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Blitz nell’arte figurativa

69. Il Novecento (15)

Il linguaggio figurativo trovò maggiore spazio nell’Espressionismo, opponendosi al che tanta parte ebbe, e ha tuttora, nell’arte moderna, soprattutto in versione Surrealista. Però, la figurazione adattata ai nuovi concetti si caricò di una responsabilità che appare superiore a quella dei tardi dadaisti. In particolare modo, gli Espressionisti moderni, attivi fra le due guerre mondiali e maggiormente dopo la Seconda, cercarono punti di riferimento precisi, sconosciuti ai cultori dell’onirismo. Questi ultimi hanno avuto, e hanno ancora, il pregio di presentare varie suggestioni e dunque varie possibilità di aprirsi a un reale privo di finalismo e di determinismo. La relatività delle cose non è un vicolo cieco, bensì la chance di aprire nuovi orizzonti. Come rovescio della medaglia, abbiamo spesso una sorta di resa a questo programma che, infatti, diventa un manierismo destinato all’inefficienza. Il linguaggio figurativo tradizionale è invece costretto a cercare punti di appoggio e, insieme a una specie di possibile chiusura, esso offre visioni che richiedono profonde riflessioni: magari banali anche nella consistenza, talvolta però più incisive e prolifiche di quanto costatabile e ipotizzabile. Si dimostra che la manipolazione della figura, fatta non a caso, fatta cioè non seguendo il mito del gesto, può arricchire la dinamicità dell’alfabeto usato dalle arti figurative dalla notte dei tempi. A questo punto, ispirazione Dada e rigore analitico perseguito con mezzi classici, trovano contatti, pur se solo raramente riescono a condizionarsi a vicenda. La finalità è la conoscenza possibile e probabile. Si tratta di una conoscenza nuova che chiama in causa l’intera personalità umana scaturita da esperienze pratiche, molto avanzate rispetto al passato, e da interrogativi sentimentali eterni che ora reclamano una risposta: talvolta, negli animi più sensibili e attenti, in modo disperato, per quanto mascherato da una sicurezza formale o semplicemente esecutiva.

L’incontro dell’Espressionismo con l’arte italiana non fu traumatico né dirompente come altrove. L’arte italiana, pur in modo eterogeneo, puntando sulla circostanza o l’occasione, seppe contenerne gli eccessi, ad esempio tedeschi. Prove convincenti in questo senso furono fornite dalla “” (o Scuola di via Cavour”) fondata da Antonietta Raphaël, e , incoraggiata dal grande critico (forse il nostro maggiore) e frequentata da intellettuali di spicco, quali , , Enrico Falqui, Libero de Libero. Molti i nomi intorno alla scuola, una scuola priva di regole particolari. Infatti, ogni artista interpretò a modo proprio le suggestioni espressioniste. Di seguito forse i più originali.

Antonietta Raphaël (1895-1975), pittrice e scultrice lituana naturalizzata italiana, fu un’artista antiaccademica, attratta dalla preistoria dell’espressione umana. Le sue figure recitano in modo persuasivo la loro primordialità nascosta, come un recupero doveroso dell’essere prima della razionalità annientatrice della fantasia. La Raphaël, figlia di un rabbino, era andata a Londra dopo la morte del padre e aveva studiato musica. Poi era stata a Parigi. Nel 1924 si stabilì a Roma, dove conobbe Mario Mafai, con il quale, e con Scipione, fondò intorno al 1930 la Scuola Romana. Nel 1930 fu di nuovo a Parigi e qui ebbe contatti con scultore e pittore statunitense naturalizzato inglese, fondatore del Vorticismo, una specie di Futurismo, e ritrattista molto richiesto, al quale s’ispirò, così come s’ispirerà a Ossip Zadkine, scultore russo naturalizzato francese, cultore dell’arte africana, e a Emile-Antoine Bourdelle nella dinamica. La nostra artista fu più scultrice che pittrice (nella seconda veste non eccelle) riuscendo a rendere la pietra magicamente plastica. La Raphaël persegue l’idea di rendere armonico il movimento. Vuole essere nel divenire. Qui vediamo un suo “Autoritratto con violino” del 1928 e la scultura “Le tre sorelle” del 1937, apparentemente contenuta, ovvero con dinamicità interiore rappresentativa. Mario Mafai (1902-1965) fu il compagno di Antonietta Raphaël, unito a lei affettivamente e artisticamente. Fu molto amico di Scipione (Gino Bonichi). Con lui e con la compagna fondò la Scuola Romana. Era nato a Roma da padre ignoto. Il cognome Mafai è un’invenzione. La sua pittura, di getto, piacque parecchio. L’artista fece molte esposizioni, a Roma e a Milano in special modo. Fu invitato anche a San Francisco. Fu ospite con la moglie (per difenderla da persecuzioni razziali) nella casa genovese di Alberto della Ragione, collezionista e mecenate. Frequentò la storica “Osteria dei Fratelli Menghi” a Roma, per trent’anni, dal 1940 al 1970, luogo di raduno degli intellettuali. Suoi principali riferimenti, Goya e Grosz. Negli ultimi tempi si diede all’informale, pur senza convinzione. Del resto, Mafai non sembra persuaso della forza del linguaggio pittorico in genere. Le sue immagini cercano nel tremolio del segno osservazioni efficaci anche se effimere. Il colore appare steso con maggiore calma e riflessione: come una pausa sentimentale nella quale riversarsi con piacere. Qui “Autoritratto” del 1946 e “Insenatura sarda”, anno 1957, molto lirica. Il maggior espressionista della Scuola Romana è Scipione (Gino Bonichi 1904- 1933) di Macerata, per l’uso spesso molto acceso del colore. Scipione, malato di tubercolosi sin dal 1919, fu in sanatorio per cinque anni, poi, a Roma, conobbe Mafai, con il quale, e con altri, fondò la Scuola Romana con l’intento di contrastare “Novecento”, visto prono al regime fascista (cosa vera solo in parte) e nostalgico, cioè neoromantico. Paradossalmente le opere di Scipione sono caratterizzate da considerazioni malinconiche per la perdita del passato. Egli osserva come stranito e indignato lo sventramento di Roma attuato dal Fascismo. Accentua il carattere dei personaggi che assistono allo scempio, pronti a essere sacrificati a loro volta, seppur lo ignorino. In più nelle sue opere pone critiche ai protagonisti del potere, immergendoli in un vortice di tinte spesse e accecanti, e accenna a tenerezze per le costruzioni umane, per la vanitas dell’uomo, destinate all’oblio. Qui due opere del 1930: “Cardinale decano” e “Ponte degli angeli”. Incoerente, in parte, anche Renato (1907-1969) rispetto al programma della Scuola Romana, che contribuì a fondare. Mazzacurati era convinto, in cuor suo, che l’arte dovesse avere una funzione sociale piena. Arriverà a dichiararlo, “cadendo” in Novecento. Molte sue pitture sono umili (come questa “Natura morta” forse del 1931), richiamano riflessioni semplici, immediate e spogliate di orpelli, cioè non appartate, ma molte sue sculture recitano un copione elitario, costituito da un intellettualismo sotterraneo (si veda il “Ritratto di Elsa Morante”, anno 1943). Mazzacurati, di Galliera, non lontano da , apprese molto nel corso del suo viaggio a Parigi nel 1931. Nella capitale francese ebbe modo di studiare Rodin, Matisse, Picasso. Approdò successivamente a un realismo crudo, contorcendo le figure in una sorta di macerazione materiale sotto la quale si agita uno sconforto spirituale. Poco adatto alle speculazioni spirituali, Mazzacurati forza la materia creando suggestioni sanguigne di buona presa emotiva. Il Nostro fu lo scopritore di Antonio Ligabue. Corrado Cagli (1910-1976) frequentò la Scuola Romana, apprendendovi il proposito di una pittura impegnata nell’espressione reale o nella sua ricerca all’interno dell’immagine. Cagli, di Ancona, era per un realismo simbolico e indicativo. Era per l’individuazione di dati in grado di svelare l’importanza e il senso della figura non solo contingenti. Quest’ampliamento è un modo per sottolineare la visione universalistica tipica italiana. Cagli aveva esordito con i murales, aveva poi lavorato, diventandone direttore, in una ceramica d’arte a Umbertide. Con Capogrossi e altri aveva fondato il Gruppo dei nuovi pittori romani, sciolto velocemente per divergenze fra gli artisti. Era stato a Parigi, fu molto attivo a Roma, lavorò per il regime. Nel 1938 lasciò l’Italia per Parigi, a causa di problemi razziali, e quindi fu a New York, molto bene accolto. Da lì nel 1943 andò in Inghilterra, quindi seguì l’esercito alleato nella campagna di Francia, partecipando allo sbarco in Normandia. Lavorò anche per il teatro (di Balanchine ad esempio) realizzando scene e costumi. Fu pure apprezzatissimo arazziere, ma soprattutto fu un grande disegnatore. Qui “Tempo di guerra” anno 1944 e “Nudo di schiena” anno 1956. La sua pittura è essenziale, viva, ricca di considerazioni per la figura.

Alla Scuola Romana, palestra di sperimentalismi espressivi promossi vere e proprie espressioni di peso, confluirono, in un secondo tempo, a ridosso del primo, altri autori che alla scuola stessa, come fonte d’importante stimolo iniziale, furono debitori. Di seguito, gli artisti forse più rappresentativi.

L’espressività di (1886-1958), di Ferrara, è sintetica, essenziale, paradigmatica di un modo di vedere originale, responsabile e allo stesso tempo significativo per accumulazione di particolari. Questi particolari sono molto bene assemblati, guidati da una remota preoccupazione estetica, e concepiti come un insieme scomponibile ma non distruttibile. In altre parole, Melli fissa gli elementi essenziali di una trattazione della figura che combina geometrie con fantasie. Le seconde, per quanto possa sembrare strano, strettamente legate alle prime e così le prime alle seconde. Qualcosa di veramente raro, di unico probabilmente. Melli proveniva dalla xilografia e dall’intaglio. Aveva conosciuto i poeti Ceccardo Raccatagliata Ceccardi e Camillo Sbarbaro, poi de Chirico, dai quali apprese il piacere della speculazione intellettuale. Presto aveva abbandonato la scultura per la pittura. Ebbe noie con il Fascismo (leggi razziali). La fortuna popolare gli fu assicurata dall’operato dell’ottima critica e organizzatrice di eventi artistici Palma Bucarelli. Qui “La casa rossa” del 1923 e “Ritratto di giovinetta” del 1937-38. Raramente pittura fu tanto pura. (1899-1975), di Roma, figlio del grande drammaturgo Luigi, fu attratto dal Simbolismo – trasmessogli dai suoi maestri Sigismondo Lipinsky e Felice Carena - che usò per dare corpo alla sua espressività. Visse diversi anni ad Anticoli Corrado, non lontano da Roma, finché, nel 1945 si trasferì per sempre a Venezia. La sua è una pittura armoniosamente schematica ma ricca di osservazioni sottili. Pirandello è proteso a scovare l’essenza delle cose. Per pudore intellettuale si astiene dall’emettere sentenze o giudizi. Egli osserva e riporta il cuore delle sue osservazioni, come in questa “Bambina seduta” del 1943-44. Si vedano gli occhi straordinariamente espressivi, impauriti dalla vita. (1911-1987), siciliano di Bagheria, non lontano da Palermo, fu un personaggio e un artista esuberante. Il primo ebbe in qualche modo ragione del secondo, nel senso che l’artista antepose la voglia di vivere a tutto. La sua pittura, alterna, risente della volontà d’imporsi da parte del pittore. È una volontà naturale, istintiva, che Guttuso non ostacola, bensì facilita. Le sue non sono operazioni intellettuali, ma riscontri oggettivi fatti con immediatezza, con guizzi, con estri, secondo una supervalutazione della propria intelligenza visiva e della propria sensibilità sanguigna. Guttuso ebbe come principali riferimenti Courbet, Van Gogh e Picasso, ma amò Millet. E amò il colore, a suo avviso l’autentico protagonista di un’opera d’arte figurativa. D’altro canto, i tempi erano favorevoli alla divinazione del colore, ovvero del mezzo più rapido per trasmettere un’idea. Guttuso ammirò notevolmente la Scuola Romana, ne prese l’espressionismo che tramutò nel tempo in una specie di neorealismo caratterizzato da una rivisitazione del passato con denunce più dirette, più coraggiose. Ad esempio denunce sociali. Il pittore divenne un attivista politico. Dopo aver lasciato il GUF fascista, abbracciò il partito comunista clandestino e comunista diverrà a tutti gli effetti subito dopo la guerra, sino a salire due volte al senato negli anni ‘70. Dal partito avrà benefici e sostegni, utili alla sua popolarità. Grazie a esso, Guttuso sarà un personaggio di fama nazionale e internazionale. Ma certo il suo talento non fu secondario nella scalata. Nel suo caso, anzi, si può parlare di talento superiore alle sue forze, ai suoi orizzonti culturali, ma esteticamente sicuro e accattivante. Qui abbiamo “Crocifissione” del 1940-41, “La zolfatara” del 1953 e la “Vucciria” del 1974, a dimostrazione che Guttuso poteva avvalersi di più linguaggi con facilità. Renzo Vespignani (1924-2001) apprezzò i linguaggi dell Scuola Romana tramite Alberti Zivieri, uno dei primi artisti della stessa e s’ispirò ai dipinti di Grosz e di Dix, oltre a trarre spunti dalle incisioni di Luigi Bartolini (con Giuseppe Viviani e Giorgio Morandi considerato il miglior incisore italiano del Novecento), soprattutto la precisione esecutiva. Vespignani era di Roma, fu pittore, illustratore e scenografo (lavoro per cinema e teatro). Probabilmente preferì la seconda attività. Infatti, realizzò illustrazioni per pubblicazioni importanti (Il Decamerone, Poesie di Leopardi, prose di Majakovskij, di Kafka, sonetti di Belli e altro). Aveva cominciato a disegnare e a dipingere nel corso dell’occupazione nazista di Roma. Vespignani è un artista molto dotato, capace di sviluppare uno stile realista aureolato di poesia. La sua è una poesia d’atmosfera che coinvolge la figura umana, la ferma in un bel sogno pieno di speranza in un mondo migliore. Il pericolo di sdolcinatura è evitato (non sempre) da una bravura grafica straordinaria e solare. Qui: “Periferia” del 1956 e “Nello specchio”, un autoritratto del 1971.

Dei tre fratelli Basaldella il più interessante è forse Mirko (1910-1969), scultore udinese, capace di coniugare linguaggio figurativo tradizionale, opportunamente rivisitato, con esperimenti espressivi ricavati da vari materiali e trasformati in totem primitivi ma con mentalità moderna. Quanto, poi, questa mentalità possa essere efficace è questione che non apparteneva ai tempi di allora ma che si presenta adesso, dopo le spallate date all’arte dal “postmodernismo”. Sul piano esecutivo, sia Mirko sia i fratelli (Dino e Afro) non temono molti confronti, mentre sul piano espressivo, concettuale, l’autoreferenzialità istintiva pesa parecchio sui risultati, come del resto per numerosi artisti di quel periodo, gli anni ’60 in particolare, finiti nel dimenticatoio per ripetizioni e parodie, per compiacimenti inesplicabili alla luce di una critica serrata. Tutti e tre conobbero inizi figurativi veri e propri, tutti e tre ebbero a che fare con Arturo Martini e con la Scuola Romana. Mirko fu molto amico di Corrado Cagli, di cui sposò la sorella. Fu chiamato negli Stati Uniti dove cercò di valorizzare (appunto attraverso i totem) la cultura pellerossa. Lavorò parecchio ovunque, realizzando molte opere commemorative e celebrative. Il fratello Afro fu un rappresentante dell’informale con opere esaltate dal colore. Dino imitò Martini e cercò di nobilitare il ferro, la materia, senza particolari fini. A lui interessava l’opera in sé, come un buon artigiano, mentre Mirko propendeva per la ricerca di significazioni in tutto ciò che faceva, ritenendosi artista a tutto tondo e riuscendo nell’intento di frequente grazie a una manualità pensosa tendente alla spettacolarità non fine a se stessa. Di Mirko: “Furore”, anno 1944 e “Leone ruggente II”, anno 1956.

Nell’ambito della figurazione espressiva è indispensabile citare ancora: Marino Marini, Pericle Fazzini, , Domenico Purificato; Henri Moore, Igor Mitoraj; Francis Bacon, Lucian Freud, Folon.

Per la verità, nel caso di Marino Marini (1901-1980), scultore, pittore e incisore pistoiese, si dovrebbe parlare più di impressione e di introspezione che di espressione, se non si vogliano le sue figure protagoniste al posto di chi le ha realizzate. Marini è un autentico maestro nella ritrattistica (si vedano “” anno 1962 e “Albert Skira”, anno 1966), uno dei massimi non solo del ‘900. I suoi numerosi “Cavallo e cavaliere”, sino a una loro geometrizzazione assai schematica e spigolosa (non in quest’opera del 1936), sembrano forzature al confronto. E questo perché il contenuto intellettuale relativo, quasi trascendentale (l’unione di uomo e natura), appartiene alla fantasia dell’artista più che alla sua sensibilità. Marini aveva tratto il soggetto, quasi certamente, dalla statua equestre di Enrico II (l’ultimo degli Ottoni) posta a Bamberga. Lo scultore era stato amico di Henri Moore. Precedentemente aveva conosciuto Picasso, de Chirico, Kandinskij, era stato un grande ammiratore di Medardo Rosso. Lo stile di Marino Marini è tuttavia molto personale e brilla nelle cose immediate, senza ghirigori. Il suo colpo d’occhio qui è infallibile, ci rivela particolari, segreti espressivi che neppure l’interessato (colui che è ritratto) immaginava probabilmente di possedere.

Notevole l’attività di Pericle Fazzini (1913-1987), scultore e pittore di Grottammare nelle Marche, per varietà. Aveva studiato a Roma ed esordito, nelle esposizioni, con Alberto Zivieri. Fu apprezzato per la monumentalità delle sue opere, grazie alle quali divenne noto in tutto il mondo, specie in Giappone. Fazzini aveva il senso della composizione, sobria ed elegante, ed era quindi fra gli artisti più adatti alle commemorazioni. Il suo limite è una certa retorica che cerca invano di evitare. Egli pare pressato, in queste composizioni, dalla necessità di dimostrare capacità e significazione, la seconda inchiodata all’enfasi dell’evento. La capacità, dunque, non può che risultarne condizionata, ma sino a un certo punto, data la bravura manuale strabocchevole. La sua cosa migliore è forse “Il fucilato” del 1945-46 (fusione 1983), dove la semplicità e intensità del tema trovano uno sfogo opportuno nell’esecuzione esemplare.

Pittore semplice ma raffinato, capace di tocchi poetici e di visioni liriche è Giovanni Omiccioli (1901-1975), di Roma. Cominciò a dipingere nel 1934 sotto la spinta di Mario Mafai, però dalla Scuola Romana apprese solo la necessità di dipingere realisticamente operando su particolari ritenuti emblematici. Il suo espressionismo è invece un impressionismo pacato con punte di malinconia per la fragilità delle cose. Omiccioli collaborò molto con Scipione e più tardi con Afro (Basaldella) e Guttuso. Espose, su invito, all’Ermitage di Leningrado, partecipò a collettive a Pittsburg, , Tokio. Fu autore di dipinti personali, con temi modesti (“Orti”, “Periferie”) nei quali il suo spirito indugia volentieri. Andò nel Vercellese, in Svizzera e nei Paesi Bassi per cercare nuove ispirazioni. Ritornò presto a Roma e scelse come “studio” le spiagge di Torvaianica e Fregene, non lontane dalla capitale. Per le sue rappresentazioni calcistiche (qui “Partita di calcio in periferia” anno 1949) divenne il “pittore di via Margutta”, molto amato dai romani. Domenico Purificato (1915-1984), di Fondi, nel , fu sulla stessa linea di Omiccioli, ma con minor “ingenuità” e maggiore apertura verso considerazioni sulla commedia umana. Purificato appartenne alla Scuola Romana grazie a Scipione e a Raffaele Frumenti (un altro artista interessato alla raffigurazione di un’umanità in balia dell’esistenza, qui vediamo “In giallo” del 1972). Sposò poi una sorta di neorealismo caratterizzato dall’uso raffinatissimo del colore, come se quest’ultimo fosse infine l’autentico custode delle vicende umane: colore e calore raggiungono il massimo nel film “Giorni d’amore” di Giuseppe De Santis, anno 1956 (un piccolo capolavoro), scenograficamente curato, in certe parti, da Purificato stesso. L’artista laziale dispiega con bravura una sensibilità insolita che coinvolge e convince della sua validità. Qui “Tre donne al mercato”, 1948-49.

La materia per Henri Moore (1898-1986), scultore e grafico britannico, è parte integrante dell’opera, non un mezzo quanto un elemento del fine, un tutto (la natura) che si presta a uno scopo. Tramite l’umanità, secondo Moore, avviene una narrazione delle cose, un’animazione della polvere alla ricerca di una consistenza e di una logica del tutto. Non è una logica deterministica, è sufficiente anche la conferma di un’essenza. Le considerazioni che ne derivano possono rimanere fenomeni a parte, sogni e illusioni che tuttavia non devono essere demonizzati. Tutto ciò porta a una valorizzazione dell’essere umano che va ben oltre la piattezza delle leggi naturali. Moore coltivò questa visione durante i bombardamenti nazisti su Londra. Egli fu guidato da un desiderio di rimozione dell’orrore, facilmente definibile senza speranza, che stava vivendo. Più tardi ebbe modo di conoscere artisti appartenenti all’Impressionismo e, determinante, nel corso di un viaggio in Italia fu l’impatto con Michelangelo, Donatello, Giovanni Pisano. Si fece un nome con opere di grandi dimensioni, sistemate in piazze di varie città e preferì adottare una figurazione simbolista, con sottolineature espressive affidate a distorsioni, deformazioni delle figure come per promuovere una necessaria opera di ricostruzione dell’umanità secondo canoni nuovi, rispettosi della profonda personalità umana. Qui: “Maschera”, anno 1928 e “Gruppo familiare”, anno 1950. Dopo gli anni ’60 si diede quasi interamente alla grafica (un suo disegno, terza immagine).

Scultore di eccezionale bravura manuale e di alta, quanto originale, capacità creativa, Igor Mitoraj (1944-2014), di nazionalità polacca, lavorò molto in Italia, eleggendo la sua sede a Pietrasanta non lontano da Lucca, dopo aver “scoperto” il marmo. Mitoraj aveva studiato a Cracovia, poi era stato a Parigi, successivamente ancora in Messico, pensando di diventare pittore. S’innamorò invece della scultura, ispirandosi probabilmente alle opere dei Maya. La sua scultura caratteristica è rappresentata dalla riproduzione di volti fissati nell’essenzialità di un’espressione. Il resto è vuoto, è assente, come se il mondo circostante non esistesse. Mitoraj sembra suggerire una composizione della realtà attraverso la crescita di quell’espressione, nella speranza di una realtà migliore (la speranza non è dichiarata ma sospesa e forse sottintesa). Lo stile dello scultore polacco è decisamente classico. Certe brutali troncature di busti e arti sembrano esternazioni risentite (e in parte rassegnate) nei confronti della classicità perduta, intesa come stagione morale edenica. Qui “Eros bendato”, anno 1999; “Città perduta II”, anno 2005. Mitoraj è uno dei testimoni più credibili, più convincenti, della validità artistica classica anche in un contesto moderno.

Vita non facile quella di Francis Bacon (1909-1992), pittore irlandese, proveniente da una famiglia facoltosa che non tollerò la sua scelta di diventare artista. Il padre lo cacciò di casa, indignato anche perché scoprì che il figlio era omosessuale. L’omosessualità fu tuttavia la carta vincente per Bacon in quanto lo introdusse in ambienti che valorizzarono anche la sua diversità artistica. Egli divenne amante del collezionista Eric Hall che lo protesse e lo lanciò. Bacon era stato a Parigi e aveva preso una vera e propria infatuazione per Picasso. Poi era riuscito a sopravvivere come designer d’interni. Solo il sodalizio con Hall lo salvò dall’anonimato e gli consentì esperienze artistiche di vario genere, a partire dal cubismo. Furono tuttavia i bombardamenti su Londra, le conseguenze psicologiche di una guerra terribile oltre ogni immaginazione a condurlo verso opere attraversate da un’angoscia insopportabile, carica di negatività esistenziale, di disperazione non gestibile, di deriva intellettuale e razionale. Bacon si ritrovò alle prese con i fantasmi del proprio inconscio, un inconscio macchiato irreparabilmente di orrore, di tragedia senza via d’uscita. Si veda in queste due opere: “Studio del ritratto di Innocenzo X” del 1953 e “Studio per un autoritratto – trittico” del 1985-86. Oltre trent’anni fra le due senza che sia arretrato di minimo il malessere esistenziale di quest’artista, fra i più sensibili dell’intero ‘900. Stesso discorso si può fare per Lucian Freud (1922-2011), tedesco di Berlino, naturalizzato inglese dopo il 1933, anno della presa del potere di Hitler in Germania. Freud, nipote del grande Sigmund, fuggì a Londra con la famiglia. Dopo gli studi artistici canonici, tentò dapprima la scultura, poi abbracciò la pittura attratto dalla “Nuova oggettività” di Grosz e Dix, allontanandosi tuttavia, molto più dei due citati dal pericolo della caricatura, dell’esagerazione, dell’espressività a tutti i costi, sino a far prevalere più l’oggetto del suo creatore. Freud conobbe Bacon e lo ritrasse con incredibile bravura. Ma non era certo una novità, perché il nostro artista era stato capace di adottare da tempo un proprio stile che riversava, appunto, nei ritratti dando la parola più alla cromia che al disegno. Meglio si potrebbe dire che Freud in realtà riesce a disegnare con il colore che manipola a suo piacimento, senza temere grossolanità, contrasti forzati, accostamenti arditi, sfumature elementari. Tutto passa in secondo piano sotto il suo rigore teutonico, la sua freddezza, la sua determinazione nel perseguire una morale o nel cogliere un’intuizione: nel fare tesoro, e che tesoro, di osservazioni profonde come ferite insanabili. I suoi ritratti sono i migliori dell’intero secolo per spietata introspezione, dove la spietatezza va a riguardare riflessioni che vanno oltre la contingenza, perdendosi, con consapevolezza, in un divenire ancora più spietato per il soggetto, lui, il soggetto, intimamente ancora più consapevole della propria fragilità, forse nullità. Freud dispiega un’intelligenza visiva rarissima con cui esplora le viscere della coscienza dell’uomo. Qui “Riflessione”, un autoritratto del 1985 e “Benefici del sonno” del 1995.

Caso a parte è Jean-Michel Folon (1934-2005), artista belga, grande acquarellista, con pochi tratti e tanto colore lieve, sfumato, come in procinto di salire in cielo. Grazia e semplicità caratterizzano le sue opere, fatte di un poco che è tutto. Folon denuncia una situazione di precarietà inguaribile nei suoi uomini di fumo colorato, dove la cromia tenue e delicata è un desiderio celato, timoroso di emergere, di far sentire o almeno avvertire la partecipazione di una coscienza all’insieme delle cose, come se le stesse avessero una qualche importanza, un qualche rilievo. Folon aveva studiato architettura a Bruxelles ma presto passò alla pittura. Apprese da Picasso, ma soprattutto dai Surrealisti e tale, in fondo, la surrealtà, è il suo linguaggio artistico. Illustrò parecchi libri di autori famosi, fra cui Kafka, Borges, La Fontaine, per la Olivetti su commissione di Giorgio Soavi e collaborò con varie riviste americane. Divenne noto nel 1969 grazie a una mostra a New York. Lavorò poi parecchio per il mondo pubblicitario, per la Snam, con manifesti di eccezionale impatto visivo, senza tuttavia mai sacrificare il suo estro. Negli anni ’90 s’interessò anche di scultura, con esiti straordinariamente poetici. I suoi omini perennemente in viaggio per non si sa dove, lo sguardo stranito, l’aspetto remissivo, ma non domo, o fermi sul posto come teneri spaventapasseri, sono, in fondo le sue cose migliori fra le molte eccellenti. Memorabile una sua antologica a Firenze nel 2005. Tre le opere qui riprodotte, una sua “Colomba della pace”, “Partir”, anno 1990; “Uomo con la valigia”, anno 2002 (?). Folon fu un attivista di Amnesty International. Rari gli artisti della sua sensibilità e semplicità. Ancora più rari tanto suggestivi.