di fuggiaschi6.

A Grodno [nel marzo 1940] trovai finalmente, grazie a un prestito di denaro, due contrabbandieri disposti a condurmi in Lituania. Uno di loro si chiamava Mickiewicz. Sotto questi auspici è iniziata la mia… via per la Russia. Il nostro pic- colo furgone aveva lasciato la cinta delle mura a nord di Grodno e aveva percorso appena dieci chilometri. L’auto della polizia lo raggiunse in un campo deserto dove simili operazioni non attirano l’attenzione di nessuno. Il mio Mickiewicz era al servizio dell’NKVD7.

Le pagine successive sono quelle che abbiamo potuto leggere in Un mondo a parte, l’opera che ci ha accompagnato nel nostro viaggio lungo il percorso nel quale fu con- dotto il prigioniero Herling. Dopo l’incontro al Consolato, il direttore Karpiński ci ha accompagnato in una visita della città, per ammirare i suoi splendidi monumenti, le sue prospettive e le sue piazze, le chiese ortodosse e i monasteri. Al calar della sera percorrendo in auto il bordo della Neva, ci ha mostrato sull’altra sponda del fiume, il profilo grigio, tetro e possente della prigione di San Pietroburgo. Alla domanda se volessi vederla da vicino, ho rispo- sto di sì. Con un lungo giro per passare da una sponda all’altra della Neva, ci siamo fer- mati dinanzi all’edificio della prigione. Nell’oscurità, al di là del cancello e delle mura che la circondavano, si innalzavano fra i viali il corpo centrale, le torri e i padiglioni, puntellati dalle finestre delle celle alcune delle quali con la luce accesa. Non siamo scesi dalla macchina, poiché non è consentito; mi sono limitata a guardare dal fine- strino, nel silenzio di tutti noi passeggeri, con un senso di angoscia che mi è difficile esprimere in parole. Lo stesso gesto, la stessa sosta fugace con l’apertura del finestrino per volgere lo sguardo su quell’edificio, non ci sono stati consentiti due giorni dopo a Ercevo per il campo dove mio padre fu recluso e che tuttora esiste come carcere per detenuti comuni: nonostante l’ulteriore e pressante richiesta che l’ambasciatore di Polonia a Mosca ha fatto, in mia presenza, alle autorità locali… La nostra tappa alla prigione di San Pietroburgo si può commentare solo con la testimonianza di Un mondo a parte:

Era novembre quando, dopo un viaggio di più di una settimana [dalla pri- gione di Vitebsk], giunsi con un convoglio di prigionieri a Leningrado. Sulla piatta- forma della stazione fummo divisi in gruppi di dieci, e condotti a brevi intervalli,

6 G. HERLING, Godzina cieni (1963), trad. it.: L’ora d’ombra, in: Il pellegrino della libertà. Saggi e racconti, a cura di M. Herling, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006, pp. 16-17. 7 Ibid., p. 24. E prosegue: «Tre anni dopo lo incontrai nel deserto in Iraq: era un caporale e ciò di- mostra che anche lui alla fine ha seguito le orme delle sue vittime. Lo guardai a lungo in silenzio e lo vidi impallidire. Poi, sempre senza una parola, proseguii oltre».

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in furgoni neri, alla Peresylka (la prigione di transito di Leningrado, luogo di sosta per i prigionieri destinati ai campi di lavoro). Schiacciato in mezzo agli altri, soffocando in quella scatola di legno senza finestre o ventilatori, non mi riusciva di vedere la città. Ma nelle svolte, il movimento mi sbalzava dal mio posto e, at- traverso una fessura nel divisorio tra la cabina del conducente e la parte posteriore del furgone, ebbi fugaci visioni di edifici, piazze e alberi. Il giorno era freddo e assolato. Era caduta la neve: i passanti per strada portavano alti stivali invernali e berretti di pelliccia coi paraorecchi, che li facevano guardare dritti avanti a sé, senza prestar attenzione a quel che accadeva intorno. Il nostro convoglio attra- versò la città inosservato. Prigionieri veterani mi dissero poi che le prigioni di Leningrado contene- vano in quel tempo quarantamila persone. (…) Nella nostra prigione calcolammo che il numero giungeva a diecimila. Nella cella alla quale fui assegnato, n. 37, che in condizioni normali avrebbe dovuto contenere venti prigionieri, eravamo in set- tanta. (…) A Leningrado udii per la prima volta ipotesi sul numero totale di prigio- nieri, deportati e schiavi bianchi nell’Unione Sovietica. Nelle discussioni in prigione la cifra supposta si aggirava tra i diciotto e i venticinque milioni8.

Riandando con la mente a questa pagina, in quell’attimo trascorso dinanzi alla pri- gione di San Pietroburgo, avvertivo la forza espressiva delle due immagini: quella del prigioniero che sessantanove anni prima «attraverso una fessura nel divisorio tra la cabina del conducente e la parte posteriore del furgone, ebbe fugaci visioni di edifici, piazze e alberi», e la mia che sessantanove anni dopo, attraverso il finestrino legger- mente abbassato di una macchina del corpo diplomatico polacco, scrutavo circondata dal brusio della città e dal silenzio di chi mi accompagnava, l’edificio della sua prigione cercando di carpirne quanto più mi fosse possibile nella libertà che mi era stata concessa di essere lì ad osservare. L’indomani mattina presto, la nostra delegazione che ora comprendeva i rappre- sentanti del Consolato e dell’Istituto polacco di San Pietroburgo, è partita per Vologda. Settecento chilometri di tragitto da percorrere nell’arco della giornata, su una strada a due sole corsie, in gran parte dissestata, con buche e fossi che costringevano i con- ducenti a continui rallentamenti e ad acrobazie di sorpassi nella corsia opposta, anche per le frequenti file di camion che procedevano con lenta pesantezza. Ho provato una continua ansia e tensione nel seguire le manovre che talvolta mi parevano azzardate, ma che la perizia e l’abitudine di chi guidava rendevano naturali, e così mi sono gra- datamente assuefatta e rassegnata. La fatica del viaggio veniva alleviata dalla scoperta della “Russia profonda”: distese interminabili di brughiera, di steppa, di foreste, di campi per lo più incolti. Rare le case, rari i villaggi. Un paesaggio in cui domina la natura senza uomini. Uno spazio immenso del quale non si intravedono i confini. Si per- cepisce la grandezza “geografica” dell’impero (l’Imperium descritto da Kapuściński) e la forza primordiale — dovuta anche agli spazi su cui si estende — del suo dominio.

8 G. HERLING, Un mondo a parte, cit., pp. 24-25.

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La conversazione coi miei compagni di viaggio mi faceva comprendere meglio la storia sottintesa a quei luoghi e a quegli spazi; la loro conformazione attuale soprattutto laddove la scomparsa e l’abolizione del kolchoz con il crollo del comunismo, avevano lasciato dopo di sé terreni incolti e abbandonati. Nel corso degli ultimi venti anni non si è riusciti ad operare una trasformazione agraria capace di sostituirsi all’abbandono e alla distruzione di quanto esisteva nelle campagne. La politica economica si era rivolta in altre direzioni. Ho potuto così osservare quanto rimaneva ancora in piedi ma senza vita, del mitico kolchoz: sopravvivenze inermi che qua e là puntellavano il paesaggio dei campi che si susseguivano senza fine ai lati della strada, come i boschi e le foreste interminabili. La monotonia dello sguardo veniva ravvivata solo dal pensiero che quei boschi e foreste, quella brughiera sterminata, avevano ispirato le grandi pagine della letteratura russa ed erano state il teatro di memorabili guerre e battaglie, di epiche campagne militari, nei secoli passati. Vologda ci apparve d’improvviso all’orizzonte come una cattedrale nel deserto. Dopo tante ore di viaggio e poche soste nei piazzali che circondavano le stazioni di rifornimento, gli unici dove ci si poteva fermare per un breve spuntino all’aperto, un tè o un caffè caldi preparati dall’equipe del Consolato e riposti nel bagagliaio delle nostre automobili, il silenzio della natura che ci aveva accompagnato venne interrotto da strade e circonvallazioni, dagli edifici e grattacieli moderni della periferia della città in stile sovietico misto a quello più recente della Russia “capitalistica” postsovietica. Ritornano ancora a commentare la visione della città, seconda tappa del nostro per- corso, le pagine del primo capitolo di Un mondo a parte intitolato: «Vitebsk — Lenin- grado — Vologda»:

Dopo mezzanotte i movimenti nel corridoio divennero più forti; potevo udire l’aprirsi e chiudersi delle porte delle celle, e le voci monotone intonanti le liste dei nomi. Dopo ogni “presente”, cresceva il fiume di corpi umani, bisbigli soffocati echeggiavano nel corridoio. Infine, la porta della cella 37 si aprì; Šklovskij e io eravamo chiamati per il trasferimento. Mentre mi inginocchiavo e radunavo in fretta il mio fagotto cencioso, Artamian mi afferrò ancora una volta la mano, e la strinse con calore. Non disse una parola e non mi guardò. Uscimmo nel corridoio e raggiungemmo la folla di corpi madidi di sudore, caldi, assonnati, raggomitolati timorosi contro i muri, come miserabili avanzi umani. Šklovskij e io viaggiammo insieme nello stesso scompartimento di un “va- gone Stolypin”9. (…) Molto più tardi il treno aveva lasciato la foresta, e le luci gri- gie dell’alba apparivano sopra le alture coperte di neve. (…) Quando il treno giunse a Vologda ero il solo a lasciare lo scompartimento. «Addio!» dissi a Šklovskij. «Addio!» rispose, e ci stringemmo le mani. «E possiate far ritorno alla terra dei no- stri padri». Passai un giorno e una notte nella prigione di Vologda, le cui torrette d’angolo,

9 Vagoni ferroviari con finestre sbarrate per il trasporto dei prigionieri, chiamati così dal ministro zarista che li introdusse per primo in Russia.

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e il muro rosso, circondati da un ampio cortile, davano l’impressione di un piccolo castello medievale. Nelle cantine in una cella che non aveva finestre, solo un buco della grandezza della testa di un uomo nel muro, dormii sulla terra nuda. Giace- vano intorno a me contadini delle campagne circostanti, che non sapevano più di- stinguere il giorno dalla notte, non ricordavano l’epoca dell’anno o il nome del mese, non avevano idea di perché fossero in prigione, da quanto tempo, e quanto ci sarebbero rimasti. Distesi sui loro cappotti di pelliccia, completamente vestiti, con le scarpe, non lavati, parlavano febbrilmente in dormiveglia delle loro fami- glie, delle case e del bestiame10.

Nell’albergo di Vologda in stile sovietico riadattato ai tempi capitalisti, in cui la nostra delegazione polacca era ospitata, ci accolsero il presidente della città, un qua- rantenne di bell’aspetto, disinvolto e moderno nel vestiario e nel comportamento, con alcuni assessori del governo cittadino, signore giovani e brillanti, la guida turistica che parlava perfettamente italiano, la direttrice del complesso antico del Kremlin. Tutti nello stile si avvicinavano — per intenderci — più a Medvedev che a Putin; con una par- ticolarità che nella apertura, nella spontaneità e cordialità del contatto, derivava pro- babilmente dall’essere in una provincia dell’impero, lontana dal suo centro politico e militare. Nella mia stanza ho trovato un bellissimo bouquet di fiori, omaggio del presi- dente della città, con il suo biglietto da visita: accanto ho riposto, estraendoli dalla valigia, il mazzo di alloro, legato con un nastro dai colori bianco-rosso-verde dell’Ita- lia, che mio figlio Gustavo aveva raccolto nel nostro giardino il giorno della mia par- tenza, perché lo deponessi sulla stele in memoria del nonno; e il bouquet di fiori secchi di vari colori avvolto da una carta rosa, di mia madre. Ancora oggi il piccolo Gustavo mi rimprovera per il gesto che compii quella sera: dalle foto della cerimonia l’indomani a Ercevo si è accorto che il suo fascio di alloro era privo del nastro che lo avvolgeva, ed era circondato dalle tante composizioni floreali ornate coi colori della Polonia. Il motivo di quel mio gesto forse lo capirà un giorno, e non è questo il luogo per spiegarlo. Rimane il senso di colpa per quello che avevo fatto nei suoi confronti, acuito dal- l’amarezza provata in quei giorni della missione polacca e della cerimonia a Ercevo, per non aver riscontrato nessun segno né testimonianza di partecipazione a quanto avveniva da parte del paese — l’Italia — in cui siamo nati e nel quale mio padre ha trascorso oltre cinquant’anni della sua vita11.

10 Ibid., pp. 33-35. 11 Con l’unica eccezione dell’articolo di TITTI MARRONE, L’omaggio a Jercevo. Herling una lapide nel gulag, pubblicato su “Il Mattino”, 17 settembre 2009, che riprende la notizia diffusa dall’ANSA di Varsavia del 16 settembre: Scrittori: da Napoli a ex gulag per ricordare Herling. – «Una lapide per ricordare lo scrittore polacco vissuto a Napoli per quasi 50 anni, Gustaw Herling-Grudziński, au- tore del libro autobiografico di racconti dal Gulag Un mondo a parte, è stata scoperta in questi giorni dalla figlia Marta a Jercevo, nel nord della Russia, dove il padre fu dal 1940 detenuto per due anni in un gulag. “È stata un’esperienza molto dura, ho visto un mondo davvero diverso”, ha raccontato all’ANSA Marta Herling di ritorno dal suo viaggio a Jercevo» – come si legge in apertura del testo di agenzia redatto da Tadeusz Konopka.

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La sera alla cena al ristorante Pinokio, scelto in onore dell’ospite giunto da Napoli, la conversazione conviviale fra i componenti della delegazione polacca, ai quali si è ag- giunto l’ambasciatore di Polonia a Mosca Jerzy Bahr, arrivato nel pomeriggio a Vologda, e i rappresentanti della città che ci avevano accolto, ha seguito un evidente protocollo: ci sono state illustrate le bellezze di Vologda e del suo distretto federale, i monumenti, la storia, la vita artistica e culturale, e le iniziative intraprese nell’ultimo decennio per il restauro della parte antica (Kremlin) e in ambito economico e commerciale. Affiorava (e veniva sottolineato) il volto della nuova Russia che si mostrava moderno e intra- prendente, aperto alle innovazioni, capace di competere coi nostri modelli europei- occidentali. I temi politici, e storici, legati alla cerimonia alla quale il giorno dopo avremmo partecipato, venivano tacitamente rinviati alla sera seguente, dopo il rientro da Ercevo. Al protocollo, condotto con brillante disinvoltura dai nostri ospiti, ci siamo adeguati senza forzature, nella cordiale atmosfera della serata. L’indomani mattina presto, partenza per Ercevo. Nella hall dell’albergo, mentre facevo colazione, la delegazione polacca mi appariva tesa e agitata, in un andirivieni verso le macchine pronte all’esterno, fra voci concitate e composizioni floreali che venivano riposte nel bagagliaio. Compresi poi che non era successo nulla che potesse turbare il nostro programma, ma era semplicemente l’ansia mista ad emozione che si manifestava per l’approssimarsi della nostra meta finale, e la preoccupazione che tutto si svolgesse al meglio e secondo quanto stabilito, dopo oltre un anno e mezzo di pre- parativi. L’ambasciatore Bahr, vedendomi assorta in pensieri al mio tavolo, mi ha con- segnato la copia della lettera scritta dal ministro degli Esteri della Repubblica di Polonia Radosław Sikorski, per l’inaugurazione della stele in memoria di Gustaw Herling a Ercevo, che l’ambasciatore avrebbe letto in apertura della cerimonia. Quel testo mi ha fatto percepire pienamente la solennità e la rilevanza storica e politica, di quanto si andava compiendo, nel momento in cui mi accingevo a iniziare il mio cammino per Ercevo. E mi ha accompagnato nel tragitto che ho percorso nella macchina con l’am- basciatore, sostenuta dalla sua colta e premurosa conversazione. Alla periferia di Vologda la nostra fila di macchine del corpo diplomatico polacco è stata raggiunta e preceduta da un’auto della milizia russa. Con la luce lampeggiante sul tetto e il suono della sirena, ci ha guidato lungo tutto il viaggio, all’andata e al ritorno, per segnalare una presenza “speciale” lungo una strada di duecento chilome- tri, per metà serrata (nell’ultimo tratto), consentendoci così di procedere a velocità so- stenuta obbligando le automobili che incontravamo e ci precedevano a spostarsi celermente verso destra, per non farci rallentare o costringerci a pericolosi sorpassi. Era chiaramente anche una tutela per passeggeri autorevoli e macchine “appariscenti” che si addentravano in territori abbandonati da Dio e dagli uomini. Mi ha colpito che in quel momento l’ambasciatore ha detto all’autista di «alzare» la bandierina triangolare rosso- bianca della Polonia sulla destra del cofano. In una giornata soleggiata e tersa nella quale il cielo, raramente segnato da strisce di nuvole, si distendeva all’orizzonte fino al limite estremo della pianura leggermente ondulata nel suo disegno, la natura appa- riva qui con tonalità diverse di silenzio: più integro, intatto, senza palesi segni di tra- sformazioni. C’era qualcosa di selvatico nell’aria, nella terra e nei colori: che parlava di assenze più che di presenze e di abbandoni. Eravamo allora davvero entrati in «un mondo a parte»? Ho avuto la netta sensazione che fosse così. Un mondo del quale si

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poteva essere stati prigionieri o spettatori inermi, attoniti, o abitanti fuori dal mondo, dal “nostro mondo”. Il mistero dei luoghi che abbiamo attraversato era difficile da pe- netrare, rinchiusi e raccolti com’erano in sé stessi, separati e protetti da un’invisibile cortina di silenzio. Il paesaggio si faceva man mano più collinare, più dolce laddove non c’erano boschi, per poi ritornare a una distesa di alberi che puntellavano il cielo e lo oscuravano, lasciando spazio solo alla strada sempre più deserta che li attraversava. A un certo punto il nostro convoglio si è fermato, in prossimità di un alto pilastro di cemento che recava su di sé la targa con incisa la scritta: Арханге´льская о´бласть [Oblast’ di Arkhangel’sk]. Era il confine che segnava l’ingresso nella regione in cui è situato il villaggio di Ercevo. Ad attenderci ed accoglierci dinanzi al pilastro, il vice- governatore di Archangel’sk, Elena Vladimirovna Kudriashova, con due suoi collabora- tori, per darci il simbolico benvenuto nel suo Oblast’. Dopo uno scambio di saluti e di strette di mano, siamo rientrati nelle nostre rispettive automobili, per raggiungere insieme in una fila ora più lunga, la nostra meta. Oltre al segnale stradale metallico, di un grigio sbiadito dal tempo, sul quale com- pariva il nome Ercevo in caratteri cirillici (Ерцево), erano le prime casupole in legno, di colori diversi e coi tetti spioventi, che spuntavano fra gli alberi del bosco e della col- lina, a indicare l’arrivo al villaggio. E poi, col rallentare delle nostre macchine, le strette stradine fra le case, il piazzale, i tronchi tagliati e accatastati sui bordi come materiale da costruzione o legna da ardere, il fumo dai camini, l’odore del legno, le prime voci sempre più forti e concitate. Finché ci siamo fermati dinanzi a una casa in legno più grande delle altre, con un patio sporgente sugli scalini, dalla quale ci sono ve- nuti incontro mentre scendevamo dalle auto, un gruppo festoso, a braccia aperte e voci tonanti, guidato dal borgomastro Gienadij A. Naumenko e da sua moglie e composto dalla piccola amministrazione comunale di Ercevo. In quella casa, sede del Comune, si è svolto il primo incontro con i rappresentanti della comunità locale. Fra scatole di cioccolatini e bicchieri di vodka lanciati in alto per i brindisi di rito, abbiamo ascoltato l’eloquio irrefrenabile del borgomastro, che non lasciava spazio ad altre parole, e ci av- volgeva tutti con la sua emozione e la sua eccitazione. Nei suoi gesti e nei suoi discorsi si palesavano la lunga attesa di quel momento, i meticolosi preparativi per la cerimo- nia ai quali ha partecipato tutta la comunità, la tensione (e l’imbarazzo) fra i sentimenti festosi di accoglienza per una visita di per sé “eccezionale” nella vita del villaggio, e i contenuti certo non festosi ai quali quella cerimonia si richiamava. Eravamo in fondo sulla scena di un autentico teatro russo. Usciti dal Comune siamo stati condotti sulla via principale per l’inizio delle celebrazioni. Un gruppo di ragazze vestite con il costume locale, bianco con ricami azzurri, e il bel volto sorridente ornato da lunghe trecce bionde intorno alla nuca, ci hanno accolto porgendo su un vassoio una pagnotta di pane del quale ognuno di noi ha preso un pezzo: nel simbolico rituale russo di accoglienza che gli ospiti condividono. Intorno a loro bam- bini e bambine, e più avanti, all’inizio del piccolo viale a destra che conduce al luogo della cerimonia, ci attendevano disposti in semicerchio, uomini e donne, anziani, gruppi di famiglie, lasciando aperto un varco per il nostro passaggio. Il piccolo viale era rico- perto da un tappeto rosso: a destra un apparecchio con un registratore trasmetteva le note di Chopin e poi quelle dell’inno nazionale polacco, a sinistra erano raccolti i ci- neoperatori delle televisioni locali e regionali. In fondo, di fronte a noi, due stele: l’una

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in marmo scuro che fu deposta lì nel 1991 e reca incise solo le cifre dell’anno 1937 in memoria delle vittime dello stalinismo; l’altra, la «lapide di sasso» che ho descritta all’inizio e che di lì a poco avremmo scoperto, togliendo il nastro rosso-bianco che la cingeva dall’alto in basso. I discorsi delle autorità presenti dalle due parti, in polacco e in russo con i rispet- tivi interpreti, sono stati di intensità e di contenuti alti e profondi. È difficile qui ri- cordarli tutti, ma mi sia consentito riportare il testo della lettera del ministro degli Esteri della Repubblica di Polonia Radosław Sikorski, che l’ambasciatore Bahr ha letto in apertura della cerimonia:

Egregi partecipanti alla cerimonia odierna, Cari connazionali, Amici russi,

vorrei esprimere la mia sincera soddisfazione e la mia profonda commo- zione per l’inaugurazione, in un luogo così lontano dalla Polonia, di una stele in memoria di un eminente cittadino polacco. Nel corso della sua vita, Gustaw Herling-Grudziński ha dovuto affrontare ostacoli e difficoltà, come decine e centinaia di migliaia di polacchi privati della libertà nella loro stessa Patria. Molti di loro sono rimasti in quella terra russa intrisa e santificata dal loro sangue, come dal sangue di russi, ucraini, bielorussi, ebrei, lituani, lettoni, estoni, tedeschi e altri abitanti delle repubbliche sovietiche. Molte delle persone con cui Gustaw Herling-Grudziński ha condiviso un misero pezzo di pane nel gulag non sono sopravvissute sino al crollo dei due regimi tota- litari che hanno causato innumerevoli sacrifici e sofferenze ai popoli d’Europa. Era un Mondo a parte, come scrisse profeticamente Fëdor Dostoevskij, «un mondo a parte che non somiglia a nessun altro, con le sue leggi speciali, i suoi usi, i suoi costumi, le sue abitudini». Questo Mondo a parte non era popolato, però, solo da “uomini sovietici”, come avrebbero voluto i “condottieri del popolo”; vi era posto anche per i sentimenti e le speranze umane che hanno dato ai nostri connazionali la forza per sopravvivere a testa alta all’abbrutimento e al crudele trattamento inflitto loro dai carnefici.

Il destino ha voluto che Gustaw Herling-Grudziński sfuggisse a quel Mondo a parte che poi ha descritto nel suo libro. Il destino ha voluto anche che tornasse “con lo scudo” dal sentiero di guerra che aveva percorso nelle fila dell’esercito del generale Anders, e con la croce Virtuti Militari ricevuta per la sua partecipazione alla battaglia di Montecassino. Dopo l’intenso lavoro in favore di una Polonia libera, che Gustaw Herling-Grudziński aveva svolto lontano dalla sua patria come pubbli- cista del settimanale londinese “Wiadomości”, come redattore del mensile “Kultura” e successivamente come collaboratore di Radio Free Europe a Monaco, il destino ha fatto in modo che prima di morire potesse vedere la sua Patria libera in un’Eu- ropa libera. Gustaw Herling-Grudziński è vissuto sino al crollo di quel Mondo a parte. Egregi Signori,

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vorrei cogliere l’occasione per ringraziare tutti coloro i quali hanno par- tecipato ai lavori che hanno portato all’inaugurazione di questa stele in memoria, i diplomatici polacchi e i funzionari del Consolato generale e dell’Istituto polacco di San Pietroburgo, i rappresentanti del ministero della Cultura e del Patrimonio nazionale della Repubblica di Polonia e in particolare i rappresentanti del comune di Ercevo e dell’oblast’ di Archangel’sk, che si sono dimostrati comprensivi e ben disposti all’idea di commemorare un eminente figlio della nazione polacca. Sono convinto che questa stele di pietra renda omaggio alla memoria di tutti i polacchi sepolti nel cimitero di Ercevo e in altri cimiteri sparsi per le scon- finate distese della Russia e che oggi riposano in pace accanto a cittadini russi e di altre nazionalità, martiri della nostra terribile storia comune. Spero che il ricordo dei celebri figli delle nostre grandi nazioni rimanga in eterno nei nostri cuori e che le loro azioni indichino la strada alle generazioni future di polacchi e russi.

Radosław Sikorski 13 settembre 200912

Allo “scoprimento” della stele di pietra hanno fatto seguito: la benedizione offi- ciata in polacco e in russo da padre Jozef Roman, parroco della parrocchia dell’Ascen- sione della Santissima Vergine Maria di Vologda; la deposizione delle corone e dei mazzi di fiori, aperta secondo il protocollo da me, seguita dalle autorità e dai membri delle due delegazioni, in nome delle quali l’ambasciatore Bahr e il vicegovernatore Kudria- shova hanno poi deposto fiori sul memoriale delle vittime delle repressioni staliniane, lì accanto. Nel raccoglimento e nel silenzio di noi tutti dinanzi ai due monumenti, la cerimonia si è chiusa e mentre ci allontanavamo, sono risuonate ancora le note melo- diose di Chopin. Assistita dal mio fedele interprete russo dell’università di San Pietro- burgo, ho potuto conversare con le persone presenti alla cerimonia, percepirne la commozione e il turbamento, il desiderio soprattutto da parte dei più anziani di testi- moniarmi quanto sapevano — anche per i racconti trasmessi dai loro padri — su Ercevo e il campo di prigionia negli anni in cui mio padre vi fu recluso. Dalle loro parole un senso di liberazione spezzava il silenzio in cui quella memoria per anni era stata avvolta e rimossa. I giornalisti e operatori delle televisioni locali, mi hanno voluto intervistare chiedendomi di parlare di mio padre e di cosa significasse per me essere lì a Ercevo quel giorno. Ho raccontato la sua storia e ho ripercorso il cammino che lo ha condotto, giovane e promettente studente dell’università di Varsavia, dalla Polonia in guerra alla resistenza antinazista, ai territori occupati dai sovietici, e «sul finire dell’estate del 1940» alle prigioni di «Vitebsk — Leningrado — Vologda» e al lager di Ercevo. E le tappe successive alla liberazione dal campo nel gennaio 1942, quando al culmine di uno scio- pero della fame poté “beneficiare” dell’accordo Sikorski-Maiskij13: il suo pellegrinaggio

12 Il testo viene riportato nella traduzione di Alessandro Amenta. Colgo l’occasione per ringraziare il ministro Sikorski per la sua lettera e le sue parole.

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di ex-prigioniero attraverso l’Unione Sovietica e poi di soldato nelle fila dell’esercito di Anders in Medio Oriente e nella campagna d’Italia fino alla battaglia di Montecassino. La visita alla scuola, un piccolo edificio di legno nel quale ci attendevano i bam- bini e i ragazzi in divisa con la direttrice e le insegnanti, mi ha profondamente colpito: sulle pareti le fotografie incorniciate, di angoli, case e paesaggi di Ercevo e dei suoi din- torni al chiarore dell’estate e degli inverni innevati o nell’ombra lunare della notte (una di queste fotografie, che ho potuto scegliere per gentile omaggio del loro autore, è ora nel mio studio); e poi gli scaffali con le ante di vetro della biblioteca scolastica. Da lì era stata estratta e poggiata sul tavolo — accanto a esemplari delle opere di Do- stoevskij (Memorie da una casa di morti), Čechov, Mandel’štam, Solženicyn, Šalamov — l’edizione moscovita del 1990 di Un mondo a parte. La copia era consumata dalla let- tura e recava nella scheda al suo interno un lungo elenco di nomi con le date di coloro che l’avevano avuta in prestito. Ora sulla pagina iniziale compare la dedica che mi è stato chiesto di apporre: «In ricordo della mia visita a Ercevo, 13 settembre 2009». Il pranzo offerto e imbandito in un caffè — unico punto di ristoro locale, riscaldato da una bella stufa a legna — è stato festoso: brindisi, discorsi e scambi di doni. Nel- l’ultimo brindisi il borgomastro Naumenko (che nel suo passato, fra vari lavori aveva svolto negli anni Sessanta quello di impiegato-guardiano presso la prigione), in un cre- scendo di eloquio e di euforia, segnati anche dalla rilassatezza che subentra alla fine di una giornata faticosa e ben riuscita, si è rivolto a me con il volto incorniciato da una fragorosa risata, invitandomi a tornare a Ercevo e a considerarlo come un luogo che può offrire una vacanza di svago per fare passeggiate e soprattutto cercare funghi nei boschi... Più volte coi miei compagni di viaggio sulla via del ritorno fino a Varsavia, abbiamo commentato con ironia mista a sconcerto, quella proposta. Ed io in una scena da teatro dell’assurdo, rispondendo all’invito senza una parola ma con un sorriso di cortesia, mi sono trovata a riflettere su cosa avrebbe detto mio padre, che fra i suoi hobby preferiti aveva quello del “cercatore di funghi”… Nella cordialità e nel frastuono dei saluti, ci siamo incamminati verso le macchine. Non ci è stato concesso, lasciando Ercevo, di percorrere la strada che passa dinanzi alla prigione. Nessun rimpianto ho provato per l’unica cosa che ci è stata negata in quella giornata, e che mi è stata restituita nella memoria dal brano che conclude il primo ca- pitolo di Un mondo a parte: La notte seguente, viaggiai con un altro convoglio e giunsi all’alba alla sta-

13 Cfr. il cap. XIII di Un mondo a parte, cit., pp. 212-232, intitolato: Martirio per la fede, che si apre così: «Verso la fine del novembre 1941, quattro mesi dopo l’annunzio dell’amnistia generale per i prigionieri polacchi nei campi di lavoro russi, convinto che non sarei sopravvissuto fino alla primavera, e persa ogni speranza di essere liberato decisi di intraprendere come protesta lo scio- pero della fame». «Un uomo sepolto vivo che all’improvviso si risveglia nell’oscurità, non ragiona, ma spinge il suo corpo e batte le dita sanguinanti contro il coperchio della bara, con la forza estrema della sua disperazione». E si conclude: «Dovevo essere un triste spettacolo, accovacciato su una tavola gelata, con la mia camicia svolazzante al vento, guardando fuori alla tempesta di neve che soffiava sulla pianura, con gli occhi pieni di lacrime, di dolore, ma anche di orgoglio».

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zione di Ercevo, presso Archangel’sk, dove ci attendeva una scorta. Scendemmo dai vagoni sulla neve scricchiolante, tra gli ululati dei cani poliziotto, e i gridi delle guardie. Il cielo era pallido di gelo, e le ultime stelle tremolavano ancora. Mi parve che stessero per spegnersi ad ogni istante: allora la notte nera e spessa sarebbe emersa dalla foresta silenziosa e avrebbe inghiottito il cielo luccicante e la pallida alba che si annunziava fra le fiamme dei fuochi. Ma alla prima svolta della strada potetti scorgere all’orizzonte il profilo delle quattro vedette, poste alte su soste- gni di legno, e circondate da filo spinato. Brillavano luci nelle finestre delle baracche, e si poteva udire il suono delle catene del pozzo scorrere sugli argani gelati14.

14 Un mondo a parte, cit. p. 35.

poloniaeuropae 2010 203 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

1943-1947. Il secondo Corpo d’armata polacco in Italia

di Giuseppe Campana

L’articolo è ripreso da “Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona”, n. 1, luglio 2009. Si ringraziano l’autore e l’editore per la gentile concessione.

poloni aeurop ae 2010 Giuseppe Campana 1943-1947 IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA A I L A T I N I O C C A L O P A T A M R A ’ D O P R O C I I L I 7 4 9 1 - 3 4 9 1

18 luglio 1944: liberazione di Ancona a n a p m

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Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1 Regione Marche Museo della Liberazione Istituto regionale di Ancona per la storia del movimento di liberazione nelle Marche

1943-1947 IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA

A cura di Giuseppe Campana

Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1 1943-1947 Il II Corpo d’Armata polacco in Italia

Prima edizione: luglio 2009

A cura di Giuseppe Campana Ha collaborato Mario Fratesi Stampa Errebi Grafiche Ripesi - Falconara M.ma (An) Collana editoriale: Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1 © Copyright 2009

SOMMARIO

5 Presentazione 6 Prefazione

9 1943-1947. IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA 44 Riferimenti Bibliografici

49 MUSEO DELLA LIBERAZIONE DI ANCONA

51 LUGLIO 1944: LA BATTAGLIA DI ANCONA

In copertina: il 18 luglio 1944 uno squadrone del Reggimento “Lancieri dei Carpazi”, la principale unità esplorante del II Corpo d’Armata polacco, entra ad Ancona. In primo piano: a sinistra, veicolo da ricognizione White M3A1 e, a destra, Jeep. In secondo piano: autoblindo Staghound I con cannone da 37 mm. (The Polish Institute and Sikorski Museum, Londra) In IV di copertina: il 6 ottobre 1945 la Giunta municipale di Bologna, su proposta del sindaco Giuseppe Dozza, conferisce la cittadi- nanza onoraria al gen. Anders, quale comandante delle “valorose truppe polacche che prime entrarono in Bologna, liberando la città, il 21 aprile 1945”. PRESENTAZIONE

La costituzione a Offagna (An) del Museo della di Offagna. Il Museo si arricchisce così di un vero e Liberazione di Ancona ha concluso la gestione di proprio Centro di Documentazione che sarà gestito un progetto denominato Le Marche in guerra, in stretta collaborazione con l’Istituto regionale per avviato nel 2004 dalla Regione Marche e la storia del movimento di liberazione nelle Marche dall’Istituto regionale per la storia del movimento e con il prezioso contributo di studiosi locali. di liberazione nelle Marche, in collaborazione con La presente pubblicazione, curata con la solita enti ed istituti storici nazionali ed internazionali. perizia e competenza dal dott. Giuseppe Il progetto, coordinato dal punto di vista scien- Campana, diviene un utile strumento di cono- tifico dal dott. Giuseppe Campana, ha consentito scenza, non solo per quanti visiteranno l’interes- la realizzazione di un’imponente attività di ricerca sante Museo di Offagna, ma anche per quanti e di raccolta di documenti, la creazione di un’im- vogliono conoscere più da vicino le vicende della portante mostra esposta in varie sedi italiane (10 nostra terra in relazione ai tragici avvenimenti del sedi marchigiane oltre a Roma e Venezia) ed in 6 secondo conflitto mondiale. sedi estere (Varsavia, Cze¸stochowa, Cracovia, La Regione Marche è orgogliosa di aver promos- Londra, Chicago, Adelaide) ed in altre sedi so e realizzato un progetto così rilevante che, specie dell’America Latina (Argentina), dove verrà realiz- in riferimento alle vicende del II Corpo d’Armata zata a partire dal prossimo autunno. polacco, ha consentito di scrivere con maggior pun- Hanno accompagnato la mostra la realizzazione tualità la verità storica che vide, proprio qui nelle di un bel catalogo e la realizzazione di due pub- Marche, i giovani soldati della Polonia combattere blicazioni curate dal dott. Campana e dal dirigen- fianco a fianco ai nostri soldati ed alle divisioni par- te del Servizio Cultura della Regione Marche tigiane per riconquistare la libertà perduta. dott. Raimondo Orsetti. L’imponente quantità del materiale recuperato, Gian Mario Spacca una volta ordinato, sarà conservato presso il Museo Presidente della Regione Marche

5 PREFAZIONE

La Regione Marche e l’Istituto regionale per la lario di questa attività. Con questo agile stru- storia del movimento di liberazione con il rag- mento divulgativo intendiamo infatti ampliare giungimento dell’importante obiettivo della ed approfondire l’informazione sulle diverse entrata in funzione del Museo della Liberazione tematiche che sono oggetto del Museo della di Ancona ubicato ad Offagna - la cui Liberazione di Ancona. Amministrazione Comunale ha fornito una fon- Abbiamo anche cercato di individuare gli argo- damentale collaborazione - hanno inteso porta- menti che saranno oggetto di approfondimento e re un importante contributo alla conoscenza ed divulgazione nei prossimi numeri dei “Quaderni”. alla documentazione dei tragici fatti che hanno Ne elenchiamo alcuni: l’apporto della Resistenza portato, nel luglio 1944, alla liberazione di alla liberazione di Ancona e delle Marche, i rap- Ancona. porti tra il Comitato di liberazione regionale ed il La realizzazione del Museo, la cui conduzio- Governo militare alleato, le scuole del II Corpo ne scientifica è stata affidata all’Istituto regionale polacco ubicate nella nostra Regione, i matrimo- per la storia del movimento di liberazione, non ni tra ex soldati polacchi e ragazze italiane, lo sfol- esaurisce però il nostro compito; il proposito è lamento da Ancona in conseguenza dei pesanti quello di portare avanti una attività di ricerca sto- bombardamenti sulla città. Interessante sarebbe rica e di documentazione finalizzata ad approfon- anche arrivare alla redazione di una “ Guida della dire tutti gli aspetti relativi agli avvenimenti che battaglia di Ancona” la quale, nell’indicare i luo- interessarono le Marche, e l’intera penisola, ghi dei combattimenti, sappia collegarli ad infor- durante il secondo conflitto mondiale e nel perio- mazione di carattere turistico e culturale riferite do immediatamente successivo. all’oggi. Riteniamo che dare vita alla pubblicazione In questo primo volume Giuseppe Campana - di una collana - che abbiamo titolato “Quaderni ricercatore presso l’Istituto ed autore di prece- del Museo della Liberazione di Ancona”, di cui denti libri sul II Corpo polacco di assoluto rilievo “1943-1947. Il II Corpo d’Armata polacco in ed originalità - riassume le vicende degli oltre 100 Italia” è il primo volume - sia il naturale corol- mila soldati che, dal novembre 1943 all’aprile ‘45,

6 combatterono accanto alle truppe alleate per libe- che, fino a pochi anni fa, era stata dimenticata o rare la nostra penisola dall’occupazione nazista, parzialmente distorta. per poi - a causa della situazione che si era creata in patria - soggiornare in Italia fino ai primi mesi Mario Fratesi del 1947. Vicepresidente dell’Istituto regionale Si tratta, a nostro avviso, di un ulteriore ed per la storia del movimento importante apporto alla conoscenza di una storia di liberazione nelle Marche

7 Il II Corpo d’Armata polacco affronta le principali batta- glie a Montecassino, Ancona, Bologna. I soldati polacchi combattono in Italia anche per la Polonia, all’insegna del motto: “per la nostra e vostra libertà”. (Da: “Szkice do Dzia an 2 Korpusu we W oszech” - Cartine ł ł delle operazioni del II Corpo in Italia, pubblicate a Londra nel 1956 dalla Sekcja Historyczna 2 Korpusu).

8 1943-1947 Il II Corpo d’Armata polacco in Italia

di Giuseppe Campana

I precedenti. Il II Corpo d’Armata polacco nasce forze tedesche e si ritirano in parte nelle zone a sud ufficialmente in Iraq nel luglio del 1943, ma la sua del Paese. Ma quando, il 17 settembre, le armate storia comincia molti anni prima. L’unità è infatti dell’Unione Sovietica invadono la Polonia da orien- soprattutto composta di cittadini polacchi che erano te, il colpo alle spalle si rivela fatale e impedisce a stati deportati e rinchiusi nei campi di lavoro forza- molti soldati di rifugiarsi in Romania e Ungheria. to e nelle prigioni dell’Unione Sovietica e che, prima Già ai primi di ottobre cessano quasi del tutto i di arrivare in Medio Oriente, avevano subito tutta combattimenti. una serie di vicissitudini. La Campagna del 1939 ha dato origine a miti ed Il 23 agosto 1939 era stato firmato a Mosca, da errate valutazioni - frutto di una iniziale acritica Germania nazista e Unione Sovietica, il “Patto di accettazione della propaganda bellica e poi traman- non aggressione tedesco-sovietico”, che prevedeva datisi da autore ad autore - che gli storici stanno ora nell’Europa orientale due distinte sfere territoriali di rivedendo. Non corrisponde a verità, ad esempio, la influenza, nelle quali i due Paesi avrebbero potuto versione lungamente accettata delle “invincibili operare senza il timore di interferenze reciproche. masse corazzate tedesche” che travolgono le forze Neutralizzato in tal modo un eventuale intervento polacche schierate in modo errato. sovietico contro la Germania, la politica aggressiva Nel 1939 la “Blitzkrieg” (guerra lampo), cioè l’im- di Hitler continua con l’invasione della Polonia, che piego dei mezzi corazzati tedeschi in formazioni avviene il primo settembre 1939. Segue, il 3 set- autonome che penetrano con rapidità nelle forze tembre, la dichiarazione di guerra alla Germania da nemiche disarticolandole, non è ancora ben collau- parte di Gran Bretagna e Francia: l’Europa e poi data. In particolare, non è pienamente efficiente la tutto il mondo verranno a mano a mano coinvolti in cooperazione tra carri armati ed aerei. Nella realtà, i un sanguinoso conflitto. tedeschi subiscono perdite elevatissime da parte Pur combattendo con valore e determinazione, le della Cavalleria polacca armata di cannoni contro- truppe polacche vengono sopraffatte dalle superiori carro. E, a questo proposito, risulta del tutto inven-

9 tato, pare da corrispondenti di guerra italiani, l’epi- salvaguardare l’indipendenza della Polonia. sodio della Cavalleria polacca che avrebbe suonato la I Comandi polacchi, tuttavia, pur avendo schiera- carica contro i carri armati tedeschi. Il racconto to le truppe al confine avevano preso in considera- viene subito sfruttato dalla propaganda tedesca per zione una ritirata sulla linea dei fiumi Vistola e San, dimostrare l’irresponsabilità degli ufficiali polacchi, che però diventa impossibile a causa dell’avanzata falsamente accusati di avere impartito l’ordine di tedesca. Viene allora deciso di concentrare le truppe fermare i carri armati con le sciabole. È invece vero nella zona sud del Paese e lì continuare la lotta, men- che la Cavalleria polacca, come tutte le cavallerie tre Varsavia sta impegnando notevoli forze nemiche. dopo la Prima guerra mondiale, si sposta a cavallo Ma l’attacco sovietico, unito al mancato rispetto ma combatte a piedi e, con le sue rapide puntate, degli impegni da parte di Francia e Gran Bretagna, mette spesso in difficoltà i tedeschi (Sull’invasione pone fine al progetto. Con notevole prontezza, allo- della Polonia si veda lo studio di Vuerich; nota: nel pre- ra, i Comandi ordinano alle formazioni superstiti di sente testo i riferimenti bibliografici sono indicati in passare in Romania - dove lo stesso Governo polac- forma abbreviata; per il riferimento in forma estesa si co chiede asilo - per potere poi trasferirsi in Francia consulti la bibliografia finale). e tentare la ricostituzione dell’Esercito. E il Governo Per quanto poi riguarda l’Aviazione polacca, non è fascista italiano, alleato dei tedeschi se pure non esatto che essa sia stata distrutta a terra dalla ancora in guerra, mostrerà una notevole tolleranza Luftwaffe, l’aeronautica militare tedesca, nei primi verso i militari polacchi di passaggio in Italia e pro- giorni di guerra. Gli aerei erano stati dispersi in venienti da Romania o Ungheria. Va ricordato che diverse piste segrete e, anzi, i piloti polacchi riescono fra Polonia e Italia non verrà decretato lo stato di a infliggere gravi perdite agli aerei tedeschi e ad attac- belligeranza né verrà presentata alcuna dichiarazione care anche le truppe. L’Esercito polacco, infine, viene di guerra nel corso degli anni 1940-44. schierato ai confini con la Germania per tentare di In Polonia, l’occupazione di tedeschi e sovietici pro- difendere quella parte di territorio nazionale in cui voca conseguenze drammatiche. Il Paese, ricostituito- sono concentrate industrie, risorse agricole, centri si solo nel 1918 dopo secoli di lotte per la libertà con- logistici e depositi militari. L’obiettivo è quello di tro russi, tedeschi e austriaci, è costretto a subire una reggere all’invasione tedesca fino all’avvio delle previ- ulteriore spartizione, la quarta della sua storia. I tede- ste e promesse azioni offensive della Francia contro la schi annettono direttamente al Reich le province Germania, la cui frontiera occidentale è debolmente occidentali, mentre nel rimanente territorio polacco, difesa, e fino al completamento della mobilitazione che comprende le città di Varsavia, Cracovia e polacca, avviata in ritardo proprio a causa delle pres- Lublino, viene imposto un “Governatorato Generale” sioni di Francia e Gran Bretagna, che non volevano sotto controllo tedesco. I polacchi subiscono le bru- far precipitare la situazione con la Germania pur tali conseguenze dell’ideologia nazista. Gli ebrei sono avendo assunto in precedenza il formale impegno di in parte uccisi e il resto rinchiuso nei ghetti: quasi

10 l’intera comunità ebraica polacca – due milioni di Forze Armate polacche, convinto che con un forte persone – verrà soppressa nei campi di sterminio nazi- potere militare alle spalle possa meglio difendere gli sti. La classe dirigente polacca viene fisicamente eli- interessi nazionali della Polonia. minata, due milioni di cittadini sono deportati nel Con i militari polacchi rifugiatisi in Ungheria e Reich, decine di migliaia di uomini di Slesia, Romania e fuggiti dall’internamento e con i polac- Pomerania e della regione di Pozna´n sono costretti ad chi presenti in Francia viene decisa la formazione di arruolarsi nella Wehrmacht, le forze armate tedesche, diverse unità che, alla fine, inquadreranno circa 80 mentre con la chiusura di scuole, università, musei si mila soldati. Quando la Francia viene invasa dalla tenta di cancellare l’intera cultura polacca. Germania, nel maggio del 1940, il Governo polacco I territori orientali della Polonia, compresa la città si trasferisce, con circa 20 mila soldati, a Londra, di Lwów, sono occupati dall’Unione Sovietica, che dove con il Primo ministro britannico Winston procede ad elezioni farsa e all’inserimento di cittadi- Churchill si raggiungono accordi che portano al ni sovietici nel sistema amministrativo. La Polonia potenziamento dell’Aeronautica e della Marina orientale viene di fatto incorporata e trattata come polacche e alla formazione del I Corpo d’Armata parte integrante dell’Unione Sovietica, che considera polacco, i cui reparti daranno un valido contributo i residenti come propri cittadini. Nel periodo 1939 allo sforzo bellico alleato in Normandia (Francia), – 1941 più di 400 mila persone vengono rinchiuse Belgio, Olanda, Germania del nord. dai sovietici nelle prigioni, nei campi di lavoro forza- L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, comin- to o uccise. Le deportazioni avvengono in quattro ciata il 22 giugno 1941, provoca in Europa un cam- ondate successive e coinvolgono contadini, famiglie biamento della situazione politica e militare. I dei soldati polacchi catturati dall’Armata Rossa nel sovietici si trovano in gravi difficoltà e ottengono 1939, magistrati, insegnanti, politici, uomini d’affa- l’appoggio di Gran Bretagna e Stati Uniti: questi ri, funzionari statali. Al tempo stesso l’Unione ultimi entreranno in guerra nel dicembre del 1941, Sovietica incoraggia le aspirazioni di ucraini e bielo- ma hanno già avviato il meccanismo della legge russi, introducendo le loro lingue, accanto a quella degli “affitti e prestiti” a favore delle nazioni amiche. russa, nelle università ed eliminando tutto ciò che rappresenta la cultura polacca. L’Esercito polacco in Unione Sovietica. Il nuovo Il Governo polacco si ricostituisce il 30 settembre contesto influisce anche sui rapporti tra polacchi e 1939 in Francia, con sede ad Angers, dove il gen. sovietici: il 30 luglio 1941 il Governo polacco in esi- W adys aw Sikorski, eminente personalità politica lio e una delegazione sovietica raggiungono a Londra ł ł della Polonia, forma un gabinetto di unità naziona- un primo accordo, sostenuto dal Governo britannico, le, subito riconosciuto da Francia, Gran Bretagna e a cui segue il 14 agosto un patto militare. Secondo Stati Uniti. Sikorski, Primo ministro e ministro tali accordi, dopo la concessione di una amnistia a della Guerra, si dedica alla riorganizzazione delle favore dei polacchi trattenuti nelle prigioni e nei

11 campi di lavoro forzato sovietici, con gli ex prigionie- mila uomini, inclusi tutti gli aviatori e i marinai, ri verrà formato un Esercito polacco in Unione sarebbero stati poi evacuati in Gran Bretagna e in Sovietica, destinato a partecipare alla comune lotta Medio Oriente. A Stalin vengono inoltre fatte pre- contro la Germania nazista. Al comando dell’Esercito senti le difficoltà dovute alla carenza di viveri, alla il Governo polacco designa il ten. gen. W adys aw inadeguatezza dell’armamento, alle condizioni dei ł ł Anders (1892-1970), distintosi nelle lotte per l’indi- soldati – la maggior parte dei quali sono accampati pendenza della Polonia e nella Campagna del 1939, in tende e devono sopportare temperature bassissi- che i sovietici hanno fatto prigioniero e rinchiuso nel me – e alle conseguenti ripercussioni sull’addestra- carcere della Lubianka, a Mosca. mento. Nel gennaio e febbraio del 1942 i polacchi L’Esercito, che dipende dal Governo polacco in esi- vengono traferiti nelle repubbliche asiatiche lio ma è controllato dal punto di vista operativo dai dell’Unione Sovietica: Kazakistan, Kirghizistan, sovietici, si costituisce nella regione dell’Oremburg- Uzbekistan, con il Quartier Generale sistemato a Volga, con Quartier Generale a Buzuluk. Dalle carce- Jangi-Jul, tra Samarcanda e Ta kent, e il centro di sˇ ri e dai campi di lavoro forzato sovietici arrivano molti evacuazione a Krasnovodsk, sul mar Caspio. polacchi in pessime condizioni fisiche, malati, denu- Alla richiesta sovietica del febbraio 1942 di invia- triti, pressoché privi di vestiario e, con essi, bambini e re una divisione al fronte, Anders oppone un rifiu- donne, con parte delle quali il gen. Anders organizza to, sia perché intende impiegare l’Esercito come un “Servizio Ausiliario Femminile”. forza unitaria sia perché è convinto che armamento Nonostante le assicurazioni sovietiche che i pri- e addestramento sono ancora insufficienti. In parti- gionieri polacchi sono solo 21 mila, a metà ottobre colare, Anders lamenta l’assenza di quadri, tanto che del 1941 gli uomini arruolati sono oltre 25 mila e un certo numero di ufficiali viene fatto venire dalla continuano ad affluire in massa, anche se i coman- Gran Bretagna, e pone il problema del mancato arri- danti dei campi di lavoro contrastano la liberazione vo nell’Esercito di numerosi ufficiali polacchi pri- di chi è in condizioni fisiche accettabili. Inoltre, a gionieri dei russi, chiedendone notizia e comincian- causa della critica situazione al fronte, i sovietici pos- do a nutrire forti sospetti sulla loro sorte. sono fornire armi ed equipaggiamenti per una sola I russi, agli inizi di marzo del 1942, quando i divisione e razioni per 30 mila persone, quando i polacchi dell’Esercito sono oltre 70 mila, riducono polacchi raggiungono ormai il numero di 40 mila. per ritorsione il numero delle razioni a 26 mila. Nel dicembre del 1941 un accordo tra Stalin, Segue subito un incontro tra Stalin e Anders che segretario generale del Partito comunista sovietico, e porta a un cambiamento dell’accordo del dicembre Sikorski prevede un Esercito polacco di 96 mila 1941: l’Unione Sovietica è in grado di fornire ai uomini, con due divisioni di 11 mila uomini ognu- polacchi un massimo di 44 mila razioni e l’Esercito na organizzate secondo gli schemi sovietici e quattro dovrà essere strutturato su tre divisioni; tutti i solda- strutturate secondo il sistema britannico. Circa 25 ti in soprannumero saranno evacuati in Persia, occu-

12 pata fin dall’agosto del 1941 da Gran Bretagna e in agosto, e in minor quantità in novembre, rag- Unione Sovietica. L’operazione comincia già il 24 giungono così in totale, tra civili e militari, la cifra marzo e dura fino al 4 aprile del 1942: 33069 sol- di circa 115 mila, con i soldati che si aggirano sulle dati e 10789 civili, tra cui tremila bambini, vengo- 70 mila unità. Le truppe si insediano a Pahlevi e a no trasferiti per ferrovia a Krasnovodsk e poi in bat- Teheran e, dopo una serie di incontri con le autorità tello a Pahlevi in Persia. britanniche, vengono messe a punto le modalità per All’esodo, oltre alla critica situazione in Unione riorganizzare un Esercito polacco. La situazione di Sovietica provocata dalla pressione tedesca, ha con- partenza è molto precaria, a causa delle condizioni tribuito anche Winston Churchill: preoccupato per fisiche degli ex internati nel gulag sovietico: in la sicurezza dei campi petroliferi in Persia e Iraq, che poche settimane muoiono mille persone, mentre le scarse unità britanniche non sono in grado di pro- molti soldati sono affetti da febbri malariche. teggere, aveva insistito con i sovietici per il trasferi- mento dei polacchi. Nell’aprile del 1942 Anders si L’Esercito polacco in Oriente. Circa 3500 solda- reca a Londra dove incontra sia Sikorski, che è favo- ti sono inviati in Gran Bretagna per rinforzare gli revole all’impiego in Unione Sovietica delle truppe squadroni dell’Aeronautica polacca. Con i restanti polacche, sia Churchill: a entrambi esprime l’opi- uomini è costituito l’Esercito polacco in Oriente nione che l’intero Esercito polacco debba essere tra- (APW) che comprende reparti polacchi già presenti sferito dall’Unione Sovietica in Persia. Il generale è in zona, l’ospedale polacco e la Brigata indipenden- preoccupato per le deficienze in razioni e nell’arma- te “Fucilieri dei Carpazi” del gen. Stanis aw ł mento e per le malattie che hanno colpito i suoi Kopanski,´ anch’essa con una lunga storia alle spalle. uomini, ma anche per l’atteggiamento sovietico, che Nata in Siria nel maggio del 1940 e sostenuta dai impedisce l’arruolamento dei polacchi di origine francesi, era formata da soldati polacchi fuggiti ucraina e bielorussa. L’Unione Sovietica sostiene che attraverso i Balcani dopo il settembre del 1939. In si tratta di cittadini sovietici, rivendicando così i ter- seguito alla caduta della Francia, si era spostata in ritori della Polonia già annessi nel 1939 e ora occu- Palestina e poi a Tobruk e aveva preso parte con i pati dai tedeschi. Ritornato in Unione Sovietica, suoi 5800 uomini, a fianco dell’Esercito inglese, ai Anders insiste presso le autorità per ottenere il con- combattimenti in Africa del Nord. senso al trasferimento in Persia anche delle restanti L’Esercito polacco in Oriente, organizzato secon- unità. La richiesta viene infine accettata nel luglio do gli ordinamenti inglesi e comandato dal gen. del 1942 – anche perché Stalin, attraverso gli infor- Anders, entra a far parte della Pai Force (Persia and matori infiltrati tra i polacchi, sa che l’Esercito di Iraq Command): si tratta di truppe britanniche e Anders non può essere controllato dai sovietici – e indiane che hanno il compito, oltre che di sorve- dal 5 al 25 agosto si compie il secondo esodo. I gliare i campi petroliferi, di costruire basi e di orga- polacchi che lasciano l’Unione Sovietica in marzo e nizzare il flusso verso l’Unione Sovietica dei riforni-

13 menti del programma “affitti e prestiti”. I polacchi collaboratore di Anders. Il nuovo Esercito è del difendono i campi petroliferi e si addestrano fino a tutto subordinato alle autorità sovietiche, anche se che, nel marzo del 1943, sono inviati nel nord formalmente dipende dalla Unione dei patrioti dell’Iraq, nella zona di Kirkuk, dove vengono istrui- polacchi, un gruppo procomunista di “polacchi di ti sulle tecniche della guerra in montagna e delle Mosca” che, in contrapposizione con i “polacchi di operazioni di sbarco. Londra”, sono favorevoli alla cessione all’Unione In questo periodo arriva ad Anders la drammatica Sovietica delle province orientali della Polonia. conferma dei suoi sospetti. Nella foresta di Katy´n, Stalin può così disporre di unità polacche senza vicino a Smolensk, i tedeschi scoprono – nell’aprile alcun legame con il Governo in esilio e sotto stretto del 1943 – delle fosse comuni con 4400 corpi. Si controllo sovietico, che daranno comunque anch’es- tratta di ufficiali polacchi fatti prigionieri dai russi se un valido contributo alla lotta contro il nazismo. nel 1939 e massacrati l’anno successivo – come ha riconosciuto nel 1990, dopo decenni di disinforma- La nascita del II Corpo d’Armata. Nel giugno zione e di mistificazioni, la stessa Unione Sovietica – del 1943 le truppe polacche in Iraq sono ispezionate dai reparti speciali del Nkvd (Commissariato del dal gen. Sikorski: dopo la visita viene stabilita la popolo per gli affari interni, in realtà polizia politi- nascita di una formazione tattica da chiamare II ca), su ordine del Politburo sovietico. In totale sono Corpo d’Armata polacco e al cui comando è desi- 22 mila i prigionieri polacchi uccisi dai sovietici nel- gnato il gen. Anders. Il II Corpo è strutturato sul l’aprile del 1940 con lo scopo di eliminare quei cit- modello britannico, ma dispone di supporto diretto tadini che in futuro avrebbero potuto guidare una di artiglieria e carri armati, oltre che di servizi non lotta per la rinascita della Polonia. I tragici aspetti presenti in un Corpo d’Armata britannico. umani di questa criminale “pulizia di classe” si riper- L’importante decisione è seguita da una grave trage- cuotono anche sul piano diplomatico: quando il dia dai contorni ancora oscuri. Nel ritorno a Londra Governo polacco propone alla Croce Rossa interna- l’aereo di Sikorski effettua una sosta a Gibilterra e, zionale di istituire una commissione internazionale poco dopo il decollo per la tappa finale, il 4 luglio, di inchiesta, i sovietici rompono le relazioni diplo- precipita in mare. Il gen. Sikorski muore e la Polonia matiche con i polacchi. Già dopo la partenza di perde uno dei più decisi sostenitori degli interessi Anders, i rapporti si erano deteriorati: era stata nazionali, una personalità stimata dagli Alleati, a cui impedita l’ulteriore formazione di truppe polacche aveva più volte fatto presente il problema del confi- ed erano stati arrestati gli addetti al reclutamento. ne orientale del Paese, e capace di mantenere la disci- Le intenzioni sovietiche si rivelano in modo chiaro plina interna. Dopo la sua morte, le strutture politi- quando Stalin acconsente, nel maggio del 1943, alla ca e militare del Governo polacco vengono divise: formazione in Unione Sovietica di un Esercito Primo ministro diventa Stanis aw Miko ajczyk men- ł ł polacco comandato dal gen. Zygmunt Berling, ex tre il generale Kazimierz Sosnkowski assume il

14 comando in capo delle Forze Armate. I due uomini autorità britanniche, in accordo con quelle polacche, hanno idee politiche e sociali diverse: il primo è favo- prendono la decisione di inviare il II Corpo in Italia. revole a trattative con Mosca mentre il generale, fer- I polacchi devono sostituire i reparti che gli Alleati vente patriota, diffida dei sovietici. hanno intenzione di trasferire dall’Italia in Gran La nuova organizzazione delle forze militari polac- Bretagna per partecipare allo sbarco in Normandia, che entra in vigore dal 21 luglio 1943. Il II Corpo confermato per la primavera del 1944. polacco assume un ordinamento basato su due divi- sioni di fanteria e una brigata corazzata, a cui si Il II Corpo polacco in Italia. I soldati del II aggiungono l’artiglieria di Corpo d’Armata, il Corpo vengono trasportati in treno nella regione di Reggimento “Lancieri dei Carpazi”, il 10° Battaglione Alessandria e Port Said e da qui i britannici li trasfe- Genio, l’11° Battaglione Guardie e unità di comman- riscono in Italia utilizzando anche alcune navi polac- do. Tale ordinamento subirà in seguito notevoli varia- che: l’operazione prende l’avvio il 15 dicembre 1943 zioni. Ma la struttura su due divisioni rimarrà una e continua fino al mese di aprile del 1944. Mentre costante del Corpo. E’ anche prevista una “Base”, in Egitto rimane un comando dell’Esercito polacco comprendente la 7ª Divisione di riserva, strutture per in Oriente, poi trasformato in Quartier Generale addestramento, ospedali, servizi. Nell’agosto del delle Unità in Medio Oriente, i reparti destinati in 1943 i polacchi vengono trasferiti in Palestina, allora Italia sbarcano soprattutto a Taranto e nei porti di sotto mandato britannico, dove quasi tremila ebrei su Brindisi e di Napoli. quattromila presenti abbandonano il Corpo per par- Al II Corpo è assegnata un’ampia area attorno a tecipare alla lotta per la creazione di uno Stato ebrai- Masseria S. Teresa, alle spalle di Taranto lungo la co. Tra essi Menahem Begin, che diventerà Primo strada per Monopoli, scelta per la vicinanza al porto ministro d’Israele. Il gen. Anders e i comandi polac- e ai depositi britannici. Le unità sono acquartierate chi, in contrasto con le autorità britanniche, rifiutano in cinque campi di tende, ma in seguito i siti subi- di ricercare e perseguire i disertori. scono costanti variazioni, in relazione all’arrivo di Nel territorio tra Tel Aviv e il confine egiziano con- nuovi contingenti, che affluiscono anche nella zona tinuano le manovre in terreno montuoso e in ottobre di Mòttola, dove si insedia il Quartier Generale del il II Corpo viene trasferito a Camp Quassasin in II Corpo. Dal punto di vista operativo, il Corpo Egitto. I comandi britannici richiedono una divisio- polacco è inquadrato nell’8ª Armata britannica che, ne polacca sul fronte italiano, ma il gen. Anders rifiu- con la 5ª Armata americana, costituisce le Armate ta perché fedele alla sua posizione di impiegare il II Alleate in Italia, comandate dal gen. Harold Corpo come struttura unitaria. Nel novembre del Alexander. Politicamente si tratta della grande unità 1943 è lo stesso gen. Sosnkowski, in occasione di una di un Paese alleato indipendente, che combatte a visita ai reparti, a comunicare che tutto il Corpo verrà fianco della Gran Bretagna secondo gli accordi sot- utilizzato in Italia. Infine, nel dicembre del 1943, le toscritti dai due Governi.

15 Agli inizi del 1944 i tedeschi sono attestati sulla il 17 giugno 1944 il II Corpo assume la responsabi- Linea Gustav – che corre dal fiume Garigliano, sul lità del settore adriatico. All’epoca gli effettivi del II mar Tirreno, fino al mar Adriatico a nord del fiume Corpo polacco sono circa 43 mila e l’unità è forma- Sangro – con la 10ª Armata, mentre la 14ª Armata ta da due divisioni di fanteria (3ª Divisione “Fucilieri circonda e costringe a rimanere sulla difensiva le dei Carpazi” e 5ª Divisione “Kresowa”), dalle truppe truppe alleate sbarcate ad Anzio il 22 gennaio 1944. di Corpo d’Armata (artiglieria, servizi, Reggimento In questa situazione di stallo e mentre è ancora in esplorante “Lancieri dei Carpazi”) e dalla 2ª Brigata corso il trasferimento dall’Egitto, al II Corpo polac- corazzata, composta di tre reggimenti dotati di carri co viene affidato un settore sulla linea del fiume armati Sherman e Stuart. E’ attivo anche il “Servizio Sangro, tra Castel S. Vincenzo, a sud di Alfedena, e Ausiliario Femminile”, impegnato soprattutto nella Colledimezzo (Piano del Monte), a sud di Atessa, Sanità, ma anche nelle Trasmissioni e nei Trasporti. che costituisce la saldatura tra la 5ª Armata america- Collaborano con i polacchi: il Corpo italiano di libe- na, impegnata nel settore occidentale, e l’8ª Armata razione, comandato dal gen. Umberto Utili e con un britannica, che tiene il settore orientale della Linea organico di circa 25 mila uomini; il 7° Reggimento Gustav. I compiti del II Corpo sono di carattere “Ussari”, una unità esplorante-corazzata britannica; i difensivo e verranno poi estesi anche al settore tra partigiani, circa 400, della Banda “Patrioti della Castel S. Vincenzo e le sorgenti del fiume Rapido. Maiella”, comandati da Ettore Troilo. Le forze tede- Poi, nell’offensiva messa a punto nel marzo del sche contrapposte sono costituite da due divisioni di 1944, il comando alleato affida al II Corpo il com- fanteria (278ª e 71ª) a organici ridotti, prive di carri pito di spezzare il dispositivo difensivo tedesco sulle armati e di copertura aerea, ma dotate di una effica- montagne a nord di Cassino, impadronendosi della ce artiglieria, di cannoni d’assalto, usati in ruolo con- collina del Monastero – l’ultima barriera naturale, trocarro, di semoventi italiani M42 e di armi contro- potentemente difesa, prima di Roma – e delle posi- carro individuali. La campagna ha il suo punto cul- zioni tedesche, affidate alla 1ª Divisione minante nella conquista di Ancona e del suo porto, Paracadutisti e alla 5ª Divisione Alpina. L’attacco l’obiettivo che i Comandi alleati hanno assegnato al polacco, iniziato nella notte tra l’11 e il 12 maggio II Corpo allo scopo di poter disporre di una base contemporaneamente alle altre forze alleate, si con- logistica avanzata. clude il 25 maggio con la conquista di Monte Cairo La città viene presa con una manovra di aggira- e Piedimonte. Nella mattina del 18 maggio 1944 mento condotta dal territorio di Osimo, attraverso un reparto del 12° Reggimento esplorante “Lancieri Polverigi e Agugliano, verso la foce del fiume Esino. di Podolia” innalza la bandiera polacca sulle rovine Sulla fascia costiera a sud di Ancona viene imposta- dell’abbazia di Montecassino, distrutta dagli Alleati ta una simultanea manovra diversiva. Lo scopo è nel bombardamento del 15 febbraio. quello di chiudere i tedeschi in una sacca. I combat- Dopo la conquista di Roma da parte degli Alleati, timenti sono particolarmente intensi per la conqui-

16 sta di Monte della Crescia, che domina il terreno Gotica in base alla nuova strategia alleata che, anche della battaglia, e nelle zone di Torrette e di Camerata a causa della conquista del porto di Ancona, prevede Picena, dove i tedeschi tentano di contenere l’avan- lo spostamento sul versante adriatico dell’asse di zata polacca. Il 18 luglio 1944 Ancona viene con- attacco dell’8a Armata britannica. La successiva quistata e, ad entrare per primi in una città semidi- Battaglia del Metauro si svolge dal 19 al 22 agosto ed strutta dai bombardamenti aerei alleati, sono i ha come obiettivo la conquista, ad opera dei polac- “Lancieri dei Carpazi” e i volontari italiani della chi, delle basi di partenza alleate per le successive 111a Compagnia Protezione Ponti, aggregati al II operazioni contro la Linea Gotica. E’ considerato il Corpo come “commando” (si vedano i saggi di combattimento più accanito affrontato dal II Corpo Tasselli e Strza ka, 2008 citati in bibliografia). durante tutta la Campagna adriatica. Dopo l’attac- ł La presa di Ancona costituisce un notevole succes- co alla Linea Gotica, sferrato il 25 agosto con le altre so strategico perché il porto, entro pochi giorni, truppe alleate, per il II Corpo il ciclo operativo nel viene messo in grado di funzionare. Possono così settore adriatico si conclude il 2 settembre, con la essere sbarcati materiali vari, viveri e carburanti. La liberazione dell’intera zona tra Pesaro e Gradara. battaglia riveste inoltre una fondamentale importan- Ad entrare a Pesaro, il 2 settembre, sono i “Lancieri za per i polacchi in quanto è l’unica grande opera- dei Carpazi” e i “Patrioti della Maiella”. Il Corpo ita- zione condotta in Italia in cui il II Corpo combatte liano di liberazione, dopo avere partecipato alla libe- in modo pressoché autonomo. Per gli italiani, che razione di Urbino e di altre importanti località del cooperano con i polacchi, il significato è al tempo pesarese, dal 30 agosto sospende ogni attività opera- stesso militare e simbolico: soldati, partigiani, volon- tiva e viene trasferito in zona di riordinamento per tari, mostrano la loro ferma volontà di combattere essere integrato da nuove forze. Nasceranno così i per la liberazione del Paese. In particolare, il Corpo “Gruppi di Combattimento”. italiano di liberazione con l’entrata ad Ascoli Piceno In ottobre, dopo un periodo di riposo, i polacchi (18 giugno), Macerata e Tolentino (30 giugno), e vengono trasferiti in Emilia-Romagna, dove opera- con l’attacco su Filottrano (9 luglio) e la liberazione no su un terreno montuoso e in difficili condizioni di Jesi (20 luglio) testimonia la rinascita dell’Esercito atmosferiche. Il 27 ottobre, dopo duri combatti- italiano dopo la tragedia dell’8 settembre 1943. menti, conquistano Predappio, luogo di nascita di Il 4 agosto i polacchi entrano a Senigallia e il 9 ago- Benito Mussolini, e cooperano alla liberazione di sto prende l’avvio la Battaglia del Cesano, che si pro- Faenza. Poi gli Alleati esauriscono la spinta offensi- pone di consolidare il possesso della Statale N. 76: va e sono costretti a sospendere le operazioni, men- questa strada deve infatti essere percorsa in sicurezza tre il fronte si stabilizza sulla linea del fiume Senio. dal I Corpo canadese e dal V Corpo britannico nel In questo periodo il II Corpo polacco viene note- loro trasferimento verso il versante adriatico, dove volmente rinforzato: in particolare, le divisioni di dovranno essere impiegati per sfondare la Linea fanteria sono ora articolate su tre brigate in luogo

17 delle due precedenti, mentre un reggimento di arti- In totale, nel periodo 1944-45 il II Corpo ha com- glieria è dotato di pezzi di grosso calibro. Le opera- battuto sul fronte italiano per 367 giorni, eliminan- zioni offensive riprendono nell’aprile del 1945 e do dal combattimento circa 50 mila soldati tedeschi. portano alla resa dei tedeschi e alla fine della guerra in Italia. Il II Corpo libera Imola il 14 aprile e, dopo La questione polacca. Con il contributo dato alle i duri combattimenti sulla linea del torrente Gaiana, armate alleate i polacchi, oltre a lottare contro la contribuisce notevolmente, il 21 aprile 1945, alla Germania nazista, sperano anche di ottenere il soste- conquista di Bologna, dove i polacchi entrano per gno dei Governi britannico e statunitense per il primi alle 6 del mattino, accolti con entusiasmo recupero dei territori orientali annessi nel 1939 dalla popolazione. La bandiera polacca viene issata dall’Unione Sovietica e per la ricostituzione di una sul balcone del Palazzo municipale e poi sulla Torre Polonia libera e indipendente. Il II Corpo, in parti- degli Asinelli, la più alta della città. Il 6 ottobre colare, avrebbe dovuto costituire l’ossatura del futu- 1945 il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, confe- ro esercito nazionale polacco. Ma proprio nel corso risce la cittadinanza onoraria al gen. Anders nella della Campagna d’Italia - a cui i soldati polacchi sua qualità di comandante delle “valorose truppe partecipano con grande impegno e forza morale per- polacche che prime entrarono in Bologna”. ché convinti di combattere per un ideale di libertà - Analogo gesto avverrà ad Ancona l’8 dicembre 1945 gli avvenimenti prendono una via del tutto sfavore- da parte del sindaco Luigi Ruggeri. vole alle loro aspettative. Durante la Campagna d’Italia, il II Corpo polac- Nel gennaio del 1944 le truppe sovietiche sono co ha subito, tra morti, feriti e dispersi, oltre 17 mila all’offensiva, attraversano il confine anteguerra della perdite. Il numero comprende anche coloro che Polonia e penetrano nel Paese. L’Esercito sono stati evacuati per aver perso l’idoneità al com- dell’Interno (Armia Krajowa), che raccoglie le forze battimento e i feriti per varie cause (incidenti, ecc.). della resistenza polacca collegate con il Governo in Le perdite in combattimento sono state le seguenti: esilio, attua l’“Operazione Tempesta”, che si propo- 2197 morti (i 4022 caduti sepolti nei cimiteri di ne di offrire cooperazione ai sovietici e, al tempo guerra di Casamassima, Montecassino, Loreto, stesso, di dimostrare che l’Armata Rossa non è sola Bologna comprendono i soldati deceduti per ferite, nell’opera di liberazione della Polonia. Secondo il malattie, incidenti), 8376 feriti e 264 dispersi (in piano, l’Esercito dell’Interno avrebbe aperto le osti- prevalenza caduti prigionieri). Nel corso delle batta- lità contro i tedeschi e sarebbe poi andato incontro glie che nell’estate del 1944 si sono combattute nelle all’Armata Rossa come autorità legittima. Marche, dal fiume Chienti al fiume Foglia, il II L’obiettivo finale, in linea con il Governo in esilio,è Corpo polacco ha avuto 753 morti (496 per le bat- quello di mantenere l’autonomia della Polonia taglie di Ancona e 257 per l’attacco alla Linea dall’Unione Sovietica. Gotica) e 2877 feriti (rispettivamente 1789 e 1088). Alcune azioni contro i tedeschi vedono russi e

18 polacchi uniti nella lotta, ma poi i comandanti della rivolta, mentre manca completamente l’aiuto dei resistenza polacca cominciano a essere arrestati o sovietici che, oltretutto, era stato promesso quando uccisi dal Nkvd, mentre ai soldati, dopo il disarmo, le truppe erano in vista di Varsavia. viene imposta dai sovietici la scelta tra i campi di I tedeschi possono così scatenare la loro controf- lavoro o l’entrata nelle truppe di Berling. fensiva, che vede coinvolte anche la famigerata L’insurrezione di Varsavia dell’agosto-settembre “Brigata di Polizia”, composta di criminali comuni, e 1944 contro i tedeschi costituisce l’ultimo disperato la “Brigata Kami ky”, formata da cittadini sovietici ń tentativo della resistenza polacca di rivendicare il che avevano aderito al nazismo. Dopo l’uccisione di proprio ruolo. I componenti dell’Esercito oltre 100 mila persone, tra insorti e civili, in ottobre dell’Interno, oltre 36 mila, riescono all’inizio a con- tutto finisce con la resa e la distruzione di gran parte quistare gran parte della città, ponendosi poi sulla di Varsavia. Il risultato è la dispersione dell’Esercito difensiva in attesa di aiuti dall’ovest o dai sovietici. dell’Interno, mentre molti polacchi perdono fiducia Le truppe sovietiche comandate dal maresciallo nel Governo in esilio, che ormai non possiede più Rokossovskij, che comprendono anche la 1a Armata alcun potere negoziale. L’Esercito del Popolo (Armia polacca comandata dal gen. Berling, sono ormai Ludowa), che raccoglie le formazioni comuniste arrivate a Varsavia nel quartiere di Praga, sulla riva della resistenza polacca, pur avendo cominciato la destra della Vistola. Ma, a parte un tentativo fallito propria attività con un numero di sostenitori netta- da parte di elementi della 1a Armata, non mostrano mente inferiore a quello dell’Esercito dell’Interno, alcuna volontà di intervenire a favore degli insorti. può ora sostenere di rappresentare l’intera nazione Non ci sono ancora prove certe per stabilire se Stalin polacca. Nel frattempo le unità sovietiche procedo- abbia fermato l’offensiva sovietica allo scopo di per- no al rastrellamento dei superstiti reparti della resi- mettere ai tedeschi di eliminare la resistenza polacca stenza polacca non comunista. Intorno al mese di non allineata con Mosca. È tuttavia accertato il fatto febbraio del 1945 quasi l’intero territorio polacco è che nei primi giorni dell’insurrezione i sovietici non stato ormai conquistato dall’Armata Rossa. permettono l’atterraggio nelle loro basi agli aerei La svolta sul piano politico e diplomatico era già alleati che portano rifornimenti agli insorti. I voli avvenuta nel corso della conferenza di Teheran alleati, molti dei quali partono da Brindisi, vengono (novembre-dicembre 1943) tra Stati Uniti, Gran così sospesi dopo gravi perdite e quando il 18 set- Bretagna e Unione Sovietica, indetta allo scopo di tembre gli aerei americani sono autorizzati all’atter- coordinare la strategia dei componenti della “Grand raggio in territorio controllato dai sovietici, i rifor- Alliance”. Nell’incontro, il primo fra Churchill, nimenti sganciati con i paracadute cadono per la Stalin e Roosevelt, presidente degli Usa, viene discus- maggior parte in mano dei tedeschi, che ormai con- so anche il futuro della Polonia. L’atteggiamento trollano vaste aree di Varsavia. In sostanza, gli occi- occidentale, frutto di valutazioni di esclusiva conve- dentali non forniscono un adeguato apporto alla nienza politica, può essere così sintetizzato: per scon-

19 figgere Hitler occorre mantenere l’alleanza con governativi britannici avevano dichiarato che i diritti Stalin; per mantenerla bisogna abbandonare la della Polonia sui suoi territori orientali non erano Polonia. Roosevelt e Churchill, consapevoli del ruolo certi) e nel momento in cui era stato scoperto il mas- decisivo che l’Armata Rossa svolge nella lotta alla sacro di Katy´n: di fronte alle prime notizie della Germania, privilegiano così l’amicizia con Stalin e responsabilità sovietica e, dall’altra parte, alla neces- accettano la sua richiesta di incorporare nell’Unione sità britannica di assicurarsi la cooperazione bellica di Sovietica la parte orientale della Polonia, corrispon- Stalin, Churchill aveva deciso di accantonare la que- dente all’incirca alle regioni invase dai sovietici in stione definendola “di nessuna importanza pratica” seguito agli accordi con la Germania nazista e che, (Zaslavsky, p. 69). storicamente polacche, erano state unite al Paese Dopo Teheran, il Governo britannico, pur mante- dopo la guerra russo-polacca (1919-20) e dopo il nendo segreti gli accordi, esercita continue pressioni trattato di Riga del 1921. sul Governo polacco affinché accetti il fatto com- Va specificato che la cessione per Churchill è solo piuto, ma le proposte vengono respinte. Nella con- una proposta su cui discutere, ma Roosevelt assicura ferenza di Mosca dell’ottobre 1944 Stalin e Stalin che la proposta del leader britannico non Churchill si accordano sul grado di influenza che avrebbe posto in futuro alcun problema. In tal modo Unione Sovietica e Gran Bretagna avrebbero avuto la diplomazia sovietica considera i colloqui di Teheran nei Balcani. A Mosca si discute anche del destino sulla Polonia un vero e proprio accordo finale, che è della Polonia, ma il Primo ministro polacco conforme alle proprie intenzioni di controllare, a Miko ajczyk può occuparsi solo di dettagli, in quan- ł guerra finita, una vasta zona di sicurezza davanti ai to i “grandi” sono già d’accordo sul futuro confine confini occidentali. Il destino della Polonia viene così orientale della Polonia. Ed è Molotov, il ministro deciso senza coinvolgere le legittime autorità governa- degli Esteri sovietico, a rivelare nel corso dell’incon- tive e senza prevedere consultazioni tra le popolazioni tro, tra l’imbarazzo di Churchill, che “... tutto è interessate, trattando il Paese quasi come se fosse un stato stabilito a Teheran” (Davies, p. 498). Le pro- nemico sconfitto invece che un leale alleato delle vince orientali polacche, compresa la città di Lwów, democrazie occidentali e, per di più, il Paese della cui verranno cedute all’Unione Sovietica. Miko ajczyk ł indipendenza la Gran Bretagna si era fatta garante. non riesce a convincere il suo gabinetto ad accettare Nell’incontro di Teheran i governi occidentali, oltre questi termini e il 24 dicembre 1944 si dimette. a privare la Polonia di quasi la metà del suo territorio Nelle conferenze di Jalta e Potsdam (febbraio e in cambio di compensazioni a spese della Germania, luglio 1945), Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione manifestano anche la precisa scelta di non voler difen- Sovietica più che spartirsi l’Europa prendono atto dere gli interessi nazionali polacchi in caso di contra- della realtà derivante dalle posizioni, già concordate, sti con i sovietici. Un atteggiamento ambiguo che, raggiunte dalle rispettive Forze Armate. Per quanto tuttavia, era già emerso in precedenza (esponenti riguarda la Polonia non si fa altro che confermare

20 quanto già era stato deciso a Teheran. In cambio I russi tentano in tal modo di screditare l’Esercito della consegna all’Unione Sovietica delle province dell’Interno, facendo credere che esso ha combattu- orientali polacche e del suo consenso a una Polonia to contro l’Armata Rossa e, al tempo stesso, elimi- che adotti un “atteggiamento amichevole verso la nano dalla scena politica coloro che si oppongono Russia”, Churchill chiede l’entrata nel futuro alla instaurazione a Varsavia di un regime vassallo di Governo di tutti gli “elementi democratici polacchi”. Mosca. Poi, dopo aver modificato i confini dello Ma l’Unione Sovietica, che ben conosce il forte Stato, controllato gli insediamenti polacchi nei ter- sentimento nazionale polacco, prepara con cura e ritori sottratti alla Germania, liquidato la vecchia con apparente legalità la conquista del potere: fin classe dirigente e annientato la residua resistenza dal loro ingresso in Polonia, i sovietici sono accom- armata anticomunista, si tengono, nel gennaio del pagnati dal Comitato polacco di liberazione nazio- 1947, le elezioni che sanciranno la dipendenza della nale – espressione dei “polacchi di Mosca”, contrap- Polonia dalla Unione Sovietica. Lo stesso posti a quelli di Londra, e della resistenza comunista Miko ajczyk, impossibilitato a svolgere liberamente ł – che prende poi il nome di “Comitato di Lublino”, la propria attività politica, nell’ottobre del 1947 sarà diventando nel gennaio del 1945 Governo provviso- costretto a fuggire dalla Polonia e a rifugiarsi prima rio e accettando l’annessione all’Unione Sovietica in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti. L’Esercito delle province orientali polacche. polacco verrà ricostituito, sul modello di quello Nel Governo di unità nazionale, riconosciuto il 6 sovietico, con un nucleo formato dai 400 mila sol- luglio 1945 da Stati Uniti e Gran Bretagna, erano dati che hanno combattuto sul fronte russo-tedesco. entrati in giugno anche alcuni “polacchi di Londra”, Dal 1949, a riprova della costante ingerenza russa, tra cui Miko ajczyk, ma le posizioni più importanti esso verrà posto agli ordini del maresciallo ł rimangono nelle mani di persone nominate dal Rokossovskij, che aveva comandato le truppe sovie- “Comitato di Lublino”. Il nuovo Governo è in realtà tiche all’epoca dell’insurrezione di Varsavia. allineato con Mosca e dominato dai comunisti, men- tre ormai in tutta la Polonia stazionano le truppe Il dopoguerra. La maggior parte degli oltre 250 sovietiche. Si procede a imprigionare gli esponenti mila soldati polacchi che avevano combattuto con- della resistenza non comunista dopo averli invitati, tro il nazismo sui fronti occidentali non accettano nel marzo del 1945, a un incontro trappola. Il gen. l’autorità del nuovo regime in Polonia e rifiutano il Leopold Okulicki, appartenente al II Corpo e ultimo rimpatrio in un Paese sotto dominio comunista, comandante dell’Esercito dell’Interno, viene processa- anche per il timore di essere imprigionati. I soldati to a Mosca e condannato a dieci anni di reclusione per del II Corpo, in particolare, che hanno sofferto la presunte attività contro l’Armata Rossa, ma nel 1946 prigionia in Unione Sovietica e che sono in gran morirà in carcere in circostanze oscure. La stessa sorte parte originari delle province polacche cedute ai tocca a delegati del Governo in esilio di Londra. sovietici, guardano al comunismo con sospetto e ini-

21 micizia. Il gen. Anders ritiene che Gran Bretagna e diventa il centro della vita del II Corpo e in alcune Stati Uniti abbiano violato i loro obblighi assunti località delle Marche (Amandola, Ancona, Falconara, nei confronti della Polonia e manifesta le proprie Fermo, Jesi, Macerata, Porto Recanati, Porto S. idee negli incontri che ha con Churchill – uno dei Giorgio, Recanati, Sarnano, Senigallia, S. Ginesio, S. quali si era svolto il 26 agosto 1944 nel Quartier Severino, Urbino) sorgono scuole di vario indirizzo in Generale polacco, a Senigallia – e con i comandanti cui si svolgono anche “corsi di maturità” per quei militari alleati, oltre che con esponenti del Governo militari che non avevano potuto completare gli studi in esilio. Dopo la conferenza di Jalta, che sancisce la a causa della guerra. Ad Alessano, in provincia di definitiva cessione all’Unione Sovietica delle provin- Lecce, viene impiantata la prima scuola in cui si ten- ce orientali polacche in cambio di ampliamenti ter- gono corsi per il conseguimento della maturità liceale ritoriali a nord e a ovest, con l’annessione di territo- o ginnasiale. Ancora oggi, in Polonia, vengono chia- ri tedeschi fino ai fiumi Oder e Neisse, il gen. mati gli “Alessanesi di Polonia” coloro che li hanno Anders si fa interprete del risentimento dei suoi sol- frequentati. dati, chiedendo alle autorità alleate di ritirare i Le sezioni “Editoria” e “Cultura e Stampa” del II reparti del II Corpo dal fronte. Ma poi i polacchi Corpo producono testi militari, ma anche libri sco- continuano ugualmente la lotta contro la Germania, lastici, saggi storici, romanzi, raccolte di poesie, a fianco degli Alleati. mentre molti giovani possono frequentare le univer- Nel dopoguerra, pur sostenendo che la Polonia è “in sità di Padova, Bologna, Roma, Torino. Nel 1946, schiavitù” e che è ormai impossibile un ritorno “con a continuazione dell’attività svolta all’interno del II le bandiere al vento come araldi della libertà”, il gen. Corpo, Jerzy Giedroyc (1906-2000) fonda a Roma Anders informa i suoi soldati che, se lo vogliono, pos- una casa editrice (Instytut Literacki) e poi la rivista sono rientrare singolarmente nel Paese. Su una forza “Kultura”, molto importante per la sua influenza totale di 110 mila effettivi, sono circa 14 mila coloro sulla letteratura polacca del dopoguerra. La casa edi- che entro la fine del 1945 scelgono di rimpatriare: si trice e la rivista - trasferite in seguito a Parigi - hanno tratta soprattutto di soldati giunti da poco tra le file avuto come cofondatore e collaboratore Gustaw del II Corpo. Al tempo stesso, l’unità diventa un polo Herling (1919-2000), soldato del II Corpo e autore di attrazione per i polacchi di tutta Europa: nell’Italia di “Un mondo a parte”, straordinaria opera lettera- centrale e meridionale vengono creati campi per i civi- ria e impressionante testimonianza sui campi di li e si istituiscono corsi professionali allo scopo di for- lavoro forzato sovietici. Ma anche un libro che, per mare specialisti da inserire, dopo il congedo, nelle le sue traversie editoriali (pubblicato in Gran varie attività lavorative. Per i bambini e gli adolescen- Bretagna nel 1951, verrà quasi ignorato quando nel ti, proseguendo in un programma didattico imposta- 1958 appare nella traduzione italiana; solo dal 1994, to fin dall’inizio, si organizzano scuole sovvenzionate con l’edizione Feltrinelli, il libro sarà conosciuto in dagli stessi soldati. Ancona, dove ha sede il comando, Italia) costituisce un silenzioso biasimo morale per

22 quegli intellettuali italiani e francesi che volevano clude : “In un periodo in cui in Polonia era negata tenere gli occhi chiusi su ciò che accadeva in Unione l’esistenza a qualunque università, scuola o casa edi- Sovietica. Dopo avere sposato Lidia, figlia di trice, in cui vigeva la totale segregazione nazionale, Benedetto Croce, Herling si è stabilito a Napoli e ha con l’eliminazione fisica di tutta la nazione ebrea dovuto subire per decenni l’ostilità dell’ambiente sulla nostra terra, il tentativo di Anders di creare intellettuale italiano. Solo pochi esponenti della cul- all’interno dell’Esercito in esilio una struttura socia- tura lo hanno apprezzato. Tra questi: Leo Valiani, le viva, solida e al contempo flessibile, nella tradi- Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Giovanni zione liberale di una società multinazionale e multi- Spadolini, Indro Montanelli. religiosa, deve preservarsi nella nostra memoria Nasce in Italia nel 1944-46, per merito del gen. come il suo testamento per il futuro” (Herling, Anders, una “Piccola Polonia”, dove i polacchi ritro- “Breve racconto di me stesso”, p. 132). vano tutti gli elementi della vita sociale e culturale A mano a mano, come ricorda lo scrittore Jan del loro Paese. E nasce anche una letteratura del II Bielatowicz, il II Corpo diventa una sorta di “gran- Corpo, che diventerà una “letteratura dell’esilio”, de nave che viaggia attraverso il tempo, raccoglien- ispirata agli eventi della guerra, alla nostalgia per la do ovunque naufraghi polacchi”, l’“ultima speran- patria lontana e alla particolare drammatica situa- za”, il “rifugio e il punto d’arrivo”, oltre il quale, zione in cui si trovano i polacchi. Ma sulla quale però, si delineano presto il fallimento di tutte le influiscono anche gli storici rapporti di amicizia tra aspirazioni polacche e la frustrante realtà dell’assor- i due Paesi e una rinnovata reciproca comprensione bimento della Polonia nel sistema politico e militare e conoscenza, l’arte, la natura, il sole, il paesaggio sovietico. Una condizione psicologica che porta italiano. Già durante la guerra era stato pubblicato, alcuni soldati polacchi a inscenare dimostrazioni di fin dalla permanenza in Medio Oriente, “Dziennik ripulsa e di spregio nei confronti dei simpatizzanti o nierza APW” (Il quotidiano del soldato – di sinistra italiani e a compiere vere e proprie aggres- Ż ł Esercito Polacco in Oriente), che in Italia mantiene sioni contro i militanti comunisti e le manifestazio- questa testata. Il giornale segue gli spostamenti del ni del Partito comunista, soprattutto nelle Marche, fronte e, per un certo periodo, viene stampato a ma anche in Emilia-Romagna e in Puglia. Fermo. Al quotidiano si affiancano varie testate La stampa comunista risponde con attacchi con- periodiche, tra cui il settimanale “Orze Bia y” tro il II Corpo, ma si verificano anche reazioni vio- ł ł (L’Aquila Bianca) e pubblicazioni specifiche delle lente contro i polacchi. Si tratta, in sintesi , di uno varie formazioni del II Corpo. scontro tra due posizioni inconciliabili, da inqua- Una conversazione di Gustaw Herling e Józef drare nelle tensioni politiche e sociali del dopoguer- Czapski sul generale Anders, apparsa in “Kultura” ra. E i contrasti in Italia verranno influenzati e acui- (N. 7-8, 1970, pp. 15-25) e dal titolo “Dialog o ti dai contemporanei e complessi sviluppi della poli- Dowódcy” (Dialogo sul Comandante) così si con- tica internazionale. Il Partito comunista, consapevo-

23 le del ruolo importante avuto nella Resistenza e por- una lettera personale del 30 settembre 1944 indiriz- tatore di idee di rinnovamento totale della società – zata al presidente del Consiglio. Il leader comunista ma anche perché allineato con Mosca, dove l’utopia sostiene che “soldati e ufficiali polacchi... esercitano sociale a suo avviso si è realizzata, e permeato del violenze contro il nostro partito” e cita un episodio “mito” dell’Armata Rossa per il contributo determi- accaduto a Macerata in cui i polacchi “sono arrivati nante dato alla lotta contro il nazismo – trova incon- al punto di impedire un discorso dell’on. Molinelli”. cepibile l’anticomunismo e l’antisovietismo dei Togliatti sostiene di aver dato al partito l’ordine di polacchi. I soldati polacchi, dal canto loro, sono in “non raccogliere queste provocazioni”, ma avverte gran parte reduci dai campi di lavoro forzato sovie- che “se esse continueranno, non possiamo garantire tico – in particolare i soldati della Divisione che in qualche luogo non si producano incidenti “Kresowa”, originari delle regioni orientali – e, con- gravi”. Vi è nella lettera anche un riconoscimento sapevoli delle intenzioni egemoniche dell’Unione per la lotta che i polacchi conducono in Italia con- Sovietica nei confronti della Polonia, identificano il tro i tedeschi, ma la richiesta è precisa: il Governo comunismo con l’aggressione sovietica del 1939, italiano deve intervenire ufficialmente presso la che aveva portato alla spartizione del loro Paese con Commissione alleata di controllo per evitare che i la Germania nazista. Per molti polacchi gli italia- polacchi spargano “scintille di guerra civile”. ni,appena liberatisi da una forma di totalitarismo, Anche se l’episodio di Macerata ha in realtà una appaiono intenzionati a sceglierne volontariamente dinamica più articolata di quella segnalata nella un’altra, a cui una parte dei soldati del II Corpo denuncia (gesti provocatori da ambo le parti, sas- tenta di opporsi duramente. saiola, intervento dei carabinieri che bloccano i Nelle Marche i contrasti cominciano già subito polacchi), Bonomi dà seguito alla segnalazione, dopo la liberazione, quando le autorità militari polac- rivolgendosi all’ammiraglio Stone, capo della che, seguendo gli ordini impartiti dai Comandi allea- Commissione alleata, affinché compia i passi neces- ti, procedono con decisione al disarmo dei partigiani. sari presso le autorità militari. Ma gli incidenti con- I soldati e gli ufficiali polacchi, di stanza nella regione, tinuano e Togliatti, nel gennaio del 1945, denuncia provvedono a cancellare le scritte murali inneggianti a formalmente i fatti in una lettera a Bonomi, intro- Stalin e all’Unione Sovietica, a strappare le bandiere ducendo un nuovo dato: “elementi fascisti si avvici- rosse esposte nelle sezioni comuniste, a disturbare i nano ai soldati polacchi e svolgono una pericolosa comizi degli oratori comunisti. Le reazioni non si opera di provocazione contro gli appartenenti ai fanno attendere e sono altrettanto decise. partiti democratici”. Un accostamento, quello tra Secondo un recente saggio di G. Petracchi (vedi polacchi e fascisti, che sarà ampiamente e strumen- bibliografia), i primi episodi vengono segnalati da talmente sfruttato dalla propaganda comunista. Palmiro Togliatti, all’epoca segretario del Pci e mini- Ulteriori scontri, nel corso del 1945, avvengono in stro del Governo Bonomi, in un dossier allegato a provincia di Macerata e di Ascoli Piceno, a Urbisaglia,

24 Porto Civitanova, Montelupone, Potenza Picena, dall’Italia. In precedenza (8 settembre 1945), Cingoli, Porto Recanati e le federazioni comuniste “Bandiera Rossa”, organo marchigiano del Pci, aveva puntualmente li registrano e li documentano. Parri, il scritto, a proposito dei polacchi, che “il popolo è stan- nuovo presidente del Consiglio, nell’agosto del 1945 co di sopportarli” e aveva dipinto il gen. Anders come si rivolge all’ammiraglio Stone che, a sua volta, richia- “un reazionario, legato agli interessi antinazionali dei ma i Comandi alleati alle loro responsabilità. A tal latifondisti polacchi” (8 dicembre 1945). proposito, è di particolare interesse la replica del gen. Ormai contro il II Corpo polacco è in atto un attac- Anders (9 settembre 1945) che, nel citato saggio di co proveniente da vari fronti e che mira a un preciso Petracchi, è integralmente riportata (pp. 55-56). Tale obiettivo. Per la sinistra italiana la questione ha assun- lettera, indirizzata a Stone, viene poi da questi inviata to un rilievo del tutto politico: oltre a difendere le al presidente Parri. posizioni di Mosca sulla questione delle frontiere Il gen. Anders ammette che, con truppe che rag- polacche, la campagna per il rimpatrio si propone di giungono ormai un organico di oltre 100 mila unità, eliminare dallo scenario politico italiano quelle forze si possano verificare incidenti e riconosce alcuni adde- che, in caso di sommosse o disordini, avrebbero potu- biti. Ribadisce tuttavia che le relazioni con la popola- to appoggiare le destre e che erano sospettate di voler zione locale sono cordiali e, più in generale, che ha mettere a rischio lo svolgimento della campagna elet- emanato disposizioni atte a proibire interferenze con torale dei partiti di sinistra per le consultazioni del 2 gli affari interni italiani. Accusa infine l’organo comu- giugno 1946. Che ci siano state aggressioni - peraltro nista “L’Unità” di diffamare i soldati polacchi parago- ricambiate - contro militanti comunisti da parte di nandoli ai fascisti e il Partito comunista di diffondere soldati del II Corpo e che alcuni polacchi abbiano volantini che invitano i soldati ad abbandonare le armi avuto contatti con movimenti politici italiani estremi- e a ritornare in Polonia. Tale lettera provoca un peren- sti corrisponde a realtà. Ma la violenta campagna di torio intervento di Stone presso Parri in cui si chiede, stampa contro i polacchi, che unisce abilmente ele- a nome del Comandante in capo alleato, di adottare menti di verità a false accuse e sfrutta tutte le implica- provvedimenti volti a porre fine alla campagna di zioni internazionali connesse alla questione, va inqua- stampa contro i polacchi. Ma Parri, consapevole del- drata nel clima politico del periodo 1945-46. Oggi l’impotenza del suo Governo ad affrontare la questio- essa appare del tutto strumentale. ne, non fa altro che rivolgersi a Togliatti (lettera del 30 In particolare, alla luce delle considerazioni di settembre 1945) invitandolo a intervenire presso la Petracchi nel saggio citato e di un documento acqui- direzione dell’“Unità”. sito presso il “Polish Institute and Sikorski La campagna raggiunge toni sempre più accesi e Museum” di Londra, grazie alla segnalazione del trova un riscontro anche nel 5o Congresso del Pci prof. Krzysztof Strza ka e alla collaborazione del ł (Roma, 29 dicembre 1945-6 gennaio 1946), quando dott. Andrzej Suchcitz, andrebbe rivista quella che è l’assemblea approva l’invito ad espellere i polacchi stata l’accusa principale rivolta al gen. Anders e al II

25 Corpo: preparare una guerra contro l’Unione La situazione aveva portato, fin dal giugno del 1945, Sovietica. Il coinvolgimento di reparti polacchi nella allo spostamento verso il Nord-est anche di reparti del crisi di Trieste, una circostanza finora mai emersa II Corpo polacco e, in particolare di due brigate della segnalata da Petracchi, consente infatti di formulare 5a Divisione di Fanteria “Kresowa” (a Belluno, Vittorio alcune fondate ipotesi, confermate dal documento Veneto, Treviso), del 2o Reggimento Artiglieria con- sopra ricordato, sulla reale strategia militare e politi- trocarro (a Pordenone), della 14a Brigata corazzata ca perseguita dal gen. Anders. “Grande Polonia” (tra Ravenna e Mestre). In novem- Sulla questione di Trieste si rinvia alla bibliografia bre unità del II Corpo avevano raggiunto Udine, segnalata da Petracchi. Si ricorda qui, in sintesi, che mentre nei pressi della città era stato schierato uno dopo il primo maggio 1945 truppe iugoslave aveva- Squadrone di “Spitfires” pilotato da polacchi. no occupato tutta l’Istria e raggiunto Trieste, minac- Ma, nel corso della seconda metà del 1945, le ten- ciando una annessione sia nei confronti della città sioni continuano tanto che nell’autunno pervengono sia dell’intera Venezia Giulia. Con l’arrivo degli ai Comandi alleati ricorrenti informazioni sui prepa- Alleati, Trieste e parte della Venezia Giulia erano rativi di un colpo di mano degli iugoslavi per rien- state assoggettate a un regime di duplice occupazio- trare in possesso di Trieste. Ed è in questo contesto ne, britannica e iugoslava. che si intensificano i contatti tra il gen. Anders e il Tra l’indifferenza dei Comandi alleati, gli iugosla- gen. William Morgan, il nuovo comandante in capo vi avevano proceduto a uccisioni, deportazioni e delle Forze alleate nel Mediterraneo, e che lo stato violenze nei confronti della popolazione italiana e Maggiore del II Corpo polacco elabora il documen- solo nel giugno del 1945 si erano ritirati sulla base to intestato “A Study of the Possibilities of the di una spartizione provvisoria dei territori lungo la Defence of ” (Studio delle possibilità di difesa Linea Morgan (dal nome di chi l’aveva negoziata: dell’Italia). Tale documento, in lingua inglese e clas- William Morgan all’epoca è capo di Stato Maggiore sificato “top secret”, è datato 17 gennaio 1946 ed è del maresciallo Alexander e, dall’ottobre del 1945, accompagnato da una lettera del gen. Anders (datata lo sostituirà nella carica di comandante in capo delle “Feb 46”) indirizzata al gen. Morgan. La lettera fa Forze alleate nel Mediterraneo), con la quale Trieste riferimento a un precedente colloquio tra i due gene- restava sotto controllo di un Governo militare allea- rali, avvenuto a Caserta il 26 gennaio 1946. to, mentre alla Iugoslavia veniva assegnata tutta La premessa al documento (“Lo scopo delle Forze l’Istria e buona parte della Venezia Giulia (si veda Armate consiste nella loro costante prontezza a Lamb, pp. 336-343). Le difficili trattative, che ave- respingere ogni possibile minaccia, anche la più vano coinvolto i governi britannico, americano e improbabile”) farebbe supporre che lo “Studio” sia sovietico in una certa misura segnano l’inizio della una generica bozza di piano preparata - come è com- “guerra fredda” e del confronto tra Occidente, in pito di ogni Stato Maggiore - per eventuali future particolare Stati Uniti, e Unione Sovietica. contingenze del tutto teoriche. La realtà sembra inve-

26 ce del tutto diversa. Già nell’introduzione si accenna to i loro comandi di livello più elevato. a una situazione politica generale che “non esclude la Per quanto riguarda le forze alleate, le uniche possibilità di un’altra guerra” e, nell’analisi della truppe disponibili sono costituite dal XIII Corpo situazione si individua subito il “nemico”: l’Unione britannico e dal II Corpo polacco, mentre altre forze Sovietica e i suoi Paesi “satelliti”, Iugoslavia, Albania, britanniche, americane e francesi sono disperse in Bulgaria, Romania, Ungheria. Va poi precisato che il un’area molto vasta, trovandosi così esposte ad attac- documento si occupa della difesa del “fronte sud” chi nemici. La conclusione è che le forze alleate non (Alpi e Italia). Ciò farebbe supporre l’esistenza di un sono in grado di mantenere, in caso di attacco, le ulteriore piano riguardante il “fronte nord” e dunque loro posizioni. Dopo una analisi approfondita delle il coinvolgimento (da verificare) degli alti Comandi varie opzioni, si giunge alla conclusione che lungo le alleati in Europa in un più ampio piano di difesa linee dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Piave, Brenta contro un attacco sovietico. potranno essere attuate solo azioni ritardatrici. In sintesi, il documento polacco sostiene che l’at- L’unica possibilità realistica risiede nella difesa della tacco più probabile dovrebbe avvenire nel Nord-est linea del fiume Po ma, anche in questo caso, si trat- dell’Italia, nella zona di Udine-Padova, e potrebbe terà di una azione più protratta ma sempre tempo- essere condotto con forze corazzate e motorizzate ranea, da esercitarsi in attesa della mobilitazione opportunamente protette. Una volta raggiunta la delle forze italiane. zona Vicenza-Padova il nemico potrebbe dilagare in La resistenza effettiva, secondo il documento, deve Italia o procedere verso il confine francese. essere organizzata sulla linea degli Appennini che va Presupposto fondamentale dell’azione nemica diven- presidiata a partire da Comacchio in modo da coprire tano l’attraversamento del fiume Po e l’occupazione tutto il settore dalla costa, a est, fino al Piemonte e alla delle vie d’uscita settentrionali degli Appennini. Il Liguria. La soluzione sembra dunque essere una sorta successo sovietico provocherebbe in Italia, da parte di di Linea Gotica alla rovescia, da cui sarà possibile, oltre civili, un movimento di massa in loro favore. che difendersi in modo appropriato, condurre anche Molto dettagliate risultano le informazioni sulle azioni offensive. Ma, soprattutto, tale linea fortificata truppe sovietiche: alle concentrazioni di mezzi impedirà al nemico di usare le linee di comunicazione corazzati, di fanteria e di artiglieria in Ungheria, lungo la costa adriatica, difenderà i passi appenninici e Iugoslavia, Bulgaria e Romania vanno aggiunte le permetterà di utilizzare l’area di Bologna come centro truppe dei Paesi “satelliti”. Si specifica inoltre che le vitale dal punto di vista logistico e tattico. truppe sovietiche dispongono di una notevole capa- Il II Corpo verrà soprattutto impiegato nella dife- cità di compiere rapide operazioni di sfondamento e sa del settore pianeggiante e andrebbe dunque con- attacchi di sorpresa, mettendo al tempo stesso in centrato nella zona di Rimini-Ravenna-Faenza. Ma, atto tattiche diversive. Si nota poi che, dopo la fine in ogni caso, le forze alleate non potranno essere in della guerra, le autorità sovietiche non hanno sciol- grado di mantenere la linea degli Appennini per più

27 di 10 giorni: di qui la necessità - esorta il documen- capace anche di ridare l’indipendenza alla Polonia, to nella parte finale - di provvedere subito alla ela- oltre che di contribuire a salvare l’Europa. Nella visio- borazione di un piano operativo adeguato che esa- ne di Anders sembrano rivivere sia l’antica concezio- mini le varie opzioni, definisca le aree di difesa e che ne della Polonia “antemurale” dell’Occidente sia gli tenga conto della capacità di mobilitazione echi della battaglia di Vienna contro i turchi (1683) e dell’Esercito italiano. di quel “miracolo della Vistola” che nell’agosto del Lo “Studio” viene elaborato nei mesi in cui le ten- 1920 aveva fermato i russi. sioni per la questione di Trieste salgono di continuo, La posizione di Anders, che lo “Studio” lascia ma anche nel periodo in cui l’Unione Sovietica pro- intuire, è confermata da numerosi documenti, citati cede con decisione al consolidamento del proprio da Petracchi, conservati nei “National Archives” controllo in Bulgaria, Romania e Ungheria. Studi (Public Record Office) di Londra. Ulteriori prove recenti (Aga-Rossi e Zaslavsky, vedi bibliografia) provengono dalle continue esercitazioni eseguite nel hanno messo in evidenza che, all’epoca, l’Unione dopoguerra e dalla stessa dislocazione dei reparti del Sovietica sostiene il principio delle sfere di influen- II Corpo. Mentre i reparti avanzati sono, per così za. E tale situazione permarrà fino al 1947, quando dire, in prima linea nel Nord-est, ad Ancona c’è il con la formazione del Cominform verrà incoraggia- Comando del II Corpo e nelle Marche, considerata ta un’offensiva politica decisa contro il blocco occi- area alle spalle della zona di azione, sono presenti i dentale. Per l’Italia, in particolare, Stalin segue al reggimenti corazzati della Divisione “Varsavia”, momento la linea del diritto delle potenze di impor- reparti di fanteria, di cavalleria, di artiglieria, oltre re il proprio sistema politico sul territorio che occu- che strutture logistiche, depositi, officine, ospedali. pano, al fine di poter avere mano libera nei Paesi Altre strutture importanti e l’ospedale principale della sfera sovietica. sono collocati in Puglia. Inoltre, il potenziamento Il gen. Anders valuta questo atteggiamento di carat- del II Corpo, avviato nel settembre del 1944 per tere strumentale e dà corpo alla diffusa idea che la motivi legati all’impiego dell’unità nella Campagna guerra non sia terminata e che l’Unione Sovietica d’Italia, prosegue con vigore anche dopo la fine della abbia intenzione di dare inizio a un nuovo conflitto. guerra. E quando i britannici, nel settembre del La strategia politico-militare del gen. Anders postula 1945, impongono il limite di 85 mila effettivi, il dunque una guerra difensiva per contrastare un even- gen. Anders non tiene conto dell’ordine portando il tuale attacco all’Europa sferrato dall’Unione II Corpo a 120 mila uomini (novembre 1945) e Sovietica. Egli ritiene, anzi, che l’attacco possa avve- quindi (gennaio 1946) a 110 mila (Sarner, pp. 234- nire entro il 1946 provocando una guerra tra le 235). potenze occidentali e l’Unione Sovietica. In questo Che qualche ufficiale polacco abbia sostenuto che, contesto il II Corpo avrebbe potuto svolgere un ruolo una volta sconfitti i tedeschi fosse stato necessario decisivo - e qui si rivela l’obiettivo finale di Anders - combattere i russi, corrisponde a verità (Seton-Watson,

28 pp. 229-230). Ma si tratta di un atteggiamento detta- Il gen. Anders è stato un soldato eccellente, con un to più dai sentimenti che dalla ragione. I soldati carattere forte e determinato, un ottimo conoscitore polacchi dipendono, dal punto di vista logistico, dai della lingua russa e della realtà sovietica, un buon britannici e dal luglio del 1945 sono alle dipendenze oratore. All’interno del II Corpo ha sempre svolto gerarchiche dell’8a Armata: una loro eventuale marcia un ruolo di mediazione tra le varie componenti verso est si sarebbe interrotta dopo qualche chilome- ideologiche, tra coloro che si rifacevano a Pi sudski ł tro. È inoltre singolare che nessuno si sia chiesto come e chi era contrario, tra i seguaci e gli oppositori di le due divisioni del II Corpo, anche se rinforzate, Sikorski, intervenendo sempre con decisione contro avrebbero potuto affrontare le forze sovietiche, for- qualsiasi posizione estrema. mate da oltre 11 milioni di soldati. Come si è visto, Anders, che dal febbraio al maggio del 1945 è lo stesso Anders - che pure usava in proposito espres- stato comandante in capo delle Forze Armate polac- sioni molto decise - aveva escluso una guerra preven- che dipendenti dal Governo in esilio, ha dovuto tiva. Una ipotesi ragionevole è che il vero amplifica- ricoprire un ruolo al tempo stesso militare e politi- tore della “guerra di Anders” sia stato il Nkvd sovieti- co, anche se il suo linguaggio diretto mal si conci- co, con una classica operazione di disinformazione. liava con le esigenze della politica. Il suo è stato un Nei suoi rapporti si parla infatti di un “pericoloso compito di estrema difficoltà in quanto le vicende complotto che avrebbe portato un esercito polacco del II Corpo sono state sempre collegate con com- forte di un milione di polacchi in esilio, guidati dal plessi avvenimenti internazionali. È tuttavia un suo gen. Anders, ad attraversare la Germania per opporsi grande successo politico quello di essere riuscito nel al dominio sovietico” (Davies, p. 557). Il tutto per 1942 ad evacuare dall’Unione Sovietica, in contra- screditare Anders, alimentare la tensione internazio- sto anche con il gen. Sikorski, un così grande nume- nale, procedere in Polonia ad arresti indiscriminati. ro di connazionali, sia militari sia civili, donne e La conclusione è che Anders ha un profilo umano bambini. Basti ricordare, in proposito, che gli ultimi e morale molto più articolato di quel generale “guer- soldati e civili polacchi sopravvissuti al gulag sovie- rafondaio”, “comandante della Guardia Bianca”, tico sono stati rimpatriati solo nel 1959. capo di “una armata di fascisti, di anticomunisti irri- Quando il gen. Leese, comandante dell’8a Armata ducibili” descritto da alcuni storici e intellettuali ita- britannica, gli propone di impiegare il II Corpo nel liani, i quali “dimenticavano” nei loro scarsi studi sul difficile compito della conquista delle alture di II Corpo di citare il Patto di non aggressione tra Montecassino e di Piedimonte, il gen. Anders com- Germania nazista e Unione Sovietica, la prigionia prende subito che si tratta di un incarico difficile e dei polacchi nei campi di lavoro forzato sovietici, la che avrebbe comportato un costo altissimo in vite collaborazione tra Nkvd e nazisti contro la resisten- umane. Ma egli accetta perché si rende conto del- za polacca, la consegna di materie prime ai nazisti da l’importanza per gli Alleati della presa di parte dell’Unione Sovietica nel periodo 1939-1941. Montecassino (apertura della strada per Roma) e,

29 soprattutto, degli effetti che la battaglia avrebbe la macchina propagandistica comunista, il simbolo avuto per la causa della Polonia. Churchill, nel feb- del “nemico”. Il suo libro “Un’Armata in esilio” (tito- braio del 1944, aveva dichiarato alla Camera dei lo originale: “Bez ostatniego rozdzia u” - Senza l’ulti- ł Comuni che le rivendicazioni sovietiche sulla mo capitolo) verrà tradotto in numerose lingue e pro- Polonia orientale non andavano “oltre il limite di vocherà forti polemiche in quanto denuncia il sistema quel che è ragionevole e giusto” e aveva annunciato concentrazionario sovietico e accusa i leader occiden- compensi alla Polonia a spese della Germania. tali di aver tradito la Polonia. Gli attacchi contro Anders ritiene però che sia ancora possibile contra- Anders assumono toni violenti e, ancora nel 1959, in stare le pressioni britanniche combattendo con impe- Polonia verrà pubblicato un libro in cui le accuse con- gno contro i tedeschi. E, in effetti, a Montecassino tro il generale sono tante e talmente assurde da sfio- emerge in pieno il valore dei soldati del II Corpo e la rare il ridicolo. Il fatto che l’autore avesse ricoperto il loro condizione di Esercito che lotta anche per la ruolo di aiutante di campo di Anders e fosse stato libertà della Polonia. Ma quella di Anders è una deci- imprigionato in Medio Oriente come presunto infor- sione dolorosa (la battaglia di Montecassino provoca matore del Nkvd è tuttavia una ulteriore prova che i 924 morti e 2930 feriti), che però non incrina il suo servizi segreti sovietici avevano infiltrato nel II Corpo rapporto di fiducia e di stima con i soldati. alcuni uomini che possono aver agito, in determinati L’interesse primario di Anders è dunque la Polonia e contesti, anche come provocatori (Sarner, pp. 124- la stessa battaglia di Ancona viene, ancora una volta, 127; pp. 281-283). combattuta anche per il proprio Paese. Dopo la fine Non sono però mancati, in Polonia, studi accura- della guerra la questione, per il gen. Anders, assume ti sul II Corpo, frutto anch’essi però di una sorta di un aspetto morale, oltre che di carattere politico e stra- compromesso - se non talora di una vera e propria tegico. Il II Corpo ha combattuto in nome del con- collaborazione - tra storico e regime comunista. In cetto occidentale di ordine internazionale, basato sulla “I polacchi nella Campagna italiana” di Terlecki libertà e l’autodeterminazione dei popoli ed egli ritie- (stampato a Varsavia, nel 1977, in lingua italiana; ne che il compito della formazione si possa ritenere vedi bibliografia), ad esempio, l’autore evita qualsia- concluso solo quando tali condizioni verranno instau- si riferimento all’invasione sovietica della Polonia e rate in Polonia. E per Anders l’opportunità per ridare definisce “polacchi trovatisi in territorio sovietico”, l’indipendenza alla Polonia si presenterà se e quando senza ulteriori approfondimenti, i polacchi rinchiu- l’Unione Sovietica invaderà l’Europa. si nelle prigioni e nei campi di lavoro forzato sovie- Le posizioni di Anders muteranno con l’evolversi tici nel periodo 1939-41. Manca ovviamente qual- delle vicende internazionali e del II Corpo ma il gene- siasi riferimento alla questione polacca e ai progetti rale, sia per gli aiuti che fornisce ai movimenti anti- del gen. Anders, il cui nome, in un libro di 140 comunisti in Polonia sia per la sua attività in Gran pagine, è citato solo pochissime volte. Bretagna, diventerà negli anni della guerra fredda, per L’impegno senza compromessi alla causa dell’indi-

30 pendenza polacca durerà per Anders fino alla morte, mente scontrato al momento dell’esodo dei polacchi, quando diviene una figura emblematica e quasi miti- nel 1942, accusandolo di non aver fatto del proprio ca da celebrare. E dopo il 1989, con il ripristino di meglio per salvare i suoi connazionali. L’ambasciata quella sovranità polacca a cui Anders aveva dedicato polacca si rivela molto abile nell’elaborare materiale tutta la vita, i suoi meriti saranno pienamente rico- contro Anders e nel raccogliere informazioni sugli nosciuti. Sono stati pubblicati i suoi libri, che duran- incidenti tra polacchi e italiani e su interferenze di te il regime comunista circolavano in forma clande- ufficiali polacchi nella vita politica italiana. Vengono stina; gli sono stati dedicati francobolli e monete; poi preparati dei dossier da fornire ai Comandi allea- una grande via di Varsavia porta il suo nome. Di ti in Italia e alla stampa internazionale. La stampa recente in questa via è stato collocato il monumento inglese, in particolare, provvede a diffondere e ad dedicato ai combattenti e alle vittime scomparse in amplificare tali informazioni. Il gen. Anders, il vero Unione Sovietica: un carro ferroviario pieno di croci. obiettivo della campagna diffamatoria, è accusato di impedire il rimpatrio dei soldati del II Corpo che L’esilio. La smobilitazione del II Corpo polacco intendono rientrare in Polonia, di armare i movimen- viene decisa dal nuovo Governo laburista britannico ti clandestini anticomunisti in Polonia, di alimentare (Primo ministro: Clement Attlee; ministro degli le tensioni internazionali fomentando una guerra Esteri: Ernest Bevin) proprio nel momento in cui contro l’Unione Sovietica. numerosi reparti sono impegnati in Venezia Giulia Secondo l’ambasciatore britannico a Roma, sir per la crisi di Trieste. Il II Corpo, da un punto di Noel Charles, Kot (che poi si rifugerà in Occidente, vista militare, costituisce il cardine del dispositivo accusando i nuovi governanti della Polonia con un britannico in Italia. Ma per il Foreign Office, il linguaggio simile a quello di Anders) è “instancabi- Ministero degli Esteri britannico, a mano a mano la le nel sostenere la campagna contro Anders... e stil- presenza dei polacchi in Italia, nel dopoguerra, viene la veleno” contro il II Corpo (Sarner, p. 240). a costituire una fonte di contrasti con il Governo Il Governo polacco invia continue proteste a polacco di unità nazionale, e con la stessa Unione Londra chiedendo la chiusura dei giornali e la cessa- Sovietica, con cui invece Bevin, anche sotto la spin- zione delle pubblicazioni del II Corpo. Quando l’11 ta della sinistra del suo partito, intende all’epoca dicembre 1945 il gen. Anders decora ad Ancona due mantenere rapporti di amicizia. ufficiali britannici e uno americano (Rankin, Anche l’Italia aveva riconosciuto il nuovo Governo Steward, Tappin; si vedano le foto nel fondo “gen. polacco ed erano riprese le relazioni diplomatiche con Anders” di Regione Marche e Polish Institute and la Polonia: Eugenio Reale era stato inviato come Sikorski Museum) in nome del presidente (con sede ambasciatore a Varsavia ed a Roma erano venuti a Londra) della Repubblica polacca, W. Raczkiewicz, prima E. Markowski e poi S. Kot, già ambasciatore in il fatto viene duramente stigmatizzato dal Governo Unione Sovietica e con cui il gen. Anders si era dura- comunista di Varsavia.

31 Di fronte a tale situazione, che potrebbe sfociare che non vogliono rientrare in Polonia, pur invitan- in una crisi internazionale, il Foreign Office compie do i soldati a rimpatriare nel maggior numero pos- una sorta di istruttoria sul II Corpo e sul gen. sibile. Nel maggio successivo viene deciso di trasfor- Anders procedendo ad un confronto tra gli interessi mare le Forze Armate polacche all’estero in un britannici e le posizioni polacche. Il contrasto, in Corpo di Avviamento (Polish Resettlement Corps) particolare, è netto sull’intenzione britannica, in che, per un periodo massimo di due anni, preparerà continuità con la linea di Churchill, di puntare sul- i soldati alla vita civile mediante corsi professionali e l’entrata nel Governo polacco di alcuni rappresen- l’insegnamento della lingua inglese. tanti del Governo in esilio di Londra. E la conclu- Paradossalmente, la crisi di Trieste, che aveva fatto sione a cui arrivano le autorità britanniche è che forse intravedere ad Anders qualche possibilità che si l’apporto militare del II Corpo in Italia non com- verificassero le sue previsioni, pone fine all’esistenza pensa le conseguenze negative che possono riversar- del II Corpo. L’odissea dei soldati polacchi, comin- si sulla politica estera della Gran Bretagna. Il II ciata in Polonia e proseguita in Unione Sovietica e in Corpo deve quindi essere ritirato dall’Italia. Medio Oriente, si conclude in Venezia Giulia. E, Ad affrettare la decisione contribuiscono le implica- altro paradosso, che tuttavia testimonia la divaricazio- zioni internazionali sollevate dal documento elabora- ne tra autorità militari e politiche britanniche, termi- to dalla Iugoslavia che, nel febbraio del 1946, il rap- na quando gli Stati maggiori alleati avevano elabora- presentante sovietico trasmette al Segretario generale to un piano che, in accordo con lo “Studio” polacco e al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nel documento citato, disponeva di rifornire i soldati polacchi schie- si sostiene che il II Corpo è schierato sulla frontiera rati sul confine giuliano per permettere loro, in caso della Iugoslavia e che, per i suoi rapporti con i “colla- di attacco da est, di resistere per tre settimane in atte- borazionisti iugoslavi rifugiatisi in Italia” - reclutati sa dell’arrivo di rinforzi (Petracchi, pp. 66-67). con lo “slogan combatti il comunismo in Iugoslavia” Nell’Ordine del giorno del 29 maggio 1946, il gen. - rappresenta un grave pericolo per la pace. Anders, con la consueta franchezza, scrive che i sol- E così, il 15 marzo 1946, avviene a Londra un dati polacchi lasceranno l’Italia, ma batteranno sem- drammatico incontro tra il Primo ministro Attlee, il pre la “strada ignota verso la Polonia, quella Polonia ministro degli Esteri Bevin e il gen. Anders. Il gen. per la quale abbiamo combattuto... che nessun cuore Anders viene messo di fronte al fatto compiuto: il II polacco può immaginare senza Vilno e Leopoli”. Corpo “politicamente sta diventando un imbarazzo” Espressioni che suscitano la reazione del ministro (Anders, p. 365) per il Governo britannico e deve degli Esteri britannico Bevin, il quale auspica che tali essere smobilitato e trasferito dall’Italia in Gran sentimenti non vengano ripetuti da Anders in Bretagna. Ancora una volta la Gran Bretagna, nella dichiarazioni ufficiali, in quanto le frontiere della questione polacca, sceglie la “Realpolitik”. Il Polonia sono ormai fissate internazionalmente. Governo britannico garantirà l’avvenire di coloro Le autorità britanniche non invitano le forze polac-

32 che all’estero a partecipare alla grande Parata della emigreranno, soprattutto in Argentina. Altri polac- Vittoria, che si svolge a Londra l’8 giugno 1946. Il chi rimangono nelle città dove avevano studiato: gen. Anders risponde celebrando ad Ancona, il 15 Roma, Torino, Milano, Bologna. giugno, la “Giornata del soldato” del II Corpo e fa Dei soldati trasferitisi in Gran Bretagna, molti trasmettere dagli altoparlanti il “voto”: “Le forze rimangono nel Paese, altri emigrano negli Stati polacche indipendenti devono essere smobilitate, Uniti, in Canada, Argentina, Australia. Tutti i sol- (ma)... come soldati della sovrana Repubblica dati polacchi che si avviano all’esilio sono consape- Polacca... continueremo la nostra lotta per la libertà voli di aver combattuto con grande determinazione, della Polonia”. Il 26 settembre il Governo polacco riconosciuta da tutti i comandanti alleati, per una priva Anders e altri 75 generali e ufficiali superiori rivincita nei confronti dell’invasione tedesca del della cittadinanza polacca. Il 31 ottobre 1946 il gen. 1939, per i loro familiari rimasti in Polonia, per la Anders lascia l’Italia, dopo le visite di congedo al capo sopravvivenza nazionale contro le mire sovietiche, provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al presi- ma anche per l’Italia. Il loro motto era stato “per la dente del Consiglio Alcide De Gasperi, al papa Pio nostra e vostra libertà” e il loro riferimento ideale il XII, e al Quartier Generale alleato di Caserta. generale Jan Henryk D browski, che si era battuto a ą Il trasferimento dei soldati del II Corpo dall’Italia fianco di Napoleone con una legione polacca con la alla Gran Bretagna avviene dal giugno all’ottobre del speranza di portare la libertà nel suo Paese marcian- 1946 e continua, con gli ultimi piccoli contingenti, do, appunto, “dalla terra italiana alla Polonia”, una fino al febbraio del 1947. Nel corso della complessa frase che risuona nell’inno nazionale polacco. operazione non mancano problemi, in quanto i Ma, come 150 anni prima, il sogno non si realiz- componenti della 5a Divisione “Kresowa”, formata za perché il loro Paese accanto alle violenze com- da ex deportati in Unione Sovietica e da polacchi messe dai vinti deve sopportare le ingiustizie dei vin- provenienti dai territori orientali incorporati citori. La Polonia, infatti, dopo essere stata vittima nell’Unione Sovietica, rifiutano il trasferimento in della duplice aggressione nazista e sovietica del 1939 Inghilterra e si dicono pronti ad andare in Polonia e avere subito nel corso della guerra 6 milioni di per combattere i sovietici. Ma la rivolta rientra gra- morti su una popolazione di 36 milioni di abitanti, zie anche all’intervento del gen. Anders. Altri pro- diventa nel dopoguerra vittima dei nuovi equilibri blemi riguardano i soldati polacchi che avevano spo- europei. Che sono il risultato dei protocolli segreti sato ragazze italiane in quanto le autorità britanni- tra sovietici e tedeschi e degli accordi di Jalta tra che impediscono il loro ingresso in Gran Bretagna. sovietici e potenze occidentali. I 1400 soldati polacchi interessati sono costretti a Nelle sue memorie (Un’Armata in esilio) il gen. rimanere in Italia, in particolare nelle Marche, in Anders scrive che per la Polonia la guerra non è cessa- Puglia e in Emilia Romagna, e a trovarsi un lavoro ta con la vittoria, come per altre nazioni alleate e che nella difficile situazione di quegli anni. Alcuni di essi ai polacchi non resta che attendere che si compia “l’ul-

33 timo capitolo di questo grande sconvolgimento stori- J. Popie uszko da parte dei servizi di sicurezza. ł co”. “L’ultimo capitolo” verrà scritto dai polacchi nel Un periodo che ha avuto momenti esaltanti come 1989, l’anno in cui nasce il primo governo a maggio- la prima visita in Polonia, nel 1979, di Giovanni ranza non comunista dalla Seconda guerra mondiale. Paolo II. La lotta è terminata con la vittoria grazie Si è trattato di una transizione pacifica che ha però anche al contributo che il gen. Anders e i soldati del comportato decenni di lotta, dalla rivolta operaia di II Corpo hanno dato con le loro battaglie in Italia, Pozna´n del 1956, agli scontri altrettanto sanguinosi di con i loro caduti, con la testimonianza di libertà offer- Danzica, alla proclamazione della legge marziale, alla ta dal loro esilio, con il loro impegno senza compro- messa fuori legge di Solidarno´sc´, all’assassinio di padre messi alla causa dell’indipendenza della Polonia.

Da sinistra a destra e dall’alto in basso: tenente generale W adys aw Anders, comandante del II Corpo polacco; ł ł generale Zygmunt Bohusz-Szyszko, vicecomandante del II Corpo; maggior generale Bronis aw Duch, comandante ł della 3ª Divisione “Fucilieri dei Carpazi”; maggior generale Nikodem Sulik, comandante della 5ª Divisione “Kresowa”; maggior generale Bronis aw Rakowski, comandante della ł 1892-1970 1893-1982 2ª Brigata corazzata; maggior generale Roman Odzierzyn´ski, comandante dell’artiglieria del II Corpo.

1896-1980 1893-1954 1895-1950 1892-1975

34 Nota Costituzione organica del II Corpo polacco e materiali in dotazione

Il II Corpo d’Armata polacco è una unità operativa In totale, la fanteria del II Corpo è composta di 12 bat- autonoma, costituita sul modello di un corpo di spedi- taglioni, a cui vanno aggiunti i due battaglioni dotati di zione britannico. La sua articolazione è tuttavia molto mortai e mitragliatrici. I fanti hanno in dotazione: i fuci- più complessa comprendendo truppe di Corpo li Lee-Enfield N. 1 Mark III e N. 4 Mark I, a ripetizione d’Armata, divisioni di fanteria, un raggruppamento di ordinaria, cal. 0,303 pollici; il moschetto automatico artiglieria, una brigata corazzata e una vasta struttura di Thompson mod. 1928, cal. 0,45 pollici; il fucile mitra- servizi che lo rende indipendente, oltre che dal punto di gliatore Bren, cal. 0,303 pollici (alcuni su cingolato leg- vista operativo, anche da quello amministrativo. Le trup- gero, carrier, di 3,5 tonnellate - chiamato in questo caso pe di Corpo d’Armata, l’artiglieria, le formazioni coraz- Bren Carrier - un mezzo molto versatile che serve anche zate hanno il compito generale di rinforzare e appoggia- per il trasporto dei fanti e di armi di reparto); la mitra- re l’azione delle divisioni di fanteria. gliatrice Vickers, cal. 0,303 pollici; il lanciabombe con- La fanteria, tradizionalmente definita il “nerbo degli trocarro PIAT; i mortai da 2 e da 3 pollici; il cannone eserciti”, anche nel II Corpo ha il compito di svolgere le controcarro da 6 libbre (dal peso del proietto). azioni di fuoco e di urto: comprende due divisioni auto- Fanno parte del II Corpo anche i “commando”, fanti trasportate, ognuna delle quali è su due brigate, mentre particolarmente addestrati per operazioni combinate ter- ogni brigata è su tre battaglioni. Il battaglione è compo- restri-marittime o per missioni speciali. Inizialmente sto di 4 compagnie fucilieri e di una compagnia coman- parte del Commando N. 10 interalleato, una compagnia do, alla quale spettano - oltre ai compiti amministrativi - polacca di commando combatte con i britannici sui fiumi i ruoli di supporto eseguiti per mezzo di plotoni e sezio- Sangro e Garigliano e nell’aprile del 1944 passa al II ni mortai, controcarro, controaerei, esploranti, trasmis- Corpo, combattendo a Montecassino e ad Ancona, con il sioni, genieri. Le altre formazioni divisionali compren- nome di 1a Compagnia autonoma Commando, impiega- dono 3 reggimenti di artiglieria da campagna, un reggi- ta come fanteria d’élite. I commando polacchi addestra- mento di artiglieria controcarro, un reggimento di arti- no la 2a Compagnia Commando o 111a Compagnia glieria controaerei leggera, un reggimento esplorante, un Protezione Ponti, formata da volontari italiani inquadra- battaglione Genio, un battaglione Trasmissioni, un bat- ti da ufficiali e sottufficiali polacchi, che sarà uno dei taglione mortai-mitragliatrici, servizi. primi reparti ad entrare in Ancona il 18 luglio 1944. La

35 1a e la 2a Compagnia formano il Raggruppamento ta da: 6 reggimenti (3 per divisione) di artiglieria campa- Commando. le, dotati ognuno di 24 cannoni da 25 libbre; due reggi- Nel suo complesso, l’artiglieria - compreso il reggimen- menti di artiglieria controcarro, dotati ognuno di 16 can- to osservatori - è composta di 18 reggimenti con in dota- noni da 17 libbre e di 32 cannoni da 6 libbre; due reggi- zione circa 600 pezzi. Ogni azione della fanteria del II menti di artiglieria controaerei leggera, dotati ognuno di Corpo può dunque contare sul potente appoggio del 54 cannoni Bofors da 40 mm. fuoco dell’artiglieria, che mostra una notevole versatilità La brigata corazzata ha il compito di sostenere le unità di calibri e di specializzazioni, una buona organizzazione di fanteria e agisce come unità corazzata di fanteria. Solo di comando e un buon servizio trasmissioni. in qualche caso essa opera indipendentemente come bri- L’artiglieria di Corpo d’Armata è formata da due reggi- gata corazzata e talora come artiglieria d’assalto. Le forze menti di artiglieria media (“pesante” nella terminologia corazzate sono raggruppate in 3 reggimenti, ognuno dei polacca). Ogni reggimento è composto di due gruppi quali è dotato di 52 carri armati medi Sherman, 11 carri (“dywizjon” nella terminologia polacca), ognuno dei leggeri Stuart e 12 autoblindo. Ogni reggimento è su uno quali è formato da due batterie. Il singolo reggimento di squadrone comando, di cui fanno parte 4 Sherman, gli artiglieria media ha in dotazione 16 pezzi da 5,5 pollici e 11 Stuart e veicoli da esplorazione, e su 3 squadroni di 16 pezzi da 4,5 pollici. Nel Corpo sono inoltre presenti prima linea, ognuno dei quali è composto di un plotone due reggimenti di artiglieria campale (per tradizione, uno comando con 4 Sherman e di 4 plotoni con 3 Sherman di essi è designato come artiglieria a cavallo), dotati ognu- ciascuno. In totale, quindi, in ogni squadrone di prima no di 24 cannoni da 25 libbre a tiro rapido, uno dei pezzi linea ci sono 16 Sherman. Abitualmente, è il plotone più usati nel corso della Seconda guerra mondiale. I 4 carri (“troop” nella terminologia britannica) che affianca reggimenti citati fino ad ora costituiscono la base le unità fucilieri. dell’AGPA (Army Group Polish Artillery) che è una for- Per quanto riguarda le caratteristiche dei due carri, il mazione, appunto, a livello di Corpo d’Armata, sotto carro leggero statunitense M3 (denominato Stuart in comando unico, da impiegare quando sono necessari i Gran Bretagna) nasce per l’appoggio alla fanteria, ma nel calibri superiori ai pezzi divisionali. L’artiglieria di Corpo corso della guerra viene soprattutto impiegato con com- è inoltre costituita da: un reggimento di artiglieria con- piti esploranti. Ha un equipaggio di 4 uomini e pesa circa troaerei leggera, dotato di 54 pezzi Bofors da 40 mm; un 13 tonnellate. L’armamento base è costituito da un can- reggimento di artiglieria controaerei pesante, dotato di 24 none da 37 mm, con una mitragliatrice coassiale da 7,62 cannoni; un reggimento dotato di 24 semoventi M 10 mm e altre 4 mitragliatrici da 7,62 mm. Il carro medio controcarro (ricavato sullo scafo del carro armato statunitense M4 (denominato Sherman in Gran Sherman, con torretta a cielo aperto, pesa circa 30 ton- Bretagna) ha un equipaggio di 5 uomini e pesa circa 32 nellate ed è dotato di un cannone da 76,2 mm e di una tonnellate, ma presenta numerose varianti. Il II Corpo ha mitragliatrice da 12,7 mm; gli inglesi sostituiranno i can- in dotazione il tipo M4A2, dotato di un gruppo propul- noni originari con i 17 libbre, ribattezzando il mezzo sore costituito da due motori diesel, e armato con un can- Achilles); un reggimento di osservatori di artiglieria. none da 75 mm, mitragliatrice coassiale da 7,62 mm e L’artiglieria divisionale, cui si è accennato più sopra in altre due mitragliatrici, di cui una da 12,7 mm per la dife- riferimento alla singola divisione, è in complesso costitui- sa controaerei. Troppo alto e insufficiente nella corazza-

36 tura e nella potenza di fuoco, è tuttavia disponibile in un di stendere campi minati, di bonificare dalle mine, di altissimo numero di esemplari (circa 40 mila carri pro- costruire ponti, strade, ferrovie, aeroporti, di compiere dotti) , tanto che uno Sherman distrutto viene rapida- demolizioni. Nel II Corpo sono presenti con 3 battaglioni, mente rimpiazzato. In azione spesso è protetto dai carri- uno nelle truppe di Corpo d’Armata e uno in ogni divisio- sti con spezzoni di cingolo o sacchetti di sabbia. In segui- ne di fanteria. Anche le trasmissioni sono rappresentate da to, si provvede a potenziare la corazzatura e a utilizzare un 3 battaglioni, uno nelle truppe di Corpo d’Armata e uno in cannone da 76 mm. ogni divisione di fanteria. La Polizia Militare, cui spettano Le unità esploranti (cavalleria), che hanno il compito di compiti di sicurezza e di controllo del traffico, è presente raccogliere informazioni e di saggiare la consistenza quan- con 3 compagnie, distribuite nel Corpo e nelle divisioni. titativa e qualitativa del nemico, sono presenti con un Efficienti, flessibili e notevoli per numero e addetti reggimento sia nelle truppe di Corpo d’Armata sia in sono i servizi. Quello più consistente è il Servizio ogni divisione di fanteria. Il reggimento esplorante di Rifornimenti e Trasporti, che ha il compito di trasporta- Corpo d’Armata (Lancieri dei Carpazi) dispone di una re munizioni, viveri, materiali dai depositi principali bri- potenza di fuoco superiore rispetto a quella dei reggi- tannici alle varie unità del II Corpo, da quelle maggiori menti divisionali. alle minori. Il Servizio è dotato di forni da campo, mat- I Lancieri dei Carpazi sono infatti formati da uno squa- tatoi mobili, autocisterne. drone comando, dotato di 6 autoblindo, di cui fanno parte Il Servizio di Sanità, cui spetta il controllo della salute un plotone controaerei, un plotone trasmissioni, una batte- dei militari e l’evacuazione di malati e feriti, opera con ria controcarro dotata di pezzi da 17 libbre, e da 3 squadro- stazioni mobili per lo smistamento dei feriti, unità chi- ni di prima linea, ognuno dei quali è costituito da un plo- rurgiche campali, unità per trasfusioni, ambulanze cam- tone comando, dotato di 5 autoblindo, da 5 plotoni con 4 pali. In zona di operazioni, nei posti di medicazione avan- autoblindo ciascuno e da un plotone d’assalto con 5 blin- zati, vengono trattati i casi più lievi, mentre gli altri feriti dati. In totale, il reggimento dispone di 58 autoblindo passano al posto di medicazione principale e negli ospe- pesanti Staghound, 23 veicoli da esplorazione, 26 veicoli dali, situati nelle retrovie e nella Base (vedi più avanti). per il trasporto del plotone d’assalto e dei cannoni. Negli ospedali svolgono un ruolo fondamentale le infer- Ognuno dei due reggimenti esploranti divisionali è così miere del “Servizio Ausiliario Femminile”. Le donne sono suddiviso: squadrone comando, dotato di 3 autoblindo, impiegate anche nel Servizio Trasporti, nelle trasmissioni di cui fanno parte un plotone mortai da 3 pollici, un plo- e in altri servizi. La 316a e la 317a Compagnia Trasporti tone controcarro con pezzi da 6 libbre, un plotone moto- sono formate esclusivamente da donne. ciclisti, un plotone trasmissioni e 3 squadroni di prima Nei servizi sono inseriti anche gli specialisti meccanici linea. Ogni squadrone si compone di plotone comando, elettricisti, cui spetta il compito di riparare veicoli, armi e dotato di 2 autoblindo, di 3 plotoni, dotati di autoblin- apparati per le trasmissioni. I Servizi logistici si occupano do pesanti, veicoli da esplorazione, carrier, e di un ploto- della fornitura ai reparti di armi ed equipaggiamenti vari, ne d’assalto. Ogni reggimento esplorante divisionale è per artiglieria, genio, trasmissioni, ecc. e di tutto ciò che dotato di 28 autoblindo pesanti Staghound, 24 veicoli da riguarda il vestiario. I materiali sono sistemati nei deposi- esplorazione, 60 carrier, 55 motociclette. ti di Corpo d’Armata e vengono poi trasferiti dal Servizio Ai genieri spetta il compito di costruire opere difensive, Trasporti nei Parchi materiali logistici delle singole divi-

37 sioni. Al Servizio logistico sono affidati anche i compiti di liarie, per una forza totale di 44422. Nella Base sono pre- provvedere ai bagni dei soldati e alla lavanderia. senti: 1082 ufficiali, 8389 tra sottufficiali e truppa, 1292 I cappellani militari provvedono all’assistenza spiritua- ausiliarie. E sarà proprio la Battaglia di Ancona a eviden- le per i soldati cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei. La ziare i problemi di organico del II Corpo, tanto che dal Sezione Benessere si occupa delle condizioni dei soldati e mese di settembre del 1944 viene messo in atto un piano allestisce sale riunioni, spacci, spettacoli. Altri servizi si di potenziamento dell’unità, sia in mezzi sia in uomini. occupano di: amministrazione, posta, pubbliche relazio- Il nuovo personale proviene dalla “prima linea”, cioè, ni. Il Servizio Topografico provvede ai rilievi, alla ripro- dopo una selezione, dai polacchi di Pomerania, Slesia, duzione di mappe, alla loro distribuzione ai reparti. Le Posnania incorporati nelle Forze Armate tedesche e fatti Corti Marziali, una nelle truppe di Corpo d’Armata e una prigionieri dagli Alleati. Il progetto è approvato dalle per ogni divisione, si occupano di giustizia militare. Nella autorità britanniche, in vista anche dell’offensiva della Base, dove si concentrano le attività addestrative del II primavera del 1945 contro i tedeschi, e porta all’inizio del Corpo, sono presenti la 7a Divisione di riserva (comple- 1945 alla articolazione delle divisioni di fanteria su 3 bri- menti), la sezione stampa, tre ospedali da 600 letti ognu- gate, in luogo delle 2 precedenti. La priorità viene data no e uno da 200 letti,un convalescenziario. Nel corso del- proprio a questa trasformazione, in quanto i combatti- l’avanzata verso nord, parte della struttura ospedaliera menti richiedono un contributo sempre crescente della seguirà il II Corpo, mentre un ospedale principale fanteria. Le nuove brigate, già operative da gennaio, par- rimarrà a Casamassima. tecipano all’ offensiva dell’ aprile 1945. Anche l’ artiglie- Nel mese di aprile del 1944, gli effettivi del II Corpo ria viene potenziata e sviluppata secondo i piani previsti: ammontano a: 3156 ufficiali, 43971 tra sottufficiali e il 9° Reggimento viene dotato di pezzi da 155 mm e da truppa, 110 ausiliarie per un totale di una forza di 47237. 7,2 pollici e diventa di artiglieria pesante (“pesantissima” Nella Base sono presenti: 922 ufficiali, 5459 tra sottuffi- nella terminologia polacca); si formano inoltre 2 nuovi ciali e truppa, 1180 ausiliarie. Suddividendo il dato per reggimenti di artiglieria media. specialità e considerando la forza reale, senza i servizi, si Per quanto riguarda la 2a Brigata corazzata, che ha talo- nota che la fanteria dispone di 11309 addetti, mentre ra mostrato scarsa capacità di sfondamento, è prevista la l’artiglieria ne conta 12854. Emerge così uno dei proble- sua incorporazione nella nuova 2a Divisione corazzata mi fondamentali del II Corpo, cioè la relativamente scar- “Varsavia”, che dovrà anche comprendere la 16a Brigata di sa disponibilità di fanteria, che provoca difficoltà quando Fanteria motorizzata “Pomerania”, il 2° Battaglione si deve entrare nella fase di sfruttamento del successo. A motorizzato Commando e reparti di artiglieria. Della 2a tale situazione contribuisce anche l’alto grado di motoriz- Divisione corazzata farà parte anche il Reggimento esplo- zazione del II Corpo (5297 autocarri, 590 trattori di arti- rante “Lancieri dei Carpazi”, in precedenza compreso glieria, 1908 mezzi speciali, 1292 autovetture, 129 ambu- nelle truppe di Corpo d’ Armata. Ma questo complesso lanze, 2528 motociclette, ecc. presenti già nel dicembre piano di ristrutturazione potrà essere pienamente attuato del 1943), che sottrae personale alle armi combattenti. solo nel giugno del 1945, a guerra terminata. Il primo luglio del 1944, alla vigilia dei combattimenti E’ inoltre programmata la costituzione della 14a Brigata per la conquista di Ancona, gli effettivi sono i seguenti: corazzata “Grande Polonia”, composta di 3 reggimenti 2872 ufficiali, 41343 tra sottufficiali e truppa, 207 ausi- corazzati. L’ addestramento si svolge in Egitto e la briga-

38 ta rientra in Italia nel gennaio del 1945, ma la sua orga- “Bambini di Lwów” e rievoca la partecipazione anche dei nizzazione viene completata solo a guerra finita. Il poten- giovani polacchi alla difesa della città, nel 1918, contro ziamento generale del II Corpo polacco riguarda anche i gli ucraini, mentre il 1° Reggimento richiama alla memo- reparti esploranti, le trasmissioni e i servizi. Gli organici ria i combattimenti svoltisi nella località di Krechowce. salgono in totale a circa 110 mila soldati. Il primo obiettivo della profonda ristrutturazione del II Da notare come i nomi dei reparti, sia prima sia dopo Corpo polacco è quello di conferire maggior efficacia alle la ristrutturazione, siano una ulteriore testimonianza dei forze alleate in vista dell’ offensiva finale della primavera forti legami con la Polonia e, in particolare, con le regio- del 1945 contro i tedeschi. Ma è anche evidente il tenta- ni orientali. La 3a Divisione “Fucilieri dei Carpazi” pren- tivo del gen. Anders di formare i quadri di un futuro eser- de il nome dai monti Carpazi, attraverso cui molti solda- cito polacco moderno, in quanto in grado di impiegare ti polacchi sono riusciti, nel 1939, a fuggire dalla Polonia. truppe corazzate, fanteria motorizzata, artiglieria semo- La 5a Divisione “Kresowa” richiama nel nome i reparti di vente e di disporre di servizi efficienti. frontiera (Kres=termine, limite) ed è costituita da molti Nel momento in cui svanisce il sogno di ritornare in soldati originari delle zone di confine con l’ Unione patria, permane tuttavia la volontà di costituire un centro Sovietica. Le sue 3 brigate sono intitolate alla regione di aggregazione dei cittadini polacchi dispersi, a causa della Volinia e alle città di Leopoli (Lwów) e di Wilno, della guerra, in tutta Europa per fornire loro - grazie lituana ma nel Cinquecento unita alla Polonia. Un reggi- anche a scuole e corsi professionale - un sostegno morale mento esplorante ricorda la regione della Podolia. Nella e materiale, oltre che le conoscenze e le esperienze utili 2a Brigata corazzata il 6° Reggimento è intitolato ai per fondare nuove comunità nei vari Paesi del mondo.

Distintivi del Comando e delle truppe di Corpo d’Armata del II Corpo polacco (sirena di Varsavia bianca su fondo rosso); della 3a Divisione “Fucilieri dei Carpazi” (pino verde su fondo bianco e rosso); della 5a Divisione “Kresowa” (bisonte marrone scuro su fondo giallo chiaro); della 2a Brigata corazzata, poi 2a Divisione corazzata (braccio armato e alato color argento su fondo cachi).

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Il documento “A Study of the possibilities of the defence of Italy” è conservato presso “The Polish Institute and Sikorski Museum” - Londra (A. XI. 2/6).

48 MUSEO DELLA LIBERAZIONE DI ANCONA Via dell’Arengo 11, OFFAGNA (Ancona) (Scheda a cura di Mario Fratesi)

Il 24 aprile 2009 è stato inaugurato a Offagna luogo in cui gli anconetani erano costretti a rifugiarsi (An) il Museo della Liberazione di Ancona. nel corso dei bombardamenti a cui è stata sottoposta La maggior parte dello spazio espositivo del la città dall’ottobre 1943 al giugno ’44. museo è dedicato alle cento fotografie recuperate, Esiste inoltre il progetto di dotare il museo di una dopo una paziente e meticolosa ricerca, presso i biblioteca e di materiale documentativo sulla musei di guerra di Londra (The Polish Institute and Campagna d’Italia e sulle conseguenze della guerra Sikorski Museum, Imperial War Museum). rispetto alla popolazione civile Tali fotografie documentano tutte le fasi delle bat- L’allestimento del museo è stato curato dal sot- taglie per la liberazione di Ancona nonché aspetti toindicato Comitato scientifico, mentre la gestione legati alla vita delle comunità locali ed alla perma- scientifica è stata affidata all’Istituto Regionale per la nenza nelle Marche dei soldati del II Corpo polacco. Storia del Movimento di Liberazione. E’ presente una collezione di armi e di equipag- giamenti militari che si riferiscono alla Campagna COMITATO SCIENTIFICO d’Italia della Seconda guerra mondiale: in gran parte provengono dalle destinazioni effettuate dalla Dott. Stefano Balzani Soprintendenza per i beni storici delle Marche, e da Dott. Giuseppe Campana altre Soprintendenze, per interessamento del prof. Prof. Daniele Diotallevi Daniele Diotallevi; in parte provenienti dalla colle- Sig. Mario Fratesi zione privata del sig. Giuliano Evangelisti. Dott.ssa Beata Jackiewicz Una postazione mediatica consente di visionare le Dott. Sergio Molinelli oltre 7.000 immagini riferite alle operazioni del II Prof. Wojciech Nar¸ebski Corpo polacco nelle Marche, provenienti sempre dai Dott. Michael Olizar musei londinesi. E’ stato anche ricostruito, con l’ausi- Dott. Massimo Papini lio di effetti sonori, l’ambiente di un rifugio antiaereo; Prof. Henryk Swiebocki

49 ORARI DI APERTURA Dal 25/04 al 30/06 Sabato e Domenica 10-12, Dal 16/09 al 31/10 Sabato e Domenica 10-12, 16,30-19,30 16.30-19.30 Dal 01/07 al 15/09 Dal 01/11 al 24/04 Chiuso: visitabile solo su preno- Tutti i giorni 10-12, 17-20 tazione Informazioni - Comune di Offagna: Tel. 071.7107005 - Fax 071.7107380 - e-mail: [email protected]

50 Il contesto storico ANCONA, LUGLIO 1944 UNA BATTAGLIA PER LA LIBERTA’ DI POLACCHI E ITALIANI (Scheda a cura di Giuseppe Campana)

Il 18 luglio 1944 i soldati del II Corpo d’Armata utili per continuare le operazioni con successo. polacco, al comando del generale W.Anders, entra- Ed è quanto accade nelle prime due settimane del no ad Ancona. La città viene liberata dopo una bat- luglio 1944. Il possesso di queste alture consente, taglia, condotta in due fasi, che mostra notevoli nel periodo 17-19 luglio, l’effettiva conquista di punti di interesse e di originalità. Sono inoltre pre- Ancona. L’operazione viene condotta a termine con senti alcuni aspetti di ordine simbolico che rivesto- una manovra avvolgente che si sviluppa nell’entro- no una fondamentale importanza e che indicano le terra di Ancona, partendo da Osimo e procedendo Marche come uno dei primi luoghi in cui le ricosti- in direzione di Polverigi, Agugliano, Falconara e la tuite Forze armate italiane, i partigiani, le istituzioni foce del fiume Esino. Al tempo stesso viene impo- locali collaborano con gli alleati per compiere quel- stata una manovra diversiva sulla fascia costiera a la necessaria opera di ricostruzione morale che por- sud di Ancona, volta a mascherare l’attacco princi- terà alla rinascita dell’Italia. pale e a spingere i tedeschi verso nord. Lo scopo I soldati polacchi hanno il compito di conquistare finale è quello di chiudere i tedeschi in una sacca, il porto di Ancona, il cui possesso è indispensabile delimitata a sinistra dalle forze polacche e a destra per rifornire le truppe alleate impegnate nell’offensi- dal mare. va contro i tedeschi che segue allo sfondamento Nella manovra avvolgente c’è un massiccio impie- della Linea Gustav e all’entrata degli americani a go di mezzi corazzati e di fanteria, mentre la mano- Roma. Per raggiungere l’obiettivo, il gen. Anders vra diversiva è affidata alla cavalleria. Nel suo com- imposta dapprima una strategia flessibile che preve- plesso, l’operazione è molto ben impostata ed è pre- de una manovra aggirante da condurre dalla zona di ceduta da una valutazione di tutti i fattori favorevo- Macerata in direzione di Jesi. Tuttavia, nel caso che li e contrari. In particolare, nella preparazione del- l’offensiva si dovesse esaurire, è prevista in subordi- l’attacco a Monte della Crescia, la cui conquista è di ne la conquista delle posizioni dominanti di estrema difficoltà ma al tempo stesso indispensabile Castelfidardo, Osimo, Filottrano, Cingoli, ritenute per proseguire la manovra avvolgente, entrano in

51 gioco le peculiari doti del comandante: esperienza, dell’Unione Sovietica. Molti di loro erano stati rin- razionalità, prudenza unita al coraggio e alla capa- chiusi nei campi di lavoro forzato sovietici e aveva- cità di affrontare incerte situazioni di rischio calco- no subito privazioni di ogni genere. Un solo ideale lato. E quando si manifestano quegli imprevisti che unisce questi uomini: combattere i tedeschi sia per sempre accompagnano le battaglie, il gen. Anders liberare l’Italia sia per potere ritornare in una può intervenire con decisioni adeguate. Polonia libera, indipendente e ricostituita nei suoi Anche se i tedeschi, con ridotte forze di fanteria e confini. privi di carri armati ma dotati di notevoli contin- La battaglia di Ancona è dunque una battaglia genti di artiglieria, mostrano una tempestiva reatti- anche per la Polonia, volta a far conoscere la que- vità, il successo arride alla fine al II Corpo polacco. stione polacca e la condizione del II Corpo di arma- La conquista del porto di Ancona produce alcune ta in esilio. Ma le aspettative dei polacchi saranno importanti conseguenze. Già dopo alcuni giorni le frustrate proprio dagli alleati britannici e americani navi cariche di rifornimenti possono attraccare, che, privilegiando l’alleanza con i sovietici, permet- mentre in tutta l’area di Ancona sorge una comples- teranno a Stalin di incorporare nell’Unione sa rete di strutture logistiche, tra cui un gigantesco Sovietica quelle regioni orientali della Polonia che deposito carburanti nel territorio di Falconara. erano state occupate nel 1939 d’accordo con Hitler. Ma, soprattutto, è la stessa strategia alleata a subi- Si può tuttavia affermare con fondamento che il re un radicale cambiamento: ai primi di agosto 1944 sacrificio dei soldati polacchi ad Ancona – come a l’attacco principale alla Linea Gotica – la barriera Cassino nel maggio 1944 e a Bologna nell’aprile difensiva sistemata dai tedeschi tra sud di La Spezia 1945 -e la dignità con cui hanno in seguito affron- e Pesaro – viene spostato sulla fascia costiera adriati- tato l’esilio costituiscono le premesse di quella lunga ca. I polacchi dovranno proseguire l’azione contro i lotta che nel 1989 ha portato la Polonia a diventare tedeschi, spingendoli verso nord e logorandoli, un Paese libero. mentre altre truppe britanniche e canadesi saranno Nella battaglia di Ancona i polacchi non sono soli. inviate verso l’Adriatico per unirsi ai polacchi. Al loro fianco combattono gli italiani. Il Corpo ita- L’azione comune alleata contro la Linea Gotica verrà liano di liberazione, comandato dal gen. U. Utili, avviata il 25 agosto 1944, alla presenza dello stesso nella prima fase della battaglia ha il compito di Primo ministro britannico W. Churchill. prendere Filottrano e quindi, nella fase decisiva, di Nella battaglia di Ancona il II Corpo polacco proteggere il fianco sinistro dei polacchi e di con- mostra tutta l’efficienza raggiunta in anni di adde- quistare Rustico e Santa Maria Nuova. Il CIL, pur stramento. Ma c’è nei soldati polacchi anche una disponendo di mezzi inadeguati, si comporta con grande forza morale. Essi avevano vissuto, nel set- valore e mostra che il nuovo esercito italiano sta tembre del 1939, il dramma della duplice invasione superando il trauma dell’otto settembre. Proprio in della Polonia da parte della Germania nazista e poi seguito ai risultati conseguiti dal CIL, potranno

52 nascere nei mesi successivi quei Gruppi di alle residue forze dell’ordine, presidiano la città. Il Combattimento che daranno delle ottime prove, a coordinamento è affidato a Carlo Albertini, coman- fianco degli alleati, nelle operazioni della primavera dante del 3° Corpo dei Vigili del fuoco che, con i del 1945 che porteranno alla sconfitta dei tedeschi. suoi uomini, aveva svolto un ruolo fondamentale Gli italiani fanno inoltre parte delle stesse forze nell’opera di soccorso delle popolazioni della pro- armate polacche. La 111a Compagnia Protezione vincia colpite dai bombardamenti angloamericani Ponti è appunto formata da volontari italiani, dell’ottobre-novembre 1943 e dei primi mesi del inquadrati da ufficiali polacchi e impiegati come 1944. Sia pure sotto tutela alleata si ricostituisce la commando. Con i Lancieri dei Carpazi sono tra i pubblica amministrazione: il prof. Franco primi, il 18 luglio 1944, ad entrare ad Ancona. Con Patrignani viene nominato sindaco mentre prefetto i polacchi collabora poi la “Banda Patrioti della diventa l’avv. Oddo Marinelli. Maiella”, formata da partigiani abruzzesi e coman- Il 18 luglio 1944 non è dunque solo il giorno di data da E. Troilo. I partigiani di Ancona danno un un notevole successo strategico alleato, ma segna contributo rilevante alla vittoria finale combatten- anche la data simbolica del faticoso avvio della do duramente, evitando la distruzione di ponti e democrazia dopo la dittatura fascista e i tragici anni strade minate dai tedeschi, fornendo ai polacchi della guerra. E va sottolineato il fatto che alla lotta preziose informazioni sul dislocamento dei tedeschi per la riconquista della libertà partecipano gli italia- e sulle strade da percorrere. ni, sia coloro che appartengono alle truppe regolari Una efficace collaborazione tra polacchi e italiani e sia i partigiani, che mostrano ad Ancona – come si instaura con rapidità. Dal 18 luglio, e d’accordo accadrà nei mesi successivi nel nord – la comune con i polacchi, sono gli stessi partigiani che, insieme volontà di combattere per il proprio Paese.

53 17 - 19 luglio 1944: Battaglia principale di Ancona (Seconda Battaglia di Ancona).

54 Seconda Battaglia di Ancona, 17-19 luglio 1944: commando polacco in azione nella zona di Casenuove (Osimo).

55 Cannone d’assalto tedesco StuG III distrutto dai carri armati del 6° Reggimento corazzato nella zona di S. Paterniano (Osimo).

56 Il gen. Anders, comandante del II Corpo, e il gen. Sosnkowski, a destra, comandante in capo delle Forze Armate polac- che, fotografati durante le battaglie di Ancona.

57 Il gen. Rakowski, comandante della 2a Brigata corazzata, è in prima linea su un carro armato nel corso dell’offensiva per la conquista di Ancona.

58 La popolazione saluta i polacchi.

59 La foto che è diventata il simbolo della liberazione di Ancona: i “Lancieri dei Carpazi” sfilano lungo corso Vittorio Emanuele II (attuale corso Garibaldi).

60 Giuseppe Campana 1943-1947 IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA A I L A T I N I O C C A L O P A T A M R A ’ D O P R O C I I L I 7 4 9 1 - 3 4 9 1

18 luglio 1944: liberazione di Ancona a n a p m

a MUSEO

C DELLA LIBERAZIONE e p REGIONE MARCHE DI ANCONA p e s u i

G Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Il mio lungo cammino verso Torino

di Mieczysław Rasiej

L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 1939- 1989: la “quarta spartizione” , pp. 782-787. Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.

poloni aeurop ae 2010 Il mio lungo cammino verso Torino Mieczys aw Rasiej ł

Non ricordo quanti anni avessi quando, mentre passeggiavo con mia madre, ci imbattemmo in una zingara che mi lesse la mano e mi predisse che avrei fatto dei lunghi viaggi. Allora non le credetti, ma pochi anni dopo i fatti le dettero ragio- ne. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 1 settembre 1939, mi trovavo con à la mia famiglia a Brody, una citt della Polonia orientale, dove mio padre era comandante distrettuale della Polizia di Stato. Quando, il 17 settembre, le trup- à pe dell’Armata Rossa da oriente invasero la Polonia, anche la citt di Brody pochi giorni dopo fu occupata ed i sovietici incominciarono subito ad arrestare funzionari della Polizia (uno dei primi fu mio padre) e dell’amministrazione sta- tale ed inoltre magistrati, professionisti, ufficiali dell’Esercito, esponenti del clero. Alcuni mesi dopo, il 13 aprile 1940, in piena notte, gli agenti della NKVD, senza alcun preavviso, prelevarono anche mia madre, con me e mio fratello, e ci por- tarono con un ridottissimo bagaglio alla stazione, dove fummo caricati su uno dei carri merci che formavano il lungo convoglio destinato al trasporto dei depor- tati: parenti (come noi) degli arrestati e famiglie del ceto medio. Quando tutti i vagoni furono stipati, le guardie chiusero le porte ed il treno con la scorta milita- ì re part . Dalla posizione del sole sapevamo che s’andava verso Est. Non avevo ancora sedici anni ed era quello il mio primo lungo viaggio: ma quale viaggio! ò ò Dur due settimane e ci si pu immaginare in quali condizioni siamo vissuti, à sempre chiusi nei vagoni, in totale promiscuit ed in condizioni igieniche proibi- tive, con poco cibo e acqua. Giunti in una stazione della linea ferroviaria che univa il bacino carbonifero di Karaganda alla transiberiana, nella repubblica sovietica del Kazakistan, fummo smistati – a gruppi di famiglie – nei vari colcos della regione. Noi, con alcune decine di altre famiglie polacche (anche di ebrei), fummo portati a Mironovka, sede di un colcos in piena steppa, dove io con gli altri giovani fui subito destinato ai lavori di campagna e di manovalanza. In quan- to agli alloggi, tutti dovettero arrangiarsi a trovare in qualche modo una precaria à sistemazione presso i colcosiani, che erano gi allo stretto nelle loro misere ò casupole di argilla. Ben presto fra noi deportati polacchi si cre un rapporto di à solidariet e di amicizia, rafforzato anche dal fatto che la gente locale, russi e ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 783 ucraini, non ci era molto favorevole. Quando era possibile, soprattutto nelle lun- ghe sere invernali, ci riunivamo in un’isba per conversare ed anche per cantare le nostalgiche canzoni della nostra tradizione. Questo ci aiutava a sopportare meglio una vita molto difficile, di fatiche e di privazioni, con cibo scarso e indu- menti insufficienti a proteggerci dalle temperature che spesso d’inverno scende- vano a -40°. Ma soprattutto ci aiutava a non perdere la speranza che la nostra sorte sarebbe cambiata. Al principio del 1941 ci trasferimmo nella cittadina di Novoje Suchotnoje, dove io fui adibito a lavori, sempre di manovalanza, molto pesanti, certo non adatti al fisico di un adolescente. La nostra costante speranza, anzi la nostra fede in un cambiamento di vita, si ò ravviv alla notizia dell’attacco all’Unione Sovietica effettuato dalle armate tede- sche il 22 giugno 1941. Poco dopo infatti si diffuse la notizia che l’Unione Sovie- tica avrebbe liberato tutti i polacchi detenuti e che si sarebbe anche organizza- to un Esercito polacco. L’eccitazione fu subito grandissima e fra noi giovani divenne frenesia. Ma solo nel febbraio 1942 potei finalmente salire su un treno ò – stavolta con vetture passeggeri – che mi port , assieme a molti altri volontari, con un viaggio di dieci giorni, allaa base di Lugovaja nel Kazakistan meridionale, dove si andava formando la 10 Divisione dell’Esercito polacco. La mia gioia fu ù offuscata dal ricordo di mia madre e di mio fratello, Kazimierz, pi giovane di me, che erano dovuti rimanere a Novoje Suchotnoje. Passai la visita alla Commissione medico-militare, di cui facevano parte anche alcuni ufficiali della NKVD che cercavano di impedire che venissero arruolati ucraini, bielorussi ed ebrei, benché fossero a pieno diritto cittadini polacchi. Rivestito con una divisa nuova, inglese, fui assegnato al 10° reggimento di arti- glieria da campo. La nostra “caserma” era costituita da tende piantate nella step- pa, in cui la paglia sparsa sulla nuda terra fungeva da giaciglio. Soffrivamo il freddo e le razioni erano scarse (avevamo anche rinunciato volontariamente ad una parte del pane che ci veniva distribuito quotidianamente per aiutare i civili polacchi, in maggioranza donne e bambini che, liberati, si erano accampati vici- no alla nostra base). Eppure eravamo molto felici perché finalmente liberi sotto la nostra bandiera bianco-rossa. a La nostra permanenza in quella base fu breve, in quanto la 10 Divisione, forma- ta soprattutto dagli ultimi detenuti liberati dai lager, molto provati e fisicamente deboli, venne inclusa nello scaglione che doveva essere trasferito in Medio ì Oriente. E cos alla fine di marzo, dopo un viaggio in treno di alcune migliaia di chilometri ci trovammo a Krasnovodsk, porto sul Mar Caspio, da dove, su petro- Mieczysław Rasiej 784 à liere sovietiche, fummo trasportati fino a Pahlevi, in Persia. L , sistemati in tende allestite sulle vaste spiagge, trascorremmo un periodo di adattamento durante il quale molti di noi furono curati per varie malattie dovute a deperimento organi- co. Fummo poi trasportati con automezzi in Palestina e qui, dopo essere stati sotto- posti ad una accurata disinfestazione, con il taglio dei capelli a zero, fummo rive- stiti a nuovo, mentre le vecchie uniformi vennero bruciate.

Con la riorganizzazione adell’esercito fui assegnato al 1° Reggimento di Artiglie- ì ria da campagna della 3 Divisione Carpatica. Segu un intenso periodo di adde- ò stramento, che tuttavia ci lasci il tempo di visitare vari luoghi biblici, come Geru- salemme, Betlemme, Nazareth, il Monte Carmelo. Certo, dopo la Russia, la Palestina ci sembrava il paradiso terrestre: sentimento rafforzato anche dal fatto che moltissimi ebrei, essendo di origine polacca, parlavano la stessa nostra lin- gua, cosicché ci sembrava di essere a casa nostra. Non di rado le esercitazioni militari ci portavano nei kibbutz, e gli incontri con la popolazione erano impron- à tati a viva cordialit . Nel settembre 1942 fummo trasferiti in Iraq per unirci alle truppe del secondo scaglione dell’Esercito polacco evacuato dall’Unione Sovietica. Stavolta il trasfe- à rimento della nostra unit fu effettuato via mare fino a Bassora sul Golfo Persi- co; a bordo della nave “City of Canterbury”, che faceva parte di un grande con- voglio scortato da navi da guerra, trascorsi tre settimane emozionanti e molto piacevoli. In Iraq con grande sorpresa e altrettanta gioia ritrovai mia madre, che con mio fratello era riuscita a lasciare la Russia e si era arruolata nei reparti ausi- liari femminili dell’esercito. Mio fratello fu invece avviato in Palestina per frequen- tare una scuola organizzata dall’Esercito polacco. In Iraq, nelle vicinanze dei campi petroliferi e non lontano dalle alture abitate dai curdi, fummo sottoposti per vari mesi ad intensi addestramenti fino ad un nuovo trasferimento, nell’agosto 1943, in Palestina. Sulle montagne del Libano, a nord à della Palestina, per alcune settimane compimmo particolari esercitazioni, gi in vista del prossimo impiego del 2° Corpo d’Armata polacco in Italia; ma nell’otto- bre del 1943 io fui improvvisamente distaccato dal mio reggimento e mandato a Barbara per completare gli studi ginnasiali (forzatamente interrotti nel 1940), che à mi avrebbero dato la possibilit di accedere alla scuola per ufficiali di comple- mento. A Barbara ritrovai mio fratello, impegnato sia nella scuola, sia nei corsi paramilitari. à Terminati gli studi all’inizio del febbraio 1944 con il diploma di “Piccola Maturit ”, tutti noi militari-studenti fummo subito trasferiti in Italia, con una burrascosa tra- ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 785 à versata dal porto di Suez a quello di Taranto, e di l raggiungemmo le nostre à unit che dalla fine di dicembre erano impegnate sul fronte in Val di Sangro. In aprile ci spostammo nella zona di Cassino, dove l’11 maggio ebbe inizio la sanguinosa battaglia. è Monte Cassino: a distanza di tanti anni sempre vivissimo il ricordo della ban- diera bianco-rossa svettante sulle rovine dell’Abbazia, unito al ricordo dei com- pagni caduti e feriti, in uno stato d’animo velato da indicibile mestizia. ò Ci fu poi la campagna adriatica lungo la costa, che ci port fino ad Ancona e ter- ò min ai primi di settembre con lo sfondamento della Linea Gotica. I ricordi delle battaglie si intrecciano con le immagini della gente dei paesi via via liberati, che ci salutava, ci festeggiava, voleva farci sentire la sua amicizia. Dopo questa campagna, durata quasi tre mesi, mentre al 2° Corpo veniva con- cesso un breve periodo di riposo, io fui mandato a Matera per seguire il corso ì per ufficiali di artiglieria di riserva, che terminai il 15 febbraio 1945. Potei cos tor- nare al mio reggimento per partecipare alle azioni che portarono alla liberazio- ne di Bologna il 21 aprile. Un’altra parentesi dedicata allo studio fu quella dei corsi liceali, che, finite le osti- à lit belliche, seguii a Matino in Puglia, ottenendo il diploma che mi permise di presentare in seguito al Comando la domanda per essere ammesso ai corsi uni- versitari organizzati dall’Esercito per i suoi militari presso gli Atenei italiani. ì Fu cos che, all’inizio del febbraio 1946, mi trovai nel gruppo dei futuri studenti che su un camion militare erano in viaggio per Torino, dove li attendeva il Poli- tecnico. Non potevo certo immaginare, allora, che proprio Torino sarebbe diven- à tata la citt della mia vita! I primi mesi, qui, per me non furono facili: iscritto al primo anno di ingegneria, dovetti interrompere gli studi ai primi di maggio perché mi ammalai gravemente ù e passai pi di cinque settimane negli ospedali militari di Milano e di Senigallia. Appena mi fu possibile mi feci dimettere e, rinunciando al periodo di convale- scenza, tornai con l’autostop a Torino, dove purtroppo seppi che non potevo à riprendere la frequenza al Politecnico perché la mia Maturit , conseguita sotto ù le armi, non era pi considerata valida. Con i quarantatre compagni che erano nelle stesse condizioni, dopo un mese e mezzo di preparazione intensissima, à affrontai i nuovi esami di Maturit classica presso il Liceo Gioberti, superandoli con risultati discreti, cosicché alla fine di agosto potei tornare ai miei studi. Pochi giorni dopo, giusto l’8 settembre, la professoressa Alma Borelli, che si era tanto ò adoperata per i nostri esami al Liceo Gioberti, organizz a Settimo Torinese una festicciola, alla quale parteciparono – oltre ad una delegazione degli studenti Mieczysław Rasiej 786 à polacchi – vari Commissari degli esami di maturit . C’era fra loro anche la gio- ù vanissima commissaria di filosofia, Renza Cortinovis, che dopo poco pi di due mesi sarebbe diventata mia moglie. Quel giorno presi la decisione di stabilirmi in Italia e, per non essere trasferito con i miei commilitoni in Inghilterra, affrettai il mio matrimonio civile. Quello religioso fu poi celebrato il 30 dicembre 1946 dal card. Fossati, arcivescovo di Torino, ed io ebbi come testimone il tenente Gior- gio Kruszelnicki, mio superiore in tutta la campagna italiana e caro amico. Fino alla smobilitazione, avvenuta nell’estate del 1947, mi dedicai esclusiva- ù mente agli studi, cercando anche di migliorare il pi possibile il mio italiano. ò Subito dopo per mi procurai un impiego, diventando agente di commercio per à à Torino della societ Sobrero Est, attivit che mi permetteva di frequentare abba- stanza regolarmente le lezioni e le esercitazioni al Politecnico. Gli anni fino al luglio 1954 – quando mi laureai in Ingegneria Elettrotecnica col prof. Antonio Carrer – furono un periodo di sacrifici e di tante rinunce, di lavoro e di studio continuo, ma consideravo il traguardo della laurea una sfida a me stesso – che risaliva al ’46 – e vincerla mi diede una grande gioia e soddisfazio- ne. Intanto avevo raggiunto una posizione economica soddisfacente, che mi permetteva di provvedere senza problemi alla mia famiglia, allietata dalla nasci- ta di due figli, Kazimierz e Giorgio, ed in seguito della terzogenita Helena. Allettato anche dalle vantaggiose proposte economiche, per ben 14 anni rimasi alle dipendenze della Sobrero Est come responsabile del suo ufficio commercia- le, benché il prof. Carrer spesso mi sollecitasse ad esaminare nuove offerte di ù lavoro pi consone alla mia preparazione di studio. Finalmente, sentendo di “tirare troppo la corda”, accettai la proposta di un amico, Federico Capetti, diret- à tore tecnico della societ Nebiolo. Si trattava di seguire e curare il progetto per la costruzione a Sommariva Perno, nella zona di Alba, di un nuovo stabilimento per le sue macchine da stampa, del quale sarei diventato direttore dopo averne seguito e curato la progettazione e la costruzione. Costituitasi una nuova à societ , la “Meccanica Sommariva”, in cui ero socio minoritario nonché consi- gliere di amministrazione, venne acquistato il terreno adatto, sul quale il 24 giu- gno 1970 (tempo di lasciar mietere l’ultimo grano!) cominciarono i lavori di costruzione a cui impressi un ritmo serrato. In autunno ci furono le prime assun- à zioni di personale ed il 15 gennaio 1971 fu gi prodotto il primo cilindro rettifica- to per una macchina da stampa. Nell’estate dello stesso anno ci fu l’inaugura- zione ufficiale dello stabilimento, con l’azienda ormai avviata ad un sicuro svilup- po. Ero contento di aver superato una dura prova, di aver vinto un’altra sfida, ma soprattutto di aver realizzato qualcosa di utile, creando posti di lavoro in un ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 787 paese agricolo non certo ricco. Nella conduzione dell’azienda conobbi molte soddisfazioni, soprattutto per gli ottimi rapporti che si instaurarono sia con le à maestranze, sia con la popolazione, a cui erano assicurate concrete possibilit di miglioramento economico. Questo clima sereno era favorito anche dal continuo, rapido sviluppo dell’azien- ò da, che port nel 1974 alla produzione di macchine da stampa complete. ò Purtroppo per andava acuendosi inesorabilmente la crisi che aveva colpito la Nebiolo, tanto che lo stabilimento di Sommariva, fu ceduto nel 1975 alla Grazia- no – Trasmissioni di Rivalta, ed io nel 1976 preferii passare alla Patelec – Cem. Presso questa azienda, produttrice di cavi elettrici, fui dirigente e consigliere di amministrazione, curando soprattutto i rapporti tecnico commerciali in Italia e ì all’estero. E cos continuai a fare lunghi, frequenti viaggi, come la zingarella mi aveva predetto! Nel 1986, raggiunti i requisiti, andai in pensione, ma rimasi nell’azienda come collaboratore e quando, nel 1987, la Patelec fu acquistata dal Gruppo Saiag, fui confermato nel mio ruolo di consulente con il compito specifico di sviluppare il mercato nei paesi dell’Est (Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria) ed ultimamen- te per assistere l’azienda nel suo insediamento in Polonia, a Legnica. Chiudo qui il mio racconto ed esprimo la mia grande soddisfazione di aver con- tribuito attivamente alla nascita ed alla lunga storia di Ognisko.

è è Mieczysław Rasiej nato il 6 maggio 1924 a Pikulice-Przemyśl. Dal 1991 stato Presidente della à è Comunit di Torino. Dal 1996 stato Presidente dell’Associazione Generale dei Polacchi in Italia. è Oltre alle onorificenze militari, tra cui la Croce di Monte Cassino, stato insignito della Croce d’Oro al Merito del Governo Polacco in Esilio e della Croce di Commendatore dell’Ordine “Polonia Resti- È tuta”. morto il 16 ottobre 2007 [n.d.r.]. n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Una grande e terribile battaglia, ma non tutto accadde a Montecassino e Cassino

di Alberto Turinetti di Priero

Quando potevo scendere a Cassino, sceglievo la fine di aprile, quando non arri- vano ancora le comitive di turisti e di pellegrini. Non fa né troppo caldo né troppo freddo, gli alberi si ricoprono di verde con splendide e variopinte fioriture, ma, soprat- tutto, non ci sono cerimonie ufficiali. Salivo all’Abbazia il mattino presto o la sera tardi, sostando in solitudine nel cimitero polacco, camminando fra le croci, guardando quei nomi, tanto che qualcuno mi è diventato persino familiare. Il sottotenente Ludomir Bialecki, caduto il 12 maggio 1944, a bordo del suo carro armato, alla Gola, tra il Fantasma ed il Calvario; il maggiore Ludomir Tarkowski, sopravvissuto agli attacchi del 12 e del 17 maggio, ucciso il 22 da un cecchino, ai piedi delle mura di Piedimonte San Germano; il fuciliere Teodor Tokarewicz, uno dei tanti, caduto il 17 maggio 1944, probabilmente sulla Cresta del Fantasma: era nato il 17 maggio 1924…

Montecassino, il cimitero militare polacco, le colline e le quote senza nome che li sovrastano, uno dei campi di battaglia, fra i più sanguinosi: i polacchi certamente, ma anche tedeschi, americani, inglesi, indiani, i famosi gurkhas nepalesi1 … Quei luoghi sono però soltanto uno dei campi di battaglia nei quali si divise quella che noi siamo ormai abituati a chiamare sbrigativamente la battaglia di Cassino. Seguendo la strada che scende a Cassino, conviene fermarsi un attimo ad ammi- rare lo splendido panorama dall’unica e vasta piazzola dove si può fermare l’auto. Da lì il vostro occhio potrà spaziare sui campi di battaglia e potrete rendervi conto di quanto vasta sia stata l’area nella quale si svolsero gli avvenimenti legati a quelle che gli storici definiscono le tre, o le quattro, battaglie di Cassino. Sotto di voi la Rocca Janula, la città, la via Casilina, la stazione ferroviaria, che evocano altri avvenimenti dolorosi; più in là la pianura dove scorre il Gari e sorge il

1 I ghurka o gurkha o gorkha erano soldati provenienti dalla valle Gorkha’ nel Nepal occidentale, famosi per le loro spiccate attitudini al combattimento che già agli inizi dell’Ottocento presero ad essere arruolati come volontari nell’Esercito della Compagnia britannica delle Indie orientali. Dal 1815 al 1947 furono creati 13 reggimenti attivi e tre reggimenti per l’addestramento delle reclute (1943-1946). Durante la seconda guerra mondiale circa 40 battaglioni di Gurkha Rifles, qualcosa come 112.000 uomini, prestarono servizio nelle divisioni indiane combattendo in Africa (Abissinia, Libia, Egitto, Tunisia), in Grecia, in Medio Oriente ed in Italia, ma soprattutto contro i giapponesi in India, in Birmania ed in Malesia.

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piccolo paese di Sant’Angelo in Theodice: là morirono prima centinaia di soldati ame- ricani, poi inglesi e indiani; ed ancora il monte Trocchio, che nasconde la vista di Mon- telungo, ma non quella della vetta di monte Sammucro, teatro di tanti scontri nel dicembre 1943. Se vi girate verso sinistra, verso nord, potete seguire la valle del Rapido, le strade che raggiungono Caira e Sant’Elia Fiumerapido, ma anche scorgere la cresta del Belve- dere, dove nel gennaio-febbraio 1944 si svolsero i feroci combattimenti fra tedeschi e nordafricani del 4e Régiment de Tirailleurs Tunisiens: circa 400 caduti delle due parti per la conquista di un fazzoletto di terra e sassi! Più in là, sullo sfondo, le sorgenti del Rapido, le Mainarde, i monti dell’Abruzzo e del Molise: la Linea Gustav arrivava fino a lassù. Se invece volgete lo sguardo alla vostra destra, potete spaziare sulla Valle del Liri, dove si svolse l’offensiva dell’8a Armata nel maggio 1944, ma la linea dell’orizzonte è sbarrata da una possente e minacciosa barriera di montagne: i monti Aurunci. Là si svol- sero i furiosi combattimenti fra francesi e tedeschi, e là si sfaldò la Linea Gustav il 13 maggio 1944. Il panorama si interrompe a questo punto, ma il fronte proseguiva verso la costa del Tirreno, lungo il Garigliano: ancora combattimenti e tanto sangue versato. Furono gli inglesi ad attraversare il fiume nel gennaio 1944, attestandosi sulle pen- dici del monte Ornito, carico di storia quanto di oblìo; chiamarono con vivo senso dello spirito quella zona “Harrogate” [città termale dell’Inghilterra situata nella regione dello Yorkshire n.d.r.] in onore delle terme di Suio [a pochi chilometri da Castelforte n.d.r.]. Tra gennaio e marzo 1944 ebbero talmente tante perdite da erigere un cimitero mili- tare per raccogliere le loro spoglie a Minturno, che si aggiunge a quello di Cassino. Ed ancora, lungo il Garigliano, due piccoli paesi: Santa Maria Infante e Pulcherini, rasi al suolo, perché i tedeschi ci si barricarono dentro, causando molte perdite agli americani nel maggio 1944. Ovunque, in ognuno dei posti citati, migliaia di caduti tedeschi. E allora? La battaglia di Cassino, le battaglie di Cassino? Oppure la battaglia di Montecassino? Lasciamo pure agli storici la decisione, ma, se visitate quei luoghi, ricordatevi che siete sul terreno di una delle più grandi battaglie combattute nel corso della seconda guerra mondiale, e quindi calcatelo con il dovuto rispetto. È certamente stata una delle più lunghe nel corso della guerra. Si può discutere se sia iniziata a dicembre del 1943 o a gennaio 1944, ma gli alleati dovettero fermarsi davanti alla Linea Gustav fino all’11 maggio 1944, ingaggiando du- rissimi combattimenti fino al 18, quando, finalmente, i tedeschi furono costretti a riti- rarsi sulla Linea Senger, quella che per la storiografia anglo-sassone è la Linea Hitler. Dunque durò almeno cinque, lunghissimi mesi. El Alamein si risolse in sei giorni, la resistenza tedesca a Stalingrado in tre mesi.

Certamente l’attenzione di chiunque passi da Cassino, anche senza fermarsi, è at- tratta dall’Abbazia, quella ciclopica e candida fortezza che si staglia contro il cielo, vi- sibile sia dalla direzione di Napoli che da quella di Roma.

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Ma l’Abbazia, malgrado la distruzione del bombardamento del 15 febbraio 1944, fu l’obbiettivo diretto soltanto degli attacchi del febbraio-marzo 1944 ed invece la furia della guerra toccò ogni metro quadrato dagli Abruzzi al mare. È appunto per la sua estensione lineare che la battaglia va considerata fra le più estese della seconda guerra mondiale. Non ci sono solo Cassino e Montecassino. Tracciando una linea ideale da Castel San Vincenzo, bel paesino sulla montagna molisana, a Scauri, sulla costa tirrenica, sono ben 60 chilometri! Per ogni chilometro lineare si contarono distruzioni, morti, feriti… Un altro elemento che porta a considerare l’estensione del terreno sul quale si svolsero tanti avvenimenti, è la sua profondità rispetto alla linea del fronte. Le retrovie, da una parte e dall’altra del fronte, erano spesso oggetto di bombar- damenti delle opposte artiglierie o colpite da frequenti attacchi aerei, anche a diversi chilometri di distanza. Acquafondata, per esempio, un bel paesino a circa 15 chilometri da Cassino, sulla strada che si inerpica da Sant’Elia Fiumerapido, quella che i soldati alleati chiamavano «la strada della morte», e scende tortuosamente a Venafro, nella valle del Volturno, era un’importante base logistica e fu ripetutamente bombardata dall’artiglieria tedesca. Portella, San Michele, Cervaro, San Vittore del Lazio erano paesi dove si ammas- savano i rifornimenti per le prime linee e furono costantemente bersagliati dall’arti- glieria tedesca. Seguendo il Garigliano, Castelforte, un paese che sbarrava la valle dell’Ausente che sbocca nella piana del fiume, ebbe la triste sorte di diventare un punto di forza della linea di difesa tedesca. Fu bombardato dall’artiglieria inglese ogni giorno, fin dal novembre 1943, per poi essere definitivamente distrutto nel maggio 1944, all’atto del- l’offensiva alleata. Piccoli e grandi borghi, occupati dai tedeschi, furono oggetto di pesanti concen- tramenti di artiglieria e bombardamenti aerei: Atina, Terelle, Santa Lucia, Piedimonte San Germano, Aquino, Esperia, Lenola fino alla costa, dove città quali Fondi, Gaeta e Itri furono oggetto persino di bombardamenti navali.

Molti storici tendono a chiudere le battaglie di Cassino con una data: il 18 maggio 1944, quando la bandiera polacca sventolò sulle rovine dell’Abbazia. Forse sarebbe più giusto considerarne la fine con il definitivo sfondamento della linea successiva, la Linea Senger, ma, anche considerando la data del 18 maggio, biso- gna tener conto che in quel giorno i francesi arrivavano a lambire Pontecorvo, a 25 chi- lometri di distanza dalla Linea Gustav, e, sugli Aurunci, il piccolo paese di Campodimele, obbiettivo strategico del Corpo di spedizione francese, sulla rotabile Itri-Pico, a ben 30 chilometri dal Garigliano. Alla loro sinistra, gli americani erano ormai a Itri, 20 chilo- metri oltre la loro linea di partenza. Questo per affermare che tutte le cittadine e i paesi attraversati nel corso degli attacchi alleati per lo sfondamento finale della Linea Gustav furono distrutti dai bom- bardamenti o nel corso dei combattimenti che si svolsero al loro interno. Quindi se la Linea Gustav nel settore di Cassino correva per circa 60 chilometri di lunghezza, le opposte retrovie arrivavano fino a circa 20 chilometri dalle prime linee, con tutti i danni conseguenti che dovettero sopportare per mesi.

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Il terreno sul quale si affrontarono per mesi gli opposti schieramenti ebbe an- ch’esso una parte rilevante nel caratterizzare le battaglie e a renderne quasi uniche le caratteristiche nel pur vasto panorama del secondo conflitto mondiale. Gran parte della Linea Gustav passava sulle montagne, dove i tedeschi avevano avuto il tempo di preparare ogni sorta di riparo ed ogni sorta di ostacolo, dai campi mi- nati a grovigli di filo spinato, disposti su più linee. Gli assalti alleati si frantumarono davanti a queste munite posizioni e la lotta sta- gnò per giorni e giorni, nel fango, nel freddo, nella neve e nella pioggia. Ai più anziani fra i combattenti tutto ciò ricordò la prima guerra mondiale e la ter- ribile vita nelle trincee. La conformazione morfologica del terreno fu di per se un ostacolo ad ogni azione offensiva, ma ad essa si aggiunsero condizioni atmosferiche particolarmente ostili con neve alle quote più alte ed una pioggia torrenziale nelle valli. I due eserciti più meccanizzati del mondo si impantanarono nel fango e furono riscoperti i muli, quei magnifici animali, così bravi e preziosi da dedicargli persino dei monumenti, a Londra e a New York. Per i soldati, costretti a vivere in tanto disagio, anche nei momenti di stasi non di- minuiva il pericolo. A parte la noia, il freddo, l’umidità, il non potersi muovere dalla propria tana durante il giorno, erano sempre all’agguato cannoni e mortai in un conti- nuo stillicidio di morti e di feriti, che incuteva angoscia e tensione. Le battaglie di Cassino hanno poi un’altra peculiarità, perché nessuna fra le grandi battaglie della seconda guerra mondiale fu così “cosmopolita”. Vi si affrontarono, da una parte e dall’altra, migliaia di soldati provenienti da quattro continenti, delle più diverse razze e religioni. Il cimitero militare francese di Venafro è costellato da candidi cippi con la mez- zaluna, la maggioranza, con croci cristiane, con la stella di Davide o con un simbolo che ricorda le religioni animiste del Centro Africa. Il goumier Hamadi Bem Djilal, caduto il 18 maggio 1944, riposa a poca distanza dalla volontaria Alphonsine Loretti, morta il 5 febbraio 1944, mentre, alla guida di un’ambulanza, cercava di soccorrere i feriti di un automezzo che la precedeva, colpito da una granata tedesca; poco più in là, riposa il soldato Lanina Karnaka, caduto il 15 maggio 1944, nel 24e Bataillon de Marche: chissà da dove veniva? Dal Senegal, dal Ciad, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio o dal Congo? Nel cimitero del Commonwealth di Cassino, i caduti sono raccolti sotto il simbolo del reggimento o dell’arma di appartenenza, in una sequenza di cippi ordinati come in una parata militare: sfilano i reggimenti di antica tradizione inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi della Gran Bretagna, ma anche quelli neozelandesi, canadesi, sudafricani. Non manca certo la testimonianza dei tanti caduti indiani, dei gurkhas nepalesi, dei Maori neozelandesi. Più discosto da Cassino, il cimitero militare italiano a Montelungo, riscoperto dalle autorità nazionali da pochi anni, dopo mezzo secolo di voluta e colpevole dimenticanza. Ci furono anche gli italiani, schierati nel dicembre 1943 proprio davanti a Monte- lungo, dove patirono perdite pesanti, e quindi al confine tra Abruzzo e Molise: monte Marrone, conquistato con una brillante operazione notturna dagli alpini del battaglione “Piemonte”, e monte Mare.

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Nella Wermacht hanno militato ovviamente milioni di cittadini autoctoni, ma anche migliaia di soldati austriaci, che pagarono un altissimo tributo di sangue alla follia dei loro capi. Nel cimitero militare tedesco giacciono però anche le spoglie di militari d’ori- gine polacca, slovacca, alsaziana, russa, bielorussa, ucraina, baltica e tirolese del sud, inglobati, con la forza o meno, nella macchina militare nazista.

Ci sono storie alle quali si stenta a credere. Gli indiani del Nord America, volontari negli eserciti statunitense e canadese. I neri africani, provenienti da paesi lontanissimi, che arrivarono sul fronte italiano dopo aver combattuto in Francia, in Abissinia, in Siria, in Libia e in Tunisia. I conducenti di mulo ciprioti, tanto ammirati per la loro dedizione. I soldati indiani, divisi per religione e caste, con baffi, barbe e capelli lunghissimi. Gli antillesi e i legionari, che militarono nell’esercito francese. Fra i tedeschi, coloro che usciti incolumi dalle campagne di Polonia, Francia, Jugoslavia, Grecia, Creta e Russia non sono sopravissuti in Italia. Se passate da Cassino, alla sera prestate attenzione al suono delle campane del- l’Abbazia. Alle 21:00 il loro rintocco, grave e solenne, si spande sulle montagne e scende per forre e dirupi fino al Rapido e nella valle del Liri. Sembra chiamare a raccolta le anime di chi ha perso la propria vita in quella ormai sempre più lontana stagione di morte e sembra quasi di udire una risposta a quel’appello. Sembra di ascoltare l’anziano soldato indiano che invoca la propria memoria, ormai dimenticato: Oh, bury me at Cassino. My duty to England is done And when you get back to Blighty And you are drinking your whisky and rum Remember the old Indian soldier When the war he fought has been won!

Centinaia di lingue e dialetti, che non hanno più importanza, così come le diffe- renze del colore della pelle, della razza, della religione si confondono con quel suono solenne in un unico mormorio d’amicizia e di pietà. Mi chiede “poloniaeuropae”: «Quanti sono stati i caduti lungo quella Linea Gustav?» Gli unici dati complessivi oggi disponibili sono quelli che si possono trarre dai re- gistri dei vari cimiteri militari. I polacchi sono 1052, i francesi e nordafricani sono 4.345, quelli le cui salme sono raccolte nei cimiteri del Commonwealth di Cassino e Minturno sono rispettivamente 4.271 e 2.049, per un totale di 6.320. Gli americani hanno preferito traslare le salme dei loro caduti dalla Sicilia a Roma nel grande cimitero militare di Nettuno e nessun dato specifico è stato pubblicato. Le loro perdite a Cassino, Montecassino e sul Garigliano si possono stimare in 3 mila unità. Mistero più fitto invece sui tedeschi. Nel cimitero militare di Caira (Cassino) sono sepolti i soldati del Reich caduti dalla Calabria a Cassino, Salerno e costa adriatica compresi, fino ad una linea ideale che va

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da Pescara a Terracina. Si può ipotizzare che le perdite tedesche equivalgano a quelle degli alleati, specie per quanto riguarda il maggio 1944, ma è soltanto una stima. Ricapitolando, i caduti dovrebbero essere, seppure con le dovute cautele, 15 mila alleati e 15 mila tedeschi per un totale di circa 30 mila. Non sarebbe giusto, trattando di Cassino e la seconda guerra mondiale, non ricor- dare il dramma della popolazione civile italiana. Fino al 1943, la città di Cassino e i paesi che sarebbero stati così duramente col- piti erano stati considerati come siti privilegiati, lontani dai pericoli della guerra, senza apparenti obbiettivi militari e con una certa abbondanza di viveri, dovuta alla presenza di migliaia di capi di bestiame, di pascoli e di estese coltivazioni. Erano così tranquilli quei paesi che molte famiglie napoletane, terrorizzate dai bombardamenti aerei, li avevano scelti come sede di sfollamento, fin dal 1942. Il primo campanello di allarme suonò nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1943, quando fu bombardato l’aeroporto di Aquino e molti si chiesero fino a quando sarebbero stati risparmiati. Poi seguirono l’incursione su Cassino, il 10 settembre; quella su Esperia, il 30 settembre; quella sul nodo ferroviario di Roccasecca, il 23 ottobre; e quella, terri- bile, su Pontecorvo, il 1°novembre. I bombardamenti aerei causarono la prima grande fuga da città e paesi verso la campagna e le montagne, mentre lo stesso fenomeno colpiva la popolazione lungo la costa, dove ai bombardamenti aerei si erano aggiunti quelli navali. Subito dopo l’8 settembre 1943, si presentò un altro pericolo che colpì la popola- zione maschile. I tedeschi emisero dei bandi con l’obbligo di presentazione ad un ser- vizio del lavoro e la reazione fu un’ulteriore fuga verso le montagne con conseguenti rastrellamenti, che spesso coincisero con rappresaglie, omicidi, arresti ed un vero e proprio saccheggio del bestiame, fino allo sgombero coatto dei centri abitati. Con la fine delle scorte di viveri, durante i primi mesi del ‘44 ebbe inizio il periodo della fame nera e fu allora fortunato chi riusciva a procurarsi qualche pugno di grano- turco o di carrube o di sale; fu allora che l’erba dei prati costituì una voce non trascu- rabile della sempre più magra dieta giornaliera, ma continuavano le razzie dei tedeschi, che spesso si concludevano con uccisioni, furti e saccheggi. Così li descrive un reduce francese in un bel libro di ricordi:

Povera gente più miserabili che la più miserabile delle bestie, smunti, cen- ciosi, vagamente calzati di stracci, che si rifugiavano in grotte orrende e assiste- vano al cataclisma; le loro magre terre rivoltate e bruciate dalle granate, i loro alberi che le bombe mozzavano ciecamente, le loro case distrutte un po’ di più giorno dopo giorno, tutti i loro umili oggetti dispersi e le loro tombe anch’esse profanate dal ferro. I sussulti del XX secolo li riportavano d’un colpo alle difficoltà della preistoria2.

Si arrivò a quella notte fra l’11 ed il 12 maggio 1944, quando la preistoria avrebbe dovuto finire.

2 EMILE ROY, Les Chemins d’Italie, Bertout, Luneray 1994, pag. 229.

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Un’intera umanità di anziani, donne e bambini, affamata, lacera, sporca, abban- donata, stanca, avvilita fu svegliata dall’immenso fragore del bombardamento ed il cielo, verso il Garigliano, si illuminò a giorno; capì immediatamente che stava per succedere qualcosa di grande e che si era arrivati alla fase finale della battaglia. A mano a mano che le truppe alleate avanzavano, la gente uscì dai rifugi. Ci fu chi si trovò davanti a dei soldati americani, inglesi, indiani, canadesi, ma altri si trovarono davanti ai soldati marocchini. Fu uno dei fatti più crudeli e imprevisti della conclusione della battaglia. Quasi tutti i rifugiati sulle montagne avevano portato con se ogni bene di valore che fosse trasportabile e nascondibile: orologi, oggetti in oro e argento come anelli, catenine, collane, braccialetti, quasi sempre ricordi di famiglia, denaro liquido. Tutto ciò sparì in un batti baleno. Persino le cartelle dei buoni del Tesoro, la cui commerciabilità, qualcuno, italiano o francese, aveva indicato ai nordafricani. Così fu per tutti quegli animali, salvati con tanta fatica dai rastrellamenti tedeschi: mucche, asini, capre, pecore, maiali, conigli, galline... Quindi fu la volta di biancheria, vestiti, stoviglie e persino di arredi. Poi si verificarono casi più gravi di violenza: omicidi, aggressioni a mano armata, e gli stupri che colpirono in maggioranza la popolazione femminile, ma anche quella maschile. Chi si opponeva era minacciato dai fucili o dai mitra puntati, aggredito, persino ucciso. Un atteggiamento comune tra gli ufficiali ed i graduati francesi delle quattro di- visioni impegnate nell’offensiva fu il totale disinteresse per la sorte di quei civili, con poche eccezioni. Talvolta gli atti più gravi furono puniti severamente, ma in generale, specie davanti ai furti, l’atteggiamento di molti ufficiali e graduati, francesi e nordafricani, fu quello della più completa passività. Tutte le testimonianze dei civili sul trattamento ricevuto sono concordi, suffra- gate dalle migliaia di denunce presentate alle autorità alleate ed italiane già nel corso della guerra e che riguardano omicidi, violenze carnali, furti, grassazioni e saccheggi. Oggi, controllando i percorsi dei vari reparti, si può stabilire che i fatti più gravi si verificarono lungo il passaggio dei Tabors Marocains, i famosi goumiers marocchini, e della 4e Division Marocaine de Montagne3. È bene notare che questi reparti erano quasi completamente reclutati fra le tribù berbere del Marocco.

3 I Tabors Marocains erano unità comparabili ad un battaglione dell’esercito, strutturati su quat- tro Goums (compagnie), da cui il nome Goumiers, e raccolti in Groupements de Tabors Marocains (reggimento). I Goums erano stati creati fin dal 1908 con personale volontario proveniente da quasi tutte le tribù berbere dell’Atlante; pur essendo comandati da ufficiali dell’esercito fran- cese, essi dipendevano dal ministero per gli Affari Civili ed esercitavano esclusivamente funzioni di controllo del territorio e di polizia interna. Nel 1940, dopo l’armistizio francese con Germania ed Italia, furono ristrutturati e raccolti in Tabors, celando ai controlli delle commissioni italo-te- desche il nuovo tipo di organizzazione, ormai teso ad un utilizzo propriamente militare di tali unità. Nel 1943 entrarono a far parte dell’Armée d’Afrique e furono impiegati, al pari delle unità dell’esercito, nella campagna di Tunisia. Successivamente essi hanno partecipato alle operazioni in Sicilia, in Corsica, in Italia, in Francia, in Germania ed in Austria.

poloniaeuropae 2010 215 Una grande e terribile battaglia...

Di alcuni di essi si può risalire alle località attraversate, ai giorni e persino alle ore, comparando i dati con quelli delle denunce dei civili. È bene infatti non genera- lizzare sugli autori dei misfatti, ma piuttosto chiedersi quali fossero le abitudini ance- strali di questi guerrieri, spuntati non dalla preistoria, ma certamente dal Medioevo. “poloniaeuropae” mi ha posto ancora una domanda: «ma quante sono state le vit- time civili?». Una valutazione c’è già ed è frutto delle ricerche di uno storico cassinate, Emilio Pi- stilli4: circa 10 mila, sparse nel territorio di cinquanta città, cittadine e paesi coinvolti. Morirono per le cause più svariate, dai bombardamenti aerei e terrestri, tra que- sti le vittime del bombardamento dell’Abbazia, alle rappresaglie tedesche, ma anche per la fame, per il freddo, per la mancanza di igiene, per le malattie, per le mine, per incidenti di varia natura. Passata la guerra, i civili continuarono però a morire. Moltissimi a causa delle mi- gliaia di ordigni abbandonati ovunque e molti per l’epidemia di malaria, scatenatasi già nell’estate del 1944 a causa dell’allagamento della piana del Rapido, provocato dai tedeschi che ne avevano fatto saltare gli argini.

Torino, maggio 2010

Alberto Turinetti di Priero è nato a Saluzzo (Cuneo) il 1°gennaio1943. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Torino, ha svolto la sua carriera professionale all’ENEA, prima a Roma, poi presso il Centro Ricerche di Saluggia (Vercelli), quindi a Torino. È stato pre- sidente dell’Associazione Amici del Museo Nazionale del Risorgimento, organizzando al- cune mostre a carattere storico, fra le quali, nel 1995: L’Armata polacca in Italia, 1944-1945. Ha pubblicato libri, saggi ed articoli di carattere storico. Fra i primi: La guerra sulle Alpi, 10-24 giugno 1940, del quale uscirà la quarta edizione fra breve, e Nachtigall, l’operazione Usignolo nelle valli Chisone, Pellice e Susa, 2-15 agosto 1944. Nel 2006, nel- l’ambito del convegno internazionale di Torino sull’insurrezione di Varsavia, ha pubbli- cato lo studio L’Armata Rossa davanti a Varsavia, 1° agosto-2 ottobre 1944 (in KRYSTYNA JAWORSKA, 1944: Varsavia brucia. L’insurrezione di Varsavia tra guerra e dopoguerra, Edi- zioni dell’Orso, Alessandria 2006). Da qualche anno collabora attivamente al sito www.dalvolturnoacassino.it per il quale ha curato saggi ed articoli. Tra i più recenti: La battaglia del Belvedere (25 gennaio-2 febbraio 1944): due documenti a confronto (2005); La 5a Gebirgsjaeger-Division brevi cenni storici (2005); I carri armati polacchi a Piedi- monte San Germano (2007); Due parole con l’ingegner Mieczysław Rasiej, reduce di Mon- tecassino (2007); La Linea Gustav: nazionalità, etnie, religioni e una babele di lingue (2008); La battaglia del Garigliano ed il Corps Expéditionnaire Français (2009); L’attacco polacco a Montecassino da un documento del 1945 (2010).

4 Emilio Pistilli, tra l’altro, nel 1998 ha fondato il CDSC-Centro Documentazione e Studi Cassinati, di cui è presidente (www.cassino2000.com/index.php).

216 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

“Dal Volturno a Cassino” un sito italiano dedicato alle battaglie di Cassino

di Valentino Rossetti

Le battaglie che caratterizzarono il fronte italiano durante la seconda guerra mon- diale sono state molte, ma nessuna trova tanti appassionati come quella che siamo ormai usi chiamare, forse impropriamente, la battaglia di Cassino o la battaglia di Montecassino. L’interesse per quanto avvenne in quei luoghi è certamente calamitato dalla sorte dell’Abbazia di Montecassino, ma ci sono anche altri motivi: l’estensione sul territorio dei fatti bellici che coinvolsero e distrussero quasi cinquanta fra cittadine e paesi, la partecipazione ai combattimenti di soldati provenienti da quattro continenti e di diverse etnie e religioni, la peculiarità stessa degli scontri fra opposti eserciti, svoltisi spesso tra le rovine degli abitati, sulle montagne, sulle rive di fiumi che evocano tante trage- die: Rapido, Gari, Garigliano, Volturno. Ancora oggi, chi transita per quei luoghi non può esimersi da una visita al Monastero ed al vicino cimitero di guerra polacco. Ed ecco nascere il desiderio di informarsi, di sapere, di conoscere. Gli imponenti cimiteri militari: tedesco, inglese, francese e certamente quello po- lacco sono meta continua di visite e di pellegrinaggi, talvolta di reduci (sempre meno con il passare degli anni), più spesso delle loro famiglie che ritornano a pregare sulle tombe di padri e nonni, mantenendo una memoria che tenderebbe a spegnersi con il tempo se non esistessero in giro per il mondo coloro che la mantengono in vita con studi e testimonianze scritte, fino a qualche tempo fa stampate su libri e giornali, ed oggi af- fidate a quel formidabile mezzo di comunicazione che è Internet.

Chi scrive queste note è uno di coloro che hanno scoperto Cassino, la sua famosa Abbazia e ciò che accadde nel 1943-44 un po’ per caso. Fu galeotto un viaggio in Pu- glia, l’apparire lungo l’autostrada di quell’imponente edificio che si staglia fra il cielo e la montagna, la decisione di salire fin lassù, la scoperta del candido cimitero polacco: un ricordo indelebile, tanto commovente ed appassionante da far prendere la decisione di creare un sito appositamente dedicato. L’idea iniziale è stata quella di creare una raccolta delle letture, delle fotografie e di tutto il materiale che l’autore aveva raccolto. Lo scoprire che molti altri erano in- teressati all’argomento e il ricevere alcuni messaggi di adesione furono i primi passi di aggregazione attorno al sito — www.dalvolturnoacassino.it — di un mondo fino ad al- lora sconosciuto. Ben presto giunsero varie e preziose collaborazioni, alcune di fonda- mentale importanza, che hanno impresso un deciso e continuo miglioramento dei contenuti, sia qualitativo sia quantitativo. Tali apporti hanno “obbligato” l’autore ad una progressiva ridefinizione dell’impostazione del sito. Questo processo, per certi aspetti ancora in corso, è finalizzato a far si che i contenuti, inizialmente dedicati a pochi appassionati, siano fruibili in maniera organica da una più larga fascia di persone, che magari per la prima volta si avvicinano a queste vicende storiche.

poloniaeuropae 2010 217 “Dal Volturno a Cassino”, un sito italiano...

Oggi “Dal Volturno a Cassino” è seguito in tutto il mondo. Abbiamo lettori in tutti i paesi europei, ma anche nelle due Americhe e c’è chi ci segue con regolarità dalla Nuova Zelanda. Stupisce di trovare “visite” che provengono dalla Cina o dalla Corea, dalle nuove nazioni che formavano l’Unione Sovietica o dall’Africa. Le nuove tecnolo- gie hanno fatto miracoli e la possibilità di una traduzione automatica, magari non esat- tissima, offre la possibilità di leggere in un’altra lingua i testi che sono scritti in italiano. Il sito si pone come scopo principale quello di raccogliere e divulgare informazioni relative, in particolare, alla battaglia di Cassino e a tutti quegli eventi meno noti, ma ad essa obbligatoriamente correlati, che temporalmente la precedono e la seguono. Il periodo storico preso in considerazione va dall’ottobre 1943 al giugno 1944 e cioè dal- l’attraversamento del fiume Volturno da parte delle truppe alleate fino al loro ingresso a Roma. www.dalvolturnoacassino.it vuole essere inoltre un punto di riferimento sia per gli appassionati di questi eventi storici sia per quelle persone che sono comunque interessate a conoscere qualche cosa di più di questo periodo della campagna d’Italia. Dal 2000, anno della sua nascita, al 2009 le pagine visitate sono state 953.000. Nel corso degli anni la qualità dei contenuti è certamente aumentata. Oggi scri- vono sul sito, in perfetta volontarietà e con grande passione, autori che possono van- tare altre pubblicazioni a livello nazionale. Si è dato maggior peso ai riferimenti bibliografici, alle fonti storiche, alla “sitografia”, che consente di raggiungere docu- menti finora conservati in archivi inaccessibili se non altro per la loro distanza dal- l’Italia. E tuttavia resta valido l’obiettivo principale per il quale è nata l’iniziativa: aumentare il livello di conoscenza dei fatti relativi alle battaglie per Cassino ed accre- scere l’interesse sul ruolo avuto dagli italiani anche nel contesto complessivo della cam- pagna d’Italia. Non per nulla dal 2002, pur rimanendo entità autonoma, “Dal Volturno a Cassino” ospita l’Associazione onlus Battaglia di Cassino, assumendone anche il ruolo di organo di diffusione; e, dal dicembre 2004, ospita l’Associazione Reduci LI Btg. Ber- saglieri, dedicata alla memoria di Montelungo. C’è però da sottolineare un altro aspetto. Il sito è e resta un’iniziativa privata, di volontari, senza lucro o fini di lucro. Tutti coloro che vi collaborano e che vi scrivono non pretendono nessun compenso, se non la soddisfazione di veder pubblicati i loro in- terventi che possono essere veri e propri saggi, articoli di carattere storico, testimo- nianze (preziosissime quelle dei reduci), ma anche racconti, purché abbiano attinenza con il territorio e i fatti ai quali il sito è dedicato. Altri offrono documenti e fotografie, talvolta tanto significativi da valere da soli un testo scritto. Altri ancora scrivono al Forum del sito chiedendo informazioni, esponendo problemi, cercando persone, com- mentando gli interventi. Tutti insieme hanno creato un punto di aggregazione impor- tante per il mantenimento della memoria sulle battaglie di Cassino, che resta il vero e unico obiettivo. Lo sforzo compiuto in questi anni è stato ampiamente compensato dal- l’aumento costante dei lettori, come dimostrano le cifre sopra riportate, e dai contatti ricevuti.

La varietà degli argomenti trattati nei ben 242 scritti finora pubblicati varia dalla memorialistica, alla narrativa, alla saggistica storica. Qualche esempio: Livio Caval- laro, autore di un bel libro sulle battaglie di Cassino, ha dedicato pagine importanti alla quota 593, al monte Castellone, ai combattimenti nella città di Cassino, rivelando

218 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

molti particolari inediti. Roberto Molle, instancabile artefice di mille iniziative per far conoscere agli ospiti di Cassino la realtà che vissero combattenti e civili in quei mesi cru- ciali, ha descritto con molto realismo la partecipazione dei soldati canadesi all’ultima offensiva, ma è anche l’autore di alcune importanti interviste a reduci tedeschi. Al- berto Turinetti di Priero ha offerto alcuni veri e propri saggi dedicati al Corpo di spedi- zione francese ed al secondo Corpo polacco, soffermandosi sull’offensiva del maggio 1944, sulla battaglia del Belvedere, sull’incredibile assalto a Piedimonte San Germano. Ha inoltre intervistato Mieczysław Tadeusz Rasiej (1924-2007), decano della comunità polacca in Italia, che ha raccontato la propria esperienza dall’interno della diaspora polacca, passata dalla Madrepatria ai campi di concentramento in Unione Sovietica, per giungere infine in Italia e poi spargersi per il mondo nell’amaro dopoguerra. Altri autori ancora hanno ricordato la storia dei loro padri, reduci da Montecassino, o si sono soffermati sulla descrizione di luoghi ed avvenimenti, altrimenti dimenticati: monte Sammucro, monte Cifalco, il Rapido, San Pietro Infine (in provincia di Caserta), Monte- lungo, Campodimele eccetera. Molte, inoltre, sono le testimonianze dirette di com- battenti che hanno scritto da diverse parti del mondo. Non manca infine un “personaggio” tanto caro ai polacchi in esilio e al quale è stato di recente dedicato un monumento in Gran Bretagna: l’orso Wojtek, la cui storia è stata narrata da Ryszard An- tolek.

L’impostazione del sito www.dalvolturnoacassino.it è organizzato intorno a cinque sezioni principali:

• Sezione Articoli Contiene l’archivio dei 242 articoli finora pubblicati. La raccolta degli articoli è suddivisa in tre sezioni generaliste, in funzione della caratterizzazione dei contenuti. Per facilitare il reperimento di articoli che trattano della stessa argomentazione o ri- conducibili allo stesso periodo temporale, la raccolta è suddivisa anche in gruppi te- matici, trasversalmente alle sezioni generaliste. La ricerca può anche essere effettuata tramite un elenco cronologico o per autore.

• Sezione Eventi storici Eventi storici: descrizione dei punti focali del periodo storico trattato. Biografie: le biografie dei protagonisti. Unità: l’organizzazione, la descrizione e la storia delle unità combattenti.

• Sezione Cassino e l’Abbazia La storia di Cassino L’Abbazia di Montecassino I cimiteri di guerra I monumenti I musei

• Sezione Risorse Immagini e Video:

poloniaeuropae 2010 219 “Dal Volturno a Cassino”, un sito italiano...

— Fotografie, oltre 1.900 immagini. — Video, 3 raccolte di video e documentari. Filmografia Bibliografia: con circa 300 titoli recensiti ed altre pagine speciali. Collegamenti: i “bookmarks” in argomento e/o correlati.

• Sezione “Community” Associazioni: le pagine dedicate alle Associazioni ospitate sul sito. To Veterans: dedicato ai Veterani. Ricerche: dedicato alle ricerche di amici e commilitoni. In memoria: una pagina dedicata al ricordo di chi non c’è più. News & Manifestazioni: per essere sempre al corrente di novità ed eventi correlati.

La ricerca di un argomento, di un autore, di una località, di una data può essere eseguita tramite il motore di ricerca interno al sito.

Valentino Rossetti (1963), abita a Brescia. Nutre un profondo interesse per le vicende della se- conda guerra mondiale, in particolare per gli avvenimenti che rientrano nell’ambito della batta- glia di Cassino. Si occupa dell’arricchimento, dello sviluppo, dell’amministrazione e del mantenimento del sito www.dalvolturnoacassino.it di cui è titolare e webmaster: webma- [email protected].

220 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania, lungo la linea Gustav, a Montecassino

di Lutz Klinkhammer1

Il ricchissimo patrimonio monumentale e artistico italiano fu sottoposto a immensi pericoli quando la seconda guerra mondiale si riversò contro i paesi aggressori, cioè Germania, Giappone e Italia, esponendoli prima ai bombardamenti aerei e poi alla guerra terrestre. In Italia, il momento cruciale avvenne dopo l’8 settembre 1943, per- ché a partire da quel momento monumenti, edifici e luoghi di raccolta entrarono nel raggio dei combattimenti di artiglieria. Nel settembre 1943, il feldmaresciallo Rommel, il comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, pensò a una rapida ritirata fino all’Appennino tosco-emiliano oppure, addirittura, fino alle Alpi. Ma già un mese dopo, il maresciallo , il comandante in capo delle truppe tedesche dell’Ita- lia meridionale, riuscì ad imporre la sua strategia, impostata sulla tenace difesa del territorio. La costruzione di forti posizioni difensive doveva permettere una battaglia palmo a palmo, e ritirate solo graduali. L’ostinata difesa lungo la linea Gustav all’al- tezza di Cassino, dall’ottobre 1943 al maggio 1944, e poi sulla cosiddetta linea Gotica (che ufficialmente si chiamava “Linea verde”) consentì ai tedeschi di sfruttare inten- samente, sino alla primavera 1945, le risorse economiche e umane dell’Italia centro- settentrionale ai loro fini bellici. Dopo la stabilizzazione del fronte il potere decisionale delle truppe combattenti fu limitato all’immediato territorio di combattimento, mentre nel resto del Paese oc- cupato si sparse una serie di delegati delle varie amministrazioni speciali e nazional- socialiste. Quindi le complicate strutture di potere del terzo Reich si trasferirono in breve tempo sul territorio occupato2. Il ministero degli Esteri nazista, guidato da von Ribbentrop, si dava da fare per assicurarsi una posizione di potere privilegiata in Italia. Già alcuni giorni prima della liberazione di Mussolini era stato deciso di ricostituire in ogni caso un governo fascista italiano collaborazionista con o senza la presenza del duce scomparso. La nascita della Repubblica Sociale non era quindi legata alla liberazione di Mussolini da parte di truppe tedesche sul Gran Sasso. Il motivo era semplice: l’alleanza tra Germania e Italia, o almeno una sua fittizia apparenza, doveva comunque essere mantenuta soprattutto nei confronti degli altri Stati satelliti del Terzo Reich. Ma ci fu- rono anche altre mire tra i gerarchi nazisti: i due federali del Tirolo e della Carinzia pen- savano fosse giunta l’ora di estendere il loro potere sull’Italia del nord al confine con l’Austria. Era chiaro per i dirigenti nazisti che il clamoroso «tradimento» dell’Italia —

1 Il copyright di questo articolo è dell’autore Lutz Klinkhammer. 2 Per il modo in cui questo meccanismo ha funzionato nel caso dell’Italia mi permetto di rinviare a LUTZ KLINKHAMMER, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

poloniaeuropae 2010 221 Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...

tanto utilizzato dalla propaganda tedesca — doveva permettere l’efficace sfruttamento delle risorse italiane. L’unico dubbio che sorgeva ne riguardava l’ampiezza. È da sottolineare che questo tentativo di sfruttamento non solo propagandistico ebbe delle ripercussioni sul patrimonio artistico italiano e in particolare sulla vicenda di Montecassino. Ma innanzitutto bisogna dire che il destino delle opere d’arte in Italia era in primis legato alle vicende militari e al modello di occupazione nazista applicato al paese ex-alleato. In una prima fase, caratterizzata dall’insicurezza sulla futura linea di difesa tedesca e dall’assenza di un governo neo-fascista, dominò la logica militare che voleva evitare di lasciare al nemico anglo-americano dei materiali e dei punti d’ap- poggio di importanza bellica. Mentre in Lucania, Calabria e Puglia, a causa della riti- rata molto rapida da parte tedesca, non si poté quasi procedere a distruzioni e ad asportazioni, la zona di Napoli, considerata particolarmente importante dal punto di vista economico e militare, diventò una delle regioni tra le più massicciamente colpite dal programma tedesco di distruzione. La città partenopea e i suoi dintorni furono lar- gamente devastati e saccheggiati dall’esercito tedesco prima della ritirata. Un batta- glione di genieri, aggregato al quattordicesimo Corpo d’armata corazzato, ebbe il compito di intraprendere le più ampie distruzioni. Al battaglione, suddiviso in tre com- pagnie, furono assegnati settori distruttivi geograficamente ben fissati. Il 18 settembre 1943 fu dato l’ordine di distruggere tutte le strade, linee di comunicazione, poste, te- legrafi e radio, fabbriche di importanza bellica e materiale bellico non più asportabile. Più esteso fu l’ordine emanato il 29 settembre, quasi una cambiale in bianco per le di- struzioni, cioè, «trasformare in terra bruciata il territorio da cedere al nemico»3. Lo stesso Corpo d’armata l’8 ottobre estese a edifici civili l’ordine di distruzione e indicò di «distruggere tempestivamente tutti gli edifici adatti ad alloggiare comandi e ad ac- casermare truppe (edifici amministrativi, grandi edifici di abitazione eccetera)». Sa- rebbero state risparmiate dalla distruzione soltanto piccole case della popolazione civile, costruzioni di interesse storico e artistico, ospedali civili e militari occupati, chiese e conventi4. Il proposito era anche quello di rendere particolarmente difficile il rifornimento di generi alimentari alle truppe alleate che avanzavano. Il 19 settembre, il comandante del Corpo ordinò: «da questo momento il vettovagliamento delle truppe deve avvenire esclusivamente a spese del paese. Nei prossimi quattordici giorni la Cam- pania deve essere completamente depredata, soprattutto di carne e ortaggi. Le com- pagnie addette al macello lavorino sotto pressione. Agire senza scrupoli. Da questo momento è severissimamente proibito distribuire scatole di conserva tedesche»5. Trascorso questo termine, il comando supremo giudicò che queste misure non fossero state attuate in modo abbastanza rigido. Il generale Hube, comandante del quattordi- cesimo Corpo d’armata, uno dei pochi militari trasportati in aereo fuori dall’accer- chiamento di Stalingrado, ordinò pertanto che i comuni tra le due linee di difesa

3 Bundesarchiv-Militärarchiv, Freiburg (BAMA), Fondo: RH 24-14, Vol. 81: XIV. Pz. Korps, 29/9/1943. 4 BAMA, RH 24-14, Vol. 82: Gen. Kdo. XIV.14. Pz. Korps, Ko. Pi. Fü., 10/10/1943. 5 BAMA, RH 24-14, Vol. 211: Anl. 86; BAMA, RH 24-14, Vol. 81, Bl. 140/6.

222 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

denominate Viktor (sul Volturno) e Bernhardt (detta anche Linea Reinhard), «confor- memente al metodo adottato in Russia», consegnassero al più presto un determinato quantitativo di generi alimentari e bestiame, minacciando altrimenti misure coerci- tive6. La popolazione di Napoli reagì ai propositi della potenza occupante con una sol- levazione — le famose quattro giornate — che fecero da detonatore alle misure di distruzione, sgombero ed evacuazione della Wehrmacht7. Fu decisiva la presenza del- l’esercito e di alcuni comandanti con l’esperienza particolare della guerra combattuta nell’est europeo (come il generale Hube). A loro va attribuito il tentativo di creare un “paradigma russo” per l’Italia, di proporre quindi un trattamento per l’Italia analogo a quello che avevano applicato in Polonia, in Russia o in Jugoslavia. Non a caso, Hube, dopo le quattro giornate, propose al comandante in capo Kesselring di effettuare un bombardamento aereo punitivo sulla città di Napoli, ma Kesselring si rifiutò. In quei giorni fu distrutto anche il deposito di San Paolo di Belsito nei pressi di Nola, con le carte più preziose dell’Archivio di Stato di Napoli riguardanti la storia del Medioevo — una distruzione che significò una perdita immensa per il patrimonio nazionale ed internazionale, per la storia italiana come per quella tedesca. Nel settembre 1943 sembrava, quindi, che la Penisola dovesse subire immense di- struzioni ad opera dei tedeschi, soprattutto nelle zone a ridosso della linea di combat- timento, dove erano sparsi numerosi depositi contenenti gli oggetti archivistici ed artistici più preziosi dei musei italiani, ora esposti ad alti rischi di distruzione. Ci si chiederà come mai quei depositi si trovassero in campagna in luoghi abbastanza re- moti. Nei primi anni dopo l’entrata dell’Italia in guerra era certamente opportuno tra- sportare il contenuto più prezioso dei musei italiani in campagna, perché si temevano i bombardamenti sulle grandi città. Con l’occupazione tedesca, e con la guerra di Kes- selring condotta palmo a palmo, anche le ville in campagna divennero estremamente esposte ai pericoli. Spesso si trattava di edifici posti in cima a una collina, in luoghi particolarmente adatti per piazzare un osservatorio o fare alloggiare i militari tede- schi. Perciò potevano diventare facilmente oggetto di combattimento o bersaglio del- l’artiglieria. I responsabili delle opere d’arte pensarono perciò di far tornare il contenuto di questi depositi in città, ma in una città considerata sicura. Si trattava di scegliere tra Scilla e Cariddi: correre dei rischi lasciando le opere d’arte nei depositi in campagna (all’insaputa degli eserciti combattenti) o rischiare di affrontare i pericoli dei trasporti stradali esposti ai bombardamenti per portarle in città unilateralmente di- chiarate “aperte” (come Roma e Firenze), e forse neanche sufficientemente sicure?

Bisogna però tenere presente un’altra particolarità. La percezione postbellica della politica tedesca nei confronti dell’arte è stata fortemente influenzata dalle ricostruzioni

6 BAMA, RH 24-14, Vol. 212: XIV. Panzerkorps, Der Chef des Generalstabs, gez. Bonin, an Quar- tiermeister des XIV. PzK, 8/10/1943. 7 Wehrmacht (in tedesco significa «forza di difesa»): era il nome delle forze armate tedesche dal 1935 alla fine della seconda guerra mondiale.

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e dalle ipotesi interpretative di Rodolfo Siviero – il responsabile dell’Ufficio recupero delle opere d’arte trafugate presso il ministero degli Affari Esteri italiano. Siviero, «l’agente segreto dell’arte»8, cercò non soltanto di recuperare allo Stato italiano le opere d’arte trafugate e scomparse, ma anche di far tornare quelle opere esportate col permesso stesso di Mussolini, esportazioni che si consideravano a quel punto illegali. Riuscì a far rientrare per esempio il celebre discobolo Lancellotti, il lanciatore del disco: una copia romana di un originale greco di Milone che era stata comprata da Hitler il 18 maggio 1938 per la lauta cifra di sedici milioni di lire dell’epoca. Quella vendita poli- tica avvenuta due settimane dopo la visita di Stato di Hitler in Italia – l’unica vera vi- sita che quest’ultimo abbia mai fatto e durante la quale aveva visitato Roma, Napoli e Firenze – fu raccontata, nella narrazione del dopoguerra, come figlia delle forti pres- sioni da parte dello Stato nazista sul debole alleato italiano che non si era potuto sot- trarre. Si tratta ovviamente di un mito interessato, perché al momento della visita quella che divenne poi l’alleanza politico-militare del Patto d’Acciaio doveva ancora na- scere. Fece comodo però, nel dopoguerra, far dimenticare l’imbarazzante alleanza italo-tedesca. Essa aveva fatto sì che, dal 1939 fino al 1943, l’Italia fascista fosse l’al- leato più importante della Germania nazista, con una sua parallela politica di aggres- sione bellica verso i paesi del Mediterraneo9. Quell’avvicinamento ebbe delle ripercussioni anche sulla questione del patrimonio artistico. Nel caso del famoso di- scobolo, Mussolini ne aveva autorizzato l’esportazione scavalcando il divieto posto dalla legge sulla tutela delle opere d’arte di importanza nazionale. È stata costruita nel dopoguerra anche un’altra vulgata interpretativa che riguarda gli spostamenti delle opere d’arte più prestigiose dai musei statali italiani nei depositi di campagna –uno spostamento che era esclusivamente determinato dalle esigenze bel- liche nel 1940-41. La tesi è che non si sarebbe trattato solo della necessità di proteg- gere il patrimonio artistico dagli attacchi aerei da parte degli alleati, ma, inserendo la ricerca della motivazione in un altro contesto, sottolinea l’esistenza di un piano da parte tedesca per arricchire i musei del Terzo Reich con capolavori rubati nei Paesi oc- cupati o acquistati, in maniera dubbia nei Paesi sotto l’influenza tedesca10. Siviero stesso, nel suo libro L’Arte e il nazismo11, ha creato quest’interpretazione dominante che può essere riassunta con le sue parole. Con l’8 settembre, «il programma del go- verno nazista poté così completare il suo ciclo. Dalla cordialità di un amico corruttore (il principe d’Assia) [che comprava le opere d’arte prima del 1943 — LK] alla rapina or- ganizzata dei reparti armati». Quindi, una politica mirata esclusivamente al furto, ef- fettuato non soltanto dai soldati combattenti ma da un’intera organizzazione dedicata

8 MASSIMO BECATTINI, Siviero 007. Inchiesta su arte e nazismo. Il cacciatore di opere d’arte, “Archeologia viva”, n. 71, settembre/ottobre 1998, pp. 38-51. 9 DAVIDE RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003. 10 Cfr. BECATTINI, op. cit., p. 40. 11 RODOLFO SIVIERO, L’arte e il nazismo. Esodo e ritorno delle opere d’arte italiane 1938/1963, a cura di M. Ursino, Cantini, Firenze 1984.

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ufficialmente alla protezione delle opere d’arte italiane, il reparto Kunstschutz, appunto, ovvero l’Ufficio tutela delle opere d’arte dell’amministrazione militare tedesca. Sentiamo Siviero: «La protezione nazionalsocialista della cultura italiana ebbe inizio, ufficialmente, il 30 settembre 1943, con l’incendio dell’Archivio storico di Na- poli. (...) Dopo queste distruzioni e i primi furti in grande stile, che dal lato tecnico pre- sentavano gravi lacune, l’istituzione del Kunstschutz fu veramente sentita da tutti»12. Questa interpretazione è stata ripresa anche da altri autori, come Silvio Bertoldi: «La città più colpita dall’interessamento del Kunstschutz fu Firenze dove si trovavano te- sori in numero illimitato. La vittima più illustre, il Museo degli Uffizi, praticamente svuotato... Quanto ai “protettori”, erano gli stessi che avevano dato alle fiamme per puro spregio l’Archivio storico di Napoli, provocando alla cultura un danno di cui non è possibile definire le proporzioni. Gli stessi che avevano incendiato le navi romane di Nemi, tanto per citare due degli episodi vandalici più indegni». Secondo Bertoldi, nel suo libro Siviero sarebbe riuscito a «ricostruire non solo l’itinerario dei furti, ma a sma- scherare l’ipocrisia degli autori, dietro l’usbergo della loro veste di esecutori di storici salvataggi»13. L’idea del furto organizzato da parte tedesca del patrimonio artistico italiano è però già nata durante il periodo dell’occupazione, quarant’anni prima dell’uscita del- l’accusa di Siviero. Alla fine del 1944, essa venne espressa dall’allora ministro della Pubblica Istruzione del Regno del Sud, Guido De Ruggiero, che sottolineò come la svolta dell’8 settembre avesse trasformato il progetto di sfruttamento di un alleato nel de- predamento sistematico di un paese occupato14. Questa tesi servì all’epoca a fini poli- tici. Con essa De Ruggiero motivò la richiesta di un risarcimento danni con opere d’arte tedesche, se il patrimonio italiano non fosse stato restituito. Questa richiesta doveva valere — secondo De Ruggiero — anche nel caso un preciso piano tedesco per lo spo- stamento dei depositi non fosse stato dimostrabile. Già nel 1945 il sottosegretario alle arti e spettacolo del governo Parri, il critico Carlo Raggianti, chiese la consegna delle biblioteche tedesche a Roma come indennizzo per i danni di guerra, e in primis per la distruzione del deposito napoletano15. Ci furono quindi dei forti interessi politici per presentare l’Italia occupata, a guerra finita, come vittima dell’occupante ed ex-alleato nazionalsocialista. In riferimento al destino dei monumenti e delle opere d’arte la situazione si rivelava però assai compli- cata in quanto i beni di valore furono sottoposti non soltanto a delle attività di distru- zione, ma anche a dei tentativi di salvataggio.

12 Ivi, p. 33. 13 Ivi, p. 9. 14 Archivio storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Roma: Direzione Generale Affari Po- litici 1931-45, Italia, busta 99, fasc. 9 (ASMAE). Ministero della Pubblica Istruzione, Dir. Gen. delle Arti, Div. III, prot. n. 3328, 24/11/1944, fto. De Ruggiero al ministero degli Affari Esteri, Ufficio V (Germania), Roma. 15 National Archives Washington (NARA): Record Group 331 Allied Operational and Occupation Com- mands, World War II, ACC Italy, Monuments & Fine Arts, Numeric files 10.000/145/440-441, box 13, File 20915, Foglio 1612: Istituto nazionale di studi sul rinascimento, fto. Carlo L. Ragghianti al Major Norman T. Newton, Direttore della Sottocommissione Alleata MFAA, 29/12/1945.

poloniaeuropae 2010 225 Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...

Torniamo al fronte, cioè in Campania, dove nel settembre-ottobre 1943 operavano le divisioni tedesche tra combattimenti, tenace difesa del territorio, lenta ma inesora- bile ritirata e continui ordini di distruzione. Ogni tanto, e con la loro massima sorpresa, le truppe scoprivano dei depositi di materiale artistico estremamente pregiato. Quando un medico in servizio presso la divisione corazzata Hermann Göring16, il tenente Maxi- milian Becker, dovette istituire un lazzaretto a Teano agli inizi di ottobre 1943, scoprì casualmente, nel convento di Sant’Antonio, un deposito con casse provenienti dalla Bi- blioteca nazionale di Napoli. Il medico Becker17 si interessava di libri e di storia del- l’arte; perciò organizzò lo spostamento del deposito dal fronte meridionale a Spoleto dove era collocato un luogo di raccolta della sua divisione. Becker temeva che le casse venissero distrutte «a causa dell’ordine generale di far brillare tutti gli edifici maggiori nel momento della ritirata» tedesca. Quest’ordine venne applicato ampiamente nella zona di Napoli e dintorni; la preoccupazione di Becker (anche se espressa dopo la guerra) non era quindi priva di fondamento. Ma la Sovrintendenza italiana competente in materia venne a sapere soltanto mesi dopo dell’avvenuto spostamento. Solo alla fine dell’ottobre 1943, Becker poté recarsi a Spoleto per ispezionare il de- posito. Egli ritenne allora il convento francescano di Assisi un luogo più adatto per la col- locazione delle casse18. Dai padri francescani di Teano Becker venne informato di un’altra raccolta d’arte nei pressi del fronte, cioè nell’abbazia di Montecassino, e nei giorni successivi egli si adoperò per portare anche quel deposito fuori dalla zona a ri- schio dei combattimenti19. A Montecassino c’erano la biblioteca (con 70 mila volumi) e l’archivio (con 80 mila documenti), possedimenti dello Stato italiano in quanto l’abba- zia era «monumento nazionale», ma gestiti dai monaci stessi. A Montecassino si trovava inoltre un secondo deposito che annoverava le opere d’arte più preziose delle gallerie napoletane20 e il medagliere di Siracusa. Gli ufficiali tedeschi (il col. Schlegel e ten.

16 Questa divisione, che portò il nome del gerarca nazista, era composta da tanti giovani appar- tenenti alla “gioventù hitleriana”. Se dovessimo fare un elenco delle divisioni che si macchiarono, in Italia, di stragi di civili, questa divisione occuperebbe il triste secondo posto, dopo la famige- rata 16a Divisione granatieri corazzati “Reichsführer SS”, quella di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. CARLO GENTILE, “Politische Soldaten”. Die 16. SS-Panzer-Grenadier-Division Reichsführer-SS in Italien 1944, “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Biblio- theken”, vol. 81, 2001, pp. 529-561. 17 Il rapporto di Becker su Teano e Montecassino viene riportato in una lettera del Dr. Albrecht Haas MdB al sottosegretario del ministero degli Esteri tedesco, Prof. Dahrendorf, del 5/12/1969, copia in: Archivio dell’Istituto storico germanico di Roma (ADHIR), Jüngere Registratur, Hagemann, Kiste 3 (Botschaftskorrespondenz). Per un commento di Hagemann su Montecassino vedi: Lettera Wolfgang Hagemann all’addetto culturale presso l’ambasciata tedesca di Roma Dr. G. Negwer del 7/10/1970. 18 Fausto Avagliano (a cura di), Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra di E. Grossetti / M. Matronola, Montecassino 1980 (Miscellanea Cassinese, 41), p. 277. 19 Delle vicende di Montecassino esistono ricostruzioni contrastanti. I rapporti di Becker e di Schle- gel si trovano in Ivi, pp. 276-277, e pp. 284-285. 20 Ricoverato a Montecassino fu, ad esempio, anche il materiale che si trovava in esposizione alla Mostra d’Oltremare a Napoli nel 1941.

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Becker) decisero di loro iniziativa, senza consultare né le autorità tedesche né quelle italiane o vaticane, lo spostamento a Spoleto, nel centro di raccolta della divisione Göring, sia del «monumento nazionale» sia della raccolta napoletana. All’abate di Mon- tecassino venne detto che i materiali sarebbero stati consegnati a Mussolini. Quando il sostituto-archivista padre Leccisotti arrivò a Roma la sera del 19 ottobre con i beni di proprietà privata dei monaci (dentro i quali era stato nascosto il tesoro di Siracusa), informò immediatamente la segreteria di Stato vaticana e la competente Sovrinten- denza italiana dell’asportazione dei tesori da Montecassino. Nel frattempo i camion tedeschi continuavano a partire da Montecassino senza che ai benedettini fosse stato comunicato il luogo di destinazione dei trasporti. Il sovrintendente Lavagnino si rivolse al ministero degli Esteri a Roma e chiese un intervento anche al segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini. La protesta diplomatica vaticana da parte del sostituto Mons. Giovanni Battista Montini indusse l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker, a chiedere all’ambasciata tedesca presso la Repubblica di Salò di intervenire. Un incari- cato della sede romana dell’ambasciata, il sottotenente del Sicherheitsdienst (SD)21 Peter Scheibert, nel dopoguerra professore universitario, riuscì il 31 ottobre 1943 a con- tattare il comando generale della Divisione Hermann Göring e venne a sapere del cen- tro di custodia a Spoleto. Il 2 novembre, il sottotenente delle SS Scheibert — accom- pagnato dal ten. col. Bobrowski della Divisione Göring e in compagnia del dott. Deichmann, membro dell’Istituto archeologico germanico a Roma — visitò il deposito a Colle Ferreto presso Spoleto e controllò le casse provenienti da Montecassino e da Teano22. I capi militari della Göring inizialmente non avevano alcuna intenzione di tra- sferire integralmente il prezioso patrimonio di Montecassino a Roma23. Quando il ma- resciallo Kesselring venne a sapere di queste vicende all’inizio di novembre, convocò una riunione e costrinse la divisione Göring a riconsegnare le casse asportate al Vati- cano, non appena ci fosse stata la possibilità tecnica di effettuarne il trasporto24.

21 Il Sicherheitsdienst (Servizio di Sicurezza) era il servizio segreto delle SS. 22 FRIEDRICH WILHELM DEICHMANN, THEODOR KRAUS, Zur Geschichte der Abteilung Rom des Deutschen Ar- chäologischen Instituts von 1929-1979, in: Das Deutsche Archäologische Institut. Geschichte und Dokumente, vol. 3, Mainz 1979, p. 10. Cfr. anche il promemoria del 30/10/1943 sul colloquio con Don Tommaso Leccisotti, a firma dei prof.ri Fuhrmann e Deichmann, che si trova nell’Archivio del- l’Istituto archeologico germanico di Roma (ADAIR), Abteilung I, Generalia, Korrespondenz 1943, Brief Deichmanns an von Gerkan, 13/11/1943; e il rapporto senza firma probabilmente scritto da Deichmann, del 4/11/1943. 23 Nel luglio 1944 la stampa alleata accusò la Divisione Hermann Göring di aver rubato una parte dei dipinti più preziosi, per la collezione d’arte del maresciallo Göring. Cfr. ASMAE, Affari Politici 1931-45, Italia, busta 96, fasc. 2 (stampa), Promemoria dell’Ufficio Stampa del 17/8/1944 ripor- tando un articolo della rivista “Time” del 24/7/1944 intitolato: Nudes for Hermann (ora ripropo- sto in: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,791608,00.html). 24 Fausto Avagliano, op. cit., pp. 276-278; Rapporto Hagemann del 7/10/1970.

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Per la salvaguardia del patrimonio archeologico, storico ed artistico italiano non si mossero soltanto diplomatici e capi militari, ma anche storici dell’arte, archeologi sia tedeschi che italiani. A Roma, sin dal settembre 1943 e nonostante il vuoto politico nato con la fuga del re e del governo dalla capitale, alcuni soprintendenti della Direzione generale delle Belle Arti del ministero dell’Educazione nazionale, in primis i dirigenti Giulio Carlo Argan, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Pietro Romanelli, preoccupati per il destino dei tesori d’arte italiani, si attivarono per tutelare monumenti e opere. Imme- diatamente si pensò non soltanto a salvaguardare i beni artistici da eventuali distruzioni belliche, ma anche da eventuali mire da parte tedesca. Bisogna dire che le strutture te- desche presenti sul territorio italiano durante l’occupazione furono tutt’altro che omo- genee. Iniziative che tendevano al furto (in particolare da parte dell’Einsatzstab Rosenberg25) si scontrarono con il lavoro e l’ethos professionale di storici e storici del- l’arte che lavoravano nell’organizzazione militare per la tutela delle opere d’arte (Kunstschutz) e che cercavano di salvare il patrimonio artistico italiano — probabil- mente anche in visione di un futuro postbellico26. Il futuro sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, in un suo diario di quei giorni — ne ho trovato un frammento — racconta il contatto con l’ufficio tedesco del Kunstschutz, preposto alla tutela delle opere d’arte. Il reparto era stato costituito in Italia nel no- vembre 1943 e aveva il compito, sulla scia dello stesso organismo creato in Francia, di tutelare i monumenti e le opere d’arte sul suolo italiano. L’ufficio era composto da sto- rici dell’arte, archeologi, storici, alcuni dei quali vivevano in Italia da parecchi anni e avevano rapporti di collaborazione con i colleghi italiani. Fu anche in virtù di questi precedenti, che si attivarono vari accordi, talvolta taciti, talvolta espliciti, per la tu- tela delle opere d’arte esposte ai pericoli bellici. Il Kunstschutz, nell’interpretazione di Siviero, era finalizzato soltanto al furto. Eppure, in un diario semiufficiale della Di- rezione generale delle Arti del ministero dell’Educazione nazionale, scritto con alta probabilità dall’allora dirigente Carlo Giulio Argan, il primo incontro con i rappresen- tanti dell’organo tedesco preposto alla difesa delle opere d’arte, la mattina del 4 no- vembre 1943, viene descritto con le seguenti parole27:

25 L’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), creata nel luglio 1940 dal Reichsminister Alfred Ro- senberg, era una unità speciale dell’Ufficio politico estero, che aveva il compito di fare man bassa e confiscare tutto il materiale ritenuto politicamente importante nei paesi occupati dalle truppe germaniche. 26 Non a caso, alcuni esperti furono tutelati e nascosti alla fine della guerra (così Wolfgang Hage- mann nella curia arcivescovile di Verona) con la motivazione che avevano svolto un effettivo la- voro di salvataggio nei mesi dell’occupazione. Cfr. PETER HERDE, Wolfgang Hagemann e il processo Kesselring (25.IV.1947), parte II: Dalle Fosse Ardeatine al Processo, “L’Acropoli. Rivista bimestrale diretta da Giuseppe Galasso”, n. 5, ottobre 2002, p. 649 e sgg.; GIORGIO MICAGLIO, Quei due tede- schi che aiutarono Verona, “Verona Fedele”, 21 ottobre 2001, p. 9. 27 Mentre il lavoro di Siviero e le sue pubblicazioni ebbero una risonanza relativamente forte sul- l’opinione pubblica, il diario di Argan rimase ignoto e così quello del suo collega Emilio Lavagnino pubblicato solo nel 1974 nella rivista “Nuova Antologia” (ora ripresa nel volumetto della figlia: ALESSANDRA LAVAGNINO, Un inverno 1943-1944. Testimonianze e ricordi sulle operazioni per la salva- guardia delle opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale, Sellerio, Palermo 2006).

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Stamane, alle 10, si è presentato in ufficio il barone dott. Bernardo von Tie- schowitz, consigliere d’intendenza delle forze armate germaniche, accompagnato dal prof. Fuhrmann e dal dott. Deichmann dell’Istituto archeologico germanico. (…) Il Tieschowitz, che avevo conosciuto nell’inverno scorso insieme al conte Wolff Metternich, al cui ufficio per la tutela dei monumenti e delle opere d’arte nei paesi occupati è addetto, mi ha dichiarato di dover prendere contatti con le au- torità competenti italiane per agevolarle nel loro compito reso difficile dalle at- tuali circostanze. Ho detto al Tieschowitz che, nelle precedenti conversazioni con il dott. Scheibert, ora ammalato, s’era convenuto che il provvedimento più pru- dente era il trasporto a Roma di tutte le opere del Lazio e delle più importanti del- l’Italia centrale e settentrionale. Il dott. Tieschowitz ha approvato; avendo egli accennato alla possibilità di ricoverare le opere in Vaticano, gli ho risposto che, qualunque possa essere lo sviluppo delle trattative avviate col Vaticano prima del- l’armistizio e poi interrotte, il primo problema è quello di portare le opere a Roma. Il Tieschowitz si è impegnato di agevolare la concessione di automezzi da parte del Comando germanico, consigliando di cominciare con l’evacuazione dei ricoveri a sud di Roma; gli ho consegnato copia dell’appunto contenente le conclusioni della riunione dei Soprintendenti del 31 ottobre scorso [1943], dal quale risulta il fab- bisogno di camion per i vari trasporti dai depositi laziali. Il dott. Tieschowitz pro- pone di fare apporre a tutti gli edifici monumentali o ricoveri di opere d’arte di cui gli sarà dato l’elenco dei cartelli che, in nome dell’alto comando germanico, inibiscano l’ingresso alle truppe di transito o di presidio. Venendo a casi partico- lari, Tieschowitz comunica che le opere portate via da Montecassino da una divi- sione germanica operante nella zona si trovano ora a Spoleto presso il deposito di quell’unità; sono a nostra disposizione per essere portate a Roma. Comunica inol- tre che truppe germaniche hanno recuperato a Teano, durante violenti combatti- menti, circa 600 casse di libri della Biblioteca nazionale di Napoli: sono anch’esse a Spoleto. Circa i trasporti viene convenuto che essi saranno scortati da nostri fun- zionari e custodi. Tieschowitz conta di fermarsi a Roma circa tre settimane, per condurre il lavoro insieme al dott. Scheibert, che pare essere un suo dipendente; poi verrà a Roma, a sostituirlo, un docente dell’università di Monaco.

Questa era, dunque, la situazione quando Tieschowitz si presentò ai colleghi ita- liani, comunicando ai suoi interlocutori il luogo dove si trovavano il tesoro di Monte- cassino e i libri del deposito di Teano, e dichiarando il suo impegno a restituirli. Tra dicembre e gennaio le casse tornarono al Vaticano in una cerimonia di consegna alla quale la maggior parte dei soprintendenti italiani non volle neanche partecipare. Il 4 gennaio 1944 vennero consegnate a Piazza Venezia anche le 600 casse con i libri della Biblioteca nazionale di Napoli, che vennero portati alla Sapienza28.

28 Per le fotografie della consegna vedi Fausto Avagliano, op. cit.

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Dalle annotazioni di Argan vengono fuori tutti gli elementi del quadro che carat- terizzò i venti mesi dell’occupazione tedesca per quanto riguarda l’ambito delle opere d’arte, delle biblioteche e degli archivi29:

1) truppe tedesche combattenti che sulla strada della ritirata trovano depositi di opere d’arte e di altro materiale prezioso collocati al di fuori dei grandi centri e al ri- paro dagli effetti disastrosi dei bombardamenti aerei; 2) decisioni unilaterali tedesche di spostare i depositi o parte di essi in altre aree delle loro retrovie (non si sa bene se con l’intento di salvarli dai combattimenti e dagli effetti del fuoco d’artiglieria o per secondi fini); 3) uno specifico organo tedesco in fase di costruzione che si occupa della localiz- zazione delle opere e dei depositi che risultano spostati, trasferiti o momentaneamente dispersi; 4) uno specifico organo ministeriale italiano sottoposto nolens volens (cioè a causa delle vicende belliche) alle neocostituite autorità di Salò; 5) contatti diretti tra esperti tedeschi e italiani per coordinare le attività di set- tore; 6) un’amministrazione tedesca sottoposta a cambiamenti, ma composta da esperti di storia dell’arte, di archeologia e di storia, cioè provenienti dal mondo dell’accade- mia tedesca, con – fatto non raro – conoscenze dirette dell’Italia.

Mancano in questo contesto l’analoga struttura angloamericana (comandata da uf- ficiali addetti ai Monuments, Fine Arts and Archives) e i rappresentanti tedeschi delle varie organizzazioni desiderose di accaparrarsi per proprio interesse del prezioso pa- trimonio italiano (attraverso i sequestri che sono dei furti malcelati). È necessario sottolineare che il rischio per le opere d’arte non fu costituito soltanto dalle distruzioni belliche, ma anche dalle evacuazioni selvagge operate dalle truppe tedesche; le quali, nel momento della ritirata si trovarono spesso di fronte a questi de- positi senza conoscerne il contenuto e senza aver ricevuto ordini superiori precisi. Quindi o lasciarono le opere lì o le portarono via a seconda dei mezzi di trasporto a di- sposizione e in virtù di decisioni prese sul posto. In alcuni casi, queste evacuazioni sel- vagge furono legate a veri e propri tentativi di furto. Come nel caso della Divisione Göring, dove i capi militari decisero a un certo punto di togliere dalle casse alcuni dei quadri trasferiti da Montecassino a Spoleto per regalarli al titolare della Divisione, il ge- rarca nazista Hermann Göring, per la sua collezione privata. Le opere mancanti vennero poi ritrovate, a guerra finita, in Austria, in Stiria, in una galleria sotterranea presso Alt- Aussee, località in cui erano custodite parte delle collezioni di Hitler e di Göring30.

29 Per quanto riguarda gli archivi italiani cfr. JÜRGEN KLÖCKLER, Verhinderter Archivalienraub in Ita- lien. Theodor Mayer und die Abteilung “Archivschutz” bei der Militärverwaltung in Verona 1943- 1945, “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, vol. 86, 2006. 30 ERNST KUBIN, Sonderauftrag Linz. Die Kunstsammlung Adolf Hitler. Aufbau, Vernichtungsplan, Ret- tung. Ein Thriller der Kulturgeschichte, Wien 1989, pp. 88-91; JAKOB KURZ, Der Kunstraub in Europa von 1938 bis 1945, Hamburg-München 1989, p. 353 (con l’elenco degli oggetti d’arte ritrovati).

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Torniamo alla linea Gustav e all’abbazia di Montecassino31, anch’essa altamente esposta agli effetti della guerra. Come si è visto, l’evacuazione del patrimonio artistico da Montecassino, anche se originariamente concepita come un’iniziativa di salvatag- gio, non fu propriamente un’azione di cui vantarsi, visto il furto di alcuni quadri di valore e la lenta, reticente procedura di restituzione delle opere portate a Spoleto. Tuttavia non è un caso se gli ufficiali della Divisione Hermann Göring abbiano avviato il trasferimento dei preziosi beni di Montecassino: già nell’ottobre del 1943 pensavano infatti a una probabile distruzione dell’abbazia! Tale distruzione non era un’ipotesi sor- prendente per gli alti comandi militari tedeschi. Nessuno aveva fatto sufficienti sforzi per evitare una eventuale distruzione del monumento storico. I poteri militari tedeschi erano ben consapevoli del rischio che correva l’edificio, nel momento stesso in cui fu integrato nella linea del fronte in conseguenza di un ordine esplicito dello stesso Hitler32 — donde il nome di: «linea di difesa rafforzata del Führer». Il 14° Corpo d’armata aveva chiesto, il 5 dicembre 1943, al comandante supremo Kesselring come ci si doveva com- portare con l’abbazia, visto che si considerava «impossibile il mantenimento dell’ex- traterritorialità dell’edificio del monastero che si trova nell’immediata vicinanza della principale linea di combattimento»33. Kesselring rispose che alla Chiesa cattolica era stato promesso soltanto di «risparmiare l’edificio stesso”34. «Perciò possono essere messe — se ritenuto necessario — delle postazioni militari fino alle immediate vicinanze dell’abbazia»35: questo era il tenore del comunicato del 14° Corpo d’armata alle divi- sioni ad esso sottoposte. Che si prevedessero dei combattimenti attorno all’abbazia ed anche delle eventuali distruzioni, è dimostrato dal tentativo di evacuare il più presto possibile tutti gli sfollati che si erano rifugiati all’interno dell’abbazia36. Il comando tedesco consapevolmente accettò il rischio di una distruzione bellica dell’abbazia per avere maggiori vantaggi militari, anche se l’edificio monastico stesso non venne occu- pato dai soldati tedeschi prima che esso fosse distrutto dagli alleati. Herbert Bloch ha evidenziato la corresponsabilità tedesca — anche se la distruzione dell’edificio, militarmente inutile, rimane collegata ai nomi dei generali alleati Harold Alexander, Francis Tuker e Bernard Freyberg, i quali vedevano l’abbazia come una fortezza otto- centesca e la fecero bombardare il 15 febbraio 194437. Gli alleati pensavano che dentro l’edificio ci fosse una presenza militare tedesca (cioè delle mitragliatrici) e lo comunicarono attraverso i volantini distribuiti dagli aerei

31 Un dettagliato riassunto delle vicende si trova in HERBERT BLOCH, The Bombardement of Monte Cas- sino (February 14-16, 1944). A new appraisal, “Benedictina”, XX, 1973, pp. 383-424. 32 BAMA, RH 24-14, Vol. 85, Bl. 134/6. 33 Ivi, Foglio 329. 34 Ivi, Foglio 370. 35 Ivi, Foglio 138/6. 36 Ivi, Foglio 370 del 12/12/1943; e BAMA, RH 19X, Vol. 12, Foglio 275 seg.: Comando Supremo di Kesselring all’Ambasciata tedesca presso la S. Sede, 18/12/1943 (si trattava di circa 150 persone); BAMA, RH 24-14, Vol. 107, Foglio 8, All. 223: 29. Pz. Gren. Div. Ic Nr. 506/43geh. al XIV. Pz. Korps, 4/1/1944 (monastero evacuato ad eccezione di 44 persone, di cui 13 monaci). 37 HERBERT BLOCH, art. cit., pp. 390, 423 seg. e 396 seg.; BAMA, RH 24-14, Vol. 109, Foglio 558: XIV. Pz. Korps an AOK 10, 15/2/44.

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e negli annunci radio. Il bombardamento si giustificava con la «massiccia presenza e difesa militare tedesca del monastero»38. Formalmente questa affermazione poteva essere facilmente negata da parte tedesca. Il colonnello Karl-Lothar Schulz, coman- dante del primo Reggimento cacciatori-paracadutisti e comandante militare di Cassino, riferì al comando supremo tedesco che nel monastero non c’erano armi tedesche. Un poliziotto militare aveva il compito di vietare l’accesso all’edificio ai militari tedeschi. Epperò, come si è detto, i punti militari di osservazione erano dislocati immediata- mente a ridosso delle mura del monastero. La distruzione del monastero da parte degli alleati «viene completamente sfrut- tata ai fini della propaganda» nazionalsocialista, si scrisse esplicitamente nel diario storico del 14° Corpo d’armata: «Si riesce a portare fuori dalle macerie l’abate ottan- tenne. Ospite del comandante generale, arriva di sera presso il comando generale del Corpo d’armata e viene mandato la mattina successiva a Roma — dopo un’esaustiva intervista da parte dei giornalisti militari per la stampa e il cinegiornale»39. Nel caso di Montecassino, la decisione su come comportarsi nei confronti del patri- monio artistico italiano spettava soprattutto agli attaccanti alleati, non ai tedeschi. Una situazione rovesciata si presentò invece pochi mesi dopo quando il fronte si avvicinò a Roma, e poi a Firenze. Allora furono gli occupanti ad essere costretti a decidere prima, se volevano difendere o sgombrare la città; a decidere se e in quale misura dovevano di- struggerla oppure no per trarne dei vantaggi sul piano militare. Non è questa la sede per analizzare dove e quando le logiche militari ebbero il sopravvento sulle buone intenzioni riguardanti la protezione della ricchezza culturale italiana40. La guerra in Italia assomi- gliò per ambedue le parti coinvolte nel conflitto ad un combattimento che si svolge in un gigantesco museo. Una storia ancora da raccontare per tanti suoi aspetti.

Lutz Klinkhammer, storico dell’età contemporanea, ha studiato e svolto attività di ri- cerca a Treviri (dove è nato nel 1960), a Roma, a Colonia, a Monaco di Baviera, a Pa- rigi. Ha insegnato nelle università di Pavia, Viterbo, Bologna. Dall’aprile 1999 è membro dell’Istituto Storico Germanico di Roma e responsabile per il settore di storia dei secoli XIX e XX. Nel 1994 ha ricevuto il Premio “Acqui Storia” per il libro L’occupazione tede- sca in Italia 1943-1945 (Bollati Boringhieri, Torino, terza edizione 2007); ed è stato pe-

39 Ivi, Foglio 117: KTB XIV. Pz. K. vom 17/2/44. 40 Cfr. MARCO GIOANNINI, GIULIO MASSOBRIO, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione aerea 1940-1945, Rizzoli, Milano 2006, in particolare il cap. 13: La lotta della bellezza contro la guerra.

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rito storico del tribunale d’appello di Coblenza al processo contro W. Lehnigk-Emden per l’eccidio di civili italiani a . Collabora a varie riviste (“Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, “Journal of Modern Italian Studies”, “Mondo Contemporaneo”, “Ricerche di Storia Politica”, “Roma moderna e contempo- ranea”) e istituzioni: l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia (Milano), l’Istituto romano per la storia dal fascismo alla Repubblica, la Società romana di storia patria. È stato consulente della Commissione parlamentare bicamerale di Inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (2004-2006) e della Commissione per il recupero del patrimonio bibliografico della Comunità ebraica di Roma, razziato nel 1943. Dal 2006 è membro del Comitato nazio- nale per le celebrazioni del Bicentenario del Decennio francese, istituito dal ministero per i Beni Culturali. Dal 2006 è presidente del Comitato scientifico della fondazione “Fossoli. Camp Foundation. Fondazione ex-campo”. Dal 2009 è membro della Commis- sione storica italo-tedesca istituita dai ministeri degli Affari Esteri. Tra le sue pubbli- cazioni recenti: La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica (con Oliver Janz, Donzelli 2008), Eigenbild im Konflikt Krisensituationen des Papsttums zwischen Gregor VII und Benedikt XV (con Michael Matheus, Primus 2009), Die ‘Achse’ im Krieg (con Amedeo Osti Guerrazzi e Thomas Schlemmer, Schöningh 2010).

poloniaeuropae 2010 233 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Venti tombe con la stella di Davide nel cimitero polacco di Montecassino

di Helena Janeczek

Al cimitero polacco di Montecassino, in basso a destra, quasi formassero le lettere di una frase in ebraico, ci sono una ventina di tombe con la stella di Davide. Talvolta qualcuno ci depone un ciottolo, un segno di pietra sulla pietra più resistente dei papa- veri di stoffa che si trovano sulle altre lapidi. Venti caduti su quasi mille lì sepolti. Ma sono parsi un numero sufficiente perché alla commemorazione del 65° della battaglia venisse invitato anche un rabbino. Quando l’ho visto, in piedi dietro alle sedie che ospi- tavano autorità e i molti veterani accorsi nonostante l’età avanzata, non l’ho ricono- sciuto come tale. Un ebreo, un solo ebreo ortodosso, capello nero, abito nero, in mezzo a centinaia di polacchi di diverse generazioni. Comitive di scout, bambine in costume, clero di vario rango fatto arrivare dalla Polonia. Gruppi di famiglie giunti da Gran Bre- tagna, Stati Uniti e Canada e altri luoghi dell’esilio in cui si è dispersa nel dopoguerra l’Armata del generale Władysław Anders. La prima cosa che mi è venuto da chiedergli è se qualche suo parente è sepolto qui. Mi ha risposto in un inglese dal ruvido accento ebraico, accennando a un fratello di suo nonno che in effetti ha partecipato alla bat- taglia. «But I’am here for work». E io continuavo a non capire. Così ho provato un’autentica sorpresa quando dopo la messa cattolica, dopo il pope ortodosso e il pastore protestante, l’ho visto salire sugli scalini di marmo. Ha re- citato «El mole rahamin», signore della misericordia, la preghiera comunemente usata per le vittime della Shoah. Non mi aspettavo la presenza di un rabbino e non ne ho mai visto uno senza barba lunga, caffettano e tallit, soprattutto non ne ho mai incontrato uno così giovane. Lo ritrovo più tardi che si aggira per l’enorme sala ristorante del Hotel Edra, un pa- lazzone nuovo vicino allo svincolo autostradale, dove l’ambasciata polacca offre una cena ai convenuti. Se non stesse aspettando qualcosa da mangiare, mentre gli altri ospiti hanno finito l’antipasto di affettati ciociari, potrebbe sembrare un ragazzo come un altro che per qualche ragione non vuole levarsi di testa il normalissimo berretto a visiera con cui ha sostituito la componente più riconoscibile e ingombrante dell’abito «for work». «Mi stanno riscaldando qualcosa che ho portato da Varsavia», risponde alla mia do- manda se è stato provveduto per il suo pasto. Gli consegnano un grande teglia di allu- minio, si siede al mio tavolo. Agli altri viene servito il primo e il secondo, e lui continua a sbocconcellare direttamente dalla teglia, con posate di plastica che per lo stupore del cameriere si è fatto dare, una massa di farinacei che fatico a identificare. Dovrebbero essere pierogi, ravioli polacchi, solo che questi sembrano aver sostituito il condimento proibito di pancetta con una doppia razione di cipolla. L’odore è persistente, l’aspetto colloso, e della porzione enorme sparisce solo quanto è indispensabile a sfamarsi. È anche questo ciò che significa essere stati mandati in Polonia come rabbino.

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Pinchas Zarczyński mi racconta che è arrivato da appena sei mesi, ma il suo primoge- nito è nato a Varsavia. «Ha preso i miei occhi e i colori scuri di sua madre che è di origine yemenita». Noto per la prima volta che è biondo e chiaro come un polacco, ma soprattutto un bel ragazzo. Gli occhialini di metallo non riescono a fare da schermo al suo orgoglio gioioso, inconfondibile con quello di chi ha semplicemente cominciato a realizzare i precetti del Signore. «Allora sarà bellissimo», lo incalzo. «Sì», non si trattiene di rispondere, illuminandosi in un sorriso che tradisce una no- stalgia fisica, primaria. Questo è un padre innamorato di suo figlio e si direbbe pure di sua moglie che in Polonia un po’ ci soffre, ma per fortuna ha una grande famiglia unita che molto spesso viene a trovarla. E Pinchas Zarczyński, nato anche lui a Varsavia, fi- glio di un ultimo ramo comunista che solo con la legge marziale del generale Jaruzel- ski si è deciso a raggiungere il ramo sionista, apprezza il calore e il senso della famiglia degli ebrei yemeniti, i più legati alle loro antichissime tradizioni orientali. Aveva quattro anni quando è arrivato in Israele e del suo ebraismo non sapeva nulla. È cresciuto in una città satellite di Tel Aviv, ha fatto le scuole fino all’università, ha conseguito una laurea in architettura. E poi, studiando in una yeshiva, un scuola tal- mudica di Gerusalemme, è diventato rabbi. Ora, a meno di trent’anni, è stato rispedito nella sua città d’origine. Chi lo ha mandato in Polonia non è il movimento dei Chabad-Lubavitch con sede a Brooklyn, ma un’organizzazione che si chiama Shavei Israel, dedita a ritrovare gli ebrei perduti nei più remoti e spesso esotici angoli del mondo. Tre degli attuali dieci rabbini in Polonia sono suoi emissari, gli altri fanno capo ai Lubavitch o alla Ronald S. Lauder Foundation creata dal figlio di Estée Lauder, la regina dei cosmetici, a differenza della concorrente Helena Rubinstein nata in America e non a Cracovia. Non arrendersi allo sterminio di un popolo e della sua cultura nell’Europa orientale, innaffiare le ultime pianticelle rima- ste nella terra bruciata, piantarvi nuove semenze nella speranza che attecchiscano: questo sarebbe il denominatore comune degli attuali sforzi ebraici. Eppure oggi in Po- lonia il numero di ebrei dichiarati resta di gran lunga inferiore a quelli sepolti nei mil- letrecento cimiteri che i dieci rabbini attuali non sanno come riuscire a preservare. Pinchas Zarczyński sostiene che, rispetto a certi colleghi di origine polacca ma cre- sciuti negli Stati Uniti, ha il vantaggio di capire sino in fondo quel che pensa e sente la gente con cui entra in contatto. Ha anche lui una zia che, pur immigrata in Israele, non ha mai voluto rettificare sui documenti il nome ereditato da documenti falsi. Racconta storie di ragazzi che hanno ritrovato nel fondo della loro memoria preghiere ebraiche cantate come ninnananne da madri e nonne cattoliche, adulti i cui genitori sul letto di morte hanno confessato «siamo ebrei», persone smarrite con tanti brandelli di storie che riemergono, additano ferite, pongono domande. Riconoscere la propria radice ebraica in Polonia è difficile, afferma, e non solo per via di quanto rimane dell’antisemitismo. Ma quando mi racconta dell’interesse crescente di molti polacchi per le cose ebraiche, o quando dice che prenderà lo stesso aereo del presidente Lech Aleksander Kaczyński che l’ha invitato di persona, mi sembra di cogliere una nota di orgoglio che non riguarda un emissario dell’ebraismo ortodosso, ma un uomo cresciuto con il polacco come lingua madre e che ha voluto conservare un cognome pieno di consonanti complicate.

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Sembriamo c’entrare così poco l’uno con l’altra: lui, il ragazzo tornato alla reli- gione e alla terra dei suoi avi per riportare nel luogo dove è nato un’identità integral- mente riabbracciata, io figlia impenitente della secolarizzazione e della diaspora. Ma in quell’occasione e in quel luogo di memoria, non ci saremmo mai incontrati se non avessimo entrambi radici in Polonia. In una frase buttata lì verso la fine della nostra conversazione, Pinchas Zarczyński mi confida che quando lo hanno invitato, gli avrebbero anche detto che gli ebrei caduti a Montecassino sarebbero in realtà assai di più di quelli sepolti nelle tombe con la stella di Davide. Per lungo tempo era stata un’ipotesi che anch’io avevo accarezzato, forte del- l’aver trovato nell’elenco dei caduti esposto ai cancelli del cimitero cognomi assai dif- fusi fra gli ebrei polacchi ai quali non corrispondeva una collocazione nella sezione ebraica. Immaginavo ci fossero stati diversi modi per unirsi all’Armata senza dover ri- velare di essere ebrei. Davo anzi per scontato che potesse essere una scelta diffusa, vuoi perché la persecuzione nazista aveva già indotto molti profughi a occultare la propria identità, vuoi per mettersi a riparo da pregiudizi e esclusioni da parte polacca. Ma alla fine dovetti accorgermi di aver fatto i conti senza la visita militare. Per poter passare come polacchi «autentici», non bastava un nome o un documento falso: bisognava non essere circoncisi. E per chi era nato in una famiglia ebrea fra gli anni Dieci e Venti del XX secolo questo pare assai poco probabile. Può darsi che nel secondo Corpo d’armata ci fossero soldati di parziale o lontana origine ebraica, anche Halbjuden, ossia mezzi- ebrei che i tedeschi non avrebbero risparmiato, ma quegli uomini non avrebbero dovuto fingere di essere cattolici. La frase riferita al giovane rabbino resta comunque significativa. Non solo perché ripropone lo stereotipo degli ebrei «infiltrati» che per definizione sono molti di più di quelli dichiarati, ma perché quell’ipotesi è sembrata plausibile anche a chi, come Pin- chas Zarczyński o io stessa, la considerava da un punto di vista ebraico. Uno degli effetti più perversi del antisemitismo razzista è stato che il suo imma- ginario paranoico traducendosi in prassi persecutoria, avesse generato proprio questo: ebrei occulti, ebrei costretti a fingersi altro pur di cercare scampo. Ovunque, ma in Polonia nel modo più vasto e drammatico. E la continuazione nel dopoguerra di mo- menti di violenza e discriminazione antiebraica — dal pogrom di Kielce del 1946 sino al- l’antisemitismo di Partito del ‘68, giusto per nominare due date emblematiche — ha fatto sì che per il numero sempre minore di ebrei rimasti in Polonia divenisse quasi au- tomatico conservare le proprie radici celandole. Se a questo si aggiunge l’uguaglianza imposta dall’ideologia di Stato, spesso abbracciata come scudo difensivo da chi conti- nuava a vivere in Polonia, non stupisce che oggi Pinchas Zarczyński e suoi colleghi siano dediti principalmente ad assistere i nuovi «marrani» prodotti dal nazismo e conservati dai decenni di socialismo reale. Il caso della Polonia rende particolarmente tangibili molti dei problemi legati al la- voro di memoria. Malgrado gli sforzi intensi di conservare e tramandare il passato, la vita ebraica dell’anteguerra nella sua articolazione complessa e diversificata pare in- fatti cristallizzarsi attorno ad alcune raffigurazioni predominanti. Da un lato tali rico- struzioni rispecchiano i tratti principali del mondo scomparso, dall’altro sembrano riflettere ciò che è più vicino all’esperienza di chi lo sta ricomponendo. E se non è ca-

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suale che i rabbini mandati in Polonia provengano da Stati Uniti e Israele, pare altret- tanto inevitabile che la trama memoriale risenta dei principali centri dove viene tes- suta o rammendata. Partendo, per esempio, da una città americana dove gli ebrei ortodossi si incontrano per strada e dove l’appartenenza etnico-religiosa è la norma per qualsiasi comunità, immaginare uno shtetl popolato da chassidim o un quartiere ebraico di Vilna o Cracovia richiede uno sforzo assai minore che figurarsi gli ambienti borghesi «polonizzati» o la militanza operaia nelle fila di un partito ebraico ateo, so- cialista, ma al tempo stesso patriottico come il Bund. E se si vuole dar credito alla te- stimonianza del giovane rabbino di Varsavia, forse oggi per un ebreo americano e israeliano nulla è più difficile che entrare nella testa di chi ha nascosto la propria ori- gine ebraica sotto il coperchio stagno del comunismo. Così, se da un lato le memorie collettive risultano insostituibili perché solo loro sono in grado di dare conto sia dei traumi che dello sforzo per ritessere fili di continuità e di significato, il rischio è che tali memorie non si parlino, ma anzi si pongano a fon- damento di identità giustapposte e concorrenziali. Memoria polacca, memoria ebraica, memoria ucraina eccetera: tutte, giocoforza, codificazioni di un racconto collettivo maggioritario, cosa che accentua le difficoltà di metterle in comunicazione per giungere a un quadro non conciliato né conciliante, ma capace di confronto, interrelato. La memoria sia collettiva che individuale riguarda per definizione quegli avveni- menti del passato che restano vivi e significativi per il presente. Uno dei nodi centrali dello scollamento fra memoria ebraica e memoria polacca, credo risieda nelle diverse priorità di ripristinare alcune verità negate. Qui il bisogno di marcare la specificità del genocidio (ad Auschwitz l’allestimento di una baracca dedicata alla memoria delle vit- time della Shoah, è stato possibile solo dopo l’Ottantanove), là i conti sospesi con il con- tinuum repressivo della dominazione comunista. Se si sottraggono i circa 3 milioni di ebrei polacchi sterminati dal computo dei morti della seconda guerra mondiale in Polonia (oggi si stima che il totale dei cittadini polacchi uccisi dal 1939 al 1945 sia di 5,6-5,8 milioni1), rimane una cifra spaventosa. Pochi oggi, al di fuori della Polonia, sono consapevoli di tale enorme prezzo di sangue pagato dai polacchi cattolici, vittime di entrambi gli occupanti. Ma con la sconfitta di Hitler, la violenza nazista entrava a far parte della memoria ufficiale, mentre quella so- vietica restava rigidamente censurata. Entrambi i regimi totalitari miravano a distruggere l’identità nazionale polacca, però la repressione comunista, messa in atto anche con lo strumento della censura, ha agito molto più a lungo. Per questo, dopo la caduta della cortina di ferro, divenne prio- ritario appropriarsi di quanto era stato negato. L’autorappresentazione nazionale che ne emerge, asseconda quindi prima di tutto l’urgenza di riconoscersi in un popolo che ha patito l’oppressione sovietica ed è stata capace di resistervi. Le vicende che ruotano intorno all’Armata di Anders forniscono un buon esempio di come agisce e si trasmette tale memoria. L’invasione e sovietizzazione dei Kresy

1 WOJCIECH MATERSKI,TOMASZ SZAROTA (a cura di), Polska 1939-1945. Straty osobowe i ofiary represji pod dwiema okupacjami, IPN-Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009.

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(così veniva chiamata la parte orientale della Polonia tra le due guerre), le deportazioni di massa verso il Gulag, l’eccidio di Katyń con la sua verità negata per mezzo secolo, la travagliata e incompleta liberazione dei detenuti polacchi dopo gli accordi Sikorski- Majski del 1941: tutto ciò in cui si era espresso il primo impatto violento della repres- sione staliniana, con il senno di poi assume i tratti di una prefigurazione del futuro, se non di un trauma originario rimosso per ordine di regime. E tutto questo, dopo essere stato trasmesso per mezzo secolo in modo semiclan- destino o coltivato nell’esilio, quando finalmente ridiventa storia dicibile, si configura come memoria nazionale recuperata, ossia memoria «polacca» pura e semplice. La presenza di un rabbino, di un pope e di un pastore protestante alla comme- morazione del 65° anniversario della battaglia è un segno che va nella direzione op- posta. Ma con il gesto conciliante del rammentare che i deportati dei Kresy e quindi i soldati del secondo Corpo polacco non erano tutti cattolici, si rischia di edulcorare una realtà assai più complessa e conflittuale prima ancora che essa possa essere af- frontata. Questo a partire dal passato della Repubblica polacca prima del ‘39, dove le mi- noranze si trovavano in posizioni di subalternità sociale, culturale e persino giuridica che le portavano ad abbracciare spesso forme di identità oppositive (nazionalismo ucraino, sionismo, comunismo) che poi facilitavano gli occupanti nell’attuazione di una politica del divide et impera, sbocciata in conflitti sanguinari che a loro volta rafforzavano odi e recriminazioni reciproche. Che i Kresy non fossero territori di pacifica e egalitaria convivenza multietnica, di questo testimonia infine anche la composizione dell’Armata di Anders. Perché se da un lato nel mirino delle deportazioni sovietiche finirono pure ebrei, ucraini e bielorussi (o ruteni bianchi) il numero dei soldati non «polacchi» nel secondo Corpo d’armata era de- cisamente esiguo. Gli studi che ho potuto consultare su questo argomento sono principalmente quello di Yisrael Gutman, Jews in General Anders’Army In the Soviet Union2, nonché quello di Jan T. Gross, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine and Western Belorussia (Princeton University Press, edizione ampliata, 2002). Si tratta di lavori principalmente incentrati sul problema ebraico ma che abbozzano anche le vicissitudini degli altri cittadini non polacchi per etnia. Sappiamo che le «minoranze» ucraine e bielorusse rappresentavano in realtà la maggioranza della popolazione rurale dei territori orientali occupati, mentre le comu- nità ebraiche spesso molto numerose si concentravano negli ambienti urbani. Per con- tro, erano polacchi gran parte dei cittadini deportati, dato che rispecchia puntualmente la politica sovietica di voler «decapitare» le strutture dello Stato e della società polacca che trova il suo culmine nell’eccidio di Katyń. Gross, citando un rapporto dell’ambasciata polacca del ‘43, riporta la seguente composizione delle deportazioni: «52 percent were ethnic Poles, 30 percent were

2 YISRAEL GUTMAN, Jews in General Anders’ Army In the Soviet Union, in http://www1.yadvashem.org/odot_pdf/microsoft%20word%20-%206564.pdf

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Jewish, 18 percent were Ukranian and Belorussian»3. Quel che stupisce principalmente è l’alta percentuale di ebrei, dato che risulta comprensibile soltanto quando si viene a sapere che la terza e, in misura lievemente minore, la quarta deportazione sovietica aveva riguardato soprattutto i profughi rifu- giati nelle città, la cui maggior parte era formata da ebrei. Nella primavera del 1940, messi davanti all’alternativa se prendere il passaporto sovietico o tornare nei luoghi d’origine sotto occupazione nazista, moltissimi ebrei in- fatti scelsero di mettersi in fila davanti agli uffici della Commissione tedesca per il rim- patrio, la quale dopo aver respinto le loro domande, consegnò le liste con i veri nomi e indirizzi dei rifugiati direttamente all’Nkvd che sulla base delle medesime si accinse a preparare le successive deportazioni. Di questa realtà apparentemente assurda, testimonia anche Gustaw Herling quando, in Un mondo a parte, scrive: «Allora accadde una cosa straordinaria: le stesse moltitudini che solo pochi mesi prima avevano rischiato la vita per entrare nella “terra promessa” adesso iniziarono un esodo in massa nella direzione opposta, vale a dire verso la terra dei Faraoni. I russi osservavano anche questo con indifferenza, ma si do- vettero scrivere nella memoria le reazioni di questi candidati alla cittadinanza sovie- tica messi alla loro prima prova di fedeltà»4. In ogni modo, si deve a questo macabro meccanismo di doppia persecuzione — seb- bene nel caso sovietico non razziale, ma rivolta ai “nemici del popolo” — il dato al- trettanto macabro che la percentuale più alta di ebrei polacchi scampati al genocidio è formata da coloro che furono deportati nel Gulag sovietico. Ma all’epoca della sua evacuazione in Iran, gli ebrei inquadrati nell’Armata di Anders sono soltanto un dieci per cento e dopo la tappa in Palestina - dove la gran parte diserta con il muto consenso dei comandi polacchi - i soldati ebrei che con il secondo Corpo giungono sul fronte di Cas- sino restano meno di un migliaio. Cos’è successo nel tempo che separa la liberazione dei cittadini polacchi dalla par- tenza delle truppe di Anders dall’Unione Sovietica? Lo studio di Yisrael Gutman analizza meticolosamente ogni forma di antisemitismo nell’Armata di Anders, a partire dal comandante fino alla truppa, ma non è di questo aspetto che vorrei occuparmi, nel tentativo di abbozzare il problema delle minoranze nel suo complesso, pur riservando un occhio di riguardo per la questione ebraica.

3 JAN T. G ROSS, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine and We- stern Bielorussia, Princeton University Press, 2002, p. 199. Cfr. Anche GUTMAN: “It is estimated that the number of Jews among the Polish exiles in the Soviet Union reached 400,000 about a third of the total number. Their proportion among the exiles was thus more than triple their proportion among the population of the independent Polish State in the years between the wars. It was only natural that the persecuted Jews should seek refuge in the Soviet State; their numbers would have been even greater had it not been for the obstacles preventing mass evacuation and flight in the first weeks after the outbreak of war between Germany and the Soviet Union”. 4 GUSTAW HERLING, Un mondo a parte, Feltrinelli 1994, p. 189.

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The first units set up had a very large number of Jews; according to Anders the Jews at times constituted sixty per cent, and according to Kot, forty per cent. The surge of Jews to the ranks of the Polish Armed Forces aroused suspicion and dismay. In Polish sources one finds complaints to the effect that the Russians intentionally released the Jews from the camps-before all others so as to flood the Polish Armed Forces with the “Jewish element”. In a letter to the Polish Foreign Minister in London on November 8, 1941, Kot writes that “the Soviets delayed by various means the release of the Polish element who were in bet- ter health and spirits, sending instead the handicapped and the Jews”5.

Nei verbali della conferenza fra Sikorsi, Anders e Stalin del 1° dicembre 1941 ripor- tati nel libro di memorie di Anders, è fissato tutto il dilemma dei vertici polacchi nel- l’affrontare il problema delle minoranze deportate e della loro integrazione nell’Armata. «ANDERS: Vi è un numero considerevole di Ebrei, tra di essi [soldati], i quali non vo- gliono prestare servizio nell’Armata STALIN: Gli Ebrei sono cattivi soldati. SIKORSKI: Molti Ebrei presentatisi all’Armata sono borsari neri, condannati per con- trabbando. Non diventeranno mai buoni soldati. Non li voglio nell’Esercito polacco. ANDERS: Duecentocinquanta Ebrei hanno disertato da Buzuluk in seguito a una voce, ri- sultata poi falsa, del bombardamento aereo di Kubyšev. Oltre sessanta Ebrei hanno di- sertato dalla 5a Divisione alla vigilia del giorno in cui furono distribuite le armi. STALIN: Sì, gli Ebrei sono cattivi soldati»6.

(Per capire l’ambito in cui si svolge la discussione, bisogna evocare il linguaggio dell’epoca: «STALIN: gli Slavi sono gli aviatori migliori e più valorosi. Essi sono rapidi nel- l’azione, perché costituiscono una razza giovane, non ancora logorata. I Tedeschi sono forti ma gli Slavi li sconfiggeranno»7).

Ma il giorno dopo occorre puntualizzare:

«ANDERS: Eravamo stati informati ufficialmente che i Bielorussi, gli Ucraini, gli Ebrei non sarebbero stati messi in libertà ed essi erano — né hanno mai cessato di essere — cittadini polacchi, perché lei ha annullato tutti i suoi impegni con la Germania. STALIN: E che cosa ve ne fate dei Bielorussi, degli Ucraini e degli Ebrei? Voi volete i Po- lacchi, che sono i soldati migliori. SIKORSKI: Non penso agli uomini; questi possono essere scambiati contro polacchi, che sono cittadini russi. Non posso accettare in linea di principio alcuna situazione che renda incerte le frontiere della Repubblica polacca. I cittadini polacchi dei territori apparte- nenti alla Repubblica prima del 1939 non hanno mai cessato di essere tali. Nessun fatto compiuto può essere creato con la forza. Ciò non sarà accettato mai dall’Occidente. STALIN: Essi hanno preso parte ai plebisciti e sono diventati cittadini sovietici.

5 GUTMAN, pp. 49-50. 6 WŁADYSŁAW ANDERS, Un’armata in esilio, Capelli, 1950, pp.118-119. 7 Ibidem, p. 120.

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ANDERS: Ma non l’hanno fatto di loro libera volontà, e per quanto riguarda i Bielorussi essi si considerano polacchi e furono ottimi soldati durante la guerra del 1939. SIKORSKI: Lei ha detto ieri che il mondo riderebbe se l’intero Esercito polacco lasciasse la Russia. Dico ora che il mondo riderebbe se io accettassi una qualsiasi discussione sul punto delle frontiere del 1939 o sull’accettazione di situazioni create con la forza du- rante la guerra. STALIN: È certo che non polemizzeremo mai sulle frontiere. SIKORSKI: Non ha detto lei stesso che Leopoli è una città polacca? STALIN: Sì, ma lei dovrà discuterne con gli Ucraini. ANDERS: Molti Ucraini sono filo-tedeschi; ecco perché abbiamo avuto tante difficoltà con essi; voi stessi ne avete avute altrettante dopo. STALIN: Sì, ma furono causati dai vostri Ucraini, non dai nostri. Noi li distruggeremo as- sieme a lei. SIKORSKI: Noi non ci preoccupiamo degli Ucraini, ma del territorio»8.

È durante quelli stessi incontri che alle insistite domande su dove siano finiti gli uf- ficiali polacchi introvabili, Stalin risponde: «Be’, saranno fuggiti in Manciuria». Ricordo questa celebre replica per meglio contestualizzare le enormi difficoltà da parte po- lacca, difficoltà concernenti pressoché tutti gli aspetti della formazione dell’armata: numero degli effettivi che i sovietici vorrebbero limitare al massimo, scarsità degli ap- provvigionamenti, condizioni climatiche e sanitarie pessime, mancanza di collabora- zione nel rilascio dei deportati, il cui numero era stimato dai polacchi di oltre un milione e mezzo. In simili condizioni di trattativa, la questione delle minoranze si rivela una trap- pola. Da un lato, Sikorski e Anders vogliono tenere aperte le possibilità di rimpinguare le fila dell’armata con i polacchi «veri», sperando soprattutto nel ritrovamento degli uf- ficiali scomparsi. Dall’altro non possono transigere sull’equazione «diritto dei cittadini della Repubblica ante 1939 di unirsi all’Armata = riconoscimento dell’appartenenza dei Kresy alla Polonia». L’ambivalenza di chi rivendica lo ius soli per interesse verso il suolo più che per tutela di tutti i suoi cittadini, rende facile a Stalin accentuare le differenze tra questi ultimi, trovare un consenso negativo, seminare zizzania. A prescindere dalle gincane contraddittorie dei vertici polacchi, ebrei, bielorussi e ucraini verranno sempre più univocamente trattati come cittadini sovietici. Tale linea di condotta da parte russa trova una ratifica ufficiale solo quando i soldati di Anders sta- zionano già in Medio Oriente, ma costituisce uno degli elementi che contribuiscono a far sì che l’Armata si comporrà per la sua stragrande maggioranza di polacchi etnici. L’altro elemento documentato dal lavoro di Gutman è la selezione etnica che ef- fettueranno gli stessi polacchi. Con il passare del tempo diverrà sempre più difficile per i cittadini appartenenti alle minoranze farsi accettare nei ranghi dell’Armata. Per- sino coloro che sono stati arruolati all’inizio, finiscono per essere scartati nel corso di successive scremature effettuate mediante nuove visite militari. Coloro che scampano a questo meccanismo, in genere sono o raccomandati da qualche ufficiale polacco, o

8 Ibidem, pp.122-123.

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possono vantare qualifiche professionali particolarmente utili per l’esercito quali quelle di medico o di ingegnere. Grazie alle forche caudine sovietiche, i problemi della Polonia multietnica d’an- teguerra si riflettono così nella composizione finale dell’Armata di Anders in maniera più accentuata anziché attenuata. Vi sono stati più tardi, in Occidente, diversi accenni anche pratici di voler correggere questa rotta. Il primo laboratorio di pari cittadinanza rappresentato dalle scuole e dalle diverse attività culturali create per i membri del se- condo Corpo, nasce dall’esilio. Così, la vicenda delle minoranze fornisce un esempio drammatico di quanto sia difficile pervenire a un modello di coscienza nazionale mul- tietnica, sia quanto sarebbe necessario cogliere sino in fondo la forza sia geopolitica che culturale insita nello ius soli. Il nodo più cruciale mi sembra questo. Riuscire da un lato a far reciprocamente coesistere memorie conflittuali dolorose, e, dall’altro, raggiungere al contempo il pieno riconoscimento di un’identità fondata su nient’altro che la cittadinanza. I venti caduti ebrei di Montecassino, i loro compagni ucraini e bielorussi, lituani o tedeschi etnici che malgrado ogni discriminazione etnica ce l’hanno fatta a diventare soldati del secondo Corpo d’Armata, non hanno solo diritto alle preghiere di un pope, di un pastore e di un rabbino. Hanno soprattutto diritto a essere ricordati come polac- chi: come coloro che, pari ai loro compagni, hanno combattuto e sono morti «per la no- stra e la vostra libertà».

Helena Janeczek è nata a Monaco di Baviera in una famiglia di origine ebraico-polacca. Si è trasferita in Italia nel 1983. Attualmente vive a Gallarate e lavora a Milano. Ha esordito come poetessa in lingua tedesca con la raccolta Ins Freie (Suhrkamp, 1989) e come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997; Premio Bagutta Opera Prima e Premio Berto). Da allora ha partecipato con racconti e saggi a varie antolo- gie e ha pubblicato il suo secondo romanzo, Cibo (Mondadori, 2002). Inoltre è redattrice di “Nuovi Argomenti” e della rivista online “Nazione Indiana” (www.nazioneindiana.com). Il suo nuovo romanzo Le rondini di Montecassino, di prossima pubblicazione presso l’edi- tore Guanda, tocca diffusamente anche le vicende del secondo Corpo polacco.

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Le ricerche sul secondo Corpo d’armata polacco in Italia. L’attività svolta dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche

di Mario Fratesi

L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 1939- 1989: la “quarta spartizione” , pp. 796-805. Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.

poloni aeurop ae 2010 Le ricerche sul II Corpo d’Armata polacco in Italia. L’attività svolta dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche Mario Fratesi

è L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche nato negli anni Settanta e, nel tempo, ha assunto le caratteristiche di un centro di È documentazione e ricerca sulla storia regionale, e nazionale, del Novecento. fornito di una biblioteca con oltre 25.000 volumi, di una emeroteca e di un archi- vio storico; raccoglie inoltre fondi e documenti acquisiti anche tramite donazioni. à La decisione, da parte di questo Istituto, di svolgere attivit di ricerca e divulga- è zione in merito alle vicende del II Corpo d’Armata polacco in Italia scaturita à soprattutto dalla volont di portare un contributo alla conoscenza di una pagina di storia che fino a quel tempo, anche per motivazioni politiche legate alla “guer- ra fredda”, era stata dimenticata o ricostruita in maniera distorta. Alle conse- guenti iniziative messe in campo ha dato un indispensabile contributo Giuseppe Campana: pubblicista, attento conoscitore della storia delle Marche durante la à seconda guerra mondiale e collaboratore dell’Istituto. Gi nel 1978 Campana aveva iniziato ricerche nel merito recandosi in Inghilterra presso l’Imperial War – – Museum. Successivamente nel 1986 si era recato di nuovo a Londra, pres- so il Polish Institute and Sikorski Museum, dove aveva acquisito nuova docu- mentazione sul II Corpo polacco. Nel 1994, in occasione del 50° anniversario della liberazione delle Marche, lo stesso Giuseppe Campana aveva curato l’uscita di un supplemento speciale e – ù di diversi articoli apparsi sul Corriere Adriatico, il pi importante quotidiano – della Regione in cui si ricostruivano le fasi della Battaglia di Ancona e il ruolo che vi avevano svolto i soldati polacchi comandati dal generale Wladysław Anders. Lo stesso Campana, utilizzando il materiale filmico reperito presso l’Im- perial War Museum, aveva curato la realizzazione di Ancona 1944. I film degli operatori di guerra inglesi. – Il 18 luglio 2004 il Comune di Ancona dietro proposta e sollecitazione dell’Isti- ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 797 – tuto celebrava l’anniversario della liberazione di Ancona invitando alla cerimo- nia ex combattenti del II Corpo polacco e rappresentanti della Repubblica di Polonia. Intervenivano il viceministro della difesa Maciej Górski, l’ambasciatore in Italia Michał Radlicki e un reparto dell’esercito. Una cerimonia di questo gene- re non si svolgeva dal lontano 1984. L’anno successivo usciva un libro, Camerata Picena 1944. L’anno del fronte, edito dal Comune di Camerata Picena e curato da Giuseppe Campana e Mario Fratesi, in cui la storia della liberazione di Ancona e del territorio circostante era arricchita con le testimonianze di persone che erano state direttamente coinvol- te in quegli avvenimenti. Nel 1999 e nel 2002, per iniziativa dell’Istituto regionale per la storia del movi- mento di liberazione nelle Marche, uscivano: Rapporto sulle operazioni del II corpo polacco nel settore adriatico e La battaglia di Ancona del 17-19 luglio 1944 e il II Corpo polacco, ambedue curati da Giuseppe Campana. Questi due libri hanno rappresentato, rispetto a quanto fino a quel momento era stato pubblica- à to, una grossa novit storiografica ed hanno riscosso unanimi apprezzamenti. è L’impegno dell’Istituto su questo argomento poi proseguito attraverso la colla- borazione con la Regione Marche sul progetto “Le Marche in guerra”. Progetto la cui realizzazione ha portato all’acquisizione dai musei londinesi (The Polish Institute and Sikorski Museum, Imperial War Museum) di filmati e di oltre 8.000 fotografie riguardanti la presenza del II Corpo nella Regione Marche dal 1944 al

1946. Le fotografie1 sono state rese disponibili per la consultazione anche trami- te internet . è Una selezione delle stesse fotografie stata poi utilizzata per la predisposizio- è ne della mostra “Il II Corpo d’Armata polacco nelle Marche: 1944-46”, che ù à stata vista ed apprezzata nelle pi importanti citt della Polonia, in numerose à localit delle Marche, a Roma e a Venezia. E per la pubblicazione di due libri fotografici: Ancona 1944. Immagini dei fotografi di guerra inglesi e polacchi e Il II Corpo d’Armata polacco nelle Marche. 1944/1946. Fotografie, curati da Giu- seppe Campana e da Raimondo Orsetti, all‘epoca responsabile del Servizio tec- nico alla cultura della Regione Marche. è Quanto sopra stato possibile grazie alla collaborazione di numerose persone; – – citiamo tra i tanti Krzysztof Strzałka (all’epoca primo segretario dell’Amba- sciata della Repubblica di Polonia in Italia), Andrzej Suchcic e Michał Olizar (rispettivamente responsabile dell’archivio e vicepresidente del Polish Intitute and Sikorski Museum), gli ex combattenti del II Corpo Wojciech Narębski, Jan è Zdzisław Zaremba e Mieczysław Rasiej, recentemente scomparso. Importante Mario Fratesi 798 stata anche la collaborazione dell’Associazione Italo-Polacca delle Marche. è L’ultima iniziativa rappresentata dalla recente pubblicazione, promossa di con- certo con la Regione Marche, del volume Loreto: il cimitero di guerra polacco, curato da Beata Janckiewicz e Giuseppe Campana. L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche inten- de proseguire il lavoro finalizzato alla ricostruzione delle vicende storiche delle Marche durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente suc- cessivi, nonché a rendere giustizia ai soldati polacchi che hanno combattuto “per à è à la nostra e la vostra libert ”. In base a questo impegno gi in atto la collabo- à razione scientifica diretta alla realizzazione (in localit Offagna, a pochi chilome- tri da Ancona) di un museo e centro di documentazione sulla “Battaglia di Anco- na”. Inoltre, attraverso l’utilizzazione della documentazione in nostro possesso, e di altra da acquisire, si sta valutando l’ipotesi di dare vita a ricerche e pubbli- cazioni sulle scuole del II Corpo polacco (quasi tutte ubicate nelle Marche) e sulle sue iniziative in campo culturale ed editoriale. Meritano infine ulteriori approfondimenti e ricerche molti aspetti e vicende collegati alla presenza del generale Władysław Anders e dei suoi soldati ad Ancona, e nel resto della peni- sola, per tutto il 1946. ò Pu essere utile a questo punto riferire con maggiore dovizia di dettagli delle è pubblicazioni fin qui edite dall’Istituto. La prima il Rapporto sulle operazioni del II Corpo polacco nel settore adriatico, a cura di Giuseppe Campana, collabora- zione di Mario Fratesi, prefazione di Massimo Papini, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 1999. Nel libro viene riprodotto il testo integrale del Rapporto sulle operazioni del II Corpo polacco nel settore adriatico, acquisito due anni prima presso il Public Record Office di Lon- dra, disponibile per la prima volta in Italia e tradotto dall’inglese dallo stesso autore. Con la pubblicazione di questo documento non solo si recupera una dimensio- ù ne pi complessiva e meno ideologica del problema, ma si vengono anche a col- mare lacune della storia militare, sopratutto per quello che riguarda la Campa- gna d’Italia sul versante marchigiano. Nel Rapporto i polacchi propongono una loro ricostruzione operativa, compilata a “caldo” consultando i diari di guerra e ricca di precisi riferimenti, di luogo e di tempo, delle battaglie sostenute nelle Marche. Ma non si tratta solo di un registro da confrontare utilmente con le fonti locali e con eventuali analoghi documenti tedeschi. La ricerca delle cause di alcuni insuccessi e inconvenienti verificatesi durante le operazioni del II Corpo ò durante l’avanzata nel settore adriatico pu far considerare il Rapporto come un ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 799 documento che segna il passaggio dalla raccolta dei fatti alla loro prima inter- pretazione storiografica. Sono tuttavia gli eventi bellici a cadenzare le varie parti del Rapporto; il raccon- – – to spesso scandito da fatti drammatici si dipana attraverso i sanguinosi scon- tri di Loreto, Castelfidardo, Osimo, Ancona; e ricordando episodi come quelli relativi al difficile passaggio dei fiumi Chienti, Musone, Esino, Metauro e Foglia, fino alla battaglia della “Linea Gotica” (la barriera difensiva tedesca). è Tra i meriti di questo lavoro vi certamente quello di aver contribuito a supera- re le amnesie del passato e le polemiche politiche mettendo in giusto rilievo il ruolo svolto dai soldati del II Corpo polacco nella liberazione delle Marche. Que- sto senza dimenticare che accanto a loro, e in sinergia, combattevano i soldati del ricostituito Esercito Italiano (il Corpo Italiano di Liberazione), i combattenti della Brigata Maiella (formazione militare, composta da abruzzesi, che operava in collegamento con i polacchi) e i partigiani. è Il libro corredato da interessanti e complete note bibliografiche e da materiale fotografico d’archivio, nonché da carte topografiche militari che illustrano, passo dopo passo, l’avanzata del II Corpo polacco nell’Italia centrale. Dall’esigenza di arrivare a una vera e propria ricostruzione dettagliata e precisa ù della Battaglia di Ancona, il pi possibile scevra da tentazioni ideologiche e che à mettesse in luce il ruolo svolto dal II Corpo polacco nella liberazione della citt , è nato La Battaglia di Ancona del 17-19 luglio 1944 e il II Corpo d’Armata polac- co, a cura di Giuseppe Campana, collaboratori Mario Fratesi, Cesare Jacomini e Wojciech Narębski, presentazione di Massimo Papini, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 2002. Per fare questa ricostruzione occorreva una ricognizione a tappeto di tutte le – à – fonti e ecco una delle novit del libro anche di quelle provenienti da parte tedesca. La grande passione di Giuseppe Campana e la raccolta certosina da lui operata in ogni parte del mondo hanno permesso uno studio completo, in cui à non resta fuori alcuna immagine della guerra, con una pluralit di protagonisti; dai soldati, vincitori e vinti, dai partigiani dalla popolazione civile. Nella prima parte del libro vengono descritte la varie fasi della battaglia: dal geniale piano operativo ideato dal generale Anders per sconfiggere le truppe tedesche che occupavano Ancona tramite una manovra a tenaglia, al ruolo svol- to dai combattenti italiani del Corpo Italiano di Liberazione, della Brigata Maiel- la e della Resistenza. Seguono poi delle dettagliate schede relative alle notizie storiche sul II Corpo polacco, la sua composizione e articolazione, e i materiali in dotazione. Analoga Mario Fratesi 800

a a documentazione viene prodotta riguardo al CIL e alla 171 e 278 Divisione di fanteria tedesca. Il tutto completato dalla riproduzione di materiale fotografico, mappe militari e documenti riguardati le varie fasi dei combattimenti, e pure testi di poesie scritte da soldati del II Corpo. In appendice fotografie, scattate recen- temente, riguardanti i luoghi della memoria della Battaglia di Ancona. è L’importanza di questo lavoro rilevante anche perché Campana vi introduce à – una novit storiografica. L’autore pur facendo una distinzione tra la “Prima Bat- taglia di Ancona” o “Battaglia preliminare di Ancona”, che si conclude l’8 luglio à con la conquista dell’importante localit collinare di Filottrano, e la “Seconda Battaglia di Ancona” o “Battaglia principale di Ancona”, che si conclude nel pomeriggio del 18 con l’entrata dei Lancieri dei Carpazi nel capoluogo marchi- – giano considera gli avvenimenti succedutosi nel periodo 2-19 luglio come un unico avvenimento militare avente come obiettivo la conquista del porto di Anco- na. In previsione dell’imminente attacco alleato alla Linea Gotica era infatti indi- spensabile poter usufruire del porto dorico per accorciare il percorso dei riforni- menti. è Non ultimo merito di questo libro quello di mettere in luce la piena collabora- zione, che si realizza sul campo nel corso della Battaglia di Ancona, tra il II Corpo polacco e le forze italiane: CIL, Brigata Maiella e partigiani. Quanto sopra a ulteriore dimostrazione che precedenti ricostruzioni e opinioni tendenti a dimo- strare il contrario, e circolate per decenni, erano in maggior parte frutto del clima di contrapposizioni politiche creatosi nell’immediato dopoguerra. Grazie alle immagini acquisite presso l’Imperial War Museum ed il Polish Insti- tute and Sikorski Museum in base al progetto “Le Marche in guerra”, portato avanti dalla Regione Marche d’intesa con l’Istituto regionale per la storia del è movimento di liberazione nelle Marche, stato possibile pubblicare due impor- – tantissimi libri fotografici. Il primo Ancona 1944. Immagini dei fotografi di guer- ra inglesi e polacchi, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti, Regio- ne Marche e Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle – Marche, Ancona 2004 racchiude una selezione di fotografie scattate, nella à seconda met del 1944, da fotografi del II Corpo polacco e dell’Army Photo- à graphic Unit britannico. Questa unit dipendeva dal Ministero delle informazioni e aveva il compito di documentare gli eventi bellici e fornire materiale alla stam- – pa, ai cinegiornali, al War Office il Ministero della guerra. – – Le immagini in base a precise direttive impartite ai fotografi dovevano soprat- tutto documentare le cerimonie militari, l’organizzazione logistica e le distruzioni ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 801 provocate dai bombardamenti, queste ultime quale segno della potenza militare alleata. Gli italiani vengono in genere mostrati come folla plaudente al momen- to della liberazione, quasi assenti sono le immagini relative ai soldati del Corpo Italiano di Liberazione e ai partigiani. Da quanto sopra si deduce che la fotogra- è fia di guerra destinata, come scrive Campana, “a essere strumentalizzata per à precisi interessi e bisogni contingenti, in modo tale che la realt venga rappre- ù sentata nel modo pi opportuno e che le immagini documentino solo quello che il potere politico vuole e non altro”. Questa doverosa premessa non toglie comunque nulla allo straordinario valore documentativo delle 160 fotografie presenti in questo volume. Si parte dalle immagini dei soldati polacchi che attraversano il fiume Musone, delle varie fasi della loro marcia di avvicinamento ad Ancona e dei militari tedeschi fatti prigio- à nieri. Una volta liberata la citt di Ancona le fotografie documentano l’accoglien- za da parte dei partigiani e della popolazione civile, le distruzioni provocate dai bombardamenti e il lavoro dei genieri inglesi per ripristinare il porto e fare ripren- – – dere l’afflusso dei rifornimenti soprattutto carburanti verso il fronte che, in è vista dell’imminente attacco alla Linea Gotica, si spostato a nord. In proposito si segnalano le belle immagini di ragazze italiane che lavorano presso il deposi- to carburanti di Falconara. Le ultime fotografie sono riferite alla visita ad Ancona del maresciallo Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, e a una cerimonia militare che si tiene allo stadio dorico, nel corso della quale il generale Anders procede alla decora- zioni di alcuni suoi ufficiali e soldati che si sono distinti nel corso delle battaglie di Cassino e di Ancona. Nella parte introduttiva del libro i curatori ripercorrono le vicende storiche del II Corpo polacco e raccontano, con l’ausilio di documenti e mappe, le varie fasi dei combattimenti svoltesi tra il 2 ed il 19 luglio e finalizzati a liberare Ancona dalla presenza dei tedeschi e a rendere utilizzabile il suo porto. Interessantissimo, inoltre, il saggio sulla fotografia in tempo di guerra e sull’utilizzo che ne veniva fatto. è Il secondo volume fotografico II Corpo d’Armata polacco nelle Marche. Foto- grafie, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti, Regione Marche, Isti- tuto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, The Poli- sh Institute and Sikorski Museum, Ancona 2005. Racchiude 310 fotografie, la maggior parte delle quali proviene dal Polish Institute and Sikorski Museum nato à a Londra nel 1945 con la finalit di conservare e rendere disponibile agli studio- si i documenti prodotti dal Governo polacco in esilio e dalle Forze Armate polac- Mario Fratesi 802 che che, nel periodo 1940-45, avevano combattuto sui fronti occidentali. à Le fotografie sono state scattate da soldati appartenenti a singole unit del II Corpo polacco, in molti casi non si trattava di fotografi professionisti. Le fotoca- mere Leica che avevano in dotazione, piccole e molto maneggevoli, consentiva- à ù no di cogliere in pieno la drammaticit degli eventi facendo apparire le foto pi spontanee. Per questo motivo, oltre che a una certa autonomia goduta dagli ù operatori, le immagini immortalate dai polacchi risultano meno omologate e pi à attinenti alla realt rispetto a quelle degli inglesi. Le prime immagini del libro riguardano l’avanzata dei soldati polacchi nel sud delle Marche e documentano combattimenti, scene di vita della popolazione nei territori liberati, i soldati nemici caduti o catturati. Ci sono poi le fotografie scat- à tate ad Ancona nel pomeriggio del 18 luglio 1944, al momento dell’entrata in citt dei Lancieri dei Carpazi. Nella seconda parte, le fotografie si riferiscono alla battaglia per il superamento della linea difensiva approntata dai tedeschi sul fiume Metauro (compresa la famosa fotografia che immortala Churchill a Montemaggiore al Metauro mentre osserva l’attacco alleato) e l’entrata degli alleati a Pesaro. è Ricchissima e interessante l’ultima parte del libro dedicata al dopoguerra: dalle fotografie che riprendono ausiliarie e soldati polacchi dediti alle loro normali occupazioni o colti in momenti di svago, agli ospedali militari, alle scuole del II Corpo. Attraverso i molti licei e scuole tecniche, disseminate in tutte le Marche, il generale Anders cercava di offrire ai suoi soldati, in vista dell’imminente smo- – bilitazione, gli strumenti per affrontare la vita civile, tenuto anche conto che per – ù la stragrande maggioranza di loro non vi era pi la prospettiva di un ritorno in patria. Non mancano le immagini su parate militari e sulla visita nelle Marche di perso- naggi illustri; tra questi Harold Mc Millan, vicepresidente della Commissione di controllo alleata e futuro premier britannico. L’obiettivo dei fotografi polacchi sor- prende inoltre interessanti momenti della vita sociale e religiosa dei marchigia- ni. Introduce il volume il saggio Polonia e Italia nella storia di Krzysztof Strzałka, à oggi docente all’Universit Jagellonica di Cracovia. Da parte sua Giuseppe Campana ripercorre l’odissea dei soldati del II Corpo: cominciata in Polonia nel 1939 con la duplice invasione da parte della Germania nazista e dell’Unione Sovietica, proseguita poi con la prigionia nei gulag sovietici, il trasferimento in Medio Oriente e infine in Italia. Non manca una scrupolosa descrizione della costituzione organica del II Corpo polacco e dei materiali in dotazione. ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 803

La vicenda della visita del Primo ministro britannico Winston Churchill nelle Mar- è che, avvenuta nell’agosto 1944, documentata in Agosto 1944 Churchill nelle Marche. Dietro le immagini, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti, Regione Marche, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 2006. Il volume venne pubblicato proprio mentre la mostra ù fotografica “Il II Corpo polacco nelle Marche 1944-1946” si spostava nelle pi à importanti localit della Regione. In questo libro la visita di Churchill nelle Marche viene documentata da numero- se fotografie provenienti dall’Imperial War Museum e dal Polish Institute and ì Sikorski Museum. Vediamo cos che il 25 agosto 1944, dopo essere atterrato a Loreto, Churchill ha un incontro con il generale Anders a Senigallia presso il à quartier generale del II Corpo polacco. Successivamente si reca in prossimit del fiume Metauro, dove sono in corso i combattimenti per superare l’ultima linea difensiva tedesca prima della Linea Gotica. è La preziosa rassegna fotografica contenuta nel libro preceduta da alcuni docu- menti di rilevante interesse storico, quali il racconto dello stesso Churchill sul suo viaggio e il resoconto completo del colloquio tra il premier britannico e il comandante del II Corpo. L’incontro si svolge in un momento cruciale per gli assetti futuri dell’Europa e fa emergere i contrasti tra i due leader in merito al futuro della Polonia. Anders manifesta subito le proprie ansie e preoccupazioni per quanto sta accadendo a Varsavia (dove i patrioti polacchi sono insorti con- tro i nazisti e l’esercito sovietico non fa nulla per aiutarli) e per quanto scaturito dalla conferenza di Teheran, da cui traspare l’orientamento degli alleati occiden- tali ad assecondare i disegni di Stalin in merito alla Polonia. Stalin, tra l’altro, intendeva annettere all’Unione Sovietica le regioni orientali della Polonia, zone da cui erano originari la maggior parte dei soldati del II Corpo. Churchill rispon- à de che l’Inghilterra onorer i propri impegni ma che Anders non deve “rigidamen- te insistere sul mantenimento dei confini orientali”. Anders cerca anche di con- ò vincere il suo interlocutore che non si pu prestare fede a Stalin quando promet- te “una Polonia libera e forte”, Churchill si lascia andare alla commozione e riba- disce: “non vi abbandoneremo mai”. Le vicende, come sappiamo, seguiranno il corso temuto dal generale Anders. Nel corso della conferenza di Jalta gli alleati occidentali non faranno altro che prendere atto della situazione che si era creata sul campo di battaglia e, di fatto, abbandoneranno la Polonia nelle mani dell’Unione Sovietica. Di conseguenza la à Polonia, oltre a vedersi spostare le frontiere verso ovest, non potr scegliere – liberamente il proprio destino. Per Władysław Anders e i suoi soldati che ave- Mario Fratesi 804 à – vano combattuto per la libert della Polonia, oltre che dell’Italia non rimane altra scelta che un futuro lontano dalla loro patria. è A Loreto, a pochi chilometri da Ancona, ubicato uno dei quattro cimiteri in cui sono sepolti i soldati del II Corpo d’Armata polacco caduti durante la “Battaglia ù d’Italia”. Abbiamo quindi ritenuto pi che giusto dedicare un libro anche a que- sto argomento: Loreto: il cimitero militare polacco, a cura di Giuseppe Campa- na e Beata Jackiewicz, collaboratori Mario Fratesi e Sergio Molinelli, Regione Marche e Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Mar- che, Ancona 2007. Il libro si propone di ricordare i soldati del II Corpo d’Armata polacco che, al comando del generale Anders, nel 1944 hanno combattuto per liberare le Marche dall’occupazione nazista. I 1088 soldati polacchi caduti nella Campagna dell’Adriatico sono stati sepolti nel cimitero militare di Loreto; in un terreno donato dalla Santa Sede, che per seco- – –è li a causa della devozione mariana stato meta di pellegrinaggi provenien- ti anche dalla stessa Polonia. Un luogo scelto per le profonde suggestioni spiri- è tuali che suscita e dove, in Basilica, presente una Cappella polacca realizza- ta con le offerte provenienti dalla Polonia. è Il cimitero di Loreto considerato un frammento in terra italiana di una cultura polacca cancellata dal nazismo e dagli assetti territoriali del dopoguerra. Nel libro vengono riportati i nomi di tutti i caduti. Sono persone di ogni fede religio- sa: cattolici, ortodossi, evangelici, ebrei, musulmani. Persone di ogni condizione è sociale: contadini, tessitori, operai, intellettuali. Tra di essi vi un noto scrittore e giornalista, Adolf Bocheński, morto proprio il 18 luglio 1944 ad Ancona, men- tre disinnescava una mina. Dalle molte note biografiche dei caduti emergono storie commoventi, come quelle dei giovani indosso ai quali sono state trovate lettere scritte alla madre lontana o alla donna amata, medaglie votive, fotografie familiari, canzoni d’amore. Giuseppe Campana, nel saggio introduttivo dedicato alla storia del II Corpo polacco, si sofferma in modo particolare sui due anni successivi alla fine del con- flitto, con gli ex combattenti polacchi impossibilitati a tornare in una Polonia ormai inserita nel blocco sovietico; e sul ruolo svolto dal generale Anders duran- è te la sua permanenza in Italia. Di particolare importanza un documento, acqui- sito presso The Polish Institute and Sikorski Museum, ovvero la lettura che con- ù sente di rivedere l’accusa da pi parti rivolta al generale Anders di aver voluto – preparare una guerra contro l’Unione Sovietica. In questo documento intitola- à – to Studio sulle possibilit di difesa dell’Italia e datato gennaio 1946 Anders indi- vidua il pericolo di un attacco che potrebbe provenire dall’Unione Sovietica e dai ITALIA - POLONIA 8 pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 200 805 paesi suoi satelliti, un attacco che potrebbe interessare il Nord-est dell’Italia. à Passa pertanto a delineare i piani di difesa, compresi luogo e modalit di impie- è go del II Corpo. In un periodo in cui la tensione internazionale alta, anche per ò è la situazione creatasi a Trieste, ci che il generale Anders postula dunque una guerra difensiva. Il libro contiene una ampia documentazione fotografica, finora inedita, relativa alla costruzione e consacrazione del cimitero (avvenuta il 6 maggio 1946 alla à presenza delle autorit civili e militari e con riti religiosi celebrati dai ministri delle à varie confessioni), alla visite che ai caduti hanno reso personalit quali lo stes- so Anders e Karol Wojtyła, da cardinale (1977) e anche da Pontefice (1979).

1 . Vedi il sito n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

La rivista “Kultura” di Jerzy Giedroyc

di Basil Kerski

L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 1939- 1989: la “quarta spartizione” , pp. 577-599. Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.

poloni aeurop ae 2010 STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008

La rivista «Kultura» di Jerzy Giedroyc Basil Kerski traduzione: Renzo Panzone

1. Dopo la capitolazione della Germania hitleriana, nella primavera del 1945, cen- tinaia di migliaia di polacchi – soldati combattenti dalla parte degli alleati, ex lavoratori forzati del Terzo Reich, detenuti liberati dai campi di concentramento e dai campi di prigionia – vennero a trovarsi oltre i confini dello Stato polacco occupato dall’esercito sovietico. Molti di loro non si facevano alcuna illusione circa la situazione politica in patria. Era facile prevedere che la Polonia sarebbe ù stata sempre pi un docile vassallo dell’impero sovietico. Di fronte a tali prospet- tive politiche, in centinaia di migliaia voltarono le spalle alla patria e decisero di prendere la strada dell’emigrazione. Gli emigranti politici del 1945 avvertivano forte il legame con il destino delle élite politiche del 1831. Allora, dopo il fallimento dell’insurrezione contro la Russia, potenza occupante, l’ondata di profughi che rappresentavano le élite politiche e ì culturali si diresse verso la Francia. Gli esuli del 1945, cos come i fuoriusciti del 1831, si sentivano “traditi dagli alleati occidentali”. L’emigrazione polacca nel ò à diciannovesimo secolo si form sull’esperienza di una mancanza di solidariet da parte della Francia e della Gran Bretagna, nella sua lotta contro le potenze è occupanti per l’indipendenza della Polonia. Vero che, in Francia, gli emigrati furono accolti con entusiasmo, ma poi vennero rinchiusi, l’uno dopo l’altro, in

una specie di lager e sotto la1 sorveglianza della polizia. In Europa Occidentale rimasero come degli outsider . Nel 1946, Gustaw Herling-Grudziński, giovane soldato e scrittore polacco di stanza a Roma, vedeva tra le due ondate emigratorie un’analogia “talvolta spa- ventosa”. Agli occhi suoi e degli altri profughi polacchi, I libri della nazione polac- ca e dei pellegrini polacchi, scritti nel 1832 da Adam Mickiewicz, tornavano ad à essere di attualit . à L’eredit romantica della cosiddetta “Grande Emigrazione” dopo il 1831, di cui divenne infatti Mickiewicz fu illustre rappresentante, un importante punto di rife- Basil Kerski 578 rimento culturale e politico per i nuovi emigranti polacchi. Per ripetere le parole dello slavista berlinese Heinrich Olschowsky: “L’autoconsapevolezza dell’emi- grazione, sia politica che letteraria, dopo la seconda guerra mondiale si forma- va sotto il forte influsso del romanticismo. Analoga situazione era determinata e del martirologio dalla rinascita del mito della “Grande Emigrazione”, che aveva

lasciato un’impronta nella2 memoria culturale. La tradizione celava in sé un mes- saggio di orientamento” . La pubblicazione dei Libri della nazione polacca e dei pellegrini polacchi di à Mickiewicz agli inizi dell’attivit dell’Instytut Literacki, casa editrice dell’emigra- zione, fondata a Roma nel 1946 da giovani ufficiali polacchi, aveva un significa- to programmatico. La premessa a tale pubblicazione, scritta da Gustaw Herling- definit direttore

Grudziński, fu a dal della suddetta3 editrice, Jerzy Giedroyc, il manifesto generazionale dell’emigrazione polacca . à Nonostante il fascino dovuto all’attualit dei Libri di Mickiewicz, Gustaw Herling- à Grudziński, nella sua prefazione programmatica, faceva i conti con l’eredit del

romanticismo polacco,4 specialmente col messianismo degli emigranti del dician- novesimo secolo . Nel lascito messianico dei romantici Herling individuava gli elementi di cui la sua generazione avrebbe dovuto liberarsi. In primo luogo, “l’in- dividualismo romantico”, che – secondo lui – non aveva niente in comune con la à tradizione occidentale di rispetto delle libert della persona. Secondo Herling, il modo polacco di intendere l’individualismo si fondava non tanto sui valori uma- nistici, quanto sulla totale subordinazione dell’individuo agli interessi collettivi della nazione. Un altro pericolo Herling lo scorgeva nella “megalomania nazio- nale”, di cui era sintomo particolare l’idea mickiewiczana di Polonia come “Cri- sto delle nazioni”. “La megalomania nazionale polacca, che attinge la sua linfa principalmente dal messianismo, parte dal presupposto ingannevole che il valo- è re della dedizione e del sacrificio giudicato, nell’ambito dei criteri politici e sociali, con la stessa misura con cui si giudica nella sfera delle norme morali”. va Liberando la morale dalla politica, Herling-Grudziński non si dichiara in favo- ì re di una forma di cinismo politico, bens dello sviluppo di una concezione reali- à stica e politicamente portante del recupero della sovranit statale. A suo parere, i polacchi avranno poco da guadagnare sulla scena politica internazionale, se ricorreranno al pathos contrassegnato dalla retorica nazionalistica e moralistica. Herling-Grudziński era consapevole del fatto che un nuovo movimento indipen- dentistico polacco non potesse formarsi senza ideali. Oltre agli elementi messia- nici, egli trovava nei Libri di Mickiewicz dei pensieri che tracciavano il futuro indi- à rizzo: “Per fortuna I libri della Nazione e dei Pellegrini Polacchi indicano gi l’ini- STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 579 zio della fine di quel fascino pericoloso [la megalomania nazionale – B.K.]. Sulle à à loro pagine verr espressa, in modo chiaro e preciso, la necessit di dialogare con i popoli d’Europa al di sopra dei capi delle corti e dei gabinetti, dalle loro ù ‘ pagine fluiranno le pi belle parole delle Litanie del Pellegrino: La guerra univer- à ’ sale per la libert dei popoli …”. Herling considerava particolarmente prezioso, e ancora in grado di indicare un indirizzo di pensiero, il punto di vista di Mickiewicz e degli altri romantici polac- à chi, secondo cui la questione della sovranit della Polonia dipendeva dagli altri popoli europei. A suo avviso, aveva un valore notevole e di vasta portata anche :s il pensiero sociale di Mickiewicz ia l’emancipazione delle nazioni europee, sia l’instaurazione della giustizia sociale sono condizioni altrettanto importanti per à ;l creare le basi della stabile sovranit della nazione a democrazia non deve ; ò essere privilegio di un piccolo gruppo e la nuova Polonia indipendente non pu essere la ricostruzione dell’antica Res Publica nobiliare, ma deve diventare uno stato moderno. I fondatori dell’Instytut Literacki cercarono, mediante l’introduzione di Gustaw Herling-Grudziński ai Libri di Mickiewicz, di far capire che il loro scopo era non soltanto la ricostruzione basata su premesse realistiche dell’indipendenza dello Stato, ma anche l’edificazione di uno Stato democratico e riformato nella sfera sociale. La prefazione di Herling era, dunque, non solo una sorta di chiarimento con il romanticismo polacco, ma anche un tentativo di definire - per le esigenze post , della generazione polacca di emigranti 1945 protesi verso il futuro - gli ele- menti moderni del pensiero politico. Nello stesso tempo, i fondatori dell’Instytut Literacki, raccolti intorno a Jerzy Giedroyc, tagliavano i ponti con le élite polac- che conservatrici – in particolar modo con il governo in esilio a Londra – miran- ti a restaurare irragionevolmente la II Repubblica esistente fra le due guerre. La , per il politica del governo di Londra era considerata irrealistica da Giedroyc quale ì non valeva certo la pena ricostruire lo Stato polacco d’anteguerra, cos come si presentava fino al 1939, a motivo del suo carattere autoritario in campo politico e per le tensioni sociali che vi dominavano.

2.

5 I fondatori dell’Instytut Literacki facevano parte delle forze armate polacche di stanza in Italia. Si trovavano in mezzo a loro numerosi ex prigionieri del Gulag, liberati grazie alle relazioni riallacciate tra il governo polacco in esilio e Stalin. Memori del avu le esperienze te durante l’occupazione comunista della Polonia in seguito al patto Ribbentrop-Molotov, non prendevano nemmeno in considerazio- Basil Kerski 580 nella ò ne un ritorno patria occupata dall’Unione Sovietica. Dovevano, perci , tro- vare il loro posto all’estero, il che non era cosa facile in un’Europa Occidentale appena uscita dalla guerra. Anche nei paesi vincitori la fame e la disoccupazio- ne erano all’ordine del giorno, pertanto i profughi provenienti dall’Europa Orien- tale erano visti come zavorra indesiderata. I fondatori dell’Instytut Literacki ottennero dal comando del Secondo Corpo i la ì mezzi finanziari necessari per l’acquisto di macchine per stampa e, cos , nel settembre 1946, crearono a Roma una casa editrice – l’Instytut Literacki, appun- in to -, i cui uffici erano situati piazza Remuria 2a. A quel tempo in Italia c’erano ancora molti soldati polacchi che ricevevano regolarmente la paga ed erano à avidi lettori di libri. Dopo appena un anno di attivit dell’Instytut Literacki, Gie- droyc estese il programma editoriale alla rivista «Kultura», che sarebbe appar- sa come trimestrale. ò

In Italia6 l’Instytut Literacki pubblic un solo numero di «Kultura» e ben 24 titoli di libri . Oltre alla nuova edizione del Libro della Nazione Polacca e dei Pellegrini ò Polacchi di Adam Mickiewicz, l’Istituto di Giedroyc pubblic , tra l’altro, opere pre- stigiose quali il romanzo di Arthur Koestler Arrival and departure nella traduzio- ne di Gustaw Herling-Grudziński e, a cura dello stesso Herling, un’ampia anto- logia del racconto di guerra polacco Agli occhi degli scrittori. Tra i libri editi a ò Roma si pu trovare anche Il diario del viaggio in Austria e Germania di Jerzy Stempowski del novembre-dicembre 1945. Il libro di Stempowski, che dopo la è ù guerra usava lo pseudonimo di Paweł Hostowiec, un resoconto a pi livelli che nel dopo descrive il destino delle “Displaced Persons” guerra: accanto ai polac- erano chi, vittime del nazismo, presenti in territorio tedesco anche profughi ucraini che temevano di essere deportati in Unione Sovietica. Stempowski, inol- giudica tre, si interessa alla sorte dei civili tedeschi. Nel suo libro la politica degli alleati nei confronti della Germania. Grazie alla penna di questo scrittore polac- abbiamo co, nel diario la prima analisi critica delle incursioni aeree degli alleati à sulle citt tedesche durante la guerra. Stempowski giudica criticamente i raid alleati, considerandoli addirittura un atto di barbarie culturale. Il diario di Stem- powski fu pubblicato dall’Instytut Literacki quasi immediatamente dopo il suo ne ò ritorno dall’Austria e dalla Germania, Jerzy Giedroyc finanzi la traduzione in italiano nel 1947 (Paolo Hostowiec, Il calvario continua… Diario di un viaggio in Austria e Germania, Instytut Literacki, Roma, 1948). Il gesto di Giedroyc dimo- stra che l’Instytut non voleva rinchiudersi nel ghetto dell’emigrazione, ma cerca- va di allacciare relazioni con i circoli artistici ed intellettuali dell’Europa Occiden- tale. STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 581

Verso la fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50, Stempowski continua i suoi viaggi in Germania per incarico di Giedroyc. I diari di viaggio furono da lui pub- blicati sulle colonne di «Kultura», tra l’altro anche ampie relazioni di viaggi in Ita- lia durante l’inverno 1947-1948, apparse con il titolo Corona turrita nel numero 5 e 6 di «Kultura». Tutti i diari di viaggio di Hostowiec furono raccolti da Giedroyc in un libro soltanto dopo la morte di questo eminente saggista polacco, nel 1971, nel volume Od Berdyczowa do Rzymu (Da Berdičev a Roma). Per iniziativa della casa editrice Czarne dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk e di sua moglie è Monika Sznajderman, il suddetto volume, nel 2001, stato ripubblicato col nuovo titolo Od Berdyczowa do Lafitów (Da Berdičev a Maisons-Laffitte) e ha trovato entusiastica accoglienza presso i critici letterari polacchi. Vale la pena di aggiungere che il diario tedesco di Hostowiec, del 1945, non fu l’unica traduzio- ò ne in italiano dell’Instytut Literacki. Durante il periodo romano, Giedroyc pubblic anche un romanzo del naturalista polacco Juliusz Kaden-Bandrowski Miasto à mojej matki nella traduzione di Enrico Damiani (La citt di mia madre, Instytut Literacki, Roma 1947). I libri di Kaden-Bandrowski e di Stempowski entrarono a far parte della collana in lingua italiana ideata da Giedroyc “Capolavori della Let- teratura Straniera”, nella quale sarebbero dovute apparire le traduzioni delle grandi opere della letteratura polacca, tra cui i libri di Henryk Sienkiewicz, Bole- sław Prus, Jarosław Iwaszkiewicz e Stanisław Dygat. Quando, nel 1946, nacque a Roma l’Instytut Literacki, Jerzy Giedroyc pensava che la casa editrice da lui ù diretta sarebbe rimasta pi a lungo in Italia; il che richiedeva non soltanto la messa a punto di un programma editoriale in lingua polacca, ma anche una stra- tegia per entrare nel mercato italiano. Agli inizi del 1946, Jerzy Giedroyc era ancora del parere che l’Italia fosse un otti- à mo posto per svolgervi attivit politico-editoriale. In una nota personale del 14 febbraio 1946 scriveva:

Il momento importante che, a mio avviso, deve decidere la collocazione di un istituto del genere sul è à à territorio italiano la possibilit che l’attivit dell’Istituto abbia, ad un certo punto, l’appoggio di ambienti italiani e vaticani bendisposti verso di noi. Inoltre, bisogna tener conto del fatto che in un à prossimo futuro l’Italia diventer un canale della propaganda di Varsavia e della7 propaganda sovie- È tica. , dunque, opportuno e necessario bloccare tale operazione sul nascere .

à ù Gi un anno pi tardi, Giedroyc doveva rivedere questo suo giudizio positivo à riguardo all’Italia come luogo ideale per l’attivit dell’Instytut Literacki. Con la ò smobilitazione dell’esercito polacco inizi a cambiare radicalmente il mercato del libro polacco in Italia. La maggior parte dei soldati cominciarono a lasciare la Basil Kerski 582

Penisola, trasferendosi in altri paesi occidentali, in America o in Australia. Il pro- ò ì cesso di adattamento nella nuova patria risult cos difficile che molti di essi non avevano né tempo né voglia di leggere libri, mentre quelli ancora interessati non avevano soldi per comprarli. Il clima politico italiano, poi, indusse Giedroyc a una ù à pi profonda riflessione sull’opportunit di continuare il lavoro editoriale a Roma. Nell’Italia del dopoguerra, l’opinione pubblica favorevole alla sinistra dimostrava ò grande simpatia per il comunismo, perci gli esuli polacchi, dall’atteggiamento chiaramente antistalinista, si sentivano qui spiritualmente estraniati. ì Cos , nell’autunno 1947, Giedroyc vende il macchinario della tipografia e si tra- sferisce, con i suoi collaboratori, dapprima a Parigi e in seguito a Maisons-Laf- à à fitte, una localit situata nei dintorni della citt , dove pubblica la rivista «Kultura» regolarmente ogni mese fino alla sua morte avvenuta nel settembre del 2000 è (l’ultimo numero del mensile apparso nell’ottobre dello stesso anno). Giedroyc decise di trasferirsi nei pressi di Parigi soprattutto per prendere le à distanze dal governo in esilio a Londra. L’incompatibilit di idee tra l’Instytut Lite- à racki e quel governo – come ho ricordato all’inizio – si poteva gi rilevare nella premessa di Herling ai Libri di Mickiewicz. A decidere il trasferimento contri- ì buď anche il fatto che sulle rive della Senna viveva Józef Czapski, capo della à delegazione francese del II Corpo Polacco, gi superiore e amico di Giedroyc. Czapski, che era ufficiale, pittore e scrittore, durante la guerra dirigeva il settore ù propaganda del II Corpo. Era uno dei pi stretti collaboratori del generale Anders, comandante dell’esercito polacco in Occidente. Per incarico di quest’ul- ò timo, alla fine del 1941, si rec in URSS per indagare sul destino degli ufficiali polacchi assassinati dalla NKVD. La relazione su queste sue ricerche, che venne pubblicata col titolo Na nieludzkiej ziemi (In una terra disumana), rappre- ù senta una delle pi importanti opere della letteratura memorialistica polacca. Czapski, persona che godeva della fiducia del comando dell’esercito polacco, era in buoni rapporti con il generale de Gaulle. Conosceva anche André Mal- à raux, gi prima della guerra, quando faceva il pittore a Parigi. Grazie a queste conoscenze, «Kultura» poté contare sulla protezione dello Stato francese, spe- C cialmente durante la presidenza di de Gaulle e con Malraux ministro della ul- tura. Il cosmopolita Czapski, rampollo di un’illustre famiglia nobile polacca, era impa- rentato con altri casati europei. Grazie alle sue ampie relazioni, «Kultura» diven- ò ne nota in Europa Occidentale, e Czapski divent una specie di “ministro degli esteri” della rivista. Oltre a cercare mecenati, Czapski scriveva per «Kultura» ed ù era una delle firme pi prestigiose. STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 583 ì Nel 1947, solo una parte del gruppo di redattori dell’Instytut Literacki si trasfer ò in Francia. Gustaw Herling-Grudziński lasci Roma alla volta di Londra, dove ini- ò zi a collaborare a un periodico polacco dell’emigrazione «Wiadomości». In Inghilterra videro la luce i suoi ricordi dell’Unione Sovietica, pubblicati in italiano nel 1953 nel volume dal titolo Inny Świat (Un altro mondo, tradotto in italiano ù come Un mondo a parte). Questo libro costituisce una delle pi importanti opere non solo della produzione di Herling, ma anche di tutto il patrimonio della lette- ratura polacca del XX secolo. A Londra Herling rimase poco tempo. Nel 1952 si ì ò trasfer a Monaco di Baviera, dove cominci a lavorare nella redazione polacca di Radio Europa Libera. Ma anche il suo soggiorno in Germania non fu altro che ì à un episodio di breve durata. Nel 1955 Herling si trasfer a Napoli, citt natale della sua seconda moglie, Lidia Croce. Prendendo dimora in Italia, Herling rial- ò ò lacci i suoi rapporti con Giedroyc, inizi un’intensa collaborazione a «Kultura» e, fino al 1995, fu suo corrispondente dall’Italia. a Occorre ricordare che, oltre Herling, facevano parte del “circolo italo-polacco” dei collaboratori di Jerzy Giedroyc i saggisti e pubblicisti Konstanty Jeleński, Dominik Morawski e Jerzy Pomianowski. Konstanty Jeleński, intimo amico di à Herling, aveva iniziato il suo rapporto con l’Instytut Literacki gi poco dopo la fine della guerra. Nel 1945 Jeleński era stato assegnato alla rappresentanza milita- re polacca presso l’Ambasciata Britannica di Roma, che sotto la direzione del colonnello Emeryk Hutten-Czapski stava organizzando l’emigrazione dall’Italia dei soldati polacchi smobilitati. Dopo la smobilitazione, Jeleński aveva lavorato nell’IRO (International Refugee Organization), l’Organizzazione Internazionale per i Rifugiati, a Napoli, e qui era diventato amico della famiglia di Benedetto ò ò Croce. Nel 1948 torn a Roma dove lavor nella sezione economica dell’Orga- nizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). A Roma Jeleński strinse amicizia con Alberto Moravia e sua moglie Elsa Morante e ò conobbe anche Ignazio Silone. Nel 1951 lasci Roma per trasferirsi a Parigi dalla pittrice italiana Leonor Fini, residente sulle rive della Senna. Come addet- à to presso la segreteria generale del Congresso della Libert della Cultura, come redattore del periodico «Preuves» nonché traduttore e critico letterario, Jeleński era fortemente impegnato a far conoscere la letteratura polacca in Europa Occi- dentale. Nonostante si fosse trasferito in Francia, non perse i contatti con i suoi ò amici italiani, ma continu a collaborare alla rivista «Tempo presente». Insieme ò a Silone cre , nel 1956, il “Comitato degli scrittori e degli editori per il mutuo soc- corso in Europa”, che si prefiggeva lo scopo di inviare libri e periodici occiden- tali all’Est e di assegnare borse di studio agli scrittori dell’Europa Orientale. Basil Kerski 584

Dominik Morawski e Jerzy Pomianowski emigrarono in Italia solo negli anni ’60. Entrambi cominciarono un’intensa collaborazione con «Kultura» negli anni ’70. ò Morawski pubblic regolarmente le sue corrispondenze dal Vaticano fino agli ò anni ‘90, mentre Jerzy Pomianowski inizi la sua collaborazione con Jerzy Gie- droyc come traduttore di Andrej Sacharov, Michail Heller e soprattutto di Alek- sandr Solženicyn. Inoltre, finché la rivista «Kultura» ebbe vita, Pomianowski ò pubblic ampi saggi di letteratura e cultura russa. Come professore di lingua e letteratura polacca a Bari, Firenze e Pisa, fu, negli anni ’70 e ’80, un eccellente divulgatore della cultura polacca in Italia. Dopo il crollo del comunismo, come è Dominik Morawski, anche Jerzy Pomianowski tornato in Polonia. Con l’appog- gio di Jerzy Giedroyc, Pomianowski ha fondato a Varsavia, nel 1999, il mensile in lingua russa «Novaja Polša», che viene pubblicato riservando un certo spa- zio all’intelligencija russa per meglio conoscere, tramite quest’ultima, i problemi della Polonia e i rapporti tra Russia e Polonia.

3.

Nelle sue memorie, Jerzy Giedroyc – nonostante il riferimento programmatico ai Libri della nazione polacca e dei pellegrini polacchi – sottolinea la distanza à rispetto ad Adam Mickiewicz e all’eredit spirituale del romanticismo polacco. Se ò à si pu parlare in generale di una certa affinit tra «Kultura» e l’emigrazione ò polacca del XIX secolo, questa, per , andrebbe cercata, in primo luogo, nella à sorprendente somiglianza tra l’attivit del principe Czartoryski e l’opera svolta da Giedroyc. Morto esule in Francia nel 1861, il principe Adam Jerzy Czartoryski, à à verso la met del XIX secolo, era considerato negli ambienti della nobilt polac- ca il capo indiscusso degli emigrati e il “re senza corona” dello Stato polacco in à lotta contro gli invasori per la riconquista dell’indipendenza. Gi fedele suddito degli zar di Russia, era stato uno dei capi dell’insurrezione di novembre, soffo- cata dopo lunghi combattimenti dagli occupanti russi nel 1831, avvenimento, questo, che aveva causato una grande ondata di profughi. Stabilitosi a Parigi, ò à Czartoryski continu l’attivit politica. Nella sua residenza parigina, l’Hôtel Lam- bert, raccolse il fior fiore dell’emigrazione polacca, creando delle strutture atte a promuovere la cultura e la scienza polacca, sviluppando, nel contempo, una fer- à vida attivit diplomatica, che sarebbe durata alcuni decenni, mirante a restaura- re la monarchia in uno Stato polacco indipendente:

Czartoryski ambiva ad ottenere aiuti da parte dei governi e dei parlamenti occidentali. Dall’Hôtel Lambert di Parigi egli dirigeva una vasta rete di agenti, attivi in Europa Centrale e nei Balcani, con- ducendo una battaglia ostinata contro la diplomazia russa. Il principe non rigettava in maniera cate- STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 585

gorica le insurrezioni e le trasformazioni sociali,8 ma voleva che queste avvenissero al momento à opportuno e avessero possibilit di successo .

à Tuttavia, l’attivit di Czartoryski non diede i risultati sperati. Dopo la sua morte nel 1861, la sua opera venne portata avanti dal figlio Władysław, che nel 1873 à ì concluse l’attivit politica in esilio e si trasfer in territorio polacco sotto occupa- zione austriaca, dove la politica liberale dell’imperatore d’Austria attirava molti polacchi. Non fu certo un caso che sul primo numero di «Kultura», apparso ancora a Roma, trovasse posto un articolo dello storico polacco-americano Dziewanow-

ski, il quale ricordava le iniziative9 diplomatiche prese da Czartoryski durante la Primavera dei Popoli (1848-49) . Gli esuli polacchi dell’Hôtel Lambert fallirono nel cercare di mobilitare le potenze occidentali contro la Russia e, con la guer- ra, di riconquistare l’indipendenza. Czartoryski, nel 1848, ebbe una delusione ì cocente quando, tra i monarchi europei, non riusc a trovare alleati nella lotta per l’indipendenza della Polonia. La sua azione venne appoggiata soltanto dalle forze liberali d’Europa e anche da quelle nazioni dell’Europa Centrale che aspi- ravano all’indipendenza. Dopo il fallimento delle insurrezioni nel 1848, a Czar- sperar toryski non rimase che e in una nuova “primavera dei popoli”. L’articolo di Dziewanowski va preso come un avvertimento rivolto a quegli emi- grati polacchi che, nel 1947, credevano in un conflitto armato tra potenze occi- dentali e Russia Sovietica – una mezza specie di terza guerra mondiale – che ì ù avrebbe ridato l’indipendenza alla Polonia. Come nel 1848, cos cent’anni pi ù tardi, garantire lo status quo era, per i “gabinetti”, pi importante dell’indipenden- ì za delle nazioni europee. Dziewanowski, cos come aveva fatto Herling nella premessa ai Libri di Mickiewicz, nel suo articolo su Czartoryski avanzava la pro- posta di aspettare pazientemente una nuova occasione storica, una nuova “pri- mavera dei popoli” europea. ù à Pi forte di quello del principe Czartoryski risulter l’influsso esercitato su Jerzy à Giedroyc e sulla rivista «Kultura» da un’altra personalit del diciannovesimo secolo: lo scrittore russo Aleksandr Herzen che Giedroyc, nelle sue memorie, à definir un modello. Herzen, tra il 1857 e il 1865, aveva pubblicato – prima a Londra e poi a Ginevra – il settimanale russo «Kolokol» (La Campana). Desti- natari di questo periodico non erano solo esuli russi, ma anche persone che vivevano in Russia e che valutavano criticamente la situazione politica domi- nante nell’impero zarista. Secondo Isaiah Berlin, la rivista di Herzen fu il primo tentativo sistematico di intraprendere la lotta contro l’autocrazia russa. A detta di Basil Kerski 586

Berlin, il prestigio di «Kolokol» derivava dalla competenza, dalla coerenza e à dalla vivacit d’ingegno di questo giornale dell’emigrazione. «Kolokol» presen- su tava fatti e analisi lla situazione in Russia, nelle sue colonie, in particolare

riguardo10 alla Polonia e ad altre nazioni oppresse, che ai Russi non erano ben noti . à Come gi Herzen, Giedroyc e i suoi collaboratori volevano pubblicare un perio- dico dell’emigrazione legato alla patria. Lo scopo di «Kultura» era influire sullo sviluppo della situazione nella Polonia comunista e – in tempi di confronto ideo- logico che si inaspriva fra Est ed Ovest – raccogliere informazioni obiettive riguardanti i cambiamenti che avvenivano nel blocco sovietico. «Kultura» attraversava per varie vie “la cortina di ferro” che, alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50, sembrava quasi impenetrabile. Dopo il “disgelo” ì politico del 1956, le frontiere per un po’ si riaprirono, il che consent ai numero- si ospiti che visitavano la Polonia di far entrare di nascosto dall’Occidente libri e riviste. Negli anni Settanta – dopo un periodo di irrigidimento del corso politico negli anni Sessanta – un numero sempre maggiore di polacchi, perfino i critici del sistema comunista, ottennero il passaporto. Giungevano in Occidente e, per- ò “ ” ci , arrivavano anche a «Kultura». Per facilitare il contrabbando delle pubbli- ò cazioni proibite, Giedroyc, a spese della sua casa editrice, cominci a stampa- re i quaderni di «Kultura» in miniatura. Agli inizi degli anni Ottanta concedeva licenze alle case editrici clandestine che rifornivano i lettori residenti sulla Visto- ò la di ristampe di «Kultura». Egli cre un vasto campo di influenza per le sue pub- blicazioni grazie alla collaborazione con la redazione polacca di Radio Europa L’emittente presentava Libera (Radio Wolna Europa). non soltanto brani, ma ò anche interi libri editi da «Kultura», e grazie a ci essi giungevano nelle mani di molti polacchi che vivevano nella parte orientale della cortina di ferro. Con il crol- ù lo del blocco sovietico, «Kultura» non avrebbe pi dovuto percorrere queste vie intricate. Nel corso degli ultimi anni di esistenza, appariva a Varsavia, quasi con- temporaneamente alla sua edizione parigina, la ristampa destinata al mercato polacco. Jerzy Giedroyc, erede spirituale di Herzen, e gli ambienti londinesi dell’emigra- zione differivano su un punto essenziale, vale a dire l’apertura verso la patria governata dai comunisti. Secondo Giedroyc, gli esuli polacchi residenti a Londra à non prendevano atto delle realt esistenti in Polonia. Il loro scopo, appena fini- ta la guerra, fu la creazione di uno Stato polacco in esilio:

Divennero autosufficienti ed erano presi soltanto dalla propria vita. La Polonia era stata totalmente STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 587 ò rifiutata: divieto di stampare nel Paese oppure boicottare i libri editi in Polonia, tutto ci equivaleva a recidere qualsiasi legame. Se volevano esercitare una qualche influenza, era esclusivamente a ò mo’ di diversivo […]. Io ero categoricamente contrario a ci . Ritrovarsi in un giro di spie, per acchiap-11 ì pare cos un po’ di soldi e costruire delle reti molto sospette, era per me del tutto inaccettabile .

4.

La nuova edizione dei Libri di Mickiewicz da parte dell’Instytut Literacki a Roma, nel 1946, mostrava chiaramente che Jerzy Giedroyc, con la sua casa editrice, aveva delle ambizioni politiche. L’Instytut Literacki e «Kultura» dovevano esse- re, anzitutto, un forum per pensatori politici di talento. Giedroyc desiderava ela- borare un programma politico che costituisse un’alternativa dell’emigrazione alla politica comunista della Repubblica Popolare di Polonia (PRL). Tale programma à – cosa ben chiara gi nell’introduzione di Herling – doveva essere formulato in ò uno spirito di realismo politico e, perci , doveva risultare attraente sia per i con- nazionali residenti sulle rive della Vistola, sia per i partner europei. Sebbene i temi politici occupassero un posto centrale, «Kultura» divenne anche una delle ù à pi importanti riviste letterarie polacche della seconda met del XX secolo. Tale evoluzione verso un importante forum letterario rispondeva alle intenzioni del creatore di «Kultura»? Il posto eminente accordato alla letteratura e alle que- stioni estetiche non era solo in armonia con gli interessi letterari del redattore parola capo. Giedroyc e compagni credevano anche nella forza della libera nella à lotta contro le ideologie. Questa fede si esprimer chiaramente nei diari, pubbli- cati su «Kultura», di Witold Gombrowicz, secondo il quale la vera lotta contro il comunismo consisteva nel rafforzare l’individuo in opposizione alla massa. Per- tanto, agli “anticomunisti di professione” rivolgeva parole sul potere della lette- . à ò è ratura nel combattere le ideologie L’arte “o rimarr nei secoli ci che stata fin dalle origini del mondo, vale a dire voce dell’individuo, rappresentante dell’uomo à al singolare, oppure perir . In questo senso, una sola pagina di Montaigne, un ù ‘ ’ solo verso di Verlaine, una sola frase di Proust sono pi anticomunisti del coro

accusatorio12 che voi [anticomunisti - B.K.] costituite. Sono libere, sono liberato- rie” . La letteratura ha rappresentato un importante campo di battaglia non solo con- tro il comunismo, ma anche contro la tradizione romantica polacca. Un autore- ò vole “alleato” nelle lotte con Mickiewicz e altri romantici Giedroyc lo trov in Witold Gombrowicz, il cui diario pubblicato su «Kultura», negli anni Cinquanta e Sessanta, fu per lui fonte di ispirazione. Gombrowicz ebbe con Mickiewicz una contesa appassionata: “Dobbiamo avere una letteratura esattamente contraria a è quella che fino ad oggi si scritta per noi, dobbiamo cercare vie nuove in oppo- Basil Kerski 588 sizione a Mickiewicz e a tutti i re degli spiriti. Tale letteratura non deve confer- mare il polacco in quel suo concetto di sé avuto finora, ma deve appunto portar- ò 13 lo fuori da questa gabbia, mostrargli ci che non ha mai osato essere” . Giedroyc incoraggiava e appoggiava non soltanto Witold Gombrowicz, ma anche altri scrittori dell’emigrazione, i quali senza di lui, negli anni del dopoguer- ra, probabilmente si sarebbero smarriti nella lotta quotidiana per la sopravviven- za. Senza «Kultura» certamente non avrebbero visto la luce molti articoli di ; Jerzy Stempowski e Konstanty Jeleński e Herling-Grudziński non avrebbe com- posto il suo Diario scritto di notte. «Kultura» di Parigi divenne una patria anche per molti scrittori emigrati dalla Repubblica Popolare Polacca. Nel 1951, l’Insty- ò tut Literacki aiut a fuggire in Occidente il poeta Czesław Miłosz, a quel tempo ò addetto culturale della PRL a Parigi. Dopo il “disgelo”, nel 1956, Giedroyc aiut lo scrittore Marek Hłasko. Dopo il marzo 1968, «Kultura» fu un porto sicuro anche per scrittori in esilio, come Leszek Kołakowski, Witold Wirpsza e Henryk à Grynberg, mentre offriva la possibilit di pubblicare liberamente ad autori resi- denti nella PRL e colpiti dal divieto di dare alle stampe le loro opere. Malgrado la situazione finanziaria rimasta difficile fino alla fine e dovuta al fatto che Gie- droyc si atteneva al principio dell’indipendenza economica, quest’ultimo dimo- nella sua politica di ò strava grande coerenza aiuto. Per molti anni aiut la moglie di Andrzej Bobkowski, scrittore e collaboratore di «Kultura», la quale viveva in Guatemala. Giedroyc non si limitava ad assegnare borse di studio, ma cercava anche di far conoscere in Occidente autori polacchi. In questo veniva aiutato dalle riviste che à rientravano nell’ambito del “Congresso della Libert della Cultura”, fondato insieme a Józef Czapski, che riuniva gli intellettuali liberali critici verso il comu- ç nismo. Con alcune di queste riviste, come «Preuves» di Fran ois Bondy, «Tempo Presente» di Ignazio Silone e Nicola Chiaramonte, «Encounter» e «Der ò Monat» di Melvin Lasky, si inizi un’intensa collaborazione. «Kultura» non si limitava a promuovere la letteratura polacca. Nelle sue annate si possono trovare molte opere di classici della letteratura contemporanea del- l’Europa Occidentale pubblicate per la prima volta in polacco: prosa e saggisti- ca di Albert Camus, 1984 di George Orwell, articoli di Ignazio Silone, scritti di Simone Weil nella traduzione di Czesław Miłosz e molti altri. Guardando con gli ò occhi di oggi, non si pu non notare l’apertura alle piccole letterature slave. Nel 1960 apparve in ucraino, presso l’Instytut Literacki, un’antologia di letteratura è ucraina degli anni ’20 e ’30. Sul mensile di Giedroyc una voce importante stata à sempre la letteratura russa. Gi nel 1965 su quattro numeri di «Kultura» trova- STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 589 rono posto le poesie di Iosif Brodskij, allora sconosciuto al di fuori di Leningra- ò do. Nel 1959 Giedroyc pubblic , nella collana “Biblioteka Kultury”, Il dottor Živa- ù go di Boris Pasternak tradotto da Jerzy Stempowski e, dieci anni pi tardi, a cura

di Jerzy Pomianowski le prime traduzioni in polacco de14 Il primo cerchio, Divisio- ne cancro e Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn .

5. è La lettura delle oltre cinquanta annate della rivista parigina «Kultura» una lezione di realismo politico polacco. Per realismo politico Giedroyc e i suoi col- laboratori intendevano un pensiero basato su un’attenta e pacata analisi della à realt , libero da qualsivoglia ideologia. Secondo Giedroyc, il pensiero politico realistico non va identificato con l’opportunismo. “Cambio tattica, dal momento è che la politica non un sacramento; se la si vuole coltivare, allora bisogna rima- à nere vicino alla realt15 , che cambia. Occorre saper mantenere i principi e cam- biare le opinioni” . à spaziale La realt politica dell’Europa del dopoguerra era lo spostamento della Polonia ad Ovest e la perdita dei territori orientali. «Kultura» si opponeva con tutte le sue forze alla propaganda sia dei comunisti che dei nazionalisti antico- la cui retorica munisti, definiva l’occupazione degli ex territori tedeschi come il ritorno alle “antichissime terre polacche”. «Kultura», pur criticando la brutale cacciata della popolazione civile tedesca, non vedeva tuttavia alcuna realistica Pertanto alternativa al riconoscimento della linea Oder-Neisse. si opponeva ai tentativi tedeschi di rivedere i confini. ù Giedroyc e il suo pi stretto collaboratore Juliusz Mieroszewski diedero prova di grande coraggio quando, agli inizi degli anni Cinquanta, lanciarono un appello affinché venissero riconosciuti i confini orientali della Polonia. Giedroyc, che ò rischi di perdere molti lettori e collaboratori originari delle terre di frontiera nord ì e sud-orientali d’anteguerra, non sub tuttavia la sorte di Aleksandr Herzen. L’ap- ì poggio dato da Herzen all’insurrezione antirussa del gennaio 1863 fece s che, sull’onda crescente di antipolonismo e nazionalismo, moltissimi lettori voltasse- ro le spalle al suo giornale. In una situazione del genere, Herzen nel 1867 fu costretto a sospendere la pubblicazione di «Kolokol». La divisione della Germania nonché l’annessione della Lituania, della Bielorus- sia e dell’Ucraina all’URSS vennero considerate da «Kultura» come un elemen- to essenziale della politica egemonica sovietica in Europa Centrale. Secondo à Mieroszewski, la sovranit della Polonia dipendeva dall’unificazione della Ger- mania e dall’indipendenza dei suoi vicini orientali. La Lituania, la Bielorussia e Basil Kerski 590 l’Ucraina sarebbero dovute rinascere come Stati indipendenti entro i confini delle repubbliche sovietiche e, dunque, con Leopoli e Vilna. Mieroszewski chiedeva, inoltre, una politica polacca tale da escludere ogni ambizione da grande poten- za nei confronti dei vicini orientali. A suo avviso, ogni forma di indebolimento della Lituania, della Bielorussia e dell’Ucraina apriva alla Russia la strada del- l’Europa Centrale e, pertanto, le offriva l’occasione per condurre in Europa una politica imperialistica. Quanto alla questione tedesca, Mieroszewski metteva in guardia su «Kultura» à gi negli anni Sessanta contro l’isolazionismo europeo: “L’ideale per risolvere il problema dell’Europa sarebbe giungere alla riunificazione della Germania à (senza la quale non potr esserci un’Europa unita), trattenendo al tempo stesso sul continente gli americani in veste di alleati-controllori della Germania unifica- è significhereb- ta. L’alternativa un’Europa puramente europea, il che in pratica be 16 un’intesa tra Russia e Germania con tutte le sue conseguenze” . «Kultura» sperava che la caduta del comunismo in Europa e la conseguente riu- ven nificazione della Germania non sarebbero av ute in seguito ad un conflitto ì armato, bens come frutto della Nuova Primavera dei Popoli in Europa Centrale e Orientale. La chiave per il crollo del comunismo erano – secondo l’opinione di à Giedroyc e di Mieroszewski – i problemi irrisolti delle nazionalit nell’ambito del- ò l’Unione Sovietica. Perci , oltre ai dissidenti e agli oppositori del regime in URSS, Giedroyc appoggiava anche i movimenti nazionali nelle singole repubbli- che sovietiche. fu privo di Il pensiero politico di «Kultura» non errori. Illusorie risultarono le spe- ranze in una vasta democratizzazione della Polonia dopo l’arrivo di Gomułka al potere nel 1956. Giedroyc e Mieroszewski erano convinti che i comunisti fosse- ro capaci di limitare di molto il proprio potere con la conseguente riforma dello ò Stato e dell’economia. Un’illusione si rivel anche la proposta di Mieroszewski, degli anni Cinquanta, di anticipare la riunificazione della Germania con la crea- zione di una confederazione neutrale di Stati dell’Europa Centro-orientale. Leggendo i numeri di «Kultura» degli anni Sessanta e Settanta, specialmente gli ab articoli di Mieroszewski, colpisce – nonostante gli bagli – la lungimiranza del- l’analisi. Grazie agli stretti rapporti con la patria, Giedroyc e collaboratori si accorsero ben presto delle tensioni sociali nella PRL, le quali, nel 1970 e nel 1976, condussero a sanguinose proteste operaie. In quell’occasione il loro ammonimento fu che le proteste operaie senza l’appoggio degli intellettuali e, viceversa, i movimenti di protesta degli intellettuali senza il sostegno degli ope- rai sarebbero rimasti lettera morta: “La Rivoluzione la fanno gli operai e nessun STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 591 altro. Ma la Rivoluzione vince se gli intellettuali l’appoggiano”, sottolineava nel nel al

1975 Jerzy17 Giedroyc l’intervista periodico polacco dell’emigrazione «Aneks» . Proprio tale alleanza proposta da Giedroyc tra operai e intellettuali, dalla quale qualche anno dopo sarebbe nata Solidarność, ha mostrato nella lotta contro il comunismo la massima efficacia politica.

6.

Dopo la morte di Jerzy Giedroyc avvenuta il 14 settembre 2000 e la cessazione è della pubblicazione di «Kultura», molto si detto sull’importanza e sull’influenza di questa rivista polacca dell’emigrazione. Valutare l’influsso di oltre 637 numeri è di «Kultura» e di 512 volumi della “Biblioteka Kultury” non cosa semplice. Volendo descrivere la reale influenza di «Kultura», bisogna ricordare che alla via rivista avevano accesso – nonostante i tentativi di diffonderla radio – pochi lettori. A causa del suo atteggiamento critico nei riguardi del tradizionale nazio- nalismo polacco plasmato dal romanticismo, «Kultura» veniva letta innanzi tutto da quegli intellettuali polacchi dalle idee liberali. E poi, fino alla fine, i suoi espo- nenti non accettarono opzioni politiche diverse. Non si deve neppure dimenticare che il lettore polacco, a partire dagli anni Set- à tanta, aveva la possibilit di scegliere tra «Kultura» e il rinomato trimestrale poli- à tico «Aneks», fondato a Londra alla met degli anni Settanta dai fratelli Smolar. Agli inizi degli anni Ottanta, vide la luce a Parigi – nell’ambiente di autori che scrivevano su «Kultura», quali Stanisław Barańczak, Wojciech Karpiński e Bar- bara Toruńczyk – il periodico «Zeszyty Literackie». Dopo il 1981 ebbe luogo anche il travolgente sviluppo del cosiddetto “secondo circuito”, ovvero delle case à editrici della clandestinit politica polacca. ì ciascun Si deve altres ricordare che, nella Repubblica Popolare di Polonia, o r ò period di liberalizzazione ha portato a mitiga e la censura e, grazie a ci , alcu- ni settimanali editi sulla Vistola ufficialmente, per esempio «Tygodnik Powsze- chny» e «Polityka», potevano permettersi di affrontare alcuni argomenti contro- versi. Forse i dibattiti condotti sulle loro pagine influivano sulla coscienza delle ù élite polacche pi delle pubblicazioni dell’emigrazione. La svolta politica del 1989 e la successiva soppressione della censura, come pure la liberalizzazione dell’offerta mediatica, limitarono fortemente il peso di «Kultura». Dopo la caduta del comunismo, il cittadino polacco aveva a disposi- editoriale zione una produzione eterogenea e difficile da contenere, nella quale «Kultura» finiva col diventare uno dei tanti periodici polacchi che valeva la pena di leggere. Basil Kerski 592

Jerzy Giedroyc – nonostante gli scopi ambiziosi – non si fece mai troppe illusio- à ni circa la possibilit di influire sul corso della storia per mezzo del suo mensile: è “Tutta «Kultura» pur sempre bluff e affarismo. Qualcosa tipo quegli enormi dra- ghi di cartapesta che le truppe cinesi portavano davanti durante la guerra dei ò

Boxers. Ci fa il suo effetto,18 ma talvolta ci si imbatte nelle mitragliatrici. Tuttavia tale bluff devo continuarlo” . ò Questo sedicente “affarista”, per , forse ha esercitato un grande influsso sui È polacchi. difficile trovare in Polonia un esponente dei mass media che non abbia realizzato un’intervista col fondatore dell’Instytut Literacki. Nella classifica ù dei cento pi famosi polacchi del XX secolo, pubblicata dal settimanale «Polityka», Giedroyc occupa uno dei primi posti. Negli ultimi anni della sua vita, il giornalista non aveva né voglia né tempo di ò à riflettere su ci che aveva rappresentato «Kultura». Malgrado l’et avanzata, il suo pensiero era continuamente proteso verso il futuro. Cercava senza sosta nuovi collaboratori e nuovi argomenti, faceva da mediatore nell’allacciare rap- porti, ogni giorno scriveva molte lettere e ogni mese voleva sorprendere i suoi lettori con numeri interessanti di «Kultura». Una prudente, ma forse realistica valutazione dell’importanza e dell’influsso di è «Kultura» stata tentata da uno dei suoi collaboratori, lo storico polacco Krzy- sztof Pomian, residente in Francia:

Non sapremo mai con quanti ospiti provenienti dalla Polonia Giedroyc abbia parlato della protesta degli operai, quanti ne abbia convinti sul peso di tale problema […]. Insomma, non era grande il ò numero di coloro che venivano in visita a Maisons-Laffitte, per erano spesso persone influenti. Nep- pure sapremo mai quanti leggessero gli articoli di Mieroszewski. Alcune centinaia? Qualche ù migliaio? Eppure, parecchi19 di loro hanno probabilmente diffuso il contenuto di tali articoli, e per di pi senza citarne la fonte .

ò à Bisogna dire, perci , che – nonostante le difficolt nel valutare l’influsso di «Kul- tura» sui polacchi che vivevano in esilio e nella Polonia comunista – il suo note- è vole peso nella storia della Polonia fuori d’ogni dubbio. Lo storico varsaviano è à Andrzej Friszke si spinto addirittura tanto in l da definire l’emigrazione polac- ca uscita dalla seconda guerra mondiale – anzitutto la redazione e i collabora- tori di «Kultura» – come “Seconda Grande Emigrazione”, col pensiero rivolto alla “Grande Emigrazione” sorta in seguito all’Insurrezione di Novembre. Friszke ha ì voluto cos sottolineare il fatto che questa seconda emigrazione ha esercitato sulla cultura e sulla politica polacca lo stesso considerevole influsso avuto dai grandi romantici polacchi: STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 593

«Kultura» di Parigi ha influito principalmente sugli intellettuali e ha contribuito in sommo grado a pla- smare gli atteggiamenti politici e ideologici degli ambienti dell’opposizione. Affluendo per varie vie da Parigi e da Londra, i libri ostacolavano la falsificazione della storia, ricordavano fatti del passato con- dannati al silenzio, facilitavano il processo di liberazione delle scienze storiche dalla pressione della è propaganda. La letteratura nata nell’emigrazione stata un’importante integrazione della letteratura prodotta in patria, suscitando anche, soprattutto negli anni ’70, un crescente interesse. Il movimen- à to di opposizione alle autorit della Repubblica Popolare di Polonia, gli interventi della Chiesa, le ini- ziative degli ambienti dell’opposizione, gli atti di repressione da parte del regime, sono stati fatti le conoscere all’opinione internazionale e, mediante le case editrici dell’emigrazione e attraverso emittenti radiofoniche, le notizie e i commenti al riguardo sono arrivati20 fino al vasto pubblico in Polo- è nia. L’influenza dell’emigrazione sul paese stata quindi innegabile .

7.

Con l’abolizione della censura, nel 1989, le case editrici polacche iniziarono, negli anni ’90, a pubblicare intensamente libri degli scrittori e giornalisti di «Kul- tura» o a riproporre titoli classici inclusi nel programma editoriale dell’Instytut Literacki. Grazie a tali iniziative, divennero accessibili al vasto pubblico non solo i libri di autori di fondamentale importanza per la letteratura polacca, quali Gom- browicz, Czapski o Herling, ma anche i classici riproposti da «Kultura», nonché le opere di autori di culto, ma poco noti al largo pubblico, come Jerzy Stempow- ski, Zygmunt Haupt, Andrzej Bobkowski o Leo Lipski. ò Nel dicembre 1993, la casa editrice Czytelnik cominci a pubblicare una collana “ «Kultury»” g di libri dal titolo Archivum , che presentava la corrispondenza del ior- nalista nonché la sua autobiografia. Nel caso di Jerzy Giedroyc, la pubblicazio- ù ne di brani dall’enorme e ricca corrispondenza rivelava uno dei pi importanti à epistolografi polacchi della seconda met del XX secolo. Come ha giustamente osservato Krzysztof Pomian, le lettere di Giedroyc rappresentano un contributo è significativo alla letteratura polacca. Giedroyc stato un insigne epistolografo non solo per il numero di lettere scritte, ma anche perché, in mezzo ad esse, troviamo testi splendidi, composti perfettamente, brillanti, a volte caustici, che colpiscono per il tono disinvolto, per l’assenza di qualsiasi retorica e ostentazio- ne. Anche se certamente, come molti della sua generazione, Giedroyc amava scrivere lettere, tutta- à via le scriveva per necessit , in quanto costituivano per lui l’unico modo di mantenere i contatti con ì i collaboratori disseminati per il mondo. E cos , nell’assolvimento dei suoi doveri d’ufficio, ecco è nascere quest’opera unica nel suo genere che la raccolta delle sue lettere, fonte storica e opera21 à letteraria al tempo stesso: quadro di un’epoca scomposto attraverso il prisma della sua personalit .

Con la collaborazione di Krzysztof Pomian, vide la luce, negli anni ’90, un’altra

importante opera di Giedroyc, vale a dire la sua autobiografia.22 Alla fine del libro, Jerzy Giedroyc inserisce il suo testamento spirituale . In poche frasi compendia è la sua visione della Polonia, per la cui realizzazione ha combattuto, cio l’essen- Basil Kerski 594 za del pensiero di «Kultura». Nel suo testamento, Giedroyc sottolinea, ancora à una volta, che grande opportunit sia per la Polonia indipendente la costruzione à di rapporti amichevoli con i vicini e la capacit di condurre una politica autono- ma, in particolare nell’Europa dell’Est, priva di megalomania nazionale. La con- ditio sine qua non per tali rapporti di buon vicinato il capo redattore di «Kultura» la individua nel rispetto dei diritti delle minoranze nazionali. In una posizione forte ad Est egli vede l’occasione per rafforzare in Europa il prestigio di una Polonia democratica. Secondo Giedroyc, una Polonia forte deve sorgere sulle ò basi di una democrazia forte. Ci esige uno Stato di diritto, lotta alla corruzione, una stampa libera e la separazione tra Stato e Chiesa. Nella realizzazione di tali à obiettivi, Giedroyc scorge non solo la possibilit di uno Stato efficiente, ma à ì anche di un cambiamento della mentalit della nazione, per liberarsi, cos , di quegli elementi della cultura politica dei polacchi che, nel corso della storia, hanno portato alla perdita dell’indipendenza. La pubblicazione dell’autobiografia di Giedroyc e della sua vasta corrisponden- za ha dato un importante impulso alle ricerche di storici, esperti di letteratura e di cultura, sul patrimonio della rivista «Kultura», nonché di tutta l’emigrazione politica polacca del dopoguerra. Non intendo presentare qui tutte le pubblicazio- ni di un certo rilievo concernenti «Kultura», uscite durante gli ultimi 17 anni. Lo ha fatto, in modo sistematico, sulle pagine di «Przegląd Polityczny» Mikołaj Tyr- chan che, in occasione del centenario della nascita di Jerzy Giedroyc, nel 2006, passò in rassegna tutti i titoli dei libri che si erano occupati dell’Instytut Literacki, tra i quali, accanto alle pubblicazioni scientifiche, anche i volumi di corrisponden- ù 23 za e i documenti autobiografici dei pi importanti collaboratori di «Kultura» . alcune Il bilancio delle pubblicazioni apparse finora rivela lacune sostanziali negli studi riguardanti la rivista «Kultura» e il suo ambiente. Manca ancora un’e- sauriente biografia politica di Jerzy Giedroyc, biografia che presenti la sua atti- à ; vit non solo nel contesto polacco, ma anche europeo che documenti e valuti i tentativi, da parte di «Kultura», di influire sugli europei. Non esiste nemmeno ù una biografia pi dettagliata di Józef Czapski, Czesław Miłosz o di Gustaw Her- ò ling-Grudziński. Come nel caso di Giedroyc, il lettore polacco pu disporre “sol- tanto” dei saggi e delle analisi di studiosi della loro opera, della loro corrispon- denza, degli articoli oppure degli ampi colloqui autobiografici. Nel caso di Her- ò ling-Grudziński, il lettore polacco pu leggere due eccellenti volumi di conversa- 24 la necessità zioni tra Włodzimierz Bolecki e Herling . Tuttavia, non sostituiscono di una dettagliata biografia intellettuale, che presenti l’iter artistico e intellettuale dell’autore di Un mondo a parte, per esempio la sua collaborazione con Ignazio STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 595 è Silone e Nicola Chiaramonte o il modo in cui stata percepita la sua opera in Europa Occidentale. Non sono stati ancora tradotti in polacco i saggi italiani di Herling. (Anche per quanto riguarda il suo amico, l’illustre saggista Konstanty Jeleński, conosciamo soltanto la sua produzione polacca, ma non quella france- se). Una grande lacuna negli studi su «Kultura» e il suo ambiente resta, oltre alla è mancanza di saggi biografici, la carenza di monografie su temi bilaterali. Non in modo completo ancora apparso un lavoro che presenti le relazioni tra Polonia e Ucraina o tra Polonia e Russia sulle colonne di «Kultura», nonché l’influsso esercitato dall’Instytut Literacki su tali rapporti. Lo stesso discorso vale per la sfera delle relazioni tra Polonia e Germania e per il problema della percezione di «Kultura» e del suo ambiente in Europa Occidentale. Jerzy Giedroyc ha sem- ì pre amb to a evitare il ghetto dell’emigrazione, ad uscire dal campo culturale polacco, ad ispirare il dialogo con i vicini, a propugnare l’integrazione europea. à Per questo motivo, gli studi sul patrimonio di «Kultura» e sull’attivit politica di ù Jerzy Giedroyc, negli anni avvenire, dovranno concentrarsi pi che mai sulla dimensione internazionale.

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1 Cfr. WITKOWSKA ALINA, Cześć i skandale. O emigracyinych doświadczeniach Polaków, Gdańsk 21997. OLSCHOWSKY HEINRICH, Europavorstellungen des literarischen Exils. Mickiewicz und Miłosz,in Polen und Nachbarn. Polonistische und komparatistische Beiträge zu Literatur und Sprache, a cura di3 H. Rothe, P. Thiergen, Köln 1998, p. 235. C 4 GIEDROY JERZY, Autobiografia na cztery ręce, Warszawa 1994, p. 126. Le citazioni successive di Gustaw Herling-Grudziński provengono dall’edizione dei Libri di Mickiewicz STORIA E POLITICA pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008 597 da parte dell’Instytut Literacki: MICKIEWICZ ADAM, Księgi narodu polskiego i pielgrzymstwa polskiego, Roma5 1946. Tra i fondatori dell’Instytut Literacki vanno annoverati – oltre a Jerzy Giedroyc e Gustaw Herling- 6Grudziński – anche Józef Czapski e i coniugi Zofia e Zygmunt Hertz. à La genesi dell’Instytut Literacki nonché l’attivit della casa editrice di Jerzy Giedroyc in Italia sono state dettagliatamente documentate da Małgorzata Ptasińska-Wójcik nella sua monografia Z dziejów Biblioteki Kultury (1946-1966), edita dall’Instytut Pamięci Narodowej (Istituto della Memoria Nazionale) nel 2006 (pp. 19-66 del libro). Małgorzata Ptasińska-Wójcik valuta in questi termini l’at- à ò tivit dell’Instytut Literacki a Roma: “Nel periodo romano l’Instytut Literacki inaugur una serie di libri ò la cui edizione cess dopo il trasferimento a Parigi. Tuttavia, le sezioni tematiche iniziate in pratica à rimasero e saranno visibili anche nella “Biblioteca di Kultura” esistente dal 1953. Anche se l’attivit ù à romana ebbe breve durata - poco pi di un anno - gi allora erano evidenti gli embrioni della futu- ra7 politica editoriale della casa editrice, in pieno sviluppo dopo il 1953”. 8 PTASIŃSKA-WÓJCIK MAŁGORZATA, op. cit., p. 40. WANDYCZ PIOTR S., Cena wolności: historia Europy Środkowo-Wschodniej od średniowiecza do współczesności9 , Kraków 1995, p. 234-235. 10DZIEWANOWSKI M. K., Wiosna Ludów w Hotelu Lambert, in «Kultura» 1, giugno 1947. BERLIN ISAIAH, HERZEN ALEXANDER, Eine Einführung, in Alexander Herzen, Die gescheiterte Revolution. Denkwürdigkeiten aus dem 19. Jahrhundert. Ausgewählt und herausgegeben von Hans Magnus11 Enzensberger, Frankfurt a. M. 1988, p. 300. C 12 GIEDROY JERZY, Autobiografia..., cit., p. 152. 13 GOMBROWICZ WITOLD, Dziennik 1953-1969, vol. 1, Kraków 2004, p. 31. 14 Ivi, p. 173. ò Negli anni 1960, 1971 e 1981, l’Instytut Literacki pubblic alcuni numeri speciali di «Kultura» dedicati alla Russia. 15 C 16 GIEDROY JERZY, Autobiografia..., cit., p. 215. 17 MIEROSZEWSKI JULIUSZ, Polityczne neurozy, Paris 1967, p. 132. Rozmowa z Jerzym Giedroyciem sprzed dwunastu lat, in Zostało tylko słowo. Wybór tekstów o “ “Kulturze18 paryskiej i jej twórcach, Lublin 1990, p. 81. e c Cfr. la citazione dalla lettera di Jerzy Gi droy a Konstanty A. Jeleński dell’8 agosto 1955; C 19GIEDROY JERZY, JELEŃSKI KONSTANTY A., Listy 1950-1987, Warszawa 1995, p. 199. La citazione proviene dall’articolo di Krystyna Kersten dedicato a «Kultura»: KERSTEN KRYSTYNA, Enklawa20 wolnej myśli, in «Tygodnik Powszechny» del 28 luglio 1996. 21 FRISZKE ANDRZEJ, Życie polityczne emigracji, Warszawa 1999, p. 7. 22 POMIAN KRZYSZTOF, Jerzy Giedroyć w historii Polski, in «Kultura» 10, 2000. , 23 GIEDROYĆ JERZY, Przesłanie in ID., Autobiografia..., cit., pp. 227-228. 24 TYRCHAN MIKOŁAJ, Lekcje “Kultury”, in «Przegląd Politiczny» 77, 2006, pp. 139-149. HERLING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, BOLECKI WŁODZIMIERZ, Rozmowy w Dragonei, Warszawa 1997; HER- LING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, BOLECKI WŁODZIMIERZ, Rozmowy w Neapolu, Warszawa 2000. Vale la pena r di ricordare anche il volume di conversazioni tra la giornalista napoletana Titti Ma rone e Gustaw R Herling-Grudziński degli anni ’90: HERLING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, MAR ONE TITTI, Controluce, Tullio è Pod Pironti Editore, Napoli 1995. In polacco questo libro uscito nel 1998 a Cracovia, col titolo wiat o. ś ł n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Il primo editoriale della rivista dell’emigrazione polacca “Kultura” (1947)1

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

Evocate nell’introduzione al primo quaderno di “Kultura”, le voci dei due princi- pali pensatori europei del primo e del secondo dopoguerra (Valéry con un testo del 1919 e Croce del 1946), ci dimostrano come il pensiero del crepuscolo o della crisi della ci- viltà in cui viviamo è naturale nei tempi che emergono da ogni sconvolgimento mon- diale. In ambedue le voci echeggia la profonda tristezza di persone che hanno consa- crato tutte le loro forze e capacità al lavoro di approfondimento e di elevazione della cultura europea, per sopravvivere infine ai giorni del pericolo mortale e della minac- cia. Ma, al tempo stesso, vibra in loro una grande forza, la forza delle convinzioni in- crollabili, dei legami e della fede nonostante «i tempi del disprezzo», a dispetto «dell’invincibile imminente barbarie». «Tutto all’Europa è venuto e tutto da essa uscì. Tutto, o quasi tutto» — scrive Va- léry. «Combattere rimanendo sulla propria postazione pro aris et focis, vale a dire per le nostre chiese e le nostre case» — esorta Croce, l’ottantenne filosofo napoletano, il più ostinato nemico del fascismo italiano e di Mussolini. Non sono forse impregnate allo stesso spirito le splendide parole di André Malraux, pronunciate all’inaugurazione della riunione dell’UNESCO a Parigi? Ascoltiamole: «L’Europa che il mondo finora pensava nelle categorie della libertà, oggi viene considerata come uno scherzo del destino. Ma ci dimentichiamo troppo spesso che non è la prima volta che ciò accade nella storia d’Europa. La situazione non era affatto migliore durante le precedenti invasioni. Quando l’esercito mongolo di Genghiz Khan avanzava su Vienna, il destino dell’Europa era forse più luminoso? O era migliore quando Tamerlano si spingeva alle porte del- l’Europa? Oppure dopo la battaglia di Nicopoli2 o dopo la battaglia di Mohács?3 Eppure

1 Titolo originale: Kultura, “Kultura. Wybór szkiców, opowiadań i sprawozdań”, n. 1,1947, Insty- tut Literacki, Rzym, p. 1. Si ringrazia Henryk Giedroyc per aver autorizzato la traduzione e pub- blicazione di questo testo inedito in Italia. 2 La battaglia o crociata di Nicopoli è avvenuta nel 1396 tra lo schieramento franco-ungherese e quello ottomano (n.d.r.). 3 La battaglia è avvenuta nel 1526 fra le truppe turche di Solimano il Magnifico e quelle del re d’Un- gheria, Luigi II (n.d.r.).

poloniaeuropae 2010 303 Il primo editoriale della rivista dell’emigrazione...

allora si trattava di vita o di morte e non della rivalità tra culture e dell’eredità dello spirito. Era più luminoso — chiedo — il destino dell’Europa durante la battaglia di Lon- dra? C’era forse qualcuno in Inghilterra o addirittura in Francia che nel momento della battaglia di Londra dubitasse dei fondamentali valori dell’Occidente? Non è vero che l’uomo europeo è morto. Ma è abbandonato, poiché lui stesso ha ripudiato i valori fon- damentali, e si prepara alla morte, così come si preparavano alla morte le classi diri- genti degli antichi imperi quando perdevano la volontà di vivere». Le tre voci — la latina, la franco-italiana — non esauriscono il ricco ventaglio degli atteggiamenti ideali nei periodi di caos e di ricerca che caratterizzano l’età postbellica. Accanto a parole come fede e attaccamento, vengono pronunciate parole di odio e di ripulsa. Accanto ad atteggiamenti che generano in profondità cultura, crescono come funghi dopo la pioggia atteggiamenti chiaramente anticulturali. Accanto alle correnti di rinascita e di rinnovamento si susseguono opache onde di decomposizione e distruzione. Dopo la prima guerra mondiale, in Europa andava di moda il catastrofismo della ci- viltà alla tedesca. Si incuneava in menti stanche e svogliate, si infiltrava nelle pagine delle opere filosofiche, si arrampicava furtivamente sulle cattedre universitarie. Oggi sappiamo qual era il suo scopo. Attraverso tale catastrofismo apocalittico l’imperiali- smo e il nazionalismo tedeschi volevano mettere in ginocchio tutte le nazioni europee. Indebolire in loro la volontà di lottare, avvelenarle col pensiero della morte. Per quale ragione combattere, che cosa difendere di fronte all’universale Untergang des Aben- dlandes? Sotto il tacco dell’occupazione hitleriana, in Europa si risvegliò il pensiero della resistenza. Purtroppo non è durato abbastanza a lungo per far fronte alla nuova minaccia. Alla fine di questa guerra il catastrofismo tedesco cede il posto alla “innovazione” sovietica. È un “innovamento” sicuro di sé, dinamico e antitradizionalista, di cui Croce dice in generale che «non è l’elevamento della tradizione a un livello più alto, bensì il fatto di rompere con essa, il che significa instaurare la barbarie; e questa “innova- zione” arriva quando le forze selvagge e malvagie che, sebbene tenute a bada, sono pre- senti in ogni società, prendono a un certo punto la rincorsa e acquistano vigore per, infine, dominare e comandare. Tali forze sono incapaci di risolvere in sé il problema del- l’attuale civiltà, innalzandola a un livello più alto, ma viceversa la rifiutano e non solo opprimono e perseguitano gli uomini che ne sono la personificazione, ma osano addi- rittura distruggere le opere che stimolano l’incessante arricchimento della cultura; osano distruggere i monumenti della bellezza, i sistemi di pensiero e tutte le testimo- nianze del glorioso passato; osano chiudere le scuole, saccheggiare e bruciare i musei, le biblioteche e gli archivi e fare cose di cui siamo stati testimoni e che riscontriamo ancora oggi». Passeranno senz’altro di nuovo molti anni prima che le nazioni dei due emisferi ca- piscano che il “rinnovamento” sovietico è uno strumento per anestetizzare la cultura europea, così come a suo tempo il catastrofismo tedesco è stato lo strumento della sua disintegrazione. Stanno arrivando tempi di nuovo indebolimento della volontà, di av- velenamento con pensieri di morte. Allora, per che cosa lottare, che cosa difendere di- nanzi all’universale Ex Oriente lux? In queste condizioni, il ruolo, le finalità e i compiti di “Kultura” sono sufficiente- mente chiari e non richiedono una spiegazione molto dettagliata.

304 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

“Kultura” desidera far capire ai lettori polacchi — avendo scelto l’emigrazione po- litica, essi i sono trovati fuori delle frontiere del proprio paese natale — che la cerchia culturale nella quale vivono non è un ambito morto. “Kultura” desidera raggiungere i lettori polacchi in patria e rafforzare in loro la fede che i valori che sono a loro vicini non sono ancora caduti sotto i colpi del piccone della forza bruta. “Kultura” vuole cercare nel novero della civiltà occidentale quella «volontà di vi- vere, senza la quale l’uomo europeo morirà, come nel passato morirono le classi diri- genti degli antichi imperi».

poloniaeuropae 2010 305 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Memorie unite e divise

poloniaeuropae 2010 307 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi l’8 maggio 1945

La pace in Europa è irreversibile1 Seduta commemorativa, 9 maggio 2005

In apertura di seduta il Presidente Borrell ha pronunciato una dichiarazione com- memorativa del 60° anniversario della fine del secondo conflitto mondiale. L’8 maggio 1945, ha detto, si è potuto iniziare a stilare un bilancio dell’orrore vis- suto negli anni precedenti che ha provocato la morte di 60 milioni di soldati e civili, lo sterminio di 6 milioni di persone, la distruzione di intere città e 30 milioni di sfollati. A prescindere dalle responsabilità, ha continuato, la sofferenza degli esseri umani è stata «indicibile». L’Europa «era un continente distrutto» e l’8 maggio qualche leader politico pro- clamò che la bandiera della libertà sventolava in tutta Europa. Tuttavia, oggi si può dire che la fine della guerra portò la pace e la libertà «solo a metà Continente», per- ché l’altra metà è stata «vittima del nuovo ordine mondiale scaturito da Jalta». L’8 maggio segnò una nuova geografia europea per molti paesi. Un altro totalitarismo, in- fatti, «ha preso in ostaggio mezza Europa». Nacque così un Continente bipolare, co- minciò un conflitto ideologico e in tutto il mondo iniziò «l’incubo dell’era nucleare». Oggi, ha quindi detto, si commemora finalmente un’Europa «riunificata» e non, ha tenuto a precisare, «allargata». Il 1° maggio 2005, infatti, si è festeggiato il primo an- niversario del nuovo incontro con 10 nuovi paesi che erano stati «ostaggi di Jalta» e pre- sto «saremo di più». Il 9 maggio è anche il giorno dell’Europa, oggi pertanto si commemorano tre eventi: il 55° anniversario del progetto europeo, il 60° della fine della seconda guerra mondiale e il 1° anniversario della riunificazione. Il Presidente ha poi sottolineato il «dovere della memoria» per tramandarlo alla nuove generazioni «per le quali la pace rappresenta la normalità». Il Continente ha oggi «superato la subordinazione dell’individuo allo Stato e il di- sprezzo della dignità». Il nostro sistema si basa sulla separazione dei poteri, la sovra- nità popolare e il rispetto dei diritti umani e il messaggio che deve essere trasmesso è che «occorre continuare a battersi per i valori della pace, della giustizia e della tol- leranza, non solo in Europa ma in tutto i mondo». La pace tra di noi, ha proseguito il Presidente, «è irreversibile» perché «non è pen- sabile che si ricorra alle armi» per dirimere le nostre controversie. I cittadini chiedono all’Unione di garantire la prosperità economica e la sicurezza dalle nuove minacce che

1 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=PRESS&reference=TW-20050509- S&format=XML&language=IT#SECTION2

poloniaeuropae 2010 309 Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...

incombono sul mondo, «che non è più quello di Jalta». Il Presidente ha quindi concluso affermando che, ora, è necessario volgere il nostro sguardo al futuro per rispondere alle esigenze dei cittadini.

Avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale2 Discussioni. Mercoledì 11 maggio 2005, Strasburgo

Josep Borrell Fontelles, Presidente — (SP) L’ordine del giorno reca le dichiarazioni sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale. Come ricor- derete, lunedì scorso, in concomitanza della Giornata dell’Europa, ho fatto una di- chiarazione sulla fine della seconda guerra mondiale in Europa, la cui data cade nello stesso mese in cui festeggiamo anche l’anniversario dell’adesione di dieci nuovi paesi, cioè a maggio. Tenendo conto di questa triplice coincidenza, la Conferenza dei presi- denti ha deciso di svolgere oggi una discussione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale, che sia qualcosa di più di una semplice commemo- razione, qualcosa di più di una visione retrospettiva: una visione del nostro futuro sulla base del ricordo del nostro passato. Per introdurre la discussione odierna sono qui pre- senti il Presidente in carica del Consiglio Juncker e il Presidente Barroso... (Applausi) ...che sono stati di recente a Mosca per assistere alle celebrazioni in commemorazione della fine della guerra e che ora si uniscono a noi in questa discussione che, come vi di- cevo — voglio insistere su questo punto — intende guardare al futuro e non solo ricor- dare il passato. Vi ringraziamo per gli sforzi che entrambi avete fatto per essere qui tra noi. La vostra presenza arricchisce, senza dubbio, la nostra discussione. Do quindi la pa- rola innanzi tutto a loro, come d’abitudine. Jean-Claude Juncker, Presidente in carica del Consiglio — (FR) Signor Presidente, signor Presidente della Commissione, onorevoli deputati, sono trascorsi sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Ricordare l’8 maggio 1945, data della capi- tolazione del Terzo Reich, è un dovere ardente e vorrei congratularmi a tale proposito con il Parlamento europeo per non avere mancato oggi di ricordare tale data. L’obbligo di ricordare è un dovere assoluto soprattutto, a mio giudizio, per quanti sono nati dopo la seconda guerra mondiale, gli uomini e le donne della mia generazione. Quando ri- cordiamo l’8 maggio 1945, la capitolazione della democrazia tedesca nel 1933 e il ter- ribile periodo che divide queste due date, noi giovani dobbiamo farlo con grande ritegno, almeno rispetto alla generazione coinvolta. Quelli che, come me, sono nati dopo la seconda guerra mondiale, nel 1954, nel 1955 e oltre, devono ricordare con ri- tegno perché non sono stati testimoni diretti della tragedia che si è abbattuta sul con- tinente europeo. Noi non abbiamo visto, a differenza di coloro che ci hanno preceduti, i campi di concentramento e le prigioni dove furono uccise, torturate e umiliate le per-

2 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20050511&secondRef=ITEM -016&format=XML&language=IT#def1#def1

310 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

sone, fino alla loro degradazione più totale. Non abbiamo visto, come loro, i campi di battaglia, perché non abbiamo dovuto attraversarli, con la morte nell’anima, per non parlare molto spesso della morte fisica. Non abbiamo potuto né dovuto osservare, a differenza di loro, i lunghi cortei di prigionieri di tutte le nazioni che attraversavano l’Europa, costituendo di fatto un unico corteo funebre europeo. Noi che siamo nati dopo la seconda guerra mondiale non ci siamo trovati di fronte a scelte drammatiche, individuali o collettive. Non dovevamo dire sì o no, abbiamo potuto vivere al sole del dopoguerra, tutte le scelte drammatiche ci sono state risparmiate. Ricordare l’8 maggio 1945 è un atto che alimenta la memoria collettiva. È molto importante nel momento in cui i ricordi diretti e l’esperienza vissuta della guerra o del- l’immediato dopoguerra — il vissuto diretto con il bagaglio di esperienze personali e di nobili sentimenti — si stanno trasformando in storia, con tutto ciò che comporta la sto- ria rispetto ai ricordi in termini di distanza e di griglie di lettura sedicenti obiettive. Oggi, i testimoni diretti di questa epoca terribile della storia continentale stanno scom- parendo. Sono commoventi i veterani russi sui camion sulla Piazza Rossa, è commo- vente questo lungo corteo di quanti hanno fatto la guerra per loro e per noi e che, già oggi, non possono più camminare. Del resto noi sappiamo verso che cosa si stanno diri- gendo. Il dovere di ricordare è un dovere assoluto. Per gli uomini e le donne della mia generazione, ricordare vuole dire serbare la memoria non solo con ritegno, ma anche con molta gratitudine. Innanzi tutto, dobbiamo mostrare riconoscenza per la genera- zione dei nostri padri e dei nostri nonni che, di ritorno dai campi di battaglia, dai campi di concentramento, liberati dalle prigioni, avevano tante ragioni per cedere, per non fare nulla e piangere sul proprio destino. Invece hanno ricostruito l’Europa e hanno fatto dell’Europa il più bel continente che ci sia. Dobbiamo essere riconoscenti dinanzi agli straordinari risultati della generazione di coloro che hanno dovuto andare in guerra e che hanno voluto costruire la pace! (Applausi) Ricordando e provando questo dovere assoluto della memoria, dobbiamo anche dire la verità. L’8 maggio 1945 è stata per l’Europa una giornata di liberazione. (DE) L’8 maggio 1945 è stato anche un giorno di sconfitta. Con ciò intendo, tutta- via, la sconfitta del fascismo e del nazionalsocialismo, oltre alla fine della capitola- zione democratica di fronte ai terribili eventi che si erano succeduti dal 1933. È stata soprattutto, comunque, anche una giornata di liberazione per la Germania. (Applausi) Vorrei dire ai rappresentanti eletti del popolo tedesco presenti in quest’Aula che ora i tedeschi sono per noi vicini migliori di quanto non siano mai stati. (Applausi) (FR) Dire la verità, l’8 maggio, il 9 maggio e il 10 maggio significa anche mostrarsi riconoscenti nei confronti di coloro che hanno unito le loro forze e la loro energia alle forze e all’energia europee per liberare il continente europeo. Con sessant’anni non di ritardo ma di distanza, vorrei sottolineare quanto noi europei dobbiamo essere ricono- scenti ai giovani soldati statunitensi e canadesi che hanno varcato l’oceano per venire a liberare l’Europa, contribuendo alla liberazione di innumerevoli paesi di cui talvolta ignoravano persino l’esistenza. Non dovremmo mai dimenticarlo. (Applausi) Penso anche ai soldati dell’Armata Rossa. Quante perdite! Quante vite spezzate tra i russi, che, per la libertà dell’Europa, hanno sacrificato ventisette milioni di morti! Non c’è bi- sogno di provare un grande amore per la profonda ed eterna Russia, che personalmente amo molto, per riconoscere che questo Stato è degno dell’Europa. (Applausi) Vorrei

poloniaeuropae 2010 311 Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...

rendere un omaggio particolare a un popolo d’Europa che ha saputo dire no mentre altri, troppo spesso, erano tentati di dire un debole sì. Vorrei qui, oggi, rendere omag- gio al popolo britannico, che ha saputo dire no e senza il cui contributo niente sarebbe stato possibile. (Applausi) Tuttavia, la libertà ritrovata, all’inizio del mese di maggio del 1945, non fu la stessa ovunque. Noi, nella parte occidentale dell’Europa, comodamente insediati nelle nostre vecchie democrazie, dopo la seconda guerra mondiale abbiamo potuto vivere nella libertà, in una libertà ritrovata di cui conosciamo bene il prezzo. Per cinquant’anni coloro che vivevano nell’Europa centrale e orientale, invece, non hanno conosciuto la libertà che abbiamo vissuto noi. (Applausi) Erano soggetti a una legge estranea. Gli Stati baltici, dei quali vorrei salutare l’ingresso in Europa e ai quali vor- rei dire quanto siamo fieri di averli con noi, sono stati incorporati con la forza in un’unione di cui non facevano parte. Erano soggetti non alla pax libertatis, ma alla pax sovietika che non apparteneva loro. Questi popoli e queste nazioni, che sono passati di disgrazia in disgrazia, hanno sofferto più di tutti gli altri europei. (Applausi) Gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale non hanno conosciuto questa straordinaria ca- pacità di autodeterminazione che abbiamo potuto sperimentare nella nostra parte d’Eu- ropa. Non erano liberi. Hanno dovuto vivere sotto il regime di principio che fu loro imposto. Con immensa tristezza nel cuore ricordo tutte le parole negative pronunciate oggi riguardo all’allargamento. Oggi, tuttavia, che la seconda guerra mondiale si è fi- nalmente conclusa, io dico: viva l’allargamento! (Applausi) Questa Europa del dopoguerra che, senza la guerra, non sarebbe mai potuta diven- tare l’Europa di oggi, questa Europa, nata dalle ceneri del conflitto, non avrebbe mai visto la luce senza i cosiddetti padri fondatori dell’Europa — persone come Schuman, Bech, Adenauer, de Gasperi e altri — che, per la prima volta nella storia del continente, hanno trasformato la frase “mai più la guerra” in una speranza, in una preghiera e in un programma. Dobbiamo ricordare oggi con emozione e con gratitudine coloro che hanno avuto il coraggio di dire sì dopo aver detto no. Non avrebbero potuto agire così se non si fossero sentiti spinti dai nobili e profondi sentimenti dei loro popoli. Non è possibile com- piere grandi imprese contro la volontà del popolo. Se abbiamo potuto costruire l’Europa così com’è ora, dopo la seconda guerra mondiale, il motivo è che i popoli europei non vo- levano rivivere mai più la tragedia che il continente europeo aveva vissuto, per due volte, durante il XX secolo. Vi sono i padri fondatori dell’Europa che sono famosi; vi sono i po- poli che sono andati avanti nell’ombra e che condividevano questi nobili sentimenti e poi vi sono i filosofi, i pensatori, i politici che, troppo spesso, non ricordiamo: Léon Blum, che ha sognato l’Europa in una prigione francese; il grande Spinelli, incarcerato su un’isola in Italia dai fascisti italiani; altri che non hanno un nome, ma ai quali dobbiamo molto. Vor- rei rendere omaggio a coloro che, dimenticati o nell’anonimato, hanno reso possibile tutto ciò che è stato realizzato dopo la seconda guerra mondiale. (Applausi) In Europa c’era dunque la parte libera e la parte rimasta paralizzata da questo fu- nesto decreto della storia, l’accordo di Jalta, che intendeva dividere l’Europa per sem- pre in due. Tra queste due parti, che molto spesso si guardavano in cagnesco, siamo stati troppo spesso incapaci di costruire ponti. La guerra fredda — così si chiamava eufemi- sticamente questo altro periodo tragico della storia europea — ha paralizzato le mi- gliori energie dell’Europa e ha impedito ai migliori talenti d’Europa di esprimere tutto ciò che avevano di buono da esprimere se ne avessero avuto la possibilità.

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Personalmente, sono nato nel dicembre 1954, ma preferisco dire che sono nato nel 1955. Sono cresciuto innanzitutto nel rispetto delle conquiste della generazione di mio padre, se mi consentite questa digressione, che ha conosciuto una sorte doppia- mente terribile, perché i lussemburghesi nati tra il 1920 e il 1927 furono arruolati a forza nella Wehrmacht e costretti a portare un’uniforme che non era la loro, al servi- zio di ambizioni che non erano le loro. È una sorte terribile dover portare l’uniforme del proprio nemico. La stessa osservazione vale per gli abitanti dell’Alsazia e della Lorena, ai quali rendo omaggio. Sono cresciuto nell’atmosfera della guerra fredda, in cui il mondo, così sembrava, era più facile da capire. C’erano quelli che erano con noi e quelli che erano contro noi. Non sapevamo perché simpatizzavamo per quelli che sta- vano dalla nostra parte, ma sapevamo di dover odiare gli altri. Si sapeva che la minac- cia veniva da oltrecortina e chi stava dall’altro parte pensava che la minaccia provenisse da noi. Quante occasioni perdute! Quanto tempo perso in Europa per queste stupide analisi nell’immediato dopoguerra. Rallegriamoci, oggi, di non doverci più riferire alla logica implacabile della guerra fredda e di poter mettere pace tra le due parti del- l’Europa. (Applausi) Penso spesso agli uomini saggi dell’Europa — probabilmente perché io non lo sono — ad esempio a Churchill. Nel 1947, quando il primo congresso del movimento europeo si riunì a L’Aia, dando origine all’idea di creare il Consiglio d’Europa, di fronte al rifiuto dell’Unione Sovietica di lasciar partecipare gli altri paesi dell’Europa centrale e orien- tale sia al piano Marshall che alla creazione del Consiglio d’Europa, il grande Churchill dichiarò con quel dono profetico che gli era proprio: «Cominciamo oggi a ovest quello che un giorno completeremo a est». Onorevoli deputati, dobbiamo essere orgogliosi di essere giunti a questa meta. (Applausi) Ricordo alcune parole di Victor Hugo che, nel 1849, scriveva: «Giorno verrà in cui non vi saranno altri campi di battaglia all’infuori dei mercati aperti al commercio e degli spiriti aperti alle idee. Giorno verrà in cui i proiettili e le bombe saranno sostituiti dai voti». Dobbiamo essere fieri di aver raggiunto oggi questo obiettivo. Dobbiamo sentirci orgogliosi di poterlo dire al Parlamento europeo, co- stituito dai rappresentanti eletti dei popoli d’Europa, eredi di coloro che hanno saputo dire no quando era necessario, eredi di coloro che hanno saputo dire sì quando era l’unica opzione che restava. Dobbiamo essere riconoscenti nei confronti di coloro che hanno detto no quando bisognava dire no e di tutti coloro che, oggi, dicono sì alla grande Europa, all’Europa che ha visto riconciliarsi la sua storia e la sua geografia. Dob- biamo essere orgogliosi di coloro che non vogliono che l’Europa si trasformi in una zona di libero scambio e di coloro che, come noi, come milioni di altri, ritengono che l’Eu- ropa sia un continente complesso, che merita qualcosa di meglio di una zona di libero scambio. Dobbiamo essere fieri dell’Europa che hanno costruito coloro che ci hanno preceduti e abbiamo il dovere di comportarci come degni eredi. (L’Assemblea, in piedi, applaude lungamente) José Manuel Barroso, Presidente della Commissione — (PT) Signor Presidente, si- gnor Presidente in carica del Consiglio, onorevoli deputati, cari amici, è un grande onore per me rappresentare la Commissione in questa cerimonia nel Parlamento che rappre- senta gli europei. Oggi guardiamo sia al passato che al futuro. Siamo qui per ricordare, per riconoscere e per costruire. Guardiamo in primo luogo al passato. Il più grande con- flitto mondiale è stato fonte di sentimenti contraddittori per tutti coloro che soprav-

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vissero. Fonte di sollievo per molti, fonte di vuoto, senza dubbio, spesso fonte di paura del futuro, il timore che il dopoguerra non fosse migliore, ma persino peggiore del pas- sato. Perciò ricordiamo. Ricordiamo l’entità della distruzione che ha devastato in par- ticolare l’Europa. Quasi nessun paese ne è uscito illeso. Quella che alcuni hanno definito la «guerra civile europea» ha testimoniato la disumanità di cui può dare prova l’uomo nei confronti dell’uomo. Noi europei, che spesso ci sentiamo orgogliosi dei grandi ri- sultati della nostra civiltà e della nostra cultura, delle grandi opere dello spirito euro- peo, dobbiamo ammettere umilmente che alcuni degli orrori peggiori mai perpetrati dall’umanità sono avvenuti nell’Europa nel XX secolo. (EN) Dovremmo comunque ricordare anche le grandi storie di trionfo sulle avver- sità, i viaggi personali che tanti europei hanno compiuto per trovare una vita migliore, attraversando mari e montagne per realizzare il loro obiettivo di un’esistenza felice e pacifica. Alcuni lo hanno raggiunto semplicemente ritornando a casa. Ricordiamo coloro che non hanno avuto questa opportunità, per i quali la luce della libertà si è spenta su- bito dopo averla intravista, per i quali un incubo fu sostituito da un altro incubo. Rico- nosciamo che qualcosa di straordinario è emerso dalle rovine dell’Europa nel 1945. Vorrei citarvi uno dei visionari di quel tempo, che in un discorso pronunciato a Zurigo nel 1946 disse: «Sto per dirvi qualcosa che vi stupirà. Il primo passo nella ricostruzione della famiglia europea deve essere un’intesa tra la Francia e la Germania. Solo così la Francia può recuperare la guida morale e culturale dell’Europa. Non vi può essere una ripresa dell’Europa senza [...] una Germania grande spiritualmente». Churchill aveva ra- gione. È facile ora dimenticare il coraggio che richiedeva allora pronunciare quelle pa- role. Quello che disse era stupefacente. Ancor più stupefacente furono gli atti che hanno trasformato quelle parole in realtà. Dovremmo ricordare la determinazione stra- ordinaria mostrata da Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Alcide de Ga- speri e altri e ciò che hanno realizzato, ricostruendo invece di barricarsi nelle rappresaglie. Dovremmo anche ricordare e riconoscere la visione dei leader transa- tlantici che contribuirono a sostenere il carico della ricostruzione invece di voltarci le spalle. Prima di lasciarci trasportare troppo, facciamo una pausa, perché l’impresa av- viata dai padri fondatori era straordinaria, ma incompleta. Come ha detto la Commis- sione nella sua dichiarazione del 9 maggio: per milioni di persone, la vera libertà doveva giungere solamente con la caduta del muro di Berlino, non con la fine della seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 questi popoli persero le loro libertà e opportunità quasi subito dopo averle riguadagnate. In alcuni casi persero il controllo politico dei loro paesi; in altri, persero la loro indipendenza. Per molte persone in Europa la fine della guerra significò pace e libertà, ma per alcuni significò solamente pace, non ancora li- bertà. Non dobbiamo dimenticare che cos’era l’Europa. Sessant’anni fa qui, in questo continente, abbiamo vissuto l’Olocausto. Circa 30 anni fa molti paesi nell’Europa me- ridionale, compreso il mio, vivevano ancora sotto dittature. Fino a circa 15 anni fa metà dell’Europa non godeva di libertà e democrazia. Per questo ho difficoltà a capire come possiamo non essere ottimisti sul futuro dell’Europa osservando i progressi compiuti ri- spetto alla situazione esistente solo alcuni anni fa. (Applausi) Comunque, per fortuna, la storia non è finita lì. I leader europei degli anni ‘40 e ‘50 hanno costruito una luce e un magnete: una luce attraverso anni oscuri per coloro che non avevano nessuna pro- spettiva della pace, prosperità e stabilità, di cui altri europei godevano, e una straor-

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dinaria e potente forza di attrazione per quei popoli e paesi che si stavano liberando e vedevano la Comunità europea — come veniva chiamata allora — come un catalizzatore per la trasformazione dei loro paesi. Per la mia generazione, l’Europa è sempre stata sinonimo di democrazia. A 18 anni, insieme ad altri, ero deciso a liberare il mio paese da un regime repressivo, autorita- rio, retrivo. Per questo motivo io e molte persone della mia generazione ammiriamo particolarmente gli sforzi straordinari dei popoli della Repubblica ceca, dell’Estonia, dell’Ungheria, della Lettonia, della Lituania, della Polonia, della Slovacchia, della Slo- venia, della Romania e della Bulgaria nella lotta per la democrazia e il fatto che essi collegano l’idea stessa dell’Europa a quella di democrazia. Dovrebbe essere ed è con enorme orgoglio che l’Unione europea e le sue Istituzioni accolgono quei nuovi Stati membri e quei popoli, insieme a quelli di Malta e Cipro. Questa trasformazione è quindi degna di riconoscimento e di commemorazione. Perché? Perché a volte sembra quasi di- menticata. Oggi è troppo facile dare per scontate le solide fondamenta della nuova Eu- ropa in cui viviamo, un’Europa di libertà e di valori condivisi. (FR) Per questo bisogna affermare che l’Unione europea non può essere vittima del proprio successo. L’integrazione di una tale varietà di Stati membri, uniti da un progetto comune, è un risultato davvero straordinario. È una sfida straordinaria quella che tutti stiamo affrontando. Sono convinto che l’attuazione di questo formidabile progetto, che riguarderà presto 27 paesi e 500 milioni di persone, proseguirà malgrado le turbolenze che non mancheranno di sopraggiungere di tanto in tanto. Questa attuazione, tuttavia, av- viene talvolta così pacificamente che corriamo il pericolo di dimenticarne gli antefatti. I racconti dei conflitti sanguinosi che hanno devastato l’Europa sembrano essere oramai confinati ai libri di storia. Tuttavia, erano ancora sulle prime pagine dei giornali dieci anni fa, quando avvenivano massacri in certi paesi dei Balcani. Nel nostro continente possiamo dire: mai più! È facile dirlo, ma la storia dell’Europa dimostra che dobbiamo lavorare per la pace e non darla per scontata. Questa prospettiva non è probabilmente molto allegra, perché oggi in Europa esistono problemi e timori. A Berlino, nel grande edificio che un tempo ospitava quello che la RDT chiamava il suo parlamento, si trova iscritta la parola Zweifel, che significa “dubbi”. Vi sono dubbi e timori, soprattutto tra i giovani. Le loro ansie sono serie: il timore di trovare o meno un lavoro, l’apprensione di fronte a un mondo più competitivo, percepito talvolta come una sfida. Tuttavia le paure riguardano il fatto di trovare un impiego, non di trovare o meno il proprio paese. Attualmente è opportuno trovare un modo efficace per risolvere le difficoltà, reali o percepite come tali, legate all’integrazione dei mercati. Non si tratta di conflitti armati tra concorrenti che diven- tano avversari o nemici. Per tale ragione, per far fronte a questi timori, dobbiamo seguire l’esempio delle generazioni che ci hanno preceduti; dobbiamo dare prova della stessa immaginazione e dello stesso coraggio. Ricordiamoci che l’ambizioso partenariato che abbiamo concluso in Europa è stato all’origine delle rivoluzioni pacifiche che hanno por- tato la libertà e la democrazia a milioni di europei! L’esempio dell’Europa — l’Europa dei Sei, dei Dieci, dei Dodici, dei Quindici e ora dei Venticinque — è stato la vera forza mo- trice della democratizzazione nell’Europa del sud, nell’America latina e, in seguito, nel- l’Europa centrale e orientale. Ricordiamoci che la libertà è la forza motrice che stimola la crescita, l’occupazione, gli investimenti e che offre a un maggior numero di europei la possibilità di una vita migliore.

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La vitalità della democrazia e la modernità delle nostre società testimoniano la no- stra capacità di reinventare il nostro continente. Dal mercato interno alle frontiere esterne, dalla promozione della coesione interna alla difesa dello sviluppo sostenibile e dell’ambiente, dalla dimensione della solidarietà a quella della giustizia ai quattro an- goli del globo — perché non vogliamo un’Europa chiusa su se stessa — l’Unione europea costruisce continuamente l’Europa. Lo fa per tappe concrete che migliorano la vita quotidiana dei suoi cittadini. La ratifica della Costituzione consoliderà queste realiz- zazioni e getterà le basi per progressi ancora più significativi in futuro. Oggi, dunque, ricordiamo questa terribile guerra e le sue conseguenze. Nel nostro lavoro imperniato sull’avvenire, lasciamoci ispirare dall’ambizione visionaria e dalla determinazione dei leader e dei cittadini che ci hanno preceduti, portandoci dalla riconciliazione alla coo- perazione e dalla cooperazione all’Unione europea! (Applausi) Hans-Gert Poettering, a nome del gruppo PPE-DE — (DE) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio europeo, signor Presidente della Commissione, ono- revoli colleghi, nel 1945, sessant’anni fa, l’Europa era un campo di battaglia in rovina. Una guerra barbara aveva preteso le vite di oltre 55 milioni di persone, altri milioni — un numero incalcolabile — furono sradicati, milioni furono gli sfollati e le persone co- strette a lasciare le loro case; genitori persero figli, mogli persero mariti, figli persero padri. Alla fine di marzo 1945, mio padre, un soldato dell’esercito, scomparve. Solo molto tempo dopo abbiamo saputo che era fra i caduti. Io non l’ho mai visto. Nel 1945, molte delle città d’Europa erano distrutte; l’economia era in rovina. Nel mondo, il nome dell’Europa evocava paura e terrore. Di chi fosse la responsabilità per lo scoppio della seconda guerra mondiale non è oggetto di dubbio: il regime illegale nazionalso- cialista in Germania trasformò le sue manie razziali e la sua sete di potere in un inferno di aggressione contro tutti gli altri popoli d’Europa. Il tentato sterminio degli ebrei era destinato a essere il peggiore dei suoi crimini. Il totalitarismo nazionalsocialista portò alla rovina l’intera Europa. Quando giunse la fine nel 1945, lo stesso popolo tedesco era fra le sue vittime, in un momento in cui i vincitori erano ben pochi. Piuttosto che vin- citori, c’erano superstiti, alcuni fortunati, altri no; i primi in Occidente, i secondi nel- l’Europa centrale e orientale. Il lungimirante appoggio americano rese possibile la rinascita nella parte occidentale del continente, che poteva godere della libertà, del rispetto per la dignità umana, della democrazia e di un’economia di mercato fondata sul diritto. È stato Winston Churchill, come ci è stato ricordato poco fa, a delineare la visione degli Stati Uniti d’Europa — e consentitemi di aggiungere che l’Europa non avrebbe mai potuto considerarsi completa senza la Gran Bretagna. Dopo il 1945, a co- minciare dalla costa atlantica, l’Europa fu resuscitata; i suoi popoli, esausti ma felici di poter ricominciare in libertà, si ravvicinarono. Robert Schuman sarà sempre ricordato e celebrato per essersi rivolto ai tedeschi e averli invitati a unirsi a questo nuovo ini- zio. Senza la magnanimità francese, l’Europa sarebbe rimasta di nuovo nulla più di un’idea inconsistente — e consentitemi di aggiungere che, ora che l’Unione europea sta vivendo un altro nuovo inizio con un’unica Costituzione, l’Europa avrà bisogno anche in futuro, più che mai, di una partecipazione costruttiva da parte della Francia. (Ap- plausi) Nel 1945 anche i popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorientale erano pieni della speranza di un nuovo inizio, di avere, come quelli che appartenevano alla stessa

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cultura europea che noi tutti condividiamo, una nuova opportunità di vita nella libertà e nella pace. Hanno dovuto imparare dall’amara esperienza che la pace senza la libertà equivale a una liberazione solo parziale dal giogo dell’ingiustizia totalitaria. Le loro speranze furono schiacciate dalla presa di potere sovietica. Anche se il totalitarismo na- zionalsocialista era stato sconfitto nel 1945, il totalitarismo stalinista divise l’Europa e impose il proprio dominio ingiusto ai popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorien- tale. La speranza, tuttavia, non abbandonò i superstiti meno fortunati della seconda guerra mondiale — la speranza di un’Europa condivisa, intellettualmente, moralmente e politicamente rinnovata, con la prospettiva della prosperità per tutti i suoi cittadini. A questa speranza hanno infine dato forma in una rivoluzione pacifica, la cui parola d’ordine era Solidarność. Ci sono voluti decenni per abbattere il muro. (Applausi) Es- sendo un deputato al Parlamento europeo sin dalle prime elezioni dirette nel 1979, considero la discussione odierna — una discussione che stiamo svolgendo insieme con la dignità e la solennità che merita — un momento di esultanza per l’Europa ora unita, un momento per rallegrarci anche della presenza fra noi di deputati provenienti da otto paesi dell’Europa centrale, che godono degli stessi diritti di cui godiamo noi. (Applausi) Fu nel 1989 che l’Europa si liberò dal duplice peso del totalitarismo. Il 1989 ci ha insegnato il potere che hanno per tutti noi i valori dell’Europa e quanto contiamo sul- l’esempio di uomini e donne coraggiosi, se vogliamo mantenere la nostra libertà. Dopo il 1989, l’Europa ha potuto ricominciare a respirare con entrambi i polmoni, per citare le parole usate dal grande Papa di immortale memoria, Giovanni Paolo II. (Applausi) I popoli dell’Europa occidentale avevano compiuto un lavoro prezioso, indispensabile, in preparazione di quel giorno e ciò che hanno fatto perdurerà. La creazione dell’Unione europea con valori comuni incentrati sulla dignità umana, l’unione soprannazionale in una comunità libera con le proprie leggi vincolanti, è stata la risposta conseguente al- l’opportunità presentata dalla fine della guerra. L’unificazione europea è un progetto di pace e di libertà. Tutti gli europei hanno ora l’opportunità e il dovere di percorrere la strada presentata da un’Europa riunita. Ora siamo impegnati, insieme, a costruire un’Europa che difende i suoi valori nell’interesse di tutti i cittadini. L’Europa ora può dare una sola risposta alla guerra e al totalitarismo, procedendo lungo la strada del- l’Unione europea di popoli e di Stati, con perseveranza, con convinzione interiore e con un’accettazione della diversità che è la forza e lo splendore dell’Europa. Il dibat- tito in corso sulla Costituzione europea è una grande opportunità per ricordare a noi stessi queste cose fondamentali, perché, per la prima volta nella storia europea, i no- stri valori e i nostri ideali sono sanciti in una Costituzione. L’Europa non è soltanto una costruzione politica, ma uno spazio vitale intellettuale. Per questa ragione la risposta al terribile conflitto, la cui fine oggi commemoriamo con gratitudine, doveva essere di tipo morale, “mai più” alla mancanza di libertà che conduce alla guerra, “mai più” alla guerra che sottrae agli uomini la loro libertà. Questo riassume la motivazione dietro alla costruzione di una nuova Europa, un’Europa che ripudia il totalitarismo, l’arroganza nazionalista e la disumanità egualitaria, un’Europa che rifiuta qualsiasi aspirazione ege- monica dei suoi singoli Stati, un’Europa che afferma la dignità inconfondibile di ogni sin- golo essere umano, il bilanciamento degli interessi tra gruppi sociali e popoli, un’Europa del rispetto e della diversità origine della sua forza, un’Europa della democrazia e del diritto.

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Si sono compiuti grandi progressi in termini di riconciliazione interna, tra i popoli e gli Stati d’Europa. Vogliamo — e dobbiamo — completare questo lavoro di riconcilia- zione interna e desideriamo anche riconciliarci con il popolo della Russia e con i popoli della Federazione russa. Nel periodo della nostra storia che sta ora cominciando, l’Eu- ropa dovrà tuttavia perseguire la riconciliazione nel mondo e con il mondo attorno a noi più di quanto abbia mai fatto prima. Le guerre dell’Europa divennero guerre mondiali. L’unificazione dell’Europa deve andare a beneficio del mondo. Possiamo essere grati ai deputati al Parlamento europeo — e desidero ringraziare in particolare l’onorevole col- lega Elmar Brok — che hanno elaborato una risoluzione che domani esprimerà i nostri valori. In questo momento, ricordiamo tutte le vittime della seconda guerra mondiale e tutta la sofferenza e la distruzione. Ricordiamo che la pace e la libertà sono stretta- mente legate e che il nostro lavoro deve essere al servizio dell’umanità, non ultimo nel promuovere il dialogo tra le culture. Dove questo dialogo con il mondo sarà fruttuoso, difenderemo i valori che ci sostengono lungo il nostro cammino verso il futuro. In tal modo questo giorno dedicato al ricordo può darci una nuova missione, invitandoci a la- vorare insieme per costruire un mondo migliore — un mondo più pacificato e più libero. (Vivi applausi) Martin Schulz, a nome del gruppo PSE — (DE) Signor Presidente, onorevoli colle- ghi, pensando all’8 maggio 1945 e ricordando ciò che accadde quel giorno, pensiamo al periodo che l’ha preceduto e anche al periodo che seguì. È impossibile per qualsiasi deputato tedesco al Parlamento europeo pensare a quella data senza ricordare la pro- pria nazionalità. Il gruppo a nome del quale parlo comprende deputati provenienti dalla Germania, che rappresentano il paese che ha voluto questa guerra, che l’ha preparata, l’ha intrapresa ed è stato spietato nell’organizzarla. Tuttavia, parlo anche a nome di de- putati provenienti dalla Polonia, il paese che per primo è stato invaso dall’esercito te- desco, nonché di deputati provenienti dai paesi che furono i primi fra gli Alleati — il Regno Unito e la Francia — senza le cui forze combinate Hitler non avrebbe potuto es- sere sconfitto. Vicino a me siede Poul Nyrup Rasmussen, per molti anni Primo Ministro della Danimarca, un paese che la Germania di Hitler invase e occupò dall’oggi al domani — uno dei soldati occupanti era mio padre. Parlo anche a nome di deputati provenienti da paesi che hanno sofferto sotto la dittatura per molto tempo dopo la fine della se- conda guerra mondiale. Il mio gruppo comprende un avvocato che difese le vittime del regime di Franco e un altro deputato che ne fu vittima, essendo stato torturato nelle prigioni sotterranee della polizia segreta. Alcuni dei miei colleghi del gruppo vengono dal Portogallo e dalla Grecia, uomini e donne che — come lei, signor Presidente della Commissione — nei loro anni giovanili esultarono nel vedere i dittatori espulsi dai pro- pri paesi. Il mio gruppo comprende il mio amico Józef Pinior, che sarà il prossimo ora- tore a intervenire per il gruppo, torturato nelle prigioni comuniste perché sindacalista e socialdemocratico. Per me è un privilegio poter parlare a nome di tutte queste per- sone, un privilegio che devo all’Unione europea. È qualcosa di cui tutti possiamo essere grati agli uomini e alle donne che hanno dovuto assumersi la responsabilità, dopo l’8 maggio 1945, per il lavoro di unificazione che hanno realizzato. Come ha detto il Pre- sidente in carica del Consiglio, quel giorno, l’8 maggio 1945, c’era una lezione da im- parare e ne abbiamo tratto i giusti insegnamenti. La storia dell’Unione europea, la storia dell’Europa dopo l’8 maggio 1945, è una storia di successo. È la storia della ferma

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determinazione emersa dalle rovine, la storia di un “mai più!” Questo “mai più!” non è rimasto inascoltato. Ha preso forma, le forme del lavoro che svolgiamo oggi, di cui be- neficiamo attualmente, le forme che mi consentono di rappresentare deputati di reli- gione ebraica, che rendono possibile la presenza nel mio gruppo di deputati musulmani, di deputati che hanno sofferto e che hanno imparato da coloro che hanno sofferto. In tal modo possiamo trovare un terreno comune affermando un’unica convinzione: la le- zione dell’8 maggio deve essere che, perché questo “mai più!” sia permanente, dob- biamo lottare per affermarlo ogni giorno. Per la nostra democrazia, per la nostra Europa, la nostra lotta continua giorno dopo giorno. Ricordiamo oggi le cause, il periodo precedente, segnato da un’unica idea. È un caso unico nella storia della razza umana che uno Stato si caratterizzi e definisca il suo scopo in termini di sterminio di altri po- poli e razze. Né prima né dopo è mai esistito uno Stato che giustificasse la propria esi- stenza per sterminare gli ebrei, gli slavi, i rom, i sinti e gli handicappati. Si tratta di un caso unico nella storia della razza umana. Questo è l’aspetto straordinario del Terzo Reich; i nazisti volevano che non rimanesse traccia degli ebrei d’Europa. Qualche settimana fa ero a Yad Vashem, il luogo della memoria a Gerusalemme. Sono sceso nei corridoi e nelle sale sotterranei in cui sono illustrate le sorti dei milioni di vittime. Il direttore di Yad Vashem, che mi guidava, mi disse: «Ogni giorno discendo in questo inferno e le vedo — le fotografie, solo quelle. È un inferno». Poi risalii le scale e attraverso un corridoio giunsi al nuovo museo, che ha un’ampia vetrata e là, alla luce del sole, si può vedere la città di Gerusalemme. «Ogni giorno — disse il direttore di Yad Vashem — quando esco da quell’inferno e vedo questo panorama, so che non ci sono riu- sciti. Noi siamo vivi. Noi ce l’abbiamo fatta; i nazisti no». Ogni ricordo, ogni giorno de- dicato alla memoria, ogni nome che leggiamo, è una vittoria sui criminali che volevano che non rimanesse nulla. Se noi li ricordiamo, il popolo ebreo rimane, come i rom e i sinti, come coloro che furono assassinati per ragioni politiche o perché disabili. Ri- mangono nel nostro ricordo e così sopravvivono. (Applausi) Tante vittime, tanti nomi! Anna Frank era una ragazza ebrea, il cui unico crimine era quello di essere una ragazza ebrea ad Amsterdam. In questo giorno, ricordiamo Anna Frank. Sophie Scholl era una giovane studentessa tedesca, il cui unico crimine era quello di essere una persona retta, e che fu decapitata all’età di 18 anni per aver distribuito volantini che denunciavano il regime nazista. Penso anche a Krzysztof Baczynski, un giovane poeta polacco, ucciso a Varsavia da un tiratore tedesco. Tre nomi su 55 milioni di vittime! Tre nomi, menzionati per rappresentare tutte le altre vittime. Lo ripeto: tre nomi che ricordiamo e che rap- presentano tutti quelli che dovremmo ricordare. Nelle scorse settimane, abbiamo spesso posto la questione dell’utilità di questa no- stra Unione europea e ci è stato domandato quale ne sia lo scopo. La risposta è nei no- stri discorsi di oggi. Il proseguimento fino a oggi di questo lavoro di unificazione, che sta ancora superando divisioni, che rifiuta ancora il razzismo, che esclude ancora dalla comunità democratica tutti gli antisemiti, i razzisti e i nazisti, che ancora disprezza questi criminali, che ne enumera ancora i crimini e che ancora li ricorda — questa è la base, il fondamento morale e intellettuale della nostra Unione europea, l’Unione co- struita dai nostri padri e dai padri dei nostri padri. Nel frattempo, l’Europa ha un’ere- dità; l’Unione europea non è più una novità. Ora ha 60 anni, essendo nata, in teoria, l’8 maggio 1945. Adesso, abbiamo un patrimonio da gestire, se vogliamo lasciarlo ai no-

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stri eredi. Se ci interessa questo patrimonio, sapendo di avere il dovere di ricordare che il Terzo Reich rappresentò l’abisso morale della razza umana, dal quale abbiamo tratto le giuste conclusioni creando questa Unione, allora noi politici europei consentiremo ai giovani uomini e donne che siedono nelle tribune di quest’Aula di avere un più brillante futuro a cui guardare rispetto ai loro padri e ai loro avi in passato. (Prolungati applausi) Graham Watson, a nome del gruppo ALDE — (EN) Signor Presidente, il poeta bri- tannico John Donne osservò: «Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, parte della terra intera. E se una sola zolla vien portata via dall’onda del mare, qualcosa all’Europa viene a mancare». Questo scritto risale al 1624, ma per oltre 300 anni popoli e Stati hanno continuato a guerreggiare in tutto il nostro continente. Il tribalismo e l’odio sono il nefasto retaggio dell’Europa. Se non l’aves- simo imparato prima, la “guerra per mettere fine a tutte le guerre” avrebbe dovuto mo- strarci la futilità e il trauma della guerra organizzata. Il nostro risveglio da quell’incubo ha condotto alla Lega delle Nazioni, ma abbiamo continuato a distillare i frutti del pro- gresso scientifico per creare armi di distruzione di massa. Quando finì la seconda guerra mondiale in Europa, l’8 maggio 1945, avevano perso la vita oltre 40 milioni di persone. Un cinico direbbe che gli europei del XX secolo sono stati lenti a imparare la lezione. Ci sono volute due guerre sanguinose e un continente in rovina per insegnarci che un’Eu- ropa unita vale più della somma delle sue parti. Anche allora, non tutti siamo stati in grado di realizzare le nostre aspirazioni di pace e libertà. Mentre per la maggior parte degli europei il maggio 1945 segnò la liberazione dei loro paesi dalla tirannia nazista e l’inizio di un nuovo cammino verso la libertà e la ricostruzione, per coloro che si tro- varono sul lato sbagliato della Cortina di ferro, una tirannia fu sostituita rapidamente da un’altra. Ad altre due generazioni fu negata la libertà di cui ora godiamo. Come stu- dente all’Università Karl Marx di Lipsia nel 1976, ne sono stato testimone diretto. Le no- stre prospettive storiche sono inevitabilmente diverse. Questa però deve essere una discussione sul futuro, non sul passato. Rallegriamoci del fatto che l’Europa è unita nella pace e che possiamo sedere in- sieme nella stessa Aula parlamentare con un insieme di Istituzioni soprannazionali co- muni di governo che decidono sulle questioni di reciproco interesse. È stata l’imprescindibile necessità di interdipendenza che ha portato alla creazione dell’Unione europea e che ha visto crollare infine il blocco sovietico. Abbiamo cominciato con il carbone e l’acciaio, gli elementi basilari dell’Europa del dopoguerra; abbiamo costruito il mercato comune, la base di una prosperità insperata dai miei genitori; abbiamo rea- lizzato la moneta unica per 300 milioni di europei all’alba di questo nuovo secolo. Ce- lebrando il sessantesimo anniversario di una pace durevole, vediamo che l’Europa ha fatto molta strada, con passi graduali per costruire la solidarietà tra i nostri popoli. Non c’è dubbio che l’Unione europea sia un successo: liberté, egalité, fraternité sono diventate parte del nostro comune tessuto legislativo e sociale. Non esiste, tuttavia, al- cuna garanzia che sarà sempre così, e ora ci troviamo a un bivio, rappresentato dal Trattato costituzionale. Saremo in grado di procedere e di consolidare questa era senza precedenti di pace, stabilità e prosperità oppure tutto questo si dissolverà davanti ai nostri occhi, sostituito da una nuova rivalità nazionale e da una politica del rischio cal- colato? Un giornalista del Financial Time ci ha ricordato la settimana scorsa quanto è sottile la vernice di civiltà, quanto è debole la voce della coscienza umana quando è

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tentata di allontanarsi dal principio della legalità e dal rispetto per i nostri simili. Que- sta è la sfida che si pone agli Stati membri nel momento in cui sono chiamati a ratifi- care la Costituzione. Un’Europa pacifica e prospera è sempre stata basata sulla premessa che la forza sta nella convergenza e nei mandati condivisi. La cooperazione è cresciuta, a partire dal commercio sino ad abbracciare la politica sociale, l’occupa- zione, l’immigrazione, la giustizia, la polizia e la politica estera. Le rivoluzioni nel- l’Europa centrale e orientale hanno tolto dalle nostre spalle il giogo di Jalta, ma ora dobbiamo affrontare nuove sfide. Ad esempio, la sfida di dare cibo, vestiti e case a una popolazione mondiale in crescita, mentre un numero crescente di persone è spinto alla migrazione dalla guerra, dalla fame o dalla vera e propria disperazione. La sfida di af- frontare il problema del buco nello strato di ozono, dello scioglimento delle calotte di ghiaccio, dell’innalzamento dei livelli marini e dei mutamenti climatici. O la minaccia della criminalità organizzata internazionale, in cui alcune bande criminali sono più po- tenti di certi governi nazionali, causano sofferenze a molti con il traffico di droga e di armi di piccolo calibro e con la tratta di esseri umani e collaborano con il terrorismo. Nessuna di queste sfide può essere affrontata dai nostri paesi individualmente. Per of- frire la sicurezza, la prosperità e le opportunità che i cittadini europei si aspettano dal governo, dobbiamo lavorare insieme. Dobbiamo collaborare anche con gli Stati Uniti e il Canada, ai cui popoli dobbiamo tanto e di cui condividiamo in linea di massima i va- lori, non solo per affrontare con loro le sfide comuni, ma per farli sentire più sicuri con un’Europa nuova e più potente. L’Europa ha il potenziale per essere un faro di speranza, un modello di tolleranza, diversità e stabilità in un mondo in cui questi attributi sono ancora rari. Possiamo insi- stere su una carta dei diritti oppure possiamo vedere erosi i nostri diritti. Possiamo ra- tificare la Costituzione europea e accordare fiducia alla democrazia e a un governo responsabile oppure possiamo continuare a lasciare un potere eccessivo nelle mani di persone non elette. Possiamo tendere una mano amichevole ai diseredati o compia- cerci in un rifugio illusorio di prosperità. Possiamo accogliere la Romania, la Bulgaria, la Turchia e i Balcani occidentali e accettare che l’Europa sia pluralistica ed eteroge- nea oppure possiamo continuare a trattarci reciprocamente con ostilità e sospetto. La convergenza non è solo un ideale, è una necessità economica e politica. È ora di supe- rare gli interessi nazionali orientandoci verso una maggiore convergenza. La coopera- zione è la via da seguire, che ci consentirà di affrontare insieme le sfide globali. L’Europa ha un ruolo di guida da svolgere nell’era della governance globale. È una forza stabilizzante e un punto di riferimento per altri paesi e popoli. Il commercio e la coo- perazione possono portare ad altri i frutti che hanno portato a noi e per tale ragione il mio gruppo è favorevole a maggiori contatti con la Russia e la Repubblica popolare ci- nese. La storia dovrebbe insegnarci a non diventare uno strumento di sostegno ai regimi autoritari. I Liberali e i Democratici vedono con preoccupazione la direzione presa da alcune politiche del Consiglio: battere gli americani in una sorta di asta olandese al ri- basso degli standard in materia di diritti umani sarebbe un affronto alla dignità per la quale il popolo d’Europa ha lottato duramente. Proprio come nessun uomo è un’isola, nessun paese è un’isola. Siamo uniti nel cu- stodire un mondo fragile e nel servire i suoi abitanti. Facciamo in modo che l’Europa sia l’esempio della dignità della differenza e raccolga la sfida. (Applausi)

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Daniel Marc Cohn-Bendit, a nome del gruppo Verts/ALE — (FR) Signor Presidente, sono nato un mese prima del 1945. I miei genitori lasciarono la Germania 72 anni fa. Nel 1933, mio padre era avvocato, difendeva il Soccorso rosso e avrebbe dovuto essere ar- restato. Sono nato esattamente nove mesi dopo lo sbarco degli alleati in Normandia. Sono un figlio della liberazione, di un’invasione militare che ha liberato il suolo euro- peo e ha permesso ai miei genitori di avere un bambino, un “figlio della libertà”. Per- ciò la nostra memoria, la mia memoria, è lastricata di orrori. Auschwitz, l’orrore, l’anus mundi che ha mostrato il peggio di cui l’essere umano è capace. Kolima, l’anus mundi che ha mostrato ciò che può fare l’ideologia politica più barbara. Oradour-sur-Glane, che ha mostrato ciò che può generare un’occupazione militare. Katyń, che ha mostrato che si può liberare e distruggere allo stesso tempo. Tutta l’élite polacca è stata mas- sacrata dall’Armata Rossa per impedire che il popolo polacco potesse unirsi e creare uno Stato indipendente. Abbiamo continuato poi a commettere massacri incomparabili e tuttavia comparabilmente mortali e crudeli. Ci sono stati i massacri delle guerre colo- niali, c’è stata Srebrenica esattamente dieci anni fa. È in seguito a questi massacri che uomini e donne, che non appartengono al mio partito politico, ma dei quali riconosco la grandezza per essere riusciti — perché ci sono davvero riusciti — a costruire questa Europa: che si tratti di De Gaulle o di Adenauer, di Willy Brandt o di Helmut Kohl, di François Mittérand, poco importa, hanno fatto qual- cosa di straordinario. E noi, che siamo nati dopo il 1945, siamo figli dell’Europa, ma siamo anche figli dell’antitotalitarismo. Questa Europa è stata creata per evitare per sempre il risorgere del totalitarismo, che sia di sinistra o di destra. Per riprendere una canzone conosciuta da qualcuno: non esiste un salvatore supremo, né Dio, né re, né tri- buno, né comunismo, né neoliberismo. Non esiste alcuna ideologia liberatrice degli es- seri umani. Esiste solamente una piccola cosa molto fragile che molti scherniscono e che si chiama semplicemente “democrazia”. (DE) Cari amici, onorevoli colleghi, è sempre facile o difficile per un tedesco par- lare sul tema “la guerra, sessant’anni dopo”. La Germania, tuttavia, ha sperimentato sia il nazionalsocialismo, con tutta la sua barbarie, sia il totalitarismo comunista. La Germania è quindi anche un simbolo dell’Europa e, se esiste un obbligo per la nostra generazione, è quello di dire la verità. La mia preoccupazione non è esporre all’As- semblea i compiti politici dell’Europa, perché possiamo farlo in ogni momento. La mia preoccupazione riguarda soltanto quanto seriamente prendiamo quest’obbligo di anti- totalitarismo. Se agiamo davvero su questa base, non possiamo trascurare i diritti umani e il rispetto della dignità umana nell’interesse di nessuna Realpolitik. (Applausi) Dob- biamo parlare con i russi, ma dobbiamo anche parlare della Cecenia. Dobbiamo parlare dei crimini. Dobbiamo parlare con i cinesi, ma dobbiamo parlare dell’oppressione del popolo cinese. Non possiamo dire semplicemente «togliamo l’embargo» e passare al prossimo punto all’ordine del giorno. Così i cinesi avranno un po’ di armi. Così potranno comprare qualche Transrapid. Con una storia passata come quella dell’Europa, non pos- siamo agire così! (Applausi) Poiché siamo vincolati alla verità, poiché crediamo nel- l’Europa, tutti dobbiamo ricordare, nel dare forma e nell’organizzare l’Europa del futuro, ciò che è stata in passato l’Europa e quello che non deve più ripetersi. In mo- menti come questi io — poiché sono tra coloro che pensano alla storia dell’Europa in questi termini — sono orgoglioso di partecipare alla campagna per una Costituzione che

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incarna l’eredità dell’Europa antitotalitaria. Sono convinto che vinceremo; questa Co- stituzione diverrà reale in Europa. Questo è quello che credo; è un obbligo che ci in- combe nell’interesse dei nostri figli, che erediteranno ciò che i nostri genitori ci hanno lasciato da custodire. (Applausi) Francis Wurtz, a nome del gruppo GUE/NGL — (FR) Signor Presidente, la bella di- chiarazione del Presidente Junker e la particolare enfasi degli interventi successivi con- trastano con il contenuto deludente e preoccupante del progetto di risoluzione che ci è presentato a nome della maggioranza dei gruppi in occasione del sessantesimo anni- versario della capitolazione nazista. Sono convinto che nella maggior parte dei gruppi politici rappresentati in seno alla nostra Assemblea, uomini e donne proveranno un senso di disagio davanti a questo testo di stampo quasi revisionista. Quando un’istitu- zione come la nostra rievoca questo avvenimento fondatore dell’Europa e del mondo di oggi che fu la vittoria di tutti gli alleati — statunitensi, britannici e sovietici — della coa- lizione contro Hitler, ogni parola ha il suo peso. In una dichiarazione di questo tipo molti si aspettavano di leggere una frase come questa: «L’8 maggio 1945 fu un giorno di li- berazione per l’Europa». Perché no, visto che è la verità? Fu un giorno in cui l’Armata sovietica contribuì in modo decisivo. Senza ignorare in alcun modo l’oppressione stali- nista, molti europei, di fronte a varie manifestazioni di nostalgici del Terzo Reich, avreb- bero probabilmente voluto sentirci dichiarare che giustificare le atrocità naziste puntando il dito sui crimini stalinisti è inaccettabile da un punto di vista intellettuale e morale e — riguardo alla guerra della memoria che attualmente oppone le repubbli- che baltiche alla Russia — che dovremmo tenere a mente la parte di responsabilità della Germania nazista nella tragedia degli Stati baltici. Una precisazione, onorevoli colleghi: tutte le argomentazioni che ho appena menzionato sono tratte da un articolo pubbli- cato l’altro ieri sul quotidiano francese Le Figaro a firma di Michael Mertes, ex consi- gliere dell’ex cancelliere Helmut Kohl. È la vostra famiglia politica, onorevoli deputati del PPE! Grazie a Dio, abbiamo perso la guerra, conclude Mertes, aggiungendo una frase su cui vi propongo di meditare: il modo in cui consideriamo il passato ci insegna di più sui nostri atteggiamenti attuali che non sul passato stesso. In un momento in cui l’Unione europea consulta i suoi cittadini su un progetto di Costituzione, come interpreteranno questi ultimi il concetto di un’Europa allargata che rimette in discussione la pietra angolare della visione dell’Europa e del mondo, nata l’8 maggio 1945, vale a dire che il nazismo non è stata una dittatura o una tirannide come qualsiasi altra, ma la rottura assoluta con qualsiasi civiltà? Da parte nostra, siamo pronti a un dibattito senza tabù sui crimini dello stalinismo come sul patto tedesco-sovietico di sinistra memoria o ancora sulla storia dei paesi baltici. Ma niente, niente deve per- metterci di banalizzare il nazismo, il cui scopo dichiarato — dobbiamo ricordarlo? — era quello di sterminare le razze inferiori e di allargare lo spazio vitale della razza supe- riore mediante la guerra totale. Per questa ragione avevamo il diritto di aspettarci dal Parlamento europeo un testo sull’8 maggio 1945 con un punto di vista completamente diverso. E forse non sarebbe stato superfluo rendere omaggio anche agli anonimi com- battenti che, senza altra ambizione se non quella di vivere e di agire come uomini e donne retti, hanno partecipato alla resistenza mettendo a rischio la loro vita e sacrifi- candosi per la nostra libertà. Analogamente, non sarebbe stata di troppo una parola, una sola, sull’orrore di Hiroshima e Nagasaki e sulle loro decine di migliaia di morti in

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un paese sconfitto. Questa volta il Parlamento europeo ha davvero perso un appunta- mento con la storia. Perciò il mio gruppo rifiuta unanimemente di avallare questa riso- luzione, ben lontana dall’idea dell’Europa a venticinque, a ventisette o a trenta. Lascio l’ultima parola a un leader europeo che, vent’anni fa, aveva trovato le parole giuste per parlare dell’8 maggio 1945 nel paese in cui era più difficile pronunciarle apertamente. Sto parlando dell’ex Presidente tedesco Richard von Weizsaecker. Mi permetto di ci- tarlo. (DE) «Abbiamo la forza di guardare in faccia la verità come meglio possiamo, senza abbellimenti e senza distorsioni. [...] Giorno dopo giorno, un concetto è diven- tato sempre più chiaro e questo deve essere affermato oggi a nome di tutti noi: l’8 maggio è stato un giorno di liberazione. Ci ha liberati tutti dalla disumanità e dalla ti- rannia dei nazisti.» (Applausi) Maciej Marian Giertych, a nome del gruppo IND/DEM — (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, la seconda guerra mondiale è scoppiata nel settembre 1939, quando il mio paese, la Polonia, fu invaso e occupato dalla Germania e dall’Unione Sovietica. Questa spartizione della Polonia fu il risultato del Patto Molotov-Ribbentrop, che era stato firmato una settimana prima a Mosca. La Polonia non fu conquistata dalle squa- dre di combattimento del partito nazista o del partito comunista, ma dalle forze armate regolari dei paesi vicini, in altri termini dalla Wehrmacht, dalla Luftwaffe e dalla Krieg- smarine tedesche e dall’Armata Rossa. Va aggiunto che il partito nazionalsocialista, ca- peggiato dal Cancelliere Hitler, governava la Germania a quel tempo, dopo essere asceso al potere sulla base di una decisione democratica dall’elettorato tedesco. Sta- lin e il partito comunista governavano la Russia, portati al potere dalla rivoluzione. Noi ora stiamo celebrando il sessantesimo anniversario della capitolazione della Germania, avvenuta l’8 maggio 1945 e divenuta simbolo della fine degli atti criminosi commessi dalla Germania nazista nei paesi occupati. Tuttavia, non significò la fine dei crimini co- minciati con l’invasione della Polonia da parte dell’Unione Sovietica nel 1939. Abbiamo vinto la guerra contro la Germania, ma la perdemmo contro la Russia. Questo significò che ci vennero imposti un potere straniero, un sistema economico straniero e un’ideo- logia straniera. Combattemmo su tutti i fronti nella seconda guerra mondiale ed era- vamo là quando furono sparati i primi e gli ultimi colpi. Dal 1941 tra i nostri alleati nella guerra contro la Germania c’era l’Unione Sovietica. Riconosciamo il ruolo svolto dalla Russia nella sconfitta della Germania nazista e l’enorme perdita di vite umane che il paese subì in tale circostanza. Tuttavia, questo non cambia il fatto che la Russia agì come se avesse conquistato la Polonia. Inoltre, i nostri alleati occidentali nella lotta contro la Germania erano anche alleati dell’Unione Sovietica e a Jalta diedero il loro beneplacito al nostro asservimento. Fummo costretti a liberarci a poco a poco, in primo luogo decollettivizzando l’agricoltura, poi liberando la Chiesa, poi ottenendo l’auto- rizzazione per piccole imprese private e infine ottenendo la libertà di costituire sinda- cati, oltre alla libertà di parola e alla libertà politica. L’unico aiuto che abbiamo ricevuto dal resto del mondo in questo processo giunse mediante la corsa agli arma- menti, che fu vinta con il tempo dagli Stati Uniti, e, in particolare, mediante il successo del programma di “guerre stellari” di Reagan, che indebolì l’Unione Sovietica. La pre- senza di truppe americane in Europa e l’esistenza della NATO hanno permesso all’Eu- ropa occidentale di godere della pace in questi sessant’anni. Ora anche i paesi dell’Europa centrale e orientale, che sono membri della NATO o hanno formato intese

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per la pace, stanno raccogliendo i benefici. Ciascuno di noi condivide un desiderio di pace e libertà e di un futuro plasmato secondo i nostri desideri. Le persone della mia generazione, che vissero in prima persona la seconda guerra mondiale, non saranno con noi ancora a lungo e dobbiamo assicurarci che le generazioni future ricorderanno la verità su questa guerra. Per noi Polacchi è fonte di grande an- goscia il fatto che tanti mezzi di informazione occidentali continuino a usare frasi che troviamo ingiuriose, come “campi di concentramento polacchi” o persino “camere a gas e forni crematori polacchi”, come il Guardian britannico ha avuto la temerarietà di scrivere per riferirsi a tali orrori. In realtà, alcune di queste fabbriche di morte si tro- vavano in territorio polacco, ma resta il fatto che erano tedesche, non polacche. Non tutti i tedeschi sono responsabili per questi crimini e riconosciamo che la nazione te- desca ha preso le distanze dalla sua vergognosa eredità nazista, ma ci teniamo ad as- sicurare che le future generazioni non associno la Polonia ai crimini commessi dai nazisti, poiché la Polonia non era in alcun modo responsabile. Allo stesso modo, il po- polo russo non è responsabile per i crimini commessi durante il periodo di Stalin, vale a dire per le deportazioni, i gulag, il genocidio commesso a Katyń e l’assoggettamento dell’Europa centrale e orientale. Sono i leader comunisti dello Stato sovietico a essere responsabili per questi crimini e lo stesso popolo russo patì l’asservimento. Noi deside- riamo riconciliarci con il popolo e lo Stato russo, ma ci aspettiamo che prendano ine- quivocabilmente le distanze dal loro retaggio comunista. Tuttavia, gli attuali leader della Germania e della Russia, ovvero dei paesi che hanno fatto scoppiare la seconda guerra mondiale, hanno concesso un’intervista congiunta al giornale tedesco Bild in cui cercano di distogliere l’attenzione da qualsiasi argomento all’infuori delle loro reci- proche relazioni e delle perdite subite. Attualmente stiamo cercando di stabilire rela- zioni di buon vicinato con la Germania e la Russia. Già nel 1961 i vescovi polacchi inviarono una famosa lettera ai vescovi tedeschi, che conteneva la frase: «noi perdo- niamo e chiediamo perdono». Adottiamo lo stesso approccio per le nostre attuali rela- zioni con la Russia, ma perdono e riconciliazione non significano che dobbiamo dimenticare. Chiediamo quindi che non si ripetano mai più orrori come il genocidio, l’assoggettamento di una nazione ad opera di un’altra, l’aggressione e la guerra. Wojciech Roszkowski, a nome del gruppo UEN — (PL) Signor Presidente, le singole nazioni hanno vissuto esperienze molto diverse della seconda guerra mondiale e la di- scussione odierna è quindi forse la più importante discussione sull’identità europea che sia stata svolta da anni. Se desideriamo sinceramente unirci per formare un’unica co- munità spirituale europea, dobbiamo tutti sforzarci di giungere a una piena compren- sione delle esperienze storiche delle nazioni d’Europa. A tal fine, dobbiamo parlare con franchezza di certe questioni. La risoluzione per celebrare il sessantesimo anniversario della fine della guerra è il risultato di un compromesso raggiunto a fatica e nel com- plesso è un ritratto accurato delle conseguenze della guerra. Ciò che manca, tuttavia, è qualsiasi riferimento al collegamento che esiste tra l’inizio e la fine della guerra, o alle opinioni sulla guerra attualmente diffuse in Russia. Monaco e la partizione della Ce- coslovacchia sono stati i primi atti di aggressione di Hitler, ma non si può negare che il Patto Molotov-Ribbentrop sia stato la vera dichiarazione di guerra. La Polonia cadde vittima della cooperazione tra il Terzo Reich e l’URSS nel settembre 1939 e a questo fatto seguirono le invasioni da parte della Germania della Norvegia, della Danimarca,

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del Belgio, dell’Olanda, del Lussemburgo, della Francia, della Jugoslavia e della Gre- cia, nonché le invasioni sovietiche della Finlandia, della Lituania, della Lettonia e del- l’Estonia. Stalin non si unì agli Alleati di sua spontanea volontà nella loro lotta contro la Germania. Di fatto, è vero l’opposto, poiché rifiutò di cooperare con la Francia e la Gran Bretagna. Fu soltanto dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica nel giugno 1941 che si assicurò l’assistenza degli inglesi e degli americani entrando in una nuova coali- zione, che alla fine sconfisse il Terzo Reich. Eppure, anche se fu l’Armata Rossa a reg- gere l’urto principale della guerra, il sistema sovietico non subì alcun cambiamento. L’arcipelago gulag continuò a espandersi e il numero di vite che ha mietuto è parago- nabile al numero di cittadini sovietici caduti nella guerra. La cooperazione tra i Tre Grandi era quindi basata su una mera apparenza di valori comuni, motivo per cui si di- mostrò impossibile da mantenere dopo la fine della guerra. Poco prima della sua morte, Roosevelt ammise che l’America non poté accordarsi con Stalin, poiché questi era ve- nuto meno a tutte le promesse che aveva fatto. Tuttavia, questa ammissione giunse troppo tardi. L’Europa fu divisa e l’Europa orientale fu gettata nelle braccia del totali- tarismo stalinista. Tra i paesi colpiti vi era anche la Polonia, che era stata la prima a op- porre resistenza a Hitler, persino quando il suo alleato era Stalin. Le forze armate polacche costituivano un quarto delle forze alleate e in termini relativi il paese subì la maggiore perdita di vite umane durante la guerra. Purtroppo la Russia è oggi restia a riconoscere il ruolo ambiguo svolto dall’URSS durante la guerra. Il Presidente Putin è tor- nato indietro a un’interpretazione stalinista della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze e ha affermato che il Patto Molotov-Ribbentrop era un normale trattato in- ternazionale. La Russia ha negato ufficialmente che Stalin attaccò la Polonia nel 1939, che fu commesso un genocidio a Katyń e che l’URSS occupò gli Stati baltici. Ha persino affermato che la Conferenza di Jalta portò la democrazia in Polonia. Viktor Yerofeyev, un noto scrittore russo, ha scritto di recente che la Russia è ab- bastanza illuminata da non fare distinzione tra il totalitarismo di Stalin e il regime di Hitler. Se la Russia fosse davvero illuminata, vi sarebbe ogni ragione per sperare che possa riconciliarsi con l’Europa. I segnali di una riabilitazione di Stalin però dovrebbero essere un monito per tutti noi. Perché questo fatto è così importante al momento at- tuale? Il Presidente Putin ha detto che la riconciliazione tra la Russia e la Germania po- trebbe dare un esempio all’Europa. Purtroppo, qualsiasi riconciliazione basata su un’interpretazione stalinista della storia fa invece scattare l’allarme, che risuona par- ticolarmente forte a Varsavia, a Vilnius, a Riga e a Tallinn. Sia il popolo polacco che le altre nazioni dell’Europa centrale credono che sarà impossibile realizzare la pace e la riconciliazione in Europa se le nazioni situate tra la Germania e la Russia sono escluse dall’equazione in questo modo. L’Assemblea deve capire che noi in Polonia e in Europa centrale ci sentiamo stretti in una morsa ogniqualvolta le superpotenze dell’Europa oc- cidentale e la Russia si stringono la mano sopra le nostre teste.

Presidenza dell’On. Mauro Mauro, Vicepresidente Philip Claeys (NI) — (NL) Signor Presidente, è davvero importante in questo mo- mento commemorare la fine della seconda guerra mondiale, avvenuta sessant’anni fa. È altresì positivo che in questa occasione si sottolinei ancora una volta che la libertà e la democrazia non dovrebbero essere date per scontate e devono essere difese attiva-

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mente. Le atrocità del nazionalsocialismo costituiscono una pagina nera nella storia d’Europa e gli oratori precedenti avevano ragione a sottolineare che c’è poco o nulla da aggiungere. È deplorevole, tuttavia, che l’Europa occidentale stia prestando così poca attenzione al fatto storico che sessant’anni fa venne dato ufficialmente il consenso a consegnare i popoli dell’Europa orientale all’occupazione sovietica, ai regimi comu- nisti dittatoriali, che certamente non erano da meno dei nazisti in termini di orrore e di crimini. L’Armata Rossa era già a Varsavia nel 1944, aspettava semplicemente che i nazisti reprimessero la sollevazione. Sessant’anni fa in Occidente si esprimevano ovun- que lodi e onore per Stalin, un tiranno che aveva già ucciso milioni di persone e che, con la connivenza dell’Occidente liberato, avrebbe continuato a ucciderne molti altri milioni, fuori e dentro la Russia. È ora che la Russia segua la Germania nel mettere or- dine nel suo passato. Ufficialmente, paesi come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania fu- rono liberati dall’Armata Rossa. La Presidente della Lettonia Vaira Vike-Freiberga ha sottolineato che il 1945 non ha portato agli Stati baltici alcun genere di liberazione, al contrario. Vorrei citare le sue parole: «Significò schiavitù, occupazione, sottomissione e terrore stalinista». I leader europei che qualche giorno fa erano a Mosca non si sono quasi per niente preoccupati di affrontare tale realtà né di mettere in rilievo che il mo- mento che sessant’anni fa ha segnato la liberazione per gli europei occidentali, è stato un altro calvario per l’Europa orientale, con la differenza che le nuove dittature pote- vano contare sull’appoggio attivo e sulla comprensione di tanti politici, media, intel- lettuali e molti altri nell’Europa occidentale, alcuni dei quali infatti erano, a quanto pare, sul libro paga dei servizi segreti sovietici. Forse, sessant’anni dopo, è opportuno affrontare tali questioni. Forse l’Europa non sarà capace di lasciarsi completamente alle spalle il passato a meno che non si svolga una sorta di processo di Norimberga al comunismo, non per riaprire vecchie ferite, ma con l’intenzione di non dimenticare mai, pensando al futuro dei nostri figli e nipoti. Sono sbalordito che un Commissario eu- ropeo inserisca nel suo sito web fotografie in cui dimostra la sua ammirazione per un personaggio come Fidel Castro. Sono scioccato quando gli intellettuali e i responsabili delle politiche continuano a negare o a minimizzare l’avvento dell’estremismo isla- mico. Jean-François Revel ha già parlato di tentation totalitaire — la tentazione tota- litaria. Se c’è una lezione da imparare dalle atrocità della seconda guerra mondiale, è che il totalitarismo non deve avere un’altra opportunità, ovunque possa emergere. József Szájer (PPE-DE) — (HU) «Dal sangue versato dai nostri padri nelle battaglie fluisce la pace, attraverso il nostro ricordo e il nostro rispetto: mettere ordine nelle no- stre questioni comuni, questo è il nostro dovere; e sarà un arduo compito». Il grande poeta ungherese Attila József, nato un secolo fa, ci ricorda che noi, ovvero le nazioni europee, che abbiamo combattuto molte guerre l’uno contro l’altro, abbiamo molte questioni comuni da mettere in ordine. Nella lettera che ha inviato a Vytautas Lan- dsbergis e a me, il Commissario Frattini ha scritto di recente che la vostra storia è anche la nostra storia. Quando celebriamo la fine della guerra mondiale in Europa, non dob- biamo dimenticare che la fine della guerra portò qualcosa di diverso per ognuna delle nazioni europee. Nel caso delle nazioni più fortunate, segnò sessant’anni fa la fine di lunghe sofferenze e di incommensurabili distruzioni. Chiniamo il capo di fronte a tutti coloro che si sacrificarono per la pace. Tuttavia, un’altra nefasta dittatura attendeva l’altra metà dell’Europa, senza minor sofferenza e distruzione. Notte dopo notte senza

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luce del giorno, occupazione dopo occupazione senza indipendenza, dittatura disumana dopo dittatura disumana senza libertà. Dietro di me siede qui fra noi una rappresentante slovacca, Zita Pleštinská, il cui padre ungherese, István Kányai, fu perseguitato ugual- mente dai nazisti e dai fascisti e successivamente soffrì nove anni negli inferni dei campi di concentramento sovietici. Chi libera il prigioniero innocente da una prigione e lo chiude in un’altra è un carceriere, non un liberatore. E il prigioniero non lo vedrà come qualcuno che gli ha dato la libertà, ma come qualcuno che gliel’ha tolta. Per molte nazioni europee, la libertà tanto desiderata giunse cinquant’anni dopo l’8 maggio 1945. E l’ultimo passo è stato compiuto il 1° maggio 2004, che ha segnato la fine dell’ordine mondiale di Jalta. In realtà, la seconda guerra mondiale è finita il 1° maggio 2004. La fine della guerra dovrebbe quindi essere celebrata più propriamente qui, nella capitale dell’Europa riunificata, invece che a Mosca. Le nazioni dell’Europa guardavano i due lati dello stesso muro: il filo spinato ci ha divisi a metà per mezzo se- colo. Abbiamo sopportato l’insopportabile, abbiamo resistito al sistema instaurato dal- l’Armata Rossa sovietica, che rimase dopo la liberazione, al genocidio, alla pulizia etnica e di classe, alle uccisioni, alle torture, alla deportazione e alla privazione dei di- ritti civili inflitta a persone innocenti impegnate nel nome dell’idea socialista progres- sista. Il sistema imposto alle nazioni dell’Europa centrale dal comunismo sovietico era una conseguenza diretta del piano di cui Stalin parlò il 19 agosto 1939 di fronte al Po- litbjuro, dando una spiegazione per il Patto Molotov-Ribbentrop. Cito le sue parole: «L’esperienza degli ultimi vent’anni ha dimostrato che in tempo di pace è impossibile mantenere un movimento comunista in tutta Europa che sia abbastanza forte perché un partito bolscevico possa prendere il potere. La dittatura di tale partito diverrà possi- bile soltanto come risultato di una guerra di grandi proporzioni». Le nostre nazioni si sollevarono molte volte contro tale dittatura dei partiti bolscevichi: nel 1956 a Berlino, nell’ottobre 1956 in Ungheria e a Poznań, nel 1968 in Cecoslovacchia e nel 1980 in Po- lonia. L’Occidente guardò con favore alle nostre rivoluzioni, simpatizzò con noi, poi tol- lerò quando l’Unione Sovietica represse e schiacciò sanguinosamente queste espressioni di desiderio di libertà. Onorevoli colleghi, la nostra storia è anche la vostra storia. Tut- tavia, noi, le nazioni liberate un decennio fa dall’occupazione sovietica, non troviamo alcuna compassione esaminando la nostra storia recente. Dopo la guerra, l’Europa oc- cidentale si rialzò orgogliosamente e cominciò a prosperare in pace. Anche se non per colpa nostra, noi siamo rimasti fuori da questo processo. Tale evoluzione ha originato la situazione attuale in cui vi sono persone dal lato più fortunato dell’Europa e addi- rittura qui in Parlamento che vogliono generare capitale per sé suscitando nella popo- lazione la paura nei confronti dei cittadini a basso costo dei nuovi Stati membri, di persone il cui paese è caduto in una crisi economica a causa dell’inefficace economia socialista che fu loro imposta. Molti nell’Europa occidentale tuttavia non capiscono neppure perché la stella rossa a cinque punte, come la svastica, sia divenuta simbolo di odio e oppressione. La nostra storia è anche la vostra storia. Sessant’anni fa i poteri nazisti furono sconfitti congiuntamente dalle nazioni d’Europa. La classe politica scre- ditata scomparve. Non ci sono piazze intitolate a Hitler, né monumenti per commemo- rare gli assassini nazisti. Mezzo secolo più tardi anche l’Unione Sovietica e il regime comunista sono crollati. Analogamente, il comunismo jugoslavo, che ha seguito la sua strada separata senza l’occupazione sovietica, ha subito una ignominiosa sconfitta. I

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successori del caduto sistema comunista sono eloquenti uomini d’affari che chiedono ri- spetto, politici responsabili, per così dire. In Russia, le statue di Stalin sono state di nuovo erette e ancora una volta si fa riferimento all’occupazione sovietica come alla liberazione. Sembra che vogliano sentire sempre meno parlare delle atrocità della dit- tatura comunista. Onorevoli deputati, non dobbiamo pensare con due metri diversi. Auschwitz, il massacro della foresta di Katyń, il nazismo e l’occupazione sovietica degli Stati baltici in due tempi, dittature ingiuste che smembrano le sfere di interesse dell’Europa, con- fini tracciati con la forza e con i patti, la deportazione di interi popoli, assassinii, tor- ture, mutilazioni, la negazione dei diritti civili, muri che dividono nazioni, il disprezzo dei diritti umani e delle minoranze: sono tutte gravi ingiustizie, a prescindere da chi le ha commesse. Sessant’anni dopo la fine militare della guerra, è ora di affrontare que- sti problemi. L’enorme sacrificio dell’Armata sovietica esige rispetto e onore. L’esercito di occupazione, tuttavia, non merita il nostro rispetto; ha imposto la sua dittatura op- pressiva su una parte degli Stati europei. Finché non saremo capaci di chiamare un’atro- cità con il suo nome, di giudicare un assassinio come tale, finché misuriamo un peccato con un altro, la guerra continuerà nella nostra testa e le ferite non guariranno. Gesù dice che la verità ci farà liberi. La riunificazione dell’Europa ci dà l’opportunità di un nuovo inizio. Vincitori e vinti, oppressori e oppressi di un tempo, possiamo costruire in- sieme un’Europa comune, democratica, basata sulla virtù della dignità umana radicata nella tradizione cristiana, con la speranza di un avvenire più luminoso e di generazioni più felici in futuro. Diamo ascolto ad Attila József, ascoltiamo il poeta e mettiamo or- dine nelle nostre questioni comuni! Józef Pinior (PSE) — (PL) Onorevoli colleghi, oggi il Parlamento commemora il ses- santesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, la guerra più terribile della storia. È costata la vita a milioni di persone e ha condotto all’annientamento degli ebrei, oltre a precipitare l’Europa nell’abisso della ferocia, della devastazione econo- mica e del decadimento morale. Dovremmo chinare il capo in memoria di quell’epoca e commemorare le vittime di questa guerra. Onorevoli colleghi, anche se esistono al- cuni momenti chiave nella nostra memoria collettiva che ci permettono di unirci nella costruzione di una comunità politica, ciascuna delle nazioni europee ricorda il XX se- colo dal suo punto di vista. La ragione di questo è che i nostri Stati e i nostri popoli hanno vissuto eventi storici e politici diversi. C’è, comunque, un elemento che ci uni- sce, poiché noi tutti ricordiamo le vittime della guerra e la lotta per la libertà e la de- mocrazia. È il ricordo di questi fatti che fornisce una base per la nostra identità comune europea. Oggi commemoriamo le vittime del terrore nazista nei paesi occupati dal Terzo Reich. Onoriamo anche le vittime dell’Olocausto, il genocidio commesso contro gli ebrei in Europa durante la seconda guerra mondiale, che è stato un crimine senza confronti nella storia umana. Commemoriamo la vittoria delle nazioni alleate sul Terzo Reich, in particolare il ruolo svolto dagli Stati Uniti d’America nella liberazione dell’Europa. Ri- cordiamo tutti i soldati che morirono per liberare il mondo dal nazismo e i 14 milioni di soldati che combatterono nell’Armata Rossa. Commemoriamo le perdite subite da tutte le parti nella seconda guerra mondiale, nonché coloro che caddero vittime di Stalin du- rante il conflitto. Il massacro di circa 22.000 cittadini polacchi e prigionieri di guerra a Katyń e in altri campi e prigioni nell’Unione Sovietica nella primavera del 1940 è dive-

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nuto un simbolo. Rendiamo omaggio a coloro che lottarono per la libertà, la democra- zia e i diritti umani e ricordiamo in particolare l’eroico movimento della resistenza, che lottò contro il fascismo e l’occupazione nei vari paesi. Gli ideali di questo movi- mento e la volontà dei suoi membri a sacrificarsi in una guerra unilaterale, sono ora una vera eredità per noi, nonché qualcosa di cui tutti possiamo essere orgogliosi e un buon esempio per i giovani d’Europa. Vorrei oggi commemorare il movimento della resistenza nel ghetto di Varsavia e coloro che aderirono all’Organizzazione militare ebraica e im- bracciarono le armi il 19 aprile 1943 per difendere il ghetto ebraico creato a Varsavia dalle potenze occupanti. Anche se in termini militari non avevano alcuna possibilità di vincere, lottando nel mezzo della guerra e nel cuore di un’Europa dominata dai nazi- sti, la loro lotta assunse di fatto un significato più profondo. Oggi consideriamo il loro eroismo la testimonianza più potente di tutti i tempi dello spirito umano e parte delle fondamenta morali dell’Europa che abbiamo costruito. Per riecheggiare i sentimenti espressi in un manifesto dell’Organizzazione militare ebraica, stiamo lottando per la vo- stra e per la nostra libertà e per l’onore e la dignità umani, sociali e nazionali. Onorevoli colleghi, ricordiamo che la fine della guerra non ha portato una vera li- berazione, indipendenza e democrazia a tutte le nazioni d’Europa. La fine della guerra significò nuove forme di oppressione e una mancanza di sovranità e di democrazia per l’Europa centrale e orientale e per gli Stati baltici. Significò anche violazioni dei diritti umani fondamentali sotto lo status quo totalitario imposto a questa parte dell’Europa dall’Unione Sovietica, la perdita dell’indipendenza per l’Estonia, la Lituania e la Let- tonia e la loro incorporazione nell’URSS. In tutto il XX secolo, i socialisti, i socialdemo- cratici e la sinistra democratica adottarono una posizione di opposizione a tutte le forme di dittatura e a tutti i regimi non democratici. Siamo un movimento politico che è sempre stato dalla parte della democrazia e dei diritti umani, sia negli Stati baltici, sia nell’Europa centrale e orientale o nei paesi dell’Europa meridionale nei quali si in- staurarono dittature dopo la seconda guerra mondiale, vale a dire il Portogallo, la Spa- gna e la Grecia. Onorevoli colleghi, oggi sto parlando nel Parlamento europeo a Strasburgo, su una terra che reca le cicatrici delle guerre e del crollo dell’Europa. I nostri antenati si scon- trarono su questa terra come soldati nemici. Ora ci incontriamo come cittadini e par- lamentari che rappresentano un’Europa unita. Fin dagli anni ‘50, l’integrazione europea e la costruzione di una Comunità europea sono state la nostra risposta alla guerra. I con- flitti tra le nazioni europee furono superati nel processo di creazione delle Istituzioni europee e questo continua ad avvenire anche oggi. L’Unione europea attuale è il pro- dotto di tre fondamentali processi democratici, vale a dire la sconfitta del fascismo nella guerra, la caduta delle dittature nell’Europa meridionale alla fine degli anni ‘70 e la vittoria della democrazia nell’Europa centrale e orientale e negli Stati baltici. Si sta stabilendo in Europa un modello di ordine internazionale sulla base della pace e della cooperazione e si sta creando una comunità conformemente al principio del ri- spetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e i diritti umani, compresi i diritti delle minoranze. I vari popoli che costituiscono l’Unione europea, che comprende ora 25 Stati membri, hanno alle spalle una varietà di esperienze storiche. La ratifica della Costituzione per l’Europa significherà che è pos- sibile stabilire un’Europa unita, i cui obiettivi sono la pace, la giustizia e la solidarietà

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in tutto il mondo. Questa Europa può anche divenire uno spazio privilegiato della spe- ranza umana, per prendere a prestito la frase usata nel preambolo al Trattato costitu- zionale. Insieme abbiamo percorso un lungo cammino, da un’Europa sopraffatta dalla guerra, dai regimi totalitari e dalle sofferenze umane a un’Europa democratica in cui nazioni libere all’interno dell’Unione stanno creando insieme un futuro europeo. Jan Jerzy Kułakowski (ALDE) — (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, ses- sant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’avvenire dell’Europa dipende in larga misura dal rispetto di due fondamentali condizioni. La prima consiste nel rico- noscere la storia degli eventi avvenuti durante la seconda guerra mondiale e la seconda nell’introdurre una visione comune dell’integrazione europea sulla base di tale storia. Il modo in cui si ricorda la storia può differire a seconda che la fine della guerra abbia portato o meno a una vera liberazione. I polacchi ricordano una serie di date chiave che hanno suggellato il destino tragico della seconda guerra mondiale. La prima è il 1° set- tembre 1939, quando Hitler attaccò la Polonia. Questa data segnò l’inizio di un periodo da incubo di occupazione, repressione e campi di concentramento, durante il quale le forze occupanti fecero del loro meglio per annichilire la nazione e il popolo polacchi. È stata anche, comunque, un’epoca di atti eroici compiuti dallo Stato e dalla società sotterranei. Un’altra data che i polacchi ricordano è il 17 settembre 1939. Anche se purtroppo questa data ha minor risonanza nell’Europa occidentale, per noi è ango- sciante ed estremamente significativa, poiché è la data in cui l’Unione Sovietica at- taccò la Polonia. Questo attacco avvenne in seguito alla conclusione del Patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin, che determinò un’altra spartizione della Polo- nia. Le altre date includono il 1943, quando furono scoperti i crimini commessi a Katyń nel 1940, cioè il massacro di decine di migliaia di ufficiali polacchi e ufficiali agli ordini di Stalin, soltanto perché servivano lo Stato polacco, e il 1943 e il 1944, quando si svol- sero due eroiche sollevazioni. La prima di queste fu la sollevazione del ghetto di Var- savia, finita con una disfatta sanguinosa o piuttosto con uno sterminio, e la seconda fu la sollevazione di Varsavia, cui le truppe sovietiche assistettero dalla riva destra della Vistola senza intervenire in alcun modo. L’ultima data che i polacchi ricordano è il 1945, quando si svolse la Conferenza di Jalta, che portò alla creazione della cortina di ferro, che divise l’Europa per 44 anni, separando il mio paese, la Polonia, dalla democrazia e dall’integrazione europea. Questo volevo dire riguardo a come ricordiamo storia. Passando alla questione di una visione comune dell’integrazione europea, vorrei sottolineare un punto fondamentale. Ciò che ricordiamo sono i crimini che sono stati commessi dai sistemi e le vittime di tali sistemi. Questi ricordi non dovrebbero e non devono in nessuna circostanza dividere nazioni e popoli. Questo è il messaggio di fondo di Solidarność, il movimento sociale polacco che diede inizio alla liberazione dell’Eu- ropa orientale e che quest’anno celebra inoltre il suo venticinquesimo anniversario. Questo movimento fu la forza trainante della ripresa delle relazioni tra le due parti d’Europa che erano state divise dalle decisioni prese a Jalta. Ispirandomi a questo mo- vimento, vorrei affermare con decisione che la solidarietà deve essere il principio guida del nostro futuro comune. Vorrei concludere invitando tutti i deputati a votare a favore di questa risoluzione. Tatjana Ždanoka (Verts/ALE) — (EN) Signor Presidente, credo che un’Europa paci- fica e prospera debba essere basata sul rispetto dei diritti umani. Per questa ragione,

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non posso votare per la risoluzione dell’onorevole Brok. Alcune delle sue asserzioni creerebbero una base giuridica per la violazione dei diritti umani e condurrebbero a enormi ingiustizie nel mio paese, la Lettonia, nonché nella vicina Estonia. La proposta di risoluzione afferma che i paesi dell’Europa orientale sono stati sotto l’occupazione sovietica per molti decenni. Nel caso della Lettonia e dell’Estonia, tale approccio avrebbe conseguenze pericolose per oltre mezzo milione di persone che si stabilirono in questi paesi nel corso di tali decenni. L’estone Toomas Ilves ha spiegato di recente sul Baltic Time cosa significherebbe tale asserzione: «Da adesso, la protezione delle minoranze negli Stati baltici non avrà più senso». Due settimane fa, inoltre, il Parla- mento lettone ha approvato un ulteriore esame della dichiarazione che chiede al Par- lamento europeo l’esenzione dall’obbligo di accettare i cittadini stranieri e i loro discendenti che si trasferirono in Lettonia durante il periodo dell’occupazione. Mio padre era un ufficiale navale dell’Armata sovietica e partecipò alla sconfitta dell’eser- cito di Hitler e dei suoi alleati locali, Arâjs, Cukurs e altri, responsabili dell’uccisione di 80.000 ebrei lettoni, tra i quali i nonni di mio padre. Inoltre, mio padre fu espulso dall’esercito, secondo gli ordini di Stalin, perché ebreo. Non accetterò mai che mio padre sia definito un occupante, né mai sarò d’accordo che mia madre, una russa or- todossa che si trasferì a Riga da San Pietroburgo nel 1950, debba essere rimpatriata, come vorrebbe la proposta di dichiarazione lettone. L’asserzione contenuta in questa risoluzione del Parlamento europeo incoraggerà i legislatori lettoni ad accettare que- sta dichiarazione nel prossimo futuro. Non voglio che negli Stati baltici si ripeta ciò che è accaduto nei Balcani. Noi parlamentari siamo pienamente responsabili delle parole che utilizziamo. Giusto Catania (GUE/NGL) — (IT) Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’8 maggio del 1945 è la data che segna la fine della seconda guerra mondiale, ma anche la data che sancisce la fine delle dittature fasciste e naziste in Europa. In quella data l’Europa si è liberata dallo spettro dell’autoritarismo, e quella data segna anche l’inizio di un’Eu- ropa che aspira alla pace e alla giustizia sociale. L’Europa è stata liberata dalla resi- stenza di uomini e donne, dalla resistenza di partigiani che hanno costruito le fondamenta istituzionali e morali di questa Europa. L’Europa è stata liberata da quanti hanno combattuto a Stalingrado, è stata liberata dalle truppe alleate americane e ca- nadesi e anche dall’esercito sovietico. Questa data può essere considerata la pietra su cui è stata edificata la nuova Europa. Purtroppo, questa pagina di storia, troppo spesso, è oggetto di saccheggi e di attacchi revisionisti e anche questo dibattito è viziato da concreti impulsi revisionisti. Si rende un cattivo servizio alla commemorazione della Li- berazione dell’Europa mescolando indistintamente l’8 maggio del 1945 e i crimini dello stalinismo. Vorrei essere chiaro su questo punto: per cultura politica, per dato anagra- fico e per formazione culturale, io e il mio gruppo non abbiamo alcun problema a con- dannare duramente gli orrori dello stalinismo, ma in questo dibattito si tenta di far vivere in modo surrettizio le teorie di Nolte, che impongono un’equazione tra nazismo e comunismo, non solo con lo stalinismo. Ad onor del vero, i valori della pace e della giustizia sociale in questo secolo breve sono stati minati non solo dallo stalinismo, ma anche dal colonialismo, dall’imperialismo, dal neoliberismo: dall’Algeria al Vietnam, dal bombardamento di Belgrado ai massacri di Sabra e Chatila, fino ai fatti dell’11 set- tembre 1973 a Santiago del Cile.

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Bisogna rendere un buon servizio alla storia: la memoria del passato è una dote es- senziale per affrontare il futuro e per costruire le prospettive di questa Europa. C’è solo un modo per rendere più forte l’Europa: bisogna bandire la parola guerra dal no- stro vocabolario. L’Europa deve svolgere un ruolo attivo nella costruzione di un mondo di pace, dall’Iraq all’Afghanistan, alla Palestina. Per concludere, l’Europa deve essere più coraggiosa e autorevole, dobbiamo ribaltare il famoso detto latino e sostenere con forza si vis pacem para pacem. Questa deve essere la nostra stella polare. Nigel Farage (IND/DEM) — (EN) Signor Presidente, talvolta mi chiedo quali siano gli argomenti a sostegno dell’Unione europea. Certamente non possono essere di carattere economico, perché non viviamo in un mondo di elevate tariffe commerciali e ora esi- ste un’economia globale. Certamente non possono essere argomenti di carattere de- mocratico, perché questo Parlamento è l’unico elemento democratico all’interno dell’Unione europea ed è una presenza quasi inutile. Comunque, se vi fosse un argo- mento a sostegno dell’Unione europea capace di farmi cambiare idea, sarebbe la con- siderazione che l’Unione europea ci può dare e garantire la pace. Questa idea, tuttavia, è basata su una serie di false presupposizioni. Non furono infatti Stati nazionali demo- cratici a provocare la prima e la seconda guerra mondiale. Se si esamina la storia, si comprende che le democrazie mature non si fanno la guerra l’una con l’altra. È anche sbagliato e del tutto falso sostenere che l’Unione europea ha mantenuto la pace in Eu- ropa negli ultimi 50 anni. Quale guerra ha fermato? Il Portogallo stava forse per di- chiarare guerra all’Italia a metà degli anni ‘70? Quale possibile guerra avrebbe potuto fermare? Se c’è stato un organismo garante della pace nel corso degli ultimi 50 anni, certamente è la NATO, che costituisce un esempio di cooperazione intergovernativa. Il Presidente Borrell parla della riunificazione dell’Europa. Talvolta mi chiedo persino di cosa stia parlando. Il punto è: l’Unione europea garantirà la pace? La federazione ga- rantisce la pace? Non è stato così in Jugoslavia, né in URSS, né negli Stati Uniti d’Ame- rica, che, come ricorderete, hanno vissuto una delle più dure e sanguinose guerre civili nella storia dell’umanità. Se continuiamo a vendere questo progetto ai popoli d’Europa sulla base di una menzogna, con ogni probabilità alimenteremo e causeremo amari ri- sentimenti ed estremismi nazionalisti. Dobbiamo dire la verità ai popoli d’Europa sulle nostre ambizioni e indire referendum liberi ed equi, altrimenti ci avviamo verso il tra- collo. Ģirts Valdis Kristovskis (UEN) — (LV) Onorevoli colleghi, sessant’anni dopo la se- conda guerra mondiale posso affermare con convinzione che l’Unione europea è il mi- gliore modello di cooperazione tra paesi sinora sperimentato sul vecchio continente. In Europa il dialogo ha sostituito le guerre, ma non si è ancora realizzata la riconcilia- zione, la profonda comprensione della verità storica e il reciproco coordinamento degli interessi di Stati e politici. Sì, in questo momento commemoriamo insieme una delle più grandi vittorie dell’umanità: quella sull’ideologia nazista. Ricordiamo le vittime del fa- scismo e chiniamo il capo in memoria dei combattenti che sono morti. Sì, è una soddi- sfazione constatare che tutti i gruppi politici del Parlamento europeo si sono uniti sulla risoluzione relativa alla fine della seconda guerra mondiale e per la prima volta stanno valutando e condannando contemporaneamente i crimini sia del nazismo sia del regime comunista. Onorevoli colleghi, la nostra dichiarazione comune afferma inequivocabil- mente che non può esservi riconciliazione senza verità storica; che solo un’Europa forte

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può fornire i mezzi per superare le atrocità del passato, basato sull’ingiustizia e sul- l’umiliazione sociale, politica ed economica, durata 50 anni, delle nazioni rimaste pri- gioniere. Purtroppo, però, la nostra dichiarazione non ha detto tutto. Né è accettabile quello che ha detto ieri a Mosca Jean-Claude Juncker, affermando che la soluzione di questi problemi tocca alle generazioni future. Solo i forti chiamano le cose con il loro nome. Alcuni giorni fa a Riga, George Bush ha detto chiaramente: «l’accordo di Jalta seguì la tradizione di ingiustizia di Monaco e del Patto Molotov-Ribbentrop. Ancora una volta, nei negoziati tra governi potenti la libertà delle piccole nazioni fu considerata in qualche modo sacrificabile. Tuttavia, questo tentativo di sacrificare la libertà nell’in- teresse della stabilità lasciò un continente diviso e instabile». La vera guerra fredda in Europa, durata quasi 50 anni, conferma queste affermazioni. Tutti nel Parlamento europeo sanno che la NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico, fu creata per promuovere la sicurezza europea nel clima di paura di un’invasione da parte del regime sovietico totalitario, cinico e aggressivo. Questo con- ferma il fatto che l’Occidente, dopo la seconda guerra mondiale, non aveva fiducia in un alleato come Stalin. Il funesto impero creato da Stalin era inaccettabile, anche se in precedenza era stata celebrata congiuntamente la vittoria sull’ideologia nazista. Onorevoli colleghi, quando pensiamo all’avvenire dell’Europa, si dovrebbe tenere ben presente ciò che ho appena detto. Sono trascorsi sessant’anni dalla seconda guerra mondiale e l’Europa insieme ai suoi alleati sta plasmando il suo futuro. Purtroppo la Rus- sia, che si porta sulle spalle l’eredità dell’URSS, sta ancora facendo dichiarazioni che negano la sua influenza sui paesi dell’Europa orientale e l’occupazione del mio paese, la Lettonia, nonché della Lituania e dell’Estonia. Questo disconoscimento della verità storica, l’intenzionale appoggio ai crimini del regime comunista, è umiliante. Equivale al disprezzo per le vittime del regime, eppure è proprio quello che sta accadendo oggi. La Russia sta cercando di manipolare l’opinione pubblica mondiale, mantenendo l’at- tenzione sul problema di quanti non sono cittadini in Lettonia ed esagerandolo. Nel contempo però continua a violare i diritti umani delle vittime del regime totalitario so- vietico e dei loro diretti familiari, negandone le sofferenze e le perdite subite. Tale at- teggiamento della Russia non fa nulla per promuovere la riconciliazione tra la Russia e gli Stati dell’Europa orientale e del Baltico, che hanno riguadagnato la loro libertà. Un’autentica condanna dei crimini del comunismo e una risoluzione delle loro conse- guenze sono necessarie per la futura stabilità dell’Europa. Vi esorto a votare a favore della risoluzione! Jana Bobošíková (NI) — (CS) Onorevoli colleghi, la storia delle nazioni dell’Unione europea non è certo stata facile. Ha visto queste nazioni combattersi, tradirsi e com- mettere atrocità l’una contro l’altra. Erano europei coloro che propugnarono l’idea della supremazia della razza ariana, della soluzione finale per le altre razze e delle ca- mere a gas. Inoltre, il resto dell’Europa inizialmente rimase a guardare e non fece nulla mentre si stavano perpetrando queste atrocità. Mi dispiace dire che non è ancora stata messa fine agli strascichi di questo pe- riodo. Sessant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, vi sono deputati al Par- lamento europeo che rifiutano di votare a favore di risoluzioni che condannano l’Olocausto, che insistono a equivocare le sofferenze delle vittime della seconda guerra mondiale con quelle dei suoi architetti e che distorcono il passato e non distinguono in

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modo corretto le cause e gli effetti del conflitto più orrendo di tutti i tempi. I recenti discorsi di alcuni leader rappresentanti degli Stati membri e delle Isti- tuzioni europee in occasione del sessantesimo anniversario della fine della guerra hanno rivelato di essere affascinati dall’idea che la nostra epoca dorata di prosperità e di pace sia un diretto risultato della storia dell’Unione europea. Nell’interesse delle generazioni future, non dovremmo dimenticare che quest’idea è molto lontana dalla realtà. La pace in Europa può essere attribuita anche alla presenza di truppe ameri- cane sul suolo europeo e la prosperità può essere spiegata con la crescita economica in Asia e negli Stati Uniti e con l’aumento del commercio globale. Per quanto riguarda la libertà, in numerosi paesi europei, incluso il mio, le rivoluzioni si sono svolte senza alcun aiuto da Bruxelles. Personalmente reputo preoccupante che la democrazia e la prosperità che siamo riusciti a realizzare siano ora minacciate. La possibilità del- l’Europa di agire come attore globale sarà ridotta dall’incomprensibile e ingiusta Co- stituzione europea, che avvantaggia certi paesi a scapito di altri. La distanza che esiste tra i politici e il mondo reale è un ulteriore fattore che mette a rischio l’avve- nire dell’Europa, poiché i cittadini dei singoli Stati membri capiscono sempre meno la lingua parlata dalle Istituzioni europee e dai loro rappresentanti. Dove finirà l’Eu- ropa se i cittadini non capiscono i leader? Diventerà facile preda del populismo della peggior specie, semplicemente perché nessuno è in grado di capirla? Sono ferma- mente convinta che nessuna campagna dei mezzi di informazione riuscirà mai a far crescere la fiducia dei cittadini nell’idea di un’Europa comune. L’unico modo per rea- lizzare questo obiettivo è l’attuazione di misure pratiche e facilmente comprensibili che offrano soluzioni ai problemi reali. L’incapacità dei leader europei di promuovere la crescita e il timoroso approccio euronazionalista alle questioni economiche sono una risposta ben lungi dall’essere ade- guata alla realtà dell’economia globale. Io rappresento i cittadini di un paese che ha sof- ferto le conseguenze della cortina di ferro, abbattuta 15 anni fa. Oggi, tuttavia, assistiamo a tentativi di costruire nuove “cortine” attorno all’Europa per tenere fuori gli Stati Uniti, i prodotti tessili cinesi, una forza lavoro a basso costo e molti richiedenti asilo. Chiudere le porte al mondo non risolverà i problemi che l’Europa ha davanti. La mancanza di interesse pubblico e il rallentamento economico stanno facendo emergere che il modo in cui è governata attualmente l’Unione europea sarà insostenibile se l’Eu- ropa vuole essere competitiva. Ritengo che i leader dell’Unione europea dovrebbero avere il coraggio di ammettere dinanzi a se stessi e ai cittadini che la resuscitata stra- tegia di Lisbona e l’ingiusta Costituzione europea non sono altro che un vicolo cieco che non condurrà a maggiore giustizia, libertà e prosperità. L’unica risposta corretta allo stato corrente dell’economia e della politica globale è l’apertura, la riduzione della nostra interferenza nelle questioni economiche, la diminuzione dell’imposizione fiscale, la possibilità offerta agli Stati nazionali di operare in modo più flessibile e il coordina- mento delle questioni a livello comunitario in modo ragionevole e soltanto nei casi in cui si dimostra necessario. Presidente — Ho ricevuto una proposta di risoluzione, presentata a norma dell’ar- ticolo 103 paragrafo 2, del regolamento. La discussione è chiusa. La votazione si svol- gerà giovedì.

poloniaeuropae 2010 335 Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...

Dichiarazione scritta (articolo 142) Pedro Guerreiro (GUE/NGL) — (PT) Questa commemorazione del sessantesimo an- niversario della vittoria sul nazifascismo ha provocato una ripugnante operazione di re- visionismo e distorsione della realtà storica, in cui si inscrive anche l’inaccettabile proposta di risoluzione presentata dalla commissione per gli affari esteri. Lungi dal- l’essere ingenua, questa terribile falsificazione della storia mira a obiettivi molto con- creti. Lo scopo è quello di spazzare via il contributo chiave dato dall’Unione Sovietica e la gloriosa lotta del suo popolo per distruggere la brutale macchina assassina degli eserciti e dei regimi nazifascisti, insieme al suo ruolo decisivo nel tenere a freno l’ag- gressione imperialista durante il periodo del dopoguerra. Questa proposta di risoluzione cerca di mettere a tacere e di diffamare il ruolo glorioso ed eroico svolto dai comuni- sti nella lotta antifascista. Cerca di attenuare l’orrore nazista, i milioni di morti nei campi di concentramento, i milioni di uomini, donne e bambini uccisi e la distruzione sistematica di interi paesi. Cerca di sorvolare sul fatto che l’ascesa al potere di Hitler fu aiutata dal capitale tedesco e dalla complicità delle grandi potenze capitaliste, che alimentarono fino alla fine la speranza che la macchina da guerra nazista distruggesse il nemico principale, l’Unione Sovietica. Cerca, come sessant’anni fa, di difendere l’in- difendibile, l’aggressività imperialista e militarista e l’aggressione perpetrata contro la sovranità dei popoli. Ma non ci riuscirà!

Dichiarazioni di voto. Avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale3 Discussioni. Giovedì 12 maggio 2005, Strasburgo (B6 -0290/2005)

Laima Liucija Andrikienė (PPE-DE) — (LT) Signor Presidente, in primo luogo vor- rei ringraziare l’onorevole Elmar Brok, che ha preparato il progetto di risoluzione su questo importante argomento. L’Unione europea allargata unifica Stati membri con sto- rie ed esperienze passate diverse, paesi che hanno approcci differenti nei confronti dei rapporti con la Russia. In quest’Aula ci sono anche parlamentari con pareri diversi sulla questione e, pertanto, vorrei esprimere il mio compiacimento per il fatto che siamo riu- sciti ad adottare la risoluzione sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale con una maggioranza di voti così schiacciante. Nel mio paese, non esi- stono famiglie che non abbiano subito l’occupazione sovietica, e parlo della seconda oc- cupazione. La risoluzione adottata oggi riguarda dunque ogni famiglia lituana. Grazie, onorevoli colleghi. Aldis Kušķis (PPE-DE) — (LV) Signor Presidente, ho votato a favore della risoluzione sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale perché con essa

3 Fonte: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20050512&secondRe f=ITEM-014&format=XML&language=IT

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il Parlamento europeo ha onorato i soldati morti su tutti i fronti durante la guerra. Va notato, in particolare, che la risoluzione sancisce per iscritto un’interpretazione del- l’occupazione sovietica degli Stati baltici e della dittatura dell’Unione Sovietica stali- nista nell’Europa centrorientale. Oggi vorremmo che tutta la verità sulla seconda guerra mondiale venisse alla luce, a prescindere dal fatto che possa risultare spiacevole per al- cune delle parti coinvolte. Ritengo che questa risoluzione, contenente anche un ap- pello a rendere disponibili, a fini di ricerca, i documenti archiviati in tutto il mondo, rappresenterà un punto di partenza per un futuro lavoro comune di grande rilevanza. Speculazioni e congetture sopravvivono solo dove non vi è verità. Non dobbiamo per- mettere che tale situazione perduri! Chiedo che vengano proseguite le indagini per sta- bilire la verità sul totalitarismo a prescindere da qualsiasi ideologia, e che questa verità sia resa pubblica! La verità storica impone inoltre una condanna internazionale del co- munismo totalitario sovietico. Pertanto, nella piena consapevolezza della mia respon- sabilità nei confronti degli elettori del mio partito, il Partito della nuova era, ho votato a favore della risoluzione. Nicola Zingaretti (PSE) — (IT) Signor Presidente, in merito alla mozione sulla fine della seconda guerra mondiale la delegazione italiana ha votato la risoluzione, pur avendo molti dubbi sul suo contenuto. Lo abbiamo fatto per senso di responsabilità e perché consapevoli che è frutto di un compromesso tra le varie anime del Parlamento; ribadiamo inoltre che non deve essere il Parlamento a scrivere, a commentare o a con- fondere la storia. Per questo motivo deploriamo l’incomprensibile assenza nel testo di qualsiasi riferimento alla Resistenza europea, che ha avuto una parte importante nella sconfitta del nazifascismo e nella costruzione della libertà in questo continente. Tunne Kelam (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, ho votato a favore della risolu- zione dell’onorevole Brok. Tuttavia, pur ribadendo che si tratta di un progresso impor- tantissimo, l’approccio storico dell’Unione europea non è ancora perfettamente equilibrato e le vittime del comunismo sono ancora considerate di seconda classe. Per il futuro, pertanto, dobbiamo disporre di tutto un bagaglio di conoscenze sulla storia di Jalta e sulle sue conseguenze, il che è anche importante per i rapporti UE-Russia. Do- vremmo esortare la Russia a esprimere un giudizio sulla propria storia — comprese la rioccupazione e l’annessione degli Stati baltici — e a scusarsi per i crimini commessi dal totalitarismo sovietico russo. Michael Gahler (PPE-DE) — (DE) Signor Presidente, anch’io ho votato a favore della ri- soluzione. In quanto tedesco, sono grato a tutti coloro che ci hanno liberati dal nazional- socialismo in un momento in cui, purtroppo, non eravamo in grado da soli di sottrarci al suo giogo. Dopo aver iniziato col privare i tedeschi dei loro diritti, rendendo molti di loro cie- chi alla realtà, ha fatto sprofondare quasi tutta l’Europa nella guerra e nella violenza. Come tedesco occidentale, sono grato a quanti ci hanno liberati, soprattutto gli americani, senza la cui presenza per decenni la democrazia non avrebbe potuto consolidarsi all’interno e al- l’esterno dei nostri confini. Accanto alle vittime che hanno sofferto fino all’8 maggio, vi sono state, nella metà orientale dell’Europa, vittime anche dopo l’8 maggio: le vittime inno- centi di un cambio di dittatura dal nazionalsocialismo alla tirannia sovietica, per sconfig- gere la quale ci sono voluti 45 anni. La Russia odierna dovrebbe riconoscere che la gente, da Tallinn a Lipsia, da Varsavia a Varna, non poteva ammettere che ciò che l’Unione Sovie- tica imponeva loro dopo la caduta di Hitler fosse libertà. Insieme a quella gente, i tedeschi

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a est delle tre zone occidentali hanno pagato ben più di noi per i crimini di Hitler, visto che noi siamo stati abbastanza fortunati da riuscire, molto presto, a svolgere un ruolo nel pro- getto che era, e tuttora è, la risposta a tutte le sfide del totalitarismo: l’Unione europea. È quindi nostro dovere fare del nostro meglio per il futuro dell’Europa. Vytautas Landsbergis (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, la risoluzione sull’avve- nire dell’Europa contiene parte della verità storica. Mi complimento con i colleghi del- l’Assemblea. Le osservazioni formulate sulla guerra e i rapporti postbellici fanno anche riferimento alle nazioni satellite rimaste dietro la cortina di ferro. Nel 1988 e nel 1991, il popolo russo era considerato, anche per le sue prese di posizione, alla stregua delle nazioni satellite, in lotta insieme a noi, Stati baltici, dalla stessa parte della barricata, per la democrazia e contro il totalitarismo sovietico. Putin non se ne ricorda perché al- l’epoca lavorava ai danni della Germania. L’odierna leadership russa non sta compiendo grandi sforzi per trasformare questo concetto di autodeterminazione passando dallo status politico e morale di ex nazioni satellite a quello di nazioni “liberate”. Pertanto, ora, a Mosca, lo smantellamento delle ex nazioni satellite viene visto come la più grave tragedia per loro. Si sostiene che i russi erano trattati diversamente dagli altri nelle loro prigioni. Questo equivoco non è solo ingiurioso e spiritualmente distruttivo per il popolo russo, ma anche pregiudizievole nell’ottica di una sincera cooperazione. Signor Presi- dente, lei si è assunto un compito difficile impegnandosi a esortare l’attuale leadership russa ad abbandonare la mentalità ereditata dall’Unione Sovietica e smettere di de- plorare quotidianamente il passato di soggiogamento della Russia. La nostra risoluzione apre la via in tal senso. Zita Pleštinská (PPE-DE) — (SK) Signor Presidente, ho votato a favore della risolu- zione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale e desidero ringraziare tutti i colleghi che l’hanno appoggiata. Questa risoluzione è motivo di grande soddisfazione morale per tutti coloro che hanno patito le sofferenze della seconda guerra mondiale e le violenze che l’hanno seguita. Molti sono scomparsi e quanti sono ancora in vita sono grati al Parlamento europeo per non aver dimenticato. Ringrazio a nome di mio padre, Štefan Kányai, prigioniero per quasi nove anni nell’inferno di un gulag russo. Il documento sarà fonte di conoscenza per i giovani che, grazie a Dio, non hanno vissuto una guerra: potranno imparare dal passato e costruire un avvenire libero e pacifico per l’Europa. Hélène Goudin, Nils Lundgren e Lars Wohlin (IND/DEM), per iscritto — (SV) Siamo contrari a talune affermazioni inserite nel testo quali contributi sul metodo di lavoro e sul futuro dell’Unione europea. Si crede che costruire un’Unione europea federale, ri- ducendo contestualmente il ruolo della NATO in Europa e nel mondo, possa assicurare la pace. Molti altri aspetti vanno aggiunti a una risoluzione che parla della fine della se- conda guerra mondiale. Non si può, per esempio, dimenticare l’importante ruolo svolto dal Canada nella vittoria finale, così come non va dimenticata, nel contesto del man- tenimento della pace, la presenza americana in Europa nel periodo postbellico. Re- spingiamo in particolare le affermazioni contenute nei paragrafi 1, 7 e 8 del progetto di risoluzione. Per onorare le vittime della guerra, abbiamo tuttavia scelto di votare a favore della risoluzione nel suo complesso. Pedro Guerreiro (GUE/NGL), per iscritto — (PT) La risoluzione oggi adottata dalla maggioranza dei parlamentari in quest’Aula non riguarda il sessantesimo anniversario

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della vittoria sul nazifascismo. Il vero scopo della risoluzione è quello di condannare l’Unione Sovietica nel tentativo di cancellare con un colpo di spugna dal quadro gene- rale il suo ruolo determinante nella sconfitta del nazifascismo nel 1945, la sua difesa della pace e la sua opposizione alla brutalità dell’imperialismo, il suo ruolo negli enormi progressi compiuti a livello di tenore di vita da milioni di lavoratori, la sua solidarietà con decine di popoli nel loro tentativo di conquistare l’indipendenza e la sovranità, nonché il suo contributo alla loro liberazione dal giogo del colonialismo e all’unione di forze coagulatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questa risoluzione del Parlamento è uno spaventoso e vergognoso esercizio di revisionismo. Tra i tanti gravi problemi che solleva, è perlomeno una distorsione della storia affermare, come fa la risoluzione, che l’“integrazione europea” ha aiutato il Portogallo a liberarsi del fasci- smo, mentre il Portogallo è stato membro della NATO sin dall’inizio, il regime fascista ha beneficiato della connivenza dei governi di molti paesi che partecipavano alla co- siddetta “integrazione europea” e quegli stessi paesi hanno appoggiato lo sforzo bellico coloniale intrapreso dal regime fascista portoghese. Timothy Kirkhope (PPE-DE), per iscritto — (EN) I miei colleghi conservatori bri- tannici ed io abbiamo votato a favore di questa risoluzione che commemora le soffe- renze di milioni di persone morte per mano della tirannia nazista. Ci uniamo incondizionatamente alla gratitudine espressa nella risoluzione a coloro che hanno dato la vita per la liberazione dell’Europa e, in particolare, ringraziamo, per il loro coraggio e sacrificio, quei milioni di britannici, uomini e donne, che, sotto la guida di Winston Churchill, hanno svolto un ruolo decisivo nella liberazione di tantissime persone. Con- dividiamo il riconoscimento espresso nella risoluzione della liberazione dei popoli del- l’Europa centrorientale dal giogo del comunismo e della loro lotta per la libertà. L’allargamento dell’Unione europea a ex Stati comunisti è un passo a lungo auspicato dai conservatori britannici. Il ruolo di tali paesi nel nostro avvenire è di importanza fon- damentale. Abbiamo tuttavia chiesto la votazione per parti separate di questa risolu- zione laddove il testo fa riferimento all’“integrazione europea”, espressione associata all’integrazione politica. I conservatori britannici riconoscono che l’Unione europea ha dato un notevole contributo alla pace tra le nazioni del nostro continente. Riteniamo tuttavia che l’Unione europea debba svilupparsi come partenariato di Stati nazione in- dipendenti e non come un’unica entità federale. Jules Maaten (ALDE), per iscritto — (NL) Oggi, quest’Aula ha adottato una risolu- zione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale, risolu- zione che cerca di fornire un’analisi generale della storia europea negli ultimi sessant’anni, includendo nazismo, stalinismo, occupazione, libertà e molto altro. Pur condividendo lo spirito della risoluzione, il Parlamento europeo è un organo politico e non un congresso di storici. Il nostro ruolo non può essere quello di digitare al compu- ter, in una settimana e mezzo, un’analisi della storia politica recente dell’Europa. Do- vremmo limitarci a ciò che sappiamo fare e, per questo motivo, ho scelto l’astensione all’atto della votazione. Michael Henry Nattrass (IND/DEM), per iscritto — (EN) Benché il nostro desiderio sia quello di commemorare la fine della seconda guerra mondiale in Europa, questo do- cumento equivale a riscrivere la storia, persino affermando nel titolo che la seconda guerra mondiale si è conclusa l’8 maggio 1945 mentre così non è, visto che il mondo

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stava ancora lottando contro il Giappone. Per me e per i sette membri della mia fami- glia che hanno combattuto durante la guerra contro l’Asse, la nota propagandistica se- condo cui l’Unione europea ha in qualche modo contribuito al ristabilimento della pace è quasi di cattivo gusto. Noto che, secondo l’ordine del giorno, la risoluzione era inti- tolata “Avvenire dell’Europa”, mentre il suo titolo in realtà è “Sessantesimo anniver- sario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi l’8 maggio 1945”. Il Parlamento europeo dovrebbe essere preciso quando formula risoluzioni. Per tali mo- tivi, ho votato contro il documento. Athanasios Pafilis (GUE/NGL), per iscritto — (EL) Abbiamo votato contro questa in- felice risoluzione che utilizza i metodi di Goebbels per distorcere e travisare la storia. I comunisti e l’Unione Sovietica, avanguardia della resistenza, nonché tutti i sacrifici e la sconfitta del fascismo, vengono ingiuriati proprio dai poteri politici che hanno ali- mentato, appoggiato o tollerato l’ascesa del fascismo. Oggi, definendo nuova occupa- zione la liberazione dei paesi dell’Europa centrorientale da parte dell’Armata rossa, quegli stessi poteri appoggiano politicamente la restaurazione di simboli nazisti, forni- scono un alibi politico ai collaborazionisti delle SS e al fascismo in quei paesi. Il fasci- smo è nato dal capitalismo. Travisando la storia si cerca di avvelenare la coscienza delle generazioni più giovani in maniera che oggi accettino i crimini dell’imperialismo e smet- tano di lottare per rovesciarlo. Questo fanatico attacco anticomunista non impedirà alla società di continuare ad orientarsi verso il socialismo. Il messaggio della vittoria sul fascismo è vivo e attuale. È direttamente legato alla lotta dei popoli uniti contro la barbarie imperialista. Ricordiamo però che, per quanto forte sembrasse l’Asse fasci- sta, non ha potuto evitare di essere schiacciato né che la bandiera rossa con la falce e il martello fosse issata sul Reichstag, a simboleggiarne la sconfitta da parte del socia- lismo. Lo stesso destino attende l’iniquo sistema capitalista e le sue forme di sfrutta- mento. Zita Pleštinská (PPE-DE) — (SL) Signor Presidente, ho votato a favore della risolu- zione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale e desidero ringraziare tutti i colleghi che l’hanno appoggiata. Questa risoluzione è motivo di grande soddisfazione morale per tutti coloro che hanno patito le sofferenze della seconda guerra mondiale e le violenze che l’hanno seguita. Molti sono scomparsi e quanti sono ancora in vita sono grati al Parlamento europeo per non aver dimenticato. Ringrazio a nome di mio padre, Štefan Kányai, prigioniero per quasi nove anni nell’inferno di un gulag russo. Il documento sarà fonte di conoscenza per i giovani che, grazie a Dio, non hanno vissuto una guerra: potranno imparare dal passato e costruire un avvenire libero e pacifico per l’Europa. Luís Queiró (PPE-DE), per iscritto — (PT) Noi tutti proviamo una profonda avver- sione per gli orrori della seconda guerra mondiale e il bisogno di ricordare ciò che la razza umana, collettivamente e individualmente, è stata capace di fare. Condividiamo dunque sinceramente l’idea che questa occasione dovrebbe servire soprattutto a dire: mai più. Ma non basta: questa è la base per la costruzione dell’Unione europea. Altri ricordi non vanno tuttavia sottovalutati. Per i paesi dell’Europa orientale, specialmente gli Stati baltici, la celebrazione della fine della guerra non coincide con una celebra- zione di libertà, visto che i liberatori erano l’esercito sovietico, ritiratosi solo nel 1989. Pertanto, sebbene possa sembrare irrilevante citare l’impero sovietico quando si parla

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della fine della guerra, non lo è affatto da punto di vista di quella parte del mondo, visto che l’uno si è fuso nell’altra. Inoltre, come è possibile celebrare la liberazione soste- nendo nel contempo che la liberazione non è stata seguita dall’occupazione? Non è pos- sibile. Se vogliamo la pace, abbiamo bisogno della verità. Possiamo dunque celebrare la fine della seconda guerra mondiale, ma non pensiamo che gli orrori siano finiti in quel momento. I ricordi di altri devono fare anch’essi parte della nostra memoria. Frédérique Ries (ALDE), per iscritto — (FR) Non ero favorevole a che questa di- scussione si concludesse con una risoluzione, e devo dire che la povertà del nostro do- cumento conferma i miei timori. Ho pertanto scelto l’astensione. La discussione è stata preziosa e illuminante, oltre che sicuramente una delle più importanti mai tenutesi al- l’interno di questo nuovo Parlamento, assemblea allargata dopo la riunificazione del- l’Europa. Un mosaico di storie che scrivono a grandi lettere la Storia, una discussione che è stata arricchita dalla visione e dalla percezione di tutti coloro che vi hanno preso parte e che non possono, quasi per definizione, essere oggetto di un documento di com- promesso. Quanti in quest’Aula hanno già negoziato risoluzioni del genere sanno che sono il risultato di un’operazione di taglia-incolla dei contributi di ciascun negoziatore. Ciò che può funzionare per la siccità in Spagna non può riflettere la complessità del ca- pitolo più difficile della storia europea. A forza di compromessi, questo documento non ha più alcuna forza e non comunica più alcun messaggio. Personalmente avrei apprez- zato, per esempio, che si fosse concentrato sul paragrafo 1, che contiene il suo mes- saggio essenziale: prendere coscienza del nostro passato per non dover mai più vivere nulla di simile, per tenere viva questa memoria, affinché la gente impari e trasmetta questa lezione alle future generazioni. Indubbiamente una sfida in un’epoca in cui metà dei nostri giovani neanche conosce il nome di Hitler. Jeffrey Titford (IND/DEM), per iscritto — (EN) Benché il nostro desiderio sia quello di commemorare la fine della seconda guerra mondiale in Europa, questo documento equivale a riscrivere la storia, persino affermando nel titolo che la seconda guerra mon- diale si è conclusa l’8 maggio 1945 mentre così non è, visto che il mondo stava ancora lottando contro il Giappone. I parlamentari del Partito indipendentista del Regno Unito si sono dunque sentiti obbligati a votare contro la risoluzione. Geoffrey Van Orden (PPE-DE), per iscritto — (EN) Sebbene molti siano gli aspetti positivi della risoluzione, sulla quale ho votato a favore, vi sono omissioni significative e false enfasi. La vittoria del 1945 non sarebbe stata possibile in assenza della fermezza e del coraggio del Regno Unito e dell’impero britannico che hanno continuato a lottare da soli tenendo in scacco le forze tedesche per oltre un anno dopo la caduta della Fran- cia. I comunisti sovietici sono stati ovviamente alleati dei nazisti nei primi 20 mesi di guerra. Dopo la guerra, la libertà dell’Occidente è stata garantita dal costante impe- gno profuso dalle forze americane, attraverso la NATO, per la sicurezza in Europa. Il Regno Unito ha offerto un contributo straordinario al successo di tale impresa. E non dobbiamo neanche sottovalutare l’enorme apporto di alcune personalità fondamentali per la loro risolutezza quali Margaret Thatcher, Ronald Reagan e Papa Giovanni Paolo II, che hanno contribuito al crollo finale della tirannia sovietica. La celebrazione della fine della guerra non dovrebbe essere sfruttata come un’altra opportunità per elogiare il ruolo dell’Unione europea, progetto caratterizzato da alcuni aspetti profondamente non democratici e che sta andando nella direzione sbagliata. Il processo dell’integra-

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zione europea è guidato da una classe politica ristretta e certamente non è “il risultato della libera decisione del popolo”. Sahra Wagenknecht (GUE/NGL), per iscritto — (DE) Respingo la risoluzione per i seguenti motivi. In primo luogo, sfrutta il sessantesimo anniversario della liberazione della Germania e dell’Europa come un’opportunità per avanzare ipotesi revisioniste della storia trattando alla stessa stregua la Germania nazista e l’Unione Sovietica. In se- condo luogo, questa ipotesi di equivalenza minimizza i crimini commessi dal fascismo tedesco, e segnatamente lo sterminio degli ebrei d’Europa; è chiaro che l’obiettivo della risoluzione è quello di relativizzare questo temporaneo abbandono della civiltà. La risoluzione non fa alcun riferimento al contributo decisivo dato dall’Unione Sovietica alla vittoria sul fascismo. Sessant’anni fa, il mondo è stato liberato dal nazismo, nel cui nome e con il sostegno di interessi economici e industriali e di gran parte del popolo te- desco si è deciso lo sterminio organizzato, con una disumanità senza paragoni, degli ebrei, facendo sprofondare nella guerra tutta l’Europa e uccidendo milioni di persone. Per sopprimere la resistenza antifascista, composta in gran parte da comunisti e so- cialdemocratici, si sono utilizzati gli strumenti più brutali, tra cui la tortura e l’uccisione di decine di migliaia di persone. Oggi, sfruttare la commemorazione della fine del re- gime nazista come opportunità per indicare il 1989 quale reale data della liberazione significa banalizzare il regime di terrore dei nazisti, infamare l’Unione Sovietica e gli immensi sacrifici compiuti dal suo popolo e dall’Armata rossa, nonché incoraggiare la rinascita del nazionalismo, dell’estremismo di destra e della crescente tendenza a re- lativizzare i crimini dei nazisti in Europa. È sicuramente un ulteriore segnale della ne- cessità di non offrire al fascismo un’altra possibilità in Europa assumendo un impegno esplicito e inequivocabile.

Risoluzione4 del Parlamento europeo sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa, l’8 maggio 19455 Testi approvati. Giovedì 12 maggio 2005, Strasburgo Sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale P6TA(2005)0180

Il Parlamento europeo, — visto l’articolo 103, paragrafo 2, del suo regolamento, A. commemorando l’anniversario della fine della seconda guerra mondiale in

4 La Proposta di risoluzione sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi l'8 maggio 1945, era stata presentata da Hans-Gert Poettering e Elmar Brok, a nome del gruppo PPE-DE; Martin Schulz, a nome del gruppo PSE; Graham Watson, Annemie Neyts-Uyttebroeck e Jan Jerzy Kułakowski, a nome del gruppo ALDE; Daniel Marc Cohn-Bendit e Monica Frassoni, a nome del gruppo Verts/ALE; Jens-Peter Bonde, a nome del gruppo IND/DEM; Brian Crowley e Cristiana Muscar- dini, a nome del gruppo UEN (B6 0290/2005/rev 1 del 10 maggio 2005). 5 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P6-TA-2005- 0180&language=IT&ring=B6-2005-0290

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Europa, l’8 maggio 1945, dopo la capitolazione della Germania nazista, B. commemorando e ricordando con dolore tutte le vittime della tirannia nazista, C. commemorando in particolare tutte le vittime dell’Olocausto, D. commemorando con dolore tutte le vittime della guerra, di qualunque appar- tenenza, come una tragedia europea comune, E. grato a tutti coloro che hanno contribuito alla liberazione dell’Europa dal na- zionalsocialismo, un sistema fondato sulla disumanità e la tirannia, di cui l’8 maggio 1945 è divenuta la data simbolo, F. rivolgendo un tributo particolare a tutti i militari alleati che hanno sacrificato le proprie vite e a quelle nazioni, segnatamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e gli altri Stati alleati, che hanno combattuto la guerra contro il na- zismo e il fascismo, e altrettanto grato a quelle nazioni che hanno fermamente soste- nuto il ripristino della libertà e della democrazia nella maggior parte del territorio occidentale del nostro continente, G. ricordando che per alcune nazioni la fine del secondo conflitto mondiale ha si- gnificato l’assoggettamento a una nuova tirannia inflitta dall’Unione Sovietica stalinista, H. consapevole delle immani sofferenze e ingiustizie e del profondo degrado so- ciale, politico ed economico sofferto dalle nazioni rimaste prigioniere al di là di quella che sarebbe diventata la Cortina di ferro, I. riconoscendo il successo delle nazioni dell’Europa centrale ed orientale nell’in- staurazione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani dopo le rivoluzioni de- mocratiche che hanno rovesciato i regimi comunisti ed hanno ridato loro la libertà, J. considerando il successo del processo di integrazione europea e dell’alleanza transatlantica, con la pace e la prosperità che hanno apportato, come una forte rispo- sta agli insegnamenti tratti dalle sciagure e dai fallimenti del passato, 1. sottolinea l’importanza di conservare vive le memorie del passato, giacché non può esservi riconciliazione senza verità e ricordo; sottolinea nel contempo che solo un’Europa forte può fornire i mezzi per superare le atrocità del passato; 2. esprime il suo rispetto e rivolge il suo tributo a tutti coloro che hanno lottato contro la tirannia e in particolare a coloro che ne sono divenute le vittime; 3. riafferma il suo impegno per un’Europa pacifica e prospera fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, della preminenza del diritto e del rispetto dei diritti umani; 4. riafferma la sua posizione unitaria contro ogni potere totalitario, di qualunque credo ideologico; 5. saluta questa prima opportunità di commemorare l’anniversario con i membri eletti di tutti i 25 Stati membri, in quanto espressione di un’unione sempre più stretta delle nostre nazioni e dei nostri cittadini, che hanno superato le divisioni fra vittime ed aggressori e fra vincitori e vinti, e in quanto occasione per condividere e unire i nostri ricordi sulla via di una vera memoria europea comune ed opportunità per impedire il riemergere del nazionalismo e del totalitarismo; 6. saluta con soddisfazione il fatto che gli Stati e le popolazioni dell’Europa cen- trale ed orientale possono ora godere anch’essi della libertà e del diritto di determi- nare il proprio destino dopo tanti decenni trascorsi sotto la dominazione o occupazione sovietica o sotto altre dittature comuniste; saluta l’unificazione tedesca e il fatto che

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dieci dei paesi dell’Europa centrale ed orientale hanno aderito all’Unione europea o lo faranno in tempi brevi; 7. sottolinea che il processo di integrazione europea ha contribuito ad abbattere quasi tutte le dittature del dopoguerra sul continente europeo, sia nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale che in Spagna, Portogallo e Grecia; 8. dichiara che il processo di integrazione europea e l’ulteriore sviluppo del- l’Unione come modello di pace sono il risultato della libera decisione del popolo di de- terminare il proprio destino e di impegnarsi in un futuro comune; 9. dichiara che, secondo l’accordo di Helsinki, nessun paese ha il diritto di deci- dere del destino di un altro paese; 10. invita tutti i paesi ad aprire gli archivi relativi alla seconda guerra mondiale; 11. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai parlamenti degli Stati membri, ai governi e ai parlamenti dei paesi in via di adesione e dei paesi candidati, ai governi e ai parlamenti dei paesi associati all’Unione europea, ai governi e ai parlamenti dei Stati membri del Consiglio d’Europa e al Congresso degli Stati Uniti.

8 maggio 1945-2005: «non può esservi riconciliazione senza verità e ricordo»6 Dichiarazioni. Risoluzione sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, conclusasi l’8 maggio 1945 Doc.: B6-0290/2005 Procedura: Risoluzione Dibattito: 11 maggio 2005 Votazione: 12 maggio 2005

Votazione Con 463 voti favorevoli, 49 contrari e 33 astensioni, il Parlamento europeo ha adot- tato una risoluzione sul sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mon- diale conclusasi l’8 maggio 1945, sottoscritta da tutti i gruppi politici, salvo la GUE/NGL. La Plenaria rende omaggio alle vittime e ai liberatori, ricorda che alcune nazioni hanno dovuto subire la tirannia sovietica e, sottolineando l’importanza del ricordo, riafferma i principi su cui si fonda l’Unione europea e condanna tutte le forme di tirannia. I deputati, nel commemorare questo anniversario, ricordano con dolore tutte le vittime della tirannia nazista e rendono omaggio a tutte vittime della guerra, «di qua- lunque appartenenza», e in particolare tutte le vittime dell’Olocausto. Il Parlamento esprime poi gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito alla liberazione dell’Europa dal nazionalsocialismo, «un sistema fondato sulla disumanità e la tirannia», e rivolge un tributo particolare «a tutti i militari alleati che hanno sacrificato le proprie vite e a

6 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=PRESS&reference=TW-20050509- S&format=XML&language=IT#SECTION1

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quelle nazioni, segnatamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e gli altri Stati alleati, che hanno combattuto la guerra contro il nazismo e il fascismo». D’altra parte, i deputati ricordano «che per alcune nazioni la fine del secondo con- flitto mondiale ha significato l’assoggettamento a una nuova tirannia inflitta dall’Unione Sovietica stalinista» e si dicono consapevoli «delle immani sofferenze e ingiustizie e del profondo degrado sociale, politico ed economico sofferto dalle nazioni rimaste pri- gioniere al di là di quella che sarebbe diventata la Cortina di ferro». Il Parlamento, inoltre, riconosce il successo delle nazioni dell’Europa centrale ed orientale nell’instaurazione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani «dopo le rivoluzioni democratiche che hanno rovesciato i regimi comunisti ed hanno ridato loro la libertà». I deputati sottolineano l’importanza di conservare vive le memorie del passato, giacché «non può esservi riconciliazione senza verità e ricordo» e, nel contempo, rile- vano che solo un’Europa forte può fornire i mezzi per superare le atrocità del passato. Il Parlamento riafferma poi il suo impegno per un’Europa pacifica e prospera fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’ugua- glianza, della preminenza del diritto e del rispetto dei diritti umani, così come la sua posizione unitaria contro ogni potere totalitario, di qualunque credo ideologico. Inoltre, il Parlamento saluta questa prima opportunità di commemorare l’anniver- sario con i membri eletti di tutti i 25 Paesi dell’Unione europea, «in quanto espressione di un’unione sempre più stretta delle nostre nazioni e dei nostri cittadini, che hanno su- perato le divisioni fra vittime ed aggressori e fra vincitori e vinti, e in quanto occasione per condividere e unire i nostri ricordi sulla via di una vera memoria europea comune ed opportunità per impedire il riemergere del nazionalismo e del totalitarismo». L’Assemblea saluta poi con soddisfazione il fatto che gli Stati e le popolazioni del- l’Europa centrale ed orientali possono ora godere anch’essi della libertà e del diritto di determinare il proprio destino «dopo tanti decenni trascorso sotto la dominazione o oc- cupazione sovietica o sotto altre dittature comuniste». Sottolinea, inoltre, che il pro- cesso di integrazione europea ha contribuito ad abbattere quasi tutte le dittature del dopoguerra sul continente europeo, sia nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale che in Spagna, Portogallo e Grecia. Il processo di integrazione europea e l’ulteriore sviluppo dell’Unione come mo- dello di pace, per i deputati, «sono il portato della libera decisione del popolo di de- terminare il proprio destino e di impegnarsi in un futuro comune» ed è riaffermato che «nessun Paese ha il diritto di decidere del destino di un altro Stato». Tutti i Paesi, in- fine, sono invitati ad aprire gli archivi relativi alla seconda guerra mondiale.

Dibattito A nome del Consiglio, Jean-Claude Juncker si è innanzitutto congratulato con il Parlamento per aver voluto ricordare l’8 maggio 1945. Ricordare è «un obbligo ar- dente», soprattutto per quelli che sono nati dopo la guerra che non hanno visto i campi di concentramento, i campi di battaglia, i cortei di prigionieri e che non sono stati con- frontati a scelte individuali e collettive drammatiche. Oggi, ha proseguito, i testimoni diretti di «questa epoca terribile della storia con- tinentale» stanno sparendo e a loro le nuove generazioni devono essere riconoscenti.

poloniaeuropae 2010 345 Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...

Perché, ha spiegato, «la generazione che ha dovuto fare la guerra e che ha voluto fare la pace» ha ricostruito l’Europa e «ne ha fatto il più bel Continente che ci sia». L’8 maggio 1945 è stato, per l’Europa, un giorno di liberazione e bisogna esprime rico- noscenza ai soldati americani e canadesi, ai militari dell’Armata rossa e al popolo bri- tannico che «ha saputo dire no e senza il cui apporto niente sarebbe stato possibile». La libertà, ha poi aggiunto il Presidente del Consiglio, tuttavia non è stata uguale per tutti. Le popolazioni che vivevano in Europa centrale e orientale, ha spiegato, sono state sottoposte alla «pax sovietica, che non era la loro». Non erano liberi, hanno do- vuto evolvere sotto un regime di principi che furono loro imposti. Dicendosi quindi tri- ste pensando a chi dice del male dell’allargamento «proprio mentre la seconda guerra mondiale si è finalmente conclusa», ha quindi esclamato: «Viva l’allargamento!». L’Europa del dopoguerra, ha proseguito, senza la guerra non avrebbe potuto diven- tare quello che è oggi. Un’Europa, ha concluso, che è nata dalla ceneri della guerra e non avrebbe mai potuto esistere senza i padri fondatori come Schuman, Bech, Adenauer e De Gasperi che, della frase «mai più la guerra», per la prima volta nella storia del Conti- nente, ne «hanno fatto una speranza, una preghiera e un programma». Non l’avrebbero potuto fare «se non si fossero sentiti trasportati dai sentimenti nobili e profondi dei loro popoli», perché «non si realizza niente di grande senza la volontà del popolo». Il Presidente del Consiglio ha poi voluto rendere omaggio a quei filosofi, pensatori e uomini politici meno conosciuti, come Léon Blum e «il grande Spinelli» che sono stati imprigionati e altri ancora di cui «non conosciamo il nome ma ai quali dobbiamo molto». Egli ha reso omaggio anche a chi «ha dovuto portare l’uniforme del suo nemico» come i lussemburghesi nati tra il 1920 e il 1927 e i giovani di Alsazia e Lorena. Vi era una parte dell’Europa libera e una parte paralizzata, ha poi proseguito. La guerra fredda è stata un periodo tragico che ha paralizzato le migliori energie e i migliori talenti europei. Da ambo le parti dell’Europa si pensava che la minaccia venisse dall’al- tro lato, «che opportunità e che tempo persi» a causa di queste «stupidità», ha quindi esclamato. Oggi dobbiamo essere felici di non dover più fare riferimento «alla logica im- placabile della guerra fredda» e che possiamo fare la pace tra le due parti dell’Europa. Pensando «al grande Churchill» ha poi sottolineato una frase da lui pronunciata nel 1947, quando nacque l’idea di creare il Consiglio d’Europa davanti al rifiuto dell’URSS di permettere ai paesi dell’Europa centro-orientale di beneficiare del Piano Marshall: «Cominciamo oggi all’ovest quello che un giorno termineremo all’est». «Dobbiamo es- seri fieri di esserci riusciti», ha quindi affermato. Junker ha poi detto che bisogna anche essere fieri di citare al Parlamento europeo una frase pronunciata da Victor Hugo nel 1949: «verrà il giorno in cui le bombe saranno sostituite dai voti». Un Parlamento eletto dai popoli europei, «eredi di quelli che hanno saputo dire no quando era necessario e di quelli che hanno detto sì quando era l’unica opzione che restava». Dobbiamo quindi esseri fieri «di chi ha detto no e di chi, oggi, dice sì alla grande Europa, che ha visto la sua storia e la sua geografia riconciliarsi». Dobbiamo essere fieri, ha aggiunto, di chi non vuole un’Europa che si trasformi in una zona di libero scambio. Siamo fieri, ha concluso, «dell’Europa costruita da chi era qui prima di noi, dovendone essere degni eredi». L’Assemblea, in piedi, ha quindi tributato un lungo applauso al Presidente del Con- siglio.

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«Siamo qui per ricordare, riconoscere e ricostruire», ha esordito il Presidente della Commissione José Manuel Barroso. Ricordare la distruzione e lo sterminio, ma anche le storie straordinarie di trionfo nelle avversità. Ricordare anche quei popoli che «non hanno avuto fortuna», il cui «incubo è stato sostituito da un’altro». Per questi ultimi, ha spiegato il Presidente, la fine della guerra non ha portato pace e libertà, ma unica- mente la pace. A loro, la libertà è arrivata solo con la caduta del Muro di Berlino. Barroso ha poi sottolineato le parole coraggiose di Churchill che, per primo, si è appellato alla riconciliazione tra Francia e Germania per ricostruire l’Europa. Ha poi reso omaggio alla determinazione nel ricostruire, invece che asserragliarsi, di Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide de Gasperi nonché dei leader tran- satlantici. L’Europa ne è uscita così trasformata: democratica, libera e che condivide valori comuni. L’Europa, che presto conterà 27 paesi e 500 milioni di cittadini, però non deve es- sere «vittima del proprio successo». Non bisogna dare per acquisiti i valori fondanti della nuova Europa, ha aggiunto. Basta pensare alla guerra che solo pochi anni fa si svolgeva sul nostro Continente. Pertanto, ha detto il Presidente, «si deve lavorare per la pace e non darla definitivamente per acquisita». Il problema, oggi, è rispondere ai timori degli europei: è trovare un lavoro, non il proprio paese, è gestire efficacemente l’integrazione dei mercati, «non i conflitti ar- mati tra concorrenti che diventano avversari e nemici». Ricordiamoci, ha sottolineato il Presidente, che l’ambizioso partenariato che abbiamo concluso «è stato la fonte di rivoluzioni pacifiche che hanno portato la libertà e la democrazia a milioni di europei». È questa «la forza motrice che stimola la crescita, l’occupazione e gli investimenti, of- frendo agli europei la prospettiva di una vita migliore». Dal suo mercato interno alle sue frontiere esterne, dalla promozione della coe- sione interna a quella della solidarietà e della giustizia in tutto il mondo, «l’Unione co- struisce l’Europa». Lo ha realizzato per tappe concrete, che migliorano la vita quotidiana dei suoi cittadini. La Costituzione, ha quindi concluso, «consoliderà questa opera e porrà i fondamenti per progressi ancora più importanti in futuro».

poloniaeuropae 2010 347 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Il Parlamento Europeo sui crimini di guerra commessi dai regimi totalitari

Crimini di guerra e genocidi1 18 aprile 2008. Dichiarazione della Commissione - Audizione sui “crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra commessi dai regimi totalitari” che la Commissione prevede di organizzare Dibattito: 21 aprile 2008

Una dichiarazione della Commissione aprirà un dibattito in Aula sui risultati del- l’audizione pubblica tenutasi lo scorso 8 aprile riguardo ai crimini di genocidio, crimini conto l’umanità e crimini di guerra commessi dai regimi totalitari. A livello UE è in pro- cinto di essere adottata una decisione quadro sulla lotta al razzismo e alla xenofobia che, tra l’altro, include sanzioni penali per coloro che fanno l’apologia o minimizzano questo genere di crimini. La Commissione ha presentato nel novembre 2001 una proposta di decisione qua- dro che ha l’obiettivo di ravvicinare le disposizioni di diritto penale e combattere più efficacemente i reati di stampo razzista e xenofobo, promuovendo una piena ed effet- tiva cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri. Tra tali reati è compresa l’apologia, la negazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Dopo cinque anni di dibattiti e duri negoziati tra gli Stati mem- bri, nell’aprile 2007 il Consiglio è giunto ad un accordo di massima sul quale il Parla- mento europeo è stato nuovamente consultato nel novembre scorso. Raggiunto l’accordo, il Consiglio ha chiesto alla Commissione di organizzare un’au- dizione pubblica a livello europeo sui crimini di genocidio, sui crimini contro l’umanità e sui crimini di guerra commessi da regimi totalitari nonché su chi ne fa l’apologia, li nega o li minimizza grossolanamente. Al contempo, il Consiglio rilevava la necessità di un risarcimento adeguato «per le ingiustizie subite». I ministri, peraltro, ricordavano che la dichiarazione di Berlino adottata il 25 marzo 2007 recita: «L’integrazione euro- pea è l’insegnamento tratto da conflitti sanguinosi e da una storia di sofferenze». L’Audizione, che si è svolta l’8 aprile scorso a Bruxelles, era suddivisa in quattro sessioni: “Come migliorare la conoscenza sui crimini del totalitarismo”, “Come pro- muovere la consapevolezza del pubblico sui crimini del totalitarismo”, “Quali lezioni possono essere tratte da esperienze di successo” e “Come raggiungere la riconcilia- zione”. All’evento hanno partecipato esperti, rappresentanti di istituti nazionali e ONG attive in questo campo. Erano inoltre presenti rappresentanti degli Stati membri, del

1 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=IM- PRESS&reference=20080410BRI26349&secondRef=ITEM-008-IT&format=XML&language=IT

poloniaeuropae 2010 349 Il Parlamento Europeo sui crimini di guerra...

Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa. La Presidenza slovena ha annunciato l’in- tenzione di pubblicare un libro che raccolga tutti i contributi. Per quanto riguarda i crimini di guerra e i genocidi, il testo della decisione quadro impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per rendere punibili «l’apo- logia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra», quali definiti dallo statuto della Corte penale internazionale e dallo statuto del Tribunale militare internazionale. A condizione che siano «dirette pubblicamente contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo, definito rispetto alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine na- zionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto ad istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro». Le sanzioni dovranno prevedere la reclusione per una durata massima compresa almeno tra uno e tre anni. La decisione quadro precisa inoltre che, all’atto dell’adozione della decisione qua- dro, gli Stati membri potranno fare una dichiarazione secondo cui renderanno punibili la negazione o la minimizzazione grossolana di tali crimini solo qualora essi «siano stati accertati da una decisione passata in giudicato di un organo giurisdizionale nazionale di detto Stato membro e/o di un tribunale internazionale, oppure esclusivamente da una decisione passata in giudicato di un tribunale internazionale». Inoltre, potranno decidere di rendere punibili «soltanto i comportamenti atti a turbare la quiete pub- blica o che sono minacciosi, vessatori o insultanti».

Audizione sui “crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi dai regimi totalitari” (8 aprile 2008) (discussione)2 Discussioni. Lunedì 21 aprile 2008, Strasburgo

Hans-Gert Pöttering, Presidente − L’ordine del giorno reca la dichiarazione della Commissione sui crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra com- messi dai regimi totalitari. Jacques Barrot, Vicepresidente della Commissione − (FR) Signor Presidente, ono- revoli deputati, vorrei riferirvi in merito all’audizione sui crimini commessi dai regimi totalitari per rispondere ai legittimi timori espressi dal Parlamento. Lo scorso 8 aprile, la Commissione e la Presidenza slovena hanno organizzato un’audizione sui crimini com- messi dai regimi totalitari. L’audizione era stata richiesta dal Consiglio nell’aprile 2007 al momento dei negoziati sulla decisione quadro contro il razzismo e la xenofobia. L’au- dizione mirava a comprendere meglio come gli Stati membri hanno gestito l’eredità dei crimini dei regimi totalitari e quali sono i metodi e le pratiche cui sono ricorsi per farvi fronte. L’audizione è stata strutturata intorno a due temi principali: il riconoscimento

2 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20080421&secondRef=ITEM -015&format=XML&language=IT

350 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

dei crimini totalitari e la riconciliazione. Tenuto conto della delicatezza della questione e per evitare qualsiasi strumentalizzazione, la Commissione ha auspicato che il dibat- tito fosse condotto innanzi tutto da esperti indipendenti e da universitari, provenienti da orizzonti diversi e impegnati a seguire un approccio scientifico. Sono stati invitati sia gli Stati membri come anche il Parlamento Europeo, e io sono lieto che numerosi euro- deputati abbiano avuto l’opportunità di partecipare al dibattito. L’audizione ha per- messo lo svolgimento di un dibattito costruttivo e sereno. In generale, dalla discussione sono emerse quattro questioni di specifico interesse per la Commissione. In primo luogo, vi è la sensazione che i vecchi Stati membri do- vrebbero acquisire maggiore conoscenza della storia tragica dei nuovi paesi membri. Tale mancanza di riconoscimento deve essere esaminata con attenzione per evitare che si crei in Europa una spaccatura su una questione talmente seria, che dovrebbe invece riunirci. In secondo luogo, è emerso dal dibattito che l’accertamento della verità è es- senziale per procedere alla riconciliazione. La riconciliazione che anima la costruzione europea resta più che mai un principio di grande modernità. Le diverse esperienze di riconciliazione illustrate nell’audizione hanno mostrato la complessità del compito, ma hanno anche offerto validi motivi per sperare in una soluzione. Mostrano che il rispetto dei diritti fondamentali è un elemento essenziale per arrivare a una riconciliazione reale. Poi, sembra che vi sia grande diversità di metodi sulla trattazione delle questioni del riconoscimento e della riconciliazione. Non vi è un modello unico e spetta a ciascuno Stato membro trovare la via più adatta a questo contesto. Infine, le discussioni hanno rivelato che le istituzioni europee sono invitate a trattare di più tali questioni. Durante l’audizione, un gruppo di partecipanti ha presentato un documento contenente nume- rose proposte d’azione. La Commissione ha preso nota di questa richiesta di maggiore partecipazione dell’Europa, ma, occorre sottolinearlo, spetta a ciascuno Stato membro trovare la propria strada per gestire la memoria dei crimini e trattare tali questioni. L’Unione europea non può sostituirsi ai processi nazionali. L’Unione europea ha scarsa competenza per agire in questo settore. Il suo ruolo deve essere di facilitare i processi, incoraggiando la discussione, favorendo gli scambi naturali di esperienze e le buone pratiche, e riunendo gli attori. Adesso, occorre analizzare tutti i contributi ricevuti durante l’audizione, ma riba- disco qui la volontà della Commissione di proseguire il processo avviato dalla dichiara- zione del Consiglio dell’aprile 2007. La Commissione deve riferire al Consiglio due anni dopo l’entrata in vigore della decisione quadro contro il razzismo e la xenofobia e al- lora potrà avere luogo un dibattito politico. Nel frattempo, la Presidenza slovena in- tende pubblicare i contributi ricevuti nell’audizione. La Commissione, da parte sua, ha intenzione di avviare uno studio per avere una visione d’insieme reale dei metodi, delle normative e delle pratiche cui sono ricorsi gli Stati membri per trattare la questione della memoria dei crimini totalitari. Tenuto conto dell’importanza degli aspetti istru- zione e cittadinanza, la Commissione esaminerà altresì come i programmi comunitari potrebbero essere utilizzati anche per favorire una migliore sensibilizzazione in Europa. Concludo affermando che è essenziale promuovere una discussione obiettiva e serena su tali questioni, e progredire gradualmente nel rispetto delle competenze dell’Unione. La Commissione, ovviamente, è pronta a svolgere appieno il suo ruolo in questo pro- cesso.

poloniaeuropae 2010 351 Il Parlamento Europeo sui crimini di guerra...

Vytautas Landsbergis, a nome del gruppo PPE-DE — (EN) Signor Presidente, men- tre si parla, si discute e ci si avvicina ad una posizione comune essenziale sulla valuta- zione dei crimini commessi da regimi totalitari in Europa, al conseguimento di un successo morale e legislativo più rapido si frappone un ostacolo evidentissimo. Quel- l’ostacolo è la posizione difficilmente comprensibile dell’odierno governo russo. Per quanto riguarda i crimini commessi durante il periodo stalinista dell’URSS, invece di dissociarsi con un’adeguata condanna dei gravi crimini commessi contro l’umanità, dei crimini di guerra e di altri illeciti, l’élite di governo della Russia non sta seguendo il buon esempio della Germania denazificata. No, il Führer sovietico, Stalin, viene lodato, i suoi crimini e quelli del suo seguito negati o minimizzati, e le vittime umiliate e derise. Questo strano comportamento politico, così dannoso per la Russia stessa, non può can- cellare la verità sui fatti, ma continua a incidere scorrettamente sugli standard euro- pei e sull’equità delle valutazioni. Dovremmo renderci conto che questa ipocrisia e questi duplici standard sono utili ai vari gruppi di neonazisti, e così via. Se qualcuno dice: bene, prima che la Russia ufficiale cambi idea, dobbiamo bloccare le nostre e se- guire le idee del Cremlino o posticipare le nostre valutazioni e decisioni. Ed è una po- sizione totalmente e profondamente sbagliata. Non importa con quanta veemenza gli storici politici assoldati dallo Stato russo si sforzino di riscrivere la storia europea dei fatti, le due tirannie internazionali più sanguinose del XX secolo, insieme alle dittature nazionali più piccole, dovrebbero essere e saranno valutate opportunamente. Questo deve essere il modo migliore con cui l’Europa può assistere la Russia del futuro. Jan Marinus Wiersma, a nome del gruppo PSE — (NL) Signor Presidente, il nostro gruppo ha contribuito alla realizzazione di questo dibattito perché siamo preoccupati dal crescente numero di interpretazioni del passato da parte dei partiti politici. Parlo qui non solo da politico, da social-democratico, ma anche da storico. Interpretazioni di questo tipo spesso promuovono miti che possono costituire terreno fertile, ad esempio, per l’odio contro gli stranieri perché presentano un solo aspetto della storia. Questo, ovvio, è estremamente pericoloso in un’Europa caratterizzata dalla diversità, anche etica. Non esistono risposte semplici a domande storiche difficili. Quell’impressione è suscitata talvolta da coloro che fanno un uso populista dell’interpretazione della sto- ria. La falsificazione della storia è usata anche per promuovere l’oblio, ad esempio ne- gando l’olocausto o coprendo i crimini di altri regimi totalitari. E vi è anche il pericolo della selettività. I criteri storici talvolta sono applicati ad una situazione, ma non a un’altra. Talvolta non viene operata alcuna distinzione e una situazione è giudicata allo stesso modo dell’altra. Il risultato è che le persone sono confuse e non sanno come guardare al passato: i politici hanno infatti deviato la verità storica perché è facilissimo operare confronti. Riteniamo, come gruppo, che questo sia particolarmente importante quest’anno dato che è anche l’anno in cui commemoriamo la sommossa di Praga, la pri- mavera di Praga, ma anche la Kristallnacht. Riteniamo che sia importante che la Com- missione e il Consiglio prendano l’iniziativa per incoraggiare un dibattito basato sui fatti e sulla ricerca scientifica. Non per stabilire una certa posizione comune, ma per far sì che le persone sappiano che la nostra discussione è basata su informazioni corrette. E anche per far sì che il dibattito possa proseguire in modo adeguato. Al riguardo vorrei sottolineare ancora una volta che l’obiettivo non è, ovviamente, dimenticare episodi importanti e terribili della nostra storia. Certo che no, si tratta soprattutto di imparare

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da questi fatti. Ma ciò che dobbiamo evitare è che si abusi della storia. Si tratta di un’importante questione morale. Ritengo che sia essenziale sottolineare ancora una volta che nei nostri contributi di stamattina e di stasera dovremmo lasciare la parola ad alcuni colleghi che hanno un’esperienza personale dalle conseguenze dei regimi to- talitari. Per noi questo è un dibattito importante, che di sicuro proseguiremo anche quest’anno. Sarah Ludford, a nome del gruppo ALDE — (EN) Signor Presidente, ritengo che tutte le atrocità commesse dai regimi totalitari — fascisti, comunisti o stalinisti — deb- bano essere illustrate integralmente. Ma non sono favorevole a rendere punibili in sé la negazione o la difesa di tali crimini, che si tratti dell’Olocausto, della Shoah, dei cri- mini di genocidio o dei crimini contro l’umanità commessi da qualsiasi regime totalita- rio o autoritario, più di quanto sia favorevole a rendere punibile la cosiddetta provocazione pubblica o apologia — o esaltazione — del terrorismo. In tutti questi casi, ritengo che la libertà di parola dovrebbe essere importantissima e che il diritto penale dovrebbe essere applicato solo in presenza di un chiaro incitamento all’odio, alla vio- lenza o al terrorismo. Qualsiasi libertà di espressione è essenziale per accertare la ve- rità. Un tema dell’audizione era il risarcimento per l’ingiustizia commessa e non è possibile avere giustizia senza verità. L’esempio più eclatante al riguardo è la Commis- sione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica. E io credo che uno dei risultati più soddisfacenti dell’Unione europea e dei suoi Stati membri degli ultimi dieci anni sia la creazione del Tribunale penale internazionale. Ma vi sono tuttora molte persone che vi- vono sul pianeta impunite e credo che noi, in Europa, non stiamo facendo abbastanza per consegnarle alla giustizia. Non so cosa sia accaduto allo spirito che ha portato l’UE a sostenere il Tribunale penale internazionale, quando si è trattato di parlare con one- stà della collusione nei voli di tortura e nelle prigioni segrete. Non abbiamo ricevuto una risposta soddisfacente dagli Stati membri alla nostra relazione di un anno fa su tale col- lusione. Sappiamo, per quanto riguarda gli Stati Uniti, che le torture alla Baia di Guan- tanamo e altrove sono state comandata dai più alti livelli dell’amministrazione Bush. Questo ha portato ad una tragica perdita di autorità morale e di reputazione per gli Stati Uniti. Sì, dobbiamo dire la verità su questi crimini — ma non criminalizzare ciò che deve essere discusso in maniera approfondita. Wojciech Roszkowski, a nome del gruppo UEN — (PL) Signor Presidente, i due re- gimi totalitari più crudeli del XX secolo, il nazismo tedesco e il comunismo di stile so- vietico e cinese, hanno commesso crimini efferati. Il numero totale di vittime supera probabilmente i 100 milioni di morti e di martiri nell’Olocausto e attraverso esecuzioni di massa e deportazioni, inedia provocata artificialmente, e nei campi di morte e di con- centramento. Il regime nazista uccideva le persone per motivi razziali; quello comuni- sta per motivi di classe sociale. Le ideologie che hanno fornito le basi a questi sistemi escludevano interi gruppi di cittadini dallo Stato di diritto e li hanno condannati a morte o al degrado fisico e sociale al fine di costruire una nuova società, che si presumeva mi- gliore. Uno speciale tipo di odio è stato nutrito verso le religioni. In questi regimi, non solo vi era un monopolio dei poteri, ma anche un monopolio del linguaggio, che si è tra- sformato in strumento di propaganda e di terrore. Oggi, più di 60 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e oltre dodici anni dopo la caduta del comunismo sovietico, è sorprendente che nell’Unione europea vi siano ancora persone che rifiutano di rico-

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noscere che il comunismo sia stato un sistema criminale. Sono usati numerosi espe- dienti per relativizzare il passato del comunismo. Quale argomento morale esiste per sostenere l’idea che le vittime del nazismo sono più importanti di quelle del comuni- smo? Perché non siamo in grado di elaborare una risoluzione comune in merito? Signora Commissario, non si tratta di una questione che riguarda solo i singoli Stati membri. Se l’Unione ritiene di essere responsabile e competente a trattare il razzismo e la xeno- fobia, dovrebbe avere il coraggio sufficiente per deplorare anche i crimini comunisti. Io lo dico non solo da politico, ma da storico. Le similitudini fra questi regimi non por- tano necessariamente ad argomenti sulla loro compatibilità. Sottolineare l’unicità dei crimini comunisti non sminuisce per niente i crimini nazisti e vice versa. In parole po- vere, la dignità comune e il ricordo delle innumerevoli vittime di questi regimi impon- gono la condanna di entrambi. Il gruppo di lavoro che abbiamo istituito nel Parlamento, chiamato United Europe United History, composto già da 50 membri, solleciterà a breve tale condanna. Daniel Cohn-Bendit, a nome del gruppo Verts/ALE — (DE) Signor Presidente, ono- revoli colleghi, ritengo che il nostro compito nella materia di cui stiamo discutendo sia triplice. Primo, dobbiamo riuscire a formulare un’interpretazione europea uniforme della guerra e dei motivi della guerra, ovvero esprimere una memoria europea comune. Non ha senso continuare questa discussione infinita e comparare i crimini di Stalin ai cri- mini nazisti. Sono due esempi diversi di totalitarismo, due sistemi criminali diversi, seb- bene talvolta presentino similitudini strutturali. Di certo possiamo considerare l’intero dibattito sull’apertura, sulla democrazia, ecc., come espressione di un’interpretazione comune. La risposta comune è, ad esempio, l’Unione europea o la Carta dei diritti fon- damentali, che sostanzialmente riflette le lezioni tratte da quei due sistemi totalitari che hanno provocato così tanta distruzione sul nostro continente. Secondo, se guar- diamo attorno a noi nel mondo, vediamo il Ruanda, la Bosnia, il Darfur, eccetera. Que- sto significa che la distruzione di esseri umani prosegue. Ciò di cui abbiamo bisogno — come ha sottolineato giustamente l’onorevole Ludford — è il Tribunale penale interna- zionale, e regole comuni. Oggi dobbiamo cercare di fare in modo che tutti gli Stati ci- vilizzati riconoscano il Tribunale penale internazionale affinché siffatti crimini, che son diversi, che non sono tutti uguali, ma che in qualche modo sono tutti crimini, possano realmente essere portati alla giustizia. Saremo in grado di contrastare tali crimini solo se riusciremo a portare i responsabili alla giustizia, ovunque si trovino, Guantanamo, Darfur, o Bosnia, fra i serbi bosniaci. La giustizia prevarrà solo se i responsabili potranno essere portati nei tribunali. Quelle sono le lezioni della storia ed è il motivo per cui io ritengo che queste iniziative della Commissione siano interessanti se, alla fine, ci por- tano a formulare una posizione antitotalitaria comune. Francis Wurtz, a nome del gruppo GUE/NGL — (FR) Signor Presidente, ogni inizia- tiva che contribuisce all’eradicazione del razzismo e della xenofobia, alla promozione dei diritti fondamentali e, a fortiori, alla condanna senza appello dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di genocidio, avrà il nostro sostegno, indi- pendentemente dal periodo o dal luogo di cui trattasi. Questa lotta non può avere alcun tabù, né per quanto riguarda i drammi del passato, né le odierne tragedie in tutto il mondo. Per limitarci alla storia dell’Europa, questo vale naturalmente per il nazismo, e anche per i regimi fascisti di Mussolini, di Pétin, di Franco, di Salazar, così come per

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quello dei colonnelli greci. Noi siano pronti anche a ribadire una condanna radicale dei crimini abominevoli dello stalinismo. Né dobbiamo dimenticare il colonialismo. La nostra intransigenza deve valere alla fine, e ancor più, anche per le manife- stazioni razziste, xenofobe, se non apertamente neofasciste, tollerate tuttora ai nostri giorni ad un altissimo livello in alcuni Stati membri, nuovi o vecchi, dell’Unione euro- pea. Vi è solo una cosa giudicata inaccettabile, non dal nostro gruppo in particolare, ma da coloro che hanno pagato di persona la lotta contro il peggior genocidio della storia contemporanea, ed è il tentativo di minimizzare furtivamente il nazismo, classifican- dolo in una categoria generica che include, in particolare, lo stalinismo e anche i re- gimi in vigore nell’Europa centrale e orientale fino alla caduta del muro di Berlino. Vi invito ad ascoltare a questo proposito tre recenti citazioni, fra le altre, che parlano da sole. Innanzi tutto un estratto da una dichiarazione dell’Unione dei sopravvissuti tede- schi del campo di concentramento di Neuengamme. Cito: (DE) «L’Associazione Neuengamme si è sempre opposta ad equiparare il na- zionalsocialismo allo stalinismo». (FR) Poi, questo commento del Beirat degli ex detenuti di Buchenwald. Cito: «Quelli che vogliono generalizzare distorcono il significato che la barbarie nazista ri- veste nella storia della Germania». Infine, queste parole del Segretario generale del Consiglio centrale degli ebrei di Germania, che denuncia coloro che osano stabilire un paragone fra l’ex RDT e il regime nazista. Cito: «Qualsiasi tentativo di metterli in parallelo è una relativizzazione inau- dita della negazione dei diritti, della deportazione e dello sterminio di massa di milioni di uomini, donne e bambini innocenti durante la dittatura nazista». Vi ringrazio per la meditazione su queste testimonianze. Bernard Wojciechowski, a nome del gruppo IND/DEM — (PL) Signor Presidente, la guerra è una cosa, la distruzione di nazioni e i crimini contro l’umanità un’altra. Nes- suna guerra mira a sterminare la parte sconfitta, e una nazione può essere distrutta anche senza guerra. Spesso un odio irresistibile contro i conquistatori e gli oppressori ha colmato gli animi di coloro che sono trattati ingiustamente — ecco come Annibale e Mitridate vedevano i Romani. Ma questo non è paragonabile ai sentimenti di inimicizia generati negli animi dei criminali del XX secolo. La storia di quel secolo è molto più di una semplice somma di torti subiti da alcune nazioni, Si è aggiunta alla storia del- l’umanità e della disumanità. Kant, il filosofo, aveva formulato il seguente imperativo: agisci come se l’umanità, in qualsiasi forma, sia per te un fine, e non un mero strumento per un fine. L’origine del crimine di genocidio è stata spesso discussa con accanimento. Sarebbe più opportuno chiedersi perché nessuno ha impedito tali crimini al momento giusto. Nelle politiche totalitarie, ogni cosa era pianificata e calcolata. La prima regola era non rivelare nulla prima del tempo, fingere di essere amici fino all’ultimo momento. Lo dico perché oggi gruppi apertamente parafascisti e paracomunisti esistono in molti paesi. Ecco perché le prime due sessioni dell’audizione europea, sulla storia dei crimini totalitaristi, erano così importanti. Dobbiamo parlare con franchezza per definire chia- ramente cosa non può essere, in nessuna circostanza, oggetto del cosiddetto revisioni- smo storico. Il genocidio non è un fenomeno che può essere combattuto da una sola nazione. Deve essere combattuto dalla società di tutto il mondo civilizzato. È uno dei motivi per cui è un compito comune per l’Unione europea.

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Presidenza dell’On. Mauro Mauro, Vicepresidente Slavi Binev (NI) — (BG) Il XX secolo, oltre che dai regimi totalitari del comunismo e del nazismo, è stato caratterizzato da un altro fatto: gli atroci attacchi contro i di- ritti umani delle popolazioni bulgara e armena da parte dell’impero ottomano. Per quasi cinque secoli, sotto il governo dello Stato ottomano, la violenza contro i bulgari ha as- sunto le caratteristiche del genocidio. Una parte considerevole della popolazione bul- gara è stata ridotta in schiavitù, sterminata o forzosamente convertita all’Islam, il che equivale sostanzialmente a una pulizia etnica intenzionale. Un altro fatto innegabile è la deportazione forzata e l’uccisione di oltre un milione e mezzo di armeni da parte delle autorità turche fra il 1915 e il 1917. Tutti questi atti commessi contro i bulgari e gli armeni soddisfano pienamente gli elementi dei crimini definiti negli strumenti del- l’ONU sulla prevenzione e la punizione del genocidio. Il riconoscimento del genocidio contro armeni e bulgari manderebbe un chiaro segnale alla Repubblica turca perché questa si assuma la sua responsabilità e porga le proprie scuse per i cinque secoli di op- pressione contro i bulgari e per i crimini e gli omicidi di massa commessi, e per com- pensare gli eredi dei rifugiati per le sofferenze subite e per le proprietà private loro confiscate che rimangono in territorio turco. Christopher Beazley (PPE-DE) — (FR) Signor Commissario, mi scusi, ma sono stato profondamente scioccato dalla sua introduzione a questo dibattito. Lei ci ha spiegato che la Commissione aveva avuto un dibattito sereno sui crimini contro l’umanità. Ha parlato della complessità del compito e, alla fine, ci ha detto che l’Unione europea non aveva molta competenza in questa materia. La moglie del suo collega estone, Sim Kallas, che lei conosce molto bene, all’età di due mesi è stata deportata da Stalin, in- sieme alla madre e alla nonna. Un altro suo collega, Frattini, che presto ci lascerà, ha detto in risposta al Presidente Landsbergis: «La vostra storia, riferendosi alla sofferenza della Lituania sotto Stalin, la vostra storia è la nostra storia.» Signor Commissario, nella sua risposta forse potrebbe spiegare le cose più in profondità, perché probabilmente sono io ad avere capito male. Credo che sia qui, nel Parlamento e nel Consiglio che si è fatto molto per ricordare i morti dimenticati. Perché noi non parliamo da politici, ci rivolgiamo al pubblico. Vi sono ancora persone, oggi, in Polonia e nei paesi baltici, che hanno perduto i loro genitori, i loro nonni, ma nessuno se ne ricorda. Non credo che un dibattito sulle sofferenze di sei milioni di ebrei possa essere sereno. Allora, la durata e lo stile del dibattito sono molto importanti. E come direbbe il suo collega, la storia del- l’Europa orientale e dell’Europa centrale è la nostra storia. Il problema per noi britan- nici, e per noi francesi, è che eravamo alleati di Stalin alla fine della guerra. Ci sono voluti trent’anni agli inglesi per ammettere che Katyń era un crimine staliniano. Non era stato Hitler ad averlo commesso. Helmut Kuhne (PSE) — (DE) Signor Presidente, noi socialdemocratici siamo stati perseguitati da ogni regime totalitario e autoritario del XX secolo, che fosse da parte dei nazisti o dagli scagnozzi di Stalin, Franco o Mussolini — l’elenco è lungo. Questo è il motivo per cui noi non abbiamo problemi, ma accogliamo positivamente una revi- sione dei crimini commessi sotto lo stalinismo. Possiamo solo compiacercene. Questa re- visione, tuttavia, dovrebbe seguire le regole della metodologia storica e non essere confusa con le norme che regolano i processi nei tribunali penali. Dobbiamo stare at- tenti a non confondere questi aspetti. Non si tratta di contare le vittime o di celebrare

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nuovamente processi di Norimberga; questa volta stiamo processando un’ideologia piut- tosto che criminali individuati. Vi sono, comunque, anche punti ai quali dobbiamo op- porre un chiaro «no» e noi socialdemocratici abbiano ne abbiamo individuati alcuni. Diciamo «no» al tentativo di stabilire un nuovo quadro di interpretazione della storia europea, come è emerso dai discorsi fatti da alcuni membri di quest’Aula alla confe- renza tenutasi il 22 gennaio di quest’anno. Ci opponiamo con forza alla visione che lo sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti è derivato da un concetto di storia svi- luppato dal regime sovietico. Rigettiamo quel punto di vista. E lo rigettiamo ancora più fermamente perché nel 2006 abbiamo scoperto che un altro collega dello stesso spet- tro ideologico aveva inviato un messaggio di posta circolare a tutti i membri di quest’Assemblea nel quale aveva descritto le due divisioni lettoni delle Waffen-SS, e cito, come “parte delle forze tedesche”, sminuendo così il loro ruolo. Ci opponiamo anche a quell’interpretazione, specialmente in relazione alla prima frase. Rigettiamo altresì l’asserzione che l’occidente non ha fatto nulla per portare cambiamenti in quella che allora era la parte dell’Europa comandata dai sovietici. È stata la CSCE a Helsinki che per la prima volta ha dato ai movimenti per i diritti civili in quei paesi lo spazio per respirare, che ha favorito il risultato positivo e felice che noi vediamo oggi, accogliendo i rappresentanti di quei paesi nel nostro Emiciclo. Questi sono punti sui quali insistiamo e continueremo a sostenere. Ģirts Valdis Kristovskis (UEN) — (LV) Signor Presidente, in quest’Aula siamo abi- tuati a parlare di valori comuni, di una storia comune e veritiera, ma talvolta sorgono malintesi. Commissario Barrot, penso che lei abbia affermato a ragione che in Europa è ancora necessario stabilire la verità. Ciò di cui parliamo è la riconciliazione, ma forse non nella misura proposta dall’onorevole Cohn-Bendit. Ringrazio, comunque, il Com- missario Frattini per avere organizzato l’audizione. Ho potuto parteciparvi e anche par- lare in varie occasioni. Penso che la discussione sia stata significativa. Purtroppo, è mancata una dichiarazione chiara, risoluta e mirata per ulteriori azioni. Purtroppo, i rappresentanti russi hanno continuato senza sosta a giustificare i crimini commessi dal comunismo totalitario nei territori occupati dall’URSS. La reazione della Russia non sor- prende, ma cosa farà l’Unione europea? Continuerà ad applicare un duplice standard? Chiederà il riconoscimento dei crimini nazisti nella negazione degli eventi o la loro gros- solana minimizzazione negli Stati membri? Chiederà l’imposizione di condanne deten- tive fino a tre anni? Chiuderà un occhio, nello stesso tempo, sui crimini del regime totalitario dell’URSS? Alcune delle vittime del regime totalitario sovietico sono ancora vive, ma la posizione dell’Unione europea non offre loro alcuna soddisfazione — anzi , ancora peggio, continua a umiliarle. Stiamo parlando di cittadini dell’UE. Il Parlamento Europeo dovrebbe schierarsi contro tale ingiustizia. Purtroppo, vediamo ripetutamente come i presidenti dei gruppi politici decidano di non presentare una risoluzione sulla questione. Non possiamo, quindi, avere un resoconto scritto dei pensieri che stiamo esprimendo oggi. Commissario Barrot, le chiedo di non abbandonare questo obiettivo importante, ma di lottare a favore di una comprensione uniforme e di una storia veri- tiera in nome della riconciliazione. Grazie. László Tőkés (Verts/ALE) — (HU) Signor Presidente, la rivolta contro Ceausescu in Romania è iniziata nella mia chiesa. Ho avuto una dolorosa esperienza di cosa sia real- mente il comunismo ed è quindi con soddisfazione che noto come l’attenzione del-

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l’Unione europea sia incentrata, ancora una volta, sulle azioni criminali dei regimi to- talitari. Per i casi di crimini contro l’umanità commessi nei periodi del nazionalsociali- smo e del comunismo, il mondo applica ancora un duplice standard. Contrariamente a quanto è accaduto per il fascismo, non vi è ancora stato un processo del comunismo. Entrambi i regimi dittatoriali hanno oppresso la libertà, i diritti umani e le chiese. Hanno mutilato le vite delle loro minoranze nazionali. L’enorme portata della tragedia umana e sociale è comune al fascismo e al comunismo. La restituzione politica, storica, umana e morale è appena iniziata e deve essere continuata. Prendiamo l’esempio della Ro- mania e della relazione Tismăneanu. Sono convinto che, per completare il cambiamento di regime iniziato lì nel 1989, devono essere affrontati gli eventi del passato. Una reale integrazione europea dei paesi ex comunisti richiede non solo verità e restituzione, ma anche la condanna della dittatura. Tunne Kelam (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, proprio come il Mar Baltico è di- ventato un mare interno dell’UE nel 2004, così le esperienze storiche dei 10 nuovi Stati membri che hanno sofferto sotto il governo totalitario del comunismo sono diventate un problema paneuropeo. Concordo appieno con l’onorevole Cohn-Bendit: abbiamo bi- sogno di un’interpretazione uniforme o comune della nostra storia comune. Non si tratta di condannare; è una questione di valutazione morale e politica di tutti i crimini. Dob- biamo garantire che tutti i crimini contro l’umanità, tutti gli atti di genocidio e di “clas- sicidio” e tutti i crimini di guerra siano trattati allo stesso modo. La giustizia appartiene a tutti i cittadini dell’Europa senza eccezione alcuna. Al riguardo, sono alquanto deluso della dichiarazione della Commissione, il cui tema principale è che la valutazione del totalitarismo comunista sarà una questione interna per ogni paesi interessato. Temo che ciò provocherà un’intensificazione dei doppi standard, perché chiaramente il na- zismo e il fascismo non sono considerati questioni interne in nessuno degli Stati mem- bri dell’UE. Ogni comparsa di neonazismo e di razzismo è vista come una minaccia diretta ai valori comuni dell’Europa. Cosa dobbiamo fare, allora? Vi sono ancora decine di milioni di vittime viventi dei regimi comunisti e di loro discendenti. Al giorno d’oggi, sono destinati a sentirsi vittime di seconda o terza classe. Il famoso “mai più” non è an- cora garantito per loro. Infine, non si tratta di un problema del passato. L’assenza di una valutazione politica e morale forgia di continuo il nostro presente e distorce il nostro futuro comune. Si potrebbe immaginare il ritorno al potere in Russia del KGB sovietico o una riviviscenza delle forze politiche comuniste in Germania se vi fosse stata una va- lutazione del regime comunista alla fine della guerra fredda? Józef Pinior (PSE) — (PL) Signor Presidente, signor Commissario, vorrei aprire il di- battito di oggi ricordando il leader del partito socialista polacco Kazimierz Pużak — che può essere considerato un simbolo di questo dibattito. Arrestato per la prima volta agli inizi del XX secolo, nel 1911, Pużak, leader del partito socialista polacco, leader del partito socialista clandestino durante la Seconda guerra mondiale nella lotta contro il nazismo, e arrestato di nuoco dal NKVD nel 1945, è morto tragicamente in una prigione stalinista in Polonia il 30 aprile 1950. Per noi socialisti, la democrazia, la lotta per i di- ritti umani e per lo Stato di diritto e i principi della democrazia liberale sono sempre stati le basi della politica. Questa è la nostra eredità nell’Europa di oggi. Nello stesso tempo, signor Commissario, e mi rivolgo a lei in particolare, purtroppo la storia è oggi oggetto di manipolazione, di una forma di crociata, di colonizzazione intrapresa dal

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diritto populista, da movimenti nazionalisti. Questo crea situazioni paradossali: abbiamo il diritto nazionalista che esige la ricerca storica, nuovi tribunali, ma che osteggia nel contempo la Carta dei diritti fondamentali come parte del diritto europeo. Un paradosso incredibile. La democrazia, lo Stato di diritto, la democrazia liberale, ecco le basi del- l’Europa contemporanea. L’unità dell’Europa, la Carta dei diritti fondamentali, lo Stato di diritto prevalente in tutto il mondo, la non accettazione della tortura — questa è la no- stra risposta, che deriva dall’eredità del XX secolo: la lotta per la democrazia, la lotta contro tute le forme di dittatura e contro i regimi totalitari. (Applausi) Dariusz Maciej Grabowski (UEN) — (PL) Signor Presidente, il diritto internazionale prevede la definizione di genocidio, basata sulla Convenzione ONU. Da polacco — cit- tadino di un paese che ha subito il genocidio — credo che questa definizione dovrebbe essere ampliata con due elementi. Dovrebbe sottolineare che, in genere, lo scopo del genocidio è l’eliminazione del sentimento di identità nazionale attraverso lo sterminio delle élite intellettuali e culturali. La Polonia può servire da esempio. Durante la se- conda guerra mondiale, i tedeschi e i russi hanno assassinato in Polonia, prima di tutto, l’intellighenzia, i professori, il clero. Poi, dovrebbe valutare come punire, nell’ambito del diritto internazionale, le menzogne storiche, la falsa propaganda, e il rifiuto di ri- conoscere la colpa sul genocidio. Un esempio è l’atteggiamento della Russia in rela- zione ai crimini staliniani e anche al massacro di Katyń. La Polonia sostiene l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Tuttavia, poiché la storia non dovrebbe dividere, ma unire, riteniamo che l’Ucraina dovrebbe riconoscere i crimini commessi contro i polac- chi e gli ebrei durante la seconda guerra mondiale — quando hanno perso la vita oltre 150 mila persone. L’Unione europea dovrebbe essere un’organizzazione che dia un esempio di lotta senza compromessi contro il genocidio in tutto il mondo. Questo è il motivo per cui, quali politici eletti da nazioni, dovremmo condannare il comunismo come ideologia criminale e sistema criminale. Miguel Angel Martínez Martínez (PSE) — (ES) Signor Presidente, onorevoli colleghi, la memoria storica è essenziale per il processo di costruzione europea. Per portare fe- licemente a termine questo processo, è essenziale comprendere che esso rappresenta il superamento del nazionalismo, del totalitarismo, dell’intolleranza, dell’autocrazia e della guerra, ed è la consacrazione dell’europeismo, della libertà, del rispetto, della democrazia e della pace come valori per la convivenza in Europa. Questo è l’insegna- mento che dobbiamo trasmettere ai nostri giovani: gli eventi del nostro passato e il progresso che comporta il nostro presente, senza nascondere i crimini e gli errori che abbiamo dovuto superare e sottolineando il sacrificio che è costato superarli. La conoscenza della nostra storia sarà l’antidoto per non cadere di nuovo nella stessa trappola. Perché solo con la verità, tutta la verità, possiamo andare avanti. Dovremo de- nunciare con rigore le barbarie del nostro passato e senza cadere in semplificazioni e, an- cora meno, in falsificazioni; senza cadere nella logica manichea della guerra fredda, identificando i buoni con l’occidente e i cattivi con l’Europa orientale. Spiegheremo che ab- biamo avuto democratici e totalitaristi, ma senza nascondere che sia l’Europa orientale sia quella occidentale hanno avuto i loro totalitaristi, gli uni e gli altri altrettanto odiosi e cri- minali. Quale democratico spagnolo, sono solidale con i democratici che sono stati vittime dello stalinismo nei loro paesi, ma chiedo loro solidarietà per quelli che in Spagna hanno su- bito l’oppressione e le sofferenze imposte dalla dittatura del Generale Franco.

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Comprendiamo la tragedia dei nostri eurocompatrioti dell’Est, che sono passati da un totalitarismo all’altro, ma anche loro devono comprendere la nostra tragedia, che ha comportato il mantenimento della stessa forma criminale di dittatura e di oppres- sione del nostro popolo. È solo con la verità, tutta la verità, che possiamo andare avanti. Ricorderemo infine che a Teheran, Jalta e Potsdam, Stalin non era solo; hanno condi- viso le sue decisioni i leader delle potenze occidentali. Ecco perché tutti hanno la loro parte di responsabilità nella divisione dell’Europa e nell’oppressione, repressione e sof- ferenza che molti milioni di europei, vittime di questo e di quel totalitarismo, hanno subito per decenni. È certo che nell’Europa centrale e orientale la responsabilità dello stalinismo è stata molto maggiore, ma è anche vero che, per il mio paese, questa re- sponsabilità è, soprattutto, dei democratici occidentali che hanno accettato, come parte del loro mondo libero, la tirannia franchista stabilita grazie a Hitler e Mussolini e complice dei loro misfatti. Signor Presidente, abbiamo fatto molto insieme come Europa unita, che sarà tanto più forte e offrirà garanzie di libertà e di democrazia quanto più la sua costruzione si basa sulla conoscenza del progresso rappresentato dalla condivi- sione di un progetto che identifica e rigetta il buio del nostro passato per costruire un futuro dedicato ai valori che ci uniscono. Mirosław Mariusz Piotrowski (UEN) — (PL) Vorrei esprimere la mia soddisfazione per lo svolgimento del dibattito di oggi sulle questioni relative ai sanguinosi sistemi to- talitari. È deplorevole che la discussione sia così breve e frettolosa. La rinuncia al con- sueto principio di adottare una risoluzione adeguata spinge alla riflessione. È anche strano che, a vari livelli nell’Unione europea, il nazionalsocialismo tedesco, comune- mente definito nazismo, sia considerato e menzionato prima di qualsiasi altra cosa. Il socialismo internazionale, che è comunismo, rimane nel silenzio. Questi sistemi erano legati, non solo da radici ideologiche comuni, ma anche dalla cooperazione pratica. Il comunismo affonda le sue origini in Rosa Luxemburg, Liebknecht, Marx, Lenin e Stalin, e ha portato alle morti pianificate di decine di milioni di abitanti dell’Europa centro- orientale. Molti crimini sanguinosi, ad esempio il massacro di Katyń, sono argomenti tabù ai nostri giorni, e potrebbero non chiamati con il loro vero nome, ovvero genoci- dio. La costruzione di un’Europa democratica è possibile solo sulla base della verità, compresa la verità sul totalitarismo comunista antiumano. Dobbiamo garantire la me- moria e la giustizia non solo per le vittime di sistemi inumani, ma innanzi tutto per la generazione presente e a quella futura in modo che questa situazione non accada di nuovo. Libor Rouček (PSE) — (CS) Signor Presidente, il XX secolo in Europa è stato il se- colo dei regimi totalitari e autoritari, del nazismo e del fascismo, del comunismo e della sua più terribile diramazione, lo stalinismo, di diverse dittature di destra in Spa- gna, Portogallo, Grecia e altri paesi. L’orrore e i crimini che sono l’eredità di questi re- gimi non devono essere mai dimenticati. Accolgo quindi positivamente questa discussione sul passato. Tuttavia, essa dovrebbe avere luogo sulla base di criteri rigo- rosamente imparziali, obiettivi e scientifici. In nessuna circostanza si dovrebbe abu- sarne per scopi politici. Ma purtroppo, questo spesso accade. Ad esempio, se consideriamo molti dei nuovi Stati membri dell’Unione europea, compreso il mio paese — la Repubblica ceca — vediamo che sono perpetrati continui attacchi su ogni cosa di centro-sinistra, su ogni cosa di sinistra. Politici, giornalisti e cosiddetti storici di de-

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stra, molti dei quali sono stati appartenenti all’ex regime comunista e hanno conse- guito il titolo di dottore o ingegnere da istituti d’istruzione del regime comunista, at- taccano costantemente i partiti socialdemocratici come se fossero una forma di partiti comunisti o post-comunisti, nonostante il fatto che sono stati proprio i socialdemocra- tici, sia in patria che in esilio, ad avere combattuto contro il comunismo per 40 anni. I socialdemocratici cechi sono morti nelle prigioni comuniste; hanno organizzato la prima rivolta anticomunista di tutto l’ex blocco sovietico, a Plzeň, il 1° giugno 1953; sono stati in prima linea nella primavera di Praga; hanno costituito l’opposizione negli anni ‘70 e ‘80. Anch’io sarei dovuto andare in esilio, quando sono stato, fra l’altro, editore della Voce d’America. Eppure, il partito socialdemocratico è costantemente denunciato come partito post-comunista. Signor Commissario, vorrei sapere quindi cosa intende fare la Commissione per garantire che non si approfitti della discussione sul passato per obiettivi politici e ideologici del presente. Justas Vincas Paleckis (PSE) — (LT) Signor Presidente, è essenziale parlare dei cri- mini dei regimi totalitari di Hitler, Stalin e di altri dittatori con franchezza e onestà — iniziando dall’ex Unione sovietica e finendo con la Spagna. Anche i paesi vicini, spe- cialmente la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia dovrebbero offrirsi seriamente di parte- cipare. L’occupazione e l’annessione degli Stati baltici nel 1949 non erano normali, dato che si è cercato di coprirle con la parvenza della liberazione sociale. Questo è stato fa- cilitato dal fatto che — diciamolo — per 14 anni la Lituania era stata sotto un regime autoritario, che aveva annullato la democrazia e abolito le libere elezioni. Un anno fa il Parlamento Europeo ha inaugurato una mostra in cui il Centro lituano di ricerca sul genocidio e la resistenza ha presentato dati terribili. Nei tre anni di occupazione nazi- sta in Lituania, sono state uccise 240.000 persone, fra cui 200.000 ebrei. Nei 47 anni di occupazione sovietica, quasi 80.000 lituani sono stati uccisi dagli enti di repressione, in esilio o nei campi dei lavori forzati. Il dolore incalcolabile e le tragedie dietro questi numeri devono essere rivelati all’Europa. Le azioni e i principi di Stalin e di altri lea- der comunisti che hanno incoraggiato lo sterminio di milioni di persone nel nome della lotta di classe erano criminali. Il movimento comunista è sopravvissuto per 160 anni e ha diverse facce nei diversi paesi; tuttavia, tutti i regimi comunisti sono stati antide- mocratici. Nello stesso tempo, con l’acquisizione di forza da parte dell’eurocomuni- smo, anche la resistenza alla dittatura di Mosca è diventata più forte. Ricordiamoci di nomi quali Imre Nagy e Alexander Dubček, dei tentativi di comunisti di sfuggire al cir- colo vizioso dei dogmi e dei crimini che altri membri del partito comunista cercavano spietatamente di soffocare. Possiamo condannare allo stesso modo tutti i leader del partito comunista dell’Unione sovietica, quali Stalin, Krusciov, Breznev e Gorbačëv? Il sistema dittatoriale monopartitico è stato distrutto non solo dagli sforzi dei dissidenti, e nemmeno dalla pressione dell’occidente, ma soprattutto grazie alle attività dei mem- bri del partito comunista che lottavano per il cambiamento, la democrazia e l’attua- zione dei diritti umani. Dubito che l’UE avrà mai una politica storica comune. Tuttavia, è importante acquisire maggiore conoscenza del passato di ciascun paese in modo da potere apprezzare la democrazia e adottare una visione futura più radiosa. Zita Pleštinská (PPE-DE) — (CS) Oggi è un giorno importante, un giorno di soddi- sfazione morale per tutte le vittime di regimi totalitari. Mio padre, Štefan Kányai, ha passato nove anni e mezzo in un gulag russo. Nel suo libro descrive la triste realtà che

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accompagnava la crudeltà dello stalinismo. È qualcosa che dobbiamo ricordare! Vi rin- grazio a suo nome. Vi ringrazio anche a nome del vescovo Ján Vojtaššák, Monsignor Vik- tor Trstenský, Štefan Putanko, Štefan Janík e di migliaia di altri figli coraggiosi della nazione slovacca che sono stati vittime del comunismo. Il prete slovacco František Dlu- goš scrive quanto segue in uno dei suoi libri: «Indagare sugli eventi che si sono verifi- cati nei 40 anni di regime comunista, scoprire i destini del nostro popolo, significa rivelare l’anima della nazione». Seguendo il dibattito di oggi, posso aggiungere «l’anima dell’Europa». Apprezzo il dibattito che stiamo svolgendo perché l’esame di questo pe- riodo di tempo particolare, e degli eventi che hanno avuto luogo in quel periodo, può rivelarsi molto utile per noi adesso e in futuro. Danutė Budreikaitė (ALDE) — (LT) Signor Presidente, onorevoli colleghi, per la prima volta nella storia dell’UE, grazie ai dibattiti sulla valutazione dei regimi totali- tari a livello di UE, si sta cercando di spingere le persone a ritenere che i crimini com- messi dal comunismo e dal nazismo siano il terrore dei regimi totalitari che hanno provocato danni ai paesi e ai loro popoli. La condanna pubblica dei crimini del comu- nismo, dopo averli equiparati a quelli commessi dai nazisti, avrebbe un impatto posi- tivo sul diritto, sull’istruzione e sulla cultura dell’UE. I crimini commessi dai regimi nazisti europei hanno ricevuto una condanna globale, i partiti nazisti sono stati banditi e la propaganda nazista è stata resa punibile per legge. Nello stesso tempo, i danni causati dai regimi comunisti non sono stati ancora adeguatamente valutati. In alcuni paesi europei, i partiti comunisti sono tuttora legali. La Lituania chiede agli Stati mem- bri dell’UE di preparare relazioni ufficiali sui danni causati dai crimini commessi dai re- gimi totalitari, in particolare dallo stalinismo, e chiede all’erede degli obblighi dell’Unione sovietica — la Federazione russa — di risarcire quei danni. La Lituania ha sti- mato il valore dei danni provocati durante mezzo secolo di occupazione sovietica a 80 miliardi di LTL. L’Europa dovrebbe mostrare la sua solidarietà chiedendo che i respon- sabili dei danni risarciscano gli Stati membri dell’UE, così come è stato imposto ai cri- minali nazisti. Jacques Barrot, Vicepresidente della Commissione − (FR) Signor Presidente, vor- rei ringraziare tutti i parlamentari intervenuti al dibattito in quello che è, chiaramente, un momento critico. Abbiamo ascoltato delle testimonianze particolarmente commo- venti su eventi passati che alcuni di voi hanno vissuto in prima persona. Vorrei dissipare qualsiasi equivoco. Per quanto riguarda l’onorevole Beazley in particolare, credo che vi sia stato un malinteso. Ho pronunciato un discorso che mi era stato preparato, ma devo dire che senza dubbio sono stato frainteso. Ciascuno Stato membro ha le sue respon- sabilità, va detto. Ma anche l’Unione intende assumersi le sue responsabilità. Noi vo- gliamo la verità, tutta la verità, e se la Commissione ha aperto il dibattito — è stato il mio collega Franco Frattini ad aprire il dibattito —, è proprio perché vogliamo andare fino in fondo nella ricerca della verità. Dobbiamo essere molto chiari al riguardo. Vo- gliamo non solo che ciascuno Stato membro possa organizzare individualmente questo compito della memoria, ma anche che tutti i cittadini dell’Unione si sentano solidali e coinvolti dai drammi che hanno colpito alcuni dei nostri Stati membri. E vorrei dire al riguardo, e l’ho detto del resto nella mia dichiarazione di apertura, che ero consape- vole che, in particolare in Occidente, non sempre abbiamo compreso la portata dei drammi atroci che hanno vissuto i nostri amici degli Stati membri che hanno subito di-

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verse forme di occupazione e anche l’occupazione stalinista. Vorrei, quindi, dirvi che, personalmente, sono qui per assicurarvi che la Commissione proseguirà questo dibattito e farà in modo che offra le basi, in particolare, per lo studio che avvieremo per vedere come, in ciascuno degli Stati membri, le legislazioni, le pratiche sono state applicate proprio per ricordare i crimini totalitari. Ovviamente, la dichiarazione del Consiglio non si riferisce in modo specifico ai crimini staliniani, ma parla in generale dei regimi tota- litari. Tuttavia, risulta esplicitamente dal contesto nel quale questa dichiarazione è stata adottata, in particolare negli Stati membri che ne sono all’origine, che la que- stione della memoria dei crimini staliniani è proprio il cuore di questo processo. Credo che questo debba essere detto e io stesso, quando ho aperto il dibattito, ho insistito sul carattere assolutamente inaccettabile di tutte le forme di totalitarismo, dei totalitari- smi che in realtà hanno negato la persona umana e i diritti fondamentali della persona umana. Al riguardo, e alcuni di voi l’hanno sottolineato, la conoscenza delle esperienze di altri tipi di regimi totalitari può essere utile per individuare quali metodi hanno per- messo, esattamente, il verificarsi di questi eccessi e di queste barbarie che voi avete condannato. Credo che questo studio debba essere molto ampio e che non debba esclu- dere nessuna forma di totalitarismo. Né questo dibattito deve dare luogo a una stru- mentalizzazione politica. Certo, la Commissione è consapevole di questo rischio, ma il silenzio dell’Unione europea sul tragico passato di alcuni dei nostri Stati membri non fa- rebbe che aumentare tale rischio e creare una profonda spaccatura fra i nuovi e i vec- chi Stati membri. Ecco perché bisogna avanzare insieme. Pertanto, signor Presidente, vorrei solo chiedere: in fondo, perché tutto questo? Per evitare, in effetti, ogni forma di revisionismo, ogni menzogna storica. In secondo luogo, mantenendo la memoria, dobbiamo anche evitare, impedire il ritorno di questi totalitarismi. E infine, abbiamo un dovere di riconciliazione che è chiaramente associato a questa azione. Ma, insisto, dobbiamo guardare al futuro e alcuni hanno sottolineato la necessità di muoverci verso l’introduzione di un diritto europeo direttamente applicabile per evitare qualsiasi ri- torno a questi totalitarismi. Vorrei anche riassicurarvi, onorevoli deputati, che al di là delle poche parole di risposta, sono totalmente convinto che noi europei, tutti insieme, abbiamo un dovere di solidarietà per stabilire la verità, la nostra verità di europei, senza trascurare, beninteso, né minimizzare i crimini che sono stati commessi dai di- versi totalitarismi. E a questo proposito, credo che i nostri amici dell’Est debbano ap- prezzare, in particolare, il nostro impegno in uno sforzo teso alla ricerca della verità, che non si fermerà finché non sarà trovata. Hans-Gert Pöttering, Presidente — La discussione è chiusa.

Dichiarazioni scritte (articolo 142) Lasse Lehtinen (PSE), per iscritto — (FI) Signor Presidente, il dono più prezioso che riceviamo dal nostro esame della storia sono gli eventi che noi conosciamo — i fatti. Più fatti conosciamo, meglio è. L’interpretazione è sempre un processo separato. Tutti do- vrebbero potere esaminare e interpretare gli eventi che si sono verificati; è un ele- mento della libertà di parola. Raramente la storia politica può essere simmetrica in termini di contenuto, ma lo sforzo deve essere compiuto. Molti settori della storia re- cente sono rimasti inesplorati, grazie in parte alla correttezza politica. La dittatura e

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i dittatori ottengono un trattamento molto speciale. I crimini dei nazisti non meritano comprensione, ma nemmeno il comunismo dovrebbe ricevere alcuno sconto. Marianne Mikko (PSE), per iscritto — (ET) L’8 aprile, nell’audizione pubblica te- nuta dalla Presidenza slovena e dalla Commissione europea, è stato trattato un argo- mento estremamente importante per l’Unione europea. Nel XX secolo, l’Europa ha perso milioni di intellettuali e di cittadini intraprendenti a causa dei regimi totalitari. Le ferite inflitte alla nostra storia non sono ancora guarite a nostri giorni. Il dittatore dell’Unione sovietica, Joseph Stalin, ha cancellato la mia patria e gli altri paesi baltici dalla carta geografica. Per mezzo secolo noi non abbiamo avuto il diritto di avere un inno o una bandiera nazionale e la nostra capitale era Mosca. Lo stalinismo e il nazismo si sono evoluti insieme e hanno diviso l’Europa con una cortina di ferro. La brutalità di Hitler e di Stalin non conosceva confini nazionali. Quale socialdemocratico, condanno la dittatura sotto qualunque aspetto. Sottolineo anche che lo stalinismo e il nazismo sono serviti come esempi diretti per altre ideologie totalitarie. Metaxas, Franco, Mus- solini, Salazar e una serie di dittatori minori hanno commesso crimini propri seguendo la brutalità di Hitler e di Stalin. Le loro azioni sono rimaste nell’ambito dei confini na- zionali, e, per tale motivo, i paesi interessati dovrebbero avere la responsabilità di sta- bilirne il costo reale. La conoscenza e lo studio della storia degli altri è essenziale per permettere ai cittadini dei paesi dell’Europa di iniziare a sviluppare una consapevo- lezza del fatto che sono anche cittadini europei. Abbiamo bisogno di una valutazione, basata su valori condivisi, dei crimini commessi dal partito comunista dell’Unione so- vietica e dal KGB. Fra poco tempo, saranno passati settant’anni dalla conclusione del patto Molotov-Ribbentrop. Le atrocità dell’apparato coercitivo di Stalin non sono con- siderate tuttora alla stregua della macchina da guerra di Hitler. Come primo passo, a nome di un approccio comune alla storia, inviterei i nostri governi a proclamare il 23 agosto Giornata europea della memoria per le vittime dello stalinismo e del nazismo. Katrin Saks (PSE), per iscritto — (ET) Purtroppo è un dato di fatto che, sebbene quasi tutti gli occidentali siano a conoscenza dell’esistenza dei campi di concentra- mento della Germania nazista, la maggior parte di loro non ha sentito nulla dei gulag. Un sondaggio condotto di recente in Svezia fra giovani di 15-20 anni ha mostrato che la loro conoscenza di base del comunismo è molto scarsa, quasi inesistente. Uno studio ha mostrato che il 90 per cento degli svedesi non ha mai sentito parlare dei gulag, men- tre il 95 per cento sapeva cosa fosse Auschwitz. Mio padre, suo malgrado, ha conosciuto entrambi i tipi di campi e quindi non posso accettare l’idea che la sofferenza sotto il regime sovietico possa essere considerata di seconda classe, come se si temesse che parlarne potesse sminuire l’importanza dei crimini del nazismo. Quell’atteggiamento va cambiato. Non è sempre il più facile dei compiti per il gruppo socialista al Parlamento Europeo perché molti dei partiti che lo compongono ha un passato comunista. La sen- sibilizzazione nel gruppo socialista è quindi di importanza ancora maggiore. Ricordo lo svolgimento di dibattiti sulla stessa questione, quando l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, del quale ero membro, ha condannato i crimini del comunismo al- cuni anni fa. In quel momento ero uno di coloro che sono intervenuti e, grazie ovvia- mente al fatto che vi sono numerosi paesi in quell’organizzazione con esperienza del regime sovietico, la condanna è stata raggiunta più rapidamente che nel Parlamento Eu- ropeo. Sono del tutto convinta che se l’Unione europea sposa davvero i suoi valori di-

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chiarati, deve esprimere molto chiaramente il suo atteggiamento verso il passato in termini di quei valori. Non significa riscrivere il passato, come molti critichi hanno so- stenuto. Si tratta di stabilire la verità storica. Andrzej Tomasz Zapałowski (UEN), per iscritto — (PL) Nel XX secolo l’Europa ha subito numerosi atti di genocidio. Di alcuni di essi si parla molto e spesso, mentre altri sono coperti dal silenzio. Nella stampa, leggiamo per lo più dei genocidi nazisti e di quelli comunisti. Un atto di genocidio sul quale sovrasta un silenzio permanente è l’uccisione di centinaia di migliaia di ebrei, polacchi e ucraini nel territorio polacco sotto l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, perpetrata da cit- tadini ucraini appartenenti al cosiddetto esercito insurrezionale ucraino. Parecchi dei quadri di questo esercito erano stati in precedenza alle dipendenze di unità delle SS naziste. Questo genocidio ha avuto il carattere di genocidum atrox, assassinio atroce, commesso con estrema crudeltà. L’intera popolazione che abitava in un territorio specifico è stata annullata. Le vittime sono state uccise e parti dei loro corpi tagliate e depredate. Attualmente, le persone che hanno partecipato a questi omicidi stanno cercando lo status di ex combattente in Ucraina. Desidero sottolineare che niente può giustificare il genocidio, nemmeno il tentativo di ottenere la libertà e la sovra- nità per la propria nazione.

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Il Parlamento Europeo sulla proclamazione del 23 agosto “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo”

Dichiarazione1 del Parlamento Europeo sulla proclamazione del 23 agosto quale “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo”2 Testi approvati. Martedì 23 settembre 2008, Bruxelles Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo P6_TA(2008)0439

Il Parlamento Europeo, — vista la Convenzione delle Nazioni Unite sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, — vista la Convenzione del Consiglio d’Europa per la salvaguardia dei diritti del- l’uomo e delle libertà fondamentali, in particolare l’articolo 1 sull’obbligo di rispet- tare i diritti dell’uomo, l’articolo 2 sul diritto alla vita, l’articolo 3 sul divieto di tortura e l’articolo 4 sul divieto di schiavitù e lavori forzati, — vista la risoluzione n. 1481 (2006) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa sulla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi del to- talitarismo comunista, — visto l’articolo 116 del suo regolamento, A. considerando che, in base ai protocolli segreti del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 tra l’URSS e la Germania, l’Europa veniva divisa in due sfere d’influenza, B. considerando che le deportazioni di massa, le uccisioni e la riduzione in schia- vitù perpetrate nel contesto delle aggressioni commesse dallo stalinismo e dal nazismo rientrano nella categoria dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, C. considerando, che in base al diritto internazionale, i crimini di guerra e i cri- mini contro l’umanità sono imprescrittibili, D. considerando che le conseguenze e il significato del regime e dell’occupazione sovietici per i cittadini degli Stati post-comunisti sono poco noti in Europa, E. considerando l’articolo 3 della decisione n. 1904/2006/CE del Parlamento Eu- ropeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006 che istituisce, per il periodo 2007-2013, il programma Europa per i cittadini (GU L 378 del 27.12.2006, pag. 32.) mirante a pro-

1 La Dichiarazione scritta sulla proclamazione del 23 agosto "Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo" era stata presentata dai deputati Marianne Mikko, Chri- stopher Beazley, Inese Vaidere, Zita Gurmai e Alexander Alvaro (0044/2008 del 7 maggio 2008). 2 Fonte: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P6-TA-2008- 0439&format=XML&language=IT

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muovere la cittadinanza europea attiva invita a sostenere l’azione “Memoria europea attiva”, volta a prevenire il ripetersi dei crimini del nazismo e dello stalinismo, 1. propone di proclamare il 23 agosto “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo”, al fine di preservare la memoria delle vittime delle deportazioni di massa e degli stermini, favorendo al tempo stesso un più forte ra- dicamento della democrazia e un rafforzamento della pace e della stabilità nel conti- nente europeo; 2. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente dichiarazione, con l’indi- cazione dei nomi dei firmatari, ai parlamenti degli Stati membri.

Elenco dei firmatari: Jim Allister, Alexander Alvaro, Jan Andersson, Georgs Andrejevs, Laima Liucija An- drikienė, Emmanouil Angelakas, Roberta Angelilli, Robert Atkins, John Attard-Montalto, Elspeth Attwooll, Inés Ayala Sender, Liam Aylward, Maria Badia i Cutchet, Enrique Barón Crespo, Alessandro Battilocchio, Edit Bauer, Jean Marie Beaupuy, Christopher Beazley, Zsolt László Becsey, Bastiaan Belder, Ivo Belet, Irena Belohorská, Monika Beňová, Rolf Berend, Sergio Berlato, Giovanni Berlinguer, Adam Bielan, Šarūnas Birutis, Sebastian Valentin Bodu, Guy Bono, Mario Borghezio, Josep Borrell Fontelles, Victor Boştinaru, John Bowis, Sharon Bowles, Iles Braghetto, Elmar Brok, Danutė Budreikaitė, Cristian Silviu Buşoi, Philippe Busquin, Simon Busuttil, Jerzy Buzek, Martin Callanan, Mogens Camre, Luis Manuel Capoulas Santos, Marco Cappato, David Casa, Paulo Casaca, Michael Cashman, Françoise Castex, Giuseppe Castiglione, Jean-Marie Cavada, Charlotte Ce- derschiöld, Jorgo Chatzimarkakis, Ole Christensen, Sylwester Chruszcz, Philip Claeys, Luigi Cocilovo, Daniel Cohn-Bendit, Richard Corbett, Dorette Corbey, Titus Corlăţean, Corina Creţu, Brian Crowley, Magor Imre Csibi, Marek Aleksander Czarnecki, Ryszard Czarnecki, Daniel Dăianu, Joseph Daul, Dragoş Florin David, Antonio De Blasio, Arūnas Degutis, Véronique De Keyser, Gérard Deprez, Marie-Hélène Descamps, Nirj Deva, Chri- stine De Veyrac, Mia De Vits, Jolanta Dičkutė, Gintaras Didžiokas, Koenraad Dillen, Ale- xandra Dobolyi, Valdis Dombrovskis, Beniamino Donnici, Bert Doorn, Den Dover, Petr Duchoň, Bárbara Dührkop Dührkop, Andrew Duff, Árpád Duka-Zólyomi, Constantin Du- mitriu, Michl Ebner, Lena Ek, Saïd El Khadraoui, Maria da Assunção Esteves, Edite Estrela, Jonathan Evans, Robert Evans, Göran Färm, Richard Falbr, Carlo Fatuzzo, Sza- bolcs Fazakas, Markus Ferber, Emanuel Jardim Fernandes, Francesco Ferrari, Petru Filip, Hélène Flautre, Alessandro Foglietta, Hanna Foltyn-Kubicka, Nicole Fontaine, Glyn Ford, Ingo Friedrich, Urszula Gacek, Michael Gahler, Kinga Gál, Milan Gaľa, Iratxe García Pérez, Patrick Gaubert, Jas Gawronski, Eugenijus Gentvilas, Georgios Georgiou, Lidia Joanna Geringer de Oedenberg, Adam Gierek, Maciej Marian Giertych, Neena Gill, Béla Glattfelder, Bogdan Golik, Bruno Gollnisch, Ana Maria Gomes, Alfred Gomolka, Donata Gottardi, Genowefa Grabowska, Dariusz Maciej Grabowski, Vasco Graça Moura, Ingeborg Gräßle, Lissy Gröner, Elly de Groen-Kouwenhoven, Françoise Grossetête, Ignasi Guardans Cambó, Ambroise Guellec, Zita Gurmai, Catherine Guy-Quint, Małgorzata Handzlik, Gábor Harangozó, Malcolm Harbour, Marian Harkin, Joel Hasse Ferreira, Satu Hassi, Christopher Heaton-Harris, Gyula Hegyi, Erna Hennicot-Schoepges, Jeanine Hennis-Plas- schaert, Edit Herczog, Jim Higgins, Mary Honeyball, Karsten Friedrich Hoppenstedt, Milan Horáček, Richard Howitt, Ján Hudacký, Stephen Hughes, Alain Hutchinson, Jana

368 poloniaeuropae 2010 n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale

Hybášková, Filiz Hakaeva Hyusmenova, Marie Anne Isler Béguin, Ville Itälä, Lily Jacobs, Anneli Jäätteenmäki, Mieczysław Edmund Janowski, Lívia Járóka, Rumiana Jeleva, Anne E. Jensen, Dan Jørgensen, Romana Jordan Cizelj, Ona Juknevičienė, Jelko Kacin, Filip Kaczmarek, Gisela Kallenbach, Syed Kamall, Othmar Karas, Sajjad Karim, Ioannis Ka- soulides, Piia-Noora Kauppi, Metin Kazak, Tunne Kelam, Glenys Kinnock, Timothy Kir- khope, Dieter-Lebrecht Koch, Eija-Riitta Korhola, Magda Kósáné Kovács, Miloš Koterec, Holger Krahmer, Guntars Krasts, Ģirts Valdis Kristovskis, Aldis Kušķis, Zbigniew Krzy- sztof Kuźmiuk, Joost Lagendijk, André Laignel, Alain Lamassoure, Jean Lambert, Ale- xander Graf Lambsdorff, Vytautas Landsbergis, Carl Lang, Romano Maria La Russa, Vincenzo Lavarra, Henrik Lax, Johannes Lebech, Stéphane Le Foll, Roselyne Lefrançois, Klaus-Heiner Lehne, Lasse Lehtinen, Jörg Leichtfried, Jo Leinen, Fernand Le Rachinel, Katalin Lévai, Janusz Lewandowski, Bogusław Liberadzki, Marcin Libicki, Alain Lipietz, Pia Elda Locatelli, Eleonora Lo Curto, Antonio López-Istúriz White, Andrea Losco, Patrick Louis, Caroline Lucas, Sarah Ludford, Astrid Lulling, Elizabeth Lynne, Marusya Ivanova Lyubcheva, Linda McAvan, Arlene McCarthy, Edward McMillan-Scott, Jamila Madeira, Eugenijus Maldeikis, Toine Manders, Ramona Nicole Mănescu, Vladimír Maňka, Thomas Mann, Marian-Jean Marinescu, David Martin, Miguel Angel Martínez Martínez, Jan Ta- deusz Masiel, Manuel Medina Ortega, Íñigo Méndez de Vigo, Emilio Menéndez del Valle, Rosa Miguélez Ramos, Marianne Mikko, Miroslav Mikolášik, Francisco José Millán Mon, Gay Mitchell, Nickolay Mladenov, Viktória Mohácsi, Claude Moraes, Javier Moreno Sán- chez, Eluned Morgan, Philippe Morillon, Jan Mulder, Cristiana Muscardini, Riitta Myller, Pasqualina Napoletano, Robert Navarro, Cătălin-Ioan Nechifor, Catherine Neris, James Nicholson, null Nicholson of Winterbourne, Rareş-Lucian Niculescu, Lambert van Ni- stelrooij, Vural Öger, Péter Olajos, Jan Olbrycht, Seán Ó Neachtain, Gérard Onesta, Ja- nusz Onyszkiewicz, Ria Oomen-Ruijten, Dumitru Oprea, Josu Ortuondo Larrea, Csaba Őry, Siiri Oviir, Reino Paasilinna, Maria Grazia Pagano, Borut Pahor, Justas Vincas Palec- kis, Vladko Todorov Panayotov, Marco Pannella, Pier Antonio Panzeri, Neil Parish, Ioan Mircea Paşcu, Aldo Patriciello, Béatrice Patrie, Vincent Peillon, Bogdan Pęk, Alojz Pe- terle, Maria Petre, Willi Piecyk, Rihards Pīks, Mirosław Mariusz Piotrowski, Umberto Pi- rilli, Paweł Bartłomiej Piskorski, Gianni Pittella, Francisca Pleguezuelos Aguilar, Zita Pleštinská, Rovana Plumb, Zdzisław Zbigniew Podkański, Samuli Pohjamo, Lydie Polfer, Nicolae Vlad Popa, Bernd Posselt, Christa Prets, Vittorio Prodi, Jacek Protasiewicz, John Purvis, Poul Nyrup Rasmussen, Karin Resetarits, José Ribeiro e Castro, Teresa Riera Ma- durell, Karin Riis-Jørgensen, Maria Robsahm, Bogusław Rogalski, Zuzana Roithová, Da- riusz Rosati, Wojciech Roszkowski, Christian Rovsing, Flaviu Călin Rus, Leopold Józef Rutowicz, Eoin Ryan, Guido Sacconi, Aloyzas Sakalas, Katrin Saks, José Ignacio Sala- franca Sánchez-Neyra, Manuel António dos Santos, Sebastiano Sanzarello, Jacek Sa- ryusz-Wolski, Gilles Savary, Toomas Savi, Christel Schaldemose, Agnes Schierhuber, Carl Schlyter, Olle Schmidt, Pál Schmitt, György Schöpflin, Esko Seppänen, Adrian Severin, Brian Simpson, Kathy Sinnott, Marek Siwiec, Peter Skinner, Csaba Sógor, Bogusław Sonik, María Sornosa Martínez, Bart Staes, Grażyna Staniszewska, Margarita Starkevičiūtė, Peter Šťastný, Petya Stavreva, Dirk Sterckx, Struan Stevenson, Catherine Stihler, Robert Sturdy, Margie Sudre, László Surján, József Szájer, Andrzej Jan Szejna, István Szent- Iványi, Konrad Szymański, Csaba Sándor Tabajdi, Hannu Takkula, Charles Tannock, An- dres Tarand, Salvatore Tatarella, Britta Thomsen, Silvia-Adriana Ţicău, Gary Titley,

poloniaeuropae 2010 369 Il Parlamento Europeo sulla proclamazione del 23 agosto “Giornata europea di commemorazione...

Patrizia Toia, László Tőkés, Ewa Tomaszewska, Witold Tomczak, Jacques Toubon, Ca- therine Trautmann, Helga Trüpel, Vladimir Urutchev, Inese Vaidere, Nikolaos Vakalis, Adina-Ioana Vălean, Frank Vanhecke, Anne Van Lancker, Geoffrey Van Orden, Daniel Va- rela Suanzes-Carpegna, Ari Vatanen, Armando Veneto, Riccardo Ventre, Donato Tom- maso Veraldi, Marcello Vernola, Alejo Vidal-Quadras, Kristian Vigenin, Kyösti Virrankoski, Graham Watson, Henri Weber, Renate Weber, Anders Wijkman, Iuliu Winkler, Janusz Wojciechowski, Corien Wortmann-Kool, Anna Záborská, Zbigniew Zaleski, Iva Zanicchi, Andrzej Tomasz Zapałowski, Dushana Zdravkova, Roberts Zīle, Marian Zlotea, Tadeusz Zwiefka.

Interrogazione n. 18 dell’On. Marianne Mikko (H-0083/09) Oggetto: Dichiarazione sulla proclamazione del 23 agosto quale “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo”3 Discussioni. Giovedì 12 marzo 2009, Strasburgo Allegato (Risposte scritte). Interrogazioni al Consiglio (La Presidenza in carica del Con- siglio dell’Unione europea è la sola responsabile di queste risposte)

(EN) Quest’estate saranno trascorsi settant’anni dal famigerato patto Molotov-Rib- bentrop. Questo patto, stipulato il 23 agosto 1939 tra l’Unione Sovietica e la Germania, divise l’Europa in due sfere d’influenza con la creazione di nuovi protocolli segreti. La dichiarazione 0044/2008, riguardante il ricordo delle vittime che si ebbero a seguito di questo patto, ha ricevuto l’appoggio di 409 deputati al Parlamento europeo apparte- nenti a tutti i gruppi politici. Tale dichiarazione è stata annunciata dal Presidente del Parlamento europeo il 22 settembre ed è stata trasmessa con i nomi dei firmatari ai par- lamenti degli Stati membri. L’influenza che l’occupazione dell’Unione Sovietica ebbe sugli stati postcomunisti è poco nota in Europa. Il 18 settembre 2008 il Parlamento bulgaro ha adottato una risoluzione che pro- clamava il 23 agosto giornata della commemorazione delle vittime del nazismo e del co- munismo. Quali provvedimenti ha adottato la Presidenza per incoraggiare altri Stati membri a commemorare questa triste ricorrenza?

(EN) La presente risposta, elaborata dalla presidenza, che non è di per sé vinco- lante per il Consiglio o i suoi membri, non è stata fornita oralmente durante il Tempo delle interrogazioni al Consiglio della tornata di marzo 2009 del Parlamento europeo svoltasi a Strasburgo. Il Consiglio e la presidenza in carica sono a conoscenza della dichiarazione del Par- lamento europeo che propone la proclamazione del 23 agosto a Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo. Come ricordato dal- l’onorevole deputata, la dichiarazione era rivolta ai parlamenti degli Stati membri. Ad eccezione di quanto riferito dall’onorevole parlamentare a proposito del parlamento

3 Fonte: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20090312&secondRe f=ANN-01&language=IT&detail=H-2009-0083&query=QUESTION

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bulgaro, il Consiglio non è informato sulle eventuali iniziative intraprese dai parlamenti nazionali di altri Stati membri, né ha discusso la questione nel corso dei suoi incontri. La presidenza ceca ha molto a cuore il problema: l’obiettivo di proclamare una Giornata di commemorazione delle vittime del nazismo e del comunismo rientra infatti nel compito, perseguito dalla presidenza, di consolidare a lungo termine la memoria sto- rica europea del totalitarismo. A tal fine, la presidenza sta organizzando in seno al Par- lamento europeo un’audizione pubblica sulla coscienza europea e i crimini del totalitarismo comunista a vent’anni dalla sua caduta, che si terrà a Bruxelles il prossimo 18 marzo. A discutere dell’esperienza totalitaria saranno esperti provenienti dagli Stati membri, nonché esponenti di spicco della presidenza e delle istituzioni comunitarie. Il ventesimo anniversario della caduta della cortina di ferro si riallaccia al motto della presidenza in carica, “l’Europa senza barriere”. La presidenza ha pertanto pre- parato il terreno affinché il tema diventi una delle priorità della comunicazione del- l’Unione europea per il 2009. La presidenza è altresì convinta che il ventesimo anniversario offra l’opportunità non solo di commemorare una pietra miliare nella sto- ria europea, ma anche di educare ai diritti umani, alle libertà fondamentali, allo stato di diritto e ad altri valori fondanti dell’Unione europea, promuovendone la diffusione. La presidenza ceca ambisce a rafforzare la comune memoria storica europea per mantenere vivo il ricordo dell’esperienza totalitaria conclusasi nel 1989, ad esempio po- tenziando l’Azione 4 — Memoria europea attiva del programma “Europa per i cittadini”, intesa a commemorare le vittime del nazismo e dello stalinismo. L’obiettivo di lungo termine è quello di creare una piattaforma comunitaria per la memoria e la coscienza europee, coordinando le attività nazionali esistenti e promuo- vendo gli scambi di informazioni e esperienza, ove possibile con il sostegno dell’Unione. Quest’anno, in cui cadono sia il ventesimo anniversario dalla caduta della cortina di ferro, sia la presidenza ceca dell’Unione europea, costituisce l’occasione ideale per lanciare un’iniziativa di questo tenore. Si tratta tuttavia di un processo di lunga du- rata, che proseguirà ben oltre la presidenza ceca.

Dichiarazioni di voto su “coscienza europea e totalitarismo”4 Discussioni. Giovedì 2 aprile 2009, Bruxelles

Frank Vanhecke (NI) — (NL) Signor Presidente, la proposta di risoluzione comune che abbiamo adottato oggi contiene tanti aspetti degni di essere promossi. Concordo, per esempio, con il fatto che i sacrifici compiuti da molti nella lotta ai regimi totalitari del XXI secolo in Europa non vadano dimenticati. Vorrei nondimeno formulare alcuni com- menti. È deplorevole che non vi sia alcuna menzione degli alleati di tali regimi totalitari che, fino a poco tempo fa, tenevano stretta nella loro morsa l’intera Europa orientale. È vero che i cosiddetti politici di destra hanno profuso un certo impegno, indubbiamente

4 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20090402&secondRef=ITEM -010&language=IT&ring=P6-RC-2009-0165#4-176

poloniaeuropae 2010 371 Il Parlamento Europeo sulla proclamazione del 23 agosto...

prezioso, per chiedere la democratizzazione nell’Europa orientale, ma è ancora più vero che molti politici di sinistra hanno sostenuto attivamente questi regimi comunisti, sebbene oggi si dichiarino candidamente innocenti, anche in questo Parlamento. In secondo luogo, dovremmo avere veramente il coraggio con questa relazione di prendere posizione con- tro le leggi che imbavagliano. È necessario svolgere una ricerca storica, per quanto dif- ficile, con estrema delicatezza e con il dovuto rispetto per le vittime, ma in totale libertà. È un peccato che ci siamo lasciati sfuggire entrambe le opportunità. Siiri Oviir (ALDE) — (ET) Signor Presidente, ho appoggiato l’adozione della risolu- zione, frutto delle collaborazione tra quattro gruppi politici. Il documento è equilibrato e di esso si potrebbe dire “meglio tardi che mai”. In effetti è il massimo che possiamo fare insieme in quest’Aula nel nome della giustizia. Ai nostri nonni e ai nostri genitori dobbiamo un messaggio parlamentare forte, ed è questo ciò che oggi abbiamo prodotto, ma è anche nostro obbligo evitare, usando i fondi a nostra disposizione, che tutto quello di cui abbiamo discusso si ripeta. Verità e memoria svolgono un ruolo importante al ri- guardo. Il nostro dovere è garantire il rispetto dei principi dello Stato di diritto. Daniel Hannan (NI) — (EN) Signor Presidente, questa risoluzione ricorda gli orrori del fascismo e del comunismo sovietico. Nessun europeo, nessun figlio della civiltà oc- cidentale, nessun essere umano civilizzato può dirsi in disaccordo. Tuttavia, la risolu- zione prosegue ponendo l’Unione europea come antidoto alternativo a tale totalitarismo. E leggo: «l’Unione europea ha una responsabilità particolare nel pro- muovere e salvaguardare la democrazia… sia all’interno che all’esterno del suo terri- torio». È qui, onorevoli colleghi, che si commette un errore grossolano. L’Unione europea non sta salvaguardando la democrazia né all’interno né all’esterno del suo ter- ritorio. All’esterno sta facendo affari con la Cuba di Castro e con gli ayatollah di Tehe- ran invocando il diritto di vendere armi alla Cina comunista. A casa dichiara nulli i risultati dei referendum se vanno contro una maggiore integrazione. Ovviamente oc- corre fare attenzione nello stabilire questi paralleli. Nessuno sta dicendo che l’Unione europea è un sistema sovietico che sequestra passaporti, gestisce gulag o mette in scena finti processi. Deve tuttavia preoccuparci non poco un sistema che afferma che l’ideo- logia vigente è troppo importante per essere subordinata al volere delle urne. Bruno Gollnisch (NI) — (FR) Signor Presidente, è una soddisfazione vedere il na- zionalsocialismo posto allo stesso livello del comunismo e incluso in una condanna ge- nerale dei regimi totalitari che hanno insanguinato il XX secolo godendo nondimeno di grande favore presso molti intellettuali, mai stati chiamati a farsi carico delle proprie responsabilità e molti dei quali rimasti tra le fila dei nostri personaggi di maggiore spicco. È una soddisfazione vedere che una serie di emendamenti volti a contaminare il testo sono stati ritirati. Non ritengo però che sia possibile, per esempio, rendere sa- crosanta la storia ufficiale di questo periodo oscuro del nostro passato o condannare le voci dissenzienti. È veramente stupefacente che in Francia la legge Guessot di ispira- zione comunista debba controllare ulteriormente il dibattito storico con la minaccia di pesanti sanzioni penali. Il nostro collega, Jacques Toubon, l’ha definita stalinista quando è stata adottata. Ebbene, il suo amico, il commissario per la giustizia Barrot, propone di estenderla a tutti i paesi dell’Unione che non la prevedono addirittura triplicando le sanzioni e le detenzioni di cui è corredata. Non è certo con metodi totalitari che si può combattere il totalitarismo.

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Katrin Saks (PSE) — (ET) Signor Presidente, penso di dover spiegare perché ho ap- poggiato la risoluzione diversamente da molti altri colleghi della mia fazione politica e, in particolare, perché ho sostenuto la versione che il mio gruppo ha affossato. Non sono d’accordo con l’affermazione retorica secondo cui si tratterebbe di un tentativo di ri- scrivere la storia. Gran parte della storia dell’Europa orientale non è scritta, o perlo- meno pochi la conoscono, e si tratta proprio della parte che riguarda i crimini di matrice comunista. Tanto meno posso sostenere l’approccio secondo cui dovremmo lasciare agli storici il compito di decidere ciò che è accaduto. Credo che sia invece un nostro obbligo morale e sono lieta che oggi la risoluzione sia stata adottata. Syed Kamall (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, la ringrazio per avermi offerto l’opportunità di spiegare il mio voto. La risoluzione contiene due frasi che meritano maggiore attenzione. Nella prima si riconosce che il comunismo e il nazismo hanno un’eredità comune e si invoca un dibattito onesto e approfondito su tutti i crimini to- talitari dello scorso secolo. La seconda frase di rilievo è quella in cui si esorta a un di- battito accademico pubblico paneuropeo sulla natura, la storia e il lascito dei regimi totalitari sulla base di un quadro giuridico internazionale. Mi chiedo se un siffatto di- battito sia realmente necessario. È abbastanza chiaro qual è il nesso tra il socialismo sovietico e il nazionalsocialismo. L’indizio è contenuto nella frase stessa e la risposta è il “socialismo”. Quando i socialisti tentano di vietare a un parlamentare di presiedere la prima sessione del prossimo Parlamento, poco importa quanto spregevoli siano le loro idee, si tratta di un attacco alla libertà di parola. Nel momento in cui il governo socialista britannico si rifiuta di tener fede al suo impegno programmatico di indire un referendum sul trattato di Lisbona, compie un atto di intolleranza. Attenzione che non sia un primo passo verso il totalitarismo. Mario Borghezio (UEN) — (IT) Signor Presidente, il totalitarismo sovietico non ha solo imprigionato le persone. Purtroppo ha imprigionato anche la storia e i suoi docu- menti. Milioni di pagine di storia sono state tenute nascoste negli archivi segreti e tut- tora di Mosca. Treni interi di documenti hanno trasferito milioni di documenti storici, in parte sottratti ai tedeschi ma in gran parte depredati direttamente o, come in Ita- lia, attraverso i partigiani comunisti. Noi vorremmo che la nostra storia potesse essere accessibile. L’Europa deve chiederlo, deve ottenerlo. Documenti non consultabili: per esempio, sull’olocausto dei prigionieri militari italiani, sottoposti a tentativi di lavag- gio del cervello, tenuti senza cibo, molto peggio che nei campi nazisti, morti fra mille sofferenze e sotto le torture, anche psicologiche, degli agit-prop comunisti sovietici ma purtroppo anche comunisti italiani. Ioannis Varvitsiotis (PPE-DE) — (EL) Signor Presidente, il gruppo Nuova Democra- zia, appartenente al PPE-DE, condanna recisamente qualunque forma di totalitarismo e, nel contempo, sottolinea l’importanza di ricordare il passato. Questo è un elemento importante della nostra storia. Riteniamo però che le decisioni maggioritarie del Par- lamento non possano interpretare fatti storici. La valutazione dei fatti storici è infatti compito degli storici e soltanto loro. Per questo abbiamo deciso di astenerci dal voto sulla proposta di risoluzione comune formulata dai quattro gruppi politici, incluso il PPE-DE, sulla coscienza europea e il totalitarismo.

poloniaeuropae 2010 373 Il Parlamento Europeo sulla proclamazione del 23 agosto...

Dichiarazioni di voto scritte5 Adam Bielan (UEN), per iscritto — (PL) Se siamo impegnati nella costruzione del futuro dell’Europa, non possiamo consentire che si ignorino fatti storici o si trascuri la memoria dei momenti tragici della nostra storia. Ricordare le vittime dei crimini con- tro l’umanità dovrebbe essere uno degli elementi fondamentali dell’insegnamento della storia e della formazione della coscienza dei giovani in Europa. Ignorare la storia porta non soltanto alla sua distorsione, ma anche alla creazione di varie pericolose forme di nazionalismo. Vorrei inoltre che la società europea conoscesse meglio gli eroi polacchi come il capitano di cavalleria Witold Pilecki. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che comprendere il passato dell’intera Europa, e non solo della sua parte occidentale, è la chiave per costruire un futuro comune. Koenraad Dillen (NI), per iscritto − (NL) Ho votato a favore di questa risoluzione imparziale che condanna il totalitarismo in ogni sua forma o manifestazione. Il XX se- colo è stato quello in cui abbiamo assistito ai massacri più strazianti della storia. La Ger- mania nazista, la Russia sovietica, la Cambogia, la Cina e il Rwanda ci ricordano la follia assoluta e la crudeltà totale che alcuni sono capaci di infliggere ad altri quando la ti- rannia prevale sulla libertà. Vorrei formulare però una riserva. Mi rifiuto di creare una gerarchia della sofferenza. Ogni caso di sofferenza è unico e merita il nostro rispetto, a prescindere che siano coinvolti ebrei, tutsi, kulaki, prigionieri di guerra russi o preti polacchi. Per questo ho optato per l’astensione nel caso dell’emendamento n. 19. Edite Estrela (PSE), per iscritto — (PT) Ho votato a favore della risoluzione sui re- gimi totalitari. Credo infatti che l’Europa non possa dirsi unita a meno che non riesca a giungere a una visione comune della sua storia e condurre un dibattito onesto e appro- fondito sui crimini commessi da nazismo, stalinismo e dai regimi fascisti e comunisti nello scorso secolo. Ritengo che il processo di integrazione dell’Europa sia stato un successo e ora abbia portato a un’Unione che comprende paesi dell’Europa centrale e orientale, vis- suti sotto regimi comunisti dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni No- vanta, e abbia contributo a garantire la democrazia nell’Europa meridionale, in paesi come Grecia, Spagna e Portogallo, che per un lungo periodo hanno subito regimi fascisti. Glyn Ford (PSE), per iscritto − (EN) Benché sia favorevole alla massima obiettività nell’analisi della storia dell’Europa e per quanto riconosca l’esecrabilità dei crimini com- messi dalla Russia stalinista, temo che la presente risoluzione contenga elementi di un re- visionismo storico che contrastano con la richiesta di un’analisi obiettiva. Non sono disposto paragonare i crimini dei nazisti, l’olocausto e il genocidio che ha mietuto sei mi- lioni di ebrei, insieme ai comunisti, ai sindacalisti e ai disabili morti, a quelli della Rus- sia stalinista. Questo relativismo politico rischia di diluire l’unicità dei crimini nazisti e, così facendo, offre un supporto intellettuale alle ideologie degli odierni neonazisti e neo- fascisti, alcuni dei quali sono con noi, qui, oggi. Hélène Goudin e Nils Lundgren (IND/DEM), per iscritto − (SV) La proposta di riso- luzione presentata dai cinque gruppi più grandi del Parlamento schiude molte importanti prospettive rispetto alla storia europea degli ultimi 100 anni. Gli emendamenti, special-

5 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20090402&secondRef=ITEM -010&language=IT&ring=P6-RC-2009-0165#4-300

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mente quelli formulati dal gruppo UEN, sono anch’essi lodevoli, ma, per ragioni editoriali, non tutto ciò che è stato proposto può essere inserito nel testo della risoluzione. Vi sono molte tragedie e singoli atti di eroismo che meriterebbero di figurare in una risoluzione sulla coscienza europea e il totalitarismo. Purtroppo, non vi è spazio per tutto ed è per questo che siamo stati costretti a votare contro alcuni emendamenti proposti in merito alla risoluzione. Abbiamo però votato a favore della risoluzione nel suo complesso. Pedro Guerreiro (GUE/NGL), per iscritto — (PT) Questa vergognosa risoluzione approvata dal Parlamento rientra nella manovra per distorcere la verità politica intra- presa dai reazionari e da coloro che cercano vendetta: gli sconfitti della seconda guerra mondiale, le stesse persone che nei rispettivi paesi stanno riabilitando chi, per esem- pio, ha collaborato con le barbarie del nazismo. Il fine è mettere in buona luce il neo- fascismo e condannare il comunismo, ossia il tiranno e l’oppressore, condannando vittime e oppressi, allo scopo di cancellare il contributo decisivo dato dai comunisti e dall’Unione sovietica alla sconfitta del nazifascismo, al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, alla liberazione dei popoli dal gioco colonialista, nonché il ruolo svolto contro lo sfruttamento e i conflitti dopo la seconda guerra mondiale. In Porto- gallo, il partito comunista portoghese si è battuto più di chiunque altro per la libertà, la democrazia, la pace, i diritti dell’uomo, condizioni di vita dignitose per il popolo portoghese, la libertà dei popoli colonizzati dal fascismo e gli obiettivi sanciti dalla co- stituzione della Repubblica portoghese, che ormai ha 33 anni. In fondo, l’intento è cri- minalizzare i comunisti, le loro attività e i loro ideali. Tale risoluzione diventa ancora più grave in un momento di crisi acuta del capitalismo che sta facendo della lotta per la pace, la democrazia e il progresso sociale il grande baluardo della nostra epoca. Jens Holm ed Eva-Britt Svensson (GUE/NGL), per iscritto − (EN) Ovviamente ci rammarichiamo per le vittime di tutti i regimi aggressivi e autoritaristici, che si tratti delle atrocità commesse in Europa o, per esempio, nelle ex colonie europee. Ci preoc- cupano però notevolmente tutti gli sforzi diretti e indiretti profusi da politici e parla- menti per cercare di influire sulla percezione generale dei fatti storici. Tale compito dovrebbe essere lasciato alla ricerca accademica indipendente e al dibattito pubblico. Si corre altrimenti il rischio che ogni nuova maggioranza in Parlamento cerchi di cam- biare la storia descrivendo i peggiori nemici della società e la discussione sulla storia europea venga sfruttata a fini propagandistici a breve termine. Alla votazione finale abbiamo dunque scelto l’astensione. Maria Eleni Koppa (PSE), per iscritto — (EL) Il gruppo parlamentare PASOK ha vo- tato contro la proposta di risoluzione perché paragona in maniera inaccettabile il na- zismo al comunismo. Condanniamo le atrocità perpetrate sia dal nazismo sia dallo stalinismo. Ma riteniamo che tale raffronto non aiuti a capire le peculiarità dei due re- gimi totalitari. Erik Meijer (GUE/NGL), per iscritto − (NL) Contrariamente alla raccomandazione del mio partito, che ha giudicato superflua la presente risoluzione sul totalitarismo, ho votato a suo favore. Opto infatti per un distacco netto da ogni tentativo di raggiungere obiettivi politici attraverso la violenza, la detenzione, l’intimidazione o altre forme di oppressione. Il XX secolo è stato il secolo dei grandi movimenti popolari accecati dal- l’idea di essere ai margini della storia. Ogni crimine era giustificato per imporre quello che vedevamo come mondo ideale e proteggerlo per sempre dal cambiamento. Per al-

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cuni questo mondo ideale consisteva nel garantire l’uguaglianza per tutti, nel propen- dere nettamente per l’assistenzialismo statale, nel mettere i mezzi di produzione nelle mani del popolo e nell’abolire i vecchi privilegi di cui godevano i gruppi avvantaggiati. Per altri, si trattava di perpetuare le tradizioni, la disuguaglianza, le posizioni di potere e i privilegi. Possono identificarmi nel primo gruppo, ma non nel secondo. A causa della loro violenza, ambedue i gruppi saranno per sempre deprecati. Nessuno ricorda le loro motivazioni, ma tutti ricordano i loro mezzi. Quell’epoca deve assolutamente restare confinata nel passato. Anche se non concordo con la formulazione di alcuni passaggi, l’odierna risoluzione è fondamentale. Athanasios Pafilis (GUE/NGL), per iscritto — (EL) Nessun parlamento, nessuna maggioranza parlamentare comprendente rappresentanti e servi del sistema capitali- stico barbarico può usare la diffamazione, le menzogne e la falsificazione per spazzare via la storia della rivoluzione sociale, scritta e firmata dal popolo con il sangue. Nes- sun fronte nero anticomunista può cancellare l’enorme contributo offerto dal sociali- smo, i suoi successi senza precedenti e la sua abolizione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. La proposta di risoluzione comune dei gruppi PPE-DE, ALDE, Verts/ALE e UEN, sostenuta anche dal gruppo PSE, paragona, in maniera indescrivibil- mente grossolana, il fascismo al comunismo, i regimi nazifascisti ai regimi socialisti. Con un pietoso quid pro quo, si propone una giornata europea della memoria co- mune per vittime e autori dei crimini. Così facendo, si assolve il fascismo, si diffama il socialismo e si esonera l’imperialismo dai crimini che ha perpetrato e tuttora perpetra. Ideologicamente, si promuove il capitalismo come unico “sistema democratico”. Qua- lunque forza politica che non si schieri, dando così un alibi a questa politica oscuranti- sta, si assume anche la grave responsabilità di questa isteria anticomunista. Il partito comunista greco esorta la classe lavoratrice e ogni progressista a condannare l’antico- munismo e i suoi fautori. Zita Pleštinská (PPE-DE), per iscritto — (SK) Il XX secolo è stato contrassegnato dai crimini dei regimi totalitari nazisti e comunisti, brutalmente inflitti a milioni di innocenti. L’integrazione europea è stata una risposta diretta alla guerra e al terrore causato dai re- gimi totalitari nel continente europeo. Credo fermamente che l’Europa non sarà mai unita se non riesce a elaborare una visione unita della sua storia e ho pertanto votato a favore della risoluzione sulla coscienza europea e il totalitarismo. Dobbiamo riconoscere il co- munismo e il nazismo come un’eredità comune e tenere un dibattito approfondito su tutti i crimini commessi dai regimi totalitari nello scorso secolo. Lo dobbiamo alle generazioni più giovani che non crescono più sotto il gioco di questi regimi e la cui consapevolezza del totalitarismo in tutte le sue forme è diventata preoccupantemente superficiale e inade- guata, anche nei cinque anni trascorsi dall’allarga- mento del 2004. Persino oggi molti non sanno nulla dei regimi che hanno terrorizzato i loro concittadini nell’Europa centrale e orientale per 40 anni dividendoli dall’Europa democratica con la cortina di ferro e il muro di Berlino. Nel 2009 celebriamo il XX anniversario del crollo delle dittature comuniste nell’Europa centrale e orientale e della caduta del muro di Berlino. Ritengo dunque che tutti i governi dell’Unione debbano cogliere l’opportunità per dichiarare il 23 agosto gior- nata europea del ricordo delle vittime dello stalinismo e del nazismo. Questo sarebbe lo spirito di una risoluzione per tutte le vittime dei regimi totalitari e una garanzia forte e inequivocabile che tali vicende non si ripeteranno mai in Europa.

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Luca Romagnoli (NI), per iscritto − (IT) Intendo esprimere il mio voto a favore della proposta di risoluzione su coscienza europea e totalitarismo. Sono fermamente convinto che sia necessario rafforzare la consapevolezza europea dei crimini commessi da regimi totalitari e non democratici, poiché ritengo che non si possa consolidare l’in- tegrazione europea, senza promuovere la conservazione della memoria storica, purché si riconoscano tutti gli aspetti del passato europeo. Approvo, inoltre, la proposta di pro- clamare una “Giornata europea del ricordo” delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari. Peter Skinner (PSE), per iscritto − (EN) Per molti nell’Unione europea e, di fatto, in Europa in senso più ampio, le conseguenze del totalitarismo, con i suoi milioni di morti, rappresentano un punto storico fondamentale che ha contributo a formare molte menti delle successive generazioni, ma per quanti hanno vissuto tale periodo è una pro- fonda cicatrice nello sviluppo europeo. L’estremismo costituisce una minaccia ancora attuale e questi estremisti hanno un amico inconsapevole nelle urne: la letargia. Come politici la consapevolezza del pericolo per le nostre libertà e le nostre stesse vite è un elemento che dobbiamo tutti sforzarci di ricordare alle attuali e future generazioni. Per questo sono in grado di appoggiare la presente proposta di risoluzione. Ioannis Varvitsiotis (PPE-DE), per iscritto — (EL) Condanniamo recisamente qualun- que forma di totalitarismo e, nel contempo, sottolineiamo l’importanza di ricordare il passato. Questo è un elemento importante della nostra storia. Riteniamo però che le de- cisioni maggioritarie del Parlamento non possano interpretare fatti storici. La valutazione dei fatti storici è infatti compito degli storici e soltanto loro. Per questo abbiamo deciso di astenerci dall’odierno voto sulla proposta di risoluzione comune formulata dai quattro gruppi politici, incluso il PPE-DE, sulla coscienza europea e il totalitarismo. Francis Wurtz (GUE/NGL), per iscritto — (FR) In diverse occasioni abbiamo potuto esprimere le nostre posizioni in merito alle reiterate dichiarazioni sul tema di “tutti i re- gimi totalitari”. Il nostro gruppo condanna senza riserve ogni forma di totalitarismo. Esso condanna incondizionatamente lo stalinismo e, nel contempo, si contrappone con forza a qualunque tentativo di banalizzare il nazismo seppellendolo in una condanna dei regimi to- talitari, come avviene, ancora una volta, nella risoluzione comune sottoposta alla nostra at- tenzione. Per questo il nostro gruppo si rifiuta di partecipare al voto sulla risoluzione. Anna Záborská (PPE-DE), per iscritto — (SK) La condanna dei regimi totalitari che hanno adottato le ideologie del nazismo o del comunismo dovrebbe essere soltanto il primo passo verso una condanna assoluta di ogni forma di intolleranza, fanatismo e ignoranza che hanno soffocato e continuano a soffocare diritti e libertà fondamentali di singoli e nazioni. Ogni ideologia che non rispetti la dignità umana e la vita umana me- rita una condanna ed è fondamentalmente inaccettabile. Il nazismo e il comunismo sono ideologie che di fatto hanno tratto ispirazioni da ideologie precedenti, formulate nel XIX secolo e consolidatesi come principi costitu- zionali presso gli Stati europei dell’epoca. Ideologie quali il militarismo, il nazionalismo sciovinista, l’imperialismo, il radicalismo e poi il fascismo sono state per loro natura inu- mane e distruttive e, pertanto, meritano una condanna esplicita, esattamente come le ideologie comparse successivamente sotto forma di comunismo e nazismo. Ci corre in particolare l’obbligo di sottolinearlo nel momento che stiamo vivendo, un’epoca estre- mamente difficile di grande incertezza. Non dobbiamo pertanto consentire che emer-

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gano nuove correnti politiche ispirate da idee antiumane come quelle che erano alla base del nazismo e del comunismo. L’intolleranza può essere combattuta soltanto ri- fiutando compromessi o eccezioni e, pertanto, vorremmo che l’idea di “lotta al totali- tarismo” fosse modificata introducendo il concetto di “lotta contro tutti i regimi totalitari che hanno soffocato la dignità umana, la libertà e l’unicità di ogni individuo”.

Coscienza europea e totalitarismo (votazione)6 Discussioni. Giovedì 2 aprile 2009, Bruxelles

— Prima della votazione sul paragrafo 3: Vytautas Landsbergis (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, vorrei rammentare una nostra risoluzione significativa del 2005 in merito alla fine della seconda guerra mon- diale in Europa, nella quale dichiaravamo che non vi può essere riconciliazione senza verità e memoria. Non vorrei che ora la verità fosse cancellata. Vi prego di acconsen- tire a che il termine “verità” sia inserito: riconciliazione con la verità e la memoria. Vi invito a votare per la verità. (Il Parlamento accoglie l’emendamento orale) — Prima della votazione sul paragrafo 4: Vytautas Landsbergis (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, il testo si riferisce a cri- mini contro l’umanità che hanno avuto luogo “nel non lontano luglio 1995”. Sarebbe me- glio dire che “avevano ancora luogo nel luglio 1995” perché nessuno può essere sicuro che non siano stati commessi siffatti crimini nel 1996. (Esclamazioni in Aula) Sì, di fatto la formulazione sarebbe più sfumata; “hanno avuto luogo nel non lontano” dovrebbe es- sere sostituito con “avevano ancora luogo nel”. (Il Parlamento accoglie l’emendamento orale) — Prima della votazione sul paragrafo 20: Tunne Kelam (PPE-DE) — (EN) Signor Presidente, si tratta di una correzione di lieve entità. Attualmente il testo recita “mentre i paesi dell’Europa centrale hanno vissuto l’esperienza aggiuntiva del comunismo”. Vorrei che l’espressione “paesi dell’Europa centrale” fosse sostituita da “paesi dell’Europa centrale e orientale” perché in qua- lunque altro punto del testo è questa l’espressione impiegata. Vorrei inoltre che l’espressione “hanno vissuto l’esperienza aggiuntiva del comunismo” sia sostituita da “hanno vissuto sia l’esperienza del comunismo che del nazismo” perché nelle nazioni dell’Europa orientale nulla è stato “aggiunto” dal comunismo: la maggior parte di esse è passata per il comunismo e successivamente per il nazismo approdando poi nuova- mente al comunismo. (Il Parlamento accoglie l’emendamento orale)

6 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20090402&secondRef=ITEM -009-20&language=IT&ring=B6-2009-0165

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Risoluzione7 del Parlamento Europeo del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo8 Testi approvati. Giovedì 2 aprile 2009, Bruxelles Coscienza europea e totalitarismo P6_TA(2009)0213

Il Parlamento Europeo, — vista la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, — vista la risoluzione 260 (III) A sul genocidio, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, — visti gli articoli 6 e 7 del trattato sull’Unione europea, — vista la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, — vista la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il di- ritto penale (GU L 328 del 6.12.2008, pag. 55.), — vista la risoluzione 1481 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, del 25 gennaio 2006, relativa alla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti, — vista la sua dichiarazione del 23 settembre 2008 sulla proclamazione del 23 ago- sto quale “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del na- zismo”( Testi approvati, P6_TA(2008)0439.), — viste le sue numerose precedenti risoluzioni sulla democrazia e il rispetto dei di- ritti e delle libertà fondamentali, tra cui la risoluzione del 12 maggio 2005 sul sessan- tesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa, l’8 maggio 1945 (GU C 92 E del 20.4.2006, pag. 392.), la risoluzione del 23 ottobre 2008 sulla comme- morazione dell’Holodomor (Testi approvati, P6_TA(2008)0523.), e quella del 15 gennaio 2009 su Srebrenica (Testi approvati, P6_TA(2009)0028.), — visti i comitati Verità e Giustizia istituiti in varie parti del mondo, che hanno aiu- tato coloro che sono vissuti sotto numerosi ex regimi autoritari e totalitari a superare le loro divergenze e pervenire alla riconciliazione, — viste le dichiarazioni rese dal suo Presidente e dai gruppi politici il 4 luglio 2006, settanta anni dopo il colpo di Stato del Generale Franco in Spagna, — visto l’articolo 103, paragrafo 4, del suo regolamento,

7 Fu il risultato di varie proposte di risoluzione sulla coscienza europea e il totalitarismo, presen- tate da Martin Schulz, Hannes Swoboda, Jan Marinus Wiersma, Helmut Kuhne, Miguel Angel Martí- nez Martínez, Justas Vincas Paleckis, Józef Pinior a nome del gruppo PSE; da Tunne Kelam, Gunnar Hökmark, Jana Hybášková, Bernd Posselt, Charles Tannock, Alejo Vidal-Quadras, Mario Mauro, Struan Stevenson, Bogusław Sonik e József Szájer a nome del gruppo PPE-DE; da Gisela Kallen- bach, László Tőkés e Milan Horáček a nome del gruppo Verts/ALE; da Konrad Szymański, Adam Bie- lan, Hanna Foltyn-Kubicka, Mirosław Mariusz Piotrowski, Zdzisław Zbigniew Podkański, Wojciech Roszkowski, Inese Vaidere, Ģirts Valdis Kristovskis, Roberts Zīle e Ewa Tomaszewska a nome del gruppo UEN; da Annemie Neyts-Uyttebroeck e István Szent-Iványi a nome del gruppo ALDE. 8 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P6-TA-2009- 0213&format=XML&language=IT

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A. considerando che gli storici concordano sul fatto che non sono possibili inter- pretazioni assolutamente oggettive dei fatti storici e che non esistono narrazioni stori- che oggettive; che, tuttavia, gli storici professionisti utilizzano strumenti scientifici per studiare il passato sforzandosi di essere quanto più possibile imparziali, B. considerando che nessun organo o partito politico detiene il monopolio sull’in- terpretazione della storia e che tali organi e partiti non possono proclamarsi oggettivi, C. considerando che le interpretazioni politiche ufficiali dei fatti storici non do- vrebbero essere imposte attraverso decisioni a maggioranza dei parlamenti; che un par- lamento non può legiferare sul passato, D. considerando che un obiettivo fondamentale del processo di integrazione eu- ropea è di assicurare in futuro il rispetto dei diritti fondamentali e dello Stato di diritto e che gli articoli 6 e 7 del trattato sull’Unione europea costituiscono idonei meccani- smi per il conseguimento di questo obiettivo, E. considerando che le interpretazioni distorte della storia possono alimentare po- litiche esclusiviste fomentando quindi l’odio e il razzismo, F. considerando che le memorie del tragico passato dell’Europa devono essere man- tenute vive, in modo da onorare la vittime, condannare i colpevoli e porre le basi di una riconciliazione basata sulla verità e la memoria, G. considerando che in Europa, nel corso del XX secolo, milioni di persone sono state deportate, incarcerate, torturate e assassinate da regimi totalitari e autoritari; che, tuttavia, occorre riconoscere l’unicità dell’Olocausto, H. considerando che l’esperienza storica dominante dell’Europa occidentale è stata il nazismo e che i paesi dell’Europa centrale e orientale hanno vissuto sia l’espe- rienza del comunismo che del nazismo; che occorre promuovere la comprensione del du- plice retaggio dittatoriale di tali paesi, I. considerando che, fin dall’inizio, l’integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato al- l’Olocausto e all’espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell’Eu- ropa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l’integrazione, ponendo fine alle guerre e ga- rantendo la democrazia sul continente, J. considerando che il processo di integrazione europea ha avuto successo e ha creato a un’Unione europea comprendente paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno vissuto sotto regimi comunisti dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni ‘90, e considerando che le precedenti adesioni di Grecia, Spagna e Portogallo, paesi oppressi per lungo tempo da regimi fascisti, hanno contribuito a garantire la de- mocrazia nel Sud dell’Europa, K. considerando che l’Europa non sarà unita fino a quando non sarà in grado di creare una visione comune della propria storia, non riconoscerà il nazismo, lo stalini- smo e i regimi fascisti e comunisti come retaggio comune e non avvierà un dibattito one- sto e approfondito sui crimini da essi perpetrati nel secolo scorso, L. considerando che nel 2009 un’Europa riunificata celebrerà il 20° anniversario del crollo delle dittature comuniste nell’Europa centrale e orientale e della caduta del muro di Berlino, il che dovrebbe essere l’occasione sia per una maggiore consapevolezza del passato e il riconoscimento del ruolo delle iniziative civiche democratiche, sia per

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un impulso a rafforzare il senso di solidarietà e di coesione, M. considerando che è altresì importante ricordare coloro che si sono attivamente opposti al giogo totalitario e che dovrebbero trovare il loro posto nella coscienza degli europei come eroi dell’epoca totalitaria per la loro dedizione, la fedeltà agli ideali, l’onore e il coraggio, N. considerando che nell’ottica delle vittime è ininfluente quale regime li abbia privati della libertà oppure torturati o uccisi per un pretesto qualsiasi, 1. esprime rispetto per tutte le vittime dei regimi totalitari e antidemocratici del- l’Europa e rende omaggio a coloro i quali hanno combattuto contro la tirannia e l’op- pressione; 2. rinnova il suo impegno a favore di un’Europa pacifica e prospera, fondata sui va- lori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani; 3. sottolinea l’importanza di mantenere vive le memorie del passato, perché non può esservi riconciliazione senza verità e memoria; riconferma la sua posizione una- nime contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia; 4. ricorda che i più recenti atti di genocidio e crimini contro l’umanità in Europa avevano ancora luogo nel luglio 1995 e che è necessaria una vigilanza costante per com- battere idee e tendenze non democratiche, xenofobe, autoritarie e totalitarie; 5. sottolinea che, per rafforzare la consapevolezza europea dei crimini commessi dai regimi totalitari e non democratici, occorre promuovere delle documentazioni e dei resoconti che testimonino del tragico passato europeo, in quanto non può esserci ri- conciliazione senza memoria; 6. deplora che, vent’anni dopo il crollo delle dittature comuniste nell’Europa cen- trale e orientale, in alcuni Stati membri sia ancora indebitamente limitato l’accesso a documenti di importanza personale o necessari per la ricerca scientifica; chiede che in tutti gli Stati membri si compia un autentico sforzo per l’apertura completa degli ar- chivi, compresi quelli degli ex servizi di sicurezza interni, della polizia segreta e delle agenzie di intelligence; ma che si adottino anche provvedimenti volti a garantire che tale processo non sia strumentalizzato a fini politici; 7. condanna fermamente e inequivocabilmente tutti i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani commesse da tutti i regimi comunisti totalitari e autoritari; esprime simpatia e comprensione nei confronti delle vittime di tali reati e delle loro famiglie, riconoscendone le sofferenze; 8. dichiara che l’integrazione europea, in quanto modello di pace e di riconcilia- zione, rappresenta una libera scelta dei popoli europei a impegnarsi per un futuro co- mune, e che l’Unione europea ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, sia al- l’interno che all’esterno del suo territorio; 9. invita la Commissione e gli Stati membri a impegnarsi ulteriormente per raffor- zare l’insegnamento della storia europea ed evidenziare la conquista storica dell’inte- grazione europea e il forte contrasto tra il tragico passato e l’ordine sociale pacifico e democratico che caratterizza oggi l’Unione europea; 10. è convinto che un’opportuna conservazione della memoria storica, una rivalu- tazione globale della storia europea e il riconoscimento a livello europeo di tutti gli

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aspetti storici dell’Europa moderna rafforzeranno l’integrazione europea; 11. invita in tale contesto il Consiglio e la Commissione a sostenere e difendere le attività delle organizzazioni non governative quali “Memorial” nella Federazione russa, attivamente impegnate nella ricerca e raccolta di documenti relativi ai crimini com- messi durante il periodo stalinista; 12. ribadisce il suo vivo sostegno a una giustizia internazionale rafforzata; 13. chiede l’istituzione di una piattaforma della memoria e della coscienza euro- pee, per sostenere la creazione di reti e cooperazione tra istituti di ricerca nazionali specializzati in storia dei regimi totalitari, nonché di un centro/memoriale paneuropeo di documentazione per le vittime di tutti i regimi totalitari; 14. chiede il rafforzamento degli attuali strumenti finanziari pertinenti, al fine di sostenere la ricerca storico-scientifica sulle questioni sopra delineate; 15. chiede che il 23 agosto sia proclamata “Giornata europea di commemorazione” delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari, da ricordare con dignità e imparzialità; 16. è convinto che l’obiettivo finale della divulgazione e della valutazione dei cri- mini commessi dai regimi comunisti totalitari sia la riconciliazione che può essere rag- giunta attraverso l’ammissione di responsabilità, la richiesta di perdono e il rafforzamento di una rinascita morale; 17. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai parlamenti degli Stati membri, ai governi e parlamenti dei paesi candidati, ai governi e parlamenti dei paesi associati all’Unione europea nonché ai go- verni e parlamenti dei membri del Consiglio d’Europa.

Il Parlamento Europeo condanna tutti i totalitarismi9 Comunicati stampa. 2 aprile 2009

Nel condannare i crimini commessi da tutti regimi totalitari, il Parlamento sotto- linea il successo dell’integrazione europea e l’esigenza di evidenziarne le conquiste, anche con una visione comune della Storia. Chiedendo di mantenere vive le memorie del passato, senza però imporre un’interpretazione politica dei fatti, sollecita l’aper- tura completa degli archivi segreti, specie in Russia. Auspica poi la proclamazione di una “Giornata europea del ricordo” delle vittime del totalitarismo. Adottando con 553 voti favorevoli, 44 contrari e 33 astensioni una risoluzione so- stenuta da PPE/DE, ALDE, UEN e Vedi /ALE, il Parlamento esprime anzitutto il proprio «rispetto per tutte le vittime dei regimi totalitari e antidemocratici dell’Europa e rende omaggio a coloro i quali hanno combattuto contro la tirannia e l’oppressione». Inoltre, riconfermando «la sua posizione unanime contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia», «condanna fermamente e inequivocabilmente tutti i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani commesse da tutti i regimi

9 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=IM- PRESS&reference=20090401IPR53245&format=XML&language=IT

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totalitari e autoritari». Rilevando «l’unicità dell’Olocausto», osserva infatti che, in Eu- ropa, nel corso del XX secolo, «milioni di persone sono state deportate, incarcerate, tor- turate e assassinate da regimi totalitari e autoritari». Rileva poi che l’Unione europea «ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, sia all’interno che all’esterno del suo territorio». In proposito, il Parlamento osserva che, fin dall’inizio, l’integrazione europea «è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazi- sta, che ha comportato l’Olocausto, e all’espansione dei regimi comunisti totalitari e non democratici nell’Europa centrale e orientale». D’altra parte, il processo di inte- grazione europea ha avuto successo e «ha ormai portato a un’Unione europea com- prendente paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno vissuto sotto regimi comunisti dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni ‘90», mentre le pre- cedenti adesioni di Grecia, Spagna e Portogallo, hanno contribuito a garantire la de- mocrazia nel Sud dell’Europa. Un emendamento del PSE approvato a larga maggioranza dall’Aula precisa che questi tre paesi sono stati «oppressi per lungo tempo da regimi fa- scisti». Il Parlamento invita quindi la Commissione e gli Stati membri a impegnarsi ulte- riormente per rafforzare l’insegnamento della storia europea ed «evidenziare la con- quista storica dell’integrazione europea e il forte contrasto tra il tragico passato e l’ordine sociale pacifico e democratico che caratterizza oggi l’Unione europea». Anche perché «l’Europa non sarà unita fino a quando non sarà in grado di conseguire una vi- sione comune della propria storia, non riconoscerà il nazismo, lo stalinismo e i regimi fascisti e comunisti come retaggio comune e non avvierà un dibattito onesto e appro- fondito sui i crimini da essi perpetrati nel secolo scorso». In tale contesto, il Parlamento si dice inoltre convinto che «un’opportuna conser- vazione della memoria storica, una rivalutazione globale della storia europea e il rico- noscimento a livello europeo di tutti gli aspetti storici dell’Europa moderna rafforzeranno l’integrazione europea». Sottolinea quindi l’importanza di mantenere vive le memorie del passato, «perché non può esservi riconciliazione senza verità me- moria», e di rafforzare la consapevolezza europea dei crimini commessi dai regimi to- talitari e non democratici promuovendo una documentazione e resoconti che testimonino del «tragico passato europeo». Osservando che «nessun organo o partito politico detiene il monopolio sull’inter- pretazione della storia e che tali organi e partiti non possono proclamare di essere og- gettivi», il Parlamento nota che «le interpretazioni politiche ufficiali dei fatti storici non dovrebbero essere imposte attraverso decisioni a maggioranza dei parlamenti e che un parlamento non può legiferare sul passato». D’altra parte rileva che «le interpretazioni distorte della storia possono alimentare politiche esclusiviste fomentando quindi l’odio e il razzismo». Al riguardo, il Parlamento deplora che, vent’anni dopo il crollo delle dittature co- muniste nell’Europa centrale e orientale, «in alcuni Stati membri sia ancora indebita- mente limitato l’accesso a documenti di importanza personale o necessari per la ricerca scientifica». Chiede quindi «un autentico sforzo per l’apertura completa degli archivi», compresi quelli degli ex servizi di sicurezza interni, della polizia segreta e delle agen-

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zie di intelligence, adottando al contempo provvedimenti volti a garantire che tale pro- cesso «non sia strumentalizzato a fini politici». Si dice infatti convinto che l’obiettivo finale della divulgazione e della valutazione dei crimini commessi dai regimi comunisti totalitari sia la riconciliazione, «che può essere raggiunta attraverso l’ammissione di re- sponsabilità, la richiesta di perdono e il rafforzamento della rinascita morale». Invita inoltre il Consiglio e la Commissione a sostenere le attività di ONG come “Memorial” nella Federazione russa, attivamente impegnate nella ricerca e raccolta di documenti relativi ai crimini commessi durante il periodo stalinista. Il Parlamento chiede inoltre l’istituzione di «una piattaforma della memoria e della coscienza europee» e di un centro/memoriale paneuropeo di documentazione per le vit- time di tutti i regimi totalitari. Rileva anche l’importanza di ricordare coloro che si sono attivamente opposti allo Stato totalitario e che «dovrebbero essere scolpiti nella coscienza degli europei come eroi dell’epoca totalitaria, per la loro dedizione, la fe- deltà agli ideali, l’onore e il coraggio». Auspicando il rafforzamento degli attuali stru- menti finanziari pertinenti, al fine di sostenere la ricerca storico-scientifica sulle questioni sopra delineate, chiede che il 23 agosto sia proclamata “Giornata europea del ricordo” delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari, «da commemorare con dignità e imparzialità». L’Aula ha infine respinto un altro emendamento dell’UEN che invitava la Commis- sione e il Consiglio ad estendere il campo di applicazione della decisione quadro sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia, ai crimini commessi da tutti i regimi totalitari, «poiché attualmente esso si limita ai reati commessi dal re- gime nazista», con lo scopo di applicare criteri simili ai crimini commessi da entrambi i principali regimi totalitari e riservare un trattamento analogo all’apologia, alla nega- zione o alla minimizzazione grossolana di tali crimini. Ha anche bocciato la proposta dello stesso gruppo che invitava il Consiglio e la Commissione a compiere i passi ne- cessari per introdurre l’opportuna denominazione dei campi di concentramento e di sterminio tedeschi e sovietici «al fine di evitare che la colpa del genocidio sia addos- sata alle vittime anziché ai perpetratori».

Risoluzione su coscienza europea e totalitarismo Procedura: Risoluzione comune Dibattito: 25 aprile 2009 Votazione: 25 aprile 2009

Un giorno per ricordare le vittime dei regimi di Hitler e Stalin10 3 luglio 2009 RIF.: 20080929STO38339

Tra le atrocità della storia, impossibile dimenticare il patto di non belligeranza

10 Fonte: www.europarl.europa.eu/pdfs/news/public/story/20080929STO38339/20080929STO38339_it.pdf

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siglato nell’agosto 1939 tra la Germania nazista e la Russia sovietica. Questo accordo ha portato per anni il terrore nei territori spartiti tra le due dittature. Il Parlamento Eu- ropeo ha scelto proprio questa data, il 23 agosto, per ricordare le vittime dello stalini- smo e del nazismo. L’anno prossimo cadrà il 70esimo anniversario del patto di non aggressione stretto da Hitler e Stalin. Gli eurodeputati sono d’accordo che «una comune comprensione del passato è necessaria per costruire un futuro insieme». Il patto di non belligeranza tra URSS e Germania fu uno shock per tutto il mondo. Acerrimi nemici da sempre, Hitler e Stalin siglarono questo accordo per spartirsi buona parte dell’Europa. L’accordo dava segretamente via libera all’Unione Sovietica in Fin- landia, Estonia, Lettonia, Lituania e parte di Polonia e Romania, mentre la Germania po- teva allungare le mani sul resto della Polonia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Jugoslavia e Grecia. Insomma si trattava di un patto di pura ag- gressione che avrebbe comportato invasioni, terrore e occupazioni. Il Parlamento Europeo ha appoggiato la proposta di istituire il giorno della memo- ria presentata da oltre la metà degli eurodeputati. Sarà chiamata ufficialmente la “Giornata europea della memoria delle vittime dello Stalinismo e del nazismo”.

«Liberi dai nazisti, occupati dai russi» Il conservatore britannico Christopher Beazley è soddisfatto per la collaborazione fra tutti i partiti di tutti i Paesi europei, che ha portato alla stesura del testo: «È si- gnificativo come la schiacciante maggioranza degli eurodeputati, senza distinzione di gruppo politico o nazionalità, abbia supportato questa dichiarazione». Il lettone Inese Vaidere del gruppo dell’Europa delle Nazioni, è convinto che que- sta dichiarazione sia molto importante visto il diverso apporto dei vari Paesi: «Siamo stati liberati dall’occupazione nazista ma subito invasi dai russi. Per colpa della Cor- tina di ferro, ad Ovest non si sapeva molto sul livello di repressione, sulle deportazioni e le uccisioni che dovevamo subire. Solo una comune comprensione del passato per- metterà di costruire un futuro insieme». Alexander Alvaro dei liberali, è convinto che ci sia un intento unificatore nel ce- lebrare il 23 agosto: «Scegliere questo giorno come la giornata europea della memoria ci consente di non dimenticare i crimini del passato ed assicura che simili orrori non si ripeteranno mai più. La guarigione dell’Europa adesso può iniziare e i popoli vicini possono finalmente riunirsi».

70esimo anniversario I sostenitori del giorno della memoria sono sicuri che questa data sia importante ancora oggi. La socialista ungherese Zita Gurmai, ha affermato che «oggi che le forze di estrema destra stanno diventando più forti, è ancora più importante ricordare le vittime di ieri, in modo che l’Europa continui ad essere un continente di pace e stabilità anche in futuro». La deputata ha poi ricordato che questa giornata era già stata celebrata nei Paesi baltici il 23 agosto 1989, quando circa 2 milioni di persone si sono prese per mano formando una ca- tena di oltre 600 chilometri che ha attraversato tre Paesi baltici per attirare l’attenzione del mondo al 50esimo anniversario dell’accordo di non belligeranza tra Hitler e Stalin.

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Secondo la socialista estone Marianne Mikko, gli eurodeputati «devono reagire a questo evento politico, quando due uomini, o meglio due diavoli, Hitler e Stalin, hanno deciso il futuro dell’Europa per mezzo secolo».

Come ricordare questo giorno? I deputati sono sicuri che questa data va ricordata in qualche modo, anche se cre- dono che ogni Stato dovrebbe decidere come. Sperano soprattutto che i media nazio- nali non si lascino sfuggire l’occasione di raccontare questo evento.

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Seconda guerra mondiale e cinema documentario: alcune memorie della riva sud del Mediterraneo

di Simone Sibilio

Il trauma della seconda guerra mondiale è stato ampiamente narrato, documen- tato, rappresentato, rielaborato nella produzione culturale ed artistica della seconda metà del Novecento. Il cinema sia di fiction che documentario ha ricoperto un ruolo pri- vilegiato nella rappresentazione, fissazione e ri-articolazione di memorie dolenti, con- troverse, relative alla narrazione di un evento spartiacque nella storia contemporanea mondiale. Tant’è vero che per raccontare la guerra anche in ambito didattico si fa sem- pre più spesso ricorso all’immagine a supporto di testi, di documenti d’archivio e di studi teorici. La visione di film storici può senz’altro contribuire a colmare alcuni vuoti storiografici e a integrare le proprie conoscenze su eventi del passato, rivelando mec- canismi o dettagli cruciali per afferrarne le dinamiche. Allo stesso modo può essere funzionale a una ricognizione su e a una rilettura critica di eventi appresi in una pro- spettiva unilaterale. Formidabile medium rivoluzionario, il cinema permea la sfera pub- blica e privata della nostra vita, e può condurci su un terreno scomodo, quello della manipolazione della storia o della contesa tra memorie in contrapposizione. Il cinema, in quanto «mediatore» della memoria culturale, per richiamarsi alla studiosa tedesca Aleida Assmann, nel mondo contemporaneo ha goduto di un’atten- zione da parte di critici e studiosi sempre maggiore. Basti pensare alla potenziale risorsa che costituiscono i film per alcuni gruppi o collettività. Essi rappresentano un mezzo di trasmissione della memoria collettiva, lo strumento attraverso il quale le società ri- cordano. Nelle realtà subalterne o postcoloniali, ad esempio, vari studiosi hanno os- servato che il cinema può essere considerato alla stregua di un archivio della memoria, un deposito di informazioni, dati, narrazioni che non hanno avuto accesso, spazio e voce nelle storiografie dominanti, e che oggi reclamano ascolto. In questo articolo, fa- cendo leva su tale assunto, intendo mettere in luce, attraverso alcuni esempi di docu- mentari storici, come il mondo arabo ha percepito e percepisce un evento fondamentale qual è la seconda guerra mondiale. Rimanendo lungo il binario della percezione, occorre subito fare una precisazione di ordine storiografico. La seconda guerra mondiale rappresenta una tappa cruciale della storia contemporanea del mondo occidentale. Tuttavia, nel momento in cui dalla seconda decade degli anni Quaranta in Europa si iniziava a progettare un nuovo futuro, nel mondo arabo s’inaugurava una fase storica gravida di profondi turbamenti, i cui ri- flessi ancora si avvertono. Molti studiosi e storici dell’area sono concordi nel sostenere che, più che la seconda guerra mondiale, sono state le sue ripercussioni, le sue conse- guenze ad aver rappresentato uno snodo cruciale nella storia contemporanea del mondo arabo. È dunque doveroso individuare il 1948 come data cruciale per una periodizza- zione storica coerente, la data in cui si compie la fondazione dello Stato di Israele. A questo turning point, vanno affiancate altre date rilevanti. Quelle, cioè, che se-

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gnano il conseguimento dell’indipendenza nazionale dei singoli paesi arabi che si affran- cano dalla dominazione coloniale, durante e immediatamente dopo il conflitto mondiale. Il processo di decolonizzazione che prende avvio in gran parte dei paesi arabi pro- prio in quegli anni è un momento fondante nella storia contemporanea vista con occhi arabi. Il momento in cui si costruiscono nuove identità “nazionali” e, soprattutto, si ri- definiscono i rapporti di forza con le potenze dominanti. Occorre ricordare brevemente che ad eccezione dell’Egitto e dell’Iraq — paesi che ottengono l’indipendenza formale già negli anni Venti e Trenta — il Libano e la Siria celebrano l’indipendenza rispettiva- mente nel 1943 e nel 1946. Il 1948, come ricordato, è per i palestinesi l’anno della nakba, la “catastrofe” dovuta alla creazione sulla loro terra dello Stato di Israele. Nel 1950 la Giordania diventa regno autonomo hascemita. Poi proclamano la loro indipen- denza la Libia nel 1951; il Marocco, la Tunisia e il Sudan nel 1956; infine l’Algeria nel 1962, dopo 131 anni di dominazione coloniale francese.

Quali sono le immagini della seconda guerra mondiale che provengono dalle sponde meridionali del Mediterraneo? Di quali testimonianze audiovisive possiamo disporre in proposito? Da un punto di vista cinematografico, in Occidente dobbiamo fare i conti con una visione piuttosto stereotipata del mondo arabo negli anni della guerra. È ampia la pro- duzione cinematografica occidentale su fasi, vicende, aspetti e scenari del grande con- flitto che hanno luogo anche nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ma, di contro, abbiamo a disposizione solo un numero esiguo di testimonianze audiovisive o di film di fiction sul conflitto girate dagli arabi e sugli arabi. Naturalmente questo dato è legato allo sviluppo del cinema che si affermerà nel mondo culturale e artistico arabo più tardi. Durante la dominazione coloniale le potenze occidentali producevano immagini delle colonie destinate alle loro comunità ivi residenti. E ad eccezione del Cairo dove l’industria cinematografica era già in espansione, nel mondo arabo in quegli anni la set- tima arte era pressoché sconosciuta, quando non percepita come privilegio degli occu- panti e/o guardata con sospetto dai ceti più tradizionalisti. La nostra percezione del mondo arabo negli anni della seconda guerra mondiale resta dunque limitata alla produzione documentaristica coloniale o alle rappresenta- zioni che ne fanno alcuni grandi classici del cinema mondiale — come Casablanca di Mi- chale Curtiz (1942), Sahara di Zoltan Korda (1943) o Rommel, la volpe del deserto di Henry Hathaway (1951), solo per citarne alcuni, i più datati. Scontato ma doveroso pre- cisare che la gran parte di quei film ambientati nelle colonie o nei paesi in via di de- colonizzazione presenta una prospettiva eurocentrica: l’obiettivo era narrare l’esperienza del conflitto così come era vissuta dalle potenze occidentali in quelle aree. Sono film che focalizzano su vicende ed episodi rilevanti per la storia scritta—da—Noi di quel periodo. Una storia significativa per lo sguardo di Noi—protagonisti—nel—bene— e—nel—male e per la costruzione o affermazione della nostra identità storico-culturale di europei. L’Africa settentrionale e il Medio Oriente vengono perlopiù ridotti a scena- rio dove prendono forma e si dispiegano le “nostre” storie. Ma la (nostra) memoria dominante di quella deflagrazione epocale può facilmente scontrarsi con modalità differenti del ricordare, con memorie di popolazioni o gruppi al-

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lora “minori” che oggi non solo rivendicano un proprio alveo di visibilità, ma attribui- scono significati completamente diversi a quella che consideriamo essere una “nostra” data, una “nostra” battaglia, una “nostra” dichiarazione o un “nostro” luogo. Negli ultimi decenni — sulla spinta delle teorie decostruzioniste, con l’affermarsi del discorso po- stcoloniale, con il successo degli studi imagologici e con la legittimazione sul piano sto- riografico dell’importanza delle memorie orali — si sono, in sostanza, notevolmente dilatati gli spazi per le narrazioni di soggetti già subalterni o ancora minoritari, spazi dove si cerca di valorizzare gli sguardi di culture altrimenti ridotte a stereotipo o denigrate come inferiori. E ciò senza tralasciare di distinguere, in questo confuso scontrarsi di nuove e vecchie memorie concorrenti, delle memorie “assolute”, “universali”, che trascendono ogni tipo di possibile contesa, rivendicazione o contro-narrazione. Mi riferisco principal- mente al dramma della Shoah, che è la memoria traumatica di uno specifico gruppo di europei che gli europei stessi hanno sterminato e quasi annientato. Una memoria diven- tata oggi patrimonio di tutta l’umanità. Un dramma — quello della seconda guerra mon- diale con, in particolare, la distruzione degli ebrei europei — che sempre più è il basamento sul quale si innalza la costruzione europea, il mito fondante, in negativo, del processo di unificazione di milioni di europei. Un mito ampiamente narrato e documen- tato nella produzione cinematografica mondiale della seconda metà del Novecento. A spodestare la storia ufficiale del suo potere assoluto, narrando di storie o di vi- cende di solito tenute all’oscuro dalle pagine della storia “ufficiale”, contribuisce non poco — appunto — il cinema documentario. Uno strumento talvolta capace più dei libri di offrire occasioni stimolanti per rivedere (nel senso di revisionare) gli eventi storici dati per acquisiti portando a galla e, quindi, dando voce a quelle memorie taciute, mar- ginalizzate, obliterate o semplicemente ignorate dalle storiografie dominanti. È un fatto indubbiamente nuovo: quando non si dispone di strumenti o fonti storiche si può agil- mente far ricorso alla comunicazione audiovisiva per accedere alle e diffondere delle contromemorie. Possiamo dunque tornare alle domande iniziali: quale significato rivestono alcuni eventi del periodo della seconda guerra mondiale per le popolazioni arabe? E alcune delle nostre date chiave? I nostri luoghi di memoria coincidono forse con i loro? Per rispondere parzialmente farò riferimento a tre esempi di documentari che ana- lizzerò in un’ottica comparata riva nord/riva sud, e in correlazione con tre paradigmi preminenti: memorie obliterate / date della memoria / luoghi di memoria.

Il primo esempio rimanda a un avvenimento che ha avuto luogo nel corso della guerra civile spagnola (1936-1939). Quest’ultima costituisce un topos che è stato indagato nelle sue molteplici traiettorie da una ricca produzione artistica, letteraria e cinematografica contemporanea. Eppure la partecipazione dei soldati musulmani al conflitto europeo giace pressoché ignota. Il documentario Los perdedores [I dimenticati] di Driss Deiback1 restituisce la parola allo sparuto gruppo dei sopravvissuti di quella stagione.

1 DRISS DEIBACK, Los perdedores. Produzione: Sur Films. Paese: Spagna. Anno: 2006. Durata: 80’. Genere: documentario.

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Di che si tratta? Nel corso della guerra civile in Spagna circa centomila soldati mu- sulmani vennero (forzatamente o con l’inganno) reclutati dal generale Francisco Franco nei possedimenti spagnoli del Marocco. Questi soldati giocarono un ruolo di primo piano nella vittoria contro l’esercito repubblicano. Ciò nonostante ne uscirono alla fine per- denti e dimenticati da tutti. Percepiti come bruti criminali dai repubblicani e disprezzati dagli stessi franchisti, i soldati marocchini incarnarono nella seconda metà del XX secolo l’immagine scabrosa dei musulmani. Il documentario intende porre in evidenza proprio questo aspetto, con- testando la lunga tradizione europea di preconcetti e di mistificazioni nei confronti della cultura islamica. Attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, arricchite dalle analisi di vari esperti (tra cui lo scrittore Juan Goytisolo, la storica María Rosa de Ma- dariaga e il docente di Storia moderna dell’Università di Barcellona Eloy Martin Corra- les), il regista melillense inquadra le vicende del conflitto di allora mettendolo in relazione con l’attuale dibattito sulle relazioni tra Islam e Cristianità. Il film rimarca i pregiudizi di cui erano oggetto già all’epoca i combattenti arabi e berberi. Varie testimonianze evocano le ignominiose caricature che venivano fatte dei musulmani. Uno dei sopravvissuti intervistati, Mimun Kaddur nel raccontare la sua espe- rienza di guerra ricorda di aver visto un ritratto grottesco di un musulmano con tur- bante e denti enormi in procinto di mangiare un neonato. L’interessante operazione di Deiback è evidentemente quella di esplorare una vicenda poco nota o dimenticata del passato per interrogare le relazioni tra le due culture antagoniste nel presente (quella della riva sud e quella della riva nord del Mediterraneo) in ottica post-coloniale. Il re- gista sposta l’ambito di attenzione sull’immaginario comune europeo e sull’egemonia culturale degli europei, stigmatizzando lo sguardo occidentale che si crogiola a rap- presentare le due culture come per forza contrapposte e antagoniste. Per opportunismo e per interesse politico, quella egemone è raffigurata come l’incarnazione del bene; l’altra, la subalterna, viene negletta o vilipesa.

Una data chiave nella storia del conflitto mondiale è l’8 maggio 1945, perché è il giorno che sancisce l’atto di resa militare della Germania nazista. Quel giorno l’Europa poté finalmente celebrare la fine del Terzo Reich e il trionfo dei valori della democrazia sulla dittatura. Ma mentre in Francia si festeggiava la liberazione dall’occupazione nazi- sta, nella colonia francese d’Algeria veniva registrata una delle più sanguinose pagine della storia coloniale europea. La Francia in quei giorni rafforzava il suo dominio sugli al- gerini soffocando aspramente i moti d’indipendenza scoppiati a Setif e Guelma, preludio di una rivolta che si sarebbe rapidamente estesa in modo capillare a tutto il paese. Il documentario L'autre 8 Mai 1945. Aux origines de la guerre d’Algérie [L’altro 8 maggio 1945. Alle origini della guerra d’Algeria] della regista francese di origini alge- rine Yasmina Adi2, tenta un originale punto di raccordo tra le memorie delle due rive, mettendo a confronto ciò che quella data ha simultaneamente rappresentato da una

2 YASMINA ADI, L'autre 8 Mai 1945. Aux origines de la guerre d’Algérie. Produzione: Compagnie des Phares et Balises. Paese: Francia. Anno: 2008. Durata: 53’. Genere: documentario.

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parte per la nazione francese e dall’altra per la comunità algerina. Già dal titolo for- temente evocativo si può percepire l’intento di dar voce a una memoria “altra”, sco- moda e subalterna, del tutto oscurata nella memoria collettiva mondiale. La regista trasporta con sicuro effetto la cinepresa dalla Francia in festa (per l’av- venuta Libération) all’Algeria sconvolta, colta nel pieno di una sommossa sedata nel sangue dall’esercito francese, realizzando così un’inchiesta su un tema che ancora oggi pone interrogativi e nodi irrisolti. Da una parte i documenti e i materiali inediti (repe- riti negli archivi governativi francesi, in quelli inglesi e americani), dall’altra le inter- viste ai testimoni del tempo (sia francesi sia algerini) e ai primi reporter recatisi sul luogo. Attraverso il montaggio di queste due tipologie di fonti Yasmina Adi si propone di fare luce sui retroscena del massacro, che diventa simbolicamente l’origine della “presa di coscienza algerina”, il punto di partenza della volontà degli algerini di lottare per la propria indipendenza nazionale. A tutt’oggi c’è una visione discordante tra Fran- cia e Algeria sul bilancio finale delle vittime di quella repressione. L’analisi dei docu- menti dei servizi segreti delle potenze alleate che operavano in Algeria durante la seconda guerra mondiale consente all’autrice di eludere la strumentalizzazione dei nu- meri e di denunciare l’esistenza di un’inchiesta francese tenuta segreta. Com’è noto, vi sono tuttora molti motivi di controversia tra i due paesi: dall’ostruzionismo che viene attuato nei confronti della ricerca storica alla descrizione della guerra d’Algeria nei libri di testo scolastici francesi al riconoscimento dell’uso della tortura da parte della Francia. Questo lavoro documentario — come la regista afferma in un’intervista3 — trae ispirazione dal dibattito scaturito in Francia sul «ruolo positivo della presenza francese in Nord Africa», tema proposto come oggetto di studio nelle scuole secondo quanto pre- visto dall’articolo 4 della legge del 23 febbraio 2005. La regista prende spunto da que- sto avvenimento per porre una questione etica, finalizzata a un’istanza di revisione delle relazioni tra la Francia e il suo passato coloniale, tra francesi e algerini. Il suo in- tento è quello di sottolineare l’urgenza di una ridiscussione di quel passato che una parte conservatrice della politica e delle istituzioni francesi sembra oggi voler ignorare o addirittura distorcere. In questa prospettiva, il documentario si dà il compito di fungere da «bilanciatore di memorie fondanti», ricordando a tutti il valore simbolico che la data dell’8 maggio 1945 e quella precisa fase storica rivestono per una popolazione a cui veniva negata l’in- dipendenza da chi, sull’altra sponda del Mediterraneo, festeggiava il suo affrancamento dal male del secolo. Un film, dunque, che si appella alla coscienza di ogni francese, pa- lesandogli che nel giorno della liberazione dal regime nazista e della vittoria della de- mocrazia in Francia, l’esercito francese compiva uno dei più truci massacri della storia contemporanea. La comparazione tra diverse memorie è lo strumento-espediente uti- lizzato dalla regista per prendere parte in maniera inequivocabile al dibattito sulla que- stione coloniale.

3 Si veda Interview de Yasmina Adi sul sito del film: http://autre8mai1945-lefilm.com/inter- view.html

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Questa operazione di persuasione è comune a molti documentari storici. La reite- rata affermazione di un punto di vista che contrasta con quello “istituzionale” o domi- nante (in questo specifico caso, acquisito per legge), è messa in atto da Yasmina Adi con successo, perché il raffronto evocativo tra le differenti memorie viene incardinato su una sola data storica chiave che ha un senso per ambedue i paesi antagonisti. Paesi de- finiti da un rapporto di subordinazione del colonizzato al colonizzatore.

Altrettanto rilevante per altri due popoli tra loro antagonisti è la “data della me- moria” del 10 maggio 1948 che va letta in relazione a uno spazio territoriale ben pre- ciso — forse il “luogo di memoria” per eccellenza, significativo per le tre religioni monoteistiche: la terra di Palestina/Israele. Il 10 maggio gli ebrei festeggiano la nascita dello Stato di Israele, evento perce- pito dall’opinione pubblica mondiale come una doverosa ricompensa a un popolo stori- camente perseguitato. Ma quello stesso giorno nella memoria collettiva del popolo palestinese rappresenta la Nakba, la “catastrofe”: non solo il ricordo di una guerra per- duta, ma lo sradicamento dalla propria terra, l’inizio di un esodo e di un’occupazione permanenti. Il 1948 nella coscienza dei palestinesi rappresenta una realtà inenarrabile di vio- lenza e di dispersione nel tempo e nello spazio. Per dirla con le parole del critico bri- tannico Paul Gilroy è «il sito di un ineffabile terrore»4 che trascende la verbalizzazione e il lutto, ed è impossibile da superare. Attorno a questa data chiave è incentrato il documentario La terre parle arabe [La terra parla arabo] di Maryse Gargour5. Esso si presenta come un’articolata indagine sto- rica sulla genesi del conflitto arabo-israeliano, in cui si ricostruisce sin dalle prime tappe il processo che porta alla fondazione dello Stato d’Israele. Un documentario che già dal titolo legittima l’appartenenza del popolo arabo della Palestina a quella terra conce- dendo ai palestinesi una sorta di risarcimento morale e simbolico attraverso l’offerta di una verità finalmente documentata che la storia ufficiale ha loro negato. Attraverso ricostruzioni meticolose e con l’ausilio di materiali d’archivio inediti si narrano la nascita del movimento sionista e i piani segreti orditi dai suoi leader euro- pei. Le radici del conflitto vengono individuate nel ruolo chiave rivestito dalla potenza mandataria britannica rea, durante la prima guerra mondiale, di una politica ambigua votata alla salvaguardia dei suoi interessi strategici. Alle contraddittorie promesse fatte nel 1915 dall’Alto Commissario Britannico al Cairo, Sir Henry Mac Mahon, allo Sceriffo della Mecca, Al-Husayn Ibn Ali, di garantire, con lo sgretolamento dell’Impero Otto- mano, uno Stato arabo indipendente comprendente la Palestina in cambio della parte- cipazione araba alla grande guerra al fianco delle potenze alleate, farà seguito la spartizione da parte di Francia e Gran Bretagna del territorio mediorientale in zone

4 PAUL GILROY, The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 1993. 5 MARYSE GARGOUR, La terre parle arabe. Produzione: Bad Movies. Paese: Grecia. Anno: 2007. Durata: 61’. Genere: documentario.

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d’influenza. Quindi, la dichiarazione del ministro inglese Lord Arthur James Balfour del 1917 che vedeva con favore la costituzione di un focolare ebraico in territorio palesti- nese. La costituzione dello Judenstat in Palestina si potrà attuare attraverso il graduale trasferimento della popolazione ebrea vittima in Europa delle persecuzioni nella terra abitata dagli arabi e l’allontanamento della popolazione araba palestinese dalla propria terra da perseguire con ogni mezzo. Sfatando quindi il mito sionista celebrato nello slo- gan propagandistico ripreso negli anni ‘60 dal ministro israeliano Golda Meir “un popolo senza terra in una terra senza popolo”, il film di Gargour riafferma una verità storica negata o manipolata dalla storiografia sionista: la Palestina era abitata dai palestinesi che vennero sradicati dalla propria terra o indotti a venderla a basso costo sotto pres- sioni e talvolta intimidazioni. E oggi nel nucleo del dibattito storiografico sulla genesi del conflitto arabo-israeliano e la creazione dello Stato di Israele spiccano le posizioni antagoniste di “nuovi storici” israeliani come Ilan Pappè il quale proprio in un suo re- cente libro sostiene, supportato da abbondanti prove documentali, che nel 1948 fu messo in atto un vero e proprio piano di pulizia etnica della Palestina, programmato dal leader storici dello stato ebraico, tra cui David Ben Gurion, sin dagli anni ‘30. Il territorio palestinese verrà a poco a poco occupato da ebrei in prevalenza eu- ropei, scampati ai lager nazisti e al sistema del gulag sovietico, e spinti ad emigrare verso “la terra promessa”. Un dramma nel dramma, in cui hanno avuto peso non irrile- vante le discriminazioni razziali europee nei confronti degli ebrei e le manovre politi- che delle potenze occidentali. Il film utilizza archivi audiovisivi inediti e fa riferimento a documenti diplomatici occidentali, cita i leader sionisti e numerosi ritagli della stampa internazionale del- l’epoca. A questi materiali si interpongono i racconti dei testimoni oculari della Nakba che rievocano, con profonda intensità e dignità, il dramma patito. A un terzo livello, l’intera questione viene esaminata in un contesto più ampio attraverso le delucidazioni storiche fornite da alcuni studiosi, tra cui il politologo e studioso delle religioni pale- stinese Nur Masalha. Il documentario — è il suo messaggio — rivendica con lucidità d’analisi e sobrietà narrativa la legittimità di un’esistenza e di un’identità palestinese. È un omaggio alla memoria marginalizzata del dramma di un popolo ancora sotto oc- cupazione, una memoria traumatica destinata a essere continuamente rielaborata e, chissà ancora per quanto, a confondersi con la mesta realtà di ogni giorno.

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Simone Sibilio, traduttore, arabista, esperto di letteratura araba. Come traduttore ha pubblicato In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese del ‘900, Giunti Editore, Firenze, 2007 e Canti d’Africa: Muhammad al-Fayturi, San Marco dei Giusti- niani, Genova, 2005.

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