Italian Bookshelf

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Italian Bookshelf Italian Bookshelf www.ibiblio.org/annali Edited By Dino S. Cervigni and Anne Tordi with the collaboration of Alessandro Grazi (Department of Hebrew and Jewish Studies, University of Amsterdam), Monica Jansen (Department of Languages, Literature and Communication, Utrecht University), Enrico Minardi (School of International Letters and Cultures, Arizona State University) Review Article Poets of the Italian Diaspora. A Bilingual Anthology. A cura di Luigi Bonaffini e Joseph Perricone. Introduzioni di Sante Matteo e Francesco Durante. New York: Fordham UP, 2015. Pp. 1500. Recensire una antologia poetica di millecinquecento pagine sarebbe di per sé una impresa da fare “tremar le vene e i polsi”. L’uscita di Poets of the Italian Diaspora. A Bilingual Anthology, concepita e curata da Luigi Bonaffini e Joseph Perricone, due italianisti newyorkesi, è occasione da non lasciare passare inosservata non solo per la sua mole, ma per le questioni che solleva: il mare aperto cui simbolicamente introduce, tra storia delle migrazioni di massa e/o individuali, il destino diasporico dell’identità letteraria e i necessari adeguamenti sul terreno degli studi teorico-letterari. Si è ben consci di vivere oggi in una congerie letteraria ad alto rischio di “eutanasia della critica” (Mario Lavagetto), di una situazione cioè di afasia e di disorientamento del discorso critico sullo sfondo di una mescolanza complicata di mode e voci e del solito caos cacofonico del mercato e dei media, sempre più attivi nel marginalizzare la parola poetica. Mettere al centro il lavoro degli odierni poeti “fuori d’Italia” sarà l’immodesto compito di queste note. Si dà per scontata la trattazione di cosa si intenda per condizione dell‘esilio o del dispatrio, quest‘ultimo nell’accezione semantica più radicale e drammatica di Luigi Meneghello (1993). Le figure dell’esilio sono così tante e così intrecciate alla storia e alla storia letteraria dell’Italia da essere state da tempo esaurientemente catalogate e approfondite. Il potenzialmente doloroso ma utilissimo look from afar fa della scrittura esule, oltre che uno state of mind, una condizione tutta speciale per lo scrittore diasporico che sembra avere una marcia in più. Secondo le curatrici di un congresso romano sull’argomento, l’esperienza Annali d’italianistica. Volume 35 (2017). Italian Bookshelf 458 dell’isolamento purifica il reietto, come Edipo a Colono, e lo pone nelle condizioni di vedere le cose con maggiore lucidità e di poter quindi parlare, come Dante, con l’autorità di chi si è riscattato nella sofferenza e nella privazione (16). L’antologia newyorkese sembra evolvere alla presenza di due numi tutelari, il Dino Campana, primo dei poeti antologizzati a rappresentare l’Argentina e i suoi sei mesi (o un anno e mezzo?) di vagabondaggio tra Rio de la Plata e pampas, e, terminus ad quem, Wallace Stevens, il Montale nordamericano, l’originale modernista, l’autore di An Ordinary Evening in New Haven, che, volendo, si potrebbe sostituire con un Charles Olson o un Ezra Pound, altro nordamericano controesule in Italia e stella guida di tutte le avanguardie, neoavanguardie e postavanguardie, sperimentalismi emergenti puntualmente da varie voci qui antologizzate, soprattutto di ambito americano da nord a sud. Ma si potrebbe pensare anche a Giuseppe Ungaretti e al suo passaggio quinquennale come professore e poeta militante a San Paolo del Brasile. Il Nuovo Porto, o Nuovo Rifugio, del poeta prima avvocato a New York cent’anni dopo la storia di Bartleby the Scrivener, poi assicuratore a Hartford, è locus d’obbligo del panorama che stiamo raccontando: derive e approdi di esistenze e di scritture; detto anche con una formula, “wanderlust versus nostalgia”, secondo uno dei due prefatori, Sante Matteo (xvi), elogio della fuga o homecoming consolatorio e/o identitario. Campana — l’“eterno errante”, come si autodefinisce, e indubbiamente archetipo di nomadismo primonovecentesco — da geniale isolato dà il la al secolo delle avanguardie, ma non gli sfuggono le masse dei connazionali migranti ammassati sui moli (Puerto Madero?), puntualmente registrati nell’antologia: Si entra in un porto strano. Gli emigranti Impacciano e inferocian accalcandosi Nell’aspra ebbrezza di imminente lotta. Da un gruppo d’italiani ch’è vestito In un modo ridicolo alla moda Bonearense si gettano arance Ai paesani stralunati e urlanti. …........................................... Ma ringhiano feroci gli italiani. (“Buenos Aires”) L’altro prefatore al volume, Francesco Durante, sembra andare direttamente al cuore della voce poetica di un Alfredo Bufano e di un Severino Di Giovanni, ma anche alla condizione generalizzata di tanti poeti per caso e provenienti dal proletariato: “What moves them to become vocal is the extraordinary nature of their experience, granting them a degree of authenticity that transcends even their most exasperated, stylistically exaggerated modes of expression” (xix). Annali d’italianistica. Volume 35 (2017). Italian Bookshelf 459 Bufano con il suo ritmo dialogico e bilingue (spagnolo-italiano) postpascoliano alla Italy, Di Giovanni rifacendosi a elaborate atmosfere e tonalità alla Campana a servizio della fede anarchica, per cui finì giustiziato in un carcere porteño nel 1931. Del resto l’autore del frammento Inno alla dynamite s’inserisce nella lunga tradizione di insurrezionalisti italiani in giro per il mondo e profeti da sempre di una ‘altra’ mondializzazione: “Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà...”, dei Canti anarchici rivoluzionari stampati nel 1898 a Paterson, New Jersey, città luogo della memoria indissolubilmente legata a William Carlos Williams e a Allen Ginsberg. La traiettoria dell’anglo-argentino italianizzante Rodolfo Wilcock si estende dalla frequentazione del circolo di scrittori avanguardisti alla Borges all’approdo italiano, dove vive gli ultimi vent’anni della sua vita; dalla cosmopolita Buenos Aires alla Milano della casa editrice Adelphi. I suoi passaggi tra crepuscolarismo e realismo “eccentrico” (Giorgio Luti) evidenziano sempre una sincera vena etica. Continuando a veleggiare in acque australi, eccoci ai contributi australiani, temporalmente divisibili tra prima e dopo il 1947, anno spartiacque di una delle ultime emigrazioni italiane di massa. Il curatore della sezione, Gaetano Rando, distingue due filoni tematici: uno decisamente nostalgico della terra natale e uno di respiro più “universale”. Nel primo, del binomio natura-cultura è il primo termine a ispirare di più: animali (opossum, iguane, gabbiani...), alberi (eucalipti, palissandri o jacarandà, come si chiamano in Australia e Brasile), sullo sfondo di un panorama da bush e outback. Il tempo atmosferico fa la sua parte, ad esempio nei versi alla Elliot di Maria Valli: La primavera in Australia È la peggiore delle stagioni: Appassisce le rose E spoglia i jacarandà Dei fiori violette... Solo le nuvole, amiche del sereno, Lascian dappertutto matigni fatati E all’improvviso ci s’illude Che il cuore non è morto. Predomina malinconica la vena identitaria, come in Mariano Coreno, nato nel 1939: Sono andato all’estero per trovare fortuna. Ma ho trovato la stessa luna e la stessa disperazione. Annali d’italianistica. Volume 35 (2017). Italian Bookshelf 460 Sia Coreno sia Alberto Avolio, nato nel 1949, equiparano la condizione dell’emigrante italiano al destino di isolamento e di tragedia degli aborigeni australiani: “Il pianto del Kookaburra”. Ma già Campana aveva “visto” nelle pampas argentine che “gli indiani morti e vivi si lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo [...]. Io correvo tra le tribù indiane? Od era la morte? Od era la vita? (20, 22). Anche Lino Concas rievoca i Kanakas, popolazione di migranti della Melanesia utilizzata nelle piantagioni di canna da zucchero australiane che hanno preceduto masse di calabresi, sardi, eoliani. Al calabrese Luigi Strano appartiene anche una raggiunta maturità di approccio tematico e linguistico, visti anche gli esercizi e i prestiti che gli derivano dalla frequentazione della lingua inglese e latina. Ma non ha dimenticato il suo dialetto dell’Aspromonte per dar voce al solito rimpianto, in “U’ Pappu a l’Australia” (Il nonno in Australia): ’mmavissi rrumputu l’anchi / quando partia di jani!... Mi fossi rotto l’anca / quando me ne andai di lì!... (I should have broken my hip / before leaving my place.) Il curatore della sezione ha individuato le ultime tracce di una tradizione orale dialettale in Australia nelle aree geografiche di Sidney, Melbourne e Wollongong. Un’antica comunità proveniente dalle siciliane isole Eolie, a partire da metà ottocento, ha continuato a produrre canti in vernacolo per qualche tempo, ora ridotti a lacerti di memorie: una tradizione che si è decisamente esaurita, ma che i curatori meritoriamente non hanno lasciato cadere, rivelandocene l’icastico realismo popolaresco, come in: Cum’o pisci ammucchi a l’amu ’chiappi l’attu di richiamu! E ti cridi ch’i sterlini, Sunnu carti di latrini. Va all’Australia, Va all’Australia! Va a ’llustrari pumi e pira Da mattina ’nfina a sira. (Come il pesce abbocca l’amo / afferra l’atto di richiamo! / E tu credi che le sterline, / Sono carta igienica. / Va in Australia, / Va in Australia! / Va a lustrare mele e pere / Dalla mattina alla sera.) Sempre navigando in acque australi, eccoci allo sterminato Brasile, paese di grandi frequentazioni italiane, a cominciare da un passaggio di Americo Vespucci davanti alla costa della Bahia fino alle masse di migranti italiani a partire dal 1874. Il Brasile
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