“Il nelle opere del settecento”

INDICE

PREMESSA INTRODUZIONE Parte Prima vocalità nel settecento L’opera del settecento

Seconda Parte Giambattista Pergolesi Niccolò Piccinni Wolfgan Amadeus Mozart

BIBLIOGRAFIA

PREMESSA

Durante il mio percorso di studi in questo conservatorio di musica “Niccolò Piccinni”, ho studiato l’evolversi della storia della musica fino al XX secolo. In questi ultimi anni di studio però ho voluto soffermarmi e approfondire il XVIII secolo, lo stile elegante della sua musica, l’opera che non è più soltanto seria ma diventa più giocosa, buffa e i compositori di grande spessore che lo hanno attraversato, mi hanno da subito affascinata. Con il mio Maestro di canto Donato Tota , abbiamo lavorato tanto sulla tecnica vocale e sulla mia vocalità che si classifica nella voce di soprano lirico leggero; tipologia di voce che in questo periodo, caratterizza in particolar modo l’opera lirica e che quindi, ha potuto darmi una maggior attinenza allo studio di questo repertorio. Dopo aver appreso la bellezza di questo momento storico, artistico e musicale, ho potuto scegliere senza alcuna riserva l’argomento che fa del mio biennio di studi la “specialistica” da me prescelta e che più si sposa con la mia vocalità e capacità tecnica acquisita. La scelta dei compositori d’opera da considerare è stata più difficile perché sono tanti gli autori e le opere che rendono prezioso il patrimonio artistico del ‘700 ma ho voluto omaggiare i grandi: Giovanni Battista Pergolesi, Domenico Cimarosa, Niccolò Piccinni e Wolgang Amadeus Mozart che hanno scritto per l’opera comica e semiseria/sentimentale che più ha caratterizzato questo secolo e che personalmente mi ha maggiormente entusiasmata.

Ringraziamenti

La decisione di proseguire il biennio di studi in conservatorio, non è stata da me accolta con entusiasmo inizialmente, infatti ho aspettato due anni prima di riprendere gli studi dopo il triennio di I livello. Non sempre siamo pronti a proseguire una strada intrapresa … ma grazie alle persone che ci vogliono bene riusciamo a far luce sui nostri obiettivi, senza farci scoraggiare da paure che bloccano la nostra volontà. Per questo, devo ringraziare mio marito e i miei genitori, che amo immensamente e che senza i quali, non avrei portato a termine questo progetto di studi. Loro, mi hanno incoraggiata, aiutata e sostenuta con pazienza a riprendere la strada verso i miei sogni. Dedico a loro questa mia piccola, grande conquista. Un ringraziamento di cuore al mio Maestro, Donato Tota, per avermi sempre seguita nel percorso di studi con grande professionalità non escludendo la sensibilità umana che lo contraddistingue, come docente e come artista. Infine ringrazio l’amore per la musica, che culla ogni momento della vita, piacevole o meno che sia. La musica rende più bella ed emozionante la nostra vita.

INTRODUZIONE

Il repertorio del teatro d’opera nel settecento, è da considerarsi tra le più alte espressioni della musica e della cultura italiana di ogni tempo. Malgrado questo, è stato un periodo anche molto contestato dai critici per la decadenza delle opere serie e per la mancanza di continuità del dramma nell’aspetto musicale come scrisse Richard Wagner nel suo “Oper und Drama” nel 1851. In realtà l’ rimase in auge per tutto il XVIII secolo con importanti cambiamenti attraverso Pietro Metastasio ( poeta e letterario) importante librettista con cui hanno collaborato compositori eccellenti come: Albinoni, Handel, Cimarosa, Piccinni, Pergolesi, Mozart, Vivaldi, Jomelli, Cherubini, Hasse, Porpora e Spontini. Un altro contributo all’opera seria in questo secolo, è stato dato dalla riforma di Christoph Willibald Gluck, che con Calzabigi mettono la composizione al servizio dell’idea drammatica. L’ammirazione in tutta Europa per questa varietà di stile e contenuto espressivo è rimasto certamente come impronta nella storia rispetto alle critiche verso questo secolo. Nell’aspetto vocale si afferma un modello indiscutibile e supremo fondato sulla leggerezza, flessibilità e plasticità del suono, sulla maestria tecnica dell’interpretazione canora, che nel secolo successivo verrà poi ricordato con una nota malinconica, come “bel canto” ; di cui ancora oggi orgogliosamente ne primeggia la memoria il nostro paese. La voce di soprano è dunque protagonista come esempio di queste caratteristiche, soprattutto il soprano lirico, leggero o di agilità. Questa tipologia di voce infatti naturalmente prevede una estensione di due ottave ma anche più, il soprano leggero avrebbe un estensione dal do centrale al sovracuto fa, mentre il soprano lirico dal si sotto il do centrale, al sovracuto do diesis o re.

Verso la metà del ‘700, si afferma in Europa l’illuminismo, un movimento filosofico nato in Francia che promuove in tutti i campi della vita sociale i “Lumi” cioè la ragione contro false credenze, ingiustizie e privilegi. Gli illuministi credono negli ideali di uguaglianza e fraternità tra gli uomini. Questo pensiero influenza inevitabilmente le espressioni artistiche del secondo settecento e quindi anche la musica acquista caratteristiche come regolarità, armonia, semplicità ed equilibrio. Il periodo artistico e culturale prende il nome di Classicismo. Dunque il panorama storico e artistico da cui posso attingere per parlare di questo secolo è vasto così come i compositori che lo hanno vissuto e consolidato nella loro musica. Con molto piacere ho conosciuto meglio gli autori che ho scelto scoprendo non solo talentuosi artisti ma il loro percorso di crescita per diventarlo. Tra le tante opere da loro scritte, ho scelto di interpretare quelle comiche e semiserie che hanno dato un contributo innovativo all’opera e che più hanno divertito e coinvolto il pubblico che per la prima volta anche se in modo “esagerato e intrigato” delle commedie, diventa protagonista con la vita reale del dramma. Infine, ho voluto soffermarmi su opere Italiane, (anche se scritte, come nel caso di W.A.Mozart da compositori stranieri) perché è alla nostra nazione, che si deve la nascita di questa splendida espressione musicale ed artistica.

PARTE PRIMA

VOCALITA’ NEL SETTECENTO

Dalla seconda metà del cinquecento fino al settecento, soprattutto in Italia, si compie il processo che porta l’affermazione dei cantanti evirati. Il centro di tale fenomeno è l’Italia, soprattutto nelle province del Regno di Napoli, compresa la Puglia, dove i ragazzi dotati di una bella voce venivano sottoposti ad una operazione prima della pubertà, che interrompeva la maturazione normale per conservare i caratteri della voce bianca, prima della muta in voce d’adulto maschio. Con l’esplosione della moda dei cantanti evirati, si sviluppa la nascita e diffusione dei primi conservatori di musica, istituzioni create a Napoli durante il seicento. Prima essi erano orfanotrofi, in genere annessi ad una chiesa, che insegnavano un mestiere ai piccoli sfortunati . Pian piano questi orfanotrofi si specializzarono sempre più nell’insegnamento della musica e presero il nome di “conservatori” che divenne uno dei lavori più sicuri e redditizi. Nei quattro conservatori secenteschi a Napoli (Pietà dei Turchini, Loreto, Sant’Onofrio e Poveri di Gesù Cristo) si formano centinaia di strumentisti, compositori e cantanti di cui molti divennero celebri nel mondo, come fago,Leo,Durante, Pergolesi, Hasse , Latilla, Piccinni, Paisiello, Cimarosa e cantanti quali Carlo Broschi (conosciuto come ) Caffarelli, Millico nati tutti in Puglia. In Europa, durante il seicento e il settecento, era riconosciuto in Italia il primato della formazione musicale, infatti molti compositori stranieri giungevano a migliorarsi e a studiare nel nostro paese. Per il canto invece, due luoghi in particolar modo erano ritenuti centri di studio più importanti: Napoli per i cantanti evirati e Venezia per le cantanti. Vi erano casi in cui venivano stipulati, dai conservatori o dai singoli insegnanti, contratti con le famiglie di provenienza spesso povere e in cambio le scuole o i maestri ottenevano la promessa di percentuali sui ricavati dell’allievo durante la sua carriera (era dunque interesse reciproco che i ragazzi potessero in futuro essere ben stipendiati, ancor più nell’opera, dove si raggiungevano cifre stratosferiche). Lo stesso succedeva, con ovvie differenze, a Venezia, dove erano stati fondati quattro “ospedali” per le “putte”, ossia orfanotrofi o case di accoglienza per giovani donne senza mezzi, per potersi costituire la dote maritale attraverso la musica e il canto. Ma anche cantanti castrati e altre tipologie di voci femminili trovavano a Venezia maestri adatti a condurli all’esordio sulle celebri scene teatrali. Durante tutto il XVIII secolo e i primi decenni del XIX secolo, si riconosce nella tecnica vocale una perfetta educazione della voce rispetto alle varie esigenze musicali allo scopo di preservare la bellezza del suono, uno “stile” che prese in seguito il nome di “Belcanto”. Caratteristiche del Belcanto sono: l’emissione sempre morbida dei suoni, l’omogeneità dei registri, l’agilità nei vocalizzi, la capacità di rinforzare o stemperare una nota. Particolarmente evidente è la ricchezza di passaggi soprattutto nelle arie col da capo. Periodo, scuola stile del Belcanto corrispondono totalmente alla pratica virtuosistica Italiana. Contro gli eccessi di questa pratica si espressero molti compositori del XIX secolo a partire da Gioacchino Rossini che, per evitare le troppe libertà soprattutto nell’aggiunta degli abbellimenti improvvisati da parte dei cantanti, cominciò a mettere per iscritto nelle partiture tutte le fioriture. Dalla seconda metà del settecento, i cantanti evirati cominciarono a sfiorire fino ad arrivare al completo disuso sancito dal (tardivo) divieto di sottoporre alla orrenda pratica della castrazione i bambini da parte della Chiesa nel XX secolo, (è del 1903 il decreto di abolizione di Pio X). Con la loro scomparsa anche l’epoca d’oro del canto settecentesco e poi del Belcanto cominciò una inarrestabile decadenza a favore delle tecniche di emissione del verismo. Alcuni dei cantanti evirati, diventati importanti maestri, cominciarono fin dalla metà del Settecento a scrivere trattati sulla tecnica vocale per evitare che si disperdessero i segreti sul modo corretto di cantare. Tra i pochi trattati che ci restano, non tutti scritti da castrati, ricordiamo quello di Pier Francesco Tosi, Opinioni de’cantori antichi e moderni (1723), Jean Antoine Bérard, L’Arte del canto (1755), Giambattista Mancini, Le riflessioni pratiche sul canto figurato (1777) e in seguito Bernardo Mengozzi, Il metodo di canto del conservatorio di Parigi (1803), Luigi Lablache, Il metodo completo di canto” (1840), Manuel Garcia figlio, Trattato completo di canto (1847), Mathilde Marchesi, Metodo vocale teorico-pratico(1886) e tanti altri, che sempre più si avvicinano a trattati fisiologici e scientifici: fu soprattutto il Garcia ad aprire la strada alla nuova prospettiva scientifica negli studi medici fonatori. Una nuova minaccia allo spirito del Belcanto settecentesco si delineò quando si volle portare la forza di emissione come scopo del cantare, lottando con le ragioni fisiche ed esigendo dalla gola quello che in natura non può dare: iniziò così un nuovo periodo di decadenza della parte più nobile del Belcanto. La prima spinta a questo secondo periodo di decadenza venne data dal tenore Duprez, che al teatro dell’Opèra di Parigi, cantò per primo la parte di Arnoldo del Guglielmo Tell a piena voce naturale, con una espansione grandiosamente drammatica e meravigliando il pubblico che lo applaudì per la novità; egli viene infatti ricordato per l’invenzione del famoso “Do di petto”, che fece presto scomparire il tenore di grazia e la poesia connessa al suo ruolo in genere d’innamorato. L’abbandono della “grazia” nel canto, generò la ricerca fine a sé stessa della perfezione del meccanismo. Gli antichi maestri erano invece riusciti a creare una visione armonica ed esteticamente bella del cantare, unendo la voce naturale con la voce di falsetto o testa in modo da non distinguersi l’una dall’altra, la voce si adattava facilmente a tutte le esigenze del bel canto, non che gli abbellimenti: messa di voce, portamento, agilità, trillo, ecc. Giambattista Mancini, nel suo trattato sviluppa i principi estetici, didattici e tecnico vocali esposti mezzo secolo prima da Tosi, sviluppandoli e arricchendoli di nuove e originali intuizioni, tanto da renderlo il più importante trattato di canto nel Settecento. Egli parla di una voce sonora e chiara così come Tosi di una voce limpida e chiara e già sette secoli prima Guido D’Arezzo aveva definito perfetta la voce alta, chiara e soave. Emettere suoni a voce forte e dura è quello che tutti sanno fare, anche senza aver studiato canto, ed è ciò che comunemente si chiama “gridare” ; cantare invece è saper emettere anche suoni forti ma solo a voce soave, cioè dolce e morbida. Mancini riflette sulla posizione della bocca perché da ciò dipende la chiarezza della voce (pur essendo esse, regole non universali per tutti gli individui), la pronuncia (funzionale al canto naturale, non caricata ma essenziale), la posizione della bocca “a sorriso”, la scoperta del ruolo del fiato nell’emissione cantata non approfondito dal punto di vista meccanicistico che verrà poi sviluppato più nel secolo successivo. La concezione di Mancini ha un importante riscontro nel famoso detto attribuito a Farinelli secondo cui “chi sa ben respirare e ben sillabare, saprà ben cantare”. Con la diffusione dell’opera italiana a livello europeo, cantanti come Baldassare Ferri (1610-1680), Matteo Sassano detto Matteuccio (1667-1737), detto il Cavalier Nicolino (1673- 1732), Gasparo Pacchierotti (1740-1821), Giovanni Battista Velluti (1781- 1861) divennero autentici divi internazionali. Il più mitico resta Carlo Broschi detto Farinelli (pugliese nato ad Andria nel 1705 e morto a Bologna nel 1782): dopo aver studiato a Napoli sotto la guida del grande Niccolò Porpora si esibì a Roma, Vienna, Londra, Milano, Venezia, Bologna, in Francia e Spagna riscuotendo un successo enorme (il suo mito è stato riproposto ai nostri giorni in maniera popolare dal film La voce regina interpretato da Stefano Dionisi e Enrico Lo Verso). La vocalità attraversa nell’arco del Settecento un’evoluzione che approda nella seconda metà del secolo al canto espressivo. Il Belcanto è basato sul rendere in apparenza facile quel che può sembrare al pubblico l’incredibile, il meraviglioso, come rapporto voce- personaggio sia come ambientazione e drammaturgia legata alla mitologia, attraverso una serie di tecniche esecutive: agilità, trilli e gorgheggi al cantante venivano richiesti insieme ad una solida conoscenza musicale, unita alla sensibilità interpretativa, capace di rendere con la bellezza timbrica, la pronuncia perfetta, rispetto degli accenti e legato la profondità degli affetti. L’opera seria favoriva le voci acute per la rappresentazione delle virtù eroiche mentre alla voce di basso e tenore venivano assegnati ruoli secondari perché ritenuti troppo realistici per tanto non adatti ai virtuosismi. Solo più tardi si rivalutò la voce del tenore con un canto più lineare e non più eccessivamente virtuoso per non rischiare di rovinare gli stessi principi del bel canto, inoltre anche l’evolversi dell’opera comica portava a dei requisiti diversi e meno canori rispetto all’opera seria dove la voce era la sola protagonista; dunque si accolse l’innovazione di Gluck sul fronte dell’espressività. Abbiamo parlato finora quasi esclusivamente di voci maschili (anche nel caso di evirati). Nel Settecento il ruolo della donna acquista maggiore libertà rispetto alle epoche precedenti, pur restando fortemente soggette alle leggi paternalistiche della famiglia: solo una volta sposate erano libere di esercitare un loro dominio in casa. Se nel medioevo e nel rinascimento le donne potevano essere solo intraviste con difficoltà durante le funzioni religiose, nel settecento potevano incontrare i loro futuri mariti ai ricevimenti o ai concerti. Fu questo uno dei mezzi con cui per esempio le giovani allieve di Vivaldi all’Ospedale veneziano della Pietà riuscivano a conquistare col canto o con la perizia strumentale il cuore di futuri mariti ricchi o altolocati. Certamente la donna nella società europea non è mai stata libera di scegliere il suo futuro e la sua vita, e anche nel canto essa inizialmente non era ben accettata (molto spesso si reputavano le cantanti d’opera semplicemente come prostitute). Ma con il diminuire dei cantanti evirati finalmente essa trova il suo spazio e la diffusione europea dell’opera le offre sempre più ruoli da protagonista. Al tempo della regina Maria Antonietta (1755-1793), tra le cantanti diventate dive restarono in memoria: Rosalie Levasseur (1749- 1826, soprano interprete di opere di Gluck che partecipò anche alle prime opere di Piccinni, Sacchini e Grétry), Sophie Arnauld (1740-1802), Antonietta Saint Huberty (1756-1812, anch’essa voce nelle opere di Piccinni, come Didon e Pénélope) e Madamoiselle Duthe (1748-1830). Dopo la prima fioritura di cantanti donne italiane divenute dive di fama internazionale grazie ad Hendel (come Margherita Durastandi, Vittoria Tesi e soprattutto le due “regine rivali”, Faustina Bordoni e Francesca Cuzzoni), tra le cantanti italiane più note si ricordano: Celeste Coltellini (1760-1828, mezzosoprano prima interprete di Nina o sia la pazza per amore di G.Paisiello), Caterina Gabrielli (1730-1796, voce mirabile educata alle maggiori agilità) e Giulia Grazzini che è stata la interprete della cantata di Niccolò Piccinni per il principe Augusto d’Inghilterra. Si giungerà con l’inizio dell’Ottocento al dominio delle scene di autentiche dive come Isabella Colbran o Giuditta Pasta. Ma durante il secolo XIX l’arte del canto si incanalò verso necessità di espressione drammatiche e robusta come voluto dalla visione dei principali compositori dell’ottocento, come ad esempio Verdi, e da questo momento in poi si archiviò definitivamente il Belcanto come stile nell’opera. Questo stile viene tuttavia ancor oggi evocato con nostalgia per gusto e raffinatezza dai cantanti e maestri che grazie alla riscoperta dell’opera antica, dal Seicento a Rossini, hanno nuovamente possibilità di avviare a questa pratica elegante e formativa giovani generazioni di allievi.

Carlo Broschi (Farinelli) Antonietta Sant Huberty

Faustina Bordoni Francesca Cuzzoni

L’OPERA DEL SETTECENTO

Il teatro d’opera italiano settecentesco, si configura come un’attività sempre più istituzionalizzata e continuativa, legata fortemente alle consuetudini sociali, economiche e culturali cittadine. Nel corso del settecento numerosi teatri vengono ricostruiti non più in legno ma in muratura dislocati nel cuore della città. La natura civica del teatro d’opera settecentesco si manifesta anche sul versante delle occasioni di lavoro che i suoi complessi meccanismi operativi offrivano a professionisti e a mano d’opera locali e si rifletteva sul commercio cittadino. Nell’ottica dell’impresario come in quella del pubblico pagante, erano i cantanti solisti ad occupare il primo posto nella scala gerarchica del personale artistico che maggiormente concorreva al buon esito della rappresentazione, infatti anche i suoi compensi superavano di gran lunga quelli dei compositori. L’opera seria era il genere di spettacolo che alimentava il giro maggiore di capitali, perché richiedeva un cast vocale di prestigio e riceveva pertanto sussidi governativi più sostanziosi e privilegiati rispetto ad altri generi di spettacolo. nel settecento si cerca di cambiare direzione rispetto all’opera del seicento, si cerca un equilibrio più razionale a partire dalle arie cantate. Più di ogni altro letterato, Pietro Metastasio (1693-1782) progettò i suoi 27 drammi per musica in maniera estremamente funzionale alle esigenze dell’epressione musicale, pur mantenendo in essi uno stile poetico- letterario di alto livello, perfezionando e stilizzando al massimo la struttura formale dell’opera seguendo le istanze dell’Arcadia (dove lui fu accolto nel 1718 come poeta). L’aria che nel seicento veniva chiamata “Centonaggio o pasticcio” in cui il cantante evirato nelle arie nuove riproponeva estratti dei propri brani più celebri, viene completamente abbandonata. Metastasio nella sua riforma propone: un aria (aria col da capo) che debba esprimere un solo sentimento (lui prediligeva il sentimento dell’amicizia, fedeltà e l’eroismo) , una trama semplice, elimina elementi comici dall’opera seria, suddivide il recitativo in dinamico (quando apre la scena) e statico (quando conclude la scena), inoltre la modalità di scrittura nei versi è rigorosamente regolare, infine il dramma deve concludersi con un lieto fine (anche se nei suoi drammi solo in tre hanno finale tragico: “Didone”, “Catone in Utica”e “Attilio Regolo”. L’aria è certamente protagonista del melodramma, i recitativi, i brani d’insieme e strumentali rimangono elementi di contorno e sostegno. Nella vasta schiera di compositori che hanno messo in musica i drammi per musica seri di Metastasio, occupa un posto in primo piano Johann Adolf Hasse (1699-1783), considerato come il più italianizzato dei compositori tedeschi del Settecento; studiò a Napoli come allievo di Alessandro Scarlatti e Nicola Porpora ma anche dopo il suo matrimonio con la cantante Faustina Bordoni (celebre virtuosa Veneziana) soggiornò per lungo tempo in Italia. Altri compositori importanti in questa prima parte del secolo furono: Giovanni Battista Pergolesi, Domenico Sarro, Nicola Portpora, Leonardo Vinci e Leonardo Leo che utilizzavano uno stile moderno, scorrevole, sfrondato di elementi contrappuntistici con un interesse focalizzato per l’aspetto melodico dato che il predominio assoluto era nella parte vocale, prevalentemente acuta (volutasi dai cantanti formatisi proprio in quegli anni). Il recitativo diventa sempre più espressione del tessuto connettivo tra le varie arie; nell’opera italiana ne distinguiamo due tipi: recitativo “semplice” o anche detto secco (sostenuto solo dal basso continuo) e recitativo “accompagnato” o strumentale o obbligato (appunto accompagnato dell’orchestra). A Napoli nasce fin dai primi anni del settecento una nuova tipologia di opera che prende vita con la “commedeja pè mmuseca”, che rappresenta gli aspetti buffi della vita quotidiana in chiave realistica, con libretti in lingua dialettale napoletana. Già nel 1677 Alessandro Stradella aveva introdotto con l’opera “Traspolo tutore” elementi farseschi con caratteri ridicoli, ma fu in seguito che il genere comico si diffuse con opere di Giovanni Battista Pergolesi, Niccolò Piccinni, Domenico Cimarosa, Wolfang Amadeus Mozart e più tardi Gioacchino Rossini. Il macrogenere comico comprendeva diversi generi: , opera buffa e dramma semiserio. La “commedeja pè mmusseca” cominciò ad utilizzare elementi di pungente ironia verso l’opera seria come ne “La Dirindina” di Domenico Scarlatti su libretto di Girolamo Gigli e ne “L’impresario delle Canarie” di Domenico Sarro sull’unico testo comico di Metastasio. L’opera buffa capolavoro del primo settecento è “Lo frate ‘nnamorato” di Giovanni Battista Pergolesi su libretto di Gennarantonio Federico (1732). L’intermezzo era dato fra gli atti delle opere serie invece, quindi si componeva di due parti di breve durata un eccellente e celebre intermezzo è senz’altro “” di Giovanni Battista Pergolesi. L’opera comica napoletana, mantiene alcune delle caratteristiche dell’opera seria in stile italiano, come la sinfonia introduttiva, il recitativo e l’aria col da capo. Cambia il ruolo della voce o meglio il ruolo del cantante che nell’opera seria primeggiava, l’opera comica non pretende dal cantante straordinarie qualità o capacità virtuosistiche quanto più tosto grande abilità dal punto di vista attoriale e dunque espressivo. L’azione scenica assume un ulteriore aspetto importante in quanto essa e la musica che doveva accompagnarla, enfatizzano i cambiamenti drammatici e sottolineano l’espressività delle parole. Nell’opera seria il recitativo aveva il ruolo di aprire o anticipare un cambiamento e le arie erano prevalentemente “col da capo”; mentre nell’opera buffa queste, venivano utilizzate solo per i personaggi con ruolo serio o di mezzo carattere (come gli innamorati); diversamente, ai personaggi di carattere buffo (plebei o servitori) si addiceva un’espressione vocale più semplice, sillabica, ripetitiva e talvolta dialettale, con andamento melodico lineare. Data la mancanza dei cantanti evirati, le donne spesso interpretavano ruoli “en ” di fanciulli, paggi o amanti; la voce di soprano era destinata alla giovane donna protagonista, per la donna più matura (madre o anziana) veniva utilizzata la voce più scura di , spesso al tenore, era affidato il ruolo di mezzo carattere e al ruolo di buffo era assegnata la voce di basso. Nell’opera seria evinceva il canto solistico sganciato dall’azione mentre nell’opera comica il peso maggiore dello spettacolo spettava all’azione scenica e l’aria solistica non si poneva come momento lirico riflessivo ma si presentava come parte integrante di essa. I “pezzi d’insieme” o meglio definiti “concertati d’azione”, diventano sempre più preziosi e caratterizzanti non solo a ogni fine atto ma si moltiplicano durante l’opera. Negli anni 1740-1760 i pezzi d’insieme soprattutto di fine atto, assumevano vaste dimensioni (gli studiosi ne conferiscono il merito a Nicola Logroscino come testimonia la sua opera “Il governatore”, Napoli 1747). La struttura centrale dell’opera comica diventa sempre più il concertato di fine atto. L’orchestra per quanto meno numerosa rispetto all’opera seria, ricopre un ruolo importante e di grande utilità nel collegare le varie entrate delle voci e le diverse sezioni degli episodi; gli strumenti sottolineano le diversità dei caratteri e delle situazioni psicologiche dei personaggi. I personaggi nell’opera comica sono in genere da cinque a sette (escluso l’intermezzo) e rappresentano una trama semplice se pur caratterizzata da travestimenti, scambi di identità, infedeltà ecc. L’opera comica rispondeva al bisogno del pubblico di evadere dalla realtà, lo divertiva con maschere dai costumi convenzionali di servi, paggi, insomma personaggi realistici che colloquiavano con un linguaggio semplice, talvolta con pronuncia errata delle parole o in dialetto; così era anche nel libretto o in italiano o in dialetto napoletano il linguaggio era vivace e comprensibile, al contrario dei libretti di opera seria in cui si utilizzava un italiano più ricercato e forbito. Nella musica dell’opera comica ritroviamo svariate sezioni contrastanti nei brani solistici, fraseggi melodici di varia lunghezza, inaspettati cambiamenti di dinamica, ritmi rapidi e ticchettati, crescendi sugli accordi fermi. Si esige dal compositore quanto dal librettista una maggior attenzione : il librettista deve agevolare la possibile scansione in sillabe delle parole nelle arie in cui sono presenti più personaggi e il compositore deve fornire il timbro giusto ai caratteri, agli umori dei protagonisti per poter ottenere un efficace azione drammaturgica. L’opera comica ha sempre un lieto fine perché la sua funzione è quella di regalare al pubblico un momento di gioia e spensieratezza ragione che lo ha reso un genere di successo; inoltre è meno dispendiosa per gli imprenditori e rivaluta l’importanza del compositore, che fino ad allora era messo in ombra dalla fama e bravura dei cantanti, unici protagonisti dell’opera seria.

I generi del teatro buffo sono : ballad-opera in Inghilterra, opéra-comique in Francia, zarzuela in Spagna, Singspiel in Austria e Germania ; tutti questi generi sono caratterizzati dall’avere parti recitate, oltre alle parti cantate. Solo l’opera buffa italiana è interamente cantata. L’opera buffa si è arricchita ancor di più, intorno alla metà del Settecento, grazie all’apporto dei mirabili libretti del veneziano Carlo Goldoni: ricordiamo “L’Arcadia in Brenta”(1749) e “Il filosofo di campagna”(1754) , con musiche di Baldassarre Galuppi, e “ Cecchina ossia la buona figliola”(1760) , con musica di Niccolò Piccinni. In queste opere alla connotazione buffa si aggiunge quella di comédie larmoyante (commedia commovente) a lieto fine. Questo genere raggiunge il suo apice alla fine del ‘700 con “Nina ossia la pazza per amore” del napoletano Giovanni Paisiello; altro melodramma di grandissimo rilievo è, sempre alla fine del ‘700, di Domenico Cimarosa, che fu rappresentato a Vienna nel 1792. Sia Paisiello che Cimarosa sono autori fecondi e di successo, eccellenti anche nel genere serio italiano e nella tragédie lyrique francese. Paisiello è autore, fra l’altro, di un fortunatissimo “Barbiere di Siviglia”, rappresentato a San Pietroburgo, che, alcuni anni dopo, esattamente nel 1816, darà parecchio filo da torcere a Gioacchino Rossini, colpevole di aver affrontato la stessa vicenda e lo stesso personaggio, sia pure con un libretto di autore diverso, nell’opera omonima. Successivamente arrivarono altri grandi capolavori dell'opera buffa come “Le nozze di Figaro” (1786) e “Così fan tutte” (1790) di Wolfgang Amadeus Mozart,” L'elisir d'amore” (1832) e “Don Pasquale” (1843) e “ L'Italiana in Algeri” (1813) di Gioachino Rossini. Nell’opera seria del tardo settecento, attraverso Christoph Willibald Gluck (1714-1787) si parla di “riforma”. Nella prefazione all’ “”, (1762) scritta a Vienna in collaborazione con il librettista Ranieri de’ Calzabigi, Gluck esplicava la sua poetica espressiva: riportare la musica all’aderenza con il dramma, sfrondandola da orpelli inutili imposti dalla moda e dal divismo dei cantanti; introdurre recitativi ariosi che non interrompevano l’incidere drammatico, mentre le stesse arie dovevano ammantarsi di sobrietà nel canto ed essere strettamente ispirate alla situazione drammatica. Gli anni che hanno preceduto “Orfeo” e quelli immediatamente successivi furono caratterizzati da lavori improntati ad una certa convenzionalità, se si escludono il brillante atto unico “Le cinesi” del 1754 e “Les pelerins de la mecque” del 1764, la prima costruita ancora con numeri chiusi, la seconda in un perfetto stile d’opéra-comique francese. Il 1767 è l’anno di “”, opera nella quale il linguaggio avviato con “Orfeo” trova pieno compimento. L’opera successiva, “Paride ed Elena” del 1770, scritta ancora in collaborazione con Calzabigi, non ebbe un particolare successo, così Gluck decise di recarsi a Parigi dove regnava Maria Antonietta che era stata sua allieva. L’impatto con il mondo musicale parigino portò alla creazione di opere quali “Iphigénie en Aulide” (1774), la revisione in francese di “Alceste” (1776), “” (1777) e “Iphigénie en Tauride” (1779). Questi lavori nacquero però tra aspre polemiche: gli avversari di Gluck (un po’ come era avvenuto ai tempi di Rameau) gli opposero l’italiano Niccolò Piccinni. Ma prima ancora della riforma di Gluck, segni di rinnovamento, anche se non vistosi, erano compresi nelle opere di Hasse e di Graun, mentre molto innovativi appaiono i lavori teatrali degli ultimi Nicolò Jommelli (1714-1774) e Tommaso Traetta (1727-1779). Il percorso musicale di questi due compositori è per così dire parallelo; nelle loro opere si sente un linguaggio internazionale che guarda soprattutto all’operismo francese. Questa è sicuramente una novità perché fino ad ora nessun musicista guardava ad altri stili. In qualsiasi luogo si trovasse a comporre, lo stile non subiva nessuna influenza esterna. Le opere di Jomelli, molte su libretto di Metastasio coprono un periodo che va dal 1740 al 1774 ed evidenziano molti aspetti nuovi. Un esempio è la chiusura d’atto: anziché un’aria troviamo un duetto o, fatto ancora più nuovo, un terzetto; il recitativo è particolarmente curato; sempre più frequente è la presenza del recitativo accompagnato a scapito di quello con il solo basso continuo; sempre più spesso l’aria, liberata dagli schemi formali che la irrigidivano, si congiunge al recitativo senza così interrompere l’azione. Lo stesso discorso è applicabile anche alla produzione di Traetta dove è ancor più avvertibile l’avvicinamento allo stile francese.

Lo testimonia la presenza di libretti, con una certa attenzione al gusto spettacolare ed un certo descrittivismo orchestrale ad imitazione della natura. Di derivazione francese è anche l’importanza che viene data al coro, pressoché inesistente nell’opera seria italiana. In questo senso l'”Ifigenia in Tauride” (1762 ) di Traetta presenta scene corali che anticipano di vent’anni quelle che Gluck scriverà nella sua “Ifigenia”. Durante il settecento, l’opera in genere, seria o comica che sia ha certamente dato un grandissimo contributo alla crescita artistica del teatro musicale, periodo memorabile nella storia della musica e che ha consolidato artisti di spessore cui opere ancora oggi, stimate e riproposte nei più importanti teatri d’Europa.

SECONDA PARTE

Giovanni Battista Pergolesi

NOTE BIOGRFICHE SULL’AUTORE

Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi (per via del nonno che era figlio del Maestro Francesco di Pergola e in città la famiglia veniva denominata “famiglia dei Pergolesi”); nacque a Jesi in provincia di Ancona, il 4 gennaio del 1710. Egli è stato un compositore di opere liriche e musica sacra ma anche organista e violinista, morto giovane a 26 anni (nel 1736) ha in breve tempo lasciato un eredità musicale importante. Suo padre era amministratore dei beni della Confraternita del Buon Gesù e consentì a Giovanni Battista di cominciare presto la sua formazione musicale, iniziando dall’organo e dal violino. A quindici anni cominciò i suoi studi di composizione al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo a Napoli, dove ci sono i più grandi autori della scuola napoletana come: Francesco Durante, Leonardo Vinci e Gaetano Greco. A ventuno anni (nel 1731) si diplomò dimostrando il suo prezioso talento già nel saggio finale dove presentò il suo dramma sacro “Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di San Guglielmo duca d’Aquitania” e nell’ultimo anno di studi aveva già scritto un altro oratorio “La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe”. Pergolesi in seguito scrisse la sua prima opera lirica “La Salustia” (opera seria su libretto di anonimo tratto dall’ di Apostolo Zeno) rappresentata al teatro di Napoli “San Bartolomeo” nel gennaio del 1732; l’opera non andò benissimo come ci si aspettava, probabilmente a causa della morte di un interprete prima della rappresentazione. Al contrario, invece riscosse un grande successo con l’opera “Lo Frate ‘nnamorato” nello stesso anno (1732) a settembre, nel teatro Fiorentini di Napoli su libretto di Gennaro Antonio Federico. L’opera era una “commedeja pè mmuseca” in italiano e in napoletano e venne replicata anche in occasione del carnevale nel 1734. nell’ottobre del 1732, Pergolesi ottiene l’incarico di organista presso la Cappella Reale. A settembre del 1733, in occasione del compleanno dell’imperatrice Maria Cristina, Pergolesi scrive il dramma per musica in tre atti “ Il prigionier superbo” con libretto derivante da una rielaborazione de “La fede tradita e vendicata “ di Francesco Silvani. Ciò che rese famosa questa opera fu soprattutto il suo intermezzo ovvero la celebre “La serva padrona”, in due atti di carattere allegro con personaggi buffi e realistici. Con “La serva padrona” Pergolesi conquista totalmente con la sua musica che fresca e spontanea rappresenta appieno la società napoletana. L’intermezzo fu riproposto a Parigi nel 1752 scatenando una disputa la “” (che durò due anni) fra i sostenitori dell’opera francese, incarnata nello stile di Jean-Bapstiste Lully e Jean Philippe Rameau e i sostenitori della nuova opera buffa italiana fra cui sostenitori Jean Jacques Rousseau. Nel 1734 al teatro San Bartolomeo con Gaetano Majorano, in occasione della regina Elisabetta Farnese, Pergolesi scrisse il dramma in musica in tre atti “Adriano in Siria” su libretto di Metastasio con l’intermezzo “”. Nel 1734 Pergolesi debuttò a Roma, scrisse musica sacra come “Messa in fa” per sei voci e coro nota come “Missa Romana” alla chiesa romana di san Lorenzo in Lucina e nel 1735 portò in teatro di Tordinona l’opera “L’Olimpiade” dramma in tre atti su libretto di Metastasio. A causa dei suoi problemi di salute (era affetto da tubercolosi) Pergolesi fu costretto a rientrare a Napoli, dove in autunno rappresentò al teatro Nuovo, “” dramma in musica su libretto di Gennaro Antonio Federico. nell’ultimo anno della sua vita, lasciò tra i tanti critti sacri i più importanti: Salve Regina e lo “” per orchestra d’archi, soprano e contralto” che in seguito sostituì lo stabat Mater di Alessandro Scarlatti che veniva eseguito tradizionalmente nel periodo quaresimale. Pergolesi muore a Pozzuoli il 16 marzo del 1736, lasciando nella sua breve vita, un importante contributo al mondo musicale che influenzerà positivamente i successivi e contemporanei compositori.

“LO FRATE ‘NNAMORATO”

“Lo Frate ‘nnamorato” è una commedeja pe’ mmuseca in napoletano con parte dei dialoghi in italiano. L’opera buffa è stata scritta nel 1732 da Giovanni Battista Pergolesi su libretto di Gennaro Antonio Federico. La prima rappresentazione avvenne a Napoli nel 1732 il 27 settembre al Teatro dei Fiorentini, nel carnevale del 1734 fu ripresa con alcune modifiche fatte dallo stesso Pergolesi, durante la festività del carnevale. I personaggi sono nove: Marcaniello (basso), Ascanio (soprano, travestito), Luggrezia (contralto), Don Pietro (basso), Carlo (tenore), Nena (soprano), Nina (soprano), Vannella (soprano) e Cardella (soprano. La vicenda si svolge a Capodimonte, (luogo di villeggiatura marittima) dove una serie di matrimonio vengono programmati ma non vanno poi a buon fine a causa dei sentimenti non reciproci. Carlo (ricco borghese romano) dovrebbe sposare Luggrezia, la figlia di Marcaniello (popolano napoletano). Marcaniello e suo figlio Don Pietro invece vorrebbero sposare le nipoti di Carlo, Nina e Nena (orfane di genitori), le nozze però sono ostacolate dall’amore che sia Nina e Nena che Luggrezia provano per il figlio adottivo di Marcaniello ovvero Ascanio. In realtà Ascanio è innamorato di Luggrezia ma per paura di compiere un incesto non può sposarla, anche le maliziose servette Vannella e Cardella cercano di allontanarli ma quando si scopre che Ascanio è il fratello rapito delle sorelle Nina e Nena, finalmente può sposare Luggrezia mentre Carlo, Marcaniello e Don Pietro non si sposano più. La prima interprete di Nena in voce di soprano fu Marianna Ferrante.

“LA SERVA PADRONA”

“La serva padrona è un intermezzo in due parti dell’opera seria “Il prigionier superbo” con musica di Giambattista Pergolesi e libretto di Gennaro Antonio Federico. La prima esecuzione fu a Napoli, al Teatro San Bartolomeo il 5 settembre 1733. I Personaggi sono tre: Serpina (soprano), Umberto(basso) e Vespone (Mimo). la vicenda racconta di una giovane e furba ragazza Serpina, che al servizio del ricco umberto, cerca di approfittare della sua bontà. Quest’ultimo, per darle una lezione, le dice che vuole sposarsi ed ella si propone come sua moglie , ma egli la rifiuta. Serpina per farlo ingelosire finge un fidanzamento con un certo Capitan Tempesta (nonché Vespone servo di Umberto,travestito). Umberto ingelosito scopre di non poter rinunciare a Serpina e dunque decide di sposarla rendendola da serva, padrona.

Prima interprete di Serpina Soprano: Chaterine Nelidova

Vito Niccolò Piccinni

NOTE BIOGRAFICHE SULL’ AUTORE Vito Niccolò Piccinni nacque a Bari (in Puglia) il 16 gennaio del 1728, è stato autore di tanti capolavori dell’opera italiana e francese. Suo padre, Onofrio Piccinni era musicista di professione (vicemaestro della cappella musicale di San Nicola dopo essersi diplomato al conservatorio di Sant’Onofrio a Napoli) ma preferì far intraprendere al ragazzo prodigio la carriera ecclesiastica e non la carriera musicale. Le sue doti però furono notate dall’arcivescovo di Bari che lo ascoltò suonare il clavicembalo mentre pensava di essere solo. L’arcivescovo sollecitò il padre, a dare la possibilità a suo figlio di intraprendere gli studi in conservatorio di musica date le sue doti e la sua passione per la musica. Il padre diede ascolto al convincente consiglio dell’arcivescovo e nel mese di maggio del 1742 Niccolò Piccinni cominciò a studiare al conservatorio Sant’Onofrio di Napoli. Il conservatorio era diretto da Leonardo Leo, altro importante musicista pugliese nato nell’odierna San Vito dei Normanni vicino Brindisi. Questi inizialmente affidò Niccolò Piccini, già grande rispetto alla media degli studenti, ad un maestro non importante ma, sentite le sue lamentele e avendo saputo che il ragazzo si vantava già di essere un compositore, volle metterlo alla prova, facendolo esibire davanti agli altri studenti. L’azione non riuscì nell’intento di imbarazzare Piccinni ma al contrario ne fece riconoscere il talento per cui Leo decise di seguirlo personalmente nello studio e, dopo la sua morte, il giovane continuò con l’altro grande didatta napoletano, Francesco Durante. Questi considerò Piccinni “suo figlio” e gli svelò ogni segreto della sua arte, e dopo undici anni di studio Niccolò concluse i suoi studi in conservatorio nel 1754. Il debutto teatrale avvenne grazie al principe di Ventimiglia, protettore di giovani artisti, che presentò Piccinni al direttore del teatro dei “Fiorentini” dove Niccolò Logroscino, altro conterraneo essendo nato a Bitonto, aveva lavorato per molto tempo (divenendo un compositore famoso nel genere comico). Per quel teatro Niccolò Piccinni compose l’opera “Le donne dispettose” nell’anno 1754 (opera buffa su libretto di Antonio Palomba). Incoraggiato dal suo primo successo, poco dopo scrisse altre due opere “ Il curioso del proprio danno” (1755, altra opera buffa sempre su libretto di Antonio Palomba) che ottenne repliche per ben quattro anni, e nello stesso anno compose “Le gelosie” (opera buffa su libretto di Giovanni Battista Lorenzi). Le sue doti compositive lo portarono a confrontarsi anche col genere serio e nel 1756 compose “Zenobia” per il grande teatro di San Carlo di Napoli, su libretto di Pietro Metastasio, con il medesimo successo di repliche. In quell’anno Piccinni si ammalò a causa di un germe contratto sin dalla nascita dovuta ad una caduta che gli aveva procurato una contusione all’inguine (una specie di ernia), ma fu consolato da eventi felici come il suo matrimonio con Vincenza Sibilla, cantante sua allieva, che diede più volte voce alle sue arie d’opera, divenendo poi al suo fianco una preziosa collaboratrice come docente privata di canto di giovani allieve, specie in Francia. Nel 1757 compose la nuova opera seria “Nittetti” su libretto di Pietro Metastasio a Napoli e due intermezzi “L’amante ridicolo” su libretto di Pioli e “La schiava seria”. Dopo l’opera seria “Caio Mario” su libretto di Gaetano Roccaforte proposta a Napoli, la sua fama si affermò anche a Roma creando l’ invidia degli altri compositori napoletani, con l’opera “ Alessandro nelle Indie” nel 1758, che si distinse non solo per le arie nel suo stile brillante e intenso ma per la particolare Sinfonia, che fu eseguita per molto tempo nei concerti pubblici e privati in Italia. Piccinni continuò a scrivere incessantemente opere buffe e serie ma è nel 1760 che compose il suo capolavoro degno di esser ancor oggi ricordato come una delle opere più straordinarie del Settecento: “ Cecchina o sia la buona figliola” divenne l’opera italiana più rappresentata nel mondo del suo tempo, con oltre trecento rappresentazioni fino al 1800. A Roma si scatenò una vera e propria moda, un fanatismo nel ritrovare ovunque il nome di “Cecchina” ne portarono il nome: alberghi, taverne, vini , a Roma una villa porta il suo nome, fuochi d’artificio ispirati alle scene dell’opera, accompagnati dall’orchestra che suonava l’ouverture. L’indiscutibile successo era dovuto alla meravigliosa collaborazione con il celebre Carlo Goldoni. In realtà il libretto goldoniano era stato musicato in precedenza a Parma da Egidio Romualdo Duni (antico collega materano del padre di Piccinni in quanto maestro della Cappella di San Nicola di Bari) ma senza successo. Invece il 6 febbraio del 1760 debuttò al “teatro delle dame” a Roma con musica di Piccinni e fu un trionfo. Ogni brano dell’opera era perfetto con colori, varietà e originalità che contraddistingue il compositore per la sua singolare grazia e genialità. Nel solo 1761 egli arricchì il suo catalogo musicale con ben sei opere, tre di genere buffo e tre di genere serio che contribuirono a far crescere la sua fama in tutta Italia e per quindici anni ancora il suo nome si affermava sempre più. Come spesso accade, il grande successo scatenò invidie da parte dei suoi colleghi (è famoso il caso del suo ex allievo Pasquale Anfossi, che cercò di denigrarlo per scalzarlo e prendere il suo posto nei teatri romani). Nel 1774 Piccinni compone a Napoli il secondo “ Alessandro nelle indie”, il suo capolavoro nel genere serio in italiano, mentre a Roma i sostenitori di Anfossi gli rendevano difficile ogni suo debutto fino al punto di far ritirare le sue opere per far rappresentare quelle di Anfossi. Deluso dai romani Piccinni, decise di scrivere solo per i teatri napoletani e nel 1775 propose la divertente opera buffa “ I viaggiatori” entusiasmando tanto i napoletani, fino a replicarla per le quattro stagioni dell’anno. Piccinni in patria era molto considerato e amato dalle famiglie nobili che lo desideravano nei loro palazzi e ville, la principessa Belmonte Pignatelli lo adorava e tanti stranieri di rango che passavano da Napoli, fremevano dalla voglia di incontrarlo. Il compositore aveva scritto non solo molte opere ma oratori, brani e musiche da chiesa e sorprendentemente con una velocità di stesura rara perfino nei compositori italiani celebri nel mondo per questa caratteristica. Nel 1776, Piccinni parte in Francia a Parigi, accettando l’ invito della regina Maria Antonietta e degli impresari d’opera locali. Non trovò però quello che si aspettava e e gli era stato promesso: fu una sorta di trappola, in cui Piccinni doveva sostenere il ruolo del compositore di successo italiano da contrastare al più importante compositore mondiale vivente, il tedesco Gluck (peraltro già insegnante della regina a Vienna), chiamato come campione dell’opera nazionale francese. Lo scontro era voluto per motivi commerciali. Ma Piccinni, di cui tutti esaltavano il buon carattere, non si dette per vinto e durante il primo periodo a Parigi – malgrado i suoi lamenti per il clima francese e la scomoda abitazione, Piccinni iniziò la sua prima opera in francese: “” (1778) tragèdie Lyrique su libretto di Jean Francois Marmontel, poeta ed amico con cui lavorò piacevolmente per un anno circa. Ginguené ci racconta che dopo una giornata di lavoro, la sera Piccinni, amava portare la sua famiglia in teatro per poter meglio studiare e capire le opere francesi e i suoi scrittori. Ma ecco che si materializza a Parigi il suo presunto “rivale”: Christoph Willibald Gluck, celebre compositore a cui si da il merito di aver saputo unire lo stile drammatico francese con le forme del recitativo e del canto della scuola italiana con la forza armonica tedesca. Piccini non l’avrebbe considerato tale, ma i sostenitori di Gluck gli avevano attribuito questo ruolo, e presto si formò un gruppo di sostenitori di Piccinni che difendevano il compositore nella chiassosa “Querelle” che divampò rapida a Parigi. Piccinni, due volte a settimana si recava a Versailles per dare lezione di canto alla regina, e le regalò uno spartito del Roland ben rilegato, dandole il permesso di poterlo mostrare anche a tutta la sua famiglia. Ma intanto la disputa con Gluck cresceva la Francia intera sembrava appassionata da questo gran duello, originato da calcoli commerciali: Barton (direttore artistico dell’opéra) aveva pensato di far scrivere la stessa opera ad entrambi gli artisti e ponendo a confronto le loro capacità per scoprire chi dei due, rappresentanti rispettivamente dell’Italia e della Francia, ne sarebbe uscito vincente. Piccinni tentò di sottrarsi conoscendo bene il suo avversario ma Barton per convincerlo gli promise che la sua opera sarebbe stata vista per prima in modo da non creare pregiudizi nel pubblico. La promessa di Barton non fu mantenuta e Gluck rappresentò la sua versione di “ Iphigénie en Tauride” mentre ancora Piccinni stava completava l’opera “Atys” che rappresentò il 22 febbraio del 1780 su libretto di Marmontel, opera che con grande semplicità si impose agli occhi dei conoscitori come il marchio indelebile dello stile del maestro italiano. La prima rappresentazione della “Iphigené en Tauride” di Piccinni avvenne nel 1781, e fu quasi un fiasco a causa della cantante Madame Laguerre che non era in buona forma fisica (si scrisse che continuò barcollando a cantare senza sbagliare fino alla fine dell’opera). La risposta del pubblico nelle repliche successive invertì il giudizio e, sorprendentemente, l’opera venne replicata per venti volte di seguito fino a che non fu tolta, improvvisamente e ingiustamente, avendo terminato il suo ruolo di chiassosa pubblicità. Piccinni nonostante i ripetuti attacchi dei suoi nemici, continuò imperterrito a lavorare senza mai lamentarsi. Infatti nello stesso anno rappresentò l’opera “Adéle de Ponthieu” che non riportò però il successo che riscosse invece il balletto di “Médéé” insieme al quale venne rappresentata. Gluck tornò a Vienna, morendo poco dopo, e venne sostituito nell’immaginario parigino da un altro “rivale “ di Piccini, in realtà un suo vecchio e caro amico compatriota, il Sacchini. Questi andò subito a trovare Piccinni nella sua casa di campagna nel villaggio Bagnolet dove si ritrovarono e abbracciarono felicemente. E fu lo stesso Piccinni ad accompagnare Sacchini in teatro presentandolo come eccellente maestro e amico all’orchestra. Tuttavia la loro amicizia fu subito turbata dalle maldicenze riferite a Sacchini riguardante il mediocre successo della sua prima opera “ “come causato da un giudizio negativo di Piccinni e dei suoi sostenitori. Un nuovo tentativo di scoraggiare Piccinni fu la proposta di una nuova sfida musicale. Entrambi i compositori dovevano rappresentare un’ opera, Piccinni scelse “Didon” e Sacchini “Chiméne”. L’opera di Sacchini riscosse un tiepido successo mentre l’opera di Piccinni ebbe una accoglienza trionfale e giudicata presto un vero capolavoro, grazie alla capacità di rendere musicalmente vivi e profondi i sentimenti oltre che alla splendida capacità interpretativa del dramma da parte della protagonista Madame Saint- Huberty. Altrettanto successo riscosse la breve opera buffa “Le Faux Lord ”che Piccinni aveva composto su libretto del suo figlio primogenito, scritta con stile puro, libero e semplice, per tal ragione piacque molto. Nell’anno 1784 fu apprezzata “Diane et Endymion” ma molto più successo ebbe l’anno succesivo (1785) l’opera “Pénèlope”, se pur non quanto ne meritava, responsabilità che fu attribuita al librettista Marmontel più che alle arie, giudicate deliziose e all’elegante bellezza dello spettacolo. Queste prove in parte negative, non riuscirono mai a togliergli la tranquillità e i sentimenti nobili e generosi per cui era devoto alla musica e alla vita. Nell’anno 1786 morì Sacchini e nell’anno successivo morì anche Gluck e per quanto la gente definisse i due maestri rivali di Piccinni, egli apprese dispiaciuto entrambe le notizie, tanto da voler rendere omaggio almeno a Sacchini in un necrologio pubblicato a Parigi. Avrebbe voluto continuare a scrivere l’opera che Sacchini non era riuscito a concludere e per Gluck richiese una statua in suo onore e un concerto annuale il giorno del suo anniversario di morte: proposte che però non gli furono mai concesse. Non finirono con queste scomparse le sfortune di Piccinni, il quale compose un poema di genere molto austero, “Clytemnestre” (tragedia in cinque atti senza balletti), ma non gli fu permesso di rappresentarla. Si era in pieno Terrore e, per quanto la rivoluzione francese lo avesse risparmiato non gli permetteva di lavorare come un tempo era stato grazie alla corte e ai nobili. Ormai stanco di lottare contro le malvagità e gli intrighi, decise di lasciare la Francia. Nel 1791 tornò pieno di illusioni nella sua Napoli e in un primo momento il re lo accolse con grandi attenzioni, promettendogli una pensione e richiedendogli di comporre molte opere. In onore della Quaresima del 1792 Piccinni compose un oratorio (opera sacra in due atti) “Gionata” di cui fu molto soddisfatto e che ritenne la sua più bella opera del genere sacro. Ma puntualmente si ripresentarono le sfortune e le invidie che avevano accompagnato tutta la sua carriera. Nello stesso anno la sua figlia maggiore sposò un commerciante francese che era a Napoli già da nove anni, matrimonio non ben accolto dalla corte che vide arrivare a Napoli per lo sposalizio diversi francesi. La regina Maria Carolina non riusciva a dimenticare il dolore e la rabbia per l’uccisione di sua sorella la regina di Francia e considerava ogni francese un rivoluzionario assassino. Cominciarono le voci sul legame di Piccinni con i Giacobini e sul perché lui non avesse risentito gli effetti del Terrore. Intanto, ignaro del pericolo Piccinni compose l’opera “ Ercole al Termodonte” che, per la tensione che si stava creando, fu fischiata. E un colpo decisivo giunse da due suoi antichi allievi, diventati in sua assenza i più famosi compositori attivi a Napoli: Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa. Entrambi si dettero da fare, secondo le memorie raccontate a Ginguené, per tentare di rovinarlo in ogni modo e per accaparrarsi ogni commissione di opere nuove impedendo al maestro di presentare le sue (addirittura nel 1793 quando i sovrani di Napoli fecero un viaggio a Foggia Paisiello ottenne di rappresentare una cantata celebrativa in quella città che era stata già assegnata a Piccinni). Come per prendere una boccata d’ossigeno, Piccinni partì per Venezia dove compose due opere “Griselda e il servo padrone”, di cui la prima ottenne un gran successo. Tornato a Napoli, le sventure continuarono. Secondo Ginguené a scatenare il triste epilogo fu una conversazione che egli ebbe prima di partire con la regina Maria Carolina in cui la sovrana aveva chiesto se assomigliasse a sua sorella e Piccinni pagò per la sua onestà rispondendole di no e pronunciando dopo una frase in francese che lei fraintese accusandolo di essere un giacobino. Comunque fossero andate le cose, Piccinni fu condannato agli arresti domiciliari per quattro lunghi anni a Napoli e per sopravvivere dovette vendere tutte le sue opere manoscritte autografe, che molti anni più tardi furono miracolosamente ritrovate presso vanditori ambulanti dal bibliotecario Francesco Florimo e ricomprate per essere conservate nella biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella dove tuttora sono collocate. Nel periodo di arresto scrisse molti salmi religiosi latini tradotti in italiano dal poeta Saverio Mattei e una marcia di guerra su richiesta del generale Bonaparte. Tempo dopo, a fornirgli l’occasione di andare via da Napoli fu un'altra commissione a Venezia fornitagli dal noto cantante David. Con la scusa di questo viaggio a Venezia, Piccinni si recò a Roma dove venne informato che il nuovo governo francese lo invitava nuovamente in Francia. Finalmente il popolo francese poté accogliere il musicista come avrebbe dovuto fare anni prima, nonostante tutto, Piccinni aveva sempre amato la Francia e sentire quel calore lo aveva ripagato di tutte le sofferenze passate. L’accoglienza trionfale fu seguita da offerte di lavoro concreto alla moglie di Piccinni come insegnante di canto e allo stesso compositore barese come maestro privato di Napoleone Buonaparte. Ma non ebbe il tempo di godere di questa situazione finalmente positiva: fu colto da un attacco di paralisi e portato a Passy, considerato un paese fuori Parigi dall’aria sana, il 7 maggio del 1800 spirò. Aveva 72 anni, fu sepolto a Passy lasciando come eredità l’ammirazione di chi ha ascoltato e ascolterà la sua musica, la malinconia dei suoi drammi e le sue amate opere buffe, il coraggio e la perseveranza che impegnava per la sua musica, il grande cuore di riuscire ad amare persino chi non lo ha ricambiato, la semplicità di un grande uomo che ha potuto lasciarci un patrimonio musicale di eccezionale livello artistico.

“CECCHINA OSSIA LA BUONA FIGLIOLA” “La Cecchina”, nel 1760 è stata una straordinaria testimonianza del genere semiserio, musica di Niccolò Piccinni e libretto di Carlo Goldoni. L’opera è tratta da una commedia in prosa dello stesso Goldoni “Pamela nubile” che egli derivò dal romanzo dello scrittore inglese Samuel Richardson “Pamela o la virtù premiata”. A Goldoni si deve il merito di aver introdotto nei drammi comici l’elemento tenero, patetico, commuovente che appare nei nuovi generi letterari della “Cammedia lacrimosa” (comèdie larmoyante) che ritroviamo anche ne “L’Arcadia in Brenta” (Venezia 1749) e ne “Filosofo di campagna” (Venezia 1754) entrambe su libretto di Carlo Goldoni e musica di Baldassarre Galuppi. “La Cecchina” era stata musicata anni prima da Egidio Romualdo Duni (1757) ma senza successo. Il 6 febbraio del 1760 nella versione di Piccinni al Teatro della Dame a Roma invece scatenò un enorme successo e addirittura fanatismo; alberchi, locande, taverne prendevano il nome di Cecchina, ad ogni festività l’orchestra suonava l’overture, fu senza dubbio il melodramma in Italia e all’estero più ascoltato in quel periodo e per molto tempo ancora. I personaggi dell’opera sono otto: Cecchina (soprano, primo interprete Tommaso Borghesi), Marchesa Lucinda (soprano), Marchese Armido (tenore), Marchese della conchiglia (tenore), Paoluccia (soprano), Sandrina(soprano), Mengotto (basso) e Tagliaferro (basso). La trama racconta di un amore impossibile tra Cecchina e il marchese della conchiglia, data la diversità del rango sociale, il Marchese ne parla con Sabrina che, invidiosa di ciò lo dice ad Armido, il quale a sua volta lo riferisce alla Marchesa Lucinda. La povera Cecchina viene licenziata e portata via dai soldati, però presto verrà liberata da contadini amici di Mengotto. In seguito si scoprirà che Cecchina è figlia di un Barone che la sta cercando così, scoperto il vero rango sociale di Cecchina, il Marchese può finalmente sposarla.

Domenico Cimarosa

NOTE BIOGRAFICHE SULL’AUTORE

Il 18 dicembre del 1749 Domenico Cimarosa nacque ad Aversa, egli è stato un grande compositore e rappresentante della scuola musicale Napoletana e in particolar modo dell’opera buffa del tardo settecento. All’età di quattro anni si trasferì con la sua famiglia a Napoli; suo padre era muratore e perse la vita proprio a causa di un infortunio sul lavoro , sua madre invece era lavandaia nel monastero . La primissima formazione musicale gli venne data al monastero da Padre Polcano (organista). Cimarosa mostrò da subito le sue doti musicali e nel 1761 entrò al Conservatorio di Santa Maria di Loreto, i suoi insegnanti furono: Gennaro Mamma, e Fedele Fenatoli; in pochi anni diventò un bravo violinista, clavicembalista, organista e cantante. Dopo il Conservatorio perfezionò i suoi studi in canto con il cantante evirato Giuseppe Aprile e in composizione con Niccolò Piccinni. Inizialmente Cimarosa scrisse mottetti e messe ma nel carnevale del 1772 debuttò come operista con la commedia per musica su libretto di Pasquale Mililotti, “Le Stravaganze del conte” al Teatro dei Fiorentini a Napoli , seguita dalla farsa “le magie di Merlina e Zoroastro”. Negli anni successivi continuò a scrivere molto a partire nel 1773 “” commedia per musica in tre atti su libretto di Francesco Cerlone, al Teatro Nuovo ; nel 1776 la commedia “I Sdegni per amore” (commedia per musica in un atto su libretto di Mililotti) e “La Frascatana nobile o La Finta Frascatana” (sempre su libretto di Mililotti) e la farsa “I matrimoni in ballo”. In seguito scrisse l’intermezzo giocoso “I tre amanti” (su libretto di Giuseppe Petrosellini). Nel 1777 al Teatro dei Fiorentini andò in scena “Il Fanatico per gli antichi romani” (commedia per musica in tre atti su libretto di Giuseppe Palomba) e “L’Armida immaginaria”(dramma giocoso in tre atti su libretto di Giuseppe Palomba tratto dal poema “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso). Dal 1778 scrisse tante altre opere tra cui : “Il ritorno di Don Calandrino” (intermezzo in due atti su libretto di Giuseppe Petrosellini) al Teatro Valle di Roma, “L’italiana in Londra” sempre su libretto di Giuseppe Petrosellini, (eseguita anche a Milano al Teatro alla Scala e a Dresda). Nel 1779 fu nominato organista aggiunto della Cappella Reale Napoletana e nel 1786 diventò secondo organista. La sua feconda attività operistica proseguì incessantemente con “” , “I finti nobili” e “Il falegname” drammi giocosi su libretti di Giuseppe Palomba. Nel 1780 a Roma presentò la sua prima opera seria “Caio Mario” e l’anno successivo anche “Alessandro nell’Indie” (su libretto di Metastasio) al Teatro delle Dame. A Venezia nel 1781, si rappresentarono altre due sue opere: “Il convinto” dramma giocoso e “” al Teatro San Samuele, con repliche a Milano, Vienna, Madrid e San Pietroburgo. La sua vita operistica era in continuo movimento, nel 1782 a Genova rappresentò il dramma “Giunio Bruto”, poi a Roma l’opera giocosa “Amor costante” e tornato a Napoli per il compleanno della Regina Maria Carolina d’Austria, debuttò al Teatro San Carlo con “L’eroe cinese” dramma di Metastasio con Domenico Bruni (cantante). Nel 1783 portò nuovamente le sue opere a Roma al teatro Valle “La bella greca” che piacque molto al pubblico romano, a Firenze invece al Teatro della Pergola rappresentò la sua prima opera Goldoniana “Il Mercato di Malmantide” poi proseguì per Vicenza dove al Teatro Eretenio portò l’opera “I due supposti conti ovvero Lo sposo senza moglie” che replicò anche a Milano. A Torino per le festività natalizie al Teatro Regio mise in scena “L’” su libretto di Trapassi. Tornò a napoli nel 1785 e dette al Teatro de Fiorentini “Il marito disperato o il marito geloso” dramma giocoso, mentre al teatro Nuovo “La donna sempre al suo peggio s’appiglia” su libretto di Palomba). Dopo essere ritornato a Torino partì per la Russia perché ricevette l’invito da Caterina II per prestare servizio alla sua corte a San Pietroburgo, prese quindi la posizione di maestro di Cappella in sostituzione di Giuseppe Sarti. Dopo aver dato opere come “La vergine del sole” e “Cleopatria” oltre a cantate presso il Teatro dell’ Ermitage, a causa di problemi economici per la guerra, il teatro fu chiuso e Cimarosa rimase maestro di corte. Dopo tre anni passati in Russia, Cimarosa decide di tornare in Italia, ma prima sostò a Varsavia rappresentando tre opere e poi si fermò a Vienna (1791) dove venne nominato dal sovrano austriaco maestro di cappella di corte. Qui, collaborò con il librettista Giovanni Bertati (il poeta di corte) e insieme diedero vita al grande capolavoro di Cimarosa ovvero “Il Matrimonio Segreto”. L’opera fu rappresentata al Burgtheater il 7 febbraio del 1792, ebbe subito un successo straordinario tanto che fu rappresentato nuovamente la sera stessa per la seconda volta, per volere dell’imperatore in persona. Durante il soggiorno a Vienna diede altre opere: “La calamita dei cuori” e “Amor rende sagace” ma non riscontrarono lo stesso successo avuto con “Il Matrimonio segreto” e il compositore decise di far rientro a Napoli nella primavera del 1793; dove ripropose il “Matrimonio segreto” al Teatro dei Fiorentini, che con altrettanto entusiasmo si replicò per ben 110 sere di fila. Nel 1799 durante la repubblica napoletana, Cimarosa entrò nel partito liberale e al ritorno dei Borboni, fu arrestato e condannato a morte ma grazie a suoi influenti ammiratori riuscì a evitare la sentenza; dovette però lasciare Napoli e cercò di ritornare a San Pietroburgo ma a causa di problemi di salute sostò a Venezia dove però morì l’11 gennaio del 1801 a Palazzo Duodo per un infiammazione intestinale. All’inizio si pensò che la sua morte fosse stata “voluta” e che probabilmente la responsabile di un eventuale avvelenamento potesse essere stata la regina Maria Carolina ma da accertamenti effettuati la infondata accusa fu rivelata falsa. Cimarosa è certamente uno dei più grandi compositori del XVIII secolo, stimato, brillante e maestro di bellezza musicale destinata a restare giovane nel tempo.

“IL MATRIMONIO SEGRETO”

“Il matrimonio segreto è un dramma giocoso di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati, tratta dalla commedia “The clandestine marriage” di George Colman e David Garrick. L’opera fu messa in scena per la prima volta il 7 febbraio del 1792 al Burgtheater a Vienna con un successo subito strepitoso, tanto che l’imperatore Leopoldo II richiese il bis nella stessa serata dopo aver invitato l’intero cast a cena. L’opera fu replicata tante volte e ancora oggi viene considerata tra le opere buffe più applaudite nei migliori teatri lirici di tutto il mondo. I personaggi sono sei: Geronimo (basso), Elisabetta (soprano) la prima interprete fu Giuseppina Nettelet, Carolina (soprano) , Fidalma (mezzosoprano), Conte Robinson (basso) e Paolino (tenore). Il matrimonio segreto è quello tra Paolino e Carolina che vorrebbero fuggire insieme, il padre di Carolina però vorrebbe promettere le sue figlie ad altolocati infatti ha già promesso Elisabetta (la primogenita) al conte Robinson. Dopo aver incontrato Carolina però il Conte preferisce chiedere la mano della figlia minore, così la faccenda si complica, Elisabetta è molto arrabbiata, Fidalma vorrebbe invece sposare Paolino. I due innamorati Carolina e Paolino tentano di fuggire ma senza successo. La storia si conclude in lieto fine con Geronimo che accetta l’amore tra Carolina e paolino.

Wolfgang Amadeus Mozart

NOTE BIOGRAFICHE SULL’ AUTORE

Alle ore 20,00 del 27 gennaio 1756 a Salisburgo, nacque l’ultimogenito di Leopold Mozart a Anna Maria Pertl; il piccolo fu battezzato coi nomi: Chrysostomus Wolfgangus Theophilus, ma quest’ultimo fu sostituito con Amadeus. Dai sette figli nati da questa coppia, solo Wolfgang Amadeus e Maria Anna Walburga Ignatia detta Nannerl, sopravissero. Leopold era compositore della cappella arcivescovile di Salisburgo e quindi si dedicò da subito all’educazione musicale dei figli. Per quanto entrambi molto bravi e portati per la musica, Wolfang si dimostrò da presto l’enfant prodige che da soli sei anni cominciò a comporre cominciando a stupire prima di tutto il padre per poi incantare chiunque lo ascoltasse. Il desiderio di guadagno e l’orgoglio di mostrare il bimbo prodigio indussero Leopold a intraprendere faticose tournèes con Wolfgang e Nannerl, partendo così su un battello e fermandosi nei centri più importanti per ottenere qualche concerto. Il 6 ottobre giunsero a Vienna, dove Wolfgang fu ascoltato nei salotti dell’alta aristocrazia viennese, presentato all’arciduca Giuseppe (il futuro imperatore Giuseppe II) e invitato da Maria Teresa in persona alla residenza di Schonbrunn dove suonò con la sorella e il padre per tre ore improvvisando davanti a tutta la corte. L’imperatore Francesco I gli chiese di suonare perfino con un dito e con la tastiera coperta ed egli lo fece. Tutta la famiglia, decise di intraprendere un altro lungo viaggio che durò tre anni, passando da Bruxselle, Parigi, Londra incontrando grandissimi musicisti che ascoltarono il piccolo genio, tra cui l’italiano Niccolò Jomelli che si espresse in maniera positiva nei confronti del talentuoso Wolfgang, intanto l’enfant prodige continuava ad allenarsi al violino e a comporre brani strumentali. Nel 1763, i Mozart giunsero a Parigi, dove Wolfgang ascoltò il clavicembalista Johann Schobert che lo ispirò ancor di più a comporre e malgrado Parigi non accogliesse con molto entusiasmo la musica strumentale, anche li il piccolo musicista venne considerato un fenomeno. L’anno successivo (1765) i Mozart arrivarono in Inghilterra dove rimasero un anno e quattro mesi. Il soggiorno a Londra, non fu molto fruttuoso ma Wolfgang conobbe che riconobbe subito il genio musicale del piccolo compositore e decise di offrirgli affettuosi consigli e preziosi insegnamenti. Tornati a Vienna, nel 1768 Giuseppe Afflisio commissionò la prima opera a Wolfgang “La Finta semplice” su libretto di Marco Coltellini (tratta da una commedia di Carlo Goldoni). Ormai il compositore non era più ritenuto un bambino ma un più che valido concorrente dei più famosi compositori; infatti cominciò a comporre anche “Basten und Bastienne” , poi scrisse una Messa per l’imperatore. Il viaggio aveva dato a Wolfgang molta ispirazione, aveva ascoltato le opere di Gluck, Hasse, Piccinni e altri italiani da cui aveva ampliato le conoscenze del teatro musicale. Leopold, data ancora la giovane età del figlio, decise di fargli intraprendere un altro viaggio, in Italia ( questa volta solo padre e figlio). A Milano Wolfgang si esibì in una serie di concerti e il conte Firmian lo incaricò di scrivere un opera da rappresentare a Milano per Natale. A Bologna, conobbero il più noto dei contrappuntisti Italiani: Padre Giambattista Martini che rimase colpito da Wolfgang e lo onorò andandolo ad ascoltare nei concerti pubblici. A Firenze conobbero il violinista Pietri Nardini e il Manzuoli con cui Wolfgang si accordò per farlo cantare nell’ opera che avrebbe scritto per Milano. A Napoli, Maria Carolina arciduchessa d’Austria, ricordava il piccolo Mozart e lo accolse benevolmente. A Roma il cardinale Pallavicini aveva procurato a Wolfgang una decorazione dell’ordine dello Speron d’Oro (titolo che in precedenza era stato conferito a Gluck). Padre Marini favorì la sua ammissione fra i membri dell’Accademia Filarmonica di Bologna e nel frattempo giunse al piccolo compositore il libretto dell’opera da comporre per Milano “Mitridate re del Ponto”. La rappresentazione ebbe luogo il 26 dicembre del 1770 e fu un successo. Da quel momento si aprirono nuove possibilità, l’impresario Castiglioni di milano gli stipulò un nuovo contratto per un’altra opera; a Padova ricevette l’incarico per un oratorio “La Betulia Liberata”, da Vienna l’imperatrice Maria Teresa gli commissionò una serenata teatrale per le nozze del figlio ( “Ascanio in Alba” su testo di Giuseppe Parini) e intanto continuava egli a scrivere sonate e sinfonie e più avanti un’altra serenata teatrale (“ Il sogno di Scipione” su testo di Metastasio). Nel 1772 i due Mozart, tornarono a Milano per la rappresentazione il 26 dicembre anche se la prima, non fu proprio un gran successo. Si rifece di un successo favoloso invece, l’opera “La finta giardiniera” il 13 gennaio a Monaco nel 1775. Dopo il viaggio in Italia, Wolgang era stato assunto come musicista presso la corte dell’arcivescovo Colloredo a Salisburgo ma questo rapporto si rivelò sempre contrastante e difficile da cui in seguito Wolfgang volle liberarsi. In questo periodo scrisse il concerto in Fa maggiore per tre pianoforti K.242, e la serenata in Re maggiore K.250. Nel 1776 inviò a Padre Martini, a Bologna il mottetto che aveva composto per il principe elettore Massimiliano III di Baviera. Nel 1777 Wolfgang intraprese un nuovo viaggio in compagnia della madre, passarono per Monaco (dove si interessò al Singspiel), poi a Mannheim dove Mozart si innamorò di Aloysia Weber (cantante) ma poi proseguirono per Parigi, dove egli si interessò alla massoneria e dove purtroppo dovette affrontare la morte della madre. Nell’ottobre del 1780 gli venne commissionato da Carlo Teodoro il nuovo principe elettore di Baviera, l’opera seria “Idomeneo re di Creta” su libretto del cappellano di corte Varesco. Dopo aver rotto ogni legame con Colloredo, Wolfgang lasciò la residenza del suo sovrano a Vienna e traslocò nella casa della mamma di Aloysia dove erano rimaste solo la mamma e la figlia Costanza dopo la morte del padre e lo sposalizio di Aloysia con un famoso attore; dunque affittavano camere. A Vienna, esisteva un teatro tedesco annesso al Burgtheater, inaugurato nel 1778, il responsabile artistico Gottlob Stephanie propose a Mozart di comporre un Singspiel. Nel 1782 il 16 luglio, andò in scena “Il ratto dal serraglio”; nello stesso anno, Wolfgang sposò Costanza il 4 agosto. In nove anni di matrimonio ebbero sei figli, due soli dei quali arrivarono all'età adulta: Carl Thomas Mozart e Franz Xaver Wolfgang Mozart. Anche per le frequenti gravidanze, Constanze attraversò lunghi periodi di spossatezza e malattia. Mozart scrisse altre opere : “L’oca del Cairo” dell’Abate Varesco, “Lo sposo deluso” su libretto di Lorenzo da Ponte e “Il regno delle Amazzoni” su libretto di Petrosellini. L’opera che fece del compositore, un memorabile musicista nella storia fu “Le nozze di Figaro” (la prima delle opere italiane del compositore) su libretto di Lorenzo Da Ponte che andò in scena il 1 maggio del 1786 al Burhtheater di Vienna. L’opera fu tratta dalla commedia “Le mariage de Figaro” di Beaumarchais (autore della trilogia di Figaro: il barbiere di Siviglia, il matrimonio di figaro e La madre colpevole). La compagnia di Bondini che si era salvata dal fallimento grazie alle “Nozze di Figaro”, commissionò a Mozart un ‘altra opera. Il 29 ottobre del 1787 al teatro degli Stati di Praga, andò in scena “Don Giovanni” su libretto di Lorenzo Da Ponte, un altro successo strepitoso per il compositore. Mozart, non abbandonò le sue composizioni strumentali: sonate, sinfonie e brani cameristici ma un’altra grande occasione arrivò da Giuseppe II che gli commissionò un’altra opera. L’opera fu “Così fan tutte” l’ultima delle opere buffe di successo italiane del compositore, su libretto di Lorenzo Da Ponte, la prima rappresentazione ebbe luogo al Burgtheater di Vienna il 26 gennaio 1790. Gli ultimi due anni di vita di Mozart furono strettamente legati alla massoneria, come si riflette nell’ opera “Il flauto magico”. “Il flauto magico” è un Singspiel in due atti musicato da Wolfgang su libretto di Emanuel Schikaneder e con il contributo di Karl Ludwig Giesecke. La prima rappresentazione fu il 30 settembre del 1791 al theater auf der Wieden di Vienna. “La clemenza di Tito” invece, (un'opera seria in due atti) fu l'ultimo lavoro teatrale del genio salisburghese, musicata su libretto di Caterino Mazzolà, a sua volta basato su un melodramma (1734) di Pietro Metastasio. La prima rappresentazione fu al Teatro degli Stati di Praga il 6 settembre 1791 in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia. Nello stesso anno, la morte lo colse il 5 dicembre a Vienna, non riuscì a terminare il Requiem che in gran segreto completò un suo allievo (Sussmayr). Così, si concluse la vita di un compositore cui ricordo rimarrà vivo nella storia dei secoli! nonostante la sua non molto lunga vita, ha lasciato tanta ricchezza artistica che suonerà di grazia nel tempo.

“LE NOZZE DI FIGARO “ ossia la folle giornata

Le nozze di Figaro è una commedia per musica in quattro atti , musica di Wolfgang Amadeus Mozart e libretto di Lorenzo Da Ponte; il testo è tratto dalla commedia “Le mariage de Figaro”di Beaumarchais. La storia racconta durante la preparazione delle nozze di Figaro e Susanna intrecci amorosi, tradimenti e inganni tra le coppie. Tra Figaro e Susanna ci sono diversi impedimenti e difficoltà, la prima fra tutte , è l’interesse che il Conte ha nei confronti della cameriera Susanna e che Figaro ha subito riconosciuto attraverso la sua finta generosità; così quando Susanna decide di confidarlo alla Contessa cercano insieme a Figaro e la complicità di Cherubino, di smascherare il Conte attraverso un finto appuntamento ma il primo tentativo fallisce e Susanna e la Contessa sole in seguito, decidono di organizzare loro il finto appuntamento scambiandosi i ruoli e dunque facendo incontrare direttamente la Contessa travestita da Susanna con suo marito. Nel frattempo Figaro oltre al suo malcontento per Susanna (di cui sospetta…e dubita del suo amore) è ricattato da Marcellina che vorrebbe sposarlo in cambio del denaro che in passato aveva prestato a Figaro e che non le era mai stato restituito. Dunque Susanna e Marcellina sono contrariate l’una verso l’altra fino a che non si scopre che Marcellina in realtà è la mamma di Figaro, (nato da una relazione tra lei e Bartolo). La Contessa malgrado la delusione di aver avuto conferma dell’infedeltà del Conte decide di perdonarlo…e dopo la folle giornata, finalmente le nozze di Figaro e Susanna possono celebrarsi. Il primo soprano interprete di Susanna fu Nancy Storace.

Prima Interprete di Susanna: Nancy Storace

BIBLIOGRAFIA

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Rachele Maragliano Mori, “Coscienza della voce nella scuola italiana di canto”, Milano Curci Editore, 2011.

Elvidio Surian, “Manuale di storia della Musica vol.II”, Rugginenti Editore

Claudio Casini, “I Maestri della Musica” vol.I .

UTET Enciclopedia.

SITOGRAFIA

www.internetculturale.it www.enciclopediatreccani.it