Il Razionalismo Nelle Colonie Italiane 1928-1943 La «Nuova Architettura» Delle Terre D’Oltremare

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Il Razionalismo Nelle Colonie Italiane 1928-1943 La «Nuova Architettura» Delle Terre D’Oltremare Università degli Studi di Napoli “Federico II” - Facoltà di Architettura Dipartimento di Progettazione Architettonica e Ambientale Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana - XX Ciclo Il Razionalismo nelle colonie italiane 1928-1943 La «nuova architettura» delle Terre d’Oltremare DOTTORANDO : dott. arch. Vittorio Santoianni TUTOR : prof. arch. Rolando Scarano 1 SOMMARIO Premessa , p. 3. Capitolo I. Gli influssi del Razionalismo sull’architettura coloniale italiana , p. 4. 1. Gli esordi del Razionalismo italiano tra avanguardia e tradizione , p. 5. 2. Lo «spirito mediterraneo» dell’architettura razionale , p. 13. 3. La rivalutazione dell’architettura spontanea , p. 20. 4. Il «retaggio romano» come segno dell’identità architettonica nazionale , p. 30 Capitolo II. Le politiche territoriali e urbanistiche del Fascismo nelle colonie , p. 46. 1. La Libia , p. 47. 2. IL Dodecaneso , p. 60. 3. L’Eritrea e la Somalia , p. 64 4. L’Etiopia , p. 69 5. L’Albania , p. 78. Capitolo III. I principali esponenti dell’architettura coloniale ufficiale , p. 216 1. Armando Brasini , p. 86. 2. Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati e Guido Ferrazza , p. 89. 3. Florestano Di Fausto , p. 93. Capitolo IV. Il dibattito sull’architettura coloniale , p. 102 1. Tripoli: un centro di sperimentazione urbanistica e architettonica , p. 104. 2. I contributi teorici di C.E. Rava e L. Piccinato , p. 109. 3. La creazione dell’Impero e il mutamento di prospettive nel dibattito , p. 119. 4. Il Congresso Nazionale degli Architetti Italiani, Napoli 1936 , p. 124. 5. Il Primo Congresso Nazionale di Urbanistica, Roma 1937 , p. 131. Capitolo V. Gli architetti coloniali di formazione razionalista e le opere , p.148. 1. Alessandro Limongelli , p. 150. 2. Carlo Enrico Rava , p. 157. 3. Luigi Piccinato , p. 174. 4. Giovanni Pellegrini , p. 181. 5.Umberto Di Segni , p. 193. Bibliografia , p. 208. 2 Premessa L’architettura coloniale italiana è un capitolo ancora da completare, nonostante negli ultimi anni si sia registrato un vivo interesse per l’argomento, che ha portato a eventi importanti, come la mostra bolognese del 1994 al Museo di Arte Moderna e a contributi di vari storici. Il periodo di massima espansione del colonialismo italiano è quello compreso tra la la seconda metà degli anni Venti, quando il Fascismo avviò la sistemazione delle «Terre d’Oltremare», e il 1936, anno della conquista di Addis Abeba e della proclamazione dell’Impero. In questo arco di tempo, alle varie campagne militari per la conquista e per la pacificazione dei territori occupati, alle iniziative politiche e ai provvedimenti economici e amministrativi del Regime, si affiancarono numerose realizzazioni: infrastrutture, riqualificazioni urbanistiche dei maggiori centri urbani, edifici pubblici, insediamenti rurali di nuova fondazione. Dopo la caduta dell’ipoteca ideologica sul Ventennio, si è verificata una fioritura di studi sull’impresa coloniale fascista, nei quali, al di là della condanna storica del fenomeno, con tutto il suo tragico fardello di errori e di sopraffazioni, sono stati individuati in modo obiettivo alcuni esiti positivi, tra i quali sono senz’altro da ascrivere le opere urbanistiche e architettoniche, spesso progettate da personalità di grande talento. Nelle colonie hanno operato tra i migliori urbanisti e architetti dell’epoca, ognuno con la propria formazione e la propria militanza nei diversi movimenti dell’epoca. Le loro figure sono collocabili all’interno di una “mappa” culturale ben definita che riflette i grandi schieramenti ideologici della madrepatria: Accademismo, Eclettismo, Novecento, Razionalismo. In quegli anni la produzione architettonica fu enorme in tutti i territori coloniali, dalla Libia all’Africa Orientale Italiana, ma la sua comprensione non è priva di difficoltà per gli apporti, a volte contraddittori, dei progettisti, la qualità discontinua, i molti nodi irrisolti. Sotto il profilo del linguaggio architettonico, gli Italiani ebbero un approccio diverso dalle altre nazioni europee come, per esempio, la Francia, che nelle sue colonie nordafricane impose uno stile di stato, il cosiddetto arabisance . Anche gli architetti italiani, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, adottarono indiscriminatamente, soprattutto in Libia, il “moresco”, uno stile d’invenzione dell’Eclettismo, che non aveva alcun riscontro nel contesto. Con la riorganizzazione delle colonie a opera del Fascismo, si affermò una nuova sensibilità verso quella che oggi viene chiamata l’architettura dei luoghi. Certamente il linguaggio del Classicismo, con i richiami, più o meno espliciti, alla romanità fu quello preponderante nelle opere pubbliche rappresentative, come espressione del dominio fascista. In molti casi però gli architetti cercarono di istituire un dialogo con l’edilizia autoctona, che produsse declinazioni linguistiche, oscillanti da un mimetismo di stampo folcloristico fino a raffinate interpretazioni dei caratteri dell’architettura locale. Un ruolo importante nella scelta dei linguaggi fu giocato dalla formazione degli architetti: nelle opere di Florestano di Fausto, per esempio, sono presenti forti tracce della cultura dell’Eclettismo, mentre l’appartenenza di Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati e Guido Ferrazza al Novecento milanese determinò quel “classicismo mediterraneo” che è alla base dei loro lavori coloniali. Ma gli architetti che ebbero una maggiore attenzione verso l’architettura dei luoghi furono quelli della generazione successiva alla precedente: Carlo Enrico Rava, Luigi Piccinato e Giovanni Pellegrini, nati nei primi anni del Novecento, che provenivano dall’esperienza razionalista. A partire da tale premessa, il presente studio è nato con l’obiettivo di identificare un preciso filone dell’architettura coloniale italiana, ossia quello che nasce all’interno del Razionalismo, cui appartennero le figure sopra citate, che contribuirono in maniera decisiva, sia sul versante teorico che su quello progettuale, all’affermazione di un’architettura coloniale moderna. A questa ristretta cerchia di architetti “nuovi”, per usare un termine caro agli storici moderni e contemporanei, abbiamo associato idealmente altre due figure d’eccezione, anche se appartenenti alla generazione precedente e con un’altra preparazione alle spalle: Alessandro Limongelli e Umberto Di Segni. Le motivazioni di tale accostamento risiedono nell’affinità della ricerca e del linguaggio che questi 3 ultimi ebbero con i primi. Limongelli fu considerato dai giovani razionalisti un precursore e insieme un modello di architetto coloniale al quale ispirarsi, nonostante avesse lasciato in Libia poche opere realizzate a causa della prematura scomparsa. Di Segni, di cui è ancora da ricostruire la sua attività, ebbe rapporti diretti con Pellegrini e insieme progettarono alcuni centri rurali in Libia. Questi architetti non ebbero incarichi per edifici rappresentativi, che venivano in genere assegnati ai grandi studi professionali, legati a filo doppio con il Regime, quali quelli di Alpago Novello, Cabiati e Ferrazza, Di Fausto e altri. Essi invece progettarono, per il settore pubblico, alloggi per impiegati dello Stato nei centri urbani e villaggi di colonizzazione agricola, mentre per la committenza privata costruirono soprattutto dimore unifamiliari, come a voler ribadire la centralità del tema dell’abitazione nel Razionalismo. Rispetto al panorama architettonico coloniale dell’epoca, le ricerche di Rava, Piccinato e Pellegrini presentavano alcuni elementi di novità. Partendo dall’esperienza rivoluzionaria e di respiro internazionale del Movimento Moderno, che però già recava con sé il rischio dell’omologazione e della cancellazione delle diversità, ebbero come obiettivo la realizzazione di architetture che appartenessero al proprio tempo, ma che esprimessero anche l’identità italiana. Lungo questo percorso mostrarono una grande attenzione per le architetture dei territori nei quali operarono, unita al rispetto per le differenze culturali. Dall’analisi degli esempi dell’edilizia autoctona trassero fecondi insegnamenti, conducendo questa operazione culturale con maggiore profondità degli altri architetti coloniali italiani coevi. Essi cercarono i motivi di ispirazione nell’architettura minore delle coste nordafricane, rientrante in quell’ambito mediterraneo, che per tutti gli anni Trenta fu oggetto di mitizzazione. Riconobbero l’importanza basilare dei fattori climatici e ambientali nella configurazione dei centri urbani e delle architetture che dovevano sorgere nelle colonie. Si sforzarono inoltre di inserire in modo armonioso l’edificio nel contesto naturale. Infine studiarono gli antichi sistemi costruttivi locali e i materiali impiegati, ricollegando le conquiste della tecnica moderna con il grande patrimonio della tradizione. Le loro opere vollero essere la dimostrazione di questi intenti, La quantità di opere del piccolo gruppo sul quale abbiamo voluto focalizzare l’attenzione appare senz’altro minore rispetto alla mole e all’importanza dei lavori eseguiti dagli architetti ufficiali delle colonie. Ma in esse sono contenute molte delle problematiche che investono la cultura progettuale contemporanea, in particolare la necessità di costruire architetture che siano appropriate ai luoghi e accordate con l’ambiente. In questa prospettiva di attualità il “messaggio” dei giovani architetti coloniali risulta ben più importante del loro inquadramento storico nell’architettura italiana del Novecento. Lo studio è stato svolto entro un intervallo temporale di circa quindici
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