1573.472es 20-10-2020 S Novecento di confine S FRANCOANGELI S toria toria Stupisce che le foibe e l’esodo istriano, temi spinosi quanto complessi, 1573.472 siano tutto sommato ancora poco noti. Fatti avvolti per decenni da un fitto cono d’ombra e intorno ai quali si è sviluppata una narrazione pubblica

decontestualizzata e senza filtri, spesso intrisa di luoghi comuni e defi- E. MILETTO nizioni approssimative. Collocare gli eventi nel contesto in cui si snodano è un’operazione essenziale per analizzare ogni processo storico. Lo è ancora di più per comprendere quanto avvenuto al confine orientale d’Italia, territorio segnato da tensioni e conflitti, dove si intrecciano irredentismi e naziona- lismi, fascismo di confine, occupazione tedesca e comunismo jugoslavo.

Uscire dalle contrapposizioni strumentali, riportare queste tematiche NOVECENTO DI CONFINE lungo i corretti binari storiografici e sgomberare il campo da interpretazioni fittizie è l’obiettivo di questo libro, che intende consegnare al lettore gli ele- menti necessari a comprendere la storia del lungo Novecento istriano. Una storia nella quale le foibe e l’esodo della popolazione italiana rappresentano soltanto un aspetto. Certamente drammatico, doloroso e tragico. Ma non l’unico, in quella che appare come una tormentata pagina del Novecento italiano.

Enrico Miletto è assegnista di ricerca e docente a contratto in Storia contemporanea presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università di Torino. Autore di contributi in riviste e opere collettanee, ha pubblicato, tra gli altri: Gli italiani di Tito. La Zona B del Territorio Libero di Trieste e l’emigrazione comunista in Jugoslavia 1947-1954 (2019); allo specchio. Storia e voci di una terra di confine (2007); Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Torino (2005). È inoltre curatore di Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano e dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento (2012). Enrico Miletto Novecento di confine

FrancoAngeli L’Istria, le foibe, l’esodo La passione per le conoscenze

€ 28,00 (U) Storia/Studi e ricerche Collana fondata da Marino Berengo e Franco Della Peruta

Direttori Giuseppe Berta, Carlo Capra, Giorgio Chittolini

Come dichiara nel suo titolo, la collana è aperta alla ricerca storica nella varietà e ricchezza dei suoi temi: politici, culturali, religiosi, economici e sociali; e spazia dal medioevo ai nostri giorni. L’intento della collana è raccogliere le nuove voci e riflettere le tendenze della cultura storica italiana. Contributi originali, dunque, in prevalenza dovuti a giovani studiosi, di vario orientamento e provenienza. La forma del saggio critico non andrà a detrimento di un sempre necessario corredo di riferimenti, di note e di appendici, pur mantenendo un impianto agile ed essenziale che entra nel vivo del lavoro storiografico in atto nel nostro paese.

Comitato scientifico Franco Amatori (Università Bocconi, Milano); Maria Luisa Betri (Università degli Studi di Milano); Giorgio Bigatti (Università Bocconi, Milano); Christof Dipper (Freiburg Institute for Advanced Studies); John Foot (University College London); Andrea Gamberini (Università degli Studi di Milano); Stefano Levati (Università degli Studi di Milano); Salvatore Lupo (Università degli Studi di Palermo); Luca Mannori (Università degli Studi di Firenze); Marco Meriggi (Università degli Studi di Napoli “Federico II”); Michela Minesso (Università degli Studi di Milano); Giovanni Muto (Università degli Studi di Napoli “Federico II”); Gilles Pécout (Ecole Normale Supérieure, Paris); Lucy Riall (Birkbeck College, University of London); Emanuela Scarpellini (Università degli Studi di Milano); Gian Maria Varanini (Università degli Studi di Verona).

Il comitato assicura attraverso un processo di peer review la validità scientifica dei volumi pubblicati.

I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità. Enrico Miletto Novecento di confine L’Istria, le foibe, l’esodo

FRANCOANGELI S toria

In copertina: Pola, l'esodo degli italiani, 1947, Archivio Storico della Città di Torino, Fondo «Gazzetta del Popolo» GDP_I_848_a (su concessione dell’Archivio Storico della Città di Torino; è vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione, con qualsiasi mezzo)

Progetto grafico di copertina: Elena Pellegrini

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Stampa: Geca Industrie Grafiche, Via Monferrato 54, 20098 San Giuliano Milanese Indice

Introduzione pag. 7

I. Venezia – Giulia, Italia (1880-1924) » 21 1. L’Istria e le identità plurime: italiani, sloveni, croati » 21 2. Nazionalità, nazioni, nazionalismi » 24 3. Viva l’Italia! » 28

II. Fascismo di confi ne » 38 1. Spalato » 38 2. Trieste, Narodni Dom » 40 3. Allogeni: il fascismo e la politica antislava » 49 4. «…Si ammazza troppo poco». L’occupazione italiana della provincia di Lubiana » 60

III. Foibe » 66 1. Ribalton » 66 2. Partigiani » 69 3. Zona di Operazioni Litorale Adriatico » 75 4. Foibe istriane » 80 5. Foibe giuliane » 84

IV. Esodo » 97 1. Il lungo dopoguerra europeo » 97 2. Confi ni (1945-1975) » 103 3. Jugoslavia » 114 4. Esodo » 121

5 V. Partenze pag. 130 1. Zara » 130 2. Fiume » 136 3. Pola » 142 4. Monfalcone » 151 5. L’esodo dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste » 161 6. Restare. La popolazione italiana rimasta in Istria » 166

VI. Arrivi » 171 1. La distribuzione dei profughi » 171 2. La macchina dell’assistenza » 176 3. Assistenza e provvedimenti legislativi » 183 4. «A calcioni nel sedere!». Le dinamiche dell’accoglienza » 187 5. Dai campi profughi ai borghi giuliani » 193

VII. I profughi dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste » 198 1. Profughi a Trieste » 198 2. Casa e lavoro: strategie e politiche di assistenza » 203 3. Transoceanica: i profughi e l’emigrazione oltreoceano » 207

Cronologia » 217

Indice dei nomi » 225

6 Introduzione

Il 10 febbraio 2005 si celebrò, per la prima volta, il Giorno del Ricordo a seguito dell’approvazione, il 30 marzo dell’anno precedente, della legge n. 92 con la quale il Parlamento italiano decise – votando trasversalmente il provvedimento, salvo alcune eccezioni1 – di istituire, nel novero del calen- dario civile celebrativo dei passaggi più signifi cativi della storia del nostro paese, una data per preservare e rinnovare, riprendendo le parole del decreto istitutivo, «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fi umani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confi ne orientale»2. La legge, che si poneva come un doveroso, benché tardivo, atto di rico- noscimento nei confronti di coloro che morirono o persero i propri cari nelle cavità carsiche o che vissero direttamente la traumatica esperienza dell’e- sodo, provocò fi n dai suoi primi passi aspre discussioni che contribuirono a fornire una rappresentazione del lungo Novecento istriano come uno scon- tro tra paradigmi ideologici. Il risultato fu quello di consegnare al discorso pubblico una narrazione tesa spesso a privilegiare la spettacolarizzazione degli avvenimenti, inca- pace di interrogarsi sulle cause che li provocarono, preferendo invece uti- lizzarli come strumenti di mobilitazione e legittimazione da parte di forze politiche desiderose di staccarsi, in maniera più o meno defi nitiva e ciascuna per svariate ragioni, dal proprio ingombrante passato.

1. Non votarono a favore della legge i senatori di Rifondazione comunista e dei Comu- nisti italiani. 2. Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confi ne orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, Legge 30 marzo 2004, n. 92, «Gazzetta Uffi ciale» n. 86, 13 aprile 2004, p. 4.

7 A quindici anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, pur facendo re- gistrare dei signifi cativi passi in avanti, lo scenario di fondo che avvolge il dibattito pubblico non sembra essere mutato di molto. Ancora oggi, infatti, prevale una linea narrativa nella quale si addensano meccanismi retorici che, quasi esclusivamente improntati alla ritualizzazione del ricordo e all’enfa- tizzazione ideologica, continuano ad appiattire le vicende, senza fornirne un’adeguata contestualizzazione che rappresenta il punto di partenza per la comprensione di fenomeni la cui corretta chiave di lettura non può prescin- dere dall’analisi di un quadro storico ampio e articolato. Ne emerge un panorama caotico e frastagliato, che tiene ai margini l’in- terconnessione tra i diversi momenti storici (nazionali ed europei) e sul qua- le ha inciso in maniera decisiva il linguaggio mediatico, soprattutto quello televisivo e cinematografi co. Un linguaggio volto a far assurgere le foibe e l’esodo a simboli onnicomprensivi di quanto accaduto sul confi ne orientale, puntando la lente di ingrandimento sulle cifre delle vittime e della diaspora istriana, che sembrano suscitare un interesse ben maggiore rispetto alle cau- se, ai processi e alle dinamiche che ne furono alla base. Si volga lo sguardo, ad esempio, ai palinsesti televisivi e alle uscite ci- nematografi che dell’ultimo quindicennio, nel quale trovano spazio prodotti che, tralasciando ogni giudizio artistico, hanno affrontato il tema attraverso un approccio superfi ciale, non esente da elementi di faziosità, privilegiando aspetti emozionali e retorici, senza però fornire una lettura coerente con il piano storico e storiografi co. La prima, in ordine cronologico, fu la fi ction televisiva della Rai prodotta nel 2005, Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin3. Una pellicola dalla trama romanzata, intrisa di stereotipi e omissioni, con deboli (ed errati) elementi ispirati alla realtà storica. Trasmessa in prima serata e riproposta periodicamente in occasione del Giorno del Ricordo, raggiunse uno share piuttosto elevato, ma la sua messa in onda suscitò più di una critica. La stessa cornice ha accompagnato, nel 2013, lo spettacolo teatrale (poi trasmesso anche sui canali della televisione di Stato) di Simone Cristicchi intitolato Magazzino 18, che presenta molti aspetti opinabili sia sul piano interpretativo, sia su quello di una corretta ricostruzione storica4. Elementi di criticità dai toni decisamente più marcati si riscontrano an- che nell’ultimo nato, ovvero Red Land-Rosso Istria5, fi lm di Maximiliano

3. Il cuore nel Pozzo, regia di A. Negrin, (Rai Fiction/Rizzoli audiovisivi, Italia 2005). 4. Dallo spettacolo è stato tratto S. Cristicchi (con J. Bernas), Magazzino 18. Storie di italiani esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, Milano 2014. 5. Cfr. Red Land-Rosso Istria, regia di M.H. Bruno (Rai Cinema/Venicefi lm, Italia 2018).

8 Hernando Bruno, uscito nelle sale italiane nell’autunno 2018, proiettato congiuntamente in oltre cento cinema nel febbraio 2019 e andato in onda in prima serata su Rai Tre in occasione del Giorno del Ricordo 2019 e 2020. Priva di un coerente inquadramento storico ridotto a una serie di informa- zioni elusive (per giunta totalmente inesatte) nei titoli di coda, la pellicola rappresenta un esempio eclatante di come si possa rileggere, senza fi ltri e in maniera del tutto decontestualizzata, un determinato passaggio storico. Lo schema narrativo adottato appare il medesimo e prevede, oltre alla denuncia del silenzio e delle reticenze che hanno accompagnato questo seg- mento di storia nazionale, anche una presentazione molto semplifi cata degli avvenimenti, per chiudere con un’incursione sul terreno delle cifre fornen- do, in tutti i casi, dati numerici assolutamente lontani dalle dimensioni reali delle foibe e dell’esodo. Si tratta di rappresentazioni a uso pubblico e politico che conducono il discorso su binari volti a una celebrazione strumentale del Giorno del Ricordo, sempre più contrassegnato da speculazioni, ingerenze politiche e forti richiami ideologici che non aiutano ma, al contrario, allontanano dalla piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’a- rea dell’Alto Adriatico. Le stesse dinamiche si ritrovano, fatte salve alcune eccezioni, anche in trasmissioni televisive, articoli, contributi editoriali e interventi di esponenti politici nazionali o di amministratori locali, volti a proporre, nel clima di sovraesposizione mediatica che caratterizza ogni 10 febbraio, un messaggio che privilegia la lettura delle foibe utilizzando la categoria di pulizia etnica e genocidio programmato. Una visione che appare francamente inaccettabile. A scanso di equivoci, sgomberiamo il campo da ogni possibile minima- lizzazione: le foibe furono delle stragi compiute a più riprese nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 da parte degli apparati del movimento di liberazione jugoslavo, volti a colpire quanti, ai loro occhi, fossero ascrivibili alla categoria, piuttosto generica, di nemici del popolo. A guidare le esecu- zioni, come il lettore potrà apprendere dalla lettura del volume, vi erano tre obiettivi: punire quanti fossero sospettati di essersi macchiati di crimini con- tro il movimento popolare di liberazione, epurare gli elementi che avrebbero potuto opporsi all’annessione delle terre giuliane e istriane alla Jugoslavia e intimidire la popolazione italiana per scoraggiare ogni possibile opposizio- ne al progetto politico jugoslavo. Non è però corretto ricondurre le foibe, che furono molto più sovente metodo di occultamento di cadaveri piuttosto che di eliminazione vera e propria, a un atto di pulizia etnica, poiché, come si è visto, a guidare le stragi

9 intervennero altri criteri. Allo stesso tempo esse non possono essere ascritte a logiche genocidiarie, i cui rifl essi sul territorio sono unicamente richiamati «dagli aspetti locali della shoah»6. Le foibe furono quindi un passaggio di violenza politica, messo in atto dal movimento di liberazione jugoslavo du- rante la presa di potere del territorio. Affermare il contrario signifi ca, a vari livelli, proporre una narrazione distorta del fenomeno, favorendo l’emergere di posizioni di chiusura assai diffi cili da emarginare. Un altro passaggio che merita più di una rifl essione riguarda l’esodo e le sue modalità di rappresentazione nella dimensione pubblica italiana, tesa a considerare la diaspora istriana come un caso esclusivamente nazionale, senza invece inserirlo, come sarebbe opportuno, nelle pieghe di un fenome- no europeo, e cioè quello degli spostamenti forzati di popolazione avvenuti nell’immediato dopoguerra ed eredi diretti del confl itto. Un confl itto senza il quale, per lo meno nello specifi co caso istriano, non sarebbe toccato ai giuliano-dalmati pagare in prima persona il prezzo, certamente elevatissimo, affi bbiato all’Italia per le colpe del fascismo e di una guerra che Mussolini aveva fortemente voluto. Occorre però precisare come l’esodo riguardò un’ampia fascia di popo- lazione, assumendo così i lineamenti di un trauma che, a ridosso e subito dopo la defi nizione dei confi ni, coinvolse trasversalmente l’intera comunità italiana. Se da un lato assistiamo a un racconto mirante, colpevolmente, a ridurre al minimo le responsabilità del fascismo, come è noto effettive ed evidenti, dall’altro notiamo la contemporanea presenza sulla scena pubblica di un modello narrativo teso a proporre, in un serrato ordine consequenziale, la successione fascismo, foibe ed esodo. L’intento sembra essere quello di in- serire vittime ed esuli nella categoria, anche in questo caso piuttosto fl es- sibile, di fascisti che pagarono con la vita o con l’esilio colpe presunte o effettivamente tali. Ciò che deve far rifl ettere di fronte a una visione di questo tipo, non è tanto il deplorabile (e deplorevole) tentativo di marginalizzazione, riduzione e in certi casi negazione (leggasi negazionismo) delle foibe, quanto il rifi uto ad accettare, in nome di pregiudiziali politiche, ciò che la documentazione ha saputo suggerire alla ricerca storica, ovvero la presenza, dietro alle stragi, di un progetto politico piuttosto chiaro, che non può certo essere limitato a scelte e responsabilità locali o a episodi di vendetta (che pur vi furono) nel drammatico clima della resa dei conti seguito alla caduta del fascismo prima e alla fi ne della guerra poi.

6. Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Vene- zia Giulia (Irsrec-Fvg), Vademecum per il giorno del ricordo, Irsrec-Fvg, Trieste 2020, p. 36.

10 Certamente, come oramai rilevato da molti percorsi di ricerca, gli aspetti di una rivolta dal basso verso l’alto e cioè contro la classe dirigente italiana, i simboli del partito fascista e dello stato italiano, entità divenute indistingui- bili agli occhi della popolazione slovena e croata, sembrarono caratterizzare in maniera prevalente, sebbene non esclusiva, gli avvenimenti dell’autunno 1943, al punto da richiamare l’immagine, fortemente evocativa, dell’antica jacquerie contadina. Il medesimo criterio non solo non può essere applicato, ma non appare nemmeno molto credibile se riferito alla primavera del 1945 e cioè a un pe- riodo nel quale il partito comunista jugoslavo (declinato anche nelle sue arti- colazioni slovene e croate) rappresentava un’entità ampiamente consolidata e la sua rigida struttura verticale sembrava essere l’unico modello accettato. Si trattava, in sintesi, di direttive la cui applicazione era demandata dall’alto ai singoli poteri locali che, dal loro punto di vista, potevano decidere se ac- crescere o diminuire il peso della resa dei conti. Ma in tale contesto il ruolo assunto dai vertici appare comunque cruciale. Lo stesso discorso si ritrova anche nella proposizione dell’esodo come rifl esso diretto del fascismo: secondo tale visione i profughi istriani avrebbero abbandonato le loro terre non perché obbligati e forzatamente espulsi, ma poiché fascisti in fuga, perseguitati da eventuali vendette e possibili ritorsioni. Anche in questo caso siamo di fronte a una rappre- sentazione che si limita ad affrontare un aspetto del tutto marginale del fenomeno, dimostrando la sua debolezza interpretativa se confrontata con il peso delle fonti. Sebbene queste ultime dimostrino come un piano preordinato di espul- sione della popolazione italiana non fosse stato approntato dal potere jugo- slavo, è però la loro analisi a rivelare l’avvio di un processo di jugoslavizza- zione del territorio che per una serie di ragioni (che sarebbe molto riduttivo ricondurre soltanto a una reazione al fascismo) interessò pesantemente la popolazione italiana al punto da far diventare l’esodo come l’unica opzione possibile. Questo libro intende discostarsi dai codici interpretativi appena delineati, nell’intento – parafrasando il passaggio di un appello lanciato da un grup- po di storici in occasione di alcune polemiche legate al passato Giorno del Ricordo – di «raccontare la storia, ma raccontarla tutta»7. Laddove il tutta non può certamente esimersi dal contestualizzare gli eventi, collocandoli nella cornice all’interno della quale si snodarono. E ciò vale sia per quanto

7. Appello in difesa del lavoro delle storiche e degli storici, , visitato il 10 luglio 2020.

11 concerne il ventennio fascista, sia per il periodo del comunismo jugoslavo e della politica di Tito, la cui mancata analisi renderebbe piuttosto diffi cile la piena comprensione di quanto accadde nell’autunno 1943, nella primavera 1945 e negli anni immediatamente successivi. Separare uno di questi elementi dagli altri non porta a una consapevo- lezza storica ma contribuisce, al contrario, a comprimere il discorso, spo- standone l’asse su un fragile piano consequenziale che non coglie a pieno i complessi processi di trasformazione che interessarono l’area dell’Alto Adriatico lungo l’intero arco del secolo scorso. Un asse rovente, alimen- tato da tensioni e confl itti che scandirono la progressiva affermazione di nazionalismi, totalitarismi e regimi autoritari che fecero della negazione dell’altro e della prevaricazione sull’altro uno dei loro tratti distintivi, por- tando nella fase fi nale della guerra e nel primo dopoguerra a esplosioni e cortocircuiti. Dividere il campo non favorisce nemmeno, come sarebbe auspicabile, il superamento di reticenze e rimozioni, passaggio indispensabile non solo per avviare un confronto tra memorie diverse, ma anche per porre il fulcro del discorso al di fuori di ogni contrapposizione strumentale del fenomeno che rischierebbe di danneggiare le vittime e gli esuli, che invece devono divenire parte integrante della storia del nostro paese. Utilizzando un approccio divulgativo, capace però di dialogare con le fonti e la ricerca storica e di allargare lo sguardo al composito panorama letterario il volume ricostruisce le vicende che, a più riprese, hanno segna- to la storia di quello che comunemente viene defi nito il confi ne orientale d’Italia. Le pagine seguenti hanno dunque l’ambizione di consegnare al letto- re le chiavi di lettura e le coordinate necessarie a orientarsi negli intricati passaggi di un’epoca articolata e complessa, nella quale le foibe e l’esodo della popolazione italiana rappresentarono soltanto un aspetto. Certamente drammatico, doloroso e tragico. Ma non l’unico. Il trauma dell’esodo, la sofferenza dei campi profughi, la quotidianità sospesa tra il costante senso di precarietà e la perdita di certezze e punti di riferimento, costituirono l’insieme degli elementi caratterizzanti l’arrivo in Italia dei giuliano-dalmati. Un paese ancora profondamente segnato dalle ferite della guerra, che sebbene li avesse soccorsi con i limitati mezzi a di- sposizione, lasciò i profughi a confrontarsi con le diffi coltà dell’accoglien- za, confi nandoli a lungo ai bordi della società, rendendo così molto faticoso il loro percorso di integrazione, che trovò pieno compimento soltanto molti anni più tardi.

12 Non pensiamo di sbagliare quando affermiamo che sulla pelle e nella memoria di quanti ne siano stati travolti, l’esodo abbia lasciato cicatrici «diffi cilmente rimarginabili»8. Ciò ha contribuito, negli esuli, alla matura- zione di un sentimento di spaesamento e a un rafforzamento della propria identità istriana, in realtà mai del tutto perduta da donne e uomini che hanno continuato a seguire il richiamo della terra natale, quasi fosse, come scrive la poetessa Ilma Rakusa, rievocando la sua infanzia da esule nell’Europa dell’immediato dopoguerra, «una voce mandata da un pastore fi dato»9. A ciò si aggiunge il ruolo e il valore assunto dalla memoria degli esuli, non solo strumento essenziale per tenere in vita momenti e passaggi di una storia per lungo tempo rimasta ai margini, ma anche prezioso giacimento cui gli storici hanno iniziato ad attingere a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e, con maggiore intensità, negli anni Novanta quando sullo scenario mondiale si delineava la fi ne della guerra fredda. Una memoria che costi- tuisce un punto di vista importante che presuppone però, elemento affatto secondario, il ricorso al supporto interpretativo delle fonti, portato avanti dagli storici attraverso un lungo, complicato e paziente lavoro di ricerca. Si tratta dunque, per riprendere una metafora proposta da Walter Benja- min, di «spazzolare la storia contropelo»10, applicando all’interpretazione della memoria le dovute istanze mediatrici che consentano di ricondurla al contesto in cui è stata prodotta, senza con ciò rinunciare alla sua signi- fi catività. Una memoria, si è detto, per lungo tempo esclusa dallo spazio pubblico dove, a differenza del dibattito storiografi co che aveva maturato già da tem- po un proprio percorso di rifl essione11, il tema dell’esodo, così come quello più generale dell’intero confi ne orientale, rimase per lungo tempo isolato, eccezion fatta per il ristretto ambito locale giuliano-dalmata e gli ambienti legati all’associazionismo degli esuli. L’interesse, legato alla defi nizione dei confi ni che contrassegnò il perio- do dell’immediato dopoguerra, era infatti destinato a svanire, portando così a una progressiva rimozione del tema dal discorso pubblico italiano. Ciò avvenne a causa di motivazioni che affondavano le proprie radici in elementi di politica internazionale e interna.

8. C. Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano 1997, p. 28. 9. I. Rakusa, Il mare che bagna i pensieri, Sellerio, Palermo 2001, p. 34. 10. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchet- ti, Einaudi, Torino 1997, p. 31. 11. Cfr. M. Bresciani, M. Orlić, Il confi ne orientale e i confl itti dell’alto Adriatico. Biblio- grafi a ragionata, Unicopli, Milano 2011.

13 Sul primo versante, pervaso dalle dinamiche della guerra fredda, giocò un ruolo decisivo il Memorandum di Londra, che chiuse defi nitivamente i giochi riducendo al minimo gli spazi di manovra: Trieste era tornata all’Ita- lia e la Zona B, dove comunque continuava a vivere una quota di popolazio- ne italiana, era stata annessa alla Jugoslavia. Un’ulteriore ragione era rappresentata dalla nuova collocazione della Ju- goslavia nello scacchiere internazionale, divenuta dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948, un interlocutore privilegiato dello schieramento occidentale atlantista. Quest’ultimo non nutriva alcun interesse a riportare alla luce le pressioni e le violenze jugoslave nei confronti della popolazione italiana e fi nì quindi per accettare la versione del leader jugoslavo, volta a sostenere il carattere politico e antifascista delle eliminazioni. Il discorso della rimozione riguardò però anche la politica italiana, che nel frattempo aveva visto mutare gli orizzonti verso i quali guardare. Intanto occorre sottolineare il progressivo avvicinamento tra Italia e Jugoslavia sul piano economico. Per l’Italia del boom, la cui economia era in una fase di straordinaria espansione, la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia rappresentava un partner commerciale dall’elevato potenziale. Occorreva quindi avviare, da ambo le parti, una politica di «buon vicinato»12 che diede i suoi frutti attraverso la stipula di accordi, convenzioni e scambi commerciali, unitamente a un aumento dei passaggi tra i valichi di frontiera dei due paesi. Erano dunque iniziate le prove generali di un’intesa divenuta molto stretta con lo scoccare degli anni Settanta. Il ritrovato dia- logo e la normalizzazione dei rapporti portarono all’abbandono dei terreni di scontro che fi no ad allora avevano contribuito ad alimentare le tensioni tra i due paesi: da parte jugoslava il ricordo dei crimini compiuti dallo stato fascista durante l’occupazione dei territori jugoslavi (la cui analisi scalfi sce il falso mito del bravo italiano diffusosi anche grazie alla compiacenza di buona parte della pubblicistica nazionale)13, da parte italiana le violenze mo- rali, fi siche e materiali inferte con le foibe e con l’esodo. A calare fu quindi un silenzio di fondo. Sul versante italiano vi furono ancora altri due elementi che già in pre- cedenza avevano contribuito in maniera determinante alla rimozione e che ebbero come protagonisti i principali attori della scena politica nazionale del

12. R. Pupo, 10 febbraio, Giorno del Ricordo, in A. Portelli, (a cura di), Calendario Civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Donzelli, Roma 2017, p. 30. 13. La Jugoslavia richiese anche, senza ottenerla, l’estradizione di alcuni alti uffi ciali dell’Esercito italiano.

14 tempo. Da un lato vi era il Partito comunista italiano che non aveva alcun interesse ad approfondire le vicende giuliano-dalmate per non far emergere la posizione del suo segretario, Palmiro Togliatti, che aveva sostenuto l’e- sercito jugoslavo avallando, per lo meno in un primo momento, le richieste territoriali di Tito. Dalla parte opposta troviamo la Democrazia cristiana, decisa a non approfondire la questione giuliana per non rendere ancora più esplicita la debolezza della diplomazia italiana in campo internazionale, emersa in maniera piuttosto evidente nel febbraio 1947 durante la fi rma del Trattato di pace, che vide il governo di Roma cedere alle richieste jugoslave e a quelle anglo-americane. Se la denuncia, a più riprese richiamata dalla pubblicistica e dai media italiani, di una ripetuta e lacunosa assenza dalla scena pubblica delle tema- tiche delle foibe e dell’esodo può trovare una sua motivazione nello scarso interesse riservato all’intera storia del confi ne orientale, essa appare invece una sollecitazione irricevibile per quanto concerne la produzione storiogra- fi ca che ha registrato consistenti spazi di approfondimento, fi gli non soltanto dei tempi più recenti. Pur non volendo addentrarci in un’analisi troppo specifi ca, è suffi ciente richiamare in questa sede alcune importanti stagioni di studi: la prima, conclusasi con la pubblicazione, nel 1980, de Storia di un esodo14, volu- me che ancora oggi rappresenta un rilevante punto di riferimento e il cui merito principale fu quello di aprire il campo visuale utilizzando nuovi approcci metodologici e interpretativi, iniziando così un percorso in grado di rapportarsi con le complessità dei processi storici snodatisi nei territori di confi ne. Gli anni Novanta coincisero con l’avvio di piste di ricerca che portarono, a partire dai primi Duemila, alla pubblicazione di lavori capaci di collocare il tema dell’esodo in una dimensione di lungo periodo, inserendolo in una narrazione che attraversava l’intero arco del Novecento, nel quadro più am- pio della storia nazionale. A ciò si aggiunsero produzioni che riservavano spazio alla prospettiva antropologica, caratterizzate dall’ampio utilizzo di testimonianze e storie di vita. Tale approccio rappresentò uno snodo signifi cativo non solo per il recupero delle memorie dei protagonisti, ma anche per la capacità di ricom- porre l’universo di cultura materiale, linguaggi, mentalità e valori che stava alla base della società istriana e che costituiva un patrimonio faticosamente

14. C. Colummi [et al.], Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia-Giulia (Irsml), Trieste 1980.

15 ricostruito, mantenuto e trasformato dagli esuli nelle nuove località in cui si trasferirono dopo l’abbandono della loro terra. Un’altra rilevante acquisizione storiografi ca, emersa durante questa flo- rida stagione di studi e rafforzatasi negli ultimi anni, è infi ne rappresentata dalla collocazione dell’esodo giuliano-dalmata nello scenario degli sposta- menti forzati di popolazione che attraversarono l’Europa postbellica, rile- vando così come la diaspora istriana rappresenti un tassello di un mosaico decisamente più ampio. Questa panoramica, per nulla esaustiva, rivela dunque come in realtà il tema dell’esodo e del confi ne orientale abbia da tempo trovato spazio nella produzione storiografi ca, rimandando al mittente le critiche circa un presun- to silenzio sulla materia da parte degli storici che, al contrario, hanno saputo rifl ettere e confrontarsi non solo a livello nazionale, ma anche con il versante sloveno e, seppur con meno profi tto, con quello croato. In proposito occorre menzionare l’istituzione, nel 1993, di due Com- missioni culturali miste italo-slovena e italo-croata. Un passaggio favori- to anche dalla dissoluzione della Jugoslavia e dai differenti approcci con i quali la Slovenia e la Croazia iniziavano a guardare alla loro storia recente. Se la Commissione italo-croata interruppe i lavori dopo una sola seduta, decisamente differente fu il percorso tracciato da quella italo-slovena che, insediatasi su iniziativa del governo italiano e di quello sloveno, rimase in attività per otto anni15. L’obiettivo dell’organismo era ricostruire la storia dei rapporti tra i due paesi dal 1880 al 1956. Dopo nove incontri, si arrivò all’elaborazione di un documento che, fi rmato a Capodistria il 25 luglio 2000, tracciava una panoramica delle ricerche svolte e sottolineava differenze e affi nità sul pia- no metodologico e interpretativo da parte italiana e slovena. Il dialogo e il confronto tra storiografi e nazionali diverse ha avuto il merito di favorire una visione più articolata della dinamica storica che, pur attenta alle continuità, tendeva a superare i paradigmi interpretativi del passato facendo spazio a nuove ipotesi basate sull’analisi dei diversi fi li che si erano intersecati nella storia dell’Alto Adriatico. Resta da chiedersi quanto e in che termini il Giorno del Ricordo, al di là dei suoi aspetti più liturgici e strumentali, abbia effettivamente contri- buito a stimolare interessi e costituito un’occasione di rifl essione. Dopo

15. Per ripercorrere l’attività della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, cfr. R. Pupo, Due vie per riconciliare il passato delle nazioni? Dalle Commissioni storico culturali italo-slovena e italo-croata alle giornate memoriali, in «Italia contemporanea», 282 (2016), pp. 233-256.

16 quindici anni, appare infatti possibile provare a stilare un bilancio in tal senso. Tralasciando le criticità dettate dalle già delineate speculazioni politiche, appare evidente come l’istituzione della data abbia avuto un impatto rile- vante, sia incoraggiando lavori di ricerca in ambito nazionale o rivolti alle diverse dimensioni locali, sia favorendo la divulgazione attraverso convegni, seminari, interventi pubblici, attività e percorsi didattici che, sostenuti dal rigore scientifi co e storiografi co, hanno saputo superare la retorica celebra- tiva, proponendo un quadro di analisi dallo spettro più ampio, capace di andare oltre alle foibe e all’esodo, per rifl ettere sulle tematiche che la legge istitutiva del Giorno del Ricordo indica come «le altre vicende» del confi ne orientale. Lo sforzo di proporre un ragionamento capace di muoversi in un’ottica di lungo periodo, di problematizzare il ruolo assunto dagli italiani (non esclu- sivamente vittime)16 e allargare la prospettiva alla dimensione europea, sem- bra infatti procedere proprio in tale direzione, testimoniando un auspicabile cambio di rotta e dimostrando come una data legata al calendario civile non si esaurisca con il solo – benché doveroso – momento celebrativo, ma possa divenire un’occasione per avviare costruttivi percorsi di studi e rifl essione. Nonostante l’argomento sia stato ricondotto alle sue dimensioni reali, continuano però a permanere alcune criticità che traggono linfa da posizioni nazionaliste e negazioniste. Da un lato si notano i rigurgiti nazionalisti non solo della destra extra- parlamentare, ma anche di quella che siede sugli scranni del Parlamento italiano ed europeo, i cui esponenti inneggiano al ritorno dell’Istria e della Dalmazia italiana (provocando la comprensibile reazione dei governi di Lu- biana e Zagabria)17 o sventolano, a più riprese, il paradigma della pulizia etnica, ignorando però, volutamente, ogni richiamo al fascismo di confi ne18. Su posizioni diametralmente opposte, ma altrettanto insostenibili, si attesta la sinistra radicale, sia nei suoi rappresentanti politici sia nelle sue ali più oltranziste, impegnata a focalizzare il discorso quasi esclusivamen- te sul nesso esistente tra le responsabilità del fascismo, che abbiamo già richiamato, e le foibe, intese come una reazione alle politiche adottate dal

16. Ivi, p. 249. 17. Cfr. Foibe. Slovenia e Croazia contro la frase di Tajani: «Viva Istria e Dalmazia ita- liane», «Corriere della Sera», 11 febbraio 2019. 18. Cfr. Matteo Salvini: «le foibe furono pulizia etnica. Sono Slovenia e Croazia a doversi scusare», «Il Gazzettino», 15 febbraio 2019; Foibe: Meloni zittisce tutti, «Il secolo d’Italia», 11 febbraio 2020.

17 regime nei confronti della popolazione slovena e croata. Un orientamento che porta a sostenere con una certa disinvoltura la tesi, prima piuttosto diffusa nella storiografi a di sinistra e in quella jugoslava, volta a defi nire le foibe come un fenomeno marginale se non inesistente e a ridurre la por- tata dell’esodo, ignorandone così le dinamiche e circoscrivendo le parten- ze degli italiani nell’ambito di una scelta volontaria, come conseguenza del diritto di opzione offerto dal Trattato di Parigi e dal Memorandum di Londra. Seppur differenti tra loro, tali posizioni evidenziano la presenza di un dibattito politico e culturale svuotato, teso a schiacciare la narrazione su un piano slegato dalla contestualizzazione e che predilige un approccio volto a sezionare la storia, scegliendone solo le trame che più si addicono a so- stenere il proprio codice interpretativo. E ciò vale, lo ripetiamo ancora una volta, tanto per chi riduce, sminuisce o addirittura nega i crimini del regime fascista, quanto per coloro che compiono un’operazione altrettanto avven- tata evitando di ragionare a fondo sulle pratiche e sui tratti, anch’essi duri e spietati, del sistema autoritario instaurato da Tito nella Jugoslavia comunista dell’immediato dopoguerra. Per mantenersi viva ed essere compresa, la storia non necessita di mani- polazioni strumentali, ma di un processo che riesca a mettere in contatto il discorso pubblico con i percorsi della ricerca che andrebbero non solo inter- rogati più spesso, ma dovrebbero costituire il principale punto di riferimento al quale guardare e dal quale muovere le fi la per costruire il discorso pub- blico. Anche perché col tempo gli storici hanno saputo passare al setaccio, mettendoli a fuoco, fatti, eventi e interpretazioni, fornendo risposte convin- centi che hanno contribuito a gettare fasci di luce sui coni d’ombra calati su questo passaggio della storia italiana. E non riconoscerlo signifi ca non voler fare i conti con il proprio passato. Che a oltre settant’anni da quelle vicende sarebbe invece ora di fare, guardando non solo al proprio dolore, ma anche a quello degli altri. Una necessità colta dai capi di stato di Italia, Slovenia e Croazia che il 13 luglio 2010, ovvero novant’anni dopo l’incendio del Narodmi Dom (la casa del popolo sloveno) da parte delle squadre fasciste, si incontrarono a Trieste, visitando i luoghi della memoria cittadina e partecipando, in Piazza Unità, al Concerto dell’amicizia, diretto da Riccardo Muti. La giornata rappresentò un primo e signifi cativo atto di riconciliazione tra i tre paesi, dopo le frizioni diplomatiche seguite alle prime celebrazioni del Giorno del Ricordo quan- do, da parte italiana, vi furono alcuni interventi che sollevarono la reazione dei governi di Slovenia e Croazia.

18 Il primo, in contrapposizione alla ricorrenza italiana, decise di istituire, nel 2005, la Festa del ritorno del litorale sloveno alla madrepatria, sceglien- do la data simbolica del 15 settembre, che richiamava l’entrata in vigore del Trattato di pace (15 settembre 1947), mentre l’allora presidente croato Stje- pan Mesić, dimostrò apertamente di non gradire le affermazioni di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica italiana, che nel 2007, durante il suo discorso commemorativo del Giorno del Ricordo, defi nì le foibe come un evento che assunse «i sinistri contorni della pulizia etnica»19. Ne nac- que un serrato contenzioso, poi ricomposto dalle diplomazie dei due paesi e chiuso a Trieste nel 2010. Dieci anni più tardi, il 13 luglio 2020, in occasione della restituzione dell’edifi cio del Narodni Dom alla comunità slovena, viene posto, ancora una volta a Trieste, un altro importante pilastro sulla strada della riappa- cifi cazione. A esserne protagonisti sono Sergio Mattarella e Borut Pahor, rispettivamente capo di stato italiano e sloveno che, prima davanti al me- moriale della foiba di Basovizza e successivamente di fronte al monumento dei Caduti sloveni (un cippo non molto distante che ricorda i fucilati sloveni per mano fascista), depongono delle corone di fi ori tenendosi per mano e restando in silenzio per un minuto. Un gesto simbolico, con il quale i due presidenti hanno tentato di sutura- re una ferita durata settant’anni, che rischia di essere riaperta dall’emergere di vecchi e nuovi nazionalismi, i cui rigidi schemi è auspicabile vengano emarginati dall’attivazione di un percorso di dialogo e confronto comune che, scevro da polemiche, ponga la storia al centro di ogni rifl essione futura, fornendo così le necessarie chiavi interpretative a riconnettere le vicende del confi ne orientale nel quadro più ampio della storia italiana ed europea.

19. Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del- la celebrazione del Giorno del Ricordo, 10 febbraio 2007. In Presidenza della Repubblica, , visitato il 15 luglio 2020.

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I. Venezia – Giulia, Italia (1880-1924)

1. L’Istria e le identità plurime: italiani, sloveni, croati

Tra tutte le province della monarchia austriaca, di certo non ce n’è una che sia ancora così poco conosciuta come l’Istria. […] Per lo storico, per lo statistico e per il geografo, l’Istria è di solito una terra incognita.

Così Istrien, una guida storica, geografi ca e statistica austriaca edita nel 1863 a Trieste, apriva la sua descrizione dell’Istria, evidenziando non solo la perifericità della regione nel novero dei territori dell’impero austro-unga- rico, ma anche la sua capacità di attrarre lo sguardo del viaggiatore, «il cui piede» – si legge nel testo – «era deviato all’interno»1 e sospinto a esplorare un panorama variopinto, tratteggiato dalla terra rossa e dalle rocce del Carso che scendevano fi no al mare. Emergeva l’istantanea di una terra semisconosciuta, resa ancor più attra- ente dal variegato paesaggio umano e culturale, frutto dei contatti tra le varie popolazioni che nel corso dei secoli avevano posato il loro sguardo su questo spicchio di Adriatico, dove vivevano, in uno spazio geografi co ridotto, tre grandi mondi culturali e linguistici: latino (italiano), slavo (sloveno, croato) e germanico (tedesco). Connotati solo più tardi da una matrice nazionale, essi avviarono tra loro confronti tesi e serrati, ma seppero anche incontrarsi reciprocamente, contribuendo a forgiare un microcosmo multiculturale contrassegnato da un forte senso di appartenenza al territorio e da un’identità istriana in grado di

1. Istrien. Historische, geographisce und Statistische Darstellung det Istrischen Halbin- sel, Tipografi a del Lloyd, Trieste 1863, p. 1. Il testo originale con relativa traduzione si trova in G. Mellinato, L’estremità periferica. Una prospettiva economica dell’Istria (1891-1943), in G. Mellinato, L. Dorigo, B. Mannino, Istria Europa. Economia e Storia di una regione periferica, Circolo di Cultura Istro-Veneta «Istria», Trieste 2012, pp. 16-17.

21 racchiudere il carattere plurietnico della regione che, tralasciando le entità dal peso specifi co minore, aveva negli italiani, negli sloveni e nei croati le comunità più rappresentative. Furono soprattutto i poeti e i letterati a cogliere, dandone voce, le pecu- liarità dell’area guardandola da una prospettiva che rifl ette e restituisce una luce nella quale legami e relazioni oltrepassano estraneità e dissonanze. Versi e parole maturati in diversi momenti storici, eppure in grado di comporre un romanzo dalle trame concentriche e connesse tra loro dipin- gono uno scenario composito nel quale ogni differenza si assottiglia e si ingigantisce o, allo stesso tempo, si respinge e si attrae. Fu così per Giani Stuparich, triestino di nascita ma di radici istriane (il padre Marco, di origine dalmata e austriaca, era nato a Lussino), collabora- tore de «La Voce» prezzoliniana e volontario sul Carso durante la Grande guerra, che scelse come terra di origine e di elezione l’Istria, popolata, scrive nei suoi Ricordi istriani, da «due mondi», ciascuno «con la propria atmosfe- ra, coi loro aspetti singolari e diversi»2. Una pluralità restituita anche da Scipio Slataper, che in una lettera scritta a Luisa Carniel, sua futura moglie, si defi niva «slavo, tedesco, italiano»3, concedendo così piena cittadinanza alla cultura slovena e croata. Lungo gli stessi binari viaggiavano anche Guido Miglia e Fulvio Tomizza, due tra i più sensibili narratori delle terre istriane. Il primo, fondatore de «L’Arena di Pola», principale voce della città dal 1945 fi no al grande esodo del 1947, riconobbe l’esistenza di due Istrie, una veneziana lungo la costa, l’altra slava nell’entroterra: entrambe di presenza secolare, si ritrovavano in una «mescolanza di lingue, voci, colori e persino di odori»4. Tomizza, nato a Giurizzani piccolo borgo nei pressi di Umago da padre italiano e madre croata, modellò come una scultura la grande anima istriana, nella quale convergevano affi nità e differenze, dando luogo a una pluralità di appartenenze e a una coscienza multietnica divenute, nella sua scrittura, il tratto distintivo di un crocevia che trovava nell’identifi cazione col territorio e con le sue caratteristiche storiche e culturali la naturale condizione del vivere5.

2. G. Stuparich, Ricordi istriani, Einaudi, Torino 1994, p. 94. 3. S. Slataper, Alle tre amiche, Mondadori, Milano 1958, p. 421. 4. G. Miglia, L’Istria una quercia, Edizioni Circolo di Cultura «Istria», Trieste 1994, p. 64. 5. Per un approccio alla narrativa di frontiera di Fulvio Tomizza si consiglia la lettura di Materada, il suo primo romanzo edito nel 1960 e di La ragazza di Petrovia pubblicato nel 1963. Tomizza fu anche giornalista e scrisse articoli che avevano come spunto il viaggio,

22 Quasi fossimo di fronte a un patchwork, l’Istria si presenta cucita con scampoli diversi, la cui forma non trova una piena comprensione se non at- traverso l’analisi minuziosa di ogni singolo pezzo di stoffa. Un tessuto grez- zo e frastagliato nel quale le differenti parti, ciascuna strutturata e distribuita a suo modo, assumono le sembianze di identità storiche, sociali, linguistiche e culturali che, come si è visto, possono combaciare oppure respingersi. Illustre erede della Repubblica di Venezia, incontrastata dominatrice dell’area fi no al 1797, quando il Trattato di Campoformio ne decretò il pas- saggio all’impero austriaco che la amministrò (salvo una breve parentesi na- poleonica tra il 1806 e il 1813) fi no al termine della prima guerra mondiale, la componente italiana prevaleva nei centri urbani dislocati lungo la costa occidentale della penisola, riuscendo comunque ad aggregare tra le sue fi la i nuclei italofoni sparsi nelle zone rurali dell’interno. Differente si presentava invece la situazione in Dalmazia, dove la popola- zione italiana, del tutto minoritaria, rappresentava un’élite culturale, politica ed economica, distribuita soprattutto a Zara e nelle principali città costiere. Appare comunque evidente come la cultura e la lingua italiana, peraltro in- serite in un contesto dove, oltre a quella veneziana, monumenti, edifi ci e strutture architettoniche richiamavano anche le passate vestigia dell’Impero romano, si espandessero ben oltre le appartenenze nazionali, dando vita a «un’identità dalmata di carattere regionale»6. La presenza della Serenissima contribuì inoltre alla diffusione sull’intera area della lingua italiana o, per meglio dire, veneziana. Nel corso dell’intera età moderna fu infatti questo l’idioma più utilizzato lungo le sponde dell’A- driatico orientale, non solo nella comunicazione, ma anche nel commercio e nella marineria, diventando uno dei principali simboli dell’identità istriana. Lingua viva che ha resistito al tempo, considerata dai linguisti una va- riante del veneto, l’istro-veneto costituisce, ieri come oggi, la principale for- ma di espressione verbale degli italiani d’Istria, arrivando però a permeare anche alcune porzioni dell’interno sviluppando, grazie ai contatti con il dia- letto croato, vere e proprie forme di ibridismo. Se la fascia costiera e i centri urbani della penisola istriana contavano una prevalenza italiana, differente è il discorso inerente le zone rurali dell’en- troterra nelle quali, adottando come chiave di lettura primaria la dicotomia dall’Adriatico all’Europa, ma non solo. Una raccolta dei suoi contributi pubblicati su vari quotidiani si trova in F. Tomizza, Adriatico e altre rotte. Viaggi e reportage, (a cura di M. Moretto), Diabasis, Reggio Emilia 2007. 6. M. Cattaruzza, L’Italia e il confi ne orientale 1866-2006, il Mulino, 2007, p. 16.

23 città/campagna e fascia costiera/territori interni, spesso utilizzata dalla sto- riografi a italiana, appariva maggioritaria la concentrazione di popolazione slovena e croata. La prima trovava il proprio riferimento soprattutto nell’Istria settentrio- nale, mentre la seconda, a sua volta suddivisa in sottogruppi tra loro diffe- renti per lingua e origine, era maggiormente distribuita nelle campagne e nell’Istria orientale. Un’effi cace sintesi interpretativa di tale situazione è restituita dal model- lo proposto da Carlo Schiffrer: soffermandosi sulle caratteristiche storiche del popolamento della regione, sulla sua composizione etnico – linguistica e sulla rappresentazione dualistica del territorio istriano, lo storico triestino indicò la defi nizione di «nazione cittadina» e «nazione campagnola»7 inse- diate, rispettivamente, nelle aree urbane e costiere e in quelle rurali dell’in- terno. Alla prima apparteneva, in linea generale, l’ambito italiano costituito dai ceti di condizione elevata, mentre alla seconda si legava la componente slovena e croata che presentava divisioni sociali esigue e piuttosto limitate. È però opportuno sottolineare come quello appena proposto non possa essere considerato un paradigma utilizzabile in termini assoluti e applicabile in toto all’intera area, che presentava almeno tre signifi cative varianti: da una parte la presenza, lungo il tratto costiero che da Duino si spinge fi no alla periferia di Trieste, di un gruppo sloveno che, sebbene non numeroso, assunse caratteri di compattezza tali da creare una discontinuità con il resto del territorio, dall’altra l’esistenza di un blocco italiano rurale costituito da grandi, piccoli e medi proprietari terrieri. In ultimo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si ebbe la nasci- ta nei grandi centri urbani di Trieste e, in particolar modo, di Fiume di un ceto borghese urbano slavo, in grado di crescere e consolidarsi al punto da creare non poche diffi coltà alla classe dirigente italiana, contribuendo così a un progressivo deragliamento dei rapporti e, soprattutto, a un innalzamento dello scontro sulla base della confl ittualità nazionale.

2. Nazionalità, nazioni, nazionalismi

Nel contesto appena descritto, la possibilità di continuare a coltivare un dialogo tra le parti venne meno anche per il contemporaneo emergere dei movimenti nazionali, pronti a invadere il campo, generando così un clima di

7. E. Apih, Carlo Schiffrer, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1993, p. 36.

24 ostilità e tensioni nel quale lo spazio per le diverse anime dell’Istria sembra- va essere soffocato quasi del tutto. Si trattò di un passaggio iniziato nella seconda metà dell’Ottocento, che conobbe un’accelerazione a partire dal 1866 (data della Terza guerra di indi- pendenza), quando nell’intero Litorale austriaco8, il confronto tra gli opposti nazionalismi assunse toni sempre più accesi. Uno scontro dettato dall’affer- mazione e dalla rivendicazione delle rispettive idee nazionali sia da parte della popolazione italiana, che a seguito della creazione del Regno d’Italia accrebbe la propria consapevolezza nazionale, sia della componente slove- na e croata, che vide il consolidamento dell’identità nazionale procedere parallelamente alla crescita del peso economico, culturale e politico oramai assunto nella società istriana. La monarchia asburgica, chiamata a confrontarsi con i processi di moder- nizzazione e trasformazione economica che avevano interessato tanto l’Eu- ropa centrale quanto l’area adriatica, fu sostanzialmente incapace di conte- nere tali contrasti. Essa dimostrò un’effettiva debolezza nella creazione di un sistema politico in grado di concedere nelle strutture statuali i necessari spazi di rappresentazione alle differenti componenti dell’impero, che trova- rono così nelle singole istanze nazionali uno dei principali terreni di attrito. Se gli italiani miravano a tutelare la posizione di egemonia culturale, politica, economica e sociale maturata negli anni, sloveni e croati avevano invece l’obiettivo di sovvertire la situazione esistente. Ciò allarmò non poco gli apparati più in vista della popolazione italiana che reagì amplifi cando e rafforzando le politiche di difesa della propria nazionalità, contribuendo così a rendere più aspri i rapporti tra i gruppi, ciascuno dei quali aspirava a imprimere sul territorio la propria impronta e a rivendicare un’identità nazionale tesa a cancellare la comune appartenenza alla terra nella quale affondavano le radici9. Il processo di nazionalizzazione condusse così alla progressiva forma- zione di due distinte società nazionali che sebbene si muovessero tra i con- torni del medesimo stato, si ponevano su posizioni opposte e slegate tra loro, trovando però un denominatore comune nella volontà di procedere alla con-

8. Regione amministrativa dell’impero austro-ungarico, il Litorale austriaco si estendeva dalla valle del fi ume Isonzo a nord, fi no alla penisola istriana a sud, con i centri urbani di Trieste, Gorizia, Postumia e Pola. 9. Sul rapporto tra il nazionalismo italiano e quello sloveno, cfr. M. Verginella, Il confi ne degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma 2008, pp. 87-113. Per una prospettiva che prenda in considerazione il versante italiano, cfr. M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico orientale (1850- 1950), Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

25 quista delle istituzioni. Erano infatti proprio queste ultime, come suggerisce Raoul Pupo, a «condizionare fortemente i processi di nazionalizzazione»10. In tale ottica, acuita dalla crisi dell’Impero asburgico e del suo sistema di larghe autonomie, uno spartiacque decisivo fu rappresentato dalla Grande guerra. Il confl itto allargò infatti il campo, spostando il fuoco dei movimenti nazionali italiano, sloveno e croato, non più impegnati a prevalere soltan- to sul piano locale, ma decisi a guardare ciascuno verso il proprio stato nazionale di riferimento, considerato come l’unica entità in grado di pro- teggere l’identità nazionale. Uno stato disposto ad appoggiare sul piano politico, istituzionale e militare le istanze della sua parte irredenta con lo scopo di raggiungere la piena convergenza tra i confi ni statali e quelli della nazione. Alla vigilia del primo confl itto mondiale maturava così tra la popolazio- ne italiana la percezione di essere vittima di un vero e proprio accerchia- mento da parte dell’antagonista nazionale sloveno e croato impegnato, dal canto suo, a reclamare a gran voce parità di diritti sul piano linguistico e cul- turale. Si veda in proposito un effi cace quadro proposto da Ernesto Sestan che ritrae gli intellettuali della regione impegnati a profondere ogni sforzo verso quello che lo storico trentino di origine istriana defi nisce il «punctum dolens, ossessionante, della nazionalità»11. Echi giunti fi no alla madrepatria che non poteva rimanere indifferente di fronte al grido di aiuto dei suoi fi gli d’oltre confi ne. Grazie anche al sa- piente utilizzo di un apparato propagandistico che poggiava sul supporto di riferimenti letterari, argomentazioni storiche e geografi che, si diffuse infat- ti molto rapidamente l’immagine dei territori italofoni dell’Alto Adriatico soggiogati dallo spietato artiglio dell’impero austriaco che vi esercitava un governo tanto ostile quanto illegittimo. Alimentata dal mito dell’identità etnica sul quale, soprattutto dopo l’ina- sprimento delle tensioni tra Italia e Austria, sferzava con forza dirompente il vento dell’irredentismo, oramai entrato in maniera spettacolare sulla scena politica italiana12, la questione del confi ne orientale iniziò dunque a trovare nel discorso pubblico del paese attenzioni sempre maggiori.

10. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005, p. 17. 11. E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Centro libra- rio, Bari 1965, p. 103. 12. Un contributo di notevole interesse per approccio e quadro fattuale relativo all’irre- dentismo italiano viene offerto da R. Lunzer, Irredentismo Italiano (1880-1915). Irredenti, irredentisti e irredenti irredentisti, in «Zibaldone Estudios Italianos», 6 (2018), pp. 14-25.

26 Penetrando nell’immaginario e nella coscienza degli italiani e assumen- do uno spessore sempre più ampio nella sfera politica, essa divenne uno spazio simbolico collocato a pieno titolo nel lessico della nazione, che non solo riteneva fondate le aspirazioni alla rivendicazione dei territori dell’A- driatico orientale (e dell’Alto Adige), ma li considerava vitali per la difesa dei confi ni e per il compimento dell’unità nazionale. Una visione che traeva linfa da un impianto argomentativo di mazziniana memoria (si veda il noto articolo La pace pubblicato il 25 agosto 1866 su l’«Unità Italiana», quotidiano politico milanese, nel quale Mazzini afferma- va come l’Italia non potesse rinunciare ai suoi territori in Austria) e trovava più di un riferimento anche nelle parole di Prospero Francesco Antonini. Patriota friulano, costretto all’esilio a Torino dopo la fi rma dell’armistizio di Villafranca del 1859 che pose fi ne alla Seconda guerra d’indipendenza, scrisse Il Friuli orientale, dato alle stampe nel 1865. Nella sua corposa opera egli defi nì l’Istria come «il compimento naturale della Venezia», indicandola come un’area spettante «indubbiamente per ragione geografi ca alla nazione italiana», che ne «abbisogna volendo compiere la propria unità politica». Tale posizione, nella quale non sembrava trovare spazio alcun richiamo a popoli, culture e lingue differenti da quella italiana, posava il suo fondamen- to ideologico su due elementi. Da una parte vi era il legame storico risalente al disegno risorgimentale di unifi cazione di lingua, popolo e cultura entro le frontiere dello stato na- zionale italiano ingiustamente rimaste sotto l’amministrazione austriaca a seguito delle guerre d’indipendenza, dall’altra emergeva la questione dei confi ni naturali, geografi ci, storici e strategici «dell’Italia continentale verso Oriente», individuati nelle Alpi Giulie e nel golfo del Quarnaro. Soltanto dopo aver raggiunto «quelle frontiere che la natura le ha segnato», l’Italia – affermava Antonini – avrebbe potuto ritenersi «paga e contenta»13. L’italianità della regione era sostenuta anche da Graziadio Isaia Ascoli, glottologo goriziano appartenente a una benestante famiglia ebraica, che suggerì di sostituire la denominazione uffi ciale di Litorale austriaco (Österreichisches Küstenland) con il termine Venezia-Giulia. La sua proposta venne lanciata dalle colonne di «Museo di famiglia», rivista illustrata stampata a Milano dai Fratelli Treves, che il 23 agosto 1863 ospitò un suo contributo intitolato Le Venezie nel quale individuava nell’Eu- ganea, nella Tridentina e nella Giulia le tre Venezie irredente: Noi diremo Venezia Propria il territorio rinchiuso negli attuali confi ni amministrativi delle provincie venete; diremo Venezia Tridentina o Retica (meglio Tridentina) quello

13. P. F. Antonini, Il Friuli orientale. Uno studio, Francesco Vallardi, Milano 1865, pp. 21, 35, 663.

27 che pende dalle Alpi Tridentine e può aver per capitale Trento; e Venezia Giulia sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia e Trieste e l’Istria. Ad animare Ascoli non vi era però alcun disegno separatista. Lo di- mostrano le sue ripetute prese di posizione contro le tesi annessionistiche promosse dagli ambienti irredentisti più radicali, ai quali contrapponeva, nell’ottica di un auspicabile riordinamento istituzionale della regione, una pacifi ca convivenza con la parte di popolazione slovena e croata14. Alla base del neologismo stava dunque la volontà del suo ideatore di fornire visibilità alla componente italiana dell’impero asburgico, ponendo l’accento sull’unità linguistica e quindi, dal suo punto di vista, anche nazio- nale del Litorale austriaco. Se si eccettua la comparsa in alcune opere di carattere storico e geogra- fi co edite tra il 1878 e il 1888, la denominazione Venezia-Giulia faticò a prendere piede, iniziando a diffondersi con maggior vigore soltanto dopo lo scoppio del primo confl itto mondiale quando, non estranea a strumentaliz- zazioni propagandistiche di stampo nazionalista, fi nì per trovare piena inve- stitura nella retorica delle terre irredente che accompagnava l’elaborazione delle richieste territoriali italiane e, successivamente, ne celebrava l’acquisi- zione sancendone così l’anelato ritorno tra i confi ni patri. Un mito del ritorno alimentato per legittimare una guerra giusta, combat- tuta in nome di una «rivendicazione nazionale»15 intorno alla quale avrebbe dovuto saldarsi il consenso dell’intero paese.

3. Viva l’Italia!

Dopo aver falcidiato intere generazioni di uomini e provocato un nume- ro impressionante di caduti (tra i 680.000 e i 709.000, considerando anche quanti morirono negli anni immediatamente successivi alla guerra per ra- gioni a essa connesse16), il fragore delle armi cessò il 4 novembre 1918. Il

14. Cfr. F. Salimbeni, G.I. Ascoli e la Venezia Giulia, in «Quaderni giuliani di storia», 1 (1980), pp. 51-68. Sulla fi gura di Ascoli cfr. I. Santeusanio, L’idea di Friuli nelle lotte politi- co-nazionali del Goriziano, in F. Tassin (a cura di), Cultura friulana nel goriziano, Istituto di storia sociale e religiosa, Gorizia 1988, pp. 198-200. 15. M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 283. 16. La cifra realtiva ai caduti italiani durante la Grande guerra si trova in F. Cappellano, La guerra sul fronte italiano, in N. Labanca (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2016 p. 99.

28 giorno precedente, infatti, a seguito di segrete e concitate trattative iniziate il 1° novembre, il Comando supremo militare italiano e il suo equivalente austriaco fi rmarono alle porte di Padova, in quella che era stata la residenza di Vittorio Emanuele III dopo Caporetto, l’armistizio di Villa Giusti. Redatto in francese, lingua corrente nella diplomazia dell’epoca, il do- cumento sanciva quindi la fi ne delle ostilità, la dissoluzione dell’impero austro-ungarico e il disfacimento del suo esercito, «i cui resti», come an- nunciava il Bollettino della Vittoria fi rmato da Armando Diaz, capo di stato maggiore dell’esercito italiano, risalivano «in disordine e senza speranza le valli che avevano sceso con orgogliosa sicurezza»17. Il 4 novembre, dopo che l’Audace, il cacciatorpediniere della Regia ma- rina con a bordo il generale Carlo Pettiti di Roreto fece il suo ingresso trion- fale a Trieste riportando, come affermava Diaz, il «tricolore italiano» a sven- tolare «sulla Torre di San Giusto»18, le truppe del Regio esercito italiano, mossero alla volta della Dalmazia e dell’Istria per assumere, come previsto dal Patto di Londra, il pieno possesso del territorio19. In Dalmazia gli sforzi del Comando supremo militare si concentrarono immediatamente verso Zara, dove nel pomeriggio attraccò sulla Riva Vec- chia la A.S.55, una torpediniera di modeste dimensioni comandata dal baro- ne Felice De Boccard, salpata qualche ora prima dal porto di Venezia. Nato a Verona nel 1880, formatosi all’Accademia navale di Livorno, De Boccard partecipò alla guerra italo-turca (1912-1913) per poi prendere parte come comandante di torpediniera alla Grande guerra, al termine della quale fu decorato, come riporta il Dizionario biografi co della Marina italiana, con «la croce di guerra al valor militare»20.

17. Il Bollettino di guerra n. 1268, meglio noto come Bollettino della Vittoria, diffuso il 4 novembre 1918, fu pubblicato su tutti i principali quotidiani italiani. Per una sua immediata consultazione si rimanda al Testo integrale del Bollettino della vittoria, presente sul portale del Ministero della Difesa, in , visitato il 23 marzo 2020. 18. Gli italiani a Trento e Trieste, in «Il Momento», 4 novembre 1918. Sull’ingresso dell’Audace a Trieste, cfr. L. Nacci, Trieste selvatica, Laterza, Roma-Bari, 2019, p. 109. 19. Il 26 aprile 1915 Antonio Salandra e Sidney Sonnino, rispettivamente Primo ministro e ministro degli Esteri del governo italiano, fi rmarono, segretamente e senza informare il Parlamento, con i rappresentanti della Triplice Intesa il cosiddetto Patto di Londra. Si trattava di un accordo che poneva fi ne alla neutralità italiana, sancendo l’ingresso del paese nel con- fl itto a fi anco dell’Intesa entro un mese dalla sigla dell’accordo. In cambio, oltre al Trentino, al Tirolo (fi no alla zona del Brennero), all’arcipelago del Dodecaneso e alla base militare di Valona in Albania, l’Italia avrebbe ottenuto, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana, a esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia e numerose isole dell’Adriatico. 20. P. Alberini, F. Prosperini, Uomini della Marina:1861-1946. Dizionario biografi co, Uffi cio storico della Marina, Roma 2015, p. 175.

29 Fu dunque lui a entrare per primo in città, prendendone possesso in nome del re e issando sul municipio, già sede della Luogotenenza austriaca, il tri- colore italiano. Ad accoglierlo, insieme al podestà Luigi Ziliotto, vi era una folla in tripudio dalla quale, come riferisce una corrispondenza di Arnaldo Fraccaroli pubblicata sulle pagine del «Corriere della Sera», venne «attor- niato, festeggiato, abbracciato, coperto di fi ori e di baci»21. Le stesse scene di giubilo e irrefrenabile entusiasmo si registrarono an- che nelle città costiere dell’Istria a maggioranza italiana e a Pola dove, come annunciava un comunicato dello Stato maggiore della Regia marina del 6 novembre, i militari italiani furono ricevuti «festosamente dalla folla»22. Alla testa dei reparti dell’esercito e della marina vi era il vice-ammiraglio Umberto Cagni. Astigiano, frequentò l’Accademia navale di Napoli, per poi partecipare a missioni esplorative al Polo nord e maturare importanti espe- rienze militari: guidò le operazioni navali di soccorso dopo il terremoto di Messina (1908), prese parte all’impresa di Libia e assunse il comando degli incrociatori della marina italiana durante la guerra appena terminata. L’esaltazione per l’arrivo dell’esercito italiano non coinvolse invece la popolazione slovena e croata residente nelle zone dell’Istria interna e della Dalmazia (a Sebenico, ad esempio, la presa di possesso della città avvenne soltanto il 9 novembre), contribuendo a esasperare contrapposizioni nazio- nalistiche e attriti già esistenti. Non poche diffi coltà accompagnarono anche l’ingresso dei militari ita- liani a Fiume. La città, esclusa dai territori attribuiti all’Italia dal Patto di Londra, pote- va contare oltre alla popolazione italiana, maggioritaria, anche un cospicuo nucleo di abitanti di origine croata, distribuiti soprattutto nel sobborgo di Sussak e in altre zone limitrofe dell’entroterra, che guardavano invece con favore all’opzione jugoslava. Le manovre italiane suscitarono dunque più di una preoccupazione all’interno del Consiglio nazionale jugoslavo di Zagabria. Si trattava del più elevato organo istituzionale dello stato degli Sloveni, Croati e Serbi, formatosi il 29 ottobre 1918 e sostituito, il 1° dicembre dello stesso anno, dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS)23, la cui proclamazione a opera

21. A. Fraccaroli, Le trionfali accoglienze di Fiume e di Zara alle truppe italiane, «Cor- riere della Sera», 8 novembre 1918. 22. La citazione del comunicato della Regia Marina del 6 novembre 1918 è tratta da L’ammiraglio Cagni con soldati e marinai è entrato a Pola, in «La Stampa», 7 no- vembre 1918 23. Dal 1929 il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, assunse uffi cialmente la denominazio- ne di Regno di Jugoslavia. Sui processi di formazione e sulla fondazione del Regno dei Serbi,

30 del principe reggente serbo Aleksandar Karađorđević certifi cò l’unione alla Serbia e al Montenegro dei territori slavi-meridionali dell’oramai dissolto impero asburgico. La situazione si presentava dunque alquanto spinosa: molti erano i dubbi sul futuro della città e la tensione politica, generata dal contrasto tra la fazio- ne italiana e quella croata, aveva raggiunto i massimi livelli24. Da un lato vi era infatti il comitato fi umano del Consiglio nazionale jugo- slavo che aveva ricevuto da Zagabria l’ordine di occupare la città, dall’altro i membri del Consiglio comunale fi umano che spingevano per Fiume italiana. Il 2 novembre questi ultimi si recarono a Roma, dove ebbero un collo- quio con l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel che, dopo essersi consultato con il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, decise di inviare in città un contingente militare guidato dall’ammiraglio Guglielmo Rainer. Le navi italiane attraccarono sulle banchine del porto il 4 novembre, incon- trando la prevedibile soddisfazione della popolazione italiana, costretta però ben presto a riporre la sua esultanza. Le disposizioni ricevute da Rainer da parte di Roma apparivano chiare: proteggere gli italiani ma evitare ogni azione che potesse inasprire i contrasti. Le truppe italiane restarono così a bordo delle navi fi no al 14 novem- bre, giorno in cui si diffuse la notizia dell’immediato arrivo in città di due battaglioni dell’esercito serbo, al quale si sarebbero uniti anche contingenti croati. Tale mossa ruppe gli indugi. Il governo italiano autorizzò lo sbarco del proprio esercito, inviando in supporto nuove forze a bordo dell’incrociatore San Marco, del piroscafo Karlsbad e dell’Audace, sul quale viaggiava anche un reparto statunitense per caratterizzare in senso interalleato l’occupazione militare della città. Seguirono momenti di grande concitazione, segnati dall’indecisione di Rainer che scelse una condotta attendista intavolando delle trattative con i comandanti croati per favorirne l’evacuazione. Lo sbarco e il conseguente ingresso delle truppe italiane, alle quali si era aggiunta la III Armata arrivata via terra, avvenne così soltanto il 17 novembre. Senza incontrare particolari resistenze (eccezion fatta per

Croati e Sloveni e, in linea più generale, sulle vicende delle tre nazioni, cfr. J. Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, il Mulino, Bologna 2015; A. Becherelli, Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni nell’Europa di Versailles (1918-1921), Aracne, Ariccia 2017. 24. Cfr. R. Pupo, Attorno all’Adriatico. Venezia Giula e Dalmazia, in Id. (a cura di), La vittoria senza pace. Le occupazioni italiane alla fi ne della Grande Guerra, Laterza, Roma- Bari 2014, pp. 84-86.

31 qualche isolata reazione a Sussak) esse furono accolte, come informano le cronache dell’epoca, dalle «entusiastiche acclamazioni»25 della popo- lazione italiana. Tale mossa, che esplicitava le volontà del governo di Roma di allargare a Fiume le proprie rivendicazioni territoriali, incontrò non soltanto la ferma opposizione jugoslava, ma anche quella della Francia. Nell’ottica di estendere il suo peso verso il nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, il governo transalpino si dimostrò infatti tutt’altro che fa- vorevole ad avallare le richieste italiane. Le contromisure furono quindi immediate e si tradussero nell’invio di un’unità della marina militare e nell’autorizzazione allo sbarco di reparti (ai quali si unirono anche dei soldati serbi) guidati dal generale Louis Fran- chet d’Esperey, che nel frattempo dichiarò la città (insieme a Ragusa, oggi Dubrovnik) base navale compresa nella sfera di occupazione francese, per garantire le linee di rifornimento della propria Armée d’Orient. Si trattava di una mossa ponderata, volta ad avvalorare la natura strategi- ca della presenza francese, che anche in virtù del considerevole spiegamento di truppe avrebbe potuto ricoprire il ruolo di guida dell’occupazione alleata, contrastando in tal modo le aspirazioni italiane. Dal canto suo il governo italiano non si fece cogliere impreparato raffor- zando il contingente militare agli ordini del generale Francesco Saverio Gra- zioli, che assunse così il grado di comandante del corpo interalleato di stan- za a Fiume. Iniziò dunque l’occupazione della città, terminata nel settembre del 1919 quando in un quadro di grande incertezza diplomatica si innestò l’impresa di Gabriele D’Annunzio, meglio nota come Impresa di Fiume26. Un passaggio che in questa sede ci limiteremo a riprendere soltanto per sommi capi. Per comprendere la questione occorre volgere lo sguardo al Patto di Lon- dra e ai successivi Trattati di Versailles, iniziati il 18 gennaio 1919 e che si conclusero circa un anno più tardi (21 gennaio 1920), con i quali i paesi vin- citori del confl itto erano chiamati a ridisegnare i confi ni dell’intera Europa. Siglando il Patto di Londra, l’Italia aveva ottenuto dalle potenze dell’In- tesa l’assicurazione di ricevere sul confi ne orientale oltre al possesso di Trie- ste e Gorizia, anche l’area istriana, le isole di Lussino, Cherso e parte della Dalmazia.

25. La presa di possesso di Fiume, in «La Stampa», 20 novembre 1918. 26. Sull’occupazione italiana di Fiume e sull’esperienza dannunziana, cfr. R. Pupo, Fiu- me città di passione, Laterza, Roma-Bari 2018; M. Franzinelli, P. Cavassini, Fiume: l’ultima impresa di D’Annunzio, Mondadori, Milano 2009.

32 Fiume, come precedentemente sottolineato, restava dunque fuori dall’ac- cordo, ma a Versailles la delegazione italiana, rappresentata da Orlando e Sonnino, ne rivendicò l’assegnazione. Si trattava, sul piano formale, di un’operazione contraddittoria: infatti se da un lato veniva reclamato il pieno rispetto degli accordi stipulati, dall’al- tro se ne caldeggiava la revisione con l’aggiunta del centro quarnarino tra i territori deputati a entrare a far parte del Regno d’Italia. La base della richiesta faceva leva sul principio di nazionalità, senza però tenere conto di come accanto alla consistente quota di popolazione italiana residente in città, vi fosse, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, un altrettanto numeroso nucleo di popolazione croata. Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, in alcun modo vincolato al Patto di Londra, respinse fermamente la richiesta, suscitando lo sdegno della delegazione italiana che abbandonò il tavolo delle trattative e fece ri- torno in patria, per poi tornare sui propri passi e rientrare a Parigi un mese più tardi senza però ottenere alcun risultato. A questo punto irruppe sulla scena D’Annunzio. Il poeta pescarese, di- venuto oramai vero e proprio vate nazionale, si scagliò, contro «gli schiavi misti» e «l’immondizia croata»27, accusandoli di voler soppiantare la supe- riore (naturalmente dal suo punto di vista) civiltà italica. Contemporaneamente tuonò anche contro la classe politica dirigente ita- liana, rimproverata di non essere in grado di tutelare gli interessi nazionali e di aver gettato al vento il sacrifi cio dei caduti sui campi di battaglia, svilup- pando così il noto concetto di vittoria mutilata. D’Annunzio decise di passare all’azione. Lo fece la notte tra l’11 e il 12 settembre ponendosi alla testa di un gruppo di legionari (e cioè un corpo militare volontario formato da nazionalisti, ex combattenti e soldati dell’e- sercito) che partiti da Ronchi di Monfalcone28 si diressero verso Fiume e ne decretarono l’annessione all’Italia. Sostenuto da alcuni esponenti delle gerarchie militari, dai patrioti fi uma- ni e dall’ala di popolazione italiana che aveva assurto Fiume a simbolo della vittoria mutilata, D’Annunzio trasformò la città in una provvisoria reggenza italiana (Reggenza del Carnaro) dotandola anche di una carta costituzionale (Carta del Carnaro). Facendo leva sulla mistica della patria e sperimentando

27. La citazione di Gabriele D’Annunzio si trova in R. De Felice, P. Gibellini (a cura di), D’Annunzio politico: atti del convegno, il Vittoriale 9-10 ottobre 1985, Fondazione del Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera 1987, pp. 140-141. 28. Per commemorare e dare risalto all’impresa dannunziana il Regio decreto del 5 di- cembre 1925 mutò la denominazione del comune in Ronchi dei Legionari.

33 rituali collettivi (adunate coreografi che, celebrazioni di anniversari, dialogo tra il capo e la folla) successivamente ripresi dal fascismo, la governò fi no al dicembre 1920. Fu però necessario l’intervento diretto dell’esercito italiano per sancire la conclusione della sua esperienza. Infatti nel novembre dello stesso anno il governo italiano che vide Giovanni Giolitti succedere a Orlando alla Pre- sidenza del Consiglio, fi rmò il Trattato di Rapallo, sul quale torneremo nelle pagine seguenti, che riservò a Fiume lo status di città – libera. Una soluzione non accettata da D’Annunzio che si rifi utò di abbandona- re la città rendendo così necessario l’invio di un contingente dell’esercito italiano il cui arrivo diede luogo, tra il 24 e il 29 dicembre, a scontri con i volontari dannunziani (il cosiddetto Natale di sangue) che causarono vittime da entrambe le parti. Chiudiamo la parentesi fi umana e ritorniamo al 1918, esattamente al 3 novembre, quando Pettiti di Roreto assunse a Trieste la carica di governatore della Venezia-Giulia. Insignito direttamente da Diaz, il generale piemontese, che aveva parteci- pato ad alcune tra le più signifi cative battaglie affrontate dall’esercito italia- no durante la Grande guerra (Col di Lana, Isonzo e Solstizio), si trovò così a capo di un governatorato militare (Governatorato della Venezia-Giulia) mantenutosi tale fi no al luglio 1919, quando un provvedimento governativo (Regio decreto 24 luglio 1919) decretò la nascita dell’Uffi cio centrale per le nuove province, in seno al quale operò il Commissariato generale civile per la Venezia-Giulia. Si trattava di una struttura amministrativa di carattere civile, articolata su base locale attraverso dei commissari distrettuali che facevano riferimento diretto al governatore, rappresentante del potere politico centrale sull’intero territorio a eccezione della Dalmazia. Qui, infatti, continuava a esercitare la sua autorità Enrico Millo nominato governatore dell’area il 15 novembre. Militare di comprovato valore, l’am- miraglio chiavarese aveva già ricoperto importanti ruoli istituzionali, primo tra tutti la carica, a seguito della sua nomina a senatore, di ministro della Marina sotto il governo Giolitti (XIV legislatura)29. Nonostante il suo piglio, Millo faticò non poco a prendere in mano la situazione, soprattutto nelle zone dell’interno. Infatti la limitata disponibilità di uomini portò l’esercito italiano a concentrare le maggiori energie verso

29. M. Gemignani, Enrico Millo, in Dizionario Biografi co degli Italiani, vol. 74 (2010), edizione on-line, in , visitato il 25 marzo 2020.

34 Zara e Sebenico, ritardando così l’occupazione del territorio interno dove germogliò «un’opposizione jugoslava organizzata»30, la cui azione, tuttavia, non riuscì a evitare che l’area fosse concretamente sottoposta all’occupazio- ne italiana. Il Governatorato militare della Dalmazia, con sede a Spalato, fu sostituito con una struttura di carattere civile soltanto nel dicembre 1920 e cioè dopo la fi rma del Trattato di Rapallo. Sia il governatorato militare quanto quello civile dovettero far fronte a una situazione di non facile risoluzione, poiché anche nella Venezia-Giulia il confl itto aveva scavato solchi profondi lasciando una pesante eredità sul piano economico, sociale e culturale. Le problematiche di maggior rilevanza erano costituite dal rientro degli sfollati evacuati dalle autorità austriache e da quello dei profughi riparati nelle varie province italiane, unitamente alle diffi coltà legate agli scarsi approvvigionamenti, alla mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria e a una crisi produttiva che faceva sentire i propri effetti anche sul piano economico. Il primo dopoguerra coincise dunque con un periodo di grandi privazioni, che l’amministrazione provvisoria italiana affrontò non senza diffi coltà evi- denziando il suo grado di «impreparazione e approssimazione»31. Il governatorato mostrò le stesse incertezze anche nella gestione di quel- lo che Teodoro Sala ha descritto come «un crocevia etnico inusitato»32, con- traddistinto da un elevato livello di confl ittualità, assumendo una condotta rivelatasi spesso contraddittoria. Infatti se da un lato promulgò provvedi- menti restrittivi nei confronti della popolazione slovena e croata (sospensio- ne di amministrazioni locali, scioglimento dei consigli nazionali, pressioni contro il clero), dall’altro concesse importanti aperture allo sviluppo dei due gruppi nazionali (rinnovo delle rappresentanze nazionali, riavvio dell’istru- zione scolastica e ripresa dell’associazionismo). Contemporaneamente, per favorire la costituzione di un territorio com- pattamente italiano, le autorità di occupazione appoggiarono le manifesta- zioni di italianità, offrirono ampio sostegno alla popolazione italiana e acce- lerarono il processo di adeguamento della legislazione dei territori occupati a quella italiana.

30. L. Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, Le Lettere, Firenze 2007, p. 63. 31. A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia – Giulia 1918-1919, Irsml-Leg, Trieste-Gorizia 2000, p 52. 32. T. Sala, L’Istria tra le due guerre, Irsml, Trieste 2014, p. 9, in , visitato il 24 marzo 2020.

35 L’ambizione era dunque arrivare a una stabilizzazione politica per con- sentire una normalizzazione dei territori, avvenuta però soltanto dopo la fi r- ma del Trattato di Rapallo che, sottoscritto il 12 novembre 1920 dal Regno d’Italia e da quello dei Serbi, Croati e Sloveni, pose fi ne alla prima fase del contenzioso italo-jugoslavo. Alle trattative, svoltesi presso Villa Spinola a San Michele di Pagana, fra- zione del comune ligure, parteciparono per parte italiana Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio, Carlo Sforza, ministro degli Affari esteri e Ivanoe Bonomi ministro della Guerra. La delegazione jugoslava era invece compo- sta da Milenko Vesnić, presidente del Consiglio, Ante Trumbić, ministro de- gli Affari Esteri e Costa Stojanovitch, titolare del ministero delle Finanze33. La fi rma fu l’ultimo atto di una serie di colloqui negoziali avviati a parti- re dal 7 novembre, che entrarono nel vivo due giorni più tardi quando Sforza e Bonomi comunicarono a Vesnić e Trumbić i punti nodali delle richieste territoriali italiane: allungamento dei confi ni fi no al Monte Nevoso, conti- nuità territoriale con Fiume che avrebbe dovuto assumere lo status di città indipendente, assegnazione all’Italia di Zara e delle isole di Cherso, Lussi- no, Lagosta e Lissa (quest’ultima solo se non fosse stata garantita la smili- tarizzazione di Sebenico). Tra le altre istanze messe sul tavolo dalla delegazione italiana vi erano anche la fi rma di accordi economici bilaterali, la garanzia del rispetto della minoranza italiana in Dalmazia e la sottoscrizione di un accordo volto a garantire gli interessi jugoslavi nell’area nel caso di un futuro ritorno degli Asburgo. Le parti si aggiornarono per valutare le richieste e il 10 novembre la delegazione jugoslava comunicò la propria disponibilità a fi rmare. Il giorno seguente arrivò da Roma Giolitti e alle due di notte del 12 no- vembre venne così siglato il trattato che disegnò un nuovo scenario sul con- fi ne orientale. L’Italia ottenne sostanzialmente quanto richiesto con l’annessione dell’I- stria e di Zara, unitamente alle isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e la creazione dello stato libero di Fiume con un corpus separatum deli- mitato, come recita l’articolo 4 dell’accordo, «dai confi ni della città e del distretto di Fiume»34, cui si aggiungeva una lingua di territorio istriano per

33. Per una ricostruzione puntuale delle vicende inerenti il Trattato di Rapallo, cfr. G. Giordano, Tra marsine e stiffelius: venticinque anni di politica estera italiana (1900-1925), Nuova cultura, Roma 2012. 34. Per il testo completo del Trattato di Rapallo, cfr. Isgrec, Dossier sul confi ne orientale, , visitato il 26 febbraio 2020.

36 assicurarne la continuità con l’Italia. La defi nitiva annessione della città al Regno d’Italia avvenne soltanto nel 1924 in seguito alla stipula, il 27 genna- io, del Trattato di Roma, fi rmato dallo stato italiano e dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il Trattato di Rapallo rappresentò sul piano diplomatico il principale av- venimento della politica estera italiana del dopoguerra. La fi rma ebbe quindi una vasta eco e fu salutata con viva soddisfazione anche da Giolitti e Vesnić in occasione di una cena uffi ciale organizzata dalla delegazione italiana in omaggio a quella jugoslava. I principali organi di stampa nazionali riportarono le parole dei presiden- ti, i cui discorsi ponevano l’accento sullo spirito collaborativo dell’intesa, che nelle intenzioni dei fi rmatari avrebbe dovuto inaugurare una stagione di cooperazione e relazioni tra i due paesi. In tale ottica Giolitti espresse il suo favore nel «vedere compiuto un atto che avrà conseguenze benefi che e profonde per i due paesi», mentre Vesnić osservò come l’accordo rappresen- tasse un passaggio importante «per il benessere delle generazioni venture italiane e jugoslave e per quello dell’Europa»35. Il nuovo assetto territoriale soddisfaceva pienamente le aspirazioni del governo italiano, che da questo momento in poi per indicare le aree del vecchio Litorale austriaco passate sotto la sua amministrazione utilizzò uffi - cialmente la defi nizione di Venezia-Giulia. Entrato in vigore il 2 febbraio 1921, il Trattato di Rapallo, che garantiva la tutela della minoranza italiana in Dalmazia senza però offrire pari condi- zioni alla componente slovena e croata presente nelle aree di nuova annes- sione, comportò delle signifi cative modifi che anche sul piano demografi co. Furono infatti incorporati nel Regno d’Italia circa 300.000 sloveni e 170.000 croati36, chiamati per la prima volta nella loro storia a entrare a far parte di uno stato che si identifi cava rigidamente con una sola nazionalità dominante sulle altre. Da una prospettiva storica si trattò di un vero e proprio evento di rottura che, iniziato nel primo dopoguerra, trovava il suo completamento, segnando un passaggio cruciale sul piano delle condizioni di vita e delle relazioni tra le diverse popolazioni che raggiunsero la fase più acuta con l’avvento del fascismo la cui politica alimentò antagonismi, negò diritti, sparse sangue e aprì ferite diffi cilmente rimarginabili.

35. La citazione dei discorsi di Giolitti e Vesnić a seguito della fi rma del Trattato di Ra- pallo si trova in Dichiarazioni di Ministri sull’accordo di Rapallo, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1920. 36. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009, p. 21.

37 II. Fascismo di confi ne

1. Spalato

Il 22 settembre 1898 Taranto salutava il varo dell’incrociatore Puglia, la prima nave – come informa una pubblicazione dell’epoca – interamente costruita nell’Arsenale della città pugliese. L’imbarcazione, progettata per operare nelle acque delle colonie italiane d’oltremare, mutò la sua funzione originaria svolgendo, dopo opportune modifi che, missioni militari1. Partecipò infatti alla guerra italo-turca (1912-1913) e prese parte al primo confl itto mondiale prestando servizio soprattutto nelle acque dell’Adriatico, che solcò anche al termine della guerra quando la Regia marina la utilizzò per segnare la presenza delle guarnigioni italiane nei porti delle città costiere della costa dalmata. Nel luglio 1920 il Puglia era ancorato a Spalato, che pur avendo una signifi cativa presenza di popolazione italiana, era rimasta esclusa dai com- pensi territoriali previsti dal Patto di Londra e si trovava al di fuori della giurisdizione del Governatorato militare di Millo. Fu però proprio quest’ultimo, nel tentativo di rafforzare la posizione ita- liana al tavolo dei trattati di pace, a impartire alla nave l’ordine di attraccare

1. Cfr. S. Magno, Taranto pel varo della Puglia, in «Taranto: numero unico illustrato», Tipografi a Salvati, Napoli 1898. Dopo la sua dismissione, il Puglia venne donato dalla Regia marina a D’Annunzio che a sua volta decise di rimontarlo al Vittoriale tra il 1925 e il 1938, ri- volgendone la prua verso est, in modo tale cha la nave potesse continuare, simbolicamente, a guardare la Dalmazia. Nel suo atto di donazione al popolo italiano del complesso monumen- tale ubicato sulle rive del Lago di Garda, il poeta pescarese scrisse: «La grande prora tragica della nave Puglia è posta in onore e in luce sul poggio». Il passaggio si trova in A. Lancia, La nave di D’Annunzio, in «Storia in rete», 2010, p. 54, , visitato il 20 marzo 2020. Per una rifl essione sulla rappresentazione simbolica del Puglia al Vittoriale, cfr. O. Iarussi, Oriente e disoriente. Il secolo lungo in Adriatico, in «Lettera Internazionale», 114 (2012), pp. 44-45.

38 nel porto della città dalmata, nel frattempo amministrata da un Comitato nazionale jugoslavo. L’atmosfera, che vedeva contrapporsi popolazione croata da un lato, mi- litari e popolazione italiana dall’altro, era particolarmente rovente: sarebbe stato suffi ciente un minimo urto per far defl agrare una bomba che chiedeva solo di essere innescata. L’episodio che portò all’esplosione avvenne la sera dell’11 luglio 1920 e la causa scatenante andrebbe ricercata nell’azione di due marinai italiani del Puglia che, sbarcati a terra, strapparono da un’abitazione una bandiera del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni esposta per celebrare il compleanno di Re Pietro di Jugoslavia che si festeggiava proprio in quella giornata. Il vessillo venne successivamente portato a bordo della nave, incontrando però l’opposizione di Tommaso Gulli2, capitano di corvetta, che ne ordinò la consegna immediata all’equipaggio del cacciatorpediniere statunitense Long (anch’esso ormeggiato in porto), incaricato di provvedere alla sua restituzione. In città, pressappoco negli stessi momenti, il capitano serbo Lujo Lovrić, veterano della Grande guerra, aveva appena terminato la sua conferenza L’antico nemico della nostra unione nazionale, con un discorso, come si poteva evincere dal titolo, dagli accesi toni nazionalisti e anti-italiani3. Venuti a conoscenza di quanto accaduto e mossi dalle parole dell’oratore, i partecipanti, cui si unì un altro gruppo di persone, si diressero verso il Caf- fè Nani, abitualmente frequentato dalla borghesia italiana, dove si trovavano due marinai dell’Aquilone, cacciatorpediniere della Regia marina di stanza a Spalato. Si trattava del capo silurista Francesco Doria e del capo mecca- nico Renato Grimaldi. Aggrediti, furono costretti a rifugiarsi all’interno del locale che fu pesantemente danneggiato. Gli incidenti si spostarono succes- sivamente verso il porto: in prossimità della banchina vennero assaliti due sottouffi ciali del Puglia, mentre un terzo, salpato dalla nave a bordo di un

2. Nato a Faenza nel 1879, Gulli si formò all’Accademia navale di Livorno e nel 1902 in- traprese la sua prima esperienza come guardiamarina a bordo della nave Carlo Alberto. Suc- cessivamente, tra il 1904 e il 1906, partecipò a una campagna nei mari della Cina. Promosso tenente di vascello, partecipò alla guerra italo-turca, mentre durante il primo confl itto mon- diale fu imbarcato sul Regina Margherita, affondato a Valona nel 1916. Nel 1918 conseguì la promozione a capitano di corvetta e assunse dal 1° gennaio 1920 il comando del Puglia. Cfr. Marina Militare, Tommaso Gulli, , visitato il 26 marzo 2020. 3. Sulla fi gura di Lovrić e il suo ruolo di propagandista jugoslavo nel periodo tra le due guerre, cfr. A. Luptak, J. P. Newman, Victory, Defeat, Gender, and Disability: Blind War Veterans in Interwar Czechoslovakia, in «Journal of Social History», 3 (2020), pp. 613-615.

39 Mas per soccorrere i commilitoni, fu coinvolto in altri scontri nel corso dei quali furono esplosi anche alcuni colpi di arma da fuoco. Con l’obiettivo di riportare a bordo i membri dell’equipaggio, dal Puglia partì un’altra lancia che trasportava Aldo Rossi, motorista, e lo stesso capita- no Gulli. Quest’ultimo non appena giunse a terra, avviò immediate trattative con la polizia cittadina nel tentativo di allentare la tensione. Ma la situazione degenerò: una bomba esplose nel porto e, secondo quan- to si legge in un dispaccio battuto dall’Agenzia Stefani, Rossi e Gulli furono feriti da alcune pallottole. Il primo morì all’istante, mentre il secondo spirò qualche ora più tardi4. Il giorno dopo – scriveva ancora l’agenzia di stampa italiana – a seguito di colloqui tra i militari statunitensi e la polizia cittadina «l’ordine pare [va] ristabilito»5. La morte di Gulli provocò la ferma reazione di Millo, che inviò a Spalato il comandate Arturo Resio, fi no ad allora di stanza a Sebenico, per assumere il controllo della fl otta italiana che vedeva impegnate, oltre al Puglia e all’A- quilone, anche l’Indomito e l’Irrequieto, caccia torpedinieri salpati dopo gli incidenti per garantire protezione alla popolazione italiana. Quest’ultima – come riferiva una corrispondenza da Zara de «La Stampa» – appariva «profondamente addolorata per il fatto di eccezionale gravità e la perdita del valoroso comandante»6.

2. Trieste, Narodni Dom

L’eco di quanto accaduto raggiunse in maniera fragorosa anche Trieste, dove il 13 luglio le forze nazionaliste convocarono un comizio pubblico in piazza Unità, cuore della città, cui presero parte circa 2.000 persone. Ad arringare la folla, invitando a vendicare gli incidenti di Spalato, vi era Fran- cesco Giunta.

4. La ricostruzione degli incidenti di Spalato, le cui dinamiche non sono ancora oggi defi - nitivamente chiare, si è avvalsa del supporto di alcuni studi: C. Silvestri, Documenti america- ni sui «Fatti di Spalato» del luglio 1920, in «Il Movimento di liberazione in Italia», 1 (1969), pp. 62-81; L. Monzali, Gli italiani in Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Marsilio, Venezia 2015, p. 168; M. Kacin-Wohinz, Vivere al confi ne. Sloveni e italiani negli anni 1918-1941, Goriška Mohorjeva, Gorizia 2004, p. 81. Si veda inoltre il contributo di Valentina Petaros Jeromela che ricorrendo a fonti archivistiche fi no ad ora inedite, propone nuove ipotesi interpretative sulla vicenda, cfr. V. Petaros Jeromela, 11 luglio 1929: l’inci- dente di Spalato e le scelte politico-militari, in «Quaderni del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno», 25 (2014), pp. 307-335. 5. Il comunicato dell’Agenzia Stefani si trova in Un grave incidente a Spalato. Ucciso il comandante della Puglia, «Corriere della Sera», 13 luglio 1920. 6. I serbi aggrediscono nostri uffi ciali a Spalato, «La Stampa», 13 luglio 1920.

40 Dipinto in una pubblicazione che ripercorreva le origini del fascismo triestino come un «uomo d’azione e di pensiero, di temperamento vigoroso, capace di comandare e farsi obbedire dalle masse»7, Giunta nacque a San Piero a Sieve, in provincia di Firenze, nel 1887. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, militò nel movimen- to interventista e partecipò come capitano di fanteria e mitragliere alla Grande guerra. Al termine del confl itto divenne membro del comitato o-fi rentino dell’Associazione nazionale combattenti del quale fu uno dei prin- cipali animatori8. Capitano e legionario dannunziano prese parte all’Impresa di Fiume, a seguito della quale fu chiamato da Benito Mussolini a Trieste per guidare i locali fasci di combattimento e disciplinare lo squadrismo cittadino al quale diede, a partire dal maggio 1920, una struttura di carattere militare attraver- so la creazione delle Squadre volontarie di difesa cittadina. Composte da poco più di 150 elementi, spesso molto giovani, legati da rapporti di parentela, con alle spalle esperienze comuni quali la partecipa- zione all’impresa fi umana o l’emigrazione dalle regioni meridionali e dell’I- talia centrale, le squadre erano divise per presidii territoriali e la loro nascita

7. M. Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia. Dalle origini alla marcia su Roma, Celvi, Trieste 1932, pp. XIII-XIV. 8. Giunta fu membro del Gran consiglio del fascismo fi no al 1929, dopo essere diventato, nel 1923, segretario del Partito nazionale fascista. Mantenne quest’ultima carica fi no al 1924, anno in cui venne inquisito per reati minori connessi all’omicidio di Giacomo Matteotti. A seguito di tali eventi si allontanò momentaneamente dalla scena politica per poi essere però riabilitato dallo stesso Mussolini, che nel 1927 lo nominò sottosegretario alla Presidenza del Consiglio fi no al 1932, quando passò alla presidenza dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste. L’11 febbraio 1943 fu inviato in Dalmazia in veste di governatore e dopo la cadu- ta del fascismo aderì alla Repubblica sociale italiana ricoprendo l’incarico di responsabile dell’uffi cio stampa del ministero della Difesa. Al termine della seconda guerra mondiale fu arrestato dagli Alleati e trasferito nel campo di internamento di Coltano (Pisa), da dove uscì nel novembre 1945 per essere consegnato all’Alto commissariato per le sanzioni contro i re- ati fascisti, che aveva deciso di riaprire la fase istruttoria per il delitto Matteotti. Il suo nome fi gurava insieme a quelli di altri imputati ma, come già accaduto durante il primo processo, venne nuovamente assolto. Fondatore nel 1920 de «Il popolo di Trieste», direttore del setti- manale «Milizia. Rivista delle camice nere», fu anche fervente pubblicista (tra le sue maggio- ri pubblicazioni si ricordano Essenza dello squadrismo, scritto nel 1932 e Un po’ di fascismo pubblicato nel 1935). Morì a Firenze nel 1971. Cfr. M. Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004, p. 39; Id. Francesco Giunta, in Dizionario biografi co degli italiani, 57 (2001), , visitato il 5 aprile 2020; G. Mayda, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dùmini, sicario di Mat- teotti, il Mulino, Bologna 2004, pp. 42, 121, 136; E. Apih, Italia, Fascismo ed Antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966, pp. 187-190; M. Cattaruzza, Italy and Its Eastern Border, 1866-2016, Routledge, New York and London, pp. 123-125; A. Scurati, M. Il fi glio del secolo, Bompiani, Milano 2018, pp. 107, 617, 652.

41 spinse lo squadrismo triestino a rivendicare un ruolo di precursore rispetto al resto del paese9. Costituitosi il 3 aprile 1919 (dunque a brevissima distanza dalla riunione milanese di San Sepolcro che sancì, il 23 marzo, la fondazione del movi- mento dei Fasci di combattimento), il Fascio triestino dovette la sua precoce affermazione all’intreccio di una serie di fattori che si trovarono a coesistere nell’immediato contesto post-bellico. Alla pesante eredità lasciata dal con- fl itto in termini di vite umane e distruzioni morali e materiali, si mescola- vano anche il dissesto economico e sociale, l’incertezza per il futuro assetto dell’area, l’aggressività del discorso nazionalista e, non per ultimo, il pro- fondo rimescolamento demografi co, segnato dal ritorno a casa dei profughi fuggiti durante la guerra, dalla presenza di consistenti fl ussi migratori pro- venienti da altre regioni del Regno d’Italia e dall’allontanamento di gruppi di popolazione slovena e austro-ungherese. Tra questi ultimi furono circa 28.000 quelli che tra il 1919 e il 1922 la- sciarono Trieste. Un’ondata alla quale si contrappose, nello stesso arco di tempo, l’arrivo di circa 50.000 persone giunte in città in cerca di opportunità lavorative: i cosiddetti regnicoli, che Attilio Tamaro, alfi ere del nazionali- smo giuliano, descriveva, non senza astio, come «uno stormo di parassiti, tenori, baritoni, violinisti e mandolinisti»10, giunti alla spicciolata, senza ri- sorse e senza molto da perdere. Essi rappresentarono il maggiore serbatoio cui le Squadre di azione pote- rono attingere per le loro violenze, costituendo uno dei principali nuclei del fascismo triestino, che trovò quindi in città un terreno fertile sul quale fi ori- re. Lo dimostrano, ad esempio, gli oltre 14.750 iscritti nel 1921 alla locale federazione fascista (la prima in Italia per numero di aderenti) e la stampa de «Il Popolo di Trieste», fi liazione diretta de «Il Popolo d’Italia» che, pub- blicato per la prima volta nel dicembre 1920, raggiunse in poche settimane una tiratura di 40.000 copie11. Trieste, come scriveva Giunta a Mussolini nell’agosto del 1920, rappre- sentava dunque «la terra per il fascismo», da dove sarebbe potuta scoccare «la scintilla per conquistare il paese alle nostre idee»12, nelle quali la bat-

9. Cfr. Irsrec-Fvg, Vademecum per il giorno del ricordo, cit., p. 9. 10. Per la citazione di Tamaro, cfr. A.M. Vinci, Il fascismo e la società giuliana, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia: storia del ’900, Leg, Gorizia 1997, p. 221. 11. A.M. Vinci, Il fascismo al confi ne orientale,in, A. Algostino [et al.], Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Confl itti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 84. 12. La citazione della lettera di Giunta a Mussolini si trova in S. Lupo, Il fascismo. La politica di un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005, p. 65.

42 taglia al bolscevismo si saldava a quella contro la popolazione slava, che lo stesso Giunta non esitava a defi nire, nel settembre 1920, «irreducibile», respingendo così ogni forma di «fratellanza e convivenza»13. Parole che sembravano ricalcare quelle dello stesso Mussolini, che la sera del 21 settembre pronunciò al Politeama Ciscutti di Pola, in Istria, un discorso dai toni e dai contenuti perentori, che avrebbero scandito la politica fascista degli anni successivi:

Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone […] I confi ni dell’Italia devono essere: il Brennero, il Nevoso e le Dinariche […] Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene. […] Oggi l’opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell’interno. Noi non possiamo disarmare, fi nché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare le nostre spade in aratri, fi nché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina! Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche14.

Dai passaggi sopraccitati emerge il carattere peculiare e la specifi ca iden- tità del fascio triestino che, fi n dai suoi primi passi, scelse la defi nizione di fascismo di confi ne per connotare la propria esperienza. Ergendosi a «sentinella della patria»15 e a baluardo di difesa dell’italiani- tà contro le pressioni del mondo sloveno e croato, nutrendosi di un linguag- gio caratterizzato da ampi e continui riferimenti alla violenza, alla sacraliz- zazione del sangue e al mito irredentista della Grande guerra, il fascismo di confi ne assunse i contorni di un «movimento nazionalista e antislavo»16. Elementi ricorrenti anche nel discorso di Mussolini, dietro al quale, a ben vedere, si può cogliere l’essenza del nucleo argomentativo del fascismo di confi ne che, consolidatosi con il percorso totalitario, mirava a raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato individuare, ponendoli defi nitivamente ai margini, i nemici interni (socialisti, comunisti, slavi e slavo – comunisti) ed esterni (la Jugo-

13. M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Feltrinelli, Milano 2019, p. 32. 14. Il discorso di Mussolini si trova in B. Mussolini, Discorso di Pola, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini, vol. XXXV, Aggiunte. Scritti e discorsi, lettere e telegrammi, messaggi. Cronologia essenziale dal 13 settembre 1943 al 28 aprile 1945, La Fenice, Firenze 1951, pp. 67-70. Per la citazione, cfr. p. 70. 15. Traggo l’espressione da A.M. Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confi ne orientale d’Italia 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011. 16. Cfr. R. Wörsdörfer, Il confi ne orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, il Mu- lino, Bologna 2009, p. 27.

43 slavia), dall’altro creare una solida identifi cazione tra fascismo e italianità che, in nome di una presunta «purezza e superiorità di stirpe, cultura e civiltà italiana»17, poggiava le sue fondamenta sull’esclusione dell’altro. È però necessario sottolineare come la battaglia contro la «razza inferio- re e barbara» evocata dal futuro duce, trovò un prezioso e decisivo alleato nelle autorità militari e politiche (il Governatorato militare, divenuto poi un organismo civile) che, incaricate di gestire il passaggio all’amministrazione italiana delle aree redente, non operarono, di fatto, alcuna sostanziale azione di contrasto. Intolleranza, aggressività ed esclusione divennero così le parole d’ordi- ne del fascismo di confi ne che, avvalendosi di una propaganda in grado di penetrare nelle diverse maglie della società giuliana, operò su vasta scala ricorrendo a pratiche intimidatorie e a violenze diffuse, il cui picco di mag- giore intensità venne raggiunto proprio a Trieste durante la manifestazio- ne organizzata a seguito dei fatti di Spalato. La città di San Giusto doveva quindi rappresentare il banco di prova dell’offensiva fascista, che il 13 luglio presentò il suo biglietto da visita. Abbiamo visto come ad arringare la folla vi fosse Giunta, che dal palco di piazza Unità, con fervente oratoria, invitava i presenti a: stabilire la legge del taglione. Bisogna ricordare e odiare […]. L’Italia ha portato qui il pane e la libertà. Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affi lati e lucidi, che deponemmo pacifi camente al fi nir della guerra e quei pugnali riprenderemo per la salvezza dell’Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno18.

Oltre a Giunta, come rivela un verbale fi rmato dal tenente colonnello Aldo Giungi, comandante della Legione dei carabinieri di Trieste, presero la parola anche lo zaratino Oscar Randi (pubblicista, autore di monografi e sulla storia dalmata e futuro aderente al fascismo), Ruggero Conforto, segre- tario del fascio triestino ed Ettore Dagnino sansepolcrista milanese apposi- tamente giunto in città. Mentre il comizio volgeva al termine, iniziarono a manifestarsi segnali di tensione, che i carabinieri ricondussero alle provocazioni di «alcuni sla-

17. Cfr. A.M. Vinci, Per quale italianità? La nuova mitologia della patria al confi ne orientale nel secondo dopoguerra, in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Uffi cio per le zone di confi ne a Bolzano, Trento e Trieste (1945- 1954), il Mulino, Bologna 2015, p. 336. 18. Il passaggio del discorso di Giunta si trova in. A. Apollonio, Dagli Asburgo a Musso- lini: Venezia-Giulia 1918-1922, Leg, Gorizia 2001, p. 294.

44 vi frammischiati alla folla»19. Scoppiarono così i primi tafferugli, durante i quali furono accoltellate due persone: l’istriano Antonio Raikovic, colpito perché accusato di aver pronunciato una frase in sloveno mentre si recava al lavoro e Giovanni Ninni, giovane cuoco in servizio presso il ristorante Bo- navia. Il primo riuscì a salvarsi, mentre il secondo morì durante il trasporto in ospedale. Poco dopo, come si evince ancora dal verbale redatto da Giungi, salì sul palco Randi informando i presenti che uno sloveno, riuscito a dileguarsi, aveva «proditoriamente ucciso con due pugnalate»20 il Ninni la cui morte, avvenuta in realtà con dinamiche mai chiarite fi no in fondo, fu immediata- mente identifi cata come una diretta conseguenza delle provocazioni slave. A questo punto, quasi vi fosse un piano preordinato, circa 500 perso- ne lasciarono la piazza dirigendosi verso una serie di obiettivi predefi ni- ti: il giornale sloveno «Edinost», il quotidiano «Il Lavoratore», organo del Partito socialista triestino e la sede della Rappresentanza uffi ciale jugoslava. L’imponente spiegamento di forze dell’ordine schierate a difesa degli edifi ci già dalle prime ore del pomeriggio, fece desistere i dimostranti dal loro obiettivo. Un gruppo riuscì però a raggiungere il Narodni Dom. Lo stabile, un palazzo di sei piani edifi cato tra il 1901 e il 1904 su progetto dell’architetto Max Fabiani, rappresentava il cuore pulsante della presenza slovena in città, poiché oltre all’Hotel Balkan (che occupava un intero lato dell’edifi cio) ospitava, unitamente a una sala teatrale, le principali organiz- zazioni culturali ed economiche slovene. Con la sua presenza contribuiva dunque a incrinare l’immagine di Trieste come un centro compattamente italiano e, per tale motivo, andava colpito ed eliminato21. Erano appena scoccate le 19 quando le squadre di Giunta, divise in tre colonne che marciavano disciplinate utilizzando tecniche e strategie parami- litari, circondarono l’edifi cio, dinnanzi al quale, su diretta disposizione del questore Adolfo Perilli, stazionavano circa 450 tra guardie regie, soldati e carabinieri presenti.

19. Rapporto del tenente colonnello Aldo Giungi, comandante interinale della legione dei carabinieri di Trieste, del 15 luglio 1920 (prot. n. 558/15), in Archivio di Stato di Trie- ste (d’ora in avanti Ast), Commissariato Generale Civile (CGS), Gabinetto, Fondo Balkan, Busta (B.) 85. 20. Cfr. Lettera inviata da Adolfo Perilli, questore di Trieste, al Commissariato generale civile per la Venezia Giulia il 14 luglio 1920, in Ast, CGS, Gabinetto, Fondo Balkan, B. 85. 21. Cfr. D. Nanut, Le memorie e la guerra, in G. Musetti (a cura di), Donne di frontiera. Vita, società, cultura, lotta politica nel territorio del confi ne orientale italiano nei racconti delle protagoniste, Il Ramo d’Oro, Trieste 2007, p. 14.

45 Secondo la testimonianza di Giungi, sulla quale si sarebbe poi basata la versione uffi ciale delle autorità, non appena il primo gruppo fece la sua comparsa sulla piazza, da una fi nestra dell’albergo esplosero alcuni colpi di arma da fuoco, seguiti dallo scoppio di due bombe a mano, le cui scheg- ge ferirono mortalmente Luigi Casciana, tenente dell’esercito originario di Caltanissetta in attesa di congedo, che si trovava – non è chiaro in quale veste – sul luogo. Contemporaneamente dal tetto dello stabile si levarono altri colpi di fu- cile rivolti verso la forza pubblica, impegnata a controbattere al fuoco. Un gruppo di carabinieri e di militari si unì però ai dimostranti che, entrati nel palazzo, devastarono i circoli sloveni e appiccarono un incendio. Le fi amme, divampate in breve tempo senza che ai pompieri fosse consentito di interve- nire, costarono la vita a Ugo Kablek, ospite dell’albergo che, nel tentativo di salvarsi, si gettò dal terzo piano insieme alla moglie rimasta invece gra- vemente ferita22. Le dinamiche della devastazione appaiono avvolte da numerose incer- tezze, anche se l’appurata partecipazione di alcuni esponenti della forza pubblica che, di fatto, permise l’assalto pur essendo in grado di reprimerlo, evidenziava la connivenza tra l’ala più radicale delle autorità civili e militari e i fascisti, ai quali esse avevano lasciato campo libero. Lo scopo era pro- babilmente quello di rafforzare la posizione italiana nelle trattative con la Jugoslavia per la defi nizione dei confi ni conclusasi, come si è visto, con la fi rma del Trattato di Rapallo23. Come e per quale motivo le autorità locali avessero voluto «portare a fondo il disordine» era una domanda echeggiante anche sulle pagine dell’«Avanti!» in un contributo che ricostruiva fedelmente la cronaca delle giornate triestine. Secondo il quotidiano socialista, la risposta andava individuata nella volontà di «gruppi di facinorosi» di acuire il «rinfocolamento degli odi nazionali», destinati – si legge nelle righe conclusive dell’articolo – a provocare «nuovi lutti e nuovi guai ai due paesi»24. Un’altra testimonianza che fornisce una versione dei fatti alternativa a quella uffi ciale arriva da Giuseppe Piemontese, redattore de «Il Lavoratore», in un suo libro che ripercorre le tappe più signifi cative del movimento ope-

22. Cfr. Rapporto di Aldo Giungi, 15 luglio 1920, cit. Una ricostruzione dettagliata degli eventi si trova anche in C. Schiffrer, Fascisti, militari all’assalto del Balkan, in «Trieste», 55 (1963), pp. 1-12 e in M. Kacin Wohinz, L’incendio del Narodni Dom a Trieste, in «Qualesto- ria», 1 (2000), pp. 89-99. 23. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., p. 33. 24. Il rinfocolamento degli odi nazionali, in «Avanti!», 15 luglio 1920.

46 raio triestino. Testimone diretto degli avvenimenti, scrisse che la bomba non fu lanciata dal Balkan ma esplose per errore nelle mani di un dimostrante e affermò anche di aver visto gruppi di militari partecipare ai disordini sotto lo sguardo compiaciuto di alcuni funzionari di polizia, certifi cando così la connivenza tra i dimostranti e la forza pubblica25. Punto di svolta tra le violenze occasionali compiute fi no a quel momento e lo «squadrismo organizzato»26 che da lì a poco avrebbe terrorizzato le campagne della pianura padana, l’incendio del Balkan, così come sarà defi - nito dalle fonti fasciste, trovò spazio nella memoria degli autori e in quella delle vittime, assumendo naturalmente sfumature e signifi cati differenti. Nel suo pamphlet Un po’ di fascismo, Giunta, ripercorrendo quei momenti, pose al centro della narrazione le fi amme che, divampate, trasformarono «il tetro edifi cio in un braciere ardente», mentre la città sfi lava «davanti alle rovi- ne incandescenti con l’anima leggera e il respiro come chi è stato tolto da un incubo»27. Alle sue parole si contrappongono quelle dello scrittore sloveno Bo- ris Pahor, all’epoca poco più di un bambino che, testimone insieme alla sorella della distruzione del Balkan, ricorda nel suo romanzo Necropoli «il cielo color sangue sopra il porto, e i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche danzavano come selvaggi attorno al grande rogo»28. Il rogo del Narodni Dom assume in entrambe le testimonianze un signi- fi cato di assoluta rilevanza: per i fascisti esso coincise con la distruzione del luogo simbolo e simbolico della comunità slovena e della sua identità, mentre per gli sloveni certifi cò l’inizio della lunga stagione di oppressioni e violenze che accompagnarono l’intero ventennio mussoliniano29. Ritornando alla cronaca del 13 luglio, occorre ancora sottolineare come, dopo gli incidenti del Balkan, si verifi carono in diversi punti della città altri attacchi a istituzioni slovene: una «folla esacerbata»30 – scriveva il «Corriere della Sera» – si diresse infatti, danneggiandoli gravemente, verso uffi ci ban- cari (Banca Adriatica e Banca di Lubiana), esercizi commerciali (Caffè del Commercio) e abitazioni private di cittadini sloveni.

25. Cfr. G. Piemontese, Il movimento operaio a Trieste, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 371-376. 26. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1995, p. 624. 27. F. Giunta, Un po’ di fascismo, Consalvo, Milano 1935, pp. 12-13. 28. B. Pahor, Necropoli, Fazi Editore, Roma, 2008, p. 43. 29. Cfr. A.M. Vinci, Il fascismo al confi ne orientale. Appunti e considerazioni, in «Storia e Regione», 1 (2011), p. 35. Per un’interpretazione sulla sedimentazione dell’incendio del Balkan nella memoria squadrista, cfr. M. Di Figlia, Dimenticare il «Balkan». La distruzione del Narodni Dom di Trieste nelle rielaborazioni fasciste (1921-1941), in «Qualestoria», 2 (2016), pp. 7- 24. 30. Gravi tumulti a Trieste pei fatti di Spalato, «Corriere della Sera», 14 luglio 1920.

47 Quanto avvenuto a Trieste non rimase un episodio isolato, ma ebbe un’e- co il giorno successivo, quando a Pola gruppi di nazionalisti e fascisti assal- tarono il locale Narodni Dom. Nella città istriana fu adoperato lo stesso schema di Trieste e, anche in questo caso, le forze dell’ordine, uffi cialmente inviate per controllare i di- mostranti, parteciparono attivamente ai disordini. Giovanni Oriolo, commis- sario civile cittadino, riferì infatti di aver scorso tra la folla accalcatasi da- vanti all’edifi cio la presenza di «numerosi militari in divisa»31, che insieme ad altri manifestanti irruppero nell’edifi cio e lo diedero alle fiamme. A far scoppiare la scintilla fu, anche in questo caso, la non ben precisata aggressione di un manifestante (un ex ardito) da parte di un cittadino croato, consumatasi durante una dimostrazione organizzata per chiedere l’annes- sione all’Italia. La versione uffi ciale della provocazione slava venne subito accolta anche dagli organi di stampa, attenti a sottolineare come la folla non avesse fatto altro che rispondere a dei colpi di rivoltella sparati dall’edifi cio sui manifestanti32. Episodi di violenza, seppure di portata minore, si registrarono infi ne an- che a Fiume, dove negli stessi giorni, gruppi di cittadini coadiuvati da legio- nari dannunziani si riversarono, saccheggiandoli e danneggiandoli, contro locali ed edifi ci croati, uffi ci bancari e società di navigazione, botteghe ed esercizi commerciali. Solo il diretto intervento di D’Annunzio e del sindaco della città riuscì, dopo due giorni, a placare gli animi33. Il ricorso sistematico alla violenza, accompagnato dalla collusione con le istituzioni locali, segnò anche i mesi successivi che videro le squadre fasciste concentrarsi su circoli e giornali socialisti (il 14 ottobre 1920 venne devastata la sede de «Il Lavoratore»34), sedi sindacali e del movimento ope- raio (italiano e slavo). Il bilancio complessivo rende in maniera esaustiva l’onda d’urto fascista: dall’inizio delle loro spedizioni, gli squadristi incen- diarono nell’intera Venezia-Giulia (comprese le aree dell’entroterra istriano) 134 edifi ci, tra cui 100 circoli culturali, 2 case del popolo, 3 cooperative e 21 camere del lavoro35.

31. La citazione di Oriolo si trova in A.M. Vinci, Sentinelle della patria, cit., al quale si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda, pp. 87-88. Si veda anche A. Vidossi, Non può essere il 1927, «L’Arena di Pola», 28 aprile 2008. 32. Cfr. Provocazioni croate a Pola, «La Stampa», 16 luglio 1920; Il Narodni Dom di Pola incendiato e dato alle fi amme, «Corriere della Sera», 15 luglio 1920. 33. Cfr. R. Pupo, Fiume città di passione, cit., p. 93. 34. Sull’episodio e, in linea più generale, sulla storia del quotidiano, cfr. C. Tonel, I cento anni di vita del giornale Il Lavoratore, in «Trieste & Oltre», 11/12 (1995), pp. 1108-1112. 35. M. Pacor, Confi ne orientale: questione nazionale e Resistenza nella Venezia-Giulia, Feltrinelli, Milano 1964, p. 107.

48 3. Allogeni: il fascismo e la politica antislava

Fin dagli albori del suo progetto totalitario, il nazionalismo, l’antislavi- smo e la violenza rappresentarono dunque il collante e i principali strumenti utilizzati dal fascismo di confi ne per consolidare la propria presenza sulla frontiera orientale. A partire dal 1922, con l’acquisizione del potere e l’as- sunzione del pieno controllo degli organi dello stato, esso iniziò a dare le- gittimità istituzionale al processo di assimilazione forzata della popolazione slovena e croata. Identifi cata come allogena (termine entrato in vigore all’inizio degli anni Venti per defi nire gli appartenenti ad altra etnia e nazionalità)36 e conside- rata un corpo estraneo in un territorio «intrinsecamente italiano»37, essa fu vittima di una linea politica di italianizzazione spinta, mirante a escludere, emarginare ed eliminare cultura, identità e appartenenza nazionale. Il raggiungimento di un’omologazione rapida e defi nitiva fu attuato at- traverso una disarticolazione della società slovena e croata, basata da un lato sul rafforzamento della cultura e della lingua italiana, dall’altro sull’elimi- nazione degli strumenti e dei punti di riferimento che le due comunità ave- vano fi no ad allora sviluppato per affermare la loro presenza sul territorio. Venuti meno questi due elementi cruciali, sarebbe stato molto più semplice riempire «di oasi italiane un deserto slavo»38. Per portare a compimento la sua strategia, il fascismo promulgò, ancor prima di diventare regime, un apparato legislativo volto a ridurre al mini- mo la partecipazione pubblica della componente slovena e croata. Si trattò di una serie di provvedimenti che anticiparono quelli degli anni successivi quando la politica di snazionalizzazione procedette a ritmi sempre più in- calzanti. Il primo terreno sul quale intervenire fu individuato nella scuola che, chiamata a plasmare le nuove generazioni dell’Italia fascista, conobbe un punto di svolta con l’approvazione, il 1° ottobre 1923, della riforma Gentile, ideata dal ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, i cui rifl essi non tardarono ad arrivare anche nella Venezia-Giulia.

36. Cfr. G. Sluga, Identità nazionale italiana e fascismo: alieni, allogeni e assimilazione sul confi ne nord orientale italiano, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera,cit., pp. 171-172; E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della raz- za. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), il Mulino, Bologna 1999, p. 33-61. 37. A. Martella, Gli slavi nella stampa fascista a Trieste (1921-1922). Note sul linguag- gio, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1(2006), p. 13. 38. G. Motta, Le minoranze nel XX secolo. Dallo stato nazionale all’integrazione euro- pea, FrancoAngeli, Milano 2006, p. 159.

49 Le istituzioni scolastiche, affi date al Provveditorato della Venezia-Giulia e Zara con sede a Trieste, avrebbero dovuto portare a termine un duplice compito: da un lato favorire il processo globale di identifi cazione tra italia- nità e fascismo, dall’altro accelerare l’azione assimilatrice delle minoranze linguistiche portata avanti in nome della cultura e della lingua italiana, de- stinate a prevalere defi nitivamente sulle altre. Il primo passaggio fu quello di provvedere alla rimozione di ogni spa- zio d’uso della lingua slovena e croata imponendo nelle prime classi di tutte le scuole elementari l’utilizzo dell’italiano come lingua di insegna- mento. La stessa norma sarebbe stata applicata, a partire dall’anno succes- sivo, nelle seconde e, gradualmente, nelle classi superiori fi no ad arrivare all’eliminazione completa delle altre lingue. Per le quali però, almeno inizialmente, erano previste delle ore supplementari, durante le quali l’in- segnamento era impartito in forma esclusivamente orale e senza l’utilizzo di libri di testo. Tale possibilità venne però defi nitivamente cancellata nel 1925, quando il decreto n. 2191 del 22 novembre sancì, in tutte le scuole, l’insegnamento dell’italiano come unica lingua. L’eliminazione dello sloveno e del croato era inoltre accompagnata da una profonda revisione dei programmi scolastici che prevedevano la can- cellazione di ogni riferimento al patrimonio storico e culturale delle due comunità, sostituito da una rilettura nazionalistica del passato nella quale affi orava una vera e propria esaltazione della patria italiana. L’opera di snazionalizzazione trovò dunque nella scuola uno dei suoi principali strumenti, portando alla chiusura e alla trasformazione in scuole italiane poco meno di 500 istituti scolastici sloveni e croati39. Oltre agli allievi, il processo di italianizzazione coinvolse anche gli inse- gnanti: quelli in possesso della cittadinanza italiana sarebbero stati confer- mati in servizio, mentre gli allogeni vennero travolti dall’epurazione. Il già citato decreto 2191, obbligava infatti questi ultimi a ottenere, entro due anni, il certifi cato di abilitazione all’insegnamento della lingua italiana, pena la loro messa a riposo. Da sottolineare, però, come il conseguimento della li- cenza di insegnamento non fosse suffi ciente a porre maestri e professori al riparo da eventuali trasferimenti d’uffi cio in altre regioni o da programmi di sorveglianza, la cui rigidità fu tale da far maturare in molti di loro la decisio- ne di trasferirsi in Jugoslavia.

39. Cfr. M. Kacin Wohinz, J. Pjrievec, Storia degli Sloveni in Italia: 1866-1998, Marsilio, Venezia 1998, p. 55.

50 Tra il 1928 e il 1943, circa 400 insegnanti sloveni e croati furono così allontanati o trasferiti40: al loro posto arrivò personale docente proveniente direttamente dall’Italia. Fu il caso, ad esempio, del maestro Francesco Sottosanti, fervente ca- micia nera, partito da Piazza Armerina, in provincia di Enna, alla volta di Verpogliano, borgo a maggioranza slovena della Carniola, la cui particolare vicenda (per uno scambio di persona cadde vittima di un agguato per mano di alcuni antifascisti sloveni) è stata recentemente ricostruita da Adriano Sofri41. La sua storia è simile a quelle di molti altri suoi colleghi che, incoraggiati da riconoscimenti economici e prospettive di carriera, aderirono alla leva magistrale fascista, ovvero l’appello con il quale l’Associazione nazionale degli insegnanti fascisti e il ministero della Pubblica istruzione esortavano i «migliori giovani maestri fascisti» a trasferirsi nelle scuole dei territori allogeni per compiervi «opera altamente meritevole a favore dell’italianità e del fascismo»42. Al pari dei docenti istriani, essi avrebbero dovuto soddisfare le imposi- zioni del regime, spesso utilizzando metodi coercitivi, dei quali Boris Pahor ci fornisce una toccante testimonianza nel suo racconto La farfalla sull’at- taccapanni che ha come protagonista Julka, una bambina slovena redargui- ta platealmente dal suo maestro (un uomo dai «capelli neri e impomatati, lucidi come il catrame […], all’occhiello il distintivo del fascio littorio»), che la appese per le trecce all’appendiabiti della classe dopo averla sentita pronunciare una parola in sloveno durante la ricreazione:

Vieni qui, le disse con gli occhi lampeggianti. Julka si mosse e già le dita impazienti l’af- ferrarono per l’orecchio. Non voglio più sentire quella brutta lingua, disse camminando tra i banchi e tirandosela dietro per l’orecchio. Non voglio! La sua voce ansimava: avete capito che non lo voglio?43.

Tra gli allievi sloveni e croati maturava così un sentimento di estranei- tà, distacco e avversione verso la lingua e la scuola italiana, vissute come un’imposizione e una costrizione quotidiana. Lo comprese, fi n da subito, Guido Miglia, che affi dava al suo diario il ricordo dell’esperienza di maestro elementare in un piccolo paese dell’Istria interna. Pagine che suonano come

40. J. Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, cit., p. 181. 41. Cfr. A. Sofri, Il martire fascista, Sellerio, Palermo 2019. 42. Associazione nazionale degli insegnanti fascisti, Circolare del 15 giugno 1927. Il documento si trova in A. Grussu, Società, educazione e minoranze nazionali al confi ne orien- tale tra regime liberale e fascismo, Tesi di Dottorato (XX Ciclo), Università degli Studi di Messina, a.a. 2004-2005, p. 121. 43. B. Pahor, La farfalla sull’attaccapanni, in Id., Il rogo del porto, Nicolodi, Rovereto 2001, p. 128.

51 una lucida voce di denuncia del ruolo esercitato durante il fascismo dai mae- stri e dalla scuola italiana nelle terre istriane:

Ricordo la gioia della prima nomina, un lavoro per me anche se lontano dalla mia casa. […] Passo attraverso paesini sperduti […], ogni tanto qualche casa intonacata, il fumo che esce dal camino, la porta socchiusa e gente che mi guarda con indifferenza. Final- mente arrivo […]: c’è una bidella che mi attende, capisce che sono il nuovo maestro, mi fa entrare in un’aula grande e disadorna del pianterreno, tutti i banchi sono occupati da decine di bambini, che mi guardano con ansia, le guance arrossate, gli occhi che brilla- no di curiosità e di speranza. Poveri bambini, io parlo nell’unica lingua che conosco, e comprendo che i più piccoli non capiscono. Durante la ricreazione li sento parlare piano tra loro, nel dialetto croato, e credo allora che il mio dovere sia quello di rimproverarli e di farli parlare italiano. Solo a mie spese, da adulto […] capirò l’aberrazione di voler impedire all’altro gruppo etnico di manifestarsi liberamente nella lingua materna. Ma quando lo capirò nulla potrà essere modifi cato nel destino della penisola44.

Dopo la scuola toccò alla pubblica amministrazione, riformata con l’a- dozione di un impianto normativo che, entrato in vigore nel 1924, consentì la rimozione immediata di impiegati e funzionari (ma anche di magistrati) sia perché ritenuti dai vertici fascisti non affi dabili, sia per la loro limitata conoscenza dell’italiano o – come recita il testo del decreto – «per qualun- que altra ragione»45. A pagare furono soprattutto quadri sloveni e croati, sostituiti con personale giunto appositamente dall’Italia (i cosiddetti regni- coli cui accennavamo in precedenza) che, proiettato in una realtà pressoché sconosciuta, si trovò, il più delle volte, a essere un corpo estraneo al contesto sociale in cui venne inserito. Se la scuola e la pubblica amministrazione rappresentavano due tassel- li fondamentali nel progetto di allineamento dell’area giuliana, altrettanto importante si dimostrava la necessità di esercitare un controllo capillare sul territorio, in particolar modo nelle zone rurali dell’entroterra, dove la popolazione slovena era più numerosa. In tal senso va intesa la creazione dell’Ispettorato speciale del Carso, una struttura autonoma di carattere mili- tare nella quale confl uirono gli elementi più intransigenti dello squadrismo triestino che, esclusi dalla politica di normalizzazione seguita alla marcia su Roma, furono inquadrati nell’organismo e impiegati in operazioni di con- trollo della campagna slovena. A guidare la struttura fu chiamato Emilio Grazioli, squadrista lombardo che iniziò la sua carriera nella Milizia volon- taria per la sicurezza nazionale (Msvn), per poi acquisire rilievo e prestigio

44. G. Miglia, Dentro l’Istria. Diario 1945-1947, Tipografi a Moderna, Trieste 1973, pp. 17-18. 45. L. Cermelj, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, Est-Ztt, Trieste 1974, p. 84.

52 nel fascismo triestino diventando segretario federale del partito e, dal 1941 al 1943, alto commissario per la provincia di Lubiana46. Con la trasformazione in una dittatura a viso aperto il fascismo accelerò il processo di snazionalizzazione, che continuava a individuare nella lingua uno dei campi sui quali insistere con maggior vigore. Alla Riforma Gentile e agli altri provvedimenti intrapresi nel 1923 (ob- bligo per i giornali croati e sloveni di pubblicare il testo degli articoli in italiano ed entrata in vigore delle leggi toponomastiche che mutavano, italia- nizzandoli i nominativi di paesi, città e toponomastica stradale), seguirono infatti nuove e più aspre normative. Ne conseguì che dal 1925 il divieto di comunicare nelle lingue alloglotte, fi no ad allora limitato ai telegrammi da e per la Venezia-Giulia, ai procedimenti giudiziari, ai sindaci e agli impiegati degli uffi ci pubblici, venne esteso all’intero spazio pubblico (luoghi di lavo- ro, esercizi commerciali e persino i cimiteri dove venne imposta l’abolizione delle scritte slovene e croate da lapidi e corone mortuarie) dando così una spinta decisiva al processo di deslavizzazione linguistica, ritenuto fonda- mentale per cancellare la dimensione culturale e identitaria delle comunità slovene e croate. Attraverso il controllo dell’utilizzazione pubblica della lingua, il regi- me intendeva dunque imprimere la propria impronta culturale e nazionale sull’intera Venezia-Giulia, dove l’italiano divenne così l’unica lingua uffi - cialmente ammessa47. Quella che si snoda è dunque una storia di parole espropriate e negate, colta in tutta la sua interezza dallo scrittore dalmata Enzo Bettiza, che in un passaggio del suo struggente romanzo Esilio restituisce la soffocante atmo- sfera del tempo:

Mandava in furia mio padre il fatto che negli uffi ci della questura, del comune, la gente slava dovesse non solo sforzarsi di parlare l’italiano che spesso non conosceva, ma addirittura salutare col braccio levato funzionari e impiegati ignoranti e arroganti che provenivano dalle Puglie o dalla Sicilia. In diversi uffi ci amministrativi era appeso il cartello minatorio che ingiungeva: qui si parla italiano e si saluta romano. Ricordo che il papà esclamava infuriato: vogliono non solo italianizzare, ma fascistizzare col manganello, in ventiquattro ore, migliaia di slavi che neppure sanno che Mussolini si chiama Benito!48.

46. Cfr. P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Utet, Torino 2008, p. 288. 47. Per i dettagli sulla politica linguistica del fascismo nel processo di italianizzazione, cfr. G. Klein, La politica linguistica del fascismo, il Mulino, Bologna 1986. 48. E. Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano 1996, p. 267.

53 Un altro obiettivo entrato nelle mire dell’offensiva fascista fu il fi tto reti- colo dell’associazionismo sloveno e croato che attraverso l’applicazione di direttive del ministero dell’Interno andò incontro a un debellamento coatto. A partire dal 1927, provvedimenti prefettizi e di polizia, portarono così allo scioglimento di oltre 500 tra circoli culturali, ricreativi, politici e sportivi, soppressi di autorità con motivazioni che si richiamavano al testo unico di pubblica sicurezza che, entrato in vigore nel 1926, concedeva ai prefetti la facoltà di sciogliere associazioni, enti e istituti la cui attività fosse «contraria all’ordine nazionale dello stato»49. Resistettero invece, seppur per un breve arco di tempo, l’Edinost, la cui traduzione italiana (Unità) esprime in maniera esaustiva il ruolo di fulcro della coscienza nazionale e culturale slovena ricoperto dall’associazione (fondata nel 1874), le società di assistenza, mutuo soccorso, cooperative e di piccolo credito che però tra il 1928 e il 1931 furono progressivamente indebolite fi no alla defi nitiva eliminazione50. Stessa sorte conobbero, nel medesimo lasso di tempo, quotidiani e perio- dici sloveni e croati che, già colpiti dalle azioni squadriste, furono costretti dai prefetti a sospendere le pubblicazioni. Il processo di assimilazione, divenuto oramai irreversibile, conobbe un altro passaggio cruciale nel 1927 quando vennero allargate all’intera Ve- nezia-Giulia le disposizioni che, poco più di un anno prima, erano state ri- servate all’Alto Adige, altra regione nella quale il fascismo pose in essere un’accesa linea di italianizzazione. Si trattava, nello specifi co, del Regio decreto n. 17 del 10 gennaio 1926 (convertito poi in legge il 24 maggio dello stesso anno) che, presentato dal guardasigilli Alfredo Rocco e fi rmato, oltre che da Mussolini, anche dal ministro degli Interni Luigi Federzoni, stabiliva la restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie di Trento. Il 7 aprile 1927 il Regio decreto n. 494 stabilì l’estensione del provve- dimento a tutti i territori annessi al Regno d’Italia nel 1920, ivi compresi, quindi, quelli della frontiera orientale. La restituzione poggiava le sue basi su un concetto di fondo risalente all’Impero austro-ungarico, ovvero un presunto favoritismo austriaco, in chiave anti-italiana, della componente slovena e croata che a sua volta – questa la lettura fascista – avviò attraverso l’azione di preti e sacerdoti una

49. Regio decreto n. 1848, 6 novembre 1926, Testo Unico di Pubblica Sicurezza, art. 215. In «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Italia», n. 257, 8 novembre 1926. 50. Sullo scioglimento dell’associazionismo sloveno e croato cfr. l’ancora attuale, E. Ma- serati, Alcuni documenti sulla repressione delle associazioni slovene e croate della Venezia- Giulia durante il fascismo, in «Il Movimento di Liberazione in Italia», 85 (1966), pp. 45-55.

54 manipolazione dei registri parrocchiali, aggiungendo ai cognomi le desinen- ze -z oppure -ich, contribuendo così a una sostanziale riduzione dei patroni- mici italiani sull’intera area. Il compito di stilare gli elenchi contenenti la lista dei cognomi da ordinare e restituire in forma italiana spettò ai prefetti che operarono sulla base della defi nizione dei suffi ssi o di quelle che essi ritenevano – spesso con interpre- tazioni del tutto arbitrarie – delle deformazioni straniere dei cognomi stessi. Il mutamento, obbligatorio per tutti coloro che risultavano inseriti negli elenchi ministeriali compilati alla data del 5 agosto 1926, presentava un’evi- dente natura imperativa, acuita anche da un’ulteriore misura coercitiva che prevedeva l’applicazione di una sanzione pecuniaria oscillante tra le 500 e le 5.000 lire a quanti continuassero a utilizzare, a seguito dell’avvenuto cambiamento, il proprio cognome nella forma straniera. Ciò portò dunque i diretti interessati a soddisfare, nella gran parte dei casi, le imposizioni del regime51. L’ultimo, ma non meno rilevante, campo sul quale si abbatté la scure del regime riguardò l’altro grande punto di riferimento delle comunità slovene e croate e cioè il clero, anch’esso vittima, a ogni livello, di una politica dai tratti fortemente discriminatori. Considerati dal fascismo come «agitatori slavi»52 in grado di frapporre una pericolosa barriera al processo di assimilazione, preti e sacerdoti furono vittime di aggressioni e violenze (talvolta anche fi siche) fi n dagli albori del fascismo di confi ne, che intendeva impedire la predicazione e il catechismo nelle due lingue, rompendo così una consuetudine in vigore da anni nei ter- ritori della Venezia-Giulia. A partire dal 1929, dopo la fi rma dei Patti Lateranensi, l’allontanamen- to del clero slavo dalle gerarchie ecclesiastiche divenne una pratica adot- tata con frequenza sempre maggiore dal regime, che poteva contare anche sull’appoggio della Santa sede, disposta a rimuovere dai propri incarichi fi gure chiave come monsignor Francesco Borgia Sedej e Luigi Fogar, vesco- vi, rispettivamente, di Gorizia e Trieste.

51. Cfr. Regio decreto n. 17 del 10 gennaio 1926, in «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Ita- lia», n. 11, 15 gennaio 1926; Regio Decreto n. 494 del 7 aprile 1927, in «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Italia», n. 93, 22 aprile 1927. Per un approfondimento sull’italianizzazione dei cognomi, cfr. A. Pizzagalli, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, Libreria Treves, Trieste 1929. 52. A. Sema, Minacce su Trieste. Aspetti della pianifi cazione difensiva italiana al confi ne orientale tra anni venti e trenta, in P. Ferrari, A. Massignani (a cura di), Conoscere il nemi- co. Apparati di intelligence e modelli culturali nella storia contemporanea, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 311.

55 Pur riconoscendo il ruolo istituzionale dello stato italiano, entrambi cer- carono di limitare le ingerenze del regime in materia religiosa, salvaguar- dando l’autonomia della chiesa e battendosi nei loro episcopati a difesa del diritto dei fedeli di ricevere l’insegnamento religioso e le predicazioni nella loro lingua madre. Una posizione che non poteva essere tollerata né dai ver- tici del regime né, tanto meno, da quelli ecclesiastici che di comune accordo provvidero al loro allontanamento: Sedej fu sollevato dal suo incarico nel 1931, Fogar nel 1936. A sostituirli fu chiamato Carlo Margotti, arcivescovo di Gorizia, pronto ad appoggiare e applicare il principio fascista di snazio- nalizzazione del clero sloveno e croato53. L’intera comunità ecclesiale del territorio giuliano uscì profondamen- te lacerata da tale situazione che portò a una divisione del corpo sacerdo- tale: da un lato i sacerdoti italiani, disposti, in maggioranza, a coniugare la missione pastorale con un’azione «nazionalistica, normalizzatrice e italianizzatrice»54, dall’altro il clero sloveno e croato, trasformatosi in uno strumento di contrasto e resistenza agli attacchi fascisti. Una funzione che gli consentì di mantenere ben saldo il legame con le comunità di fedeli per i quali continuò a essere un punto di riferimento di grande rilievo, contribuen- do così al rafforzamento del loro radicamento nazionale55. Fedele alla sua linea, il fascismo unì alle politiche di italianizzazione forzata la repressione poliziesca dell’opposizione slovena e croata, cresciuta in maniera esponenziale alla durezza della politica attuata dal regime nei confronti delle due comunità. La reazione assunse anche i contorni di un movimento di lotta armata che, prevalentemente composto da giovani appartenenti alle élites culturali molto vicine agli ambienti irredentisti jugoslavi e alle associazioni sciol- te dal fascismo, prese la denominazione di Tigr, mutuando le iniziali delle quattro province (Trst, Istra, Gorica, Rijeka/Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) che l’organizzazione intendeva liberare dal giogo fascista rivendicandone, nel contempo, l’appartenenza nazionale. Sorto all’inizio degli anni Venti, il Tigr operava in condizioni di as- soluta clandestinità sul modello dell’Irish Repubblican Army (il braccio

53. Sulle fi gure di Sedej e Fogar, cfr. I. Santeusanio, La diocesi di Gorizia nell’episcopato Margotti (1934-1941), in F.M. Dolinar, L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel goriziano tra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa – Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 1997, pp. 105-118; G. Botteri, Luigi Fogàr, Edizioni Studio Tesi, Gorizia 1995; L. Ferrari, Il discorso su Luigi Fogar, in «Acta Histriae», 4 (2012), pp. 577-590. 54. A.M. Vinci, Il fascismo e la società giuliana, cit., p. 252. 55. Cfr. P. Blasina, Chiesa e fascismo nella Venezia Giulia, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 285-296.

56 armato del movimento nazionalista irlandese), non esitando quindi a ri- spondere «con la violenza alla violenza fascista»56. Oltre alla propaganda antifascista diffusa attraverso la stampa clandestina, all’organizzazione di corsi di lingua slovena e croata e a un’attività di spionaggio e sabotaggio che lo portò a prendere contatti con altre organizzazioni jugoslave, il movi- mento fi rmò anche sull’intero territorio della Venezia-Giulia un centinaio di azioni dimostrative. Tra queste, come evidenziarono le indagini svolte nel corso dei procedimenti istruttori attivati in occasione dello svolgimento dei processi a carico dell’organizzazione, fi gurarono 13 attentati punitivi contro sloveni ritenuti collaboratori del regime, 13 attacchi a caserme e pattuglie squadriste, 18 incendi di scuole e asili italiani che avevano sosti- tuito istituti sloveni e croati precedentemente attivi e un attentato al Faro della Vittoria, imponente monumento costruito a Trieste per celebrare il passaggio della città all’Italia57. Azioni dimostrative che si combinarono anche con eventi dal maggior peso specifi co sia sul piano politico, sia su quello delle conseguenze penali e giudiziarie. Il primo ebbe come teatro il circondario di Pisino, centro dell’Istria in- terna, dove il 24 marzo 1929 un gruppo di quattro militanti del Tigr aprì il fuoco contro una colonna di contadini che, scortati da gruppi di fascisti e carabinieri, si dirigevano dalle frazioni di Villa Treviso e Villa Padova verso Pisino per partecipare al plebiscito-farsa indetto dal regime per la nomina dei nuovi deputati. Gli spari che avevano l’obiettivo di bloccare il gruppo per non consentirne la partecipazione al voto, provocarono il ferimento di due elettori (uno dei quali deceduto nei giorni successivi). Dopo aver avviato le indagini, le autorità fasciste arrestarono cinque giovani croati e affi darono il processo al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, l’organo istituito nel 1926 per giudicare i reati contro la sicurezza dello stato con particolare riferimento a quelli di natura politica connessi all’antifascismo. Il processo si aprì a Pola il 14 ottobre e si concluse due giorni più tar- di con condanne pesantissime: trent’anni di reclusione a quattro imputati e pena di morte per Vladimir Gortan, agricoltore croato originario di Vermo (frazione di Pisino) che, accusato di essere ideatore dell’azione e organizza- tore del gruppo, venne fucilato il 17 ottobre nella città istriana, diventando successivamente un simbolo della Resistenza croata in Istria58.

56. R. Pupo, Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 247. 57. T. Matta, I fucilati di Basovizza, in Irsml, Un percorso tra le violenze del Novecento nella provincia di Trieste, Irsml, Trieste 2006, p. 42. 58. Cfr. C. Longhitano, Il tribunale di Mussolini (storia del Tribunale speciale 1926- 1943), Anppia, Roma 1995, p. 256.

57 Il secondo episodio avvenne a Trieste dove il Tigr, che operava in cit- tà con la denominazione di Borba (lotta), organizzò nel febbraio 1930 un attentato contro il quotidiano fascista «Il Popolo di Trieste» nel corso del quale perse la vita il giornalista Guido Neri. Affi date all’Ovra, le indagini si indirizzarono fi n da subito verso la cellula triestina dell’organizzazione, la cui rete organizzativa venne fortemente indebolita a seguito dell’arresto dei suoi membri principali, processati a Trieste nel corso del medesimo anno. Il procedimento prese avvio a settembre e, anche in questo caso, a giudi- care i diciotto imputati fu chiamato il Tribunale speciale che il 5 settembre, dopo un dibattimento in cui non venne praticamente lasciato alcun margine di azione agli avvocati difensori, emise il suo verdetto condannando quattor- dici persone a lunghe pene detentive (fi no a venticinque anni) e ordinando la pena capitale per Fran Marušič, Ferdo Bidovec, Alojz Valenčič (sloveni) e Zvonimir Miloš (croato). Essi furono ritenuti colpevoli di aver cospirato contro la sicurezza dello stato con l’intento, come si legge in un passaggio della requisitoria del procuratore generale Massimo Dessy, «di voler assog- gettare una parte del nostro stato al dominio straniero, nella vana illusione di rovesciare il regime»59. Vennero fucilati il 6 settembre alle 5.44 del mattino presso il poligono di tiro di Basovizza, davanti a 600 militi del 58° Batta- glione “Camicie Nere”60. La loro morte rappresentò una data paradigmatica, ricoprendo un ruolo centrale nella memoria e nelle narrazioni della comunità slovena, al pun- to che da questo momento in poi la lotta clandestina dell’antifascismo slo- veno contro il regime fascista fu condotta in nome dei «quattro martiri di Basovizza»61. Non fu però l’ultima volta che il Tribunale speciale operò a Trieste. Infat- ti se è vero che gli arresti del 1930 infersero un duro colpo al nucleo triestino del Tigr, lo è altrettanto il fatto che essi non riuscirono a frenare defi nitiva- mente il ribellismo sloveno, che subì invece una pesante battuta d’arresto nel dicembre 1941, quando nell’aula magna del Palazzo di giustizia del capo- luogo giuliano si svolse il cosiddetto secondo processo di Trieste.

59. Le richieste del Procuratore Generale al processo contro i terroristi slavi, «Il Piccolo della Sera», 5 settembre 1930. 60. M. Franzinelli, Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927- 1943), Mondadori, Milano 2017, p. 155. 61. Sul rapporto tra la fucilazione di Basovizza e la memoria slovena, cfr. J. Foot, At the Edge. Divided Memory on Italy’s Border. The Case of Trieste and the Foibe di Basovizza, in P. Sambuco (a cura di), Transmissions of Memory. Echoes, Traumas, and Nostalgia in Post- World War II Italian Culture, Fairleigh Dickinson University Press, Vancouver-Madison- Teaneck-Wroxton 2018, pp. 73-75.

58 Con l’obiettivo di sradicare defi nitivamente la rete cospirativa slovena, l’Ovra iniziò già nel marzo 1940 lunghe e meticolose indagini, procedendo a numerosi fermi che portarono alla formulazione di capi di imputazione contro una sessantina degli arrestati. Accusati di cospirazione, terrorismo e spionaggio, essi furono divisi in tre gruppi (comunisti, intellettuali e terroristi tra i quali rientravano anche i membri del Tigr) e rinviati a giudizio di fronte al massimo organo giudizia- rio fascista. Il procedimento si svolse tra il 2 e il 14 dicembre e, come già accaduto nel 1930, si concluse con pene severissime: oltre 960 anni di carcere e nove condanne a morte (quattro imputati appartenenti al gruppo degli intellettuali vennero poi graziati e condannati all’ergastolo) eseguite all’alba del gior- no successivo, quando al Poligono di tiro di Opicina furono fucilati Pinko Tomažič, Viktor Bobek, Simon Kos, Ivan Ivančič, e Ivan Vadnal62. Resta infi ne da chiedersi se lo sforzo compiuto dal fascismo per portare a compimento la «bonifi ca etnica»63 del confi ne nord orientale abbia raggiun- to gli intenti del regime. I risultati ottenuti furono in realtà piuttosto modesti, soprattutto sul piano dell’assimilazione della componente slovena e croata che continuò invece a coltivare, alimentare e rafforzare la propria identità culturale, linguistica e nazionale. Fallito, dunque, il tentativo di italianizzare il territorio, la spinta nazio- nalizzatrice non riuscì neppure a recidere i legami di convivenza, collabora- zione e i rapporti personali all’interno delle due comunità che si sarebbero rivelati un collante decisivo per lo sviluppo dell’antifascismo64. Ciò in cui la linea tracciata dal fascismo riuscì benissimo, fu invece l’al- largamento del solco divisorio tra i due gruppi nazionali, che da parte della componente slovena e croata della Venezia-Giulia (e più in generale dell’in- tera Jugoslavia) si tradusse nell’immediato rafforzamento dell’equazione italiano fascista. Un’equazione che sarebbe tornata prepotentemente alla ribalta nei drammatici eventi che tra il 1943 e il 1945 si abbatterono sulla popolazione italiana, accompagnandola come un segno distintivo anche nei successivi anni dell’esodo.

62. Cfr. M. Flores, M. Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 28. 63. S. Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifi ca etnica al confi ne nord-orien- tale, Isrpt, Pistoia 2008, p. 40. 64. Cfr. Commissione mista storico-culturale italo slovena, I rapporti italo-sloveni/Pe- riodo 1941-1945, in Id. Relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena (1993 – 2001), p. 11. Il testo completo della relazione si trova in , visitato il 12 aprile 2020.

59 L’attuazione di un clima politico aggressivo e intimidatorio favorì invece un massiccio fl usso migratorio dalla Venezia-Giulia, da dove partirono circa 105.000 sloveni e croati (il 20% della popolazione), dirigendosi in Argen- tina (30.000), Europa (5.000) e, soprattutto, nel nuovo regno di Jugoslavia (70.000)65. Qui si scontrarono con le dinamiche e le complessità caratte- rizzanti l’esperienza migratoria, che per buona parte di loro coincise con un’esistenza segnata da integrazione mancata, disagio sociale, indigenza economica e diffi cili rapporti con la nuova società di accoglienza66.

4. «…Si ammazza troppo poco». L’occupazione italiana della provincia di Lubiana

Il 1941 fu anche l’anno in cui il territorio jugoslavo venne invaso dalle armate tedesche nell’ambito dell’Operazione Marita, un piano militare che prevedeva, entro la fi ne della primavera, l’occupazione della Grecia e della Jugoslavia. Il coinvolgimento tedesco fu principalmente dovuto alla volontà di Adolf Hitler di assestare il fronte balcanico e di supportare l’Italia fascista impe- gnata a condurre, dall’ottobre 1940, una guerra parallela, rivelatasi, come attestano le dure sconfi tte subite in Grecia, Libia e Africa orientale, sostan- zialmente fallimentare. L’offensiva tedesca, alla quale parteciparono truppe italiane e ungheresi, iniziò il 6 aprile e poco meno di due settimane più tardi, il 17, l’esercito ju- goslavo fi rmò la resa, diventata esecutiva dal giorno successivo. Se da un lato l’occupazione della Jugoslavia rappresentò per il regime «il primo vero successo d’immagine»67, lo stesso non valse sul piano militare, poiché essa mise a nudo la fragilità e l’impreparazione dell’esercito italiano, incapace di ottenere vittorie militari senza l’appoggio tedesco. L’offensiva italiana partì infatti soltanto l’11 aprile, ovvero quando l’e- sercito jugoslavo era già stato messo in fuga dall’avanzata dei tedeschi, che nel frattempo occuparono Zagabria, dopo aver pesantemente bombardato Belgrado fi n dall’inizio delle operazioni.

65. M. Kacin Wohinz, Le minoranze slovene croate sotto il fascismo, in Aned, Fondazio- ne Memoria della Deportazione, Fascismo, foibe, esodo. Le tragedie del confi ne orientale, Atti del convegno organizzato dall’Aned e dalla Fondazione Memoria della deportazione, Trieste, Teatro Miela, 23 settembre 2004, Il guado, Corbetta 2005, p. 47. 66. Cfr. M. Verginella, Il confi ne deglialtri, cit., pp. 77-86. 67. E. Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007, p. 41.

60 Appare dunque chiaro come la guerra fascista in Jugoslavia debba essere considerata nel segno della totale subalternità ai tedeschi e, allo stesso tem- po, essa certifi ca l’inattuabilità della volontà di Mussolini di porre l’Italia su un piano di «apparente eguaglianza»68 rispetto all’alleato nazista. Con la capitolazione dell’esercito jugoslavo, il paese venne smembrato e i suoi territori spartiti tra gli invasori, secondo un assetto deciso dai tedeschi che avrebbe dovuto tenere conto degli interessi delle diverse forze coinvolte nell’occupazione. Nonostante il trascurabile apporto fornito dal suo eser- cito, l’Italia ottenne un trattamento favorevole, dal momento che le venne assegnato circa un terzo dei territori conquistati nel corso della campagna bellica. Si trattava di una fascia che, estendendosi da Fiume a Lubiana, compren- deva il Montenegro (divenuto protettorato militare), il Kosovo e la Macedo- nia (annessi all’Albania già occupata nell’aprile 1939). La spartizione con- sentiva inoltre signifi cativi ampliamenti nella provincia di Zara, alla quale furono annesse le città di Spalato e Cattaro (trasformate in province speciali) e in quella di Fiume con l’accorpamento di Sussak, Buccari, Segna e del distretto della Kupa. Fu inoltre annessa al Regno d’Italia anche la Slovenia centro-meridionale, che assunse la denominazione di provincia di Lubiana69. A governarla fu chiamato il generale Grazioli che, nominato alto com- missario della provincia, agiva in stretta collaborazione con il generale Ma- rio Roatta, massima autorità militare e comandante della II Armata del Re- gio esercito. Nei territori della Slovenia annessa, estranei, al contrario della Venezia- Giulia, a rivendicazioni storiche e culturali, il sistema di assorbimento fu ca- ratterizzato da un ordinamento amministrativo e legislativo che consentiva il mantenimento dello sloveno nelle scuole, la conservazione dei principali istituti culturali e riduceva al minimo le sostituzioni di impiegati e funzio- nari pubblici. La spinta italianizzatrice era invece affi data all’attuazione di una strate- gia che prevedeva l’azione integrata di due elementi: la convinzione di una superiorità culturale italiana e il tentativo di fascistizzazione, su larga scala, della società.

68. E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 145. 69. Tra i molti contributi sull’esercito italiano nei Balcani, cfr. G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero di Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2008; E. Aga- Rossi, M.T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, il Mulino, Bologna 2011.

61 Accanto a tale immagine ne maturò però ben presto un’altra destinata a diventare, stagione dopo stagione, il volto identifi cante la presenza italia- na. Un volto che per migliaia di cittadini sloveni coincise con un sistema repressivo nel quale si intrecciarono rastrellamenti, violenze di massa e de- portazioni che scandirono i ventinove mesi di occupazione e la cui analisi contribuisce a scalfi re il falso mito del «bravo italiano»70, ampiamente se- dimentatosi, in chiave auto-assolutoria, nella coscienza e nell’immaginario collettivo della nazione. Quanti non accettavano la sottomissione agli occupanti e ai loro colla- boratori subirono infatti una repressione efferata, la cui durezza traspare in maniera eloquente nelle sequenze di Fascist Legacy, documentario fi rmato dal regista britannico Ken Kirby e dallo storico statunitense Michael Palum- bo che ripercorre i crimini di guerra commessi dall’esercito italiano durante la sua presenza sul territorio71. Violenze ripetute che non vanno ricondotte a singoli eccessi personali, ma si inserirono, al contrario, nella strategia tracciata dai vertici militari che ne fecero il tratto distintivo dell’occupazione con l’intento di terrorizzare la popolazione civile e renderla remissiva. A tale proposito come non ricordare i Provvedimenti per la sicurezza e l’ordine pubblico, un insieme di norme compilate dallo stesso Grazioli che decretavano l’immediata fucilazione per chiunque fosse stato trovato in pos- sesso di «manifesti sovversivi, emblemi o libri propagandistici»72, oppure la ben più nota circolare 3C redatta il 1° marzo 1942 dal generale Roatta, le cui linee erano raccolte in un volume di circa duecento pagine, poi ristampato in una seconda edizione nel dicembre dello stesso anno73. Un documento che nel paragrafo riguardante le Misure precauzionali nei confronti della popolazione civile, prescriveva l’atteggiamento che le trup- pe avrebbero dovuto tenere nei confronti dei civili, autorizzando non solo il sequestro di bestiame, ma anche l’incendio e la distruzione di villaggi e abitazioni, nonché la cattura e l’esecuzione di ostaggi in caso di aggressioni

70. Per un’analisi più circostanziata del mito del “bravo italiano”, cfr. tra gli altri, D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il saggiatore, Milano 1994; F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del «bravo italiano». Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia contemporanea» 220-221 (2000), pp. 393-399; A. Del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Milano 2005. 71. Fascist Legacy, (Gran Bretagna, 100’, 1989). 72. Alcuni stralci della relazione di Grazioli si trovano in C. Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre corte, Verona 2005, pp. 104-105. 73. Cfr. M. Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Stato Maggiore dell’Esercito, Uffi cio Storico, Roma 1998, p. 177.

62 subite dai soldati italiani da parte del movimento partigiano (sulla cui genesi torneremo nel capitolo seguente), per contrastare il quale occorreva applica- re un trattamento che «non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente, ma bensì da quella testa per dente»74. Compiendo saccheggi, incendi e devastazioni correlati da esecuzioni sommarie, violenze e stupri, i militari italiani si resero così «volenterosi protagonisti»75 delle rappresaglie ordinate dagli alti comandi, per i quali comunque – come commentava lapidariamente il generale Mario Robotti in una nota inviata all’XI Corpo d’armata – si continuava ad «ammazzare troppo poco»76. Oltre che per l’attuazione di una strategia di terra bruciata volta a impe- dire la diffusione della guerriglia partigiana, l’occupazione italiana si carat- terizzò anche per un simultaneo ricorso alla deportazione e all’internamento della popolazione civile. Una pratica eseguita nei confronti di donne, uomini, vecchi e bambini, soprattutto nelle zone dove la presenza partigiana appariva più marcata, con l’obiettivo di togliere alla Resistenza basi logistiche e recidere, colpendo la popolazione civile, i suoi legami col territorio. Un programma che nono- stante gli sforzi profusi, non riuscì però a sradicare il movimento di libera- zione e interrompere l’affl usso sloveno nei suoi ranghi. L’internamento rappresentò, dunque, una pratica largamente utilizzata, al punto che coinvolse circa 100.000 civili jugoslavi (in gran parte sloveni, croati e montenegrini), 25.000 dei quali provenienti dalla sola provincia di Lubiana77. Insieme a ebrei, cittadini stranieri appartenenti a nazioni nemiche e antifascisti, i civili sloveni e croati della Venezia-Giulia andarono a po- polare una rete di campi costituita da una cinquantina di strutture dislocate prevalentemente nell’Italia meridionale, gestite dal ministero degli Interni e, in misura minore (circa una decina) dall’esercito italiano78.

74. Comando Superiore FF.AA. “Slovenia-Dalmazia” (2° Armata), Circolare No 3 C, 1° dicembre 1942, p. 16. 75. F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della secon- da guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 133. 76. Nota di Mario Robotti al fonogramma n. 5966/OP del 4 agosto 1942 inviato dall’XI Corpo di Armata. Il testo integrale del fonogramma e del commento a margine di Robotti si trova in Crimini di guerra. Un pezzo nascosto dell’Italia del Novecento, < http://www.crimi- nidiguerra.it/DocumRob.shtml >, visitato il 20 aprile 2020. 77. Cfr. T. Ferenc, La politica italiana nei Balcani, in F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Le- gnani (a cura di), L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, FrancoAngeli, Milano 1988, pp. 65-92. 78. M. Bressan, Aspetti dell’occupazione italiana in Slovenia (1941-1943), in «Discus- sioni e problemi della ricerca storica», 1 (2006), p. 51.

63 Tra queste ultime fi guravano sei grandi campi dislocati in Italia (Visco e Gonars in Friuli, Monigo e Chiesa Nuova in Veneto, Renicci in Toscana e Colfi orito in Umbria) e quattro attivi sul territorio jugoslavo nelle isole di Melata (Molat), Mamula (Lastavica) nella penisola di Prevlaka e, soprattut- to, ad Arbe nel golfo del Quarnaro. Quest’ultimo fu considerato come uno dei principali campi di internamento dell’Italia fascista sul territorio jugo- slavo, e i suoi indici di mortalità superarono, seppure per un breve periodo, quelli registrati nei lager nazisti di non sterminio79. Edifi cato nella piana acquitrinosa di Kampor e gestito direttamente dalla II Armata del Regio esercito (che a partire dal 1942 assunse la sigla di Su- persloda indicante la dicitura Comando Superiore Slovenia e Dalmazia), il complesso, destinato ad accogliere fi no a 15.000 prigionieri jugoslavi, avviò l’attività nella primavera del 1942. Privo di qualsiasi struttura fondamentale come latrine, cucine e inferme- rie, il campo si dotò di baracche soltanto nella primavera del 1943: fi no ad allora i prigionieri furono dunque costretti a dormire ammassati in vecchie tende dell’esercito, sottoposti a rigide condizioni di internamento, che inci- sero notevolmente sulla loro mortalità. Durante il rigido inverno del 1942, migliaia di uomini, donne, e bambini sloveni vennero lasciati morire di freddo, stenti, malattie e fame, mettendo così in pratica il principio espresso dal generale Gastone Gambara, coman- dante dell’XI Corpo d’armata di stanza nei Balcani, secondo il quale «un campo di concentramento non è campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo»80. Complessivamente si calcola che mori- rono per inedia circa 1.500 persone su un totale delle quasi 30.000 arrivate, in diverse fasi, nel campo, dove gli internamenti divennero sempre più numerosi con l’intensifi carsi, tra la primavera e l’autunno del 1942, dei rastrellamenti condotti dall’esercito italiano nel territorio sloveno e nella regione di Fiume. Qui il 12 luglio 1942 si registrò uno degli episodi più drammatici che ebbe come teatro il villaggio di Podhum, preso d’assalto dai soldati italiani che, coadiuvati da camice nere e carabinieri, uccisero 91 persone (maschi dai sedici ai sessantanove anni), deportarono ad Arbe il resto della popola- zione (circa 200 famiglie, quasi 2.000 persone in larga parte anziani, donne e bambini) e confi scarono bestiame e beni alla popolazione81.

79. Cfr. C.S. Capogreco, L’inferno e il rifugio di Arbe. Slavi ed ebrei in un campo di concentramento italiano, tra fascismo, Resistenza e Shoah, in «Mondo contemporaneo», 2 (2017), p. 43. 80. Il passaggio si trova in C. Di Sante, Italiani senza onore, cit., p. 22. 81. A. Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 43.

64 Gli stessi contorni drammatici defi nirono anche il campo di Gonars, con- siderato come il più grande complesso di internamento per civili jugoslavi sul territorio italiano. Attivo dal 1941, passò sotto la direzione dell’attività militare a partire dalla fi ne di marzo dell’anno successivo, restando in fun- zione fi no al 1943. Vi furono internate tra le 4.000 e le 6.000 persone e poco meno di 500 di esse vi trovarono la morte82. Il quadro dell’occupazione italiana della Jugoslavia si presenta dunque scosso da ondate di violenza diffusa, operata dallo stato fascista e dal Regio esercito, resisi responsabili di crimini efferati.

82. A. Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Edizioni Kappavu, Udine 2003, p. 217. Per una panoramica generale sui campi di internamento nell’Italia fascista, cfr. C.S. Capogreco I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2006. Per un approfondimento sulle strutture di Arbe e Gonars, cfr. T. Ferenc, Rab, Arbe, Arbissima: confi namenti, rastrellamenti, internamenti nella provincia di Lubiana, 1941-1943: documenti, Institut za novejso zgodovino, Lubiana 2000; B. Gombač, Nei campi di concentramento fascisti di Rab-Arbe e Gonars, in «Dep, Deportate, esuli, profughe», 7 (2007), pp. 199-215; I. Bolzon, I campi di concentramento fascisti. La memoria italiana tra miti, silenzi e public history, in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», 3 (2018), pp. 1-13, , visitato il 20 aprile 2020.

65 III. Foibe

1. Ribalton

Mercoledì 8 settembre 1943 fu una giornata torrida e afosa. Uno degli ul- timi scorci d’estate prima dell’autunno. In serata, come di consueto, milioni di italiani erano sintonizzati sulle frequenze dell’Eiar, che diffondevano le note de La strada del bosco, motivo all’epoca molto in voga, interpretato dal baritono toscano Gino Bechi. Voce capace di parlare e avvicinare un pubblico di massa, la radio co- stituiva il mezzo più idoneo per comunicare alla popolazione il repentino mutamento della situazione politica e militare che il paese si apprestava ad attraversare. Così alle 19.45, nella fascia oraria di maggior ascolto, toccò a Giovan Battista Arista, speaker dell’emittente radiofonica di stato, sfumare il timbro struggente di Bechi per mandare in onda il messaggio registrato poco più di un’ora prima negli studi di via Asiago da Pietro Badoglio. L’annuncio del capo del governo, subentrato a Mussolini dopo la caduta del regime, rendeva pubblica la fi rma dell’armistizio sottoscritto dall’Italia con gli Alleati, comunicando la resa e l’immediata fi ne delle ostilità contro le truppe anglo-americane. Il discorso, criptico e ambiguo («esse [ovvero le forze italiane] però re- agiranno a ogni attacco di qualsiasi altra provenienza»1), fu piuttosto breve e durò poco meno di un minuto. Sessanta secondi che avrebbero cambiato le sorti della nazione, segnandone il destino in maniera inesorabile, al punto da rendere l’8 settembre una tra le date ineludibili nel calendario morale, politico e civile della storia italiana.

1. Per il testo completo del messaggio di Badoglio, cfr. C. Pavone, 8 settembre 1943, in E. Gentile [et al.], Novecento italiano, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 89.

66 All’alba del giorno seguente, Badoglio lasciò Roma dirigendosi, insieme agli alti comandi militari, al re, alla corte e alle gerarchie dello stato, verso Pescara e, da qui, a Ortona, dove si imbarcò per raggiungere Brindisi, già liberata dagli Alleati. Fuggì senza impartire alcuna disposizione formale né agli organi di sta- to, né tanto meno all’esercito, lasciando così un paese sbandato e smarrito, travolto dall’improvviso collasso delle istituzioni politiche e militari e sul quale, da lì a poco, si sarebbe abbattuta la prevedibile ritorsione nazista. Come nel resto d’Italia, anche in Istria le parole di Badoglio suscitarono nella popolazione «un’inquieta euforia»2 che miscelava la soddisfazione per la fi ne del confl itto con le incognite, le incertezze e le paure della reazione tedesca. L’atmosfera di quei momenti rivive a pieno in Terra Rossa, romanzo di Marco Mengaziol (pseudonimo di Marino Varini), vera e propria saga fa- miliare snodatasi tra Parenzo, Pisino e Rovigno lungo un arco temporale compreso tra l’Impero austro-ungarico e il grande esodo del dopoguerra. Il ribalton – questo il termine con cui in Istria viene solitamente indicato l’armistizio – è annunciato da Teresa, l’anziana madre di Celin, uno dei principali protagonisti, corsa a casa dal fi glio a portare la notizia: «[…] il paese è mezzo sottosopra. […] Dicono che la guerra è fi nita, l’ha comunica- to la radio. […] Sembrano tutti ammattiti». La gioia scomparve però quasi immediatamente dal volto del giovane, per lasciare spazio alle sue preoccu- pazioni: «E i tedeschi… Come la prenderanno ‘sta storia?». I tedeschi, però, non rappresentavano l’unico problema che avrebbe som- merso la popolazione civile, trovatasi, nel frattempo, ad assistere attonita alla fuga concitata di carabinieri, militari e fi nanzieri, pronti, in abiti bor- ghesi, ad abbandonare le caserme «per paura di venir catturati dai tedeschi». A complicare l’angolo visuale, concorreva infatti un ulteriore elemento, introdotto, ancora una volta, dalle parole di Teresa che informava il fi glio di come nei dintorni «vi son [fossero] certi slavi armati di fucili…»3. Le presenze evocate dalla donna appartenevano all’esercito popolare di liberazione jugoslavo che, guidato da Josip Broz, meglio noto come Tito, dal 1937 segretario del Partito comunista jugoslavo (Pcj), si radicò anche in Istria. Analizzare i passaggi salienti del movimento partigiano sloveno e croato, confi guratosi come una forza capace di agire sia sul piano militare sia su

2. C. Duggan, Il popolo del duce. Storia emotiva dell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 432. 3. M. Mengaziol, Terra Rossa, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1993, pp. 398-399.

67 quello dell’organizzazione politica e sociale dell’intera regione, rappresenta un passo necessario per comprendere lucidamente, indirizzandolo sui cor- retti binari storiografi ci di riferimento, lo scenario nel quale si collocarono le violenze di massa compiute nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945, solitamente conosciute come foibe. Per completare il quadro, occorre però sottolineare come insieme a quel- lo titino, ma in suo netto contrasto, operassero sul territorio jugoslavo anche altri attori. In prima istanza vi erano i cetnici (termine derivante da četa, banda), appartenenti a un movimento nazionalista serbo-ortodosso, composto da ex uffi ciali e militari del dissolto esercito monarchico jugoslavo stretti intorno al generale Draža Mihailovič. Animati da sentimenti marcatamente anti-comunisti, essi furono al con- tempo forza di resistenza e di collaborazione degli occupanti: in Monte- negro, ad esempio, nella prospettiva di contrastare i partigiani comunisti strinsero fi n dall’autunno 1941 una forma di collaborazione uffi ciale con l’esercito italiano poi estesa anche in Dalmazia4. Una volta ottenuto il ri- tiro di fascisti e tedeschi, miravano alla restaurazione della monarchia nel nome dell’ideale di una Grande Serbia destinata a estendere la sua egemonia sull’intero territorio jugoslavo5. Nominato ministro della guerra e comandante supremo delle forze arma- te jugoslave da parte del governo jugoslavo in esilio a Londra, Mihailovič poté contare anche sul riconoscimento britannico e su quello statunitense. Un appoggio venuto però meno quando apparve sempre più chiaro il suo progressivo avvicinamento ai tedeschi, divenuto dopo la fi rma di accordi armistiziali (Waffenruheverträge) nell’ottobre 1943, vero e proprio collabo- razionismo6. Ciò provocò il risentimento degli Alleati, che decisero di togliere ogni supporto a Mihailovič riconoscendo Tito come punto di riferimento nella lotta anti-tedesca e unico rappresentante della futura Jugoslavia7. Avversari e acerrimi nemici, partigiani titini e nazionalisti serbi iniziaro- no una lotta serrata e senza quartiere impegnandosi, parallelamente, a con-

4. Cfr. F. Caccamo, L. Monzali, L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-1943), Le lettere, Firenze 2008, pp. 95-97. 5. Per un approfondimento sulle vicende dei cetnici, cfr. S. Fabei, I cetnici nella seconda guerra mondiale. Dalla resistenza alla collaborazione con l’esercito italiano, Leg, Gorizia 2017. 6. Cfr. M. Cuzzi, La strategia dell’ambiguità: i cetnici di Draža Mihailovič, in «Quale- storia», 2 (2015), pp. 52-56. 7. Cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, La- terza, Roma-Bari 2011, p. 498.

68 trastare le formazioni croate fi lo-naziste, gli ustascia di Ante Pavelić che, alleate dell’asse e saldamente legate ai tedeschi, si trovavano in aperto con- trasto con entrambi gli schieramenti8. A chiudere il cerchio vi erano, infi ne, in Slovenia, i domobranci (di- fensori della patria). Membri della Guardia territoriale slovena, costitui- ta dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, ed erede diretta della Milizia volontaria anti-comunista (Mvac) creata invece dall’amministra- zione italiana durante l’occupazione del territorio sloveno, i domobranci erano un movimento anti-comunista, di forte ispirazione cattolica (veni- vano soprannominati Bela garda, la guardia bianca) e animato da un mar- cato sentimento nazionalista, che collaborò con i nazisti nelle operazioni militari e di controguerriglia contro i partigiani di Tito. Guidati da Leon Rupnik, ex generale dell’esercito jugoslavo, poi nominato dai tedeschi presidente della provincia di Lubiana, miravano a ottenere la separazione della Venezia-Giulia dall’Italia e una sua annessione alla Jugoslavia di Pietro II9. Durante la seconda guerra mondiale, il territorio del dissolto Regno ju- goslavo non fu dunque soltanto teatro di un confl itto combattuto tra le forze di Tito e le due potenze occupanti (Italia e Germania), ma divenne un’area caratterizzata dalla marcata contrapposizione tra forze diverse e contrastanti tra loro, la cui presenza concorse, in una crescente spirale di violenza, a defi - nire una confl ittualità sempre più esasperata che raggiunse livelli di brutalità ed efferatezze non lontani da quelli di una vera e propria guerra civile.

2. Partigiani

Riportando l’asse del discorso sull’analisi del territorio istriano e sulla presenza, al suo interno, del movimento popolare di liberazione, possiamo affermare come prima dell’armistizio fosse attiva nell’area una rete clande- stina utilizzata per la raccolta di informazioni e per il reclutamento di uomi- ni da convogliare nelle formazioni operative nella zona di Fiume e lungo il massiccio del Gorski Kotar10.

8. Sulla vicenda di Ante Pavelić e degli ustascia che deportarono serbi, rom ed ebrei, cfr. R. McCormick, Gli ustascia e la Croazia di Ante Pavelić. Il genocidio dimenticato di serbi, ebrei e rom nella Seconda guerra mondiale, Leg, Gorizia 2018. 9. Sui domobranci, cfr. J. Corsellis, M. Ferrar, Slovenia 1945. Ricordi di morte e di so- pravvivenza dopo la Seconda guerra mondiale, Leg, Gorizia 2008. 10. Cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 7.

69 Dopo l’8 settembre la situazione mutò: il crollo delle strutture dello stato italiano lasciò infatti l’entroterra istriano soggetto a un vuoto di potere, non colmato immediatamente dai tedeschi, ma dalle forze partigiane, in partico- lar modo slovene e croate, sorte in anticipo rispetto alle formazioni italiane, che agirono principalmente nella costa occidentale della penisola. Lasciando alle pagine seguenti il compito di approfondire questi pas- saggi, è per ora suffi ciente indicare come, dopo l’armistizio, il movimento popolare di liberazione poté rafforzare la propria presenza sul territorio sia sul piano militare, poiché entrò in possesso delle armi abbandonate nelle caserme dell’esercito italiano sbandato, sia su quello numerico, dal momen- to che molti giovani istriani (tra i quali fi guravano anche appartenenti alla popolazione italiana) intrapresero la strada della Resistenza accrescendone le fi la. Tra loro, come scrivono Nelida Milani e Anna Maria Mori in Bora, volume che racconta il passato di due bambine cresciute insieme a Pola e poi separate dall’esodo, non vi erano però soltanto «giovani comunisti», ma anche soldati italiani che, sorpresi dall’armistizio e privi dei mezzi necessari per rientrare a casa, «non sapevano dove e con chi andare»11. L’organizzazione partigiana affondava le sue radici nel giugno 1941, con la formazione, a Lubiana, del Fronte di liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta), appoggiato dal Partito comunista sloveno (Pcs), che ne assunse la guida politica e militare inserendolo nel più ampio novero dell’esercito di liberazione di Tito. Dopo quella slovena, anche la Resistenza croata, che aveva nel Partito co- munista croato (Pcc) il suo principale alfi ere, si mosse nella stessa direzione. Il risultato fu la creazione del Consiglio territoriale antifascista popolare di liberazione della Croazia (Zavnoh) che inviò propri membri sul territorio istriano, dove le unità partigiane avevano già iniziato ad attuare effi caci for- me di resistenza12, contribuendo così a trasformare l’intera Venezia-Giulia in uno dei più cruenti teatri di guerra partigiana conosciuto dall’Italia tra il 1941 e il 1945. Una lotta caratterizzata non solo da tempistiche di maturazione decisa- mente precoci rispetto al resto del paese, ma soprattutto dal carattere «plu- rinazionale del movimento»13 e dalle sue articolazioni politiche, saldamente in mano al partito comunista.

11. A. Mori, N. Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio, Marsilio, Venezia 2018, p. 111. 12. Cfr. E. Ivetic, Istria nel tempo. Manuale di storia regionale dell’Istria con riferimenti alla città di Fiume, Unione Italiana di Fiume- Università Popolare di Trieste, Rovigno 2006, p. 561. 13. G. Fogar, Litorale Adriatico, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di) Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino, 2006, p. 585.

70 Nel progetto dei comunisti sloveni e croati, altri due elementi, ritenuti di vitale importanza, si saldarono con la lotta di liberazione dal nazifascismo, fi no a risultare inscindibili da essa: la costruzione, alla fi ne del confl itto, di uno stato socialista e l’annessione alla Jugoslavia dell’intera Venezia-Giulia, la cui appartenenza slovena e croata non era mai stata posta in discussione. Tale disegno, divenuto sempre più chiaro con il trascorrere dei mesi, con- tribuì a creare non poche tensioni con i partigiani comunisti italiani che, sebbene disposti a sostenere la lotta antifascista, si trovavano invece in gra- ve imbarazzo nell’appoggiare un’impostazione fortemente improntata verso fi nalità nazionali e nazionaliste che avevano nell’annessione della Venezia- Giulia un aspetto determinante. La posizione jugoslava uscì allo scoperto e assunse una veste uffi ciale il 13 settembre 1943, quando a Pisino, il Comitato popolare per la liberazione dell’Istria elaborò la cosiddetta Dichiarazione di Pisino, con la quale procla- mava la fi ne della sovranità italiana e l’unione dell’Istria alla Croazia. Qualche giorno più tardi, il 20 settembre, l’atto fu approvato e ribadito dallo Zavnoh che ad Otocač, nel cuore della valle della Gacka, proclamò l’annessione «alla madrepatria croata», e dunque alla Jugoslavia, di tutti i territori – si legge nel documento – «ceduti all’Italia dalla cricca imperialista serba», e cioè l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate occupate dall’esercito italiano nel 194114. Qualche giorno prima, il 16 settembre, anche il Fronte di liberazione sloveno aveva compiuto un passo simile, sancendo l’annessione alla Jugo- slavia del litorale sloveno, cui si aggiungevano anche Gorizia e Trieste. Il 29 novembre a Jajce nella Bosnia occidentale, il Consiglio antifascista della liberazione della Jugoslavia (Anvoj), il più alto organo consiliare del mo- vimento di liberazione jugoslavo, ratifi cò la decisione nel corso della sua seconda sessione, durante la quale deliberò anche la costituzione di uno sta- to federale jugoslavo composto da sei unità federative (Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia – Erzegovina e Macedonia)15. Lo Zavnoh informò della sua decisione anche il Partito comunista italia- no (Pci), che in una lettera inviata agli stessi vertici dell’organismo croato, espresse la propria contrarietà all’annessione. Basandosi sull’applicazione del principio di autodecisione, valido tanto per la popolazione croata e slo-

14. Il documento, fi rmato Organo antifascista della liberazione nazionale della Croazia e datato 20 settembre 1943, si trova in Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in avanti Fig), Archivi del Partito comunista italiano, Fondo Luigi Longo, Longo e la questione di Trieste 1953. 15. Cfr. R. Petrović, Il fallito modello federale della ex Jugoslavia (a cura di R. Tolomeo), Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 28.

71 vena, quanto per quella italiana della Venezia-Giulia, il Pci riteneva «prema- turo e dannoso» delineare qualsiasi scenario legato alla defi nizione dei con- fi ni prima della fi ne della guerra, invitando dunque il movimento partigiano croato a sospendere in merito «ogni posizione»16. Si trattò di una linea mantenuta anche nei mesi successivi, quando le pressioni jugoslave sui partigiani comunisti italiani divennero sempre più esplicite, come si evince da una lettera inviata nel 1944 dalla Federazione del Pci di Rovigno a quella triestina. Il destinatario della missiva era Lino Zocchi “Ninci”, dirigente comunista e fi gura chiave della Resistenza triesti- na e friulana, che ricevette una dettagliata descrizione del rapporto, sempre più incrinato, instauratosi tra partigiani italiani e croati. Questi ultimi – si legge nel documento – sostenevano che l’annessio- ne dell’Istria fosse avvenuta il 30 novembre 1943 (era quindi chiaro il riferimento alla sessione dell’Anvoj) e pertanto esigevano il passaggio alle dipendenze del Comitato di liberazione croata, unico organismo ri- conosciuto («i croati dicono che con il Pci non abbiano [hanno] nulla a che vedere per le direttive»), di tutte le forze antifasciste della provincia. Comprese quelle comuniste, il cui punto di riferimento non avrebbe più dovuto essere il Pci, reo di non voler riconoscere «le esigenze della po- sizione geografi ca, che logicamente portano [portavano] all’annessione della Venezia-Giulia». La situazione per i comunisti rovignesi era dunque «imbarazzante», poi- ché se da un lato essi comprendevano la necessità di mantenere l’unità nella lotta anti-fascista, dall’altro apparivano decisamente meno propensi ad ac- cettare il passaggio nelle fi la dei comunisti croati, rivendicando l’indipen- denza della propria organizzazione e il mantenimento del ruolo direttivo da parte del Pci. Al fi ne di risolvere «una situazione così dubbia», veniva quin- di richiesto non solo l’intervento della federazione triestina, ma anche una «presa di posizione uffi ciale del Pci» per precisare «la nostra posizione»17. La risposta del partito arrivò il 5 febbraio 1944 con una lettera indiriz- zata alla Federazione triestina contenente disposizioni chiare: mantenere unito il fronte antifascista e, allo stesso tempo, «far capire, nell’interesse della nostra causa, ai compagni sloveni e croati che è necessario non fi s-

16. Lettera del Partito comunista italiano allo Zavnoh e alla Federazione comunista di Trieste (il documento presenta come unico riferimento temporale soltanto l’anno e cioè il 1943), in Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in avanti Fig), Archivi del Partito comunista italiano, Fondo Luigi Longo, Longo e la questione di Trieste 1953. 17. Lettera non datata della Federazione comunista di Rovigno alla Federazione del Pci di Trieste, in Fig, Archivi del Partito comunista italiano, Fondo Luigi Longo, Longo e la questione di Trieste 1953.

72 sare i confi ni», la cui defi nizione doveva essere rimandata alla ne fi della guerra18. La linea del rinvio non era però destinata a resistere ancora a lungo: le richieste jugoslave, divenute sempre più pressanti, portarono infatti il Pci a un radicale cambiamento di rotta nel settembre 1944. A giocare un ruolo decisivo nel mutamento delle posizioni del partito contribuì quasi certamen- te una comunicazione che il 9 settembre Edvard Kardelj, braccio destro di Tito, fece pervenire a Umberto Massola, rappresentante del Pci presso il partito comunista sloveno, paventando la possibilità di una Trieste jugoslava «fortemente appoggiata dall’Unione Sovietica»19. Di fronte alla benedizione di Mosca, ogni barriera era quindi destinata a crollare. Il cambio di strategia dei comunisti italiani, sui quali infl uì anche l’atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone disposto ad appoggiare in chiave internazionalista la soluzione jugoslava, ebbe come primo effetto l’arrivo a Trieste di Vincenzo Bianco, “Vittorio”, fedelissimo di Togliatti fi n dai tempi del suo soggiorno in Unione Sovietica20, che il 24 settembre, per conto del Comitato centrale del partito, fi rmò una circolare «riservatissima» inviandola alle federazioni comuniste di Udine, Gorizia e Trieste. Il documento evidenziava la necessità di porre le unità partigiane comuniste italiane impegnate a combattere nel territorio sotto la direzione del IX Korpus sloveno, specifi cando però che il Pci ne avrebbe mantenuto la guida politica21. Pur suscitando più di una perplessità in alcuni dirigenti triestini e friu- lani, e non convincendo a pieno personalità di primo piano del partito22, la «riservatissima» di Bianco era invece appoggiata da Togliatti che il 15 otto-

18. Lettera della Federazione di Trieste del Pci inviata alla Federazione di Rovigno il 5 febbraio 1944, in Fig, Archivi del Partito comunista italiano, Fondo Luigi Longo, Longo e la questione di Trieste 1953. 19. Il documento si trova in P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1997, p. 434. 20. Cfr. L. Gibjanskij, Mosca, il Pci e la questione di Trieste (1943-1948), in F. Gori, S. Pons (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L’Urss, il Cominform e il Pci, Carocci, Roma 1998, p. 92; A. Guerra, Comunismi e comunisti. Dalle «svolte» di Togliatti e Stalin del 1944 al crollo del comunismo democratico, Dedalo, Bari 2005, p. 48. 21. Il testo completo della “riservatissima” si trova in P. Pallante, La tragedia delle foibe, Editori Riuniti, Roma 2006, pp. 219-227. 22. A livello locale fu Giordano Pratolongo, rappresentante del Partito comunista nel Cln triestino, a esprimere la sua contrarietà alle direttive di Bianco, che fecero sorgere più di una riserva anche in Luigi Longo, Giovanni Roveda (primo sindaco di Torino dopo la liberazione) e Pietro Secchia, dirigenti dell’ala milanese del partito. Cfr. G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002, p. 128.

73 bre 1944 si recò a Bari per incontrare Kardelj e Milovan Gilas, altra fi gura di spicco della dirigenza jugoslava. Al termine dei colloqui, durante i quali emerse la subalternità del partito rispetto alla politica condotta dai comunisti sloveni sul territorio giuliano e il totale assenso verso le richieste jugoslave23, Togliatti scrisse, il 19 ottobre, una lettera a Bianco, contenente le future direttive del Pci e le precise istru- zioni per la loro applicazione. Il documento, dietro al quale si può scorgere un graduale cedimento alle pretese slovene24, integrava le disposizioni precedenti, raccomandando ai comunisti italiani di favorire l’occupazione della regione da parte dei parti- giani titini, piuttosto che dell’esercito Alleato. In tale prospettiva, sollecitava le strutture locali del partito a collaborare con le forze jugoslave nell’orga- nizzazione di un potere popolare nelle zone liberate e di un contropotere in quelle ancora poste sotto l’occupazione tedesca. Sulla questione di fondo, ovvero la defi nizione della futura frontiera ita- lo-jugoslava, il segretario comunista non indicava una soluzione immediata («noi non possiamo ora impegnare una discussione su come [il problema] sarà risolto domani»25), ma solamente il metodo attraverso cui ricercarla – sostanzialmente simile a quello precedente – e cioè quello di un confronto tra i due partiti comunisti alla fi ne della guerra26. La stretta collaborazione «con i compagni jugoslavi» invocata da To- gliatti e il passaggio dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi nel IX Korpus, non fu accolta con favore dal resto dell’universo partigiano, tra le cui fi la operava anche la Brigata Osoppo, formazione autonoma attiva soprattutto sul territorio friulano, fondata nel 1943 presso il seminario ar- civescovile di Udine e composta da cattolici, liberali, socialisti e, in misura minore, da azionisti. Contrari a una convergenza troppo stretta con i reparti jugoslavi e a ri- conoscerne la guida, gli appartenenti alla Osoppo (ossovari), la cui azione si snodava privilegiando una logica nazionale italiana, dimostrarono fi n da subito il proprio disappunto verso un eventuale passaggio sotto il comando sloveno.

23. Cfr. P. Karlsen, Il Pci, il confi ne orientale e il contesto internazionale (1941-1944), in «Ventunesimo Secolo», 17 (2008), p. 155. 24. Cfr. E. Pietrafesa, La ferita in alto Adriatico: Togliatti e la questione di Trieste fra Roma e Mosca, in M. Pizzigallo (a cura di), Amicizie mediterranee e interesse nazionale 1946-1954, FrancoAngeli, Milano 2006, p. 114. 25. Per il testo della lettera di Togliatti, da cui è tratta la citazione, cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V, cit., pp. 437-438. 26. Cfr. P. Karlsen, Frontiera rossa. Il Pci, il confi ne orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Leg, Gorizia 2010, pp. 64-65.

74 Tale situazione produsse fi n dall’ottobre 1944 un serrato dibattito tra le due anime della Resistenza, i cui rapporti divennero sempre più tesi fi no a deteriorarsi defi nitivamente verso la fine di novembre, quando i garibaldini della Brigata Natisone, che guardavano con favore all’inglobamento dell’I- stria, Trieste e Gorizia nel futuro stato comunista jugoslavo, si trasferirono, anche geografi camente, nei territori occupati dalle formazioni slovene. Ne nacque un vero e proprio scontro intrapartigiano, carico di confl ittua- lità politica e militare il cui epilogo, come è noto, fu l’eccidio delle malghe di Porzûs, in Friuli, dove il 7 febbraio 1945 i quadri cattolici e azionisti della Brigata Osoppo furono trucidati da un commando di gappisti comunisti. In quello che rappresentò il «più grave e sanguinoso»27 scontro interno alla Resistenza italiana, persero la vita 20 partigiani ossovari, tra i quali vi erano anche Guidalberto Pasolini “Ermes”, fratello di Pier Paolo e Francesco De Gregori “Bolla”, zio dell’omonimo cantautore romano. Alla fi ne della guerra Candido Grassi “Verdi” e Alfredo Berzanti “Pao- lo”, comandanti della Osoppo, presentarono una denuncia alla magistratura di Udine. Fu il primo atto di una lunga vicenda giudiziaria che portò alla sbarra quarantacinque persone, diciotto delle quali erano nel frattempo fug- gite in Jugoslavia. Iniziato nel 1948, l’iter processuale si concluse nel 1959 con l’assoluzione di tutti gli imputati che benefi ciarono dell’intervenuta am- nistia presidenziale riguardante i reati politici commessi tra il 25 luglio 1943 e il 18 giugno 194628.

3. Zona di Operazioni Litorale Adriatico

In un silenzio fuori del tempo, vi fu un’improvvisa tensione, un sussulto. […] Fuor della porta, passi pesanti, che si avvicinavano e si arrestavano. E ordini secchi: Brecht die türe auf! […] Uomini in divisa che irrompono e noi immobili, il terrore e l’indignazione rimescolati in viso29.

Siamo a Portole, borgo medievale dell’Istria interna nella valle del fi ume Quieto, agli inizi dell’ottobre 1943. Gli attimi, concitati, sono quelli vissuti da Costanza, giovane protagonista de La tartaruga, romanzo autobiografi co

27. T. Piffer, Introduzione, in Id. (a cura di), Porzûs. Violenza e Resistenza sul confi ne orientale, il Mulino, Bologna 2012, p. 7. 28. Cfr. E. Aga Rossi, L’eccidio di Porzûs e la sua memoria, in T. Piffer, Porzûs, cit., p. 98. Sulla vicenda processuale, cfr. A. Kersevan, Porzus: dialogo su un processo da rifare, Kappavu, Udine 1997. 29. A. Timeus, La tartaruga, Vito Bianco Editore, Roma 1962, p. 224.

75 di Aurea Timeus, che ci consegna l’arrivo nel borgo dei soldati tedeschi. Una narrazione carica di tensione, dettata dalla visione di uomini dai modi energici, il passo greve e il tono deciso, che evocano timori e paure racchiusi nell’ordine perentorio («Brecht die türe auf !» e cioè «Apri la porta!») rivol- to alla ragazza. I militari erano giunti a seguito dell’«Operazione Nubifragio» (Wolkenbruch), la campagna militare preparata dai comandi della Weh- rmacht per prendere possesso dell’entroterra istriano, inizialmente trascu- rato per concentrare gli sforzi verso Trieste, Pola, Fiume e le altre città costiere, considerate nevralgiche sul piano strategico e militare. Una volta ottenutone il controllo, anche l’Istria interna avrebbe dovuto confl uire nella neo costituita Zona di Operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Künstenland, laddove quest’ultimo termine riprendeva l’antico titolo austriaco del territorio), che assorbiva le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana. Come già avvenuto nello stesso periodo per le province di Trento, Belluno e Bolzano, occupate e inquadrate nella Zona di operazioni delle Prealpi (Ope- rationszone Alpenvorland), anche per le province orientali la creazione del Litorale Adriatico signifi cò la defi nitiva separazione dell’area dal resto del territorio italiano e l’instaurazione di un’esclusiva amministrazione tedesca. Il progetto, come hanno dimostrato recenti studi, andava ricondotto non tanto a una volontà di sopperire alla situazione di emergenza creatasi dopo l’8 settembre, o a dinamiche di carattere strategico-militare (l’area costituiva infatti per i tedeschi un importante crocevia tra il fronte orientale e quello occidentale), quanto piuttosto a una precisa strategia pianifi cata dai vertici di Berlino che, nel segno della politica espansionista nazista, intendevano perseguire un progetto di riunifi cazione sotto l’egida del Reich di tutti i ter- ritori già appartenuti al vecchio Impero austriaco30. L’offensiva militare, condotta con l’appoggio degli Stuka della Lutwaffe e dei carri armati, mise in campo un imponente spiegamento di uomini e mezzi, coinvolgendo reparti di fanteria e divisioni corazzate. Scattò il 1° ottobre e raggiunse ben presto l’obiettivo: il 15 ottobre i tedeschi assunsero infatti il pieno controllo dell’Istria. In due settimane le truppe germaniche, supportate da gruppi di fascisti locali che conoscevano approfonditamente il territorio, operarono con spie- tata durezza, seguendo scrupolosamente le indicazioni del Bandenkampf in der Operationszone Adriatisches Küstenland, un prontuario contenente le

30. Cfr. G. Liuzzi, Violenza e repressione nazista nel Litorale Adriatico 1943-1945, Irsml, Trieste 2014, pp. 23-24.

76 tecniche di applicazione della repressione anti-partigiana, appositamente redatto sull’esempio della direttiva emanata da Hitler il 18 agosto 1942 per combattere la resistenza nei territori orientali dopo l’invasione dell’Unione Sovietica31. Seguendo le coordinate di una «geografi a di sangue»32 che attraversava intere aree dell’Italia e dell’Europa occupata, la lotta alle bande fu accom- pagnata da rastrellamenti, distruzioni di villaggi, deportazioni e rappresaglie contro la popolazione civile, vittima, anche in Istria, della furia di implaca- bili persecutori. L’uccisione indiscriminata e senza motivazioni apparenti di uomini e donne inermi, si inseriva a pieno nelle strategie di una «guerra ai civili»33 che, intrecciando «macroviolenza e microviolenza»34, veniva con- dotta con il duplice scopo di spezzare i legami dei partigiani con le comunità locali e di dare prova della propria forza alla popolazione del territorio. L’urto dell’offensiva fu durissimo, se è vero che tra il 25 settembre e l’11 novembre si contarono, oltre all’incendio e alla distruzione di un migliaio di abitazioni, 2.800 vittime e circa 2.500 arrestati, parte dei quali (circa 400) inviati nei campi di concentramento35. Come sottolineato, l’area venne separata dalla Repubblica sociale ita- liana, costituitasi nell’Italia settentrionale dopo la liberazione di Mussolini, che non poté quindi esercitarvi un effettivo potere legislativo, economico e militare limitandosi, pur collaborando attivamente con il Reich, a mantenere sul territorio alcune divisioni militari poste agli ordini del comando tedesco. L’amministrazione del Litorale Adriatico fu affi data a Friedrich Rainer, già governatore (Gaulatier) della Carinzia, che assunse la carica di Alto commissario (Oberste Kommissar). Nato nel 1903 a Sankt Veit an der Glan, in Carinzia, appoggiò fi n da gio- vane le posizioni dei nazionalisti austriaci, militando anche in gruppi para-

31. Cfr. M. Coslovich, La «Zona d’operazione Litorale Adriatico» e la Risiera di San Sabba, in «I Viaggi di Erodoto», 34 (1998), p. 8. 32. Traggo l’espressione da P. Pezzino, G. Fulvetti (a cura di), Zone di guerra, geografi e di sangue. L’atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna 2016. 33. La defi nizione di guerra ai civili è stata proposta e indagata da Michele Battini e Paolo Pezzino. Sul tema, cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997. 34. C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, p. 25. 35. G. Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel litorale adriatico (1943-1945), Tesi di Dottorato XIX° Ciclo, Università degli Studi di Pisa, Pisa 2007, p. 253. Sulla repressione anti-partigiana nel Litorale Adriatico, cfr. C.M. Zampi, La repressione legale nell’Operationszone Adriatisches Künstenland: la corte speciale per la sicurezza pubblica, in «Storia contemporanea in Friuli», 45 (2015), pp. 121-136.

77 militari attivi sul territorio. Laureatosi in giurisprudenza nel 1926, si trasferì a Graz, dove entrò in contatto con le SA36 prima di iscriversi, nel 1930, al partito nazional-socialista (Nsdap) del quale divenne, quattro anni più tardi, responsabile in Carinzia del servizio informazioni delle SS e della sezione stampa e propaganda. Nel 1936 ricevette direttamente da Hitler l’incarico di potenziare la presenza dell’Nsadp in Austria, ricoprendo ruoli di spicco all’interno del- la nuova amministrazione austriaca instaurata dopo l’annessione del paese alla Germania nazista (Anschluss): fu infatti segretario di stato nel 1938 e Gauletier di Salisburgo fi no al 1941, anno in cui ricevette la nomina di go- vernatore della Carinzia37. Giunto nel Litorale Adriatico, Rainer trasformò il territorio in una sorta di protettorato tedesco, seguendo una linea che mirava a contrapporre tra di loro i tre gruppi nazionali presenti nell’area al fi ne di far risaltare la «ne- cessità dell’arbitrato germanico»38, che si tradusse nella designazione negli apparati amministrativi di consiglieri e funzionari tedeschi, molti dei quali di origine carinziana. A ciò si accompagnò, nell’ottica di una politica di ammiccamento verso le componenti nazionali, la concessione di parziali autonomie linguistiche e amministrative, prima tra tutte la nomina, a livello provinciale, di funzionari italiani, sloveni e croati (la cui autonomia era però ridotta ai minimi termini) a seconda della composizione demografi ca della zona. Seguendo i dettami di Berlino, Rainer impose il lavoro obbligatorio nell’organizzazione Todt a larghe fasce di popolazione, con l’obiettivo di controllare un gran numero di uomini e scoraggiare un loro eventuale in- gresso nel movimento partigiano. Essi furono principalmente mobilitati per la costruzione di opere di fortifi cazione e linee di difesa, come ad esempio quelle comprese nell’Alpenfestung, faraonico progetto che avrebbe dovuto portare alla creazione di una linea che da Trieste si spingeva a Fiume e, da qui, fi no alle Alpi39. L’impresa subì però un drastico ridimensionamento,

36. Sturmabteilung (sezione d’assalto), reparto paramilitare creato da Hitler nel 1921. 37. Le informazioni sul profi lo biografi co di Rainer sono tratte da M. Williams, Friedrich Rainer e Odilo Globocnik. Un’amicizia insolita e i ruoli sinistri di due nazisti tipici, in «Qualestoria», 1 (1997), pp. 143-144, 152,158. Per un approfondimento più dettagliato cfr. M. Williams, Gau, Volk und Reich: Friedrich Rainer und the Paradox of Austrian National Socialism, Verlag des Geschichtsvereins für Kärnten, Klagenfurt, 2005. 38. R. Pupo, Venezia-Giulia: immagini e problemi 1945, Editrice Goriziana, Gorizia 1992, p. 17. 39. Cfr. R. Spazzali Sotto la Todt: affari, servizio obbligatorio del lavoro, deportazioni nella zona d’operazioni «Litorale adriatico» (1943-1945), Leg, Gorizia 1998, p. 199.

78 poiché una linea, denominata Linea Ingrid, venne realizzata solo attorno alla città di Fiume, mentre gli altri due versanti rimasero incompiuti40. Reiner provvide anche a strutturare sul territorio uno speciale apparato di polizia, il Hohere SS-und Polizeifi ihrer affi dandone il comando al gene- rale delle SS Odilo Lotario Globocnik, suo amico d’infanzia e reduce dalla Aktion Reinhard, l’operazione condotta contro gli ebrei polacchi nel marzo 1942 che provocò la morte di quasi due milioni di persone attraverso la crea- zione dei campi di sterminio di Sobibor, Belzec e Treblinka41. Nominato responsabile delle SS e della polizia, Globocnik inserì nel pro- prio apparato buona parte dei quadri che avevano già collaborato con lui alla soluzione fi nale in Polonia42. Si trattava di «professionisti dello sterminio»43, impiegati nelle operazioni contro i cittadini ebraici, divenuti bersagli della repressione nazista, impegnata anche nella lotta contro partigiani e comu- nisti. Ritenuti nemici dello stato tedesco, la loro eliminazione andava per- seguita attraverso l’adozione di quelle che lo stesso Reiner defi nì «misure durissime»44. A Trieste Globocnik e i suoi uomini operarono nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba. Costituita nell’ottobre 1943 in un vecchio stabilimen- to per la pilatura di riso nel rione di San Sabba, alla periferia della città, la struttura fu non solo, come si evince dalla denominazione, luogo di deten- zione di polizia, ma anche complesso di raccolta dei beni razziati alla comu- nità ebraica. A ciò si aggiunga la sua funzione di campo di transito sia per gli ebrei catturati nell’area o nei territori limitrofi (Veneto e Jugoslavia) destina- ti alla deportazione nei campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbruck, sia per i membri della Resistenza, gli oppositori politici e gli ostaggi civili, che qui vennero rinchiusi, torturati ed eliminati. In tal senso a partire dal marzo 1944 i tedeschi costruirono nel campo un apposito forno per la cremazione dei cadaveri, dopo aver inizialmente utiliz- zato quello dell’essiccatoio già esistente. Si calcola che dalla sua attivazione fi no all’aprile del 1945 siano state eliminate tra le 3.000 e le 5.000 persone,

40. Cfr. S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Künstenland: Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana durante l’occupazione tedesca, 1943- 1945, Irsml, Trieste 2005, p. 586. 41. Cfr. G. Corni, Il sogno del “grande spazio”. Le politiche d’occupazione nell’Europa nazista, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 116. 42. Cfr. E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 140. 43. G. Valdevit, Trieste. Storia di una periferia insicura, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 40. 44. P. A. Carnier, Lo sterminio mancato. La dominazione nazista sul Veneto orientale 1943-1945, Mursia, Milano 1982, p. 24.

79 in buona parte antifascisti e partigiani italiani, sloveni e croati. Poco meno di un centinaio gli ebrei uccisi, mentre quelli che transitarono per la Risiera furono 1.450, 700 dei quali vennero deportati45. Nelle fasi fi nali del confl itto precedenti la dissoluzione del Litorale Adria- tico, Rainer fuggì da Trieste. Partì il 28 aprile 1945 in direzione Klagenfurt, in Carinzia, dove venne raggiunto da Globocnik. I due si rifugiarono in una baita isolata nelle montagne circostanti, fi no a quando non vennero sorpre- si, il 31 maggio, da un’unità dell’VIII Armata britannica. Arrestati, furono interrogati: Globonick, dopo aver cercato invano di negare la sua identità si tolse la vita ingoiando una capsula di cianuro, mentre Reiner non oppose resistenza. Fu quindi trasferito nel carcere di Norimberga e da qui consegnato agli jugoslavi per essere processato a Lubiana davanti al Tribunale di guerra del- la IV Armata che lo condannò a morte. La sentenza fu eseguita per impicca- gione il 19 agosto dello stesso anno46.

4. Foibe istriane

«Depressione carsica a forma di imbuto, sul fondo della quale si apre una profonda spaccatura che assorbe le acque»47. Così il Dizionario Garzanti della Lingua italiana defi nisce la parola foi- ba, termine derivante dal latino fovea, cavità, che nella Venezia-Giulia è uti- lizzato per defi nire le violenze di massa a danno di militari e civili, in larga parte ma non esclusivamente italiani, compiute da parte del movimento po- polare di liberazione jugoslavo nell’autunno del 1943 (foibe istriane) e nella primavera del 1945 (foibe giuliane). Utilizzate dalla popolazione del retroterra triestino e istriano come depo- sito per il materiale di scarto del quale era diffi cile disfarsi, durante il secon- do confl itto mondiale e l’immediato dopoguerra, questi inghiottitoi naturali vennero impiegati per celare i corpi dei caduti nei combattimenti e quelli delle vittime di eccidi, spesso eliminate mediante fucilazione collettiva, data l’impossibilità di «scavare fosse comuni nel terreno roccioso»48.

45. I. Bolzon, F. Verardo, Postwar Trials in Trieste: Collaboration and Crimes against Jewish property during the German Occupation, in «Studi di Memofonte», 22 (2019), p. 164. 46. Cfr. E. Apih, Tre documenti sulla politica nazista nel Litorale Adriatico, in «Il Movi- mento di Liberazione in Italia», 106-109 (1972), p. 60. 47. Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, Foiba, in , visitato il 28 aprile 2020. 48. R. Pupo, Matrici della violenza tra foibe e deportazioni, in F.M. Dolinar, L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel goriziano tra guerra e movimenti di liberazione, cit., p. 233.

80 Il contesto all’interno del quale vanno calate entrambe le fasi è quello della resa dei conti seguita alla caduta del fascismo e alla fi ne della du- rissima occupazione nazista, che videro un’ esplosione di violenza contro fascisti e nazisti, portando così a disegnare, anche nella Venezia-Giulia, uno scenario di fondo non molto dissimile a quelli di altri dopoguerra europei. La specifi cità fu invece costituita dalla «sostanza politica delle stragi»49 che non si applicava solo ai nazifascisti, per spiegare la quale è necessario compiere un passo indietro e volgere lo sguardo a quel vuoto di potere, ac- cennato nelle pagine precedenti, che investì l’entroterra istriano subito dopo l’8 settembre 1943. A colmarlo, come si è visto, non furono immediatamente i tedeschi, ma le forze partigiane che assunsero il pieno controllo del territorio, mantenen- dolo per circa un mese, prima di cedere, alla metà di ottobre, all’avanzata nazista. Un arco di tempo nel quale il movimento partigiano provvide ad appli- care anche nell’area istriana un modello già sperimentato in altre porzioni del territorio jugoslavo, che prevedeva nelle zone liberate (anche solo in via temporanea) l’instaurazione di un nuovo ordine, l’azzeramento di quello precedente e, non per ultima, l’eliminazione dei cosiddetti nemici del popo- lo. Categoria che, direttamente mutuata dall’esperienza bolscevica e dalla spietatezza del totalitarismo staliniano50, venne applicata con una discrezio- nalità tale da poter comprendere al suo interno quei segmenti di popolazione invisa ai comandi partigiani. Questi ultimi, in un clima nel quale insurrezione popolare, sollevazio- ne contadina e resa dei conti con gli esponenti del passato regime fascista procedevano parallelamente, ordinarono così l’arresto immediato di tutte le fi gure ritenute incompatibili con il nuovo potere: personalità di rilievo nelle gerarchie del partito fascista (dirigenti e squadristi), esponenti della società locale (proprietari terrieri, commercianti, farmacisti, ecc.) e rappresentanti dello stato italiano (podestà, segretari, maestri, carabinieri e messi comuna- li), i cui simboli (municipi, tribunali, archivi, catasti comunali e dell’erario) vennero distrutti e dati alle fi amme. L’intreccio di tali fattori evidenzia come quanto accadde nell’autunno 1943 ebbe delle particolarità rispetto alle vicende della primavera 1945, non solo, come vedremo in seguito, per il coinvolgimento dell’entroterra e non

49. E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 165 50. Su questo aspetto, cfr. N. Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss, 1937-1938, il Mulino, Bologna 2011.

81 delle città, ma soprattutto per il nesso esistente tra il «furore popolare»51 e la precedente oppressione nazionale e sociale che investì la popolazione croata durante il ventennio mussoliniano. Dall’analisi del fenomeno emerge inoltre come le motivazioni di ordine politico si saldassero con contrasti e rancori personali, al punto da rendere molto labile la linea di separazione tra risentimenti individuali e violenza collettiva, che a volte assunse forme di esecuzioni precedute da efferatezze e sevizie52. Tale aspetto conduce il ragionamento all’individuazione di due scale di violenza: quella calda e spontanea che trovò sfogo nei casi di linciaggi con- tro le vittime e nell’incendio di archivi e catasti comunali, e quella fredda che, come ha osservato Raoul Pupo, «stilava le liste dei soggetti da colpire, li scovava, li arrestava senza chiasso, possibilmente di notte, e poi li ammassa- va, li spostava, li eliminava con rapidità»53, occultandone, infi ne, i cadaveri. La violenza pianifi cata si affi ancò a una confusione organizzativa e poli- tica, che vide i comandi partigiani adottare criteri di selezione molto ampi, tali da consentire il raggiungimento di un duplice obiettivo: da un lato col- pire direttamente quanti fossero ritenuti colpevoli di eventuali responsabi- lità per aver esercitato pressioni e violenze contro la popolazione croata, dall’altro intimorire la componente italiana, che contò il maggior numero di vittime, sgretolandone così non solo l’egemonia economica e culturale, ma riducendo anche il suo peso specifi co sull’intera società istriana. Dopo l’arresto i prigionieri furono condotti in alcune località, prima tra tutte Pisino, dove sorgeva il castello di Montecuccoli, trasformato in centro direzionale e organizzativo delle operazioni politiche, militari e di polizia, al cui interno venne anche istituito un tribunale del popolo. Qui le autorità partigiane procedettero a processi sommari e fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei corpi nella foiba sottostante l’edifi cio.

51. R. Pupo, Foibe ed esodo: un’eredità del fascismo?, in Irsrec-Fvg, Materiali sul confi ne orientale, Irsrec-Fvg, Trieste 2014, , visitato il 28 aprile 2020. 52. In tal senso emblematico e piuttosto noto appare il caso di , fi glia di Giuseppe, podestà di Visinada d’Istria e iscritta ai Gruppi universitari fascisti di Pola, uccisa nella foiba di Villa Surani tra il 4 e il 5 ottobre 1943 dopo essere stata violentata e seviziata. Sulla vicenda di Norma Cossetto, ricostruita non senza contraddizioni, cfr. F. Sessi, Foibe Rosse. Vita di Norma Cossetto, uccisa in Istria nel ’43, Marsilio, Venezia 2007. Sulla sua strumentalizzazione e l’uso pubblico, oltre al fi lm di M.H. Bruno Red Land- Rosso Istria, si veda anche la graphic novel di E. Merlino, B. Delvecchio, Foiba Rossa. Norma Cossetto. Storia di un’italiana, Ferrogallico, Milano 2018. 53. R. Pupo, Trieste ’45, cit., p. 11.

82 La cronaca di quanto accaduto è al centro di un articolo pubblicato da «Il Piccolo» nell’ottobre 1943, dopo l’arrivo dei tedeschi e la fi ne di quella che il quotidiano triestino defi niva «un’occupazione brigantesca». Il contributo riferisce come a essere fermati furono soprattutto «i cittadini più in vista», condotti successivamente all’arresto, nella caserma dei carabinieri prima di essere tradotti nelle carceri cittadine e, da qui, nel castello medievale. Si trattava di 217 persone, tra cui 19 donne, «trasferite in altra località o portate alla fucilazione»54. In prossimità dell’arrivo delle truppe tedesche, tali pratiche si susse- guirono con velocità sempre crescente: i partigiani preferirono infatti non lasciare alcuna testimonianza riconducibile alle loro azioni e procedettero quindi a vere proprie liquidazioni di massa e all’infoibamento degli uccisi. La foiba non costituiva però una modalità di esecuzione, ma un metodo di eliminazione delle vittime che, legate con il fi lo di ferro ai polsi, veniva- no condotte sull’orlo della cavità e fucilate collettivamente. La morte, nella gran parte dei casi, avveniva immediatamente dopo l’esplosione dei colpi, in altri poteva essere invece provocata dalla caduta in voragini profonde decine di metri. Provando, infi ne, a quantifi care il numero delle vittime coinvolte nel- le stragi del settembre-ottobre 1943, si può affermare come le stime più puntuali individuino un ordine di grandezza oscillante tra le 500 e le 700 persone. Dopo il loro arrivo in Istria e la presa di possesso del territorio, le autorità tedesche iniziarono a diffondere le notizie delle esecuzioni compiute dai partigiani con l’intento di evidenziare il proprio ruolo di tutori dell’ordine costituito all’interno della società istriana, che la presenza partigiana aveva invece rovesciato e travolto. Una linea sposata a pieno anche dalla stampa locale, impegnata a far emergere, promuovendola a visione generale della popolazione civile dell’Istria interna, l’immagine rassicurante dei soldati te- deschi il cui arrivo, quasi salvifi co, aveva coinciso con la fi ne di una stagione di brutalità e violenze. Si veda in proposito una corrispondenza dall’Istria pubblicata da «Il Pic- colo» nell’ottobre 1943. Recatosi a Buie, Pisino e in altri centri minori, l’a- nonimo cronista autore del contributo restituiva un quadro tranquillizzante, segnato da uomini e donne intenti al lavoro nei campi e da bambini «con volti sereni e vivaci» affacciati dalle fi nestre delle loro abitazioni. Un’imma- gine di tranquilla normalità, resa possibile – questo è il messaggio che tra- spare – dall’arrivo dei tedeschi che, «fuggiti i briganti, hanno riportato tran-

54. La corriera della morte. Tragiche giornate in Istria, «Il Piccolo», 15 ottobre 1943.

83 quillità». La loro era quindi una presenza rassicurante, anche e soprattutto per la popolazione, che li aveva attesi «con fi ducia» e che poteva finalmente «sventolare la bandiera bianca in segno di pace». Una pace – concludeva l’articolo – fi nalmente «sicura»55. La pace richiamata dall’articolo equivaleva al mantenimento degli equilibri sociali della regione che i partigiani avevano invece cercato di ribaltare, pro- vocando incertezze e paure nella popolazione italiana che vedeva messo for- temente in discussione il suo ruolo di leadership e di componente dominante. Ciò può spiegare il motivo per cui in alcuni borghi dell’Istria una par- te della comunità italiana vide con favore l’avanzata tedesca, accogliendo i militari germanici come liberatori che avrebbero posto fi ne agli arresti, alle violenze e alle eliminazioni che avevano contraddistinto l’attività dei partigiani croati sul territorio. Una dimensione specifi ca e di singoli luo- ghi, calata in un determinato momento storico, che non va comunque intesa come una condizione generale che abbracciasse l’intera popolazione italia- na, quanto invece come una realtà posta in stretta connessione con l’insieme delle forze in gioco, la cui rappresentazione appare mutuata da una diffe- rente percezione della paura, che costituisce un elemento fondamentale sul quale basare ogni considerazione. Su quest’ultimo aspetto vale forse la pena evidenziare la contrapposizio- ne tra due modelli rappresentativi che vedono da una parte il tedesco buono, lo stesso che fa capolino nella corrispondenza proposta da «Il Piccolo», e dall’altra i partigiani, fi gure che agivano nell’ombra, la cui presenza invade- va il campo in maniera netta e decisa incrinando improvvisamente gli equili- bri e le certezze della popolazione italiana delle comunità rurali dell’Istria56.

5. Foibe giuliane

Nella primavera 1945 il confl itto stava per volgere al termine. L’Armata jugoslava, che il 4 aprile aveva lanciato la sua offensiva, avanzava rapida-

55. Rapido giro in Istria dopo le tragiche giornate di anarchia, «Il Piccolo», 8 ottobre 1943, 56. Sui modelli rappresentativi dei partigiani nelle comunità rurali dell’Istria, cfr. G. Ne- mec, Fuori dalle mura. Cittadinanza italiana e mondo rurale slavo, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera, cit., pp. 202-224; G. Nemec, Un altro essere che non è un ani- male vive nei boschi. Percezione del partigianato e memoria collettiva in una comunità dell’I- stria interna, in D. Gagliani (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; G. Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1998.

84 mente con l’obiettivo di liberare defi nitivamente l’Istria croata e il litorale sloveno. Tuttavia Tito coltivava piani più ambiziosi rivolgendo massima at- tenzione anche a Trieste. Un interesse dettato da una serie di motivazioni che legavano il valore simbolico assunto dalla città per gli sloveni e la sua importanza sul piano economico, alla convinzione che il capoluogo giuliano rappresentasse la chiave di volta necessaria per il compimento del progetto di annessione della Venezia-Giulia e rivestisse una funzione di ponte per la penetrazione dell’ideologia comunista verso occidente57. La sorte della città, così come quella dell’intera Venezia-Giulia, fu og- getto di un colloquio avvenuto alla fi ne del febbraio 1945 tra lo stesso Ma- resciallo e Harold Alexander, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo che propose al futuro leader jugoslavo l’occupazione Alleata della Venezia-Giulia, il controllo del porto di Trieste e di tutte le arterie di comunicazione con l’Austria. La proposta non incontrò il favore di Tito che aveva invece altri obiettivi, e cioè estendere la sovranità jugoslava sui terri- tori a est dell’Isonzo dopo il ritiro delle truppe anglo-americane e mantenere l’amministrazione civile jugoslava nei centri occupati dagli Alleati58. Quanto a Trieste, egli mirava ad assumerne il controllo politico e milita- re, per dichiararla città autonoma della Settima repubblica federativa, com- prendente la Venezia-Giulia annessa alla Jugoslavia. Per mettere a punto tale strategia, occorreva però arrivare prima degli Alleati, per nulla disposti a rinunciare ai loro obiettivi. Alla fi ne di aprile si scatenò così una vera e propria corsa per Trieste che ebbe come protagonisti i due eserciti, ciascuno dei quali interessato a raggiungere la città prima dell’altro per trovarsi in posizione di forza all’atto della futura defi nizione dei confi ni. Ad avere la meglio furono gli jugoslavi: il 1° maggio Tito poté così an- nunciare – come informa un rapporto della Cia – che «le truppe partigiane avevano raggiunto l’Isonzo e occupato Trieste»59, precedendo la seconda di- visione neo-zelandese giunta in città per conto degli Alleati il giorno succes- sivo. Nei giorni seguenti, gli jugoslavi, che avevano distolto le loro forze da altri scenari (Zagabria e Lubiana furono infatti prese soltanto l’8 maggio),

57. Cfr. N. Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati, Irsml, Trieste 2009, p. 11. 58. Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confi ne orientale, cit., pp. 283-284. 59. «[…] Partisans troop had reached the Isonzo River on a broad front and had occupied Trieste». Offi ce of Strategic Services, Current Intelligence Study n. 22, The Crisis in Trieste and Venezia-Giulia, 5 maggio1945, in General Cia Records (d’ora in poi Gcr), FOIA Collection, Document n. 0000709793, , visitato il 29 aprile 2020.

85 entrarono a Gorizia, Pola (1° maggio) e a Fiume (3 maggio), per poi raggiun- gere, entro la metà del mese, gli altri centri dell’Istria. Trieste era insorta all’alba del 30 aprile in una situazione di grande in- certezza, fi glia della presenza di due distinte Resistenze: da un lato quella fi lo-jugoslava, appoggiata dai comunisti e favorevole all’annessione alla Ju- goslavia, dall’altro il Comitato di liberazione nazionale (Cln) che si batteva invece per l’italianità della città. La prima fazione era composta da operai italiani e sloveni, organizzati in nuclei clandestini denominati comitati di Unità Operaia (Delavska enotnost) inizialmente impegnati nella raccolta di armi, munizioni e approvvigiona- menti per rifornire le unità partigiane dislocate in montagna. Con l’appros- simarsi della fi ne della guerra, il loro raggio d’azione si spostò decisamente verso la città, organizzandone la difesa attraverso cellule di fabbrica e rionali guidate da un Comitato circondariale responsabile di coordinare le opera- zioni nel momento dell’insurrezione60. Sorto nell’ottobre 1943, il Cln triestino attraversò fasi problematiche a causa dei contrasti tra le diverse componenti che portarono, nel luglio 1944, alla fuoriuscita dei comunisti a seguito del rifi uto di socialisti, democristia- ni, azionisti e liberali a collaborare con le unità partigiane slovene, come invece disposto dal Comitato di liberazione Alta Italia (Clnai), l’organo di coordinamento delle unità partigiane dell’Italia settentrionale. Nell’ottobre 1944 si formò così un Cln composto dai medesimi schie- ramenti politici, esclusi i comunisti, che si rifi utava di riconoscere la guida jugoslava, contravvenendo alle disposizioni del Clnai, con il quale i rapporti erano ridotti ai minimi termini, che continuava invece a invitare gli antifasci- sti triestini ad appoggiare e collaborare con il IX Korpus61. All’insurrezione parteciparono entrambi gli schieramenti, ma l’ingresso in città dell’armata jugoslava costrinse il Corpo volontari della libertà (Cvl),

60. Sui Comitati di Unità Operaia e sul loro ruolo nella liberazione di Trieste, cfr. B.C. Novak, Trieste 1941-1954, Mursia, Milano 1996, pp. 68-69; M. Pahor, Sloveni e italiani in- sieme nella liberazione della città di Trieste. L’azione militare del Comando Città di Trieste e di Unità Operaia, in «Qualestoria», 1 (2006), pp. 73-93. Per uno sguardo all’area goriziana, con puntuali riferimenti a Trieste, cfr. A. Cattunar, La liberazione di Gorizia:1° maggio 1945. Identità di confi ne e memorie divise: le videointerviste ai testimoni, in «Storicamente», 5 (2009), in , visitato il 30 aprile 2020. 61. Per una dettagliata ricostruzione delle vicende del Cln triestino e dell’insurrezione generale a Trieste, cfr. R. Spazzali, L’Italia chiamò. Resistenza politica e militare italiana a Trieste 1945-1947, Leg, Gorizia 2003; L. Felician [et al.] (a cura di), La Resistenza patriot- tica a Trieste 1943-1945, Leg, Gorizia 2009. Sul contributo del Partito d’Azione all’interno del Cln, cfr. R. Spazzali, «Ragione e volontà di rinnovamento». Il Partito d’Azione e gli anni diffi cili di Trieste, in «Qualestoria», 1 (2013), pp. 33-36.

86 braccio armato del Cln triestino composto anche da unità della Guardia di Finanza, ad abbandonare il campo per evitare scontri e possibili ritorsioni. Seguirono ore convulse, che videro i vertici del Cln cercare di consegna- re la città alle truppe neozelandesi, giunte però quando gli jugoslavi aveva- no oramai preso possesso della prefettura e del palazzo comunale62, centri nevralgici del potere, sui cui edifi ci il tricolore italiano lasciava spazio a quello jugoslavo, annunciando l’inizio dell’occupazione che si protrasse per quaranta lunghissimi giorni. Cessò soltanto il 9 giugno con l’instaurazione, come vedremo, di un Governo militare alleato a seguito dell’Accordo di Belgrado. Un puntuale e partecipato affresco di una «città sospesa»63 e divisa tra l’arrivo degli jugoslavi e quello degli Alleati, i combattimenti contro i tede- schi e l’insurrezione partigiana, si trova nelle pagine di Primavera a Trieste, scritto da Pier Antonio Quarantotti Gambini, all’epoca direttore della Bi- blioteca civica cittadina. Nella sua narrazione, sviluppata sotto forma di diario che abbraccia un periodo compreso dal 29 aprile al 12 giugno, lo scrittore istriano (era nato a Pisino nel 1910) restituisce le atmosfere che impregnavano la città impat- tando, inevitabilmente, sulla condizione emotiva della maggioranza dei trie- stini. Questi ultimi, profondamente scossi, osservavano «le ronde jugoslave, armate come se andassero al fuoco», sfi lare per le strade e sorvegliare gli edifi ci pubblici, dai quali sventolava – annotava Quarantotti Gambini – «in mezzo al bianco rosso e blu delle bandiere jugoslave e slovene, una bandiera rossa con falce e martello e un grande tricolore italiano con stellette rosse»64. Il passaggio appena citato restituiva però un’emozione che non abbrac- ciava l’intera popolazione, dal momento che l’insediamento dell’ammi- nistrazione jugoslava trovò vasti consensi non soltanto nella componente slovena della città, ma anche tra la classe operaia di lingua italiana di orien- tamento comunista. Nel corso dell’occupazione le autorità jugoslave cercarono di accelerare la creazione di propri organismi civili per l’amministrazione della città, af- fi data al Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno (Ceais), costituitosi il 17 maggio, data nella quale i poteri popolari convocarono le consultazioni elettorali a suffragio universale maschile e femminile per l’elezione dell’as- semblea costituente della città. Le consultazioni, svoltesi senza il rispetto

62. Cfr. M. Cattaruzza, 1945: alle origini della «questione di Trieste», in «Ventunesimo Secolo», 7 (2005), pp. 98-99. 63. D. Picamus, Trieste 1945. Una città ferita, in «Quaderni Cird», 16 (2018), p. 35. 64. P.A. Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste, Mondadori, Milano 2018, pp. 134-135.

87 delle più elementari procedure, consentirono così l’elezione di 1.384 dele- gati, tutti favorevoli alla soluzione jugoslava, che poterono così partecipare ai lavori del neo costituito organismo65. L’obiettivo delle autorità jugoslave era quello di guadagnare i favori di fasce sempre più ampie di cittadini, coinvolgendoli sia nell’organizzazione del nuovo potere, sia cercando di lenire le loro necessità primarie, riassumi- bili nella formula, pane, lavoro e giustizia. Aspetto, quest’ultimo, che trovò realizzazione nell’istituzione di un Tribunale del popolo che aveva compe- tenze sull’epurazione ed era altresì chiamato a giudicare su reati e crimini fascisti66. Un atteggiamento al quale fece però da contraltare l’applicazione di nor- me molto restrittive come ad esempio l’imposizione dell’immediata con- segna delle armi, l’instaurazione del coprifuoco e il divieto di spostamento dalla città. Ma, soprattutto, l’inizio di una repressione organizzata, che as- sunse le forme di un’ondata di violenza di vaste proporzioni, la cui attuazio- ne venne affi data all’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda), la polizia politica jugoslava, fondata nel 1944 e posta sotto le dirette dipendenze di Tito67. Inviati a Trieste dai vertici del potere jugoslavo, agenti e funzionari dell’Ozna eseguirono un gran numero di arresti: agirono sulla base di liste di proscrizione stilate da tempo e seguirono disposizioni provenienti dall’al- to e cioè direttamente dagli apparati direttivi del partito comunista sloveno, la cui indicazione era quella di operare su scala ideologica piuttosto che nazionale. Lo stesso Kardelj, il 30 aprile, in un dispaccio inviato ai comandi partigiani sloveni, si espresse in merito piuttosto chiaramente: «è necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all’Ozna per processarli. [...] Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo»68. Le parole del dirigente sloveno vanno però codifi cate, non tanto relati- vamente all’epurazione, che corrispondeva all’eliminazione vera e propria,

65. N. Troha, Le organizzazioni fi lo-jugoslave nella Zona A della Venezia-Giulia, in T. Catalan [et al] (a cura di), Dopoguerra di confi ne, Irsml-Università di Trieste-Regione Auto- noma Friuli Venezia-Giulia, Trieste 2007, p. 204. 66. Cfr. R. Spazzali, Epurazione di frontiera. 1945-1948: le ambigue sanzioni contro il fascismo nella Venezia-Giulia, Leg, Gorizia 2000, pp. 51-56. 67. Per una storia complessiva dell’Ozna, cfr. W. Klinger, Il terrore del popolo: storia dell’Ozna, la polizia politica di Tito, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2012. Sul ruolo assunto dall’Ozna in Istria, cfr. O. Moscarda Oblak, Forme di violenza in Istria tra guerra e secondo dopoguerra, in «Storia e problemi contemporanei», 74 (2017), pp. 59-75. 68. Il testo del telegramma di Kardelj si trova in R. Pupo, Violenza politica tra guerra e dopoguerra: il caso delle foibe giuliane, in G. Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997, p. 42.

88 quanto piuttosto al concetto di fascismo, utilizzato in senso molto ampio, al punto da rendere labile il confi ne tra la responsabilità collettiva e quella effettivamente individuale. Gli arresti coinvolsero innanzitutto elementi collusi con il nazifascismo: dirigenti del partito fascista, squadristi, esponenti delle organizzazioni del regime, tedeschi, collaborazionisti, sloveni anti-comunisti e, naturalmente, uomini delle forze armate della Repubblica sociale italiana. Le manette si strinsero così attorno ai polsi di militari repubblichini, elementi arruolati nella X Mas e nella Milizia territoriale, che nei territori del Litorale Adria- tico aveva sostituito la Guardia nazionale repubblicana attiva invece nella Repubblica di Salò. Ritenuti «nemici certi»69, dopo l’arresto furono subito eliminati, così come i membri della polizia, molto attivi nella repressione anti-partigiana, che aveva nell’Ispettorato speciale, operante in seno alla questura triestina, il suo organismo più temuto70. Sottoposti a interrogatori sommari, vennero uccisi e successivamente gettati nelle foibe vicino a Trieste, come avvenne ad esempio a Basovizza, villaggio del Carso triestino a pochi chilometri dalla città, teatro tra il 29 e il 30 aprile 1945 di aspri scontri tra tedeschi e forze partigiane. Alla fi ne dei combattimenti, militari e carcasse di cavalli furono gettati nel pozzo della miniera di Basovizza (scavato a inizio secolo), solitamente chiamato foiba di Basovizza, profondo circa 250 metri. Nei giorni successivi nel villaggio fu costituito un tribunale militare che processò sommariamente alcune cen- tinaia di italiani, in buona parte agenti e uffi ciali di polizia che, condannati a morte, vennero fucilati. I loro corpi, successivamente, fi nirono nel pozzo insieme ad altri materiali e a munizioni inesplose.

69. R. Pupo, Foibe ed esodo: un’eredità del fascismo?, cit. 70. L’Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza nella Venezia-Giulia, fu istituito da Mussolini nel 1942. Ricostituito dopo l’8 settembre come Ispettorato speciale, divenne un apparato esclusivamente predisposto all’attività di repressione anti-partigiana. Lo guidava il commissario Gaetano Collotti, distintosi per l’adozione di metodi di spietata efferatezza. Fuggito da Trieste il 27 aprile 1945 a bordo di un camion carico di oggetti di valore, preziosi e pellicce, insieme ad altri membri del gruppo e alla sua convivente, venne riconosciuto da un partigiano triestino di Giustizia e Libertà e fucilato sul posto insieme ai suoi collaboratori a Mignagola di Carnonera nel trevisano. Nonostante si fosse macchiato di crimini di inaudita ferocia, Collotti venne insignito della medaglia di bronzo al valor militare per le azioni con- tro il movimento partigiano sloveno compiute prima dell’8 settembre 1943. Sulla cosiddetta Banda Collotti e l’Ispettorato speciale, cfr. C. Cernigoi, La “Banda Collotti”. Storia di un corpo di repressione al confi ne orientale d’Italia, Kappavu, Udine 2013; V. Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 113, 127. Sulla cattura e l’esecuzione di Collotti, cfr. M. Gasparini, C. Razeto, 1945. Il giorno dopo la Liberazione, Castelvecchi, Roma 2015, p. 69.

89 Dopo il ritiro delle truppe jugoslave, gli anglo-americani aprirono un’in- chiesta sui fatti di Basovizza, tentando contemporaneamente il recupero del- le salme, reso però infruttuoso da complicanze logistiche, principalmente dovute alla mole di materiale presente nell’abisso. Le diffi coltà di trovare riscontro oggettivo alle voci iniziate a diffondersi sempre più insistentemente in città, portò nell’estate del 1945 un giornali- sta italiano a ipotizzare che nel pozzo, la cui profondità era nota, potessero essere presenti circa 1.500 cadaveri. Si trattava di un’affermazione priva di riscontri oggettivi che però fi nì per essere accolta dai media del tempo al punto da sedimentarsi nella memoria collettiva e nell’uso pubblico, tanto da essere ripetuta ancora oggi senza il conforto di alcuna analisi critica. L’as- senza dei corpi, beninteso, non sta però certamente a signifi care che nulla sia avvenuto, dal momento che fonti e testimonianze piuttosto attendibili, parlano chiaramente dell’uccisione di alcune centinaia di persone. Nega- re quanto accaduto sulla base del mancato recupero dei cadaveri, equivale dunque a mostrare il fi anco a interpretazioni e posizioni negazioniste che, ancora oggi, trovano risonanza. Luogo simbolo e simbolico, memoriale di tutte le vittime delle stragi del 1943 e del 1945, la foiba di Basovizza, che nel 1959 fu chiusa con una lastra di cemento armato, divenne nel 1992 monumento nazionale e l’area è stata oggetto, tra il 2007 e il 2008, di un progetto di risistemazione curato dal Comune di Trieste71. A essere arrestati e a scomparire furono però anche gli appartenenti ai carabinieri e alla Guardia di Finanza che, generalmente, non parteciparono ad attività anti-partigiana ma al contrario, a Trieste come a Gorizia, collabo- rarono attivamente con la Resistenza. Sciolti dai tedeschi nel 1944 (rimase solo un uffi cio con personale di- sarmato) i carabinieri triestini si unirono al Corpo volontari della libertà. Ciononostante furono arrestati e deportati nei campi di prigionia jugoslavi, esattamente come i loro commilitoni di stanza a Gorizia che avevano col- laborato con il Cln ponendosi, nel marzo 1945, anche agli ordini del comi- tato misto italo-sloveno. Il fato fu meno benevolo con gli uomini dell’arma lasciati a guardia delle caserme goriziane: il 2 maggio, il giorno dopo l’in- gresso degli jugoslavi in città, vennero arrestati e scomparvero per sempre. Del ruolo assunto dai fi nanzieri nella liberazione di Trieste si è già det- to. I comandi jugoslavi lodarono pubblicamente il loro comportamento.

71. Cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foiba di Basovizza, in Irsrec-Fvg, Le vie della memoria, , visitato il 25 giugno 2020.

90 Si trattò però di apprezzamenti di facciata: nel giro di breve tempo furono infatti disarmati e arrestati andando incontro a sorte diversa, che per alcuni assunse i lineamenti della prigionia nei campi jugoslavi prima di essere rilasciati tra giugno e luglio, per altri quelli della fucilazione e del succes- sivo infoibamento72. La vicenda dei carabinieri e dei fi nanzieri rende evidente come l’impe- gno di essersi schierati, combattendoli, contro i tedeschi non fosse consi- derato dagli apparati jugoslavi una garanzia suffi ciente. O meglio, non co- stituisse una valida discriminante a fronte della loro disponibilità a rico- noscere, condividendone il progetto, il nuovo potere jugoslavo. Entrambi i corpi non erano infatti disposti a compiere tale passo, per cui agli occhi di Belgrado rappresentavano degli scomodi nuclei di potenziale opposizione. Il loro arresto, la prigionia e, in alcuni casi, l’eliminazione, va dunque intesa in un’ottica puramente politica, tesa ad allontanare da Trieste e dagli altri centri della Venezia-Giulia, possibili fi gure in grado di costituire «cellule di contropotere»73 non controllabili dalle autorità jugoslave. Queste ultime operarono nella medesima direzione anche con gli espo- nenti del Cln triestino, nel frattempo entrato in clandestinità, i cui quadri di- rigenziali, rifi utatisi di collaborare e riconoscere il potere jugoslavo, furono considerati avversari. Nei loro confronti si abbatté un’ondata persecutoria che portò all’arresto, alla deportazione in Jugoslavia e in alcuni casi all’eli- minazione di alcune delle fi gure più in vista, come avvenne per i democri- stiani Carlo Dell’Antonio e Romano Meneghello, uccisi e scomparsi74. Sospetti più o meno fondati, delazioni e rancori personali accompagna- rono invece l’arresto dei civili fi niti nelle liste dell’Ozna. Nelle sole province di Trieste e Gorizia, toccate dal fenomeno in misu- ra più signifi cativa rispetto all’Istria e a Fiume, i fermi riguardarono circa 10.000 persone, gran parte delle quali venne rilasciata a più riprese nelle set- timane e nei mesi successivi. Altri, invece, furono eliminati e scomparvero. Nel 1945 le vittime nell’area triestina e goriziana, cui si aggiunse anche la provincia di Udine, furono 2.627. La cifra, comprensiva sia degli scomparsi di cui non si ebbero più notizie, sia di quanti fi nirono nelle foibe, è frutto di un’indagine condotta nel 1956 dall’Istituto centrale di statistica di Roma,

72. Per la ricostruzione delle vicende dei carabinieri e dei fi nanzieri a Trieste e Gorizia, cfr. R. Pupo, Trieste ’45, cit., pp. 224-225. 73. Ivi, p. 224. 74. Cfr. G. Fogar, Trieste in guerra: 1940-1945. Società e Resistenza, Irsml, Trieste 1999, p. 254. La stessa sorte conobbero a Gorizia anche Augusto Sverzutti, azionista e il socialista Licurgo Olivi. Arrestati, furono incarcerati a Lubiana e poi dispersi. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., p. 268.

91 realizzata su precisa richiesta del governo italiano con lo scopo di stilare un elenco completo di quanti, dopo l’arresto, non fecero più ritorno a casa. Secondo i dati raccolti furono 645 le persone morte per varie cause, 1.239 gli arrestati condotti nei campi di prigionia jugoslavi e in seguito rilasciati, e 1.982 quelli dei quali non si ebbe più alcuna informazione. È molto compli- cato stabilire quante siano le vittime perite nei campi di prigionia jugoslave e quante, invece, quelle eliminate nelle foibe, ma il dato che appare rilevan- te, al punto da essere giudicato soddisfacente dallo stesso governo italiano, è che durante l’occupazione jugoslava nelle province di Trieste, Gorizia e Udine si ebbero 2.627 morti. Per completezza vanno poi aggiunti i dati relativi a Fiume, dove furono accertate circa 500 vittime, e a all’Istria con particolare riguardo alla provin- cia di Pola, dove secondo fonti del Governo militare alleato, gli scomparsi ammontarono a 827 persone. Inoltre, come hanno rilevato ricerche recenti, mancano dal computo i militari della Rsi, spesso non distinti dagli altri pri- gionieri di guerra. Partendo dai dati appena presentati, si può stimare in una forbice compresa tra le 3.000 e le 4.000 persone il numero complessivo delle vittime perite nella primavera del 194575. Gli infoibamenti, che anche in questo caso rappresentarono un metodo di occultamento dei cadaveri e non di esecuzione, riguardarono solo una percen- tuale ridotta degli scomparsi, dal momento che la gran parte morì nei campi di prigionia in Jugoslavia o nei trasferimenti da un campo all’altro, durante i quali i feriti, gli ammalati e i più deboli vennero abbandonati lungo la strada. All’insieme delle vittime è convenzionalmente assegnato l’appellativo di infoibati, utilizzato però impropriamente, poiché generatore di frainten- dimenti e non in grado di distinguere le modalità di uccisione e di occul- tamento dei cadaveri nel ben più ampio fenomeno delle stragi, che nella primavera del 1945 si caratterizzarono rispetto all’ondata dell’autunno 1943 per due aspetti.

75. La cifra di 2.627 vittime, cui si giunge a seguito dell’indagine promossa dall’Istituto centrale di statistica, è frutto di un’accurata ricerca condotta dalla storica slovena Urska Lampe, i cui risultati sono pubblicati in U. Lampe, Guerra gelida a Belgrado. Le deportazioni in Jugoslavia dalla Venezia-Giulia nel secondo dopoguerra. La questione degli elenchi e nuove fonti, in «Acta Histriae», 3 (2018), pp. 691-712. I dati su Fiume si trovano in R. Pupo, Fiume città di passione, cit., p. 228. Relativamente al caso fi umano, occorre sottolineare come tra le vittime compaiano anche gli esponenti del movimento autonomista cittadino, dichiaratamente antifascisti, depositari di una radicata identità fi umana e non disposti a cedere al nuovo potere jugoslavo. Per i dati relativi a Pola, cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, cit., p. 29. La stima complessiva delle vittime dell’autunno 1943 e della primavera 1945, trova un’equilibrata e approfondita sintesi in Irsrec-Fvg, Vademecum per il giorno del ricordo, cit., pp. 16-17.

92 Da un lato, come si è visto, il maggior numero di vittime, dall’altro lo svelarsi di una strategia politica volta a eliminare dal territorio quanti po- tevano impedire o contrastare la presenza del nuovo potere rivoluzionario titino e opporsi all’annessione della Venezia-Giulia alla Jugoslavia. A essere maggiormente colpiti furono gli appartenenti alla popolazione italiana. E ciò avvenne per due motivi di fondo: il primo fu una sorta di resa dei conti come conseguenza del fascismo, e cioè si chiusero i conti aperti dalla guerra, il secondo fu che, nella loro maggioranza, gli italiani si dimo- strarono profondamente contrari al nuovo potere jugoslavo. In proposito è però doveroso puntualizzare come appaia profondamente fuorviante ricondurre le uccisioni a una pratica volta a eliminare gli italiani in quanto tali, riassumibile nell’oramai consolidata espressione uccisi solo perché italiani, fatta propria ed erroneamente divulgata a più riprese da buo- na parte della pubblicistica italiana. Si tratta di un’affermazione che trova validità se intesa nel senso politico di eliminare quanti intendessero l’appartenenza all’Italia come realtà socia- le, culturale e statuale. Al contrario, la formula non appare condivisibile se si considera il signifi cato etnico del termine italiano, dal momento che le autorità jugoslave non intendevano procedere a una liquidazione della comunità italiana, ma ambivano a mobilitarla, non escludendo certamente l’uso di metodi coercitivi, nel progetto di annessione della Venezia-Giulia, assorbendola, successivamente, negli ingranaggi del nuovo stato jugoslavo. Le violenze avevano quindi un duplice intento: decapitare la popolazio- ne italiana della sua classe dirigente, in larghissima misura favorevole al mantenimento della sovranità italiana sulla Venezia-Giulia e, nel contempo, intimidire l’intera comunità affi nché non si opponesse al progetto annessio- nistico. Quella che si verifi cò nella Venezia-Giulia nella primavera del 1945 non fu quindi una stagione di violenza dovuta all’ostilità anti-italiana, quanto invece una presa di possesso rivoluzionaria del territorio, che prevedeva l’e- liminazione di quanti potessero rappresentare un potenziale o effettivo osta- colo alle strategie jugoslave. Lo schema repressivo adottato nella Venezia-Giulia non fu però un caso isolato, ma rappresentò un modello riproposto, nei medesimi giorni e con proporzioni decisamente maggiori, negli altri territori jugoslavi liberati dai tedeschi, dove il movimento partigiano attuò la presa del potere procedendo all’eliminazione di massa di nemici e avversari politici. A pagare il prezzo più alto in termini di vite umane furono i membri delle forze collaborazioni- ste e cioè i cetnici, gli ustascia e i domobranci. Ciò valse non solo per quanti

93 caddero nelle mani dei partigiani che furono subito passati per le armi, ma anche per i prigionieri arresisi agli Alleati, che provvidero però a restituirli immediatamente alle autorità jugoslave. Fu così, ad esempio, in Carinzia, dove circa 12.000 domobranci, riusciti a riparare in Austria insieme a gruppi di cetnici, furono rimandati in Slove- nia a bordo di treni dell’esercito britannico, pensando invece di essere diretti in Italia e di avere salva la vita. Una parte fu trasferita nel castello di Skofja Loka, per essere poi eliminata, un’altra terminò il proprio viaggio nel cam- po di Šentvid e da qui venne condotta nell’altopiano carsico del Kočevski Rog, dove fu eliminata: nel giro di pochi giorni morirono circa 9.500-10.000 persone. Un’altra sanguinosa resa dei conti riguardò gli ustascia croati che ab- bandonarono Zagabria dopo la caduta della città insieme a gruppi di cetnici e domobranci. Si trattava di circa 200.000 persone che ritirandosi conti- nuarono a combattere fi no al 15 maggio con la speranza di raggiungere il confi ne austriaco per arrendersi agli inglesi. Un gruppo, circa 25.000 arrivò a Bleiburg, dove ebbe un colloquio con gli uffi ciali britannici che rifi utarono però la resa, poiché gli accordi militari intrapresi dagli stati vincitori pre- vedevano che le forze dell’Asse si arrendessero agli eserciti contro i quali avevano combattuto. Il gruppo più numeroso, circa 175.000 persone, che non riuscì a oltrepassare il valico confi nario, formò una colonna lunga circa sessanta chilometri snodatasi sul territorio croato e giunta quindi in un’area posta sotto l’autorità dei partigiani jugoslavi. Agli ustascia non restò quindi che arrendersi. Ciò che seguì fu una vera e propria mattanza, meglio nota come il massacro di Bleiburg, compiuta subito dopo la resa oppure durante il trasferimento nei campi di prigionia che portò alla morte di circa 50.000- 60.000 persone76. Come precedentemente accennato, la maggioranza degli italiani arrestati trovò la morte nei campi di prigionia jugoslavi. Tra i più tristemente noti vi fu quello di Borovnica, vicino a Lubiana, dove tra il 1945 e il maggio 1946, data uffi ciale della sua chiusura, furono rinchiusi circa 3.300 detenuti. Utilizzati per ripristinare il ponte di Borovnica, sul quale passava la linea ferroviaria Postumia-Lubiana gravemente danneggiato dalle bombe britan- niche, i prigionieri si occuparono inizialmente di ricostruire il campo, ripa- rando quattro edifi ci coevi alla costruzione del ponte. La struttura arrivò a contare una decina di baracche di diverse dimen- sioni, cui si aggiunsero degli stabili in pietra riservati alla direzione e alle

76. K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fi ne della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 274-276, 282.

94 guardie. In ogni baracca, ciascuna delle quali lunga una sessantina di metri e larga una decina con un’altezza di due metri e mezzo, si sistemarono tra i 200 e i 300 prigionieri77, buona parte dei quali appartenenti a corpi militari, paramilitari e di polizia arrestati nella Venezia-Giulia tra la fi ne di aprile e il maggio 1945. Nel campo, utilizzato anche come centro di smistamento verso altre strutture nell’interno della Jugoslavia, vigevano condizioni di vita tremen- de, sia sul piano igienico-sanitario, che su quello alimentare e disciplinare. Sottoposti a un lavoro incessante, che consisteva – come si legge nell’in- terrogatorio di alcuni militari rientrati in Italia nel luglio 1945 – nel ripristi- no del ponte e nello scaricare «vagoni merci per sette ore al giorno in due turni di 100 uomini ciascuno», i prigionieri, che si svegliavano alle 2,30 del mattino per iniziare il loro lavoro alle 4, ricevevano due gamelle di minestra, di circa mezzo litro, costituiti da «verdura secca, cotta senza sale e senza condimento, mai pane o companatico»78. Alla fame si accompagnava anche una disciplina durissima, come ricor- da nelle sue memorie Gianni Barral, uffi ciale degli Alpini di origine pie- montese che combatté contro i partigiani italiani e sloveni prima di essere arrestato e internato. Le punizioni, comminate per motivazioni futili come il furto di una cipolla, oppure per tentativi di fuga o per essersi avvicinati al reticolato del campo, erano terribili. La più temuta consisteva nel cosiddetto palo e prevedeva – racconta Bar- ral – che il punito venisse «appeso con la schiena dietro al palo mediante un fi l di ferro che gli passava sotto le ascelle, con i piedi ad almeno mezzo metro dal suolo. In genere lo lasciavano appeso due o tre ore. Quando lo tiravano giù il malcapitato non era più in grado di camminare e aveva pro- fonde piaghe alle braccia, provocate dal fi l di ferro che apriva le carni come un coltello. […] Quelle piaghe diventavano talvolta mortali»79. Un’altra testimonianza arriva da Giacomo Ungaro, giunto a Borovnica il 23 maggio 1945. Affi dò i suoi ricordi alle pagine de «La Voce Libera», organo del Cln triestino. Il suo racconto tocca vari aspetti della quotidianità nel campo: dalla carenza di cibo, vera e propria fame («ci davano solo un po’ di brodo con qualche buccia di patata»), alle dure condizioni di lavoro

77. R. Pupo, Trieste ’45, cit., p. 213. 78. Sintesi di un interrogatorio di un gruppo di prigionieri rientrati da Borvnica il 14 luglio 1945, redatta dal SIM del Ministero della Guerra. Il documento si trova in C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941- 1952), Ombre corte, Verona 2007, p. 116. 79. G. Barral, Borovnica 1945, al confi ne orientale d’Italia. Memorie di un uffi ciale ita- liano, (a cura di R. Timay), Paoline, Milano 2007, p. 190.

95 («eravamo scalzi, a piedi nudi con le pietre sotto i piedi e senza coperte per proteggersi dalle intemperie e colpiti dal moschetto dei soldati») fi no ad arrivare alle punizioni infl itte ai prigionieri, che potevano portare anche alla morte, come accadde a un soldato di origini calabresi, catturato dalle guardie dopo un tentativo di fuga, condotto nel cortile e «falciato da una raffi ca di mitra e seppellito in una buca scavata da noi stessi qualche minuto dopo»80. L’anonimo militare menzionato da Ungaro andò così ad accrescere l’elenco delle vittime che a Borovnica, secondo alcune stime di massima, ammontarono a circa 500 persone, gran parte delle quali perite per fame che costituì una delle principali cause di morte81.

80. Racconta uno scampato dall’inferno di Borovnica, «La Voce Libera», maggio 1947. In Archivio Irsrec- Fvg, Fondo Novecento Venezia-Giulia Nuova Serie, Busta 15NS, Fascicolo 2135.1. 81. R. Pupo, Trieste ’45, cit., p. 219.

96 IV. Esodo

1. Il lungo dopoguerra europeo

La prima settimana di pace e di libertà è trascorsa. […] La fi ne delle ostilità in Italia ha portato le prime liete conseguenze: fi ne dell’oscuramento, fi ne del coprifuoco […]. Sono passi piccoli, ma molto signifi cativi: oscuramento e coprifuoco erano due simboli dell’opprimente cappa che gravava su di noi. E le luci che adesso tagliano con un lucente chiarore queste illuni notti di maggio, sono per tutti la prima e tangibile prova che la guerra è fi nita, realmente finita1.

Così nelle pagine del suo diario Carlo Chevallard, dirigente industriale e antifascista liberale, descriveva Torino nei primi giorni del maggio 1945, salutando la libertà e la normalità fi nalmente ritrovate dopo gli anni bui del- la guerra, che aveva stravolto la quotidianità e lasciato alla città, così come all’intero paese, un’eredità di «fame, macerie e stracci»2. Piegata da anni di lutti, sofferenze e miserie, la popolazione, in Italia come nel resto d’Europa, poteva scendere nelle piazze e nelle strade per celebrare il ritorno alla vita. Scatti anonimi e di grandi fotografi immorta- lano quegli attimi, restituendo città brulicanti di uomini, donne e bambini i cui volti sorridenti e festanti non potevano però cancellare con un colpo di spugna gli effetti di un confl itto che aveva trasformato il panorama fisico e morale dell’intero continente. Quella uscita dalla guerra era infatti un’Europa inquieta, travagliata e distrutta nella quale, parafrasando le parole del poeta gradese Biagio Marin, la pace appariva ancora lontana3.

1. C. Chevallard, Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra, (a cura di) R. Mar- chis, Blu Edizioni, Torino 2005, p. 526. 2. G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007, p. 19. 3. Cfr. B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950, Leg, Gorizia 2005.

97 A permeare lo scenario di fondo vi era infatti una situazione di estrema fragilità, spesso esclusa dalle narrazioni del tempo che, privilegiando il desi- derio di lasciarsi alle spalle le ombre del recente passato, rischiano di trascu- rare le contraddizioni di un periodo dai contorni spigolosi che costituì per l’intero continente (Italia compresa) il punto di partenza di una transizione di grande portata, avviata negli anni del confl itto e gradualmente conclusasi nel decennio successivo. Per milioni di europei il ritorno alla pace coincise dunque con passag- gi di estrema complessità, primo tra tutti l’esigenza di sopravvivere in un continente disastrato, piagato e prostrato, dove sembrava impossibile anche soltanto trovare un tetto sotto il quale riparare. I bombardamenti danneggiarono il patrimonio abitativo di intere città e centri rurali, disegnando un paesaggio di edifi ci feriti e sofferenti. Una realtà che avvolgeva interi paesi, colta anche, ad esempio, da un attento osservatore come Primo Levi che ne La tregua, il romanzo del suo lun- go ritorno a casa dall’inferno di Auschwitz, restituisce la visione spettrale di Budapest, ridotta a un nugolo «di ruderi, baracche provvisorie e stra- de deserte» e dipinge Vienna come una città «macinata e sconvolta dai bombardamenti»4. Non stupisce, quindi, che ancora alla metà degli anni Cinquanta restasse irrisolto il problema dei senzatetto, che nel primo periodo post-bellico am- montavano a circa venti milioni di persone5. La fotografi a è impietosa e ritrae paesi nei quali mancava tutto: case, scuole, strade, ferrovie, mezzi di trasporto e, più di ogni altra cosa, cibo, al punto che la fame rappresentava «una minaccia reale»6 per buona parte della popolazione, il cui indice di nutrimento, come rivelato da una statistica del Consiglio sociale ed economico dell’Onu, si attestava nel 1946 al di sotto delle 1.500 calorie giornaliere7. Città distrutte e agonizzanti defi nivano dunque il panorama europeo. Gli strascichi del confl itto continuavano a incidere sulla vita di milioni di persone, al punto che anche Winston Churchill in un discorso pronun- ciato all’Università di Zurigo nel settembre 1946 rifl etteva sul «dramma dell’Europa», popolata «da masse tremanti di esseri umani tormentati,

4. P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 2014, pp. 190, 193. 5. S. Colarizi, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, l’incertezza, la speranza, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 296. 6. S. O’Broin, Storia della Fao in sette decenni, in Uffi cio per la comunicazione istituzio- nale della FAO (a cura di), 70 anni della Fao (1945-2015), Fao, Roma 2015, p. 17. 7. D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita: politica tra Stati Uniti ed Europa occidentale (1845-1955), il Mulino, Bologna 1994, p. 78.

98 affamati e smarriti che guardano con sconcerto le rovine delle loro città e delle loro case»8. Tra le masse tremanti di esseri umani cui faceva riferimento l’ex pri- mo ministro britannico, vi erano certamente anche i milioni di profughi e fuggitivi che, eredità e conseguenza diretta del confl itto, attraversavano le strade del continente. Milioni di storie individuali e collettive ridisegnarono così gli scenari di centinaia di città, che in campi di transito o in rifugi di fortuna ricavati tra le rovine ospitarono queste nuove e improvvise presenze, sradicate dalla propria terra di origine e coinvolte nelle migrazioni forzate direttamente o indirettamente connesse al secondo confl itto mondiale. Si trattava di persone vittime delle politiche aggressive, sfruttatrici e di sterminio della Germania nazista: lavoratori e lavoratrici forzati, internati militari, ebrei sopravvissuti alla deportazione, detenuti nel sistema concen- trazionario, apolidi e altre fi gure. «Fiumane di civili disperati»9 li defi nisce Tony Judt, Displaced Persons (DPs) li chiamarono invece gli Alleati, applicando un neologismo coniato nella primavera del 1944 nel tentativo di fornire una defi nizione formale a una vicenda che si inserì nelle convulsioni del confl itto, rappresentandone una drammatica eredità. Altri profughi post-bellici furono successivamen- te inseriti nella categoria di refugees, riferita a chi era impossibilitato (o contrario) a rientrare in patria dove sarebbe stato vittima di persecuzioni a sfondo etnico, religioso, politico o razziale. Il 90%, circa 7-8 milioni di persone, venne dislocata nella Germania oc- cidentale e assistita dalla United Nations Relief and Rehabilitation Admi- nistration (Unrra) che, fondata a Washington nel 1943 dai quarantaquattro stati futuri membri delle Nazioni Unite, si presentò al mondo come il «brac- cio umano degli Alleati»10. Attivando uno specifi co programma denominato Displaced Persons Operation, l’organizzazione si occupò del rimpatrio e dell’assistenza di un considerevole numero di profughi e rifugiati, buona parte dei quali provenienti dall’Europa orientale. Nell’estate del 1947, ad esempio, l’Unrra arrivò ad assistere circa 11,5 milioni di persone, ospitate negli 800 campi e centri di accoglienza amministrati dall’organizzazione11,

8. W. Churchill, The United States of Europe, in M. Gilbert, Churchill: The Power of Words. His remarkable life recounted through his writings and speeches, Bantam Press, Lon- don 2012, p. 378. 9. T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 19. 10. S. Salvatici, The Sights of Benevolence. Unrra’s Recipients Portrayed, in H. Fehren- bach, D. Rodogno (a cura di), Humanitarian Photography. A History, Cambridge University Press, New York 2015, p. 201. 11. V. Sebestyen, 1946. La guerra in tempo di pace, Rizzoli, Milano 2015, p. 248.

99 ubicati soprattutto in Germania occidentale, Austria e, in misura minore, Italia12. Nell’immediato dopoguerra a questa ingente moltitudine di profughi si aggiunsero i milioni di uomini e donne espulsi a forza dai loro paesi, soprat- tutto da quelli dell’Europa centro-orientale, le cui traiettorie diedero origine a un altro fenomeno caratterizzante le dinamiche dell’Europa post-bellica, e cioè quello degli spostamenti forzati di popolazione13. Uno scenario nel quale assunse un ruolo di assoluta centralità la vicenda della popolazione tedesca residente in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania (Volksdeutsche) che, già in fuga nei mesi fi nali della guerra di fron- te all’avanzata dell’Armata Rossa fu, dopo la fi ne del confl itto, forzatamente allontanata da territori nei quali viveva da generazioni. Complessivamente le espulsioni coinvolsero quasi 12 milioni di persone, riguardando maggiormente Polonia (8 milioni) e Cecoslovacchia (3 milio- ni), seguite da Ungheria (170.000), Romania (65.000) e Jugoslavia, dove la maggioranza dei tedeschi lasciò il paese prima della fi ne della guerra14. Assimilati ai nazisti sconfi tti, i tedeschi caddero vittime non soltanto di espulsioni indiscriminate, ma anche di intimidazioni e violenze che causa- rono poco meno di un milione di vittime dovute alla brutalità, alle malattie e alle privazioni che accompagnarono gli allontanamenti15. Sotto la spinta di pressioni divenute sempre più insostenibili, milioni di persone lasciarono così l’Europa centro-orientale per dirigersi verso la Ger- mania occidentale ancora lacerata dalla guerra. Odissee descritte con grande intensità da Günter Grass ed Helga Schneider che, rispettivamente, ne Il

12. L’Unrra gestiva una serie di centri in varie città italiane (Milano, Bologna, Genova, Torino, Venezia, Firenze, Roma, L’Aquila, Napoli, Salerno, Potenza e Bari) che svolgevano una funzione direttiva e dai quali dipendeva un sistema di campi su scala regionale affi dati all’organizzazione. Per un approfondimento sui campi Unrra in Italia, cfr. M. Sanfi lippo, L’assistenza ai profughi e ai rifugiati presenti in Italia nel secondo dopoguerra, in L. Gorgo- lini (a cura di), Le migrazioni forzate nella storia d’Italia del XX secolo, il Mulino, Bologna 2017, p. 137-160. 13. Per una trattazione più ampia del tema degli spostamenti coatti di popolazione nell’Europa post-bellica, cfr. A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012; S. Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, il Mulino, Bologna 2008; G. Crainz, Raoul R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008; P. Audenino, La casa perduta. La memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2015. 14. A. Applebaum, Iron Courtain: The Crushing of Eastern Europe 1945-1956, Penguin Books, London 2013, pp. 171-172. 15. Cfr. I. Kershaw, To Hell and Back: Europe 1914-1949, Penguin Books, London 2016, p. 454.

100 Passo del gambero e ne L’usignolo dei Linke16 danno voce ai traumi e alle lacerazioni di intere comunità. Gli stessi passaggi trovano spazio anche nella narrazione di Elisabeth Åsbrink che consegna alle pagine di 1947 il travaglio morale ed esistenziale di donne e uomini «alla deriva», mentre attraversava- no l’Europa per dirigersi «dove non erano mai stati, perché nel passato non potevano più vivere»17. Spostamenti e trasferimenti coatti si intersecarono con le scelte del- la politica internazionale, che lungo una linea immaginaria tracciata dal Mar Baltico all’Adriatico ridefi nì i nuovi assetti del continente. Fu infatti la conferenza di Postdam che nell’estate del 1945 vide Stalin, Truman e Churchill, poi sostituito dal laburista Clement Attlee fresco del suo suc- cesso elettorale, dare legittimità normativa e prosecuzione formale alle espulsioni spontanee della prima fase, decidendo di attuare veri e pro- pri spostamenti coatti di popolazione. Con l’approvazione delle potenze vincitrici, trovò così compimento un disegno che, emerso fi n dal termine del primo confl itto mondiale18, portò a scambi e spostamenti forzosi di popolazione. Una pratica che ebbe tra i suoi maggiori sostenitori Churchill. Vale la pena, in proposito, citare un suo discorso tenuto il 15 dicembre 1944 alla Camera dei Comuni: per quanto è dato vedere l’espulsione è […] la soluzione più soddisfacente e defi nitiva. Non vi saranno più commistioni di popoli che causano guai infi niti come in Alsazia-Lo- rena. Si farà piazza pulita. La prospettiva di sradicare una popolazione non mi spaventa affatto, così come non mi spaventano questi trasferimenti di massa, oggi più possibili che in passato grazie alle tecniche moderne19.

A Postdam venne dunque stabilito come la popolazione tedesca rimasta in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria dovesse essere trasferita in Germa- nia. Il protocollo fi nale redatto al termine dei lavori specifi cava però, nell’ar- ticolo XII, che tali trasferimenti avrebbero dovuto essere effettuati «in modo umano e ordinato» («orderly and humane manner»)20. In realtà un milione e

16. G. Grass, Il passo del Gambero, Einaudi, Torino 2002; H. Schneider, L’usignolo dei Linke, Adelphi, Milano 2004. 17. E. Åsbrink, 1947, Iperborea, Milano 2017, p. 80. 18. Il riferimento va alla pace di Losanna del 1923, dove per la prima volta la comunità internazionale approvò uno scambio di popolazione e cioè i trasferimenti di greci e turchi a seguito della guerra greco-turca. 19. Il discorso di Churchill, si trova in N. Naimark, La politica dell’odio, Laterza, Roma- Bari 2001, p. 130. 20. The Berlin (Potsdam) Conference, July 17-August 2, 1945, Protocol of the

101 mezzo di tedeschi era già stato espulso dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia, nel periodo che più tardi fu defi nito delle espulsioni selvagge, per diffe- renziarlo da quelle successive alla conferenza, in generale portate avanti in modo meno caotico e brutale. All’atto pratico non fu comunque lasciata alle popolazioni tedesche nes- suna possibilità di scelta. Lo comprese anche Anne O’Hare McCormick, tra le più note reporter di guerra in Europa e fi rma di punta del «The New York Times». Il 26 otto- bre 1945, pubblicò sul quotidiano statunitense una sua corrispondenza nella quale annotava come le espulsioni si svolgessero in condizioni che non hanno [avevano] precedenti nella storia. Chiunque veda con i propri occhi gli orrori che le accompagnano, non può avere il minimo dubbio che si stia compiendo una delle decisioni più disumane mai prese dai governi che dovrebbero essere votati alla difesa dei diritti umani21.

Non sembrava dunque esserci spazio per i trasferimenti umani e ordinati richiamati a Potsdam dai capi di governo delle tre potenze alleate. Tanto in Polonia quanto in Cecoslovacchia, concentrandoci sui casi di maggior rilievo, le pratiche espulsive furono dettate dall’avversione di mas- sa per il nazismo e per quanto esso aveva rappresentato. Ciò portò così a identifi care la popolazione di lingua tedesca, stanziata da secoli in quei ter- ritori, con il nazismo stesso. Accompagnate dall’applicazione di norme legislative, le espulsioni av- vennero con ritmi incalzanti: rastrellate e individuate, le persone avevano poche ore per raccogliere minimi effetti personali, oltrepassare il confi ne e trasferirsi in territorio tedesco. Quanti non partirono a piedi, vennero tra- sportati in treno su vagoni che in Polonia non differivano molto da quelli che, solo qualche mese prima, erano stati utilizzati dai nazisti per condurre gli ebrei nei campi di sterminio. Come ha recentemente evidenziato Guido Crainz, il caso dei tedeschi espulsi dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia presenta, pur con la sua speci- fi cità, più di una corrispondenza con quello istriano. Due elementi appaiono infatti contigui in entrambe le vicende: da un lato le questioni lasciate aper- te dai trattati successivi alla Grande guerra, che avevano attribuito all’Ita-

Proceedings, August l, 1945, Art. XII, Orderly Transfer of German Populations, in The Avalon Project, Yale Low School, , visitato il 9 maggio 2020. 21. Il passaggio dell’articolo si trova in V. Sebestyen, 1946, cit., p. 159.

102 lia un’area popolata da consistenti nuclei di popolazione slovena e croata, dall’altro lo spostamento dei confi ni dopo la seconda guerra mondiale, che consegnò alla Jugoslavia comunista di Tito ampie porzioni di questa fascia di territorio, determinando un consistente indebolimento della presenza ita- liana, scomparsa quasi del tutto, come vedremo, dall’area orientale dell’Alto Adriatico22. Alla luce di tali considerazioni, il richiamo alla dimensione europea ap- pare dunque un elemento fondamentale e costituisce una premessa essen- ziale per lo studio della diaspora istriana, che rappresenta così una tessera del più ampio mosaico degli spostamenti forzati di popolazione, portando gli esuli dall’Istria a diventare parte integrante dell’enorme fl usso di profu- ghi e rifugiati sradicati a forza e costretti a spostarsi in maniera defi nitiva dai loro paesi natali. Il riferimento alla prospettiva europea, con il conse- guente allargamento della cornice temporale e geografi ca, consente dunque di contestualizzare al meglio la vicenda giuliano-dalmata, evidenziando similitudini con altri fenomeni coevi e dando così voce ai diversi esodi caratterizzanti la fi ne della seconda guerra mondiale, alle trasformazioni e alle contraddizioni seguite, su coordinate geografi che differenti, allo spo- stamento dei confi ni.

2. Confi ni (1945-1975)

Parigi, 10 febbraio 1947. Alle 11,15 nella Sala dell’Orologio del Quai d’Orsay, sede del ministero degli Affari esteri francesi, Antonio Meli Lupi di Soragna, segretario della delegazione italiana, appose la sua fi rma sul Trattato di pace. Il documento suggellava la sconfi tta dell’Italia nel secondo confl itto mondiale, obbligandola al pagamento di un cospicuo risarcimento dei danni di guerra e, soprattutto, a cessioni territoriali lungo la frontiera occidentale e orientale, dove in realtà la partita per la defi nizione dei confi ni era già iniziata poche settimane dopo la fi ne del confl itto. Il 9 giugno 1945, infatti, la diplomazia jugoslava e quella anglo-ameri- cana fi rmarono un accordo che prevedeva la divisione del litorale adriatico in due zone tracciate lungo una linea di demarcazione denominata Linea Morgan (dal nome del suo ideatore, il generale britannico William Duthie

22. Cfr. G. Crainz, Le molte Istrie d’Europa, in R. Marchis (a cura di), Una narrazione a lungo mancata. Della diaspora giuliano-dalmata e degli altri esodi del Novecento alla luce del tempo presente, Seb 27, Torino 2019, pp. 24-25.

103 Morgan). L’area occidentale, la Zona A, comprendeva Trieste, Gorizia, il territorio di Tarvisio e l’enclave di Pola, mentre quella orientale, la Zona B, era costituita dall’Istria, Fiume, le isole del Quarnaro e Zara. Entrato in vigore il 12 giugno 1945, giorno in cui l’esercito jugoslavo si ritirò defi nitivamente da Trieste, Pola e Gorizia, l’accordo, che affi dava la Zona A e la Zona B rispettivamente a un’amministrazione militare alleata e jugoslava, non rappresentava però la conclusione delle trattative diplo- matiche, ma costituiva il punto di partenza intorno al quale discutere per raggiungere future e defi nitive intese, che avrebbero dovuto anche avvalersi delle indicazioni fornite dalla Commissione interalleata per la defi nizione dei confi ni. Creato su proposta del segretario di stato statunitense James Francis Byr- nes, l’organismo, che si componeva di quattro delegazioni, ciascuna delle quali composta da rappresentanti di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bre- tagna e Francia, iniziò la sua missione nella Venezia-Giulia il 7 marzo 1946, con lo scopo di esaminare, attraverso sopralluoghi compiuti direttamente sul territorio, gli orientamenti nazionali della popolazione, la confi gurazione geografi ca e l’assetto economico delle zone contese. L’attività della Commissione trova rappresentazione anche nel fi lm Cuo- ri senza frontiere, fi rmato nel 1950 da Luigi Zampa e interpretato da Raf Vallone, Gina Lollobrigida e Cesco Baseggio che, con le cifre tipiche del neorealismo, affronta la vicenda di un piccolo paese del Carso goriziano («del quale», recita il sonoro che accompagna la scena iniziale, «non dire- mo il nome») e dei suoi abitanti trovatisi, di colpo, a essere divisi tra Italia e Jugoslavia. Nelle sequenze iniziali la pellicola immortala infatti i funzio- nari interalleati giunti, dopo aver percorso le strade polverose della Venezia- Giulia, nel villaggio e intenti a scaricare dai loro camion fi lo spinato, paletti e vernice con la quale tracciare la nuova linea del confi ne, che scendeva «inesorabile a dividere in due il paese»23. I lavori dell’organismo interalleato vennero accompagnati da una propa- ganda tambureggiante messa in campo da entrambi gli schieramenti. Da un lato vi erano le autorità jugoslave che organizzarono, soprattutto nella Zona B, manifestazioni supportate da una campagna di scritte murarie volte ad attestare non solo la naturale prevalenza slovena e croata del territorio, ma

23. Cuori senza frontiere, regia di Luigi Zampa (Italia, 87’, 1950). Per un’analisi interdi- sciplinare della pellicola attenta alla sua prospettiva storica, cfr. M. Gusso, Una sottile linea bianca. Il confi ne italo-jugoslavo alle origini della guerra fredda attraverso il fi lm Cuori senza frontiere, coordinamento di R. Marchis, Istoreto, Torino 2007.

104 anche la presenza di una cospicua parte della componente italiana favorevo- le all’annessione alla Jugoslavia. Dall’altro lato e in direzione contraria agiva invece la rappresentanza italiana che, supportata dalla stampa e dal Cln dell’Istria (Clni), organismo in stretto contatto con il governo di Roma24, si mosse invece per rafforzare il mantenimento della sovranità italiana, indicata come l’unica soluzione che la popolazione italiana fosse disposta ad accettare. In tal senso uno dei momenti di maggiore intensità fu raggiunto il 21 marzo 1946, data nella quale era prevista la visita dei componenti della Commissione a Pola. Ad accoglierli trovarono un’imponente manifestazio- ne alla quale partecipò la quasi totalità degli abitanti, che espressero così la loro presa di posizione contro le tesi annessionistiche jugoslave. Il corteo, snodatosi per le piazze e le vie cittadine, assunse un elevato valore simbolico ed ebbe tra i suoi principali animatori anche Guido Miglia che ne affi dò il racconto alle pagine del suo diario, intente a descrivere la «marea di popolo» dei polesani che «si tenevano stretti al braccio, e così avanzavano insieme, da un marciapiede all’altro. […] Una massa immensa che era uscita da ogni casa, ogni alloggio, chiamandosi l’un l’altro, nella speranza di poter determinare anche in questo modo il proprio destino»25. La Commissione, che lasciò la Venezia-Giulia il 5 aprile 1946, elaborò quattro relazioni differenti, ciascuna delle quali indicava altrettante linee di demarcazione. La proposta statunitense e quella inglese erano piuttosto concilianti con le esigenze italiane. Entrambe avrebbero infatti assegnato all’Italia le città di Gorizia, Trieste e una porzione di territorio istriano compreso lungo il tratto di confi ne attestatosi tra Venezia e l’Austria in seguito al Trattato di Campoformio. L’unica differenza era costituita dalla volontà britannica di concedere alla Jugoslavia il distretto di Albona e l’importante bacino mine- rario dell’Arsa. Maggiormente aderenti alle aspirazioni jugoslave si presentavano inve- ce la proposta francese e quella sovietica. La prima prevedeva l’annessione all’Italia dei soli centri di Buie, Pirano e Capodistria lungo la costa settentrio-

24. Sorto nel gennaio 1946 per mano di un gruppo di antifascisti istriani rifugiatisi a Trie- ste, il Clni svolse sin da subito l’azione di intermediario e interfaccia politica nei rapporti tra la comunità italiana della Zona B e il governo di Roma. Oltre che sul versante assistenziale e propagandistico, fu anche impegnato nella raccolta di notizie e informazioni – di carattere più o meno riservato – inerenti la condizione degli italiani rimasti in Zona B. Venne sciolto nel 1967. Sulla genesi e l’attività del Clni, cfr. I. Bolzon, Gli «ottimi italiani». Assistenza e propaganda italiana in Istria (1946-1966), Irsml, Trieste 2017. 25. G. Miglia, Dentro l’Istria, cit., p. 75-76.

105 nale dell’Istria lasciando invece alla Jugoslavia Pola, Rovigno e Parenzo. La seconda, oltre all’attribuzione di Monfalcone alla Jugoslavia, proponeva un drastico contenimento dei confi ni italiani ridotti a una porzione di territorio ancor più limitata rispetto a quella sancita dalla Pace di Vienna del 186626. Lo stallo venne rotto il 3 luglio 1946 quando i rappresentanti delle poten- ze vincitrici elaborarono il piano generale destinato a essere discusso a Pari- gi, consistente nella sostanziale accettazione della linea francese. Quest’ulti- ma prevedeva il passaggio di gran parte della Venezia-Giulia alla Jugoslavia e la contemporanea creazione – lungo un asse tracciato da Duino, a occiden- te, fi no a Cittanova d’Istria a oriente – del Territorio Libero di Trieste (Tlt), un’area internazionalizzata posta sotto la garanzia del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a sua volta divisa in una Zona A corrispondente, a grandi linee, alla città di Trieste, collocata sotto l’amministrazione alleata, e in una Zona B amministrata dagli jugoslavi27. Si arrivò così, il 29 luglio 1946, alla Conferenza di pace di Parigi alla quale parteciparono oltre 1.500 delegati in rappresentanza dei paesi vinci- tori chiamati a fi rmare il trattato di pace con l’Italia, alla cui delegazione, non ammessa a prendere parte ai lavori delle commissioni e dell’assemblea plenaria, venne comunque concessa l’opportunità di esporre la propria linea. A prendere la parola, il 10 agosto, fu Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio con la delega agli Affari esteri, chiamato a portare a termine un’impresa estremamente complessa. Pressata dalle richieste di annessione avanzate dalla Jugoslavia di Tito sull’intera Venezia-Giulia, dai progetti so- vietici di infl uenza sull’Adriatico e dalla necessità anglo-americana di man- tenere il controllo di Trieste per farne un baluardo da anteporre all’avanzata comunista, la diplomazia italiana si trovò infatti in una condizione di grande debolezza, tale da non potersi opporre con argomenti convincenti a decisioni che, in linea di massima, erano già state prese dalle potenze vincitrici. Lo stesso De Gasperi sembrava conscio delle diffi coltà che lo attende- vano, emerse fi n dall’incipit del suo discorso pronunciato nel tentativo di perorare la causa italiana. Alzatosi dall’ultima fi la e avviatosi verso il podio degli oratori, pronunciò le seguenti parole: prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra per- sonale cortesia è contro di me: è soprattutto la mia qualifi ca di ex nemico che mi fa

26. Per un’analisi di lungo periodo sulle vicende confi narie della Venezia-Giulia, cfr. F. Cecotti (in collaborazione con D. Umek), Il tempo dei confi ni:atlante storico dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo, 1748-2008, Irsml, Trieste 2010. 27. Cfr. The Second Session of the Council of Foreign Ministers, second part, Paris, June 15th-July 12 th, 1946, pp. 715-721, , visitato il 20 maggio 2020.

106 considerare come imputato, l’essere citato qui dopo che i più infl uenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione28.

Il suo intervento colpì Byrnes, capo della delegazione degli Stati Uniti, che nelle pagine delle sue memorie ricorda il rappresentante italiano scen- dere dalla navata della tribuna nel silenzio generale. «La cosa», scrive Byr- nes, «mi fece impressione […]. Così quando passò davanti alla delegazione degli Stati Uniti, gli tesi la mano e gliela strinsi. […] Volevo far coraggio a quest’uomo che aveva sofferto personalmente nelle mani di Mussolini e che ora stava soffrendo nelle mani delle Nazioni alleate»29. L’orazione non suscitò invece l’approvazione di Kardelj, capo della de- legazione jugoslava a Parigi, che interpretò le parole dello statista trentino come un tentativo di difendere le posizioni guadagnate dall’Italia durante il fascismo, sfruttando il contributo offerto agli Alleati dagli antifascisti ita- liani per sostenere le sue pretese imperialistiche30. Osservazioni analoghe giunsero anche dal ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Michajlovič Molotov, che accusò De Gasperi di farsi portavoce delle richieste territoriali italiane sulla Venezia-Giulia, sottolineando, nel contempo, il peso dell’ap- poggio sovietico alle rivendicazioni jugoslave31. Lo sforzo profuso dalla delegazione italiana durante i negoziati non fu però suffi ciente a ottenere condizioni favorevoli nel trattato, la cui fi rma venne ripresa con toni mesti da un servizio de «La Settimana Incom», pronta a rimarcare il «sacrifi cio accettato» dall’Italia, che, ammoniva con infl essio- ne severa la voce fuori campo del cinegiornale, stava «pagando più caro del giusto»32. Gli accordi prevedevano, oltre al pagamento di ingenti riparazioni di guerra, la cessione delle Isole del Dodecaneso alla Grecia, la rinuncia ai possedimenti territoriali in Africa, la cancellazione dei trattati commerciali con la Cina e il riconoscimento dell’indipendenza dell’Albania e dell’E- tiopia. A ciò si accompagnavano signifi cative mutilazioni territoriali, sia

28. Il testo completo del discorso di De Gasperi a Parigi, in versione manoscritta origi- nale (in italiano e in francese), si trova in Historical Archives of European Union, Archivio Alcide De Gasperi, Affari Esteri, Fascicolo (F.) III A, Conferenza di Pace. 29. J.F. Byrnes, Report on the Paris Peace Conference by the Secretary of State, United States Government Printing Offi ce, Washington 1946, p. 78. 30. Cfr. E. Kardelj, Memorie degli anni di ferro, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 82-83. 31. Cfr. D. De Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste, Lint, 1981, p. 568. 32. La delegazione italiana fi rma i protocolli di intesa degli accordi raggiunti al termine della Conferenza della Pace di Parigi, in «La Settimana Incom» n. 47, 27 febbraio 1947, in Archivio Istituto Luce-Cinecittà, , visitato il 10 maggio 2020.

107 sul confi ne occidentale – con la cessione alla Francia di Briga, Tenda, le valli Roja, Tinea e Vesubia, i monti Thabor e Chaberton, l’altopiano del Moncenisio e il Piccolo San Bernardo – sia su quello orientale, che conob- be l’amputazione più consistente, con la rinuncia a circa 8.000 chilometri quadrati di territorio. Questi corrispondevano, di fatto, alle aree rivendi- cate dalla Jugoslavia, paese vincitore della guerra e aggredito nel 1941 dall’Italia fascista. All’Italia vennero assegnate Gorizia e Monfalcone, unitamente alle estremità occidentali della Venezia-Giulia, mentre la sorte di Trieste, città simbolo e obiettivo primario per molte delle forze in gioco, fu quella di essere internazionalizzata, attraverso l’istituzione del già citato Tlt, con una sua suddivisione in Zona A – che abbracciava un’area estesa da Duino a Muggia, comprendente anche Trieste – affi data a un Governo militare allea- to (Gma), e in Zona B, comprendente la parte nord-occidentale dell’Istria, retta dall’amministrazione jugoslava, che si era vista assegnare anche Pola, Fiume, Zara, le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa33. La soluzione adottata per Trieste rappresentava un passaggio non gra- dito né alla Jugoslavia né all’Italia, che non riuscirono però a risolvere la questione in maniera condivisa. Un tentativo in tal senso fu imbastito da Togliatti che portò avanti una sorta di diplomazia parallela, incontrando Tito nel corso di un suo viaggio a Belgrado tra il 3 e il 7 novembre 1946. Il suo obiettivo era quello di riabilitare di fronte all’opinione pubblica l’immagine del Pci come forza politica attenta alla difesa degli interessi na- zionali, facendo contemporaneamente leva sulle diffi coltà incontrate da De Gasperi al vertice della pace di Parigi. Togliatti cercò quindi un’intesa diret- ta con il leader jugoslavo, facendo pervenire a quest’ultimo la possibilità di uno scambio: lasciare Gorizia alla Jugoslava e Trieste all’Italia. Il governo italiano dichiarò però inaccettabile la proposta, puntualizzando anche come il viaggio del segretario comunista non avesse alcuna veste uffi ciale. Sul- la stessa lunghezza d’onda si pose anche la diplomazia alleata, che invece spingeva per l’internalizzazione di Trieste, poi raggiunta con la fi rma del trattato parigino. Per le diplomazie di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si trattava in- fatti della scelta migliore, non solo perché avrebbe consentito di superare una situazione sulla quale Italia e Jugoslavia non avrebbero probabilmente raggiunto un’intesa in tempi brevi, ma soprattutto perché evitava che la città – centro di grande rilevanza sul piano strategico – cadesse nelle mani della

33. Cfr. S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, il Mulino, Bologna 2007, pp. 93-95.

108 Jugoslavia comunista, considerata una sorta di appendice diretta dell’Unio- ne Sovietica. «Ci portano via la Venezia-Giulia, amputandoci di un arto vivo, necessa- rio e insostituibile»34, annotava amaramente sulle pagine del suo diario Bia- gio Marin, prefi gurando lo sconforto dell’opinione pubblica italiana travolta dalle pesanti clausole imposte dal trattato parigino, che la stampa italiana, mutuando il termine con il quale i tedeschi defi nirono le dure condizioni di pace imposte nel 1919 alla Germania dopo la Grande guerra, non esitava a defi nire un diktat, ponendo così in secondo piano un elemento fondamentale e cioè le effettive responsabilità del paese che, alleatosi con la Germania hitleriana, aveva ricoperto il ruolo di aggressore nel confl itto. La stessa lettura traspariva anche nei cinegiornali de «La Settimana In- com», interessante terreno di analisi, che insistevano sia sul tema della pace punitiva incapace di tenere conto del sacrifi cio compiuto dalla lotta par- tigiana, sia su quello del sentimento nazionale ferito. Emblematico, in tal senso, appare il numero del 14 febbraio 1947 dal titolo Il diktat è fi rmato. Lutto nazionale, le cui sequenze fi ssavano la reazione alla fi rma del trattato della popolazione di Roma, Torino e Firenze, intenta a manifestare «digni- tosamente il proprio lutto». Nella capitale, scandiva la voce fuori campo, la folla si era diretta davanti alla tomba del Milite Ignoto, luogo simbolico che rappresentava il sacrifi cio di «mezzo milione di caduti per Trieste e per Pola che il trattato ci toglie». Nel capoluogo sabaudo, sulle «cui montagne i com- battenti della guerra clandestina si annidavano contro il tedesco», e in quello toscano, che «ricordava i giorni di pericolo e di speranza dell’agosto 1944», l’accento era invece posto sul contributo fornito dalle due città alla Resisten- za che, concludeva il servizio, «non si aspettava certo queste clausole»35. Tra le sue clausole il Trattato di pace prevedeva, come si è visto, la for- mazione del Tlt: uno Stato cuscinetto capace, agli occhi delle potenze fi r- matarie del trattato, di frapporsi tra le richieste jugoslave e quelle italiane. In realtà non si arrivò mai alla sua costituzione formale, poiché se è vero che l’accordo di Parigi indicava i crismi procedurali da seguire per la sua creazione e gettava le basi per l’approvazione, effettivamente avvenuta, di un apposito statuto da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, lo è altret- tanto il fatto che lo stesso Consiglio di sicurezza non poté mai procedere alla nomina di un governatore a causa dei veti incrociati posti dalle principali forze in gioco e cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica.

34. B. Marin, La pace lontana, cit., p. 280. 35. Il diktat è fi rmato. Lutto nazionale, «La Settimana Incom», n. 45, 14 febbraio 1947, in, Archivio Istituto Luce-Cinecittà,, visitato il 12 maggio 2020.

109 Ciò avvenne per due motivazioni principali. Da un lato l’avvio, da parte del governo degli Stati Uniti, della politica del containement che avrebbe contrassegnato i successivi anni della guerra fredda, dall’altro la decisione, da parte inglese e statunitense, di continuare a mantenere la presenza milita- re a Trieste, destinata ad assumere la funzione di baluardo della politica del contenimento in Europa, per evitare il pericolo che la città entrasse nell’or- bita jugoslava e quindi automaticamente in quella sovietica36. La soluzione più immediata e meno rischiosa nello scacchiere della po- litica internazionale, fu dunque quella di mantenere la situazione inalterata, con la Zona A del territorio amministrata da un governo militare alleato e la zona B da un governo militare jugoslavo (Vuja)37. Nella primavera del 1948 la vicenda si arricchì di un ulteriore elemen- to, quando, il 20 marzo, i governi di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna emanarono la cosiddetta Nota Tripartita, ovvero una dichiarazione con la quale veniva considerata la possibilità di un ritorno del Tlt all’Italia. Tale passaggio rafforzava le posizioni della diplomazia italiana che, dopo aver ottenuto Trieste, avrebbe potuto giocare le proprie carte con maggior sicu- rezza sul tavolo negoziale, presentando una proposta che prevedesse l’as- segnazione di un’area più estesa dei soli territori compresi al di qua della linea Morgan. L’ipotesi era però destinata a decadere. Infatti nell’estate dello stesso anno si consumò, come vedremo, lo strappo tra Tito e Stalin con la con- seguente espulsione della Jugoslavia dal Cominform e il mutamento degli equilibri politici internazionali, che ebbero rifl essi diretti anche sull’atteg- giamento alleato nei confronti della questione giuliana. Allontanandosi dall’orbita sovietica, Tito mutò la propria posizione agli occhi delle diplo- mazie occidentali che iniziarono a guardarlo se non come un alleato, quanto meno come un interlocutore privilegiato con il quale iniziare a dialogare in maniera più stretta rispetto al passato. Lo scenario emerso, portò così gli Alleati a riconsiderare le posizioni ju- goslave a scapito di quelle italiane mentre, sul piano diplomatico, i rapporti tra i due contendenti raggiunsero livelli di tensione molto elevati, esplosi fragorosamente tra l’estate e l’autunno 1953, quando Italia e Jugoslavia ar-

36. Cfr. K. Mistry, The United States, Italy and the Origins of Cold War. Waging Political Warfare, 1945-1950, Cambridge University Press, Cambridge 2014, p. 145. 37. Dopo gli accordi di Belgrado l’esercito jugoslavo si ritirò oltre la linea Morgan. Il 23 giugno 1945, Tito creò la Vuja (Vojna uprava jugoslavenske armije), ovvero l’Amministra- zione militare per la Regione Giulia, di cui fecero parte il litorale e la costa slovena, l’Istria croata e Fiume e cioè i territori che costituivano la Zona B.

110 rivarono a schierare i propri eserciti sulla frontiera nord orientale, con l’ipo- tesi concreta dello scoppio di un confl itto armato. A inasprire i toni fu da un lato la richiesta di Giuseppe Pella, presidente del Consiglio italiano di vede- re applicata la Nota Tripartita, dall’altro la volontà di Tito di procedere, qua- lora questa fosse stata attuata, all’annessione della Zona B alla Jugoslavia. A complicare ulteriormente il quadro contribuì anche la promulgazione, l’8 ottobre 1953, della Nota Bipartita con la quale Gran Bretagna e Stati Uniti si impegnavano a porre fi ne al governo alleato nella Zona A, affi dando all’Italia l’amministrazione del territorio. All’esultanza con cui il governo italiano accolse la notizia, si contrappose la contrarietà di quello jugoslavo: fu lo stesso Tito, in un celebre discorso tenuto a Spalato di fronte a 200.000 persone, ad affermare che l’ingresso di truppe italiane nella Zona A sarebbe stato considerato come un atto di aggressione al quale la Jugoslavia «avreb- be risposto con proprie misure»38. Contemporaneamente, nella Zona B si ve- rifi carono episodi di violenza, espulsioni e pressioni contro la popolazione italiana, volte a sollecitarne l’allontanamento. La tensione si allentò soltanto alla fi ne di dicembre, quando gli eserciti di entrambi i paesi iniziarono a ritirarsi dai rispettivi lati delle frontiere. La reazione jugoslava ebbe infatti come primo risultato quello di con- vincere le diplomazie di Londra e Washington a gettare acqua sul fuoco, ritirando la proposta e avviando nella capitale inglese un negoziato parallelo tra Italia e Jugoslavia che portò all’elaborazione di una tesi volta a favorire una spartizione del Tlt lungo il confi ne già tracciato. Nel corso dei negoziati venne così elaborata tra le parti in causa una linea di compromesso che avrebbe trovato spazio nel Memorandum d’In- tesa, siglato a Londra il 5 ottobre 1954. Il documento pose fi ne ai governi militari nella Zona A e nella Zona B, cedendo l’amministrazione della prima all’Italia ed estendendo nella seconda l’amministrazione civile jugoslava, che, con una modifi ca rispetto al confi ne precedente, vide assegnate a pro- prio vantaggio nuove, seppur minime, porzioni territoriali tra le due aree dei centri istriani di Muggia e di San Dorligo della Valle, rimasti invece sotto l’amministrazione italiana. Con il Memorandum di Londra cessava anche l’amministrazione milita- re alleata: il 26 ottobre John Willoughby Winterton, comandante della zona anglo-americana del Tlt, lasciò Trieste che, affi data al prefetto Giovanni Pa- lamara, ritornò così all’Italia39.

38. Tracotante discorso di Tito a Spalato, «La Stampa», 14 settembre 1953. 39. Nella Zona B l’amministrazione militare jugoslava cessò il 25 ottobre, data in cui l’intero territorio passò così sotto l’amministrazione civile jugoslava.

111 Un passaggio celebrato dal presidente del Consiglio Mario Scelba, da pochi mesi succeduto ad Amintore Fanfani, che il 5 ottobre informò il Sena- to della raggiunta intesa, annunciando con viva soddisfazione come «dopo dieci anni la bandiera della Patria torna [tornasse] a sventolare sulla torre civica e sul campanile di san Giusto»40. Lo stesso che qualche anno prima, nel 1952, compariva nelle strofe di Vola Colomba, interpretata da Nilla Pizzi e trionfatrice alla seconda edizione del Festival di Sanremo: raccontando apparentemente la storia di due innamorati separati, il motivo presentava, in- vece, alcuni elementi che richiamavano, seppur indirettamente, il problema di Trieste e le sofferenze degli italiani d’Istria41. A Scelba fece eco il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, che lo stesso giorno inviò al titolare di Palazzo Chigi un messaggio per compli- mentarsi del lavoro svolto riconoscendogli non solo il merito di aver di- scusso «clausola per clausola e parola per parola» l’accordo fi rmato, ma anche di aver dedicato nel suo mandato grande energia alla risoluzione della questione giuliana, defi nita dal capo dello stato una «fi accola mai spenta», riconsegnata «viva di fi amma ardente, all’Italia e a Trieste»42. Tre giorni più tardi, l’8 ottobre, il presidente del Consiglio prese nuova- mente la parola in Senato per presentare il Memorandum, considerato «la sola soluzione possibile»43, e chiederne la ratifi ca. L’accordo non si confi gu- rava come un trattato diplomatico defi nitivo, ma manteneva un carattere di provvisorietà, poiché il protocollo faceva uffi cialmente riferimento soltanto al trasferimento dell’amministrazione civile. Il testo, fi n dalle sue battute iniziali, evidenziava infatti come il governo italiano e quello jugoslavo aves- sero dovuto estendere sulle rispettive zone di assegnazione «un’ammini- strazione civile»44, senza dunque indicare in modo esplicito la cessazione della sovranità italiana sull’area in questione. Sul piano formale il trattato si

40. Trieste torna all’Italia, in «Mondo Libero», M165, 8 ottobre 1954. In Archivio Isti- tuto Luce-Cinecittà, , visitato il 12 maggio 2020. 41. Cfr. L. Campus, Sono solo canzonette. L’Italia della ricostruzione e del miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Le Monnier, Milano 2015, pp. 25-26. 42. Messaggio del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi in risposta alla comunicazione del Presidente del Consiglio Mario Scelba circa la conclusione dell’accordo per Trieste, 5 otto- bre 1954, in Presidenza della Repubblica, I discorsi del Presidente Einaudi 1948-1955, , visitato il 20 maggio 2020. 43. Senato della Repubblica, II Legislatura, CXCI Seduta, Discussioni, 8 ottobre 1954, p. 7519, , visitato il 12 maggio 2020. 44. Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura II, Documenti, Disegni di Legge e Relazioni, Doc XI, Testo del Memorandum d’Intesa fi rmato tra i Governi d’Italia, del Re- gno Unito, degli Stati Uniti e di Jugoslavia, concernente il Territorio Libero di Trieste sigla- to a Londra il 5 ottobre 1954, p. 3, , visitato il 13 maggio 2020.

112 presentava dunque come un passaggio amministrativo e non di riannessione e ciò rendeva suffi ciente la sola approvazione della Camera e Senato, limi- tando il Parlamento ad avallare l’intesa e a esprimere soltanto il suo assenso all’operato del governo. Quest’ultimo arrivò nella seduta del 12 ottobre durante la quale, prima della votazione, in un passaggio del suo discorso introduttivo, Scelba rivolse la sua «affettuosa solidarietà» alla popolazione italiana rimasta nella Zona B, alla quale il governo aveva cercato, «con ogni mezzo», di assicurare le garanzie necessarie allo «sviluppo culturale» e alla «sicurezza sociale»45. Parole che richiamavano la presenza all’interno del Memorandum di uno Statuto speciale volto a tutelare le minoranze nazionali residenti nelle due zone e ad assicurare loro, senza discriminazioni, diritti linguistici in ambito amministrativo, giuridico, toponomastico, scolastico e culturale46. Il clima che accompagnò la discussione parlamentare fu tutt’altro che disteso, sebbene il Memorandum avesse già ricevuto il placet di Camera e Senato. A favore dell’azione governativa si espressero la Democrazia Cri- stiana, il Partito liberale, i repubblicani e i socialdemocratici. Su posizioni fermamente contrarie si arroccarono invece il Movimento sociale, il Pci e il Partito socialista. A loro rispose direttamente Gaetano Martino, ministro degli Esteri, che difese l’azione del governo, ricordando come l’Italia si fosse seduta al tavo- lo delle trattative partendo da una posizione di «estremo svantaggio», che sebbene non le avesse consentito di assicurarsi l’amministrazione dell’intera Zona del Tlt, le permise però di ottenere Trieste, che di quel territorio rap- presentava «la parte umanamente più rilevante». Rivolgendosi alle opposi- zioni, il titolare della Farnesina concludeva il suo discorso con un passaggio molto signifi cativo che, sostanzialmente, sottolineava l’ottenimento del mi- glior risultato possibile. Queste le sue parole: come succede in ogni negoziato che si svolge in una situazione in cui uno dei negoziatori non ha alcun pegno nelle sue mani, noi che eravamo nelle condizioni di questo negozia- tore, non abbiamo potuto ottenere tutto quello che avremmo desiderato47.

45. Il passaggio del discorso di Scelba si trova in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura II, Discussioni, Seduta di martedì 12 ottobre 1954, pp. 12861-12862, in Archi- vio Camera dei Deputati, , visitato il 12 maggio 2020. 46. Cfr. Statuto speciale, in Memorandum d’Intesa fi rmato tra i Governi d’Italia, del Re- gno Unito, degli Stati Uniti e di Jugoslavia, concernente il Territorio Libero di Trieste siglato a Londra il 5 ottobre 1954, cit., pp. 6-12. 47. Il passaggio del discorso di Martino si trova in G. Cesare, Dieci anni dopo il 26 otto- bre 1954, in «Trieste. Rivista Politica», 63 (1964). In Archivio Irsrec-Fvg, Fondo Novecento in Venezia Giulia – Nuova Serie, B. 25NS, F. 2398.

113 Nonostante le schermaglie dialettiche, il Parlamento si espresse sen- za sorprese, continuando però a considerare il trattato come un passaggio provvisorio che avrebbe così lasciato aperto uno spiraglio per un possibile ritorno della Zona B nei confi ni nazionali. L’interpretazione non trovò però alcun appiglio nelle diplomazie alleate affrettatesi ad affermare, subito dopo la fi rma, come nessuna futura rivendicazione da parte italiana e jugoslava sarebbe stata presa in considerazione48. Si trattava di una posizione condivi- sa anche da Belgrado, che vide nell’intesa di Londra una chiusura defi nitiva della vertenza confi naria con l’Italia. Sarebbe toccato, poco più di vent’anni dopo, il 10 novembre 1975, al Trattato di Osimo ricondurre defi nitivamente la Zona A alla sovranità italia- na e la Zona B a quella jugoslava, sancendo così la defi nitiva abrogazione del Memorandum e del suo Statuto Speciale, continuando però ad assicurare la tutela dei diritti già previsti dal decaduto statuto a entrambe le comunità49.

3. Jugoslavia

Con l’entrata in vigore del Trattato di pace del 1947, le autorità jugosla- ve impressero una svolta decisiva alla trasformazione dell’assetto politico, sociale, culturale ed economico dei territori annessi, nei quali procedettero, a tutti gli effetti, all’instaurazione di un sistema socialista. Una prima mossa in tale direzione era però già stata compiuta subito dopo la fi rma dell’accordo di Belgrado e la creazione da parte di Tito della Vuja, l’amministrazione militare della Regione Giulia, che affi dò ai Comita- ti popolari di liberazione (Cpl) la gestione amministrativa della Zona B. Nel primo dopoguerra, dunque, sul territorio istriano operavano due strutture di potere: un’amministrazione civile, i Cpl, e una militare, rappresentata dalla Vuja, responsabile di esercitare il controllo amministrativo, economico e sociale dell’area50. Fu proprio attraverso misure fi rmate dalla Vuja, il cui raggio d’azione era tale da consentirle di legiferare in svariati campi, che le autorità jugoslave tentarono un’integrazione dei territori a est della linea Morgan nel sistema

48. Cfr. V. Lisiani, Good-bye Trieste, Mursia, Milano 1977, pp. 244-249. 49. Sugli accordi di Osimo, cfr. B. Zaccaria, La strada per Osimo: Italia e Jugoslavia allo specchio (1965-1975), FrancoAngeli, Milano 2018; S. Mišić, La Jugoslavia e il Tratto di Osimo, in «Qualestoria», 2 (2013), pp. 55-82. 50. Cfr. M. Orlić, La creazione dei poteri popolari in Istria (1943-1948), in L. Bertucelli, M. Orlić (a cura di), Una storia balcanica. Fascismo, comunismo, nazionalismo nella Jugo- slavia del Novecento, Ombre corte, Verona 2008, p. 135.

114 statuale jugoslavo, contravvenendo in tal modo alle disposizioni sottoscritte con la diplomazia alleata che aveva concesso la sola amministrazione fi du- ciaria della Zona B senza dunque inserirla de jure nella Jugoslavia. Nonostante l’accordo di Belgrado non consentisse la possibilità di mo- difi care la situazione preesistente, tra l’estate 1945 e la fi rma del Trattato di pace di Parigi l’amministrazione jugoslava adottò una serie di provvedimen- ti in campo politico, economico e sociale che procedevano, invece, in dire- zione opposta, modifi cando cioè l’impianto amministrativo e istituzionale italiano precedentemente in vigore. Sulla scia della linea tracciata nel resto del paese, le autorità jugoslave intendevano raggiungere, anche nella Zona B, una completa uniformazione della società e del territorio, preparando così il terreno alla costruzione di un sistema socialista. I poteri popolari agirono su vari livelli. Il primo passaggio interessò gli apparati dirigenziali dei locali organi istituzionali, alla cui guida vennero posti partigiani istriani (considerati fi dati e sicuri) affi ancati da elementi provenienti dai territori jugoslavi51. Successivamente, l’area di intervento si spostò sulla pubblica amministrazione con la rimozione dei funzionari sospettati di passate connivenze con il fascismo e l’esclusione di quanti non avessero dato prova di un’approfondita conoscenza del serbo-croato52. In ambito economico le misure intraprese interessarono il versante agri- colo e quello industriale. Nell’agosto 1945, accompagnata dallo slogan «zemlja onima koji je obrađuju» (la terra a chi lavora), fu avviata la riforma agraria, basata essen- zialmente sull’abrogazione dei rapporti di colonato, sulla collettivizzazione delle terre e sulla creazione di un sistema di cooperative (zadruge) nelle qua- li avrebbero dovuto convergere gli ammassi e i terreni espropriati, gran parte dei quali appartenenti a proprietari terrieri italiani che interpretarono i prov- vedimenti come l’attuazione di «una spoliazione del gruppo nazionale»53. Nel 1947, primo tra gli stati dell’Europa dell’est, la Jugoslavia varò il suo piano quinquennale che, nelle previsioni di Tito, avrebbe dovuto imprimere una svolta all’economia del paese, trasformandola da agricola a industriale. La sua attuazione, che raggiunse in verità risultati piuttosto modesti a fronte delle ingenti risorse investite54, ebbe rifl essi diretti anche sulla Zona B con il

51. O. Moscarda Oblak, L’armata e l’amministrazione militare jugoslava nella liberazio- ne dell’Istria (1945-1947), «Quaderni», 2014, vol. XXV, p. 3. 52. Cfr. R. Wörsdörfer, Il confi ne orientale, cit., p. 260. 53. G. Nemec, Un paese perfetto, cit., p. 229. 54. Cfr. S.L. Woodvard, Socialist Unenployment, Princeton University Press, Princeton 1995, pp. 105-106.

115 trasferimento in Jugoslavia di buona parte dei macchinari delle fabbriche e il conseguente indebolimento della sua capacità produttiva. Lo stesso piano prevedeva inoltre il passaggio dei cantieri navali, dei complessi industriali e delle miniere sotto il controllo della Vuja, sostituita più tardi nella gestione direttamente dallo stato jugoslavo. La riorganizzazione del settore agricolo e industriale si accompagnò a provvedimenti rivolti a lavoratori e artigiani che, residenti in Zona B, si re- cavano in Zona A per svolgere la propria attività professionale. Con lo scopo di limitarne gli spostamenti, furono sottoposti a un sistema di tassazione volto ad aumentare la pressione fi scale a loro carico. Essi andarono così incontro a una pesante decurtazione delle retribuzioni, che infl uì in maniera signifi cativa sulla scelta di abbandonare defi nitivamente la Zona B. Il contenimento degli scambi con l’altro versante del confi ne fu anche alla base dell’introduzione, nell’ottobre 1945, della jugolira, una nuova uni- tà monetaria valevole soltanto nella Zona B. Uffi cialmente istituita per ri- durre l’infl azione, la valuta aveva in realtà lo scopo di acuire la divisione tra le due zone del Tlt e di limitare i rapporti commerciali con Trieste e la Zona A, creando con essi, tradizionali punti di riferimento per gli abitanti della Zona B, una vera e propria barriera economica. Il provvedimento colpì principalmente commercianti (privati della pos- sibilità di effettuare acquisti in Zona A), contadini (i cui risparmi perdevano di valore), piccoli risparmiatori e lavoratori che, residenti in Zona B, si reca- vano a Trieste a lavorare. La misura, intesa come un ulteriore tentativo di limitazione dell’infl uen- za italiana, trovò la ferma opposizione della popolazione italiana della regio- ne, culminata nello sciopero generale svoltosi il 30 ottobre a Capodistria, al quale prese parte gran parte della cittadinanza. Le autorità jugoslave rispo- sero mobilitando la componente slovena delle aree interne del circondario di Capodistria, Isola e Pirano, chiamata a partecipare a una contro manife- stazione. Annunciata da un volantino dell’Unione Antifascista Italo Slovena (Uais), l’organizzazione facente capo al Partito comunista sloveno55, la di- mostrazione avrebbe dovuto rispondere allo sciopero, organizzato dai «resti del fascismo e della reazione capodistriana […], dai parassiti fascisti che sabotano il nostro lavoro»56.

55. La nascita dell’Uais avvenne a opera del Partito comunista sloveno che decise di co- stituire in entrambe le zone al di là della linea Morgan un’organizzazione di massa all’interno della quale avrebbe dovuto inserirsi non solo la popolazione slovena e croata ma anche quella italiana nello spirito della politica di fratellanza italo-slava. 56. I fatti di Capodistria, grave insegnamento e monito, «La Voce libera», 2 novembre 1945. In G. Nassisi, Istria, 1945-1947, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., pp. 110-111.

116 Simili considerazioni, seppure supportate da toni meno perentori, emer- gevano anche in un contributo di Renato Carli-Ballola, che nell’ottobre 1945 fi rmò una corrispondenza dall’Istria sulle pagine dell’«Avanti!», nelle quali trovano spazio anche le vicende di Capodistria. Per il giornalista ravenna- te, all’epoca direttore del quotidiano socialista, a osteggiare l’introduzione della moneta furono soprattutto i commercianti che, impegnati a «esercitare traffi co borsaneristico», rappresentavano, a suo dire, «i principali nemici politici del regime jugoslavo». A seguito della dimostrazione, ridotta da Carli-Ballola, con eccessiva leggerezza, «a poco più di una chiassata»57, si verifi carono gravi incidenti che provocarono la morte di due dimostranti giunti in città. Da sottolineare, infi ne, come le pressioni delle autorità jugoslave non risparmiarono nemmeno i commercianti. Appartenenti, in larga misura, al ceto medio della popolazione italiana, essi furono investiti da una serie di normative tese a rafforzare il ruolo del sistema distributivo cooperativistico a scapito del commercio al dettaglio che rivestiva, tradizionalmente, un ruo- lo di primo piano nella scala economica delle comunità istriane. Privati della licenza per la distribuzione dei generi in vendita libera, essi si trovarono al centro di un fuoco incrociato che li condusse sulla via dell’esodo. Riorganizzazione amministrativa, requisizioni, confi sche e collettivizza- zione procedettero di pari passo con interventi attuati sul piano culturale, linguistico e identitario che ebbero come bersaglio la popolazione italiana soggetta, nell’arco di tempo che scandì la defi nizione delle vicende confi - narie, a un progressivo, quanto sostanziale, processo di esclusione e inde- bolimento. La jugoslavizzazione dei cognomi, il mutamento della toponomastica stradale, la cancellazione del bilinguismo visivo, l’imposizione della lingua slovena e croata nello spazio pubblico, la drastica riduzione delle scuole ita- liane rappresentarono i principali aspetti di una prassi di snazionalizzazione che investì la comunità italiana, colpendone anche i principali punti di rife- rimento come gli insegnanti, costretti ad abbandonare il territorio58 e il clero. Nei confronti dei sacerdoti e delle consuetudini religiose (messe, processio- ni, ecc.) i poteri popolari attuarono una politica caratterizzata da un elevato

57. R. Carli- Ballola, Istria rossa, «Avanti!»,18 dicembre 1945. 58. Tra il 1946 e il 1956 le scuole italiane passarono dalle 70 del 1946 alle appena 18 del 1956. Furono invece 274 gli insegnanti che tra il 1945 e il 1953 lasciarono il territorio istriano a seguito di pressioni e violenze. Sulla scuola italiana in Istria, con particolare riferimento alla Zona B del Tlt, cfr. E. Miletto, «Sotto un severo controllo». Insegnanti e scuola italiana nella Zona B del Territorio Libero di Trieste (1945-1958), in «Giornale di Storia Contempo- ranea», 1, (2017), pp. 153-174.

117 livello di aggressività che raggiunse la sua massima intensità con l’ucci- sione, nel settembre 1946, di don Francesco Bonifacio, cappellano a Villa Gardossi – Crassiza poco distante da Buje e, nel giugno dell’anno seguente, con l’aggressione a Capodistria del vescovo di Trieste Antonio Santin. Una realtà mutata e mutante, ben sintetizzata dalle rifl essioni di Angela, personaggio principale de Una famiglia istriana, romanzo di Ester Sardoz Barlessi, che esprimeva tutta la sua preoccupazione per l’introduzione del serbo-croato nella scuola, «una vera tragedia» per generazioni di studenti, chiamati, la domenica, a partecipare, insieme ad altri cittadini «diventati compagni»59, al lavoro volontario. Tale pratica, svolta in forma assoluta- mente gratuita e orchestrata dall’apparato propagandistico del potere titino, rappresentava, in Istria come nel resto della Jugoslavia, non soltanto uno strumento per ripristinare le infrastrutture del paese, ma anche un mezzo attraverso il quale consolidare la coesione politica della popolazione, con particolare riferimento alle fasce più giovani che, spinte dal motto «unità e fratellanza», dovevano così contribuire, condividendone gli ideali, alla na- scente società socialista60. Il coinvolgimento dei giovani trova spazio in un articolo pubblica- to sull’edizione piemontese de «l’Unità» che, seguendo una scia tracciata dall’edizione nazionale intenta a fornire con grande frequenza informazioni e notizie sulla Jugoslavia, dedicava un approfondimento alla situazione ju- goslava ospitando le considerazioni di Egidio Sulotto e Piero Giorsetti, dele- gati del Pci, appena rientrati da una visita nel paese di Tito. Molti gli aspetti toccati, tra i quali anche il lavoro volontario, celebrato come un «risveglio della gioventù», il cui impegno consentiva a strade, case, ponti e ferrovie di sorgere «per incanto», attestando, concludeva l’articolo, come il popolo jugoslavo lavorasse «per il benessere generale del paese»61. Valutazioni diametralmente opposte arrivarono invece da «L’Arena di Pola», che nel giugno 1947 concentrò la sua attenzione sul lavoro volonta- rio di alcuni insegnanti italiani residenti nella Zona B. L’articolo, con tono polemico unito a una sottile punta di ironia, denunciava l’imposizione delle autorità jugoslave che, spinte dalla necessità di «nuovo materiale umano» per la realizzazione di opere infrastrutturali, avevano pensato «con premuro-

59. E. Sardoz Barlessi, Una famiglia istriana, Il ramo d’oro/Edit, Trieste-Fiume 2012, p. 117. 60. Cfr. M. Stibilj, La fratellanza italo-slava e le brigate giovanili giuliane di lavoro volontario provenienti dalla Zona A impegnate in Jugoslavia, in M. Verginella (a cura di), Sconfi namenti storiografi ci e attraversamenti di confi, ni «Qualestoria», 1 (2016), pp. 99-120. 61. In Jugoslavia si lavora per il benessere del popolo, «l’Unità», 13 aprile 1948.

118 sa cura, ai nostri insegnanti», consentendo loro – ecco apparire l’intonazione ironica – «di dedicare i due mesi di vacanze estive alle opere del regime»62. Oltre a quelle appena citate, la comunità italiana, nelle sue diverse arti- colazioni sociali, fu contemporaneamente vittima di ulteriori pressioni che, attuate costantemente e con modalità sempre più insistenti, si manifestarono attraverso vari livelli di intimidazione che andavano dal licenziamento allo sfratto, dal ricatto al sopruso, fi no ad arrivare all’arresto, alla carcerazione e a vere e proprie ondate di violenza (percosse, bastonature, devastazione di abitazioni) esplose in occasione di particolari episodi. Fu il caso della visi- ta della Commissione interalleata, delle elezioni amministrative jugoslave svoltesi in Zona B il 16 aprile 195063 e delle manifestazioni anti-italiane che, scoppiate nel 1953 nel pieno della crisi italo-jugoslava a seguito della possibile applicazione della nota Bipartita, erano scandite dallo slogan «il nostro non diamo, l’altrui non vogliamo»64. La transizione che portò all’instaurazione del socialismo, innescò quindi una «spirale fortemente destabilizzante»65, trascinando con sé trasformazio- ni e stravolgimenti traumatici in termini di sofferenze, lacerazioni, pressioni e repressioni che rafforzarono nella popolazione italiana la percezione di trovarsi avvolta da un clima di continua e crescente tensione, favorendo così in buona parte di essa i processi decisionali che portarono all’esodo. In proposito occorre però puntualizzare che per gli italiani, sebbene il qua- dro appena tracciato possa indurre a pensare il contrario, non furono elaborati progetti espulsivi, come avvenuto invece per le comunità tedesche, presenti in alcune aree della Slovenia, immediatamente allontanate dal paese. La posizione uffi ciale del regime jugoslavo non era infatti quella di eli- minare la presenza italiana nei territori passati sotto la sua amministrazione, quanto invece di promuovere una politica di fratellanza italo-slava, che ri-

62. A lavorare d’assalto per due mesi, «L’Arena di Pola», 28 giugno 1947. 63. Le elezioni amministrative dei due distretti di Buie e Capodistria furono indette dalle autorità popolari per testare il grado di radicamento raggiunto tra la popolazione, soprattutto quella italiana, dopo cinque anni di amministrazione speciale. La tornata elettorale fu ac- compagnata da un clima di tensione tradotta nella chiusura delle comunicazioni marittime e terrestri con Trieste e la Zona A, nell’allontanamento dei non residenti e nelle imposizioni di pesanti limitazioni ai giornalisti della stampa italiana e straniera giunti sul territorio per documentare la situazione. Astenutasi compattamente dalle votazioni, la popolazione italiana fu vittima tanto nei giorni precedenti quanto in quelli successivi alle elezioni di violente ag- gressioni, per una ricostruzione delle quali si rimanda a Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, La politica jugoslava nella Zona B del Territorio Libero di Trieste. Le elezioni del 16 aprile 1950, De Barba & Figlio, Trieste 1950. 64. M. Zuccari, Il dito sulla piaga. Togliatti e il Pci nella rottura tra Stalin e Tito (1944- 1957), Mursia, Milano 2008, p. 571. 65. O. Moscarda Oblak, La crisi istriana del secondo dopoguerra, cit., p. 255.

119 volgesse la sua attenzione soltanto agli italiani «onesti e buoni»66, ovvero gli antifascisti e i comunisti di comprovata fede, da contrapporre a quelli che rientravano nella generica categoria dei nemici del popolo, poiché non di- sposti a sostenere la linea del Pcj, ad accettare la creazione del nuovo ordine socialista e l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Forma di «integrazione selettiva»67, attuata nel nome dell’internazionali- smo socialista seguendo parametri di ammissibilità direttamente fi ssati dagli stessi poteri popolari, la fratellanza italo-slava mirava a coniare un gruppo nazionale omologato, perfettamente integrato con il nuovo sistema politico e conforme agli orientamenti del regime. I vertici del Pcj che ne elabora- rono i lineamenti, lasciarono la gestione e l’applicazione della fratellanza alla classe dirigente locale, prevalentemente composta da quadri formatisi durante la guerra di liberazione, impreparati sul piano politico e amministra- tivo, intransigenti, diffi denti nei confronti della popolazione italiana (spesso identifi cata con il fascismo) e dunque poco inclini a gestire una politica di mediazione68. Tale atteggiamento suscitò un rifi uto generalizzato del nuovo regime in molte componenti della società italiana, alle quali si aggiunse, dopo la rottu- ra del giugno 1948 tra Stalin e Tito, anche la gran parte dei comunisti istriani schieratisi su posizioni favorevoli al primo e fortemente critiche nei con- fronti del sistema jugoslavo, costretto a rinunciare all’appoggio della mag- gioranza del nucleo comunista della popolazione italiana, constatando così il sostanziale fallimento di una politica dall’andamento sinusoidale che fi n dai suoi albori aveva stentato a decollare rappresentando, sostanzialmente, uno strumento di propaganda. L’insieme degli elementi fi n qui analizzati ci porta a rifl ettere su un pro- blema interpretativo che trae spunto da un interrogativo, già richiamato nelle righe precedenti, volto a comprendere se alla base delle pressioni adottate dalle autorità jugoslave contro la popolazione italiana vi fosse l’effettiva volontà di portare a termine un disegno espulsivo. Provando a fornire delle risposte, possiamo partire da un dato di fondo, ampiamente condiviso dalla storiografi a italiana e slovena69, e cioè l’assenza

66. G. Nemec, Processi di formazione della minoranza italiana, memorie e interpreta- zioni sul tema delle opzioni, in «Časopis za povijest Zapadne Hrvatske», 6-7, (2011-2012), p. 182. 67. R. Pupo, La catastrofe dell’italianità Adriatica, in «Qualestoria», 2 (2016), p. 118. 68. Cfr. R. Pupo, La minaccia slava, in A. Giardina (a cura di), Storia mondiale dell’Ita- lia, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 712. 69. Si veda in proposito quanto affermato dalla Commissione mista storico-culturale ita- lo-slovena che nella relazione fi nale prodotta al termine dei lavori, concordava nell’affermare

120 nella documentazione jugoslava di precise direttive volte a operare in tal senso. Anzi, il corollario propagandistico in affi ancamento alla fratellanza italo-slava e i freni posti alle partenze dopo la convulsa fase iniziale, avva- lorano l’ipotesi che il regime comunista jugoslavo non avesse elaborato un piano preordinato di espulsione, ma aspirasse invece a procedere all’integra- zione della parte giusta della componente italiana. Quella restante, in realtà la maggioranza, non rispondente ai canoni indi- cati, era invece destinata a rimanere fuori dai margini: non essendo possibile una sua omologazione, essa andava dunque epurata e contrastata attraverso misure legislative e mutamenti strutturali di carattere coercitivo, tali da pro- vocarne – al di là delle dichiarazioni formali sui diritti delle minoranze – un impoverimento sul piano economico, politico, culturale e sociale che l’avreb- bero indotta a partire. Sebbene l’esodo non fu dunque programmaticamente e istituzionalmente preparato dai poteri popolari, si può però ipotizzare come, allo stesso tempo, fu proprio l’esercizio del potere jugoslavo manifestatosi attraverso una serie di rilevanti modifi che sul versante economico, sociale, politico, culturale e ideologico a preparare il terreno, creando nella comunità italiana le con- dizioni necessarie a partire. Tale ragionamento consente di evidenziare la stretta connessione esistente tra l’azione dei poteri popolari, l’edifi cazione della società socialista e l’esodo, che va quindi considerato come la tappa fi nale di un processo iniziato subito dopo la guerra e terminato con la costru- zione e il consolidamento dello stato jugoslavo.

4. Esodo

L’esodo degli italiani è già iniziato. […] I profughi lasciano le loro case senza denaro e senza bagagli, e molti di essi non posseggono altro che le vesti indossate al momento della partenza70.

Così il 7 luglio 1946 «L’Italia», quotidiano cattolico milanese, informava come a poche settimane dall’inizio della conferenza parigina, la popolazione italiana avesse iniziato a lasciare l’Istria. Le partenze descritte dall’articolo come mancassero «riscontri certi alle testimonianze – anche autorevoli di parte jugoslava – sull’esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del Governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948». In Commissione mista storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, VI Periodo: 1945-1956, cit. 70. Centomila profughi dalla zona ceduta alla Jugoslavia, «L’Italia. Quotidiano cattolico del mattino», 7 luglio 1946.

121 si inserivano a pieno nelle maglie di un processo in realtà già avviatosi pre- cedentemente e meglio defi nito come esodo giuliano-dalmata, che coinvolse la quasi totalità degli italiani dell’Istria e di Fiume e della Dalmazia (tra l’85 e il 90% dell’intera popolazione). Sebbene non avesse alla base piani preordinati di espulsione e si fosse ar- ticolato con modalità profondamente differenti rispetto all’allontanamento della popolazione tedesca dall’Europa centro-orientale, assumendo propor- zioni numeriche decisamente inferiori, l’esodo si inserì comunque nel solco tracciato dalla «pace brutale»71 caratterizzante il lungo dopoguerra, che ebbe negli spostamenti forzati di popolazione una delle sue dirette conseguenze. Anche nel caso istriano appare evidente come la scelta di partire non fosse esente da costrizioni. Su di essa, infatti, incise profondamente la co- ercizione imposta dall’insieme delle condizioni che accompagnarono e de- fi nirono l’instaurazione del nuovo stato jugoslavo, tali da far assumere alla vicenda i contorni di un’espulsione che, seppure non compiuta sul piano formale, si dimostrò effettivamente tale su quello fattuale. L’esodo, provando a fornirne una defi nizione, non fu un fenomeno ma un processo che, snodatosi a singhiozzo con ritmi e tempi differenti, conobbe implicazioni e percorsi diversifi cati, portando però al medesimo risultato e cioè al crollo numerico del gruppo nazionale italiano in una delle sue aree di insediamento storico sulla quale poteva vantare una presenza secolare72. Si trattò di una vicenda collettiva che segnò in maniera indelebile l’esi- stenza di donne e uomini, costretti, improvvisamente, a perdere pezzi di ter- ra e di mare, luoghi familiari nei quali, per riprendere una suggestione pro- posta da Claudio Magris, «si posa il piede, si nasce e si muore»73. Un punto di rottura che spezzò i legami con il mondo precedente, trascinando con sé i traumi dello sradicamento e dell’esilio, cogliendo così il dolore, le ansie e le paure di quanti, alternando «speranza e disperazione»74, ne furono travolti. Un aspetto molto dibattuto, oggetto di controversie e polemiche, riguar- da le dimensioni delle partenze, spesso indicate con valori numerici fuor- vianti, volutamente sovrastimati con intento propagandistico, oppure frutto di analisi approssimative.

71. M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Gar- zanti, Milano 2000, p. 201. 72. Cfr. G. Nemec, L’esodo dei giuliano dalmati tra storiografi e e memorie, in P. Aude- nino (a cura di), Fuggitivi e rimpatriati. L’Italia dei profughi tra guerra e decolonizzazione, in «Asei», 14 (2018), p. 102. 73. C. Magris, Non luogo a procedere, Garzanti, Milano 2015, p. 139. 74. G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, p. 76.

122 La cifra maggiormente utilizzata sul piano istituzionale e mediatico, al punto da costituire il dato che più di altri nutre il discorso pubblico italia- no è di 350.000 profughi. Una stima errata, priva di riscontri oggettivi che genera equivoci interpretativi e la cui presunta attendibilità affonda soltanto nel campo di deboli supposizioni. A proporla per la prima volta fu, nel 1970, Flaminio Rocchi autore di un volume che, non esente da ambiguità e inesat- tezze piuttosto marcate, rappresenta ancora oggi uno dei principali punti di riferimento dell’associazionismo giuliano-dalmata, incline, nella sua mag- gioranza, a considerare quella proposta come la cifra uffi ciale dell’esodo. Però così non è, poiché il percorso seguito da Rocchi non presenta solidi fondamenti storici e documentari. Il suo punto di partenza furono i risultati di un censimento promosso e realizzato nel 1958, a partenze oramai terminate, dall’Opera nazionale per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Onapgd), organismo sul quale torneremo successivamente. L’ente affi dò il coordinamento della rilevazione ad Amedeo Colella che arrivò a conteggiare non 350.000 profughi, bensì 250.000, frutto della somma tra quelli effettivamente rintracciati e quanti risultarono invece irreperibili. Alla prima categoria appartenevano 201.404 persone, tra le quali però soltanto 150.627 furono realmente censite. A queste dovevano aggiun- gersi i 23.124 per i quali era stato possibile raccogliere notizie limitate, i 23.136 emigrati all’estero e 10.536 che erano parenti, fi gli acquisiti o nati in Italia dopo l’esodo. Secondo Colella la cifra iniziale (201.404) rappresentava però soltanto l’80% degli esuli, ai quali si sarebbe dovuto aggiungere il restante 20% che portava così il numero complessivo a circa 250.000 persone75. Rocchi partì quindi da tale base, aggiungendovi in maniera del tutto ar- bitraria altre 95.000 persone, la cui presenza era certifi cata unicamente dalle sue parole. In tal modo il computo complessivo dei profughi salì a 350.000 presenze76. Le valutazioni più puntuali forniscono invece numeri inferiori, che re- stano comunque considerevoli senza quindi sminuire la portata dell’esodo. Il dato di riferimento, frutto di elaborazioni condotte su fonti demografi che, individua in 302.000 il numero delle partenze dall’Istria. Tra queste gli ita- liani rappresentarono il nucleo principale con 252.000 unità, seguite da una rappresentanza di circa 34.000 sloveni e 12.000 croati, per la gran parte di

75. Cfr. A. Colella (a cura di), L’esodo dalle terre adriatiche: rilevazioni statistiche, Tipografi a Julia, Roma 1958. 76. F. Rocchi, L’esodo dei giuliani fi umani e dalmati, Difesa Adriatica, Roma 1970.

123 origine istriana, alla quale si accodò un’ondata di circa 4.000 individui tra romeni, albanesi e ungheresi77. Il totale di circa 250.000 esuli giuliano-dalmati (peraltro confermato anche dalla Presidenza del Consiglio che nel 1955 parlò di 255.000 pro- fughi78), rappresenta quindi una stima piuttosto plausibile che, seppure di massima, rende la magnitudo del fenomeno. Discostarsi da tale cifra costituisce un errore, al pari dell’utilizzo di nu- meri artifi ciosamente dilatati, che continuano invece a rafforzare, in chiave negativa, un uso pubblico della storia che, senza confrontarsi con la ricerca né tenere conto delle acquisizioni raggiunte sul piano storiografi co, è spesso adottata come mezzo di propaganda e persuasione a scapito di una corretta valutazione del fenomeno. Inserito in un quadro articolato e complesso, l’esodo attraversò tre fasi: la prima ondata si verifi cò a guerra ancora in corso e coinvolse, tra il 1941 e l’inizio degli anni Cinquanta, l’area di Zara, la seconda interessò tra il 1946 e il 1951 i territori istriani passati alla Jugoslavia dopo la fi rma del Trattato di pace di Parigi, mentre le partenze dalla Zona B del Tlt rappresentarono, tra il 1953 e il 1956, l’ultima coda del fenomeno. Sul piano numerico i picchi di maggiore intensità furono raggiunti in concomitanza della fi rma del Trattato di Parigi e del Memorandum di Lon- dra, che oltre a offrire la possibilità di esercitare il diritto di opzione (e cioè scegliere la cittadinanza italiana e trasferirsi in Italia), cementarono nella componente italiana, fi no ad allora rimasta salda e ancorata alla propria ter- ra, la presa di coscienza del carattere defi nitivo dell’amministrazione jugo- slava. Un sentimento interpretato in maniera eloquente da Fulvio Tomizza, che nelle pagine di uno dei suoi romanzi più celebri, La miglior vita, anno- tava come la popolazione italiana avesse compreso «che i nuovi venuti non se ne sarebbero mai andati e che la loro amministrazione non sarebbe stata provvisoria»79. Appare però opportuno sgomberare il campo da ogni interpretazione riduzionista, tendente a equiparare gli esuli allo status di emigranti o più precisamente di optanti, defi nizione prevalente – fatte salve alcune timide

77. O. Mileta Mattiuz, Le quantifi cazioni a compendio dei trattati storici: utilizzo del mezzo demografi co-statistico-comparativo, in E. Miletto (a cura di), Senza più tornare. L’e- sodo istriano, fi umano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Seb 27, Torino 2012, pp. 121-125. 78. La nota, datata 26 luglio 1955, si trova in R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confi ne orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine 1999, p. 197. 79. F. Tomizza, La miglior vita, Mondadori, Milano 1996, p. 200.

124 e recenti eccezioni – nella storiografi a slovena e croata, che mirava così a condurre l’esodo sui binari di una scelta volontaria, direttamente connessa al diritto di opzione offerto dai due trattati80. Un’interpretazione estranea alle reali dinamiche che defi nirono le par- tenze, ridotte a un comune fl usso migratorio intrapreso da chi, non potendo sostenere il peso delle diffi cili condizioni economiche e sociali del dopo- guerra jugoslavo, scelse di trasferirsi in Italia, ammaliato dalle promesse del governo italiano, responsabile di una roboante propaganda in favore dell’e- sodo condotta in funzione antijugoslava e anticomunista. Tale analisi fi niva per omettere, a volte negandolo apertamente, il ruolo cruciale dei poteri popolari, responsabili di provvedimenti coercitivi e pres- sioni fi siche e morali che, protratte nel tempo, determinarono nella compo- nente italiana una situazione di vera e propria invivibilità di fronte alla quale la partenza costituì una sorta di percorso obbligato. Se analizzati a fondo, tali motivi allontanano l’esodo da un fenomeno migratorio attuato su base volontaria, portandolo invece ad assumere i contorni di una separazione for- zata dal forte carattere costrittivo. Le partenze iniziate durante il periodo bellico si verifi carono in misu- ra sporadica e su base autonoma e volontaria. Ne furono protagonisti so- prattutto gruppi di notabili, possidenti, direttori e amministratori di aziende (pubbliche e private), funzionari pubblici e, in particolar modo dopo l’8 set- tembre 1943, quadri politici e militari compromessi con il regime fascista, che riuscirono così a sfuggire agli arresti da parte del movimento partigiano, dando vita al cosiddetto esodo nero. Come già evidenziato, i fl ussi principali si verifi carono a cavallo della fi rma dei due trattati e furono saldamente legati all’esercizio del diritto di opzione, accordato in base alla lingua d’uso del richiedente, che costituiva così un requisito fondamentale al cui accertamento avrebbero dovuto prov- vedere direttamente le autorità jugoslave. Queste ultime, dopo aver deman- dato ai Cpl regionali e distrettuali il compito di verifi care la validità delle domande, ne accolsero inizialmente un numero piuttosto esiguo, limitandosi a concedere l’opzione a coloro la cui origine italiana non sembrava essere posta in discussione81.

80. Per una panoramica generale sull’esodo nella storiografi a slovena e croata, cfr. F. Dota, Dal tabù all’errore. La storiografi a croata sulle foibe e l’esodo istriano, in «Passato e Presente», 85 (2012), pp. 159-176; S. Rutar (a cura di), Il confi ne nordorientale. Temi e pro- spettive nella storiografi a recente, in «Memoria e Ricerca», 45 (2014), pp. 100-125. 81. Cfr. P. Di Laghi, Profughi d’Italia 1943-1945. Il dramma dei giuliano-dalmati dalle foibe ai centri di raccolta. L’accoglienza a Genova e in Liguria, Erga Edizioni, Genova 2019, p. 99.

125 La situazione conobbe un mutamento nel 1948 anno in cui la decisa impennata delle richieste raggiunse livelli tali da preoccupare il governo di Belgrado che, temendo sia la perdita delle competenze necessarie alla ripartenza economica e industriale della regione sia quella di potenziali individui onesti e buoni da coinvolgere nella fratellanza italo-slava, ini- ziò ad attuare pratiche fortemente restrittive nel riconoscimento delle opzioni. Lo fece attraverso una procedura nuova che affidava l’accertamento della lingua d’uso agli organi di polizia, la cui valutazione si fondava sul presupposto che molti cognomi fossero in realtà frutto della politica di italianizzazione forzata del regime fascista e dovessero quindi essere restituiti all’originaria grafia slava. Tale principio, applicato in svariati casi, portò alla mancata concessione del diritto di opzione a una parte di richiedenti poiché considerati slavi a seguito della riscrittura del co- gnome. Contemporaneamente, per scoraggiare l’affl usso di richieste, le autorità di polizia iniziarono a sottoporre gli optanti a misure discriminatorie, col- pendone la quotidianità mediante il ritiro della tessera annonaria, l’impo- sizione a partecipare al lavoro volontario, il licenziamento, lo sfratto e la segmentazione familiare, effetto della decisione di concedere il visto a un membro del nucleo familiare e negandolo invece agli altri. Molti italiani en- trarono così nel «labirinto delle opzioni»82, che li portò a vivere una situazio- ne di precarietà ed emarginazione, pienamente restituita da Marisa Madieri nel suo romanzo Verde acqua. Narrando la sua esperienza di esule, la scrittrice fi umana ricorda come dopo l’opzione la sua famiglia fosse stata costretta a fronteggiare una situa- zione durissima a causa delle pressioni delle autorità jugoslave: «la mia fa- miglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazioni e persecuzioni. Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsio- ne dell’esodo. Il papà perse il posto [di lavoro]»83. La negazione delle opzioni rappresenta anche uno dei temi al centro della corrispondenza intercorsa, nel marzo 1947, tra Alcide De Gasperi e Ric- cardo Zanella, nella quale l’autonomista, presidente dello Stato libero di Fiume fi no al 1922 e poi costretto a lasciare la città a seguito di un attacco

82. G. Nemec, Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965: storia e memoria degli ita- liani rimasti nell’area istro-quarnerina, Centro Ricerche Storiche, Rovigno 2012, p. 119. 83. M. Madieri, Verde acqua e La radura, Einaudi, Torino 1998, p. 42.

126 fascista84, informava il presidente del Consiglio di come le autorità jugosla- ve stessero rallentando la concessione del documento soprattutto agli operai specializzati, «trattenuti a forza», con espedienti amministrativi atti a elude- re, concludeva la lettera, «il diritto all’opzione e al libero esodo stabilito dal Trattato di pace»85. L’ultimo ma non meno importante fattore sul quale rifl ettere è rappre- sentato dalle motivazioni che spinsero a partire. Pur evocando, a un primo sguardo, un fenomeno unitario, l’esodo fu in realtà dovuto a svariate ragioni, intrecciando una molteplicità di elementi differenti nei quali la dimensione della paura, che affondava le sue radici nel ricordo delle violenze subite e nel clima intimidatorio instaurato dalle autorità jugoslave, si fuse con moti- vazioni di natura economica, politica, sociale e familiare. La similarità delle spinte si saldò infatti con elementi soggettivi diffe- renti, rifl ettendo così le variegate dimensioni emotive, la frammentarietà e l’eterogeneità delle dinamiche e delle esperienze che stavano alla base delle partenze, portando l’esodo ad assumere le caratteristiche di un evento mul- ticausale. Appare evidente come la paura esercitò un massiccio potere mobilitante su larghi strati della popolazione italiana, generando un timore diffuso e rafforzando in essa la convinzione che la partenza rappresentasse l’unica soluzione per gettarsi alle spalle i timori generati dall’avvento di un mondo nuovo e sconosciuto. A rafforzare tale percezione contribuì anche lo scorrere della quoti- dianità, considerata come una delle premesse dell’esodo. Una vita segna-

84. Nato a Fiume nel 1875, aderì al Partito autonomo fi umano del quale divenne segre- tario. Sedette tra gli scranni del Consiglio comunale cittadino e nel 1906 fu eletto deputato al Parlamento di Budapest. Al termine della Grande guerra si impegnò per l’annessione di Fiume all’Italia, contrapponendosi all’impresa di D’Annunzio, del quale fu acerrimo avver- sario. Dopo la fi rma del Trattato di Rapallo e la proclamazione dello Stato libero di Fiume, Zanella uscì vincitore dalle elezioni dell’aprile 1921 sconfi ggendo le liste del Blocco nazio- nale. Il governo autonomista fi umano fu osteggiato fi n dai suoi primi passi da una coalizione composta da nazionalisti, ex legionari fi umani e fascisti che nel marzo 1922 occuparono mediante un colpo di mano il palazzo del governatore. Zanella fu costretto con la forza ad abbandonare Fiume. Visse in esilio tra Porto Re, Belgrado e la Francia. Al termine della se- conda guerra mondiale si impegnò per assistere e sostenere i profughi fi umani giunti in Italia. Dopo la fi rma del Trattato di pace di Parigi si ritirò dalla scena politica. Morì a Roma nel 1959. Per un inquadramento sulla sua fi gura, cfr. E. Loria, Alcide De Gasperi e il movimento autonomista fi umano di Riccardo Zanella (1945-47), in «Fiume. Rivista di Studi Fiumani», 6 (2002), pp. 32-50; A. Ballarini, L’antidannunzio a Fiume. Riccardo Zanella, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1995. 85. Lettera inviata da Riccardo Zanella ad Alcide De Gasperi il 20 marzo 1947, in Apcm- Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 1, F. 73, Esodo da Fiume.

127 ta dall’incertezza per l’avvenire riservato ai propri fi gli, destinati a esse- re assorbiti dagli ingranaggi di un sistema che sostituiva le scuole italiane con quelle croate, le gite domenicali con il lavoro volontario offrendo un presente di miseria e povertà, lontano da quello scintillante ed edulcorato proposto da «l’Unità», pronta a descrivere la Jugoslavia di Tito come un paese economicamente fl orido, nel quale lo «standard di vita dei lavoratori, dall’operaio all’insegnante, era migliorato molto» e dove «non esiste[va] disoccupazione»86. Un paese che, si legge ancora sulle pagine del quotidiano comunista, garantiva alla popolazione italiana tutele economiche, politiche, religiose e culturali87. Un quadro nel quale trovavano ampi spazi di rappresentazione anche gli esuli, dipinti come elementi reazionari compromessi con il regime fascista, oppure come individui che, non disposti a partecipare alla co- struzione dello stato socialista, lasciavano l’Istria per dirigersi in Italia, rispondendo così ai richiami delle promesse del governo italiano, che in realtà non varò invece nessuna misura uffi ciale per il trasferimento della popolazione in Italia. A fornire un’immagine appiattita e distorta dell’esodo e degli esuli iniziò Togliatti, che nel febbraio 1947, in un noto articolo intitolato Perché evacua- re Pola?, descriveva gli italiani che si apprestavano a partire (ai quali «nes- suno aveva imposto di sgomberare la città») come esasperati nazionalisti impegnati ad alimentare i contrasti tra la popolazione italiana e quella croata per mantenere acceso a Pola «un focolaio di discordia». Sulla stessa linea si ponevano anche Tommaso Giglio, per il quale gli esuli erano «disoccupati in cerca di fortuna» e, successivamente, Libero Bigiaretti e Mario Montagna- na, rientrati in Italia dopo un viaggio in Istria. Il primo annoverava tra i profughi che avevano lasciato l’Istria, i funzio- nari pubblici («regnicoli»), «i fascisti», ovvero quanti durante la Resistenza «erano stati dall’altra parte» e, dopo la caduta del fascismo e del nazismo, «avevano da temere qualcosa» e, infi ne, i proprietari terrieri, le cui terre era- no state confi scate a seguito della riforma agraria con la conseguente perdita di «privilegi» che non «erano disposti a dimenticare». Non si discostava molto da tali valutazioni anche Montagnana, che inter- rogandosi sulle pagine de «Rinascita», il periodico di approfondimento de «l’Unità», su chi fossero gli esuli istriani, li inseriva nel novero dei collabo-

86. Il volto della nuova Jugoslavia. Un altro paese dove non c’è disoccupazione, «l’U- nità», 20 maggio 1948. 87. Cfr. G.B. Canepa, Le panzane di De Gasperi fanno ridere gli istriani, «l’Unità», 30 marzo 1948.

128 ratori del fascismo e degli speculatori, «impossibilitati nella nuova Jugosla- via a continuare i loro loschi guadagni»88. Alla descrizione dell’esodo si accompagnava, come detto, quella della Jugoslavia, che assumeva le sembianze di un eden socialista, narrato nelle trame di un romanzo nel quale non trovavano spazio né le disastrose con- dizioni economiche e la critica situazione alimentare che defi nivano il do- poguerra jugoslavo né, tanto meno, i riferimenti alle imposizioni attuate dal potere titino che aveva nell’Udba, la polizia politica chiamata a raccogliere il testimone dell’Ozna89, il suo principale vettore. Oltre al rigido sistema normativo imposto dal sistema jugoslavo, sulla scelta dell’esodo infl uirono anche motivazioni di ordine politico, prima tra tutte la contrarietà al nuovo corso rappresentato dalla Jugoslavia di Tito, economico (si pensi, su tutti, ai contadini e ai commercianti che avevano visto depauperato il proprio patrimonio e sensibilmente mutata la loro con- dizione professionale) e sociale, che trovava una corrispondenza diretta nell’introduzione forzata di nuove norme comportamentali capaci di sgreto- lare abitudini e tradizioni consolidate da generazioni. Infi ne, un altro elemento non trascurabile nell’analisi delle ragioni dell’esodo, è costituito dall’affi orare di particolari meccanismi psicologici in grado di far scattare una vera e propria reazione a catena. Una sorta di psicosi collettiva, nella quale ogni partenza sembrava richiamarne un’altra, magistralmente restituita da Fulvio Tomizza che in Materada sottolineava come partire fosse «diventata una moda» in paesi i cui abitanti «non avevano mai visto campanile più lontano di quello di Buje, né strada più larga, né monte più alto»90.

88. P. Togliatti, Perché evacuare Pola?, «l’Unità», 2 febbraio 1947; T. Giglio, Bruceremo Pola, «l’Unità», 12 febbraio 1947; L. Bigiaretti, La cultura italiana in una festa a Rovigno, «l’Unità», 29 aprile 1948; M. Montagnana, Viaggio nell’Istria e a Fiume, “Rinascita”, n. 9, settembre 1947. 89. Nel marzo 1946, nel novero di una riorganizzazione dell’apparato di intelligence e di sicurezza interna, l’Ozna venne sostituita dall’Udba (Uprava državne bezbednosti/sigurno- sti/varnosti, ovvero Direzione per la sicurezza di Stato) chiamata a svolgere, sostanzialmente, gli stessi compiti. 90. F. Tomizza, Materada. Il dramma della frontiera nell’Istria sconvolta dalla guerra, Mondadori, Milano 1960, p. 113.

129 V. Partenze

1. Zara

D’estate per due settimane torno in Dalmazia a girarvi con la barca. Ogni volta mi pren- de anche la tristezza. Certo, i tramonti, il mare, i profumi sono gli stessi: però non c’è più la mia gente. […] Noi siamo esuli permanenti1.

Così, in un passaggio della sua biografi a, lo stilista Ottavio Missoni de- scriveva lo stato d’animo che accompagnava i suoi ritorni estivi in Dalma- zia, più precisamente a Zara, dove si era trasferito da bambino (era nato a Ragusa, oggi Dubrovnik) e dove trascorse la sua adolescenza prima di parti- re per la guerra, partecipare alla battaglia di El Alamein e rientrare a Trieste soltanto nel 1946 dopo la prigionia in un campo alleato in Egitto. A Zara non tornò più, vivendo, come molti altri suoi concittadini, la do- lorosa esperienza dell’esilio. Assegnata dal Trattato di Campoformio all’Impero austro-ungarico, la città dalmata venne annessa all’Italia dopo la fi rma del Trattato di Rapallo e immediatamente elevata a provincia, divenendo così un’enclave italiana in una parte di territorio croato destinato a confl uire nel nascente Regno di Jugoslavia. Lo status di zona franca integrale concesso dal governo italiano, consentì l’installazione e lo sviluppo di cantieri navali, industrie alimentari (pastifi - ci), liquorifi ci (specializzati nella produzione di maraschino) e di una Mani- fattura Tabacchi. Nel 1941, a seguito dell’invasione fascista della Jugoslavia, divenne il capoluogo del Governatorato di Dalmazia, comprendente i centri costieri di Sebenico e Spalato e le numerose isole della costa dalmata.

1. O. Missoni (con P. Scandaletti), Una vita sul fi lo di lana, Rizzoli, Milano 2011, p. 163.

130 Dopo l’8 settembre 1943, Zara fu occupata dai nazisti che, inizialmen- te, pensarono di favorirne l’annessione allo Stato indipendente di Croazia guidato da Pavelić, suscitando la viva preoccupazione della popolazione ita- liana che secondo un censimento del 1939 costituiva oltre il 73% dei com- plessivi 25.300 abitanti2. Le possibili e probabili reazioni della componente italiana all’eventuale inserimento della città nello stato croato, portarono i tedeschi ad abbandona- re il proposito iniziale e a nominare come prefetto Vincenzo Serrentino, già colonnello della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che ricoprì tale carica fi no all’arrivo dei partigiani titini nell’ottobre 1944. Egli fu anche vicepresidente del Tribunale straordinario della Dalmazia, creato nel 1941 da Giuseppe Bastianini, all’epoca governatore della Dalma- zia, per contrastare il movimento partigiano. L’organismo operò soltanto per poche settimane (dall’11 al 29 ottobre), prima di essere sostituito su ordine di Mussolini da un Tribunale speciale. Nonostante la sua breve attività, com- minò ventotto condanne a morte, eseguite con decorso immediato, a seguito di processi arbitrari che non garantivano agli imputati alcun tipo di difesa3. Negli ultimi giorni dell’ottobre 1944, dopo la caduta dei tedeschi e l’in- gresso delle forze partigiane, Serrentino abbandonò la città, riuscendo a rag- giungere Fiume e da qui Trieste, dove venne però arrestato dai titini durante i quaranta giorni di occupazione. Accusato di crimini di guerra fu processa- to, tradotto nelle carceri jugoslave e fucilato a Sebenico nel 19474. A caratterizzare gli avvenimenti del periodo bellico furono soprattutto le durissime incursioni alleate che dal 2 novembre 1943 al 28 ottobre 1944 sca- ricarono ininterrottamente sulla città dalmata una pioggia di bombe (circa 600 tonnellate) provocando la morte di almeno 2.000 abitanti, la distruzione e il danneggiamento della quasi totalità delle abitazioni5. Ciò che restava era

2. R. Pupo, L’esodo degli italiani da Zara, da Fiume e dall’Istria: un quadro fattuale, in M. Cattaruzza, M. Dogo, R Pupo (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni scientifi che italiane, Napoli 2000, p. 189. 3. E. Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), La- terza, Roma-Bari 2013, pp. 83-84. 4. Nonostante il ruolo di giudice del Tribunale straordinario e le molte fucilazioni ordi- nate che gli valsero l’inserimento da parte della Commissione italiana per i crimini di guerra nella lista dei criminali deferiti dall’autorità militare, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano decise di inserire Serrentino tra i destinatari delle medaglie concesse dal governo alle vittime degli infoibamenti, consegnando ai suoi familiari il riconoscimento in occasione del Giorno del Ricordo 2007. La scelta suscitò scalpore e grandi polemiche, che non valsero però il ritiro dell’onorifi cenza. 5. Sui bombardamenti, cfr. O. Talpo, S. Brcic, …Vennero dal cielo, Libero Comune di Zara in esilio, Campobasso 2000.

131 una visione spettrale, che suggerì a Enzo Bettiza l’eloquente defi nizione di «Dresda dell’Adriatico»6. Le partenze iniziarono già nel 1941, proseguendo anche l’anno successi- vo, a seguito dell’ordinanza emessa dalle autorità militari che, preoccupate dalla prossimità del fronte partigiano e da una possibile reazione jugoslava di fronte agli attacchi delle forze dell’Asse, decretarono lo sfollamento della popolazione considerata non indispensabile alla difesa cittadina. Furono però i bombardamenti, piuttosto che la consapevolezza del carat- tere defi nitivo dell’amministrazione jugoslava, a imprimere una spinta deci- siva all’esodo, evidenziando così l’eccezionalità del caso zaratino rispetto a quelli delle altre aree dell’Istria. Rifugiatasi dopo le prime incursioni nelle campagne circostanti, la po- polazione, che il 24 maggio 1944 ricevette da parte del comando tedesco l’ordine di evacuazione della città, iniziò successivamente a riversarsi verso Venezia, Trieste, Pola e le regioni affacciate lungo l’altra sponda dell’A- driatico, in particolar modo la Puglia, dando vita a uno sfollamento senza ritorno trasformatosi in esilio. Molti zaratini partirono a bordo del Sansego, il piroscafo che, dal settembre 1943, garantiva l’unico collegamento civile con Trieste, rientrando a Zara carico di merci e partendo colmo di profughi. Fu colpito nel maggio 1944 dalla marina inglese al largo di Lussimpiccolo rendendo così ancora più diffi coltosi i collegamenti con la città giuliana7. Quanti non riuscirono ad allontanarsi, lo fecero subito dopo l’ingresso dei partigiani titini, nonostante il divieto di lasciare la città da loro imposto. I pochi zaratini rimasti poterono così abbandonarla, non senza diffi coltà, soltanto alcuni anni più tardi e le loro partenze, protrattesi fi no ai primi anni Cinquanta, si aggiunsero così a quelle precedenti. Nel maggio 1945 a Zara risiedevano circa 10.000 persone, 7.000 delle quali croate arrivati dopo l’occupazione dei partigiani titini. Complessiva- mente l’esodo riguardò quindi almeno 10.000 persone, e cioè circa il 70% della popolazione italiana8. La vicenda di Zara propone con sé un interrogativo, mai del tutto chiari- to, relativo alle motivazioni che spinsero l’aviazione alleata a esercitare una pressione di tale portata.

6. E. Bettiza, Gli italiani dell’Est la memoria ritrovata, in «La Stampa», 11 febbraio 2011. 7. Cfr. M. Gioannini, G. Massobrio, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzio- ne aerea 1940-1945, Rizzoli, Milano 2007, pp. 470-472. 8. L. Monzali, A Diffi cult and Silent Return Italian Exiles from and Yugoslav Zadar/Zara after the Second World War, in «Balcanica», 47 (2016), pp. 317-318.

132 Un’interpretazione radicatasi negli ambienti vicini all’associazionismo degli esuli dalmati, ricondurrebbe le ragioni alla volontà jugoslava di colpi- re pesantemente il cuore pulsante dell’italianità per accelerare l’abbandono della popolazione italiana e facilitare l’annessione della città e del territorio circostante alla Jugoslavia. Secondo tale ricostruzione, furono le stesse autorità jugoslave a fornire agli Alleati delle informazioni fi ttizie sulla presunta importanza strategica e militare del capoluogo dalmata, nel tentativo di persuaderli a concentrare i loro sforzi sulla città. Di ciò sembrava essere fermamente convinto anche lo Stato maggiore dell’esercito italiano, che in una relazione del giugno 1945 riconduceva le responsabilità dell’accaduto direttamente a Tito, mosso dallo scopo di cancellare «le orme secolari di italianità», piuttosto che da motiva- zioni belliche vere e proprie. Attraverso l’azione dell’apparato di intelligen- ce jugoslavo, fu lo stesso maresciallo, si legge nel documento, a far intende- re agli angloamericani «che in Zara vi fossero grandi depositi di munizioni e grandi quantità di truppe. Ciò era completamente falso: Zara non era un nodo stradale, non aveva importanza strategica e non era sede del comando tedesco in Dalmazia»9. Data per assodata l’assoluta sproporzione della potenza di fuoco sgan- ciata dagli aerei alleati in relazione all’effettiva rilevanza militare dell’obiet- tivo, la tesi del preciso disegno titino non può però essere suffragata dalla documentazione fi no a oggi emersa: infatti se appare comprovata la richiesta inviata nell’autunno 1943 da Tito agli inglesi di erigere un avamposto mili- tare in Dalmazia, così come era noto l’interesse di Churchill per un’azione militare anfi bia sulla costa dalmata, decisamente meno chiare appaiono le dinamiche che accompagnarono il processo decisionale alleato10. Tra quanti non riuscirono ad abbandonare la città subito dopo l’ingresso dei partigiani titini, avvenuto il 31 ottobre 1944, vi fu anche Mario Gazzari, sottotenente medico di complemento in servizio presso il XI° Reggimento di Bersaglieri di stanza a Zara11. Dopo il suo rientro in Italia, avvenuto nel 1947 a seguito dell’esercizio del diritto di opzione, inviò alla Presidenza del Consiglio un promemoria sulle condizioni della popolazione rimasta in città, circa 4.000 persone (se- condo le sue valutazioni), che per la loro «ferma volontà di restare cittadini

9. Il documento, datato 16 giugno 1945, si trova in M. Patricelli, Il nemico in casa. Storia dell’Italia occupata 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 191. 10. Cfr. G. Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiu- me e Dalmazia, Mondadori, Milano 2005, p. 89. 11. Cfr. Ministero della Guerra, Bollettino Uffi ciale, n. 43, 4 aprile 1931, p. 2887.

133 italiani», erano soggette «a ripetute minacce e intimidazioni, abbandonate a sé stesse e in condizioni economiche disastrose». Nella parte iniziale del documento, il militare ripercorreva anche i perio- di dell’occupazione jugoslava, segnata da una «brutale politica di slavizza- zione» volta a colpire, distruggendoli, i simboli della passata presenza ita- liana e ad adottare «misure vessatorie» verso la popolazione italiana, parte della quale, circa 200 persone, venne arrestata e, successivamente, fucilata o «fatta sparire senza lasciare traccia». I rimanenti furono invece mobilitati nell’esercito jugoslavo e inviati a combattere in prima linea, privi del «ne- cessario addestramento militare»12. Indipendentemente dall’attendibilità delle cifre presentate, tutta da ve- rifi care, l’interesse del documento sta nella sua capacità di calarsi, resti- tuendolo in maniera aderente, nel clima instauratosi subito dopo l’arrivo delle formazioni partigiane titine che considerarono, a tutti gli effetti, la città dalmata come territorio annesso alla Jugoslavia. Dopo aver costituito un Comitato popolare cittadino, presero il pieno possesso di Zara procedendo a mutare la denominazione di strade e piazze, a trasformare le poche abita- zioni risparmiate dai bombardamenti in acquartieramenti per i partigiani e a divellere le scritte italiane e i leoni marciani, emblemi delle secolari vestigia veneziane13. Ai partigiani si unì anche l’Ozna i cui funzionari procedettero, esatta- mente come accaduto nell’autunno 1943 in Istria e nella primavera del 1945 nella Venezia-Giulia, all’individuazione e al fermo degli italiani accusati di connivenze con il regime fascista, al di là delle effettive responsabilità: ca- rabinieri, agenti di pubblica sicurezza, militari dell’esercito, esponenti delle istituzioni e industriali furono così arrestati, tradotti nelle carceri cittadine ed eliminati mediante fucilazioni o annegamenti nelle acque dell’Adriatico. Tra le persone sparite senza lasciare traccia, cui accennava Gazzari, la vi- cenda più nota riguardò Pietro Luxardo, suo fratello Nicolò e Bianca Ron- zoni, moglie di quest’ultimo, scomparsi tra il settembre e il novembre 1944. Pietro e Nicolò erano gli eredi dell’azienda di famiglia, fondata da Giro- lamo Luxardo nel 1821 e divenuta uno dei marchi leader nella produzione di maraschino, al punto da riuscire a concorrere con la Sarti, colosso dell’e- poca.

12. Promemoria inviato da Mario Gazzari il 6 maggio 1947 alla Presidenza del Consi- glio-Uffi cio per le Zone di confi ne, in Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, B.1, F. 64, Esodo degli italiani da Zara e dalle isole dell’Adriatico. 13. D. Saffi , Dalmazia, il triste destino dei leoni alati, «La Voce del Popolo», 13 marzo 2010.

134 Il successo, dovuto anche alle capacità imprenditoriali e commerciali del- la famiglia, subì una brusca battuta d’arresto nel corso della seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti alleati danneggiarono pesantemente lo stabilimento che dovette interrompere la produzione. Se Nicolò e Bianca decisero di abbandonare Zara per sfuggire alle incursioni rifugiandosi nella piccola isola di Selve, a ovest di Pago, Pietro, dopo aver provveduto a orga- nizzare lo sfollamento della moglie e dei fi gli, restò in città nella speranza di far ripartire la fabbrica. Sostenitori dell’italianità di Zara e dunque contrari alla sua annessione alla Jugoslavia, Nicolò e Pietro entrarono nella rete tesa dalla polizia jugo- slava senza riuscire più a uscirne. Il primo, dopo l’occupazione di Selve da parte dei partigiani jugoslavi, venne fermato e condotto insieme alla moglie a Sale, sull’Isola Lunga (Dugi Otok), dove affrontò un minuzioso processo che, iniziato il 10 giugno 1944, si concluse dodici giorni più tardi con l’assoluzione che lo sollevò da ogni responsabilità circa un suo possibile coinvolgimento in azioni contro i rap- presentanti della resistenza comunista durante l’occupazione fascista della Dalmazia. Rientrato a Selve, il 30 settembre fu nuovamente prelevato e condotto con la moglie a bordo di un’imbarcazione diretta a Sale, dove avrebbe do- vuto sostenere un nuovo interrogatorio. Quello fu il loro ultimo viaggio: entrambi scomparvero, probabilmente uccisi a colpi di remi, senza fare più ritorno. I loro corpi furono recuperati due giorni più tardi da don Antonio Strgagic, parroco di Sale. A una simile sorte andò incontro anche Pietro, secondogenito, direttore di produzione della Luxardo e personalità di spicco negli ambienti zaratini, in quanto consigliere della fi liale cittadina della Banca d’Italia, vicepresi- dente della provincia di Zara e membro del Comitato di salute pubblica che dopo la resa tedesca consegnò la città agli jugoslavi. Il 1° novembre 1944 fu arrestato insieme al viceprefetto Giacomo Vuxa- ni, all’arcivescovo Pietro Doimo Munzani e a un gruppo di altri cittadini, che vennero tradotti nella Caserma Vittorio Emanuele. Vi restò fi no a quan- do, due giorni dopo, una pattuglia partigiana lo prelevò, conducendolo a bordo di un’imbarcazione a largo delle acque di Zara dove morì annegato. Terminata la guerra, il 22 novembre 1945, Nicolò, che i familiari crede- vano ancora prigioniero nelle zone interne della Jugoslavia, venne citato in giudizio, in contumacia, dal Tribunale di Zara con l’accusa di sabotaggio contro il popolo e lo stato jugoslavo e condannato a morte. La pena prevede- va anche la confi sca totale dei suoi beni.

135 L’anno dopo, nel marzo 1946, fu invece la pretura di Zara a deliberare anche per Pietro, già condannato a morte dal Tribunale militare, la requisi- zione dei beni, alla quale seguì la nazionalizzazione della compagnia. La storia dell’azienda però non si concluse e continuò in Italia grazie a Giorgio, unico tra i fratelli sopravvissuti, che abbandonò Zara e si trasferì a Torreglia, nel padovano, dove inaugurò, simbolicamente il 10 febbraio 1947, il nuovo stabilimento Luxardo14.

2. Fiume

Avevo tredici anni quando sono dovuto andare via […] Tutti i miei sogni di adolescente svanirono in un lungo esodo iniziato nel settembre 1947, di cui non si poteva conoscere quale sarebbe stata la fi ne. Fui costretto ad abbandonare una vita spensierata fatta di studio, nuoto, gite in barca ed escursioni in montagna15.

Chissà se il tredicenne in questione che nel 1947 lasciava insieme ai suoi fratelli Fiume, avrebbe immaginato che diciassette anni più tardi il suo nome sarebbe entrato per sempre nella storia dell’atletica leggera italiana. Infatti nel 1964, sotto la pioggia ottobrina di Tokyo, dove si svolgeva la diciottesi- ma edizione dei Giochi olimpici, Abdon Pamich, questo il nome del ragaz- zo, avrebbe vinto la medaglia d’oro nella marcia, disciplina di pura fatica, sacrifi cio e sudore, metafora perfetta della sua vita. Prima di lui Fiume aveva già regalato altri grandi campioni allo sport italiano, in particolare al calcio: sul prato dello storico Campo Testaccio a Roma, Rodolfo Volk, cui i tifosi giallorossi assegnarono il soprannome di Sciabbolone, aveva iniziato dal 1933 a segnare gol a ripetizione, rivelandosi tra i migliori cannonieri del periodo. La stessa potenza accompagnava le giocate di Ezio Loik, mediano della Fiumana, passato al e al Venezia prima di vestire la maglia granata di quel Grande Torino scomparso a Super- ga in un tragico incidente aereo il 4 maggio 194916. Nell’esperienza di Pamich si ritrovano i tratti specifi ci di una vicenda che avvolse l’intera città, protagonista del primo grande esodo del dopoguerra,

14. Per le vicende dell’azienda, della famiglia Luxardo e della scomparsa di Nicolò e Pie- tro, cfr. N. Luxardo De Franchi, Dietro gli scogli di Zara, Leg, Gorizia 1993; Id., I Luxardo del Maraschino, Leg, Gorizia 2008. 15. G. Manenti, Abdon Pamich, l’esule campione olimpico legato alle sue origini, in «SportHistoria», 3 ottobre 2019. 16. Cfr. G. Di Giuseppe, Sciabbolone! Vita sportiva del fi uman Rodolfo Volk, campione indimenticato della A.S. Roma, Aracne, Roma 2018; M. Loik, Mio papà Ezio Loik, Araba Fenice, Boves 2019.

136 iniziato nell’estate del 1945, ovvero poche settimane dopo l’arrivo delle for- mazioni partigiane jugoslave, giunte la notte tra il 2 e il 3 maggio. Cosmopolita, caratterizzato da una variegata rete di articolazioni sociali, il capoluogo quarnarino rivestiva un ruolo di assoluta rilevanza sul piano industriale, commerciale ed economico. Qui sorgevano stabilimenti come il Silurifi cio Withehead, i Cantieri na- vali del Quarnaro (ribattezzati dopo il passaggio alla Jugoslavia Cantieri Tre Maggio), le Offi cine meccaniche navali Matteo Skull, la raffi neria di oli mi- nerali R.o.m.s.a., la Manifattura Tabacchi e altre fabbriche alimentari attive nella produzione di cioccolato e nella spremitura di oli. Il porto assicurava collegamenti, scambi e commerci con i maggiori scali europei, mentre una decina di agenzie contribuiva a fare della città un importante centro bancario e creditizio. La componente italiana, maggioritaria, si divideva tra i sostenitori della sovranità italiana (il gruppo più cospicuo), gli autonomisti, che aspiravano alla creazione di uno stato Libero di Fiume autonomo e indipendente e, in- fi ne, la classe operaia, particolarmente numerosa, che in nome dell’interna- zionalismo si schierò in maniera compatta a favore dell’annessione alla Ju- goslavia, salvo poi mutare posizione e intraprendere massicciamente, dopo aver sperimentato l’amministrazione jugoslava e a seguito della rottura tra Tito e Stalin, la via dell’esodo17. Come detto, le formazioni jugoslave entrarono a Fiume all’alba del 3 maggio, trovando una città ferita dai tedeschi che, fuggendo, danneggiarono pesantemente edifi ci, infrastrutture e il porto. Marciarono sotto lo sguardo indifferente di gran parte della popolazione italiana, frastornata e spaventa- ta, nella convinzione che la loro presenza anticipasse il futuro passaggio alla Jugoslavia. Qualche anno più tardi, nel 1952, il quindicinale romano «Patria e Liber- tà» ripercorreva con un articolo fi rmato dal giornalista Vittorio Ragusa l’ar- rivo dei partigiani jugoslavi, rievocando lo stato d’animo della popolazione italiana, costernata nel vedere apparire con le prime luci del mattino gruppi di uomini giunti «alla spicciolata e poi, insieme, come una valanga». Il contributo restituisce lo smarrimento provato di fronte a un esercito irregolare, composto da uomini «terribilmente armati, le barbe lunghe, lo sguardo crudele», che «calati disordinatamente in città», preavvisavano gli abitanti dell’irreversibile futuro che li attendeva.

17. Per un’analisi di lungo periodo sulla popolazione italiana di Fiume, cfr. G. Stelli, Storia di Fiume. Dalle origini ai giorni nostri, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Porde- none 2017.

137 La gran parte della componente italiana, che aveva fortemente sperato nell’arrivo degli anglo-americani, rimase quindi disorientata di fronte a tali presenze, considerate non come dei liberatori ma, al contrario, come occu- panti che avrebbero contribuito a rafforzare la sensazione di «considerarsi prigionieri in casa d’altri», continuando così a subire una guerra che, con- cludeva l’articolo, «sarebbe cominciata adesso»18. Seguendo un copione già adottato in altri centri dell’Istria, le formazioni partigiane, dopo aver preso possesso della città, iniziarono a organizzarne la gestione, affi dando l’amministrazione al neo costituito Comitato popolare cittadino che provvide anche alla defi nizione di un proprio apparato pro- pagandistico. Lo affi dò al quotidiano «La Voce del Popolo» e all’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (Uiif) che, attiva fi n dal 1944 per favorire la partecipazione alla lotta di liberazione e la promozione, dopo la fi ne del confl itto, della fratellanza italo-slava, aveva il compito di fungere da col- lante tra l’apparato direttivo e la cittadinanza. Tanto il quotidiano, quanto l’Uiif, procedettero così all’organizzazione della vita culturale e alla forma- zione dell’opinione pubblica della comunità italiana, svolgendo il ruolo di strumento attraverso il quale avviare, nella stessa comunità, una continua e costante opera di politicizzazione19. All’attività organizzativa si affi ancò quella repressiva che, condotta dall’Ozna, mirava all’epurazione preventiva della società, colpendo in pri- ma istanza, secondo uno schema già collaudato, i cittadini considerati ostili al nuovo regime. Fin dal 4 maggio si registrarono così fermi, arresti e uccisioni: sotto i col- pi della polizia politica jugoslava caddero non solo esponenti di primo piano del passato regime fascista come il senatore Riccardo Gigante o l’ex podestà Carlo Colussi, ma anche quadri del Comitato di liberazione nazionale, diri- genti industriali come Eolo Castello, direttore del Silurifi cio Whitehead, e comuni cittadini20.

18. V. Ragusa, Incubo macchiato di sangue, l’occupazione titina di Fiume, «Patria e Libertà. Libera voce dei liberi combattenti», 9 dicembre 1952. In Archivio Irsrec-Fvg, Fondo Novecento Venezia – Giulia Nuova Serie, B. 3NS, F. 466. 19. Per un’analisi dettagliata delle vicende dell’Uiif, cfr. G. Radossi, Documenti dell’U- nione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (gennaio 1947- maggio 1948), Centro Ricerche Storiche di Rovigno, Rovigno 2010; E. e L. Giuricin, La Comunità Nazionale Italiana. Storia e istituzioni degli Italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia (1944-2006), Centro Ricerche Stori- che di Rovigno, Rovigno 2008. 20. Cfr. A. Ballarini, Profi lo storico, in A. Ballarini, M. Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947), Società di Studi Fiumani, Hrvatski Institut Za Povijest, Ministero per i Beni e le Attività culturali-Direzione generale per gli archivi, Roma 2002, p. 50.

138 Non furono risparmiati nemmeno gli autonomisti che rappresentavano per i poteri popolari una problematica di non semplice risoluzione per almeno tre motivi di fondo: la ferma opposizione al progetto annessionistico, il grande consenso popolare riscosso soprattutto tra i ceti medi della componente italiana e i loro noti trascorsi antifascisti. Quest’ultimo aspetto costituiva paradossalmente la complicazione più grande, poiché l’antifascismo, se non accompagnato dall’adesione al partito, non veniva considerato «un’attenuante, ma un’aggravante»21, che avrebbe potuto conferire loro legittimità politica, sottraendo dunque spazi e margini di azione ai poteri popolari che ne rivendicavano invece l’esclusiva. Come le altre categorie, ma se possibile ancor di più, gli autonomisti an- davano posti in condizioni di non nuocere: a sgomberare il campo ci pensò l’Ozna che assestò un colpo letale al movimento, arrestando ed eliminando fi gure di primo piano quali Mario Blasich, Giuseppe Sincich e Nevio Skull. La mano dei poteri popolari non riservò sconti nemmeno ai comunisti italiani contrari a uniformarsi alle direttive del Pcj che prevedevano l’incor- porazione del movimento comunista italiano nel Partito comunista croato, e ad alcuni esponenti del Cln fi umano eletti all’interno dei comitati sindacali delle aziende cittadine. Con l’accusa di essere speculatori e sabotatori, dun- que nemici del popolo, nell’autunno 1945 furono arrestati e successivamen- te eliminati Matteo Blasich, rinvenuto misteriosamente suicida in una soffi t- ta di una palazzina dell’Ozna e Angelo Adam, rientrato a Fiume nel luglio 1945 dall’internamento a Dachau (dove fu deportato in quanto ebreo dopo il confi no a Ventotene), scomparso insieme alla moglie Ernesta Stefancich e alla fi glia Zulema22. Un clima intimidatorio sempre crescente si saldava con la grave situa- zione economica e sociale lasciata in eredità dalla guerra. La popolazione italiana si trovò così obbligata a convivere in condizioni di vera e propria emergenza in una città praticamente isolata che, al centro delle operazioni militari tra partigiani jugoslavi e tedeschi, aveva visto il pressoché totale azzeramento dell’attività portuale, la sensibile riduzione dei rifornimenti alimentari, la paralisi del sistema industriale e la distruzione, da parte dei tedeschi in fuga, di opere infrastrutturali e arterie di comunicazione. Fiume era dunque in ginocchio. Una situazione di estrema fragilità, sulla quale si innestarono i tratti arbitrari e oppressivi del nuovo corso jugosla-

21. R. Pupo, Fiume città di passione, cit., p. 241. 22. Cfr. A. Ballarini, Profi lo storico, cit., pp. 75, 79; I. Rocchi, Gli autonomisti dimenti- cati, «La Voce del Popolo», 5 maggio 2018; L. Ferrari, Fiume, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., pp. 80-81.

139 vo, tingendo di precarietà e preoccupazione la quotidianità della comunità italiana. Tra il 1945 e il 1947 i poteri popolari indirizzarono i loro sforzi lungo due direttrici: da un lato cercarono di imbastire, senza riuscirvi, la redistri- buzione dei generi alimentari in grado di supportare la popolazione e le truppe presenti in città, dall’altro promulgarono una serie di ordinanze e decreti volti a legittimare, consolidandolo, il proprio potere politico. Ciò permise loro di stabilire nuove norme relative a confi sche, sequestri di beni e licenziamenti, divenuti strumenti di un apparato epurativo che, applicato in nome del sabotaggio economico, colpì trasversalmente la popolazione ita- liana interessando i ceti dirigenti, la classe media e parte della componente operaia23. Oppressione politica, emarginazione e paura si saldarono così con la miseria materiale, i cui rifl essi trovano un preciso riscontro sulle pagine de «Il Secolo Nuovo. Gazzetta di Milano», quotidiano milanese vicino al laburismo italiano e al movimento dell’Unione democratica nazionale, che nel febbraio 1946 pubblicò un reportage da Fiume, soffermandosi anche sulla situazione alimentare della città. Il contributo assumeva toni piuttosto critici nei confronti dell’amministrazione jugoslava, che in quattro mesi aveva trascurato l’alimentazione della popolazione distribuendo appena «quattro chili di piselli per persone e un po’ di olio», favorendo così il delinearsi di una situazione che, concludeva l’articolo, portava alla proli- ferazione del mercato nero cui si rivolgeva una fascia sempre più ampia di cittadini24. Con il progressivo consolidamento dei poteri popolari, la gran parte degli italiani di Fiume vide prospettarsi uno scenario futuro nel quale le condi- zioni di vivibilità presentavano contorni sbiaditi. In essi maturava quindi, in maniera sempre più evidente, una rassegnazione accompagnata da un senso di rifi uto, ostilità e repulsione verso le autorità jugoslave. Lo sconforto av- volse anche la classe operaia, profondamente delusa dalla politica, dall’at- teggiamento e dai metodi delle autorità jugoslave, che persero così l’iniziale consenso di cui godevano all’interno di una porzione signifi cativa, anche sul piano numerico, della componente italiana. Lo comprese anche Zanella che, in una lettera rivolta a De Gasperi, af- fermava come i fi umani avessero abbandonato la città poiché «persuasi e convinti della terribile eloquenza dei fatti irrefutabili, che per loro non vi è

23. Cfr. O. Moscarda Oblak, Il “potere popolare” in Istria 1945-1953, Centro Ricerche Storiche, Rovigno 2016. pp. 112-115. 24. Terrore nella Zona B, «Il Secolo Nuovo. Gazzetta di Milano», 26 febbraio 1946.

140 e non vi sarà più alcuna possibilità, né morale né fi sica, di un’ulteriore per- manenza ed esistenza nella città natale». Si trattava di una constatazione dif- fusa anche nella classe operaia al punto che, annotava, «persino gli operai» apparivano «tormentati dall’ansia di uscire» da una città defi nita come «una bolgia ove oggi […] si distruggono e si annientano barbaramente le nostre plurisecolari istituzioni di libertà e di cultura»25. A rendere il quadro ancora più frastagliato, contribuirono anche gli esiti delle trattative diplomatiche per la defi nizione dei confi ni, durante le quali le grandi potenze non sembravano nutrire particolari dubbi circa l’assegnazione della città alla Jugoslavia, al punto che la Commissione interalleata decise di non includere Fiume tra i centri interessati dal proprio passaggio, esplicitan- done così la sorte, poi uffi cializzata dalla firma del Trattato di Parigi. Tuttavia la popolazione italiana, nella quale si era sedimentato un senti- mento di «disperazione collettiva»26, aveva iniziato il suo esodo molto prima. Alcuni, lo abbiamo detto, partirono subito dopo l’occupazione da parte delle truppe jugoslave. E ciò avvenne nonostante le dure limitazioni imposte dai poteri popolari, propensi a concedere il visto di uscita in cambio dell’im- pegno da parte degli interessati di compilare – come si legge su un comuni- cato apparso sulle pagine de «La Voce del Popolo» il 24 maggio 1945 – «una dichiarazione di beni mobili e immobili, indicando la persona alla quale ne è stata affi data la custodia». A ogni persona – continuava il testo della di- sposizione – era concesso di condurre con sé «i propri indumenti personali fi no a un massimo di 50 chilogrammi, nonché l’importo di lire 20.000 per capofamiglia e ulteriori lire 5.000 per gli altri membri della famiglia che viaggiano con lui»27. Altri se ne andarono ben prima dell’entrata in vigore del Trattato di pace: alla fi ne del 1946 il 30% dei futuri esuli fi umani aveva infatti già abbando- nato la città. Ma l’ondata non era destinata ad arrestarsi: tra il marzo 1946 e il settembre 1947 partirono circa 20.000 persone, alle quali se ne aggiunsero altre 9.300 alla fi ne del 1948. Complessivamente l’esodo coinvolse circa 32.000 individui: la sua portata è ben riassunta dal primo censimento ju- goslavo effettuato nel 1953 dopo la chiusura delle opzioni, quando Fiume contava 75.328 abitanti, tra i quali coloro che si dichiaravano di nazionalità italiana erano soltanto 7.70028.

25. Lettera inviata da Zanella a De Gasperi il 20 marzo 1947. In Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, B.1, F. 73, Esodo da Fiume. 26. R. Pupo, Il lungo esodo, cit., p. 127. 27. «La Voce del Popolo», 26 maggio 1945. 28. Cfr. R. Pupo, Fiume città di passione, cit., pp. 253-254, 270-271.

141 3. Pola

Da quella volta non l’ho rivista più/ Cosa sarà della mia città/ Ho visto il mondo e mi domando se/ Sarei lo stesso se fossi ancora là.

Questa strofa apre 194729, malinconica canzone composta nel 1969 da Sergio Endrigo, con la quale il cantautore polesano esprimeva il dolore del distacco, la nostalgia e il profondo legame con la sua terra d’origine. Un’e- legia di una città perduta, i cui versi ripercorrono i momenti in cui, appena quattordicenne, lasciò Pola nel 1947 con la madre e i fratelli (suo padre morì nel 1939) per approdare, esule, sull’altra sponda dell’Adriatico, prima a Venezia e, successivamente, in Puglia. Endrigo fu uno dei circa 28.000 polesani che tra l’inverno del 1946 e la primavera dell’anno successivo abbandonarono la città istriana, assegnata dall’Accordo di Belgrado a un Governo militare alleato (Gma) che con il suo insediamento pose fi ne ai quarantatre giorni di occupazione jugoslava. Le formazioni dell’esercito di liberazione jugoslavo erano giunte il 1° maggio 1945. Il loro primo passaggio fu la creazione di un Comitato po- polare di liberazione al quale affi dare, seguendo una procedura che abbia- mo visto essere applicata anche negli altri centri istriani, l’amministrazione provvisoria della città. Le testimonianze e l’iconografi a del tempo ci restituiscono Pola imban- dierata a festa dai tricolori jugoslavi, pronta ad accogliere le parate dei par- tigiani titini con scritte murarie e slogan che, in croato, inneggiavano a Tito e alla Jugoslavia socialista. La stessa euforia non avvolgeva invece la gran parte della popolazione italiana che, assolutamente preponderante nel quadro demografi co cittadino, assisteva attonita e carica di incertezze alla sfi lata di un «esercito in zavate [ciabatte]»30. Un momento fi ssato a fuoco nella memoria di molti testimoni che rifl et- tono quanto quegli istanti stridessero con le immagini della liberazione delle altre città italiane, dove donne, bambine e ragazze correvano verso i parti- giani, gli uffi ciali e i soldati Alleati che, sorridenti e sbarbati, attraversavano le strade a bordo delle loro camionette31.

29. S. Endrigo, 1947, Cetra, Roma 1969. 30. N. Milani, A.M. Mori, Bora, cit., p. 72. 31. Sulle testimonianze dell’arrivo dei partigiani titini a Pola, cfr. E. Miletto, Partenze da Pola, in E. Miletto, C. Pischedda, L’esodo istriano, fi umano e dalmata in Piemonte. Per un archivio della memoria, Istoreto, Torino 2013, , visitato il 30 maggio 2020.

142 A Pola, invece, la liberazione assunse tinte decisamente più opache. Per descriverle possiamo volgere lo sguardo alla letteratura, lente d’ingrandi- mento e prezioso punto di riferimento. Si veda, ad esempio, Villa Contessa, racconto di Nelida Milani, dove il padre dell’anonima protagonista esprimeva con toni aspri il sentimento di chi, improvvisamente, si era sentito investito da una realtà ruvida e confl it- tuale, che assumeva le sembianze dell’arrivo dei partigiani jugoslavi. Rivol- gendosi alla fi glia, l’uomo ricordava come essi avessero «in testa un solo pensiero: addomesticarci, domarci subito, costringerci a una lingua diversa e a ragionamenti diversi. […] Vogliono [volevano] farci sentire il morso e la carezza del padrone, piegarci la schiena, insegnarci a dire di sì»32. Parole dietro alle quali si possono scorgere i tratti salienti dell’occupa- zione jugoslava. Un periodo nel quale la jugoslavizzazione degli spazi pub- blici, il mutamento di equilibri e comportamenti, simboleggiata dalle sillabe di una lingua sconosciuta echeggiante per le strade e impressa sui muri delle case e dai passi del kolo, tipico ballo balcanico danzato in ogni angolo, si intrecciavano con i meccanismi repressivi dell’Ozna e dei suoi agenti, pronti a epurare i soggetti considerati elementi di contrasto e di disturbo ai progetti annessionistici e all’instaurazione della società socialista. L’assegnazione provvisoria della città all’amministrazione alleata, fu ac- colta da buona parte dei suoi abitanti come una ventata, seppur momenta- nea, di sollievo e speranza in attesa delle future decisioni delle diplomazie internazionali. Appena insediatosi, il Gma si trovò ad affrontare una realtà piuttosto delicata, dovuta innanzitutto alla diffi cile condizione emotiva e psicologica della popolazione, fortemente provata dall’occupazione jugoslava, che ave- va sollevato dubbi e perplessità anche in alcuni strati della classe operaia. Dopo aver guardato con favore e fi ducia alla Jugoslava di Tito, una parte, seppur ancora minoritaria, degli operai polesani, anticipando quanto avven- ne in maniera più eclatante nei giorni dell’esodo, iniziò infatti a scorgere, come scrive Steno Califfi , «i mille nei» di un sistema che, sostenuto «con comunistica indulgenza», dovette ben presto affrontare lo sguardo di chi si era sentito «tradito nella più pura e docile buona fede»33. Pola portava incisi i segni della guerra, che sebbene l’avesse sostanzial- mente risparmiata nei primi anni, a partire dal gennaio 1944 presentò il suo conto. Salatissimo. Infatti dal 9 gennaio, data della prima incursione, al 3

32. N. Milani, Villa Contessa, in Ead., Lo spiraglio, Besa Nardò 2017, p. 155. 33. S. Califfi , Pola clandestina e l’esodo, (a cura di P. De Simone), Edizioni L’Arena di Pola, Monfalcone 1955, p. 49.

143 marzo 1945, le bombe alleate caddero ventitre volte, provocando circa 270 vittime, la distruzione di numerosi edifi ci e il danneggiamento delle princi- pali industrie cittadine. A essere maggiormente colpite furono l’Arsenale, la Manifattura Tabacchi e il Cantiere Navale di Scoglio Olivi che riportò ingenti danni a macchinari e strutture produttive34. Alle offese degli ordigni si sommarono poi l’asportazione e lo sman- tellamento degli impianti industriali operati dalle truppe titine prima della partenza e lo stallo delle attività commerciali prodotto dall’isolamento vis- suto durante l’occupazione jugoslava, che gettarono la città in condizioni economiche assai critiche. Per il Gma la parola d’ordine era quindi ricostruire. Ricostruzione econo- mica e morale, ma anche civile e amministrativa. In tal senso gli Alleati ten- tarono di aprire un confronto con il Cpl, nel frattempo divenuto un organi- smo politico, che seppur a direzione croata annoverava al suo interno anche parte della componente operaia di lingua italiana, favorevole all’annessione della città alla Jugoslavia. L’organismo rifi utò ogni apertura, facendosi pro- motore di «un’intransigente opposizione»35 che rese diffi cile il rapporto con le istituzioni alleate. Queste ultime, dal canto loro, aprirono un dialogo con il Cln di Pola. Sor- to l’11 agosto 1945 su iniziativa di quattro partiti (Partito d’Azione, Partito socialista, Democrazia cristiana, Partito liberale), l’organismo riuscì grazie all’attività di alcuni suoi esponenti (primo tra tutti il deputato socialista ri- formista Antonio De Berti) a stabilire dei canali di collegamento diretto con la Presidenza del Consiglio, assumendo un ruolo di primo piano nell’invio al governo italiano di materiale informativo sull’evolversi della situazione cittadina36. Qualche giorno prima, il 29 luglio, iniziò le pubblicazioni «L’A- rena di Pola», quotidiano fondato da Guido Miglia, organo del Cln e quindi deciso sostenitore di Pola italiana. Dall’altra parte del campo le forze jugoslave non stavano certo a guar- dare e risposero attraverso le pagine de «Il Nostro Giornale». Pubblicata in lingua italiana, espressione diretta e cinghia di trasmissione dell’Uais, la testata, organo di propaganda e di informazione, sosteneva invece l’annes- sione alla Jugoslavia, garanzia di ripresa economica e giustizia sociale, sca- gliando i propri strali contro i nemici del popolo che a essa si opponevano.

34. R. Marsetič, Le perdite militari e civili a Pola e nel circondariodurante il primo e secondo confl itto mondiale con dopoguerra (1914-1947), in «Quaderni», XXIX (2018), pp. 137-138; Id. La Regia Manifattura Tabacchi a Pola, in «Quaderni», XXVII (2016), p. 110. 35. L. Ferrari, L’esodo da Pola, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., p. 157. 36. Cfr. I. Bolzon, Gli «ottimi italiani», cit., p. 54.

144 Lo scontro tra i due giornali era un indicatore della radicalizzazione che attraversava la città, sempre più divisa, nel biennio compreso tra la fi ne della guerra e l’entrata in vigore del Trattato di pace (15 settembre 1947), da due visioni agli antipodi e tra loro diametralmente opposte, ciascuna delle qua- li mirante a un progetto differente sul piano dell’appartenenza nazionale e statale e dell’organizzazione socio-politica. Una contrapposizione salita di intensità, caratterizzata da accuse reciproche e continui momenti di confl itto che infl uirono sullo stato d’animo della popolazione, scossa da passaggi cru- ciali ed eventi luttuosi come la strage di Vergarolla nell’agosto 1946 o l’o- micidio del generale inglese Robert De Winton, freddato il 10 febbraio 1947 da tre colpi di pistola esplosi da Maria Pasquinelli, insegnante fi orentina con un passato di militante fascista, che esprimeva così la propria contrarietà al passaggio della città alla Jugoslavia37. Il 1946 si aprì con l’arrivo, già analizzato nel capitolo precedente, della Commissione interalleata. Il 22 marzo la delegazione venne accolta da una manifestazione imponente e spontanea cui parteciparono almeno 15.000 persone, che intonando cori italiani e in dialetto polesano percorsero le vie del centro. Una dimostrazione di italianità la defi nì «La Stampa»38, cui prese parte anche la classe operaia, come attestavano le numerose bandiere rosse poste alla testa del corteo, segno inequivocabile di come buona parte di essa avesse oramai orientato la sua scelta a favore di Pola italiana. Valutazioni del tutto differenti arrivarono invece da «Il Nostro Giornale», che condannava duramente la manifestazione, etichettandola come una «parata della borghe- sia» e della «tara fascista locale» che muovevano per la città cantando «inni sciovinisti»39. Un altro rilevante passaggio si snodò tre mesi più tardi, a fi ne giugno, quando tra gli abitanti iniziò a trapelare la notizia dell’accettazione della linea francese. La protesta per l’andamento delle trattative e il totale rifi uto della possibile soluzione jugoslava, sfociarono in un grande sciopero gene- rale proclamato dalla Camera del Lavoro per il 26 e il 27 giugno. La parteci-

37. Maria Pasquinelli nacque a Firenze nel 1913. Nel 1930 ottenne l’abilitazione ma- gistrale e nel 1935 conseguì la laurea in psicologia presso l’Università di Urbino. Iscritta al Partito fascista, nel 1940 si arruolò segretamente nell’esercito per partecipare alla campagna d’Africa. Scoperta, fu rimpatriata in Italia. Dopo alcune docenze elementari, nel 1942 ottenne una cattedra presso le scuole medie di Spalato. Nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre si rifugiò a Trieste, dove entrò in contatto con esponenti della X Mas. Dopo l’assas- sinio di De Winton fu processata e condannata a morte. La sua pena venne successivamente tramutata in ergastolo. Restò in carcere fi no al 1964, anno in cui ottenne la grazia. Rilasciata, si recò a dalla sorella, dove visse fi no al 2013, anno della sua morte. 38. Cfr. L’italianità di Pola, «La Stampa», 23 marzo 1946. 39. Cfr. Manifestazione fascista a Pola, «Il Nostro Giornale», 23 marzo 1946.

145 pazione fu totale: insieme a impiegati, commercianti e artigiani incrociarono le braccia anche gli operai dei principali stabilimenti, dove l’adesione fu altissima (75% alla Manifattura Tabacchi, 60% all’Arsenale, 40% a Scoglio Olivi), dimostrando, ancora una volta, l’orientamento pressoché univoco della popolazione40. Poco dopo, il 3 luglio, arrivò l’uffi cializzazione dell’accordo sulla linea francese siglato a Londra prima dell’apertura della Conferenza di Parigi. Lo stesso giorno il Cln diede vita al Comitato per l’esodo da Pola, il cui primo atto fu, come estremo tentativo di pressione, la raccolta di dichiarazioni di esodo della popolazione «nel deprecato caso», scriveva «L’Arena di Pola», che la città venisse «ingiustamente assegnata alla Jugoslavia». I risultati dell’indagine furono resi noti dallo stesso quotidiano che in- dicava come fossero 28.058 su un totale di 31.700 gli abitanti disposti a prendere la via dell’esilio, evidenziando così il carattere plebiscitario dell’e- sodo in cui, come denotava il prospetto pubblicato a corredo dell’articolo, fu coinvolta l’intera società cittadina41. A squarciare l’aria di un 1946 già alquanto burrascoso, concorse anche un altro evento i cui effetti infl uirono psicologicamente sull’esodo della po- polazione, che aveva comunque già ampiamente manifestato la propria vo- lontà. Il 18 agosto sulla spiaggia di Vergarolla, uno dei pochi tratti di costa cittadina non occupato da installazioni portuali, era in programma la Coppa Scarioni, una manifestazione di canottaggio organizzata dalla società nau- tica Pietas Julia. Famiglie e bagnanti affollavano la spiaggia. Ma quello che nelle intenzioni degli organizzatori doveva essere un giorno di festa per al- lontanare le preoccupazioni dei polesani, si trasformò in tragedia. Alle 14.15 del pomeriggio, infatti, scoppiarono all’improvviso e simulta- neamente una quindicina di mine, residuati bellici, periodicamente control- late dagli artifi cieri del Gma, rimaste sulla spiaggia dalla fi ne del confl itto. Il bilancio fu drammatico: 65 morti e oltre 200 feriti42. L’esplosione fu sicuramente dolosa, ma né le indagini immediatamente avviate dalle autorità alleate, né quelle successive riuscirono a identifi care

40. L. Ferrari, L’esodo da Pola, cit., p. 195. 41. Si trattava, nello specifi co, di 4.831 operai, 5.764 impiegati, 1.333 artigiani, 1.273 commercianti, 454 tra professionisti e artisti e 439 industriali. A loro si aggiungevano anche 13.964 tra anziani, invalidi e disoccupati. In La volontà del popolo di Pola, «L’Arena di Pola», 28 luglio 1946. 42. R. Spazzali, Pola operaia (1856-1947). I Dorigo a Pola. Una storia familiare tra socialismo mazziniano e austro marxismo, Circolo di cultura istro-veneta “Istra”, Trieste 2010, pp. 205-206.

146 gli esecutori e i mandanti di una vera e propria strage che contribuì a gettare la popolazione in uno stato di ulteriore sconforto, sedimentando in essa la convinzione, già latente, di essere vittima di una persecuzione anti-italiana condotta da parte jugoslava43. Il 20 agosto Pola si vestì a lutto per dare l’ultimo saluto alle vittime. Durante i funerali, negozi e uffi ci chiusero i battenti, mentre le industrie bloccarono le macchine. Ad accompagnare le salme nel tragitto che le con- duceva dall’ospedale al cimitero, una folla commossa, descritta da «L’Are- na di Pola» nell’articolo dedicato alla cronaca dell’avvenimento, come un «popolo addolorato, una marea di gente» che aveva voluto raccogliersi per «porgere ai poveri morti l’estremo e commovente saluto»44. Quel che restava dell’estate trascorse nel segno dell’ansia, dell’appren- sione e dell’attesa per i risvolti delle trattative diplomatiche. Il 15 ottobre si chiuse la Conferenza di Parigi, le cui proposte furono riprese a New York in un secondo incontro indetto tra il 4 novembre e il 12 dicembre dal Consiglio dei Ministri degli Esteri (Conseil of Foreign Ministers, Cfm), l’organismo creato dopo la Conferenza di Potsdam e composto dai ministri degli Esteri di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia. Nel corso della nuova sessione il Cfm adottò all’unanimità la linea francese, raggiungendo, il 28 novembre, un accordo sui confi ni del Tlt e dell’Italia, il cui testo fu trasmesso il 16 gennaio all’ambasciata italiana a Washington e da questa al governo italiano. A New York venne stabilito che l’Italia sarebbe stata chiamata a siglare il Trattato di pace il 10 febbraio e che, in seguito alla ratifi ca, prevista per il 15 settembre, le truppe anglo-americane avrebbero abbandonato Pola45. Nel frattempo il Comitato per l’esodo aveva già iniziato a programmare l’evacuazione della città, operando in stretta sinergia con l’Uffi cio per la Ve- nezia-Giulia (Uvg), ente fondato a Venezia nell’agosto del 1946 dal governo italiano e direttamente dipendente dal ministero degli Interni. A dirigerlo fu chiamato il prefetto Mario Micali che iniziò ad approntare il piano di esodo unitamente al trasporto di circa 170.000 metri cubi di mobilio ed effetti per-

43. Per una lettura specifi ca degli avvenimenti di Vergarolla e per le sue ipotesi interpreta- tive, cfr. G. Dato, Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra confl itto mondiale e guerra fredda, Leg, Gorizia 2014. 44. Tutto il popolo di Pola porge commosso il suo estremo saluto alle vittime, «L’Arena di Pola», 21 agosto 1946. 45. Cfr. A. Canavero, Il ruolo di Alcide De Gasperi nel Trattato di pace del 1947, in M. Gattullo (a cura di), Archivi sul confi ne. Cessioni territoriali e trasferimenti documentari a 70 anni dal Trattato di Parigi del 1947, Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Direzione generale degli archivi, Roma 2019, pp. 65-66.

147 sonali e oltre 6.000 tonnellate di materiale vario proveniente da laboratori e attività commerciali46. Il 24 dicembre 1946 il Comitato per l’esodo dichiarava aperto l’esodo convocando quanti avevano richiesto di partire per procedere alla consegna del certifi cato di profugo, documento essenziale per ricevere assistenza in Italia. Al momento della partenza lo stesso Comitato si occupò anche di consegnare al capofamiglia e agli altri componenti del nucleo un sussidio, rispettivamente di 3.000 e 1.000 lire, unitamente a un cartellino bianco se l’interessato poteva già contare su un punto di appoggio in Italia, bianco bar- rato se aveva la necessità di recarsi in una precisa località, colorato se fosse stato invece destinato a un centro di raccolta profughi47. L’esodo poteva dunque iniziare. A partire era una città intera, nelle sue diverse articolazioni sociali, professionali e generazionali. Insieme ai gio- vani e agli anziani c’erano anche i bambini, il cui sguardo racconta l’esodo da una prospettiva particolare, e cioè quella di chi non fu direttamente coin- volto nell’elaborazione del processo decisionale che spinse molte famiglie a partire ma che, al contrario, si vide piombare addosso l’esodo come un macigno. Bambini che partivano o che vedevano allontanarsi gli altri senza comprenderne il motivo, trovandosi così a essere, parafrasando il dialetto gradese di Biagio Marin, «comò pagia al vento» (come paglia al vento)48. Passaggi che trovano riferimenti diretti nelle narrazioni dell’esodo, che fi ssano lo smarrimento, il tempo sospeso e gli spazi lasciati da chi parte ab- bandonando case, quartieri, amicizie e legami. Pola assunse le sembianze di una «città vuota»49, privata per sempre della vitalità, dei rumori, delle voci e dei colori che, prima dell’esodo, l’avevano resa viva. Va in scena l’esodo di tutti, le cui sfumature si ritrovano in un contribu- to di Giuseppe Silvestri, inviato del «Corriere d’Informazione», che in una sua corrispondenza evidenziava la trasversalità di un processo collettivo che colpì ogni categoria e classe sociale. «Partono tutti» – scriveva il giornali- sta veneto – «senza distinzione di ceto e di età […]: commercianti, i me- dici e avvocati, ingegneri e farmacisti, impiegati, sanitari, dirigenti, operai dell’Arsenale e del cementifi cio, le operaie della Manifattura Tabacchi […]

46. R. Spazzali, Tra le due sponde adriatiche: il ruolo dell’Uffi cio Venezia – Giulia nell’esodo da Pola, in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità, cit., p. 518. 47. Ivi, p. 521. 48. B. Marin, Le due rive. Reportages adriatici in prosa e versi, Diabasis, Parma 2007, p. 91. 49. E. Miletto, La città vuota. Pola 1947: il suo esodo, la sua storia, Istoreto, Istituto Luce-Cinecittà, Roma-Torino 2017 (Italia, 52’, regia G. Musso).

148 e anche il clero, compreso il vescovo, che lascerà la città quando l’esodo sarà fi nito»50. Si portava con sé tutto ciò che si riusciva. Ad accompagnare le partenze, un sottofondo di chiodi, martelli e casse imballate, colto anche dallo stesso Micali, che nella relazione informativa sull’esodo predisposta per la Presi- denza del Consiglio nell’aprile 1947, scriveva come «si provava [provasse] una strana impressione in quei tempi: non si assisteva che a un continuo pas- saggio di casse di ogni genere e di imballi […] e non si udiva che un batter di chiodi». Gli stessi che il Comitato per l’esodo aveva distribuito insieme a «250 chilometri di spago, 100 quintali di tela di canapa e juta, 100 metri cubi di legname e oltre 3.000 balle di paglia». Sarebbero serviti per l’im- ballaggio di mobili ed effetti personali, riposti dagli esuli con cura in casse che, concludeva Micali, rappresentavano «il loro mondo che si preparava alla partenza»51. Un’immagine evocante una città plumbea nella quale, come racconta Alessandra Fusco nel suo romanzo Tornerà l’imperatore, sembrava che «un’enorme mano» avesse «staccato la lampadina» per togliere la luce e farla «assomigliare a un cimitero»52. Contrariamente a quanto avvenuto per l’esodo da Fiume e dalle aree del- la Zona B, la presenza anglo-americana consentì ai mezzi di comunicazione di documentare in presa diretta le vicende di Pola che ebbero un grande im- patto, anche mediatico, sull’opinione pubblica nazionale. Pola divenne così la città simbolo dell’esodo, seguito non solo da articoli e corrispondenze, ma anche da fotografi e e fi lmati che fi ssavano negozi con le serrande abbassate, case con le fi nestre chiuse o i vetri rotti e lunghe fi le di profughi diretti a piedi, oppure a bordo di camion, carrozze o semplici carretti verso il porto. Attraverso un gioco di sguardi e primi piani alternato a riprese esterne e interne, furono soprattutto i cinegiornali de «La Settimana Incom»53 a es- sere rivelatori dell’esodo, proprio come le sequenze de La città dolente54, pellicola girata nel 1949 da Mario Bonnard, che intervallando immagini di

50. G. Silvestri, Nessun italiano vuol rimanere a Pola, «Corriere d’Informazione», 28 gennaio 1947. 51. M. Micali, Direttive del presidente del consiglio dei ministri. Relazione sulle ope- razioni di esodo da Pola, 14 aprile 1947. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B.12, Volume I, F. A 1. 52. A. Fusco, Tornerà l’imperatore. Storia di una donna istriana tra guerre e esodo, Affi nità elettive, Ancona 2002, p. 114. 53. Si veda, ad esempio, Per rimanere italiani. L’esodo da Pola (9 febbraio 1947) e L’e- sodo degli italiani da Pola (21 febbraio 1947). 54. M. Bonnard, La città dolente (Italia, 80’ 1949).

149 archivio con nuove riprese, ricostruiva quei giorni restituendone pienamente l’atmosfera. Se qualcuno lasciò la città con mezzi propri, la gran parte dei polesani lo fece a bordo della motonave Toscana, il piroscafo che l’Italia fascista aveva impiegato nella campagna d’Etiopia, nel rifornimento di armi alla Spagna franchista, nel trasporto di coloni verso la Libia e, in ultima fase, come nave ospedale prima della requisizione da parte degli Alleati, che nel 1947 lo restituirono alla marina italiana. Dotata di circa 1.500 posti letto e di locali adibiti a infermeria e sale mediche, la nave, messa a disposizione dal governo italiano, salpò dal Molo carbon alla volta dei porti di Venezia e Ancona. Tra il 3 febbraio e il 20 marzo 1947 compì dieci viaggi, sette nello scalo veneto e tre in quello marchigiano, trasportando complessivamente 11.916 persone, con una media di circa 1.180 passeggeri a viaggio, assicurando loro le necessarie misure di assistenza55. Vi provvedeva, direttamente a bordo, un nucleo sanitario (composto da un medico, un’ostetrica e cinque infermiere della Croce rossa) e uno adibito al vettovagliamento dei passeggeri, affi dato a personale della marina militare rifornito direttamente dalla Pontifi cia com- missione di assistenza (Pca). Dopo lo sbarco i polesani trovarono una prima accoglienza nei campi di sosta dei porti di Venezia e Ancona: strutture attrezzate per offrire ricovero, cure sanitarie e approvvigionamento ai profughi che, censiti e assistiti, ve- nivano successivamente inviati nei centri di raccolta delle località loro asse- gnate. Una macchina organizzativa imponente, messa in moto dal governo italiano attraverso l’Uvg e al cui funzionamento parteciparono attivamente anche la Pca e la Croce rossa italiana (Cri), il cui compito principale era quello di distribuire cibo e fornire assistenza sanitaria. Sul Toscana, in qualità di corrispondente del «Corriere d’Informazio- ne», salì anche Indro Montanelli che in un suo contributo descriveva gli esuli come «poveri diavoli», la cui diffi cile condizione veniva denunciata dalle loro masserizie, costituite da «lunghe fi le di materassi sdruciti, casset- toni traballanti, letti sgangherati, sedie e tavoli zoppi, gabbie con canarini spauriti»56. Altre masserizie furono invece caricate sul Messina e il Montecucco, i piroscafi della marina militare incaricati di trasportarle presso i porti di Venezia, Ancona, Ravenna, Brindisi e Trieste per restituirle poi ai profughi

55. M. Micali, Direttive del presidente del consiglio dei ministri, 14 aprile 1947, cit. 56. I. Montanelli, Eccoli a bordo del Toscana i polesi che fuggono in Italia, «Corriere d’Informazione», 13 febbraio 1947.

150 una volta che questi avessero raggiunto la loro destinazione. Ciò non sempre avvenne, al punto che dagli anni Ottanta, presso il Magazzino 18, deposito di stoccaggio del Porto Vecchio di Trieste, logorate dal tempo e avvolte da colpevoli dimenticanze giacciono oltre 2.000 metri cubi di masserizie di ogni tipo che mai poterono ricongiungersi ai loro proprietari. Nell’aprile 1947 l’esodo poteva dirsi concluso: a Pola restavano circa 800 funzionari pubblici (che sarebbero stati gli ultimi a partire), 1.500 persone che intendevano rimanere e circa 4.000 indecisi. Complessivamente si regi- strarono 28.137 partenze, tra le quali erano compresi anche 3.200 persone ar- rivate in città dalla Zona B57. Numeri che attestavano lo spopolamento di una città che, come scriveva Micali nella sua già citata relazione, «non vive [vive- va] più» e attendeva «trepida il compimento del suo destino»58, i cui contorni, a partire dal 15 settembre, sarebbero stati quelli della Jugoslavia socialista.

4. Monfalcone

Parallelamente all’esodo giuliano-dalmata si assistette, tra il 1946 e il 1948, a un’emigrazione politica i cui principali protagonisti furono circa 3.000 operai che dall’area isontina e monfalconese decisero di varcare il confi ne per trasferirsi nella vicina Jugoslavia. Defi niti genericamente come monfalconesi – dato il maggior peso speci- fi co assunto dai lavoratori provenienti da Monfalcone – la loro provenienza abbracciava in realtà un’area territoriale più ampia, comprendente anche l’intera Regione Giulia e il Basso Friuli. Agli operai dei cantieri navali di Monfalcone, il nucleo più consistente, si unirono anche famiglie contadine del Gradiscano e del Cormonese, insieme a giovani con scarse prospettive di occupazione provenienti dalla Bassa friulana. A questi ultimi si ispirava la vicenda di Basilio, Germano, Nini ed Eligio, i quattro ragazzi ventenni protagonisti de Il sogno di una cosa, romanzo d’e- sordio (ma pubblicato solo nel 1962) di Pier Paolo Pasolini, partiti dall’in- digente campagna friulana alla volta della Jugoslavia, che ai loro occhi ap- pariva come un «mondo nuovo, libero e luminoso», dove per la gioventù «sarebbe cominciata la vita»59.

57. R. Spazzali, «Pola non vive più». L’esodo da Pola del febbraio-marzo 1947 nella relazione dell’Uffi cio per la Venezia-Giulia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in «Qualestoria», 2 (2010), p. 103. 58. M. Micali, Direttive del presidente del consiglio dei ministri, 14 aprile 1947, cit. 59. P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 2000, p. 35.

151 Il mito di Tito e del processo rivoluzionario jugoslavo, cementatosi com- battendo durante la Resistenza al fi anco delle formazioni jugoslave, insie- me all’esperienza maturata subito dopo la fi ne del confl itto che vide l’area monfalconese e isontina inserirsi in via provvisoria in una fascia di territorio controllata dall’amministrazione militare jugoslava, generarono in una quo- ta consistente della popolazione monfalconese nuove aspirazioni. Attraverso un radicale cambiamento delle condizioni politiche e sociali, si sarebbe po- tuto costruire «un mondo nuovo»60, affrescato con le tinte della Jugoslavia socialista. Date tali premesse, la pressoché totalità dei comunisti monfalconesi non nutriva dubbi in merito alla collocazione territoriale della città, che avrebbe dovuto aggregarsi come una repubblica autonoma allo stato fe- derale jugoslavo. Il quadro delle prospettive mutò in seguito alla fi rma dell’accordo di Belgrado, che portò all’abbandono del territorio da parte delle truppe jugoslave. Si trattò del primo atto della lunga vicenda della defi nizione confi naria, conclusasi con la fi rma del Trattato di pace di Parigi che assegnò Mon- falcone all’Italia, sancendo la defi nitiva chiusura della partita politica, e facendo maturare nella gran parte dei comunisti monfalconesi un senti- mento di profonda sfi ducia per la mancata realizzazione di una speranza di rinnovamento. L’Italia, come sottolineava Tommaso Besozzi su «L’Europeo» in un re- portage del giugno 1949 dedicato alla vicenda dei monfalconesi, aveva de- ciso di rimandare la «rivoluzione proletaria» a data da destinarsi, ma quelli che il giornalista vigevanese defi niva i «monfalconesi d’assalto», non sem- bravano intenzionati a «invecchiare nell’attesa». La soluzione, dal loro pun- to di vista, era quindi quella di trasferirsi nel paese di Tito considerato, si legge nel contributo, come «il protettore del popolo, il padre del benessere e della libertà»61. Fu dunque questo il contesto nel quale si inserirono i trasferimenti di al- cune migliaia di lavoratori verso la Jugoslavia, passaggio meglio noto come controesodo dei monfalconesi. Iniziato subito dopo la fi ne della guerra con spostamenti di dimensioni ridotte coinvolgenti piccoli nuclei di individui compromessi per episodi

60. Traggo l’espressione da M. Puppini, Costruire un mondo nuovo. Un secolo di lotte operaie nel cantiere di Monfalcone: storie di uomini, di passioni e di valori, Grafi ca Gori- ziana, Gorizia 2008. 61. T. Besozzi, I monfalconesi d’assalto non hanno resistito a Fiume, «L’Europeo», n. 191, 19 giugno 1949, p. 4.

152 legati al confl itto e alle immediate vicende post-belliche, il fenomeno rag- giungense caratteri di massa nel 1947, vero e proprio anno spartiacque, protraendosi fi no al 1948. Se, infatti, verso la fi ne del 1946, la dirigenza del Pci, spinta dal Par- tito comunista della Venezia – Giulia (Pcvg)62 da poco sorto dalla costola giuliana del partito comunista, aveva aperto alla possibilità di un’emigra- zione verso la Jugoslavia, limitandola però ai soli lavoratori disoccupati e a quelli politicamente meno attivi, nel gennaio dell’anno seguente fu lo stesso Pcvg a impartire ai propri militanti, con particolare riferimento a operai, tecnici e impiegati, una direttiva, proveniente dall’Uais e dai Sindacati Unici63 su pressione del Partito comunista sloveno, con la quale li invitava a recarsi in Jugoslavia per collaborare all’edifi cazione del so- cialismo64. Dopo la comunicazione della disposizione, i comunisti monfalconesi ini- ziarono un massiccio trasferimento verso la Jugoslavia che in breve tempo coinvolse l’intera città. A partire non furono così soltanto operai qualifi cati e tecnici dei Cantieri navali, ma anche lavoratori impiegati in altre fabbriche del territorio e appartenenti ad altri settori professionali, contadini compresi. La portata fu tale da sorprendere gli stessi vertici del partito che non ave- vano probabilmente preventivato un’adesione così ampia. Appariva quindi chiaro come a lasciare Monfalcone non fosse soltanto quel contingente di lavoratori disoccupati non impegnati politicamente ai quali inizialmente i vertici comunisti avevano consentito l’emigrazione, ma come partisse inve-

62. Il Partito comunista della Regione Giulia nacque il 13 agosto 1945 da una costola del Pci. Sebbene autonomo, sul piano formale, da quest’ultimo e dalla Lega dei comunisti di Jugoslavia, di matrice titoista, fu in pratica controllato da essa e svolse una fi tta azione di propaganda a favore dell’annessione della Venezia-Giulia e di Trieste alla Jugoslavia. Si sciolse il 15 settembre 1947 con l’entrata in vigore del Trattato di pace di Parigi e le sezioni del Partito confl uirono nel Partito comunista del Territorio Libero di Trieste (Pctlt) e, nei territori giuliani amministrati dalla Jugoslavia, nel Partito comunista jugoslavo. 63. I Sindacati Unici Operai, Impiegati ed Intellettuali nacquero a Trieste l’8 maggio 1945. La struttura dirigenziale era costituita da membri di Unità operaia, del Partito comuni- sta della Regione Giulia e del Comitato centrale dei sindacati jugoslavi. I programmi dell’or- ganismo si richiamavano a quelli del sindacato jugoslavo. Dopo una serie di riorganizzazioni interne tra il 1947 e il 1949, nel gennaio del 1954 assunsero la denominazione di Confede- razione del lavoro del Territorio Libero di Trieste, affi liata dal novembre dello stesso anno alla Cgil. Nel febbraio 1956 l’Assemblea costituente dell’organizzazione, tenutasi a Trieste, sancì la nascita della Nuova Camera Confederale del Lavoro, che subentrò così ai precedenti Sindacati Unici. 64. Cfr. A. Di Gianantonio, T. Montanari, A. Morena, S. Perini, L’immaginario impri- gionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese, Consorzio Culturale del monfalconese – Irsml, Ronchi dei Legio- nari 2005, p. 160.

153 ce il nucleo più politicizzato e il cuore pulsante della classe operaia monfal- conese, depauperando così l’area dai suoi dirigenti più abili. Ad affi ancare il Pcvg nel reclutamento dei lavoratori e nelle pratiche or- ganizzative legate al loro trasferimento, vi erano anche l’Uais, i Sindacati Unici e la fi lojugoslava Associazione partigiani giuliani che, in diretto con- tatto con i Comitati popolari oltre il confi ne, si occuparono anche di sistema- re i nuovi arrivati sul territorio jugoslavo. La spinta alle partenze fu dettata da dinamiche individuali e collettive che videro intrecciarsi aspetti politici e ideologici, assolutamente preponde- ranti, con quelli legati alla defi nizione dei confi ni e con elementi di natura economica. Primi tra tutti il previsto ridimensionamento delle maestranze nei cantieri monfalconesi, a fronte della necessità di lavoratori qualifi cati in quelli di Pola e di Fiume, città che costituirono, più di altre, la meta fi nale della parabola migratoria dei monfalconesi e nelle quali i nuovi abitanti ar- rivati dalle regioni interne della Jugoslavia dopo l’esodo della popolazione italiana non possedevano le competenze necessarie a sostituire la manodo- pera specializzata appena partita. In proposito occorre però sottolineare come la loro esperienza non possa considerarsi come una semplice operazione di contrapposizione all’esodo. La grande partecipazione con la quale tecnici e operai accolsero la direttiva e il coinvolgimento delle loro famiglie nel percorso migratorio, testimoniava infatti la presenza di una strategia più ampia, tesa cioè a non considerare la partenza verso la Jugoslavia come una sporadica parentesi lavorativa, quan- to piuttosto come una scelta che avrebbe portato alla realizzazione di un progetto di vita e di stabilizzazione sul lungo periodo. Se la maggiore concentrazione si registrò a Fiume e a Pola, gli arrivi non si limitarono tuttavia alla sola fascia costiera dell’Istria ma interessarono anche altre aree della Jugoslavia, dalla Slovenia a Belgrado, passando per Zagabria, Lubiana e la Bosnia, in particolare a Sarajevo, dove si stabilì un nucleo di lavoratori impegnato nelle locali industrie militari. Fiume e Pola rappresentarono i centri più interessati dalla presenza dei monfalconesi, che innanzitutto necessitavano di una sistemazione abitativa. Se ai singoli venne generalmente concesso l’utilizzo delle camere dei grandi alberghi cittadini, alle famiglie furono prevalentemente assegnate delle abi- tazioni – in parte anche quelle abbandonate dagli esuli in partenza verso l’I- talia – individuate in base alle disponibilità e alle esigenze dei diversi nuclei. Per quanto concerne la collocazione lavorativa, a Fiume furono in larga parte inseriti negli organici dei Cantieri navali Tre Maggio e della fabbrica Aleksandar Rankovic (erede del Silurifi cio Whitehead, divenuto nel frat-

154 tempo un’azienda militarizzata). A Pola furono invece i cantieri navali di Scoglio Olivi e il locale Arsenale ad assorbire i lavoratori arrivati dall’Italia. Gli iniziali problemi legati alle carenze organizzative, alle diffi coltà di comunicazione e a contatti piuttosto limitati con la popolazione locale, ven- nero ben presto superati: in breve tempo il gruppo dei monfalconesi fu ac- cettato e si integrò rapidamente nei luoghi di lavoro, nel tessuto sociale e in quello culturale delle nuove città, entrando anche in contatto con la comu- nità degli italiani che avevano deciso di non intraprendere la via dell’esodo. Giunti in Jugoslavia, i monfalconesi si trovarono di fronte a una realtà molto diversa da quella immaginata e descritta dalla propaganda di partito, tesa a tratteggiare i contorni di un paese modello, simbolo della migliore realizzazione, dopo l’Unione Sovietica, della società socialista. Nella dif- fusione di tale rappresentazione, ricoprì un ruolo cruciale la stampa che, unitamente agli altri organi di informazione comunista, assunse un notevole peso specifi co nella costruzione di un’immagine edulcorata del comunismo jugoslavo. Tale raffi gurazione era però destinata a essere scalfi ta fi n dai gior- ni immediatamente successivi all’arrivo. Particolarmente diffi cile appariva la situazione alimentare. Una testimo- nianza in tal senso arriva direttamente da un anonimo lavoratore che, giunto a Fiume, ricordava come: «il mangiare era [fosse] scarsissimo. Davano un pezzo di pane a mezzogiorno e quel pezzo di pane ti doveva bastare per la sera e anche per l’indomani mattina. Abbiamo fatto un mese quella vita lì e io ho detto: ritorno a casa, perché qui si muore di fame!»65. Il faticoso reperimento di generi alimentari costituiva un elemento cen- trale anche nella narrazione di Besozzi, attento a denunciare i «guai» di una dieta costituita da appena 300 grammi di pane al giorno («di pessima mistu- ra e malcotto»), da un chilo di pasta nera e da altrettanta quantità di fagioli per un mese, per nulla risollevata dai venti grammi settimanali di carne e dalle scarse quantità di grassi distribuiti irregolarmente e piuttosto di rado66. Una condizione di estrema precarietà, denunciata anche dai protagonisti del già citato romanzo pasoliniano, che lamentavano un’assenza quasi cronica di cibo. «Belle ragazze, ma troppa fame», aveva infatti sentenziato Eligio, stilando un bilancio delle loro prime settimane fi umane, all’uscita dal Silu- rifi cio, dove lavorava come operaio insieme agli altri tre amici. Da alcuni giorni avevano infatti «ricominciato la lotta contro la fame: due cucchiai di

65. La testimonianza si trova nell’audiodocumentario di Andrea Giuseppini, Il sogno di una cosa. Contadini e operai friulani e monfalconesi nella Jugoslavia di Tito, Amis, Regione Friuli-Venezia-Giulia, Assessorato alla Cultura 2006. 66. T. Besozzi, I monfalconesi d’assalto non hanno resistito a Fiume, cit., p. 4.

155 minestra, un boccone di carne dura e nera e anche il pane era contato». Ri- entrati, affamati, nella loro stanza, fu Basilio a rompere il silenzio: «io torno a casa, qui si patisce troppa fame […] In Italia non si lavorerà, ma almeno di fame non si muore». Gli fece eco Eligio: «si, andiamo via!»67. Anche Nini e Germano appoggiarono l’idea. Dopo un mese e mezzo la loro esperienza in Jugoslavia poteva dirsi terminata. La sera stessa, infatti, salirono sul treno per Gorizia. L’ottimismo e l’entusiasmo dei primi tempi cedettero il passo alla sfi du- cia e alla diffi denza, portando all’elaborazione dei primi segnali di dissenso, dovuti anche alla linea adottata dal Pcj, considerato un’entità astratta, assen- te quasi del tutto dallo spazio pubblico. Un partito che limitava fortemente la partecipazione operaia alla vita sindacale, distaccato dalla società, caratte- rizzato dall’impreparazione dei suoi quadri e dalla predominanza della com- ponente croata, tendente a emarginare quella italiana. Si trattava quindi di un modello diametralmente opposto a quello cui essi avevano sempre guardato e cioè un partito inteso come punto di riferimento, strumento di lotta, guida e fonte di educazione politica. Tutto ciò portò, progressivamente, alla maturazione di un sentimento di isolamento e incertezza che, con il trascorrere dei mesi, fi nì per accomunare la maggioranza degli operai monfalconesi, arrivati allo scontro aperto dopo la rottura tra Tito e Stalin. Fu questo un punto di non ritorno, certifi cato dalla risoluzione emessa il 28 giugno 1948 dal Cominform, l’organismo internazionale dei partiti comunisti attivo dal 1947 al 1956, che lanciò al termine della conferenza tenutasi a Bucarest una durissima condanna contro la Jugoslavia di Tito. Fu Radio Praga ad annunciare la notizia, immediatamente pubblicata sul «Rude Pravo», il quotidiano del Partito comunista cecoslovacco, certifi - cando uno strappo decisivo tra l’Unione Sovietica e uno dei più importanti partiti comunisti, con il quale i rapporti, inizialmente molto solidi, avevano iniziato a sgretolarsi nell’immediato dopoguerra a causa di nodi politici e ideologici, ma anche di contrasti personali intercorsi, con frequenza sempre maggiore, tra il maresciallo jugoslavo e il georgiano d’acciaio. La risoluzione assunse i tratti di un vero e proprio anatema lanciato con- tro il Pcj, accusato dal Cremlino di essersi posto su posizioni scioviniste e fi loimperialiste, nonché di aver condotto una «indegna» politica diffamato- ria nei confronti dell’Unione Sovietica e del suo partito comunista. Mosca si scagliò anche contro il carattere «puramente dispotico e terroristico del

67. P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, cit., p. 54, 59-60.

156 regime di Tito», aspramente criticato per aver abbandonato la strada mae- stra, ovvero la teoria marxista della lotta di classe e, non per ultimo, per il nazionalismo e il revisionismo del suo apparato dirigente, che lo avevano portato a essere una struttura «settaria e burocratica». Assumendo tale condotta, il Pcj si era posto al di fuori della «famiglia dei partiti comunisti fratelli» e la Risoluzione invitava le «forze sane»68 della Ju- goslavia a correggere gli errori dei propri dirigenti, arrivando anche, qualora gli avvenimenti lo avessero reso necessario, alla loro estromissione. Stalin, dal canto suo, non si dimostrò particolarmente preoccupato, arri- vando a pronunciare la celebre frase «muoverò un mignolo e Tito non esi- sterà più»69. In realtà i suoi calcoli non si rivelarono del tutto esatti, poiché il leader jugoslavo non cedette alle pressioni ma, al contrario, divenne un pre- zioso interlocutore per l’Occidente, modifi cando così gli equilibri geopoli- tici sferzata dai venti della guerra fredda. Toccò più tardi a Nikita Chruščëv, successore di Stalin, ricucire lo strappo: recatosi nel 1955 in visita uffi ciale in Jugoslavia, criticò apertamente le passate posizioni sovietiche e affermò, nello stesso tempo, la legittimità jugoslava ad aspirare a una via nazionale al socialismo, non ricalcante, «pedissequamente, l’esperienza sovietica»70. Ad aumentare le frizioni tra Stalin e Tito, contribuirono anche il progetto di trasformare l’Albania in uno stato comunista a sovranità limitata federato alla Jugoslavia e la possibile costituzione di una Federazione balcanica a guida jugoslava, frutto di un progetto che, ideato dal leader bulgaro Georgi Dimitrov, fu subito appoggiato da Tito nell’ottica di un determinante raf- forzamento della sua posizione internazionale. Il disaccordo su questi due punti, al quale si aggiunse anche il sostegno fornito dalla Jugoslavia ai co- munisti greci impegnati nella guerra civile che poneva Stalin in posizione di grande imbarazzo nei confronti di Churchill, con il quale si era impegnato a non interferire nelle questioni riguardanti le sfere di infl uenza britanniche, portarono il leader sovietico a rompere con la Jugoslavia. La mozione dell’Uffi cio Informazioni, approvata anche dal Partito co- munista italiano, colse impreparati i monfalconesi che decisero però, nella quasi totalità, di schierarsi compattamente a favore del documento del Co- minform e di intraprendere un’aspra battaglia contro il Pcj.

68. Risoluzione dell’Uffi cio di Informazione sulla situazione esistente nel Partito comu- nista di Jugoslavia, «l’Unità», 29 giugno 1948. 69. J.L. Gaddis, La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e speranza, Mondadori, Mi- lano 2005, p. 40. 70. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo confl itto per l’Europa, Einaudi, To- rino 2009, p. 110.

157 Nei giorni immediatamente successivi alla risoluzione, si intensifi caro- no a Fiume riunioni e assemblee nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni dei militanti che avevano ricoperto già in Italia ruoli di responsabilità politica nel partito e nel sindacato. L’obiettivo era elaborare una strategia che con- sentisse da un lato di orientare politicamente l’atteggiamento della comunità monfalconese presente in città e, dall’altro, di ricompattarla dopo lo spaesa- mento seguito alla comunicazione dell’Uffi cio informazioni. A fronte di critiche sempre più serrate che avrebbero rischiato di portare la situazione su elevati livelli di tensione, il comitato fi umano del Pcj orga- nizzò una serie di incontri e assemblee pubbliche. La più importante e mag- giormente partecipata ebbe luogo a luglio presso il centrale teatro Partizan. Di fronte a un migliaio di uditori, controllati a vista da una folta schiera di agenti dell’Udba in borghese, i rappresentanti del partito jugoslavo ten- tarono di spiegare le ragioni che avevano portato la Jugoslavia a non con- dividere le tesi del Cominform. Più volte interrotti dal pubblico, gli oratori lasciarono la parola alle personalità più in vista della comunità monfalcone- se che criticarono fermamente il partito jugoslavo sostenendo a più riprese la risoluzione. Al termine dell’incontro i monfalconesi presenti uscirono in corteo dal teatro intonando per le vie cittadine le note dell’Internazionale. Se la manifestazione del Partizan rappresentò il punto più alto sul pia- no della presenza e del riconoscimento nello spazio pubblico, essa coincise anche con il momento di maggiore visibilità per i monfalconesi che ave- vano deciso di esporsi, attaccando apertamente, in prima persona e senza mediazioni, il regime di Tito. Nei giorni successivi furono proprio loro i primi a essere individuati e arrestati dalla polizia jugoslava pronta a iniziare, su ordine dei vertici di Belgrado, una lotta senza quartiere contro le «spie cominformiste»71. Nel complesso gli arresti coinvolsero circa 50 persone72. Dopo una breve permanenza nelle carceri fi umane, alcuni dei fermati furono deportati – è questo il termine utilizzato dalle fonti per indicare il loro trasferimento coatto – insieme alle loro famiglie nel villaggio minerario di Zenica, nella Bosnia meridionale, restandovi fi no al 1949, quando grazie anche all’intercessione del Consolato italiano di Zagabria riuscirono ad av- viare, ottenendole, le pratiche per il rimpatrio in Italia.

71. M. Zuccari, Il PCI e la “scomunica” del ’48. Una questione di principio, in F. Gori, S. Pons (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-1951), Ca- rocci, Roma 1998, p. 184. 72. Il dato si trova nel telespresso (n. 26294) inviato il 18 settembre 1948 dal ministero degli Affari esteri al ministero dell’Interno e all’Uffi cio per le zone di confi ne. In Archivio Storico Diplomatico (d’ora in poi Asd), Serie Affari politici 1946-1950; Jugoslavia, B. 47 (1948), F. 5, Emigrazione clandestina di italiani.

158 Una situazione analoga a quella di Fiume si verifi cò, seppure coinvol- gendo un numero più ristretto di persone, anche a Pola (dove i monfalconesi erano circa 350) e in alcuni centri della Zona B, dove l’Udba procedette a fermi e arresti. Dopo l’arresto, per gli esponenti principali dei monfalconesi si aprirono le porte di Goli Otok, il famigerato gulag creato dal regime titino per la rie- ducazione degli oppositori politici. Uno scoglio di roccia calcarea in mezzo al mare, distante circa diciassette chilometri da Lukovo, l’ultimo avamposto di terraferma, sferzato dal soffi o della bora d’inverno e dello scirocco d’estate. Uno spazio reso praticamente inaccessibile dalla costa frastagliata e dalle forti correnti che si presentava quasi del tutto privo di vegetazione, al punto da essere anche conosciuto come Isola nuda o Isola calva. Un «Alcatraz nell’Adriatico»73, lo ha defi nito David Grossman raccon- tando la vicenda di Vera, fi glia di cominformisti internati sull’isola, op- pure «semplicemente l’inferno»74, per utilizzare un’espressione di Dunja Badnjević che ricostruisce la storia di suo padre Esref detenuto in una delle quattordici baracche del più temuto penitenziario dell’intero sistema carce- rario titino. Le pratiche rieducative erano esercitate dagli stessi detenuti, divenuti quindi aguzzini dei loro compagni. Fu questa la principale caratteristica di un apparato detentivo creato per azzerare e disumanizzare i prigionieri, nel quale deferenza, umiliazioni, terrore e violenza si fondevano con denutrizio- ne, malattie e stenti. A ciò si aggiungeva un durissimo lavoro coatto consistente nell’estrazio- ne di sabbia dal mare, con il corpo immerso in acqua anche d’inverno o nello spaccare pietre, con le mani, trasportandole per le scoscese pendici dell’i- sola sulla civiera, un tavolaccio di legno con le stanghe sporgenti ai quattro lati senza fermarsi per non incorrere in sanzioni disciplinari, che colpivano anche i detenuti rifi utatisi di cedere alle continue richieste di delazioni e denunce, oppure di confessare il ravvedimento delle proprie posizioni poli- tiche, giudicato essenziale per il ritorno in libertà. Era proprio a quanti stentavano di mostrare segnali di ravvedimento che questo «girone dantesco»75 riservava la sorte peggiore, sottoponendoli al co- siddetto bojkot (boicottaggio), e cioè una forma di disprezzo collettivo, che portava il detenuto, al quale erano riservati lavori massacranti ai limiti della

73. D. Grossman, La vita gioca con me, Mondadori, Milano 2019, p. 243. 74. D. Badnjević, L’Isola Nuda, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 7 75. G. M. Villalta, L’Isola senza memoria, Laterza, Roma-Bari 2018, p. 23.

159 sopravvivenza fi sica, a essere alla totale mercé degli altri prigionieri, che non potevano rivolgergli la parola se non per umiliarlo e insultarlo. Goli Otok funzionò come campo di rieducazione politica dal 1949 al 1956, restando comunque inserito, fi no al 1988, nel sistema detentivo ju- goslavo. Vi passarono circa 16.730 detenuti76, alcuni dei quali ripeterono l’esperienza più di una volta. Solo un terzo di essi fu condannato dai tri- bunali, mentre la maggior parte venne reclusa a seguito di provvedimenti amministrativi dopo l’entrata in vigore, nell’agosto 1949, di un decreto che rendeva possibile la condanna degli elementi considerati pericolosi per la sicurezza dello stato con una semplice delibera fi rmata dagli organi di pub- blica sicurezza. Tra i 180 e i 200, sul totale dei 332 etichettati come cominformisti, gli italiani fi niti sull’Isola: 65 provenivano da Pola, 19 da Fiume, 27 da Albona, 4 da Montona, 5 dalle isole del Quarnero e 1 da Abbazia. Con loro anche 24 individui appartenenti al nucleo dei 42 monfalconesi accusati di comin- formismo77. Molto complesso il tentativo di risalire con esattezza al numero delle vittime, per le quali possiamo ragionare su un ordine di grandezza vicino alle 400 unità, tra le quali fi gurano anche 14 italiani78. I militanti più attivi del nucleo operaio monfalconese pagarono quindi a caro prezzo la loro determinazione. La maggioranza, fi n dai momenti imme- diatamente successivi alla pubblicazione della risoluzione, maturò invece la decisione di rientrare in Italia. I rientri avvennero alla spicciolata, con fl ussi rapidi e improvvisi. Sfi du- ciati, delusi, duramente provati sul piano politico e morale, il loro ritorno fu segnato dalla diffi coltà di reperimento di un’occupazione (non pochi furono coloro che emigrarono in Francia, in Svizzera o nei cantieri navali svedesi stante l’impossibilità di essere riassunti in quelli di Monfalcone), dalla per- dita della casa – a volte occupata dagli esuli istriani – e da un clima politico profondamente mutato. Ma essi dovettero recitare anche la parte degli sconfi tti: sia nei confronti degli avversari di sempre, e cioè le forze nazionaliste e della destra reazio- naria pronte a serrare le loro fi la, sia nei confronti dei vecchi compagni di partito che biasimarono la loro scelta accusandoli di averli abbandonati in

76. G. Nemec, Nascita di una minoranza, cit., p. 231. 77. A queste stime è giunto Luciano Giuricin mediante la realizzazione di una quaran- tina di interviste. Cfr. L. Giuricin, La memoria di Goli Otok-Isola Calva, Centro Ricerche Storiche di Rovigno, Unione Italiana di Fiume-Università Popolare di Trieste, Fiume-Trieste 2007. 78. G. Scotti, Il gulag in mezzo al mare, Lint, Trieste 2012, p. 129.

160 un momento di estrema delicatezza. Dopo alcune frizioni iniziali, il clima si fece però più disteso e le divergenze furono appianate, al punto che i militanti rientrati dalla Jugoslavia poterono riprendere contatti con le varie sezioni del Pci, nelle cui fi la furono riammessi e accolti senza particolari problemi.

5. L’esodo dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

[…] ci hanno reso la vita impossibile e per questo abbiamo preferito venire in Italia79.

Così nel dicembre 1953 una donna di Capodistria, da pochi giorni giunta a Trieste, rispondeva alla domanda di un giornalista de «L’Arena di Pola» sulle motivazioni che l’avevano spinta a lasciare la sua città. Nella città giuliana, insieme a lei, erano già arrivati parecchi profughi provenienti dalla Zona B del Tlt. Le loro traiettorie si inserivano nell’ultimo grande fl usso dell’esodo che, iniziato nel 1953 si concluse uffi cialmente nel 1956, pur continuando, con uno stillicidio di partenze, fi no alla prima metà degli anni Sessanta. Dopo una prima fase inseritasi a ridosso delle elezioni jugoslave del 16 aprile 1950, il fenomeno conobbe uno scatto signifi cativo nel 1953, subito dopo la dichiarazione della Nota Bipartita, che nella Zona B del Tlt portò allo scoppio di forti tensioni nei confronti della popolazione italiana, trova- tasi nuovamente al centro di pressioni e violenze volte a sollecitarne l’allon- tanamento dal territorio. Il primo atto eseguito dalle autorità jugoslave fu l’isolamento del territo- rio mediante l’improvvisa chiusura dei valichi di terra e l’attuazione di un rigido blocco marittimo: a essere colpiti in misura maggiore furono i pen- dolari con Trieste e la Zona A e i titolari di attività commerciali, che videro fortemente limitate le opportunità di scambio e di movimento. A ciò seguirono, fi n dalla sera dell’8 ottobre, numerose manifestazioni di protesta organizzate dagli organi locali dei poteri popolari, unite ad azioni intimidatorie che, sospinte da una propaganda nella quale riaffi orava la vec- chia equazione di italiano fascista, continuarono anche nei giorni seguenti senza incontrare l’opposizione delle autorità locali. Queste ultime, sebbene non avessero emanato alcuna misura legislativa di carattere formale, non contrastarono né limitarono gli abusi, provveden-

79. L’esodo continua, «L’Arena di Pola», 21 dicembre 1953.

161 do, al contrario, a consegnare a quanti la richiedessero la documentazione necessaria all’emigrazione. Si trattava di una strategia ben precisa, mirante ad accentuare la stretta verso la popolazione italiana, spingendo gli inte- ressati a richiedere formalmente una carta di emigrazione che, una volta concessa, avrebbe consentito all’amministrazione jugoslava di espellere le- galmente dal paese coloro i quali fossero ritenuti «pericolosi, poco duttili e refrattari alla propaganda»80. Tale meccanismo portò a un’intensifi cazione del ritmo delle partenze che, ridottesi verso la fi ne di ottobre (quando apparve chiara la rinuncia da parte alleata dell’applicazione della Nota Tripartita) ripresero con vigore nei mesi successivi, al punto che secondo una nota di Diego De Castro, rappre- sentante diplomatico del governo italiano presso il Gma81, dall’emanazione della Nota Bipartita (8 ottobre) al 16 dicembre 1953 furono poco più di 2.415 i profughi che avevano abbandonato la Zona B del Tlt82. Gli abbandoni sancivano in maniera inequivocabile la fi ne della capacità di resistenza della componente italiana che, sfi nita da quasi un decennio di amministrazione jugoslava, vide svanire le aspettative di assegnazione dell’area all’Italia. Una convinzione divenuta reale a ridosso della fi rma del Memorandum di Londra, quando apparve chiaro che la spartizione del Tlt avrebbe comportato una sistemazione della Zona B entro i confi ni jugosla- vi. Franò così anche l’ultimo residuo di speranza e la popolazione italiana, spaesata, disillusa e traumatizzata dagli eventi, ruppe gli argini, dando vita a un grande esodo la cui scia si protrasse fi no al 1956, termine utile entro il quale poter usufruire del diritto di opzione concesso dal Memorandum di

80. M. Cuzzi, G. Rumici, R. Spazzali, Istria, Quarnero, Dalmazia. Storia di una regione contesa dal 1796 alla fi ne del XX secolo, Istituto regionale per la cultura istriano-fi umano- dalmata, Libreria Editrice Goriziama, Gorizia 2009, p. 277. 81. Nato a Pisino nel 1907, conseguì la maturità classica a Trieste e la laurea in giurispru- denza a Roma nel 1929. Iniziò subito la sua attività accademica nell’ateneo romano e, suc- cessivamente, in quello di Napoli. Nel 1937 fu docente di statistica all’Università di Torino, dove fondò l’Istituto di statistica che diresse fi no al 1972. Collaboratore de «La Stampa» e de «Il Piccolo», fu autore di numerose e fondamentali opere nel campo statistico. Tra il 1952 e il 1954 rivestì il ruolo di rappresentante del governo italiano presso il Gma di Trieste. Questa sua esperienza convogliò nella fondamentale opera La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954 (Lint, Trieste 1981). Ritiratosi dall’attività accade- mica nel 1982, si spense a Pinerolo (To) nel 2003. Per un’analisi della sua vicenda biografi ca, accademica e politica, cfr. K. Knez, O. Lusa (a cura di), Diego De Castro 1907-2007, Società di studi storici e geografi ci di Pirano, Pirano 2011. 82. Nota informativa (prot.n. 4229), inviata da Diego De Castro al ministero degli Affari esteri, alla Presidenza del Consiglio e all’Uzc il 16 dicembre 1953. In Apcm-Uzc, Sezione II, Trieste, B. 45, F. 16.4, Cartella (C.) T. 279, Trattamento usato nei confronti degli italiani in Jugoslavia e nell’ex Zona B del Tlt.

162 Londra, che, contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, garantì agli esuli la possibilità di portare con sé i propri beni mobili senza limitazioni e misure restrittive. Anche in questo caso emergeva il legame esistente tra partenze, defi ni- zione fi nale dei confi ni e certezza dell’amministrazione jugoslava, eviden- ziando così un tratto di continuità con i processi che precedentemente ave- vano riguardato l’Istria e l’area fi umana. A mutare furono dunque i tempi, più dilatati, ma non le dinamiche, che videro le fughe collettive mescolarsi a quelle individuali. Si veda in tal senso una testimonianza di Michele Pavis- sich, inviato a Trieste del quotidiano cattolico «Il Popolo», organo della De- mocrazia cristiana, che nel novembre 1953 fi rmò una corrispondenza dalla città descrivendo l’arrivo dei profughi dalla Zona B, giunti con ogni mezzo: la maggior parte con il Vettor Pisani, il vaporetto che collegava il porto trie- stino con Capodistria, gli altri «con carretti, a piedi o a bordo di autocarri e automobili»83. Se il clima di ostilità e paura instaurato dalle autorità jugoslave rappre- sentava una delle maggiori spinte, le partenze furono però il frutto di un per- corso decisionale complesso alla cui elaborazione contribuirono elementi di natura economica, politica e sociale. Fonti, documenti e memorie consentono di evidenziare come sui mecca- nismi collettivi e sulle percezioni individuali insistessero tre fattori principali riassumibili nell’assenza di prospettive economiche, nel progressivo proces- so di jugoslavizzazione che investì la regione toccando settori nevralgici e punti di riferimento imprescindibili per la comunità italiana (è il caso, della scuola e delle istituzioni religiose e culturali) e nella mancata applicazio- ne dello Statuto speciale previsto dal Memorandum. Elementi che acuirono nella popolazione italiana un senso di accerchiamento, spingendola così a intraprendere la via dell’esilio. Sul piano economico furono soprattutto le normative di natura buro- cratico-organizzativa introdotte dall’autorità jugoslava (come ad esempio il monopolio sui prodotti agricoli e l’equiparazione dei regimi salariali al resto del paese con una riduzione di circa il 30%84), lo smantellamento delle attrezzature industriali, la fi ne della libertà degli scambi, la disoccupazio- ne, i licenziamenti – che colpirono maggiormente la popolazione italiana favorendo l’assunzione di lavoratori che conoscevano lo sloveno e il croato

83. M. Pavissich, Dalla Zona B a Trieste in cerca di pane e libertà, «Il Popolo», 9 no- vembre 1953. 84. Cfr. C. Colummi, L’ultimo grande esodo, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., p. 477.

163 – unitamente alla crisi di alcuni settori vitali per l’economia del territorio come la pesca e l’artigianato a far precipitare la situazione, contribuen- do a diffondere tra gli italiani della Zona B la percezione di «un’indifesa precarietà»85. Non a caso, anche nella Zona B del Tlt l’esodo coinvolse trasversalmente le differenti stratifi cazioni sociali, dagli impiegati agli operai, dai manovali agli elettricisti fi no ad arrivare a pescatori (soggetti al sequestro e al blocco delle imbarcazioni), commercianti e liberi professionisti. Un’altra categoria professionale ampiamente toccata fu quella dei conta- dini (in larga misura proprietari di aziende agricole), prima di allora coinvol- ta solo limitatamente dal fenomeno: infatti se fi no alla primavera del 1954 le loro partenze avevano assunto un peso specifi co piuttosto marginale, con l’arrivo dell’autunno, il loro contributo all’esodo divenne consistente. A dettare i tempi non fu l’incertezza, quanto piuttosto il ritmo della sta- gione agricola, che portò proprietari terrieri e braccianti a decidere di segui- re fi no all’ultimo le fasi del raccolto, nel tentativo di riuscire a ricavare più utili possibili prima della partenza. Cooperativizzazione, collettivizzazione delle colture, introduzione di normative limitanti le esportazioni private e gli scambi commerciali con Trieste e la Zona A, indebolirono fortemente produttori e agricoltori sul pia- no economico, consentendo loro di trarre profi tti minimi di poco superiori alla soglia di sussistenza. Fu dunque l’insieme di tali condizioni che li spinse alla partenza. Provando a stilare una quantifi cazione numerica dell’esodo dalla Zona B del Tlt, possiamo affermare come esso riguardò complessivamente 41.500 persone, equivalenti a circa i due terzi della popolazione. Tra queste furono circa 17.000 quelle che abbandonarono i territori tra il 1948 e la dichiarazio- ne della Nota Bipartita, mentre le altre partirono tra il 1953 e il 1956. Occorre infi ne sottolineare come a tali cifre vadano aggiunte circa 2.750 unità provenienti dall’area del muggesano passata alla Jugoslavia a seguito della nuova defi nizione dei confi ni sancita dal Memorandum di Londra e altre 3.000 unità costituite da nuclei di popolazione slovena e croata, non disposta ad accettare il passaggio sotto l’amministrazione jugoslava86.

85. R. Spazzali, Le ragioni dell’esodo del 1953. Spunti e interpretazioni, in «La Ricerca. Bollettino del Centro Ricerche Storiche Rovigno», 20 (1997), p. 4. 86. Le cifre proposte sono frutto di un’elaborazione condotta su fonti documentarie con- servate presso l’Archivio di Stato di Trieste (Ast), Commissariato generale del governo, Ga- binetto, B. 31, Classe 8/1, Situazione giornaliera profughi. In particolare di veda: Telespresso n. 666/217 inviato dal Commissariato generale del governo di Trieste alla Presidenza del Consiglio il 2 ottobre 1955; Telespresso n. 1718/588 inviato dal Commissariato generale del

164 A restare furono tra le 5.000 e le 9.000 persone87, evidenziando come quello che le autorità jugoslave defi nirono nel 1954 un fenomeno naturale consistente nel ritorno in patria di persone trasferitesi nella Zona B durante il periodo fascista, avesse in realtà assunto una dimensione collettiva e quasi universale. Se con lo scoccare del 1956 l’ultimo grande esodo poteva dirsi conclu- so, occorre però sottolineare come esso conobbe un’appendice negli anni successivi, caratterizzati da una scia di partenze che coinvolsero soprattutto i giovani, schiacciati più di altri dal peso di un contesto incapace di offrire loro prospettive future. Nonostante i rigidi controlli esercitati dal regime per scongiurare i tentativi di fuga, le partenze continuarono ed ebbero come attori principali quanti potevano contare su conoscenze professionali e com- petenze lavorative di buon livello. Per molti la principale via di fuga era rappresentata dalle acque dell’A- driatico, attraversate a bordo di batane (le tradizionali imbarcazioni istriane) o di barche di altro tipo, non senza pericolo, poiché oltre che dalle correnti e dai venti occorreva guardarsi dalla sorveglianza della polizia e dei suoi informatori, particolarmente abili a infi ltrarsi in circoli e ritrovi giovanili88. La fuga necessitava di una meticolosa pianifi cazione: al primo passo e cioè procurarsi un’imbarcazione, seguiva il reperimento del carburante, ope- razione piuttosto complessa, dati i modesti quantitativi messi a disposizione dei cittadini dalle autorità jugoslave per scongiurare e scoraggiare gli allon- tanamenti. Si viaggiava prevalentemente di notte, spesso senza poter contare sull’ausilio della bussola o di altri strumenti di navigazione, con il rischio concreto, di urtare non solo le mine, scarsamente visibili, che galleggiavano in mare dai tempi della guerra, ma soprattutto di incorrere nelle motovedet- te della marina jugoslava impegnate quasi ininterrottamente a pattugliare i confi ni delle acque territoriali. Furono molti i giovani che affrontarono tale impresa: alcuni con esiti po- sitivi, altri decisamente meno. Caso, quest’ultimo, che trova corrispondenza ne La Traversata, racconto di Nelida Milani, i cui protagonisti, un gruppo di ragazzi, decisero di far rotta verso l’Italia, spinti dal desiderio di lasciarsi governo di Trieste al ministero degli Affari esteri e all’ambasciata italiana di Belgrado, 16 settembre 1955; Telespresso n. 7301/191 inviato dal Commissariato generale del governo di Trieste al ministero degli Affari esteri e all’ambasciata italiana di Belgrado il 6 marzo 1955. Per le stime relative alla popolazione partita dal muggesano e ai fl ussi di sloveni e croati, cfr. G. Nemec, Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano- dalmati attraverso un manicomio di confi ne 1945-1970, Edizioni Alpha Beta Verlag, Trieste 2015, p. 115. 87. V. Lisiani, Good-bye Trieste, cit., pp. 214-215. 88. Cfr. G. Nemec, Nascita di una minoranza, cit., p. 143.

165 alle spalle un presente di diffi coltà per raggiungere un futuro di libertà e be- nessere in un paese nel quale «le salsicce erano appese agli alberi» e i giova- ni indossavano «camicie fi ni e bianche» spostandosi «in moto o in automo- bile». Dopo aver preso contatto con un marinaio dalmata, profumatamente pagato, salparono di notte a bordo di un motoscafo che il mattino successivo avrebbe dovuto sbarcarli su una spiaggia delle Marche. Almeno così crede- vano, perché in realtà la costa era quella dalmata. Il loro contatto li aveva ingannati, certifi cando il fallimento dell’impresa. Ma, si dissero ridendo una volta metabolizzato il colpo, «ci sarà una prossima volta, più fortunata»89.

6. Restare. La popolazione italiana rimasta in Istria

Decapitato dall’esodo, il gruppo nazionale italiano vide pesantemente ridimensionato il proprio ruolo fi no a trasformarsi in un’esigua minoranza. L’esodo rappresentò dunque un elemento di cesura che non solo mutò demografi camente il volto del territorio, ma sradicò un patrimonio linguisti- co, culturale e identitario secolare che faticò a trovare spazi di espressione nella Jugoslavia. La popolazione italiana andò incontro a una decrescita costante, stimata dai censimenti jugoslavi nella misura dell’83%90. La prima rilevazione uf- fi ciale del dopoguerra fu eseguita nel 1948 e prese in considerazione anche l’Istria, Fiume, Zara, e le isole di Cherso, Lussino, Pelosa e Famagosta, tralasciando invece la Zona B del Tlt, dove l’amministrazione jugoslava aveva ancora carattere provvisorio. Secondo i dati emersi, in Jugoslavia ri- siedevano 79.575 italiani. Il numero più consistente, poco meno di 70.000 unità (69.737), si trovava localizzato nell’area istro-quarnerina. Tale cifra evidenziava un calo considerevole rispetto al censimento italiano del 1921, che calcolava, nelle medesime aree, una presenza italiana di 240.000 unità. L’esodo aveva quindi provocato una riduzione di 170.000 persone (71%)91.

89. N. Milani, La Traversata, in Ead. Racconti di guerra, Il Ramo d’Oro Editore – Edit, Trieste – Fiume 2008, p. 157, 164. 90. E. Giuricin, La comunità italiana nei censimenti jugoslavi, croati e sloveni (1945- 2001), in Istituto nazionale di statistica, Società italiana di demografi a storica, I censimenti nell’Italia unita. Le fonti di stati della popolazione tra il XIX e il XXI secolo, in «Annali di Statistica», 2012, Serie XII, vol. 2, Istat, Roma 2012, p. 220. Da sottolineare come sui censi- menti italiani, su quelli jugoslavi e sul loro utilizzo politico si siano sviluppate interpretazioni polemiche e tra loro divergenti. 91. E. Giuricin, I perché dell’opera “La Comunità Nazionale Italiana nei censimenti jugoslavi 1945-1991”, in «La Ricerca. Bollettino del Centro Ricerche Storiche di Rovigno», 29-30 (2000-2001), pp. 6-7.

166 Tra il 30 marzo e il 3 aprile 1953 ebbe luogo il secondo censimento jugoslavo del dopoguerra. Si trattava di una fotografi a che, nonostante la persistente esclusione della Zona B del Tlt, era comunque suffi ciente ad at- testare il calo della componente italiana, scesa a 35.874 persone nell’intera Jugoslavia, di cui circa 28.400 (28.397) registrate nell’area istro-quarnerina, che, con 41.340 unità in meno rispetto al 1948, vide una riduzione ancor più signifi cativa. Associando il dato del 1953 con quello del censimento italiano del 1921, si nota come l’esodo avesse interessato alla data della seconda rilevazione jugoslava circa 211.000 persone, lacerando in maniera consistente il tessu- to demografi co dell’intera regione che, nel frattempo, aveva visto arrivare, nel medesimo periodo, 144.500 nuove presenze dalla Serbia, dalla Bosnia e dalle altre aree interne del paese in seguito alle politiche migratorie avviate dal governo jugoslavo dopo le partenze degli italiani. Si trattava, parafrasando i versi di una celebre canzone di Fabrizio De André, di «genti diverse venute dall’est»92, che andarono a popolare le cam- pagne e i centri urbani: contadini, spesso inesperti e quindi inadeguati a far fruttare una terra particolare come quella istriana, operai ma anche quadri di partito, dirigenti e professionisti che con la loro presenza contribuirono alla metamorfosi di paesi e città come Pola, e Fiume, al centro, più di altre, di un consistente numero di arrivi. A certifi care in tutta la sua interezza il declino sul piano numerico della comunità italiana fu il censimento del 1961, contenente, elemento di novità rispetto ai precedenti, anche i dati relativi alla Zona B del Tlt, passata nel 1954 sotto la sovranità statuale jugoslava. Gli italiani residenti sul territorio nazionale passarono dai 35.874 del 1953 ai 25.614 del 1961. Il dato deve però tenere conto della presenza della componente italiana residente nella ex Zona B del Tlt che mai prima d’ora aveva trovato spazio nelle rilevazioni uffi ciali. Senza tali aree, il decremento avrebbe assunto certamente propor- zioni ancora più considerevoli. Provando a scomporre la rilevazione su scala territoriale, si nota come in Croazia (dove la presenza italiana si attestava su valori maggiori) gli italiani scesero dai 33.316 del 1953 ai 21.102 del 1961, registrando così un decremento del 36%. In Slovenia, per effetto dell’inclusione dei ter- ritori della ex Zona B del Tlt, il numero era invece aumentato, passando dalle 854 unità del 1953 alle 3.072 del 1961. Spostando lo sguardo all’a- rea quarnerina (Fiume, Abbazia) e nelle Isole di Cherso e Lussino i dati

92. F. De André, Il testamento di Tito, in La buona Novella, Produttori Associati, 1970.

167 attestavano una contrazione della presenza italiana pari al 60% rispetto al censimento precedente. In conclusione, se si effettua una comparazione tra i censimenti nell’arco compreso tra il 1948 e il 1961, anno in cui l’esodo era oramai giunto alla sua conclusione, si nota come la componente italiana fosse passata da 79.575 a 25.614 unità, 7.700 delle quali nella sola città di Fiume, il centro che presen- tava la maggior concentrazione93. Negli anni Duemila, dopo il dissolvimento della Jugoslavia e la forma- zione della repubblica slovena e di quella croata, il trend sembrava procede- re lungo la stessa linea del periodo precedente come dimostrano i censimenti del 2001 e del 2011. Nel 2001 gli italiani residenti in Croazia erano 20.521, scesi a 17.800 un decennio più tardi. In Slovenia la comunità italiana nel 2001 ammontava a 2.959 persone, ridottesi a 2.250 l’anno seguente, ultima data alla quale fare riferimento, poiché da quel momento in poi cessarono le rilevazioni demo- grafi che sulla base della nazionalità94. Tali dati evidenziano come a restare fu dunque un esiguo numero di ita- liani, direttamente toccati dai rifl essi dell’esodo destinato ad assumere, an- che per loro, i connotati di un passaggio traumatico e lacerante che sgretolò l’universo precedente, portando i cosiddetti rimasti a vivere sofferenze del tutto simili a quelle degli esuli. Rimanere è spesso intesa come una decisione dettata da ideali, primo tra tutti il sostegno ai poteri popolari e alla loro politica, partecipando in prima persona alla costruzione della Jugoslavia socialista. Certamente la dimensione ideologica incise sulla scelta di restare che, al pari dell’esodo, racchiudeva in sé un variegato ventaglio di opzioni nel quale si legavano dinamiche soggettive, identitarie ed esistenziali che, se ricondotte al solo elemento politico, rischiano di non restituire la comples- sità di fondo, privilegiando invece un’interpretazione lineare, semplicistica e stereotipata. Sulla valutazione incise in maniera determinante una gamma di proble- maticità differenti, come la condizione di scoramento seguita al ripetuto respingimento della domanda di opzione da parte delle autorità jugoslave, il forte attaccamento alla propria terra, il timore di lasciare ciò che si pos- sedeva per andare incontro a un avvenire di incertezze, la paura di trovarsi improvvisamente in una realtà estranea a quella in cui si era nati e vissuti per

93. E. Giuricin, La comunità italiana nei censimenti jugoslavi, croati e sloveni (1945- 2001), cit., pp. 228-230. 94. Ivi, pp. 241-247.

168 anni e, non per ultimi, i vincoli e i condizionamenti dovuti ai legami affettivi e familiari che non si intendevano spezzare. Restare non fu dunque, al pari di partire, una scelta semplice. Chi la fece si trovò a dover convivere con una fase di estrema diffi coltà, segnata da li- mitazioni linguistiche, culturali e dei comportamenti sociali che portarono alla rottura degli equilibri. Norme, abitudini e tradizioni iniziarono così a vacillare, provocando grossi traumi sul piano psicologico, rendendo presso- ché impossibile per la popolazione rimasta non subire lo smarrimento e il disorientamento originati dall’esodo. Il sentimento di spaesamento che avvolse gli esuli, divenne quindi ele- mento comune e ricorrente anche nella condizione dei rimasti, costretti a subire il trauma del nuovo che avanzava, con il quale confrontarsi e imparare a convivere. Città che chi restava riconosceva a fatica, trovandosi proiettato in un cambiamento globale riguardante non soltanto il fattore estetico e ur- banistico (probabilmente la parte meno dura da accettare), ma soprattutto lo spirito dei luoghi. Mutarono infatti i nominativi sui campanelli delle case, occupate da abi- tanti nuovi e sconosciuti, i nomi delle vie e delle piazze, le insegne dei nego- zi, le voci delle persone e la loro parlata che riduceva alla sola sfera familiare l’utilizzo della lingua materna. Trovava dunque compimento un processo di continua trasformazione dell’ambiente, generando così una condizione di straniamento, snaturamento e sdoppiamento che, ricondotta a un’unica ori- gine, sfociava in una vera e propria crisi di identità con la quale rapportarsi fu sempre più diffi cile. Un travaglio durato per lungo tempo, che conobbe un progressivo al- lentamento solo a partire dalla prima metà degli anni Sessanta quando i miglioramenti qualitativi e materiali delle condizioni di vita, unitamente alle aperture politiche e culturali che investirono – seppur parzialmente – la so- cietà jugoslava, consentirono alla comunità italiana di usufruire di nuovi e signifi cativi spazi, anche e soprattutto sul piano culturale. A inaugurare questa nuova stagione fu non solo la concessione di borse di studio e di scambio con l’Italia, ma soprattutto una nuova attenzione per la lingua italiana, certifi cata dalla creazione del Dipartimento di italianistica presso la facoltà di Magistero di Pola, dalla riapertura di asili e scuole italia- ne e dalla creazione di biblioteche circolanti con volumi in italiano. Un fermento che si tradusse da un lato nell’organizzazione, con fre- quenza sempre maggiore, di convegni, rassegne artistiche e musicali da parte del gruppo nazionale italiano e dall’altro nella nascita di riviste let- terarie come «La batana» – sulle cui pagine vennero ospitati i contributi

169 dei migliori scrittori della minoranza italiana rimasta – e di circoli teatrali e artistici. A partire dal 1964 venne inoltre avviata una profi cua collaborazione con l’Università Popolare di Trieste che consentì, in entrambe le direzioni, scambi di docenti, studiosi e conferenzieri, mentre nel 1968 si registrò la fondazione del Centro di ricerche storiche di Rovigno che nel corso degli anni produsse un’ingente mole di saggi, volumi e ricerche dedicati alla sto- ria della regione95. Passaggi che testimoniarono come la comunità italiana avesse progressi- vamente raggiunto un proprio livello di autonomia, uscendo dall’isolamento culturale e diventando un soggetto di primo piano all’interno dell’intera so- cietà istriana.

95. Cfr. S. Lusa, Il gruppo nazionale italiano di Slovenia e Croazia, in N. Re (a cura di), La frontiera orientale. Confl itti, relazioni, memorie, Il lavoro editoriale, Ancona 2007, pp.137-138; G. Nemec, Nascita di una minoranza, cit., pp. 417-418.

170 V I. Arrivi

1. La distribuzione dei profughi

Italians staggered through these diffi culties a day to day basis and the country recovering from two paralyzing decades of fascism and civil war.

Così nel 1953 un rapporto della Cia, stilato per ricostruire i passaggi principali dello sforzo sostenuto sul piano dell’assistenza economica e so- ciale dagli Stati Uniti in Italia e analizzarne, nel contempo, l’impatto psico- logico sulla popolazione, descriveva la situazione italiana tra la fi ne della guerra e il 1946. Emergeva un quadro nel quale la popolazione «barcollava attraverso dif- fi coltà giornaliere», mentre la nazione doveva recuperare due decenni di pa- ralisi dovuti al fascismo e alla guerra civile1. Era il ritratto di un paese «piegato e piagato»2, che aveva visto l’euforia per la pace e la fi ne del confl itto, lasciare ben presto spazio al grigiore del vivere quotidiano, segnato da miseria, fame e disoccupazione. Le macerie, presenza costante nella quotidianità di milioni di italiani, continuavano a modellare il paesaggio urbano di molte città, rappresen- tando uno dei segni tangibili della guerra appena trascorsa. Naturalmente non il solo, dal momento che le devastazioni belliche provocarono ingenti danni all’intero patrimonio nazionale. Solo una minima parte delle infra- strutture, della rete stradale e ferroviaria e delle altre principali arterie di

1. General Cia Records, An Evalutation of Psychological Effect of U.S. Effort in Italy, 6 gennaio 1953, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): CIA-RDP80R01731R003300190049-7, , visitato il 13 giugno 2020. 2. G. Crainz, Autobiografi a di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 47.

171 comunicazione era uscita indenne dai bombardamenti, rendendo diffi colto- si spostamenti e collegamenti. Circa due milioni le abitazioni distrutte, un milione quelle sinistrate, mentre fabbriche e stabilimenti, sebbene avessero riportato danni minori, erano ancora lontani da una piena ripresa dell’appa- rato produttivo, prevalentemente concentrato nel triangolo Genova, Torino, Milano3. Crollarono la produzione industriale e quella agricola, principale settore economico del paese, e il tasso di disoccupazione raggiunse livelli molto elevati, attestandosi, tra il 1946 e il 1947, su valori compresi tra il milione e mezzo e i due milioni di senza lavoro4. A ciò si aggiungevano una forte infl azione, tale da ridurre il potere d’acquisto di salari molto bassi rispetto al costo della vita, e diffi coltà di approvvigionamento alimentare che vedevano la maggioranza della po- polazione intraprendere una battaglia giornaliera per non essere schiac- ciata dai morsi della fame. E di fame ce n’era parecchia, se è vero che tessere annonarie e razionamento, tra i più bassi in Europa (appena 1.650 calorie giornaliere per ogni cittadino)5, scandivano i pasti di milioni di italiani. Un quadro dalle tinte fosche, completato da fl ussi di sinistrati, sfollati, Displaced Persons e profughi, categoria, quest’ultima, che aveva nei giulia- no-dalmati il nucleo numericamente più rappresentativo sul totale di quelli presenti nel paese. La diaspora istriana diede vita a un’ondata di vastissime proporzioni che non interessò soltanto regioni vicine come il Veneto o il Friuli, ma coinvolse l’intero territorio nazionale, sul quale gli esuli si distribuirono a macchia di leopardo. Lo dimostra una lettera inviata nel maggio 1958 dalla segreteria dell’Opera nazionale per l’assistenza ai profughi giuliano e dalmati, ente sul quale torneremo a breve, alle sue sezioni provinciali, contenente i dati di una rilevazione statistica sulla distribuzione dei giuliano-dalmati: l’82% si trova- va nell’Italia settentrionale, il 10% in quella centrale e l’8% nel meridione, in Sicilia e in Sardegna6.

3. M. Avagliano, M. Palmieri, Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e illusioni (1945- 1947), il Mulino, Bologna 2019, p. 29. 4. M. Alberti, Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, Ro- ma-Bari 2016, p. 136. 5. A. Lepre, Storia degli italiani del Novecento. Chi siamo e da dove veniamo, Monda- dori, Milano 2003, p. 192-193. 6. Lettera (protocollo numero 3495) inviata l’8 maggio 1958 dalla Segreteria nazionale dell’Onapgd alle varie sezioni provinciali. Cfr. E. Miletto, Istria allo specchio. Storia e voci di una terra di confi ne, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 195.

172 Se l’Italia rappresentò la meta fi nale della gran parte degli esuli, occorre però sottolineare come una quota di essi, numericamente meno rilevante, costituì un serbatoio per l’emigrazione transoceanica verso l’Australia e il continente americano, le cui dinamiche troveranno il giusto spazio di appro- fondimento nelle pagine seguenti. Ma torniamo all’Italia dove, come si è detto, giunse il maggior numero di giuliano-dalmati. Gli arrivi non lasciarono insensibile il governo italiano, che dal 1946 iniziò a prendere consapevolezza della specifi cità dell’esodo. Inizialmente contrarie alle partenze, le autorità governative non eserci- tarono nessuna spinta per favorirle, né elaborarono misure uffi ciali per il trasferimento della popolazione italiana, preferendo, al contrario, incorag- giarne la permanenza per non indebolire la posizione delle proprie rivendi- cazioni in sede di trattative diplomatiche. Ma di fronte alla grande determinazione degli italiani a partire, al go- verno di Roma non restò che prendere atto della situazione e predisporre la complessa macchina dell’accoglienza e dell’assistenza, nel tentativo di provvedere al soccorso dei profughi e al loro inserimento nel tessuto pro- duttivo nazionale. Il primo passaggio fu procedere all’individuazione di sistemazioni dove poter alloggiare i nuovi arrivati. Un’operazione di non semplice attuazione, le cui diffi coltà sono ben delineate da un promemoria fi rmato nel gennaio 1947 da Emilio Sereni, titolare del ministero dell’Assistenza post-bellica (Apb), l’ente che da lì a qualche settimana (febbraio) sarebbe stato dismesso e scorporato per confl uire in parte nella Direzione generale dell’Assistenza post-bellica, creata in seno al ministero degli Interni, e in parte nel ministero della Difesa e nella Presidenza del Consiglio. Il ministro sottolineava come per «non trovarsi impreparato dinnanzi al previsto esodo dei giuliani», il suo ministero avesse provveduto ad appron- tare alcuni edifi ci per accogliere i profughi provenienti dalla Venezia-Giulia. Contemporaneamente lo stesso Sereni trasmise alla Presidenza del Consi- glio e al ministero della Guerra svariate richieste affi nché mettessero a dipo- sizione dell’Apb altri complessi da adibire a centri di raccolta profughi. Ma, affermava il ministro e senatore comunista, le due istituzioni dimostrarono «ben scarsa comprensione». Infatti se il ministero della Guerra (soppresso pochi giorni più tardi, il 14 febbraio 1947, per confl uire nel neo costituito ministero della Difesa) non concesse nessuna struttura, chiedendo invece la restituzione di alcune caser- me, anche la Presidenza del Consiglio tenne una linea simile, disponendo lo sgombero di edifi ci scolastici che Sereni avrebbe invece voluto adibire a

173 ricovero per i profughi, la cui affl uenza, scriveva, non accennava a diminu- ire, ponendo dunque il ministero in «gravissima diffi coltà» nell’assolvere il proprio compito di assistenza7. In realtà le sue richieste non furono completamente disattese e portarono alla creazione di una prima rete di centri di raccolta, a supporto delle strut- ture esistenti nei porti di Venezia e Ancona, a Cervignano e, soprattutto, a Udine, il cui compito sarebbe stato quello di accogliere temporaneamente i profughi, censirli, fornire la documentazione necessaria all’assistenza e provvedere al loro smistamento nei centri che avevano disponibilità di posti. Il 13 gennaio 1947, infatti, il ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, informò il suo collega dell’immediata disponibilità a cedere per il ricovero dei profughi giuliano-dalmati delle caserme a Milano, Cremona, Mantova, Roma e Monopoli, per un totale di circa 4.500 posti letto, e di aver contem- poraneamente dato mandato a una commissione di «studiare d’urgenza» la questione relativa alla sistemazione dei giuliano-dalmati in modo tale da individuare, in breve tempo, una soluzione defi nitiva8. Andava così delineandosi uno dei tratti caratterizzanti l’accoglienza de- gli esuli che avrebbero trovato asilo in campi e centri di raccolta disseminati in oltre quaranta città italiane su tutto il territorio della penisola: si trattò complessivamente di almeno 109 strutture ricavate riadattando complessi in disuso come scuole, caserme, ospedali, edifi ci industriali dismessi, ma anche campi di prigionia utilizzati dal regime fascista per l’internamento di civili e prigionieri (è il caso del campo di Laterina in provincia di Arezzo o di Fossoli) e di concentramento come la Risiera di San Sabba, adibita nella prima metà degli anni Cinquanta a campo per esuli giuliani, in particolare giunti dalla Zona B del Tlt. Se i campi rappresentarono la risposta più immediata per ovviare a una situazione di emergenza, non mancarono però altri approcci, come ad esem- pio quello sostenuto dal presidente della Repubblica Einaudi, che propose il trasferimento degli esuli in Alto Adige, dove le attrezzature alberghiere e le industrie avrebbero potuto offrire una sistemazione defi nitiva9. Altri, è il caso del senatore polesano De Berti, arrivarono persino a ipotizzare la creazione, nell’area di Castelporziano tra Ostia e Anzio, di una «nuova

7. Emilio Sereni, Promemoria per il ministero della Guerra, 8 gennaio 1947. In Apcm- Uzc, Sottosezione II, Profughi, B.12, F. A 6, Piano per l’esodo dott. Meneghini. 8. Lettera inviata il 13 gennaio 1947 da Cipriano Facchinetti a Emilio Sereni. In Apcm- Uzc, Sottosezione II, Profughi, B.12, F. A 6, Piano per l’esodo dott. Meneghini. 9. Cfr. G. Mezzalira, Da un confi ne all’altro: esuli giuliani, istriani e dalmati in Alto Adige, in «Storia e Regione», 2 (2009), p. 205.

174 Pola» e cioè una città giuliano-dalmata capace di accogliere oltre 150.000 profughi10. Una strada rivelatasi impraticabile, contrariamente a quella del socialista Angelo Corsi, sottosegretario alla Marina mercantile, originario de L’Aquila ma cresciuto e formatosi a Iglesias, che nel febbraio 1947 pre- sentò l’idea di utilizzare la Sardegna come area di insediamento dei profughi giuliano-dalmati. Egli individuò nel territorio di Fertilia, borgata a pochi chilometri da Alghero, il luogo idoneo a tradurre in pratica la sua intuizione. Qui, fi n dal 1936, si insediarono alcuni nuclei di coloni veneti e ferraresi ai quali l’Ente ferrarese di colonizzazione affi dò la bonifi ca del territorio che presentava ampi spazi paludosi. Il progetto prevedeva anche la realizzazione di un pia- no urbanistico consistente nell’edifi cazione di un villaggio dotato di abita- zioni, un mercato coperto, luoghi di svago e ricreazione (cinema) e caserme di carabinieri e Guardia di Finanza. I lavori si interruppero però con lo scoppio della guerra e l’area rima- se così in stato di totale abbandono, fi no a quando arrivò un primo nucleo di esuli giuliani, guidati da don Francesco Dapiran, parroco di Orsera che, dopo essersi imbarcato sul Toscana, giunse a Venezia proseguendo poi il suo viaggio verso la Sardegna. Egli aveva infatti ricevuto l’incarico da parte di Raffaele Radossi, vescovo di Pola, di effettuare un sopralluogo sull’area per verifi care le effettive possibilità di insediamento. Pur conscio delle diffi coltà dell’impresa, il giovane parroco diede parere positivo: la notizia raggiunse anche «L’Arena di Pola», che si premurò di informare i polesani sulla possibilità di trasferimento a Fertilia per circa centocinquanta famiglie, previo il riadattamento degli edifi ci già esistenti. Per tale motivo il quotidiano informava come fossero richiesti un centinaio di operai, tra muratori, idraulici, carpentieri, fabbri e vetrai per eseguire i lavori di ripristino delle strutture11. Nella primavera del 1947 giunse così il primo gruppo di profughi: la maggior parte si stabilì, temporaneamente, nei locali del vecchio ospedale di Alghero, mentre una sessantina di persone andò a popolare gli edifi ci non ultimati dell’Ente ferrarese di colonizzazione, la canonica e le scuole elementari di Fertilia. Dapiran venne nominato parroco di Fertilia, dove gi esuli iniziarono a giungere in numero sempre più consistente, al punto che alla fi ne del 1948

10. I. Montanelli, Una città giuliana da creare sul Tirreno, «Il Nuovo Corriere della Sera», 16 febbraio 1947. 11. Cfr. Per la sistemazione di esuli. Richiesta di manodopera, «L’Arena di Pola», 28 gennaio 1947; Vasto piano di assistenza predisposto per i profughi, «L’Arena di Pola», 31 gennaio 1947.

175 ammontavano già a un migliaio. Poco meno della metà, circa 450 persone, arrivò via mare a bordo di tredici pescherecci salpati da Chioggia e da qui prese il mare diretto in Sardegna. Il fl usso degli arrivi proseguì anche nei mesi successivi e nella primavera del 1949 la borgata accoglieva circa 3.500 giuliano-dalmati12. Alla vicenda della borgata giuliana in Sardegna il regista Enrico Moretti dedicò un documentario, emblematicamente intitolato Fertilia dei giuliani. La pellicola si apriva con una sequenza di grande impatto emotivo, ritraente un gruppo di esuli che, a bordo di una fl otta di barche guidate da un sacer- dote, fi ssava con lo sguardo assorto le scogliere, simbolo del loro prossimo approdo. Ad accompagnare le immagini, la voce dello speaker, Gino Villa- santa, che li descriveva come «moderni ulissidi» che però, al contrario degli eroi omerici, «non sbarcheranno a caso» poiché, «laggiù c’è una città che li attende, tutta per loro e per quelli che li seguiranno»13. Successivamente le cineprese, dopo aver ripercorso i primi momenti dell’arrivo e dell’iniziale sistemazione, spostavano l’attenzione sulla costruzione della borgata, inte- ramente affi data agli esuli. L’intento era quello di documentare, giorno per giorno, la crescita di una comunità in esilio e del villaggio, restituendo un’atmosfera di ritrovata tran- quillità, che trovava piena rappresentazione nella scena fi nale nella quale una giovane donna, stringendo la mano del fi glio, osservava con il volto sor- ridente un’imbarcazione di pescatori prendere il mare, mentre la voce fuori campo annunciava con enfasi come «Fertilia dei giuliani» fosse divenuta «fi nalmente una realtà. Sa di calce, di fresco, di nuovo: ha l’odore tenero e inebriante di ciò che nasce»14.

2. La macchina dell’assistenza

La progressiva maturazione dell’esodo e le sue dimensioni sempre più rilevanti, convinsero il governo italiano a mutare piano di azione e a elabo- rare una strategia che prevedesse la creazione di un organismo in grado di assumere il ruolo di interprete delle iniziative politiche e assistenziali porta- te avanti dall’esecutivo nei confronti dei giuliano-dalmati.

12. M. L. Molinari, L’emigrazione dei profughi giuliani in Sardegna e Oltreoceano, in «Storia e Futuro», 23 (2010), , visitato il 10 giugno 2020. 13. E. Moretti, Fertlia dei giuliani (13’, Italia 1949). In Archivio Istituto Luce-Cinecittà, , visitato il 15 giugno 2020. 14. Ibidem.

176 Il 6 gennaio 1946 nasceva così, come abbiamo visto, l’Uffi cio per la Venezia-Giulia (Uvg), posto alle dipendenze del ministero degli Interni e guidato da Mario Micali. Spinto dalla necessità di regolamentare in maniera più effi cace l’attività assistenziale in favore dei primi profughi che iniziava- no a giungere dal Quarnaro, da Pola e dalla Zona B, il ministero dell’Interno istituì a Venezia una sezione distaccata dell’Uvg, poi soppressa il 12 gennaio 1948. Fin dalla sua creazione, l’Uvg orientò la propria attività in una duplice di- rezione: da una parte si occupava di sovvenzionare e coordinare le iniziative di carattere assistenziale in favore dei profughi, dall’altro forniva sostegno, soprattutto sul piano economico, ai vari comitati giuliani, promuovendone la nascita nelle località maggiormente toccate dall’affl usso di esuli. Dopo tre mesi dalla fondazione, De Gasperi decise di trasferire le com- petenze dell’Uvg in seno alla Presidenza del Consiglio, ponendo così fi ne a una fase convulsa, caratterizzata da confl itti di competenze tra la stessa Presidenza e il ministero dell’Interno. Alla base della scelta vi erano una motivazione uffi ciale, ovvero raggiun- gere un livello di coordinamento più funzionale tra la Presidenza del Con- siglio e l’Uffi cio stesso, e una uffi ciosa, altrettanto signifi cativa sul piano strategico. La volontà di De Gasperi, e dunque della Dc, era infatti quella di ottenere il pieno controllo della questione del confi ne orientale, destinata a diventare uno dei temi caldi del dibattito interno e della politica estera italiana assu- mendo un peso specifi co notevole nella battaglia politica interna al paese. Si trattava, agli occhi del presidente del consiglio, di un’occasione che né lui, né il suo partito dovevano lasciarsi sfuggire. Fu così lo stesso De Gasperi, con il decreto del 1° novembre 1947 – congiuntamente fi rmato da Carlo Sforza, ministro degli Affari esteri, e Mario Scelba, titolare degli Interni – a decidere l’accentramento di tutte le competenze dell’Uvg sotto un unico ente, ovvero l’Uffi cio per le zone di confi ne (Uzc). La responsabilità politica del nuovo organismo fu affi data a Giulio An- dreotti, giovane deputato all’Assemblea costituente e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, mentre alla guida dell’Uffi cio venne nominato Silvio Innocenti, che aveva maturato durante il fascismo importanti espe- rienze prefettizie15. L’Uzc non limitò le sue competenze alla sola attività assistenziale, ma svolse un fondamentale ruolo di coordinamento tra il centro e le ammi-

15. Cfr. A. Cifelli, I prefetti del Regno nel ventennio fascista, Scuola Superiore dell’Am- ministrazione dell’Interno, Roma 1999, pp. 146-147.

177 nistrazioni locali nella delicata fase dell’assistenza, dello smistamento e della sistemazione dei profughi. Contemporaneamente, l’ente si occupò anche di coordinare l’azione generale del governo nelle aree di confi - ne, assumendo la funzione di canale di trasmissione e collegamento tra Roma e il territorio istriano, avvalendosi in tal senso delle informazioni raccolte dalla rete di collaboratori, primo tra tutti il Clni che, successi- vamente trasmesse all’Uzc, avrebbero permesso alle autorità governative di elaborare le strategie di intervento sul piano politico e dei fl ussi di fi nanziamento. L’Uzc rimase in attività fi no al 20 luglio 1954, quando Scelba rmòfi in- sieme ad Attilio Piccioni, ministro degli Affari esteri, il decreto che ne sancì la chiusura e il trasferimento delle competenze alla Presidenza del Consi- glio. Sulla decisione infl uì la futura defi nizione dei confi ni disegnata dal Memorandum di Londra che, portando a una progressiva normalizzazione dell’area, con il ritorno di Trieste all’Italia e l’assegnazione della Zona B del Tlt alla Jugoslavia, non rendeva più necessaria l’azione straordinaria dell’or- ganismo la cui attività poteva dunque cessare16. Parallelamente a quella ministeriale si sviluppò anche l’iniziativa privata, attraverso una rete di strutture impegnate nell’organizzazione dell’assisten- za ai giuliano-dalmati. Nel febbraio 1947, a Roma, venne fondato il Comitato nazionale per i rifugiati italiani (Cnri) che poteva vantare nel proprio organigramma perso- nalità di spicco della scena politica del paese come De Gasperi, nominato presidente onorario, e gli ex presidenti del consiglio Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, Ferruccio Parri e Ivanoe Bonomi, componenti del comitato d’onore. La loro presenza contribuì a trasformare l’istituzione, che aveva la propria sede nella centralissima via del Quirinale, in un ente pa- rastatale, pienamente legittimato nell’assistenza ai profughi provenienti dai territori perduti, con particolare riferimento a quelli della Venezia-Giulia, verso i quali furono defi nite strategie volte a favorirne l’inserimento lavora- tivo e la sistemazione abitativa17.

16. Per una ricostruzione dettagliata dell’attività dell’Uzc, oltre a D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità, cit., cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri-Archivio Generale, Uffi cio per le zone di confi ne: l’archivio, Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per l’Editoria, Roma 2009; R. Pupo (a cura di), Uzc: Uffi cio per le Zone di Confi ,ne in «Qualestoria», 2 (2010). 17. Cfr. P. Ballinger, ‘National Refugees’, Displaced Persons and the Reconstruction of Italy: the Case of Trieste, in J. Reinisch, E. White (a cura di), The Disentanglement of Populations. Migration, Expulsion and Displacement in Postwar Europe 1944-9, Palgrave Macmillan, New York 2011, p. 122.

178 Dopo due anni di attività, nel 1949, il Cnri venne costituito in ente mo- rale e mutò la propria denominazione in Opera nazionale per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Onapgd) che, presieduta da Oscar Siniga- glia, industriale siderurgico e presidente della Finsider, indirizzò i propri sforzi lungo tre direttrici principali: casa, lavoro e assistenza. Creando una struttura composta da comitati provinciali, direttamente dipendenti da quel- lo centrale, l’Onapgd riuscì a ottenere risultati soddisfacenti se è vero che tra il 1947 e il 1964 furono edifi cati 7.700 alloggi per oltre 35.000 profughi, vennero avviati al lavoro 61.400 giuliano dalmati e si registrò la costruzione di collegi, preventori e colonie che, realizzate grazie al contributo decisivo dei ministeri degli Interni e della Pubblica istruzione, ospitavano bambini di età compresa tra i sei e i dodici anni. L’Onapgd si occupò di seguire da vicino i percorsi formativi dei minori che trovarono sistemazione nei centri di raccolta e di quanti erano invece ospitati nelle strutture scolastiche gestite dalla stessa istituzione. In tal senso vanno ricordate la Casa della bambina giuliano-dalmata per circa 200 allieve della scuola elementare e la Scuola di avviamento profes- sionale sorte nel Villaggio giuliano-dalmata di Roma, il Convitto Fabio Filzi di Gorizia, riservato a 120 ragazzi della scuola media, la Scuola arti e me- stieri di Trieste, capace di ospitare fi no a 80 studenti e la Casa del bambino profugo di Merletto di Graglia, in provincia di Biella, dove alloggiavano una sessantina di bambini frequentanti la scuola elementare. L’ente contribuì inoltre a edifi care collegi a Grado, Brindisi, Pesaro, Fano, Varese, Volterra, San Miniato (Pisa), due preventori antitubercolari a Sappada e colonie estive a Santo Stefano di Cadore (Belluno), Merletto di Graglia, Ostia, Pescara, Grado e Messina nelle quali, in turni di trentacinque giorni, potevano essere accolti circa 2.500 bambini18. Nel quadro delle iniziative in favore di bambini e ragazzi portate avanti dall’Opera, che durante la sua intensa attività conclusasi nel 1978 assistet- te circa 76.000 giovani19, occorre infi ne menzionare anche la Giornata del Bambino Profugo, celebrata annualmente in tutta Italia con lo scopo di rac- cogliere fondi da destinare all’assistenza dei piccoli giuliani.

18. Onapgd, 25 anni di lavoro: 1947-1972, Opera nazionale per l’assistenza ai pro- fughi giuliani e dalmati, Roma, 1973, p. 12; Id. 17 anni di lavoro: 1947-1964, Opera nazionale per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati, Roma, 1964, pp. 8-12; Istituto Regionale per la cultura istriana, Esodo e Opera Assistenza Profughi. Una storia paral- lela: 15 settembre 1947-15 marzo 1978, Istituto Regionale per la Cultura Istriana, Roma- Trieste 1997, pp. 9-11. 19. C. Palazzolo Debianchi, Le case dei giovani profughi giuliano dalmati. Storia dei col- legi per i ragazzi profughi in Italia, Associazione delle Comunità Istriane, Trieste 2012, p. 22.

179 L’Onapgd poteva anche contare sull’appoggio del Madrinato Italico, sorto su iniziativa di Marcella Mayer, fi glia di Teodoro Mayer fondatore del quotidiano triestino «Il Piccolo», nonché moglie di Sinigaglia, che nel gennaio 1949 convocò nella sua abitazione una cinquantina di «facoltose signore romane»20, con l’obiettivo di costituire un’associazione che suppor- tasse l’Opera nell’assistenza ai bambini e ai ragazzi, riservando particolare attenzione al versante educativo, pedagogico e dell’istruzione. L’idea fu immediatamente accolta e le partecipanti si impegnarono, fi n da subito, a versare una quota mensile a benefi cio dei giovani profughi che permise così non solo di fornire i fondi necessari a provvedere alle loro esigenze, ma anche a incrementare le risorse economiche dell’O- napgd consentendo così un miglior funzionamento delle strutture già esi- stenti, il loro ampliamento e, laddove necessario, la costruzione di nuovi complessi21. Un altro soggetto direttamente impegnato in campo assistenziale fu la Pontifi cia commissione di assistenza (Pca), la cui genesi risaliva all’aprile 1944 quando Pio XII, mosso «dall’incalzare degli eventi»22, decise di co- stituire la Pontifi cia commissione di assistenza ai profughi per gestire la raccolta e la distribuzione dei viveri. Il 22 gennaio 1945, su indicazione del- lo stesso pontefi ce, l’organismo si fuse con la già esistente Pontifi cia com- missione di assistenza ai reduci, assumendo la denominazione di Pontifi cia commissione di assistenza, mantenuta fi no al 1953, anno in cui si trasformò in Pontifi cia opera di assistenza (Poa) che terminò la sua attività nel 1970 quando, su disposizione di Paolo VI e della Conferenza episcopale italiana, nacque la Caritas italiana23. Attraverso le sue sezioni periferiche che agivano in stretto contatto con la sede centrale, l’organizzazione operò in vari modi, orientando la propria azione soprattutto lungo tre canali: creazione di posti di ristoro per i profu- ghi in diverse stazioni ferroviarie del paese, distribuzione di generi alimen- tari, indumenti, capi di vestiario ed erogazione di sussidi in denaro.

20. Una bella iniziativa a Roma. Il Madrinato Italico, in «Difesa Adriatica», 22 gennaio 1949. 21. Cfr. C. Palazzolo Debianchi, Accoglienza e assistenza dei profughi in Italia, in Centro di documentazione multimediale della cultura giuliana, istriana, fi umana, dalmata, , vi- sitato il 10 giugno 2020. 22. F. Ricci, Pontifi ca Opera di Assistenza (Poa), in V. Monachino (a cura di), La carità cristiana in Roma, Cappelli, Bologna 1968, p. 333. 23. Cfr. A. Bistarelli, Il ritorno degli internati militari, in E. Gobetti (a cura di), 1943- 1945. La lunga liberazione, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 302.

180 Una rapida ricognizione in alcune città italiane ricostruisce il peso dell’intervento della Pca che a Mantova, ad esempio, predispose un posto di ristoro dotato di una cinquantina di posti letto in grado di ospitare i profughi di Pola in attesa del trasferimento nei vari comuni della provincia, a Genova si adoperò per la sistemazione degli esuli in alberghi, dormitori, sedi di enti pubblici e strutture private, a Lucca concesse sussidi in denaro, mentre a Sa- lerno si prodigò nella distribuzione di indumenti, alimenti, buoni alimentari, nella somministrazione di cure mediche e nell’avviamento al lavoro di «non pochi profughi»24. Siamo dunque di fronte a un contributo di vaste proporzioni, la cui porta- ta è ben restituita da un prospetto riassuntivo dell’attività dell’ente elaborato nel 1948 che certifi cava la distribuzione di 79.500 quintali di viveri, 71.400 tra capi di vestiario e paia di scarpe e la concessione di quasi 27 milioni di lire in sussidi. In tali forme di assistenza – si legge nel documento – furono tenuti in particolare considerazione con «speciali distribuzioni, perché più bisognosi, i profughi giuliani»25. L’istituzione di posti di ristoro per i profughi non riguardò soltanto la Pca, ma coinvolse direttamente anche la Croce rossa come dimostra ad esempio una nota del direttore generale, Giovanni Battista Vicentini, che informava l’Uzc di aver provveduto a predisporre nei punti di sbarco di Venezia e Ancona e nei porti di Brindisi, Trieste e Ravenna delle strutture di prima accoglienza nelle quali fornire medicazioni, generi alimentari, di conforto e di prima necessità. Il contributo assistenziale della Cri si concretizzò inoltre nella distribuzione di viveri, indumenti e medicinali per fronteggiare, quelle che Vicentini defi niva, le «urgenti necessità» dei profughi giuliani26. Al funzionamento del fi tto reticolo assistenziale concorsero anche, agen- do tra loro in sinergia, istituzioni locali (Enti comunali di assistenza), mis-

24. Lettera (prot.n. 01393/5) inviata il 6 aprile 1947 alla sede centrale della Pca da Fer- dinando Balzelli, responsabile sezione di Lucca; Lettera inviata il 13 maggio 1947 alla sede centrale della Pca da monsignor Antonio Calducci, presidente della Pca salernitana; Lettera inviata l’8 marzo 1947 dal delegato della Pca della Liguria alla diocesi di Genova; Nota (prot.n. 9873) del prefetto di Mantova inviata l’8 febbraio 1947 all’Uzc. In Apcm-Uzc, Se- zione II, Sottosezione Profughi, B. 18, F. 34, Salerno. Assistenza esuli da Pola; B. 19, F. 54, Mantova. Assistenza esuli da Pola. 25. Pontifi cia commissione di assistenza, L’attività della PCA durante l’anno 1948, Estratto da «L’attività della santa sede», Tipografi a Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1949, p. 11. 26. Nota di Giovanni Battista Vicentini (prot.n. 7723) inviata il 30 gennaio 1947 all’Uzc. In Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, B. 26, Volume II, F. 16, Croce Rossa Italiana. Soccorsi, fi nanziamento, varie.

181 sioni e organizzazioni internazionali, tra le quali si segnalava anche l’Unr- ra27. Quest’ultima svolgeva principalmente un’azione di integrazione delle forme assistenziali concesse dagli altri soggetti, concentrando la propria attività nella distribuzione gratuita di indumenti e generi alimentari. È possibile supporre che l’assegnazione di vestiti rientrasse nell’ambito del Clothing Programme, avviato dall’Unrra in Italia per la consegna di in- dumenti, scarpe e biancheria. Tra il 1945 e l’agosto dell’anno successivo l’i- stituzione distribuì 713.860 paia di scarpe, 85.550 lenzuola e oltre 3.360.000 indumenti. Ne benefi ciarono, oltre alla popolazione civile, anche DPs e profughi, compresi i giuliano-dalmati, ai quali furono destinate particolari provvidenze indicate dall’organizzazione come «additional distribution»28. Per i giuliano-dalmati la sigla dell’Unrra era però anche sinonimo di cibo. Alcune fonti di memoria la evocano attraverso il ricordo di pacchi ali- mentari che combinavano sapori e colori nuovi: è il caso, ad esempio, di Rino P., esule zaratino arrivato nel campo profughi a Tortona, in provincia di Alessandria, che ricorda «i pacchi con su scritto Unrra», attesi e aperti con la gioia di scoprire e assaporare cibi mai visti prima d’ora («quando si apriva avevi una gioia di trovar dentro chissà che cosa») come la margarina o «le ovi de Truman» (le uova di Truman) e cioè la farina di uova29. A stimolare i ricordi di Claudio D., esule da Pola alle Casermette di Borgo San Paolo, il centro di raccolta di Torino, sono invece il formaggio fuso «di colore gial- lastro» e il latte condensato contenuti nei «pacchi americani»30, arrivati in occasione delle festività o di particolari ricorrenze. La distribuzione non aveva infatti un carattere permanente, ma avveniva in base alle disponibilità dell’Unrra, poco propensa a estendere anche ai giuliano-dalmati un’assistenza alimentare continuativa che era invece con- cessa ad alcuni segmenti della popolazione civile e alle DPs. In proposito appare esaustiva una corrispondenza intercorsa nell’agosto 1946 tra l’Uvg e la missione italiana dell’Unrra, sollecitata all’invio di pac- chi alimentari per i profughi giuliani. Le aspettative furono però disattese: richiamando l’accordo stipulato con il governo italiano, l’Unrra specifi cava infatti come l’accesso al program- ma di assistenza alimentare supplementare (Supplementary Feeding) fosse

27. Cfr. G. Nemec, L’esodo dei giuliano dalmati tra storiografi e e memorie, in P. Aude- nino (a cura di), Fuggitivi e rimpatriati. L’Italia dei profughi tra guerra e colonizzazione, «Asei», 14 (2018), p. 115. 28. Unrra, Survey of Italy’s economy, Missione italiana Unrra, Roma 1947, p. 197. 29. E. Miletto, C. Pischedda, L’esodo istriano in Piemonte, cit., p. 460. 30. Ivi, p. 134.

182 riservato soltanto ai bambini fi no al quindicesimo anno di età, alle donne incinte e alle puerpere. Non era quindi possibile assistere l’intera colletività dei profughi giuliano-dalmati per i quali però – assicurava il documento – l’istituzione avrebbe dato mandato ai propri comitati provinciali di esamina- re «con benevolenza»31 le richieste di assistenza riguardanti gli appartenenti alle categorie assistibili, con particolare riferimento ai bambini. La principale motivazione del diniego andava probabilmente ricercata nei costi dell’operazione che, qualora avallata, avrebbe fatto gravitare oltre- modo il bilancio dell’Unrra, non disponibile a investire ulteriori risorse oltre a quelle, ingenti, già impiegate per l’attuazione del Suplementary Feeding, che tra il solo marzo e maggio 1946 aveva fornito pasti a oltre due milioni di persone32. Il passaggio, se letto attentamente, contiene però un altro elemento sul quale soffermarsi. Il riferimento ai bambini evidenzia infatti la particolare attenzione rivolta dall’Unrra all’infanzia e ai minori che rappresentavano un aspetto caratterizzante non soltanto la sua linea di intervento ma, più in ge- nerale, quella di molte delle realtà fi nora descritte, prime tra tutte l’Onapgd. Considerati come le «vittime inermi per eccellenza delle guerre»33, i bambini appartenevano alla categoria che più di altre aveva sofferto i traumi dello spostamento e dello sradicamento, riportando ferite morali e psicolo- giche acuite dalla permanenza forzata in ambienti estranei come i centri di raccolta, con il conseguente indebolimento della rete familiare e l’allenta- mento del controllo domestico. Partendo da tali presupposti, il soccorso ai fi gli degli esuli divenne un punto nevralgico dei diversi programmi assistenziali, attuati con l’obiettivo di soddisfare non soltanto le necessità materiali, ma anche i bisogni sociali ed emotivi dei minori, fornendo sostegno psicologico e strumenti educativi adeguati per facilitare il loro inserimento nella società.

3. Assistenza e provvedimenti legislativi

Parallelamente all’assistenza, il governo studiò ed emanò una serie di provvedimenti legislativi miranti a estendere ai profughi benefi ci di caratte-

31. Nota (prot.n. 2184) inviata il 22 settembre 1946 dal ministero degli Interni all’Uzc. In Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, B. 1, F.29, Unrra assistenza e distribuzione indumenti. 32. Unrra, Survey of Italy’s economy, cit., pp. 179-180. 33. S. Salvatici, «Not enough food to feed the people». L’Unrra in Italia (1944-1945), in «Contemporanea», 1 (2011), p. 95.

183 re economico volti a potenziare, integrandole, le misure di primo intervento e ad accelerare, per quanto possibile, il loro assorbimento nel sistema pro- duttivo del paese. Relativamente al primo aspetto, nel settembre 1947 fu promulgato un decreto (n. 885 del 3 settembre a fi rma di Enrico De Nicola, capo provviso- rio dello stato) che estese «ai cittadini aventi il loro domicilio nei territori di confi ne»34, i benefi ci previsti per i reduci e gli ex combattenti, dimostrando così uffi cialmente il concreto interessamento da parte dell’esecutivo e la volontà di un’«assunzione di responsabilità»35 verso i profughi giuliano- dalmati che, equiparati alle altre categorie assistibili, furono oggetto di spe- cifi che e particolari attenzioni. La normativa vincolava i richiedenti a dimostrare la loro effettiva prove- nienza (indicata nel testo come «sussistenza»36) dai territori di confi ne. Era questa una condizione essenziale per accedere ai benefi ci del provvedimento e la cui verifi ca sarebbe stata di competenza del prefetto della provincia di residenza del profugo, tenuto a sua volta a comunicare, oltre ai dati anagrafi - ci e alla condizione professionale, la località di provenienza, la data di esodo e quella di arrivo, unitamente alle forme assistenziali alle quali aveva già avuto accesso. Sulla base di tali elementi le prefetture avrebbero valutato la domanda e concesso la qualifi ca di profugo, il cui mancato riconoscimento precludeva ogni forma di sostegno. L’anno successivo, il 19 aprile, entrò in vigore il decreto n. 556, relativo al «riordinamento e al coordinamento dell’assistenza in favore dei profughi»37. Oltre ai giuliano-dalmati, indicati dall’articolo 1 come soggetti provenienti dai territori sui quali era cessata la sovranità italiana in seguito al Trattato di pace, il provvedimento era esteso anche ai profughi arrivati dalla Libia, dall’Eritrea, dalla Somalia, dall’Etiopia, dai territori esteri e a quelli colpiti da eventi bellici già residenti sul territorio nazionale. Erogata all’intero nucleo familiare, a esclusione dei fi gli di età superiore a sedici anni, l’assistenza prevedeva, per coloro i quali fosse stato accertato «lo stato di bisogno», la corresponsione per la durata di un anno di un sus- sidio giornaliero di 100 lire al capofamiglia e 45 agli altri componenti. Il sussidio, integrato con l’indennità corrisposta per il caropane, non era però

34. D.L.C.P.S., 3 settembre 1947, n. 885. In «Gazzetta Uffi ciale», n. 215, 19 settembre 1947, p. 2770. 35. A. Brondani, I provvedimenti legislativi a favore dei profughi, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., p. 603. 36. D.L.C.P.S., 3 settembre 1947, n. 885, cit. 37. D.L., 19 aprile 1948, n. 556. In «Supplemento ordinario alla Gazzetta Uffi ciale n. 124», 31 maggio 1948, pp. 2-4.

184 cumulabile con quelli di disoccupazione o con altre forme di assistenza or- dinaria e continuativa, a meno che esse non raggiunsero una quota inferiore (art. 3). Il provvedimento cessava a fronte della decadenza dello «stato di bi- sogno» (riconosciuto da un’apposita commissione a quanti non fossero in grado di provvedere autonomamente «alle più modeste esigenze di vita»), della mancata iscrizione agli uffi ci provinciali del lavoro, del rifi uto di col- locamento lavorativo anche al di fuori dell’abituale settore professionale e del ritiro della qualifi ca di profugo (art. 7). La normativa prevedeva inoltre altri punti rilevanti, quali l’assistenza gratuita per un anno negli ospedali convenzionati (art. 10), la concessione «una tantum» di un sussidio di 12.000 lire per i profughi che avrebbero esercitato il diritto di opzione dopo l’entrata in vigore del decreto (art. 4) e un «premio di primo stabilimento» di 13.500 lire per quelli che, nei tre mesi successivi alla promulgazione del provvedimento, avessero deciso di abbandonare volontariamente i centri di raccolta nei quali avevano trovato ricovero (art. 11)38. Oltre all’aspetto prettamente assistenziale, l’azione governativa mirò a intervenire anche nell’ambito del collocamento lavorativo, cercando di favo- rire l’assunzione stabile degli esuli nei differenti comparti professionali. A essere coinvolte furono però, almeno inizialmente, soltanto alcune ristrette categorie per le quali la sistemazione si rivelò più agevole rispetto ad altre. Si trattava, ad esempio, dei farmacisti ai quali il governo concesse la possibilità di avviare in Italia la propria attività a seguito dell’autorizzazione da parte dell’Alto commissariato dell’igiene e della sanità pubblica e del superamento di una prova concorsuale, e dei laureati in giurisprudenza, che ottennero l’opportunità di essere incaricati, entro la metà delle posizioni di- sponibili, nei ruoli organici della magistratura (pretore, giudice, ecc.)39. A benefi ciare del riassorbimento in breve tempo furono anche dirigenti, impiegati, funzionari e operai statali e parastatali, per i quali l’esecutivo predispose la riassunzione, con le stesse mansioni svolte nei paesi di prove- nienza, negli uffi ci corrispondenti sparsi nelle varie aree d’Italia. Si veda in tal senso la vicenda del personale dei Monopoli di Stato che aveva esercitato il diritto di opzione entro e non oltre il 15 settembre 1947, reintegrato nelle diverse Manifatture Tabacchi che avevano la possibilità di assorbire manodopera proveniente dagli stabilimenti di Fiume, Rovigno e, soprattutto, Pola. Si trattava, in larga misura, di manodopera femminile che

38. D.L., 19 aprile 1948, n. 556, cit. pp. 2-3. 39. Cfr. A. Brondani, I provvedimenti legislativi a favore dei profughi, cit., p. 602.

185 andò così a incrementare gli organici, tra i molti casi che si potrebbero cita- re, dei complessi di Torino, Venezia, Rovereto, Modena, Firenze e Lucca40. Il riassorbimento negli apparati statali non riguardò soltanto i dipendenti dei Monopoli di Stato, ma anche quelli impiegati in altri ambiti lavorativi. Fu il caso, ad esempio, dei lavoratori dell’Arsenale di Pola, ovvero – come si legge in una corrispondenza intercorsa nel gennaio 1947 tra il ministero della Marina e quello degli Interni – di «880 operai che saranno riassun- ti nelle sedi militari marittime di Venezia, Brindisi, Messina, Taranto e La Spezia»41. Il contingente più numeroso raggiunse la città ligure dove, secon- do una comunicazione del prefetto, il primo scaglione di arsenalotti, circa 130 con relative famiglie al seguito, giunse il 10 febbraio 1947, seguito, nei giorni successivi da altri operai che portarono a circa 200 i lavoratori arrivati in città nel solo 194742. Cinque anni più tardi, nel 1952, si scrive un capitolo fondamentale nel campo dell’assistenza ai profughi con la promulgazione, il 4 marzo, della legge n.137, meglio nota come legge Scelba, la cui attivazione impresse una decisa accelerazione all’inserimento lavorativo degli esuli. La normativa sanciva infatti l’obbligo da parte delle aziende e delle im- prese appaltatrici di opere pubbliche di assumere al loro interno la quota del 5% di profughi (art. 27) e stabiliva la concessione di licenze commerciali e l’iscrizione agli albi professionali per quelli che nei comuni di nuova resi- denza intendessero riprendere le attività commerciali, artigianali o profes- sionali esercitate nei territori di provenienza (art. 28)43. Si trattava, complessivamente, di un impianto normativo di grande rilie- vo che, per la prima volta, tentava di fornire un quadro di sistematicità alla materia. Al tempo stesso la legge rappresentava però un intervento tardivo, poiché promulgato soltanto cinque anni dopo il grande esodo seguito alla

40. Sui trasferimenti del personale dalle Manifatture Tabacchi dell’Istria a quelle italiane, cfr. E. Miletto, Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Tori- no, FrancoAngeli, Milano 2005; M. Orlić, L’esodo degli italiani dall’Istria e l’insediamento dei profughi nella provincia di Modena, in «Quaderni» XVIII (2007), pp. 36-68; M.T. Sega, N.M. Filippini, Manifattura Tabacchi, Cotonifi cio Veneziano, il Poligrafo, Padova 2008; A. Sestani, Esuli a Lucca. I profughi istriani, fi umani e dalmati 1947-1956, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2015. 41. Telespresso n. 315 inviato dal ministero della Marina all’Uzc il 17 gennaio 1947. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 24, F. 2.9, La Spezia. La Spezia, sistema- zione personale ex base navale di Pola. 42. Telegramma inviato da Oscar Moccia, prefetto di La Spezia, all’Uzc il 10 febbra- io1947. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 24, F. 2.9, La Spezia. La Spezia, sistemazione personale ex base navale di Pola. 43. Cfr. Legge n. 137 (Assistenza a favore dei profughi), 4 marzo 1952. In «Gazzetta Uffi ciale» n. 71, 24 marzo 1952, pp. 1164-1167.

186 fi rma del Trattato di pace, evidenziando la disorganicità dell’azione gover- nativa, condotta, fi no ad allora, senza una vera e propria strategia di fondo e con una sostanziale sottovalutazione delle dimensioni dell’esodo e delle problematiche dei profughi che sembravano stimolare interessi politici piut- tosto che attenzioni sociali. Emergeva così un approccio quasi esclusivamente assistenzialista, che se da un lato garantiva agli esuli le condizioni di una sopravvivenza immediata, dall’altro non favoriva affatto, ritardandolo, la loro inclusione nel tessuto economico, produttivo e sociale del paese.

4. «A calcioni nel sedere!». Le dinamiche dell’accoglienza

Nel porto di Ancona gli esuli sono stati accolti fraternamente. […] Si è trattato di una commovente gara di generosità.

Così il 19 febbraio 1947 «L’Arena di Pola» descriveva lo sbarco di uno scaglione di profughi, soffermandosi sulle manifestazioni messe in campo dalle istituzioni e da buona parte della cittadinanza del capoluogo marchi- giano, nelle cui vie, riferiva l’inviato, campeggiavano manifesti fi rmati da associazioni e partiti politici che intendevano in tal modo assicurare ai pro- fughi giuliani la «fraterna solidarietà di Ancona marinara»44. Volgendo lo sguardo più a Sud, precisamente a Catania, l’istantanea appa- re la stessa: una lettera di un esule di Pola giunto nella città etnea, riferiva del- la calorosa e partecipata accoglienza riservata ai giuliano-dalmati dalla popo- lazione, che «faceva a gara per accogliere e sistemare la nostra gente», dando prova, concludeva il documento, di «una commovente prova di solidarietà»45. Le due testimonianze, selezionate tra le molte che si potrebbero propor- re, evidenziano come nonostante fosse ancora profondamente segnata dalle ferite del confl itto, da diffi coltà di ordine economico e logistico e da un con- fronto politico che assumeva toni sempre più accesi, l’Italia del dopoguerra accompagnò l’arrivo dei profughi con grande partecipazione, sostenendo e incoraggiando concrete iniziative di carattere assistenziale. Emergeva un universo che aveva come interpreti principali non soltanto istituzioni locali e forze politiche, ma anche associazionismo, società civile, apparati del commercio, dell’industria e semplici cittadini, il cui intervento supportava effi cacemente le misure adottate dagli organismi governativi.

44. G. Tasso, Ancona marinara abbraccia con fervore i fratelli di Pola italianissima, «L’Arena di Pola», 19 febbraio 1947. 45. Come stanno gli esuli in provincia di Catania, «L’Arena di Pola», 30 marzo 1947.

187 L’analisi delle fonti documentarie e delle pagine dei quotidiani dell’epo- ca restituisce la presenza di una rete di soggetti molto attivi e impegnati, da nord a sud del paese, a supportare i nuovi arrivati. Scopriamo, ad esempio, che i comuni di Firenze e Bari si prodigarono nella distribuzione di coperte di lana e sussidi in favore dei profughi «più disgraziati» trovatisi, più di altri, in condizioni di «pressante bisogno»46, che l’amministrazione comunale di Lucca diede mandato, attraverso il locale Patronato scolastico, di fornire gratuitamente libri e quaderni ai bambini giuliano-dalmati che si apprestavano a iniziare l’anno scolastico47, seguendo la strada tracciata a Torino dal sindaco comunista Celeste Negarville, mos- sosi nella stessa direzione. Altri esempi, tra i molti che potremmo trovare percorrendo metaforicamente il paese, ci arrivano dall’Ente comunale di as- sistenza (Eca) di La Spezia che approntò una mensa nella quale fornire gior- nalmente pasti caldi ai profughi e, infi ne, da quello di Salerno che raccolse e distribuì capi di vestiario e calzature48. Insieme alle istituzioni si mobilitarono concretamente anche altri settori: quotidiani nazionali e locali attivarono sottoscrizioni e raccolte di fondi in favore dei profughi, seguiti da istituti bancari, aziende, mondo imprendi- toriale, commercianti e privati cittadini. Lo stesso valse per gli ambienti sportivi e quelli dello spettacolo. Nel primo caso una dimostrazione tangibile è rappresentata dalla Sisal, che decise di devolvere la somma di 3 milioni di lire, frutto dell’incasso del- le giocate dei pronostici legati al calcio, in favore, tra gli altri, del Comitato giuliano di Milano e della Casa della bambina giuliana di Roma, defi nita come un’istituzione «meritevole» che versava in «condizioni fi nanziarie diffi cili»49. Aiuti concreti arrivarono direttamente anche dalle società spor- tive, come avvenne, ad esempio, a Lucca, dove l’Unione Sportiva Lucchese, la locale squadra di calcio che avrebbe conquistato la promozione nella massima serie al termine della stagione, raccolse fondi in favore dei molti esuli giunti in città50.

46. Archivio Storico Comunale di Firenze, Atti del Comune di Firenze, seduta del 30 gennaio 1948. 47. Lettera (prot. n. 485) inviata il 2 febbraio 1948 dal provveditore agli studi di Lucca al sindaco della città. In Archivio Storico Comunale di Lucca, Scritture del protocollo generale, Categoria 261, Opere Pie e benefi cenza 1948. 48. Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B.16, F.9, La Spezia. Assistenza esuli da Pola; B. 18- Volume 1, F. 34, Salerno. Assistenza esuli da Pola; Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 18, Volume I, F. 34, Salerno. Assistenza esuli da Pola. 49. Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 26, Volume II, F. 23, SISAL. Offerte per i profughi. 50. La festa di domani a benefi cio dei profughi istriani, «Il Nuovo Corriere», 15 febbraio 1947.

188 L’assistenza ai profughi giuliano-dalmati trovò una solida sponda anche nel mondo dello spettacolo, compreso quello del cinema e di alcuni tra i suoi volti più noti, anche sulla scena internazionale. Fu il caso di Gary Cooper, protagonista de Il buon Samaritano, pellicola diretta dal regista statunitense Leo McCarey51, che in occasione della Prima del fi lm al cinema Quirinetta di Roma, volle, come ci ricorda un cinegiornale de «La Settimana Incom», che l’incasso della serata, nel corso della quale gli organizzatori chiesero ai parte- cipanti un «obolo per i giuliani»52, fosse donato ai bambini giuliano-dalmati. Il quadro fi nora tracciato conferma come l’arrivo dei profughi giuliano- dalmati sia stato accompagnato da espressioni e manifestazioni di concreta solidarietà che, pur nelle limitate possibilità di un paese ancora stracciato e lacerato dalla guerra, coinvolsero ampi strati di popolazione. Ma non fu sempre così, poiché l’impatto dei profughi con le varie città italiane assunse sfumature differenti: accanto a un’accoglienza viva e a un sostegno morale e materiale, trovarono spazio dinamiche di esclusione che, seppur limitate, affondarono le loro radici nel pregiudizio. In primis i giuliano-dalmati furono vittime di preconcetti politici, par- ticolarmente diffusi negli ambienti vicini al Pci, i cui militanti guardarono agli esuli con diffi denza, considerandoli non solo una possibile «massa di voti in favore della Dc»53, ma veri e propri «fascisti in fuga»54, responsabili di lasciare la Jugoslavia di Tito, che appariva ai loro occhi, per lo meno fi no allo strappo del 1948, come una sorta di paradiso della classe operaia. Fu in tale scenario che prese piede l’equazione di istriano uguale fascista, posta alla base delle manifestazioni di grande ostilità che si verifi carono. Uno degli atti più clamorosi ebbe come teatro la stazione di Bologna dove, il 18 febbraio 1947, un treno di esuli di Pola, appena sbarcati dal Toscana ad Ancona e diretti a La Spezia, si fermò su un binario periferico. La notizia della loro presenza si diffuse tra i ferrovieri comunisti, che insieme ad altri militanti di partito si mobilitarono immediatamente. Con la minaccia di inscenare uno sciopero che avrebbe paralizzato uno snodo cru- ciale per il traffi co ferroviario del paese, organizzarono una manifestazione di protesta che non permise ai profughi di scendere, né tantomeno alla Pca

51. Il buon Samaritano, Stati Uniti, 1948. 52. Le condizioni dei profughi giuliani a Roma, «La Settimana Incom»,n. 00220, 3 dicem- bre 1948. In Archivio Istituto Luce-Cinecittà, < archivioluce.com>, visitato il 15 giugno 2020. 53. M. Galeazzi, Roma-Belgrado: gli anni della guerra fredda, Longo, Ravenna 1995, p. 162. 54. Traggo l’espressione da R. Spazzali, Esodo…esodi… in L. Pitacco (a cura di), 1947- 1997: memorie di un esodo. Fiume, Istria e Dalmazia. Catalogo della mostra documentaria, Comune di Trieste – Assessorato alla Cultura, Trieste 1997, p. 21.

189 e alla Croce rossa di fornire il pasto caldo appositamente predisposto per il loro approvvigionamento. Apostrofati come fascisti, fatti oggetto di minac- ce e insulti da parte dei manifestanti, gli esuli restarono bloccati a Bologna per molte ore, prima che il convoglio riuscisse a partire in direzione di Par- ma, dove solo a tarda sera i soccorsi poterono essere forniti55. L’episodio, per lungo tempo rimosso dalla memoria collettiva, non ri- mase isolato (altri profughi furono vittime di aggressioni verbali da parte di militanti comunisti nei porti di Venezia e Ancona in occasione di alcuni sbarchi del Toscana) e si consumò nel solco di una serrata propaganda por- tata avanti dallo stesso Pci, sia attraverso i suoi organi di stampa, sia per mezzo di altri strumenti. In tal senso appare signifi cativo un manifesto diffuso nel gennaio 1947 nel territorio monfalconese, che appariva depositario di molti dei luoghi co- muni fatti ricadere dagli ambienti comunisti sulle spalle degli esuli istriani: «Chi sono gli esuli istriani? Essi sono individui compromessi con il fa- scismo, borsaneristi e affamatori del popolo. È dovere di ogni democratico smascherare apertamente questi fascisti istriani […] Gli esuli? Pigliateli a calcioni nel sedere»56. E infatti, quasi a voler incoraggiare la prassi, sul ma- nifesto campeggiava la fi gura di un militante nell’atto di eseguire il gesto. È però opportuno notare che i vertici del Pci non avessero mancato di considerare come eventuali atteggiamenti di astio e ostilità nei confronti dei profughi avrebbero potuto ripercuotersi sul partito, provocando a quest’ulti- mo, danni di immagine e complicazioni. In proposito si veda una circolare riservata, fi rmata da due dirigenti di spicco quali Luigi Longo e Pietro Secchia, inviata il 18 febbraio 1947 alle varie federazioni comuniste, relativamente al «lavoro politico e assistenziale in direzione dei profughi di Pola e della Venezia Giulia». Il documento, pur denunciando la «speculazione politica» legata all’eso- do animata da «elementi sciovinisti» individuati in funzionari governativi, organi di governo ed esponenti Alleati, invitava i militanti a non limitarsi a condannare la scelta degli esuli («non dobbiamo limitarci a dire che hanno fatto male ad abbandonare le loro case»), poiché tale atteggiamento sarebbe equivalso ad abbandonare i profughi, gettandoli «nelle braccia della rea-

55. L’episodio, riportato da Claudio Magris (Quando le foto parlano d’infamia, «Corrie- re della Sera», 31 agosto 1991) e poi ampiamente ripreso da gran parte degli studi sull’esodo, si è saldato nella memoria collettiva degli esuli ed è molto spesso defi nito con l’espressione di treno della vergogna. 56. Il manifesto, dall’eloquente titolo Sciacalli!, venne pubblicato, il 25 febbraio 1947, da «La libertà», organo della Democrazia cristiana di Vercelli.

190 zione», che avrebbe sfruttato a scopo politico il loro risentimento per farne «una massa di manovra contro il nostro partito e la democrazia». Era dunque necessario che il partito, attraverso le sue diverse sezioni, svolgesse un’azione di «chiarifi cazione politica e solidarietà pratica», an- dando incontro, nelle varie città italiane, alle necessità e alle esigenze dei profughi. In tal senso la relazione, attenta a non fare entrare in confl itto le esigenze dei giuliano-dalmati con quelle di altre categorie più deboli come senza tetto e disoccupati, presentava una serie di proposte che individuava- no nella ricerca di sistemazione e di lavoro i due principali terreni sul quale concentrare gli sforzi. Relativamente al primo aspetto, la proposta era quella di censire sul territorio le effettive possibilità ricettive e, una volta individuate, mettere a disposizione dei profughi stabili e appartamenti disabitati. L’assunzione di una quota straordinaria di giuliano-dalmati nelle industrie e nelle opere pubbliche e la distribuzione ai profughi di un’aliquota di terre incolte nelle campagne, rappresentavano invece i cardini su cui poggiava il programma del loro riassorbimento lavorativo57. Tali direttive arrivarono però in ritardo e non riuscirono né a incrina- re l’immagine dell’esule fascista che la stampa e la propaganda di partito avevano contribuito a diffondere, né a incidere in maniera decisiva sull’at- teggiamento degli stessi militanti, come traspare, ad esempio, da una lettera inviata a Togliatti nel marzo 1947 da Giuseppe Giacomazzi (segretario so- cialista della Camera del Lavoro di Pola) e Rodolfo Manzin (vice segreta- rio della federazione socialista dell’Istria). I due fi rmatari richiamavano un colloquio avuto nel novembre 1946, durante il quale il segretario comunista, aveva loro assicurato che, pur non condividendone la scelta, il partito avreb- be riservato «ogni possibile assistenza e comprensione nei confronti degli istriani». La realtà era però differente, poiché gli scriventi facevano notare come da una serie di verifi che effettuate tra i profughi, tale principio «non aveva trovato applicazione pratica nelle sezioni del Pci»58. Diametralmente opposto a quello comunista appariva l’approccio adot- tato dalla Dc, propensa invece, fi n da subito, a tenere un atteggiamento

57. Circolare per il lavoro politico e assistenziale in direzione dei profughi di Pola e della Venezia Giulia, 18 febbraio 1947. In FIG, Archivi del Partito comunista italiano, Archivio Mosca (AM), Jugoslavia e Venezia-Giulia, MF 134, B. 216, Trieste e Pola. Corrispondenza e relazioni sulla situazione politica a Trieste e nell’Istria, 1947. 58. Lettera di Giuseppe Giacomazzi e Rodolfo Manzin a Togliatti, 8 marzo 1947. In FIG, Archivi del Partito comunista italiano, Archivio Mosca (AM), Jugoslavia e Venezia- Giulia, MF 134, B. 216, Trieste e Pola. Corrispondenza e relazioni sulla situazione politica a Trieste e nell’Istria, 1947.

191 benevolo, rassicurante e di assoluto sostegno ai profughi, come si evince da un comunicato del gennaio 1947, con il quale la segreteria nazionale del partito invitava tutte le sezioni a offrire agli istriani «un’ospitalità af- fettuosa e generosa» e a prendere nei loro confronti iniziative «di carattere benefi co»59. Una posizione che faceva leva su tre aspetti: la forte saldatura dei giuliano-dalmati con la chiesa cattolica, tradizionale punto di riferimento per molte comunità istriane, il carattere moderato del partito e la sua ac- cezione cattolica, depositaria del soccorrevole assistenzialismo cristiano del quale intendeva essere esponente e rappresentante e, non certo per ultime, le prospettive politiche offerte, sul piano dei consensi elettorali, dai giuliano-dalmati, che avrebbero rappresentato un consistente serba- toio di voti da utilizzare e anteporre a un’ipotetica avanzata del Partito comunista. Gli atteggiamenti di rifi uto poggiarono però le proprie basi su elementi che andarono oltre il solo pregiudizio politico. Nella distratta Italia del do- poguerra la diaspora istriana assumeva i contorni di una storia capace di ria- prire ferite non ancora rimarginate e cioè la sconfi tta della guerra, la perdita delle colonie e di parte del territorio nazionale. Ma non era tutto: gli esuli rappresentavano delle nuove bocche da sfamare, e assumevano le sembianze di scomodi concorrenti ai pochi posti di lavoro che poteva offrire la disgre- gata Italia del dopoguerra. Una condizione espressa in maniera eloquente da Silvia Dai Prà, che nel suo romanzo Senza salutare nessuno scrive come «nell’immaginario e nell’ignoranza comune» fossero divenuti «i fascisti che venivano a rubare un pane già così scarso»60. L’intreccio degli elementi fi nora esposti rese lenta e diffi coltosa l’integra- zione degli esuli nelle diverse maglie della società italiana, lasciandoli per lungo tempo in una condizione di isolamento ed emarginazione. Occorrerà dunque attendere la fi ne degli anni Cinquanta per assistere al compimento del processo di inserimento dei giuliano-dalmati, diretta conseguenza dei provvedimenti governativi intrapresi in loro favore e dell’incedere del mira- colo economico, che ne favorirono il progressivo assorbimento nel tessuto economico e produttivo della società italiana61.

59. Interessamento della Democrazia Cristiana per i profughi polesi e istriani, «L’Arena di Pola», 23 gennaio 1947. 60. S. Dai Prà, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 135. 61. Cfr. L. Monzali, La diaspora giuliano-dalmata nella storia dell’Italia repubblicana. Una rifl essione, in «La Voce di Fiume», 1 (2014), p.6.

192 5. Dai campi profughi ai borghi giuliani

Come precedentemente accennato, dopo l’arrivo in Italia per i giuliano dalmati si aprirono le porte di campi e centri di raccolta al cui interno la per- manenza si protrasse per molti anni. Istituiti per fare fronte a un’emergenza ritenuta di carattere temporaneo, fi nirono invece per durare decisamente più a lungo del previsto, se è vero che nel 1963 erano ancora circa 8.500 i pro- fughi ospitati nei quindici campi ancora attivi62. L’amministrazione dei campi era affi data al ministero dell’Interno che, coadiuvato da altri soggetti, primi tra tutti l’Assistenza post-bellica e gli Enti comunali di assistenza, si occupava non soltanto della gestione delle strutture, ma anche di corrispondere ai profughi forniture alimentari, generi di prima necessità e un sussidio giornaliero in denaro. Il trasferimento avveniva seguendo una trafi la dai meccanismi collauda- ti, che iniziava con una prima tappa nel centro di sosta ricavato nei pressi dell’Arsenale a Venezia, capace di accogliere fi no a 2.000 persone, o in quel- lo del porto di Ancona che aveva una capienza di 600 posti63, oppure al Silos di Trieste, vecchio deposito del grano nei pressi della stazione ferroviaria, descritto da Marisa Madieri come «un tenebroso villaggio stratifi cato» nel quale si assisteva «a un incessante andirivieni di persone»64. Da qui, dopo essere stati censiti e aver usufruito di un primo ricovero, vettovagliamento e cure sanitarie, i profughi venivano trasferiti al centro di smistamento di Udine, una caserma costruita durante il fascismo e poi utilizzata dalla Gioventù Italiana del Littorio (Gil), che nel dopoguerra di- venne un punto nevralgico dell’esodo giuliano-dalmata. Tra il 1947 e il 1960 transitarono nei locali dell’edifi cio circa 100.000 persone, in attesa di essere smistate e raggiungere il campo di destinazione, assegnato non in base alle singole preferenze, ma in virtù delle effettive disponibilità ricettive delle diverse strutture della penisola65. Nei centri di raccolta la vita quotidiana scorreva all’interno di grandi camerate, dove interi nuclei familiari spartivano box di pochi metri quadrati,

62. G. Oliva, Profughi, cit., p. 273. 63. Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione profughi, B. 12, volume I, F. A 1, Direttive del presidente del consiglio dei ministri. Relazione sulle operazioni di esodo da Pola. 64. M. Madieri, Verde acqua e La radura, cit., pp. 68-69. 65. Cfr. A. Clara, Il campo di via Pradamano, in «Aestovest», , visita- to il 20 giugno 2020; E. Varutti, Il campo profughi di via Pradamano e l’associazionismo giuliano dalmata a Udine: ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adria- tici dell’esodo, 1945-2007, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, Udine 2007.

193 separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da barriere di compensato. Una condizione di costante precarietà, eloquentemente richiamata non solo dai profughi, ma anche da relazioni prefettizie e corrispondenze gior- nalistiche. Si veda, a titolo esemplifi cativo, quanto denunciato dal prefetto di Massa, che nel febbraio 1947 informava il ministero degli Interni come nel campo «sorto affrettatamente» nei locali della Colonia Edison, in pros- simità della spiaggia di Marina di Massa, fosse affl uito un numero di profu- ghi (circa 800) più elevato rispetto alla capacità ricettiva della struttura. Ne derivava, si legge nella corrispondenza, un trattamento «assolutamente in- suffi ciente», che generava tra gli ospiti «un sempre più vivo malcontento»66. Sulle medesime frequenze, nello stesso periodo, si sintonizzavano anche il prefetto di Napoli, che defi niva «precarie»67 le condizioni del migliaio di esuli alloggiati nei campi della provincia e quello di Bologna, che annotava come in città risiedesse «stabilmente un notevole numero di profughi giu- liani», ospitati all’interno del Campo profughi numero 12 «in condizioni veramente pietose»68, dovute principalmente a scarsità di igiene e agli insuf- fi cienti rifornimenti alimentari. La stessa istantanea arrivava anche dal Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara, principale organizzazione dell’associazionismo degli esuli poi trasformatasi nel 1948 in Associazione Nazionale Venezia-Giulia e Dalmazia (Anvgd), che nel 1947 inviò un promemoria al presidente del consiglio De Gasperi denunciando la «sempre più grave situazione dei profughi giuliani», costretti a vivere forzatamente dalla mancanza di abitazioni e di opportunità lavorative in campi «insuffi cienti e pessimamente amministrati»69. Le faceva eco «L’Arena di Pola», che nell’autunno 1947 pubblicò una serie di articoli sulla situazione di alcuni centri di raccolta sorti nelle varie città italiane. A Firenze, nel campo di via Guelfa, gli esuli vivevano in una trentina di stanzoni, in ciascuno dei quali alloggiavano tre le otto e le dieci famiglie in

66. Nota (prot. n. 200/197) inviata il 27 febbraio 1947 da Attilio Gargiuli, prefetto di Massa, al ministero degli Interni. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 1, F. 44, Marina di Massa, colonia Edison per ricovero profughi dalla Venezia Giulia. 67. Telegramma (prot.n.26265) inviato da Riccardo Ventura, prefetto di Napoli, il 27 febbraio 1947 all’Uzc. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 19, volume I, F. 50, Napoli. Assistenza esuli da Pola. 68. Nota (prot. n. 691) inviata il 21 marzo 1947 da Giovanni D’Antoni, prefetto di Bolo- gna, all’Uffi cio per le Zone di Confi ne. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B.2, Volume I, F. 88, Bologna: Campo profughi n. 12. 69. Lettera inviata il 16 gennaio 1947 dal Comitato Alta Italia per la Venezia-Giulia e Zara ad Alcide De Gasperi. In Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, Busta 1, Fasciolo 60, Situa- zione dei profughi giuliani e dalmati. Promemoria della prof.ssa Lina Gerin.

194 una situazione di grave disagio al punto che, riferiva nel suo contributo Steno Califfi , i letti erano costituiti da «semplici brande in ferro», le coperte «face- vano la funzione di lenzuola», mentre le donne erano costrette a «spogliarsi a letto» per la mancanza di spazi divisori, delimitati solo successivamente da alcuni cartoni che consentivano una suddivisione degli spazi in maniera tale che una famiglia di quattro persone potesse disporre di trenta metri quadrati70. Non si presentava migliore, per portare altri esempi, la situazione di Luc- ca, dove nei cameroni del campo di Piazza del Collegio «non esistono [esi- stevano] neanche i tramezzi» e di Parma, città nella quale i circa 430 esuli erano «sistemati malissimo» e, dopo mesi dal loro arrivo, la loro quotidia- nità appariva ancora scandita da mancanza di lavoro, «alloggio inesistente, mangiare miserevole». In poche parole, concludeva l’articolo, «da indigenza assoluta»71. Ambienti malsani, sovraffollati e promiscui, nutrizione defi citaria, pre- carie condizioni igieniche, mancanza di spazi intimi e personali, rigide nor- me atte a regolare entrata e uscita degli ospiti e isolamento dal contesto sociale, divennero i tratti distintivi dei campi, vere e proprie città nella cit- tà, che presentavano al proprio interno infermerie, scuole elementari, asili, chiese, empori commerciali, luoghi di svago e ricreazione come ad esempio, cinema, circoli e campi da gioco per la pratica di attività sportive. Per molti profughi l’impatto con la realtà dei centri di raccolta fu trauma- tico, generando insofferenza, irrequietezza e apatia, sfociate in una condi- zione di scoramento e disillusione sempre crescente, che trova una sua con- creta espressione nelle considerazioni degli esuli ospitati a Caserta. Riunitisi in assemblea, redassero un documento che defi niva i campi come «bruttura umana e vergogna di una nazione civile, perché campo profughi signifi ca promiscuità, vita antigienica, abitudine all’ozio, vita antisociale, demoraliz- zazione completa e conseguente annullamento della personalità umana»72. Smistati nei campi e senza più nulla, i profughi si sentirono abbando- nati, segregati e reclusi. Una sensazione acuitasi nel maggio 1949, quando il ministro dell’Interno Scelba dispose che tutte le questure provvedessero all’accertamento individuale degli esuli che avessero richiesto il rinnovo della carta d’identità mediante «scheda segnaletica con relative fotografi e e impronte digitali»73.

70. S. Califfi , Via Guelfa 23, Firenze, «L’Arena di Pola», 3 ottobre 1947. 71. Anche a Lucca troppe cose non vanno, «L’Arena di Pola», 3 ottobre 1947; Tragica situazione a Parma, «L’Arena di Pola», 17 ottobre 1947. 72. La bruttura dei campi deve venire eliminata, «L’Arena di Pola», 5 dicembre 1951. 73. Ministero degli Interni, circolare 224/17437, 5 maggio 1949.

195 Il provvedimento, poi ritirato per intervento diretto di De Gasperi, creò scalpore, critiche e polemiche, soprattutto tra i profughi e tra i loro apparati associativi, primo tra tutti l’Anvgd, che con una circolare invitò i propri comitati regionali a prendere provvedimenti nei confronti di una norma che «in dispregio del diritto alla libertà sancito dalla costituzione», infl iggeva ai profughi un «trattamento da comuni delinquenti»74. Nei centri di raccolta maturava tra i profughi un senso di risentimento e spaesamento, nutrito dalla consapevolezza dell’impossibilità di ritornare al mondo precedente e dalle diffi coltà di trovarsi a convivere, forzatamente, con una realtà estranea e una condizione, quella di profugo, prima d’ora sconosciuta. Sembravano così emergere, anche per gli esuli istriani, i lineamenti di quello che un pool di psicologi britannici, che aveva condotto un’inchiesta su un gruppo di ex lavoratori forzati ricoverati nei campi profughi dell’Unr- ra in Germania, defi nì il «complesso della liberazione»75 e cioè una condi- zione comune a molti dei profughi post bellici, per i quali la fi ne della guerra non aveva automaticamente coinciso con il superamento delle sofferenze e dei traumi fi sici e mentali che essa aveva lasciato. Una situazione che af- fondava le sue radici nell’insofferenza e nella consapevolezza della propria frustrazione, rinsaldata anche dall’assenza di piani concreti per un possibile miglioramento del proprio futuro. Ciò induce a un’ulteriore rifl essione. Il campo ha rappresentato un para- digma del Novecento, attraversando l’intero secolo come luogo di prigionia, violenza e sterminio, ma anche come luogo nel quale si manifestò l’eredi- tà del confl itto che ebbe nei milioni di profughi europei (giuliano-dalmati compresi) una sua conseguenza diretta. Uomini e donne per i quali il campo assunse declinazioni differenti, che possono essere interpretate attraverso due chiavi di lettura: eccezionalità, e cioè il campo inteso come un’esperien- za mai provata prima che trascinò con sé sofferenze e disagi, ed esclusione che segnava il confi ne tra quanti si trovarono a vivere nei campi, isolati dal resto della società, e quanti invece ne restarono fuori. Applicando il paradigma dell’antropologo Marc Augé, il centro di rac- colta diventa così un non luogo76, uno spazio dell’anonimato e della sper- sonalizzazione, un lemma che indica la perdita della propria terra e della

74. Circolare (n. 373) inviata dalla segreteria nazionale dell’Anvgd ai vari comitati regio- nali il 5 luglio 1949. In Archivio di Stato di Chieti, Fondo Prefettura, IV Versamento, Uffi cio Assistenza Post-bellica, F. 3, Comitato provinciale per la Venezia Giulia 1947-1957. 75. I. Buruma, Anno Zero. Una storia del 1945, Mondadori, Milano 2015, p. 17. 76. Cfr. M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 2018.

196 propria condizione. Un’esperienza che porta al rovesciamento dell’identità e a vivere un senso di dispersione, disequilibrio, turbamento e fragilità. Con- dizioni che defi nirono a pieno la profuganza dei giuliano-dalmati, soprattut- to per le generazioni più anziane, per le quali fu diffi cile superare il trauma e spesso impossibile pensare di poter ricominciare a vivere. «Per i nostri vecchi» – scriveva Fulvio Tomizza – fu infatti «duro lasciare la terra sulla quale ti sono [erano] venuti i capelli bianchi»77. Fu soltanto a partire dal 1952 che i centri di raccolta iniziarono gradata- mente a svuotarsi seppur, come si è visto, non completamente. Un passaggio reso possibile grazie alla già citata Legge Scelba i cui rifl essi si estesero anche sul piano edilizio. Il provvedimento, infatti, rese possibile nell’arco di un quadriennio l’as- segnazione ai profughi del 15% dei quartieri di edilizia popolare edifi cati dagli Istituti autonomi delle case popolari. Sorsero così in circa quaranta cit- tà italiane i cosiddetti borghi giuliani, come ad esempio il Villaggio Trieste a Bari, il Villaggio Dalmazia a Novara, quello di San Bartolomeo a Brescia o di Santa Caterina a Torino: strutture autosuffi cienti dotate quasi sempre di propri servizi (chiese, scuole, esercizi commerciali e luoghi di ritrovo che, in qualche caso, appaiono però alquanto ridotti) edifi cate seguendo una precisa strategia edilizia tesa a separare i nuovi insediamenti dal resto della città, privilegiandone l’ubicazione nelle aree suburbane, non ancora o scar- samente edifi cate e popolate. Complessi edilizi che permisero ai giuliani di abbandonare progressivamente la precarietà dei campi per trasferirsi in abi- tazioni vere e proprie, facilitando così il loro inserimento nelle nuove realtà.

77. F. Tomizza, Materada, cit., p. 27.

197 VII. I profughi dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

1. Profughi a Trieste

Trieste, che nella prima fase dell’esodo dall’Istria assunse il ruolo di luo- go di transito per i profughi diretti nei campi e nei centri di raccolta dislocati nelle varie città italiane, divenne invece, insieme a Gorizia, la meta fi nale de- gli esuli dalla Zona B del Tlt, la quasi totalità dei quali si fermò stabilmente nel capoluogo giuliano. Sulla decisione incisero molteplici fattori, primi tra tutti la prossimità territoriale, i solidi legami tra le due aree, interrotti soltan- to dalle politiche di limitazione adottate dalle autorità jugoslave e, non per ultimo, il fatto che gli arrivi coincisero con l’ultima fase di governo militare alleato della Zona A, prossimo a essere sostituito da un’amministrazione ita- liana, dimostratasi favorevole all’arrivo di persone che avrebbero contribuito a rinsaldare l’italianità del territorio appena rientrato nei confi ni nazionali. Secondo i dati raccolti dalla prefettura triestina, alla data dell’11 otto- bre 1956 erano quasi 24.500 i profughi che avevano lasciato la Zona B del Tlt in direzione della città: 2.700 continuarono il loro viaggio verso Udi- ne, dove sarebbero stati ospitati nel locale centro di smistamento per poi essere sventagliati, con tempistiche differenti, nelle varie località italiane, mentre i rimanenti 21.7601 rimasero alle pendici del castello di San Giusto, contribuendo così a far diventare Trieste «la più grande città istriana»2 del dopoguerra. Accogliere e organizzare un’imponente massa di persone non era però impresa semplice e comportò per le autorità locali la predisposizione, ac-

1. Elenco dei profughi giunti a Trieste compilato dalla Prefettura di Trieste in data 26 ottobre 1956. In Ast, Commissariato generale del governo, Gabinetto, B. 31, classe 8/1, Si- tuazione giornaliera profughi. 2. Irsrec-Fvg, Vademecum per il giorno del ricordo, cit., p. 28.

198 canto a quello assistenziale, di un piano che avrebbe inevitabilmente dovuto tener conto della carenza di edifi ci per la sistemazione dei profughi. L’analisi della documentazione prodotta dal Commissariato generale del governo, entrato in funzione subito dopo il passaggio della città all’Italia3, evidenzia come soltanto una minima parte degli esuli riuscì a trovare auto- nomamente una sistemazione. La maggioranza fu invece costretta a ripiega- re su centri di raccolta e alloggi provvisori, che però assunsero i contorni di una soluzione defi nitiva nella quale i profughi vissero per anni in condizioni di estremo disagio4. Emergevano così, anche nel caso dei profughi dalla Zona B del Tlt, le stesse dinamiche che fecero da sfondo all’accoglienza dei protagonisti della prima fase dell’esodo dall’Istria, che videro i centri di raccolta svolgere la funzione di insediamento provvisorio in attesa di un intervento governativo più strutturato sul piano edilizio e abitativo. Anche in questo caso la fotografi a che arriva dai campi restituisce nei suoi contorni sovraffollamento, promiscuità, condizioni igienico-sanitarie gravose, cui si univano un’alimentazione spesso defi citaria e lo scoramen- to dei profughi costretti a una forzata inattività che infl uiva negativamente sul loro stato d’animo. Quest’ultimo aspetto non sfuggì a monsignor John O’Grady, segretario della National Conference of Catholic Charites, orga- nizzazione umanitaria statunitense di matrice cattolica istituita nel 1910 con l’obiettivo di essere, come recita il suo atto fondativo, «un avvocato per i poveri» («to be an attorney for the poor»5). Egli affi dò le sue rifl essioni a un rapporto redatto al termine di un viaggio in Italia che, dopo una sosta a Napoli, Firenze e Gorizia, lo condusse anche a Trieste, dove visitò tre centri di raccolta per profughi giuliano-dalmati. Dopo aver sottolineato come nei campi le condizioni di vita apparissero «indicibilmente cattive» a causa di «sovraffollamento, mancanza di servizi

3. Durante il periodo del Governo militare alleato, l’amministrazione della città era in parte affi data ad autorità italiane dipendenti dai ministeri della Repubblica. A partire dal set- tembre 1952, la supervisione dell’attività amministrativa fu assegnata a un direttore superiore dell’amministrazione, e cioè un prefetto direttamente subordinato al ministero dell’Interno italiano. Con il ritorno della città all’Italia, tale fi gura fu sostituita da quella del Commissario generale del governo. 4. Secondo un rapporto fi rmato da Giovanni Palamara, Commissario generale del gover- no, alla data del 26 ottobre 1956 il numero dei profughi provenienti dalla Zona B del Tlt si- stemati privatamente in città ammontava a 6.789 persone. Molto più numerosi, e cioè 12.488, quelli ospitati nei centri di raccolta. In Ast, Commissariato generale del governo, Gabinetto, B.31, classe 8/1, Situazione giornaliera profughi. 5. Catholic Charities USA, Our History, , visitato il 25 giugno 2020.

199 igienici e carenza di dieta adeguata», la relazione si soffermava sulla situa- zione psicologica dei ricoverati, riscontrando come una buona parte di essi si trovasse in uno stadio di generale sconforto, acuito anche dall’inattività e dalla mancanza di prospettive future, dal momento che «nessuno aveva un lavoro e neppure la previsione di trovare un impiego»6. Un’istantanea del tutto simile arrivava anche da una relazione di Giulio Zmajevich, direttore del Centro sanatoriale e dispensariale anti-tubercolare per profughi stranieri creato dal Gma a Prosecco, località alle porte di Trie- ste. Nel piccolo borgo posto sulle pendici del Carso, sorgeva anche un cam- po per profughi stranieri al cui interno furono ospitati alcuni esuli dalla Zona B del Tlt, in una situazione caratterizzata – come in altri numerosi casi – da spazi angusti, umidi e scarsamente ventilati, ai quali si aggiungeva un «vitto non eccellente» che contribuiva, secondo il medico, ad aumentare i «disagi materiali e morali» dei profughi7. Oltre a quello di Prosecco, sul territorio triestino sorgevano altri centri di raccolta ubicati sia sull’altopiano carsico (Padriciano e Villa Opicina), sia nell’area cittadina, dove erano attivi, solo per citare i principali, i complessi di Campo Marzio, Barcola, del Silos e della vecchia Risiera di San Sabba. Uno dei luoghi simbolo e simbolici dell’esodo giuliano-dalmata nella pro- vincia di Trieste era certamente costituito dal campo di Padriciano, utilizzato come centro di raccolta a partire dal 1948. Sede periferica di alcune installa- zioni militari delle forze anglo-americane di stanza nel Tlt, venne riadattato come centro di raccolta e di assistenza ai profughi provenienti dalla Zona B. Le prime baracche in legno, progettate dal Genio civile di Trieste per conto del Gma prendendo spunto dal modello utilizzato per ospitare gli sfollati del terremoto di Messina del 1908, sorsero nel 1951. «Scatole di legno di quattro metri per quattro»8, le defi nisce Pietro Spirito nel romanzo Il suo nome quel giorno, completamente prive di riscaldamento e acqua corrente, isolate con lastre in eternit e disposte nella parte centrale del campo, nel quale sorgevano anche un posto di controllo di polizia, le palazzine dell’amministrazione (in muratura), i servizi igienici comuni e altri edifi ci adibiti a mensa e magazzini9.

6. Relazione di Monsignor John O’Grady. In Asd, Serie Affari Politici 1951-1957; Trieste (1952), B. 570, F. 19, Situazione profughi stranieri nella zona di Trieste. 7. G. Zmajevich, La tubercolosi nei campi profughi stranieri di Trieste, La editoriale libraria, Trieste 1953, pp. 18-19. 8. P. Spirito, Il suo nome quel giorno, Marsilio, Venezia 2018, p. 23. Il romanzo narra la storia di Giulia, bambina nata a Padriciano e poi venduta da sua madre a un’agiata famiglia di italiani residenti in Sudafrica. 9. Cfr. C.R.P. di Padriciano Museo di Carattere Nazionale, Storia di Padriciano, , visitato il 26 giugno 2020.

200 Il campo, che raggiunse il picco di presenze nel 1954 ospitando circa 5.000 profughi giuliano-dalmati10, venne successivamente utilizzato come Centro di assistenza profughi stranieri (Caps) per richiedenti asilo giunti in Italia, chiu- dendo defi nitivamente i battenti il 31 ottobre 198011. Luogo che ha visto la storia lasciare un segno indelebile, Padriciano pre- senta vive, ancora oggi, le tracce del suo passato: le baracche di legno e le latrine sono state abbattute, ma seppur avvolte da un’atmosfera di abban- dono e oblio, le palazzine della direzione, la mensa, i magazzini, la scuola e l’infermeria sono rimaste intatte. Edifi ci vuoti e logorati dal tempo che continuano con la loro presenza a essere testimoni di una vicenda ripercor- sa dalla mostra permanente Centro Raccolta Profughi. Per una storia dei campi profughi istriani, fi umani e dalmati in Italia (1945 – 1970), allestita nell’area del vecchio campo dall’Unione degli Istriani. Spostando lo sguardo verso il territorio cittadino, troviamo, come si è detto, altre strutture su alcune delle quali vale la pena soffermarsi. La prima, già precedentemente menzionata, è il Silos che, luogo di arri- vo e di transito per i primi esuli dall’Istria, rimase in attività anche durante l’ultima fase dell’esodo dalla Zona B del Tlt, ospitando circa 1.500 persone nel 1955, scese a 1.222 (336 famiglie) due anni più tardi12. Claudio Magris lo defi nirà come «un purgatorio notturno e fumoso»13, nel quale ogni singolo piano era suddiviso in box di circa trenta metri qua- drati delimitati da sottili pareti di legno e soffi tti in carta, che si susseguivano uno dopo l’altro creando l’effetto di un alveare brulicante di persone che, in condizioni di promiscuità, vivevano in locali maleodoranti, privi di luce e aerazione. Un altro luogo che accolse gli esuli fu la Risiera di San Sabba: quello che si presentava, a tutti gli effetti, come un ingranaggio dell’apparato con- centrazionario nazista, fu adibito dal Gma, dopo la guerra, a uffi cio per la raccolta di informazioni per le Dps. A partire dal 1949 iniziò a funzionare

10. R. Pupo, Il «centro raccolta profughi» di Padriciano, in Irsml, Un percorso tra le violenze del Novecento nella Provincia di Trieste,cit., p. 101. 11. Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza di identifi cazione ed espulsione, nonché sulle condizioni di trattamento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate, Relazione fi nale. In Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Disegni di Legge e Relazioni, Documenti (doc. 22-bis, n.21), p. 33, in ,visitato il 26 giugno 2020; C. Hein, Storia del diritto di asilo in Italia, in Id. (a cura di), Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto di asilo in Italia, Donzelli, Roma 2010, p. 35. 12. Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il Clni nell’assistenza ai profughi 1946- 1954, supplemento a «La Nuova Voce Giuliana», n. 55, Trieste 2002, p. 43. 13. C. Magris, Alla cieca, Garzanti, Milano 2005, p. 67.

201 come campo per Dps e rifugiati stranieri accogliendo anche, fi no al 1954, i profughi giuliano-dalmati che, successivamente, trovarono rifugio in un’al- tra struttura attigua, capace di ospitare, nel 1955, circa 2.000 persone. Suddiviso in tre sezioni (celibi, nubili e famiglie), ciascuna delle quali composta da minime unità abitative separate le une dalle altre da cartoni o barriere di compensato, provvisto di spazi a uso collettivo (refettorio, biblio- teca, scuola, asilo nido, locali per il culto), il campo di San Sabba restò attivo fi no al 1965, ospitando profughi, rifugiati e apolidi provenienti soprattutto dai paesi dell’Europa orientale (jugoslavi, russi, rumeni, albanesi), arrivati a Trieste dopo aver varcato clandestinamente il confi ne italo-jugoslavo14. Nel 1958 la Commissione Zellerbach, presieduta da Harold Zellerbach15 e istituita su iniziativa dell’International Rescue Committee (Irc), organizza- zione umanitaria statunitense fondata nel 1933, si recò in Europa per valuta- re la situazione dei rifugiati nel continente, visitando svariati campi ancora in attività tra i quali vi era anche quello di San Sabba. Al termine della sua missione stilò un rapporto, il Report of the Zellerbach Commission on the European Refugee Situation, che seppur non strettamente coevo alle vicende dei profughi giuliano-dalmati, rappresenta comunque una preziosa testimo- nianza capace di fornire una precisa istantanea del campo e di rifl etterne i tratti che, con tutta probabilità, apparivano alquanto simili a quelli degli anni precedenti. Secondo quanto si legge nel documento, San Sabba che aveva una ca- pacità ricettiva di un migliaio di posti, accoglieva circa 1.500 persone che vivevano in condizioni «inadeguate e primitive» («inadeguate and primitive conditions»), acuite anche dalla mancata assistenza economica e dalle diffi - coltà di inserimento lavorativo. Gli ospiti si dividevano tra profughi in sosta e in transito: questi ulti- mi, la maggioranza, restavano il tempo necessario a essere giudicati da un’apposita commissione che, costituita da rappresentanti del governo

14. Cfr. F. Fait, Il campo per i rifugiati stranieri della Risiera di San Sabba, in Id. (a cura di), Un tempo pieno di attese, Civici musei di storia e arte, Trieste 2012, pp. 41, 43, 44. 15. Harold Lionel Zellerbach nacque a San Francisco nel 1894. Diresse per cinquant’anni la Crown Zellerbach Corporation, società cartaria fondata da suo nonno nel 1870. Mecenate, fu presidente dell’Art Commission di San Francisco e direttore di numerose associazioni culturali della città. Nel 1957 fu nominato dal governo degli Stati Uniti a presiedere una commissione istituita per esaminare le problematiche e la loro relativa risoluzione, legate alla tematica dei rifugiati del secondo dopoguerra. Delegato statunitense del Consiglio atlantico, presidente della Camera di commercio degli Stati Uniti e della National Paper Trade Corpo- ration, morì il 30 gennaio 1978. Cfr. Harold Lionel Zellerbach, 83, Dies; An Industrialist and Patron of Arts, in «The New York Times», 31 gennaio 1978.

202 italiano e dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) era chiamata a stabilire l’idoneità dei richiedenti a ricevere o meno lo status di rifugiato che avrebbe consentito il loro inserimento in programmi di ricollocamento lavorativo nei paesi che ammettevano quote di lavoratori emigrati. Ricevuta l’idoneità i profughi venivano tra- sferiti nei campi di Cremona, Capua, Altamura, Farfa Sabina, Alatri e Salerno, dove sostavano in attesa di completare le procedure necessarie all’emigrazione. Gli altri, ed erano la maggioranza, restavano invece a San Sabba, in uno stato di precarietà e disagio materiale e morale che, protraendosi per lungo tempo, contribuiva, si legge in un passaggio della relazione, a far aumentare il loro senso di insofferenza e disagio («di- scomfort and impatience»)16. Ritornando ai profughi dalla Zona B del Tlt, occorre sottolineare come per quanto concerne la loro assistenza si fosse rivelato fondamentale an- che l’apporto del Clni, dell’Onapgd, della Croce rossa, del World Council of Churches (Wcc), organizzazione evangelica-cristiana nata a Ginevra nel 1948 e della Commissione cattolica per le migrazioni (Ccim), anch’essa con sede nella città svizzera, che a partire dal 1956 intraprese la propria attività in favore «delle molte migliaia di profughi giuliani che si trovano [trovava- no] a Trieste»17.

2. Casa e lavoro: strategie e politiche di assistenza

La permanenza nei campi profughi, caratterizzata come nella prima fase dell’esodo da tempistiche dilatate rispetto alle previsioni e alle aspettative dei profughi, mise le autorità governative di fronte al fatto che anche nel caso degli esuli dalla Zona B del Tlt il tema relativo alla costruzione di abi- tazioni destinate ad accoglierli rappresentasse una problematica che richie- deva un’immediata risoluzione. Occorreva dunque programmare il loro insediamento mediante la co- struzione di complessi edilizi che garantissero l’assorbimento graduale dei profughi e il progressivo svuotamento dei campi. Un primo passaggio in

16. Report of the Zellerbach Commission on the European Refugee Situation, in Gcr, , visitato il 27 giugno 2020. 17. Lettera inviata dalla Ccim al vescovo di Trieste Santin il 25 giugno 1956. In Ast, Commissariato generale del governo, Gabinetto, B. 31, classe 8/2, Assistenza ai profughi. Giunta cattolica italiana per l’emigrazione.

203 tal senso si snodò nel 1950 quando l’Onapgd realizzò la costruzione di 156 alloggi, seguiti da altri 210 nel 1952 e da 509 nel 195418. Un programma edilizio di vaste proporzioni, reso possibile grazie al fondamentale contributo di fi nanziamenti governativi, arrivati per mezzo dell’Uzc che affi dò all’Opera la realizzazione degli edifi ci con lo scopo, come si legge in una relazione fi rmata dalla stessa istituzione, di assicurare «la penetrazione di forze italiane nelle zone slave del territorio»19. Questo passaggio rivela un aspetto peculiare delle future strategie gover- native sul territorio triestino, attuate con il preciso obiettivo di procedere a un insediamento mirato dei profughi, che conobbe un’accelerazione dopo l’approvazione della Legge Scelba e a seguito del ricongiungimento della città all’Italia. Gli interventi edilizi interessarono la fascia di territorio che, compatta- mente abitata da popolazione slovena, congiungeva il confi ne italiano defi - nito dal Trattato di Parigi nel 1947 alla città di Trieste. I nuovi insediamenti furono realizzati seguendo un principio di «inge- gneria etnica»20, i cui lineamenti trovano più di un riferimento in una nota riservata inviata nel gennaio 1954 dal ministero dei Lavori pubblici all’Uzc, nella quale veniva affermata la piena consapevolezza di svolgere nei terri- tori giuliani un’attività edilizia volta a «neutralizzare le infi ltrazioni slave», ritenuta necessaria a «sorreggere le nostre rivendicazioni nazionali» e a raf- forzare quelli che il documento non esitava a defi nire i «coeffi cienti etnici dei nostri valori nazionali». Il ministero precisava però come tale programma avrebbe potuto vedere una sua attuazione soltanto dopo il defi nitivo passaggio della Zona A del Tlt all’Italia, sottolineando come, in attesa della «defi nizione giuridica» dei territori, fossero state avviate trattative affi nché fosse garantita l’erogazione di contributi destinati alla costruzione di case popolari che, «assegnate a elementi italiani», avrebbero assicurato «il carattere di italianità alle zone circostanti la città di Trieste»21.

18. Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il Clni nell’assistenza ai profughi 1946- 1954, cit., pp. 49-50. 19. Onapgd, Il programma edilizio dell’Opera nel territorio di Trieste. Il documento, non datato, ma presumibilmente redatto nel 1953, è citato in S. Volk, Italiani tra le due rive, in «Zapruder», 15 (2008), p. 19. 20. R. Pupo, Alcuni problemi di storia comparata: l’alto Adriatico dopo le due guerre mondiali, in V. D’Alessio, M. Orlić (a cura di), Upper Adriatic. Historical Panotpicon, in «West Croatian History Journal», 6-7 (2012), p. 29. 21. Nota riservata (prot.n. 78/s) inviata il 20 gennaio 1954 dal ministero dei Lavori pub- blici all’Uzc. In Apcm-Uzc, Sezione II, Trieste, B. 90, Volume II, F. 534, Infi ltrazione di elementi slavi nel corridoio Trieste Monfalcone.

204 Subito dopo il passaggio di Trieste all’Italia le autorità italiane proce- dettero così lungo il corridoio che portava da Monfalcone a Trieste, alla costruzione di veri e propri borghi (Chiarbole, Cacciatore, Prosecco, Opici- na, Sistana e Santa Croce) assegnati ai profughi. La loro presenza modifi cò radicalmente il popolamento e l’assetto demografi co del territorio, abitato in larga misura dalla componente slovena, nella quale riemerse la percezione di pratiche rievocanti il passato ventennio fascista che aveva lasciato ferite ancora aperte nella memoria di molti abitanti22. Giova infi ne ricordare come dinamiche affi ni, segnate dalla politica del rafforzamento dell’italianità, accompagnarono l’insediamento dei profughi anche nel tessuto urbano, poiché a Trieste i borghi giuliani sorsero in aree di carattere popolare, prevalentemente abitate dalla classe operaia, nel tentati- vo di eroderne e minarne la compattezza23. Accanto alla sistemazione abitativa l’altro nodo da sciogliere era costi- tuito dall’inserimento lavorativo che si presentava di non facile attuazio- ne. Date le diffi coltà di riuscire a sistemare sull’intero territorio triestino la totalità dei profughi, l’Onapgd e il Clni proposero nel dicembre 1953 la formazione di un’apposita commissione che, insediatasi a partire dall’anno successivo, avrebbe avuto l’incarico di censire gli esuli, stabilendone qua- lifi che professionali e capacità lavorative con l’obiettivo di procedere a uno «smistamento razionale»24 al fi ne di velocizzare il loro assorbimento nel mercato del lavoro. Una prima area giudicata idonea ad accogliere artigiani e contadini fu in- dividuata nel Villaggio di Nomadelfi a, che sorgeva a Fossoli di Carpi nell’a- rea dell’ex campo di transito per la deportazione nei lager di sterminio in Polonia25. Nell’immediato dopoguerra, dopo essere stato adibito dal gover- no italiano a centro di raccolta per profughi stranieri irregolarmente arrivati in Italia, il complesso fu successivamente occupato, tra il 1947 e il 1952, da don Zeno Saltini e dai suoi Piccoli Apostoli, che vi impiantarono la Comu- nità di Nomadelfi a, dedita all’accoglienza dei bambini abbandonati. Qui,

22. Cfr. S. Tence, Una convivenza da costruire. Rapporti tra sloveni e istriani: l’esperien- za di Santa Croce, in «Il Territorio», 25 (1989), pp. 269-270. 23. Su questo aspetto e, più in generale, sull’insediamento dei profughi a Trieste, cfr. S. Volk, Esuli a Trieste. Bonifi ca nazionale e rafforzamento dell’italianità, Kappavu, Udine 2004. 24. Verbale della riunione del Comitato interministeriale del 9 dicembre 1953. In Ast, Commissariato generale del governo, Fascicolo 65. 25. Per un approfondimento sul campo di Fossoli, da cui il 22 febbraio 1944 partì anche Primo Levi, cfr. tra gli altri, G. D’Amico, Sulla strada per il Reich: Fossoli, marzo-luglio 1944, Mursia, Milano 2015; C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi in Italia” (1945-1970), Ombre Corte, Verona 2011.

205 secondo le stime della commissione, avrebbero potuto trovare sistemazione e avviamento professionale 140 famiglie (circa 700 persone) di agricoltori e artigiani. Il terreno apparteneva all’Ente città di Nomadelfi a, che nel 1954 concluse la vendita dell’area allo stato. Sorse così il Villaggio San Marco, verso il quale dal giugno dello stesso anno iniziarono ad affl uire i primi pro- fughi dalla Zona B del Tlt che nel 1956 raggiunsero le 400 unità26. Altri contadini, la categoria professionale maggiormente rappresentata tra gli esuli dalla Zona B del Tlt, furono collocati nei due comprensori di bo- nifi ca di Caorle e Barbana di Grado, disponibili ad assorbire circa 3.000 la- voratori che sarebbero stati direttamente impegnati nelle attività di bonifi ca. Un ulteriore tentativo di affrontare le tematiche riguardanti l’assorbimento lavorativo dei profughi della Zona B del Tlt venne messo a punto nell’agosto 1954, quando negli uffi ci della Prefettura di Trieste si riunirono, insieme al prefetto Giovanni Palamara, funzionari governativi ed esponenti del Clni e dell’Onapgd per varare una serie di proposte volte alla sistemazione di deter- minate categorie professionali quali contadini, pescatori, artigiani e operai. Per quanto concerne i primi, furono approntati una serie di piani volti all’assegnazione di nuovi poderi, con spese di costruzione interamente co- perte dallo stato, individuati nel comprensorio di bonifi ca di Cellina-Meduna, nel pordenonese, nel territorio di San Michele in Tagliamento e nel gradese. I pescatori furono invece sistemati in alcune aree del muggesano, a Dui- no e lungo il Timavo. A Muggia avrebbero trovato spazio circa 300 famiglie, mentre a Duino i profughi confl uirono nell’edifi cando Villaggio San Marco per i pescatori, al cui interno sarebbero sorte altre cinque unità abitative (10 alloggi) nelle quali le famiglie avrebbero trovato sistemazione. L’ultimo progetto riguardava l’area del Timavo lungo la quale sorgeva il Nuovo vil- laggio pescatori Lisert, idoneo a ospitare un gruppo di famiglie di profughi. Il complesso sorgeva in prossimità dell’azienda ittico-agraria del Timavo, che avrebbe costituito un ulteriore sbocco professionale per altri esuli. Più complesso appariva invece il discorso riguardante gli artigiani e gli operai, il cui riassorbimento era vincolato dall’assegnazione di alloggi a Trieste o in altre località del paese, dove si presentavano più favorevoli le prospettive di un inserimento dei profughi nel tessuto produttivo, che sareb- be dovuto passare, in via preliminare, attraverso un loro diretto coinvolgi- mento in cantieri lavoro volti alla costruzione di nuove abitazioni. La proposta appariva di non semplice attuazione e non trovò quindi un’applicazione reale, contrariamente a quelle elaborate per i pescatori e gli

26. Cfr. M.L. Molinari, Villaggio San Marco, via Remesina 32, Fossoli di Carpi. Storia di un villaggio per profughi giuliani, EGA Editori, Torino 2006, p. 55.

206 agricoltori27. Questi ultimi, inoltre, grazie all’applicazione di un’apposita normativa, la legge 240 del 31 marzo 1955, poterono anche usufruire di un programma di fi nanziamento governativo che, attraverso la realizzazione di trasformazioni fondiarie, portò, entro il 1957, alla creazione di 345 nuove aziende agricole per 1.200 posti di lavoro, consentendo così a 2.000 conta- dini istriani di abbandonare la precarietà dei campi profughi28.

3. Transoceanica: i profughi e l’emigrazione oltreoceano

I disagi economici e morali dovuti alla lunga permanenza nei centri di rac- colta, unitamente alle scarse prospettive lavorative, fecero maturare in molti profughi giuliano-dalmati un senso di sfi ducia e incertezza che li portò, in- sieme a un consistente numero di triestini, a intraprendere la via dell’emigra- zione transoceanica. Furono circa 70.000, sul totale degli esuli istriani, quelli che si diressero verso il Sud America, gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia29. Il 15 marzo 1954 dalle banchine del porto di Trieste levava gli ormeggi la Castel Verde, motonave di proprietà della Società italiana trasporti marittimi (Sitmar), acquistata nel 1950 dal governo degli Stati Uniti e rimodellata alle esigenze per il trasporto passeggeri. A bordo vi erano i primi 650 emigranti che, dopo circa quaranta giorni di navigazione, sarebbero arrivati in Australia. Dopo il Castel Verde toccò alla Fairsea, alla Flaminia e al Toscana salpare, con cadenza quasi settimanale, verso «un cielo straniero»30, togliendo il respiro a Trieste e ai suoi abitanti che vivevano le partenze con inquietudine e soffe- renza. Era infatti la prima volta che la città, tradizionalmente punto di attrazio- ne e di approdo, vedeva partire in maniera massiccia i propri fi gli verso mete lontane. Con loro, appunto, vi erano anche nuclei di profughi giuliano-dalmati, alcuni dei quali arrivati a Trieste con l’ultimo esodo dalla Zona B del Tlt. L’aspetto economico ricoprì un ruolo cruciale nel percorso di elabora- zione della partenza: il picco si ebbe nel periodo compreso tra il 1954 e il 1958, attenuandosi nel triennio successivo. Sembrava dunque esserci un nesso molto forte tra l’inizio delle partenze e la fi ne del Territorio Libero di Trieste: «la madre è tornata, i fi gli partono»31, recitava un manifesto affi sso su una nave carica di emigranti diretta in Australia.

27. Cfr. Verbale della riunione del 7 agosto 1954. In Ast, Commissariato generale del governo, Gabinetto, B. 1. 28. Cfr. G. Nemec, Un paese perfetto, cit., p. 289. 29. M. Cuzzi, G. Rumici, R. Spazzali, Istria, Quarnero, Dalmazia, cit., p. 273. 30. P. Audenino, P. Corti, L’emigrazione italiana, Fenice 2000, Milano 1994, p. 66. 31. B. C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica, ideologica, Mursia, Milano 1996, p. 440.

207 Con il passaggio all’Italia, Trieste vide infatti mutare radicalmente la propria condizione economica, non potendo più contare sui fi nanzia- menti internazionali che fi no a quel momento avevano garantito sostegno alle industrie e opportunità lavorative nell’apparato amministrativo del Gma32. Le ondate migratorie dei giuliano-dalmati verso mete transoceaniche iniziarono in realtà prima degli anni Cinquanta, quando furono inseriti nei programmi varati dall’International Refugee Organization (Iro) in favore delle Displaced Persons. Patrocinato dalle Nazioni Unite, l’organismo, che raccolse l’eredità dell’Unrra, entrò uffi cialmente in funzione nell’agosto 1948 preceduto da una Commissione preparatoria (Preparatory Committee for the Internationale Refugee Organization, Pciro) che avviò la sua azione il 1° luglio 1947. Provvedere al rimpatrio, al ricollocamento e, soprattutto, all’inserimento di profughi e Dps in programmi di emigrazione assistita, rappresentavano i principali compiti dell’Iro, che si trovò a dover gestire circa 1.620.000 refugees, 795.000 dei quali distribuiti in oltre un centinaio di campi tra Germania occidentale, Austria e Italia33. Soltanto 73.000 decisero di rimpatriare, mentre gli altri rifi utarono il ri- torno in patria, sia per ragioni politiche, sia perché la loro patria originaria non esisteva più o era stata inclusa sotto una sovranità statuale differente rispetto a quella originaria, come nel caso, ad esempio, dei molti profughi originari di paesi dell’Europa centro-orientale posti, dopo la defi nizione dei confi ni, sotto l’orbita del sistema sovietico. La maggioranza decise così di restare nei campi con la speranza di poter essere inserita in programmi di emigrazione assistita attivati dall’Iro, che avrebbero consentito loro di trovare asilo in nuovi paesi. Come scriveva J. Donald Kingsley, direttore dell’agenzia, in una rela- zione che tracciava il lavoro svolto dall’organizzazione, l’Iro ebbe fi n da subito come principale obiettivo l’avvio di un massiccio programma di re- settlment (reinserimento) sia verso mete europee, sia verso i paesi d’oltre oceano, favorendo e accompagnando il reinsediamento dei profughi in una nuova patria34.

32. Cfr. F. Cecotti, Mobilità dei confi ni e modelli migratori: il caso della Venezia-Giulia, Archivio storico dell’emigrazione italiana, Viterbo 2011, , visitato il 27 giu- gno 2020. 33. Report of the Zellerbach Commission on the European Refugee Situation, cit. 34. Cfr. International Refugee Organization (a cura di), L’emigrazione dall’Europa, Iro, Ginevra 1951, pp. 19-20.

208 La strategia adottata dall’Iro – sostituito nel 1951 dall’Unhcr – si delineò lungo quattro direttrici principali, che alla ricerca di uno sbocco conveniente per la sistemazione del profugo, facevano seguire l’avvio di trattative con e nei paesi di emigrazione (invitati a inviare delle proprie commissioni di im- migrazione per la selezione degli aspiranti immigrati) per inserire i profughi nell’ambito di specifi ci piani di lavoro, il loro trasporto nella nuova patria (in aereo ma soprattutto in nave a totale carico dell’Iro) e un percorso di assistenza e di integrazione nei paesi di emigrazione. Anche in Italia, come avvenuto in Germania occidentale e Austria, il maggior numero di profughi assistiti dall’Iro si trovava in campi rilevati dall’Unrra dove, almeno inizialmente, le commissioni dell’istituzione si re- cavano per selezionare i soggetti destinati a essere inseriti nei programmi di emigrazione. Tale pratica, rimasta in vigore per un periodo piuttosto ridotto, venne successivamente sostituita da un sistema che prevedeva la creazione di appositi centri nei quali i profughi destinati all’emigrazione avrebbero potuto essere raccolti per la selezione e l’avvio delle operazioni necessarie alla partenza. Nacquero così veri e propri centri di emigrazione, nei quali gli aspiranti già selezionati venivano raccolti, visitati e presentati alle com- missioni dei paesi di emigrazione che avrebbero provveduto ad accettare o respingere la domanda. Se le commissioni risultavano soddisfatte dal colloquio conoscitivo, i profughi potevano accedere allo step successivo, e cioè il test medico, con- sistente in una radiografi a e in una serie di analisi volte ad accertarne lo stato di salute. Una pratica accompagnata da «preoccupazione e pathos»35, dal momento che la presenza di patologie, anche in un solo membro della famiglia, poteva defi nitivamente sbarrare la strada al progetto migratorio. Quelli risultati idonei sarebbero stati successivamente trasferiti in cen- tri di attesa, in maniera tale da riunire in un unico punto i soggetti pronti a partire, che all’interno della struttura ricevevano assistenza alimentare e alloggiativa, poiché, a volte, l’imbarco verso la destinazione poteva avve- nire anche dopo alcune settimane dalla selezione. Pochi giorni prima della partenza i profughi venivano condotti nei centri di imbarco che rappresenta- vano l’ultimo passaggio prima del viaggio. Tra il 1947 e il 1950 l’azione dell’Iro interessò anche i giuliano-dalmati, inseriti nel Displaced Persons Programme che portò 998 di essi a emigrare verso gli Stati Uniti (289), il Canada (66), il Sud America (395), l’Europa

35. B. Shephard, The Long Road Home. The Aftermath of the Second World War, Vintage Books, London 2010, p. 340.

209 (24), la Nuova Zelanda (5) e l’Australia (219)36, dove giunsero, l’anno suc- cessivo, altri 3.167 profughi provenienti dalle terre giuliane37. Uno dei paesi del Sud America toccato in maniera rilevante dall’arrivo dei giuliano-dalmati, fu il Brasile, il cui governo, come si legge in una nota diffusa nel maggio 1951 dal ministero dell’Interno, si rese disponibile, in base a un accordo con l’Iro, ad accogliere circa 5.000 profughi, selezionati tra quelli che godessero «di buona salute» e non avessero superato la soglia dei cinquant’anni. Quanti avessero deciso di intraprendere, dopo aver superato la pratiche di selezione, quella che il documento ministeriale giudicava come un’emigra- zione «particolarmente consigliabile», facilitata anche dalla presenza di im- migrati italiani giunti con i fl ussi migratori di inizio secolo, sarebbero stati assistiti direttamente dall’Iro, che avrebbe così provveduto al trasporto e all’in- serimento lavorativo in Brasile, dove i profughi potevano usufruire di contratti lavorativi ed emolumenti salariali uguali a quelli dei lavoratori brasiliani. Si trattava perciò, concludeva il documento, di una proposta da prendere «in seria considerazione», poiché avrebbe consentito ai giuliano-dalmati di ricostruirsi «un focolare in un paese ove troveranno favorevoli condizioni di vita»38. Qualche anno prima, nel giugno 1949, fu invece il Gma a contattare diret- tamente la Presidenza del Consiglio affi nché sollecitasse i giuliano-dalmati ad avvalersi della proposta dell’Iro che offriva la possibilità di inserimento nei pro- grammi di emigrazione transoceanica ai profughi residenti a Trieste, conceden- do così loro l’opportunità di «ricominciare una nuova vita altrove»39 e abban- donare defi nitivamente le condizioni di indigenza in cui versavano da tempo. L’emigrazione dei giuliano-dalmati fu al centro, ancora una volta nell’e- state 1949, di una serrata trattativa tra il Gma e l’Iro, che lamentò, attraverso una nota della sede centrale di Ginevra, un numero troppo elevato di richie- ste provenienti dai Venezian-Giulian, tra i quali fi guravano non solo coloro che si trovavano nella condizione di apolidi e cioè in attesa di ricevere una risposta alla loro domanda di opzione, ma anche una sensibile quota di per-

36. Telespresso (n. 33155) inviato dal ministero degli Affari esteri al ministero dell’Inter- no il 23 novembre 1951. In Asd, Serie Affari Politici 1951-1957; Trieste (1952), Busta 570, Fascicolo 13, Emigrazione negli Stati Uniti di profughi giuliani. Cittadinanza. 37. G. Bertuzzi, Storia dell’emigrazione regionale, in G. Bertuzzi, F. Fait [et al.], Un secolo di partenze e di ritorni. L’emigrazione dal Friuli Venezia-Giulia verso l’estero (1866- 1968), Forum, Udine 2010, p. 22. 38. Archivio di Stato di Vercelli (Asvc), Uffi cio Provinciale di Assistenza Post-Bellica, B. 18, F. 5, Profughi Venezia Giulia: disposizioni generali, 1951-1952. 39. Comunicato stampa del Gma emesso in data 1° luglio 1949. In Asd, Serie Affari Politici 1951-1957; Trieste (1952), Busta 570, Fascicolo 13, Emigrazione negli Stati Uniti di profughi giuliani. Cittadinanza.

210 sone provviste di passaporto italiano o che si erano viste accogliere da parte delle autorità jugoslave la domanda di opzione. Questi ultimi erano quindi, a tutti gli effetti, dei cittadini italiani rientrati in Italia che, sul piano formale, non possedevano i requisiti necessari per essere inseriti nel Displaced Per- sons Programme. Fu grazie alla mediazione della missione italiana dell’Iro che si riuscì ad allargare le pratiche per l’emigrazione anche a coloro che, sebbene in possesso della cittadinanza italiana, erano provvisti del solo passaporto provvisorio, che non certifi cava in via uffi ciale l’accoglimento del diritto di opzione da parte delle autorità jugoslave. Ciò consenti così a molti profu- ghi giuliano-dalmati di ottenere il nulla osta per emigrare sotto l’assistenza dell’Iro che, alla fi ne del 1949, secondo una nota della Direzione generale di pubblica sicurezza, assisteva in Italia 23.460 profughi stranieri. Tra questi 11.940 vivevano privatamente fuori dai campi, mentre gli al- tri 11.520 erano ospitati all’interno di centri di raccolta direttamente gestiti dall’organizzazione nelle Marche (Jesi, Fermo, Senigallia), nel Lazio (Cine- città a Roma, successivamente sostituito dai locali dell’ex Stabilmento Inno- centi sulla Prenestina)40, in Campania (Pagani, Villa Alba, frazione di Cava de’ Tirreni, Aversa, Capua, Bagnoli, Sant’Antonio di Pontecagnano e Mercatello, in provincia di Salerno, dove erano ospitati circa 140 bambini) e in Puglia (Bari, Trani e Barletta). I complessi di Senigallia, Bagnoli (Bagnoli Embar- kation Camp), Barletta (Barletta Embarkation Camp), Bari, Aversa, Capua, S. Antonio Pontecagnano e Trani, avevano la doppia funzione di centri di raccol- ta e imbarco, mentre gli altri svolgevano la sola mansione di campo profughi41. Il 31 maggio 1951, dopo aver visto transitare nei propri campi oltre 140.000 profughi, averne rimpatriati 3.760 e inseriti 66.750 in programmi di emigrazione42, l’Iro cessò uffi cialmente la sua attività (in realtà la missione italiana funzionò fi no al 31 marzo 1952), lasciando una situazione che vede- va ancora 10.720 profughi in attesa di sistemazione.

40. Cfr. M. Sanfi lippo, I campi in Italia nel secondo dopoguerra, in «Meridiana», 86 (2016), p. 53. 41. Prospetto redatto il 12 dicembre 1949 dalla Direzione generale di Pubblica sicurezza sul numero dei profughi stranieri residenti in Italia assistiti dall’Iro. In Acs, Ministero dell’In- terno, Direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, B. 33, F. 2, Specchi profughi divisi per nazionalità, Sottofascicolo 3, Statistica profughi statici assistiti dall’Iro nel campo e fuori campo. 42. I dati si trovano in un appunto riservato (prot.n. 102967) redatto dalla Divisione affari generali del ministero dell’Interno a Giovanni D’Antoni, capo della polizia, il 18 gennaio 1952. In Acs, Ministero dell’Interno, Direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, B. 33, F. 2, Specchi profughi divisi per nazionalità, Sottofascicolo 3, Statistica profughi statici assistiti dall’Iro nel campo e fuori campo.

211 Si trattava, nello specifi co, di 6.586 stranieri e 4.134 giuliano-dalmati, ospitati in parte (1.548 profughi stranieri e 1.196 giuliano-dalmati) nei cam- pi dell’Amministrazione per gli aiuti internazionali (Aai), organismo che prese in eredità le strutture gestite dall’Unrra dopo la fi ne del suo mandato, e in parte nel campo di Bagnoli, già amministrato, come si è visto, dall’Iro, dove erano ricoverati 2.285 profughi stranieri e 2.389 giuliano-dalmati. Fuo- ri campo restavano invece 2.755 profughi stranieri e 549 giuliano-dalmati43. La presenza di questi ultimi all’interno dei centri dell’Iro andava ricon- dotta a un accordo supplementare siglato dall’organizzazione direttamente con il governo italiano il 14 novembre 1950, i cui contenuti furono presenta- ti alla Camera dei Deputati il 23 aprile 1951 unitamente da Scelba, ministro degli interni, Pella, titolare del Tesoro e Sforza ministro degli Affari esteri. L’Iro si sarebbe impegnato a favorire l’emigrazione di circa 20.000 profu- ghi, mentre da parte sua il governo italiano si assumeva l’onere di assistere i circa 9.500 profughi Iro giudicati non eleggibili a entrare nei programmi di ricollocamento ed emigrazione. Tale numero includeva 3.600 rifugiati fuori campo, 4.200 ricoverati nei campi di Aversa, Capua, Salerno e Sant’Antonio Pontecagnano, nonché un migliaio di «casi diffi cili» ospedalizzati. All’Iro restava così la gestione del solo campo di Bagnoli, atto ad accogliere i profughi selezionati per l’emi- grazione. Gli altri campi sarebbero invece passati sotto l’amministrazione del governo italiano, che, stanziando la somma di circa 900 milioni di lire a partire dal 1951-1952, ne affi dò la gestione all’Aai. Dopo aver evidenziato come l’Iro avesse provveduto a far emigrare dall’I- talia circa 50.660 rifugiati e profughi, Sforza sottolineò come a partire dal 1949 l’organizzazione avesse accettato di ammettere nei propri programmi anche i profughi giuliano-dalmati, con particolare riferimento a quanti, pur avendo richiesto il diritto di opzione alle autorità jugoslave, non lo avevano ottenuto, trovandosi così nella condizione di apolidi e quindi eleggibili per ottenere l’assistenza. Insieme a loro, come si è visto, ve ne erano però anche altri, al punto che sul totale dei quasi 30.300 profughi assistiti dall’Iro alla data del 31 otto- bre 1950, i giuliano-dalmati ammontavano a circa 14.550. Tra questi, oltre 4.000 avevano già intrapreso il percorso migratorio e sarebbero stati seguiti

43. Le cifre sono riportate all’interno di un nota (prot.n. 102967) inviata dal ministero dell’Interno a quello degli Affari esteri il 9 gennaio 1952. In Acs, Ministero dell’Interno, Di- rezione generale Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, B. 33, F. 2, Specchi profughi divisi per nazionalità, Sottofascicolo 3, Statistica profughi statici assistiti dall’Iro nel campo e fuori campo.

212 da un’altra quota rilevante, consistente, secondo le stime proposte da Sforza, «in oltre la metà dei 20.000, profughi che l’Iro si è impegnata a far emigrare». Continuando il suo intervento, il titolare della Farnesina sottolineava come l’accordo si fosse rilevato piuttosto vantaggioso per il governo italia- no, che avrebbe così risparmiato sul costo dei trasporti oltreoceano («dove i giuliano-dalmati sono [erano] destinati») evitando quindi di affrontare oneri fi nanziari piuttosto elevati qualora avesse deciso di sostituirsi all’Iro (che tra il 1947 e il 1950 sostenne in Italia una spesa di 25 milioni di dol- lari) riuscendo, elemento affatto scontato, «a trovare analoghe possibilità di emigrazione». Nel passaggio conclusivo, la relazione evidenziava inoltre un aspetto molto signifi cativo dal quale emergeva come per l’assistenza ai 9.500 pro- fughi, unitamente alle spese di gestione dei campi, il governo si sarebbe rivolto all’Unhcr per ottenere contributi che consentissero «una riduzione dell’onere fi nanziario»44, in attesa che i profughi e le strutture amministrate dall’Iro passassero defi nitivamente sotto la gestione dell’Alto commissaria- to per i rifugiati. Quest’ultimo, si legge in una nota redatta nel febbraio 1951 dal ministero dell’Interno, avrebbe dovuto assumersi sia l’onere della risistemazione all’estero dei profughi stranieri, sia il compito di coordinare l’azione dei vari paesi, promuovendo l’apertura di «convenienti sbocchi per la loro immigrazione»45, verso quei paesi che avrebbero potuto garantire loro effettive possibilità di inserimento. Una parte dei profughi giuliano-dalmati entrati nei programmi dell’Iro era costituita anche da bambini e minori orfani e abbandonati, seguiti da vicino dalla Casa dei vescovi cattolici del Canada e dalla Casa dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, strutture di carattere umanitario operanti nell’ambito del già menzionato Comitato cattolico per i rifugiati. Nel luglio 1949 Vinita Lewis, operatrice umanitaria che collaborava con le diverse missioni europee dell’I- ro, scrisse alla Missione italiana dell’Iro, informandola della possibilità di inserire queste particolari categorie di profughi nei programmi di emigrazione e chiedendo di intercedere con il governo italiano affi nché concedesse loro lo status di rifugiato, che l’Iro aveva già provveduto a riconoscere.

44. Presentazione dell’Accordo supplementare fi rmato il 14 novembre 1950 dall’Iro e dal governo italiano, svolta da Carlo Sforza alla Camera nella seduta del 23 aprile 1951. In Acs, Ministero dell’Interno, Amministrazione attività assistenziali italiane e internazionali, B. 82, Segreteria e Presidenza 1944-1947, F. 1, Assistenza Profughi Stranieri: varie. 45. Nota di Giorgio Cigliana Piazza, funzionario del ministero dell’Interno, del 5 feb- braio 1951. In Acs-Ministero dell’Interno, Amministrazione Attività Assistenziali Italiane Internazionali, B. 82, Segreteria e Presidenza 1944-1977, F. 1, Assistenza profughi stranieri: varie 1951.

213 Il governo italiano rispose favorevolmente, producendo la documentazione necessaria a far rientrare nello status di apolidi i giovani profughi costituiti, nella gran parte dei casi, da minori «abbandonati o smarriti dai genitori»46, op- pure rimasti orfani per cause legate al confl itto. Arrivati in Italia dopo la rmafi del Trattato di Parigi e provenienti, in larga misura, dagli orfanotrofi di Fiume, i giovani ricevettero così la possibilità di entrare a far parte dei programmi dell’Iro e, conseguentemente, di emigrare negli Stati Uniti e in Canada. Come dimostrano i dati precedentemente citati, uno dei paesi verso il quale si rivolse in misura maggiore l’emigrazione giuliano-dalmata fu l’Au- stralia. Un fl usso che nella prima fase, dipanatasi tra il 1947 e il 1953, in- teressò principalmente fi umani, zaratini e polesani, ai quali si aggiunse una seconda e più numerosa ondata che tra il 1954 e il 1958 coinvolse anche i profughi provenienti dalla Zona B del Tlt47. L’Australia era il paese che sembrava offrire maggiori possibilità all’e- migrazione, grazie soprattutto alle politiche migratorie del suo governo mi- ranti a incentivare l’affl usso di manodopera, qualifi cata e non, necessaria a completare gli interventi strutturali volti alla costruzione di un impian- to di irrigazione nel sud est del paese nell’ambito del programma Snowly Mountains Scheme e a lavorare nei reparti della nuova industria automobili- stica che aveva iniziato la sua produzione48. Alla scelta di intraprendere l’esperienza migratoria contribuì anche la visione del «paese fortunato»49 sedimentatasi nell’immaginario collettivo di molti giuliano-dalmati e triestini disposti a recepire il messaggio del Comi- tato intergovernativo delle migrazioni europee (Cime), divenuto nel 1989 l’attuale Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che nella sua missione triestina distribuiva volantini e manifesti tesi a dipingere l’Au- stralia come una terra di speranze e opportunità. Dopo l’Iro fu infatti il Cime a organizzare i trasporti degli immigrati europei, ivi compresi profughi e rifugiati, verso destinazione transoceaniche occupandosi anche di reperire e gestire i fondi necessari all’attuazione di tali

46. Lettera di Vinita Lewis alla Missione italiana Iro, 23 giugno 1950. In Acs, Ministero dell’Interno, Amministrazione Attività Assistenziali Italiane Internazionali, B. 82, Segreteria e Presidenza 1944-1977, Assistenza profughi stranieri: varie 1951. 47. Cfr. P. Nodari, L’emigrazione italiana in Australia con particolare riguardo a quella giuliana, in G. Cresciani (a cura di), Giuliano –Dalmati in Australia. Contributi e testimo- nianze per una storia, Associazione giuliani nel mondo, Trieste 1999, pp. 47- 48. 48. Cfr. A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo Nazionale Emigrazione Italiana, Gan- gemi, Roma 2009, p. 18. 49. Traggo l’espressione da S. Castles, Lo sviluppo postbellico dell’Australia, in S. Ca- stles, C. Alcorso, G. Rando, E. Vasta (a cura di), Italo-australiani. La popolazione di origine italiana in Australia, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1992, p. 81.

214 operazioni. Contemporaneamente la struttura, sorta nel 1952 e collegata alle Nazioni Unite, si occupava anche di svolgere le pratiche direttamente lega- te alle partenze e cioè assistenza durante la preselezione, produzione della documentazione necessaria, trasporto dal porto all’imbarco, ricezione nel porto di destinazione e attivazione di corsi di lingua locale con l’intento di velocizzare l’inserimento nel nuovo contesto dei profughi e dei rifugiati, che costituivano una parte considerevole del volume complessivo dei migranti mosso dall’organizzazione50. Quando Stati Uniti, Venezuela e Brasile iniziarono a dare i primi segni di saturazione, l’organizzazione rivolse il proprio sguardo verso il Canada e, soprattutto, l’Australia, alla quale iniziarono a guardare sempre più fre- quentemente anche i profughi giuliano-dalmati, insoddisfatti delle prospet- tive offerte da una permanenza a Trieste e disposti a lasciarsi alle spalle la propria tormentata esistenza per ricominciare una nuova vita in una terra lontana e sconosciuta. L’impatto con la realtà australiana non fu semplice e, per lo meno inizial- mente, strideva con le promesse del Cime. Oltre alle problematiche legate a una cultura differente e a una lingua sconosciuta, i giuliano-dalmati ripiom- barono infatti nella realtà (per loro tristemente abituale) del campo profughi, dal momento che il governo australiano decise di raggruppare gli emigran- ti in appositi centri di accoglienza e smistamento (Reception Immigration Centers) come quelli di Greta, Stuart, Holden e, soprattutto, Bonegilla, una caserma dell’esercito in prossimità di Albury, a centinaia di chilometri da Melbourne e Sidney, dove agli ospiti era richiesto il pagamento di una retta giornaliera. La struttura divenne «casa temporanea»51 per molti profughi, che lamentavano la diffi coltà delle condizioni di vita a causa della mancan- za di riscaldamento, della pessima qualità del cibo e della pressoché totale assenza di strutture ricreative52. Altri si sistemarono in ostelli o presero in affi tto delle stanze in abitazioni già occupate da famiglie italiane prima di ri- uscire a trovate una sistemazione stabile, arrivata solo dopo il collocamento lavorativo, che ebbe i suoi principali canali nelle imprese italo-australiane, nell’agricoltura e nei lavori di edilizia civile e strutturale53.

50. Cfr. M. Colucci, M. Sanfi lippo, Le migrazioni. Un’introduzione storica, Carocci, Roma 2015, p. 80. 51. B. Mascitelli, R. Armillei, Gli italiani in Australia. Memoria storica e nuovi modelli di mobilità, Perugia Stranieri University Press, Perugia 2018, p. 51. 52. Cfr. G. Cresciani, The in Australia, Cambridge University Press, Cambidge 2003, pp. 128-130. 53. G. Cresciani, Storia e caratteristiche dell’emigrazione giuliana, istriana, fi umana e dalmata in Australia, in Id. (a cura di), Giuliano-Dalmati in Australia, cit., pp. 76-77.

215 Da sottolineare, infi ne, come l’emigrazione verso le aree d’oltreoceano interessò, oltre al territorio triestino, anche l’area del goriziano dove, secon- do una nota della prefettura, nel 1949 furono oltre un migliaio, i profughi che richiesero «l’assistenza emigrativa» da parte dell’Iro. Un numero, conti- nuava il prefetto, destinato ad aumentare: infatti la stessa organizzazione era in procinto di valutare la domanda di emigrazione di oltre 700 capifamiglia che avrebbe portato, complessivamente, a 2.400 i profughi giuliano-dalmati disposti a emigrare sul totale dei circa 10.000 presenti nella provincia. La scelta, esattamente come a Trieste, sembrava dettata dalla «nota crisi» attraversata dal goriziano, che non lasciava loro «fondate speranze per l’av- venire». La prefettura, data tale situazione, non si dimostrava particolarmen- te stupita dall’alto numero di richieste degli esuli, per i quali l’emigrazione, «seppur dolorosa», rappresentava «una vera e propria necessità». Sebbene, sottolineava la nota, la provincia di Gorizia non avesse mai fatto mancare «un’affettuosa e comprensiva accoglienza», non sembrava però in grado di assicurare «anche in un lontano avvenire», un’adeguata sistemazione. Non pareva quindi opportuno «ostacolare le loro richieste avanzate all’Iro», seb- bene la loro partenza avesse comportato sul territorio ripercussioni sul piano politico poiché, concludeva il prefetto, tra i futuri emigranti fi guravano «ele- menti di sicura fede, attivi e decisi difensori dell’italianità di questa terra»54. Le vicende fi n qui narrate si inseriscono tra le linee di una storia snodatasi nel disgregato scenario dell’Europa post-bellica, solcata da un’ondata di mi- lioni di profughi, dei quali i giuliano-dalmati furono parte integrante al punto da rappresentare, come si è visto, una tessera del variegato mosaico europeo. Uomini e donne per i quali l’arrivo in Italia coincise, nella quasi totalità dei casi, con i chiaroscuri di un’accoglienza capace di mischiare solidarietà e diffi coltà di inserimento in un paese ancora profondamente scosso dalla guerra che, nonostante mise in campo forme di assistenza sicuramente este- se, li confi nò, per almeno un quindicennio, in condizioni di fragilità, miseria e marginalità. L’analisi della diaspora istriana, erede diretta delle rovine di un confl itto terribile al quale la triste sorte dei giuliano-dalmati appare lega- ta in maniera indissolubile, consente, se letta in una prospettiva più ampia, di uscire da una fascia di territorio circoscritta e di unire i punti diversi e distanti della storia novecentesca, evidenziando così l’attuazione, su scale geografi che diverse, di meccanismi espulsivi di massa delle popolazioni ci- vili divenute, loro malgrado, vittime principali delle guerre.

54. Nota di gabinetto (prot. n. 20471) inviata dalla Prefettura di Gorizia all’Uzc il 30 settembre 1949. In Apcm-Uzc, Sezione II, Gorizia, B. 90, F. 40.6, Profughi dalla Venezia – Giulia. Affl usso e smistamento, assistenza Iro.

216 Cronologia

• 1918 3 novembre: fi rma a Villa Giusti (Padova) dell’armistizio tra Italia e Au- stria-Ungheria. Le truppe italiane sbarcano a Trieste e il generale Carlo Pet- titi di Loreto è nominato governatore della Venezia-Giulia. La Dalmazia è invece posta sotto un governatorato militare, con sede a Spalato, affi dato all’ammiraglio Enrico Millo, che si trasformerà in struttura di carattere ci- vile soltanto nel 1920. 1°dicembre: l’unione di Serbia e Montenegro con i territori appartenuti all’ex Impero austriaco (Bosnia, Slovenia, Croazia), porta alla nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), la cui reggenza è affi data al prin- cipe Aleksandar Karađorđević.

• 1919 28 giugno: fi rma del Trattato di Versailles che non concede all’Italia i ter- ritori previsti dal Patto di Londra. Prende così forma il concetto di vittoria mutilata coniato da Gabriele D’Annunzio.

11-12 settembre: Gabriele d’Annunzio alla guida dei legionari occupa Fiu- me dando inizio alla cosiddetta Impresa di Fiume.

• 1920 13 luglio: incendio a Trieste del Narodni Dom, centro culturale delle or- ganizzazioni slovene, a opera delle squadre guidate da Francesco Giunta, squadrista toscano chiamato da Mussolini alla guida del fascismo triestino. È il primo atto del fascismo di confi ne. 14 luglio: incendio del Narodni Dom di Pola in Istria a opera delle squadre fasciste. 20 agosto: Gabriele d’Annunzio proclama a Fiume la Reggenza del Carnaro.

217 12 novembre: il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati, Sloveni fi rmano il Trattato di Rapallo con il quale l’Istria, Zara e le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta diventano defi nitivamente parte del Regno d’Italia. Fiu- me, per la quale è prevista la costituzione di uno stato indipendente, viene dichiarata città libera. 24-29 dicembre: D’Annunzio non accetta la fi rma del Trattato di Rapallo e lo status di Fiume, rifi utandosi di abbandonare la città. Il governo italiano in- via reparti dell’esercito che si scontrano con i volontari dannunziani (Natale di sangue). Termina così l’esperienza della Reggenza del Carnaro.

• 1922 27 ottobre: marcia su Roma 28 ottobre: il re Vittorio Emanuele III incarica Mussolini di formare un nuovo governo. Inizia l’ascesa al potere del partito fascista. Nella Venezia- Giulia si delinea in modo sempre più netto il fascismo di confi ne che porta avanti una politica di omologazione nazionale e italianizzazione forzata del- la popolazione slovena e croata.

• 1924 17 settembre: accordo italo-jugoslavo di Roma e conseguente annessione di Fiume all’Italia.

• 1925 14 novembre: in una circolare riservata inviata ai prefetti della Venezia- Giulia, il ministero dell’Interno illustra le coordinate del «progetto di italia- nizzazione dei territori occupati da gruppi di allogeni». Tra il 1925 e il 1930 sono adottate una serie di misure che vanno dalla proibizione di utilizzare la lingua slovena e croata negli uffi ci amministrativi, nei tribunali e nello spazio pubblico, allo scioglimento delle associazioni culturali, politiche e sportive, fi no ad arrivare alla soppressione delle testate quotidiane. A se- guito di tali misure circa 105.000 tra sloveni e croati decidono di lasciare la Venezia-Giulia e trasferirsi nel vicino Regno dei Serbi, Croati, Sloveni.

• 1929 3 ottobre: il Regno di Serbi, Croati, Sloveni, muta denominazione in Regno di Jugoslavia. 14 ottobre: si apre a Pola il processo a carico di militanti del Tigr (movimen- to di lotta armata che prende le iniziali dalle quattro città che l’organizzazio- ne intende liberare dal fascismo rivendicandone l’appartenenza nazionale e cioè Trst, Istra, Gorica, Rijeka/Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) accusati di aver aperto il fuoco nei pressi di Pisino contro una colonna di contadini recatisi a

218 votare per il plebiscito farsa indetto dal regime il 24 marzo 1929. Il processo si conclude il 16 ottobre con condanne pesantissime: trent’anni di reclusione a quattro imputati e pena di morte per Vladimir Gortan, accusato di essere ideatore dell’azione e organizzatore del gruppo, fucilato il 17 ottobre. • 1930 6 settembre: il Tribunale speciale per la sicurezza dello stato condanna a morte quattro cittadini sloveni accusati di aver organizzato alcuni attentati contro le sedi istituzionali e quelle del partito fascista a Trieste, nonché di cospirazione per l’abbattimento del regime. La sentenza è eseguita al poli- gono militare di Basovizza.

• 1940 10 giugno: dichiarando guerra a Gran Bretagna e Francia, l’Italia fascista entra al fi anco della Germania hitleriana nel secondo confl itto mondiale.

• 1941 6 aprile: Hitler decide di invadere, insieme all’Italia e all’Ungheria, il terri- torio jugoslavo che viene occupato in pochi giorni. 16 aprile: proclamazione dello stato indipendente croato (NDH), alla cui guida è posto Ante Pavelić. 27 aprile: costituzione del Fronte di liberazione sloveno. 15 maggio: costituzione delle province di Zara, Cattaro e Spalato. 2-15 dicembre: il 2 dicembre si apre il secondo processo di Trieste a carico di una sessantina di imputati accusati di cospirazione, terrorismo e spionag- gio. Tra loro vi sono anche alcuni membri del Tigr. Il procedimento, affi dato anche in questo caso al Tribunale speciale per la sicurezza dello stato, si conclude con pene durissime: sono comminati oltre 960 anni di carcere e cinque condanne a morte, eseguite a mezzo fucilazione il 15 dicembre. • 1942 18 luglio: rappresaglia dell’esercito italiano a seguito di azioni partigiane nel villaggio di Podhum nei pressi di Fiume. L’ordine è impartito dal prefet- to di Fiume Temistocle Testa. 31 luglio: istituzione dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia-Giulia, creato dal regime fascista per contrastare l’azione del movi- mento partigiano sloveno. • 1943 13-14 giugno: il Consiglio della liberazione della Croazia proclama la lotta per la liberazione e l’unifi cazione di tutte le località croate, comprese Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate.

219 8 settembre: entrata in vigore dell’armistizio sottoscritto a Cassibile, il 3 settembre, tra l’Italia e gli Alleati. 9-12 settembre: occupazione della Venezia-Giulia da parte delle truppe te- desche che concentrano i propri sforzi sui punti nevralgici di Pola, Fiume e Trieste, trascurando la fascia di territorio interno occupata dalle forze parti- giane croate e slovene. 9-13 settembre: insurrezione in Istria guidata dal movimento popolare di liberazione sloveno e croato. 11-12 settembre: forze tedesche occupano Pola, mentre le forze partigiane occupano Pisino. 13 settembre: il Fronte di liberazione croato per l’Istria, organismo dipen- dente dal Consiglio territoriale antifascista di liberazione popolare della Croazia (Zavnoh) esprime a Pisino la volontà di annettere alla Croazia l’I- stria, Fiume, Zara e le isole dell’Adriatico (Dichiarazione di Pisino). 16 settembre: il Consiglio di liberazione nazionale della Slovenia proclama l’annessione alla Slovenia del litorale della Venezia-Giulia. settembre: durante l’insurrezione e a seguito del vuoto di potere verifi catosi dopo la fi rma dell’armistizio, si verifi cano in tutta l’Istria i primi infoiba- menti. Scompaiono, complessivamente, tra le 500 e le 700 persone. 1-12 ottobre: costituzione della Zona di operazioni litorale adriatico (Adriatisches Kunstenland) comprendente le province di Pola, Fiume, Trie- ste, Udine, Gorizia e Lubiana. Hitler nomina commissario supremo della zona Friedrich Rainer, già governatore della Carinzia. L’area sarà separata dalla Repubblica sociale italiana e sottoposta alla diretta amministrazione militare tedesca. Inizia l’offensiva tedesca sull’Istria che si concluderà, il 12 ottobre, con l’occupazione della penisola. 29-30 novembre: si riunisce a Jaice il Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia che nomina Tito ed Edvard Kardelij, rispettiva- mente, presidente e vicepresidente del governo provvisorio. Nel corso della seduta lo stesso Consiglio sancisce la legittimità dei decreti di annessione pronunciati nel settembre 1943 dai Comitati di liberazione sloveno e croato. 2 novembre: Zara è colpita dal primo dei cinquantaquattro bombardamenti alleati che si susseguono fi no al 31 ottobre 1944. In questo periodo la città è abbandonata dalla gran parte dei suoi abitanti. Inizia l’esodo.

• 1944 9 gennaio: primo bombardamento aereo su Pola. Ne seguiranno altri fi no al 1945. 11 gennaio: con apposita ordinanza il prefetto di Trieste Cesare Pagnini istituisce la Guardia civica.

220 15 settembre: il Partito comunista italiano incoraggia il passaggio delle unità partigiane friulane e giuliane nel IX Korpus dell’esercito jugoslavo, ordinando nel contempo ai comunisti italiani di appoggiare le iniziative del Fronte di liberazione sloveno. 31 ottobre: l’esercito jugoslavo di liberazione entra a Zara.

• 1945 7 febbraio 1945: alle malghe di Porzûs, in Friuli, sono uccisi diciasset- te partigiani della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di gappisti garibaldini fi lo-jugoslavi. L’episodio è meglio noto come eccidio di Porzûs. 30 aprile: insurrezione di Trieste. 1° maggio: entrano a Trieste i reparti della IV armata dell’esercito jugosla- vo. Il Cln cittadino ordina il rientro dei propri reparti per evitare incidenti con l’esercito titino che occupa la città per quaranta giorni. 1° maggio: entrano a Pola le truppe dell’esercito di liberazione jugoslavo. Dopo quarantatré giorni lasciano la città, affi data dagli accordi di Belgrado a un Governo militare alleato. 3 maggio: l’armata jugoslava entra a Fiume, proclamando l’annessione del- la città alla Jugoslavia. La notte tra il 3 e il 4 maggio sono eliminate note personalità cittadine, sia fasciste che antifasciste. Inizia l’instaurazione del potere popolare. 9 maggio: si riunisce a Pola clandestinamente il Comitato cittadino polese, da cui nascerà il Cln di Pola organo rappresentativo delle forze antifasciste fi lo-italiane della città. maggio: si verifi ca la seconda stagione di infoibamenti che oltre all’Istria e a Fiume colpisce soprattutto le province di Trieste e Gorizia, dove si registra il numero di vittime più elevato. Muoiono tra le 3.000 e le 4.000 persone. 15 maggio: fi ne della guerra in Jugoslavia. 9 giugno: accordo di Belgrado tra Jugoslavia e Alleati che prevede la divi- sione della Venezia-Giulia in due zone, la Zona A e la Zona, B rispettiva- mente affi date a un’amministrazione militare alleata e jugoslava. 12 giugno: ingresso a Pola delle truppe alleate e costituzione del Gma che assume i pieni poteri politici e civili della città. 11 settembre: riunitisi a Londra, i ministri degli Esteri dei paesi vincitori decidono di inviare nella Venezia-Giulia una Commissione interalleata per la defi nizione dei confi ni. 18 ottobre: nella Zona B viene introdotta la jugolira, nuova unità monetaria, creando un distacco con i territori della Zona A.

221 30 ottobre: sciopero a Capodistria contro l’introduzione della jugolira. Se- guono disordini che portano alla morte di due persone.

• 1946 7 marzo: la Commissione interalleata inizia la propria visita in Istria, al ter- mine della quale sono elaborate quattro relazioni che propongono altrettante linee di demarcazione. 21-22 marzo: la Commissione interalleata giunge a Pola, accolta da una grande manifestazione organizzata dalla popolazione italiana della città. 3 luglio: si riunisce a Pola il Comitato per l’esodo istituito dal Cln cittadino. 6 luglio: manifestazioni di protesta della popolazione di Pola contro la de- cisione delle grandi potenze di accettare la linea francese che prevede il passaggio alla Jugoslavia della città e di gran parte della Venezia-Giulia. 7 luglio: a Pola inizia la raccolta delle dichiarazioni di esodo in caso di passaggio della città alla Jugoslavia. L’intento del Cln, promotore dell’ini- ziativa, è di presentare la documentazione alla Conferenza di pace. I risul- tati sono pubblicati sul quotidiano cittadino «L’Arena di Pola»: sono circa 28.000 i polesani che presentano domanda di esodo su un totale di poco meno di 32.000 abitanti. 29 luglio: si apre a Parigi la Conferenza di pace. 18 agosto: durante una manifestazione sportiva sulla spiaggia di Vergarolla, a Pola, esplodono in circostanze sospette delle mine, residuati bellici, pro- vocando la morte di 65 persone. 22 settembre: il Cln di Fiume attraverso un appello invita gli italiani all’e- sodo. A gennaio 1946 sono già 20.000 i fi umani che hanno lasciato la città. 16 ottobre: a Parigi si chiude la Conferenza di pace che decreta l’approva- zione della linea francese sancendo il passaggio di Pola e dell’Istria centro meridionale alla Jugoslavia. 23 dicembre: il Cln di Pola dichiara aperto l’esodo della popolazione ita- liana dalla città.

• 1947 27 gennaio: inizia uffi cialmente l’esodo da Pola sulla base di disposizioni e di un piano assistenziale concordato, su iniziativa del Cln cittadino, dal governo italiano in collaborazione con il Gma. 3 febbraio: primo viaggio del piroscafo Toscana, salpato da Pola alla volta del porto di Venezia. Complessivamente la nave, messa a disposizione dal governo italiano, compirà dieci viaggi: sette con scalo a Venezia e tre ad Ancona.

222 10 febbraio: l’Italia fi rma a Parigi il Trattato di pace con le potenze vincitri- ci. Lo stesso giorno Maria Pasquinelli, insegnante toscana molto vicina agli ambienti fascisti e alla X Mas, uccide a Pola in segno di protesta il generale inglese Robert De Winton. 15 settembre: entrata in vigore del Trattato di Parigi. Pola passa formal- mente sotto la sovranità della Jugoslavia, che si vede assegnare circa tre quarti dell’intero territorio della regione. Viene delimitato il Territorio Li- bero di Trieste. Nella Zona B il generale Mirko Lovac assume il comando dell’Amministrazione militare jugoslava, mentre gli affari civili diventano di competenza del Comitato popolare distrettuale dell’Istria.

• 1948 20 febbraio: creazione da parte dei Comitati regionali del litorale sloveno e dell’Istria croata del Circondario dell’Istria diviso nei distretti di Buie e Capodistria, città scelta come capoluogo. 20 marzo: Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia emanano la Nota Tripartita, con la quale prospettano il ritorno del Territorio Libero di Trieste all’Italia. 28 giugno: risoluzione del Cominform ed espulsione la Jugoslavia dall’or- ganismo internazionale che riunisce i partiti comunisti europei. Da questo momento in poi il movimento comunista locale si divide tra cominformisti e titoisti.

• 1949 19 settembre: scadenza dei termini per l’esercizio del diritto di opzione da parte della popolazione residente nei territori ceduti alla Jugoslavia. Saranno introdotte successivamente due proroghe al 16 maggio 1949 e al 23 marzo 1953.

• 1950 16 aprile: elezioni amministrative jugoslave nella Zona B del Territorio Li- bero di Trieste per eleggere i membri dei comitati popolari di Capodistria e Buie. La popolazione italiana è vittima di pressioni e violenze da parte dei poteri popolari.

• 1953 8 ottobre: Stati Uniti e Gran Bretagna emanano la Nota Bipartita con la quale annunciano a l’intenzione di voler ritirare le proprie truppe dalla Zona A del Territorio Libero di Trieste e di volerne affi dare l’amministrazione al governo italiano. La notizia provoca una grave crisi diplomatica tra Italia e

223 Jugoslavia che schierano i propri eserciti lungo la frontiera arrivando molto vicine a un confl itto armato. La popolazione italiana della Zona B è vittima di nuove ondate di violenza, pressioni e intimidazioni.

• 1954 5 ottobre: fi rma tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia e Jugoslavia del Me- morandum di Londra che pone fi ne al governo militare nelle due zone del Territorio Libero di Trieste e modifi ca la linea di demarcazione a favore della Jugoslavia che si vede assegnare parte del territorio della ex Zona A nel territorio di Muggia. Il grande esodo dalla Zona B, già iniziato nei mesi precedenti, assume dimensioni sempre più consistenti. Il trattato prevede uno Statuto speciale per la minoranza italiana in Jugoslavia e quella slovena in Italia che garantisce loro il rispetto del carattere etnico del territorio e il diritto a poter coltivare rapporti e relazioni con le rispettive nazioni madri. Il Memorandum di Londra sancisce anche il ritorno di Trieste all’Italia. 26 ottobre: passaggio, a seguito della fi rma del trattato londinese, della Zona A del Territorio Libero di Trieste e della Zona B, rispettivamente a Italia e Jugoslavia.

• 1956 5 gennaio: scadenza dei termini per le opzioni a seguito della fi rma del me- morandum di Londra. Estate: l’esodo della popolazione italiana può dirsi terminato. La Zona B perde dalla fi ne della guerra circa i due terzi della componente italiana resi- dente sul territorio.

• 1975 10 novembre: Italia e Jugoslavia fi rmano il Trattato di Osimo che pone nefi alla controversia sui confi ni riconoscendo l’appartenenza della ex Zona A del Territorio Libero di Trieste all’Italia e della ex Zona B alla Jugoslavia.

• 2004 30 marzo: con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 il Parlamento italiano isti- tuisce il Giorno del Ricordo da celebrare il 10 febbraio per conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fi umani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell,immediato secondo dopo- guerra (1943-1945), e della più complessa vicenda del confi ne orientale».

224 Indice dei nomi

Adam, Angelo, 139 Bastianini, Giuseppe, 131 Adam, Zulema, 139 Battini, Michele, 77n Aga-Rossi, Elena, 61n Becherelli, Alberto, 131n Alberini, Paolo, 29n Bechi, Gino, 66 Alberti, Manfredi, 172n Benjamin, Walter, 13 e n Alcorso, Caroline, 214n Bernas, Jan, 8n Alexander, Harold, 85 Bertucelli, Lorenzo, 114n Algostino, Alessandra, 42n Bertuzzi, Giancarlo, 210n Andreotti, Giulio, 177 Berzanti, Alfredo, 75 Antonini, Prospero Francesco, 27 Besozzi, Tommaso, 152 e n,155 e n Apih, Elio, 24n, 41n, 80n, 81n Bettiza, Enzo, 53 e n, 132 e n Apollonio, Almerigo, 44n Bigiraetti, Libero, 128 e n Applebaum, Anne, 100n Bianco, Vincenzo, 73 e n, 74 Arista, Giovan Battista, 66 Bidovec, Ferdo, 58 Armillei, Riccardo, 215n Bidussa, David, 62n Åsbrink, Elisabeth, 101 e n Bistarelli, Agostino, 180n Ascoli, Graziadio Isaia, 27, 28 e n Blasich, Mario, 139 Attlee, Clement, 101 Blasich, Matteo, 139 Audenino, Patriza, 100n, 122n, 182n, Blasina, Paolo, 56n 207n Bobek, Viktor, 59 Augé, Marc, 196n Bolzon, Irene, 80n, 105n, 144n Avagliano, Mario, 172n Bonifacio, Francesco, 118 Bonnard, Mario, 149 e n Badnjević, Dunja, 159 e n Bonomi, Ivanoe, 36, 178 Badnjević, Esref, 159 Borgia Sedej, Francesco, 55 Badoglio,Pietro, 66, 67 Botteri, Guido, 56n Ballarini, Amleto, 127n, 138n, 139n Brcic, Sergio, 131n Ballinger, Pamela, 178n Bresciani, Marco, 13n Balzelli, Ferdinando, 181n Bressan, Matteo, 63n Barral, Gianni, 95 e n Brondani, Annamaria, 184n, 185n Bartolini, Stefano, 159n Bruno, Maximiliano Hernando, 8n, 9, 82n Baseggio, Cesco, 104 Burgio, Alberto, 49n

225 Buruma, Ian, 196n Corsellis, John, 69n Byrnes, James Francis, 104, 107 e n Corsi, Angelo, 175 Corti, Paola, 207n Caccamo, Francesco, 68n Coslovich, Marco, 77n Cagni, Umberto, 30 e n Cossetto, Giuseppe, 82n Calducci, Antonio, 181n Cossetto, Norma, 82n Califfi , Steno, 143 e n, 195 e n Crainz, Guido, 97n, 100n, 102, 103n, Campus, Leonardo, 112n 122n, 171n Canali, Mauro, 41n Cresciani, Gianfranco, 214n, 215n Canavero, Alfredo, 147n Cristicchi, Simone, 88n Capogreco, Carlo Spartaco, 64n, 65n Cuzzi, Marco, 62n, 68n, 162n, 207n Cappellano, Filippo, 28n Carli-Ballola, Renato, 117 e n D’Alessio, Vanni, 204n Carniel, Luisa, 22 D’Amelio, Diego, 44n, 148n, 178n Carnier, Pier Arrigo, 79n D’Amico, Giovanna, 205n Casciana, Luigi, 46 D’Annunzio, Gabriele, 32 e n, 33 e n, 34, Castello, Eolo, 138 38n, 48, 127n, 217, 218 Castles, Stephen, 214n D’Antoni, Giovanni, 99n, 211n Catalan, Tullia, 88n Dagnino, Ettore, 44 Dai Prà, Silvia, 192 e n Cattaruzza, Marina, 23n, 25n, 41n, 49n, Dapiran, Francesco, 175 84n, 85n, 87n, 131n Dato, Gaetano, 147n Cattunar, Alessandro, 86n De André, Fabrizio, 167 e n Cavassini, Paolo, 32n De Berti, Antonio, 144, 174 Cecotti, Franco, 106n, 208n De Boccard, Felice, 29 Cermelj, Lavo, 52n De Castro, Diego, 107n, 162 e n Cernigoi, Claudia, 89n De Felice, Renzo, 33 e n, 47n Chevallard, Carlo, 97 e n De Gasperi, Alcide, 106, 107 e n, 108, Chruščëv, Nikita, 157 126, 127n, 140, 141n, 177, 178, 194 Churchill, Winston, 98, 99n, 101 e n, 133, e n, 196 157 De Gregori, Francesco, 75 Cifelli, Alberto, 177n De Nicola, Enrico, 184 Cigliana Piazza, Giorgio, 213n De Winton, Robert, 145 e n, 223 Clara, Anita, 193n Del Boca, Angelo, 62n Coco, Vittorio, 189n Dell’Antonio, Carlo, 91 Colarizi, Simona, 98n Delvecchio, Beniamino, 82n Colella, Amedeo, 123 e n Dessy, Massimo, 58 Collotti, Enzo, 49n, 70n, 79n Di Figlia, Matteo, 47n Collotti, Gaetano, 89n Di Gianantonio, Anna, 153n Colucci, Michele, 215n Di Giuseppe, Giorgio, 136n Colummi, Cristiana, 15n, 116n, 179n, Di Giusto, Stefano, 79n 144n, 163n, 184n Di Laghi, Petra, 125n Colussi, Carlo, 138 Di Michele, Andrea, 44n, 148n, 178n Commissione mista storico-culturale italo Di Nolfo, Ennio, 61n, 68n slovena, 19 e n, 59n, 120n, 121n Di Sante, Costantino, 62n, 64n, 95n, 205n Cooper, Gary, 189 Diaz, Armando, 29, 34 Corni, Gustavo, 79n Dimitrov, Georgi, 29, 34

226 Dogliani, Patrizia, 53n Gemignani, Marco, 34n Dogo, Marco, 131n Gentile, Carlo, 77n Doimo Munzani, Pietro, 135 Gentile, Emilio, 66n Dolinar, France M., 56n, 80n Gentile, Giovanni, 49 Doria, Francesco, 39 Gerin, Lina, 194n Dorigo, Livio, 21n Giacomazzi, Giuseppe, 191 e n Dota, Franko, 125n Giardina, Andrea, 120n Duggan, Christopher, 67n Gibellini, Pietro, 33n Gibjanskij, Leonid, 73n Einaudi, Luigi, 112 Gigante, Riccardo, 138 Ellwood, David W., 98n Giglio, Tommaso, 128, 129n Endrigo, Sergio, 142 e n Gilas, Milovan, 74 Gilbert, Martin, 99n Fabei, Stefano, 168n Gioannini, Marco, 132n Fabiani, Max, 45 Giolitti, Giovanni, 34, 36, 37 e n Facchinetti, Cipriano, 174 e n Giordano, Giancarlo, 36n Fait, Francesco, 202n, 210n Giorsetti, Piero, 118 Fanfani, Amintore, 112 Giungi, Aldo, 44, 45 e n, 46 e n Federzoni, Luigi, 59 Giunta, Francesco, 40, 41 e n, 42 e n, 43, Fehrenbach, Heide, 99n 44 e n, 45, 47 e n, 217 Felician, Lino, 86n Giuricin, Ezio, 138n, 166n, 168n Ferenc, Tore, 63n, 65n Giuricin, Luciano, 138n, 160n Ferrar, Marcus, 69n Giuseppini, Andrea, 155n Ferrara, Antonio, 100n Giusti, Maria Teresa, 61n Ferrari, Liliana, 56n, 139n, 144n, 146n Globocnik, Odilo Lotario, 78n, 79, 80 Ferrari, Paolo, 55n Gobetti, Eric, 60n, 131n, 180n Ferratini Tosi, Francesca, 63n Gombač, Boris, 65n Filippini, Nadia Maria, 186n Gorgolini, Luca, 100n Flores, Marcello, 59n Gori, Francesca, 73n, 158n Focardi, Filippo, 62n, 63n Gortan, Vladimir, 57, 219 Fogar, Galliano, 70n, 91n Grass, Günter, 100, 101n Fogar, Luigi, 55, 56 e n Grassi, Candido, 75 Foot, John, 58n Grassi, Gaetano, 63n Fraccaroli, Arnaldo, 30 e n Grazioli, Emilio, 52, 61, 62 e n Franchet d’Esperey, Louis, 32 Grazioli, Francesco Saverio, 32 Franzinelli, Mimmo, 32n, 43n, 58n, 59n Grimaldi, Renato, 39 Fulvetti, Gianluca, 77n Grossman, David, 159 e n Fusco, Alessandra, 149 e n Grussu, Alessandro, 51n Guerra, Adriano, 73n Gaddis, John Lewis, 157n Gulli, Tommaso, 39 e n, 40 Gagliani, Dianella, 84 Gusso, Maurizio, 104n Gambara, Gastone, 64 Gargiuli, Attilio, 194n Hein, Christopher, 201n Gasparini, Marco, 89n Hitler, Adolf, 60, 77, 78, 219, 220 Gattullo, Maria, 147n Gazzari, Mario, 133, 134 e n Iarussi, Oscar, 38n

227 Innocenti, Silvio, 177 Luxardo, Giorgio, 136 Isnenghi, Mario, 28n Luxardo, Girolamo, 134 Ivančič, Ivan, 59 Luxardo, Nicolò, 134, 135 Ivetic, Egidio, 70n Luxardo, Pietro, 134, 135, 136

Judt, Tony, 99 e n Madieri, Marisa, 126 e n, 193 e n Magno, Saverio, 38n Kablek, Ugo, 46 Magris, Claudio, 13n, 122 e n, 190, 201 Kacin-Wohinz, Milica, 40n, 46n, 50n, 60n e n Karađorđević, Aleksandar, 31, 217 Manenti, Giovanni, 136n Kardelj, Edvard, 73, 74, 88n, 107 e n, 220 Mannino, Biagio, 21n Karlsen, Patrick, 74n Manzin, Rodolfo, 191 e n Kersevan, Alessandra, 65n, 75n Marchis, Riccardo, 97n, 103n, 104n Kershaw, Ian, 100n Margotti, Carlo, 56 Kingsley, J. Donald, 208 Marin, Biagio, 97 e n, 109 e n, 148 e n Kirby, Ken, 62 Marsetič, Raoul, 144n Klein, Gabriella, 53n Martella, Adriano, 49n Klinger, William, 88n Martino, Gaetano, 113 e n Knez, Kristian, 162n Marušič, Fran, 58 Kos, Simon, 59 Mascitelli, Bruno, 215n Maserati, Ennio, 54n Labanca, Nicola, 28n Massignani, Alessandro, 54n Lampe, Urska, 92n Massobrio, Giulio, 132n Lancia, Alberto, 38n Masala, Umberto, 73 Legnani, Massimo, 63n Matta, Tristano, 57n Lepre, Aurelio, 172n Mattarella, Sergio, 19 Levi, Primo, 98 e n Matteotti, Giacomo, 41n Lewis, Vinita, 213 Mayda, Giuseppe, 41n Lisiani, Vladimiro, 114n, 165n Mayer, Marcella, 180 Liuzzi, Giorgio, 76n, 77n Mayer, Teodoro, 180 Loik, Ezio, 136 Mazower, Mark, 122n Loik, Mirella, 136n Mazzini, Giuseppe, 27 Lollobrigida, Gina, 104 McCareg, Leo, 189 Longhitano, Claudio, 157n McCormick, Robert, 69n Longo, Luigi, 73n, 190 Meli Lupi di Soragna, Antonio, 103 Lorenzini, Sara, 108n Mellinato, Giulio, 21n Loria, Emiliano, 127n Meneghello, Romano, 91 Lovrić, Lujo, 39 Mengaziol, Marco (pseudonimo di Mari- Lovac, Mirko, 223 no Varini), 67 e n Lowe, Keith, 94n Merlino, Emanuele, 82n Lunzer, Renate, 126n Mesić, Stjepan, 19 Lupo, Salvatore, 42n Mezzalira, Giorgio, 148n, 174n, 178n Luptak, Adam, 39n Micali, Mario, 147, 149 e n, 150n, 151 e Lusa, Ondina, 162n n, 177 Lusa, Stefano, 170n Miglia, Guido, 22 e n, 51, 52n, 105, e n, Luxardo De Franchi, Nicolò, 136n 144

228 Mihailovič, Draža, 68 e n Neri, Guido, 58 Milani, Nelida, 70, 142, 143 e n, 165, Newman, John Paul, 39n 166n Nicosia, Alessandro, 214n Mileta Mattiuz, Olinto, 124n Ninni, Giovanni, 45 Miletto, Enrico, 117n, 124n, 142n, 148n, Nitti, Francesco Saverio, 178 172n, 182n, 186n Nodari, Pio, 214n Millo, Enrico, 34, 38, 40, 186, 217 Novak, Bogdan C., 86n, 207n Miloš, Zvonimir, 58 Mišić, Saša, 114 O’Broin, Sile, 98n Missoni,Ottavio, 130 e n O’Grady, John, 199, 200n Mistry, Kaeten, 110 O’Hare McCormick, Anne, 102 Moccia, Oscar, 186n Oliva, Gianni, 73n, 133n, 193n Molinari, Maria Luisa, 176n, 206n Olivi, Licurgo, 91n Molotov, Vjačeslav Michajlovič, 107 Oriolo, Giovanni, 48 e n Monachino, Vincenzo, 180n Orlando, Vittorio Emanuele, 31, 33, 34, Montagnana, Mario, 128, 129n 178 Montanari, Tommaso, 153n Orlić, Mila, 13n, 114n, 186n, 204n Montanelli, Indro, 150, 150n, 175n Montini, Giovanni Battista Enrico Anto- Pacelli, Eugenio Maria Giuseppe Giovan- nio Maria, papa Paolo VI, 180 ni, papa Pio XII, 180 Monzani, Luciano, 35n, 40n, 68n, 132n, Pacor, Mario, 180 192n Pagnini, Cesare, 220 Morena, Alessandro, 153 Pahor, Boris, 47 e n, 51 e n Moretti, Enrico, 176 e n Pahor, Borut, 19 Moretto, Marta, 23n Pahor, Milan, 86n Morgan, William Duthie, 104 Palamara, Giovanni, 111, 199n, 206 Mori, Anna Maria, 70 e n, 142n Palazzolo Debianchi, Carmen, 179n, 180n Moscarda Oblak, Orietta, 58n, 115n, Pallante, Pierluigi, 73n 119n, 140n Palmieri, Marco, 172n Motta, Giuseppe, 49n Palumbo, Michael, 62 Musetti, Gabriella, 45n Pamich, Abdon, 136 e n Mussolini, Benito, 10, 41 e n, 42 e n, 43 Parri, Ferruccio, 178 e n, 53, 54, 61, 66, 77, 89n, 107, 131, Pasolini, Guidalberto, 75 217, 218 Pasolini, Pier Paolo, 151 e n, 156n Musso, Giulia, 148n Pasquinelli, Maria, 145 e n, 223 Muti, Riccardo, 18 Patricelli, Marco, 133n Pavelić, Ante, 69 e n, 131, 219 Nacci, Luigi, 29n Pavissich, Michele, 163 e n Naimark, Norman, 101n Pavone, Claudio, 166n Napolitano, Giorgio, 19 e n, 131 Pella, Giuseppe, 111, 112 Nassisi, Gloria, 116n Perilli, Adolfo, 45 e n Nanut, Dunja, 45 Perini, Sara, 153n Negarville, Celeste, 188 Petaros, Valentina Jeromela, 40n Negrin, Alberto, 8 e n Petrović, Rade, 71n Nemec, Gloria, 84n, 115n, 120n, 122n, Pettiti di Roreto, Carlo, 29, 34, 217 126n, 160n, 165n, 170n, 182n, 207n Pezzino, Paolo, 77n

229 Pianciola, Niccolò, 100n Rochat, Giorgio, 61n Picamus, Daniela, 87n Rodogno, Davide, 99n Piccioni, Attilio, 178 Romero, Federico, 157n Piemontese, Giuseppe, 46, 47n Ronzoni, Bianca, 134, 135 Pietrafesa, Emma, 74n Rossi, Aldo, 40 Piffer, Tommaso, 75n Roveda, Giovanni, 73n Pirjevec, Jože, 31n, 37n, 46n, 51n, 91n Rumici, Guido, 162n, 207n Pischedda, Carlo, 142n, 182n Rupnik, Leon, 69 Pitacco, Italo, 189n Rutar, Sabine, 125n Pizzagalli, Aldo, 55n Pizzi, Nilla, 112 Saffi , Dino, 134 Pizzigallo, Matteo, 74n Sala, Teodoro, 35 e n Pons, Silvio, 73n, 158n Salandra, Antonio, 29n Portelli, Alessandro, 14n Salimbeni, Fulvio, 28n Pratolongo, Giordano, 73n Saltini, Zeno, 205 Prencipe, Lorenzo, 214n Salvatici, Silvia, 99n, 100n, 183n Prosperini, Franco, 29n Sambuco, Patrizia, 58 Pupo, Raoul, 14n, 16n, 26 e n, 31n, 32n, Sanfi lippo, Matteo, 100n, 211n, 215n 48n, 57n, 69n, 78n, 80n, 82 e n, 88n, Santeusanio, Italo, 28n, 56n 89n, 92n, 91n, 92n, 96n, 100n, 120, Santin, Antonio, 181, 203n 124n, 131n, 139n, 141n, 178n, 201n, Sardoz Barlessi, Ester, 118 e n 204n Scandaletti, Paolo, 130n Puppini, Marco, 152n Scelba, Mario, 112 e n, 113 e n, 177, 178, 186, 195, 197, 204, 212 Quarantotti Gambini, Pier Antonio, 87 e n Schiffrer, Carlo, 24 e n, 46n Schneider, Helga, 100, 101n Radossi, Giorgio, 138 Radossi, Raffaele, 175 Scotti, Giacomo, 160n Ragusa, Vittorio, 137, 138n Scurati, Antonio, 41n Raikovic, Antonio, 45 Sebestyen, Victor, 99n, 102n Rainer, Friedrich, 77, 78 e n, 80,220 Secchia, Pietro, 73n, 190 Rainer, Guglielmo, 31 Sega, Maria Teresa, 186n Rakusa, Ilma, 13 e n Sema, Antonio, 55n Randi, Oscar, 44, 45 Sereni, Emilio, 173, 174n Rando, Gaetano, 214n Serrentino, Vincenzo, 131 e n Razeto, Claudio, 89n Sessi, Frediano, 70n, 82n Re, Nazareno, 170n Sestan, Ernesto, 26 e n Reinisch, Jessica, 178n Sestani, Armando, 186n Resio, Arturo, 40 Sforza, Carlo, 36, 177, 212, 213 e n Ricci, Felice, 180n Shephard, Ben, 209n Risolo, Michele, 41n Silvestri, Claudio, 40 Roatta, Mario, 61, 62 Silvestri, Giuseppe, 148, 149n Robotti, Mario, 63 e n Sincich, Giuseppe, 139 Rocchi, Flaminio, 123 e n Sinigaglia, Oscar, 179, 180 Rocchi, Ilaria, 139n Skull, Nevio, 139 Rocco, Alfredo, 54 Slataper, Scipio, 22 e n

230 Sluga, Glenda, 49n Trumbić, Ante, 36 Sobolevski, Mihael, 138n Sofri, Adriano, 51 e n Umek, Dragan, 106n Sonnino, Sidney, 29n, 33n Ungaro, Giacomo, 95-96 Sottosanti, Francesco, 51 Spazzali, Roberto, 69n, 78n, 86n, 88n, Vadnal, Ivan, 59 90n, 92n, 146n, 148n, 151n, 162n, Valdevit, Giampaolo, 79n, 88n 164n, 189n, 207n Valenčič, Alojz, 58 Spirito, Pietro, 200 e n Vallone, Raf, 104 Spriano, Paolo, 73n, 74n Varutti, Elio, 193n Stalin, Iosif Vissarionović Džugašvili, 14, Vasta, Ellie, 214n 101, 110, 120, 137, 156, 157 Ventura, Riccardo, 194n Stefancich, Ernesta, 139 Verardo, Fabio, 80n Stelli, Giovanni, 137n Verginella, Marta, 25n, 60n, 118n Stojanovitch, Costa, 36 Vesnić, Milenko, 36, 37 e n Stramaccioni, Alberto, 64n Vicentini, Giovanni Battista, 181 e n Strgagic, Antonio, 135 Vidossi, Aligi, 48n Stuparich, Giani, 122 e n Villalta, Gian Mario, 159n Sulotto, Egidio, 118 Villasanta, Gino, 176 Susmel, Duilio, 43n Vinci, Anna Maria, 42n, 43n, 44n, 47n, Susmel, Edoardo, 43n 48n, 56n Sverzutti, Augusto, 91n Visintin, Angelo, 35n Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 29, 218 Talpo, Oddone, 131n Volk, Rodolfo, 136 Tamaro, Attilio, 42 e n Volk, Sandi, 204n, 205n Tassin, Ferruccio, 28n Vuxani, Giacomo, 135 Tasso, Giorgio, 187n Tavano, Luigi, 56n, 80n Werth, Nicolas, 81n Tence, Sandor, 205n White, Elizabeth, 178n Testa, Temistocle, 219 Williams, Maurice, 78n Thaon di Revel, Paolo, 31 Willoughby Winterton, John, 111 Timeus, Aurea, 75n, 76 Wilson, Woodrow, 33 Tito, Josip Broz, 12, 14, 15, 18, 67-70, 73, Woodvard, Susan, 115n 85, 88, 103, 106, 108, 110 e n, 111, Wörsdörfer, Rolf, 43n, 115n 114-115, 118, 120, 128-129, 133, 137, 142-143, 152, 156-158, 189, 200 Zaccaria, Benedetto, 114n Togliatti, Palmiro, 15, 73-74, 108, 128, Zampa, Luigi, 104 e n 129n, 191 e n Zampi, C.M., 77n Tolomeo, Rita, 71n Zanella, Riccardo, 126, 127n, 140, 141n Tomažič, Pinko, 59 Zellerbach, Harold Lionel, 202 e n Tomizza, Fulvio, 22 e n, 23n, 124 e n, 129 Ziliotto, Luigi, 30 e n, 197 e n Zmajevich, Giulio, 200 e n Tonel, Claudio, 48n Zocchi, Lino, 72 Troha, Nevenka, 85n, 88n Zuccari, Maurizio, 119n, 158n

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