Ciò Che L'arte Ci Dice Della Morte E Del Morire
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FARARTE Ciò che l’arte ci dice della morte e del morire a cura di Claudia Piccardo Numero 9, febbraio 2018 Care/i lettrici/lettori di Fararte, ed eccoci arrivati al numero 9 di questo contributo. Continuiamo con gioia e disinvoltura a guardare alla morte, a immergerci nella “notte dell’essere“, a scrutare nelle profondità di ciò che è più comune a tutti noi, tanto più ci accorgiamo che incorporare la morte dentro alla nostra vita, anziché farci sentirci umiliati da essa, ci fa sentire innalzati e aiutati a conferire alla nostra esistenza un più preciso senso, a dire sì all’amore e alla vita, con gioia e con il sentimento di una grazia ricevuta. E quando qualcuno ha chiuso i cancelli dietro ai propri cari e li ha guardati partire, quando la morte ha sorpreso le persone più vicine ai nostri amici e ci accorgiamo di "sentire" il loro dolore, ci accade di non piangere i morti, ma dire l’amore che rimane e li fa rimanere. Perché i morti continuano a vivere finché c’è la voce di chi ne parla, li ricorda. Ce lo ha insegnato la morte serena di Socrate: la memoria come conseguenza dell’amore e del suo moto continuo, eterno. E tutto ciò (ed è tanto per me) grazie a questa educazione alla morte realizzata anche attraverso questo mio impegno per Fararte, con il quale coltivo me e che vi offro, quale piccolo strumento per sostenere la vostra meditazione, quella suprema, la meditatio mortis. Vi auguro buona lettura, visione e ascolto, e vi saluto caramente, Claudia Piccardo Omaggio a Giuseppe Sgarbi Si è spento all'età di 97 anni Giuseppe Sgarbi. Farmacista ma anche grande narratore. Noi pensiamo che, da grande signore quale è stato, si sia tolto il cappello anche davanti alla morte. Diciamo ciò rievocando un passaggio dalla prefazione firmata da Claudio Magris del suo “Non chiedere cosa sarà il futuro”. Giuseppe Sgarbi si toglie il cappello dinanzi alla vita, alle persone, alla realtà, come si fa o si faceva una volta – lo dice una sua forte pagina – dinanzi a un funerale. Ciò non gli impedisce, quando occorre – sempre con grande stile e con la buona educazione di un tempo, ma con temibile energia – di prendere la vita per il bavero. La sua personalità, decisamente forte, non prevarica sulla realtà. Coglie in pochi tratti i lineamenti e l’anima delle persone, offre ritratti straordinariamente intensi di tante figure. Alla produzione letteraria di Giuseppe Sgarbi, che ci riguarda, ci siamo già riferite in un precedente numero di Fararte, presentando il libro Lei mi parla ancora (Skira, 2016), in cui l'autore racconta, in un delicato e appassionato dialogo a distanza, l’amore inesauribile per la moglie Rina, compagna e anima di tutta una vita. Omaggio a Johnny Hallyday La star francese del rock'n'roll, l'icona della musica francese dal rock al country è morto il 6 dicembre all'età di 74 anni per un cancro ai polmoni. Omaggio a Jean d'Ormesson Jean d'Ormesson, uno dei più amati scrittori francesi, membro dell'Accademia francese, autore di bestseller di qualità, è morto a 92 anni, il 5 dicembre scorso. Ha attraversato la vita senza mai perdere quel suo ndimenticabile sorriso malizioso ma benevolo. Non ho paura di morire ma non vorrei che la mia commemorazione funebre fosse fatta da François Hollande. Questa volontà è stata rispettata (ma forse questa è una fake new!). Ironicamente, lo scrittore e saggista aveva anche affermato che "uno scrittore deve fare attenzione al modo in cui muore" e a non morire nello stesso momento di una star. La contemporanea morte di Johnny Hallyday, della leggenda del rock francese, dell'idolo della generazione yéyé, non ha comunque eclissato completamente quella del saggista. Due protagonisti della cultura contemporanea, due stili di vita e due stili di morte… ma due artisti altrettanto popolari che hanno ricevuto omaggi altrettanto importanti se non ugualmente brucianti. Omaggio ad Aharon Appelfeld Il 3 gennaio 2018, all'età di 85 anni, è morto uno dei più importanti scrittori israeliani, Aharon Appelfeld. Sopravvissuto all'Olocausto in cui perse la madre e i nonni, riuscì a fuggire da un campo di sterminio nazista in Transnistria e si unì all'Armata Rossa dove prestò servizio come cuoco. Nei suoi numerosi romanzi affronta esclusivamente, in modo diretto o indiretto, il tema della Shoah e dell'Europa prima e durante la seconda guerra mondiale. Per le sue opere ha ricevuto numerosi premi tra cui il Premio Israele, il Premio Mèdicis in Francia e il Premio Napoli in Italia. I suoi libri sono tradotti in 28 lingue. In italiano l'editore Guanda ha pubblicato "Badenheim 1939", "Storia di una vita", "Paesaggio con bambina", "Un'intera vita", "L'amore, d'improvviso", "Il ragazzo che voleva dormire", "Fiori nelle tenebre", "Una bambina da un altro mondo", "Oltre la disperazione", "Il partigiano Edmond" e "Giorni luminosi". Se volete conoscerlo: https://www.youtube.com/watch?v=PPUhrkbtA3M Omaggio ad Alessandro Leogrande Il giovane scrittore e giornalista Alessandro Leogrande è morto a 40 anni a causa di un aneurisma cerebrale, il 26 novembre 2017. Importante è stata la sua riflessione sulla morte in tutto il suo lavoro, in particolare nel nel testo Il naufragio: morte nel Mediterraneo (Feltrinelli, 2011). Così lo ricorda Roberto Saviano con con un twitter: Ciò che accade oggi viene da lontano. Dalle ferite non sanate del Sud contadino. Da una violenza irrisolta che ritorna a esplodere. Ci sono fili invisibili che portano alle matasse aggrovigliate del passato. Nessuno può tirarsi fuori, conviene dipanarle. Addio Ale Tra i tanti colleghi che lo hanno ricordato abbiamo scelto l'articolo di Nadia Terranova, in doppiozero.com del 5 dicembre 2017 L'omissis di Alessandro Leogrande Ci sono la vita e la morte, e non c’è nient’altro. Questa è l’unica verità, ma è una verità inutile, è impossibile aggrapparsi a lei perché non è vera: ci sono l’amore e l’odio, l’amicizia e i fallimenti, la contentezza e la disperazione, scrivere e cadere, sfiorarsi e perdersi o il contrario di tutto questo. Siamo niente più che una parola in un aforisma di Gesualdo Bufalino: “Biografia: nacque, omissis, morì”; ecco, per raccontare l’omissis di Alessandro Leogrande non basteranno mille scrittori e cento vite. Dal giorno dopo la sua morte parenti, colleghi, amici hanno cominciato a parlare di lui, di quel modo preciso, gentile, forte e integro che aveva di stare al mondo. Alessandro Leogrande era un intellettuale, lui l’avrebbe messo tra virgolette, come Sciascia, per schermirsi, ma noi possiamo fare a meno dell’ironia: il suo nome discende da Gaetano Salvemini, Alexander Langer, Carlo Levi. Loro riempivano le giornate di Alessandro, che intanto si dava da fare per buttare giù le frontiere e i naufragi, il caporalato e l’ignoranza, la malafede e le ingiustizie. Alessandro Leogrande aveva quarant’anni, li aveva compiuti a maggio al Salone del libro di Torino dove era consulente e li aveva trascorsi lavorando, come sempre; aveva maestri e allievi, aveva imparato a contatto coi grandi (Goffredo Fofi e Luigi Manconi sopra tutti, e poi: Mario Dondero, Luciano Canfora, Luis Sepulveda, Serena Vitale, Doug Solstad). Con loro parlava alla pari – raro e forse unico caso nella nostra generazione – e come fosse lui stesso un filo conduttore ne trasmetteva le idee e il linguaggio durante i continui appuntamenti con i ragazzi nelle scuole o nei laboratori. I maestri lo cercavano, gli allievi lo amavano. Continuavano a scrivergli e a chiedergli consigli anche settimane e mesi dopo gli incontri, diventava subito il loro modello, senza che lui indossasse abiti cattedratici; accadeva perché era bravissimo nell’eloquio come nei contenuti, ma anche perché dentro gli istituti superiori Alessandro si sentiva a casa. Aveva cominciato a fare politica e a scrivere quando era uno studente dell’Archita, il liceo classico di Taranto dove aveva studiato anche Aldo Moro, e per lui entrare in una scuola era un momento rituale; quando si metteva dietro o davanti alla cattedra, per farsi più vicino ai banchi, col microfono in mano per rispondere alle domande che gli facevano sui suoi libri o sui temi etici e sociali di cui si era occupato, aveva l’aria di essersi appena alzato dalla terza fila (la prima no perché non era un secchione, l’ultima neppure perché era tutto tranne che svogliato), ecco: aveva l’aria di essere uno di loro a cui semplicemente erano capitate più cose, che aveva elaborato più idee. Era un uomo, ma anche un ragazzo, e non lo dimenticava neppure nelle occasioni più importanti e ufficiali. Dopo il liceo si era iscritto alla facoltà di filosofia a Roma e poi aveva continuato a portare se stesso – studio, linguaggio critico, voracità cognitiva – nelle redazioni dei giornali, soprattutto Lo straniero di cui a lungo era stato vicedirettore. Aveva scritto molti e preziosi libri, da subito, da giovanissimo, in ognuno aveva lasciato un urlo, una denuncia prima che quel male diventasse “di moda”. Appena si affacciava l’ombra dello sciacallaggio, dell’abuso del tema, Alessandro era già altrove, e intanto seminava, prima e con più esattezza di altri: Le male vite sul contrabbando, Fumo sulla città su Taranto dall’Ilva a Giancarlo Cito, Il naufragio sulla motovedetta albanese Kater i Rades speronata da un’imbarcazione della marina militare italiana, La frontiera sui migranti, Uomini e caporali sul caporalato pugliese. Il libro che non scriverà, quello intorno a cui da tempo studiava e meditava, sarebbe stato sull’Argentina e sulle vittime della dittatura, aveva cominciato scrivendone in un articolo e poi in un racconto per un’antologia collettiva: stava, come spesso accade agli scrittori, prendendo le misure per trovare il suo incipit, e di nuovo avrebbe scritto per far rivivere i morti.