69. Il Novecento (15)

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69. Il Novecento (15) Blitz nell’arte figurativa 69. Il Novecento (15) Il linguaggio figurativo trovò maggiore spazio nell’Espressionismo, opponendosi al Dada che tanta parte ebbe, e ha tuttora, nell’arte moderna, soprattutto in versione Surrealista. Però, la figurazione adattata ai nuovi concetti si caricò di una responsabilità che appare superiore a quella dei tardi dadaisti. In particolare modo, gli Espressionisti moderni, attivi fra le due guerre mondiali e maggiormente dopo la Seconda, cercarono punti di riferimento precisi, sconosciuti ai cultori dell’onirismo. Questi ultimi hanno avuto, e hanno ancora, il pregio di presentare varie suggestioni e dunque varie possibilità di aprirsi a un reale privo di finalismo e di determinismo. La relatività delle cose non è un vicolo cieco, bensì la chance di aprire nuovi orizzonti. Come rovescio della medaglia, abbiamo spesso una sorta di resa a questo programma che, infatti, diventa un manierismo destinato all’inefficienza. Il linguaggio figurativo tradizionale è invece costretto a cercare punti di appoggio e, insieme a una specie di possibile chiusura, esso offre visioni che richiedono profonde riflessioni: magari banali anche nella consistenza, talvolta però più incisive e prolifiche di quanto costatabile e ipotizzabile. Si dimostra che la manipolazione della figura, fatta non a caso, fatta cioè non seguendo il mito del gesto, può arricchire la dinamicità dell’alfabeto usato dalle arti figurative dalla notte dei tempi. A questo punto, ispirazione Dada e rigore analitico perseguito con mezzi classici, trovano contatti, pur se solo raramente riescono a condizionarsi a vicenda. La finalità è la conoscenza possibile e probabile. Si tratta di una conoscenza nuova che chiama in causa l’intera personalità umana scaturita da esperienze pratiche, molto avanzate rispetto al passato, e da interrogativi sentimentali eterni che ora reclamano una risposta: talvolta, negli animi più sensibili e attenti, in modo disperato, per quanto mascherato da una sicurezza formale o semplicemente esecutiva. L’incontro dell’Espressionismo con l’arte italiana non fu traumatico né dirompente come altrove. L’arte italiana, pur in modo eterogeneo, puntando sulla circostanza o l’occasione, seppe contenerne gli eccessi, ad esempio tedeschi. Prove convincenti in questo senso furono fornite dalla “Scuola Romana” (o Scuola di via Cavour”) fondata da Antonietta Raphaël, Mario Mafai e Scipione, incoraggiata dal grande critico Roberto Longhi (forse il nostro maggiore) e frequentata da intellettuali di spicco, quali Leonardo Sinisgalli, Giuseppe Ungaretti, Enrico Falqui, Libero de Libero. Molti i nomi intorno alla scuola, una scuola priva di regole particolari. Infatti, ogni artista interpretò a modo proprio le suggestioni espressioniste. Di seguito forse i più originali. Antonietta Raphaël (1895-1975), pittrice e scultrice lituana naturalizzata italiana, fu un’artista antiaccademica, attratta dalla preistoria dell’espressione umana. Le sue figure recitano in modo persuasivo la loro primordialità nascosta, come un recupero doveroso dell’essere prima della razionalità annientatrice della fantasia. La Raphaël, figlia di un rabbino, era andata a Londra dopo la morte del padre e aveva studiato musica. Poi era stata a Parigi. Nel 1924 si stabilì a Roma, dove conobbe Mario Mafai, con il quale, e con Scipione, fondò intorno al 1930 la Scuola Romana. Nel 1930 fu di nuovo a Parigi e qui ebbe contatti con Jacob Epstein scultore e pittore statunitense naturalizzato inglese, fondatore del Vorticismo, una specie di Futurismo, e ritrattista molto richiesto, al quale s’ispirò, così come s’ispirerà a Ossip Zadkine, scultore russo naturalizzato francese, cultore dell’arte africana, e a Emile-Antoine Bourdelle nella dinamica. La nostra artista fu più scultrice che pittrice (nella seconda veste non eccelle) riuscendo a rendere la pietra magicamente plastica. La Raphaël persegue l’idea di rendere armonico il movimento. Vuole essere nel divenire. Qui vediamo un suo “Autoritratto con violino” del 1928 e la scultura “Le tre sorelle” del 1937, apparentemente contenuta, ovvero con dinamicità interiore rappresentativa. Mario Mafai (1902-1965) fu il compagno di Antonietta Raphaël, unito a lei affettivamente e artisticamente. Fu molto amico di Scipione (Gino Bonichi). Con lui e con la compagna fondò la Scuola Romana. Era nato a Roma da padre ignoto. Il cognome Mafai è un’invenzione. La sua pittura, di getto, piacque parecchio. L’artista fece molte esposizioni, a Roma e a Milano in special modo. Fu invitato anche a San Francisco. Fu ospite con la moglie (per difenderla da persecuzioni razziali) nella casa genovese di Alberto della Ragione, collezionista e mecenate. Frequentò la storica “Osteria dei Fratelli Menghi” a Roma, per trent’anni, dal 1940 al 1970, luogo di raduno degli intellettuali. Suoi principali riferimenti, Goya e Grosz. Negli ultimi tempi si diede all’informale, pur senza convinzione. Del resto, Mafai non sembra persuaso della forza del linguaggio pittorico in genere. Le sue immagini cercano nel tremolio del segno osservazioni efficaci anche se effimere. Il colore appare steso con maggiore calma e riflessione: come una pausa sentimentale nella quale riversarsi con piacere. Qui “Autoritratto” del 1946 e “Insenatura sarda”, anno 1957, molto lirica. Il maggior espressionista della Scuola Romana è Scipione (Gino Bonichi 1904- 1933) di Macerata, per l’uso spesso molto acceso del colore. Scipione, malato di tubercolosi sin dal 1919, fu in sanatorio per cinque anni, poi, a Roma, conobbe Mafai, con il quale, e con altri, fondò la Scuola Romana con l’intento di contrastare “Novecento”, visto prono al regime fascista (cosa vera solo in parte) e nostalgico, cioè neoromantico. Paradossalmente le opere di Scipione sono caratterizzate da considerazioni malinconiche per la perdita del passato. Egli osserva come stranito e indignato lo sventramento di Roma attuato dal Fascismo. Accentua il carattere dei personaggi che assistono allo scempio, pronti a essere sacrificati a loro volta, seppur lo ignorino. In più nelle sue opere pone critiche ai protagonisti del potere, immergendoli in un vortice di tinte spesse e accecanti, e accenna a tenerezze per le costruzioni umane, per la vanitas dell’uomo, destinate all’oblio. Qui due opere del 1930: “Cardinale decano” e “Ponte degli angeli”. Incoerente, in parte, anche Renato Marino Mazzacurati (1907-1969) rispetto al programma della Scuola Romana, che contribuì a fondare. Mazzacurati era convinto, in cuor suo, che l’arte dovesse avere una funzione sociale piena. Arriverà a dichiararlo, “cadendo” in Novecento. Molte sue pitture sono umili (come questa “Natura morta” forse del 1931), richiamano riflessioni semplici, immediate e spogliate di orpelli, cioè non appartate, ma molte sue sculture recitano un copione elitario, costituito da un intellettualismo sotterraneo (si veda il “Ritratto di Elsa Morante”, anno 1943). Mazzacurati, di Galliera, non lontano da Reggio Emilia, apprese molto nel corso del suo viaggio a Parigi nel 1931. Nella capitale francese ebbe modo di studiare Rodin, Matisse, Picasso. Approdò successivamente a un realismo crudo, contorcendo le figure in una sorta di macerazione materiale sotto la quale si agita uno sconforto spirituale. Poco adatto alle speculazioni spirituali, Mazzacurati forza la materia creando suggestioni sanguigne di buona presa emotiva. Il Nostro fu lo scopritore di Antonio Ligabue. Corrado Cagli (1910-1976) frequentò la Scuola Romana, apprendendovi il proposito di una pittura impegnata nell’espressione reale o nella sua ricerca all’interno dell’immagine. Cagli, di Ancona, era per un realismo simbolico e indicativo. Era per l’individuazione di dati in grado di svelare l’importanza e il senso della figura non solo contingenti. Quest’ampliamento è un modo per sottolineare la visione universalistica tipica italiana. Cagli aveva esordito con i murales, aveva poi lavorato, diventandone direttore, in una ceramica d’arte a Umbertide. Con Capogrossi e altri aveva fondato il Gruppo dei nuovi pittori romani, sciolto velocemente per divergenze fra gli artisti. Era stato a Parigi, fu molto attivo a Roma, lavorò per il regime. Nel 1938 lasciò l’Italia per Parigi, a causa di problemi razziali, e quindi fu a New York, molto bene accolto. Da lì nel 1943 andò in Inghilterra, quindi seguì l’esercito alleato nella campagna di Francia, partecipando allo sbarco in Normandia. Lavorò anche per il teatro (di Balanchine ad esempio) realizzando scene e costumi. Fu pure apprezzatissimo arazziere, ma soprattutto fu un grande disegnatore. Qui “Tempo di guerra” anno 1944 e “Nudo di schiena” anno 1956. La sua pittura è essenziale, viva, ricca di considerazioni per la figura. Alla Scuola Romana, palestra di sperimentalismi espressivi promossi vere e proprie espressioni di peso, confluirono, in un secondo tempo, a ridosso del primo, altri autori che alla scuola stessa, come fonte d’importante stimolo iniziale, furono debitori. Di seguito, gli artisti forse più rappresentativi. L’espressività di Roberto Melli (1886-1958), di Ferrara, è sintetica, essenziale, paradigmatica di un modo di vedere originale, responsabile e allo stesso tempo significativo per accumulazione di particolari. Questi particolari sono molto bene assemblati, guidati da una remota preoccupazione estetica, e concepiti come un insieme scomponibile ma non distruttibile. In altre parole, Melli fissa gli elementi essenziali di una trattazione della figura che combina geometrie con fantasie. Le seconde, per quanto possa sembrare strano, strettamente legate alle
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