Salvatore Barbagallo CITTA’ NEGLETTA

INTRODUZIONE

Per antonomasia può ritenersi la città degli eccessi e delle contraddizioni, priva, cioè, di una volontà sociale e politica di progresso e di crescita umana. La ragione sta tutta nel fatto che Essa, dal punto di vista dell’incremento della propria popolazione, è cresciuta a dismisura rispetto alle altre città siciliane, eppure, non ha raggiunto una solida identità culturale in gran parte della propria gente. Pertanto, non è raro il caso in cui si sia voluto mescolare il sacro con il profano in una commistione di storia ed orrido, recente passato, come è successo ad esempio con il Teatro Romano e l’Odeon, a volte persino utilizzando i pregiati marmi provenienti da suddetti, vetusti monumenti. Spesso, durante gli spettacoli presso questi storici teatri, abbiamo assistito, piuttosto sconcertati al clamore degli spettacoli televisivi od a quello poco edificante dello sciacquone. Ogni giorno, persino più volte, percorriamo le vie della nostra città, sporchiamo e calpestiamo luoghi d’interesse

1 storico, a volte neanche sollevando lo sguardo dal nostro smartphone e con gli auricolari ben piantati all’interno dei nostri padiglioni, i quali ci rendono inesorabilmente simili a dei veri e propri automi privi di identità e di sensibilità connettiva. Non ci viene mai la curiosità di conoscere in profondità la storia della nostra splendida città, scoprire ciò che nei secoli Ella ha rappresentato in termini di civiltà, storia e memoria tattile. Eppure, basterebbe alzare un po’ lo sguardo per potersi accorgere di quanta storia sia trascorsa sotto le sua antiche fondamenta che, senza rendercene conto, calpestiamo in maniera distratta ed irriverente, quanti illustri personaggi le hanno riservato fama e lustro e quanti popoli, infine, questa città l’hanno conquistata, difesa, oppressa, vilipesa e poi liberata, lasciando quasi sempre morte e distruzione, ma anche arte, sviluppo e civiltà. Per tutti possiamo annoverare Arabi, Greci, Romani, Bizantini, Svevi, Aragonesi, Angioini, ma l’elenco potrebbe continuare oltre misura. Della storia greca, purtroppo, è rimasto ben poco, poiché i romani, venuti subito dopo come invasori, quindi, conquistatori, hanno via via utilizzato ciò che il popolo greco aveva lasciato sul territorio, soprattutto marmi e pietre da costruzione, edificando persino sui resti greci. L’età imperiale romana ebbe inizio allorquando nel 27 a.C., Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, successore di Cesare, (soprannominato figlio di Dio), fu il primo imperatore romano

2 ad essere stato insignito del titolo onorifico di Pater Patriae e colui che elevò la città di Catania al rango di colonia ed i catanesi divennero così cittadini romani, cioè “cives”, come da conclamate affermazioni date dagli storici. Ottaviano si dedicò alla riorganizzazione delle province dell’impero, così la fedele Catania, nel 21 a.C., su suggerimento del suo principale collaboratore, Marco Vipsanio Agrippa, politico, architetto romano e grande proprietario terriero, la innalzò al rango di colonia romana. Catania, pertanto, occupò una posizione di primo piano in Sicilia e le venne concesso un vasto territorio di pertinenza e numerosi coloni romani furono inviati ad incrementare in numero dei suoi cittadini. Tale periodo di benessere si protrasse per secoli, durante i quali furono costruiti parecchi edifici pubblici: circo, foro, naumachia, terme, ipogei e quant’altro ancora. Pochi in città sono a conoscenza del fatto che l’anfiteatro di Piazza Stesicoro è considerato il secondo per grandezza ed importanza soltanto al Colosseo romano. La decisione imperiale comportò un incremento nel numero degli abitanti di Catania, determinato dall’immissione nel corpo cittadino di nuclei di veterani, e comportò ancora un notevole ampliamento del territorio della città grazie all’acquisizione della fertile piana a sud del Simeto, precedentemente controllata dalla colonia greca Leontinoi. Nei secoli Catania ha però perso lo smalto di classica città decumana facente parte dell’Impero Romano, la quale rifletteva

3 in sostanza l’ordinamento vigente a Roma. Ma la cosa più incresciosa è il non aver saputo o voluto mantenere simili preziosità archeologiche che il tempo ci ha tramandato, ciò per via dell’incuria e della presupponenza di certi nostri amministratori, ma io aggiungerei una certa insipienza. Perché ritengo sia stato senz’altro grave l’aver scoperto preziosi reperti storici, a volte quasi casualmente ed averli successivamente coperti sotto una spessa coltre di detriti, celandole e non tramandandole ai presenti ed ai posteri. E’ il caso degli scavi a ridosso della via Bambino (ex cinema Esperia), oppure a sinistra di via Zurria, lasciati miseramente abbandonati all’incuria ed esposti al vandalismo. Eppure una civiltà che si rispetti e che ha l’esigenza di riconoscersi tale è tenuta alla salvaguardia, alla divulgazione ed al mantenimento dei propri illustri trascorsi, poiché è soltanto in tal modo che si potrà presumere un futuro degno di questo nome. IL TERREMOTO DEL 1693 FINE ED INIZIO DI TUTTO

Dei molteplici terremoti e delle innumerevoli eruzioni vulcaniche che, nel tempo, hanno devastato e sconvolto la nostra città, quello del 1693 merita di essere ricordato per via del fatto che, nel bene e nel male, tutto è partito da quella tristissima data. Tutto ha avuto origine da quella maledettissima domenica dell’11 gennaio 1693: l’apocalisse alle ore due del pomeriggio. 4 In quella occasione le sole costruzioni rimaste in piedi furono la Rotonda, San Salvatore al Mare, , Casale Bonajuto ed una casa privata. Sotto le rovine delle case sbriciolate vi erano sedicimila corpi senza vita, (su di una popolazione di 25.000), quindi, i due terzi dell’intero popolo. Di essi, oltre duemila furono colti in Cattedrale mentre pregavano. In definitiva non si salvò nessuno o quasi nessuno. Se fra quei corpi straziati non c’era quello di Andrea Riggio, si dovette alla fortunata circostanza che il nuovo Vescovo di Catania aveva lasciato la città alcuni giorni prima. L’antico campanile di Simone del Pozzo, abbattutosi sul Duomo ne fece crollare le tre navate, lasciando fortunatamente illese le tre absidi. Diretto a Roma per essere consacrato dal Papa, la brutta notizia lo raggiunse in Calabria, a metà circa del suo viaggio. Come reagì nell’apprendere che gran parte della sua Diocesi, la Cattedrale e le altre chiese, il Palazzo Vescovile, il Seminario e l’intera città fossero un cumulo di rovine, non è dato sapere. Realizzare un’opera pubblica a Catania, realizzarla senza intralci ed in tempi brevi , è stata sempre cosa ardua, se non addirittura impossibile. E ciò non tanto per le obiettive difficoltà di carattere tecnico e finanziario che spesso comporta la realizzazione di un’opera pubblica, quanto per le pervicaci interferenze dei privati, ciascuno dei quali ha sempre creduto di saperne, in tema di opere pubbliche, molto più degli altri. Sappiamo, invece, che l’idea d’interrompere il viaggio e tornare

5 sui luoghi del disastro non lo sfiorò neppure. Che ci tornava a fare a Catania senza il crisma della investitura? Meglio affrettarsi verso Roma. Il 27 aprile del 1693, dopo il terremoto, Andrea Riggio giunse a Catania ed occupò la sede vacante del vescovo napoletano Francesco Antonio Carafa, sepolto all’interno del Duomo, per mettere mano alla ricostruzione della città devastata dal sisma, della quale non erano rimaste che poche vestigia. Per l’occasione vi fu un incredibile volontà di rinascita che sfociò in un fervore realizzativo da parte della popolazione civile che raccolse fondi per fare sì che potessero tracciarsi nuove ed adeguate linee stradali. Nacquero così sontuosi palazzi barocchi, anche il clero non fu da meno, facendo a gara per costruire le chiese ed i monasteri più imponenti. A questo cataclisma sono legate due leggende catanesi: quella di “Don Arcaloro” e quella del vescovo di Catania Francesco Antonio Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692. La prima narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale che gridò allo stesso Don Arcaloro di affacciarsi perché gli doveva dire una cosa di grande importanza. Costui ordinò che la facessero salire. La vecchia strega confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant’Agata che supplicava il Signore di salvare la sua

6 città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse. Un vecchio quadro settecentesco di Salvatore Lo Presti rappresenta il barone con l’orologio in mano in attesa del triste evento. La seconda leggenda è quella del vescovo di Catania Francesco Carafa, la quale riferisce che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta. L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere. Come ebbe modo di riferire lo scrittore ed archeologo tedesco, Adolf Holm, la città di Catania custodiva le sue reliquie sotto una coltre di macerie e sotto gli strati delle sue lave, molto meglio di qualsiasi altra città siciliana, ragion per cui, occorreva affermare che i terremoti e le numerose eruzioni, che la flagellarono, abbatterono ma non cancellarono i segni del suo illustre, remoto passato. Dopo il terremoto a Catania risorsero subito molti edifici come il Municipio, l’Università, ospedali, uffici pubblici e case nobiliari, ma in una forma superiore alle precedenti e si rimane stupiti di come abbiano potuto fare a trovare i mezzi per la ricostruzione di dette Chiese, Conventi, Monasteri, Parrocchie, Confraternite ed Opere Pie. I Vescovi di Catania, riunitisi, trovarono il miglior modo per provvedere le rispettive Diocesi

7 dei mezzi pecuniari necessari al fine di rialzare dalla polvere gli edifici religiosi, ossia oltre 700 Chiese, 250 Conventi, 22 Collegiate e due Cattedrali. L’abate ed archeologo Domenico Sestini giunto in città nel 1774, rimase stupito del grande numero di edifici religiosi, superiore persino alla popolazione, cioè 18 Conventi, 37 Confraternite, Ospizi, Eremi e due grandi Chiese officiate dal clero secolare, quali la Collegiata di Santa Maria dell’Elemosina e la Cattedrale di Sant’Agata.

LA FENICE

La Fenice è indissolubilmente legata alla città di Catania ed alla tragedia delle sue molteplici distruzioni dovuti a terremoti ed eruzioni e conseguenti ricostruzioni. Gli antichi egizi furono i primi a parlare di Benu (Benhu), l’uccello sacro che poi i greci chiameranno Fenice. Si trattava di un uccello dalle sembianze intermedie tra un airone ed un’aquila, dai colori sgargianti rosso ed oro. Possedeva lunghe zampe ed una coda con tre piume, una rosa, una azzurra ed una rosso fuoco. Questo uccello, riportato come la prima creatura al mondo, si sarebbe posato sulla collina primordiale di fango. Esso era considerato l’immagine del dio sole. Era onorato particolarmente a Heliopolis e si dice apparisse solo una volta ogni cinquecento anni. Il nome di Fenice deriva da una parola greca “phoinix” che significa rosso porpora. Il rosso, oltre ad essere un colore

8 sgargiante, è anche simbolo di fuoco e ciò si collega al mito della sua incessante rinascita dalle fiamme purificatrici. Nelle leggende ebraiche, la Fenice viene chiamata Milcham. Dopo aver mangiato il frutto proibito Eva divenne gelosa dell’immortalità e della purezza delle altre creature del Giardino dell’Eden. Quindi convinse tutti gli animali a mangiare a loro volta il frutto proibito, affinché seguissero la sua stessa sorte. Tutti gli animali cedettero, tranne la Fenice; che Dio ricompensò ponendola in una città fortificata dove avrebbe potuto vivere in pace per 1000 anni, alla fine di questo periodo l’uccello bruciava e risorgeva da un uovo che veniva trovato fra le sue ceneri. Fu così che ricevette come ricompensa dall’Angelo della Morte il dono di non provare mai l’esperienza del morire. Milcham poi si recò in una città tranquilla dove visse per mille anni senza timore di morire. Infatti Milcham vive mille anni. Al termine di questo periodo il suo nido prende fuoco e l’uccello brucia. Si salva un solo uovo, che diventa un pulcino, per crescere e vivere per altri mille anni. Successivamente la Fenice è stata legata in modo simbolico alla figura di Cristo presumibilmente per via del fatto che tornava a manifestarsi 3 giorni dopo la morte. La Fenice è stata adottata come simbolo paleocristiano di immortalità, di resurrezione e vita dopo la morte. Nell’iconografia cristiana la Fenice è anche opposta per antonomasia al peccato in quanto il fuoco purificatore con il

9 quale da un lato muore e dall’altro risorge è simbolo di rinascita e purezza. Anche Dante Alighieri si è occupato della Fenice che descrisse nel XXIV Cantico dell’Inferno (107-111): “che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo appressa erba né biada in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lacrima e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce”. L’aggettivo Araba indica la provenienza dell’animale mitologico, poiché il primo in occidente a citarla è Erodoto, storico greco antico considerato da Cicerone padre della storia, il quale asserisce che l’Araba Fenice proviene dall’Egitto. Il mito dell’Araba Fenice quindi arriva in occidente dall’antico Egitto, che in quelle terre era conosciuta con il nome di Bennu, connessa alla ciclicità della vita, come morte e resurrezione quindi all’eternità dello spirito; associata al sole veniva rappresentata con l’emblema del disco solare, inoltre era presente in pitture parietali tombali come simbolo di rinascita. Nell’antico Egitto aveva le sembianze di un passero inizialmente e poi di un airone cenerino, nel mito Egizio risorgeva dalle acque e non dal fuoco, nella cultura ellenica l’Araba Fenice è sempre connessa alla morte ed alla rinascita e all’eternità dello spirito, ma cambia le sue sembianze nelle descrizioni, diventando un uccello dalle piume purpuree con le sembianze di un’aquila. Il simbolo della Fenice si trova in molte culture solo con nomi e descrizioni diverse, ad esempio nell’ebraismo è

1 chiamata Milcham, e come tale viene raffigurato, narrato e rappresentato in base alla collocazione geografica-storico- culturale, ciò che rimane costante è quello che rappresenta, ovvero l’immortalità dello spirito. La fenice, infine, è chiamata anche “custode della sfera terrestre” perché segue il sole nel suo giro e dispiegando le ali ghermisce i raggi infuocati del sole. Se infatti non li intercettasse né l’uomo né alcun altro essere sopravvivrebbe. Sulla sua ala destra sono scritte a lettere cubitali, alte circa quattromila stadi, queste parole: “non è stata la terra a generarmi, e nemmeno i cieli, ma solo le ali di fuoco”. Ella si ciba della manna del cielo e della rugiada della terra. LE ANTICHE VESTIGIA

All’interno della città antica sono ancora numerose e discretamente conservate le vestigia del passato, tuttavia, sebbene la storia della Catania greca occupi ben cinque secoli, i principali monumenti visibili in città, si riferiscono alla Catania romana, che si impiantò su di essa. Del periodo bizantino rimangono invece i ruderi di alcune chiese a pianta greca, realizzate quando la Sicilia faceva parte dell’Impero greco bizantino. Alcuni secoli dopo il primo grande moto colonizzatore greco, durante il quale furono fondate parecchie città sulle coste dell’Asia Minore, ebbe inizio una seconda imponente ondata migratoria che si diresse verso l’Europa e la Sicilia.

1 Il luogo prescelto per la città di Catania fu sulle pendici dell’Etna, più precisamente sulla collina di Montevergine. In quell’epoca la città svolgeva un ruolo subalterno, sia politicamente, che economicamente, rispetto a Naxos e Lentini, militarmente più forti.

Katane, secondo lo storico e letterato ateniese Tucidite, fu fondata nel 729 a.C., dagli stessi calcidesi di Naxos (Calcide era un’isola di fronte l’Attica, regione dell’antica Grecia, verso l’Egeo). Il sito della nuova città presentava condizioni ottimali per uno stanziamento, una posizione protetta all’interno di un porto ed una fertilità della terra, che veniva bagnata dal suo fiume misterioso: Amenano. La Piana di Catania, con la sua grande estensione di terreni coltivati, tuttavia, non rientrava ancora tra le ricchezze della colonia greca in quanto possedimento della città greca di Leontinoi, l’odierna Lentini. L’età romana fu senz’altro molto più rappresentata anche dal punto di vista archeologico e monumentale, infatti, in città esistevano vari edifici termali di età repubblicana ed imperiale che testimoniano la copiosità della ricchezza idrica catanese. Prima dell’eruzione del 1669, che trasformò la natura stessa del territorio catanese, i dintorni della città erano coltivati in maniera intensiva. Con l’arrivo dei Normanni le caratteristiche urbane della città si fecero più chiare, il Duomo divenne cuore della piazza, strategicamente localizzata vicino al porto (un tempo il mare

1 entrava fino in città, attraverso la zona di Villa Pacini), onde facilitare gli scambi commerciali, mentre la posizione strategica, ove fu costruito il Castello ursino, consentiva il controllo sul porto ed allo stesso tempo, sulla pianura a sulla città. Con il terremoto del 1693 Catania fu costretta a confrontarsi con una immane tragedia, che ne mutò l’immagine e lo stile di vita. Si fece così a gara per costruire chiese, monasteri, ville urbane, palazzi pubblici e privati, vennero innalzate fontane ed archi di trionfo, tutti nel caratteristico ispirato ai modelli medievali, con l’alternanza della pietra bianca e la pietra nera dell’Etna.

TEMPIO DI CERERE

Il Bastione degli Infetti, o almeno quello che ne rimane oggi, conserva ricordi molto più antichi, ormai quasi del tutto dimenticati, e proprio per questo da riportare alla memoria. Tra il Bastione degli Infetti e la Torre del Vescovo, oggi scenario del caotico traffico cittadino e, purtroppo, di un sempre più evidente degrado urbano, sorgeva un tempo un

1 edificio sacro così importante da rivaleggiare addirittura con quello presente nella città di Roma, cioè il Tempio di Cerere. Di questa pregevole costruzione rimangono oggi soltanto alcuni antichi disegni e la descrizione fatta da Cicerone. Il Tempio sorgeva a settentrione e la sua importanza, oltre per il fatto di essere dedicato a una divinità molto onorata e riconosciuta in tutta la Sicilia, era dovuta al fatto che, al suo interno, veniva custodita una antichissima statua della Dea, una statua che non tutti conoscevano visto che l’accesso al Tempio era riservato soltanto alle donne. Dopo le molteplici calamità che colpirono Catania, del Tempio rimase ben poco, tanto da farlo quasi entrare nella leggenda, d’altra parte la sua storia risulta essere così affascinante e misteriosa che non furono pochi gli storici a dubitare della sua stessa esistenza. Riprendendo le memorie di Cicerone nelle “Verrine” parla di un sacrario a lei dedicato a Catania, infatti, scopriamo che l’intera Sicilia era consacrata sia a Cerere che ad un’altra divinità chiamata Libera. Quest’ultima veniva ricordata con il nome di Proserpina, figlia di Cerere, e protagonista del secondo luogo dimenticato della città citato nel titolo di questo articolo: la Grotta dell’Ade. Esiste un’antica credenza popolare che si fonda su antichissimi documenti e testimonianze che tutta la Sicilia sia consacrate a Cerere e Libera. Non è profonda persuasione a tal punto da sembrare insito e connaturato nell’animo, infatti, credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in

1 questa terra per prima siano nate e scoperte e che Libera, che i catanesi chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi. Per parlare di questo luogo, intimamente legato al Tempio di Cerere e al famoso rapimento della figlia Proserpina, dobbiamo spostarci dall’altro lato della città, nel quartiere Santa Sofia. Questa zona, spesso sottovalutata storicamente, prende il nome dalla collina omonima, ma più esattamente da una grotta, il cui accesso oggi risulta completamente ostruito, che un tempo si pensava fosse l’ingresso al regno dei morti. La grotta in seguito divenne famosa per un altro motivo, si sparse infatti la voce che al suo interno fosse custodito un favoloso tesoro. Questa notizia attirò curiosi, avventurieri e cercatori di tesori da tutta la Sicilia, tanto che all’inizio del secolo il proprietario del terreno decise di ostruire per sempre l’ingresso della grotta. Il territorio di Santa Sofìa è quasi interamente interessato dalla presenza dell’omonima collina. L’area ospita la sede della Cittadella Universitaria e dell’Osservatorio Astrofisico. Tra le tante leggende della nostra terra ve n’è una, quella della Grotta di Santa Sofìa, oggi interrata, che merita sicuramente la nostra attenzione. Storici e scrittori come Pietro Carrera, descrissero i cunicoli vulcanici della Grotta di Santa Sofia come l’ingresso degli Inferi. Secondo costoro qui venne compiuto il famoso ratto di Proserpina, messo in atto da Plutone, sconfessando così

1 le scritture di Ovidio che collocavano il rapimento nei pressi del lago di Pergusa. Si narra inoltre che ai piedi della collina sorgesse un vero e proprio tempio dedicato a Cerere, all’interno del quale era conservato il fuoco sacro perpetuo sorvegliato da due cani mastini. L’esistenza del tempio non è mai stata verificata, ma un’altra versione storica ci racconta della presenza di un monastero di donne sotto il nome di Santa Sofia. La tradizione vuole che fosse uno dei monasteri fatti costruire in Sicilia da Giuliano di Le Mans, vescovo romano e santo della Chiesa cattolica, inviato in Gallia per predicare il Vangelo presso la tribù celtica dei Cenomani. La collina venne dunque chiamata Santa Sofia per la presenza di questo monastero collocato sui suoi fianchi. Anche il mecenate Ignazio Biscari sosteneva di aver identificato alcuni ruderi appartenenti al tempio di Cerere, trovati esattamente nella zona del Bastione degli Infetti e sotto la via Botte dell’Acqua, e consolida la sua affermazione in base al fatto che in quel luogo furono trovate una iscrizione nella quale c’è inciso il nome di Demetra ed una statuetta di Cerere. Cerere, sorella di Giove (madre Terra) per i latini, Demetra per i greci, in Sicilia fu venerata fin dai tempi in cui i greci dominarono la Sicilia. Dea delle messi, della terra, dei campi, raffigurata come una nobile matrona con veste dorica, una corona di spighe sul capo.

1 Infatti, Demetra, fa rinascere fiori e semi nei campi. Proserpina era venerata come fanciulla, Kore, e come regina degli Inferi. E’ rappresentata con una fiaccola in una mano ed uno scettro nell’altra, dall’unione con lo stesso Giove, generò Proserpina, corrispondente alla dea Persefone o Kore venerata dai greci, che rappresentò la rinascita. La leggenda del ratto di Proserpina è un’allegoria della natura e del ciclo della vegetazione, che muore e rinasce. La sua statua è posta sulla cima di un piedistallo in stile barocco realizzato in marmo di Carrara, posto all’interno di una vasca per il contenimento dell’acqua emessa dagli ugelli idrici. E’ abbigliata con vesti classiche ma pudiche, con aria e posa flemmatica, nell’atto di brandire una falce. Il piedistallo quadrato su cui poggia, il cui bordo piega simmetricamente in modo sinuoso, presenta su ogni lato un mascherone corrucciato, dalla cui bocca sgorga acqua, che finisce in una prima vasca sospesa in forma di quattro grosse conchiglie, da questa trabocca direttamente verso la vasca principale più bassa, posta a terra e chiusa da un alto e robusto margine in pietra. Nel compiere questo tragitto scorre irregolarmente sulla parte portante della fontana, costituita da quattro delfini angolari, anch’essi dotati di ugello-boccale, da una ricca copertura di finto pietrame riprodotto sempre in marmo, nel quale si trovano incastonate due lapidi testimonianti la costruzione dell’opera per mano dell’Orlando e l’identità della

1 dea rappresentata e da alcune piccole figure scolpite, quali piccoli volti e animali marini. Nella sua primitiva posizione, la fontana si trovava a fronteggiare il settecentesco palazzo dell’Università catanese, o Syculorum Gymnasium, luogo per cui, con dovizia di riferimenti culturali alti, era stata pensata dal suo artefice, il palermitano Giuseppe Orlando, che la scolpì nel 1757. La commissione giungeva dal Senato catanese il quale, in base a quanto tramandato, accolse le richieste e le suppliche di parte della popolazione locale per l’erezione di un monumento finalizzato ad ingraziarsi il favore della natura e 4 della prosperità, vista la devastante carestia che attanagliava il val di Noto dal 1756. Cerere, per definizione dea della fertilità, nonché divinità radicata nella cultura siciliana da secoli, fu dunque la figura divina, anche se pagana, prescelta per l’opera, che venne decretata fontana. Inizialmente fu molto apprezzata, sulla base delle testimonianze dell’epoca il gradimento dell’opera risulta progressivamente scemare, tanto da parte della nobiltà catanese quanto della borghesia e più in generale della popolazione, forse anche per l’auspicato ma non concesso aiuto divino di cui l’opera era stata investita, finché il Senato non fece ufficialmente smontare l’intera fontana, spostandola al Borgo, luogo molto distante da piazza Università, anche se comunicante anch’esso con la principale via Etnea.

1 A partire da questo momento, attorno alla fontana sorsero dicerie e leggende popolari relative ad una certa sfortuna che l’avrebbe da sempre accompagnata. Ben presto la statua della dea venne vandalizzata con la mutilazione del naso e delle braccia, e quindi rattoppata. Ad alimentare queste interpretazioni nefaste, contribuì nel 1882 la morte per infarto del suo restauratore, lo scultore Francesco Licata, proprio all’interno della vasca principale, dove si era introdotto per effettuare una semplice manutenzione. Oggi la fontana è circondata da un corridoio piastrellato a ciottoli, con due basse rampe d’accesso, che a loro volta sono racchiuse da un gradevole praticello. L’impianto idraulico dell’opera, invece, si presenta in cattivo stato per via di superficiale manutenzione e per l’aggiunta, nel XX secolo, di alcuni tubi a spruzzo verticale, molto visibili ed antiestetici, infissi sul fondo della vasca più grande. La fontana di Cerere è inoltre nota per un equivoco ormai divenuto storico che riguarda proprio il suo nome. All’indomani della realizzazione, il popolo catanese la scambiò per la Dea Pallade ed iniziò a chiamarla in maniera 4 dispregiativa la “tapàllara”. Ancor oggi la statua è simpaticamente ricordata con questo particolare soprannome, che viene spesso utilizzato per indicare una ragazza poco affascinante. Non è raro, infatti, che a Catania una giovane

1 donna non molto bella possa essere definita “lària comu a tapàllara ‘do Bùggu” (brutta come la “tapàllara” del Borgo).

SANTUARIO DI DEMETRA

Durante il 1959, a Catania, in maniera piuttosto fortuita, in piazza San Francesco si ritrovò un deposito di ceramiche greche dedicato a Demetra (Madre Terra), considerato uno dei più importanti e ricchi complessi votivi dell’Occidente greco. I materiali rinvenuti coprivano un arco cronologico che andavano dalla fine del VII a tutto il IV secolo a.C.. Lo scavo fu eseguito dal Comune di Catania per creare l’allacciamento fognario della piazza e si sviluppava a ridosso del lato est del monumento dedicato al Beato Cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, che si erge al centro della stessa. Per difficoltà oggettive, legate alla natura del suolo, fu necessaria la creazione di pareti cementizie per limitare i danni degli scivolamenti del terreno. La trincea si sviluppò in direzione nord sud per circa 27 metri di lunghezza, raggiungendo l’incrocio con via Vittorio Emanuele, e raggiunse la profondità di tre metri, avente uno spessore di 50 centimetri. A circa 18 metri più ad ovest (su via Gagliani) si continuavano a ritrovare reperti, ad una profondità di 4,40 metri. Il recupero dei reperti si fece arduo a causa della presenza di una falda acquifera che, scorrendo ad un livello più alto della stipe, inondava lo scavo, pertanto fu necessario

2 l’utilizzo costante di apposite macchine idrovore. Probabilmente la stessa falda fece scivolare anticamente il deposito in quest’area, ivi portandolo dal sito originario. Lo scavo si svolse in collaborazione con la sezione di archeologia dell’Università degli Studi di Catania, fornendo così la possibilità di creare un campo sperimentale di ricerca per gli allievi dei corsi di tale sezione La stipe votiva (insieme di oggetti votivi gettati all’interno di una fossa) trovata ha restituito notevoli quantità di ceramiche ritenute dalla comunità archeologica di grande interesse, soprattutto per la possibilità di stabilire il flusso mercantile dell’antica città di Katane e le sue aree di influenza. I manufatti sono pertinenti alle diverse fasi dell’epoca greca, ma il gruppo prevalente è certamente di epoca arcaica (dal VII al IV secolo a.C.). I reperti sono di vario genere, quasi la totalità fittili (plasmate di terracotta, come d’uso etrusco), con una grande abbondanza di kotylai (un particolare tipo di coppa) ed altre coppe, in maniera preponderante dalle officine di Corinto e dell’Attica (regione storica dell’antica Grecia, protesa nel Mar Egeo), ma anche statuette figurate rappresentanti la dea Demetra (molto frequente il tipo col porcellino) e frammenti di piatti. La presenza di un notevole nucleo di statuette di offerenti il porcellino di età classica (fino al IV secolo a.C.) ha portato a collegare la stipe votiva al santuario di Demetra e Kore descritto dalle fonti.

2 La quantità dei reperti è impressionante: al 1998 erano stati inventariati, documentati e schedati oltre 12.000 pezzi (6.149 ceramiche e 6.794 terrecotte). Si sono potuti identificare diversi pittori, gruppi od officine collocati tra la fine del corinzio antico e il tardo corinzio. I reperti sono oggi custoditi dal Parco archeologico greco romano di Catania. Il ritrovamento di tale stipe sembrerebbe voler confermare il passo di Cicerone in cui si fa riferimento al ricchissimo Tempio di Cerere, che il proconsole magistrato romano Verre, secondo l’accusa avrebbe vilmente saccheggiato. Del tempio oggi si sa poco o nulla e le varie ipotesi degli studiosi del passato (tra cui il letterato Pietro Carrera od il principe Ignazio Biscari) sono spesso discordanti. Una leggenda vuole che suddetto tempio fosse stato distrutto dalla sola presenza del vescovo Leone. Il sito originario della stipe tuttavia non è ancora stato localizzato, dato che i reperti ritrovati si sono depositati in una sorta di conca, trascinati da una inondazione del terreno (forse a causa di una esondazione dell’Amenano) di epoca antica che li ha sepolti conservandoli. Tuttavia secondo diversi studiosi non dovette essere distante da via Crociferi . La ceramica greco orientale della stipe votiva del santuario di Demetra a Catania, per quanto rappresentata in quantità più modesta rispetto alle altre classi ceramiche quali la corinzia e l’attica, riveste un particolare interesse per la varietà e la qualità degli esemplari conservati. Alcune classi, come la ceramica fine “chiota” (greco orientale di epoca orientalizzante

2 ed arcaica prodotta nell’isola di Chio) sono presenti con una documentazione di stili e di forme sconosciute, sino ad oggi, in altri siti del Mediterraneo occidentale. Questo lavoro è dunque una tessera che si aggiunge al mosaico, ancora incompleto, della presenza del materiale greco orientale del Mediterraneo occidentale. Demetra (Cerere per i Romani) secondo la mitologia greca era Dea delle messi, sorella ed anche amante di Zeus, da cui ebbe come figlia la bellissima Persefone, nota come Kore e Proserpina secondo i Romani. Anticamente in Sicilia venivano organizzate ogni anno le feste con cui si ringraziava la divinità per aver donato all’umanità le regole del mondo vegetale e si sacrificavano dei maiali, per tale motivo nelle numerosissime statuette era sempre raffigurata con questo animale. Cicerone parlò del Santuario di Cerere, o Demetra greca e Kore, da cui Verre voleva trafugare la statua di antichissimo culto. Il rilievo fu rinvenuto presso le fondazioni dell’attuale palazzo della Banca d’Italia, ove oggi è alloggiata la Questura centrale nella piazzetta di San Nicolella.

ARCO DI MARCELLO

La storia di Catania risulta essere particolarmente complessa, infatti, fu lungamente sotto il dominio dai Greci e dai Romani, successivamente dei Normanni, Svevi, Aragonesi, i quali hanno lasciato sul territorio innumerevoli preziose eredità

2 archeologiche, quali ad esempio Teatri, Anfiteatri, Odeon, Rotonde, Ipogei, Strutture termali, funerarie e basilicali. Ma anche il lontano popolo degli egizi ha lasciato delle eredità, come per esempio la stele di Assuan in Piazza Duomo o la festa della Santa Patrona Agata, la quale si rifà all’antico culto della Dea Iside. Alcuni di questi reperti sono tuttora visibili, altri risultano essere sotto traccia, altri ancora sono stati perduti per sempre, come per esempio la Naumachia (battaglia navale) o gli innumerevoli tempi idolatri. L’architetto catanese Mario Musumeci, docente presso l’Università di Catania, alla fine del XVIII secolo, fu uno di questi ricercatori, il quale si occupò (fra le innumerevoli altre cose) dello studio dell’Arco di Marcello, o di ciò che in quel tempo avanzava nei pressi di Via Vittorio Emanuele, cioè una fiancata tutta sconnessa del basamento di forma rettangolare, con le facce di lava porosa dell’Etna, sotto la strada, innanzi la gradinata della Chiesa della Confraternita dei Bianchi, angolo Via San Martino con la Via San Giuseppe al Duomo, non soltanto dal punto di vista architettonico, ma anche della composizione degli impasti di calce e ghiaia nera, proveniente da piccole pietre laviche, in gergo chiamate rasaglia, ancor oggi utilizzate nelle costruzioni. Questa scoperta, attentamente e dettagliatamente studiata, gli valse l’ammissione alla famosa Accademia dei Georgofili di Firenze.

2 Al Musumeci si affiancarono poi altri ricercatori, come il Ferrara, il Cordaro, il Duca Francesco di Carcaci, Adolfo Holm, Carmelo Sciuto Patti, Giovanni Florio. Qualcuno attribuì l’opera al cugino Cajo Marcello. Tali vestigia si fanno risalire al 239 a.C., periodo in cui la città di Catania fu sotto il dominio dell’Impero Romano, Proconsole Quinziano (tristemente famoso per il martirio di Sant’Agata), a ricordo della vittoria (208 a. C.) di Marco Claudio Marcello, con l’espugnazione della città di Siracusa, soprannominato “la spada del popolo romano”, successivamente morto in una imboscata mentre combatteva contro Annibale. Il primo colpo glielo inferse il terremoto del 1169, seguito poi da quello del 1693, che fece sprofondare l’intera opera sotto grandi cumuli di macerie, l’incuria degli uomini ed il progresso hanno fatto il resto. Soltanto in pochi avevano avuto modo di vedere questi ruderi, non comprendendo di casa si trattasse, né a quale periodo si riferissero, allorquando, dopo la prima guerra mondiale, l’allora Ministro del Lavori Pubblici Gabriello Carnazza fece sistemare la Via Vittorio Emanuele che, nel tratto fra la Chiesa di San Placido e la SS. Trinità, risultava essere piena di dune, avvallamenti e gibbosità. In quell’occasione alcune persone videro affiorare qua e là alcuni lembi di avanzi archeologici, subito dopo interrati.

2 Successivamente sparirono ancora sotto il manto stradale, tuttavia, i lavori riguardanti la fognatura, li hanno riportati alla luce. L’Arco di Marcello era uno dei cento monumenti che avevano attribuito alla città di Catania l’epiteto di “splendida”, che racchiudeva in sé le designazioni di magnificenza, generosità, gloria, splendore artistico. Vi immaginate se in parecchie zone della nostra città fosse possibile effettuare degli scavi ad ampio raggio, è pressoché certo che potrebbe venir fuori una intera città celata da millenni alla vista sotto vari strati di sottosuolo. Ciò a causa di copiosi, disastrosi terremoti e terrificanti eruzioni, per tale motivo Catania è soprannominata l’Araba Fenice, il mitologico uccello (emblema cittadino), risorto innumerevoli volte dalle proprie ceneri.

Secondo l’architetto e professore di Architettura presso l’Università di Catania Mario Musumeci (lo stesso del monumento a lui dedicato a Sant’Agata la Vetere), asserisce che l’arco fosse un monumento dedicato alla memoria di qualche benemerito cittadino, ovvero a conservare le ceneri di un illustre personaggio, infatti, la volta che esisteva sopra detto manufatto, farebbe propendere per questa ultima idea. Secondo lo stesso Musumeci ne esiste ancora qualche tratto nel fianco attualmente scoperto e visibile all’incrocio tra via Vittorio Emanuele e Via San Martino, ma essendo

2 inaccessibile, non è più possibile poter verificarne le dimensioni ed osservare le strutture del basamento. Dello stesso parere dell’architetto Musumeci sembrava essere il Duca di Carcaci Francesco Paternò Castello, (nonostante nella pianta del geografo tedesco Filippo Cluverio veniva indicata come una porta), secondo lui in quell’epoca non si conoscevano simili opere, se non dopo l’architetto romano Marco Vitruvio Pollione. Il primo colpo glielo inferse il terremoto del 1169, il secondo, non meno spietato del primo, quello che ne atterrò, facendone sprofondare sotto immensi cumuli di macerie gli avanzi ancora cospicui, glielo diede il terremoto del 1693. Il resto continuano a farlo l’indifferenza degli uomini.

vertisements CIBELE, DEA DELLA FECONDITA’

Nella zona a nord di Catania esiste una via a lei intitolata, a dimostrazione di come in tempi remoti la città fosse mèta di molteplici dominazioni. Le rovine venute alla luce a Cifali si ascrissero ad un tempio di Cibele piramidale, ad un miglio di distanza dalla fonte di Cibali e di un tempio antichissimo nelle vicinanze. Cibele si inserisce, dunque, nel novero delle Grandi Madri ed è una divinità protettrice della fecondità, degli animali 2 selvatici e della natura selvaggia, all’interno della quale si aggira su di un carro trainato dai leoni. Secondo la mitologia greca Agdidtis ed Attis erano servitori che guidavano il carro della dea Cibele, erano evirati ed il loro sangue bagnava l’albero del melograno, facendolo rifiorire rigoglioso e carico di succosi frutti. Il simbolismo del melograno, frutto che cresce e matura in zone dal clima caldo come la Sicilia è originariamente collegato al culto della dea anatolica (Asia Minore nei pressi della città di Troia) Cibele, il cui nome significherebbe “grotta”, o sacra pigna, a simboleggiare il pube femminile, la Grande Madre di tutti i viventi, infine, protettrice della fecondità, rappresentata sempre in posizione eretta, od assisa sul trono con ai lati due leoni. L’allusione alla “sacra pigna” è quindi riferita al ciclo riproduttivo della donna che, dopo la piena maturità, esaurisce la sua fase procreativa. Cibele, la dea greca, di cui Zeus era perdutamente innamorato, non ricambiato, colei che ha creato l’universo senza bisogno dell’intervento maschile, vergine inviolata e madre degli dei, nella religione cattolica il suo corrispettivo è nella figura di Maria Vergine e nel dogma della madre di Gesù per diretto intervento dello Spirito Santo. Nell’antica Grecia il melograno era sacro a Cerere, Demetra, Giunone, Persefone e Dioniso. A Roma le spose usavano adornarsi i capelli con rametti di melograno, da qui le Madonne del Botticelli e Leonardo da Vinci, effigiate con la

2 melagrana. Nella iconografia era raffigurata la sua testa turrita sulle antiche monete in uso a Smirne, nell’Impero Romano. In Sicilia, tra i frutti più antichi, misteriosi e dalla simbologia di più lunga durata c’è la melagrana. Plinio il Vecchio amava definire il melograno “mela cartaginese”, perché introdotto a Roma dai mercanti fenici provenienti da Cartagine, l’antica, fiorente città punica. Anticamente in Egitto il melograno veniva impiegato come pianta medicinale, tutte le sue parti (radice, corteccia, fiori, foglie, frutti) servivano alla pratica curativa. Cicerone, nel gruppo di sette orazioni nel 70 a.C. contro Gaio Verre, accusato di concussione dai Siciliani, intitolate “Verrine”, parla di un sacrario che si trovava a Catania: <>

CIRCO MASSIMO

Fu una delle maggiori opere ed attrattive della nostra città, uno dei più interessanti luoghi di svago e, nel contempo, di apprendimento., infatti, oltre che alle corse dei cavalli era adibito a palestra per l’addestramento dei giovani alle

2 equitazione ed alla guida di bighe, quadrighe ed altro. Qui vi si svolgevano persino feste e giochi in onore del Dio Bacco e di Cerere. Il definitivo colpo di grazia alle antiche vestigia, rimaste ancora in piedi, del Circo Massimo, fu dato dall’eruzione del 1669, la quale investì la città verso la metà del mese di aprile. Ma, oltre che di iconografia, il Circo Massimo, purtroppo, difetta di bibliografia, per cui si tratta soltanto di notizie sommarie, di brevi accenni, difficilmente rintracciabili, intorno ad esso. Qualche cenno interessante è possibile riscontrare in un piccolo volume di Vincenzo Bombace, nel quale si evince che si trattava di una fabbrica per svolgere giochi nelle carrette, tirate da più cavalli. L’ippodromo aveva una figura ellittica, quasi circolare, capace di contenere molte migliaia di spettatori, inoltre, come tutti gli anfiteatri, aveva numerosissimi gradini. La struttura aveva un muro longitudinale di spina con al centro ed alle estremità quattro obelischi di varia altezza e grandezza, con il maggiore al centro, un altro di minori dimensioni ad una estremità, gli altri due di formato identico, diversamente istoriati, sui punti terminali. L’area dell’ippodromo, infine, era contornata da un muro perimetrale con due torri di vedetta, mentre frontalmente si ergeva maestoso e minaccioso l’Etna.

NAUMACHIA

3 Nei pressi dell’attuale Castello Ursino, vicino la Chiesa di San Giuseppe, si trovava un tempo la Naumachia, una imponente opera pubblica della quale oggi non rimane alcuna traccia, non inferiore per bellezza e magnificenza a quella di Roma. Si trattava di un colossale edificio atto a riprodurre al suo interno le più importanti battaglie navali e giochi acquatici dell’impero, atti a ricordare al popolo la grandezza e magnificenza di Roma. Si trattava di una costruzione in puro stile romano, circondata da un ricco boschetto e conteneva anche una vasca adibita ad acquario. Il lago, largo centoventuno metri e lungo cento settantadue, era incavato nell’argilla e tutto intorno era circondato da numerosi alberi di ginepro e pioppo. I due muri paralleli dell’edificio erano lunghi oltre duecento metri e distanti circa 131 metri l’uno dall’altro. La naumachia era quindi uno spettacolo più micidiale di quello dei gladiatori, infatti, le battaglie terminavano sistematicamente con la morte dei vinti. L’apparizione delle naumachie è strettamente legata a quella, leggermente anteriore, di un altro spettacolo, il combattimento fra truppe, che non ingaggiava dei combattenti a coppie, ma due piccole armate. Proprio in queste ultime i combattenti erano più sovente dei condannati senza allenamento specifico rispetto ai veri gladiatori. Cesare, creatore della prima naumachia, traspose semplicemente in un ambiente navale il principio delle formazioni di battaglia terrestre.

3 Tuttavia, in rapporto ai combattimenti fra truppe, le naumachie avevano la peculiarità di sviluppare dei temi storici o pseudo storici: ogni flotta che si affrontava incarnava un popolo celebre per la sua potenza marittima nella Grecia classica o l’Oriente ellenistico: Egizi e Fenici per la naumachia di Cesare, Persiani ed Ateniesi per quella augustea, Siculi e Rodii per quella di Claudio. Inoltre, aveva bisogno di mezzi considerevoli, superiori persino a quelli dei più grandi combattimenti con truppe. Questo fattore rendeva la naumachia uno spettacolo riservato ad occasioni eccezionali, strettamente legato a celebrazioni dell’imperatore, sue vittorie e suoi monumenti. L’irriducibile specificità dello spettacolo e dei suoi temi tratti dalla storia del mondo greco ne spiega l’origine del termine: una trascrizione fonetica della parola greca indicante una battaglia navale naumakhía, indicante in seguito anche i vasti bacini artificiali ad essa dedicata. L’immissione d’acqua negli anfiteatri solleva numerose domande. Innanzi tutto, questi luoghi non servivano esclusivamente per le naumachie e dovevano essere disponibili per caccia e lotte tra gladiatori. Questo Spettacolo costava esorbitanti somme di danaro, tuttavia, una rappresentanza debole o semplice non avrebbe mai soddisfatto gli spettatori del carattere dei Romani. Bisognava che essi vedessero scorrere il sangue, annegare degli Uomini, ed anche andare a picco qualche Nave, e sommergersi.

3 Quello delle Naumachie era uno spettacolo in voga nella Roma imperiale, ma ripreso anche nel rinascimento, che riproduceva una battaglia navale in laghetti naturali o artificiali, l’apposito impianto, per lo più un’arena molto ampia, in cui si svolgeva tale spettacolo. Accanto alla Naumachia di Catania sorgeva anche un ippodromo, lungo 1872 piedi, nel quale si svolgevano le corse durante la festa di Bacco. A delimitare il punto di partenza e quello di arrivo erano stati posti due obelischi; uno di questi è possibile ancora oggi ammirarlo in Piazza Duomo, proprio in groppa all’elefante che adorna la fontana. Durante l’eruzione del 1669, le ultime tracce di queste colossali opere, rimasero per sempre sepolte sotto l’imponente colata lavica. Un grande acquedotto forniva tanta abbondanza d’acqua dal fiume Licodia per alimentare la Naumachia, i cui ultimi resti scomparvero sotto le lave.

ANTICHE FORTIFICAZIONI

Il giro esterno della processione di Sant’Agata prende il nome dal tragitto seguito anticamente dal fercolo prima del terremoto del 1693, quando la Santa benediva tutta la città percorrendone il confine disegnato dalle mura di Carlo V d’Asburgo, allora integre, prima delle devastazioni della colata lavica del 1669 e poi del terribile terremoto del 1693 quando metà della popolazione morì sotto le macerie e le mura furono in parte demolite.

3 Carlo d’Asburgo era Imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Spagna, di Sicilia, di Sardegna, di Napoli e Duca di Borgogna, è stato una delle più importanti figure della storia dell’Europa, padrone di un impero talmente vasto ed esteso, su due continenti, che gli veniva tradizionalmente attribuita l’affermazione secondo cui sul suo regno non tramontava mai il sole.Alla scomparsa del nonno paterno Massimiliano I, Carlo di Gand, aggiunse i domini degli Asburgo d’Austria e la Borgogna e venne eletto Imperatore col nome di Carlo V, con cui resterà nella storia. In ogni città Carlo V riconosceva e confermava antichi privilegi, al Parlamento accordò in particolare che all’Università di Catania venissero restituite le somme disposte da Alfonso il Magnanimo. Università fondata il 19 ottobre del 1434 dallo stesso Alfonso con bolla pontificia di Eugenio IV che autorizzò la costituzione. A Catania Carlo V ordinò la costruzione di una possente fortificazione in grado di resistere alle incursioni turche, comprendente anche sette porte ed undici bastioni. Pertanto, prima del terremoto del 1693, Catania risultava fortificata da possenti mura, costituita da sette porte di accesso alla città i cui nome erano: Porta della Decima, Porta di Carlo V, Porta de Vega, Porta di Sardo, Porta della Consolazione, Porta del Sale, Porta del Porto, Porta della Lanza, Porta di Jaci, Porta del Re, Porta del Tindaro (o dell’Arcora), Porta della Giudecca, Porta di Sant’Orsola, Porta del Fortino Vecchio, Porta Uzeda, Porta di Eliodoro, Porta di Mezzo.

3 I bastioni di Catania erano fortificazioni cinquecentesche distribuite lungo le mura di Carlo V. Per volere di Carlo V di Spagna, lungo la cinta muraria venne commissionato all’architetto Ferrandino da Bergamo di edificare sette porte e undici bastioni, tutti in pietra lavica. Le mura e, conseguentemente, bastioni e porte, in seguito alle devastazioni di fine Seicento (colata lavica nel 1669 e terremoto nel 1693), furono quasi interamente distrutte. Durante la ricostruzione settecentesca di Catania, lungo il tratto sull’attuale via Dusmet, sui resti della cinta vennero edificati numerosi palazzi, tra cui il prestigioso e l’Arcivescovato. Sono quindi visibili i baluardi inferiori delle mura, riconoscibili per la tipica struttura scoscesa, così come in alcune zone dello storico quartiere della Civita. Le mura, inoltre, erano di tanto in tanto intervallati da undici bastioni o contrafforti, che ne rafforzavano la potenza ed avevano i seguenti nomi: bastione Don Perrucchio, bastione Grande o Del Salvatore, bastione San Giuliano, bastione San Michele, bastione Sant’Euplio, bastione Santo Carcere, bastione degli Infetti e bastione del Tindaro, bastione San Giovanni, bastioni San Giorgio e Santa Croce. La ricostruzione delle fortificazioni è stata elaborata a partire da più fonti: la pianta dell’architetto italiano, specialista in ingegneria militare, Tiburzio Spannocchi del 1578 e quella di Francesco Negro del 1637, la relazione che, nel 1621, Raffaele Lucatello elaborò su ordine del luogotenente del Re, don

3 Francisco Lanes conte di Castro, e la topografia di Sebastiano Ittar (figlio di Stefano) del 1830. In mostra anche antichi e rari corali dedicati a Sant’Agata, una pergamena con il più antico sigillo con l’effigie della Patrona risalente a 1115, cioè al nucleo originario della biblioteca dei Benedettini, e poi testi rari, elementi in bronzo similoro provenienti dal primo fercolo di Sant’Agata, una collezione di immaginette dedicate alla martire catanese provenienti da tutto il mondo, una galleria di foto della festa a firma di Salvo Sallemi e Francesco Barbera, l’interpretazione postmoderna della processione ad opera della pittrice Laura D’Andrea Petrantoni.

PRIMA TOMBA DI SANT’AGATA

Il corpo della Santa fu imbalsamato, inizialmente fu seppellita nelle catacombe cristiane della collina di San Domenico, poi il corpo fu portato nella Chiesa di Santa Maria di Betlemme e successivamente venne trasferito nella Chiesa di Sant’Agata La Vetere. Recentemente si è scoperto un monumento dimenticato, finora inaccessibile del quale si era persa la memoria, all’interno del Distretto Militare di Catania in

3 piazza Carlo Alberto, tanto che il vincolo della sovrintendenza risale al 2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato Guido Libertini, docente in archeologia, in una nota del “Der Alte Catane”, libro dello storico tedesco Adolf Holm, indicandolo, erroneamente, come la possibile tomba di Stesicoro, poeta greco vissuto in Sicilia. Nel 1926, però, corresse l’errore, ma lo fece con un articolo pubblicato in una rivista specializza di scarsa diffusione. Nel 1990 l’archeologo Roger Wilson lo definisce il “monumento inaccessibile” e, negli stessi anni, il prof. Mario Torelli, in una guida della Sicilia, ne parla come di una tomba romana. Eppure è ad un colonnello in pensione di questa caserma, il dottor Corrado Rubino, che si deve lo studio e il rilievo della tomba ed i successivi lavori di restauro condotti sotto la supervisione della Sovrintendenza, lavori cui ha dato un contributo fondamentale l’Accademia di Belle Arti che ha stanziato i fondi necessari, aprendo, per la prima volta, un cantiere di studio e di lavoro per i propri allievi. Oggi la tomba romana non è di immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza Carlo Alberto. Un monumento che adesso va recuperato e restituito alla città, con l’impegno di tutti, a partire dall’amministrazione

3 comunale e dalla sovrintendenza. Se ne vede appena uno spigolo, in uno dei cortili interni dell’ex convento del Carmine, eppure questa tomba di epoca romana, costruita in blocchi squadrati di pietra lavica, potrebbe essere la prima sepoltura di Sant’Agata. Un monumento dimenticato e finora inaccessibile, chiuso com’è all’interno del «Centro documentale dell’esercito», meglio conosciuto come ex distretto militare di Catania di piazza Carlo Alberto. Si tratta di una tomba «a casa», cioè di una costruzione a pianta quadrata, ampia 100 mq, e alta 6 metri dalla risega di fondazione che oggi si trova 90 centimetri sotto la quota del cortile della caserma. Una costruzione rifinita con una modanatura a forma di timpano spezzato di origine traianea. Si tratta di una tomba di epoca romano imperiale, databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., in piena epoca Severiana, cioè tra Marco Aurelio e la dinastia dei Severi. La dinastia dei Severi che regnò sull'Impero romano tra la fine del II e i primi decenni del III secolo, dal 193 al 235, con una breve interruzione durante il regno dell’imperatore romano Marco Opellio Macrino (Cappadocia, l’attuale Turchia centrale) tra il 217 e il 218, ebbe in Settimio Severo il suo capostipite ed in Alessandro Severo il suo ultimo discendente. Di questo tipo di tomba esistono molti altri esempi all’isola sacra di Ostia, ma sono di dimensioni molto più piccole e realizzate in mattoni. La lava, del resto, è un materiale tipico della nostra terra. Caso unico, la costruzione era perfettamente rivestita anche nella

3 parte posteriore, indizio del fatto che doveva essere un edificio isolato». Un monumento del quale si era persa la memoria tanto che il vincolo della Sovrintendenza risale al 2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato l’archeologo ed accademico italiano Guido Libertini in una nota del «Der Alte Catane» indicandolo, erroneamente, come la possibile tomba di Stesicoro, poeta lirico greco antico. Nel 1926, però, corresse l’errore, ma lo fece con un articolo pubblicato in una rivista specializza di scarsa diffusione. Nel 1990 l’archeologo Roger Wilson, docente dell’università canadese di Vancouver, lo definisce il «monumento inaccessibile» e, negli stessi anni l’archeologo Mario Torelli, in una guida della Sicilia, ne parla come di una tomba romana. Un non senso dal punto di vista architettonico, spiegabile soltanto con l’importanza del sito, inoltre, va ricordato che, sotto le macerie del terremoto, perirono quasi tutti i frati carmelitani ed il convento fu ripopolato da confratelli che arrivavano da Trapani, figli di un’altra storia, di un’altra tradizione. Forse anche questo spiega la progressiva perdita della memoria del luogo. Il monumento fu così sottratto alla devozione popolare, allorquando quella parte del convento divenne, dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Eppure, della memoria di Agata, il suo probabile sepolcro non più accessibile, i frati carmelitani lasciarono traccia,

3 dedicandole una teca, nel secondo altare di sinistra della chiesa, con la scritta «Hic fuit Agatae virginis et martiris». Teca che accoglie una giovane donna con il volto di cera, in realtà costruita per la baronessa Rosanna Petroso Grimaldi, trucidata a 22 anni, nel 1783, dal marito, il marchese Orazio di Sangiuliano. Oggi la tomba romana non è di immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza Carlo Alberto. Nel 1991 i lavori del Genio Civile hanno portato alla luce, lungo la parete di una scala, parte del muro esterno della tomba ed altri lavori di recente sono stati fatti dall’Accademia di Belle Arti che, con la generosa autorizzazione del comandante Fontana, ha demolito parte del magazzino dei viveri della caserma che impediva la vista e la fruizione del monumento. Dopo una prima sepoltura presso la Chiesa del Carmelo, Sant’Agata nel 376 fu collocata nella zona cimiteriale di Via Dottor Consoli. Oggi le spoglie riposano nella sacrestia della Cattedrale, un tempo collegato, per volere del Vescovo Elia, con la cappella del SS. Sacramento, tramite un corridoio.

4 Dal XVI secolo in poi il diaconio che custodiva la cassa in legno con le Reliquie della Santa Patrona, divenne cappella dedicata alla Beata Vergine Maria.

COLLINA DI MONTEVERGINE

A partire dalle mura arcaiche che perimetravano a nord la collina di Montevergine, le aree cimiteriali insistevano da sempre su questo territorio suburbano e si estendevano verso Cibali. Uno dei nuclei più interessanti appare quello ubicato sul margine orientale della depressione acquitrinosa del vecchio Lago di Nicito, a monte della falesia che separava questa necropoli da quella nord orientale della piana, caratterizzata dal Piano degli Eroi. La tipologia dei monumenti funerari di tale settore, che si sviluppa oltre all’attuale Via Dottor Consoli, è diversificata (formae, epitimnia a gradoni, tombe a baule ed a camera entro recinti, mausolei, etc.) e non se ne attesta un uso esclusivamente cristiano. Le deposizioni nel periodo ellenistico sono rare ed il rito della incinerazione sembra volgere lentamente verso quello della inumazione.

4 La destinazione dell’area, in base ai rinvenimenti archeologici, appare progressivamente sempre più di pertinenza cristiana, proprio a partire dalla fine del III secolo, inoltre, sui campi di sepoltura sono stati impiantati, in conformità ed a distanza di due secoli tra loro, due luoghi di culto cristiani. All’interno del fitto tessuto di tombe pagane si impiantano, rispettivamente gli allineamenti, prima il piccolo martirium triconco e poi, accanto, la chiesa con ricche pavimentazioni musive. Il primo edificio costruito agli inizi del IV secolo sopra una tomba cristiana, ha dimensioni modeste (mt. 7 x 10) ad esso si addossarono presto alle tombe dei cristiani, separate dal resto della necropoli, mediante recinti che finiranno per invadere la sede stradale.Si presume che anche Sant’Agata sia stata seppellita in un primo momento su detto luogo, tuttavia, gli innumerevoli trasferimenti (traslazioni) dei suoi sacri resti, hanno reso vano ogni tentativo di individuazione dell’originario luogo delle svariate deposizioni all’interno di due complessi di culto.

PORTA DI MEZZO

Si chiamava così perché sorgeva al centro della città, ov’era la cappellina di Santa Maria delle Grazie, era bassa e stretta, attraverso cui il re Federico II fece passare tutti i catanesi con la testa sfiorata da spade incrociate, appese

4 all’architrave, ciò per non venire meno la sua parola che voleva che Catania fosse incendiata con dentro i suoi abitanti, quindi, una simbolica pena capitale. Era l’anno 1232. Prima dell’eruzione del 1669 fu diroccata onde dare comodo accesso alla circolazione dei carri, fu salvata la sola volta, ove c’era una effigie della Madonna della “Volta”, in seguito detta della “Grazia”, con accanto una immagine di Sant’Agata in segno di gratitudine per il miracolo compiuto della salvezza. Fino al terremoto del 1693 la Porta di Mezzo dava nome ad uno dei nove quartieri in cui Catania risultava divisa.

QUARTIERE DI SANTA SOFIA

Il quartiere Santa Sofia è collocato nella zona nord della città di Catania tra le aree di Barriera del Bosco e Cìbali. Il territorio di Santa Sofìa è quasi interamente interessato dalla presenza dell’omonima collina. L’area ospita la sede della Cittadella Universitaria e dell’Osservatorio Astrofisico. Ma perchè proprio “Santa Sofìa”? Esiste forse un legame con la martire romana venerata dalla Chiesa Cattolica e dalla Chiesa Ortodossa? Come sempre in questi casi è necessario compiere un salto indietro nel tempo fino al momento in cui la realtà storica e la tradizione popolare si fondono creando un fantastico immaginario che affresca la dimensione mitologica di una Sicilia che non c’è più.

4 Tra le tante leggende della nostra terra ve n’è una, quella della Grotta di Santa Sofìa, oggi interrata, che merita sicuramente la nostra attenzione. Un tempo l’uomo credeva che le cave e le grotte rappresentassero le porte d’accesso dell’Ade ed in molti nel ‘600, tra storici improvvisati e scrittori bramosi di celebrità come Pietro Carrera, descrissero i cunicoli vulcanici della Grotta di Santa Sofia come l’ingresso degli Inferi. Secondo costoro qui venne compiuto il famoso “Ratto di Proserpina” messo in atto da Plutone, sconfessando così le scritture di Ovidio che collocavano il rapimento nei pressi del lago di Pergusa. L’uomo ha sempre ammirato e temuto le montagne e le grotte al punto da considerarle dimore degli spiriti del bene e del male. Dei, demoni, maghi, esseri angelici e mostruosi hanno così nella storia dell’umanità ammantato di mistero lo splendore delle vette e le oscurità delle grotte, terrorizzando o colmando di stupore i curiosi ed incauti violatori dei loro segreti. Il molteplice simbolismo di caverne e monti ha favorito la loro elezione a palcoscenico ideale dell’immaginario e del meraviglioso, a luogo ove da sempre sono stati ambientati miti e leggende, ad altare ove si celebrano diversi culti. I significati simbolici legati al fuoco sono parimenti moltissimi e talvolta contrastanti tra loro. Basti pensare che il fuoco è generalmente considerato tanto d’origine demoniaca quanto divina; se da un lato con le sue fiamme ed il suo calore

4 esso distrugge, se col suo fumo oscura e soffoca, dall’altro riscalda ed illumina, rigenera e purifica; se è il simbolo per eccellenza delle passioni e del sesso, con le sue fiamme che salgono verso il cielo il fuoco rappresenta anche la sublimazione e lo slancio verso lo spirito, verso Dio. L’Etna è la summa di tutta questa simbologia; è per eccellenza, almeno nella cultura del Mediterraneo, la montagna del fuoco e delle grotte; di queste, sui fianchi del vulcano, se ne contano centinaia. Ad ogni eruzione se ne formano di nuove e spesso se ne cancellano di vecchie. Dal punto di vista naturalistico l’Etna è dunque una immensa macchina che genera lava, ovvero fuoco, e grotte; dal punto di vista umano è un generatore di miti e di leggende, una enorme cassa di risonanza dell’immaginazione. È sempre Ovidio a narrare nei Fasti e nelle Metamorfosi un’altra storia fantastica, il mito che spiega l’alternarsi delle stagioni. Figlia di Giove e Cerere, Proserpina raccoglieva fiori vicino al lago di Pergusa quando venne rapita da Plutone, dio degli inferi emerso da una grotta, e da questi condotta sul suo carro agli Inferi. Cerere, dopo averla disperatamente cercata invano, ottenne da Giove la restituzione della figlia a patto che questa, durante la sua permanenza nell'Ade, non avesse assaggiato alcun cibo. Proserpina aveva però mangiato sei chicchi di una melagrana colta nei campi Elisi e così poté tornare con la madre soltanto per sei mesi ‘anno, periodo che da allora

4 coincise con la primavera perché Cerere, felice per la presenza della figlia, faceva fiorire la terra. Claudiano, poeta della tarda latinità, ricalcando le orme di Ovidio fece rivivere in un suo poema, il De raptu Proserpinae, questo celebre mito Per trovare l’opportuna ispirazione, il poeta alessandrino visitò la Sicilia e Catania dove, sembra, non solo fu ammaliato dalla bellezza dei luoghi etnei ma probabilmente raccolse anche un’antica versione della leggenda che voleva che la dea fosse stata rapita sulle pendici dell’Etna. Ecco come Claudiano, poco prima di descrivere il rapimento, inizia a tratteggiare il ridente luogo collinare ove si apriva la grotta da cui uscì Plutone col suo carro per rapire Proserpina tra i fiori. Una cavità che concorre con quella di santa Sofia per il titolo di porta dell’Ade è l’altrettanto celebre Grotta di San Giovanni, alias della Chiesa, a San Giovanni Galermo; pure da essa si racconta infatti che emerse Plutone per consumare il celebre ratto. La Grotta di Santa Sofia alias Grotta di Proserpina. Tale grotta ha sempre esercitato un cupo fascino su quanti la visitavano, non è infatti legata soltanto al mito di Proserpina ma anche ad altre credenze e superstizioni. Il gesuita e storico Giovanni Andrea Massa riferisce in una di queste credenze, che in quest’Antro ricevessero la salute per grazia di Proserpina quei Maniaci, i quali entrandovi dentro, vi passassero la notte dormendo.

4 Ma fu soprattutto la leggenda di una favolosa “truvatura” incantata nascosta nelle sue profondità ad eccitare la fantasia dei catanesi e ad attirare al suo interno un gran numero di cacciatori di tesori, fino a quando, all’inizio del secolo, il proprietario del fondo ne fece interrare l’ingresso. Il tesoro di santa Sofia che si favoleggiava fosse composto da ben sette, enormi “cufini” colmi di monete d’oro, tanto ricco da fare la fortuna dell’intera Sicilia; una pagina intrisa di mistero e, forse, del sangue di vittime innocenti sacrificate all’oscuro demone della superstizione e del più spietato egoismo. Uno dei più grandiosi ambienti ipogei che la fantasia umana abbia mai creato è una enorme caverna, simile ad un ventre, che l’Etna nasconde nelle sue abissali profondità infuocate; dapprima, secondo la tradizione classica, questo immenso antro zampillante magma fu occupato da Vulcano- Efesto, dio del fuoco, che vi impiantò la mitica fucina in cui i ciclopi Bronte, Sterope e Arge forgiavano belle armature per gli eroi e fulmini per Giove. Con l’avvento del Cristianesimo, si diede inizio alla seguente leggenda citata dallo storico siciliano Giuseppe Pitrè, che è molto esplicativa al riguardo; in essa il grande antro etneo, dopo lo scontro dei campioni del bene e del male, una sorta di Titanomachia cristiana, diviene dimora del demonio e quindi sede dell’inferno. Così il vulcano schiaccia Lucifero come già fece con i giganti Encelado e Tifeo; il cratere e le grotte diventano porta

4 del terribile luogo. Quando il Signore creò il mondo, creò anche gli Angeli, gli Arcangeli, i Serafini ed i Cherubini, tra questi Angeli ce n’era uno che si chiamava Lucifero, il quale si credette importante, e si mise a fare la guerra al Signore che l’aveva creato. Dio, stanco, mandò San Michele Arcangelo con un spada di fuoco, per farlo uscire dal Paradiso. San Michele volò con la sua spada e l’inseguì in ogni dove. Lucifero correva da una nuvola all’altra cercando di nascondersi, ma la spada di San Michele arrivava dappertutto ed era perciò inutile. Quando Lucifero si vide perso, fece un gran salto e si gettò sulla montagna di Mongibello (l’Etna). Dal gran colpo che prese sprofondò sottoterra, soltanto la testa restò fuori, ed era come la testa di un serpente velenoso con certe corna. San Michele scese allora con la spada e tagliò uno di questi corni, che per la furia andò a cadere dentro una grotta vicino Mazzara. Lucifero per il dolore gettò un urlo spaventoso, che fece atterrire il mondo, e con un morso che diede a San Michele, gli spezzò una penna dell’ala, ka cui ala si trova come reliquia nella città di Caltanissetta. Ed ora Lucifero infernale è ancora sotto Mongibello, dai cui sotterranei che percorrono il vulcano, il diavolo talvolta appare terrorizzando le genti etnee.

TIMPA LEUCATIA - TOMBA ROMANA 4 In cima al monte San Paolillo, resistono all'ingiuria del tempo e dell'uomo i ruderi di un edificio che ricorda la tipologia di alcuni monumenti sepolcrali romani rinvenuti nella città di Catania e in alcune aree della fascia costiera ionica. Sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.C., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a volta. La forma quadrata era ascrivibile alla presenza di muri di rivestimento sui lati est, sud e ovest, prolungati fino a incontrarsi ad angolo retto. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche. Per consentire, infatti, sia una più comoda visione panoramica della città, sia l’appostamento di cacciatori pronti a sparare all’avifauna di passaggio, sarebbe stato costruito un terrazzino con annessa scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Sempre qui, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, dal novembre al dicembre 1994 ha condotto una campagna di scavi in seguito alla quale sono stati riportati alla luce, sparsi in un raggio di alcune decine di metri, 4 altri interessanti ritrovamenti: il banco lavico del monumento funerario, una tomba a cassa (sempre di epoca romana), un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, che gli esperti, esaminata la tecnica di costruzione, fanno risalire addirittura al IV sec. a.C. E, ancora, materiale ceramico attribuibile al passaggio dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro, frammenti ceramici ascrivibili al periodo che va dal Bronzo medio all’epoca greco-arcaica. L’anno successivo, inoltre, sono stati rinvenuti lembi di ciottoli fluviali compattati, sormontati da un piano di calpestio in terra battuta e pochi frammenti riconducibili presumibilmente al Bronzo medio. La breve campagna di scavi ha consentito agli archeologi di verificare quanto già scritto nei secoli passati dai cultori della storia catanese e vale a dire che la presenza di notevole materiale stratificato non solo testimonia con certezza il passaggio di antiche civiltà, ma apre nuovi scenari dalla Preistoria alla colonizzazione greca. L’analisi dei reperti finora recuperati confermano che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. E la collina di Leucatia risponde a queste esigenze, tant’è vero che fu abitata da uomini primitivi che sfruttarono le sorgenti d’acqua e la naturale posizione di difesa del sito.

CHIESA DELLA MECCA

5 La lista dei misteri archeologici catanesi è lunga. C'è il colombario di epoca romana a San Gerolamo della Mecca, sotto la cappella dell’ospedale G. Garibaldi, accessibile da una botola con un coperchio talmente pesante che servirebbe una comitiva di atletici turisti per rendere accessibile il bene. L’antica chiesetta della Mecca, la cui etimologia rimane ancora oggi ombrosa, si presenta oggi nel suo aspetto settecentesco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 su un precedente edificio di culto risalente al 1576 legato ad un piccolo monastero. Il monastero divenne nel 1856 sede di un albergo dei poveri, divenuto nel 1883 per interesse senato civico sede dell’ospedale Garibaldi di piazza Santa Maria di Gesù. Ridotta oggi a cappella ospedaliera e retta da un piccolo gruppo di monache, conserva l’accesso ad una cripta di epoca romana, essa consiste di un colombario di oltre 6 metri di lunghezza per quasi 4 di larghezza. Tale colombario venne costruito nella prima metà in pietra lavica e in mattoni per la parte superiore, con una copertura a volta a botte. Lungo le quattro pareti si aprono 18 loculi quadrangolari di cui uno, sul lato ovest, a nicchia e molto più grande rispetto agli altri. Più volte il sacerdote ha chiesto alla Sovrintendenza etnea che farsene dell’apertura, senza ricevere risposte.

CERTOSA DI CATANIA

5 Da abbazia di monaci certosini, a stalla per le mucche. Ignorata dai catanesi e sconosciuta dai turisti. Tra l’erba alta di Fossa della Creta, alle spalle del cimitero etneo, restano le tracce dei fasti medievali dell’unica certosa di Catania: Santa Maria di Nuovaluce. Dietro gli anonimi caseggiati della periferia, un sentiero conduce a uno dei luoghi storici della città. «L’edificio sorge intorno ai resti di una chiesa che la tradizione vuole eretta all’indomani del terremoto del 1169, spiega Iorga Prato, tecnico archeologo. Fino ad oggi le notizie su questo insediamento certosino in Sicilia erano molto scarse, ma grazie ad una ricerca più accurata realizzata da alcuni ricercatori si hanno maggiori informazioni su di essa. Si narra che durante il terremoto del 4 febbraio del 1169 i superstiti, in fuga per cercare rifugio, udirono risuonare una voce dal cielo che consigliava loro “Salvum te fac in montem”. Furono indirizzati verso una collina, ove apparve prodigiosamente un bagliore. In questo luogo, ritrovarono, in una grotta, da cui proveniva la luce, una splendida icona raffigurante la Madonna orante, che probabilmente qualcuno aveva nascosta lì per evitare che venisse rubata dai Saraceni, fu per tale motivo che venne eretta una chiesa intitolata: Nostra Signora di Nuova Luce. Molti anni dopo, precisamente nel 1365 Artale di Alagona, conte di Mistretta, sulla scia di una consuetudine diffusa tra i regnanti ed i feudatari, decise di costruire di fianco alla chiesa un convento, allo scopo di lasciare memoria di se ed acquistare

5 fama, oltre che propiziarsi Dio e le preghiere dei monaci per la sua munificenza. La decisione di chiamare i monaci dell’Ordine certosino è da addurre al fatto che, rivolgersi ad un ordine che faceva del silenzio e della solitudine la loro essenza di vita rivolta a Dio, risultava essere una scelta di grande prestigio. Il conte di Mistretta acquistò i terreni necessari sia per la costruzione dell’eremo che per il loro sostentamento. Successivamente contattò il Priore Generale dell’Ordine, Guglielmo II di Raynal, chiedendogli umilmente di accettare la sua donazione a loro favore con l’intento di costituire una nuova certosa. Appresa favorevolmente questa notizia Don Guglielmo, decise di inviare una delegazione di monaci per visionare l’idoneità dei luoghi e la reale fattibilità del progetto. Giunsero a Catania Dom Giovanni da Salerno, priore della certosa di San Martino a Napoli e Don Bartolomeo Manasi, priore della certosa Porta del Paradiso di Guglionesi i quali vagliarono e valutarono i terreni le rendite e le possibilità di poter costruire un convento con le caratteristiche essenziali di una certosa. Il loro parere sarebbe stato determinante ed inoltre avrebbero sovrinteso ai lavori di costruzione. Dopo le verifiche necessarie, i due priori decisero che il luogo era idoneo per potervi erigere una nuova certosa, e strinsero con Artale di Alagona una convenzione nella quale il conte fondatore si impegnava ad assicurare alla nascente comunità monastica una rendita di duecento once d’oro o rendite da immobili della

5 somma equivalente. Ad accordo raggiunto, il Vescovo di Catania Simone De Puteo (1387) concesse la chiesa e il feudo ai certosini, i quali poterono arrivare nella nuova edificazione monastica. Una colonia certosina composta da quattordici padri, sedici fratelli conversi e sette donati, fecero il loro insediamento. L’attività monastica poté così iniziare probabilmente tra il 1367 ed il 1370, quest’ultima è infatti la data presente sulla lapide in marmo posta sulla facciata dell’edificio. Verosimilmente il primigenio insediamento dei monaci fu contemporaneo ai lavori di completa edificazione del complesso monastico. Artale di Alagona inviò nel 1372, due richieste al pontefice Gregorio XI circa la possibilità di poter assistere alle funzioni religiose nella chiesa della certosa e di poter concedere indulgenza a quei fedeli che potessero visitare la chiesa nelle festività principali. Entrambi le richieste del conte furono accolte senza indugio dal pontefice. Come tutte le certose anche questa di Catania poté disporre di una grangia, situata nei territori di proprietà finitimi, ma non meglio identificata nella sua ubicazione. Molteplici furono le esenzioni da gabelle ed i privilegi accordati alla comunità monastica che poté godere anche di donazioni di beni alimentari, come anguille, tonni, alici fresche o salate provenienti dalle tonnare palermitane.

5 Tuttavia, l’attività monastica che regolarmente si svolgeva nella quiete e nella preghiera, fu ben presto turbata dalla insalubrità del luogo dove sorse la certosa. Difatti nei pressi dell’eremo a valle della collina scorrevano due torrenti chiamati Acquicella ed Acquasanta, i quali formavano una vasta area paludosa che sviluppava aria malsana, la quale diffondeva la malaria. Ben presto si diffuse endemicamente questo male tremendo e sconosciuto che mieté molte vittime nella zona. Nell’estate del 1386, tra i certosini che si ammalarono molti di essi perirono ed i superstiti dovettero abbandonare la certosa. Artale donò loro un luogo più salubre il priorato di Bosconuovo sulle pendici dell’Etna. In questo clima sopraggiunse un evento storico, ovvero l’inizio dello scisma d’Occidente, che si rivelò fondamentale per le sorti future dei certosini in Sicilia. Difatti le conseguenze e le ripercussioni di tale avvenimento, associate ai problemi logistici della salubrità del luogo spinsero i certosini ad abbandonare definitivamente Catania ed a cedere il convento ai benedettini che a loro volta lo concessero ai teresiani. Oggi pochissime tracce restano di quell’antico insediamento certosino, uniche e preziose vestigia della certosa catanese a memoria della sua breve attività monastica: immagine della icona della Madonna orante, tempera su tavola, di autore anonimo, conservata al museo diocesano di Catania; immagine della lapide con epigrafe medioevale, che ricorda l’origine della chiesa e la fondazione della certosa, con stemma

5 araldico degli Alagona, conservata presso il museo civico; acquasantiera in marmo con stemma degli Alagona, conservata al museo civico; fronte di sarcofago raffigurante la Vergine al centro con il bambino seduta sul trono, conservata nel museo civico; basamento in pietra lavica, è ciò che resta sul luogo dell’antico portale.

L’edificio sorge intorno ai resti di una chiesa che la tradizione vuole eretta all’indomani del terremoto del 1169. Secondo i racconti, dal colle emerge un bagliore che guidò la popolazione in fuga. Questa luce proveniva da un’icona orientaleggiante della Madonna, da quel momento venerata come “di Nuova Luce". Due secoli dopo, Artale I Alagona, condottiero di nobile famiglia che sconfigge la truppa angioina durante i Vespri nella battaglia navale nota come Scacco di Ognina, decise di costruire il monastero e di affidarlo all’ordine dei Certosini. Una piccola comunità di circa trenta monaci si stabilisce così a Fossa della Creta, a partire dal 1370. Secondo i racconti dell’epoca, dal colle emerse un bagliore che guidò la popolazione in fuga.

5 Questa luce proveniva da una icona orientaleggiante della Madonna, da quel momento venerata come “di Nuova Luce"». Due secoli dopo, Artale I Alagona, condottiero di nobile famiglia che sconfigge la truppa angioina durante i Vespri nella battaglia navale, nota come Scacco di Ognina, decide di costruire il monastero e di affidarlo all’ordine dei Certosini. Una piccola comunità di circa trenta monaci si stabilì così a Fossa della Creta, a partire dal 1370. Ma quella che oggi è una verde collina che domina la città si rivelò allora un’area malarica. Poco più di dieci anni dopo, i monaci certosini abbandonarono la struttura per trasferirsi sull’Etna, dove il clima era più salubre. Il loro posto venne pertanto preso dai frati benedettini ed il complesso acquisì il titolo di Regia Abbazia. Comparve così nella planimetria del pittore fiammingo Pieter Coecke Van Aelt del 1592. Il secolo dopo arrivarono la colata lavica del 1669 ed il terremoto del 1693. Superato indenne il primo fenomeno naturale, nel secondo caso l’abbazia ebbe bisogno di un importante restauro. Successivamente, cambiarono ancora una volta gli inquilini: furono i carmelitani scalzi a vivere attorno al grande cortile oggi occupato dalle sterpaglie e dall’erba alta. Almeno fino a quando il regime sabaudo non incamerò i beni ecclesiastici e l’abbazia venne definitivamente abbandonata. Alcuni frammenti marmorei del cenobio trecentesco, tra cui la stessa lapide di fondazione, sono stati recuperati e

5 destinati al museo civico Castello Ursino, dove sono ancora conservati, mentre l’icona della Madonna si ammira oggi al museo Diocesano. Il convento, abbandonato al suo ineluttabile destino, finisce per essere adattato in complesso di stalle e ricovero per cavalli e mucche. Oggi, della vita trascorsa durante gli ultimi otto secoli, restano un grande cortile con il pozzo saraceno, la lunga schiera di celle di difficile ma possibile accesso, e la chiesa di Santa Maria di Nuovaluce, impraticabile a causa dei fitti cespugli di rovi. Per lo più sono dei ruderi, usurati dal tempo e dall’abbandono, coperti dalla vegetazione spontanea, tuttavia, con l’attenzione delle istituzioni potrebbe diventare una ulteriore attrazione turistica della città. Dopo, cambiarono ancora una volta gli inquilini: furono i carmelitani scalzi a vivere attorno al grande cortile oggi occupato dall’erba alta. Almeno fino a quando il regime sabaudo non incamerò i beni ecclesiastici e l’abbazia venne abbandonata. Tra l’erba alta di Fossa della Creta, alle spalle del cimitero etneo, restano le tracce dei fasti medievali dell’unica certosa di Catania: Santa Maria di Nuovaluce. Dietro gli anonimi caseggiati della periferia, un sentiero conduce ad uno dei luoghi storici della città. L’edificio sorse intorno ai resti di una chiesa che la tradizione vuole eretta all’indomani del terremoto del 1169. Almeno fino a quando il regime sabaudo non incamerò i beni ecclesiastici e l’abbazia venne abbandonata. Il convento,

5 abbandonato al suo destino, finì per essere adattato in complesso di stalle e ricovero per cavalli e mucche.

TOMBE DEI MARTIRI

Le tombe dei martiri si trovano ancora oggi sotto i palazzi di Via Dottor Consoli, in particolare dove questa strada confluisce con Via Orto San Clemente e Via Androne, la loro storia, oltre che di rilevante interesse archeologico, risulta anche strettamente legata a quella della patrona della città: Sant’Agata. La vicenda della martire catanese (251 a. C.) si svolse nel più ampio scenario della persecuzione ai danni dei cristiani, un accanimento che non risparmiò la nostra città. Come tutti sanno la vicenda si concluse con il martirio di Agata e la sua apoteosi. Subito dopo la morte la Santa venne deposta in un sarcofago, oggi conservato presso la chiesa di Sant’Agata la Vetere; ma dove venne sepolto il corpo della martire? Proprio partendo da questo interrogativo e studiando il sarcofago, venne riportato alla luce un passaggio che collegava la chiesa di cui sopra a quella di Sant’Agata al Carcere, ma questa scoperta non dava ancora la risposta circa il luogo della sepoltura, doveva certamente esistere una zona dedicata a questo scopo, forse non molto lontana dal ritrovamento. La risposta arrivò negli anni Cinquanta ad opera di alcuni archeologi i quali, conducendo una campagna di scavi nella zona di Via Androne, portarono alla luce un numero consistente

5 di mausolei cristiani e cosa ancora più importante, un “martyrium“, ovvero i resti di una piccola basilica risalente agli inizi del IV secolo, sotto di essa si trovava una intera necropoli; la basilica era dedicata ai martiri. Tale dedica si evince da una iscrizione in latino, oggi conservata al Museo del Louvre, che ricorda una bambina di due anni sepolta vicino a quelle che vengono definite “le tombe dei martiri”. La deduzione è abbastanza logica, infatti, esistendo una zona adibita a necropoli poco lontano dai luoghi che videro il martirio di S. Agata, ed essendo custodite in tale zona le tombe dei martiri, quello non poteva essere che il luogo nel quale venne deposto dopo il martirio il corpo della patrona di Catania. Gli scavi continuarono, e venne alla luce un’altra basilica, ancor più grande della prima, abbellita da splendidi mosaici; questa costruzione misurava circa otto metri di larghezza e più di trentacinque di lunghezza, tali mosaici sono oggi custoditi presso il Museo del Castello Ursino. Quello che avvenne in seguito fu un susseguirsi di deplorevoli situazioni; l’espansione urbana e il cemento fagocitarono tutto, le tombe dei Martiri ritornarono nel buio dei sotterranei della città, il tutto nel tentativo di dare sfogo al traffico cittadino. Tranne quel poco che si riuscì a salvare, tutto il resto ritornò nell’ombra e ancora oggi attende, nel sottosuolo di Via Dottor Consoli, un trattamento migliore da parte delle autorità

6 preposte; ai cittadini che si troveranno a passare per questo tratto di strada non rimane che rivolgere un affettuoso pensiero a quella parte di Catania ormai per sempre sepolta, purtroppo, dimenticata.

BASILICA DI MONTE PO

Monte Po presenta sulla sommità e sui declivi degli avanzi di antiche fabbriche, anche sui fianchi della collina di Santa Sofia sono ricordati dei ruderi in Contrada Petroso, dove alla presenza di una grotta aperta si pensò alla localizzazione del “Ratto di Proserpina”, fatto sorgere un tempio ed un boschetto, descritto da D’Arcangelo e Grossi, per questo motivo il colle fu denominato Coereris arx. Le rovine venute alla luce a Cifali si ascrissero ad un tempio piramidale della dea Cibele posto ad un miglio dalla fonte del quartiere Cibali ed un tempio antichissimo nei pressi. L’attuale nome di Monte Po, secondo il geologo ed architetto catanese Sciuto Patti, deriverebbe precisamente da “mons pagus”. Alle falde orientali della collina, a poca distanza dalla località in questione, sorge il villaggio di Nesima, nome che si è voluto talora considerare come travisamento di una

6 denominazione greca precedente di Nemesis e di Onesimos, la seconda sembrerebbe la più pesuasiva. Alle falde settentrionali della collinetta di Monte Po si ergono ancora alcuni tratti di mura e gli avanzi di torri circolari, a cui un tempo fece riferimento il principe Ignazio Biscari, su cui si estendono vigneti, generalmente indicata col nome di Nunziatella, da una chiesetta ivi esistente dal XVIII secolo. Sopra queste mura e queste torri si estende una terrazza ricca di vigneti, generalmente denominata Nunziatella per via di una chiesetta ivi esistente sin dal XVIII secolo. In questa terrazza, esattamente in prossimità di suddetti ruderi, durante i lavori agricoli, alcuni anni fa apparvero frammenti architettonici marmorei, tali da indurre la Soprintendenza alle antichità a tentare uno scavo in loco. In questa terrazza, esattamente in prossimità di suddetti ruderi, durante i lavori agricoli, alcuni anni fa apparvero frammenti architettonici marmorei, tali da indurre la Soprintendenza alle antichità a tentare uno scavo in loco. L’edificio in questione presenta un interessante esempio di basilichetta bizantina riproducente in miniatura lo schema di prototipo di epoca costantiniana della chiesa della Natività a Bethlem con le sue classiche suddivisioni di quadriportico (paradisus) nel quale si ergeva il cantharus (spazio aperto, circondato sui quattro lati da portici) per le abluzioni (lavaggi di purificazione spirituale), il vestibolo dove sostavano i catecumeni e penitenti che non avevano diritto di assistere alla

6 messa, infine la basilica vera e propria con la breve fuga di pilastri ed arcate. Questo tipico esempio di basilichetta è particolarmente interessante in Sicilia, poiché nessuna delle chiese cristiane e bizantine presenta uno schema così completo e regolare. Un’altra particolarità è quelle di essere semi sotterranea, inoltre, per le dimensioni, la sottigliezza dei suoi muri e l’altezza delle colonne (5 m.), l’abside doveva sostenere una calotta con un tetto a spioventi. Un vano quadrato, situato ad est, presentava una interruzione costituita da una abside. Detto vano era suddiviso, mediante una doppia serie di pilastri, di cui rimanevano solo le basi laviche, in tre navate a cui corrispondevano tre aperture di varia grandezza. Questa parte dell’edificio era originariamente pavimentata da un mosaico policromo di fattura rozza, ma con vaghi disegni geometrici ed ancora più vaghi colori (rosso, viola, bianco), di cui rimanevano qua e là alcuni tratti ed uno di essi considerevole tra la porta centrale e la secondaria di sinistra. Delle molteplici basiliche bizantine presenti in Sicilia, nessuna presenta uno schema così completo e regolare. La chiesetta di Monte Po dovrebbe essere datata fra la seconda metà del VI secolo e la prima metà del VII. Si sviluppa secondo quattro quadrati di cui tre comprendono il corpo delle navate e il quarto lo sviluppo dell’abside. Purtroppo poco o altro si è riusciti a comprendere e interpretare e i pochi resti rimasti, inaccessibili perché interni ad un cortile privato, meriterebbero

6 sicuramente un approfondimento per ricostruire la storia delle prime comunità cattoliche catanesi. Sulla carta la zona sud del quartiere di Monte Po rappresenta un sito archeologico di grande importanza per tutta la città. Una testimonianza bizantina, antica di secoli, ai piedi dell’Etna. Peccato che quest’area, alla maggior parte dei catanesi, risulti essere totalmente sconosciuta e oggi l’intera zona sia completamente inghiottita da una giungla di sterpaglie. Si tratta di opere del passato che hanno un valore storico importantissimo, in quanto, dall’acquedotto di epoca romana ai bunker della seconda guerra mondiale, passando per le masserie borboniche e la basilica bizantina, in pochi ettari di terreno è racchiuso oltre un millennio di storia. Negli ultimi dieci anni, tra mozioni, sedute itineranti e sopralluoghi, il Consiglio si è battuto per chiedere la rivalutazione di quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato un museo a cielo aperto. Sfortunatamente non si sono mai avute adeguate risposte dall’amministrazione comunale e, nel frattempo, la situazione non fa che peggiorare. Gli scavi nei pressi del nuovo ospedale Garibaldi, avviati dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali oltre vent’anni fa, furono interrotti quasi subito per mancanza di fondi. Da allora per la basilica bizantina è cominciata una parabola discendente che l’ha portata a diventare una discarica abusiva.

6 Oggi la zona è protetta da una piccola recinzione, ma l’amarezza tra gli abitanti di Monte Po resta ancora viva per dei reperti archeologici che possono essere ammirati, erbacce permettendo, solo dai balconi delle palazzine circostanti. Posta sulla collina di Monte Po, nei pressi della scuola Luigi Sturzo ed a poca distanza dal tratto di circonvallazione che unisce Catania con Misterbianco, la chiesa sta letteralmente scomparendo. La preoccupazione del Consiglio di quartiere è che il piano di recupero dell’intero sito archeologico venga definitivamente lasciato nel dimenticatoio, mentre si tratta di una struttura che dovrebbe essere tutelata dalle istituzioni competenti. Ma c’è di più: questa zona la sera è quasi completamente al buio per cui viene evitata da tanta gente, che teme di fare brutti incontri. Realizzare un piccolo percorso storico per i turisti servirebbe a rivalutare l’intero quartiere, creando un circolo economico virtuoso per la locale imprenditoria. La basilica di Monte Po, la cui datazione, per la tipologia degli elementi architettonici andrebbe a collocarsi tra la seconda metà del VI ed i primi decenni del VII15, è articolata secondo una griglia progettuale di 4x4 quadrati esattamente compresa tra il filo esterno dei muri perimetrali. Dei quattro quadrati nel senso della lunghezza, tre comprendono il corpo delle navate ed uno lo sviluppo dell’abside, il cui centro di curvatura giace sulla griglia. Quest’ultima è tangente al retro dei pilastri, a sezione rettangolare, che dividono la navata centrale dalle laterali. Una

6 simmetrica griglia di 4x4 quadrati inquadra l’avancorpo costituito da esonartece (porticato esterno) e triportico. L’impianto della chiesa si discosta leggermente, tuttavia, dal teorico schema progettuale per quanto concerne l’orientamento dei muri longitudinali che anche qui, vanno convergendo verso l’abside. La sua costruzione risale probabilmente al IV e VI secolo d. C., quanto tempo sia rimasta in piedi e per quali cause sia andata in rovina, non si è in grado di stabilire, una ipotesi potrebbe essere quella della distruzione per mano delle invasione arabe, oppure fosse stata danneggiata da frane od alluvioni, giacché ai piedi della collina. Quanto al santo a cui fu dedicata, si presuppone fosse San Cristoforo.

CAPPUCCINI VECCHI

Apparvero a Catania intorno al 1534, l’anno successivo a quello in cui Padre Bernardino Giorgio da Reggio, sommo oratore ed in odore di santità, li aveva introdotti in Sicilia, così il loro cenobio , il terzo fondato, lo ebbero fuori Porta della Decima, sulle rovine della antica Naumachia. Nel 1551 il Vicerè Giovanni Vega ne ordinò la distruzione per far posto al Bastione di San Giovanni. A questo punto i Cappuccini andarono ad abitare in un sito presso Cifali, accanto alla chiesetta di Santa Maria degli Angeli, zona denominata “Selva”, ricca di avanzi sepolcrali tra Santa Maria di Gesù e la icona della Madonna del Conforto, terreno

6 donato dal Senato come ricompensa per lo sfratto subito. Il convento fu realizzato con i denari della devota catanese Caterina Fimia, tuttavia, neanche qui i monaci dimorarono a lungo. Dall’eremo di Cifali, i cui locali vennero espropriati e donati al protomedico Francesco Maria Scuderi, i Frati nel 1622 si trasferirono nel sito sulla collinetta del Salvatore, dimorando nella chiesa di Santa Maria della Speranza con annesso ospizio detto San Benedetto il Vecchio, loro ceduto in proprietà dai Padri Benedettini, trasferitisi presso il convento di San Nicolò la Rena. Qui nel 1693 i monaci furono colti dal terremoto, tuttavia, non abbandonarono l’Eremo di Cibali. Dopo il sisma il convento con la chiesa risorse nello stesso sito, tra la piazzetta e la selva detta dei Cappuccini, sviluppata a terrazze alle sue spalle. La Chiesa dell’Immacolata Vergine della Speranza fu prestigioso luogo di culto sino alla soppressione degli ordini religiosi, votata nel 1863. Il sito silenzioso e solitario, reso pittoresco dalla selva, ma poco frequentato e malsicuro specie di notte alla luce fioca dei pochi fanali, fu lasciato dai Cappuccini in seguito allo sfratto imposto dallo Stato Italiano. Eseguito nel 1866 il provvedimento di esproprio, il convento fu adibito a caserma. La chiesa, lasciata al degrado, nel 1921 venne devastata da un incendio.

6 Nel 1927 fu decisa la demolizione del complesso dei Cappuccini, per far posto al Palazzo del Consiglio Provinciale delle Corporazioni, ora Palazzo della Borsa. Tipico documento dell’architettura di regime, l’edificio in stile littorio, con qualche concessione al Decò, sorse su progetto dell’architetto Vincenzo Patané. La sua edificazione richiese un’impresa impegnativa, iniziata nel 1928 con i lavori per spianare la collina, necessari per gettare le fondamenta, e conclusa cinque anni dopo con l’inaugurazione nel 1933. In meno di un secolo i Padri Cappuccini avevano così cambiato casa per ben tre volte, passando dalla Naumachia a Cibali, da Cibali alla collina di San Salvatore. Ma ecco un’altra avversità colpire i Padri Cappuccini, infatti, nel 1786 Re Ferdinando III di Castiglia (detto il Santo) soppresse il Convento dei Cappuccini Vecchi di Cifali ed i locali vennero dal Governo della città donati al Protomedico catanese e docente di medicina pratica all’università di Catania, Francesco Maria Scuderi. Nella litografia ottocentesca è resa la veduta del Vico delle Fosse (l’odierna Via sant’Euplio) perché un tempo lontano ospitava un cimitero fuori dalla città dei tempi e comunque ospitò, sconosciuta ai più, una delle più vaste aree archeologiche della Sicilia, a partire dal palazzo de “La Rinascente”., con il complesso cappuccino di Santa Maria della Speranza, visibile a sinistra, e Palazzo Tezzano, parzialmente visibile a destra.

6 La veduta è colta dal largo antistante alla Porta di Aci, ora piazza Stesicoro, uno dei nodi più prestigiosi del tessuto viario della città storica. Tagliato dal cardo, il grande quadrilatero fu diviso in due aree, occidentale e orientale. Ad occidente, sotto la collina dominata dalle Chiese di Santa Maria la Grande dei Domenicani e di Sant’Agata la Vetere, l’antica cattedrale della città, si disponevano edifici religiosi, quali la Chiesa di Sant’Agata alla Carcarella e la Chiesa dei Cappuccini dell’Immacolata Vergine della Speranza. Più dei sussulti del terremoto poterono le ragioni del piccone. La veduta documentata dalla litografia ottocentesca, come dalla tavola settecentesca di Houel, appartiene alla “Catania che più non c’è”.

CAPPELLA SANTA MARTA

Un tesoro dimenticato presso l’Antico Corso, al quartiere della Purità, Cappella Santa Marta dei SS. Elena e Costantino, si trova all’interno dell’Ospedale Santa Marta, opera dell’architetto Giovanni Battista Vaccarini 6 A Catania lungo la via Santa Maddalena, al confine della porta del Re, una delle entrate delle vecchie mura di Carlo V, sulla destra troviamo delle scale che ci conducono in via Monte Vergine ed all’istituto Pio IX, accanto ad esso si trova la chiesa di Santa Marta, una chiesetta barocca fruibile solo per la funzione domenicale, in quanto è senza parroco. Quindi un altro bene della Catania barocca verrà presto chiuso, dimenticato e con il tempo distrutto. La chiesa o cappella di Santa Marta sorge in quella che gli antichi chiamavano collina Monte Vergine. Scritti del passato ci ricordano che era uno dei punti più alti della città con una altezza pari a 160 piedi parigini, ove il punto più alto della città di allora era di 200 piedi parigini. Il piede parigino composto di 12 pollici, fu molto utilizzato in architettura in tutta l’Europa fra il XIII ed il XV secolo Anticamente in questa collina e forse nel punto ove oggi sorge la chiesa venne eretto il tempio dedicato ad Apollo Archegete (condottiero) proveniente dalla antica città greca di Naffo vicino Taormina, la quale venne distrutta da Dionigi il Giovane. I superstiti si rifugiarono a Taormina ed appunto a Catania. La Chiesa o cappella di Santa Marta invece venne edificata intorno al 1750 assieme all’omonimo ospedale che si trova proprio dietro in via Gesualdo Clemente, realizzato dall’architetto G. B. Vaccarini, nonostante fondato per dare ossigeno all’altro ospedale storico del centro di Catania quello di San Marco in piazza Stesicoro.

7 L’Ospedale Santa Marta, come dice la corte costituente, nasce solo sulla carta cristiana, non avendo nessun contributo da parte delle autorità. Nella chiesa si celebravano messe solenni per i benefattori e il ventinove luglio si festeggiava la diffusione del Barocco siciliano, facendo spesso tappa in questa chiesa di grande valore storico ma che, purtroppo, versa in condizioni di assoluto abbandono. All’interno si trovano, ancora non del tutto danneggiati dalle infiltrazioni d’acqua, dei bellissimi affreschi ed alcune statue di valore storico non indifferente. Il bene settecentesco è nascosto all’interno dell’ospedale catanese e apre al pubblico grazie ai tour organizzati dalle guide turistiche siciliane. Un gioiello chiuso al pubblico. La cappella di Santa Marta, bene settecentesco nascosto all’interno dell’ospedale catanese, apre al pubblico grazie alle visite guidate dall’associazione guide turistiche siciliane con presidente Giusy Belfiore. Un tour che, attraversando Porta del re, Torre del Vescovo, Bastione degli infetti, i resti dell’Acquedotto Romano in via Botte dell’acqua, la Chiesa dell’Idria, la Collina della Purità, rende giustizia a una delle zone più significative, dal punto di vista storico e archeologico, della città, eppure sconosciuta ai più. La cappella è stata costruita nel 1754: un manufatto di grande valore storico che soffre di una scarsissima manutenzione. Sono evidenti le infiltrazioni d’acqua nelle pareti così come i segni tangibili dell’abbandono.

7 L’edificio ha delle tele e una storia che è la nostra storia e quella del Santa Marta. Un tempo l’ospedale aveva un punto di soccorso sull’Etna, al rifugio Sapienza, e la statua custodita all’interno della cappella di Santa Marta è proprio quella del rifugio, salvata dall’eruzione e portata all’interno di quest’edificio. Le profonde trasformazioni dell’impianto politico, economico e sociale della Sicilia tra tardoanti-co e altomedioevo devono aver svolto un’azione rimodellante dell’assetto territoriale e monumentale,che solo a tratti l’indagine archeologica è stata in grado di restituire. Nella seconda metà del III secolod.C. la vita agraria siciliana viene rilanciata dal transito marittimo del grano africano e, più in genera-le, dalla creazione di un nuovo asse economico tra Roma e Africa. Nel IV secolo, con la fondazione di Costantinopoli e l’inaugurazione dell’annona nel 332, si attenua il ruolo “annonario” dell’Africa e la Sicilia, già rafforzata dalla crescita agricola del secolo precedente, interpreta un nuovo ruolo “commerciale” nei confronti di Roma, puntando sull’esportazione del grano, esente dai prelievi annonarie dall’inflazione monetaria e attirando al tempo stesso gli investimenti nell’isola di un’aristocrazia romana, interessata soprattutto allo sfruttamento fondiario. L’analisi della «geografia patrimoniale» delle grandi famiglie romane in Sicilia, ricostruibile almeno fino al sacco di Alarico e alle prime incursioni dei vandali (fino alla metà circa

7 del V secolo), si intreccia inevitabilmente con lo studio della cristianizzazione e le testimonianze, per la verità più episodi che in altre aree del Mediterraneo, di martirio: è al vir clarissimus Calvisianus – corrector Siciliae Nel 304 e associato nei documenti agiografici al martirio di Euplus – che si potrebbe attribuire l’unico acquisto terriero attestato in Sicilia La «bipolarità» della tradizione di Agata tra Palermo, dove venne arrestata sotto Decio (250 d.C.) e Catania, teatro del martirio, della sepoltura e della venerazione successiva, traduce sotto il profilo religioso la bipolarità di una Sicilia che, culturalmente ed economicamente, guarda all’Africa e all’Oriente greco. Proprio alla funzione di traino del sistema latifondistico sarebbe stata a lungo attribuita la causa di quel fenomeno di diaspora extraurbana, che avrebbe reso stagnante e asfittica la vita dei centri urbani siciliani, quasi che il carattere “anti cittadino” del latifondo senatorio alimentasse un contrasto, mai sopito, tra mondo urbano e mondo rurale. La recente ripresa degli scavi urbani, soprattutto a Catania, ha consentito di alleggerire il peso di questo contrasto, restituendo alle città della parte orientale dell’isola quella vitalità a lungo negatane l’ambito del IV secolo d.C. Sono queste le città che, aperte al flusso dell’evangelizzazione prove-niente dall’area siro-palestinese, hanno accolto i primi monumenti cristiani, adattandoli a un impianto urbanistico e architettonico che, seppure ristretto, si

7 era in fondo mantenuto inalterato; il cristianesimo vi si impiantò, ristrutturando spesso l’esistente più che costruendo ex novo. E forse il rimodellamento della città che, a parte alcuni casi, risulta affidato al riuso dei monumenti e degli spazi dell’antichità, spiega il motivo per il quale gli autori antichi (Ausonio, Eusebio di Cesarea) avevano

ACQUEDOTTO DEI BENEDETTINI

Nasceva negli anni 50 del Seicento per risolvere definitivamente il problema idrico degli orti del monastero, soggetto a carenza d’acqua per un totale sovraccarico di concessioni fatte dal vescovado, sopra le sorgenti di Cibali, dove ne era proprietario ed il monastero era il migliore utente. Sull’altura e sui fianchi della collina di Licatia, i monaci possedevano terre, mulini ed acqua. Dopo aver acquistato un’altra sorgente da don Giovanni Rizari, nel 1649 iniziarono la costruzione dell’acquedotto, onde condurre acqua a Catania. Per finanziare l’opera, gabellarono in corso d’opera i mulini sorti dove era possibile sfruttare l’energia cinetica dell’acqua per azionare le ruote. Costruirono vasche d raccolta, da cui fare attingere gli utenti per l’irrigazione dei terreni limitrofi.

7 Dei dieci mulini costruiti dai monaci, fra la sorgiva e piazza Beato Angelico, ben nove erano in relazione con l’imprenditore Francesco Papale Cosentino, due erano adagiati sotto Villa Papale, sul fianco della collina Leucatia Soprana e Sottana. L’antica strada Croce (oggi via A. Musco) ne conteneva uno, un quarto (Fossa)era disposto poco più a valle. Racchiusi in un fazzoletto seguivano i mulini Poggio, Timpa e Sant’Antonio, che sfruttavano il dislivello esistente fra il Parco Gioeni e le sottostanti vie Matteo Albertone e Pietra dell’Ova. All’angolo di via Palazzotto e Fimia si trovava il mulino “Via”, poco più sotto, in via Molino (oggi Quieta) vi era il mulino Pazzello, fra le vie Caronda e Scarabelli.

ACQUEDOTTO DI VIA DEGLI ARCHI

Un tempo anche Catania vantava un grande acquedotto, lungo ben 28 km., molto simile a quelli che i Romani erano soliti costruire nella città di loro pertinenza, fatto costruire dai monaci Benedettini, al fine di rifornire del prezioso liquido il loro immenso convento in Piazza Dante, quindi, soddisfare i bisogni della città. Siamo intorno al 1600 allorquando i monaci benedettini scoprirono la timpa di Leucatia, nella zona a nord della città, un posto perfetto, luogo di incontro tra la roccia lavica ed il terreno argilloso. L’acquedotto, sofisticato per il tempo, si estendeva per circa sei chilometri ed attraversava la città.

7 Dalla timpa, correva parallelo a via Leucatia, passava per il parco Gioeni, attraversava via Caronda, piazza Cavour, via Tomaselli (non a caso in passato chiamata via degli archi), fino a via Plebiscito, all’altezza dell’ospedale Vittorio Emanuele. L’acqua così incanalata veniva smistata dai monaci: in parte al monastero, il resto alla città, in cambio delle spese di manutenzione a carico degli amministratori, più di 600 onze all’anno che i benedettini riscuotevano dai privati proprietari di mulini, come quello proprio all’imbocco della timpa, oggi trasformato in officina. Alti archi, mura spesse, quattro secoli di storia alle spalle. E’ l’acquedotto benedettino catanese, esempio di idraulica a livello europeo, oggi pericolante ed in stato di assoluto degrado nei diversi punti della città in cui ancora resiste. Come all’inizio di via Manzella od in condizioni ancora peggiori, in via Caronda. La sua importanza storica è, più che locale, europea. Vista la rarità di opere idrauliche nel periodo in cui venne realizzato l’acquedotto, le notevoli dimensioni, nonché la sua originale integrazione tra elementi architettonici idraulici di età romana, islamica ed elementi locali, potrebbe essere riconosciuto quale monumento nazionale, se non dell’Umanità. Eppure, da anni, le sue testimonianze perdono pezzi, detriti che si accumulano per la strada, pericolosi per i passanti e per lo stesso bene architettonico.

7 Di questi ampi tratti di archi, resistiti a quattro secoli ed a terremoti devastanti, restano ancora diverse testimonianze in città. Tutte più o meno mal ridotte. Anche all’interno del parco Gioeni se ne conserva ancora un ampio tratto, ma sta anch’esso cadendo pietra dopo pietra, costituendo un pericolo per il bene architettonico e per i passanti. Via Degli Archi, oggi Salvatore Tomaselli, un tempo si presentava a fondo naturale, fiancheggiata da un lungo tratto di acquedotto (Acque Carcaci, che riforniva la villa e le zone limitrofe), ancora in buono stato di conservazione.

FIUME MISTERIOSO

Per Catania si aggira un fantasma che conserva i ricordi del tempo. Molti anni fa non era tale, anzi, condivideva la vita, gli amori e la storia dei catanesi: le passeggiate di Stesicoro, i bagni termali dei romani lascivi, la storia-fiaba di Gammazita al tempo dei vespri, le opulenze dei re normanni e la vita dei comuni cittadini. Poi un’immane catastrofe lo costrinse a nascondersi nelle viscere della terra e ad emergere solo in pochi tratti sconosciuti ai più.

7 Il nostro fantasma si chiama Amenano. Per gli antichi greci l’Amenano era un dio rappresentato nelle monete con il corpo di un toro e la faccia umana. Sicuramente la presenza di un fiume dovette essere un motivo dirimente per la localizzazione dell’antica città di Kατάvη (Katánē), allorquando i coloni calcidesi la fondarono, sotto la guida di Tucle (Teocle), nel 729 a.C. Il nome del fiume probabilmente è dovuto ad una intermittenza del flusso delle acque (ameneinos) come ci ricorda lo studioso Carlo Gemmellaro a cui molto dobbiamo nella stesura di queste note (“Per le accresciute acque dell’Amenano” relazione Carlo Gemmellaro all’Accademia Gioenia di Scienze nel 1833).

Citato da Strabone, geografo e storico greco antico, nel suo libro quinto del Rerun Geographcarum (“Quod Amenano evenire fluvio » perhibent Catanam perfluenti, qui per aliquot …”), viene nominato anche da Ovidio (“nec non Sicanias volvens Amenanus harenas nunc fluit, interdum”) nel libro XV delle Metamorfosi. Nel medioevo il fiume venne chiamato Iudicello perché attraversava il quartiere ebraico della Giudecca. Ma nel 1669 una terribile eruzione dell’Etna, considerata la più devastante eruzione storica del vulcano, arrivò fino a Catania coprendo il lago di Nicito dal quale si dipartivano ben 36 canali che alimentavano i rami dell’Amenano dentro la città di Catania. Da allora il fiume diventa un fantasma nascosto fra le viscere della città. Partendo dal colle Majorana nella zona

7 detta, forse non a caso, Acquicella, il fiume dovrebbe discendere lungo l’attuale viale Mario Rapisardi fino a piazza Santa Maria di Gesù, dove anticamente si allargava a formare il Lago di Nicito. Da qui dovrebbe diramarsi in due tronconi prevalenti. Il primo ramo del fiume arriva al lungo viale Regina Margherita, passa sotto la moderna fontana di largo Paisiello (alimentata proprio dalle acque del fiume), scorre sotto il palazzo ex Cassa di Risparmio edificato dopo avere demolito la scuola Turrisi Colonna pericolante perché costruita sul fiume, quindi si dirige sotto il pozzo Villallegra e il Monastero di San Giuliano in via Crociferi, scende per piazza Duomo dove è visibile in quanto allaga le terme Achilliane e finisce nel mare. Il secondo ramo, partendo sempre da piazza Santa Maria del Gesù, scorre sotto via Lago Nicito e poi per via Plebiscito, via Botte dell’Acqua e piazza Itria, dove si trovano i resti delle terme romane dell’Itria, arriva a Piazza Dante dove sono visibili i ruderi di un antico Balneum (si tratta di terme private di epoca romana). Da qui dovrebbe poi verificarsi un’ulteriore diramazione. Un ramo del fiume scende per via Quartarone e poi per via Orfanelli, attraversa via Garibaldi e via Vittorio Emanuele per arrivare in via San Calogero dove si trova il pozzo di Gammazita quindi probabilmente arriva alle terme dell’Indirizzo.

7 Nei pressi delle terme è possibile scendere nella grotta Amenano, dove ancora oggi si vedono scorrere le acque, da lì al mare il tratto è molto breve. Questo ramo attraversa quello che era il quartiere ebraico di Catania e che dette al fiume il nome Iudicello. Nelle ricostruzione di questo tratto, per lo meno nella parte iniziale, ci si è dovuti attenere alle indicazioni dello storico e naturalista Carlo Gemmellaro. Resterebbe però stranamente escluso il Balneum di Casa Sapuppo in piazza Sant’Antonio, che comunque a qualche fonte doveva pur attingere per alimentare le terme. Ma da piazza Dante si diparte un terzo affluente che probabilmente scende per via della Rotonda con le antiche e affascinanti terme della Rotonda e poi attraversa l’Odeon ed il Teatro Romano, dove riemerge allagando la cavea. Quindi scorre sotto piazza Santa Maria del Gesù, arriva a piazza Duomo dove riemerge nella fontana dell’Amenano e nell’antico lavatoio. Ancora un breve tratto sotterraneo per tornare alla luce in corrispondenza di Villa Pacini e finire la corsa nel porto di Catania. Quante volte, trascorrendo qualche momento di assoluto relax nei pressi di Villa Pacini, quella che anticamente i catanesi usavano chiamarla “a villa varagghi”, poiché, prima che venisse fatto funzionare l’accesso sulla nuova Piazza Alcalà, era frequentata soprattutto da persone anziane che sedevano sui vecchi sedili in ferro a chiacchierare ed a sbadigliare, in

8 attesa che facesse sera, per far così ritorno nelle proprie abitazioni. Oggi la villa mostra a coloro che transitano da quelle parti con le buste della spesa in mano, una vista meno obsoleta e malinconica, risultando più curata e con una frequentazione molto più dinamica, infatti, presso la piazza antistante stazionano quotidianamente le decine di pullman, carichi di turisti, provenienti da ogni parte del mondo, per cui, con quel via vai continuo ed inarrestabile, non è più consentito stare lì a sonnecchiare. Ad essere sincero è capitato anche a me di transitare svariate volte da quelle parti, assaporare il gusto inebriante e genuino della mia città, sedere su quelle stesse panche, intessere qualche dialogo con gli assidui frequentatori della villa e rimanere oziosamente ad osservare i molti tavolini approntati alla bisogna, dove i giocatori di briscola o ramino si sfidano in accese e colorite competizioni. L’Amenano è un fiume a corso perenne della Sicilia orientale, che sfocia in mare nel golfo di Catania. Il suo percorso è oggi sotterraneo e lo sbocco avviene in corrispondenza del centro della città di Catania, nei pressi del giardino Pacini. All’Amenano era associata dai greci, come a tutti i fiumi, una divinità; in alcune monete del V secolo a.C. è presente l’immagine del dio fluviale Amenano in forma di toro androprosopo e in altre invece è raffigurata una testa giovanile.

8 Le poche fonti antiche fanno ritenere che scorresse all’aperto, probabilmente diviso in vari bracci e che, almeno, fino al 252 a.C. alimentasse il lago di Nicito, prende l’acqua dai fiumi del territorio ed ha fontane abbondanti. Nel Medioevo, quando ancora scorreva in superficie, era chiamato anche Judicello, perché attraversava la zona della giudecca, il quartiere ebraico. Tale denominazione rimase in uso fino al XIX secolo, come evidenziato dalle topografie del tempo. L’eruzione dell’Etna del 1669 colpì parte della città e seppellì il lago di Nicito e i 36 canali in cui si divideva, alla foce dell’Amenano, minacciando di entrare da sud nella città, dopo aver circondato le mura, attraverso la Porta dei canali. Numerosi punti della città hanno confermato, mediante gli scavi, la presenza del corso del fiume Amenano, la cui portata d’acqua è risultata di oltre una dozzina di litri al secondo. Il medico Carlo Gemmellaro, docente di Storia naturale all’università di Catania ed illustre vulcanologo, riferì che il percorso del fiume, scendendo verso il mare dalla parte occidentale della città, seguiva la direzione dell’attuale viale Mario Rapisardi fino alla piazza Santa Maria di Gesù, nei cui pressi sorgeva il laghetto di Nicito, da cui ha preso nome l’attuale via Lago di Nicito, proseguiva poi lungo l’attuale via Botte dell’acqua, scendendo fino a raggiungere il Monastero dei Benedettini, dove dovrebbe verificarsi un’ulteriore diramazione.

8 Da questo punto in poi si divideva in tre bracci, che scendevano, l’uno verso la Pescheria e la villa Pacini, l’altro verso il Teatro Romano, piazza San Francesco d’Assisi e Piazza Duomo, infine il terzo sotto il monastero di San Giuliano e le Terme Achilliane. Un ramo del fiume scende per via Quartarone e poi per via Orfanelli, attraversa via Garibaldi e via Vittorio Emanule per arrivare in via San Calogero dove si trova il pozzo di Gammazita, quindi, arriva alle terme dell’Indirizzo. Nei pressi delle terme è possibile scendere nella grotta Amenano dove ancora oggi si vedono scorrere le acque, da lì al mare il tratto è molto breve. Questo percorso giustifica perfettamente la localizzazione nelle aree suddette della città antica e greca, in virtù della buona disponibilità di ottima acqua corrente. Da allora il fiume diventa un fantasma nascosto fra le viscere della città ed è chiaramente visibile in piazza Duomo, presso la fontana omonima, sboccando infine in mare nella zona del porto di fronte Porta Uzeda. Per gli antichi greci l’Amenano era un dio rappresentato nelle antiche monete con il corpo di un toro e la faccia umana. Sicuramente la presenza di un fiume dovette essere un motivo dirimente per la localizzazione dell’antica città, quando i coloni calcidesi la fondarono, sotto la guida di Tucle, nel 729 a.C. Nel 1867 lo scultore napoletano Tito Angelini realizzò in piazza Duomo la Fontana dei tritoni, che per i catanesi è soltanto l’acqua ‘o linzolu, perchè l’acqua dell’Amenano

8 trabocca da una vasca ai piedi della statua e forma un lenzuolo d’acqua che alimenta il rivolo sottostante. Scavi hanno confermato la presenza del fiume fino al Medioevo, un corso d’acqua con una portata di ben 12 litri al secondo. L’Amenano, fiume misterioso ed a corso perenne, nel tratto finale scorre sotto il pozzo Villallegra ed il Monastero di San Giuliano, per poi sfociare nel golfo di Catania. Era principale fonte d’acqua corrente, nell’antichità veniva usato dai greci calcidesi come primo approdo portuale alla città, venerato attraverso il culto del dio fluviale Amenanos, che i Greci ritenevano fosse una divinità, tanto da incidere il suo volto mitologico (un toro dalla testa umana) su alcune monete del V secolo a.C.. Anticamente l’Amenano veniva chiamato Iudicello (fiumicello), mentre ancor prima era detto Camaseno, poi dai Volsci fu chiamato Amaseno, infine, prese il nome dell’attuale Amenano. L’ingresso nelle grotte laviche o nelle cave del fiume Amenano si trova in piazza Currò, comporta sempre elevati livelli di pericolo e deve essere fatto solo con attrezzature adeguate ed in presenza di personale qualificato. Incerta rimane l’origine del termine Symaithos con il quale gli antichi indicavano il fiume che scorre nella Sicilia centro- orientale. Plinio il Vecchio ci informa che Symaithos era una località della Caria, regione dell’Anatolia centro-occidentale. Syme è un’isola

8 dell’Egeo centrale e nelle Sporadi lo stesso toponimo è presente anche a Creta. Non andrebbe pertanto esclusa un’origine greca del nome del fiume, ma come giustamente notato da Ettore Pais, nella sua “Storia di Sicilia”, in genere nel mondo antico la toponomastica fluviale e orografica rispetta sempre la tradizione indigena. In altre parole, il termine Symaithos sarebbe un nome siculo, anteriore alla colonizzazione greca. Da notare poi che Sime è anche il nome di una ninfa, per cui Symaithos potrebbe anche essere il luogo di Sime. Sappiamo anche da Ovidio che il Simeto era un fiume eroicizzato, compagno di Aci e venerato nella città di Catania. Ben poco, però, sappiamo degli insediamenti umani nella media valle del Simeto durante la dominazione romana. Durante l’invasione gotica del V sec. d. C. visse nella vallata del Simeto una comunità di cristiani, infatti, esiste incisa in questo periodo, l’epigrafe delle ”Favare” presso le quali si riunivano clandestinamente i primi cristiani per praticare i loro culti. Detta epigrafe reca i nomi di alcuni cristiani ( Paulenos, Eusebios ) con il simbolo cristiano di una palmetta e il verbo ”eufrantesan”, cioè vissero felici. Con il ritorno da Antiochia di San Birillo, molti nostri antenati abbracciarono la fede cristiana e i due templi che sorgevano sulle sponde del Simeto, uno dedicato a Marte e l’altro ad Ercole, furono convertiti in chiese cristiane.

8 Nella Valle delle Muse, in contrada Pulichello, si edificò la chiesa di Santa Maria, in contrada Sciarone invece quella dedicata a Santa Domenica, Vergine e Martire. Nulla sappiamo di insediamenti umani durante l’età bizantina. Durante l’invasione araba e la conseguente dominazione che durò due secoli (850 – 1070), i Saraceni si insediarono in questa fertile pianura che era la via che da Messina portava a Palermo attraverso la rocca araba di Troina. Proprio qui, nel 1040, ventimila arabi cercarono di sbarrare il passo al condottiero Giorgio Maniace che con un altrettanto numeroso esercito di cristiani, bizantini, siciliani, li sconfisse in un pianoro che venne in seguito chiamato ” Piano della Sconfitta ” da Saraceni e ” Maniace ” dai cristiani. Durante la dominazione romana, lungo il corso del Simeto, da Maniace a Catania, furono costruiti diversi ponti per unire le due sponde del fiume per il passaggio delle soldatesche e delle carovane di animali da soma carichi di grano. Nel corso delle dominazioni barbariche, essi andarono, quasi nella totalità, distrutti per mancanza di manutenzione. Dato il regime torrentizio del Simeto, nei periodi di magra era facile individuare guadi o passi, ma nei periodi di piena o non si attraversava o si rischiava di lasciarsi trascinare dalla corrente. Col fiorire dell’agricoltura e del commercio in età araba, si incominciarono ad usare delle zattere o barche denominate ”giarrette” che venivano poste allo sbocco delle trazzere più frequentate di qua e di là del fiume per permettere il traghettamento di persone, animali e merci.

8 Queste venivano assicurate alle due sponde del fiume da grosse gomene dette ”libani” che servivano da guida e di appiglio attraverso i vortici della corrente. Sulla sponda orientale del fiume, c’era una specie di scalo con un grande pagliaio dove stavano i barchieri e gli attrezzi: tronchi, tavole, corde e pece per le barche. Queste erano di proprietà del sovrano o del nobile che le aveva ricevute col feudo, venivano gestite in gabella per periodi che variavano dai 3 ai 6 anni, così il gabelloto corrispondeva al feudatario o ad un suo vassallo un canone annuo in denaro o in vettovaglie e a sua volta si rivaleva sui traghettanti, riscuotendo particolari “iura” o diritti di passaggio da massari, pastori ecc. Questo pesante onere gravò per tanti anni e spesso si sollevarono lamentele da parte di agricoltori e pastori che non intendevano pagare così forti diritti. A loro volta, i procuratori della Matrice si lamentavano sulla magrezza dei frutti della barca che rendeva meno di quello che ci voleva per le riparazioni.

SIMETITE, AMBRA DEL SIMETO

L’ambra del Simeto era una delle ricchezze di questo fiume e riforniva sia i gioiellieri locali, che quelli stranieri. La si raccoglieva alla foce del fiume o lungo la battigia della Plaja, nel periodo compreso fra aprile e ottobre. Detta anche “simetite”, l’ambra del Simeto è una resina fossile che trae origine dal disfacimento di antiche conifere ed

8 è più apprezzata e pregiata delle altre non solo per la sua trasparenza, per le sue tinte, ma anche per la varietà di insetti o piante che spesso ingloba. Quello del fiume Simeto è un corso d’acqua che può contare sulla testimonianza di un letterario d’eccezione, Virgilio, che nel IX libro dell’Eneide scrisse: «Faceva la guardia all’accampamento il figlio di Arcente, suddito di Aceste, mitologico re siciliano, egregiamente armato con il mantello ricamato e splendente di porpora iberica, bello di aspetto, che il padre Arcente aveva inviato dopo averlo sottratto al bosco della madre nei pressi del Simeto, dove c’è l’aria pingue e placabile di Palico». Virgilio omette nell’Eneide il nome del figlio di Arcente: con ogni probabilità è uno di quei passi che il poeta non riuscì a revisionare per la morte prematura. Una spiegazione diversa è stata data da Vincenzo Monti nella traduzione del poema, secondo cui Arcente avrebbe dato al figlio il proprio nome. Le monete del tempo ci restituiscono anche l’immagine del culto di Adranòs, che Plutarco descrive con in mano una lancia, forse una divinità legata al fiume stesso. Nasce nei Nebrodi il Simeto, a 1700 metri di quota, tra boschi fitti di faggio e cerro, a nord di Bronte, raccogliendo le acque dei fiumi di Cutò, del Martello e della Saracena. Nasce in zone ad altissima piovosità, regno di testuggini palustri, raganelle e merli d'acqua, poi più a valle corre lungo il confine fra Catania e Messina, guadagna spazio e acqua nelle terre coltivate a pistacchi e ulivi e piega a sud in direzione di Adrano.

8 Il Symaethum dei latini, il Symaithos dei greci sfiora i territori di Bronte, Adrano, Paternò, Ramacca. Poi, più a sud diventa grande grazie al Salso. Quando fa il suo ingresso nella Piana di Catania ha già una consistenza notevole, serpeggia fra lussureggianti frutteti e prima di sfociare nello Ionio fa ancora più ricco il bottino delle sue acque con il Gornalunga ed il Dittaino. Ma il Gornalunga solo da tre secoli regala le sue acque al Simeto. Le fece deviare il vescovo Pietro Galletti nel 1621, perché ogni anno il fiume straripava, danneggiando le campagne di santa romana Chiesa e di influenti nobili. Arriva al traguardo della foce, il Simeto, undici chilometri a sud di Catania, con il suo carico di acque e gravami: quella che dovrebbe essere una oasi è un’area violata da centinaia di costruzioni più o meno abusive. Un tempo sul greto del Simeto si poteva prelevare l’ambra, la resina fossile formatasi nei boschi quaranta milioni di anni fa. Era la ”Simetite”, preziosissima e ricercata come una gemma. E infatti è ampiamente usata nella gioielleria. La regolamentazione di argini e la creazione di sbarramenti sul fiume ha alterato l’equilibrio e oggi è rarissimo trovarla. Si favoleggiava dell’ambra per le virtù magiche e terapeutiche. Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia” ne parlò come di una pietra preziosa. Sulle dune dell’oasi biancheggia il profumatissimo giglio marittimo, si individua la santolina (pianta aromatica usata in culinaria) e la Peverina di Gussone

8 (erbacea annuale) più indietro è la macchia di lentisco, fillirea e l’olivastro, (piante della famiglia delle oleacee). Negli ambienti retrodunali ci sono anche specchi lacustri con salicorni (asparagi di mare), tamerici (piante ornamentali) e giunchi, regno di fenicotteri e gufi di palude. Ed ecco levarsi in volo garzette e martin pescatore, monachelle, usignoli, cormorani, svassi, aironi e falchi di palude. La Lipu ha censito una settantina di volatili, un vero paradiso. È lo spettacolo della natura, davanti al quale anche le ferite inferte dal cemento, come d’incanto, spariscono. L’ambra è una sostanza che col caldo tende ad essere quasi liquida e cola giù dal tronco, invischiando minuscoli insetti, polline, fiori e altre cose che incontra nel suo cammino. Poi le sostanze volatili che rientrano nella sua complessa formula chimica svaniscono e la resina diventa più compatta, quasi una pasta cristallina. Passano gli anni, milioni di anni, e la resina si è fossilizzata e al suo interno polline, fiori e insetti sono rimasti tali e quali. L’età dell’ambra varia dai trenta ai cento milioni di anni; la storia dell’ uomo data circa centocinquantamila anni; per cui un ciottolo d’ ambra è da duecento a cinquecento volte più vecchio di Adamo e Eva; gli insetti intrappolati nell’ambra urlano la loro tragedia ventimila volte più antica di quella di Gesù. L’ ambra è la più giovane fra le pietre preziose; è fra le pietre più tenere e leggere: un’unghia la può scalfire e quasi

9 galleggia nell’acqua salata. E’ una pietra preziosa senza essere una pietra, in quanto deriva dal regno vegetale. In Sicilia, nel greto del fiume Simeto, si rinveniva fino a pochi anni fa, la più bella e la più preziosa ambra del mondo: la ”simetite” che trova largo impiego nel campo della gioielleria più raffinata. Da quando hanno regolamentato con dighe e argini il corso del fiume, è sempre più difficile trovarne e bisogna accontentarsi del materiale proveniente dal Baltico o dall’ America Centrale. L’ambra vanta il maggior numero di origini mitiche, di leggende, di proprietà terapeutiche, di virtù magiche. Essa è la prima pietra preziosa di cui parla Plinio il Vecchio nella sua “Historia Naturalis” e dice che deriva dall’orina delle linci; dai maschi quella di colore rossastro, dalla femmine quella di colore più morbido e candido. Secondo lo scrittore greco antico Teomene, nei pressi della grande Sirte (città della Libia settentrionale), c’è il giardino delle Esperidi, qui ci sono alberi di pioppo dalle cui cime l’ambra cade nello stagno, dove poi viene raccolta dalle fanciulle delle Esperidi (mitologiche figlie della notte). Le varietà dell’ambra sono numerose. Fra queste quella bianca è di profumo straordinario ma non ha pregio; quelle giallo-rossicce hanno maggiore valore e fra queste ancora di più quelle traslucide; sono le più apprezzate quelle chiamate” Falerne” dal colore del vino, trasparenti e di colore morbido, nelle quali piace anche la morbidezza del colore del miele cotto”. Il poeta romano Orazio in un suo libro scrisse: ”Una

9 vipera s’arrampicava sui rami piangenti delle Elladi, la perla liquida dell’ambra gialla l’incontra e le cola addosso, essa perde subito il senso del movimento e rimane prigioniera in questa materia ghiacciata.

OASI DEL SIMETO

Viaggiare nel cuore della fertile Valle del Simeto, il principale fiume della Sicilia con i suoi 113 chilometri, vuol dire non solo ammirare paesaggi naturalistici di autentica bellezza ma anche compiere un itinerario indietro nel tempo. La vita nella Valle pulsava già nella preistoria, come è emerso da diversi ritrovamenti archeologici (i luoghi erano abitati nell'età del bronzo antico e del ferro). Risalendo dall'Oasi di Ponte Barca, ammirando la bellezza del fiume Simeto, attraversando l'ampio territorio rurale che circonda il centro urbano di Paternò, città di 50 mila abitanti ai piedi dell'Etna, il paesaggio va mutando: dalla bellezza selvaggia della natura si giunge nelle campagne coltivate ad agrumi, i famosi giardini di arance (raccontati in “Viaggio in Italia” da Guido Piovene). Da Schettino, nel territorio di Paternò, si raggiunge Pietralunga, ed è come diventare protagonisti di un flashback cinematografico, un tuffo nel passato della memoria collettiva. Percorrendo alcuni chilometri a contatto con la natura, si giunge in un luogo che era vitale nel VI-V secolo a.C.

9 Vi è infatti il sito di Poggio Cocola, conosciuto dai locali anche come “Castello di Poira”. Racconta lo storico locale ed esponente di Sicili Antica, Pippo Virgillito: «Qui gli scavi hanno portato alla luce la vita di un villaggio del VI-V secolo a. C (greco-siceliota è l'ipotesi più forte), con una struttura sociale che mostrava significative strutture organizzative». E dagli stilemi dei cocci di ceramica in vernice nera ritrovati in questi luoghi si comprende che il villaggio risentiva della cultura dell'epoca. Gli scavi sono stati ricoperti, ma la sensazione del viaggio nel tempo è suggestiva.

Una ricostruzione ben documentata degli scavi di Pietralunga la si deve agli studi di Maria Grazia Branciforti e di un fine esperto quale Brian E. Mc Connell, contenuti in un bel volume “Pietralunga” (edito nell'ottobre del 1996, frutto della collaborazione del XXIII Distretto scolastico di Paternò, dell'assessorato regionale ai beni culturali e della Soprintendenza dei Beni culturali di Catania e dell’Archeoclub). Spostandosi più avanti, si possono osservare i ruderi del castello di Poira, si pensa sia stato costruito nel periodo medievale, poi nell'epoca moderna divenne il luogo d’abitazione

9 dei baroni Spitaleri di Adernò. Nel 1900 fu trasformato in una masseria. Adesso è una struttura abbandonata. Il territorio che va dal Catanese all'Ennese era nell'epoca romana uno dei granai dell'impero. Ricorda lo studioso di storia locale, di antropologia e pedagogia, Nino Tomasello: «Questi territori sono citati nelle Verrine di Cicerone. Vi è una grande dimensione legata alla letteratura classica nota fra cerchie di intellettuali ma che andrebbe fatta conoscere ad un ampio pubblico, non solo siciliano. E soprattutto ai giovani». Una delle persone che più si battono per il fiume Simeto è la studiosa adranita Chiara Longo, fra le artefici teoriche e pratiche del “Patto per il fiume Simeto”, una battaglia di civiltà culturale e concretamente progettuale volta alla valorizzazione di luoghi. Altra figura storica che da una vita si batte per il fiume e la Valle del Simeto è l'architetto Franco Scandurra, che con analisi lucide ed acute ha mostrato come tutta la dimensione che va da Paternò ad Adrano, da Bronte a Belpasso, da Centuripe a Motta, leghi le proprie origini alla civiltà della Valle del Simeto. Sono sempre di più gli studiosi che parlano di “civiltà simetina”. A Pietralunga si entra nella dimensione di quella che un tempo era la via del grano, proprio da qui vi era il transito del commercio del prezioso bene alimentare. In buona sostanza vi era in questi territori il trait-d’union geografico, ovvero l'asse ideale fra i porti di Catania e Termini Imerese. L’area vasta del passaggio avveniva nei territori di Paternò e Centuripe, da un lato all'altro del Simeto. Un segno concreto

9 di questa storia è la “coscia del ponte romano”, il cui stile architettonico è confacente con quello del I-II secolo d.C. La bellezza selvaggia del territorio circostante e quel che rimane della struttura architettonica stuzzicano l'immaginazione, e fanno pensare ai soldati romani che attraversavano i ponti, sembra che i ricordi delle immagini dei libri e delle fiction storiche rivivano dinanzi a te o dentro te. Poco distante è stato ritrovato l'ergastulum, una grotta-prigione dove secondo l'ipotesi di Salvatori Borzì ne “La Sicilia schiava” e di Pippo Virgillito, Nino Tomasello e Franco Scandura in “Diario Simetino” venivano fatti riposare gli schiavi addetti a trasportare il grano.

GROTTE DI PRIMOSOLE

In realtà non ci sarebbe molto da dire, in quanto per ciò che ci risulta non esistono studi approfonditi sulla zona. In pratica non c'è stato ancora un interesse archeologico della zona, salvo qualche rara citazione a cavallo tra i secoli XIX e XX, come in una introvabile monografia dello Sciuto-Patti. Le grotte rimaste sono alcune cavità artificiali, fortemente erose a causa della natura instabile delle rocce in cui furono scavate, per la maggior parte ad uso funebre. A quando

9 possano risalire, chiaramente, rimane un mistero, mancandone il corredo trafugato in passato. La tipologia a forno può comunque costituire uno spunto di riflessione: che siano di origine preistorica? La tipologia a forno è diffusissima nel siciliano durante l’Età del Bronzo, ma rimane la principale sepoltura anche durante il Ferro e in alcuni casi in piena età greca. L’unico esemplare che si è potuto esplorare presentava una pianta circolare con volta quasi piatta e ingresso quadrangolare. L’interno non si sviluppa molto in profondità e lo stesso ingresso si presenta piuttosto modesto, segno che si trattava di una tomba singola. La natura del materiale calcareo, facilmente erodibile, non ha permesso il perfetto mantenimento della facciata di ingresso, di cui tuttavia se ne è potuta intuire l’esistenza grazie ad un foro che dovette servire a fissare il chiusino della tomba. Altri sepolcri pure riconoscibili sono stati più sfortunati, presentandosi tronchi fin quasi la metà. Chi poté sfruttare queste tombe? La tipologia della tomba a forno non è diffusa nel contesto dei Siculi, mentre rimane un elemento distintivo sicano. Non si esclude quindi possano essere appartenute a quest’ultima società. Le fonti e le prove archeologiche raccontano come nel corso del XIII secolo a.C. la Sicilia orientale venne spopolata dai Sicani, sotto l'avanzare siculo. Solo alcuni speroni di roccia ben difendibili, come Pantalica e Cassibile, consentirono il mantenimento di questa antica società indigena.

9 Chiaramente la Collina Primosole non è per nulla difendibile (anzi è un punto strategico per l’occupazione militare della costa orientale, come testimoniato ancora fino allo sbarco alleato del ‘43), ciò può indurre a credere che tali tombe possano precedere l'avanzata sicula. Un sito dunque di grande importanza archeologica, visto che il suo studio potrebbe aiutare a comprendere meglio le dinamiche socio- etniche anelleniche (non greche) di questa parte dell’Isola. Le fonti raccontano la storia del luogo soltanto per un breve periodo durante l'occupazione romana: Plinio ricorda tra le città tributarie dell’Impero vi era anche l’antica Simeto, riportata nella Geografia dell’astronomo greco Claudio Tolomeo erroneamente come Dimeto. Per lo storico siceliota Diodoro Siculo fu città di origine servile, sorta vicino l’altare dei Palici, città chiamata Simezia da Petronio Russo e identificata con i ruderi della contrada di Mendolito, mentre per Cluverioandrebbe identificata con Regalbuto, poiché egli la colloca a metà strada tra Agira e Centuripe mal interpretando Ameselo come corruzione di Simeto (in realtà, alcuni autori secentisti volevano che il fiume Amenano di Catania fosse chiamato in età arcaica Chamaseno o Amaseno, donde forse il palese errore di Cluverio). Diodoro aggiunge che Ducezio, Re dei Siculi, vi edificò una polis cinta da mura, chiamata Palica. Tuttavia tanto Simezia quanto Palica vengono localizzate da autori moderni e contemporanei nella valle medio-alta del fiume

9 Simeto e non nei pressi della foce. Alcuni autori (Carrera, Parthey, Sciuto-Patti) hanno localizzato la necropoli della Symaethus latina in contrada Passo Martino "nella tenuta o podere denominato Turrazza posseduta oggi dal sig. Carmelo Porto (...) dai villici denominato Spedale" non lungi dalla Collina Primosole, quasi a guardare le necropoli più antiche. Il sito indicato è oggi in un appezzamento privato e viene riportato in diverse cartografie archeologiche e turistiche. Alcune obiezioni mosse di recente (Condorelli) mettono in dubbio la possibilità che i due siti siano messi in relazione, per via del letto del Gornalunga, ultimo affluente del Simeto prima della foce, che segna un ostacolo geografico per una naturale continuità tra i siti. Su questo sito e in generale della parte bassa della Piana le fonti sono piuttosto silenziose, lasciando così troppi vuoti che difficilmente si possano colmare. Giunge a gettare un po’ di luce sulla storia del sito un diploma del 1093 in cui il Conte di Siracusa Tancredi Altavilla di Salerno cedeva alla diocesi di Catania tra gli altri il casale di Ximet o Simed (identificato dal Carrera con la contrada che Sciuto-Patti denomina Grotte, evidentemente Grotte San Giorgio, ossia il sito di nostra analisi) di sua proprietà e punto di confine dei latifondi ceduti per la costituzione, nel 1102, del feudo della Mensa Arcivescovile di Catania, sequestrata dal regno sabaudo. Il latifondo si estendeva a sud fino al fiume San Leonardo, a nord fino al Simeto (detto magni fluminis Catan, Linheti o Muse, con chiaro riferimento in quest’ultima

9 dizione alla toponomastica islamica di Wadi Musha, Fiume di Moses), a est fino al mare e a ovest fino alla carraia Lentini- Paternò. Il regno sabaudo, per fare cassa, svendette e smembrò il feudo; nel 1887 uno dei maggiori beneficiari fu il barone Sigona di Villermosa e Castel d’Oxena (o Oscina), alla cui famiglia rimase la collina fino al 1964. Al Sigona di Villermosa si devono le principali architetture ancora ammirabili nei pressi, tra cui la Masseria Primosole, oggi azienda agrituristica, impostata su un baglio di canone settecentesco o la Masseria Grotte San Giorgio, posta a ridosso del nostro sito. Alle vicende del feudo si ispirò Verga nella composizione della prima stesura del Mastro Don Gesualdo (allo zio Nunzio appartenne l’osteria di Primosole, trasposizione fittizzia del barone Antonio Sigona) citando inoltre la "madonna di primosole che è miracolosa". A questo feudo appartennero le grotte, ma anche Verga tace sulla loro presenza.

VILLA DEI PADRI FILIPPINI

Per completare la prima parte della missione, lo zelante sacerdote sognava di costruire una villa, uno spazio aperto ove recarsi coi ragazzi, la domenica e nelle festività laiche e religiose. Non era facile trovare terreni a buon mercato. Le aree libere della città si stavano saturando rapidamente e i prezzi circolanti erano da capogiro. Fuori città, di contro, bisognava fare i conti con le distanze.

9 I ragazzi abitavano tutti nei quartieri meridionali. Era lì che bisognava cercare, tra le ruvide lave del 1669. Nasceva così la villa, con la stessa tenacia e determinazione con la quale, alcuni anni prima, il principe di Biscari aveva addomesticato le lave di Villascabrosa, laggiù, in fondo a via Plaja, tra la sabbia del mare e le ruvide rocce vulcaniche. La villa dei padri filippini (San Filippo Neri) occupava un’area di circa 12 mila metri quadrati, sufficienti per consentire ad allievi e precettori di «sollazzarsi e passeggiare. L’iniziativa di padre Grasso aveva suscitato l’interesse di due personaggi della vita cittadina catanese. Il primo era l’illustre duca Francesco Paternò Castello di Carcaci, autore di una pregevole guida di Catania nella quale descriveva, oltre al Duomo e al castello Ursino, anche l’umile villa di don Giuseppe! in cui comunicava al turista che la villa rustica era adorna di viali, sedili, terrazze, bagni, ecc.. Le ville del principe di Biscari e dei padri filippini hanno avuto in comune lo stesso tragico destino. All’inizio il feroce vulcano ha inghiottito terra e mare, quasi a significare: “Sono io il più forte”. In seguito l’astuto Ulisse accecava l’ottusa forza del gigante ed abbelliva il luogo con due splendide ville. L’altro vulcano, l’imprevedibile forza disgregatrice che ciascun catanese solitamente porta dentro di sé, cancellava le belle opere compiute. Oltre alle strutture descritte dai precedenti autori, nella villa esisteva una casa di due stanze. Diversi pozzi fornivano prezioso liquido per alimentare i giochi d’acqua della vasca e

1 per appagare la sete delle piante. I padri vi avevano piantato alberi resistenti alla salsedine ed agli impetuosi venti della Marina. Fichi, pergole, fichi d’India ed altre specie fruttifere fornivano una copiosa produzione che Guglielmino poteva vendere, trattenendo gli utili per sé.

GROTTA LUCENTI

La Grotta Lucenti è ubicata nelle “sciare” Susanna, circa 200 metri a nord della Parrocchia San Luigi lungo il viale Mario Rapisardi a Catania. In realtà, al di là di quello che può lasciare intendere il nome, si tratta di una cavità antropica scavata manualmente, nel bordo nord orientale, del ramo centrale, della colata lavica che ha devastato Catania a partire dalla fine di marzo del 1669 ed in particolare questa porzione di territorio è stata invasa dal flusso lavico tra il 2-4 aprile del 1669. L’area di “Susanna” è data dall’affioramento di un alto morfologico dove è visibile il substrato etneo, che nello specifico è rappresentato dalle argille marnose azzurre. Tale alto è stato bordato totalmente dalle correnti laviche, prima dalle “Lave dei Fratelli Pii Antimonio ed Anapìa”, i quali durante la terribile eruzione del 693 a.C., invece di cercare di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori, che ormai vecchi e infermi non avrebbero potuto fuggire.

1 La lava miracolosamente si separò in due torrenti, uno a destra e l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovava la famigliola, questo sentiero consentì ai due fratelli di porre in salvo i propri genitori e se stessi. Nella porzione meridionale, dalla colata del 1669, trasformando quello che era un alto morfologico in una depressione, che è stata marginalmente anch’essa invasa, in quella che a prima vista sembra una contro-pendenza, da un ramo minore che è scivolato dentro la depressione. In questo contesto geologico, a partire probabilmente dai primi anni del 1700, in quello che era l’estremo bordo periferico di una Catania in fervente ricostruzione, dopo la devastante eruzione del 1669, che ne ha danneggiato la porzione sud-orientale e dopo il tremendo terremoto del 1693, i ghiaioti (minatori che scavano per prelevare la ghiara rossa) avranno riconosciuto in quella piccola e sottile lingua di colata lavica, che aveva invaso la depressione delle sciare di Susanna, un buon sito dove iniziare ad aggredire e scavare al di sotto della nuova colata, alla ricerca della tanto necessaria agghiara. La ghiara era un utilissimo inerte per il confezionamento dei leganti idraulici e degli intonaci che, insieme a blocchi lavici squadrati da sapienti scalpellini, davano vita alle costruende opere edilizie catanesi pubbliche e private. Gli ingressi della Grotta Lucenti, fino ad adesso esplorati, sono due, uno posto a circa metà della già citata lingua lavica, lungo il bordo rivolto a nord e l’altro nell’estrema propaggine ovest.

1 Non è escluso che possano esserci altri ingressi in considerazione che è probabile che Grotta Lucenti appartenga ad un più ampio sistema di cave impostate al di sotto della colata del 1669. All’interno della cava si cammina a carponi o accosciati in un dedalo di piccoli tunnel che convergono in camere un po’ più larghe, con dimensioni massime che non superano i due metri e che rappresentano punti di incrocio con i diversi corridoi presenti. I tunnel sembrano dirigersi sotto via Sabato Martelli Castaldi ed il Viale Mario Rapisardi. Il fondo dei tunnel, finora esplorati, ha una leggera pendenza verso le sopra citate strade, anche se spesso si sviluppa con andamento quasi orizzontale ed è formato da suolo di origine lavica (probabilmente le Lave dei Fratelli Pii), ma non è raro trovare anche ciottoli di altra origine, mentre un tratto, lungo circa 20-30 metri, è costituito da argilla grigio-azzurra (un lembo dell'alto morfologico del substrato etneo). Le volte dei tunnel si presentano a tratti scavernate a causa di crolli, probabilmente coevi al loro scavo e in alcuni punti si osservano abbondanti venute di acqua, apparentemente pulita, che si raccoglie lungo il fondo del cavo creando delle pozzanghere. Le pareti dei tunnel antecedenti al ricoprimento della colata del 1669 sono, a causa dell’azione metamorfica della stessa, di colore rosso scuro che in alcuni tratti tende anche al rosso bruno.

1 RENA ROSSA

La rena rossa (indicata anche con altri termini: ghiara, la russa, agliara, agghiara, terra rossa) è un materiale dall’aspetto sabbioso, caratterizzato da colori che vanno dal rosa chiaro al rosso cupo, a volte misto a lapilli di colore biancastro o nerissimo, untuosa al tatto e tingente. La rena rossa è un prodotto della cottura di sedimenti sciolti a opera di colate laviche. Veniva estratta, nei secoli passati e fino a circa la prima metà del 1900, scavando delle vaste cavità, veri labirinti di gallerie e sale delimitate da muri a secco, a ridosso degli abitati etnei e di Catania. A volte la rena rossa è frammista a cocci di oggetti in terracotta (vasellame, tegole, mattoni ed altro). Tale sabbia ha proprietà pozzolaniche e veniva impastata con la calce per ottenere delle malte largamente usate in edilizia come legante e per la preparazione di caratteristici intonaci esterni. Inizialmente l’estrazione di sabbia rossa (ghiara) avveniva contemporaneamente a quella della pietra lavica da costruzione. La tecnica prevedeva lo scavo di brevi e larghe gallerie che, partendo dal fronte della cava di pietra, si inserivano al di sotto del banco di basalto lavico. Questo, veniva sostenuto da pilastrini di ghiara o puntelli di legno. Quando lo strato di ghiara era stato sufficientemente estratto, l’abbattimento dei pilastrini di sostegno provocava il crollo del basalto, che si frantumava in grandi blocchi. Questi venivano

1 ridotti in conci di varie dimensioni e forme dagli scalpellini (pirriaturi), e utilizzati poi in muratura. Tale tecnica chiamata abbattaggio (da abbattere) è ancora utilizzata nelle cave di basalto. Durante l’intensa attività edilizia nella Catania post-terremoto del 1693 e fino alla prima metà del '900, la richiesta di ghiara si fece superiore a quella della pietra lavica, perché oltre a essere usata come legante, fu intensamente utilizzata per la preparazione di intonaci esterni, ed è stato quindi necessario estrarla direttamente da cave indipendenti. La rena rossa ha origine nel momento in cui una colata lavica ricopre un'area costituita da terra fine o comunque frammista a pietrisco per un certo spessore (da pochi centimetri a parecchi metri). L’area potrebbe essere stata ricoperta da vegetazione o coltivazioni. Generalmente il materiale originario ha a sua volta origini vulcaniche. Il forte calore emesso dal flusso lavico al terreno sottostante, oltre a incenerire l’eventuale vegetazione presente, produce delle trasformazioni chimiche che rendono il materiale adatto per usi edilizi (la temperatura dei flussi lavici nell’area etnea a una certa distanza dagli apparati eruttivi, si aggira normalmente tra gli 800 ed i 1.000 °C). La marcata colorazione rossa è spesso dovuta alla presenza di minerali di ferro nel terreno originario. Dopo la fine dell’evento eruttivo e trascorso il tempo necessario al completo raffreddamento del materiale lavico (almeno diverse decine di anni), poteva cominciare l’opera di scavo.

1 SCOGLIERA DELL’ARMISI

La colata dell’Armisi che raggiunse la fascia costiera di Catania in età preistorica è tra quelle eruzioni di cui non si hanno notizie certe. La preistoria catanese elenca, in ordine di tempo, tre grandi eruzioni etnee, dette rispettivamente: “di Santa Sofia”, “dell'Armisi” e “del Lòngane”. Secondo una unanime affermazione dei geologi, la prima è quella di Santa Sofia, la quale ha dato origine e costituì il colle di Cifali, sul quale, nel secondo millennio a.C. fissarono la dimora (dando i natali alla nostra Kàtane), dapprima i Sicani, verso il 1900 a.C., in seguito i Siculi. La datazione della fascia costiera disegnata dalle lave dell’Armisi, si presume sia correlata ad una eruzione originata nella fascia pedemontana dell’Etna, da quota 700, oggi Monte Peloso, intorno al 4000 a.C. Il tratto di costa è quello che dal Porto di Catania, risalendo verso nord est in un paio di chilometri raggiunge l’antica Longane, oggi Ognina, Porto Ulisse. Il porto di Catana antica, che ha visto impegnarsi nel suo seno strepitose battaglie navali,

1 come quella fra Siracusani e Cartaginesi nellanno 405 a. C, ove questi si impegnarono con non meno di 500 navi da battaglia. Il così detto dai Catanesi Porto Ulisse, nell’abitato di Ognina è rimasto come indicazione toponima perché non si aveva alcuna nozione della cronologia delle lave. In questo tratto costiero fino dall’apparire dei primi coloni greci (sec. VIII a. C.) non poteva esservi più il Porto, perché le lave lo avevano invaso fino dai tempi preistorici: l’età dei blocchi di lava al Ponte dell’Ognina sfugge a qualunque calcolo cronologico. Il grande valore storico naturalistico del tratto costiero, ricco di ingrottamenti lavici naturali, deve essere salvaguardato da potenziali progetti di antropizzazioni con opere stradali o portuali o ferroviarie. Lo straordinario patrimonio paesaggistico assume i caratteri monumentali e segna marcatamente il millenario rapporto di convivenza tra la città ed il suo vulcano.

CASTELLO DEI DUCA DI MISTERBIANCO

Il Castello, d’impostazione neogotica, edificato nel 1930 dal nono Duca di Misterbianco Vespasiano Trigona di Piazza

1 Armerina, è situato all’interno dell’area “Oasi del Simeto”, in prossimità della foce del fiume. Attualmente si trova a nord rispetto al percorso del fiume, ma, fino alla metà del 1900 si trovava a sud, poiché il fiume, superato il ponte Primosole, prima di sfociare sul mare Jonio descriveva un’ansa passando più a nord. L’edificio era circondato da ettari di terreno coltivato a vigneti ed agrumeti, dotato di un pozzo per l’approvvigionamento dell’acqua, di una zona termale corredata di piscina e di un colonnato neoclassico. Il piano terra del castello era destinato ad alloggi per la servitù, locali per la lavorazione dei prodotti raccolti nei campi, con un palmento, il frantoio, le scuderie e magazzini deposito. L’accesso avveniva dai cinque archi presenti a sud della struttura. In tale piano si trovavano due scale, una nell’angolo sud-ovest a due rampe che permetteva l’accesso al loggiato posto ai piani superiori e l’altra posta in posizione centrale rispetto al manufatto, che permetteva l’accesso al livello superiore sia in direzione ovest, quindi verso il loggiato, che in direzione est, permettendo l’accesso sulla terrazza con vista sul mare. Dal primo piano, dall’angolo nord-ovest, si elevava una magnifica torre quadrangolare su cinque livelli fuori terra, che costituiva il loggiato dello stabile, mentre nell’angolo sud-ovest vi erano quattro archi a sesto acuto sorretti da colonne e capitelli. La parte centrale del primo piano era adibita al soggiorno della famiglia, con finestre, aperture ad arco e terrazzi che

1 permettevano di vedere la vegetazione circostante ed il mare. Nella parte centrale, si elevava un’altra piccola edificazione costituendo il secondo piano. Le parti sommitali del castello erano tutti coronati da merli. Il castello costituiva la dimora estiva della famiglia Trigona. Rimase in buono stato fino alla terribile battaglia che si combatté tra il 14 e il 17 luglio del 1943 al Ponte Primosole. In quella occasione, il castello fu occupato prima dai tedeschi e dopo dagli inglesi (Royal Artillery) come posto di osservazione. La torre alta 30 metri in posizione dominante, fu distrutta dall’ultima cannonata dei tedeschi alle ore 17 circa e non fece neanche un morto poiché le guardie inglesi erano a consumare il tè pomeridiano. La famiglia Trigona trae origini dai duchi “de Monti Chirii in Isvevia” (Germania sud-occidentale) e dal duca Salardo, il cui figlio Coraldo, acquistando il castello e la signoria di Trigona o Trigonna, in Picardia (Francia settentrionale), prese il cognome. Un discendente di Coraldo, Ermanno, valoroso capitano dell’imperatore Federico II di Svevia, ricevette per i servigi offerti al re, diverse ricompense, tra cui, nel 1239 la nomina di governatore di Mistretta. Un discendente di Ermanno, Giacomo, sposandosi nel 1369 con Margherita d’Aragona, figlia di Giacomo, nipote di Pietro d’Aragona II, re di Sicilia, ricevette lo stemma originario con l’aquila nera della Casa Reale d’Aragona. Lo stemma del Casato Trigona raffigura un’aquila nera coronata, recante sul petto uno scudo con incisa una cometa che illumina un triangolo. Da

1 quando fu affidata la Piazza del Castello della città di Mistretta al Capitano Ermanno, la famiglia Trigona entrò a far parte di una casta nobiliare assai nota in quasi tutti i maggiori centri Siciliani, possedendo molti vassallaggi, signorie e feudi. Il ducato di Misterbianco. Nel XVII secolo, Vespasiano Trigona di Piazza Armerina, acquistò il Casale di Misterbianco, dove si trasferiva con la famiglia nei mesi caldi dell’anno. Il figlio Francesco sposò Felicita Paternò Castello, nipote del Principe Agatino Paternò Castello, dalla quale ebbe un figlio, Pietro Domenico. Quest’ultimo, grazie all’influenza della famiglia materna Paternò Castello, ricevette nel 1685 il titolo di Duca di Misterbianco dal re Carlo II di Spagna. Con Pietro Domenico nacque il Ducato di Misterbianco ed i successori furono nell’ordine: Tullio zio di Pietro Domenico, Vespasiano, Mario, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, fino al 10° Duca Alberto nato a Catania il 27.02.1928.

CAITO

Convenzionalmente per “Caìto”, a Catania, si intende la singola area occupata dal Porto Rossi, una piccola insenatura naturale collocata nella parte est del capoluogo etneo, compresa tra la Stazione Centrale, a poche centinaia di metri di distanza, ed il quartiere di Ognina. Oggigiorno questo braccio di costa rocciosa viene ormai indicato come parte integrante del più grande borgo marittimo

1 etneo, ma in verità la presenza e la collocazione del Caìto si sono però rivelate significative, già in epoca remota, per la costituzione di una identità storica e sociale proprie di questo scorcio di Catania. Le origini del piccolo quartiere sono, infatti, antichissime, e la sua nascita risalirebbe, addirittura, al tempo della dominazione araba in Sicilia. Già dal nome stesso dell’area è infatti riconoscibile una palese influenza saracena. “Caìto” infatti deriverebbe dal termine “Kâit” che significa “giudice, governatore, capo amministrativo”. È dunque intuibile che nella zona, diversi secoli fa, esistesse un avamposto arabo caratterizzato dalla presenza di un magistrato preposto alla persecuzione dei Cristiani. Quest’area viene poi storicamente ricordata per aver ospitato, in epoca più recente, un importante tratto della Ferrovia Circumetnea. La fermata si trovava a pochi passi dal Porto Rossi, nell’area oggi occupata da Piazza Galatea. Il 13 marzo 1895 venne inaugurata la tratta Catania Gaito- Catania Borgo, congiungendo così i due quartieri del capoluogo etneo. Il 17 Agosto 1897 l’ingegnere Francesco Clarenza scrisse una lettera al Presidente del Consiglio d’Amministrazione del Consorzio per la Circumetnea esponendo i progetti per la fermata al Gaito ed il prolungamento al porto di Catania. L’anno seguente il prolungamento divenne realtà ed il 10 luglio 1898 venne aperta la tratta Catania Gaito-Catania Porto.

1 La fermata del Gaito venne poi chiusa nel 1993, ma l’area continua ancor oggi a conservare il suo nome.

GROTTA DI PROSERPINA PORTA DELL’ADE

È il poeta romano Ovidio a narrare nei Fasti e nelle Metamorfosi una storia fantastica, il mito che spiega l’alternarsi delle stagioni. Figlia di Giove e Cerere, Proserpina raccoglieva fiori vicino al lago di Pergusa quando venne rapita da Plutone, dio degli inferi emerso da una grotta, e da questi condotta sul suo carro agli Inferi. Cerere, dopo averla disperatamente cercata invano, ottenne da Giove la restituzione della figlia a patto che questa, durante la sua permanenza nell’Ade, non avesse assaggiato alcun cibo. Proserpina aveva però mangiato sei chicchi di una melagrana colta nei campi Elisi e così poté tornare con la madre soltanto per sei mesi l’anno, periodo che da allora coincise con la primavera perché Cerere, felice per la presenza della figlia, faceva fiorire la terra. Claudiano, poeta della tarda latinità, ricalcando le orme di Ovidio fece rivivere in un suo poema, il De raptu Proserpinae, questo celebre mito. Per trovare l’opportuna ispirazione, il poeta alessandrino visitò la Sicilia e Catania dove, sembra, non solo fu ammaliato dalla bellezza dei luoghi etnei ma probabilmente raccolse

1 anche un’antica versione della leggenda che voleva che la dea fosse stata rapita sulle pendici dell’Etna. Ecco come Claudiano, poco prima di descrivere il rapimento, iniziò a tratteggiare il ridente luogo collinare ove si apriva la grotta da cui uscì Plutone col suo carro per rapire Proserpina tra i fiori. Versi che nella loro vaghezza bastarono però agli scrittori catanesi, specialmente a quelli del ‘600 (primo fra tutti Pietro Carrera), per ravvisare nel luogo vagamente descritto dal poeta alessandrino le balze dell’Etna (la parola pumix utilizzata dal poeta significa roccia lavica) e precisamente la panoramica altura di Santa Sofia che sovrasta Catania proprio al limitare della pianura; una “collina dal molle declivio” in cui appunto si apre una grotta vulcanica che la tradizione vuole molto lunga e profonda, perfetta come porta dell’Ade; una cavità che, a dire di Carrera, “volgarmente dicono tutti Grotta di Proserpina”. Tali scrittori pensarono dunque che gli antichi qui avessero localizzato il ratto di Proserpina e fatto sorgere un tempio ed un boschetto di cui il D’Arcangelo e il Grossi dànno persino l’immagine. Grazie a Claudiano ed alla fantasiosa vanità di patria dei secentisti catanesi, Catania si ritrovò così ad essere mitologicamente più ricca. Veniva in tal modo a stravolgersi la convinzione, ormai radicatasi nell’immaginario collettivo grazie ai versi di Ovidio, che il rapimento fosse avvenuto sulle rive del lago di Pergusa.

1 Chi va a caccia di luoghi mitici e colmi di poesia troverebbe oggi su quelle che furono le splendide balze della collina di Cibali ben poco dello splendore che il decadente Claudiano vide a suo tempo, ammesso che lo avesse visto. L’odierno colle di santa Sofia infatti non ospita festanti ninfe sui prati o il terribile carro del dio degli inferi, non accoglie più la levità della poesia e del mito ma il rigore della scienza esatta. La Grotta di Santa Sofia, la bocca dell’Ade da cui sarebbe emerso Plutone, sta quasi in cima all’altura e guarda a Sud-Est verso un panorama mozzafiato; dominata o meglio schiacciata dalla ciclopica antenna televisiva che la sovrasta, essa si apre in fondo ad un dirupo nei pressi dell’Osservatorio Astrofisico ed è ben difficilmente individuabile non tanto per la vegetazione che la circonda quanto per i grossi massi che la ostruiscono. La grotta non è infatti legata soltanto al mito di Proserpina ma anche alla leggenda di un favoloso tesoro incantato che un tempo attirò al suo interno un gran numero di cacciatori di tesori fino a quando, all’inizio del secolo, il proprietario del fondo, stanco di tali incursioni, ne fece interrare l’ingresso. Ma questa è un’altra fantastica storia. Una cavità che concorre con quella di santa Sofia per il titolo di porta dell’Ade è l’altrettanto celebre Grotta di San Giovanni, ossia della Chiesa di San Giovanni Galermo; pure da essa si racconta infatti che emerse Plutone per consumare il celebre ratto. In verità il più immaginifico dei poeti non avrebbe potuto creare nei suoi versi uno scenario plutonico più appropriato e

1 suggestivo di questa splendida caverna dalle ciclopiche dimensioni; a guardarlo sembra davvero un brandello, un relitto dell’antica Sicilia dei miti e non sorprenderebbe affatto di vedervi zufolare e danzare barbuti fauni. Forse per evocare tali agresti danze, fino a qualche decennio fa, durante la locale festa patronale, il grande ambiente iniziale di questa grotta cittadina veniva trasformato in sala da ballo. Al suono di polke e mazurche si festeggiavano così san Giovanni Battista e l’inizio dell’estate; si esorcizzavano pure gli eventuali demoni infernali che avessero osato far capolino dalla porta dell’Ade. All’interno della grotta si mostra un lastrone lavico che si dice essere il letto di san Giovanni. Secondo la religione greco-romana, Ade era fratello di Zeus ed era considerato il dio degli inferi, quindi, dell’aldilà.

EGITTOLOGIA A CATANIA

L’egittocentrismo risponde ad una profonda esigenza, quella di manifestare latenti ma inesauste modalità dello spirito, di tracciare una via “esemplare” nella riscoperta delle nostre motivazioni originarie e dell’universo simbolico ad esso connesso. Cicerone fa riferimento ad un Serapeo a Siracusa ma prima di quell’età (70 a.C.), le testimonianze relative a forme di rapporto intrattenute dalla Sicilia antica con l’Egitto sono estremamente labili. Sappiamo da Giustino che una congiunta di Tolomeo, la principessa Teossena, probabilmente attorno al 306 a.C., andò sposa al tiranno di Siracusa, Agatocle, che la

1 rimandò in Egitto con i figli nati dal matrimonio, prima introduzione ufficiale di culti egizi in Sicilia, a Siracusa ed a Catania. Altri preferiscono far più solido conto della politica decisamente filoegiziana attuata da Ierone II, durante la sua lunga signoria. Testimoniano del felice rapporto fra i due paesi gli intensi scambi commerciali favoriti dall’allineamento ponderale tra la moneta siracusana e la solidarietà manifestata da Ierone con l’invio in Egitto di una nave carica di merci, in occasione d’una grave carestia nel delta del Nilo. Un gruppo di studiosi indica quale periodo di fondazione dei culti egiziani in Sicilia l’età della “quinta repubblica” siracusana. L’emissione di monete raffiguranti Serapide ed Iside non lascia dubbi sull’instaurazione d’un culto pubblico a Siracusa sin dagli inizi della dominazione romana. A Catania sorsero Serapei in cui si tributava culto e devozione agli dei egizi; a Centuripe, nel secolo scorso si credette di poter identificare una religiosità specifica centrata sulla figura del bue Apis. L’isola aveva conosciuto temi egittizzanti, ma le numerose testimonianze archeologiche non erano andate oltre la generica attestazione d’una affinità col pantheon egizio, indice di devozione di privati, di diffuse credenze magiche oppure di gusto artistico per l’esotico. Gli egizi riconoscevano in Serapide il loro Osiride, la cultura greca Zeus. Nella venerabile figura di Osiride confluisce anche quella di Apis, il sacro bue nume tutelare della necropoli di Menfi.

1 Serapide, come Osiride-Apis, è dunque un rafforzamento, di valenze anche magiche, delle nozioni arcaiche di forza e fecondità il cui periodico ridestarsi nel mondo della natura deve trovare riscontro, per analogia, anche in quello umano. I misteri di Dioniso venivano sentito come affini a quelli egizi di Osiride ed Iside. L’immagine della Madonna col bambino risulta uguale a quella di Iside che allatta Arpocrate (il piccolo Horus). Emanuele Ciaceri (1905) ha visto nelle processioni di Sant’Agata, patrona di Catania, sopravvivenze di moduli isiaci (alcuni particolari della mascheratura e del comportamento dei partecipanti al rito ricorderebbero il navigum, nella descrizione fattane da Pietro Carrera nel 1639.

PIRAMIDI DELL’ETNA

Non si dimentichi che la parola Etna è il nome d’una ninfa siciliana, trasformata in una dea: Aetna (Aitnê, Aitna) che deriva dal greco Aitne, “Io brucio”. Ella si chiamava anche Thalia. Aetna era figlia di Gaia, la terra, e d’Urano, il cielo, che 1 erano i genitori dei Giganti, dei Titani, dei Ciclopi (uno dei quali si chiamava Bronte e delle Furie. Aetna ebbe due gemelli da Adrano, un dio molto simile a Hephaïstos, che viveva sotto il vulcano, e che certi ricercatori paragonano al fenicio Adar ed anche al persiano Adramelech, tutti personificazioni del sole e del fuoco. Adrano, dio dei Siculi che abitavano intorno al vulcano, era adorato in tutta la Sicilia e in modo particolare nella città d’Adrano, che porta il suo nome, sulle pendici dell’Etna, dove terminano le piramidi. Per gelosia, Hera fece in modo che i gemelli di Aetna fossero inghiottiti dalla terra, ma questa li restituì, ed ecco perché questi figli sono detti “Palici”, “i nati due volte” e divennero i “santi patroni” siciliani dell’agricoltura e della navigazione, ma localmente erano considerati anche le divinità tutelari dei geyser e del mondo sotterraneo del vulcano. Si sa in ogni caso che in un tempio, dedicato ad Adrano, i Siculi mantenevano un fuoco eterno, e secondo l’autore romano Eliano, nel passato, un centinaio di cani sacri era custodito in questo tempio. Si vede quindi che culti molto importanti si svolgevano intorno al vulcano, ancor prima dell’arrivo dei Greci e dei Romani. La prima cosa da considerare, nello studio delle piramidi siciliane, è che si trovano per la maggior parte raggruppate in arco di cerchio intorno al vulcano Etna. L’Etna (Aïtné in Greco, Aetna in Latino, Jebel Utalamat in arabo

1 (la mondagna di fuoco) e di conseguenza Mungibeddu, è il più antico vulcano attivo del mondo. Che fanno tutte queste piccole piramidi intorno al vulcano? Era noto che una decina di piramidi erano già state identificate e documentate da fotografi italiani, per cui, alcuni ricercatori decisero di andare a vederle di persona, con le poche informazioni disponibili. Tentarono d’identificarle da foto satellitari, ma senza successo, dato il terreno lavico, talvolta coperto da frutteti e vigne. Dopo un soggiorno a Catania, e poi a Giardini Naxos, si dedicarono a percorrere in auto la zona, con circa 300 soste al giorno, per poi proseguire a piedi, scalare colline, fotografare e misurare. Hanno scattato circa 2000 foto, d’una trentina di piramidi! La cosa non è stata facile, perché molte piramidi sono in proprietà private di difficile accesso, altre sono nascoste dalla vegetazione ed altre ancora sono state quasi interamente distrutte o sono servite da basamenti per la costruzione di case, vista la loro stabilità impeccabile. Pensarono dapprima di ritrovare le piramidi già fotografate, ma rimasero sorpresi dalla scoperta di decine d’altre: piramidi perfette, di pietra lavica, che sembravano non essere mai state inventariate. Ben presto, avvicinandosi, facendone il giro, osservandole a diverse ore del giorno, si resero conto che tutte le piramidi intorno all’Etna risalivano ad una medesima civiltà, erano fatte con la stessa pietra lavica, la stessa disposizione, lo stesso

1 trattamento degli angoli, e che ne esistevano diversi tipi, ben distribuiti intorno al vulcano. Hanno potuto elencare, da Piedimonte Etneo, passando per Linguaglossa, Passopisciaro, Randazzo, Bronte sino ad Adrano, piramidi rettangolari a gradoni, piramidi quadrate a gradoni, piramidi a base rettangolare con gli spigoli arrotondati, con gradoni pure arrotondati, talvolta con altari sommitali, e piramidi coniche, su base rotonda, a gradoni. Hanno notato anche un buon numero di percorsi pavimentati di pietre laviche, non utilizzati più da tanto tempo e compresi tra muretti di pietre a secco, ricoperti da fichi d’india e da cespugli spinosi, come una rete di sentieri sinuosi che disegnano miriadi di piccoli campi, racchiusi da muri alti 4 m, e talvolta provvisti di porte e finestre. C’erano persino intere colline “lavorate” con sistemi antichi di canali d’irrigazione e stretti terrazzamenti a teatro, sui versanti che guardavano verso l’Etna. Il tutto è circondato da brandelli di muri in rovina, parti d’un complesso, che si perdono in mezzo alla vegetazione incolta. Se si prosegue per lo stesso cammino, ma andando diritti verso le colline, si trovano muretti d’una fattura particolare, spessi e larghi, che si trovano solo in vicinanza delle piccole piramidi. Esattamente gli stessi muri che avevano trovano nella plaine Magnien all’isola Mauritius, vicino alle piramidi di quella località! Si vedono poi almeno tre colline lavorate a terrazzamenti ad arco, come un vero e proprio teatro, con un luogo in basso pavimentato di grandi lastre, che fronteggia la maestà

1 dell’Etna. I gradoni sono stretti, troppo per coltivare. Gli angoli sono perfetti e la lavorazione delle pietre denota maestria: un esempio notevole di quello che poteva essere un antico luogo di culto dedicato al vulcano. Tra Passopisciaro e Francavilla di Sicilia si può vedere una notevole piramide rettangolare, oblunga, da gradino ben diritti, come tirati con la cordicella, che formano all’interno della piramide come un sentiero sinuoso d’accesso, perché gli angoli sono incredibilmente arrotondati e si trova una scaletta che sale sino in cima, a raggiungere la piattaforma sommitale. La piramide stessa costituisce così una specie di percorso processionale, per girare tutt’intorno mentre si sale. Si vedono anche specie di merlature, con doccioni che permettono lo scolo delle acque. È chiaro che si salisse, girando tutt’intorno, sino alla cima, che offre la vista sul vulcano, inoltre, hanno potuto constatare anche che molte piramidi si trovano vicino a importanti siti megalitici e a pietre erette, le piramidi, nonostante le diverse forme, avevano tutte rampe o scale d’accesso alla cima, con vista privilegiata verso le sommità dell’Etna, e che si trovavano tutt’intorno al vulcano, ove vi erano pericoli di colate laviche. La enorme sorpresa fu nel constatare ripetutamente che gigantesche colate di lava si erano fermate nettamente proprio a pochi passi da quelle piramidi. Nel creare su una piramide, o un rilievo conico o cilindrico o emisferico, un percorso a elica o spirale dalle proprietà focalizzanti, si materializza il percorso del campo unitario,

1 poiché si crea una cavità risonante, ossia un’antenna. Ciascuna spirale ha una risonanza propria. Questo può alterare nelle vicinanze la struttura spazio–temporale e le regole di comportamento delle masse, ed è un processo che viene attivato tramite la marcia processionale, con una cadenza particolare, che crea risonanza. Era forse un’antica tecnica per fermare la lava? In ogni caso, un’ipotesi che merita una verifica. Non dimentichiamo che i soldati, quando passano in marcia ritmata sui ponti, possono farli cedere, e perciò rompono la cadenza, proprio per evitare che il ponte entri in risonanza. È interessante vedere, su un’antica carta della Sicilia, un cerchio che avvolge il vulcano, come un serpente, dove si trovano le piramidi.

CULTO DI ISIDE

Iside, dea egizia dei faraoni, fu rielaborata nell’era ellenistica dei Tolomei di Alessandria e da qui giunse in Sicilia, prima di spiccare il gran salto alla volta di Roma, dove trionferà anche oltre la fine del paganesimo. Ella veniva chiamata stella mattutina o madre celeste, finendo per essere confusa con la figura di Maria, madre di Cristo, così Proserpina–Iside (identificazione siciliana), finì con l’essere confusa con l’altra dolcissima figura della vergine Agata, il cui culto era trionfante, soprattutto dopo avere bloccato il corso della lava dell’Etna.

1 A Catania, unico caso di identificazione non con la Madonna, bensì, con Agata, con riferimenti ad un’antica festa pagana in cui una dea stringeva al proprio seno un bambino. Il culto di Iside in Sicilia viene in fiore quando la dea viene identificata con la tanto celebrata Proserpina. Tale identificazione era comune allora; Apuleio afferma esplicitamente che i Siculi chiamavano Iside Proserpina. Il culto alessandrino fiorisce pertanto in Sicilia nei primi secoli dell'età cristiana e, come altrove, rappresenta un periodo di transizione fra il morente paganesimo e il cristianesimo trionfante. Si è in un tempo in cui comincia già a prevalere il misticismo, che spinge gli spiriti ad elevarsi verso il cielo e quasi annientarsi nella contemplazione di una unica divinità. Se è vero che la dottrina alessandrina non seppe del tutto svincolarsi da credenze e superstizioni ereditate dall’Oriente, e la religione di Iside accanto ad idee sublimi e precetti di sana morale, ebbe concetti stravaganti e pratiche riprovevoli, è anche vero che spianò la strada al trionfante cristianesimo. E’ stato già messo in chiaro come nelle vite dei santi e nelle nostre feste religiose si siano conservati molti elementi di quel culto, come anche nella storia dell’arte sacra siano perdurati certi caratteri del tipo della dea egiziana. Si vede rappresentata col suo bambino lattante ed a volte in atteggiamento che ricorda in modo singolare le nostre Madonne. Dopo ciò vien da chiedersi se nelle città di Sicilia, e specialmente in Catania, dove il culto alessandrino fiorì maggiormente, abbia occupato il posto di Iside qualche santa

1 cristiana, e se nella festa di questa sia da rintracciare l’antica festa della dea egiziana. Il sospetto viene avvalorato dalla circostanza che nella letteratura sacra catanese, secondo una tradizione che risale ad antichi scrittori, si parla di una festa che nella età pagana ogni anno si celebrava in onore di una statua di donna, la quale stringeva al seno un bambino e che era trasportata trionfalmente in giro per la città. E gli stessi scrittori, messa in relazione quella festa con l’altra di Sant’Agata, trovavano che il fasto e la devozione che il popolo dimostra alla santa si erano innestati sul tronco dell’antico rito; e riferendosi ad altra antica tradizione che parlava di simile festa presso gli Egizi nell’epoca anteriore al cristianesimo, reputano che in Catania sia proprio venuta dall’Egitto. La verità è che quell’antica festa di Catania era in onore di Iside e che essa poi si sostituì a poco alla volta alla popolarissima festa di Sant'Agata. La descrizione che Apuleio ci ha lasciato nelle sue Metamorfosi della festa di Iside in Corinto ci colpisce per la meravigliosa rassomiglianza con la festa di Sant’Agata, specialmente quale era stata descritta dal Carrera nel secolo XVII. Apuleio si riferì a quella festa che in Roma si disse “Isidis navigium”, segnata nel calendario romano il giorno 5 Marzo, e che crebbe rigogliosa attraverso il cristianesimo trionfante, come dimostra il fatto che ne parlarono scrittori del IV secolo, non solo, ma anche del tempo di Giustiniano.

1 Era una festa marinara, in quanto consisteva essenzialmente nel consacrare alla dea, Iside Pelagia, la nave che poi si slanciava in mare, onde la processione dal tempio recava sulla spiaggia, dove aveva luogo la sacra cerimonia. E d’indole marinara pare fosse nelle sue origini la festa di Sant'Agata. La processione dal tempio scendeva sulla marina, come in Corinto, non per lanciare in mare la nave, ma perché là era approdata la barca recante le sacre reliquie della santa. I “nudi”, che tiravano con funi la sacra bara, portavano (come fanno anche oggi) sugli abiti una camicia, simile agli isiaci vestiti di una tunica di lino bianco. Alla festa prendevano grande parte le donne, come nel culto di Iside; e in Catania non mancava il concorso della mascherata, egualmente che in Corinto. La martire Agata cui si era strappato il seno, a cui le donne offrono anche oggi mammelle di cera in grazia della guarigione ottenuta, prendeva il posto della dea egizia, che simboleggiava la forza produttrice della natura, che era considerata come la dispensiera del latte all’umanità nascente, tanto che nella processione di Corinto un ministro del culto portava in mano un vasetto d’oro a forma di mammella e alla presenza del popolo faceva libazioni di latte. Al velo di Iside, alle vele della nave egizia, si sostituiva il miracoloso velo della santa catanese. E se così è, il culto di Iside sul suolo di Catania aveva messo ben salde radici.

1 Sant’Agata è una risemantizzazione cristiana d’una divinità pagana di una dea del mare, come l’Iside egizia. Artemide greca che viene dalla spumeggiante onda del mare, la sua sacra effigie veniva portata in processione mediante una fune, ma una imbarcazione

TEMPLI IDOLATRI

A tutti gli Dei dell’Olimpo qui vennero eretti sontuosi templi, e ad uno ad uno furono successivamente sostituiti da altrettante chiese cristiane. Quello di Bacco, presso le terme Achillee era ricco di dodici altari, somigliava, assicurano, a quello di Eliopoli: sulle sue ultime rovine, nel 1400, coi tesori di Ximene e Paolo di Lerida e i doni della regina Bianca, poi venne fondato il monastero di San Placido. Sul tempio di Giano, San Leone II, il ravennate taumaturgo vescovo di Catania, eresse una chiesa a Santa Lucia; caduta questa col terremoto del 1075, fu sostituita dalla chiesa dell’Annunziata e nel 1200 da quella del Carmine ancora esistente. Castore e Polluce avevano un sacrario di marmo, in stucco e d’oro, sul quale, nel 1295, fu costruita la chiesa e la badia di San Giuliano. Nel 1329 la regina Eleonora, moglie di Federico II, fece costruire a proprie spese, ordinando poi che ve fosse seppellita, il convento di San Francesco sulle rovine del tempio di Minerva.

1 Sedici anni dopo, nel 1355, fondandosi la chiesa di San Benedetto, furono trovati e subito scomparsi per sempre i ruderi del tempietto d’Esculapio ed il suo simulacro. Sui rottami del tempio di Proserpina fu eretta, durante il 1382, la Collegiata; nel 1396 un ospedale e nel 1555 la chiesa dei Gesuiti occuparono l’area del tempio di Ercole, del quale resta una statua mutilata e rabberciata nel museo di Palazzo Biscari. L’ultima sostituzione avvenne nel 1558, quando sulle vestigia del tempio di Venere, sulle sue colonne infrante, sui frammenti dei suoi mosaici, i monaci Benedettini costruirono la loro casa. Nè questi furono i soli od i maggiori edifici sacri dell’antica Katana. Essa ebbe un tempio di Cibele, distrutto dal terremoto del 1020, dove è oggi il sobborgo erroneamente soprannominato Cibali; ebbe quello di Ecate nella contrada detta Ecatea, ora chiamata Licatìa; ne ebbe un altro ad Apollo Arcageta sulla collina di anta Marta. Fra i più sontuosi e magnifici doveva essere quello di Cerere, le vestigia del quale furono scoperti nel 1772 dal principe Ignazio Biscari. Alla Madre Demetra gli antichi Catanesi avevano eretto un tempio composto di due grandi edifici ottagoni, ciascuno dei quali era lungo 150 cubiti, sormontati da una cupola sostenuta da venti Atlanti, mentre dodici colossali cariatidi reggevano il prezioso simulacro della dea, Cicerone, grande oratore parla di questa antichissima e misteriosissima statua per narrare che Verre la fece rubare. Ne restarono, intorno alla seconda metà dell’ottavo secolo, alcune di quelle che adornavano esternamente il tempio; ma

1 allora il già citato San Leone le fece distruggere con tutto l’edificio: solo qualche informe rudere, un pezzo di cornicione dorico conservato nel museo Biscari ed una statuetta custodita nel museo Benedettino, stanno ad attestarne l’esistenza. Del tempio di Giove si dice che facesse parte la grande statua del Dio, della quale il principe Biscari conservò il torso mutilato, senza testa né braccia, di squisita modellatura, che è fra le più belle cose della sua raccolta; ma questa supposizione, come tante altre del genere, non si può più verificare, e resta anzi da accertare se quel Giove greco non fosse piuttosto un Bacco romano. Altri sontuosi edifici e monumenti ornarono l’antica città, offesi dal tempo, dalla natura e dagli uomini. Sorgevano un Foro, una Basilica, una Curia, un Erario, una Zecca, ed altre costruzioni profane e sacre nel tratto oggi compreso fra il cortile di San Pantaleone ed il convento di Sant’Agostino; ma anche di queste nulla o troppo poco si vede più sul luogo. Il Foro, secondo Vitruvio, aveva forma di parallelogramma, con una piazza nel mezzo, girata da un portico a colonne; secondo il Bolano era di pianta quadrata, a due piani; al tempo di questo cronista mancava il solo lato occidentale, e degli altri rimasti in piedi si vedevano ancora molte stanze dell’ordine superiore, essendo l’edificio interrato: otto a mezzogiorno, sette a levante e quattro a settentrione; ora non restano altro che le volte di qualcuna di queste stanze, e per vederle bisogna scendere sotterra, al lume delle lanterne, in quelle che il popolino chiama Grotte di San Pantaleo, e che sono veri antri

1 dove il piede non trova più l’antico pavimento a grandi lastre di pietra calcare, per due ragioni entrambe molto concludenti: la prima è che l’acqua perennemente stagnante in quei luoghi non permette al visitatore d’inoltrarsi; la seconda è che l’antico lastricato, quando il monumento scompariva, ne fu strappato e servì poi a pavimentare il secondo atrio del museo Biscari. Gli unici avanzi, ormai anch’essi sepolti, della Curia, della Basilica, della Zecca ed altro ancora, sono probabilmente le volte e i portici sui quali fu costruito il convento di Sant’Agostino: solo le colonne trovate in questi dintorni esistono ancora, e sono le trentadue che formano i portici di piazza Mazzini. Catania ebbe anche un Ippodromo o Circo, decorato di statue, incrostato di marmi, bagnato da due ordini di canali, i maggiori denominati Nili, i minori Euripi, di cui non resta più nulla, ad eccezione degli obelischi che segnavano gli assi. La città antica ebbe anche un Ginnasio, istituito da Caronda 680 anni prima dell’Era volgare, fu restaurato da Marcello in premio della fedeltà serbata dai Catanesi a Roma nella guerra contro Siracusa; ma non ne resta altra memoria fuorché nei libri. C’era anche un grande acquedotto che recava le acque di Licodia, lungo non meno di sedici miglia; ma non se ne vede altro che qualche altro misero avanzo. Tanta abbondanza di acque era necessaria ad alimentare la Naumachia, i cui ultimi resti scomparvero sotto le lave dell’Etna, il Ninfeo eretto da Ero Apolline e restaurato da Arsinio, prefetto in Sicilia, a cura di

1 Flavio Ambrosio, e le moltissime Terme, parecchie delle quali si vedono ancora conservate discretamente. Le achillee, o dionisiache, così chiamate perché prossime al tempio di Bacco, furono restaurate dal proconsole Lucio Liberio e stanno oggi sotto la cattedrale e il limitrofo Seminario; le fondazioni di questi edifici impediscono di esplorarle tutte e lasciano vedere solo un corridoio, una stanza con la volta sostenuta da quattro grandi pilastri e ricoperta di stucchi adorni di figure a bassorilievo: putti, tralci, grappoli d’uva ed altri emblemi; un bassorilievo, piccolo ma squisito, rappresentante una processione dionisiaca, è conservato nel museo Benedettino. La chiesetta di Santa Maria della Rotonda è anch’essa l’avanzo e probabilmente l’atrio od il laconico di un grande edificio termale, molti cimeli della quale, come pezzi di mosaico, frammenti di lapidi ed iscrizioni, si conservano nei due musei cittadini. Altri minori ruderi di terme si trovarono in altri punti della città; l’avanzo più ragguardevole, quasi un intero stabilimento termale, esiste ancora sotto il convento di Santa Maria dell’Indirizzo: da una prima stanza si passa allo spogliatoio, ad una specie di bagno appartato, ad una seconda stanza comunicante col laconico e ad una terza di pianta ottagonale ai lati della quale sono disposti gli scudi metallici romani. Esistono ancora le fornaci, una conserva d’acqua, vari condotti per l’aria rarefatta, il sito della sedia stercoraria in marmo,

1 l’emissario delle acque luride, gl’incavi dove erano confluite le condutture di piombo conservate nel museo Biscari.

TEMPLARI A CATANIA

Non si conosce con precisione quando i Templari iniziarono ad insediarsi nella nostra penisola, certo è che uno dei primi territori dove l’Ordine si stanziò, alcuni anni dopo la fondazione, fu il regno di Sicilia. Questa scelta fu dettata dalla posizione geografica, dal momento che esso è stato da sempre crocevia tra Occidente ed Oriente e i suoi porti rappresentavano dei capisaldi per il traffico marittimo, militare e mercantile da e per la Terra Santa. Al momento l’unico dato certo è che la Militia Templi s’insediò in Sicilia prima del 9 gennaio 1144, data in cui papa Celestino II sollecitò i prelati a proteggere e sostenere gli stanziamenti templari presenti sul territorio. L’espansione dell’Ordine avvenne secondo una logica ben precisa incline a privilegiare in primo luogo le località costiere, per poi procedere verso l’entroterra; pertanto seguendo questa logica è possibile ipotizzare che Messina, per l’importanza rivestita dal suo porto, fu una delle prime sedi dell’Ordine Templare in Sicilia che, solo in seguito, grazie anche alle prime donazioni di terre, iniziò ad insediarsi nella piana di Catania. Grazie alla trascrizione dei documenti originali appartenuti all’archivio templare di Sicilia, oggi è possibile ricostruire,

1 anche se solo in minima parte, una mappa degli insediamenti templari in Sicilia. Stando a questa preziosa fonte, nel luglio 1146, Enrico (de Bugli o Bubbio o Bubly) insieme alla moglie Beatrice, donava al Tempio un terreno nel territorio di Scordia e confermava loro le donazioni fatte tempo prima dal padre Gerardo de Pentarica, ovvero una terra nei pressi di Pantalica. L’agriturismo Badiula è situato vicino al fiume San Leonardo, facilmente raggiungibile dalla S.S. 114, dista solo 20 km da Catania, a metà strada tra le azzurre acque del mar Jonio ed il sontuoso vulcano Etna. Questo agriturismo non è soltanto un punto di arrivo o di partenza per raggiungere velocemente i paesi etnei, ma rappresenta esso stesso un luogo d’interesse intrinseco di storia e tradizioni. La sua particolare posizione gli ha fatto guadagnare, in passato, un importante privilegio quello di diventare il maggiore presidio Templare della Sicilia. Era il 1131 quando i Cavalieri del Tempio giunsero nella fertilissima Piana di Catania; da lì a poco ricevettero in donazione dal conte Rinaldo di Modica un grande podere nella zona della foce di un fiume ed il diritto di pesca su di esso. Chiamarono San Leonardo quel corso d’acqua perché in prossimità delle sue rive sorgeva una chiesetta dedicata appunto a tale santo. Nella stessa zona i Templari costruirono prima una casa colonica (oggi identificabile, seppur le notizie siano frammentarie, con l’azienda Badiula) e poi anche il convento di San Leonardo del Tempio. Il comprensorio, grazie così alla possibilità di approdi sicuri e protetti, divenne punto

1 strategico per l’imbarco di pellegrini, merci e cavalieri alla volta di Gerusalemme. Col passare del tempo si venne a creare una forte tensione tra la Diocesi di Catania che voleva impossessarsi di quei luoghi ed i Templari che erano i veri proprietari, per tale motivo intervenne Re Federico II che sia nel 1210, che nel 1229 confermò la donazione ed il diritto di pesca concesso dal conte di Modica ai Cavalieri del Tempio. Re Federico II avrebbe concesso come luogo di culto ai Templari l’edificio delle terme di Catania, già allora trasformato in chiesa cristiana. A supporto della tesi delle Terme come luogo di culto dei Templari, i quali possedevano nella Piana di Catania numerosi latifondi, che prediligevano gli edifici di culto a pianta rotonda od ottagonale. Quello dei templari fu uno degli ordini religiosi cavallereschi cristiani più nobili ed antichi, risale agli anni 1118-1120 che seguirono la prima crociata datata 1096. I Cavalieri Templari nascono come ordine cavalleresco- monastico nel 1118 sotto l’approvazione e la guida di San Bernardo curatore dei monaci Cistercensi francesi. Si tratta di un ordine cavalleresco che segue un ordinamento monastico e che ha come fine la difesa della Chiesa, riconoscendo come unica autorità quella papale. Sotto la protezione della Chiesa, l’ordine si espande enormemente in tutta Europa. I cavalieri francesi Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer fondarono l’ordine con lo scopo di assicurare l’incolumità dei pellegrini in Terra Santa, furono sostenuti da Bernardo di Chiaravalle fondatore

1 dell’Ordine dei Cistercensi ed adottarono anche alcune regole dei cistercensi divenendo un ordine monastico. In Italia i templari erano presenti in Sicilia ed è proprio a Catania che durante gli scavi della necropoli medioevale di Catania sono stati trovati scheletri di statura imponente che appartenevano probabilmente a cavalieri templari.

L’ETNA, RE ARTU’ ED IL GRAAL

Etna, gigante buono e benefico, ha ispirato molti artisti e poeti. Il Vulcano è situato nella splendida terra della Sicilia in cui la tradizione Occidentale si incontra con quella Orientale. Identificato come bottega di Efesto, come sede dei Ciclopi e bocca del Mondo sotterraneo, sede di Ade/Plutone il cui mito è legato ai misteri della morte-rinascita. Rappresenta il territorio in cui si ripresenta il perenne scontro tra il Bene con il Male che determina l’evoluzione della Natura, in quanto il male non riesce a prevalere. La mitologia ci racconta che Gea per contrastare il potere di Zeus partorisce Tifone, un terribile ed orrendo mostro. Inizia uno scontro violento tra Zeus e Tifone, con fase alterne fino a quando interviene Etna, una ninfa, la quale riesce a sconfiggere Tifone seppellendolo con il proprio corpo e spingendolo nella profondità della Terra. Tifone con la emissione di fuoco cerca di ribellarsi ma tutto è sotto controllo, non riesce a procurare alcun danno. Viceversa

1 le potenze distruttive del fuoco vengo trasformate sino a determinare le condizioni favorevoli per arricchire la stupenda bellezza della Natura. Etna il più alto vulcano d’Europa con i suoi 3340 metri di altezza, cavo nella parte centrale ci ricorda la coppa del Graal. Raccoglie le forze telluriche della profondità della terra per farle riemergere, portarle verso l’alto, trasformare l’energia da potenzialmente distruttiva in forza benefica dispensatrice di fertilità. Ecco perché Artù, leggendario Re è legato ai ricordi della Tavola Rotonda e del Santo Graal, ha scelto questo luogo. La leggenda di Re Artù in terra di Sicilia è testimoniata nella letteratura medievale; tra i numerosi riferimenti si menzionano quella pubblicata da Bartsch nel 1371 e quella del poeta e critico letterario italiano, Arturo Graf. Sembra che Re Artù sia stato ucciso in seguito allo scontro violento con sir Mordred, figlio illegittimo di Artù e Morgana. Esultano i diavoli che ritengono di avere campo libero per impadronirsi del Mondo, ma Re Artù non è morto, è gravemente ferito e viene trasportato nell’isola di Avalon, paradiso terrestre della leggenda teutonica, per ritemprarsi e guarire dalla ferite. Per la sopravvivenza del leggendario Re è necessaria, però, una terra ancora più bella della mitica Avalon, una terra scaldata dal Sole, fertile, accogliente, fantastica, in cui il profumo di zagara rasserena gli animi, in cui gli uccelli allietano le giornate con il loro soave canto.

1 Ivi giunto nella Terra di Sicilia, con il fuoco del Vulcano, riesce a ricomporre la mitica spada spezzata. Morgana affascinata dalla bellezza dei luoghi accompagna il fratello Artù in Sicilia. Qui si inserisce un’altra leggenda che vuole Morgana, dopo avere accompagnato il fratello, accasarsi in uno splendido castello, godere della località meravigliosa divertendosi a provocare immagini ingannevoli come quello proposto a Ruggero che si accingeva alla conquista della Sicilia ed aveva difficoltà nell’attraversare lo stretto. Il miracolo dello stretto di Messina, definito il “miracolo della Fata Morgana”, consiste in un riflettersi di figure di uomini e di città nel tratto di mare che li divide; Messina si avvicina a Reggio illudendo Ruggero a superare con maggiore facilità il tratto di mare. Questo spettacolo è reale e si verifica raramente allorquando in condizioni metereologiche favorevoli il mare è calmo, senza increspature e limpido come uno specchio; secondo la leggenda quando Morgana butta nello stretto dei sassi che acquietano le acque rendendole cristalline. Un’altra leggenda raccontata dalla Chiesa, la quale vuole che sia stato San Michele Arcangelo ad accompagnare Re Artù in terra di Sicilia. La Bibbia parla dell’Arca come di un oggetto che ardeva di luce e fuoco, in grado di provocare negli esseri umani timori e profonde ferite, di abbattere montagne, fermare il corso dei fiumi, distruggere interi eserciti e devastare città. Una lettera dell’Antico Testamento rivela più di 200 riferimenti diversi dell’Arca dell’Alleanza fino al tempo di

1 Salomone. Dopo il regno di questo grande e saggio re, essa non viene quasi menzionata. Il Sacro Graal prima del 1182 non esisteva, né nella storia, né nel mito. Quasi tutti gli studiosi erano convinti trattarsi di leggende. Non si sa se il Graal e l’Arca siano due entità distinte e separate.

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