Salvatore Barbagallo Città Negletta
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Salvatore Barbagallo CITTA’ NEGLETTA INTRODUZIONE Per antonomasia Catania può ritenersi la città degli eccessi e delle contraddizioni, priva, cioè, di una volontà sociale e politica di progresso e di crescita umana. La ragione sta tutta nel fatto che Essa, dal punto di vista dell’incremento della propria popolazione, è cresciuta a dismisura rispetto alle altre città siciliane, eppure, non ha raggiunto una solida identità culturale in gran parte della propria gente. Pertanto, non è raro il caso in cui si sia voluto mescolare il sacro con il profano in una commistione di storia ed orrido, recente passato, come è successo ad esempio con il Teatro Romano e l’Odeon, a volte persino utilizzando i pregiati marmi provenienti da suddetti, vetusti monumenti. Spesso, durante gli spettacoli presso questi storici teatri, abbiamo assistito, piuttosto sconcertati al clamore degli spettacoli televisivi od a quello poco edificante dello sciacquone. Ogni giorno, persino più volte, percorriamo le vie della nostra città, sporchiamo e calpestiamo luoghi d’interesse 1 storico, a volte neanche sollevando lo sguardo dal nostro smartphone e con gli auricolari ben piantati all’interno dei nostri padiglioni, i quali ci rendono inesorabilmente simili a dei veri e propri automi privi di identità e di sensibilità connettiva. Non ci viene mai la curiosità di conoscere in profondità la storia della nostra splendida città, scoprire ciò che nei secoli Ella ha rappresentato in termini di civiltà, storia e memoria tattile. Eppure, basterebbe alzare un po’ lo sguardo per potersi accorgere di quanta storia sia trascorsa sotto le sua antiche fondamenta che, senza rendercene conto, calpestiamo in maniera distratta ed irriverente, quanti illustri personaggi le hanno riservato fama e lustro e quanti popoli, infine, questa città l’hanno conquistata, difesa, oppressa, vilipesa e poi liberata, lasciando quasi sempre morte e distruzione, ma anche arte, sviluppo e civiltà. Per tutti possiamo annoverare Arabi, Greci, Romani, Bizantini, Svevi, Aragonesi, Angioini, ma l’elenco potrebbe continuare oltre misura. Della storia greca, purtroppo, è rimasto ben poco, poiché i romani, venuti subito dopo come invasori, quindi, conquistatori, hanno via via utilizzato ciò che il popolo greco aveva lasciato sul territorio, soprattutto marmi e pietre da costruzione, edificando persino sui resti greci. L’età imperiale romana ebbe inizio allorquando nel 27 a.C., Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, successore di Cesare, (soprannominato figlio di Dio), fu il primo imperatore romano 2 ad essere stato insignito del titolo onorifico di Pater Patriae e colui che elevò la città di Catania al rango di colonia ed i catanesi divennero così cittadini romani, cioè “cives”, come da conclamate affermazioni date dagli storici. Ottaviano si dedicò alla riorganizzazione delle province dell’impero, così la fedele Catania, nel 21 a.C., su suggerimento del suo principale collaboratore, Marco Vipsanio Agrippa, politico, architetto romano e grande proprietario terriero, la innalzò al rango di colonia romana. Catania, pertanto, occupò una posizione di primo piano in Sicilia e le venne concesso un vasto territorio di pertinenza e numerosi coloni romani furono inviati ad incrementare in numero dei suoi cittadini. Tale periodo di benessere si protrasse per secoli, durante i quali furono costruiti parecchi edifici pubblici: circo, foro, naumachia, terme, ipogei e quant’altro ancora. Pochi in città sono a conoscenza del fatto che l’anfiteatro di Piazza Stesicoro è considerato il secondo per grandezza ed importanza soltanto al Colosseo romano. La decisione imperiale comportò un incremento nel numero degli abitanti di Catania, determinato dall’immissione nel corpo cittadino di nuclei di veterani, e comportò ancora un notevole ampliamento del territorio della città grazie all’acquisizione della fertile piana a sud del Simeto, precedentemente controllata dalla colonia greca Leontinoi. Nei secoli Catania ha però perso lo smalto di classica città decumana facente parte dell’Impero Romano, la quale rifletteva 3 in sostanza l’ordinamento vigente a Roma. Ma la cosa più incresciosa è il non aver saputo o voluto mantenere simili preziosità archeologiche che il tempo ci ha tramandato, ciò per via dell’incuria e della presupponenza di certi nostri amministratori, ma io aggiungerei una certa insipienza. Perché ritengo sia stato senz’altro grave l’aver scoperto preziosi reperti storici, a volte quasi casualmente ed averli successivamente coperti sotto una spessa coltre di detriti, celandole e non tramandandole ai presenti ed ai posteri. E’ il caso degli scavi a ridosso della via Bambino (ex cinema Esperia), oppure a sinistra di via Zurria, lasciati miseramente abbandonati all’incuria ed esposti al vandalismo. Eppure una civiltà che si rispetti e che ha l’esigenza di riconoscersi tale è tenuta alla salvaguardia, alla divulgazione ed al mantenimento dei propri illustri trascorsi, poiché è soltanto in tal modo che si potrà presumere un futuro degno di questo nome. IL TERREMOTO DEL 1693 FINE ED INIZIO DI TUTTO Dei molteplici terremoti e delle innumerevoli eruzioni vulcaniche che, nel tempo, hanno devastato e sconvolto la nostra città, quello del 1693 merita di essere ricordato per via del fatto che, nel bene e nel male, tutto è partito da quella tristissima data. Tutto ha avuto origine da quella maledettissima domenica dell’11 gennaio 1693: l’apocalisse alle ore due del pomeriggio. 4 In quella occasione le sole costruzioni rimaste in piedi furono la Rotonda, San Salvatore al Mare, Castello Ursino, Casale Bonajuto ed una casa privata. Sotto le rovine delle case sbriciolate vi erano sedicimila corpi senza vita, (su di una popolazione di 25.000), quindi, i due terzi dell’intero popolo. Di essi, oltre duemila furono colti in Cattedrale mentre pregavano. In definitiva non si salvò nessuno o quasi nessuno. Se fra quei corpi straziati non c’era quello di Andrea Riggio, si dovette alla fortunata circostanza che il nuovo Vescovo di Catania aveva lasciato la città alcuni giorni prima. L’antico campanile di Simone del Pozzo, abbattutosi sul Duomo ne fece crollare le tre navate, lasciando fortunatamente illese le tre absidi. Diretto a Roma per essere consacrato dal Papa, la brutta notizia lo raggiunse in Calabria, a metà circa del suo viaggio. Come reagì nell’apprendere che gran parte della sua Diocesi, la Cattedrale e le altre chiese, il Palazzo Vescovile, il Seminario e l’intera città fossero un cumulo di rovine, non è dato sapere. Realizzare un’opera pubblica a Catania, realizzarla senza intralci ed in tempi brevi , è stata sempre cosa ardua, se non addirittura impossibile. E ciò non tanto per le obiettive difficoltà di carattere tecnico e finanziario che spesso comporta la realizzazione di un’opera pubblica, quanto per le pervicaci interferenze dei privati, ciascuno dei quali ha sempre creduto di saperne, in tema di opere pubbliche, molto più degli altri. Sappiamo, invece, che l’idea d’interrompere il viaggio e tornare 5 sui luoghi del disastro non lo sfiorò neppure. Che ci tornava a fare a Catania senza il crisma della investitura? Meglio affrettarsi verso Roma. Il 27 aprile del 1693, dopo il terremoto, Andrea Riggio giunse a Catania ed occupò la sede vacante del vescovo napoletano Francesco Antonio Carafa, sepolto all’interno del Duomo, per mettere mano alla ricostruzione della città devastata dal sisma, della quale non erano rimaste che poche vestigia. Per l’occasione vi fu un incredibile volontà di rinascita che sfociò in un fervore realizzativo da parte della popolazione civile che raccolse fondi per fare sì che potessero tracciarsi nuove ed adeguate linee stradali. Nacquero così sontuosi palazzi barocchi, anche il clero non fu da meno, facendo a gara per costruire le chiese ed i monasteri più imponenti. A questo cataclisma sono legate due leggende catanesi: quella di “Don Arcaloro” e quella del vescovo di Catania Francesco Antonio Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692. La prima narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale che gridò allo stesso Don Arcaloro di affacciarsi perché gli doveva dire una cosa di grande importanza. Costui ordinò che la facessero salire. La vecchia strega confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant’Agata che supplicava il Signore di salvare la sua 6 città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse. Un vecchio quadro settecentesco di Salvatore Lo Presti rappresenta il barone con l’orologio in mano in attesa del triste evento. La seconda leggenda è quella del vescovo di Catania Francesco Carafa, la quale riferisce che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta. L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere. Come ebbe modo di riferire lo scrittore ed archeologo tedesco, Adolf Holm, la città di Catania custodiva le sue reliquie sotto una coltre di macerie e sotto gli strati delle sue lave, molto meglio di qualsiasi altra città siciliana, ragion per cui, occorreva affermare che i terremoti e le numerose eruzioni, che la flagellarono, abbatterono ma non cancellarono i segni del suo illustre, remoto passato. Dopo il terremoto a Catania risorsero subito molti edifici come il Municipio, l’Università, ospedali, uffici pubblici e case nobiliari, ma in una forma superiore alle precedenti e si rimane stupiti di come abbiano potuto fare a trovare i mezzi per la ricostruzione di dette Chiese, Conventi, Monasteri, Parrocchie, Confraternite ed Opere Pie. I Vescovi di Catania, riunitisi, trovarono il miglior modo per provvedere le rispettive Diocesi 7 dei mezzi pecuniari necessari al fine di rialzare dalla polvere gli edifici religiosi, ossia oltre 700 Chiese, 250 Conventi, 22 Collegiate e due Cattedrali.