Fede Ragione Follia 7 febbraio / 22 giugno

Morìa La Sapienza altra del mondo

Rivista semestrale di studi moreani Centro Internazionale Thomas More 9/2016 Morìa Rivista semestrale di studi moreani 7 febbraio / 22 giugno 2016

La rivista del Centro Internazionale “Thomas More” si articola in otto sezioni che ospitano interventi di largo respiro, contributi di carattere scientifico, pubblicazioni e traduzioni di testi inediti o rari di particolare rilievo per la diffusione della memo- ria del martire inglese e del pensiero moreano, quale promozione di una sapienza “altra” per il mondo, capace di generare un pensiero di vita, verità e giustizia. La rivista inizia la sua storia proponendosi la pubblicazione di due fascicoli annuali intorno al periodo della memoria liturgica e della nascita di Tommaso Moro.

Direttore editoriale Direttore responsabile Cesare Ignazio Grampa Giuseppe Gangale

Comitato di direzione Angelo Fracchia, Roberto Ghisu, Annalisa Margarino, Giuseppe Parisi, Maria Pia Pagani, Ferdinando Valcarenghi

Consiglio scientifico Alessandro Andreini (Comunità di San Leolino), Giovanni Battista Balconi (Diocesi di Milano), Carlo Maria Bajetta (Università della Valle d’Aosta), Franco Buzzi (Biblioteca Ambrosiana). Carlo De Marchi (Pontificia Università della Santa Croce), Giorgio Faro (Pontificia Università della Santa Croce), Paul Fryer (Centro Stanislavski, Sidcup, Kent, Gran Bretagna), Isabella Gagliardi (Università degli studi di Firenze), Andrew Hegar- ty (Thomas More Institute Londra), Dieter Kampen (Chiesa luterana di Trieste), Anna Maranini (Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Università di ), Frank Mitjans (Thomas More Institute Londra), Fortunato Morrone (Istituto Teologico Cala- bro San Pio X Catanzaro), Jacques Mulliez (Associazione francese Amici Thomae Mori), Luigi Negri (Arcivescovo Emerito di Ferrara-Comacchio), Maria Pia Pagani (Università di Pavia), Luciano Paglialunga (Anglista, studioso e traduttore di Thomas More), Ma- rie-Claire Phelippeau (Rivista Moreana), Gregorio Piaia (Università di Padova)

Direzione: Via Orti 3, 20122 Milano; Tel. 0254101010; [email protected]; www.thomasmore.eu

Redazione: Crotone, Via Georgia 1 - 88900; Tel. 3287534885; [email protected]; www.progettomoria.xyz

In copertina: Hans Holbein, Bozza per il ritratto di Thomas More, Royal Collection, Windsor, 1527.

ISSN 2239-6055 Autorizzazione del Tribunale di Crotone n. 2/11 del 28/02/2011 Sommario 7 febbraio / 22 giugno 2016 Fede ragione e follia - Rivista semestrale di studi moreani Centro Internazionale Thomas More

editoriale Jlenia Carriero Tommaso Moro: Il sottile confine da umanità a santità 5

La follia del Vangelo Maria dell’Orto Nel volto dell’altro uomo 8

saloÍ & jurodivye Maria Pia Pagani Elena Izvol’skaja e l’Utopia della rivoluzione russa 11

conscientia et martiryum Giorgio Faro - Eugénio Lopes Il processo Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare: come affron- tare una condanna ingiusta 20

utopia: notizie da nessun luogo Frank Mitjans La data di nascita di Thomas More 42

Merrily Giuseppe Gangale Una preghiera anonima moreana. Da Tho- mas More a Basil Webb: un percorso da ri- prendere 55

documenta moreana Luigi Negri A scuola dai giganti. La testimonianza di san Tommaso Moro cuore della dottrina sociale cristiana 66 uomini & libri “Thomas More” L’opera ritrovata di William Shakespeare 84

Novità editoriali 87

A questo numero hanno collaborato:

Jlenia Carriero, studentessa al terzo anno di Scienze Infermieristiche presso l’università “La Sapienza” di Roma. È Responsabile giovani della Scuola di Formazione Sociale e Politica della Parrocchia San Tommaso Moro a Roma. La conoscenza del Santo, la sua unicità, il suo essere l’hanno portata ad impegnarsi attivamente nella realizzazione della Mostra “More. Chiamati al più possibile”.

Maria dell’Orto, è’ monaca della Comunità di Bose ed è stata responsabile delle sorelle fino al gennaio 2009.

Maria Pia Pagani, è docente di Letteratura Teatrale all’Università di Pavia. Dottore di ricer- ca in Filologia Moderna, è autrice di monografie e saggi sul teatro russo e i suoi legami con la cultura spirituale ortodossa.

Giorgio Faro, è nato a Milano nel 1954 e risiede a Roma dal 1970. E’ docente di Etica Ap- plicata (alla famiglia, al lavoro e alla politica) all’Università Pontificia della Santa Croce.

Eugénio Lopes, è nato in Portogallo (Lamego, 1986), dove si è laureato in Pubbliche Rela- zioni; è anche laureando in filosofia, presso la Pontificia Università della Santa Croce, in Roma (appassionato e devoto di St. Thomas More). Collabora con l’Acton Institute, con saggi di economia.

Frank Mitjans, Thomas More Institute, Londra.

Luigi Negri, Arcivescovo Emerito di Ferrara-Comacchio. Editoriale

Tommaso Moro: il sottile confine da umanità a santità Jlenia Carriero

Nel 1929 venne elaborata per la prima volta una teoria sociologica 1 definita “dei sei gradi di separazione”, un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra (anche la più distante e impensabile) attra- verso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermedia- ri. San Tommaso Moro non potè, sicuramente, venire a conoscenza di questa teoria e chissà se fosse vissuto nello stesso periodo di Cristo sarebbero stati amici o a dividerli ci sarebbero stati cinque intermediari, quello che sostengo però è che a separare la santità di Uno e dell’altro non vi sia alcun grado! Tante sono le cose che accomunano il “semplice cittadino inglese” Tho- mas More a Gesù, a partire dalle loro gesta, dal parlare profetico fino alla loro morte. Si potrebbe pensare che questa mia opinione sia scontata visto che il Santo era un Cristiano “modello” ed un entusiasta sostenitore della dottrina della chiesa, ma posso assicurare che le analogie che ho potuto ri- scontrare non sono per nulla banali. Vorrei iniziare questa rassegna di parallelismi partendo dal rapporto di San Tommaso Moro con la sua famiglia e la sua casa; sappiamo bene quanto Gesù fosse legato a Maria e Giuseppe seppur legato costantemente ad un unico Vero Padre (tanto da disobbedire ai genitori terreni rispondendo alla loro preoccupazione con un «non sapete che devo occuparmi delle cose del padre mio LC 2,41-50»), allo stesso tempo Tommaso Moro amava la sua famiglia, la sua casa ma quando si è trattato di lasciarla per seguire le cose di Dio, poco ha pensato ai suoi legami terreni. Egli fece della sua casa un luogo in cui nessuno si sentisse escluso, inadatto, incompreso, inutile. Tommaso Moro esattamente come Cristo ha dato costantemente valore alle donne, ha dato loro una dignità che in entrambe le epoche non era “prevista”. Ha ac- colto a casa sua dalle più importanti personalità fino agli ultimi, si definiva

1 Teoria formulata per la prima volta dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto omonimo pubblicato nel volume Catene 1. 6 Jlenia Carriero amico dei folli, di quelle persone mentalmente instabili e fragili; «la sua casa non era un piccolo paradiso privato dove soltanto alcuni privilegiati da vin- coli di sangue o di simpatia, potevano avere accesso, la sua casa era aperta a tutti» 2. Sicuramente la somiglianza di San Tommaso Moro con Gesù Cristo si palesa nella sofferenza, nella prigionia che sfocerà poi nel martirio. Non è forse paragonabile la prigionia di Tommaso Moro al deserto di Gesù? Di sicuro il ritiro di Tommaso non fu per sua volontà ma conoscendo la sua vita, i suoi scritti, i suoi pensieri non c’è da stupirsi se visse la carce- razione come un’opportunità, un’occasione di silenzio, preghiera e testimo- nianza. Allo stesso modo di Cristo, Tommaso Moro più volte fu tentato dalla po- vera figlia Margaret, la quale più volte cercò di dissuaderlo dalla sua scelta; con lei ebbe una conversazione che è molto interessante per il mio studio di analogie. Tommaso Moro dirà infatti alla sua discepola che ormai aveva dato quello che poteva e doveva dare, aveva trasmesso il suo esempio ed era tempo che facesse quello che il Signore aveva scelto per lui. Lascio a voi lettori associare quanto Erasmo dice di Tommaso quando scrive che «More preferisce lasciare in eredità ai posteri l’esempio del suo amore per la religio- ne piuttosto che il prestigio di qualche titolo» 3, con quello che Cristo ripete più volte nella sua vita «il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio Regno non è di qui» 4. Ciò che salta all’occhio è sicuramente la somiglianza di carismi. Scrive Cesare Ignazio Grampa nel volume La passione per il mondo: «in ogni momento della sua vita si intuisce la profonda immersione di Moro nella vita terrena coniugandola sempre con la più sentita dimensione spirituale. Un uomo votato al mondo, un uomo la cui volontà di servire non si tradusse mai in un rifugio ma in un’attività feconda ed efficace». Giuseppe De luca dice: «nel dominio della storia si può dire che egli sia mor- to per la civiltà al pari che per la chiesa, per il pensiero al pari che per la fe- de» 5. Come ebbe ad osservare Erasmo quando scrisse che «ha una tale carica di simpatia e di gaiezza che vicino a lui si rasserenano anche i più malinconici e le cose più uggiose diventano piacevoli» 6.

2 Giuseppe Gangale, Sir Thomas More la passione per il mondo, Edizioni Velar, Bergamo 2016, p. 19. 3 Erasmo da rotterdam, Lettera a Johan Faber, in Ritratti di Thomas More, a cura di Matteo Perrini, 2000, pp. 119-120. 4 Gv 18,36-37. 5 Giuseppe De Luca, Prefazione, in Daniel Sargent, Tommaso Moro, Morcelliana, Brescia 1982, p. 15-16. 6 Lettera a Ulrich von Hutten, in Ritratti di Thomas More, cit., p. 69. Tommaso Moro: il sottile confine da umanità a santità 7

Un’ altra somiglianza oserei dire “di cuore” avviene in uno degli ultimi momenti di Moro, esattamente come Gesù Cristo, egli vive il suo “orto degli ulivi” tanto da scrivere nel De tristitia Cristi di sentirsi quasi accanto a lui, in quel giardino a condividere quel dolore per il proprio destino già scritto e predetto; quella notte in cui tutti attorno dormivano ignari dell’irrequietezza del cuore di chi si rassegnava al male che stava per avere vittoria sul bene. Quello che più mi ha stupito nella ricerca di queste somiglianze è sicura- mente l’influenza storica avuta sia nel proprio periodo storico che dei periodi seguenti, di quello attuale e di quello che verrà. Faccio mie le parole di Chesterton quando dice «Thomas More è più grande oggi che in qualunque altro tempo, e lo sarà nei secoli futuri» 7. Per concludere vorrei portare come ultimo esempio quello legato alle “cose scritte”. Quante volte ci siamo sentiti dire che il Vangelo è senza tem- po, che sembra parlare sempre al presente, sempre puntuale nella vita di chi si pone all’ascolto; così pure pensando ad “Utopia” si dice possa essere un libro scritto in questo secolo, ed anche se per certi versi Utopia non è davvero quel mondo perfetto a cui ambire, il Vangelo ci dà per certo il progetto giusto per la costruzione del mondo in cui Cristo vorrebbe vivessimo.

7 G. K. Chesterton, Una mente come un diamante. Scritti su Thomas More, A cura di Giuseppe Gangale, traduzioni di Angelo Fracchia, Edizioni Studium, Roma 2015, p. 27. la follia del vangelo

“Quanti cristiani, per assicurarsi un diritto all’odio, si tramutano in farisei che non vedono fratelli, ma pubblicani, ma samaritani, ma pagani”.

Don Primo Mazzolari

Vincent van Gogh, Il buon Samaritano (1890), olio su tela, Kröller Müller Museum, Otterlo, Paesi Bassi, Maria dell’Orto Nel volto dell’altro uomo Matteo 25, 31-46 di Maria dell’Orto

Vi è un regno preparato fin dalla creazione del mondo, dice Gesù, per colo- ro che amano concretamente il loro fratello che vedono; e c’è un messaggio che risale fin dal principio, dice Giovanni (cf. 1Gv 3, 11-16), un principio che non è solo l’inizio del messaggio cristiano, ma anche il principio della creazione, se è vero che a tale messaggio si è chiuso Caino. E questo mes- saggio chiede che ci si ami gli uni gli altri. Dove risuona nella creazione questo messaggio, questo annuncio? Nell’umanità dell’uomo creato come immagine di Dio, nel volto dell’altro uomo, volto che è l’unica icona della trascendenza, l’unica visibilità del Dio invisibile. E ne è anche eloquenza perché ogni uomo è una parola di Dio, è una parola che chiede ascolto e accoglienza per generare l’amore che porta il frutto della comunione. Ogni uomo, anteriormente a ogni fede e credenza religiosa, è domanda e desi- derio di amore e può divenirne promessa, annuncio e realizzazione. Quel messaggio è inscritto nel profondo del cuore di ciascuno, nel desiderio di ciascuno. Ed è proprio dal nostro desiderio che possiamo imparare a fare il bene dell’altro, ad amarlo. Lo rivela Gesù dicendo di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. E il nostro desiderio è di essere amati, visti, raggiunti e toccati nel nostro bisogno, nella nostra povertà; in una parola, nella nostra unicità. Ecco la paradossale realizzazione del desiderio per i cristiani. L’ha espressa bene Antonio, il padre dei monaci: “Colui che fa del bene al suo prossimo, fa del bene a se stesso” e dunque, prosegue Antonio, “chi sa amare se stesso, ama anche gli altri”. Ora, tutto questo, il messaggio così universale di queste pagine, significa che anche al non credente è possibile un’etica, anzi, nella prospettiva della rivelazione cristiana, anche un’etica teologica perché amando concretamente l’altro avviene di fatto, senza averne l’intenzione, l’imitazione di ciò che Dio stesso ha compiuto creando: dare il cibo, dare da bere, vestire, pazientare, perdonare, consolare. Anche un’etica cristologica perché, dice Gesù, ciò che è stato fatto all’altro perché altro è stato fatto a Cristo, anche senza averne la coscienza. È anche un’etica escatologica, se è vero che il giudizio sarà misura- 10 Matteo 25, 31-46 to sulla concreta carità e se sarà una sorpresa inattesa e sconcertante: “Quan- do mai, Signore, ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare o nudo e ti abbiamo vestito?”. Ma per i cristiani, che sanno che il volto di Gesù narra quello di Dio ed è presente nel volto degli uomini, questa universalità ha anche un altro senso: quello di condurci all’unificazione del cuore.Noi compiamo gesti di carità, ma anche di odio e di grettezza, e spesso non compiamo un bel niente, ca- dendo nell’incommensurabile peccato di omissione: “Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi piccoli, non l’avete fatto a me”. Ambrogio scrive che: “il medesimo uomo è in parte salvato e in parte condannato”. La confessione di fede anticipa il giudizio e ricorda al cristiano che l’essenziale è l’amore. E che per attuarlo occorre il coraggio della condivisione della pro- pria povertà.

Per gentile concessione delle Edizioni Qi- qajon pubblichiamo una delle meditazioni del volume La follia del Vangelo di Maria Frattin, conosciuta come Maria dell’Orto, monaca della Comunità di Bose …ho ritenuto che queste pagine potessero co- stituire un dono prezioso per la loro capacità di immediatezza, per il loro saper cogliere il cuore di una parola di Gesù rimasta come brace arden- te sotto la cenere che tutti noi contribuiamo ogni giorno ad accumulare. Riscoprire la “scomodità del vangelo”, la “follia della croce” e, al contempo, la semplicità di una parola portatrice di vita, per le esistenze dei più poveri e sofferenti è infatti dote rara che non va sprecata o tenuta nascosta. Una parola intelligente, schietta, carica della parresia evangelica, un riconoscere la potenza inesauribile del vangelo accostato sine glossa, un mettersi costantemen- te in discussione di fronte alla parola di Dio che ci giudica per accoglierci e per- donarci, una rinuncia a rifugiarsi nelle false certezze di interpretazioni scontate o nel pensare che i destinatari degli ammonimenti evangelici siano sempre e solo gli altri…Tutto questo può a volte sorprenderci e magari perfino turbarci, ma l’intento di queste meditazioni è di destare qualcosa di quel gioioso stupore e di quella inquietante perplessità che le parole di Gesù di Nazaret suscitavano in tanti suoi ascoltatori e che hanno continuato ad alimentare la folle corsa del vangelo tra gli uomini e le donne di tutti i tempi (Presentazione di Enzo Bian- chi priore di Bose). saloÍ & jurodivye

Cieli e terra nuova... Nella cultura russa gli eventi catastrofici quali il Diluvio Universale e l’Apocalisse sono considerati con un’accezione “positiva” poi- ché rimandano all’idea – utopistica e liberatoria – di fare spazio a qualcosa di nuovo e migliore. Anche la Rivoluzione russa fu teoricamente intesa in tal senso, e non è un caso che i suoi primi sostenitori furono molti rappresen- tanti del ceto nobiliare, che avvertivano la seria necessità di un cambiamento radicale dell’assetto vigente. In pratica, però, la violenza ebbe il sopravvento su tutto e spazzò via un mondo per fare posto a qualcosa di cui oggi, a cento anni di distanza, ancora si avverte la necessità di riflettere. Elena Izvol’skaja e l’utopia della rivoluzione Russa di Maria Pia Pagani

La Rivoluzione russa ha lasciato un segno pro- fondo nella vita e negli scritti di Elena Aleksan- drovna Izvol’skaja (Hélène Iswolsky, 1896-1975), figlia dell’ultimo ambasciatore dello zar a Parigi. La vita di questa nobildonna è stata caratterizzata sin dall’inizio dalla dimensione del viaggio: nata nei pressi di Monaco di Baviera, ha trascorso la primissima infanzia a Roma, dove il padre Alek- sandr Petrovič Izvol’skij (1856-1919) svolgeva una missione diplomatica presso la Santa Sede. Ha seguito quindi il genitore negli incarichi in Danimarca, in Giappone, in Russia (dove è stato pure Ministro degli Affari Esteri) e, dal 1911, a Parigi 1. Il suo ultimo soggiorno in patria risale all’in- verno 1913, in occasione del debutto a corte nel gennaio 1914. Nel memo- riale autobiografico No time to grieve… 2, uscito postumo a Philadelphia nel 1985, ella descrive i preparativi soffermandosi sulla scelta dei gioielli e del guardaroba (indossava abiti dello stilista Worth, dal quale si serviva anche Eleonora Duse, che si era offerto di realizzarli a un prezzo concorrenziale per riuscire a farsi pubblicità in Russia e nell’ambiente diplomatico), ed evoca l’entusiasmo della madre per il solenne evento. Nel 1915 la Izvol’skaja torna a Parigi, dove la sua agiata esistenza di ari-

1 Vedi A. Iswolsky, Recollections of a foreign minister (Memoirs of Alexandre Iswolsky). Translated by C.-L. Seeger, Toronto 1921 e Idem, Mémoires de Alexandre Iswolsky, ancien ambassadeur de Russie a Paris 1906-1910. Préface de G. Hanotaux, Paris 1923. 2 Titolo che la Izvol’skaja ha ricavato da un verso di Murder in the Cathedral di Thomas Stearns Eliot. Elena Izvol’skaja e l’utopia della rivoluzione Russa 13 stocratica comincia a vacillare a causa della terribile tempesta che sta travol- gendo la patria. Nella capitale francese consegue presso la Croce Rossa il diploma da infermiera, e durante la Prima Guerra Mondiale lavora in ospe- dale: un paraplegico la avvicina alla lettura di Charles Péguy (1873-1914), del quale apprezza soprattutto il ritratto di Giovanna d’Arco 3. Nel 1919, alla morte del padre, inizia a lavorare stabilmente come giornalista e traduttrice, cercando di combattere i primi sintomi della depressione. Comincia anche a studiare la santità occidentale e resta colpita dalle figure di San Francesco d’Assisi e di Charles de Foucauld, che diventano il punto di partenza del suo processo di rinnovamento spirituale. Anche un altro membro della sua famiglia arriva a conoscere le amarezze dell’esilio: lo zio Pëtr Petrovič Izvol’skij, fratello del padre. Dopo aver stu- diato in Italia, egli diventa ispettore scolastico e ha modo di vedere da vici- no l’operato di Rasputin: la sua ferma disapprovazione lo porta a dimettersi dall’incarico pubblico e a rifugiarsi con la famiglia a Jalta nel 1917. Poi si è trasferito in Belgio, dove ha preso i voti come sacerdote, e fino al 1929 è stato parroco della chiesa di San Nicola a Bruxelles 4. Nella colonia russa francese la Izvol’skaja ritrova il principe Feliks Jusu- pov (1887-1967), conosciuto nel 1914 in occasione del debutto a corte. Tra gli amici c’è anche il teologo e medievista Georgij Petrovič Fedotov (1886- 1951), che nel 1931 ha pubblicato a Parigi la monografia I santi dell’Antica Russia (uscita per la prima volta a Mosca soltanto nel 1990 in occasione del millenario della conversione della Russia al Cristianesimo) 5. Pur frequentan- do la comunità ortodossa di Parigi e la chiesa di Rue Daru, ella avverte un crescente desiderio di approfondire lo studio delle radici cristiane, e si sente chiamata a favorire il dialogo tra cattolici e ortodossi. Visita spesso il mona- stero benedettino di Santa Scolastica di Dourgne, dove si erano ritirate anche delle esuli russe convertite al Cattolicesimo di cui diventa amica. Il 14 settembre 1923 – giorno della festa della Esaltazione della Santa Croce – si converte al Cattolicesimo e riceve la Prima Comunione. Tale scelta è ben accolta dalla madre, ma è considerata uno scandalo da molti membri della colonia russa parigina. Oltre alla conversione cattolica, a Parigi c’è chi contesta pubblicamente anche il suo primo romanzo, scritto insieme a Jose- ph Kessel (1898-1979): Les Rois Aveugles (1925) 6. L’opera descrive, attra- verso gli occhi di una nobile giovinetta di nome Liza (alter ego dell’autrice)

3 Nella seconda metà degli Anni Venti la figura della Pulzella d’Orléans è celebrata artisticamente attraverso il film La Passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer (1889-1968) e gli spettacoli teatrali di una coppia di grandi attori esuli russi, Georges (1884-1939) e Ludmilla Pitoëff (1895-1951), che lavorano anche sul testo di Péguy. Vedi M. P. Pagani, Giovanna d’Arco e la Passione di Cristo: due interpretazioni negli Anni Venti, in «Il Volto dei Volti», 2, luglio-dicembre 2011, pp. 26-32. 4 H. Iswolsky, No time to grieve..., cit., p. 49 sgg. 5 In traduzione italiana: G. P. Fedotov, I santi dell’antica Russia, a cura di M. P. Pagani, Milano 2000. 6 J. Kessel-H. Iswolsky, Les Rois Aveugles, Paris 1925. 14 Maria Pia Pagani che frequenta la corte, la nefasta influenza di Rasputin sullo zar Nicola II e la moglie. Liza ha modo di verificare come la figura del falso-profeta Rasputin abbia “accecato” i regnanti, abbia messo in crisi l’intera Russia e si sia svilup- pato intorno a lui un culto dai tratti di accentuato fanatismo. Come è stato davvero nella vita per Elena, Liza è amica del principe Feliks Jusupov, che nella notte tra il 16 e il 17 dicembre 1916 ha ucciso Ra- sputin e poi è emigrato a Parigi. Il romanzo scatena l’indignazione di molti monarchici esuli della colonia francese che, pur riconoscendo che le vicen- de sono trattate in modo assolutamente veritiero, sentono il dolore di ferite non ancora rimarginate. «Il libro dice la verità, ma lo detesto» 7: questo è il commento di coloro che si dichiarano ferocemente avversi al lavoro di fedele ricostruzione storica della Izvol’skaja. La traduzione italiana del romanzo – anonima, ma attribuibile a Rais- sa Olkienizkaia Naldi (1886-1978) – esce a Milano nel 1928 per le edizioni Vitagliano con il titolo Re ciechi, e porta alla Izvol’skaja una certa notorietà. Nell’introduzione si legge:

Dipingere, nel corso di un racconto limitato a un breve periodo, la decomposi- zione nel suo parossismo di un vasto e potente impero; tentar di comprendere e di far comprendere le cause morali di un crollo senza pari; non accusar nessuno; smascherare il volto della fatalità, arbitra dei popoli, che mai fu tanto presente come nelle settimane che precedettero la rivoluzione russa, tale è stato l’oggetto degli autori. Se essi hanno avuto l’audacia di intraprendere un compito tanto difficile, se hanno creduto di poter toccare avvenimenti tanto vicini e dolorosi, nominare per- sone, alcune delle quali vivono ancora, gli è che i memoriali, le corrispondenze, gli archivi segreti abbandonati a tutti dai Soviet hanno già segnato le azioni e le genti con l’autenticità e la indiscrezione della storia. Essi hanno stimato opportuno di far rivivere quest’epoca e i suoi attori prin- cipali, di ricostruire la verità umana, ghermire sul vivo scenari e personaggi, pri- ma che la bruma del passato non ne abbia fatto che miraggi e fantasmi. Hanno cercato di ristabilire, con la più scrupolosa coscienza, il susseguir- si psicologico dei grandi avvenimenti, invece di volgersi a leggende che, per la violenza degli uni o per la debolezza degli altri, hanno assunto per troppo lungo tempo l’aspetto della verità. In Re ciechi non c’è un’asserzione, un aneddoto, una suggestione che non sia un fatto materialmente riconosciuto, che non abbia la sua sorgente in un docu- mento o in una conversazione da noi potuta avere con uno dei protagonisti o dei testimoni del grande dramma. Se abbiamo cura di affermarlo, gli è che la realtà russa ha sovente sfidato la verosimiglianza, e l’epoca di Raspoutine più di ogni altra 8.

7 H. Iswolsky, No time to grieve…, cit., p. 162. 8 J. Kessel-H. Iswolsky, Re ciechi, Milano 1928, pp. 7-8. Elena Izvol’skaja e l’utopia della rivoluzione Russa 15

Nell’inverno 1929 Re ciechi compare anche a puntate sul settimanale “Excelsior”, sempre di proprietà della Vitagliano. A partire dalla seconda metà degli Anni Venti, la Izvol’skaja intensifica la sua carriera letteraria con la traduzione in francese di diverse opere, tra cui Oblomov (1926) 9 di Gončarov e Virinea (1927) 10 di Sejfullina. Tra l’ot- tobre e il dicembre 1927, la «Revue de France» pubblica l’altro suo roman- zo ambientato nella Russia rivoluzionaria: La jeunesse rouge d’Inna, scritto con l’amica Anna Kašina Evreinova (1898-1981), poi uscito in volume nel 1928 11. Va detto che né Anna Kašina, né il marito Nikolaj Evreinov (1879- 1953) 12, uno dei più importanti registi russi del XX secolo, sono tra le perso- ne che si scandalizzano per le scelte e gli scritti di Elena. Anzi, in Re ciechi è anche ravvisabile il riflesso di uno degli ultimi trattati che l’artista pubblica in patria poco prima dell’esilio a Parigi: Il segreto di Rasputin (1924) 13. L’edizione italiana di questo secondo romanzo esce nel 1930, a Firenze, con il titolo Giovinezza rossa e inaugura la collana “I romanzi della vita mo- derna” di Bemporad. La scrupolosa traduzione è realizzata da Raissa Olkie- nizkaia Naldi, che stavolta si firma come traduttrice. Nella prefazione pre- senta la Izvol’skaja come «figlia d’un ex-ministro del regime zarista, donna di profondi e severi studi», «coltissima gentildonna, traduttrice del Puschkin», dotata di «una speciale vocazione per gli studi storici e sociali» 14. In Giovinezza rossa confluiscono i ricordi dell’autrice sulle tormentate vi- cende della Russia rivoluzionaria. Nella sua descrizione delle difficoltà della vita quotidiana è possibile rintracciare un vivo riflesso del cambiamento di fede in atto nella sua patria – ivi compreso il culto tradizionale dei santi. Mol- ti passaggi di questo romanzo – come pure di Re ciechi – trovano effettivo riscontro nel memoriale autobiografico No time to grieve… In Giovinezza rossa il protagonista maschile è Nikolaj Razveev, il tipico uomo sovietico che vive nel fermo rifiuto dei valori dalla società russa tra- dizionale, e non solo arriva a disprezzare lo zar e tutto il ceto nobiliare, ma anche a negare l’importanza della fede e del matrimonio. Le sue convinzioni, però, sono messe in crisi dall’incontro con Inna – una fanciulla nobile rima- sta sola al mondo. Cresciuta ed educata in un collegio pietroburghese che, prima della Rivoluzione, era uno dei più prestigiosi per le giovani aristocrati- che, Inna si innamora di Razveev ma paga con il terribile dolore di un aborto

9 J. Gontcharoff, Oblomoff. Traduit du russe par H. Iswolsky, Paris 1926. 10 L. Seifoulina, Virineya. Traduit du russe par H. Iswolsky, Paris 1927. 11 H. Iswolsky-A. Kachina, La jeunesse rouge d’Inna. Roman, Paris 1928. 12 Alla morte del regista, E. Izvol’skaja scrive il necrologio Pamjati N. N. Evreinova, pubblicato a Parigi da «Novoe Russkoe Slovo» il 20 settembre 1953 (una copia è conservata a Parigi alla Bibliothèque Nationale de France, Collection Nicolas Evreinoff). 13 N. N. Evreinov, Tajna Rasputina, Leningrad 1924. 14 H. Isvolsky-A. Kašina, Giovinezza rossa. Trad. di R. Olkienizkaia-Naldi, Firenze 1930, pp. 5-8. 16 Maria Pia Pagani clandestino la leggerezza con la quale l’uomo ha scelto di vivere la loro breve ma intensa relazione. Delusa dal naufragio della sua storia con Nikolaj Razveev, Inna si sposa con un uomo di 25 anni più vecchio, soltanto per avere un domicilio regola- re. In patria assiste a profondi cambiamenti che anche la Izvol’skaja ricorda con amarezza nel suo memoriale, quali ad esempio l’abolizione di tutte le cappelle dedicate ai santi nei cimiteri e delle croci sulle lapidi. Dopo quattro anni di matrimonio fittizio, il marito di Inna decide di trasferirsi a Parigi. Ma la donna, che nel frattempo è stata ricontattata da un Razveev più maturo – disilluso sui valori della società sovietica e pentito per il suo comportamento di uomo – accetta la sua sincera richiesta di perdono e la proposta di un matrimonio d’amore. Scrive Raissa Olkienizkaia Naldi nella prefazione a Giovinezza rossa:

La giovinezza d’Inna sboccia per l’appunto all’ora del tragico tramonto di una so- cietà che è una serra artificiale fiorita da un terreno dissodato e bonificato da mi- lioni di schiavi; la fanciulla ricorda poco del suo breve passato chiuso tra le mura di un collegio aristocratico; non sono già la tradizioni o gli esempi morali che potranno servirla da guida nella vita; forte d’un sangue puro, di energie intatte, d’ingegno sveglio, essa s’affaccia alla soglia in un mondo che rantola e sghignaz- za, per nulla spaventata, sospinta dall’istinto della giovinezza che tende a vincere gli ignoti ostacoli, raggiungere le mète difficili. Senza appoggi, senza maestri, in una società che non conosce più vincoli morali né religiosi, la giovane soccombe naturalmente alla prima forte ondata della passione; l’orgoglio innato, la nobiltà dell’animo, il coraggio morale la riportano a galla mentre la rivoluzione attraversa le varie fasi della propria parabola e sbocca in un periodo di adattamento alle condizioni generali della vita europea, periodo che porterà il nome di Nep (nuova politica economica). Razvejev, l’uomo prescelto da Inna, è l’uomo della rivoluzione che ne percor- re il cammino: ardente e convinto soldato dell’esercito rosso, egli a grado a grado, passato il periodo eroico del comunismo, si trasforma in un convinto occiden- talista industriale, mediatore cosciente e duttile tra il proprio paese e l’Europa, l’uomo nuovo destinato a sopravvivere e che con istinto infallibile si cerca la com- pagna nella donna le cui radici affondano nello strato sociale che i secoli avevano scelto e plasmato per il dominio 15.

Va notato che negli Anni Trenta buona parte della produzione letteraria della Izvol’skaja è in francese, e si concentra sugli ultimi momenti del regime za- rista 16 e i cambiamenti socio-culturali in atto nella patria lontana. Lo studio per la configurazione del cittadino sovietico Nikolaj Razveev la porta anche

15 Ivi, pp. 6-7. 16 A. Blok, Les Derniers Jours du régime impérial. Rédige d’après des documents inédits, par Alexandre Block. Pétrograd 1921. Traduit par H. Iswolsky, Paris 1931. Elena Izvol’skaja e l’utopia della rivoluzione Russa 17

a scrivere il trattato L’homme 1936 en Russie soviétique 17, subito tradotto in inglese 18 e in tedesco 19. Lo studio per la configurazione di Inna, giovane nobile orfana che assiste al tragico crollo dei valori della società russa tradizionale e della fede, la porta invece a pubblica- re nel 1937 la monografiaFemmes so- viétiques 20. Dopo il 1917, la dimensione del viaggio che ha inizialmente connotato la vita di Elena Izvol’skaja in quanto figlia di un diplomatico, comincia ad assumere l’assetto definitivo dell’esilio – prima a Parigi e poi negli Stati Uniti 21. Nel 1939, nel ventennale della mor- te del padre, ella porta a termine la pub- blicazione della corrispondenza diplomatica degli anni 1906-1911 22. Da tem- po, però, sta maturando la scelta di trasferirsi con la madre negli Stati Uniti, dove già vive il fratello maggiore Grigorij (detto Griša): la data che segna questa nuova svolta nel suo cammino esistenziale è il 3 giugno 1941, giorno del suo insediamento a New York. Prima di lasciare per sempre la Francia, dove ammette di non essere riuscita ad avviare secondo le sue aspettative il dialogo interreligioso, traduce un’opera dell’amico filosofo Nikolaj Berdjaev (1874-1948) 23. Poco dopo l’arrivo negli Stati Uniti, è raggiunta dalla notizia del suicidio della poetessa Marina Cvetaeva (1892-1941), sua cara amica 24, per la quale nel 1933 aveva organizzato a Parigi un comitato d’aiuto 25. Con l’esilio americano, la sua attività letteraria si sposta sulla lingua ingle- se e nel 1942 pubblica Light before Dusk: a Russian Catholic in France 1923-

17 H. Iswolsky, L’homme 1936 en Russie soviétique, Paris 1936. 18 H. Iswolsky, Soviet man-now, London 1936. 19 H. Iswolski, Der Neue Mensch im Russland von Heute, Luzern 1936. 20 H. Iswolsky, Femmes soviétiques, Paris 1937. 21 M. P. Pagani, Il cammino della nobildonna Elena Izvol’skaja, in «Il Volto dei Volti», 2, luglio- dicembre 2009, pp. 44-50. 22 A. Iswolsky, Au service de la Russie. Correspondance diplomatique 1906-1911. Recueillie par H. Iswolsky avec le concours de G. Chklaver, 2 voll., Paris 1937-1939. 23 N. Berdiaeff, Constantin Leontieff: un penseur religieux russe du dix-neuvième siècle. Traduction d’H. Iswolsky, Paris 1938. 24 La poetessa menziona con affetto la nobile amica in molte lettere: vedi M. Cvetaeva, Deserti luoghi: lettere 1925-1941, a cura di S. Vitale, Milano 1989. 25 Cfr. E. Izvol’skaja, Posle razgroma (Iz vospominanij o Francii), in M. Cvetaeva-V. Rudnev, Nadejus’ – sgovorimsja legko: pis’ma 1933-1937 godov, a cura di L. A. Mnuchin, Moskva 2005, pp. 130-132. 18 Maria Pia Pagani

1941 26, un resoconto della sua personale esperienza di conversione. Durante la Seconda Guerra Mondiale lavora come giornalista per “Voice of Ame- rica”, organo ufficiale di comunicazione statunitense 27. Frequenta gli esuli russi (ritrova ad esempio l’amico Fedotov con la moglie), diventa membro della “Tolstoy Foundation” e della “Gallery of Living Catholic Authors” 28. Negli Stati Uniti – a differenza di Parigi – la Izvol’skaja ha la possibilità di scrivere con maggiore serenità testi sulla spiritualità ortodossa e di vivere con slancio il dialogo interreligioso. Nel 1946 fonda “The Third Hour”, un circolo animato dal sincero desiderio di unire con spirito ecumenico intellettuali catto- lici, ortodossi e protestanti. Ad esso si lega l’omonima rivista, in tiratura limita- ta, di cui è uscito un importante numero monografico in memoriam nel 1976 29. Nel 1956 torna a dare testimonianza della sua conversione e del suo im- pegno ecumenico con Return to Unity, pubblicato nel volume Where dwellest thou? curato da John Anthony O’Brien (1893-1980), che raccoglie altre undici vicende esistenziali emblematiche 30. Ottiene la cittadinanza statunitense, e si distingue anche nell’insegnamento universitario della letteratura russa: diventa infatti docente alla Fordham University di New York, e tiene conferenze in alcune prestigiose università. Inoltre collabora con diverse riviste, tra cui «Rus- sian Review» (per la quale scrive soprattutto saggi sulla letteratura russo-sovie- tica, sugli autori dell’emigrazione e sulla Rivoluzione) 31 e «Worldview» (per la quale scrive interessanti contributi sulla spiritualità ortodossa e i suoi problemi più attuali) 32. Traduce anche i testi agiografici per la raccolta A Treasury of Russian Spirituality (1950) 33, curata dall’amico Fedotov. Una delle sue monografie di maggiore successo è Christ in Russia (1960) 34. Nel 1961, poco dopo l’uscita (con ristampa nel 1962), riesce a tornare in pa-

26 H. Iswolsky, Light before Dusk: a Russian Catholic in France 1923-1941, New York-Toronto 1942. 27 Materiali d’archivio sono conservati presso l’Amherst College (Amherst Center for Russian Culture, Records of The Union of Russian Writers and Journalists Abroad). 28 Materiali d’archivio sono conservati a Washington (Georgetown University Libraries, Special Collections Division, Papers of Women Writers – Gallery of Living Catholic Authors). 29 T. E. Bird et al., The Third Hour: Hélène Iswolsky Memorial Volume, New York, The Third Hour Foundation, 1976. 30 H. Iswolsky, Return to Unity, in Where dwellest thou? Intimate personal stories of twelve converts to the Catholic faith, edited by J. A. O’Brien, London 1956, pp. 95-107. 31 Tra i contributi di E. Izvol’skaja per «Russian Review», si ricordino: Latest trends in Soviet literature (1, November 1941, pp. 74-80); Twenty-five years of Russian émigré literature (2, April 1942, pp. 61-73); Russian emigré literature in World War II (1, Autumn 1945, pp. 69-76); Vladimir Soloviev and the Western world (1, Autumn 1947, pp. 16-23); Soviet Literary Monuments (2, April 1962, pp. 137-147); The Russian Revolution seen from Paris (2, April 1967, pp. 153-163); The Fateful Years: 1906-1911 (2, April 1969, pp. 191-206). 32 Tra i contributi di E. Izvol’skaja per «Worldview», si ricordino: Religion in present-day Russia (11, November 1961, p. 9); The spiritual homecoming of Nicholas Berdyaev (3, March 1969, pp. 15-17). 33 A Treasury of Russian Spirituality, compiled and edited by G. P. Fedotov, New York 1950. 34 H. Iswolsky, Christ in Russia: the history, tradition and life of the Russian Church, Milwaukee 1960. Elena Izvol’skaja e l’utopia della rivoluzione Russa 19 tria accompagnata dall’amica e allieva Marguerite Tjader, che curerà l’edi- zione postuma del memoriale autobiografico No time to grieve... Dopo quasi mezzo secolo di esilio, la Izvol’skaja visita la Russia anche nel 1963 con un piccolo gruppo di insegnanti europei e americani, spostandosi poi in Asia Centrale. Nel 1963 è quindi a Roma, l’amata città della sua infanzia: qui in- contra Dmitrij e Lidija – i figli del poeta convertito al Cattolicesimo Vjačeslav Ivanov (1866-1949) 35, e segue da vicino il Concilio Vaticano II 36. Dal giugno 1961 all’aprile 1975, la Izvol’skaja scrive regolarmente anche per le riviste «The Catholic Worker» e «The Catholic Accent». Nei suoi ulti- mi anni di vita fonda a Cold Spring (New York) il “Saint Benedict and Saint Sergius Ecumenical Center”, e inizia la stesura del memoriale No time to grie- ve... 37 Altro pregevole esito è la sua traduzione del 1965 – più volte ristam- pata – dell’opera di Michail Bachtin (1895-1975) dedicata a Rabelais 38, che determina la fortuna del semiologo russo nel mondo anglosassone. Dopo un periodo di malattia, si spegne serenamente alla vigilia di Natale del 1975 39. Per il suo ultimo viaggio terreno, ella ha chiesto agli allievi dell’università e agli amici di vestire l’abito delle oblate benedettine, e di tenere tra le mani l’icona della Madre di Dio di Vladimir. Al termine del funerale, celebrato da tre sacerdoti, è stata sepolta nel piccolo cimitero di Tivoli (New York): il primo pugno di terra che venne gettato sul cofano, è quello che aveva per- sonalmente prelevato qualche anno prima, in patria, dalla tomba del filosofo Vladimir Solov’ëv (1853-1900). Quella manciata di terra russa ha segnato la conclusione del suo intenso peregrinare terreno, che ha avuto come nodo focale l’utopia della Rivoluzione russa. Evento, questo, di cui nel 2017 ricorre il centenario, e di cui la Izvol’skaja ha lasciato molte illuminanti pagine.

35 Cfr. M. Gerschenson-V. Ivanov, Correspondance d’un coin à l’autre. Traduction du russe par H. Iswolsky et C. Du Bos, Paris 1931. 36 H. Iswolsky, No time to grieve..., cit., p. 281. 37 Marguerite Tjader e altri amici hanno poi riordinato il suo prezioso archivio, oggi conservato all’Università di Scranton (Special Collections and University Archives, Weinberg Memorial Library, Helen Iswolsky Papers). 38 M. Bakhtin, Rabelais and his world. Translated by H. Iswolsky, Cambridge (Mass.), Massachus- sets Institute of Technology, 1965. 39 T. E. Bird, Hélène Iswolsky (1896-1975), «Irénikon», 4, 1976, pp. 491-496. conscientia et martiryum

«Se vuoi credere a coloro che penetrano più profondamente la verità, tutta la vita è un supplizio. Gettati in questo mare pro- fondo e tempestoso, agitato da alterne ma- ree, e che ora ci sol- leva con improvvise impennate, ora ci pre- cipita giù con danni maggiori dei presenti vantaggi e senza sosta ci sballotta, non stiamo mai fermi in un luogo stabile, siamo sospesi e fluttuiamo e urtiamo l’uno contro l’altro, e talvolta facciamo naufragio, sempre lo temiamo; per chi naviga in questo mare così tempestoso ed esposto a tutti i fortunali, non vi è altro porto che la morte. Perciò non guardar male la condizione di tuo fratello: è in pace. Finalmente è libero, finalmente sicuro, finalmente eterno. Ora egli gode del cielo libero e aperto; [...] ora vaga liberamente e contempla, con immenso piacere, tutti i beni della natura. Ti inganni: tuo fratello non ha perso la luce, ma ne ha trovata una più vera».

Dal 41 al 49 d.C., Lucio Anneo Seneca fu esiliato perché sospettato di aver preso parte a una congiura. Nel 44 rivolse a Giulio Polibio ministro a studiis dell’imperatore Claudio, che aveva fra i suoi compiti quello di esaminare le richieste di grazia che venivano rivolte all’imperatore, una Consolazione che, con i suoi toni a volte adulatori, costituisce una informale richiesta di grazia, nell’evidente speranza di poter tornare a Roma. Il testo si apre con un tema frequente in Seneca: tutto ciò che esiste è destinato alla fine, così le grandi opere umane, così le città, così l’universo intero. A questa legge fatale non sfugge l’uomo e dunque la perdita del fratello subita da Polibio è “parte della catastrofe che incombe sul Cosmo”. Se ciò potesse giovare a Polibio o al fra- tello perduto, Seneca si dice pronto a unirsi al cordoglio e qui inserisce un’in- vettiva contro la fortuna che è anche un’adulazione rivolta al dedicatario. Il processo Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare: come affrontare una condanna ingiusta di Giorgio Faro, Eugénio Lopes

Sogna chi qui si crede ricco: quando si sarà svegliato, si troverà povero (Thomas More, Epigramma n. 73)

Nelle cose umane, l’opinione ha forza e peso enormi. Non hai intenzioni cattive, ma se credono che tu le abbia, sei spacciato (Thomas More, Epigramma n. 25)

Ritratto di Edward Stafford, III duca di Buckingham, di autore ignoto, 1520, si- tuato nel Magdalene College.

1. Premessa

Intanto, spieghiamo il senso dei due epigrammi, pubblicati da Moro nel 1518 insieme all’edizione definitiva di Utopia. In quello stesso anno, Edward Staf- ford III, duca di Buckingham, l’uomo più ricco di Inghilterra dopo il mo- narca, si credeva ormai molto quotato nei favori del re e lo riceveva magni- 22 Giorgio Faro, Eugénio Lopes ficamente a Penshurst, nella sua tenuta del Kent. Tre anni dopo, nel maggio 1521, il Duca veniva decapitato per alto tradimento e tutti i suoi beni passa- vano nelle mani della Corona. Senza volerlo, il primo epigramma di Moro si applicava perfettamente a Buckingham 1. Il secondo è altrettanto riconducibile allo stesso. Già nel 1513, Enrico VIII aveva giustiziato Edmund de La Pole, che aveva sangue reale, essendo nipote degli ultimi due sovrani del casato York (i fratelli Edoardo IV e Ric- cardo III). Lo fece contravvenendo al giuramento del padre -Enrico VII- a Filippo I di Borgogna (che glielo aveva consegnato), di non fargli niente di male dopo averlo imprigionato nella Torre; ma almeno Edmund era fuggito dall’Inghilterra, cercando appoggi all’estero e aspirando al regno. Le “inten- zioni cattive” le aveva già dimostrate. Nella circostanza, a Enrico VIII bastò sostenere che lui non aveva fatto alcun giuramento, per ordinarne la decapi- tazione. Non a caso, John Guy fa risalire a tale iniziativa arbitraria la svolta tirannica del secondo sovrano Tudor 2. Anche forse per tale triste precedente, il 10 luglio 1517 Erasmo scriveva all’amico Moro il motivo del suo rifiuto a stabilirsi in Inghilterra: “mi fa orrore l’idea di stare sotto un tiranno” (Epistola 597, Allen). Si riferiva a Enrico VIII, ma genericamente a qualunque regno dove ci fosse un potere monocratico tendente all’assolutismo e al dispotismo arbitrario. Il vero motivo per cui fu giustiziato Buckingham sarà quello di avere san- gue reale, ma il Duca mai aveva dato effettiva prova di tramare contro il re. In effetti, il suo trisnonno era figlio di Edoardo III, Plantageneto; sua madre, una Woodville, sorella della moglie di Edoardo IV, York; e suo padre, cugino di Enrico VII Tudor, Lancaster (padre di Enrico VIII). Un pedegree con tutti i crismi per guardare con sospetto il Duca, da parte del monarca regnante. Sarà sufficiente la leggerezza nel comportamento del Duca, il rancore e l’in- vidia altrui, per attribuirgli “intenzioni cattive”. come avverrà: il senso del secondo epigramma. Non possiamo concludere questa premessa, senza motivare il riferi- mento a Shakespeare nel titolo di questo saggio. Nell’ultima opera teatra- le cui ha collaborato, The famous History of the Life of King Henry Eight, sappiamo che Shakespeare ha curato la parte iniziale (prima e seconda scena) che ci interessa molto, trattando proprio di Buckingham. Venne rappresentata al Globe Theatre, nel 1613. Nel prologo della rappresen- tazione, così si rivolge al pubblico: “questa volta non vengo a farvi ridere; ora vi presentiamo fatti di grave e serio aspetto, tristi, alti, commoventi, pieni di maestà e di dolore; e nobili scene che vi faranno piangere. Coloro

1 Per più estesi dati biografici sul Duca, segnaliamo, in lingua inglese: Cliff S.L. Davies, voce: Stafford Edward, third duke of Buckingham, Oxford Dictionary of National History, 2008; Barbara J. Harris, Edward Stafford, third Duke of Buckingham, Stanford University Press, Usa 1986. 2 John Guy, Thomas More and Tyranny, “Moreana”, vol. 49 (dic. 2012) p. 167. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 23 che hanno sensi di pietà, potranno qui -se vogliono- spargere qualche lacri- ma: l’argomento davvero lo merita. Chi ha speso il proprio denaro con la speranza di veder cose credibili, questa volta ne vedrà di vere” 3. Da cui, il sottotitolo: Tutto è vero 4. Ricorrerò, dunque, anche a Shakespeare che -come noto- si documentava sempre su fonti storiche, prima di intrapren- dere i suoi lavori 5.

2. Aspetti comuni a Edward Stafford III, duca di Buckingham, e Thomas More, cavaliere aurato

Cosa poteva accomunare questi due personaggi e che relazione c’era tra di loro? Innanzitutto sono quasi coetanei, essendo entrambi nati nel 1478. Tutta- via, Edward, nato nel castello gallese di Breknok, faceva parte della più alta aristocrazia inglese. Moro nacque nella più modesta e commerciale Milk Stre- et e sul suo epitaffio, trascritto nell’ultima lettera a Erasmo (Epistola 2659, Allen, giugno 1533), descrive la sua famiglia: “non nobile, ma degna di essere onorata” 6. Thomas More conosceva il Duca abbastanza bene: dal luglio 1518, era entrato a far parte del Privy Council della Corona (che si riuniva alla Star Chamber), di cui il Duca era membro dal 1509. In precedenza, Moro da vice-sceriffo di Londra (vice-sindaco) -con il Duca e il Vescovo di Norwich- aveva collaborato ad accertare il diritto di alcuni commercianti a partecipare al governo della City 7. Inoltre, al Campo del drappo d’oro, nel giugno del 1520, dove s’incontra- rono in Francia (sfidandosi in costosissime magnificenze) Francesco I ed En- rico VIII, erano ancora presenti entrambi; come pure nei ravvicinati incontri con l’imperatore Carlo V, a Canterbury e Gravelines. Entrambi avevano un’opinione negativa di Enrico VII, padre del re at-

3 Seguo la traduzione dell’insuperato Mario PRAZ, in William Shakesepare, Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1964. 4 Il resto del dramma viene attribuito al protestante Fletcher, cui si deve la parte dedicata alla filo-protestante Anna Bolena, nonché la retorica encomiastica dedicata ai Tudor, specie per celebrare la futura regina Elisabetta. 5 In A complete collection of State’s Trials (fino al 1783), a cura di T. B. Howell, London 1816, al n. 27, dedicato al processo al III duca di Buckingham, si citano le seguenti fonti storiche di epoca Tudor: Polidoro Virgilii, Historia Angliae, ed. Basil, pp. 660-665; Edward Hall, The Union of Lancaster and York, foglio n. 85; Raphael Holinshed, Chronicle of England, Scotland and Ireland, II ed. p. 863; John Stow(e), Annales, pp. 510-512; Richard Grafton, Chronicle of History of England, p. 1044, che -seguito da Shakespeare- riproduce quanto già narrato in E. Hall. 6 Erasmo, Thomas More, “Più di metà dell’anima mia”. Corrispondenza, a cura di Giuseppe Gangale, Edizioni Studium, Roma 2016, p. 212. 7 Cfr. Peter Akroyd, Thomas More, trad. it. L. Cafiero, Frassinelli, Milano 2001, p. 141. 24 Giorgio Faro, Eugénio Lopes tuale. Il giovane e nullatenente Moro, neo-deputato che si era opposto vitto- riosamente in Parlamento contro le sue vessazioni fiscali, si vide il padre John incarcerato nella Torre, per pura ritorsione, con accuse fasulle. Fu possibile liberarlo, solo dopo salata cauzione (100 sterline di allora). Moro, forse con scarso tatto, aveva celebrato in un carme gratulatorio la fine di un’epoca tirannica e priva di libertà 8, nel 1509; ma salutava anche l’avvento del promettente Enrico VIII, con grande gioia e speranza per la monarchia inglese, magnificandone il regale matrimonio con la principessa Caterina, vedova del fratello maggiore, re Arturo. Lodi cui si unì, entusiasta, l’amico Erasmo. Moro avrebbe potuto vedersela brutta, quando il suo avversario (per mo- tivi nazionalistici), l’umanista francese Brixius (Germain De Brie), ricordò – proprio nel 1520 nel suo polemico Antimorus – di aver pubblicato quei versi, con il rischio che quello scritto potesse rinnovarne la memoria al re attuale, mettendolo in cattiva luce (proprio ora che era suo consigliere) per indiret- ta diffamazione del padre 9. Solo la mediazione di altri umanisti (Erasmo e Budé) riuscì a contenere i bellicosi contendenti. Ciò mostra come il carattere di Moro, ancor focoso e necessario di maggior temperanza, gli procurasse qualche rischio. Prevalsero poi il perdono e la pace tra i due. Il Duca condivideva il cattivo giudizio di Moro su Enrico VII. Quando fu accusato di alto tradimento, tra le molte voci di corridoio inserite come capi di accusa, gli fu attribuita questa frase diffamante del padre del re: “tutto quello che Enrico VII aveva fatto, lo aveva fatto male” 10. Tranne, forse, il fatto di averlo reintegrato del titolo e dei possedimenti persi dal padre (con la sua testa) e confiscati da Riccardo III. Il Duca stesso aveva dovuto reprimere nel sangue, nel 1497 a Blakheat, la rivolta della Cornovaglia contro le esosità fiscali di Enrico VII (noto per l’avarizia), esplicitamente ricordata in Utopia (I,13). Come a Moro, a Buckingham veniva attribuito un forte spirito religioso (mescolato però – nel Duca – a credulità 11). Nel 1520, stava progettando un prossimo pellegrinaggio a Gerusalemme. Inoltre, ignaro di trovarsi nel suo ultimo viaggio – da uomo libero – sul Tamigi (pedinato da un’imbarcazio- ne di guardie reali), aveva sostato in pellegrinaggio al santuario mariano di Nostra Signora di Eyton, sul fiume (presso Reading), poco prima di essere

8 Cfr. Matteo Perrini, Ritratti di Thomas More, Ed. La Scuola, p. 43. 9 Carme gratulatorio (Coronation Ode) in: T. Moro, Tutti gli Epigrammi, a cura di Luigi Firpo e Luciano Paglialunga, san Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1994, pp. 151-165. 10 Cfr. nota 43. 11 Richard Marius non esita a definirlo “superstizioso”, in Thomas More: a Biography, Knopf, New York 1984, p. 203. Erasmo scrive invece di Moro: “è un credente ardentemente ansioso di verace religiosità, quantunque agli antipodi da ogni superstizione”, in Lettera a Ulrick von Hutten (Epistola 999 Allen). Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 25 abbordato e arrestato nell’aprile 1521 12. Così come Moro, poco prima di essere arrestato (13 aprile 1534) si era recato al santuario di Nostra Signora di Willesden; ben consapevole, però, di quanto avrebbe potuto accadergli a breve 13. Anche Shakespeare sottolinea lo spirito cristiano del Duca (atto I, sce- na prima dell’Henry VIII) che, al momento dell’arresto e dell’invito alla re- clusione nella Torre di Londra, replica così:

“Non mi gioverà affatto proclamar la mia innocenza perché ho addosso una tale tinta che farà nera fin la più candida parte della mia vita. Come in ogni altra cosa, sia fatta in ciò la volontà del cielo. Obbedisco”.

Come Moro, che sarà patrono delle Università di Oxford e Cambridge, il Duca fu benefattore della cultura. Fece costruire e sostenne, a sue spese, il Magdalen College (Cambridge), dove se ne conserva un ritratto. Buckingham e Thomas More erano buoni e intimi amici della regina Caterina, che anche nel dramma Henry VIII, nella parte attribuita al Bardo dell’Avon, svolge un ruolo favorevole al Duca. Sappiamo che – poco prima dell’esecuzione – Caterina in persona scrisse al marito la richiesta di grazia, respinta dal reale consorte. Nell’opera shakespeariana, la regina si prostra davanti al re a invocare la grazia; e lo mette in guardia, sul fatto che le accuse contro il Duca possono derivare da malanimo di una servitù vendicativa e invidiosa... Entrambi, Moro e il Duca, avevano riserve (ben manifeste nel Duca) circa il comportamento del Cancelliere dell’epoca, , troppo arrogante e machiavellico per essere loro accetto. Una diffidenza assai fon- data se, nel 1526, lo stesso nunzio papale in Inghilterra, Uberto Gambara, avvertiva papa Clemente VII del pericolo rappresentato dall’onnipotenza del cardinal Wolsey, che erodeva il primato dell’Arcivescovo di Canterbury, disponeva a suo beneficio e uso dei beni della Chiesa e portava avanti una politica personale, contraria agli interessi stessi della santa Sede 14. Moro, che pure aveva inizialmente apprezzato Wolsey per la sua premura nel render giustizia ai poveri e per il suo patrocinio a favore della cultura umanistica, alla fine ci lascerà questo giudizio: “un uomo di alta statura intellettuale [...]”, ma “vanitosissmo oltre misura. Questo lo danneggiava e gli faceva abusare dei

12 Cfr. Robert Hutchinson, The Young Henry VIII, Orion Books, London 2011, cap. VIII (tra le note 111 e 112). 13 P. Akroyd, Thomas More, op. cit., p. 325. 14 Cfr. J. Guy, Thomas More and..., op. cit., p. 167. 26 Giorgio Faro, Eugénio Lopes molti eccellenti doni, che Dio gli aveva dato. Non era mai sazio di udire le sue lodi” 15. Infine, altro aspetto che accomuna il Duca e Thomas More, è il fatto che entrambi siano stati condannati a morte per alto tradimento dallo stesso Enrico VIII. Ed entrambi si protestarono sino all’ultimo innocenti, nonché fedeli servitori del Re. E a entrambi, la graziosa concessione del monarca commutò la pena dei traditori – cruenta e dolorosa messinscena – in semplice decapitazione.

3. Aspetti divergenti tra Moro e Buckingham

Cosa divideva Moro dal Duca? Innanzitutto, il fatto che il Duca appartenesse alla più alta aristocrazia, il primo del regno dopo il re, da cui aveva ricevuto – nel 1509 – il titolo unico ed ereditario di High Constable (Alto Connestabile), nonché di High Steward: il solo, tra i Lords, incaricato di portargli la corona nel giorno dell’intronizza- zione. La sua corte assomigliava a quella di un re. Moro verrà creato knight (titolo minore), cavaliere aurato, poco dopo la morte del Duca. Un più profondo motivo di divisione è invece determinato dal fatto che Buckingham era uno dei maggiori responsabili della politica delle enclo- sures, contro i quali Moro si scaglia in Utopia (I,18-19) 16. Ovvero, licenziava molte centinaia di contadini – lasciandoli senza lavoro –, per trasformare i suoi enormi latifondi in pascoli recintati e arricchirsi con l’esportazione di lana verso le Fiandre. Infatti, il pascolo ha bisogno di mano d’opera esigua. Imitato da tanti altri nobili (e anche da alcuni alti prelati, cfr. Utopia I,18), il risultato era la disoccupazione, l’abbandono dell’agricoltura e l’aumento del- la piccola criminalità dedita ai furti; ivi, la caccia di frodo nelle tenute terriere che gli attuali disoccupati avevano un tempo coltivato. Perciò, vigeva una legge che comminava l’impiccagione ai ladri; altra misura eccessiva, contro cui More si scaglierà più volte, intervenendo – da Cancelliere – con decreti sospensivi delle sentenze di morte, chiaramente inique 17. Dalla vendita di lana nelle Fiandre dove era lavorata (si producevano splendidi abiti) derivavano, oltre a lauti guadagni, la passione del Duca per lo sfarzo, il lusso nel vestire e i tessuti ricamati d’oro; il che contrastava con

15 T. Moro, Dialogo del conforto nelle tribolazioni, a cura di M. Nicoletti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 288. 16 Questa notizia si rinviene in C. S. L. Davies, alla voce: Stafford Edward, Third Duke of Buckingham, Oxford Dictionary of National Biography. Oxford University Press 2004. Http://www. oxforddnb.com/view/article/26202. Ultimo accesso ottobre 2015 17 Cfr. William Roper, Vita di Thomas More, a cura di G. Faro, Fontana di Trevi, Roma 2014, pp. 43-44. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 27 la sobrietà degli Utopiani, che vantavano solo due vesti: quella di lavoro -di panno grezzo- per i giorni feriali, e quella bianca per i giorni di festa. L’oro, con sommo disprezzo, era il materiale che destinavano ai vasi da notte. Si noti l’ironia di More: anche gli utopiani sembrano conoscere l’adagio medie- vale che indica nel denaro “lo sterco del diavolo”. Inoltre, come la maggior parte dei suoi Pari, il carattere orgoglioso del Duca lo portava facilmente all’irascibilità – che talvolta lo induceva a bestem- miare – attirandosi non solo invidia, ma anche rancore. Aggiungiamo che, almeno nei suoi possedimenti (dove si faceva regalmente chiamare: “Vostra grazia”), era incauto nel parlare; e certamente – anche in pubblico – non esattamente un diplomatico. La sua avversione a quel plebeo del Cancelliere di Inghilterra, il cardinal Wolsey (di umili origini, ma divenuto arrogante più di lui), era nota a tutti. Questo vano orgoglio dei nobili, presente nel parvenu Wolsey, era av- versato da Moro, perché contrario alla fede e all’umiltà. Pur ascendendo di grado e ricchezza Moro, benefattore dei poveri, si rivelerà sempre pronto a fare a meno di tutto, come dimostra l’epilogo della sua vita. Sapeva fino in fondo vivere il valore del distacco e dell’abbandono in Dio: nella buona e nel- la cattiva sorte. Nel Dialogo del Conforto nelle tribolazioni, scritto da recluso nella Torre di Londra, Moro si chiede come si faccia ad essere ricchi e stimati e non montare in superbia? Consigliava perciò, a chi si trova in alto, ciò che lui stesso -asceso di gra- do e fortuna- aveva sempre praticato: “pensare che come tutti, nudo viene al mondo e nudo se ne va. Pensare a Inferno e Paradiso. Che il mendicante, come Lazzaro, potrebbe andare dritto in cielo: e lui? Poi gli farebbe bene la confes- sione frequente. Si trovi un posto solitario per un ritiro spirituale, meditando la passione e pensando di prepararsi come fosse l’ultimo giorno, a ringraziare del bene e pentirsi del male, davanti a Dio che lo ascolta” 18. Ciò che Moro consigliava, lui lo viveva. Uno dei primi epigrammi, tradotto dal greco, recita: “nudo venni al mondo e me ne andrò nudo. Perché mi affanno, quando so che la morte è nuda?” (Antologia Planudea X,58). Infine, pensando non solo all’Inghilterra, Moro vedeva delinearsi -nel mondo aristocratico- ciò che denunciava come coniuratio divitum, una con- giura di ricchi che dominano le nazioni e, non paghi di ciò, riescono anche a sottopagare il lavoro dei poveri (Utopia II, 266). Forse anche per questo, rivela un suo biografo, “molto spesso invitava alla sua tavoli i vicini più poveri e li accoglieva caramente e familiarmente. Di rado invitava i ricchi. Difficilmen- te, i nobili” 19. Anzi, in Utopia (II,149), sembra evocare proprio Buckingham (che aveva istituito elaborati cerimoniali a lui dedicati), quando scrive in tono

18 T. Moro, Dialogo del conforto..., op. cit., pp. 232-233. 19 T. Moro, Utopia, II,265. 28 Giorgio Faro, Eugénio Lopes satirico: “che senso ha questo prendersela tanto per un vano cerimoniale che appare una scempiaggine? Cosa apporta [...] vedere un altro che si scopre il capo e piega le ginocchia?” È incredibile come i nobili se ne sentano lusingati “solo perché accade loro di nascere da una famiglia considerata ricca da molte genera- zioni, soprattutto di terre: oggi la nobiltà non è altro che questo”. Paragonata al regime di Utopia, “non è dunque ingiusta e ingrata questa società, che prodiga tanto benessere ai cosiddetti nobili […] e al contrario non offre nulla di buono a contadini, carbonai, braccianti, vetturali e carpentieri, senza i quali lo Stato non esisterebbe del tutto?” 20.

4. Inizio ed epilogo delle sventure del Duca

Come abbiamo ricordato, nel 1518 il Duca toccava il cielo con un dito, quan- do accolse il re nella sua tenuta nel Kent 21. Credeva di essere all’apice e lo era. Proprio per questo, Enrico VIII, invidioso della sua popolarità, cominciò a guardarlo con sospetto. Tanto più che, nello stesso anno, il figlio del Duca, Edward, sposava in un matrimonio di sangue blu -quanto mai eccellente- Ur- sula Pole (duchessa di Salisbury), altra discendente -per via di madre- della famiglia reale dei Plantageneti, cosa che acuiva ancor più i sospetti e i timori del re, sui potenziali rischi provenienti dal casato dei Buckingham. Di lì a poco, il re rimproverò pubblicamente il Duca per non essere stato capace di sedare -in modo definitivo- alcuni disordini scoppiati nel turbo- lento Galles, qualche anno prima. Nel 1519, ci fu il faraonico matrimonio della figlia del Duca, Mary; ma, nel 1520, le cose precipitarono. Innanzitutto, il cancelliere Wolsey fu molto infastidito dall’opposizione del Duca alla sua scaltra politica di mediazione tra l’imperatore Carlo V e il re di Francia Fran- cesco I (ammiccando ora all’uno, ora all’altro – in cambio di lauti compensi- con l’Inghilterra ago della bilancia dei loro insanabili contrasti). Il Duca era sempre stato filospagnolo e anti-francese e, da tempo, si sapeva cosa pensasse (e con lui il popolo) di Wolsey. Nell’atto II dell’Henry VIII, si legge:

“Tutto il popolo lo odia a morte [Wolsey] e lo vorrebbe, a dir il vero, almeno dieci piedi sottoterra. E altrettanto ama il Duca, anzi lo adora: “il generoso Buckingham”, lo chiama, “specchio d’ogni squisita cortesia”.

20 T. Moro, Utopia, II,265. 21 Fonte, on-line: http://www.luminarium.org/encyclopedia/edwardstafford.htm. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 29

Altra disavventura fu licenziare dal servizio, alla vigilia dell’incontro del Drappo d’Oro (giugno 1520) il cugino, nonché sovraintendente (hig steward) di tutte le proprietà del Duca: Charles Knevet (o Knyvet). Vedremo presto, che ne deriverà. Infine, il caso William Bulmer, che risale al novembre 1520. Chi era costui? Ne parla anche Shakespeare nel I atto dell’Enrico VIII (scena seconda). Si trattava di un servitore del re, che nel novembre 1520 si licenziava. Il re scoprì poi che era stato assunto dal Duca, di cui vestiva la livrea, cosa che lo irritò profondamente. Fece mettere sotto processo Bulmer, alla Star Cham- ber, il quale dovette supplicare il perdono del re e tornare al suo servizio. Chi si credeva di essere il Duca, che gli sottraeva i servitori: il nuovo re? Il nostro, temendo il peggio, pensò di riconciliarsi e riottenere i favori perduti con l’inviare il proprio maggiordomo Robert Gilbert (qualche altra fonte lo chiama Perk) con una coppa d’oro di gran valore, da offrire al suo nemico: Thomas Wolsey (natale 1520). Inoltre, regalò costosissime vesti ai servitori e alle guardie reali di Enrico VIII. Infine, chiese autorizzazione, al re e a Wolsey, di reclutare nelle sue terre alcune centinaia di armati -con cui sedare definitivamente i disordini nel Galles per cui era stato rimproverato due anni prima-, recuperando così il suo onore. Mal gliene incolse. Il 18 aprile 1521, mentre -ignaro- era in viaggio per comparire avanti al re, che lo aveva perentoriamente convocato, il Duca veniva arrestato e in- carcerato alla Torre di Londra. Ricorda il Reynolds, che contro il Duca si ap- plicò la legge sui tradimenti, che risaliva a Edoardo III, emanata nel 1352 22. L’incriminazione doveva basarsi su “qualunque azione manifesta”; ma dato che, nella legge, la definizione di reato era espressa in termini assai angusti, i giudici si erano attenuti a un’interpretazione estensiva, creando una nefasta consuetudine applicata ai rei di alto tradimento. Si contemplavano i seguenti motivi di incriminazione:

- attentare alla vita del re; accusa sostenuta dal cugino e già massimo sovrain- tendente dei beni del Duca, Charles Knevet. Anche Shakespeare ricorda che, poco prima dell’incontro anglo-francese al Campo del Drappo d’Oro, il Duca lo aveva licenziato (per “reclami dei contadini”). Ed ora costui saltava fuori, affermando che il Duca aveva un piano di prossima attuazione – con la scusa di incontrare il re – per pugnalarlo a tradimento, ricordando che anche il pa- dre del Duca si era ribellato al suo re, Riccardo III (ma per allearsi a Enrico VII, il padre dell’attuale re!). Aggiunse Knevet che il Duca aveva anche detto (una sparata verosimile...), che se il re fosse morto nell’ultima sua malattia, e lui gli fosse subentrato come successore, le prime teste a saltare sarebbero

22 Ernest E. Reynolds, Il processo di Tommaso Moro, Ed. Salerno, Roma 1985, p. 121. 30 Giorgio Faro, Eugénio Lopes state quelle di Sir Lowell (luogotenente della Torre di Londra) e del cardinal Wolsey. Il malanimo del cugino era comunque evidente. Shakespeare non manca di rilevarlo, nel I atto dell’Henry VIII;

- muovergli guerra; accusa sostenuta dal maggiordomo del Duca, Robert Gil- bert, che in molti reputano l’autore della lettera anonima inviata al nemico di- chiarato del Duca, il cardinal Wolsey. Come sappiamo, il Duca lo aveva spedito proprio da Wolsey, portando la pregiata coppa d’oro come strenna natalizia; e lo aveva incaricato di inviare le splendide e costosissime vesti alle guardie e ai servitori del Re. Sembra che Wolsey colse al volo l’occasione per guadagnarsi i favori del maggiordomo, a danno del padrone. Nella citata lettera si affermava che il Duca -sotto il pretesto di sedare disordini in Galles- stesse reclutando armati, per usurpare il regno; Gilbert dichiarò inoltre, mostrandone le prove, che aveva anche regalato costosissime vesti alle guardie del Re, sottolineando l’evidente intenzione di “guadagnarsele, al momento opportuno”; ma erano regali che si potevano fare per tanti altri motivi, dopo la cicatrice fresca del caso Bulmer. La corruzione del maggiordomo è rilevata anche da Shakespeare, nel citato Henry VIII, dove fa dire al Duca (I atto, scena prima):

Anche il mio maggiordomo mi ha tradito Il grande arcipossente cardinale gli ha mostrato di che colore è l’oro. Le mie ore sono contate; non son che l’ombra del povero Buckingham, su cui una nube tenebrosa viene a offuscare il mio splendente sole, e mi cancella.

- far causa comune con i nemici del re; in questo caso, con quanti gli profe- tizzavano un futuro infausto, senza figli maschi che potessero ereditarne il regno. Si tratta del frate-indovino Nicholas Hopkins, di cui il Duca aveva ascoltato profezie che lo vedevano succedere al trono di Inghilterra, in man- canza di eredi di Enrico VIII. In fondo, si poteva anche parlare di alleanza con persone che auguravano il male al re. Quest’accusa fu sostenuta da John Delacourt, confessore del Duca, che avrebbe dovuto custodire il segreto su queste frequentazioni, come gli aveva esplicitamente richiesto di giurare Buckingham nel foro interno della confessione (anche Shakespeare evoca il sigillo sacramentale) 23. Aver interrogato e ascoltato frate Hopkins, tramite Delacourt o diret- tamente, era l’unica accusa che poteva trovare corrispondenza ed era certo

23 Così, J. Guy, Thomas More and Tyranny, op. cit., p. 167. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 31 verosimile, dato che venne provato che -in taluni casi- il Duca stesso si recò dal frate-indovino, alla Certosa di Henton. Anche se, dopo la nascita della figlia di Enrico VIII e Caterina, Mary (nel 1516), le frequentazioni cessarono senza che venisse meno un trattamento di riguardo verso il frate. La credulità del Duca era affiorata quando aveva saputo che il certosi- no aveva predetto che, se il re di Scozia avesse invaso l’Inghilterra, impe- gnata di lì a poco nella guerra sul continente con i Francesi (dove si recò il Duca stesso), non sarebbe più tornato a casa. In effetti, Giacomo Stuart IV attaccò in quel frangente (settembre 1513). E rimase sul campo di battaglia a Flodden, sconfitto da un raccogliticcio esercito inglese guidato dal duca di Norfolk. Il Buckingham, stupito, fece domandare al frate come avesse fatto a sa- perlo. La riposta fu: “per rivelazione divina!” 24. Ed ecco che il Duca gli chiese ragguagli circa il suo futuro. Frate-indovino gli rispose che il re non avrebbe avuto eredi maschi (profezia errata: avrà Edoardo -futuro re- da Jane Sey- mour, terza moglie) e che il Duca “avrebbe avuto tutto”; e che si preoccupas- se, nel frattempo, di accrescere quella popolarità che certo non gli mancava. L’unica accusa realmente provata fu questa, come confermò lo stesso Hopkins, poi graziato e inviato in ignoto convento, scomparendo di scena. Due altri Lords, suoi generi, ai quali il Duca (su accusa dei famigerati Knevet e Gilbert) aveva osato declamare il proprio sangue reale e le sue potenziali- tà di successore del re (all’epoca, senza eredi), ove questi fosse morto nella guerra in Francia. I due generi, sospettati e condannati per “omessa denun- cia” di tradimento, vennero poi graziati dal re e riammessi al suo favore. Ne parla anche Shakespeare: Lord Abergavenny (aveva sposato Mary Stafford) e Lord Westmoreland (Catherine Stafford). Tutte queste accuse, ed altre di minor entità, si trovano minuziosamente riepilogate al n. 1284, di Letters and Papers Foreign and Domestic of Henry VIII, vol. 3, in data 13 maggio, sotto il titolo: Trial of the Duke of Buckin- gham 25 (cfr. BHO, British History on line). Il fatto che Moro non fosse aristocratico è il motivo della sua assenza al processo Buckingham. In queste cause, chi aveva sangue blu poteva essere giudicato solo davanti al Re e ai suoi Pari, che all’epoca ammontavano a 70. Tra questi, si selezionò una giuria di 17 membri, di cui conosciamo nome e cognome, a capo della quale c’era un altro genero dell’imputato: il duca di Norfolk (aveva sposato la figlia maggiore, Elizabeth Stafford). Si sapeva peraltro, fin dall’inizio, che il re -anche condizionato da Wol- sey- si aspettava dai Lord suoi Pari solo una sentenza: condanna a morte. Il 13 maggio, il duca di Buckingham venne tradotto dalla Torre, sotto guarnita

24 Cfr. A complete collection of State’s Trials, op. cit., vol. I, p. 289. 25 Per gli aspetti giudiziari del processo, cfr. B. Harris, The Trial of the Third Duke of Buckingham-A Revisionist View, in “The American Journal of Legal History”, Vol. 20, No. 1 (Jan., 1976), pp. 15-26. 32 Giorgio Faro, Eugénio Lopes scorta di 500 armati (si temevano disordini per la sua popolarità), al tribunale di Westminster. Ne uscirà con i soldati che gli puntavano contro il taglio delle alabarde: segno, che era stato condannato. Al Duca non fu concesso replicare direttamente contro i quattro accusa- tori (tre suoi servitori, oltre frate Hopkins). Le loro testimonianze gli erano state solo lette, ma gli si concesse di parlare a sua difesa; lo fece -con eloquen- za- per circa un’ora, producendo grande impressione sugli ascoltatori 26. Possiamo ipotizzare che, nell’arringa difensiva, abbia ricordato come nel 1517 proprio lui, scelto tra dodici combattenti che avrebbero potuto cimen- tarsi contro il re in persona, in un torneo dove ci si presentava in incognito, avesse rifiutato, non volendo rischiare di portare le armi contro il suo re. Come lo si poteva, dunque, sospettare di volontà omicida? Avrà anche ammesso di aver ascoltato frate Hopkins, ma poteva dimo- strare che aveva cessato di frequentarlo dal 1516, dopo che al re era nata un’erede: la principessa Mary. Segno che, qualunque cosa avesse sperato, era pronto a considerarla legittima regina di Inghilterra. Si parlò poi falsamente di un possibile piano, per detronizzarla: in effetti, l’Inghilterra, assai maschi- lista – pregiudizio contro cui si batteva Moro –, era ancora impreparata a farsi governare da una regina (acuendo le paure di Enrico VIII). Il Duca, avrà poi fatto rilevare la malafede del cugino Knevet, desidero- so solo di vendicarsi del licenziamento, e l’invidia rancorosa o l’interesse del maggiordomo Gilbert (corrotto da Wolsey). Ciononostante, restava tutta la pressione di Enrico VIII (e di Wolsey) per una sola sentenza: guilty, colpevole! Scrive il Reynolds che “i processi per tradimento non erano tanto proce- dimenti legali quanto azioni politiche e se -nell’opinione del re- qualcuno era colpevole di tradimento, aveva ben poche probabilità di sopravvivere” 27. Nella sua Storia di Inghilterra, al cap. 26, il filosofo David Hume scriverà che il popolo si aspettava una grazia (come la regina Caterina), perché il reato sem- brava piuttosto figlio dell’indiscrezione nel parlare, tipica del Duca, che non deliberata malvagità criminale. Chambers lo definisce un “omicidio legale”, ossia, mascherato da legalità 28. E. Sala scrive: “risale al 1521 l’assassinio giudiziario del duca di Buckin- gham, grande nobile ed amico della regina Caterina, colpevole di costituire solamente una minaccia, perché il più vicino alla linea di successione, dopo Enrico” 29. J. Guy, parla di show trial: processo farsa 30. Secondo Pollard, “Buckingham fu giustiziato non perché fosse un criminale, ma perché era o

26 BHO, Calendar of State Papers Relating to English Affairs in the Archives of Venice, vol. 3, n. 213, in data 13 maggio. Consultabile su Internet. Le relazioni degli ambasciatori veneti a Londra sono state sempre preziose. 27 E.E. Reynolds, Il processo di Tommaso Moro, Salerno, Roma 1983, p. 123. 28 Raymond W. Chambers, Tommaso Moro, op. cit., p. 251. 29 Elisabetta Sala, L’ira del re è morte, Ares, Milano 2008, p. 102. 30 J. Guy, Thomas More and Tyranny, op. cit., p.167. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 33 poteva diventare pericoloso: il suo crimine non fu di alto tradimento, ma di- scendere da Edoardo III” 31. Nella relazione dell’ambasciatore veneto a Londra, Antonio Suriano, si legge che il Duca – poco prima che fosse pronunciata sentenza – si rivolse ai suoi Pari, vedendoli esitanti a dichiararla (il genero, duca di Norfolk, la pro- nunciò poi tra le lacrime). Dimostrando nell’occasione anche nobiltà d’ani- mo e senso cristiano, conscio che il Re ne volesse la morte, si disse “contento di subire quella punizione: non tanto per un crimine di cui era assolutamente innocente, basato su falsità, ma per i suoi davvero grandi peccati” 32. E avrebbe anche aggiunto: “miei Lords, io non ho alcun rancore per quel che mi avete fatto oggi, ma Dio Sempiterno vi perdoni per la mia morte, come anche io ora perdono voi. Vi chiedo, miei Lords e miei compagni, di pregare per me” 33. Dopo la sentenza, scrive il biografo di Wolsey, il Duca disse apertamente che “se fosse stato colpevole verso Dio non più di quanto lo fosse verso il re, nessuno avrebbe potuto presentarsi al giudizio di Dio più innocente di lui” 34. Fu giustiziato tre giorni dopo, il 17 maggio 1521. “Tutta Londra ne com- misera la morte”, commenterà l’ambasciatore veneto, aggiungendo: “i nostri compatrioti italiani non ebbero cuore di vederlo morire” 35. Nemmeno il re, perché a letto con febbre alta, riferisce la stessa fonte. Wolsey mormorò al Cancelliere di Francia, Antoine Du Prat, nei giorni successivi all’esecuzione, che il Duca era morto per essersi opposto alla sua politica filo-francese 36. Poco dopo, circolò un allusivo libello intitolato: Carnificis Filius.Wolsey era figlio di macellaio (perciò, mandava al macello...). L’odio popolare aumentò. Nell’Henry VIII, tragedia commissionata per celebrare la futura Elisabetta Tudor, si dà ovviamente tutta la colpa a Wolsey che avrebbe ingannato e in- dotto all’errore l’ignaro sovrano. Nella prima scena del II atto, le parole del Duca -sul patibolo- sono in linea con le testimonianze storiche:

Oggi m’è stata inflitta la condanna di traditore, e sotto questa infamia dovrò morire. Dio m’è testimone, però, s’io fui sempre fedele al re; e se questa non è la verità, com’è vero che serbo una coscienza, Dio mi sprofondi nel più nero inferno

31 Albert, F. Pollard, Wolsey, Longmans Green and Company, New York 1929, p. 146. 32 BHO, Calendar of State..., op. cit., vol. 3., n. 213, in data 17 maggio. 33 Parole riportate dallo storico di epoca Tudor, E. Hall, The Union..., op. cit., p. 624. Mi riferisco alla ristampa londinese del 1809. Il volume, conservato presso la Cornell University Library, disponibile in pdf, è on-line. 34 Albert F. Pollard, Wolsey, op. cit., p. 316. 35 BHO, Calendar of State..., op. cit., vol. 3., n. 213, in data 17 maggio. 36 A. F. Pollard, Wolsey, op. cit., p. 316. 34 Giorgio Faro, Eugénio Lopes

allorché la mannaia del carnefice cadrà sopra il mio collo. Alla legge non serbo alcun rancore per la mia morte: essa ha fatto giustizia, secondo le testimonianze addotte; ma quelli che han voluto la mia fine vorrei fossero stati più cristiani. Comunque, siano quel che voglion essere, io li perdono di cuore; (...) E dunque voi, quei pochi che mi amate, e che vi sentirete tanto arditi da piangere la perdita di Buckingham; voi, qui, suoi nobili amici e compagni, lasciare i quali è l’unica amarezza per lui, sì, l’unico vero morire; voi, come angeli buoni, accompagnatemi alla mia fine; e quando su di me cadrà il lungo divorzio della scure, fate di tutte le vostre preghiere un’unica sacrificale offerta, ed innalzate al cielo l’anima mia.

Pongo in rilievo che le stesse parole pre- state da Shakespeare al Duca, avrebbero potuto essere attribuite a Moro (dopo la condanna a morte). Atteggiamento e contenuti sono di tenore molto simi- li. L’allusione shakespeariana alla “co- scienza”, parola chiave, la più ricorrente in tutti gli ultimi scritti di Moro, pone comunque una differenza. Il Duca aveva accettato la sua triste fine, in espiazione ai suoi “davvero grandi peccati”. Nel Dia- logo del conforto nelle tribolazioni, Moro parla di tre motivi per accettare positiva- mente la sofferenza e la morte; un caso è quando essa sia commisurata al male commesso (di cui si è pentiti), per il suo significato espiatorio e medicinale; un al- Esecuzione del duca, John Cassell’s Illu- tro caso, anche se non si è colpevoli del strated History of England, Vol. III, Lon- male imputato ingiustamente, resta il don, W. Kent & Co, 1858, p. 154. significato espiatorio e medicinale della Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 35 stessa, se si è coscienti di avere comunque gravi debiti da saldare con Dio (il caso del Duca, pentito); ma si può arrivare anche innocenti alla morte e al martirio, esercitando la pazienza, con coscienza esente da gravi peccati 37. Il sacrificio accettato per la giustizia e la verità, per la fede e l’amore di Dio, è allora martirio. È dunque possibile arrivare innocenti e candidi al martirio, se si è fatto di tutto per non cercare la morte ma per evitarla -come farà Moro-, sentendosi indegno di paragonarsi a Cristo. Peraltro -rivolgendosi alla figlia Margaret- nella sua umiltà, Moro pre- ferisce paragonarsi al Duca, motivando così il rifiuto a firmare l’Atto di Su- premazia: “Dio mi ha posto davanti all’alternativa: o l’offendo mortalmente [firmando], oppure debbo sopportare qualsiasi pena in questo mondo, che egli permetterà mi capiti addosso per altri peccati, come se fosse per questa cosa” 38. Nella stessa lettera, Moro ricorda di aver speso tutta la vita a formar bene la sua coscienza, il governo della quale non avrebbe delegato a nessuno, fosse anche l’uomo più virtuoso e saggio del mondo 39. Della coscienza di Moro, ci riferisce Erasmo: “più pura e candida della più candida neve” 40. E anche il suo parroco (a Chelsea) che, ancora dopo molti anni, scriveva: “questo Messer Moro fu mio figlio spirituale. Nella Confessione era così puro, così candido: con grande attenzione, precisione e devozione. Non ne ho ascoltati molti così. Nessun laico, da vivo, gli somiglia” 41.

5. Cosa sapeva Tommaso Moro del processo e quali conseguenze lo coinvolsero

Anche se Moro non fu presente al processo, tuttavia – in due significative occa- sioni della sua vita – in cui scrive di Buckingham, dimostrò di aver ben conosciu- to e ponderato le accuse che ne determinarono la triste sorte. Infatti, le indagini che portarono all’incriminazione si svolsero in varie parti dell’Inghilterra. Il Duca aveva possedimenti in tutto il regno e i capi d’accusa dovevano essere datati, localizzati e ricevuti dai tribunali territoriali competenti. Nell’Indictment found in London at the Guildhall, in data 8 maggio del XIII di regno di Enrico VIII (1521), ovvero nel capo d’accusa presentato presso il tribunale di Londra e rice- vuto da un pool di legali competenti a catalogare le accuse e a trasmetterle alla sede del tribunale dei nobili (Westminster), dove si istituiva il processo, figura an- che il padre di Thomas, John More; nonché John Daunce, presente con il figlio William, che sposerà nel 1525 la secondogenita di Moro, Elizabeth.

37 Cfr. T. Moro, Dialogo del conforto... , op. cit., capp, VI e VII. 38 Margaret Roper, Lettera ad Alice Alington, in Tommaso Moro, Lettere, op. cit., p. 365. 39 Ibidem, cfr. p. 372. 40 Erasmo da Rotterdam: prefazione all’Eccelsiastes, scritta poco dopo la notizia della morte di Moro. Cit in W. Roper, Vita di Sir Thomas More, a cura di Giorgio Faro, Fontana di Trevi, Roma 2014, p. 3. 41 Cfr. The Thought and Culture of the English Reniassance: an Antology of Tudor prose: 1481- 1565, a cura di Eileen M. Nugent, Cambridge University Press, Cambridge 1936, p. 549. 36 Giorgio Faro, Eugénio Lopes

John More era competente anche in altre circoscrizioni territoriali, fuori Londra. Così che, due giorni prima, aveva ricevuto altri capi d’accusa contro il Duca, presso la corte di giustizia di East Greenwich, nel Kent. In questo se- condo caso, tra i legali che ricevettero le accuse, figura – accanto al suo – anche il nome di John Heron, il cui figlio Giles, che sposerà – sempre nel 1525 – l’ul- timogenita di More (Cecily), era stato accolto sotto il patrocinio della famiglia More, come William Daunce. Per gli stessi motivi, John More compare nella circoscrizione del Surrey, ancora insieme a John Daunce (padre di William) 42. Se non bastasse, in passato, l’avvocato John More era stato uno dei legal advisors di Buckingham 43. Infine, era noto il rapporto di iniziale amicizia tra Moro e il duca di Norfolk, che traspare dalla biografia di W. Roper (che aveva sposato Margaret, la figlia prediletta di Moro). Ora, poco prima del processo al Duca, il 2 maggio, il re volle insignire Moro della carica di Vicetesoriere del regno. Il tesoriere era proprio il duca di Norfolk, con l’aiuto del quale si cimentò nei calcoli contabili, imparando a usare la “partita doppia”. È molto probabile che abbia avuto un testimone d’eccezione anche sulle ultime paro- le del Duca, che il padre e gli amici di Moro non potevano certo conoscere, essendo esclusi dalla Corte dei Pari dove si svolse il processo. R. Marius ci fa intuire che l’amicizia tra Moro e il Norfolk andò sfuman- do. Moro la fece venire gradualmente meno, quando il genero del Duca – per riguadagnare la stima del re – pensò bene di maltrattare la moglie (Elizabeth Stafford), rinfacciandole più volte di essere figlia di un padre traditore, umi- liandola e tradendola con un’amante 44. Moro non poteva certo sopportarlo. Se lo ritroverà, nel 1535, tra i giudici che emaneranno sentenza di morte su di lui. Se dunque c’era qualcuno di ben informato sul personaggio, sui capi d’accusa sollevati contro il Duca e sullo svolgimento del processo, questi era proprio Thomas More: almeno, dopo la sentenza. Infatti, è prevedibile immaginare che il duca di Norfolk, il padre di Moro, il padre di Giles e quel- lo di William – con il figlio –, sino alla sentenza non potevano parlare, per custodire il segreto professionale; ma dopo, sì. Dunque, Thomas More co- nosceva l’entità delle accuse e poteva ben giudicare sul valore irrisorio delle stesse, pur vertendo sul crinale minato del tradimento a sua Maestà. Anche se fu del tutto estraneo alla morte del Duca, ne fu legato per quel che accad- de dopo, fino ai primi di luglio: “a Londra seguirono pericoli di sollevazioni contro Enrico. Poche settimane dopo, Moro si trova alla Corte di Aldermen con l’incarico di riferire alla City lo scontento del re, perché varie persone aveva- no deplorato la morte del Duca, sostenendone l’innocenza” 45. Fu costretto ad

42 Tutti i capi di accusa, ricevuti in varie circoscrizioni, si trovano elencati in data 13 maggio 1521, su Letters and Papers Foreign and Domestic del regno di Enrico VIII, vol. 3, n. 1287. 43 J. Guy, Thomas More and..., op. cit., p. 169. 44 R. Marius, Thomas More..., op. cit., p. 203, cfr. nota 6. 45 R. W. Chambers, Tommaso Moro, Rizzoli, Milano 1965, p. 253. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 37 ammonire i cittadini, che ogni ricordo del Duca ed ogni compianto sarebbe stato considerato dal re “ammutinamento e sedizione” 46. Inoltre, un biografo di Moro, Thomas Stapleton, ci informa che – dopo la scomparsa del Duca – il cancelliere Wolsey propose di attribuire il titolo vacante di (High) Conestable, con cui si poteva ovunque rappresentare la persona stessa del re. Anche se Stapleton dice che Moro era stato cooptato nel consiglio privato del re “da poco”, mentre risulta che ciò avvenne nel lu- glio 1518. Ciò che appare probabile è che nei mesi successivi al maggio 1521, o l’anno dopo, sia avvenuto il fatto. Per cui, Moro faceva parte del consiglio da poco meno di 3 anni. Se Stapleton intendeva “da pochi anni”, l’episodio è perfettamente inquadrabile. Il Duca fu l’ultimo a fregiarsi di quel titolo, anche grazie a Moro. Staple- ton ricorda che in quella seduta alla Star Chamber, dopo aver mostrato a tutti la convenienza di esumare il prestigioso titolo (estinto con la morte del Duca), Wolsey – già Cancelliere d’Inghilterra – chiese il parere, che riteneva scontato, su chi fosse la persona più degna di riceverlo. Tutti i presenti, per piaggeria, iniziarono a declinare il nome del potentissimo Cardinale. Moro offrì però ragioni così stringenti e inoppugnabili da far mutare idea a tutti, su un titolo usato – per di più –, avrà voluto sottolineare, da chi era stato appena processato per alto tradimento... La proposta fu bocciata, ma il potente cardinale s’infuriò con Moro. Poiché lui solo si era inizialmente opposto, gli rinfacciò di esser l’ultimo – per rango e nobiltà – arruolato in quel consiglio, rivelandosi “un ben stupido consigliere”. Moro, che non amava soccombere all’arroganza, replicò con una battuta dive- nuta popolare a Londra: “allora dobbiamo subito glorificare Dio, nell’apprende- re che in questo regale consiglio di sua Maestà sia presente solo uno stupido!” 47. Infine, ci vollero due anni per enumerare tutte le proprietà di Buckin- gham, che furono incamerate dalla Corona, nel 1523. Ed ecco che ancora Moro si lega – in qualche modo – alla memoria del Duca. Infatti, dei possedi- menti minori di cui il re volle far dono alla piccola aristocrazia (della grande, non si fidava...) o a persone da lui ritenute meritorie, uno dei beneficiari fu l’autore di Utopia, che – per gentile concessione di Sua Maestà – divenne proprietario del maniero di South, nel Kent 48. Conoscendo Moro, tale even- to lo avrà spinto ancor più a pregare per la memoria del Duca. Gli sarà a sua volta confiscato, quando toccherà a lui cadere in disgrazia: passerà al fratello di Anna Bolena, George Boleyn. Non lo godrà a lungo: verrà giustiziato in- sieme alla regina sua sorella – sotto l’accusa di adulterio incestuoso ai danni del re – a nemmeno un anno dalla morte di Moro.

46 J. Guy, Thomas More and..., op. cit., p. 167. 47 Thomas Stapleton, Tres Thomae, Douai, 1588, cap. 13, tradotto da A. Fracchia, in Moria, 2014, n. 4, pp. 83-84. 48 Cfr., Letters and Papers of the Reign of Henry VIII, vol. III, n. 2239. 38 Giorgio Faro, Eugénio Lopes

Anche a parere di Chambers, il 1521 è uno spartiacque tra l’Enrico VIII, giovane promessa di un grande regno di cultura, pace e progresso, e il mo- narca che diventa ora oggetto di crescente e continua impopolarità, pronto a esibire il volto della tirannia, si lega proprio alla vicenda di Buckingham. Guy afferma che Moro, in quel triste caso, perse qualsiasi illusione si fosse fatto in precedenza su Enrico VIII 49. Anzi, cita A. Fox, il quale sostiene che -nel 1521- Moro decise di non proseguire la sua opera storica su Riccardo III (incompiuta), vedendo che l’ultimo famigerato sovrano York poteva costitui- re ora un triste esempio da emulare, per il nuovo tiranno 50. Nella Storia di re Riccardo III, Moro chiosava: “...questi affari sono giochi di re, simili a rappre- sentazioni drammatiche. Per lo più, rappresentate sul patibolo” 51.

6. Le citazioni, sul caso Buckingham, nelle opere di Moro. E una divagazione shakespeariana.

Moro accenna solo due volte, al Duca, nei suoi scritti. Perché? Chambers sottolinea che, per Moro, la cosa più terribile di quella tra- gedia è che fu originata “a detrimento e infamia della religione” 52 come si legge nella lettera alla religiosa Elizabeth Barton (1533), redatta con somma delicatezza e prudenza, dove ricordava quanto era successo a Buckingham per avere ascoltato le profezie di un monaco “su questioni temporali”. Cosa s’impicciava un certosino di fare il frate-indovino su eventi mondani, invece di pensare a Dio? Moro non ammetteva la mescolanza di religione e politica. E invitava la giovane monaca (nei primi mesi del 1534) a cessare di diffondere -a sua volta- le sue funeste profezie su Enrico VIII. Negli anni precedenti, la Barton prevedeva l’imminente morte del re, se avesse sposato Anna Bolena, cosa nel frattempo avvenuta. Moro le scriveva: “penso abbiate sentito dire del defunto duca di Buckingham che, mosso dalla fama di uno che si diceva essere un santo monaco, tenne con lui conversazioni tali che -per non piccola parte- furono cau- sa della sua morte, della confisca dei beni, di grosse calunnie e di detrimento e infamia per la religione” 53. Inutile dire che la sventurata monaca -che in precedenza aveva avuto il coraggio di ripetere le profezie al re in persona, su invito del vescovo- venne poi condannata per tradimento e uccisa, con i frati che la fiancheggiavano

49 J. Guy, Thomas More and..., op. cit., p. 166. 50 Alistair Fox, Thomas More: History and Providence, Yale University Press, New Haven, USA 1982 , pp. 101-107. Prima di lui anche J. Jowett, Richard III, Oxford University Press, 1968, p. 88. 51 T. Moro, Storia di re Riccardo III, a cura di V. Gabrielli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, p. 115. 52 R. W. Chambers, Tommaso Moro, op. cit., p. 252. 53 T. Moro, Lettere, a cura di Alberto Castelli, V&P, Milano 2008, pp. 343-344. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 39

(poco dopo che Moro era finito alla Torre) 54; ma anche lei aveva sbagliato profezia. Enrico VIII vivrà abbastanza a lungo da sposare altre quattro mo- gli, dopo Anna Bolena. Se si aggiunge che tra gli accusatori di Buckingham si trovava il suo con- fessore, John Delacourt, che (probabilmente minacciato, se non torturato) non seppe mantenere il segreto di quanto aveva giurato al Duca, riferendosi alle sue missive (di cui Delacourt era intermediario) e alle conversazioni con il certosino, definito da Shakespearemonk-devil (monaco-diavolo), possiamo capire il silenzio di Moro. Tuttavia, il segreto che avrebbe dovuto gelosamen- te conservare Delacourt riguardava cose che tutti pensavano. Buckingham godeva ricchissime rendite ed era talmente popolare, che -senza formula- re profezie- ma solo ipotesi, “lo stesso ambasciatore veneziano in Inghilterra [anni prima], pensava e scriveva che, se Enrico fosse morto senza eredi maschi, il Duca stesso avrebbe potuto essere re d’Inghilterra” 55. Moro allude di nuovo al Duca, senza chiamarlo per nome, nelle Quattro cose ultime, del 1522. Lo cita, parlando di invidia. Tra gli epigrammi pubbli- cati nel 1518, il n. 49 sembra precedere e richiamare il legame tra il Duca e l’invidia: “la splendida vita di un uomo di successo desta invidia, ma noi siamo soliti commiserare i troppo sfortunati (…) Chi si trova in basso rischia di essere calpestato; chi sta in alto, precipita inaspettatamente”. Il Duca passò da cala- mita dell’invidia alla commiserazione di popolo, per come virò la sua fortuna tra il 1518 e il maggio 1521. Senza nominarlo, Moro evoca con precisione la lettura della sentenza di quel processo: “Se ti capitasse di conoscere un gran duca, che nella sua casa segua un teno- re di vita elevato e principesco, tanto che tu, di meschina condizione, ne senta in cuore una grande invidia, particolarmente in qualche giorno straordinario, nel quale, in occasione del matrimonio del figlio [Edward, nel 1518], dispieghi una pompa maggiore che in qualsiasi altro tempo; se mentre tu sei presente, e vedi il rispetto e l’onore che tutta la nazione gli dimostra, accorrendo a lui, e tutti gli si inginocchiano innanzi, umiliandosi e scoprendosi il capo nel rivol- gergli la parola, e chiamandolo “Vostra Grazia”, se dunque, a cagione di un segreto tradimento scoperto dal re, costui sarà senz’altro preso l’indomani, e la sua corte dispersa, i suoi beni confiscati, la moglie esiliata, i figli diseredati, egli stesso chiuso in prigione, portato in tribunale ed accusato di tradimento, e che la cosa è sicurissima, tanto che sarà condannato e il suo stemma verrà rivoltato, gli speroni d’oro saranno strappati dalle sue calcagna, ed egli infine impiccato,

54 Confessò di aver profetizzato al duca di Exeter, di diventare futuro re, alla prossima morte dei Enrico: tradimento! 55 Così, Marialisa Bertagnoni, alla nota 49 di: Thomas More, Le Quattro cose ultime, Ares, Milano 1998, p. 65, dove -a proposito dell’ambasciatore veneziano- cita il Calendar of State Papers Venice, ed. Brown, n. 1287. 40 Giorgio Faro, Eugénio Lopes stirato e squartato, non pensi forse che la tua invidia dovrà mutarsi in compas- sione?” 56. Benché Buckingham fosse noto per una certa eloquenza, Shakespeare sembra quasi descrivere Moro quando riassume il ritratto del Duca, dei gior- ni migliori (atto II):

“un uomo sì compìto, la meraviglia delle meraviglie, che ad ascoltarlo quasi ti rapivi, sì che un’ora di sua conversazione... ti sembrava lo spazio di un minuto”.

Non sembra l’unico indizio di un nesso tra Moro e Shakespeare (che non po- chi ritengono cattolico ricusante, in incognito, in tempi di persecuzioni sotto la protestante Elisabetta Tudor). Shakespeare scrive quanto segue, parlando di quel grande ma borioso statista di Wolsey, al momento di stendere uno dei suoi trattati, pieni di ambiguità (criticati in Utopia, I,42), redatti per essere infranti quanto prima (Atto I, scena I):

Quella volpe del nostro cardinale ha steso anche le clausole del patto, a suo pieno talento e discrezione, che sono state poi ratificate appena egli ha gridato: “Sia così”. Col risultato che ora quel trattato serve come una gruccia ad un estinto; ma poiché è stato il nostro cardinale ad imbastirlo, tutto va benissimo, che il grande Wolsey non può sbagliare!

Che c’entra Tommaso Moro, in tutto ciò? Ecco un ricordo autobiografico in cui, senza citarlo apertamente e par- lando di sé in terza persona, chiama in causa Wolsey. L’autore di Utopia al- lude a un tal prelato che “aveva steso un trattato che avrebbe dovuto servire come base, per una lega da stringersi fra la sua nazione e un grande principe [il re di Francia]. Egli pensava di aver collocati gli articoli con tanta sapienza e averli redatti così bene, che tutto il mondo li avrebbe approvati. Bramando perciò di essere lodato, mandò a chiamare un suo amico, persona di dottrina e di buona reputazione, espertissimo in materia, essendo stato più volte amba- sciatore in quel paese ed avendo egli stesso fatto molti trattati di quel genere

56 Ibidem. Il processo di Buckingham e i suoi riflessi in Tommaso Moro e Shakespeare 41

[che poi è lo stesso Moro, tra l’altro, principale artefice della “pace delle Due Dame”]. Gli consegnò la stesura e, dopo che questi l’ebbe letta, gli chiese se gli piacesse, dicendogli: «Ma vi prego con tutto il cuore di dirmi proprio la verità». E glielo disse così cordialmente, che l’altro pensò desiderasse proprio la verità e -con tale fiducia- gli fece notare un errore. All’udir ciò quello, adiratissimo, esclamò imprecando: «Per la Messa, sei uno stupido!». L’altro poi mi confidò, che la verità non gliela avrebbe detta mai più” 57. Shakespeare sembra conoscere molto bene le opere di Moro, quando riporta che “il grande Wolsey non può sbagliare”. C’è però dell’altro, nella prima scena del I atto: “tutti hanno notato che se il re favorisce qualcuno, il cardinale gli trova subito impiego lontano da corte”. Proprio quel che sarebbe accaduto a Moro, sempre più stimato dal re, quando Wolsey propose di inviarlo ambasciatore a Toledo (alla corte di Carlo V): promoveatur ut amoveatur (promuovere per rimuovere, allontanare). Era- smo conferma: “Wolsey apprezzava molto i servizi che gli rendeva More, ma non gli era troppo amico, perché più che amarlo lo temeva” (Epistola 2750 Allen). Nell’occasione, l’autore di Utopia disinnescò la miccia: ottenne che il re lo esimesse dall’incarico, per evitare un lungo viaggio a cavallo in piena esta- te, con il caldo torrido di Spagna, che non era (davvero) in grado di soppor- tare; aggiunse, che ne sarebbe morto 58. Il re acconsentì (dei due diplomatici inviati a Toledo, Sir R. Wingfeld morì di stenti, per strada, nell’estenuante luglio 1525: i resti riposano tuttora a san Juan de los Reyes) 59. Altra casuale coincidenza, in Shakespeare? 60 Concludiamo con i protagonisti di questo saggio, Moro e Buckingham, condannati a morte dallo stesso re. Con il senno di poi, il nostro brillante umanista avrebbe potuto commentare la morte del Duca citando l’invettiva di Seneca alla Fortuna (cui Moro dedica vari epigrammi):

Non decipies me, Fortuna, nec securum aut neglegentem opprimes. Scio quid pares: alium quidem percussisti, sed me petisti. “Non mi ingannerai, o Fortuna, né mi sorprenderai distratto o negligente. So cosa ordisci: hai colpito un altro, ma hai mirato a me”. Consolatio ad

57 T. Moro, Dialogo del conforto..., op. cit., pp. 292-293. 58 Cfr. W. Roper, Vita di Sir Thomas More, op. cit., pp. 20-21. 59 Cfr. R.W. Chambers, Tommaso Moro, op. cit., p.280 60 Circa debiti moreani più espliciti, presenti nell’Amleto, rinvio ad un saggio di prossima pubblicazione sulla rivista Studium: G. Faro, Tommaso Moro e il piffero, nell’Amleto di Shakespeare. Dello stesso autore, Il “Tommaso Moro” di Shakespeare, in “Studi Cattolici”, n. 644 (ottobre 2014), pp. 720-723. È un dramma, dedicato a Moro, mai rappresentato sino al 2005 (davanti a Elisabetta II), inclusivo del più lungo autografo del Bardo dell’Avon, ad oggi noto. utopia: notizie da nessun luogo

Si ritiene abitualmente – ma non v’è certezza di questo – che Thomas More sia nato nella casa paterna in Milk Street, vicino St. Paul’s Cathedral. Qui Sir John More, suo padre, visse la maggior parte della sua vita. Tommaso era il secondo dei sette figli di John ed Agnes Graunger e nacque il 7 febbraio 1477 o 1478? È quello che si cerca di chiarire definitivamente in questo articolo, finchè non emergeranno nuovi contributi, grazie alle ricerche e alla dedizione mostrata verso la questione dal prof. Frank Mitjans.

Stampa ottocentesca in cui è possibile osservare la Milk Street come probabilmente si presen- tava ai tempi di More; oggi una delle strade più moderne di Londra. La data di nascita di Thomas More 1 di Frank Mitjans

La data di nascita di S. Thomas More non ci è stata fornita dai suoi primi biografi, vale a dire William Roper e Nicholas Harpsfield, attivi entrambi durante il regno della regina Mary Tudor (1554-1558), e Thomas Stapleton e Ro. Ba., al tempo della regina Elisabetta i: Stapleton scrisse nel 1588, il non meglio identificato Ro. Ba. sigla la lettera di dedica con data del 25 marzo 1599. Il primo ad arrischiare un anno di nascita fu Cresacre More, il quale, nella sua Life of Sir Thomas More, scritta verosimilmente tra il 1615 e il 1620, sostiene che «sir Thomas nacque a Londra, in Milk Street […] nell’anno del Signore 1480». 2 Joseph Hunter, nella sua edizione della Life di Cresacre More, che curò nel 1828, scriveva che solita- mente si ipotizzava come data di nascita di More il 1480 basandosi sull’informa- zione di Cresacre More. 3 Eppure nel 1868 William Aldis Wright, bibliotecario del Trinity College di Cambridge, scoprì i memoranda scritti da sir John More, padre di Thomas More, che aveva tenuto aggiornata una registrazione della data del suo matrimonio con Agnes Graunger con le nascite dei loro sei figli. Questo registro, che si trova ora nel MS O.2.21 del Trinity College, recita:

Nel giorno di domenica, alla vigilia di S. Marco evangelista, nel quattordicesimo anno di regno di re Edoardo iv dalla conquista dell’Inghilterra, 4 sir John More si sposò con Agnes figlia di Thomas Graunger, nella parrocchia di S. Egidio, fuori da Cripplegate, 5 Londra. [24 aprile 1474]

1 Questo articolo è una versione abbreviata di due testi precedenti pubblicati dall’autore in inglese: “The Date of Birth of Thomas More”, in Moreana XLVII (dicembre 2010), no. 181-182, pp. 109-128 e “Reviewing and Correcting the Article on the Date of Birth of Thomas More”, in Moreana IL (dicembre 2012), no. 189-190, pp. 251-262. Le citazioni e i riferimenti rimandano agli articoli originari in inglese. 2 Cresacre More, The Life of Sir Thomas More (ed. Joseph Hunter), London 1828, 14. 3 Ibid., 14, nota a piè di pagina. 4 L’allusione è alla battaglia di Towton, del 29 marzo 1461, con la quale Edoardo iv di York sconfisse Enricovi di Lancaster, confermando e rafforzando la sua nomina a re che era stata sancita dal Parlamento il 4 marzo del medesimo anno. Mitjans prende in considerazione, come inizio dell’anno di regno di Edoardo iv, proprio il 4 marzo, e non la data della battaglia di Towton, come invece pare fare John More (ciò non ha comunque conseguenze per la datazione della nascita di Thomas) (NdT). 5 La forma del testo è Crepylgate. 44 Frank Mitjans

Nel giorno di sabato, alla vigilia di S. Gregorio papa, tra la prima e la seconda ora pomeridiana, nel quindicesimo anno di regno di re Edoardo iv dalla conquista dell’Inghilterra, nacque Joanna More, figlia di sir John More. [11 marzo 1475] Il primo venerdì successivo alla festa della purificazione della Beata Vergi- ne Maria ossia nel settimo giorno di febbraio, 6 tra l’ora seconda e terza del mattino, nacque Thomas More, figlio di sir John More, nel diciassettesimo anno di regno di re Edoardo quarto dopo la conquista dell’Inghilterra. [7 febbraio 1478] Nel giorno di domenica, nell’ultimo giorno di gennaio, tra l’ora settima e ottava antimeridiana, nel diciottesimo anno di regno di re Edoardo iv, nacque Agatha, figlia di sir John More. [31 gennaio 1479] Il martedì 6sto di giugno, tra la decima e l’undicesima ora antimeridiana, nacque John More, figlio di sir John More, nel ventiquattresimo anno di regno di re Edoardo IV. [6 giugno 1480] Il lunedì tre settembre, tra la seconda e la terza ora del mattino, nacque Edward Moore [sic], figlio di sir John More, nel 21° anno di regno del re Edoardo iv dalla conquista. [3 settembre 1481] La domenica 22 settembre del 22° anno di regno del re Edoardo iv, tra la quarta e quinta ora del mattino, nacque Elizabeth More, figlia di sir John More. [22 settembre 1482]. 7

Per quanto riguarda la terza voce, quella relativa a Thomas More, bisogne- rebbe rimarcare che il diciassettesimo anno di regno di Edoardo iv andò dal

6 Le parole in corsivo furono aggiunte tra le righe, come viene analizzato sotto. 7 Il testo di John More è scritto in un latino dall’ortografia spesso irregolare: Md quod die dominica in vigilia Sancti Marce Evangeliste Anno Regni Regis Edwardi quarti post conquestum Anglie quartodecimo Johannes More Gent. maritatus fuit Agneti filie Thome Graunger in parochia santi Egidij extra Crepylgate london. Med quod die sabbati in vigilia sancti gregorij pape inter horam primam & horam secundam post Meridiem eiusdem diei Anno Regni Regis Edwardi quarti post conquestum Angliae xv° nata fuit Johanna More filia Johannis More Gent. Md quod die veneris proximo post Festum purificacionis beate Marie virginis videlicet septimo die Februarij inter horam secundam et horam terciam in Mane natus fuit Thomas More filius Johannis More Gent. Anno Regni Regis Edwardi quarti post conquestum Anglie decimo septimo. Md quod die dominica videlicet vltimo die Januarij inter horam septimam et horam octauam ante Meridiem Anno regni Regis Edwardi quarti decimo octauo nata fuit Agatha filia Johannis More Gentilman. Md quod die Martis videlicet vjto die Junij inter horam decimam & horam vndecimam ante Meridiem natus fuit Johannes More filius Johannis More Gent. Anno regni Regis Edwardi quarti vicesimo. Med quod die lune viz. tercio die Septembris inter horam secundam & horam terciam in Mane natus fuit Edwardus Moore filius Johannis More Gent. Anno regni regis Edwardi iiijti post conquestum xxjo. Md quod die dominica videlicet xxij° die Septembris anno regni regis Edwardi iiijti xxij° inter horam quartam & quintam in Mane nata fuit Elizabeth More filia Johannis More Gent. La data di nascita di Thomas More 45

4 marzo 1477 al 3 marzo 1478, e che quindi la data cui si allude nel memo- randum è il 7 febbraio 1478. Wright aveva fatto notare che il 7 febbraio 1478 non era venerdì ma sabato. Il memorandum affermava tuttavia che Thomas More era nato tra le due e le tre del mattino, il che, a parere di Wright, rende- va «la confusione ovvia e naturale». La stessa conclusione fu accettata da T.E. Bridgett nel 1891 e da W.H. Hutton nel 1895. 8 Bridgett, il primo biografo moderno di More, riferisce della scoperta di Wright e chiarisce che «nell’an- no 1478 il 7 febbraio era sabato; la nascita venne però fissata di venerdì per una confusione naturale, dal momento che aveva avuto luogo dopo mezza- notte» 9. È stata questa l’interpretazione consueta degli elementi contenuti nel memorandum; vale a dire, che More nacque nella notte tra venerdì 6 febbraio e sabato 7 febbraio 1478. Vi è però stato chi non ha accettato questa semplice spiegazione. Nel mio articolo originario, pubblicato in Moreana nel dicembre 2010, si ripercorro- no le opinioni della maggior parte degli studiosi recenti, che non è necessario di ripresentare tutte qui. Le obiezioni più significative sono tuttavia quelle mosse da Francis Morgan Nichols e da Germain Marc’hadour, che preferi- scono il venerdì 7 febbraio 1477, e quella di R.W. Chambers che, dopo aver dapprima propeso per il 7 febbraio 1477, alla fine ha proposto il venerdì 6 febbraio 1478. Chambers ha sostenuto la tesi del venerdì 6 febbraio rendendosi conto che le parole che nel memorandum si riferiscono al 7 febbraio (e che sopra sono state riproposte in corsivo) di fatto furono inserite tra le righe, il che lascia intendere che si sia trattata di un’aggiunta più tarda. 10 Marc’hadour sosteneva tuttavia che, pur scritte tra le righe, queste espressioni sembrano essere state aggiunte immediatamente dopo il resto del paragrafo, così da non dover essere ritenute un errore di sir John. Nel 1897 e nuovamente nel 1918 Nichols preferì indicare l’anno 1477, prendendo in considerazione principalmente delle citazioni presenti nella corrispondenza con Erasmo. P.S. Allen, pubblicando la più antica lettera an- cora esistente scritta da Erasmo a More, convenne con Nichols, scrivendo: «Mr. Nichols (Proc.Soc.Antiquaries, 1897, 321) ha corretto la data di nascita di More in 1477, sostenendo che la modifica che è richiesta dal manoscritto scoperto da Mr. Aldis Wright (Notes and Queries, 17 Oct 1868, 365-366, e Seebohm, Oxford Reformers, App. C) può essere apportata più facilmente all’anno che, dice Mr. Wright, al giorno della settimana. […] Con una mo-

8 William Holden Hutton, Sir Thomas More, London 21900, 4. 0 T.E. Bridgett, Life and Writings of Sir Thomas More, London 1891, 2; e 41913, 2. 10 Chambers ha pubblicato anche una “Transliteration of Entries in MS. O.2.21, Trinity College, Cambridge”, come appendice al suo The Place of Saint Thomas More in English Literature and History, London 1937, 123-124. Per parte sua ha tuttavia preferito omettere le parole poste da sir John tra le righe (videlicet septimo die Februarij), motivando l’omissione in una annotazione che predilige il 6 febbraio 1478. 46 Frank Mitjans difica esattamente simile si può correggere il giorno del mese in sexto, il che darebbe il 6 febbraio 1478; ma le ulteriori considerazioni addotte da Mr. Nichols in favore del 1477 sembrano rendere quell’anno più probabile». 11 Ciò non toglie che R.W. Chambers, nelle sue “Historical Notes” alla Life di Thomas More scritta da Harpsfield, come edita da Hitchcock, abbia trovato non decisive le argomentazioni di Nichols: si possono di fatto trovare parole di Erasmo che confermano una data più antica o più recente. 12 Tale controversia fu presa in seria considerazione dai curatori delle tre biografie di sir Thomas More predisposte per la Early English Text Society, ossia quella di Harpsfield, pubblicata nel 1932 e curata da Hitchock insieme alle “Historical Notes” di Chambers, quella di Roper, pubblicata nel 1935, le cui “Historical Notes” furono curate da Hitchcock, e infine quella di Ro. Ba., pubblicata nel 1950 e curata da Hitchcock (morto nel 1942) e da P.E. Hallett, comprensive delle “Historical Notes” predisposte da Hallett e delle “Additional Notes and Appendices” di A.W. Reed. Le “Historical Notes” allegate alle ultime due Lives recensiscono quelle pubblicate prima, così che Hallett, nell’ultima, era del tutto consapevole delle precedenti obiezioni di Chambers nello schierarsi con Bridgett in favore del 7 febbraio 1478. Secon- do Hallett tuttavia Chambers avrebbe ipotizzato il 7 febbraio 1477, benché di fatto l’idea del Chambers del 1931 fosse mutata a partire dal 1935, da quando egli iniziò a difendere il 6 febbraio 1478. È probabile che Hallett, morto nel 1948, avesse scritto le proprie note in un tempo molto precedente e non le avesse poi aggiornate prima della loro pubblicazione postuma nel 1950. Lo stesso Chambers era morto il 23 aprile 1942 e non aveva avuto la possibilità di rivedere le annotazioni di Hallett. Vale tuttavia la pena di rimarcare che, alla metà del ventesimo secolo, il risultato finale della ricerca combinata di una schiera di straordinari contributori allo studio moderno di Thomas More – T.E. Bridgett (1829-1899), W.H. Hutton (1857-1952), E.W. Hitchcock (-1942), R.W. Chambers (1874-1942) e P.E. Hallett (1884-1948) – era che Thomas More fosse nato il 7 febbraio 1478. Nel 1963 13 e nuovamente nel 1977 14 Germain Marc’hadour prese posizione a favore di venerdì 7 febbraio 1477 principalmente a motivo dell’allusione che il memorandum muove alla festa della purificazione: il 7 febbraio 1478 era il sabato successivo al mercoledì delle ceneri. Marc’hadour riteneva che sarebbe suonato strano servirsi della festa della purificazione come punto di riferimento, ritenen- do il mercoledì delle ceneri un’allusione più logica. In tutto questo però la logica non c’entra, e sotto si spiega il rilievo della festa della purificazione nel contesto storico inglese (in particolare per quanto riguarda il Lincoln’s Inn).

11 Opus Epistolarum Des. Erasmi Rotterdami; Oxford, I, 1906, introduzione alla lettera 114. 12 Hitchcock (ed.), Harpsfield, Life of Sir Thomas Moore, “Historical Notes”, 300. 13 L’univers de Thomas More, 1963, 34-41. 14 Moreana, no. 53, 7. La data di nascita di Thomas More 47

Gli elementi del ritratto di famiglia

La maggior parte di coloro che hanno accolto il resoconto della data di nascita di Thomas More offerto da Wright hanno verificato le date vergate sullo schiz- zo preparatorio di Holbein per il ritratto di Thomas More and Members of his Family. Il primo fu Frederic Seebohm, il 31 ottobre 1868, in reazione al reso- conto di Wright sulla sua scoperta dei memoranda. Prima di analizzare l’argo- mentazione di Seebohm è necessario concentrarsi sullo schizzo. Il dipinto deve essere datato tra l’arrivo di Holbein in Inghilterra nel 1526 e la sua partenza per Basilea nell’estate del 1528. Di sicuro si trovava in Inghilterra il 18 dicembre 1526, quando More scrisse a Erasmo attestando l’arrivo del pittore. Ciò che se ne dice nella lettera («Il tuo amico pittore, mio caro Erasmo, è un artista magni- fico. Temo che non troverà la terra inglese ricca e fertile come sperava, ma farò del mio meglio per assicurarmi che non risulti per lui totalmente infeconda») 15 sembra comportare che More non avesse ancora commissionato a Holbein il ritratto, ma che intendesse farlo da lì a poco. Holbein quindi avrebbe dovuto dipingere il piccolo schizzo e i ritratti individuali in preparazione per la pittu- ra del ritratto di famiglia a grandezza intera. Non è irragionevole porre tutto questo lavoro nel 1527, non da ultimo perché il ritratto di Thomas More che si trova ora nella collezione Frick porta l’iscrizione “1527”. Sullo schizzo sono riportate le età dei modelli: Thomas More era nel suo cinquantesimo anno, Anne Cresacre nel quindicesimo, e così via. Dopo aver ammesso che Thomas More fosse nato il 7 febbraio 1478, Seebohm fa notare che lo schizzo avrebbe dovuto essere dipinto dopo il 7 febbraio 1527. Per Anne Cresacre Seebohm prende in considerazione dapprima l’età offerta dalla targa che si trovava sulla sua tomba ed è stata ora apposta al muro settentrionale della chiesa di S. Peter a Barnborough, vicino a Doncaster, nella contea di York, che recita

Decessit secundo die Decembris anno aetatis suae LXVII anno Domini MCCCCCLXXVII 16

Ciò significa che il suo sessantaseiesimo compleanno ebbe luogo prima del 2 dicembre 1577 e che era nata tra il 2 dicembre 1510 e il 2 dicembre 1511. Chambers prosegue oltre: prende in considerazione l’iscrizione sul dipinto di Thomas More His Family and His Descendants, che a un certo punto si trova- va nel priorato di Burford ed ora è ospitato nella National Portrait Gallery di Londra. L’iscrizione, come è riprodotta da Joseph Hunter nella sua edizione del 1828 di The Life of Sir Thomas More di Cresacre More, recita:

15 Collected Works of Erasmus, xii, Ep. 1770, righe 77-79. 16 «Morì il secondo giorno di dicembre, nel sessantasettesimo anno di vita, nell’anno del Signore 1577». L’iscrizione è riprodotta in Joseph Hunter, Deanery of Doncaster, I, 1828, 374; e in Thomas Allen, A New and Complete History of the County of York, London 1831, III, 168. 48 Frank Mitjans

Quae Anna nata fuit apud Baronburgh Hall anno 3 H. 8 [tra il 22 aprile 1511 e il 21 aprile 1512] 17

Sullo schizzo è riferito che Anne Cresacre si trovava nel suo quindicesimo anno. Le iscrizioni sul dipinto dovrebbero quindi essere datate a prima del 22 aprile 1527; per essere più precisi, le età che vi sono offerte corrispondono a uno scenario - reale o di invenzione artistica - posto tra il 18 dicembre 1526 (data della lettera di Thomas More a Erasmo in cui cita l’arrivo di Holbein) e il 22 aprile 1527. Negli Yorkshire Star Chamber Proceedings è registrato il caso di Rokeby contro Constable, 18 che tratta del rapimento di Anne Cresacre dalla Manor House al paese di Bishop Burton. Vi si dice che il 14 aprile del quindicesimo anno di Enrico viii [22 aprile 1523 - 21 aprile 1524] Anna era «sotto l’età di 12 anni», il che concorda con il suo essere nel quindicesimo anno tre anni dopo, come si sostiene nello schizzo del 1527. Dopo aver preso in considerazione l’età di Anne Cresacre, Seebohm si volge a quella di Margaret, la figlia più grande di More. Nello schizzo è scritto che si trovava nel suo ventiduesimo anno. Nell’introduzione alla traduzione, condotta da Margaret, della Precatio Dominica di Erasmo, datata al 1° otto- bre 1524, si dice che allora Margaret aveva 19 anni. Si è quindi ritenuto che Margaret fosse nata prima del 1° ottobre 1505, il che ha offerto l’argomento decisivo per datare il matrimonio di Thomas More e Jane Colt non dopo il gennaio 1505. 19 Tale datazione coincide con quella offerta dal quadro di Bur- ford, che sostiene che il matrimonio di More ebbe luogo nel ventesimo anno di regno di Enrico viii [22 agosto 1504 - 21 agosto 1505]. 20 Che Margaret fosse nel suo ventiduesimo anno quando fu disegnato lo schizzo è coerente con la datazione del medesimo tra il 7 febbraio e il 22 aprile 1527. In conclusione, accettare il 7 febbraio 1478 come data di nascita di Tho- mas More si accorda con i dati a nostra disposizione riguardo alle date di nascita di Anne Cresacre e di Margaret. Non siamo tuttavia di fronte alla prova definitiva riguardo alla sua data di nascita, perché le date che abbiamo per Anne Cresacre e Margaret lasciano aperta la possibilità che lo schizzo sia stato disegnato tanto prima quanto dopo il 7 febbraio 1527. Le opinioni di Stanley Morison e di J.B. Trapp, basate sulla loro valutazione dell’ordine del-

17 «La quale Anna nacque a Baronburgh Hall nell’anno terzo di regno di Enrico viiii»: appendice iv, p. 362. 18 Yorkshire Star Chamber Proceedings, vol. iv, all’interno delle Record Series, lxx, Yorkshire Archaeological Society 1926, Case 16, 28-36. 19 Roper, Life of Sir Thomas Moore, Hitchcock for the Early English Text Society 1935, “Historical Notes”, 109; E.E. Reynolds, Margaret Roper, London 1960, 1. 20 John Guy, A Daughter’s Love, 2008, 89-90, amplia le ipotesi sulla data di matrimonio di Thomas More situandolo subito prima della prima domenica d’avvento, al 1° dicembre 1504, o a metà gennaio, dopo il 13 gennaio 1505, nell’ottava dell’Epifania. La data di nascita di Thomas More 49 la produzione di Holbein, lasciano tuttavia intendere che sia improbabile che lo schizzo di famiglia sia stato disegnato prima del febbraio 1527 e appog- giano dunque il memorandum che segnala come More fosse nato nel 1478. A questo punto bisogna aggiungere due osservazioni. Primo, le allusioni all’età di Anne Cresacre che si trovano sulla targa nella chiesa di St. Peter a Barm- borough e negli atti della Yorkshire Star Chamber e all’età di Margaret che si ricava dall’introduzione alla traduzione della Precatio Dominica, insieme con la lettera da Thomas More a Erasmo datata 18 dicembre 1526, lasciano inten- dere che lo schizzo sia stato disegnato tra quel dicembre 1526 e il 22 aprile 1527, ma non costituiscono una prova della data di nascita di More. Secondo, benché - seguendo Seebohm e Chambers - si sia fatta allusione al testo che si trova sul quadro di Burford, quel testo deve essere trattato con cautela. Sul dipinto l’iscrizione non è più completamente leggibile, e la trascrizione che Hunter ne offre nel 1828 non è affidabile. Quel testo pone la nascita di Tho- mas More nel 1480, che è la data offerta da Cresacre More nella sua biografia di More 21 e che era in effetti la data accettata prima della scoperta del memo- randum di sir John nel 1868. Hunter accennò a questa incongruenza quando intestò quella trascrizione con le parole: «Copia delle iscrizioni sul dipinto della famiglia More, ora nel priorato di Burford, residenza di --- sig. Lenthall, nella misura in cui si può ricostruire». 22 In ogni caso il dipinto è datato al 1593, non è assolutamente un elenco delle date di nascita di Thomas More e della sua famiglia che risalga al loro tempo. È necessario ritornare alla fonte fondamentale, vale a dire il resoconto particolareggiato di sir John More.

Il venerdì dopo la festa della Purificazione

Nel memorandum il rimando alla festa della Purificazione sembra per Marc’hadour l’obiezione di fondo per non accogliere la data del 1478. Nel mio articolo precedente si prendeva in dettagliato conto tale questione, ana- lizzando anche un grafico con sezioni significative del calendario del 1477 e 1478. Può tuttavia valere la pena di espandere qui un poco quell’analisi. La Festa della Purificazione della Beata Vergine Maria era una festa im- portante che segnava la fine dell’ampio tempo di Natale. Era previsto il canto di una serie di inni liturgici esattamente da Natale alla Purificazione. La Alma Redemptoris Mater presenta un’antifona “per l’Avvento” (Angelus Domini nuntiavit Mariae) e un’altra da recitare «da Natale alla Festa della Purifica- zione» (Post partum Virgo inviolata permansisti). Dalla Purificazione al mer- coledì della settimana santa si recitava l’Ave Regina caelorum. Allo stesso

21 Cresacre More, The Life of Thomas More, ed. Hunter 1828, 14. 22 Ibid., 361. 50 Frank Mitjans modo, delle messe votive della Beata Vergine Maria presenti nel rito di Saro, in vigore in Inghilterra fino al 1549, la prima era «dall’Avvento a Natale», la seconda «il giorno di Natale fino alla Purificazione», la terza «dalla Purifica- zione all’Avvento». Queste indicazioni liturgiche avevano conseguenze sui calendari legale e civile. Per esempio, in una comunicazione attribuita al regno di Riccardo iii ma che può risalire al primo anno di Enrico vii, si afferma che si debbano nominare alcuni funzionari per raccogliere denaro per la Corona e che «tutti i revisori dei conti, ogni anno, tra la Candelora e la domenica delle Palme devono presentare dichiarazione di tutti i mezzi di sostentamento a loro cari- co». 23 Per il rilievo della Festa della Purificazione come punto di riferimento nella cronologia legale v. Cheney (ed.), Handbook of Dates for Students of English History, Royal Historical Society, London 1945, “The Law Terms”, 65-67. Di fatto, in quanto ultima festa legata alla stagione natalizia, il 2 febbraio era un giorno in cui nel Lincoln’s Inn si tenevano celebrazioni importanti, note come Post Revels. Negli intrattenimenti previsti giocavano una parte significativa l’esecuzione di opere teatrali e di brani musicali, e sembra che si richiedesse come obbligatoria la partecipazione dei membri. È curioso se- gnalare che si fa riferimento alla Festa della Purificazione subito dopo la voce che registra l’ammissione di Thomas More nel Lincoln’s Inn. La registrazione dell’ammissione di More, come si sa, compare nel Black Book, A1a2, in fon- do al folio 34v, e recita:

Thomas More admissus est in Societatem xij die Februari anno supradicto [11H. VII = 1496] et pardonatur ei quattuor vacationes ad instanciam Jo- hannis More patris sui. 24

Immediatamente dopo questa voce, ancora al fondo del foglio 34v, c’è l’am- missione, lo stesso giorno e ancora su richiesta di John More, di Richard Stafferton. La voce successiva, in cima al foglio 35r, recita:

John Cryspe fu ammesso il venerdì precedente alla Purificazione, 11° di Enrico vii, e gli si sono condonate tutte le vacanze su richiesta di John Roper, per il quale pagò 26 scellini e 8 penny.

Colpisce questo nuovo rimando alla Purificazione, ma chi legga l’intero vo- lume può facilmente osservare esso che ritorna in molte altre occasioni: John

23 M.H. Keen, England in the Later Middle Ages, London 1997, 456. 24 «Thomas More è ammesso nella società il 12 febbraio del suddetto anno [undicesimo di Enrico vii, 1496] e gli si condonano quattro vacanze su richiesta del padre John More»: le vacationes (vacanze) di cui si parla erano periodi di astensione dagli obblighi lavorativi e societari e dedicati allo studio. La data di nascita di Thomas More 51

Stafford effettuò un pagamento la domenica successiva alla Purificazione, nell’undicesimo anno di Enrico vi [1433], libro 1, fo. 18; furono eletti dei funzionari nella Festa della Purificazione della Beata Vergine Maria, nel nono anno di Enrico viii [1518], libro III, fo. 74; si offre ricevuta di pagamenti il martedì successivo alla Purificazione (stesso foglio), e così via. Ne abbiamo una chiave interpretativa nel libro 1, parte I, fo. 20:

Si tenga in mente che nella Festa di S. Erkonwald nel nono anno di re Enrico vi [1431] viene deciso da tutti membri che si tengano quattro feste all’anno e non di più; vale a dire nella festa della vigilia di Tutti i Santi (30 ottobre)...; la seconda nella festa di S. Erkonwald (30 aprile) 25... la terza nella festa della Purificazione di Nostra Signora (2 febbraio)... La quarta nella festa di mezza estate (24 giugno).

Da quel momento in poi i rimandi alla Purificazione si trovano ovunque: si devono pagare le quote alla Candelora, fo. 31 e nell’ottava della Purificazio- ne della Beata Maria, diciottesimo anno di Enrico vi [1440], fo. 39; Robert Willendale, uno degli amministratori, paga 40 scellini per i giullari a Natale e alla Purificazione, fo. 91; Breto è ammesso la domenica successiva alla puri- ficazione nel trentaduesimo anno di Enricovi [1454]; Edmund Blake venne ammesso a condizione di pagare annualmente nell’estate, vale a dire entro l’ottava di S. Giovanni Battista, un cervo ed entro l’ottava della Purificazione una cerva, fo. 93; John Layton viene ammesso nel trimestre autunnale e gli vengono condonate tutte le vacanze e ammesso ai pasti a suo piacimento, concessione per la quale dovrà pagare, nella successiva festa della Purifica- zione, una botte di vino rosso di Guascogna; nella prima settimana dopo la purificazione nel primo anno di Edoardoiv [1462] fu ammesso nella società William Elyot. Particolarmente interessante è la voce successiva, al fo. 157 [1468-1469], in quanto lascia intendere che la festa della Purificazione dia il nome all’inte- ra settimana. Recita:

Fu concordato e stabilito da tutti i membri... che ogni membro che viva all’inter- no della città di Londra o nella sua periferia o nella città di Westminster... possa in futuro entrare alla camera dei Comuni nelle settimane in cui cadono la festa della Purificazione della Beata Vergine Maria, l’Ascensione di nostro Signore, la Natività di S. Giovanni Battista e tutti i Santi, e prendere parte ai pasti nelle medesime settimane...

Vale a dire che si parla di Festa della Purificazione per l’intera settimana in cui cadeva la festa, che la data di cui si parlava si trovasse prima o dopo la festa e addirittura di domenica. Questa era la prassi al Lincoln’s Inn, ed è

25 Vescovo di Londra che morì intorno al 686. 52 Frank Mitjans comprensibile che tale prassi sia stata seguita da sir John, che in quel tempo era un membro dell’Inn. 26 Benché il caso del Lincoln’s Inn sia particolarmente ben documentato, era comune anche altrove l’allusione alla festa della Purificazione. Robert Pe- arce, per esempio, rimarca che si tenevano generalmente delle feste nelle case dei nobili e in altre grandi case, e che le celebrazioni natalizie andavano dalla vigilia dei Santi fino alla Candelora; curiosamente l’ultima di queste feste di cui si sa che fossero osservate negli Inns of Court 27 ebbe luogo nella Inner Temple Hall il 2 febbraio 1733 28.

* * *

Il mio già citato articolo comparso in Moreana nel 2010 prende in consi- derazione alla fine la prova interna dell’intera tabella dei memoranda scritti da sir John, concludendo che «è decisamente improbabile che sir John possa aver compiuto un errore nel precisare l’anno; tra le altre ragioni, perché anno dopo anno avrebbe potuto vedere un tale errore e, se vi fosse stata necessità, avrebbe potuto correggerlo. Non stiamo occupandoci qui di un’informazio- ne isolata riguardante qualcuno la cui data di nascita non era stata registrata. Stiamo parlando di un registro familiare di sette voci redatto con cura da un avvocato». «Per quanto riguarda la data, è ben facile da comprendere che sir John dovesse avere in mente il venerdì successivo alla festa della Purificazione della Beata Vergine Maria, che è quando iniziarono le doglie del parto, ed abbia quindi aggiunto la data precisa, il 7 febbraio, quando si rese conto che la nascita aveva avuto luogo dopo che era già passata la mezzanotte. Come è stato ipotizzato da Marc’hadour, le parole poste tra le righe «non esigono di essere interpretate come intervento successivo, possono essere state inserite come immediato sforzo di una maggiore precisione». Non c’è bisogno di diffidare della precisione dell’affermazione di sir John: Thomas More nacque la notte tra il venerdì successivo alla festa della Purifi- cazione della Beata Vergine Maria e il sabato, ossia, nella prima mattina del 7 febbraio 1478. 29

26 Cfr. Hastings, “The Ancestry of Sir Thomas More”, in The Guildhall Miscellany, luglio 1961, 47-62. 27 I quattro edifici appartenenti alle quattro associazioni professionali che abilitavano (e abilitano) all’esercizio della professione forense. 28 Robert Pearce, A History of the Inns of Court and Chancery, London 1848, 114. 229. 29 Sono grato a Marie-Claire Phélippeau, direttrice di Moreana, che scrisse, nella sua introduzione editoriale al tema della rivista del dicembre 2010, nella quale comparve il mio articolo, che questo «può aver posto un punto fermo definitivo alla questione molto discussa sulla data effettiva della nascita di Thomas More». Nella sua ultima biografia (Thomas More, Gallimard Paris 2016) ella ha adottato come data di nascita il «7 febbraio 1478». Anche Dominic Baker-Smith (1937-2016) ha adottato questa datazione nella cronologia inserita nella sua traduzione della Utopia, Penguin Classics 2012. La data di nascita di Thomas More 53

Bibliografia

Manoscritti

– The Black Books of Lincoln’s Inn, 1422-1586 – Memoranda, 1474-1482, in MS O.2.21, Trinity College, Cambridge – Will of Sir John More (Testamento di sir John More), datato al 26 febbraio 1527 e autenticato il 5 dicembre 1530, The National Archives, Public Record Office, London: PROB 11/23.

Archivi e raccolte

– Early English Text Society, The Lives of Sir Thomas More, Harpsfield (cur.), con “Historical Notes” di Chambers, Hitchcock 1932; Roper (cur.), Hitchcock 1935; Ro.Ba. (cur.), con “Historical Notes” di Hallett e “Ad- ditional Notes” di Reed, Hitchcock 1950. – Records of the Honourable Society of Lincoln’s Inn, i (1422-1586), tras- crizione inglese dei Black Books, D. Walker - W.P. Baildon (cur.), Lon- don 1897. – Records of the Honourable Society of Lincoln’s Inn, vol. I, Admission Regis- ter, 1422-1789, London 1896. – Yorkshire Star Chamber Proceedings, John Lister (cur.), iv, all’interno dei Record Series, vol. lxx, pubblicato dalla Yorkshire Archaeological Soci- ety, Leeds 1927.

Pubblicazioni e articoli

– Allen, T., A New and Complete History of the County of York, London 1831. – Allen, P.S., Opus Epistolarum Des. Erasmi Rotterdami, Oxford 1906. – Chambers, R.W., Thomas More, London 1935 [tr. it. Tommaso Moro, Mila- no 1965 (tr. M. Bertagnoni)].

Devo ovviamente esprimere il mio apprezzamento verso tutti coloro che hanno offerto contributi ai miei articoli originari: mia sorella, Dr. Esther Mitjans (università di Barcellona), Adam C. Green, aiuto archivista al Trinity College di Cambridge e Josephine Hutchings, archivista del Lincoln’s Inn di Londra. Quest’ultima è stata di inestimabile aiuto nella mia ricerca nei Black Books del Lincoln’s Inn. Devo aggiungere la mia gratitudine per l’archivista della Yorkshire Archaeological Society di Leeds e per l’amministratore parrocchiale della chiesa di St. Peter di Barnborough. E rinnovo i miei ringraziamenti a Dr. Andrew Hegarty, direttore del Thomas More Institute di Londra e al professor Gerard Wegemer, direttore del Centre for Thomas More Studies dell’università di Dallas. 54 Frank Mitjans

– Chambers, R.W., The Place of Saint Thomas More in English Literature and History, London 1937. – Guy, J., A Daughter’s Love, London 2008. – Hastings, M., “The Ancestry of Sir Thomas More” e l’appendice B, “Will of Sir John More”, in The Guildhall Miscellany, London luglio 1961. – Hunter, J. (ed.), The Life of Sir Thomas More di Cresacre More, London 1828. – Hunter, J., South Yourkshire: The history and Topography of the Deanery of Doncaster in the Diocese and County of York, London 1828-1831. – Hutton, W.H., Sir Thomas More, London 21900. – Stanley Large, J., A History of Barnburgh, 1952. – Logan, G.M. (ed.), The Cambridge Companion to Thomas More, 2011. – Marc’hadour, G., L’Univers de Thomas More, Paris 1963. – Marc’hadour, G., “Thomas More’s Birth: 1477 or 1478?”, in Moreana 53, marzo 1977. – Pearce, R., A History of the Inns of Court and Chancery, London 1848. – Reynolds, E.E., Margaret Roper, London 1960. – Reynolds, E.E., The Field is Won, London 1968. – Seebohm, F., The Oxford Reformers (ed. Hugh E. Seebohm), London 1914, ristampa 1929. – Wood, M., The Family and Descendants of St Thomas More, Leominster Herefordshire 2008.

ibrerca e passione merrily

La preghiera semplice è una preghiera cristiana conosciuta a partire dall’inizio del Novecento. È stata pubblicata la prima volta in Francia, nella rivista eccle- siastica La Clochette, n° 12, dic. 1912, p. 285, da padre Esther Bouquerel nel dicembre 1912. Il testo era in francese, anonimo, e si intitolava Belle prière à faire pendant la messe. In Italia la preghiera è apparsa per la prima volta sull’Osservatore Romano il 20 gennaio 1916. È tradizionalmente, ma errone- amente, attribuita a San Francesco. Secondo lo storico Christian Renoux l’at- tribuzione trarrebbe origine, nell’ambito del protestantesimo francese, da una versione della preghiera stampata sul rovescio di un santino raffigurante San Francesco (ed. it. La preghiera per la pace attribuita a san Francesco, un enigma da risolvere, Edizioni Messaggero, Padova 2003).

La versione originale di questa preghiera è la seguente:

Seigneur, faites de moi un instrument de votre paix. Là où il y a de la haine, que je mette l’amour. Là où il y a l’offense, que je mette le pardon. Là où il y a la discorde, que je mette l’union. Là où il y a l’erreur, que je mette la vérité. Là où il y a le doute, que je mette la foi. Là où il y a le désespoir, que je mette l’espérance. Là où il y a les ténèbres, que je mette votre lumière. Là où il y a la tristesse, que je mette la joie.

Ô Maître, que je ne cherche pas tant à être consolé qu’à consoler, à être compris qu’à comprendre, à être aimé qu’à aimer, car c’est en donnant qu’on reçoit, c’est en s’oubliant qu’on trouve, c’est en pardonnant qu’on est pardonné, c’est en mourant qu’on ressuscite à l’éternelle vie. Una preghiera anonima moreana Da Thomas More a Basil Webb: un percorso da riprendere di Giuseppe Gangale

Come se ce ne fossero poche di versioni in circolazione a complicare la situazione ci si è messo pure il Papa che il 22 dicembre 2014 in occasione della presentazio- ne degli auguri natalizi alla Curia Romana ha pronunciato queste parole:

Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spi- rito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umori- smo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More: io la prego tutti i giorni, mi fa bene 1.

La preghiera che il Papa durante la riunione non recita, ma che è stata pub- blicata unitamente al discorso, è la seguente:

«Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombran- te che si chiama «io». Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. Amen».

Il Papa, ricalcando quello che è un pensiero diffuso, attribuisce la preghiera a Thomas More, quasi a voler dimostrare che l’uomo è così ricco - nell’icono-

1 Cfr., Discorsi del Santo Padre Francesco in www.vatican.va. Nel documento il testo della preghiera viene riportato in nota a fondo pagina senza la suddivisione dei versi. Una preghiera anonima moreana 57 grafia così come nella letteratura e soprattutto nel campo dei racconti allegri - che non si potrà mai mancare di dargli credito. Quello che lui scrive per altri motivi sembra in questo caso possibile attribuirlo a se stesso: “A chiunque ha sarà dato, e gli sarà moltiplicato”, citando Matteo 25.29, nel Libro II della sua Confutazione 2. In realtà la preghiera universalmente più “nota” di Thomas More, che circola sotto il suo nome, non solo in inglese, ma in quasi tutte le lingue del mondo, e che ha trovato un posto su innumerevoli cartoline e sulle pareti di molte sale da pranzo, non è stata scritta da Thomas More. Essa non appartiene al corpus moreano, vale a dire all’insieme delle ope- re da lui scritte, alle fonti contemporanee e alle più importanti biografie che si sono succedute dal cinquecento ad oggi. In esse non si trovano tracce di questi versi sebbene essi respirino profondamente lo spirito moreano. Del resto anche la preghiera più nota di san Francesco d’Assisi – “Si- gnore, fa di me uno strumento della tua pace” - è sconosciuta agli editori di San Francesco, sebbene non se ne trovi una che rappresenti meglio lo spirito francescano. Non è mia intenzione peccare di ostracismo nei confronti della preghiera del buonumore, ma non posso astenermi, anche per non sembrare di parte, dal fare un po’ di chiarezza in merito. Germain Marc’hadour, uno dei maggiori studiosi di Thomas More del Novecento, sulla rivista moreana da lui diretta per quasi mezzo secolo si è occupato più volte della preghiera del buonumore e oltre ad informarci su ciò che già si sapeva sulla preghiera, vale a dire la sua erronea attribuzione a More, nonchè l’inesistenza dei versi dal corpus moreano ci porta a conoscen- za di un probabile autore o se vogliamo di una tradizione orale relativa ad un probabile autore 3. Le sue ricerche individuano tracce della preghiera in due volumi:

1. Best Loved Poems of the American People, selected by Hazel Felleman, Garden City publishing Company, Garden City, N.Y., 1936. 2. Golden Book of Frayer, an anthology edited by Donald B. Aldrich, Perma books, 1941. In essi vengono riportati questi versi:

Give me a good digestion, Lord, And also something to digest.

2 The Complete Works of Thomas More, Confutation of Tyndale’s Answer, Louis A. Schuster, Richard C. Marius, James P. Lusardi, Richard J. Schoeck, Vol. 8, Yale University Press, p. 206. 3 Cfr., Prière de Thomas More, un apocryphe, Vol. 1 – n. 4 – november 1964, pp. 44-45; Give me a good digestion, Lord. More’s apocryphal prayer, Vol. 9 – n. 36 – december 1972, pp. 93-96; Sur la prière apocryphe de Thomas More selon Thomas Webb, Gazette - Numéro 79 – 80, pp. 197-199. 58 Giuseppe Gangale

Give me a healthy body, Lord, With sense to keep it at its best.

Give me a healthy mind, Lord, To keep the good and pure in sight, Which, seeing sin, is not appalled, But finds a way to set it right.

Give me a mind that is not bored, That does not whimper, whine or sigh ; Don’t let me worry overmuch About the fussy thing called I.

Give me a sense of humor, Lord, Give me the grace to see a jake, To get some happiness from life And pass it on to other folk.

Anonymous. From a tablet in Chester Cathedral, England.

«Questo indizio d’oro – afferma Marc’hadour, in riferimento all’anonimo della tavoletta nella cattedrale di Chester –, mi ha spinto a scrivere al se- gretario della Cattedrale anglicana» 4 ricevendo risposta dallo stesso decano, accompagnata da una cartolina nella quale è riprodotta la preghiera con in fondo una nota sul suo autore. Ecco la preghiera come segue:

Give me a good digestion, Lord, And also something to digest ; But when and how that something comes I leave to Thee, Who knowest best.

Give me a healthy body, Lord; Give me the sense to keep it so Also a heart that is not bored Whatever work I have to do.

Give me a healthy mind, Good Lord, That finds the good that dodges sight And seeing sin, is not appalled, But seeks a way to put it right.

Give me a point of view, Good Lord,

4 Moreana, Vol. 9 – n. 36 – december 1972, pp. 95. Una preghiera anonima moreana 59

Let me know what it is, and why. Don’t let me worry overmuch About the thing that’s known as “I”.

Give me a sense of humour, Lord, Give me the power to see a joke, To get some happiness from life And pass it on to other folk.

T.H.B.W. The above lines were written by Thomas Henry Basil Webb, only son of Lt.-Col. Sir Henry Webb, Bt., born on August 12th, 1898, educated at Winchester College - he was killed on the Somme, December 1 st, 1917, aged 19.

Come si può notare ci sono alcune variazioni tra la preghiera riportata dai volumi sopra citati e quella in uso nella cattedrale di Chester. Ma non sono le differenze testuali che devono colpirci, piuttosto la nota finale sull’autore 5.

Chi era questo giovane? Era l’unico figlio del tenente co- lonnello Sir Harry Webb, deputato di Llwynarthau, Castletown, Cardiff e El- len Webb, figlia di William Williams di Cardiff. Basil Webb nacque nel 1898 e fu educato al Winchester College. Era un’atleta a tutto tondo, buon giocato- re di calcio e cricket. Poco dopo aver lasciato Winchester entrò a far parte come sottotenente della Guardia del Galles al culmine della prima guerra mondiale. Raggiunse la Francia il 9 agosto 1917 accompagnato dal tenen- te George CS Tennant. Raggiunsero un campo di rinforzo (Petworth Camp nelle Fiandre) e il 17 agosto ebbero il loro primo incontro con la guerra quando gli aerei tedeschi volavano su

5 I seguenti versi furono scritti da Thomas Henry Basil Webb, unico figlio del Luogotenente Colonello Sir Henry Webb, nato il 12 agosto 1898, educato al Winchester College – egli fu ucciso nel Somme, il 1 dicembre 1917 all’età di 19 anni. 60 Giuseppe Gangale di loro e le bombe caddero a circa un miglio di distanza dalla loro posizione. I due compagni sarebbero potuti andare in congedo a Parigi il 4 settembre, ma la notte del 31 agosto il battaglione si spostò verso la linea nemica e Ten- nant fu ucciso durante l’offensiva nelle prime ore del 3 settembre 1917. Il battaglione si mosse in ritirata fino a Cambrai e il 1° dicembre alla terza bri- gata delle Guardie Gallesi fu ordinato di attaccare attraverso Gauche Wood, a sud di Gouzeaucourt, verso il villaggio di Gonnelieu. Gli ordini erano vaghi, l’attacco doveva essere effettuato su un terre- no poco familiare con brevissimo preavviso e i comandanti dei battaglioni coinvolti non erano soddisfatti. Gli Ufficiali Comandanti del 4° Granatieri, il battaglione di Webb, tennero una consultazione. La situazione era di una difficoltà unica. Il signor Gort, comandante del 4° Gra- natieri, disse senza mezzi termini che non pensava che l’attacco avrebbe avuto succes- so, poichè aveva assistito la sera ad un tenta- tivo fallito da parte di alcune truppe di sol- dati e non aveva mai visto una tale quantità di fuoco messo in campo dal nemico. Un maggiore responsabile del Corpo dei carri armati presente al colloquio di Gort disse che non era in grado di fornire alcun car- ro, ma non disse nulla su quello che sareb- be accaduto o insinuò dubbi sul fatto che non erano pronti per l’ora zero. Pur non es- sendoci carri armati che avrebbero potuto sostenerli fu dato l’ordine di avanzare. Le squadre assaltatrici cominciarono a muo- versi con fatica. I tedeschi avevano conte- nuto il loro fuoco fino a quando la Guardia ruppe l’orizzonte, a quel punto aprirono un intenso fuoco di mitragliatrice. Webb cadde insieme a centinaia di altri soldati. Dei 370 uomini che parteci- parono all’impresa, in tre minuti 248 furono uccisi e gli altri feriti. Il giovane Webb fu sepolto nel nuovo cimitero britannico in Gouzeau- court 6. Il sacrificio di questi uomini non fu dimenticato. Tutti ebbero in qualche modo una loro memoria. Nel 1911, l’anno in cui Sir William Goscombe, un famoso scultore gallese, fu nominato cavaliere, una figura in piedi in bronzo da lui realizzata raffigurante Basil Webb in uniforme Scout fu esposta alla

6 Cfr., http://www.winchestercollegeatwar.com/archive/thomas-harry-basil-webb. Insieme a quella di Basil Webb nel sito web del Collegio di Winchester è possibile leggere una serie di biografie di personaggi legati alla pregiatissima istituzione morti durante la prima e seconda guerra mondiale. Una preghiera anonima moreana 61

Royal Academy. Il modello, la posa e la scala di questa figura richiamano il David di Andrea del Verrocchio. Questa scultura fu inclusa in una mostra di opere di alcuni artisti moderni di nascita o estrazione gallese nel 1913-14. At- tualmente, con il titolo di The Boy Scout, (NMW A126), la scultura in bronzo di Goscombe si trova nella collezione del Museo Nazionale del Galles a Car- diff, acquisito nel 1952 come dono di Lady Webb in memoria di suo figlio 7. Un altro ricordo molto affettuoso di Basil è quello che si può individuare nella cattedrale di Chester che identifica i lavori di restauro sostenuti eco- nomicamente dal padre di Basil, Herry Webb, nel 1919, “in memoria di suo figlio galante e dei suoi compagni”.

L’attribuzione della preghiera del buonumore a Webb nasce indubbia- mente nel contesto del Collegio di Winchester, dove Basil Webb fu educato, e della Cattadrale di Winchester dove si trasmette la preghiera legata al suo autore. Pertanto siamo obbligati a parlare di trasmissione di una memoria non essendoci fonti letterarie o architettoniche che possano legare i versi ai luoghi sopracitati. Già Marc’hadour nelle sue ricerche pubblicate su Moreana e che risal- gono al 1972 cita un libro del Decano della Cattedrale, il Reverendo G.W.O. Addleshaw, The Pictorial History of Chester Cathedral, in the Pitkin “Pride of Britain” series, nel quale non si fa alcuna menzione della preghiera, ma soprat- tutto nella stessa lettera di risposta allo studioso francese il Decano scrive:

The prayer is not written up anywhere in the Cathedral. We have it on sale, as a kind of memento of our mediaeval Refectory. As you will see, the prayer has little relation to the prayers of Sir Thomas More. It is very typical of the best type of Public School Christianity in England at the beginning of this century. There was not a wide-spread interest in Sir Thomas More then, though Utopia was read in the History Schools at Oxford. The card is immensely popular. Dean Bennett (1920-1937) had it printed. He was the first Dean to make an English Cathedral a welcoming place for all corners 8.

La progressiva obliterazione della memoria di Thomas H.B. Webb è per- cepibile in una terza fonte citata da Germain Marc’hadour: Bartlett’s Fami-

7 Le informazioni sono tratte dal catalogo on line del Museo Nazionale del Galles. 8 Moreana, Vol. 9 – n. 36 – december 1972, pp. 96. La preghiera non si trova scritta da nessuna parte nella cattedrale. Noi la diffondiamo come una sorta di preghiera del nostro refettorio medievale. Come si potrà vedere la preghiera ha ben poca relazione con le preghiere di Sir Thomas More. È assai rappresentativa del miglior tipo di scuola pubblica cristiana in Inghilterra all’inizio di questo secolo. Non c’era un interesse diffuso per Sir Thomas More, allora, anche se Utopia era letta nelle scuole di storia a Oxford. La cartolina è immensamente popolare. Dean Bennett (1920-1937) la fece stampare. Egli fu il primo decano a fare di una cattedrale inglese un luogo accogliente in tutti gli aspetti. 62 Giuseppe Gangale liar Quotations, 14th ed. rev., Little, Brown & Co., Boston-Toronto, 1968. In una nota a fondo pagina del marchese Donald Robert Perry, 1878-1937, i primi due versi della nostra preghiera sono citati e accreditati come “Anony- mous, A Pilgrim’s Grace, Stanza 1” 9.

Oggi le cose stanno diversamente, nel senso che si sta recuperando in qualche modo la memoria del giovane Webb. Basta collegare il suo nome alla preghiera e si trovano per esempio sul web parecchi siti che gli attribuiscono il poema (non per tutti è una preghiera). Ma è ancora molto forte l’attribu- zione dei versi a Thomas More. Oltre a non trovarne traccia nella sua produzione letteraria esiste un pro- blema di critica testuale che non può essere tralasciato e che ci consente di dire che essa è molto lontana dai tempi di More e molto più vicina a noi. Marc’hadour in merito si limita a dire che “nessuno di quelli che hanno familiarità con Thomas More si aspetterebbe di trovare la preghiera nelle sue opere dal momento che è chiaramente una composizione molto moderna”. Un’affermazione tanto vera che sarebbe stato opportuno spendere qualche rigo per dimostrarla. In ogni caso non è difficile individuare cosa la rende caratteristica della nostra epoca. Non era certamente nella mentalità di un uomo del cinquecento la cura del corpo così come viene descritta, vale a dire desiderare di averlo sano e conservarlo nel modo migliore. Di chiara derivazione psicoanalitica poi de- siderare di non preoccuparsi troppo di quella cosa chiamata Io. Così come desiderare di ottenere un po’ di felicità dalla vita e darla agli altri ci conduce ad una concezione edonistica in senso solidaristico che è tipico dei primi decenni del Novecento. Queste considerazioni per quanto possano apparire superficiali raffor- zano in un certo senso la tradizione riferita a Basil Webb e ci portano indub- biamente a lavorare in questa direzione. Perciò mi sono permesso di continuare le ricerche di Germain Marc’ha- dour e rivolgermi, se ciò può essere considerato un buon metodo, verso i luoghi del giovane Basil per chiedere se, a distanza di trent’anni circa circa, si sa qualcosa in più circa l’autore della preghiera. Mi sono limitato di scrivere al Winchester College dove Basil fu educato e alla Cattedrale di Chester in cui si trasmette la preghiera del buonumore. Alla mia domanda se esistono fonti letterarie e architettoniche che possano in qualche modo documentare la paternità di Webb le risposte degli esperti sono state le seguenti:

9 Ivi, p. 96. Una preghiera anonima moreana 63 64 Giuseppe Gangale

Al Collegio di Winchester non esistono fonti che possano documentare che egli ne sia l’autore, così come né l’autore né la poesia ha una connessione particolare con la Cattedrale di Chester, al punto che oggi non se ne fa più uso. Per cui qualcuno ha pensato che sarebbe stata una preghiera appropria- ta per un refettorio e quindi una copia fu appesa lì dal 1930. Questo qualcuno sappiamo dalle ricerche di Marc’hadour che fu molto probabilmente il decano Bennet, responsabile della cattedrale dal 1920 al 1937. In realtà, come finora abbiamo visto, sono tutte di questo periodo le fonti che attribuiscono a Basil Webb la preghiera. Mi permetto perciò di fornire un altro riferimento bibliografico relativo al 1934. Si tratta di un settimanale canadese, pubblicato a Québec dal 1932 al 1961 e specializzato nel fornire brevi notizie che si è fuso successivamente con il Coaticook observer and Stanstead County News per divenire Telegram observer. Nell’edizione del 9 agosto 1934 in terza pagina viene pubblicata con il titolo A happy prayer la preghiera del buonumore. Nell’introduzione si dice:

These verses were writtem, gaily, by Thomas Harry Basil Webb, 2d lieutenant in the Welsh Wards, who was killed in action in the Great War. He was a son of Lt. Col. Sir Henry Webb, Bart. Caerleon, Monmoutshire. They are worth memori- zing especially by the solemnly inclined.

Segue il testo della preghiera che è assolutamente identico a quello trasmes- so nella cattedrale di Chester. Questa particolare corrispondenza dei testi nonché l’autorevolezza con cui il settimanale afferma la paternità del poema, quasi a voler dire chi è l’autore, ci porta a pensare che questo testo possa avvicinarsi molto a quello originale.

Da quanto detto c’è da registrare che dagli anni “30 in poi, a livello po- polare, la memoria di Webb è andata progressivamente scemando a favore di un’attribuzione del poema a Thomas More. È evidente che la forte spinta moreana della preghiera abbia trovato un legame che deve essere apparso inconfondibile man mano che cresceva la popolarità di More nel Novecento. C’è da compiere oggi un processo inverso, vale a dire spogliare il poema di qualsiasi riferimento a More e ripercorrere nuovamente la fama che aveva negli anni successivamente seguenti la sua composizione. Attualmente ci troviamo di fronte a due tradizioni, quella che attribuisce a More sia direttamente sia come apocrifo la preghiera del buonumore e quella che, forse con una intenzione di ricerca approfondita, potrebbe avvi- cinarsi e di molto al suo probabile autore e restituire al legittimo proprietario ciò che gli appartiene. Di fatto non possiamo dire che Webb ne sia l’autore, ma che altri se pur Una preghiera anonima moreana 65 autorevolissimi personaggi gli hanno attribuito la paternità. Pertanto siamo al cospetto di una tradizione che fino a quando non viene dimostrata rimane pur sempre tale. Al contrario, invece, quanto si dice su More. Se è da escludere la sua paternità per tutta una serie di ragioni che abbiamo voluto dimostrare, non possiamo tralasciare invece lo spirito moreano dal quale il poema trae linfa e che tiene alto. Di conseguenza sarebbe opportuno parlare di preghiera anonima more- ana nella misura in cui non c’è testo al mondo capace di rendere più intelle- gibile l’arguzia e l’ingegno umoristico del grande umanista inglese. documenta moreana

Il documento che presentiamo in questo fascicolo di Morìa ci sembra che venga a superare un vuoto venutosi a creare nella riflessione sociale cattolica su Thomas More. È una contraddizione osservare che l’illustre statista sia venerato quale patrono dei politici e dei governanti e non avere poi nessuna voce in capitolo in materia di Dottrina Sociale Cristiana.

La politica per lui non fu una interessata professione, ma un servizio talvol- ta arduo, al quale si era coscienziosamente preparato non solo con l’appro- fondimento della storia, delle leggi e della cultura del proprio Paese, ma soprattutto con l’indagine paziente sulla natura umana, la sua grandezza e le sue debolezze, e sulle condizioni sempre perfettibili del vivere sociale. La politica fu lo sbocco di un assiduo sforzo di lucida comprensione. Gra- zie ad esso, egli poté insegnare la giusta gerarchia dei fini da perseguire nel governo, alla luce del primato della Verità sul potere e del Bene sull’utile. Agì sempre nella prospettiva dei fini ultimi, quelli che l’alternarsi delle vicende storiche non potrà mai vanificare (Istanza inviata al Papa per la pro- clamazione di San Tommaso Moro a Patrono dei Governanti e dei Politici).

Se questa fu l’idea di politica per Thomas More e se le origini di essa, la sua evoluzione e la sua manifestazione nella comunità degli uomini indubbia- mente è una delle preoccupazioni maggiori della dottrina sociale cristiana, non si può non rilevare quanto la testimonianza di Tommaso Moro stia al cuore della spiritualità che il Vangelo sprigiona sul corretto ordinamento del- la società e del vivere civile. A scuola dai giganti di Luigi Negri

La testimonianza di san Tommaso Moro: cuore della dottrina sociale della Chiesa

Più che una lezione, per la quale, forse, per la questione specifica ci sareb- bero voluti studi più approfonditi di quelli che ormai mi sono consentiti, mi sembra che quello che posso fare sia una memoria. La memoria della vita della Chiesa non è una conoscenza analitica, ma un’intuizione: qual è il peso e il posto dell’esperienza della testimonianza di san Tommaso Moro nel suo tempo, e come questa testimonianza oltrepassa i limiti del tempo e acquista un significato per l’oggi? Ogni grande esperienza di santità, di verità cristiana, infatti, per sua natura va oltre la sua epoca e acquisisce una carica profetica. Io sono qui, personalmente, nell’atteggiamento che ricordava spesso nel- le sue produzioni culturali uno dei più grandi maestri dell’età matura del grande medioevo cristiano, Giovanni di Salisbury, il quale amava dire quan- do presentava la figura di un santo o di una grande personalità del passato: “noi siamo come nani sulle spalle dei giganti” 1, vale a dire che noi possiamo vedere oltre quello che vedremmo se fossimo soli perché possiamo salire sul- le spalle dei giganti. E questa è la grande e pacificante certezza di oggi, la possibilità di identificarci con una grande esperienza di santità per trarne così delle indicazioni culturali e sociali, ultimamente politiche, che ci consentono di vivere la nostra esperienza cristiana. In questa memoria acquista per me un valore fondamentale un’altra grande personalità che ha per certi aspetti delle caratteristiche simili a quel- le di Tommaso Moro, il prof. Piero Pajardi, uno dei più acuti studiosi, per quanto non studioso di professione, grande magistrato fino a diventare pre- sidente della Corte d’Appello della città di Milano, spazzato poi via da una

1 “Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose e più lontano di quanto vedessero questi ultimi; non perché la nostra vista sia più acuta, o la nostra altezza ci avvantaggi, ma perché siamo sostenuti e innalzati dalla statura dei giganti ai quali ci appoggiamo”. Intorno al 1120, Bernardo di Chartres amava così paragonare davanti ai suoi allievi, in particolare Giovanni di Salisbury, i propri contemporanei e i loro gloriosi predecessori dell’età antica, epoca di giganti e santi. 68 Luigi Negri calunnia di una certa parte che era diventata attiva nella magistratura, che lo costrinse a tornare a Roma e di lì a morire qualche mese dopo questo suo trasferimento. Io l’ho sempre considerato un martire, anche se su questo martirio, coloro che lo hanno martirizzato, hanno fatto poi fortuna nella ma- gistratura e nella politica. Pajardi ha scritto un libro che si dovrebbe leggere: “L’utopia avverata. Io Tommaso Moro”, una rilettura della testimonianza di Moro fatta in prima persona attraverso un’identificazione che lo studioso fa di questa personalità perché la lunga frequentazione della figura e dei testi gli ha consentito questa affettuosa identificazione. Del resto può comprendere veramente un altro solo chi gli vuol bene. “Nemo cognosit nisi per amicitia” – diceva sant’Agostino – “Non si conosce se non nell’affetto”. San Tommaso Moro, quindi, e la sua santità di una vita ordinaria, questa è la prima certezza, la santità di un uomo che entra nella vita attraverso una traiettoria di vita, il suo essere affidato a una grande famiglia cristiana, che fa l’esperienza straordinaria della corrispondenza tra la fede e i grandi valori dell’umanità. Umanista, studioso dell’antichità, sensibile a tutte le forme della gran- dezza della cultura e della civiltà cristiana, prende, senza avere una precisa competenza di studi il suo posto nel mondo accademico e culturale di allora: le sue lettere che sono state pubblicate negli ultimi anni utilizzando il lavo- ro di un grande vescovo italiano degli anni “60, Mons. Castelli, lo vedono interlocutore in corrispondenza con i maggiori rappresentanti della cultura cattolica e non di allora, capace di dare a ciascuna di questa interlocuzione un suo contributo specifico. Le lettere più importanti sono quelle che rivolse ad Erasmo da Rotter- dam. In esse si incominciava ad assumere il volto di una presenza culturale non avversa alla tradizione cattolica ma diversa da essa, che avrebbe poi ini- ziato quel cammino in cui l’umanesimo e poi la cultura moderna si sarebbero determinati poco o tanto o tutto dalla tradizione cattolica. Ma sulla vicenda per esempio della libertà il dialogo con Erasmo è interessantissimo, come un dialogo sulla libertà, come lo fu quello sul senso e sul principio dell’autorità sia nella vita ecclesiale sia in quella sociale, furono esattamente questi i temi che egli approfondì nella sua esperienza e per cui sacrificò la sua vita. Un uomo di grande umanità e di intensa cultura era, quindi, Moro, un umanista proteso ad affermare il valore dell’umanità comunque, senza nes- sun cedimento in senso pessimistico, e soprattutto di quel pessimismo antro- pologico che sarebbe diventato poi una costante della cultura moderna, vale a dire il disprezzo, la negazione sulla possibilità dell’uomo di realizzare pie- namente la sua umanità, o l’illusione che l’uomo realizza la sua umanità con la sua intelligenza, con le sue capacità, con il suo potere, essendo le due gran- di eresie che guidano la modernità una ripresa di una posizione sostanzial- mente autosufficiente e pelagiana che fa riferimento a Cristo semplicemente A scuola dai giganti 69 come esempio, oppure quella di un pessimismo radicale dal punto di vista antropologico che dice che la salvezza dipende esclusivamente dall’iniziativa di Dio ma senza nessuna correlazione e continuità con il cammino dell’uomo nella sua vita. Tommaso Moro ci si presenta come un vero cristiano, per cui l’esperien- za della fede è l’esperienza della valorizzazione piena della propria umanità. In questo sceglie - con una sapiente lettura a cui tutti noi siamo chiamati a fare nella nostra vita leggendo i segni, gli incontri, le possibilità che la Prov- videnza ci rivela attraverso le circostanze della vita -, sceglie la sua vocazione, come una elezione positivamente normale. Moro sceglie il matrimonio con- sapevolmente, come la modalità per esprimere il ritorno a Dio, la gratitudine per aver ricevuto la fede, e di aver ricevuto l’educazione cattolica. E’ uno spo- so grande, uno sposo che mette al mondo in poco tempo un numero preciso di figli, e che conserva per la sua sposa un sentimento tenerissimo che non viene meno anche quando improvvisamente nel giro di pochi mesi la moglie muore lasciandone quattro. Come racconta il suo parroco una sera Moro andò a casa sua a dirgli che voleva sposarsi perché da solo non poteva effettivamente, non mantenere ma educare i propri figli. Non era un problema di mantenimento materiale, poi- chè con le risorse che aveva a disposizione - sia per la famiglia da cui prove- niva, sia per il lavoro con il quale aveva cominciato una felicissima carriera di avvocato, di patrocinatore della giustizia, sia a livello civile sia a livello penale -, avrebbe potuto assicurare ai suoi figli, ma non poteva da solo assicurare quel calore familiare che solo la presenza simultanea di padre e di madre assicurano ai figli. Ecco perché non solo andò a dirgli devo sposarmi, ma gli disse: questa è la moglie che ho scelto. Erano passati pochi giorni dalla morte della precedente e non c’erano tutti i fenomeni di implicazione affettiva che normalmente si legano ad un evento matrimoniale, c’era la consapevolezza che si doveva realizzare questa famiglia nuova per evitare che questi bambini non ricevessero una educazione adeguata 2. Amò poi la seconda moglie che era certamente diversa da lui, più anzia- na, diversa da lui come temperamento, donna eminentemente pratica. C’è una bellissima lettera in cui scrive alla moglie da Londra, già amministratore generale del regno d’Inghilterra, mentre lei stava in una casa di campagna alla periferia di Londra: “ho saputo che sono andati a fuoco i nostri granai” 3. Ed è una lettera estremamente concreta e affettuosa, ma insieme rispettosa. Non

2 Cfr., Giuseppe Gangale, Il consiglio della fermezza. John Fisher e Thomas More: due illustri esem- pi nella lettera di John Bouge a Katheryne Manne, in Rivista di Ascetica e Mistica 4/2014, pp. 753-776 (L’articolo è corredato in appendice della traduzione italiana della lettera di John Bouge, parroco di More, all’anacoreta Katheryne Manne in cui il religioso racconta l’episodio ricordato da Mons. Negri). 0 Woodstock, 3 settembre 1529, in Tommaso Moro, Lettere, scelte, tradotte e commentate da Alberto Castelli, a cura di Francesco Rognoni, Edizioni Vita & Pensiero, Milano 2008, pp. 287-288. 70 Luigi Negri

è che lui da lontano, siccome non è presente dà delle indicazioni tassative, consiglia, e lo fa su una questione tipicamente familiare, e consiglia come chi porta la responsabilità con tanta gratitudine per lei che in certi campi eviden- temente e valorosamente lo sostituisce. Un uomo dunque che ha avuto una vocazione matrimoniale, che ha portato a compimento nei termini di quella santità comune del popolo di Dio, che rappresenta la grande esperienza di santità della chiesa cattolica lungo la sua storia, costituita da cristiani che hanno saputo vivere di fede, di speranza, di carità e in virtù di queste hanno vissuto le responsabilità connesse alle proprie scelte vocazionali. L’altra grande scelta di Moro fu da subito quella della professione, che significò per lui la scelta di esercitare la professione forense, che in una situa- zione come quella culturale e sociopolitica dell’Inghilterra della fine del XV secolo e dell’inizio del XVI aveva larghissimi addentellati con la vita politica. Si cominciava con l’esercizio dell’avvocatura che normalmente propiziava una elezione in una delle strutture rappresentative della vita sociale dell’In- ghilterra, e poi uno poteva salire tutti gli scalini vedendo coronato a partire dalla sua professione anche delle responsabilità molto grandi, quella che toc- cò a lui di diventare sostanzialmente il Gran Cancelliere del regno. Visivamente, lo ricorda molto bene nelle sue lettere, aveva come momen- to supremo la consegna dell’anello con il grande sigillo del regno, necessario per qualsiasi decisione relativa alle questioni economiche, che poteva utiliz- zare soltanto il Gran Cancelliere del Regno anche senza il permesso del re. Rappresentava quindi un tipo di autorità e di responsabilità che, obiettiva- mente sotto la responsabilità ultima del re, aveva larghissimi spazi di auto- nomia e una capacità di valutare i problemi e risolverli che oggi potremo chiamare di una certa autonomia. Dura poco più di un anno, ma certamente Tommaso Moro nell’essere diventato Gran Cancelliere del Regno giunge e raggiunge il livello più alto in cui è chiamato ad esprimere tutta quell’enorme capacità e conoscenza, professionalità che si era fatto vivendo la sua vocazio- ne professionale con molta competenza ed estremo rigore. Moro sarebbe morto nel suo letto, confessa in una delle sue lettere, se non si fosse profilato inaspettatamente e improvvisamente il grande dissidio tra il regno e il papato, e all’interno del regno la grande tensione e alternativa tra l’obbedire al re o alla propria coscienza. Qui sta un passaggio importan- tissimo. Certamente Tommaso Moro muore perché nega al re il diritto di opporsi al Papa su questioni di competenza specifica del Papa, nel caso spe- cifico la valutazione circa la nullità del matrimonio contratto tra Enrico VIII con Caterina d’Aragona, da cui il Papa voleva liberarsi per non correre dietro la vicenda di Anna Bolena che esprimeva il desiderio psicotico dei regnanti di allora di avere presto un figlio maschio per potere assicurare la continuità al trono, e Caterina non aveva saputo dare un figlio a Enrico. Ma la vicenda ha due tornanti: il primo è che lo stato non può interve- A scuola dai giganti 71 nire nei campi specifici della Chiesa, come quest’ultima non può intervenire nei campi specifici relativi alla vita socio-politica. La Chiesa ha un vantaggio sullo stato: nei campi dell’umano protegge la vita sociale perché pone in essa valutazioni e richiami morali e teologici che rendono possibile l’esercizio del- la vita politica che non sia autoreferenziale. Tommaso Moro sa bene che tra i due campi c’è una distinzione invalicabile, è la grande tradizione della di- stinzione gelasiana tra Stato e Chiesa che è stato uno dei punti fondamentali della dottrina sociale della chiesa fino ad oggi, e credo che sia uno dei valori non negoziabili per il presente e per il futuro. L’altro versante è che, stando sul piano della vita culturale e sociale dell’uomo inglese di quel tempo, la frattura non si rivelava come opposizione tra Stato e Chiesa, ma si formulava così: obbedire al potere scavalcando i di- ritti fondamentali della propria coscienza personale e sociale o opporsi ad un potere che esigeva la negazione della libertà di coscienza? Tommaso difende il papa come cattolico e disubbidisce al re come cittadino, perché il re, come qualsiasi forma di potere non ha il diritto di pretendere che i cittadini vadano contro la propria coscienza personale per obbedire a indicazioni o direttive che in quanto vanno contro il valore fondamentale della coscienza personale sono di per se stesse assolutamente invalide. Giovanni Paolo II avrebbe detto immorali. Direttive nate nel campo della vita socio-politica e anche corredate da correttezza formale, per esempio decisioni prese secondo le procedure della vita democratica di un paese non diventano valide perché la procedura è corretta se sono, obiettivamente contro i valori fondamentali della coscien- za personale. Per questo l’aborto, per esempio, in qualsiasi modo sia stato determinato, anche se corretto dal punto di vista formale è qualcosa di asso- lutamente negativo, e gli stati che hanno inserito nella loro legislazione leggi liberticide o negative verso la vita non possono più vantare per sé il titolo di stati democratici. Tommaso Moro combatte contemporaneamente su due fronti: il fronte della libertà della Chiesa nei confronti dello Stato - non ci possono essere ra- gioni di alta o di bassa politica che consentono ad un’istituzione di carattere politico di intervenire nello specifico di competenza e di problemi che sono tipicamente ecclesiastici, nella fattispecie la decisione circa il destino, la con- sistenza, la natura di un evento matrimoniale. Dall’altro fronte si deve com- battere all’interno della vita sociale e pubblica contro il tentativo, che molte volte il potere ha avuto in tutta la sua storia, ma che certamente diventerà terribile nella fase moderna della storia e della cultura della società europea, di rappresentare il punto a cui la coscienza personale deve cedere. La coscienza personale non deve cedere di fronte a niente perché è il sacrario della coscienza umana della persona, ed è anche il luogo in cui Dio parla con l’uomo – dice un documento del Concilio Vaticano II –, perciò è 72 Luigi Negri un punto che è assolutamente intoccabile da qualsiasi istanza provenga. In questo senso il potere nasce in maniera corretta e di conseguenza serve il bene che va oltre il potere. Il bene sociale non è il potere, il bene sociale è ciò che il potere deve perseguire. E il potere non deve perseguire se stesso e la sua perpetuazione ma il bene della società, vale a dire la possibilità che tutte le parti che competono alla vita sociale possono realizzare pienamente la propria identità in maniera libera e responsabile. Moro quindi è non solo un grande cristiano, ma anche un grande poli- tico, la sua vicenda si iscrive nella tensione tradizionale della dialettica Sta- to e Chiesa, potere religioso e potere ecclesiastico, che è una caratteristica fondamentale della storia della chiesa in tutte le sue stagioni, e certamente è stata un evento del rapporto della storia della chiesa in quella fase che viene chiamata normalmente moderno-contemporanea. Moro è anche un grande politico perché ha impedito che la politica diventasse puro servizio al potere; l’uomo politico infatti deve mettere le condizioni perché il potere sia se stesso ed è tale non perché si autodifende o si autoafferma o si autopronuncia, ma il potere è se stesso, realizza la sua funzione se serve una realtà che lo precede, vale a dire se serve la società e il popolo. Queste realtà vengono prima del potere, non nascono da esso, sono fattori che determinano il potere: questo è il concetto di bene comune di tomistica memoria. All’inizio non c’è l’autorità ma la vita viva della società, che fermenta dal basso, espressione delle famiglie, delle culture, delle tradizioni e dei luo- ghi in cui l’umanità vive la sua esperienza personale e sociale, e questa cre- atività inesorabile, che almeno nell’ambito dell’esperienza storica della vita ecclesiale, dalla fede porta alla cultura, la quale investe tutte le dimensioni e le problematiche della società. Dalla fede nasce una cultura e una civiltà, e la civiltà implica la presenza di realtà sociali che vengono a contatto, che possono comprendersi, integrarsi, che possono respingersi, che hanno molti motivi di collaborazione ma anche di opposizione; ecco allora la necessità di una vigilanza sulla vita della società perché sia l’affermazione della libertà e non del potere. Tommaso Moro capì e visse non soltanto l’inesorabile dedizione al mi- stero della Chiesa, senza la quale non esiste la possibilità di vivere la fede in Cristo, di fare della fede in Cristo un cammino di maturazione personale, di realizzazione della propria vocazione, non solo capì che non si poteva accet- tare che lo stato riducesse le competenze e il potere della Chiesa, e in questo fu difensore dei diritti della cristianità, ma dall’altro affermò, e in forza di una tradizione che nasceva secoli prima di lui la grande ricchezza della tra- dizione inglese, al punto tale che questa tradizione fece nascere l’idea di una unità del mondo anglosassone al di là delle componenti etniche e razziali che stavano all’inizio di questo cammino. Ciò che fece nascere la nazione inglese fu la tradizione di libertà della società che doveva essere attuata e affermata A scuola dai giganti 73 prima di ogni potere, la famosa Magna Charta Libertatum, che i pari del re- gno, cioè coloro che avevano una precisa responsabilità nei confronti di certe situazioni razziali, etniche, sociali fecero a colui che rappresentava il punto di riferimento della vita della società, perché la sua funzione non fosse in opposizione alla libertà ma per incrementare la libertà. E’ nata l’Inghilterra moderna dalla Magna Charta Libertatum 4. Tommaso nelle sue dolorose lettere scritte durante la prigionia nella Tor- re di Londra vuole dire che con quegli eventi per i quali lui stesso moriva finisce la grande tradizione della libertà inglese. Il fenomeno di Tommaso Moro è un fenomeno allo stesso modo di grande levatura culturale, sociale e politica e di grande temperie cristiana. Volevo leggervi quasi a conferma di questa prima parte, in cui sostan- zialmente ho cercato di evocare il valore della sua testimonianza, quello che scrive il prof. Pajardi in uno dei punti significativi di questa sua rievocazione. «More – scrive Pajardi - muore accettando volontariamente la morte per sigillare questa figura quasi irripetibile; così eccezionale che paradossalmente richiedeva appunto questa tragedia per pretendere credibilità». Ci sono momenti in cui le questioni sono così grandi, così determinanti per il presente e lanciano luce e tenebre sul futuro che le questioni non pos- sono essere più mantenute all’interno del dibattito culturale. Le questioni poste dalla decisione del re di rompere con Roma, e creare una chiesa al suo servizio, che riconosceva nel re il capo effettivo della chiesa inglese, sono fenomeni di così grande portata che in questi ci si deve pronunciare fino a morire. Sono dibattiti che non si risolvono intellettualmente, nel confronto teorico, culturale, accademico, hanno senz’altro questo aspetto, ma l’alterna- tiva fra Tommaso Moro e Enrico VIII è un’alternativa radicale sul piano della vita e della morte. Non si poteva soltanto discutere, o aveva ragione l’uno e quindi aveva inesorabilmente torto l’altro o viceversa. E questo perchè uno degli interlocutori si sentiva dotato di un potere assoluto. L’assolutezza del potere è una grande offesa, non soltanto al potere divino della chiesa, che ha un potere che non mette in discussione con nessun’altro potere, non soltanto è un’offesa al potere di Dio, ma è un’offesa all’uomo, alla sua coscienza, alla sua libertà, all’unico grande potere che l’uomo ha a disposizione che è il po-

4 Il primo documento a garanzia delle libertà individuali. Il 15 giugno 1215 il re d’Inghilterra Giovanni Plantageneto, o Giovanni d’Inghilterra, più noto come Giovanni Senzaterra, in inglese John Lackland fu costretto dai baroni inglesi a riconoscere una serie di libertà e privilegi in un documento solenne. Con alcune modifiche essa fu nuovamente concessa nel 1225 da Enrico III e confermata nel 1297 da Edoardo I, entrando a far parte delle leggi fondamentali del regno inglese. La Magna Char- ta riconosce per iscritto i diritti dei feudatari, della Chiesa, delle città inglesi e degli «uomini liberi» (escludendo dunque i servi della gleba) nei confronti del sovrano d’Inghilterra, limitandone i poteri. Fu chiamata magna per non confonderla con un provvedimento minore, una carta emanata proprio in quegli anni per sancire una serie di limiti al potere del sovrano inglese. Pur presentandosi, quindi, come un atto di concessione unilaterale da parte del re, costituiva, in realtà, un contratto di riconosci- mento di diritti reciproci. 74 Luigi Negri tere della sua ragione, della capacità di comprendere la realtà in tutti i suoi contenuti. «Anzi – continua Pajardi – quando si afferma che questa santa morte è dovuta all’eterno dissidio tra coscienza e potere, e ancora tra legge morale ed interesse politico, si dice cosa estremamente valida. Non anche, però, quando si vuole affermare che il dissidio causante si estende ai termini libertà-autor- ità, perché qui si rischia l’equivoco: More è morto per negare l’insuperabilità di questo dissidio e per affermare come, sia pure in una realtà storica diversa, quale lui ha cercato, e non ha trovato, libertà e autorità possono armonizzarsi perché la prima giustifica la seconda in quanto la seconda tuteli la prima». La libertà e l’autorità sono certamente in una dialettica ma una dialettica che può essere vissuta positivamente. Qui apriremo verso la fine il punto signi- ficativo della sua grande opera teorica: l’Utopia, il tentativo che egli ha fatto di descrivere una vita sociale adeguata che la cultura laicista degli ultimi secoli ha sbrigativamente eliminato come se si trattasse di una visionarietà, il che invece contiene un insegnamento profondo: c’è un’Utopia, l’attualizzazione di questa Utopia è semplicissimo, basta che si sia rigorosamente cristiani e rigorosamente razionali, se si è così cambiano le condizioni di vita nella storia. «E poichè riparliamo della sua morte e del senso di essa, – continua an- cora Pajardi – va ribadito, a superamento della contingenza storica, che More muore in realtà per la civiltà e per l’intera storia dell’umanità, cioè in defini- tiva per l’uomo prima che per tutto, e per la verità dell’uomo che si modella sulla verità di Dio e con questa tende a combaciare nell’evolversi. E così muore per la giustizia, quasi in silenzio, senza creare nuove ingiustizie. Addi- rittura senza creare quel tanto di scandalo contingente e scenico che accom- pagnai il vizio dei tiranni di fabbricare i martiri. In realtà, More colpisce al cuore il modello universale del tiranno, ancora maggiormente per questo suo modo cosciente e fiero, docile e dolce, coraggioso ma non altero, di morire: un More basta per tutta l’umanità, ed è questo soprattutto che Enrico VIII, affogato in un modesto e squallido contingente, non solo non ha capito ma non avrebbe mai potuto capire» 5. Ecco, questa mi pare una sintesi splendida di quello che ho tentato di propinare dicendo che la grandezza di Moro è la grandezza di una vocazione umana e cristiana portata alle estreme conseguenze e nei confronti della qua- le egli non ha accettato che niente potesse distrarlo dal servizio alla chiesa e dall’affermazione incondizionata della sua libertà di coscienza. Moro ha avuto anche nella sua esperienza di cristiano uno spazio non ampio ma consistente, di quella che oggi chiameremo un’esperienza mistica, che ha fatto crescere nel tempo, come dovrebbe crescere in qualsiasi espe- rienza cristiana, l’affezione personale a Gesù Cristo.

5 Piero Pajardi, L’Utopia avverata. Io, Tommaso Moro, Editrice CEDAM, Padova 1990, pp. 44-45. A scuola dai giganti 75

La fede stessa può essere definita un’affezione personale a Cristo, una compagnia affettuosa al Signore. Che questo possa esprimersi, che questo sia consapevole o meno appartiene al mistero della vita e della vocazione cristia- na. Indubbiamente Moro negli ultimi mesi di vita - più di un anno e mezzo che passò senza nessuna particolare considerazione, trattato come erano trat- tati i prigionieri allora, anche i grandi prigionieri politici, e forse varrebbe la pena di rileggere la situazione delle carceri allora e delle carceri oggi in que- sto delirio garantistico -, fece un’esperienza straordinaria di affezione a Gesù Cristo. Scrisse delle cose straordinarie sulla passione del Signore, sulle ultime parole del Signore in croce, e andò leggendo e rileggendo, approfondendo il mistero della vita personale del Signore nella quale entravano le circostanze della sua vita così come si erano evolute. Volevo leggervi da questo punto di vista, perché è un’esperienza molto bella, l’ultima sua lettera alla figlia Margaret Roper, la figlia che aveva sposato quel William Roper, anche lui insigne avvocato e uomo politico che poi fu il suo primo biografo. Tutte le biografie di Tommaso Moro non superano la straordinaria bellezza e la sinteticità della testimonianza che scrisse quest’uo- mo che era legato al suocero da un’affezione profonda. Scrive Thomas dal carcere:

So di recarti un grande dolore, buona Margherita, ma mi dispiacerebbe se la cosa andasse più in là di domani. Poiché è la vigilia di san Tommaso e l’ottava di san Pietro, e perciò è domani che io bramo di andare da Dio: sarebbe un giorno molto adatto e conveniente per me. Addio, mia cara figliola, e prega per me, e io pregherò per te e per tutti i tuoi amici, affinché possiamo incontrarci lietamente in cielo. Ti ringrazio per tutte le tue fatiche 6.

È una lettera piena di profondità e discrezione, una lettera del padre alla pro- pria figlia prediletta in cui si manifestano profondità e discrezione, in cui tut- ta l’intensità dell’esperienza ecclesiale vissuta da quest’uomo si comunica in termini assolutamente normali, anche il desiderio di morire il giorno dell’ot- tava di san Pietro è detto in modo tranquillo, discreto, senza pretese e senza ostentazione. È un uomo che non solo ha sofferto per la Chiesa, per Cristo e per la libertà della coscienza personale, ma ha messo la sua vita nell’esercizio rigoroso delle sue funzioni. Quando restituisce il sigillo di Cancelliere nessu- no gli può addebitare nulla, lo dice vigorosamente nelle sue lettere, nessuno può accusarlo di aver fatto il benché minimo danno all’amministrazione del re, restituisce un mandato pienamente attuato senza che gli sia chiesto di andarsene. Va via in previsione che la situazione si sarebbe determinata in modo così grave per il rapporto tra il re e il suo Cancelliere che la vita della società sarebbe stata gravemente provata. Per questo San Giovanni Paolo II

6 Tommaso Moro, Lettere, cit., p. 407. 76 Luigi Negri lo ha proposto come modello a tutti gli uomini politici, di tutti quelli cioè che entrano nella vita sociale e cercano di realizzare nell’ambito di questa vita un lavoro, un’opera che serva da un lato ad affermare i diritti di Dio e dall’altra a dimostrare che i diritti di Dio comportano necessariamente l’amore al po- polo, il servizio reale al popolo e alla sua libertà. Egli morì per l’uomo inglese dell’inizio del XVI secolo, e siccome quest’uomo concreto di allora è l’uomo, egli è morto per l’uomo di ogni tempo e di tutti i tempi, e per questo come dice il Pajardi il suo sacrificio e la sua morte sono per la civiltà, per la possi- bilità stessa della civiltà. Voglio raccogliere adesso sinteticamente alcuni fattori che recuperano la testimonianza di san Tommaso Moro e che insieme indicano l’essenza di ciò che possiamo accogliere noi oggi e possiamo far diventare impostazione, suggerimento per la nostra presenza nella vita sociale di oggi, per il giudizio che dobbiamo necessariamente dare su avvenimenti, su vicende, su strutture. Io direi che il cuore della dottrina sociale della Chiesa è dentro la testi- monianza di Moro, e si esprime con maggiore o minor chiarezza nelle let- tere: l’epistolario nel suo complesso contiene tutti quei riferimenti che poi il Magistero della Chiesa nel suo cammino, nel suo servizio al bene del popolo di Dio e dell’umanità ha saputo formulare, sintetizzare e approfondire in maniera globale. C’è un primo dato che per Moro è assolutamente innegabile, e cioè che la vita sociale nasce dalla persona, non c’è priorità della società sulla persona, è vero il contrario. All’inizio del XVI secolo questo poteva anche sembrare un fatto scontato, ma passa qualche secolo e il punto di partenza nella consi- derazione della vita sociale è rappresentato dalla persona in quanto variabile dipendente, la persona che dipende dal tipo di potere che viene esercitato, dalle condizioni politiche economiche e militari. La società invece per Moro è ciò che nasce dalla persona, la quale ha una irriducibilità solo nei confronti del mistero di Dio. L’uomo interlocutore del mistero di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza è infinitamente trascendente a tutte le condizioni quali lo Stato, la situazione sociale, la famiglia, l’ambiente, la cultura, perciò non si può ave- re una considerazione adeguata della società se si rimane soltanto nell’ambito delle condizioni e dei condizionamenti fisici, sociali, psicologici ed economici. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo. Questa è la ci- tazione più frequente nei commenti di Giovanni Paolo II, solo seconda alle grandi citazioni della Sacra Scrittura e del Magistero. È la persona la protago- nista della storia, la persona nella concreta evoluzione della sua personalità, quindi la persona per esempio strutturalmente connessa alla famiglia, che è il frutto della sua creatività. La famiglia nasce dalla creatività dell’uomo e della donna che giocano in questa loro unità la loro sensibilità, la loro intelligenza, la loro formazione culturale, la loro moralità, la loro capacità di sacrificio, la loro esigenza di gioia. A scuola dai giganti 77

La società nasce dal basso, fermenta dalla vita della persona, è l’espres- sione della libertà dell’uomo, del modo con cui l’uomo e la donna cercano di vincere le sfide che ricevono dalle circostanze e dalle situazioni in cui vivono. Prima c’è l’uomo poi la società. Voi capite allora sembra dirci oggi 2015 Tom- maso Moro che l’impostazione della vita culturale sociale e politica che parte dalla considerazione di che cosa è la società o di quali sono le forze che gui- dano la società o di quali sono i fattori che eventualmente possano mettere in moto un cambiamento totale della vita sociale è irrealistico prima di essere giusto o sbagliato, è questo il limite, la negatività di quella che modernamente è stata chiamato ideologia. L’ideologia non parte dalla realtà reale, cioè dalla considerazione che un uomo che viene al mondo ha il problema di comprendere quale sia il senso della sua vita, il destino del suo cammino personale. Potrà realizzare questo cammino perché deve e può servirsi di strutture, anche quelle della società, ma non nasce dentro la società come una realtà meccanicamente comandata dai condizionamenti del gruppo, non è la società che produce l’uomo, è la persona che produce la società, o meglio che dà il suo contributo alla crea- zione della società. Moro è morto per affermare che la persona è più importante del re, non in senso personale, affettivo, privatistico, istitutivo. Credo sostanzialmente che Enrico VIII avesse dei problemi psicologici, come la figlia Elisabetta. Ci sono due bellissimi libri di una giovanissima storica, Elisabetta Sala, che ha scritto una interessante biografia di Enrico VIII, l’ira del re è morte, che spiega la nascita dello Stato totalitario inglese, e l’altro è Elisabetta la san- guinaria 7. Ciò che accomuna questa società che si crea proprio a partire da Enrico VIII ed Elisabetta è una società piatta, una società in cui la religione è un fatto totalmente privatistico. La cosiddetta religione o chiesa anglicana è sostanzialmente un formalismo che si aggiunge a una vita personale della quale ciascuno rimane incondizionatamente padrone. E se ci sono i martiri come ci sono stati i martiri cristiani fin dai primi giorni di questo scisma ci sono perché il cattolico non può accettare che la sua fede sia un particolare privatistico, individualistico che non c’entra con il mangiare, con il bere, con il vegliare con il dormire, col vivere o col morire. Il primo insegnamento che ci viene da Moro quindi è la priorità della persona sulla società, il secondo è la priorità della società sullo stato, e anche questo è un insegnamento che era già dentro il suo modo di agire e di opporsi al re per le pretese indebite che il re pretendeva di avere, non solo sulla chiesa ma sulla vita sociale. Lo stato non è la società, ma la serve, ciò che giustifica lo stato è che sia al servizio della società, che persegua il bene di questa, e il bene della società è la libertà, la libertà della persona, dei gruppi, delle fami-

7 I libri citati sono stati pubblicati presso le Edizioni Ares. 78 Luigi Negri glie, delle realtà in cui si è espressa una tradizione culturale, sociale. Non è che nasce una società perché nasce uno Stato - dopo centocinquant’anni noi italiani siamo ancora qui a dibattere, ad affrontare e a vivere tutte le conse- guenze negative di identificare con lo Stato unitario liberal-borghese la vita della nazione italiana. Se arriviamo per certi aspetti a questo oscuro uomo politico inglese chiamato alla fama già mentre si compiva la sua esistenza, perché morì per Cristo, per la chiesa, per il popolo, noi sentiamo dentro questa grandissima testimonianza che serve come impostazione chiara sul nostro presente e sul nostro futuro. Non potrà esserci una situazione democratica, cioè una situa- zione in cui le varie componenti della vita sociale potranno articolatamente vivere nella loro diversità se non dove si affermi che lo Stato non fa nascere meccanicamente per sé la società ma deve accudirla. E paradossalmente lo stato nasce per accudire la società, per cui se si dovesse usare rigorosamente il termine del principio di sussidiarietà l’unica reale giustificazione della vita e della nascita dello Stato è che lo Stato è chiamato a sussidiare la società, a dare un aiuto concreto ad essa perché possa essere se stessa. Non nasce una società perché nasce la capitale, Roma piuttosto che Pa- rigi, perché nasce una struttura di carattere burocratico, militare, di servi- zi, queste possono essere più che necessità ma che sono giudicate e devono essere evolute chiedendosi se servono veramente alla società o servono alla perpetuazione di un potere economico, sociale, politico. Quindi la subordi- nazione dello Stato alla società. Terzo e non meno significativo insegnamento che deriva dalla grande e umile testimonianza di un uomo comune come Moro, che ha preso sul se- rio la sua vita di cristiano, la sua professione di avvocato, ed ha salito tutti i gradini della vita politica e burocratica, alla fine della quale non lo aspettava il trionfo ma come buono discepolo del Signore Gesù Cristo lo aspettava la croce, è la distinzione invalicabile tra vita religiosa e vita politica, distinzione invalicabile tra i diritti della vita religiosa, quindi della realtà cristiana nella fattispecie e della vita politica. La Chiesa non può pretendere di avere una funzione determinante per la vita dello stato. Egli diceva questo quando nasceva una chiesa totalmente subordinata allo Stato, che riconosceva nel re la guida religiosa; in termi- ni storico-politici sono cose tragicomiche, perché se è vero, come è vero, che da un certo punto della storia della monarchia inglese moderna, che è anche uno dei punti di riferimento fondamentali della massoneria europea, arriviamo a dire che il capo della massoneria unica, cioè della serie di logge massoniche europee, è anche il capo della chiesa anglicana, e questo perché la dimensione spirituale e religiosa è subalterna a quella politica, cioè l’unica dimensione della vita personale nelle sue espressioni sociali è la polis, la po- litica. Ecco perché non esiste nessuna obiezione che la Rivoluzione francese A scuola dai giganti 79 sancisca con la Costituzione Civile del Clero la totale subordinazione della vita della Chiesa cattolica al nuovo Stato francese, per cui i vescovi devono essere normalmente eletti dalle assemblee elettive francesi dopo una ade- guata campagna elettorale. Fanno anche adesso campagna elettorale ma non sono previste dalle procedure ecclesiastiche. Ci fu una certa serie di vescovi francesi nominati validamente anche se in modo illecito perchè furono ordinati da vescovi cattolici apostati della fede ancora validamente consacrati vescovi, come il famoso Talleyrand 8, che poi propose al rapporto fra lo stato napoleonico e la chiesa cattolica con Pio VII dei problemi non piccoli, come risolvere l’esistenza di vescovi illegittimi ma validi. La Chiesa diventa parte dello stato. Può diventarlo nel modo forse meno pesante apparentemente, ma non meno pesante sostanzialmente, che la chie- sa venga condizionata nell’esercizio della sua libertà da alcuni riferimenti normativi allo Stato per cui documenti pubblici della chiesa possono essere letti, come avveniva nel regno dei Savoia fino almeno ai Patti Lateranensi del 1929, soltanto con il permesso del Prefetto di polizia, come si diceva allora, cioè il Ministro dell’Interno. Si può condizionare la vita della chiesa tentando di intervenire sulle nomine dei vescovi riducendo la libertà del vescovo di es- sere presente effettivamente, perché se gli si toglie la possibilità di esercitare il suo governo vengono tolte le possibilità di sussistenza economica. Oppure si diventa più radicali, si tenta la distruzione fisica della chiesa come è avve- nuto nei regimi totalitari per quasi tre quarti del secolo ventesimo. In ogni caso diventa una religione del regno, una religione di stato, e che la religione fosse un problema di Stato la Chiesa cattolica non l’ha mai accettato. La religione è un problema della persona, della sua coscienza, delle sue scelte, della sua libertà, anche quella di sbagliare. La chiesa non ha mai preteso che lo stato le stendesse la sua protezione perché la chiesa cattolica potesse avere una funzione determinante per la vita della società. Quelli che scappano dall’Europa totalitaria, già nel settecento e nell’ottocento, prima ancora di Hitler o Stalin, non sono gente che scappa dallo Stato pontificio ma dalle monarchie liberali borghesi dell’Europa nelle quali viene eliminata o ridotta la loro libertà di scelta religiosa. Solo i non conformisti non si con- formano alla religione di Stato come i quaccheri o i presbiteriani. La maggior parte di quelli che fondano degli Stati Uniti, ad esempio, che sono ancora oggi il regno della libertà religiosa, era gente che fuggiva da un Europa che

8 Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, uomo politico francese (Parigi 1754 - ivi 1838). Ecclesiastico, abilissimo diplomatico e consigliere di Napoleone Bonaparte, fu ministro degli Esteri e rappresentante della Francia al congresso di Vienna (1815); fu fautore (nel 1830) del partito orléanista e promotore della quadruplice alleanza (1834-48). Avviato alla carriera ecclesiastica, nel 1779 fu ordinato prete; vescovo di Autun (1789), deputato agli Stati generali, ebbe un ruolo preminente nella nazionalizzazione dei beni ecclesiastici e si pronunciò a favore della costituzione civile del clero (1790). 80 Luigi Negri pretendeva di intervenire nella coscienza personale e nella libertà religiosa personale. Noi abbiamo alle spalle un secolo orrendo, forse il più terribile secolo della storia dell’Europa e quindi del mondo, perché da un certo punto in poi purtroppo l’Europa ha dettato il la alla storia del mondo, quello che il più grande storico della filosofia del secolo scorso, Robert Conquest, chiamava il secolo delle idee assassine 9. In realtà sono le idee sbagliate che hanno fatto i campi di concentra- mento, i campi di sterminio, poi la cattiveria dei singoli, la follia dei capi che possono aver aumentato, ma la cattiveria del ventesimo secolo è una cattive- ria ideologica, quella di chi dice che l’altro in quanto diverso non ha nessun diritto di esistere. Soltanto una concezione ampia della vita legata al mistero di Dio può farmi accettare la diversità dell’altro non come un obiezione ma come una diversità che devo comprendere, rispettare, eventualmente accogliere, o an- che magari combattere ma senza pretendere di eliminare. Ma mentre la verità che nasce da una concezione cristiana della vita include tutto il positivo, la verità ideologica esclude, è la correttezza formale delle proposizioni in cui si esprime l’ideologia. In conclusione, io non so cosa significhi questo tempo nuovo che stiamo vivendo, abbiamo più spunti di angoscia e di fatica, che non di tranquillità, ma certo le tre grandi lezioni che attraverso la testimonianza del martire san Tommaso Moro ci arrivano oggi mi sembra che ci mettono in condizione di affrontare il presente e di costruire il futuro non con la presunzione di chi è sicuro di riuscire, ma con forte e determinata umiltà di servire un’opera che non è nostra, che non dipende da noi, ma alla quale diamo il nostro contri- buto. Quel regno di Dio che annunziamo, che prepariamo, che quando verrà sarà certamente molto diverso da quello che noi immaginiamo, sarà senz’al- tro un compimento del sacrificio, dell’amore, della passione con cui almeno coloro che si dicono cristiani sono stati testimoni nel mondo. Di questo il grande cristiano, anche se un po’ disordinato, Jacopone da Todi diceva: “questo regno celeste che compie omne festo che ‘l core ha bramato”.

9 L’autore processa gli ideali in nome dei quali è stata soppressa la libertà di milioni di uomini: dalla rivoluzione francese agli Khmer rossi, dal comunismo al fascismo. “Il secolo delle idee assassine” è un libro di interpretazione della storia (e principalmente di storia del Novecento) di stampo liberal- conservatore. Un libro della storia delle idee, ma ricco di fatti, eventi ed aneddoti storici (Mondadori 2001). A scuola dai giganti 81

LUIGI NEGRI, Arcivescovo Emerito di Ferrara-Comac- chio, è nato a Milano il 26 no- vembre 1941. Nasce e cresce in una famiglia umile e semplice ma fortemente radicata nella fede e impegnata sul piano ec- clesiale e sociale. Ha ricevuto la prima educazione cristiana nella parrocchia di Sant’Andrea a Milano partecipando alla vita ecclesiale diocesana. Compie regolarmente gli studi e dal 1955 al 1960 frequenta il liceo classico Berchet di Milano, dove incontra l’amico e ispira- tore, Mons. Luigi Giussani di cui, dopo esserne stato uno dei suoi primi allievi, diventa uno dei primi e più stretti collaboratori entrando a far parte del movimento ecclesiale Gioventù Studentesca, fondato dallo stesso Giussani (nucleo originario di quella che sarà poi Comunione e Liberazione). All’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano si laurea a pieni voti in filosofia nel giugno 1965, discutendo una tesi sul problema della fede e della ragione in Tommaso Campanella. Nell’autunno 1967 entra nel seminario diocesano ambro- siano di Venegono. È ordinato sacerdote il 28 giugno 1972 dal cardinale Giovanni Colombo, arcivescovo di Milano. Nell’ottobre 1972, dopo l’ordinazione, ottiene la li- cenza in Teologia alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, e fino all’ordinazione episcopale è docente di Introduzione alla teologia e Storia della filosofia all’Università Cattolica. Il 17 marzo 2005 è nominato vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro, che comprende l’intera Repubblica del Titano e una porzione di territorio italiano, suddiviso tra le province di Rimini (per un totale di 7 comuni) e di Pesaro Urbino (per un totale di 13 comuni). È una delle ultime nomine del beato Giovanni Paolo II, prima della morte. Riceve la consacrazione episcopale il 7 maggio 2005 dal cardi- nale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano; co-consacranti Carlo Caffarra, arci- vescovo di Bologna, e Paolo Romeo, allora nunzio apostolico per l’Italia e la Repub- blica di San Marino oggi arcivescovo di Palermo. Negri prende possesso canonico della Diocesi il 22 maggio 2005 nel duomo di San Pio V a Pennabilli, dove risiede la sede episcopale. Sceglie come motto del suo stemma le parole «Tu, fortitudo mea», motto che ancora oggi incornicia lo stemma ormai arcivescovile. In sette anni di ministero nella diocesi sammarinese-feretrana contribuisce alla ripresa di una vigorosa vita pastorale, soprattutto sul piano formativo, l’educazione del popolo cristiano, e su quello culturale, con risultati concreti e visibili, come la riapertura del Museo diocesano del Montefeltro e la ristrutturazione di numerose chiese, a partire dal Duomo di San Leo. Sono tre le linee direttrici della sua azione e i punti essenziali di una vita di fede: la cultura, la carità e la missione. Il 19 giugno 2011 accoglie il Santo Padre Benedetto XVI nella sua storica vi- 82 Luigi Negri sita alla Diocesi di San Marino-Montefeltro, evento che oltre ad approfondire una sincera e intensa amicizia col Pontefice contribuisce a rinvigorire e scuotere la vita cristiana del popolo di Dio affidato alla sua cura. Il 18 settembre 2012 è nominato padre sinodale della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione. Il 1° dicembre 2012 è promosso arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa. Prende possesso canonico dell’Arcidiocesi il 3 marzo 2013. Fin dagli inizi del suo apostolato, spende energie ed entusiasmo per i giovani e la scuola. La sua opera educativa contribuisce alla nascita, negli anni Settanta, di una significativa presenza cristiana nelle scuole medie superiori in Italia. Sono gli anni della battaglia per promuovere la libertà di educazione e un’autentica libertà di insegnamento. In questo campo, senza mai far venir meno il rispetto per altre posizioni politico-culturali, conduce un lavoro non facile e controcorrente rispetto all’associazionismo tradizionale e alla mentalità corporativa dominante che vede la scuola solo come serbatoio di posti di lavoro. In questo quadro nascono i primi due grandi convegni nazionali di Comunione e Liberazione del 1975 e del 1976, con la partecipazione di migliaia di insegnanti e di figure autorevoli della cultura e della politica scolastica di quegli anni. Accanto al lavoro pastorale, rivolto soprattutto ai giovani, monsignor Negri si dedica con passione allo studio attento e alla diffusione del magistero pontificio, in particolare quello del beato Giovanni Paolo II, su cui tiene centinaia di conferenze, incontri, seminari in Italia e all’estero (ad esempio in Brasile, Polonia, Germania); e di Benedetto XVI di cui diviene coraggioso promotore. Negli anni 1980-1985, insieme con un gruppo di docenti universitari e personalità ecclesiali, fra le quali il compianto mons. Manfredini, mons. Giacomo Biffi, mons. Saldarini, mons. Moreira Neves, mons. Tomko, mons. Sepe e mons. Marra, crea un comitato promotore dei Convegni per il Magistero pontificio, che organizza una decina di convegni sui punti più rilevanti del magistero di Wojtyla. Anche allo studio e alla diffusione della Dot- trina sociale della Chiesa Negri offre un apporto decisivo, collaborando alla costi- tuzione di una scuola permanente di formazione e diffusione della Dottrina sociale della Chiesa, che negli anni 1986-1990 ha fatto nascere numerose scuole, a livello diocesano o parrocchiale, per lo studio e la diffusione della medesima Dottrina so- ciale. Proprio nella diocesi di San Marino-Montefeltro costituisce, il 18 luglio 2005, come primo atto significativo del suo episcopato, la Fondazione Internazionale Gio- vanni Paolo II per il Magistero Sociale della Chiesa, di cui è tuttora presidente. Monsignor Luigi Negri è membro della Conferenza Episcopale Italiana per la Dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi e membro del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. È stato membro della Pontificia accademia dell’Immacolata. In seno alla Conferenza Episcopale Emilia Romagna ricopre l’incarico regiona- le quale delegato CEER per la Dottrina della Fede e la Catechesi; per la Pastorale delle Migrazioni; e per l’Ecumenismo e il Dialogo. Monsignor Luigi Negri è anche insignito di diverse onorificenze. Tra le più importanti si ricordano: – Ordine Equestre di Sant’Agata: CAVALIERE GRAND’UFFICIALE (30 gen- naio 2013); A scuola dai giganti 83

– Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio: COMMENDATORE DI GRAZIE ECCLESIASTICO (29 giugno 2009); – Ordine della Stella d’Italia già della Stella della Solidarietà Italiana: GRAND’UF- FICIALE (02 settembre 2008); – Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta: CAPPELLANO CONVENTUALE AD HONOREM (26 ottobre 2006); – Ordine Equestre del Santo Sepolcro: COMMENDATORE CON PLACCA (20 settembre 2006).

Filosofo, teologo, saggista, Monsignor Luigi Negri è un autore prolifico (cfr. bibliografia).

Dal 3 giugno 2017 è Arcivescovo Emerito della diocesi di Ferrara-Comacchio. uomini e libri

“O nobile cuore, il mio animo è triste per te! Addio, l’amico migliore che i poveri abbiano mai avuto”.

“Thomas More” l’opera ritrovata di William Shakespeare

In occasione dei 400 anni dalla morte del grande William Shakespeare un testo inedito e mai rappresentato in Italia del grande autore inglese viene proposto in prima assoluta da Compagnia Bella Produzioni. In scena Giampiero Pizzol, Andrea Soffiantini, Giampiero Bartolini, Andrea Carabelli e Isotta Ravaioli per la regia di Otello Cenci. Lo spettacolo, che ha debuttato al Teatro Novelli di Ri- mini lo scorso agosto 2016, presenta in una divertente forma propria del teatro elisabettiano, temi e personaggi strategici della vita politica e letteraria dell’e- poca. Attraverso questo dramma si prova a far luce sugli ideali del sommo au- tore e sulle eterne passioni che ne fanno un classico capace, col suo linguaggio ironico e poetico, di affascinare il pubblico di ieri e di oggi. La fantastica oc- casione di vedere William Shakespeare in scena insieme ai suoi due attori più famosi della compagnia dei Lord Chamberlain’s Men è da non perdere! Inoltre, a rendere la circostanza ancora più unica, l’incontro del Bardo e Anthony Mun- day: uno dei personaggi illustri del teatro, della cultura e degli intrighi della corte inglese, po- eta e quasi certamente spia della Regina. “Thomas More” l’opera ritrovata di William Shakespeare 85

Un dramma elisabettiano

Il dramma storico Sir Thomas More è opera di un gruppo di commediografi elisabettiani, uno dei quali era certamente William Shakespeare 1. Esso non presenta grande interesse dal punto di vista biografico dato che gli episo- di che narra non possono essere ritenuti di per se stessi autentici. La fonte principale di cui si valgono i suoi autori è il Chronicle di Hall 2, per il resto, è difficile stabilire quanto il dramma attinga a reminiscenze delle opere di Roper o di Stapleton, e quanto alla tradizione popolare londinese. Ma in ogni caso, se anche non può rivelarci nessun particolare inedito, il dramma acquista una straordinaria importarza per il ritratto complessivo che ci dà del suo protagonista: perché in quel ritratto è indubbiamente riflessa l’immagine che di Moro si raffigurava a quell’epoca l’opinione pubblica londinese. Lon- dra era ormai divenuta una città in maggioranza protestante: eppure, Moro continuava ad essere il suo eroe. Per due generazioni (eccettuata la breve pa- rentesi di restaurazione cattolica della regina Maria) la memoria di Moro era stata sistematicamente e ferocemente attaccata: ma né le leggende sulla sua crudeltà messe in giro dal martirologista protestante John Foxe né le ironie allineate da Hall - ripetute di edizione in edizione - erano riuscite a intaccare nell’animo dei drammaturghi londinesi, l’ammirazìone che essi sentivano per Moro. In lui vedevano l’ideale ingiese dello statista – un ideale oggi più che mai vivo – intrepido, onesto, alla mano, ricco di comprensione e di humour. Anche alla fine del Cinquecento, egli vi era ricordato quale lo aveva definito la City nel 1521: “amico fedele, e sollecito patrocinatore delle cause e degli interessi di questa città” 3. Se dunque un dramma elisabettiano ci dà del suo protagonista un ritratto che contraddice nettamente alla convenzione propagandistica contempora- nea, è segno che esso si appoggia ad una tradizione dalle basi estremamente solide e radicate Forse, l’elemento più significativo del dramma è la gentile pietà di Moro verso gli umili. Gli autori traggono dal Chronicle di Hall le loro notizie: ma il ritratto di cinico motteggiatore delineato dalla penna settaria di Hall viene da loro deliberatamente mutato. Hall ci racconta che, proprio mentre Moro era condotto al patibolo, sulla porta della Torre gli si fece in- contro una povera donna, e lo scongiurò di attestare che, al tempo in cui era in carica, aveva avuto in consegna da lei certi documenti (che in seguito al suo arresto essa non aveva più potuto farsi restituire), e di chiedere che le fossero resi, perché la perdita di quei documenti avrebbe significato per lei la rovina.

1 Secondo gli studi Antony Munday, Henry Chettle, Thomas Dekker e Thomas Heywood. 2 Abbiamo dato ampiamente notizia di questo testo nell’articolo L’allegria sul patibolo, in Morìa 6/2014, pp. 87-98. 3 Cf., R. W. Chambers, Tommaso Moro, trad. it. di Marialisa Bertagnoni, Rizzoli, Milano 1965, p. 52. 86 Uomini e Libri

Moro, nel racconto di Hall, “non si preoccupò d’altro che di soccorrerla con una battuta di spirito”; e così le rispose:

Brava donna, porta ancora un pò di pazienza, perché il re è così generoso con me che al massimo fra mezz’ora mi avrà liberato da ogni incombenza. E perciò, vedi di arrangiarti da sola 4.

In quest’episodio, Hall non vede dunque che un crudele dileggio: per lui, Moro è sempre lo stesso inveterato motteggiatore che neppure a pochi mi- nuti dall’esecuzione sa rinunciare al sarcasmo. Ed ecco invece come la stessa scena ci viene presentata dagli autori del dramma:

DONNA – Caro Sir Tommaso Moro, per amore di Cristo, datemi indietro tutte quelle scritture relative ai miei diritti di proprietà. MORO – Ah, la mia vecchia cliente; anche tu qui? Povera sprovveduta! E’vero, lo confesso,che avevo la pratica che ti riguarda, ma adesso il re ha preso tutto in mano sua, tutto quel che avevo io: perciò rivolgiti a lui, io non posso aiutarti, abbi pazienza. DONNA – Ah, cuor d’oro, mi rattrista l’anima; addio, il migliore amico che i poveri abbiano mai avuto 5.

Se dunque i commediografi elisabettiani alterano così deliberatamente la loro fonte, tutto questo ha un profondo significato: significa che quella che trovia- mo nel dramma è l’immagine di Moro viva nell’animo dei londinesi. A loro non importa molto delle sue convinzioni religiose, niente delle sue concezio- ni europeistiche: per loro egli è e rimane il giudice giusto. La sua integrità, la sua acutezza, la sua prontezza d’intuito e il suo humour avevano fatto di Moro l’uomo ideale per risolvere nel minor tempo i casi più complicati. Per quella popolazione pronta alle contestazioni e alle liti, tutto ciò rappresenta- va una benedizione celeste; e, secondo i commediografi londinesi, egli è “il migliore amico che mai i poveri abbiano avuto”.

G.G.

4 Hall’s Chronicle, containing the history of England, during the reign of Henry the Fourth, and the succeeding monarchs, to the end of the reign of Henry the Eighth, in which are particularly described the manners and customs of those periods, Edizioni J. Johnson e altri, Londra 1809, p. 817. 5 Sir Tommaso Moro, Testo dal manoscritto Harley 7368 nella British Library. Traduzione di Vittorio Gabrieli e Giorgio Melchiori, in Teatro Completo di William Shakespeare, I Meridiani, Vol IX, I drammi storici, a cura di Giorgio Melchiori, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991, pp. 641-643. Novità editoriali

È difficile, se non addirittura impossibile, scindere il nome di Erasmo da quello di Thomas More, anche se non pochi biografi lasciano spesso nell’ombra l’immagine di uno dei due amici per rendere plausibili le loro tesi interpretative. In effetti, a chi fa di More un modello di ortodossia alquanto rigida, la vicinanza dell’umanista che maneggiava l’ironia e la polemica graffiante come nessun altro può sembrare compromettente; d’altra parte, a chi vuol vedere in Era- smo uno scettico, il ricordo del suo migliore amico, martire della fede cattoli- ca, deve apparire ingombrante. Erasmo e Thomas More erano diversi e nello stesso tempo inseparabili, al punto che per conoscere da vicino l’uno bisogna sempre interpellare l’altro. Abbeverati alle medesime fonti e vissuti nella stessa epoca, furono legati da una di quelle simpatie totali la cui delicatezza si rivela in mille tratti affascinanti, tanto che essi resteranno nella storia come la coppia più affiatata e insieme di più alto profilo dell’età moderna (Matteo Perrini, Premessa, in E. da Rotterdam, Ritratti di Thomas More)

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