U N I V E R S I T À D E G L I S T U D I D I V E N E Z I A C A’ F O S C A R I

F A C O L T À D I L E T T E R E E F I L O S O F I A C O R S O D I L A U R E A I N L E T T E R E

T E S I D I L A U R E A

L’OPERA DI PIER VITTORIO TONDELLI TRA STRATEGIE NARRATIVE E SCRITTURA DELLA MEMORIA

Relatore: Prof.ssa Ricciarda Ricorda

Laureando: Mauro Vianello Matricola n. 747502

Anno Accademico 1998 - 1999 Noi camminiamo nella realtà come quell’uccello della leggenda, caro ai boscaioli canadesi, che vola all’indietro poiché non gli interessa vedere dove va, ma ricordare da dove è partito J.L. Borges

2 INDICE

INTRODUZIONE. 5

I ALTRI LIBERTINI. Una rappresentazione del microcosmo giovanile. 10

I.1 Il romanzo di movimento tra contestazione giovanile e mercato 11 letterario.

I.2 Un romanzo ad episodi. 35

I.3 Le strategie narrative. 45 I.3.1 Aspetti del racconto. 45 I.3.2 Il personaggio. Rapporti col fumetto. 62 I.3.3 La cornice e i percorsi testuali. 70

I.4 Il linguaggio tondelliano. 79

I.5 Diverse attualizzazioni dell’archetipo del viaggio. 98

I.6 L’alterità come cifra stilistica. 117

I.7 Il catalogo. 128

I.8 “Autobahn”: il testo aperto. 133

II PAO PAO. Un romanzo, non un’inchiesta. 141

II.1 Nel segno della continuità. 142

II.2 L’istituzione e la mitobiografia. 148

II.3 Alcuni precedenti: Pascutto, Celati, Tondelli. 157

II.4 La “consapevolezza temporale della scrittura”. 176 II.4.1 Le analessi e il sentimento della separazione. 180 II.4.2 La prolessi come espressione del ritrovamento. 188 II.4.3 Prolessi e tempi verbali. 199 II.4.4 Le indicazioni temporali. 206

II.5 Una galleria di personaggi. 210

II.6 Alcune note stilistiche. 223

3 III RIMINI. La scrittura del distacco. 229

III.1 Il romanzo in terza persona. 230

III.2 Una complicata struttura polifonica. 251 III.2.1 L’esempio calviniano. 256 III.2.3 Il modello interno. 260

III.3 Una rivisitazione del romanzo poliziesco. 266 III.3.1 Gli elementi del giallo. 267 III.3.2 Una particolare tradizione italiana del romanzo poliziesco. 273 III.3.3 Dal giallo alla ricerca. 285

III.4 La riviera adriatica nella produzione tondelliana. 289 III.4.1 Il mito della riviera. 290 III.4.2 Il riutilizzo dei propri materiali. 296

III.5 La continuità tematica. 301 III.5.1 La riflessione religiosa. 302 III.5.2 L’istituzione letteraria. 308 III.5.3 La musica. 312

III.6 Una scrittura sorvegliata. 315

IV CAMERE SEPARATE. La fine del viaggio. 323

IV.1 Sulla strada per “Camere separate”. 324

IV.2 Il nuovo romanzo: un’immersione nel passato per superare il 341 presente. IV.2.1 La narrativa della memoria. 350 IV.2.2 Un riepilogo della propria produzione. 365

IV.3 Una scrittura più intimista. 374 IV.3.1 Nuovi riferimenti letterari. 376 IV.3.2 Dualismo e ricerca di se stesso. 382

IV.4 La summa tematica. 385 IV.4.1 Il viaggio. 386 IV.4.2 L’ultimo capitolo della fenomenologia dell’abbandono: la 390 morte. IV.4.3 Il rapporto con le istituzioni: l’identità sociale e la famiglia. 393 IV.4.4 La diversità e la problematica religiosa. 400 IV.4.5 La scrittura come autobiografia. 407

4 IV.5 La tensione elegiaca (note stilistiche). 411

BIBLIOGRAFIA. 424

5 INTRODUZIONE

Argomento di questo lavoro è la produzione narrativa di Pier Vittorio Tondelli. Attraverso l’analisi dei suoi quattro romanzi, si cercherà di fornire un ritratto, per quanto possibile esauriente, del percorso letterario dello scrittore correggese. Supporto indispensabile di tale ricerca sarà la contemporanea produzione extra- romanzesca dell’autore, che, svoltasi nell’arco di tutta la sua attività letteraria, è stata poi riunita nei due volumi Un weekend postmoderno e L’abbandono. Questi - al di là della loro precipua natura di ricognizione nel decennio che attraversano, fornendo una precisa immagine degli anni Ottanta - si costituiscono come un secondo livello, quasi in forma di commento, rispetto all’opera narrativa, della quale consentono una lettura più approfondita. Altrettanto importante sarà il confronto con quanto emerge dalle conversazioni con Fulvio Panzeri riunite nel volume Pier Vittorio Tondelli. Il mestiere di scrittore, all’interno del quale le riflessioni di Tondelli, non solo sulla propria opera narrativa, ma anche, più in generale, sugli anni Ottanta e sui suoi rapporti con gli altri scrittori e con la critica, danno vita ad una sorta di autoritratto. Pier Vittorio Tondelli si colloca in una posizione interessante nello scenario della letteratura italiana del decennio ’80-’90, proponendo coi suoi lavori una rappresentazione artistica assai significativa del periodo. Altri libertini, il suo libro d’esordio, occupa una posizione chiave nel panorama letterario italiano, nella duplice veste di testo che chiude un’epoca, fornendone un riepilogo, e segnale di un risvegliato interesse verso la produzione narrativa. Fin dall’inizio, Tondelli effettua delle scelte - linguistiche e contenutistiche - che rompono con la tradizione letteraria, costituendo il testo - senza privarlo della sua natura di opera creativa - quasi come un documento in tempo reale; fissa, inoltre, l’oggetto della sua scrittura nella rappresentazione di contesti che sono sempre in qualche maniera specifici. Nel caso di Altri libertini, si tratta del microcosmo giovanile dell’area ‘alternativa’ di fine anni Settanta, ma la singolarità del contesto non verrà mai meno: il mondo della caserma e, più in generale, dell’anno di leva nel successivo Pao Pao; la riviera adriatica nel pieno della stagione estiva in Rimini; la dolorosa riflessione di un unico protagonista in Camere separate. Sono opere che, se pure assai diverse sia sotto il profilo estetico che sotto quello strutturale, si dimostrano omogeneamente fedeli a determinate tematiche, nonché a ben identificabili meccanismi testuali, ponendo così il percorso globale della narrativa

6 tondelliana sotto il segno della continuità, anche grazie ai frequenti reciproci richiami tra i vari romanzi. La ricostruzione dell’itinerario artistico tondelliano cercherà di inserirlo in un più ampio panorama letterario, considerando quindi sia le suggestioni e i modelli ai quali la sua opera in qualche maniera si richiama, sia i rapporti con la narrrativa a lui contemporanea, alla ricerca di una valutazione che ne segnali il ruolo di riferimento per gli scrittori più giovani.

Pier Vittorio Tondelli nasce il 14 settembre del 1955 a Correggio (Reggio Emilia). Lì compie i suoi primi studi ed attua le sue prime realizzazioni culturali, tra le quali una riduzione teatrale de Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exuperi. L’amore per il teatro - che porterà nel corso della sua carriera artistica a varie collaborazioni ed alla composizione di un testo, Dinner Party - lo spinge ad entrare nel 1976 nel Comitato di Gestione del Teatro Asioli di Correggio. Dopo la maturità classica, si iscrive al DAMS di Bologna, dipartimento di Cinema e Spettacolo; ha occasione di seguire i corsi di Eco e di Celati, lavorando nel frattempo ad un primo romanzo. Ne invia il dattiloscritto, che non verrà mai pubblicato, alla Feltrinelli, dove era allora responsabile della narrativa Aldo Tagliaferri, una persona che svolgerà un importantissimo ruolo di consigliere durante tutta la produzione letteraria tondelliana, indipendentemente dal passaggio a Bompiani. Tondelli ha considerato questa prima prova, poi accantonata, una “questione molto personale, non pubblicabile, forse proprio per questo motivo”, definendola “un inventario dei desideri di una persona di diciotto-diciannove anni, con tutto ciò che può esserci in una vita di provincia”.1 Dal confronto con Tagliaferri viene l’ispirazione per gli episodi di Altri libertini, che sostituiscono il dattiloscritto del romanzo originale e vengono pubblicati nel gennaio del 1980, da Feltrinelli, con un immediato successo di pubblico, soprattutto giovanile, e di critica. Il romanzo è già alla terza edizione quando, venti giorni dopo la pubblicazione, ne viene disposto il sequestro su tutto il territorio nazionale dal Procuratore Generale di L’Aquila, per il reato di oscenità.2 Sarà poi pienamente assolto, l’anno successivo, dal tribunale di Mondovì (Cuneo).

1 F. Panzeri-G. Picone, Tondelli. Il mestiere di scrittore, Ancona, Transeuropa, 1994, Roma, Theoria, 1997, p. 42. 2 Il sequestro crea un’ulteriore camera di risonanza attorno ad Altri libertini, aumentando la curiosità verso il libro, come testimonia il contatto che ne ebbe un concittadino di Tondelli: “Il libraio del paese mi disse che non si poteva venderlo: era sotto sequestro. Poi me lo mise in una bustina e, con furtività da pusher, me lo allungò sotto banco. Io caddi in pieno trip da Carboneria e mi cacciai libro e busta sotto la maglietta.” L. Ligabue, Un libro così rock, in B. Casini (a cura di), Pier Vittorio Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni Ottanta, Firenze, Tosca, 1994, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, pp. 88-90 [ora anche in L. Ligabue, Fuori e dentro il borgo, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, pp. 162-165].

7 Poco dopo la pubblicazione di Altri libertini, Tondelli si laurea al DAMS, con una tesi dal titolo Letteratura epistolare come problema di teoria del romanzo. Comincia in questo periodo una collaborazione giornalistica con “Il Resto del Carlino”, nel quale apparirà, l’anno successivo, in contemporanea con “La Nazione”, Il diario del soldato Acci, dal 15 febbraio 1981 al 22 aprile dello stesso anno, per il quale Tondelli trae ispirazione dal servizio di leva che svolge, dall’aprile del 1980, tra Orvieto e Roma. Lo stesso materiale fornirà il soggetto di Pao Pao, il secondo romanzo di Tondelli, pubblicato sempre da Feltrinelli nel giugno del 1982, opera che l’autore definirà “il tentativo di fare un romanzo sentimentale su un gruppo di giovani usando uno stile ritmico e rock, fatto di impennate romantiche, di riflessioni, di improvvise accelerazioni.”3 Nel frattempo inizia la collaborazione con “Linus” e, nel 1983, con “Alter Alter”. Del 1983 è anche il progetto di Un weekend postmoderno, assai diverso dall’edizione definitiva del 1990, della quale l’idea originaria compone la quinta sezione dal titolo omonimo. E’ aasai probabile che l’uccisione dell’amica Francesca Alinovi sia stata il motivo scatenante dell’abbandono del progetto, al quale segue l’inizio di un periodo più riflessivo e ripiegato su se stesso. All’inizio del 1984 scrive Dinner Party , una commedia in due atti con la quale partecipa al XXXVIII Premio Riccione-Ater per il Teatro, ottenendo il premio speciale della giuria. Tondelli ritorna più volte sul testo teatrale, modificandolo anche sostanzialmente; la commedia non sarà però mai pubblicata lui vivo. Uscirà solo nel 1994, per Bompiani, a cura di Panzeri; nello stesso anno verrà anche rappresentata per la prima volta, a Reggio Emilia. Il 1984 vede anche, sul fronte dell’attività giornalistica, l’inizio della collaborazione con “L’Espresso”, mentre è dell’anno successivo quella con il “Corriere della Sera” e l’esordio della fortunata rubrica su “Rockstar”, “Culture Club”, che continuerà fino al 1989. Nel frattempo lavora a Biglietti agli amici e a Rimini, che verrà pubblicato nel maggio del 1985, sancendo il passaggio editoriale da Feltrinelli a Bompiani. Tondelli lo definisce “un affresco, forse una sinfonia, della realtà italiana di questi anni, e dei vari modi - quello sentimentale, quello drammatico, quello esistenziale - di raccontarla”.4 Assieme al passaggio editoriale, il romanzo rivela anche una variazione sul piano della scrittura - con l’abbandono della narrazione in prima persona e del generazionalismo dei primi libri - variazione che produce molte perplessità, venendo interpretata come

3 F. Piemontese (a cura di), Autodizionario degli scrittori italiani, Milano, Leonardo, 1990, pp. 346- 347. 4 Ibidem.

8 cedimento al romanzo di consumo; Rimini ottiene un notevole successo commerciale, che ne fa il libro più venduto di Tondelli. Sempre nel 1985 prende il via il progetto Under 25, con un articolo, Gli scarti, pubblicato nel numero di giugno di “Linus”: grazie alla collaborazione con la casa editrice Il Lavoro editoriale di Ancona, si cominciano a raccogliere i testi inviati dagli ‘aspiranti scrittori’, undici dei quali riuniti, l’anno successivo, nel primo volume del progetto, Giovani blues. Nello stesso anno pubblica Biglietti agli amici, che definisce “primo testo di una produzione per così dire underground attuata da piccoli editori, a tiratura limitata e destinata a un pubblico protetto.”5 E’ un testo dal carattere quasi privato, edito dalla Baskerville di Bologna in un numero ridotto di copie. Si trasferisce nel frattempo a Milano. Prosegue la produzione narrativa, attraverso alcuni racconti - Ragazzi a Natale, Pier a gennaio, My sweet car, Questa specie di patto, Frammenti dell’autore inattivo - pubblicati su periodici o libri a tema tra l’85 e l’87, continuando una strada avviata già con Il diario del soldato Acci e proseguita, nel 1984, con L’addio. Nel 1987 cura il secondo volume del progetto Under 25, Belli & perversi, che uscirà nello stesso anno per Transeuropa. Lavora poi al progetto della sfortunata serie editoriale “Mouse to mouse”, per Mondadori, chiusa dopo le due sole realizzazioni del 1988. Tra l’88 e l’89 tiene una serie di conferenze sul progetto Under 25 e lavora al nuovo romanzo. Camere separate viene pubblicato nella primavera del 1989, e conferma la svolta, verso “una complessa ricerca di interiorità e di approfondimento”6, annunciata da Biglietti agli amici. Nel gennaio ’90 esce il primo numero di “Panta”, una rivista letteraria a tema monografico che è frutto di un lavoro collettivo, della quale Tondelli è all’inizio il coordinatore, assieme ad Elisabetta Rasy e Alain Elkann. Nello stesso anno pubblica, nel volume a tema Canzoni, Quarantacique giri per dieci anni, un racconto che ha ad argomento il mondo della musica.. Collabora inoltre col critico Fulvio Panzeri alla revisione del suo materiale giornalistico e saggistico, nonché della sua produzione letteraria extra-romanzesca, in attesa di raccoglierlo in due volumi, rispettivamente identificati come “cronache” e “racconti”. Si tratta del progetto Un weekend postmoderno, il cui primo volume, sottotitolato Cronache dagli anni Ottanta, viene pubblicato in autunno da Bompiani. E’ un vero e proprio viaggio nel decennio ’80-’90, che, oltre a fornirne un ritratto fedelissimo, configura un’immagine complessiva del

5 Ibidem. 6 Ibidem.

9 mondo poetico tondelliano. Ancora nel 1990, a novembre, esce, sempre per Transeuropa e a cura di Tondelli, il terzo volume del progetto Under 25, Papergang. Nell’aprile del ’91, torna ad abitare a Bologna e nel settembre dello stesso anno viene ricoverato all’ospedale di Reggio Emilia, nel quale trascorrerà gli ultimi mesi di vita; si dedica al febbrile tentativo di revisionare le sue opere e ad un nuovo progetto ‘underground’, sulla falsariga di Biglietti agli amici, che avrebbe dovuto intitolarsi Sante messe. Muore, a Correggio, la sera del 15 dicembre 1991. Postumi vengono pubblicati, a cura di Panzeri, il secondo volume del progetto Un weekend postmoderno, dal titolo L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, nel gennaio 1993, da Bompiani, e la già ricordata commedia Dinner Party, per lo stesso editore nel 1994. Nel 1997 uscirà poi la nuova edizione di Biglietti agli amici, sempre per Bompiani e con un’importante nota di Panzeri.

10 CAPITOLO I

ALTRI LIBERTINI. UNA RAPPRESENTAZIONE DEL MICROCOSMO GIOVANILE.

11 I.1 Il romanzo di movimento tra contestazione giovanile e mercato editoriale.

L’esordio di Pier Vittorio Tondelli si colloca in un periodo che, sia dal punto di vista storico, sia da quello letterario, per vari motivi, si può definire di transizione. Il 1980, infatti, anno di pubblicazione di Altri libertini, ha una fortissima valenza di indicatore epocale: chiude un ventennio di intensi sommovimenti sociali, dando inizio ad un nuovo diverso periodo contraddistinto dal riflusso e dal ritorno all’ordine.1 Anche sotto un profilo squisitamente politico è un anno significativo, poiché vede l’inizio della partecipazione al governo del Partito Socialista Italiano, con il segretariato craxiano (iniziato peraltro nel 1976). La letteratura viene ad essere fortemente influenzata dai fenomeni storici e politici: la profonda crisi ideale che segue la fine del movimento giovanile determina il calo improvviso della saggistica, particolarmente cresciuta dalla seconda metà degli anni Sessanta, e il ripiegamento sul privato che ne consegue pone le basi per una rinascita della produzione narrativa. Altri libertini si pone così, con un contenuto relativo agli ultimi anni del movimento studentesco giovanile, grossomodo dal 1974 al 1978-79 (compaiono come indicatori temporali un “Bruxelles ci piace nell’estate del settantaquattro” - p. 69, e un riferimento al “presidente galantuomo” Sandro Pertini - p. 133, che appunto iniziò il suo settennato nel 1978), sul confine tra due periodi fortemente contrastanti: da una parte quello appena concluso, che aveva visto “le giovani generazioni” nel “ruolo di protagonisti della scena politico-sociale”2, dall’altra quello che stava per iniziare, contrassegnato da un ampio ritorno all’ordine, che doveva vedere la rapida integrazione delle istanze e delle esperienze giovanilistiche “all’interno di un sistema culturale che si è rapidamente ricostituito dentro il nuovo boom consumista degli anni Ottanta”.3 Con queste premesse, la scelta dell’editore Feltrinelli di pubblicare con Altri libertini un narratore giovane ed una siffatta ambientazione, rappresenta il tentativo riuscito di coinvolgere due differenti ambiti di utenza: il successo di vendite che ne consegue infatti - al momento del sequestro per oscenità, cioè dopo venti giorni, il libro era giunto ormai alla terza edizione - dimostra che a comprare sono sia i “nostalgici della bohème del

1 La parola ventennio è giustificata dal fatto che proprio nel 1960 - sotto il governo Tambroni, votato dalla destra - si verificarono i primi scontri di piazza (luglio) e le manifestazioni per Cuba, sull’onda delle quali si arrivò anche alla pubblicazione de La guerra per bande di Guevara, ad opera delle Edizioni Avanti. 2 F. La Porta-M. Sinibaldi, La passione di Zeitlin. La letteratura giovanile dieci anni dopo, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989, n. 34, pp. 74-78. 3 Ibidem.

12 movimento”, sia “i borghesi curiosi che sanno che questo è il primo passo verso la museificazione della «rivoluzione»“.4 I primi vedono nel libro - e nella narrativa giovanile di ambiente movimentista che di lì a poco sarebbe fiorita - “un antidoto al riflusso [...] un segnale di resistenza e magari un annuncio di possibile inversione di tendenza: come un tentativo di non essere cancellati e ridotti al silenzio”.5 Gli altri vi scorgono il definitivo tramontare delle istanze e delle rivendicazioni che avevano animato almeno gli ultimi dieci anni della storia italiana, in poche parole un segnale di ‘passato pericolo’, l’annuncio dell’avvenuto conglobamento nell’istituzione della diversità giovanile.6 Va dato adito peraltro alla casa editrice di aver indovinato la scelta, riproponendo l’istanza narrativa in anni nei quali il romanzo non era ancora in fase di rilancio. Feltrinelli aveva già cercato strade alternative per stimolare il risveglio di un pubblico poco attento al prodotto narrativo: si pensi alla creazione della collana «Franchi Narratori», nel tentativo di suscitare l’interesse del mercato coniugando la narrativa (in crisi) con la forte domanda di saggistica.7 La pubblicazione poi, nel 1979, di Diario di un militante intorno a un suicidio, di Vittorio Borrelli, riflessione da parte del direttore del “Quotidiano dei Lavoratori” sulle cause del suicidio del redattore Marco Riva che diventa personale analisi del momento storico-sociale, è un chiaro esempio dell’attenzione verso una letteratura memorialistica del periodo ‘68-’77, in un momento in cui la transazione all’ordine non era ancora pienamente compiuta. In questa linea Altri libertini rappresenta un’operazione di continuità. Con una importante differenza però: Altri libertini non esce nei “Franchi Narratori” ma nella collana “I Narratori”, con un’implicita affermazione quindi del suo carattere narrativo, separatamente da ogni istanza saggistica - del resto ormai tramontata nel ruolo di elemento di spinta per il successo di un’opera - e in anticipo sul futuro rilancio del romanzo, ormai prossimo. E’ il gennaio del 1980 e a ben vedere si tratta dell’apertura di un periodo: Feltrinelli è il primo grande editore a comprendere l’esistenza di un mercato adatto alla narrativa giovane, finora appannaggio di poche case editrici, generalmente legate alla sinistra extraparlamentare e al movimento. Il successo di vendite di Porci con le ali, edito da Savelli nel ‘76, era infatti rimasto senza seguito, ed era toccato a Enrico Palandri con

4 S. Tani, Il romanzo di ritorno. Dal romanzo medio degli anni sessanta alla giovane narrativa degli anni ottanta, Milano, Mursia, 1990, p. 199. 5 F. La Porta-M. Sinibaldi, op. cit. 6 Non a caso Tani parlerà, relativamente alla seconda ondata di giovani narratori, quella che colloca dopo il 1985, di “ripresa di una società letteraria omogenea ricostituitasi contemporaneamente al declino dei circuiti e delle sedi alternative degli anni Settanta”. S. Tani, op. cit., p. 135. 7 Va del resto segnalato che Feltrinelli assume un ruolo assai marcato nel panorama editoriale del periodo, datogli prima dalla pubblicazione di romanzi di successo come Il dottor Zivago di Pasternak e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ma soprattutto dal fatto di essere l’editore delle opere del Gruppo ‘63 e di buona parte della saggistica in voga negli anni successivi.

13 Boccalone rivelare l’esistenza di un mercato tre anni dopo: l’interesse suscitato dal romanzo di Palandri, edito da L’Erba Voglio, la casa editrice del movimento studentesco, ben al di là del ristretto pubblico a cui si rivolgeva, convince l’editoria delle possibilità di vendita della narrativa giovane.8 Altri libertini viene poco dopo, primo come si è detto a coinvolgere un’importante casa editrice e in anticipo su quello che diventerà il bestseller dell’anno, Il nome della rosa di Umberto Eco, il cui enorme successo desterà un ampio interesse, anche internazionale, nei confronti della narrativa italiana, per la quale si parlerà appunto di effetto Eco. Sarà poi Einaudi, l’anno successivo, a legare il definitivo rilancio narrativo alla scrittura giovanile, con la pubblicazione di Treno di panna di Andrea De Carlo, patrocinato dalla prefazione di . Altri libertini è un libro generazionale: esprime la situazione - e la protesta - giovanile, vista dal di dentro e in quell’aspetto di recupero della marginalità che era stato una delle caratteristiche più significative del movimento del ‘77. Il primo consistente fenomeno di protesta giovanile che si diffonde in Italia è il movimento beat, che ha coinvolto espressioni culturali più o meno radicali, da quelle musicali moderate degli anni Sessanta (cantautori come Guccini o gruppi come I Corvi e The Rokes) a quelle para-giornalistiche come “Mondo Beat”, nato nel 1965, culminando nella tendopoli milanese dell’estate 1967, presto rasa al suolo dalla polizia. E’ una critica alle istituzioni nei suoi fondamentali elementi, lo Stato e la famiglia, portata avanti secondo schemi innovativi, la comune e la non violenza, ma è anche espressione di un disagio giovanile che sviluppa nuovi modelli di vita in aperto contrasto con una società consumistica ed industriale. Sul rifiuto della società si tenta di costruire una “controcultura”, che spesso si incrocia con la contestazione studentesca media e universitaria, anche se poi la protesta studentesca si caratterizzerà per una forte politicizzazione e un generale accordo con la grande protesta operaia. Nonostante ciò, è interessante notare una certa continuità nell’area della protesta giovanile - sia in senso storico che tematico - un legame che attraverso il movimento beat, più eterogeneo e frammentato, porterà alla ben più vasta espressione del ‘68.9

8 Feltrinelli continuerà questa sua politica l’anno successivo con la pubblicazione di Casa di nessuno, di Claudio Piersanti, che mantiene un’analoga ambientazione. 9 Si deve notare che per certi aspetti c’è una forte comunanza tra alcuni capisaldi dell’ideologia beat e le istanze portate avanti dal movimento giovanile del ‘77, come il rifiuto dei partiti e l’attenzione verso la marginalità. Assai indicativa a questo proposito la lettura di Metodologia provocatoria dell’Onda Verde e di Lettera al partito, in AA.VV., Ma l’amor mio non muore, Roma, Arcana editrice, 1971, ora anche in N. Balestrini-P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, SugarCo, 1988, Feltrinelli, 1997, pp. 104-111.

14 68 che, evidentemente, nasce ben prima, dal momento che la prima occupazione dell’università di Trento è del gennaio 1966, data dalla quale la crescita del movimento studentesco sarà continua, prima solo nell’università, poi anche all’esterno. Ad ogni modo, col ‘68 si registra una grossa differenza rispetto ai momenti precedenti: per la prima volta la protesta giovanile si esprime attraverso un progetto politico di intervento razionale sulla società, che parte dalla scuola per poi estendersi, conglobando nell’azione altre forze sociali. Questo comporta un grande cambiamento da un punto di vista culturale: i modelli letterari del movimento beat erano i personaggi dei romanzi di Kerouac e dei prodotti della beat generation, oltre che gli autori stessi con la propria vita. E’ una tradizione che non verrà mai meno d’ora in avanti, suscitando poi un grandissimo interesse nella scrittura di fine anni Settanta e nel rilancio narrativo degli anni Ottanta, quando “una generazione senza padri” adotterà “il modello influente kerouachiano del viaggio-attraversamento compiuto con l’intento di arricchire l’esperienza della vita”.10 All’altezza del ‘68, però, l’impegno sociale che è alla base della protesta giovanile e il suo esprimersi innanzitutto come tentativo di modifica del sistema scolastico, determinano un rifiuto del romanzo, considerato come prodotto del capitale in quanto genere d’evasione, interno a quell’industria culturale che è la prima ad essere messa sotto accusa. In contrapposizione alla caduta del romanzo, si registra il boom della saggistica, soprattutto politica e sociologica, nel tentativo, da parte del movimento, di fornirsi di strumenti interpretativi idonei, in un sistema di riferimenti internazionali. Quello della saggistica era comunque un settore che già aveva avuto modo di espandersi, approfittando di una diffusa politica editoriale di allargamento del pubblico potenziale attraverso la proposta di edizioni più economiche. Esemplare, a questo proposito, il lancio nel 1964, da parte della casa editrice Il Saggiatore, nata di recente (1958), della collana “I Gabbiani”, “dove per la prima volta [...] si tentava la via del pocket di cultura: una linea di storia, letteratura e filosofia [...] e una di attualità culturale e politica”.11 Einaudi dal canto suo, già presente nel settore, edita due nuove collane, il “Nuovo Politecnico” e “Serie Politica”, mentre Feltrinelli diventa un punto di riferimento, oltre che per la pubblicazione di testi e documenti sulle lotte di liberazione, per una serie di nuove

10 G. Picone, Ipotesi critiche per la lettura di un’onda, in AA.VV., Paesaggi italiani, a cura di A. Ferracuti, Ancona, Transeuropa, 1993, p. 46-47. 11G. Ragone, Editoria, letteratura e comunicazione, in Letteratura italiana. Storia e geografia III. L’età contemporanea, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1989, p.1143. Relativamente al tascabile, e non solo quello di cultura ma soprattutto quello che riproduceva in grande tiratura il romanzo, bisogna osservare che non poca responsabilità per la crisi della narrativa che avviene attorno al ‘68, va attribuita al proliferare di collane di questo tipo alla ricerca di un allargamento del mercato. Gli “Oscar” Mondadori, i “Grandi libri” Garzanti, le varie collane Einaudi, quelle Sansoni, Dall’Oglio, Longanesi, fino ai “Record” ancora di Mondadori, saturarono un mercato che si rivolgeva ad un pubblico sempre più popolare, producendo da ultimo un ridimensionamento del tascabile.

15 piccole case editrici che puntano sugli studenti (Marsilio, Sugar, Samonà e Savelli, Guaraldi, etc.). E’ un cambiamento che coinvolge anche la distribuzione: intorno alla rivolta studentesca nascevano le librerie “di movimento”, nuovi tramiti per la vendita e la distribuzione ma anche editrici in proprio. Alla scrittura industriale si opponeva da subito una controcultura, contestazione e rottura del sapere tradizionale, circuito diffuso della piccola editoria e delle situazioni underground e di opposizione in tutti i settori in cui era possibile produrre nuovo senso “dal basso”.12

Sotto un profilo squisitamente commerciale ne deriva l’apertura di un nuovo mercato, alternativo a quello tradizionale: è in questo senso perfettamente in linea coi vari tentativi della grossa editoria di coinvolgere, attraverso un prodotto qualitativamente inferiore, nuove fasce di pubblico; vi è sostanzialmente contrapposto nell’individuazione di un fruitore giovane e acculturato, che punta verso un prodotto economico ma di qualità. Non è quindi lo stesso pubblico, dal momento che il romanzo continuerà, in un decennio che lo vede ad ogni modo in una situazione di crisi, ad esprimere i sostanziosi successi di vendita dei bestsellers internazionali (per esempio Il Padrino di Puzo) e italiani (per esempio la linea del romanzo ‘ben fatto’ dei Cassola, Arpino, Bevilacqua, Chiara e così via). D’altronde, quella del romanzo è una crisi che, sotto il profilo teorico, ha radici ben più lontane che non la protesta sessantottesca, determinandosi già nei primi anni Sessanta con la sostituzione dell’”ideologia letteraria” alla scrittura da parte della neoavanguardia. Scrive Alfonso Berardinelli: Lo stesso concetto di letteratura si era modificato. [...] Alla lettura di romanzi e poesie si era sostituita la letteratura della saggistica. E questo trovava le sue ragioni già nel trionfo della letteratura neoavanguardistica degli anni Sessanta. L’ideologia letteraria, l’attivismo autopropagandistico e autopromozionale degli scrittori d’avanguardia, la loro passione per l’autoesegesi terroristica [...] avevano finito per dare l’impressione [...] che, dal momento che non si trattava di scrivere opere ma anti-opere [...], ciò che infine contava non erano gli scrittori ma gli ideologi: non era tanto saper scrivere quanto saper creare intorno ai propri testi l’indispensabile involucro [...] che garantiva della validità testuale e storico sociale dell’oggetto. Perciò l’azzeramento della letteratura, in quanto insieme di opere complesse con le quali autenticamente misurarsi nel processo aleatorio e impegnativo della lettura, era già avvenuto prima del ‘68.13

Quanto alla neoavanguardia poi, il pragmatismo del movimento studentesco ne decreterà il superamento, conglobandone alcuni membri al proprio interno.14

12 Ivi, p. 1148-1149. Il corsivo è dell’autore. 13 A. Berardinelli, Su alcune trasformazioni dell’idea di letteratura nel corso del decennio Settanta, in AA.VV., La cultura del Novecento, a cura di A. Berardinelli e C. Di Girolamo, Milano, Mondadori, 1981, pp. 419-444. 14 Esemplare al riguardo il percorso di Nanni Balestrini, che con l’adesione alla “lotta di classe, passa dal tutto-forma di Tristano (1966) al tutto-contenuto di Vogliamo tutto (1971)”. S. Tani, op. cit., p. 35.

16 Dopo il ‘68 persiste la domanda di saggistica e la critica del romanzo come genere borghese, ma si assiste progressivamente al ritorno dell’editoria tradizionale: a partire dal 1972, infatti, “le grandi case riuscirono a rilanciare il tascabile, in una nuova versione di attualità e saggi che doveva garantire la mediazione dell’industria culturale rispetto ai nuovi bisogni”.15 Si assiste così alla “pubblicazione di opere destinate al mercato sempre più vasto dei giovani, soprattutto studenti”, con “introduzioni ben fatte, apparati critici- bibliografici, una grafica elegante”.16 Nascono quindi gli “Oscar studio” di Mondadori, “I satelliti” e “I delfini” di Bompiani, viene ristrutturata da Rizzoli la vecchia BUR, non più come “ricettacolo di vecchie edizioni letterarie”, ma con una forte “attenzione alla saggistica di alto livello”.17 E’ una situazione che dopo gli anni più ‘duri’ delle lotte studentesche e operaie, vede un progressivo ritorno delle fortune del romanzo, soprattutto nelle consuete forme del bestseller straniero e del romanzo tradizionale, ma sembrano coesistere richieste di una narrativa più qualificata, che giustificano il successo di prodotti difficili, come Corporale di , o, al contrario, volutamente leggibili, come La Storia di Elsa Morante, entrambi del 1974. Succede così che comincia timidamente a prendere forma il ‘romanzo di movimento’, con una natura memorialistica e autoriflessiva.18 Un primo esempio del ritorno alla forma narrativa da parte di chi ne aveva decretato la fine, è Cani sciolti, di Renzo Paris. L’autore confesserà anni dopo di aver voluto “ritrovare a tutti i costi la capacità di ridire, per giunta in mezzo a gente che aveva tolto la parola agli scrittori, che li voleva militanti”.19 Quello della militanza era in effetti l’aspetto predominante che veniva richiesto alla figura dello studente come dell’intellettuale: “la militanza - dice sempre Paris - doveva coprire proprio tutte le ore della giornata. Scrivere era spia di un lusso, di un privilegio di classe”.20 Il romanzo di Paris manca di determinate caratteristiche di quello che sarà definito ‘romanzo di movimento’, a cominciare dall’età dell’autore, che a ventinove anni non si poteva certo definire giovanissimo, soprattutto se confrontato ai venticinque anni di Lidia Ravera, coautrice di Porci con le ali, o al ventitreenne Palandri di Boccalone, ma ne

15 G. Ragone, op. cit., p. 1150. 16 A. Cadioli, L’industria del romanzo. L’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni Ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 143. 17 Ivi, p. 144. 18 Si può leggere in questo un’anticipazione del ritorno alla soggettività che sarà proprio della narrativa degli anni Ottanta, ma al tempo stesso un’assimilazione del soggettivismo che, attraverso la narrazione in prima persona, aveva caratterizzato la reazione alla narrativa neorealistica. 19 Cinque domande di a Renzo Paris, in R. Paris, Cani sciolti, Ancona, Transeuropa, 1988. 20 Ivi, Introduzione.

17 condivide una peculiarità, il fatto cioè di essere pubblicato da un piccolo editore dell’area alternativa. Cani sciolti, infatti, esce nel 1973 per le edizioni Guaraldi di Rimini, legando per primo le sorti del ‘romanzo di movimento’ all’editoria della controcultura: Porci con le ali verrà pubblicato da Savelli nel 1976, Boccalone uscirà per L’Erba Voglio nel 1979. Comune sarà anche il destino dei tre romanzi per le edizioni successive: un’assimilazione da parte dell’editoria tradizionale li coinvolgerà tutti, e se Cani sciolti dopo una prima riedizione ad opera della Savelli (1974), troverà spazio all’interno del catalogo di Transeuropa, nello stesso anno, 1988, in cui si avrà anche l’edizione Feltrinelli di Boccalone, poi riedito anche da Bompiani nel 1997, ben altra sorte subirà Porci con le ali; vero simbolo dell’integrazione della voce giovanile all’interno di un sistema culturale ricostituito, verrà “ristampato da un editore non certo di sinistra come Rizzoli (Biblioteca Universale Rizzoli, 1985), che ha [tolto] il “dialogo a posteriori” di Giaime Pintor e Annalisa Usai [...] sostituendo la presentazione originale con una frettolosa e moralistica introduzione di Alberoni; persino la “spinta” copertina savelliana a nove pannelli è stata castigatamente rimpiazzata con il disegno di un busto di fanciulla nuda dietro cui occhieggia il manifesto (mai nominato nel testo)”.21 La vicenda editoriale di Porci con le ali sembra essersi oggi conclusa con l’edizione 1997 nei “Miti” di Mondadori. Porci con le ali esce dunque nel 1976, in un periodo già nettamente diverso dal 1973 della pubblicazione di Cani sciolti, la cui volontà memorialistica nei confronti del 68 può anche essere letta come risposta ad un triennio che aveva visto manifestarsi, dopo la ribellione studentesca e l’autunno caldo del ‘69, il contraccolpo dell’ondata di destra, “che si traduce nell’espansione organizzativa del MSI, nei suoi successi elettorali favoriti anche dagli attentati attribuiti alla sinistra, da Piazza Fontana in poi”.22 Il 1976 si configura invece come termine di un triennio diametralmente opposto al precedente, “caratterizzato dall’emergere del PCI con una forza di consenso quasi pari a quella della DC”.23 Porci con le ali, primo volume della collana “Il pane e le rose”, riflette questa mutata situazione sociale, proponendosi come prodotto educativo per la formazione di una determinata classe di età: Nei volumi della collana [...] la ricerca del nuovo investe i metodi stessi dello studio e della scrittura [...] L’età del pubblico a cui Porci con le ali e tutti gli altri titoli si rivolgono, i sedici- diciotto anni vivi e contraddittori delle piazze e delle scuole, la sua voglia di capire e

21 S. Tani, op. cit., pp. 64-65. 22 G. Galli, Un politologo e molti romanzi, in AA.VV., Pubblico, a cura di V. Spinazzola, 1987, pp. 52-74. Bisogna precisare che, tranne casi sporadici, la sinistra di cui si parla è quella extraparlamentare. 23 Ibidem. Il triennio 1974-76 vede una crescita continua della sinistra, dapprima implicitamente attraverso la vittoria del no al referendum sul divorzio del 1974, poi con la salita del PCI ai massimi livelli storici nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976.

18 la povertà dei mezzi di approccio alla ‘cultura’ con cui la classe dominante lo ghettizza, rendono essenziale, determinante questo sforzo. “Il pane e le rose” vuole dare strumenti di comprensione, di analisi della condizione giovanile, di riflessione e di dibattito.24

L’iniziativa di cui Porci con le ali è la prima espressione nasce quindi con un proposito ben preciso, “analisi della condizione giovanile”, e con un ancor più preciso destinatario, i sedici-diciottenni “delle piazze e delle scuole”. La lettura dell’indice dei capitoli del libro, piuttosto dettagliato, rivela i campi d’indagine dell’analisi, fissando al tempo stesso un elenco di materiali che, assieme ai procedimenti strutturali e testuali del romanzo, costituirà il canone del ‘romanzo di movimento’: piacere personale, scuola, noia e paranoia, musica pop, manifestazioni, amore e morte, sesso, femminismo, esperienze omosessuali, torneranno con poche varianti perfino nei romanzi giovanili degli anni più recenti (basti pensare al primo lavoro di Brizzi). Quanto al destinatario esplicito, bisogna registrare una sorprendente variazione che il mercato ha effettuato sui propositi degli autori: da prodotto di “un piccolo gruppo di intellettuali militanti della sinistra rivoluzionaria, destinato ai più giovani aderenti dei gruppi estremisti in una sorta di operazione pedagogico-letteraria”25, il libro della Savelli divenne un bestseller del mercato librario, primo nella classifica delle vendite per dodici settimane consecutive, ancora nelle prime posizioni un anno dopo. Nato come prodotto alternativo Porci con le ali è subito assimilato nel circuito ricettivo della grande editoria, diventando “un oggetto di consumo come altri romanzi più tradizionali”26 e rappresentando così l’ingresso dei ”tratti giovanilistici del movimento [...] come esperimento di scrittura di massa nella dimensione produttiva, industrializzata e tecnologizzata dell’immaginario collettivo”.27 In questo senso, è un primo segnale, per la grande editoria, delle possibilità potenziali di mercato della narrativa giovane, segnale peraltro inascoltato se è vero che bisognerà aspettare il successo di Boccalone, edito pure da una casa editrice di movimento, per poi giungere alla definitiva acquisizione della giovane narrativa da parte dell’editoria tradizionale, con Altri libertini e Feltrinelli appunto. Ritornando a Porci con le ali, il suo successo segnala d’altronde anche il suo carattere di romanzo tutto sommato tradizionale: ”Porci con le ali non aveva nessun tratto innovatore, nemmeno nell’estremo realismo del linguaggio che voleva riprodurre quello degli utenti cui il romanzo era destinato; e anche lo spaccato di vita che rappresentava non portava certo innovazioni nella struttura della narrativa”.28

24 L. Ravera-M. Lombardo-Radice-G. Pintor, Presentazione, in Rocco e Antonia, Porci con le ali, Roma, Savelli, 1976, pp. 8-9. 25 F. La Porta-M. Sinibaldi, op. cit. 26 A. Cadioli, op. cit., p. 170. 27 G. Ragone, op. cit., p. 1158. 28 A. Cadioli, op. cit., p. 170.

19 Ad ogni modo Porci con le ali si pone come capostipite del ‘romanzo di movimento’, del quale propone gli schemi fondamentali già nel titolo completo. In esso infatti, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, compaiono elementi imprescindibili di questi romanzi, a cominciare dalla forma diaristica, che diventerà un modello per questo tipo di produzione: essa, in forme più o meno fedeli al genere e con un’estensione variabile rispetto al testo, ritornerà come caratteristica costante perfino in opere anche cronologicamente lontane dal periodo, che vi si possono perciò riferire con una prospettiva storica più compiuta, come per esempio Generazione di Marco VanStraten (1987), o in prodotti come Altri libertini di Tondelli, che definire ‘romanzo di movimento’ è assai riduttivo. Si ha quindi come figura costante un io-narrante protagonista che racconta le proprie esperienze, una testimonianza che annulla completamente il distacco tra realtà e soggetto. La mescolanza di sesso e politica è un altro tratto comune, sempre più diretto verso una personalizzazione della politica, una sua interiorizzazione, aspetto questo che sembra estendersi più in generale all’intera percezione della realtà. E’ un fatto che non compare “nessun collegamento con la storia, con lo svolgersi reale della lotta politica, in qualsiasi modo essa voglia essere intesa”.29 Tant’è che per Rocco e Antonia l’evento storico, la manifestazione per la morte di un compagno, diventa importante soprattutto perché consente loro di conoscersi meglio, e simile è l’uso che viene fatto dei dibattiti e degli incontri. Da ultimo nel titolo vengono richiamati i protagonisti della storia, “adolescenti”, protagonisti comuni a tutti i ‘romanzi di movimento’, che non possono prescindere dalla giovane età dei personaggi e che anche per questo vengono spesso ad assumere un carattere ed una struttura da bildungsroman. Altro importante elemento, poi comune ai prodotti di questo tipo, è il fatto che Porci con le ali non è che una storia d’amore, col suo inizio, lo svolgimento e la fine, ed è estremamente significativo che questo tentativo di ritorno alla narrazione dopo anni di contestazione del romanzo come prodotto borghese di evasione, si sviluppi in una direzione di piena continuità con la tradizione del romanzo, e per di più secondo i canoni classici del rapporto di coppia: dopo anni di messa in discussione dell’istituzione famiglia, la via che i protagonisti scelgono è sempre la “ricerca di un rapporto di coppia stabile e sereno”30, ricco di discussioni e messe in discussione, ma nel quale i problemi sono ancora e sempre la gelosia e il tradimento. L’esigenza ad ogni modo di porre al centro del romanzo il proprio rapporto d’amore registra la tendenza verso il ripiegamento sul privato e l’abbandono dell’impegno politico

29 M. Bertoli, Raccontare il «doposessantotto», in AA. VV.,Pubblico, a cura di V. Spinazzola, 1989, pp. 72-83. 30 Ibidem.

20 come momento costitutivo fondamentale dell’individuo. E’ interessante perciò osservare che Porci con le ali riprende in più parti la considerazione sull’impegno che Paris aveva evidenziato a proposito di Cani sciolti, vestendola di toni ironici e collegando, come programmaticamente avviene nel titolo, sesso e politica: Per ristabilire la sua supremazia dopo ogni scopata doppia [...] Carlo scriveva su un taccuino bisunto le scadenze del giorno dopo: ore 14, volantini fabbrica; ore 17, riunione commissione operaia; ore 21, dibattito cineteca. Per lui avere un’ora libera equivaleva più o meno al furto con scasso del salvadanaio di una vedova. [...] Anche fare l’amore con me era una specie di lavoro e ci metteva l’impegno necessario. Fra una scopata e l’altra, naturalmente, c’era il vuoto [...] Lui si sentiva male veramente, ma solo perché non era in una riunione, non stava prendendo accordi per un futuro impegno. Sul letto non riusciva a far salire le masse popolari.31

L’impegno politico, anche per la connotazione marcatamente adolescenziale dei protagonisti, pur costantemente presente nelle pagine del romanzo, quando non diventa occasione d’incontro, entra in rapporto conflittuale con le situazioni sessuali e la storia d’amore dei personaggi, se non addirittura con un più generale utilizzo del proprio tempo. Se a questo si aggiunge il notevole spazio dedicato alle fantasticherie dei personaggi, a volte legate all’autoerotismo, ma più spesso libera espressione dell’immaginario dei due, soprattutto di Antonia, si può ben dire che Porci con le ali anticipa, anche in senso letterale, le rivendicazioni del vicino movimento giovanile del ‘77, in due suoi significativi slogan come “il personale è politico” e “l’immaginazione al potere”.32 C’è un motivo in Porci con le ali, strettamente legato alla situazione storica, che subirà un’interessante evoluzione negli anni successivi: vi si riscontra, infatti, se non un contrasto vero e proprio, una contrapposizione generazionale, che significativamente trova il suo terreno più fertile all’interno della famiglia.33 L’esempio più riuscito è l’antagonismo continuo tra Rocco e il padre, iscritto al PCI, un motivo che riflette il contrasto che, a livello più generale, si registrava in Italia tra sinistra tradizionale e i gruppi extraparlamentari sviluppatesi a partire dal ‘68. Da questo punto di vista Porci con le ali ha una duplice caratterizzazione: se da un lato riflette un’atmosfera di ottimismo legata al momento storico, che vedeva le sinistre in

31 Rocco e Antonia, op. cit., p. 144. 32 Porci con le ali si sviluppa in un alternarsi di momenti reali, fasi epistolari e tratti dedicati all’immaginazione. Gli ultimi sono a volte comuni ai due protagonisti, come nella “fiaba femminista” che Antonia racconta a Rocco nel capitolo IX, o nel loro fantasticare sul possibile figlio (cosa questa che sembra ulteriormente fugare ogni possibile dubbio sulla convenzionalità del loro rapporto di coppia, in piena linea con la tradizione del romanzo). 33 In Porci con le ali il rapporto con la famiglia è molto sviluppato. In seguito, anche per le mutate condizioni politiche, che pregiudicano un’intesa col “padre” PCI, la famiglia assumerà un ruolo sempre minore (in Boccalone per esempio è ancora presente ma è meno importante, anche se oggetto di critica e riflessione), fino quasi a scomparire (in Altri libertini assume valore più che altro per la sua assenza). Si deve ad ogni modo notare che la maggior età dei protagonisti, per lo più universitari, postula di per sé una maggior indipendenza.

21 ascesa, atmosfera che si estrinseca nell’intento per così dire “pedagogico” del romanzo, dall’altro lato registra quella sfiducia da parte giovanile verso la politica del PCI che sarà fondamentale nel movimento studentesco dell’anno successivo. E’ una tensione che esplode nel 1977 ma che ha un’importante motivazione storica nelle elezioni politiche del 1976, quando al successo del PCI corrispose una sostanziale tenuta della DC, nonostante le previsioni della sinistra, e soprattutto il fallimento del tentativo di coagulare attorno a Democrazia Proletaria la sinistra extraparlamentare, che non riscosse il consenso dell’elettorato, fermandosi ad un inutile 1,5 %. Tramontata così la possibilità di influire in maniera politica sulle scelte del PCI, fu proprio la tipologia di queste scelte a determinare una frattura irrecuperabile con la sinistra extraparlamentare e più in generale con la fascia giovanile e studentesca. La linea berlingueriana del “compromesso storico” e la candidatura del PCI a partito di governo, lo portarono ad “assumersi il ruolo di garante della conflittualità sociale [...] mentre [...] si candidava, nel confronto con i ceti industriali, a forza capace di promuovere la fuoriuscita dalla crisi produttiva”34, tramite la “politica dei due tempi”, che prevedeva la preventiva accettazione di sacrifici da parte della classe operaia per favorire la ripresa economica, in vista di una successiva partecipazione al miglioramento sociale. In realtà, quello che era mancato alla politica del PCI è stata la capacità di comprendere le trasformazioni del processo di produzione e della giornata lavorativa introdotte dalla “riconversione industriale” iniziata nel 1974 con la crisi del petrolio. Nuove figure si affacciarono sul mercato del lavoro, con una collocazione ‘non garantita’: studenti, giovani proletari e donne andarono a costituire questa nuova fascia caratterizzata dalla semidisoccupazione e dal precariato. Furono queste le componenti del movimento del 77, che pose al centro della discussione proprio il problema del lavoro e delle sue trasformazioni; furono queste le componenti che il movimento operaio storico, nelle sue vesti istituzionali di partito e sindacato, non riuscì a comprendere, arroccato com’era nel concetto della centralità operaia, considerandole marginali rispetto al sistema del lavoro produttivo. La ristrutturazione dell’attività lavorativa secondo caratteristiche di precarietà e di incertezza, ne comportò parimenti una concezione “come dato occasionale piuttosto che fondamento costitutivo delle proprie esistenze”.35 Su questo piani si sviluppò il contrasto irrimediabile con la classe operaia tradizionale: Il concetto del rifiuto del lavoro che aveva attraversato tutti gli anni sessanta e la prima metà dei settanta aveva finalmente trovato la sua generazione più compiuta, una generazione che di questo concetto faceva il proprio elemento di identità culturale, sociale e politica.36

34 N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., pp. 530-31. 35 Ivi, p. 532. 36 Ivi, p. 531.

22 L’incomprensione e l’estraneità reciproca tra giovani del movimento e movimento operaio storico era a quel punto inevitabile, e diventò la componente interna alla classe che alimentò un conflitto politico e culturale estesosi a tutti i campi del sociale. L’occasione per l’avvio della protesta nacque nell’università, in seguito all’emanazione della circolare Malfatti - ministro della pubblica istruzione - del dicembre ’76, che rimetteva in discussione alcune delle conquiste studentesche del ‘68. L’occupazione partì dall’ateneo di Palermo e si estese presto ad altre facoltà, per prime Torino, Pisa, Napoli e Roma, coinvolgendo a fianco degli studenti gli insegnanti precari, pure penalizzati dalla circolare. Di qui tutta un escalation di assemblee, cortei, manifestazioni, scontri che coinvolgerà l’intero paese, ad opera di “un movimento che si sviluppa dal basso e inizia a rivendicare la propria autonomia”37 dalle istituzioni e dai partiti più in generale; dai quali tutti, senza esclusione alcuna, viene sentito come un’inaccettabile provocazione da eliminare, una “follia” - per usare la definizione dell’allora ministro dell’interno Cossiga - contro cui è necessaria la mobilitazione di tutte le forze dello Stato: l’esempio più eclatante è l’occupazione militare della zona universitaria a Bologna, da parte dei carabinieri forniti persino di mezzi blindati, all’indomani della manifestazione romana del 12 marzo. La repressione da parte delle istituzioni da un lato e lo sviluppo della lotta armata dall’altro, finirono presto per condurre il movimento in un vicolo cieco. Soprattutto il terrorismo ebbe molte “responsabilità per l’abbandono di traguardi collettivi e per il trionfo del ‘riflusso’. Esso tolse qualsiasi spazio politico alla protesta sociale, rendendo inevitabile la sola scelta tra l’accettazione dello status quo e le bande armate”.38 Ad ogni modo, fin dall’inizio fu chiara la differenza con il 68: quello del ‘77 fu “un movimento sociale politico e culturale, che si presentò [...] con caratteristiche irriducibilmente rivoluzionarie. [...] Il ‘68 fu contestativo, il ‘77 fu radicalmente alternativo”.39 L’alternatività si espresse di volta in volta nel rifiuto del lavoro, nella delegittimazione delle forme politiche tradizionali, nell’attenzione verso tutto quanto veniva considerato marginale, nella riconsiderazione della propria sfera personale40, in un più generale ritorno alla creatività, conseguenza anche del tramonto delle ideologie, nella mancanza di un progetto politico vero e proprio, sostituito dalla critica e dalla discussione su tutto, senza temi prioritari, nell’illusione di una trasformazione del quotidiano nella sua interezza. Scrive Generoso Picone:

37 Ivi, p. 534. 38 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. II, Torino, Einaudi, 1989. 39 N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., p. 527. 40 Significativo,a questo proposito, il fatto che il mercato della saggistica constati una virata dalla sociologia e dalla politica verso la psicologia e la psicanalisi.

23 Il movimento che nasce da quei giorni si rende infatti interprete di una forte ansia di cambiamento producendo una cultura che mette insieme, quasi in un bricolage intellettuale, frammenti dei saperi degli anni sessanta e settanta, le esperienze artistiche di allora - dallo sperimentalismo linguistico della neoavanguardia alla cosiddetta letteratura selvaggia, i materiali più originali della psicoanalisi e quelli della filosofia - montati su un tessuto narrativo e poetico che si presenta come una vasta e variegata gamma di citazioni intenzionalmente disorganizzate, un sistema di interpretazione prima di se stessi e poi del mondo. Il frutto di tanto impegno dà vita a testi e pubblicazioni in mille rivoli editoriali e para-editoriali.41

In effetti è in questo periodo che la comunicazione alternativa registra il suo massimo sviluppo, dotandosi di proprie strutture tecniche e distributive, attraverso l’autofinanziamento e la sottoscrizione, in un’interpretazione del lavoro intellettuale che lo vede gratuito e volontario. Nascono “decine e decine di librerie, di centri di documentazione, di circuiti di distribuzione autogestiti, di piccole case editrici originali e creative. Le riviste che nascono in quel periodo si appoggiano [...] quasi tutte all’interno di questo circuito informale di produzione”.42 Manca ancora il libro, se non nelle forme del diario e del manuale alternativo, assenza che evidenzia il difficile rapporto tra i giovani del movimento e la scrittura. Il profondo cambiamento nel linguaggio che il movimento del ‘77 impone, privilegia altre strade, più immediate e praticabili che non quella più riflessiva e laboriosa del libro. E’ così che tra l’inverno 1976 e il luglio ‘77 esplode un fenomeno senza precedenti: la nascita di 69 nuove testate con una tiratura complessiva di 300mila copie di cui 288mila vendute, stampate in nove regioni diverse d’Italia [...] in una sorprendente omogeneità di linguaggi [...]. La quotidianità vissuta come momento rivoluzionario in tutte le sue componenti deve bruciare il massimo di inventività e creatività. Di qui l’uso ironico del linguaggio, il nonsense [...] Radio Alice rompe tutti i termini della comunicazione. Cosa mai fatta nella sinistra italiana, il movimento rivoluziona il linguaggio con una ricerca consapevole. Inventa nuovi metodi di stampa con ritagli di giornale, pennarelli e carta bianca battuta a macchina e applicata su lucido crea un nuovo esecutivo di stampa che permette una libera impaginazione uscendo dagli schemi tipografici.43

E’ un’editoria completamente diversa dal tradizionale apparato industriale della cultura, evita la programmazione all’interno di un preciso progetto culturale, e si indirizza verso un’informazione improvvisata ma immediata, all’interno di un circuito relativamente piccolo, caratterizzato quindi da basse tirature, che necessita di tempi di produzione molto veloci. In parallelo il boom delle ‘radio libere’ concorre in maniera costruttiva alla rivoluzione del linguaggio ed all’organizzazione dell’informazione:

41 G. Picone, op. cit., p. 33. 42 N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., p. 587. 43 Ivi, p. 590-91.

24 con le radio private [...] si riorganizza il consumo giovanile intorno ai nuovi linguaggi, fortemente debitori della radiofonia (la voce inserita nel flusso dei movimenti musicali [...] e come interazione diretta attraverso le telefonate, partecipazione emotiva e in senso reale agli avvenimenti e alle tematiche apparentemente poco aggregate, instabili, del movimento al vissuto).44

E’ una riorganizzazione della quale i responsabili sono pienamente consci, esemplificabile nell’autodefinizione di Radio Alice come “operatività linguistica collettiva e sovversiva”.45 Di non poco conto infine, all’interno degli strumenti di comunicazione, il rilancio della satira e del fumetto underground, ai quali viene pure demandato il compito di veicolare i contenuti del movimento al resto della società. Dai primi giornali underground “Cannibale” e “I quaderni del sale”, passando per “L’Avventurista”, inserto satirico di “Lotta Continua”, fino al più tardivo (nasce a febbraio 1978) e fortunato “Male”, indipendentemente dalla tiratura reale, si cercò di affrontare il problema della comunicazione, con l’ambizione e il proposito di parlare a tutti, attraverso strumenti che fossero più comprensibili a livello di massa, come appunto il fumetto. Il contenuto denunciava la miseria della vita quotidiana e il mito di una società ordinata e razionale, in un contesto non di evasione quindi ma di intervento concreto nella realtà, come si può facilmente esemplificare dal ruolo di veicolo di controinformazione svolto dal “Male” all’indomani del sequestro Moro, in un periodo cioè in cui i media ufficiali operavano la celebrazione dell’ex presidente democristiano. Ebbero il merito tra l’altro di essere il luogo d’esordio dei protagonisti del nuovo fumetto italiano, dal momento che i vari Tamburini, Pazienza, Liberatore iniziarono le loro carriere sulle pagine di “Cannibale” e attraversarono l’esperienza del “Male”. La rivoluzione del linguaggio pertanto, quella che Eco ha definito “pratica quotidiana [del] linguaggio dell’avanguardia”46, si estende alle varie forme di comunicazione e diventa d’ora in avanti un tratto identificativo e ineliminabile della letteratura di movimento, che sul versante narrativo comincerà a dar prova di sé poco tempo dopo con Boccalone (1979), la prova d’esordio di Enrico Palandri. Nel frattempo, le sue caratteristiche salienti sono già patrimonio dell’espressività del movimento: la gergalità, la rivendicazione sistematica del parlato, il recupero programmatico della marginalità attraverso l’adozione del comico e del basso, l’intreccio di differenti forme di comunicazione, il nesso tra creatività e spontaneismo, l’unione di vita privata e impegno pubblico, una forte spinta antiautoritaria, confluiranno nei prodotti letterari che dal

44 G. Ragone, op. cit., pp. 1158-59. 45 Alice è il diavolo, Milano, L’Erba Voglio, 1976, ora anche in N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., p. 605. 46 U. Eco, C’è un altra lingua: l’italo-indiano, in “L’Espressso”, 1977, n.14, poi in Id., Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983, e in N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., pp. 608-612.

25 movimento traggono origine, accorpati da un’esigenza di antiletterarietà dettata dal persistere della concezione del romanzo come genere borghese prodotto dell’industria culturale. Nel 1978 però, prima che Boccalone compendi in narrazione le istanze dei giovani del ‘77, viene pubblicato un romanzo che occupa una posizione fondamentale nella storia letteraria degli ultimi decenni, destinato a influenzare profondamente la scrittura posteriore sia in senso stilistico sia come riferimento iniziale, e cioè Lunario del paradiso di . Già nelle prove precedenti, fin dal primo Comiche (1971), la scrittura di Celati si era mossa in una direzione fortemente convergente con talune posteriori istanze della protesta giovanile. Due tematiche soprattutto sembrano anticipare esiti che saranno propri della scrittura legata al movimento del ‘77 (ma che erano già presenti nella protesta beat di oltre dieci anni prima): la conflittualità con ambienti e istituzioni repressive, e la ricerca di una forma antiletteraria attraverso l’adozione del parlato.47 A ben guardare sono i due lati, contenutistico e stilistico, di un medesimo atteggiamento, vale a dire la conflittualità. Sul versante del contenuto, infatti, i personaggi celatiani si devono scontrare con ambienti repressivi, incarnati in un primo momento da “ambigui edifici-istituzione totalitaria”48 (l’albergo-manicomio di Comiche, l’ospedale-lager di Le avventure di Guizzardi), che, significativamente, assumono nel più tardo La banda dei sospiri, del 1976, le vesti della famiglia (non a caso piccolo-borghese), in parallelo con quanto succede per esempio in Porci con le ali, dove la famiglia diventa luogo privilegiato per lo scontro generazionale. Sul piano dello stile l’antiletterarietà è l’espressione del contrasto con l’istituzione letteraria, nonché una necessaria conseguenza dell’adozione di personaggi che nella struttura sociale occupano una posizione marginale, siano essi un professore paranoico, un folle, un bambino. L’adozione del parlato prende così il valore di un ricongiungimento “ad una tradizione di scrittura antiletteraria che individua nella lingua del pazzo o dell’emarginato quella dell’unico artista possibile in una società repressiva”.49 Rispetto alla successiva letteratura giovane, si deve inoltre segnalare l’adozione di un io-narrante protagonista, elemento che ne diventerà un tratto irrinunciabile, per quanto più in generale la narrazione in prima persona sia una scelta assai diffusa nella narrativa degli anni Settanta.

47 Tondelli sarà fortemente debitore a Celati per la tematica del confronto con le istituzioni, che ne attraverserà l’intera produzione narrativa, vestendo spesso gli stessi panni di marginalità propri dei protagonisti celatiani, rinunciando però alla loro connotazione comica. 48 S. Tani, op. cit., p. 47. 49 Ibidem.

26 Lunario del paradiso conferma le caratteristiche appena descritte, alle quali peraltro dà una consistenza meno accentuata, operando inoltre un’importantissima evoluzione: aumenta la concretezza dell’io-narrante, attribuendogli una valenza autobiografica che lo trasforma da figura quasi fumettistica in vero e proprio personaggio a tre dimensioni. Tramite il recupero del proprio passato e la sua utilizzazione come materiale narrativo, segnala l’esigenza di un ritorno verso il privato che al tempo stesso si configuri come momento di comunicazione proprio attraverso la sua esposizione. Contemporaneamente, ambientando nei primi anni Sessanta la storia di un personaggio che è palesemente “figlio [...] della nuova stagione dei desideri del ‘77”50, svolge, proprio all’indomani dell’esplosione del movimento, un’operazione di periodizzazione e di consuntivo dell’epoca della protesta giovanile, collegandone inizio e fine anche attraverso l’adozione di una cornice metanarrativa. Ne risulta un testo che, se si propone come un modello da imitare, lo fa all’interno di una concezione esplicita di prodotto letterario. Se infatti la costruzione di un personaggio ‘vero’ e non una figurina rappresenta indubbiamente un ritorno verso il romanzo tradizionale, l’adozione della cornice metanarrativa e l’interiezione tra momento della storia e momento della scrittura, tanto che non sempre è possibile stabilire a quale dei due siano da attribuire le considerazioni dell’io-narrante, operano un superamento rispetto alle istanze di antiletterarietà delle prove precedenti. Quello che viene ribadito sopra ogni altra cosa in Lunario del paradiso, è l’esigenza di un ritorno alla narrazione, richiamata di continuo nel testo attraverso l’evidenziazione dell’atto del raccontare, esigenza che raggiunge il suo apice nell’esortazione finale, dal duplice valore di invito verso il lettore e rimprovero verso il critico, a “farsi delle storie” più che a esprimere giudizi. Il tutto, superando il concetto di scrittura spontanea, all’interno di un canone del quale il romanzo diventa la proposta: io-narrante, scrittura autobiografica, adozione del parlato gergale, compresenza di narrazione e metanarrazione, recupero del privato e sua oggettivazione nel prodotto letterario che ritorna ad essere “ricomposizione e comunicazione dell’esperienza della vita”.51 Non a caso i due immediati epigoni di Lunario del paradiso assumono un analogo schema, con la medesima funzione taumaturgica dell’atto dello scrivere, nella stessa struttura di congiungimento tra tempo del racconto e tempo della scrittura. Boccalone di Palandri, in questo senso è più vicino al modello celatiano, mentre Altri libertini di Tondelli, assume tale struttura in Viaggio, l’episodio più lungo. E non è probabilmente un caso che entrambi gli scrittori siano stati allievi di Celati al Dams di Bologna.

50 G. Picone, op. cit., p. 27. 51 Ibidem.

27 Il romanzo di Palandri è un primo esempio dell’acquisizione delle proposte di Celati, da parte dei protagonisti del movimento del ‘77, in un contesto ancora denso di antiletterarietà, che risalta fin dai ringraziamenti iniziali: “questo non è un romanzo e [...] io non sono uno scrittore”.52 Proprio in questa direzione vanno accorgimenti stilistici come la decisione di usare lettere minuscole dopo il punto e per i nomi propri o l’ostinazione a considerare il libro un oggetto collettivo. Nonostante ciò, Boccalone è un prodotto letterario, nel quale l’attenzione costante verso l’oralità, il punto di vista dal basso, un sistema dei personaggi nel quale l’unico veramente concreto e dotato di voce è il narratore, il materiale autobiografico, l’interazione continua tra tempo della storia e tempo della scrittura, all’interno di una struttura pseudodiaristica, rivelano una filiazione diretta da Lunario del paradiso. Boccalone è il primo vero romanzo prodotto dalla protesta giovanile, ben diverso da Porci con le ali, che rivelava, fin dalla distanza anagrafica tra i personaggi e gli autori reali, un carattere di costruzione a tavolino. Qui, invece, si ha uno scrittore giovane - sulla base del testo il momento della scrittura va situato tra gennaio e marzo del 1978, quando Palandri aveva ventun’anni - che parla di eventi accadutigli meno di un anno prima, a ridosso del marzo bolognese, nel periodo cioè di maggior vitalità del movimento settantasettesco. Di quel periodo Boccalone è un testimone affidabilissimo: il libro di Palandri detiene infatti un grande valore documentario, sia sul piano della situazione reale, sia come catalogo dell’immaginario di una generazione, tanto che in questo senso gli si può veramente riconoscere quel carattere di prodotto collettivo su cui l’autore insiste tanto.53 Gli avvenimenti del ‘77 compaiono nelle pagine di Boccalone percepiti come sfondo, come scenario della storia che si sta svolgendo: la rivista “A/traverso”, le perquisizioni, il convegno di settembre a Bologna, la latitanza di Bifo, l’uccisione di Walter Rossi, si introducono tra le righe quasi inavvertitamente. Ben più evidente è la rappresentazione dell’immaginario del tempo, che fornisce un vero e proprio ritratto dei ragazzi del ‘77: a partire dalle citazioni preposte ad alcuni capitoli - di Rimbaud, Majakovskij, Verne, Dylan, Aragon - risaltano in Boccalone l’amore per la poesia trasgressiva e rivoluzionaria; l’interesse fortissimo per il cinema, che ritorna sistematicamente nelle vesti di Io e Annie di Woody Allen; la presenza della canzone di protesta americana, con testi di Bob Dylan riportati a volte in versione quasi integrale; lo

52 E. Palandri, Prefazione a Boccalone. Storia vera piena di bugie, Milano, L’Erba Voglio, 1979. 53 “dovremmo scriverle tutte assieme queste storie, con molte voci confuse assieme, dimenticate sulla pagina scritta” Ivi, p. 52. “le cose che gli amici mi hanno detto [...] sono tutte entrate nel racconto, lo hanno tutto bucato di cose che succcedevano nel frattempo [...] lui (il libro) è un brusio leggero, un racconto che non riguarda nessuno, e allo stesso tempo parla di tutti, [...] non sono e non voglio essere precisamente enrico palandri, ma qualcosa di simile; credo che questo sia un oggetto collettivo; il collettivo non appartiene più al progetto, fa parte dei miei sogni” Ivi, p. 134.

28 spazio che il fumetto va acquisendo tra le forme artistiche; il gusto per la scrittura spontanea, dai tentativi di giornali e prodotti collettivi ai bigliettini e alla lettere personali che trovano spazio all’interno della narrazione. In questa direzione è assai interessante il tentativo di estendere il ritratto generazionale alla lingua del romanzo, tentativo che è lo stesso Palandri a mettere in evidenza, sia attraverso le numerose riflessioni metanarrative, che esplicitano nel testo la ricerca della lingua adatta, sia nelle considerazioni della postfazione all’edizione Feltrinelli del 1988: le cose che si gridavano e i manierismi del famigerato sinistrese [...] venivano raccolte da un universo linguistico che si frantumava attorno a noi [...] per segnalarsi reciprocamente, attraverso il riconoscimento dato dal gergo, la presenza in quel nuovo italiano parlato per cui non c’era ancora una letteratura [...] la lingua è forse la spia più sensibile di questa struttura composita e disarticolata: c’è un po’ di politico, qualche canzonetta, la pressione dell’inglese [...], ma soprattutto moltissimi neologismi, esperimenti nel parlare.54

E’ qui evidente da un lato la presa di posizione contro il «letterario» nella sua interpretazione tradizionale, alla base della scrittura di Boccalone, dall’altro l’esigenza di creare una nuova letteratura costruita attorno a quel parlato di cui la produzione di Celati era stata un immediato esempio. Uno degli aspetti che Boccalone più illustra non ha a che fare però col linguaggio e si colloca sul piano del contenuto: tramite la narrazione della sua storia d’amore con Anna ed il rapporto che questa storia intrattiene con le attività politiche in senso lato, Palandri sviluppa nel romanzo il predominio del privato sulla sfera pubblica. Con Boccalone il processo di ridimensionamento e critica dell’impegno che aveva attraversato la scrittura di movimento da Cani sciolti a Porci con le ali, giunge al suo epilogo. Nonostante la presenza di riferimenti continui al collettivo e di attività culturali e sociali che per il loro contenuto diventano politiche (per esempio la redazione di una rivista alternativa), l’attenzione che il narratore rivolge agli effetti del suo impegno è direzionata verso se stesso, sia come meditazione su possibili conseguenze, sia come analisi della propria situazione e confronto con la storia d’amore. In questo confronto a prevalere sono sicuramente i sentimenti, l’analisi degli effetti che producono su di sé e nel proprio rapporto con gli altri. Il tono del romanzo rasenta spesso così quello dell’elegia, con una fortissima introspezione, fino all’analisi delle proprie reazioni, a volte a livello di vera e propria somatizzazione. Del resto, anche Boccalone, come già Porci con le ali, non è che una storia d’amore, nella quale, pur nella commistione di pubblico e privato caratteristica del movimento del ‘77, l’attenzione ai sentimenti è preponderante e la componente politica rimane sullo sfondo.

54 E. Palandri, Postfazione a Boccalone. Storia vera piena di bugie, Milano, Feltrinelli, 1988.

29 Il prevalere del sentimento a scapito dell’impegno diventa però anche una necessità, un bisogno che deriva dallo stato reale della situazione del movimento e dal suo rapporto- scontro con le istituzioni: un poco alla volta anna comincia a coprire tutti i miei desideri, è la sola persona che cerco, l’unico momento di tregua nella desolazione di un campo di battaglia in cui metà dei guerrieri sono stati feriti o catturati, e gli altri si nascondono, a covare la rabbia in privato, in un biglietto non pagato (non vogliamo pagare più nulla) o in una fuga d’amore.55

Prova ne sia il fatto che, successivamente, esauritosi il movimento giovanile, non avrà più significato parlare di binomi come privato/pubblico e personale/politico, che il riflusso avrà azzerato in un generale ritorno all’interno della sfera del singolo.56 La “ribellione [...] positivamente orientata alla costruzione di una distanza dai sistemi ideologici della generazione precedente”57, che Boccalone rivendicava, si trasforma a questo punto in comunicazione, mantiene il suo carattere antagonistico solamente da un punto di vista letterario, e diventa, sulle orme celatiane, riproposta di un (forzato) ritorno alla narrazione: con la fine del collettivo, il libro diventa l’unico tramite per “la comunicazione di una propria esperienza e di un proprio linguaggio reali”.58 Si assiste così al superamento delle istanze antiletterarie che l’autore stesso poneva come imprescindibili, ed è significativo che sia proprio Tondelli a percepire, immediatamente (1979), la letterarietà di Boccalone, individuando già nel sottotitolo il misto di realtà e finzione che è all’origine di un prodotto narrativo: Il sottotitolo del volume porta questa didascalia: Storia vera, piena di bugie. Palandri sembra affermare, con divertito stupore, il riavvicinamento alla letteratura. Sigla con essa un patto biografico e, nello stesso tempo, attraverso la consapevolezza della scrittura, la preoccupazione del linguaggio da usare, il taglio dell’azione, le contrapposizioni negli episodi, lo trasforma in operazione estetica. Il materiale di partenza è [...] la propria esperienza, ma [...] si instaura un filtro stilistico, una riflessione metatestuale sulla pratica della scrittura. Il romanzo è anche la storia dei mesi in cui è stato scritto, costruito con una tecnica di montaggio cinematografico.59

55 E. Palandri, op.cit., pp. 53-54. 56 Si noti a questo proposito che il riferimento a situazioni collegate alla fine degli anni Settanta nei prodotti degli anni immediatamente successivi, perde la caratteristica di fenomeno collettivo, e viene piuttosto vissuta in termini di clandestinità o di isolamento, con l’azione che diventa personale. Passata la mitizzazione settantasettesca, la marginalità ritorna ad essere solamente marginalità. Indicativa, come esempio, può essere la trattazione del terrorismo che si ritrova in A. De Carlo, Uccelli da gabbia e da voliera, Torino, Einaudi, 1982. 57 E. Palandri, op. cit., p. 144. 58 PV. Tondelli, Enrico Palandri, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., pp. 213-216. 59 Ibidem.

30 Boccalone diventa così - suo malgrado, forse - il segnale di un compiuto ritorno alla narrativa, un ritorno che è tale non solo dal punto di vista dell’autore, ma anche da quello del lettore, considerato il notevole successo di vendite che ottiene il libro di Palandri, anche se, “fortemente legato ad un linguaggio, uno scenario, una storia e dei riferimenti generazionali (anzi di una sotto-generazione), Boccalone sembra parlare ad un pubblico ridottissimo”.60 Di qui il ricostituirsi dell’interesse, da parte della grossa editoria, per il prodotto narrativo del giovane autore, che porterà l’anno seguente all’esordio di Pier Vittorio Tondelli. Altri libertini introduce subito però, rispetto ai prodotti precedenti, delle differenze, che sono sostanzialmente riconducibili ad una causa fondamentale: sebbene al momento della stesura di Boccalone il movimento del ‘77 si fosse di fatto esaurito, il romanzo di Palandri mantiene una collocazione interna ad esso; per l’esordio di Tondelli questo non avviene, e anche se le atmosfere e i personaggi sono fortemente orientati in quella direzione, si percepisce un distacco temporale, dettato dalla coscienza della fine di un determinato periodo. Dovendo usare una definizione, si potrebbe utilizzare per Altri libertini la qualifica di scrittura del post-movimento, o di scrittura di movimento a posteriori, per segnalare subito il motivo della sua diversità. La possibilità di una visione anche storicamente completa del periodo comporta infatti per Tondelli una serie di conseguenze inevitabili, prima fra tutte una maggior concretezza sul piano del realismo. La visione a posteriori implica la perdita dell’entusiasmo che spesso aleggia tra le pagine di Boccalone, sostituito dall’atmosfera di cupo pessimismo che invece si respira in molti luoghi di Altri libertini. Insieme al movimento scompare, inoltre, la spinta verso una scrittura spontanea, anarchica e soprattutto antiletteraria: Altri libertini, superato un approccio superficiale, rivela la sua natura di prodotto assolutamente letterario, a cominciare dalla presenza di un filtro biografico molto meno accentuato, per continuare con l’estrema attenzione stilistica che lo pervade, sia sotto il profilo linguistico che sotto quello dei percorsi testuali. Da un punto di vista più propriamente strutturale, la scomparsa di una progettualità politica che postuli una volontà di intervento sulla realtà per operarne il cambiamento, comporta, sul piano letterario, l’adozione di una certa episodicità all’interno del testo, “a favore dell’individuazione di un livello “basso” di osservazione delle cose, di un punto di vista frammentato come frammentato è il reale”.61 La narrativa sostituisce così la politica come strumento d’indagine sul reale, del quale privilegia le condizioni di marginalità, in piena continuità con la tradizione del movimento.

60 F. La Porta-M. Sinibaldi, op. cit. 61 G. Picone, op. cit., p. 38.

31 E’ questo il percorso che porta all’individuazione di un fenomeno sociale che avrà largo spazio nella prima narrativa tondelliana, vale a dire “il diffondersi di massa dell’eroina (diecimila drogati nel ‘76, 67-70.000 nel ‘78) come espressione di una radicale negazione dell’esistente”.62 In Altri libertini se ne ha una vera e propria rappresentazione, tanto che si potrebbe sostenere che, più che una situazione, la droga diventa un personaggio tra i più frequenti nel mondo narrativo tondelliano, analizzata com’è nelle sue varie sfaccettature. E non poteva essere diversamente, dal momento che la resa anche documentaristica della realtà è un obbiettivo che, fin dall’inizio, Tondelli ha perseguito nella sua produzione narrativa: “vorrei che dai miei libri scaturisse l’espressione di un’età, di un periodo”.63 La tradizione, quindi, nella quale Altri libertini si colloca è quella realistica, fatto questo che determina una profonda influenza del momento sociale sul prodotto letterario: i personaggi tondelliani subiscono gli effetti dello spaesamento del dopo ‘77, e in quanto tali sono accomunati da un identico motivo, la spersonalizzazione. Sono delle “soggettività smarrite, che cercano di reperire un’idea di se stessi attraverso quello che gli è attorno”.64 L’utopia giovanile che era partita alla ricerca di sé sulle orme della beat generation è infine approdata, con Altri libertini, ad “una lunga notte nei sotterranei della provincia irrequieta”.65

I.2 Un romanzo ad episodi.

Le sei storie che costituiscono Altri Libertini pongono immediatamente un problema di definizione: romanzo o raccolta di racconti? L’autore ha preferito usare la denominazione di “romanzo a episodi”66, e la parola romanzo compare anche nella copertina, sotto il titolo, nell’edizione originale del 1980, che la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato nella collana “I Narratori”. A rimarcare la scelta della parola romanzo troviamo nella quarta di copertina dell’edizione Universale Economica Feltrinelli il termine “episodi” riferito alle storie di Altri Libertini, e la definizione di romanzo che diventa un ritratto generazionale.67

62 N. Balestrini-P. Moroni, op. cit., pp. 665-666. 63 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 48. 64 E. Palandri, Altra Italia, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 18-25. 65 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 16. 66 Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di F. Piemontese, cit., p. 346. 67 “I sei episodi, storie di gruppi più che di individui, legittimano l’adozione di una vera e propria soggettività plurale, di un Noi narrativo che fa del romanzo un ritratto generazionale”. P.V. Tondelli, Altri Libertini, Milano, Feltrinelli, “Universale Economica”, 1987. D’ora in avanti, ove non diversamente specificato, i corsivi sono miei.

32 D’altro canto, parte della critica ha considerato la definizione “romanzo” come una scappatoia commerciale, un travestimento dei sei racconti per poterne assicurare una maggior vendibilità in un momento nel quale la rinascita del romanzo doveva ancora venire e la scarsità delle vendite dei prodotti narrativi italiani non incoraggiava certo la pubblicazione di una raccolta di racconti. Esemplificativo, a questo proposito, quanto scrive Stefano Tani in Il romanzo di ritorno: Altri libertini è una raccolta di sei racconti che viene fatta passare per romanzo per motivi di vendibilità68.

Bisogna peraltro far notare che subito dopo lo stesso critico parla, riferendosi alle sei “storie”, di “comune […] ambientazione”, ”simile mondo giovanile” e per quattro di esse di “stesso io narrante trasparentemente autobiografico”, affermazioni che potrebbero comunque far propendere per la definizione di episodi. Nell’ambito di una brevissima ricognizione critica risulta interessante notare che Filippo La Porta, nel suo recente La nuova narrativa italiana, definisce Altri libertini “romanzo d’esordio”, evita le parole racconti e episodi, sembra preferire termini come “storie”, “libro”, “opera prima”; poco più avanti ribadisce il termine “romanzo” in un confronto con il successivo Pao Pao69. Può darsi che La Porta non abbia esplicitamente affrontato il problema, ma è pur vero che più oltre nello stesso capitolo definisce Gli orsi di Silvia Ballestra “libro di racconti”70 e lo stesso termine usa altrove, per esempio a proposito di Marco Lodoli e Michele Serra71. Venendo ad affrontare più da vicino il problema, si consideri come Pier Vittorio Tondelli motivi la sua definizione di romanzo ad episodi con il riferimento ad una unitarietà che ha “come filo comune l’esperienza dei giovani degli anni Settanta fra viaggi ad Amsterdam e Londra, droga, lotte studentesche, ricerca della propria identità, utopie di libertà”.72

Le stesse ragioni vengono sostenute nella quarta di copertina della prima edizione: “romanzo sostanzialmente unitario che - dice l’autore - “è quello della mia terra e dei nostri miti generazionali””73. L’analisi del testo e della sua struttura fa emergere alcuni elementi che confermano le affermazioni dell’autore e conferiscono unitarietà all’opera, giustificando altresì la suddetta contestata definizione di “romanzo ad episodi”.

68 S. Tani, op. cit., p. 200. 69 F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 42-44. 70 Ivi, p. 71. 71 Ivi, p. 94 e p. 152. 72 F. Panzeri, Altri libertini, in “Panta”, 1992, n. 9, p. 11. Il n. 9 di “Panta” è interamente dedicato a Pier Vittorio Tondelli, che ne era stato uno dei promotori ed un costante collaboratore. 73 P.V. Tondelli, Altri Libertini, Milano, Feltrinelli, 1980.

33 Innanzitutto lo spazio nel quale si svolgono le storie è uno spazio per lo più limitato e comune, chiuso tra la città di nascita Correggio, Reggio Emilia e Bologna, e ancor più, all’interno di determinati ambienti di queste città. Le fughe stesse verso il mitico Nord e l’altrettanto mitico Mediterraneo svolgono una funzione di contraltare che consente di sviluppare il tema del ritorno e del rapporto con la propria terra, fondamentale in tutta la produzione di Pier Vittorio Tondelli. Questo tema - che verrà analizzato più avanti in maniera dettagliata - viene a coincidere - come fa notare Aldo Tagliaferri74 - con la riconquista dell’origine, il ritorno all’infanzia; soprattutto consente, dal punto di vista in esame, l’utilizzo di Correggio come spazio di una cornice che racchiude gli avvenimenti, luogo sia di un’immobilità che sembra diventare immutabilità nel ripetersi quotidiano delle situazioni, sia di una partenza e di un ritorno quando invece il movimento c’è. Come tale diventa luogo anche di un inizio e di una fine, contenitore entro cui si svolgono avvenimenti dislocati in uno spazio ben più ampio, grazie anche al diffuso utilizzo della forma diaristica e della rimemorazione. Un chiaro esempio di ciò è Viaggio, la terza storia del libro, nella quale l’uso appunto della terra d’origine come spazio-cornice consente di estendere lo svolgersi dei fatti in direzione opposta, fino ad Amsterdam e al deserto marocchino, senza nel contempo far venir meno la funzione unificatrice dello spazio nell’economia del romanzo. L’inizio e la fine di Viaggio sono fortemente significativi e ben chiariscono quanto affermato sull’uso della cornice: Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa così poi si riposa (AL p. 67);75

Agosto trascorre lento, solo, la notte a girare per la campagna e contare i pioppi sugli argini e bere. […] Sulla mia terra semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere (AL p. 130).

In relazione alla funzione dello spazio, si era precedentemente parlato di ambienti nei quali le vicende si snodano. E’ il ritornare, a volte quasi inavvertitamente o in modo apparentemente casuale, di determinati luoghi di una storia in un’altra, a creare una sottile trama che funge da collante tra i sei episodi. Così l’insegna luminosa del Bowling - o meglio del “BOWLING”, come scrive Tondelli cercando di tradurre in scrittura l’immagine visiva - che rischiarava la ferrovia in

74 Aldo Tagliaferri, Sul motore tirato al massimo, in “Panta”, 1992, n. 9, p. 12-17. 75 Per considerazioni di carattere funzionale d’ora in avanti i rimandi al numero della pagina citata si intendono riferiti - ove non specificato diversamente - all’edizione uscita presso Feltrinelli nell’ “Universale Economica” nel giugno 1987. Tale scelta è determinata dalla sua maggior reperibilità in commercio. A titolo informativo si aggiunge che lo scrittore aveva approntato una revisione parziale del testo, ma per la morte prematura non ha portato ad una nuova definitiva edizione.

34 Postoristoro, ritorna in Senso contrario - con la stessa grafia - come luogo di partenza della storia: E’ la luce dell’insegna intermittente del BOWLING che sovrasta questa zona della ferrovia dall’altro lato dello svincolo della sopraelevata e fiata quel giallo appannato in cui emergono le carrozze (AL p. 28).

la luce gialla del Bowling entra dai finestrini, sembra pulsare (AL p.29);

in Senso contrario Sulla terrazza del BOWLING una sera noiosa e ubriaca, bere martini uno dietro l’altro prima vodka e poi gin, sentire le chiacchiere di un tipo sballato che ne ha passate di tutti i colori perseguitato com’è da un Burberrys chiaro (AL p. 131).

Alla stessa maniera il Posto Ristoro di Reggio Emilia che da il titolo al primo episodio viene inserito alla fine di Viaggio: Al Posto Ristoro della stazione di Reggio bevo quattro fernet di fila poi mi metto a fare lo stop verso casa e arrivo che è notte (AL p. 130).

In questa maniera la circolarità delle singole storie non si esaurisce in esse, ma entra in un più ampio rapporto con le altre: così la localizzazione del Posto Ristoro di Reggio Emilia non si situa in qualche parte casuale del testo, ma alla fine di Viaggio (e del viaggio), avvolgendo in un unico medesimo punto spaziale l’eterogeneità delle vicende narrate. Anche questo contribuisce a rendere il libro un’opera omogenea e unitaria, un “romanzo” insomma più che una raccolta di racconti. Allo stesso modo “l’Autobrennero” che chiude il penultimo episodio, Altri libertini, ritorna quasi come co-protagonista nell’ultimo Autobahn come pure avviene per la radio libera di Mimi e istrioni, poi citata in Altri libertini, o per il caffè ristorante Fini di Modena che pure compare in entrambi: Così finalmente si parte, si lascia il borgo e si imbocca l’autobrennero con le nostre tre auto incolonnate, si ritira lo scontrino e via sulla strada (AL p. 176).

Dopo quella brutta avventura dell’Enoteca torniamo a bazzicare a NEW MONDINA CENTRORADIO, 98 e/Ottocento Mgh in Modulazione di frequenza ciao a tutti (AL p. 40);

con tutte queste manie folkloriche che quasi gli chiamo su il coro di New Mondina Centroradio e glielo butto in pasto, poi vede se si diverte ancora (AL p. 151).

In questo modo sfuma il giro delle birrerie ma poi se ne trova un’altra vicino al Fini dove s’attende l’estate (AL p. 63);

nel frattempo hanno raccattato quattro checche modenesi compagne del passato- passato e con loro hanno cenato da Fini (AL p. 165).

35 Uguale funzione di collegamento ha la ridenominazione dell’oggetto, il vino che diventa il “folonari” (p. 13 e p. 142), anche se questo rientra soprattutto nel processo di creazione e utilizzo di un linguaggio particolare, colloquiale e gergale, rappresentativo di una generazione. Il meccanismo strutturale forse più interessante, che meglio contribuisce a far accettare per Altri libertini la definizione di “romanzo ad episodi”, è analogo ma relativo al sistema dei personaggi; riguarda il passaggio di alcuni di loro da una storia ad un’altra. Di per sé i personaggi di Tondelli - in questa fase della sua produzione narrativa - rivelano una caratterizzazione che tende a farne dei tipi, dei ruoli, parti di un catalogo dei giovani degli anni Settanta e in quanto tali potenziali facce, o forse meglio aspetti, di un unico personaggio che in sé li riassume, diventando il protagonista unico delle storie, quello che nella quarta di copertina dell’edizione Universale Economica Feltrinelli è chiamato “soggettività plurale” e “Noi narrativo”.76 Pur all’interno di questa premessa, bisogna osservare che alcuni personaggi, protagonisti di una storia, ritornano come comparse prive di un importante ruolo narrativo in altre, figure che per un solo momento compaiono quasi senza essere viste e senza interrompere il flusso della narrazione. Contrariamente al loro scarso peso narrativo, queste apparizioni svolgono un importantissimo ruolo strutturale poiché agiscono da cemento, da collante tra le varie storie, consentendo all’autore di creare una sottile rete di rimandi, trasparente ma non invisibile, all’interno dell’opera. A questo proposito risulta utile ricordare quanto afferma Giuliano Gramigna in Dentro la scrittura, quando parla di libro che risulta di sei racconti a collana, perché un filo, ancorché latente, li connette in un ideale “continuo” non solo per tono e ambiente ma per arguzie strutturali: la Dyane delle quattro Splash, eroine del secondo brano, Mimi e istrioni, la si vede passar via in un altro racconto (Senso contrario), e la Cinquecento bianca pilotata da un “imbriacato duro” che viene tra i piedi nell’omonimo Altri libertini di chi potrà essere se non del protagonista mitomane e plurilinguista, meglio: pluristilista, dell’ultimo brano Autobahn?77

Bisogna aggiungere che questo procedimento viene rafforzato tramite la duplicazione nell’ultimo contesto citato: il protagonista di Autobahn attraversa due volte la vita di Miro, uno dei personaggi di Altri libertini; una prima volta come rapida visione, una seconda come occasionale autista (e Tondelli attraverso Miro ce lo fa notare): cosicché a un incrocio rischiano di ramazzare su una cinquecento bianca che fa zig- zag come pilotata da un imbriacato duro (AL p. 164),

76 P.V. Tondelli, Altri Libertini, Milano, Feltrinelli “Universale Economica”, 1987. 77 G. Gramigna, Dentro la scrittura , in “Panta”, 1992, n° 9, pp. 26-28. Il primo inserto relativo alle osservazioni di Gramigna è il seguente, da Mimi e istrioni: “Il clacson, il lampeggio degli abbaglianti e il casino arrestano una Dyane rossa con quattro scalmanate sopra” (p. 141); l’altro è quello citato di p. 172.

36 e Altre bestemmie finché non s’arresta una cinquecento bianca che lo carica e al Miro sembra di riconoscerla questa bianchina e soprattutto quel modo imbriacato di guidare sulla strada (AL p. 172).

Come ultima considerazione al riguardo si noti che il meccanismo, fin qui analizzato per i protagonisti delle storie, viene esteso anche a personaggi minori, che si trovano così a transitare, a volte come comparse, a volte con ruoli di una certa importanza, nella trama di più episodi. E’ il caso di Postoristoro e Senso contrario, che si trovano accomunati in due immagini narrative: il Burberrys di Johnny e la Ford dei Vigilantes: Via, aria, che viene a fare questo imbecille al postoristoro, fra di noi che cazzo vuole il Johnny col suo Burberrys sfarfagliante, diosanto che vuol sapere (AL p. 17);

sentire le chiacchiere di un tizio sballato che ne ha passate di tutti i colori perseguitato com’è da un Burberrys chiaro (AL p. 131); e Di lato scorge la Ford dei Vigilantes, [...] fumano. Alla guida c’è William che è sulla cinquantina e c’ha la panza grossa del bevitore (AL p. 24);

Ma Lucio dice che sono i Vigilantes panzoni e che ha visto la loro Ford un trecento metri prima (AL p. 139).

Come si può notare la densità dei ritorni, di luoghi e persone, è tale da far escludere l’ipotesi della casualità, per ricorrere piuttosto ad una consapevole scelta stilistico- strutturale da parte dell’autore. Per concludere sul problema “romanzo o racconti”, è interessante considerare alcune osservazioni di Giuseppe Bonura sul rapporto tra romanzo e racconto nella narrativa italiana del Novecento: Basterà dire che il romanzo italiano del Novecento riprende lena, o si modernizza, proprio a partire dalla strutturazione del racconto all’interno di una più vasta narrazione. Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno, ad esempio, sono romanzi a racconti, ovvero a blocchi di racconti, con cesure tra un blocco e l’altro, e qui sta la loro modernità rispetto allo sviluppo lineare e progressivo del romanzo ottocentesco.78

Nello stesso articolo Bonura inserisce Altri libertini in questa categoria, identificando l’unità di base della narrativa di Tondelli nel frammento esistenziale e nell’aneddoto bozzettistico, riconoscendogli inoltre il merito di aver per primo imposto in Italia l’uso di “materiali minimi” e di vicende slegate dalla “storia grande”.79 Questa affermazione ci porta a considerare il particolare momento storico-culturale in cui viene a situarsi l’esordio narrativo di Tondelli, in un anno a cavallo tra due decenni densi

78 G. Bonura, Tondelli tra stile e prosa, in “Panta”, 1992, n° 9, pp. 29-35. 79 Ivi, p. 31.

37 di differenze. Altri Libertini esce nel 1980, fa da sigillo ad un epoca e in un certo qual modo ne apre un’altra, rappresentando da parte della casa editrice, Feltrinelli, un primo tentativo di rilancio narrativo imperniato sul nuovo. “Altri Libertini [viene] presentato e percepito come libro scandalistico che chiude un decennio, [...] summa di un decennio di libertà e di confusione, di collettivismo e trasgressione"80, ma anche di intense discussioni culturali e di considerazioni sul ruolo dell’opera d’arte. Il movimento giovanile che doveva sfociare nelle occupazioni universitarie del 1977 si era infine esaurito lasciando pesanti eredità, sia in negativo che in positivo: a dispetto del vuoto ideologico che dominerà gli anni immediatamente successivi alla fine del movimento81, rimangono determinate acquisizioni stilistico-strutturali che caratterizzeranno d’ora in avanti la scrittura giovanile, connotandola con stilemi che, attraverso l’evoluzione dei romanzi del movimento e in una sempre più cosciente letterarietà, ne diventeranno elementi imprescindibili. Fondamentale in questa poetica è il frequente uso della narrazione in prima persona, spesso all’interno di una forma in qualche modo diaristica, anche se non sempre esplicita.82 Cinque dei sei episodi di Altri libertini presentano in maniera evidente l’adozione di un narratore interno, a volte protagonista a volte personaggio di secondo piano, che si esprime in prima persona. Può essere un personaggio che, pur facendo parte del gruppo, partecipa alla storia quasi come spettatore, privo di connotazioni emozionali e con la sola evidente funzione di raccontare qualcosa di visto - e vissuto o riferitogli - aumentando quindi l’istanza realistica, ed è il caso di Altri libertini, l’episodio omonimo al libro; ma più spesso è un personaggio che riveste nella storia il ruolo di protagonista, magari non da solo, che parla quindi di una storia che è anche la sua storia, e sempre in prima persona. Questa scelta stilistica deriva da un’attestata tradizione di scrittura giovanile, che non è solo quella immediatamente precedente del movimento giovanile italiano, magari nei suoi risultati più interessanti prima citati, ma che si rifà ad una più ampia cerchia di romanzi per così dire generazionali, preminentemente americani, da Il giovane Holden di Salinger ai libri di Kerouac.

80 S. Tani, op. cit., pp. 199-200. 81 “Se non si poteva stare con il terrorismo o con la miriade di insopportabili mininomenclature della sinistra, non si poteva stare neppure con un’Italia clericale (allora antiabortista, antidivorzista,[...]), che a piazza Fontana aveva già mostrato quello che [...] sarebbe diventato familiare a tutti gli italiani.” E. Palandri, Altra Italia, in “Panta”, 1992, n° 9, pp. 18-25. 82 La denominazione diaristica va intesa in questo contesto non tanto nel suo senso specificamente letterario, che comporta quindi determinati elementi (datazione precisa, scrittura giorno per giorno e non rimemorativa a storia conclusa, narrazione in prima persona, etc.) qui non sempre presenti, ma nel significato che era venuta ad assumere nella scrittura, anche non specificamente letteraria, del movimento giovanile. Onde evitare possibili fraintendimenti, si preferirà d’ora in avanti, fare uso ove il contesto richieda una maggior precisione, del termine pseudo-diaristica.

38 Perfettamente consona a questa tradizione la scelta di sviluppare l’atto del raccontare in forma pseudo-diaristica, a volte contrassegnata da precisi riferimenti temporali, che troviamo in Mimi e istrioni, ma soprattutto in Viaggio, che viene a configurarsi proprio come un diario - e un catalogo tipo - di esperienze giovanili.83 A ben guardare è la classica struttura del romanzo di formazione e allora i precedenti del narratore di Viaggio non saranno più solamente gli Holden Caufield degli anni Cinquanta ma anche i Werther, gli Ortis, i Törless, i Dedalus di una tradizione ben più assestata. E’ quanto in fondo sostiene Massimo Raffaeli in Romanzi di formazione quando scrive: Nel secolo delle avanguardie il romanzo di formazione sopravvive nella quasi esclusiva accezione di romanzo giovanile,84

e più avanti, citando brevi inserti da opere di Lodoli, Tondelli, Van Straten, Piersanti, parla esplicitamente di “scrittori che infatti esordiscono proprio recuperando la struttura del romanzo di formazione”.85 Ed in effetti gli ingredienti ci sono tutti, a partire dall’antagonismo fra soggetto e mondo, elemento cardine secondo Raffaeli del vecchio bildungsroman, costantemente presente nei personaggi di Tondelli, tutti in qualche maniera minoranze (marginali, giovani, omosessuali,...) che col mondo si devono pesantemente confrontare. Per fare un esempio, sempre da Viaggio, il giovane narratore, anonimo ma dai tratti marcatamente autobiografici - pure questo un punto di contatto - come l’Ortis foscoliano coniuga nella sua storia Amore e Morte, offre largo spazio alle sue vicissitudini amorose (disperate) e non tralascia il tema della morte, prima attraverso il suicidio di un amico, poi col suo tentato suicidio.

83 Anche l’omonimo Altri libertini presenta una narrazione scopertamente rimemorativa, se pure brevemente circoscritta nel tempo e che fruisce di procedimenti anomali per il diario come l’uso del futuro per descrivere gli avvenimenti, con uno spostamento narrativo dal piano della memoria verso quello della storia in sviluppo che procede passo passo con la narrazione. Basti confrontare inizio e fine dell’episodio nella cornice relativa al narratore: “E verrà ormai il Natale anche quest’anno, già da tempo fervono i preparativi per la settimana sulle dolomiti,” (p. 145); “Ma io non farò il Capodanno con la ghenga tuttaquanta. Tornerò il Trentuno a Reggio Emilia” (p. 176). 84 M. Raffaeli, Romanzi di formazione, in A. Ferracuti (a cura di), Paesaggi italiani, Ancona, Transeuropa, 1994, p. 106. Analogamente, Franco Moretti aveva individuato “il mero fatto di essere giovani” come elemento caratterizzante dei protagonisti del romanzo di formazione, dettando poi delle coordinate che rimangono valide anche per il romanzo giovanile di fine Novecento: “Già con Wilhelm Meister l’“apprendistato” non è più il lento e prevedibile cammino verso il lavoro del padre, ma incerta esplorazione dello spazio sociale: e sarà poi viaggio e avventura, bohême, vagabondaggio, smarrimento, parvenir. Esplorazione necessaria: perché i nuovi squilibri e le nuove leggi del mondo capitalistico rendono aleatoria la continuità tra le generazioni, e impongono una mobilità prima sconosciuta. Esplorazione desiderata: perché quello stesso processo genera speranze inaspettate, e alimenta così un’interiorità non solo più ampia che in passato, ma soprattutto […] perennemente insoddisfatta e irrequieta.” F. Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986, pp. 10-11. 85 Ivi, p. 108. Va peraltro osservato per completezza che la citazione di Tondelli riportata è un po' infelice, in quanto tratta da Rimini, certo non un romanzo di formazione, ma il concetto è perfettamente calzante per Altri Libertini.

39 Ovviamente ci sono enormi differenze, a cominciare dal momento storico per cui al patriottismo foscoliano fa da contraltare il ripiegamento sul privato del personaggio di Tondelli, ma quello che risulta estremamente interessante, in questo contesto, è l’adozione di determinate strutture che rende appropriata per questo romanzo giovanile la definizione di romanzo di formazione. Tondelli stesso in una recensione musicale del 1986 fornisce determinate coordinate letterarie parlando di consapevolezza letteraria [che] ha dunque dato vita a [...] una sequenza poetica in tre fasi che viene ad accostarsi idealmente ai tanti giovani Werther e giovani Ortis e giovani Holden di ogni letteratura: a Dedalus di James Joyce [...], a Ritratto dell’autore da cucciolo di Dylan Thomas, a Infanzia di un capo di Jean-Paul Sartre e, in particolar modo, a Il giovane Törless di Musil.86

Una variazione al modulo della prima persona appare in Mimi e istrioni, dove il narratore, sempre interno e protagonista, adotta costantemente una prima persona plurale perché racconta questa volta la storia di un gruppo di quattro personaggi. Sebbene non sia esplicitamente narrato in forma diaristica, ci sono comunque vari elementi che fanno trasparire una simile struttura, solamente circoscritta ad un tempo relativamente limitato. Compaiono infatti, anche se non con la precisione e la frequenza di Viaggio, delle determinazioni temporali a fissare la storia, che è pur sempre un procedimento di rimemorazione. La narrazione è costantemente condotta per mezzo del discorso indiretto, non ci sono inserti dialogati e compaiono brevi citazioni, il tutto in un continuo presente narrativo e soprattutto senza alcuna infrazione al rapporto fabula / intreccio. Gli avvenimenti scorrono seguendo sempre l’ordine temporale, senza anacronie, come in una fedele registrazione, all’interno della quale naturalmente compaiono variazioni di velocità che evitano una narrazione piatta e monotona. E’ dunque una specie di diario comune di un periodo e anticipa, anche per la posizione nel libro immediatamente precedente, il diario più canonico e complesso che costituisce il terzo episodio, Viaggio. Ricapitolando, la narrazione in prima persona, più marcatamente in una forma quasi diaristica, comporta per questo romanzo specifiche conseguenze interpretative, determina ascendenze e parentele più o meno lontane, lo caratterizza in maniera ben precisa da un punto di vista storico-culturale. Resta da dire che la prima persona, nelle varie sfaccettature adottate, consente sempre di perseguire una forte istanza realistica, a maggior ragione quando è costellata di puntualizzazioni spazio-temporali come avviene nel caso del diario. Questo elemento concorre, unito ad altri come il linguaggio particolare, l’ambientazione, le tematiche, a conferire alla narrativa di Tondelli alte potenzialità mimetiche e, di conseguenza, un grande

86 P.V. Tondelli, Morrissey. Trilogia dell’artista da giovane, in “Rockstar”, giugno 1986 ,n° 69.

40 valore documentario, tanto che più volte si è parlato per la sua opera di ritratto e/o ricostruzione generazionale.

I.3 Le strategie narrative.

I.3.1 Aspetti del racconto.

In deroga a quanto detto finora l’episodio che apre il libro, Postoristoro, sembrerebbe infrangere questa tipologia di narrazione, considerata anche la sua importante collocazione: in effetti vi compare un narratore anonimo che in terza persona espone avvenimenti nei quali non è direttamente coinvolto. L’episodio, dai toni crudi e violenti, sempre fedelmente realistici, è ambientato all’interno di una stazione ferroviaria emiliana (che si intuisce essere quella di Reggio Emilia, ma che non viene mai esplicitamente nominata), di notte e in un contesto di emarginazione ed extralegalità. Vi si narra una notte della vita di Giusy, spacciatore e tossicodipendente a sua volta, e, attraverso i suoi spostamenti, una notte della vita della “fauna” che popola il Posto Ristoro, senza trascurare di raccontare, più o meno brevemente, le singole storie. E’ una situazione narrativa farcita di droga, alcool, buchi, sesso omosessuale, prostituzione, stupri, accattonaggio e furti, ma anche di solidarietà e di amicizia, con una trama relativamente semplice: Giusy arriva al Postoristoro della stazione ferroviaria, incontra Bibo per fornirgli l’eroina che però ancora non ha; nell’attesa dell’arrivo del corriere, Rino, vaga per la stazione tra gli altri personaggi che la popolano e che vi transitano, dandoci delle informazioni su di loro. Fanno così la loro comparsa il “partigiano Johnny”, uno dei due boss locali, che fa il gioco duro coi “terroni”, rovinando in questa maniera la piazza; Molly, una barbona sessantenne, e Vanina, una prostituta barbona di vent’anni; Salvino, il capobanda dei “terroni”, e il suo gruppo che rimane anonimo; Liza, un travestito, e Bibo appunto, un tossicodipendente. L’arrivo di Rino senza droga fa precipitare la situazione: Giusy è costretto a prostituirsi con Salvino per ottenere l’eroina per sé e per Bibo in crisi di astinenza. Dopodiché raggiunge gli altri nei gabinetti della stazione e fa il buco a Bibo in una situazione sempre più drammatica. L’episodio si chiude con il ritorno a casa di Giusy e le sue riflessioni, duplicate da quelle del narratore, anonimo e omodiegetico. L’anomalia del narratore è solo apparente: un esame più attento rivela che questi non tralascia mai di segnalare la sua appartenenza al gruppo dei personaggi che fanno vivere la

41 storia: fin dall’inizio si connota con un plurale, inserendosi dunque all’interno del contesto degli avvenimenti se non come protagonista come abituale osservatore - frequentatore - complice di questi, in un ruolo di cosciente partecipazione; nel paragrafo seguente passa ad un'impersonale ma pluralistica terza persona singolare che continuerà ad usare nel descrivere con il paragrafo successivo l’arrivo del protagonista antieroe dell’episodio, non disdegnando peraltro l’utilizzo del discorso indiretto libero immediatamente dopo: Sono giorni ormai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione, chiacchiere e giochi di carte e il bicchiere colmo davanti, gli amici scoppiati pensano si scioglie così dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo. Ora che già di pomeriggio il piazzale della stazione è blu azzurrino con i fari degli autobus che tagliano la nebbia e scaricano gli studenti s’arriva presto, verso le diciassette; ma quando il tempo è buono e il vento spazza i binari e razzola le carte sui marciapiedi e si vedono controluce le montagne, giù verso Sud, allora si va tardi, quando ormai solamente i militari di leva pestano i tacchi nell’atrio e qualche marchetta ubriaca, non più la calca chiassosa dei ragazzini e delle magliarine che si litigano i fotoromanzi con quelle dita già callose per i tanti sabati e domeniche e pomeriggi a far rammendi alla cucitaglia delle madri. Ma nel grande atrio, stasera, il vocio scalpicciante è insistente come nel foyer di un granteatro. Giusy arriva ogni giorno, puntuale come una maledizione saltellando sui tacchi e spidocchiandosi la lunga coda di capelli che alle volte nasconde nel cuffietto peruviano; distribuisce occhiate veloci intorno passando svelto in mezzo ai crocchi di studenti brufolosi che vengono dalla campagna alle scuole professionali qui in città e c’hanno le gambe curve e tozze e i fianchi larghi, ma anche culi rotondi e sodi e pare che i muscoli che si sfregano duri alle cosce debbano sprizzare via da quei blue-jeans intirizziti di nebbia [...] Giusy passa dritto e imbocca il corridoio che immette alla sala d’attesa e poi in fondo al Posto Ristoro [...] S’arresta per accendersi una sigaretta. Sbircia nella sala d’attesa, abitudine, non una volta sola c’ha rimorchiato su quelle panche, ne avrebbero da raccontare quelle mura screpolate, storie di sbronze maciullate e violenze e pestaggi e paranoie durante giorni interi senza mangiare senza pisciare, accartocciato nell’angolo, stretto nel giubbotto che pareva di vedere la gente volare dalla vetrata del corridoio e i treni sfrecciavano come fulmini squarciando il silenzio del trip e come s’allungavano i muri intorno e come stridevano le chiacchiere dell’assistente che era arrivata a prelevarlo, tu farai tu vivrai e sei giovane e vincerai e conoscerai la via, chi lo poteva sopportare quel borbottio imbecille, fatti i cazzi tuoi. (AL pp. 9-11).87

Sono i primi quattro paragrafi del primo episodio, le prime pagine del libro, quelle con cui l’autore si presenta al pubblico. Tondelli sceglie una narrazione realisticamente cruda e

87 La citazione è stata riportata per esteso in quanto al di là delle osservazioni fatte è il tono globale del testo e le descrizioni di chi transita nella stazione a dare delle informazioni sul narratore. Contiene inoltre vari motivi ai quali si farà riferimento più avanti.

42 d’impatto, sia per ambientazione che per lessico, dotata di un unico registro che riproduce fedelmente il parlato dei personaggi, ma come si può notare ricca di alcuni artifici stilistici che le forniscono letterarietà e la diversificano da quella che potrebbe essere una pura e semplice registrazione. La variazione di persona del narratore, l’uso del discorso indiretto libero, l’adozione di una sintassi che cambia a seconda delle esigenze espressive, l’utilizzo di un linguaggio gergale crudamente realistico e violento, la caratterizzazione dei personaggi, si condensano in queste prime pagine quasi a fissare subito i connotati della scrittura di Tondelli, proprio come l’episodio intero raccoglie e anticipa tematiche, toni, particolarità stilistico-strutturali comuni a tutto il libro, a molte delle quali l’autore rimarrà fedele nell’ambito della sua produzione narrativa. Così è sicuramente per il discorso indiretto libero, a cui prima si era accennato, che compare già nell’ultimo paragrafo dell’ampia citazione precedente. Il narratore sta descrivendo il movimento del personaggio principale attraverso il corridoio dell’atrio della stazione, quando, mediante un’associazione visivo-mentale, passa a riferircene i pensieri, senza nessuna apparente interruzione della sequenza narrativa. E’ un inserto di poche righe dopo il quale si torna alla normale narrazione in terza persona, ma che non può passare inosservato alla lettura, perché da un punto di vista formale è fortemente differenziato da quanto lo circonda: la struttura sintattica cambia e cerca di adeguarsi a quella del pensiero, tesa verso lo sforzo di ottenere una maggior potenzialità mimetica; le interpunzioni si diradano, scompaiono i punti e compare un uso anomalo per frequenza del polisindeto, la congiunzione “e” diventa l’elemento organizzatore del discorso, che inoltre assume un aspetto anche iterativo attraverso un accenno di elencazione (“sbronze maciullate e violenze e pestaggi e paranoie”), la ripetizione di determinati sintagmi (“come fulmini [...] e come s’allungavano [...] e come stridevano”), l’uso insistito del futuro (“tu farai e tu vivrai [...] e vincerai e conoscerai”),con anomali effetti di rima. Questa parentesi nella narrazione viene poi messa in risalto dal successivo cambiamento di scena e dall’adozione poco più avanti del discorso diretto, a chiudere la presentazione dello spazio e dei primi personaggi avviando in maniera definitiva la storia. L’uso del discorso indiretto libero, che altrove si muta in monologo interiore o soliloquio o che con essi si alterna, è un procedimento abbastanza frequente, con precise funzioni nell’economia del testo: per prima cosa contribuisce, sapientemente alternato con le altre forme del discorso, a creare un consistente effetto mimetico e ad allegerire e movimentare la narrazione, fornendoci informazioni che viceversa sarebbe stato di competenza del narratore esporre; inoltre, facendoci entrare nella mente dei personaggi a partecipare a quello che pensano, diventa un elemento che concorre a connotarli. Tondelli,

43 infatti, ne fa uso non solo in modo da farci acquisire delle informazioni sulla storia, ma anche in maniera da caratterizzare ulteriormente il personaggio. E’ il caso di Molly, una barbona di casa al Posto Ristoro: [Molly] lo maledice il partigiano Johnny che non le ha dato da fumare, gli bestemmia dietro, sputacchia nel fazzoletto e infine lo segue uscire con quel suo passo corto e stretto quasi tenesse tra le cosce una scarica impellente di diarrea (AL p. 18).

La descrizione della scena comincia in terza persona ad opera del narratore, ma la raffigurazione finale del personaggio che esce è l’esposizione dei pensieri di Molly, e come tale ci dà delle informazioni sul soggetto che pensa, lo caratterizza ulteriormente come personaggio.88 Le stesse considerazioni valgono poco oltre per Giusy: [Giusy] Riconosce un profumo, si guarda attorno, dalla scala scende Liza. Proprio odore di checca sfranta. Si avvicina tacchettando. Giuuuuuusy (AL p. 19).

Evidentemente il narratore non può sentire il profumo di Liza e perciò la considerazione dev’essere riportata da Giusy. Il breve inserto dunque ci dà informazioni sia sul personaggio a cui è riferito sia su quello che elabora la riflessione. Anche qui - come già si era osservato sopra - ci troviamo di fronte in poche righe all’uso alternato di descrizione in terza persona, discorso indiretto libero e citazione, graficamente segnalata nel testo dal corsivo. Subito dopo compare un dialogo, con tanto di virgolette, che però presto si perde nuovamente nel discorso indiretto libero per poi variare in narrazione in terza persona con i discorsi dei personaggi introdotti da proposizione relativa (“Giusy ridacchia, dice che ha beccato lo scolo in questi giorni”) e ancora qualche breve parte dialogata. E’ la forma tipica di questo episodio, adottata dall’autore in funzione di un forte effetto realistico e di una movimentazione della storia che, confinata in uno spazio chiuso e limitato, risulterebbe probabilmente troppo statica con l’adozione di una forma narrativa fissa per tutta la sua durata. Di sicuro un importante effetto che tale scelta narrativa produce è una certa polifonia, nella quale la voce del narratore viene quasi a perdersi e a farsi sostituire da quella dei personaggi che di volta in volta calcano la scena e fanno proseguire la storia. Ovviamente l’adozione di un narratore anonimo omodiegetico, che mai esprime giudizi o pareri facendo intrusioni in prima persona, ma che semmai le demanda ai personaggi, aumenta questo effetto.

88 Si noti come meccanismi di questo tipo consentono di rinunciare alla “voce” del personaggio senza renderlo muto, tant’è che Molly, presente in vari altri momenti, non parla mai. Il fatto che sia Molly a pensare viene evidenziato anche dalla struttura del discorso che, prima costituito di brevi proposizioni quasi solamente verbali, si allunga con una sintassi aggettivata e arricchita di una proposizione secondaria.

44 Così a volte può sembrare persino che il narratore vero sia Giusy, il personaggio che assurge al ruolo di maggior protagonista, di eroe, in un certo senso, della situazione, al quale vengono demandate le maggiori istanze narrative, che diventa il narratore della digressione più ampia, il protagonista di tutti i dialoghi e l’unico portatore di una, se pur piccola, istanza di cambiamento in un mondo rigidamente fissato nella sua ripetitiva immobilità. E’ come se ci fosse una duplicazione, un Giusy narratore che racconta la storia di Giusy personaggio e protagonista, vedendolo dal di fuori in un presente continuo narrativo che posiziona anche le digressioni nel passato rispetto alla storia, come se l’unità temporale in cui essa si situa fosse un eterno presente, immutabile nella sua temporalità e nella sua spazialità. Anche l’epilogo sembra convalidare questa doppia posizione di Giusy, nel miglior modo possibile direi, affidando, con piena simmetria rispetto all’inizio, al discorso libero indiretto di Giusy il compito di porre una fine alla storia: Si ricorda del Salvino, ora gli starà alle calcagna e lui ha dovuto cedere, maledetti tempi di magra, porca magra che quando arriva non si riesce a raccattare in giro nemmeno uno spino tranquillo per andare avanti, sempre menarsela con facce di merda, l’impermeabile del Johnny, lo sceriffo canchero, la vecchia strega sempre lì; sempre la valigia in mano e poi non sposta il culo di un metro...E vai, vattene via povera sfigata, aria!!!... Ma in fondo chissenefrega del Johnny e di tutta la baracca del postoristoro, io ci voglio sopravvivere anche se l’ho capita ormai che nel sangue e nella merda ci dormo da quando son nato per cui non me la meno più di tanto, qualcosa succederà o s’aggiusterà e non ha importanza adesso quello che sarà domani o posdomani e ancora dopo, perché primaoppoi qualcosa cambierà e sarò uomo e non me la farò più con tutti i porci lerci del postoristoro e troverò una donna e ci farò dei figli e mi sbatterò coi buchi fin che ho vene e soldi e un pezzo di culo da dar via, perché perché perché (AL pp. 33-34).89

Ma il narratore si ricorda alla fine del suo ruolo e, recuperando ancor più la simmetria della storia con la creazione di una struttura a cornice, pone un suggello descrittivo all’episodio narrando brevemente il ritorno a casa di Giusy, naturalmente connotandolo con un’ultima relativa, aggettivante, che potrebbe, ambiguamente, essere interpretata come discorso indiretto libero: Giusy si avvia barcollando verso casa. Quasi mattino. La prossima notte tornerà al Posto Ristoro come sempre oppure se ne andrà via dalla città e da tutti e il Bibo lo lascerà. Ora non lo sa che ha tanto sonno e fifa da smaltire che le gambe gli sembrano le stampelle in legno di un povero martire della patria (AL p. 34).

Quest’ultima definizione di Giusy permette di introdurre un’altra caratteristica di Postoristoro e più in generale di tutto Altri Libertini: Giusy viene da ultimo definito

89 Naturalmente ritornano in questo brano le particolarità di stile e di sintassi precedentemente analizzate per il discorso libero indiretto, dalla mancanza di punti all’andamento polisindetico con frequenza della congiunzione “e”, all’uso del futuro con effetti di rima.

45 “martire della patria” e - pur nell’ambivalenza legata al linguaggio (potrebbe essere benissimo lui stesso a esprimersi in questa maniera) e alla ricerca di un effetto un po' ironico e dissacratorio - è incontestabile che nell’economia della storia svolge il ruolo dell’eroe, di colui che risolve la situazione. Tale identificazione diventa possibile perché l’uso di un narratore interno consente l’adozione di un punto di vista dalla parte dei personaggi, il che in Postoristoro comporta - con un certo effetto di “straniamento” - un rovesciamento di valori rispetto alla norma della società civile. E’ il particolare mondo in cui si sviluppa la storia, rinchiuso in uno spazio limitato e ulteriormente circoscritto dalla cornice determinata dai movimenti di Giusy a fare in modo che questo accada. Tondelli sceglie per il suo impatto col lettore un mondo di marginali, uno spazio chiuso popolato da rifiuti della società - spacciatori, drogati, travestiti, barboni, prostitute - regolato da leggi proprie e nel quale il mondo “normale”, pure attraversandolo, si introduce quasi per sbaglio o sfiorandolo appena. Manca un giudizio morale sui personaggi che lo riempiono (mentre viceversa c’è nei confronti della società normale, si veda per esempio la digressione su Vanina) e da parte dei personaggi; ci può essere astio tra di loro, cosa che peraltro non pregiudica il loro stare insieme, ma non c’è giudizio etico, semmai rassegnata consapevolezza, cosicché anche le azioni inequivocabilmente negative, contrassegnate da violenza nei confronti degli altri, vengono solamente narrate, senza la connotazione di un giudizio esplicito. Ecco per esempio la descrizione di Vanina: E’ gonfia e grassa [...] e il collo piagato da una feroce scottatura d’olio bollente che lei dice è stata una disgrazia, ma al postoristoro tutti sanno da quali braccia piovono le disgrazie (AL p. 21);

oppure una breve digressione più avanti: Molly […] ha capito che il Giusy stasera è nell’occhio del Salvino e quasi intoccabile, come già successo la primavera scorsa al cantiere dove i terroni tutti quanti manovalavano, con un garzoncello che portava i secchi di chiodi e che non voleva starci tanto da costringerli a violentarlo e preparare insieme il buco all’ultimo, al Salvino (AL pp. 23-24).

Non servono interventi dello scrittore, magari per bocca di qualche personaggio, perché sono gli avvenimenti stessi a parlare e, come ha fatto notare Bonura nell’articolo citato, “la morale è implicita nell’azione e nel gesto, secondo la lezione di Celine e Hemingway”.90 Il rovesciamento dei valori risulta evidente se noi applichiamo a Postoristoro un modello attanziale di tipo greimasiano91, nel quale Giusy verrebbe a rivestire il ruolo del

90 G. Bonura, op. cit., p. 31. 91 DESTINATORE ® OGGETTO ® DESTINATARIO Giusy, Guerrino, Salvino - - droga - • - Bibo -

46 soggetto e i panni dell’eroe, colui che riesce a far pervenire l’oggetto - la droga - all’amico Bibo, che diventa così il destinatario. Evidentemente l’azione in sé - la prostituzione di Giusy con Salvino per ottenere l’eroina da vendere a Bibo in crisi di astinenza - non può assumere i connotati dell’impresa eroica, ma la struttura della trama è quella di tante favole, con superamento dell’ostacolo da parte dell’eroe e risoluzione della situazione. Lo sviluppo del modello greimasiano consente delle interessanti osservazioni quando cerchiamo di attribuire i ruoli di adiuvante e di oppositore: i personaggi che infatti aiutano o cercano di aiutare Giusy nel raggiungimento del suo obbiettivo sono degli spacciatori o peggio; quelli che in qualche modo intervengono ad ostacolarlo in questo sono o ancora spacciatori, a volte gli stessi, o, fatto più interessante, le strutture demandate dalla società alla sua protezione o alla cura di determinati soggetti (i Vigilantes e il CIM). Proteggere e curare, azioni di per sé positive, diventano qui delle funzioni negative nei confronti dei protagonisti della storia. Con un capovolgimento di ruoli i “buoni” diventano “cattivi” e i “cattivi” (alcuni almeno) diventano “buoni”: lo sceriffo William infatti blocca Bibo in fuga dal CIM con dieci scatole di metadone, mentre lo stesso Salvino, prima oppositore in quanto gestore del mercato dell’eroina, diventa colui che, tramite Giusy, fornisce la merce al Bibo in crisi. La connotazione negativa che vengono ad assumere le funzioni del proteggere e del curare, estesa per loro tramite a tutto il mondo della normalità nei personaggi che lo vengono a rappresentare introducendosi nel mondo altro che è quello della storia, determina una conflittualità tra quest’ultimo e la società “normale”92. La società, attraverso le sue istituzioni, svolge anche, in questo caso, un’altra funzione: contribuisce a circoscrivere il mondo della narrazione, stringendolo in un isolamento innanzitutto spaziale (proprio in quanto mondo altro che occupa un determinato spazio) ma che presto, attraverso l’immutabilità della situazione, si configura anche in direzione temporale, nella rappresentazione di un presente ciclico destinato a ripetersi senza variazioni, tant’è che quella descritta nella storia non è una notte particolare ma una notte come tutte le altre per il protagonista.

ADIUVANTE ® SOGGETTO ¬ OPPOSITORE - Guerrino, Salvino - - Giusy - - Johnny, Salvino, Vigilantes - Lo schema è costruito secondo le indicazioni presenti in A.J. Greimas, Semantica strutturale (1966), Milano, Rizzoli, 1968. 92 Al di là della sua natura di elemento imprescindibile del romanzo di formazione - come si è già visto - è una conflittualità che caratterizzerà da un punto di vista tematico l’intero percorso narrativo di Tondelli, attraverso l’analisi del rapporto con le varie istituzioni. Ci sarà modo di approfondire più avanti questo aspetto, che comunque è importante notare, e in termini di conflitto, fin dall’esordio dell’autore.

47 Una spia di questo è fornita dai pensieri di Giusy durante il colloquio col “partigiano Johnny”, momento esemplificativo anche del rapporto che i personaggi intrattengono con le istituzioni: per quanto lontano lui andasse ora, non saprebbe rinunciare al Posto Ristoro, vi tornerebbe al primo pasticcio. In qualsiasi altra città dovrebbe ritrovare i contatti, girare e girare andando in bianco per chissà quante notti, dovrebbe conoscere nuove questure, altri poliziotti, ricominciare tutto da capo a forza di botte e strizze e paure (AL p. 17).

Anche in termini di volontà, dunque, Giusy è confinato nello spazio ristretto del Posto Ristoro: il personaggio non può uscire dallo spazio della narrazione, che è limitato a quel mondo; fuori di esso c’è un altro spazio che è quello della normalità e delle istituzioni, fuori del Posto Ristoro c’è il CIM e ci sono i Vigilantes, ma non c’è la storia. Questo spazio ristretto non usufruisce di una descrizione dettagliata, che gli possa fare assumere una predominanza tale da sostituirsi ai personaggi, rimane solamente un contenitore vuoto delle loro azioni (e non azioni), contribuendo così all’espressione del vuoto, non più spaziale ma ora esistenziale, che li accomuna: Giusy si mette al Posto Ristoro, non pensa niente, manda giù un toast e una birra seduto al solito sgabello (AL p. 30);

Bibo aggrappato a uno sgabello, la testa tra le braccia, in silenzio finalmente fuori (AL p. 33).

Tale spazio contenitore è un elemento che torna in ogni episodio con la stessa caratterizzazione strutturale, con il quale i personaggi intrattengono un duplice contrapposto rapporto di fuga / ritorno, nel quale comunque si fanno rinchiudere. Succede anche in Postoristoro: Giusy (e con lui ancor di più gli altri personaggi, per esempio Molly, che è praticamente un simbolo di immobilità, o Bibo, che non riusciremmo a immaginare altrove) è rinchiuso nella storia, non sa immaginare un altro posto dove andare e quando lo fa abbandona subito l’idea e vi ritorna anche mentalmente. Come tutti i personaggi di Tondelli - fino all’ultimo Leo, il protagonista di Camere separate - è spinto alla fuga verso posti lontani ma al tempo stesso è ancorato alla terra in cui vive: il Postoristoro, che sembra diventare uno spazio-prigione da cui i personaggi non riescono a fuggire, in fondo è solamente un’altra faccia, l’estrema forse, dello spazio-casa al quale essi tutti - in maniera contrastata - sono intimamente legati. Dunque, è una variante anche questa del tema del ritorno, estremizzata da una partenza che appare a volte solo sperata e che quando c’è realmente, come succede per Molly, si situa in una digressione, che a livello di fabula occupa un tempo anteriore a quello della storia, e che ad ogni modo porta come effetto finale un’ennesima affermazione della necessità del ritorno. La fuga di Molly - scappata a Lugano con le centomila lire di Giusy

48 ma poi tornata a casa al Posto Ristoro - diventa un esempio da citare anche all’interno del testo, da parte di Giusy nel corso del colloquio con Johnny: ”Avessi cinquecento sacchi me ne volerei via!” [...] “Come la Molly?” [...] mai volarsene via coi soldi di altri, almeno mai tornarsene indietro dopo, e invece per quanto lontano lui andasse ora, non saprebbe rinunciare al Posto Ristoro, vi tornerebbe al primo pasticcio (AL p. 16-17).

Una simile struttura però, che obbedisce a una necessità organizzativa del libro intero e che è perfettamente consona alle esigenze strutturali della trama, rischierebbe di renderla fortemente statica nonché di togliere respiro narrativo. Tondelli risolve il problema attraverso il movimento dei personaggi, di Giusy in particolar modo, che, spostandosi nelle varie parti della stazione, riescono a cambiare l’inquadratura, per così dire, della scena. In questa maniera il Posto Ristoro diventa un palcoscenico sul quale salgono di volta in volta i protagonisti, un palcoscenico sempre uguale, con la stessa luce - “sciatta e livida” (p. 9), “sciatta e senza ombre” (p. 27) - a illuminare gli stessi personaggi - “La Molly [...] come sempre una mano stretta alle valigie” (p. 13) / “la Molly, quella c’ha le mattonelle al culo” (p. 30) / “la vecchia strega sempre lì; sempre le valigie in mano e poi non sposta il culo di un metro” (p. 33) - in un’atmosfera da teatro dell’assurdo. Proprio secondo modalità filmiche, già dall’inizio ne viene segnalata la centralità, quando il narratore esegue una lunga zoomata dal piazzale della stazione attraverso l’atrio accompagnando Giusy fino al Posto Ristoro, dove l’inquadratura si ferma e parte l’azione con il primo dialogo. Fino a quel punto la narrazione si era viceversa snodata in maniera descrittiva, accumulando scene abitudinarie come in una ricostruzione della memoria . Il Posto Ristoro è il luogo verso cui i personaggi tendono, dove si incontrano, dove vengono descritti per la prima volta o da dove escono e poi ritornano. Questo avvicendamento riesce a dare ritmo ad una narrazione che altrimenti poteva risultare asfittica, e a movimentare uno spazio d’azione piuttosto ridotto. L’andirivieni ottiene però anche un altro effetto, quello cioè di dare una connotazione di ripetitività alle azioni e con esse al fluire del tempo in generale, ripetitività che, sommata alla fissità dello spazio, conferisce alla storia la già notata connotazione di immutabilità. Pure l’uso del tempo obbedisce alle esigenze organizzative che strutturano l’episodio. Tondelli se ne avvale in modo da consentire alla storia di uscire dai suoi stessi confini: infatti opera delle digressioni, nelle quali sposta l’azione dallo spazio ristretto del Posto Ristoro consentendone l’estensione fino a Lugano, ma le situa in un tempo anteriore alla storia vera e propria, in modo da non infrangerne la cornice spaziale. Tutte le azioni che si svolgono all’interno di una digressione, indipendentemente dalla loro estensione nel testo, non interrompono la prosecuzione degli avvenimenti, perché sono accadute nel passato. Sono

49 tutte analessi esterne, che iniziano e finiscono prima della storia e che di regola riguardano personaggi in un certo senso secondari, a volte persino anonimi (per esempio il garzoncello del cantiere a p. 24).93 In questa maniera Tondelli riesce ad ampliare il tempo della storia, che dura lo spazio di una sola notte, inserendovi avvenimenti che risalgono fino a due anni prima (la storia di Vanina). Osserviamo uno schema di confronto tra fabula e intreccio nel quale ad ogni sequenza narrativa corrisponde un numero:94 INTRECCIO FABULA (posizione) (posizione)

1. Atrio stazione F. S.: arrivo di Giusy VII 2. Giusy entra al bar e parla col barista VIII 3. Arriva Bibo e chiede la droga a Giusy IX 4. Giusy e Bibo incrociano Molly X 5. Storia del dissidio tra Molly e Giusy ( Molly a V Lugano ) 6 Ripresa del dialogo tra Giusy e Bibo. Uscita di Bibo XI 7. Johnny entra al Posto Ristoro e va da Giusy XII 8. L’affare di sei mesi prima tra Johnny e Giusy IV 9. Giusy esce dal bar XIII 10. Giusy incontra Liza: colloquio tra i due XIV 11. Giusy rientra al Posto Ristoro e si siede con Molly e Vanina XV 12. Arrivano i “terroni”: Salvino XVI 13. Storia di Vanina I 14. Storia del manovale al cantiere III 15. Giusy esce e vede i Vigilantes XVII 16. Storia dello sceriffo William II 17. Bibo, senza droga, ritorna da Giusy XVIII 18. Storia di Bibo col CIM VI 19. Arrivo di Rino ( il corriere ) a mani vuote XIX 20. Bibo in crisi di astinenza : XX 21. Giusy rientra al Posto Ristoro e va da Salvino XXI 22. Giusy esce con Salvino XXII

93 Per la terminologia e i concetti relativi all’uso del tempo mi sono avvalso di G. Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), Torino, Einaudi, 1976. 94 Sono contrassegnate in grassetto le posizioni relative alle analessi, mentre sono contrassegnate in corsivo quelle pienamente coincidenti nell’ordine di fabula e intreccio

50 23. Nelle carrozze in sosta Giusy si prostituisce con Salvino per XXIII ottenere due bustine di eroina 24. Giusy ritorna al Posto Ristoro e poi dai suoi “compari” nei XXIV gabinetti della stazione 25. Giusy fa il buco a Bibo XXV 26. Giusy se ne torna a casa XXVI

INTRECCIO 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26

13 16 14 8 5 18 1 2 3 4 6 7 9 10 11 12 15 17 19 20 21 22 23 24 25 26 FABULA

Possiamo notare che l’analessi è un elemento che compare con una certa frequenza, con un’estensione variabile dalle poche righe ad oltre una pagina, facendo prevedere quindi l’uso di meccanismi temporali diversi quali il sommario e la scena. Le analessi vengono adoperate anche per fornire ulteriori informazioni sui personaggi. Nella maggior parte dei casi consentono all’autore di tratteggiare ulteriormente personaggi secondari senza bisogno di un esplicito intervento del narratore. Non è lui infatti a raccontarle ma sembrano provenire da altri personaggi, come Molly nel caso del manovale al cantiere (cfr. AL pp. 23-24), oppure Giusy, nel caso della digressione maggiore, la storia di Vanina: e Giusy sa anche quella storia che ha fatto tutte le bocche del postoristoro, cioè che una notte i terroni caricano la Vanina su un furgone e dopo si depositano in campagna (AL p. 22).

Quando non sceglie un narratore secondo, Tondelli posiziona le analessi all’interno di un dialogo, approfittando del discorso diretto per esautorare il narratore dalla sua funzione; così è Giusy stesso a darci informazioni sul suo rapporto con Johnny nel loro scambio di battute: [Johnny] “...Ricordi il nostro affare? Ricordi di quant’è?” [...] [Giusy] “Cinquecento Johnny. Me lo stai a chiedere ogni volta che ci si incontra, cazzo!” “[Johnny] “[...] Io dico solamente che stasera sono sei mesi, sei.” (AL p. 17-18);

ed è Bibo, in un dialogo con Giusy, a raccontare la storia del metadone, del CIM e dello sceriffo William:

51 [Giusy] ”Ma se non gliela fai chiamo qualcuno...col CIM come stai?” [Bibo] ”In merda [...] poi ho ciulato dieci scatole di metadone [...]faccio un volo dalla finestra [...]e scrocio nello sceriffo [...]e lui mi da un cazzotto e mi riporta dentro [...]e il giro è sfumato” (AL p. 25-26).

In questa maniera il narratore non compare ad interrompere il filo della storia ed il suo ruolo viene minimizzato, mentre aumenta la percezione di un racconto che proviene dai personaggi, con un forte effetto di polifonia. La digressione più lunga, la storia di Vanina, occupa ben quarantun righe, venendo così a costituire una sorta di racconto nel racconto, sottolineando inoltre ulteriormente questa tecnica ad incastro con la presenza al suo interno di un’altra breve digressione di carattere più generale. Tondelli evidenzia la storia di Vanina in varie maniere all’interno dell’episodio: da un punto di vista formale, con l’adozione di una sintassi diversificata rispetto a quanto la circonda; da un punto di vista compositivo, inserendola all’interno di una scena - vari personaggi riuniti al Posto Ristoro con narrazione in terza persona e brevi inserti di discorso diretto - in posizione tale da interromperla e facendo ripartire la scena subito dopo la fine della digressione maggiore, che quindi acquista proprio il carattere di una parentesi; da un punto di vista temporale, connotandola come l’avvenimento che più risale indietro nel tempo tra quelli narrati e che perciò occupa una posizione di rilievo nell’ordine della fabula; da un punto di vista spaziale, facendola uscire dallo spazio ristretto del Posto Ristoro. E’ una storia di violenza, che descrive uno stupro collettivo e che contiene un’aperta denuncia nei confronti di un certo mondo, ma che paradossalmente viene descritta, con un forte effetto di straniamento, utilizzando ambiti propri di quello che altrove si sarebbe chiamato il topos del locus amoenus (“si depositano in campagna che era primavera e il cielo mite e le stelle lucide” - p. 22), e facendo ricorso a momenti di lirismo (“le tempie si inumidiscono leggere e tiepide che paiono baciate dalle perle” - p. 22), con una prosa che sicuramente non rende la violenza che contiene (anche dopo lo stupro gli indumenti di vanina sono “straccetti”, un termine che non ha in assoluto una connotazione negativa). Da una parte Tondelli ci viene così a dire che nel mondo del Posto Ristoro non c’è spazio per il lirismo se non all’interno di episodi che di regola con esso non hanno nulla a che vedere - e si consideri sempre anche il rovesciamento dei valori di cui si è già parlato -, dall’altra che i personaggi - cui, non si dimentichi, è affidata la narrazione - hanno un rapporto di tale assuefazione con la violenza, che è parte quotidiana del loro mondo, da non sentire il bisogno di utilizzare in questo luogo una narrazione più cruda che altrove. Ma, a conferma di ciò, quanto vale per i personaggi di quel mondo non è altrettanto valido per chi a quel mondo non appartiene. Basti osservare che per la digressione

52 seconda, quella contenuta all’interno di questa, il narratore - chiunque esso sia - adotta un criterio differente: c’è maggior critica e risentimento nel descrivere in poche righe il paese sull’Appennino da cui proviene Vanina che non nel resto dell’analessi: Vanina [...] montanara disambientata, diciottenne alloggiata dalle suore, la prima domenica del mese s’alza alle cinque e sale sul pullman e raggiunge la famiglia sull’Appennino, paese di millecinquecento abitanti durante l’estate, sennò cento duecento e il prete che va a letto con le vecchie e i mongolini a fare i chierici, i bambini della valle tarati, incesti, vita solitaria tra i castagni e le querce e i prati brulli dell’Appennino con le foglie tenere e marce e leggere e Vanina (AL p. 22).

Rafforza questa affermazione il fatto che alla fine della digressione seconda, prima di tornare a parlare di Vanina, “le foglie” sono sì “marce” ma anche “tenere [...] e leggere”, mentre è nell’avvicinamento al paese che Vanina diventa “montanara disambientata”.95 Non si deve poi dimenticare che i personaggi di Postoristoro sono in una situazione di conflitto con il mondo “normale”, quello delle istituzioni (rappresentate in questo caso dal prete del paese ), il che determina tra di loro una certa complicità. E’ un atteggiamento che va anche fatto risalire al carattere di narrativa ‘giovane’ che ha Altri Libertini, di spinta verso la costruzione di una società altra o - come fa osservare Aldo Tagliaferri “di lotta alla odiata normalizzazione [...] fedeltà a quel patto generazionale che [...] si fonda sul tentativo, tuttora operante nel nostro tessuto sociale, di costruire un mondo narcisistico di uguali al fine di evitare sistematicamente l’Edipo, e dunque il penoso processo della maturazione pulsionale”.96

Da un punto di vista formale, l’analessi in questione ci riporta alle osservazioni fatte per il discorso indiretto libero. La sintassi si modella sulla struttura del parlato, anche se la scelta lessicale rivela una forte elaborazione formale: non si tratta del semplice inserto di parlato, tant’è che non ci sono termini dialettali o gergali così presenti di norma nel linguaggio di Tondelli97; può semmai essere più vicino alla resa grafica del pensiero anche se non in maniera esasperata - non consente certo di parlare di flusso di coscienza -, soprattutto per il ritmo espressivo. La caratteristica principale è l’uso del polisindeto: sono quarantun righe senza un solo punto nelle quali le frasi si accavallano intervallate dalla congiunzione “e”, che compare ben quaranta volte, originando un ritmo molto cadenzato, che però più che rivelare un accumulo

95 Si consideri che questo è dovuto anche al fatto che per i personaggi della trama parlano i fatti e le loro stesse azioni, liberando il narratore dal bisogno di esprimere un giudizio, mentre per i soggetti di una breve digressione - una decina di righe nel nostro caso - manca lo spazio sufficiente per un procedimento di questo tipo e si richiede quindi in maniera maggiore l’intervento critico del narratore. 96 A. Tagliaferri, op. cit., p. 16. 97 Unica eccezione forse un “fatta fatta”, di uso però ormai non certo anomalo in questa accezione nella lingua italiana “fino a Natale se ne restò al San Lazzaro perché fatta fatta, anche nel cervello” (AL p. 23).

53 quasi frettoloso delle frasi, denota una narrazione omogenea dove nessun elemento prevale sugli altri, nel risultato globale di una certa musicalità. E’ una forma stilistica che non è certo assente nella narrativa italiana novecentesca, segnatamente nell’espressione del pensiero, che Tondelli però afferma derivargli da Jack Kerouac: Altri Libertini [...] era un libro sincero, poetico, intimo, lirico. Così come quello che scrissi due anni dopo, Pao Pao [...]. Anche per Pao Pao la lezione di Kerouac si mostrò fondamentale. Nello stile e nella scrittura. Lunghe pagine senza punteggiatura, ricordi del passato mischiati a una narrazione al presente. Brani di canzoni rock, motivi musicali, cadenze dialettali: insomma, una lingua non letteraria, non libresca, non burocratica.98

E’ un procedimento diffuso in tutta l’opera, normalmente riferito al narratore, ma che in questa storia caratterizza il personaggio principale, che a volte col narratore sembra confondersi. Ovviamente questo lo mette in rilievo rispetto agli altri, anche se l’adozione frequente, per alcuni di loro, del discorso diretto riesce a renderli più vivi, dotati di parola e non solamente raccontati. Un’ultima osservazione a proposito della struttura spazio-temporale: dallo schema di confronto tra ordine dell’intreccio e ordine della fabula si può notare che la storia viene divisa in due parti. Le analessi si situano nella prima parte, mentre la seconda procede in maniera lineare fino al suo epilogo. L’evento che fa cambiare la struttura del testo è l’arrivo, da tempo annunciato, di Rino, il corriere della droga. Fino a quel punto la situazione era di attesa e veniva contrassegnata anche col narrare delle storie attraverso le digressioni, che avevano come soggetto dei momenti antecedenti ed estranei al Posto Ristoro; ora il mancato arrivo di quanto si attendeva determina una crisi e la necessità di risolverla produce un cambiamento del ritmo narrativo: non si può più rimanere nella stasi, ma è necessario che la storia si movimenti attraverso l’azione99. Questo cambiamento del ritmo della storia viene segnalato anche nella struttura spaziale: fino all’arrivo del corriere lo spazio era movimentato dall’andirivieni dei personaggi nel Posto Ristoro, che diventava il palcoscenico sul quale essi si alternavano; l’introduzione della crisi e la necessità di risolverla determinano un cambiamento dell’uso dello spazio: il Posto Ristoro perde la sua funzione di luogo privilegiato della narrazione, entrandovi d’ora in avanti solo come momento di passaggio o addirittura visto dal di fuori.

98 P.V. Tondelli, Nei sotterranei della provincia, “Il Mattino”, 18 luglio 1989 (con lo stesso titolo in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1993, pp. 14-17). 99 A ben vedere è il classico schema generale a cui Claude Bremond riporta ogni racconto: Miglioramento da ottenere - 1) Processo di miglioramento / 2) Nessun processo di miglioramento - 1.1) Miglioramento ottenuto / 1.2) Nessun miglioramento ottenuto. Il mancato arrivo della merce (1.2) determina il ricorso ad altre funzioni del racconto, come la negoziazione con Salvino per ristabilire il processo di miglioramento. C. Bremond, La logica dei possibili narrativi, in AA.VV., L’analisi del racconto, Milano, Bompiani ,1969, pp. 99-122.

54 Giusy vi entra un’ultima volta per contattare Salvino, ma l’azione che gli consente di ottenere la droga per sé e per Bibo si svolge altrove, in un ambiente isolato rispetto al resto della storia, alcune carrozze in sosta sui binari morti. Le due azioni che risolvono la situazione avvengono fuori e sempre in luoghi isolati - le carrozze in sosta e i gabinetti della stazione - e devono passare quasi inosservate all’interno della stasi, non viste dai personaggi che non vi sono coinvolti. Dentro al Posto Ristoro non può succedere niente, se non tramite la funzione del raccontare, magari solo attraverso i pensieri: vi regna un’immobilità assoluta. Lo dimostra il fatto che Giusy stesso, dopo l’azione che gli ha permesso di ottenere l’eroina cercata fin dall’inizio, sembra dimenticarsi degli altri che lo aspettano e torna dentro, ad immergersi nella stasi di prima, dalla quale è Liza a scuoterlo definitivamente: Giusy si rimette al Posto Ristoro, non pensa niente [...] Si sente toccare a una spalla. Alza ruttando la testa. “Uééééééé” starnazza Liza “guarda che te t’aspettano ai cessi i tuoi compari, be’ che cazzo stai a fare qui?” [...] Lo spinge fuori dal Posto Ristoro (AL p 30).

Il personaggio, appena può, cade nel suo abituale stato d’immobilismo e a fatica ritorna ad agire spinto peraltro da altri. D’altra parte, il fatto che le azioni della storia vengano, tramite lo spostamento di spazio, ignorate dalla maggior parte dei personaggi in esse non direttamente coinvolti, sta anche a significare che essi esistono in funzione degli avvenimenti a cui partecipano e dai quali prendono vita. Al di fuori di questi si fissano nell’immobilità, diventano quasi degli oggetti sulla scena, gli elementi di un palcoscenico vuoto, poiché è l’azione a riempirlo e l’azione è ormai terminata.100

I.3.2 Il personaggio. Rapporti col fumetto.

La caratterizzazione dei personaggi ribadisce quanto appena evidenziato. Sotto questo profilo, Molly diventa il personaggio-simbolo, quello che, pur senza mai aprir bocca, partecipa agli avvenimenti sulla scena, esprimendosi tramite il discorso indiretto libero, e che soprattutto meglio fa notare il carattere statico dei personaggi e la loro funzione di arredo scenico, descritta com’è sempre nella stessa maniera: La Molly c’ha sessant’anni e siede in un angolo della distesa dei tavoli accanto alla sua valigia di cartone specorito legata con una corda [...] Le scarpe sono peduline

100 Lo ribadisce la scena finale, con Giusy che guarda il Posto Ristoro da fuori e descrive quello che vede: “Guarda verso i vetri illuminati e ferruginosi del bar, scorge l’ombra rancida della Molly che sta scatarrando e bevendo il solito bianco con la valigia stretta in pugno, le peduline di cuoio nero... Bibo aggrappato ad uno sgabello, la testa tra le braccia, in silenzio finalmente fuori” (AL p. 33).

55 di cuoio nero,[...] Ora pare persino appisolata davanti al bicchiere di folonari [...] ma non dorme, vigila, come sempre una mano stretta alla valigia (AL p. 13);

Molly che sta scatarrando e bevendo il solito bianco con la valigia stretta in pugno, le peduline di cuoio nero (AL p. 33);

la vecchia strega sempre lì; sempre la valigia in mano eppoi non sposta il culo di un metro (AL p. 33).

Da questo punto di vista, Postoristoro ha una caratterizzazione molto teatrale o filmica: i personaggi minori fanno il loro ingresso sulla scena o invadono il campo di ripresa come delle comparse; non sono delle vere e proprie persone ma delle funzioni narrative, esemplificano un ruolo e come tali non hanno bisogno di descrizione se non sommaria, relativa alla tipologia dei panni che vestono sulla scena. Tondelli non ci dice di loro più di quanto serva ai fini dello svolgimento della trama. Così noi non sappiamo che faccia abbia il Johnny, caratterizzato unicamente dal suo impermeabile e dalle parole del suo dialogo con Giusy, ma questo è quanto basta per il suo ruolo narrativo e probabilmente anche per darcene un’immagine vagamente bogartiana o chandleriana; allo stesso modo Salvino che pure svolge un ruolo fondamentale per la prosecuzione della storia, non ottiene una descrizione più dettagliata di quei pochi elementi necessari a caratterizzarlo. Di lui sappiamo solo “che ha ventisei anni, è moro arruffato e al collo gli pende una catena d’oro che potresti camparci cent’anni a smerciarla”(p. 22). Persino Bibo, che certo non è una comparsa nell’economia della narrazione, rimane un personaggio senza volto e le uniche parole che lo descrivono fisicamente sono quelle del barista che lo definisce “quello lungo”; è l’unica cosa che sappiamo di lui ma questo non lo rende né un personaggio senza vita né anonimo. Come accade per gli altri, sono le azioni a connotarlo: più che la descrizione fisica conta il suo modo di muoversi (“arriva il Bibo completamente sfatto che gli si siede davanti e per poco non si molla tutto, cioè stramazza a terra.” - p. 24), le sue azioni (“il laccio emostatico se lo tirava tra le dita nella tasca del giubbetto” - p. 27) le sue reazioni (“sbianca, si fa livido di più, sempre di più,” - p. 27), le sue parole (“c’ho cinquanta carte [...], non farmele marcire” - p. 12; “C’ho i soldi diavolo, mai strippato una volta coi soldi in tasca!” - p. 12; “mica mi ammazza la magra vaffanculo!” - p. 25). Non c’è bisogno di una descrizione fisica dettagliata perché il personaggio diventa già così un “carattere”, assume delle connotazioni ben precise e un ruolo nel contesto della storia. D’altro canto ci sono personaggi che vengono fortemente caratterizzati attraverso la descrizione fisica, ma sono quelli che non svolgono azioni né dialoghi all’interno della storia. E’ il caso di Molly, che è il personaggio più descritto, con ben ventiquattro righe a

56 introdurla (p. 13), nelle quali si accumulano elementi che torneranno assieme a lei nelle sue apparizioni. Tondelli ci dice tutto di lei, quanti anni ha (“La Molly c’ha sessant’anni”), come si veste (“il suo guardaroba se lo porta addosso, una maglia sull’altra, una braca nell’altra e quando sta seduta pare una botola di lardo ingolfata nel pastrano di raso nero e nel fazzoletto sbiadito che le copre la fronte”), cosa fa (“non dorme, vigila, come sempre una mano stretta alla valigia, l’altra distesa lungo il bordo del tavolo in attesa che piova qualche elemosina”), ne abbozza persino il volto (“Non ha denti, solamente un mozzicone allungato che le sbuca dalle labbra piegate [...] si smuove, fa per grattarsi i baffi”), ma non la fa mai parlare. Eppure, non si può dire che non sviluppi il personaggio, che è anche il soggetto di una analessi, e che ritorna con una certa frequenza, sempre abbastanza caratterizzato, nel seguito della narrazione. Il suo ruolo è la presenza fisica: Molly è connotata dall’immobilità, dalla scarsità di azioni; ogni volta che compare - sette nelle venticinque pagine del racconto - è seduta, ferma (“siedono sempre lì a farfugliare cazzate con la Vanina e con Liza e con Molly” - p. 28; “quella c’ha le mattonelle al culo” - p. 30), un addobbo del palcoscenico. Analogamente dettagliata è la descrizione di Vanina, anche se con una funzione diversa: la Vanina è una ragazzona di vent’anni, ma gliene daresti cinquanta forse più, la faresti lì lì per la sepoltura. E’ gonfia e grassa e ha la pelle brufolosa e tanti puntineri che la sfigurano e altre eruzioni rosse su tutto il viso e il collo piagato da una feroce scottatura d’olio bollente che lei dice è stata una disgrazia, ma al postoristoro tutti sanno da quali braccia piovono le disgrazie (AL p. 21).

Ulteriori informazioni ci vengono date in un suo rapido colloquio con Giusy e soprattutto nelle pagine successive, quando ne vengono narrate le vicende. Ma anche questa descrizione, a prima vista dettagliata, è mirata, mette in luce solo determinati aspetti, evidenzia le “brutture” del personaggio (comprese quelle causate dalla vita). E’ come se nel mondo del Posto Ristoro i normali elementi di riconoscimento delle persone non fossero più validi, sostituiti da altri nella connotazione dei personaggi, rendendo così inadatta una classica descrizione fisica. “L’invasione dei brutti” di cui parla De Benedetti ne Il romanzo del Novecento101 è qui ormai un fatto acquisito, ma non c’è più alcun inconscio da far emergere e quindi nessuna lotta tra self e antiself, tra “io” e “altro”: Il totale rovesciamento di valori espresso nel testo è fisso e incontrovertibile, come fisse e immutabili diventano anche le fisionomie dei personaggi, che non sono assolutamente personaggi in evoluzione.

101 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti,1971, p. 440-509.

57 Molly e Vanina sembrano in effetti due momenti di una stessa persona, accomunate dall’immobilità, dalla grossezza, dal ruolo sociale: la fissità dei personaggi, posizioni all’interno di un catalogo, non consente rappresentazione alcuna al di fuori del ruolo loro dato nel testo. Unica eccezione sembra essere Giusy, per il quale la storia mantiene aperta una possibilità di cambiamento, se pur flebile e contrastata: La prossima notte tornerà al Posto Ristoro come sempre oppure se ne andrà via dalla città e da tutti e il Bibo lo lascerà (AL p. 34).

Naturalmente, all’interno del rovesciamento di valori ci sono pure funzioni che diventano positive, come il ruolo di Giusy, inserito persino in un percorso vagamente cristologico: quando arriva - proveniente dall’esterno cioè dal buio - cammina verso “la luce del Posto Ristoro”, nel momento risolutore della storia si sacrifica con Salvino per la salvazione di Bibo, e finisce come “martire della Patria”. L’associazione dei termini comporta un voluto effetto di provocazione ma lo svolgimento della trama e la scelta dei vocaboli lasciano comunque spazio a simili suggestioni - non si deve dimenticare che l’opera di Pier Vittorio Tondelli, soprattutto più avanti, è fortemente pervasa dalla riflessione religiosa - e vestono l’eroe di nuovi panni, che anche determinati tratti somatici di Giusy, la barba e i capelli lunghi, concorrono a giustificare. Proprio riguardo alla descrizione di Giusy è interessante notare una cosa: il narratore non ci presenta il personaggio partendo dal suo aspetto fisico, ma ci dà ogni tanto delle informazioni all’interno di altri discorsi, generalmente quando sta raccontando le azioni di Giusy - come in occasione della sua comparsa, quando vengono messi in evidenza i tacchi e i capelli lunghi (AL p.10) -, o anche negli inserti in terza persona tra le battute di un dialogo: “Non bollente” borbotta Giusy “cazzo stacci attento” Il barista toglie il latte, lo versa nella tazza. Giusy ne beve un sorso, si strofina la barba macchiata di schiuma (AL p. 11).

E’ un procedimento che riesce così a togliere al narratore il compito della descrizione fisica del personaggio, celandola qua e là nello svolgimento della trama, cosicché chi narra assume una posizione più defilata, riesce quasi a nascondersi, facendo apparire in primo piano quelli che sono i narratori secondi, attraverso le digressioni, il discorso indiretto libero e i dialoghi. I dati relativi al personaggio compaiono, ad ogni modo, in maniera tradizionale, non appena questi fa il suo ingresso nella storia (caratterizzato quasi subito - nel paragrafo successivo al suo arrivo - da suoi pensieri espressi in discorso libero indiretto), senza più ritornare nel seguito della trama, dopo che Giusy è diventato un personaggio conosciuto.

58 Unica differenza (che vale anche per Molly, Vanina, Bibo, ecc...), la descrizione è spesso mimetizzata sotto altre funzioni: nel caso di Giusy, per esempio, concorre a creare un effetto di contrapposizione, dal momento che nome ed elementi descrittivi (tacchi, capelli lunghi) sembrano introdurre un personaggio femminile, ma sono subito smentiti dagli aggettivi a lui riferiti (“svelto”, “dritto”, “accartocciato”, “stretto”, p. 10-11). Risulta interessante, a questo punto, vedere quanto afferma lo stesso Tondelli sul ruolo dei personaggi nel contesto di un’opera letteraria: Tutto l’interesse è portato sui personaggi: i personaggi sono intensità emotive [...] vivono nel racconto, lo parlano.102

E’ una dichiarazione molto importante perché di poco posteriore ad Altri libertini. Il personaggio è dunque il motore del racconto, colui che ha la funzione fondamentale di collegare il testo al lettore: deve fare in modo che chi legge s’interessi alle sue vicende e voglia sapere come continui la storia. Nel racconto si crea un legame tra il personaggio ed il lettore,con il primo a fare da guida all’altro all’interno della narrazione, a maggior ragione quando il personaggio coincide con il narratore (come in tutti gli altri episodi di Altri libertini). Nel nostro caso il personaggio - in quanto attore della vicenda - è anche il maggior portatore dell’istanza realistica affidata al racconto, perseguita inoltre attraverso elementi quali il linguaggio, la struttura del discorso, le caratterizzazioni spazio-temporali, il ritmo della narrazione. Eppure i personaggi di Tondelli, per quanto vivi possano sembrare, non sono mai caratterizzati nei loro tratti fisici e comportamentali, a volte compaiono per brevi momenti della storia e valgono sempre più che per loro stessi, intrinsecamente, per il ruolo che rivestono. Risultano pertanto un po' anonimi, non hanno delle facce identificabili e quando sono descritti nei loro tratti somatici - come nel caso di Molly - ne risulta una caratterizzazione che per quanto realistica, da una parte ricorda certe figure del teatro dell’assurdo (basti pensare ai protagonisti di Finale di partita di Samuel Beckett103), dall’altra riporta al gusto per il bozzetto e alla raffigurazione fumettistica. E’ quanto avviene per esempio con le quattro “splash” di Mimi e istrioni e con Miro in Altri libertini, personaggi che sembrano uscire dalle tavole di un disegnatore. E’ una caratteristica che deriva, in Mimi e istrioni, dal costituirsi del racconto come movimento attraverso l’immaginario socio-culturale di una generazione, fornendone, in un certo senso, un catalogo: è proprio del catalogo essere costituito da una serie d'immagini,

102 P.V. Tondelli, Colpo d’oppio, in “Musica 80”, novembre 1980, ora anche in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 7-10. L’articolo di Tondelli si inserisce al’interno di un dossier sui linguaggi nuovi, che discuteva recenti testi letterari con una posizione laterale rispetto alla “letteratura grande”. 103 S. Beckett, Finale di partita (1958), Torino, Einaudi, 1990.

59 ed è quanto succede ai personaggi, raffigurati in tante scene che interpretano le varie situazioni. Può valere come esempio la presentazione di Benny al suo ingresso nella storia: la più bella è la Benny che ha una ciclo rosa confetto con su dei fiorellini viola e tutto un campionario di foulard e straccetti technicolor e di indianerie traforate e sgargianti legate alla sella così che quando va forte sembra abbia la coda (AL p. 38).

E’ un’immagine completamente visiva, nella quale il movimento (si torna indietro pedalando come matte - p. 38) viene fissato in una descrizione che diventa analoga a quella delle linee di un disegno. Più avanti, l’episodio in discoteca durante il quale Sylvia cerca di allontanare dei seccatori, presenta la stessa tecnica da ‘fermo immagine’ o da tavola fumettistica: la Sylvia che grida seccata “andatevene via” e accompagna le parole con una finta sborsettata ma tanto basta perché le si rovesci sulla moquette tutto intero il consultorio che ci teneva dentro, preservativi, vaseline, pilloline, ovuli e diaframmi, creme spermicide oli antibambinetti, persino il lubrificante gustoforte KY della Benny, quello di scorta (AL p. 50).

Si riscontra un analogo meccanismo nei confronti di Miro, ritratto sempre in gesti teatrali, a volte con richiami alle arti visive, con lo stesso gusto della scena ed una funzione suppletiva di sdrammatizzazione della sua condizione di innamorato non amato, in modo da mantenere il tono della storia in un'atmosfera da commedia frivola, evitando ogni accento tragico (ben diversamente opera Tondelli in Viaggio, a proposito delle problematiche relazioni amorose del narratore, che non evadono mai da un tono tragicamente realistico): [Miro] invasato d’amore [...] additerà il letto e afferrerà il lenzuolo per portarselo alla bocca e fare la pietà Rondanini, col telo in grembo (AL p. 169);

oppure poco più avanti: Miro manda giù e sballa per sette ore difilate lì sulla sponda del letto col lenzuolo addosso a mo’ di toga, come un eliogabalo (AL p. 170).

La relazione struttura / arte grafica non è demandata solo alla staticità della scena, perché funziona ugualmente in una situazione di movimento, denotando piuttosto uno spostamento verso il comico della narrazione, avvicinandosi così - per continuare il paragone con il fumetto - alla vignetta e alla striscia di poche tavole: E il Miro a far da coro greco, a stracciarsi le vesti e i capelli tutti quanti sul sofà e poi una volta in piedi s’attacca a tutti i suoi tendaggi reggendosi la fronte con il polso e sempre un ahimè anche quando cascano le tende e lui scivola col culo sul parquet e gli esce una madonna che non sta né in cielo né in terra tant’è grossa (AL p. 159);

oppure

60 il Miro che smadonna e urla e corre per la casa stracciandosi le vesti come un’invasata da Zagreo (AL p. 162).

Bisogna in effetti considerare i legami tra arti grafiche e prodotto letterario che si sono in questi anni sempre più venuti rafforzando e il carattere sempre più intersettoriale che l’opera d’arte va acquisendo.104 La generazione del ‘77 ha improntato di sé il nuovo fumetto italiano, che ha rilanciato come veicolo di comunicazione dei propri disagi, delle proprie speranze, delle proprie disperazioni. All’interno di questo rilancio ha avuto grande importanza l’ambiente bolognese del DAMS, che ha espresso in Andrea Pazienza “il grande cantore di questo universo giovanile”105, in una posizione analoga sul piano letterario a quella di Enrico Palandri, con Boccalone. Fin dal 1977 - come Tondelli stesso fa notare106 - con le tavole delle Straordinarie avventure di Pentothal pubblicate su “Alter Alter”, Andrea Pazienza ha dato forma artistica alle istanze del movimento studentesco bolognese, raccontandone le storie quotidiane, dagli eventi politico-sociali - l’occupazione della facoltà, gli scontri con la polizia - a quelli privati - le esperienze d’amore, il rapporto con le droghe -, in un processo di assimilazione dei lati positivi e delle mitologie negative, fino alla tragica morte nel 1986. E’ un contesto di realismo che è molto simile a quello di Altri libertini, percepito al suo apparire come “ritratto generazionale”, e al quale ben si adattano le parole di Oreste Del Buono: La Bologna che fa da sfondo alle Straordinarie avventure di Pentothal non è una Bologna fantastica, ma una Bologna storica fantasticamente immaginata da Andrea Pazienza.107

Sono a tale proposito interessanti le descrizioni che Tondelli fa dell’opera di Pazienza: Narcisismo e autobiografia, giochi di parole e slang giovanile, tecnica rivoluzionaria nel disegno e nella composizione della tavola, talento inverosimile nella coniugazione di stili opposti, ma sempre riconducibili ad un tratto personalissimo, politica e Movimento, droga e sballi, donne e amici e branchi e gruppuscoli, deliri e paranoie.108

104 E’ interessante a questo proposito una considerazione di Tondelli sul videoclip, di qualche anno più tarda, relativa al suo carattere di unificatore di arti diverse: “un prodotto che parrebbe quasi il vecchio sogno di arte totale delle avanguardie: cinema, musica, teatro, poesia, computer art che interagiscono nello spazio di pochi minuti.” P.V. Tondelli, Videosexy, in “Alter Alter”, settembre 1984, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1990, pp. 217-219. 105 P.V. Tondelli, Il pentolone del nuovo fumetto italiano, “Corriere della sera”, 18 luglio 1985, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp.204-208. 106 P.V. Tondelli, In punta di matita, in “Rockstar”, settembre 1978, n. 96, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 209-212. 107 Oreste Del Buono, Introduzione, in Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Pentothal, Milano, Milanolibri, 1982. 108 P.V. Tondelli, Il pentolone del nuovo fumetto italiano, cit.

61 A ben guardare, sono tutti elementi che compaiono come ingredienti pure in Altri libertini, e testimoniano comuni radici culturali e sociali ed un medesimo bisogno espressivo, che concretizza in differenti ambiti di realizzazione la stessa situazione generazionale. Come Andrea Pazienza, che “ riconduceva qualsiasi stimolo esterno [...] alla sua arte”109, anche Pier Vittorio Tondelli ha riempito la sua vita della sua opera: senza voler adesso prospettare l’ipotesi di un’identificazione tra arte e vita, si consideri che la riflessione sulla scrittura ha accompagnato in maniera costante la scrittura stessa, fin dai primi articoli su quotidiani e riviste, contemporanei al primo romanzo, attraverso numerosi interventi all’interno di convegni e dibattiti sullo scrivere, nonché un’intensa attività di talent scout - si vedano le tre raccolte da lui curate di racconti di giovani sotto i venticinque anni110 - coniugata ad un lavoro sulla propria produzione che lo impegna persino negli ultimi giorni di vita all’ospedale di Reggio Emilia, dove cerca di operare una revisione (peraltro non ultimata) di Altri Libertini e di Biglietti agli amici. Conseguenza del carattere bozzettistico dei personaggi, della loro vicinanza stilistica col fumetto, è una certa bidimensionalità, l’assenza a volte di uno spessore maggiore che di norma, attraverso una caratterizzazione più articolata, spetta al narratore fornire. Ciò è però anche frutto di una scelta strutturale: i personaggi di Tondelli, pur nella loro realistica vitalità, non diventano persone ben determinate, con una faccia riconoscibile, perché sono ruoli, sono modi di essere che rappresentano una categoria. Essi hanno un nome ma non possono avere un cognome, devono rimanere generici esempi di una tipologia, figurine di un catalogo (che non a caso è artificio retorico assai diffuso nell’opera di Tondelli), vive sì, ma significative per il ruolo che rappresentano, veicolando l’istanza realistica nella parte che esemplificano, di modo che la storia possa avere un duplice carattere di evento singolare, che come tale è irripetibile, ma anche di situazione generale, che proprio per questo si itera di continuo. Conferire ai personaggi una maggior caratterizzazione li avrebbe resi troppo specifici, protagonisti della loro sola storia e come tali scarsamente proponibili come exemplum della storia (cioè della vita).

I.3.3 La cornice e i percorsi testuali.

109 P.V. Tondelli, In punta di matita , cit. 110 Si ricordano i volumi che sono stati pubblicati, a cura di Tondelli, nell’ambito di quello che egli definiva “progetto Under 25”: P.V. Tondelli (a cura di), Giovani Blues (Under 25 I) , Ancona, Il Lavoro editoriale, 1986. P.V. Tondelli (a cura di), Belli & Perversi (Under 25 II), Ancona, Transeuropa, 1987. P.V. Tondelli (a cura di), Papergang (Under 25 III), Ancona, Transeuropa, 1990.

62 Tondelli sceglie per i sei episodi del libro un interessante meccanismo che li unifica sotto il profilo strutturale: tutti, in maniera più o meno evidente, rivelano la presenza di una cornice di qualche tipo, che li avvolge determinando un movimento di ritorno verso l’inizio della narrazione. L’uso della cornice ha una grande tradizione letteraria, soprattutto nel genere novellistico - basti pensare alle Mille e una notte o al Decameron - al quale per certi versi Altri libertini si può accostare per la sua struttura. Sono importanti riferimenti di cui sicuramente Tondelli ha tenuto conto, collegandoli alla particolare condizione del lettore contemporaneo, e che espone nel già citato Colpo d’oppio: il racconto è il miglior tempo della narrazione emotiva, la quale finisce quando è l’ora di finire: non una battuta in più, non una riga. [...] Il lettore deve essere sempre tenuto sotto shock, deve bere il racconto tutto intero e d’un fiato [...]. Non c’è più tempo per dedicare giorni e giorni alla lettura, bisogna che il testo sia disponibile in poco tempo: mezz’ora, un’ora, sull’autobus, in metrò, in barca, al caffè, un racconto e via!111

Si deve inoltre considerare che nello stesso articolo Tondelli richiama implicitamente la tradizione suddetta affermando la necessità che il testo sia “raccontabile, cantabile e riassumibile”, appartenente al “territorio della spettacolizzazione, della fabulazione e dell’avventura”, paragonabile perciò ad un “film” (che senz’altro per il suo tempo di fruizione è più vicino al racconto che non al romanzo, eventualmente confrontabile con lo sceneggiato in più puntate), soprattutto “destinato ad una circolarità di lettura, a una trasmissibilità orale” - e con ciò i legami con la novellistica, nel quale l’oralità assume un’importanza notevole, diventano ancora più marcati. Naturalmente, la tipologia della cornice non è la stessa, anzi, in Altri libertini è piuttosto variabile, spesso preceduta da una breve parte descrittiva che funge da introduzione, funzionale ad esigenze strutturali che tendono a compattare il testo. Generalmente questa è centrata sul narratore - il più delle volte personaggio e protagonista della storia egli stesso - e si colloca in una dimensione spaziale che ospita sovente una situazione di stasi. In questo modo viene contrapposta alla storia vera e propria, sentita come movimento, e l’alternanza delle due fasi è quella che determina il ritmo narrativo. In Postoristoro la valenza spaziale introduttiva è affidata al narratore anonimo, che illustra gli ambiti in cui si svolgerà la storia, per poi passare, nella cornice vera e propria, alle informazioni sui personaggi, Giusy in questo caso. La cornice ha una struttura perfettamente simmetrica: inizia con l’arrivo di Giusy ed il suo procedere verso il Posto Ristoro della stazione, connotandolo subito dopo con suoi pensieri espressi in discorso indiretto libero (cfr. AL pp.10-11); termina con l’immagine di

111 P.V. Tondelli, Colpo d’oppio, cit.

63 Giusy che si allontana dal Posto Ristoro, immediatamente preceduta da altre sue considerazioni in una narrazione che passa dal discorso indiretto libero al monologo interiore: e lui ha dovuto cedere, maledetti tempi di magra, porca magra che quando arriva non si riesce a raccattare in giro nemmeno uno spino tranquillo per andare avanti, sempre menarsela con facce di merda [...] Ma in fondo chissenefrega del Johnny e di tutta la baracca del postoristoro, io ci voglio sopravvivere [...] Nel piazzale la nebbia si fa più chiara attorno ai lampioni. Giusy si avvia barcollando verso casa. Quasi mattino (AL p. 33-34).

In questo caso, visto il particolare carattere di immobilità della storia, la contrapposizione tra stasi e movimento viene rovesciata, anche perché è comunque l’introduzione contenente la descrizione del luogo ad avere una valenza prettamente spaziale, e gli spostamenti di Giusy ritmano il testo intero alternandosi alle scene nel Posto Ristoro. La struttura tipica degli episodi è normalmente però la sequenza stasi / movimento / stasi, eventualmente ripetuta e naturalmente con un’ampiezza variabile. Il momento della stasi coincide generalmente con considerazioni del narratore, sia introduttive alla storia, sia apparentemente slegate da essa, a volte con la valenza di colloquio col lettore. In Mimi e istrioni la cornice è molto esile e si compone solamente della presentazione dei quattro personaggi protagonisti in quanto gruppo, non come singoli, momento che è già demandato alla storia. All’inizio compare così il quartetto “Splash” come personaggio unico, denotato da un “noi” narrativo sempre presente nell’episodio; alla fine c’è un breve ritorno al quartetto che si riunifica dopo la separazione in un contesto ben diverso da quello iniziale. Entrambi i momenti sono contraddistinti dalle riflessioni del personaggio che narra la storia comune, e rappresentano i due momenti della stasi, che in questo caso lo diventano pure per la posizione nel testo di inizio e di fine, di una narrazione che procede sempre rapida accavallando gli avvenimenti gli uni sugli altri anche tramite il processo di rimemorazione che ne è alla base. La sequenza stasi / movimento / stasi è molto più evidente in Viaggio, dove è duplicata e nel quale la cornice si stacca anche temporalmente dalla storia. In essa si colloca il presente del narratore, quello dell’atto del raccontare, mentre la storia ha origine da un processo rimemorativo fedele alla scansione temporale; un altro momento di stasi, sempre situato nel presente del narratore, interrompendola, consente lo spostamento spaziale dal mitico Nord alla realtà bolognese. Tondelli maschera il carattere statico della cornice collocandovi solitarie corse notturne in auto per la via Emilia, riempiendola cioè con un movimento. Ma è un movimento che non ne modifica l’aspetto sostanziale, poiché il narratore sembra fermo e da un punto di vista narrativo non si va in effetti da nessuna parte: la cornice è il luogo della

64 rimemorazione, in essa si compie l’atto del ricordare, quello che fa nascere l’azione ma che non è azione in sé; ancor più la cornice è il presente e la storia - nonostante l’adozione preponderante del presente narrativo - è ambientata nel passato, cosicché nella cornice non ci può essere movimento perché la storia è già finita. Perfettamente identica è la struttura di Senso contrario: una cornice nella quale il narratore da solo guarda la città, cornice evidenziata dal ritorno dei medesimi momenti percettivi: Una serata davvero vuota [...]. Guardo dalla vetrata di cristallo la città stretta nella notte (AL p. 131);

Ormai la luce è forte salgo sull’autobus non ho soldi, mendico dai pochi passeggeri mi siedo guardo dal finestrino la città perdersi nella periferia la campagna sfilare [...] Sento come mi fosse improvvisamente cresciuto dentro un vuoto enorme (AL p. 142).

All’interno di questa cornice di stasi si inserisce il movimento della storia che acquista un’ulteriore simmetria nella sua direzione dapprima con l’allontanamento dalla città e poi con il ritorno, intervallati da una pausa situata nell’osteria in collina. Analogamente a Viaggio dunque la struttura è la seguente: stasi / movimento / stasi / movimento / stasi, che sul piano spaziale diventa: città / spostamento verso la collina / collina / spostamento verso la città / città. Da notare che la presenza della cornice è evidenziata ulteriormente dal fatto che l’azione si sviluppa fuori di essa - che quindi assume come in Mimi e istrioni la posizione di inizio e fine - e che la pausa interna è molto meno marcata, poiché per quanto priva di movimento ospita avvenimenti fondamentali per il seguito della storia. Diverso è il caso di Altri libertini, che presenta una cornice assai marcata a racchiudere una storia dalla quale si stacca. Questo è dovuto al fatto che tale cornice riguarda avvenimenti e considerazioni riferiti al narratore, che ne è l’unico personaggio, mentre nella storia riveste un ruolo secondario. Il segmento iniziale della cornice svolge la funzione di introduzione spazio-temporale, fornendo le coordinate di tempo e di luogo della storia. Quello finale, ritorna sul narratore, simmetricamente all’inizio, e ci dà informazioni su di lui, inutili rispetto al contesto di una storia già finita, ma che introducono in maniera implicita un elemento che verrà poi sviluppato con continuità nell’episodio successivo, e cioè il rapporto col lettore. Le informazioni dettagliate sul capodanno del narratore, la ricerca di un tono ironico e colloquiale con tanto di battuta di chiusura (non felicissima peraltro) ed esclamazione

65 finale112 lasciano trasparire la ricerca di un interlocutore, un tentativo di includere nella scrittura come suo necessario corollario il momento della lettura. Ed un interlocutore, nella persona del lettore, anzi dei lettori, anche esplicitamente chiamati in causa, compare più volte in Autobahn, originando la solita sequenza raddoppiata presente in Viaggio e Senso contrario, nella quale il momento in cui il narratore si rivolge ai lettori sostituisce quello della stasi, mentre nel resto della storia il movimento prende il sopravvento con un ritmo accavallato e frenetico. E’ lo stesso Tondelli a far notare il carattere di pausa che tale elemento assume, fermando il procedere della narrazione: Però mentre io sul mio ronzino scappottato sono lanciato all’inseguimento, dovete sapere alcune chiacchiere e portare un poco pazienza, tipo accendervi una sigaretta se c’avete il vizio, o bere una cocacola o dare un bacio alla vostra compagnia se siete in compagnia, e se siete soli, be’ cazzi vostri io non lo vorrei proprio ma se è così è così, non menatevela tanto; quindi passo a dirvi le menate che vi devo (AL p. 180).

Il motivo del colloquio col lettore traspare comunque nel resto della narrazione, a volte sotto forma di interrogativi, altre introdotto da clausole del tipo “dovete sapere che”, fino a diventare fondamentale nella parte finale della cornice, dove diventa un vero e proprio appello al lettore invitandolo al movimento, un epilogo che, attraverso l’invito a partire verso l’avventura, orienta verso di sé il racconto intero. Il rapporto col lettore presenta anche un carattere evolutivo, che parte da un’iniziale narrazione dove sono i fatti a parlare, svincolando il narratore da funzioni connotative nei confronti della storia e dei personaggi; passa poi ad una in prima persona dapprima legata al meccanismo della rimemorazione, con un evidente funzione di racconto (nel senso di esposizione orale prima considerato a proposito della novella) ma priva di riferimenti al fruitore (il lettore in questo caso), ed è il caso di Mimi e istrioni e di Viaggio; utilizza Senso contrario come breve episodio estremamente chiarificatore della sequenza stasi / movimento / stasi e della cornice, ma slegato dal processo rimemorativo; arriva infine, in maniera graduale, al colloquio col lettore, che in Altri libertini è implicito e vincolato alla cornice, mentre nel conclusivo Autobahn viene esplicitato in più parti del testo fino ad assumere una funzione fondamentale di coinvolgimento, a narrazione terminata. E’ interessante notare la progressiva evoluzione di un processo che caratterizza in questa maniera il libro intero, unificandolo in un percorso che diventa globale e che dà ad

112 Va anticipato che il gioco di parole è una componente essenziale del linguaggio del primo Tondelli, anche se in questo caso la sottrazione “anno”/”ano” risulta banale e sottotono rispetto al resto dell’episodio: “Tornerò il trentuno a Reggio Emilia per il cenone con tutti i pedé della mia razza [...] ci sarà festa grande e granbaldoria per il prossimo anno 1979 che pare allora andrà in gran moda, in tutto il mondo, l’ano del fanciullo! Obsssssssssssssss... (AL p. 176).

66 Autobahn un senso di conclusione, spostandolo dalla sua singola funzione di episodio in un ruolo più specifico di parte finale. Un analogo cammino segue il rapporto tra narratore e autore, che partendo dall’estraneità della terza persona iniziale di Postoristoro, adotta successivamente la frattura temporale o un narratore plurale per distanziarsi dal protagonista, avvicinando poi sempre più i tempi del racconto a quelli della scrittura, fino ad una possibile coincidenza di autore e narratore nelle pagine finali. Il carattere particolare di Autobahn determina la costruzione di un altro percorso che, parallelamente a quello evolutivo della forma della scrittura, si sviluppa nella direzione di un miglioramento dal negativo più cupo di Postoristoro (che della tragedia detiene anche la fissità), attraverso tappe intermedie dove la negatività è imbrigliata in momenti ironici che le fanno da contrappunto, come in Viaggio, a toni più scanzonati da commedia in Altri libertini, fino all’ottimistico appello al lettore di Autobahn. Contestualmente a questo percorso, e a conferma di esso, si può notare la scomparsa, negli ultimi racconti, del tema della morte per suicidio, dell’autodistruzione, sempre presente nel contesto degli episodi iniziali. Mimi e istrioni sembra smentire questa osservazione, ma a ben guardare, si inserisce perfettamente in questo sviluppo e il suo tono scanzonato ed ironico diventa un contrappunto ed una copertura rispetto al senso reale della storia, che non esprime né gioia né ironia. E’ la storia di un quartetto di personaggi, le “Splash”, narrata in prima persona da una di loro, Pia, in maniera quasi diaristica. Tre ragazze (Pia, Nanni e Sylvia) e un travestito (Benny), il quale alla fine riprenderà i suoi panni maschili, tra Reggio Emilia e Modena passano di avventura in avventura attraverso un catalogo delle esperienze di una ben definita fascia giovanile degli anni Settanta. Il testo si snoda, infatti, tra enoteche e osterie, discoteche e radio libere, gruppi autogestiti e collettivi di vario genere, la piazza e i viali delle lucciole, mostrando i luoghi comuni di un certo immaginario giovanile. A inizio estate il quartetto si separa per le vacanze, con un ritorno che introduce segnali di crisi all’interno del gruppo: Benny riscopre la propria eterosessualità, ritornando Benedetto, e il trio rimanente si scioglie tra reciproche incomprensioni. Il finale è quasi tragico: si ritrovano in sala d’aspetto dell’ospedale, dove una di loro, Nanni, è ricoverata per intossicazione da farmaci, sotto lavanda gastrica; si assiste così ad un rovesciamento dell’apparente tono allegro e scanzonato che aveva caratterizzato l’intero episodio, lasciando spazio ad una possibile lettura metaforica del “poker Splash” come immagine del movimento giovanile del ’77, naufragato tra “lo scontro frontale con le istituzioni e lo stato [...], l’annullamento nella droga o nei mille rivoli della lotta armata”.113

113 PV. Tondelli, Nei sotterranei della Provincia, cit.

67 Due, infatti, sono gli esiti che sviluppa il percorso narrativo del racconto: la disgregazione e la morte, che in un certo senso confluiscono l’uno nell’altro. La disgregazione diventa addirittura dissoluzione del personaggio, in quanto la cornice iniziale presenta un personaggio unico composto di quattro individui, il “poker Splash”, e la storia raccontata è quella del quartetto e delle varie avventure tra cui passa, nella più classica struttura di un romanzo picaresco che usa il personaggio come tramite per l’incastonatura degli avvenimenti. Lo svolgimento della storia comporta lo scioglimento del quartetto - la fine del personaggio, la sua morte cioè - fino ad un'ultima finale riunione che è fittizia quanto momentanea, dettata soltanto da un’occasione particolare. Questo aspetto viene evidenziato anche simbolicamente, in quanto il luogo demandato alla riunione del gruppo è un ospedale, un luogo di cura nel quale comunque un elemento del quartetto è tenuto separato dagli altri. La disgregazione, in quanto fine del personaggio unico, confluisce nel secondo tema, cioè nella morte: l’evento che determina l’ultima riunione del gruppo è il tentato suicidio di una delle quattro, Nanni, che esplicita così nel finale il motivo dell’autodistruzione già sfiorato attraverso personaggi secondari, caricandolo di una valenza che modifica l’intera lettura dell’episodio, attraverso una connotazione ambigua dell’avvenimento. Pier Vittorio Tondelli infatti non ci dice come va a finire la storia. O meglio, ci racconta - tramite la voce di Pia, la narratrice - la storia del personaggio Splash in maniera completa, ma, coerentemente all’adozione di una narrativa di gruppo, non dà ulteriori informazioni sul seguito della vita dei singoli componenti del personaggio multiplo. Ancor di più, non solo evita di dare informazioni successive, ma carica quelle date di una certa ambivalenza, che non consente un’interpretazione sicura degli avvenimenti. Il modo infatti in cui Pia si riferisce al tentato suicidio di Nanni non permette di determinarne l’esito e di sapere se poi Nanni si sia salvata o no: Di Nanni invece vengo a sapere troppo tardi quando è in clinica per avere ingerito troppi Mogadon. Gli ultimi giorni, mi raccontano, era una medusa a secco, un’Es scaricato e circonciso e fiacco. Ci ritroviamo con Benedetto e la Sylvia lungo il corridoio d’aspetto mentre le fanno la gastrica e ci abbracciamo forte e diciamo forza forza che gliela fa, ma c’è quasi nausea per quegli anni sbandati e quel passato che vorremmo anche noi rigettare assieme alla Nanni, quel pomeriggio vuoto di febbraio (AL p. 65).

L’indeterminatezza conferisce al fatto una carica più negativa rispetto al tentato suicidio del narratore nel successivo Viaggio, dove il tema della morte è trattato in maniera ben più ampia, e la secchezza con cui vengono descritti gli avvenimenti lo accomuna al crudo ambiente di Postoristoro, giustificandone così la posizione nel percorso evolutivo

68 del libro intero; i toni ironici e scanzonati che pure sono caratteristici di Mimi e istrioni, in contrapposizione all’atmosfera cupa del precedente, sono dunque una variazione stilistica che non muta la direzione sostanziale verso cui tende l’episodio, riuscendo ad ogni modo ad occultarla per gran parte di esso, fornendo al finale un effetto quasi di sorpresa e sicuramente di rivelazione nei confronti dell’interpretazione della storia.114 Si è prima accennato ad una lettura metaforica nei confronti del movimento giovanile di fine anni Settanta: la disgregazione di cui sono oggetto le Splash rispecchia il passaggio dal pubblico al privato che caratterizza la fine del movimento, un ripiegamento su sé stessi malinconicamente sentito ed espresso nel testo come fine di una ricerca, triste consapevolezza del carattere illusorio dell’utopia di libertà che aveva animato il racconto (e con lui il momento storico che viene a rappresentare). E’ quanto traspare dalla lettera di Sylvia riportata da Pia: Dice che abbiamo pagato troppo caro il prezzo per la ricerca di una nostra autenticità, che tutto quanto abbiamo fatto era giusto e lecito e sacrosanto perché lo si è voluto e questo basta a giustificare ogni azione, ma i tempi son duri e la realtà del quotidiano anche e ci si ritrova sempre a fare i conti con qualche superego malamente digerito; che è stata tutta un’illusione, che non siamo mai state tanto libere come ora che conosciamo il peso effettivo dei condizionamenti (AL p. 65).

In questa maniera, la storia (piccola) diventa una riflessione sulla Storia (grande), attraverso una sua esemplificazione. Bonura, parlando di “tragicomica epopea giovanile” a proposito di Altri libertini, afferma che “la Storia viene letteralmente polverizzata e al suo posto emergono le storie individuali in un vuoto ideologico totale.”115 Se è innegabilmente vero che non c’è “nessuna istanza superiore” e che i componenti del libro di Tondelli sono “materiali minimi”, il concetto di "vuoto ideologico" sembra sottovalutare che questi “materiali minimi” sono quelli che poi costituiscono la storia di una generazione che ha partecipato in maniera non certo laterale - basti pensare ai rapporti tra movimento e lotta armata a fine anni Settanta - alla storia dell’Italia di quegli anni. E’ quindi attraverso la metafora che, in Mimi e istrioni, Tondelli attualizza la sua narrativa, alla quale del resto la critica ha sempre riconosciuto un forte valore documentario. Le esperienze ed i luoghi comuni attraverso cui le quattro Splash passano forniscono un catalogo del mondo giovanile di quegli anni: vi si ritrovano radio libere e collettivi femministi, gruppi spontanei di ogni tipo e velleità artistiche, droghe leggere e pesanti, osterie, discoteche, liberazione sessuale e cucina macrobiotica, collegati da un

114 Piuttosto diffusa, nella narrativa tondelliana, è la tecnica della surprise. Si confronti, ad esempio, il finale di Rimini, dove il genere - romanzo poliziesco, per quanto la definizione sia in questo caso riduttiva, poiché Rimini è anche altro - quasi la richiede, oppure gli ultimi momenti di Thomas in Camere separate (cfr. CS pp. 33-34). 115 G. Bonura, op. cit., p. 31.

69 movimento continuo che pur non raggiungendo effettivamente luoghi lontani - l’azione non va oltre Modena - testimonia la spinta verso il viaggio che ha caratterizzato l’intera generazione. Tutti, al termine della metafora e della storia, finiscono in una lavanda gastrica, in un rigettare tutto nella “nausea per quegli anni sbandati e quel passato” (AL p. 65), secondo le parole che Tondelli a caldo - Altri libertini esce nel gennaio 1980, a brevissima distanza dalla fine del movimento - mette in bocca a Pia per esprimere la crisi generale che il ripiegamento su di sé comporta, fornendo così il racconto di un senso ultimo che gli dà uno spessore maggiore che non la semplice storia delle avventure delle quattro ragazze.

I.4 Il linguaggio tondelliano.

Il percorso simbolico e interpretativo appena evidenziato viene connotato in modo da renderlo altamente mimetico nei confronti del materiale narrato - la generazione dei giovani fine settanta - attraverso le scelte stilistico-formali e i riferimenti reali. Tondelli adotta, infatti, una forma narrativa ed un linguaggio che - per quanto letterari - sono fortemente omogenei all’ambiente generazionale privilegiato. La narrazione nasce da un processo rimemorativo di uno dei personaggi e procede in una forma pseudodiaristica, con frequenti precisazioni temporali e senza alcuna infrazione dell’ordine fabula / intreccio; richiama così implicitamente il favore che la scrittura personale riscuoteva presso la generazione protagonista del racconto e del libro intero, dando concretezza all’esigenza di scrivere propria del periodo, testimoniata già nel 1976 dal successo anche commerciale di Porci con le ali.116 E’ una scrittura che evidenzia il bisogno di dare forma pubblica al privato, di rendere comuni le esperienze personali, anche le sensazioni più intime, e che rientra nel forte senso del gruppo che identificava i giovani di quegli anni. Già nel 1979 Enrico Palandri, in Boccalone, caricava questo aspetto di una problematica conflittuale, segnalando un’esigenza di ritorno al privato prima assente e la sconfitta del momento politico di fronte ai sentimenti. Contemporaneamente, pur all’interno di un lavoro certamente letterario, esprimeva il rifiuto della letterarietà e la necessità di una scrittura spontanea. E’ importante notare che l’aspetto generazionale viene coscientemente percepito, con i confini anche temporali ben determinati che dà il sentimento di un’età finita. Scrive infatti Palandri nella postfazione all’edizione Feltrinelli del 1988:

116 “Il bello di queste pagine è che tutti possono scriverle e che tutti sono scrittori”, scriveva Palandri in Boccalone. Storia vera piena di bugie , cit., p. 18.

70 si concludeva una prima parte dolorosa e comune a tanti della vita. La fine di un amore, il riflusso politico, la fine di un’età, di una stagione vissuta in prezioso equilibrio con la mia generazione.117

La scrittura di Tondelli è pressoché contemporanea - solo un anno separa Boccalone da Altri libertini - ed esprime la stessa coscienza generazionale, lo stesso rapporto con un’età finita e la stessa spinta antiletteraria: [con Altri libertini] io stesso avevo cercato in un certo senso di raccontare quelli che potevano essere chiamati dei ‘percorsi generazionali’. Quando scrivevo i racconti di quel libro cercavo un determinato pubblico e avevo un’idea di lettore. Volevo comunicare ad altre persone che avessero più o meno la mia età. Non mi interessava il cosiddetto ‘mondo degli adulti’, né quello della critica ufficiale;118

Altri libertini è, anche letterariamente, un libretto aggressivo [...] Negli anni in cui è uscito era anche un libro che andava contro la letteratura paludata, contro quella che ancora oggi è la letteratura ufficiale, quella premiata dalle autorità, dai marescialli e dai professori, contro un certo modo di scrivere, di vedere il libro, contro la diffusa tendenza a considerare il testo come un feticcio di promozione sociale;119

e, con lo stesso concetto del Boccalone di Palandri: E’ come se, con questo libro, io dicessi a chi mi leggeva: “Se lo posso fare io un libro come questo, lo potete fare anche voi. Se io riesco a mettere insieme queste storie, anche voi potete raccontare le vostre storie su queste cose”.120

Se pure contiene un campo d’indagine più vasto rispetto a Boccalone, vista l’eterogeneità dei sei episodi, nondimeno denota analoghe scelte stilistiche, espressive e contenutistiche, soprattutto in rapporto alla forma e al linguaggio utilizzati, dal momento che le indicazioni che Palandri dà a riguardo parlando di “lingua [...] composita e disarticolata [...]: un po’ di politica, qualche canzonetta, la pressione dell’inglese [...] ma soprattutto moltissimi neologismi, esperimenti nel parlare“121, si ritrovano in Altri libertini ulteriormente sviluppate ed esplicitate. Tondelli infatti, riferendosi nel 1989 al suo libro, parlerà di “lingua non letteraria, non libresca, non burocratica”, farcita di “canzoni rock, motivi musicali, cadenze dialettali”, nella “ricerca di una scrittura nuova” con “al centro della narrazione le piccole cose di ogni giorno, i personaggi emarginati, gli accadimenti quotidiani”, secondo le lezioni dello stile di Kerouac e del parlato di Celine122. L’analogia relativa alla struttura formale vale principalmente per Viaggio, che, pur non potendo essere definito un diario in senso stretto, adotta come Boccalone una

117 Ivi, p. 146. 118 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 57. 119 Ivi, p. 60. 120 Ibidem. 121 E. Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, cit., p. 150-151. 122 P.V. Tondelli, Nei sotterranei della provincia, cit.

71 narrazione marcatamente diaristica nel senso che, come si è visto, questo termine era venuto ad assumere per la scrittura giovanile degli anni settanta. E’ vero altresì che la presenza di un narratore che racconta la storia di sé e del suo gruppo, con frequenti indicazioni temporali e scegliendo uno specifico lasso di tempo all’interno del quale tende ad evitare infrazioni, sul filo della rimemorazione ed in palese stretto rapporto con l’oralità del raccontare, elemento sempre presente nei vari episodi, avvicina moltissimo i due romanzi, soprattutto alla luce delle osservazioni, precedentemente citate, di Palandri relativamente alla lingua della narrazione. Mimi e istrioni offre un esempio ricchissimo della varietà del linguaggio tondelliano, sul quale la critica si è spesso soffermata, considerandolo l’elemento più interessante ed originale della sua scrittura, cosciente frutto di un’accurata manipolazione di vari materiali lessicali a cui si aggiungono “ottimi scarti d’invenzione”123. E’ un linguaggio composito, teso a rendere il parlato giovanile, nel quale confluiscono citazioni e riferimenti a personaggi letterari, termini dialettali e prestiti da lingue straniere, per lo più l’inglese, immagini e luoghi propri del parlato con la loro sintassi anomala, giochi di parole e vocaboli di linguaggi specializzati, siano essi quelli scientifici o quelli gergali dei giovani degli anni Settanta, dai sottoproletari urbani ai “protoyuppies” di paese, riferimenti musicali dal primo blues americano al rock contemporaneo, canzoni partigiane e slogan da manifestazione, suoni onomatopeici da fumetto e visualizzazioni grafiche. Tutto ciò viene agitato dall’adozione di diversi modi del racconto, dal discorso diretto al monologo interiore, in un’estrema varietà di situazioni che vanno dalla crudezza più esasperata al

123 G. Gramigna, Carriere di libertini, “Corriere della Sera”, 24 febbraio 1980. Le recensioni immediatamente posteriori all’uscita del romanzo, quando se ne occupano anche da un punto di vista più propriamente letterario e non sociologico o documentario, rivelano un forte interesse verso il linguaggio tondelliano. Quanto ai giudizi successivi, basti citare a titolo di esempio l’opinione di Bonura, per il quale “la prosa di Tondelli è un’invenzione tutta sua, lavorata con grande consapevolezza linguistica.” G. Bonura, op. cit., p.33. E’ una consapevolezza di cui lo stesso Tondelli è perfettamente conscio, dal momento che, in un’intervista pubblicata postuma, dichiara: “Con Altri libertini la mia ambizione è stata quella di introdurre una certa novità linguistica, rivolta a quei giovani che come me avevano venti o venticinque anni.” F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 60. Sempre a questo proposito, François Wahl gli riconosce di essere “stato l’unico a non aver scritto in quel periodo da ex combattente, narrando piuttosto dal proprio intimo, al presente, inventando, per giunta, perché di invenzione si tratta, la lingua che gli serviva per farlo.” F. Wahl, PVTTPV, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 251-256. L’interesse nei confronti del linguaggio tondelliano va oltre il campo meramente critico- letterario, tanto da essere citato come fonte da Lorenzo Coveri in un’indagine sul linguaggio giovanile: “E’ d’obbligo, a questo punto, sottolineare l’importanza ai nostri fini del settantasettino Pier Vittorio Tondelli con i suoi Altri libertini (1980) e Pao Pao (1982), che ci avvicinano agli ambienti della tossicodipendenza e del servizio militare.” L. Coveri, Gli studi in Italia, in AA.VV., Il linguaggio giovanile degli anni Novanta, a cura di E. Banfi e A.A.Sobrero, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp.59-69. Al di là delle definizioni fortemente limitative sia nei confonti dell’autore - non si dimentichi che l’articolo di Coveri esce quando ormai Tondelli aveva precocemente concluso la sua carriera di scrittore - che dell’ambientazione delle sue opere, estremamente più variegata di quanto qui non appaia, è importante trovare una conferma dell’importanza del linguaggio tondelliano da parte di uno ‘specialista’.

72 lirismo, spesso complicati da procedimenti quali l’elencazione che alterano la velocità del normale scorrimento della storia e che, uniti all’uso di una sintassi a volte stravolta e accatastata, conferiscono al discorso un ritmo fortemente diversificato. Si è parlato di citazioni e riferimenti a personaggi letterari, che in effetti compaiono con una certa frequenza e con una valenza ben precisa. Ecco per esempio come avviene la presentazione del narratore in Mimi e istrioni, all’interno dell’enoteca di corso Boiardo a Reggio Emilia: “e gli amici suoi prima ridono, poi si fanno seri e alla fine dicono che se non togliamo la nostra topa dalle sedie ci sfracellano di botte e io, che son la Pia, penso a tagliare la corda, ma la Nanni s’incazza e prende slancio con le sue cordelle borchiate, ma uno la stoppa e le lancia un gran ceffone sul collo che quasi mi sviene in braccio (AL p. 37).124

L’evidente citazione dantesca ritorna più avanti, con intercalato un avverbio, in modo da non poter certo apparire frutto di casualità (“La Nanni [...] viene ad abitare da me, che son sempre la Pia” - p. 44), e, se non bastasse, viene raddoppiata, poco dopo, nella descrizione dell’apparizione notturna del Tony, il partner di Pia, un eroinomane che arriva in condizioni tali da aver bisogno di cinque giorni di amorose cure per rimettersi: Arriva con gli occhi sbalzati fuori che gli pendono come due tette e ha una voce scatarrosa che nemmeno carondimonio, e la saliva secca e oscena intorno ai labbroni screpolati, insomma una cosa da far spavento e infatti noi due ci spaventiamo finché non lo si riconosce per il Tony e lui sviene (AL p. 46)125

In Postoristoro uno dei boss locali era identificato come “il partigiano Johnny” (AL p. 17 e 18), con chiaro riferimento a Fenoglio, mentre il corriere della droga, Guerrino, viene chiamato “michele strogoff” e “corriere strogoff” (p. 24 e 26), citando quindi il personaggio di Verne, senza dimenticare le ascendenze letterarie della stessa Molly. Si potrebbe continuare con la Cinquecento di Autobahn cervantescamente detta “ronzinante” (AL p. 181) o con altri esempi; il risultato che ne deriva è comunque il conferimento al discorso di una valenza straniante, spesso ironica, attraverso la citazione letteraria. Tale valenza ha origine dalla sua decontestualizzazione e dalla successiva attribuzione della citazione ad un personaggio fortemente diverso dall’originale; considerando la tipologia dei personaggi fin qui analizzata è evidente che tale procedimento comporta l’adozione di un lessico dissonante per le possibilità di chi lo usa, in ogni caso sempre in forte contrasto con la situazione in cui viene inserito.

124 Tondelli, pur modellando anche la sintassi sull’emistichio dantesco, sostituisce il pronome “me” con “io”. Il verso della Commedia è il famoso “ricorditi di me che son la Pia”, Purg, V, 133. 125 L’episodio dantesco è quello contenuto in Inferno III, dove gli occhi di Caronte son richiamati per due volte: “che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote”, Inf, III, 99, e “Caron dimonio, con occhi di bragia”, Inf, III, 109.

73 La denominazione quindi di “partigiano” a Johnny produce un doppio effetto di straniamento, dapprima in quanto riferita ad un malvivente, secondariamente in quanto proferita da un personaggio al quale lo status attribuitogli nel racconto non sembra dare la possibilità della citazione letteraria; al tempo stesso il meccanismo in questione può postulare l’acquisizione nel linguaggio comune di stilemi nati come letterari. Lo stesso discorso vale per il corriere Guerrino diventato “michele strogoff”, con un capovolgimento del giudizio etico sul suo ruolo, che peraltro rientra nel più generale capovolgimento di valori alla base di Postoristoro. Quanto alle citazioni dantesche, hanno un evidente effetto ironico, con la sostituzione al contesto purgatoriale dell’ambiente dell’enoteca e l’associazione della figura di Pia dei Tolomei ad una delle componenti del quartetto Splash. Si trova d’altronde, poche righe più sotto, un altro richiamo colto, con il risorgimentale “si scuoton le tombe e si sollevano i morti” (AL p. 37). Nel successivo accostamento Tony-Caronte, l’effetto è identico, rimarcato dall’attenzione rivolta sugli occhi del personaggio, con la differenza che i danteschi occhi fiammeggianti diventano qui “sbalzati fuori” e pendenti “come due tette”. Anche in questo caso il paragone si arricchisce, sempre in senso ironico, di altri elementi, cosicché all’infernale Acheronte corrisponde la vasca da bagno talmente piena di disinfettanti e detersivi da ribollire, mentre lo svenimento di Tony ricorda il successivo svenimento di Dante a fine canto. La citazione classica non si caratterizza però sempre in maniera così marcata, e rimane a volte solo una denominazione insolita, un po’ è colta e un po’ esprime la tendenza giovanile a dare un nome particolare alle cose per appropriarsene: così la Citroen DS di due amici delle Splash diventa Moby Dick ed essi vengono definiti Giovani Holden, richiamando in questa maniera Melville e Salinger, in omaggio anche ad una letteratura che Tondelli ha sempre considerato fondamentale per la sua esperienza di scrittore. Lo stesso effetto ironico e dissonante produce l’uso di figure della storia e del mito alle quali vengono paragonati i personaggi: così Miro in Altri libertini “corre per la casa stracciandosi le vesti come un’invasata di Zagreo” (p. 162) oppure siede “sulla sponda del letto col lenzuolo addosso a mo’ di toga, come un eliogabalo” (p. 170). Sempre riguardo ai personaggi, storici o contemporanei, da notare il vezzo della citazione estesa, con nome e cognome, quasi sempre in toponimi e a volte all’interno dell’istituzione di paragoni con le forme artistiche, in un contesto sempre dissonante. Ecco quindi “l’Enoteca di corso Matteo Maria Boiardo”, i cui clienti sono “molti puttanieri” provenienti dal vicino cinema, che nella stessa maniera altisonante e produttrice di contrasto è detto “Cineteatro Lux che fa programmazione porca” (p. 36); c’è poi “Piazza Camillo Prampolini [...] col suo sagrato e i piletti che sembrano tanti priapini” (p.

74 37), oppure l’osteria che ha una luce di “un arancione fulvo e così caldo che sembriamo davanti al focolare in un film o in una luce di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio” (p. 56). Anche i personaggi contemporanei rientrano nelle citazioni tondelliane, spesso in un contesto pertinente alle loro attribuzioni reali, a volte associati ad altri meccanismi relativi al linguaggio. Significativo a questo proposito il tratto in cui viene inserito Umberto Eco, che viene caratterizzato - con un felice richiamo alle sue vesti di semiologo - proprio mediante una concentrazione di operazioni sul linguaggio: ecco finalmente la materializzazione di quel che docent, maxima cum causa, e in stretto pas-de-deux Marshall McLuhan & Umbert d’Ecò!!! (AL p. 59).

Nello spazio di tre righe troviamo l’uso di lingue diverse da quelle del testo, e cioè il latino - e non può non venire in mente il libro di Eco Lector in fabula126- e il francese (tra l’altro con un termine tratto da un linguaggio settoriale), oltre naturalmente all’inglese di Marshall McLuhan; l’effetto di rima tra “pas-de-deux” e “Umbert d’Ecò” (che è rima fonica ma non visuale, anomala quindi per la versificazione italiana) ottenuto mediante il gioco sul nome stesso di Eco, la cui francesizzazione potrebbe essere un velato riferimento ad un campo di studi che ha trovato in Francia il suo maggior ambito di sviluppo, e che comunque viene inserito nel suo ruolo istituzionale dal verbo ‘docere’; l’uso di segni grafici estranei ad un testo letterario, appartenenti quindi ad un altro linguaggio, e cioè la “&” proprio davanti al nome di Eco; il meccanismo stesso della citazione e la sottolineatura della frase con i tre punti esclamativi finali.127 Il prestito da lingue straniere - francese e latino in questo caso ma con una frequenza assai maggiore l’inglese - è un’altra caratteristica costante del linguaggio di Tondelli, che, come succede per ogni linguaggio giovanile, anticipa in questo l’evoluzione della stessa lingua italiana, volta ad inglobare molti termini stranieri nella sua lingua d’uso. Illuminante a questo proposito l’intervento di Diego Zancani al convegno internazionale sul “Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992”, intervento che analizza le strutture linguistiche di Altri libertini128. Zancani opera un confronto a livello lessicale tra le “parole nuove o gergali” usate da Tondelli e tre dizionari correnti, e precisamente la decima edizione dello Zingarelli del 1970,

126 U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979. 127 Pier Vittorio Tondelli aveva frequentato al DAMS di Bologna nell’anno accademico 1976-77 il corso di Semiotica del professor Eco, al termine del quale aveva prodotto una relazione. Dalla discussione di questa con Eco aveva poi tratto un racconto pubblicato nel “Corriere della Sera” il 22 agosto 1988, dal titolo Un racconto sul vino. Umberto Eco parla dello stesso argomento nel suo contributo a “Panta”, 1992, n. 9, dal titolo 29. 128 D. Zancani, Pier Vittorio Tondelli e le strutture linguistiche di “Altri libertini”, in AA.VV., I tempi del rinnovamento, Leuven, University Press, Roma, Bulzoni Editore, 1995, pp. 739-754.

75 il Dizionario di parole nuove di Cortelazzo-Cardinale del 1986, Le parole della gente di Lotti edito da Mondadori nel 1992. L’unico vocabolo non italiano, inglese, che Zancani considera è ‘trip‘, usato cinque volte in Altri libertini. Dalla ricerca nei tre dizionari, ne emerge l’assenza nello Zingarelli e la presenza nei due successivi. Dal confronto con le definizioni risulta, da parte di Tondelli, un uso del termine molto più variegato nei suoi significati, applicato a situazioni diverse da quelle contemplate. Zancani cita le cinque definizioni del più recente Lotti e fa delle considerazioni sull’accezione tondelliana: [Lotti] 1 effetto allucinatorio provocato dall’assunzione di stupefacenti 2 sensazione di voluttà 3 capriccio fissazione 4 situazione, cosa o persona noiosa,...che fa innervosire 5 (per metonimia) pastiglia di LSD, anfetamina. L’accezione tondelliana è più ricca di sfumature di Lotti 2,3 e 4: cfr. p. 51 “sarebbe davvero un ottimo trip starci a fare l’amore distesi sull’erba"; p. 58 “trip dell’immaginazione”; p. 84 “vivere un trip scannato e troppo lungo”; p. 160 “il trip li prende anche loro e si mettono a cantare”.129

E’ un discorso che risulta valido per altre particolarità della lingua tondelliana, la cui ricchezza sconfina dalla lingua italiana nella sua accezione di uso medio, nei confronti della quale si dimostra spesso innovativa. E’ una caratteristica che appartiene più generalmente al linguaggio giovanile, come fa notare Edgar Radtke: “nel momento in cui si va formando, faticosamente, un italiano dell’uso medio, il bisogno di ‘comunicazione espressiva’, ricca di tratti ‘affettivi’, crea un italiano volutamente substandard: la varietà giovanile fa parte, pienamente, di questo processo”130.

Il prestito rientra in questo processo di costruzione di una lingua “substandard”, e si esprime in Tondelli attraverso l’adozione di termini tratti soprattutto dalla lingua inglese, diventata ormai universale, cosicché il testo è infarcito di ‘trip’, ‘joint’, ‘drug-store’, ‘sound’, ‘freak’, ‘folk’, ‘partner’, e così via, a volte con un uso anomalo, come quando il filmato girato dalle Splash sulle prostitute di Modena viene definito “un very very tape”, tradotto subito dopo in “comunicazione quotidiana” (AL p. 60). La parola straniera dunque viene assimilata ed entra a far parte di un linguaggio nuovo, in un procedimento nel quale subisce mutazioni anche sostanziali, in quanto spesso viene riportata nella sua veste fonica, come parola pronunciata e non come parola scritta: “camman”(p. 80) al posto di ‘come on’, “doicc”(p. 187) al posto di ‘deutsch’, “miusic” (p. 139) invece di ‘music’; altre

129 Ivi, pp. 744-745. In “Universale Economica” le pagine corrispondenti sono 52, 59, 85, 161. E’ interessante notare che nell’ultima citazione il termine ‘trip’ è inserito in un contesto dissonante, poiché soggetti ne sono “tre-quattro vecchietti rimasti lì a ridere e piangere fra i loro bicchierozzi”. La citazione mancante in Zancani utilizza il senso della definizione 1 di Lotti: “i tram sfrecciavano come fulmini squarciando il silenzio del trip” (AL p. 11). 130 E. Radtke, La dimensione internazionale del linguaggio giovanile, in AA.VV., Il linguaggio giovanile degli anni novanta, cit., p. 9.

76 volte viene raddoppiata come nel caso sopra riportato (“very very”) o altrove, per esempio a p. 99, “drunkato drunkato”; altre volte ancora viene unita ad altre - italiane o straniere - originando nuovi termini come “reggomani” (p. 191) o “trammetro” (p. 78). Anche i nomi partecipano a questo processo di anglicizzazione, non solo quelli dei personaggi citati, “Cinderella”, “Joan of Arc”, a volte storpiati secondo la pronuncia, “Virginiavulf” (AL p. 41), ma persino quelli delle protagoniste, cosicché Sylvia beneficia di un’improbabile ‘y’, come pure Benny (per l’altra protagonista, la Nanni, Tondelli evita di ripetere l’accorgimento). Un trattamento analogo alle lingue straniere subisce il dialetto: in generale al giorno d’oggi ha ormai perso la sua tradizionale funzione di elemento di rottura, che si pone in contrapposizione alla lingua ufficiale, soppiantato in questo dalla presenza di un linguaggio giovanile ormai formato, di cui tutt’al più è diventato parte. Conseguentemente, il dialetto diventa un esotismo e rientra nella più vasta categoria del prestito linguistico, con le stesse modalità delle lingue straniere, nei confronti delle quali permane però una grande differenza, in quanto per esso non ci si può riferire all’idea di un linguaggio sovranazionale. Tondelli ne fa un uso parco e complessivamente omogeneo a quanto emerge dagli studi sul linguaggio giovanile131: il dialetto viene infatti inserito in un contesto non dialettale, con la funzione di caratterizzare il discorso in maniera per lo più scherzosa, espressiva di un registro più personale da parte di chi lo utilizza. In questa maniera diventa un elemento di connotazione dei personaggi, non genericamente attribuito a chiunque, ma solo ad alcuni di essi. Prova ne sia il fatto che in Postoristoro gli inserti dialettali riguardano Molly e Vanina, due personaggi che come si è visto hanno molto in comune: la Molly [...] ha sempre detto di no, l’è minga veira nel suo dialetto mantovano- carpigiano ancora più sbracato perché non ha i denti e quando parla è come una cloaca col suo ritornello delle scientolire che certi pidocchiosi le avranno insegnato avanti di rubarle un qualche straccetto (AL p. 14).

In questo caso Tondelli stesso richiama l’attenzione sull’uso del dialetto, sia nominandolo direttamente nel testo, sia segnalando con il corsivo la citazione delle parole di Molly, con l’effetto implicito di evidenziarne la diversità linguistica dal resto del discorso. Quanto a Vanina, le uniche parole che dice contengono un termine dialettale, “gnanche”: (Giusy) le chiede i soldi per un beveraggio. “Devo cominciare il lavoro, gnanche cinquanta lire” (AL p. 21).

131 cfr. A.A. Sobrero, Varietà giovanili: come sono, come cambiano, in AA.VV., Il linguaggio giovanile degli anni novanta, cit., pp. 45-58.

77 Una seconda funzione del dialetto è segnalare un contesto provinciale, nel quale i personaggi sono loro malgrado inseriti e con il quale sono in contrasto. Dice Radtke: nel linguaggio giovanile si ha una sorta di bipolarità linguistica che prevede, da un lato, la dimensione internazionale, dall’altro l’attaccamento ai registri provinciali. [...] Nella lingua dei giovani in Italia [...] emergono tratti provinciali: il dialetto sembra essere frequentemente utilizzato nelle varietà giovanili come elemento atto a segnare lo scarto rispetto alla lingua comune.132

E’ il caso di Mimi e istrioni , dove il dialetto compare nel primo paragrafo: è del tutto inutile che [...] ci gridino dietro uscendo dai bar e dai portici o abbassando i finestrini delle loro Mercedes: “Veh, le Splash, i rifiút ed Rèz”, [...] Perchè a noi non ci frega un bel niente della nostra reputazione, soprattutto in questo merdaio che è Rèz, cioè Reggio Emilia, puttanaio in cui per malasorte noi si abita e che si vorrebbe veder distrutto e incendiato (AL p. 35).

Va notato che in questo caso non sono i personaggi a esprimersi in dialetto, ma diventano oggetto di un’espressione dialettale, che, mantenendo il suo carattere di scarto dalla norma rispetto alla lingua nazionale, qualifica pure i personaggi a cui è riferita come ‘diversi’133. E’ interessante considerare che l’espressione dialettale isola non tanto un personaggio singolo quanto un gruppo di personaggi, la qual cosa non può non essere messa in collegamento con il carattere di autoidentificazione all’interno di un gruppo134, che ogni linguaggio giovanile assume, e con il vagare tra situazioni di gruppo che l’episodio intero propone.

132 E. Radtke, op. cit., p. 30. 133 In questo caso si ha un doppio processo di diversificazione dei personaggi, in quanto oltre all’adozione nei loro confronti di un registro linguistico differente, il dialetto, il termine stesso usato per definirle, “rifiút”, segnala una forte situazione di frattura rispetto a chi si esprime, nel caso in questione i cittadini di Reggio Emilia (nel testo “i Maligni”). In Tondelli l’adozione del dialetto come segnale di un contrasto si inscrive all’interno del più vasto motivo della provincia come luogo da cui fuggire, a proposito del quale è assai significativo il già citato Nei sotterranei della provincia: “L’Italia è un paese fatto di piccoli centri, di piccole comunità, di province, ognuna con i suoi dialetti, la sua storia millenaria, la sua arte, il suo folklore. Ci si può stancare di questo. La provincia italiana è stata al centro dell’opera di alcuni grandi scrittori del dopoguerra come, per esempio, Piero Chiara Goffredo Parise e Vitaliano Brancati per quanto riguarda la Sicilia. Ora di tutta questa provincia persa nei riti piccolo- borghesi del decoro e delle appaenze, degli scandali tenuti nascosti nel privato, del fatto che tutti sanno , ma nessuno parla per non turbare il quieto incedere delle giornate; ora di tutta questa Peyton Place, nella letteratura e nella vita, ci si era stancati.” P.V. Tondelli, Nei sotterranei della provincia, cit. 134 “La lingua comune [...] mezzo di comunicazione con i genitori e con tutta la comunità linguistica, non può essere sentita dai giovani come strumento di autoidentificazione.” E. Radtke, op. cit., p. 30. “Il linguaggio govanile assolve in primo luogo la funzione di controvarietà rituale, [...] all’interno dei ‘riti di passaggio’ propri dell’adolescenza, e insieme la funzione di autoidentificazione dell’individuo e del gruppo, per soddisfare la ricerca-di-sè e il desiderio di autoaffermazione tipici dell’adolescenza.” A.A. Sobrero, op. cit., p. 56.

78 Nella scrittura tondelliana un’altra funzione del dialetto è caratterizzare, assieme agli altri elementi del linguaggio, il particolare idioletto di un personaggio. Lo si può notare molto bene in Autobahn, dove il protagonista adotta un linguaggio estremamente personalizzato che tende continuamente verso l’accumulo e l’iperbole: La gente di nuovo fuori sulla piazzetta in mezzo agli sporchi della mia pancia e ai puzzi e ai rumoracci sbrang dei ventoni, olè, è digià sciupada la terza guerra mondiale coi gas atomici e tutto il resto (AL p 193).

L’adozione del termine dialettale conferisce al testo una valenza umoristico- caricaturale maggiore del corrispondente italiano “scoppiata”, che nel contesto avrebbe avuto un effetto dissonante, soprattutto perchè il termine dialettale giunge al culmine di una climax di artifici stilistici: Tondelli in quattro righe fa uso, oltre che del dialetto, di un ideofono, “sbrang”, di un termine gergale, “ventoni”, di un’interiezione, “olè”, il tutto all’interno di una figura retorica, l’esagerazione, che fortemente caratterizza il paragrafo. L’esagerazione è un artificio stilistico-retorico assai diffuso nella scrittura tondelliana, nella quale a volte supera i confini dell’aspetto linguistico vero e proprio per diventare parte integrante del comportamento dei personaggi. In Mimi e istrioni viene usata in questi due diversi sensi: Gli metto dopo il mio accappatoio quello a fiori gialli e blu [...] che ho fregato al Coin quella volta che se mi svuotavano il pellicciotto ci facevano un altro supermarket (AL pp. 46-47),

è un evidente esempio di iperbole, di figura retorica, mentre Prendiamo la loro auto [...] che c’ha [...] lo stereo nel cruscotto e persino tre fiaschettine di Ballantine’s tanto che io mi sciolgo e mi dico guarda questi giovani Holden come si dan da fare, e brindo a loro, insomma lo confesso ne sbatto giù una da sola (AL p. 51),

concretizza la figura retorica nelle azioni del personaggio. Del resto, quanto a figure retoriche vere e proprie, il linguaggio di Tondelli presenta una ricchezza che va al di là di un semplice linguaggio giovanile trasposto e che rivela un’attenzione costante rivolta alla forma. Basti considerare come poche righe dopo la citazione precedente ricorrano concatenati un chiasmo ed un’anadiplosi: Io [...] gli grido dalla tromba delle scale amore mio torna indietro, ma indietro non torna. Torna invece la porta dell’appartamento che si sbatte e mi lascia nuda e tremolante sull’ammezzato dove son costretta ad attendere il ritorno della Nanni che mi trova mezza assiderata che ci vorranno tre giorni a rimettermi (AL p. 47).

Significativo inoltre il fatto che, sotto il profilo fonico, le assonanze tra i membri delle figure retoriche vengano riprese nelle successive assonanze tra “porta” e “appartamento” e nel tratto “costretta ad attendere”, mentre l’intero paragrafo evidenzia una frequenza

79 anomala del suono t + vocale o del gruppo tr + vocale, a volte duplicati nella stessa parola135. Lo stesso procedimento che unisce figure retoriche e iterazioni foniche ritorna poco più avanti, con un’attenzione maggiore all’aspetto fonetico: Ahimè m’ha piantata, il porco m’ha piantata, una bella finocchia come me giovane e carina, piantata e sotterrata, ahimè ahimè cosa sarà di me? (AL p. 47).

La ripetizione, tra epifora, epanalessi, senso metaforico e sinonimia, nel doppio uso del termine “piantata” e nel suo accostamento con “sotterrata”, viene ribadita sotto il profilo metrico, che quasi nasconde le figure retoriche dietro l’evidente andamento da filastrocca del paragrafo. Se si elimina la frase centrale più lunga, il paragrafo risulta composto di segmenti metricamente analoghi, cosa che meglio si osserva da una sua riscrittura in versi: 1 Ahimè m’ha piantata, 2 il porco m’ha piantata, [...] 3 piantata e sotterrata, 4 ahimè ahimè 5 cosa sarà di me? Ogni verso infatti è un settenario e il raggruppamento risulta suddiviso in due sottogruppi sia sotto il profilo della tipologia del verso, sia sotto quello della rima. I primi tre versi hanno l’uscita piana e gli ultimi due tronca; la rima determina un’uguale suddivisione aaabb, con presenza di rima identica nei primi due versi, di rima ricca negli ultimi due e di rimalmezzo tra i versi 2-3 e 4-5; c’è poi l’utilizzo di altri procedimenti propri della versificazione come la sinalefe al verso 3 e l’allitterazione nei versi 1 e 5 (“ahimè m’ha” e “cosa sarà?”). Analogamente alla citazione precedente si riscontra l’evidenziazione di un fonema particolare, in questo caso il pronome personale nelle sue forme me e m’, che nello spazio di tre righe ritorna otto volte (con una percentuale rispetto al totale dei vocaboli del 31,7%, piuttosto vicina alla precedente che era del 26,8%). L’uso dell’omoteleuto, e più in generale delle iterazioni foniche, è abbastanza frequente, specifico di un contesto vagamente ironico; un altro esempio da Mimi e istrioni e allora la Sylvia salta su e si mette a fare la Silvana che sarebbe una battona bolognese e la Nanni fa la Falana, battona romana (AL p. 39),

rivela la presenza dell’allitterazione in s (Sylvia salta su e si) e in a (fa la Falana), dell’omoteleuto (Silvana, Falana, romana) e della quasi coincidenza di Sylvia con Silvana.

135 Si fornisce l’elenco suddiviso per gruppi dei termini che presentano la particolarità evidenziata: t + vocale : pianerottolo, torna (3), porta, appartamento, sbatte, ammezzato, attendere, ritorno, assiderata, rimettermi; tr + vocale: tromba, indietro (2), trova, tre; entrambi : tremolante, costretta.

80 Tutto ciò sta a significare che l’adozione da parte di Tondelli del parlato giovanile è sempre subordinata ad un’accurata elaborazione formale, filtrata da un’attenta riscrittura che fa del documento linguistico un prodotto letterario. L’uso di procedimenti stilistico-retorici si estende ben oltre le semplici iterazioni foniche, fino a coinvolgere elementi di retorica dello sguardo, come la già citata resa del lampeggiare dell’insegna del bowling (“BOWLING” - p. 28), ed espressioni grafiche proprie del fumetto come suoni onomatopeici, interiezioni e ideofoni.136 Queste ultime categorie, soprattutto le interiezioni, diventano un elemento insostituibile ed estremamente variegato della sintassi tondelliana, un ulteriore elemento di adesione al parlato giovanile. Un rapido elenco non esaustivo chiarisce ulteriormente la loro grande variabilità: ehilà; zac; tié; boh; fiuhhhh; uééééééé; oooooohhhhh; veh; veeeeehhhh; sob sob; oibò; ahimè ahimè; oi oi oibò; tralalà; yeah; ahhh; wooowwwww; aaaggghhh; obssssssssssssssss; sbrang e così via. Esse non vengono adoperate solamente nel discorso diretto ma anche all’interno di un discorso indiretto. Da notare che la stessa interiezione o ideofono si presenta con vesti diverse, usufruendo dell’allungamento sia della sua componente vocalica che del segmento sonorante (per esempio “veh” e “veeeeehhhh”, oppure in varie forme “aaaggghhh”), consentendo all’autore una certa discrezionalità. L’allungamento vocalico o consonantico riscontrato per le interiezioni ritorna in altre occasioni, con un forte effetto di accelerazione del ritmo narrativo. In Postoristoro, per esempio, segnala il momento culminante dell’azione, la scena del buco a Bibo, usato due volte all’inizio e alla fine di un concitato colloquio, applicato ai nomi dei dialoganti nella stessa maniera ma con una gradazione diversa: Rinoooo (p. 31) e Biboooooo (p. 33), adattandosi al crescendo della narrazione. Altrove il meccanismo viene applicato a semplici vocaboli, ma sempre all’interno di un discorso diretto, di un’esclamazione di cui diventa il culmine, come succede per esempio in Mimi e istrioni : “Non è nostraaaa!”, riferito ad una cambiale non pagata per risolvere la situazione. La chiusura stessa dell’opera fa uso di questo procedimento, conferendo così all’esortazione finale un tono ascendente. E’ però sotto il profilo sintattico che il calco del parlato di Tondelli risalta maggiormente, mostrando una scrittura caratterizzata da una prosodia anomala, con periodi molto lunghi articolati dal polisindeto dove la congiunzione “e” sostituisce la punteggiatura, e dove l’elencazione diventa elemento strutturante del discorso.

136 Per i concetti di ideofono e interiezione si è fatto riferimento a A.M. Mioni, Uao! Clap, Clap! Ideofoni e interiezioni nel mondo dei fumetti, in AA.VV., Il linguaggio giovanile degli anni novanta, cit., pp. 85-97.

81 Per esemplificare, si prenda in considerazione l’inizio di Mimi e istrioni : il primo paragrafo, che introduce l’ambiente e le protagoniste, consta di 20 righe, suddivise in 3 periodi, il secondo dei quali di 3 parole, e contiene un punto e virgola, un due punti e 12 virgole. Il secondo paragrafo, che sviluppa e conclude un’azione, è composto di 63 righe per un totale di 6 periodi di varia lunghezza. In essi la punteggiatura ricorre 29 volte (2 punti esclamativi, 21 virgole e naturalmente 6 punti fermi), mentre la congiunzione “e” s’incontra ben 43 volte, con un massimo di 12 volte in 13 righe nel quarto periodo, venendo quindi a sostituire la prosodia ortodossa. L’andamento del discorso risulta così molto colloquiale, proprio di un racconto orale, con variazioni del ritmo narrativo e infrazioni nell’uso dei tempi verbali, che passano dal passato al presente nella descrizione dell’episodio narrato. La tipologia è quanto mai varia perché la stessa struttura narrativa unisce la descrizione dal di dentro nei modi del discorso indiretto libero degli effetti della droga su Giusy (p. 11) e la storia di Vanina raccontata da un narratore (pp. 22-23); l’elencazione delle scritte sul muro e sul tavolo dell’osteria in Mimi e istrioni (p. 57) e la fuga dall’autobus in Viaggio (p. 96); il discorso di Michel prima di suicidarsi (pp. 115-116) e i monologhi deliranti dell’”imbriacato duro” di Autobahn (pp. 189-191), in una prosa che il ritmo sempre sostenuto e l’eterogeneità delle situazioni mette al riparo da ogni ripetitività. Tale struttura sintattica è arricchita da elementi del linguaggio giovanile che la rendono maggiormente realistica. Ricorrono spesso vocaboli gergali, come “scopine” per indicare “le bidelle delle scuole riunite in collettivo” (p. 44); termini tratti da linguaggi settoriali, per esempio “era [...] un’Es scaricato e [...] fiacco” (p. 65); giochi di parole, come “fuori dal separé l’Udelia e la Frida inseparabili” (p. 56); parole non separate, come “bruttiporci” (p. 36) e “bellefoto” (p. 163); uso del “ci” attualizzante e del “gli” maschile e femminile, singolare e plurale: Benny [...] s’è depilata e rasata e fatta la mascherina e profumata e truccata e ci ha un vestito lungo [...] che quando cammina controluce gli si vedono le gambe e le cosce che ce le ha veramente belle. (AL p. 49).

Un ruolo particolare, che rispecchia comunque l’importanza conferitagli dai giovani, assume la musica, sia mediante riferimenti a cantanti, gruppi e contesti musicali, sia mediante l’inserimento di stralci anche ampi di canzoni, per lo più in inglese.137

137 Può essere di un certo interesse notare un ritorno di questo procedimento nella recente narrativa giovane italiana, con la presenza di gruppi citati da Tondelli, in autori che a Tondelli più o meno esplicitamente e in maggiore o minor misura si rifanno, come Brizzi e Culicchia. Brizzi, per esempio, fa della musica parte integrante della cultura del personaggio, al punto che, similmente a quanto accade in Tondelli, il protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo si comporta e pensa attraverso riferimenti musicali: “Se niente li avesse separati fino al momento della partenza, sarebbe stato […] come suonare l’attacco di Foxy Lady con la strato in fiamme uguale preciso all’attacco su disco del vecchio Hendrix” E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Ancona, Transeuropa, 1994, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, p. 92.

82 S’incontrano quindi nelle pagine di Altri libertini i luoghi deputati alla produzione e al consumo musicale, come la radio privata, “New Mondina Centroradio” (p. 40) e il locale adatto, “[il] Cantinone [...] dove si può suonare la chitarra e cantare” (p. 45); la discoteca, il “Marabù” (p. 48), e le canzoni degli immancabili cantautori da cantare in compagnia, “non facciamo altro che cantare canzoni di dieci anni fa Lucio Battisti e Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè” (p. 58).138 In Altri libertini la musica a volte si inserisce nel discorso come semplice citazione: Ibrahim [...] mi corre incontro ci abbracciamo gli dico ridendo ”Joking apart, when you’re drunk you are terrific ,when you’re drunk” eppoi prendo la chitarra e gli canto tutto intero il pezzo di Robert Wyatt (AL p. 79);

ma altrove ne diventa parte integrante e le parole citate si uniscono alle considerazioni del personaggio, venendone come assimilate: Poi nella casa di Dilo distesi sul letto a sentire dei dischi, lasciare che la musica entri nella testa e la riposi, luce morbida...Like a bird on the wire, like a drunk in a midnight choir I have tried in my way to be free, like a worm on a hook, like a knight from old-fashioned...fingere che tutto sia passato, ma il silenzio imbarazzato del dopopranzo dice tutto il peso che ho dentro, che mi prende il respiro e il cervello e non basta Tim Buckley, I am Young, I will live, I am strong I can give You the strange Seed of day Feel the change Know the way, Know the way...e non basta che le mie dita giochino fredde con quelle di Dilo (AL p. 97),

con i versi di Leonard Cohen e Tim Buckley a integrare e rinforzare le riflessioni del narratore. Altrove ancora il riferimento musicale diventa un termine di paragone, un elemento di descrizione: è Karla il mio risveglio, Karla che nient’altro è che una bella ballata di Leonard Cohen, una canzone ubriaca e roca (AL p. 127).

Non bisogna del resto dimenticare che la citazione musicale assume in Tondelli lo stesso valore che in altri autori (e in lui stesso) può assumere la citazione letteraria, dal momento che egli identificava i musicisti rock dagli anni Sessanta in poi come produttori di un’arte consapevole e degna di considerazione: Il bisogno di poesia, bisogno assoluto e struggente negli anni della prima giovinezza, è stato soddisfatto da intere generazioni mandando a memoria parole e strofe di canzoni: ballate pop, testi psichedelici, neofuturisti, intimisti, sentimentali, onirici, politici, ironici, demenziali...Mentre la poesia colta rimaneva territorio di interpretazioni, esegesi, svolgimenti noiosi sui banchi di scuola; mentre la poesia della neoavanguardia si studiava, con identici modi, nelle aule universitarie; mentre i poeti degli anni settanta tentavano di imitare i cantautori [...] i giovani riesumavano

138 Sono luoghi narrativi che Tondelli non abbandonerà mai, tanto che nel suo ultimo romanzo, Camere separate, ambienterà il primo appuntamento di Leo e Thomas in un teatro per un concerto dei Bronski Beat. Fin dall’inizio della sua produzione, però, diventa ben più importante il meccanismo della citazione musicale, che arriverà in Rimini a suggerire in coda al romanzo una colonna sonora che lo accompagni.

83 la figura classica del poeta, colui che unisce le parole alla musica. Così i grandi poeti degli anni sessanta furono (anche) Bob Dylan e Joan Baez, i Beatles e Jim Morrison, Leonard Cohen e Patty Smith, autori, questi ultimi, anche di romanzi e raccolte di poesie. [...] Poesia e canzoni, dunque [...] la consapevolezza, insomma, che il contesto rock ha prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni. Quello che è ancora più curioso è notare che l’immagine del poeta romantico - di colui che tragicamente vive fino in fondo, fino alla morte e alla dissoluzione, il conflitto fra arte e vita, fra ragioni dell’immaginazione e ragioni della quotidianità - sopravviva, incandescente, ormai solo nell’universo rock. [...] Anche per quanto riguarda la scena musicale italiana [...] i poeti più seguiti degli anni settanta furono indubbiamente i cantautori [...] Le strofe venivano analizzate, smontate, studiate, paragonate, destrutturate, con entusiasmo e piacere [...] il rapporto che si aveva con le canzoni era esattamente identico a quello con la letteratura e la poesia colta: bisogno di capire, di interpretare, di memorizzare.139

L’attenzione verso il fatto musicale ha rappresentato dunque una costante per la scrittura di Tondelli, sia da un punto di vista prettamente stilistico, come ricerca di musicalità all’interno della pagina, sia sotto un profilo più generalmente socioculturale, che comunque finiva sempre per tradursi in letteratura. Scrive infatti Tondelli a proposito di Kerouac: Un terzo elemento, altrettanto importante, dell’influenza dell’opera di Kerouac è costituito dall’immissione nel testo di motivi musicali. [...] il tentativo, perfetto in alcune sue pagine, di scrivere come se componesse musica. Ecco, stilisticamente, questo è stato un insegnamento fondamentale per me. Sentirsi alla macchina da scrivere come alla tastiera di un pianoforte, suonando jazz. [...] Insieme al parlato di Celine, questa di Kerouac è stata per me la maggior lezione di stile.140

139 P.V. Tondelli, Poesia e rock, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., pp. 308-312. 140P.V. Tondelli, Nei sotterranei della Provincia, cit. La miglior verifica delle precedenti affermazioni è il racconto Quarantacinque giri per dieci anni, nel quale Tondelli coniuga fatto letterario e fatto musicale nel tentativo di fornire “un ritratto in movimento degli anni ottanta.” Id., Risvolto di copertina, in AA. VV., Canzoni, Leonardo, Milano, 1990. Per far ciò, nei dieci capitoli che lo compongono, uno per ogni anno, Tondelli inserisce recensioni di concerti precedentemente pubblicate su periodici e riscritte per la nuova collocazione, citazioni di musicisti, testi e canzoni, descrizioni di luoghi e locali, rivisitazioni di momenti autobiografici e tratti più diffusamente narrativi, fondendoli in un prodotto che vuole essere unitario, nella ricerca di un percorso anche cronologico attraverso il decennio preso in considerazione, che vuole porsi come colonna sonora nei confronti degli altri racconti inseriti nel volume. A rimarcare l’importanza che Tondelli attribuiva a questo racconto, va segnalato il suo inserimento, poco tempo dopo e per sua esplicita volontà, nel postumo L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., pp. 249-287, del quale costituisce la sezione finale: “Per volontà dell’autore, questa sezione chiude il volume. Infatti, in un appunto, P.V. T. scrive: “Il finale di WP2 è il racconto (da riscrivere e aggiornare) di Canzoni, tipo ‘ballata sui dieci anni’. Soprattutto per non chiudere nella circolarità ma nella sospensione”." F. Panzeri, Note ai testi, in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., p. 313. L’elaborazione del testo in questione era quella che aveva dato il via alle ipotesi di composizione del progetto ‘weekend postmoderno’. Le sigle usate nel testo corrispondono naturalmente a Pier Vittorio Tondelli (P.V. T.) e a L’abbandono, secondo volume del progetto ‘weekend postmoderno’ (WP2). Quanto agli altri scrittori che hanno collaborato a Canzoni, essi sono Marco Lodoli, Gianfranco Manfredi, Enrico Palandri e Giorgio van Straten.

84 Tondelli stesso ha chiarito l’importanza della musica come modello stilistico della sua produzione narrativa proprio a livello macrostrutturale: Il mio desiderio è quello di produrre un testo che abbia un andamento interno analogo a certi ritmi musicali. Rimini, nelle intenzioni, voleva essere una orchestrazione sinfonica, in cui si trovano gli ‘ adagi’ i ‘lenti’, i ‘prestissimo’ e un gran finale. E’ tutto un po' narrato sui tempi e sull’accelerazione improvvisa come in una sinfonia, in cui c’è un tema che però viene di volta in volta giocato diversamente. Anche Pao Pao è molto musicale: l’ho pensato come una cantata di dodici mesi, una toccata e fuga. Del resto sento la musica molto vicina alla scrittura come le arti visive. Credo che tutto ciò sia pertinente 141

Proprio in considerazione di queste dichiarazioni può risultare interessante la lettura che dell’opera di Tondelli ha fatto un musicista suo conterraneo e coetaneo, Luciano Ligabue, che accosta ai romanzi diversi stili musicali: [riferito ad Altri libertini] non so se avessi mai letto fino ad allora, un libro così rock [...] Poi forse, Pao Pao e Rimini furono pop e Camere Separate e Dinner Party furono blues [...] Resta il fatto che ognuna delle cose che ha scritto erano di una musica comunicativa ed emotiva. 142

Ritornando ora all’analisi delle componenti del linguaggio tondelliano, un ultimo elemento svela nella pagina la presenza di un generico giovanile atteggiamento di ribellione, e cioè, l’inserimento nel discorso di slogan e brani da canzoni partigiane. Sono due elementi accomunabili proprio per l’uso che palesemente ne viene fatto nel testo, slegati dal loro originale contesto e caricati di una componente ironica, ma nondimeno ancora latori di una valenza eroica. Si possono infatti riscontrare in Mimi e istrioni sempre riferiti alle quattro Splash, “eroine” dell’episodio che passano da un’esperienza all’altra ogni volta caratterizzate in maniera antagonistica rispetto a coloro con cui si devono confrontare. Il loro vagabondaggio più che voluto sembra dettato dalla necessità di cercare nuovi luoghi, una volta cacciate da quello precedente. Sono esse stesse a definire implicitamente la loro vita come “Resistenza” citando uno stralcio di una famosa canzone partigiana: sembra proprio che dove arriviamo noi fischia sempre forte il vento e urla la bufera (AL p. 44).

141 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 52-53. Già in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, Tondelli aveva intitolato la settima sezione Frequenze rock (pp. 277-318), inserendovi suoi articoli precedentemente apparsi su “L’Espresso“ e su “Rockstar”, riaggiornati e relativi specificamente all’universo musicale nella sua più varia articolazione (qualche titolo esemplificativo: Mondoradio, Morte per overdose, Poesia e rock). A completare l’analisi del rapporto tra Tondelli e il tema musica, non si deve dimenticare la collaborazione dal 1985 al 1990 ad un’importante rivista musicale, “Rockstar”, in cui Tondelli teneva una rubrica, “Culture club”, sulla quale si occupava soprattutto (ma non solo) di recensioni letterarie. 142 L. Ligabue, op. cit., p. 89.

85 Analoga decontestualizzazione assume lo slogan che viene semplicemente riportato come una delle letture delle varie incisioni sul tavolo dell’osteria (“Culo culo orgasmo del futuro” - p. 57), oppure viene riassimilato e proposto come emblema di un generico atteggiamento contro, simbolo di una categoria storica, le mondine, come altre (Giovanna d’Arco, Cenerentola, Alice, l’Epifania e altre) fatte assurgere a divinità mitiche dell’Olimpo pseudofemminista delle quattro protagoniste: facciamo il filo ciclistico a un ragazzo belloccio che passa e scappa con noi dietro che in coro cantiamo son la mondina, son la sfruttata e son la proletaria che giammai tremò e lui se la ride ma ci ha un po’ di fifa perché sa che siamo le SPLASH, le assatanate che più assatanate non si può, nemmeno col Ginseng (AL p. 38).

E’ evidente che l’uso dello slogan in questo contesto è avulso dalla funzione di linguaggio di contestazione assunta presso i movimenti giovanili, privo com’è oltretutto di una qualche forma di creatività che ne faccia risaltare - cosa che spesso succedeva durante il movimento del ’77 - la dimensione ludica, attraverso elementi come la parodia, il nonsenso e le manipolazioni grafiche.143 A parziale riscontro dell’analisi del linguaggio tondelliano, è interessante confrontare quanto lo stesso Tondelli, dalle pagine di “Linus”, consigliava ai giovani che volessero avviarsi alla scrittura: Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate.[...] raccontate storie che si possano oralmente riassumere in cinque minuti. [...] non fate piagnistei sulla vostra condizione e la famiglia e la scuola e i professori, ma provatevi a farli diventare dei personaggi e, quindi, a farli esprimere con dialoghi, tic, modi di dire. Descrivete la vostra città [...] Raccontate le vostre angosce [...] Dite quello che non va e quello che sognate attraverso la creazione di un “io narrante” che non deve, per forza di cose, essere in tutto e per tutto simile a voi [...] Fate racconti brevi, ricordando che il racconto è il miglior tempo della scrittura emotiva e parlata. Fate esercizi di questo genere: descrivere un fatto in una pagina senza l’uso della punteggiatura, poi [...] solo attraverso il dialogo, poi ancora la stessa cosa come se fosse successa mille anni fa e la raccontaste da un’astronave. Raccontate di voi, dei vostri amici, delle vostre stanze, degli zaini, dell’università, delle aule scolastiche [...] Il modo più semplice è scrivere come si parla. [...] Riscrivete ogni pagina finché siete soddisfatti.144

143 cfr. Il linguaggio dei movimenti di contestazione, a cura di M.A. Cortelazzo, s.l.[ma Firenze-Milano], Giunti-Marzocco, s.d. [ma 1979]. 144 PV. Tondelli, Scarti alla riscossa, in “Linus”, ottobre 1985. Questo articolo si inserisce nell’ambito del ‘progetto under 25’, che poi doveva concretizzarsi nei tre volumi antologici già citati di cui Tondelli è stato il curatore (Giovani blues, 1986; Belli e perversi, 1987; Papergang, 1990). Sempre sulle pagine di “Linus”, nell’ambito dello stesso progetto, uscirono Gli scarti, in “Linus”, giugno 1985 e Scarti pubblicati, in “Linus”, maggio 1986. I tre articoli, assieme ad altri scritti, sono andati poi a costituire l’ottava sezione del volume Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., pp. 319-375, dal titolo Under 25.

86 Sono indicazioni che risultano validissime applicate a posteriori alla sua opera e che nei confronti di Altri libertini in particolare assumono un valore di poetica, lasciando trasparire un lavoro continuo sul testo, una attenzione costante verso l’aspetto linguistico nella quale la riscrittura diventa il momento fondamentale. E’ Tondelli stesso d’altronde a sottolineare il suo interesse per il lavoro sul linguaggio, individuando tra i suoi autori prediletti “la linea lombarda del linguaggio e la linea, da Celine a Celati, dell’oralità e del parlato”, parlando altresì di “autori che maggiormente hanno lavorato sulla lingua”, e facendo esplicitamente i nomi di “Gadda, [...] Arbasino, [...] il primo Testori”.145

I.5 Diverse attualizzazioni dell’archetipo del viaggio.

Viaggio è il titolo del terzo episodio di Altri libertini, e sicuramente il “viaggio” è uno dei temi fondamentali non solo del Tondelli narratore, ma più in generale di Pier Vittorio Tondelli scrittore. Viaggio è l’episodio più lungo del libro: con una struttura da romanzo di formazione, vi si raccontano, in prima persona, quattro anni della vita del narratore, fino al ricongiungimento con il suo presente, da dove parte l’episodio, e che lo interrompe al suo interno, determinando così una pausa narrativa. La storia comincia, dunque, dal presente e con un flashback porta all’estate del ’74, a Bruxelles, dove il narratore e l’amico Gigi si trovano dopo l’esame di maturità; da lì si trasferiranno poi ad Amsterdam, via Haarlem, tra giovani di ogni nazionalità, droga ed amori etero ed omosessuali. Il ritorno in Italia coincide con una pausa narrativa, centrata sul presente del narratore protagonista e sulle sue considerazioni notturne, dopo le quali la narrazione riparte dagli anni universitari a Bologna, che vedono la convivenza con Gigi e gli amori dei personaggi fino alla crisi del narratore, che nell’aprile ’76 si deve disintossicare dall’alcool. Da Bologna ci si sposta poi in Marocco, dove il narratore ed il suo compagno - Dilo - in vacanza, conoscono tre francesi che ritorneranno più avanti nella storia. Il rientro a Bologna registra una momentanea crisi sentimentale del narratore e una sua visita a Milano dall’amico Gigi, lì trasferitosi con la compagna Anna. Il ’77 comincia a Parigi con il suicidio di Michel, uno dei tre francesi conosciuti in Marocco, prosegue con l’occcupazione universitaria a Bologna, per poi sfociare nella definitiva rottura con Dilo e nel trasferimento del narratore da Gigi a Milano, dove collabora con una scuola fino a che non ne è allontanato per la sua omosessualità.

145 F. Panzeri - G. Picone, op. cit., pp. 94-95.

87 Da Milano ritorna a Bologna, trascorre un breve periodo al paese natale, Correggio, se ne va poi per una vacanza a Londra con vecchi amici, e subisce una crisi definitiva dopo il ritorno a Correggio, dove l’assuefazione all’eroina culmina in un tentato suicidio, con il conseguente ricovero in ospedale, da cui la narrazione riparte. Dopo una breve amicizia e convivenza con Karla, si ha il definitivo ritorno, in treno fino a Reggio Emilia, e in autostop fino a Correggio, dove il narratore ritrova Gigi e opera il ricongiungimento con il presente della narrazione (agosto ’78), che chiude il racconto in una struttura circolare. E’ una narrazione in prima persona che l’anonimato del narratore, la concordanza delle datazioni, i luoghi e le esperienze, riempiono di riferimenti autobiografici, confondendo le posizioni dell’autore e del narratore. All’altezza di questa prima tappa della sua produzione narrativa il modello è certamente quello americano degli scrittori della beat generation, Jack Kerouac sopra tutti, che compare nei ringraziamenti finali di Altri libertini e al quale Tondelli riconoscerà anni dopo il merito di aver “insegnato il desiderio della fuga, [...] la possibilità di uscire dalla provincia italiana”146. Coerentemente al modello, ritornano in Viaggio i motivi e i luoghi della “letteratura della beat generation”, che “insegnò a sognare, incitò a muoversi, a partire, a scoprire le città e i paesaggi, le osterie, le bettole, i luoghi di ritrovo”147. Infatti, all’interno degli schemi del romanzo di formazione nella sua variante picaresca, troviamo il sogno, magari quello di arricchirsi col “fare un viaggio in India, a Bombay, comprare quel che c’è da comprare e tornarsene in Italia [...] vendendo naturalmente al doppio del prezzo di costo”148 (p. 68); il movimento, “notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, [...] in auto verso la prateria” (p. 67), nella più classica situazione - l’automobile - del Kerouac di Sulla strada; le partenze, “Poi il treno gialloazzurro parte e noi ce ne andiamo” (p. 84); le città, “Bruxelles ci piace nell’estate del ’74” (p. 69), “Amsterdam è sporca e puzza” (p. 80), “Il settantasette inizia con Dilo e io a Paris” (p. 114); i paesaggi, cittadini, “si vede dall’alto tutta quanta Bruxelles, le guglie di Notre Dame de la Chapelle [...], i cristalli nerastri del Palais des Communications [...], i grattacieli, le piccole piazze, le stradine contorte e lastricate, i grandi boulevards tra i platani” (p. 71), e no, “Nell’oasi il cielo sembra un albero di Natale tutto luccicante” (p. 100), “la campagna e le vecchie case di Correggio” (p. 125); osterie e bettole, “troviamo a Les Marolles un caffè in cui si beve trapiste” (p. 69), “in osteria ci ubriachiamo col tocai” (p. 101); i luoghi di ritrovo, “ci siamo seduti in

146 PV. Tondelli, Nei sotterranei della provincia, cit. 147 Ibidem. 148 E’ interessante notare che in questo caso il sogno si coniuga col mito del favoloso oriente, luogo topico della letteratura beat.

88 Dam Plaze [...] subito ci si avvicina un nero” (p. 80), “Al Vondel fa freddo, ma c’è un gruppazzo di italiani in circolo che cantano” (p. 81). Ma al di là degli ambienti, quello che più circola in Viaggio è un’estrema voglia di socializzazione, la capacità di comunicare con gli altri, abbattendo ogni possibile barriera etnica: “Jeff [...] parla solo fiammingo ed è un casino comunicare [...], ma a gesti e sorrisi e pacche si riesce comunque” (p. 70). Così, nello spazio di poche pagine, compaiono in Viaggio l’egiziano Ibrahim, il fiammingo Jeff, due svizzeri anonimi, lo spagnolo Gonzales col figlio Miguel, le belghe Christine e Nicole.149 La spinta socializzante ha il suo culmine nella cena d’addio a Bruxelles, dove l’internazionalità dei presenti viene estesa anche ai piatti: per la sera combiniamo un gran ristoro d’addio, noi cuoceremo gli spaghetti, Ibrahim preparerà il cous-cous e les suisses il pirren-müessli, come dessert. Jeff invece dice che il massimo che può fare è invitare gente e così la sera, nella sala mensa siamo in tanti (A.L p. 73).

Il bisogno di stare insieme agli altri, esplicitamente confessato dal narratore - “la mia voglia di stare con la gente è davvero voglia” (p. 84) - viene fatto risaltare anche attraverso la contrapposizione coi momenti più disperati, che sono in Viaggio legati ad uno stare da soli, spesso determinato dall’abbandono e dalla chiusura in se stessi, che arriva fino ad un poco convinto tentativo di suicidio. Al contrario i momenti comuni - dalle canzoni al Vondel Park (p. 81) alle bolognesi partite a carte contro i vecchietti (p. 86), dall’amore di gruppo italo-francese nell’oasi marocchina (p. 100) alla cena in osteria con Dilo, Gigi e Anna (p. 101) - evidenziano gli aspetti migliori di un atteggiamento generazionale che dell’aggregazione aveva fatto quasi un comandamento.150 In questi tratti Tondelli riesce a maggiormente esprimere la sua vena umoristica, della quale la descrizione della già menzionata cena a Bruxelles è uno degli esempi migliori. Filippo La Porta ha parlato al proposito di “estro comico molto diretto [...] da cartoon e da comica finale”, richiamando Gianni Celati e il duo Aykroid-Belushi di The blues brothers, segnalando inoltre l’evidente bisogno di “esorcizzare e imbrigliare il Negativo attraverso l’enfasi, la cantabilità, gli effetti teatrali” 151.

149 Il rapido comparire nel racconto di figure mai fortemente caratterizzate che si accalcano nelle giornate del narratore ricorda molto da vicino l’analoga densità di personaggi - spesso poco delineati, come ad esempio il motociclista danese - di Lunario del Paradiso di Gianni Celati, di poco precedente e sicuramente presente nel’immaginario letterario tondelliano. 150 Bisogna infatti osservare che in Altri libertini l’apertura verso gli altri a prescindere da ogni barriera etnica diventa anche eliminazione delle barriere anagrafiche, dal momento che Tondelli spesso inserisce situazioni nelle quali compaiono al tempo stesso giovani e vecchi, in un atteggiamento di socializzazione. A questo proposito si veda anche quanto verrà detto più avanti sulla figura dei vecchi relativamente al motivo del rimpianto e del recupero delle proprie tradizioni. 151 F. La Porta, Tra mimesi e dissimulazione, in “Panta”, 1992, n. 9, p. 264.

89 Nella scena della cena, che occupa lo spazio di poco più di due pagine, si descrive l’avventurosa cottura degli spaghetti ed il loro ancora più avventuroso recupero prima che finiscano nello scarico del lavandino (“due chili di spaghetti in giro nello sporco”), dopo che le mani, scottate dal vapore durante la scolatura della pasta, non erano riuscite a reggere la pentola. Naturalmente, nonostante il “non ho messo il sale nell’acqua di cottura” e “il sugo rosso sangue che fa senso vederlo far le bolle sul fuoco”, il tutto finisce con un successone, dopo l’inevitabile sale sparso sulla pasta già cotta “con gesti ampi a mo’ di croce e [...] scongiuri e benedizioni” e l’ovvio tralasciare di approfittare delle pietanze per “una questione di gentilezza che usiamo loro e lo sappiamo fin troppo bene, noi, che di queste squisitezze non hanno mica l’occasione di vedersele in tavola ogni giorno” (AL pp. 74-76). Tondelli riesce a costruire una scena esilarante, veloce, con un montaggio quasi filmico dove si mescolano la consueta sintassi da parlato, le varie forme del discorso ed il frequente ricorso a elementi come lo straniamento (“sugo” che diventa “sanguinaccio”), gli ideofoni (“vedrete che bontà, slurp slurp”), il gioco di parole che sfrutta la polisemia (“i vermicelli che scappano per il buco del lavandino”). Questa ed altre scene di analogo tenore si contrappongono come via d’uscita alla rassegnazione disperata e immobile di Postoristoro (“al Posto Ristoro ci si dimentica piano piano di tutto perché la vita è davvero vita cioè una porcheria dietro l’altra” - p. 14); alla “nausea per quegli anni sbandati e quel passato che vorremmo anche noi rigettare” (p. 65) di Mimi e istrioni ; alla “solitudine [...] pesante” quando “esser soli fa molto più male in mezzo alla gente” (p. 85) di Viaggio; al “vuoto enorme” che cresce dentro alle cinque del mattino in Senso contrario (p. 143); alle “lacrime“ e agli “scoramenti” di Autobahn. Il viaggio, quindi, nell’ottica di questa attitudine socializzante, diventa un mezzo di comunicazione, un’esperienza umana fatta non tanto di soli luoghi ma soprattutto di persone, cosicché in un certo senso Bruxelles si viene ad identificare con Ibrahim, Amsterdam con Mario, il Marocco coi tre francesi, Parigi con Michel e così via, cioè con i personaggi che dei fatti accaduti in quei luoghi sono stati i protagonisti . Ha ragione quindi Gianfranco Bettin quando dice che “il luogo non conta, perché qui si passa da Modena a Parigi, da Londra a Amsterdam a Bruxelles e poi di nuovo in Italia, via Germania, con la stessa indifferenza, facendo sempre le stesse cose”. Ma quando, continuando la recensione, sostiene che “il viaggio, una delle esperienze più ricche e più tipiche della nostra generazione, viene qui ridotto ad un transito per luoghi qualunque”, e che “tutte le città d’Europa diventano un palcoscenico dove si ripete sempre la stessa trama”152, perde di vista, pur accennandovi, il carattere formativo che al viaggio viene spesso attribuito. Se infatti del viaggio inteso come movimento non rimane, in questa fase della produzione tondelliana, molta traccia, ciò nonostante le tappe del percorso del

152 G. Bettin, Altri libertini, in “Ombre rosse”, luglio 1980, pp. 131-133.

90 narratore sono in Viaggio altrettante tappe del procedere della sua esistenza, a prescindere da ogni giudizio etico o morale. In questo senso diventano momenti anche importanti della narrazione, attuano la maturazione del personaggio come uomo. Così Bruxelles diventa occasione del primo rapporto sessuale con una donna, Amsterdam il primo incontro con l’eroina, Parigi, in quanto scenario del suicidio di Michel, il primo incontro con la morte. Sono tappe che possono magari non avere - tranne il suicidio di Michel più avanti richiamato dal tentato suicidio del narratore - una grande importanza narrativa, ma che sicuramente la assumono sia sotto il profilo della tradizione letteraria, che sotto quello della mimesi nei confronti della realtà generalmente riconosciuta dalla critica all’opera di Tondelli.153 Si deve poi considerare che il “viaggio” diventa per Tondelli una tematica obbligata, la prosecuzione di una tradizione pervenutagli attraverso Lunario del paradiso di Celati e Boccalone di Palandri, che va anche metaforicamente intesa come viaggio all’interno della scrittura alla ricerca di un proprio modo di essere, di una propria identità artistica.154 La rinascita della narrativa a cui appunto si assiste tra fine anni settanta e inizio anni ottanta155 assume perciò anche un carattere di ricerca, una necessità di vagabondaggio letterario alla quale il mito del viaggio presta le proprie adattissime forme. Scrive Generoso Picone: questa domanda di narrazione veniva espressa in assoluta solitudine, con alle spalle un passato in cui ogni tradizione veniva data d’ufficio per morta e le stesse caratteristiche del mestiere di scrittore si erano disperse tra le parole d’ordine intimative e suadenti delle neo-avanguardie. Davanti, la strada era non solo da individuare ma semplicemente da segnare, attraverso il riutilizzo di materiali divenuti macerie, la ricerca difficile di uno stile di vita e di scrittura.156

Ecco quindi che l’adozione di una struttura archetipica come il viaggio, manifestava un’esigenza che andava oltre l’aspetto puramente estetico del prodotto letterario, fino a coinvolgerne la sostanza; non certo all’interno di una problematica contenuto / forma, ma

153 Nella stessa occasione Bettin parla infatti di “drammi [...] di una generazione” che “diventano materia per sapienti operazioni letterarie”, mentre Filippo La Porta, nell’opera precedentemente citata, afferma che “il libro si offre come attendibile catalogo di tutti i miti e le figure dell’immaginario giovanile di quegli anni, almeno relativamente ad un’area diciamo ‘alternativa’ (movimento del ‘77 e dintorni, comprese le frange meno politicizzate)”. 154 Scriveva Celati nel 1978: “Thanks ulteriori a Enrico Palandri che mi ha svelato come la macchina da scrivere la puoi usare come un’automobile, fa fare dei grandi viaggi.” G. Celati, Lunario del Paradiso, Torino, Einaudi, 1978, p. 10. Celati ha scritto tre versioni di Lunario del Paradiso: la seconda è contenuta in Id., Parlamenti buffi, Milano, Feltrinelli, 1989; l’ultima è Id., Lunario del Paradiso, ivi, 1996. Tutte le versioni sono delle riscritture e rivelano quindi notevoli diversità. Ove non diversamente specificato, si cita dall’edizione del 1996. 155 In una prospettiva di scrittura come strumento di conoscenza del mondo, sul primo editoriale della rivista “Panta” - di cui è stato uno dei fondatori - Tondelli parla di “gruppo di autori la cui appartenenza a una stessa generazione si esprime nella ritrovata fiducia del narrare”. 156 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 16.

91 nella ridiscussione stessa della scrittura, diventava un’affermazione della necessità di scrivere, nella sua accezione di narrare. Continua Picone: Un viaggio: e non a caso tutte le opere dei primi narratori degli anni ottanta sono referti di viaggio. Enrico Palandri, con Boccalone nel 1979, di un percorso tra frammenti di utopie e sentimenti; Pier Vittorio Tondelli, con Altri libertini nel 1980, di una lunga notte nei sotterranei della provincia irrequieta; Claudio Piersanti, con Casa di nessuno nel 1981, del varo della scrittura alla ricerca di cose da raccontare.157

Tutto sommato è quanto consigliava Gianni Celati nel finale di Lunario del paradiso, quando invitava il pensatore a farsi “delle storie”.158 Per Tondelli questa ricerca si concretizza in una dimensione interiore ed ha il carattere di una riappropriazione: “Per me la scrittura, il cinema, il teatro rappresentavano un modo per evadere, in essi potevo riconoscere il mio desiderio. Per questo ho cominciato a scrivere. Per riappropriarmi di quello che sentivo dentro di me”.159 E al termine di questa evasione e di questa ricerca di se stesso Tondelli ritrova le sue radici letterarie. Il Viaggio di Tondelli è un viaggio nel tempo e nello spazio, con un identico approdo che unisce autore e narratore: il narratore di Viaggio infatti, al termine di un percorso circolare che lo aveva portato in direzioni opposte fino al Marocco e ad Amsterdam, ritorna al punto di partenza, chiude, agganciando la narrazione al tempo medesimo della cornice, un itinerario che diventa anche un cammino di maturazione. Così quello che rimane è una finalmente ritrovata consapevolezza di se stesso nel legame con le proprie radici: “Sulla mia terra, semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere” (p. 130). Allo stesso modo lo scrittore Tondelli, al termine del suo viaggio artistico, ritorna nel suo ultimo romanzo a Correggio, dove riscopre nella sua terra le radici letterarie alla ricerca delle quali era partito, facendo ritrovare a Leo, il protagonista di Camere separate, non a caso scrittore, nella sua vecchia stanza dal balcone della quale ne può vedere i luoghi natii, i libri di Antonio Delfini e Silvio D’Arzo. Non a caso Delfini e D’Arzo sono due autori di cui parla nell’ultima pagina di Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, prendendo in esame la letteratura della sua provincia, Reggio Emilia, ed il carattere che da essa traspare. Tondelli arriva a parlare per D’Arzo e Delfini di “rilancio di Reggio e della provincia emiliana come luoghi privilegiati di un ‘sogno americano’, di un percorso che mentalmente scavalca l’oceano per trovarvi là i propri maestri”160, fornendo così l’indicazione per visualizzare un itinerario che

157 Ibidem. 158 G. Celati, Lunario del Paradiso, Torino, Einaudi, 1978, p. 185. 159 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 42. 160 P.V. Tondelli, Un giro in provincia, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., p. 593.

92 in un certo qual modo è anche il suo, partito sulle orme del mito americano espresso dalla beat generation e pervenuto ad una finale ricongiunzione con la propria terra. In questa maniera il senso ultimo dell’archetipo del viaggio in Tondelli è il ritorno. E’ lui stesso a chiarire tutto ciò, fornendo una precisa disamina del suo percorso, dalle modalità espressive giovanili all’approdo finale nella riscoperta di sé: Per ogni giovane generazione sembrano però resistere, nella struttura del viaggio, il mito della fuga e il mito della strada, quali vengono delineandosi dalla letteratura e dal cinema americano degli ultimi quarant’anni [...]. Il viaggio diventa allora un bisogno di avventura che sfocia non tanto nell’approfondimento di una conoscenza, ma in una fuga senza fine [...]; anche la droga è un viaggiare, è un desiderio di avventura e un cedere al fascino della vita per strada, per quanto misera possa essere. La droga è quindi la faccia perversa - poiché sommamente autodistruttiva - dello stesso, identico, mito. A questo punto, il viaggio diventa sempre più un viaggio interiore. [...] E’ importante muoversi per andare dentro se stessi.161

Viaggio incarna questo mito secondo le modalità previste, comprese le esperienze di tossicodipendenza, ne esprime la dinamica del desiderio di avventura prima nella sua direzione esterna e poi nel suo senso più interno ed autodistruttivo, finché riesce a far maturare la direzione interiore in una maggior coscienza di sé, non più come essere isolato ma in un contesto di unione con le proprie radici, esemplificate nella ricongiunzione con la propria terra e con l’amico Gigi. E’ interessante osservare attraverso quali scelte di scrittura Tondelli realizza questo percorso. In Viaggio in realtà esistono due storie: quella del presente del narratore e quella originata dal suo ricordare. La prima viene a costituire una cornice che racchiude il racconto e che inoltre lo spezza, consentendogli un cambiamento di luogo. Nella cornice lo spazio è quello del presente del narratore, che si muove, in automobile, nei dintorni del suo paese. E’ uno spazio relativamente ristretto, che però, nella struttura del racconto, funge da contenitore di un altro spazio, ben più ampio, che è quello dei viaggi del narratore. La cornice, infatti, come sede della narrazione attraverso l’atto del ricordare, diventa l’inizio e la fine della storia, e con essa l’inizio e la fine dei vari viaggi che vi avvengono. L’artificio che consente a Tondelli di organizzare il testo in questa maniera è l’incrociarsi delle due storie in un certo punto del racconto: nella parte finale della cornice gli avvenimenti oggetto della rimemorazione, che partono dal 1974, raggiungono finalmente il presente della narrazione, cioè agosto 1977. E’ come se il protagonista della rimemorazione, al termine del suo viaggio, raggiungesse finalmente il se stesso che ricorda,

161 P.V. Tondelli, Sulle strade dei propri miti, “Corriere della sera”, 12 luglio 1989, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 461-463.

93 concludendo in questa maniera il suo percorso di maturazione, alla fine di una ricerca passata attraverso gli altri per raggiungere la propria interiorità (“semplicemente ciò che sono”) e la propria collocazione (“sulla mia terra”). Tutto il viaggio quindi assume il suo significato alla luce del ritorno, che ne diventa in realtà il punto di arrivo, l’epilogo. Un’ulteriore dimostrazione ne è il ciclico ritornare di Correggio come spazio privilegiato della narrazione, vuoi come luogo in cui si situa la cornice quando essa interrompe lo svolgersi del ricordo - e non si vede quale altra funzione abbia il suo inserimento all’interno del testo quando la narrazione poteva tranquillamente proseguire senza fratture dopo il ritorno da Amsterdam - vuoi come luogo della narrazione vera e propria. Correggio diventa così il fulcro spaziale attorno a cui ruotano le fughe che estendono enormemente lo spazio della narrazione: Bruxelles, Amsterdam, Haarlem, Parigi, il Marocco, Londra, e, più vicino, Milano e Bologna, sono di volta in volta i poli di un movimento continuo che trova la sua motivazione in un contraddittorio rapporto di amore / odio col proprio luogo di origine.162 Correggio infatti è sì il luogo di “una morte civile ed erotica e intellettuale e desiderante” (p. 124), ma è anche il posto dove “piantare radici diventa così facile che arriva agosto e nemmeno ho voglia di andarmene via” (p. 121), assumendo in questa seconda caratterizzazione il valore di un rifugio sicuro dove riprendersi dalle esperienze vissute. L’avvicinamento ed il raggiungimento di Correggio, meta ultima ed epilogo del viaggio, sono graduali e dissimulati, tant’è che il suo nome viene esplicitamente fatto solo nove pagine prima della fine del racconto che in tutto ne assomma sessantatré. Compare anonimamente, però, fin dall’inizio, nella cornice; ritorna, ancora nella parte intermedia della cornice, a chiudere il primo viaggio verso il grande Nord, anche se di fatto l’opposizione esplicita è tra Amsterdam e Bologna, da dove riprende la storia e che diventa una seconda casa, sempre provvisoria, per il narratore. Ancora Bologna fa da contraltare al viaggio in Marocco e alla tragica esperienza parigina, che imprime una svolta alla storia, determinando una rapida sequenza di avvicendamenti spaziali - Parigi, Bologna, Milano, Bologna - che culmina nel ritorno a Correggio.

162 Si potrebbe forse estendere l’osservazione attribuendo alla città una funzione per così dire edipica, cosicchè il desiderio continuo di fuggire andrebbe interpretato come una normale volontà giovanile di indipendenza dalla famiglia (che il proprio paese rappresenterebbe). E’ quanto lascia intendere Aldo Tagliaferri in Sul motore tirato al massimo, cit. Resta il fatto che in Viaggio - e più in generale in Altri libertini - della famiglia non c’è alcuna traccia e che se non se ne vuole considerare l’assenza stessa come il segnale di un conflitto, bisogna comunque valutare come intrinseco all’esperienza del viaggio un carattere anche di crescita e acquisizione di indipendenza.

94 D’ora in avanti la centralità di questo luogo sarà molto più evidente, nonostante una breve parentesi a Londra che ripropone il consueto meccanismo di fuga e ritorno, tanto che nelle rimanenti nove pagine Correggio ritorna altre sette volte esplicitamente nominata, quando non viene sostituita da espressioni del tipo “verso casa”, o viene implicitamente richiamata dalla presenza della cornice. La centralità di Correggio evidenzia il momento del ritorno, culmine ed epilogo della storia, che viene segnalato anche in altre maniere. Da un punto di vista contenutistico, doppiando il ritorno a casa del narratore con quello, praticamente contemporaneo, dell’amico Gigi, che in un certo senso ne è un alter ego ed un completamento; da un punto di vista più strettamente strutturale, dalla caratterizzazione dell’uso del tempo. Infatti la convergenza finale del tempo della scrittura e del tempo della narrazione, unita all’assoluta mancanza di infrazioni dell’ordine temporale163, con la coincidenza totale di fabula e intreccio, determinano una univoca direzione verso il momento del ritorno. Anche sotto il profilo dell’aspetto verbale l’epilogo viene differenziato: Tondelli aveva fatto uso del presente narrativo indifferentemente per tutto l’arco della narrazione, storia e cornice; ora, quasi a segnalare il momento del ritrovamento di sé e delle proprie radici come una conquista irrinunciabile da parte del protagonista di Viaggio, chiude il racconto utilizzando il futuro. In questa maniera è come se il ritorno a Correggio fosse il suggello ad un periodo che si chiude, mentre il cambiamento del tempo segnala l’inizio di un periodo nuovo. La centralità spaziale della propria terra ed il motivo del ritorno, seppure più evidenti in Viaggio, sono presenti magari in forma implicita nelle altre storie di Altri libertini. In Postoristoro si definiscono più che altro in termini negativi come impossibilità di fuga e di cambiamento, ma già in Mimi e istrioni il dissapore verso il luogo in cui si vive, “che si vorrebbe veder distrutto e incendiato” (p. 36), è bilanciato da un’appopriazione della città attraverso procedimenti lessicali che ne ridenominano i luoghi e un certo qual rimpianto per tempi passati sicuramente migliori, nei quali “la piazza [...] era anche più vivibile” (p. 38). Senso contrario e Altri libertini poi, finiscono entrambi con un ritorno a casa da parte del narratore, mentre la fuga di Autobahn verso il mitico Nord è effettuata con un mezzo assolutamente sproporzionato all’impresa, una Fiat Cinquecento consapevolmente ed ironicamente definita “ronzinante”, con un termine di cervantesca memoria. C’è anche chi - Aldo Tagliaferri - “intorno all’archetipo del viaggio, ricorrente e fondamentale nell’economia del testo”, ha costruito una lettura che lo individua come il

163 Non sembra infatti che si possa considerare la parte intermedia della cornice, che appartiene al tempo della scrittura, come una prolessi vera e propria rispetto al tempo della narrazione, nei confronti della quale potrebbe piuttosto assumere la valenza di una metalessi, per quanto impropria, dal momento che si è in presenza di un narratore interno.

95 motore fondamentale delle storie di Altri libertini, precisando ulteriormente il tema del ritorno come ritorno all’infanzia, valutandolo cioè come regressione nel tempo. Si vuole così vedere in Altri libertini la necessità della riconquista di uno stato di assoluto privilegio, di una condizione di godimento non intralciato dalla Legge. Questa origine, vero motore dell’intera fabula, è naturalmente l’infanzia, che l’autore evoca in enunciati di assoluta trasparenza: esemplarmente, in Viaggio aleggiano i “mille ricordi anche belli e trasognati e magati d’un tempo anche passato che si stava bene a fare i ragazzi” e, in tono più allarmato e profetico, gli amici si salutano “ed è come salutassimo noi stessi a partire e sparire dal treno della prima giovinezza”.164

E’ una lettura che, per quanto stimolante, appare un po’ spinta e bisognosa di maggiori specificazioni, soprattutto alla luce del contesto globale delle pagine dalle quali le citazioni provengono. Il testo infatti, se pure lascia trasparire rimpianto per gli anni passati, lo sembra risolvere nei termini di una contraddizione con il presente che porta ad un effettivo superamento del problema. La citazione infatti si inserisce nel momento della risoluzione di una crisi tra il narratore e il suo compagno, Dilo: E si apre una storia nuova nella nostra vita, più consapevole, più adulta, perché le crisi ed i cazzotti van bene quando servono ad andare avanti [...] bisogna pure andare avanti e lottare per quel minimo che ancora ci resta e cioè anche solo un rapporto, una storia, un amore e insomma mille e mille ricordi anche belli e strasognati e magati d’un tempo davvero passato che si stava bene a fare i ragazzi, be’ tutte queste cose non valgono la benché minima speranza di un’ora finalmente adulta e migliore per tutti e per questo qui si vivacchia e ci si dispera, mica farsi pippe e nostalgie da mattino a sera (AL p. 109).

Il narratore sembra conscio della necessità di “andare avanti”, alla ricerca “di un’ora finalmente adulta”, con una caratterizzazione dei “mille ricordi” che li fissa in un atteggiamento immobilistico da superare. Quanto all’altra citazione, la direzione in cui si muove il testo è sempre quella del superamento: si cresce, questo è innegabile, si cresce, perdio quanto siamo cambiati dall’estate di Amsterdam e non siamo più dei bambini che si sentono offesi, vogliamo le nostre responsabilità. [...] insomma alla stazione ci salutiamo ed è come salutassimo noi stessi partire e sparire dal treno della prima giovinezza (AL p. 95).

Il testo ruota attorno al cammino di maturazione e fissa un punto di acquisizione della crescita. Anche contenutisticamente lo segnala perché il periodo successivo dà inizio ad una scena nuova e diversa: non più la convivenza con la coppia Gigi e Anna, ma quella con il proprio compagno Dilo, che non a caso diventa il più importante tra gli amori del narratore di Viaggio.

164 A. Tagliaferri, op. cit., p. 17.

96 Piuttosto il motivo del rimpianto riaffiora in altri luoghi del testo, legato però ad una diversa connotazione. Sua scena tipica è quella dei vecchietti all’osteria, che sembra essere un luogo topico dell’immaginario artistico tondelliano165: quei tre-quattro vecchietti rimasti lì a ridere e piangere fra i loro bicchierozzi perché la giovinezza non c’è più e questa sì che è disperazione quando ti senti proprio uno scartino che sei lì solo per morire. Ma il trip li prende anche loro e si mettono a cantare e vociare e ballare incerti sulle gambe [...] e offrono toscani e comuni avanti e indietro, proprio a tutti, ed è come offrissero un tesoro (AL p. 161).166

non ci sono vecchi come ancora in molte osterie della bassa Reggio che li vedi coi loro toscani [...] sempre pronti a ricordare e canticchiare [...] Se ne stanno scomparendo anche loro insieme ai prezzibassi, alle tovaglie di plastica, ai muri scrostati e caliginosi [...] Restano in pochi qua e là e quando li si incontra è un indefinibile trapasso di esperienza che capita, un attimo di comunicazione, quella vera, persino ardente e si rimane poi lì tutta la notte a menarsela su e giù degli anni, avanti e indietro nel tempo in una bella confusione che però è la storia vera e anche storianostra (AL p. 136).

E’ un rimpianto per tempi passati nel quale l’infanzia non sembra proprio comparire, eventualmente si parla di giovinezza, e che invece va correlato con l’attaccamento alla propria terra e alle proprie tradizioni, inequivocabilmente incarnate dalla figura dei vecchietti. Rientra quindi di conseguenza nella più ampia tematica del ritorno come recupero delle proprie radici, che ha accompagnato il percorso di Tondelli scrittore e uomo. Si deve notare che la percezione data è quella di un qualcosa che va scomparendo, un qualcosa che viene identificato nei termini di “comunicazione”, “esperienza”, “tesoro”, “storianostra”, e che si esprime in un generale stimolo di comunicazione e di comunanza; bisogna altresì osservare che il ricordare assume un’importanza elevatissima nella sua caratterizzazione di “storia viva e anche storianostra”. Quello che cioè alla fine a Tondelli interessa evidenziare, in questo frangente, è il carattere realistico della scena, ed il rammarico per la sua condizione di storia, di documento quasi, del passato. E’ interessante mettere in collegamento questo aspetto con un altro motivo spesso presente nel testo, e cioè quello della separazione. Già Tagliaferri l’aveva evidenziato, collegandolo, nella citazione precedente, alla giovinezza ("è come salutassimo noi stessi a partire e sparire dal treno della prima giovinezza" - p. 95), ma compare anche in Mimi e istrioni, dove diventa, attraverso la dissoluzione del personaggio multiplo, elemento

165 Il motivo del vino e degli ambienti ad esso legati ritorna anche nella produzione giornalistica di Tondelli: in Un racconto sul vino, pubblicato nel “Corriere della Sera” il 22 agosto 1988, c’è infatti un accostamento tra cultura del vino, nel senso più ampio del termine, e proprie radici padane, all’interno di un analogo sentiero di indagine sulla tradizione. 166 Va fatto notare per completezza che parte di questa citazione compare nell’articolo di Tagliaferri.

97 basilare del percorso del testo - che oltretutto si sviluppa proprio mediante una separazione continua delle quattro protagoniste dagli ambienti e dalle esperienze che attraversano - e riveste spesso i panni della solitudine del protagonista. E’ una solitudine diversamente caratterizzata, dalle corse notturne in automobile del narratore di Viaggio al “vuoto enorme” che cresce dentro a quello di Senso contrario, dal “tanto sonno e fifa da smaltire” di Giusy in Postoristoro al solitario tranquillo ritorno a Reggio Emilia del narratore di Altri libertini. Solitudine e separazione sono quindi elementi che affiancano, a volte in un’ulteriore definizione, il motivo del rimpianto. E’ un rimpianto che va definito in termini anche reali e storici, senza regredire di molto nel passato alla ricerca dei tempi migliori, ma collocandoli negli anni immediatamente trascorsi. Il rimpianto diventa allora il segnale della chiusura di un’epoca e la diffidenza nei confronti dell’inizio di un altro periodo, che si presenta al momento privo dei valori sui quali fino ad ora ci si era basati, percepito come un ritorno all’individualità dopo anni basati sul collettivo. Altri libertini esce nel 1980, ma le storie che vi si narrano sono state scritte nel 1979, a immediata chiusura di un periodo di cui il movimento studentesco bolognese del ‘77 è stato un importante momento, del quale il romanzo di Tondelli è sicuramente una testimonianza. Prova ne sia il fatto che Stefano Tani lo svincola dal fenomeno ‘giovane narrativa’, in quanto “presentato e percepito come libro scandalistico che chiude un decennio”;167che nella copertina si parla di “esperienze dei giovani degli anni settanta”; che la critica più in generale ne riconosce il carattere di “ricostruzione della generazione”;168che Tondelli stesso ha più tardi affermato di “voler raccontare delle storie, forse ancora troppo radicate nell’esperienza degli anni settanta, delle storie ancora collettive”.169 In questo senso Altri libertini diventa per così dire l’espressione di un momento di passaggio e di maturazione, cosicché il rimpianto, come effetto di una separazione, non è altro che la rappresentazione di una crescita anche anagrafica. Tant’è vero che il motivo del rimpianto, così presente in Altri libertini, non tornerà nelle opere successive con la medesima caratterizzazione. Non ci sarà in Pao Pao e in Rimini, e non ci sarà, in queste specifiche vesti, neppure in Camere Separate, dove la separazione ed il ricordo, pur diventando elementi centrali della narrazione, lo saranno in una prospettiva di conoscenza ed eventualmente recupero di una parte di sé, collegati al motivo dominante del ritorno nelle accezioni precedentemente viste. Si può anzi dire che, negando quindi la specificazione del

167 S. Tani, op. cit., p. 199. 168 E. Palandri, Altra Italia, cit., p. 18. 169 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 65.

98 motivo del ritorno come ritorno all’infanzia, pure in Altri libertini rimpianto e ritorno non sono poi così collegati. E’ lo stesso Tondelli a chiarire le fasi della sua scrittura, quando afferma che dopo le “storie collettive” legate alle “esperienze degli anni settanta”, ha sentito il bisogno di cambiare le sue modalità di scrittore: “Andando avanti mi sono concentrato su un universo letterario più personale”.170 Non bisogna quindi caricare di eccessivo autobiografismo il contenuto di Altri libertini, ma considerare quelle storie come indissolubilmente legate ad un ben determinato periodo, del quale si propongono quasi come catalogo, trovando nel sentimento del rimpianto la miglior espressione di questo legame col passato. E’ una scrittura che guarda indietro fino a rendersene conto ed a risolversi nell’invito finale di Autobahn, che chiude il libro (cfr. AL p. 195).171 L’archetipo del viaggio si configura peraltro nell’opera tondelliana all’interno di una grande variabilità di aspetti, giungendo ad essere caratterizzato anche come il viaggio estremo, quando in Altri libertini compare il tema della morte. Tale motivo si inserisce nel più ampio aspetto dell’autodistruzione, che pervade le pagine di Altri libertini sia sotto un profilo contenutistico che come percorso strutturale. L’autodistruzione compare nelle situazioni disperate di Postoristoro, nelle modalità dell’alcool e della droga, si delinea in Mimi e istrioni come vero e proprio percorso narrativo che porta alla dissoluzione del personaggio multiplo, culmina in Viaggio nei suicidi reali o tentati di Michel e del narratore, inserendosi in una linea interpretativa che coinvolge tutto Altri libertini e che si è messa in evidenza. Enrico Palandri vi ha individuato uno dei “sentieri importanti del mondo poetico di Tondelli [...], [sentiero] dominato dall’attesa, dalla ricerca, dall’umiliazione del corpo”. Palandri individua in questo tema delle radici generazionali, una sorta di giovanile ribellione contro la direzione presa dalla storia, da parte “di una generazione orfana della politica e incapace di consolarsi di consumismo o di successo”. E’ una ribellione che si trova di fronte a due strade aperte: il terrorismo e la droga, cioè “l’autodistruzione come unica possibile espressione del rifiuto”.172

170 Ibidem. 171 Lo conferma il fatto che già nel successivo Pao Pao, che pure nasce come rimemorazione, manca questo sentimento del rimpianto, ed il ricordo alimenta una scrittura che ad ogni modo è rivolta verso il futuro. Infatti essa si chiude su se stessa in maniera circolare, facendo coincidere inizio e fine, nella consapevolezza da parte del narratore del valore del ricordo (“resterà sempre un flash abbagliante nella mia esistenza” - PP p. 184) e della sua riattualizzazione nei legami che esso continua a sostenere con il presente (“tutti gli altri che continuo fortunosamente a incontrare” - PP p. 185). La chiusura si orienta così, adoperando ancora la metafora del viaggio come alla fine di Altri libertini, verso la continuità ed il guardare avanti: “le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo” (PP p. 185). 172 E. Palandri, Altra Italia, cit.

99 Nel suo aspetto più specifico di morte di un personaggio, l’autodistruzione compare solo in Viaggio, dove riveste un’importanza basilare per il proseguimento della storia.173 In questo contesto, l’autodistruzione è sempre messa in relazione con una presa di coscienza, che ne può essere il motore principale come pure la risoluzione positiva, attraverso una ritrovata voglia di vivere. Il suicidio vero e proprio viene anticipato da un ricovero ospedaliero del narratore, dovuto all’eccessiva assunzione di alcool: ...Non ho soldi per comperare dei buchi o una stecca di fumo, ci do dentro con l’alcool...Un giorno sto male [...] viene un dolore alla testa, fortissimo [...] Il respiro è pesante e improvviso mi prende un pugno acidoso sotto le costole [...], il fegato brucia, un fuoco fitto al basso ventre [...] il retto si scarica come un sifone violento nel pigiama [...] i dolori aumentano e vedo le mie frattaglie e il sangue e urlo e sudo [...], ho paura di morire, ho paura di venir trovato sudicio cadavere nella stanza [...] Dilo mi trova svenuto all’ospedale. [...] e così resto a disintossicarmi, ma son giorni veramente brutti [...] soprattutto c’è l’assenza, questa maledetta assenza di Dilo e del suo corpo. [...] Così dopo sei giorni scappo e torno da Dilo [...] e comincia una lenta convalescenza [...] solo ora mi rendo conto di quei mesi invernali drunkato drunkato che ho rischiato di lasciarci le penne (AL p. 97-99).

La scena iniziale è quella della crisi di astinenza, con le stesse modalità descrittive adoperate per Bibo in Postoristoro: stomaco che si contorce, retto che non resiste, sudore e urla, paura di morire (AL p. 31). Però la descrizione è più dettagliata, e il fatto che la narrazione sia frutto di una rimemorazione fa sì che il racconto sia meno convulso, oggetto di un’analisi consapevole fatta a posteriori.

173 Il tema della morte è costantemente presente nella produzione letteraria di Tondelli, sia narrativa che giornalistica, differentemente caratterizzato nelle sue varie fasi. L’unica opera in cui non compare è Pao Pao, ma già in Rimini ritorna, con modalità simili a quelle di Altri libertini, nel suicidio dello scrittore Bruno May e nell’apparente suicidio del senatore Lughi. Nell’ultimo romanzo, Camere separate, è uno dei motivi fondamentali attorno a cui ruota il testo, cosa che poi traspare dalle dichiarazioni dello stesso Tondelli: “In Camere separate la storia che volevo raccontare [...] era il percorso di una solitudine, di una persona che rimane sola, che viaggia e che rivede il mondo con gli occhi di una persona separata per sempre da un’altra[...]. Mi piaceva [...] tornare continuamente sugli stessi temi che poi sono la morte, la separazione, la solitudine.” F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 51-52. Nella contemporanea produzione giornalistica affronta più volte il genere del reportage di viaggio sulle orme di scrittori famosi ormai scomparsi, visitando, per esempio, le tombe di Ingeborg Bachmann e Wystan Hugh Auden, e la casa di Frederik Prokosch (cfr. P.V. Tondelli, Viaggio a Grasse, in “Panta”, gennaio 1990, n. 1, e Id., Vienna, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 439-457). E’ questo un motivo che aveva già preannunciato in scritti di molto precedenti: “Altro itinerario sommo e sublime […] è quello che potrebbe portarci in giro per gli USA a scoprire tombe e loculi di gente un tempo molto illustre e che ci sta molto a cuore. […] Gente carissima e amatissima sulle cui tombe volentieri adageremmo un fiore.” P.V. Tondelli, Che incubo questa vacanza, “Il Resto del Carlino”, 26 agosto 1981, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 55-56. Quanto all’aspetto di morte volontaria o comunque legata a qualche forma di autodistruzione, ne aveva parlato analizzando la figura dell’amico Andrea Pazienza e i legami tra musica rock e eroina, in un aspetto analogo a quello che compare, per la prima volta dunque nella sua produzione letteraria, in Altri libertini (cfr. P.V. Tondelli, In punta di matita, cit. e Id., La musica è finita, in “L’Espresso”, 20 aprile 1986, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 304-305).

100 Compaiono associati al tema della morte due motivi strettamente connessi: il sentimento dell’assenza e il bisogno di trovare qualcuno che sia di stimolo alla guarigione, dopo la quale si raggiunge la consapevolezza del superamento della situazione iniziale. Un percorso analogo caratterizza la scena del tentato suicidio del narratore: Mattia se ne va [...] lo vedo partire e scoppio a piangere [...] Torno a Bologna ma c’è sempre Mattia alto e bello [...] io sono tagliato fuori [...] Così faccio un bislacco tentativo di suicidio [...] Mi sveno il polso sinistro e vedo il sangue e ho paura, ma poi mi faccio anche il destro [...] e allora dico che potrei anche morire e ho paura e sto per urlare ma tutto dura un attimo perché poi prendo gusto ad abbandonarmi in terra [...] e chiudo gli occhi e mi sveglio tanto tempo dopo in clinica [...] ormai ero più di là che di qua [...] e a forza di trasfusioni e cure mi hanno fatto tornare quaggiù nella merda, poi giorno dopo giorno dico meglio così, è come se fosse passata la crisi, ho voglia di vivere. Ed è Karla la mia nuova voglia di vivere (AL p. 126-127).

Come nel momento precedente compare il motivo della solitudine, definita nei termini di percezione dell’assenza di qualcuno, che diventa in questo caso il motore principale degli avvenimenti174: è in seguito all’abbandono da parte di Mattia che il narratore tenta di suicidarsi. E sarà sempre grazie ad un’altra persona, Karla, che riuscirà a venirne fuori ritrovando la voglia di vivere. La narrazione si snoda quindi su di un percorso che vede come suo motivo centrale il superamento della solitudine, motivo che, in una più generale analisi del testo intero, si risolve - confermandone così il già evidenziato carattere di romanzo di formazione - nella presa di coscienza finale da parte del narratore che, in un certo senso, impara a stare da solo: Agosto è bello starsene soli in città, prendere l’auto e girare fino a mattino (AL p. 85-86);

Agosto trascorre lento, solo, la notte a girare per la campagna (AL p. 130).

Ma, a questo momento della narrazione, la risoluzione della crisi è ancora demandata alla presenza di un ‘Altro’, Che però non sempre può risolvere la situazione, riuscendo a volte solamente a rimandarne l’esito. Così la paura di morire che era sempre presente nei due casi precedenti, diventa paura di vivere in occasione del suicidio di Michel: Michel mi prende la mano e dice che non gliela fa più, che è stanco e che vuole morire. [...] Io continuo a tenerlo sottobraccio perché sento che abbiamo bisogno uno dell’altro quel giorno così attaccati siamo un po’ più forti, ognuno nelle sue miserie. E dice guarda, io mi sento che tutti mi leggono dentro come fossi di vetro che non ho più nemmeno un angolo in cui tenerci il cuore e il mio territorio di libertà,

174 Il sentimento dell’assenza, costantemente presente nell’opera di Tondelli, strettamente legato alla relazione con l’Altro, troverà il suo culmine in Camere separate, dove accompagnerà continuamente le riflessioni del protagonista, Leo, diventando un motivo irrinunciabile del testo.

101 no, mi fanno male gli occhi della gente [...] però non mi passa non mi passa santiddio, e piango una lacrima sull’altra che non so da dove vengano fuori e sembran mare, salate e blu. E io gli dico te gli altri non devi manco pensare [...] E allora sembra che piano piano tutto passi, ma si sa bene che non basta dire due parole o inventare uno scherzetto o fare una rima sciocca, e che quando uno c’ha i cazzi suoi, be’, sono veramente suoi, non c’è da fare un cazzo, manco gli stoici gli epicurei o i filosofi, niente. Non si può impedire a qualcuno di farsi o disfarsi la propria vita [...] E quando c’è un po’ di coraggio in più o quando i pugni in tasca sono davvero serrati e le labbra strette e gli occhi piccoli, quando c’è paura ma tanta tanta e non si sa bene di cosa, però c’è sempre gente che ti segue anche nel cesso, succede (AL p. 114-116).

L’attenzione dell’autore non è qui puntata sugli effetti del gesto ma sull’aspetto psicologico che al gesto dà origine. Anche dal punto di vista stilistico il testo cerca di dare forma alle emozioni di Michel, mediante l’adozione di un monologo che esprima “le intensità intime ed emozionali del linguaggio”175: “mi sento”, “mi fanno male”, “sono qui terremotato di dentro”, “questo sisma che mi traballa le budella”, “non mi passa, non mi passa”, “piango”. La situazione psicologica è poi replicata dalle considerazioni del narratore che sembra spiegare i sentimenti di Michel traducendoli in gesto (“quando c’è un po’ di coraggio in più o quando i pugni in tasca sono davvero serrati e le labbra strette e gli occhi piccoli”) e motivandoli (“quando c’è paura ma tanta tanta e non si sa bene di cosa”). L’origine del mutamento sta sempre negli altri, nel modo di sentire la loro presenza e nel rapporto che con essi si riesce ad instaurare, ribadendo il carattere di narrativa di gruppo che sta alla base della scrittura di Tondelli. L’impossibilità di trovare un proprio “territorio di libertà” è connessa infatti all’invadenza della gente: “io mi sento che tutti mi leggono dentro come fossi di vetro che non ho più nemmeno un angolo in cui tenerci il cuore”. Ed è un’invadenza che trova nello sguardo il suo veicolo principale: “mi fanno male gli occhi della gente”. La paura di vivere, che rimane indefinita (“paura [...] non si sa bene di cosa”) è messa in relazione con il sentirsi continuamente sotto controllo (“c’è sempre gente che ti segue anche nel cesso”). Palandri, nella sua lettura dell’opera tondelliana anche come percorso di “umiliazione del corpo”, riportava questa interpretazione al carattere generazionale di Altri libertini e al bisogno da parte dei giovani di comunicare con gli altri: I giovani vedono tutto negli altri, non hanno autocoscienza. E’ la loro grandezza [...] e la loro condanna, perché se non troviamo a un certo punto la pietà necessaria, verso noi stessi e quindi verso gli altri, per tollerare la vita, se non impariamo a lasciar esistere il silenzio e l’incomprensione [...] la morte domina ogni pensiero176

175 P.V. Tondelli, Colpo d’oppio, cit. Non a caso, come si è già visto, Tondelli parla in quest’occasione di “letteratura emotiva”, “spazio emozionale”, personaggi che diventano “intensità emotive”, “sound del linguaggio parlato”. 176 E. Palandri, Altra Italia, cit., p. 24.

102 Sono considerazioni pienamente applicabili alla situazione narrativa analizzata.

I.6 L’alterità come cifra stilistica.

Nella sua analisi del rapporto con gli altri, Tondelli - nell’episodio appena esaminato - introduce una diversificazione: distingue tra “gente” e “gente bella”, facendo instaurare al narratore un processo di unione con Michel (“continuo a tenerlo sottobraccio”), che diventa aiuto reciproco (“abbiamo bisogno uno dell’altro [...] così attaccati siamo un po’ più forti”); la necessità di stare insieme diventa una forma di difesa contro il resto del mondo. Dalle parole del narratore volte a consolare Michel e a risolverne la crisi, emerge infatti una frattura tra gruppo e società: E io gli dico te agli altri non devi manco pensare che sono tutti stronzi idioti e non sanno nemmeno che cosa voglia dire essere liberi o felici, mentre tu lo sei perché hai la tua vita con gente bella che ti vuol bene e allora che ti frega, pensa a te che vali, pensa a noi che siamo la razza più bella che c’è (AL p. 116).

Compare così nel testo il motivo della differenza, segnalato da termini come “razza” e “tribù”. Ecco quindi che da una parte ci sono i protagonisti delle storie, che prendono un carattere generazionale, dall’altra coloro che non entrano nel gruppo, la società con la quale il gruppo si trova a fare i conti: i “maligni” di Mimi e istrioni, “la gente che ti segue anche nel cesso” di Viaggio, i “Vigilantes panzoni” di Senso contrario, i “correggesi” di Autobahn. In questa maniera il significato di ritratto generazionale generalmente attribuito ad Altri libertini si arricchisce di una connotazione conflittuale, una frattura che viene a sfociare sotto il profilo tematico nell’analisi del confronto con le istituzioni, presenti sotto forma di CIM e Vigilantes in Postoristoro, ma che si esplicano maggiormente nella contrastata collaborazione ad una scuola elementare da parte del narratore di Viaggio, e che rappresenteranno nel successivo Pao Pao la motivazione stessa del racconto.177 Ora, proprio la differenziazione dei suoi protagonisti dal resto della società mette in evidenza il carattere di gruppo espresso da Altri libertini. Il motivo della differenza è quindi basilare, e compare a partire dal titolo, “Altri”; il libertinaggio diventa quasi l’emblema di una condizione giovanile sentita come ghettizzata rispetto a quanto è percepito come normalità. Ma quali sono le ragioni di questa qualifica, “altri”?

177 Per una più ampia trattazione del tema del rapporto con le istituzioni si rimanda all’analisi di Pao Pao, ricordando ad ogni modo che, in considerazione della sua presenza costante nell’opera tondelliana, lo si incontrerà in riferimento ad ogni romanzo considerato.

103 Si potrebbe partire da una considerazione di tipo storico-cronologico: Altri libertini esce nel 1980 e racconta storie ambientate in un periodo immediatamente precedente ma ormai chiuso, percepito in termini di diversità rispetto al presente; è già chiara la consapevolezza di una nuova epoca che si è aperta, basata su valori e modelli sociali che non sono più gli stessi, rispetto alla quale le situazioni di Altri libertini si pongono come storia: il presente continuo che caratterizza la scrittura del romanzo, è comunque un passato nei confronti del presente della lettura, che non lo può percepire se non come un documento che parla di un periodo diverso. Oppure, “altri” preposto a “libertini” potrebbe semplicemente segnalare un tipo diverso di libertinaggio e, con un accezione molto più specifica, fare riferimento alle scelte sessuali dei personaggi, in considerazione del fatto che nella maggior parte dei casi si incontrano situazioni e personaggi omosessuali; tema del libro diventerebbe quindi l’amore omosessuale vissuto come una condizione problematica e conflittuale. Oppure ancora, optando per una valutazione di maggior portata sociologica, si potrebbe caricare il vocabolo di una forte valenza generazionale, richiamando una condizione giovanile che viene vissuta in contrasto con la rimanente parte della società, condizione che nella realizzazione artistica di Tondelli ha dato luogo a quella che Giuseppe Bonura ha definito “tragicomica epopea giovanile”178; “altri” non indicherebbe così che uno scarto rispetto a quella che si percepisce come la società dei ‘normali’. Il testo giustifica tutte queste letture e altre se ne potrebbero ipotizzare, ma non è probabilmente importante chiarire ulteriormente le accezioni possibili del termine “altri”. Quello che più importa è notare che l’alterità è postulata fin dal titolo, cosicché, come si vedrà, la diversità diventa una cifra stilistica. Ad essa tutto il testo soggiace, all’interno di una forte variabilità di connotazioni che passano dall’aspetto contenutistico a quello più propriamente stilistico, dal sistema dei personaggi a valutazioni di tipo etico-morale. Quello sulla diversità è un discorso che rimarrà sempre un punto fermo della produzione tondelliana e che l’autore ha chiarito in termini di scelte artistiche e di rapporto con gli altri: La diversità non è tanto nella scelta sessuale e nella scelta affettiva. [...] La diversità per me è qualcosa di molto più intimo e ha a che fare con una scelta di vita artistica. [...] Ognuno [...] si sente diverso proprio perché è in rapporto con gli altri e con l’esterno.179

La difficoltà del rapporto con gli altri è un dato tematico che circola continuamente in Altri libertini, spesso accompagnato da problematiche legate all’omosessualità e caricato di accenti conflittuali.

178 G. Bonura, op. cit., p. 31. 179 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 63.

104 Si è parlato poc’anzi di diversità come cifra stilistica. E’ un’affermazione che ha bisogno di essere chiarita e sviluppata. Fin dal primo momento di Altri libertini Tondelli opera uno stacco nettissimo nei confronti della normalità. Sceglie infatti un’ambientazione ben definita - il Posto Ristoro della stazione di Reggio Emilia - e ne fa un mondo chiuso, fortemente isolato in termini spaziali e abitato da personaggi tutti in qualche maniera marginali rispetto alla società (barboni, prostitute, spacciatori, travestiti, tossicodipendenti e così via). Fin qui però non si esce da un procedimento alquanto realistico che potrebbe rimandare a padri illustri - ad esempio Verga - riattualizzandone i personaggi in funzione del presente; quello che invece diversifica la scena è il passaggio successivo: Tondelli opera all’interno di questo mondo un totale rovesciamento di valori che lo fa necessariamente sentire come un qualche cosa di diverso nella sua totalità. L’adozione di un punto di vista dalla parte dei personaggi, attraverso la scelta di un narratore anonimo ma interno al gruppo, produce infatti degli effetti di straniamento: i rappresentanti delle istituzioni sono percepiti sempre come ostili, per esempio i Vigilantes e il CIM, mentre sul piano opposto si assiste all’eroicizzazione di Giusy, “povero martire della Patria” connotato anche in termini cristiani da concetti come sacrificio e salvazione.180 E’ una figura di eroe anomala, che fa venir meno il processo di identificazione da parte del lettore, nei confronti del quale si produce così una frattura. La percezione etico-morale dell’universo di Postoristoro non si può pertanto basare sui valori convenzionali, che sono qui annullati. Dopo aver introdotto in questi termini il mondo del suo romanzo, Tondelli passa alla trattazione della diversità in maniera più specifica e sotto altri punti di vista. In Mimi e istrioni la affronta in funzione del sistema dei personaggi: costruisce infatti un personaggio multiplo, non convenzionale quindi, il quartetto Splash, formato da tre ragazze e un travestito, seguendone poi le avventure fino alla sua dissoluzione, e quindi alla fine della storia. E’ una diversità al quadrato, proprio per la presenza all’interno del quartetto di un omosessuale, che non a caso riveste un ruolo fondamentale, in quanto la dissoluzione del personaggio multiplo sarà avviata dalla sua decisione di “riscoprire la propria eterosessualità”. Il discorso sulle scelte sessuali viene poi ulteriormente chiarito in direzione anticonvenzionale, ‘diversa’ quindi dalla norma: “esiste soltanto una sessualità contigua e

180 Una trattazione più estesa del rovesciamento dei valori e della figura di Giusy è gia stata svolta in occasione dell’analisi di Postoristoro. Qui interessa notare come questo procedimento venga percepito nel testo in termini di diversità. Quanto alla religiosità dei personaggi di Tondelli, si deve considerare la rivalutazione che della sua opera ha fatto la critica di matrice cattolica, proprio alla luce di una supposta “sensibilità per il fatto religioso”. Dice infatti Antonio Spadaro a proposito di Altri libertini : “Nelle sei storie di giovani “belli e dannati” di Altri libertini la cifra per comprendere il libertinaggio e le avventure “sulla strada” [...] è in modo esplicito la salvezza.” A. Spadaro, La religiosità dell’attesa nell’opera di PierVittorio Tondelli, in “La Civiltà Cattolica”, 3487, 7 ottobre 1995, pp. 30-43.

105 polimorfa e allora bisogna iniziare a superare questi settarismi di merda e liberarci finalmente dai condizionamenti” (AL pp. 63-64). Viaggio sviluppa il tema della diversità secondo un aspetto più propriamente contenutistico, attraverso la bohème omosessuale del narratore. Dà modo così a Tondelli di trattare la problematica delle situazioni omosessuali soprattutto nei confronti del rapporto con gli altri, con i ‘normali’, rapporto che generalmente si incanala in una dimensione di incomprensioni e di difficoltà, che produce la stessa considerazione (“Lo so che la vita da finocchi è difficile” - AL p. 96 e p. 119) in occasione della fuga dall’autobus dopo un diverbio con un vecchio e della fine della collaborazione con una scuola elementare.181 La diversità assume anche le caratteristiche della dissimulazione e può essere riferita sia ai personaggi che agli oggetti. Senso contrario, la breve storia che segue Viaggio, offre l’opportunità per alcune esemplificazioni a proposito. Vi si racconta una notte balorda tra fumo, cena in osteria, fughe in automobile, droga e amori omosessuali; lo spazio narrativo si estende tra Reggio Emilia e le vicine colline, con tre personaggi fondamentali, il narratore anonimo, Ruby, da lui incontrato al Bowling e con cui si dirige in collina per una cena in osteria, e Lucio, un “ragazzetto” che là si aggrega ai due. Il ritorno verso Reggio Emilia diventa una fuga nella Fiat Seicento di Ruby, inseguiti dai Vigilantes di Postoristoro, fino all’epilogo nella casa di Ruby tra droga e sesso omosessuale, con il conseguente ritorno a casa del narratore il mattino successivo. Vi si riscontra l’adozione di una duplice forma di diversità per lo stesso personaggio, poiché Ruby, oltre ad essere omosessuale, viene percepito come tale dal narratore in termini di sorpresa: non sapevo fosse frocio così a prima vista tutti gli attributi del maschio pieno di sborra, la barba arruffata che s’attorciglia sul petto, la piega delle chiappe soda e muschiosa, un cazzo che esplode dai jeans ad ogni passo [...] non credevo che un frocio potesse parlare solo in dialetto e fare il delinquente (AL p. 132).

181 Se bisogna effettivamente ammettere la mancanza di un discorso prettamente ideologico (e politico) in Altri libertini - e la cosa si nota maggiormente soprattutto in relazione al periodo storico nel quale le storie sono ambientate, periodo fortemente politicizzato - dal momento che gli avvenimenti degli anni si percepiscono solo come sfondo rispetto alla trama del romanzo (per esempio l’occupazione universitaria a Bologna), va considerato il carattere di uscita dalla politica che impronta di sé il momento della scrittura e la sostituzione dell’impegno politico con la presenza nell’opera di un importante risvolto sociale, volto per esempio - ma non solo - all’analisi delle problematiche omosessuali, magari proprio in concomitanza con l’apparire nel libro degli eventi storici segnalati. Per esempio in occasione dell’occupazione universitaria a Bologna Tondelli fa dire a Dilo: “stanotte si dorme là e così anche domani e c’è posto per noi, ce lo siamo conquistato” (AL p. 116), mentre il colloquio col direttore in occasione della fine del rapporto di collaborazione del narratore con una scuola elementare, si inserisce nel contesto di un’analisi di qualche pagina sulla “strada per cambiare la scuola” (AL p. 120).

106 Si può quindi dire che la diversità viene in questo caso dissimulata e che Ruby è un omosessuale diverso dagli altri omosessuali. La caratterizzazione di Ruby si estende anche agli oggetti che egli usa, cosicché la sua pipa è diversa dalle altre: Ruby ha una pipa speciale [...] come un narghilè da taschino, cioè ha preso dei tubicini di plastica e li ha inseriti lungo la canna della pipa, uno in alto e uno vicino al bocchino. Poi li ha infilati, nell’estremità libera, in un vasettino di ansiolin [...] pieno d’acqua (AL p. 134).

Ancora, le cose non sono quello che sembrano e la realtà è sempre profondamente diversa dalle apparenze: Attorno a noi invece le colline che paiono intatte in quest’oscurità, ma basterebbe un raggio di luce più intenso, la doppia wu di Cassiopea più vicina e a quel punto mortale apparirebbe il loro grembo squarciato dagli speculatori delle ceramiche piombate, operai con la vescica incancrenita, bambinetti coi polmoni già distrutti e incatramati dalle scorie (AL p. 135).

La scena quasi idilliaca del panorama montano, che si era colorata anche dei ricordi dell’infanzia, si trasforma presto in un realistico ritorno alla verità ed in un occasione di denuncia sociale. Ma è la struttura complessiva della storia che mostra come la spensieratezza ed il divertimento siano in fondo fasulle, solamente finzione, conglobate come sono in una cornice di vuota solitudine. E’ un processo che ben chiarisce Bonura: “Dei suoi balordi eroi giovani e giovanissimi Tondelli prima mostra le maschere deformate e i movimenti automatici, […] poi denuda le maschere e il divertimento si converte in sgomento”.182 La deformazione della realtà diventa una vera e propria dissimulazione, dura fin che dura l’effetto dell’alcool o della droga o delle corse in automobile, ma il suo punto di partenza rimane sempre “una sera noiosa e ubriaca, [...] davvero vuota” (AL p. 131), mentre l’inevitabile punto d’arrivo è la solitudine delle cinque del mattino, quando cresce “dentro un vuoto enorme” (AL p. 143). Non è naturalmente un percorso proprio solo di Senso contrario, tanto che anche in Mimi e istrioni la spensieratezza delle libertine Splash finisce nella consapevolezza che “i tempi son duri e la realtà del quotidiano anche e [...] che non siamo mai state tanto libere come ora che conosciamo il peso effettivo dei condizionamenti” (AL p. 65). Naturalmente la diversità si riflette anche nelle scelte linguistiche, nell’adozione di un linguaggio di propria creazione che è altro rispetto alle consuetudini della lingua italiana. 183 Se l’alterità è uno dei due elementi che compaiono nel titolo, l’altro è il libertinaggio.

182 G. Bonura, op. cit., p. 33. 183 “La prosa di Tondelli è un’invenzione tutta sua [...] Si direbbe [...] che i suoi personaggi siano una conseguenza della scelta del linguaggio.”Ibidem. Per la trattazione del linguaggio tondelliano si rimanda alle pagine precedenti

107 Il valore che assume quest’ultimo nel testo tondelliano è fortemente correlato alla condizione giovanile considerata nell’aspetto che già aveva messo in luce Palandri. Il libertinaggio e la spinta verso l’autodistruzione sono cioè strettamente legati, poiché derivano dalle stesse radici. Alla base c’è sempre la medesima condizione giovanile vissuta come ghettizzata ed alla quale si reagisce attraverso la trasgressione ad ogni livello, da intendersi nella più ampia accezione di rifiuto alla “odiata normalizzazione”, alla ricerca della “terra promessa della libertà e di un godimento disinibito”.184 Una volta constatato “l’esaurirsi di un’epoca molto ideologizzata”185 e abbandonata la politica, l’unica alternativa all’eccesso di consumismo perseguito dallo yuppismo crescente era la ricerca di una nuova utopia che si poneva “fuori dai meccanismi della promozione sociale”186, “di un sogno in cui la dimensione soggettiva e quella collettiva diventano interconnesse”187, ma che al tempo stesso comportava anche “tanta voglia di autodistruzione vista come mito alternativo [...] culto della sofferenza, del rifiutare sempre il gioco perché il gioco è sempre sporco, del voler stare da nessuna parte perché le parti tradiscono sempre”.188 Il libertinaggio dunque - come la droga, l’alcool, le corse in macchina, il viaggio (che non a caso assume spesso la forma di una fuga) - non è altro che una delle forme prese da questo desiderio di evasione da una realtà sociale le cui regole non si potevano accettare. Diventa così una forma di protesta nella quale, persi i precedenti punti di riferimento, il corpo rimane l’unico possibile mezzo di conoscenza e di comunicazione con gli altri. Ne deriva una scrittura del corpo che, coerentemente con le dichiarazioni programmatiche di Tondelli (“La mia letteratura è emotiva”189), mette sulla pagina direttamente le emozioni e i sentimenti dell’individuo, senza filtrarle attraverso interpretazioni e ideologie. Il corpo si sostituisce all’individuo e parla al suo posto: “Le sbronze, le sniffate, i buchi, i trip, l’amore, omo ed eterosessuale sono manifestazioni naturali di un corpo in espansione”190. La sessualità acquista così un ruolo preminente nella gestione del rapporto con gli altri: in seguito al “tentativo [...] di recuperare le ragioni del corpo” - conseguente all’espressione di un “profondo dissenso generazionale” - “l’individuo non stereotipo viene quindi portato sulla scena con tutti gli attributi e le idiosincrasie proprie del singolo. Preminente la direzione sessuale, nel caso di Tondelli, l’omosessualità”.191

184 A. Tagliaferri, op. cit., p. 14. 185 E: Palandri, Altra Italia, cit., p. 19. 186 Ivi, p. 20 187 A. Tagliaferri, op. cit., p. 14. 188 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 78. 189 PV. Tondelli, Colpo d’oppio, cit. 190 G. Bonura, op. cit., p. 31. 191 D. Zancani, op. cit., p. 753.

108 E di individui non stereotipi Altri libertini fornisce un’ampia tipologia, non solo di quelli omosessuali, evidenziando sempre accuratamente la loro diversità dai ‘normali’, cosa che maggiormente risalta quando i due vengono a contatto. Senso contrario e Altri libertini, i due episodi successivi a Viaggio, proprio per la loro ambientazione e i loro personaggi assai diversi, bene illustrano la qualifica di catalogo di libertini attribuibile al testo. Il primo, che dura lo spazio di una notte ruotando attorno a tre soli personaggi, mette in evidenza Ruby, omosessuale atipico, come si è visto. Le atmosfere ricordano il mondo da sottoproletariato urbano di Postoristoro, del quale ritornano anche i “Vigilantes panzoni” in un notturno inseguimento alla Fiat Seicento guidata da Ruby. Sullo sfondo, nettamente differenziati, si percepiscono il narratore, molto simile a quello di Viaggio per la notturna vocazione alla solitudine e una certa aria di rassegnazione agli eventi, e Lucio, un “ragazzetto” che baratta coi due una notte di sesso a tre per una dose. In Altri libertini invece, l’episodio che dà il titolo al romanzo, il testo si sviluppa in maniera più complessa e variegata, nell’arco di vari giorni e ruotando attorno a situazioni e personaggi più particolareggiati. Non compare più l’eroina che, in misura diversa, era prima sempre presente, e anche l’ambientazione è nuova rispetto agli episodi precedenti, non tanto per il luogo degli avvenimenti che è sempre rappresentato dalla cittadina di provincia tanto cara alla narrativa italiana novecentesca, ma per la tipologia dei personaggi, che Palandri ha definito “protoyuppies”192, assai diversi dalla fauna sgangherata di Postoristoro o dalla bohème studentesca di Viaggio, protagonisti di una storia più spensierata rispetto alle altre. In essa un consueto narratore omodiegetico partecipa in maniera secondaria agli avvenimenti, fornendo informazioni anche su di sé, e narrandoli in terza persona in un continuo presente narrativo. Il milanese Andrea arriva a Correggio per un servizio fotografico, suscitando la curiosità e l’interesse di un gruppo di personaggi. Viene ospitato da Miro, che cerca inutilmente di sedurlo, pur capendo che Andrea preferisce le donne. Infatti passa dalle braccia di Ela a quelle di Annacarla, prima di concedersi per una notte a Miro, dopo una giornata a Modena, e andarsene all’improvviso, prendendosi la rivincita sul più debole - Miro appunto - per essere stato trattato come un oggetto ed essere diventato l’argomento delle chiacchiere del paese. E’ la classica storia di provincia del romanzo medio, rivitalizzata da un’ambientazione giovanile e una scrittura ironica, dove l’elemento dell’omosessualità opera una variazione rispetto al tipo tradizionale, e la tragicità delle situazioni viene ribaltata e coperta dal loro lato comico.

192 E. Palandri, Altra Italia, cit., p. 24.

109 Nonostante la molteplicità dei personaggi, la storia si potrebbe definire come l’avventura di Miro, “checca” di “gran razza [...] che coi numeri che c’ha si può fare Keith Carradine su un piede solo [...] oppure Burt Reynolds con gli occhi chiusi e Miguel Bosé per traverso e per rovescio” (AL p. 148), personaggio che spicca sugli altri, alle prese con Andrea, il “Gran Lombardo supervitaminizzato” (AL p. 157), “figlio della buona razza dei maschi trionfatori” (AL p. 147), giunto in provincia “per un servizio [fotografico] sulle cascine e le viuzze d’Emilia” (AL p. 150). Al tempo stesso la storia è anche definibile come l’intrusione all’interno di un gruppo di un elemento estraneo che tende a farne saltare gli equilibri, provocando una situazione di momentanea concorrenza tra gli elementi del gruppo che però si risolve alla fine nella cacciata dello ‘straniero’ e nel recupero della primitiva coesione. Miro è un’altra tipologia di omosessuale, completamente diverso dai precedenti, sia per posizione sociale che per caratterizzazione. Nel corso dell’episodio viene definito “checca”, “busona” e ritratto in una serie di atteggiamenti adeguati: “si dà un colpo al culo e oplà se ne va” (AL p. 148), “il Miro a far da coro greco, a stracciarsi le vesti e i capelli tutti quanti sul sofà” (AL p. 159), “il Miro s’imbelletta” (AL p. 163). In contrapposizione alla descrizione dei numeri di Miro si ha l’evidenziazione di un’altra tipologia gay, quella del narratore: io sono di quell’altra razza di checchine schifiltose e piagnone che finiscono sempre, mannaggia a noi, a far intorto ai bambinetti e rischiare anni di prigione se va bene, altrimenti bastonate e legnate sul groppone e non solo mica lì (AL p. 148).

Anche le ragazze del gruppo, seppur non così riccamente tratteggiate, vengono differenziate secondo una variazione di atteggiamenti sessuali: “l’Annacarla [...] i maschi li usa per sbattere e morta lì, mica come la Ela che gli uomini li vuole fare innamorare” (AL p. 155). La galleria di personaggi che popola il romanzo consente una loro classificazione in termini di variazione sul tema. Ogni episodio contribuisce quindi alla costituzione di questo ipotetico catalogo del libertinaggio possibile. Non è importante però enumerare tutte le figure che il testo propone, quanto rilevare la loro contrapposizione rispetto agli individui stereotipi che popolano la realtà rifiutata. E’ una differenza che appare chiarissima nell’episodio Altri libertini, dove i due tipi sono continuamente messi a confronto nell’accostamento tra Miro e Andrea che fa da struttura portante alla storia stessa; è da rilevare altresì che la differenza di Andrea viene oltremodo evidenziata dal suo occasionale inserimento modenese nel gruppo, naturalmente

110 composto solo da omosessuali, degli amici del Miro, da parte dei quali riceve le prevedibili attenzioni.193 Ritornando ora alla contrapposizione dei due tipi, sembra proprio che la storia riguardi loro solamente e che gli altri facciano da sfondo. Miro spicca come protagonista, fortemente caratterizzato in pensieri, comportamenti e dialoghi. Andrea fa in un certo senso da comprimario, ma non gode dello stesso trattamento; nonostante rivesta un ruolo fondamentale non beneficia delle stesse attenzioni degli altri: Andrea non fa parte del gruppo, è un individuo ‘normale’ che si trova catapultato in una situazione non sua, un singolo contrapposto ad un gruppo del quale diventa per breve tempo oggetto di interesse. Nonostante la sua presenza quasi continua nel testo, non è un personaggio dotato di voce, a differenza di altri, come Ela e Annacarla, che pure assumono un’importanza minore: anzi, sembra essere passivamente sballottato da uno all’altro dei personaggi della storia. Come arriva, infatti, viene agganciato da Miro che lo porta via con sé, dopo passa alle braccia di Ela, dalle quali viene strappato da Annacarla; a Modena non riesce a liberarsi della compagnia invadente degli amici (forse è meglio dire amiche) di Miro e solamente alla fine della storia diventa un personaggio attivo, proprio quando decide di rivalersi su Miro e tornarsene a casa: Andrea non fa parte del gruppo e recupera la sua personalità allontanandosi. C’è un pensiero di Andrea, al momento del suo farsi consapevole della situazione, che chiarisce questo aspetto di contrapposizione tra lui e gli altri: se ne va rosso dalla rabbia [...] stramaledicendo a labbra strette gli idioti provinciali sempre pronti a tramare tra di loro e contro gli stranieri (AL p. 171).

D’altra parte il testo fin dall’inizio si dirige verso la separazione dal gruppo e l’oggettivazione di Andrea, da subito indicato con epiteti che lo accompagneranno per tutta la storia, a partire dal “figlio della buona razza dei maschi conquistatori”, che, detto dal narratore appena definitosi gay, segnala una differenza, per continuare con “questo lombardo”, “bel lombardo”, “Gran Lombardo supervitaminizzato”, che pongono sempre l’accento sulla sua diversa provenienza, considerando poi che il più delle volte quando è chiamato per nome diventa “l’Andrea”.

193 L’episodio in questione consente a Tondelli di operare una interessante variazione lessicale sul concetto di omosessualità, quasi a ribadire implicitamente una ricchezza di aspetti che viceversa non viene nel testo applicata nei confronti degli eterosessuali, di norma nominati solo con questo termine (“Guarda solo come si divertono questi etero di merda” - AL p. 151). Di volta in volta ricorrono quindi nel testo “busona”, “checca”, “checchina”, “paraculo”, “culo”, “rottincula”, “pedé”; estendendo l’analisi agli altri episodi naturalmente l’elenco si arricchisce e saltano fuori anche “finocchio”, “frocio”, “gay”, “superchecche”, con le eventuali variazioni di desinenza. Compare quindi tutta una gamma di sfumature che fa parte dell’espressione di quella che Furio Colombo ha chiamato “una visione “gay” della vita e della letteratura [...] proposta in modo esplicito e appassionato.” F. Colombo, Tondelli, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 241-248.

111 Il suo ruolo è pertanto già in partenza vincolato a diventare l’oggetto dei desideri degli altri personaggi, tanto che la sua descrizione comincia proprio in termini di apprezzamento estetico: “un gran figone, alto e bello, tutto biondazzurro e colorato” (AL p. 147). Ed è una funzione la sua che viene esplicitata più avanti dalle parole di Ela ormai disamorata, dalle quali traspare il ruolo passivo di Andrea nella storia: l’Andrea è un fessacchiotto, che non ha capito di essere arrivato in un paese in cui tutti lo vogliono scopare e venir così manovrato come un semplice e godereccio vibratore [...] lui se ne andrà, che spanda-spanda le sue avventurette, noi si resterà in paese e saremo proprio noi a ridere e contarcela questa bislacca storia (AL p. 167).

Il fatto stesso che la narrazione invece di chiudersi sull’addio di Andrea a Miro, con cui di fatto termina la storia, proponga una coda in cui egli viene definito “ingenuo [...] scappato con la coda tra le gambe” (AL p. 174) e nella quale una volta di più si focalizza l’attenzione su Miro e sulla sua rapida ripresa dopo la delusione amorosa, conferma l’opinione di Ela e la vittoria del gruppo sull’elemento estraneo che non è riuscito a minarne la coesione: “Così finalmente si parte [...] e s’imbocca l’autobrennero con le nostre tre auto incolonnate” (AL p. 176).

I.7 Il catalogo.

Altri libertini consente di analizzare uno dei procedimenti più caratteristici della scrittura tondelliana: l’adozione del catalogo come artificio stilistico. L’enumerazione infatti è una figura retorica che ricorre assiduamente nel testo tondelliano, dove si sviluppa con notevoli differenze di estensione, intenti e tipologie.194 E’ una cifra stilistica fin da subito evidenziata dalla critica che la riporta al magistero artistico di , autore che ha sempre goduto di ampia considerazione da parte di Tondelli, che non a caso lo aveva inserito nei ringraziamenti finali in Altri libertini. Scrive Tagliaferri: dall’opera di Alberto Arbasino [...] il giovane romanziere desume almeno due tratti stilistici piegandoli al proprio uso: il primo è un tono divertito e garbatamente dissacratorio che ritorna nelle pagine più felici di Altri libertini [...] il secondo è l’artificio retorico dell’elencazione, anche artatamente incongrua, di cui Arbasino è sempre stato arguto cultore.195

L’elencazione compare tra le pagine di Altri libertini in una notevole varietà di sfumature, applicata a situazioni oltremodo diverse sia per ambientazione sia per impatto

194 Per i concetti e la terminologia relativi all’enumerazione si è fatto riferimento a B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani,1997. 195 A. Tagliaferri, op. cit., p. 13.

112 emotivo, e differentemente caratterizzata anche sotto un aspetto più propriamente stilistico e sintattico. Sarà un procedimento che verrà portato agli estremi in Pao Pao, il secondo romanzo, nel quale verrà caricato di connotazioni assai differenti, dall’ironia alla rabbia alla disperazione, diventando elemento importantissimo di una scrittura che sviluppa se stessa nei termini di struttura portante del testo. All’altezza di Altri libertini l’enumerazione assume un carattere meno eccessivo, ma nondimeno ricco sotto un profilo tipologico. Nell’episodio omonimo, Altri libertini, Tondelli indugia per circa tre pagine nella descrizione della soffitta di Annacarla, utilizzando così l’elencazione per fornire un “autoritratto culturale attraverso uno schietto schizzo [...] dei consumi culturali di una generazione provinciale e al tempo stesso già europea negli anni settanta”196 E’ una minuziosa documentazione di quanto compare nella stanza distribuito per generi, a partire dai libri suddivisi per collane e case editrici, continuando poi con gli incensi aromatici, i poster ed i manifesti di argomento cinematografico, le fotografie autografate, per finire con la cena e l’immancabile elenco musicale. Il procedimento dell’enumerazione, qui applicato nella sua variante di distribuzione, risulta più significativo nel momento in cui ne diventa soggetto una categoria in apparenza meno facilmente differenziabile. Così, in questo contesto, più che il catalogo dei libri divisi per case editrici affettuosamente aggettivate - “la collana grigiobianca di Psicologia e Psicoanalisi di Feltrinelli”, i “rari Squilibri”, i “Guanda civettuosamente sparsi accanto ai beveraggi” (AL pp. 151-152) - suscita interesse l’elencazione degli incensi aromatici: tutti quegli incensi Made in India sempre accesi e sparsi, dai secchissimi bastoncini Musk di Lord Shiva agli aromi primaverili dei Bouquet dei Three Birds e a quelli Agarbatti cioè Jasmine, Patchouli, Rose, Amber, Violet, Chameli, Lotus, Mogra e quegli altri cofanetti sparsi del Panda Brand Incense ancora Ambergris e Jasmine, eppoi Sandal Wood e Cypre vicini quasi a confondersi coi sottilissimi Meigui Xiang, Tan Xiang, Tisian Tsang altri bastoncini fragili e sottili e puzzolenti anche dalle loro scatole cellophanate come quelli impastati al talco, i tibetani Wing Tun Fook pestilenziali davvero (AL p. 152).

Come sovente fa quando analizza soggetti divisi per categorie, Tondelli utilizza in questo caso l’enumerazione a due livelli, uno più generale relativo ai ‘materiali’ presenti nella soffitta di Annacarla, l’altro più specifico relativo ad ogni singola categoria. Si potrebbe quindi parlare di enumerazione di primo e di secondo grado in funzione del livello di specificazione che si vuole affrontare. E’ interessante notare come Tondelli utilizzi in questo caso una prosodia particolare, per evitare problemi di disomogeneità e dare coesione al testo: inserisce infatti l’enumerazione in un unico lungo paragrafo caratterizzato da scarsa interpunzione e

196 E. Palandri, Altra Italia, cit., p. 21.

113 ordinato dal polisindeto. Sono nove periodi per un totale di centodiciannove righe, dei quali il primo di cinque righe serve ad introdurre lo spazio della descrizione, la soffitta di Annacarla, mentre l’elencazione vera e propria occupa il secondo lunghissimo periodo, costituto da ben settantotto righe nelle quali ricorrono una sola volta il punto e virgola e i puntini di sospensione. I periodi successivi riprendono un carattere maggiormente diegetico e, seppure presentano accenni di enumerazione, sono orientati verso il recupero della narrazione dopo la pausa descrittiva. Ritornando alla natura dell’enumerazione citata, si può notare che, se a livello di primo grado si rimane nella distribuzione ben ordinata, a livello di secondo grado subentra una tendenza verso l’accumulazione caotica, tendenza che prende inoltre un andamento di climax ascendente. Col procedere della descrizione infatti diventano sempre meno presenti le espressioni (aggettivi, apposizioni, attributi) che distanziano i membri dell’enumerazione, che tendono a diventare elementi singoli. Si passa cioè dal “tutt’intera la collezione dei Classici dell’arte Rizzoli impilata come pronta alla rivendita tra la collana grigiobianca di Psicologia e Psicoanalisi di Feltrinelli” che apre l’enumerazione, al “convegni e simposi e seminari e convivi, giornate rassegne e dibattiti” che la chiude (AL pp. 151-153). Questo secondo tipo, l’accumulazione caotica appunto, è quello che Tondelli adotta più di frequente, spesso con una portata minore sul piano dello spazio testuale, sempre con uno spostamento dal momento della narrazione a quello della descrizione. A volte sono frammenti di poche righe che puntano decisamente sulla percezione dettagliata di una scena, secondo un procedimento quasi cinematografico, una specie di ‘fermo immagine’: tanto basta perché le si rovesci sulla moquette tutt’intero il consultorio che ci teneva dentro, preservativi, vaseline, pilloline, ovuli e diaframmi, creme spermicide, oli antibambinetti, persino il lubrificante gustoforte KY della Benny, quello di scorta (AL p. 50);

in altre invece il procedimento ha una funzione meno diretta e, pur rappresentando sempre una pausa narrativa, assume un carattere più personale per il personaggio che ne è al centro, quasi una parentesi momentanea dalla storia: me ne sto dunque per i cazzi miei a leggere quel che c’è sul muro [...] tutto un inventario colorato di autodefinizioni, brandelli filosofici, slogan semiseri, invettive, quartine rime e porcate, gridi inni e slogan tutti sovrapposti gli uni agli altri e inseriti tra parola e parola a far fuori irresistibili ironie e tutto nel gergo mischiato e poliglotta della fauna stessa cioè molto italiano cencioso, molto tedesco sublime, persino gotico ahimè, molto angloamericano e parecchio slang, qualche francese da boudoir, qualche graffito arabo, sumero o indiano e persino una evidente traccia di cirillico scritta col pantone vermiglione accanto a Culo culo orgasmo del futuro (AL p. 57).197

197 Da notare che, in questo caso, si passa da una prima elencazione che ha per soggetto la tipologia delle scritte ad una seconda che invece si sbizzarrisce sulla lingua in cui sono scritte, il tutto senza

114 In altri contesti ancora l’accumulazione può dar luogo ad un duplice effetto di caratterizzazione di un personaggio e di aumento serrato del ritmo narrativo. Accade quando essa si lega alla tecnica del flusso di coscienza, come avviene in Autobahn, dove spesso chi parla si esprime attraverso lunghi monologhi deliranti nei quali l’enumerazione svolge un ruolo determinante. In questa maniera essa diventa una componente dello stile stesso del personaggio e partecipa quindi alla sua descrizione. Sul piano del ritmo narrativo poi, l’adozione della sintassi anomala propria del flusso di coscienza e l’accumulo frenetico dato dall’elencazione caotica, producono un visibile effetto di accelerazione del testo, attraverso un accostamento di parole che si arrampicano una sull’altra, ognuna spingendo via la precedente, ognuna subito scalzata dalla successiva. L’esempio più suggestivo è nella ‘dichiarazione di poetica’ dello “stoppista cinematografaro” incontrato dal protagonista alla stazione si servizio, nel quale Tondelli scatena per oltre due pagine il suo estro accumulatorio, spaziando dalle citazioni letterarie ai frammenti di realtà in una ridda di categorie di ogni tipo, con precise variazioni per ognuna, nel tentativo di descrivere “la fauna di questi scassati e tribolati anni miei”: A morte, a morte! Alla forca! alla ghigliottina! al patibolo! al supplizio! alla gogna e alla garrota! all’esecuzione! alla fucilazione! all’impiccagione! alla defenestrazione i mafiosi i teoreti i politologhi, i corsivisti, le penne d’oro, le grandifirme, gli speculatori del grassetto e del filmetto, a morte! a morte! [...] Ma il cineocchio mio amerà oooohhh se amerà la fauna di questi scassati e tribolati anni miei, certo che l’amerà. L’occhiocaldo mio s’innamorerà di tutti, dei freak dei beatnik e degli hippy, delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi, dei cani sciolti, dei froci [...] cantautori et beoni, imbriachi sballati scannati bucati e forati. [...] Eppoi tutti quanti gli adepti di Krishna, di Geova, del Guru, del Brahamino, dello Yogi. Indi ogni discendenza, bambini di Dio, figli di Dioniso Zagreo, nipotini di Marx, illegittimi di Nietzsche, pronipoti del marchese, figlioletti delle stelle, sorelline di Lilith luna nera e fratellini di Prometeo incatenato [...] E ancora tutti quanti i transessuali, [...] i corporali, i biologici, i macrobiotici, gli integrali, gli apocalittici, i funamboli, gli animatori, i creativi, i performativi, i federativi, i lettristi, i brigatisti, i seminaristi, i fiancheggiatori, i mimi e gli istrioni [...] i boccaloni, i grafomani e gli esibizionisti e i masochisti e tutta quanta quell’altra razza di giovani Holden e giovani Törless, giovani Werther e giovani Ortis, giovani Heloise e giovani Cresside, giovani Tristani, giovani Isotte, giovani Narcisi e Boccadori, giovani Cloridani e Medori, giovani Euriali e giovani Nisi, Romei e Giuliette. Eppoi nuovi trimalcioni, e nuovi Hidalgo, autori da giovani da cuccioli e da scimmiotti (AL pp. 189-191).

Naturalmente ritornano le particolarità del linguaggio tondelliano - esotismi, neologismi, citazioni letterarie e no, personaggi del mito, della storia, della cultura, uso della rima e così via - in una enumerazione la cui struttura per lo più asindetica rende il testo

soluzione di continuità. Ritorna quindi anche in questa occasione la doppia gradazione che si era ipotizzata precedentemente come tratto caratteristico dell’enumerazione tondelliana.

115 ancora più spedito: in un certo senso è la scrittura ad imporre la sua velocità di lettura al fruitore. D’altra parte, dopo una manicheistica suddivisione iniziale (“A morte! a morte!” / “Ma il cineocchio mio amerà”), si può interpretare il testo come un inventario dell’umanità possibile e - collegandosi al motivo della diversità che circola ovunque in Altri libertini - identificare le numerose variazioni tondelliane come un inno alla diversità necessaria, in contrasto alla realtà stereotipa da subito negata. Rimane da chiarire un punto nella cura che Tondelli dedica alle possibilità del linguaggio. La critica ha generalmente recepito in Altri libertini questo aspetto, connotandolo a volte con la qualifica di sperimentale, cosa che l’autore non sembra avere molto gradito: All’inizio io ero preso come uno sperimentale. Mah... Certo lavoravo sul linguaggio, ma non ho mai nutrito un’idea di letteratura algidamente sperimentale e combinatoria. C’era del pathos dentro. C’era della pietà in quei racconti, del sangue. [...] L’esperienza delle avanguardie e delle neo-avanguardie credo sia chiusa. Anche se, dopo averla conosciuta, studiata e anche praticata, posso dire che è stata fondamentale per noi, per l’orizzonte ideologico, teorico, critico che ha portato in Italia. [...] E’ diventato un patrimonio che poi viene elaborato a seconda dell’individualità e della sensibilità di ognuno. […] Chi continua ad applicare la pura lezione sperimentalista, per me risulta vecchio e anacronistico. Altri libertini si ribellava proprio contro questa sottocultura. E lo faceva in modo ironico e scanzonato.198

Resta quindi da vedere se, alla luce delle dichiarazioni di cui sopra, l’esasperazione di certi procedimenti, come appunto l’artificio dell’elencazione, non sia, oltre che una cifra stilistica, un modo di fare il verso a una cultura considerata importante ma ormai superata.199

198 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 82-83. 199 Accettando questa ipotesi può essere interessante stabilire un collegamento con una coeva opera di Sebastiano Vassalli, Abitare il vento, Torino, Einaudi, 1980, nella quale la dimensione critica di cui sopra è fortemente caratterizzante per tutto lo spazio del testo. Vassalli conduce infatti una narrazione costantemente giocata sulla deformazione linguistica per portare avanti dall’inizio alla fine effetti di rima. La trattazione che Stefano Tani fa del romanzo di Vassalli, rivela d’altronde elementi assai vicini al linguaggio di Tondelli, parlando di “esuberante monologo affabulatorio, miracoloso equilibrio anarchico di ricchezze verbali divergenti (parlato basso guappo e romanesco, ma anche esibizionistiche citazioni di Quasimodo e dei lirici greci, ecolalie, giochi di parole in rima, enigmistica, elisioni, imbastardimenti, sinistrese, etc.).” S. Tani, op. cit., p. 45. Una simile interpretazione di certa retorica tondelliana sembrerebbe però entrare in contrasto con l’ammirazione per Arbasino che più volte Tondelli ha ribadito. E’ una contraddizione solo apparente, poiché, in primo luogo, quello che Tondelli rifiuta è lo sperimentalismo fine a se stesso, secondariamente, l’interesse verso Arbasino sembra veicolato soprattutto dal carattere fortemente rappresentativo che la sua opera assume nei confronti del proprio tempo: “Leggendo […] Fratelli d’Italia o Le piccole vacanze di Arbasino si ha la netta sensazione di come gli anni Cinquanta e Sessanta siano stati vitali e lo siano ancora in questi libri. Saltano fuori con una potenza espressiva straordinaria […]: la provincia con le sue ragnatele di obblighi e costrizioni e anche piacevolezze, la campagna, il desiderio della città e della metropoli, le feste

116 Ad ogni modo, l’uso dell’elencazione rimarrà un’acquisizione costante nella scrittura tondelliana, non solo relativamente alla narrativa, ma anche nella produzione giornalistica, nella quale però l’accumulo perderà l’enfasi datagli dall’effetto del parlato, adottando forme più controllate.200

I.8 "Autobahn": il testo aperto.

Autobahn, l’episodio conclusivo, è il resoconto che il solito io narrante fa di una solitaria fuga da Correggio verso il Mare del Nord, attraverso l’Autobrennero, in una Fiat Cinquecento, un resoconto vestito di toni ironici e al tempo stesso epici. La narrazione procede con un ritmo sempre serrato e frenetico, strutturandosi con una introduzione del problema - la depressione e le malinconie - e un’esemplificazione di come risolverlo - la fuga verso il Nord - con un epilogo finale che è un’esortazione a lanciarsi verso l’avventura. La comunicazione con il lettore più volte si inserisce nel testo, interrompendo l’azione con funzioni analoghe a quelle altrove svolte dalle digressioni temporali. Il narratore racconta dunque la sua fuga verso il Nord per reagire ai fantasmi degli “scoramenti”, approfittando dell’Autobrennero, magica via di collegamento tra la bassa padana ed il Mare del Nord. La fuga continua attraverso rifornimenti al guidatore (il fernet all’autogrill) e al mezzo (benzina per la Cinquecento), ostacoli imprevisti sul cammino (un’interessante ragazzina bionda in stazione di servizio) e potenziali compagni di viaggio (un autostoppista ”cinematografaro”), fino ad un’interruzione obbligata (fine dei soldi e del carburante) che il fortuito ritrovamento di un portafoglio rende solo una pausa, consentendo di riprendere la corsa. La storia termina con un’esortazione al lettore a fare altrettanto che chiude il libro in chiave positiva, identificando nel movimento frenetico della fuga la soluzione alle storie cupe del primo episodio.

e i party, i viaggi, l’aggressività di togliersi di torno il vecchio... Sono racconti di straordinaria attualità. Se così fosse, fra vent’anni, per Altri libertini, sarei contento...” F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 94- 95. 200 Per fare un esempio, Storie di gente comune inizia con un paragrafo composto da un solo lungo periodo di undici righe e mezzo, nel quale l’elencazione compare in una veste “anaforica”, attraverso la ripetizione del sostantivo “gente”, diversamente aggettivato, per ben diciassette volte: “Gente ordinaria e gente comune, gente che batte le strade provinciali e quelle comunali, gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica, gente morbida, gente ubriacona, vecchia gente senza passato, giovane gente senza avvenire, gente lontana dalla cronaca e dal pettegolezzo: gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima [...] insomma, gente di cui vogliamo raccontare.” P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., p. 47.

117 E’ un percorso che, nonostante le difficoltà incontrate nei vari episodi, si sviluppa in direzione della fiducia nel futuro, verso il quale l’appello conclusivo lancia il lettore e lo scrittore stesso, conferendo al romanzo un carattere di opera aperta e alla produzione successiva di Tondelli un motivo di unitarietà. Autobahn si differenzia dagli altri episodi anche per la sua struttura, poiché non contiene una vera e propria storia con personaggi ben delineati, costituito com’è da un lungo monologo del narratore, che non tralascia di chiamare talvolta in causa il lettore; è un procedimento già apparso nel precedente Altri libertini, ma qui sviluppato e caricato di una notevole importanza, dal momento che il punto di arrivo della storia - e con essa del libro intero - è l’esortazione finale al lettore da parte del protagonista narratore (e con lui dell’autore). In questo modo il colloquio che ogni tanto interrompe la narrazione è funzionalizzato all’invito conclusivo, stabilisce un contatto fin da prima di modo che il finale non risulti troppo slegato da quanto lo precede.201 La provincia viene identificata come il luogo degli “scoramenti” (“al tempo degli scoramenti io abitavo in Correggio, Reggio Emilia” - p. 180), che sono la vera condizione da cui si fugge, per mezzo del vino “farmaco dei mali” e dell’attività frenetica (“a rimanere fermo non ci riesco trenta secondi d’orologio” - p. 178) che inevitabilmente porta a lanciarsi “sulla strada”, percepita come sinonimo di libertà: Correggio sta a cinque chilometri dall’inizio dell’autobrennero di Carpi, Modena che è l’autobahn più meravigliosa che c’è perché [...] in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord [...] quando vedo le luci del casello d’ingresso [...] non mi sento prigioniero di casa mia italiana, che odio, sì odio alla follia (AL p. 181).

E’ una contrapposizione netta tra il proprio paese come luogo degli scoramenti e la strada come promessa di libertà, con l’odore del Mare del Nord che funge da richiamo per un’avventura di kerouachiano sapore: Sono sulla strada amico, son partito, ho il mio odore a litri nei polmoni, ho tra i denti la salsedine aaghhh e in testa libertà (AL p. 182).

Si crea in questo modo una dicotomia netta casa / strada secondo la quale viene poi classificato quanto compare nel testo, cosicché gli ostacoli incontrati sul cammino sono sempre ricondotti al primo dei due termini, come succede per la ragazzina conosciuta alla stazione di servizio:

201 Anche questo si può vedere come un fattore di coesione del libro intero: parallelamente al percorso precedentemente indicato che ordina tutto il romanzo, la presenza del lettore nel testo, che prima poteva ritenersi implicita a causa di procedimenti come l’adozione di un linguaggio che prevedeva un lettore complice o l’uso della rimemorazione e di una scrittura pseudo-diaristica che in ogni modo postula la lettura, o l’attenzione verso l’oralità del testo, che introduce un ascoltatore, questa presenza dunque viene esplicitata gradualmente, dapprima nella cornice di Altri libertini e poi in misura sempre maggiore dallo svolgimento di Autobahn.

118 E qui svanisce la visione e lei diventa sempre lei però io capisco il trucco. Te ti han mandata i correggesi per fermarmi, vattene via stregaccia bella (AL p. 186).

mentre sul fronte opposto si collocano naturalmente gli occasionali compagni di viaggio, che oltretutto danno l’occasione per ribadire il bisogno di socializzazione continuamente presente nel testo: Salutato amichetto tutto biondo imbarcato su un altro grandalbero di Natale verso Trento, salutato col magone nella voce [...] non ci rivedremo mai più ah questo lo so, ma terrò pur sempre per la strada un amico in più (AL p. 194).

Il motivo della fuga percorre tutto il testo tondelliano, nelle sue varie connotazioni, a partire dalla negazione di Postoristoro in cui è solo una speranza (“se ne andrà via dalla città e da tutti” - p. 34), attraverso le fughe da situazioni non più sostenibili, come avviene di continuo per le quattro Splash o per Andrea in Altri libertini, o dall’invadenza e dall’oppressione della normalità e delle sue istituzioni, come in occasione del diverbio col vecchietto in Viaggio o dell’inseguimento automobilistico in Senso contrario. La connotazione che compare in Autobahn è quella che più lo apparenta al viaggio, con una caratterizzazione generazionale, che sposta il motivo della fuga di per sé verso la ricerca. Quello che più risalta in Autobahn non è l’esigenza di scappare quanto quella di andare, verso un favoloso Nord nel caso, ma, più in generale, alla ricerca di quel qualcosa che ognuno può diversamente identificare e al quale Tondelli dà il nome di “vostro odore” e riconosce nei termini di “avventura”. Il significato ultimo del testo sta dunque nella spinta verso il movimento, spinta che si risolve su di un piano personale (“vostro odore”), ma che diventa anche un momento collettivo (“forza tutti insieme”), quel che più conta, rivolto verso il futuro: Bando a isterismi, depressioni scoglionature e smaronamenti. Cercatevi il vostro odore eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha importanza alcuna se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, fossanche quello dell’incenso giù nell’India o quello un po’ più forte, tibetano o nepalese. No, sarà pure l’odore dell’arcobaleno e del pentolino pieno d’ori, degli aquiloni bimbi miei, degli uccelletti, dei boschi verdi con in mezzo ruscelletti gai e cinguettanti, delle giungle, sarà l’odore delle paludi, dei canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul, ah buoni davvero buoni odori in verità, ma saran pur sempre i vostri odori e allora via, alla faccia di tutti avanti! Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all’avventuraaaaa! (AL p. 193).

In questa maniera Tondelli riesce a superare il pericolo di fornire una rappresentazione storicizzata di un momento ormai finito, consentendo al suo lavoro, “libro scandalistico che chiude un decennio”202, di attualizzarsi gettando un ponte verso un futuro

202 S. Tani, op. cit., p. 199.

119 ancora ignoto, che fa paura ma nel quale si risolve la nostalgia per “questi scassati e tribolati anni miei” (AL p. 188). Il percorso del narratore dalla provincia italiana al grande Nord ricalca per certi versi un analogo percorso di poco precedente che a Tondelli non poteva certo sfuggire. Era stato pubblicato infatti nel 1978 Lunario del Paradiso di Gianni Celati, storia di un’avventurosa ricognizione dalle parti del Mare del Nord - Celati non nomina la città tedesca sede degli avvenimenti, che sembrerebbe dal testo potersi identificare con Amburgo - con modalità e personaggi molto vicini a quelli che Tondelli svilupperà poi, per esempio in Viaggio. Celati è esplicitamente citato in Altri libertini, nel suo ruolo di docente universitario: “gli piace osservare [...] le cose di Gianni Celati sul romanzo della frontiera” (AL p. 90); inoltre viene implicitamente richiamato con un concetto analogo proprio in Autobahn: “bisogna cercare soltanto una frontiera e un limite da scavalcare” (AL p. 189). Quanto agli elementi presenti in Lunario del paradiso, non si può non mettere in correlazione gli “scoramenti” tondelliani con l’”ululo” celatiano, o le “lunghissime passeggiate sui moli, tra voli di gabbiani [...] su quel mare nordico [dove] le nuvolaglie non stanno mai ferme”203 che Giovanni e Gisela facevano nel porto, con “l’odore del Mare del Nord [...] la salsedine delle burrasche e dell’oceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani e lo sferragliare dei docks e dei cantieri” (AL p. 181). Ma al di là di un generico impianto di trama e situazioni, del resto già altre volte evidenziato, l’aspetto nel quale le due opere collimano è il finale celatiano da cui Tondelli trae due elementi adattandoli alle proprie esigenze, uno che agisce nel testo a livello di memoria, l’altro più importante perché è quello che dà un senso all’opera. Il primo è l’utilizzazione, in maniera ampia e ripetuta, della “vocina” che compare nel finale di Lunario del paradiso: Attraverso la porta sento una vocina che vorrebbe fare il vaglio critico delle mie avventure, spiegare la trama, tutti i miei errori; dice che non ho mai preso coscienza, che ho passato la vita a raccontare sbafornie 204

Celati gli affida una funzione fondamentale in quanto è il punto di partenza per la reazione finale e l’invito a “farsi delle storie”. Tondelli la riprende utilizzandola con lo stesso ruolo di contraltare al narratore, facendola provenire da lui stesso, ma le dà una collocazione diversa, ponendola nel testo come fonte degli scoramenti e come ostacolo al proseguimento della corsa, non però nella parte finale in funzione dell’esortazione al lettore. La prima volta compare in Autobahn come riflessione del singolo sulla propria situazione ed è all’origine degli scoramenti:

203 G. Celati, op. cit., p. 101. 204 Ivi, p. 219.

120 questa scoglionatura che dà sul neuroduro [...] si porta appresso [...] i più gravi mali, quelli della vocina; cioè chi sei? cosa fai? dove vai? qual è il tuo posto nel Gran Trojajo? cheffarai? eppoi ancora quelli più deleteri, i mali del non so giammai né perché venni al mondo né cosa sia il mondo né cosa io stesso mi sia (AL p. 177- 178).

Tondelli trasporta così sul piano del dubbio esistenziale, della riflessione personale, quello che Celati organizzava nei termini dell’intervento esterno, per poter poi rispondere in maniera critica a chi interveniva. Questo anche in considerazione della differenza contenutistica relativa all’esortazione finale, che in Tondelli non ricopre un ruolo critico, sviluppato semmai precedentemente in occasione del lungo monologo dell’amico “cinematografaro”. In seguito la vocina ritorna dopo l’abbandono della ragazzina all’area di servizio: Però mentre corro di nuovo sulla strada la vocina dentro dice facevi bene a fermarti con la bellina, dove vai? chi sei? (AL p. 186).

E’ una voce che proviene sempre da se stessi e che riveste stavolta i panni di ostacolo sul cammino del narratore, con lo stesso ruolo della ragazzina che diventa “stregaccia” mandata dai “correggesi”, ai quali viene imputata ogni contrarietà lungo il percorso (“Aaaghhh! il mio odore! [...] son tornati i correggesi, a rubarmi il mio odore?” - p. 192). Il tratto celatiano che però ritorna in maniera più evidente nel finale di Altri libertini è proprio l’esortazione finale, che, per quanto differente, può essere ricondotta ad un medesimo carattere unificante.205 Celati la inserisce come risposta alla “vocina che vorrebbe fare il vaglio critico” della storia appena narrata, ma dietro il riferimento al “pensatore” si esprime un più generale invito alla narrazione: Caro pensatore, dacci un taglio di fare il cretino, prova anche tu a farti delle storie e vedrai che questa è la sputtanata verità.206

Traspare la necessità del ritorno alla narrazione dopo anni di accantonamento in favore di altre forme di scrittura, traduzione in termini letterari di un periodo storico che sta per chiudersi e anticipazione di un rilancio della narrativa, anche in termini di mercato, ormai

205 Si deve aggiungere che ritorna in Altri libertini un’altra caratteristica presente in Lunario del Paradiso, che tra l’altro si riscontra anche in Boccalone di Palandri, e cioè l’alternanza tra tempo della storia e tempo della scrittura. Tondelli sviluppa questa tecnica in maniera personale, collegando nel finale i due tempi, come avviene in Viaggio e come avverrà, in maniera più evidente, in Pao Pao, al quale si rimanda. 206 G. Celati, Lunario del Paradiso, Einaudi, Torino, 1978, p. 185. E’ interessante notare che in occasione della riscrittura di Lunario del Paradiso per la nuova edizione Feltrinelli del 1996, Celati ha cambiato il finale, nel quale non compaiono più “pensatore” e “storie”: “Dateci un taglio con la vostra solfa boriosa! Tutto succede come succede, e il resto non conta un fico; la vita è una cosa che succede, non si sa cosa sia, è soltanto uno stato della mente.” Id., Lunario del Paradiso, Feltrinelli, Milano, p. 220. Nel 1996 l’originale invito alla narrazione era ormai superato, e così Celati ha voluto rimarcare il carattere fondamentale del raccontare, che unisce realtà e fantasia.

121 imminente. L’esortazione di Celati registra l’avvenuto passaggio dal ‘pubblico’ al ‘privato’, sostituendo l’atto del ‘prendere coscienza’, rimprovero mossogli dalla vocina, con un molto più personale ‘farsi delle storie’. Tondelli, senza esplicitare nel testo la medesima contrapposizione, ribadisce il carattere personale della ricerca: “quando uno ci sente che l’odore che serra in pancia è proprio il suo arriva anche la fortuna” (AL p. 195). Il conclusivo invito a partire verso l’avventura cercando il proprio odore ha la stessa origine del monito celatiano alla narrazione, registra un passaggio epocale, in considerazione poi del fatto che il narratore parte con gli altri (“forza tutti insieme”), in cerca di un’avventura che per lo scrittore non può essere che nella pagina, in questo caso quindi nella narrazione. Si è accennato precedentemente ad una dichiarazione di poetica che Tondelli mette in bocca a un personaggio che il narratore incontra. Oggetto esplicito ne è il cinema, dal momento che chi la fa è un aspirante “cinematografaro”, ma diventa visibilmente il luogo per esprimere una convinzione di scrittura che vuole rompere col passato alla ricerca di nuove direzioni, motivando al tempo stesso le proprie precedenti scelte: Lui dice che questo è il primo film, ma poi ne farà degli altri, tutti film di viaggio alla miseria l’italietta e la commedia, [...] bisogna registrare le autostrade e i movimenti, ok? [...] Io ci ho fame amico mio una gran fame di contrade e sentieroni, di ferrate, di binari, di laghetti, di frontiere e di autostrade, ok? [...] Bisogna gettarsi nelle strade senza tante scene o riflettori, bisogna cercare soltanto una frontiera e un limite da scavalcare, bisogna gettare le nostalgie e i retrò, anco riflussi e regressioni, via gli interni i teatri e gli stabilimenti. Si dovranno invece ricercare periferie, ghetti e marciapiedi, viali lampioni e cantinette, anco però sottoscale soffitte e sottotetti, ok? (AL p. 189)207

Non si può non vedere nel testo l’elencazione dei luoghi tipici che la scrittura tondelliana percorre in Altri libertini, in cui il cronotopo della strada, nelle sue varie forme, detiene come si è visto uno spazio privilegiato. Il motore principale è il viaggio, nell’accezione poi chiarita di ricerca, e gli ambienti considerati evidenziano quell’attenzione verso tutto ciò che è marginale di cui il libro intero è pervaso: periferie, ghetti, marciapiedi, soffitte, ritornano i momenti spaziali attraverso i quali le storie di Altri libertini si sono dipanate. A conferma di questo, segue la lunga lista - precedentemente citata - dei personaggi che quelle storie hanno riempito, al termine della quale il loro carattere di soggetti viene ribadito, con una procedura quindi circolare che rinchiude l’esposizione del proprio mondo

207 Relativamente alla consueta cura stilistica, soprattutto rispetto al procedimento dell’enumerazione sopra trattato, si noti come l’ultimo periodo segua una struttura a climax ascendente nella specificazione degli ambienti da cercare: “periferie” (uno), “ghetti e marciapiedi” (due), “viali lampioni e cantinette” (tre).

122 poetico, dall’iniziale “Lui dice che questo è il primo film” - Altri libertini è d’altronde l’esordio di Tondelli - al conclusivo “questi caromio saranno i personaggi e le figure del nuovo cinema mio” (AL p. 191). E’ così la circolarità, che come si è visto svolge una parte assai importante negli episodi di Altri libertini, che Tondelli sceglie, significativamente, come struttura a cui viene demandato il compito di evidenziare la sua dichiarazione di poetica.

123 CAPITOLO II

PAO PAO: UN ROMANZO, NON UN INCHIESTA.

124 II.1 Nel segno della continuità.

La seconda prova narrativa di Pier Vittorio Tondelli, Pao Pao, esce a distanza di due anni da Altri libertini, rispetto al quale si colloca in una linea di continuità. Pao Pao, infatti, prosegue il percorso evolutivo evidenziato negli episodi di Altri libertini, differenziandosi per un tono sostanzialmente scanzonato e leggero, nonostante la materia narrativa, il servizio di leva, lasciasse prevedere una trattazione ben più tormentata. Non mancano naturalmente momenti di riflessione e di critica verso il servizio militare come istituzione totalitaria, ma il romanzo cerca, nella sua globalità, di evitare l’esercito come soggetto principale, focalizzando l’attenzione sulla trama di interazioni che si creano tra i protagonisti di quell’anno di convivenza forzata. La continuità con Altri libertini è immediatamente percepibile: sul piano dello stile, dove l’accuratissimo linguaggio tondelliano conferma e amplifica le proprie peculiarità; su quello dei procedimenti narrativi, come per esempio l’analoga adozione di un io-narrante e l’attenzione puntualissima alle strutture temporali; su quello delle scelte contenutistiche, che trovano la propria origine, in maniera ancora più esplicita, in materiali autobiografici filtrati dalla trasformazione letteraria. Il soggetto del libro consente poi una forma romanzesca più tradizionale, che recupera una maggior omogeneità, superando il gusto per il frammento che aveva caratterizzato Altri libertini anche sotto il profilo strutturale. Non mancano ad ogni modo, a questo proposito, tentativi di rinverdire le critiche - sicuramente più motivate - riguardo alla definizione “romanzo”, che avevano accompagnato la pubblicazione di Altri libertini: c’è chi, infatti, tiene a negare tale qualifica pure per Pao Pao, “libro che procede come un racconto gonfiato, e sostanzialmente non sa dove andare”1, con un’interpretazione che sembra piuttosto cavillosa e che non trova d’altronde riscontro nelle altre recensioni, nelle quali la natura del testo tondelliano non viene mai messa in dubbio. Le scelte editoriali sono le medesime di Altri libertini: stesso editore, Feltrinelli, e soprattutto stessa collana, “I Narratori”, con la copertina che porta ben in vista la dicitura “romanzo”, al di sopra del nome dell’autore e del titolo; evidente il tentativo di replicare il successo - forse non totalmente previsto - di Altri libertini, in una situazione di ricezione del prodotto narrativo sicuramente più favorevole rispetto all’anno d’esordio, dal momento che nel 1982 il fenomeno “giovane narrativa” si sta rapidamente consolidando.

1 C. Barbati, Gaya era la naja, in “Il nuovo informatore librario”, dicembre 1982, n. 9.

125 Pao Pao assume presto una dimensione internazionale: nel 1985, anno d’oro per gli editori italiani che alla Buchmesse di Francoforte “vendono moltissimi diritti per traduzioni in inglese, francese e tedesco”2, ne esce infatti l’edizione francese - Paris, Edition du Seuil - con due anni di anticipo su Altri libertini - stesso editore - avviando così una tendenza spesso seguita dalle altre edizioni straniere.3 Interessante notare le diverse scelte di copertina tra l’edizione italiana e quella francese: mentre Feltrinelli cerca di focalizzare l’attenzione sull’argomento, con la sigla PAO ad occupare quasi metà dello spazio di copertina, che contiene inoltre il disegno di un fregio dei granatieri, l’edizione francese è centrata sull’aspetto della scrittura, presentando l’autore accovacciato vicino alla macchina da scrivere, non rappresentando la sigla PAO per un francese nessun significato immediato. In seguito, il passaggio, in Italia, nella collana “Universale Economica” di Feltrinelli mantiene il distacco di due anni che separa le prime edizioni: Altri libertini esce nel 1987, Pao Pao nel 1989. Come Altri libertini, Pao Pao è un romanzo generazionale, soprattutto per le scelte linguistiche e contenutistiche, ma assume una veste meno aggressiva e più accettabile: Altri libertini era un libro volutamente trasgressivo e lo comunicava in maniera perfino violenta; trovava inoltre come referente fondamentale il pubblico dei coetanei, al quale era sostanzialmente rivolto, in un’atmosfera di ricercato contrasto con la “letteratura paludata” e “ufficiale”4, con intenti anche di spinta all’emulazione, sull’onda naturalmente della spontaneità settantasettesca. Pao Pao risente delle avvenute trasformazioni sociali ed evita questo atteggiamento, rivolgendosi ad un pubblico eterogeneo, in una veste di prodotto assolutamente letterario. Novità linguistiche e senso della trasgressione vengono confermate, anzi, addirittura amplificate, ed è proprio la loro amplificazione e cura all’eccesso a renderle meno provocatorie: diventano più accettabili perché inserite in modo evidente all’interno di una finzione artistica. La generazionalità di Pao Pao si esprime in una diversa maniera, legata più propriamente alla scelta dei protagonisti che compaiono nel libro: l’assunzione del dato generazionale [...] può valere per Pao Pao. Anche in quel romanzo ho preferito raccontare come si muoveva e quali erano le dinamiche di un gruppo di ragazzi a Roma, in termini più scanzonati e sentimentali, certamente meno crudi, feroci o atroci di come avveniva in Altri libertini 5

2 S. Tani, op. cit., p. 146. 3 In Germania Pao Pao è stato tradotto da Rowohlt nel 1989, mentre la versione tedesca di Altri libertini, per lo stesso editore, è del 1990. Solo in Spagna Altri libertini viene pubblicato prima, nel 1982 (Barcellona, Editorial Anagrama, mentre la versione in catalano è del 1989, Editorial Laia), mentre Pao Pao esce nel 1988 (Barcellona, Editorial Portic, versione in lingua catalana), in contemporanea a Rimini (Barcellona, Ultramar Editores - versione spagnola; ivi, Editorial Portic - versione catalana). 4 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 60. 5 Ivi, p. 57.

126 Proprio il sentimento sembra essere la chiave di lettura che diversifica dal precedente il nuovo romanzo di Tondelli: in Altri libertini era l’eroina a farsi personaggio, riempendo di sé il vuoto dei protagonisti delle storie; in Pao Pao essa scompare - se ne trova un breve accenno solo in una analessi eterodiegetica precedente al tempo del racconto - e se s’incontrano droghe si tratta in genere di spinelli in momenti di socializzazione e comunicazione, mai in situazioni di solitaria disperazione.6 A farsi personaggio è invece il sentimento, ora nei panni dell’amore, “dono degli dei che si muove sulle ali del vento, sempre inafferrabile e sempre inseguito” (PP p. 169), ora in quelli dei legami intensi che si stringono per sconfiggere “quel periodo, che sulla carta si preannunciava come blocco del cervello in paure e piagnistei e sofferenze” (PP p. 98-99). Anche per questo, Pao Pao assume, nonostante la forte caratterizzazione conferita da un io-narrante protagonista di un testo quasi privo di dialoghi, una natura di narrativa di gruppo, espressione filtrata dalle parole del narratore dei sentimenti e delle sensazioni di tutto l’insieme dei personaggi, distintamente percepibili nelle loro diverse personalità anche quando non parlano mai in prima persona. Il testo ricerca dunque una certa polifonia che, strutturale nel caso di Altri libertini, dove ad ogni episodio cambiavano i personaggi, sfrutta ora elementi come le diverse provenienze regionali e un bozzettismo spinto fino al grottesco, per ottenere variazioni linguistiche; a questi elementi si devono aggiungere l’alternarsi al racconto vero e proprio di considerazioni del narratore, diversamente legate al tempo della storia, che fanno spaziare il soggetto dalla narrazione delle avventure dei personaggi alle riflessioni sul mondo militare. Il modello strutturale - al di là delle interpretazioni critiche che, ora per lo stile ora per i procedimenti linguistici, hanno individuato riferimenti illustri, peraltro motivati, da Kerouac a Celine, da Bourroughs ad Arbasino - rimane all’interno della scrittura tondelliana, ed è Viaggio in Altri libertini, del quale Pao Pao assume, elaborandola ulteriormente, la narrazione su diversi piani temporali, con l’adozione di una cornice, temporalmente situata alla fine della fabula, che racchiude il racconto in un movimento circolare, e con la presenza nel testo di intrusioni metanarrative, relative al momento della scrittura o a fatti successivi alla storia. Tondelli opera in Pao Pao un’altra variazione rispetto all’esordio: il libertinaggio di Altri libertini si esprimeva attraverso amori sia eterosessuali che omosessuali, concedendo alle figure femminili una certa rilevanza testuale. In Pao Pao gli amori sono solamente omosessuali, al punto che la figura femminile appare solo in ruoli di comparsa; anche il

6 A voler essere più precisi compare anche la cocaina, ma anche questa mai in un contesto di emarginazione e abbruttimento di se stessi; ne fa uso infatti Erik, compagno del narratore nella parte finale, per aiutarsi a terminare il proprio lavoro di compositore di musiche da film, in un momento in cui ha delle scadenze lavorative molto vicine, e deve quindi impegnarsi con tutte le sue energie.

127 motivo della donna antagonista nei confronti dell’oggetto amoroso, spesso presente nella scrittura tondelliana - si pensi, per quanto già trattato, all’episodio Altri libertini, ma è un tema che ritornerà con la medesima caratterizzazione in Rimini e in Camere Separate - è solamente abbozzato nell’amicizia/innamoramento con Lele, ritratto alcune volte in un problematico rapporto con la sua ragazza, che però non diventa mai un contraltare del narratore. L’omosessualità come soggetto narrativo è stata subito messa in evidenza dalle recensioni al romanzo, che spesso, a volte riprendendo un gioco di parole tondelliano che definiva “gayoso” (PP p. 16) il suo scaglione, hanno utilizzato nei propri titoli l’ambivalenza fonico-semantica o più semplicemente la parola “gay”. Alcuni esempi, Viaggio nella gay-caserma, Per il gay non c’è noia nella naja, Naja gayosa naja, Gaya era la naja, In cento pagine la ricetta per rendere gaya la naja, Quando il gay diventa militar-soldato, ai quali si può aggiungere, come variazione sul tema, Si dice frocio ma si scrive omosessuale, rivelano appunto l’assunzione - evidentemente come dato destinato a colpire l’attenzione - dell’omosessualità quale elemento trainante del titolo.7 A dispetto di ciò, la critica - come fa notare Panzeri8 - si orienta sostanzialmente verso altre tre direzioni, omogenee rispetto ad Altri libertini, nei confronti del quale non si evidenziano variazioni di rilievo. Un primo aspetto ad essere considerato è il carattere documentario della scrittura tondelliana, la sua validità come indagine “socio-antropologica sui giovani d’oggi di cui qui viene presentato almeno un campione significativo”.9 Sotto questo punto di vista, viene contestata a Tondelli la scarsa attenzione al servizio militare come momento traumatico, vale a dire la scelta di privilegiare nella narrazione il motivo della tessitura dei rapporti interpersonali. Una seconda linea interpretativa riprende l’interesse verso il linguaggio tondelliano, che era stato una delle componenti più apprezzate dell’opera d’esordio, ponendo l’attenzione sull’accelerazione sfrenata del ritmo narrativo e sulla costruzione di un gergo

7 Si danno i riferimenti bibliografici completi degli articoli citati: F. Piemontese, Viaggio nella gay- caserma, “Il Mattino”, 5 novembre 1982; A. Giuliani, Per il gay non c’è noia nella naja, “La Repubblica”, 16 novembre 1982, poi confluito col titolo Naja gayosa naja in Id., Autunno del Novecento. Cronache di letteratura, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 172-175; C. Barbati, op. cit.; Se. Tr., In cento pagine la ricetta per rendere gaya la naja, “Stampa sera”, 16 dicembre 1982; R. Cantini, Quando il gay diventa militar-soldato, in “Epoca”, gennaio 1983; F. Gnerre, Si dice frocio ma si scrive omosessuale, “Il Manifesto, 25 novembre 1982. 8 Le osservazioni di Panzeri sulla “fortuna critica” di Pao Pao sono contenute nel più volte citato F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 106-110. 9 F. Piemontese, Viaggio nella gay-caserma, cit.

128 che, rispetto alla “creatività dei tardi anni Settanta” non si può più intendere come “pura mimesi”, ma che diventa un “parlato [...] liberamente reinventato”.10 Il terzo punto riscontrato “è il richiamo ad una parentela arbasiniana”11, soprattutto sul fronte della costruzione dei personaggi, che divergono però dal modello “per non allontanarsi troppo dalle certezze corporali [...] alimentate senza tregua da due grandi risorse: la droga e l’amore”12. Il tono con cui queste “due grandi risorse” vengono utilizzate dimostra una sapiente capacità di dominio della materia trattata: “Tondelli [...] non abdica a un certo decoro letterario, riuscendo a fonderlo assai bene con gli inevitabili inserti dialettali e gergali, con l’ebbrezza di filastrocche e tiritere”13. Sostanzialmente, l’appunto maggiore che viene fatto al romanzo, o meglio, il motivo fondamentale su cui convergono gli strali critici, è la mancanza di una maggior “profondità critica” nell’indagine sugli effetti di “un anno di destrutturazione fisico-psicologica”14, il fatto cioè di non trasformare il libro in un’inchiesta sulle caserme e sui militari di leva. Si rimprovera a Tondelli di risolvere l’impatto con l’istituzione nei rapporti, d’amore e d’amicizia, che inevitabilmente si stringono durante il servizio militare, e di spostare su questo piano la narrazione: L’istituzione militare è attraversata da un fremito di intrecci amorosi, rabbie, nevrosi, vitalismo dei protagonisti. Un vitalismo anche di pensieri, [...] debole denuncia [che] si risolve in disperazioni e isolamenti, in petting e limonate con innamorati/e [...] Libro falsamente alternativo, è solo un veloce schizzo di ciò che realmente è la repressione al bromuro15

Tondelli aveva previsto questo genere di critiche, anticipando alcuni chiarimenti sul romanzo in un’intervista del 5 novembre 1982, nella quale presentava Pao Pao: La storia si svolge durante l’anno di naja [...] ma non è un libro “sul” servizio militare. E’ semplicemente la storia della vita quotidiana di questi ragazzi, che si scontrano con l’istituzione militare ma riescono ugualmente a trovare degli spazi personali di gioco e di divertimento [...] Anche se di riflesso vengono affrontati alcuni problemi inerenti alla vita in caserma, come la violenza e le situazioni repressive, il libro punta sostanzialmente sul privato, sugli affetti e le amicizie che nascono e si sviluppano tra i protagonisti.16

Successivamente Tondelli ha preso spunto dalle recensioni a Pao Pao per sviluppare ulteriormente le affermazioni precedenti, premettendovi la constatazione della legittimità di ogni critica, “perché nessuno può detenere il ‘senso’ di un romanzo, tanto meno chi lo

10 A. Rollo, E dal gergo dei giovani uscì un romanzo, “L’Unità”, 25 novembre 1982. 11 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 108. 12 R. Barilli, Il libertino in caserma con Celine, “La Stampa”, 27 novembre 1982. 13 Ibidem. 14 S. Medici, Che bello quando ero soldato, “Il Manifesto”, 25 novembre 1982. 15 A. De Nando, Pao Pao,, in “Logos”, dicembre 1982. 16 A. Malavolti, Pier Vittorio Tondelli parla del suo “Pao Pao”, “Il Resto del Carlino”, 5 novembre 1982 .

129 scrive”. Tondelli insiste sulla concezione della letteratura come comunicazione di “uno scarto nella mia visione delle cose e del mondo”, interpretabile in termini di arricchimento. Giustifica poi l’affermazione sulla legittimità di ogni critica con l’impossibilità di rintracciare “il senso di un romanzo [...] nell’orizzonte della contemporaneità” e procrastina un giudizio definitivo ad un tempo futuro che possa valutare l’opera “nel taglio diacronico che attraversa e infila i vari sensi stratificati o sedimentati nel corso del tempo”. Fornisce poi delle informazioni sulle intenzioni di scrittura che stanno alla base di Pao Pao: Tutta la storia raccontata altro non è che il resoconto della vita di una piccola tribù - come si diceva nel 1977 - che si trova a campare in un territorio straniero. E quindi il fatto che la trama si svolga tra le caserme della patria e dentro divise dell’esercito costituisce solo l’atmosfera, il contenitore, l’occasione narrativa. Il vero romanzo è proprio quello più generale della vita di un gruppo intorno all’istituzione, dentro fuori o laterale. [...] La storia gay di Pao Pao funziona così come storia quotidiana di una tribù [...] nella lotta di sopravvivenza nel mondo. [...] Assumendo il giro gay, ho voluto raccontare di un modo di sopravvivenza non capitolato e non ghigliottinato dai tempi. Ho voluto raccontare la vitalità, il divertimento, le angosce, le frenesie di una piccola tribù che attraversa un territorio ostile senza frontiere. Per cui, alla fine, Pao Pao è anche un romanzo che parla dello svacco della nostra generazione, ma soprattutto che racconta un modo di uscirne.17

II.2 L’istituzione e la mitobiografia.

Le considerazioni di Tondelli sui contenuti di Pao Pao motivano l’assunzione dell’omosessualità come situazione narrativa e la “generazionalità” del romanzo, ma, soprattutto, illustrano il tema principale su cui il romanzo si fonda, vale a dire il rapporto con le istituzioni da parte di un gruppo che, rispetto ad esse, si colloca in posizione di estraneità, a volte di contrasto. E’ una posizione che nasce dall’alternatività degli ultimi anni Settanta, ma che si ripropone, nel corso della produzione tondelliana, secondo variazioni tematiche che globalmente tendono a fornire una tipologia delle varie istituzioni con cui l’individuo, nella prima fase della narrativa di Tondelli inserito in un gruppo, si viene a confrontare. In Altri libertini il motivo prendeva una connotazione talmente generale da non aver bisogno di essere specificato in maniera ulteriore. Le modalità del rapporto tra i protagonisti delle sei storie e le istituzioni sono implicite nell’assunzione degli ambienti narrativi: i

17 P.V. Tondelli, Post Pao Pao, in “Babilonia”, 1 gennaio 1983, ora anche in Id., L’Abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 11-13.

130 personaggi di Altri libertini sono tutti, per vari motivi, vincolati ad un contesto di marginalità, spesso anche di extra-legalità. I rappresentanti dell’istituzione, nelle varie forme in cui viene presentata, sono per costituzione in posizione di contrasto nei confronti dei protagonisti. In Pao Pao, Tondelli riprende le riflessioni sulla globalità dell’istituzione, al momento dell’ingresso in caserma: Potrei essere a lavorare, in carcere, in colonia o a scuola, è la stessa storia, esattamente identica, che c’è di diverso fra un capitano e un capufficio, un professore e un maresciallo? Nulla. Sempre nell’istituzione, sempre gente a controllarti, sempre dover rendere conto, non sono mai stato libero e non lo sarò mai (PP p. 13).

In questo senso, la scuola di Altri libertini era un’anticipazione della caserma di Pao Pao, che allo stesso modo ha valore non tanto in se stessa, ma per quello che rappresenta: un’istituzione con la quale l’individuo si viene a rapportare nella medesima maniera, dalla quale si sente privato della sua libertà e nei confronti della quale assume sempre una posizione di lateralità che si risolve in un rifiuto.18 A ribadire la stretta parentela tra la produzione narrativa e gli scritti giornalistici, le stesse considerazioni compaiono in un coevo articolo: Caserma, quindi, né più né meno di un monastero, di una scuola, di un carcere o di un collegio. Quel che vale è il concetto di istituzione totalizzante e chiusa; quel che conta è il trovarsi obbligati lì.19

L’istituzione si estende non solo in senso spaziale, ma soprattutto in senso temporale, coinvolgendo elementi propri di età differenti: colonia, scuola, caserma, lavoro, carcere. Questa estensione assume un valore particolare durante l’anno passato sotto le armi, in quanto l’attenzione alla temporalità diventa spasmodica in quel frangente, dove i giorni sono scanditi da un ossessionante conto alla rovescia (“scalare i mesi”- PP p. 12) e dove la stessa posizione del soggetto ha un riferimento immediato con la sua “anzianità”.

18 Tondelli aveva fornito un’esemplificazione del concetto di scuola come istituzione in Viaggio, quando il narratore, tramite l’amico Gigi, collabora - come si è visto - ad un progetto sulla storia del quartiere con i bambini di una scuola elementare. E’ una collaborazione destinata a naufragare nell’intolleranza suscitata dall’omosessualità del narratore, che, dopo un breve colloquio col direttore didattico della scuola, si vede costretto ad interrompere il suo lavoro. Nelle considerazioni relative alla “strada per cambiare la scuola” (AL p. 120), emergono le posizioni del movimento del ’77 - richiamato in un accenno all’occupazione universitaria del febbraio-marzo a Bologna - la critica alla scuola come istituzione totalitaria e la necessità di associare l’esperienza di vita allo studio. Il modello del confronto/scontro con l’istituzione ritornerà anche in Rimini, nella figura dello scrittore in crisi Bruno May, che prenderà come controparte l’istituzione letteraria, nella forma del premio letterario, istituzione nei confronti della quale lo scrittore ha un atteggiamento di rifiuto e al tempo stesso di frequentazione: come i personaggi dei precedenti romanzi, sa che il rapporto con l’istituzione è inevitabile e che anche il suo rifiuto non è che una modalità dell’esservi immersi. 19 P.V. Tondelli, Partir soldato, in “Linus”, dicembre 1982, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp.149-151.

131 Tondelli evita un’insistenza particolare sul fatto, sovrapponendo alla vita di caserma il gioco delle interazioni tra i soggetti che vi fanno parte, dedicando così alla falsata percezione del tempo spazi piuttosto episodici, generalmente collegati al primo periodo di vita militare, quando lo spiazzamento è maggiore e l’individuo non si è ancora ben inserito nell’intreccio delle relazioni che gli consentono di ricrearsi una propria nuova socialità. Il rapporto con l’istituzione, così, anche attraverso l’assimilazione del nuovo ambiente (”allungare e protendere la propria storia per inscenarla lì” - PP p. 14) determina una progressiva ridefinizione di se stessi, che diventa un fatto anche esteriore nell’obbligo di assumere delle vesti nuove. Il momento della vestizione prende perciò un forte valore simbolico, l’assunzione della divisa diventa l’esternazione di un rito di passaggio, che il soggetto non può superare senza contraccolpi. Davanti al magazzino vestiario, il narratore misura il senso della sua nuova esperienza, che viene percepita nei termini di perdita del proprio io: Lì davanti a quel magazzino scuro e buio come un inferno insieme a una cinquantina di ragazzi ho davvero, per un istante, il senso della tragedia, che non ci sono più io, che non ci sono mai stato; io me ne sono andato e dove non lo so (PP p. 24-25).

Pao Pao non è però un testo tragico, il suo tono è sostanzialmente scanzonato, e Tondelli isola subito le riflessioni del narratore, dedicando il lungo paragrafo successivo alla descrizione della vestizione dei soldati, una scena fortemente espressiva e non priva di risvolti comici, nella quale “frotte” di giovani simili a dannati di dantesca memoria, descritti nei lineamenti di maschere stravolte, si accingono a passare l’Acheronte della vestizione, in un ritmo frenetico dove risaltano l’uso dell’accumulazione caotica e l’adozione del parlato, scena che trova il suo acme nella creazione del personaggio della sarta, consueto bozzetto tondelliano tra caricaturale e grottesco: C’è dunque una signora molto decisa nell’aspetto, sui cinquanta e passa, grassotta, occhialuta e kapò che ficca le mani dappertutto, stropiccia i bicipiti [...] e corre come un’ossessa tra un séparé e l’altro [...] pianta spilli e aghi dappertutto [...] strapazza coglioni, tira giù braghe e mutande e sempre ride e sempre scherza, bel fagotto caro mio [...] si dedica a tutti, cinquanta ragazzi in un colpo solo, ha la tetta trionfante di spilli, lo chignon ispido di forcine, un lapis mangiucchiato tra i denti, occhiali con la catenella, scrive, detta, stoccazza, le sue mani cicciottelle arrivano dappertutto e che fortuna la tua ragazza cocco, quanta roba (PP p. 27-29).

Ciò non toglie che lo sconforto del cambiamento è reale e la sua percezione tale da provocare similitudini ultraterrene: la fase che sta per cominciare sembra qualcosa di esterno alla vita, che non può essere descritto nei consueti termini della quotidianità. L’assimilazione all’inferno è il processo che inizialmente identifica il cambiamento: l’entrata nell’esercito è un arrivo “nella bolgia” (PP p. 9), la scelta di giungere in caserma di mattina presto, prima del risveglio dei soldati, diventa un “sono entrato in purgatorio e non

132 all’inferno” (PP p. 10), il magazzino della vestizione è “scuro e buio come un inferno” (PP p. 25). I termini che più simboleggiano la nuova condizione sono quelli consueti della mancanza di libertà, che diventa percepibile nel momento in cui rimane presente una possibilità di confronto con la realtà esterna: Io guardo al di là della finestra sbarrata. Scorgo un signore che esce di casa col cagnolino al guinzaglio. Ho il primo spiazzamento da che son partito, dico vedi, tutto questo per un anno non sarà tuo, non ci saranno spese o compere da fare, non ci sarà libertà di andare e vagare, non ci sarà mai un gesto così automatico e per questo così immensamente libero e slegato e autonomo come quello di quel signore che si sta aggiustando il cappello, che sorveglia il barboncino, che esce a passeggio (PP p. 15).

La ridefinizione di se stessi è dunque il primo necessario atto che il soggetto deve compiere per affrontare l’ingresso in un mondo nuovo, e così l’impatto con la vita militare prende il carattere di una ricostruzione: Dovevo [...] distribuire attorno i pezzetti del mio dissennato senso come in un giochetto di costruzioni (PP p. 14).

E’ un atto che, analizzato nella sua totalità, prende un carattere più complesso: il rapporto con l’istituzione determina una duplice ridefinizione del soggetto, poiché a quella che il soggetto stesso si trova a fare, corrisponde quella che l’istituzione fa del soggetto una volta inglobatolo. Il rito di passaggio, esemplificato dall’assunzione di vestiti diversi, viene anticipato dalla raccolta di informazioni sul personaggio da parte dell’istituzione, operazione che viene percepita nel testo come “una storiaccia nauseabonda di definizione del tuo te” (PP p. 21): Tutta un’intervista curiosissima e indiscreta, se prendi droghe, se bevi, se hai malattie veneree, se suoni uno strumento musicale, se sai le lingue estere, che professione fai, quanti fratelli, quante sorelle, quante zie cugine nonne e bisnonne. Che scuola hai fatto, sei vergine davanti o dietro, sai usare la macchina per scrivere, sai avvitare un rubinetto, potare un giardinetto, sai far questo e sai far quello, un uovo al tegamino o un tè al gelsomino [...], credi in Dio o nella Madonna, nel Karma o nel tuo presente dharma, in Santa Romana Chiesa o in San Silvestro. Sei comunista o sei fascista (PP p. 21).

Si ritrovano le particolarità della lingua tondelliana, dall’andamento anaforico all’uso della rima all’accumulazione caotica che diventa “mimesi del caos in cui si trova la caserma all’arrivo dello scaglione di reclute”20, e mimesi della condizione in cui si trova la recluta al suo arrivo in caserma.

20 A. Canobbio, Piccolo Abbecedario delle Occasioni perdute (Per Arginare l’Oblio) ,in “Panta”, 1992, n. 9., pp. 38-48.

133 Una simile duplicità impronta l’intero processo della definizione, che è sì ridefinizione di sé da parte dell’individuo e definizione dell’individuo da parte dell’istituzione, ma al tempo stesso è anche definizione dell’istituzione da parte dell’individuo. Il processo di superamento del rifiuto dell’istituzione, tramite una progressiva rassegnazione, ne determina infatti un’altrettanto progressiva evoluzione, che si esprime in una continua ridefinizione verbale: all’inizio la caserma viene percepita come “bolgia” (PP p. 9), con una metafora infernale che ne evidenzia il carattere ultraterreno; poi, passando per “macello di disperati” (PP p. 17), diventa “carcere” (PP p. 19), con una specificazione quindi che punta sulla privazione della libertà ma in un contesto terreno; da ultimo, l’ambiente militare viene denominato “limbo indefinito” (PP p. 20), superando concetti relativi al rifiuto dell’istituzione e focalizzando l’attenzione sulla ricerca di una propria nuova collocazione nel mondo che si sta per affrontare. Ad ogni modo, il superamento dei problemi che il rapporto con l’istituzione può creare si realizza nella comunicazione con gli altri. Contemporaneo alla ridefinizione di se stessi è infatti l’atteggiamento di “aprire gli occhi e guardare e curiosare e allacciare immediatamente sguardi di complicità” (PP p. 14). La via d’uscita - programmatica nel narratore - è la coscienza della socialità dell’individuo: Ero molto calmo in quell’ingresso di naja, e forse ingenuamente anche un po’ contento per il fatto che avrei conosciuto gente nuova e forse bella e che quindi sarebbe stato come sempre un anno con i suoi dolori, ma anche con i suoi amori (PP p. 12).

La soluzione diventa così l’ingresso dell’individuo in un gruppo - una tribù - interno all’istituzione ma al tempo stesso laterale, che la possa sostituire come riferimento di quel periodo e alla quale possa essere sempre associato, in modo da controbilanciare i momenti più negativi. E’ importante, nel primo Tondelli, la costante della creazione letteraria di un gruppo all’interno del quale il narratore si colloca, perché questa posizione condiziona fortemente i rapporti che egli viene ad avere con il resto del mondo. In Pao Pao si crea un circuito chiuso costituito dai membri del gruppo e dagli ambienti da essi frequentati, che diventa il mondo narrativo del romanzo. Tutto quello che è esterno a questo circuito, vale a dire la vita all’infuori della caserma e delle interazioni affettive che vi si determinano, è esterno anche al romanzo e non vi entra se non tramite brevi accenni. E’ per questo che eventi storici anche importanti di quegli anni non ricevono lo spazio che sembrerebbe loro dovuto.21

21 Bisogna precisare che questo atteggiamento è comune all’intera narrativa di Tondelli, nella quale non compaiono - tranne nel caso che si va ora ad esemplificare - accenni alle stragi di stato o al terrorismo rosso, sul quale viceversa si esprime brevemente all’interno di articoli giornalistici, peraltro di

134 L’esempio più evidente è la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che entra nella narrazione determinando alcune considerazioni del narratore sulla storia patria (Vajont, Piazza Fontana, Piazza della Loggia), che si trasformano subito in riflessioni sul proprio “disastrato senso globale” e sul processo di crescita determinato dalla consapevolezza di avere “anche noi dei pezzi di storia tragica che abbiamo visto svolgersi ora dopo ora e continuare a svanire e sedimentarsi nel ricordo e cambiare” (PP p. 113- 114). L’indicatore dell’estraneità sostanziale del fatto alla narrazione è la scelta, da parte di Tondelli, di collocare nella stessa serata il ritrovamento, tre mesi dopo, di Lele, primo e più importante amore del narratore nell’anno di servizio militare. Significativamente, la storia privata prevale sulla Storia pubblica, e la momentanea apertura verso l’esterno causata da un fatto del quale non si poteva tacere viene subito richiusa dalla ricomposizione del circuito originale della narrazione. Anche da un punto di vista sintattico Tondelli evidenzia il momento che determina il prevalere del personale sulla Storia, utilizzando una congiunzione avversativa ad inizio di paragrafo per contrapporre i due tratti: Il fatto di Bologna con quelle cento e più storie distrutte ci atterrì (PP p. 113).

Ma quella sera del due agosto 80 è stata anche la sera in cui ho rivisto il mio Lele (PP p. 114).

Così, ben maggiore è lo spazio che trova nel testo, proprio in quanto momento narrativo vissuto dai protagonisti, il grande happening dell’Estate Romana, col festival dei poeti a Piazza di Siena “con stelle e pianeti del vecchio underground americano e della new wave italiana” (PP p. 102). E’ l’occasione per un omaggio narrativo alla beat generation, personificata dall’immagine di Allen Ginsberg e soprattutto dall’incontro e dal breve colloquio con William Borroughs, ma è anche l’occasione per registrare il clima di inventività e di festosità giovanile sul quale Tondelli si era già soffermato in precedenti scritti giornalistici. Tra luglio e settembre 1980, infatti, erano usciti su “Il Resto del Carlino” tre reportage di Tondelli sull’Estate Romana22, che rappresentano una versione giornalistica di materiale narrativo poi confluito in Pao Pao, offrendo così l’occasione per un interessante confronto tra invenzione romanzesca e riuso di materiale autobiografico. Mentre infatti i personaggi romanzeschi che impersonano “il grande festival dell’arte di arrangiarsi”23, con improvvisati commerci enogastronomici, trovano un preciso riscontro nei servizi giornalistici, come pure “la musica [che] usciva dai tombini delle fogne, le piazze

argomento letterario, con considerazioni che investono non tanto le scelte ideologiche quanto il piano sociale. Si veda per esempio P.V. Tondelli, Nei sotterranei della provincia, cit. 22 P.V. Tondelli, Rumori d’artista, “Il Resto del Carlino”, 29 luglio 1980; P.V. Tondelli, Così muore un’estate a Roma, ivi, 12 settembre 1980; P.V. Tondelli, Spaghetti in Piazza Farnese, ivi, 16 settembre 1980, poi confluiti in Id., Un Weekend Postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 36-46. 23 P.V. Tondelli, Spaghetti in Piazza Farnese, cit.

135 [...] lavate con detersivi e schiume di diverso colore e soprattutto odore” (PP p. 102) ed un evento tragico come l’uccisione di Alberta Battistelli da parte della polizia24, è una pura invenzione artistica l’incontro con Borroughs, che peraltro risulta presente a Piazza di Siena (“Ginsberg, Orlovsky, Borroughs e Gregory Corso che saltellavano a Piazza di Siena come autentiche e consapevoli star”25). Questo brano esemplifica assai bene la costruzione tondelliana di una mitobiografia, facendo vedere come il riuso di momenti biografici subisca una trasformazione nella sua restituzione letteraria, così da istituire un filtro tra realtà e romanzo, soprattutto quando la finzione romanzesca contempla l’uso della narrazione in prima persona. E’ un filtro che però non è sempre di immediata percezione, dal momento che le scelte testuali concorrono fortemente a creare una possibile identificazione tra autore e narratore, che per essere meglio chiarita ha bisogno di strumenti che vadano oltre il testo stesso, come appunto il confronto con altri scritti tondelliani. E’ un problema che ha accompagnato la scrittura tondelliana fin dall’esordio, vuoi per il forte realismo che la caratterizza, vuoi per l’effettiva trasposizione in essa di situazioni autobiografiche. Inoltre, a complicare le cose, subentra una certa volontà di identificazione dell’autore col suo prodotto: Altri libertini è un libro completamente “falso” [...] e non c’è niente di autobiografico [...] Sono storie di altri che ho scritto con il desiderio di viverle.26

Scrivo per l’insopprimibile bisogno di mascherarmi in una storia di cui vorrei far parte.27

La “generazionalità” stessa delle opere comporta una problematica di questo tipo, giustificata dalla volontà dello scrittore, al di là di ogni riferimento autobiografico, di fornire un’immagine, per certi aspetti un documento, di un preciso periodo così com’era vissuto da una determinata fascia giovanile. Questo non toglie che, nonostante le difficoltà che possono presentarsi al lettore, Tondelli sia ben conscio del carattere letterario della sua opera, del fatto che scrive romanzi e non un’autobiografia:

24 Anche in questo caso, come per la bomba di Bologna, la notizia reale viene subito assorbita nella struttura del romanzo; anzi, in questo caso in misura maggiore, diventa occasione narrativa, contrassegnata dal medesimo “ma” all’inizio della frase successiva: “troppa polizia municipale che proprio in quei giorni trucidò sotto i nostri occhi terrorizzati una ragazza, in Santa Maria di Trastevere, lei su una cinquecento scassatissima e loro dietro, come in un film, e noi [...] si fuggì giù per Via della Scala fino a raggiungere Porta Settimia e rintanarci lì in quella birreria che poi sostituì la piazza ormai definitivamente bruciata. Ma a Piazza di Siena bevevamo come matti” (PP p. 103). 25 P.V. Tondelli, Spaghetti in Piazza Farnese, cit. 26 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 47. 27 Ivi, p. 44.

136 Si potrebbe parlare anche di un processo di [...] attivazione della menzogna. Quando scrivo un romanzo, io creo un falso, nel senso che il punto di partenza sono altre storie, altre narrazioni, altre trame.28

La trasposizione di elementi reali della vita nel testo è ad ogni modo un procedimento costante nella produzione tondelliana, del tutto slegato dalla costruzione di personaggi nei quali riflettersi, come si può ben vedere in Rimini, dove Marco Bauer, di difficile identificazione con lo stesso Tondelli, possiede una Rover, automobile che Tondelli ha in effetti posseduto.29 Ecco quindi che anche l’elemento a prima vista banale della realtà entra, tramite la sua trasfigurazione artistica, a far parte della costruzione del personaggio letterario. In Pao Pao la coincidenza di storia ed autobiografia è particolarmente elevata, dal momento che situazioni, ambienti e personaggi sono presi a piene mani dalla vita reale.30 Diventa così veramente difficile reperire il confine tra invenzione e realtà, anche perché spesso gli stessi personaggi sono presenti negli scritti giornalistici, con le medesime caratterizzazioni del romanzo: Lele compariva già, “con i suoi quasi due metri di tranquillità serafica e imperturbabile saggezza”31, in uno degli articoli scritti per “Il Resto del Carlino”, e ritorna ora in Pao Pao, “alto un metro e novantasette [...], con una serenità assolutamente orientale e un imperturbabilità del tutto zen” (PP p. 16-17). Allo stesso modo, un altro commilitone, Renzu, viene nominato in un articolo del 1981, in cui si parla di una sua lettera: “Per quando torno a casa c’è il progetto di tirar su un gruppo di sabotatori terroristi punk [...] GANGWAY, una cosina alla Clash prima maniera, tutto qui” Ho comprato questo libro perché [...] ho sperato che parlasse pure di Renzu [...] e mi desse notizie visto che non ne ho più 32

In Pao Pao ritorna con le stesse caratterizzazioni: gusti musicali, “Clash sempre Clash che poi vedremo insieme a Bologna” (PP p. 79) e rapporto epistolare, “Renzu che continuerà a mandarmi le sue lettere incazzatissime di odio contro tutto e tutti, università, denaro e polizia, Renzu che non ho più rivisto” (PP p. 99-100). Ad ogni modo non ha una grande importanza stabilire i precisi confini dell’ispirazione tondelliana, quanto osservare che è anche traendo spunto dalla storia privata che Tondelli

28 Ivi, p. 45. 29 “Quando [Andrea Pazienza] mi vide alla guida di una Rover, la sua stima nei miei confronti raggiunse il culmine”. P.V. Tondelli, In punta di matita, cit. 30 Questo aspetto non ha mancato di suscitare interrogativi nei critici, uno per tutti A. Giuliani: “Vorremmo gridare a Tondelli: perché non provi a trovare un punto d’appoggio fuori dell’autobiografia?” A. Giuliani, Per il gay non c’è noia nella naja, cit. Il successivo romanzo di Tondelli, Rimini, sembra essere una buona risposta all’interrogativo di Giuliani. 31 P.V. Tondelli, Così muore un’estate a Roma, cit. 32 P.V. Tondelli, Parliamone, scriviamone, “Il Resto del Carlino”, 16 dicembre 1981, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 288-290.

137 riesce a costruire un prodotto realistico. Semmai va notato che la diversa situazione sociale ed il soggetto consentono un più elevato ripescaggio autobiografico rispetto ad Altri libertini, per il quale invece si può eventualmente parlare di autobiografia collettiva nella trattazione di miti, ambienti, situazioni che più che personali sono generazionali. Sicuramente Pao Pao è un libro che prende molto dall’intimo del suo autore, ma altrettanto sicuramente è un prodotto che non fa alcun mistero della sua letterarietà, dal momento che è proprio attraverso il suo esplicito carattere romanzesco che si rende possibile il recupero narrativo della realtà.

II.3 Alcuni precedenti: Pascutto, Celati, Tondelli.

Pao Pao assume un’ambientazione militare, collocandosi così in un filone romanzesco che ha una tradizione ricca e stratificata, con la quale peraltro il libro di Tondelli si confronta in maniera piuttosto debole. Al di là infatti di elementi tipici come l’uso della prima persona in funzione memorialistica e l’alternarsi di momenti narrativi e di riflessioni del narratore33, i riferimenti di Tondelli sono altri, spesso neppure letterari. Dietro Pao Pao si intuiscono prodotti ben più recenti, suggestioni cinematografiche americane, in primo luogo M.A.S.H. di Altman, film-inchiesta sul servizio militare, fanzine underground sulle tecniche di sopravvivenza in caserma (le guide di “Stampa Alternativa” e di “Re nudo”, per esempio), e più in generale un diverso atteggiamento verso l’esercito che riflette le conseguenze della contestazione antimilitarista degli anni Sessanta. Ad ogni modo ci sono dei testi letterari che si collocano come precedenti del libro di Tondelli o nei confronti dei quali Pao Pao è in qualche maniera tributario. Nel 1976 viene pubblicato Milite ignoto, romanzo d’esordio di Giovanni Pascutto, che “racconta da un punto di vista tutto interno la psicosi persecutoria di un servizio di leva mai accettato e conclusosi nel reparto psichiatrico dell’ospedale militare”.34 Al di là di occasionali coincidenze stilistiche, come un narratore anonimo in prima persona protagonista, e di una inevitabile ambientazione simile - la caserma ma anche l’ospedale militare - sono due opere estremamente diverse. Quello di Pascutto è un libro onirico, surreale, a volte fortemente critico verso le Forze Armate, ugualmente identificate come istituzione totalitaria, privo del realismo che

33 Potrebbe essere interessante, a questo proposito, un’analisi dell’evoluzione del concetto di gruppo all’interno della vita militare, anche alla luce di alcuni riferimenti che Tondelli fa, inerenti a tale argomento, alla letteratura memorialistica sulla prima guerra mondiale. cfr. P.V. Tondelli, Ufficiali e gentiluomini, in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., pp. 152-170. 34 S. Tani, op. cit., p. 55.

138 caratterizza Pao Pao, libro che, quando supera le soglie della realtà, lo fa generalmente tramite l’adozione del grottesco e l’esagerazione. D’altra parte, l’analogo narratore in prima persona ha una definizione molto diversa, dal momento che il libro di Pascutto è assolutamente monocorde, ha una focalizzazione fissa sul narratore senza mai seguire le gesta degli altri personaggi - assai rari del resto - che con lui vengono ad interagire. Viceversa, l’io narrante di Pao Pao non priva il romanzo di una certa polifonia, accentuata dall’alternarsi nel testo di un gran numero di personaggi che intervengono in una storia che è anche la loro. Tondelli realizza in Pao Pao la volontà di seguire attraverso la voce del narratore la storia di un gruppo e non di una sola persona, cosicché se si possono ritrovare occasionali punti di contatto tra i due narratori, sono di norma delle caratteristiche generazionali, indice di un comune modo di sentire tra giovani appartenenti sostanzialmente alla stessa epoca di contestazione.35 Il contatto tra i due romanzi va quindi cercato nella medesima percezione dell’istituzione come totalitaria e al tempo stesso produttrice di regole incomprensibili. Emblematico della differenza tra le intenzioni degli autori il modo in cui si cerca di risolvere il rapporto con le istituzioni: l’ospedale militare in Milite ignoto e la socializzazione con gli altri in Pao Pao. Proprio l’ospedale militare, che compare in entrambi, rende evidenti le due diverse posizioni: per il protagonista del romanzo di Pascutto è l’occasione per concludere anzitempo la sua sofferta relazione con l’esercito, nonché l’ambiente che divide con la caserma lo spazio testuale; in Pao Pao il soggiorno al Celio è una parentesi che diventa l’occasione per variazioni stilistiche che vanno dall’uso anomalo del polisindeto: prenderò da lui questo vizio e me lo cullerò quando starò veramente male e solo e in altre situazioni con gente diversa e nuova, allora riempirò la mia pipa con una sigaretta liscia e fumerò lento e grave e pensoso e sarà anche meglio che tirarsi un cannone (PP p. 32),

all’anafora: non gliele faccio a starmene in questo carcere silenzioso dove non si odono rumori di traffico, dove non arrivano né voci né lamenti, dove i ricoverati girano come androidi appestati (PP p. 32),

all’accumulazione caotica insistita che, con varie modalità, continua per ben ventidue righe: pare ne abbiano strapazzate insieme più di quelle disponibili sulla faccia della terra. Insomma proprio tutte: madri e figlie, danesi, inglesi, sassoni, slave, ceche, spezzine, calabresi, greche, amatriciane, carbonare [...] le gemelle siamesi, le mongoline di

35 Anche se ci sono sette anni di differenza tra Tondelli e Pascutto - nato nel 1948 - e sei tra i due romanzi, un’associazione generazionale tra i due autori sembra giustificata da un simile clima di formazione culturale e dal fatto che la prima narrativa tondelliana è fortemente tributaria della contestazione di fine anni Settanta, epoca a cui il romanzo di Pascutto fa riferimento. Inoltre è praticamente analoga l’età degli autori al momento della pubblicazione dei romanzi: ventisette anni per Tondelli, ventotto per Pascutto. Tondelli ha il vantaggio, scrivendo nel 1982, di poter storicizzare meglio il narrato, il che consente un tono scanzonato difficilmente riscontrabile negli anni Settanta.

139 Mongolia, le passere comuniste, fighe cinesi, fighe dissidenti, tutte, tutte, di sotto e di sopra, di lato e di fianco [...] negli ascensori, nelle cabine, nelle ritirate, in treno, in autostop [...] bambine, lattonzole, segretarie, commesse, dottoresse, supplenti [...] negli ospedali, nelle corsie, nelle scuole, nelle autoscuole [...] con la sarta e la badessa, ballerine e ciclopesse, femministe e lesbicone, scompensate, rifugiate [...] insomma questi due li guardi in faccia e vedi una figa al posto del cervello che si illumina e s’accende in mille watt (PP p. 36).

Alla fin fine, l’attenzione spasmodica agli effetti del linguaggio monopolizza il testo e fa passare in secondo piano le considerazioni che pure il narratore fa sull’ospedale militare come esempio di “quello che avrebbe potuto fare di te il militare se l’avessi presa male”36: I ricoverati girano come androidi appestati nelle loro sacche di fustagno marron, strascicando i piedi dai calzini biancolerci, facce bruffolose, gambe rotte, barbe incolte, tutto un abbruttimento e una sconcezza (PP p. 32).

In un certo senso, il protagonista di Milite ignoto viene inglobato nel romanzo di Tondelli e ne diventa uno dei tanti personaggi, una figura narrativa che - quasi a ribadire il carattere scanzonato di Pao Pao - troverà uno spazio maggiore, privata di sovrastrutture stilistiche, in un più tardo pezzo giornalistico: Drammatizzando oltre ogni ragionevolezza il servizio militare si rischia, realmente, di sfiorare la tragedia. A tutti sarà capitato di incontrare qualche esemplare di quella fauna che passa da una licenza di convalescenza all’altra [...]. Vagavano, questi ragazzi, come fantasmi nelle camerate [...] Non avevano indumenti né mimetiche né drop perché dopo qualche giorno di lontananza tutto veniva razziato. Non riuscivano a conservare, per gli stessi motivi, né un armadietto né la branda. Giravano, la sera, con un materasso e le coperte sulle spalle, in cerca di un posto libero. [...] Erano i veri paria, senza diritti, evitati da tutti.37

Lo spazio che tale figura può ricevere in Pao Pao è necessariamente ridotto, vincolato a quella breve parentesi, il soggiorno all’ospedale militare, che, percepito dal narratore come una seccatura, deve entrare nel libro in quanto parte del servizio di leva, ma, esaurita la sua valenza documentaria, non ha bisogno di essere estesa oltre le sei pagine che le vengono dedicate. La vera storia è altrove e continua, l’insistenza sul Celio avrebbe comportato un ristagno della narrazione sull’io narrante a scapito del gruppo che è il vero protagonista. Un libro nei confronti del quale - differentemente da Milite ignoto - Pao Pao è di sicuro debitore è Lunario del paradiso, di Gianni Celati, pubblicato nel 1978. A prescindere dalla struttura generale del romanzo, pervenuta a Pao Pao attraverso la stesura di Viaggio, c’è una digressione in Lunario del paradiso, relativa ai tempi del servizio di leva del narratore, dalla quale Tondelli recupera più di un elemento.

36 P.V. Tondelli, Ufficiali e gentiluomini, cit., p. 168. 37 Ivi, p. 167-168.

140 Nella narrazione di Lunario del paradiso è una breve parentesi - meno di tre pagine - in cui Celati, attraverso la storia del “piccolo calabrese Lopetuso”38 che “piangeva per l’ingiustizia fetida del mondo, che ti ruga e ti avvelena il sangue, ma non c’è niente da fare come rimedio”39, fa una requisitoria fortemente polemica, un’invettiva quasi, contro l’istituzione militare: Signori ufficiali dell’esercito italiano, voi che ci avete fatto vivere come cani o porci nei porcili [...]; che ci avete levato le porte nei cessi, perché ci scrivevamo i nostri pensieri su di voi [...] [...] Maresciallo Fagioli, ti ricordi quando cuccavi i soldi dei nostri vaglia postali, e che hai intascato i soldi del piccolo Lopetuso spediti alla sua famiglia? [...] Ti ricordi, brutto ladro, corrotto, ignorante, vigliacco, come arraffavi a man bassa anche sulle nostre decime, sotto la protezione del capitano Cometto? Capitano Cometto, ti ricordi quando [...] venendo fuori dal tuo ufficio ti sei imbestialito col Lopetuso che protestava d’essere stato svaligiato dal tuo maresciallo Fagioli, e tu l’hai cacciato in galera all’istante, poi sospese tutte le sue licenze per nove mesi? E ti ricordi quel giorno che sono andato a denunciarti al colonnello del battaglione [...] e telefonavi per avere una protezione superiore? Ti ricordi che nella fureria non mi guardavi più in faccia per disprezzo, come se fossi io l’essere corrotto [...] prima di farmi trasferire per punizione a un altro reggimento?40

In Pao Pao manca un’analoga esternazione, e la polemica, quando c’è, non si coagula in un discorso preciso e approfondito, quasi mimetizzata nel tono complessivo del libro e nella scelta della focalizzazione primaria sul gruppo dei personaggi e non sull’istituzione. E’ anche per questo che, viceversa, prendono maggior evidenza gli episodi di umiliazione compiuti dai soldati nei confronti di altri soldati, come il narratore anticipa in una considerazione precedente all’entrata in caserma che assume una valenza programmatica rispetto al libro: Benché conoscessi di queste allucinanti storie sulla vita in divisa, [...] sapevo che il rischio maggiore che avrei corso non sarebbero stati i militari ma gli stessi compagni. Con loro avrei avuto a che fare giorno e notte, ufficiali e marescialli allora non mi impensierivano (PP p. 12).

Certo non mancano considerazioni sull’istituzione e sui comportamenti che vi sono legati, ipocrisia delle apparenze, sfruttamento dei soldati di leva, assurdità delle destinazioni e così via, ma non compare una polemica così dura e diretta come in Lunario del paradiso. Compaiono invece degli elementi, già presenti in Lunario del paradiso e riutilizzati, a volte in contesti diversi e generalmente sottoposti ad una ‘moltiplicazione’, ad iniziare dal medesimo incarico che i due narratori sono chiamati a svolgere, in fureria.

38 G. Celati, Lunario del Paradiso, cit., p. 27. 39 Ivi, p. 29. 40 Ivi, pp. 29-30.

141 In Lunario del paradiso Lopetuso ad un certo punto non ce la fa più e tenta di suicidarsi sbattendo la testa contro il muro: E una notte in branda, nella caserma, mi dicevo: ma cosa fa Lopetuso? non piange più? che sia diventato matto? Non piangeva no, Lopetuso, era saltato giù dalla branda, e s’era lanciato come un bolide con la testa contro lo spigolo del muro.41

Tondelli riprende in Pao Pao questo motivo, variandolo: non è più la disperazione a spingere verso gesti inconsulti, ma l’arroganza e la rabbia dei najoni congedanti. Nella scena del congedo dell’ottavo, esemplificazione di “quel che succede ogni martedì d’inizio mese nelle nostre italiche caserme, un gruppo di ragazzi che si congeda e saluta il suo passato militare sfogando la rabbia e le amarezze e le sofferenze di dodici mesi in divisa” (PP p. 136), Tondelli inserisce, tra le bravate dei congedanti, il motivo della testata, estendendolo a parecchi dei partecipanti: Ben presto alcuni cominciano a rantolare e a vomitare a casaccio sulle brande e sui vestiti e reggersi lo stomaco e strizzarsi il cervello dio quanto mi gira la zucca, e sbattila! e sbattila! e così fan a colpi di testa contro gli armadietti, in otto-dieci son lì a dar zuccate con tutti intorno che urlano oooohhh mentre il caprone piglia la rincorsa e poi uaaahhhhh quando cozza la fronte contro il metallo grigio (PP p. 138).

Stessa ripresa, con variazione e moltiplicazione del tema, avviene per l’episodio della scrittura delle lettere. In Lunario del paradiso il narratore scriveva per Lopetuso, incapace di scrivere, le lettere alla famiglia: [Lopetuso] non era un disperato come me, piangeva di notte, ma di giorno in compagnia era la meraviglia umana assoluta. Io gli scrivevo le lettere a casa, lui sapeva leggere ma non scrivere.42

In Pao Pao è un personaggio - Alvaro, che di Lopetuso mantiene la bassa statura: “mezzo imbriaco, piccolissimo e storto nelle gambe e nel viso” (PP p. 74) - a incarnare il ruolo dello scrivano e a fare il consigliere per gli altri quando dovevano scrivere: Lui che scrive queste lettere sublimi alle sue donnine trenta-quarantenni che lo adorano e lo amano e lo ricoprono di posta e missive e regalucci. [...] Magico Alvaro che spiegava ai ragazzotti e ai picciotti come scrivere lettere, come condirle d’affetto, come farle palpitare (PP p. 83).

In entrambi i casi, il riuso del motivo celatiano è basato sulla variazione della situazione tematica e sulla sua moltiplicazione, sul fatto cioè di attribuire a più persone quello che in Lunario del paradiso valeva per una persona sola. Così i najoni che sbattono la testa diventano di più, come pure i destinatari delle lettere, mentre gli armadietti sostituiscono il muro e gli apprendisti scrittori di lettere d’amore il soldato semianalfabeta. L’aumento del numero dei soggetti è un procedimento che riporta all’esagerazione, assai

41 Ivi, p. 30. 42 Ivi, p. 31.

142 frequente nella prima narrativa tondelliana, cifra costitutiva degli aspetti sia contenutistici, come in questo caso, sia più propriamente stilistico-retorici, come nel caso dell’accumulazione caotica insistita. C’è un altro passo in Lunario del paradiso che può essere messo in collegamento con Pao Pao, ed è la lettera di saluti che il narratore riceve dai personaggi e legge sul treno che lo riporta a casa: Immantinente, a trovarmi in mano una lettera del comandante Schumacher, ci rimango stupito. Non la ricordo bene, all’incirca diceva così: caro Giovanni, noi sappiamo cosa ti è successo e ci dispiace che hai sofferto; così veniamo ad augurarti di prendere quel treno per l’Italia e di poter tornare a casa contento; noi ti ricorderemo come tuoi amici sinceri, affezionatissimo Rudolf Schumacher. Sotto c’erano le firme di Antje, Jan, la signora Schumacher, il turco, le due bambine; oltre a uno sgorbio tipo zampe di ragno, tutto spampanato, che doveva essere secondo me la firma del Tino.43

In questa maniera Celati fa una rapida carrellata sui personaggi che hanno interpretato il libro e li rende inoltre partecipi della chiusura della storia, dato che la successiva pagina finale è dedicata alla cornice relativa al momento della scrittura. Tondelli, ugualmente nel finale, opera sui personaggi una simile carrellata, collocata nel tempo della scrittura; allo stesso modo li chiama in causa un’ultima volta: Ma il viso di Renzu, colto in quel colpo d’occhio giù per Via Nazionale, resterà sempre un flash abbagliante nella mia esistenza come il corpo del mio amatissimo Lele [...] ed Enzino e Magico Alvermann e Pablito [...] e Miguel [...] e Baffina che passerà da noi [...] e Sorriso che ancora insiste [...] e Beaujean che ora sta dormendo sui libri di là, nell’altra stanza, e tutti gli altri che continuo fortunosamente a incontrare a mille miglia di distanza mentre sto scrivendo questa storia (PP p. 185).

Certo, Celati fa un uso anche più complesso della lettera dei personaggi, la collega ad un discorso che va ad investire la natura stessa del narrare e che fa da preambolo all’esortazione verso la necessità di “farsi le proprie storie” che conclude il libro, mentre la carrellata di Tondelli oltre che un riepilogo dei personaggi, consente anche, attraverso continui accenni a tempi posteriori al servizio di leva, di collegare la storia alla scrittura e di farla proseguire nel tempo; ma ciò non toglie che lo stesso meccanismo finale accomuni Pao Pao e Lunario del paradiso, testo che del resto si era dimostrato assai importante anche per Altri libertini. Prima di Pao Pao, Tondelli aveva scritto una serie di episodi di analoga ambientazione, dal titolo Il diario del soldato Acci; si tratta di dieci puntate, pubblicate a cadenza pressoché settimanale, dal 15 febbraio 1981 al 22 aprile 1981, su “Il Resto del

43 Ivi, p. 218.

143 Carlino” e su “La Nazione”, durante lo svolgimento del servizio di leva da parte dell’autore.44 Gli episodi sono per la maggior parte relativi al primo mese di vita di caserma e - anche in considerazione della destinazione giornalistica - non seguono un preciso disegno cronologico né rivelano una forte omogeneità. Illustrano la vita del soldato attraverso alcune tappe obbligatorie, l’arrivo in caserma, il giuramento, il poligono di tiro, la prima licenza e così via, in un tono prevalente da commedia, nel quale i personaggi, e il narratore per primo, si confrontano con un'istituzione - l’esercito italiano - percepita come un mondo del tutto separato dalla vita normale. Un paragone col successivo Pao Pao offre vari motivi d’interesse, tra i quali la possibilità di chiarire alcuni meccanismi del processo di costruzione, da parte di Tondelli, di una mitobiografia: la struttura del racconto, infatti, necessariamente più snella rispetto al romanzo, consente di valutare, attraverso la variazione tra i due, la portata del momento reale all’interno di Pao Pao e le sue modalità di trasformazione. Un breve esempio chiarificatore è fornito dalla scena della vestizione, che compare in entrambi i testi, con uno spazio però molto diverso. Ecco come viene descritta in Il diario del soldato Acci: mi portano, sempre scortato come un galeotto, di sopra nel magazzino, dove ritiro coperte e lenzuola e anche posto branda e armadietto. Insomma, dopo che m’hanno anche vestito e cambiato e intruppato, amici miei da ora in poi sono un soldato.45

La vestizione vera e propria quasi non compare, tanto è vero che il motivo centrale del testo diventa l’elencazione immediatamente successiva di tutto quello che d’ora in poi gli sarà vietato. In Pao Pao invece - come si è visto - la scena della vestizione occupa un intero capitoletto (pp. 24-29) ed acquisisce una forte importanza, dato che diventa l’emblema del rito di passaggio verso un’età più adulta. Nella descrizione tondelliana, il magazzino del vestiario assume addirittura fattezze d’oltretomba (“si alza improvvisa la serranda con un cigolio cimiteriale” - PP p. 25), e i soldati che ne escono sono trasfigurati, “frotte con gli occhi stravolti, le bocche affaticate” (PP p. 25). E’ un momento caratterizzato anche da un punto di vista stilistico-retorico, con un ritmo frenetico, insistito uso del parlato, citazioni non segnalate dalle virgolette e uso sistematico dell’elencazione, e trova il suo acme nella creazione del personaggio della sarta, dove Tondelli esprime al meglio il suo bozzettismo e la sua verve comica. I momenti che denotano una maggior cura stilistico-retorica nel testo, risulterebbero, dal confronto, quelli che si allontanano dal reale procedere dei fatti. Bisogna ad ogni modo

44 I dieci articoli giornalistici sono rifluiti in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., pp. 73-105; ne costituiscono la seconda parte, con il titolo appunto di Il diario del soldato Acci. 45 P.V. Tondelli, Aveva ragione il mio vecchio: qui si cambia pelle per davvero, “Il Resto del Carlino”, 22 febbraio 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., p. 80.

144 considerare che Pao Pao rivela, generalmente, una maggior attenzione formale, che ben risalta dal paragone con episodi sviluppati, anche stilisticamente, pure in Il diario del soldato Acci, come per esempio quella che Tondelli denomina “definizione del tuo te” (PP p. 21): davanti a uno molto gentile e molto calmo, io dico quando sono nato e che scuole ho fatto, dico che so parlare la lingua degli inglesi e che suono la mia Fender, dico che non ho mai fatto pere e che sono di religione cattolica, ma credo molto nella reincarnazione, nella meditazione, nel satori e nello zen e il tiro con l’arco. Credo in Siddharta e credo in Govinda, credo nel dharma e credo nel mio presente karma, ma non ho mai fatto professioni di fede. Credo in Jack Kerouac e credo in Scott Fitzgerald, credo in Peter Handke, anche se non lo trovo troppo comico, credo in Oscar Wilde, anche se era un po’ fighino, continuo a credere in Jacopo Ortis, anche se non l’ho mai studiato. Non credo invece più in Herman Hesse, anche se l’ho molto amato.46

Si riscontra il medesimo andamento anaforico (“dico che...dico che”, “credo...credo”, etc.), rilevato nell’analoga situazione, in Pao Pao, ma con una minor variazione e uno scarso uso della rima, elementi più accentuati in Pao Pao, nel quale inoltre la struttura anaforica assume un andamento binario, di contrapposizione tra due elementi (“sai far questo e sai far quello”, “credi in Dio o nella Madonna”, etc.). Anche sotto il profilo tonale i due pezzi sono notevolmente diversi, dal momento che Il diario del soldato Acci sembra puntare sul soggetto, sulla curiosità per una situazione nuova, e far uscire le parole spontaneamente dal narratore, attraverso il quale Tondelli fa un elenco di autori a lui cari47; in Pao Pao invece la focalizzazione è fissata sull’istituzione militare, sull’assurdità delle domande, che non a caso vengono definite prima “intervista curiosissima e indiscreta” e poi “storiaccia nauseabonda”, e della loro ripetitività (“le stesse domande ripetute quattro-cinque volte”), in un movimento che esprime, anche da un punto di vista spaziale, lo spaesamento del soldato nei primi momenti di caserma: “tutto un alzarsi da una seggiolina e passare a un’altra, [...] compilare questionari, riciclare carte d’identità, portare foglietti da un tavolo all’altro tutto secondo un percorso prestabilito”. Generalmente gli episodi de Il diario del soldato Acci ritornano in Pao Pao, filtrati dall’elaborazione della riscrittura, che, oltre a gratificarli di una maggior attenzione formale, li inserisce in un tessuto più omogeneo, privandoli del carattere frammentario conferito loro dalla primitiva destinazione.

46 Ibidem. 47 In Pao Pao il medesimo meccanismo compare in occasione del ritorno dall’ospedale militare ad Orvieto, quando in treno il narratore ed Alex, un altro soldato, incontrano tre ragazze americane, la provenienza di una delle quali - Lowell nel Massachussets, città natale dell’amato Kerouac - funge da pretesto per l’elencazione degli scrittori, con qualche variazione dovuta al contesto americano: “Non conosce i romanzi di Kerouac, Scott Fitzgerald le dice niente, Norman Mailer meno che meno, Hemingway, be’ questo si, ha fatto un riassuntino a scuola del Vecchio e il mare” (PP p. 40).

145 Tratti anche molto simili vengono allora spostati in differenti posizioni; in altri casi si ha invece una coincidenza quasi totale, con piccole variazioni. La partenza per Orvieto, ad esempio, riprende concetti analoghi ed occupa la stessa posizione iniziale, anche se in Pao Pao esiste una cornice che la sposta qualche pagina più avanti: Non ho voluto veder nessuno in stazione, non mi piacciono gli addii e non mi piacciono i fazzoletti. [...] Non ho detto addio a nessuno; non mi piacciono gli addii. Sono sempre troppo lunghi,48

e Non ho fatto nessuna festa d’addio, non mi piacciono gli addii, ho imparato a scantonarli; non esiste nulla di definitivo figuriamoci gli addii e i fazzoletti e le strizzate di mano (PP p. 9).

Vicecersa, le considerazioni che Acci fa sulla “partenza del soldato” mentre si dirige ad Orvieto per la prima volta, vengono, in Pao Pao, spostate di qualche giorno, quando ormai l’ambientamento in caserma è avvenuto, mantenendo però una stesura molto simile: ora comincerà una storia nuova [...], lo so, accidenti, e c’ho paura: qualcosa mi scioglie le gambe, ma c’ho coraggio da vendere e fegato da smistare per tutti. Qualcosa probabilmente inciso nel DNA si sveglia, dico è un momento arcaico questo, anche se non c’è guerra, anche se non c’è lutto: la partenza del soldato è una storia molto vecchia, ma non mi fa paura;49

ritorna infatti come Tutto in me si muove come se questa del soldato e della sua partenza fosse una storia antichissima e remota incisa nel DNA, un codice collettivo che quando scatta decifra e informa tutto il tuo self. Non l’avrei creduto. Avevo terrore di tante situazioni e invece anche questi attimi mi appagano (PP p. 57).

L’evidente ripresa è fatta risaltare dal collegamento instaurato tra servizio di leva in generale e partenza, in un momento in cui parlare della partenza si discosta dal percorso della trama, sembra un argomento superato da un narratore ormai pienamente immerso nella vita di caserma. Il generale ritorno in Pao Pao degli episodi di Il diario del soldato Acci rende molto significativi quei momenti che non vengono ripresi nel romanzo, il più importante dei quali è la breve licenza di quarantott’ore, alla quale è dedicato l’ottavo episodio.

48 P.V. Tondelli, Non mi piacciono i fazzoletti d’addio, “Il Resto del Carlino”, 15 febbraio 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., pp. 75-77. E’ interessante notare che l’episodio in questione - che è il primo - ha molto in comune, da un punto di vista strutturale, con l’intero romanzo Pao Pao, a cominciare dalla presenza di una cornice, in questo caso di natura metanarrativa, costituita dalle citate riflessioni sugli addii, e da una forte attenzione verso la temporalità - importantissima anche in Pao Pao - che genera una narrazione dispiegata in ordine inverso rispetto al normale flusso temporale, come se il momento della partenza causasse una riflessione sulla propria storia che, partendo dai fatti più recenti, insegue avvenimenti sempre più lontani. 49 Ibidem.

146 Vi risalta in particolare lo spaesamento del narratore, il fatto di trovarsi a confronto con quello che era da civile e che ora non è più, il sentirsi al centro di una crisi d’identità cui non sa trovare rimedio: Sono un soldato, o sono ancora quel che ero prima di partire? E mi accorgo che a questo non c’è risposta, ora: non sono né l’uno né l’altro, non il dovere e non il tempo passato [...]. Sono semplicemente una persona diversa e nuova, e non riesco a interpretarmi.50

E’ un momento che nel contesto dei dieci episodi assume una discreta importanza; ma in Pao Pao ritorna solo la considerazione finale, “maledetta licenza breve”, inserita al ritorno ad Orvieto, “già stanchissimo e per nulla riposato, maledetta licenza, davvero maledetta licenza breve” (PP p. 66). Della licenza vera e propria Tondelli non dice niente, opera un’ellissi, collegando la partenza del narratore alla fine del capitoletto con il suo ritorno in treno in quello successivo, ritorno che diventa quasi un secondo ingresso nella vita militare51: Ho proprio voglia di riposare la testa tra i miei oggetti e le mie vecchie consuetudini. Devo ritrovarmi. Ne ho bisogno. Soprattutto devo rifare le scorte di afgano.

Tutto però è così rapido, il viaggio di andata è già quello che mi riporta in caserma e la stazione in cui scendo non è quella di Modena, ma il piccolo e basso caseggiato di Orvieto Scalo (PP p. 66).

E’ una scelta necessaria in considerazione del fatto che “la licenza è un ritorno temporaneo alla vita borghese, un’interruzione nociva della naja, e come tale non riguarda un racconto come Pao Pao, completamente focalizzato sul suo oggetto”52. Non è solo un bisogno di non uscire dall’ambiente militare, quanto soprattutto l’esigenza di rimanere ancorati al gruppo dei protagonisti, con i quali si condividono gli eventi anche fuori della caserma. Ne è spia il fatto che la prima considerazione che il narratore fa, una volta rientrato, ha per soggetto l’odore dei soldati nella camerata notturna, un odore diverso e strano “che ti separerà dal tuo branco abituale”, ma che attraverso il quale “riconoscerai quelli come te, gli stessi persi nell’identico trip” (PP p. 67). Ciò su cui punta Tondelli è proprio il concetto di gruppo come punto di forza nel confronto con l’istituzione, processo che vede alla sua base il riconoscimento reciproco:

50 P.V. Tondelli, Licenza breve, anzi brevissima, “Il Resto del Carlino”, 8 aprile 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., pp. 96-98. 51 Tondelli segnala questa replica con l’adozione di una formula pressoché identica a quella usata in occasione del primo arrivo ad Orvieto: “un lungo viaggio dentro alla notte” (PP p. 9) che diventa “un altro viaggio dentro la notte” (PP p. 66). In Il diario del soldato Acci la formula usata, con la medesima immagine, era “un altro viaggio dentro il buio della notte come quello che mi ha visto partire” (P.V. Tondelli, Con lo schioppo a far la guardia, “Il Resto del Carlino”, 15 aprile 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., pp. 99-101), dove era ancora più trasparente il richiamo a Celine - autore che Tondelli indicava tra i suoi maestri - e al suo Voyage au bout de la nuit. 52 A. Canobbio, op. cit., p. 42.

147 E sarà proprio questo a salvarti, a farti accettare il tuo nuovo branco, a farti capire che i vecchi equilibri sono del tutto saltati e che ora sei una persona diversa in cerca di alleati, alla disperata ricerca di ragazzi che abbiano il tuo stesso odore (PP p. 67).

In questa prospettiva, la licenza come momento individuale, pausa rispetto al mondo della caserma e breve immersione nel proprio passato, non può entrare, è un fatto estraneo all’omogeneità del romanzo.53 L’esclusione è però una scelta che riflette anche l’andamento reale del servizio militare dell’autore, da quanto Tondelli dice della sua ‘naja’ qualche anno dopo: Quando arrivava il giorno della licenza, e i miei amici partivano abbandonandomi per tre, quattro giorni, non solo mi intristivo, camminavo lungo i corridoi scorato, accarezzavo con gli occhi le loro brande vuote [...] ma, soprattutto, mi arrabbiavo. Mi lasciavano per quella che era la loro vera vita [...] E questo lo ritenevo intollerabile e mi faceva soffrire, tanto mi sentivo indissolubilmente legato a loro. La mia vita era confinata in quella caserma, e [...] si giocava interamente dentro le mura della patria. [...] Per questo mi seccava il fatto che i miei amici parlassero spesso di licenze e della loro vita a casa, negando, in un certo senso, quanto di piacevole e forte andavamo costruendo insieme. [...] Il segreto per non farci umiliare dalla caserma, dalle sue leggi, dalla sua meschinità, dalla sua violenza, era quello di occuparla con le nostre storie e la nostra sensibilità.54

Ancora una volta elementi reali si uniscono all’invenzione letteraria, non solo costruendo quella mitobiografia di cui si è precedentemente parlato, ma anche influenzando con la loro presenza il piano stesso dell’opera e la sua struttura, rinforzando la spinta verso la narrativa di gruppo e la polifonia che ne deriva. Diversamente da Pao Pao, ne Il diario del soldato Acci il mondo esterno alla vita militare esiste e viene a far parte del testo; avveniva nell’episodio iniziale, quando Acci ripercorreva con la memoria gli episodi salienti del suo ultimo anno, e avviene in occasione della licenza breve che diventa un momentaneo ritorno a casa.55 E’ la natura del testo - come si è detto - a consentire questo, ma è anche la costruzione di un personaggio che è molto diverso dal narratore di Pao Pao. Già il fatto di possedere un nome lo caratterizza e gli fa in un certo senso prendere le distanze dall’autore, diversamente dall’anonimato di Pao Pao che favorisce la coincidenza dei due; inoltre il

53 A rafforzare questa osservazione, si consideri che nelle altre due volte in cui si parla delle licenze in Pao Pao, la prima, che occupa comunque poche righe, riguarda alcuni giorni passati in Lombardia con il fedele amico Beau Jean, un commilitone, mentre l’unica in cui si menziona un ritorno a casa, sempre limitato ad uno spazio molto ristretto, è situata verso la fine del libro, quando la vita di caserma, pur senza scomparire, era passata in secondo piano e l’argomento principale era la relazione con Erik. 54 P.V. Tondelli, Ufficiali e gentiluomini, cit., pp. 152-153. 55 Non è che in Pao Pao manchino completamente occasioni di questo tipo, ma sono così labili e accidentali da passare quasi inosservate e non influire sulla focalizzazione del romanzo. A titolo esemplificativo si registrano ad ogni modo ricordi ‘civili’ del narratore, “ripenso molto allora alle gite sulle Dolomiti” (PP p. 56), e una visita degli amici del “borgo”: “la Faffa e il di lei uomo, quella domenica, sono venuti a trovarmi dal borgo” (PP p. 47). Sono momenti peraltro mai slegati dalla vita militare, ma vissuti in rapporto ad essa.

148 ritratto che ne viene fuori è quello di un personaggio più estroverso - sempre rispetto al narratore di Pao Pao -, meno assorbito dalle proprie considerazioni, che pure non sono estranee al testo. Il mondo che lo circonda è lo stesso, dal momento che quasi tutti i personaggi de Il diario del soldato Acci ritornano in Pao Pao, e l’unico tema a mancare è l’omosessualità: Acci ha un’innamorata, Lulù, e anche gli altri personaggi sono tutti eterosessuali. Si deve ad ogni modo notare che nella prima metà di Pao Pao il motivo dell’omosessualità è presente solo nell’innamoramento del narratore per Lele, mentre nella seconda parte il tema si espande alla quasi totalità dei suoi amici e diventa il fulcro attorno al quale ruota il romanzo. Gli episodi de Il diario del soldato Acci sono relativi alla prima parte di Pao Pao, cosicché l’assenza del tema dell’omosessualità non produce sostanziali differenze, tranne per la caratterizzazione del narratore, peraltro già palesemente diverso. Si è detto che i personaggi de Il diario del soldato Acci ritornano generalmente in Pao Pao, ma ciò non avviene per uno, Albertino, normalmente chiamato “giovin scrittore”. La descrizione che ne viene fornita e i riferimenti che lo riguardano sembrerebbero farne una proiezione dello stesso Tondelli, giustificandone così la scomparsa in Pao Pao, dove un narratore anonimo senz’altro più rispondente di Acci alla figura dell’autore ne rende inutile la presenza. Ecco come viene presentato, durante la carrellata sui personaggi che costituiscono la “tribù”: Inoltre c’è un tipo alto e malinconico che va in tiro solo di notte, e se lo vedi di giorno è veramente un’altra persona, ma la sera, dopo il contrappello, si trasforma e parla come un registratore e racconta come una macchinetta, e a me piace questo signore che pare faccia lo scrittore, perché è molto gentile, lui lavora alla fureria.56

In seguito, altre notizie su Albertino sembrano riprendere puntualmente lati della personalità tondelliana, quasi l’autore stesse completando un po’ alla volta un proprio ironico autoritratto: Il giovin scrittore invece è malinconico - come ho detto -, dice che un giorno ha perso il “senso” e ora deve cercarlo da mattina a sera, ma non lo trova mica più, e quasi si fa frate qui in Umbria, perché almeno a questo punto un senso ce l’ha.57

56 P.V. Tondelli, In libera uscita, “Il Resto del Carlino”, 8 marzo 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., pp. 85-87. 57 Ibidem. Da notare che motivi legati in qualche maniera alla religiosità compaiono nelle opere di Tondelli, con una forte accentuazione nella sua produzione più recente, e che - riguardo al “malinconico” - il protagonista di Camere separate - libro che Tondelli considerava il suo romanzo più autobiografico - è stato definito “un prototipo di emiliano lunatico, non gioviale, malinconico e umbratile”. G. Anselmi-A. Bertoni, L’Emilia e la Romagna, in Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età contemporanea, cit., p. 444.

149 Non è naturalmente che Tondelli diventi Albertino, ma sicuramente molti suoi tratti vengono trasposti nel personaggio, che oltretutto assume un ruolo piuttosto marcato, dal momento che spesso diventa il compagno di alcune avventure - o meglio disavventure - militari del narratore. A maggior ragione, quindi, la sua assenza in Pao Pao contribuisce a un’assimilazione nel narratore, ora che questi non ha più nome Acci e che di Albertino riprende alcune caratteristiche. L’importanza di Albertino è riaffermata al termine del testo, che sancisce in un certo senso il suo passaggio da personaggio a protagonista: Il diario del soldato Acci infatti termina con le parole di una lettera di Albertino ad Acci, ormai congedato per una frattura ad una gamba occorsagli in occasione di una burrascosa ultima notte di uno scaglione, evento narrato anche in Pao Pao. E’ una chiusa laconica, che non segue il tono da commedia del testo e che forse rivela la conclusione anzitempo di un progetto, Il diario del soldato Acci appunto, esaurito in dieci puntate ma potenzialmente non finito: Il sardo è morto dopo una settimana di coma profondo. L’altro è a Peschiera [...]. Tutti i congedanti hanno beccato trenta giorni di rigore e stanno ancora qui. Nessun giornale ha detto niente; quello crepato sai da dove veniva; per me non se ne sono accorti nemmeno a casa sua. Qui tutto bene, non è successo niente perché niente può succedere. Addio.58

Il diario del soldato Acci è stato scritto negli ultimi mesi di servizio militare; a servizio militare concluso Tondelli ne ha sistemato e riscritto le storie, aggiungendone altre e dando così vita a Pao Pao, un libro certo più organico, che coglie l’anno di leva nella sua interezza. Pao Pao è raccontato in prima persona da un narratore protagonista, nella consueta forma pseudodiaristica che già altre volte si è riscontrata nelle storie di Altri libertini. In questo caso, è falsamente diaristica, perché si rileva un’attenzione particolare alla temporalità, che ne determina - come si avrà modo di vedere più oltre - una struttura piuttosto complessa. Basti anticipare per ora che, ad interrompere una sequenza lineare, compaiono sette analessi e sedici prolessi, di varia estensione. La narrazione inizia dall’ultimo evento dell’anno di leva, “una parata primaverile di granatieri a Roma” (PP p. 7), che, con un rapido flashback, riporta alle parate d’inizio militare ad Orvieto a fine aprile 1980, dando così il primo riferimento temporale. La regressione continua in una sequenza che, a partire dalla sinusite che obbligava il narratore a frequenti visite all’infermeria della caserma - occasione per una divertente digressione sulle qualità curative dell’aspirina FF.AA., “una specie di bomba ad ogiva grande come cinquanta lire” (PP p. 8), panacea per tutti i mali - si collega alle disperate

58 P.V. Tondelli, La borghesia mena, “Il Resto del Carlino”, 22 aprile 1981, ora in Id., Il diario del soldato Acci, cit., pp. 102-105.

150 telefonate al fratello, ufficiale medico di leva vicino al congedo, e riporta ai momenti precedenti il servizio militare e alla cartolina di chiamata alle armi. Di qui comincia la storia vera e propria, con la partenza notturna e l’arrivo ad Orvieto di prima mattina, storia che subito è interrotta da una lunga analessi che racconta le vicende di un amico, Vinny, e del suo tormentato servizio militare, concluso con l’assuefazione agli stupefacenti, un personaggio che sembra uscito dalle storie di Altri libertini e che diventa un campionario di tutte le droghe esistenti e delle modalità di assunzione.59 Tramite l’escamotage di un’informazione sottobanco ricevuta al distretto militare di Modena - un’altra analessi quindi - il narratore illustra la sua destinazione, e, dopo una breve riflessione sulla natura totalitaria dell’istituzione, inizia a parlare del suo contatto con la caserma. Il primo luogo descritto è uno stanzone palestra nel quale le reclute vengono ammucchiate, che causa, tramite la “finestra sbarrata” (PP p. 15) che separa dalla vita civile, l’immediata percezione della diversità della propria condizione, la desolante coscienza della mancanza di libertà. Qui viene introdotto il primo personaggio dell’anno di leva, Lele, che da un punto di vista temporale sarà anche l’ultimo a comparire, e che offre l’occasione per una rapida carrellata sugli altri compagni d’avventura. La dettagliata descrizione di Lele, isolato dagli altri nel suo silenzio, impegnato a leggere una copia del suo quotidiano locale, “Alto Adige”, è replicata da quella del narratore, ugualmente silenzioso e già innamorato di “questa perla assoluta di libertà, Lele che sfoglia l’Alto Adige” (PP p. 17). L’uscita dallo stanzone dà il via alle formalità del primo giorno in caserma, ‘interrogatorio’ all’Ufficio Ordinamento, assegnazione alle Compagnie, visita medica, vestizione, dopodiché finalmente arriva la libera uscita, che è l’occasione per le prime amicizie militari. La giornata successiva vede il trasferimento del narratore all’ospedale militare di Roma, il Celio, per accertamenti cardiaci, con Alex, un ragazzo di Piacenza, che si conclude in un niente di fatto e col ritorno ad Orvieto dopo qualche giorno, con un intermezzo in treno assieme a tre turiste americane.

59 La descrizione di Vinny rivela notevolissime parentele con Altri libertini, specificamente con Postoristoro, sia dal punto di vista contenutistico, che da quello formale, con l’adozione degli stessi procedimenti - elencazione insistita, anafora, sintassi anomala con frequente uso del polisindeto e scarsa punteggiatura, realismo spinto agli estremi - al punto che potrebbe sembrare, più che un collegamento con il libro precedente, una vera e propria citazione. Valga come esempio la maniera in cui viene introdotto: “Oh non mi ridurrò come Vinny mai più uscito dal trip in divisa, ormai cariatide di se stesso che si ficca dentro di tutto e tratta le sue braccia come bidoni della spazzatura buttando ero, anfetamine, valium, roipnol con le siringhe, stravolgendosi con supposte micidiali a base di morfina e oppio che danno ai malati di cancro al retto, pasticcandosi di acidi ed eccitanti, iniettandosi sotto la lingua con aghi sottilissimi, facendosi nelle gengive, nei piedi, sulle mani, dietro ai ginocchi, sul cazzo, sul collo, ovunque senta un po’ del suo marcio sangue pulsare” (PP p. 10).

151 Ad Orvieto inizia un periodo piuttosto triste - nonostante il narratore riesca a conoscere Lele - tra l’iniezione, la sinusite causata dal freddo e l’addestramento, che si conclude, grazie all’interessamento di un vecchio compagno di liceo, con l’assegnazione in fureria per smistare le domande di avvicinamento. Qui Tondelli ha modo di creare una serie di personaggi tipici, che incarnano vari ruoli della vita militare, tra i quali spicca Filippo Rotundo, disperato aspirante firmaiuolo, uno dei più riusciti bozzetti tondelliani. Arriva finalmente la primavera e con le belle giornate inizia un periodo di “lunghe passeggiate solitarie” (PP p. 55), finché giunge il giorno delle prove di tiro, che è l’occasione di notare Renzu, con il quale nascerà più avanti una profonda amicizia. L’avvenimento più importante però è il nuovo incontro con Lele, che vede la nascita di una tanto sospirata amicizia, subito trasformata in un amore a senso unico, sul quale si focalizza la narrazione, facendo passare in secondo piano avvenimenti importanti come il Giuramento, del quale viene solo brevemente data notizia. La fine del periodo del CAR determina l’assegnazione definitiva dei soldati alle caserme di destinazione e il saluto con Lele e gli altri amici, trasferiti altrove mentre il narratore rimane ad Orvieto. E’ il momento della prima licenza breve, della quale però viene raccontato solo il viaggio d’andata e di ritorno, senza interrompere così la vita di caserma, che riprende con la descrizione della camerata di notte e del sonno dei soldati. La vita di caserma continua tra la constatazione dell’assenza degli amici e la noia quotidiana, finché un giorno il narratore è ‘agganciato’ da Enzo, un caporalmaggiore, per una storia di fumo e di amicizie comuni. Proprio attraverso Enzo il narratore si inserirà in un gruppo di nuovi amici: Alvaro, violoncellista torinese, Tony, di Bolzano, Renzu, già incontrato al poligono di tiro. Comincia con loro un nuovo periodo di allegria, fumate e avventurose gite nel furgone di Tony. Il luogo di ritrovo in caserma è la “Compagnia Fantasma”, ultimo piano, disabitato, della caserma di Orvieto e “covo [dove ritrovarsi] con bottiglie e spinelli e pasticche e mangianastri tenuto però al minimo” (PP p. 78). Alvaro, detto Magico Alvermann, è il personaggio che più attira l’attenzione in queste pagine, con i suoi incredibili racconti e la sua capacità di scrivere lettere d’amore, ma soprattutto con la sua virtù principale, il saper utilizzare l’hascisc in tutte le maniere: bottiglie di vetro, “canne meravigliose e imponenti” (PP p. 83), frutta di ogni tipo. L’avvenimento più curioso che lo coinvolge riguarda però le sue attitudini musicali, con il tentativo, non molto fortunato, di guidare una banda musicale per l’alzabandiera. Dopo una breve parentesi fuori caserma, per la guardia ai seggi elettorali nelle montagne del Ternano, viene l’ora dell’ultima notte in Compagnia Fantasma, prima dei saluti definitivi per l’inaspettato trasferimento a Roma, in una caserma dei Reparti Autonomi (“questa caserma strana con carabinieri a cavallo [...] e soldati tutti in taglia minima, bassotti e tracagnotti da far schifo” - PP p. 93).

152 A Roma inizia per il narratore un momentaneo periodo di solitudine e malinconiche meditazioni sul tempo appena passato e sugli amici perduti, dopodiché arrivano le nuove amicizie, commilitoni dello stesso scaglione, alcuni già intravisti ad Orvieto, coi quali comincia una frequentazione - motivo centrale della seconda parte, dove la vita di caserma passa nettamente in secondo piano - destinata a durare fin oltre il presente della scrittura: Beaujean, René la Baffina e la Bella Perotto. Le domeniche a Trastevere consentono la conoscenza di alcuni ragazzi locali, che entrano come nuovi personaggi - civili - nella narrazione, ampliando così la focalizzazione esterna alla caserma. Valentino, Piero, Nicola, Betty diventano i co-protagonisti dell’Estate Romana, che si apre con l’happening dei poeti a Piazza di Siena, tra improvvisate vendite di “sangria” fatta in casa e la presenza dei santoni beat, Ginsberg e Burroughs, con il quale in particolare, il narratore improvvisa un breve colloquio. Pian piano fanno il loro ingresso nella storia nuovi soldati, Michele, compaesano di Lele, e Maurizio, “rimorchiato” da Baffina ma più avanti protagonista di una combattuta relazione col narratore, mentre vecchi personaggi ritornano momentaneamente per una parentesi di ricordi, come Enzo. Il ritorno più gradito è però quello di Lele, incontrato in trattoria la sera del 2 agosto '80, proprio in concomitanza con la bomba esplosa alla stazione di Bologna, che riceve un po’ di attenzione ma che poi viene subordinata alla storia personale. Comincia così un altro periodo centrato sull’amore per Lele, anche se gli altri personaggi non scompaiono, periodo che si chiude con il definitivo rifiuto di Lele e un addio tra i due. La separazione comporta un nuovo spostamento della narrazione tra le mura della caserma, che per una ventina di pagine diventa l’ambiente incontrastato dello svolgimento della storia (pp. 131-151). Il personaggio principale di questo tratto è Stani, compagno di branda del narratore e suo protettore nella vita di caserma. E’ anche l’occasione per inserire un episodio di nonnismo, relativo al congedo dell’ottavo scaglione, che degenera in una rissa fenomenale. La vita di caserma continua, tra la redazione di una rivista mensile, nuovi personaggi come il sergente Bianchin e il solito lavoro in ufficio, di nuovo con le domande di avvicinamento. Qui Tondelli infila una pregevole sequenza di personaggi-caricatura, macchiette a volte senza nome, il Quidam, Scortamiglio Gianfrancesco, parodie che a volte si estendono ai locali stessi, come nel caso dell’Ufficio Timbri del maresciallo Armando. La chiusura della parentesi centrata sulla vita di caserma fa tornare la narrazione sulle libere uscite, nelle quali il narratore sviluppa una relazione con Maurizio, che si concluderà malamente a Milano dopo la fine del servizio militare. Ma l’evento che caratterizza l’autunno romano è l’incontro con Erik, intravisto ad una festa da Bertrand - un regista teatrale del giro delle amicizie civili - e poi fortuitamente

153 incontrato e conosciuto alla biglietteria del teatro Parioli. Con lui, dopo qualche incontro ‘culturale’, nascerà un amore breve e intenso a fine gennaio, ma nel frattempo c’è spazio per il ritorno degli amici soldati “dopo cinque settimane di ordine pubblico” (PP p. 161) passate in Irpinia per il sisma del novembre 1980, occasione per dare, tramite l’arrivo di una sua lettera, dettagliate notizie sulle ultime vicissitudini di Beaujean. La cena tutti assieme dalla “Vecchina” è l’ultima opportunità di riunire il gruppo, prima di dedicare lo spazio narrativo allo sviluppo della relazione con Erik, che diventa l’unico argomento del testo, anche se gli amici compaiono qua e là, magari per via telefonica. La relazione continua, tra teatri, ristoranti cinesi e pernottamenti fuori caserma, fino alle prime avvisaglie di crisi, interrotte da parentesi di vita militare, occasioni, una prima volta, per uno scontro col Quidam e alcune considerazioni sullo sfruttamento dei soldati di leva, in seguito, per il ritorno, tramite un problema al terminale elettronico, di un personaggio di Orvieto, Filippo Rotundo, “che con la sua disastrosa carriera militare ha mandato in tilt persino il computer della Difesa” (PP p. 177). La relazione con Erik termina dopo un’ultima notte, preceduta da una serata dalla “Vecchina”, con il disagio del “sofisticato e raffinato Erik Kollendhorf nel troyayo della fiaschetteria” (PP p. 179). L’epilogo del romanzo riprende, secondo una struttura a cornice, la parata di fine marzo dell’inizio, con l’immagine centrata su Renzu - occasione per un rapido riassunto delle storie della prima parte -, Renzu con il quale il narratore non potrà scambiare che un’occhiata, ed una carrellata su tutti gli altri personaggi che sfilano, ripresa subito dopo da un’altra loro rassegna operata dal narratore nel tempo della scrittura, con loro notizie anche relative a momenti post-militareschi, che estendono il tempo del romanzo congiungendolo a quello della scrittura.

II.4 La “consapevolezza temporale della scrittura”.

Dalla trama risulta evidente che il romanzo, sotto il profilo spaziale, è diviso in due parti di uguale estensione testuale. La prima parte della storia, infatti, si svolge ad Orvieto ed è relativa ai primi due mesi circa di servizio militare, mentre la seconda è ambientata a Roma e riguarda i rimanenti dieci mesi. Le due parti hanno una focalizzazione diversa: la prima è centrata sulla vita in caserma, mentre poi prende il sopravvento l’ambiente esterno, anche con l’ingresso nella storia di personaggi che non sono soldati. E’ un cambiamento dettato anche dalla

154 dispersione dei personaggi in diverse caserme romane, fatto che rende inevitabile l’allargamento dei confini dentro cui si svolge la storia. Tondelli cerca di evitare però che la variazione possa togliere unitarietà al romanzo, sia facendo rifluire saltuariamente personaggi di Orvieto a Roma, sia soprattutto evitando una frattura netta al momento del trasferimento. Sceglie di parlarne all’interno di un medesimo paragrafo, che unisce partenza da Orvieto e primi giorni a Roma, fornendo così continuità al testo: La mattina della nostra partenza siamo tutti lì [...] inquadrati a seconda delle varie destinazioni [...]. Così eccomi nella stazioncina di Orvieto Scalo per un viaggio breve esattamente identico a quello di due mesi prima per il Celio [...]. E il giorno dopo comincia questa naja romana [...] scucio lo scudetto della brigata dalla manica della giacca, ma mi frega niente, l’importante è piazzarsi il più presto possibile in questa nuova storia (PP p. 93).

Le diverse focalizzazioni delle due sezioni del romanzo obbediscono anche a scelte strutturali che riflettono l’andamento reale dell’anno di leva, considerato che la curiosità per il mondo militare si sviluppa al momento dell’ingresso in questo, originandone descrizioni a volte dettagliate, ma non può continuare per l’intero anno. Una volta adattatisi al nuovo ambiente ed entrati nel proprio ruolo, subentra rapidamente la noia per una situazione ripetitiva che sfocia nell’inattività (“Faccio niente. Sto a chiacchierare e gironzolare per la caserma” - PP p. 72). Lo spostamento della focalizzazione evita così di incanalare la narrazione in un ambiente chiuso e la apre a nuove soluzioni in un altro spazio - Roma - che offre una molteplicità potenziale di occasioni certo maggiore. E’ un processo che, proprio per evitare uno stacco troppo evidente, si sviluppa in maniera graduale, dato che già nell’ultima fase di Orvieto l’attenzione si sposta talvolta sulle libere uscite. Coesione e compattezza sono due qualità che Tondelli ha inseguito con continuità nella composizione di Pao Pao, a partire dalla scelta della struttura del libro. Non ci sono infatti capitoli veri e propri, ma il testo è suddiviso in trentadue capitoletti di varia lunghezza, né numerati né titolati, separati solo tipograficamente l’uno dall’altro (un paio di righe). Compaiono inoltre, all’interno di uno stesso capitoletto, avvenimenti piuttosto eterogenei, in modo da rendere meno evidenti le cesure del testo. Gli stessi paragrafi all’interno dei capitoletti hanno una forte variabilità, sia nel numero che nell’estensione, andando da poche righe a oltre una pagina. Il tutto crea l’effetto di un testo con un ritmo differenziato, che a volte si gonfia ed altre accelera, ma che non si divide in blocchi distinti e fa confluire gli avvenimenti gli uni negli altri. Analogamente, una cura particolare riceve in Pao Pao la successione temporale, assai complessa. Un confronto tra fabula e intreccio svela, infatti, la presenza di numerose

155 irregolarità rispetto all’ordine cronologico degli avvenimenti, artifici che, oltre a complicare la linearità della trama, estendono la durata del testo a tempi precedenti il servizio militare e lo prolungano oltre l’anno di leva, mediante accenni, mai del tutto sviluppati, ad eventi che arrivano a situarsi in prossimità del tempo della scrittura, se non addirittura oltre. Tondelli aveva evidenziato questo aspetto fin dalla presentazione di Pao Pao, facendone un secondo motivo centrale del libro, accanto al confronto di un gruppo con l’istituzione militare: Nel romanzo ci sono molti flashback, ma anche fughe in avanti, sul futuro dei personaggi; insomma c’è una compresenza di tempi molto interessante60.

E’ un aspetto che è stato variamente interpretato e motivato dalla critica, che ha a volte parlato di “discontinuità [...] causate dalla fatica di scavare nella memoria per cogliere immagini, dolori, fugaci felicità ormai rimosse”61, giudicando la ricercata struttura temporale di Pao Pao un ostacolo alla scorrevolezza della sua lettura, negando in un certo senso la precisa scelta compiuta dall’autore. Altri invece, mettendo in correlazione tempo della storia e tempo della scrittura, hanno evidenziato la consapevolezza autoriale, espressa, ad esempio, nei continui accenni al momento della scrittura. Scrive infatti Andrea Canobbio: Pao Pao è costellato di riferimenti al narratore che sta scrivendo, seduto alla scrivania nella sua casa di Bologna. Di nuovo il racconto pianta le sue radici nella vita, trae linfa vitale dalla vita che continua dopo la fine della storia che adesso si sta raccontando. Significativamente il libro viene terminato un anno dopo il congedo del narratore. E’ come se l’anno trascorso nella stesura del libro ripetesse nella finzione l’anno del servizio militare. Scrivere è recuperare il tempo perduto, un modo per non abbandonare al flusso del tempo ciò che di buono si è vissuto. Ma c’è anche un altro modo per far sì che la naja non si chiuda alla fine come una brutta parentesi: coltivare le amicizie che si sono fatte.62

Al di là - ancora una volta - del richiamo alla compenetrazione tra romanzo e vita reale, sono particolarmente interessanti le considerazioni sull’intersecarsi tra tempo della storia e tempo della scrittura, e sulle ragioni che motivano una simile scelta.63 C’è un effetto fondamentale che flashback e fughe in avanti producono nel testo, analogo alla scelta, sul piano spaziale, di far uscire la scena dalla caserma, spostandola a

60 A. Malavolti, op. cit. 61 A. De Nando, op. cit. 62 A. Canobbio, op. cit. Non si può non notare nel motivo del narratore che scrive una ripresa dell’analogo tema da Lunario del Paradiso di Celati, ripresa che già compariva in Boccalone di Palandri. 63 Si consideri, ad ogni modo, che c’è una certa coerenza tra le suddette motivazioni e quanto Tondelli confessava sul suo rapporto con gli amici militari, già considerato a proposito della focalizzazione del romanzo (“La mia vita era confinata in quella caserma”; “quanto di piacevole e forte andavamo costruendo insieme”; “occupare [la caserma] con le nostre storie e la nostra sensibilità.” P.V. Tondelli, Ufficiali e gentiluomini, cit., p. 153).

156 Roma. Attraverso la struttura temporale adottata, Tondelli evita di far ristagnare la storia in un tempo dai precisi confini, immette delle variazioni che lo dilatano e lo complicano, stravolgendone l’ordine. Anche la temporalità, come la spazialità, la struttura formale e sintattica, il plurilinguismo, concorre a scandire il ritmo del romanzo, evitando il pericolo di incorrere in una certa monotonia che la materia affrontata avrebbe potuto generare. Una prova dei rapporti stretti tra aspetti del tempo e dello spazio è il parallelismo tra le due sezioni della storia: la parte che si svolge in Orvieto, quasi interamente dentro la caserma, registra, sotto un profilo cronologico, una certa lentezza, dal momento che gli avvenimenti narrati occupano solo due mesi dell’anno di leva. Viceversa al trasferimento a Roma corrisponde una accelerazione della storia, che nello stesso numero approssimativo di pagine racconta i rimanenti dieci mesi. Si crea così una suddivisione del romanzo anche da un punto di vista temporale, che inoltre sembra esprimere un’accelerazione costante nell’intero libro, molto dettagliato all’inizio, al momento dell’impatto con la caserma, e progressivamente sempre più caratterizzato da una tendenza al sommario, fino alla presenza di notevoli ellissi nel finale. Tondelli era ben conscio dell’importanza della struttura temporale in Pao Pao, dal momento che, anni dopo, riconobbe nell’attenzione verso la temporalità un elemento indispensabile della sua progettualità artistica: Io lavoro e progetto le mie storie soprattutto in relazione alla consapevolezza temporale della scrittura. Ad esempio in Pao Pao la successione cronologica degli avvenimenti viene ribaltata fin dalla prima riga, che è poi l’ultima, una specie di anticipo immediato della scena conclusiva. Opero sul “tempo” della narrazione. Che è innanzitutto tempo letterario e di scrittura e non ha niente a che vedere col tempo in senso “cronologico”, se vogliamo rigidamente consequenziale, biografico, scandito sulla successione di avvenimenti.64

E’ evidente la scelta di evitare un realismo troppo accentuato, dal momento che la diversificazione tra tempo “cronologico” e tempo letterario, nella narrazione, viene messa alla base dell’invenzione artistica. Continua poi Tondelli, in riferimento più diretto a Pao Pao: Ho lavorato su tre piani temporali. C’è un tempo presente, che corrisponde alla stesura... E’ il tempo dell’io-narrante [...] ma c’è anche il passato che è il romanzo in senso stretto [...] C’è anche però un terzo piano temporale di narrazione che rappresenta il futuro, lo svolgimento dell’esperienza di quegli stessi episodi che si raccontano.65

64 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 49. 65 Ivi, p. 50.

157 II.4.1 Le analessi e il sentimento della separazione.

Anche le anacronie riflettono la bipartizione del romanzo: le analessi sono per la maggior parte posizionate all’interno del periodo orvietano, mentre per le prolessi si registra una ulteriore suddivisione, poiché quelle interne sono tutto sommato equamente distribuite tra i due momenti, e quelle esterne sono inserite per la quasi totalità nella sezione romana di Pao Pao. Proprio per la loro forte variabilità, le anacronie presenti nel romanzo si prestano ad una suddivisione che tenga conto di svariati criteri. Si cercherà perciò di fornire una loro classificazione, a partire dalle analessi, di cui si dà preventivamente un elenco secondo la posizione che occupano nella fabula:66 I. Prendendo spunto dalle proprie riflessioni sul nuovo mondo in cui sta per entrare, il narratore racconta la storia di Vinny alle prese col suo sfortunato servizio militare (II,3). II. Prima dell’ingresso in caserma, il narratore fa una breve parentesi sul fatto che già conosceva la sua sorte in divisa, a causa di una soffiata sulla destinazione definitiva avuta al distretto di Modena, pochi giorni prima della partenza (III,1). III. Già nel primo capitolo il narratore ci informa di un tentato intervento del fratello, per cercare di aggregarlo alla caserma dove prestava servizio come tenente medico, tentativo fallito prima ancora di cominciare per il rifiuto da parte del narratore stesso (I,3). IV. Dopo la prima giornata in caserma, il narratore si appresta ad un inaspettato e male accolto trasferimento all’ospedale militare Celio di Roma per accertamenti di natura cardiologica, dando notizia dei tre giorni di visita medica a Piacenza nel 1973-74, diventati una settimana per analoghi motivi (V,7). V. Al momento dei saluti dopo il mese di CAR e delle partenze per le varie destinazioni, il narratore racconta della cena in osteria con Lele, la sera precedente (XIII,4). VI. Dopo l’inaspettato trasferimento a Roma, il narratore ricorda le gite nel Bedford di Tony, con gli amici di Orvieto (XVII,8). VII. In seguito all’incontro a Roma con dei commilitoni intravisti ad Orvieto, il narratore fa una breve parentesi sulle vicende di Bella Perotto e Beaujean al CAR (XVIII,3). VIII. L’arrivo di un biglietto al narratore da parte di Beaujean, in Irpinia per il sisma del 1980, offre l’occasione per raccontare una sua apparizione ottobrina “in un look funereo e cimiteriale e sepolcrale” (PP p. 163), sconvolto dalle continue guardie (XXIX,2).

66 Si evidenziano in grassetto i nomi con cui ci si riferirà alle varie analessi nel corso della trattazione dell’argomento. I numeri tra parentesi si riferiscono al capitoletto e al paragrafo in cui compare l’analessi.

158 Una prima suddivisione delle analessi si basa sulla natura temporale degli avvenimenti, dando luogo a due gruppi omogenei e speculari: si rilevano infatti quattro analessi esterne, che riguardano cioè avvenimenti anteriori al servizio militare, e quattro analessi interne, completamente contenute nell’anno di leva. Tra le prime, una - la storia di Vinny - si differenzia ulteriormente dalle altre, in primo luogo per il personaggio al centro della focalizzazione, che non ha nulla a che vedere con il resto della trama. Vinny è un amico del narratore e l’analessi ne narra le sfortunate vicende militari. Anche se il narratore vi fa una breve apparizione nelle vesti di comprimario67, è già a prima vista un’analessi eterodiegetica, l’unica in Pao Pao, e questo la differenzia dalle altre. Un secondo elemento che la sottolinea è la sua posizione nella fabula, al primo posto, vera e propria anticipazione dei pericoli che il narratore può correre durante l’anno di leva, dal momento che è proprio questo il senso delle sue riflessioni sull’immediato futuro. Anche sotto il profilo dell’estensione testuale, la storia di Vinny si pone in primo piano, dato che con le sue quarantaquattro righe supera di gran lunga lo spazio dedicato alle altre analessi esterne, di norma brevi accenni a situazioni precedenti. L’anacronia in questione mostra al suo interno una compresenza di tempi che riflette il romanzo intero: comincia al passato prossimo, quando la storia ha la velocità del sommario e produce una sensazione di ripetitività data dall’uso dell’infinito, quasi le azioni si iterassero sempre uguali; si ferma al presente del racconto, quando anche la velocità diventa quella della scena; arriva poi al presente della narrazione quando Vinny riferisce le sue vicissitudini al narratore. Vinny [...] ha iniziato a farsi proprio in quei mesi in divisa a Pordenone, scoppiato fatto per via delle guardie stressanti una dietro all’altra, settimane senza riposare né dormire e allora giù con gli eccitanti almeno per star sveglio in quelle garitte solitarie come le celle di un condannato a morte [...], gli hanno trovato un giorno un bel po’ di roba, l’ispezione è passata, [...] il capitano apre l’antina, il tenente fruga tra gli abiti, le bustine sono lì, evidenti, [...] loro che abbassano gli occhi, fingono di non vedere niente, richiudono e passano avanti e Vinny la sera alle cinque torna a montare di guardia, così per sempre... Vinny che vedo pochi giorni avanti la mia partenza e ancora mi racconta [...] di come trafficava e di come passava le licenze rincorrendo i pusher per mezzitalia (PP p. 11).

E’ una struttura piuttosto complessa, che non ritornerà nelle altre analessi presenti in Pao Pao, che proprio per questo isola l’episodio nel complesso del libro. Questa specificità è confermata da altri elementi che riportano direttamente ad Altri libertini, nel quale la storia di Vinny potrebbe benissimo rientrare. L’atmosfera con cui si apre ricorda

67 E’ una comparsa che sembra proprio un escamotage per inserire l’analessi nella storia, collegandola con qualche sua parte per far sì che non appaia troppo slegata.

159 infatti assai da vicino quella di Postoristoro, del quale ritorna anche la scena del buco a Bibo nel finale: [Giusy] si avvicina all’ultimo gabinetto, la porta accostata, l’apre. Dentro c’è Bibo con gli occhi sballati e Rino che lo regge [...] Giusy gli stringe il laccio ma le vene non escono, gli incavi lividi e neri e più su macchie gialle di sangue rappreso, niente da fare (AL p. 31);

e io che dentro a quel cesso ignobile gli reggo il braccio e glielo tiro e lui che non becca la vena, [...] spreca mezza siringa tentando di eliminare le bolle (PP p. 11).

La storia di Vinny ricorda inoltre Postoristoro anche proprio per il suo carattere di analessi, basti pensare alla storia di Vanina, una digressione di una quarantina di righe che, analogamente, racconta un’iniziazione (qui alla droga, lì in senso più esteso ad una vita di emarginazione). Anche la struttura sintattica è molto simile, dal momento che entrambi i passi sono costituiti da un unico lunghissimo periodo, cadenzato sui ritmi del polisindeto in Postoristoro, più equilibrato in Pao Pao, che alterna momenti a struttura polisindetica ad altri caratterizzati dall’elencazione, ad altri ancora più regolari. La stessa disposizione polemica nei confronti del servizio militare, responsabile della rovina di Vinny, ritorna ben di rado nel seguito del romanzo, e sembra testimoniare una strada che avrebbe potuto essere presa dal testo ma che l’autore ha preferito evitare, una strada del resto totalmente consona al contesto di Altri libertini. Questa prima analessi, dunque, prima - non si dimentichi - anche in ordine temporale, diventa il segnale di un’evoluzione, inserita nel testo al tempo stesso come memoria - che a questa si collega quindi - della prova precedente, e come elemento su cui misurare la portata dell’innovazione del secondo romanzo, senza con questo mettere in discussione la continuità tra le due opere, già segnalata in precedenza. Le altre tre analessi esterne rivelano una struttura e delle finalità del tutto diverse, a partire dalla loro natura omodiegetica, dato che sono dei brevi accenni, mai troppo sviluppati, a situazioni vissute in precedenza dal narratore, che in qualche maniera sono collegate alla storia. Il loro contenuto - di volta in volta una soffiata sulla destinazione definitiva, l’interessamento del fratello per un trasferimento, la visita medica per l’idoneità al servizio militare - le rende infatti utili ad una definizione progressiva della figura del narratore, e questa sembra essere la loro funzione principale: fornire delle informazioni sul personaggio che racconta la storia. Proprio perché si limitano a svolgere la funzione che Genette attribuisce alla categoria68, non rappresentano delle vere e proprie interruzioni, si confinano all’interno di altri paragrafi con un’estensione di poche righe, senza evidenziarsi

68 “Le analessi esterne, proprio per il fatto di essere esterne, non rischiano mai d’interferire col racconto primo: la loro funzione è solo quella di completarlo, fornendo al lettore lumi su questo o quel “precedente”.” G. Genette, op. cit., p. 98.

160 particolarmente sotto il profilo sintattico, ed esprimono il proprio carattere di variazione solo da un punto di vista temporale. Un’analoga suddivisione in due gruppi può essere effettuata per le quattro analessi interne, due delle quali sono omodiegetiche, mentre le altre due, che riguardano personaggi diversi dal narratore, si possono definire come eterodiegetiche.69 Le omodiegetiche, centrate sulle riflessioni del narratore, assumono un tono molto personale e sono intrise di un’atmosfera di separazione imminente, che ne costituisce il motivo dominante. Nella prima, il momento dell’addio è il collegamento che consente di passare all’analessi vera e propria, che racconta l’ultima serata del narratore con Lele ad Orvieto: Lele risponde alla chiamata e sale sul camion. Ci siamo salutati senza tanti complimenti davanti alla sua Compagnia. Un breve saluto da soldati io che invece avrei voluto abbracciarlo per un’eternità. [...] Lui ha sorriso e detto ciao: La sera prima da Sciarra, gli ho detto che gli volevo molto bene, che gli ero affezionato e che l’amavo (PP p. 64).

La descrizione della serata e dei discorsi tra i due è una breve parentesi che non interrompe la riflessione del narratore sulla precarietà degli affetti militari, anzi passa quasi inosservata anche per la sua posizione temporale strettamente a ridosso del tempo della storia che la circonda. L’analessi diventa così solo una piccola specificazione sul piano personale, che consente di esemplificare una situazione che è al contrario generalizzata, fungendo in questa maniera da camera di risonanza di quello che è il motivo reale su cui verte il paragrafo, motivo reale - la separazione - che non a caso viene subito ripreso nel paragrafo successivo appena terminata l’analessi: E ora, nella piazza d’armi che smista verso altre storie tutti i miei amici, io sento in pieno questa precarietà degli affetti e della vita che ti dà il servizio militare, questo essere in balia di trasferimenti e ordini e comandi. Non reggo proprio la gente che va via (PP p. 65).

Identico è il motivo di fondo su cui s’impernia l’analessi successiva, che presenta però una struttura più complessa, a partire da una maggior distanza dal tempo della storia, elemento questo che la rende molto più evidente. In questo caso è introdotta dal ricordo e si evidenzia per una situazione contrapposta a quella reale, con il narratore ormai trasferito a Roma che ripensa, durante le prime solitarie libere uscite, agli amici di Orvieto: Libere uscite dunque e week-end solitari di quell’inizio giugno, passeggiate, grandi meditazioni [...]. La testa non si rassegnava, continuava a mandarmi a Bolsena, agli

69 La definizione “eterodiegetiche” per queste due ultime analessi non è del tutto corretta, vuoi in considerazione della natura collettiva di Pao Pao, vuoi perché riguardano personaggi già presenti nella storia e non estranei ad essa come accadeva per Vinny. Risulta però utile ai fini classificatori per evidenziare la loro focalizzazione su personaggi diversi dal narratore.

161 svacchi sugli scalini del Duomo, a Lele, a quel falò che s’era faticosamente acceso con canne e sterpi verso l’imbrunire in riva al lago di Corbara in una di quelle ultime uscite del nostro giro (PP p. 94).

La contrapposizione diventa ancora più marcata con la scena successiva, che sembra riprendere il paesaggio letterario dell’idillio, in forte antagonismo con la condizione reale dell’anno di leva: ci si era perduti nella macchia e arrivati di fronte a un ruscelletto [...] era una musica tutta country e il sole andava giù fra gli alberi dorati (PP p. 95).70

Il passaggio però dal momento contemplativo a quello riflessivo rivela il vero tema che è alla base dell’analessi - il suddetto sentimento della separazione - in una struttura temporale resa ancor più complessa dalla confusione tra le riflessioni romane e la (presunta) consapevolezza del tempo dell’anacronia: Tutti lì, di nuovo riuniti intorno al fuoco [...] senza pensare al dopo, senza mai per un attimo accorgerci che quello era già un passato e un rito, un festeggiamento anticipato del tempo che ci avrebbe distaccati e di nuovo gettati ognuno nella propria storia separata, ma io lo sapevo, lo sapevo maledizione che era già tutto finito ma fingevo, non avevo via di scampo, mi dicevo sto bene, sono felice, devo ricordarmelo che qui, ora, stanotte sto bene (PP p. 95).

Il vero tema della storia si individua quindi nel contrasto tra la felicità - per quanto fugace - dei momenti passati in compagnia degli amici, e la malinconia, quasi funerea a volte, dettata dalla forzata solitudine: E a Roma mi sento quindi come questa bacchetta di pianta appena recisa dal suo tronco, ancora gocciolante di umori e scintillante di quelle rugiade bevute nel ceppo, [...] non so se il mio destino sarà rifiorire [...], oppure seccarmi e morire (PP p. 95).

A conferma della volontà da parte di Tondelli di fare di Pao Pao la storia di un soggetto collettivo, sono le considerazioni, sullo stesso tono di quelle appena viste, che caratterizzavano il tratto immediatamente precedente all’analessi, ripetendo la sequenza di continuità osservata a proposito dell’anacronia precedente: Avevo il sound dei miei amici in testa e questo mi faceva lacrimare perché di loro non mancavano tanto i ricordi dei visi [...], ma soprattutto la voce, le loro cantilene, le loro inflessioni [...], insomma io stavo lì a Piazza Farnese completamente rapito dalla mia babele di affetti vocali, espandendo le mie leggere disgrazie in quel profondo blu notte [...], mi guardavo e mi accorgevo che c’era niente da fare: finivo dove finivano le mie mani, le mie labbra inaridivano una sull’altra (PP p. 94).

La medesima ricerca di un soggetto collettivo origina le due analessi rimanenti, che, diversamente, hanno per protagonista non il narratore ma due altri soldati. Sono dei brevi

70 Tondelli sembra riproporre il topos del locus amoenus che già si era evidenziato in Altri Libertini a proposito della storia di Vanina, nella quale il contrasto era però molto più stridente e accentuato.

162 accenni che forniscono una prima definizione dei personaggi, poco dopo il loro apparire nel romanzo. Nella prima delle due, consentono il ritorno dai toni malinconici della riflessione solitaria a quelli più leggeri e divertiti che sostanzialmente caratterizzano l’intero Pao Pao. Tondelli vi coglie inoltre l’occasione per esprimere il suo talento bozzettistico, attraverso la creazione di un altro membro di quella galleria di personaggi “macchietta” così caratteristici di Pao Pao: la Bella Perotto [...] al mattino [...] si rifaceva le sopracciglia e si passava il fondotinta sull’acne spacciandolo per crema curativa [...] quando lo misero di Nucleo Controllo Cucina a distribuire le merende ai soldati e un giorno passa Jean senza salutarlo e questo lo rincorse [...] con il grembiulino biancolercio [...] tra i fornelli e le marmitte sollevandolo come una sottana e sculettando come una vecchia troja (PP pp. 97-98).

Grazie alle informazioni che l’analessi gli consente di dare, Tondelli ottiene un secondo risultato, chiude cioè definitivamente la fase orvietana e fa finalmente partire, dopo le iniziali riflessioni, la sezione romana di Pao Pao, che si differenzia dalla precedente grazie all’adozione di un contesto marcatamente gay, a cominciare dai tre primi personaggi che il narratore incontra a Roma: Beaujean, René Baffina e la Bella Perotto. Beaujean è anche il protagonista dell’ultima analessi del testo, che inizia da una sua apparizione ottobrina a Piazza Navona dopo sette giorni di servizio continuo. Come in qualche caso precedente, a caratterizzare l’inserimento dell’analessi nel testo è la contrapposizione, in questo caso tra lo stato attuale del personaggio e la sua differente condizione in un altro momento: Beaujean sembra se la passi nemmeno tanto male, non certo come in quel periodo di ottobre in cui era sbattuto a fare le guardie una dietro all’altra e [...] ce lo eravam visti apparire a Piazza Navona in una sera di pioggia insistente e fredda [...] il Beaujean intabarrato nel suo pastrano nero, grande sciarpa di lana antracite [...] e cappellaccio alla Fra’ Diavolo, pallido, smagrito, diafano, una figata di apparizione insomma [...] E lui è quasi svenuto nelle nostre braccia tossicchiando perché era raffreddato alla follia e allo stremo delle forze (PP pp. 162-163).

Tale frequente andamento a contrapposizione ("figata di apparizione"/"stremo delle forze") caratterizza il tratto, e un'ulteriore immersione nel passato complica la struttura dell’analessi, che procede con un movimento opposto rispetto alla storia, allontanandosene ancor più: Quello è stato il suo periodo nero che era venuto a ruota di un altro nerissimo [...]. Beaujean infatti era innamoratissimo di Faccia-di-Cazzo [...] e con questo granatiere gigolò erano diventati amicissimi, [...] però Beaujean non si azzardava ad andare più in là di tanto per paura di perderlo [...]. Faccia-da-Cazzo supersex se n’è poi andato [...] lasciando il Beaujean stracciatissimo e completamente a secco (PP pp. 163-165).

163 La digressione su Beaujean si fa notare anche per un’estensione che supera quella delle precedenti analessi, dal momento che coi suoi due episodi consta di oltre due pagine. Sembrerebbe avvicinarsi così alla storia di Vinny, alla quale è apparentemente accomunata anche dalla sua eterodiegeticità, ma dalla quale diverge fortemente per il suo carattere interno alla storia, non solo in senso temporale, ma soprattutto per l’atmosfera ed i toni. Vi si narra infatti la storia di una relazione mancata, un’amicizia tra soldati all’interno delle mura della caserma, un’esperienza che viene ad accompagnarsi a quelle, più dettagliatamente descritte, che vedono il narratore come protagonista, e che, proprio per questo suo carattere comune, perde presto un possibile tono di estraneità, diventando inoltre una variazione sul medesimo tema. Inoltre il fatto di dedicare ampio spazio alle relazioni di Beaujean, già presente altrove in queste vesti nel romanzo, è al tempo stesso un riconoscimento verso una persona destinata a rivestire un ruolo importante nella vita del narratore anche dopo il servizio militare, dal momento che i due avvieranno “una sospiratissima convivenza bolognese che dura tutt’ora tra ribalderie e slanci di affettività e scazzi furiosi e musilunghi” PP p. 98), in linea con una scrittura che tende quasi programmaticamente a superare il momento della storia per collegarsi ad un tempo futuro. In secondo luogo, la storia di Beaujean fa da contraltare all’ultima importante storia centrata sul narratore, che monopolizza il racconto spostandolo dalle mura della caserma. In questo senso l’analessi in questione rappresenta anche la chiusura con l’aspetto collettivo del romanzo, il suo essere storia di una “tribù”, prima dell’ultima parte nella quale è preponderante l’aspetto personale, fuori nella relazione con Erik come dentro le mura della caserma, fino alla conclusiva riunione di tutti i personaggi nella parata annuale a Roma. A questo punto può essere interessante operare, al di là della tipologia vera e propria, una classificazione delle analessi rispetto alla loro funzionalità nei confronti del testo, vedere cioè a quali esigenze testuali esse corrispondano. Se ne può trarre una suddivisione secondo tre diverse funzioni: Alla prima corrisponde l’esigenza di sviluppare riflessioni da parte del narratore connesse con le vicende della sua nuova storia. Le analessi offrono cioè lo spunto per fare delle affermazioni legate all’ambiente militare, ed è il caso della storia di Vinny e delle due analessi interne omodiegetiche, quelle relativa alla cena con Lele e alla gita nel Bedford di Tony. Un secondo gruppo sembra costituirsi attorno alla necessità di fornire ulteriori informazioni sui personaggi, ed è il caso delle tre analessi esterne omodiegetiche, non a caso situate all’inizio nella fabula come nell’intreccio. Il terzo gruppo si coagula infine attorno al tentativo di evitare l’insorgere di una possibile monotonia, operando cioè una variazione all’interno della storia che non ne

164 pregiudichi però l’unità e il tono, attraverso il semplice stratagemma di narrare vicende sostanzialmente analoghe ma attribuite a personaggi diversi, ed è il caso delle due ultime analessi che riguardano Bella Perotto e Beaujean. 71 Un’ultima considerazione sulle anacronie tondelliane: sembra che esse obbediscano ad una regola che ne determina il carattere fondamentale, e cioè quella di essere connesse con diversi sentimenti. Più specificamente, il sentimento più diffuso nelle analessi di Pao Pao, a volte come elemento centrale, a volte come carattere apparentemente accessorio, è quello della separazione. E’ attorno alla vacuità degli affetti militari che infatti ruotano le riflessioni del narratore in occasione della cena con Lele e quando ricorda le gite nel Bedford di Tony, e la storia stessa di Beaujean si conclude con un addio, come pure un apparente addio è il saluto a Lele nell’analessi che lo riguarda.

II.4.2 La prolessi come espressione del ritrovamento.

Le prolessi sono pure connesse con un sentimento, che è opposto, proprio come la direzione temporale, a quello delle analessi, e cioè con il ritrovamento. E’ un legame che si evidenzia non appena si esaminano alcuni momenti prolettici del romanzo, caratterizzati peraltro dalla loro brevità, che li porta ad essere costituiti solo dall’annuncio di un futuro incontro con una persona che sembrerebbe aver esaurito la sua funzione nell’opera: [Nico] lo ritroverò miracolosamente proprio questa mattina, aprile 1982, in qualità di critico teatrale di un quotidiano romano (PP p. 101);

[con Enzino] ci si rivedrà d’inverno davanti al Cimitero del Verano e lui mi dirà di tutti i suoi progetti (PP p. 111);

[Stani] scriverà un bigliettino pasquale arrivato qui l’altro giorno e dirà: “Maeshtro, sarò lì per la Strabologna podistica del venticinque aprile. Ti sarà difficile trovare il gruppo Amatori Marciatori Arci-Uisp di Sant’Arpino, ma se ce la fai ti vedo con piacere” e al momento non so ancora se mi sarà possibile andare, però mi piacerebbe (PP p. 141);

L’uso delle prolessi è assai diffuso in Pao Pao, con una frequenza più elevata rispetto alle analessi, e sembra connesso con il tentativo da parte del narratore di non far finire la storia, anzi di duplicarla, alla stessa maniera di quello che avviene con la scrittura, che si conclude il 23 aprile 1982, giusto un anno dopo la fine del servizio militare, “come se l’anno trascorso nella stesura del libro ripetesse nella finzione l’anno del servizio militare”.72

71 Naturalmente una simile classificazione non è rigida e aspetti di un gruppo compaiono in analessi di un altro, così, per fare un esempio, sussiste nel secondo gruppo anche la possibilità di fornire ulteriori informazioni su personaggi appena apparsi nella storia, ma quella descritta sembra essere la fondamentale caratteristica costitutiva delle singole analessi. 72 A. Canobbio, op. cit., p. 45.

165 Il ritorno degli amici in un tempo posteriore all’anno di leva diventa quindi “un altro modo per far sì che la naja non si chiuda alla fine come una brutta parentesi”.73 Il caso estremo si ha nella già citata prolessi del finale, che anticipa un avvenimento posteriore non solo al tempo della storia, ma anche a quello della scrittura: Baffina che passerà da noi, alla casa di Via Morandi, all’inizio del mese prossimo (PP p. 185).

Ecco che la duplicazione della storia non si arresta neppure al momento della scrittura, ma tramite lo stesso meccanismo, si costituisce come un qualcosa di non finito che tende - ambiguamente - a far convergere i ruoli del narratore e dell’autore, a coniugare finzione e vita reale. Il ruolo fondamentale delle prolessi, in Pao Pao, viene messo in evidenza fin dall’inizio, dal momento che il romanzo comincia da quella che è la sua fine, perlomeno relativamente all’anno di leva: Ma Renzu, il mio grande amico Renzu, lo rivedo dunque per l’ultima volta in una parata primaverile di granatieri a Roma, a quasi un anno da quel nostro primo e gelido inizio di servizio militare su alla rupe di Orvieto, fine aprile dell’ottanta o giù di lì (PP p. 4).

E’ la stessa scena che chiude la narrazione prima della carrellata sui personaggi che hanno animato il romanzo, e fissa subito l’attenzione sull’importanza delle strutture temporali, ribadite dalla presenza di una data di riferimento abbastanza precisa (“fine aprile dell’ottanta o giù di lì”), che immediatamente riporta la narrazione ai momenti iniziali dell’anno di leva74. Dopo aver fatto cominciare il romanzo dalla fine, Tondelli continua a segnalare la scelta di una sequenza temporale poco fedele ad un eventuale ordine cronologico, dal momento che il paragrafo successivo inizia con i rapporti del narratore con l’infermeria del CAR, un avvenimento che nel corretto ordine temporale viene dopo la trattazione di altri eventi che occuperanno oltre una trentina di pagine del libro. Ed in effetti, il romanzo sembra lottare accuratamente contro la linearità, tant’è che la narrazione, come acquisisce una certa regolarità temporale, trova modo di interromperla con l’inserimento di un’anacronia, che in genere diventa oltremodo significativa perché infrange la regolarità

73 Ibidem. 74 La presenza di puntuali indicazioni temporali nelle prolessi - come d’altronde in varie altre parti del testo - è una caratteristica piuttosto diffusa, con ogni probabilità legata all’aspetto quasi diaristico del romanzo ed all’attenzione particolare che il soldato dedica al tempo che passa. Sta di fatto che, anche grazie a ciò, le prolessi presenti in Pao Pao sono di regola posizionabili nell’ordine della fabula in maniera abbastanza precisa, facilitando così un effetto di continui rimandi tra varie sezioni del testo. Anche questo contribuisce a movimentare una struttura alla quale il soggetto avrebbe potuto procurare una certa monotonia.

166 delle strutture sintattiche, spiccando per il suo carattere di luogo privilegiato delle variazioni stilistiche. Uno sguardo generale alle prolessi presenti in Pao Pao ne consente una prima immediata suddivisione in due grandi categorie, interne ed esterne, rispetto al tempo della narrazione, commisurato sull’anno di leva. Sono due categorie abbastanza omogenee che consentono subito delle interessanti osservazioni sulla loro caratterizzazione e sulla loro posizione rispetto a fabula e intreccio. Intanto, mentre le prolessi interne si suddividono equamente tra Orvieto e Roma, sia in considerazione del loro posto nell’ordine della fabula, che del momento dell’intreccio in cui fanno la loro comparsa, quelle esterne sono totalmente comprese nella sezione romana di Pao Pao. Precisando ulteriormente, si riscontrano quattro prolessi interne nel periodo orvietano e quattro in quello romano; a queste otto bisogna aggiungere una nona, la cui posizione - caso di fatto unico in tutto Pao Pao - non è chiaramente inferibile dalle indicazioni del testo, anche se sembrerebbe ragionevole un suo posizionamento nel periodo romano verso settembre-ottobre dell’80, dopo il definitivo addio a Lele.75 Una possibile ragione della comparsa delle prolessi esterne esclusivamente nel periodo romano potrebbe essere trovata, oltre che nell’effettiva brevità della fase orvietana, che occupa all’incirca i primi due mesi dell’anno di leva, nella proiezione verso il futuro che caratterizza Pao Pao, cosicché sembrerebbe giustificabile collocare gli accenni al tempo della scrittura nel periodo ad essa immediatamente precedente. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’attenzione del narratore è tutta presa all’inizio dalla vita di caserma, il che giustifica l’assenza di riferimenti ad un tempo da essa slegato, mentre viceversa lo spostamento stesso della focalizzazione sugli spazi esterni, che avviene nella sezione romana, facilita la comparsa dei momenti relativi al tempo della scrittura.76 La focalizzazione sulla caserma caratterizza dunque le prolessi del periodo orvietano, tutte interne e fortemente centrate sulla figura del narratore, che a volte vi compare come unico protagonista. Anche quando l’azione non si svolge direttamente in caserma, il mondo militare è presente o tramite personaggi ad esso relativi, o come termine di confronto con la vita esterna.

75 Si tratta oltretutto di un passo anomalo anche sotto il profilo contenutistico, privo com’è di riferimenti alla vita militare, e stilistico, con sintassi irregolare oltre la media di Pao Pao, con la presenza di tre soli periodi in centotredici righe e l’unico accenno in tutto il romanzo al tema della morte (“quella sera così pericolosamente incline a un suicidio bevuto e cinico” - PP p. 70)., che spazio ben più ampio aveva ottenuto nel precedente Altri libertini. La prolessi, espressa quando il narratore si trovava ancora ad Orvieto, potrebbe essere eventualmente spostata ad un tempo compreso tra la fine del servizio militare ed il momento della scrittura, anche se non si parla mai nel testo di un soggiorno romano del narratore in quel periodo, mentre la scrittura di Pao Pao lascerebbe prevedere la presenza di qualche accenno se questa eventualità si fosse verificata. 76 Ad essere più precisi sembrerebbe esistere nelle prime pagina un rinvio al tempo della scrittura, che però si definisce meglio, ad un esame più attento, come intervento dell’autore, cioè metalessi.

167 E’ quanto avviene nella prolessi ambientata in un paesino nei pressi di Orvieto, Allerona, dove il narratore si è recato con un commilitone per l’annuale Sagra dei Pugnaloni: Il Gatto Alessio [...] è ternano, di un paesino vicino ad Orvieto che si chiama Allerona in cui m’inviterà una domenica di maggio [...]. Sarà [...] la Sagra dei Pugnaloni, una specie di festa del Maggio [...]. Saremo con la Faffa e il di lei uomo [...], ho prenotato loro l’albergo in Piazza del Capitano del Popolo, [...] in cui vado per la doccia e le abluzioni che mancano tanto, quanto davvero ho sospirato per dieci minuti su di un bidè profumato (PP pp. 47-48).

La presenza di personaggi esterni e l’ambientazione fuori delle mura della caserma non bastano a cancellare quest’ultima, che compare sempre come termine di paragone, a differenza di quanto succederà nella fase romana, dove spesso la focalizzazione sarà esterna alla vita militare. Fa eccezione l’episodio della finta licenza, del tutto centrato sulla vita di caserma. E’ una prolessi con una forma anomala, dato che, nonostante nella fabula venga chiaramente dopo il momento in cui è inserita, viene narrata al passato, come un chiaro intervento del narratore che ricorda. E’ un’anomalia che colpisce tutto il capitoletto in cui la prolessi è inserita, quasi del tutto ambientato tra le mura della caserma, una vera e propria digressione rispetto alla storia principale, che ormai si svolge all’esterno. E’ una parentesi che - assieme al capitoletto successivo - sembra avere il compito di creare uno stacco tra la fine dell’innamoramento per Lele e la nuova passione per Maurizio, ma che Tondelli sfrutta anche per inserire un episodio già presente in Il diario del soldato Acci, che descrive in tutta la sua brutalità un caso di nonnismo. Il brano, a questo punto del romanzo, risulta un po’ estraneo alla linearità della storia, tanto che ha probabilmente coagulato intorno a sé gli altri avvenimenti della parentesi di vita di caserma, che sembrano far tornare il protagonista alla fase orvietana, cosa che con ogni probabilità giustifica la tipologia della prolessi che è qui contenuta. L’episodio in questione - che si è già avuto modo di incontrare nel confronto tra Pao Pao e il precedente Il diario del soldato Acci - è quello relativo al congedo dell’ottavo. La sua datazione più probabile sembra rinviare ai primi giorni di agosto del 1980, vista l’appartenenza del narratore al IV°/80 e la sua partenza datata a fine aprile, e considerati alcuni indizi presenti nel pezzo in questione, diretti: E’ successo quel che succede ogni martedì d’inizio mese in tutte le nostre italiche caserme (PP p. 136);

o più indiretti: tutti i suoi scagnozzi a vedere [...] chi è dello scaglione più giovane. Così ne beccano cinque spauritissimi e appena appena arrivati (PP pp. 137-138),

168 che segnala attraverso l’estraneità del narratore una sua maggior anzianità di vita militare, spostando il tempo dell’evento un po’ più avanti dell’inizio della fase romana, iniziata nel giugno 1980.77 Una simile plausibile datazione fornisce al frammento narrativo una chiara natura analettica, vista la sua posizione nell’intreccio, dopo che erano stati narrati eventi databili almeno a settembre. Un confronto con Il diario del soldato Acci, se pure non dà indicazioni precise dal momento che non vi si riscontrano indicazioni temporali tranne quella di cui si dirà ora, rivela la pubblicazione del frammento analogo il 22 aprile 1981, come ultima puntata; rivela altresì una datazione relativa rispetto all’anzianità di caserma del protagonista, che, proprio per un incidente occorsogli in quest’occasione, viene anticipatamente congedato: Così, con una gamba rotta, dopo quindici giorni di ospedale militare e dopo sei mesi e cinque giorni di naja, sono messo in congedo e rispedito a casa.78

Ipotizzando una concordanza di tempi tra il servizio militare di Acci, quello del narratore di Pao Pao e quello di Tondelli, concordanza che gli scritti dello stesso Tondelli sull’argomento non sembrano confutare, la data indicata ne Il diario del soldato Acci riporterebbe almeno all’ottobre del 1980. E’ una data che corrisponderebbe perfettamente con il punto della storia in cui l’episodio viene inserito, dopo la separazione con Lele. La sua retrodatazione in Pao Pao, con la conseguente attribuzione all’episodio di una valenza analettica - modalità che non detiene ne Il diario del soldato Acci tutta l’importanza che ha in Pao Pao - svolge due ruoli fondamentali nell’economia del romanzo, connessi alla presenza, nelle immediate vicinanze testuali, di un momento temporale con direzione opposta, e cioè la citata prolessi relativa alla falsa licenza di cinque giorni più il viaggio. Come primo effetto si ha la dilatazione temporale dei due capitoletti in questione e insieme quasi un tentativo di riequilibrare il carattere di una narrazione palesemente orientata ormai sui momenti esterni alla caserma. L’analessi infatti rinvia almeno all’inizio dell’agosto 1980, mentre un accenno del narratore sembra collocare la licenza verso la fine del suo servizio militare:

77 Ci sono due puntualizzazioni temporali relative al trasferimento da Orvieto a Roma, una prima della partenza: “Ma i maledetti lasciamenti sono dopo sopraggiunti in una notte di bufera e tempesta su alla quinta Compagnia a lume di candela [...] tutti noi, dieci o undici del vecchio giro che l’indomani ci saremmo salutati e abbandonati ognuno alla propria destinazione. Notte quindi insonne e trafelata e abbioccata di ritorno da quei disastrosissimi seggi elettorali di inizio giugno 80” (PP pp. 90-91). L’altra si colloca subito dopo l’arrivo a Roma: “Libere uscite dunque e week-end solitari di quell’inizio giugno, passeggiate, grandi meditazioni in S. Luigi dei Francesi, svacchi pomeridiani al Pincio” (PP p. 94). 78 P.V. Tondelli, La borghesia mena, “Il Resto del Carlino”, 22 aprile 1981, ora in Id.,L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., p. 105.

169 Quella volta della fuga andò bene, ero già avanti di scaglione s’era a febbraio se ben ricordo (PP p. 136).

In questo modo il tempo effettivo della storia viene dilatato fino a coprire oltre sei mesi, sui quali si sarebbe altrimenti prodotta un’ellissi di non trascurabile entità.79 Secondariamente, l’accostamento di prolessi ed analessi - in quest’ordine inoltre - non può fare a meno di evidenziare il passo, che oltretutto era già stato segnalato in precedenza per anomalie quali i tempi verbali - che ritornano nell’analessi narrata al presente, mentre per la prolessi, nonostante la sua effettiva posteriorità, veniva utilizzato il passato -, la notevole estensione, oltre cinquantadue righe, e l’ambientazione appunto. Il carattere di digressione del brano è poi sottolineato dal fatto che il romanzo ritornerà subito dopo alla vita esterna alla caserma, per non abbandonarla più fino alla fine.

Altra funzione che spesso viene demandata alle prolessi interne è quella di caratterizzare momenti molto personali per il narratore, che vanno da semplici aneddoti sulla propria esperienza militare: All’infermeria del CAR io andavo a vomitare e lamentarmi per la sinusite che con quel freddo era tornata a farsi viva (PP p. 7),

ad altri più articolati, dove la presenza di un interlocutore consente l’articolazione del discorso su riflessioni personali, come nel caso del colloquio con Filippo, o su considerazioni più generali sulla vita militare, come nel caso del soldato Salarda. Quest’ultimo brano rivela una struttura a due tempi - non nuova per le anacronie di Pao Pao, si pensi all’analessi centrata su Beaujean - che consente il passaggio dall’episodio particolare a considerazioni più generali: Povero imbecille di Salarda che nei giorni a venire tenterà addirittura di imbonirmi e leccarmi e quasi confidarsi con me - una domenica pomeriggio che stavo di servizio e lui non era uscito perché senza assolutamente alleati - di tutte le sue manie artistiche [...]. Povera dunque la Salarda, che poi ha fatto la fine che ha fatto mesi e mesi dopo, trasferito dalla compagnia e allontanato dal capitano per la sua insolenza e boria, si credeva di comandare tutto e tutti, era dentro a un trip del potere unico, ne ho visti tanti comportarsi come lui con il cervello bevuto fino in fondo dall’ideologia militaresca, ragazzotti ignoranti e imbecilli che per via di un miserrimo gallone si permettevano cose atroci con i nuovi arrivati (PP pp. 54-55).

Tondelli confina così le considerazioni del narratore all’interno di un momento decentrato rispetto alla linea principale della storia e allo stesso tempo riesce ad offrire un esempio di un aspetto negativo della vita di caserma, attraverso la creazione di un personaggio che sia sufficientemente tipico da funzionare come modello, senza essere ben

79 Sicuramente un’ellissi su parte di questi sei mesi c’è, anche perché - come si vedrà - non è che la parentesi di vita di caserma riporti del tutto la focalizzazione all’interno delle mura di quest’ultima, ma certo immette una compensazione su di una narrazione fortemente spostata all’esterno.

170 delineato, dal momento che Salarda esiste solo per il suo comportamento ma non possiede dei precisi connotati. Ben diverso appare l’utilizzo della prolessi per esporre riflessioni più personali ed estese da parte del narratore, come avviene in due occasioni. La prima è la già vista anacronia delle pagine 69-71, considerata soprattutto in merito ai problemi di collocazione che pone ed alla sua diversità rispetto alle altre prolessi di Pao Pao. Al di là di queste problematiche, si articola in un lungo monologo del narratore, volutamente separato dal resto della storia, giacché è racchiuso tra due parentesi rotonde, che contiene vari momenti e giunge alla conclusione e al superamento dei problemi posti attraverso l’aiuto di un occasionale interlocutore: (Ma è tutto già successo, e succederà di nuovo quella sera in cui non sentii i Weather Report [...], la sera in cui non feci quello che dovevo fare […], be’ quella sera nutrivo una brutta storia dentro come una bestia che mi rodeva e mi faceva pensare e metteva tutto sossopra con macabri pensieri di morte [...], quella sera così pericolosamente incline a un suicidio bevuto e cinico [...], quella sera bighellona e vagabonda e ubriaca e meditabonda sull’acqua limacciosa del Tevere, ecco quella sera incontrai [...] il vecchio compagno di università Gabriele, a Roma per il corso nella Guardia di Finanza, [...] e gli dissi quel che tutta sera stavo dicendo a me, ho vent’anni ed è ora che capisca come va il mondo, e lui avrebbe raccontato di tutti i suoi sfasamenti di caserma e aggiunto: è tutto un problema che noi siamo cariche affettive che vanno e girano e s’attaccano dove s’attaccano senza possibilità di spiegazione [...], quel che c’è di buono in tutto quello che provi è che domani nient’altro rimarrà che una cicatrice suturata di quel che provi, che si aprirà e richiuderà fino alla fine così come le ore si aprono e si chiudono una nell’altra poiché il Tempo ti ammazza, questo è certo, ma anche ti salva [...]) (PP pp. 69-71).

La presenza di Gabriele è chiaramente solo un artificio per strutturare il discorso, tant’è vero che egli non ritornerà in alcuna altra parte di Pao Pao, ed il collocamento tra parentesi del lungo inserto sembra segnalare, proprio attraverso la sua diversità, una strada che il romanzo avrebbe potuto prendere ma che Tondelli ha saputo evitare, più malinconica e riflessiva e per certi versi anticipatrice di un’opera molto più tarda come Camere Separate. Il medesimo artificio di un personaggio che compare solo in un’occasione, con l’evidente scopo di movimentare le riflessioni del narratore distribuendole tra due interpreti, si riscontra in un’altra prolessi del periodo romano, ambientata a Firenze durante una licenza di cui non si sa altro e simile alla precedente per i toni e le considerazioni pienamente in linea con l’ultimo periodo della produzione tondelliana: Succederà quindi a Firenze durante una mia licenza trascorsa lì nella bellacasa di Filippo, ospite suo per quel pugno di notti in cui continueremo a ragionare dell’amor disperato e ripudiato [...]. E Filippo dirà: “Perché tu ti perdi nel tuo amore, [...] tu vuoi completamente perderti nelle braccia dei tuoi amanti, dimenticarti, innestarti su di una storia meravigliosa proprio perché non tua [...]. Devi lasciarti solamente sfiorare dal tuo amore, se fai tanto di alimentarlo bruci, come stai bruciando ora.” E

171 tornando a Roma di notte avrei pensato [...] alle mani tese e aperte di Filippo che si accarezzavano l’una sull’altra [...] come nel gesto di una preghiera sacra (PP p. 125).80

Sono momenti dunque che la collocazione all’interno di un’anacronia separa dalla storia principale, rispetto alla quale si configurano come vere e proprie digressioni. Sul piano dell’estensione testuale, sembra possibile stabilire come regola - non del tutto vincolante - una certa correlazione con la presenza di riflessioni del narratore. Le prolessi di Pao Pao si risolvono infatti nello spazio di poche righe, rimangono spesso dei semplici accenni, tranne quando contengono appunto argomenti molto personali che danno il via ad estese riflessioni da parte del narratore, come nel caso delle ultime due considerate. Unica eccezione sembra essere la prolessi dedicata alla finta licenza, che si estende per oltre una pagina articolandosi su avvenimenti e non su pause riflessive. Si deve peraltro considerare la struttura anomala del tratto in cui è contenuta, che - come si è detto - ha l’aspetto di un’unica lunga digressione, nella quale la natura prolettica dell’anacronia in questione non è poi chiaramente visibile. Ad una tendenziale brevità testuale non sfuggono le prolessi esterne, che anzi per questo aspetto sembrano le più regolari. La maggior parte - come si è anticipato - è connessa al ritrovamento di un personaggio già transitato sulla scena del romanzo. Questo sembrerebbe essere il loro tema esclusivo, dal momento che anche l’unica che apparentemente verte su un tema diverso, la convivenza bolognese tra il narratore e Beaujean, è alla fin fine riconducibile al prolungamento della vita di un personaggio a romanzo finito, ad un superamento quindi del tempo convenzionale della narrazione. La più interessante concerne l’incontro tra il narratore e Maurizio a Milano, esattamente un anno dopo il congedo. Una prima considerazione riguarda la sua natura di variazione rispetto al frequente schema dell’anacronia articolata su due momenti temporali; in questo caso succede l’opposto, che cioè uno stesso momento narrativo ricorre due volte a distanza di un trentina di pagine. La passione per Maurizio è in un certo qual modo incorniciata dalla sua conclusione che, ripetendo a livello minore la struttura macroscopica del romanzo, ricorre all’inizio e alla fine della parte di testo ad essa dedicata. L’articolazione delle due parti è molto simile, compaiono gli stessi eventi e le stesse considerazioni del narratore, risultando come unica variazione una certa inversione nell’ordine dei paragrafi e soprattutto una più concreta presenza fisica di Maurizio nella

80 In questo caso, la connessione con Camere Separate è resa più manifesta dalla presenza del tema del sacro, tendenzialmente estraneo a Pao Pao, che Tondelli definiva “libro pagano, sensuale” (F. Panzeri- G. Picone, op. cit., p. 78), unico privo di riferimenti religiosi, così presenti nella dolorosa riflessione dell’ultimo romanzo.

172 seconda, che vede l’esposizione dettagliata della sua confessione, che nella prima viene passata sotto silenzio: Maurizio [...] mi farà soffrire e quasi dare di matto una notte all’Amnesia di Milano quando ci rivedremo a un anno da quel nostro congedo e anche se vincerò, [...] anche se correrò alle cinque del mattino a telefonare a Palermo e svegliare la Baffina per farle la spiata, io piangerò completamente ubriaco sulla spalla nuda di Myriam e le dirò: “Quel ragazzo [...] ha mentito per dieci lunghi mesi e come potrei far finta di niente? E’ solo una rivincita che mi prendo, quando invece ho perduto su tutto il fronte”. [...] Berremo piano piano quasi al buio, solo il corpo nudo di Maurizio tagliato nella luce gialla dell’altra stanza che dorme sul letto disfatto (PP pp. 128-129),

e E ci si rivedrà appunto a Milano per quel week-end [...], ci si rivedrà e allora, prima di finire finalmente a letto insieme, confiderà bevuto e stracannato che a Roma aveva un trentenne amante fisso [...] e che al Celio era andato per via di una storia con un ballerino [...]; faremo all’amore dunque e poi, una volta venuto, come sapete, telefonerò in lacrime a Beaujean e a Palermo e dirò agli amici che avevo visto giusto [...]. Mi dichiarerò dunque vittorioso quella notte, magra vittoria per un anno di tradimenti (PP pp. 156-157).

La duplicazione dello stesso evento a segnalare inizio e fine del frammento testuale dedicato a Maurizio trova poi conferma della sua natura di precisa scelta dell’autore: nella seconda, infatti, Tondelli inserisce un breve inciso metanarrativo (“come sapete”), che rimanda inequivocabilmente alla prima. L’intero frammento della relazione con Maurizio viene in questo modo profondamente caratterizzato, tanto che oltre a riflettere - come si è detto - la struttura del romanzo, ne riprende appieno anche la direzione temporale orientata verso il futuro, dato che alla succitata duplicazione della fine della storia bisogna aggiungere un breve accenno alla medesima che Tondelli immette durante la narrazione di uno dei loro primi incontri: [Maurizio] mi bacia ringraziandomi per essere venuto, il nostro primo bacio, il primo segno di una relazione continuamente interrotta che sarebbe durata fino al suo congedo e poi anche oltre fino ad estinzione quella fatidica notte milanese (PP p. 153).

Se si considera che nella trentina di pagine che separano le due prolessi, Tondelli inserisce una lunga parte relativa alla vita in caserma, cosicché l’estensione reale della trattazione della relazione con Maurizio - che nel tempo reale dell’anno di leva dura circa due mesi81 - ammonta a meno di otto pagine, il ricorrere in esse di ben tre momenti relativi al finale le fornisce una forte caratterizzazione verso il futuro.

81 Sono dati che - anche se non direttamente indicati - si possono inferire dalla prima cena tra i due, al ritorno del narratore da una licenza immediatamente successiva ad un avvenimento precisamente datato nel testo: “una sera di settembre troviamo il vecchio giro di Trastevere appena reduce dalle

173 La conferma di ciò compare proprio nell’ultima pagina, quando la presenza di Maurizio tra i personaggi che sfilano per i saluti finali sembra lasciare spazio a qualche possibilità di riapertura di una relazione ormai chiusa, ripetendo così - se pur debolmente - lo sforzo di far superare al romanzo i limiti tradizionali della narrazione, proiettandolo in un futuro che oltrepassa il tempo stesso della scrittura, come già si era osservato a proposito dell’annunciata visita di Baffina: e Sorriso che ancora insiste nonostante tutto il peggio fra noi sia successo, lui da grandingenuo sempre lì a scrivere e chiamare (PP p. 185).

II.4.3 Prolessi e tempi verbali.

Può essere ora interessante verificare quanto detto sulle prolessi esaminando quale sia il rapporto tra la loro tipologia ed i tempi verbali che vi vengono usati. Prima però bisogna premettere una considerazione sull’arbitrarietà della scelta di un tempo di riferimento per Pao Pao, dal momento che lo stesso Tondelli - come si è visto - ha parlato di “tre piani temporali”, vale a dire “tempo dell’io narrante”, “romanzo in senso stretto” e “svolgimento [futuro] dell’esperienza di quegli stessi episodi”.82 Ora è evidente che i concetti di analessi e prolessi assumono il loro valore solamente se si supera la considerazione globale dei tre piani temporali e si sceglie di privilegiarne uno come tempo della storia, relativamente al quale avrà senso appunto parlare di prima e di dopo. Si assuma dunque lo svolgimento dell’anno di leva come diegesi principale, riferimento su cui confrontare i vari momenti testuali, anche se è proprio la compenetrazione tra i vari tempi a favorire la complessità delle prolessi di Pao Pao. La prima suddivisione tra prolessi interne ed esterne viene confermata anche a livello di tempi verbali, dal momento che, mentre le prolessi interne registrano una forte variabilità, quelle esterne confermano la loro sostanziale uniformità con l’adozione sistematica del futuro. E’ una scelta stilistica che si dimostra in linea con la temporalità della fabula, dal momento che spesso le anacronie in questione si proiettano addirittura oltre il tempo della scrittura. Tondelli conferma così la volontà di far finire il romanzo ma di non dare viceversa una veste definitiva alla storia, di cui si dà per scontata la continuazione, adottando il tempo verbale più indicato, il futuro. Le prolessi interne presentano a loro volta una suddivisione tra quelle articolate in diversi tempi verbali e quelle che fanno uso di un solo tempo.

vacanze in Grecia” (PP p. 126). Quanto alla fine della relazione, dopo il congedo di Maurizio, la narrazione riprende con eventi legati al sisma in Irpinia del 23 novembre 1980. 82 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 50.

174 Queste ultime non godono in genere di una particolare complessità, anche in considerazione dello spazio testuale piuttosto esiguo che occupano, limitato a poche righe. Non si riscontra un tempo verbale dominante, mentre sembra essere costante un vincolo piuttosto stretto con il tempo del servizio militare. Per quanto si tratti in fondo di un frammento di poche righe, la prima assume un’importanza fondamentale perché introduce quello che sarà il tempo fondamentale del romanzo, il presente.83 E’ la già vista anticipazione sulla parata annuale con la quale si apre e si chiude il romanzo. Sotto il profilo dell’estensione testuale fa eccezione la prolessi dedicata alla Sagra dei Pugnaloni, che ospita una digressione ‘folklorica’ e va articolandosi in due tempi, e cioè sagra vera e propria e successivo uso della stanza d’albergo degli amici da parte del narratore. Il suo interesse principale sta nel configurarsi come momento di contrapposizione tra la vita esterna e la caserma, che, se pure assente, si pone sempre come termine di paragone. Ben più complesse - e significative - risultano invece le prolessi articolate in più tempi verbali. Sviluppano in genere due momenti testuali ben distinti, e cioè un’interruzione che segnala il carattere prolettico del frammento, seguita dalla narrazione vera e propria, dove tale carattere può anche essere assente. Compaiono varie possibilità, generalmente rappresentate da frammenti testuali piuttosto estesi, che, rispetto al tempo verbale nell’introduzione, si possono dividere in due gruppi, ognuno dei quali in qualche modo avrà significato. Nel primo gruppo la prolessi viene introdotta col futuro per passare poi agli altri tempi verbali, da soli o combinati. Una tipologia presenta lo sviluppo della narrazione tra presente e passato. Ne è un esempio il già visto episodio del colloquio con Filippo, ambientato durante una licenza a Firenze negli ultimi mesi di militare (cfr. PP p. 125). Al verbo al futuro, “succederà”, che introduce il brano, è demandata la posizione temporale del frammento narrativo. Una volta stabilito ciò, diventato cioè chiaro il carattere di parentesi del pezzo rispetto all’ordine della fabula, non crea più alcun problema il passaggio, durante la narrazione, ad un tempo diverso, in questo caso il presente, nel quale si svolge il dialogo tra i due.84 Una volta terminata questa fase si passa ad una riflessione del narratore, che sta

83 Bisogna ad ogni modo specificare che spesso si tratta di un presente storico, che come tale viene contraddistinto da una temporalità particolare. 84 Va notato ad ogni modo, che solo il dialogo viene reso tramite l’uso del presente, che sicuramente gli conferisce una maggior vivacità, mentre anche le brevi formule che introducono il personaggio che parla continuano ad utilizzare il futuro (“Filippo dirà”). Si può quindi affermare che la narrazione è sempre condotta al futuro, perché il presente caratterizza solo le parole dei personaggi, siano esse in discorso diretto o indiretto, non il raccontare.

175 ritornando a Roma in treno, riflessione in cui il tempo dominante è il passato, nel modo del condizionale che introduce delle relative all’imperfetto indicativo. Ci si trova così di fronte ad una struttura temporale rovesciata, nella quale i periodi esprimono un movimento che è perfettamente contrario all’effettivo flusso temporale degli avvenimenti: l’evento più lontano nel tempo - l’introduzione dell’argomento - viene reso al futuro; si prosegue poi con il presente, per arrivare ad utilizzare, per quello che nel contesto del frammento è il momento posteriore - la riflessione del narratore sul colloquio con Filippo - il passato. Un confronto con un altro frammento narrativo conferma le considerazioni precedenti e lascia individuare nella scrittura tondelliana la ricerca di una struttura ben precisa. Si tratta della lunga digressione che occupa il quarto paragrafo del quattordicesimo capitoletto, della quale si è già parlato. Come la precedente, sviluppa nel finale una riflessione su se stessi, che sembra quindi essere fino a questo momento il principale motore delle inversioni temporali. La struttura è la medesima, con un verbo al futuro (“succederà di nuovo”) che introduce uno svolgimento al passato (“non feci”; “incontrai”) infarcito di dialoghi al presente (“siamo cariche affettive”), secondo una varietà di tempi verbali che acquista un valore esemplare alla luce delle prime parole del narratore, che legano passato e futuro in una continuità di esperienze che si iterano uguali a se stesse (cfr. PP pp.69-71). Il ritorno al futuro nel finale, dove, analogamente all’inserto precedente, la focalizzazione si fissa unicamente sul narratore, facendo scomparire il suo occasionale interlocutore, fornisce alla prolessi una struttura circolare, che sembra essere la tipologia più ricercata da Tondelli: “Sarà allora […], sarà in quella notte che deciderò di non aprire più parentesi nella mia vita senza la certezza di poterle chiudere” (PP p.71). Anche in questo caso si ha una sorta di cornice metanarrativa, costituita dai due momenti con i verbi al futuro e soggetto il narratore, che contiene lo sviluppo, in questa maniera fedele al flusso temporale con inizio al passato, considerazioni dei due personaggi al presente e conclusione del discorso di Gabriele al futuro (“[Gabriele] avrebbe detto passerà”). Un altro esempio contribuirà a chiarire le diverse posizioni narrative che tendono a coincidere. Si tratta della prolessi che ha per argomento i rapporti del narratore con il furiere Salarda e il successivo destino di costui. Vi compare la frequente suddivisione del frammento narrativo in due diversi momenti temporali, segnalati dalla diversità dei tempi verbali. Il primo momento è relativo ad un futuro non lontano dal punto in cui si trova la narrazione quando viene esposta la prolessi, e viene raccontato al futuro con i consueti inserti di passato e di presente. Esso fa da preambolo al secondo inserto, meno preciso da

176 un punto di vista temporale, ma presumibilmente piuttosto lontano, (“mesi e mesi dopo” - PP p. 55), costruito su di una narrazione costantemente al passato: [Salarda] nei giorni a venire tenterà addirittura di imbonirmi […] - una domenica pomeriggio che stavo di servizio […] -. Perché lui ha scovato un posticino dietro ai magazzini dove va a dipingere […]. E avendo io ormai familiarizzato […] con tutta la Compagnia, […] la serpe si fa sotto con tutte le sue storie, povera repressa ma io non concederò tanto così, nulla più di un “be’” e “cioè”. Povera dunque la Salarda, che poi ha fatto la fine che ha fatto mesi e mesi dopo, trasferito dalla compagnia […], si credeva di comandare tutto e tutti, era dentro a un trip del potere unico (PP pp. 54-55).

I due inserti, che naturalmente sono adiacenti, rivelano dunque una struttura assai diversa sotto il profilo dei tempi verbali. Il primo ripete la già vista struttura circolare con il futuro che inizia e chiude la prolessi, mentre il secondo applica una regolarissima sintassi al passato. In un certo senso è come se ci fossero due diversi narratori a raccontare la storia: nel primo momento c’è un io narrante che la racconta da protagonista al’altezza della fabula, secondo le regole della normale temporalità. Quando, viceversa, il protagonista cede la parola al narratore, che racconta gli eventi da una posizione temporale posteriore - il momento della scrittura - la narrazione ritorna al passato o al massimo fa uso di un presente storico. In questo modo i diversi piani temporali si intersecano anche in frammenti testuali a stretto contatto, e il cambiamento temporale segnala il passaggio da un io narratore ad uno protagonista. Anche la storia passa così da vissuta nel suo svolgersi a narrata. C’è un passo nel secondo momento che esemplifica ed evidenzia questo cambiamento, proprio quando il narratore ci dà delle informazioni - relativamente dettagliate - sul destino futuro di Salarda, specificandolo anche in senso temporale col già annotato “mesi e mesi dopo”. La durata della permanenza ad Orvieto del narratore è di soli due mesi, e a questo punto della storia si è ancora nel primo mese; dopo il trasferimento a Roma - del resto non molto lontano nel tempo - ben difficilmente il narratore sarebbe stato in grado di conoscere le peripezie del furiere Salarda. Certo è ipotizzabile che egli sia venuto a conoscenza di ciò attraverso l’incontro con i vecchi compagni di Orvieto o in qualche altro modo, ma in sostanza con quella specificazione temporale cambia l’aspetto del narratore, che da io narrante, protagonista della storia che racconta, diventa narratore onnisciente e a questo punto, perlomeno per queste poche righe, anche eterodiegetico. Ecco quindi che il cambiamento della temporalità verbale, segnalando il passaggio da uno all’altro di questi, assume un significato particolare in riferimento ai diversi piani temporali

177 che s’incrociano nel racconto, con le conseguenze che ciò comporta per gli altri aspetti della narrazione.85 Un secondo gruppo prevede la parte introduttiva della prolessi al passato e la sua prosecuzione al presente. E’ una sequenza che si riscontra in due episodi, entrambi contenuti nella lunga digressione ambientata in caserma che a sua volta si situa nel testo all’interno della narrazione della relazione con Maurizio. Il primo caso è il frammento sulla finta licenza e sulle sue conseguenze in caserma; vi si riscontra un’introduzione al passato quasi inavvertibile ed una narrazione che poi fa largo uso del presente: Quella volta della licenza di due giorni tramutata da me stesso in un cinque più due con permessini falsi e copertura di furieri […], quella volta in cui credevo di averla scampata mi raggiunge una telefonata minacciosa a casa; devo rientrare immediatamente in compagnia, […] rischio il processino. Così corro a Roma e quando rientro stravolto tutti son lì a dirmi l’hai fatta grossa imbecille e ora la paghi […]. E il capitano mi fa un cazziatone della madonna dice che non sono un bambino […] riprenditi la tua licenza e tornatene a casa subito. […] prendo il foglio e torno a casa, altri due giorni di pausa eppoi ritorno. E allora cominciano i guai perché se ho messo tutto a posto col capitano facendomi calpestare nell’orgoglio, con la giustizia dei najoni il conto è aperto […]. Interviene allora Compà Stani che si mette a tramare e smistare relazioni, […] mi difende, dice tutte delle storie in dialetto che io non capisco però ce la fa (PP pp. 134-135).86

L’uso del presente distingue la prolessi dalla storia vera e propria, che viene narrata al passato, consentendo così una rapida identificazione dei confini dell’anacronia. Prima di essa infatti il narratore stava raccontando del suo rapporto con Stani: Benché giovanissimo il perito nautico Stani prese a proteggermi […]. Mi cacciavo spesso nei pasticci (PP p. 134);

appena la prolessi termina la narrazione torna al passato, all’interno dello stesso periodo, senza soluzione di continuità: Tutto poi si risolve con il passar dei giorni, loro si congedano e arriva un’altra legge a dominare, sempre così, […] una cosa da dar di matto, alle volte mi pareva di essere davvero un idiota a menarmela con questa gente (PP p. 135).

85 Bisogna peraltro specificare che la percezione di questi cambiamenti non è sempre così immediata, dal momento che sembra a volte che Tondelli cerchi di mimetizzarli nel testo. Nel caso in questione, per esempio, il lettore, a quel livello della narrazione, non conosce gli sviluppi futuri del servizio militare del narratore, quindi, non essendo a conoscenza del suo trasferimento a Roma, non si può accorgere dell’incongruenza evidenziata. 86 Si consideri, ad ogni modo, che l’introduzione al passato, se pure poco evidente, è rafforzata dall’indicazione temporale - “quella volta” - che produce, tramite il determinante, un effetto di distanzazione, accentuato dalla sua posizione anaforica.

178 Anche in questo caso dunque, Tondelli segnala la prolessi con l’adozione di un tempo diverso per la sua esposizione, ma in un certo qual modo ne confonde il carattere, facendolo sembrare un avvenimento del passato rispetto alla sua collocazione nella diegesi principale.87 Inoltre, l’omogeneità del narratore rispetto a quanto precede e segue contribuisce a rendere il racconto uniforme e scarsamente riconoscibile nel suo aspetto di anacronia in mancanza di precise puntualizzazioni temporali. Leggermente diverso l’altro caso, relativo al già visto episodio del congedo dell’ottavo, molto più articolato. Esso sviluppa una lunga digressione, che inizia al passato, come se il narratore stesse ricordando e il testo adottasse quindi come piano temporale il momento della scrittura; procede così per qualche riga, approfittando poi delle prime parole messe in bocca a un personaggio - ancora in discorso indiretto del resto - per passare al presente e non abbandonarlo più fino alla fine, anzi rispettando rigorosamente il corretto ordine temporale, tanto che la conclusione della digressione vede comparire il futuro: Fu proprio col congedo dell’ottavo che scoppiò il casino, talmente grande che poi per qualche mese regnò, la notte, il più assoluto silenzio.[…] E’ successo quel che succede ogni martedì di inizio mese in tutte le nostre italiche caserme, un gruppo di ragazzi che si congeda e saluta il suo passato […] di dodici mesi in divisa. […] Loro sono rientrati in venti completamente ubriachi e sfatti […]. Appena si sente questo bordello Stani mi viene a chiamare, dice di saltar giù dal letto immediatamente e di vestirmi e dice anche fai presto Maeshtro […]. Ma quella notte nessuno riuscirà a dormire, io me ne andrò con Stani nel piazzale a smaltire la paura e il mattino ci vedrà ancora lì con gli occhi sfatti e le labbra gonfia e la barba che punge (PP pp. 136-140).

A fine prolessi, fin dall’inizio del paragrafo successivo, si ritorna al normale passato della narrazione: “Ma Compà Stani è stato magnifico in quei mesi” (PP p. 140). Anche in questo caso sembra sussistere un sovrapporsi dei diversi spazi temporali, dal momento che il narratore inizia a raccontare la storia ponendosi nel tempo della scrittura, ed è la fase contrassegnata dal passato, che vede addirittura l’uso iniziale del passato remoto per evidenziare l’inizio della prolessi rispetto al precedente svolgimento della diegesi all’imperfetto. Poi subentra un avvicinamento progressivo al momento prolettico vero e proprio, tramite il passaggio a forme come il passato prossimo e l’imperfetto, che in questo caso segnala l’ingresso del narratore nel racconto. Ecco quindi che si realizza un primo cambiamento da apparente narratore extradiegetico a narratore omodiegetico, che prevede inoltre uno slittamento sul piano temporale del racconto vero e proprio, con un narratore

87 Come si è visto Tondelli inserisce nelle considerazioni che seguono l’episodio vero e proprio un’annotazione temporale (“s’era a febbraio se ben ricordo” - PP p. 136), che rivela il vero carattere del frammento narrrativo, inserito quando la diegesi si datava autunno 1980.

179 che descrive una storia a cui partecipa come personaggio. Il tempo verbale che contrassegna questa fase è il presente, che non viene mai abbandonato per tutta la durata dell’azione, cioè la quasi totalità della digressione. Nell’ultima parte però, il narratore sembra tornare al suo ruolo iniziale, pur rimanendo ancorato anche a quello di personaggio, ed è il momento contraddistinto dall’uso del futuro, con un nuovo spostamento del piano temporale. Un ultimo caso si discosta leggermente dalla tipologia descritta, per l’estensione testuale ridottissima, nella quale però Tondelli riesce a collegare narrazione, momento prolettico ed infine intervento del narratore di carattere metalettico: Insomma il telefono sul mio tavolo era un continuo squillare e informarmi delle storie che [...] sarebbero culminate, almeno per me, in un terrificante febbraio-marzo che ancora mi trascino e a cui mi piace andare in certi momenti sospesi in cui guardo da questa casa i tetti rossi di Bologna (PP p. 109).

Il confluire in un unico periodo dei tre diversi piani temporali amplifica il carattere realistico della narrazione, complice anche una tendenziale confusione tra io narrante e autore, sostenuta dai frequenti riferimenti al momento della scrittura. Qui è come se il tempo di riferimento diventasse il presente usato per la metalessi, con la narrazione correttamente svolta al passato - imperfetto indicativo nel caso - e l’uso del condizionale presente per collocare la prolessi in un momento posteriore del racconto. L’indicazione temporale accompagna ad ogni modo le varie fasi del testo, onde meglio specificare i diversi piani temporali: “febbraio-marzo che ancora mi trascino”, con l’ausilio inoltre della finale indicazione geografica a differenziare il momento anche spazialmente: “i tetti rossi di Bologna”. Rovesciamenti dell’ordine dei tempi verbali, strutture circolari, analessi che sfociano in prolessi, con queste ultime che spesso fungono da occasione per inserimenti metalettici del narratore; una consapevole confusione di ruoli tra io narrante personaggio, narratore che ricorda e autore; eventi al di fuori del giusto ordine temporale mimetizzati nella storia ma non privi di indizi che segnalino tale incongruenza; estrema precisione nella datazione di alcuni momenti, soprattutto quando sono legati alla storia dello Stato, e altri passi che sembrano contraddistinti da una atemporalità costitutiva; un grande uso di variazioni della velocità narrativa, grazie a tecniche come la scena e il sommario, sia a livello macrostrutturale che nel singolo episodio, fanno esprimere a Pao Pao una forte tensione verso la confusione temporale. Infatti, l’adozione di tre differenti piani temporali che si intrecciano in maniera non sempre evidente ed un tessuto testuale ricco di particelle intercalari che richiamano il momento della scrittura, sembra negare continuamente l’ordine della diegesi, alla ricerca di un ‘non piano temporale’, che diventa il tratto fondamentale del

180 romanzo, nel quale tempo della diegesi, tempo del racconto e avvenimenti ad esso posteriori, si fondono in un unicum narrativo.

II.4.4 Le indicazioni temporali.

Due altri elementi rientrano in questa costruzione, uno a segnalare la presenza del narratore che ricorda, l’altro a significare l’adozione di misure temporali che vadano al di la del consueto conteggio dei giorni.88 Il primo è l’inserimento del tempo della scrittura nel tessuto narrativo, tramite particelle intercalari che segnalano il riepilogo della memoria prima del racconto. Quella che meglio svolge questo compito è la congiunzione “dunque”, che ritorna con un’alta frequenza nelle pagine del romanzo. Come scrive Canobbio, la congiunzione “dunque” sembra essere lì a riannodare un discorso che continua, o comunque a riordinare le idee, le immagini, di un flusso di ricordi che scorre senza interruzione. […] Il monologo del narratore ha bisogno di questo piccolo respiro per prendere ossigeno, per ridarsi un nuovo slancio. E’ insieme un riprendere il discorso in senso connettivo e un tirare le somme in senso conclusivo. […] “Dunque” ci avverte che la natura del ricordo è di essere confuso e frammentario, e che il narratore vorrebbe ricordare senza tradire quella natura.89

Altre congiunzioni vengono usate con la stessa finalità, come “allora”, “insomma”, “comunque”, con una frequenza però molto minore. Il loro utilizzo principale è quasi ad inizio paragrafo, più raramente ad inizio periodo, e questo rafforza le affermazioni di Canobbio sul loro legare momento del ricordo e racconto, inserendo nella diegesi il presente del narratore. La congiunzione diventa allora un annuncio di una prossima variazione nel testo, del passaggio ad un - per quanto a volte debolissimo - momento metalettico: Ebbi nettissima la sensazione che lui mi accogliesse a braccia aperte nel suo giro per liberarsi d’un colpo solo sia della sorellanza con la Bella Perotto sia delle insistenze amorose della Baffina. Cosa che puntualmente avvenne. L’amicizia con Jean diventò allora molto più di una solidarietà cameratesca, fu il crescere e consolidarsi di una dolce consuetudine […] che avrebbe sorvolato quei dodici mesi proiettandosi poi nella quotidianità di una sospiratissima convivenza bolognese che dura tutt’ora […], insomma il senso di aver sconfitto vittoriosamente quel periodo […], rilanciandolo nell’esperienza e nel fluxus delle nostre vite,

88 Tondelli cerca di evitare accuratamente lo stereotipo del soldato che conta i giorni mancanti alla fine del suo anno di leva, motivazione che certo influisce sia sulle scelte temporali dell’opera, sia sull’accordare i tempi del romanzo a quelli delle stagioni, come si avrà modo di vedere. 89 A. Canobbio, op. cit., p. 40.

181 cosicché anche tutta questa storia che racconto […], continua a mischiarsi e continuare nel ritmo dei nostri giorni (PP pp. 98-99).

Questo è un esempio molto eclatante di passaggio da narrazione a considerazioni metanarrative del narratore che si collocano in un diverso piano temporale, ma mostra come la congiunzione “allora” funga da avvertimento del passaggio che sta per avvenire, in questo caso esplicitato dalle ultime parole del narratore, che diventano quasi una dichiarazione programmatica nei confronti del romanzo intero: “questa storia che racconto […], continua a mischiarsi e continuare nel ritmo dei nostri giorni”. Più spesso il ruolo della congiunzione è semplicemente quello di indicatore dell’attività della memoria che sta alla base del racconto, un momento di ricapitolazione necessario per lo stesso suo svolgimento: L’estate con Lele dunque sono soprattutto i nostri appuntamenti alla vasca di Piazza Colonna e le camminate fino a Trastevere (PP p. 118).

L’uso insistito della congiunzione “dunque” e di altre simili rende quindi il narratore sempre presente nella storia, anche - e soprattutto - quando la storia che viene raccontata sembra metterlo in secondo piano o presentarlo nel solo ruolo di personaggio. Sempre di particolare interesse in relazione alla temporalità del romanzo è la misurazione del tempo attraverso riferimenti alle stagioni e al tempo atmosferico, spesso in connessione con indicazioni spaziali, che contraddistingue soprattutto la sezione orvietana di Pao Pao.90 Tale procedimento fornisce, talvolta, una scala di espressione del passare del tempo che ne riflette il ritmo, soppiantando infine i tradizionali sistemi di misurazione, con una soluzione che supera l’ossessione del tempo che passa, nascondendone appunto la percezione. Tondelli evita di fornire dati precisi sui riferimenti temporali, sostituendoli con altri molto più generici, come in questo caso la primavera. E così che a volte la ‘scoperta’ della variazione del tempo atmosferico suscita la coscienza del tempo passato, spesso con un’evidente reazione di sorpresa da parte del narratore. Nello spazio di poche pagine si assiste al passaggio da inverno a primavera, anche in senso metaforico, dal momento che, dopo i problemi dei primissimi giorni, si realizza un certo qual ambientamento nella caserma: Intanto piove e fa freddo. La rupe di Orvieto è perennemente affossata nelle nebbie ghiacciate e fra pochi giorni sarà maggio […]. Ma intanto piove. Piove. A dirotto, a scrosci, a catinelle, a fiumi, a laghi, a cascate (PP p. 42).

90 E’ una dislocazione motivata dalla particolare attenzione che il soldato di leva dedica al tempo, soprattutto nei primi tempi del suo ambientamento in caserma, prima cioè di trovarvi una propria collocazione. In Pao Pao si unisce alle già viste motivazioni che giustificano la focalizzazione sulla vita di caserma nella prima parte. E’ perfettamente consequenziale che con la variazione di focalizzazione dall’interno all’esterno, s’indebolisca anche questo meccanismo.

182 E nemmeno mi accorgo che il tempo finalmente s’è voltato al bello, che le dighe si son chiuse e che finalmente […] vibra l’aria nuova della primavera (PP p. 55).

Il cambiamento è netto, anche per l’amplificazione fornita al testo dalla disseminazione della descrizione della pioggia, mentre segnale della voluta occultazione dell’attenzione verso il tempo è la reazione di sorpresa di fronte all’arrivo della primavera. Il nesso tempo atmosferico/spazio geografico accompagna spesso, ad ogni modo, i momenti cruciali del romanzo, a cominciare dall’iniziale quel nostro primo e gelido inizio di servizio militare su alla rupe di Orvieto, fine aprile dell’ottanta o giù di lì, ma ancora un vento gelido e sferzante spazzava la piazza d’armi (PP p. 7),

per finire con l’annuncio dell’ultimo grande innamoramento, quello del narratore per Erik: E’ allora una Roma fredda, piovosa e bagnata, spazzata da furiose raffiche di vento […] quella che io percorro solitario […]. E’ una Roma ormai definitivamente invernale quella la cui luce si spegne già nel primo pomeriggio […]. Ma questa è anche la gelida Roma in cui incontro Erik, […] il mio amore per sempre (PP p. 158).

L’accostamento degli eventi principali della storia ad una periodizzazione di questo tipo ordina da ultimo il romanzo in una sequenza a tappe, che gli fornisce un carattere inequivocabilmente ottimista e rivolto verso il futuro, un percorso per certi versi analogo a quello individuato per Altri libertini. Dal cupo clima iniziale, che contrassegnava il primo periodo alla rupe di Orvieto, “perennemente affossata nelle nebbie ghiacciate” (PP p. 42), ci si indirizza presto verso “l’aria nuova della primavera” (PP p. 55), per poi passare all’”ozio delle domeniche pomeriggio” (PP p. 100) durante la frizzante ‘Estate Romana’, in una Roma che diventa “lo scenario per i nostri intrighi d’affetto e di sex” (PP p. 109), “un giaciglio morbido sul quale dare il via all’espandersi dei nostri sentimenti di testa” (PP p. 112). Lo stesso inverno che caratterizza l’ultima parte del romanzo, prende una veste positiva, nonostante “una Roma fredda, piovosa e bagnata” (PP p. 158), poiché è lo scenario dell’amore con Erik, che il narratore definisce quasi subito “una storia unica e importante nel fluxus della mia esistenza” (PP p. 161) e che non a caso culminerà “alla fine del gennaio […] quando finalmente le piogge si asciugheranno in un anticipo primaverile” (PP p. 161). La conferma di questo percorso del testo è fornita dalla parata dei granatieri che chiude circolarmente il romanzo, dove naturalmente è presente l’immancabile annotazione temporale, analogamente a quanto era successo all’inizio. Pao Pao era infatti iniziato dall’evento finale, una parata dei granatieri a Roma, che riportava a circa un anno prima (cfr. PP. p.7); lo stesso avvenimento chiude ora il libro - alla descrizione della parata segue solamente la carrellata finale sui personaggi - aprendone però la struttura circolare proprio

183 per mezzo di quella variazione sull’indicazione temporale (calcolata sui giorni mancanti alla fine e non sulla distanza dall’inizio) che gli dà un evidente carica metaforica di percorso - come si è visto - non chiuso ma proiettato verso il futuro: Ma Renzu, il mio grandamico Renzu lo rivedo per l’ultima volta in una bella mattinata romana di fine marzo a non più di una decina di giorni dal nostro congedo (PP p. 180).

Anche sotto il profilo contenutistico, Tondelli conferma la direzione del testo, per mezzo delle affermazioni del narratore sulla storia che sta raccontando: Ma le occasioni della vita stupiscono mai abbastanza nella loro insensata frammentarietà che poi un bel giorno miracolosamente si salda in una sottile e delicata vibrazione che riaccorda e riannoda e uniforma il tono di diversi percorsi e allora, nonostante i dolori e le precarietà dei nostri anni giovanili la vita sembra rilevarsi come una misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire; e allora in quell’attimo abbagliante tutto pare ricomporsi nella gioia di sentirsi finalmente presenti agli occhi della propria storia, la pazzesca consapevolezza di trarre a sé tutti i fili intrigati e sparsi del proprio passato (PP p. 157).

E’ un’immagine che doveva essere molto cara a Tondelli, perché, oltre a riprenderla poco più avanti per chiudere il paragrafo, centrato sulle riflessioni del narratore in seguito agli incontri che continua a fare coi personaggi della storia che sta narrando - anche questo un modo per accentuarne la continuità -, ne fa uso per chiudere il romanzo qualificandolo come momento di un percorso più grande che è la vita stessa e orientando così definitivamente verso il futuro la direzione della storia: Le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo (PP p. 185).

II.5 Una galleria di personaggi.

L’immagine conclusiva di Pao Pao è dunque la parata di fine marzo, mediante la quale molti tra i personaggi più significativi del romanzo si congedano dal lettore con un’ultima significativa apparizione, subito doppiata dalle riflessioni del narratore. La loro presenza evidenzia un aspetto immediatamente percepibile di Pao Pao, e cioè l’incredibile affollamento di personaggi che ne movimenta le pagine. E’ una caratteristica propria della narrativa di Tondelli fin da Altri libertini, dove si può interpretare come fatto costituzionale, dal momento che la particolare suddivisione

184 dell’opera in sei storie facilita e giustifica la comparsa di numerosi personaggi, al punto che proprio rispetto a questo aspetto si è spesso usata per il libro la parola catalogo.91 In Rimini Tondelli farà uso di un meccanismo per certi versi analogo, facendo diventare i sei episodi che in Altri libertini comparivano piuttosto slegati le diverse storie - di fatto separate - che nel romanzo vengono unificate dalla comune ambientazione, collegate tra l’altro dai medesimi fili che si erano evidenziati per Altri libertini, vale a dire dal passaggio più o meno marcato dei personaggi di una storia nelle vicende di un altra.92 Rispetto agli altri, Pao Pao presenta una vera e propria folla di personaggi, dal momento che le sue pagine ne ospitano oltre un centinaio. Una tale densità serve sicuramente a Tondelli per evitare di far ristagnare la narrazione, che al contrario fruisce così di una notevole variabilità, per quanto le varie voci siano filtrate da quella del narratore. Tale filtro deriva dalla natura dell’opera come testo che nasce da un’operazione della memoria, e dall’esigenza di unificarne gli esiti per non incorrere nell’opposto pericolo di causare un’eccessiva dispersione. A prescindere da queste osservazioni, la motivazione principale dell’elevato numero di personaggi in Pao Pao sta nella sua natura di testo collettivo, di “resoconto della vita di una piccola tribù”93, come diceva Tondelli a due anni di distanza dalla pubblicazione, quando, riferendosi al romanzo, parlava anche di “bisogno di pensare a un gruppo di personaggi, non solamente a un eroe”.94 Sono considerazioni che del resto il narratore di Pao Pao aveva già anticipato, quando in un intervento metanarrativo, subito dopo l’arrivo in caserma, aveva chiarito il contenuto del libro, facendo una prima carrellata sui protagonisti quasi speculare a quella del finale, identificando poi la natura del testo: Emanuele. Come Renzu, Elio, Tony, Gianni, Michele, Maurizio, Giulio, Renato, Antonio, Raffaele, Stanislao, Paolo. Come Beaujean, Miguel, Pablito, Enzino, Baffina, Bella Perotto, tutti i volti della nostra combriccola in divisa che ora […] io sogno e inseguo e ricalco e descrivo, gente che ho amato e a cui ho voluto granbene, gente che non m’ha lasciato, ragazzi bellissimi e altissimi, poiché questa che state leggendo è tutta una storia di gente alta e gente bella, di eroi da romanzo, impervi, granitici, sublimi. Questo è il racconto trafelato di come ci siamo incontrati

91 Come sostiene La Porta: “Il libro si offre come un attendibile catalogo di tutti i miti e le figure dell’immaginario giovanile di quegli anni, almeno relativamente ad un’area diciamo ‘alternativa’ (movimento del ‘77 e dintorni, comprese le frange meno politicizzate)”. F. La Porta, Tra mimesi e dissimulazione, cit., pp. 263-273. 92 A ben guardare l’incontro tra Marco Bauer e Bruno May, o, analogamente, quello iniziale con la giovane tedesca - ma sono entrambi solo degli esempi tra tanti - sono l’evoluzione delle rapide comparse di alcuni personaggi in storie apparentemente non loro che in Altri libertini erano state individuate come tessuto connettivo dell’opera intera. Si veda, per esempio, quanto detto a proposito della fugace apparizione delle quattro Splash in Senso contrario. 93 P.V. Tondelli, Post Pao Pao, cit., p. 12. 94 Ibidem.

185 e di tutte le intensità che ci hanno travolto per quei dodici mesi. […] E’ per loro, gli altissimi che ricordo questa storia (PP p. 16).

E’ un testo collettivo, ma di una collettività ben identificata, spesso accomunata dal frequente motivo dell’alta statura, in opposizione al mondo esterno che, con un effetto di contrappunto, viene usato per amplificare il carattere suddetto: Ci ritroviamo […] così armoniosi nei nostri quasi due metri di altezza che mi pare di dominare tutta questa folla nana di Roma che striscia ai nostri piedi, che urla, che stragatta, che romba e pena e sbraita e noi invece che passeggiamo olimpici sull’onda delle nostre serafiche stature (PP p. 119)95

Attraverso il confronto/scontro della piccola “tribù” con il mondo circostante viene immessa nel romanzo una miriade di personaggi, a cominciare dagli altri commilitoni. La struttura che sta alla base del loro inserimento è il procedimento classico dell’infilzamento, che Tondelli rivisita adattandolo alle proprie esigenze. Il narratore di Pao Pao è infatti assimilabile ad un eroe da romanzo picaresco che passa di avventura in avventura, secondo uno schema già utilizzato, all’interno di Altri libertini in Viaggio, che anche nel nome ricorda il meccanismo più diffuso dei racconti a infilzamento. In Pao Pao la caserma - in un primo momento - sostituisce il viaggio come motivazione narrativa delle avventure del protagonista, configurandosi come uno spazio poliedrico, formato da numerosi altri ambienti minori, ognuno dei quali diventa occasione di una nuova esperienza che al tempo stesso si configura anche come strumento narrativo per l’inserimento dei vari personaggi nella storia. Il narratore effettua un vero e proprio ‘viaggio’ tra i singoli ambienti della caserma, caricati a volte di una valenza apertamente metaforica, come nel caso del magazzino della vestizione, descritto - come si è visto - secondo una rappresentazione da inferno dantesco. Ed in ogni singolo spazio s’incontrano svariati personaggi, che ricoprono differenti ruoli narrativi, secondo una struttura che, in ultima analisi, è riconducibile agli elementi costitutivi del racconto tipo. Per restare al magazzino della vestizione, si noti come i personaggi che vi appaiono siano facilmente identificabili come funzioni del racconto, suddivisibili infine tra ‘aiutanti’ del personaggio e suoi antagonisti. Ecco quindi comparire da una parte “un biondino di Como” che sorregge il narratore in un momento di crisi, dall’altra “i soldati addetti alla vestizione [che] continuano a sbraitare gettando di continuo bracciate di indumenti nei nostri sacchi” (PP p. 26), o il maresciallo che urla e grida ad ogni recluta che sembra perdere tempo; il superamento dell’ostacolo principale, rappresentato dalla mancanza di indumenti della taglia adatta, avviene da ultimo ad opera di un altro

95 Il motivo dell’alta statura compariva, con un’analoga funzione, già in vari punti di Altri libertini, ad esempio: “Mattia […] arriva all’uno e novanta come me e quando lo abbordo mi piace da morire girare con lui che mi fa sentire normale e la gente ci guarda che ci fa sentire i figli del Walhalla perché uno alto da solo è uno scherzo di natura ma in due è una razza superiore” (AL p. 125).

186 personaggio, la sarta “grassotta, occhialuta e kapò” (PP p. 27), che congeda alla fine il protagonista dandogli appuntamento una settimana dopo per il ritiro degli indumenti mancanti.96 E’ chiaro che nel brano in questione l’attenzione dell’autore è puntata da una parte sull’accelerazione narrativa che il reperimento degli indumenti, identificabile nel testo come il momento specifico dell’avventura, comporta, e dall’altra nella costruzione del personaggio della sarta, che se non è il primo a ricevere una descrizione sufficientemente dettagliata - c’era già stato l’incontro con Lele, e pure l’amico Giorgio aveva ottenuto una certa simile attenzione - è certo il primo di una numerosa ed eterogenea galleria di personaggi- caricatura che caratterizzano fortemente le pagine di Pao Pao. Immediatamente percepibile è una a volte notevole sproporzione tra il ruolo del personaggio e la descrizione di cui viene fatto oggetto: Pao Pao è denso di personaggi che durano magari lo spazio di poche righe, ma di cui Tondelli aumenta a volte la concretezza fornendone i connotati. In questa maniera il romanzo risulta pieno di facce, anche - o meglio soprattutto - di personaggi con uno scarso peso narrativo. Viceversa, personaggi come Beaujean non hanno bisogno di un accurata descrizione fisica - ed infatti Tondelli non parla mai del suo volto, sappiamo soltanto che dal momento che fa parte dei granatieri deve essere di alta statura -, poiché sono già sufficientemente reali solo con il loro ruolo narrativo. La descrizione dei personaggi può variare da semplice accenno, per quelli che fanno solo una rapida comparsa nel romanzo, in genere tendente ad evidenziare uno o più elementi fisici o atteggiamenti, come nel caso della vecchia in osteria: Una simpaticissima sdentata con l’aria di essere ancora sulla breccia […] tutta truccata con i suoi fintiori liberty a ricevere il baciamani dei ringalluzziti coetanei che se la spupazzano e l’applaudono quando recita a memoria […] non uno, non due, ma dieci-venti sonetti sporcaccioni del Gioacchino Belli (PP p. 166);

96 Senza estendere il discorso a più precise osservazioni di questo tipo, si osservi che la struttura particolare di Pao Pao, che pure senza rivelarsi discontinuo, si configura come una sequenza numerosissima di episodi, si presta ad analisi di tipo formalistico. In relazione al suo meccanismo di composizione dell’intreccio, si confrontino infatti le ossevazioni di Sklovskij sulla costruzione delle novelle, in particolar modo quando egli si riferisce al procedimento diell’infilzamento, identificandone struttura e motivi fondamentali: “Secondo questo sistema di composizione, una novella-motivo, a sé stante, viene aggiunta ad un altra, e l’una viene collegata all’altra tramite il protagonista comune. […] La motivazione più particolare dell’infilzamento è divenuto il viaggio, e in particolare il viaggio alla ricerca di un posto”. V. Sklovskij, Teoria della prosa (1925), Torino, Einaudi, 1976, pp. 95-96. I singoli episodi sono poi a loro volta facilmente analizzabili secondo i concetti proppiani di funzione e di ruolo, naturalmente senza ridurre sistematicamente a semplicistiche maschere la complessa galleria di personaggi, fortemente diversificati per tecniche costruttive, che il romanzo di Tondelli propone, soprattutto in considerazione delle sue considerazioni sul personaggio come catalizzatore principale dell’interesse del racconto: “Tutto l’interesse è portato sui personaggi: […] il racconto emotivo non esiste senza i personaggi , […] i personaggi sono i sax mobili e vagabondi della scrittura emotiva”. P.V. Tondelli, Colpo d’oppio, cit., p. 9. Per gli accenni a Propp cfr. V. Propp, Morfologia della fiaba (1928), Torino, Einaudi, 1966.

187 fino ad un’accurata attenzione che produce un dettagliato ritratto. In qualsiasi caso, non sembra esserci un rapporto tra la descrizione fisica ed un eventuale giudizio morale, dal momento che il narratore riserva un medesimo trattamento a personaggi con i quali intrattiene rapporti di ben diversa qualità, dall’amicizia all’astio. Tre casi spiccano tra gli altri, per la maggior portata testuale. Il primo a comparire nel romanzo è Filippo Rotundo, personaggio che riceve un’attenzione particolare in quanto ne verranno in un certo senso sviluppate le vicende facendolo brevemente ricomparire nel finale, atto questo che consente a Tondelli l’ennesima infrazione temporale attraverso l’anticipazione di tale ritorno: Infine c’è il Jolly che è questo ragazzotto Rotundo, piccoletto, con le nocchie e le unghie morsicate all’inverosimile, i baffetti e la cresta di capelli. […] Rotundo […] è un po’ ritardato mentale, […]. Ha una parlata terrificante, mai sentito parlare uno così. Rimpiango di non averlo registrato quel sound gutturale e ripiegato completamente in sé, Rotundo non dice le parole, le mangia, le gorgheggia, le deglutisce, le manda giù e poi su, ma storpiatissime, le rumina biascicandole, tossendole due e tre/quattro volte per via anche della balbuzie; le ricicla, le strafà, le canta con lo stomaco. […] E’ bruffoloso anche sui baffi e ha un’andatura insostenibile danzata e saltellata sulle chiappette. Ha piccolissimi occhi marron, bui e stretti però sempre molto interrogativi (PP pp. 48-49).

E’ una descrizione accurata, che passa da particolari somatici a tratti comportamentali come l’andatura e la parlata - che non a caso, considerata la cura che Tondelli dedica ad ogni aspetto sonoro nel testo, è oggetto di un’attenzione privilegiata -, per poi tornare più specificamente al dettaglio somatico, una descrizione che sembra tendere verso il grottesco e il fumettistico, ma che al tempo stesso non rivela delle intenzioni parodistiche, tutt’al più indirizzate verso la critica delle condizioni per cui Rotundo è diventato quello che è: Una parlata incredibile […], burina con inflessioni siciliane dove è stato in orfanotrofio e cadenze romane dove ha vissuto in collegio e musichette della provincia di Terni più oscura […]. Rotundo, vero braccato dalle leggi della sopravvivenza, poverissimo ragazzo che non ha mai conosciuto né padre né madre ma solo istituti, caserme e lager di stato, che è stato arruolato dai suoi tutori all’età di sedici anni […]; che poi si raffermerà perché non sa dove sbattere la testa finita la leva (PP p. 49-50).

Viceversa, il narratore - e con lui l’autore dal momento che il testo in questo frangente sembra prendere un’accentuazione metalettica, che va al di là forse dello stesso tempo della scrittura nella finzione romanzesca fino a portare in scena considerazioni dell’autore stesso - lascia trasparire dell’affetto alla fin fine per il personaggio, con il quale si trova poi a solidarizzare: Personaggio così tipicamente deamicisiano da risultare addirittura una macchietta caratteriale, una psicologia burattina, un doppio letterario e affettivo, un sedimento

188 scrostato dall’inconscio collettivo, quindi senza nemmeno la possibilità di essere considerato individuo ma solamente un déjà-vu (PP p. 50).

A dispetto di ciò, la caratterizzazione su vari piani - fisionomia, parlata, andatura, origine, vita - fornisce al personaggio un certo spessore di modo che Filippo Rotundo assume una concretezza superiore al suo spazio narrativo. Analoga attenzione riceve un altro personaggio, già presente ne Il diario del soldato Acci e verso il quale il narratore sembra nutrire un indiscusso affetto, Alvaro, identificato più spesso come Magico Alvermann: Alvaro, primo violoncello del Regio di Torino […], faccia da mezzo imbriaco, piccolissimo e storto nelle gambe e nel viso, Magico Alvermann somigliantissimo a Marty Feldmann per via degli occhietti tondi tondi e in fuori come quelli di una rana e naso aquilino e barbetta alla Conte di Cavour e corpo piccolo molto Hobbit della terra di mezzo e piedi che quando sta dritto si aprono uno a destra e uno a sinistra come su di un filo da equilibrista (PP p. 74).

E’ interessante notare come attraverso la descrizione di Alvaro, Tondelli fornisce alcune coordinate dell’immaginario culturale del narratore, e con lui di quello di una certa frangia dei giovani dell’epoca, sempre secondo quella funzione di catalogo anche culturale che si era evidenziata per Altri libertini e che rimane valida per Pao Pao. In poche righe compaiono infatti riferimenti alla televisione, giacché il Magico Alvermann era il protagonista di una serie di telefilm programmati dalla RAI in orario preserale; al cinema, attraverso la somiglianza con Marty Feldmann, con ogni probabilità pensato nella parte interpretata in Frankenstein Junior, cult movie del periodo; alla letteratura, tramite il personaggio di Tolkien, il cui Il Signore degli Anelli era stato pubblicato in Italia nel 1977, con un grande successo tra fasce eterogenee di lettori.97

97 Nonostante la composizione dei libri di Tolkien - e la loro pubblicazione - risalga al 1934 per quanto riguarda L’Hobbit e a cavallo degli anni ‘50 per quanto riguarda Il Signore degli Anelli, i cui tre libri furono pubblicati nel 1954 e nel 1955, le edizioni italiane escono molti anni dopo, e precisamente nel 1973 L’Hobbit, per Adelphi, e nel 1977 la trilogia de Il Signore degli Anelli, ad opera di Rusconi. Tondelli si occupò di Tolkien, a più riprese, in alcuni articoli tra il 1980 e il 1986. In un primo tempo ne analizzò, all’interno del generale interesse di quegli anni per la cultura celtica, la sua strumentalizzazione da parte dei gruppi della destra giovanile: “Restando alla musica celtica, niente scoccia di più della strumentalizzazione che i giovani di destra ne stanno facendo […], arrivando a coinvolgere […] lo stesso J.R.R. Tolkien […] come sta succedendo, fra croci celtiche e rune e fasci littori, nei campi Hobbit della “destra alternativa al sistema””. P.V. Tondelli, Così muore un’estate a Roma, in “Il Resto del Carlino”, 12 settembre 1980, ora confluito in P.V. Tondelli, Un Weekend Postmoderno.Cronache dagli anni ottanta, cit., p. 39. Anni dopo Tondelli ritornò sulla figura di Tolkien, in un’analisi più letteraria e proponendone la lettura nella rubrica che deteneva in “Rockstar”. Curiosamente, nello stesso articolo confessava la lettura de Il Silmarillion durante lo svolgimento del servizio militare. Cfr. P.V. Tondelli, Tolkien ritrovato, in “Rockstar”, marzo 1987, n. 78, ora anche in P.V. Tondelli, Un Weekend Postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., pp. 474-477.

189 Alvaro è un personaggio costruito sul suo aspetto visivo, che monopolizza l’attenzione del lettore, dal momento che ogni volta che entra in scena Tondelli lo caratterizza con tratti relativi alla sua figura: Il magico Alvermann capocciato contro a un box che era tutto un bitorzolo e un promontorio ovunque lo guardassi (PP p. 77);

quando sei completamente fuso fai molta fatica a scambiarlo per un umano. Lo crederesti più uno gnomo, un folletto, uno spiritello (PP p. 83);

questo Alvaro che quando è vestito da soldato non capisci se è una pianta o un fungo, […] un fiore di bosco (PP p. 84);

Alvaro che ha sempre quell’aspetto di rampicante non inaffiato da cent’anni (PP p. 90).

Nonostante ciò, il personaggio riveste un ruolo importante nel romanzo, perché per suo tramite Tondelli rinforza ed esplicita la sua teoria del personaggio come motore del racconto. Alvaro infatti, per il breve spazio in cui fa la sua comparsa, si rivela un’alternativa al narratore, è un narratore di secondo grado, dal momento che, al di là della caratterizzazione tramite l’aspetto fisico, è questa la funzione specifica che ricopre. In questa maniera l’importanza del personaggio è totale, perché è dal personaggio che - anche in senso letterale - nasce il racconto. E’ una funzione che si impone con ogni evidenza, perché nel caso di Alvaro questa connotazione accompagna le sue apparizioni: Magico Alvermann ha sempre storie incredibili da raccontare e noi le beviamo con infinito piacere visto che nessuno di noi ha mai trovato nella sua carriera un menestrello tanto abile (PP p. 82);

E come le condiva queste canne: “Ah cocchi miei or mi sovvengo di quella volta giù nell’Alto Volta […], ah no sto confondendo, quello era l’anno successivo e stavo lì per una storia di diamanti, sì si ora ricordo perfettamente...” Fabulatore innato dunque questo Alvaro (PP p. 84).98

Come nel caso precedente, la descrizione del personaggio diventa un’occasione per l’intervento dell’autore che chiarisce - ed esplicita - in maniera metanarrativa prima, attraverso la narrazione ora, le sue idee sulle funzioni del personaggio. Ai fini del collegamento tra descrizione ed eventuali intenzioni parodistiche o moralistiche, Alvaro conferma l’inesistenza di queste, perché a subire un ritratto che spesso rasenta il grottesco e che si propone con ogni evidenza come caricatura, è un commilitone

98 Si noti come Tondelli evidenzi anche stilisticamente il valore affabulatorio del personaggio, mediante l’uso di un lessico dissonante rispetto al tono normale della narrazione (“or mi sovvengo”) o di procedimenti come la rima (“volta”/”Volta”), oltre all’amplificazione data dall’inserimento di una storia nell’altra con l’espediente del ricordo confuso.

190 con il quale il narratore ha sviluppato un rapporto di amicizia e di prolungata frequentazione. Ne consegue che anche quando una siffatta descrizione viene applicata a personaggi che col narratore sono in un rapporto di ostilità, non si deve considerare questa come motivazione della tipologia descrittiva, che viceversa va imputata solo ad una scelta artistica. E’ il caso del terzo esempio, un altro commilitone chiamato solo con un soprannome, il “Quidam”, che compare nell’ultima parte del servizio militare del narratore, ricevendo l’ormai consueta descrizione basata sull’esagerazione e amplificazione dei tratti somatici e comportamentali: Un pecoraio burinissimo della zona di Rieti alto non più di un metro e sessanta e magrissimo, addirittura filiforme. Questo, tale Quidam, ha un viso così terribile che sembra uscito dalla penna di un caricaturista di freaks: testa aguzza e a pera, naso direttamente attaccato alla fronte piccolissima e inclinata e senza alcuna parvenza di orbite, occhi strettissimi e vicinissimi, mento inesistente tutto coperto dalle labbra sottili e sporgenti, peluria sotto le orecchie a cavolo e al posto dei baffi. Quidamquondam non sa parlare e non conosce nemmeno, io credo, l’alfabeto della nostra lingua (PP p. 146-147).99

La costruzione del personaggio riprende le modalità già usate per Rotundo e Alvaro, amplificando però la descrizione dei tratti somatici fino al dettaglio, dal momento che la faccia di Quidam - caricatura già a cominciare dal nome - viene scomposta e analizzata pezzo per pezzo. Il ritratto più preciso che un personaggio riceve in tutto il romanzo si accompagna però - secondo un nesso di contrapposizione assai frequente nella scrittura tondelliana - con l’indeterminatezza più totale rispetto alla sua definizione anagrafica: il personaggio non ha un nome, è solamente “Quidam”, vale a dire “un tale”, e non ha età, fatto che ne raddoppia l’indeterminatezza, raddoppiamento che nel testo viene ulteriormente significato col secondo nome con il quale egli viene definito, cioè “Quondam”, “un tempo”, con un effetto maggiore quando i due nomignoli vengono giustapposti in “Quidamquondam”.100

99 A proposito di Altri libertini si è messo in evidenza come l’esagerazione da artificio stilistico diventi a volte norma di vita. Ora, con un ulteriore passaggio, diventa elemento costitutivo della fisionomia del personaggio. 100 L’indeterminatezza del personaggio è ulteriormente evidenziata dall’affiancamento ad un altro con il quale, anche nella storia, è in un rapporto di forte contrapposizione, descritto con le stesse modalità - aspetto fisico, voce, storia - e, al contrario di Quidam, determinato con precisione sotto il profilo anagrafico: “Scortamiglio Gianfrancesco […] rosso rosso di capelli, con una traspirazione corporea addirittura mefitica […], romano piccoloborghese, figlio di un impiegato ministeriale delle Poste e quindi già dalla famiglia programmato a fare il timbracarte per tutta la vita, questo è geometra, poco più intelligente del Quondam ma non per questo meno imbecille. E’ magro, rachitico, curvo curvo, altino con braccia penzoloni […], occhi acquosi, bocca storta e una voce a settantotto giri che ogni tanto fa cilecca […]. Non fuma e non beve. Ha sempre pastiglie, ricostituenti, vitamine e pillolette per le tasche. Osserva diete rigorosissime e ricette di mamma sua, insomma un abortino di vent’anni” (PP p. 148).

191 Con ogni evidenza a Tondelli non interessava la creazione di un personaggio reale ma la formulazione di un ruolo, la rappresentazione artistica di una situazione reale, secondo un procedimento che aveva già in parte usato per Filippo Rotundo e che qui viene reso molto più evidente. Analogamente ad alcuni personaggi di Altri libertini - si pensi per esempio a Bibo in Postoristoro - il Quidam non è una persona, ma potrebbe essere definito un tipo sociale, ed è Tondelli stesso a dirlo in maniera esplicita quando ne narra brevemente la storia: Il Quidam impara così a scrivere a macchina, lentamente, ma impara. Impara a intestare le lettere, a fare i versamenti alla posta di via Firenze, impara a rispondere al telefono usando il “lei” e non sempre il “tu” […] impara insomma quel po’ di cose che nessuna famiglia, né scuola disertata gli ha mai insegnato e che come moltissimi altri della sua razza emarginata solo facendo il servo può apprendere (PP p. 147).

A riprova di quanto sostenuto sulle intenzioni di Tondelli relativamente a Pao Pao, anche in questo verso, la critica non si appunta sul servizio militare come istituzione particolare - che anzi, come già era successo con Filippo Rotundo, riceve forse una connotazione positiva in quanto unico ambiente in cui il personaggio riesce in un certo senso a migliorarsi -, ma sulla società più in generale, per determinate situazioni che continuano a sussistere. Con la figura del Quidam Tondelli non si ferma alla rappresentazione per così dire naturalistica del personaggio, ma ne sviluppa i connotati caricaturali, quasi fumettistici, attraverso la sua narrativizzazione.101 Il Quidam diventa così il protagonista di un aneddoto, che riporta una situazione quasi da cartoon e attraverso il quale il personaggio si stacca dalla sua immobilità di tipo ed entra con più sicurezza nella storia: In un primo momento faceva le pulizie e un giorno s’è infilato nell’Ufficio del Colonnello, lui presente, e ha preso a spolverargli il tavolo con il piumino sotto al naso dicendo: “Spostate cossì n’attimino che te spolvero lu tavolu” e il Colonnello faceva occhi strampalati e si chiedeva se ce l’avesse con lui il Quidamquondam […], soprattutto quando il picciotto ha preso ad alzare un lato dell’enorme scrivania e dice tutto rosso “Eh forza, eh forza” così che il capo […] s’è alzato, ha preso l’altro lato del tavolo e lo ha alzato assieme allo scopino. Questi ha rimesso a posto il tappeto, ha spazzato e s’è congedato dicendo pressapoco “Ora te ne stai pulitu Colunnello, sempre comandi al tuo soldato Quondam !” (PP p. 147).

Nella storia di Quidam, accanto alla descrizione fisica, Tondelli introduce delle annotazioni sulla parlata del personaggio, annotazioni che subito dopo esemplifica nel corso dell’aneddoto sopra riportato, attraverso il meccanismo della citazione. Quidam,

101 Naturalmente valgono anche per Pao Pao le considerazioni sui rapporti col fumetto che sono state sviluppate a proposito di Altri libertini, considerazioni alle quali si rimanda.

192 nonostante il suo peso relativo nell’economia del racconto, è dotato di voce ed ha modo di esprimersi in misura superiore a molti altri personaggi, anche più importanti di lui, le cui parole compaiono solamente filtrate dalla voce del narratore, tramite il discorso indiretto. Certo, anche la voce è un elemento che viene utilizzato a fini caricaturali, nel suo caso, ma quello che è importante evidenziare è che Pao Pao è un testo che presta moltissima attenzione alla sonorità, non solo considerata come aspetto stilistico, che ad ogni modo Tondelli ha sempre attentamente curato, ma anche come elemento costitutivo della formazione dei caratteri, e come tale da essi inscindibile, ed, in linea più generale, della creazione di atmosfere globali. Così vi si ritrovano connotazioni particolaristiche come “Enzo […] parla un sound romanesco molto bello e molto morbido” (PP p. 73), oppure “di loro non mancavan tanto i ricordi […] ma soprattutto la voce, le loro cantilene, le loro inflessioni” (PP p. 94), ma anche caratterizzazioni di momenti più generali: C’è questo grande disagio che serpeggia nelle chiacchiere stupide dei ragazzi, […] i toscanacci hanno una parlata da ghigliottina, antipaticissima e sbracata, i livornesi poi questa “s” che pare tutto uno scivolo lascivo, […] insomma nel giro di due minuti dal timido silenzio iniziale scaturisce tutta la babele dell’Italia rustica e regionale, […] un casino poliglotta, una sarabanda del dialetto e del falsetto, tutta una kermesse del vocio nazional-popolare da dare i brividi (PP p. 15).

Insomma, anche da quanto emerge dalle sue affermazioni, - già ricordate ("i personaggi vivono nel racconto, lo parlano"; "la scrittura emotiva altro non è che il “sound del linguaggio parlato”"; "il testo emotivo è l’unico testo che si può parlare"102) - Tondelli cerca di conferire a Pao Pao una marcata caratterizzazione sul piano dell’oralità. L’ambiente del romanzo comporta la necessaria presenza di numerose figure di militari di carriera, che però, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare da un’opera pubblicata nel 1982 da parte di un autore giovane nutritosi di un’ideologia alternativa, non sono fatte oggetto di critica antimilitarista, rivelando al contrario una trattazione simile a quella riservata agli altri personaggi del libro. Anzi, le figure più negative non sono militari di carriera, ma giovani che, come il narratore, stanno svolgendo il servizio di leva, secondo quanto egli del resto prevede in apertura di romanzo: Sapevo che il rischio maggiore che avrei corso non sarebbero stati i militari ma gli stessi compagni. Con loro avrei avuto a che fare giorno e notte, ufficiali e marescialli allora non mi impensierivano (PP p. 12).

Ne consegue dunque che Pao Pao non stigmatizza la vita militare ma semplicemente la adopera come un’occasione narrativa, il contenitore delle storie che vi si svolgono, sulle quali è focalizzata l’attenzione dell’autore.

102 P.V. Tondelli, Colpo d’oppio, cit.

193 Quanto ai militari di carriera, si possono dividere in tre gruppi, secondo l’entità della descrizione loro riservata, dalle figure meno caratterizzate a quelle che rivelano una presenza maggiore di tratti personali. Una prima classe è costituita da personaggi anonimi, che fanno una breve comparsa nel testo, basata su di una sola azione, dalla quale vengono identificati e che è in genere collegata al fatto che indossano una divisa. Sono brevi comparse, la cui assenza non toglierebbe molto al romanzo, con una funzione per così dire riempitiva: un esempio è il maresciallo della vestizione, di cui si è precedentemente parlato. Una seconda classe comprende personaggi sempre anonimi che però rivestono ruoli istituzionali di una certa importanza all’interno della caserma, per i quali assumono un qualche rilievo nella storia, visto che il narratore si deve prima o poi confrontare con loro. Anche costoro non hanno volto - non c’è in Pao Pao un solo accenno alla loro fisionomia -, ma a volte hanno voce, magari filtrata dal narratore, e diventano così coprotagonisti di alcuni episodi. Tra di loro il Capitano della Macao appare in un importante confronto col narratore nell’episodio della falsa licenza. L’ultima categoria comprende personaggi che godono di una descrizione più dettagliata, e soprattutto di un nome, evitando così l’identificazione in un ruolo che l’anonimato comportava. Anzi, il fatto di ricevere un’attenzione maggiore li fa percepire non più come militari ma quasi come civili, ai quali si possono parificare ormai anche nel comportamento, che non ha più nulla di marziale. Una loro umanizzazione è quindi alla base del passaggio verso una corposità maggiore, dal momento che, a dispetto dell’assenza di forti spinte antimilitariste, il narratore confessa la propria intolleranza verso le divise: “Ai militari una volta ho detto addio, l’unico vero e lungo addio della mia vita” (PP p. 151). Il Sergente Maggiore Bianchin, in particolar modo, viene ritratto nelle sue abitudini per niente militaresche, fortemente caratterizzato inoltre da un punto di vista linguistico: Serg Magg Bianchin poi mi riceveva in vestaglia da camera con su i gradi d’oro appiccicati e con tutta una colonna sonora che pareva la cappella sistina, un gregoriano da far spavento. E lì a lume di candela cominciava l’intorto e ogni tanto bussavano alla sua porta e lui diceva scusami caro, si ritirava […]. Poi ritornava tutto sorridente e diceva: “Ti me ga da scusar carino, ma ghe se tuti che voglion i miei favor e mi non so mica tanto come far” (PP p. 143).

Certo, la figura subisce una ridicolizzazione, ma sembra che, analogamente a quanto succedeva con Rotundo, Alvaro e Quidam, l’obbiettivo principale sia la resa comica della situazione, l’uso del personaggio come espediente per un divertente episodio abbastanza fine a se stesso, anche se in questo caso Tondelli coglie l’occasione per estendere il motivo dell’omosessualità ai militari di carriera, nella figura dello stesso Bianchin e di un maggiore

194 da questi indicato poco più avanti, il tutto sempre con una preponderante attenzione comica.103 Un’ultima interessante figura conferma la predisposizione di Tondelli verso la costruzione in pochi tratti di personaggi ben identificabili, questa volta attraverso la stretta connessione con un ambiente preciso. Il Maresciallo Armando è infatti indissolubilmente legato all’ufficio timbri, ambiente che quasi diventa un personaggio esso stesso: Ufficio timbri che sta un po’ fuorimano, intrufolato in un sottoscala pieno di fascicoli e cartacce e pile e rotoli e cataste e lì dentro, come topi, un tre-quattro soldati guidati da un giovane maresciallo a far timbri tutto il giorno in quella luce fioca ma bellissima e così polverosa che trapassa dalle persiane verdi e alte (PP p. 150).

Dopo la presentazione dell’ambiente arriva puntuale il personaggio, l’unico militare di carriera al quale il narratore si affeziona: La stanza dei timbri è un luogo in cui fuggo […] per poter chiacchierare e sfumazzare con quel maresciallo tutto gonfio e gonzo che in fondo è onest’uomo, un poco pavido ma brav’uomo. […] Armando sono quindicianni che sta lì nello stanzino dei timbri a picchiare sulle veline ministeriali come un uomo del sottosuolo. Il suo record martellante è di centoquarantadue timbri al minuto ottenuti però quando era giovane. […] Quanta tristezza mi porterà addosso la storia di Armando a cui mi affezionerò anche, parlerò spesse volte con lui, […] gli stringerò dunque la mano molliccia e sudaticcia e macchiata di inchiostro e timbrature (PP pp. 150- 151).

La figura del Maresciallo Armando, felice connubio personaggio-ambiente, è anche la prova dell’appartenenza di tutti i personaggi ad un unicum narrativo, un mondo privo di manicheistiche divisioni, dal momento che astio ed eventuali ostilità vengono superati in un generale sentimento di comprensione, aiutato anche dalla distanza che si frappone fra gli avvenimenti e il loro ricordo da parte del narratore.104 In questa maniera anche le allarmistiche dichiarazioni di Tondelli sulla sostanza del romanzo, “vita di una piccola tribù […] che si trova a campare in un territorio straniero”105, prendono un’altra veste alla luce della sua natura di opera ottimisticamente proiettata verso

103 A conferma della chiave di lettura dell’episodio, vi compaiono altri accorgimenti, legati in qualche maniera alla parlata dialettale del personaggio, come “Bianchin […] alla fine mi congedava con una benedizione, salvo il giorno dopo farmi arrivare […] in ufficio degli strani bigliettin”, oppure, a proposito di una visita della Regina Elisabetta II, “«Una fatina […], bea, bea, bea che ti non poi capir» e infatti io non capivo se stava lì a belare o che cazzo dire” (PP p. 143). Rispetto alla bonarietà delle intenzioni di Tondelli, si consideri che in un certo senso queste figure di militari di carriera sono i Filippo Rotundo di ieri, e come tali vengono a ricadere nello stesso trattamento. 104 Non a caso Tondelli ha modificato, rispetto a Il diario del soldato Acci, il finale dell’episodio di nonnismo relativo al congedo dell’ottavo, eliminando le notizie posteriori ad esso relative - morte di un soldato, incarceramento di un altro, punizione dell’intero gruppo - e focalizzando la narrazione sullo stato d’animo del narratore e del suo amico Stani, sulla figura del quale si baserà il paragrafo successivo. 105 P.V. Tondelli, Post Pao Pao, cit., p. 13.

195 il futuro, natura che conferma le considerazioni dell’autore sulla generazionalità, questa volta in chiave positiva, del suo libro.

II.6 Alcune note stilistiche

Per quanto riguarda gli aspetti stilistici, Pao Pao conferma le osservazioni fatte a proposito di Altri libertini, alle quali pertanto si rimanda da un punto di vista più generale. Anche qui Tondelli fa uso di un linguaggio estremamente personalizzato, nel quale agli elementi rinvenuti in Altri libertini - neologismi, deformazioni delle parole, esotismi, prestiti linguistici, tecnicismi, pseudo-versificazione, uso del parlato e così via - va aggiunta l’adozione, peraltro mai sovrabbondante, di uno slang militaresco. In questa maniera, pur evitando la trasformazione del linguaggio in tale univoca direzione, entrano nel romanzo termini come “spina”, “nonnino”, “capostecca”, “baffo”, “fuga”, “naja”, propri di un determinato gruppo giovanile, quello appunto dei militari in servizio di leva; a questi si aggiungono altri tecnicismi legati all’ambiente, primo fra tutti quello che dà il titolo al romanzo, la sigla PAO (Picchetto Armato Ordinario). Due accorgimenti che spiccano tra gli altri sono il gioco delle citazioni letterarie e l’uso insistito dell’anafora. Il primo si basa sulla dissonanza tra la memoria letteraria che viene evocata e la situazione a cui si riferisce, e rientra quindi nella sua decontestualizzazione. Non assume di norma proporzioni massicce, limitandosi invece ad un debole richiamo che dell’originale adopera solamente due o tre parole quasi mimetizzate nel nuovo contesto. Un primo esempio si incontra subito dopo il trasferimento a Roma del narratore e scomoda niente meno che Petrarca: Non sopportavo l’idea di trovare altri militari, stavo solo e pensoso seduto ai piedi di Palazzo Farnese a guardare il cielo notturno di Roma ed ero un po’ come una vecchia zitellina uggiosa e pensosa e malinconica (PP p. 93).106

La breve citazione petrarchesca, nascosta nella prosa tondelliana, viene evidenziata dalla medesima ricerca di solitudine, che si esprime nel tentativo di evitare “vestigia umane”, e da una simile tonalità che Tondelli fa risaltare con l’accumulazione ordinata dal polisindeto di tre aggettivi riferiti allo stesso soggetto, tra i quali spicca “uggiosa”, termine

106Si fornisce la quartina del sonetto petrarchesco da cui proviene la citazione: "Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti / e gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigia umane l’arena stampi". F. Petrarca, 35, in Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, p. 189.

196 che si distacca dalla gradazione del discorso che lo circonda, e che oltretutto è in rapporto di rima con il successivo “pensosa”, con il quale si sottolinea ancor più la citazione. Sono elementi che, se pure relativamente abbondanti rispetto all’esiguità dello spazio testuale, nondimeno riescono a passare quasi inavvertiti nell’omogeneità della scrittura tondelliana. Poco più avanti Tondelli riutilizza questo meccanismo, chiamando in causa questa volta Leopardi: Pablito trovato sorprendentemente a Frith Street, a Soho, garzoncello scherzoso e scazzato di una bottega italiana (PP p. 99).107

A differenza di quanto succedeva con la citazione da Petrarca, il cui inserimento non subiva eccessive tensioni, il binomio leopardiano viene qui stravolto dal contesto in cui viene inserito, che fornisce alla citazione un effetto fortemente stridente, accentuato dall’aggettivo che subito dopo l’accompagna, “scazzato”, nonché dalla presenza insistita di termini e toponimi stranieri: Pablito, Frith Street, Soho. A cercare di riequilibrare parzialmente l’effetto subentra poi un “bottega” che tende verso tonalità più consone ai vocaboli leopardiani e che riprende l’analogo “bottega” del verso 35 de Il sabato del villaggio. Certo, la citazione da Leopardi era di per sé molto più riconoscibile dell’emistichio petrarchesco, e non necessitava perciò della costruzione di una situazione simile, risaltando con maggior pregnanza nella situazione di straniamento in cui Tondelli lo ha inserito. Quanto all’uso insistito dell’anafora, un caso particolare è dato dai tratti in cui il termine che ne è oggetto è un nome proprio, procedimento adoperato in Pao Pao per sottolineare nel narratore la presenza ossessiva del pensiero dell’innamorato. Così, per esempio, a p. 61 il nome di Lele ricorre per ben undici volte, con un passaggio dal semplice “Lele” quando all’inizio ci si riferisce al suo combattuto rapporto con la ragazza a Trento, ad un più significativo “il mio Lele” quando il narratore esprime i propri sentimenti e desideri nei suoi confronti, in una narrazione che tra l’altro è tutta giocata sul rapporto mio / suo: Volevo mangiarmelo il mio Lele, […] volevo succhiarmelo e bermelo d’un fiato il mio Lele. […] Volevo cacciarmelo in fondo al cuore il mio Lele […]. Volevo sbronzarmi del suo odore, volevo aggrapparmi ai suoi lombi e alle sue gambe alte, volevo stringere le sue spalle (PP p. 61).

107 Si fornisce il contesto più ampio dell’estratto leopardiano: “Garzoncello scherzoso / cotesta età fiorita / è come un giorno d’allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno, / che precorre alla festa di tua vita. / Godi, fanciullo mio; stato soave, / stagion lieta è cotesta. / Altro dirti non vo’; ma la tua festa / ch’anco tardi a venir non ti sia grave”. G. Leopardi, Il sabato del villaggio, in Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M.A. Rigoni, Milano, Mondadori, voll. 2, 1987-88, vol. 1, pp. 91-92.

197 Più spesso, però, soggetto dell’anafora è una preposizione e la figura retorica viene usata per fornire al testo un ritmo più intenso e serrato, a volte con variazioni della particella anaforica: Che ci posso fare se tutto il giorno e la notte e anche se dormo o se sto sveglio, se cammino se passeggio se mi sbronzo la mia testa corre sempre al corpo di Lele, alla sua parlata a quel suo modo dinoccolato di muoversi e camminare, alle sue cosce distese e lucide nel sole di una domenica ferragostina a Villa Borghese (PP pp. 117- 118).

L’aumento del ritmo narrativo è evidenziato anche dalla scarsità di interpunzione, che si limita a qualche virgola, nonché dalla congiunzione “e” che coordina la parte successiva della narrazione, anche questa in forma di anafora. L’anafora insistita diventa un equivalente dell’enumerazione, che, spesso nella veste di accumulazione caotica, altre volte in forma di climax, era già stata messa in evidenza come un procedimento basilare della scrittura di Altri libertini, e che si propone pure come il marchio stilistico della scrittura di Pao Pao. Un risultato particolare si ottiene quando anafora ed enumerazione vengono accoppiati, secondo una struttura di ripetizione a vari livelli: Intanto piove e fa freddo. […] Ma intanto piove. Piove. A dirotto, a scrosci, a catinelle, a fiumi, a laghi, a cascate. Un diluvio ghiacciato che sembra non avere termine.[…] Ma intanto continua a piovere e far freddo (PP pp. 42-43).

Se pure non rinuncia alla consueta struttura circolare, Tondelli accompagna l’anafora con un’evidente climax ascendente, che oltretutto nel contesto del romanzo - primi difficili giorni di caserma - assume una chiara valenza metaforica. Tra le particelle, le congiunzioni rivestono un importante ruolo nella struttura formale di Pao Pao, ora come elemento centrale dell’anafora, ora - come si è visto per la congiunzione “dunque” - nelle vesti di indicatore sintomatico di un processo mentale da parte del narratore. Ad un utilizzo particolare, che anche in questo caso la eleva ad elemento strutturante della sintassi del racconto, viene spesso sottoposta l’avversativa “ma”. In Pao Pao se ne fa un uso sicuramente superiore alla frequenza media della lingua italiana, secondo due differenti modalità dettate dalla sua posizione nel testo, senza mai prescindere dalla sua natura di contrapposizione tra i due elementi che separa. Generalmente, se interna al paragrafo, assume una funzione riepilogativa e ne introduce la conclusione. Può capitare che venga così inserita all’interno di periodi fortemente caratterizzati sotto il profilo retorico: Finalmente un’antina salta e il najone vincitore viene portato in trionfo per la camerata […] e lui dice e urla sono il migliore e tutti a osannare e gridare […] e noi tutti assonnati, in mutande, stanchi e avviliti […]; ma nessuno tiene conto che lì in

198 mezzo c’è uno che sta veramente male, qualcuno a cui la rabbia sta salendo al cervello e questo qualcuno non è tra i carnefici e non è nemmeno fra gli astanti (PP p. 139).

Il passo si articola in un iniziale uso insistito della congiunzione “e”, che gli fornisce il ritmo, per venire poi spezzato dall’inserimento del “ma”, la cui carica contrappositiva viene ampliata dal termine che segue a stretto contatto, “nessuno”, in funzione quasi di ossimoro con i successivi “uno”, “qualcuno” e “questo qualcuno”, che occupano un’evidente posizione di climax ascendente. In questo modo la congiunzione “ma” assume il ruolo di momento centrale, che segna il passaggio da una situazione all’altra del testo. E’ un passaggio che a volte può registrare un cambiamento da una situazione di pluralità, generalizzante, alla focalizzazione più specifica e dettagliata sul narratore: Tanti altri arrivati di sera o di notte, attesi dalle grida dei najoni e dei vecchi, […] senza lenzuola e senza branda, tutti per terra sui loro sacchi, come bestie […]. Ma io sono arrivato presto nella nebbiolina di Orvieto scalo […]. E già sul convoglio ho fiutato immediatamente altri visi e altre storie, ragazzi che partivano come me per la prima volta e soldati che tornavano in caserma per l’ultima licenza […]. Ma ero molto sicuro di me e mi facevo forte dicendomi non permetterò certo ai militari di distruggermi (PP p. 10).

L’uso però più significativo e caratteristico della congiunzione “ma” è la sua collocazione ad inizio di paragrafo o di capitoletto. In questa posizione, infatti, al di là del valore contrappositivo, diventa un fortissimo segnale di continuità, contribuendo, assieme ad elementi come la suddivisione del testo in capitoletti non numerati, a dare compattezza all’opera. Al tempo stesso ne segnala il carattere di storia che va oltre il testo stesso, con la medesima funzione delle anticipazioni posteriori al momento della scrittura, ma in direzione opposta. Tocca infatti alla preposizione “ma” aprire il romanzo, lasciando subito - proprio per il suo carattere di collegamento fra due termini - la sensazione di un prima inseparabile dalla storia, che riceve così la connotazione di frammento di una parte ben più estesa (cfr. PP p. 7). Il “ma” iniziale lega la creazione artistica alla realtà, attraverso la ricerca di uno stile che restituisca nel testo i meccanismi e le strutture del parlato. E’ quanto sostiene anche F. Wahl quando parla di rottura della sintassi alla ricerca di “un’oralità scombussolata” e indirizza la sua attenzione proprio all’apertura di Pao Pao: L’impatto incisivo del Ma iniziale, oltre a eludere il codice dell’inizio della narrazione […] recide nettamente il filo linguistico, il concatenarsi delle parole, lasciando intendere che tale rottura è arbitraria, che il flusso delle parole era presente prima ancora che il libro ne carpisse un segmento e che proseguirà oltre il limite costituito dal libro.108

108 F. Wahl, op. cit., pp. 253-254. Corsivo dell’autore. Si noti come, ad avvalorare la tesi della continuità, nel senso di attribuire all’inizio uno status di arbitrarietà che ne modifica il valore di punto di partenza della storia, compare, in apertura di romanzo, il “dunque” precedentemente analizzato nel suo ruolo di

199 L’adozione del parlato, incarnato in questo caso dal discorsivo “ma” iniziale, ma cifra stilistica dell’intero romanzo, riporta così la narrazione sul piano del realismo, o meglio di una ripresa del classico concetto di verosimiglianza che, nelle vesti già incontrate di costruzione di una mitobiografia, sembra accompagnare costantemente la scrittura tondelliana. Sarà con la prova successiva, Rimini, che Tondelli opererà un tentativo di variazione rispetto a questa costante compositiva, attraverso la moltiplicazione della figura del protagonista in esemplari che siano ben difficilmente riconducibili ad un unico prototipo.

breve inciso che segnala il lavoro della memoria per consentire la narrazione. L’accostamento delle due particelle conferisce all’attacco di Pao Pao un forte senso di ripresa di un discorso già iniziato, oltre ad indirizzare decisamente il testo verso strutture sintattiche proprie del parlato.

200 CAPITOLO III

RIMINI. LA SCRITTURA DEL DISTACCO.

201 III.1 Il romanzo in terza persona.

La terza prova narrativa di Pier Vittorio Tondelli esce nella primavera del 1985 e segna un indubbio cambiamento rispetto alla produzione precedente. A tre anni di distanza da Pao Pao - anni peraltro occupati da un’intensa attività giornalistica, principalmente sulle pagine di “Linus” e “Alter Alter” - Rimini sembra sancire la definitiva chiusura di un periodo, ponendosi nella produzione tondelliana come uno spartiacque da cui prende corso una nuova immagine dello scrittore. A partire dalla consistenza stessa del romanzo, per arrivare alla ricerca di una scrittura tesa verso il “bello scrivere” e non verso la restituzione del parlato giovanile, senza trascurare una maggior corposità nella costruzione dei personaggi, nonché altre caratteristiche che verranno via via prese in esame, molti sono gli elementi che concorrono a farne un prodotto nuovo, senza mancare di causare una certa sorpresa in critici e lettori. Intanto, una prima osservazione s’impone, relativa alla sua natura: Rimini è con ogni evidenza un romanzo, piuttosto corposo, dal momento che sfiora le trecento pagine, e che, soprattutto, si vuole fondare su quello che tradizionalmente è l’elemento più appariscente del genere, vale a dire la costruzione e lo sviluppo di una storia, elemento qui fortemente messo in evidenza, dal momento che le storie in Rimini sono sei, variamente intrecciate fra di loro, ma sempre dominate da uno scrittore che non perde mai le fila di una trama alquanto complicata. Questa scelta è stata interpretata per lo più in termini di maturazione artistica, anche se spesso non disgiunta da una valutazione negativa, legata all’ipotesi di una virata verso il romanzo di consumo. Del resto, lo stesso Tondelli ha parlato di acquisizioni stilistiche: “Ho dovuto aspettare cinque anni […] per impossessarmi di uno stile il più sontuoso e il più oggettivo possibile”.1 E’ una scelta che assume un valore particolare alla luce delle opere precedenti e soprattutto delle reazioni che le avevano accompagnate. Nonostante notevoli apprezzamenti, particolarmente sotto il profilo linguistico, sia Altri libertini che Pao Pao avevano suscitato critiche che si rifacevano per lo più ad una loro certa frammentarietà ed episodicità. Senza nulla togliere, a volte, al valore delle opere, quello su cui si appuntavano le perplessità era la definizione loro data di “romanzo”, in entrambi i casi ben evidente sulla grafica di copertina. Se la struttura particolare di Altri libertini poteva in effetti dare adito a simili considerazioni - come del resto si è visto in precedenza -, un loro recupero nei confronti di

1 C. Brambilla, Tutte le strade portano a Rimini, in “L’Europeo”, 25 maggio 1985.

202 Pao Pao appare molto meno giustificato, e nondimeno una veloce carrellata sulle recensioni al secondo lavoro tondelliano fa apparire termini come “racconto lungo” (De Nando) e “romanzino” (Arbasino). Non è quindi da escludere che la scelta narrativa operata da Tondelli con Rimini voglia anche rappresentare un’affermazione delle proprie capacità artistiche, quasi una dimostrazione che chiuda una volta per sempre le polemiche sulla natura della propria scrittura, attraverso la creazione di un prodotto che indubbiamente un romanzo lo è.2 Sempre a questo riguardo, è interessante notare come Tondelli, pur affermando in questa maniera le sue capacità di romanziere, non si allontani, in ultima analisi, dalla precedente tipologia della sua produzione, nei confronti della quale Rimini, in apparenza così diverso, si colloca in una linea di continuità. La sua caratteristica principale, infatti, è l’eterogeneità, il fatto di costituirsi, attraverso le sei storie che vi si inscrivono, di volta in volta come un diverso tipo di romanzo, dal poliziesco al romanzo rosa a quello esistenziale, riassumendo in questa maniera la grande varietà che nelle opere precedenti veniva espressa soprattutto a livello di sistema dei personaggi. E’ come se, evidenziando il romanzo come contenitore di storie diverse, poi variamente articolate dalla trama, Tondelli fornisse una chiave di lettura valida anche per Altri libertini e Pao Pao, fissando così una poetica che, fin dall’inizio, fa della polifonia il fulcro della sua scrittura.3 Oltre a realizzarlo nella sua opera, Tondelli lo afferma esplicitamente in un’intervista di poco posteriore a Rimini: Dal tempo della mia tesi in Estetica al Dams mi muovo nella direzione di un romanzo sinfonico con una pluralità di voci narrative seguendo un’esperienza letteraria che nasce nel XXVIII secolo con gli epistolari di Rousseau, di Richardson.4

La tensione immediata verso il romanzo è confermata anche dalla tipologia del primo tentativo letterario con il quale Tondelli si era presentato alla Feltrinelli, un “dattiloscritto [di] molte pagine, [con] un linguaggio ricercato, con anche delle pretese strutturali

2 Dello stesso avviso sembra essere Silvia Guglielmi, quando ipotizza per Rimini una connotazione di sfida verso pubblico e industria editoriale: "Il sovrabbondare di ambientazioni quasi da telenovela […] ne fa ineluttabilmente uno sceneggiato d’autore. Tanto da farci pensare che si sia trattato, in fin dei conti di una sfida: siete eleganti, abbronzati, acculturati e superficiali? Ho io quello che fa per voi. Sembra, insomma, una prova tecnica, che grida ad un’industria culturale sempre più asfittica e priva di coraggio: se è questo che volete, io so farlo, e tanto bene da non farvi neppure accorgere che vi sto “sfottendo”". S. Guglielmi, Sulla mia terra, semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere, in AA.VV., PierVittorio Tondelli. La cultura della responsabilità. La responsabilità della cultura, Libreria Pagina, Nettuno, 14 dicembre 1996. 3 Si ritornerà a parlare di polifonia, in ordine alla complessa struttura che viene adottata in Rimini. E’ importante però fissare fin da ora questo dato come elemento basilare della poetica tondelliana già dall’esordio. 4 M. Trecca, Il mondo è sotto l’ombrellone, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 1985.

203 notevoli”5, poi sostituito - su consiglio di Aldo Tagliaferri, responsabile della narrativa per Feltrinelli - dalle storie di Altri libertini. Si deve considerare inoltre che anche il primo embrione di Rimini, se non altro a livello progettuale, è di quel periodo, come lo stesso Tondelli ci fa sapere qualche anno dopo: “Conseguenza di uno shock-Baldwin vivissimo: il plot deve essere forte, una storia funziona se ha un intreccio ben congegnato... Ho bisogno di raccontare, di far trame, di scardinare i rapporti fra i personaggi. Il fumettone mi va benissimo, più la storia e lo stile sono emotivi meglio è. Inizierei con un ambiente (gli ambienti, i paesaggi dell’oggi, ecco cosa manca nei libri) cioè Rimini, molto chiasso, molte luci, molti café-chantant e marchettari...” Il 2 luglio 1979 Lui ha scritto questa osservazione su una pagina del Diario.6

Al di là delle scelte stilistiche e strutturali, Rimini si collega alla produzione precedente per il suo valore di indicatore sociale. Altri libertini era pienamente figlio del suo tempo, esprimeva fedelmente le esperienze, gli umori, i miti di una generazione, e al tempo stesso fissava dei limiti cronologici, ponendosi come sintesi finale di un periodo - gli ultimi anni settanta - verso il quale si orienta in maniera fortemente mimetica. Pao Pao, più specifico nella scelta del materiale di riferimento - un gruppo sociale ben circostanziato - continua questo atteggiamento mimetico, evidenziando, nel suo carattere più ‘privato’ rispetto ad Altri libertini, il cammino verso il ripiegamento su di sé che segue alla stagione dell’identificazione tra pubblico e privato. Rimini s’inserisce in un periodo storico profondamente mutato, che registra, anche nel mondo giovanile, l’instaurazione di una tendenza all’individualismo e all’affermazione personale del tutto in linea con le nuove sorti del paese. Dopo gli “anni di piombo” e la sconfitta del terrorismo rosso, si assiste, in concomitanza all’ascesa di Craxi al timone del governo, mantenuto dal 4 luglio 1983 al 9 aprile 1987, a quella che uno storico come Lanaro definirà rinascita economica degli anni 1983-1987, quando l’inflazione scende al 4,6%, il prodotto interno lordo cresce del 2,5% l’anno ( contro una media del 0,6% nel quadriennio 1978-1982), la borsa di Milano aumenta la propria capitalizzazione di oltre quattro volte, le industrie tessili e meccaniche ricominciano a esportare a tutto spiano.7

Sul piano sociale, la cifra più espressiva di questa nuova situazione è il fenomeno del “rampantismo”, unione di ambizione e autoaffermazione incondizionata, che va di pari

5 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 42. 6 P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, Bologna, Baskerville, 1986, Milano, Bompiani, 1997, p. 27. Vista l’irreperibilità dell’edizione originale, si fa riferimento alla recente edizione Bompiani. 7 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia, 1992, p. 450.

204 passo con la ripresa economica. E questo è anche il tratto fondamentale di molti personaggi di Rimini, che in ciò si dimostra fortemente rappresentativo dell’ansia di successo che pervade la società. Le storie di Rimini sono storie di autoaffermazione e di tentativi di ascesa sociale, e i personaggi che lo animano sembrano guidati da una quasi incrollabile fiducia nelle proprie capacità. Si avrà modo di realizzare come questa autostima sia spesso solo apparente e destinata a subire forti ridimensionamenti, ma è innegabile che ancora una volta Tondelli riesce a dare uno spaccato altamente mimetico - pur nella finzione romanzesca - del mondo che sceglie di rappresentare. Anche nella realtà Rimini si inserisce in un contesto pienamente omogeneo alla vicende contenute, in un panorama editoriale dominato da tecniche di tipo manageriale delle quali le modalità di gestione del lavoro che Bauer adotta per il suo supplemento estivo sono un buon esempio. E’ un mercato librario nel quale il boom dell’autore giovane, ormai pienamente avviato, viene sostenuto con le più idonee strategie di marketing, dalle recensioni amiche al battage pubblicitario in anticipo sull’uscita stessa dell’opera, all’elzeviro del patrocinatore di nome. Si assiste, inoltre, alla costruzione di un’immagine più visibile dello scrittore, più mondana quasi, alla quale non sfugge lo stesso Tondelli, il più delle volte ritratto, nelle recensioni al romanzo, sulle spiagge adriatiche tra cabine e ombrelloni, tutti simboli che concorrono alla costruzione di una camera di risonanza per un’opera che non a caso, vista l’ambientazione, viene lanciata nella tarda primavera, quasi a voler stimolare la curiosità del lettore con un prodotto che si snoda attorno ad una situazione omogenea alla sua. Nella stessa direzione vanno le scelte di copertina, che, dietro l’eloquentissimo titolo - “la convocazione di un frammento d’immaginario costruito equamente dalla pubblicità turistica e dal desiderio collettivo”8 -, presentano un altrettanto inconfondibile richiamo, attraverso una scena che raffigura sedie a sdraio e cabine da spiaggia, con l’immancabile etichetta romanzo in basso.9 Le scelte di copertina riflettono un importante cambiamento editoriale, con il passaggio di Tondelli da Feltrinelli a Bompiani, che d’ora in avanti ne ospiterà la produzione narrativa e saggistica. Questo fatto determina una notevole variazione dell’immagine dell’autore, dal momento che diventa inadatta, a Rimini, l’etichetta di generazionalità che aveva accompagnato le precedenti opere di Tondelli, supportata anche da precise scelte editoriali come, per esempio, la copertina di Altri libertini.

8 G. Gramigna, Rimini domestica e forsennata, “ Corriere della Sera”, 14 novembre 1985. 9 Da questo punto di vista la successiva edizione spagnola, del 1988, la cui copertina contiene la fotografia di un bicchiere da cocktail con dietro una poltrona vuota, è molto meno ammiccante, e sembra far riferimento soprattutto ad una delle storie contenute, quella dello scrittore Bruno May, attraverso l’immagine del suo cocktail preferito, il “long goodbye”, che a sua volta rimanda ad un romanzo di Chandler, stilisticamente ripreso in vari passi di Rimini.

205 Rimini opera così - almeno in superficie - una virata verso il romanzo più tradizionale, soprattutto slegato da connotazioni extraletterarie che ne potevano condizionare la lettura, ponendosi viceversa nel solco di una tradizione che non è certo quella del romanzo di contestazione. Va peraltro osservato che questo atteggiamento riflette palesemente le interpretazioni letterarie delle mutate condizioni storiche e l’avvenuto incorporamento nella società letteraria di una generazione di scrittori che hanno mosso i loro primi passi ‘contro’ o ‘al di fuori’ di tale società. Sostiene a questo proposito La Porta: E’ proprio negli anni ottanta che assistiamo al deperimento della “condizione giovanile”, e dunque di una cultura e letteratura ad essa corrispondenti. I “giovani” in quanto tali non si danno più come soggetto ribelle/antagonista, portatore, ancorché confuso, di istanze critico-utopiche, metafora di rivoluzione sociale.10

Tondelli, fedele cronista del decennio 1980-1990 che ha immortalato nei due volumi del progetto weekend postmoderno, registra i cambiamenti avvenuti e Rimini diventa il primo segnale di un’ormai accettata ‘normalizzazione’. E’ un cambiamento che viene percepito immediatamente nella maggior parte delle recensioni. Queste, infatti, si basano soprattutto sulla natura dell’opera, registrando il nuovo corso tondelliano, chi, in maniera critica, interpretandolo come un cedimento al romanzo di consumo, a volte con riserve sulle capacità di Tondelli di adattarsi a questo nuovo genere; chi invece, con un’intonazione del tutto positiva, considerandolo il romanzo della maturazione artistica.11 Lo stesso Tondelli del resto si riferì a Rimini in maniera tale da alimentare queste interpretazioni: [Rimini] sicuramente rappresenta un progetto più ambizioso dei precedenti. Pao Pao fu per me una sorta di “toccata e fuga”, considero Rimini la prima sinfonia, l’opera in cui cerco di aggredire la forma classica del romanzo e racchiudo il flusso narrativo in intrecci, dialoghi, capitoli.12

Fra i consensi spicca il giudizio di Barilli, che in un entusiastica recensione lo definisce “romanzo dell’anno per densità, tenuta, sicurezza di toni e di registri”, scoprendovi altresì una linea di continuità con i lavori precedenti: Pier Vittorio Tondelli si conferma perfetto e sicuro cantore della condizione giovanile, così come questa si dà in una società che si dice postindustriale […].

10 F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, cit.., p. 12. 11 Le recensioni a Rimini sono un buon esempio dei rapporti piuttosto combattuti che Tondelli ha instaurato con gran parte della critica italiana, che spesso ne ha giudicato l’opera facendo ricorso a criteri extraletterari. Ecco come, ad esempio, si arriva alla consacrazione di Rimini come opera della maturità: “Adesso, dopo tanti scazzi, ozi e amorazzi, finito il tempo delle pere, Tondelli è arrivato alla sua opera più matura e solida sul piano narrativo”. C. Brambilla, Tutte le strade portano a Rimini, in “Europeo”, 25 maggio 1985, pp. 112-117. Da notare che poche righe prima ci si riferiva alle traversie giudiziarie di Altri libertini e si definiva Pao Pao “opera […] ancora più blasfema della prima, […] che descrive l’esercito italiano come una banda di gay e di drogati”. Ibidem. 12 D. Altimani, Tutte le strade portano a Rimini, “Il Secolo XIX”, 14 giugno 1985.

206 Oggi siamo a quelli che vengono definiti i bisogni postmateriali […]. Il tutto vissuto con un certo sprezzo, con un’ostentazione continua di disinvoltura, perfino di cinismo […], il che determina il prevalere di una scrittura pseudo-oggettiva, ispirata alla grande lezione di Chandler. […] non sono neppure lontani altri maestri di una linea del “buttarsi via”, del dar luogo a un racconto “basso”, da Kerouac a Arbasino. Queste virtù erano già largamente presenti nelle due opere precedenti di Tondelli, Altri libertini e Pao Pao. La nuova prova segna un forte incremento nella quantità, per così dire (ma si sa che poi la quantità si rovescia anche in qualità). Infatti se negli altri casi l’autore ci offriva poche “storie” per volta, qui ne sviluppa un intero mazzo.13

E’ un’opinione piuttosto isolata nel panorama critico, più orientato verso un’interpretazione del romanzo sul piano se non di una rottura, di una forte diversificazione rispetto alla produzione precedente, ma che ha sicuramente il merito di effettuare un’analisi che supera l’immediata apparenza e la superficie del testo, alla ricerca di quelle strutture narrative che in effetti non si scoprono poi diverse da un romanzo all’altro. Quelle che non vengono mai messe in dubbio sono le capacità tondelliane, usate anzi come elemento di confronto per far risaltare lo scadimento della natura dell’opera, probabilmente senza disgiungere dalle intenzioni dell’autore eventuali pressioni dell’editore: Rimini mi sembra la quasi paradigmatica dimostrazione di come il più banale e grossolano produttivismo editoriale riesca a far malamente scivolare un autore (secondo me) di buon talento14;

Tondelli sembra aver puntato troppo basso per le sue doti: Rimini, nell’insieme è un disastro, ma la scrittura qua e là tiene, ha una sua amara, cinica durezza15;

Rimini ci lascia un po’ l’impressione di un contrasto tra le doti di Tondelli, indiscutibili, e la tentazione di cedere queste doti alle esigenze (supposte) del pubblico, alla confezione di un buon prodotto narrativo16.

Ad ogni buon conto, bisogna considerare che di sicuro avviene un cambiamento di prospettiva per quanto riguarda il fruitore dell’opera: Altri libertini era un libro che si rivolgeva ad un pubblico ben determinato, come ha chiarito lo stesso Tondelli: Quando scrivevo i racconti di quel libro cercavo un determinato pubblico e avevo un’idea di lettore. Volevo comunicare ad altre persone che avessero più o meno la mia età.17

Pao Pao conferma la fisionomia del presunto lettore; con Rimini il campo di riferimento si allarga enormemente, superando simili restrizioni, alla ricerca di un pubblico

13 R. Barilli, A Rimini, a Rimini, “La Stampa”, 22 giugno 1985. 14 G. Giudici, Rimini bel suol d’amore, in “L’Espresso”, 29 settembre 1985. 15 G. Raboni, Antiromanzo? No, grazie, “Il Messaggero”, 11 febbraio 1986. 16 G. Gramigna, Rimini domestica e forsennata, cit. 17 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 57.

207 eterogeneo. A questo proposito Roversi definisce Rimini un libro “così voluto, pensato e tutto argomentato” e afferma: Tondelli […] si è disposto a scrivere un libro da professionista (libero professionista), un libro per campare (che è diverso da vivere) perché sia letto da tanti, possibilmente da tutti.18

Ed il pubblico sembra dar ragione a Tondelli, dal momento che Rimini s’impone fin dall’inizio come un best-seller, risultando ai primi posti delle classifiche dell’estate relative ai libri più venduti, godendo tra l’altro di una presentazione che lo accomuna ad un fatto di costume, legandolo a successi discografici e mostre culturali, fino ad una prevista apparizione in RAI, a Domenica in, poi cancellata all’ultimo minuto per il contenuto ‘sessuale’ di alcuni episodi. Nelle interviste concesse a breve distanza dalla pubblicazione del romanzo, Tondelli ne ha poi indicato le linee compositive, chiarendo il progetto che ne sta alla base. E’ interessante notare che ritorna in esse la vera occasione narrativa del romanzo, e cioè l’idea di uno spazio contenitore di storie eterogenee: Ho scelto Rimini come contenitore facendovi confluire storie che succedono nel resto dell’anno in altre parti d’Italia.19 Rimini era per me l’unico scenario in cui fosse possibile rappresentare contemporaneamente, in miniatura, l’Italia di oggi. Un microcosmo nazionale dove ambientare la storia politica, il giallo, la storia sentimentale, i toni apocalittici ed il sogno di chi va in vacanza per cercare di star bene, ma viene coinvolto in tutt’altro tipo di problemi.20 Rimini […] mi sembrava il luogo ideale per un affresco della società italiana degli anni ottanta, anni in cui la massa diventa protagonista con i suoi comportamenti grotteschi e la spettacolarizzazione di tutto.21

La città di Rimini, o meglio, tutto ciò che essa diventa e rappresenta nell’immaginario degli anni ottanta, con i suoi sovrasignificati simbolici, assume una valenza che va oltre il suo puro ruolo spaziale, perché si pone come lo strumento necessario che consente l’esistenza stessa delle storie presenti nel romanzo. Quest’ultimo, infatti, si può tranquillamente definire come “montaggio […] di storie eterogenee e perfettamente autonome il cui unico denominatore comune è Rimini, […] ombelico del mondo […] dove tutto è possibile”.22 L’uso di uno spazio contenitore di storie come occasione narrativa non è del resto una novità per Tondelli, soprattutto se si intende la parola ‘spazio’ in senso un po’ lato. Basta infatti considerare Pao Pao, dove l’esercito italiano svolgeva questa stessa funzione,

18 R. Roversi, Chiamatelo Bogeyi, in “Panorama”, 26 maggio 1985, p. 140. Il corsivo è dell'autore. 19 M. Trecca, op. cit. 20 C. Brambilla, op. cit. 21 D. Altimani, op. cit. 22 M. Pomilio, Lo scrittore senza patria, “Il Tempo”, 19 luglio 1985.

208 diventando il contenitore ed il collante di storie viceversa piuttosto eterogenee, per quanto collegate dalla presenza di un unico narratore, che in Rimini non c’è. In questo senso si può evidenziare tra i due una linea di continuità, o, meglio, di sviluppo, giacché Rimini ampia questa funzione, presente in Pao Pao, sia secondo una maggior varietà delle storie, sia per una loro più estesa rappresentatività su scala nazionale, visto che il mondo di Pao Pao rimaneva molto più ristretto. E’ proprio su questo piano che Rimini - inteso come spazio narrativo - assume un’importanza maggiore, conseguenza diretta della forte eterogeneità di storie che a volte si sfiorano ma non si riconoscono l’un l’altra, lasciando quindi alla comune ambientazione l’elemento decisivo della natura dell’opera: L’unitarietà di Rimini è infatti solo nell’ambientazione, nello sfondo (spaziale) su cui si muovono i diversi personaggi, nel meticoloso intreccio strutturale, che frammenta di volta in volta quelli che sono dei racconti solitari, e che fa divenire Rimini un romanzo e non una raccolta di racconti.23

Lo spazio assume così un’importanza nuova per la narrativa tondelliana, attirando su di sé l’attenzione dell’autore, che fin dall’inizio ne evidenzia il ruolo con descrizioni che s’inseriscono qua e là nel testo, conferendogli una precisa caratterizzazione. Ne sono un esempio i pochi tratti spesi nel primo capitolo su Milano, tesi a restituirne il suo grigiore quasi topico e l’attività incessante: Il sole - che sole? un riverbero chiaro e indistinto e senz’ombre - non capivi da dove potesse mai arrivare, dall’alto, dal basso, forse da quell’orizzonte di antenne televisive che designavano i contorni della periferia milanese come graffiti sbavati. […] Il mio sguardo vagò annoiato e lento oltre i vetri verso la periferia in cui era stretto l’edificio del giornale, un edificio bianco, in origine, ma ormai grigio, uguale ai tanti altri edifici, capannoni, rimesse, garages, fabbriche che si trovano oltre la cintura dei viali di Milano. Edifici che son la periferia, il suo colore, il suo respiro, la sua gente. […] Vidi uomini che attraversavano lenti la strada, donne in attesa dell’autobus […], bambini che scorrazzavano lungo i marciapiedi […]. Indagai in altri uffici e in altre finestre (R pp. 10-11).

Lo spazio non è più solamente un luogo fisico, ma diventa un ambiente fatto di luoghi fisici e persone, come nell’esempio la periferia milanese. E’ stato scritto: Di nuovo c’è che il milieu conta più dei personaggi. Li produce, riverbera su di loro una luce particolare.24

23 M.P. Ammirati, PierVittorio Tondelli, in Il vizio di scrivere. Letture su: Busi, De Carlo, Del Giudice, Pazzi, Tabucchi e Tondelli, Rubettino, Saveria Mannelli, 1991, pp. 123-132. 24 G. Mameli, Storie estive tra norma e follia, “L’Unione sarda”, 8 giugno 1985.

209 Tondelli in effetti crea un intero mondo nel quale far muovere i propri personaggi, e lo crea in totale simbiosi con essi, ma questo non è un procedimento nuovo, né per quanto concerne lo spazio né per quanto concerne l’adozione della parola “luce”. Basti riandare alle prime battute di Postoristoro, l’apertura di Altri libertini e della carriera narrativa tondelliana: Sono giorni ormai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti […]. Ora che già di pomeriggio il piazzale della stazione è blu azzurrino con i fari degli autobus che tagliano la nebbia e scaricano gli studenti s’arriva presto (AL p. 9).

Ambiente e luce sono gli elementi che ricorrono in queste prime righe, gli stessi che si attribuiscono a Rimini come novità. In realtà quello che cambia è la funzione dello spazio, il suo rapporto col personaggio, che in Postoristoro si aggirava in uno spazio chiuso, incapace di uscirne definitivamente, vivendolo in maniera ambigua come una casa e una prigione. I personaggi di Rimini invece si muovono liberamente attraverso uno spazio che non li controlla, che modificano volutamente e che assume importanza per il fatto di cambiare, da Milano a Rimini, all’appennino bolognese, a Londra, Parigi, Berlino, in un’atmosfera di cosmopolitismo che è cifra caratterizzante del romanzo, un cosmopolitismo ben diverso da quello - apparente - di Viaggio, dove si risolveva in un ritorno alle proprie origini: “Sulla mia terra, semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere” (AL p. 130). Tema fondamentale di Rimini è la ricerca, di sé principalmente, e questo produce il movimento continuo dei personaggi, movimento che è importante di per sé, perché la focalizzazione rimane centrata sulla ricerca e non sul suo effetto finale, consentendo le variazioni spaziali e l’attenzione verso i differenti ambienti. La luce è uno dei mezzi essenziali per operare questo cambiamento ed emerge fin da subito come elemento basilare del testo, vuoi in maniera descrittiva: Osservai […] le luci accese nelle abitazioni, le insegne dei negozi, le aste dei tram che scoccavano scintille d’amianto negli incroci dei reticolati elettrici e quei bagliori, quegli striduli flash mi apparvero come la condensazione di una generale atmosfera di tensione che regnava nei nervi e nelle teste di tutti (R p. 11)25,

vuoi in modo fortemente simbolico, introducendo quasi subito il carattere di tensione verso l’autoaffermazione che anima gran parte dei personaggi: Il profilo notturno di Milano entrava dai larghi vetri con gli indistinti bagliori della metropoli: i fumi, i chiarori, le insegne pubblicitarie, le luci rosse e arancioni e azzurre. Mi fissai su quelle luci. Sentii crescermi dentro un’inquietudine nuova e strana […]. Il mio sguardo, come nel pomeriggio, vagò attorno a quelle luci, le accolse fino a trasformarle interiormente. Fu tutto chiaro. Per anni avevo inseguito quelle luci desiderando più di ogni altra cosa di essere io un faro […]. Non brillavo

25 Traspare dalla citazione una caratterizzazione di Rimini come libro fatto di atmosfere notturne, dal momento che la descrizione in esame, pur situandosi ad un orario prossimo al mezzogiorno, lascia immaginare un’ambientazione in cui i fenomeni luminosi siano ben più apertamente apprezzabili.

210 da solo. […] Non potevo più continuare a guardare quelle luci come in uno specchio. Volevo di più[…]. Volevo infrangere quei cristalli e gettarmi dall’altra parte, fra quei bagliori e bruciare (R p. 19).

La luce diventa in questo modo l’elemento catalizzante dello spazio, quello che ne consente l’assimilazione da parte del personaggio, che proprio per suo tramite lo può percepire. La luce diventa spazio essa stessa nel suo rapporto con i personaggi, e motivo guida delle descrizioni spaziali: Claudia schizzò fuori. […] Finì inghiottita dai fari accesi e dalle luci della strada. Arrivai a Riccione. […] Mi immisi nel traffico lento del lungomare. Grandi fari illuminavano il retro degli stabilimenti balneari. […] Arrivai a una rotonda immersa nella luce e parcheggiai. Lì sfociava un grande viale pieno di luci, insegne al neon […], stormi di turisti che procedevano lentamente. Striscioni luccicanti di lampadine congiungevano i due lati del viale passando al di sopra dei pini come festoni luccicanti. […] Ovunque suoni, musiche, luci, insegne sofisticatissime che si accendevano e si spegnevano seguendo un ritmo preciso (R pp. 38-39).

Il nuovo rapporto spazio-personaggio determina, dunque, una precisissima attenzione per gli ambienti in cui si svolge la storia, che ricevono una puntuale descrizione in rapporto al loro ‘peso’ narrativo. Fin dall’inizio si determina un movimento verso la specificazione spaziale fino al dettaglio, movimento che, se non è ancora ben apprezzabile a Milano, dove pure si passa dai pochi tratti sulla periferia ad una maggiore attenzione ai particolari nella breve descrizione dell’appartamento dove vive Bauer, diventa evidentissimo a Rimini. Qui infatti gli spostamenti di Bauer sono ritmati dalla descrizione degli ambienti che egli attraversa, in una sequenza organizzata verso l’amplificazione del dettaglio. Perciò, si passa dall’edificio che ospita la redazione del quotidiano alla redazione stessa, analizzata stanza per stanza, con attenzione rivolta persino agli addobbi. Subito dopo viene presa in considerazione l’abitazione riminese di Bauer, con un’amplificazione del grado di precisione della descrizione, che segue la sequenza posizione spaziale in città / descrizione dei dintorni del residence / descrizione del residence / descrizione dell’appartamento all’interno del residence: L’abitazione che il giornale mi aveva assegnato […] si trovava a un paio di chilometri dal mare in direzione dell’aeroporto. Era un piccolo centro alberghiero situato in mezzo a palazzi alti parecchi piani e piccoli appezzamenti di terreno coltivati con cura. Aveva la forma complessiva di un fortino costruito con colate di sabbia bagnata da ragazzini in riva al mare. […] Si chiamava Residence Acquarius […]. Aveva forma circolare e nel centro una grande costruzione simile a una tenda da circo […]. L’interno del “fortino” […] era occupato da due piscine che si incastravano l’una nell’altra […]. Attorno un prato all’inglese con aiuole di fiori multicolori. […] L’appartamento era un ambiente unico che si sviluppava in un piano rialzato a vista dove erano un letto a due piazze e una branda. Al piano basso, invece, si trovavano riuniti nell’unica stanza una piccola cucina monoblocco, un divano, un tavolo rotondo, un ripostiglio e la stanza da bagno (R pp. 27-28).

211 E’ un’analisi puntuale, fatta attraverso gli occhi di Bauer e quindi da lui mediata, con una caratterizzazione che vuole essere probabilmente mimesi dello sguardo attento del personaggio, cronista, anzi direttore, dell’inserto estivo di un famoso quotidiano, la “Pagina dell’Adriatico”, e come tale sempre pronto a cogliere quanto lo circonda. Risalta, negli esiti di questo sguardo analitico, la particolare attenzione che viene data agli interni, che non avevano mai ottenuto una cura esemplare nella narrativa tondelliana. Già dopo le prime battute, invece, si riscontrano in Rimini le descrizioni - in diversa misura particolareggiate - dell’appartamento milanese, della redazione riminese del giornale e dell’appartamento di Bauer, descrizioni che sono accoppiate a quelle dei personaggi che in quegli ambienti si trovano, cosicché della compagna di Bauer, Katy, non si sa molto di più dell’età approssimativa, trentasette anni, e del suo lavoro di stilista, analogamente all’appartamento che non riceve una descrizione molto dettagliata; dei colleghi riminesi di Bauer, viceversa, si ottengono molti più rilievi somatici, proprio come avviene per la redazione del giornale. E’ come se gli ambienti diventassero dei personaggi a loro volta, o meglio come se ambienti e personaggi si completassero a vicenda. Non a caso si registrano dei veri e propri accostamenti tra i personaggi e parti o componenti degli ambienti: così Zanetti ha il “suo ufficio arredato come un vero e proprio studio” (R p. 25), dove - oltre a lavorare - scrive i suoi “soggetti” di storia antica, mentre Susy ha la sua “sedia”, “una poltroncina Luigi XV con il tessuto ad arazzo ed una scena di passeggio cittadino nell’ovale dello schienale e tanti ghirigori sulle zampette e sui braccioli” (R p. 26). In relazione all’elaborazione spaziale del romanzo, assume un valore particolare la mappa che Tondelli pone all’inizio di Rimini. Panzeri la carica di un ruolo compositivo, facendola diventare uno strumento propedeutico alla scrittura: Aveva assunto grande importanza, nel momento dell’elaborazione, la cartina della riviera adriatica che lo scrittore si era disegnato e che man mano riempiva di appunti, ritagli, riflessioni, fino a far muovere in senso temporale e geografico i destini dei protagonisti.26

Non se ne deve però trascurare il valore simbolico. Infatti, dal momento che il romanzo non sembra averne eccessivo bisogno per la comprensione delle storie, il suo posizionamento come primo elemento del testo indirizza l’attenzione del lettore verso la preponderanza dello spazio, anticipandone, per così dire, il ruolo di contenitore narrativo. E’ come se Tondelli, anteponendola ad ogni altra cosa, indicasse nella riviera adriatica, incarnata da Rimini che spicca in grassetto al centro della mappa, il vero protagonista del romanzo.

26 F. Panzeri, Rimini, in “Panta”, 1992, n.9, p. 51.

212 Contemporaneamente, la struttura della mappa fa di Rimini, punto verso cui sembrano tendere le strade che in essa si svolgono, il collettore, attraverso queste, del movimento dei numerosi personaggi, ribadendone quindi in altra maniera la centralità. Bisogna ad ogni modo ricordare che con l’inserimento della mappa Tondelli si ricollega ad una consolidata tradizione, che solo pochi anni prima aveva avuto un illustre precedente ne Il Signore degli Anelli di Tolkien - pubblicato in Italia nel 1977 -, scrittore al quale Tondelli era oltretutto molto affezionato, al punto che non è da scartare completamente l’ipotesi della mappa anche come un omaggio al grande scrittore anglosassone.27 Da ultimo, il particolare statuto della mappa - che non è una carta geografica quanto uno schizzo - di elemento grafico in qualche maniera imparentato col fumetto, al di là del generico postmoderno utilizzo di elementi vari decontestualizzati, sommata all’inserimento continuo di motivi musicali nel testo e ad una scrittura che spesso è stata chiamata “cinematografica”, danno a Rimini una connotazione di opera se non proprio multimediale, sicuramente intersettoriale, nel tentativo di superamento dell’idea tradizionale di romanzo verso una sua interpretazione come prodotto che rifletta, quanto più fedelmente, le suggestioni della modernità.28 Il romanzo si apre su di un narratore in prima persona all’interno della redazione di un giornale, a Milano il 18 giugno 1983. Un’imprevista convocazione da parte del direttore, temuta fonte di problemi, si trasforma in un’inaspettata promozione a responsabile del

27 In un articolo del 1987 Tondelli definiva Tolkien “un grandissimo narratore che può liberare la nostra fantasia verso il viaggio immaginario” - P. V. Tondelli, Tolkien ritrovato, cit. - riferendosi alla lettura come “continuare il viaggio, finalmente soli con la nostra fantasia”. E’ significativo che Tondelli condensi così, nei tre termini “narratore”, “fantasia” e “immaginazione”, l’essenza del romanzo, affermazione che in Rimini è confermata dalla nota finale: "fatti, avvenimenti, personaggi di questo romanzo […] sono del tutto immaginari e frutto solamente di una fantasia imbrigliata nei canoni settecenteschi della “verisimiglianza”" (R p. 293). L’accezione favolistica di Rimini viene del resto confermata dalla storia - a lieto fine - di Claudia, non a caso ritrovata in un parco divertimenti dal significativo nome di Fiabilandia. Quanto all’omaggio, una conferma è data dall’analogo uso del drink preferito di Bruno May, quel “lungo addio” trasparente richiamo a The Long Goodbye di Chandler, che spesso nel romanzo viene stilisticamente imitato. Ritornando a Tolkien, un ulteriore dato supporta la tesi dell’omaggio: nella terza parte Bauer, che si era definito “lettore da due soldi” (R p. 94), fa un esplicito riferimento a Tolkien, prendendone a prestito lo stile: “Qualcosa incominciava a incupirsi dentro di me. Tolkien avrebbe scritto: ombre nere, minacciose, si avvicinavano all’orizzonte” (R p. 275). E’ chiaro che in questo caso non è Bauer a parlare, ma Tondelli, e l’assoluta mancanza di legami tra l’inserimento del riferimento a Tolkien ed il testo rende assai plausibile una volontà di richiamare lo scrittore anglosassone al di fuori delle necessità testuali, un semplice omaggio insomma. 28 Nelle recensioni a Rimini hanno fatto uso del termine “cinematografico” applicato al romanzo, tra gli altri, in riferimento ad una sua attribuita ‘visibilità’, Roversi, in riferimento al linguaggio Brambilla, entrambi citati in precedenza. Più di recente si è parlato di “stile cinematografico” (nonché di “performance multisensoriale”) in R. Ceserani-l. De Federiciis, Immagini dell’America in letteratura. Rimini di PierVittorio Tondelli, in Il materiale e l’immaginario, vol.9. La ricerca letteraria e la contemporaneità, Torino, Loescher, 1988, p. 85. Come esempio di scrittura cinematografica si faccia riferimento alla descrizione degli ambienti, soprattutto degli interni, dove l’occhio dell’autore sembra sostituirsi all’obbiettivo di una telecamera.

213 supplemento estivo del quotidiano, la “Pagina dell’Adriatico”, redatto a Rimini, dove Marco Bauer, il personaggio che racconta la storia, si accinge a trasferirsi. Dopo il tradizionale brindisi coi colleghi il protagonista si sposta nell’abitazione in cui vive, la casa di Katy, una stilista sua compagna. Il ritorno di lei rappresenta l’occasione per tratteggiare il carattere di Bauer che, dopo “il vecchio bar” e “la vecchia stanza di redazione”, si accinge a dire addio a quelli che definisce “arredi del mio passato” (R p. 21). L’addio vero e proprio a Katy avviene qualche giorno dopo, senza grossi traumi, dopodiché la scena si sposta direttamente alla partenza, il mattino successivo, e al viaggio, sull’autostrada del Sole, ritmato dal cambiamento delle stazioni radio. A Rimini il primo ambiente a comparire è la sede della redazione, dove Bauer fa la conoscenza del corrispondente, Romolo Zanetti, e di una collaboratrice estiva, Susanna Borgosanti, “una favola, una bellissima favola” (R p. 27). Dopo la redazione è la volta dell’appartamento assegnatogli dal giornale. Alle diciotto si ha la prima riunione in redazione, con Zanetti, Susy, un giovane praticante, Guglielmo, ed il fotografo, nel corso della quale Bauer distribuisce i compiti ed impartisce le nuove modalità operative. Una corsa in automobile - una rover - consente a Bauer di incontrare Claudia, una ragazzina tedesca al quale egli è costretto a dare un passaggio, prima di arrivare a Riccione - lungamente descritta nel suo “paesaggio” notturno -, dove s’imbatte in Susy, seduta in una gelateria con due amici. Un successivo giro in collina con Susy, per una cena in un casolare, consente la descrizione del vero protagonista del romanzo, la riviera adriatica, vista dall’alto “come una lunga inestinguibile serpentina luminosa” (R p. 43). Seguono i primi giorni di lavoro e la descrizione di una foto di due turisti tedeschi all’”Italia in miniatura”, che ritornerà a chiudere in maniera circolare il romanzo. Il terzo capitolo cambia completamente spazio e protagonista, aprendosi a Berlino nel negozio di antiquariato di Beatrix, “una donna né bella né brutta […] fra i trenta e i quarant’anni” (R p. 48), separata da dieci. Beatrix abita nella casa dei genitori con la vecchia donna di servizio, Hanna, ma è tormentata dal pensiero della giovane sorella Claudia, scomparsa da circa sette mesi, che si era fatta viva per l’ultima volta ai primi di aprile. Dopo un ultimo controllo nella stanza di Claudia, Beatrix decide di partire per l’Italia, da cui la sorella aveva inviato l’ultimo telegramma. Il romanzo ritorna ora a Rimini, introducendo altri due personaggi, Robby e Tony, che si sono dati appuntamento alla stazione ferroviaria della città adriatica per un incontro decisivo per il loro progetto, la realizzazione di un film al quale sono intenti da tempo. Dopo una cena innaffiata da abbondante Sangiovese, i due lanciano l’operazione “briciole”, finché Robby si ritira nella sua camera rimediata all’ultimo minuto al Meublè Kelly, dove alla tre del mattino inizia a lavorare alla sceneggiatura.

214 La scena si sposta poi al di fuori del night-club Top In, con un nuovo personaggio, Alberto, suonatore estivo di sax nei locali della riviera. Dopo una breve passeggiata sul lungomare, Alberto rientra nella sua camera in una pensione, notando uno “squarcio di luce” (R p. 75) proveniente dalla camera vicina, dimenticandosene presto tra le lattine di birra. La narrazione ritorna a Berlino, con la partenza di Beatrix per Roma. A Roma si reca all’Hotel Tiberio, dove comincia a ricostruire i movimenti di Claudia, che aveva soggiornato lì dal 28 marzo all’11 aprile. Riesce ad avere il nome e l’indirizzo dell’accompagnatore di Claudia, a cercare il quale si reca a Palermo. Lasciata Beatrix, Tondelli ritorna a far parlare Bauer, che, dopo una partita a tennis con Guglielmo, se ne va con Susy al Lido di Classe, alla “spiaggia dei desideri”, “un tratto di costa non appaltato agli stabilimenti balneari, in cui chiunque poteva fare campeggio libero […] unica colonia naturista della riviera” (R p. 86). E’ una breve immersione in “un turismo squattrinato e fricchettone”, che culmina nella zona gay della spiaggia in un alterco tra Bauer, corso in soccorso del fotografo del giornale, ed un gruppo di omosessuali. L’alterco si risolve con la consegna e l’immediata distruzione dei rullini incriminati, dopodiché Bauer e Susy se ne tornano a Rimini. Entrando in città Bauer nota il cartellone pubblicitario di un’impresa di costruzioni, l’Immobiliare Silthea, che tornerà più avanti nel romanzo con un ruolo chiave. Dopo l’annuncio dell’avvenuta pubblicazione dell’articolo sulla spiaggia a luci rosse, la narrazione riprende al Grand Hotel con un premio letterario - il XXVII Premio Letterario Riviera - al quale Bauer accompagna Susy. Presto, annoiatosi, si reca al bar, dove incontra uno strano personaggio - è lo scrittore Bruno May, ma Bauer e il lettore lo scopriranno più avanti -, che gli insegna come preparare il suo cocktail preferito e dopo una breve conversazione se ne va, lasciando oltretutto a Bauer un salatissimo conto da pagare. Il giorno dopo, in redazione, passata la sbronza seguita al party, Bauer litiga con Susy e cerca di programmare il lavoro, nonostante l’arrivo di una perturbazione rischi di far scarseggiare le notizie. Verso sera, sotto un violento acquazzone, si dirige con Susy all’aeroporto per accogliere uno scrittore americano che partecipa al premio Riviera. L’arrivo di un volo nazionale attira tutti i presenti, che lo scambiano per quello internazionale, eccetto Bauer che rimane ad osservare la scena da lontano. E’ così che si accorge di una donna sui trentacinque anni, Beatrix, appena sbarcata col volo da Palermo. Al ritorno di Susy, i due se ne fuggono assieme a casa di Bauer. La narrazione ritorna ora sulle vicende di Beatrix, abbandonata sul punto di recarsi a Palermo per cercare notizie di Claudia. Riesce solo a sapere che il ragazzo che stava con lei a Roma da tempo non abitava più a Palermo, ma ruba alla madre disperata una sua cartolina - che poi restituirà - inviata da Bellaria l’11 giugno 1983. In seguito ad un

215 fortunoso incontro con una comitiva di connazionali riesce anche a partire velocemente per Rimini, dove appunto Bauer la nota appena scesa dall’aereo. Chiusa la parentesi su Beatrix, Tondelli torna a far parlare Bauer, che viene chiuso fuori di casa - sotto la pioggia violenta - da Susy, riesce a rientrare rompendo il vetro di una finestra, finché, seguendo la pista dei suoi indumenti sparsi per l’appartamento, la trova e finalmente i due fanno l’amore. La narrazione si sposta ora su Alberto, che, a causa del temporale, ha finito di lavorare più tardi del solito. A mattino ormai sopraggiunto si reca sul lungomare con il suo sax e comincia a suonare, estendendo il suono del suo strumento a tutta la riviera che si sta per svegliare. Si chiude qui la prima delle tre parti di Rimini, e prima di iniziare la seconda, Tondelli inserisce un lungo monologo dal titolo Pensione Kelly: è costituito da un narratore che in prima persona racconta la sua storia, a partire dalla nascita in concomitanza col concorso di Miss Italia a Rimini nel 1955. Narra la storia della sua vita ritmandola con lo svolgimento dell’attività lavorativa dei suoi genitori, la gestione di una pensione, passando attraverso i vari personaggi che i prestavano servizio e offrendo al tempo stesso un’immagine del boom economico dei primi anni sessanta, soprattutto attraverso i sogni di grandezza dei genitori. Questo brano, apparentemente del tutto slegato dal resto del romanzo, solo alla fine svelerà il suo posto all’interno di esso, ma già in questa chiusura fornisce un indizio, nella sua ultima parola, “sbarre” (R p. 121). La seconda parte ricomincia con Bauer, attraverso il quale viene introdotta la settima storia di Rimini, quella del senatore Attilio Lughi. L’evento con il quale riparte la narrazione è infatti il ritrovamento del suo cadavere sulla spiaggia. Un dialogo tra Bauer e Zanetti è poi l’occasione per un lungo excursus sulla vita del senatore, dalla partecipazione alla Resistenza alla carriera politica nella sinistra democristiana, culminata nelle elezioni al senato del 1968, alla crisi personale nei confronti della politica nazionale e al ritorno all’impegno politico su scala locale. Il giorno seguente Bauer comincia a indagare sulla morte del senatore Lughi, dapprima recandosi nella sua abitazione a Sant’Arcangelo di Romagna, per poi proseguire verso Badia Tedalda, un complesso monastico nel quale Lughi si recava nei momenti di riflessione personale e di distacco dal mondo della politica. Lì, sorprendentemente, incontra Bruno May, che gli fa avere un colloquio con padre Michele, un ex politico democristiano amico del senatore Lughi. Il colloquio non sembra fruttare degli esiti interessanti e Bauer se ne torna a Rimini in compagnia di Bruno, al quale dà un passaggio. Di notte Bruno lo sveglia e lo fa accorrere a Cervia, per mostrargli dalla spiaggia le raffinerie di Ravenna.

216 Ritornando a Rimini, Bauer nota lo stesso cartello dell’immobiliare che aveva visto qualche giorno prima, tornando con Susy dal Lido di Classe, con un’importante differenza nel nome, che il temporale dei giorni precedenti aveva modificato da Althea in Thea. Dopo Bauer, è di nuovo la volta di Robby e Tony alle prese con “l’operazione briciole”, vale a dire il tentativo di raggranellare trecento milioni di lire per finanziare una propria produzione cinematografica vendendo sottoscrizioni sulla spiaggia. L’idea non sembra avere un successo strepitoso e, dopo tentativi infruttuosi culminati in una lite con due ambulanti marocchini, Robby è sul punto di abbandonare e solo a fatica Tony riesce a trattenerlo a Rimini. A questo punto subentra la storia di Alberto, il suonatore di sax, che, finalmente, riesce a conoscere Milvia, la donna - sposata e in vacanza con i due figli - che ogni notte ne spiava il ritorno; con lei inizia una relazione amorosa. Le vicende di Beatrix - abbandonata nella narrazione all’aeroporto di Miramare - occupano il terzo capitolo, che inizia con un tentativo di violenza fattole da un automobilista che lei aveva creduto un tassista. Beatrix riesce ad ogni modo a fuggire fortunosamente dal casolare in cui era stata portata, fino ad arrivare alla provinciale, dove sviene per poi risvegliarsi al Pronto Soccorso di Rimini. Beatrix affitta una camera in un hotel di Bellaria e cerca di fare un po’ d’ordine nella propria testa. Dopo un’ultima intensa telefonata all’ex marito Roddy, conosce un italiano, Mario, presentatogli da un’anziana coppia di coniugi tedeschi, ai quali egli insegnava l’italiano. Beatrix esce una sera con lui e, guardando le prove del concorso per la “XV Elezione dei Tipo da Spiaggia”, incontra per caso Giorgio Russo, il ragazzo di Palermo che era con Claudia a Roma. Da lui riesce ad avere qualche notizia sulla ragazza. La storia di Beatrix s’interrompe momentaneamente e la narrazione ritorna su Bauer, che una mattina riceve la visita dell’autista del senatore Lughi, Fosco. L’uomo lo accompagna a Sant’Arcangelo, per farlo entrare nella casa di Lughi, ma nella sua Volvo Bauer rinviene un bigliettino con le ultime parole del senatore prima del suicidio, e così ritorna velocemente in redazione, dove, dopo una breve consultazione con il vicedirettore a Milano, scrive il pezzo per la cronaca nazionale e non per il supplemento. L’evento successivo è un party a casa di Bruno, durante il quale quest’ultimo ha uno scontro con Susy; è anche l’occasione per introdurre una nuova figura, Oliviero Welebansky, un amico di Bruno. Lo scrittore diventa ora il protagonista della narrazione che, in seguito ad un suo incontro notturno con Aelred, si struttura come una lunga analessi sulla loro storia, che si estende anche al capitolo seguente. Bruno e Aelred si erano conosciuti a Londra tre anni prima, nel novembre del 1980, ad un’esposizione di scultura moderna. Tra i due era nato subito un amore intenso e combattuto, che subiva le incertezze e gli umori di Aelred, combattuto tra Bruno e una donna. E’ una situazione

217 momentaneamente risolta dall’arrivo di padre Anselme, un religioso amico di Bruno che decide di portarlo con sé a Roma. La scena successiva descrive l’incontro di Bruno con Oliviero, a Firenze, durante un party al Grand Hotel Excelsior, dove i due scambiano qualche battuta prima di salutarsi. Bruno era giunto a Firenze dopo qualche settimana nei dintorni romani con padre Anselme, alla ricerca di una ritrovata capacità di scrivere. Oliviero lo invita a colazione una mattina e poi lo introduce nella colonia Vermilyea, una specie di comunità di artisti, gestita da una mecenate americana di nome Velma, che Oliviero affianca come amministratore e consulente. All’ingresso di Bruno nella colonia fa seguito un periodo di vacanze in Portogallo, in una tenuta di Velma, e poco dopo il ritorno una nuova visita di Bruno a padre Anselme, a Roma, al quale chiede una confessione per le vie della capitale. Il ritorno a Firenze determina in Bruno la volontà di rivedere Aelred per un’ultima volta: aiutato dal fedele Oliviero lo ritrova a Londra per un definitivo addio, ritorna a Firenze e sblocca la sua situazione di scrittore in crisi, scrivendo il romanzo che parteciperà poi al XV Premio Riviera. L’epilogo della storia di Bruno è rapido e inaspettato. Incontra a Rimini Aelred che, ritrovatolo, lo riempie di botte fino a lasciarlo svenuto per terra. Ripresosi, Bruno rientra nella colonia Vermilyea, e alle prime luci del mattino si uccide. La narrazione prosegue con Beatrix che, su suggerimento di Giorgio Russo, va con Mario a cercare Claudia a Fiabilandia. Il loro tentativo sarebbe infruttuoso se Beatrix, uscendo, non mostrasse al vecchio guardiano le foto di Claudia. Il vecchio li conduce così al rifugio della ragazza, che ritorna a notte inoltrata. Dopo un’iniziale fuga di Claudia le due donne si parlano e tutto si avvia verso un lieto fine, con il ritorno di Beatrix e Claudia a Berlino, in compagnia di Mario, innamoratosi di Beatrix. Dopo questa parentesi ritorna il Premio Riviera, che la morte di Bruno e le polemiche che l’hanno accompagnata hanno reso una questione così spinosa da far dimettere la giuria e rinviarne l’assegnazione. I funerali di Bruno sono vissuti con disagio da Bauer, che a suo modo lo saluta con una sbronza a base di Long Goodbye. L’evento successivo è la prima del film di Robby e Tony, dei quali solo ora vengono puntualmente chiarite le vicende, specificando la data dell’”operazione briciole” come risalente all’anno precedente. Un importante evento, ai fini dell’indagine di Bauer sul caso Lughi, è la visita di una novizia delle suore di Sant’Agata, un ordine religioso con sede a Sant’Agata Feltria, sulla strada per Badia Tedalda, il monastero dove il senatore Lughi si recava nei momenti di distacco dalla politica. Susy va ad indagare e scopre che le suore ospitano otto bambini handicappati tra i quali una ragazzina dodicenne di nome Thea. E’ lo stesso nome dell’immobiliare che Bauer aveva notato nel temporale, e così egli ricomincia ad indagare

218 su di un caso che aveva dato per chiuso. Una visita all’archivio dell’ufficio tecnico del Comune, per visionare i due successivi progetti dell’immobiliare Thea, poi diventata Silthea - che oltretutto appartiene al gruppo che detiene il pacchetto di maggioranza del giornale di Bauer - comincia a metterlo sulla strada giusta. La seconda parte si chiude su Alberto, incredibilmente litigioso con colleghi e proprietario del night in cui suona, poiché Milvia ha terminato le vacanze e se ne è tornata a casa con marito e figli, lasciandolo. Prima della terza ultima parte ritorna il monologo che aveva svolto funzione di intervallo tra le prime due, col solito Renato che, nel suo excursus sulle vicende della propria famiglia di albergatori è arrivato all’anno 1965. La vecchia Pensione Kelly si è ingrandita ed è diventata un Hotel, fiorendo, a metà anni sessanta, gli anni del boom economico, fino ad aggiungere al corpo principale tre dependance. Renato comincia a lavorarci, dapprima come cameriere, poi come portiere di notte. Si innamora di Lucia e, complici i playboy locali, inizia la sua carriera di voyeur. Crescendo inizia anche ad odiare i clienti, che percepisce come responsabili del degrado della propria casa, mercificata. Con gli anni settanta arriva anche la crisi, circola meno denaro e un po’ alla volta l’azienda della famiglia di Renato imbocca un lento inesorabile declino. I debiti al gioco del padre fanno il resto, finché un incendio distrugge l’Hotel, che non ritornerà più ai fasti di un tempo, ma continuerà dall’anno seguente con la più modesta denominazione di “Meublé” e il puzzo delle mura bruciate che non vuole scomparire. La terza parte inizia con l’arrivo a Rimini di uno studioso, “il professore”, che, sulla base di un antico testo all’interpretazione del quale ha dedicato gli ultimi venti anni della sua vita, ha individuato in Rimini il luogo d’inizio della fine del mondo, e, in una conferenza stampa, ne predice la data. Comincia a gonfiarsi una psicosi collettiva, esemplificata dal gesto di Renato Zarri, il giovane protagonista dei monologhi che intervallano le tre parti del libro. Egli aveva infatti sequestrato e tenuto in ostaggio per una decina di ore un pullman di turisti inglesi, prima di arrendersi alle forze dell’ordine. Si viene così a sapere che gli apparenti monologhi di Renato facevano in realtà parte del suo colloquio col magistrato dopo la cattura. Nonostante il clima da fine del mondo, Bauer si isola nel suo appartamento e cerca di mettere ordine nelle sue indagini, collegando l’immobiliare Thea e le suore di Sant’Agata. Non arrivando a conclusioni degne di nota, l’indomani si reca da solo al convento, dove, in un colloquio con la madre superiora, riesce ad ottenere una busta, preparata dal senatore Lughi, che risolve il mistero. Il senatore si era fatto corrompere dalla società immobiliare, aveva facilitato l’approvazione del progetto in cambio di cospicue somme di denaro che versava mensilmente al convento, dove viveva Thea, sfortunata figlia dell’unico amore della sua vita, quello per una nobildonna siciliana già sposata. Il cambiamento della gestione

219 politica locale rovina i piani di Lughi e dell’immobiliare, finché un nuovo ipotetico accordo tra immobiliare e nuova gestione politica rende superflua la figura del senatore. Le sue proteste non ottengono altro effetto che affrettarne la fine, fatta poi passare per suicidio. Una volta chiarito il mistero, Bauer non sa più cosa fare, rendendosi conto di essere stato usato come uno strumento per consolidare la versione ufficiale del suicidio, essendo il giornale per cui lavora di proprietà dello stesso gruppo che possiede l’immobiliare Silthea. Ad ogni modo è in possesso della busta nella quale il senatore Lughi aveva rinchiuso le prove dell’accaduto, anche se non sa bene cosa farne. Il problema viene risolto dagli incidenti dell’annunciata fine del mondo: Bauer rimane ferito in un occasionale scontro con uno scooter mentre a piedi si recava con Susy verso casa; Susy ne approfitta per impadronirsi della busta, e distrugge le prove nel rogo della fine del mondo. Il giorno dopo Bauer si risveglia nel suo appartamento, amorevolmente assistito da Susy che nega le proprie responsabilità sull’accaduto, incolpandone Bauer. A quel punto non gli resta che passare la mano all’altrettanto ambiziosa Susy, dare le dimissioni dal giornale e ritornarsene a Milano, abbandonando ogni sogno di grandezza.

III.2 Una complicata struttura polifonica.

La trama di Rimini rivela dunque una struttura complessa, costruita su determinate simmetrie e ben ordinata nella sua suddivisione in parti e capitoli. Un semplice sguardo all’indice mostra una tripartizione in segmenti intervallati da brevi inserti il cui titolo è segnalato dal corsivo. Le prime due parti si richiamano l’un l’altra per un’identica suddivisione in sette capitoli ciascuna, mentre i due inserti sono accoppiati dall’uso dello stesso nome: Pensione Kelly e Hotel Kelly. La terza parte, più breve delle precedenti e priva di suddivisione alcuna, si colloca anche tipograficamente come chiusura che riunisce in sé le caratteristiche degli altri elementi: pur denominata “PARTE TERZA”, possiede un titolo - Apocalisse, ora - che è scritto in corsivo, richiamando così quelli dei due inserti.29 E’ come se Tondelli, con queste scelte, volesse dotare di uniformità il romanzo, specificandone la natura polimorfa ma al tempo stesso evidenziando l’appartenenza alla storia dei due inserti, i monologhi di Renato Zarri, che, apparentemente slegati dalle altre vicende, non a caso sono fatti rientrare, unici tra le molte storie del libro, nella parte finale, dedicata alle vicende del solo Bauer.

29 Con ogni probabilità, l’utilizzo del corsivo, diversamente dai titoli delle due parti precedenti, è dovuto anche al fatto che il titolo in questione è la traduzione, con l’aggiunta di una virgola, dell’omonimo film di Francis Ford Coppola, Apocalypse now. L’uso del corsivo rende la citazione più evidente.

220 All’interno di questa simmetria Tondelli inserisce sei storie che si intersecano in varia maniera, evidenziando ulteriormente il carattere cinematografico di Rimini attraverso quello che è il suo procedimento costruttivo fondamentale: il montaggio.30 Le sei storie di Rimini sono infatti eterogenee e diversificate, addirittura sfalsate nel tempo a volte, al punto che il loro assemblaggio in un prodotto sostanzialmente uniforme diventa il cardine che giustifica la definizione romanzo. Nonostante la varietà delle situazioni narrative, che può alla fin fine ricondurre ogni singola storia ad un sottogenere nel campo del romanzo, Rimini non rivela stacchi tali, nei passaggi da una storia all’altra, da incrinarne la compattezza, che grazie a volte ad accorgimenti che quasi non si notano - come il citato caso di Renato Zarri - si avvale di un montaggio in grado di farne percepire la trama come se si trattasse di un’unica complessa storia. L’opera sembra infatti riconducibile ad una sola trama principale, le vicende di Bauer, sulla quale si inscrivono le altre storie, che risultano appartenervi soltanto come accorgimenti strutturali per uniformare il testo. La voce di Bauer è quella più presente, anche in considerazione della scelta di un narratore in prima persona per le sue vicende, oltre che per il maggior spazio dedicatogli in termini di pagine. Ed è questa voce che racconta gli incontri con i personaggi delle altre storie, ma non c’è compenetrazione nelle loro vicende, che rimangono esterne al mondo di Bauer, dal momento che quei personaggi hanno per la sua storia il valore di un semplice addobbo, ricevono un breve spazio alla stessa maniera di quello che può ricevere un edificio, o una strada, anzi meno, considerato il grande interesse che viene dedicato in Rimini alle descrizioni spaziali. E’ una caratterizzazione connessa alla figura di Bauer: egli è un cronista, come tale registra gli avvenimenti che accadono sul suo ‘territorio’, ma lo fa con la professionalità che il suo lavoro richiede. In questa maniera registra anche i passaggi degli altri personaggi nella sua storia, senza però andare al di là di questo atteggiamento. Bauer incrocia due volte quella che sembra essere la seconda vicenda per importanza di Rimini, la storia di Beatrix. Una prima volta, anticipando l’ingresso di Beatrix nel libro, destinato al capitolo successivo, incontra Claudia, la ragazza che è all’origine del viaggio di Beatrix in Italia. La

30 Questo procedimento conferma sotto il profilo strutturale quanto detto in precedenza a proposito di “stile cinematografico” e di scrittura cinematografica (v. nota n. 28). Non a caso Tondelli aveva steso con Luciano Mannuzzi - il regista con il quale collaborerà di nuovo nel 1989 scrivendo il soggetto alla base di Sabato Italiano, uscito nei cinema nel 1992 - un progetto di sceneggiatura per la riduzione cinematografica di Rimini, che doveva essere prodotto da Maurizio Carrano, ma che fu poi accantonata. D’altronde già nel 1985 Tondelli cullava il progetto di un film tratto da Altri libertini, che doveva configurarsi come un film a episodi nel quale ogni episodio, girato da un diverso regista giovane, doveva esprimere un diverso stile cinematografico. E’ un concetto che ricorda molto da vicino la pluralità di stili che caratterizza Rimini, fatto questo che è d’altronde motivabile con la contemporaneità tra progetto cinematografico e romanzo. Non si dimentichi inoltre che quello per il cinema è in Tondelli un interesse di vecchia data, giacché al momento dell’iscrizione al Dams di Bologna aveva scelto il dipartimento di “Cinema e spettacolo”.

221 ragazza lo costringe a dargli un passaggio e quasi subito, seccata dalle domande di Bauer, lo morde ad un braccio e scende dall’auto, perdendosi tra la folla. La vicenda ha un breve seguito poco più avanti quando Bauer la racconta a Susy, sviluppandone l’idea di un servizio sugli sbandati e i tossicodipendenti che d’estate affollano la riviera. L’incontro viene quindi significativamente piegato alle esigenze lavorative di Bauer, che si rivelano il metro di giudizio della realtà. L’incontro con Beatrix è ancora più breve, un vero e proprio colpo d’occhio privo di alcun sviluppo successivo. Bauer è all’aeroporto con Susy, dove sta aspettando uno scrittore americano e osserva una comitiva di turisti tedeschi: Una donna sui trentacinque anni si appartò in un angolo in attesa della riconsegna del bagaglio. Mentre tutti gli altri passeggeri si riunivano intorno alla guida, lei resisteva solitaria e silenziosa. Aveva estratto da una borsa una spazzola e si stava lisciando i lunghi capelli bagnati. Non era una bellissima donna. Ma era interessante. Era vestita con molta cura. Lo si notava. Forse per il fatto che viaggiava sola e non aveva l’aria di chi fosse venuto in vacanza. Incontrai il suo sguardo. Lo ricambiò per un istante. Lo riabbassò. Tornò a occuparsi dei suoi capelli (R p. 103).

Non c’è alcun altro accenno in tutto il libro ad ulteriori connessioni tra le due storie, cosicché appare evidente che quest’ultimo incontro ha una funzione del tutto strutturale, di collegamento, dal momento che, se, contemporaneamente alla narrazione di Bauer, non ci fosse anche il racconto delle vicende di Beatrix, la signora tedesca con i lunghi capelli resterebbe soltanto un’anonima turista dall’espressione poco vacanziera. Analogamente, negli altri incontri di Bauer con i personaggi delle altre storie, è sempre il lavoro la motivazione che li rende possibili, e la loro trattazione non si discosta molto da quella dell’incontro con Beatrix. Si è già accennato all’inclusione di Renato Zarri nella terza parte di Rimini. Il suo gesto, sviluppato subito dopo per un paio di pagine, riceve da parte di Bauer una descrizione da trafiletto di cronaca: “Un giovane assalì un pullman di turisti impugnando una pistola e tenendoli in ostaggio per una decina di ore” (R pp. 271-272). Non compaiono riflessioni sulla vicenda che, liquidata come esempio particolare della psicosi collettiva che si è instaurata nell’atmosfera da fine del mondo, si risolve senza avere più alcuna connessione con le vicende di Bauer. Gli stessi Robby e Tony fanno una sola breve comparsa nella vita di Bauer, necessaria peraltro a chiarire un aspetto fondamentale della loro storia: Tondelli inserisce Bauer come spettatore alla prima del loro film, specificando solo ora che le vicende dei due, intercalate alle altre di Rimini, sono in realtà precedenti alla storia, essendosi svolte l’anno precedente. La dilatazione temporale, verso il passato, che così ne deriva, è però ottenuta a posteriori, non interagisce con l’unità di tempo del romanzo, in apparenza piuttosto omogenea, ed oltretutto conferisce alla chiusura della loro storia lo stesso aspetto

222 risolutorio che in altre - per esempio la misteriosa morte del senatore Lughi o il ritrovamento di Claudia - è molto più trasparente. Quanto alle altre storie, Alberto non fa alcuna comparsa nella narrazione di Bauer, mentre Bruno May vi interagisce fortemente. In effetti Bruno è l’unico personaggio che appartiene alla sua storia e al tempo stesso a quella di Bauer. C’è un rapporto tra i due che supera quello tra gli altri personaggi, complicato inoltre dal fatto che Tondelli, oltre a far interagire Bruno con Bauer, lo inserisce anche nelle vicende del senatore Lughi - tramite la sua comparsa a Badia Tedalda, dove Bauer si era recato a cercare notizie sul senatore -, vicende che rappresentano una vera e propria storia nella storia, per certi versi definibile come la settima storia di Rimini. A ben guardare, però, la storia di Bruno si può scomporre in due segmenti, slegati tra di loro: c’è quello ambientato al presente, che riguarda anche Bauer, totalmente rinchiuso nell’universo di Rimini, ma c’è anche quella che narra le vicende di Bruno prima di arrivare al presente di Rimini. E’ una storia tutta ambientata al passato, con la quale Bauer non ha nulla a che fare, che si struttura come una lunga analessi che si dipana al suo interno in maniera assolutamente lineare e omogenea.31 Questa sembra essere la vera storia di Bruno, più rispondente allo statuto strutturale di Rimini che separa le varie storie che lo compongono, per poi costruire solamente dei ponti tra l’una e l’altra. A questo livello interpretativo, le vicende di Bruno a Rimini, e il conseguente contatto con Bauer, sono solamente il ponte con l’altra storia, ma la vera storia di Bruno è quella narrata nell’analessi, che mantiene una natura incompatibile con il presente. Lo dimostra il fatto che quando le due linee di questa storia si uniscono, e Bruno rincontra Aelred nel presente, a Rimini, la storia finisce e Bruno si uccide. La separazione delle due storie è talmente evidente e irrimediabile che il loro forzato incontro ne determina l’annichilimento. Ecco quindi che anche la storia di Bruno rientra nello schema più generale delle storie di Rimini: la vicenda dello scrittore Bruno May è saparata da quella di Bauer, e vi si inserisce secondo le consuete modalità di riferimento al lavoro di Bauer, in occasione del servizio giornalistico sulla morte di Bruno e sul Premio Riviera. E’ evidente perciò che, nonostante la voce di Bauer a fungere da elemento che uniforma il testo, l’eterogeneità è il carattere fondamentale di Rimini, la cui poliedricità ne consente un’interpretazione quale espressione di differenti possibilità narrative. Tondelli

31 Non si può non mettere in connessione questa parte di Rimini con la narrativa del ricordo che compare in Altri libertini (cfr. Viaggio) e che è alla base della struttura di Pao Pao. E’ come se Tondelli volesse conglobare nel nuovo romanzo i suoi lavori precedenti, o magari solo fornire delle citazioni sul piano della struttura. Non si può infatti non correlare la lunga analessi su Bruno e Aelred o le scelte temporali relative alle vicende di Robby e Tony con la complicata struttura temporale di Pao Pao. Ad altro livello inoltre - come si vedrà - i contatti tra personaggi di storie diverse richiamano quelli analoghi presenti in Altri libertini.

223 infatti sviluppa le sei storie di Rimini attraverso molteplici variazioni degli elementi costitutivi e caratterizzanti, a loro volta intersecantesi tra di loro. Così, sul piano stilistico, ogni singola storia appartiene ad uno specifico filone romanzesco: l’indagine di Bauer sulla morte del senatore Lughi è un giallo, la ricerca di Beatrix si risolve in una storia d’amore, la vicenda di Bruno May sconfina nel romanzo di tipo esistenziale, il tutto contaminato da altri elementi, tra cui la volontà di ascesa sociale, che ugualmente tendono a definire le singole storie come appartenenti ad un determinato sottogenere. Analoghe variazioni s’incontrano in riferimento alla voce narrante, che passa dalla prima persona di Bauer e dei monologhi di Renato Zarri alla terza persona che descrive le altre storie; è un accorgimento che senz’altro facilita una ricezione del romanzo come se fosse raccontato da un unico narratore, Bauer, in prima persona relativamente alle sue vicende, in terza persona quando racconta quelle degli altri. Farebbero eccezione i due monologhi di Renato Zarri, che però, essendo anche tipograficamente diversificati nel testo, assumono con facilità il valore di pause che non lo spezzano ma lo ritmano. E’ evidente che, viceversa, chi racconta la storia non può essere sempre Bauer, se non altro perché non c’è nessuna ragione per cui egli debba conoscere le vicende di Bruno e Aelred, né tantomeno quelle di Alberto, di cui non fa mai menzione; dietro la voce ben più nota e caratterizzata di Bauer si nasconde così un narratore anonimo e onnisciente. Conseguentemente alle scelte stilistiche di genere, anche i personaggi sono oggetto di una grande diversificazione, caratterizzati di volta in volta da elementi che li definiscono e al tempo stesso definiscono la storia: così il cinismo e la volontà di arrivare sono propri delle vicende di Bauer, ma contraddistinguono in qualche maniera l’intera storia che lo vede protagonista, rivelandosi alla fine anche in Susy. La caparbietà e un arrivismo meno cinico sono invece propri della storia di Robby e Tony, mentre personaggi come Alberto e la stessa Beatrix rivelano un carattere più riflessivo e portato all’interiorizzazione. Bruno, infine, è il personaggio che più si avvicina alla produzione precedente per la sua collocazione in qualche modo ai margini della società, la sua fisionomia anarcoide: scrittore in crisi, non sembra inseguire il successo quanto la scrittura come esito finale della propria vita; diverso anche nelle scelte sessuali, teso verso l’autodistruzione e al tempo stesso tormentato da dubbi religiosi, si collega al mondo di Altri libertini anche per tematiche - droga, alcool, omosessualità - in genere assenti da Rimini. Non a caso il suo personaggio è un esempio di riuso di materiali prelevati da opere precedenti, dal momento che le vicende londinesi di Bruno e Aelred erano già in parte apparse in un racconto del 1984, dal titolo L’addio.32

32 Il racconto in questione è stato pubblicato per la prima volta in AA.VV., Avventure dell’eros, a c. di F. Gnerre, Milano, Gammalibri, 1984. In seguito Tondelli lo incluse, col titolo di Attraversamento dell’addio in P.V.Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., pp. 117-122.

224 Per quanto riguarda i personaggi, Rimini rivela perciò una gamma vastissima di tipologie, ampliando la consueta folla dei romanzi tondelliani. Se infatti in Altri libertini e Pao Pao si rinvenivano, magari solo come comparse, numerosi personaggi, riconducibili però per lo più ad un mondo ben determinato, in qualche maniera caratterizzato dalla sua marginalità rispetto alla norma, in Rimini Tondelli estende al mondo intero la portata del suo intervento narrativo, spostando la sua analisi in ambiti sociali finora estranei alla sua opera.33

III.2.1 L’esempio calviniano.

La valutazione di Rimini quale inventario di possibilità narrative lo colloca nel solco di una tradizione, piuttosto frequentata nel Novecento, il cui esempio più vicino per lo scrittore è un’opera che occupa un posto assai importante nella recente narrativa italiana, e cioè Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, pubblicato nel 1979. Il romanzo ha ottenuto subito un notevole successo, italiano ed estero - nel 1981 escono le versioni inglese ed americana -, anche sotto il profilo critico, ponendosi come un punto fermo nella narrativa italiana, dal quale in seguito non si potrà prescindere.34 Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo piuttosto anomalo, composto da dieci incipit di altrettanti romanzi diversi collegati dalle peripezie del lettore che cerca disperatamente di arrivare ad una conclusione. Rispetto a Rimini è significativa l’intenzione di scandagliare le varie forme - o perlomeno alcune di esse - che il romanzo può assumere, quasi fornendo un “catalogo di possibilità linguistiche” conseguente al proposito di adottare “ogni volta un’impostazione stilistica e di rapporto col mondo”.35 Calvino, nel chiarire il suo lavoro e identificarne gli antecedenti, era poi risalito fino a Joyce, facendo inoltre il nome di Queneau come interprete della stessa ricerca: Inseguire la complessità attraverso un catalogo di possibilità linguistiche diverse è un procedimento che caratterizza tutta una fetta della letteratura di questo secolo, a cominciare dal romanzo che racconta una giornata qualsiasi d’un tizio di Dublino in diciotto capitoli ognuno con una diversa impostazione stilistica.

33 Non a caso il tentativo, dichiarato dallo stesso autore, di fornire un affresco dell’Italia degli anni ottanta, ha incontrato le critiche più aspre proprio in relazione alla scelta di un mondo narrativo estraneo alla sua scrittura. Cfr ad esempio A. Guglielmi, Sodoma del Novecento la Rimini di Tondelli, “Paese Sera”, 1 agosto 1985 oppure G. Gramigna, Rimini domestica e forsennata, cit. 34 La recente produzione narrativa italiana dispiega una serie di romanzi, che ruotano attorno al mondo dell’editoria, nei quali i richiami a tematiche e personaggi del romanzo calviniano sono palesi, quasi a livello di citazione. Tra questi è assai significativo l’esempio di Gianni Celati - autore cardine e modello, come si è visto, per tanti giovani scrittori, non escluso lo stesso Tondelli - che inserisce nel suo Quattro novelle sulle apparenze, del 1987, un racconto dal titolo I lettori di libri sono sempre più falsi, interpretabile come un vero e proprio omaggio al Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore. 35 I. Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, in “Alfabeta”, dicembre 1979, ora anche in I. Calvino, Presentazione, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, Milano, Mondadori, 1994, pp. V- XV.

225 […] Almeno per la durata di questo libro, la “forma della ricerca” è stata ancora per me quella - in qualche modo canonica - d’una molteplicità che converge su (o s’irradia da) un’unità tematica di fondo. Niente di particolarmente nuovo, in questo senso: già nel 1947 Raymond Queneau pubblicava Exercises de style in cui un aneddoto di poche righe è trattato in novantanove redazioni differenti.36

Indubbiamente anche Rimini fa convergere su di un’unità, che è soprattutto spaziale - e cioè la Riviera adriatica come contenitore narrativo -, ma che evidenzia al suo interno alcuni temi prevalenti - in primis la ricerca del successo e l’affresco di una cultura di massa dell’Italia degli anni ottanta -, tutta una molteplicità di situazioni e vicende estremamente eterogenee. Interessante notare che ancora Calvino nel medesimo intervento sembra giustificare l’accusa, poi rivolta a Tondelli, di orientarsi verso situazioni narrative che non gli sono consone: non m’interessava ripercorrere la mia autobiografia letteraria, rifare tipi di narrativa che avevo già fatto; dovevano essere dei possibili al margine di quel che io sono e faccio.37

Certo, la volontà di creare quasi un catalogo di possibilità romanzesche è basilare e fondante nel testo di Calvino, mentre non ha lo stesso peso in Rimini, ma ciò non toglie che l’esito tondelliano sia un romanzo pluristilistico al quale sono adattabili le affermazioni che Calvino fa, ovviamente sul piano della struttura. E’ chiaro che gli esiti stilistici sono fortemente divergenti, come pure diverso è l’elemento scelto per dare coesione al testo, dal momento che le vicende di Bauer non possono assumere la stessa valenza della storia del lettore di Calvino, ma questo non diminuisce l’importanza di Se una notte d’inverno un viaggiatore come esempio di una ricerca compositiva che sembra essere il motivo fondamentale della struttura di Rimini. Comune ai due testi, inoltre, in virtù soprattutto dell’inserimento dell’industria culturale come argomento narrativo operato nel libro di Calvino, l’adozione di ambienti o personaggi che in qualche maniera ad essa sono legati: senza raggiungere la focalizzazione di Calvino sull’attività letteraria, Rimini ruota pure attorno a momenti legati all’establishment letterario, dal momento che Bauer è un giornalista ed ampia parte del romanzo si svolge

36 Ibidem. Va specificato che sicuramente il lavoro di Queneau non si può definire romanzo e quindi a rigor di logica collocare nella stessa linea del libro di Calvino ed eventualmente di Rimini. La sua citazione da parte di Calvino rende però esplicite considerazioni, valide anche per Tondelli, sul peso, ai fini del prodotto letterario, delle acquisizioni teoriche e delle discussioni sulla natura della narrativa che si sono venute accumulando in tutto il Novecento, dai Formalisti russi in poi, discussioni delle quali un romanziere non può non tenere conto. A proposito dell’opera di Queneau e del suo lavoro sul linguaggio, si consideri inoltre che proprio sul linguaggio si era soffermata la critica nella valutazione di Altri libertini, parlando a volte addirittura di sperimentazione linguistica. All’altezza di Rimini è possibile affermare che la struttura sostituisce il linguaggio come oggetto di sperimentazione, anche se per il lavoro di Tondelli è forse meglio parlare di ricerca, dal momento che l’autore ha sempre rifiutato per sé la qualifica di sperimentale. Cfr. F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 82-83. 37 I. Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, cit. p. XIII.

226 nella redazione del quotidiano; inoltre un evento che assume una discreta importanza all’interno di Rimini è il premio letterario Riviera, attraverso il quale compare la figura di Bruno May, scrittore in crisi perché non riesce più a scrivere, situazione che non può non essere messa in correlazione con l’affermazione di Calvino sull’impossibilità di scrivere romanzi al giorno d’oggi, affermazione che sembra essere una plausibile interpretazione della struttura di Se una notte d’inverno un viaggiatore, nel quale nessun romanzo si conclude. Proprio a questo proposito si può notare che Calvino ha in effetti dotato il suo romanzo di un lieto fine, il matrimonio del lettore con Ludmilla, la lettrice conosciuta tramite il romanzo, anche se viceversa gli altri dieci incipit non sembrano portare a una fine. Le storie di Rimini, al contrario, sono sempre dotate di un finale, che in due casi, quello di Beatrix e quello di Robby e Tony, è un lieto fine, addirittura con il coronamento inaspettato di una storia d’amore per la signora tedesca - situazione analoga a quella del lettore calviniano, ma anche situazione troppo topica per essere considerata una convergenza. Bisogna però considerare che forse non è corretto parlare di storie sospese per gli incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore. E’ un dubbio che ha sollevato lo stesso Calvino: Qui non si tratta del “non finito” ma del “finito interrotto”, del “finito la cui fine è occultata o illeggibile”, sia in senso letterale che in senso metaforico […]. In partenza volevo fare dei romanzi interrotti, o meglio: rappresentare la lettura di romanzi che s’interrompono; poi in prevalenza mi sono venuti dei testi che avrei potuto anche pubblicare indipendentemente come racconti. (Cosa abbastanza naturale, dato che sono sempre stato più un autore di racconti che un romanziere).38

Ecco che la struttura di Se una notte d’inverno un viaggiatore si precisa come una serie di racconti diversi - volutamente differenziati in maniera evidente - coesi da una cornice narrativa che trova per loro tramite un proprio sviluppo fino a staccarsene nel finale, e che si configura come ricca di interventi metadiegetici. E’ proprio in uno di questi che l’autore fa delle interessanti considerazioni sulle modalità della scrittura, considerazioni che, unite a quelle contenute nell’intervento giornalistico, gettano una luce particolare sulla natura del testo calviniano: I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell’epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta.39

38 Ibidem. Non va dimenticata la problematica sopravvivenza del romanzo negli anni settanta e la sua ripresa all’inizio degli anni ottanta per meglio valutare le considerazioni di Calvino. 39 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979, Milano, Mondadori, 1994, p. 9.

227 Sono affermazioni che mostrano una notevole convergenza con quanto Tondelli affermava, nel suo Colpo d’oppio, già citato, sulla morte del romanzo e sulla necessità di limitare il numero delle pagine di un testo alle possibilità temporali della sua ricezione, identificando nel racconto la misura ideale della narrazione. Era il 1980, e Tondelli aveva da poco scritto Altri libertini, che di queste convinzioni doveva essere un risultato, ma anche la struttura del romanzo di Calvino, secondo questa interpretazione, consolida l’intervento tondelliano, ed entrambi gli autori sembrano concordare sull’impossibilità di scrivere romanzi di una certa consistenza in un’epoca in cui lo spazio per la lettura è confinato nei ritagli di tempo.

III.2.2 Il modello interno.

Se il romanzo diventa dunque un assemblaggio di racconti, tenuti insieme da qualche artificio strutturale o attraverso meccanismi narrativi, Altri libertini, nel quale le sei storie che si intersecano debolmente riescono a dare coesione al testo, viene ad acquistare un’importanza particolare proprio nei confronti di Rimini. L’esordio narrativo di Tondelli, infatti, diventa il modello reale, interno alla produzione tondelliana, del ben più complesso Rimini, che se ne dimostra uno sviluppo. Anche in Rimini compaiono sei storie, che si intersecano in maniera solo apparentemente più fitta, ma che rivelano ad una più attenta analisi un’interazione - come si è visto - quasi inesistente. Analoga è l’apparizione di personaggi di una storia come comparse in un‘altra, talvolta con una valenza esplicativa di alcuni momenti del testo, procedimento del tutto estraneo ai meccanismi strutturali di Altri libertini.40 Non a caso è contemporaneo alla pubblicazione di Rimini il progetto di una riduzione cinematografica di Altri libertini, progetto che si dipanava lungo direttrici di eterogeneità prossime al romanzo più recente, dal momento che Tondelli si proponeva di affidare la realizzazione di ogni singolo episodio ad un diverso giovane regista italiano.41 Rimini si presenta dunque come uno sviluppo delle idee sottese all’esordio di Tondelli, la realizzazione di un romanzo, anche piuttosto corposo, a partire dall’assemblaggio di racconti volutamente assai differenziati tra loro, rivelando così una sostanziale coerenza interna alla produzione tondelliana, nonostante le inevitabili diversificazioni ed evoluzioni. In questo senso si può parlare, se non di vere e proprie citazioni, di riprese dall’opera d’esordio, che assumono valore proprio in funzione della loro evoluzione rispetto al

40 Si faccia riferimento per esempio alla presenza di Bauer alla prima del film di Robby e Tony, che getta luce sull’aspetto temporale della loro vicenda, viceversa non pienamente comprensibile. 41 V. nota n. 351.

228 modello. Sono momenti tematici che ritornano, segnando con questa sorta di parallelo tutta la distanza temporale che separa Rimini da Altri libertini. Ecco quindi che nella rievocazione del periodo berlinese della storia di Claudia ritorna tutto un mondo giovanile, protagonista dell’intero Altri libertini, nella medesima condizione di contrasto con l’istituzione - nelle sue varie forme - che era una situazione basilare dell’esordio tondelliano: Claudia […] se ne era andata, a sedici anni, per vivere in un appartamento di Hausbesetzer a Hollesches Tor. Allora c’era un ragazzo nella sua vita, un ventenne magro e allampanato, dai capelli candidi che si chiamava Emmet […], un giovane uomo pieno di ideali e di convinzioni e di cause perse. Faceva parte di un gruppo violento, rabbioso, distruttivo. […] L’alba in cui la polizia li fece sfollare li vide protagonisti di una occupazione feroce e inedita. Mentre la polizia pestava, Claudia, Ossi ed altri ragazzi distrussero e incendiarono uno stabile sfitto in Ratiborstrasse. Di là dal muro, a poche decine di metri, i vopos guardavano, come sempre impassibili, le violenze di quell’altra incomprensibile parte del mondo (R pp. 57-58).

Nonostante la vicinanza tematica, è assente quello sguardo dal di dentro, quella partecipazione alla storia che l’esigua distanza temporale e la consapevolezza di narrare un mondo comune rendevano un tratto distintivo di Altri libertini, non a caso denominato romanzo generazionale fin dalla copertina. Qui, invece, lo sguardo di Tondelli è come quello dei vopos, impassibilmente rivolto ad una parte incomprensibile di mondo, estraneo ad avvenimenti che, per quanto datati nella finzione romanzesca 1981 o 1982, sembrano appartenere ad un’utopia conclusasi nel decennio precedente e ormai fin troppo lontana dal momento della scrittura di Rimini: alla scrittura della partecipazione è subentrata la scrittura del distacco e dello sguardo dal di fuori, che non a caso si concretizza nella scelta di un narratore anonimo - assai diverso da quello che compariva a volte in Altri libertini - e soprattutto esterno. Le stesse considerazioni valgono per il tentativo di stupro di cui è vittima Beatrix: evidente il richiamo all’analoga violenza subita da Vanina in Postoristoro, uno dei momenti più espressivi di Altri libertini per la complessità delle scelte stilistiche, volte ad evidenziare un rovesciamento di valori e l’esistenza di un mondo ai margini della società civile di cui non riconosce le regole, al punto che la scrittura tondelliana riesce a colorare di toni di lirismo un episodio tra i più feroci del libro. Nulla di tutto ciò si ritrova nell’analogo episodio di Rimini - non a caso diverso anche nell’esito finale, visto il fallimento del tentativo di violenza - episodio che, al contrario, si caratterizza per una scrittura oggettiva e priva di connotazioni emotive: L’uomo le piombò addosso. Sentì il suo fiato, la forza delle sue mani che la inchiodavano al selciato. Sentì il suo ventre premerle addosso. […] L’uomo la teneva ferma. Si stava muovendo sopra di lei biascicando frasi incomprensibili. Beatrix lo implorò, si fece remissiva, abbandonò per qualche istante la reazione, ma tutto il suo pensiero era rivolto al dopo, a come se la sarebbe cavata […]. L’uomo

229 sopra di lei prese a muoversi con più violenza […]. Beatrix cominciò a scavare con le unghie, il sasso ormai dondolava, si muoveva. […] Colpì l’uomo alla testa con tutte le forze che poteva avere nel suo braccio (R pp. 166-167).

La visione dal di fuori ma da parte di un narratore onnisciente, a conoscenza persino dei pensieri di Beatrix, anzi come se ci fosse uno sdoppiamento del personaggio che vede - e racconta - dal di fuori la scena che sta vivendo, non tradisce alcun coinvolgimento e rivela una scelta tutta orientata verso la descrizione, ben rimarcata da una sintassi lineare, costituita da periodi brevi, fortemente staccati l’uno dall’altro, che non fa uso di congiunzioni ma di una paratassi quasi scientifica che non aggiunge nulla a quanto il testo può dire. Abissale risulta la differenza con l’episodio di Altri libertini, costituito da un unico lungo periodo, caratterizzato da una sintassi complessa, con forte uso del polisindeto e grande spazio dedicato al discorso indiretto libero (cfr. AL pp. 22-23).42 Da ultimo, il suicidio di Bruno May, momento finale di un percorso di autodistruzione fatto di annichilimento di sé nell’altro e nell’alcool, richiama con ogni evidenza quella tematica sull’autodistruzione e la negazione di sé che costituiva un aspetto fondamentale di Altri libertini, dove culminava proprio nel suicidio di Michel e nel tentato suicidio del narratore in Viaggio. Erano momenti stilisticamente densi, dotati di un’ampia portata testuale, caratterizzati da una scrittura fortemente emotiva, con una sintassi accumulatoria e un ampio uso del discorso indiretto libero, che producevano una narrazione totalmente orientata verso l’introspezione.43 Tutto ciò scompare in Rimini, dove l’episodio assume ben altre valenze, relative soprattutto a determinate simmetrie testuali, e si segnala per una concisione estrema assolutamente a-emozionale: Entrò nella sua stanza. Chiuse gli occhi. Quello che seguì non fu altro che un dolore ridicolo e fulmineo. Per un istante tutti i colori del mondo, tutti gli abbracci del mondo scoppiarono nel suo cervello finché non ci fu più nessun Aelred nella sua vita, né scrittura, né Dio, né alcool, né ferite, né amori né passioni. Soltanto un respiro lento che faticava a venire. Non disse un’ultima parola, né lasciò scritto niente. Fu il suo mattino terminale. Quella parte della colonia Vermilyea che stava dormendo nella villa si svegliò improvvisamente al colpo. Il nuovo mattino era dedicato tutto a loro. Bruno aveva passato le consegne (R p. 228).44

42Relativamente al rapporto tra i due episodi, o perlomeno alla presenza del primo nella volontà di composizione del secondo, la loro relazione sembra confermata dal fatto che quest’ultimo appare piuttosto marginale e slegato dalla storia di Beatrix, come se la sua presenza nel testo fosse richiesta da altre esigenze strutturali, che potrebbero consistere appunto in una sorta di citazione dalla propria produzione precedente, procedimento che Tondelli - come si è già visto e come si avrà modo di appurare particolarmente in Rimini - attua con una certa frequenza. 43 Cfr. Altri libertini pp. 114-116 e pp. 126-127. 44 L’importanza strutturale dell’episodio è confermata da una citazione che vi è inserita da un altro episodio interno alla storia di Bruno, con il quale si crea una condizione di evidente simmetria e al tempo stesso di antitesi. Si tratta del momento immediatamente precedente al primo incontro di Oliviero con Bruno - incontro che non a caso contiene una conversazione che verte sulla valutazione della reale necessità di vivere -, nel quale il nesso “nuovo mattino” viene usato, con valore opposto a quello del

230 Narratore onnisciente, una sintassi ordinata e lineare, non esente da una certa ricerca stilistica, apparente mancanza di partecipazione, sono i tratti salienti dell’episodio e, più in generale del romanzo intero che, tranne brevi parentesi più espressionistiche, si orienta verso scelte stilistiche di questo genere.45 Ecco quindi che la ripresa di motivi sviluppati in Altri libertini diventa importante proprio per la sua evoluzione rispetto all’originale, andando al di là di una semplice citazione. E’ come se Tondelli affermasse che il modello, più che estetico, è strutturale, e che ad ogni modo dal modello, pur senza sostanziali negazioni, è necessario prendere le distanze. Un’ultima considerazione relativa alla struttura di Rimini riguarda l’uso del tempo. Il romanzo è ricco di indicazioni temporali, spesso assai precise, superando in questo anche il precedente Pao Pao, nel quale una simile abbondanza era giustificata dalla sua natura memorialistica. Al contrario, evita le complicazioni del tessuto temporale proprie delle opere precedenti, adottando un andamento estremamente lineare all’interno delle singole storie. C’è un’unica grande analessi - la narrazione delle vicende londinesi di Bruno -, che però s’inscrive come una vera e propria parentesi nel romanzo e non presenta al suo interno altre interruzioni. Compare poi quasi un colpo di scena a definire temporalmente le vicende di Robby e Tony, in anticipo rispetto ad altre nel romanzo ma lineari nella loro successione temporale. La fine del romanzo fa uso pure di un’analessi, che è però del tutto anomala, per quanto caricata di un ruolo importante nella definizione della storia. Si potrebbe forse definire analessi di secondo grado, in quanto non è un avvenimento narrato nel romanzo, ma un oggetto che viene interpretato in maniera erronea e la cui corretta lettura, una volta concluse le vicende, lo relaziona in qualche maniera con la temporalità. Si tratta della foto

suicidio di Bruno, per Oliviero: “C’era una frase di Scott-Fitzgerald nel Crack-Up, che aveva segnato la sua vita.«In una reale notte fonda dell’anima, sono sempre le tre del mattino, giorno per giorno.» Per venti anni per lui fu sempre quell’ora finché qualcosa non cambiò e finalmente poté accorgersi di un nuovo mattino, che un nuovo sole era sorto anche per lui” (R p. 209). La successiva conversazione con Bruno chiarisce il valore di quel “nuovo mattino” e il suo ricomparire in occasione del suicidio di Bruno carica l’utilizzo del nesso e quanto compare tra i due momenti di un ulteriore valore. La simmetria/antitesi è inoltre rinforzata dalla presenza, due periodi sopra, del nesso con valore opposto “mattino terminale”, in esplicita correlazione, visto anche la presenza degli attributi “suo” (mattino terminale) e “loro” (nuovo mattino). Quanto alle valenze strutturali dell’episodio, è interessante notare come queste vengano a coincidere con il tema della scrittura e le riflessioni che a questo proposito Tondelli era venuto approfondendo in Frammenti dell’autore inattivo (in O. Cecchi-M. Spinella (a cura di), 19 racconti per “Rinascita”, allegato a “Rinascita”, 26 dicembre 1987, n. 50). Bruno May ricopre un ruolo fondamentale nel libro proprio per la sua qualifica di scrittore e la sua storia si sviluppa sul rapporto scrittura/vita, o meglio tentativo di scrivere/tentativo di vivere. 45 Non è che la scrittura di Altri libertini fosse esente da cure formali, ma erano volte a conferire al testo un carattere di immediatezza e spontaneità, per quanto - come si è visto -, un esame più accurato rivela nell’adozione del parlato giovanile di Altri libertini una ricerca retorica spesso assai complessa. La scrittura di Rimini invece è palesemente rivolta verso una resa stilistica ordinata e lineare.

231 che apriva il primo numero del supplemento diretto da Bauer, della quale egli aveva voluto una copia personale, che, identificata come immagine di apertura di stagione, si rivela alla fine una foto dell’estate precedente e per di più di chiusura stagione: Staccai la foto dei due vecchi. In quell’istante mi sembrò di capirne il significato che per tante notti mi era sfuggito. Johnny era stato davvero abile. L’aveva spacciata per la foto d’apertura di quel parco di divertimenti. In realtà l’Italia in miniatura stava chiudendo i battenti. Senza dubbio era una foto dell’anno prima. […] Mi aveva ingannato molto bene. Tutti mi avevano ingannato. Compresa Susy. Ora anche Bauer chiudeva i battenti. Accartocciai la foto, la gettai nel cestino e me ne andai (R p. 289).

L’ultimo enigma risolto nel romanzo ne svela dunque il carattere più precipuo, la rete di inganni e falsità che avvolge i personaggi in un contesto fatto di apparenze sempre differenti dalla realtà: Susy non si rivela alla fine così affidabile come Bauer poteva credere, egli stesso non è poi quel genio del giornalismo che voleva sembrare e persino i particolari a prima vista privi di significato, come appunto la foto, non sono poi quello che potrebbero apparire. In questo quadro, la scelta dell’autore si rivolge verso una scrittura oggettiva, chiara, che faccia risaltare, proprio per contrasto con la sua linearità, il motivo dell’inganno e delle false apparenze. E’ questa scelta che forse giustifica l’abbondanza di date in Rimini, quasi a voler esprimere con precisione scientifica il succedersi degli avvenimenti. Sta di fatto che la precisione temporale diventa perfino eccessiva: la storia di Bauer comincia, “sotto il finto sole del mezzogiorno, […] a Milano, il diciotto giugno millenovecentoottantatré” (R p. 12), mentre, per quanto riguarda Beatrix, le date ricostruiscono sistematicamente la sua vita: Era il pomeriggio del ventitré giugno e Beatrix guardava dalla vetrina del suo negozio di antiquariato il passeggio frenetico sulla Kudamm (R p. 48);

Nel settembre del millenovecentosettantasette, Beatrix iniziò i lavori di ristrutturazione del negozio (R p. 49).46

Oltre a ciò, gli spostamenti stessi di Beatrix vengono accompagnati dalla collocazione temporale, cosicché compaiono l’orario di partenza del volo da Berlino a Francoforte, l’arrivo, la colazione in aereo, il colloquio con il direttore di un albergo romano nel quale aveva soggiornato la sorella: Il volo Pan-Am 641 in partenza alle dieci e quindici dall’aeroporto di Berlin-Tegel diretto a Francoforte attendeva sulla pista […]. Cinquantacinque minuti dopo, in perfetto orario, il DC9 rullò sulla pista dell’aeroporto di Francoforte. […]

46 A questi momenti bisogna aggiungere la presenza di altre informazioni temporali, che compaiono in maniera meno precisa, sia relative alla vita di Beatrix sia nel successivo esempio del viaggio in aereo: “Dieci anni prima era stata sposata con un americano, militare di carriera” (R p. 48); “Mentre sorvolavano Zurigo, mezz’ora dopo all’incirca, a bordo venne servita una colazione” (R p. 79).

232 Quando Beatrix si presentò all’Hotel Tiberio, erano le cinque esatte del pomeriggio e Toscanelli la stava attendendo dietro al bancone della reception di quello che era, a tutti gli effetti, soltanto un grande appartamento […]. “Mi ricordo di sua sorella,” esordì Toscanelli, chinandosi sul libro delle registrazioni. “Ecco qui. Si è fermata due settimane, dal ventotto marzo all’undici aprile” (R p. 81).

Le motivazioni di tale sovrabbondanza sono allora due: intanto la necessità di controbilanciare con un tessuto temporale di facile lettura una struttura fortemente complessa, sulla quale ricade la ricerca espressiva che nelle altre opere trovava nell’uso del tempo uno dei campi maggiori di applicazione; in secondo luogo, la probabile intenzione di adeguarsi allo statuto di quello che sembra essere il genere dominante in Rimini, e cioè il giallo, che si esprime nella maniera più evidente nel tentativo di Bauer di risolvere l’enigma della morte del senatore Lughi, ma che, nella sua veste di ricerca di qualcuno o qualcosa, coinvolge anche altre storie. Di qui la scelta di una scrittura oggettiva, ricca di dati che possano essere interpretati come indizi ed elementi per la ricostruzione di una storia, ed in questo senso le puntualizzazioni temporali diventano indispensabili. La loro sovrabbondanza, anche quando sembrano slegate dalla vera ricerca, potrebbe essere interpretata come una concessione al genere, se non pure un modo di evidenziarlo.

III.3 Una rivisitazione del romanzo poliziesco.

Certo, qualsiasi definizione di Rimini non può prescindere dalla sua natura polimorfa e pluristilistica, ma risulta motivata una sua considerazione come rivisitazione del romanzo poliziesco, del quale riprende alcuni schemi e caratteristiche ben definite. Dall’inizio della seconda parte, infatti, la storia di Bauer si articola nelle forme di un vero e proprio giallo, costituito dall’indagine che il giornalista svolge sulla morte del senatore Lughi, la cui soluzione comporta la fine stessa del romanzo. L’indagine, come ricerca di qualcosa o qualcuno destinata ad assumere una direzione tutta interiore, è d’altra parte la connotazione predominante del romanzo intero e si rinviene, in maniera più o meno evidente e articolata, nella totalità delle storie che lo compongono. Ad ogni modo, per le vicende di Bauer, che non a caso sono preponderanti all’interno del libro, la definizione di romanzo poliziesco è indiscutibile ed è interessante vedere come vi compaiano elementi la cui presenza è estremamente caratterizzante - se non imprescindibile - nel genere in questone.

233 III.3.1 Gli elementi del giallo.

La tipologia di romanzo poliziesco che Rimini applica è la medesima di quello che viene di norma riconosciuto come uno dei moderni capostipiti del genere, e cioè I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe47: la direzione del movimento della storia “va dall’effetto alla causa”, dall’assassinio - o meglio, dal ritrovamento di un cadavere - alla conseguente indagine che porta alla soluzione del mistero. Il meccanismo principale destinato a suscitare l’interesse del lettore è quello che Todorov definisce “curiosità”48, anche se Tondelli contamina lo schema narrativo con il dubbio sulla natura della morte del senatore e con le conseguenze che l’indagine sviluppa nei confronti dell’occasionale detective, Bauer, mentre i “personaggi principali […] godevano di un’immunità a tutta prova nel romanzo a enigma”.49 Certo, Bauer non rischia la propria incolumità fisica, ed anche il suo ferimento nel finale - che ad ogni modo, si noti, avviene - non sembra direttamente correlato all’indagine, per quanto risulti indispensabile alla conclusione della vicenda; sta di fatto però che la soluzione della storia comporta il fallimento delle sue ambizioni ed un auto-ridimensionamento, in diretto rapporto con le vicende narrate. E’ una conclusione che del resto si adegua perfettamente allo statuto del genere, pur abbracciandone la variante recente del mancato trionfo della giustizia: Rimini è infatti definibile come opera chiusa, che non lascia nulla di sospeso o non detto, e non solo relativamente alla storia di Bauer. Assume così la struttura sbarrata, priva di incertezze e totalmente risolta indispensabile al romanzo poliziesco,che adotta una struttura significante ad imbuto, [che] dall’apertura oscillante ed esitante di un primo momento, giunge ad una verifica restrittiva di senso, incasella le ipotesi e chiude la plurisemanticità del testo. […] Non a caso, la fine del testo poliziesco,

47 “L’archetipo del genere poliziesco, in ambito recente, è fatto risalire, come ben noto, ad alcuni racconti di Edgar Allan Poe”. I. Crotti, La detection della scrittura. Modello poliziesco ed attualizzazioni allotropiche nel romanzo del Novecento, Padova, Editrice Antenore,1982, p. 8. Il richiamo a Poe diventa significativo anche nei confronti della supposta natura di Rimini come assemblaggio di racconti, dal momento che di racconti si tratta nel caso delle opere di Poe: “Tali archetipi di romanzi polizieschi sono, ed è evidente, non “romanzi”, ma racconti: la brevitas, come noto, trova in The Philosophy of Composition una formulazione criticamente compiuta come elemento strutturale di congenita potenzialità espressiva. La scelta di una misura “breve” […] diventerà per il romanzo poliziesco un elemento caratterizzante e […] strutturale ad un discorso narrativo estremamente “tecnicizzato”, strutturalmente decantato”. Ivi, p. 9. E’ evidente che la complicata e polimorfa struttura di Rimini supera i limiti del modello mediante le variazioni di genere. 48 “Esistono due forme completamente differenti di interesse. La prima può essere chiamata curiosità e va dall’effetto alla causa: a partire da un certo risultato (un cadavere e qualche indizio), bisogna risalire alla causa (il colpevole e ciò che lo ha spinto al delitto). La seconda forma è la suspense e, in questo caso, si va dalla causa all’effetto: dapprima ci vengono mostrati degli elementi iniziali […] e il nostro interesse è sostenuto dall’attesa di ciò che verrà, cioè, degli effetti. T. Todorov, Tipologia del romanzo poliziesco, in “Paragone”, dicembre 1966, pp. 3-14, ora, con lo stesso titolo anche in T. Todorov, Poetica della prosa. Le leggi del racconto (1971), Roma-Napoli, Theoria, 1989, pp. 7-20. 49 Ivi, p. 13.

234 corrispondente al crollo di ogni ipotesi semantica, significherà anche l’espletamento del piacere della lettura.50

Compaiono poi in Rimini accorgimenti narrativi e momenti dell’intreccio che già Sklovskij aveva individuato nella descrizione di uno schema generale dei racconti polizieschi. Tra i vari punti figuravano infatti gli “indizi, riportati nel racconto”, la presenza di una “falsa soluzione” e l’inserimento di procedimenti di “ritardamento”.51 Relativamente agli indizi, Sklovskij specificava che “i dati più importanti sono quelli di secondo ordine, posti in modo tale che il lettore non li noti”52, ed è proprio quanto accade in Rimini, quando Bauer, ritornando in città dopo una ricognizione ai lidi della riviera romagnola, nota il cartellone di un’impresa di costruzioni, l’Immobiliare Silthea: Tornando a Rimini, fermi ad un semaforo, la mia attenzione si incentrò su uno di quei cartelloni. […] Non so per quale motivo particolare mi impressi bene in mente il nome dell’impresa di costruzioni. Si chiamava Immobiliare Silthea (R p. 91).

E’ un particolare di poco conto, di scarso rilievo narrativo e che quindi a fatica s’imprime nella memoria del lettore, anche perché compare in anticipo sull’inizio del giallo, che comincia nella seconda parte con il ritrovamento del corpo del senatore Lughi (cfr. p. 125); è però destinato ad assumere una notevole importanza per la risoluzione del caso, tanto che Tondelli lo riprende più avanti nella narrazione, sempre come immagine momentanea che colpisce lo sguardo di Bauer, leggermente variato a causa del temporale: Sulla via del ritorno passammo davanti a un grande cartello di un’impresa edile che riconobbi. Il temporale l’aveva divelto e ancora non era stato sistemato. […] Uno strappo abastanza ampio s’era aperto sul nome dell’Immobiliare che così sembrava semplicemente Thea (R p. 146).

E’ la pista che porterà alla soluzione, ma per ora non è nulla più di un nome inserito nella narrazione, evocato dall’autore con scopi ancora incomprensibili per il lettore. Allo stesso modo Tondelli inserisce altri dati, come la collocazione geografica del convento di Sant’Agata Feltria sulla strada per Badia Tedalda - che, viceversa, segnalato da una notevole importanza testuale, diventa un falso indizio - e la coincidenza del gruppo di maggioranza del quotidiano per cui Bauer lavora con quello del consiglio di amministrazione dell’Immobiliare. La soluzione finale dell’omicidio Lughi chiarirà l’importanza del nesso Silthea-Thea, come pure le motivazioni degli altri indizi, ma prima di arrivare a questo, Tondelli inserirà nella trama molteplici procedimenti di ritardamento, tra i quali il più

50 I. Crotti, op. cit., p. 11. Ci sono naturalmente delle eccezioni - come si vedrà per esempio a proposito di Sciascia -, ma la chiusura del testo è una caratteristica del romanzo poliziesco canonico ed è interessante verificare che Rimini vi si adegua. 51 V. Sklovskij, op. cit., pp. 164-165. Le affermazioni di Sklovskij sono relative all’analisi dell’opera di Conan Doyle, ma assumono una validità molto più generale, anche in considerazione che un rapido confronto da lui fatto con un racconto di Poe porta alle stesse conclusioni. 52 Ibidem.

235 importante è quello della falsa soluzione, pure menzionato da Sklovskij, qui presente nella classica tipologia di un’interpretazione errata del detective. Il caso Lughi, infatti, si era apparentemente risolto con uno scoop giornalistico dello stesso Bauer, che aveva rinvenuto nell’auto del senatore un biglietto d’addio che sembrava comprovare l’ipotesi del suicidio: Sollevai la moquette, cercai fra gli interstizi dei sedili finché il mio sguardo non si posò sul posacenere. Un piccolo triangolino bianco spuntava dalla scatola di metallo. Estrassi il posacenere. Il cuore prese a battermi. Presi il foglietto, lo aprii, lo lessi. Dio mio! Avevo visto giusto! Avevo in mano la prova. Le ultime due righe scritte dal senatore prima di togliersi la vita. […] Il caso Lughi era, per quanto mi riguardava, definitivamente chiuso (R p. 186- 187).

La trama stessa del romanzo sembra confermare la momentanea chiusura dell’inchiesta, dal momento che, a prescindere dallo spazio dedicato alle altre storie, lo stesso Bauer non se ne occupa più, finché, in maniera piuttosto casuale e sorprendente, un’apparente notizia di scarsa importanza, una richiesta di finanziamento da parte di un convento di suore di clausura, riporta gradatamente l’attenzione sulle vicende del senatore, che ritornano ad occupare l’ultima parte del romanzo, in contraltare con la psicosi da fine del mondo che si è impossessata della città romagnola. La riflessione insistita di Bauer sul caso Lughi focalizza su di sé le ultime pagine del romanzo, nelle quali Tondelli, in piena aderenza alle convenzioni del genere, inserisce vari momenti di surprise in gradazione crescente di importanza, frammenti testuali che sistematicamente trovano spazio quando il discorso sembra ormai chiuso, consentendo quel collegamento apparentemente improbabile tra le varie tessere del mosaico che prepara infine la soluzione finale. Rimini ha un caratteristico sviluppo frammentario: il momento della surprise sembra ogni volta risolvere definitivamente la ricerca, ma viene in qualche maniera interrotto ed il suo esito procrastinato. Una prima nuova soluzione sembra affacciarsi - ed è la strada giusta - dopo la ricognizione di Susy a Sant’Agata Feltria e le relative notizie riportata a Bauer, ma il crescendo di coincidenze nel racconto di Susy resta sospeso e non viene completamente recepito se non in maniera inconscia, tanto che Bauer si avvicina alla soluzione tramite un’immagine che comincia a tormentarlo dopo la notte trascorsa con Susy: Un’immagine si mise ben a fuoco nel mio cervello. Un’immagine strana: c’era una bambina sotto la pioggia completamente fradicia, seduta su un grande cartello di un’impresa di costruzioni. La pioggia lavava via le scritte dipinte finché sul cartello non fu possibile leggere un nome e quel nome corrispondeva a quello della bambina. Di più: erano la stessa identica cosa (R p. 249).

Ormai Tondelli ha fornito le necessarie tessere del mosaico, ma anche il momento successivo, il colloquio con Zanetti sulle vicende dell’Immobiliare Silthea e la consultazione

236 dei progetti originali del centro residenziale non sembrano risolvere la situazione, se non che, proprio a verifica ormai conclusa, quando sta ripiegando le carte planivolumetriche, Bauer nota un particolare che prima gli era sfuggito: Ripiegai il planivolumetrico della Thea. Sbagliai a seguire le pieghe del foglio […]. Così non feci coincidere l’intestazione del progetto con la prima pagina. […] Il mio sguardo cadde su una costruzione circolare di cui non m’ero accorto. […] Ripiegai il foglio.[…] Un padiglione del genere non c’entrava assolutamente nulla con il resto del villaggio […]. A meno che quella costruzione chiamata “Residenza estiva per portatori di handicap” non interessasse qualcuno in modo particolare. Qualcuno che si accaniva, come accecato da un terribile senso di colpa, a imporre quel nomignolo assurdo, Thea, a qualsiasi cosa […]. Senza quasi saperlo, ero arrivato alla soluzione (R p. 253).

Ma la soluzione ancora non compare, anzi subentrano le consuete forme di ritardamento, tramite l’arrivo a Rimini dello studioso che aveva predetto la fine del mondo ed il conseguente inserimento nel romanzo del tema della psicosi collettiva. Un ultimo colpo di scena, inaspettato nella sua portata, svela finalmente lo svolgimento reale della vicenda del senatore Lughi. Bauer si reca a Sant’Agata Feltria dove riceve dalle suore un plico sigillato intestato ad Attilio Lughi, nel quale ci sono le prove della corruzione del senatore - che cercava tramite le forti somme ricevute dall’Immobiliare Silthea e girate alle suore di Sant’Agata di togliersi il senso di colpa per una sua figlia illegittima ospite del convento - e del finto suicidio. L’estensione della surprise si ampia poi coinvolgendo lo stesso Bauer, attore inconsapevole coinvolto nella vicenda come brillante risolutore del caso ad opera del suo stesso giornale, il cui gruppo di maggioranza lo è anche nell’Immobiliare Silthea: Guardai la busta. La presi. Sull’intestazione del destinatario era scritto: “Attilio Lughi. Casa Sorelle di Sant’Agata. Sant’Agata Feltria. Pesaro”. La busta non era ancora stata aperta. Portava il timbro postale del dodici luglio di quell’anno. Cinque giorni prima che il suo cadavere fosse trovato in mare. […] Aprii la busta e mi trovai in mano un pacco di fogli scritti con una calligrafia minuta. Inoltre matrici di assegni bancari, numeri di conti correnti e altri foglietti sottili che avevano l’aria di essere matrici di versamenti bancari. Avevo ragione. Il senatore si era fatto corrompere da quella società immobiliare. […] Ma la cosa più incredibile era che, fra quelle carte emergeva nettamente una situazione a cui non avevo pensato fino a un momento prima. Che Lughi cioè non si era affatto ucciso. E allora, quel biglietto che io stesso avevo trovato? Non capii nulla finché non trovai un’altra volta quella data. […] In quel giorno […] la Silthea aveva finalmente cominciato i lavori al cantiere. E in quel giorno, il diciotto giugno 1983, io, Marco Bauer, giovane arrivista, pollo di turno, caprone testardo che pur di arrivare a emergere non avrebbe guardato in faccia a nessuno, […] avevo accettato il mio nuovo incarico lì sulla costa, pensando che il mondo sarebbe stato finalmente mio e le luci e le stelle e tutte quelle cazzate. […] Ero stato un fesso! L’idiota di turno che avevano usato come e quando gli era parso. […] Uscii di corsa dal convento. […] Mi fermai in un bar e telefonai a Milano. […] Chiesi allora di Bianchini, il mio collega di cronaca. Gli dissi quello che volevo sapere. […]

237 “Il diciotto giugno, subito dopo di te, il direttore ha avuto un incontro con il legale della proprietà […]”. Era stato tutto troppo facile. Io, il grande cronista, avevo risolto il caso. Attilio Lughi: suicida. Mi avevano servito lo scoop su un piatto d’argento servendosi di quel tonto di Fosco. E io, a mia volta, l’avevo servito al pubblico (R pp. 279-281).

A questo punto la soluzione è veramente data ed il giallo è risolto; Bauer dimostra quelle capacità di osservazione, topos della figura del detective, che sistematicamente nel corso del romanzo gli venivano attribuite per poi essere smentite dai fatti - come in occasione della falsa soluzione - e che sono implicitamente ribadite per tutta la durata del testo dal suo atteggiamento minuziosamente descrittivo, con estrema attenzione ai particolari. Fedelmente alla tradizione del romanzo poliziesco, rimane lo spazio per quello che Sklovskij ha inserito come ultimo punto nel suo schema strutturale, l’”analisi dei fatti compiuta da Sherlock Holmes”53, in questo caso dall’investigatore di turno, cioè Bauer. Nel colloquio con Susy, un’ora dopo, Bauer ricostruisce dettagliatamente la vicenda, ormai priva di lati oscuri, e vi pone un definitivo suggello. Rimini non è però la storia del delitto Lughi, che ne costituisce solo una parte, ma, a questo punto del testo, quella del cronista Bauer, le cui vicende non hanno ancora trovato una soluzione. Così Tondelli complica nel finale lo schema del giallo, inserendovi un nuovo colpo di scena inerente alla decisioni di Bauer. Tutto quello che ci si aspetta ora è, infatti, il tipo di reazione che il protagonista assumerà in rapporto alla vicenda e al plico in suo possesso, tanto più che Tondelli stesso vi focalizza l’attenzione: Continuavo a fissare sul tavolo quella busta gialla. Proprio non sapevo cosa avrei fatto il giorno dopo. Andare alla polizia? Consegnare tutto? Abbandonare il giornale? Far finta di niente? C’era qualcosa per cui valesse la pena di agire? No, non lo sapevo proprio (R p. 284).

Invece, la coda del romanzo riprende un procedimento canonico del poliziesco e, raddoppiandone per così dire il finale, inserisce un nuovo momento di surprise, un colpo ad effetto veramente inaspettato: Il raddoppiamento della surprise, oltre a rinforzare un implicito riferimento al Poco prima di giungere in città ci trovammo inesorabilmente stretti nella morsa di un ingorgo. […] Svoltammo a destra, lasciammo la Rover e continuammo a piedi. […] Lasciata la provinciale ingorgata dalle auto, ora il centro appariva in preda ai pedoni. Migliaia, centinaia di migliaia di formiche che andavano avanti e indietro […]. Afferrai Susy per mano. Con l’altra mi serravo al petto la busta. […] Sentii un rumore provenire alle mie spalle. Mi voltai, ma fu troppo tardi. Una motoretta mi investì in pieno. Lasciai la mano di Susy. Caddi a terra. […] Un

53 V. Sklovskij, op. cit., p. 165.

238 dolore violento mi torse la gamba sinistra. […] Non lasciai la busta gialla che tenevo serrata al petto come una corazza. L’urto mi spinse sotto una macchina ferma. Ero incastrato, non riuscivo a uscire. […] L’olio del motore mi gocciolava sul volto, Susy continuava, china, ad allungare il braccio. Fu allora che le consegnai il pacco […]. Mi aggrappai con le mani ai ferri del telaio dell’auto, riuscii a togliere il viso da quella carrozzeria puzzolente. Vidi le sue gambe, dritte, il suo volto, le sue braccia accanto al fuoco. La sua espressione assente davanti a quei pezzi di carta che incendiati volavano via nel turbine della fine del mondo […]. Persi i sensi (R pp. 285-287).

genere, riporta la focalizzazione del romanzo sul tema delle apparenze, che lo permea nei suoi personaggi: Attilio Lughi non era l’ex partigiano integerrimo che traspariva dal racconto della sua vita, e da ultimo è Susy, la persona a Bauer più vicina, con la quale aveva instaurato una relazione amorosa, a tradirlo clamorosamente, orientando definitivamente la direzione della sua carriera e della sua vita. Analogamente, il suicidio di Lughi non era un suicidio, Bauer stesso non è il gran giornalista che vuol far credere, e così via. E’ interessante quindi notare che l’uso di procedimenti tipici del poliziesco, come in questo caso la surprise, per quanto canonicamente confinato nell’explicit, subisce variazioni formali, attraverso la sua moltiplicazione, ma soprattutto contenutistiche, in quanto il suo utilizzo viene spostato dalla soluzione del delitto ad un altro piano, che è quello del reale disvelarsi dei personaggi. Questa viene ad essere la reale motivazione globale del romanzo, nel quale la forma del giallo, interna nella sua canonicità alla storia di Bauer, si estende al libro intero modificando la ricerca di una soluzione in ricerca di un qualcos’altro che alla fine è inerente alla vera definizione del personaggio. La restituzione dell’uso della surprise ad una valenza più generica, a artificio narrativo, e non specialistica di un genere ben determinato, diventa così un’affermazione della complessità dell’opera, non circoscrivibile ad un unico modello specifico.54

III.3.2 Una particolare tradizione italiana del romanzo poliziesco.

54 In relazione alla definizione anomala di Rimini come romanzo poliziesco, diventa interessante una sua valutazione come romanzo di formazione, anche in riferimento alle connessioni tra poliziesco e altri generi letterari, nello specifico il Bildungsroman, identificate da Crotti nel testo più volte citato (cfr. Crotti, op. cit., p. 79). Effettivamente, la storia di Bauer potrebbe rientrare nelle coordinate del genere, la qual cosa apre delle prospettive che riportano ad Altri libertini, nel quale tale tipologia investiva, in maniera più o meno evidente, tutti i personaggi. In particolare, si era parlato di romanzo di formazione alla rovescia, pienamente adattabile al caso di Bauer, per il quale la presa di coscienza finale, se rappresenta una crescita da un punto di vista soggettivo, comporta al tempo stesso la rinuncia a quello che era il suo sogno iniziale. Si consideri inoltre il parallelo che il ritorno di Bauer a Milano istituisce con il narratore di Viaggio in relazione alla tematica del ritorno analizzata in Altri libertini. E’ chiaro che attraverso tali rimandi all’esordio tondelliano si conferma e si rafforza la tesi di un modello interno all’opera di Tondelli per Rimini.

239 L’utilizzo del poliziesco pone Rimini nel solco di una tradizione che ha avuto illustri precedenti nel corso della produzione novecentesca italiana. Di particolare interesse, a tale proposito, quella linea che va da Gadda a Sciascia, congiungendosi poi con prodotti più recenti come Il nome della rosa di Eco ed una riscoperta del romanzo poliziesco a metà degli anni ottanta. L’esempio gaddiano si pone come riferimento obbligato all’interno di questa tradizione, e non a caso verrà spesso ripreso o citato nella produzione successiva. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, se non può diventare un modello tout court per la sua complessità, immette nel genere delle particolarità, soprattutto stilistiche ed espressive, che ne motiveranno il ritorno nelle pagine di narratori molto più recenti.55 Nei confronti di Rimini la connessione non è evidentissima, ma un’analisi più accurata rivela elementi comuni, a partire dalla polifonia del testo, che in Rimini si fa strutturale, e dall’adozione di un contenitore spaziale che si fa personaggio, la riviera adriatica nel caso di Tondelli, la città di Roma nel caso di Gadda. La molteplicità di cause gaddiana, il “punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”56, che diventa nel testo plurilinguismo e prevalenza del dettaglio sull’intreccio, corrisponde alla struttura eterogenea di Rimini, che volutamente intreccia ed interrompe differenti storie, in una resa pluristilistica. La centralità di Roma come protagonista del libro, poi, è già stata evidenziata da Calvino: Questo non vuole essere soltanto un romanzo poliziesco e un romanzo filosofico, ma anche un romanzo su Roma. La Città Eterna è la vera protagonista del libro, nelle sue classi sociali dalla media borghesia alla malavita, nelle voci della sua parlata dialettale […], nella sua estroversione e nel suo inconscio più torbido […]. Roma è vista e compresa con una partecipazione quasi fisiologica anche ai suoi aspetti infernali, da sabba stregonesco.57

Analogamente, Tondelli sceglie di far diventare uno spazio ben definito, la riviera adriatica, il contenitore narrativo del romanzo, elemento unificatore e quasi personaggio

55 Un esempio trasparente è il caso di Stefano Benni che, in Comici spaventati guerrieri, del 1986, ne riprende luoghi e personaggi in maniera tale da poter considerare il suo romanzo un vero e proprio omaggio al testo gaddiano. Si consideri infatti, l’analoga focalizzazione sul “palazzo degli ori” che diventa in Benni il “ConDominio”, l’adozione della città di Roma come sede delle vicende, riconoscibilissima nonostante la trasposizione benniana nel futuro e l’anonimato, la verve linguistica e, a livello dei personaggi, l’adozione per il commissario Porzio della stessa passione per l’enigmistica propria di Ingravallo. Da ultimo si noti che pure in Benni la soluzione finale del giallo non viene data, per quanto tale scelta stilistica si possa più direttamente collegare alle innovazioni introdotte nel genere da Sciascia. 56 C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957, ivi, 1994, p. 5. 57 I. Calvino, Carlo Emilio Gadda, Il Pasticciaccio (1984), in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1995, pp. 220-228.

240 stesso, soprattutto nella densità del dettaglio descrittivo che subisce, superiore a quella dei personaggi in carne ed ossa che affollano Rimini. Ma l’aspetto che forse più avvicina le due opere è il fatto di fornire un vero e proprio ritratto del paese a cui si riferiscono, un affresco dell’Italia del periodo fascista, per quanto riguarda Gadda, di quella di metà degli anni Ottanta invece per Tondelli, entrambe analizzate nei loro aspetti sociali e nei loro miti quotidiani. E’ una volontà che in Tondelli risulta ben chiara, più volte sottolineata nelle varie interviste seguite alla pubblicazione di Rimini, nei termini di rappresentazione di un “microcosmo nazionale”, “ritratto della vita italiana”, “affresco della società italiana degli anni Ottanta”, rappresentatività nei confronti dell’”Italia dei ceti medi”.58 E’ una scelta che indubbiamente lega Rimini anche all’opera di , con la quale ci sono altresì dei punti di contatto piuttosto precisi. Soprattutto tre sembrano essere le peculiarità sciasciane recepite dal Tondelli di Rimini, una più propriamente tematica, le altre due relative al percorso narrativo e alla caratterizzazione dei personaggi. Sotto il profilo contenutistico, Rimini conferma l’estensione del poliziesco ad un contesto in qualche maniera politico, rispetto al quale la narrazione è produttrice di riflessioni. Senza puntare verso le qualità saggistiche dell’opera di Sciascia - che a volte assume addirittura una forma aperta, nella quale meccanismi come la mancanza di soluzione tendono a postulare la riflessione del lettore come esito ultimo dell’opera, in una funzione quindi che supera lo stesso spazio testuale -, nondimeno, in alcuni punti, Rimini inserisce considerazioni che sembrano esulare dal testo vero e proprio, per quanto raramente sviluppino il passaggio dalla particolarità del caso ad una sua estensione generale. L’adozione di una vittima dai connotati ben precisi, un senatore cattolico la cui appartenenza alla DC, per quanto mai esplicitata nel romanzo, è evidentissima, fornisce l’occasione per riflessioni di vario genere sul ruolo dei cattolici nella vita storica e politica italiana, a partire dalla partecipazione alla Resistenza. La lunga ricostruzione della carriera politica di Attilio Lughi, suffragata dall’inserimento di numerosi dati storici a supportare il racconto, secondo il criterio della verosimiglianza, è infatti focalizzata sull’evoluzione politica dei cattolici di sinistra, e, tramite i commenti di Bauer e Zanetti, esprime considerazioni su altre congiunture storiche, come il rapporto con la contestazione giovanile nel '68: “C’è anche un’altra versione dei fatti. Che avesse stretto troppi legami con i giovani della sinistra extraparlamentare. […] Erano suoi allievi. Politicamente li teneva distanti, ma non avrebbe mai potuto disprezzarli.” “Perché?” “Perché erano gli unici, in quel momento ad avere le stesse sue idee. In loro sentiva gli entusiasmi della vita in montagna durante la Resistenza.” (R pp. 131-132);

58 Cfr. C. Brambilla, op. cit.; G. Brayda, op. cit..; D. Altimani, op. cit.; M. Trecca, op. cit.

241 od il trasformismo politico di fine anni Settanta: “Lascia tutto definitivamente, nel 1979. L’aria non è buona. Sei mesi dopo, infatti, la giunta salta, ne viene costituita un’altra con l’ingresso dei partiti laici. Ha scelto un buon momento per chiudere. Dopo non sarebbe più servito a nulla e nessuno.” “A quel punto sono tutti ‘indipendenti’.” (R p. 133).

Talvolta, le ricostruzioni politiche lasciano il posto alle interpretazioni, motivando implicitamente la scelta del soggetto dell’indagine: E io credo che in questo suo agire veramente abbia influito in lui una sorta di certezza di perseguimento del ‘bene superiore’. […] Quanti dei suoi compagni di partito hanno tramato, intascato, corrotto, insabbiato, però con la certezza di agire per qualcosa che in fondo li giustificava? Se non capisci questo, non credo tu possa capire quarant’anni di scandali italiani. […] In fondo i cattolici sono molto più realisti dei marxisti o dei cosiddetti laici in genere. Ben più machiavellici. Hanno sempre un fine indiscutibile che, appunto, li giustifica agli occhi delle proprie coscienze. Ma è un fine ultramondano (R p. 282).59

Nell’ottica del confronto con Sciascia, la frequenza di ambienti religiosi - come il monastero di Badia Tedalda e il convento di Sant’Agata Feltria - unita a personaggi che hanno scelto la vita spirituale o che ad essa sono intimamente connessi - come il senatore Lughi, cattolico con problemi di coscienza -, non può non rimandare direttamente all’ambientazione di Todo modo, per il quale Sciascia aveva scelto un eremo dove far riunire, con il pretesto degli esercizi spirituali, dei notabili politici onde consentir loro di organizzare intrighi di potere.60 In Tondelli l’ambiente monastico non diventa il luogo privilegiato della narrazione, ma assume un ruolo importantissimo proprio in rapporto alla scelta del genere letterario: diventa infatti falso indizio nel caso di Badia Tedalda, apparente

59 Tondelli approfondiva le motivazioni della scelta del personaggio in alcune dichiarazioni di poco posteriori alla pubblicazione di Rimini: “Io sono di formazione cattolica e questo ha influito su tutto quello che ho scritto. Più in generale mi sembra che il problema centrale della politica italiana non sia tanto quello delle sinistre, quanto piuttosto quello dei cattolici. Esistono da sempre, da loro è dipesa e dipende la sorte del Paese. Così nel momento in cui ho voluto raccontare la storia di un senatore mi è venuto in mente un cattolico. Un burocrate del Pci non mi avrebbe consentito l’esplorazione psicologica di un personaggio tormentato che accetta bustarelle per fini superiori e attraverso la corruzione cerca di riparare a una colpa”. D. Altimani, op. cit.. L’intervento conferma la funzione di stimolo alla riflessione - quasi extratestuale nel senso sciasciano - prima attribuita alla vicenda del senatore Lughi. Al tempo stesso si noti come il legame continuo con personaggi e momenti testuali legati al misticismo ed alla religiosità - confermato dallo stesso Tondelli (cfr. ancora Altimani, op. cit.) - identifichi in questi ultimi uno dei nuclei narrativi e dei temi portanti centrali del romanzo intero, suscettibile di sviluppo nella successiva produzione tondelliana. 60 In relazione a Todo modo, Crotti parla di “uso cabalistico del numero tre (tre assassini, tre detective) fin dalla scritta iniziale, nera su giallo, dell’eremo: Eremo di Zafer 3”. I. Crotti, op. cit., p. 152. E’ interessante notare che la tripartizione ritorna in Rimini in maniera talmente sovrabbondante da escludere la casualità, a cominciare dalla suddivisione del romanzo in tre parti, per continuare con una scrittura che ne fa ampio uso, come si avrà modo di notare nel corso dell’analisi stilistica del libro. Non che questo autorizzi un rimando al libro di Sciascia, ma comunque vale la pena di sottolineare tale coincidenza.

242 meta dei ritiri dalla vita politica di Lughi, e sede precipua della surprise nel caso di Sant’Agata Feltria, vera meta del senatore e luogo del ritrovamento del suo memoriale che svela ogni particolare della vicenda. Il romanzo di Sciascia diventa un modello nei confronti di Rimini per un’altra particolarità, legata alla caratterizzazione del personaggio del detective, che non è un professionista, ma qualcuno che viene a svolgere tale compito in maniera occasionale. Tondelli riprende dunque la figura del detective anomalo e dell’”investigazione […] amatoriale”61, tipici di Sciascia; in questo senso il rimando è duplice, perché, oltre che a Todo modo, si può riscontrare un diretto riferimento a A ciascuno il suo, nel quale tale ruolo era svolto dal professor Laurana, un intellettuale, come in qualche maniera appartenente al mondo della cultura, se non altro per la professione, è lo stesso Bauer - giornalista che aspira a diventare direttore di qualche rivista -, emblematica evoluzione negativa della figura dell’intellettuale.62 Lo stesso Tondelli evidenzia l’anomala posizione di Bauer, che durante un colloquio telefonico col Vicedirettore del giornale esclama: “Non sono un detective” (R p. 128). Nonostante ciò, dell’investigatore Bauer riprende i caratteri principali, lo sguardo analitico e l’attitudine alla ricostruzione razionale dei fatti, con una sequenza di autoaffermazioni - “avevo visto giusto” (R p. 185), “avevo ragione” (R p. 280) - spesso smentite dai fatti, fino alla soluzione definitiva. A ciascuno il suo evidenzia un’altra particolarità sciasciana che si ritrova in Rimini e che riguarda stavolta il percorso narrativo stesso. Quest’opera di Sciascia infatti, come pure Il giorno della civetta o Il contesto, che di Rimini mostra la medesima connessione tra inchiesta e potere politico, sviluppa un finale che contrasta con la canonica forma del romanzo poliziesco, in quanto caratterizzato dalla mancanza del trionfo della giustizia. Il detective risolve il caso ma ne diventa l’ultima vittima e il disvelarsi della verità comporta il suo soccombere: sia Laurana che l’ispettore Rogas di Il contesto vengono infatti uccisi nel finale dei rispettivi romanzi. In Rimini questo non accade, benché Bauer rimanga accidentalmente ferito, ma la distruzione delle prove in suo possesso assume per lui lo stesso valore di una fine, rinforzato dallo scenario ‘apocalittico’ in cui si svolgono i fatti e dalla sua amara narrazione del rogo delle prove: “Persi i sensi. Per me l’ultima notte del mondo finì in quel momento” (R p. 287). Se non è la fine della vita di Bauer, lo è

61 S. Tani, op. cit., p. 67. 62 Tondelli insiste molto nella caratterizzazione in negativo del personaggio sotto questo profilo, evidenziando le sue scarse qualità di lettore in occasione della sua presenza al Premio Letterario Riviera. Si potrebbe estendere a Rimini l’impotenza della figura dell’intellettuale presentata dalle opere di Sciascia, ipotizzando una sua evoluzione verso il disimpegno o la marginalità. Gli intellettuali di Rimini, infatti, o sono scrittori di successo che badano più che altro alla loro vendibilità, o si incarnano nella persona di Bruno May, nuovo poete maudit incapace di un reale inserimento nella società; alternativa a questi due poli sembra essere il solo Zanetti, significativamente chiuso nel suo studio a “scrivere […] saggetti […] di storia antica” (R p. 25).

243 d’altronde per tutti i suoi sogni di grandezza, una fine analizzata dal protagonista con la consueta lucidità: Un paio d’ore dopo avevo già scritto la mia lettera di dimissioni dal giornale. Mi licenziai senza pensarci sopra due volte. Susy teneva molto a quell’incarico. Lei avrebbe fatto molta strada. Per me la partita finiva lì (R pp. 288-289).

In un certo senso il poliziesco viene superato, dal momento che la focalizzazione è sempre rivolta sul singolo, Bauer, che non a caso aveva già manifestato i dubbi sul da farsi appena entrato in possesso della busta gialla. Analogamente, la sua scomparsa ha valore solo per il singolo - fine del sogno per Bauer, apertura di nuove prospettive per Susy -, in fin dei conti la verità sul caso Lughi non interessa a nessuno. Non rimane neppure la ragion di stato, gli interessi politici che nel 1971 motivavano la morte di Rogas; ora, nel 1985, al detective resta solo “una qualche tranquilla rivista mensile di sport, di giardinaggio o di arte” (R p. 289).63 Pochi anni prima di Rimini, nel 1980, era uscito Il nome della rosa, di Eco, che, per certi aspetti, si pone nella linea che da Sciascia conduce ai recenti prodotti che presentano qualche analogia col poliziesco. Nell’ottica di un eventuale rapporto con Tondelli, il romanzo di Eco potrebbe rappresentare un filtro attraverso il quale sono stati recepiti elementi che fanno in realtà risalire a Sciascia, come l’adozione dell’ambiente monastico, la figura di un detective non professionale, l’evidente presenza di numerose citazioni, che nella prosa tondelliana sono ad ogni modo un dato acquisito fin dall’esordio. Di particolare interesse è la presenza, all’interno della copertina de Il nome della rosa, della mappa dell’abbazia in cui si svolgono i fatti, direttamente comparabile con la mappa della riviera adriatica di Rimini, vera e propria descrizione anticipata del primo personaggio del libro, la riviera appunto, ma al tempo stesso necessario corollario di una scrittura che si mostra estremamente dettagliata e tesa verso la descrizione degli ambienti come mai prima nell’opera tondelliana.64 Senza voler instaurare precisi confronti, si deve registrare nel libro di Eco la stessa spinta verso una variabilità stilistica che in Rimini si esprime attraverso l’adozione di differenti tipi di romanzo, e in Il nome della rosa diventa pastiche di forme letterarie diverse, dal romanzo storico al giallo alla ricerca erudita alla sperimentazione combinatoria.

63 All’interno dell’opera sciasciana sono rinvenibili ulteriori suggestioni che di volta in volta ritornano nella successiva produzione narrativa italiana legata al romanzo poliziesco, dal momento che l’opera di Sciascia si pone come un modello dal quale è difficile prescindere completamente. Basti pensare che anche sul versante più propriamente dell’inchiesta storica, compaiono lavori, come Il Consiglio d’Egitto, nei quali il tema dell’impostura e della falsità collegato in qualche maniera al mondo politico, richiamano l’analogo uso del rapporto tra apparenze (false) e reale conoscenza dei personaggi sui quali ruota l’intero Rimini. 64 Un analogo utilizzo della mappa come strumento accessorio alla narrazione si rinviene nel contemporaneo Narratori delle pianure, di Celati, che, come Rimini, registra il passaggio del proprio autore ad una narrazione più descrittiva e impersonale.

244 Sul versante del romanzo poliziesco canonico, meno contraddistinto da ambizioni letterarie e più orientato verso la narrativa di consumo, si può rinvenire un interessante precedente di Rimini nell’opera di Giorgio Scerbanenco. Nella sua produzione, per lo più di racconti, fino ai primi anni Settanta, si incontrano elementi che ritorneranno puntualmente in Rimini e che, anche sulla base di alcune considerazioni di Tondelli, permettono di individuarvi un apprezzabile spunto costruttivo. Sono ingredienti che prendono interesse soprattutto a livello di idea narrativa, realizzandosi sostanzialmente nell’adozione della riviera adriatica come contenitore spaziale e nella creazione di un asse Milano-Rimini nel movimento dei protagonisti. Scrive Tondelli: E’ forse Giorgio Scerbanenco l’unico scrittore italiano che ha intuito le potenzialità narrative della riviera adriatica nel pieno della stagione. Le spiagge di Rimini, di Riccione e di Cervia devono essergli parse il contraltare estivo della Milano in cui si muovono i suoi ruffiani, i rapinatori, i malavitosi di quartiere […]. […] La riviera adriatica, nelle sue pagine, altro non appare che il prolungamento, ferragostano e vacanziero, della metropoli lombarda.65

E’ una “potenzialità narrativa” che Tondelli sviluppa in Rimini, estendendola alla fascia collinare dirimpetto alla riviera adriatica, mantenendo altresì l’asse Milano-Rimini nella creazione della storia di Bauer, asse che viene ribadito durante la narrazione dai puntuali collegamenti telefonici di Bauer con la direzione del giornale e che si rinforza alla fine nell’identificazione dei responsabili del delitto Lughi nel gruppo di maggioranza che gestisce il quotidiano milanese.66 L’idea stessa di “prolungamento […] della metropoli lombarda” trova un appropriato sviluppo nell’interpretazione tondelliana della riviera adriatica come un’unica “grande città della notte e del divertimento che si estende per centocinquanta chilometri di costa e in cui si riversano milioni di persone per celebrare il rito di quell’unico, vero periodo di deroga carnevalesca che la società odierna consente, cioè le vacanze.”67

65 P.V. Tondelli, Cabine! Cabine! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, in G. Capitta-R. Duiz (a cura di), Ricordando fascinosa Riccione. Personaggi, spettacoli mode e culture di una capitale balneare (catalogo della mostra), Premio Riccione Ater Teatro, Grafis edizioni, Bologna, 1990, ora anche in P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, cit., pp. 491-514. 66 L’asse Milano-Rimini prende nel contesto del libro anche una valenza metaforica, che si esplica nelle diverse descrizioni della luce tra le due città, cosicché, con il trasferimento a Rimini, Bauer passa dalla luce indistinta, “sotto il finto sole del mezzogiorno” (R p. 12), di Milano, alla fantasmagoria di luci che lo accoglie nella visione notturna della riviera adriatica dalle vicine colline, “una lunga inestinguibile serpentina luminosa” (R p. 43). 67P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, cit., pp. 498-499. Da notare che Tondelli ha voluto immettere in Rimini un motivo di contrasto, narrando storie di personaggi che si trovano sulla riviera adriatica tutti per motivi diversi dalle vacanze, anzi, in genere, inerenti al proprio lavoro, cosicché il tema della metropoli delle vacanze e del divertimento assume un valore di straniamento oppure compare, nella descrizione di Bauer, sempre visto dall’esterno. Emblematico a questo proposito il rapporto di Alberto, suonatore di sax in un night, con gli utenti del locale: ““Suonerò finché quei grassi maiali saranno talmente ubriachi del vostro schifo di champagne e talmente stanchi di ballare che scoppieranno come tante pere marce, uno dopo l’altro […]”. Raggiunse il palco e iniziò a suonare. […] Quello era anche il

245 E’ l’ambiente stesso che così rende necessaria l’eterogeneità dei personaggi che affollano Rimini, ed è una conseguenza che pure si trova a concordare con le scelte che Tondelli attribuisce alla narrativa di Scerbanenco: La riviera adriatica non appare soltanto come la spiaggia dei milanesi […]. Nel romanzo Al mare con la ragazza (1973), Scerbanenco coglie la natura interclassista della vacanza sulla costa romagnola. Da un lato, mette in scena la storia dei due giovani dell’hinterland milanese che non hanno mai visto il mare; e dall’altro, quella della borghese che fugge dall’anonimato della riviera in preda a una profonda insoddisfazione personale.68

Tondelli sviluppa in senso cosmopolita il valore di Rimini, ne mette in scena le presenze turistiche, avviandone nei monologhi di Renato Zarri un’analisi anche storica, e offre con il suo romanzo la visione di un vero e proprio spaccato sociale, dagli artisti spiantati ai borghesi benestanti, in un’ambientazione che passa dal Grand Hotel alle spiagge libere degli hippies nostrani. Rimini, nel 1985, opera quindi delle scelte che vanno in direzione di un recupero del cosiddetto “giallo letterario”. Nel far ciò viene a convergere con analoghi coevi prodotti italiani: a metà degli anni Ottanta si assiste, infatti, ad una ripresa del genere da parte di giovani narratori, dopo che l’esempio - peraltro anomalo - di Eco nel 1980 non aveva avuto seguito. Due romanzi percorrono insieme a Rimini questa direzione, entrambi nel 1986 e presentando parecchie analogie tra di loro: Comici spaventati guerrieri di Stefano Benni e Il filo dell’orizzonte di Antonio Tabucchi.69 Nell’ambito della tradizione del poliziesco, sono prodotti atipici, che si rifanno per lo più all’isolato esempio di Gadda e soprattutto alle peculiarità di Sciascia, dal momento che di volta in volta presentano elementi - anonimato del luogo della narrazione, mancanza di soluzione ed assenza del trionfo della giustizia,

suono di vendetta di tutti i musicisti condannati a suonare per accompagnare il chiacchiericcio della gente, per servire come sottofondo agli intrighi delle troie da balera” (R p. 255). 68 P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., p. 500. 69 Il romanzo scritto a quattro mani da Silvia Bre e Marco Lodoli, Snack Bar Budapest, più un thriller che un poliziesco, sembra confermare, l’anno successivo (1987), la popolarità di questo genere, anche se in un’ottica di assimilazione di suggestioni narrative dai prodotti precedenti. Vi compaiono infatti elementi che rimandano direttamente a Rimini, come l’idea di fare di una città italiana una nuova Atlantic City con tanto di premio letterario e scrittore famoso, con un evidente riuso del concetto tondelliano della riviera adriatica come metropoli balneare; anche la presenza di un personaggio che ha partecipato alla Resistenza o il clima da apocalissi finale con citazione del Protovangelo sembrano ricordare Rimini. L’adozione invece di un protagonista che è un professionista radiato dall’Ordine ricorda Peppe Harpo, un personaggio di Tabucchi ne Il filo dell’orizzonte, per quanto già in Scerbanenco comparisse una figura simile. L’ideazione viceversa di personaggi filmici è un tratto comune a molta narrativa del periodo, nella quale le barriere tra le arti sono cadute e le pagine dei romanzi sono fitte di citazioni, per esempio cinematografiche. Non a caso Tinto Brass ha tratto un film dal romanzo di Bre-Lodoli e non a caso una riduzione cinematografica era prevista anche per Rimini ed è stata realizzata per Comici spaventati guerrieri di Benni nonché per parte della produzione di Tabucchi.

246 aspetto parodistico, presenza del mondo dei giornali e più in generale dei mass media, figure di detectives non professionali, convergenza tra delitti e potere politico - che a tali due scrittori riportano. La deviazione dalla canonicità del romanzo poliziesco è dunque una caratteristica precipua della sua ripresa a metà degli anni Ottanta. All’interno di questa deviazione, un elemento che ritorna puntuale nelle tre opere citate è la scelta relativa alla figura del detective, che non è mai un professionista e che si pone in una posizione alquanto differente rispetto alle indagini ufficiali. Forse Rimini è il caso meno appariscente su questo secondo versante, dal momento che una simile contrapposizione è poco visibile, non essendoci quasi traccia delle indagini della polizia; si deve altresì considerare che l’ostinazione di Bauer ad occuparsi di un caso che egli stesso aveva consentito di chiudere è il pretesto che consente di arrivare alla vera soluzione ed alle implicazioni che comporta. Nel romanzo di Tabucchi, Spino continua le sue personali indagini senza curarsi dell’archiviazione del caso comunicatagli dal suo amico giornalista; in Comici spaventati guerrieri alle indagini ufficiali si contrappongono quelle di tutta una schiera di detectives amatoriali che sono gli unici a cercare di stabilire la verità. La non professionalità dell’investigatore diventa così un requisito fondamentale: Bauer è un giornalista, Spino lavora all’obitorio, i personaggi che nel romanzo di Benni svolgono le indagini più accurate appartengono tutti a un mondo di marginali. Comici spaventati guerrieri è l’esempio più clamoroso per la messa in evidenza dell’inadeguatezza della classica figura dell’investigatore ai fini dell’attuale prodotto narrativo: mentre infatti Tondelli e Tabucchi, nella loro scelta pure al di fuori della tradizione del genere, si limitano ad un solo investigatore, Benni attua la moltiplicazione del procedimento anomalo, creando una folla di detectives improvvisati in netto contrasto col titolare ufficiale delle indagini, il commissario Porzio. La ricerca del colpevole dell’omicidio di Leone vede allora impegnati in autonomi tentativi, oltre alla polizia, quattro personaggi appartenenti a diverse categorie sociali, tutte in qualche modo marginali rispetto all’immagine della società incarnata dal “ConDominio” e dai rappresentanti della legge: si va dal bambino, Lupetto, al professore in pensione, Lucio Lucertola, il quale più di ogni altro riveste i panni del detective, in un meccanismo di identificazione con la vittima, da Tani elencato tra gli elementi cardine del giallo70, identificazione che non a caso lo accomuna allo Spino di Tabucchi; si va dalla ragazza della vittima, Lucia, coadiuvata dall’amica Rosa, al suo grande amico, Lee, rinchiuso in manicomio, dal quale scappa proprio per svolgere le sue indagini, esempi di una ‘fauna’ giovanile direttamente riconducibile al movimento di fine anni Settanta. A metà

70 “Non è ogni poliziesco un gioco di doppi, una riluttante ma necessaria immedesimazione del detective con il suo antagonista?” S. Tani, op. cit., p. 159.

247 strada compare poi un giornalista, Carlo Camaleonte, sempre in bilico tra le vecchie istanze di rivolta e l’accettazione della situazione in nome del suo posto al giornale.71 Quest’ultima figura si ricollega, per la professione, al Bauer di Rimini ed all’analoga presenza di Corrado, giornalista amico di Spino, ne Il filo dell’orizzonte, testimoniando la presenza del mondo della cultura nell’immaginario romanzesco degli anni Ottanta. Sono figure tratteggiate in maniera diversa e con differenti ruoli narrativi, Bauer è il protagonista della sua storia mentre gli altri due personaggi sono dei comprimari, accostabili per la loro funzione di tramite tra il pubblico e l’indagine ufficiale. Interpretano spesso la funzione di spalla per altri personaggi, in modo da fornire al lettore determinate informazioni e di norma è a loro demandata la ricostruzione della storia, analiticamente nel caso di Bauer, in forma di concitato colloquio col commissario nel romanzo di Benni, come fredda ipotesi dello svolgimento dei fatti in Tabucchi. L’atipicità della figura del detective è un elemento che, per quanto diventato più evidente da Sciascia in poi, attraverso precise scelte narrative, ha delle origini piuttosto lontane. A questo proposito Crotti individua la presenza di una linea d’interferenza protonovecentesca […] particolarmente significativa sotto il segno di perdita di ruolo e d’identità. La fissità sclerotizzata della funzione detective, nell’ambito del Novecento assumerà un valore decisivo proprio nel momento in cui si porrà come datità da sconvolgere […]. La detection, in sintesi, deve […] operare non al di fuori ma, soprattutto, anche all’interno del detective stesso; il viaggio narrativo svelante l’identità dell’assassino agisce a vari livelli […]; si profila, di conseguenza, […] l’operazione della detection come autocoscienza, come viaggio narrativo all’interno dell’io.72

Di conseguenza, l’originale indagine alla ricerca della ricostruzione della storia per risolvere un mistero, si sviluppa verso una forma di interiorizzazione e la detection diventa il tramite per una ricerca di se stessi. E’ quanto accade ai vari protagonisti dei tre romanzi di riferimento, determinando uno spostamento della focalizzazione dall’oggetto della ricerca all’autoanalisi. Tabucchi lo dice esplicitamente, fornendo attraverso tappe progressive - identificazione, spostamento di focalizzazione, evidenziazione del tema reale - lo sviluppo del passaggio dal fatto esterno, oggettivo, all’interiorizzazione della ricerca:

71 L’adozione di personaggi marginali prosegue l’analoga scelta effettuata nel precedente Terra (1983), che metteva in campo la storia narrata dalle vittime della storia, dagli Incas di Cuzco ai topi, rivisitando tematiche - in primis la marginalità appunto - proprie della contestazione giovanile del decennio precedente. Si veda per esempio il colloquio tra il giornalista ed il commissario Porzio nel finale (cfr. S. Benni, Comici spaventati guerrieri, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 178-180). Sono frammenti testuali comuni un po’ a tutta la narrativa del periodo, assimilabili alla potenziale identità tra Spino ed il presunto terrorista di cui cerca di ricostruire la storia, o a certi momenti di Rimini che sembrano rivisitazioni di eventi del decennio precedente (per esempio la già segnalata occupazione giovanile a Berlino). 72 I. Crotti., op. cit., p. 85.

248 Restano un attimo assorti davanti alla fotografia dello sconosciuto, poi lei si lascia sfuggire una frase che gli provoca una specie di smarrimento. “Con la barba e venti anni di meno potresti essere tu”, dice.73

Spino ha capito che quel morto a cui pensava non importava a nessuno, […] era un insignificante cadavere senza nome e senza storia.74

Il vero tema del libro compare scandito due volte dalla medesima domanda rivolta a Spino dai suoi due amici Pasquale e Corrado: “Ma cosa vai cercando […]?”; “Ma tu cosa vai cercando?”75, una domanda alla quale egli risponde poco più avanti nel corso del colloquio con Harpo: “E tu?”, gli ha detto Spino, “tu chi sei per te? Lo sai che se un giorno tu volessi saperlo dovresti cercarti in giro, ricostruirti, frugare in vecchi cassetti, recuperare testimonianze di altri, impronte disseminate qua e là e perdute? E’ tutto buio, bisogna andare a tentoni”.76

Analogamente, in Rimini, il finale, attraverso i dubbi di Bauer ed il colpo di scena ad opera di Susy, sposta l’interesse dal delitto Lughi alla sua strumentalizzazione a fini personali, arricchendo la parabola di Bauer proprio in senso interiore: Sull’autostrada, correndo veloce verso Milano, mi sentii improvvisamente come liberato da un grosso peso. Forse mi stavo finalmente liberando da me stesso e dal mio sogno (R p. 289).

Il percorso di Bauer acquista così una valenza di autoanalisi e la rinuncia nel finale alle ambizioni della partenza da Milano diventa una presa di coscienza: alla fine della ricerca di una soluzione Bauer ha trovato il vero se stesso.

III.3.3 Dal giallo alla ricerca.

73 A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 32. 74 Ivi, p. 35. 75 Ivi, p. 40 e p. 52. Si consideri che in Tabucchi il tema della ricerca di qualcuno riporta al precedente Notturno indiano (1984), nel quale veniva sviluppata una tematica di rovesciamento di ruoli che può in qualche modo ricordare il percorso di Spino, partito alla ricerca dell’identità di un morto per approdare ad una ricerca interiore, in una struttura narrativa che ugualmente comportava la mancanza di una soluzione finale. Per quanto riguarda Benni, poi, la tematica della ricerca era presente già nel romanzo d’esordio, Terra (1983), dove aveva come esito un’identificazione che prevedeva un salto all’indietro nel tempo. Rimarrà, ad ogni modo, un motivo cardine della sua narrativa, fin dal successivo Baol (1990), che inscena una nuova figura di investigatore, la cui reale ricerca è la conoscenza del proprio segreto, quindi ancora in direzione interiore. Nella forma della ricerca di qualcuno contrassegnerà anche i più recenti La compagnia dei Celestini (1992) ed Elianto (1996). Non sembra errato individuare nel tema della definizione di una nuova identità, che attraversa non solo questa ma buona parte della produzione narrativa giovanile del periodo, anche una connessione con la fine delle ideologie che ha contrassegnato il passaggio da fine anni Settanta ad inizio anni Ottanta, un tentativo di adeguamento ai nuovi tempi ed un segnale del bisogno di rinvenire nuovi riferimenti dopo che quelli del passato non sono più validi. 76 Ivi, p. 80.

249 Lo spostamento della focalizzazione della ricerca verso una direzione più particolareggiata ma al tempo stesso più estesa svela il vero tema del libro, che insegue in ogni sua storia una scoperta di se stessi, a volte nascosta dietro un falso obbiettivo, come la ricerca della sorella nel caso di Beatrix. Il suo è l’esempio forse più esplicito, dal momento che sul finire della sua storia Tondelli ne riassume il percorso dandogli una direzione ben precisa: In quei momenti Beatrix capì il perché si era imposta di trovare Claudia. In realtà […] chi stava realmente cercando era se stessa, una donna che seguiva il fantasma di un’altra donna sperando nascostamente nella coincidenza della loro identità. Si cerca sempre se stessi, in fondo. O qualcosa di noi che non ci è chiaro o non abbiamo capito […]. Beatrix stava cercando se stessa, questa era la verità (R pp. 237-238).

In realtà il tema della ricerca era affiorato nella storia di Beatrix fin dall’inizio, prima ancora che l’ossessione di Claudia fosse chiara. In maniera emblematica Tondelli inserisce, infatti, un episodio apparentemente slegato tra il riepilogo della vicenda di Beatrix fino all’apertura del negozio e la cena con Hanna nella sua casa berlinese, un episodio che nel finale si chiarisce come anticipazione del tema della ricerca, evidenziato anche da un procedimento differenziante come l’uso della lingua francese. Si tratta dell’acquisto di un oggetto d’antiquariato orientale, una tanka, da parte di un cliente, e non a caso la descrizione della visita di quest’ultimo si intreccia con l’atteggiamento assorto di Beatrix intenta a scarabocchiare il nome di Claudia su di un foglio di carta: “E’ un pezzo notevole,” notò l’uomo. “Ormai è difficile trovare in commercio tanke di questa fattura.” “E’ molto bella,” ammise Beatrix come la vedesse per la prima volta. […] La tanka era appoggiata in terra, dietro una piccola sporgenza della parete, come fosse capitata là, per caso, da poche ore. […] L’uomo parlava descrivendo lo Yidam Yamantake, il soggetto centrale della tela. […] Disquisì di colori e di famiglie […]. Beatrix lo ascoltò scrutando la tanka come fosse la prima volta. Erano dieci anni che la vedeva, ma quella era effettivamente la prima volta. L’avrebbe venduta e le sarebbe mancata. E solo allora l’avrebbe apprezzata e rimpianta. Come con Claudia. […] Beatrix […] domandò: “Come ha fatto a sapere che la tanka che lei cercava era qui?” […] “Je ne cherchais guère cette tanka, Madame. C’est elle qui a cherché moi.” (R pp. 52-54).

In questa maniera Tondelli collega la realizzazione da parte di Beatrix della mancanza di Claudia con il motivo della ricerca, ruotando peraltro attorno al tema delle apparenze e della reale conoscenza delle cose, evidenziando continuamente il contrasto tra un oggetto posseduto da tempo e la percezione di esso come visto per la prima volta, anticipazione nel testo del motivo della mancanza di Claudia. Del resto, la storia di Beatrix si sdoppia per certi versi nella storia di Claudia, il cui percorso di presa di coscienza è il medesimo di

250 quello della sorella, esplicitato nel finale attraverso il raddoppiamento del motivo tematico, che lo mette ulteriormente in risalto: Claudia […] stava cercando qualcosa che orientasse la sua vita. Certo, non l’aveva ancora trovato, ma quei mesi e mesi in giro per l’Europa le avevano dato una solidità interiore nuova. […] Si era persa in quella città della notte - l’intera riviera - e ora tentava di ritornare in se stessa ricostruendo passo dopo passo, fantasia dopo fantasia, la sua storia e il mondo dei suoi desideri. […] Se l’era vista brutta con Giorgio, a Roma. […] Poi una notte aveva incontrato il vecchio e fu un “viaggio” diverso dentro di sè, dentro quella ragazzina che a quindici anni occupava le case e che a diciannove era ridotta a uno straccio. […] Si era persa, completamente. Ma forse lo doveva fare, una volta per tutte, per togliersi da quella adolescenza troppo dura che aveva conosciuto su a Berlino. In questa terra di sogno, finalmente, stava tornando alla luce (R pp. 236-237).77

Un’analoga ricerca caratterizza la figura di Bruno May, nella quale il testo amplifica il motivo dell’identità, dal momento che su questo ruotano dialoghi e riflessioni che lo vedono protagonista. Fin dalla sua entrata in scena, infatti, il personaggio è connotato dal gioco sull’identità: inizialmente Bauer non sa chi egli sia e persino quando, in occasione del loro secondo incontro, gli chiede il nome, non riesce a collegarlo con le informazioni avute da Susy. Inoltre quando Bauer, dopo averlo accompagnato a casa, osserva il nome sull’abitazione, trova quello di Oliviero e non quello di Bruno. La focalizzazione sull’identità diventa poi esplicita nel corso di una riflessione di Bauer che segue a un colloquio con Bruno: Sembrava un uomo diverso, ma a pensarci bene lui era sempre un uomo diverso. Quando l’avevo conosciuto al bar del Grand Hotel, su a Badia Tedalda, quella volta in riva al mare, quella stessa notte. Erano sempre persone diverse (R p. 191).

Lo stesso svolgimento della storia di Bruno, spezzato dalla lunga analessi che ripercorre la sua relazione con Aelred e teso verso la scissione del personaggio in due storie diverse, presente e passato, evidenzia il motivo tematico dell’identità. D’altronde, anche le modalità della storia con Aelred si dispiegano secondo i motivi della ricerca e

77 Il percorso di Claudia, più di altri nel testo, ripercorre le tappe di un romanzo di formazione e si pone in quest’ottica in un chiaro rapporto con i personaggi di Altri libertini, rispetto ai quali rappresenta un’evoluzione e, per certi versi, un superamento. Ritorna con lei, per un attimo, il mondo di Postoristoro, al quale Claudia rinuncia alla fine, scegliendo un ritorno in famiglia - la sorella e la vecchia governante - che in Altri libertini appariva una soluzione impossibile: “Aveva conosciuto le siringhe, come a Londra e ad Amsterdam e in Tunisia, ed era andata troppo oltre in quella vita di sbattimenti e di miserie: arrangiarsi, trovare un buco, rubare, fuggire e soprattutto aspettare. Continuare ore ed ore ad aspettare qualcuno nei posti più impensabili e assurdi. E quando questo qualcuno arrivava, subito dopo aspettarne un altro e un altro ancora e così per notti e giorni, anche se ormai la notte e il giorno erano un unico incubo di solitudine e di attesa. […] E ora, mentre Beatrix la teneva per mano, sapeva che ormai l’autunno era arrivato per lei e la sua storia segreta. “Verrò con te a casa,” disse” (R p. 237). Un rapido confronto con analoghi momenti di Postoristoro diventa quindi significativo per valutare l’evoluzione tondelliana sia sul piano tematico che su quello puramente stilistico, alla luce della stessa focalizzazione del tratto testuale sul motivo dell’attesa, paradigmatico in Postoristoro.

251 dell’acquisizione di una certa autocoscienza, spesso destinati a coincidere. Scrive Bruno a Padre Anselme: Ho sempre cercato “tutto” nella vita: la verità e l’assoluto. […] Ora mi sto accontentando di qualcosa. E sento che mi basta (R p. 204);

mentre Anselme individua proprio nella mancata conoscenza di se stessi i problemi che tormentano Bruno nel suo rapporto con Aelred: Non puoi restare con quel ragazzo. Non sa chi è e non potrà mai amare nessuno finché non lo scoprirà. E lo dovrà fare da solo (R p. 205).

E’ lo stesso Bruno a tornare poi sul tema dell’identità nel suo primo colloquio con Oliviero: “Ho letto un suo libro,” disse Oliviero. Bruno sbuffò. “Avrei preferito che non me l’avesse detto.” “Perché?” Lo guardò. “Era un’altra persona. Le sembrerà ridicolo, ma è sempre così quando si finisce un libro. Chi ha scritto quella cosa è una persona di cui occasionalmente io porto il nome. Niente di più” (R p. 211).

La ricerca di Bruno coincide con la sua crisi di scrittore, ed è significativo che proprio il ritorno alla scrittura e la fine della stesura del romanzo si identifichino in qualche maniera con un ritrovamento di sé che si pone a conclusione della storia dello scrittore Bruno May: Chiuso nella stanza cominciò finalmente a riempire un foglio dietro l’altro […]. Il manoscritto fu inviato all’editore e passato direttamente in composizione. […] Ma una volta liberatosi di quel peso, Bruno si accorse di essersi liberato dell’essenza stessa della sua vita (R p. 227).

A questo punto anche la storia dell’individuo Bruno May non ha più motivo di continuare e Bruno chiude la sua ricerca nel suicidio. Ma tutte le storie girano attorno a personaggi che in qualche maniera manifestano una crisi interiore e la ricerca del successo esprime a volte solo la necessità di trovare e scoprire la propria strada. E’ quanto succede a Robby e Tony, nel disperato tentativo di realizzare il loro film, quando ormai uno dei due, Robby, si era rassegnato alla sopravvivenza, come sceneggiatore di fumetti popolari. Il discorso di Tony mette in evidenza la ristrettezza della categoria “ricerca del successo” applicata al loro caso, qualificandone l’operato piuttosto come tensione verso una realizzazione personale che diventa, in un certo qual modo, conoscenza e riappropriazione di se stessi: Sappiamo che è la nostra vita. Che il nostro futuro dipende da quello che troveremo qui. E’ il nostro mestiere. Abbiamo studiato per questo, ci siamo sbattuti per anni e anni. E non per meritare la gloria o il denaro o cazzate di questo genere. Ma semplicemente perché lo sentiamo nel sangue (R p. 70).

252 La parabola di Robby in realtà ha molto a che vedere con quella di Beatrix: due persone sfiduciate e rassegnate che si ritrovano ponendosi una meta apparentemente diversa, con un procedimento di ritorno circolare su di sé. Non a caso lo stimolo per continuare arriverà a Robby da una sorta di fedeltà al sé ragazzino ed alle sue vecchie aspirazioni: Non avrebbe saputo con che forze continuare. Ma avrebbe continuato. E solo per un motivo: proprio il rispetto profondo, amoroso quasi, per quel ragazzino che era arrivato testardamente fino a quel punto estremo, in quella camera e in quel letto. In altre parole per rispetto e amore verso la propria storia. […] Prese la sceneggiatura, accese l’abat-jour e cominciò a leggere (R p. 75).

Ancora una volta, l’interiorizzazione è la direzione verso cui evolvono le storie dei personaggi, e, significativamente, Robby non compare nel breve resoconto che conclude le vicende del film, quasi come se la focalizzazione della sua storia non interessasse la realizzazione cinematografica, ma il ritorno del personaggio ad occuparsi di quello che per lui è vita, con un cammino sostanzialmente analogo a quello dello scrittore Bruno May: “Ecco gli attori!” fece eccitata Susy. “Quello in mezzo è il regista. Ha raccolto una parte del denaro qui a Rimini. Dicono sia andato ombrellone per ombrellone a chiedere i finanziamenti.” “E quello là in fondo?” […] “E’ Formigoni, il produttore. Viene sempre a Riccione, ogni anno, per le vacanze. L’altr’anno ha incontrato il regista in spiaggia e hanno combinato il film” (R p. 242).78

III.4 La riviera adriatica nella produzione letteraria tondelliana.

La riviera adriatica è un argomento che ritorna con una certa frequenza nella scrittura di Tondelli - se ne era già valutata la presenza in riferimento ai gialli di Scerbanenco -, inserendosi all’interno di procedimenti di correlazione tra testi scritti in periodi anche piuttosto lontani l’uno dall’altro. Succede così che in Rimini si vengono a coagulare ed a sviluppare spunti - non necessariamente narrativi - che appartengono ad altre parti della produzione tondelliana.

78 Nei personaggi di Rimini, che non possono con ogni evidenza essere considerati autobiografici, ritornano motivi ed elementi riconducibili all’esperienza biografica di Tondelli. Nel caso di Robby, per esempio, si consideri che lo stesso Tondelli ha lavorato come sceneggiatore di fumetti. Inoltre, prima della scrittura definitiva di Rimini, il cui progetto è di molto antecedente alla realizzazione, Tondelli ne aveva operato, nel 1981, un trattamento cinematografico (cfr. Altimani, op. cit.). L’assenza di Robby dal finale della sua storia, si può quindi considerare un tentativo dell’autore di non apparire ulteriormente nel testo, come pure un inconsapevole accenno alle difficoltà di realizzazione del progetto.

253 Non bisogna però interpretare ciò come un generico, utilitaristico riutilizzo dei medesimi materiali, quanto piuttosto come una convergenza di idee affrontate sotto diversi punti di vista letterari, soprattutto in considerazione del fatto che, benché Rimini venga pubblicato nel 1985, il suo progetto è quasi coevo ad Altri libertini; nel corso di mezzo decennio Tondelli è venuto così accumulando attorno al romanzo riflessioni che hanno coinvolto scritti di altra natura.79

III.4.1 Il mito della riviera.

La prima occasione per svolgere il tema della riviera adriatica risale ad alcuni articoli giornalistici dell’estate 1981, che, assieme ad altri degli anni successivi fino al 1986, vanno a formare la seconda parte di Un weekend postmoderno, intitolata Rimini come Hollywood. Compaiono già in essi alcune linee guida del romanzo, a partire dal titolo stesso della sezione, compiutamente svolto in un articolo del luglio 1982, nel quale Tondelli faceva comparire momenti poi entrati a far parte di Rimini, come la descrizione delle luci delle raffinerie di Ravenna che, quasi con le stesse parole, ritorna all’interno dell’insistenza sul motivo della luce: Il non fatto, il non finito e, soprattutto, il non abitato, danno, la notte, l’impressione eccitante di vivere in una metropoli abbandonata e galattica, costruitasi da sé dalle acque, principalmente per via di quelle luci d’astropista che le raffinerie di Ravenna diffondono nel cielo molto Star Wars del litorale. Insomma un videogame a grandezza naturale piazzato ai margini dei viali luccicanti dei centri balneari,80

diventa così Sulla sinistra avanzavano le luci galattiche delle raffinerie di Ravenna lanciate sul mare come a indicare il percorso di una astropista spaziale. Verso l’orizzonte, sul mare, altre luci gialle e rosse, indicavano i giacimenti di gas combustibile: piattaforme minacciose come provenienti da un’altra civiltà, da un altro mondo (R p. 146).

79 “L’idea è del 1979, subito dopo Altri libertini e da allora ho sempre continuato a prendere appunti e a scrivere dettagli, per riuscire a comporre questo libro polifonico.” G. Brayda, op. cit. 80 P.V. Tondelli, Adriatico kitsch, in “Linus”, luglio 1982, ora anche in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, pp. 98-101. Da notare che nel contemporaneo Pao Pao compare un’immagine molto simile che testimonia inoltre il valore paradigmatico del film di Lucas: “Serata davvero memorabile sotto il cielo molto Star Wars della capitale con i Boeing colorati che solcavano il blu intenso e le stelle planetarie che si muovevano” (PP p. 69).

254 Il motivo più ragguardevole dell’articolo è però l’accostamento tra riviera adriatica e mito americano che esplicitamente anticipa la struttura fondamentale di Rimini, con l’idea di uno spazio contenitore narrativo che diventi metafora di una cultura di massa nazionale: La fauna, in questo paese delle meraviglie […] si mischia come in una Nashville patriottica e poliglotta, si interseca, si ricicla, si bagna, si asciuga, si dissolve, si droga, si eccita, prova variazioni alla “somma idraulica”, si pigia in un caleidoscopico plot che nessun romanziere, o cinematografaro, ha ancora osato minimamente immaginare. […] Rimini […] è l’unico luogo in cui è ancora possibile vivere e innestarsi nel continuum del romanzo nazionalpopolare. […] Voi che siete a Rimini, ora, […] siete già, o fortunati, in pieno romanzo.81

C’è già il nocciolo del progetto narrativo di Rimini, la sua polifonia, il suo realismo, la sua esemplarità, il suo rapporto con il cinema, la sua potenzialità artistica. Nei pochi mesi dedicati alla scrittura del romanzo, Tondelli ha poi limato, sviluppato ed armonizzato in un tutto, eteromorfo quanto unitario, questi ed altri motivi, dando loro una veste più propriamente narrativa. Basti infatti pensare alla presenza del parco dei divertimenti di Fiabilandia - teatro nel romanzo del ritrovamento di Claudia - e del paese di Sant’Arcangelo di Romagna - dove in Rimini abitava il senatore Lughi -, delle “spiagge a luci rosse per gay, freakkettoni, nudisti, voyeur e campeggiatori liberi, al Lido di Classe, fra dune e canneti”82 e delle feste al Grand Hotel. La contemporaneità, inoltre, tra il romanzo e gli ultimi articoli giornalistici, mostra quella comunicazione tra le varie sezioni della produzione tondelliana che rende limitata un’interpretazione del suo percorso narrativo che non prenda in considerazione anche i suoi lavori di altro genere. Tondelli tornò ad occuparsi della riviera adriatica verso la fine degli anni ottanta, operandone un’analisi sotto un profilo squisitamente letterario, all’interno di una parziale ricostruzione della storia letteraria dell’ultimo secolo. L’occasione gli fu fornita dalla collaborazione alla redazione del catalogo di una mostra fotografica su Riccione, per la quale curò la parte dedicata alla letteratura che con quella località aveva in qualche maniera avuto a che fare. Il saggio che ne derivò, Cabine! Cabine! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, confluì più tardi in Un weekend postmoderno, all’interno della decima sezione, Geografia letteraria. In esso Tondelli, oltre a svolgere una puntuale analisi delle presenze letterarie tra riviera e pianura romagnola, riprende considerazioni che erano apparse in Rimini.83

81 P.V. Tondelli, Adriatico kitsch, cit. 82 P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., p. 112. 83 Tondelli considerava questo suo saggio un inizio da cui altri avrebbero potuto prendere le mosse per approfondire il suo lavoro: “La ricerca […] ha rivelato direzioni di studio praticabili, percorsi interessanti e opportunità di riletture critiche. Poiché, se dovessi fin d’ora trarre una prima conclusione a questo lavoro, è indubbio che esso si pone come momento iniziale e non consultivo di un’idea che mi auguro altri critici letterari, o scrittori, proseguano: quella di tracciare un panorama letterario di questa regione”. Ivi, p. 492-493. E’ una prospettiva di lavoro che in seguito Tondelli riprese in una serie di conferenze con gli studenti delle scuole superiori nel marzo del 1989, incentrate sugli scrittori emiliani.

255 Se quindi Rimini come Hollywood aveva un valore di anticipazione nei confronti del romanzo, Cabine! Cabine! si pone in una posizione per così dire di retrospettiva e diventa interessante per una sorta di giudizio a posteriori che l’autore stesso esprime sulla propria opera. E’ anche l’occasione per chiarire ulteriormente, a volte in maniera esplicita, altre con riferimenti ad altri scrittori, le linee fondamentali del romanzo, a partire dalla concezione della riviera come un’unica grande città del divertimento e dalla scoperta della sua potenzialità narrativa. Gli spunti più interessanti sono quelli non esplicitamente connessi con Rimini, ma che ne riprendono motivi e occasioni testuali. La ricerca tondelliana in Cabine! Cabine! prende il via da un evento storico, il premio Riccione per il romanzo del 1947, un dato sicuro per registrare la presenza di scrittori sulla riviera, dal momento che la commissione giudicatrice era composta da Sibilla Aleramo, Romano Bilenchi, , Guido Piovene e Cesare Zavattini. Ugualmente, parte delle vicende di Rimini ruotano attorno al XXVII Premio Internazionale di Letteratura Riviera, di cui Tondelli approfitta per ironizzare aspramente sull’establishment dei premi letterari. L’analisi delle presenze letterarie diventa presto un’analisi del territorio, e riporta alla presenza della mappa in apertura di romanzo, segnale e simbolo dell’unità di spazio in cui esso si svolge, uno spazio che coinvolge le vicine colline e la pianura emiliano-romagnola; tale continuità spaziale Tondelli ribadisce in Cabine! Cabine! , analizzando le connessioni tra pianura e mare quando sostiene che “il mare Adriatico pare un prolungamento della campagna romagnola”, parlando inoltre di “continuità fra la terra e l’acqua”.84 E’ un concetto importante in Rimini, dove l’unitarietà del contenitore spaziale diventa uno dei meccanismi di coesione del romanzo, il collante delle storie eterogenee che affollano il libro, uno spazio protagonista che non a caso riceve numerose dettagliate descrizioni. L’interesse maggiore che, in una prospettiva di confronto con Rimini, suscita Cabine! Cabine! va forse individuato nei riferimenti letterari che implicitamente si rinvengono attraverso l’analisi che Tondelli fa delle opere letterarie in qualche modo connesse con la riviera adriatica. Si scoprono così legami con libri non necessariamente collegati a Rimini ma che sembrano porsi in una situazione di ascendenza rispetto al romanzo tondelliano. La prima opera che Tondelli prende in esame è Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani, del 1958. Lo sguardo di Tondelli, spaziando dai dati storici del romanzo - come l’abituale presenza di Mussolini a Riccione - all’analisi dei personaggi in connessione con la duplicità - esuberanza e ombrosità - del carattere emiliano-romagnolo, mette in evidenza due interessanti motivi che riportano a Rimini. Il primo è quello, appena visto,

Recentemente Guido Conti, scoperto da Tondelli in Papergang, sta continuando questo progetto sia sotto forma di ricerca storico-letteraria, sia sotto un versante più propriamente narrativo di recupero della tradizione padana (cfr. G. Conti, Della pianura e del sangue, Rimini, Guaraldi, 1995). 84 P. V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, cit., p. 502.

256 dell’importanza dello spazio nel contesto del romanzo: “la città balneare non è solamente uno sfondo alle vicende dei personaggi, ma dà il ritmo alla narrazione”.85 Il secondo, relativo alla figura di Athos Fadigati, protagonista del romanzo di Bassani, determina un significativo parallelo con un personaggio di Rimini: Athos Fadigati è propriamente un antieroe. La sua omosessualità è lo specchio della sua malinconia. La sua diversità lo pone in mezzo agli altri personaggi come una presenza quasi aliena. Niente di più ironico e di più malinconico di questo dottore che, sulla stessa spiaggia in cui prende il sole il Duce, insegue la presenza del suo amante Eraldo Deliliers. […] Sulla spiaggia assolata di Riccione si scontrano simbolicamente due immagini complementari dell’essenza stessa di questi luoghi e di quel carattere: l’esuberanza dell’uomo d’azione da una parte, la perfetta malinconia dell’intellettuale da quell’altra.86

A ben guardare sono considerazioni che si adattano anche a Bruno May, che riveste gli stessi ruoli del personaggio di Bassani: intellettuale, omosessuale, diverso per statuto narrativo (“lui era sempre un uomo diverso” - R p. 190), alieno rispetto al mondo in cui si muove, che sia quello del premio letterario o quello della colonia Vermilyea, bruciatosi nel suo amore per Aelred fino alle estreme conseguenze. Uguale è il percorso narrativo del personaggio, che culmina nel suicidio, ed il suo accostamento a Bauer - cinico ed arrivista - in più punti del romanzo, rispecchia il contrasto della coppia Fadigati-Deliliers. Naturalmente non è che per creare Bruno May Tondelli abbia preso a modello Athos Fadigati: l’antieroe di Bassani è una figura che ha profonde radici nella letteratura novecentesca e il personaggio di Tondelli si riallaccia a tutta una tradizione di maudit che riporta perlomeno al decadentismo, ma il fatto che dovendo parlare degli scrittori legati alla riviera adriatica Tondelli inizi da Bassani, ne lascia ipotizzare la presenza nel suo immaginario artistico pure ai tempi di Rimini. Dopo Bassani, al quale viene dedicato uno spazio notevole, vengono citati Arbasino e Piovene, come autori che hanno parlato della riviera nel suo aspetto di fabbrica del divertimento, esponendo, se pure in embrione, l’idea della riviera adriatica come unica enorme metropoli. Ad Arbasino, qui richiamato per il “frenetico itinerario romagnolo che si conclude, di notte, proprio a Riccione”87, contenuto in Fratelli d’Italia, del 1963, Tondelli deve non poco sotto il profilo stilistico, fin dalle opere precedenti, tanto che pure la scrittura controllata di Rimini lascia a volte spazio ad inserti espressionistici dove l’accumulazione si rivela l’elemento dominante. Di Guido Piovene, del resto facente parte della giuria del Premio Riccione nel 1947, Tondelli nota in questo contesto l’osservazione sulla inconsueta americanizzazione della costa adriatica, presente nel Viaggio in Italia (1957), un concetto

85 Ivi, p. 494. 86 Ivi, p. 495. 87 Ivi, p. 498.

257 più volte espresso nelle interviste legate a Rimini, dove spesso Tondelli ha parlato di “Nashville patriottica” e di trasposizione italiana del mito americano. Un altro scrittore al quale Tondelli rende un omaggio in questa breve disamina è Giorgio Scerbanenco, che - come si è visto - Tondelli riconosce quale suo antesignano nella concezione della riviera adriatica come serbatoio di potenzialità narrative. Da ultimo, si riallaccia alla dualità del carattere emiliano già anticipata in relazione al romanzo di Bassani e spesso presente nella sua riflessione artistica - si pensi alla tematica del ritorno in Viaggio ed ai richiami alla tradizione novecentesca dei Delfini e D’Arzo, che ritornano spesso negli scritti giornalistici di Tondelli - soprattutto sotto forma di recupero delle proprie radici. A questo proposito riprende Alfredo Panzini della Lanterna di Diogene, del 1907, identificando nel suo viaggio in bicicletta un’esemplificazione del discorso che gli sta a cuore, tra osservazioni turistiche e finta morte dell’autore nel finale: E’ un viaggio non solo di ricordi letterari […] ma anche un piccolo viaggio interiore che finisce, come ogni viaggio paradigmatico, con la morte: […] quella della stagione che si avvia ai freddi invernali e quella dell’autore che immagina il proprio corteo funebre […]. E’ come se il suo viaggio […] andasse alla deriva della sensibilità emiliano- romagnola nei due aspetti che abbiamo già individuato: la sensualità dell’esistenza […] e il senso panico della morte e della dissoluzione.88

Sono componenti fondamentali di Rimini che, apparentemente lontano, ritorna così in quella tradizione di rapporto con la propria terra. Il romanzo altalena, infatti, i classici motivi dell’amore e della morte, ai quali alla fin fine sono riconducibili le considerazioni che Tondelli fa in relazione al testo di Panzini. Si ritrova al suo interno una sensualità sfrenata, che si esprime principalmente nelle coppie che si incontrano nelle sue pagine: Marco Bauer e Susy, Bruno e Aelred, Alberto e Milvia, Beatrix e Mario, e altre di minor importanza. L’amore, nello spettro più ampio del termine, è uno dei motori primari del libro, rientrando in qualche maniera in tutte le storie. Ad interessi analoghi si riconducono, infatti, altre coppie potenziali, come Oliviero e Bruno, o Bruno e Bauer, mentre alla base delle vicende stesse del senatore Lughi vi è una figlia illegittima avuta dall’unica donna della sua vita, e pure all’interno della storia di Robby e Tony non mancano momenti legati alla sessualità ed all’erotismo. Sul versante opposto, la morte è un secondo grande motore della narrazione. Ad essa sono infatti riconducibili diversi momenti del romanzo, talvolta in maniera esplicita, come nel caso di Bruno e del senatore Lughi, più spesso in modo simbolico, come nel caso di Alberto dopo la partenza di Milvia: [Alberto] barcollò fino alle tende, in fondo al corridoio che trattenevano la luce del giorno. Si aggrappò e tirò con tutte le sue forze. Il chiarore entrò nel corridoio come un lampo. Strinse gli occhi. Pensò che annegare forse dovesse essere la stessa

88 Ivi, p. 503.

258 cosa: dissolversi rabbiosamente nella luce troppo forte di un nuovo mattino (R p. 255).

E’ estremamente significativo, in riferimento alla simbolicità della ‘morte’ di Alberto, che Tondelli ne dimostri la volontarietà artistica collegandolo alle morti reali del libro: infatti, analogamente al senatore Lughi, per Alberto parla di annegamento e termina periodo e capitolo con lo stesso stilema, “nuovo mattino”, già evidenziato in occasione del suicidio di Bruno. Comune inoltre ai tre momenti testuali, in accordo con il citato “senso panico della morte e della dissoluzione”, una connotazione di tendenza verso l’autodistruzione - una tematica certo non nuova nell’opera tondelliana -, dal momento che per buona parte del libro la morte di Attilio Lughi è identificata come suicidio. Al tema della morte, per quanto in senso più lato, è ricollegabile pure l’attesa dell’Apocalisse finale, che occupa, fin dal titolo, la terza parte del romanzo, il quale si viene così a muovere tra questi due poli, sensualità e dissoluzione, fin dalla scelta spaziale: una “città balneare contesa fra i ritmi vertiginosi della piena stagione e quelli assenti, vuoti, del fuori stagione”.89

III.4.2 Il riutilizzo dei propri materiali.

I contatti evidenziati tra le opere tondelliane mettono Rimini in rapporto con altri tre testi - temporalmente molto vicini -, di differente impostazione, o per il riutilizzo che ne viene fatto all’interno del romanzo, o perché di tematiche ad esso inerenti rappresentano uno svolgimento stilisticamente diverso. Di questi solo uno, nella sua interezza è antecedente a Rimini, che lo riprende quasi puntualmente inserendolo nella storia di Bruno May. Si tratta di L’addio, un racconto del 1984, che narra la separazione tra due giovani, Fredo e Aelred, a Londra, in una fredda serata invernale. E’ il primo nucleo delle vicende di Bruno, che compaiono in Rimini con la medesima caratterizzazione stilistica - narrazione in terza persona e presenza di brevi dialoghi - e con ampi stralci inseriti parola per parola. La variazione che viene introdotta concerne sostanzialmente l’eliminazione di tutti quegli elementi, come la descrizione degli ambienti o i rinvii al passato della relazione tra i due personaggi, che nel romanzo avevano già trovato posto altrove, dal momento che la storia viene sviluppata in una veste più organica. Diventa così interessante un’analisi degli elementi che nei due testi divergono.

89 Ivi, p. 495.

259 Una prima differenza, immediatamente percepibile, è il cambiamento del nome di uno dei due giovani, visto che l’originale Fredo si muta in Bruno, senza che peraltro vari la caratterizzazione del personaggio. Col nome di Bruno, in seguito, dopo Rimini, Tondelli si riferirà a quella figura, il cui ritorno in altre opere sarà piuttosto significativo. Più importante la variazione che subisce l’altro personaggio, Aelred, che in Rimini, nonostante l’ampio spazio ricevuto, è nettamente vincolato ad un ruolo subalterno: egli, infatti, non ha nel romanzo vita autonoma ed esiste solo in funzione della storia di Bruno, sul quale è sempre centrata la focalizzazione, a differenza di quanto accadeva nel racconto dove i ruoli erano più equilibrati. Succede di fatto che in Rimini il personaggio può subire un’evoluzione nel corso della storia, mentre lo spazio breve del racconto non consente variazioni del carattere, che, vincolato ad una ben determinata situazione - la separazione - non assume il ruolo negativo di cui il romanzo viceversa lo investe. Questo è immediatamente percepibile nel momento in cui un’analisi del personaggio Aelred in Rimini, limitata però al contesto del racconto, non rivela differenze apprezzabili tra le due figure. Ciò consente di affermare che le priorità dell’attenzione tondelliana divergono nei due testi: limitate al tema della separazione nel racconto, si rivolgono nel romanzo al percorso complessivo del personaggio, incontrando lungo questo differenti momenti tematici.90 Un’ultima importante variazione riguarda il piano contenutistico e in particolare le motivazioni dell’addio di Aelred a Bruno. Se infatti Tondelli inserisce in entrambi i casi una ‘rivale’ sulla strada di Bruno, ben diversa è l’identificazione che ne fa: ne L’addio si trattava dell’eroina, secondo una scelta che si ricollegava al mondo di Altri libertini, orientando il testo verso la tematica dell’autodistruzione. Formalmente si registra però una convergenza, dal momento che la droga diventa nel racconto una presenza tangibile che Fredo identifica come una concreta ‘rivale’: “Stai tornando da lei, e niente potrà nulla. Lasci me per gettarti da lei, non è così?”91 In Rimini Tondelli elimina la droga come alternativa a Fredo/Bruno ed inserisce al suo posto una figura femminile: Bruno si accorse della grana che stava scoppiando. Disse: “Che c’è Aelred?” con il tono di voce più calmo e pacato che conoscesse. Ma non era tranquillo. Era come il mare in una notte di bonaccia: buio e calmo. Ma non tranquillo. Aelred scostò il ciuffo di capelli, sollevò lo sguardo e parlò. […] “C’è una donna,” disse infine. […] “Perché vuoi andare da lei?”

90 Il tema della separazione assumerà notevole importanza nella successiva produzione tondelliana, nella quale identificherà una ricerca da lui definita “Fenomenologia dell’abbandono”, dal titolo di una conferenza tenuta nel 1984 al Teatro di Rifredi a Firenze, della quale il racconto in esame costituisce la prima parte. In seguito Tondelli lo inserirà nel volume L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., pp. 117-122, modificandone il titolo in Attraversamento dell’addio. E’ al volume suddetto che si rinvierà nelle citazioni. 91 P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., p. 121.

260 “Devo provare. Ho avuto molte altre donne...” (R pp. 202-203).92

In seguito, quasi a rinforzare la trama, ritorna la presenza di una donna come alternativa a Bruno: Bruno […] entrò in casa. […] La ragazza stava seduta in poltrona. Era alta, magrissima e con una grande cresta di capelli rossi. […] La ragazza si trattenne una settimana e fu l’inferno. Molte volte Bruno fu sul punto di cedere a quel gesto. Aelred passava dalle sue braccia a quelle della ragazza (R p. 205).

Tondelli cerca di fornire una certa concretezza al personaggio femminile, anche attraverso una sommaria descrizione fisica, ma è evidente che il suo ruolo è solo quello di evidenziare il rapporto tra Bruno e Aelred, allo stesso modo di quanto era accaduto in occasione dello scontro con Susy, preliminare di un colloquio tra Bruno e Bauer significativo sul piano della caratterizzazione del personaggio. Non a caso, nel corso di quel colloquio, Tondelli inserisce, con una leggera variazione, un frammento del dialogo tra Fredo e Aelred, che risulta oltremodo chiarificatore di parole che Bauer confessa di non capire: “E’ come se tutto fosse troppo piccolo per me. Non c’è più niente che colpisca il mio sguardo. Niente che possa giustificare la pena di quel mio stesso sguardo. Sento solo questo desiderio di gridare, sento la rabbia di essere prigioniero di qualcosa che è dentro di me. E’ una zona d’ombra che si allarga come un cancro. Sono costretto a lottare ogni ora del giorno e della notte per contenerla. Ma non ce la faccio. Succederà... E di punto in bianco tutto sarà diverso.” […] “Ho solo paura che sia troppo presto,” disse infine, quasi supplicando. […] Non avevo capito una sola parola di quel che aveva detto (R p. 190).

E’ Fredo dunque a fornire i necessari chiarimenti: “Non lo aspettavo così presto. Ecco, solo non lo aspettavo così presto, che vuoi che dica?” […] “Probabilmente è come quando arriva la morte per un giovane. […] Dici: ‘Lo sapevo che devo morire; credevo solamente che fosse un po’ più tardi.’ Ecco, non così presto, troppo presto... Ma in fondo è sempre troppo presto, per tutti.”93

La sostituzione di Aelred con Bauer rivela inoltre, una volta di più, la focalizzazione su Bruno e la differente presenza narrativa di Aelred, che passa da coprotagonista a comprimario di una storia che nel romanzo può assumere una maggior complessità ed

92 Una spia del ruolo narrativo della ‘rivale’, la cui reale identificazione diventa secondaria in entrambi i testi - per quanto l’eroina consenta implicazioni maggiori alla luce della precedente produzione tondelliana e fornisca una più intensa drammaticità alla scena -, è l’uso delle medesime parole ad introdurre e connotare il dialogo tra i personaggi: “”Avanti, dimmi che c’è,” esordì allora Fredo. Voleva che la guerra scoppiasse il più in fretta possibile. […] Era molto calmo, ma non tranquillo. Era come il mare in una notte di bonaccia, buio e calmo. Ma non tranquillo. […] Aelred scostò il ciuffo di capelli e alzò lo sguardo verso l’amico”. Ivi, p. 119. 93 Ibidem.

261 usufruire della presenza di un numero elevato di personaggi che ruotano attorno all’unico protagonista, Bruno. E’ perciò inevitabile che tocchi a Bauer, cronista finale delle vicende di Bruno persino dopo la morte - descrizione dei funerali, reazioni della stampa e conseguenze sullo svolgimento del premio letterario -, ascoltare i, per quanto confusi, propositi suicidi di Bruno. Bruno è l’unico personaggio di Rimini che in qualche maniera ritorna nella produzione successiva, la qual cosa assume un valore particolare in considerazione della posizione specifica di Rimini come spartiacque tra le prime opere e la virata verso una scrittura più intimista che raggiungerà piena espressione in Camere separate. Significativa la sua presenza in Biglietti agli amici, il libro che Tondelli pubblicò nel 1986 in pochi esemplari per la Baskerville di Bologna, all’esordio nel mondo editoriale. E’ la sua opera più personale, il lato lirico della sua produzione, e il personaggio Bruno May vi compare tre volte nello spazio delle ventiquattro brevi prose che la compongono, diventando quasi un alter ego dell’autore.94 Diventa così plausibile individuare nella storia di Bruno la parte di Rimini a lui più vicina, la figura nella quale - al di fuori di suggestioni autobiografiche - Tondelli ha inserito più motivi personali. La prima comparsa di Bruno in Biglietti agli amici si ricollega alla tematica della “fenomenologia dell’abbandono”, che non a caso L’addio aveva inaugurato, e comincia ad instaurare un collegamento tra autore e personaggio: Il dolore dell’abbandono […] dà luogo ad una catena infinita di sofferenze che si infilano l’una nell’altra fino al grande e primordiale dolore della venuta al mondo. […] Una deflagrazione mortale in cui ci si può perdere. Per questo a Berlino, Lui scriveva: “Bruno così si accorse che non era della mancanza di Aelred che soffriva, né della sua terra o del suo lavoro. Gli era mancato semplicemente un ragazzo a nome Bruno”.95

Significativa la scelta del frammento di Rimini che espone alcuni tra i temi più ‘personali’ della narrativa tondelliana, come il rapporto con la propria terra e quello con la scrittura, sul quale bisognerà tornare, oltre naturalmente al motivo dell’abbandono. Ad ogni modo, una volta inserito il personaggio nel testo, Tondelli comincia a sviluppare il proprio

94 In realtà non solo Bruno, ma anche Aelred compare in Biglietti agli amici, ma, alla luce della focalizzazione di Rimini su Bruno e del ruolo narrativo di Aelred, il fatto non modifica le considerazioni che verranno fatte: è significativo che a tornare, e con assiduità, sia questa e non altre storie del romanzo. Vi compare inoltre un accenno al progetto originario di Rimini, più che altro per puntualizzare il cambiamento di prospettiva della propria scrittura: “Il 2 luglio 1979 Lui ha scritto queste osservazioni su una pagina del Diario. Ha impiegato sei anni per disfarsi di queste ossessioni. Oggi, tutto ciò non lo interessa più. Quello che invece vorrebbe scrivere è un distillato di “posizioni sentimentali”: tre personaggi che si amano senza possedersi, che si appartengono e si “riguardano” vicendevolmente senza appropriarsi l’uno degli altri. E sullo sfondo tre grandi città europee...”. P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 27. 95 Ivi, p. 51.

262 rapporto con lui, anteponendovi oltretutto la medesima citazione da Chesterton che compariva in Rimini in un colloquio tra Bruno e Padre Anselme (cfr. R p. 223): Nei primi giorni in cui è a Londra subito corre a vedere dove Bruno aveva abitato. Un giorno vede Cranley Gardens e non osa percorrere interamente la via. […] Pensa: ”E’ stato un suggerimento abbastanza giusto ambientare qui l’incontro d’amore, la prima notte, fra Aelred e Bruno.” Poi […] imbocca Cranley Gardens dalla parte della Fulham Road. […] Da questa parte della via un campanile sovrasta le case. Allora ha la certezza: Bruno non poteva vivere che qui. Ancora una volta immagina stringere gli occhi in un sorriso il suo vecchio amico.96

Ecco quindi che il ritorno del personaggio, nella nuova veste di “vecchio amico”, carica di un senso più personale le tematiche che ad esso venivano demandate, come la problematica religiosa nel passo che riprendeva Chesterton e che precedeva in Rimini la confessione lungo le vie di Roma con protagonisti Padre Anselme e Bruno. L’autoesegesi che Tondelli fa in Biglietti agli amici consente quindi una prospettiva di lettura dell’opera che il solo Rimini non avrebbe autorizzato con la stessa sicurezza. La parabola del ritorno di Bruno si conclude con l’autoriduzione dell’autore a personaggio, in una dimensione che chiarisce ulteriormente i confini tutti letterari di ogni eventuale interpretazione autobiografica dell’attività romanzesca, dove i riferimenti all’autore vanno interpretati come riflessione tematica e non certo come illustrazione della propria storia personale: Il fantasma della sua terza persona lo ha accompagnato ogni giorno. C’erano momenti, nel suo vagabondare per la città illuminata da un’inedita lucentezza autunnale, in cui sentiva tangibilmente la mano di Bruno posarsi, protettiva, sulle sue spalle. In questi momenti sentiva soggezione rispetto al mito di sé che aveva giocato. Si sentiva piccolo, mentre l’altro diventava epico... Così anche Aelred gli è venuto incontro a Bloomsbury vestito con un pullover grigio, le gambe un po’ curve, un ciuffo biondo di capelli sulla fronte spigolosa e un pungente sguardo verde- azzurro...97

Ma Biglietti agli amici non è l’unico testo in cui Bruno ritorna, anche se è il solo nel quale lo fa in maniera esplicita. Nel 1987, infatti, Tondelli riprende una tematica che aveva trovato espressione nella figura di Bruno e - pur all’interno di una forma che decide di chiamare ‘racconto’ - ne sviluppa in maniera più organica e con uno stile più saggistico, il percorso di scrittore in crisi che aveva descritto in Rimini. In Frammenti dell’autore inattivo svolge così un’analisi dell’incapacità di scrivere che riprende passo passo gli analoghi momenti incontrati qua e là nella vicenda di Bruno, arricchendone la figura con

96 Ivi, p. 61. Non si deve dimenticare che il colloquio con il personaggio è anche colloquio con il sé che lo ha immaginato, che non è mai - alla luce di quanto affermato da Tondelli sia in Rimini (cfr. p. 211) che in Frammenti dell’autore inattivo - il sé del nuovo presente della scrittura. A maggior ragione quindi dietro la figura di Bruno si intravede una ricerca interiore che arricchisce di senso la figura del personaggio e - retrospettivamente - gli dà un nuovo diverso valore. 97 Ivi, p. 105.

263 problematiche estremamente personali, attraverso una citazione dai Biglietti agli amici che si pone come un segnale di continuità. Il “biglietto” in questione è quello dedicato a François Wahl ed il concetto che Tondelli riporta è quello di “scrittura [come] strumento […] per mangiare e guardare la realtà”98. Il fatto che dopo l’autocitazione Tondelli introduca l’argomento del suo scritto nei termini di interesse verso il momento di inattività di uno scrittore, acquista un interesse particolare se messo in relazione con la prosa che in Biglietti agli amici precedeva quella citata, e che non a caso era dedicata ad Aldo Tagliaferri, una delle due persone, insieme a Wahl appunto, che Tondelli afferma di ritenere veramente interessati al suo ruolo di scrittore. Scrive Tondelli con un inevitabile rimando al Bruno di Rimini: Va a Londra […] perché deve ritrovare la sua terza persona, un fantasma che deve incontrare per continuare a scrivere. Va a Londra per incontrarsi con il suo libro.99

Ad aumentare l’identificazione nel personaggio, la riflessione di Frammenti dell’autore inattivo sceglie un percorso che espone dei riferimenti a Rimini estremamente espliciti. La connotazione di Bruno come autore in crisi veniva analizzata in cinque momenti testuali di Rimini: dal primo incontro di Bruno con Oliviero, occasione per affermare la sua estraneità rispetto all’autore dei romanzi precedenti, si passava ad una incapacità di scrivere che finiva per rendere la scrittura un vero e proprio “incubo” (R p. 214); in seguito l’analisi di Bruno sulle reali motivazioni della sua impasse - “avrebbe scritto di Aelred, questo era certo, ma così facendo lo avrebbe cacciato definitivamente dalla sua vita. Non voleva considerare quell’amore talmente finito da poter essere imprigionato in una descrizione” (R p. 221) -, precede il superamento decisivo che porta al “momento giusto” (R p. 227). Analoghe le tappe dello scritto posteriore che, dopo una introduzione nella quale espone l’argomento del saggio, presenta la stessa analisi sull’identità dello scrittore: Ogni volta che entra nello studio […] gli occhi corrono veloci ai libri che ha scritto - ma quando li ha scritti? Chi li ha scritti? Non certo lui. Non quella persona che ora li sta osservando.100

Il seguito dell’analisi riprende la ricerca delle cause dell’inattività e come in Rimini porta ad una sorta di presa di coscienza che conduce ad una affermazione quasi tautologica: Allo scrittore inattivo manca quell’unica forma al mondo che lo toglierebbe dall’infelicità e per la quale si sta dannando: quella del suo prossimo lavoro.101

98 Ivi, p. 15. 99 Ivi, p. 11. Alla fine del medesimo “biglietto” compare il riferimento a Tagliaferri e Wahl: “E a nessuno cui importasse realmente la sua scrittura, a parte i soliti due, Aldo e François”. 100 P.V. Tondelli, Frammenti dell’autore inattivo, in O. Cecchi-M. Spinella (a cura di), Diciannove racconti per “Rinascita”, allegato a “Rinascita”, n.50, 26 dicembre 1987, ora anche in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., pp. 40-44. 101 Ivi, p. 43.

264 Non a caso la citazione di Bichsel con la quale Tondelli chiude il suo ‘racconto’ sembra essa pure ripercorrere il percorso di Bruno, scrittore che ha veramente voluto raggiungere - e superare - i propri limiti: Forse si è scritto tanto a lungo sul corpo che non c’è più posto per qualcosa di nuovo, forse ha le spalle così cariche da non riuscire a portare più nient’altro. In questo senso, scrivere è anche una questione di limiti: la questione di quanto un autore sopporti e sia disposto a portare.102

III.5 La continuità tematica.

III.5.1 La riflessione religiosa.

Bruno è anche il personaggio che maggiormente viene investito di una tematica che proprio in Rimini fa la sua comparsa all’interno dell’opera tondelliana, e cioè la riflessione mistico-religiosa. Certo, a ben vedere, si possono rinvenire già in Altri libertini suggestioni e accenni di questo tipo, ma Rimini è il primo romanzo nel quale essi si concretizzano in una presenza precisa, ricca di momenti testuali. In questo senso si tratta di un’anticipazione rispetto a Camere separate, in cui diventa una tematica di ampio respiro, collegata alla riflessione sulla morte, anticipazione che significativamente percorre la stessa direzione espressiva che Tondelli individuerà nel suo ultimo romanzo: Non sto cercando né una ideologia, né una religione importante. Voglio riflettere su ciò che il Cristianesimo ha dato all’uomo, alla civiltà, alla cultura […]. E’ un bisogno che poi si tramuta, come avviene in Camere separate, nell’accettare il sacro nell’uomo, nell’umanità, nella sofferenza, nel dolore, nelle persone che si amano e poi muoiono.103

Il legame amoroso è il veicolo attraverso il quale viene assicurato spazio testuale alla tematica religiosa e la ricerca del sacro nell’uomo si mescola alla sensualità sfrenata che contraddistingue l’ambiente narrativo: Valore religioso hanno poi gli incontri carnali tra i protagonisti, sola esperienza di significato trascendente e universale concessa loro, in cui è superata la violenta meccanica individualistica che contrappone personaggio a personaggio.104

102 P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, cit., p. 44. La citazione tondelliana proviene da P. Bichsel, Il lettore, il narrare, Reggio Emilia, Aelia Laelia, 1985, p. 85. 103 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 79-80. 104 R. Ceserani-L. De Federiciis, op. cit., p. 85. Si deve inoltre considerare che, anche quando è slegata da ogni riflessione religiosa, la figura del partner si presenta all’individuo come artefice unico del suo processo di salvazione, come succede per esempio a Robby: “Si sentiva esausto, deluso, preso in giro dal destino. In momenti come questi, in cui tutto girava a rovescio o non girava per nulla, pensava a una sola cosa: eliminarsi. E nello stesso momento in cui questa idea gli sfiorava il cervello subito

265 I momenti d’amore tra i personaggi - Bauer e Susy, Alberto e Milvia, Bruno e Aelred - vengono così caricati di un significato quasi universale che, facendoli uscire dalla loro episodicità, ne determina un’elevazione a modello assoluto: i personaggi non valgono più per quello che sono, ma per ciò che rappresentano in quel momento. Il procedimento diventa esplicito nel caso di Alberto e Milvia, sovrapponendo un valore imprevedibile a quella che in fondo è solo una comune avventura estiva tra un musicista e una donna sposata: I due amanti procedevano nei loro abbracci costruendosi reciprocamente una sorta di loro personalissima leggenda. E così facendo entravano nel mito: Alberto non era solo un uomo, ma tutti gli uomini di questa terra; e lei, Milvia, tutta la dolcezza recettiva e femminea di questo mondo (R pp. 162-163).

Persino nel caso di Bauer e Silvia, dove non c’è nulla di mistico, il congiungimento sessuale viene descritto nei termini, quasi dottrinali, di “completamento” (R P. 247) e di raggiungimento del “centro segreto di ogni uomo” (R p. 112), in un contesto di isolamento dal mondo che ricorda l’esperienza del mistico: Tutto poi, lentamente, si acquetò e si calmò decelerando […]. Intorno tutto taceva e c’era pace. Era buio, era caldo. C’era odore di terra. Poco dopo, […] mi accorsi che la pompa meccanica non aveva mai smesso di funzionare. Nemmeno per un istante (R p. 112).

Ma è con Bruno e Aelred che il percorso verso l’individuazione della persona amata come tramite verso il divino e sua concretizzazione, raggiunge l’espressione definitiva. Così il solo compiuto amore omosessuale del libro viene connotato da un alone di religiosità e Bruno, il personaggio più tormentato del romanzo, più incarna la ricerca di assoluto e di ultraterreno.105 Nel loro amore, l’assolutizzazione dei personaggi acquista un carattere espressamente orientato in direzione del divino, prima attraverso una maggiore insistenza sull’universalizzazione della loro esperienza:

un’altra, per associazione, gli veniva in mente. Il viso di Silvia, il suo corpo. La donna che amava, la donna da cui, soprattutto, si sentiva enormemente amato. La donna per cui continuava a vivere e che, in momenti come quello, lo legava alla realtà” (R p. 157). 105 Tale caratterizzazione del rapporto tra Bruno e Aelred è anche una maniera di evidenziarlo ulteriormente nella complessa trama di Rimini. Scrive Del Buono: “Rimini è un ossimoro. Ribolle di amore eterosessuale. Ma l’unico amore vero, irresistibile è quello omosessuale che avvince Bruno May e Aelred (e, di riflesso, Oliviero Welebansky). La compiutezza di questo amore è vissuta come condanna senza possibilità di scampo”. O. Del Buono, Luci al neon, in “Panta”, 1992, n. 9, p. 56. Nonostante l’amarezza del finale, che proprio per questo acquista un carattere ancora più sintomatico, la storia di Bruno e Aelred è sicuramente il momento più alto e intenso del romanzo, dal momento che in essa Tondelli riesce ad evitare le pastoie del lieto fine e del richiamo scoperto all’innocenza (cfr. Claudia e Fiabilandia), che viceversa suonano come una nota un po’ stonata nelle storie di Beatrix e dei due registi. La storia di Bruno conferma anzi in pieno quel carattere di romanzo degli sconfitti che Tondelli aveva individuato come connotazione fondamentale di Rimini.

266 Tutto si fuse come una corda che vibra e il cui suono si riverbera nella cassa armonica del mondo. Il loro movimento divenne il gesto dei loro nervi, i loro sospiri il canto dell’universo. Quando finalmente Bruno entrò nel corpo di Aelred, qualcosa tra loro esplose e li scagliò insieme in un’avventura che solamente loro, in quel momento e in quell’ora, potevano vivere in nome dell’umanità (R p. 199);106

poi concludendo il loro primo incontro con un inconfondibile richiamo religioso: Bruno si abbandonò sul letto e ringraziò Dio per avergli fatto conoscere, attraverso il corpo di Aelred, la preghiera nascosta e universale delle sue creature (R p. 200).

D’altronde, sono considerazioni cui Bruno torna anche non in strettissima relazione con la presenza di Aelred - per quanto in qualche maniera a lui sempre legate -, dal momento che una spinta verso il misticismo contraddistingue la sua riflessione. Ne è prova il collegamento che fa, nello studio di Anselme, tra il ricordo di un film sui monaci tibetani, quella di un gruppo di donne in preghiera in una chiesa e i momenti con Aelred: Scelse un saggio in lingua inglese sui mistici medievali della cristianità scritto da un Lama Tibetano. […] Una volta, a Londra […] aveva visto un film: […] una decina di monaci riuniti attorno al Lama pregavano recitando le autogenerazioni delle divinità, cantandone le sillabe originarie, i mantra, […] alternando […] la musica alla preghiera. […] Bruno si trovò coinvolto dal sonoro. […] Un rotolio di vibrazioni sonore che si accavallavano, scivolavano, si deglutivano una nell’altra. Un suono straordinario e non umano […], una eco bronzea che i monaci cullavano dondolandosi sulle gambe incrociate. Una sola volta gli capitò poi di sentire qualcosa di simile. A Roma. In una basilica. […] Un gruppo di donne anziane recitavano velocemente un rosario sedute su sedie di paglia. Non c’era nessun prete a guidarle. Si alternavano nella recita delle preghiere accordando il loro brusio a quello più forte di chi in quel momento dava l’inizio. […] Era la stessa identica musica che usciva dalla labbra chiuse dei monaci. La stessa musica che aveva scoperto facendo l’amore con Aelred (R pp. 224-225).107

E’ importante chiarire la natura della spiritualità di Bruno, che rifugge da ogni forma istituzionalizzata, e non a caso viene esemplificata dal canto corale e privo di guida dei monaci o dal rosario recitato dalle vecchie senza bisogno della presenza del prete, la cui assenza viene del resto esplicitata nel testo. D’altronde, Tondelli aveva chiarito il concetto poco prima nel corso del colloquio tra Bruno e Padre Anselme, identificando in Bruno,

106 L’universalizzazione dell’esperienza di Bruno e Aelred è confermata dai primi dubbi di Aelred che, a differenza di Bruno, vaga tra amori omo ed eterosessuali: “”Qualcosa” veniva a turbarlo, come una immagine cacciata lontano che prepotentemente tornava a farsi viva ai suoi occhi. Ed era sempre l’immagine di una donna, il sospiro di una donna, la voce strozzata dell’orgasmo di una donna. Non di una particolare donna, ma dell’essenza stessa della femminilità” (R p. 201). 107 La narrazione di un episodio analogo ritorna in Un weekend postmoderno, dove Tondelli dà maggiori informazioni sul film che Bruno ricorda - specificato come Tibet: a Buddhist Trilogy di Graham Coleman - ampliando il breve resoconto presente in Rimini. Il brano originario è un articolo di qualche anno prima, Londra con il mal d’Oriente, “Il Resto del Carlino”, 17 marzo 1982. Anche in questo caso, dunque, si tratta di un riutilizzo di propri precedenti materiali.

267 tramite le parole dell’amico prete, un prototipo di figura tesa verso un certo misticismo ma restia ad ogni cieca adesione ad un credo: Sei uno sradicato come me. Non abbiamo casa, ma ne abbiamo tantissime. Non abbiamo soldi, ma viviamo nel lusso, non pensiamo al domani, ma siamo continuamente in progresso e alla ricerca di qualcosa. Per questo il cattolicesimo ci va stretto da un certo punto di vista. Perché è fatto di oratori, di stanze chiuse, di paura del mondo. Noi invece abbiamo bisogno di aria e di girare. Amiamo quello che può darci il mondo. Non credo sia in sé un fatto negativo. Quello che fa di noi degli apolidi è l’inquietudine di amare Dio (R pp. 223-224).

Ecco che così per Bruno la ricerca - tema essenziale del romanzo intero - assume una veste particolare, fino ad essere interpretata come bisogno di assoluto (“Ho sempre cercato ‘tutto’ nella vita: la verità e l’assoluto” - R p. 204), che si esplicita però nel rapporto con l’altro, non a caso deificato in più punti del testo: “Perché tu sei il mio Dio, Aelred di cosa dovrei perdonarti?” (R p. 204); “Piangeva e balbettava […] le sillabe del sacro nome di Aelred” (R p. 205). La presenza del divino nella scrittura tondelliana non è sfuggita alla critica di matrice cattolica, che anzi, proprio facendo riferimento a Bruno, ha definito Tondelli “interprete di una dialettica tra la libertà individuale fino alle pastoie dell’arbitrio e un desiderio dell’assoluto”108, con un passaggio forse un po’ troppo ardito dal personaggio - anzi, dalla sua definizione da parte di Anselme - all’autore: Cerchi Dio e non ti accontenti di averlo trovato. Vorresti una vita diversa, vorresti fermarti a riposare in Dio, ma non lo farai perché niente ti basterebbe mai. […] Cercherai Dio per tutta la vita e questo basterà a salvarti. Non smettere di cercare, ma sappi che, ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua grazia (R p. 224).

Ad ogni modo è un bisogno di assoluto sempre fortemente legato al rapporto con gli altri, dal quale il personaggio non è in grado di prescindere: “Mi sembra di impazzire tra queste galline e questi conigli. Non sono fatto per vivere lontano dalla gente” (R p. 213). Tondelli costruisce la ‘religiosità’ di Bruno anche a livello ambientale, per esempio facendolo sorprendentemente comparire a Badia Tedalda, in occasione della visita di Bauer a Padre Michele, un altro religioso che conosce lo scrittore. Del resto Tondelli gioca con questo motivo anche a livello semantico, definendo Oliviero, altro amico di Bruno, “sacerdote” della colonia di Vermilyea (R p. 209), accostandolo poi, non a caso, a Padre Anselme nell’unicità dell’amicizia con Bruno: “Ho un solo altro amico insieme a te. […] Si chiama Anselme. E’ un prete” (R p. 219). In ogni caso, Bruno non è l’unico portavoce, nel romanzo, di un’esigenza di spiritualità in perenne contrasto col reale. Anche il personaggio Attilio Lughi, infatti, viene costruito sul

108 A. Spadaro, Emozione e coinvolgimento nella scrittura di P. V. Tondelli: il rapporto narratore- lettore, in "Horizonte", 1997, n.2, pp. 159-165.

268 rapporto tra concreta attività politica e vocazione monastica, che trova la sua esplicita definizione nel ricordo dell’amico e compagno di partito Padre Michele: “Credo abbia rimpianto per tutta la vita la scelta religiosa. […] In lui c’era continuamente questa sofferenza, come di un assoluto non risolvibile” (R p. 140). Del resto non è il personaggio l’unico veicolo di tematiche in qualche maniera connesse con la religiosità, nel senso più lato del termine. Compaiono infatti in Rimini evidenti metafore che riportano a questo motivo, a partire dall’intera terza parte del romanzo, significativamente designata come Apocalisse.109 L’aspetto sul quale il testo sembra ritornare con maggiore interesse è la purificazione. Nella storia di Bruno si esplicita nella sua confessione, che prelude allo sblocco della sua incapacità di scrivere, ma che si presta anche a letture differenti perché la benedizione ricevuta da Padre Anselme diventa - nell’intreccio del romanzo - uno degli ultimi avvenimenti legati a Bruno, che morirà poco più avanti, caricando così di un secondo significato la concessione del sacramento. La purificazione è anche il soggetto di una lunga interessante metafora che carica un violento temporale di sovrasignificati assimilandolo al diluvio e alla successiva rinascita. L’associazione è pienamente comprensibile solo sul finale del segmento testuale, ma Tondelli fornisce anche altrove elementi che inviano verso questa direzione. In apertura, infatti, la momentanea pausa dopo l’acquazzone del mattino si condensa nella descrizione del cielo e dei “raggi di sole che filtravano dalle nuvole come in una raffigurazione religiosa” (R p. 101). Viceversa, la ripresa del temporale introduce il motivo del diluvio attraverso la similitudine tra l’auto di Bauer e una barca, che in questo contesto può facilmente ricordare l’arca: Verso le quindici il cielo si coprì di nuovo nella sua interezza fino ad abbassarsi coprendo i tetti delle case. E ora, pochi minuti prima delle sette, eravamo già al buio. E annegati di pioggia. La Rover procedeva sull’asfalto lucido della provinciale come una grande e lenta barca (R p. 101).

E’ interessante notare che lo svolgimento della metafora tocca molti dei protagonisti della storia, spesso in un momento importante delle loro vicende, che illumina nella loro forza simbolica. Per Marco la notte del temporale è anche la prima notte con Susy, per Beatrix coincide con il suo arrivo a Rimini, destinato a concludere positivamente la sua ricerca e presago perciò di una ‘rinascita’; per Alberto, il personaggio che nella metafora

109 Questo motivo riporta alla negatività di fondo alla quale si è precedentemente accennato come connotazione fondamentale del romanzo. A questo proposito, Niva Lorenzini mette in evidenza “la precisa consapevolezza, protetta stilisticamente dal distacco dell’ironia, che il diluvio - o di lì a poco l’apocalisse - non consentono palingenesi né concludono nulla: poiché non c’è fine per il già finito, e le nuove catastrofi finiscono per riciclarsi nel rauco e quotidiano presente. Senza trombe squillanti del giudizio a riscattarlo, né attese salvifiche, visto che nulla può succedere ancora: sull’arca non si sale, col “peggio” già ben radicato giù in fondo, nell’intimo”. N. Lorenzini, Una sincopata apocalisse, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 57-64.

269 ricopre il ruolo più importante, la rinascita porta alla consapevolezza di essere atteso al suo quotidiano rientro in pensione, ancora quindi nella prospettiva del rapporto con gli altri. Il percorso di Alberto, evidenziato anche stilisticamente come un crescendo musicale, si chiarisce come una sequenza di purificazione che si chiude nell’ultima significativa parola, “diluvio”: Alberto […] si diresse verso l’uscita. […] Aveva smesso di piovere. […] imbracciò il sax. Raggiunse il lungomare. Si sedette sul muricciolo e cominciò a suonare. Attaccò con una libera esecuzione del ritornello dell’Hit della stagione […] finché non si accorse di stare eseguendo una musica completamente nuova e diversa, una musica sua che non aveva mai sentito prima ma che in quel momento seppe di avere sempre conosciuto. […] Il mare si riversava sulla costa sabbiosa con grandi onde color della terra bruciata. […] Alberto suonò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, muovendosi sulle gambe e abbassandosi fino a chinarsi quasi e toccare l’acqua del mare. Il ritmo lo aveva ormai preso, non conosceva più la stanchezza e il tedio e il dolore di quella alba bagnata e fredda, di quel momento umido che gli aveva intorpidito il sangue e da cui solo suonando si sarebbe purificato. Suonò con foga, passione, con rabbia, con amore e il suo canto rauco si aprì attorno a lui e dai suoi polmoni, dal suo cuore, dal suo vecchio sax si allargò alla spiaggia […], raggiunse il molo del porto […]; raggiunse i viali alberati […]. Andò sui volti tirati dei camerieri e delle ragazze di servizio […], raggiunse finalmente quella porta, di fronte alla sua stanza, in cui - ormai lo sapeva - stava sognando una donna […] che ogni notte lo attendeva. E il suono del suo sax, la sua musica, fu come il rauco grido di dolore delle cose e degli uomini colti in quel momento bagnato, all’alba, dopo il diluvio (R p. 113-114).

Assai significativo il fatto che interprete della ‘rinascita’ è il sax di Alberto, e quindi per suo tramite, la musica, costantemente presente nella struttura e nello stile di Rimini. Il sax è il vero protagonista dell’episodio, lo strumento della progressione testuale, il mezzo attraverso il quale Alberto realizza la propria purificazione. Tondelli stesso ha parlato in riferimento a questo brano di “suono che […] arriva all’assoluto”110, sintetizzando così il crescendo con cui la musica che esce dal sax di Alberto si espande a tutto ciò che lo circonda, inglobandolo e diventando poi tutt’uno con esso, in un procedimento evidenziato stilisticamente dal ritorno dello stesso aggettivo, “rauco”, a segnalare la funzione di cornice del suono dello strumento: “il suo canto rauco si aprì accanto a lui”/”il suono del suo sax […] fu come il rauco grido di dolore delle cose”. E’ la stessa attenzione verso il sonoro che contraddistingue la riflessione religiosa di Bruno di fronte alle preghiere dei monaci tibetani o alle vecchie che recitano il rosario; è la stessa attenzione che contraddistingue i momenti d’amore con Aelred. La metafora ruota poi attorno all’elemento acqua, con tutto il simbolismo che ne può derivare, e culmina nella vicinanza di Alberto all’acqua del mare giusto un momento prima della sua purificazione, un accostamento che non cela il suo

110 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 55.

270 valore sacramentale. Del resto, proprio alla fine, Tondelli orienta la metafora in termini cristiani, rendendo esplicita l’identificazione temporale/diluvio che fornisce all’episodio un senso definitivo.

III.5.2 L’istituzione letteraria.

Se la riflessione mistico-religiosa sembra entrare con Rimini nell’opera tondelliana, non vengono meno le altre tematiche, segnalate in precedenza. Come si è avuto modo di vedere, ritornano, a volte solo accennati, motivi importanti come la situazione giovanile o la ricerca di sé, mentre altri assumono nella struttura del romanzo un’importanza fondamentale: si pensi al motivo dell’autodistruzione che consente di articolare le vicende di Bauer in rapporto a Bruno e al caso Lughi. In quest’ultimo caso, le variazioni riguardano soprattutto il campo di applicazione del tema, consentendo l’esplorazione di contesti e personaggi estranei al mondo giovanilistico delle opere precedenti - vedi il senatore Lughi -, tanto che anche personaggi relativamente giovani come lo stesso Bauer, appartengono senza ombra di dubbio al mondo adulto. I motivi poi del viaggio e del ritorno, fondamentali nell’esordio tondelliano, ricompaiono strettamente legati nelle storie di Rimini, che, nonostante un contenitore narrativo con una forte connotazione geografica fin dal titolo, non rinuncia alla dilatazione spaziale evidenziata già in Altri libertini. Compaiono così nel romanzo grandi città europee come Berlino e Londra, nelle quali si svolge parte importante dell’azione, o altre città italiane come Milano, Firenze, Roma e Palermo. Lo spostamento dei personaggi assume spesso la forma di un movimento di andata e ritorno, come capita a Bauer sulla direttrice Milano-Rimini o a Beatrix tra Berlino e l’Italia, mentre Bruno, che dei personaggi di Rimini è quello più in movimento, infila una folta sequenza di località: la riviera adriatica, Badia Tedalda, Londra, Roma, Firenze, il Portogallo.111 D’altronde, anche attraverso i personaggi messi in scena, Rimini sembra rivelare una forte esigenza di cosmopolitismo: quando infatti essi non sono stranieri, come Beatrix, Claudia, Aelred, Oliviero, per elencare solo i più importanti, o subiscono un processo di ‘internazionalizzazione’, perlomeno a livello formale,

111 In Bruno il motivo del ritorno assume i connotati più tipici dell’opera tondelliana, con un preciso riferimento al legame con la propria terra come ancora di salvezza che rimanda inequivocabilmente ad Altri libertini, rispetto al quale adotta un carattere più analitico e disteso, privo della soggettività conferita dal narratore in prima persona: “Tornare a Firenze. La sua città. Dopo il dolore della separazione tornare a respirare l’aria che aveva allargato i suoi polmoni per la prima volta. Firenze, che lo accoglieva con un abbraccio ordinato e composto. Tornare a frequentare i vecchi amici, le vecchie strade, sentire nell’aria gli stessi profumi, ritrovare i gesti di tanto tempo prima, le abitudini, i caffè, le parole, la lingua. L’abbandono di Aelred lo aveva talmente distrutto che ora aveva bisogno di ricominciare nello stesso luogo in cui era iniziata la sua vita. […] Il ritorno a casa aveva tutta la dolcezza di un soffice ritorno tra le proprie braccia. Tornare a Firenze fu per Bruno come tornare a guardarsi allo specchio” (R pp. 213-214).

271 che ne modifica il nome: Robby, Tony, Susy, Johnny; oppure vengono contrassegnati da un cognome di dubbie origini italiane: Bruno May, Marco Bauer. Sembra quasi che Tondelli voglia bilanciare la rigidità spaziale del titolo e della mappa che compare in apertura di romanzo, con una tensione verso la dimensione internazionale che sfocia nell’inserimento di due scrittori stranieri - un francese e un americano - tra i partecipanti al Premio Letterario Riviera. Tondelli approfitta dello svolgimento del XXVII Premio Internazionale Riviera per inserire in Rimini un’indagine che aveva contrassegnato, di volta in volta sotto diversi aspetti, lo sviluppo della sua attività letteraria, e cioè il rapporto con le istituzioni. In questo caso, oggetto dell’analisi è l’establishment culturale, nella veste particolare del premio letterario, che Tondelli non manca di stigmatizzare attraverso gli aspri commenti che affida ai suoi personaggi, non senza un certo motivo di contrasto quando è proprio Bauer, autoproclamatosi “lettore da due soldi” (R p. 94), a rivestire il ruolo di censore. Tocca infatti a lui affrontare l’argomento per primo, cominciando, nel corso di un colloquio con Susy alla conferenza stampa al Grand Hotel, a fornire il ritratto di un mondo percepito come un accumulo di convenzioni, favoritismi e vecchi sopravvissuti: “E’ mezz’ora che vanno avanti e ancora non hanno presentato i libri in concorso. Non fanno altro che omaggiarsi e ringraziarsi. […]” “La signora […] è Bianca Materassi. La danno tutti favorita. Partecipa al Premio per la terza volta. Non ha mai vinto.” Guardai il personaggio in questione. “O vince quest’anno o mai più.” Susy ridacchiò: “Ha ottantadue anni. Ha dichiarato di aver già terminato il suo prossimo romanzo.” “E quell’altro in blu?” “E’ Lupo Fazzini. Ma non vincerà. Ha scritto libri migliori nel dopoguerra. Tutti se lo tengono buono perché è lui che fa passare le recensioni dei libri in televisione.” […] “Ha riscritto la storia d’amore tra Dante e Bea,” fece con aria di rimprovero. “Dicono ci siano pagine molto disinvolte.” […] Leggevo solo gialli e nemmeno con continuità. Di fronte a quei ruderi, certo non potevo sentirmi in soggezione. […] Ero davvero un disastro. Quattro in Letteratura Contemporanea. Sempre che volesse nominarsi tale una letteratura che indagava fra le lenzuola del Poeta (R pp. 94-95).

Poco più avanti, al secondo appuntamento col mondo del Premio Letterario, Tondelli, sempre tramite Bauer, conferma le opinioni espresse in precedenza, rinforzando la percezione di un ambiente rigidamente chiuso nelle sue formalità: I giurati del Premio Riviera procedevano insieme tenendosi a braccetto e inchinandosi continuamente uno all’indirizzo dell’altro. Conversavano come vecchi compagni di università. O come baroni (R p. 103).

In questa maniera, Tondelli crea uno sfondo sul quale far risaltare la figura di Bruno, che partecipa al concorso letterario, ma significativamente senza mai pronunciarsi su di

272 esso, nonostante proprio a lui spettino le riflessioni sulla scrittura e il ruolo dello scrittore in crisi. Tale contrapposizione consente di definire il personaggio e al tempo stesso di esprimere dei severi giudizi sugli altri concorrenti, come succede nel commento di Oliviero: Indubbiamente il libro di Bruno è molto buono. La concorrenza, se permettete, addirittura ridicola. Ma questo non basterà a farlo vincere. Il fatto è che a lui non importa un bel niente di quel premio, a parte i soldi. […] Personalmente non so dargli torto. Certo non può mettersi a parlare di letteratura con quella gente (R pp. 187-188).

E’ interessante notare che anche in Rimini vengono mantenute le modalità di rapporto con l’istituzione che avevano contraddistinto le opere precedenti: l’unica reazione possibile sembra essere il rifiuto, tanto che il confronto con l’istituzione determina solamente un contrasto. Per quanto meno evidente rispetto ad Altri libertini e Pao Pao, in Rimini tale contrasto diventa assai significativo perché si carica di un forte valore simbolico. La morte di Bruno infatti, partecipante al Premio ma al tempo stesso espressione di un deciso rifiuto di quel mondo, comporta l’impossibilità di assegnare il Premio stesso, sancendone così l’inutilità. Consente inoltre a Tondelli di definire il suo quadro di un mondo culturale chiuso tra tensione verso il successo personale inteso come successo economico ed il cinismo della soluzione ‘all’italiana’: Per quell’anno il Premio Riviera non fu assegnato. […] La gran parte dei commenti seguì la medesima impostazione: Bruno si era ucciso per protestare contro tutti i premi di questo mondo. […] La giuria si trovò così bersagliata da critiche, polemiche e anche contestazioni. Benjamin Handle, intuendo che nessuno avrebbe vinto la somma in palio, si ritirò dalla competizione dichiarando solidarietà al “povero ragazzo”. Il gesto fu molto apprezzato dalla stampa e gli valse interviste da ogni parte. Il suo libro balzò in vetta alle classifiche di vendita. […] Due giorni dopo, nell’infuriare delle polemiche, la giuria si dimise in blocco e rinunciò all’assegnazione del premio […]. La soluzione prospettata dal presidente della giuria fu una soluzione che i cronisti esteri definirono, sorridendo, tutta italiana: si sarebbe cioè tenuta a Roma, sede della presidenza del premio, una sessione autunnale che avrebbe conferito il premio a una delle opere in gara (R pp. 239-240).112

La trattazione del tema consente quindi a Tondelli di esemplificare sul piano romanzesco le proprie idee sul mercato editoriale: E’ difficile farsi valutare sulla base della propria professionalità, dell’opera, dell’impegno. Spesso valgono di più gli intrallazzi, le conoscenze. Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che - accecato dai propri fasti, da una cultura

112 Nell’ottica del Premio Letterario e della confluenza di motivi autobiografici all’interno dell’opera tondelliana, può essere di un certo interesse la partecipazione di Tondelli, nel 1985, alla XXXVIII edizione del Premio Riccione-Ater per il Teatro, con un testo, scritto nel 1984, La notte della vittoria, che nel concorso si classificò al secondo posto. Il testo, più volte ripreso dall’autore, è stato pubblicato solamente postumo, nel 1994, col titolo di Dinner Party, nella collana “Le Finestre” di Bompiani.

273 ottocentesca - non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo.113

Sono affermazioni riprese a distanza di anni nell’analisi di una critica che Tondelli percepiva priva di strumenti adeguati, ritratta “con la toga e l’ermellino in mano e quel certo piglio imperativo, a far sentire l’insufficienza dello scrittore assoggettato al loro giudizio”114, che aveva trovato nelle pagine di Rimini una prima felice descrizione. Ecco quindi che, per contrasto, la figura di Bruno rappresenta il tentativo di dare forma letteraria - proprio attraverso una creazione artistica che tenga largamente conto della sonorità del testo in una più aperta ottica di rapporto con le altre arti - a quello che Tondelli considerava il ‘nuovo’, e cioè “la grande cultura giovanile degli anni Sessanta, del rock, del pop che ha prodotto cambiamenti in tutte le arti tranne che in letteratura”.115

III.5.3 La musica.

In questo tentativo, proprio la musica occupa uno spazio molto importante, tanto che non a caso Tondelli antepone al romanzo una citazione da un’intervista a Joe Jackson, un musicista inglese, che assume il valore di una dichiarazione programmatica: Che lo voglia o no, sono intrappolato in questo rock’n’roll. Ma sono un autore e sono un musicista, per molti versi un entertainer.

In chiusura poi, a rimarcare l’importanza della musica come elemento costitutivo del testo, compare una sorta di colonna sonora con le canzoni che hanno accompagnato il testo e la sua composizione.116 Più in generale, le varie fasi dello svolgimento della storia sono accompagnate dalla presenza di momenti musicali sui quali si fissa l’attenzione dei personaggi, e attraverso i quali Tondelli cerca di esprimerne lo stato d’animo. Così, per Bauer che attende l’imprevisto e temuto colloquio col direttore, l’elemento musicale fa da tramite fra la descrizione esteriore e la riflessione personale:

113 M. Trecca, op. cit. 114 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 87. 115 M. Trecca, op. cit. 116 E’ lo stesso Tondelli a porre in risalto il valore dell’appendice musicale: “Nel primo libro avevo messo i titoli di coda (l’elenco di tutti i personaggi che avevano partecipato alla storia), in questo le musiche. Sono importanti le musiche elencate perché il romanzo l’ho scritto ascoltando quelle musiche e molta musica in genere. Scrivere è il mio modo di fare musica, di esprimere quell’anelito, quell’ansia di assoluto che è la caratteristica di ogni arte. Questo parallelo tra musica e scrittura ricorre diverse volte nel testo. La musica in Rimini è nel ritmo narrativo. La partitura del libro è orchestrata come una sinfonia: con gli adagi (le vicende del suonatore di sax), con i lenti (la storia di Bruno), con il gran finale rossiniano (serrato, velocissimo)”. M. Trecca, op. cit. Si noti come i “titoli di coda” e la “colonna sonora” sono procedimenti di tipo cinematografico che riconducono al concetto di arte che supera le distinzioni di genere alla ricerca di una dimensione più globale, già evidenziato nell’opera tondelliana.

274 Vidi uomini […], donne in attesa dell’autobus […], bambini […]. Indagai in altri uffici e in altre finestre, mi misi a canticchiare un blues tamburellando le dita sulla coscia, un blues che mi piaceva molto, un tempo, e che ora tornava fuori come fossi del tutto sereno, tranquillo e niente di male stesse per accadermi; un blues metropolitano che parlava di una stanza d’affitto e di un materasso logoro e di cinque cents, ma ero sereno: la serenità che si può avere solamente quando il peggio è stato fatto (R pp11-12).

La musica non s’inserisce nel testo occasionalmente ma riceve un’attenzione particolare, che ne sviluppa il motivo, anche descrittivamente, collegandolo con il personaggio che ne è attore, e quindi in qualche maniera contribuendo alla sua caratterizzazione. Anche quando sembra essere solo una nota di colore, la musica riceve una precisa connotazione, cosicché il rap dei due ragazzi turchi davanti al negozio di Beatrix anticipa la loro descrizione, mentre sulla spiaggia ‘alternativa’ “un grosso stereo diffondeva del rock ossessivo e martellante” (R p. 87). Al di là della comparsa più o meno accentuata, c’è spazio anche per la citazione vera e propria, come avviene nell’episodio di Alberto sulla spiaggia, quando è il suo sax a diventare il protagonista principale; oppure, in maniera assai significativa, l’ultimo incontro di Bruno con Aelred, introdotto dalla lunga digressione che lo interrompe per raccontare la loro storia, si apre sulle note e sul testo di una canzone per loro importante: Sentì gli arbusti scrocchiare e poi il fischio di una canzoncina […]. Bruno si inchiodò a terra. Conosceva molto bene quella canzone. La ripescò dalla memoria. Faceva: Did I really walk all this way Just to hear you say “Oh, I don’t want to go out tonight”... I ricordi si scatenarono l’uno sull’altro, lo stordirono. L’ombra lo aveva ormai raggiunto e continuava a canticchiare: I don’t owe you anything But you owe me something Repay me now... Bruno vide un ciuffo di capelli biondi. Alzò la mano come per accarezzarli. “Aelred,” soffiò. “Come hai fatto a trovarmi?” (R pp. 192-193)117

E’ questa una modalità spesso presente in Altri libertini, dove la citazione musicale senza mediazioni ricorre spesso all’interno del discorso del narratore, mentre Rimini, nel quale una narrazione in terza persona stabilisce un maggior distacco emotivo, propone più raramente questo tipo di intervento, che quindi, quando è presente, acquisisce maggior importanza.

117 “Ho veramente fatto tutta questa strada / per sentirti dire / “non voglio uscire stanotte”... ; Io non ti devo nulla / ma tu mi devi qualcosa / ripagami ora...”. La citazione proviene da I don’t owe you anything di The Smiths, puntualmente presente nell’appendice dedicata alla colonna sonora.

275 E’ interessante notare che - come accade del resto con le citazioni letterarie - il testo della canzone si inserisce nella storia dei personaggi in maniera attiva rispetto alle loro vicende, anticipando, inoltre, quell’attenzione verso la musicalità che contraddistingue particolarmente questa parte di Rimini, come si può notare dall’attenzione verso il sonoro nel primo incontro d’amore di Aelred e Bruno: Restò un solo brusio, continuo e monodico, come emesso da una grande cassa di amplificazione accesa, un brusio che fece tremare le loro orecchie e che era la voce del loro viaggio (R p. 199);

un brusio poi chiarito nei termini di “suono che non copriva la loro solitudine ma che la rivestiva di piacere e di sentimentalità nuove” (R p. 200). Tondelli chiarisce ulteriormente l’importanza della musica in occasione della riflessione di Bruno sulla ricordata preghiera dei monaci tibetani, riflessione che si conclude in un’associazione tra musica, amore e divino (cfr. R p. 225). Non è solo la citazione il modo in cui l’elemento musicale compare nel testo, ma lo impronta di sé anche come ricerca di una certa musicalità nella sua composizione. Lo afferma Tondelli stesso, cercando di spiegare l’importanza della musica come modello stilistico e le sue modalità di applicazione: Rimini, nelle intenzioni, voleva essere un’orchestrazione sinfonica, in cui si trovano gli “adagi”, i “lenti”, i “prestissimo” e un gran finale. E’ tutto un po’ variato sui tempi e sull’accelerazione improvvisa, come in una sinfonia, in cui c’è un tema che però viene di volta in volta giocato diversamente.118

III.6 Una scrittura sorvegliata.

Pure da un punto di vista compositivo, viene confermata l’adozione di pochi temi prevalenti - autoaffermazione, misticismo, ricerca di sé - sui quali effettuare le variazioni stilistiche che concorrono ad originare la polifonia distintiva del romanzo. Ecco quindi che l’adesione dello stile particolare di ogni storia al proprio contesto diventa il modo operativo per ottenere questo effetto. Questo determina una notevole differenza rispetto alla produzione precedente. Nell’impossibilità di adottare l’uniformità del parlato giovanile degli esordi, la scrittura si fa più regolare e controllata, registrando la scomparsa di tutte quelle particolarità che avevano fatto del linguaggio tondelliano una delle maggiori fonti di interesse critico verso Altri libertini e Pao Pao: forestierismi con grafia alterata secondo la fonetica, termini dialettali,

118 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 53.

276 parole composte, discorso indiretto libero, uso anomalo della punteggiatura e della congiunzione, periodi ipertrofici, sono tutti elementi che in genere non compaiono in Rimini, caratterizzato viceversa da una sintassi sorvegliatissima dove spiccano periodi brevi, spesso costruiti su frasi monotematiche: Scesi di corsa dalla Rover e raggiunsi un gruppo di guardie municipali schierate a proteggere l’entrata alla spiaggia. Estrassi il tesserino rosso. Si fece avanti un vigile piuttosto alto, sui quarant’anni. Aveva tre stelle sulle spalline. “Che c’è?” disse portandosi la mano tesa sulla fronte (R p. 125).

E’ l’inizio della seconda parte, ma è esemplificativo della scrittura del romanzo, che raramente si concede pause da questo modulo e fa uso di uno stile descrittivo, quasi giornalistico, con un forte effetto di mimesi rispetto al personaggio principale. La struttura polifonica di Rimini determina sì una scrittura pluristilistica, che cerca di adeguarsi al genere del momento testuale, ma le variazioni in rapporto al personaggio che è al centro dell’attenzione, per quanto notevoli, non intaccano la sintassi, che rimane sempre controllata. Nel caso di Bruno, si riscontra perciò una scrittura più intimista e rivolta verso l’introspezione, che si attenua nella storia di Beatrix, per scomparire del tutto con Bauer. Tondelli sceglie per lui uno stile adatto al suo lavoro, quasi cronachistico, fornendo anche così una definizione del personaggio, apparentemente dotato di un cinico distacco, attraverso l’adozione di una scrittura hard-boiled, che ben si adatta al genere - il giallo - che vede Bauer protagonista. Bisogna altresì considerare che in Rimini si assiste ad un cambiamento di modelli stilistici, con un passaggio dalla scrittura beat, con Kerouac in grande evidenza, ad uno stile più modulato sull’opera di Raymond Chandler e di certa letteratura americana, come Scott Fitzgerald, entrambi non a caso citati, in cifra Chandler attraverso il titolo di un suo libro - The Long Goodbye - utilizzato per dare il nome al cocktail preferito di Bruno; esplicitamente Scott Fitzgerald in occasione della comparsa nel romanzo di Oliviero. La reazione di Bauer alla morte di Bruno è un esempio di scrittura hard-boiled e al tempo stesso evidenzia una contrapposizione tra il cinismo apparente del personaggio e la sua reale natura, che emerge nella sua sconfitta finale e nell’abbandono, tutto sommato sereno, di ogni sogno di gloria: “Addio,” disse Oliviero stringendomi la mano. […] Tentai di lasciare la stretta, ma si fece improvvisamente più forte. “Lei è stato l’ultimo a cui Bruno ha chiesto aiuto, lo sa?” […] ”Ripeto a lei ciò che gli dissi quella notte. Non era il mio tipo. E questo vale per tutto. Addio” Presi Susy sottobraccio e ci allontanammo. Non mi voltai indietro. Avevo solo voglia di sferrare qualche pugno. Trascorsi solo tutta la serata, sul letto, a sbronzarmi. Mi preparai un Long Goodbye e fu il mio saluto. Verso le undici telefonai a Susy. […] La mia voce era una spugna fradicia di alcool e di lacrime.

277 No, non avrei mai pensato che quel pazzo, andandosene, mi avrebbe lasciato così solo (R pp. 240-241).

La citazione è un elemento testuale caratteristico della scrittura tondelliana, e Rimini non smentisce questa particolarità. Esplicita, in cifra o anonima, il suo inserimento nel romanzo è di norma strumentale alla definizione del personaggio e della storia, come si è visto con Chandler a proposito di Bauer e Scott-Fitzgerald per Oliviero. Bauer, avvicinandosi alla soluzione nell’atmosfera da fine del mondo della parte conclusiva, nomina così Tolkien: Nonostante i buoni propositi qualcosa cominciava a incupirsi dentro di me. Tolkien avrebbe scritto: ombre nere, minacciose, si avvicinavano all’orizzonte (R p. 273).

Sintomatico dell’uso strumentale della citazione è il caso di Alberto, nel quale Tondelli scomoda addirittura - senza riferimento esplicito - Shakespeare, parafrasando da La Tempesta in occasione dell’elevazione a mito dell’unione di Milvia e Alberto: Certe notti Alberto guardava Milvia, pacata dopo l’amplesso, e le percorreva con la mano i seni, il ventre, le cosce, quasi si trattasse di una creatura di sogno che ancora faticava a credere reale. E, d’altra parte, la loro unione pareva effettivamente costruita della sostanza stessa dei sogni. E lei […] si vedeva […] attorniata dalla notte […]; e quell’uomo […] le appariva avvolto dal mistero, un mistero in cui era lentamente riuscita a penetrare fino a elevarsi, essa stessa, a fantastica creatura della notte (R p. 162).

In questa maniera, la storia che nel romanzo più punta verso l’assunzione a simbolica universalizzazione acquista un alone vagamente magico che contribuisce a diminuirne la concretezza, rafforzandone il carattere di exemplum. Allo stesso modo, la riflessione religiosa di Bruno è contrappuntata da un biglietto di Padre Anselme che cita Pascal e dalla ripresa di Chesterton, sempre in riferimento all’amico prete: Se vivere senza cercare di conoscere la nostra natura è un accecamento soprannaturale, vivere male, pur credendo in Dio è un accecamento terribile (R p. 220);

su quel volto si illuminò un sorriso che solo Chesterton avrebbe potuto descrivere: “Può andare in capo al mondo ma una lenza lo lega a me. Basta dare uno strappo al filo...” (R p. 223).119

L’inserimento di due scrittori cristiani e legati alla problematica religiosa fissa così delle coordinate nelle quali inscrivere la riflessione di Bruno e la sua ricerca di misticismo.

119 Corsivo dell'autore.

278 Si rammenti poi che un analogo uso strumentale viene fatto della citazione musicale, che, come si è visto, è elevata ad una importanza non inferiore alla citazione colta, con un ruolo basilare di nuovo materiale della scrittura. In questo contesto, non mancano riferimenti ad altri materiali artistici, per esempio il cinema, che rientra nell’accezione pluristilistica del romanzo in qualità di modalità espressiva di una delle vicende. Come infatti Bauer veicolava con la sua presenza una scrittura giornalistica, così, nel caso della vicenda di Robby e Tony, il testo fa ampio uso di similitudini cinematografiche, con uno spazio notevole per la descrizione e adottando una terminologia consona al linguaggio del cinema. E’ una particolarità che viene resa esplicita già all’arrivo di Robby a Rimini, cioè in apertura della loro storia: Erano da poco passate le quattro del pomeriggio. Il caldo incombeva tra le vetture lucide di sole, le cartacce e i binari ferruginosi […]. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco […], un caldo umano, non un caldo puro […] benché tutto ciò costituisse una sensazione grave e a suo modo importante, non era minimamente paragonabile a quell’altra immagine-sensazione che gli aveva folgorato il cervello pochi istanti prima, mentre scendeva dalla carrozza del convoglio: “Ma questo è già un set” (R p. 64).

Compaiono poi lunghi inserti dove l’elencazione è l’elemento dominante di una scrittura fortemente descrittiva, quasi come filtrata attraverso una cinepresa, finché il termine cinematografico ritorna esplicitamente più avanti: Attorno a lui bivaccava un gruppo di ragazzi dai capelli lunghi fino alle spalle […] distesi gli uni accanto agli altri e rollavano sigarette nello stesso identico modo in cui i coetanei di Robby di mezza Europa, e lui stesso, lo avevano fatto ad Amsterdam, al Vondel Park o al Dam, quindici anni prima […]. Gli stessi zoccolacci ai piedi, le sacche di stoffa indiane, gli orecchini, i piedi sozzi, le guance sporche di barba, i gilet di stoffa indossati sulla pelle nuda. Erano comparse o erano veri? (R p. 66).120

Nell’ambito della storia di Robby e Tony, Tondelli sceglie di inserire dei momenti stilisticamente diversi dal resto del libro, e che riportano alle opere precedenti. Significativamente, il primo di questi inserti tesi verso una scrittura più accumulatoria e meno controllata, si situa al di fuori della realtà ed è il resoconto di un sogno di Tony, quasi a voler rimarcare anche sul piano stilistico la differenza con la realtà: Tony sognò: vide i tre grandi cartoni abbandonati sulla spiaggia aprirsi […] e tutti i fogli uscire uno dopo l’altro con un suono di battito d’ali e formare un vortice che subito s’innalzò altissimo nel cielo come una tromba d’aria e ricadere poi a pioggia su tutta la spiaggia. La gente usciva dall’acqua e correva, abbandonava le sedie a sdraio, veniva a riva con i mosconi, correva dalle strade, dai bar, dai ristoranti, dalle pensioni e si precipitava sulla spiaggia tendendo le mani e guardando in aria e cercando per terra, perché tutta la spiaggia era ormai ricoperta dai fogli come se un grande autunno avesse lì ammassato tutte le foglie della terra. I bambini giocavano con quelle pagine, facevano aeroplanini, aquiloni, barche, cappelli, freccette a cono,

120 Corsivo dell'autore.

279 facevano maschere, facevano vestiti, torri, festoni, coriandoli, stelle filanti. […] Il turbinio di carta bianca non aveva fine. […] La gente […] accorreva e gridava di gioia finché tutta la costa non fu un solo grande momento di festa, di trionfo, di gioia (R pp. 153-154).

Nonostante una maggior libertà stilistica, l’infrazione al modulo regolare dell’intero romanzo si esprime soprattutto sul piano contenutistico - una situazione favolistica - con qualche concessione all’elencazione insistita, accenni all’ipertrofia del periodo e presenza saltuaria di rime (pioggia/spiaggia) e paronomasie (fogli/foglie).121 Poco oltre invece, Tondelli inserisce un’elencazione del campo visivo di Robby alle prese con due ambulanti marocchini, un campionario di oscenità da spiaggia, un “antisublime […] trionfo di deformità […] oscenamente esibite […] in un crescendo espressionistico e voyeuristico”122: Vide solamente pance gonfie e grasse e bianche e cicatrici di ernie e appendiciti, mastectomie, ulcere, calcoli renali, calcoli alla cistifellea, alla vescica, vide tette flosce e cosce adipose, rotoli di grasso, ascelle fradice di sudore, natiche cascanti, scroti lunghissimi, enormi, disgustosi, unghie incarnate, crani calvi, vide moncherini di braccia, gambe poliomelitiche, dentiere d’oro, parrucche, mani finte (R p. 155).

E’ un campionario di brutture che fa da contraltare al clima di festosità che dovrebbe incarnare la spiaggia come simbolo delle vacanze, tanto che l’elencazione tondelliana si pone in posizione dissacratoria nei confronti del mito della riviera adriatica come fabbrica del divertimento, in un romanzo ambientato nella “lunga estate calda in cui ci si dovrebbe sempre divertire, e, a volte, non capita affatto”.123 L’elencazione insistita è, anche in Rimini, uno degli elementi più significativi della retorica tondelliana, e riesce a ricavarsi spazio - pur senza raggiungere i livelli di Altri libertini e di Pao Pao - nella scrittura controllata di quest’opera. Al suo interno, un posto particolare occupano i due monologhi di Renato Zarri, che, proprio per lo statuto che li contrassegna, consentono un’evasione dallo stile più uniforme di Rimini, ritmando efficacemente con la loro diversità la suddivisione in parti del testo. La caratteristica principale è il ritorno al parlato, attraverso un’esposizione che torna a fare uso di effetti di rima baciata, termini dialettali o forestierismi, con un ritmo narrativo determinato dall’utilizzo continuo del polisindeto:

121 Si consideri come il sogno di Tony anticipi il clima di follia collettiva della terza parte di Rimini, costituendo così un altro di quei rimandi interni che, nell’eterogeneità globale del romanzo, si pongono a garanzia della sua coesione. 122 N. Lorenzini, Una sincopata apocalisse, cit., p. 62. Il brano richiama la rievocazione della cena al ristorante che Gadda fa fare al suo protagonista, Gonzalo, ne La cognizione del dolore. Del resto, Tondelli ha sempre riconosciuto l’importanza di Gadda per la sua formazione di scrittore, soprattutto in rapporto all’attenzione verso la lingua. Basti considerare, a titolo di esempio, la frequenza dell’enumerazione nella prosa gaddiana e confrontarla con il valore che questo procedimento retorico assume nella scrittura tondelliana. 123 O. Del Buono, Luci al neon, cit., p. 52.

280 Mia zia era una ragazza di diciannove anni allora, e molto frizzante e allegra e spiritosa, girava tutto il giorno per la spiaggia e andava a ballare con le amiche e conosceva dei bei ragazzi di Milano e Torino e di Arezzo e insomma non aveva molta voglia di lavorare lì in pensione. Era sempre vestita molto bene e aveva dei bei capelli biondi e il suo culetto era davvero una mela, come diceva lei, e allora va fuori, al caffè e chiede del babbo e quando sa che è al Grand Hotel si precipita con il bel risultato di farsi mettere dentro anche lei dalla polizia perché non aveva i documenti e stava lì a sfarfallare in quel casino. Poi però il babbo l’hanno trovato e gli hanno detto che era nato il suo Renato e lui allora è corso in pensione a vedermi e mi ha trovato tutto paonazzo e cianotico che stavo soffocando per via del cordone ombelicale e la levatrice per fortuna fu molto pronta e svelta e salvò la situazione. Mamma ha sempre detto che mi beccai tante botte per cominciare a respirare e finalmente vivere (R p. 118)124.

Sono parti in netto contrasto con il resto del romanzo, che ad ogni modo rivela una certa attenzione retorica, legata alle figure di ripetizione: uno spazio notevole ricopre l’anafora, che spesso detta il ritmo del periodo tondelliano, sia quando si struttura nella usuale brevità, sia nei più rari momenti in cui assume maggior estensione. Con una certa frequenza il vocabolo al centro dell’anafora è la negazione “non”: “No, non la stava ascoltando, non capiva e non voleva capire” (R p. 83), che a volte si evolve in una più complessa sequenza anaforica basata sulla variazione della negazione: No, non era andato all’Excelsior per trovare compagnia o fornirsi un pretesto per folleggiare fino a mattino. […] Non doveva combinare affari, né intortare un qualche uomo politico per riceverne favori. Non era un talent-scout e nemmeno un patito del sesso facile e veloce. Nessuno gli doveva nulla e lui non doveva niente a nessuno. Non era curioso né pettegolo. Non doveva raccogliere informazioni, né imbastire intrighi, né, tantomeno, soggiacere ai penosi riti della “forma”. Era soltanto, forse, un collezionista (R p. 209).

L’anafora ritorna con frequenza particolare nella storia di Bruno e Aelred, soprattutto quando Tondelli viene a descrivere il sentimento tra i due, che viene così messo in risalto dal procedimento retorico, in questo caso adottato in una forma relativamente estesa: Bruno era il suo amico, il suo compagno, la ragione stessa della sua vita. Era quel dolce e mediterraneo ragazzo che lo incitava a lavorare […], che gli parlava per notti e giorni …], che si sbronzava ridendo con lui […]. Era la persona che gli dava coraggio, che lo assisteva, lo accudiva come nessuno aveva mai fatto. Era l’uomo che gli faceva fare l’amore in un modo straordinario toccando tutte le orde del suo sentimento e del suo corpo. Era chi lo placava e chi lo eccitava, chi gli offriva buone avventure di testa e pensieri piacevoli (R p. 201).

La ripetizione evidenzia dunque il nesso stilistico fondamentale di Rimini, che espone una organizzazione testuale fortemente basata sulla tripartizione, a partire dal livello

124 Si consideri che la variazione linguistica rispetto alla globalità del romanzo è in un certo senso consentita dalla collocazione dei monologhi di Renato, che rivelano infine la loro reale natura di colloquio col magistrato che lo interroga.

281 macrostrutturale - la suddivisione del libro in tre parti - fino ad arrivare al più minuto ordinamento del periodo. Il ritmo ternario è il contrassegno distintivo della scrittura di Rimini, con una presenza talmente evidente da escludere qualsiasi casualità e da identificarlo come volontaria scelta stilistica, spesso accentuata da associazioni anaforiche, concatenamenti e procedimenti come la climax, che determinano l’evoluzione del discorso: Prese il lapis e scarabocchiò qualcosa: dapprima una linea circolare, poi una spirale e da questa altri vortici di segni che si sovrapponevano, si snodavano, ricomparivano come geroglifici incomprensibili. Finché da quel gomitolo confuso di grafite non risultò netto un percorso, una traccia, un nome. Il nome era Claudia e Beatrix altro non aveva fatto che scriverlo inconsciamente in ogni calligrafia, in ogni schizzo, in ogni disegno (R p. 52).

La scrittura procede per gradi, anticipando anche a livello stilistico il contenuto della storia di Beatrix, che comincia la sua ricerca della sorella in maniera quasi inconscia, contrassegnando fin dall’inizio il suo itinerario nel senso della scoperta. A volte il ritmo ternario viene messo in ulteriore risalto dal suo accostamento ad una diversa configurazione testuale, alla quale subentra: Beatrix era una donna né bella né brutta, alta, dai lunghi capelli neri e lisci che lasciava cadere sulle spalle strette e ossute. Aveva grandi occhi azzurri, labbra appena pronunciate e grandi denti che rendevano il suo sorriso simpatico, infantile, confidenziale (R p. 48).

L’iniziale andamento del testo in forma binaria lascia presto il posto al consueto procedere secondo un ritmo ternario, con un positivo effetto di variazione stilistica e di evidenziazione della cadenza più frequente. Del resto, la tripartizione opera anche a livello sintattico, strutturando il periodo in brevi frasi con climax ascendente: Un rompiballe. Ecco chi sei Marco Bauer. Un grande, enorme, perfetto rompiballe (R p. 90);

mentre altre volte lega anafora e ripresa lessicale in una più estesa organizzazione del ritmo dei paragrafi: Quella prima notte in cui lo vide, Bruno May se ne stava sulla terrazza dell’Excelsior […]. Quella prima notte in cui lo vide, Oliviero Welebansky si disse allora due cose […] Era una notte di metà luglio e faceva caldo (R p. 207).

In accostamento alla tripartizione come misura sostanziale del testo, Rimini registra, ad evidenziarla ulteriormente, una frequenza anomala del numero tre e dei suoi derivati, come si può notare dalla descrizione del Grand Hotel da parte di Bauer: L’edificio era strutturato in tre padiglioni. […] In alto, sul pennone della torre sventolavano tre drappi […]. Mi incamminai lungo i vialetti di ghiaia bianca. […] Lungo un viale passeggiavano tre signore […].

282 Entrai nell’atrio. […] Superati tre scalini si apriva il salone vero e proprio (R pp. 92- 93).125

Le variazioni rispetto a questo motivo ruotano attorno alla moltiplicazione del numero, cosicché Tony preventiva una raccolta di fondi pari a trecento milioni, considerandoli un terzo della spesa complessiva per la realizzazione del film, e prepara tre distinte tipologie di sottoscrizioni. Non a caso Robby rimane tre giorni alla Pensione Kelly, mentre Alberto alloggia in un’altra pensione al terzo piano, nella camera numero 38, dove la scritta in cifra evidenzia ancora una volta la presenza del tre.

125 Si osservi che la frequenza anomala del numero tre è fortemente accentuata dalla presenza del gruppo -tr- all’interno del brano, spesso con effetti di assonanza (“entrai”/”atrio”).

283 CAPITOLO IV

CAMERE SEPARATE. LA FINE DEL VIAGGIO.

284 IV.1 Sulla strada per “Camere separate”.

L’ultimo romanzo di Tondelli, Camere separate, viene pubblicato nel 1989, a quattro anni di distanza da Rimini. Tondelli, a trentaquattro anni, non può più essere considerato un ‘giovane scrittore’ e il successo, anche commerciale, di Rimini crea un discreto orizzonte di attesa per la sua nuova prova, che, non a caso, riceve un’attenzione critica superiore alle precedenti, dimostrata se non altro da un maggior numero di recensioni. Anche questa volta Tondelli attua un cambiamento, presentandosi con un’opera assai diversa dalla precedente, quasi un lungo monologo in terza persona che si colloca sulla scia di una scrittura inaugurata, in contemporanea a Rimini, nel 1986, con Biglietti agli amici. Nei quattro anni che separano i due romanzi, Tondelli si è dedicato ad una vasta esplorazione delle proprie possibilità letterarie, sia sul piano della produzione personale, sia su quello - per lui nuovo - della collaborazione ai lavori di altri. Si può così registrare una ricca attività giornalistica, principalmente sulle pagine di “Linus”, “Rockstar” e “L’Espresso”, ma con vari interventi anche sul “Corriere della Sera”, oltre a collaborazioni più occasionali con altre riviste e quotidiani. In quest’ambito Tondelli si muove tra recensioni librarie, reportage di viaggio, cronache e riflessioni sui fenomeni culturali del periodo, dal fumetto al cinema, dal teatro alla musica, al mondo della scuola, con particolare attenzione al movimento studentesco della seconda metà degli anni Ottanta, accumulando un materiale che, necessariamente eterogeneo, troverà una coerente ed ordinata sistemazione in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, che, pubblicato nel 1990, si porrà come interessante attraversamento dell’immaginario culturale giovanile del decennio che suggella. Tondelli firma poi in questi anni alcuni risvolti di copertina, di autori affermati e non, tra i quali il più significativo è forse quello relativo al libro di , La mia kasbah, Milano, Rusconi, 1988. Altrettanto importante la Prefazione all’edizione italiana, per la Mondadori, di Sogni di Bunker Hill, l’ultima opera di John Fante, sempre del 1988. Ma, al di fuori del versante ‘giornalistico’, risulta molto interessante seguire la produzione narrativa di Tondelli nel periodo in questione, produzione che si concretizza in alcuni racconti, tutti in qualche misura anticipatori di motivi - a volte presenti in embrione già in Rimini o in altre opere minori - destinati a trovare pieno sviluppo e realizzazione in Camere separate. Nell’insieme di questi racconti, Tondelli si muove tra scelte stilistiche e strutturali notevolmente diversificate - narrazione in prima e terza persona, struttura omogenea o forte frammentazione, attenzione alla temporalità del testo e scrittura del

285 ricordo, e così via -, come alla ricerca della forma più adatta in cui far confluire un materiale che, se pure ordinato definitivamente solo nel 1989, comincia a spuntare a tratti e a lasciarsi intravedere già negli anni immediatamente successivi a Rimini, rivelando, una volta di più, la lunga elaborazione dei progetti narrativi tondelliani e l’importanza per la sua opera del concetto di riscrittura.1 L’intera opera tondelliana si definisce così come un ruotare attorno a pochi temi fondamentali, di volta in volta approfonditi in maniera diversa, attraverso una scrittura che, pur mutando, torna continuamente sui propri passi, in un contesto globale rispetto al quale Camere separate - come si avrà modo di constatare - con la sua struttura ciclica, risulta fortemente emblematico. Da questo punto di vista, Pier a gennaio2, il primo dei racconti succitati a uscire, si rivela forse quello più interessante per i numerosi punti di contatto con l’ultimo romanzo, sia sotto un profilo puramente contenutistico che sul piano delle scelte stilistiche. Pier a gennaio viene pubblicato per la prima volta in “Nuovi argomenti” nel 1986, all’interno di un numero monografico dedicato ai nuovi racconti italiani, e, forse più ancora dei contemporanei Biglietti agli amici - a cui peraltro è stilisticamente molto vicino - per il suo carattere più canonicamente narrativo, si pone come punto di partenza dell’ultima narrativa tondelliana. Tondelli vi narra, in una forma diaristica ritmata dalle date che suddividono il testo in capitoletti - forma il cui referente principale risulta essere October di Christopher Isherwood3 -, il mese di gennaio del protagonista, Pier, a partire dal ricordo degli ultimi tre capodanni da lui trascorsi a Firenze, città alla quale l’autore è stato molto legato, non a caso sede in Rimini del primo incontro di Bruno May con Oliviero, nonché città natale di Bruno e, come tale, luogo narrativo del tema del ritorno alle proprie radici, così importante

1 Si ricorda, a questo proposito, che, benché il romanzo veda la luce solo nella tarda primavera del 1985, l’idea originale di Rimini risale ai tempi dell’esordio narrativo tondelliano, e che, nonostante l’effettiva scrittura del romanzo si concretizzi nello spazio di circa quattro mesi, la riflessione sull’argomento narrativo e il suo utilizzo per scritture di altro genere, poi riprese nel romanzo, si estende abbondantemente agli anni precedenti. D’altronde, la realizzazione del progetto in romanzo compiuto non determina l’esaurimento dell’argomento narrativo, che anzi ritorna in varia maniera negli anni successivi, fino alla sua ultima trattazione in Cabine! Cabine! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, già analizzato. 2 P.V. Tondelli, Pier a gennaio, in “Nuovi argomenti”, n.18, aprile-giugno 1986, ora anche in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 129-138. Del racconto è stata poi pubblicata una versione in lingua inglese - che Tondelli considerò quella definitiva - nel 1988, in occasione del primo numero americano della rivista “Nuovi argomenti”, e nella quale compare come datazione gennaio 1986. 3 Lo stesso Tondelli ha evidenziato, in una nota all’edizione inglese poi riportata anche in L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, il modello di Pier a gennaio: “Questo breve testo nasce in forma di esercitazione stilistica sul tema delle persone autobiografiche del racconto suggerito dalla lettura di Christopher And His Kind (1976) e October (1980) di Christopher Isherwood alla cui ‘non- entità’ peraltro queste pagine sono dedicate, in memoriam”. F. Panzeri, Note ai testi, in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., p. 307. Tondelli ha spesso citato Isherwood come importante punto di riferimento per la sua produzione matura, all’interno della quale non è difficile trovare motivi - come per esempio l’osservazione dell’amante nel sonno in Camere separate - che a lui si rifanno, quando addirittura non si tratti di vere e proprie riprese da testi dell’autore inglese.

286 nell’opera tondelliana. Pier passa dal ricordo del vecchio amore all’analisi del suo attuale rapporto col nuovo partner, Marco, alternata ad altre considerazioni, ad esempio sulla morte di Isherwood, su un’avventura occasionale e sui programmi di viaggio e di vacanza per la primavera in arrivo. Il racconto si chiude sui ricordi di Pier studente a Bologna, nell’imminenza del suo trasferimento a Milano. La vicinanza stilistica con Camere separate si esprime subito, nella scelta del narratore: Pier a gennaio, più che un racconto, sembra infatti un lungo monologo in terza persona, dal momento che l’onniscienza del narratore tende a far superare le distanze apparentemente implicite nell’adozione della terza persona; si aggiunga a ciò la scelta di un materiale che spesso esprime forti valenze autobiografiche. Inoltre, la narrazione in terza persona non è ancora giunta all’assolutezza di Camere separate, tanto che - quasi un segnale per l’identificazione narratore/protagonista - compare nel testo un breve inciso di tre paragrafi nei quali Tondelli passa alla narrazione in prima persona per poi tornare alla terza, fino al termine: Questa sera brinderà con Marco […]. 15 GENNAIO. E’ un momento buono, per me, questo gennaio. Fino a qualche anno fa, avevo paura ad ammettere che le cose mi stessero andando bene. Sapevo che non sarebbero durate […]. Questo mi spaventava. Perché? Perché Pier era giovane e soffriva maledettamente della sua incompetenza a risolversi la vita. […] Ha attraversato quel periodo. E’ sopravvissuto. Per come è oggi organizzata la mia vita, posso facilmente supporre che ancora una volta il bianco cambierà in nero […]. Questo, però, non mi fa più paura. Ripenso spesso […] a quanto mi disse Pierre, una volta, parlando, credo, dell’India: “Si deve fare tutto il possibile, sapendo che è assolutamente inutile.” […] All’interno di questo paradosso io sto vivendo da qualche tempo momenti assolutamente felici ed equilibrati, momenti in cui non mi sento solo, momenti in cui affido al probabile e all’incerto le vie della mia vita. Le letture di Pier, in questi primi giorni di gennaio, sono: Cesare Brandi, Budda sorride; Roland Barthes, L’impero dei segni; Rudolf Otto, Mistica orientale, mistica occidentale.4

L’infrazione alla regola adottata la fa interpretare come una scelta non ancora del tutto acquisita, per quanto presente anche nei contemporanei Biglietti agli amici, definendo così il racconto come una prima fondamentale tappa del percorso verso Camere separate. L’adozione stessa di motivi autobiografici, a cominciare dal nome, visibilmente calcato sul diminutivo del proprio - come accade del resto in Biglietti agli amici, nel quale, vista la natura particolare dell’opera, lontana da funzioni romanzesche, il richiamo all’autore diventa molto più forte -, riduce al minimo la neutralità della narrazione in terza persona. In Camere separate tutto ciò è molto meno accentuato, dal momento che

4 P.V. Tondelli, Pier a gennaio, cit., pp. 132-133.

287 Tondelli, pur inserendo notevoli motivi autobiografici, non infrange mai la regola della terza persona e, attraverso la scelta del nome Leo per il suo personaggio, opera una certa distanziazione dall’autore, costruendo così una sorta di alter ego ricco di caratteri a lui comuni ma al tempo stesso mai totalmente astraibile dal suo forsteriano status di homo fictus. A prescindere da ogni raffronto stilistico, Pier a gennaio si colloca in una posizione di diretta ascendenza nei confronti dell’ultimo romanzo di Tondelli, se non altro perché in esso, per la prima volta, si incontra il concetto di “camere separate”, che intitolerà il libro successivo. E’ questa infatti la definizione che Tondelli fa dare a Pier - come più tardi a Leo - del suo nuovo rapporto d’amore, all’interno di un’analisi imperniata sulla figura dell’altro: Marco vive in Olanda […]. Pier ha voluto questa distanza, anche geografica, con l’amico. […] Pier sta cercando di imparare che l’altro è un “totalmente altro” […]. Non so quale fosse allora l’espressione stilistica che Pier avesse trovato per rimettere sui binari giusti la propria vita. Ricordo però un’immagine, e questa immagine è racchiusa in due parole: “camere separate”. Pier vuole una separazione in contiguità e, per farlo, non ha trovato altro di meglio che piazzare fra i due letti millecinquecento chilometri di distanza. Ma, con Marco, sta funzionando.5

Nel romanzo, la breve definizione ritorna, spiegata in termini analoghi, venendo così a porsi come riscrittura del brano originale e sua integrazione in una struttura più organica e complessa: Giorno dopo giorno, seppure attraverso il disagio della lontananza, il loro rapporto si assestava e, paradossalmente, stava approdando ad un equilibrio nuovo. La piccola frase, in realtà molto meno di una frase, solo due parole il cui significato però apparì a Leo disteso e sufficiente come un concetto ben elaborato, la piccola frase che si trovò a scrivere in una di queste lettere fu “camere separate”. E spiegò a Thomas che avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenenza ma non di possesso. […] Che ogni anno avrebbero trascorso la primavera e l’estate insieme, viaggiando, e che ognuno, durante l’inverno, avrebbe lavorato ai propri progetti (CS pp. 177-178).

Pier a gennaio costituisce così l’ossatura su cui sarà costruito Camere separate, tant’è vero che non sono solo i suoi momenti fondamentali a tornare, tutti, nel romanzo, ma persino particolari di importanza assai minore, come l’idea di una gita a Dresda o la separazione dalla foto della persona amata dopo l’abbandono, che ritorna in Camere separate con puntualità di situazione e stile: Non può neppure immaginare di separarsi dalla fotografia che porta sempre con sé nel portafogli, l’immagine di lui e Alberto che si abbracciano6

viene sviluppato con una maggior analisi psicologica:

5 Ibidem. 6 Ibidem.

288 Alle tre del mattino, dopo uno dei soliti litigi, lui aveva preso la sua fotografia che portava da anni nel portafoglio e l’aveva buttata nella spazzatura. Erano mesi che cercava di compiere questa azione senza mai riuscirvi. Di fronte al secchio dell’immondizia riponeva la fotografia. Quella notte, quella mattina ci riuscì con una calma innaturale e con una facilità che lo sorpresero (CS p. 105).

E’ sull’esempio di Pier e Marco che Tondelli costruisce parte del rapporto tra Leo e Thomas, ricorrendo inoltre a motivi che non sono nuovi nell’opera tondelliana, quali la presenza della donna come alternativa per l’altro. Si può rinvenire già in Rimini, quando nella storia di Bruno e Aelred compare un’intrusione femminile, ma, ad essere più precisi, si ritrova già, a livello embrionale, in Pao Pao, in occasione dell’innamoramento del narratore per Lele, che però gli preferisce una donna, mai del resto concretamente presente nel romanzo (cfr. PP pp. 60-61).7 In Pier a gennaio il motivo riceve una trattazione più estesa, diventa oggetto di riflessione e presenta la donna come un elemento necessario alla stabilità della situazione: Quando Pier riflette […] sulla sua relazione con Marco, prova un misto indefinibile di soddisfazione e risentimento. Soddisfazione perché la storia continua, c’è e lo placa; risentimento perché Marco vive con una terza persona. Il loro equilibrio, quindi, passa necessariamente attraverso una persona che Pier non conosce e non vuole conoscere, ma di cui deve sempre occuparsi quando desidera incontrare Marco. Un fantasma (per Pier, ma non certamente per Marco) che aleggia sui suoi benedettissimi “letti separati”. […] Pier ritiene che, anche per il fatto che nel triangolo c’è la presenza di una donna, la sua relazione con Marco gli si addica molto di più. In fondo tutti e tre sono soli ma tutti e tre si appartengono.8

Quando Tondelli riprende il motivo in Camere separate ne adotta le stesse valenze, dotandolo al più di un maggior sviluppo narrativo e di una riflessione dettagliata, senza però cambiare sostanzialmente la tipologia del triangolo amoroso e lo svolgimento della situazione: Thomas era riuscito, con abilità e testardaggine, a far entrare in “camere separate” una terza persona. E soprattutto a far accettare a Leo, in nome del loro amore, la nuova situazione. Certo non fu facile. […] Ma Thomas fu irremovibile: “Tu vuoi vivere solo, Leo. E io voglio invece vivere accanto alla persona che amo.” […] Leo reagì con violenza. […] Si rifiutava di capire che Thomas soffriva troppo della sua mancanza. La terza persona non era un sostituto di Leo, era semplicemente una persona con la quale Thomas condivideva la medesima idea di amore. Era una ragazza, di poco più di vent’anni. Leo si incupiva perché Thomas aveva una vita nella quale lui non sarebbe mai potuto entrare. Ma con il tempo, in forza dell’amore che ancora nutrivano l’uno per

7 Si consideri come il ritorno del motivo nei vari momenti della produzione tondelliana sia un’ulteriore testimonianza dell’unitarietà della sua opera e della continuità che si può instaurare tra le diverse prove che la compongono. 8 Ibidem.

289 l’altro, cominciò a accettare questo strano rapporto a tre. […] Così […] Leo […] prova un misto indefinibile di soddisfazione e di risentimento: soddisfazione e piacere perché la sua storia continua, c’è e lo placa; risentimento perché deve tener conto del fatto che Thomas vive con Susann. Il loro equilibrio passa necessariamente attraverso questa persona che Leo non conosce e non vuole conoscere, ma di cui deve tener conto quando desidera incontrare Thomas. Un fantasma, non certo per Thomas, che aleggia sui suoi letti separati. In fondo tutti e tre sono soli, nessuno possiede interamente l’altro, ma tutti e tre si appartengono (CS pp. 187-189).

La riscrittura sfocia a volte nella ripresa puntuale, parola per parola, ed il concetto di riuso ed autocitazione, a cui si è spesso fatto riferimento in precedenza, riceve una nuova attuazione, non tanto nei frammenti che riprendono Pier a gennaio, ma soprattutto nel momento in cui Tondelli fa ritornare in Camere separate una frase di Rimini che, per quanto originalmente proferita da Bruno e quindi in un contesto narrativo per certi versi analogo a questo, con il passaggio dall’amico prete alla persona amata, subisce uno spostamento di destinatario che ne modifica il valore. Ecco quindi che l’originale Ho sempre cercato ‘tutto’ nella vita: […] io che ho lasciato perdere tante volte ‘qualcosa’ per avere soltanto niente ora mi sto accontentando di qualcosa. […] A tutto o niente ora sto finalmente imparando a preferire qualcosa (R p. 204),

viene qui sintetizzato in un incisivo Io ho sempre voluto tutto Thomas. E mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa (CS p. 189).

La scrittura di Tondelli procede così in maniera circolare, nella ripresa continua di motivi già svolti, per ricercarne un ulteriore differente sviluppo, in una scelta artistica di sostanziale fedeltà a se stesso. Camere separate, che tra l’altro non si svolge secondo uno sviluppo lineare, ma in ognuna delle sue tre parti ripresenta gli stessi motivi, secondo una struttura circolare ed iterativa, mette in scena la storia di Leo e Thomas, riprendendola da Pier a gennaio ma al tempo stesso ritornando a Rimini, con trasparenti riferimenti alla storia di Bruno e Aelred, e attraverso questa si ricollega a L’addio, il racconto del 1984 nel quale per la prima volta viene affrontata, con protagonisti Fredo e Aelred, una tematica che l’autore stesso ha considerato basilare per la seconda parte della sua produzione e che ha poi definito come “fenomenologia dell’abbandono”. Se l’esito della scrittura tondelliana porta alla terza persona di Camere separate, non si deve interpretare il percorso verso l’ultimo romanzo come una costante adesione a questa scelta narrativa, dal momento che le tappe sulla strada di Camere separate oscillano dalla terza persona quasi monologante - e su questa via ancora imperfetta - di Pier a gennaio, a testi che fanno uso di una terza persona più canonica ed a racconti in prima persona.

290 In Ragazzi a Natale, per esempio, del dicembre 1985, si ritrova una scrittura in prima persona, di tipo memorialistico, che, all’interno di un interessante struttura circolare con forte attenzione alla temporalità, è ancora molto vicina ad opere più datate, come Pao Pao e Altri libertini, anche per l’età anagrafica dei personaggi.9 La prima persona caratterizza pure Questa specie di patto, del 1987, che però è molto vicino a Camere separate per le tematiche affrontate e per la narrazione incentrata più sulla riflessione personale che sullo svolgersi degli avvenimenti, d’altronde piuttosto scarsi ed inconsistenti.10 In questo breve racconto Tondelli affronta per la prima volta un tema che riceverà più consistente sviluppo in Camere separate e che andrà poi a costituire una parte di Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, e cioè quello del viaggiatore solitario. Il viaggio, come si è visto, è un tema fondamentale dell’opera tondelliana, ma questo suo aspetto non aveva attirato finora l’attenzione dell’autore. Viceversa, in Camere separate, il viaggiare solitario di Leo è la struttura su cui Tondelli costruisce il romanzo, in una ricerca di sé che si svolge tra solitudine presente e memoria dei viaggi effettuati con Thomas e ripercorsi ora. In Questa specie di patto Tondelli anticipa, in riflessioni poi puntualmente riprese in Camere separate, la direzione fondamentale di questo viaggiare, attraverso situazioni che forniscono gli stessi momenti narrativi, in una sintesi che sconfina nell’analisi quasi saggistica del problema: Conosco l’infinita pena del viaggiatore solitario che in un qualunque scompartimento di un treno deve chiamare il controllore per andare alla toilette e non lasciare i bagagli incustoditi; conosco la seccatura un po’ umiliante del dover pranzare da solo in un ristorante sotto gli occhi irritati di squallide coppiette che, in fila, ti guardano come se fosse un loro dovere avere il tuo tavolo, di cui sei soltanto uno sfigato usurpatore […]. Conosco la stupidità delle “camere singole” in cui i letti sono piccolissimi, i lavabi minimi e i soffitti bassi, come se ogni viaggiatore solitario fosse un nano e non una persona come le altre, con braccia, gambe e bisogno di spazio. Conosco la scortesia e il tono pietoso degli altri compagni di viaggio che ti si rivolgono con quel garbo ipocrita che si riserva a un vedovo, a una persona che ha perso la propria metà. Ma io conosco anche l’immensa completezza di questa mia solitudine, le orecchie attente, gli occhi sempre presenti, la concentrazione, le illuminazioni interiori quando […] ti guardi dentro, e dentro puoi rivedere i soli, le mareggiate, le burrasche e gli approdi della tua vita. […] In sostanza, tutti i viaggi che si fanno sono solo la figura di quell’altro viaggio all’interno di noi stessi che inizia nel momento in cui nasciamo e finisce quando Dio vorrà. Non c’è viaggio più avvincente di quello che ognuno può fare alla ricerca di sé.11

9 cfr. P.V. Tondelli, Ragazzi a Natale, in “Per Lui”, dicembre 1985, ora anche in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 123-128. 10 cfr. P.V. Tondelli, Questa specie di patto, in “Per Lui”, luglio 1987, ora anche ivi, pp. 139-142. 11 Ibidem.

291 E’ uno svolgimento del tema che, in un certo senso, supera le considerazioni di Camere separate, dal momento che l’analisi tondelliana ricerca nel racconto i lati negativi ed i lati positivi del viaggiare soli, mentre il percorso di Camere separate, che pure si svolge in maniera analoga, non può esulare dall’obbligatorietà della scelta della solitudine, non può evitare la messa in scena del motivo dell’assenza di Thomas anche quando Tondelli non ne parla direttamente, soprattutto perché è proprio sulla contrapposizione presenza/assenza che si fonda il romanzo. Naturalmente, la maggior corposità consente l’esemplificazione del viaggio solitario anche attraverso il racconto di episodi - come la cena al ristorante cinese - che danno un movimento narrativo a quelle che in Questa specie di patto rimangono soltanto delle riflessioni. Proprio il motivo - a volte sotterraneo - della presenza/assenza orienta poi la focalizzazione del romanzo in direzione più accentuata verso la solitudine come soggetto delle riflessioni: La solitudine è questa situazione un po’ buffa, un po’ ridicola, un po’ aggressiva di un uomo seduto al tavolo di un ristorante turistico: l’immagine di una persona incompleta, tanto goffa da sembrare stupida o arrogante. Leo deve incominciare a difendere questa sua solitudine. Non deve permettere che gli altri lo vedano […] come qualcuno immiserito dalla mancanza di un compagno, di un amico, di un amore. La solitudine è anche scomodità. Obbliga a rivolgersi agli altri, a fare richieste continue. Sul treno lui non può lasciare i bagagli per recarsi al ristorante […]. Negli aeroporti, con il carrello carico di valigie, non riesce a raggiungere la toilette […]. Nei ristoranti è pressato dalla gente in coda solo perché gli altri sono in due e lui, solo, sta occupando un piccolo tavolo. Negli alberghi le camere singole sono, in genere, le più strette e le più piccole […]. La solitudine impietosisce gli altri. […] Certe premure lo offendono più dell’indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice (CS pp. 85-86).

La riscrittura tondelliana passa così, con variazioni quasi ininfluenti, tra gli elementi del racconto, ripetendone - per quanto in misura minore - la tensione verso una forma vicina a quella saggistica - la forma che non a caso apparterrà ancor di più alla trattazione cui verrà sottoposto il tema in Un weekend postmoderno, tra riflessione e memoria autobiografica - , rivelando inoltre una più attenta cura stilistica, evidente nell’adozione di un certo ritmo ternario (“mancanza di un compagno, di un amico, di un amore”), dalla presenza di contrapposizioni all’inizio di due successivi periodi (“Leo deve […] / Non deve”), da una distribuzione degli elementi del discorso che coinvolge e lega anafora (“La solitudine […] / La solitudine […] / La solitudine”) ed elencazione (“Negli aeroporti […] / Nei ristoranti […] / Negli alberghi”). Del resto la cura formale è un aspetto che risalta fortemente nel confronto tra racconti e romanzo, dal momento che i primi risultano in genere molto più approssimativi da questo punto di vista, mentre Camere separate denota un più attento lavoro di rifinitura.

292 E’ interessante notare che Questa specie di patto anticipa Camere separate anche sul piano della struttura temporale, dal momento che si rivela fondato sul ricordo e - pur non presentando la complessa alternanza tra presente e passato del romanzo - adotta una temporalità rovesciata, puntualizzata dalle successive date che lo ordinano, suddividendolo quasi in capitoletti: New York 1987, Parigi 1986, Amsterdam 1985. Il viaggio, quindi, diventa memoria del viaggio, in un racconto che segue - pur invertendone la direzione - una struttura diaristica, con le stesse probabili suggestioni isherwoodiane del precedente Pier a gennaio, e si pone come ulteriore testimonianza dell’attenzione verso la temporalità quale elemento cardine dell’opera tondelliana, come si è evidenziato a partire da Altri libertini.12 Il fatto poi che il motore del viaggio sia per entrambi i personaggi l’abbandono da parte della persona amata inserisce il racconto nell’orizzonte narrativo della seconda produzione tondelliana, collegandolo in qualche maniera alla succitata fenomenologia dell’abbandono. Una scrittura ancora diversa è quella che compare in My sweet car13, un racconto del 1987 nel quale compaiono frequenti riferimenti ad Ingeborg Bachmann, che Tondelli stesso individua come uno degli autori per lui più importanti. Il racconto nasce come soggetto cinematografico e si articola in una introduzione che presenta il vero protagonista, un’automobile, e quattro episodi della sua ‘vita’, numerati progressivamente e di diverso contenuto. Nell’ultimo, Tondelli svolge la storia inserendovi come contrappunto quattro citazioni da Il trentesimo anno della Bachmann, ed il racconto stesso sembra svilupparsi come un’esercitazione (od un omaggio) che prende spunto dalle suggestioni del racconto omonimo della scrittrice austriaca. Proprio le citazioni diventano un elemento di particolare interesse, anticipando Camere separate, dal momento che vi compaiono concetti poi esposti nel successivo romanzo, non più come citazioni, ma facilmente riconducibili al testo originale. Scriveva Tondelli sotto forma di citazione in My sweet car: Quando un uomo si avvicina al suo trentesimo anno di età, nessuno smette di dire che è giovane. Ma lui, per quanto non riesca a scoprire in se stesso alcun cambiamento, diventa insicuro; ha l’impressione che non gli si addica più definirsi “giovane”. E un mattino si sveglia...14

12 Compaiono in Questa specie di patto ulteriori elementi di affinità con Camere separate, a partire da New York che pure nel romanzo riceve una certa attenzione come meta di un viaggio di Leo o ad analoghe considerazioni sul Vondel Park di Amsterdam. Proprio in riferimento a New York si può del resto rinvenire una nuova ripresa dal racconto al romanzo. Così si esprime infatti il narratore nel racconto: “E la sensazione più forte è appunto questa: avrei dovuto avere vent’anni, questa volta per fermarmi più a lungo a New York”. P.V. Tondelli, Questa specie di patto, cit. Quasi le stesse parole ritornano nel romanzo: “Ma sono tutte sciocchezze e la sensazione più forte che ha è quella che a New York avrebbe dovuto restarci a vent’anni, con tante energie, con la voglia di far mattino e con lo stomaco ancora integro” (CS p. 162). 13 cfr. P.V. Tondelli, My sweet car, in “Cinema & Cinema”, marzo 1987, n.48, ora anche in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 143-147. 14 Ibidem.

293 E’ l’incipit del racconto della Bachmann, che ritorna, chiosato, nelle prime pagine di Camere separate, al momento della presentazione di Leo: Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni. E’ ben consapevole di non avere un’età comunemente definita matura o addirittura anziana. Ma sa di non essere più giovane (CS p. 8).

L’accostamento Tondelli-Bachmann risulta più evidente proseguendo la lettura di Il trentesimo anno, dal momento che il risveglio sul quale si chiude la citazione tondelliana si configura come presa di coscienza di un cambiamento interiore che si esprime nella necessità del ricordo: Quando riprende conoscenza e tremando ritorna in sé […], allora scopre dentro di sé una nuova meravigliosa facoltà. La facoltà di ricordare. […] E’ piuttosto una necessità dolorosa quella che lo costringe a ricordare tutti i suoi anni, quelli lievi e quelli travagliati, e tutti i luoghi dove in quegli anni aveva abitato. Getta la rete della memoria, la getta attorno a sé e tira su se stesso predatore e insieme preda, oltre la soglia del tempo, oltre la soglia del luogo, per capire chi egli sia stato e chi sia diventato.15

E’ la vera e propria esposizione del concetto cardine alla base di Camere separate: un viaggio alla ricerca di sé condotto sull’onda della memoria, con salti di tempo e di spazio privi di un ordine prestabilito; un viaggio che comincia proprio da Leo in viaggio, tanto che il ricordo s’infiltra nel testo già al momento della presentazione del protagonista, e riparte organicamente subito dopo. E’ interessante notare che pure nel libro della Bachmann il protagonista, ad un certo punto, si mette in viaggio, ed è proprio questo un secondo punto che Tondelli cita, in due successivi momenti, in My sweet car: Non spera nulla. Non riflette più su nulla. Avrà ancora tempo abbastanza per occuparsi della sua futura residenza e del suo futuro lavoro... Impacca le sue tre cose, quel paio di libri, i portacenere... Perciò fa un viaggio pieno di indugi, lento, un viaggio attraverso le provincie italiane. […] Sulla fine del viaggio taceva. Non avrebbe voluto finirlo, alla fine avrebbe voluto scomparire, senza lasciare tracce, diventando introvabile.16

Anche in questo caso, Tondelli riprende in un brano di Camere separate gli stessi momenti tematici - procedere per negazioni, lentezza del viaggio, la provincia come meta, i pochi bagagli - distribuendoli maggiormente, rispetto a prima, lungo più estese considerazioni: Avverte in sé tutta l’esilità delle proprie motivazioni. Sa solamente che deve mettersi in viaggio. Non sa più cosa fare di se stesso. Vorrebbe dormire anni, mille anni […]. Vorrebbe scomparire assorbito dai vapori di una torbiera fumante. Vorrebbe

15 I. Bachmann, Il trentesimo anno (1961), Milano, Feltrinelli, 1999, p. 16. 16 P.V. Tondelli, My sweet car, cit., p. 147.

294 non tornare mai più dal suo viaggio, perdersi su un binario morto e scomparire senza lasciarsi dietro alcuna traccia. Non ha fissato una meta precisa. Ha intenzione di fare un viaggio lento, in treno, attraverso l’Europa. Evitare i centri importanti e le capitali. Fermarsi a dormire nelle piccole città di provincia […]. Ha radunato il suo bagaglio in tre sacche. Ha portato con sé un solo libro che intende leggere, riga dopo riga, come i versetti della Bibbia (CS pp. 57-58).

Il trentesimo anno si configura così come un testo molto importante nei confronti di Camere separate - nel quale ritornano altri motivi, come l’insistenza sul dormire -, e si pone in una posizione particolare in rapporto all’ultima produzione tondelliana anche per la sua struttura quasi diaristica, con le date dell’anno narrato immesse nella narrazione in maniera quasi nascosta. In questa direzione, lo si potrebbe affiancare a October di Isherwood, entrambi suggestione per alcuni racconti tondelliani del periodo, entrambi modelli per le frequenti indicazioni temporali, spesso analogamente mimetizzate nel testo, che compaiono nel romanzo. La ricognizione narrativa tondelliana spazia quindi tra tematiche che verranno compendiate in Camere separate, rendendo l’ultima prova dello scrittore emiliano quasi una summa nei confronti della sua produzione precedente. Così, in Frammenti dell’autore inattivo, sempre del 1987, già citato, Tondelli esamina il tema della scrittura, che in Camere separate ritornerà come componente imprescindibile della figura di Leo, il cui lavoro di scrittore diventa espressione di diversità, in un contesto riflessivo dove il concetto di “diverso” assume una pregnanza elevatissima. Frammenti dell’autore inattivo, che si dipana secondo le linee di un saggio, ma per il quale lo stesso Tondelli ha voluto la definizione “racconto”, testimonia la tensione verso nuove forme di scrittura, inserendosi, come fa notare Panzeri, “all’interno di una sequenza di altri materiali così sospesi tra riflessione critica, frammento autobiografico, ricerca di affinità letterarie”.17 Proprio in questa direzione acquista un ulteriore motivo di interesse, perché aggiunge un altro nome alle nuove coordinate dei riferimenti letterari tondelliani, inserendovi, dopo Christopher Isherwood e Ingeborg Bachmann, Peter Bichsel, del quale compare una citazione da Il lettore, il narrare.18 E’ un libro che riveste una

17 F. Panzeri, Note ai testi, in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., p. 302. 18 Pur non rinunciando ai suoi tradizionali riferimenti, che sono tuttora riscontrabili nel testo - si confronti ad esempio l’omaggio a Kerouac nella parte finale di Camere separate -, Tondelli sembra ora spostarsi gradualmente verso una scrittura più intimista, che prende a modello autori di area linguistica tedesca, come Ingeborg Bachmann, Peter Bichsel e Peter Handke, più volte citati negli scritti del periodo, senza dimenticare i frequenti accenni alle Elegie Duinesi di Rilke, fatti da Tondelli nelle interviste rilasciate in relazione a Camere separate. In particolare, riguardo al libro di Bichsel, sono interessanti alcune riflessioni esposte in un dattiloscritto inedito, del quale dà notizia Panzeri, assai chiarificatrici della ricerca di una scrittura che si definisca al tempo stesso come saggio e racconto: “E’ un testo facilissimo che affronta però alcuni nuclei cruciali dell’attività letteraria e non si spaventa di affrontare […] le domande più difficili […]. Bichsel risponde producendo altre storie […]. Mi sembra che la funzione accademica di Bichsel, proprio nell’atto classico della conferenza, si trasformi in una

295 notevole importanza per Tondelli, ritornando in vari altri momenti della sua produzione, per esempio come ‘guida’ in una conferenza scolastica del 1989, fino al calco in Camere separate, che riprende analoghe considerazioni di Bichsel analizzate in riferimento a Rimini: Se lui non scrive, se non vuole più scrivere non è tanto perché gli manca l’ispirazione, non è tanto perché ha perduto Thomas, ma perché sta invecchiando. Perché il suo corpo comincia a scricchiolare sotto il peso di quanto si è scritto addosso; in sostanza lui si vergogna di quel suo corpo troppo incurvato dalle parole. E allora desiste e ricade nell’inattività (CS p. 96).19

L’idea della corporalità della scrittura, definita da Tondelli “uno strumento […] per mangiare e guardare la realtà”20, viene trasmessa da Frammenti dell’autore inattivo a Camere separate nell’analogo collegamento scrittura - sessualità, sul quale inizia la riflessione del racconto: E’ un po’ la sensazione che si prova dopo certi incontri sessuali e amorosi che straziano, nei quali ci giochiamo con il partner l’interezza del nostro corpo e dei nostri affetti […]. Nei momenti di inattività è probabile che una persona, uno scrittore, lavori semplicemente al recupero di se stesso, a ricostruire quello che la scrittura, o l’incontro sessuale, inevitabilmente gli ha frantumato dentro.21

In Camere separate Tondelli approfondisce il motivo, inserendolo all’interno della riflessione sulla diversità, con un passaggio dalla genericità del contesto del racconto alla personalizzazione sullo scrittore Leo: La sua diversità […] non è tanto il fatto di non avere un lavoro, né una casa, né un compagno, né figli, ma proprio il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quello che gli altri sono ben contenti di tacere. La sua sessualità, la sua sensualità si giocano non con altre persone, come lui ha sempre creduto, […] ma proprio nell’elaborazione costante, nel corpo a corpo, con un testo che ancora non c’è (CS p. 212).

Un analogo andamento tra narrativa e saggistica presenta Un racconto sul vino, del 1988, nel quale, a partire da un ritorno a casa nel periodo dell’imbottigliamento del vino e dal ricordo di un lavoro universitario preparato per un esame con Eco, Tondelli propone un attraversamento della cultura del vino che la rende emblema delle tradizioni della propria terra. Come Camere separate, il racconto sembra chiudere in sé il percorso narrativo

deliziosa macchina per raccontare altre storie come se l’insegnamento e la comunicazione dell’esperienza letteraria fossero possibili solo in un processo di fabulazione continuo”. Ivi, p. 304. Tondelli sceglie la parola “conferenza” perché il libro di Bichsel raccoglie cinque lezioni tenute dall’autore svizzero all’università di Francoforte. 19 Tondelli associa spesso in questo periodo - sulle orme di Bichsel - la scrittura e l’idea di invecchiamento, o meglio quest’ultima e la difficoltà di scrivere, in considerazioni che, oltre che in Camere separate e Frammenti dell’autore inattivo, ritornano in P.V. Tondelli, Un momento della scrittura, in AA.VV., Sul racconto, Ancona, Il Lavoro editoriale, 1989. 20 P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 15. 21 P.V. Tondelli, Frammenti dell’autore inattivo, cit., p. 404.

296 tondelliano, iniziando con un’immagine che non può non richiamare Autobahn, l’episodio conclusivo di Altri libertini: Uscendo un giorno, solo qualche tempo fa, dall’autostrada e immettendomi sulla provinciale verso la campagna, ecco i soliti, antichi odori che mi facevano sorridere e dire finalmente: “Sto per arrivare a casa.” Odori che ancor più distintamente avverto quando arrivo in treno e già scendendo sul binario, a seconda delle stagioni, ecco la nebbia fruttata del primo inverno che sa di vino e di mele, oppure l’odore del fieno tagliato che sta essiccando nella calura d’agosto, o ancora quello della fioritura o del concime sparso nei campi. Odori che immediatamente mi riportano a un tempo dell’anno. […] Scendendo da un treno e annusando quegli odori, ho la profonda consapevolezza di essere impastato di quelle nebbie e di quei vapori che la campagna assume in certi giorni dell’anno. E che le mie radici sono in nessun’altra parte che in quel mondo contadino.22

L’insistenza sul motivo dell’odore è una chiara ripresa della partenza “verso l’avventuraaaaa” alla ricerca dell’odore del Mare del Nord del finale di Altri libertini, e, significativamente, si presenta qui associata all’idea del ritorno, diventa l’odore della propria terra, unendo il percorso del narratore di Viaggio (“Sulla mia terra, solamente quel che sono mi aiuterà a vivere” AL p. 130) e il ritorno al paese di Leo in Camere separate. Oltremodo interessante, quindi, che la stessa immagine della terra emiliana ritorni in Camere separate, nella parte che più riprende situazioni proprie di Altri libertini, quando Leo inizia a ricordare un fatto accadutogli molti anni prima: Nell’aria c’era ancora il profumo dell’uva appena vendemmiata e la nebbia che saliva, in quel tramonto autunnale, dai fossi e dai bacini d’irrigazione, pareva il lento respiro della terra in procinto di addormentarsi. […] L’odore della terra gli entrava dentro, forte e vitale (CS pp. 39-40).

Tondelli utilizza gli stessi elementi del racconto, segnalando con essi l’inizio e la fine di una parentesi che riporta contenutisticamente ad Altri libertini e che riceve una precisa, inconfondibile connotazione di citazione proprio nella sua immagine finale: E fu un odore a riportarlo a casa. A fargli capire che stava ormai arrivando, che il viaggio, o almeno quella parte eccessiva del viaggio, stava per avere termine. L’odore era forte, distinguibile tra le nebbie profumate di vino e di terra marcia. […] Era l’odore della sua terra, di una campagna in cui vivevano più porci che uomini (CS p. 51).

La ripresa da Autobahn, come nel caso di Un racconto sul vino, è evidentissima e si inserisce in una rivisitazione del mito giovanile che porta ad un suo ripensamento, riflessione che spesso aleggia nelle pagine di Camere separate, altrove molto più esplicita. E’ importante ad ogni modo osservare che Tondelli vuole collegare in una sorta di continuità il suo percorso narrativo, attraverso il ritorno di immagini analoghe in scritti

22 P.V. Tondelli, Un racconto sul vino, cit., pp. 152-153.

297 differenti. Se poi si considera che il racconto, per quanto definito tale dall’autore, sembra dispiegarsi più secondo le forme del saggio e del ricordo, le sue riprese in Camere separate si rivestono di una più giustificata valenza autobiografica. L’importanza di Un racconto sul vino consiste, inoltre, nel fatto che Tondelli vi anticipa le reali ragioni del ritorno a casa di Leo, una ricerca di sé che diventa ricerca delle proprie radici, definita nel racconto “inderogabile […] necessità di innestarsi sull’esperienza e sulla vita di chi lo ha preceduto”.23 Proprio nel finale di Un racconto sul vino, Tondelli sembra riassumere il proprio cammino, tanto da rendere plausibile un’estensione delle sue parole, in riferimento non tanto alla tesina per l’esame di Eco ed alle riflessioni che è venuto svolgendo nel corso del racconto, ma ad un percorso che parte dal disordinato viaggiare dell’esordio e giunge alle riflessioni di Leo in Camere separate. Conclude Tondelli, in Un racconto sul vino: Così ritorno al punto di partenza. Questo viaggio letterario ricco di vissuti, di esperienze, di ricordi, di volti di amici, inevitabilmente finisce là dove è incominciato: in terra d’Emilia. E’ occorso del tempo per capire, dentro di me, che pur essendo un inguaribile estimatore di musica pop e rock, pur essendo un consumatore di cinema americano e di letteratura della beat generation, sono anche profondamente emiliano. E, in questo senso, legato alle mie origini in quel modo tutto particolare - generoso, forse -, esuberante e ansiosamente malinconico che hanno i personaggi della mia terra. Quando ho cominciato a ricercare nelle opere letterarie i significati che il vino, di volta in volta, aveva prodotto, in realtà cercavo una via di fuga alle ristrettezze della vita provinciale. Cercavo altri contenuti da immettere in una personalità ancora in cerca d’autore. A distanza di dieci anni, avendo viaggiato, conosciuto altri continenti e altre tradizioni, mi ritrovo a osservare i miei genitori che imbottigliano il vino […] con la consapevolezza che, scomparsi loro, io - con tutti i miei libri e la mia letteratura - non saprò fare altrettanto.24

E’ un’esplicita lettura della propria opera, quasi una chiosa rispetto a Camere separate, al quale poi il racconto si ricollega nelle ultime righe, attraverso il riferimento a una coppia di scrittori emiliani con il quale Tondelli specifica anche in campo artistico la direzione del suo ritorno a casa, individuando per la sua produzione finale, questa volta sul versante italiano, gli stessi modelli, Silvio D’Arzo e Antonio Delfini, che ritorneranno espressamente in Camere separate come emblema della propria “bizzarria o lunaticità malinconica e assorta” (CS p. 118). In questi anni Tondelli si impegna anche in una attività parallela alla propria scrittura che sicuramente contribuisce a farne un punto di riferimento per gli scrittori di qualche anno più giovani che verranno dopo di lui, e cioè il “progetto Under 25”. E’ un’attività che, in collaborazione con la casa editrice “Il Lavoro editoriale” di Ancona, permetterà la raccolta di numerosi manoscritti di autori non ancora venticinquenni, concretizzandosi poi nella

23 Ivi, p. 154. 24 Ivi, pp. 168-169.

298 pubblicazione di tre antologie, due, Giovani Blues (Under 25 I) e Belli & perversi (Under 25 II), precedenti a Camere separate, essendo rispettivamente del 1986 e del 1987, la terza, Papergang (Under 25 III), uscita nel 1990.25 La critica ha variamente giudicato il progetto, vestendo generalmente Tondelli dei panni del talent-scout, ma è interessante notare che le sue originarie intenzioni identificavano l’iniziativa “come un’inchiesta condotta con gli strumenti della narrazione sulla creatività delle nuove generazioni”.26 Nei propositi di Tondelli il “progetto Under 25” assume il valore di un recupero del collettivo e s’inquadra in uno stretto rapporto con il tema della solitudine dell’artista sviluppato ampiamente in Camere separate: Considero una parte importante del mio lavoro di scrittore fornire ai ragazzi uno strumento valido per pubblicare e per farsi leggere. […] Per me, fare letteratura non significa solo scrivere, ma anche pubblicare. Significa lavorare sui testi di questi ragazzi, chiedere di riscriverli, correggerli e aiutarli nella pubblicazione. In un certo senso, è un lavoro collettivo che mi ripaga dell’estrema solitudine in cui sono costretto quando a scrivere sono io.27

Una simile attività di editor coinvolge Tondelli quale curatore della collana “Mouse to mouse” per Mondadori, precocemente naufragata nelle vicende legate al passaggio di proprietà della casa editrice e alla successiva ristrutturazione. Solamente due i testi usciti, con la quarta di copertina firmata da Tondelli, nel 1988: Fotomodella di Elisabetta Valentini e Hotel Hoasis di Gianni De Martino. Anche questa esperienza va interpretata in stretto rapporto a Camere separate - che Tondelli stava elaborando in questo periodo -, e rappresenta, per così dire, la parte pubblica di un autore che, viceversa, stava svolgendo

25 Le antologie curate da Tondelli trovano una linea di continuità, ponendosi in ciò come dei riferimenti, in operazioni analoghe e posteriori, come quelle curate da S. Ballestra - che aveva esordito in Papergang - e G. Mozzi, Coda, Ancona, Transeuropa, 1996, o, ancora dallo stesso Mozzi e da M. Bastianello, Che cosa facciamo questa sera?, Il Poligrafo, 1997; su un piano di analoga continuità, l’antologia a cura di G. Conti - pure lui esordiente in Papergang -, Dire scrivere pubblicare leggere valutare, Guaraldi, 1997. In questo senso si può tranquillamente identificare un’eredità tondelliana che va oltre il piano artistico vero e proprio, proiettandosi in un più vasto ambito di impegno culturale. 26 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 91. 27 P.V. Tondelli, Un momento della scrittura, cit., p. 47. Piuttosto interessanti, sulle modalità di inscrizione del progetto Under 25 all’interno dell’intera opera tondelliana, le considerazioni di Romolo Bugaro, autore di un racconto inserito in Belli & perversi: “Interessante […] notare come la nascita e le progressive mutazioni del progetto stesso in qualche modo offrano non solo e non tanto la fotografia attendibile di una generazione di esordienti a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, ma anche, in filigrana, un ritratto straordinariamente preciso dello stesso Tondelli: l’attenzione per il mondo giovanile, i suoi riti e i suoi disagi; la scommessa di mettere in campo voci e linguaggi nuovi, costruendo un vero e proprio laboratorio per la loro raccolta; la scelta degli autori da pubblicare - tutto questo ci restituisce la voce inconfondibile dello scrittore, tanto che il progetto Under 25, pur non essendo romanzo né racconto, per certi versi può essere considerato parte del lavoro creativo di Tondelli, e parte non secondaria.” R. Bugaro, Scommessa sulla scrittura, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 194-197 [il corsivo è originale].

299 nell’ultimo romanzo la rappresentazione più intima di quell’attività, lo scrivere, da lui definita (anche) “scarnificarsi in pubblico”28. Il cammino verso Camere separate si rivela, dunque, assai eterogeneo e ricco di spunti destinati a confluire nel romanzo, consolidando l’immagine dell’opera di Tondelli come di un percorso caratterizzato da continuità e notevole coesione interna, per quanto contrassegnato da scelte artistiche eterogenee tra libro e libro, un percorso all’interno del quale la riscrittura e l’autocitazione svolgono un importante ruolo connettivo.

IV.2 Il nuovo romanzo: un’immersione nel passato per superare il presente.

Camere separate adotta una struttura apparentemente semplice, suddivisa in tre parti, che Tondelli ha scelto di chiamare “movimenti”, in associazione alla “musica ambientale”, più volte individuata come modello per la partitura del testo, proprio per il carattere di circolarità, caratterizzato dai ritorni del medesimo contenuto nelle tre parti. E’ una narrazione ciclica che in ogni movimento sviluppa gli stessi temi, creando una fitta serie di rimandi testuali ed una organizzazione temporale estremamente complessa, complicata dai continui passaggi tra narrazione e riflessione. Tondelli ha dettagliatamente chiarito modelli e finalità della struttura adottata, specificando le scelte formali in funzione delle analogie musicali: Con Camere separate non volevo restituire una confessione. Dovevo trovare una forma: ho pensato che per me potesse essere molto spontanea e molto genuina una forma musicale, perché questa narrazione è come un canto. E’ il canto di una persona sola che riflette, che riassorbe tutto il proprio passato, che si proietta nel futuro, nelle proprie esperienze. Allora ho preferito sviluppare tre momenti, tutti più o meno con gli stessi temi e non con uno svolgimento della narrazione da un punto a un altro, in modo tale da farli coesistere e da farli interagire in ciascun movimento. Più o meno la narrazione è conclusa in ogni movimento, un po’ come nella musica minimale o ambientale. C’è sempre la stessa nota, lo stesso gruppo di note, che si riproducono, quasi in circolo. Sembra sempre che non cambi niente, invece è un modo per scavare... Alla fine ti cambia la partitura. […] Ho dovuto lavorare molto sulla decisione di non dare uno sviluppo troppo lineare a questa storia. Mi piaceva invece tornare continuamente sugli stessi temi che poi sono la morte. la separazione, la solitudine. Ho iniziato così a creare una circolarità di struttura in tre movimenti […]. Tale circolarità mi avrebbe permesso di far sì che i temi restassero sempre gli stessi, ma sviluppati via via sempre più profondamente. L’idea era un po’ quella della musica ambientale in cui ci sono sempre le stesse note, apparentemente non cambia niente e poi, in effetti, capisci che non stai fermo, che ti stai muovendo.29

28 P.V. Tondelli, Un momento della scrittura, cit., p. 48.

300 All’interno dei tre movimenti non esiste una suddivisione in capitoli ma, come accadeva in Altri libertini e, in maniera molto più evidente, in Pao Pao, il ritmo del racconto viene tipograficamente scandito dalla spaziatura. Il tutto rivela una forte simmetria, dal momento che il primo e il terzo movimento si equivalgono all’incirca per numero di pagine, mentre il secondo, non a caso intitolato Il mondo di Leo, manifesta la sua centralità anche nella consistenza, più che doppia rispetto agli altri. Sono considerazioni che assumono importanza in un autore sempre molto attento agli aspetti strutturali e fortemente interessato alla ‘numerologia’ del testo, come traspariva dalla ridondanza, ad ogni livello - micro e macrostrutturale: partizione del testo, stile, presenza nominale -, del numero tre in Rimini, e come, in maniera più significativa, si può riscontrare in Biglietti agli amici, dove compare una complicatissima associazione numerica tra ore del giorno e della notte e tavole angeliche ed astrologiche. Camere separate si apre sul viso di Leo - il narratore in terza persona assoluto protagonista - che si specchia nell’oblò di un aereo in volo tra Parigi e Monaco, un’immagine che già introduce il motivo della ricerca di sé nello sdoppiamento tra il volto reale che gli rimanda il finestrino - sottoposto al passare del tempo - e quello, immutabile, impresso nella memoria. Con una estrema capacità di sintesi, Tondelli introduce motivi fondamentali del romanzo: oltre a quello dell’identità, la paternità, che compare nel sintetico parallelo tra la sua faccia e quella del padre; la connotazione dell’età, che accompagna i continui movimenti di andata e ritorno rispetto all’asse temporale; il concetto di diversità, sul quale viene articolata, a più riprese, una profonda riflessione, e, ad esso intimamente legato, quello di solitudine. La preparazione all’atterraggio distoglie Leo dalle riflessioni per portarlo ad immaginare Thomas, il suo compagno, che lo attende nell’atrio dell’aeroporto, il loro incontro ed il loro abbraccio, finché Tondelli riporta bruscamente il suo protagonista, ed il lettore, alla realtà dominata dalla solitudine dopo la morte di Thomas, avvenuta due anni prima. Fin dalle prime pagine, quindi, Camere separate si propone come una narrazione atipica, una storia il cui finale è noto fin dall’inizio, lasciando prevedere un andamento ciclico, contrassegnato dalle numerose infrazioni temporali, una narrazione continuamente in bilico tra ricordo, racconto e riflessione, sogno e realtà, una realtà che Leo preferisce non a caso chiamare “il presente stato di questo sogno” (CS p. 9). Il romanzo riparte con un salto temporale e spaziale, per narrare la prima volta che Leo vede Thomas a Parigi, ad una festa alla quale si era recato in compagnia di Michael, un amico americano suonatore di sax. La successiva telefonata da Milano di Rodolfo, che gli

29 F. Panzeri-G. Picone, op cit., pp. 51-52.

301 parla di Hermann, ultimo compagno di Leo, offre lo spunto per una riflessione di quest’ultimo sulle tipologie gay, con riferimenti letterari da Ginsberg a Auden: Chez Maxim’s, Whitman, wrong blond, Vondel Park. La scena seguente è ambientata a casa di Leo, che organizza una festa per poter rivedere Thomas e conoscerlo meglio. Leo telefona a Thomas il giorno dopo e i due fissano un appuntamento ad un concerto, occasione per Tondelli per descrivere lungamente la grande festa collettiva con i consueti mezzi stilistici, dal ritmo ternario all’elencazione. Il concerto mette in evidenza il contrasto tra la solitudine di Leo e l’evento collettivo, e sembra assumere quasi una funzione terapeutica nei confronti di Leo come individuo isolato, dal momento che egli viene prima accolto dalla moltitudine dei ragazzi del teatro, per poi riuscire finalmente a realizzare l’incontro con Thomas: “Leo […] prende coscienza di essere lui stesso non più soltanto un individuo separato, ma l’elemento di un fatto collettivo” (CS p. 24).30 Al concerto, quindi, Leo e Thomas si scambiano il loro primo bacio per poi recarsi a casa di Thomas. Dopo la lunga descrizione della notte d’amore, la narrazione riprende, con uno stacco al momento inavvertibile e per questo ancora più crudo, dalla visita di Leo a Thomas morente nel suo letto d’ospedale. Il colloquio tra i due e le contemporanee riflessioni di Leo vertono sui temi della maternità / paternità di Leo nei confronti del bambino Thomas, che ritorna basilare lungo tutto il romanzo, e sull’impossibilità di riconoscimento sociale della loro unione, finché la narrazione si chiude sull’estremo saluto di Leo e sulla sua visione degli occhi spalancati di Thomas. Leo ritorna a Milano e nella notturna riflessione rievoca un lontano episodio della propria vita, quando, poco più che ventenne, si stava recando ad un appuntamento per acquistare della droga per una ragazza. E’ un salto indietro negli anni che riporta alle

30 Tondelli aveva raccontato eventi analoghi nella cronaca di alcuni concerti, in particolare di quello berlinese dei Bronski Beat - il gruppo che per quanto non espressamente nominato si capisce essere protagonista del concerto allo Zenith in Camere separate - in un articolo comparso su “Linus” (P.V. Tondelli, Teneri Bronski Beat, in “Linus”, n.238, gennaio 1985). Questo ed altri sono poi confluiti, riscritti, in Id., Quarantacinquegiri per dieci anni, cit., nel quale si ritrovano dettagli di Camere separate: “La sala a cupola del Metropole, oggi, 23 novembre 1984, è gremita e ondeggiante sotto l’urto ritmato di migliaia di piedi che battono il tempo delle canzoni.” Ivi, p. 266, è associabile alla stessa sensazione che in Camere separate è maggiormente narrativizzata: “Improvvisamente prende corpo nella grande sala un ritmo diverso […]. Il rombo assorbe gradualmente tutte le altre grida, le altre urla, i fischi, gli applausi. Stanno pestando sul pavimento di legno, prima dieci, poi cinquanta, poi cento e ora in duemila” (CS p. 26). Analogamente, la scena di Thomas che dondola appeso alla balconata prima di lasciarsi cadere sul pubblico in festa fa il paio - presentandosi quindi come l’ennesima autocitazione tondelliana - con una molto simile relativa ad un concerto dei Police, descritta per la prima volta in Id., Ballare insieme toglie la paura, “Il Resto del Carlino”, 5 aprile 1980: “In cima all’abete, vedo un ragazzo che s dondola da un ramo […] nel tentativo di raggiungere il finestrone spalancato. […] Dall’interno, trascinano fino al finestrone un lembo del tendaggio. Lo buttano fuori. Il ragazzo lo afferra al primo tentativo […] e si butta in avanti […]: rimane per un attimo sospeso, allungato nel vuoto, le gambe ancora sul ramo e le braccia ormai dentro al palasport; poi si libera, arranca sulla parete, […] è dentro.” Id., Quarantacinque giri per dieci anni, cit., p. 255.

302 atmosfere ed alle situazioni di Altri libertini, una rivisitazione dove sembrano ritornare i personaggi di Postoristoro, di cui vi compare il motivo dell’attesa, un’attesa snervante che conduce Leo ad una fuga per mezzo della quale realizza una crescita e il passaggio alla condizione di adulto. E’ un viaggio che a partire dalla casa di Bachi, luogo dello scambio, attraverso i campi, si conclude in un bagno purificatore nel delta del fiume, un viaggio costellato da immagini di morte e di rinascita, dal motivo della maternità e dalla ricerca della propria identità. La parentesi del ricordo si chiude e con il ritorno all’immagine di Leo assorto nei suoi pensieri nella sua cucina milanese si chiude anche il primo movimento. Il secondo movimento si apre, con un’autocitazione da Biglietti agli amici e con calchi bachmanniani da Il trentesimo anno, sul viaggio in treno di Leo attraverso l’Europa, un viaggio parallelo al ricordo dei viaggi compiuti con Thomas. Sfilano così, sull’onda del ricordo la Deutsche Eiche di Monaco, Colonia, una conferenza all’università di Duisburg, di volta in volta occasioni per riflessioni sul riconoscimento sociale delle proprie condizioni, a partire dalle descrizioni degli ambienti e dei riti di una minoranza che così “risolveva il problema della propria diversità” (CS pp. 59-60), alla necessità di far partecipare Thomas alle occasioni pubbliche in cui Leo era invitato. Al viaggio si alternano le riflessioni di Leo sul proprio rapporto con Thomas, cosicché ricordo e viaggio si susseguono, confusamente, senza soluzione di continuità, e anche l’apparente ritorno al presente, con l’arrivo a Londra, viene subito interrotto dalla memoria di un viaggio a Dresda. E’ una parentesi che riprende situazioni presenti già in Pier a gennaio, concludendosi tra il ricordo di Leo bambino terrorizzato dalle immagini televisive delle persecuzioni naziste e la visita alla pinacoteca di Dresda, ancora descritta in una confusione continua di ricordi. L’arrivo a Folkestone e il trasferimento a Londra spingono Leo a decidere di rafforzare la sua solitudine, evitando amici e conoscenti, e lo impegnano nella ricerca di un’abitazione, occasione che Tondelli coglie per l’inserimento di una lunga parentesi sulle condizioni abitative londinesi, una parentesi che sfocia nella denuncia dello sfruttamento delle manodopere provenienti dai paesi del Terzo Mondo. La descrizione delle giornate di Leo spazia tra riprese di situazioni da scritti precedenti e riflessioni sulla solitudine. L’elaborazione del lutto per la morte di Thomas induce in Leo una sorte di regressione all’infanzia, alla ricerca della definizione della propria identità, ricerca che lo porta alla decisione di ritornare a Milano; sull’immagine di Leo in volo sopra le Alpi - analoga a quella che apriva il romanzo - si chiude la prima delle quattro parti che suddividono tipograficamente il secondo movimento. A Milano Leo continua la sua vita solitaria, in una crisi che coinvolge anche la sua professione di scrittore e che Tondelli narra con fortissime valenze autobiografiche. La riflessione sulla sua situazione conduce ad un riaccostamento alla religione, una “vocazione

303 religiosa […] irrinunciabile” (CS p. 98), vissuta sempre in maniera isolata, che si esplicita nella lettura della Bibbia. La memoria di Leo evoca l’analoga tensione verso il misticismo vissuta ai tempi dell’abbandono di Hermann, consentendo la narrazione di un episodio di quella relazione. E’ una storia che si sviluppa con toni simili a quella di Bruno e Aelred in Rimini, e che, attraverso situazioni di tossicodipendenza che ricordano i primi lavori tondelliani, consente una rivisitazione di quella mitologia giovanile che ora Tondelli definisce “pazzia” (CS p. 104). La narrazione procede tra riflessioni e autocitazioni, finché Leo realizza il significato più profondo della perdita di Thomas nei termini di spinta verso la scoperta del “senso della propria solitudine” (CS p. 106), un’autoanalisi che lo riconduce al paese in cui è nato. Il rientro a casa, che inizia con la descrizione del borgo, lascia presto spazio al ritratto dei genitori, prima di ritornare sulla “personale tragedia” (CS p. 115) per riflettere sulla mancanza di riconoscimento sociale del suo lutto. Il libro continua con la descrizione della stanza di Leo per poi ripartire, con l’osservazione della cerimonia del Venerdì Santo, dal ricordo di un viaggio spagnolo con Thomas, che li aveva visti arrivare a Barcellona proprio in un Venerdì Santo. Il viaggio era proseguito fino a Saragozza, dove tra i due era scoppiata una violenta lite, sostanzialmente procurata dalle nevrosi di Leo sul rapporto col partner. La riconciliazione e la corrida di Pasqua chiudono il ricordo, sull’immagine - metafora assai significativa - dei tori macellati nel retro dell’arena. Il ritorno al borgo comporta per Leo lunghe passeggiate solitarie, spesso notturne per evitare i conoscenti, finché un corteo religioso introduce il ricordo di lui bambino che - assieme ad altri - portava la statua della Madonna, un ricordo che diventa occasione per riflettere sulla propria diversità e sull’umiliazione di dover apparire come gli altri. La narrazione alterna ricordo e presente del corteo religioso, finché Leo elabora la visione come partecipazione al proprio corteo funebre. La narrazione riparte dal trentunesimo compleanno di Leo, in una città della riviera adriatica, e dall’analisi della sua solitudine, presente e passata, con riflessioni sulla sua impossibilità di diventare padre. Il soggiorno al mare è l’occasione per rivedere Hermann e passare qualche giorno con lui. Dopo l’inverno a Milano, Leo si reca negli Stati Uniti, invitato da Michael. La maggior parte della narrazione ruota attorno agli spettacoli che si svolgono in un locale per omosessuali, dove Leo ha un occasionale incontro con un ballerino. La violenza del rapporto sessuale riporta Leo con la memoria a quando, ragazzino, si era trovato in sala operatoria terrorizzato dalla paura di morire, e le immagini del racconto si alternano tra il locale americano e l’ospedale. Il soggiorno di Leo a New York dura tre settimane, dopodiché decide di ritornare a Milano, e sul volo di ritorno si chiude il secondo

304 movimento, con Leo che incontra sull’aereo un suo alter ego, un vecchio che riporta in Italia il corpo del figlio morto di cancro. Il terzo movimento si apre sulla figura di Thomas, sulle problematiche legate al suo futuro professionale ed alla relazione con Leo, con un tentativo di convivenza a Milano, presto interrotta. Comincia così tra i due un fitto, quotidiano, rapporto epistolare, che Leo percepisce come “frutto concreto” (CS p. 177) del loro amore, prodotto materiale destinato a sopravvivere a loro stessi come testimonianza “del loro impossibile, ma vero, tentato amore” (CS p. 177). Inizia la fase della loro relazione che Leo aveva definto “camere separate”, che consisteva nel trascorrere insieme la primavera e l’estate mentre per il resto dell’anno ciascuno si dedicava ai propri progetti. L’assestamento della relazione spinge Leo ad una breve visita a Thomas a Berlino, un rivedersi pieno di difficoltà, anche se poi risolto nella comprensione. In questo momento si situa il breve viaggio a Dresda narrato da Leo in precedenza, dopodiché il racconto riparte con la specificazione dei termini delle camere separate e l’introduzione di una terza persona nel rapporto da parte di Thomas, una ragazza di nome Susann. Questo è l’ultimo dato del ricordo prima della telefonata del padre di Thomas che avvisa Leo della vicina morte del compagno. A questo punto Tondelli ricollega la narrazione al rientro dagli Stati Uniti e alla solitudine milanese di Leo. Il lento ritorno alla socialità comincia a Firenze, dove è ospitato dall’amico Rodolfo, che organizza una cena per fargli conoscere persone nuove. Con una di queste, Eugenio, inizia un’intensa amicizia, attraverso la quale, senza complicazioni sentimentali, Leo comincia a curare la sua solitudine. L’ultimo stacco lo vede all’interno di un autobus canadese, dove la visione di due ragazzi in viaggio lo riporta ad un suo precedente ritorno dalla Grecia, sul ponte pieno di sacchi a pelo di una nave, inaspettatamente, a “vegliare sul sonno di quelle centinaia di giovani” (CS p. 208). Nell’autobus, Leo riflette sulla sua scrittura, e sulla scrittura, all’apertura di un convegno su Kerouac, con un omaggio al grande scrittore della beat generation che chiude con circolarità il percorso narrativo di Tondelli, si chiude anche il romanzo. L’ultima immagine è il ritorno alla disponibilità alla vita di Leo, che, nello scoprire in sé la rinascita del desiderio davanti allo sguardo di un ragazzo intravisto in un pub, comincia a rallegrarsi del suo prossimo rientro in Italia e degli amici che lo aspettano. L’ultima riflessione però, crudamente realistica a posteriori, ribalta la situazione e chiude definitivamente la ciclicità del romanzo sulla rappresentazione di Leo che immagina l’ora della propria morte. Camere separate rivela dunque una trama anomala, fondata più sulle riflessioni del protagonista che non sull’effettiva narrazione, dotata di una struttura ripetitiva, ciclica, che lo stesso Tondelli ha poi voluto evidenziare. Viceversa, non si riscontra una particolare

305 attenzione a questo riguardo nelle recensioni al libro, orientate verso l’analisi, anche piuttosto precisa, delle componenti tematiche e stilistiche. La critica sembra invece sostanzialmente concordare, al di là del giudizio globale che può andare dall’accettazione più entusiasta al rifiuto più totale31, sull’identificazione di Camere separate come romanzo della maturità. Proprio a questo riguardo diventa interessante notare che Tondelli aveva in merito un’opinione fortemente discorde: Credo che Rimini sia stato il momento della maturità oggettiva, strutturale. In Camere separate c’è una struttura molto più libera, in cui si approfondiscono, molto semplicemente, le tematiche che già sottostavano nei miei libri precedenti.32

Tondelli riscontra così in Camere separate un carattere di riepilogo, istituendo implicitamente una linea di continuità all’interno della sua opera e spostando il concetto di maturità, in un’interpretazione del termine nel senso di acquisite capacità tecniche ed artistiche, qualche anno più addietro. La sfasatura di opinioni si può con ogni probabilità imputare ad un disagio, da parte di certa critica, di fronte a scelte artistiche non totalmente condivise, che aveva portato quasi ad una sospensione del giudizio su Rimini, in attesa degli svolgimenti futuri dell’opera tondelliana. Questo, in conseguenza anche di una lettura ‘ideologica’ della letteratura, una lettura forse troppo arroccata sugli entusiasmi per Altri libertini e dunque non in grado di valutare sviluppi diversi da quelli previsti. Valga, a titolo di esempio, la chiusura della recensione di Turchetta, per il resto molto preciso e dettagliato - anche se non sempre condivisibile: Camere separate […] rischia anche di segnare per Tondelli un ulteriore passo, dopo il giallo di Rimini, verso i confini, commercialmente dignitosi ma di discutibile qualità letteraria, della narrativa in [di?] genere. Francamente avevamo da lui sperato ben altro.33

Non poco, poi, possono avere influito sul termine “maturità” le riflessioni, di ispirazione bachmanniana, che Tondelli inserisce in Camere separate sul trentesimo anno

31 I giudizi critici su Camere separate spaziano dagli entusiasmi di Del Buono (“Bellissimo libro di passaggio di P.V. Tondelli, il suo migliore”. O. Del Buono, Giovinezza, addio, in “Panorama”, 4 giugno 1989) e De Michelis, che parla di “straordinario e felice romanzo d’amore e di morte, di nostalgia e maturità”, (C. De Michelis, Tondelli, “Il Gazzettino”, 22 luglio 1989), alla stroncatura feroce di A. Guglielmi: “Con Camere separate Tondelli ha voluto abbandonare ogni presunzione sperimentale e allinearsi alle aspettative del lettore. […] Con Camere separate […] Tondelli si dimostra uno scrittore maturo (come e scritto nel risvolto di copertina): ma ciò nel senso che dimostra per sempre, superando i nostri dubbi dell’inizio, di essere uno scrittore comune, cioè un piccolo scrittore”. A. Guglielmi, L’amore retorico di Tondelli, “La Stampa”, 29 luglio 1989, poi in A. G., Trent’anni di intolleranza (mia), Milano, Rizzoli, 1995, pp. 84-85. Tra questi due estremi tutta un’eterogeneità di posizioni che vanno da accettazioni con qualche riserva a critiche più sfumate, confermando la posizione di Tondelli come autore ‘difficile’ da un punto di vista critico, spesso in polemica (garbata) con una certa tendenza critica. Sui rapporti con la critica cfr. le dichiarazioni dell’autore emiliano in F. Panzeri-G. Picone, op. cit., pp. 81-88. 32 G. Caliceti, Le camere separate di Pier Vittorio Tondelli, “Reporter”, 25 maggio 1989. 33 G. Turchetta, Camere rosa. Soprattutto piene d’enfasi, “L’Unità”, 7 giugno 1989.

306 come età di confine, soglia sulla quale fermarsi a ricapitolare la propria vita; la stessa rappresentazione del rapporto col compagno, di qualche anno più giovane, evidenzia “Leo [che] si avviava alla consapevolezza interiore e silenziosa dei suoi trent’anni”, mentre Thomas viene descritto nella “pienezza della gioventù” (CS p. 170). I due sono così ritratti nel contrasto tra Thomas ancora in formazione e Leo già assestato nella sua personalità, motivo al quale poi sono riconducibili i dubbi di Leo sulla relazione: Fu lui a sentirsi in trappola. A vedersi come assorbito da Thomas, da un ragazzo ancora molto giovane, che non aveva un lavoro, una professione, una sicurezza. Che si stava formando. Che doveva ancora decidere della propria vita. E cominciò a sentirsi come in una palude. Aveva impiegato anni e anni per costruirsi qualcosa di molto simile ad una esistenza normale, aveva sofferto, patito, sopportato. E ora si stava legando un’altra volta all’incerto e al caso (CS p. 64).

La forte valenza autobiografica e la facile identificazione Leo-Tondelli comporta poi l’attribuzione dei connotati di Leo all’autore, autorizzando in questa maniera definizioni critiche non sempre rigorose. Il modello bachmanniano per le riflessioni di Leo consente di analizzare alcune brevi considerazioni sull’opera della scrittrice austriaca che, valide anche per Camere separate, riportano alle osservazioni iniziali sulle carenze critiche. Scrive Tondelli: I racconti omonimi delle rispettive raccolte, Il trentesimo anno e Tre sentieri per il lago, costituiscono grandi pagine di quella letteratura interiore in cui non si svolgono plot, non si mettono in scena i popoli o i grandi avvenimenti della storia, ma dove gli eventi interiori assumono una potenza catastrofica.34

Camere separate appartiene sicuramente a questa “letteratura interiore” e stupisce, sul versante critico, la quasi totale mancanza di attenzione per la ciclicità del romanzo e il ritorno costante degli stessi motivi nei tre movimenti, una scelta strutturale che si rivela essenziale. Certo, qualche accenno all’assenza di un plot vero e proprio compare nella recensione di Fortunato, che parla di “trama [che] non si circostanzia […] in accadimenti, in uno svolgersi ordinato di azioni” e di “plot […] racchiuso e già compiuto prima e oltre le pagine del libro”35; Marta Fegiz, poi, definisce la struttura di Camere separate una “partitura musicale […] in tre “movimenti” […] realizzata […] con effetti superficiali”36, senza sviluppare, nel suo breve intervento, tale accenno di non immediata comprensione. Sono considerazioni che avrebbero meritato un approfondimento, se si considera che Tondelli ha sempre dedicato un’estrema cura all’aspetto strutturale dei suoi libri, a partire dai collegamenti quasi nascosti tra gli episodi di Altri libertini, per continuare con la complessa distribuzione su tre piani temporali di Pao Pao, culminando poi nella polifonia di

34 P.V. Tondelli, Delitti sublimi, in “Rockstar”, febbraio 1986, n. 65, ora anche in Id.., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 28-33. 35 M. Fortunato, Rimini addio, in “L’Espresso”, 21 maggio 1989. 36 M. Fegiz, Sonata in tre tempi per un viaggiatore, “La Repubblica”, 17 giugno 1989.

307 Rimini. Per di più, anche Biglietti agli amici, che nel 1986 segnala un primo rivolgimento verso l’interno della scrittura tondelliana, concretizzato da nuove acquisizioni stilistiche, si articola su complesse rispondenze numeriche correlate alle ventiquattro ore del giorno e della notte. Camere separate rimane fedele a questa scelta artistica, mostrando una struttura che si pone sotto il segno della ripetizione: tre movimenti caratterizzati da pochi motivi che ritornano continuamente, in una rete fitta di simmetrie testuali - basti pensare alle frequenti immagini di Leo in aereo - e di iterazioni dello stesso argomento che ogni volta aggiungono qualche dato alla sua comprensione.37 Così, per fare un esempio, il breve viaggio a Dresda che compare, con determinate caratterizzazioni - immersione nella realtà diversa dell’Est, ritorno all’infanzia, visita della pinacoteca che si confonde con i ricordi - nel secondo movimento, solo al momento del suo breve ritorno nel terzo riceve una precisa collocazione temporale. Analogamente, il viaggio in Spagna è datato solo nell’ultima parte, il che evidenzia una successione temporale a volte complicata dall’imprecisione dei tempi verbali.

IV.2.1 La narrativa della memoria.

La distribuzione temporale arricchisce notevolmente la struttura in tre movimenti, organizzando il testo, per mezzo di frequenti flashback, in una confusa sequenza di avvenimenti appartenenti a tempi diversi. Il loro accavallarsi senza soluzione di continuità è del resto un artificio necessario per movimentare una narrazione povera di fatti e nella quale i dati relativi alla storia sono resi noti fin dall’inizio. Ecco quindi che il testo si articola secondo le linee di una narrativa della memoria, con una direzione temporale invertita alla quale fanno da contrappunto le riflessioni del narratore, situate, di norma, nel tempo della scrittura. Non è del resto una novità osservare nell’opera tondelliana una simile valorizzazione della funzione del tempo, dal momento che l’autore stesso, esemplificando su Pao Pao, aveva parlato di progettualità narrativa relazionata alla “consapevolezza temporale della scrittura”38. In Pao Pao Tondelli articolava su tre tempi una successione di avvenimenti piuttosto fitta, fortemente connotata dall’essere costretta nello spazio temporale dell’anno di leva, e quindi in un certo senso obbligata, per quanto arricchita da alcuni tentativi di estensione verso passato e futuro. Ora, con Camere separate, Tondelli si ripete, organizzando il testo in una successione temporale molto più libera, sia per la preponderanza dei momenti riflessivi sugli avvenimenti, momenti che quindi sembrano far uscire la narrazione dal tempo, o privarla in qualche modo di questa connotazione; sia

37 Significativo che lo stesso Tondelli, in una sorta di autoesegesi, abbia chiarito, nelle conversazioni con Panzeri del 1989, le particolarità strutturali ed i modelli musicali di Camere separate. 38 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 49.

308 perché l’assenza di limiti temporali predefiniti gli consente di spaziare tra passato e futuro, estendendo la narrazione da una parte all’infanzia del protagonista, Leo, dall’altra all’ultimo momento possibile, chiudendo la storia con Leo che immagina la propria morte. Ad ogni buon conto, una certa linearità nella struttura del libro si può poi riscontrare, dal momento che ogni movimento, nonostante la presenza di una o più immersioni in un passato a volte molto lontano, si conclude con un ritorno in superficie che conferisce al romanzo un’innegabile direzione temporale orientata verso il futuro. Il percorso di Leo assume così le forme di un’autoanalisi che scava, crudamente a volte, nella memoria, in una sorta di discesa agli inferi che si pone come necessario viatico per un recupero di se stesso, un cammino nel quale la “separatezza” del titolo viene più volte evidenziata nei termini di diversità, causa di una voluta solitudine che il protagonista può curare solo con la ritrovata disponibilità al rapporto con gli altri. Quasi ad esprimere il tormento interiore e la confusione che albergano in Leo, Tondelli evita di rendere trasparente il suo percorso, oltre che con l’adozione di differenti piani temporali, con l’inserimento - nonostante le frequenti puntualizzazioni - di alcuni avvenimenti difficilmente databili con precisione. La ricostruzione della fabula del romanzo, ed un successivo confronto con l’intreccio, si dimostrano molto utili ad una miglior comprensione del testo, evidenziando le simmetrie e la ciclicità dei tre movimenti, la direzione ed un equilibrata distribuzione delle numerose analessi esterne.39 La molteplicità dei piani temporali si presenta distribuita su tre ordini, passato, presente e futuro, diversamente caratterizzati per importanza e frequenza.40 Si avrà modo poi di constatare come questa suddivisione si rifletta sull’uso dei tempi verbali, e come altresì l’infrazione a detta consuetudine segnali, per la sua non sistematicità, momenti di particolare interesse. Per Camere separate risulta semplicistica e poco utile una dicotomia tra tempo della scrittura e tempo della narrazione, poiché il primo non è sempre di individuazione immediata, mentre il secondo risulta assai frastagliato. Più utile suddividere il testo in narrazione rappresentazione del ricordo, identificando nella morte di Thomas il momento testuale che si pone come spartiacque tra i due aspetti. Autorizza ciò la considerazione che,

39 Si è voluto assumere come inizio della diegesi il tempo del primo incontro tra Leo e Thomas, considerando quindi come analessi esterne - secondo la già adottata terminologia desunta da Genette - tutti i flashback precedenti a tale momento. E’ una scelta che, per quanto arbitraria è dettata da evidenti simmetrie testuali - per esempio la centralità temporale della morte di Thomas - e da esigenze di uniformità che il romanzo, proprio per la sua apparente frammentarietà, sembra suggerire: la relazione con Thomas è il soggetto che origina la crisi di Leo, dalla quale nasce il lavoro di autoanalisi che fa risalire i suoi ricordi. 40 Si consideri come i molteplici piani temporali sostituiscano, in un certo senso, la pluralità delle storie che era propria di Rimini, quasi Tondelli cercasse di ottenere un analogo effetto di polifonia attraverso la stratificazione del racconto secondo le età del protagonista. Questo per evitare la sensazione di staticità e la monotonia che potevano derivare al romanzo da una narrazione linearmente orientata sul piano temporale, nella quale la figura di Leo avrebbe inevitabilmente assunto dei connotati monolitici.

309 da un punto di vista temporale, la morte di Thomas ripartisce il romanzo in due parti pressoché uguali: i poco più di tre anni della relazione tra i due giovani e quelli su cui si articola la solitudine di Leo dopo la morte del compagno. Si consideri inoltre che anche nelle due parti del testo in cui l’evento viene per così dire rappresentato41, esso assume una centralità quasi matematica, ponendosi come fulcro del primo e del terzo movimento. In entrambi i casi, infatti, separa due differenti nuclei tematici: nel primo consente il passaggio dalle iniziali vicende dei due ad un lungo flashback su Leo ventenne; nel secondo caso divide la storia di Thomas dall’ultima parte del percorso di ricerca di Leo. Per narrazione, quindi, si dovrà intendere la storia dell’elaborazione del lutto da parte di Leo e della sua ricerca di una nuova identità dopo la fine di “Leo con Thomas”, una storia tutta personale della quale Tondelli indica con precisione il momento d’inizio nel ritorno a Milano di Leo dopo l’ultimo saluto a Thomas: Leo sente che tutto sta ancora cambiando. Gli sembrava di aver raggiunto un equilibrio con il suo amico, ma ora tutto è di nuovo in gioco. […] Fra pochi giorni sarà un’altra volta ancora più solo lungo il suo cammino (CS p. 52).

Per rappresentazione del ricordo s’intenderà invece il racconto che Leo fa degli episodi della sua vita, dall’infanzia al più recente passato, nel loro ritornare a galla suscitati da qualche momento del suo percorso di autoanalisi. In generale, Tondelli sottolinea la differenza tra le due forme - giustificando così una siffatta dicotomia - attraverso la scelta dei tempi verbali, anche se con qualche infrazione nel corso del romanzo; ecco quindi che la narrazione viene di norma articolata al presente, mentre le forme del passato, con un uso assai frequente del trapassato prossimo, sono quelle che contraddistinguono il riemergere del ricordo.

41 Si specifica che il momento preciso della morte di Thomas non trova un effettivo spazio testuale, cosicché, in un certo senso, il romanzo è privo della rappresentazione dell’evento attorno al quale tutto sembra ruotare. Diventa così evidente che l’importanza del fatto è tutta interna all’autoanalisi di Leo, e la sua precisa narrazione avrebbe potuto nuocere a quest’ultima. Inoltre, tale assenza consente una continua ripresa del motivo di Thomas che sta morendo in contrasto con la vita che continua. Paolo Mauri ipotizza la morte di Thomas come “sostituto romanzesco della crisi di scrittura” (P. Mauri, Libertino innamorato, “La Repubblica”, 2 giugno 1989), un escamotage attraverso il quale consentire a Leo, una volta rimasto solo, di concentrarsi sul ricordo. Certo, il motivo dello scrittore in crisi, peraltro non nuovo nell’opera di Tondelli e se vogliamo pure in Rimini associato alla morte - per quanto Bruno al momento del suicidio avesse risolto la crisi artistica e terminato il suo lavoro - occupa uno spazio notevole in Camere separate, ma sembra eccessivo interpretarlo come il dolore “reale” di Leo, nascosto dietro la morte di Thomas, considerato inoltre che il ritorno alla vita di Leo non si traduce, almeno esplicitamente, in un ritorno alla scrittura (anche se - come si avrà modo di vedere - il romanzo termina con una celebrazione della scrittura e su un ritorno alla propria scrittura dell’esordio). A maggior ragione l’ipotesi di Mauri sembra poco accettabile se si considerano le valenze autobiografiche di Camere separate e testimonianze come quella di Wahl, che con Tondelli ebbe un rapporto più che professionale: “PierVittorio era, e lo ammetteva, malinconico, ferito dalla morte raccontata in Camere separate. La sua meta, in quel momento, era Londra, dove avrebbe cercato l’oblio”. F. Wahl, op. cit., p. 255.

310 Un evidente - e motivato - caso di infrazione alla norma è il momento della morte di Thomas, che manifesta così ulteriormente la sua centralità, questa volta non più sul versante della fabula ma su quello dell’intreccio, perché è proprio dal momento in cui compare nel romanzo che tutto quello che è connesso a Thomas si articolerà come narrativa della memoria: la morte di Thomas viene raccontata al presente, ponendosi così, in un duplice ordine di idee, da un lato come punto di partenza della narrazione (nel senso testé accordato al termine), dall’altro come un evento che, evitando il passato, assume una valenza iterativa nella mente di Leo, facendo sì che Thomas stia continuamente morendo anche durante i tre anni successivi. Precise conferme di ciò vengono dal fatto che in entrambe le occasioni in cui lo mette in scena, Tondelli utilizza per l’evento il tempo presente, collegandolo al futuro nel primo caso per ampliarne il senso di durata e ripetitività: Thomas sta morendo. A venticinque anni. E lui, Leo, che ne ha solo quattro di più, si ritrova vedovo di un compagno che è come non avesse mai avuto […]. Guarda Thomas in fondo alla stanza e lo saluta. […] E’ ben consapevole che si porterà dentro per anni, fino alla fine, lo sguardo del bambino Thomas sul letto estremo della sua camera separata (CS pp. 37-38);

nel medesimo aspetto continuativo conferito dall’adozione del gerundio nel secondo: Il momento delle carte stradali distese sul parquet del soggiorno […] è l’ultimo ricordo di pace che gli resta prima della catastrofe. L’ultimo momento di quiete prima che la telefonata del padre di Thomas lo avverta che non c’è più niente da fare, Thomas ci sta lasciando (CS p. 190).

La stessa forma verbale tornerà ogni volta in occasione del riferimento alla morte di Thomas, come per esempio quando il narratore, qualche mese dopo, a Londra, ne conferma l’iteratività, sempre con l’adozione del tempo della stretta contemporaneità: Il lutto per la morte di Thomas, una morte che continua ora dopo ora - quante volte al giorno Thomas per lui sta morendo? - lo sta soverchiando (CS p. 87).

L’individuazione del momento cardine dell’intreccio fa sì che, fino alla sua comparsa, le vicende relative alla relazione tra Leo e Thomas, ad ogni effetto classificabili come ricordo, usufruiscano di un’articolazione al presente, se si eccettua il passato prossimo del primo introduttivo paragrafo, dettato dalle clausole temporali, presto dimenticato approfittando della descrizione del personaggio per far comparire il presente, che gradualmente finirà per prevalere: Qualche anno prima […], Leo è uscito da una birreria, a Parigi, in compagnia di Michael […]. Michael è un uomo di quarant’anni […]. Ha pochi capelli in testa […]. Una domenica pomeriggio […] Michael e Leo sono usciti insieme da una birreria del Marais per recarsi a una festa e a quella festa Leo ha conosciuto Thomas. O meglio, Leo ha visto Thomas per la prima volta. Attraversano Place des Vosges […]. Arrivano davanti all’edificio (CS p. 10).

311 Un meccanismo simile governa l’inizio della narrazione: Tondelli inizia, in obbedienza alle clausole temporali ed organizzando così un movimento globale del romanzo verso il futuro, articolando il testo al passato, ma approfitta della prima riflessione per adottare il presente con regolarità: Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo […]. All’esterno […] la catena delle Alpi appariva come un’increspatura di sabbia […]. Inquadrato dalla ristretta cornice ovoidale dell’oblò il paesaggio gli parlava del giorno e della notte […]. Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni. E’ ben consapevole di non avere un’età comunemente definita matura […]. L’aereo perde bruscamente quota iniziando la discesa verso Monaco […]. Emette un profondo sospiro con gli occhi chiusi […]. Non ci sarà Thomas ad aspettarlo all’aeroporto […]. Thomas è morto. Da due anni ormai. E lui è sempre più solo. Più solo e ancora più diverso (CS pp. 7-9).

Il momento della riflessione riporta così al presente, eliminando ogni possibile confusione sul tempo del racconto, articolando poi il discorso in riferimento a questo, al futuro quindi per gli avvenimenti posteriori, al passato per quelli anteriori. Il cambiamento dei tempi verbali non segnala quindi, in questo caso, una variazione effettiva del tempo del racconto, ma gli rende le giuste coordinate, dopo che l’inizio al passato e la presenza delle forme avverbiali (“un giorno”, “qualche mese fa”) hanno qualificato il testo come una rimemorazione. La direzione temporale viene così fortemente orientata dal passato al futuro, e tale linearità mantiene anche dopo la pausa che fa ripartire il racconto da un tempo precedente, utilizzando a questo fine frequenti indicazioni avverbiali che ne ritmano il procedere: “più tardi”, “qualche sera dopo” (CS p. 13), “il giorno dopo” (CS p. 22). Considerando che poi la regolarità sintattica procede per tutto il primo movimento - buona parte del quale occupato da un’analessi esterna con soggetto Leo ventenne, correttamente segnalata sia dalla variazione dei tempi verbali, che adottano le forme del passato, sia dalla segnalazione avverbiale (“anni e anni prima” - CS p. 34) -, desta un forte effetto di surprise lo stacco, assolutamente imprevedibile, che s’inserisce dopo la prima notte d’amore di Leo e Thomas: Leo capisce che […] il senso è nel corpo di Thomas, nella quiete ansimante che gli sta offrendo, nel piacere di essere accolto, finalmente, nel mondo di un altro. La luce del primo mattino entra nella stanza. Thomas sta dormendo un sonno leggero […]. I suoi occhi si aprono e vedono Leo in piedi accanto al letto, in silenzio, impacciato. “Buongiorno Thomas” soffia Leo con la voce che trema. Thomas non risponde al saluto. Gira la testa lentamente verso il braccio in cui ha infilato l’ago ipodermico. Controlla […] il livello del flacone di glucosio che lo sta nutrendo (CS pp. 33-34).

312 Con un’ellissi di estrema crudezza Tondelli condensa la relazione di Leo e Thomas nei due attimi iniziale e finale, evidenziando il tradizionale motivo di Amore e Morte come tema fondamentale del romanzo. Nessuna segnalazione rivela il salto temporale: la scrittura procede con assoluta continuità ma il tempo non è più lo stesso e la pausa tipografica che separa la notte d’amore dal mattino del risveglio non vale certo a identificare la variazione. Simili procedimenti, che tendono a nascondere o mimetizzare nel testo il reale momento temporale del racconto, non sono rari in Camere separate e contribuiscono ad esprimere la confusione che regna nella mente di Leo. Analoga funzione si può attribuire ad episodi che generano problemi di datazione o che a volte ricevono una precisa collocazione solo in una successiva ripresa. Si è già visto come il viaggio a Dresda, che affiora nel ricordo di Leo in occasione del suo solitario viaggio verso nord, poco dopo la morte di Thomas (cfr. CS pp. 69-76), analogamente ai ricordi legati a Monaco, Colonia e Duisburg, riceva una precisa collocazione nella breve ripresa che ne viene fatta molto più avanti (cfr. CS p. 186), che lo inserisce nel soggiorno berlinese di Leo. Ne risulta una sua datazione a poco più di un anno prima della morte di Thomas, mentre le altre città tedesche erano state visitate dai due pochi mesi dopo l’inizio della loro relazione. Conseguenza di ciò è che i due avvenimenti non sono per niente contigui, come potrebbe sembrare, ma distano tra loro circa un anno e mezzo.42 La mancanza di specificazioni temporali contrasta tra l’altro con gli episodi nei quali viceversa la datazione è molto precisa, come nel caso del viaggio in Germania, puntualmente indicato due volte nell’arco di poche pagine: “Era primavera, aprile forse, e stavano dirigendosi a Colonia” (CS p. 59) e “Stavano insieme da poco più di sei mesi, si erano conosciuti a novembre e ora affrontavano, in viaggio, la primavera” (CS p. 63). Tutto ciò consente la creazione di una struttura temporale di non immediata leggibilità nonostante la precisione delle indicazioni, una struttura che riflette - lo si ripete - le condizioni psicologiche di Leo.

42 Si ritiene utile fornire una datazione il più possibile precisa degli eventi narrati, sulla base delle indicazioni temporali presenti e degli elementi che si possono inferire. Dal momento che Camere separate è ricco di datazioni ma sempre parziali, prive cioè del riferimento all’anno, si assumerà l’anno dell’incontro di Leo e Thomas come anno zero, numerando i successivi in ordine progressivo. Ciò consentirà anche una più immediata valutazione delle simmetrie del testo (per esempio la centralità della morte di Thomas): novembre anno 0, incontro di Leo e Thomas. Primavera anno 1, primo viaggio dei due, che visitano Monaco, Colonia e Duisburg. Primavera anno 2, Thomas si specializza a Parigi e torna in Germania. Settembre anno 2, Thomas si reca a Milano da Leo per una breve convivenza. Novembre anno 2, Leo si reca a Berlino da Thomas e durante la sua permanenza i due visitano anche Dresda. Primavera anno 3, Leo e Thomas fanno un viaggio in Spagna. Febbraio anno 4, morte di Thomas. Autunno anno 4, viaggio solitario di Leo verso nord. Soggiorno londinese di Leo. Tra la fine dell’anno e l’inizio del successivo Leo ritorna a Milano. Marzo anno 5, Leo ritorna al paese dove è nato. Settembre anno 5, Leo compie trentun’anni e rivede Hermann. Autunno anno 6, Leo sta per atterrare a Monaco. Inizio del romanzo. In questo periodo si colloca il viaggio negli Stati Uniti, privo di precise indicazioni temporali, preludio al ritorno alla disponibilità al mondo che inizia, poco dopo il suo ritorno, a Firenze. Autunno anno 7, Leo si reca in Canada per un convegno su Kerouac.

313 I diversi piani temporali di Camere separate acquistano particolare valore anche in relazione alla densità della loro presenza nel libro. Dei tre ordini temporali, il futuro è quello che s’incontra più raramente, di modo che la sua comparsa viene evidenziata dalla sua rarità. A prescindere dal futuro come tempo verbale, che si può incontrare all’interno della normale articolazione della consecutio temporum, il futuro come ordine temporale ricorre solo cinque volte, sempre all’interno delle riflessioni di Leo ed invariabilmente associato, in maniera più o meno evidente, alla presenza della morte. Non si tratta più però della morte di Thomas, che qui ritorna solo una volta, soprattutto come spunto per la denuncia dell’impossibilità di un riconoscimento sociale per la loro unione. La morte associata al futuro è quella di Leo, e Thomas non entra più in queste considerazioni, come se la sua scomparsa, determinando la rottura del binomio “Leo con Thomas”, negasse ogni ulteriore progettualità futura. Viceversa, in due occasioni ricorre il motivo del legame con le proprie radici, in momenti immediatamente successivi in cui Leo, ritornato al paese dove è nato, ricerca un senso di appartenenza che lo inserisca in una tradizione ed in un momento collettivo: Quando scomparirà la casa in cui è nato, quando il tempietto davanti al quale si arrampicava verrà abbattuto, quando non ci saranno più le stesse pietre, non morirà solamente il ricordo delle persone che ha amato nella sua infanzia, ma lui stesso morirà. La generazione successiva nulla saprà di questi piccoli uomini […]. Gente umile, anonima ma alla quale lui è stato in braccio e che l’hanno in un certo senso contenuto, come contengono tutto il futuro (CS pp. 108-109).

Il senso di questa appartenenza e la meditazione su vita e morte si arricchisce - e si chiarisce - nel momento immediatamente successivo che condensa in un’ellisse, che riporta a quella analoga relativa a Thomas, la vita intera di Leo: Dalla parte opposta alla casa in cui ora abitano i suoi genitori, proprio di fronte a quella in cui lui è nato […], c’è il cimitero. […] Per quanto lui viaggi attraverso il mondo, per quante case possa aver abitato o abiterà da una parte all’altra del continente, tutta la sua vita sarà contenuta in questo budello che va dalla casa in cui è nato al camposanto […]. “Da qui a là” è tutta intera la sua vita (CS p. 109).

Non stupisce - vista anche l’iteratività del testo - che l’ultimo momento prolettico contempli la morte di Leo, e che Tondelli scelga di chiudere in questa maniera il romanzo, fissando l’orientamento temporale del testo e chiudendo la ricerca di Leo nel modo più definito. E’ un finale che acquista a posteriori, in considerazione della biografia tondelliana, un valore particolare, ma che già nel contesto di Camere separate mette in discussione, tramite il trittico “finalmente, una buona volta, per grazia di Dio onnipotente” con cui Leo accoglie la previsione della propria fine, la sua apparente riconquistata disponibilità verso gli altri. Al tempo stesso, la chiusa segnala ulteriormente il carattere riepilogativo di Camere separate, mediante l’adozione di un nesso stilistico tipico di Pao Pao, e cioè il “ma” ad

314 inizio di frase, che, in un certo senso, diventa immagine della produzione precedente e carica la pagina di ulteriori valenze autobiografiche: Ma fra qualche ora, fra un giorno, forse fra tre o cinque o vent’anni, lui sentirà una fitta diversa prendergli il petto o il respiro o l’addome. Nonostante siano trascorsi tanti anni, o solo un’ora, ricorderà il suo amore e rivedrà gli occhi di Thomas come li ha visti quell’ultima volta. Allora saprà […] che non c’è più niente da fare. Si avvierà alle sue cure, cambierà letti negli ospedali, ma saprà sempre, in qualsiasi ora, che tutto sarà inutile, che per lui, finalmente, una buona volta, per grazia di Dio onnipotente, anche per lui e la sua metaphysical bug, la sua scrittura e i suoi Vondel e Madison, anche per tutti loro è giunto il momento di dirsi addio (CS p. 216).43

Il piano del presente, che corrisponde come si è visto alla narrazione, è quello più regolare. Articolandosi tra viaggi e riflessioni consente l’immissione nel testo degli altri piani ed è caratterizzato in maniera sistematica dall’uso del presente come tempo verbale. Se si eccettua l’inizio del romanzo, la regolarità verbale viene infranta una sola altra volta, alla fine del secondo movimento. L’infrazione isola la parte finale da quanto la precede, mettendola in particolare evidenza. Anche in questo caso il passaggio è ottenuto in maniera graduale e quasi nascosta, proseguendo il discorso nel tempo, il trapassato prossimo, che era stato introdotto da una corretta correlazione verbale: Decide di tornare a Milano. Qualche ora prima della partenza ha un presentimento. Un’immagine che lo infastidisce e lo disturba. Quella stessa mattina aveva gettato nella spazzatura un paio di vecchie Paraboot invernali […]. Mentre il portiere gli comunicava all’intercitofono che aveva un taxi pronto, […] aveva visto il fattorino dell’impresa di pulizie riversare i sacchi di spazzatura in un grande contenitore. E fu allora che vide […] le sue scarpe cadere in mezzo ai rifiuti, sovrastarli per un momento, prima di essere sepolte da altra immondizia […]. Al terminal era arrivato angosciato. S’immaginava un volo strapieno […]. Non riuscì ad avere un posto accanto alle uscite (CS p. 162).

Tondelli fornisce ad ogni modo gli elementi per realizzare il passaggio, dal momento che accompagna con il sentimento dell’angoscia la variazione verbale e la inserisce in una breve frase fortemente connotata sotto il profilo delle iterazioni foniche: “Al terminal era arrivato angosciato”, una frase che si pone oltretutto come un unicum nel segmento testuale, che non rivela altri meccanismi di questo tipo.44 Interessante, per ottenere la discordanza tra tempo verbale e tempo dell’azione, l’utilizzo delle clausole avverbiali che introducono i verbi: queste infatti, nella loro successione - “qualche ora prima della partenza”, “quella stessa mattina” - sembrano avviare un movimento, confermato dai verbi che le accompagnano - “ha”, “aveva gettato” -, verso il passato, mentre l’azione globale si

43 Assai incisivo l’effetto dei due presenti nella catena dei futuri, quasi a chiudere il racconto nella puntualità della scrittura e non lasciarlo aperto ad un futuro temporalmentre indeterminato. Chiaro che poi, sulla base della biografia tondelliana, è un presente che acquista un significato ben più pregnante. 44 Si noti la ricorrenza in parallelo dei suoni -al- e -er-, l’insistenza sulla consonante -r- e sulla vocale -a-, nonché la rima interna in -ato e la successione vocalica -i- / -a-.

315 svolge in realtà in direzione futura, mantenendo però l’uso del passato nell’articolazione verbale. In quella che si prefigura così come una lunga parentesi al passato, Tondelli mette in scena l’incontro e il colloquio di Leo, in aereo, con un vecchio, costruito come un suo alter ego fin da certi particolari fisici (“un uomo molto alto, vestito con un doppiopetto blu scuro […] molto curato d’aspetto” - CS p 163, dove l’insistenza sulla statura riprende vecchi vezzi tondelliani, delineandosi poi come il punto di contatto che avvia la conversazione tra i due), ma soprattutto per trovarsi in una condizione analoga a quella di Leo, essendo un padre che riporta a casa il figlio morto. In questo modo, Tondelli amplifica la situazione del suo protagonista, la duplica fino a spingere Leo, attraverso il paradosso della “sopravvivenza forzata del più vecchio” (CS p. 165), ad un ulteriore definizione della sua posizione nei confronti di Thomas, rafforza in lui l’identità Leo-padre contrapposto a Thomas-figlio che spesso il romanzo era venuto sviluppando: E allora pensò che anche lui aveva sepolto, in un certo senso, Thomas. E che, sia lui sia il vecchio, erano degli assassini che in un modo o in un altro avevano controllato fino alla fine la vita delle persone che più amavano. Fino a deporre nella fossa il corpo che avevano creato (CS p. 165).

Le successive riflessioni di Leo ritornano al presente verbale, in modo da conferire all’episodio fin qui narrato un carattere di antecedente sul quale meditare, ed esprimono l’interiorizzazione più profonda del dolore di Leo, il punto più basso da cui ripartire per ritornare al mondo: la “coscienza […] del proprio bisogno di annullarsi e di morire” (CS p. 166). Il passato, che contraddistingue la narrazione della memoria, è il più complesso dei nodi temporali di Camere separate. Si presenta stratificato in diversi piani, ciascuno dei quali registra una differente profondità dell’immersione nel ricordo e tutti assieme permettono la ricostruzione per punti della sua vita, dall’infanzia al passato più recente. Una prima importante suddivisione propone due classi di ricordi in funzione di Thomas: quelli appartenenti ad un passato vicino, quello della relazione con Thomas, ed i ricordi di un passato più lontano, ai quali Thomas è estraneo e nei quali il protagonista è Leo. Questi ultimi si vengono a configurare come delle analessi esterne di differente portata, distribuite nei tre movimenti che compongono il romanzo, con una concentrazione e uno scavo maggiore nella sua parte centrale. Si possono identificare quattro strati temporali nei quali le analessi si distribuiscono con uniformità: l’infanzia di Leo, la sua adolescenza, la gioventù e gli anni immediatamente precedenti all’incontro con Thomas. Gli episodi della vita di Leo assumono l’aspetto di “tappe depositate nella profonda memoria individuale […] riaffioranti attraverso esperienze traumatiche vissute nel

316 presente”45, dal momento che non sono mai isolati, fini a se stessi, ma evidenziano un parallelo con il percorso di Leo dopo la morte di Thomas. I ricordi si configurano come tante prove che Leo ha dovuto superare e tutti assieme ricostruiscono la sua vita, secondo il canone di un romanzo di formazione, un romanzo di formazione non ancora terminato che continua nelle simmetriche tappe che Leo compie alla ricerca di se stesso. Particolarmente significativo a questo proposito l’episodio di Leo adolescente che porta in processione la statua della Madonna, nel corso del quale Tondelli espone esplicitamente la struttura a tappe dell’immersione nel ricordo, prima di mettere in relazione la processione con una analoga vista con Thomas e di instaurare un parallelo tra il Cristo e Thomas, quasi un tentativo - destinato a fallire - di rendere universale la sofferenza di Leo, facendolo quindi uscire dalla sua solitudine: Anche la Madonna aveva portato, appena adolescente […]. Aveva ricevuto un solo cambio lungo la durata del percorso e la spalla su cui poggiava l’asta gli faceva male, il braccio era indolenzito, le gambe non lo reggevano più. […] A duecento metri dall’arrivo, vide finalmente un confratello che li aspettava con l’ultimo cambio e allora si fece forza […]. Ma in quel momento quello che reggeva, davanti, entrambe le aste […] disse “Via, via continuo da solo!” […] Gli venne da piangere e continuò ad avanzare, barcollando, […] ma quello che lo terrorizzava non era tanto il dolore fisico, che era acutissimo, sfibrante […] ma era proprio la vergogna. Se avesse mollato […] sarebbe stato ancora una volta il debole, il piagnone, l’emarginato. […] Quando finalmente, in chiesa, lo sollevarono dal peso di quella effigie che per anni e anni avrebbe poi maledetto, lui non si sentì, come gli altri, fiero di avercela fatta, […] ma si sentì profondamente umiliato […] per essere stato obbligato a dimostrare agli altri la cosa più stupida e insignificante di questo mondo, e cioè che lui era uguale a loro […]. Ora, vedendo quella statua avanzare dondolante, macabra, retta dallo sforzo di altri, odierni quindicenni lui ricorda, avvampando, il sé ragazzo e vede, nella successione dei gruppi nei quali ha sfilato, le tappe della sua dolorosa crescita al mondo. Ma quando scorge in lontananza il catafalco drappeggiato di nero con la statua distesa del Cristo Morto […], lui si accorge che non è mai arrivato a questo punto del corteo […]. Guarda la statua di Cristo e si sente invaso da una pietà straziante perché ricorda Barcellona e il corpo di Thomas e ha la certezza che in quel giorno lontano lui stava già assistendo al funerale del suo compagno (CS pp. 132-134).

L’esperienza dell’adolescente non si dà peraltro come un qualcosa di acquisito, ma rivive nel presente di Leo che osserva la processione, diventa la ripetizione della medesima tappa, messa in evidenza dallo stesso sentimento, l’umiliazione, che prende Leo, questa volta adulto, costringendolo ad uscire dalla chiesa, al termine della sua autoanalisi, terminando una volta per sempre l’esperienza di Leo bambino: Ma a quella cartapesta iperrealista, a quel Cristo Morto, […] non si sovrappone solamente l’immagine del Thomas torturato e morto, ma l’immagine di un’altra

45 L. Clerici, Questi benedetti ragazzi. Su alcuni recenti libri di giovani, in "Linea d’Ombra", settembre 1989, n. 41.

317 persona al cui funerale lui, ormai senza più parole, sta assistendo. Poiché quello che il paese ha […] deposto ai piedi dell’altare maggiore non è il simulacro di un corpo divino, ma il corpo morto di Leo, di quel bambino che non è mai cambiato e che è soltanto mutato, giorno dopo giorno, sfogliandosi da sé come un fiore. Per questo lui […] prova l’unico vero sentimento che può conoscere davanti a quella folla: la vergogna. Si sente spogliato, completamente nudo di fronte al paese […], insozzato di dolore e di angoscia. […] Improvvisamente la consapevolezza di assistere al proprio corteo funebre lo fa allontanare […]. Lui è umiliato, sconfitto. Senza nessuna speranza di resurrezione, né per sé, né per Thomas; né, tantomeno, per quel ragazzo […] sulla scalinata, in attesa di baciare il volto del Cristo (CS pp 137-138).

E’ una presa di coscienza che rafforza la direzione interiore del dolore di Leo, privandolo della comunicazione con gli altri anche in un contesto collettivo come la funzione religiosa. Il contesto religioso, quando non esplicito come ora, compare, nelle tappe che il ricordo di Leo fa affiorare, in maniera simbolica: il rito di passaggio che la tappa rievoca si articola così - proprio nei termini di un rito - attraverso successivi momenti di espiazione e di purificazione, pervenendo infine ad una vera e propria rinascita. E’ quanto accade in maniera evidentissima nella prima lunga analessi del romanzo, che, a partire dalla constatazione di Leo, ritornato a Milano dopo l’ultimo saluto a Thomas, dell’inevitabile cambiamento della sua vita, narra per analogia un precedente momento di transizione di Leo ventenne, e cioè “il superamento traumatico, violentissimo, della barriera che lo teneva racchiuso nella sua adolescenza, nei suoi miti, nelle sue illusioni” (CS p. 39). Leo ventenne si stava dunque recando ad un appuntamento per procurare dell’eroina ad un’amica, ma l’attesa snervante del corriere e l’assunzione di droghe leggere gli creano un improvviso disagio che lo costringe a fuggire senza meta per i campi ed i fossi, in un crescendo di immagini frenetiche che si traduce per Leo in perdita d’identità: Chi era lui? Era profondamente se stesso, ma nello stesso tempo era nessuno. Nessuno. Sentì di impazzire, una, dieci, cento milioni di volte […]. Voleva morire e trovare la pace. Ma era già morto e sapeva che la pace non era nemmeno là (CS p. 47).

E’ il momento della sofferenza, dell’espiazione, fitto di immagini di morte, che precede la lenta risalita di Leo, che, caduto in un fosso comincia a riprendere contatto con la realtà, una realtà percepita quasi con tono da Sacre Scritture, e costruita in maniera preponderante da elementi legati all’acqua, di per sé dotata di una fortissima valenza sacrale, dove anche la presenza del sangue contribuisce ai caratteri di una iniziazione: Bevve quell’acqua e la chiamò acqua e chiamò fango il fango e si sentì allora un po’ meglio. Si era tagliato e toccò quello che avrebbe giurato si chiamasse sangue (CS p. 48).

318 Leo continua a camminare, finché raggiunge il delta del fiume per l’ultimo atto della cerimonia, la purificazione: Sulla spiaggia sporca e fredda si spogliò. Radunò degli sterpi, dei fogli di giornale e accese un piccolo fuoco. Completamente nudo andò verso l’acqua, si lavò e tornò al fuoco. […] Tutto nasceva dal mare. E al mare lui era tornato (CS p. 49).

La metafora religiosa risulta abbastanza evidente, per quanto contaminata da elementi anche pagani come il sangue e il fuoco, tanto più che la rinascita di Leo si definisce alla fine come una incarnazione: Pensò a sua madre e pianse. Pensò alla madre di sua madre, e alla madre della madre di sua madre […]. Poi pensò che tutte queste immagini di madri, di grembi e quindi di linguaggi che aveva appreso altro non erano che le figure di una incarnazione. […] Stava incarnandosi di nuovo, in riva a quel mare, nella sua storia (CS pp. 49-50).

L’importanza del flashback è elevatissima, perché si definisce al tempo stesso come esperienza del ricordo, metafora religiosa, rivisitazione della propria produzione precedente, esposizione del motivo della maternità e del tema della scrittura. Del resto, anche la sua collocazione nell’intreccio come prima grande prova affrontata da Leo, in parallelo con quella fondamentale del superamento della perdita di Thomas, ne segnala la forte valenza testuale. Tramite l’accostamento tra la morte di Thomas e quella di Leo (“Quella volta […] era semplicemente morto un Leo e ne era nato uno diverso” - CS pp. 51-52) esprime poi la direzione tutta interiore del percorso del romanzo, nel quale Leo diventa da ora il soggetto predominante. La struttura dell’immersione nel passato presenta una certa variabilità, anche se la tipologia più diffusa è quella del singolo ricordo al termine del quale si ha il subitaneo ritorno al presente. Può accadere però che lo sprofondare nel ricordo riveli una progressione verso momenti sempre più lontani, come accade in occasione della rievocazione della relazione con Hermann. Leo, a Milano, medita sul suo sentimento religioso e ricorda le sue preghiere silenziose durante la relazione con Thomas: A volte gli era capitato di pregare, mentre faceva l’amore. […] Erano momenti talmente intimi che, per un istintivo pudore, lui non ne aveva mai parlato con Thomas (CS pp. 98-99).

Il primo ricordo gli riporta alla mente una situazione, analoga a quella del presente, in cui aveva dovuto registrare lo stesso riavvicinamento al sacro: “Il desiderio della religione era scattato come una trappola al tempo dell’abbandono di Hermann” (CS p. 99). Da qui, un ulteriore scavo nel passato per raccontare la storia della relazione con Hermann, un ricordo che si conclude, tornando nel presente, con le considerazioni di Leo sul senso reale di questa esperienza: “In questo modo la perdita di Thomas lo sta portando lontano, verso se stesso” (CS p. 106).

319 Altrove, la concatenazione dei ricordi si delinea in una progressione che ritorna, simmetricamente sui suoi passi, per la quale Roberto Carnero ha parlato di “composizione a scatole cinesi che rende […] l’instabilità e la complicatezza del pensiero e del mondo interiore del protagonista”46. Così, il viaggio di Leo e Thomas a Dresda diventa il contenitore di un altro ricordo di Leo, che estende il tempo del racconto a Leo bambino. Tondelli, nell’introdurre l’episodio, sembra ‘giocare’ con la sua effettiva direzione narrativa: Una sera erano arrivati a Dresda, in treno, provenienti da Berlino Est. E tutto il loro viaggio […] era stato come un viaggio all’indietro nel tempo (CS p. 69).

L’episodio rivela una struttura globale che si potrebbe definire a doppia parentesi: Leo in viaggio verso Londra ricorda il viaggio con Thomas a Dresda, e tramite questo ricorda un episodio della sua infanzia; in seguito ritorna al soggetto principale per poi ripetere l’inserimento di un altro ricordo dell’infanzia, fino a riprendere, progressivamente, il contatto con il suo viaggio presente.47 La sovrapposizione dei tre piani temporali, che giungono a collocarsi nello stesso paragrafo, consente la reimmissione nel presente delle esperienze del passato, segnalata dal presente verbale che collega i diversi momenti: Il giorno dopo, sulle rive dell’Elba […], lui non aveva fatto altro che parlare a Thomas di suo padre. E della guerra. E camminando lungo i viali dello Zwinger aveva preso corpo in lui un ricordo particolare, distinto, nitido. […] Era la storia di un bambino ebreo rinchiuso in un campo di concentramento. […] Ora […] ricorda solamente il terrore impossessarsi di lui, travolgerlo nel suo piccolo letto di bambino […]. Poi una mattina, sulle rive dell’Elba […], quella ferita di paura si era riaperta (CS pp. 72-73).

Un procedimento simile viene utilizzato in un’altra occasione, mettendo in correlazione tramite il ricordo due esperienze diverse, che, col loro alternarsi, ritmano il testo in un ripetuto movimento di andata e ritorno. Fin dall’inizio il parallelo tra i due episodi, un incontro sessuale venato di sadismo di Leo con un ballerino in un locale gay ed un intervento chirurgico subito da Leo adolescente, viene evidenziato attraverso l’ambientazione e la terminologia scelte per l’avventura del presente. I passaggi da un momento all’altro non vengono inoltre particolarmente evidenziati, se non attraverso la variazione dei tempi verbali, ed anzi si distribuiscono sulle medesime sensazioni: Il ragazzo lo spinge sul lettino e con uno strappo deciso si tira la tenda alle spalle. […] Gli lascia tutto addosso, non lo spoglia. Lo apre semplicemente, al centro, come avesse usato un apriscatole. […] Fa freddo. C’è una luce bianca sul soffitto […]. Leo chiude gli occhi. Ancora quella luce bianca. La paura, il freddo. Lo stavano

46 R. Carnero, Lo spazio emozionale. Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli, Novara, Interlinea, 1998, p. 79. 47 La dicitura “doppia parentesi” sembra ben esprimere graficamente la struttura dell’episodio e il suo movimento nel ricordo: A [B (C) B1 (C1) B2] A1, e cioè Leo al presente (A) che pensa a Dresda (B), per poi pensare a Leo bambino (C), ritorna a Dresda (B1), ripensa a Leo bambino (C1), conclude il ricordo di Dresda (B2) e ritorna al proprio presente (A1).

320 trasportando da una barella al tavolo operatorio. […] Lui avvertì di essere completamente nudo. […] La ragazza prese un piccolo telo verde e lo gettò sul sesso di Leo, coprendolo. Lui chiuse gli occhi e respirò a fondo, come per ringraziarla. Il ragazzo gli sta legando qualcosa attorno al membro. […] Gli serra la gola con un collare e lo stringe lentamente. Leo ha paura di soffocare […], la vista gli si affievolisce e il respiro si fa un rantolo sordo. Quando era venuto il momento di intubarlo, nel gelo della sala operatoria, lui era ancora cosciente. […] Poi aveva sentito come qualcosa che lo stava soffocando. […] Aveva pensato: “Non è così difficile morire. E’ tutto un sogno.” Anche ora, sul lettino di quella specie di ambulatorio della perversione lui avverte lo stesso senso del limite oltre il quale c’è solo, se Dio vorrà, la perdita di coscienza. […] E si sente andar giù, andar giù, uno scivolamento inconsueto […]. Respira affannosamente come un bambino dopo una lunga corsa. […] E quando risponde, con un filo di voce, al ragazzo […] lo fa balbettando, con una voce che non avrebbe mai pensato di avere: quella del bambino-Leo […], un vagito sepolto nel profondo del suo dolore e che il dolore ha messo di nuovo al mondo (CS pp. 157-161).

L’identificazione tra i due momenti diventa chiarissima, come pure la funzione del ricordo come mezzo per il ritrovamento di sé, un ritrovarsi che in questo caso assume nel finale il valore esplicito della rinascita. Inoltre, l’esperienza di Leo diventa al tempo stesso un doppio di quella di Thomas, dal momento che il ballerino che “lo apre semplicemente, al centro” è un’eco della visione di Thomas in ospedale: “Una striscia di garza bianca e di cerotti lo attraversa dall’inguine al centro del petto” (CS p. 34), un’eco che l’ambientazione da sala operatoria e il sopravvenire del ricordo rendono più manifesta. E’ come se Leo amplificasse la sua sofferenza sovrapponendovi quella sua da bambino e quella di Thomas morente.

IV.2.2 Un riepilogo della propria produzione

La costruzione del romanzo come catena di immersioni nel passato di Leo consente a Tondelli di effettuare un riepilogo a posteriori della sua opera: come se la propria produzione narrativa sviluppasse il percorso di un unico protagonista attraverso gli anni, Tondelli rivisita, ricostruendo la vita di Leo, le tappe della propria scrittura, immettendo nel testo piccoli segni, più o meno evidenti, che rimandano ai libri precedenti. “Altri libertini è lo sfondo lontano ma vivo di Camere separate”48, scrive Piersanti, un’affermazione che si può sviluppare fino a definire Camere separate figlio legittimo di Altri libertini, e proprio per questo, metaforicamente, all’interno dei contrasti generazionali propri del rapporto genitori-figli (si consideri l’assenza, o meglio, la mancata presenza della famiglia nel mondo di Altri libertini), strumento per operare una revisione critica, che non è un rifiuto ma una

48 C. Piersanti, Nel mondo di un altro, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 94-101.

321 riconsiderazione a posteriori consentita da una completa visione storica. Sembra perciò eccessiva, nell’ottica del confronto Camere separate / Altri libertini, la conclusione di una “adolescenza […] apertamente rinnegata”49 cui giunge Carnero in riferimento al già citato episodio di Leo ventenne alle prese con una situazione fortemente mimetica del mondo di Altri libertini: eccessiva perché, in primo luogo, lascia spazio a possibili estensioni del concetto all’intero rapporto tra i due libri, secondariamente perché un simile superamento è molto frequente nella funzione del ricordo, che proprio ripescando le varie età di Leo, ne ricostruisce la vita attraverso una continua, simbolica rinascita. Il brano di riferimento è ad ogni modo un notevole esempio del recupero della propria produzione precedente, che in Camere separate avviene secondo differenti modalità, sostanzialmente suddivisibili in due grandi classi: i riferimenti espliciti, per quanto non sempre evidentissimi, e quelli cifrati. A prescindere dall’autocitazione per esteso, della quale si è già diffusamente parlato esemplificando principalmente dalle prove narrative posteriori a Rimini, Tondelli immette nel testo molteplici richiami ad altri momenti della propria scrittura, richiami che vanno dal ritorno dei personaggi alla presenza di brevi caratteristici stilemi, anche solo due parole, a riprese sul piano del contenuto. L’episodio di Leo ventenne sembra così inizialmente uscire da Altri libertini, del quale assume il contesto iniziale non solo come atmosfera generale, ma anche con puntuali riprese tematiche, come il motivo dell’attesa, centrale in Postoristoro: Passò invece mezz’ora. Poi un’ora. Il silenzio era irreale, angoscioso. Nessuno usciva da quella casa, nessuna luce filtrava all’esterno (CS p. 43),

che viene ulteriormente specificato nel breve colloquio tra Leo e Bachi, il padrone di casa: “La roba arriva all’alba. Stiamo aspettando. Stai calmo. Fra un po’ andremo all’appuntamento” “Io non posso aspettare!” (CS p. 45).

Assieme ai motivi tematici tornano i personaggi dell’esordio tondelliano, in una narrazione dove - come fa notare Palandri - “alcuni dettagli […] sembrano quasi ricalcati su Giusy, Molly, Bibo, protagonisti di Postoristoro”.50 Se non si può instaurare un diretto parallelo che porti alla sovrapposizione di due personaggi, la descrizione insiste su analoghi particolari, come nel caso più evidente del ragazzo che guida l’automobile: In bocca gli mancavano gli incisivi, aveva questa finestra nera e le parole che pronunciava venivano storpiate in un modo che Leo trovava divertente (CS p. 40),

evidente eco della caratterizzazione di Molly (cfr. Altri libertini pp. 13-14).

49 R. Carnero, op. cit., p. 82. 50 E. Palandri, Altra Italia, cit., p. 18.

322 Il recupero di Altri libertini prende le sembianze di una rivisitazione della cultura giovanile della fine degli anni settanta, esemplificata negli stessi elementi - hascisc, stoffe indiane, incensi profumati, the - che, più diffusamente elencati, comparivano nella descrizione della soffitta di Annacarla (cfr. Altri libertini pp. 151-153). Da questa cultura Tondelli prende ora le distanze, se non altro temporali, e concretizza nella pagina romanzesca le affermazioni più volte ribadite sul carattere di assoluta finzione degli episodi di Altri libertini: nel suo romanzo più autobiografico Tondelli diversifica Leo, protagonista a lui facilmente sovrapponibile, dal mondo in cui è momentaneamente inserito ed individua nella scrittura la ragione della sua presenza a casa di Bachi. Lo chiarisce una prima volta poco dopo l’apertura dell’episodio: Perché lui avesse accettato così istintivamente di salire su quella macchina, lui che non faceva uso di droghe, o quantomeno non di quelle pesanti, non avrebbe saputo dirlo. […] Avrebbe voluto scriverne; andare, vedere e tornarsene poi indietro a raccontare. Era una ragione sufficiente. Aveva vent’anni e aveva bisogno di storie (CS p. 41).

Non è difficile immaginare perciò in Leo il giovane autore di Altri libertini, poco più che ventenne. La ripresa del medesimo concetto lo ribadisce e manifesta l’estraneità di Leo alla situazione: Doveva tornarsene a casa, a scrivere. Aveva un dovere da compiere. Quella non era la sua gente e lui doveva tornarsene dai suoi al più presto (CS pp. 44-45).

Nel passaggio tra i due momenti, la scrittura subisce un’importante variazione, e da volontà di Leo diventa un suo preciso dovere, doppiamente ribadito nella ripresa. Il motivo della scrittura, nei termini di riflessione sulla parola, accompagna costantemente, nel percorso immediatamente successivo di Leo verso l’età adulta, la simbologia religiosa - luce, acqua, sangue, espiazione, purificazione - e il senso di rinascita incarnato nelle numerose immagini di maternità: Le cose si ingigantivano dentro di lui e schiodavano, facevano saltare i sensi. I suoi sensi e il senso della realtà che sono le parole. Come ogni uomo lui aveva solo queste per restare sulla terra. La loro terapia lo avrebbe salvato. Pregò che non lo lasciassero (CS p. 48).

Non a caso, dopo la ‘preghiera’, la prima azione del ritorno al mondo di Leo è la lettura “ad alta voce cominciando dalla prima parola e sillabando tutto, le virgole, i punti, gli a capo, le maiuscole” (CS p. 48) di un quotidiano in una bacheca esposta al pubblico. Sempre le parole guidano la definitiva ripresa di Leo, che si concretizza nella prima immagine della sua nuova vita, quella della maestra elementare che gli insegna a scrivere: La sua discesa a terra avveniva attraverso immagini di donne, di grembi e di linguaggi. Uno strato di parole sull’altro veniva a ricoprirlo, a proteggerlo, a riscaldarlo. La maestra elementare era china su di lui, gli teneva il braccio e lo accompagnava con

323 tenerezza in un gesto che miracolosamente vergava con l’inchiostro sul foglio un’idea, una sensazione, un mondo (CS p. 50).

L’intero episodio riceve un ulteriore motivo di distanziazione dal protagonista a livello macrostrutturale: il cambiamento che sta per avvenire in Leo, infatti, è il soggetto della focalizzazione del testo, facendo passare in secondo piano la situazione di partenza. Una più ampia sovrapposizione tra personaggi si ha con la figura di Hermann, che riprende molto da vicino, fin dall’aspetto fisico, la caratterizzazione di Aelred in Rimini. La descrizione di Hermann, Altissimo, leggermente curvo sulle spalle, con un ciuffo di capelli biondi che ricadeva su un viso spigoloso (CS p. 101),

concorda infatti con quella di Aelred: Un ciuffo rossiccio di capelli gli pendeva sul viso ondeggiando a ogni passo […]. La punta dei piedi leggermente rivolta all’esterno, la schiena curva e un braccio penzoloni rendevano la sua andatura totalmente indipendente dall’esterno (R p. 193).51

Più concorde ancora è l’andamento della relazione tra Leo e Hermann, ricalcata su quella di Bruno e Aelred, fin dalla decisione finale di Bruno-Leo di abbandonare definitivamente il partner. Al pari di Aelred con Bruno, Hermann rende impossibile la vita di Leo: Momenti di abbandono struggenti, di lacrime, di abbracci e poi giornate di violenze, separazioni, infedeltà, tradimenti. Hermann andava e veniva dalla sua casa senza nessun ordine preciso. Scompariva e riappariva, magari nel pieno della notte. E Leo doveva subire la follia dell’altro (CS pp. 101-102).52

Da ultimo entrambi i giovani svolgono, o meglio tentano di svolgere, una professione artistica, dettagliatamente descritta nel caso di Aelred, appena accennata con Hermann (“Il suo lavoro sta andando bene. Ha qualche mostra in giro” - CS p. 14). Altri piccoli segnali, meno evidenti, stabiliscono il collegamento con le altre opere, con una frequenza piuttosto elevata, di modo che elementi che isolati non avrebbero rivestito una particolare importanza, nell’insieme diventano molto più appariscenti: così Leo a Londra mangia una “torta di rognoni” (CS p. 89), la pietanza che Aelred aveva preparato per Bruno in occasione del loro primo incontro (cfr. Rimini p. 196); spera di incontrare “Bruno […], se sta ancora a Londra” (CS p. 79); frequenta i pub attorno al Covent Garden, la stessa zona del club dove Bruno e Aelred si erano recati appena conosciuti.

51 La descrizione di Camere separate è ancora più simile a quella di Aelred in Biglietti agli amici: “Aelred […] vestito con un pullover grigio, le gambe un po’ curve, un ciuffo biondo di capelli sulla fronte spigolosa e un pungente sguardo verde-azzurro”. P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 105. 52 Nella caratterizzazione di Hermann compare un contesto di tossicodipendenza del tutto assente, perlomeno in maniera esplicita, in Rimini, ma che compariva nel nucleo originario delle vicende di Bruno e Aelred, L’addio.

324 Inoltre, come Bruno aveva fatto a proposito di Aelred parlando con l’amico Anselme, Leo definisce “ideale” Thomas in un colloquio con Rodolfo (CS p. 194), mentre in precedenza aveva confessato brevemente a Thomas un concetto più lungamente esposto in Rimini: “Io ho sempre voluto tutto Thomas. E mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa” (CS p. 189. Cfr. Rimini p. 204). La narrazione, tramite il ricordo di eventi connessi con la precedente produzione, consente a Tondelli di articolare una rivisitazione ed una ridefinizione del mito generazionale rappresentato nei primi libri. A questo proposito Panzeri ha individuato nel percorso di Leo, parlando di “dolorosità generazionale”53, un movimento paradigmatico rispetto alla cultura giovanile di fine anni settanta: La generazionalità di Camere separate […] sta nell’aver messo in luce tutto il discorso sulla crisi sentimentale, sull’identità di sé, sulla maturità nei confronti dell’altro, che ha caratterizzato, in parte investendoli, i destini degli “eroi” di Altri libertini e di Pao Pao.54

Il personaggio che veicola tale riflessione ad ogni sua comparsa è Hermann, che in quanto precedente compagno di Leo è anche l’incarnazione di anni irrimediabilmente passati, come traspare dalle definizioni usate per Leo e Hermann al momento del loro incontro settembrino sulla riviera adriatica (e si noti l’ennesimo collegamento con la propria produzione, con Rimini in questo caso): “reduci” (CS p. 146) e, ancor più pregnante, “sopravvissuti” (CS p. 147); un concetto subito ribadito dalla riflessione sulla loro storia, che per quanto venata di “nostalgia” (CS p. 146) e “tenerezza” (CS p. 147), percepita come un “sogno” (CS p. 147), viene da ultimo presentata come “qualcosa che non li riguarda più” (CS p. 147). La consapevolezza dell’impossibilità di un recupero del passato, per quanto alla base della rivisitazione del mito generazionale cantato in Altri libertini e Pao Pao, non vieta un sentimento di affettuosa nostalgia, come traspare da un passaggio nel quale Leo sembra identificarsi sempre di più con Tondelli, anche in considerazione di analoghe riflessioni presenti in Questa specie di patto: Ma soprattutto Hermann è ancora l’incarnazione del suo vecchio mito, del suo immaginario, del Vondel, e lui sa che tutto questo è morto con Thomas. Nel Vondel Park, oggi, non c’è più nessuno sdraiato in terra che suona una chitarra o un flauto. Nessuno balla in silenzio dietro ai cespugli, invischiato nelle ragnatele del delirio psichedelico. Nessuno offre più roba, collanine, o bootleg di qualche concerto. E anche a attraversarlo, oggi, il Vondel Park sembra più piccolo (CS p. 148).55

53 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 56. 54 Ivi, p. 58. 55 In Questa specie di patto si ritrovano, quasi parola per parola le immagini che seguono a queste considerazioni, mentre una malinconia forse più sconsolata traspare dalle successive riflessioni del narratore: “Fino a pochi anni fa, questo era il mio paradiso terrestre, il luogo in cui avrei portato la persona che amavo e l’avrei abbracciata, e con lei avrei corso per i viali e mi sarei rotolato nell’erba, e i Grateful Dead e i Pink Floyd e i Jefferson Airplane, tutt’insieme avrebbero suonato qui, su questa

325 Il ricordo della relazione con Hermann offre l’occasione per un riepilogo dell’immaginario giovanile ‘alternativo’ - a posteriori tristemente profetico -, una specie di sintesi del mondo di Altri libertini, molto vicina ai toni della commemorazione dell’amico Andrea Pazienza, che esprimeva simili considerazioni parlando alla fine di “mito dell’autodistruzione”56: E questo mito, inseguito per anni nell’ignavia della vita provinciale, anche in Leo stava esplodendo con una furia che mai si sarebbe aspettata. Erano solamente due ragazzi che correvano incontro all’annientamento con una determinazione che non ammetteva ostacoli. Erano due bellezze che godevano nell’essere offese e violentate poiché entrambi ritenevano che il mondo non li meritasse e che nessuno potesse essere in grado di capire le loro qualità. Erano in guerra contro i valori della società e contro la normalità. Erano ribelli e si sentivano diversi […]. In realtà, come l’inesorabile scorrere degli anni avrebbe dimostrato, erano solamente due ragazzi avvolti in una pazzia che avrebbe, uno dopo l’altro, cancellato dalla faccia della terra i loro amici e quella che credevano la parte più brillante della propria generazione. Anno dopo anno avrebbero visto morire i loro coetanei di ventisette, ventotto, trenta, trentadue anni. Per overdose, per delirio alcolico, per infarto, per collasso, per assassinio. E quando la vita sembrava aver preso definitivamente il sopravvento con matrimoni, carriere ben avviate, lavoro di successo ecco che il passato tornava inesorabilmente, un giorno, una notte, durante un viaggio, a colpire fatalmente come l’esito di una colpa non condonata (CS pp. 104-105).

Il senso dell’appartenenza generazionale, in un testo che si presenta quasi programmaticamente come un’autoanalisi dettata da esigenze anagrafiche (“E’ il trentesimo anno che agisce in te come una inedita maturità” - CS p. 147, dice Leo a se stesso; “Ho sentito il bisogno, dopo aver fatto tre o quattro libri e dopo dieci anni di lavoro, di riflettere sul perché la mia vita poteva andare in una direzione piuttosto che in un’altra”57, dice Tondelli), accompagna costantemente la riflessione di Leo, presentandosi a volte come termine di paragone, e sempre in connessione con la sua ‘missione’ di scrittore. Quando perciò la rievocazione non mette in scena trasparenti contatti col mondo della sua prima produzione, Tondelli collega esplicitamente nel testo coscienza generazionale e motivo della scrittura. E’ quello che succede quando Leo ricorda un avventuroso imprevisto ritorno dalla Grecia, sul ponte di una nave, tra centinaia di giovani organizzatissimi: Doveva raggiungere quella panca di ferro verniciata di bianco e poter guardare lo spettacolo di una gioventù soddisfatta e tranquilla come mai e poi mai era stata la sua (CS p. 209).

stessa erba, per noi. Fino a qualche tempo fa, ma ora?” P.V. Tondelli, Questa specie di patto, cit., p. 142. Si consideri che il racconto, del 1987, riporta le considerazioni del narratore come se fossero espresse nel 1985. Per una rappresentazione del Vondel Park di Amsterdam secondo l’immaginario giovanile di Leo, si veda la notte passata nel parco in Viaggio (cfr. Altri libertini pp. 81-82). 56 P.V. Tondelli, In punta di matita, cit. 57 F. Panzeri-G. Picone, op cit., p. 48.

326 Ben presto lo sguardo di Leo si traduce, interiorizzandosi, nella coscienza del proprio dovere e della non casualità della sua presenza a bordo: Lui ebbe, alla luce di quelle stelle e di quella luna mediterranea e gelida, la consapevolezza che il suo destino era proprio questo, di vegliare e di raccontare (CS p. 209).

La scrittura, poche righe più sotto ma nel presente di Leo, diventa così il tramite di un recupero generazionale, espresso nei termini di fedeltà a se stesso - trasparentemente inteso come autore in questo caso -, che verrà ribadito, nelle pagine immediatamente successive, dal ritorno di una struttura sintattica propria degli esordi: Ora, sul pullman che solca silenzioso la terra del Quebec, vede i due ragazzi come incontaminate presenze che provengono direttamente dal cuore di quegli anni in cui lui è stato giovane; la persistenza fisica di tipi e personaggi attorno ai quali è nata la sua scrittura e nei quali si è incarnato il suo desiderio. E si sente protetto. O meglio, sente che il suo viaggio avrà un destino (CS p. 211).

La scrittura diventa così assoluta protagonista dell’ultima parte di Camere separate, nella quale, non a caso, Tondelli definisce un convegno su Kerouac la celebrazione di “un rito senza feste e senza magnificenze, un rito semplicissimo e proprio per questo fondamentale: la sopravvivenza della letteratura” (CS p. 211). Tramite la scrittura, Tondelli attua un’altra modalità di autocitazione, non più esplicitata dal testo, ma dalle riprese stilistiche che vi sono contenute. Così nella narrazione dell’apertura del convegno, al tempo stesso rende un omaggio all’amato scrittore beat ed opera un riferimento alla propria scrittura. E’ un omaggio non solo contenutistico, attraverso la citazione dell’ultima pagina di On the Road, ma anche formale, che si esprime sostanzialmente nel legame scrittura-musica e nell’adozione delle strutture sintattiche che - Kerouac suggeritore - avevano caratterizzato le pagine di Altri libertini. Il brano, infatti, si articola in un unico paragrafo di quarantanove righe composto di soli tre periodi a struttura quasi totalmente asindetica, nei quali ricorre più volte l’elencazione - procedimento tipico di tutta l’opera tondelliana ma particolarmente significativo agli esordi - e in cui si dà un esempio del concetto di scrittura musicale che Tondelli, in Nei sotterranei della provincia, aveva individuato come uno degli elementi fondamentali dell’opera di Kerouac: Quella sera quando un bluesman californiano ha incominciato a leggere l’attacco dell’ultima pagina di On the Road […] modulando la voce, ritmandola, prima leggermente, poi sempre più cadenzata per permettere al basso di entrare, poi alla batteria, in sottofondo, poi trasformandosi in un vero e proprio canto accompagnato dalla chitarra, allora lui ha sentito un brivido fortissimo e gli è sembrato che quello

327 che Kerouac aveva scritto fosse realmente la sostanza verbale di un jazz bellissimo e struggente (CS pp. 210-211).58

Ciò avviene in un recupero del momento collettivo, che, in simmetria con il concerto allo Zenith, teatro del primo appuntamento con Thomas, chiude quasi in una parentesi la solitudine di Leo, con un crescendo di immagini topiche, tra “centinaia di altre persone giovani e vecchie […] che cannavano birre su birre al suo fianco porgendogliele” (CS pp. 210-211), “nel cantinone del Grand Derangement, un jazz-club bello e fumoso come una balera padana anni sessanta” (CS p. 210), che ospita l’apertura di un convegno destinato a svolgersi “non […] nei locali silenziosi e climatizzati di un Grand Hotel, ma nelle stanze spoglie di un ostello della gioventù” (CS p. 211). Tondelli realizza così, nel suo ultimo impegno, una circolarità di scrittura che torna ai modelli iniziali, come una celebrazione che al tempo stesso diventa autocelebrazione. Il riferimento alla propria opera viene effettuato in maniera per così dire cifrata - attraverso le scelte formali -, un meccanismo presente già nella narrazione del precedente ricordo del ritorno in nave da Patrasso, l’episodio che consentiva l’inserimento nel testo del motivo della scrittura. Vi compare infatti una lunga elencazione di diciassette righe, per la quale Turchetta, senza comprendere il collegamento col passo successivo, ha parlato di “abuso della forma elementarmente accumulatoria dell’elenco” e di “stupefacente serie di ben sessantotto fra cibi e bevande”59, mentre l’insistenza sul procedimento retorico, che compare altre volte all’interno dell’episodio, per quanto non più in maniera così esasperata, ne suggerisce un’interpretazione che vada al di là del semplice vezzo stilistico.60 La concatenazione di passaggi che porta, attraverso la consapevolezza della scrittura, all’ultima rinascita di Leo, avviene, questa volta sul piano contenutistico, sempre tramite un recupero del proprio immaginario, che sembrava viceversa negato dalle considerazioni effettuate dopo l’incontro con Hermann: Poi improvvisamente qualcosa di terribilmente bello nasce anche per lui […]. Aveva pensato di averlo perso per sempre, e invece, un mattino, verso mezzogiorno, al Pub Saint-Alexandre il desiderio è rinato riflettendosi in un paio di occhi blu dalle sopracciglia foltissime e chiare, in una chioma piegata all’indietro da colpi di spazzola, in un paio di pantaloni di fustagno chiari e una giacca floscia di velluto

58 Come Fegiz fa notare, l’omaggio a Kerouac riprende un avvenimento reale della storia della beat generation, anche se non con Kerouac protagonista: “E’ infatti con un omaggio a Kerouac che si conclude il romanzo. Una collettiva ed emozionante lettura “jazzata” di alcune sue pagine, ci riporta indietro a quando Ferlinghetti e Rexroth lessero al The Cellar di S. Francisco i loro versi accompagnati da un jazz improvvisato ma di grande impegno emotivo”. M. Fegiz, op. cit. Al tempo stesso il brano esemplifica le modalità del realismo - e dell’autobiografismo - tondelliano. 59 G. Turchetta, op. cit. 60 In relazione al richiamo stilistico alla propria produzione, si veda anche la presenza - come brevemente accennato in precedenza -, nell’ultimo periodo, del “ma” iniziale, evidenziato come importante nodo della scrittura di Pao Pao. Il suo ritorno nel finale di Camere separate è una conferma implicita di quella circolarità insita nell’opera tondelliana sulla quale si è più volte insistito.

328 grigio. Leo lo guarda e ne scopre i polsi sottili coperti da una leggera peluria come quelli di Hermann […]. Un modo di rollarsi il tabacco un po’ distratto, un po’ sbavato. La grande birra Dow sul tavolini. Quando il Vondel esce Leo lo segue. […] Il ragazzo si allontana […] saltando fra una pozzanghera e l’altra. Poi, cento metri più avanti si ferma, ha un attimo di esitazione, si volta. Vede Leo davanti al pub, fermo in mezzo alla strada che lo sta guardando. Alza una mano in segno di saluto e anche Leo, sorridendo, infradicito dalla pioggia, lo fa. Poi continua a camminare e gli occhi di Leo lo fissano finché non lo vedono sparire per sempre, inghiottito dalla nebbia, al fondo di Rue Saint- Jean (CS p. 215).

E’ uno sviluppo che ribadisce una volta di più la ciclicità di Camere separate, il ritornare di avvenimenti - e considerazioni -, debolmente variati, da un movimento all’altro.61 Al tempo stesso, la chiusura del romanzo con un ritorno sulla propria produzione precedente e sulla mitologia personale del protagonista, attraverso il nuovo incontro con il tipo fisico che di un determinato periodo è l’incarnazione - come veniva affermato nel secondo movimento a proposito di Hermann -, stabilisce un parallelo col ritorno, fisico, di Leo al proprio paese natale, e quindi col tema del ricongiungimento con le proprie radici che investe tanta parte dell’opera tondelliana.

IV.3 Una scrittura più intimista.

In Camere separate, raccontando una storia di ripiegamento su se stessi e di ricostruzione della propria persona, continuamente a cavallo tra ricordo e meditazione presente, Tondelli adotta una scrittura che si differenzia dalla sua precedente narrativa, una scrittura più intimista, a volte addirittura con una tensione verso l’elegia che la vena di lirismo. Non è però che questo determini una frattura rispetto al passato, piuttosto una modalità diversa di esprimere le medesime tensioni. Prescindendo in parte da Rimini, infatti, - che pure, nella sua struttura a più voci, consente un certo parallelismo tra Tondelli autore e il personaggio Bruno May catalizzatore di motivi destinati a confluire, attraverso Biglietti agli amici, in Camere separate - la narrativa tondelliana non è mai stata caratterizzata da una scrittura distaccata, tutt’altro. Fin dalle prime prove, Tondelli adotta uno scrivere fortemente coinvolgente ricco di emotività e di aperture anche sul piano personale. Al tempo stesso, è uno scrivere pienamente

61 A questo proposito ci sono alcune interessanti osservazioni dello stesso Tondelli sul finale di Camere separate, che - implicitamente - ribadiscono il ritorno continuo degli avvenimenti: “Il problema di un testo del genere è quindi sapere quando finisce. Per me finisce quando incomincia un’altra storia […]. Nelle ultime pagine Camere separate stava diventando un’altra storia con l’introduzione di altri personaggi e tuttavia non poteva esserci un vero e proprio finale, perché Leo ritorna nella vita. Poteva esserci un finale solamente stilistico: nel silenzio e quindi nell’estinzione.” G. Susanna, Candid Camere, in “Music”, n.116, giugno 1989.

329 storicizzato, che, nel riflettere il suo tempo, ne assume realtà e mitologie. Altri libertini e - già in misura minore - Pao Pao sono opere la cui natura è un ossimoro: sono pervase dalla rappresentazione di un intimismo di gruppo, tutto esteriorizzato in obbedienza ai dettami del periodo (confluenza di pubblico e privato, ad esempio). Quello che mettono a nudo è il carattere, anche più segreto, di una generazione, o perlomeno di una sua ben determinata frangia. Allo stesso modo, Camere separate si dimostra paradigmatico nei confronti del suo tempo: la riflessione di Leo ha sì una motivazione anagrafica legata al raggiungimento del trentesimo anno di età, ma l’interiorizzazione che viene messa in scena da Camere separate non è solo personale, poiché rispecchia il rifluire sul privato che ha fortemente caratterizzato, in contrasto col periodo precedente, il decennio Ottanta. Ed è proprio in contrapposizione al passato che il percorso di Leo acquista un senso più profondo, in relazione ai cambiamenti necessari per superare l’abbandono di tutta una serie di parametri che fornivano delle coordinate in cui inserirsi. A questo proposito La Porta ha appropriatamente parlato di “autoconfessione straziante, […] fuoriuscita da una dimensione collettiva più o meno rassicurante (o inebriante)”62, rendendo implicita la trasformazione epocale. Il problema di Camere separate diventa quindi quello di trovare la forma più adatta per descrivere questo nuovo atteggiamento verso la realtà, per il quale le modalità precedenti non sono sufficienti. In questo senso Camere separate è anche l’espressione di un cambiamento. Scrive Fortunato: Se nelle precedenti prove narrative Tondelli aveva inseguito e descritto una realtà tutta permeata di gergalità, risolta e quasi compressa in una velocità di scrittura e di azione […], qui lo scrittore cambia radicalmente registro il tono e il ritmo si allungano. Rallentano nel tentativo di ricostruire uno spazio interiore, un luogo spirituale al riparo dal fracasso e dalla violenza del quotidiano. Lo stile, così, si fa più calibrato, introflesso.63

IV.3.1 Nuovi riferimenti letterari.

In Camere separate la scrittura tondelliana trova altri punti di riferimento letterari, spostandosi dagli originali modelli americani verso scrittori europei, spesso di area linguistica germanica. Come si è visto, già in relazione a Rimini compariva il nome di Bichsel, mentre Ingeborg Bachmann diventa negli ultimi anni una fonte di ispirazione costante, tanto che Camere separate è costellato di ‘illuminazioni’ bachmanniane, calchi e

62 F. La Porta, Tra mimesi e dissimulazione, cit., p. 268. 63 M. Fortunato, op. cit.

330 riferimenti che farciscono il testo, un continuo omaggio all’amata scrittrice austriaca mai nella forma esplicita della citazione. Lo stesso Tondelli ha aggiunto a questi nomi Peter Handke, definito “uno scrittore che procede per illuminazioni di scrittura o di interiorità che ritengo assolutamente geniali”64, di cui riprende, in un certo senso, il motivo del rapporto tra scrittura e vita, a proposito del quale aveva parlato di “autobiografia linguistica”65. Simili le motivazioni che legano Tondelli all’opera di Isherwood, importante riferimento - come si è visto - fin da Pier a gennaio e, sulla scorta delle affermazioni di Tondelli, assai probabile modello per la presenza numerosa di dati autobiografici nelle pagine di Camere separate. Forse Isherwood - scrive Tondelli - è stato lo scrittore che più ha tentato di rintracciare nell’autobiografia il motivo della propria ispirazione […] come se i dati dell’esperienza fossero già scrittura o come se, viceversa, la scrittura fosse così fedele da trattenere in sé, ancora, la vita.66

Ma al di là dei riferimenti veri e propri, colpisce in Camere separate la quantità degli scrittori evocati, quasi alla ricerca di un vasto sentire collettivo sulla base delle affinità letterarie, che riporta comunque al tema della scrittura, ragione finale della solitudine e della diversità di Leo. E’ così che il romanzo diventa per Tondelli il catalogo di "un immaginario culturale fitto di “compagni di viaggio”"67, accostati sulla base di motivazioni diverse. E’ questo il senso della costellazione di scrittori omosessuali, Ginsberg, Auden, Isherwood, che a più riprese compare nella divertente tipologia gay che Leo, cercando di catalogare Thomas, enumera sulla scorta di riferimenti ai tre scrittori citati: Thomas non è un Chez Maxim‘s. […] si va da Chez Maxim’s, direbbe Christopher Isherwood, già bendisposti […]. Probabilmente, pensa Leo non è neppure un Whitman, nel senso definito da Allen Ginsberg […]. Non è nemmeno un wrong blond, definizione che nel 1939 Wystan Auden diede di Chester Kallman (CS pp. 16-17).

Senza voler parlare di letteratura omosessuale, o peggio - come fa Sabbadini - creare il sottogenere del “romanzo omosessuale”68, si devono valutare queste considerazioni, poi sviluppate, anche come il lato ironico di un discorso, che ironico non è, sulle difficoltà che derivano a Leo dal mancato riconoscimento sociale della sua relazione con Thomas,

64 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 54. 65 “La figura dell’autobiografia riveste nella prosa di Handke un ruolo di grande rilevanza, o quanto meno lo rivestono i modi in cui Handke fa dell’autobiografia linguistica. Un’autobiografia che sfugge a classificazioni banali,[…]. Un’autobiografia del linguaggio, le posizioni linguistiche dei sentimenti.” P.V. Tondelli, Un pomeriggio per cambiare, in “L’Espresso”, 20 dicembre 1987, poi in Id., L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 34-36. 66 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 96. 67 N. Orengo, Tondelli: Viaggi e amori nascono dalle parole, in “Tuttolibri”, 27 maggio 1989. 68 S. Sabbadini, Omosessualità e romanzo, in “L’Indice dei libri del mese”, ottobre 1989, n. 8.

331 all’interno di una più vasta esplorazione della dinamica dell’amore, che varca i confini del mondo omosessuale, o meglio, che vi è trasversale. Analoghi meccanismi di ricerca di affinità letterarie, motivano la presenza di Delfini e D’Arzo, non a caso nel bel mezzo del ritorno al paese natale di Leo, attraverso il quale Tondelli opera il radicamento nella cultura della propria terra e all’interno di una particolare linea della letteratura novecentesca: Sul tavolino accanto al letto sono rimasti i libri che ha lasciato l’ultima volta e che riesce a leggere solo qui, nella sua stanza. Alcuni volumi di Antonio Delfini e di Silvio D’Arzo. […] Solo in loro lui trova quei particolari aspetti di follia, noia, malinconia che solitamente non si attribuiscono al carattere alla gente della sua terra […]. A lui ora interessa la parte nascosta di questo carattere […]. Solo in questi due scrittori, in modo diverso, lui trova descritta quella certa impenetrabilità del carattere emiliano […] che ha conosciuto in suo padre e ora conosce in se stesso (CS pp. 117-118).

E’ un’autodentificazione che prende le vesti dell’omaggio attraverso l’inserimento - poi ripetuto con Kerouac nel finale - di una breve citazione da un libro di Delfini che Leo incomincia a leggere.69 Sul versante italiano, al di là della ricerca di affinità letterarie, si può instaurare un più solido legame con Fabrizio Lupo di Carlo Coccioli, un libro al quale Camere separate è fortemente debitore.70 Tondelli si è occupato, criticamente, a più riprese di Coccioli, sempre sulle pagine di “Rockstar”, recensendo Piccolo karma nel 1988 ed intervistandolo nel 1990. Gli ha poi dedicato un capitolo nella decima parte di Un weekend postmoderno, Geografia letteraria, ove i due articoli venivano ripresi e ampliati. In esso,

69 Delfini e D’Arzo ritornano spesso nella produzione tondelliana, sempre in contesti legati al rapporto con la propria terra. Particolarmente interessante, da questo punto di vista, il loro, analogo, utilizzo nella chiusura di Un racconto sul vino e di Un weekend postmoderno, costruita sull’immagine dei due scrittori emiliani e su citazioni da loro scritti. 70 Carlo Coccioli, autore toscano nato nel 1920, nonostante una vasta eterogenea produzione, non è molto noto in Italia, mentre è più famoso all’estero, soprattutto in Francia e in Messico, dove si è trasferito nel 1953. La tematica fondamentale delle sue opere, molte delle quali solo in lingua straniera, è la ricerca religiosa al di fuori degli schemi precostituiti. E’ una riflessione che ne Il cielo e la terra, Firenze, Vallecchi, 1950, ha come protagonista un sacerdote, e che continua, all’interno del Cattolicesimo, in Fabrizio Lupo, dove Coccioli propone il problema irrisolto della conciliazione tra religione istituzionale e tipi umani ai margini della società, problema ripreso, in altri aspetti, in Uomini in fuga; la grande avventura degli Alcoolisti Anonimi, Milano, Rusconi, 1973. Nel 1977 esce poi Requiem per un cane, ivi. Fabrizio Lupo, originariamente scritto in italiano, ha una vicenda editoriale piuttosto tortuosa: fu pubblicato dapprima in Francia, nel 1952. Poi, in seguito al trasferimento dell’autore, in Messico nel 1953. La versione inglese è del 1960, quella americana è del 1966. L’edizione italiana è solo del 1978, per Rusconi, ma l’autore afferma che questa, leggermente diversa da quella francese, contiene il testo originale. Il passaggio di Coccioli all’Ebraismo è espresso, sul versante letterario, da Documento 127, Firenze, Vallecchi, 1970, e dal successivo Davide, Milano, Rusconi, 1976. Recentemente, l’autore è approdato all’induismo, modificando ulteriormente la sua scrittura verso una dimensione sempre meno narrativa, riscontrabile in Le case del lago, ivi, 1980, e in La casa di Tacubaya, ivi, 1982. Del 1988 è poi Piccolo karma (ivi).

332 facendone risalire la lettura all’uscita dell’edizione italiana, mette in evidenza alcuni aspetti di Fabrizio Lupo che, riscontrabili in modo piuttosto generico nella precedente produzione tondelliana, ritornano in maniera ben più significativa in Camere separate: Nel 1978, la rivelazione di Fabrizio Lupo […] provocò un corto circuito assorto e meditabondo fra sensualità, eros, religione, fede, suicidio, autodistruzione alcolica, elegie contadine, miti metropolitani. Ancora una volta il dualismo assoluto e non comunicante, se non attraverso il gesto tragico, fra spiritualità e carnalità, fra le ragioni della fede e quelle dei sensi, fra misticismo e mondanità.71

Più dettagliatamente, Gilberto Severini ha poi messo in evidenza le analogie tra Fabrizio Lupo e Camere separate: Bisogna forse risalire a Fabrizio Lupo (1952) di Carlo Coccioli per trovare un’analoga attenzione nei confronti della religiosità […]. Le diversità tra Fabrizio Lupo e Camere separate sono evidenti, anche per la enorme distanza, in certo senso epocale, tra l’uscita dei due libri. Più interessante è cogliere alcune sorprendenti somiglianze. Fabrizio, come Leo, svolge un’attività creativa (è un pittore di un certo successo). Fabrizio, come Leo, è un omosessuale che cerca non l’avventura di una notte, ma il grande amore. Entrambi si rivolgono alla Chiesa per scoprire che “a uno come me la chiesa non aveva pensato” (Fabrizio), “voi negate la mia stessa esistenza” (Leo). […] In Fabrizio Lupo l’amante del protagonista muore in un incidente. Gli viene trovato addosso il Vangelo che Fabrizio gli ha regalato. Sul frontespizio ha scritto il nome del giovane pittore e sotto “nec tecum nec sine te”. Non è questa la particolarità dell’amore di Leo per Thomas nel romanzo di Tondelli? 72

Sono motivi che si pongono sia a livello di costruzione del personaggio o dell’intreccio, che più specificamente come richiami testuali a volte piuttosto precisi.73 Ad esempio, la scena di Leo che riesce a gettare nella spazzatura la foto di Hermann, trova un duplice riscontro in Fabrizio Lupo, quando Fabrizio ragazzino distrugge una sciarpa che era appartenuta all’amico morto e quando Fabrizio adulto straccia la foto di Laurent. Al di là però di questi momenti, del resto abbastanza consueti nei romanzi d’amore e quindi forse non eccessivamente significativi nella loro singolarità ma apprezzabili nel contesto delle altre somiglianze, determinati temi di grande importanza in Camere separate si dispiegano con una notevole estensione nelle pagine di Fabrizio Lupo. La rappresentazione della storia d’amore acquista infatti, in entrambi i testi, un forte significato sociale per la diversità dei

71 P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, cit., p. 479. 72 G. Severini, Private liturgie, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 102-108. 73 Sul piano della caratterizzazione dei personaggi ci sono delle interessanti coincidenze tra i due romanzi, dal momento che in Fabrizio Lupo i due giovani al momento del loro incontro hanno rispettivamente ventisei anni Fabrizio e ventidue/ventitré Laurent, la stesse età di Leo e Thomas quando si conoscono. Inoltre Laurent aveva avuto in precedenza delle relazioni eterosessuali, come Thomas, che prima di incontrare Leo abitava con una ragazza e che ripeterà l’esperienza al tempo delle “camere separate”. Anche Laurent, del resto, cercherà, inutilmente, di sostituire Fabrizio con una donna.

333 protagonisti, comparendo più volte nelle riflessioni di Leo e motivando addirittura la decisione di Fabrizio di far conoscere la storia del suo amore con Laurent. La problematica accettazione da parte di Laurent della relazione con Fabrizio - motivo più volte riscontrabile, per inciso, nelle prime opere tondelliane - è bilanciata dall’orgoglio con cui questi parla della sua situazione, consegnando infine allo scrittore a cui si era rivolto - lo stesso Coccioli - il manoscritto da lui steso al riguardo perché sia pubblicato: Io voglio che gli altri, oltre a quelli simili a me, comprendano […], o più esattamente sappiano […] la nobiltà, la dignità, l’”ordine” di un amore come il mio. […] La sua bellezza, la sua autenticità, la sua gloria. La sua verità anche davanti a Dio. Voglio, tramite te, rendere una testimonianza […]. A quelli che sono simili a me, io voglio dire, tramite te, che una possibilità d’ordine esiste per noi qui in terra, e una giustificazione in cielo; agli altri, io voglio dire, tramite te, che, non meno di loro, noi siamo degni della vita.74

La stessa problematica coinvolge Leo, privato persino di un ruolo sociale in occasione della morte di Thomas, impossibilitato ad unire il proprio dolore a quello degli altri, isolato nel suo personale dramma. Ed è una problematica sulla quale Tondelli insiste molto nel corso del romanzo, a più riprese e prendendo spunto da diverse occasioni, sviluppando il collegamento con la mancanza di modelli di riferimento che consegue al collocarsi al di fuori delle regole sociali: Vivere insieme significava credere in un valore che nessuno era in grado di riconoscere. […] Dovevano per forza normalizzare un rapporto che la società non poteva appunto recepire come norma? (CS p. 173).

E’ un tema che - anche in considerazione del diverso periodo storico - viene lungamente trattato in Fabrizio Lupo, con osservazioni simili e con lo stesso collegamento: L’ordine […] quelli che sono come me devono edificarlo coi loro poveri mezzi, a brani, attraverso inimmaginabili difficoltà, giorno dopo giorno, senza poter ricorrere a una tradizione, a una letteratura, a un codice, a un passato. […] Per degli esseri come noi non esiste in partenza nessun ordine formale atto ad ammaestrarci e a guidarci, ad assisterci ed a salvaguardarci, un ordine come matrimonio, consenso civico, tutela giuridica, e morale. […] Noi non solamente dobbiamo trovare l’amore in mezzo a difficoltà di ogni genere, a divieti, a complessi, a timori, a inquietudini, ma siamo tenuti inoltre a decidere sulle forme da dare al nostro amore, e a costruirlo, e infine a tentare d’inserirlo in qualche improvvisato, fragile contesto... E’ la più aspra, è la più tormentosa delle mete.75

Severini, nel suo interessante intervento, ha evidenziato tra le analogie il rapporto con la Chiesa. All’interno di questo tema ricorre nei due testi il medesimo episodio della

74 C. Coccioli, Fabrizio Lupo (1952), Milano, Rusconi, 1978, pp. 22-23. 75 Ivi, pp. 93-94.

334 confessione e dell’inadeguatezza del sacerdote - e della Chiesa per estensione - alla comprensione. Scrive Tondelli: Era andato da un sacerdote e gli aveva raccontato, sotto il sacramento della confessione, quello che stava passando. Mentre parlava, imbarazzato e confuso, si accorse che il più turbato era in realtà l’altro. […] E allora con un moto di orgoglio […] gli aveva detto: “ Io voglio vivere seguendo la mia natura. Perché la mia libertà deve essere giudicata dalla coscienza altrui? Perché devo essere biasimato per cose di cui rendo grazie?” (CS pp. 99-100).76

Alla stessa maniera, Coccioli condanna le contraddizioni della Chiesa di fronte all’amore di Fabrizio: Quando andai a confessarmi, mi si disse che assolvermi era impossibile. Perché mi fu domandato se avessi l’intenzione di staccarmi da quell’amore e io risposi che non avevo il diritto di rinnegarlo. Mi fu domandato se di quell’amore mi pentivo e io risposi che non me ne pentivo. E, alla domanda se avessi l’anima triste a quel peccato, io risposi che la mia anima fioriva in gioia. Conseguenza: mentre nell’incontro con Laurent ritrovavo il tempo di Dio, uscii per la prima volta dal confessionale senza quell’assoluzione che mi era stata concessa al tempo del disordine sentimentale e morale.77

Altri motivi presenti in Fabrizio Lupo ritornano in Camere separate, come l’incomunicabilità del dolore (p. 97), la solitudine legata alla diversità (p. 13), il rifiuto della compassione (p. 97) ed il riferimento ad un qualche paradiso perduto (p. 50), ma al di là di tutte le sovrapposizioni, è interessante notare che i due romanzi sono accomunati dalla presenza del momento epistolare dopo che i due giovani si sono separati. Leo, dopo il breve tentativo di convivenza con Thomas a Milano, inizia con lui un fitto scambio di lettere, praticamente quotidiano, che assume una particolare pregnanza nel romanzo, sia in funzione del motivo del riconoscimento sociale, sia per l’importanza del tema della scrittura. In Fabrizio Lupo i due giovani si conoscono a Parigi - come Leo e Thomas - nella primavera del 1950 e si separano il 12 giugno dandosi appuntamento per quaranta giorni dopo in Toscana. Durante questo periodo di separazione Fabrizio scrive a Laurent, ricambiato,

76 Il collegamento con il libro di Coccioli riceve ulteriori indizi da quella che potrebbe essere una ‘memoria inconscia’ nel testo di Tondelli. Il colloquio con il prete si chiude, infatti, sulle seguenti parole: ”Eppure per quello che lei e io ne possiamo sapere, anche i cani hanno un Dio” (CS p. 100). In Un weekend postmoderno Tondelli parla di Coccioli - chiarendone il percorso dal Cristianesimo originale, attraverso varie tappe, fino all’approdo al Buddismo - come di uno “che agli animali, a un cane, in particolare, ha dedicato un libro e pagine di infinita pietà”. P.V. Tondelli, Un weekend postmodermo, cit., p. 485. Il libro a cui Tondelli si riferisce è C. Coccioli, Requiem per un cane, cit. 77 C. Coccioli, Fabrizio Lupo, cit., p. 50. La riflessione sul rapporto tra l’omosessualità del protagonista e la sua originaria condizione di cattolico viene sviluppata in molte parti di Fabrizio Lupo. Di particolare interesse il momento in cui Fabrizio illustra i suoi primi colloqui con i preti, “coloro che, imponendomi di vivere secondo una morale non mia, tentavano di falsificarmi l’anima” (p. 26) e la contraddizione dell’assoluzione continua: “s’incontra un compagno la sera, ci si confessa e si viene assolti la mattina seguente […] figlio prediletto della Chiesa perché figlio pentito” (p. 27).

335 quasi quotidianamente, e due capitoli di Fabrizio Lupo sono occupati quasi esclusivamente dalle lettere di Fabrizio. I collegamenti tra i due romanzi sono dunque molteplici e Fabrizio Lupo va sicuramente annoverato tra le opere più ricche di suggestioni per la scrittura di Camere separate, al punto che potrebbe non essere azzardato ipotizzare - sulla scorta della presenza di un personaggio secondario, un commilitone di Fabrizio, di nome Leo nel libro di Coccioli - la scelta di chiamare Leo il protagonista di Camere separate un non evidentissimo omaggio all’autore toscano. Al di là delle convergenze, sono però due opere che esprimono intenti profondamente diversi: Fabrizio Lupo mostra una fortissima volontà di denuncia sociale, che ruota attorno alla necessità del riconoscimento della diversità, aspetto che, pure presente in Camere separate, non lo permea in maniera così capillare.

IV.4.4 Dualismo e ricerca di se stesso.

Marino Sinibaldi ha ben identificato il motore del viaggio interiore di Leo: Camere separate è in primo luogo un tentativo di bilancio esistenziale, il rendiconto di uno sforzo di ricostruzione dell’identità, di formazione - o meglio, […] di ri- formazione - di una personalità.78

E’ una ricerca di sé che parte dalla constatazione della propria forzata solitudine dopo la morte del compagno, una ricerca che egli definisce “spedizione oltre i confini del corpo di Thomas” (CS p. 58). La figura di Thomas, anche dopo la sua scomparsa, organizza il testo secondo un certo dualismo, in funzione della sua presenza/assenza, con Leo che passa di continuo dal personaggio “Leo” al personaggio “Leo con Thomas”. Il dualismo è senz’altro cifra assai significativa di Camere separate, dove, di volta in volta, prende le forme dello sdoppiamento, della creazione di un alter ego o del personaggio multiplo. Il confronto sarà quindi la figura costitutiva del romanzo, un confronto dove un termine è dato fisso, Leo, e l’altro varia in continuazione, prendendo spesso le sembianze di un altro Leo. Tondelli lo rappresenta fin dall’inizio, per mezzo di un oggetto chiave in Camere separate, lo specchio, nella sua più ampia accezione di oggetto che consente la duplicazione di un’immagine. Già il primo paragrafo si apre su questa azione fondamentale del protagonista: Leo vede la sua faccia riflessa dall’oblò di un aeroplano, un’immagine che subito diventa il termine di una contrapposizione che si estenderà per tutto il libro. Apparve il riflesso del suo volto appesantito e affaticato […]. La sua faccia, quella che gli altri riconoscevano da anni come “lui” - e che a lui invece appariva ogni giorno più strana, poiché l’immagine che conservava del proprio volto era sempre e

78 M. Sinibaldi, “So glad to grow older”, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 109-116.

336 immortalmente quella del sé giovane e del sé ragazzo - una volta di più gli parve strana. […] L’immagine che vedeva contro quello sfondo acceso era semplicemente il viso di una persona non più tanto giovane, […] un viso che subiva, come quello di ogni altro, la corruzione e i segni del tempo (CS pp. 7-8).

Lo sdoppiamento di Leo si esprime già nella scelta della narrazione in terza persona, invece di una prima persona che sembrerebbe naturale al tono globale, da confessione, del romanzo, un immediato implicito confronto io / lui che inizia al di qua del testo vero e proprio, subito prima della prima vera contrapposizione esplicita, quella tra “lui” e lui che Leo instaura vedendo la sua faccia riflessa. Una volta inscenato il confronto come figura costitutiva del libro, Tondelli mostra quale sarà la direzione della ricerca di Leo: con l’inserimento nel testo delle due immagini mentali di Leo - il “sé giovane” e il “sé ragazzo” - anticipa l’immersione nel passato che servirà a ricostruire la vita del protagonista tramite la rappresentazione di altri Leo, differenziati sulla base dell’età anagrafica. La stratificazione del ricordo produce così una stratificazione del personaggio, che però rimane, in un certo senso, esteriore al personaggio Leo che ricorda, a Leo attore della ricerca, ponendosi come il secondo termine del confronto sistematico. La ricerca di identità - riconducibile da ultimo alla diversità di Leo - determina anche il suo atteggiamento di fronte agli eventi, che è pure articolato sotto il segno della contrapposizione, come traspare nel corso della serata trascorsa con Thomas alla Deutsche Eiche di Monaco: Quello che si svolgeva […] era il rito di una comunità. […] Tutto era coerente allo svolgimento di una liturgia dalla quale Leo si sentiva profondamente escluso ma che, nello stesso tempo, gli apparteneva (CS p. 59).

Si noti come quel “coerente”, indice di un atteggiamento fortemente univoco, realizzi nel brano un sensibile contrasto con l’atteggiamento di Leo, diventandone in un certo senso un’ulteriore rappresentazione. Significativamente, compare subito dopo il motivo della diversità, e Leo diventa, col suo atteggiamento, doppiamente diverso, accentuando ancor più i dualismi strutturali: Era consapevole di assistere al modo in cui una minoranza risolveva il problema della propria diversità. E anche se lui si sentiva estraneo alla cerimonia […], lui apprezzava semplicemente il fatto che esistesse. Non partecipava di quella messinscena. Ma ne riconosceva le motivazioni. E riconoscendola la legittimava (CS pp. 59-60).

Quando il secondo termine del confronto non è occupato da un differente Leo, Tondelli inserisce un personaggio a fungere da alter ego del protagonista. E’ un’altra forma di ‘specchio’ che diventa evidente poiché il nuovo personaggio tende a coincidere con Leo per alcuni aspetti. Si è già visto l’incontro in aereo - al ritorno da New York - col vecchio

337 che riportava a casa il figlio morto. Indicativo, per il tema dell’identità, il nuovo tentativo di connotazione che viene dato ai due personaggi, una connotazione che si delinea come un ossimoro, cioè una nuova contrapposizione, e che può essere riferita in entrambi i termini a Leo, considerata l’importanza - e la presenza nel brano - del motivo della paternità: Su quell’aereo in volo sulle tracce del vecchio continente, viaggiano un “padre orfano” e “un amante vedovo” (CS p. 166).

Altrettanto interessante - e molto più esplicito nell’esposizione del dualismo - un precedente episodio accaduto a New York, nel quale l’identificazione in un altro anticipa un nuovo momento catartico del percorso di Leo, vale a dire l’incontro sessuale con il ballerino, espiazione che consente un’ennesima rinascita.79 Leo si trova in un locale gay a fine serata ed osserva un altro cliente seduto accanto a lui: Quando ritorna nella sala ormai vuota […] lui si trova faccia a faccia, dall’altra parte della passerella, con un giovane uomo che ha già visto da giorni, nella stessa identica posizione, ma che solo ora lo colpisce. E’ ubriaco, abbandonato alla sua seggiola, con un mazzo di dollari bagnati e gocciolanti infilati sotto al bicchiere di birra. […] I ragazzi lo devono conoscere assai bene poiché lo trattano come gli infermieri tratterebbero un vecchio paziente cronico. […] Il giovane uomo, avrà trentacinque anni, continua a sorridere, a bere birra, a infilare dollari negli slip. Leo […] alza la testa verso il soffitto portandosi le mani sulla nuca per stendersi. E’ in quel momento che succede. Il soffitto è ricoperto di specchi. […] Così si vede riflesso, pallidissimo, in mezzo a uno spazio desolato di tavoli vuoti, sgabelli e bottiglie di birra. E in quell’immagine scorge l’uomo ubriaco con un ragazzo nudo sulle ginocchia. Specchiandosi in quel doppio di sé, identificandosi con il giovane uomo ubriaco e stravolto che ancora ride […] lui si dice, fra la rassegnazione e l’eccitazione: “Bene Leo. Qui, ora, hai cominciato anche tu la carriera di onesto puttaniere” (CS pp. 155-156).

In questo caso è Leo stesso a realizzare l’identificazione con l’altro, in un passaggio denso di termini che riconducono alla dualità, “specchiandosi”, “doppio”, “identificandosi con”, e dove la presenza stessa dello specchio, amplificato fino a ricoprire tutto il soffitto, è, significativamente, indicata nel testo. Anche lo stato d’animo di Leo esprime una contrapposizione, attraverso due sentimenti contrastanti come “la rassegnazione e l’eccitazione”. Tutto in Camere separate rimanda alla dualità, a partire dall’atteggiamento di Leo fin dagli inizi della relazione con Thomas, con la quale si crea un personaggio multiplo, “Leo- con-Thomas”, che si pone come nuova identità di Leo, attorno al quale si coagula la sua riflessione:

79 La stretta connessione tra i due episodi, del resto in immediata successione nel testo, è dimostrata dall’anticipazione fatta nel primo sull’altro termine della nuova contrapposizione che sta per essere messa in scena. Attraverso la similitudine “ubriaco”/”paziente cronico” e “ragazzi”/”infermieri”, Tondelli introduce il ricordo dell’intervento chirurgico che si pone come secondo termine della successiva esperienza di Leo.

338 Leo […] non si presentava più all’esterno come Leo, ma come Leo-con-Thomas. Non viveva più solo. Era con un altro. E il mondo doveva prenderne atto. […] Aveva necessità che il mondo prendesse atto di questa nuova vita (CS p. 66).

Il personaggio multiplo riceve una più ampia significazione proprio nella sua scomparsa, quando Leo riflette sul senso della sua sopravvivenza come singola parte di “quell’unità armonica”: Sta continuando a vivere senza Thomas. Leo senza Thomas. E’ inconcepibile. Significa una sola cosa: che anche Leo è morto. E non nell’altro, che invece è arrivato fedele alla fine della sua esistenza. Ma proprio nel suo ideale. Perché lui è destinato a continuare e in questo modo a uccidere, giorno dopo giorno, quell’unità armonica che si chiamava Leo-e-Thomas e che ora non c’è più e non potrà più esserci (CS p. 90).

E’ chiaro che il solo percorso possibile per Leo sarà una faticosa accettazione di se stesso, del nuovo se stesso, un se stesso che, coerentemente, rimane sempre, per ora, un’altra persona, qualcosa di separato, anche quando Leo realizza tale necessità: Altro non sta facendo che concentrarsi su di sé per imparare ad amare quella persona che porta il suo stesso nome, che gli altri riconoscono come Leo e che lui sta finalmente riportando a casa. Guardando il tramonto sopra le Alpi sente che, per continuare a vivere e a progredire, deve amare quella stessa persona che la carta d’imbarco ha assegnato al suo stesso posto, lì, accanto all’oblò che gli apre lo sguardo verso un giorno e una notte d’Europa (CS p. 91).

IV.4 La summa tematica.

Camere separate assume il carattere di summa narrativa della produzione tondelliana: vi compaiono, infatti, i temi che l’autore era andato svolgendo nei romanzi precedenti, secondo una ripresa che prende le vesti del riepilogo definitivo.80 In questa maniera il romanzo acquista un’importanza ulteriore, perché non si tratta mai di semplici duplicazioni di quanto già scritto, ma di rivisitazioni che chiudono il percorso tematico tondelliano in una forma decisiva, più che secondo il carattere della variazione, secondo quello del completamento. L’intero suo scrivere ottiene così una maggior uniformità, consentendo una lettura della sua opera nei termini di un’evoluzione, artistica e umana.

80 Si è voluto specificare tramite l’aggettivo “narrativo” perché l’anno successivo a Camere separate viene pubblicato Un weekend postmoderno, nel quale Tondelli opera una sistemazione e riscrittura della sua produzione giornalistica che, oltre che come attraversamento critico del decennio Ottanta, diventa anche un riepilogo nei confronti di se stesso, “una sorta di biografia e testamento intellettuale”. A. Tamburini, Una storia di tutti, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 129-136.

339 IV.4.1 Il viaggio.

L’archetipo del viaggio aveva fortemente caratterizzato l’esordio tondelliano, diventando un motivo imprescindibile di tutto il suo percorso artistico. Camere separate opera un deciso collegamento con gli esordi, reso esplicito dal viaggio canadese con i richiami a Kerouac nel finale. Lo fa notare la Fegiz: Camere separate sembra il romanzo di un «beat» redivivo […]. Si respira un’aria molto internazionale, ed “on the road”, anche se il protagonista-viaggiatore non fa più l’autostop ma prende l’aereo e si fa la doccia in albergo.81

Quelli che cambiano sono dunque i lineamenti del viaggio, che, in conseguenza della diversità, anche anagrafica, del protagonista, si articola secondo le linee di un nomadismo culturale e professionale. Leo viaggia sempre in ossequio alla sua attività di scrittore: Colonia e Duisburg sono tappe legate alla professione, dove incontra personaggi del mondo della cultura o dove si reca per tenere conferenze; Dresda è soprattutto la pinacoteca di Dresda. Anche quando parte da solo alla ricerca di se stesso, non dimentica la sua essenza di scrittore e tra le poche cose che porta con sé sta “un quaderno per scrivere” (CS p. 58). La meta del viaggio in Quebec, da ultimo, è un convegno su Kerouac. Cambiano, e di molto, quelli che potrebbero essere definiti gli elementi pratici del viaggio: i protagonisti di Altri libertini si spostavano in autostop e dormivano in sacco a pelo al Vondel Park. Leo viaggia in automobile, treno e aereo, alloggia al Grand Hotel e frequenta ristoranti raffinati, senza evidenti problemi economici, tanto che, esemplarmente, il suo ritorno da Patrasso, un’imprevista attraversata in nave, genera un forte contrasto tra lui e le centinaia di giovani tra cui si viene a trovare, contrasto poi felicemente risolto con il ricorso alla sua ‘missione’ di scrittore.82

81 M. Fegiz, op. cit. 82 L’episodio in questione ritorna in Un weekend postmoderno, privo del filtro costituito dalla ‘missione letteraria’, cosicché esprime in tutta la sua pienezza l’abisso che separa la posizione di Tondelli da quelli che in Camere separate sono non “i viaggiatori del ponte”, ma solamente “centinaia di giovani” (CS p. 206): “In quell’occasione […] ho cominciato a odiare i viaggiatori del ponte. […] Sia chiaro, io non avevo equipaggiamento con me […]. Questi canadesi, austriaci, tedeschi, olandesi, norvegesi, francesi, milanesi e pupone americane, erano una cosa insopportabile. Appena saliti sulla nave, vai col picnic. […] Quel che non saltava fuori da quegli zaini! […] Io avevo niente. Appena la nave prende il largo e il freddo si fa sentire […] cominciano a tirar fuori, da quegli zaini, materassi, cuscini, sacchi a pelo, trapunte, coperte, panni. […] Ho cominciato a vacillare un po’. Capirete! Inchiodato su una panca, un freddo della madonna, niente per coprirmi […]. E intanto loro, via, che facevano i letti a castello, via che innalzavano baldacchini e gonfiavano tre, quattro, cinque materassi. Montagne di materassi, coperte, maglioni, bandiere... […] Mi sono steso accanto a loro e mi sono, stranamente, addormentato quasi all’istante, […] perso fra decine di sacchi a pelo, superimbottiti e fluorescenti, al chiarore di una luna che sorvegliava, muta e protettiva, il viaggio dei suoi giovani eroi”. P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, cit., pp. 384-385. Il brano, datato 1987, sembra implicitamente

340 In Camere separate il viaggio si carica intensamente di un connotato che in Altri libertini era comparso nei termini di evasione dalla provincia: la fuga. Il viaggio di Leo, infatti, inizia senza che lui stesso possa comprenderne le motivazioni profonde, ma si chiarisce ben presto proprio come una fuga: In realtà lui sta fuggendo. Non c’è nessun luogo che intende consapevolmente raggiungere. Nessuna persona che desidera incontrare. Niente che voglia fare. […] Capisce che è in fuga. Sta scappando attraverso l’Europa dall’orrore della perdita di Thomas. Sta scappando dalla morte. […] Come un animale che si accorge della fine, lui non vuole più vivere. Fugge da una morte per avvicinarsi alla propria morte (CS p. 68).83

Significativo che il viaggio, per antonomasia connaturato da curiosità, scoperta di cose e mondi nuovi, mete da raggiungere, si articoli ora, nella riflessione di Leo, in una catena di negazioni, “non / nessuno / nessuna / niente”, che poi trovano il loro esito nell’estrema negazione finale, la morte. Il viaggio di Leo è la negazione stessa del viaggio, è un viaggio interiore che cambia subito l’essenza stessa - e quindi la motivazione - della propria meta: Il viaggio che dovrebbe portare Leo a raccogliersi attorno a se stesso diventa una lunga riscoperta di Thomas, e quindi un viaggio attorno a un assenza più presente nel misero presente che scorre.84

C’è un’importante spia dell’anomalia del viaggio di Leo: egli parte senza una meta precisa, verso nord, ma ben presto si trova o a ripercorrere le tappe dei viaggi effettuati con Thomas o a recarsi in città che già conosce e fanno parte della sua storia. Come continua Piersanti, “Leo […] ha superato il punto di non ritorno. Non può più andare […], può soltanto tornare dove è già stato”.85 Il viaggio si lega così in Camere separate al tema del ritorno, con lo stesso tipo di movimento riscontrato in Altri libertini e nella stessa accezione di ricerca delle proprie radici. La consapevolezza della direzione interiore del proprio viaggiare determina, nel tentativo di riscoprire se stesso, il ritorno al paese natale di Leo, alla ricerca di un radicamento che lo possa in qualche modo inserire in una tradizione, conferirgli dei connotati, e che non a caso vede in primo piano l’immagine dei genitori: La perdita di Thomas lo sta portando lontano, verso se stesso. Ora che Thomas è morto […], lo sforzo maggiore della sua vita è accettare di scoprire il senso della propria solitudine. Per questo, un giorno ventoso di marzo, lui decide di tornare nel

porre - e chiarire in termini di differenza epocale - un confronto tra il primo Tondelli, nelle vesti di uno qualsiasi dei “viaggiatori del ponte” e lo scrittore anche di Camere separate. Si noti che nell’ultimo romanzo Leo prende il posto della luna, per vegliare sul sonno di quei nuovi - e vecchi - eroi. 83 In altre occasioni l’atteggiamento di Leo esprime il carattere di una fuga, che può variare da quella londinese di fronte alla propria “intrusione nella piccola e disperante intimità” (CS p. 82) degli sfruttati del Terzo Mondo, a quella, nel romanzo ben più significativa, in occasione della processione del Venerdì Santo. 84 C. Piersanti, op. cit., p. 96. 85 Ivi, p. 97.

341 paese in cui è nato, nella casa in cui ha abitato per venti anni, sotto lo stesso tetto che protegge il sonno dei suoi genitori (CS p. 106).86

Il viaggiare di Leo è duplice. Al tempo stesso è un viaggiare nello spazio ma anche un viaggiare nel tempo, dimensione nella quale si realizza, ricostruendo nel ricordo la propria vita, quel tentativo di radicamento che, per quanto identificato come senso di appartenenza a qualcosa di comune, diventa essenzialmente radicamento in sé. Proprio tramite questa ricognizione continuamente interrotta in epoche diverse, il romanzo mette in scena un attraversamento di luoghi spazio-temporali fortemente differenziati, che ne amplifica la natura di riepilogo: Percorso interiore, ma anche reso conto di viaggi di un giovane europeo che si muove con curiosità e disinvoltura in un mondo senza più frontiere, la narrazione instaura una sorta di pendolarismo tra gli anni Ottanta e i decenni precedenti, gli itinerari cosmopoliti del villaggio globale e la provincia italiana, i locali metropolitani più disinibiti e le tradizioni popolari più antiche e solenni.87

Il viaggiare di Leo comporta anche un interrogativo sul viaggio, una domanda che occupa la riflessione del protagonista nel momento iniziale del suo viaggio: Sul finire dell’estate, una mattina, lascia la sua casa e si mette in viaggio. Agli amici che gli chiedono perché stia partendo lui dà una risposta vaga, sforzandosi di renderla credibile. […] In realtà mente perché avverte in sé tutta l’esilità delle proprie motivazioni. Sa solamente che deve mettersi in viaggio. Non sa più cosa fare di se stesso (CS p. 57).

La realizzazione delle motivazioni reali del viaggio - processo graduale, che passa attraverso la consapevolezza del suo carattere di fuga - non si pone in forma esplicita, ma rimane a livello di domanda al momento del suo ritorno: Qualche giorno dopo, in volo sulla via del ritorno, si chiede se ha viaggiato per qualcosa. Non lo sa (CS p. 91).

Sono altresì motivazioni che si chiariscono in un confronto tra i brani di Camere separate e gli analoghi precedenti brani che, spesso quasi identici, avevano costituito un percorso affine in Biglietti agli amici: Scriveva infatti Tondelli nel primo “biglietto”: Si chiede perché sta fuggendo. […] Va a Londra - sa - perché deve ritrovare la sua terza persona, un fantasma che deve incontrare per continuare a scrivere. Va a Londra per incontrarsi con il suo lavoro. […] Fugge per ricapitolarsi. Bisogno di silenzi, di solitudine, di ricordare […]. L’interiorità...88

86 E’ un motivo che già Tondelli aveva anticipato, in un contesto e con modalità molto simili, in Biglietti agli amici: “L’altra sera, stando malissimo riusciva a intravedere come forma di desiderio soltanto un quieto immaginario famigliare, Correggio, la sua casa, la casa dei suoi genitori.” P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 51. 87 G. Severini, op. cit., p. 105. 88 P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 11.

342 E’ un brano molto importante, perché, oltre ad anticipare sinteticamente motivi basilari di Camere separate, individua nella scrittura il fine - ed il motore - ultimo del viaggio. Non a caso il “biglietto” è indirizzato ad Aldo Tagliaferri, del quale fa il nome anche esplicitamente accostandolo a François Wahl come unici ‘confidenti’ della sua scrittura. Il finale di Biglietti agli amici riprende, circolarmente, il viaggio a Londra e si chiude sulla stessa domanda di Camere separate, una domanda che aveva quindi già ricevuto risposta: “Ora, a pochi minuti dal ritorno, si chiede se ha viaggiato per qualcosa.”89 Diventa significativa la comparsa, di poco antecedente nei Biglietti agli amici, della stessa immagine che in Camere separate segue alla domanda dell’ultimo “biglietto”, un brano che differisce da quello del romanzo solo per alcune parole, che diventano quindi oltremodo importanti: Ora, in volo sopra la Germania, specchiando il suo viso invecchiato e appesantito contro un tramonto siderale, capisce che da quando ha rinunciato all’amore - in certi momenti, camminando per strada, nella musica di una discoteca, solo nella sua stanza, sente queste parole: “E’ morto! E’ morto! E morto!” colpirgli il cervello come tante frecce infuocate - altro non sta facendo che concentrarsi su di sé per imparare ad amare quella persona che porta i suo stesso nome, che gli altri riconoscono come se stesso e che lui sta portando in viaggio attraverso l’Europa. Ora sa che per continuare a scrivere e progredire deve amare quella stessa persona che la carta d’imbarco ha assegnato al suo stesso posto, lì, accanto al finestrino che gli apre lo sguardo verso un giorno e una notte d’Europa.90

Le variazioni significative sono la sostituzione di “se stesso” col nome di Leo e, soprattutto, il verbo oggetto della consapevolezza del protagonista, che dall’originario “scrivere”, in Camere separate diventa “vivere”. I Biglietti agli amici assumono così, in anticipo, una funzione di chiosa nei confronti del romanzo e rispondono alla domanda di Leo, indirizzando verso la scrittura l’interiorizzazione del viaggio del protagonista, una soluzione che pervaderà Camere separate in maniera continua, trovando la sua espressione più compiuta nella celebrazione della “sopravvivenza della letteratura” (CS p. 211) del finale.

IV.4.2 L’ultimo capitolo della fenomenologia dell’abbandono: la morte.

Il valore di Biglietti agli amici nei confronti di Camere separate è assai profondo, va oltre la ripresa dei materiali, essendo il punto di partenza del nuovo modo di guardare la realtà che si realizza in Leo, l’inizio di “una riflessiva necessità di dar luogo al sé che vuol

89 Ivi, p. 105. 90 Ivi, pp. 93-94.

343 scoprire la realtà non più in rapporto agli altri in senso generazionale, ma all’altro come soggetto singolo”.91 E’ significativo, quindi, che Camere separate si ponga come il momento conclusivo di una riflessione che - se pur presente anche prima nell’opera tondelliana - aveva trovato in Biglietti agli amici la sua più completa realizzazione. Si vuole fare riferimento a quell’indagine tematica che Tondelli aveva indicato con la dicitura “fenomenologia dell’abbandono” e che riceve in Camere separate un’ultima definizione narrativa, attraverso la rappresentazione della morte di Thomas.92 Il momento dell’abbandono, preludio alla separatezza che troverà in Camere separate un’apoteosi, compare fin dagli esordi - si pensi alle analoghe esperienze del narratore di Viaggio, non solo sentimentali - ma solo ora prende la forma della morte del compagno, secondo una tipologia fino a questo momento inedita: inedita non tanto in senso strettamente tematico, perché la rappresentazione della morte aleggia in tutta l’opera tondelliana, ma per la focalizzazione e le modalità espressive. In Altri libertini, infatti, sotto forma di autodistruzione, occupava un posto importantissimo, diventando quasi il leit-motiv del libro e regalando pagine densissime - anche stilisticamente - come quelle relative al suicidio di Michel. In Rimini, quando usciva da questa connotazione autodistruttiva, diventava strumentale alla costruzione di una trama poliziesca. La novità di Camere separate è l’abbandono di tale modalità: la morte non è più una scelta dell’individuo, ma un avvenimento inaspettato contro il quale non c’è possibilità di difesa. Tra le due diverse rappresentazioni si è interposta la rivisitazione tondelliana del proprio mito generazionale, la commemorazione di Pazienza e - con ogni probabilità - la riflessione sulla propria situazione. Quella che Tondelli ora analizza è la morte per malattia, con uno spostamento fondamentale del piano del racconto: prima l’analisi si estendeva dal passato al momento in cui l’evento veniva rappresentato; ora, l’evento rappresentato è il punto di partenza della narrazione, e orienta i suoi effetti in direzione futura. Ciò determina un cambiamento anche nel riferimento al personaggio: il soggetto che muore non è più, per assurdo, il protagonista della propria morte, poiché la narrazione si focalizza su chi rimane, ne analizza il percorso successivo e lo coinvolge nel continuo morire di Leo fin dal momento della scomparsa di Thomas:

91 F. Panzeri, In più intimo volo, in P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., pp. 111-144. 92 Col titolo di Fenomenologia dell’Abbandono compare un brano in L’abbandono, nel quale Tondelli riunisce tre suoi articoli su scritti di Roland Barthes, Ingeborg Bachmann e Igor Alexander Caruso. L’intenzione originaria era di ampliare il lavoro con l’inserimento di altri scritti, in parte inediti, fino a costituire una sezione autonoma di L’abbandono. Nella citata nota di Panzeri a Biglietti agli amici, il critico riporta un “biglietto”, poi escluso dalla versione definitiva, nel quale Tondelli indica in Appunti per una fenomenologia dell’Abbandono il primitivo titolo di Biglietti agli amici.

344 Nello stesso momento, […] uno costretto nel suo letto d’ospedale e l’altro impietrito sulla rigida seggiola di un tinello, sono entrambi ragazzi che hanno una paura indicibile di morire (CS p. 53).

La morte acquista in Camere separate una assoluta centralità tematica: oltre che diventare - nella fabula - il fulcro del racconto, anche a livello di intreccio apre e chiude il romanzo, dal momento che già le prime pagine informano della scomparsa di Thomas, mentre, simmetricamente, in una sorta di ricomposizione del personaggio Leo-con-Thomas, il finale rappresenta Leo che immagina la propria morte. La contrapposizione morte-vita è il binomio che fonda il romanzo: il percorso di Leo si basa sul tentativo di distinguere tra i due termini, di catalogare i segnali che gli vengono dal mondo senza confonderne le direzioni principali; la consapevolezza di ciò rappresenta il momento chiave della riflessione di Leo, l’avvio del recupero della disponibilità verso gli altri: Ritenendo di poter sopravvivere solo in se stesso altro non ha fatto che scambiare delle risposte di morte in risposte di vita. […] Ora si accorge che, mentre lui ha dimenticato gli altri, gli altri hanno continuato a ricordarlo […]. […] Allora sente che forse è ora di tornare alla vita, è ora di riconoscere le risposte di morte per quello che realmente sono e quelle di vita per quanto di bene possono portargli (CS p. 195).

Al tempo stesso, il binomio morte-vita riceve senso dall’interazione con un altro binomio, il rapporto tra il personaggio multiplo Leo-con-Thomas e Leo, cosicché la ricerca d’identità del protagonista diventa anche il tentativo di risolvere questo dualismo. La soluzione del romanzo, allora, avviene nel momento in cui Leo si rende conto di aver alimentato la sua vita col suo dolore, ma che è ormai giunto il momento di scindere definitivamente quello che gli eventi hanno già scisso nella realtà: Deve finalmente procedere al disimpasto fra chi è vivo e chi è morto. Annullare l’avvoltoio che è in lui. Perché se una cosa è certa è che per tutti questi anni lui si è mantenuto in vita cibandosi delle spoglie mortali di Thomas, dissetandosi con il suo sangue, sfamandosi con la sua carne squarciata (CS p. 196).

Quando Tondelli identificava la necessità di concludere il romanzo con l’ingresso nella storia di nuovi personaggi, segnalava il vero momento finale di Camere separate: il nuovo personaggio più importante è Leo, nel momento in cui si rende conto di essere definitivamente diventato Leo senza Thomas, un’entità prima inesistente; non a caso il raggiungimento di questa consapevolezza determina la fine dei dualismi, la scomparsa dei confronti. Camere separate termina così, nella cena fiorentina organizzata da Rodolfo, con il ritorno alla vita di Leo; quanto segue, l’epilogo, in un certo senso non appartiene più al romanzo, è una sorta di “conclusione”, apposta alla storia già finita, che contiene le ultime considerazioni dell’autore. Non a caso, quanto segue non è romanzo, è celebrazione della letteratura.

345 La centralità del tema della morte lo porta ad interagire con tutti gli altri motivi di Camere separate: l’abbandono e la solitudine di Leo; l’impossibilità del lutto pubblico, che consente la denuncia della mancanza di riconoscimento sociale della loro relazione; la tensione religiosa come elaborazione del lutto; la riflessione su di sé e, di conseguenza, il tema del ricordo.

IV.4.3 Il rapporto con le istituzioni: l’identità sociale e la famiglia.

Le stesse considerazioni che avviano il ritorno alla vita di Leo confermano l’irregolarità della sua posizione, che già in precedenza aveva originato passi assai significativi sul piano dei contrasti sociali. Leo riflette sulla decisione di mantenere inaccessibile agli altri il proprio dolore, giustificandola, in un certo senso, appunto attraverso la diversità: Rifiutando di socializzarlo si è privato di quel valore di purificazione che caratterizza qualsiasi espressione pubblica di un sentimento, fosse anche il lutto irregolare della perdita del proprio compagno. Ma proprio per questo […] lui non poteva esibire il suo dolore. Poiché nessuna società riconoscerebbe come autentico un lutto come il suo (CS p. 197).

Nelle interviste relative a Camere separate, Tondelli aveva dichiarato di voler “andare al di là dell’omosessualità”93, evidenziando che la specificità dell’amore omosessuale non era il soggetto del suo romanzo. D’altro canto Camere separate è ricco di situazioni fortemente connotate verso questa direzione e soprattutto espone in molti punti i contrasti e le carenze sociali che ne derivano. Forse, allora, le affermazioni di Tondelli non vanno interpretate come negazione della volontà di denuncia, ma come superamento di barriere, anche nominali, che comportano il pericolo della ghettizzazione. Dice Tondelli: Il tentativo di Camere separate […] è quello di proporre la storia d’amore fra due uomini, senza dover ricorrere a degli stereotipi tipici dell’omosessualità. […] Mi sembra un salto qualitativo parlare di amore e non di omosessualità. Parlare di omosessualità è sbagliato. Sembra una cosa che non appartiene a nessuno, che non riguarda nessuno, che riguarda solamente due uomini, quando invece una storia d’amore, credo, riguarda tutti.94

In questo senso, la definizione “storia d’amore” è coerente con i più estesi passi di Camere separate in cui Tondelli denuncia una condizione di separatezza questa volta non voluta - perlomeno non in questi termini - dal protagonista. Tutti i brani che rappresentano il problema dell’identità sociale di Leo e del binomio Leo-Thomas, pagine estremamente dense tra le più belle del romanzo, evidenziano Camere separate come “testo […]

93 G. Caliceti, op. cit. 94 L. Romagnoli, Amori inseparabili, in “Babilonia”, settembre 1989.

346 problematico per le generazioni successive, capace di riflettere bisogni che né i locali gay, né la stampa gay o i rari dibattiti televisivi possono soddisfare”.95 Tondelli mette in scena la diversità legata alle manifestazioni sociali e al mancato riconoscimento dei ruoli ad esse connessi, la forzata assenza di Leo alla morte di Thomas ed il senso estremo di questa negata accettazione: Quando ritorna invece alla sua personale tragedia […] prova orrore e disperazione. Perché sa che è un dramma che non appartiene a nessuno tranne che a lui. Che nessuno, negli anni a venire, ricorderà il suo amore perduto, che nessuno gli toccherà una spalla per dirgli coraggio. Non esibirà il lutto sul corso principale del proprio paese, non vedrà riflesso negli altri occhi la pena che sta invadendo i suoi. Non stringerà mani, non bacerà nessuno. E nessuno accompagnerà il corpo di Thomas al cimitero, nemmeno lui. Anche questo, se ne rende conto, fa parte di un altro paese separato. Proprio un altro mondo che vive, soffre, e gioisce parallelo all’altro. […] Solo nel futuro, solo fra molti anni, forse qualcosa cambierà. […] Nascerà finalmente qualcuno per cui la memoria dell’entità “Leo-e-Thomas” verrà accettata e custodita come un valore da cui trarre vita e speranza. Solo in futuro. Forse soltanto tra centinaia di anni (CS p. 115).

Si noti come, anche stilisticamente, Tondelli rafforzi il concetto con una catena di negazioni che amplificano il vuoto che alberga in Leo e la sua solitudine totale. Il motivo di un riconoscimento futuro ritorna nel romanzo con un significativo collegamento col tema della scrittura ed amplia il carattere di denuncia presente in Camere separate. Infatti, il rapporto epistolare che si instaura tra Leo e Thomas, dopo il breve tentativo di convivenza a Milano, acquista un più ampio valore di documento storico: Con l’invio di quelle lettere continuavano […] a produrre un frutto concreto, seppur frutto di parole e di carta, ma forse per questo assai più duraturo, e stabile, della loro unione. Le loro lettere […] venivano a documentare la loro vita insieme come se due scrivani le redigessero, con passione, per conto della Storia. Così le lettere, da parole d’amore, si […] calcificavano, bianche come il granito, in reperti di una archeologia del loro impossibile, ma vero, tentato amore. E la loro unione veniva ad avere alla spalle non più solamente il vuoto di una disprezzata razza senza nome, ma iniziava a scrivere, da sé, la propria storia; […] non più esclusivamente per loro […] ma anche, soprattutto, per gli altri (CS p. 177).

La crisi d’identità di Leo inizia, subito dopo la morte di Thomas, nella problematica ricerca di una definizione per il suo ruolo, un tentativo che rivela alfine un’assenza di ruolo. Ciò si realizza, come sempre in Camere separate, sul piano stesso della scrittura: come altrove la scrittura era stata il mezzo per la rinascita di Leo, che aveva trovato nelle parole il senso ultimo del suo attaccamento al mondo, ora, è nella stessa direzione che Leo realizza la morte di Thomas come annichilimento anche di sé, nella totale mancanza di una parola che lo possa definire. E’ come se Leo, non definibile, non esistesse nemmeno e come se tutta la sua vita con Thomas non fosse stata altro che una parentesi confinata nella

95 G. Severini, op. cit., p. 106.

347 rappresentazione di un dramma non reale. E’ qui che Leo comincia a vivere la sua separatezza e la sua profonda crisi d’identità, nell’impossibilità per lui - scrittore e in quanto tale doppiamente legato alle parole - di trovare una parola che lo definisca: Leo […] si ritrova vedovo di un compagno che è come non avesse mai avuto; e, a proposito del quale, non esiste nemmeno una parola, in nessun vocabolario umano, che possa definire chi per lui è stato non un marito, non una moglie, non un amante, non solamente un compagno ma la parte essenziale di un nuovo e comune destino (CS pp. 37-38).

Ancora, il discorso si articola in una catena continua di negazioni, che si rivela ormai il principio stilistico delle riflessioni di Leo, uno strumento per ribadire a livello formale la sua impossibilità di collocarsi in una posizione definita. Separatezza e diversità veicolano così in Camere separate un tema basilare dell’opera tondelliana: il rapporto con le istituzioni. Panzeri ha individuato “l’esperienza di sé nella particolare forma della riflessione […] come filo conduttore” dell’opera tondelliana, un’esperienza che si delinea in una serie di “tappe che rappresentano le “misure del tempo” di altre età”96, segnalando tra queste la scuola, il servizio militare, i trent’anni. Queste tappe, di volta in volta rappresentate nell’evoluzione della narrativa di Tondelli, sono sentite come altrettanti ostacoli con cui gli “eroi” tondelliani si devono confrontare. Non è casuale che da queste “istituzioni” nel senso più lato della parola l’autore, attraverso i suoi protagonisti, prenda le distanze. Altri libertini è il testo in cui ciò appare in maniera più evidente, attraverso un vero e proprio rovesciamento di valori che Tondelli ben chiarisce proprio in Camere separate: “Erano in guerra contro i valori della società e contro la normalità” (CS p. 104). Se dunque il rifiuto è qui esplicito - si pensi per esempio alla scuola in Viaggio - nei testi successivi l’approccio tondelliano non è da meno ed il rapporto con le istituzioni - l’esercito, l’establishment dei premi letterari - è sempre problematico. In Camere separate il confronto si estende all’intero sistema sociale, tramite la separatezza di Leo, la cui indefinibilità esprime un rifiuto almeno pari a quello di Altri libertini. Più in particolare, l’istituzione sociale che diviene oggetto di un’analisi ripetuta e a vari livelli è la famiglia, che si pone, in occasione della rappresentazione delle ultime ore di Thomas, come soggetto alternativo a Leo, l’unico riconosciuto dalla società: Il padre rientra. Leo capisce che deve andarsene. Thomas è restituito, nel momento finale, alla famiglia, alle stesse persone che l’hanno fatto nascere e che ora, con il cuore devastato dalla sofferenza, stanno cercando di aiutarlo a morire. Non c’è posto per lui in quella ricomposizione parentale. Lui non ha sposato Thomas, non ha avuto figli con lui, nessuno dei due porta per l’anagrafe il nome dell’altro e non c’è un solo registro canonico sulla faccia della terra in cui siano vergate le firme dei

96 F. Panzeri, In più intimo volo, cit., p. 111.

348 testimoni della loro unione. […] Come se gli dicessero […] qui stiamo combattendo per la vita. […] E noi, un padre, una madre, un figlio siamo le figure reali della vita. Leo sente allora […] come se avesse vissuto in una zona separata della società. Come se […] tutto si fosse svolto in un palcoscenico. Ora finiva la rappresentazione. I padri e le madri, la chiesa, lo stato, gli uffici d’anagrafe ristabilivano il loro possesso. Riordinavano, seppellivano, consegnavano tutto alla polvere azzerante degli archivi (CS pp. 36-37).

La contrapposizione tra Leo da una parte e la società dall’altra - significativamente espressa nello spaccato delle sue componenti: “padri e madri / chiesa / stato / uffici d’anagrafe” - è talmente accentuata da non consentire la presenza contemporanea di entrambi.97 La famiglia come istituzione era stata significativamente assente nell’opera tondelliana esprimendo nella mancanza di ogni rappresentazione, un contrasto irreparabile. In Camere separate la famiglia fa la sua comparsa, determinando subito una certa ambivalenza. La trattazione riservatale, infatti, è duplice, giacché, se come istituzione produce un contrasto col protagonista, visibilissimo in occasione della morte di Thomas ma presente anche in altri brani - si pensi per esempio alla descrizione dei rapporti di Leo con suo padre: ”Sono due uomini che non si parlano e, soprattutto, non si toccano da almeno vent’anni” (CS p. 114) -; al tempo stesso, diventa la personificazione del collegamento con le proprie radici, l’appartenenza ad una più vasta comunità che non può essere sentita se non in modo positivo, per quanto inevitabilmente evidenzi ancor più la diversità del protagonista.98 Il ritorno al paese e il colloquio di Leo con la madre sono un chiaro esempio di questo duplice atteggiamento, che origina una tensione verso qualcosa che è percepito come desiderabile ma irraggiungibile: Le notizie che lei gli dà sono rassicuranti. Anche quando parlano di amiche in fin di vita per un cancro, […] lui non le interpreta come “tragedie”. E’ come se tutto facesse parte della vita del paese. La nascita, la morte, la separazione divengono semplicemente tappe di un divenire collettivo in cui c’è sempre posto per la speranza, perché la comunità sopravvive e si evolve. […] Lui capisce ma non prova né angoscia né felicità. Tutto fa parte di una vita che non è la sua e nella quale lui non si inserirà mai (CS pp. 114-115).

97 Quella sorta di climax verso soggetti sempre più slegati dalla persona reale - Thomas - acuisce la sensazione di estraneità di Leo (che va sempre considerato anche come personaggio multiplo Leo- Thomas), fino a sancire con l’ultimo denso termine - “possesso” - quasi un’imposizione della società sull’individuo, il cui azzeramento è alla fine esplicitato nel testo. Significativo anche l’accostamento, tramite le scelte lessicali - “seppellivano / polvere” -, tra archivio e camposanto. 98 La famiglia assume in Camere separate un ruolo importantissimo in rapporto all’individuo. Ospita il momento della nascita e in quanto tale si carica del tema del radicamento, ma altresì diventa anche il luogo della morte, che, nel caso di Thomas, diventa pure un ricongiungimento. Acquista così una funzione ciclica nei confronti dell’individuo tutto. Anche per questo, nonostante la sua valenza di “istituzione” non può rivestire un ruolo solamente negativo.

349 La connessione famiglia-tradizione diventa evidente al momento della descrizione della madre, primo passo verso l’associazione donna-terra quasi archetipica, segnalata dalla percezione della sua immutabilità: Sua madre […] lo ha chiamato con quella voce acuta, di giovane contadina, che ha mantenuto intatta attraverso i decenni. E’ rimasta quella ragazza che gridava fra i campi, che chiamava le sorelle fra una camera e l’altra della grande casa colonica in cui era nata (CS p. 109).

Tondelli prosegue poi con una gustosa rappresentazione della madre e delle tre sorelle nel loro ritrovarsi per la messa della domenica, una rappresentazione sempre in bilico tra descrizione presente e ricordo passato, con Leo affascinato dal chiacchiericcio, dalla gestualità e dalla vitalità di “queste ragazze ultrasessantenni” (CS p. 111), che alla fine, nel contrasto tra sé e le energiche signore, opera il collegamento tra le donne e la propria terra: E quando lui le vede uscire, una in fila all’altra […], lui, incolonnandosi alla fine, un po’ curvo e silenzioso, ha come la prova che la forza della gente della sua terra non è quella dei maschi, ma quella delle donne (CS P. 111).

L’ambivalenza insita nel soggetto famiglia viene sciolta al momento del ritorno alla vita di Leo, che riesce a trovare un compromesso tra la sua necessità di solitudine e la tensione verso un nucleo familiare: Lui si sente in pace solo nella sua solitudine, accudito dagli amici più cari. Quello che sta facendo è il tentativo di formarsi una famiglia, una strana famiglia senza donne né figli, ma i cui vincoli tra i componenti sono altrettanto forti e consapevoli: Rodolfo, Eugenio, Michael sono oggi la sua famiglia (CS p. 201).

In questa maniera, rimane inalterato il contrasto con l’istituzione, che assume così una posizione univoca nell’intera opera tondelliana, e al tempo stesso viene soddisfatto il desiderio dei legami parentali. A ben guardare, è la medesima scelta di Altri libertini, un momento collettivo costituito da soggetti al di fuori della norma che creano una nuova, irregolare e per questo alternativa, “istituzione”. E’ un’irregolarità che assume la sua più alta valenza simbolica nella propria capacità riproduttiva, nel superamento della sterilità irrimediabile insita nell’amore tra due uomini, sulla quale più volte si era soffermata la riflessione di Leo. Ora, significativamente all’interno di una ben definita specificità, Leo raggiunge la consapevolezza della procreazione: Mantiene la sua capacità di amare investendola non più su un’altra persona, ma su ciò che caratterizza la specie alla quale appartiene. […] Un tempo, quando riteneva la sua relazione d’amore sterile e senza frutto, si sbagliava. Leo e Thomas hanno partorito, con dolore, almeno un figlio. E questo figlio espulso nel mondo, che pensa e agisce, è oggi il trentatreenne Leo (CS p. 203).99

99 Si osservi come, anche a livello di scelta lessicale, il brano continui ad esprimere una contrapposizione, insita ad esempio nel non meglio connotato “specie alla quale appartiene”,

350 La definizione “Leo figlio” è la soluzione finale di un percorso importantissimo in Camere separate, di cui attraversa le pagine in maniera costante quanto spesso nascosta, vale a dire la sovrapposizione alla relazione tra i due giovani del motivo della maternità e della paternità. Fa notare Sinibaldi: Questo nodo paternità/maternità mi sembra dominare in profondità la vicenda raccontata in Camere separate. E il suo scioglimento è la soluzione che permette alla ricerca di raggiungere un approdo.100

Il motivo condiziona la caratterizzazione del rapporto tra i due, secondo una modalità padre/figlio più volte richiamata anche esplicitamente, fin dagli inizi della loro relazione. Ancora Sinibaldi: E’ un motivo che si affaccia presto, fin dal primo incontro d’amore, quando Leo solleva il corpo di Thomas e si dirige verso il letto “un percorso eterno, quello della madre con il figlio stretto in braccio”, […]. Fin dalle prime pagine Camere separate è segnato da un tema, la paternità/maternità, che sotto varie figure, mascheramenti, travestimenti, carsicamente lo percorre e segretamente lo illumina.101

La connotazione “Thomas bambino” ricorre in maniera sistematica in occasione dell’ultimo loro incontro in ospedale. Non appena infatti Leo opera la comparazione Thomas-”bambino denutrito”, inizia un percorso testuale che ruota attorno alle possibili variazioni su questa definizione: Thomas parla con voce “esile, infantile, femminea”, si rivolge al padre secondo un loro codice di quando “era un bambino” ed il suo sguardo è quello di un bambino palestinese che sta per essere ucciso. Di un piccolo negro agonizzante accanto al corpo della madre squarciato dalle bombe. Lo sguardo implorante di un piccolo Indio dell’Amazzonia davanti allo sterminio della sua razza. […] Bambini, bambini. E Thomas, bambino, che si rivolge al padre come tanti anni prima (CS p. 36).102

La visita di Leo termina poi sullo sguardo di Thomas e annuncia la persistenza del motivo per tutto il romanzo, segnalando per la prima volta graficamente il personaggio bambino-Thomas:

identificabile al tempo stesso con l’intero genere umano e solo con una parte di esso. La seconda soluzione sembrerebbe suggerita dal contrasto Leo-Thomas / mondo insito nel verbo utilizzato - espellere - per definire la ‘nascita’ di Leo, nonché nell’apposizione “con dolore”, che l’accompagna, ricca di significato nel richiamo - contemporaneamente un’antitesi - al parto reale. 100 M. Sinibaldi, op. cit., p. 115. 101 Ivi, p. 113. Il corsivo è di Sinibaldi. 102 Si riscontra, a volte, in Camere separate un eccesso di pathos, legato ad una sovrabbondanza di elementi poco inerenti al testo, soprattutto nel tentativo di estensione del dolore di Leo ad un più generale dolore umano, con un appesantimento in più occasioni del discorso tondelliano.

351 E’ ben consapevole che si porterà dentro per anni, fino alla fine, lo sguardo del bambino-Thomas sul letto estremo della sua camera separata (CS p. 38).103

La connotazione “Leo padre”, che da questo punto, in contrapposizione col bambino-Thomas, diventa più giustificata nel testo, compare però implicitamente fin dall’inizio, nella prima accennata identificazione di Leo nella figura paterna quando si specchia nell’oblò dell’aereo, e tra i suoi lineamenti inserisce “la pelle degli zigomi screziata di capillari come le guance cupree di suo padre” (CS p. 7). In realtà Leo accoglie su di sé entrambi i ruoli parentali, cosicché egli si sente “la femmina di un animale che si trascina appresso il cadavere del figlio” (CS p. 80), ma al tempo stesso riflette sulla sua impossibile paternità: Si sente sterile. Non lascerà figli al mondo. Non proverà mai il significato della parola padre. Non vedrà crescere, nel tempo, una persona che gli somiglia, che porta il suo nome, che lo ricorderà, affettuosamente, guardando una vecchia fotografia (CS p. 142).104

Questa raffigurazione di Leo è un binomio che diventa presto una contrapposizione tra la maternità affermata e la paternità negata. La figura materna, infatti, è prepotentemente realizzata nel libro, e la rinascita continua di Leo viene accompagnata sovente da figure femminili, che in un’occasione diventano persino sovrabbondanti, quando Leo ventenne, alla fine del suo percorso di purificazione amplifica il concetto di madre, risalendo fino alla terza generazione. Il passaggio di Leo alla condizione di figlio partorito da Leo e Thomas risolve definitivamente la contrapposizione, prima dell’ultima personificazione paterna di Leo nella rievocazione del viaggio di ritorno da Patrasso, quando si trovò a vegliare il sonno di un’altra generazione.

IV.4.4 La diversità e la problematica religiosa.

La solitudine di Leo, che nel romanzo è costituzionale - “Camere separate […] era il percorso di una solitudine”105 -, si lega alla diversità e alla separatezza, svelandosi poi,

103 Il finale di Camere separate, ciclicamente, supporta la previsione di Leo, inserendo al momento della sua morte immaginata la visione degli “occhi di Thomas come li ha visti quell’ultima volta” (CS p. 216). 104 Il nucleo originario della riflessione sulla paternità impossibile associata all’omosessualità compare in L’addio, il racconto del 1984 che per la prima volta mette in scena personaggi - Fredo e Aelred - che sono i prototipi degli analoghi Bruno e Aelred di Rimini e per certi versi di Leo e Thomas in Camere separate. Il racconto si chiude su di una riflessione di Fredo: “Poi ricordò come un lampo la battuta di un vecchio travestito in uno spettacolo parigino […]: “Ma non potevate avere figli carini!” […] “Aelred,” fece appena in tempo a borbottare, come se fosse sulla scena del cabaret di Parigi. “Aelred, ma non potevamo avere figli; è tutto così normale!” Si rivoltò i visceri nella vasca da bagno, si sfogò e svenne sulla moquette gelida”. P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., p. 122. 105 F. Panzeri-G. Picone, op cit., pp. 51-52.

352 attraverso il ricordo, caratteriale. Solitudine, diversità e separatezza sono, infatti, tre termini che Tondelli collega costantemente nei suoi riferimenti a Camere separate: Nel caso di Camere separate il protagonista è un diverso perché è innanzitutto un solitario, perché è un artista, perché fa una professione strana, perché non ha una famiglia, perché non ha una casa, perché non capisce bene dove deve vivere, chi è...106

L’immersione nel ricordo consente altresì di slegare l’origine della solitudine di Leo dalla morte di Thomas - che Tondelli stesso d’altronde individua fin dall’inizio come motivo amplificatore ma non come causa - e di definirla come un tratto caratteriale. In occasione del suo trentunesimo compleanno, infatti, Leo riflette sulla sua solitudine presente, collegandola a quella passata: Quando compie trentun’anni è solo ormai da molti mesi, più di un anno. Quando era con Thomas non si era mai chiesto quali fossero le ragioni profonde per cui un individuo attraversa la vita da solo […]. Nell’apoteosi della sua presente solitudine, inseguita da mesi come un valore più che una necessità, lui si spinge a indagare altre solitudini […]. In realtà è sempre stato solo e per questo sa cavarsela. […] Eppure non è mai stato solo come da quando ha perso Thomas, perché, in lui, ha perso quella cosa che aveva reso sopportabile la lunga sequenza della sue solitudini giovanili (CS pp. 139- 140).

Il ricordo delle immagini giovanili di Leo, nelle varie situazioni degli anni universitari, ne chiarisce le origini, determinando nel senso di una scelta e di un’abitudine la solitudine presente. Specifica altresì le motivazioni della sua problematicità odierna: Negli anni dell’apprendistato e in quelli immediatamente successivi dell’ingresso nella realtà adulta, nel lavoro e nell’eros, quello che lo sosteneva, quello che ora ha perduto, quello che non lo ha mai fatto sentire veramente solo, era il suo immaginario. In questo la sua solitudine è ora differente da ogni altra solitudine che ha sperimentato e elaborato nel corso della propria vita. Lui è cosciente che il suo immaginario è morto. E’ cosciente di averlo perduto […] di fronte alla morte dell’amante (CS p. 141).

La direzione in cui Leo percepisce i problemi è, come al solito, l’interiorizzazione, che lo aveva soccorso in gioventù ma che non può aiutarlo ora. E’ per questo che la sua crisi interiore si trasforma anche in crisi professionale, delineando un legame solitudine-scrittura che già la riflessione sulla propria storia aveva accennato: Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al

106 Ivi, p. 63. Ricollegandosi alla sua precedente definizione di Camere separate come storia d’amore e non specificamente storia omosessuale, Tondelli ribadisce in questo intervento la marginalità delle scelte sessuali nel causare la diversità di Leo, riconducendola ad un più generale modo di confrontarsi col mondo.

353 mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida di quella realtà separata che definiamo arte (CS p. 141).

Ecco che anche la scrittura - “realtà separata” - diventa gradualmente la causa della solitudine di Leo, con un percorso che sfocia nella consapevolezza - e accettazione - finale: “La sua diversità […] è […] il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quello che gli altri sono ben contenti di tacere” (CS p. 212). La morte di Thomas, ‘uccidendo’ l’immaginario di Leo, si pone all’origine di una ricerca d’identità anche artistica, che passa attraverso il problematico tentativo di fissare sulla carta il suo dolore presente: Tenta di scrivere ma è insoddisfatto di quello che fa perché non arriva mai, veramente, al centro della sua angoscia e del suo dolore […]. Ma perché, poi, scrivere? E soprattutto perché pubblicare? Perché rendere questo dolore, così privato e così essenziale, un piccolo oggetto limitato da buttare al macero e nella polvere? (CS p. 93).

Quello che Leo mette ora profondamente in discussione è la sua stessa essenza di scrittore: Lui che aveva affidato alle parole, non ancora alla letteratura, non ancora ai libri, ma proprio alle lettere e ai racconti tutta l’ansia e il desiderio di un cambiamento della sua vita, si trova ora annullato dalla mancanza di desiderio per le parole. E, conseguentemente, per le cose (CS p. 94).

Scrittura e diversità si accompagnano quindi nel percorso di Leo, e la cifra attraverso cui si esprimono è la separatezza, che coinvolge la totalità delle relazioni di Leo con il mondo, in un atteggiamento che deriva da una scelta cosciente, che non dipende da Thomas e che, anzi, condiziona anche il rapporto amoroso: Il protagonista […] è un “diverso” non tanto perché omosessuale, quanto per la sua estraneità al mondo, per il suo vivere in una zona “separata” dalla società, non accettando nessun tipo di legittimazione o valore precostituito. La sua insomma è una separazione voluta e coltivata e anche l’amore per Thomas, in apparenza assoluto, totale si esprime in un rapporto “separato”, di appartenenza ma non di possesso.107

La problematicità del rapporto amoroso, il nuovo tentativo di definizione esperito da Leo, al di fuori dei possibili modelli di riferimento, rimanda alle dinamiche del confronto con l’altro che fin da Altri libertini era stato individuato come un tema importante dell’opera tondelliana. In Camere separate, prende aspetti peculiari, sviluppando motivi accennati già in Rimini e collegandosi ad una certa idea di religiosità progressivamente sempre più presente nella narrativa di Tondelli. La percezione dell’altro, infatti, si articola secondo il concetto della sacralità del corpo, in una direzione che però sarebbe riduttivo definire

107 M. Fegiz, op. cit.

354 solamente cristiana. La riflessione di Leo, infatti, contempla una deificazione dell’amore quasi stilnovista, di cui risalta la personificazione: Con quale aspetto amore verrà a me, in quale corpo si mostrerà di nuovo? Poiché l’amore è unico […]. L’amore è assoluto, non si può comandare, accelerare, evitare, guidare. L’amore è totalità e pienezza. Per questo Leo sapeva che sarebbe di nuovo tornato a lui, ma […] non sapeva […] l’accadimento con il quale amore avrebbe mostrato, di nuovo, il proprio volto […]. Amore è ora un corpo longilineo e asciutto, […] la grazia di una entità che […] corrisponde al nome di Thomas (CS pp. 30-31).

Al tempo stesso, Tondelli riprende in Camere separate la connessione tra carnalità dell’amore e tensione religiosa che era comparsa in maniera evidente in Rimini, e lo fa proprio attraverso la medesima scena: il ringraziamento di Bruno a Dio subito dopo la prima notte d’amore con Aelred ritorna nella silenziosa preghiera di Leo durante i momenti d’amore con Thomas. Una simbologia e metafora religiosa accompagna, ad ogni modo, fin dall’inizio l’amore per Thomas - e più in generale il percorso di Leo - con un evidente manifestazione a livello lessicale. E’ un accostamento fatto notare da Piersanti in relazione al primo appuntamento dei due giovani: “L’altro, in Tondelli, è sempre un dono, anzi, è sempre un miracolo”.108 Questa è, infatti, la parola che Leo usa quando, arrivato in ritardo allo Zenith per il concerto, cerca Thomas tra migliaia di persone: “Non riuscirà mai a trovare Thomas. Sarebbe un miracolo, anche se ai miracoli lui ha sempre, sinceramente, creduto” (CS p. 24). Ed il miracolo avviene, per mezzo di un riflettore che consente a Leo di scorgere Thomas inquadrato - significativamente - “in un ristretto e accecante cono di luce” (CS p. 24); la sua discesa, calandosi aiutato dagli amici dalla balconata sopra il palcoscenico alle braccia di Leo in platea è “la caduta di un angelo” (CS p. 28). La serata continua secondo la medesima sovrapposizione di immagini, cosicché, a casa dell’amico, Leo “si inginocchia accanto al corpo disteso di Thomas. Lo contempla” (CS p. 31) ed alla fine il suo cammino verso il letto con Thomas in braccio è “un percorso eterno” (CS p. 32).109 Per quanto originata dalle riflessioni sull’amore - e sulla sua perdita - una problematica religiosa in Camere separate è certo presente, ma non tale da monopolizzarne in questa direzione la lettura, anche in considerazione della grande compenetrazione tra i temi del romanzo che, privi di confini ben precisati, sfumano l’uno nell’altro, in un contesto dove semmai l’unico elemento dominante - e unificante - è la

108 C. Piersanti, op. cit., p. 95. 109 Il fatto che Tondelli, nelle prime pagine, abbia reso nota la morte di Thomas, amplifica l’identificazione che si propone, alla pari di una certa ‘angelicizzazione’ che gli proviene nel passaggio da una descrizione secondo connotati ancora adolescenziali alla trasformazione in “bambino-Thomas” (CS p. 38).

355 scrittura, punto d’arrivo degli altri motivi.110 E’ innegabile però che le esperienze di Leo si sviluppino secondo una metafora religiosa che illustra un cammino di espiazione- purificazione-rinascita, come si è avuto modo di vedere riferendosi al passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Lo ha fatto notare anche Carnero: Il viaggio solitario di Leo […] può essere letto come una sorta di percorso purgatoriale. Oltre che una fuga […], esso è un itinerario di meditazione, di ascesi, di purificazione […]. E’ una sorta di esercizio spirituale.111

Nonostante vaghi percorsi legati alla religiosità siano rintracciabili anche in Altri libertini, l’origine di questo atteggiamento tondelliano sembra connessa con un più tardo cambiamento. Scrive Panzeri: Nel 1984 […] Tondelli incomincia a intuire lo stemperarsi della ricerca dentro di sé verso una forma di “contemplazione” […], dopo le disillusioni generazionali di cui Dinner Party rappresenta l’epilogo.112

Il cambiamento tondelliano andrebbe quindi ricondotto al definitivo tramonto del momento collettivo e al conseguente ripensamento dei miti generazionali. E’ quanto sostiene anche Stefano Zappoli, collegando esplicitamente religiosità e appartenenza generazionale: Allora, nel momento in cui Bruno May apre la complessa vicenda spirituale dell’ultimo Tondelli, non si dovrà dimenticare che l’approssimarsi al tema religioso - che sarà poi centrale in Camere separate - trova nel contesto della sconfitta generazionale […] un motore potentissimo: se non esclusivo, certo determinante.113

Ad ogni modo, la tensione religiosa viene chiarita sempre nei termini di una relazione con l’umano, dal momento che Tondelli stesso la definisce come “un bisogno che poi si tramuta, come avviene in Camere separate, nell’accettare il sacro nell’uomo, nell’umanità,

110 A questo proposito, La Porta sembra negare la centralità della tensione religiosa in Camere separate, riconducendola a una posizione di secondo piano, in funzione di una lettura globale dell’opera tondelliana: “C’è stato chi ha ravvisato nel romanzo un desiderio di religione e di assoluto, la presenza di archetipi fondamentali dell’esistenza. E’ vero che in Camere separate si parla del “sacro”, di “devozione”, della “preghiera”, ma credo che anche questo vada letto alla luce dell’intera produzione di Tondelli […]. Non è che non ci siano tracce di religiosità, ma la cifra dello scrittore sta altrove e in un certo senso sfugge sempre, proteicamente, a categorie troppo normative (e troppo seriose)”. F. La Porta, Tra mimesi e dissimulazione, cit., p. 268. 111 R. Carnero, op. cit., p. 85. 112 F. Panzeri, In più intimo volo, cit., pp. 117-119. 113 S. Zappoli, Con un colpo d’ala, Postfazione a R. Carnero, op. cit., p. 135. Anche Zappoli fa riferimento a Dinner Party come testo che chiude, facendone il suo tema esplicito, la fase generazionale dell’opera di Tondelli, individuando nell’uscita dal collettivo il motivo dell’assenza di una elaborazione letteraria della recente storia italiana. Scrive Tondelli, in riferimento ad eventi storici quali - tra gli altri - il delitto Alinovi e l’uccisione del fratello del pentito Peci: “Queste e tante altre sono tragedie, perché, come sempre, alla base c’è l’elemento umano […],; c’è la ragione di stato, c’è l’utopia rivoluzionaria che è come dire l’ira degli dei. Eppure, al momento, nessuno è in grado di proporre questa rappresentazione. Oh, non solo per mancanza di talento, che è un’altra forma contemporanea dell’ira degli dei, ma perché in Italia non esiste un’intelligenza collettiva per fare tutto questo”. P.V. Tondelli, Dinner Party, Milano, Bompiani, 1994, p. 73.

356 nella sofferenza, nel dolore, nelle persone che si amano e poi muoiono”.114 Alla pari degli altri temi di Camere separate, non sfugge ad un contrastante dualismo di fondo, che contrappone la rappresentazione di motivi cristiani allo scontro con la Chiesa in quanto istituzione. La descrizione delle due processioni del Venerdì Santo, con una precisione e una densità di particolari tali da far riscontrare “un interesse carico di devozione e cura”115, rivela un desiderio di appartenenza che orienta la tensione religiosa verso le canoniche forme apprese con l’educazione. E’ una spinta che si esprime anche a livello culturale, portando Leo, nella sua solitudine milanese, alla lettura della Bibbia - e Tondelli ad un interesse più generale verso gli scritti religiosi.116 Al tempo stesso il rapporto con la Chiesa e la riflessione religiosa diventano elementi che acuiscono la sua diversità. La Chiesa è anche un’istituzione con la quale l’individuo si deve confrontare, un’istituzione dalla quale Leo non può sentirsi accettato, perché il suo concetto di ‘sacro’ va oltre gli stretti confini del dogma identificandosi in un senso panico della realtà: Quello che lui chiama preghiera, altro non è che un atteggiamento di ascolto delle cose e degli uomini, un osservare e contemplare […]. Non ha altari davanti ai quali inginocchiarsi, non ha templi né simulacri a cui sacrificare; allora celebra come liturgia la vita stessa. Avverte la presenza del sacro come qualcosa di tangibile nella realtà, qualcosa su cui il suo sguardo si posa con devozione (CS p. 97).

Proprio attorno al contrasto tra la visione di Leo di un “sentimento religioso […] incarnato nel mistero della corporeità e della sessualità”117 e le effettive modalità della pratica della religione si coagula l’impossibilità di un’adesione piena e soddisfacente: Portava non solo la propria emotività, ma anche la sua sensualità, nella ricerca di Dio. Nello stesso tempo vedeva la religione vissuta in modo sdilinquito, atrocemente svirilizzato senza la passione feconda, la recettività violenta della femminilità o l’esuberanza della virilità. Una religione senza sesso per uomini che hanno paura delle passioni e della forza dell’amore. Una religione accomodante, borghese, il più delle volte ipocrita (CS p. 98).118

114 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 80. 115 A. Spadaro, La religiosità dell’attesa nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, cit., p. 37. 116 Tondelli rivela un interesse profondo per la meditazione religiosa, fornendo altresì l’elenco della sua biblioteca, che va oltre la specificità cristiana: “Ma ho anche molti riferimenti, libri, un intero scaffale con il Libro Tibetano dei Morti e un paio di Bibbie, Le grandi correnti della mistica ebraica e l’Imitazione di Cristo, il Tao Te Ching e i mistici medioevali della cristianità. E altri ancora...” F. Panzeri- G. Picone, op cit., p. 78. 117 A. Spadaro, La religiosità dell’attesa nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, cit., p. 35. 118 Simili considerazioni, che come si è visto svelano più di una suggestione da Fabrizio Lupo di Coccioli, ritornano, da parte dello scrittore toscano, nell’intervista poi confluita in Un weekend postmoderno: “Sarei nuovamente cristiano […] solo se la Chiesa cambiasse radicalmente il suo atteggiamento verso la sessualità e verso gli animali. Come si fa a chiedere a un ragazzo di vent’anni di rinunciare al sesso? E’ la mortificazione assoluta dell’umano. Come si fa a dire che Cristo è vero uomo, se poi si tace sulla sua sessualità? Solo i grandi artisti, i grandi pittori hanno rappresentato le sue erezioni”. P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., p. 485.

357 E’ un percorso che porta al rifiuto e all’abbandono delle pratiche religiose, un percorso che si esprime alla fine nei consueti termini di negazione reciproca, che si riscontrano quando il testo mette in scena il confronto tra individuo e istituzioni, come appare nell’episodio della confessione: Io non posso amare la religione del cilicio e della pena. Io vorrei amare la religione della pienezza. Vorrei essere felice nella mia religione, perché la sto sentendo come un bisogno biologico, come mangiare, come bere, come fare l’amore. Ma voi sembrate non capire questo. Io cerco di parlare con sincerità, ma voi negate la mia stessa esistenza (CS p. 100).

Conseguenza di questo rifiuto è l’interiorizzazione da parte di Leo del suo sentimento religioso e la consapevolezza di un concetto, ambivalente, di amore totale nella solitudine totale: Tutti dicono di amare, ma Leo pensa che chi ama veramente gli uomini e il mondo intero, gli alberi, i fiumi e gli animali, quell’unico uomo è l’eremita. E lui, a suo modo, è un monaco. Questa è la sua diversità (CS p. 202).

L’impossibilità di accettazione da parte della Chiesa, imputabile anche questa alla sua diversità, determina così una fuoriuscita dai modelli tradizionali, nella quale la religiosità si trasforma in misticismo e la preghiera diventa contemplazione, operando una scelta di marginalità che ribadisce la posizione tipica del protagonista tondelliano.119 Tondelli ha confermato, in seguito, il carattere della religiosità di Leo, slegandola in un certo senso dalla tradizione cattolica, alla ricerca di radici più generali, insite nella stessa condizione umana: Questo è un romanzo in cui senti il senso religioso, proprio perché il grande dolore per la perdita dell’amante spinge il protagonista verso gli altri nello scoprire quello che unisce nel profondo, la propria interiorità a quella degli altri. Il problema del protagonista, alla fine, altro non è che quello di essere un monaco mancato, un contemplativo, che non si accontenta di successi fittizi. […] Molti critici hanno parlato di questo libro come di una confessione: è vero, c’è, ma non in senso cattolico per liberarsi o per arrivare all’assoluzione di qualcosa, ma per giungere alla scoperta delle motivazioni profonde, certamente, della colpa, ma anche di tutto il bene che è dentro di noi, nella nostra storia. La storia d’amore di Leo e Thomas è vista come l’archetipo di qualsiasi storia d’amore, alla quale bisognerebbe accostarsi proprio col senso di qualcosa che arricchisce. Forse più che di religiosità e di sacro, a questo punto si potrebbe parlare anche di pietà. Mi interessa ricercare una “pietas” latina, verso le cose.120

119 Potrebbe non essere del tutto errato individuare un’ulteriore suggestione da Coccioli in questo percorso tondelliano, non tanto nel senso di una citazione, quanto proprio di percorso umano, dal momento che è degli anni di elaborazione di Camere separate l’adesione dell’autore toscano al Buddhismo, una riflessione che non è molto lontana dagli approdi finali di Leo. Si consideri che Tondelli conosceva sicuramente Piccolo Karma, dal momento che lo aveva recensito per Rockstar, parlando di “incessante tormento teologico che lo ha spinto, […] finalmente, verso le filosofie e le religioni orientali, l’induismo e il buddhismo zen”. Ivi, p. 481. 120 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 80.

358 IV.4.5 La scrittura come autobiografia.

Il tema della scrittura, compare in maniera apprezzabile in tutte le tappe del percorso di Leo, il più delle volte in una relazione tale con gli altri temi che lo pone come soluzione delle problematiche che Leo-Tondelli espone, il punto d’arrivo delle riflessioni di Leo, indipendentemente dalla loro origine. Tondelli aveva già fatto notare la stretta dipendenza tra realtà e scrittura, individuando in quest’ultima il tramite imprescindibile della sua curiosità verso il mondo, un’esperienza che supera la stretta dimensione artistica, fino a coinvolgere l’essenza stessa dell’uomo.121 Proprio in questo senso, Camere separate delinea un’evoluzione, nella percezione di Leo della propria professione, uno sviluppo che dal dovere morale provato da Leo ventenne porterà al pieno riconoscimento della scrittura come fondamento della sua diversità. Anche questo è un percorso costellato di tappe, nelle quali lo stretto legame tra scrittura e carattere solitario del protagonista viene costantemente ribadito. In questa ricostruzione Camere separate espone numerosi momenti autobiografici, piuttosto evidenti per un lettore mediamente informato, tanto che Del Buono ha definito Leo “uno che campa scrivendo le cose che ha scritto Tondelli e interessandosi alle cose a cui si è interessato Pier Vittorio Tondelli”.122 In effetti la sovrapposizione Leo-Tondelli è molto marcata lungo tutto lo svolgimento del romanzo, al punto che lo stesso autore ha parlato di “carattere autobiografico-diaristico”123, ribadendo però al tempo stesso l’importanza della finzione romanzesca. Certo, la costruzione del personaggio riprende molto la figura dell’autore - età, altezza, educazione cattolica, paese d’origine, professione, gusti letterari e così via -, anche se quello che fa maggiormente coincidere i due sono i riferimenti sul piano della scrittura: Camere separate accentua la sua funzione di riepilogo - oltre che sul piano tematico - in un diretto rapporto di motivazione delle opere precedenti. Si è già visto come la rivisitazione di atmosfere proprie di Altri libertini riveli, attraverso la necessità della scrittura, una volontà di chiarire origini e modalità della narrativa tondelliana. Analogamente, la descrizione della stanza di Leo nella sua casa al paese natale

121 “Lui si è chiesto perché da qualche anno ama viaggiare, mentre quando aveva vent’anni, assolutamente no. E trova una ragione: quando era giovane non aveva la scrittura […] uno strumento […] per mangiare e guardare la realtà”. P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, cit., p. 15. 122 O. Del Buono, Giovinezza, addio, cit. 123 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 48. Tondelli era intervenuto sull’argomento estendendo le sue considerazioni ad un più generale piano letterario, non specificamente a Camere separate: “Credo che in letteratura, poi, si giochi su questo, sul partire da alcuni dati autobiografici o della propria esperienza o di quello che si è visto, si è osservato in giro, si è annotato nei propri diari, per poi trasfigurarlo, inserirlo, per dare forza a un progetto letterario, un progetto che in questo caso ha la struttura di un romanzo.” G. Susanna, op. cit.

359 diventa un flashback sul suo avvicinamento alla scrittura, nel quale sembra di vedere l’autore che osserva il materiale che si offre alla trasfigurazione artistica: In questa stanza […] lui ha scritto le sue prime pagine, i diari, la sua tesi di laurea, il suo primo libro. Da quel balcone, mentre scriveva, fissava le luci della città brillare sotto le cime dell’Appennino, là in fondo. Erano come tanti inviti di festa. Là si svolgeva la vita e lui, nella miseria della sua giovinezza qui, all’ottavo piano, non poteva fare altro che sognarla e descriverla. Immaginarla come un vortice di gente che si trascina danzando fra un bar e l’altro, fra un party e una discoteca. Descriverla come una città della notte in cui i sogni risplendono e in cui tutti sono allegri, ben vestiti, affascinanti nelle loro auto lanciate veloci attraverso la pianura (CS p. 117).

E’ un vero e proprio viaggio alla riscoperta della propria ispirazione artistica, che già la descrizione della stanza aveva introdotto, rimandando alla soffitta di Annacarla in Altri libertini: un viaggio che sembra darsi anche un movimento nel tempo, prefigurando nella “città della notte in cui i sogni risplendono e in cui tutti sono allegri” un’anticipazione di Rimini. Quando poi Tondelli narra il presente di Leo dopo il ritorno da Londra, fa una lunga disamina del rapporto del suo personaggio con la scrittura, immettendo un evidentissimo riferimento a Biglietti agli amici: Prende corpo in lui il progetto di scrivere libri per dieci, venti persone. Dei libri espressamente destinati a chi può comprenderlo, agli amici di cui si fida. Che lo rispettano, che gli prestano attenzione, che non giudicano se ha fatto una cosa buona o cattiva, ma che interpretano la disponibilità di partenza, la sua necessità di raccontare qualcosa a qualcuno (CS p. 95).

Si noti che il riferimento al suo libro più autobiografico - in quanto libro più intimo -, per quanto testo assai criptico, è quello forse più comprensibile all’interno del romanzo, quasi a voler mettere in maggior evidenza le coincidenze tra autore e personaggio.124 E’ una sovrapposizione che ha ben illustrato Severini, riconducendola ad una spia stilistica, e reperendo nella costruzione autobiografica l’aspetto più importante di Camere separate: Nel descrivere Leo, Tondelli vuole rendere esplicita l’identificazione del personaggio con l’autore. E lo fa ricorrendo ad una pratica tipica della sua scrittura, l’elenco.

124 E’ una sovrapposizione che tiene anche sul piano strettamente cronologico, poiché l’età di Tondelli che scrive Biglietti agli amici coincide con i trent’anni di Leo in questo momento di Camere separate, dato evincibile con facilità dal testo. Non tutti gli avvenimenti riconducibili alla vita di Tondelli sono così coerenti, ma, anzi, a volte sono sfasati anche di anni: il concerto dei Bronsky Beat allo Zenith, per esempio, che apre la storia di Leo e Thomas, rimanda al reale concerto berlinese del gruppo che Tondelli ha recensito nel gennaio 1985 e che al tempo relativo di Camere separate non aveva ancora inciso dischi. Analogamente, il convegno in Quebec su Kerouac è dell’ottobre 1987 e Tondelli lo racconta dettagliatamente in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, cit., pp. 520- 524; in Camere separate però lo sposta a tempi più recenti, mantenendo una plausibile fine di settembre per l’inizio del viaggio canadese. In base a queste considerazioni, la piena coincidenza di date potrebbe voler segnalare anche la piena coincidenza tra personaggio e autore, aprendo evidentemente interessanti prospettive di lettura.

360 […] Nella sua casa milanese Leo attribuisce ad ogni oggetto il suo “prezzo”. Cioè il tipo di lavoro che gli ha consentito di acquistarlo.125

L’elencazione chiude la rapida sintesi di Leo sulla storia della sua scrittura, in costante collegamento con la sua diversità, prendendo toni anche ironici ed una certa - rara in Camere separate - leggerezza: E quando aveva iniziato a scrivere lo aveva fatto perché gli era sembrato il modo più naturale di esprimere questa sua diversità. Ma ora, dieci, quindici anni dopo, anche scrivere è diventato per lui una professione, un mestiere. E quando guarda gli oggetti che lo circondano scherza, malinconicamente, nel dire: quei due vasi sono il frutto di una collaborazione editoriale, quei leoni di marmo indiano sono cinque recensioni, il letto e l’armadio un libro; il divano, la cucina, il bar un altro libro e quella bottiglia di cognac una cartella pubblicitaria su Firenze. In questo momento vede tutto come una prigione costituita di parole mercificate. Il televisore-John Fante, la lavastoviglie-Jack Kerouac, la poltrona-Peter Handke, le piante-Patricia Highsmith, il tavolo-Linus, la libreria-Rockstar, il guardaroba-L’Espresso, il computer-Transeuropa Edizioni, il marmo del bagno-diritti di traduzione in Francia, l’automobile-diritti cinematografici. Parole, parole. Vive di parole nel senso più letterale del termine. E quando […] annaffia abbondantemente del suo rum preferito il ghiaccio nel bicchiere di cristallo-Christopher Isherwood per un istante, angosciosamente, si chiede: “Quante parole sto ora, realmente, consumando? E di quale storia, in particolare, che ho scritto?” (CS pp. 93-94).

Continua Severini nel suo interessante contributo: Per i lettori che lo hanno seguito con attenzione non possono esserci dubbi: Leo è proprio Pier Vittorio. […] Appare evidente che Tondelli ha voluto firmare l’adesione totale ai temi e agli interrogativi che il suo testo pone. Riletto da questa prospettiva, Camere separate si configura come la testimonianza tormentata e sincera di una “vocazione”.126

C’è in Tondelli, dunque, quando mette in scena il personaggio Leo, una vera e propria volontà di esporsi, che, viste le tematiche di Camere separate, esce dal limitato piano della scrittura, acquistando una fortissima valenza umana.127

125 G. Severini, op. cit., p. 106. 126 Ivi, p. 107. 127 Turchetta, parlando in relazione a ciò di “accanito bisogno di giustificare il proprio esistere in quanto scrittore, la propria identità […], ma in quanto indissolubilmente legata ad una vocazione letteraria” (G. Turchetta, op. cit.), ha cercato una motivazione psicologica, legata ad una formazione culturale esperita negli anni Settanta, quando la scrittura era messa in secondo piano rispetto all’impegno, senza tralasciare poi la responsabilità dell’industria culturale nei confronti dei giovani scrittori. Una lettura che, francamente, sembra un po’ estrema, se non altro perché quando Tondelli in Camere separate parla di vergogna in relazione alla sua attività professionale, si riferisce sempre al mettersi a nudo che un autore compie scrivendo: “Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato” (CS p. 95). Sullo stesso argomento cfr. anche F. Panzeri-G. Picone, op. cit. ,pp. 42-46.

361 Elisabetta Rasy, individuando tra l’altro un filo che unisce Camere separate e Altri libertini, ha voluto poi dare una spiegazione alla presenza dell’autobiografia nella scrittura di Tondelli: Pier Vittorio non era affatto un narratore selvaggio […]: ne era, semplicemente, il doppio, nella figura - letteraria - di colui che assume nella propria consapevolezza l’inconsapevolezza degli altri, la vitalità drogata e stracciona degli anni Settanta o il mortuario e agiato e malato internazionalismo degli anni Ottanta. Tondelli, a differenza di quasi tutti gli altri suoi coetanei, è stato uno scrittore morale perché sociale, per il quale l’autobiografia è un dovere e non una scelta, e va fornita di una lingua adeguata, di una lingua pensata, non necessariamente la propria lingua.128

E’ una lettura che in qualche modo collega l’autobiografia ad una sorta di generazionalità, o perlomeno al ruolo ‘sociale’ dello scrittore. In Tondelli scrittura e vita sono strettamente legate, essendo la scrittura il mezzo con cui l’uomo Tondelli indaga sulla realtà, una realtà inscindibile dalla sua realtà. La coincidenza di scrittore e uomo si lega così a necessità espressive che, tramite l’autobiografia, illustrano problemi e posizioni che più che suoi, sono in larga misura sociali, nei quali la rappresentazione di un io-personaggio che si sovrappone all’io-autore, riduce la distanza creata dalla finzione romanzesca, aumentando il grado di realismo. L’autobiografia diventa anche il modo per rientrare in possesso della propria scrittura, dopo la ‘falsificazione’ degli esordi, nonché uno strumento di comunicazione con gli altri, una soluzione alla solitudine di Leo. Più in generale, l’autobiografia rappresenta il contatto profondo tra arte e vita, il ponte più naturale tra la letteratura e la realtà. Scrive Panzeri: Tutta la narrativa di Tondelli ha sempre giocato la sua forza sulla naturale trasposizione autobiografica, quasi che lo scrittore avesse bisogno di toccare in modo diverso la vita per poterla definire attraverso le parole. Del resto in Quarantacinque giri per dieci anni sceglie una citazione di Giovanni Comisso per rendere evidente il suo rapporto con la scrittura: “Tutta questa presunzione di scrivere racconti o romanzi è una buffonesca menzogna. Non resiste narrativamente che la storia di se stesso”. 129

IV.5 La tensione elegiaca (note stilistiche).

128 E. Rasy, Condensazioni, in “Panta”, 1992, n. 9, pp. 259-261. Interessanti anche le osservazioni sul rapporto tra Altri libertini e Camere separate, che confermano la continuità insita nell’opera tondelliana: “Io si è alzato in volo, è diventato Lui, ma entrambi questi libri […] disegnano una stessa figura letteraria ad incastro, o a specchio, dove la narrazione deve e non può che perseguire l’utopia o l’illusione - l’illusione della voce e dello sguardo di essere adeguata al movimento della vita, e la vita al movimento della generazione, e la generazione al tempo. Come se solo in questa semplice e ordinata circostanza, ancorché tragica, la narrazione fosse scrivibile, e la vita fosse vivibile”. Ivi, p. 260. 129 F. Panzeri, La musica della pagina. Il suo ritmo, in B. Casini (a cura di), op. cit. pp. 9-22.

362 Camere separate rivela un’estrema accuratezza di scrittura, un controllo che era - anche volutamente - assente nelle opere precedenti, come se l’attenzione fosse ora puntata sui rapporti tra le singole parole, quasi in una percezione microscopica del testo. Anche nei momenti di maggior tensione emotiva, la narrazione sembra sempre pacata e sotto controllo, fatto questo che deriva anche dall’origine di rimemorazione di molti passi del romanzo; nonostante il perdurare del dolore di Leo, il tempo sicuramente agisce da filtro nella percezione degli avvenimenti, che ben difficilmente subiscono accelerazioni narrative - non a caso i brani che potrebbero evocare una tendenza verso una rappresentazione più onirica vedono come protagonista Leo giovane -, in modo che la scrittura si snoda con una misura sostanzialmente costante. Lo stesso Tondelli ne ha messo in evidenza il carattere più curato rispetto alle altre opere: Avevo più tempo per scrivere […] e così ho lavorato molto sulla pagina, sulla frase, cosa che invece finora facevo un po’ meno. Guardavo più al ritmo che alle parole.130

Anche sotto il profilo della resa stilistica, l’isolamento del protagonista sembra essere l’obbiettivo dell’autore, che cerca di restituire, pure sul piano formale, le caratteristiche - separatezza, diversità, solitudine - che aveva attribuito al suo personaggio; le trova adottando una narrazione in terza persona, che consente ovvi effetti di distanziazione del protagonista. Non è però la terza persona di Rimini, ma quella, pressoché contemporanea, di Biglietti agli amici, una terza persona che, sembra un paradosso, comporta una scrittura assai intimista. Tale riferimento a Biglietti agli amici, libro molto ‘privato’, è già un segnale in rapporto alla valenza autobiografica del nuovo romanzo, un riferimento reso ancora più evidente dalle numerose riprese presenti in Camere separate. Al tempo stesso la terza persona consente quel minimo di distanza necessaria ad impedire la completa inclusione del motivo autobiografico negli altri temi: una narrazione in prima persona, con una materia così compromessa col proprio vissuto, avrebbe probabilmente pesato in maniera eccessiva sul carattere romanzesco del libro, nuocendo sicuramente al suo equilibrio. La creazione di Leo è anche un modo per liberarsi definitivamente dell’identificazione autore-narratore (spesso personaggio se non protagonista) di cui Tondelli è fatto segno fin dai tempi di Altri libertini: l’adozione di una terza persona per il materiale più autobiografico finora comparso nei suoi romanzi, ne ribadisce implicitamente la finzione letteraria, segnalando la necessità di un filtro che attenui certe facili - ma a volte anche semplicistiche - identificazioni.

130 L. Romagnoli, op. cit.

363 La scelta relativa alla narrazione riflette però, anticipandola, un’altra importante caratteristica di Camere separate: Tondelli crea un protagonista, Leo, e un narratore in terza persona, anonimo ed onnisciente, che coincide in maniera evidente col personaggio in ogni punto del romanzo; Tondelli opera così uno sdoppiamento, una duplicazione, realizzando anche in questa dimensione quel tema del doppio che investe in profondità Camere separate, impregnando di sé ogni altro motivo tematico. Un’analisi più ravvicinata della struttura sintattica di Camere separate rivela l’assenza di quelle dominanti impostazioni ritmiche che avevano contrassegnato Rimini in profondità. Anche qui la scrittura spesso adotta un ritmo ternario, ma lo fa in maniera, oltre che più parca, più accorta, mimetizzandolo spesso nella sintassi e all’interno delle figure retoriche, tra cui primeggia, naturalmente, l’elencazione. Ne risulta un testo dotato di completa armonia tra le diverse parti costitutive, cosicché l’aspetto formale assume un legame talmente stretto con quello contenutistico da porsi come elemento imprescindibile della significazione stessa. Ecco come, per esempio, la figura retorica dell’elencazione, all’interno della quale si cela la tripartizione, esprime a livello formale il senso di accumulo disordinato secondo un concetto postmodernista, intorno alla cui evidenziazione sembra ruotare il brano, e più in generale la narrazione della festa a casa di Bernard:131 Camminano […] attraversando una dopo l’altra le stanze dell’appartamento di Bernard, una deriva di sale e di stili incastrati l’uno nell’altro: colonne di cartapesta, specchiere e trumeau secondo impero, qualche poltrona bauhaus, una libreria ricavata da un confessionale rinascimentale, tappeti, damaschi, arazzi, cupole moresche di poliuretano dipinte con l’aerografo, scarti e rimanenze di tutti i set passati di Bernard, del suo kitsch irrefrenabile, della sua follia onirica. Statue candide di Dioscuri a cui sono applicati falli giganteschi color rame; capitelli, colonne, san Sebastiani di gesso colorato imploranti o sublimemente assenti nell’ora del martirio; Maddalene, Cristi crocifissi, Angeli, Arcangeli, Troni alle finestre (CS p. 12).

L’elencazione domina il testo, ma al suo interno si ha un primo abbozzo di ritmo ternario alla fine del primo periodo (“di” / ”del” / ”della”), subito ripreso, questa volta a livello di suddivisione del periodo (due punti e virgola che lo dividono in tre parti), ma richiamato dalla ripetizione della particella “di” quasi all’inizio della prima delle tre parti. Altre volte il ritmo ternario è alternato a quello binario, di modo che non si evidenzia un’eccessiva preponderanza di questa struttura stilistica. L’attenuazione, forse alla ricerca di un più omogeneo equilibrio testuale, sembra dominare lo stile di Camere separate. Compaiono le consuete forme della retorica tondelliana, dall’iperbole alla sequenza di ripetizioni, da effetti di climax alle iterazioni

131 Già all’ingresso di Leo e Michael a casa di Bernard un’immagine sembrava porsi come evidente metafora del concetto di riutilizzo insito nel termine “postmoderno”: “Poco più in là alcuni ragazzi riprendevano con una telecamera le immagini del party rimandandole sui televisori sparsi per l’appartamento” (CS p. 11).

364 foniche, con l’elencazione in forte evidenza, ma la loro presenza testuale è meno accentuata di un tempo e dove - come l’elencazione nel ritorno da Patrasso - compaiono in maniera superiore alla media, veicolano un ulteriore significato di autocitazione, di riferimento alla propria opera. Due procedimenti spiccano tra le modalità stilistiche di Camere separate, entrambi in collegamento con la figura e la ricerca di Leo. Si è già avuto modo di evidenziare il procedere per negazioni della sua riflessione, un modo stilistico di ribadire il vuoto in cui si dibatte il protagonista, un’amplificazione che ritorna spesso. Analoga frequenza si riscontra per un altro nesso stilistico, questa volta legato al dualismo costitutivo del romanzo, e cioè l’accostamento affermazione-negazione. Sono momenti spesso enfatizzati dall’essere contenuti in brevi periodi che li fanno nettamente risaltare, mai a grande distanza tra di loro, che esprimono fedelmente lo stato d’animo di Leo e che possono a volte prendere la forma - per quanto non evidentissima, dal momento che i termini sono posizionati in due diversi paragrafi - del chiasmo: Sa solamente che deve mettersi in viaggio. Non sa più cosa fare di se stesso […]. Non ha fissato una meta precisa. Ha intenzione di fare un viaggio lento, in treno, attraverso l’Europa (CS pp. 57-58).

Spesso, il testo prosegue con una sequenza di ripetizioni che inizia dall’ultimo termine della contrapposizione, come in questo caso, dove presto Tondelli riprende l’ausiliario “ha” che compone il passato prossimo, infilandone una serie messa in ulteriore evidenza dall’ultimo riscontro, questa volta non in veste di ausiliario, ma in evidente infrazione temporale rispetto ai precedenti: “Ha comprato / ha radunato / ha portato / ha” (CS p. 58). Lo stesso meccanismo testuale ritorna durante il soggiorno londinese di Leo, quando Tondelli inserisce la contrapposizione, “Vuole starsene solo, non vuole parlare” (CS p. 77), per poi continuare il paragrafo ribadendo il secondo termine: “Non vuole andare al cinema […]. Non vuole doversi spiegare” (CS p. 77). Altre volte la contrapposizione prende forme meno incisive, come “Non posso / vorrei”, oppure viene espressa in due periodi e paragrafi adiacenti, senza la presenza esplicita del nesso affermazione-negazione, e quindi in maniera stilisticamente molto meno interessante. In ogni caso, è chiaro che la contrapposizione realizza sul piano stilistico i continui confronti che il testo instaura tra Leo e i suoi alter ego, tra le opposte modalità di percezione dei singoli motivi (per esempio famiglia come valore e famiglia come istituzione); in ultima analisi è un ulteriore specchio del contrasto tra morte e vita in cui Leo si dibatte e che viene sinteticamente espresso in un colloquio con l’amico Rodolfo, uno dei rari dialoghi di Camere separate, nonché ultima e, anche per questo, significativa contrapposizione formale: “Thomas era tutto per me. Era ideale.” […] “Lui non era l’uomo giusto per te. E ti stai dannando proprio su questo errore.”

365 […] “Quale errore?” […] “Che lui è morto, Leo. E tu no. Per questo lui non era il ragazzo giusto per te.” (CS p. 194).132

Anche in Camere separate, Tondelli opera il tentativo di uscire dai confini tradizionali della letteratura, inserendo brani tratti da altre forme artistiche, come la musica, oppure tramite una scrittura che riveli una forte natura cinematografica.133 L’inserimento di testi tratti da brani musicali non si limita a costituire una colonna sonora, ma integra il tessuto testuale: la musica si fa scrittura e la scrittura si fa musica. Si è già parlato della lettura musicale di On the Road, ma precedentemente Tondelli aveva segnalato l’interconnessione tra le due forma artistiche, agendo doppiamente sul piano della scrittura, come autore e facendo scrivere il personaggio. E’ il momento iniziale della relazione epistolare tra Leo e Thomas: Poi, finalmente, trovò la lucidità per scrivergli una lunga lettera […]. E poiché stava scadendo nel patetico […], preferì inviargli una registrazione di We can’t live together di Joe Jackson che diceva: “Why can’t you be just more like me or me like you, and why can’t one and one just add up to two. But we can’t live together, and we can’t stay apart” (CS p. 175).

Leo, scrittore, evita le parole sostituendole con quelle di una canzone, anzi, con la canzone stessa, le cui parole diventano parte del tessuto del romanzo. Thomas, musicista, ascoltando la registrazione di Leo, riesce a scrivergli e a spiegarsi; come scrive Panzeri, “la musica, in Tondelli, possiede la capacità di modificare l’esperienza, di inciderla”.134 E’ un procedimento costante in Tondelli, presente già in Altri libertini e che ha accompagnato l’evoluzione della sua scrittura in tutte le direzioni esplorate, dall’intimismo di Biglietti agli amici, dove tra l’altro compare il medesimo brano di Joe Jackson (cfr. Biglietti agli

132 I dialoghi sono estremamente rari in Camere separate, ed, eccetto un paio di colloqui tra Leo e Thomas nella fase preliminare del loro rapporto, Rodolfo è l’unico altro personaggio a parteciparvi. Il dialogo riportato, verso la fine del romanzo, corrisponde, simmetricamente, ad un altro analogo tra Leo a Parigi e Rodolfo a Milano, quasi in apertura del libro. Rodolfo occupa in Camere separate il posto che in Rimini toccava ad Anselme, in un certo senso è il ‘confessore’ di Leo, ruolo segnalato anche dal ricorrere, proprio nell’occasione sopra citata, delle stesse parole che Bruno aveva usato, con Anselme, a proposito di Aelred. Nella contrapposizione Leo-Thomas il testo gioca molto, qui, sulla debole assonanza “lui / Leo” e sull’accostamento grafico “morto, Leo”, in qualche modo confermata dal verbo che adopera Rodolfo, “dannarsi”. 133 Non bisogna dimenticare che l’interesse attivo per le altre forme artistiche è un tratto fortemente caratterizzante di tutta la narrativa degli anni Ottanta. Scrive a questo proposito Picone: “Forse come nessun’altra, la produzione narrativa dello scorso decennio è stata sensibile alle sollecitazioni e alle influenze provenienti da lontani percorsi paralleli, incrociati alla filosofia e alla musica, alla psicoanalisi e al cinema, alla scienza, al teatro e alle arti visive fino alla definizione di un originale approccio alla realtà.” G. Picone, op. cit., p. 17. E più oltre, specificando ulteriormente: “Nel nuovo immaginario degli scrittori degli anni Ottanta, musica, cinema e arti visive coabitano da soggetti protagonisti e possibilità di linguaggi originali, influenzano la scrittura in un sistema di vicendevole scambio, di commistione continua che darà vita a esperienze e percorsi narrativi originali.” Ivi, p. 42. 134 F. Panzeri, Una colonna sonora. Musiche dai libri di Pier Vittorio Tondelli, in B. Casini (a cura di), op. cit., pp. 23-31.

366 amici, cit., p. 23), alla scrittura più distaccata di Rimini ( si veda l’ultimo incontro di Bruno e Aelred), a quella teatrale di Dinner Party, in cui Tondelli fa fare a Didi, scrittore, le proprie confessioni artistiche: Sto per ore e giorni e notti a inseguire una parola, quella sola parola […]. Io vado con l’orecchio. Cerco semplicemente di far sì che le parole mute della pagina diffondano il loro suono, la loro voce. Così che si crei un ronzio cerebrale, che è la musica della pagina, il suo ritmo. Io cerco il ritmo, la musica dei miei anni, cerco di avere una frase che si possa cantare in testa, si cantare, la stessa identica cosa. Io faccio musica con le mie parole.135

E’ così che la musica investe la struttura stessa della scrittura tondelliana, connotando i suoi romanzi - come più volte si è avuto modo di notare - in senso progettuale dal momento della loro elaborazione. Come scrive Panzeri, “il richiamo […] e riferimento musicali diviene al contempo materia della narrazione, dimensione generazionale e impianto strutturale dei libri”.136 La presenza dell’elemento musicale pervade Camere separate in modo molto profondo, nelle espressioni formali e nella sostanza narrativa: Thomas è un musicista, Michael pure ed è il fatto di aver suonato insieme che consente a Michael di invitare Thomas alla festa a casa di Leo; il primo appuntamento di Leo e Thomas ha come sfondo un concerto pop e le preoccupazioni maggiori di Leo di fronte allo scompiglio della casa, una volta terminata la festa, sono per i dischi, “tutti impilati in un angolo, mischiati e a portata di polvere, di spruzzi di champagne, di cenere” (CS p. 22); quando Leo parte, associa, nell’elenco dei suoi pochi bagagli, un quaderno e un walkman, cioè ancora una volta la scrittura e la musica; la descrizione della sua vecchia stanza contempla l’elencazione dei dischi, e via di questo passo, fino alla definitiva unione di scrittura e musica in occasione del convegno su Kerouac. Ad ogni modo, “la musica come prospettiva letteraria”137 si inserisce in un contesto teorico di multimedialità dell’arte, che troverà in Un weekend postmoderno una più organica interpretazione, in un più stretto legame con la dimensione sociale del prodotto artistico. Tondelli si è brevemente espresso sulle potenzialità narrative di tale multimedialità artistica: “Sento la musica molto vicina alla scrittura, come le arti visive”.138 Camere separate si rifà a tale idea guida, alla quale bisogna quindi riportare anche la presenza nel testo di motivi cinematografici, sia a livello formale, come tecnica narrativa sia sotto l’aspetto enunciativo. Una rappresentazione diretta e raddoppiata, quasi a suggerirne la presenza, delle potenzialità cinematografiche della scrittura compare in occasione della festa a casa di Bernard - che non a caso fa il regista -, quando le immagini del party

135 P.V. Tondelli, Dinner Party, cit., p. 128. 136 F. Panzeri, La musica della pagina. Il suo ritmo, cit., p. 11. 137 Ivi, p. 21. 138 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 53.

367 vengono riprese con una telecamera e rimandate sui televisori a circuito chiuso dell’appartamento. Ma, più in generale, il riferimento cinematografico - come quello musicale anche se in maniera minore - si infiltra qua e là nel testo, spesso in apparenza secondo modalità piuttosto casuali: Così, per esempio, Michael viene presentato, alla sua comparsa nel romanzo, accomunando musica, “un suonatore di jazz di nazionalità americana”, e dato che rimanda al cinema, “indossa […] un cappello di feltro nero alla Rainer Fassbinder”, alla consueta descrizione.139 Altre volte Tondelli inserisce una diretta enunciazione delle qualità cinematografiche della scena: Guardavano, oltre le tendine trasparenti, il flusso di pendolari sulla Prager Strasse. Dalla parte opposta della strada c’erano altri alberghi, praticamente tante variazioni millimetriche dell’unico modulo dell’architettura socialista. Al centro della piazza una costruzione dall’enorme cupola di cristallo. Sembrava lo scenario di un film di Godard (CS p. 71).

Altre volte ancora, la scrittura di Tondelli si fa documentarista e Leo quasi scompare dietro gli ambienti che i suoi occhi registrano, in lunghi brani, ambientati per lo più in diversi luoghi londinesi, per i quali Carnero ha parlato di “istintiva disposizione a una cinematografica osservazione della realtà”140, un’impostazione che compare ogni qual volta la curiosità tondelliana si può espandere nell’analisi di vari ambiti sociali, in ossequio alla dimensione, pure sociale - che quasi sempre in Tondelli diventa anche morale: si vedano le pagine piene di sdegno sulle abitazioni londinesi - dell’arte. Anche la pittura subisce in Camere separate un utilizzo analogo, dal momento che Tondelli riesce a far entrare nel testo un dipinto del Correggio, dapprima come oggetto dell’ammirazione di Leo durante la visita alla pinacoteca di Dresda, ma subito, con un collegamento attraverso la memoria, concretizza la figura della Madonna in un volto del ricordo, operandone così una trasformazione narrativa: E nella Madonna con San Francesco di Antonio Allegri, originariamente situata nella chiesa in cui da bambino serviva messa, […] riconobbe il volto della sua insegnante di catechismo […]. Sforzandosi fu in grado di riportarne alla memoria anche il nome e così la vide […]. E più la ricordava, più l’immagine del quadro prendeva i suoi lineamenti lasciando in secondo piano […] il volto della Madonna; e non solo quello, […] ma anche tutte le centinaia di altri volti femminili che nel corso dei secoli erano transitati l’uno sull’altro fino a fissarsi nella trasformazione finale di

139 Michael è l’ennesima creazione di quella verve bozzettistica tondelliana che ha prodotto una galleria indimenticabile di personaggi, con frequenza massima in Pao Pao. Nel contesto di Camere separate denota la presenza di una certa leggerezza e gusto ironico anche in compresenza di una scrittura per lo più dolorosa: “Michael è un uomo di quarant’anni, di corporatura massiccia, con una grande barba che perde colore e biancheggia sul mento. Ha pochi capelli in testa e un viso che potresti benissimo definire un campo di patate: pieno di bugne, di bitorzoli e di escrescenze. Indossa solitamente pantaloni militari sostenuti da bretelle di cuoio nero, camicie di lana ed un cappello in feltro nero alla Rainer Fassbinder. Mastica ogni razza di sigari, soprattutto quando si lancia in jam session che durano notti intere” (CS p. 10). 140 R. Carnero, op. cit., p. 85.

368 quello dell’insegnante di catechismo; […] insieme, contribuivano a dar forma a quell’unico volto, a quell’unica idea che era poi quella della devozione verso la vita (CS p. 75).

In questa maniera, l’oggetto artistico diventa lo stimolo per molteplici riferimenti tematici, dal momento che vi vengono a confluire ricordo, religiosità, attaccamento alle proprie radici, femminilità, dualismo nel binomio Madonna-insegnante di catechismo. Facilitato anche dalla materia affrontata e dalla sua ricca tradizione, Tondelli esprime in Camere separate una tensione verso l’elegia che non si riscontra nei suoi precedenti romanzi. Pure in questo caso, l’immediato precedente interno è Biglietti agli amici, per il quale l’accostamento diventa naturale, ma Tondelli aveva riscontrato un certo aspetto poetico in Camere separate ed aveva fatto il nome di Rilke tra le influenze letterarie del suo ultimo libro. In molti punti adotta così uno stile “alto” - che ha generato non poche riserve141 -, sfociando talvolta nel lirismo, come appare fin dall’inizio. Già la comparsa di Leo, nel primo paragrafo, registra nella descrizione della sua immagine nell’oblò dell’aereo, un verbo, “specchiare”, che, per quanto appropriato, induce una maggior tensione lirica rispetto al più comune “riflettere”, anticipando scelte lessicali proprie del romanzo intero. Ma è il paragrafo successivo ad indirizzare inequivocabilmente la scrittura verso una dimensione lirica: All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano e arancione zen (CS p. 7).

E’ una vera e propria trasfigurazione poetica, che trasforma le montagne in “increspatura di sabbia” ed il cielo in un “abisso”; le scelte lessicali caratterizzano fortemente il brano, attraverso l’uso di “tingere” per il più comune “colorare” e la descrizione di un tramonto che “accende” l’orizzonte. La definizione dei colori poi - sul cui uso bisognerà tornare - è assai ricercata e sfugge alla normalità della lingua media: il cielo diventa “cobalto” ed il tramonto, quasi neologisticamente, è “color zafferano o arancione zen”.

141 Turchetta, fin dal titolo della sua recensione, riscontra in Camere separate un eccesso di enfasi, parlando poi di “fenomenologia dello stile alto […] al completo, ma in una forma ingenua, degradata.” G. Turchetta, op. cit. Marabini, invece, ha trovato poco appropriata la soluzione della storia nella letteratura: “Tondelli è anche gravato dal peso naturale della letteratura, intesa anche come soluzione di vita. Bravo nel raccontare dall’interno i fatti e nell’imprimere ritmo al racconto, egli, soprattutto nel finale, s’impantana nella stessa letteratura. […] La letteratura […] insinua nelle pagine cascami decadenti e dannunziani fatali all’argomento e alla temperie spirituale in cui è immerso.” C. Marabini, Come liberarsi di D’Annunzio, “Il Resto del Carlino”, 13 agosto 1989. Marabini sembra poi trovare delle giustificazioni alle riserve fatte, proprio allacciandosi ad una tensione poetica insita nella materia: “La condizione di Leo è lirica e difficilmente narrabile, e tende a dissolvere i fatti.” Ibidem.

369 Tondelli prosegue sulla stessa linea, per quanto in misura meno accentuata, ed inserisce nel successivo lungo paragrafo frequenti termini o immagini piuttosto ricercati, cosicché il paesaggio osservato da Leo “parlava del giorno e della notte, dei confini fra i mondi della terra e dell’aria”, fino a diventare addirittura una “olografia boreale”; nel ritratto di Leo compaiono “labbra turgide” e gli zigomi hanno la pelle “screziata di capillari”, mentre le guance di suo padre, richiamate per analogia, sono “cupree”.142 La tensione verso il lirismo, quando non risalta a livello lessicale, compare nelle strutture sintattiche che si fanno accurate, rivelando in questo caso un accentuato ritmo binario: L’immagine che conservava del proprio volto era sempre e immortalmente quella del sé giovane e del sé ragazzo […]. Continuava a pensarsi e a vedersi come l’innocente, come colui che è incapace di fare del male e di sbagliare (CS p. 7).

Il procedere per coppie, “sempre / immortalmente”, “sé giovane / sé ragazzo”, “pensarsi / vedersi”, “come / come”, “fare del male / sbagliare”, diventa persino ridondante, e, per quanto anticipi sintatticamente il dualismo che pervade Camere separate, svolge un’inequivocabile funzione ritmica che imposta le cadenze della pagina, sostituendo con l’iterazione sintattica quel tradizionale elemento poetico che è l’iterazione fonica. La dimensione lirica molto evidente delle prime pagine serve anche ad accompagnare e denotare il tono della riflessione solitaria di Leo - una meditazione che è elegiaca nel più originario senso del termine - tanto che, una volta evidenziato ciò, non ritorna con la stessa insistenza, ma spunta qua e là, in maniera mai così evidente. Il lirismo si esplica quindi in brevi immagini inserite all’interno di altri momenti quasi come notazione paesaggistica, sostanzialmente disgiunta dall’essenza della narrazione e per questo meglio apprezzabile: Hanno entrambi le mani ficcate in tasca e il collo insaccato in sciarpe voluminose. Il freddo di novembre è come neve secca e invisibile dissolta nell’aria. Arrivano davanti all’edificio in cui si sta svolgendo la festa (CS p. 10).

Alla stessa maniera, il paesaggio occupa un certo spazio testuale, diventando il soggetto della tensione lirica, spesso amplificata dalla natura di ricordo della narrazione. E’ quanto avviene quando Leo ritorna a sé adolescente e ad una corsa notturna in automobile per la campagna padana, che riceve una descrizione suggestiva, con “il profumo dell’uva appena vendemmiata”, la nebbia che diventa “il lento respiro della terra”, “le foglie dei pioppi e degli olmi” che ingialliscono ai bordi della strada (cfr. CS pp. 39-40).

142 Le scelte lessicali tondelliane sono a volte forse troppo ‘personali’ e creano quasi delle stonature nella globalità del testo. Se non è poi così evidente per i già citati colori, lo può essere altrove. Clerici, ad esempio, ha fatto notare, proprio a partire da “olografie boreali”, la presenza di immagini incongruenti e di un lessico “improprio o solo impreciso”, piuttosto che “alto” e “sublime”. L. Clerici, op. cit.

370 La notazione paesaggistica si lega spesso alla presenza del colore, comparso in maniera assidua già in apertura di romanzo. Tondelli sembra operare una scelta anche sotto questo profilo, orientandosi per lo più verso colori crepuscolari, in linea con il carattere del protagonista ed il suo stato d’animo. Sembra che il tramonto, spesso presente nella raffigurazione del paesaggio, acquisti una valenza simbolica, incarnando la condizione di Leo dopo la morte di Thomas. E’ piuttosto evidente in occasione del solitario viaggio di Leo, dove la simbolicità è accentuata dal periodo dell’anno in cui si svolge, l’autunno, e dall’immediato contrasto, nel paragrafo successivo, con la primavera che era stata la stagione del viaggio con Thomas: L’autunno del continente lo sta abbagliando. Tutto va verso la quiete e il silenzio. Le foreste scoppiano di colori e il sottobosco muore accendendosi di una combustione progressiva, prima il rosso, poi l’arancione, il giallo, il ruggine, il viola, il nero. Come se il vento spingesse ogni giorno nell’aria una tonalità differente e gli arbusti e le piante assorbissero, a ondate, quell’aria pigmentata. E ogni tanto interi versanti delle colline bruciati dalle piogge acide. Alberi già scheletriti, neri, esili, carbonizzati. Ora sta attraversando la Renania. Il fiume è gonfio, grigio metallizzato. […] Con Thomas aveva viaggiato in auto lungo la strada che scorge ora parallela al suo finestrino. Era primavera, aprile forse (CS pp. 58-59).143

Anche qui compaiono scelte lessicali che indicano un tono lirico: “abbagliando”, “scoppiano di colori”, “muore accendendosi”, “il ruggine”, “arbusti”, “aria pigmentata”. Non sono solo le parole in sé ad imprimere questa valenza testuale, ma anche l’accostamento ai colori, che prendono un’evidenza accentuata anche dal costituirsi in una sorta di scala cromatica. Una simile immagine poetica era comparsa poco prima, con la stessa cromaticità, in riferimento al solo Leo: Vorrebbe dormire […] sdraiato in un bosco silenzioso, su di un letto di foglie gialle abbaglianti, o rosse come la vite a ottobre, o arancioni come gli aceri canadesi, o carnosamente violacee (CS pp. 57-58).

La presenza del colore è d’altronde molto comune in Camere separate, non è confinata solo nel ricordo e diventa un modo per ravvivare una narrazione non particolarmente densa di avvenimenti. Anche gli interni ricevono questo tipo di attenzione: Il soffitto della stanza era piuttosto basso, la moquette sintetica di un verde stagnante, le lenzuola di nylon. […] C’erano abat-jour che diffondevano una luce pallida, violetta, un po’ anni cinquanta. E dalla parte opposta della strada le finestre degli altri alberghi della Prager Strasse erano illuminate negli stessi identici colori: soprattutto il rosa, l’arancione, il ciclamino, il verde pallido (CS pp. 71-72).

Se non c’è una variazione della tipologia del colore in funzione della presenza o dell’assenza di Thomas, si può invece riscontrare una comparazione morte / vita nella

143 La commistione tra i colori e la morte di Thomas sembra accentuata da quella nel testo tra la morte del sottobosco ed il colore - rosso - che prende, e dalla successiva progressione di colori, che termina nel nero, ribadito in chiusura di paragrafo dall’altra immagine di morte degli alberi sulle colline.

371 percezione del colore in termini di luce. Generalmente, la comparsa del colore è associata ad una terminologia ‘luminosa’: il cielo si accende di colori, come pure il sottobosco, l’autunno abbaglia e la luce dell’abat-jour è colorata; in un solo caso la luce viene percepita in maniera negativa, e cioè quando è bianca - nell’episodio del locale gay americano -, associata ad evidenti immagini di morte, o meglio, alla paura di morire: “Fa freddo. C’è una luce bianca sul soffitto. […] Ancora quella luce bianca. La paura, il freddo” (CS p. 157). Sembra quindi che il bianco venga percepito, nella sua neutralità, come un’assenza di colore, quel colore che altrove aveva dipinto il mondo, un’assenza quindi che diventa, sul piano simbolico, negazione del mondo e quindi assenza di vita.

Si chiude così, con la dolorosa riflessione di Camere separate, la parabola narrativa di Pier Vittorio Tondelli, secondo un percorso che dal vitalismo sfrenato dell’esordio sfuma progressivamente in toni sempre più pacati, fino alla malinconia che dà il tono all’ultima prova. Non si chiude qui, invece, il viaggio artistico dell’autore, che proprio l’anno successivo dà alle stampe Un weekend postmoderno, forse quella che Tondelli stesso considerava la testimonianza più completa del suo lavoro di scittore: Affrontare […] tutto quel materiale che ho accumulato nel corso di dieci anni […] da una parte testimonia il mio essere scrittore e il desiderio di confrontarmi con diverse realtà, […] da un’altra angolatura rappresenta il materiale di avvicinamento ai miei romanzi. Penso di essere stato una persona che ha lavorato molto in pubblico. I romanzi che ho scritto, le narrazioni si nutrivano molto di reportage, di escursioni nell’attualità, nel presente. Queste pagine costituiscono un po’ il sottotesto dei miei romanzi. Rappresentano realmente il laboratorio. E questa è anche un’occasione per affermare che cosa ha significato fare lo scrittore in questi dieci anni. Ha voluto dire avere una scrittura in grado di compromettersi con la contemporaneità, coi gerghi col parlato, con lo slang giovanile, con il sottoffondo del rock e delle sue subculture. Per me fare lo scrittore ha significato questo. Allora il Weekend non è solo il bilancio di dieci anni, un archivio - pur se importantissimo - del passato e della memoria, ma diventa una proposta nuova su qual’è il compito o quale potrebbe essere uno dei tanti compiti dello scrittore.144

Tondelli conferma la centralità tematica della scrittura nella sua opera, che chiude così nell’affermazione del ruolo “pubblico” dello scrittore, un ruolo che la narrativa tondelliana, fin dall’esordio come espressione specifica di una subcultura ben definita, non ha mai smentito. Lo dimostra una fruizione che non si è limitata allo stretto periodo della pubblicazione dei libri, ma che continua, giustificando operazioni editoriali come la ristampa di Biglietti agli amici nel 1997 o volumi del tipo Caro Pier...I lettori di Tondelli: ritratto di una

144 F. Panzeri-G. Picone, op. cit., p. 71.

372 generazione, del 1995;145 lo dimostra l’intensa attività culturale che ruota attorno all’opera dello scrittore correggese, attraverso serate a tema, interpretazioni teatrali dibattiti e convegni;146 lo dimostra il ruolo di riferimento che Tondelli è venuto ad assumere nei confronti degli scrittori più giovani, spesso esordienti grazie al progetto Under 25, un ruolo che va oltre la riconoscenza e che trova conferma all’interno degli stessi testi, dove Tondelli viene spesso citato;147 lo dimostra l’inaugurazione, a Correggio, del Centro di documentazione “Pier Vittorio Tondelli”, indispensabile supporto per gli studi sull’autore, grazie alla quantità del materiale, dell’autore e critico, che vi è raccolto.

145 E. Rota (a cura di), Caro Pier...I lettori di Tondelli: ritratto di una generazione, Bologna, Tempi Stretti, 1995. Il volume è una raccolta di lettere scritte a Tondelli dai suoi lettori, lettere postume che testimoniano un interesse continuo nei confronti delle opere tondelliane, un interesse che, nonostante il titolo, va oltre l’elemento generazionale. 146 Significativo che la figura di Tondelli catalizzi un forte interesse anche all’interno di occasioni che non ruotano esplicitamente attorno al suo nome: il recente convegno tenutosi a Trento il 12-13 novembre 1998, per esempio, dal titolo Tra simultaneità e lentezza. Storie e voci della narrativa italiana di fine secolo, era suddiviso in tre parti, la seconda delle quali dedicata appunto a Pier Vittorio Tondelli. Le altre due si intitolavano rispettivamente Gli anni Ottanta e Raccontare oggi. 147 Brizzi, che nel suo libro d’esordio riprende abbondantemente tematiche e stilemi propri della narrativa tondelliana, vi premette una dedica che accomuna Tondelli e Pazienza: “Per Andrea P. e per T. / che hanno disegnato e scritto” E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, cit., p. 9. Culicchia mette in scena un incontro del suo protagonista con Tondelli in Tutti giù per terra, Milano, Garzanti, 1994, e nel successivo Paso doble, ivi, 1995, inserisce tra i ringraziamenti il nome Pier Vittorio. Silvia Ballestra ha più volte espresso il suo apprezzamento nei confronti di Tondelli, anche continuandone, in un certo senso, il lavoro di cura di antologie di giovani scrittori, come dimostra il recente Coda¸ in collaborazione con Giulio Mozzi. Altri, come Guido Conti, hanno in qualche maniera ripreso idee e progetti tondelliani, come in questo caso l’indagine letteraria sui narratori emiliani.

373 BIBLIOGRAFIA

374 Opere di Pier Vittorio Tondelli

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Bibliogafia critica

* Per i numerosi articoli apparsi in quotidiani, periodici e volumi a tema, in gran parte riuniti in Un weekend postmoderno e in L’abbandono, si rimanda alla Bibliografia degli scritti di Pier Vittorio Tondelli, a cura di F. Panzeri, contenuta in P.V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, cit., pp. 315-331.

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Bibliografia generale

Testi

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