Robert Bresson LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA

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Robert Bresson LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA Robert Bresson LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA Robert Bresson LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA a cura di Paolo Perrone Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) Via Nomentana, 251 - 00161 Roma www.saledellacomunita.it Ancci (Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani) Robert Bresson Via Nomentana, 251 - 00161 Roma www.ancci.it Progetto grafico: Serena Aureli Robert Bresson ROBERT BRESSON REGISTA Les affaires publiques (cortometraggio, 1934) La conversa di Belfort (Les Anges du péché) (1943) Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne) (1945) Il diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne) (1951) Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé conosciuto anche come Le vent souffle où il veut) (1956) Diario di un ladro (Pickpocket) (1959) Processo a Giovanna d’Arco (Procès de Jeanne d’Arc) (1962) Au hasard Balthazar (Au hasard Balthazar) (1966) Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette) (1967) Così bella, così dolce (Une femme douce) (1969) Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d’un rêveur) (1971) Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac) (1974) Il diavolo probabilmente (Le diable probablement) (1977) L’Argent (1983) 4 Robert Bresson: la rifondazione metafisica di Paola Cristalli, Cineteca di Bologna u hasard Balthazar e Mouchette, i due film che Il ACinema Ritrovato al cinema propone nelle nuo- ve versioni restaurate, sono i titoli cronologicamente centrali dell’opera di Robert Bresson. Escono a metà degli anni Sessanta, epoca concitata per il cinema francese: il riflusso della nouvelle vague, i brevi ardori del cinema politico, l’affrontamento tra riviste vecchie e nuove, la generazione nouvelle d’attori e attrici che s’avvia alla maturità e come può s’installa nel mercato. Ma Bresson è altrove, è una storia a parte, già un’auste- ra leggenda vivente. I critici e futuri registi dei Cahiers anni Cinquanta, sulla scorta di Bazin, ne hanno rispet- tato la distanza e riconosciuto il magistero d’autore. Il rigore radicale dello sguardo, che da subito aveva colpito e forse intimidito (colleghi e pubblico), è ormai un’estetica saldamente definita. Tanto che Au hasard Balthazar (da un soggetto originale) e Mouchette (da Bernanos) possono essere più espliciti nel loro porsi come ‘parabole’ estreme. Hanno per protagonisti un asino docile e maltrattato fino alla morte e un’adole- scente violentata e suicida. Sono film terribilmente concreti eppure straziati dalla metafisica (che è forse l’unica definizione onesta della condizione umana). Si chiudono con la presa d’atto, sospeso ogni giudizio e chiusa ogni via di fuga, che il male è tutto intorno a noi e che alcuni più di altri vi sono predestinati. Bresson saprà essere ancora più inesorabile, in futuro. Robert Bresson, nato a Bromont-Lamothe, in Alver- nia, nel 1907 e morto a Parigi nel 1999, ha diretto tre- dici film in quarant’anni (più un giovanile mediome- traggio comico del 1934, perduto e ritrovato a metà anni Ottanta). L’esordio vero è negli anni Quaranta, nella Francia in guerra; Bresson ha fatto studi di filo- sofia, è segnato dai mesi di prigionia in un campo te- desco e nutre molteplici passioni letterarie. Ha subito 5 PAOLA CRISTALLI chiaro che il cinema è scrittura: “Scrittura con immagi- ni in movimento e suoni”, come scolpisce a lettere ma- iuscole nelle Notes sur le cinématographe, un tesoro di aforismi, idee, allusioni che comincia a comporre nel 1950 (uscirà nel 1975 presso Gallimard). La conversa di Belfort (1943) è la storia dell’incontro e della sfida tra una suora e una peccatrice nel chiuso di un con- vento, con dialoghi di Jean Giraudoux; Perfidia (1944) è un geometrico intrigo di vendetta femminile desti- nato allo scacco, ispirato a Diderot. Pur nella forma depurata, nella concentrazione degli spazi, nel vuoto scavato attorno agli oggetti e al loro significato, que- sti film sono appunto storia e intrigo, sono narrazione coesa; sono ancora cinema, insomma, e a Bresson il cinema non interessa. Il cinema è quello che fanno gli altri, e “la vera originalità consiste nel cercare di fare come gli altri, senza riuscirci mai”. A Bresson non inte- ressa l’innovazione, gli interessa la rifondazione; non lo stile, ma il linguaggio. Non vuole fare cinema ma cinematografo, ovvero cinématographe. Un’ombra di snobismo, un sospetto di sofisma? La parola in fran- cese ha un’eco che rimanda inequivocabile alle origini e a Lumière. “Il cinema attinge a un fondo comune. Il cinematografo è un viaggio d’esplorazione su un pia- neta sconosciuto”. Bresson si dispone all’esplorazione, con inesau- ribile energia intellettuale e la lucida percezione delle difficoltà pratiche da affrontare: finanziamenti scarsi, produttori diffidenti, affezione/disaffezione del pubblico. (“Il cinematografo, arte militare. Si pre- para un film come una battaglia”). Per cominciare gli è compagno di strada un controverso e molto amato scrittore cattolico, Georges Bernanos, dal cui Diario di un curato di campagna Bresson trae nel 1950 il suo primo capolavoro, tutto sottrazione e passione (più ‘passione’ di quanta ce ne sarà nel successivo Proces- so a Giovanna d’Arco), una giovane tonaca nera nella Francia profonda, solitudine e dubbio, mani che scri- vono esitanti o febbrili, anima e malattia e sangue e, da qualche parte, un anelito di trascendenza che il dolore tormenta ma non spegne. È un anelito, una possibilità, una scommessa, un “vento che soffia dove 6 ROBERT BRESSON: LA RIFONDAZIONE METAFISICA vuole” che Bresson ancora esplora, con il cinemato- grafo, in Un condannato a morte è fuggito, 1956, il suo film resistenziale; e in Pickpocket, 1959, frammenti di vita di uno dei suoi balordi senza causa, frammenti che trascendono il caso e si compongono in destino (“Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percor- rere per giungere fino a te”: interpellazione/snodo di tutto il cinema di Bresson, e anche la sua più auda- ce concessione al lirismo, contratta però in qualco- sa che sembra nera ironia: sono parole pronunciate dal parlatorio di un carcere da cui non si uscirà più). Il destino, d’ora in poi, si chiuderà in modo sempre più inappellabile intorno ai personaggi di Bresson. Dopo il suicidio che conclude Mouchette, si apriranno con un suicidio Così bella così dolce (1969, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione coniugale) e Il dia- volo, probabilmente (1977, esplorazione retrospetti- va d’una dissoluzione di famiglia, società e politica); L’argent, 1983, è come si fermasse immobile su una soglia, a contemplare il mondo completamente corro- so dal male che ora prende la forma d’una banconota falsa e della sua distruttiva circolazione. Sembra l’im- magine al nero delle tante peripezie morali, ilari o ci- niche, con cui il cinema ha inseguito biglietti di banca o di lotterie vincenti (Clair, Sturges, Scorsese…). Il ci- nema, appunto. Il cinématographe, giunto al suo esito più radicale, si limita a “mettere in ordine” immagini dove la natura maligna del denaro incrocia la natura maligna del caso. Fine di ogni storia. Fine della Storia. Banconote. Mani che scivolano abili nelle tasche dei borseggiati (Pickpocket). Mani sempre più deboli che reggono una penna (il Diario). Un cucchiaio, una mol- la (Un condannato). Rumori, echi, silenzio (“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio”). Nessun realismo, na- turalismo, scansione narrativa, nessuna rappresenta- zione. Il cinema/cinematografo persegue un’altra pos- sibilità. Gli oggetti e il dettaglio sono i suoi strumenti (“un film di oggetti e un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”; e con un tocco di leggerezza, se così si può dire: “è attraverso gli oggetti, più che attraverso la recitazione degli attori, che un mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei titoli di testa”). 7 PAOLA CRISTALLI Il cinema di Bresson è in sé un oggetto enigmatico. È dominato fin dall’inizio da un’urgenza teorica che non deflette mai, che negli anni si affina, si ostina, si fa blocco. Richiede una disposizione intellettuale e an- tisentimentale (cioè, al cinema: innaturale). Non per- mette di accomodarsi nella dolcezza di un’immagine, mai. Ma allo stesso tempo, in mille nervature segrete, è anche capace di produrre una risonanza emotiva che non avevamo previsto, che ci coglie impreparati, e perciò tanto più profondamente scava. Concretezza, trascendenza, crudeltà, condizione umana? “Se solo mia madre mi vedesse”, chiude Un condannato a mor- te è fuggito. Una Note: “Non correre dietro alla poesia. S’infila da sola nelle giunture”. Le mystère Bresson. Balthazar 8 Au hasard Balthazar Balthazar Regia: Robert Bresson Origine: Francia (1966) Durata: 95’ Interpreti: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gérard), Philippe Asselin (padre di Marie), Nathalie Joyaut (madre di Marie), Walter Green (Jacques), Jean-Claude Guilbert (Arnold), Pierre Klossowsky (mercante di gra- naglie), François Sullerot (fornaio), Marie-Claire Frémont (fornaia), Jean Rémignard (notaio), Jacques Sorbets (capi- tano gendarmeria), Tord Paag (Louis) Soggetto e Sceneggiatura: Robert Bresson Fotografia (b/n): Ghislain Cloquet Musiche: Franz Schubert, Sonata n.20 in la magg. D 959 eseguita da Jean-Noël Barbier, brani jazz e canzoni di Jean Wiener Suono: Antonie Archimbaut Scenografia: Pierre Charbonnier Montaggio: Raymond Lamy Produzione: Parc film, Argos films, Athos films, Svensk fil- mindustri, Svensk filmistituten 10 AU HASARD BALTHAZAR di Claudio Gotti e Matteo Marino ià compagno di giochi, durante le vacanze, di un bim- Gbo parigino, Jacques, l’asino Balthazar, quando il fan- ciullo torna a Parigi, diventa proprietà di Maria. Legata a Jacques da un’infantile “patto d’amore”, Maria, ormai ado- lescente, suscita la bramosia di Gèrard, un poco di buono circondato da teppisti suoi pari, che maltratta l’animale, sottoponendolo ad ogni sorta di angheria, per poi cederlo a sua volta ad Arnold, un alcolizzato. Alla morte di que- st’ultimo, Balthazar si ritrova ad esibirsi in un circo, quindi a girare la ruota di un pozzo agli ordini di un imprenditore taccagno.
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