Paolo Martino

Calabro-grecismi non bovesi

Indagini lessicografiche sui dialetti calabresi hanno messo in luce un fatto di indubbio interesse per la storia sociolinguistica della re- gione: oltre al lessico comune greco-romanzo, nel cui ambito va in- dividuata una complessa stratificazione (grecismi antichi ereditati dalla Magna Grecia, grecismi antichi già naturalizzati nel latino, gre- cismi bizantini; latinismi e romanismi penetrati in varie epoche nell'i- talogreco), esistono numerosi grecismi che, presenti in varietà cala- bro-romanze, sono sconosciuti al bovese. Una considerazione delle peculiarità sociolinguistiche di tali porzioni di lessico potrebbe risul- tare assai utile, ai fini della ricostruzione dei processi di emargina- zione della grecofonia, che ancora attendono una descrizione com- plessiva e aggiornata. Fanciullo (1979, 59) rilevava questo fenomeno quando prospetta- va «l'eventualità che il grico e il bovese abbiano perso elementi lessi- cali conservati invece dalle varietà neolatine finitime». Persino ten- denze fonetiche tipiche del calabrogreco, come la geminazione con- sonantica, non solo passano alle varietà romanze, ma in queste sono addirittura più frequenti, specie nei grecismi lessicali, che non nello stesso bovese (cfr. Fanciullo, 1996, 105). E non sempre si tratta di imprestiti antichi nel latino volgare, presenti magari in altre aree del- la Romània. A volte il grecismo persiste allo stato residuale in aree dialettali ristrette, il che spiega la mancata registrazione da parte di lessicografi attenti come il Rohlfs, l'Alessio, il Karanastasis. In altri casi la forma calabrese trova riscontro nel grico salentino o in altre varietà neogreche periferiche, ma non più nella Bovesìa. La grecofo- nia, conservata fino ad oggi, ancorché in condizioni assai precarie, nella Bovesìa, ha subito precocemente un processo di stigmatizza- zione molto forte, per cui si spiega la massiccia interferenza romanza e soprattutto la perdita di ampi settori del lessico. Le aree romanze, che, all'epoca dell'intensificazione della interdizione (XVI sec.), era- no già intrise di termini greci, hanno invece potuto conservare tali voci, ormai naturalizzate nel sistema semantico-lessicale. Si è anzi creato nei secoli, nel quadro di un vasto processo di convergenza di strutture fonologiche, morfosintattiche e lessicali, un vero e proprio diasistema greco-romanzo ricco di coppie allotropiche alle quali i parlanti potevano attingere con una selezione automatica, ma che non di rado appaiono compartimentate diastraticamente. La portata del fenomeno sembra essere stata finora sottovalutata. Una storia dell'ita-

1 logreco sarebbe pertanto incompleta senza una ricognizione capillare dei tratti lessicali, semantici, ma anche grammaticali e tipologici pas- sati alle varietà romanze o con esse confluite in una deriva comune. Intento del presente contributo non è perciò quello di individuare semplicemente interessanti relitti lessicali e morfologici greci con- servatisi in parlate calabro-romanze, ma di segnalarne anche la va- lenza sociolinguistica1.

1. sdirri In molti dialetti calabresi è vitale il termine sdirri, il cui uso è li- mitato alla pur frequente locuzione avverbiale a sdirri oppure ô sdir- ri, ricorrente nell'espressione èssari a sdirri ‘essere in contrasto, es- sere avversari’ documentata a Cittanova, Laureana di Borrello e Gif- fone (Rohlfs, 1977), ma ampiamente usata in molti altri centri della provincia di Reggio a forte densità di grecismi. Nel Vibone- se si dice iri a sdirri ‘fare a picca, stare punta a punta, non andare d'accordo’ (De Pasquale, 1892, 18). Anche l'espressione venìri ô sdirri, nescìri ô sdirri equivale a ‘venire ai ferri corti’ (Rohlfs, 1984:50). A Maierato (VV) sdìrra, f. vale ‘concorrenza, competizio- ne, gara’. Sorvolando su alcuni tentativi infelici, come quello di G. B. Mar- zano (1928, 389) che risaliva a lat. DISDICERE2, l’interpretazione più accreditata appare quella del Rohlfs (1977; 1984, 50; NDDC, 648), che pensò a un possibile collegamento della voce calabrese con il sic. sdirri (pl. m.) notissimo nel significato ‘ultimi giorni (di carnevale)’ (AIS, 774), detti precisamente sdirrumìnica, sdirriluni e sdirrimarti per indicare appunto la domenica, il lunedì, il martedì di vigilia; si sente anche sdirruminicheḍḍa e sdirruminica ranni. A Sciacca è usa- to il proverbio: "Natali e Pasqua ccu cu voi ma li sdirri falli ccu li

1 Già abbiamo segnalato alcuni di questi grecismi calabresi, ma non (più) bove- si. Per pallavà ‘bacchettone, stupido’ < gr. παλλαβάλιον; gnapù ‘babbeo’ < gr. κναφεύς; filicàli ‘spazzaforno’ e, per traslato, ‘spilungone’ < gr. φιλοκάλιον ‘scopa’ vd. Martino (1990, 207-15); per pàpara ‘caldarrosta’ < gr. παπάρα ‘τροφὴ κυνηγετικῶν σκύλων’; piḍḍa ‘recipiente per raccogliere l’olio’ < gr. πέλλα· ἀγγεῖον σκυφοειδές; scilari ‘slogare’ < gr. ψιλόνω ‘disossare’ vd. Marti- no (1999, 63-81); per ndranghitu ‘uomo di valore’ < gr. ἀνδράγαθος, che è all’origine del nome della ndrànghita ‘onorata società’ calabrese, vd. Martino (1978), (1988). 2 Marzano (1828, 342): «Questa voce si usa insieme ai verbi veniri o essari e si dice veniri a sdirri, essere a sdirri per significare venire a contrasto, essere avver- sari, dissentire, essere discordi; dal lat. disdicere, sp(agnuolo) disidere».

2 toi". A Scordia: Sdirri, Pasqua e Natali su li tri ffésti principali. Nonostante il possibilismo del Rohlfs (1966-68, 977), la prove- nienza iberoromanza della famiglia lessicale siciliana sembrerebbe acclarata3. Si tratta con tutta evidenza di un catalanismo di epoca ara- gonese (cat. es derrers dies ‘gli ultimi giorni’), attestato peraltro in Sicilia anche come sdirridìa4, ancorché sussistano, anzitutto, difficol- tà di ordine fonetico non sfuggite a W. Meyer-Lübke (REW 2582), il quale, a proposito di dērĕtro ‘hinter’, cita sic. a la zdirrera ‘zuletzt’, zdirri ‘die letzten Tage des Faschings’, ‘Fasching’, superabili postu- lando un intermediario francese (Sdirri «ist in der lautlichen Entwi- ckelung nicht klar, wenn man es nicht als Entlehnung aus dem Frz. auffassen will». I lessicografi siciliani sono tutti del medesimo pare- re5. In ogni caso, se le occorrenze siciliane e catalane non sembrano lasciare dubbi sulla provenienza iberoromanza del termine siciliano, quest'ultimo non mostra invece, sul piano semantico, alcuna relazio- ne trasparente con l'omonimo calabrese. Come si concilia la semanti- ca di cal. sdirri ‘litigio’ con sic. sdirri ‘ultimi giorni di carnevale’? Inaccettabile l’ipotesi di Giovanni Alessio (1948, 347-8), che in- clude la voce siciliana tra i testimoni della latinità della Sicilia: li sdirri juorni «gli ultimi tre giorni di carnevale» discenderebbe da lat. dīrī diēs «giorni nefasti, malaugurati, terribili», locuzione però non documentata con questo valore, e tenta un collegamento proprio con le forme calabresi èssari a sdirri «essere in contrasto, essere avversa- ri», anche sulla base di regg. ndirri «voglia di ridere o di scherzare» (NDDC, 461). «Questa denominazione – spiega Alessio - sembra do- vuta alla lingua della chiesa che condannava gli eccessi a cui davano luogo gli sfrenati divertimenti carnevaleschi». Ma sia l’etimo latino sia la spiegazione semantica appaiono assai deboli6. L'ipotesi che la semantica calabrese sia derivata dalla confusione dei festeggiamenti carnascialeschi resta altamente ipotetica. Si osserverà che la forma del calabrese meridionale ricorre sempre

3 Solo D’Aleppo e Calvaruso (1910, 342), pensavano a un’origine araba, altri a lat. EXTERUS. 4 Cfr. Varvaro (1974:86-110); Cortelazzo-Marcato (1998:395); così già Merlo (1926) e Salvioni (1907, 1156). 5 Giuseppe Vinci, nel suo Etymologicum Siculum, etimologizza EX DE RETRO, “scorciato” in sdirrera e sdirri. Il Pitrè (1889:66) definisce sdirri, presente «in quattro quinti della Sicilia, compresa la siculo-lombarda Piazza» un “fratello carna- le” del fr. dernier e del catalano derrers. E anche Joan Coromines (1980-91: 326) collega senz’altro la locuzione siciliana li sdirri (jorna) ‘carnevale’ alla cat. dar- rers dies. 6 Altre ipotesi fantastiche in Alessio (1948, 347), n.1.

3 nell'espressione idiomatica èssari a sdirri ‘essere in contrasto, essere avversari’, con una semantica palesemente incompatibile con il ter- mine siciliano. Nessuna traccia, invece, del presunto riferimento agli ultimi giorni del carnevale. Le locuzioni calabresi rimandano piuttosto direttamente a un gr. σιδήρια ‘attrezzi (di ferro)’ e quindi ‘armi bianche’. Del diminutivo σιδήριον ‘arma di ferro’ abbiamo attestazioni nel greco antico7, mentre il bovese moderno ha sídero ‘ferro’ e il pl. ta sídera ‘gli attrezzi, i ferri’; non è attestato alcun riflesso della forma diminutiva σιδήριον. Tuttavia un esito sdirru < σιδήριον, con sin- cope della vocale pretonica, è pienamente plausibile. In effetti, la forma con -i- pretonica sincopata si trova già nel gre- co medievale: il lessico degli Hermeneumata Montepessulana (IX sec.) ha il lemma «σδηρα ferea» (r. 325). Va notato che buona parte di questo lessico contiene forme di aspetto “italogreco”, per cui è sta- ta con ragione sospettata l'origine meridionale del suo redattore, forse un monaco di origine italogreca. Che σδηρα rappresenti un trattamento tardo di σιδήριον ovvero σιδήραιον8 è accertato – oltre che dall’interpretamentum ferea (ove va notato il significativo scempiamento di -r-), soprattutto dalla col- locazione stessa della glossa nella sezione «Περι · σιδηρεον De fer- reis», immediatamente dopo la glossa σιδηρος ferrum. Il termine va connesso evidentemente con la “tirata”, una pratica antica nella 'ndrànghita, consistente nel combattimento all'arma bian- ca, “ai ferri corti”, con i coltelli. Peraltro, essere ai ferri corti, venire ai ferri corti è locuzione vitale anche in italiano; venire a' ferri, è nel Vocabolario della Crusca del 1612. Inoltre, a Caulonia sdirru è anche nome di gioco infantile: “un di- sco di cuoio si lancia e si lascia girare per mezzo di un laccio” (NDDC, 648); ma si noti che il disco può ben essere metallico. In definitiva, l'evidenza del dato geolinguistico farebbe pensare a una coppia omonimica: sic. sdirri ‘carnevale’, catalanismo verosimi- le, e cal. sdirri ‘armi bianche’, grecismo. Infine il grecismo calabrese potrebbe essere stato vitale anche nel- la Sicilia orientale e poi obliterato evidentemente per conflitto con l’omonimo catalanismo. Il sic. sdirru, al singolare, ricorre in un componimento di Paulu Maura, poeta dialettale di Mineo (1638- 1711) in un contesto che rimanda certamente alla semantica da noi

7 Her. 3,29; 7,18; 9,37; Thuc. 1,44; Lis. 1,42; Plat. Euthyd. 300; Arist.; The- ophr. de lapidibus 41, ecc. 8 Un uso speciale di σιδήραιος in un documento papiraceo è illustrato da Brun- ner (1989, 281-2).

4 proposta per la voce calabrese; vi si parla infatti di una mazza guarni- ta di ferro che serve come arma per “fari lu sdirru”:

Tu quannu vidi viniri a lu sbirru, pigghia ’na mazza allannata di ferru ’ncatina ’ntra li corna, e fa lu sdirru.

Si potrebbe poi applicare in questo caso la nozione di etimo com- plesso, evocata in altri casi di etimologia duplice o triplice9: anche se le feste del carnevale non hanno diretta relazione con l'uso di attrezzi di ferro o armi bianche, la fantasia popolare può avere assimilato la confusione derivante dalla rissa a quella delle celebrazioni carnascia- lesche. Va notato in ogni caso che il senso ‘carnevale’, per questa voce, non ricorre fuori della Sicilia in altri dialetti italoromanzi. Se l'ipotesi è fondata, avremmo un'ennesima conservazione nelle parlate calabro-romanze di un grecismo scomparso nel bovese.

2. giulistru Un bell'esempio di grecismo attestato ancora in dialetti romanzi calabresi, ma non più nel bovese, è l'aggettivo culistru ‘fanfarone, persona che si dà arie’, registrato dal Rohlfs (NDDC, 216) a Catanza- ro e in una raccolta di poesie dialettali del catanzarese10. Il Rohlfs non propone etimologia, ma la presenza di giulistru e del derivato giulistrïari in dialetti del reggino, da noi accertata, rimanda al fondo greco sia per la semantica che per la fonetica. Infatti regg. giulistru ha lo stesso significato del cat. culistru e connota preferibilmente individui giovani che si pavoneggiano; il de- rivato giulistrïari (rifl.) ‘atteggiarsi a persona che si dà arie, special- mente nel modo di camminare’ designa appunto il comportamento di chi si pavoneggia; per di più a Melicuccà, centro sito nelle pendici settentrionali dell', in una zona a forte densità di greci- smi, è vitale il soprannome Sceccu giulistru, riportato dal Rohlfs nel suo Dizionario dei cognomi e soprannomi in Calabria (DCSC, 435), ma lasciato inesplicato quanto all'etimo11. Tale soprannome in un dialetto che annovera nel suo lessico le forme giulistru e giulistrïari con i significati sopra segnalati, ci sug- gerisce l'àmbito semantico di provenienza del termine: quello relati-

9 Etimo complesso non significa ammettere due etimologie, che sarebbe una contraddizione, ma riconoscere l'azione di rimotivazioni paretimologiche. 10 Curcio (1975). 11 Il termine è registrato anche da Gambacorta (2006, 35).

5 vo al tipico comportamento dei giovani equini che, per l'irrequietezza dovuta all'estro, amano rotolarsi nella polvere (con un senso simile a quello del verbo cal. puḍḍitrïari). Quanto alla fonetica, va detto che le sillabe cu-, ci-, giu- hanno in gr. κυ- una soddisfacente spiegazione; [ju], [u] sono arcaismi fonetici per gr. ; lo dimostra il comportamento di aree conservative, come la Sardegna, dove gr. <υ> è reso nel latino popolare come /u/ nei pre- stiti antichi, /i/ nei più recenti12. In calabrogreco l'esito normale di /u/ è /i/ (gr. ἀμύγδαλον > bov. amíddalo ‘mandorla’), ma in alcuni casi, se pretonica, agr. /u/ non presenta la palatalizzazione tipica della coi- nè: sulàvri < συραύλιον ‘flauto’, sucìa < συκέα ‘fico’, surìa < συρία ‘fila, serie’. In sede postonica: àzzunno ‘sveglio’ < ἔξυπνος. Alcuni casi lascerebbero intravedere la persistenza della fase in- termedia [ju]: ciùri ‘padre’ < mgr. κυοῦρι[ον] (a. 1162; cfr. Cara- causi, 1990, 323) < gr. κύριος; ciuriací ‘domenica’ < κυριακή; ciu- clí ‘matassa’ < κυκλίον (cfr. κουκλί a Carpathos)13. Considerato inoltre che la sonorizzazione dell'affricata iniziale c- è frequente nei dialetti calabresi (cfr. gilunaru < celunaru; gígghju < cígghju; ginesa < cinesa ecc.), possiamo interpretare le forme cal. cu- listru e giulistru come sviluppi divergenti di gr. *κιλίστρος / *κυλίστρος < *κυλ-ίζω ‘avvoltolarsi (nel fango e nella polvere’), detto di equini. Infatti l'aggettivo qualifica espressamente l'asino (cal. sceccu) nel soprannome di Melicuccà, e lascia intendere che il rife- rimento a persone sia una estensione metaforica. In effetti il giovane o ragazzo che agisce in modo “sbrigliato”, manifestando irrequietez- za unita a una certa presunzione si dice che si giulistrìa, mentre la ragazza è giulistra quando ostenta alquanto maliziosamente nelle movenze e nel parlare la propria avvenenza. Un analogo procedimento di espansione metaforica è rilevabile peraltro nel sic. cilistriàri, che in uno dei Canti popolari siciliani raccolti dal Vigo (1857) è riferito all'usignolo, uccello particolarmen- te vivace (Aceḍḍu cilistrinu cilistrinu / ca notti e jornu vai cilistrian- nu), dove il gioco di assonanze tra l'aggettivo cilistrinu ‘celeste, az- zurrino’ e il verbo cilistriari è evidente, mentre non è affatto evidente la parentela etimologica delle due voci, anzi proprio il gioco di paro- le parrebbe escluderla. L'opacità semantica di cilistriari indusse il Traina a rinunciare a una spiegazione, né quella tentata ingegnosa-

12 Cfr. Wagner (1941, 13). 13 In gr. sal. anche źumári ‘pasta fatta in casa’ < ζυμάρι. Si osservi che le for- me ciuvérti ‘alveare’ < mgr. κυβέρτιον (Hesych.), lamburída ‘lucciola’ < λαμπυρίδα, più che conservazioni di antica pronuncia, possono attestare una sem- plice assimilazione di labialità.

6 mente dal Gioeni (cilistriari ‘imparadisare’) pare accettabile14. Il termine non compare nel VES, dato il suo impianto dichiaratamente selettivo; ma proprio tale esclusione lascia presumere l'accostamento di entrambi termini all'etimo di it. cilestro. Lo stesso dicasi per il Vo- cabolario del Piccitto (VS, I, 716), che registra le voci cilestru e cili- strinu, ma ignora il verbo cilistriari. Dunque cilistriari potrebbe es- sere la variante siciliana di cal. giulistriari. Infine, le forme calabresi non si possono separare dalla voce sa- lentina cilistari n. sg., ‘luogo dove animali si avvoltolano nel fango’, registrato già dal Lefons nel 1931 e documentato poi nel 1956 dal Rohlfs (VDS, 922) a Castrignano dei Greci e Martano col significato ‘guazzaio, luogo dove uno si avvoltola’. L'autore documenta quindi per il salentino una estensione semantica metaforica ad animali in genere ed a persone. Il Rohlfs (LG, 282) riporta invece il lemma gr. κυλίστρα ‘Ort wo Pferde sich im Staub wühlen’ come etimo della voce salentina e con richiamo esplicito a un'abitudine dei cavalli15; del resto anche fonti antiche conoscono il termine come voce tecnica del lessico ippologico16. Il termine è una formazione in -istra dal tema del verbo κυλίω, bov. cilíźo ‘rotolare’, cfr. καθίστρα ‘sedia’ < καθίζω. Ma il grico salentino ha anche un aggettivo cilistari (κυλιστάρης) che il Lessico del Karanastasis (ILEIKI, III, 327) spiega come ἀκάθαρτος, ἀυτὸς ποὺ κυλιέται μέσα στὶς ἀκαθαρσίες (Calime- ra, Castrignano, Martano, Martignano, Zollino), postulando una ride- terminazione di un non attestato *κυλιστός, mentre per spiegare i due sensi che il sostantivo neutro κυλιστάρι ha nel grico (‘luogo do- ve si rotolano gli animali’ e ‘luogo sporco dove si rotolano i porci’) il Karanastasis rimanda a gr. κυλίστρα. Insuperabili argomenti di morfologia storica si oppongono alla ri-

14 Cfr. Gioeni (1885, 88): «... il Traina citandoli [sc. i versi del canto popolare] dice di non intenderne il vero significato; né io pretendo dedurre da quel frammen- to il concetto preciso; ma sembrami che fra le varie interpretazioni la seguente non sia inverosimile: Uccello celestiale, che notte e dì vai imparadisando. Il verbo in esame non l'interpetro Vai per il cielo, Vai volando, perché gli uccelli sono o diur- ni, o vespertini, o notturni; lo cavo dunque dall'aggettivo celestrino che in ant. ital. o forse anche in siciliano usossi per celestiale; e siccome l'usignolo è quello che con le sue dolci melodie imparadisa e di giorno e nelle placide notti d'estate, è pos- sibile che di lui il poeta cantò, se non ebbe in mente alcun senso figurato». 15 Andriotis (1967, 175); Floros (1980, 303): τόπος ὅπου κυλιούνται τὰ ἄλογα; ILEIKI, III, 327: κυλίστρα: 1) τόπος ὅπου κυλίονται τὰ ζῶα, 2) τόπος άκάθαρτος. 16 Cfr. Senofonte, Περὶ ἱππικῆς III,5,3; Poll. 1,183; Hippiatr. 5; Sch. Ar. Ra. 935.

7 costruzione del Karanastasis. L'antico aggettivo verbale in –τός sep- pure attestato in italogreco (cremastó ‘appeso’, clistó ‘chiuso’, ecc.)17, non forma mai né aggettivi né sostantivi neutri in -ári, per cui un *cilistó da cilíźo (ciláo, cilío), appare improbabile. Le voci italogreche cilistari, aggettivo e sostantivo, si spiegano meglio, tanto nella struttura semantica quanto nella fonetica, come esiti dissimilati di *cilistrari (< *κυλιστράρης, κυλιστράρι), ri- mandando quindi alla nota base κυλίστρα, anche per via della fun- zionalità del suffisso greco –άρης, -άριον18, suffisso attratto nell'area funzionale di lat. -ĀRIUS/-ĀRIUM, formante tanto aggettivi quanto so- stantivi e assai diffuso nel latino volgare19 e nei suoi riflessi roman- zi20, con vari esiti: rum. -ar, it. -ajo, sp. -ero, port. -eiro, cat. -er, fr. - ier. Il suff. –άριον, antico diminutivo precocemente desemantizzato, è ampiamente utilizzato per derivare sostantivi denominali (lisári ‘pie- tra’, pissári ‘pece’, fengári ‘luna’, mustári ‘mosto’, palatári ‘palato’ ecc.)21. Tale suffisso si è incrociato, specialmente in area italiana me- ridionale, con -άρις che «tolto in prestito dal latino -árius, nella tarda antichità viene usato secondo modelli latini per la caratterizzazione di persone: bov. milinári ‘mugnaio’, konidári ‘pieno di lendini’, zze- matári ‘bugiardo’, ...»22. L'attrazione del suffisso grecanico nello spazio semantico dei ri- flessi di lat. -ARIO-23 è segnalata dall'acquisizione, in bov. -ári, dei due valori principali di tale suffisso latino-romanzo: determinazione di funzione (forn-aio < -ARIUS) e di luogo (letam-aio < -ARIUM). Per di più va considerata la confluenza degli esiti di -ĀRIUS e di - ĀRIS, avvenuta precocemente nelle lingue romanze e forse già in set- tori del latino volgare: grico lithári, ampári, fsinári e bov. pissári, fengári, pulári, aspári sono forme antiche. Qui è d’obbligo il riman- do ai fenomeni di “induzione” morfologica descritti dal Gusmani (1993) e, per la nostra area italo-greca, dal Fanciullo, che documenta «casi di prestiti di ritorno dai vicini dialetti romanzi i quali, a loro volta, li avevano presi dal greco» (Fanciullo 1996, 21). Nella fattispecie siamo in presenza di un calco morfologico, come

17 Rohlfs (1977, 114,175). 18 Cfr. Papachristodoulou (1956-57, 176). 19 Väänäneen (1966, 91-95). 20 Staaff (1896). 21 Rohlfs (1977, 160). 22 Rohlfs (1977, 161). 23 Su ciò cfr. Leumann-Hofmann-Szantyr (19775, § 277); Paucker (1885); Ni- chols (1929).

8 nelle coppie βατράχιον / ranula, ἀνέμιον / anìmulu, dove il suffisso diminutivo greco è “tradotto” con un altro diminutivo; in quest’ultimo caso il diminutivo di ἄνεμος ‘vento’ ha fornito il nome dell’arcolaio, di cui abbiamo riflessi nel ngr. ἀνέμη e nel grico anémi ‘arcolaio’, mentre il vocalismo della variante bovese aními denuncia una dipendenza dalla forma calabroromanza anìmulu (cfr. Alessio 1953, 243). Possiamo concludere che il bovese aními “deriva” dal calabrese anìmulu, anche se fosse una modificazione di un preceden- te non attestato *anémi. Si è dunque venuto a creare nel tempo un processo di conversione automatica tra i morfemi romanzo -u e grecanico -ari nella forma- zione di sostantivi e di aggettivi. Il fenomeno è di vasta portata e cer- to antico, già operante a livello del latino volgare (cfr. PULLUS/ πωλάρι; MULUS: μουλάρι (cfr. Alessio 1939, 366), se l'allotropo PA- LATARIS ‘palato’ si è potuto affermare in campid. paladari, prov., spagn., catal. paladar, port. padar, sic. palataru. In questo quadro si spiegano le coppie allotropiche calabroromanze/grecaniche mu- stu/mustari ‘mosto’, palatu/palatari ‘palato’, viḍḍicu/viḍḍikari 'ombelico',ecc.24. Perciò, accanto all'agg. cilistari, deve essere postulata, sulla base degli esiti calabresi culistru/giulistru, una forma bov. *ci(u)listro (gr. *κυλίστρος) costituitasi sul modello dell'aggettivo romanzo e alter- nante con cilistari. La coppia cilistari / *cilistro (il secondo è pre- supposto da cal. giulistru) postula un precedente *cilistr-ari < κυλιστρ-άριον 'equino, di solito giovane, che suole rotolarsi nella polvere', poi, in senso traslato e peggiorativo, 'persona sempre spor- ca'. In altri termini, la coppia cilistári/*cilístro è pienamente plausibi- le, e la presenza in Calabria di giulìstru ne è una conferma.

3. paḍḍecu La coppia di morfemi gr. -ari / cal. -o che abbiamo visto in alter- nanza, suggerisce una soluzione soddisfacente per un altro problema fonetico e morfologico grecanico relativo all'origine di bov. paḍḍèco ‘greco dell'Aspromonte’, ‘zotico, stupido’, diffuso nei dialetti reggini nelle forme paḍḍècu, paḍècu, pajècu. I paḍḍèchi erano giovani gre- canici trasferiti alle marine e nei paesi di lingua romanza in cerca di lavoro, irrisi per la loro alloglossia e adibiti ai servizi più umili. Il ri- mando a gr. πάλληξ · βούπαις ‘ragazzo guardiano dei buoi’ e

24 Cfr. cal. palataru, villicaru ‘grasso della pancetta del maiale e che copre il membro del verro’ (NDDC, 768).

9 παλλάκιον · μειράκιον ‘giovinetto’ (Hesych)25 è stato ritenuto pro- blematico proprio per ragioni fonetiche. La voce bovese è inseparabile, intanto, da gr. sal. paḍḍikari ‘gio- vanotto, scapolo, giovane sposo’ (< mgr. παλληκάριον), e tale for- ma mediogreca può essere postulata pure per il calabrogreco, ancor- ché ormai obliterata nel bovese, dato che i dialetti romanzi confinanti hanno potuto formare paḍḍecu, che non può non essere grecismo; il bov. paḍḍeco andrà quindi spiegato come un prestito “di ritorno” o un metaplasmo costituito secondo le regole di formazione di parola del calabro-romanzo. Per il calabro-greco si può pensare anche in questo caso a induzione del morfema –o che avrebbe sostituito gr. – άρι secondo un modello di cilistràri: cilistru. Del resto le ipotesi di Rohlfs (LG, 379) che pensa a ar. fallāḣ ‘contadino’ e di Karanastasis (ILEIKI, III, 79) che, seguendo Alessio (1944-5, 78), pensa a gr. παλαικός, παλαιϊκός ‘arretrato’, appaiono alquanto deboli. Quanto al timbro della vocale η per cui ci si aspetterebbe [i], va rammentato che nel greco antico le lunghe agr. ω, η sono aperte e di- versi riflessi grecanici si sottraggono al trattamento itacistico divenu- to normale nella coinè. Ad es., bov. zzeró ‘duro’, sceró (ch, r, f) pre- suppone un mgr. ξερός < agr. ξηρός ‘id’. Lo stesso tratto presenta anche cameli al posto dell'atteso camali. Si tratta di mutamenti inquadrabili in definitiva tra i processi di con- guagliamento analogico. La vocale [a], normalmente stabile, passa a [e] in anèvasi (< *anávasi), catévasi (< catávasi) ecc. per la pressio- ne del vocalismo dei paradigmi verbali di anevénno, catevénno ecc., nei quali l'anafonesi è stata causata, in atonia, da conguagliamento tabellare. Una tale ricostruzione, delineata già in Martino (1990) risolvereb- be le difficoltà etimologiche prospettate da Rohlfs (LG, 379) per bov. paḍḍeco; ma è, ancora una volta, l’incremento dei materiali docu- mentari che assicura fondamento all’ipotesi e risolve il problema: un riflesso toponimico di παλληκάρι è stato recentemente attestato pro- prio a Bova in un documento medievale, la Platea della Contea di Sinopoli (sec. XII-XIV) 26. Giulistru e paḍḍecu sono retroformazioni romanze perché in –ári non è stato più avvertito il valore diminutivo, ma quello di relazione. Perciò, accanto a cal. giulistru / bov. *cilistro < cilist(r)ari, può

25 Vd., tra l’altro, Çop (1958), che riprende lo studio etimologico pubblicato in «Živa antika» II: 221-233; Legras (1997); Lozano (1999). 26 La Platea è stata pubblicata da Pietro De Leo (2006). Ne parla F. Mosino, Il to- ponimo Pallicari, in «Quaderni di “I Fonì dikìma”», numero speciale a cura dell’Associazione culturale “Odisseas” di .

10 essere postulata, la trafila cal. paḍḍecu / bov. paḍḍeco < paḍḍicári. 4. bilì Tra i grecismi calabresi ormai scomparsi nel bovese va segnalato il sostantivo bilì s.m. ‘membro virile’, ‘pudende’, ancora vitale nelle parlate romanze della Piana di Gioia Tauro, seppure in recessione; si può presumere che la mancata attestazione letteraria e lessicografica, tanto nelle varietà calabro-romanze quanto nelle grecaniche, sia do- vuta a tabuizzazione; i termini tabuizzati sono spesso caratterizzati da una persistenza “sommersa”: ignorati dalla scripta, ma a volte an- che dalla tradizione orale, riemergono a distanza di secoli. E' un clas- sico fenomeno di carsismo lessicale. La voce calabrese è documentata nella glossa esichiana βίλλος· κοινῶς βιλλίν. Il lemma esichiano βίλλος è conservato nel bovese víḍḍo ‘männliches Glied’ (LG, 85), attestato fin dal II sec. nella coi- nè. Ma una forma più popolare era certo il diminutivo βιλλίν, come lascerebbe intendere la precisazione κοινῶς dell'interpretamentum esichiano. Oltre alla forma víḍḍo, di cui esiste anche una variante femm. víḍḍa27, i dialetti grecanici e calabresi presentano una grande varietà di derivati: bov. víḍḍicáli, víḍḍicári, cal. vijicàru, vijicàli, villicàru, mujicàru ‘grasso che ricopre il membro del maiale’, e ancora víḍḍòzzu, villòzzu, vijòzzu ‘tutolo del granturco’ (NDDC 768), traspa- renti traslati; bov. miḍḍíthra ‘grasso che copre il membro del maia- le’, da confrontare con ngr. βίλληθρος ‘parte esterna dei genitali di una bestia femmina’, che presuppone appunto un *βιλλήθρα (HLA, III, 533). Infine, il calabrese meridionale víjaru (bíḍaru, mbíllaru, ecc.) ‘aliosso’ rimanda a ngr. dial. (tracio) βίλλαρος ‘grosso pene’ (cfr. anche píllaru ‘bischero, minchione’, Palmi), ed è significativo che neppure questa voce sia rimasta nel bovese. Non mancano for- mazioni antroponimiche, come il soprannome Mbillu a Melicuccà (RC) e il cognome Vilaràs in Grecia28. Vari indizi lascerebbero supporre una conservazione nelle zone periferiche della grecità, dato che si ritrovano ad es., in area microa- siatica. Intanto le forme appaiono etimologicamente connesse con gr. βαλλίον (Eroda VI, 9), forma considerata di origine frigia, dim. di βαλλός (= gr. φαλλός), come le glosse βάμβαλον · ἱμάτιον καὶ τὸ αἰδοῖον. Φρύγες (Hesych. B 311 L.); βάβαλον · α ἰδοῖον (Hesych. B 8), forme con raddoppiamento e ampliamento in -l- di ie.

27 Sia βίλλος che βίλλα sono attestati in vari dialetti neogreci (Creta, Cipro, Rodi); cfr. HLA, III, 533; LG 85. 28 Cfr. Tomakades (1956); Robert (1963, 16-22).

11 *bheu-. Una conferma della origine frigia potrebbe essere la conservazio- ne di βιλλίν in dialetti neogreci orientali, a Cipro e nel greco micra- siatico di Farasa29. Inoltre in lessici umanistici circolava un interpre- tamentum riferito a Festo: billis apud Afros appellatur semen huma- num humi profusum30. La presenza del termine nell’anfizona dell'italogreco depone per una vitalità del termine nei registri substandard. La mancata spiran- tizzazione della labiale (regolare il trattamento nei derivati come viḍḍozzu) potrebbe attribuirsi al carattere espressivo del termine. In definitiva, i riflessi calabro-romanzi di βιλλίν assicurano una antica vitalità di bilì anche nella Bovesia. 5. ciptinná Un altro grecismo è cal. ciptinná s.n., il ‘ceppo adornato che il pretendente depone davanti alla porta dell'amata’ (Alessio 1931). Il ceppo nuziale viene ritirato se la richiesta di fidanzamento è accolta, altrimenti è respinto in mezzo alla strada’; in questa seconda even- tualità, a , dove l’antica tradizione è attestata da Condemi (2006, 127), la mamma della ragazza si affacciava alla finestra e di- ceva al pretendente venuto a controllare l'esito della sua domanda: den gánni ja esséna to ciptinnáo ‘non fa per te il ciptinnáo’. La voce, ormai desueta nella Bovesia, ignota al NDDC e all’ILEIKI, è attestata in vari paesi del reggino: cipidná a Laureana (Marzano 1928, 104), cippitinná ad Africo e S. Cristina (Stancati - Violi 2001), dove resiste anche il v. cippari. Le varietà romanze co- noscono anche accippare, azzuccare, cippijare, zzucchjiare sempre nel senso ‘deporre il ceppo davanti alla soglia della casa dell'amata’ (NDDC 181). Il rituale, che il Corso faceva risalire alla tradizione e- trusca: «quel tronco di albero simboleggia la “stirps” e fa pensare al lare latino» (1925, 18)31, ha lasciato tracce lessicali diverse. Un adat-

29 Cfr. Andriotis (1948, 54). 30 Cfr. Gentile (1960-61, 428, 451, 482). 31 Ne parla Paolo Toschi (1959, 119): «ancora oggi [...] vi è l’usanza assai cu- riosa e caratteristica del ceppo che il pretendente pone davanti alla porta della ra- gazza come simbolo della richiesta di fidanzamento: se essa accetta prende il ceppo e se lo tiene in casa; se invece respinge la profferta fa rotolare il ceppo in mezzo alla strada». Il Corso documenta questa usanza nel Catanzarese:« Il ceppo sposali- zio come avviene a Serra San Bruno: il pretendente nel silenzio della notte, non visto e non udito da alcuno, colloca sul limitare dell’uscio della fanciulla un ceppo di quercia. L’indomani, al sorgere del sole osserva se la gente della casa, vedendo- lo, lo ritiri dentro, o invece lo faccia rotolare sulla via. Nel primo caso è favorito, la

12 tamento cal. del sostantivo è ccippuniamèntu (Melicuccà), mentre il derivato ciptinnáro vale ‘donnaiolo’. A e Motticella ciptinná ha acquisito il senso ‘sesso femminile’ nel detto:

Jeu ti dugnu lu ciptinnolu tu mi duni lu ciptinnà

Alla base di ciptinná (ciptinnáo è chiaramente una forma rimorfo- logizzata) sembra riconoscibile un composto di tipo “chiarificante” o “tautologico” *cipp-edná ‘ceppo usato come dono nuziale’ < cal. ccíppu ‘ceppo’ + calabrogr. *enná ‘relativo al fidanzamento’, esito di un mgr. ἑδνάς che Esichio documenta con il senso di ‘pasto del fi- danzamento’32, senso evidentemente secondario, succedaneo di agr. ἕδνα, n. pl. ‘doni nuziali’, voce omerica33 attestante un’usanza ma- trimoniale i.-e. *wed-no-, che secondo Chantraine è un «vieux terme qui se rapporte originellement à l’achat de la fiancée à son père par le prétendant»34. E’ possibile che all’assimilazione del nesso -dn- si sia accompa- gnata una lessicalizzazione dell'articolo (*to cippo to enná).

6. llàriu Il regg. llàriu ‘ridicolo’ ricorre a Palmi (RC) in una nota canzone popolare:

E non mi diri llariu e non mi diri bruttu se no mi spinnu tuttu tuttu mi spinnerò.

La voce calabrese non si può separare da bov. lèrio ‘frivolo’, che casa dell’amore gli è aperta per sempre, nell’altro non gli resta che andare a tentare la sorte ad altri usci. Questa usanza pare abbia analogia con l’albero delle nozze, mediante il quale, presso alcuni popoli non civilizzati, si sposano a una pianta l’uomo e la donna, prima di celebrare fra loro le nozze, allo scopo di assicurarsi felice e prospera unione» (Corso 1925, 35). 32 ἑδνάς · ἡ άπὸ τῶν ἕδνων ἐδητύς Hesych. 33 Su ἕδνον vd. Vérilhac - Vial 1998, 126-128. 34 DELG, 312. Ma E. Scheid-Tissinier (1994, 85-88) ha dimostrato che gli ἔδνα omerici, la contropartita che lo sposo versa al futuro suocero per poter condurre la ragazza nel suo οἶκος, non configurano propriamente una transazione commercia- le. Vd. Bader (1997, 37-40).

13 Crupi (1981, 16, 111) attesta a Roghudi e interpreta ‘leggiu di testa’, tentando una spiegazione etimologica interessante, ma priva di su- porti documentari: ‘abitante di Leros’, in base alla supposizione del Morosi di una provenienza dei coloni bizantini dale isole dell’Egeo35. La voce grecanica, che per Condemi (2006, 234) è sinonimo di anómmialo, dísculo ‘pazzerello’, a sua volta richiama la forma agget- tivale reduplicata leró leró ‘frivolo, ciarliero’, che Alessio (1936, 69), collegava con ἱλαρός ‘giocondo, allegro’, ritenendo «fonetica- mente difficile» il raffronto con λῆρος ‘frivolezza, chiacchiericcio’. Però λῆρος, per cui va segnalata la costruzione λῆρον ληρεῖν in A- ristoph. Pl. 508, è anche aggettivo (Lucian. D. Mer. 10, 3; Gall. 6); Λῆρος: φλύαρος· ματαιόφημος è confluito poi nella Λέξεων συναγωγή di Fozio (IX sec.). Potremmo trovarci comunque in pre- senza di un derivato di λάρος, nome di un uccello marino vorace, che è stato collegato con la radice di lat. lāmentum: ‘Schreier’ per il Frisk (GEW, II, 86)). Nel 1939 Alessio riportò il toponimo Làriu, registrato nella sua Molochio (RC) al nome proprio Ilario, lat. Hilarius < gr. Ἱλαρίων ‘Ilario’, cfr. ἱλαρός ‘allegro’, ‘propenso al riso’, considerandolo l’antecedente diretto della voce reggina làriu ‘ridicolo’ (Alessio 1939, 161). Rohlfs (NDDC, 361) osserva: «voce non confermata, sconosciuta ai miei informatori». Va considerato che la famiglia lessicale di ilare è attestata in ita- liano non prima del XIII secolo; l’aggettivo ilare sembra entrato nel XV secolo per via letteraria. Perciò la voce calabrese è verosimil- mente più antica.

9. pitòhjaru La voce pitòhjaru, pitòhjanu ‘gallo’, esclusiva della zona di S. Eu- femia, Lubrichi, Sinopoli, versante Nord dell’Aspromonte (NDDC, 533); designa anche l’ ‘organo genitale della donna’ (a Palmi), come gr. πετεινός ‘gallo’ e ‘clitoride’. Nel senso traslato c’è anche pitti- hjòhjaru ‘organo genitale’ (linguaggio infantile) ad Aprigliano (CS), mentre nella Calabria mediana bidòhjari pl.m. (Fabrizia) sono i testi- coli del verro (da cf. con viḍḍo). Il primo elemento rimanda verosimilmente a gr. πετ- di πέτομαι. Così Alessio (1953, 283) pensa senz’altro a πετεινός ‘volatile’ > ‘gallo’, ma rileva “difficoltà morfologiche” per il resto della parola; alla stessa famiglia appartiene chiaramente bov. pitàci (‘weibl. Scham’, ‘männl. Glied’ < ‘junger Vogel’ (LG, 396, s.v.

35 Anche il bov. rodiana ‘donna energica’, sarebbe da intendere come ‘donna di Rodi’, secondo il Crupi.

14 πετακούνιον); e tuttavia Alessio preferisce ancora un etimo latino: petax ‘bramoso, avido’ (loc. cit.; «AGI» 28, 161sgg). Anche il Rohlfs collega questa strana denominazione del gallo a gr. πετεινός ‘fähig zu fliegen’ (grico puḍḍí petanó ‘uccello volante’, bov. ta peti- ná ‘i volatili’), lasciando tuttavia inesplicato il secondo elemento (LG, 396, s.v. πετεινός). La voce pitòhjaru può trovare adeguata spiegazione postulando un composto *πετό-χοιρος ‘porco con le ali’ detto propriamente del cappone. Nel bovese c'è hjirídi ‘porco’, ma non *híro ‘porco’ < χοῖρος, la cui sopravvivenza è stata verosimilmente ostacolata dal conflitto omonimico con hjíro s.m. ‘vedovo’ (< gr. χῆρος) e hjíru a. ‘peggiore’ (< χείρων) in conseguenza della confluenza degli esiti di χειρο- e di χοιρο- . In effetti, χοιρο- ‘porco’ è intanto solidamente attestato in cala- brogreco come primo elemento di composti; cf. cal. mer. hjerapón- dacu s.m. ‘ghiro-talpa’ [Myoxus nitela], anche jirupòndacu < gr. *χοιρο-πόντικος ‘riccio’, letteralmente ‘topo-porco’; sic. ant. cere- grilli seu cuniculi (Gioeni, 1885, 82) < *χοιρόγρυλλος ‘porcospino’ (LG 569), per cui Rohlfs cita un tardo latino cirogryllus cuniculus at- testato da Du Cange (χοιρογρύλλιος ἢ ἐχῖνος χερσαῖος: Gloss. Mediae et imfimae Latinitatis II, 310, 342) nella Francia meridionale. Anche –hjiru, -hjaru come secondo elemento può essere postulato in base a forme del tipo ἀγριό-χοιρος m. ‘Wild-schwein’, vitali nel greco tardo (Sch. Ar. Pl. 304), cfr. Risch (1949, 256); e si noti che pure la base πετ- appare riferita a gallinacei: πετεινάρι ‘galletto’, πετεινός ‘gallinaceo’.

7. tracandàli La storia di cal. tracandàli s.m. ‘bacchettone, bighellone, spilun- gone’ non è stata ancora chiarita. Rohlfs (NDDC, 723) registra tra- cannale nella Calabria media (Catanzaro, Soverato) con senso ‘legno messo di traverso per chiudere la porta di una stalla’, nella Calabria settentrionale (Bocchigliero) col senso ‘traversa dello strettoio’ e ‘uomo di grande statura’, mentre tracandale è diffuso in tutta la re- gione, nelle aree con –nd- intatto, col significato ‘uomo rozzo, grosso e stupido, babbeo, omaccione’; più recenti ricerche lessicografiche confermano la presenza di tracandali ‘bacchettone’ nei dialetti del Poro (Carè, 2000, 396) e a Sinopoli, nell’Aspromonte settentrionale (Misitano, 1990, 165). Solo nella Calabria media (Catanzaro, Sovera- to) il termine appare col significato ‘legno messo di traverso per

15 chiudere la porta di una stalla’. A prima vista i significati ‘traversa dello strettoio’ e ‘legno messo di traverso’ e simili potrebbero apparire come principali, in base ai meccanismi consueti della metafora che trasferisce volentieri desi- gnazioni di realia della vita quotidiana per la denotazione di tipi u- mani. Infatti Battisti e Alessio (DEI, 3847) assegnano a cal. e sic. tracandali i significati propri ‘traversa dello strettoio; sbarra per chiudere la porta della stalla’, da cui deriverebbe il senso figurato ‘uomo di grande statura; uomo rozzo, trasandato, stupido’, ‘disutilac- cio’. La voce siciliana e calabrese con nesso assimilato tracannali sa- rebbe pertanto primaria, da spiegare come un derivato di canna, e la variante tracandali una “forma ipercorretta” secondaria, come landa ‘latta’ < lanna < lat. LAMINA. Carla Marcato (Cortelazzo/Marcato 1998, 440) segue il DEI, riconoscendo la voce come calabrese e dan- do credito all'interpretamentum di sic. tracandali che si legge nell'E- tymologicum Siculum di Giuseppe Vinci (1759): «tracandali, qui gut- turis cannas adeo amplas habet, ut elephantium glutiat, translate dici- tur de stupido et inepto». Alla base ci sarebbe sempre canna nel sen- so traslato di cannarozzu ‘gutturis canna’ (cfr. it. tracannare), ma la spiegazione ‘qui gutturis cannas amplas habet’ appare come pareti- mologica, indotta dalla necessità del lessicografo di spiegare l'altro significato ‘stupidus et ineptus’, classificato come metaforico. Non si capisce poi il valore e l'origine del presunto prefisso tra-. Inoltre il rispetto del criterio "Wörter und Sachen" consiglierebbe di escludere la canna tra gli oggetti lignei destinati a fare da ‘traversa dello stret- toio’ e da ‘sbarra per chiudere la porta della stalla’. Va rilevato che la variante assimilata ricorre nelle areole che pre- sentano nasalizzazione del nesso [nd]; la forma con –nd-, presunta secondaria (ipercorretta e traslata), ha intanto dalla sua il criterio dell'area maggiore per essere considerata primaria. L'incertezza avrebbe potuto essere fugata dalla presenza della forma catandrali ‘uomo trasandato’, rilevata dal Rohlfs (NDDC, 723) a Roccella Ionica (ma ampiamente diffusa nel Reggino), che con difficoltà potrebbe essere ricondotta a un precedente tracannali, ma di cui quest’ultimo può ben essere una variante metatetica. Tale incertezza svanisce se si considerano le forme bovesi tra- klandàri ‘spilungone pigro’ (Crupi, 1981, 98), traklondari (ILEIKI, V, 170), evidentemente inseparabili dalle calabresi. Le forme bovesi, più trasparenti, postulano chiaramente un com- posto mgr. *trakl-andrarion in cui, come abbiamo già segnalato (Martino, 1988, 22), un sostantivo andrári < biz. άνδράριον di va-

16 lenza ipocoristica spregiativa36 viene determinato da un traca che ri- corre nell'avv. cal. di traca, ‘di sbieco’, esito romanzo di bov. traclá, e che si lascia individuare alla base del verbo tracchïàri ‘camminare di sbieco, tergiversare’ (con geminata che rappresenta il normale trattamento del nesso [kl]), tutti esiti di bov. tracló (Traclò cognome) < gr. τρακλός ‘curvo’ (LG, 508). Giovanni Crupi, parlante nativo e indagatore acuto del bovese, aveva riconosciuto la semantica del ter- mine traclandári ‘spilungone pigro’, nel suo prezioso libro La glossa di Bova37 (Crupi, 1981, 98). Si noti che anche cal. ndràgghju ‘uomo sciocco’ per Marzano (1928, 280) non può che essere un esito di *ANDRA-CULU-, con suf- fisso latino assai produttivo (Tuttle, 1975, 146), ricorrente anche nel cognome Andracchio. Dunque i processi metaforici non sono necessariamente unidirezionali dall’oggetto (trave o sim.) al tipo umano (spilungone e stupido, in base al proverbio homo longus non sapiens). In questo caso il percorso di irradiazione sinonimica è inverso. Lo conferma ulteriormente l’uso del termine cal. vastasu, bov. vastási s.m. ‘fac- chino’, ‘omaccione’ per designare nelle parlate calabresi meridionali anche la ‘trave maestra’ di un edificio, anche questo reimprestito ro- manzo, a causa di β > b (Caracausi 1986, 38, n. 31). 8. lèiu L’agg. cal. lèiu ‘liscio’, cosent. liju ‘liscio’ e l'avv. lèju lèju ‘dol- cemente, senza difficoltà’, liu liu ‘con flemma, lemme lemme’, si spiegano con gr. λεῖος ‘liscio’ (LG, 293), di cui è riflesso il cal. cen- tro-sett. lìju, con cui potrebbe collegarsi il top. sic. Petralìa ‘pietra liscia’. Λιοπέτριον · λίθος λεῖος è in Esichio. L’ipotesi ventilata dal Meyer-Lübke (REW, 5081), che pensava a lat. LĪSIUS, da cui it. liscio, anche per logud. liju, è difficile per ragioni fonetiche; più agevole ri- salire a gr. λεῖος, avv. λε(ί)-ως; così Alessio (1942-3:177), che po- stula, a base delle forme romanze, un tramite latino *LĪUS «peculiare del latino della Magna Grecia». Si ricordi che il grecismo lēus è in Plinio, n.h. 20,79: brassica lea (helia). L'espressione avverbiale reduplicata liu liu ‘piano piano, adagio, lentamente, senza fretta’, considerata variante di lèju lèju da Martino /Alvaro (2008), non può non richiamare il gr. λείως; è difficile, per motivi semantici, accordarla con gr. λεία ‘branco, fila, gregge’, di cui abbiamo un sicuro riflesso nel gr. sal. lía: lía jinèke ‘fila di donne in un lavoro campestre’ (LG, 293; ILEIKI, III, 358).

36 Cfr. ἀνδράριον · ὑποκοριστικῶς ἄνδρα (Suida); Hatzidakis (1905: 413). 37 Crupi (1981, 98); cfr. anche Condemi (2006, 423)

17 Non si spiega bene, inoltre, [e] di lèju se non per contaminazione di lat. LĔVIUS, donde anche cal. e sic. leggiu (così Pasqualino 1789, III, 23-4) o con lisciu come nel sardo logud. liju (REW 5081; DES II, 32) < *LĪSIUS ‘liscio’.

9. hjurapánnu Per lo ‘straccio da cucina’ sono in uso nelle parlate calabresi me- ridionali vari termini risalenti alla base χειρ-: hjéri, hjeréḍḍa, ahhjéri (< ἐγχείριον), patrimonio comune dell’area alloglotta e dell’entoura- ge romanzo (NDDC, 347). Hjurapànnu s.m. ‘cencio, straccio’ < gr. χειροπάννι è in uso in- vece nel reggino e nella piana di Gioia, non a Bova, dove hanno resi- stito più a lungo i composti hjerómulo ‘manipolo, fascio di grano’; hjerómilo ‘mulino a mano’ (χειρόμυλον), hjeromúrtaro ‘pestello del mortaio’ (*χειρομούρταρο), jieròsteno ‘cardo, pettine di ferro per cardare il lino’ (χειρόκτεινον), hjerosìcli ‘manico di secchio’ (χειροσίτλι), hjeròvolo ‘mazzetto o manipolo di lino’ (χειρόβολον), tutti nelle varietà romanze finitime.

Questo manipolo di esempi si può ampliare: molti altri relitti gre- ci, sconosciuti al grecanico, sono incorporati nel lessico calabro- romanzo delle varietà a sud della strozzatura Lamezia-Squillace. Un elemento che maggiormente dovrebbe agire in senso conserva- tivo, cioè la diversità strutturale della varietà alloglotta rispetto alle parlate romanze dell'anfizona, ha perso gran parte della sua efficacia in seguito alla formazione di un diasistema che avvicina il grecanico ai dialetti romanzi, peraltro fortemente grecizzati nel lessico e nella morfosintassi. Una conferma è nel fatto che gli ultimi parlanti della Bovesia non sono sempre in condizioni di distinguere, nell’ambito del proprio repertorio lessicale, il greco dal romanzo. Ed è significa- tivo che il bovese Ferdinando D’Andrea (1903-1996), dottore in A- graria, abbia prodotto un ricco Vocabolario greco-calabro-italiano della Bovesia, con apparato fraseologico e note etimologiche dal greco antico, medievale e moderno e riferimenti comparativi col gri- co di Terra d’Otranto, pubblicato postumo a cura del nipote (D’Andrea, 2003), che dal titolo promette un repertorio lessicale gre- canico, ed invece è un vocabolario romanzo.

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Bibliografia

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