RASSEGNA STAMPA di lunedì 25 giugno 2018

SOMMARIO

“Nascere orfani?” è il titolo della riflessione di Mariolina Ceriotti Migliarese pubblicata sulla prima pagina di Avvenire di domenica. Ecco le sue osservazioni: “Certamente non sono rari nella storia umana i cas i di bambini cresciuti solo dalle donne; nei tempi di guerra come nei tempi di pace è successo spesso che i padri fossero assenti: morti in guerra, lontani per lavoro, oppure semplicemente latitanti, magari dopo aver messo incinta la donna madre del bambino. Tante donne coraggiose si sono rimboccate le maniche, si sono aiutate tra loro, hanno amato, accudito e fatto crescere figli che l’assenza del padre non ha necessariamente reso patologici o incapaci di vivere. Perché dunque ci sconcerta e ci interroga la notizia che diversi sindaci, a Milano, a Torino e in altre città italiane, hanno voluto riconoscere bambini 'figli di due madri'? Pensiamo forse che queste donne non possano essere capaci, in quanto omosessuali, di dare ai bambini l’amore di cui hanno bisogno? Pensiamo forse di negare a questi bambini, in nome di qualche astratto principio, l’amore a cui hanno diritto? Che differenza c’è, dunque, tra l’essere cresciuti da due donne perché il padre è scomparso, ed essere cresciuti da due donne che hanno sc elto di mettere al mondo un figlio senza il padre? Malgrado le apparenze, la differenza c’è ed è molto importante: solo nel secondo caso, infatti, gli adulti decidono consapevolmente che il bambino nasca orfano di padre. Orfano è una parola che significa 'privo di un genitore' e genitore significa 'colui che ha generato'. Comunque si considerino le cose, ognuno di noi è generato senza possibilità di eccezione dai gameti di un uomo e di una donna, che sono dunque biologicamente nostro padre e nostra madre: il legame con loro è innegabile e ineludibile, perché impresso nel nostro corpo attraverso un patrimonio genetico fatto sia di caratteristiche fisiche che di inclinazioni temperamentali, che ci accompagneranno per sempre. Il legame biologico da solo è certa mente insufficiente a fondare la genitorialità, ma rimane un legame potente; chi si occupa di adozioni sa bene ad esempio che qualsiasi adottivo, anche se accolto fin dai primi giorni di vita in una famiglia che ama e che lo ha amato, porta in sé una forte domanda sulle sue origini, che lo spinge sempre a cercare di scoprire chi erano i suoi genitori biologici. Non a caso la necessità di tale ricerca si fa sentire soprattutto a partire dall’adolescenza, età nella quale si affacciano alla coscienza le princi pali domande sul sé, legate al tema della propria identità; a partire da questo momento il tema delle origini diventa cruciale sulla strada per diventare adulti e poter dunque a nostra volta generare, in una catena di relazioni che lega tra loro padri, madri e figli. Il padre non è più importante della madre, e nemmeno la madre lo è più del padre: ognuno di noi sa bene, se analizza se stesso con sincerità, che entrambi sono o almeno sono stati cruciali per la sua vita. La loro presenza come la loro assenza, il loro essere stati figure positive o negative, lasciano in noi una traccia che non possiamo negare e con la quale facciamo i conti per tutta l’esistenza: tutto dunque può essere detto delle figure del padre e della madre, tranne che possano essere irrilevanti o indifferenti. Proprio per questo è necessario che entrambi possano essere presenti, almeno nel nostro immaginario: il bambino orfano di guerra, il bambino figlio di madre nubile, il bambino abbandonato e adottato, tutti indifferentemente sanno di essere stati generati dall’incontro tra un uomo e una donna. Pur nella mancanza di uno o dell’altro genitore possono riconoscere che la loro origine dipende da entrambi: scoprono che il maschile e il femminile non si bastano da soli, e che hanno lo stesso valore perché sono entrambi indispensabili a generare la vita. Solo l’omogenitorialità può decretare di fatto l’assoluta irrilevanza di uno dei sessi: le due donne che fanno dell’uomo solo un donatore di seme, o i due uomini che fanno della donna una donatrice di ovulo e/o un’incubatrice per il feto, stanno dichiarando al bambino l’assoluta irrilevanza dell’altro sesso, che pure ha contribuito a generarlo e di cui porta in sé una parte così rilevante. Nessun bambino può esser 'figlio' di due donne o di due uomini; il bambino di una coppia omogenitoriale può certamente essere frutto della scelta di due adulti che lo chiamano al mondo perché vogliono amarlo: ma sono adulti che, senza volerlo, lo fanno nascere orfano di un genitore e privo della possibilità almeno simbolica della sua esistenza. Davanti a questioni di questo tipo, la nostra risposta appare confusa e spesso timorosa perché si è diffusa in modo drammatico la convinzione che tra i diritti di un adulto ci sia anche quello di avere bambini; questo modo di pensare non riguarda solo le coppie omosessuali, ma anche molte coppie eterosessuali, creando un clima propizio per il diffondersi del fenomeno. Ma i bambini, come ogni persona, possono solo essere soggetto di diritti e non certamente oggetto: dobbiamo tornare a vederli come un dono della vita, un regalo spesso immeritato, che non può essere preteso, ma solo accolto con riconoscenza e rispetto. È dunque di estrema urgenza avviare una riflessione, per evitare che i dati di fatto prendano rapidamente il sopravvento, portando a 'normalizzare' ciò che non può essere normalizzato. Quando nasce un bambino, la prima cosa da fare, la più importante, è sempre quella di festeggiare la sua nascita come un dono per il mondo: una piccola persona nuova ha visto la luce, un miracolo che si ripete malgrado tutti i possibili errori. Comunque sia stato generato, un bambino ha il diritto di essere amato, e i bambini già nati hanno certamente pieno diritto di cittadinanza tra noi. Ma se davvero amiamo i bambini, dovremmo in primo luogo fermarci con decisione, e domandarci quali sono i loro veri diritti, quali le migliori opportunità per il loro sviluppo. E se non troviamo un accordo, che valgano almeno per tutti il rispetto della legge e la saggezza del principio di precauzione, che utilizziamo in tanti ambiti certo meno decisivi”.

Su www.patriarcatovenezia.it è on line l’omelia integrale del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia alle ordinazioni sacerdotali di sabato scorso. Ecco qui solo alcuni passaggi rivolti direttamente ai due preti novelli, don Francesco e don Steven: «Il prete è uomo che ama e che crede: crede amando e ama credendo. Il ministero sacerdotale, che ha origine apostolica, si fonda sull’amore per Gesù ma anche sulla fede in Lui. Scegliere Gesù: oggi dovete fare questo, dovete decidere di amarlo e credere in Lui. La scelta per Gesù - la Sapienza e l’Onnipotenza del Padre - è scelta d’amor e e di fede che si manifestano nella debolezza di una carne umana come fu per Pietro, sostenuto però dalla grazia celeste… La Divina Provvidenza chiama, chiama sempre, chiama ogni uomo e ogni donna, chiama i giovani e gli anziani, i malati e i sani, i poveri e i cosiddetti benestanti. La vocazione è di ogni uomo e di ogni donna ed è un mistero; Dio, in modo inspiegabile, ma realissimo, si rivolge ad ogni essere umano. Si tratta, allora, di rispondere a Dio ma, prima di tutto, è necessario essere in grado di ascoltare la sua voce. E può accadere di non riuscire a coglierla tra le tante che sussurrano o gridano attorno a noi, anche attorno al prete… Cogliamo la voce di Dio nella nostra vita e le rimaniamo fedeli se non ricerchiamo noi stessi, se non imponiamo il nostro io ma ricerchiamo la sapienza di Dio, il Suo progetto, e ci chiediamo che parte abbiamo in esso. In tal modo, la vocazione vissuta come adesione al progetto di Dio richiede un cuore libero e, poi, il senso vero della povertà, considerata non solo come distacco dalle persone, dalle situazioni e dalle cose, ma come distacco da se stessi. Fede e amore vengono prima di ogni calcolo e considerazione umana o pastorale, sono il criterio fondante ogni altra scelta successiva; è il criterio che troviamo lungo tutta la storia della salvezza. L’impossibilità ad accogliere in se stessi i progetti del Signore la sperimentiamo in modo triste e drammatico se non riusciamo ad amarLo e a credere in Lui, se il nostro cuore è concentrato nell’affermare se stesso». E, alla fine, il Patriarca ha aggiunto: «Carissimi don Francesco e don Steven, adottate un povero! Mantenetelo, anche se lui non sa chi voi siete… Portate quotidianamente, mensilmente, questo segno concreto di carità nella vostra vita. Le opere di misericordia, corporali e spirituali, siano predicate nelle vostre canoniche e nelle vostre convivenze sacerdotali. Abbiamo bisogno di riscoprire il sacerdozio di Cristo in modo nuovo e in modo nuovo ritornare al Vangelo» (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 23 giugno 2018 Pag XXV Speranza oltre le sbarre, testimonianze preziose di Maria Teresa Secondi Anche il Patriarca alla presentazione

LA NUOVA di sabato 23 giugno 2018 Pag 18 Moraglia: “Ammettere le colpe per cambiare” di e.p. La speranza oltre le sbarre

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 19 Caorle, Duomo affollato ed emozioni alla prima messa di don Ruzza di Rosario Padovano

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 24 giugno 2018 Pag VIII Don Iannotta, 50 anni di sacerdozio al Lido di L.M.

Pag X Francesco e Steven, nuovi sacerdoti ieri a San Marco di a.spe. Il Patriarca Moraglia: “La vocazione richiede un cuore libero”

LA NUOVA di domenica 24 giugno 2018 Pag 17 Francesco e Steven, due nuovi sacerdoti per la Diocesi di e.p. Oggi le prime messe

AVVENIRE di sabato 23 giugno 2018 Pag 17 Venezia, oggi in San Marco Moraglia ordina due preti

3 – VITA DELLA CHIESA

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 3 La virtù della pazienza e il buon rischio di Agostino Giovagnoli Il dialogo tra Cina e Chiesa e la fiducia del Papa

Pag 16 Pedopornografia, condannato a 5 anni monsignor Capella di Andrea Galli Ieri in Vaticano la sentenza per l’ex diplomatico

Pag 21 Humanae vitae, quale sviluppo oltre la profezia? Quel dossier tra Luciani e Paolo Vi. Ipotesi di crescita, dibattito aperto. Angelo Francesco Filardo: nell’enciclica di Montini un “sì” all’amore coniugale. Maurizio Faggioni: valutare mezzi alternativi di regolazione della fertilità?

CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 16 L’ex diplomatico della Santa Sede condannato per pedopornografia di Gian Guido Vecchi Prima sentenza in Vaticano: 5 anni a monsignor Capella. “Ero in crisi, ho sbagliato”

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 23 giugno 2018 Perdono e missione di g.m.v.

IL FOGLIO di sabato 23 giugno 2018 Pag VI Il cammino verso una libertà liberata dal desiderio di Angelo Scola La fede dei giovani

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Elogio della fragilità di Alessandro D’Avenia

Pag 19 Coppie gay, ricorso della Procura contro le registrazioni dei figli di Fiorenza Sarzanini e Elena Tebano Roma, stop sulle adozioni estere: la trascrizione dei sindaci non basta, serve un giudice

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 Nascere orfani? di Mariolina Ceriotti Migliarese Omogenitorialità e diritto di ogni figlio

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 22 “Altro che doge, Venezia mi regala solo un caffè” di Stefano Lorenzetto Parla il sindaco Luigi Brugnaro, pronto a festeggiare 3 anni di mandato: “Voglio la città aperta, ma il turismo mordi e fuggi deve pagare di più”

CORRIERE DEL VENETO di domenica 24 giugno 2018 Pag 9 “Io tasso i vostri pullman”. “E io tasso i vostri camper”. La guerra Jesolo – Cavallino di Giulia Busetto La strada che unisce le due località turistiche diventa un caso

Pag 10 Da M9 agli hotel, i nuovi poli di Mestre: “Sarà il triangolo della rigenerazione” di Gloria Bertasi e Giulia Busetto Più turismo e cultura, ma c’è chi tema che le nuovi funzioni svuotino la città di residenti

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di domenica 24 giugno 2018 Pag 5 Due mesi di sangue sulle strade. Un morto ogni ventiquattr’ore di Giacomo Costa Tra maggio e giugno 48 decessi, 3 in più rispetto al 2017

Pag 7 Io che aiuto i figli dell’Isis di Ivan Grozny Compasso Eleonora Biasi, 29 anni, trevigiana, parla cinque lingue e fa la volontaria in Iraq: “Curo i bimbi reietti nati dagli stupri”

IL GAZZETTINO di domenica 24 giugno 2018 Pag 13 Biotestamento, una partenza in salita di Raffaella Ianuale e Massimo Rossignati A cinque mesi dall’entrata in vigore della legge non si sa quanti sono gli atti: manca un registro. In Veneto il primato va a Venezia

IL GAZZETTINO di sabato 23 giugno 2018 Pag 3 Nordest, 14mila bambini a settembre via dagli asili di Raffaella Ianuale I piccoli non immunizzati di Veneto e Friuli. Dall’epatite al morbillo: l a prevenzione è decisiva

CORRIERE DEL VENETO di sabato 23 giugno 2018 Pag 5 Governo e Regione, nasce l’asse a favore delle chiusure domenicali di Giacomo Costa Marcato a Di Maio: “La nostra proposta dal tavolo etico”, contrari i consumatori

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La guerra (inutile) con Parigi di Aldo Cazzullo Apparenza e realtà

Pag 1 La storia che ci lega all’Europa di Sabino Cassese Timori e interessi

Pag 5 Perché l’Europa è ferma sui migranti di Ivo Caizzi e Marco Galluzzo Frontiere, hotspot, soldi: Unione spaccata sul tema riacceso dalla crisi tedesca e dal nuovo governo Conte

Pag 14 Ma il potere assoluto del Sultano è intaccato di Antonio Ferrari

Pag 30 I mutamenti della politica e la capacità di “difendere” di Mauro Magatti

LA REPUBBLICA Pag 24 Il buio a sinistra di Stefano Folli

IL GAZZETTINO Pag 1 Il populismo usato come alibi per non decidere di Alessandro Campi

Pag 9 Religione, economia e guerra ai jihadisti, la ricetta del “sultano” che non perde mai di Marco Ventura

LA NUOVA Pag 1 Forza Italia lascia orfani i moderati di Francesco Jori

Pag 5 I vescovi: non si può lasciare morire la gente in mare

CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 E sul fisco tutti amici come prima di Ferruccio De Bortoli Evasione e condoni

Pag 1 Le compagnie sbagliate di Franco Venturini I (presunti) alleati nella Ue

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 2 Piena libertà di essere, anche per i malati di Sla di Mario Melazzini Annuale mobilitazione mondiale e nuovi strumenti di cura

IL GAZZETTINO di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 Il voto in Turchia è un bivio per Erdogan di Romano Prodi

Pag 1 Noi e la scelta dell’Australia di Gianandrea Gaiani

LA NUOVA di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 L’invenzione del ministro pigliatutto di Fabio Bordignon

Pag 1 Immigrazione, il dilemma dell’Europa di Maurizio Mistri

CORRIERE DELLA SERA di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Come proteggere l’interesse italiano in Europa di Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales

Pag 1 La debole resistenza dei 5 Stelle di Antonio Polito Il dominio leghista

Pag 1 I sospetti grillini sui reali progetti degli alleati di Francesco Verderami

Pag 3 Il rischio che le opinioni contino più della scienza di Luigi Ripamonti

AVVENIRE di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Il grido dei poveri di Eugenia Bonetti Occhi umani da ritrovare

Pag 3 Finisce il “giogo” per la Grecia, gli 8 lunghi anni di Atene e Ue di Marta Ottaviani Chiuso un periodo drammatico, il Paese è da rianimare

CORRIERE DEL VENETO di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Migranti, silenzi colpevoli di Stefano Allievi I toni di Salvini

IL GAZZETTINO di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 La strigliata ai politici: responsabilità, non principi di Luca Ricolfi Elettori ed eletti

Pag 1 Ma Macron ha poco da rimproverarci di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Basta sparate, o si vota o si governa di Bruno Manfellotto

Pag 1 I dazi di Trump ci portano nel baratro di Franco A. Grassini

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1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 23 giugno 2018 Pag XXV Speranza oltre le sbarre, testimonianze preziose di Maria Teresa Secondi Anche il Patriarca alla presentazione

Venezia. La speranza oltre le sbarre di Maurizio Gronchi e Angela Trentini, è un libro che sorprende e aiuta chi opera nel settore e chi si occupa di informazione. Un libro che ci aiuta a entrare in un certo mondo e a capire le persone. Parole del Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, colpito dalle testimonianze. E ancora: la pena deve tutelare la sicurezza dei cittadini nei diversi termini del diritto, ma anche deve tener conto delle relazioni sociali, ha sottolineato citando la giustizia nella Bibbia. «La pena deve essere erogata per la sicurezza e il bene comune, e il perdono non può prescindere dalla riparazione. Il buonismo fa male a tutti». La presentazione del libro che ha offerto tante suggestioni, è stata l'occasione per riflessioni e analisi approfondite sull'universo carcerario, un tema molto delicato di cui sono stati toccati vari aspetti: sociale, giuridico, etico, religioso, tecnico. L'evento, tenutosi a Palazzo Labia, è stato promosso da Ucsi Veneto, Ordine dei Giornalisti, Ordine degli Avvocati, Unione Giuristi Cattolici Italiani, Sindacato Giornalisti Veneto, Coordinamento CoReCom. Si tratta di un Viaggio in un carcere di massima sicurezza come spiega il sottotitolo. Per la prima volta gli assassini dei giudici Livatino, Falcone e Borsellino si raccontano, ma c'è anche un confronto con i familiari delle vittime che coinvolge e interroga. La coautrice ha intervistato sette uomini condannati per grandi crimini che scontano lunghe pene o l'ergastolo ostativo. I colloqui portano a confessioni, ma anche a trasformazioni, a un cambiamento di mentalità che guarda alla speranza. E sulla speranza sono anche le parole di Papa Francesco che concludono il libro: «Seminare speranza. Sempre, sempre. Aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti». Otello Lupacchini, Procuratore generale della Corte di Appello di Catanzaro, ha raccontato le sue esperienze frequentando carceri e criminali incalliti, l'idea è che «non tanto sia il rimorso per quello che hanno commesso, piuttosto il rammarico di essersi fatti cogliere e incarcerare». E ha espresso le sue perplessità sulle loro dichiarazioni scritte in perfetto italiano, dato che, in generale, il livello culturale è ben diverso. Ma c'è stata l'assicurazione da parte di Trentini, che tutto risponde al vero. Commovente l'intervento di Luigi Bacialli che ha apprezzato il libro perché ha dato voce alle vittime e ha raccontato con grande emozione l'assassinio del padre quando aveva 49 anni, e lui18, e la sofferenza vissuta, per concludere con amarezza: Molti familiari delle vittime sono in prigione', gli assassini liberi. Maurizio Trevisan ha parlato sulla importanza della funzione rieducativa della pena. Rieducazione che è diversa dal reinserimento nella società è stato precisato. Commenti negativi sono stati espressi sui processi in TV che condizionano l'opinione pubblica.

LA NUOVA di sabato 23 giugno 2018 Pag 18 Moraglia: “Ammettere le colpe per cambiare” di e.p. La speranza oltre le sbarre

«Il primo passo per cambiare è ammettere le proprie nefandezze. Il mondo del carcere va conosciuto, e fondamentale diventa l'apporto della scuola». Così il patriarca Francesco Moraglia, ieri a palazzo Labia, commenta "La speranza oltre le sbarre". Il libro, scritto dalla giornalista Angela Trentini insieme a Massimiliano Gronchi, è stato presentato ieri in un incontro voluto dall'ordine dei giornalisti e degli avvocati: «Una sinergia tra categorie professionali», secondo gli organizzatori. Si tratta di un dialogo a distanza. Da una parte, le testimonianze di alcuni detenuti bollati come "mostri" dall'opinione pubblica; dall'altra, i familiari delle vittime. Si parla di perdono, ma anche di ravvedimento e di capacità di ricominciare a vivere una vita anche fuori dal carcere. Un ruolo fondamentale lo gioca anche la famiglia. Spesso un destino già segnato alla nascita, come se non si potesse cambiare il proprio destino. È, ad esempio, quanto scritto nel libro a proposito della storia di Domenico Ganci. Accusato di oltre 40 delitti, è tra i condannati per la strage di Capaci. Tra gli ospiti anche Otello Lupacchini, una vita in magistratura e attualmente procuratore a Catanzaro, secondo cui «si è perso il significato di reinserimento sociale della pena». Eppure, conclude Moraglia citando Giovanni Falcone, «non bisogna mai dimenticare che in ognuno degli assassini c'è un barlume di umanità».

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 19 Caorle, Duomo affollato ed emozioni alla prima messa di don Ruzza di Rosario Padovano

Caorle. Grande festa ieri mattina per la prima messa celebrata nella sua città da don Steven Ruzza, sacerdote di 30 anni ordinato nella basilica di San Marco sabato dal patriarca Angelo Moraglia. Come tradizione la croce e il corteo dei chierichetti hanno preceduto i sacerdoti più anziani e lo stesso don Steven, affiancato da monsignor Giuseppe Manzato. Il duomo era pieno di gente e nei primi banchi, munito di fascia tricolore, c'era anche il sindaco Luciano Striuli che aveva rivolto poco prima della funzione i complimenti suoi e della cittadinanza al nuovo prete. Don Steven Ruzza è cresciuto in centro a Caorle, maturando la vocazione fin da ragazzo. Ha collaborato tra l'altro con la Comunità marciana, la parrocchia di San Martino a Castello di Venezia, la comunità pastorale del Lido di Venezia ed ora presta servizio a San Giovanni Battista di Jesolo.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 24 giugno 2018 Pag VIII Don Iannotta, 50 anni di sacerdozio al Lido di L.M.

Lido. Cinquant'anni di sacerdozio festeggiati prima presiedendo una messa solenne (alle 19) con le due comunità di Santa Maria Elisabetta e San Nicolò, poi assistendo alle 20.30 a un concerto dei Solisti del Teatro La Fenice che, per questa occasione, si esibiranno nell'aula magna del patronato appena rimessa a nuovo e insonorizzata. Così il Lido farà festa oggi insieme al suo parroco, don Giancarlo Iannotta, ordinato sacerdote il 23 giugno del 1968 dalle mani dell'allora Patriarca di Venezia, Giovanni Urbani, nella Basilica della Salute. L'ingresso al concerto è aperto a tutti fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Pag X Francesco e Steven, nuovi sacerdoti ieri a San Marco di a.spe. Il Patriarca Moraglia: “La vocazione richiede un cuore libero”

Venezia. «Il sacerdozio è puro dono di Dio al quale l'uomo è solamente chiamato e non può avanzare alcuna pretesa». Con queste parole, ricordando la figura di Sant'Ambrogio, il patriarca Francesco Moraglia ieri ha ordinato sacerdoti don Francesco Andrighetti e don Steven Ruzza, 26 e 30 anni. Con i rispettivi familiari e amici, in basilica di San Marco sono confluiti numerosi preti, gli educatori del Seminario diocesano e fedeli. «La Divina Provvidenza chiama, chiama sempre, chiama ogni uomo. E la vocazione è un mistero; Dio, in modo inspiegabile, ma realissimo, si rivolge ad ogni essere umano ha detto Moraglia Si tratta, allora, di rispondere a Dio ma, prima di tutto, è necessario essere in grado di ascoltare la sua voce. E può accadere di non riuscire a coglierla tra le tante che sussurrano o gridano attorno a noi». Ha proseguito il Patriarca: «Cogliamo la voce di Dio nella nostra vita e le rimaniamo fedeli se non ricerchiamo noi stessi, se non imponiamo il nostro io ma ricerchiamo la sapienza di Dio, il Suo progetto, e ci chiediamo che parte abbiamo in esso». Ai due nuovi sacerdoti Moraglia ha ricordato che «la vocazione vissuta come adesione al progetto di Dio richiede un cuore libero e, poi, il senso vero della povertà considerata non solo come distacco dalle persone, dalle situazioni e dalle cose, ma come distacco da sé stessi. La vera e prima povertà, quindi, è il distacco dalla propria volontà; ecco il senso e il fondamento dell'obbedienza». Infine, il mandato: «Per il pastore - il ministro ordinato - non si dà altro modo di amare Gesù se non compiendo il servizio proprio del pastore, ossia pascere il gregge affidato». Don Andrighetti e don Ruzza oggi celebrano le loro prime messe, entrambi alle 10, rispettivamente nel duomo di Mestre e nel duomo di Caorle.

LA NUOVA di domenica 24 giugno 2018 Pag 17 Francesco e Steven, due nuovi sacerdoti per la Diocesi di e.p. Oggi le prime messe

Celebreranno questa mattina, a Mestre e Caorle, la loro prima messa. Lo faranno in veste ufficiale, da sacerdoti appena ordinati. Sono i due nuovi sacerdoti: don Francesco Andrighetti e Steven Ruzza. A loro sono stati affidati, rispettivamente, il duomo di San Lorenzo e di Santo Stefano. Ieri, nella basilica di San Marco, i giovani preti hanno ricevuto l'ordinazione dal patriarca Moraglia in persona. «Questi due sacerdoti, operai per le nostre messe, assumono i volti di don Francesco e Steven» le parole pronunciate dal Patriarca nell'omelia a San Marco «il nostro grazie va a tutti coloro che li hanno accompagnati in questo cammino, a quanti hanno pregato per loro, alle comunità di provenienza e alle loro famiglie». Don Francesco Andrighetti ha 26 anni, e a breve conseguirà la laurea magistrale a Ca' Foscari. La sua parrocchia di riferimento è proprio San Lorenzo a Mestre. In questi anni, la sua attività pastorale si è divisa tra Caorle, Jesolo, Paese e nella parrocchia di Santa Maria Elisabetta, al Lido. Don Steven Ruzza, invece, di anni ne ha 30. Già laureato in Filosofia, Caorle è la città dove ha mosso i primi passi nel mondo pastorale. Negli anni, poi, ha collaborato tra l'altro con la Comunità marciana, la parrocchia di S. Martino a Castello, la comunità pastorale del Lido di Venezia ed ora presta servizio a S. Giovanni Battista di Jesolo. In un epoca in cui le nuove generazioni sembrano allontanarsi dalla Chiesa, per entrambi la vocazione nasce da giovani. Anzi proprio in famiglia, come racconta don Francesco. Adottato da bambino, il gesto d'amore dei suoi genitori è stato per lui fonte d'ispirazione. Per don Steven, invece, la vocazione fiorisce fin da piccolo. Complice l'esempio di alcune zie suore e dell'educazione religiosa all'asilo, negli anni di crescita ha maturato la scelta di dedicare la sua vita al sacerdozio.

AVVENIRE di sabato 23 giugno 2018 Pag 17 Venezia, oggi in San Marco Moraglia ordina due preti

Si svolgerà questa mattina alle 10 nella Basilica di San Marco a Venezia, le Messa in cui verranno ordinati sacerdoti due seminaristi. A imporre loro le mani sarà il patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Si tratta di don Francesco Andrighetti, 26 anni, della parrocchia San Lorenzo di Mestre e prossimo alla laurea magistrale all’Università Ca’ Foscari di Venezia; e di don Steven Ruzza, 30 anni della parrocchia di Santo Stefano di Caorle laureato in filosofia (la triennale a Trieste e la specialistica a Padova). Celebreranno la loro Prima Messa nelle rispettive parrocchie d’origine, entrambi domani alle 10.

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3 – VITA DELLA CHIESA

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 3 La virtù della pazienza e il buon rischio di Agostino Giovagnoli Il dialogo tra Cina e Chiesa e la fiducia del Papa

«Quello cinese è un popolo saggio, molto saggio. Io rispetto tanto la Cina». Da qualche giorno su diversi blog cinesi rimbalzano queste parole di papa Francesco, con molti commenti positivi. Non sono blog di cattolici, ma di gente comune che si è sentita compresa e apprezzata da queste parole di un’intervista rilasciata a Philip Pullella della Reuters. Per i cinesi questo Papa ha saputo svincolare la Chiesa dall’eredità del passato ed è oggi indipendente dall’opinione pubblica occidentale, in un momento di particolare tensione con gli Stati Uniti per i dazi imposti da Trump sui prodotti cinesi. Il portavoce del ministero degli Esteri, a sua volta, ha detto che l’impegno nel dialogo è «massimo», alludendo ad un coinvolgimento delle autorità cinesi a un livello più elevato. In questa intervista, Francesco ha risposto serenamente ma con fermezza a tutte le obiezioni sollevate nei mesi scorsi. Ha confermato anzitutto che un dialogo «ufficiale» è attualmente in corso (il 'South Cina Morning Post' ha scritto di un incontro a inizio giugno). È la prima volta che ne parla dallo scorso gennaio, quando il cardinal Zen mise in dubbio che il Papa fosse pienamente al corrente del dialogo con il governo cinese e che approvasse l’opera dei suoi collaboratori. Allora la sala stampa vaticana smentì in modo netto, ma ora è Francesco stesso che dice: «Sono buoni rapporti e sono riusciti a fare cose buone». «Siamo a buon punto», sintetizza. Contrariamente a voci insistenti, infatti, non ci sono stati rinvii da parte della Santa Sede o ripensamenti da parte cinese. Con garbo il Papa ha così smentito il cardinal Zen: «Penso che sia un po’ spaventato. Anche l’età forse influisce un po’. È un uomo buono. È venuto a parlare con me, l’ho ricevuto, ma è un po’ spaventato». Come il Papa, invece, avvertono l’esigenza di un avanzamento nel dialogo i vescovi della Cina continentale – sia 'clandestini' sia 'ufficiali' – e quelli di Hong Kong e Macao, questi ultimi a Roma in visita ad limina. Francesco ha molto a cuore le sorti dei cattolici cinesi e conosce bene le loro difficoltà. Ma queste non sono segno di una nuova persecuzione della Chiesa. Molti problemi recenti – in Henan e altrove – derivano da nuove norme sulle religioni, nella linea della 'sinizzazione', a seguito dei cambiamenti introdotti dal Congresso del Partito comunista dello scorso ottobre. Ad aumentare le difficoltà sono indirettamente anche i problemi suscitati da gruppi molto vari, che si autodefiniscono religiosi, ma la cui natura è decisamente lontana da quella della Chiesa cattolica. Il Papa spiega: «Il dialogo è un rischio, ma preferisco il rischio che la sconfitta sicura di non dialogare». Francesco rovescia così le critiche: se il dialogo può comportare rischi, non dialogare sarebbe sicuramente negativo, anzitutto per la Chiesa in Cina. E all’intervistatore che gli parla di due passi avanti e uno indietro risponde: «Per quanto riguarda i tempi, qualcuno dice che sono i tempi cinesi. Io dico che sono i tempi di Dio, avanti, tranquilli». La Santa Sede non sta inseguendo l’agenda cinese, sta seguendo i ritmi della Provvidenza. Non c’è però solo il dialogo diplomatico, aggiunge il Papa. Ci sono anche canali «periferici», rispetto a quello diplomatico «ufficiale», su cui si sviluppa un dialogo «umano». Rivelano il bisogno dei cinesi di essere rassicurati sulla sincerità e sulla volontà della Santa Sede. Firmare un accordo – al momento solo per le nomine dei vescovi, non per stabilire relazioni diplomatiche – non è tutto: se lo si fa con diffidenza, retropensieri e riserve, diventerà carta straccia alla prima difficoltà. Francesco parla infine di un terzo tipo di dialogo che definisce – sorprendentemente – «il più importante»: è quello culturale. «È la strada tradizionale, come quella dei grandi, come Matteo Ricci». A differenza della visione tutta politica dei suoi critici, il Papa cerca un incontro vero con il popolo cinese, che non può non essere anzitutto culturale, perché evangelizzazione vuol dire anzitutto uomini e donne con mentalità e culture diverse che si parlano e si comprendono. L’importanza dell’accordo diplomatico sta proprio qui: serve ad aprire la strada all’incontro che per Jorge Mario Bergoglio è «Gesù stesso». È la prima cosa da fare non perché sia la più importante, ma perché, se non la si fa, resterebbe chiuse le molte porte che oggi impediscono tale incontro. È questa la «sconfitta sicura»: meglio, di gran lunga, correre qualche rischio.

Pag 16 Pedopornografia, condannato a 5 anni monsignor Capella di Andrea Galli Ieri in Vaticano la sentenza per l’ex diplomatico

Un processo lampo in due udienze: la prima venerdì e la seconda ieri. E una sentenza arrivata a spron battuto, con una severità eloquente: cinque anni di reclusione e 5 mila euro di multa, più il pagamento delle spese processuali. Poco meno di quanto chiesto dal promotore di giustizia. Questa la condanna impartita dal Tribunale dello Stato della Città del Vaticano a monsignor Carlo Alberto Capella, 50 anni, ex consigliere di nunziatura a Washington, reo confesso di detenzione e scambio di materiale pedopornografico con l’aggravante dell’ingente quantità. Il sacerdote, ordinato nel 1993 nell’arcidiocesi di Milano, entrato nel 2004 nel servizio diplomatico della Santa Sede – e in servizio presso la sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato prima di approdare alla nunziatura apostolica negli Usa – era stato oggetto di un’indagine partita dal Canada nel dicembre 2016, dal Centro nazionale di coordinamento contro lo sfruttamento dei bambini e approdata negli Usa. Nell’agosto 2007 il Dipartimento di Stato americano aveva inviato alla Santa Sede una notifica circa «la possibile violazione delle norme in materia di immagini pedopornografiche» da parte di un membro del suo corpo diplomatico a Washington. Capella era stato richiamato a Roma e lo scorso aprile è stato posto in arresto dalle autorità vaticane. «Gli errori che ho fatto sono evidenti ed evidente è anche il fatto che si riferiscono a un periodo di fragilità, sono dispiaciuto che la mia debolezza abbia inciso sulla vita della Chiesa, della Santa Sede e della diocesi e sono addolorato per la mia famiglia» ha detto il sacerdote in aula. «Spero che questa situazione possa essere considerata un incidente di percorso nella mia vita sacerdotale, che amo ancora di più» ha aggiunto, «voglio continuare il sostegno psicologico» e «spero che questo processo possa essere di qualche utilità nel corretto inquadramento dei fatti». Il promotore di giustizia Gian Piero Milano – affiancato dal promotore aggiunto Roberto Zanotti – ha ricordato che per la Santa Sede qualsiasi reato commesso da un pubblico ufficiale vaticano, in qualsiasi territorio, è di competenza dello Stato della Città del Vaticano. Riguardo al materiale sequestrato, la legislazione vaticana è più restrittiva rispetto a quella italiana, in quanto non distingue tra immagini reali e virtuali (alcune immagine scaricate da Capella sarebbero dei fumetti erotici). Le stesse immagini – una cinquantina – erano state archiviate in un cloud e consultate in diverse occasioni, l’ultima volta nell’ottobre del 2017. Segno, secondo Milano, di «un comportamento reiterato nel tempo che non è mai venuto meno», come dimostrato anche dall’attività del sacerdote in chat sulla piattaforma Tumblr, dove «si prospettavano anche incontri reali». L’avvocato difensore, Roberto Borgogno, si è soffermato sul profilo psicologico del suo assistito. «Questi comportamenti non sono indice di pericolosità ma di un disagio. Non si può sempre parlare di detenzione, ci sono terapie e percorsi riabilitativi che le autorità ecclesiastiche ben conoscono». Il collegio giudicante – formato da Giuseppe Dalla Torre, presidente, Venerando Marano e Carlo Bonzano, giudici – ha pensato diversamente, dopo un’ora e venti di camera di consiglio. Capella sarà recluso in una cella della caserma della Gendarmeria vaticana dove già si trovava dopo l’arresto.

Pag 21 Humanae vitae, quale sviluppo oltre la profezia? Quel dossier tra Luciani e Paolo Vi. Ipotesi di crescita, dibattito aperto. Angelo Francesco Filardo: nell’enciclica di Montini un “sì” all’amore coniugale. Maurizio Faggioni: valutare mezzi alternativi di regolazione della fertilità?

Su “Avvenire” del 13 giugno scorso abbiamo dato spazio al dossier inedito preparato per Paolo VI dall’allora vescovo di Vittorio Veneto, Albino Luciani, su indicazione della Conferenza episcopale triveneta. Un documento di cui era nota l’esistenza e l’orientamento possibilista verso l’evoluzione della dottrina sulla regolazione delle nascite. Si ignoravano invece i contenuti. Nell’articolo di Stefania Falasca si dà conto dei passaggi principali di quella complessa riflessione al termine della quale il futuro Papa giunge a dire: «Il magistero può certo interpretare autenticamente le leggi naturali. Ma, con molta prudenza, quando ha in mano dati certi. Nel nostro caso i dati sembrano tali che o si dica: È lecito, o almeno si dica: non consta, è dubbio. Nel dubbio, non si può accusare di peccato chi usa la pillola». Il dossier sulla contraccezione è ora inserito nel volume ex documentis che, come spiegato ieri in un altro articolo dal vescovo di Belluno- Feltre, Renato Maragoni, «raccoglie lo studio completo e scientifico della documentazione d’archivio e delle testimonianze processuali». Scritto da Stefania Falasca, Davide Fiocco e Mauro Velati, “Albino Luciani Giovanni Paolo I” (Tipi Edizioni - Tipografia Piave), è un testo di oltre mille pagine con la prefazione del cardinale Beniamino Stella, postulatore della causa. Dopo la pubblicazione dell’articolo sono arrivate in redazione lettere e commenti, di diverso tono. Ne abbiamo scelti due. La lettera del responsabile del Centro “Amore e vita” di Foligno, Angelo Francesco Filardo. E il contributo di padre Maurizio Faggoni, bioeticista e teologo morale, oltre che consultore della Congregazione per la dottrina della fede e della Pontificia Accademia per la vita. Contributi importanti per continuare la riflessione nel cinquantesimo anniversario di Humanae vitae, senza pregiudizi e senza tesi precostituite.

(Angelo Francesco Filardo) Caro direttore, ho letto con attenzione l’articolo di Stefania Falasca, che riporta l’inedito scritto del vescovo Albino Luciani prima dell’uscita di Humanae vitae. La cosa più interessante ed utile al dibattito in atto su una eventuale ridimensionamento della profetica enciclica di Paolo VI, che vi ho trovato è la frase «Appena letta l’enciclica, nella quale confessava che nel suo intimo si augurava “che le gravissime difficoltà esistenti potessero venire superate”, si dichiarò consapevole delle amarezze che il dettato pontificio poteva suscitare, ma indicava l’adesione ai pronunciamenti di Paolo VI e prontamente ne applicò le direttive pastorali in un’adesione piena che gli permetteva di dire: “Pensiero del Papa e mio”». Certamente le informazioni scientifiche riportate nella lettera, che risalgono a 50 anni fa, epoca in cui nel Trattato italiano di ostetricia e ginecologia le donne venivano assimilate alle coniglie, non sono applicabili oggi che molto di più conosciamo sull’andamento del ciclo mestruale e sulle cause che possono alterarne il ritmo grazie soprattutto alle numerose registrazioni del loro ciclo mestruale fatto dalle donne che seguono i metodi naturali moderni (Billings e Sintotermici) di regolazione naturale della fertilità. Chi con infinita sapienza ha voluto che l’uomo fosse potenzialmente fertile sempre e che la donna fosse ciclicamente fertile – essendo l’ovulazione funzionale ad un possibile concepimento – ha stabilito che ottenuto il concepimento per tutta la durata della gravidanza non ci fossero altre ovulazioni. Allo stesso modo essendo il Creatore sollecito della salute delle sue creature ha previsto che durante i periodi dell’allattamento l’ovulazione fosse temporaneamente sospesa per permettere alla neo mamma di riprendersi e di prendersi cura del figlio. Certamente le informazioni scientifiche fornite dagli amici medici in quegli anni non erano aggiornate e forse ignoravano gli studi di John Billings e di Josef Roetzer, che già esistevano, ma invocare la gravidanza e l’allattamento e la menopausa per giustificare il ricorso alla contraccezione “progestinica” come prolungamento od imitazione di quello che la natura fa in questi periodi è un vero e proprio arrampicarsi sugli specchi. L’Humanae vitae è molto di più di un “no” chiaro ed esplicito senza necessità di interpretazioni alla pillola e alla contraccezione: è prima di tutto un grandissimo “sì” alla difesa dell’amore coniugale, esplicitato molto bene nel n. 12 dell’enciclica: «Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio». In questi 50 anni abbiamo potuto sperimentare tutte le conseguenze dell’ostilità mostrata nei confronti della profetica enciclica di Paolo VI, che con molta sofferenza– seppur isolato da gran parte dell’episcopato – ha avvertito fortemente l’imperativo di ergersi a difensore dell’amore coniugale, della dignità e della vita umana dal concepimento alla morte naturale. Oltre al diffondersi di una banalizzazione della sessualità umana e di una promiscuità tra le giovani generazioni, alla fragilità delle unioni matrimoniali ed alla legalizzazione del divorzio, alla legalizzazione dell’aborto volontario, alla diffusione sempre maggiore di contraccettivi cripto abortivi, dieci anni esatti dopo è nata la prima bambina da fecondazione extracorporea. Già nel citato n. 12 dell’Humanae vitae, Paolo VI aveva detto “no” alla fecondazione extracorporea, essendo questa l’altra faccia della medaglia della contraccezione, perché la connessione inscindibile tra il significato unitivo e il significato procreativo esclude sia l’unione coniugale privata della sua potenzialità procreativa sia la produzione di una vita umana senza l’unione dei coniugi. La letteratura – nonostante i camuffamenti linguistici operati dall’Acog nel 1965 nel Primo Terminology Bullentin affermando che «il concepimento è l’annidamento di un ovulo fecondato» – da decenni dimostra in modo inequivocabile che i cosiddetti contraccettivi maggiori sono potenzialmente abortivi e producono il maggior numero di aborti volontari in Italia e nel mondo 10-12 volte in più rispetto agli aborti prodotti dalla legge 194/1978. Non si comprende, perciò, perché nella Chiesa ci sia ancora qualcuno che cerchi di giustificare l’uso della contraccezione dal momento che la letteratura scientifica riconosce la sua potenziale abortività. A meno che per costoro anche l’aborto volontario precoce è via lecita per la procreazione responsabile.

(Maurizio Faggioni) La pubblicazione del dossier preparato dal futuro papa Luciani per Paolo VI e il cinquantesimo anniversario dell’Humanae vitae offrono lo spunto per chiarire alcuni equivoci che fin dall’inizio hanno accompagnato la ricezione dell’enciclica. Un nodo di fondo è la questione dell’autorevolezza di Humanae vitae. È magistero infallibile? Esclude ogni possibile dissenso? Ammette riletture, evoluzioni, nuove determinazioni? Paolo VI non volle definire una dottrina morale nel senso forte della espressione “definire”: sotto questo punto di vista Humanae vitae non è una dichiarazione formalmente infallibile. D’altra parte sappiamo che la volontà di Paolo VI fu quella di riaffermare la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica sul matrimonio e la trasmissione della vita: sotto questo punto di vista la dottrina di Humanae vitae riflette persuasioni e stili comportamentali che per secoli la Chiesa ha insegnato e vissuto come possesso universale, pacifico e unanime. Persuasioni e stili che sono sintetizzati, a livello normativo, nel rifiuto di qualsiasi intervento che interferisca con la naturale fecondità degli atti sessuali. Il problema è che sia nel dibattito teologico antecedente il Concilio Vaticano II, sia nel corso dei lavori conciliari per la stesura di Gaudium et spes, sia in seno alle Commissioni pontificie per lo studio della questione della regolazione della fecondità erano emerse voci consistenti per una cauta revisione del dettato normativo tradizionale. Il dossier preparato da Luciani per Paolo VI si muoveva, prudentemente, in tale direzione, tenendo conto della diversità delle situazioni e delle difficoltà di molte coppie cristiane. La domanda potrebbe suonare così: che cosa nella tradizione morale in questo ambito è irrinunciabile e quali sono gli eventuali spazi di discernimento e di legittima evoluzione dottrinale? La risposta si trova – a nostro avviso – nella stessa Humanae vitae quando ripropone, con l’autorevolezza del magistero papale, l’elemento fondamentale dell’ethos cristiano sulla sessualità, il matrimonio e la famiglia, un nucleo di verità che chiede di svelarsi per diventare regola di piena umanità. È Humanae vitae stessa che esplicita tale nucleo, in sintonia con Gaudium et spes: esiste un legame nativo e inscindibile fra amore coniugale e dono della vita. Questa verità umana è stata riproposta e insegnata da Humanae vitae come reazione all’emergere della cosiddetta rivoluzione sessuale di cui la “pillola” fu un simbolo e uno strumento. Il messaggio di Humanae vitae oggi appare davvero profetico di fronte ad un quadro socioculturale complesso in cui si intrecciano realtà eterogenee come la banalizzazione della sessualità, la crisi della famiglia, la denatalità, la manipolazione dei processi generativi, l’ideologia del gender. Il nucleo antropologico fondamentale su cui si fonda Humanae vitae è stato riproposto con forza anche da Amoris laetitia che lo sintetizza al n. 165 dicendo che «l’amore dà sempre vita». Nell’orizzonte di questa intuizione antropologica ed etica, i credenti si sono chiesti e si chiedono quali scelte e comportamenti siano i più idonei per conservare e attuare la bellezza dell’amore e del dono della vita. La responsabilità è il modo umano di rispondere all’appello di valori e Humanae vitaeinvita gli sposi a cogliere, nell’intimo del loro amore, l’apertura alla vita. Il figlio è, infatti, come l’incarnazione e il sigillo dell’amore coniugale. Non c’è dubbio che lasciarsi guidare da una mentalità contraccettiva che scinde, per principio, amore coniugale e dono della vita non sarebbe in sintonia con l’ideale cristiano. Humanae vitae insiste, giustamente, nel ritenere che i gesti che esprimono l’amore fra due sposi restano aperti alla vita, intesa come valore, anche quando questi atti, per diverse circostanze, non sono fecondi. A partire da questa lettura personalista della sessualità e dei gesti dell’amore, non pochi teologi e pastoralisti si chiedono se, ferma restando la superiorità antropologica dei metodi naturali, in certe circostanze non sia giustificato per una coppia cristiana il ricorso a mezzi alternativi di regolazione della fecondità, esclusi ovviamente i mezzi anche solo dubbiosamente di natura abortiva. Paolo VI ha voluto ribadire sia il nucleo antropologico fondamentale irrinunciabile del rapporto fra amore coniugale e dono della vita, sia la norma morale che la tradizione ha elaborato per proteggere e attuare questo valore. In molti si chiedono oggi, come già l’allora vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani, se quella norma tradizionale sia suscettibile di essere rimodulata nel percorso concreto di una coppia. Su questo punto –crediamo – ci potrebbe essere spazio per un saggio discernimento, personale ed ecclesiale. Ridurre, però, la questione di Humanae vitae al dilemma “pillola sì”, “pillola no” evita il cuore pulsante dell’enciclica e rischia di farci dimenticare un impegno vitale della comunità cristiana: annunciare la bellezza dell’amore coniugale che è amore umano, totale, reciproco, fedele, esclusivo, fecondo. Questo impegno oggi è più urgente che mai e papa Francesco in Amoris laetitia non si stanca di ricordarcelo.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 16 L’ex diplomatico della Santa Sede condannato per pedopornografia di Gian Guido Vecchi Prima sentenza in Vaticano: 5 anni a monsignor Capella. “Ero in crisi, ho sbagliato”

Città del Vaticano. Monsignor Carlo Alberto Capella guarda nel vuoto davanti a sé, negli ultimi tempi si è fatto crescere la barba, è vestito in clergyman nero e non muove un muscolo del viso mentre alle 13.20 il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Dalla Torre, «in nome di Sua Santità papa Francesco» legge la sentenza che lo condanna a cinque anni di reclusione e cinquemila euro di multa per «divulgazione, trasmissione, offerta e detenzione di materiale pedopornografico». Il processo era iniziato venerdì mattina, sono bastate due udienze e un’ora di camera di consiglio per arrivare ad una sentenza a suo modo storica. Del resto le prove erano schiaccianti e l’imputato ha ammesso tutto, salvo parlare di un momento di «crisi» e «fragilità» e dichiarare: «Spero che questa situazione possa essere considerata un incidente di percorso nella mia vita sacerdotale che amo ancora di più». Parole che rivelano il timore del processo canonico all’ex Sant’Uffizio: l’ex diplomatico in carriera, arrestato il 7 aprile e detenuto in una cella della Gendarmeria, rischia anche di essere spretato. Monsignor Capella, cinquantenne, era consigliere di nunziatura a Washington, il numero tre della diplomazia vaticana negli Stai Uniti, ed è stato scoperto dalla polizia canadese perché nei giorni di Natale del 2016, tra il 24 e il 27 dicembre, aveva scaricato immagini porno con bambini e adolescenti da un computer di una chiesa di Windsor, in Ontario. È la prima volta che il tribunale della Città del Vaticano pronuncia una condanna per un crimine del genere. Tre anni fa era stato rinviato a giudizio il pedofilo Józef Wesołowski, già nunzio in Repubblica Dominicana, ma l’arcivescovo polacco morì per un attacco cardiaco prima del processo. La sentenza di ieri è la conseguenza del giro di vite voluto da Benedetto XVI e proseguito da Francesco. La legge numero VIII del 13 luglio 2013, in particolare, ha introdotto il reato specifico di pedopornografia. E il Papa ha voluto che «il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede» ricadesse sotto la giurisdizione vaticana. La condanna di Capella è la prima e a suo modo esemplare. Di fatto gli è stato dato il massimo della pena. Il Promotore di Giustizia Gian Piero Milano aveva chiesto cinque anni e nove mesi, con l’aggravante dell’«ingente quantità» di materiale: aggravante riconosciuta, seppure bilanciata dalle «attenuanti generiche» per l’atteggiamento «collaborativo» dell’imputato. Tutto è cominciato da una «notificazione diplomatica» del Dipartimento di Stato Usa, il 21 agosto 2017. La polizia del Canada aveva emesso un mandato di arresto. Il monsignore è stato richiamato in Vaticano ed è iniziata l’indagine preliminare, fino all’arresto e al rinvio a giudizio. Il materiale raccolto fra tre cellulari, cinque chiavette usb e vari hard disk non lasciava dubbi. Fino a ottobre 2017, Capella ha continuato a scaricare e scambiare fotografie, video e «shotas», immagini pornografiche di fumetti giapponesi. Ha anche cercato di cancellarle, ma hanno trovato «tra le 40 e le 55» tracce. Usava un profilo sul social Tumblr con il nome «Doppiobibo». Un tecnico della Gendarmeria ha spiegato che cercava immagini con rapporti «di ogni tipo» tra adulti e ragazzini «prepubescenti, tra i 13 e i 17 anni». C’era anche «un video di un bambino molto piccolo in atti sessuali espliciti». Prete dal ’93, Capella è stato viceparroco nella parrocchia di San Michele, a Cantù, prima di entrare nel servizio diplomatico dal 2001. Ha ammesso le «conversazioni triviali» su Tumblr, «a distanza di tempo ne rilevò la ripugnanza», si è detto «dispiaciuto» per aver «addolorato» la famiglia e la Chiesa e ha parlato di un periodo di «crisi» seguito al suo trasferimento dalla Segreteria di Stato a Washington. Ma ha sostenuto che «questa morbosità non ha mai caratterizzato la mia vita sacerdotale e le relazioni con i ragazzi».

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 23 giugno 2018 Perdono e missione di g.m.v.

È stato il Padre nostro, la preghiera insegnata ai discepoli dall’unico Signore, il cuore del viaggio papale a Ginevra. Una visita di poche ore decisa da Bergoglio per partecipare «di persona», come lui stesso ha voluto sottolineare, alle celebrazioni per il settantesimo anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese. E questa centralità è apparsa con evidenza in due momenti: nello struggente canto del Notre père di Rimskij-Korsakov, eseguito in francese dai rappresentanti delle oltre trecento confessioni cristiane che hanno accolto il Pontefice, e poi nell’omelia, che appunto ha commentato tre parole della preghiera per eccellenza durante la messa conclusiva celebrata da Francesco per quarantamila cattolici venuti da tutta la Svizzera. Un viaggio molto breve, dunque, ma altrettanto positivo, che nel bilancio tracciato dallo stesso Papa già nella conferenza stampa durante il volo di ritorno è stato da lui riassunto in una sola parola: incontro. Realtà che sta a cuore a Francesco perché esprime la caratteristica essenziale del suo pontificato, ma prima ancora della sua esperienza vissuta come cristiano, come gesuita, come vescovo, e cioè la missione, quel mandato che deve portare i seguaci di Cristo a uscire da se stessi per annunciarlo e testimoniarlo nel mondo. Nel discorso per il settantesimo anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese il Papa ha iniziato proprio dal numero settanta, che nelle Scritture sacre evoca il perdono ma anche la missione. E su questi due punti Bergoglio ha insistito. Il perdono è infatti necessario anche tra i cristiani, divisi nel corso dei secoli da contrasti e controversie: una storia segnata dalla «diabolica spirale di continue frammentazioni» e la cui direzione bisogna invece invertire, come hanno fatto tanti pionieri dell’ecumenismo. Infatti, soltanto «l’amore riesce a eliminare la paura», mentre «ciò che salva è proprio l’unità» ha detto il Pontefice citando un brano di san Gregorio di Nissa, teologo e mistico vissuto in un tempo anteriore alle grandi divisioni nella Chiesa. Parlando al mondo cristiano simbolicamente riunito nella sede ginevrina dell’organismo ecumenico, il Papa ha poi espresso una forte preoccupazione, e cioè che «ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine». Bisogna certo ricordare che «la Chiesa di Cristo cresce per attrazione» ha ribadito Francesco, ma «a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa». Noi cristiani, ha poi aggiunto riferendosi all’annuncio del Vangelo, «non saremmo fedeli alla missione affidataci se riducessimo questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento». Né si deve sotterrare questo tesoro per paura delle sfide del mondo, che il Pontefice ha definito «amato e tormentato». Abbiamo bisogno di «un nuovo slancio evangelizzatore» ha dunque rimarcato Bergoglio, dicendosi «convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi» e potrà spuntare «una nuova primavera ecumenica». Che fiorirà nel camminare, nel pregare e nel lavorare insieme.

IL FOGLIO di sabato 23 giugno 2018 Pag VI Il cammino verso una libertà liberata dal desiderio di Angelo Scola La fede dei giovani

‘Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?'. 'Non capimmo la domanda eppure era una domanda maledettamente chiara'" (J. Kerouac). Questo passaggio, tratto dal celebre romanzo Sulla strada, può rappresentare una chiave di lettura del rapporto tra i giovani e la Chiesa cattolica almeno nel nostro paese. Papa Francesco ha indetto per il prossimo ottobre il Sinodo dei vescovi sul tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Ovviamente il Sinodo è un'assemblea di vescovi, ma in tutte le diocesi del mondo si stanno susseguendo incontri capillari e meeting nazionali per consentire ai giovani di raccontare la loro vita di fede e di appartenenza alla Chiesa come modo di stare nel mondo. In particolare il Papa stesso ha convocato a Roma per il 12 agosto un'assemblea di giovani da tutte le Chiese italiane. L'intento è evidentemente quello di considerarli come soggetto attivo del gesto sinodale e non come oggetto passivo delle discussioni di vescovi ed esperti. Non mancano Centri di ricerca che forniscono dati statistici sul rapporto tra i giovani e la fede. In particolare ormai dal 2012 l'Istituto Toniolo, ente fondatore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, ha creato l'Osservatorio Giovani. Ogni anno pubblica il Rapporto Giovani che segue stabilmente un campione di novemila persone tra i 18 e i 29 anni. E' sufficiente qui citare qualche dato del 2018. Il 52,7 per cento dei giovani italiani dice di credere alla religione cattolica, mentre il 23 afferma di non credere in nessuna religione. Ma dei credenti solo l'11,7 per cento frequenta la chiesa tutte le settimane, il 9,4 una volta al mese, altri in maniera del tutto occasionale e, soprattutto, il 25,1 per cento non frequenta mai. Inoltre alla domanda che chiede di valutare l'importanza della dimensione religiosa per la propria vita quasi il 60 per cento degli intervistati risponde "poco" o "nulla". Se a questi dati si aggiunge la risposta del Rapporto 2014 a quale sia la figura di riferimento per la propria persona sbalordisce apprendere che solo l'1 per cento indica una figura religiosa (parroco, assistente religioso, prete, suora). Pur senza enfatizzare queste statistiche, viene spontaneo chiedersi se oggi sia ancora pertinente la domanda maledettamente chiara di Kerouac circa il camminare con una meta, soprattutto quella proposta dalla fede cristiana. L'ingiunzione della società secolarizzata Per rispondere bisogna con onestà liberare il campo da una grave difficoltà che ha intaccato ogni apertura al trascendente. Essa va sotto l'ombrello di quella categoria di secolarizzazione su cui tutti, dagli intellettuali ai preti agli educatori, hanno puntato ma che oggi appare più evanescente che mai. Charles Taylor, lo studioso universalmente riconosciuto come il più esperto in materia, nel suo poderoso saggio L'età della secolarizzazione, dopo averne analizzato le tre fasi, giunge a parlare per la situazione odierna di "umanesimo esclusivo". Con questa espressione intende affermare che nell'attuale società plurale, soprattutto nel nord occidente del pianeta, la convivenza tra le diverse fedi e mondovisioni è possibile solo se si basa su un senso dell' umano che escluda ogni riferimento a fini trascendenti. In quest'ottica non solo una religione come il cattolicesimo nelle sue forme finora conosciute sembra destinata al tramonto, ma lo stesso senso religioso, privato della sua apertura al trascendente, verrebbe svuotato della propria consistenza. Gli elementi religiosi residui sarebbero, al massimo, frammenti secolarizzati che contribuiscono a creare il puzzle di questo nuovo tipo di umanesimo. Se l'analisi di Taylor stesse, la questione della meta non avrebbe più peso, se non per "piccoli circoli virtuosi" (Taylor cit; Dreher, Opzione Benedetto). I giovani, all'interno delle varianti possibili dell'umanesimo esclusivo, potrebbero trovare solo risposte parziali e immanenti alla "domanda maledettamente chiara" sulla meta (professione, unioni affettive, difesa dell'ambiente, anelito alla giustizia e alla pace, salutismo...). Il nocciolo del problema Senza entrare in un'articolata valutazione dell'analisi di Taylor, le oppongo due dati: anzitutto la domanda sul senso del vivere è inevitabile, se la pongono tutti, indipendentemente dalla risposta. E non è necessario giungere all'età avanzata per prenderla in considerazione. Certo, da giovani si può schivarla in mille modi, ma non sradicarla dal proprio cuore (Pastori erranti [...] / Sbagliati / Disorientati / Dal giorno che ci hanno gettati / Su questa terra dove si consuma / La nostra vita breve come schiuma, Jovanotti). Inoltre, ed è il secondo dato, la domanda ultima è per sua natura non solo metafisica, se si vuol ancora usare questa categoria caduta in disuso, ma è domanda religiosa. La riprova sta nel fatto che il senso religioso è inestirpabile. Lo si può seppellire sotto mucchi di detriti, ma come i fili d'erba a primavera, ritornerà a spuntare. Parlare quindi di umanesimo esclusivo può al massimo individuare una categoria sociologica di qualche utilità, ma non va al nocciolo del problema. Il cuore dell'uomo non può rassegnarsi al divieto ultimamente nichilista rinunciando all'ipotesi che ogni possibile - tutto il possibile - sia realmente possibile. Lo suggerisce un'osservazione memorabile del profondo, quanto bizzarro, pensatore apolide George Steiner: "Per me esiste la pressione assolutamente innegabile di una Presenza". I fini trascendenti rinascono immancabilmente dalle loro stesse ceneri. Forse un po' rapidamente possiamo affermare che la domanda religiosa è ben presente nella vita dei giovani di oggi e si fa sentire nella loro quotidiana esperienza, al di là della consapevolezza che riescono ad averne e indipendentemente dal modo con cui provano a comunicarla. Da questo punto di vista i dati statistici prima citati possono essere letti non solo come il bicchiere mezzo vuoto, ma anche come quello mezzo pieno. In ogni caso chi gode dell'incontro con Cristo, non può non considerare questi dati come una pro-vocazione a comunicare la sempre nuova e sorprendente bellezza del Vangelo. Come potremmo altrimenti spiegare l'esistenza dei tantissimi martiri di questi nostri tempi, unico argine al "male ingiustificabile" (Nabert) del terrorismo e delle varie forme di guerra? Come interpretare l'"incredibile" di sponibilità a donare la vita dei martiri di Thibirine e delle sorelle di Madre Teresa nello Yemen? Non si può negare che queste, insieme a numerose altre figure di santi attuali, siano oggetto di ammirazione anche da parte dei giovani. La questione della meta nel suo significato religioso ultimo, si ripresenta, inesorabile. Le stesse mete frammentarie cui prima abbiamo fatto cenno, se ne sia coscienti o meno, stanno dentro questo orizzonte ultimo. L'uomo cammina quando sa bene dove andare (Chieffo). Come proporre Cristo ai giovani? A questo punto però si impone lancinante un interrogativo: come pro porre ai giovani il volto di Cristo incarnato attraverso la sua Chiesa, in sé santa, anche se carica di peccati nel suo personale (Maritain)? Dico subito che non saranno né analisi tecniche psico-pedagogiche, né la ricerca a tavolino di particolari linguaggi a rispondere in modo adeguato alla questione posta. La strada maestra è semplicemente quella indicata dagli inizi del Vangelo di Giovanni: testimoniare il cambiamento prodotto nella persona dall' incontro con il Signore così da voler diventare Suoi familiari: "Maestro dove abiti?", e incontrare la sua liberante e critica riposta: "Venite e vedrete" (cfr Gv 1,35-39). L'episodio evangelico documenta le due attitudini che insorgono negli interlocutori di Gesù: il desiderio struggente di non perdere la familiarità con Lui e la disponibilità a lasciare tutto per seguirlo, soprattutto negli ultimi mesi della sua vita terrena, nella sua itineranza salvifica. Come evitare che questo straordinario racconto sfumi in ideologia da cui deriva una pretesa meccanica della sequela, impotente a mobilitare l'energia della libertà che, per quanto inespressa, abita il cuore dei giovani? Essi stessi ci indicano la strada: partire dal binomio bisogno-desiderio con il quale sono, in ogni caso, chiamati a fare i conti. Gesù va incontro all'uomo proprio passando da qui. La Maddalena, la Samaritana, l'adultera, il cieco nato, il paralitico... arrivano a Lui trascinati da bisogni concreti, materialmente ben identificabili. Gesù, con la sua straordinaria potenza e capacità introspettiva, sospinto da un amore più grande, libera dal bisogno ma - ciò che conta - dilata quel particolare bisogno in un desiderio di pienezza. Come lo fa? Indicando la meta. Spesso nei nostri banali discorsi, ma anche in quelli di opinionisti ed esperti, si dice che questo anelito profondo di libertà - non lo si potrebbe chiamare altrimenti - sia proprio ciò che manca nei giovani di oggi, che sarebbero connotati da una persistente distrazione e dalla indefessa ricerca di piaceri di breve durata. Al massimo si è disposti ad ammettere che esistono delle eccezioni o che comunque i giovani di oggi sono generalmente seri con gli inevitabili impegni della loro esistenza (lo studio, il lavoro). E le loro fragilità, soprattutto a livello affettivo, non entrano in linea di conto perché ormai considerate dalla mentalità dominante espressione del processo di maturazione della libertà. Su cosa fa leva Gesù per spalancare il bisogno al desiderio? Sulla libertà dell'uomo. Il bisogno ha una natura ben diversa da quella del desiderio. Dice sempre indigenza, mancanza e possiede pertanto un carattere vincolante. E' un po' una schiavitù. Il malato perde il senso di sé e si identifica con il suo sintomo, l'affamato coincide con l'avida ricerca del pane ecc. Appare immediatamente evidente che nel bisogno c'è di fatto ben poca libertà. Gesù, e quindi la proposta del Van gelo che siamo chiamati a fare ai giovani, deve sfondare il muro di questa prigione per liberare l'uomo dal bisogno come schiavitù. E' un classico nella tradizione filosofica e culturale dell' occidente articolare prevalentemente la libertà secondo tre moduli - libertà da, libertà con e libertà per - per coglierla in tutta la sua pienezza. La libertà si rivela allora l'emblema dell'umano come tale. O essa è interamente a disposizione dell'esperienza della singola persona oppure questa esperienza ne sarà mutilata. Ma l'essere liberi da condizionamenti, essere liberi con ogni altro e, soprattutto, esserlo per il bene dell'altro non è un dato che possa essere acquisito una volta per tutti. Non di rado la libertà si inceppa. Ogni uomo percepisce che la sua libertà chiede di essere liberata. L'esito di questa operazione è lo sbocciare nell' autocoscienza dell'io della limpida polla del desiderio che inevitabilmente, qualunque sia la sua natura, indica già prospettica mente la meta. Lo conferma con straordinaria genialità Dostoevskij nel finale di Delitto e castigo. Raskolnikov, ai lavori forzati in Siberia, cede finalmente all' amore della piccola Sonia che lo aveva seguito fin là senza mai risparmiargli la verità sul suo orrendo crimine. Nasce in lui un'inattesa esperienza: "A tal punto era felice, a tal punto inaspettatamente felice che quasi ne ebbe paura. Sette anni [di pena], solo sette anni". Prima erano un peso smisurato, adesso sono niente. La libertà liberata dal desiderio è ciò cui i giovani anelano, anche senza saperlo, perché una cosa sanno bene: la peste più temibile è l'aridità permanente del cuore, è non desiderare niente. E' la noia, di cui ha dato una straordinaria definizione Baudelaire, il "poeta dell'assenzio": "La noia è un mostro delicato che, senza strepito, inghiotte il mondo". Liberare la libertà è il dono più grande che un uomo possa ricevere. "Abbiamo necessità che Qualcuno ci assicuri definitivamente" (Marion). Solo Costui è il vero liberatore, è il Reden tore. Non per nulla Gesù non si è limitato ad offrirci la libertà, ma significativamente ha detto: "Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero" (Gv 8,36). Condizione per la proposta cristiana ai giovani è una libertà liberata che suscita il desiderio della meta. Questa affermazione appare però ancora troppo generica per i ragazzi di oggi. Come possono sentirla attrattiva al punto di lasciarsi disporre alla "strana necessità del sacrificio" (Giussani)? San Giovanni Paolo II, parlando alla Giornata mondiale della gioventù di Toronto del 2002, ha introdotto un' espressione che, se non è sulla bocca dei giovani, attraversa però quotidianamente la loro esistenza: diritto alla felicità. Da dove può nascere un simile diritto se non dal desiderio di felicità? Un desiderio così potente che non può essere fermato da nulla. Trovandocelo addosso lo reclamiamo come un diritto, cioè come qualcosa che strutturalmente ci spetta. Libertà e felicità non sono solo la trama e l'ordito dell'umana esperienza, ma hanno la forza di interpretare efficacemente ciò che preme alle ragazze e ai ragazzi d'oggi. Conviene notare che si tratta di parole impiegate da Gesù nel Vangelo, non frutto di una riflessione teorica, ma di un'esperienza diretta. Se tu Lo segui sarai libero davvero e il tuo diritto alla felicità, al compimento - come dice Gesù al giovane ricco - troverà realizzazione. "Se vuoi essere perfetto [compiuto, felice] ... seguimi" (Mt 19,21). Gesù non offre al giovane altri precetti morali, non fa discorsi sul cambiamento del mondo, lo invita a cambiare i rapporti, ad accorgersi dell' altro, a scoprire il fascino dell' essere in relazione, non in qualunque modo, a poco prezzo, ma a partire dalla relazione con Lui. Felicità, libertà e relazioni sostanziali sono fattori indisgiungibili della proposta cristiana. Fin che esistono donne e uomini che vivono così, il cristianesimo è una possibilità reale. E il gran parlare di post-cristianesimo non riesce a eliminare la speranza. Correre per conquistare la meta In molti potrebbe sorgere qui un' ultima questione. Un cristianesimo ridotto alle dimensioni quantitative che sono sotto gli occhi di tutti ha un effettivo rilievo nella società plurale di oggi? Non debbono i cristiani accettare quanto l'idea di laicità di marca francese ha proposto, a partire dalla famosa Legge del 1905, al di là della recente interpretazione che ne ha dato il presidente Macron? In una società come quella attuale, interculturale e interreligiosa, chi vuole seguire Cristo ne assuma il Vangelo in forma personale e privata. Ne pratichi i riti, ne osservi i comandamenti, senza pretendere di proporre pubblicamente il proprio credo. Non solo lo stato e le sue istituzioni debbono essere rigorosamente neutre, ma la società stessa, tutta intera, deve essere neutra. Non c'è dubbio che quando la parola "rilievo" assume un sapore egemonico è sempre fuori luogo, indipendentemente dalle vicende storiche della Chiesa. Proporre pubblicamente però non solo non significa imporre, ma nel contesto dell' attuale società plurale, con il meticciato di civiltà e culture che la caratterizza, la proposta pubblica della fede è sommamente conveniente. Non si può infatti costruire amicizia civica, con la conseguente vita buona personale e sociale, senza un'indomita tensione al riconoscimento reciproco. E questo a partire dallo smarrimento sempre tentato di trasformarsi in "risentimento" (Nietzsche) prodotto dai formidabili fattori propri di questo cambiamento d'epoca. A partire da questi fattori (mutazione della politica, economia e finanza, elevata conflittualità, biotecnologie, intelligenza artificiale e creazione dei cybor, civiltà delle reti ecc.) i giovani si impongono come gli attori decisivi della transizione a quello che, con termine ancor vago, si chiama post-moderno. Con tutti i loro coetanei le ragazze e i ragazzi cristiani, toccati dalla tenerezza di Cristo, sono in grado di attraversare l'attuale complessità con un adeguato senso della meta. "Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione [felicità], ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo" (Filippesi 3,12).

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Elogio della fragilità di Alessandro D’Avenia

«Matteo e il suo essere diverso mi hanno insegnato che la vita non è mai povera, ma povero è lo sguardo con cui la si guarda e per un’adolescente questa è la miglior medicina nei momenti di sconforto. Quando ho preso consapevolezza della situazione ho provato un enorme senso di paura e solitudine. Con il tempo e con l’aiuto dei miei genitori, ho capito che dovevo trovare il coraggio di cercare la bellezza della fragilità di mio fratello e lui è sempre più consapevole della sua originalità. Il bello dell’unicità e quindi della diversità è il bello della vita, e Mat con le sue grandi fragilità lo insegna. Per cosa voglio spendere la mia vita? Per difendere la bellezza delle cose fragili». A scrivere è Beatrice di 14 anni, la figlia di Marzia e Paolo: «Siamo i genitori di un’adolescente e di un bimbo speciale di undici anni. Volevamo condividere un racconto di Beatrice per un concorso scolastico. Pensiamo sia nato grazie a quanto scrivi. Grazie per aver camminato accanto a noi». Si riferivano alla lettura, non facile per una quattordicenne, de «L’arte di essere fragili», ma un ragazzo è disposto a percorrere tutto lo spazio impervio dell’anima per strappare un senso alla vita, come sapeva bene Leopardi: «Il possesso di sé stessi suol venire o da bisogni e infortuni o da qualche passione grande; e per lo più dall’amore». Il racconto di Beatrice comincia così: «Avevo tre anni quando è nato mio fratello e il nome l’ho deciso io: Matteo. Ero piccola per capire ciò che stava accadendo a quello che era il mio bambolotto e poi sarebbe divenuto la parte più importante e vera di me. Poi si è chiarita la patologia di Matteo (come se ce ne fosse bisogno: per me Mat era lui, non la sua patologia!): sindrome di Edward. Mat ha iniziato a pronunciare qualche parola a cinque anni e l’avevo ribattezzato “l’ottavo nano: Rognolo”, poiché piangeva in continuazione ed era perennemente arrabbiato con il mondo. A ogni suo capriccio, per strada, al supermercato o in chiesa, si sdraiava sul pavimento e piangeva, urlava, si dimenava. Che rabbia! Mi stupiva il fatto che i miei non lo rimproverassero e ciò mi indisponeva ancor più. Avere un fratello, con cui non poter condividere nulla e con il privilegio di avere i genitori sempre attaccati, m’infastidiva enormemente. Oggi ridimensionerei tutto e chiamerei quel sentimento semplicemente e comprensibilmente gelosia fraterna. Un giorno di marzo pioveva fortissimo. Matteo piangeva, osservavo incantata le gocce che si rincorrevano sul vetro e cercavo di attribuire un aggettivo a ciascuna: io regalavo parole agli altri mentre mio fratello era prigioniero di quelle stesse parole. Improvvisamente sono esplosa in un pianto inconsolabile. È stata la prima volta in cui ho avuto la consapevolezza che Mat sarebbe stato diverso dagli altri. Molti miei amici vedono l’essere diverso come un limite, un’inferiorità. Forse perché viviamo in un mondo in cui apparire è più importante dell’essere, ma poi in fondo tutti cerchiamo autenticità e Mat insegna che è la fragilità stessa a renderci unici, autentici e perciò credibili. Spesso vedo che le persone anche adulte rimangono in superficie e non si appassionano alla vita. Una giornata con Mat sarebbe in grado di cambiare il loro sguardo. Lui è grato per le nuvole, la pioggia, il vento, i fiori gialli che crescono lungo i marciapiedi, il sole che fa capolino dalle nuvole. Io rimango incantata e al tempo stesso contagiata dal suo sguardo di meraviglia sul mondo». Da queste righe emerge un punto nevralgico dell’educazione: che ne facciamo del dolore e della fragilità? Tendiamo a nasconderli ai ragazzi e fatichiamo a dar loro un senso, immersi in una cultura in cui felicità è sinonimo di successo, infallibilità, perfezione. Eppure, se considero la mia vita, i momenti in cui sono cresciuto sono frutto di crisi più o meno dolorose che non cambierei, anche se quando vi ero immerso sarei voluto fuggire. Solo grazie a chi avevo vicino ho potuto affrontarle e, lentamente, renderle linfa vitale. Così ha fatto Pierluigi Cappello, morto a 50 anni nel 2017, paralizzato dal petto in giù da quando ne aveva 16 per un incidente. Nella sua autobiografia descrive il risveglio dopo lo scontro in moto e la scoperta di essere estraneo al suo corpo. Accanto a lui, quando apre gli occhi, trova i genitori, dai quali attende parole a cui aggrapparsi, ma «intravede sua madre, seduta, ha il viso rosso, si trattiene, poi non lo fa più, si alza in piedi e va via senza dire niente». Chi gli ha dato la vita deve trovare il coraggio di rimetterlo al mondo, ridarlo alla luce. Cappello è diventato poeta proprio per andare a caccia delle parole perdute, che a poco a poco ha ritrovato grazie alle cure pazienti dei suoi e grazie alle letture, decisivo e salvifico il primo libro letto dopo l’incidente (non a caso Moby Dick ), così è diventato una delle voci più autentiche della nostra poesia. Come per Beatrice, il dolore è accolto e superato grazie ai genitori e alle parole di chi ci ricorda che la nostra esperienza, anche la più dolorosa, è umana, ha senso, cioè un significato e una direzione. Forse per questo ricevo tantissime lettere di ragazzi su come affrontare la sofferenza, propria e altrui. Molti di loro sono imprigionati nel dolore muto e chiedono parole a uno sconosciuto, per trasformarsi da infanti (letteralmente «chi non ha parola») in fanti, cioè non solo «chi ha la parola», ma chi può andare alla guerra della vita. Il dolore muto è il tarlo dell’anima, scava fino a sgretolarla, se non si interviene. Solo nella misura in cui apre spazi di cura e parole, il dolore è abitabile, perché come dice un personaggio shakespeariano: «Ognuno può padroneggiare un dolore, tranne chi l’ha». Questo coraggio è quindi chiesto a chi incontra il patire altrui, perché piangere e parlare contemporaneamente è impossibile. Così accade a una bambina nel parco Steglitz di Berlino. Non riesce più a trovare Brigida, la sua bambola di pezza. Un uomo s’imbatte nella piccola paralizzata dal pianto. Non la ignora né la consola, ma fa suo quel dolore, e comincia a raccontarle una storia: Brigida è partita per un viaggio e scriverà regolarmente alla padroncina per raccontarle tutto. Lui è il postino delle bambole e le recapiterà le lettere. Così i due si incontrano regolarmente al parco, l’uomo legge le storie dei viaggi della bambola aiutando la bambina ad accogliere il dolore, rendendolo sensato. Lettera dopo lettera la piccola trasforma la perdita in consapevolezza del fatto che Brigida è felice del suo viaggio: e così la lascia andare. L’uomo muore un anno dopo il loro primo incontro, felice di quell’epilogo, si chiamava Franz Kafka. Partendo da questo episodio biografico raccontato da Dora Diamant, ultima fidanzata dello scrittore della Metamorfosi , Jordi Sierra i Fabra ha scritto un romanzo breve che immagina l’intera storia ( Kafka e la bambola viaggiatrice ), facendo emergere che solo il dolore a cui si dà casa, cioè tempo, cura e parole, fa crescere, e il compito è affidato a chi accoglie il sofferente e ne fa proprie le ferite, e così cura nell’altro la sua stessa carne. Qualche tempo fa una giovane coppia ha chiesto alla maestra della figlia di comunicarle della morte della nonna, perché loro non sapevano come fare. Siamo disarmati di fronte al dolore, se inadeguate sono le narrazioni e le risorse capaci di dargli un senso, ma proprio quel dolore ci obbliga a trovarle. La sofferenza smaschera i limiti di una cultura che basa la felicità sul successo delle prestazioni: la fragilità è rimossa come tabù o colpa, anziché accolta come la nuda condizione umana. Essere fragili è un lusso che oggi più che mai dobbiamo concederci per liberare le risorse che la paura di non essere abbastanza imprigiona. Educare è introdurre alla realtà, e la realtà ha la stoffa della fragilità: così Beatrice trova parole per Mat, Kafka per la bimba, e Cappello per sé e i lettori: nell’ultima poesia scrive infatti che per vivere serve «costruire una capanna/ di sassi rami foglie/ un cuore di parole/ qui, lontani dal mondo/ al centro delle cose/ nel punto più profondo». Solo la fragilità e il dolore, presi per mano dall’amore (tempo, cura, parole), ci portano nel punto più profondo del mondo, in cui abitano gli uomini spogliati dalla bugiarda pretesa di autosufficienza, causa di ogni amara solitudine. Solo quando un uomo carica sulle sue spalle il dolore altrui, allora il dolore è abitabile e superabile, come Simone di Cirene costretto dai soldati a portare la croce di Cristo, gesto indagato con tenacia da Andrea Tarabbia nel recente Il peso del legno : «Simone sente che quel morituro gli appartiene in virtù del gesto che ha fatto per lui». E questo vale per ogni vita fragile: un bambino in grembo, un malato, una persona sola, perché soltanto il gesto che difende la vita, per quanto faticoso sia, la moltiplica. Riparare i viventi è il segreto di chi vuole farsi e dirsi vivo, perché la soluzione al dolore non è una spiegazione, ma una compagnia. Il letto da rifare oggi è trovare il coraggio di non scappare dal peso del dolore, ma scoprire che proprio chi soffre ci chiama, ci appartiene e ci salva, come Mat, 11 anni, per Beatrice, 14 anni.

Pag 19 Coppie gay, ricorso della Procura contro le registrazioni dei figli di Fiorenza Sarzanini e Elena Tebano Roma, stop sulle adozioni estere: la trascrizione dei sindaci non basta, serve un giudice

L’adozione di un minore avvenuta all’estero da parte di due genitori dello stesso sesso può essere riconosciuta in Italia senza la pronuncia dei giudici? Il sindaco può procedere autonomamente all’iscrizione all’anagrafe? Ruota attorno a queste due domande il ricorso che sarà depositato dalla Procura di Roma al tribunale civile. La decisione è stata presa nei giorni scorsi, dopo una riunione che si è svolta a piazzale Clodio tra i magistrati del pool che si occupa di queste tematiche, coordinato dall’aggiunto Maria Monteleone. E certamente non mancherà di sollevare polemiche, riaprendo il dibattito già aspro sulle famiglie arcobaleno. In Italia non esiste una legge che regolamenti la materia. Ci sono state sentenze della Corte di Cassazione su diversi aspetti del problema, ma nulla di definitivo è stato detto sulla procedura che deve essere seguita dai sindaci tanto che ogni città si è regolata in maniera diversa. Le due coppie - In particolare sia a Gabicce Mare, sia a Torino si è deciso di procedere in maniera autonoma e subito dopo anche Roma si è allineata, mentre il sindaco di Milano ha più volte manifestato la volontà di «riconoscere le famiglie arcobaleno», sia pur in circostanze diverse da quelle che riguardano le adozioni all’estero. E così, in attesa della decisione della Corte di Cassazione a sezioni unite che dovrebbe avvenire il prossimo autunno, i magistrati hanno ritenuto necessario avere un pronunciamento dei giudici civili, impugnando i casi trattati dal Campidoglio. Un verdetto che naturalmente avrà riflesso anche nel resto d’Italia. Il ricorso che sarà depositato riguarda due casi diversi nella procedura ma analoghi nei contenuti. Si tratta di due mamme e di due papà che si sono rivolti al Comune di Roma e hanno ottenuto la trascrizione dell’adozione avvenuta fuori dall’Italia. Nell’ultimo caso si è trattato di una «trascrizione completa e spontanea, cioè senza l’intervento di un giudice», registrando all’anagrafe l’atto di nascita di una bimba venuta alla luce a novembre in Canada, riconoscendone i due papà, «tali grazie alla gestazione per altri». In assenza di una legge i tribunali hanno già riconosciuto la possibilità di trascrivere l’adozione ma specificando che ciò «non può avvenire in maniera automatica» perché è necessaria un’istruttoria che possa valutare svariate circostanze. Il ruolo dei sindaci - In particolare, secondo alcune sentenze, spetta ai giudici stabilire «l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare dell’adottante; i motivi per i quali l’adottante desidera adottare il minore; la personalità del minore; la possibilità di idonea convivenza, tenendo conto della personalità dell’adottante e del minore se la richiesta realizza il preminente interesse del minore». I giudici hanno chiaramente evidenziato come la decisione deve essere guidata «esclusivamente dal raggiungimento del benessere del bimbo e a questo fine deve essere preceduta da accurate indagini sociali e psicologiche volte a verificare l’idoneità affettiva e la capacità educativa di chi ha svolto e svolgerà il ruolo genitoriale». Di fronte alla necessità di svolgere un simile approfondimento, la Procura ritiene che non sia dunque possibile procedere con la semplice trascrizione effettuata dal sindaco, senza entrare nel merito delle relazioni familiari, e dunque si è deciso di presentare ricorso.

1 Che cosa sono le «trascrizioni» dei genitori gay o lesbiche? Sono il passaggio burocratico con cui un atto di nascita straniero oppure l’adozione nazionale estera (fatta cioè da un cittadino italiano all’estero in base alla legge locale e quindi diversa da quella internazionale, più comune) diventano validi in Italia. Gli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso vengono redatti alla nascita dei bimbi nei Paesi in cui la legge riconosce i genitori gay e lesbiche. È il caso dei bimbi con due padri nati grazie alla gestazione per altri. Le adozioni riguardano gli italiani residenti in un Paese straniero che adottano lì un bimbo con il partner (o il suo figlio biologico).

2 Finora sono state fatte? Sì: a Napoli, Torino, Trento, Roma, Firenze, Bologna, Milano, Genova, Perugia per esempio i giudici hanno disposto le trascrizione di atti di nascita o adozioni estere di bambini con genitori dello stesso sesso. La Cassazione ha stabilito che la trascrizione degli atti stranieri non può essere negata se è nell’interesse del minore e la Corte Costituzionale che vanno seguite le convenzioni che prevedono la convalida delle adozioni estere. La Procura di Roma mette ora in dubbio che si possa fare direttamente all’anagrafe come succede quando si trascrivono gli atti con genitori eterosessuali.

3 Sono gli stessi riconoscimenti introdotti da poco dalla sindaca di Torino e da quello di Milano? No, quelli registrati Da Chiara Appendino e Beppe Sala riguardano bambini nati in Italia sui cui atti di nascita c’era solo una madre (colei che ha partorito i figli). Basandosi sulla legge che permette di riconoscere i figli nati da genitori non sposati, i sindaci hanno registrato anche la seconda madre.

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 Nascere orfani? di Mariolina Ceriotti Migliarese Omogenitorialità e diritto di ogni figlio

Certamente non sono rari nella storia umana i casi di bambini cresciuti solo dalle donne; nei tempi di guerra come nei tempi di pace è successo spesso che i padri fossero assenti: morti in guerra, lontani per lavoro, oppure semplicemente latitanti, magari dopo aver messo incinta la donna madre del bambino. Tante donne coraggiose si sono rimboccate le maniche, si sono aiutate tra loro, hanno amato, accudito e fatto crescere figli che l’assenza del padre non ha necessariamente reso patologici o incapaci di vivere. Perché dunque ci sconcerta e ci interroga la notizia che diversi sindaci, a Milano, a Torino e in altre città italiane, hanno voluto riconoscere bambini 'figli di due madri'? Pensiamo forse che queste donne non possano essere capaci, in quanto omosessuali, di dare ai bambini l’amore di cui hanno bisogno? Pensiamo forse di negare a questi bambini, in nome di qualche astratto principio, l’amore a cui hanno diritto? Che differenza c’è, dunque, tra l’essere cresciuti da due donne perché il padre è scomparso, ed essere cresciuti da due donne che hanno scelto di mettere al mondo un figlio senza il padre? Malgrado le apparenze, la differenza c’è ed è molto importante: solo nel secondo caso, infatti, gli adulti decidono consapevolmente che il bambino nasca orfano di padre. Orfano è una parola che significa 'privo di un genitore' e genitore significa 'colui che ha generato'. Comunque si considerino le cose, ognuno di noi è generato senza possibilità di eccezione dai gameti di un uomo e di una donna, che sono dunque biologicamente nostro padre e nostra madre: il legame con loro è innegabile e ineludibile, perché impresso nel nostro corpo attraverso un patrimonio genetico fatto sia di caratteristiche fisiche che di inclinazioni temperamentali, che ci accompagneranno per sempre. Il legame biologico da solo è certamente insufficiente a fondare la genitorialità, ma rimane un legame potente; chi si occupa di adozioni sa bene ad esempio che qualsiasi adottivo, anche se accolto fin dai primi giorni di vita in una famiglia che ama e che lo ha amato, porta in sé una forte domanda sulle sue origini, che lo spinge sempre a cercare di scoprire chi erano i suoi genitori biologici. Non a caso la necessità di tale ricerca si fa sentire soprattutto a partire dall’adolescenza, età nella quale si affacciano alla coscienza le principali domande sul sé, legate al tema della propria identità; a partire da questo momento il tema delle origini diventa cruciale sulla strada per diventare adulti e poter dunque a nostra volta generare, in una catena di relazioni che lega tra loro padri, madri e figli. Il padre non è più importante della madre, e nemmeno la madre lo è più del padre: ognuno di noi sa bene, se analizza se stesso con sincerità, che entrambi sono o almeno sono stati cruciali per la sua vita. La loro presenza come la loro assenza, il loro essere stati figure positive o negative, lasciano in noi una traccia che non possiamo negare e con la quale facciamo i conti per tutta l’esistenza: tutto dunque può essere detto delle figure del padre e della madre, tranne che possano essere irrilevanti o indifferenti. Proprio per questo è necessario che entrambi possano essere presenti, almeno nel nostro immaginario: il bambino orfano di guerra, il bambino figlio di madre nubile, il bambino abbandonato e adottato, tutti indifferentemente sanno di essere stati generati dall’incontro tra un uomo e una donna. Pur nella mancanza di uno o dell’altro genitore possono riconoscere che la loro origine dipende da entrambi: scoprono che il maschile e il femminile non si bastano da soli, e che hanno lo stesso valore perché sono entrambi indispensabili a generare la vita. Solo l’omogenitorialità può decretare di fatto l’assoluta irrilevanza di uno dei sessi: le due donne che fanno dell’uomo solo un donatore di seme, o i due uomini che fanno della donna una donatrice di ovulo e/o un’incubatrice per il feto, stanno dichiarando al bambino l’assoluta irrilevanza dell’altro sesso, che pure ha contribuito a generarlo e di cui porta in sé una parte così rilevante. Nessun bambino può esser 'figlio' di due donne o di due uomini; il bambino di una coppia omogenitoriale può certamente essere frutto della scelta di due adulti che lo chiamano al mondo perché vogliono amarlo: ma sono adulti che, senza volerlo, lo fanno nascere orfano di un genitore e privo della possibilità almeno simbolica della sua esistenza. Davanti a questioni di questo tipo, la nostra risposta appare confusa e spesso timorosa perché si è diffusa in modo drammatico la convinzione che tra i diritti di un adulto ci sia anche quello di avere bambini; questo modo di pensare non riguarda solo le coppie omosessuali, ma anche molte coppie eterosessuali, creando un clima propizio per il diffondersi del fenomeno. Ma i bambini, come ogni persona, possono solo essere soggetto di diritti e non certamente oggetto: dobbiamo tornare a vederli come un dono della vita, un regalo spesso immeritato, che non può essere preteso, ma solo accolto con riconoscenza e rispetto. È dunque di estrema urgenza avviare una riflessione, per evitare che i dati di fatto prendano rapidamente il sopravvento, portando a 'normalizzare' ciò che non può essere normalizzato. Quando nasce un bambino, la prima cosa da fare, la più importante, è sempre quella di festeggiare la sua nascita come un dono per il mondo: una piccola persona nuova ha visto la luce, un miracolo che si ripete malgrado tutti i possibili errori. Comunque sia stato generato, un bambino ha il diritto di essere amato, e i bambini già nati hanno certamente pieno diritto di cittadinanza tra noi. Ma se davvero amiamo i bambini, dovremmo in primo luogo fermarci con decisione, e domandarci quali sono i loro veri diritti, quali le migliori opportunità per il loro sviluppo. E se non troviamo un accordo, che valgano almeno per tutti il rispetto della legge e la saggezza del principio di precauzione, che utilizziamo in tanti ambiti certo meno decisivi.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 22 “Altro che doge, Venezia mi regala solo un caffè” di Stefano Lorenzetto Parla il sindaco Luigi Brugnaro, pronto a festeggiare 3 anni di mandato: “Voglio la città aperta, ma il turismo mordi e fuggi deve pagare di più”

L’ultima accusa che gli è stata rivolta è quella di affamare i gabbiani, che fino a ieri sventravano i sacchetti delle immondizie depositati fuori dalle porte, lungo calli, rii e campielli. «Siccome ho ordinato che i netturbini facciano la raccolta dei rifiuti porta a porta, suonando i campanelli delle case per evitare questo sconcio, pare che sia colpa mia se un uccello ha ghermito mezzo panino addentato da una turista in piazza San Marco», s’indigna Luigi Brugnaro, che il 2 luglio festeggerà i suoi tre anni da sindaco di Venezia. Gli hanno anche rinfacciato d’essere andato in visita ufficiale in Giappone solo per vendere le fiorentine di chianina provenienti dal suo allevamento di Chiusi. «Monade, el me scusa. Con i giapponesi ho un rapporto di antica data, prova ne sia che, a cinque anni dalla chiusura, sono riuscito a riportare a Marghera la Pilkington, ridando un lavoro ai 120 cassintegrati e facendo assumere 50 giovani. Sono volato a Tokyo per chiudere l’accordo con Toyota sul car sharing ibrido fra Mestre e Venezia. E presto vorrei i vaporetti elettrici». Che il doge del terzo millennio avesse un rapporto conflittuale con i giornalisti, era noto. Ma quando il servizio «Venicetown» di Report nei giorni scorsi ha tirato in ballo la mafia, la sua reazione è stata furibonda: «Tv spazzatura». In ballo c’è l’area dei Pili a Porto Marghera, che l’industriale Brugnaro rilevò nel 2005 e che, secondo Rai 3, è destinata a valere 30 volte di più. La circostanza non è vera? «Partecipai a un’asta bandita dallo Stato. Per quei 42 ettari, che nessuno voleva, pagai 5 milioni di euro più Iva. Poco? Alla gara c’ero solo io. I terreni sono inquinati, vanno bonificati, la Montedison ha firmato una transazione per 520 miliardi di lire. I Pili sono da sempre edificabili, anche per le giunte di sinistra. Mi piacerebbe se vi sorgesse un’arena dello sport, senza oneri per Venezia. Ma la decisione spetta al consiglio comunale». Non c’è conflitto d’interessi? «La mia famiglia non controlla più nulla. Sono l’unico politico d’Italia ad aver ceduto tutto a un blind trust, come pretendeva il mio sfidante Felice Casson. Ho scelto un trustee fra i più severi nello Stato di New York, l’avvocato Ivan Sacks. Ricevo solo una somma annua e la dichiaro nel modello 740. Che altro vogliono da me?». Non so, me lo dica lei. «Il mio stipendio da sindaco lo devolvo interamente al fondo comunale per i bisognosi, grazie al quale è stata rimpatriata in Gambia la salma di Pateh S., 22 anni, morto suicida nel Canal Grande. Arrivo alle 7 con la mia auto nel parking San Marco: l’abbonamento lo pago io, come sempre, forse ora mi salutano perché sono il sindaco. In municipio ci vengo con il mio motoscafo, il marinaio è stipendiato da me. Non mi faccio rimborsare pranzi e cene. L’unica cosa che il Comune mi regala è il caffè. Perché non riescono a concepire che un imprenditore di successo voglia lavorare gratis per la sua città?». Ma lei da chi è stato candidato? «Mi sono scelto da solo. Un colpo di testa. Infatti ho chiesto scusa ai parenti. La mia idea era di formare una lista civica con dentro tutti, ma il Pd rifiutò. Al passaggio delle consegne, il commissario straordinario Vittorio Zappalorto mi batté una mano sulla spalla e sussurrò con mestizia: “Auguri”». La situazione era così tragica? «Di più. Non c’era un bilancio consolidato. I debiti ammontavano a 800 milioni: oggi sono calati a 740. Dei 140 milioni di fido in banca, ne erano già stati erogati 139, quindi non avevo i soldi per pagare i 6 milioni 155.000 euro netti degli stipendi di luglio ai 3.200 dipendenti comunali e ai 7.000 delle partecipate. Adesso i primi sono scesi a 2.800, nonostante abbia assunto 150 vigili, e la spesa annua per il personale è passata dai 139 milioni di euro del 2014 ai 118 milioni dell’anno scorso». Quindi non venderà la «Giuditta II» di Gustav Klimt, conservata a Ca’ Pesaro. «Non si sa mai. L’abbiamo messa in mostra a Mestre: la gente, per paura di non vedere più l’opera che a Venezia è esposta gratis, ha pagato il biglietto. Nel frattempo ho dovuto ordinare un censimento di tutte le tele appese nei musei, a Ca’ Farsetti e nelle altre sedi municipali». Ne era sparita qualcuna? «Le dico solo che ora so quante sono». Ha copiato da Carlo Cottarelli? «Ho fatto a meno del direttore generale, che costava un patrimonio. Le 26 direzioni sono state dimezzate e dei 71 dirigenti ne sono rimasti 56. Ma non incolpo nessuno. Ha ragione il mio predecessore Massimo Cacciari: da quando non è più stata finanziata la legge speciale per Venezia, siamo in bolletta». La definizione di «Guazzaloca in saor» che le hanno dato i giornali le sta bene? «No. La trovo offensiva per il compianto Guazzaloca. È una vecchia tecnica: ridicolizzare l’avversario, isolarlo, per poi colpirlo. Mi scanserò e mi difenderò». Qual è la prima emergenza di Venezia? «Che ne parlano, spesso a sproposito, soltanto i soliti noti». Credevo lo spopolamento. «Gli abitanti sono 61.000, come nel 2017. Il saldo migratorio è positivo, più arrivi che partenze. Quello naturale a fine aprile era negativo di 232 unità, solo perché nessuno fa figli e i vecchi muoiono. Ma per quelli il sindaco può solo pregare». Cinquant’anni fa, avviando sul «Corriere della Sera» la sua battaglia per salvare Venezia, Indro Montanelli spiegava che su questa città «incombe una tragedia di morte, non più lenta ma galoppante». Aveva torto o ragione? «Montanelli era un idolo, ma la stessa cosa si leggeva sui libri nel primo dopoguerra. E no’ xé morto gnente, me par». Lei preferirebbe Venezia senza turisti o con i turisti? «Non vogliamo diventare come Barcellona, dove sputano addosso ai foresti e appendono ai balconi le lenzuola con scritte ostili. Finché io sarò sindaco, Venezia resterà una città aperta ai visitatori che la rispettano. Però mi preoccupa il turismo di consumo di un solo giorno, mordi e fuggi. Quello dovrà diventare più costoso». L’esperimento dei tornelli funziona? «Non li chiami così. Sono varchi. E non sono mai stati chiusi. Servono solo a regolare il flusso dei pedoni, instradandoli su percorsi alternativi. Ha idea di che cosa significhino tre treni che arrivano contemporaneamente in stazione e scaricano 2.000 persone sulla Lista di Spagna?». È contento che i poliziotti cinesi pattuglino la città insieme ai carabinieri? «Contentissimo. Magari ci prestassero agenti da tutto il mondo!». Sa dirmi quanti bar sono finiti in mano a gestori cinesi negli ultimi anni? «No, e m’interessa poco. Intanto ho bloccato il rilascio delle licenze ai take-away». Le grandi navi da crociera devono entrare o no nel Bacino di San Marco? «Mai. E neppure nel Canale della Giudecca. La soluzione alternativa l’ho già indicata: la rotta da Malamocco a Marghera seguita dalle petroliere negli anni Cinquanta. Ma la scelta spetta al ministro dei Trasporti, non a me. A chi invece contesta questi traffici, chiedo: dove vorreste scaricare i passeggeri, in mezzo al mare? Lo sa quanti prodotti made in caricati nel nostro porto consumano 3.000 persone? A mi le navi me piase!». Infatti bloccò la mostra di Gianni Berengo Gardin sui «mostri» in laguna. «Momento! La bloccai perché era una crociata politica e usava in modo strumentale uno spazio pubblico. Ma per me resta un grande fotografo». Non sono un azzardo i due concerti che Zucchero terrà il 3 e 4 luglio in piazza San Marco? Il disastro provocato dai Pink Floyd nel 1989 non li sconsigliava? «Scherza? Guardi che le regole della sicurezza furono scritte a Venezia nel 1577 per la festa del Redentore dopo la peste. Abbiamo inventato persino i cacciabottiglie per evitare che i vuoti diventino cocci. E il piano antiterrorismo, con i cecchini - veri - sui tetti, risale a prima della strage del Bataclan». Le imputano di aver favorito Zucchero solo perché era ospite alla festa di Capodanno della sua azienda, Umana. «Con i miei soldi invito a cena chi voglio. In quell’occasione gli chiesi di tenere un concerto a Venezia. Mi richiamò dopo due mesi: “L’offerta è ancora valida?”. È lui che fa un favore a noi, altroché». Vieterebbe ancora i libri di fiabe sulle coppie omogenitoriali? «Li ho ritirati dalle scuole d’infanzia, non dalle biblioteche come hanno scritto. Erano stati violati i regolamenti comunali, che imponevano d’interpellare i genitori». Ma a Elton John, che per quell’atto la definì «bifolco e bigotto», concederebbe piazza San Marco? «Anche domattina. Soprattutto vorrei parlarci insieme. Sono sicuro che impareremmo qualcosa l’uno dall’altro». Questo benedetto Mose è pronto o no? «Al 95 per cento. Dovrebbe entrare in funzione nel 2019. Ma non dipende da me e salverà Venezia solo da acque alte eccezionali, superiori ai 110 centimetri. Non cancellerà il fenomeno». Le sarebbe piaciuto essere doge anziché sindaco, confessi. «No, benché Sebastiano Venier, che a Lepanto ci salvò dai turchi, fosse più democratico di un re. Venezia resta come allora: libera».

CORRIERE DEL VENETO di domenica 24 giugno 2018 Pag 9 “Io tasso i vostri pullman”. “E io tasso i vostri camper”. La guerra Jesolo – Cavallino di Giulia Busetto La strada che unisce le due località turistiche diventa un caso

Jesolo (Venezia). Altro che tregua vacanziera. I bollori di chi si crogiola al sole del litorale veneziano, quest’anno, rischiano di raggelare sotto il vento della guerra fredda scoppiata tra Jesolo e Cavallino. Le armi? pullman, camper e ztl. Campo di battaglia: la famosa Jesolana, l’unico percorso che congiunge, via terra, le due perle balneari al resto del mondo. A tratti stretta e tortuosa, spesso protagonista di incidenti dovuti ai sorpassi durante le code, la strada conduce per prima a Jesolo, patria vacanziera degli alberghi, in buona parte raggiunti dai turisti con i pullman. Per questa via sono costretti a passare anche i camperisti da tutta europa che, agli alberghi della prima, prediligono campeggi e oasi verdi affacciate al mare della seconda. Il risultato? Ore di coda roventi dal mattino a mezzogiorno, all’andata, e dal tramonto alla notte, al rientro dalle spiagge. Esodi e controesodi da incolonnamenti costanti. Senza contare lo smog che residenti in primis sono costretti a inalare. «Su quella stessa strada passano le sei milioni di presenze di Cavallino-Treporti (il cinquanta per cento dell’affluenza totale dei mezzi), con l’aggravante del passaggio di bus e caravan. A pagarne le conseguenze è solo Jesolo, in termini di inquinamento e di ingorghi» hanno tuonato Confcommercio e Associazione albergatori jesolane. Fino a minacciare, se l’amministrazione di Cavallino non aprisse al dialogo, «una ztl per tutti i mezzi diretti a Cavallino-Treporti». Niente da fare, ha rimandato al mittente la sindaca della frazione di mare in questione, Roberta Nesto: «Sull’unica via di transito non esiste un’imposizione del genere. E poi è una strada provinciale, non è nemmeno competenza del Comune di Jesolo. Secondo me non può farlo». Anche se la minaccia di imporre un ticket a chi per soggiornare a Cavallino passa per Jesolo, l’altro sindaco, quello di Jesolo, Valerio Zoggia, la ritiene possibilità tutt’altro che remota: «La ztl è un’opportunità concreta da considerare, lo decideremo dopo uno studio sull’inquinamento causato da camper e roulotte. Solo i nostri autobus devono pagare 130 euro di ztl perché per andare a Venezia devono passare per Cavallino? E i loro camper che passano qui?». E in effetti, per chi soggiorna a Jesolo e ha voglia di visitare Venezia in giornata, la strada più veloce è quella che traghetta via acqua da Punta Sabbioni al centro storico veneziano: con passaggio obbligato per Cavallino. E il piccolo Comune, qualche anno fa, per limitare l’impatto ambientale dei pullman turistici che fanno via vai per quel tratto, ha imposto la ztl a pagamento. Ha imitato ciò che ha fatto Venezia poco prima, imponendo il ticket ai bus turistici che per raggiungere Venezia passano per Mestre (dai centocinquanta a quattrocento euro in base al grado di inquinamento del mezzo). E forse ha origine qui movente bellico di sindaco e albergatori jesolani: la località, questo inverno, ha perso turisti. Quelli che per spendere meno sceglievano Jesolo per poi raggiungere Venezia, passando per Cavallino, per colpa di ztl e tassa di soggiorno jesolana (ora attiva per tutto l’anno), si sono accorti che non è più così conveniente. E si sono riversati sui nuovi ostelli mestrini. Merito di una Venezia che gode tra i due litiganti e che, come da volontà del sindaco Luigi Brugnaro, ha deciso di tenersi per sé tutti i turisti, anche quelli low cost, anziché lasciarli sparsi per la provincia. «È una tassa iniqua quella di Cavallino. E il nostro turismo invernale, anche per questo, comincia risentirne» accusa Zoggia. «Invece non incide sul turismo di nessuno - si difende Nesto -, se c’è un problema è quello della viabilità e ben volentieri mi siedo a un tavolo per parlarne, con il collega sindaco e gli organi competenti, in maniera seria».

Pag 10 Da M9 agli hotel, i nuovi poli di Mestre: “Sarà il triangolo della rigenerazione” di Gloria Bertasi e Giulia Busetto Più turismo e cultura, ma c’è chi tema che le nuovi funzioni svuotino la città di residenti

Mestre. Per qualcuno saranno il motore della rinascita di Mestre, porteranno lavoro a negozi e ristoranti, spingeranno nuovi investimenti, insomma un’accelerata sullo sviluppo della città. Altri temono che, dove oggi ci sono gru e cantieri, nasca un «ghetto» per turisti, separato dal resto della città e con un’unica destinazione: Venezia, non Mestre, destinata a ridursi a dormitorio per chi vuole visitare Rialto e San Marco, a scapito della residenza. I lavori agli hotel di via Ca’ Marcello procedono spediti e da qualche giorno gli scheletri in cemento armato delle nuove strutture stanno iniziando ad assumere un aspetto più «urbano» con il rivestimento, bianco, dei muri. Percorrendo via della Libertà da piazzale Roma a corso del Popolo, l’impatto è dirompente: è il nuovo skyline della porta d’ingresso della città di terra. Non sono le uniche gru che svettano su Mestre. Due chilometri verso nord ci sono quelle di M9, museo del Novecento, che ha iniziato il conto alla rovescia verso l’apertura, il 2 dicembre. E verso est, passando per l’Università di via Torino, c’è Forte Marghera su cui il Comune vuole investire 12 milioni di euro. Tre poli di grande attrazione, ma sarà un «triangolo» di rigenerazione anche per chi vuole viverci, trovare case in affitto, attività per residenti? «I nuovi hotel permetteranno grandi trasformazioni - dice convinto Maurizio Franceschi, direttore di Confesercenti - rispetto a quello che c’era, la riqualificazione è positiva, alberghi, campus universitario, locazioni turistiche sono processi appena iniziati, richiedono tempo ma ricomporranno la frattura tra città e stazione: sorgerà un unico grande centro». Franceschi ne è certo, i residenti devono solo avere pazienza. «Avverrà tutto naturalmente - conclude - la città si ricomporrà e, grazie anche a M9, dove oggi ci sono tanti negozi sfitti, avremo nuove attività». Il turismo è già una realtà a Mestre, ma i numeri sono destinati a esplodere. L’anno prossimo con la chiusura dei cantieri di via Ca’ Marcello, 1.900 posti negli hotel e altri 1.800 negli ostelli A&O (raddoppiato da 1.080 a 2.100 letti) e Anda (via Ortigara) si aggiungeranno ai 4.809 letti dei 95 alberghi già aperti e a quelli extra-alberghierhi. Solo per citare Airbn le offerte sono diventate 1.177 (erano 394 nel 2016). Ogni anno in terraferma ci sono 2,9 milioni di presenze, pari a un terzo di quelle di Venezia, eppure un indotto di servizi e attività economiche per il turismo non è ancora decollato. Sarà anche per questo che il muro di hotel alle porte di Mestre, solleva anche perplessità. «C’è il rischio che gli hotel trasformino la zona in un quartiere dormitorio di turisti in funzione di Venezia - dice Laura Fregolent, docente di Iuav e presidente dell’Istituto nazionale urbanisti del Veneto - Bisogna far sì che non accada e ci sia una ricaduta positiva su Mestre, il suo centro è bello e c’è la possibilità di portare un’economia nuova ma per farlo il turismo va affrontato su scala più ampia, a livello metropolitano: bisogna far sì che le sue bellezze e i suoi aspetti di peculiarità siano oggetto di attenzione, facendo capire che non esiste solo piazza San Marco». Su un punto, Franceschi e Fregolent sono d’accordo: i negozi chiusi devono riaprire per il bene di visitatori e residenti. Che un ruolo fondamentale sia quello di M9, il presidente della Fondazione di Venezia, Giampietro Brunello, lo ha ben chiaro: «Stiamo cercando di dare uno stimolo alla città - spiega - Il brand che tira è Venezia e gli hotel sono lì perché c’è Venezia ma l’obiettivo è creare capacità attrattiva per tutta Mestre». Non a caso M9 punterà sugli orari e gli eventi serali, per «catturare» i turisti di ritorno da Venezia. Il mondo dell’accademia e quello del commercio sono divisi sugli eventuali benefici del boom del ricettivo, l’unica voce che li avvicina è quella di Jan Van Der Borg, professore di Economia del turismo a Ca’ Foscari. «Quelle strutture aiutano una zona di Mestre che pensavo persa, dove pochi sarebbero andati a vivere, schiacciano il degrado - spiega - Possono rappresentare un impulso positivo per ripensare la gestione del turismo, inoltre, non dimentichiamoci che il problema sono i visitatori giornalieri, se una fetta di loro si ferma e dorme qui grazie ai nuovi hotel, facciamo un favore a tutta la città». E’ la convinzione dell’amministrazione che ha favorito l’insediamento degli hotel, lungo la fascia dei binari, dove il piano regolatore prevedeva anche uffici e negozi. «Non mi va bene sentir dire che Mestre è dormiente, dobbiamo usare la sua capacità attrattiva per portare persone che soggiornino, non ci dormano e basta - dice l’assessore all’Urbanistica Massimiliano De Martin - via Ca’ Marcello sta già creando nuove attività e lo stesso farà M9, Mestre non sarà solo il dormitorio di chi viene a visitare Venezia».

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8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di domenica 24 giugno 2018 Pag 5 Due mesi di sangue sulle strade. Un morto ogni ventiquattr’ore di Giacomo Costa Tra maggio e giugno 48 decessi, 3 in più rispetto al 2017

Venezia. Un contatore impietoso, che scatta quasi ogni 24 ore. Maggio e giugno si riconfermano anche nel 2018 due mesi spaventosi per chi viaggia lungo le strade del Veneto, con 48 incidenti mortali tra tutte le provincie, tre in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Dal primo maggio a ieri, in poco meno di sessanta giorni, gli schianti, gli investimenti e le fuoriuscite sono stati almeno 318 (contro i 302 del 2017) in un’escalation costante che rischia di proseguire fino a settembre, accompagnando gli esodi vacanzieri. Un bilancio ancora approssimativo – i dati certificati da Istat arriveranno solo nei prossimi mesi – che però parla già di automobilisti sempre più distratti, di tanti guidatori seduti al volante con un tasso alcolemico elevato e di un numero sempre crescente di mezzi pesanti protagonisti di disastri. Le carreggiate più pericolose sono quelle comprese entro i confini della provincia di Rovigo, dove si concentrano più di settanta sinistri, di cui 13 con esito fatale per almeno uno dei coinvolti; segue Belluno, che conta oltre sessanta incidenti e cinque decessi, quindi Verona e Treviso, entrambe oltre i cinquanta episodi, la prima però ha visto tre incidenti mortali, la seconda addirittura otto. Nel Veneziano pompieri e forze dell’ordine sono intervenuti quaranta volte, e in nove occasioni neppure i sanitari del 118 hanno potuto salvare i feriti. Più sicure le strade di Padova, con 24 incidenti e sei decessi, ma la “maglia bianca” spetta a Vicenza, che in due mesi ha visto meno di venti sinistri, anche se in quattro casi sono risultati fatali. Superando i caselli, le tratte autostradali più a rischio sono quelle entro i confini di Venezia, dove si sono verificati 11 incidenti – e dove spesso si incolonnano anche le conseguenze degli schianti friulani, altrettanto frequenti – quindi le corsie scaligere, con sei episodi. Guardando all’anno precedente si nota un sensibile aggravio dei numeri proprio tra Rovigo e Belluno, che nel 2017 si mantenevano nell’ordine dei cinquanta incidenti anche tra maggio e giugno; i decessi, allora, erano stati nove nel Polesine e cinque tra i tornanti delle Alpi venete. Nel Veneziano la situazione sembra essere leggermente migliorata, visto che l’anno scorso si era sfiorata quota cinquanta sinistri, con 12 tragedie. A Padova gli scontri sono meno frequenti - nel 2017 erano stati più di 30 - ma la quota di decessi si è alzata di un punto. e se è vero che il Vicentino si pone al primo posto per la sicurezza stradale, anche lì il peggioramento è incontestabile: negli ultimi mesi si sono verificati sei incidenti in più rispetto allo stesso periodo dell’anno passato, i mortali sono aumentati da uno a quattro e sulle tratte autostradali, che nel 2017 non avevano visto sinistri di rilievo, ora si contano almeno quattro episodi che hanno pesato sulla circolazione. Facile puntare il dito contro ii camion: il transito di mezzi pesanti si intensifica in tutte le principali arterie regionali,ed è innegabile che, quando in un sinistro è coinvolto un tir, è molto probabile che le conseguenze per gli automobilisti travolti dallo schianto siano tremende, come dimostrano i casi più cruenti consumatisi nelle ultime otto settimane. Senza dimenticare gli episodi di sversamento, inevitabile conseguenza della sbandata di un’autocisterna che fa scattare l’allarme ambientale. Eppure la grande maggioranza degli incidenti - anche mortali - è da imputare all’abuso di alcol e alla distrazione, una lettura confermata dai tanti scontri serali e dai numerosi investimenti e fuoriuscite di strada autonome.

Pag 7 Io che aiuto i figli dell’Isis di Ivan Grozny Compasso Eleonora Biasi, 29 anni, trevigiana, parla cinque lingue e fa la volontaria in Iraq: “Curo i bimbi reietti nati dagli stupri”

Sono centinaia i ragazzini iracheni che portano il nome di Cristiano Ronaldo, in Iraq. All’inizio accadeva per necessità, oggi è diventata una moda molto diffusa. Molte delle giovani donne che sono state rapite e innumerevoli volte violentate dagli uomini di Daesh, sono diventate madri. Una volta finita la guerra le famiglie le hanno riprese, ma quasi sempre hanno respinto i loro figli. Questi piccoli innocenti sono stati così chiamati con nomi che non potessero essere messi in relazione con nessuna persona in particolare. Un fenomeno nato per necessità, oggi è diventato una moda. Eleonora Biasi, giunta fin qui da Treviso cinque anni fa come cooperante, conosce molto bene questa realtà. «Nei campi profughi l’unico passatempo è il calcio, tutti sono tifosi e non si parla d’altro. Le mamme ezide, soprattutto, danno ai bimbi il nome di Cristiano Ronaldo, o Leo Messi». Eleonora Biasi è nata a San Polo di Piave 29 anni fa e vive in Medio Oriente da 5 anni. E’ stata in Egitto, in Giordania, in l’Iraq, dove è capo missione per «Un Ponte Per...» (Upp), la Ong umanitaria presente in Iraq a supporto degli sfollati dal 1991. Eleonora coordina il personale, circa centosessanta persone, e il suo compito di fare da supervisore ai vari progetti umanitari. Solo dieci dei componenti lo staff sono italiani, perché la politica di «UPP» è di coinvolgere, formare e affidare i progetti a persone del posto. Eleonora parla cinque lingue e qualche dialetto dell’area. Deve comunicare, farsi capire dai capi tribù ai membri delle istituzioni, e allo stesso tempo deve lavorare con le persone che hanno subito i traumi di una guerra violenta e sanguinosa che ha lasciato vivi numerosi focolai. «Sono venuta qui perché volevo dare il mio piccolo contributo per risolvere tensioni e conflitti. Fin da piccola ero attratta da questa parte del mondo, una realtà che nonostante le difficoltà è molto accogliente e umana e ben disposta ad aiutare il prossimo – racconta - Da noi, in Italia o nella provincia di Treviso, spesso sembrano discorsi banali, scontati, ma viverli sulla propria pelle è molto diverso. Si impara tantissimo sia di sé stessi che dell’umanità». Le cose in Iraq sono migliorate nell’ottobre del 2016, quando l’Isis ha cominciato a perdere contemporaneamente su più fronti. In Siria, dalla Rojava gli uomini in nero sono stati quasi completamente scacciati e stanno ripiegando verso sud. Solo in Iraq del Nord, il Kurdistan iracheno, Isis non è riuscito a sfondare. Nel resto del Paese si sono consumati massacri e esodi di intere città e villaggi. Molto del lavoro Eleonora e lo staff di «UPP» è a fianco delle donne. A Qaraqosh, c’è una bambina che si chiama Cristina. E’ stata strappata alla sua famiglia quando aveva tre anni. «Isis l’ha venduta – racconta Eleonora tenendola in braccio – l’ha presa al mercato di Mosul una famiglia musulmana, l’hanno amata da subito, e appena finita la guerra hanno cominciato a cercare la sua famiglia d’origine. Infine grazie a un appello della madre hanno trovato i suoi genitori su youtube». Cristina non smette mai di sorridere e non lascia mai il suo I-pad. «Sapeva parlare solo arabo – spiega Eleonora -. Adesso si fa capire da tutti. Rapita da islamici, salvata da musulmani e restituita alla sua famiglia cristiana. Da queste storie deve ripartire l’Iraq». A Qaraqosh, sempre in Iraq, paese a maggioranza cristiana, le chiese sono state tutte saccheggiate e violate. Pareti imbrattate con la vernice, decorazioni sfregiate, crocifissi distrutti, altari bruciati. Nel cortile del convento, Daesh costringeva i bambini a imparare a sparare con i kalashnikov. Basta guardare dove sono posizionati le centinaia di buchi delle pareti crivellate. I segni dei colpi sono tutti ad «altezza bambino». Il custode della chiesa spiega ad Eleonora che tutti i libri sono stati bruciati. «Ora la chiesa è sempre piena, ci viene più gente adesso che in passato. Ci vengono anche tantissimi musulmani in segno di vicinanza e solidarietà – racconta ancora Eleonora -. Anche questa è una reazione a ciò che è successo a causa di Daesh. La gente è stanca, anche il Ramadan è stato soft, formalmente erano tutti a digiuno ma abbiamo il sospetto che siano state salvate solo le apparenze». Ancora difficile la situazione a Mosul, dove l’odore acre di morte è costante: «C’è un solo obitorio in tutta Mosul – spiega la trevigiana - la maggior parte dei cadaveri o finisce nel Tigri o brucia da qualche parte». I cartelli che invitano alla prudenza e indicano le tipologie di pericolo sono numerosi, ma non sempre bastano. Nei sotterranei di una chiesa ci sono degli attrezzi di ferro, cavi elettrici, un palo posto verticalmente con degli anelli di cuoio. Qui si consumavano torture. Daesh qui imponeva col terrore la propria assurda legge. Ci sono ancora le scritte sui muri delle case dei «miscredenti». In un palazzo, il più alto della città vecchia, venivano lanciati giovani con la sola «colpa» di essere omosessuali. La gente di sotto veniva radunata e costretta a guardare. Un medico di Mosul che è stato obbligato a lavorare sotto Daesh racconta: «Hanno subito preso il controllo dell’ospedale e imposto a tutti di lavorare per loro. Chi si è ribellato è stato giustiziato di fronte a noi colleghi – racconta a Eleonora - Sapevano solo dare ordini. Lo facevano in inglese. Non ho mai sentito parlare in arabo gli uomini di Daesh, solo e sempre inglese», spiega il dottore non nascondendo l’amarezza. «Hanno distrutto tutto prima di andare via. Hanno mandato tutto in pezzi». Noi ce ne andiamo, Eleonora resta. Da Treviso all’Iraq. Questa ora è casa sua.

IL GAZZETTINO di domenica 24 giugno 2018 Pag 13 Biotestamento, una partenza in salita di Raffaella Ianuale e Massimo Rossignati A cinque mesi dall’entrata in vigore della legge non si sa quanti sono gli atti: manca un registro. In Veneto il primato va a Venezia

Venezia. Tutti i Comuni dovrebbero essersi attrezzati per accettare i biotestamenti, ma i numeri sono ancora contenuti. Un po' per mancanza di informazione, un po' perché non esiste un reale collegamento tra le disposizioni del paziente e le aziende sanitarie. Quindi in mancanza di una persona di fiducia che vada a recuperare l'atto sottoscritto all'ufficio di Stato civile del Comune di residenza, la volontà del paziente rischia di rimanere ignorata dai medici. «L'utilizzo degli uffici comunali per depositare il testamento biologico dovrebbe essere solo un passaggio transitorio in attesa che le disposizioni anticipate di trattamento vengano inserite nel fascicolo sanitario elettronico di ogni persona» spiega Cristiano Samueli, medico di medicina generale a Venezia e presidente nazionale di Aidef, l'Associazione italiana per le decisioni del fine vita. Inoltre non è ancora stato istituito un registro informatico nazionale, e prima ancora regionale, che contenga tutte le disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Quindi se ad una persona succede un malore improvviso che lo rende incapace di decidere, i medici non sapranno che ha sottoscritto un biotestamento se qualche conoscente o familiare non glielo comunica. A cinque mesi quindi dall'approvazione in Parlamento della storica legge che consente di esprimere le proprie volontà sulle cure, mancano dei passaggi importanti. LA LEGGE - «La legge è ottima, la più avanzata d'Europa sul fine vita in quanto mantiene un giusto equilibrio tra la volontà delle persone e la deontologia dei medici. Si è discusso a lungo prima di approvarla e il caso di Eluana Englaro ha dato una spinta importante» premette Samueli. Dopo un dibattito parlamentare che ha coinvolto tre legislature la legge 219 del 22 dicembre 2017 - Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento - è entrata in vigore il 31 gennaio scorso. Prevede che si possa sottoscrivere quello che comunemente viene chiamato biotestamento, anche se la corretta dicitura è Dat, cioè disposizioni anticipate di trattamento. Per farlo basta recarsi all'ufficio di Stato civile del proprio Comune e fare una scrittura privata da annotare nell'apposito registro. «Tutti i Comuni dovrebbero aver attivato il registro dei testamenti biologici, perché è previsto da una legge dello Stato - spiega Maria Rosa Pavanello, presidente veneta dell'Anci e sindaco a Mirano nel Veneziano - prima dell'entrata in vigore della norma, i Comuni che si erano già mossi su questo fronte lo avevano fatto ricorrendo ai notai che attestavano la sottoscrizione. Ora questa figura non è più necessaria». La legge non ha nulla a che vedere con l'eutanasia che c'è in Olanda, Belgio e Svizzera, riguarda il malato inguaribile e prevede la pianificazione condivisa per le cure. Non ammette l'obiezione di coscienza del medico, quindi il personale sanitario deve rispettare la volontà del paziente ed è esente da conseguenze legali. È stata introdotta l'etica dell'accompagnamento, ma uno può anche decidere di non volere trasfusioni e qui si apre tutto il capitolo non risolto dei Testimoni di Geova. Così come è controversa la figura del fiduciario, scelto da chi sottoscrive il testamento, che pure non essendo obbligatorio viene richiesto da alcuni Comuni. I NUMERI - Sapere quanti hanno sottoscritto le disposizioni anticipate di trattamento non è possibile. «Manca un registro informatico nazionale e anche regionale - spiega Samueli - il Comune di Venezia ne ha fatto richiesta alla Regione Veneto lo scorso 6 febbraio e attende ancora risposta». Quindi se si vuole sapere quanti sono i biotestamenti non rimane che chiamare i singoli Comuni, cosa che abbiamo fatto per le province venete. In Veneto il primato va a Venezia, che su questo fronte si era attivata già nel 2013, e ha raccolto 553 Dat, seguita da Padova con 218 sottoscrizioni, Treviso 160, Vicenza 153, Verona 151 e i due fanalini di coda di Rovigo (18) e Belluno (14). Questi ultimi vengono abbondantemente superati da Comuni più piccoli come ad esempio Spinea e Mirano rispettivamente a quota 80 e 40. A livello nazionale spicca Milano che ne ha raccolti 1816, seguita da Torino ferma a 948. «Serve più informazione e coinvolgimento dei medici di famiglia - conclude Samueli - ci auspichiamo che i prossimi passaggi prevedano l'inserimento delle disposizioni del paziente nelle cartelle sanitarie elettroniche. Esistono dei vincoli legati alla privacy, ma speriamo vengano superati e si faccia una cosa analoga a quanto già esiste per la donazione degli organi».

Nel Veronese il primo caso di applicazione del biotestamento è stato quello di Giovanni Francesco Carmagnani, 75 enne di Legnago che, il 15 febbraio di quest’anno, ha scelto la sedazione profonda e la sospensione delle cure per potersene andare in serenità dopo una lunga malattia che da anni lo tormentava. LA MALATTIA - Carmagnani, ex consigliere comunale di Legnago, titolare di un’agenzia Siae in paese per anni, era gravemente ammalato dal 2002 e, prima di venir ospitato alla casa di riposo, era anche stato assistito per qualche anno in una struttura per malati terminali in provincia di Rovigo. A rendere pubblica la sua scelta, primo caso ufficiale in cui un veronese ha deciso di spegnersi attraverso la sedazione profonda e la sospensione delle terapie, sono state le figlie. Il padre è stato uno dei primi ad iscriversi nel Veronese nell’anagrafe sul biotestamento, la Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento). LA SCELTA - Tanto che nella sua scelta, all’epoca anche difficile burocraticamente visto che la legge sulla morte assistita è entrata in vigore solo il 31 gennaio, è stato assistito nell’iter dall’associazione Luca Coscioni, di cui è tesoriere Marco Cappato, ora a processo per il caso Dj Fabo (spentosi in Svizzera dove è stato accompagnato da Coscioni) per far valere la sua scelta di interrompere le cure. IL PRIMO CASO - Alla fine, Carmagnani è stato il primo iscritto nell’anagrafe per la Dat del Comune di Legnago, ed il 15 febbraio scorso un addetto dello Stato civile dell’amministrazione legnaghese ha consegnato a Carmagnani, ai suoi famigliari ed ai medici che lo avevano in cura alla casa di riposo, l’autorizzazione al trattamento finale. Poche ore dopo le cure sono state sospese ed a Giovanni Francesco Carmagnani è stata somministrata la sedazione profonda con la quale si è addormentato per sempre.

IL GAZZETTINO di sabato 23 giugno 2018 Pag 3 Nordest, 14mila bambini a settembre via dagli asili di Raffaella Ianuale I piccoli non immunizzati di Veneto e Friuli. Dall’epatite al morbillo: la prevenzione è decisiva

Venezia. In questi giorni stanno facendo gli ultimi aggiornamenti, ma i numeri non dovrebbero distanziarsi di molto da quelli dello scorso mese di maggio, quando la Regione Veneto ha presentato l'ultimo report sulla situazione vaccinale in Veneto. Dall'anagrafe dei vaccini di cui è dotato il Veneto emergevano 21.424 minori tra 0 e 16 anni completamente scoperti, dei quali 8.900 nella fascia 0-6. Questi ultimi a settembre non verranno accolti in nidi e scuole dell'infanzia, mentre per le famiglie degli studenti che frequentano le scuole dell'obbligo sono in arrivo le sanzioni da 100 a 500 euro. Se si considerano gli inadempienti parziali lo spettro si allarga a 86.963 under 16, dei quali 22.591 tra 0 e 6 anni. «Finora non sono state fatte sanzioni, stiamo elaborando una procedura concordata tra tutte le Regioni italiane, si tratta di un documento tecnico che permetterà di procedere in modo omogeneo» spiega Francesca Russo, responsabile del settore prevenzione della Regione Veneto. Analoga la situazione in Friuli Venezia Giulia dove sono quasi cinquemila i bimbi da 0 a 6 anni non ancora vaccinati. Esclusioni e sanzioni previste dalla legge dell'ex-ministro Beatrice Lorenzin. Considerato poi che ci sono state le elezioni politiche e il cambio del governo, le famiglie no-vax sono rimaste in attesa di sviluppi. LE ULTIME NOVITÀ - Sviluppi che non si sono fatti attendere. È di ieri l'uscita del ministro Matteo Salvini che sul fronte vaccini ha detto «garantisco l'impegno preso in campagna elettorale nel permettere che tutti i bimbi entrino in classe e vadano a scuola», perché «la priorità è che i bimbi non vengano espulsi dalle classi» anche se non vaccinati. Ma non si è fermato a questo. «Ritengo - ha aggiunto - che dieci vaccini obbligatori siano inutili e in parecchi casi pericolosi se non dannosi». LE REAZIONI - Parole che hanno fatto fare un salto sulla seggiola a medici e ricercatori riuniti ieri a Roma proprio in una convention sulle vaccinazioni. Presente l'Istituto superiore della sanità e le maggiori società scientifiche. «Siamo tutti sconcertati» ha detto Bruno Ruffato, segretario Veneto della Fimp, Federazioni italiana dei medici pediatri, presente al convegno nella capitale. «Vuol dire mettere in discussione quanto fatto finora, non si può dare questo messaggio - prosegue Ruffato - è privo di fondamento scientifico, crea confusione alle famiglie e mette a rischio il grande lavoro di squadra fatto da pediatri e medici di famiglia». Ma quelle stesse parole del vicepremier sono state abbracciate dal Corvelva, il Coordinamento veneto per la libertà vaccinale. Convinto che il modello veneto, precedente all'entrata in vigore della legge Lorenzin, fosse l'optimum. «Stiamo presentando una proposta di legge di iniziativa popolare affinché il sistema veneto, basato sulla volontarietà, venga adottato a livello nazionale. Il 26 giugno la depositeremo a Roma in cassazione» dice il portavoce Mattia Marchi. Mentre per l'Istituto superiore della sanità «nel caso in cui si fermassero i programmi vaccinali in breve tempo comparirebbero di nuovo malattie diventate poco frequenti, come la difterite, la pertosse, il morbillo, la parotite che possono essere mortali».

Il decreto Lorenzin impedisce l'iscrizione a scuole materne ed asili nido ai bambini non vaccinati e prevede multe per i genitori che iscriveranno i loro figli non vaccinati alla scuola dell'obbligo (dalla primaria alle superiori, sino ai 16 anni). Ecco i 10 vaccini obbligatori. ANTI-POLIO - La poliomielite è stata la malattia infantile più temuta del XX secolo. In caso di paralisi del diaframma, essa può condurre alla morte per soffocamento. Dopo l'introduzione della vaccinazione, in Italia la malattia subì una notevole riduzione fino alla scomparsa all'inizio degli anni Ottanta. ANTI-DIFTERICA - A fine Ottocento causava molte vittime, soprattutto fra i bambini. Sei malati su dieci morivano di soffocamento poiché il morbo attacca la gola. Alla fine del 1800 si curò il primo bambino dalla difterite mediante vaccino. ANTI-TETANICA - Il tetano colpisce i muscoli e i nervi dell'organismo. Ne è causa una neurotossina prodotta da un batterio (Clostridium tetani). Il contagio avviene generalmente quando una ferita della pelle viene contaminata dal batterio che spesso si trova nel terreno. Ogni anno nel nostro Paese vi sono ancora circa 100 morti di tetano. ANTI-EPATITE B - L'HBV, causa dell'epatite B, è il primo virus per il quale è stata dimostrata una chiara correlazione con lo sviluppo di una forma tumorale al fegato: il vaccino quindi previene il tumore. L'epatite B, è trasmessa da contatti con sangue e fluidi corporei infetti. ANTI-PERTOSSE - Circa 16 milioni di persone nel mondo siano infettate ogni anno. Nel 2015, la pertosse ha causato 61.000 decessi, in calo dai 138.000 decessi registrati nel 1990. È una malattia infettiva batterica altamente contagiosa. ANTIINFLUENZAE TIPO B - L'Haemophilus influenzae di tipo b (Hib) è un batterio che causa infezioni spesso gravi, soprattutto sotto i 5 anni. Abitualmente, l'Hib dà una malattia simile all'influenza, che si risolve nel giro di qualche giorno. In alcuni casi, invece, l'infezione può evolvere in forme gravi dette forme invasive: meningite, epiglottite, polmonite, artrite, osteomielite. ANTI-MORBILLO - Il morbillo è una malattia infettiva virale. Colpisce spesso i bambini tra 1 e 3 anni. È una delle più frequenti febbri eruttive (piccoli punti rosso vivo sulla pelle), molto meno comune da quando c'è la vaccinazione. Il morbillo è responsabile di un numero compreso tra le 30 e le 100 morti ogni 100.000 persone colpite. ANTI-ROSOLIA - La rosolia è una malattia infettiva virale, si manifesta con un'eruzione cutanea simile a quelle del morbillo o della scarlattina. Di solito benigna per i bambini, diventa pericolosa durante la gravidanza perché può portare gravi conseguenze al feto, morte intra-uterina o gravi malformazioni fetali: difetti della vista, sordità, malformazioni cardiache e ritardo mentale nel neonato. ANTI-PAROTITE - La parotite, conosciuta anche con il più popolare orecchioni, è una malattia infettiva acuta molto contagiosa. Nei bambini la malattia si risolve in pochi giorni nella maggior parte dei casi. Tra le complicazioni descritte vi sono encefaliti (0,02- 0,3%), meningiti (0,5-15%), pancreatite (4%) e danni all'udito. Nei bambini, in 5 casi ogni 100.000 di malattia, la parotite causa perdita dell'udito. Negli adulti le complicanze sono più frequenti. Nel 20-30% dei maschi dopo la pubertà si ha l'insorgenza dell'orchite, caratterizzata dal gonfiore di uno o di entrambi i testicoli. Può causare sterilità. ANTI-VARICELLA - La varicella è una malattia infettiva altamente contagiosa. Se viene contratta da una donna nei primi due trimestri di gestazione può trasmettersi al feto, causando una embriopatia.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 23 giugno 2018 Pag 5 Governo e Regione, nasce l’asse a favore delle chiusure domenicali di Giacomo Costa Marcato a Di Maio: “La nostra proposta dal tavolo etico”, contrari i consumatori

Venezia. «Ho chiesto un incontro al ministro Di Maio, per condividere con lui questa battaglia di civiltà. Chiederò una gestione su base regionale e la chiusura durante tutte le festività. Poi, se fosse per me, pretenderei le saracinesche abbassate ogni domenica». Roberto Marcato, assessore al Commercio della giunta Zaia, non ha aspettato troppo per cogliere l’assist del nuovo governo, che con la voce del vicepremier pentastellato ha suggerito la possibilità di mettere un freno alle aperture domenicali e festive, liberalizzate dal governo Monti. Un’idea su cui il Veneto lavorava con ampio anticipo, «insieme alle organizzazioni di categoria del settore, le sigle sindacali, i comitati e i movimenti locali», come ricorda lo stesso Marcato. All’inizio dello scorso anno la Regione ha istituito il tavolo etico per le aperture domenicali che in questi mesi ha concordato una proposta che parte dalla chiusura tassativa durante tutte le principali festività nazionali - i cosiddetti 12 «superfestivi» in cui si ritrovano Natale, Pasqua, Primo Maggio e 25 Aprile - ma che soprattutto vorrebbe rimettere in mano a palazzo Balbi le deroghe per eventuali aperture. «Con il ministro del Lavoro voglio anche parlare della specificità della nostra Regione: qui il 90 per cento delle aziende è a conduzione familiare, con meno di 10 dipendenti. Come possono competere con il turnover di chi conta centinaia di lavoratori?». Proprio di libera concorrenza parla Federdistribuzione nel difendere la misura firmata dall’esecutivo Monti: «La discrezionalità locale aveva portato a situazioni assurde, con centri commerciali separati da poche centinaia di metri costretti a norme differenti a causa del confine comunale - ricorda Pierluigi Albanese, responsabile regionale - Non dimentichiamo poi che con le liberalizzazioni sono arrivati 4000 posti di lavoro». Secca la replica di Confesercenti: «È davvero questo il lavoro che vogliamo, part time da sei euro all’ora? - domanda la presidente Cristina Giussani - è un ricatto inaccettabile da parte della grande distribuzione». Anche Confcommercio la pensa alla stessa maniera, e porta altri numeri per sostenere la sua tesi: «Le aperture non hanno fatto crescere i fatturati delle imprese, né hanno portato occupazione – spiega il presidente Massimo Zanon – nel migliore dei casi si è aperto uno scenario precario, con meno ore globali lavorate. Le 74mila piccole e medie imprese commerciali che hanno chiuso i battenti solo tre anni dopo l’entrata in vigore delle liberalizzazioni parlano chiaro». La svalutazione del lavoro è citata anche dala direzione dei supermercati Sme, che punta il dito contro i sindacati: «Le sigle hanno accettato di equiparare il lavoro domenicale a quello feriale. Noi abbiamo fatto i nostri conti, preferiamo restare chiusi la domenica e pure in pausa pranzo, così nel periodo natalizio, quando le aperture straordinarie servono anche a noi, possiamo pagare i nostri dipendenti il 50 per cento in più». Eppure oggi anche i sindacati chiedono una «rendicontazione del Salva Italia», come suggerisce Maurizia Rizzo, di Fisasca Cisl: «Almeno i superfestivi devono vedere una chiusura netta, magari anche metà delle domeniche: Ma si potrebbe pensare anche ad un sistema di turnazione, come le farmacie». Un’idea che potrebbe trovare l’approvazione anche di qualche marchio, come Despar: «Noi ci adegueremo a quello che deciderà il governo - assicura l’ad Francesco Montalvo - ma alcuni nostri punti vendita segnano il 12 per cento del fatturato settimanale la domenica, quindi un compromesso sarebbe la soluzione migliore». Restano contrari i rappresentanti degli acquirenti, ormai più che abituati alla spesa domenicale: «Se i dipendenti sono d’accordo è giusto restare aperti - insiste Antonio Tognoni, dell’Unione Nazionale Consumatori - Trovare il giusto equilibrio nei turni è una responsabilità dei datori di lavoro». A loro sembra rispondere don Enrico Torta, parroco di Dese (Venezia) da sempre voce dei movimenti contrari alle aperture: «Non possiamo essere sempre concentrati sul lavoro, come bulloni in un ingranaggio. Serve il tempo per la famiglia, per la riflessione. E per pregare Dio».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La guerra (inutile) con Parigi di Aldo Cazzullo Apparenza e realtà

I leader politici di Italia e Francia non si erano trattati così male neppure quando si facevano la guerra. La dichiarazione del 10 giugno 1940 fu consegnata anzi in un clima quasi amichevole, con l’ambasciatore André François-Poncet che con preveggenza ammonisce Ciano: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi». Oggi il presidente francese parla di «lebbra populista» a proposito dell’Italia, e i due vicepremier lo attaccano tutti i giorni: per Di Maio è «il nemico numero uno» del nostro Paese, per Salvini è un «arrogante che beve troppo champagne». E’ evidente: più Emmanuel Macron attacca il capo della Lega, più lo rafforza, almeno in Italia. Siccome «Manu» (ma guai a chiamarlo così in pubblico, vi rimprovererebbe con durezza come ha fatto con un ragazzino impertinente) è tutt’altro che uno sprovveduto, se insiste nel criticare Salvini è perché ha interesse a farlo. Macron i populisti li ha in casa; ma non sono loro a fargli paura. Anzi, ne ha bisogno, per mantenere la sua centralità ed essere rieletto. Sa che in un ballottaggio con Marine Le Pen (o con sua nipote Marion) vincerebbe grazie ai voti del centrosinistra, e in un ballottaggio con Mélenchon vincerebbe grazie ai voti del centrodestra. Il suo regno sarebbe in pericolo se emergesse - più facilmente in campo neogollista che in quello socialista - una personalità credibile; che però all’orizzonte non si vede. Il macronismo è invece isolato in Europa, dove - tranne forse lo spagnolo Sánchez, che però è un premier a tempo - non ha sponde per il suo disegno europeista. Ma la guerra di carta con il presidente francese, per quanto inutile e controproducente, non deve ingannare. Il bersaglio grosso di Salvini non è Macron; è Angela Merkel. Ovviamente non può farla cadere lui; ma ha simpatia per tutti quelli che - da Trump a Putin, dal gruppo di Visegrád al ministro dell’Interno tedesco Seehofer - la vorrebbero vedere nella polvere. Purtroppo gli amici di Salvini hanno interessi antitetici a quelli dell’Italia. Seehofer e i bavaresi, proprio come l’austriaco Kurz e i governi di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava, non soltanto non intendono ospitare la loro quota di migranti, ma vorrebbero rispedirci quelli sbarcati sulle nostre coste che sono riusciti ad andare altrove. A parole sono ovviamente tutti d’accordo nel voler combattere gli scafisti; a tremila chilometri di distanza, però. Per questo il compito di Conte, nel pre-vertice di Bruxelles e nel consiglio europeo di giovedì e venerdì, è tanto difficile; anche se ieri sera il presidente del Consiglio appariva abbastanza soddisfatto, o comunque più di Macron. Ormai è chiaro, al di là delle rassicurazioni verbali partorite da ogni riunione, che l’Europa rischia di saltare non su Maastricht ma su Schengen, non sull’euro ma sui migranti. Del resto il principio di libera circolazione delle persone fu pensato per permettere a ogni cittadino dell’Unione di studiare e lavorare negli altri Paesi come se fosse a casa; non per consentire agli immigrati africani di approdare - grazie a un traffico gestito da criminali - in un’isoletta in mezzo al Mediterraneo e proclamare «siamo in Europa e non potete più mandarci via». L’Europa ha il dovere di salvare le vite e accogliere i profughi, andando se necessario a prenderli nei loro Paesi, e ha il diritto di respingere i flussi che valuta di non poter integrare. Finora, però, la questione è stata trattata come un affare interno ai vari Paesi; e il gruppo di Visegrád intende continuare così. Altro che asse con Roma. Il governo italiano fa bene a rintuzzare gli attacchi irrispettosi delle libere scelte degli elettori, e a far notare a Macron l’atteggiamento francese sulla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, rigido al limite della crudeltà. Ma, anziché inasprire il rapporto con un alleato storico da cui non potremmo comunque prescindere, considerato quanto sono intrecciate le due economie, il governo dovrebbe guardarsi dai falsi amici. E sbaglierebbe a ritirarsi sdegnosamente dalla scena europea. La politica della sedia vuota storicamente non ha mai pagato; soprattutto se la sedia vuota è quella di un Paese come l’Italia, che non è una grande potenza ma può avere un ruolo cruciale proprio in virtù delle sue capacità di mediazione. La Cancelliera non riscuote le nostre simpatie; in questo momento resta però il miglior interlocutore che possiamo avere in Germania. I suoi successori potrebbero farla rimpiangere.

Pag 1 La storia che ci lega all’Europa di Sabino Cassese Timori e interessi

Sono molte le decisioni importanti, di breve periodo e di lungo periodo, che vanno prese in Europa. Quelle che riguardano le migrazioni, dal pagamento promesso alla Turchia ai respingimenti, dal meccanismo di solidarietà alle rilocalizzazioni. Quelle riguardanti il bilancio europeo, la trasformazione del Meccanismo di stabilità in un Fondo in grado di intervenire in situazioni di crisi dei debiti sovrani, il rispetto da parte italiana degli obblighi di bilancio assunti per la partecipazione all’eurozona. Quelle attinenti al completamento dell’Unione bancaria. Su tutti questi temi è bene che l’Italia faccia sentire la sua opinione, ma è sbagliato assumere toni guerreschi, come se l’Unione fosse un nemico dal quale difendersi o da tenere sotto controllo. Fare proposte e tenere una linea dura può servire, ma non serve mettere l’Unione in stato di accusa. Si corre il pericolo di delegittimare l’Unione proprio nel momento in cui è utile restare uniti per essere ascoltati dall’Onu, dall’organizzazione dei rifugiati, dall’organizzazione internazionale per le migrazioni, perché il fenomeno migratorio riguarda tutti i continenti, è problema mondiale e non può essere affrontato dalla sola Unione Europea. A questo si aggiunge che noi abbiamo bisogno dell’Unione Europea. Essa ha assicurato sessanta anni di pace dopo due guerre mondiali che hanno prodotto immense distruzioni e circa 60 milioni di morti, e può ancora evitare che rinascano i demoni delle divisioni che provocarono quelle distruzioni e quei morti. Ha consentito a piccole nazioni, come quella italiana, di avere un posto nel mondo, dove sarebbe rimasta inascoltata da potenze demograficamente, economicamente e militarmente tanto più grandi. Ha anche agevolato l’introduzione di leggi moderne, come quella ambientale, che non saremmo riusciti, da soli, ad adottare in breve tempo. Il fatto che l’Europa conviene non vuol dire che dobbiamo accettare passivamente le decisioni europee. Dobbiamo far valere l’interesse nazionale, ma senza dimenticare che c’è un interesse comune più importante, che non va perduto di vista. Anche perché l’Unione è andata molto più avanti di quel che i suoi fondatori speravano e si trova ora a un tornante importante nel quale non deve mancare la capacità di diagnosi e di progettazione dei Paesi fondatori, come l’Italia. Far la voce grossa a Bruxelles, con un occhio all’elettorato italiano, cercando di suscitare o di alimentare paure o di far rivivere orgogli nazionalisti è miope, specialmente se i crociati della guerra all’Europa chiedono a essa quella solidarietà verso l’Italia che essi stessi, su territorio italiano, hanno negato alle regioni del Sud, promuovendo e sostenendo i due referendum, quello lombardo e quello veneto, con i quali chiedevano di assegnare a quelle regioni quello che esse hanno dato, così pareggiando i conti. Negoziamo, dunque, proponendo, piuttosto che alzando la voce e promuovendo sfiducia, e ricordando che è nell’interesse nazionale che l’Unione progredisca, divenga «sempre più unita», come è scritto all’inizio del Trattato sull’Unione Europea.

Pag 5 Perché l’Europa è ferma sui migranti di Ivo Caizzi e Marco Galluzzo Frontiere, hotspot, soldi: Unione spaccata sul tema riacceso dalla crisi tedesca e dal nuovo governo Conte

La crisi politica in Germania e il nuovo governo italiano hanno riportato con forza la «crisi dei migranti» al centro dell’agenda europea. Dalla riforma del regolamento di Dublino ai respingimenti, dalla gestione delle frontiere esterne agli hotspot per l’identificazione, l’Unione è disunita. Le posizioni tra i Paesi sono molto distanti: dopo le tensioni della scorsa settimana tra Italia e Francia sulla questione Aquarius, la Commissione ha convocato il vertice informale in corso a Bruxelles, per provare a riaprire il dialogo in vista del summit del 28-29 giugno. Intanto i numeri di sbarchi e richieste d’asilo, dopo il boom del 2015, sono molto diminuiti. Nel 2017 le applicazioni per ricevere protezione nei Paesi europei sono scese del 44% rispetto al 2016. In Italia dall’inizio del 2018 sono sbarcati poco più di 16 mila migranti, il 77% in meno dello stesso periodo di un anno fa.

I centri d’identificazione - Chi paga e dove farli In Africa o nella Ue? Il concetto di hotspot si riferisce a strutture allestite per identificare rapidamente, registrare, fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti. In Europa se ne parla almeno da tre anni, ma non si è mai proceduto a creare dei centri integrati, con personale europeo e nazionale e soprattutto non sono mai stati finanziati dalla Ue. Ora l’Italia chiede che vengano allestiti, con finanziamenti comunitari, nei Paesi di origine dei migranti o nei Paesi di transito, come Libia, Tunisia o Egitto. Francia e Spagna invece sono a favore di centri hotspot in territorio europeo. I Paesi di Visegrád ne vorrebbero creare almeno un paio nei Balcani. I migranti dovrebbero essere trattenuti negli hotspot fino alla conclusione di tutte le operazioni di identificazione. Potrebbero partecipare all’organizzazione di nuovi centri di identificazione e smistamento anche tecnici di agenzie europee come Europol, Easo (l’Agenzia europea per il diritto d’asilo), Eurojust (per la cooperazione giudiziaria tra autorità nazionali) e Frontex (per la gestione delle frontiere esterne degli Stati dell’Ue).

Il regolamento di Dublino - Le responsabilità sulle richieste d’asilo In base al regolamento di Dublino, entrato in vigore nel 2014, l’esame delle richieste d’asilo dei migranti spetta al primo Paese di sbarco. Un migrante non può decidere in modo autonomo dove presentare richiesta di asilo politico e di protezione internazionale. Ovviamente di solito i Paesi coinvolti sono quelli che hanno i confini esterni della Ue, dalla Grecia all’Italia, dalla Spagna a quelli balcanici. Le regole di Dublino valgono solo per rifugiati, ma di fatto negli anni hanno influenzato anche la gestione dei migranti economici. Ora l’Italia chiede di trovare regole nuove, con un’assunzione collettiva di responsabilità da parte degli Stati della Ue, per tutti coloro che non sono rifugiati e che vengono salvati intorno ai confini marittimi degli Stati, come nel caso del Canale di Sicilia e della rotta che dalla Libia veicola migliaia di migranti verso l’Italia come primo approdo. Secondo le regole attuali un cittadino straniero che è entrato in maniera irregolare in Italia e che poi si è recato in Germania dove ha presentato richiesta di asilo dovrebbe, in teoria, essere trasferito in Italia.

Gli irregolari - Rimpatri inefficaci. Pochi, lenti e costosi I migranti per motivi economici, a differenza dei rifugiati in grado di appellarsi al diritto di asilo, risultano in situazione di illegalità e dovrebbero essere inviati di nuovo nei Paesi d’origine. Ma, secondo i dati dell’Ue, di fatto solo circa un terzo di loro viene davvero sottoposto al rimpatrio, che spesso avviene anche in tempi molto lunghi. Il problema principale è che molti Stati di origine dei migranti rifiutano di riaccogliere i loro connazionali trasferitisi illegalmente in Europa perché non hanno concluso specifici accordi con l’Unione Europea nel suo complesso o bilaterali. A volte è perfino difficile identificare la nazionalità, anche per l’interesse in questo senso di quanti provengono da Stati con situazioni interne che non consentirebbero di richiedere l’asilo. Alcuni Paesi di origine fanno ostruzionismo e di fatto non riconoscono quanto è risultato dalle identificazioni in Europa. Il costo di un rimpatrio è stimato tra 3 mila e 5 mila euro.

I confini esterni - Il rafforzamento dei controlli in mare Uno dei punti di consenso tra molti Paesi membri è il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dell’Ue per impedire l’accesso e perfino l’avvicinamento al territorio comunitario. I tre principali blocchi contrapposti – Italia e mediterranei, Germania e nordici, Paesi dell’Est – sembrano apprezzare molto questa soluzione. Da tempo si discute di potenziamento della missione Frontex con altre navi e con il dispiegamento di altri 10 mila agenti europei, che però aprirebbero un problema di riduzione della sovranità nazionale. L’obiettivo principale sarebbe scoraggiare e colpire i trafficanti di esseri umani. Ma le dimensioni del Mediterraneo centrale, da dove passano i flussi di africani diretti principalmente in Italia e Grecia, rendono comunque difficile un controllo capillare. Fondamentale sarebbe la collaborazione delle autorità di frontiera dei Paesi del Nord Africa. L’Italia ha già fornito mezzi navali e formazione professionale alla guarda costiera della Libia.

Gli aiuti alla Turchia - Chi è «protetto» dai fondi comuni Italia e Polonia hanno appena votato contro l’elargizione di una ulteriore rata da 500 milioni dei sei miliardi di fondi Ue per la Turchia, che in cambio si è impegnata a bloccare i rifugiati siriani e iracheni diretti principalmente in Germania tramite la rotta dei Balcani. Il voto a maggioranza ha reso inutile questa opposizione italo-polacca e l’esborso è stato approvato dagli altri Paesi membri su pressione di Berlino. Ma il problema politico resta una carta in mano al premier . I suoi predecessori Matteo Renzi e Paolo Gentiloni avevano preferito non andare allo scontro con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma è difficile accettare che ai cittadini italiani e degli altri Paesi membri sia stato imposto a super-velocità di pagare sei miliardi per risolvere un problema di flussi diretti in Germania, mentre a Bruxelles hanno finora rifiutato di investire somme simili nel Mediterraneo centrale per frenare gli arrivi in Italia e Grecia.

Pag 14 Ma il potere assoluto del Sultano è intaccato di Antonio Ferrari

Il presidente-sultano turco Recep Tayyip Erdogan sarà pure un personaggio controverso e discutibile, ma di sicuro non è uno sprovveduto. Quando ha deciso di chiamare gli elettori alle urne con un anno e mezzo di anticipo, sapeva benissimo di essere in grado di vincere, disponendo di tutti gli strumenti necessari, almeno le presidenziali. Sperava anche di farcela alle legislative. Gli è andata meno bene. Mentre scriviamo il partito di Demirtas, che ha guidato dal carcere la propria campagna elettorale, ha superato la barriera del 10%. Quindi l’eventuale potere assoluto del sultano sarà un po’ meno assoluto del previsto. La vittoria del presidente è innegabile ma in sostanza non è l’agognato trionfo. C’è però la conferma dell’affermazione, in numerosi Paesi del mondo, di autocrati che hanno un’idea assai poco ortodossa della democrazia. E che hanno assai scarso interesse per i diritti umani delle persone, al punto da fare l’occhiolino ad avventure dittatoriali, quantomeno para-dittatoriali. Il risultato delle elezioni turche di ieri è un interessante esempio di cosa possa essere una «democrazia dimezzata». Quando, con una tempestività sospetta, sono arrivati i risultati di un primo 20% di schede scrutinate, annunciando la «vittoria a valanga» del sultano, vittoria che sfiorava il 60% e che riempiva di orgoglio sostenitori e tifosi vecchi e nuovi, si imponeva l’obbligo della neutralità dei giornalisti, che dovrebbero essere semplicemente «osservatori professionali» della realtà. Ecco perché alcuni hanno cominciato a dubitare, grazie alla notizia che non si conoscevano ancora i risultati delle grandi città, dove più forte è da sempre il sostegno per i partiti laici e di sinistra. Infatti, appena sono cominciati ad affluire dati più attendibili, il sultano ha cominciato a ondulare poco oltre il 50% dei consensi, rischiando il ballottaggio di luglio. Già l’opposizione, che in realtà si è presentata con un cartello complessivo con l’obiettivo di fermare il sultano, denuncia brogli e manipolazioni. Al solito, forse, si vedrà.

Pag 30 I mutamenti della politica e la capacità di “difendere” di Mauro Magatti

A un mese dal suo insediamento, il «governo del cambiamento» gode, secondo i sondaggi, di un ampio consenso. Siamo in piena «luna di miele», dato che nella percezione dell’opinione pubblica sono ancora i sentimenti positivi legati alla speranza di avere un futuro migliore a prevalere. Col tempo, saranno poi i risultati effettivamente ottenuti a dire se si tratta di vero amore. Però intanto l’innamoramento c’è. Frutto del fascino che l’inversione di logica introdotta da Salvini e Di Maio produce su buona parte dell’elettorato. Che sia l’Europa accusata di lasciare sola l’Italia a gestire il flusso dei migranti; o che siano le piattaforme digitali colpevoli di aver precarizzato la vita dei giovani, il nuovo governo si avvantaggia della rifocalizzazione della propria azione: è identificando un nemico esterno che il governo si pone come difensore degli interessi degli italiani. E in particolare di quel «popolo» che lo ha votato. Si scopre così dove puntava quel processo di disintermediazione di cui si è tanto parlato negli anni del governo Renzi: finita l’epoca dei corpi intermedi, è direttamente alla politica che ci si rivolge per ottenere protezione nei confronti di quei processi (economici, sociali, culturali) sempre più violenti che incidono sulle vite individuali, specie tra chi appartiene ai gruppi più fragili. Qualche anno fa, il sociologo tedesco Ulrich Beck descriveva il processo che chiamava «individualizzazione» con queste parole: «oggi viviamo in un mondo in cui i singoli devono fabbricare, portare in scena e rammendare da sé le proprie biografie fatte a pezzi da fenomeni che non conoscono, né tanto meno controllano». La nuova offerta politica che si va affermando in tutto il mondo si propone come il soggetto capace di rispondere a questo abbandono. Contro il «buon senso» condiviso dalle élites. Non a caso le questioni su cui Salvini e Di Maio hanno deciso di concentrasi in queste prime settimane - Europa e lavoro - rappresentano punti di contatto sensibili tra due grandi questioni storiche e i destini personali di tanti italiani. Il nodo dell’Europa non può più aspettare di essere sciolto: o l’Unione diventa un mediatore politico capace di governare i processi che la attraversano o l’eventualità di una sua implosione diventerà a un certo punto ineluttabile. Limitarsi, come si è di continuo ripetuto, a chiamare in causa l’Europa come un vincolo esterno da cui non si può sfuggire - una specie di Moloch al quale offrire sacrifici - suona sempre meno tollerabile per gran parte dell’elettorato. Allo stesso modo, porre la questione del valore del lavoro nelle nostre società è una iniziativa tutt’altro che infondata: dopo decenni di lenta ma continua erosione delle tutele, sentire che un governo prende posizione in difesa di chi oggettivamente ne è privo, suona come una piccola rivoluzione. È però sulle conseguenze e le implicazioni di questo cambio di prospettiva che occorre riflettere. Il consenso di cui dispongono i nuovi attori politici è costruito convogliando i diffusi sentimenti negativi contro nemici esterni. Nulla di nuovo sotto il sole: quante volte ciò è accaduto nella storia? Il messaggio è chiaro e rassicurante: se si sta male è perché siamo sotto scacco. Così facendo, tutta l’attenzione viene dirottata verso entità esterne (culturali, istituzionali, economiche) col rischio di far dimenticare le inerzie e incapacità di cui è portatrice qualsiasi comunità politica. In fondo, dire che è tutta colpa dei migranti, dei rom, dell’Europa o delle piattaforme digitali può fare molto comodo, dato che permette di non mettersi in discussione né personalmente né socialmente. Il problema è che, così facendo, ci si mette su un piano inclinato: per tenere alto il livello del conflitto è infatti necessario forzare continuamente i toni dello scontro. Con parole sempre più crude e con azioni sempre più provocatorie. Non è forse questa la strategia di Trump (prima) e di Salvini (poi)? Il nemico va di continuo ricostituito. Ma ciò rischia di alimentare una vera e propria spirale che, a un certo punto, potrebbe anche sfuggire di mano. Tanto più se poi le soluzioni proposte (che suonano spesso arrischiate, anche perché rifiutano per principio buona parte delle conoscenze e delle competenze condivise) espongono al rischio di ingigantire i problemi. Come non temere che gli eventuali fallimenti possano condurre a una escalation dei toni, delle provocazioni, delle azioni? Critiche e preoccupazioni più che condivisibili. A condizione però di non sottovalutare il nodo che i rivolgimenti politici recenti hanno fatto emergere: dopo anni in cui l’indicazione era quella di adeguarsi agli standard dettati dalla globalizzazione, il nuovo discorso politico (non solo in Italia) prende partito per le «vittime» (per la verità coloro che riescono ad autodefinirsi tali) di processi che avvantaggiano ristretti gruppi di privilegiati. Si può convenire sul fatto che si tratta di una operazione efficace anche se molto rischiosa. Ma ciò non modifica la considerazione di fondo: sarà la capacità della politica di porsi a difesa delle proprie comunità il tema centrale degli anni a venire.

LA REPUBBLICA Pag 24 Il buio a sinistra di Stefano Folli

In una calda domenica d'estate segnata dal disinteresse di circa il 53 per cento degli elettori che hanno preferito andare al mare, il dato politico è uno: la sconfitta del Partito democratico. Si dirà che era attesa dopo il primo turno e tuttavia nella notte ha assunto proporzioni impreviste. In pratica la vecchia tradizione della Toscana "rossa" non esiste più: Pisa, Siena, Massa saranno governate da giunte di destra. E altrove non è meglio, salvo le eccezioni di Ancona, Brindisi, Teramo, del comune litoraneo di Fiumicino, dei municipi romani. Troppo poco per autorizzare anche solo un minimo di ottimismo. È buio pesto per un centrosinistra che non ha mai superato il trauma del 4 marzo e che è palesemente incapace di fronteggiare gli eventi. Sa solo scagliarsi a parole contro il fronte populista, ma senza elaborare una seria analisi circa le ragioni per cui l'Italia, un tempo il paese più europeista del continente, abbia dato una maggioranza schiacciante ai "sovranisti" euro-scettici, creando un laboratorio politico che sfugge a ogni paragone e non ha precedenti. È un fallimento conclamato a cui il gruppo dirigente per ora non sa reagire. La perdita delle città storiche è persino più grave della disfatta di marzo. Più grave perché intacca il rapporto antico con il territorio, anzi dimostra che una certa relazione sociale e culturale prima ancora che politica non esiste più. Né la destra oggi a guida leghista quasi ovunque (fa eccezione Imperia che si affida a Claudio Scajola e alla sua lista civica), né i Cinque Stelle che tutto sommato reggono la scena tranne che nei municipi della Capitale, vengono da Marte o si qualificano come i nuovi invasori Hyksos. Gli uni e gli altri rappresentano invece il frutto di un drammatico declino del centrosinistra. Senza dubbio tale declino è parte della sofferenza della sinistra quasi ovunque in Europa, ma sorprende che in Italia non sia mai cominciata una vera riflessione sulle cause, le responsabilità e - se ci sono - sulle vie d'uscita da una crisi che il voto amministrativo di ieri ha illustrato in tutta la sua vastità. Anche perché la maggioranza giallo-verde è uscita dalle urne senza quello squilibrio a vantaggio della Lega che minerebbe il patto di governo. Nel complesso, come si è detto, sia la destra sovranista sia i Cinque Stelle hanno ottenuto dei successi relativi a macchia di leopardo, da nord a sud. È chiaro che le tensioni nel governo Conte esistono e probabilmente sono destinate ad accentuarsi. Ma il voto di ieri è lungi dal costituire un detonatore. Al tempo stesso la frattura in Europa sull'immigrazione ha creato un fatto nuovo che potrebbe portare al disgregarsi dell' Unione come l'abbiamo conosciuta. Il vertice informale di Bruxelles ha mostrato al mondo le linee di questa rottura incombente. Ovvio che il governo giallo-verde ha tutto l'interesse a procedere compatto in tali frangenti. Si capisce allora come sia abbastanza fuori dalla realtà la speranza, coltivata da una parte del Pd, di un rovesciamento delle alleanze. Una grande operazione trasformista per cui i Cinque Stelle, o una larga parte di essi, abbandonano il destrorso Salvini per trovare rifugio in una nuova alleanza di governo. Il voto amministrativo non ha certo incoraggiato questa suggestione che sembra figlia di una frustrazione più che di un progetto lucido. Ancora una volta nel Pd, invece di porsi il problema di come ricostruire il centrosinistra, magari accantonando una sigla e dei contenuti ormai logori, si accarezza l' idea di una scorciatoia per tornare al potere grazie a una manovra parlamentare. Ma se il centrosinistra vorrà rientrare in gioco, dovrà prima adattarsi a una lunga marcia in mezzo alle intemperie.

IL GAZZETTINO Pag 1 Il populismo usato come alibi per non decidere di Alessandro Campi

Il fallimento (tanto temuto quanto largamente annunciato) del Consiglio europeo in programma giovedì e venerdì prossimi, in cui si dovrebbero discutere nuove regole e procedure in materia di immigrazione e accoglienza, fa temere anche per il futuro del processo di integrazione continentale. In effetti non si era mai registrato, tra i Paesi membri, un simile livello di scontro: tra incomprensioni, accuse e personalismi esasperati. Ma come si è arrivati al punto potenziale di rottura? Colpa di chi? L'Italia a guida grillino-leghista si trova sul banco degli imputati. Quelli utilizzati in particolare dal ministro degli interni Matteo Salvini sarebbero toni troppo polemici e aggressivi. Gli si imputa di essere in campagna elettorale permanente, avendo capito che l'esasperazione della tematica migratoria gli sta portando sempre più voti e consensi. Ma gli si addebita, insieme agli altri fautori della dottrina sovranista sparsi per il continente (da Orban alla Le Pen), anche un deliberato disegno disgregatore: paralizzare il funzionamento dell'Europa, sfruttando il momento oggettivamente difficile, sino a scardinarla dall'interno. Un bel favore fatto a Trump e Putin, di cui i populisti nostrani sarebbero pedine più o meno consapevoli. In realtà quello cui stiamo assistendo è un gioco drammatico, nel segno degli equivoci e dell'ipocrisia, in cui le buone ragioni dell'Italia si somma alle colpe politiche e alla cattiva coscienza degli altri attori coinvolti. Soprattutto di coloro che in questi giorni Macron in testa si vanno ergendo a custodi dei valori di umanità contro i barbari che avanzano: uno schema forse efficace sul piano mediatico- propagandistico, ma di dubbia utilità e largamente falso. Se oggi siamo in questa situazione, infatti, è anche perché si è destabilizzata la Libia, vitale per poter gestire e controllare i flussi migratori, con una guerra umanitaria dettata solo dall'ambizione fuori dalla storia della Francia a dettare legge in Africa: una responsabilità politica di cui l'attuale inquilino dell'Eliseo dovrebbe farsi carico invece di distribuire pagelle morali al prossimo. Se oggi si litiga sulla futura ripartizione dei profughi e dei richiedenti asilo che hanno come mèta dei loro viaggi della speranza l'Europa e non la sola Italia è anche perché le quote d'accoglienza a suo tempo concordate non sono state rispettate dai Paesi che avevano l'obbligo, politico e morale, di farlo. Possibile che da parte dell'Unione non sia potuto studiare sino ad oggi un meccanismo sanzionatorio che costringa ognuno a fare il proprio dovere? Se oggi l'Italia si muove in una maniera finalmente più decisa, anche se poco rispettosa dei protocolli diplomatici, è anche perché averla lasciata sola ad affrontare quattro anni di ondate migratorie, nonostante le continue richieste d'aiuto rivolte ai nostri partner, non è stata da parte di questi ultimi una scelta lungimirante. La vittoria dei populisti di cui oggi ci si lamenta, sino a definirla una pericolosa infezione, forse non ci sarebbe stata se gli altri Stati europei si fossero dimostrati a suo tempo più collaborativi e solidali. Con in più il paradosso di vedersi oggi accusati di mancanza di spirito umanitario e di egoismo da Paesi che a partire dalla Spagna già da anni hanno sigillato le loro frontiere marittime e terrestri. L'umanitarismo è spesso un sentimento peloso e strumentale. Ma se tutto ciò è vero, non si comprende l'atteggiamento di quei settori della stampa e della politica italiana che, pur di criticare l'attuale governo, si stanno spingendo sino ad auspicarne la messa in quarantena da parte degli altri Stati della Ue. Senza nemmeno chiedersi se le posizioni critiche dell'Italia, a partire dalla sua legittima pretesa di non essere trasformata in una sorta di piattaforma logistica piantata nel Mediterraneo nella quale dovrebbero confluire tutti i flussi migratori dall'Africa, non abbiano un fondamento di verità. Coloro che inneggiano all'europeismo di Macron e lo invocano come salvatore forestiero nella loro battaglia contro il virus populista forse dovrebbero anche chiedersi quanto le sue proposte (da ultimo quella di creare hotspot a gestione europea in territorio italiano) e il suo atteggiamento intransigente in materia di accoglienza entro in confini francesi siano in realtà penalizzanti per il nostro Paese e dettati da banali ragioni di realpolitica interna. Certa sinistra italiana sembra davvero afflitta dalla storica sindrome di Ludovico il Moro: ci si appella ad un potere straniero senza rendersi conto che ciò comporta non la sconfitta del proprio nemico interno (ieri Berlusconi, oggi l'alleanza giallo-verde) ma la subordinazione dell'intera Italia a interessi che non sono i suoi. Ciò detto, esasperare gli animi e accrescere le tensioni su una materia tanto delicata non serve a nessuno. L'immigrazione è una grande questione politica che può essere affrontata solo in una chiave europea. Se gli esponenti di punta dell'attuale governo (Salvini in testa) sbagliano nell'utilizzare parole che possono effettivamente creare, se mal interpretate, un sentimento collettivo di esasperazione e intolleranza, sbagliano soprattutto i nostri interlocutori europei nel non dare risposta alle legittime richieste del nostro Paese. Il problema, in questo momento, non è il populismo, ma l'Europa che usa il populismo come alibi per la propria l'impotenza decisionale e mancanza di una visione condivisa. È vero, come dimostrano le statistiche di Frontex, che rispetto allo scorso anno non siamo in presenza di un'emergenza migratoria. Nell'ultimo anno gli sbarchi si sono effettivamente ridotti in modo drastico. Ma se gli spostamenti di popolazione sono un fenomeno epocale e destinato a crescere bisognerebbe allora approfittare di questa situazione di relativa calma per approntare regole nuove e definire una nuova strategia comune in materia di immigrazione e accoglienza. Nelle condizioni di emergenza si decide sempre in modo contingente e occasionale, mai guardando i problemi in prospettiva. Che la situazione sia molto delicata e a rischio rottura lo ha ammesso, nell'intervista di ieri, anche il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. In questo momento sembrano prevalere le chiusure e gli irrigidimenti, a partire proprio da un'Italia intenzionata a farsi sentire dai suoi interlocutori diversamente che nel recente passato. Ma da europeista pragmatico Moavero ha anche suggerito una possibile via d'uscita. Basterebbe sedersi intorno ad un tavolo per valutare sul serio le proposte italiane, come quelle organicamente avanzate ieri, nel pre-vertice di Bruxelles, dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Discutere delle proposte non vuol dire accettarle in blocco. Ma sarebbe già un modo per uscire dall'impasse, basata su un malinteso senso dell'interesse nazionale spacciato per rispetto formalistico delle regole vigenti, nella quale ci si trova. Gli accordi di Dublino, che scaricano sul Paese di primo sbarco la verifica delle domande d'asilo e il dovere dell'accoglienza, sono evidentemente superati e inefficaci, visto come è cambiato nel frattempo il fenomeno migratorio e considerate le forme, ingovernabili soprattutto per l'Italia, che esso potrebbe assumere nell'immediato futuro. Chiedere oggi una responsabilità comune tra gli Stati europei sui naufraghi in mare, coinvolgendo negli sbarchi tutti i paesi che si affacciano nel Mediterraneo, chiedere di distinguere tra porto sicuro di sbarco e Stato competente a esaminare le richieste di asilo, chiedere infine la creazione di centri di accoglienza e verifica in territorio africano, arretrando così la linea geografica di controllo dei flussi, non è una provocazione populista. Ma il ragionevole punto di partenza di una trattativa diplomatica certamente complessa, ma il cui fallimento (sperando non ci sia) questa volta di certo non potrà essere imputato all'Italia.

Pag 9 Religione, economia e guerra ai jihadisti, la ricetta del “sultano” che non perde mai di Marco Ventura

Tanti nemici, tanto onore. Alla fine l'astro di Recep Tayyip Erdogan riesce a brillare anche dopo l'ultima chiamata alle urne, con la vittoria al primo turno, la maggioranza assoluta del consenso in patria e un controllo più stretto sul Parlamento grazie all'affermazione degli alleati. Ancora una volta le sirene del Sultano fanno piazza pulita di quanti azzardavano che l'astro nascente, stavolta, potesse essere Muharrem Ince, lo sfidante alla presidenza, fermo invece al 30. LA RIVOLUZIONE - Personalità carismatica quella di Erdogan, che strappando il potere ai militari nel 2002 riuscì nell'impresa di ribaltare l'impostazione laica dello Stato consegnato ai turchi dal Mustafa Kemal Atatürk, forma che pareva immutabile come le stagioni. Lui, Erdogan, la rivoluzionò presentandosi come il fustigatore dei costumi corrotti e della corruzione economica di un'intera classe dirigente. Emblematica la foto che lo ritrae appunto sedici anni fa con la famiglia: lui, la moglie velata e i quattro figli. Ritratto di un corso nuovo, in cui il velo non era più un tabù. Anzi. Una svolta religiosa, islamica, che ricollocava la Turchia, pilastro della Nato e ponte tra Est e Ovest, in una rete di relazioni internazionali cruciali nel mezzo di un'area turbolenta e pericolosa per la sicurezza del Mediterraneo e del mondo. Cominciava quindi un'altalena di rapporti a volte burrascosi poi di nuovo pacifici con Israele, altra potenza regionale. Fino al coinvolgimento nella guerra in Siria dove l'interesse di Erdogan e della Turchia, nella sua maggioranza musulmana, è quello di arginare le ricorrenti aspirazioni secessioniste dei curdi a cavallo di tutte le frontiere. Erdogan si allea con la Russia e lo storico nemico, l'Iran. Nel frattempo il suo punto di forza in patria, a parte il carisma, ha poco di spirituale e molto di concreto: con lui la Turchia rinasce economicamente e la sua crescita è inarrestabile. Complesso il rapporto con l'Unione Europea, che prima ne blocca il graduale ingresso nella UE, nonostante le aspettative, per volere della Francia. IL FRONTE INTERNO - Poi deve confrontarsi con la sua politica islamista e il polso duro con giornalisti, magistrati e militari. Erdogan procede con fermezza, riesce a cambiare la Costituzione e attribuirsi, con il consenso del popolo, poteri sempre maggiori. Accusato in un primo momento di non controllare a sufficienza la frontiera con la Siria, chiudendo un occhio al passaggio dei foreign fighter per affinità sunnite, eccolo poi schierarsi nettamente contro l'Isis e diventare bersaglio del terrorismo con attentati a Ankara e Istanbul. Prosegue la guerra con gli autonomisti curdi affiliati politicamente al PKK di Ocalan e disseminati in gruppi armati fino in Siria, alla conquista delle roccaforti guerrigliere in una campagna militare che rischia di rovinare la storica intesa con gli USA e l'alleanza con la Russia alleata di Assad (a sua volta alleato dei curdi). IL NEMICO - Tra i nemici la rete di Fetullah Gülen, religioso a capo di una multinazionale della cultura e della carità che sarebbe solo la copertura di un'azione capillare sovversiva e terroristica guidata dall'esilio negli USA e all'origine dell'ultimo golpe cui Erdogan non solo sopravvive ma dal quale esce rafforzato. La piazza lo sostiene e lui neutralizza tutti gli amici di Gülen nei gangli fondamentali della società e dello Stato. Giocava a calcio Erdogan da ragazzo, laurea in economia a Marmara e pallino della politica, il successo gli è arrivato col Partito del benessere di ispirazione religiosa. Sindaco di Istanbul, nel 98 viene incarcerato per aver declamato in pubblico i versi: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Molto poco Atatürk. Ma quando poi esce e rifonda il partito intitolandolo a Giustizia e Sviluppo, dal 2002 vince tutto. Diventa un campione della restaurazione religiosa e della modernizzazione in economia. Miscela vincente.

LA NUOVA Pag 1 Forza Italia lascia orfani i moderati di Francesco Jori

Smorza Italia. Rischia di dover cambiare la ragione sociale, l'ex rampante ditta di Arcore protagonista della roboante discesa in campo del 1994: se le idi di marzo dell'urna le hanno inflitto un bruciante sorpasso a opera dell'ex vassallo leghista, oggi i sondaggi le assegnano un inesorabile svuotamento del bacino di consensi. Con le meschine ricadute all'italiana: protagonisti grandi e piccoli che come nella miglior tradizione si preparano a lasciare la nave; feroci polemiche interne condite con i rituali scaricabarile. E con il paradosso, per il suo leader e fondatore, di ritrovarsi alla guida di un pugno di reduci, proprio ora che la sospirata riabilitazione politica lo rimette in gioco. Rischiando di finire in fuorigioco, e non solo per l'età. I numeri sono impietosi. Alle politiche 2008, il Pdl berlusco-centrico aveva portato a casa il 37 per cento; dieci anni dopo, la riedita Forza Italia è franata al 14. Oggi, gli aggiornamenti la vedono precipitare verso una malinconica percentuale a cifra unica. Nello stesso arco di tempo la Lega ha fatto il cammino inverso, salendo da una mono-cifra (8 per cento) al 17, e venendo ora valutata attorno al 28. Certo, con questi dati e con l'odierna legge elettorale, la coalizione di centrodestra supererebbe la fatidica quota 40 che le assegnerebbe il governo del Paese. Ma che peso avrebbe un partito ridotto a fare da comparsa? E soprattutto, esisterebbe ancora un blocco di centrodestra? Sono interrogativi che si ripropongono pari pari a Nordest, semmai in termini ancora più crudi. In Veneto, le politiche di marzo hanno sfornato un rapporto di 3 a 1 in favore della Lega, con Forza Italia riuscita solo con affanno a ottenere la doppia cifra (11 per cento). Brutale era stato il responso delle regionali 2015: 41 per cento all'abbinata Lega-Lista Zaia, appena il 6 ai forzisti. Le amministrative appena svolte hanno visto franare i "berluscones" veneti a quote che ricordano i partitini-satellite della prima Repubblica. Bis col botto in Friuli-Venezia Giulia: se ancora alle regionali 2013 Forza Italia aveva ottenuto più del doppio dei consensi della Lega, in quelle attuali il rapporto si è capovolto. E suonerebbe comica, se non fosse patetica, la smargiassata di alcuni (presunti) leader forzisti, i quali spiegano che senza di loro la coalizione non vince: la prossima volta, con questi dati, o scelgono di star fuori da soli, o ce li lasciano. C'è tuttavia un inquietante effetto collaterale: il rischio che l'elettorato moderato, pur sempre consistente, si ritrovi di fatto senza rappresentanza. Perché a ben vedere, pur invertendosi le gerarchie interne al centrodestra, la somma dei voti rimane più o meno la stessa; mentre lievita l'area dell'astensione, come segnalato tanto dalle politiche quanto dalle amministrative. Certo, a quest'ampio esodo di profughi dell'urna concorre per la propria quota-parte pure il centrosinistra. Ma è di tutta evidenza che l'apporto più consistente arriva dalla sponda opposta, e vede come protagonisti i tanti che non condividono il nuovo corso urla-e-getta di Salvini e la sua politica del Botto Continuo. Né basta come risposta alternativa, agli orfani della parte moderata, la stucchevole sequenza del monta-e-smonta attuata dalla pletora di partitini sedicenti centristi, condannati dai dati elettorali alla più anonima e implacabile marginalità. Rimane questa l'anomalia principale di un quadro politico contrassegnato da una devastante precarietà: l'incapacità dei partiti tradizionali di offrire una sponda a un elettorato potenziale che non si fa abbagliare dalle promesse né stordire dalle urla. «Così rinnovo Forza Italia», promette oggi dal sito internet azzurro il faccione sorridente del Cavaliere. Rischiando, come il proverbiale gatto del Cheshire, di svanire un po' alla volta. Lasciando a galleggiare nell'aria solo il sorriso.

Pag 5 I vescovi: non si può lasciare morire la gente in mare

Non si può rimanere indifferenti di fronte a persone che muoiono in mare: la Chiesa italiana invoca attenzione al dramma dei migranti. «Vorremmo che nessuno rimanga indifferente», scrive il Consiglio Pastorale Diocesano con l'arcivescovo di Milano Mario Delpini. Nel documento, si ricorda che la comunità internazionale non può «logorarsi in discussioni mentre uomini e donne, bambini e bambine muoiono in mare» e invita a onorare «la Costituzione e la tradizione del popolo italiano». A Torino, l'arcivescovo Cesare Nosiglia lancia un affondo contro «l'esplodere di polemiche». Il cardinale di Firenze Giuseppe Betori, dal canto suo, propone di promuovere politiche di sviluppo «nei paesi di partenza dei migranti: se ne accompagni l'accoglienza con percorsi di integrazione e non si mettano i poveri contro i poveri per propaganda». Il tema sarà al centro dell'udienza di martedì quando il Papa vedrà il presidente francese Emmanuel Macron, che visiterà anche la comunità di Sant'Egidio.

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CORRIERE DELLA SERA di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 E sul fisco tutti amici come prima di Ferruccio De Bortoli Evasione e condoni

In attesa di vivere una giornata senza dichiarazioni a effetto e proclami estemporanei, proviamo a riflettere sulla promessa fiscale di questo governo. Non tanto sulla sempre più incerta flat tax , quanto sulla cosiddetta pace fiscale. Ovvero il condono tombale per le cartelle esattoriali inferiori ai centomila euro. Nella sua bulimica narrazione quotidiana, il leader di fatto del governo legastellato Matteo Salvini promette un salutare, a suo giudizio, colpo di spugna per «liberare milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare, sorridere e pagare le tasse». In sintesi: versate una frazione del tributo, scordatevi sanzioni e interessi (quelli scontati dalle due rottamazioni in corso) e «amici come prima». Nulla di nuovo sotto il sole della Penisola, si potrebbe dire. Si ripete un copione già ampiamente recitato nella Prima e nella Seconda Repubblica. Sotto varie forme di raffinata fantasia. Il tutto per non chiamare il condono con il suo vero nome: Concordato di massa, scudo fiscale, voluntary disclosure e via di seguito. Sulle questioni tributarie si esercita il massimo dell’ipocrisia nazionale. Non c’è scampo. Ma in questo caso si registrerebbe uno scatto in più. Un gradino disceso lungo la scala invisibile che porta alla rottura del rapporto fra cittadino e Stato, fra individuo e comunità. La dichiarazione di Salvini suona come un’assoluzione generale, un condono morale per tutti i ritardatari delle tasse. Vittime di un sistema spietato e disumano che li ha portati sull’orlo del fallimento. Oggi finalmente liberati dal giogo crudele di uno Stato oppressivo. Non stentiamo a credere che non siano pochi i contribuenti nell’impossibilità reale di far fronte ai propri obblighi, in particolare quelli che non sono stati pagati, o pagati in forte ritardo, dallo stesso Stato. Siamo convinti da anni che la tassazione sul lavoro sia eccessiva e ingiusta; il groviglio degli adempimenti infernale. L’effetto della doppia recessione è stato devastante per tanti contribuenti. La necessità di affrontare ed eliminare le scorie, in qualche caso le macerie della crisi, improrogabile. Una stagione di comprensione, e persino di indulgenza, nei confronti di molti contribuenti, benvenuta. Ma che tutti, proprio tutti, siano degli angioletti innocenti e che l’evasione riguardi soltanto i grandi patrimoni, le multinazionali e quel coacervo indistinto di poteri forti, è una interpretazione un po’ esagerata. Chi può muovere con facilità i capitali e spostare residenze paga molto poco. Uno scandalo. Ma se è davvero così, perché il governo non pensa a una patrimoniale? Sarebbe, tanto per essere chiari, un errore, ma certamente in linea con il sentimento dell’esecutivo, specie la parte grillina. Il caso ha voluto che nello stesso giorno in cui Salvini prometteva la pace fiscale al grido di «amici come prima», il ministro dell’Economia si esprimesse con argomenti e toni del tutto diversi. «I recenti dati Istat - spiegava Giovanni Tria ospite di una cerimonia della Guardia di Finanza - testimoniano che l’Italia è in ripresa, ma la pressione fiscale resta elevata ed è pari al 42,5 per cento rispetto al Pil (il Prodotto interno lordo n.d.r) nel 2017 mentre l’evasione fiscale e contributiva risultava pari a 110 miliardi nel 2015». Il ministro si riferiva al cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati. Secondo il rapporto della commissione Giovannini, l’Iva è l’imposta più evasa. Sono 35 miliardi che sfuggono ogni anno all’Erario. Con un effetto trascinamento su altre imposte. L’evasione annuale su Irap, Ires e Irpef per lavoro autonomo e impresa è stimata in 48,8 miliardi. La propensione a evadere è in media del 23,5 per cento. Ma se si escludono i lavoratori dipendenti, per i quali c’è la trattenuta alla fonte, si arriva alla stima di trentacinque euro evasi ogni cento dovuti. Per le sole imprese che pagano l’Ires l’evasione è pari a 9 miliardi (25,6 per cento). Se teniamo però conto dell’articolazione del tessuto economico italiano, ovvero piccole aziende, artigiani, commercianti che pagano l’Irpef sul reddito d’impresa o sul reddito da lavoro autonomo, arriviamo a un’evasione presunta del 68,5 per cento. Con le cifre può bastare. È dunque assai difficile pensare che non vi siano tra i responsabili di questo mancato gettito - con il quale si farebbe comodamente sia il reddito di cittadinanza sia la flat tax - anche molti degli «amici come prima, incolpevoli ostaggi» della tenaglia fiscale. L’amara realtà è che evadere paga. E si è pure ringraziati. Non solo condonati, ma innalzati ad esempio. Fine. Ora non resta che rivolgere un pensiero riconoscente a tutti coloro, sconosciuti eroi civili - e per fortuna non sono pochi - che continuano a pagare regolarmente tasse e imposte, a rispettare le scadenze, ossessionati dal dubbio di non avere fatto fino in fondo il proprio dovere. Ligi alle regole anche quando ritengono di essere ingiustamente tartassati. Scrupolosi persino nel momento in cui si sentono vittime di norme farraginose e incomprensibili. Quegli italiani disciplinati che pagano le multe per le infrazioni al codice della strada. Multe che verranno gettate nel cestino del condono fiscale. Connazionali convinti che pagare le tasse sia l’altra faccia della medaglia di una cittadinanza responsabile. Il modo di condividere le spese pubbliche, che vanno dalla sanità alla sicurezza. Interpreti autentici dell’articolo 2 della Costituzione nel quale è scritto che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Quello che forse non sopporteranno è di fare la figura dei fessi in un Paese di furbi.

Pag 1 Le compagnie sbagliate di Franco Venturini I (presunti) alleati nella Ue

Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei. Il buonsenso popolare di solito ci azzecca, ma vale anche per Matteo Salvini e per i suoi amici, mentre in Europa infuria la tempesta dei migranti? Vediamo chi sono, questi amici, e vediamo se le loro posizioni coincidono con gli interessi dell’Italia. Il primo a essere individuato dal nostro ministro dell’Interno come compagno di strada è stato il collega tedesco Horst Seehofer, esponente della Csu bavarese. In aperta polemica con la Cancelliera Merkel, Seehofer ha avvertito che, in mancanza di accordi «positivi», dal primo luglio prossimo i richiedenti asilo che si trovano in Germania o che vogliono entrare in Germania ma che sono stati inizialmente registrati in Italia dovranno tornare nel Paese di prima accoglienza. Cioè da noi. Che bel regalo a Salvini e all’Italia, questa lettura rigorosa e retroattiva di Dublino. Heinz-Christian Strache, vice-cancelliere austriaco proveniente dall’estrema destra post- nazista, è talmente amico da aver meritato di recente un selfie a due con Matteo. Lui avverte che se Seehofer avrà la meglio, l’Austria farà altrettanto al Brennero. Grazie, altro dono per noi. Viktor Orbán, come dimenticare il premier ungherese? Lui ha guidato i quattro di Visegrád nel rifiuto di accogliere anche un solo rifugiato, mentre l’Italia e la Grecia scoppiavano. Ed è lui, ora, a impedire un accordo per redistribuire i migranti nella Ue, anche se altri Paesi, come la Francia, fecero anch’essi meno di quanto avevano promesso e continuano oggi a pensare al loro fronte interno. Orbán merita comunque il titolo di miglior amico di Salvini e dell’Italia. O no? Non dovremmo dimenticare Marine Le Pen, grande alleata che non se la prende con noi soltanto perché in Francia è all’opposizione, oppure Steve Bannon, l’ispiratore di Trump che vede nei migranti il giusto piede di porco per far saltare l’Europa. Amici anche loro. Arrivano oggi e giovedì due vertici europei importanti e difficili per l’Italia. Ma tranquilli, con amici così chi ha bisogno di nemici?

AVVENIRE di domenica 24 giugno 2018 Pag 2 Piena libertà di essere, anche per i malati di Sla di Mario Melazzini Annuale mobilitazione mondiale e nuovi strumenti di cura

Caro direttore, abbiamo appena celebrato la ricorrenza del Global Day sulla Sla, che da più di vent’anni si celebra il 21 giugno. Una preziosa opportunità per rinnovare un confronto su diversi aspetti che riguardano questa complessa e grave malattia, che oggi colpisce nel mondo 450.000 pazienti, 6.000 in Italia. Il tema scelto dalla organizzazione che promuove l’iniziativa – l’International Alliance of Als/Mnd Associations – è «Sla senza confini», accompagnato dall’hashtag #AlsmndWithoutBorders. È un messaggio immediato e diretto, che sottolinea la necessità sentita a livello globale dalle persone affette da patologie neurodegenerative come la Sclerosi laterale amiotrofica di poter vivere la propria quotidianità senza barriere, nel miglior modo possibile. Da malato di Sla testimonio ogni giorno le difficoltà che si incontrano nell’affrontare anche i più semplici gesti quotidiani. Per questo credo sia necessario innanzitutto partire dalla consapevolezza, dalla condivisione, dall’amore vero verso la vita, la propria vita, per trovare le risposte che ancora oggi mancano. In questi tempi in cui si parla tanto di 'diritto alla morte', e in questo senso di principio di autodeterminazione, deve risuonare un contro-coro di speranza, sulle note del riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano, che contrasti con determinazione la potenziale condizione di isolamento del malato, che deriva da scelte e atteggiamenti rinunciatari. Sarà fondamentale attuare una strategia che sappia rispondere alla mancanza sempre più evidente di assistenza domiciliare qualificata, supporto adeguato alla famiglia, reti di servizi sociali e sanitari organizzati, solidarietà, coinvolgimento. Ma soprattutto sensibilità da parte di chi deve garantire tali risposte, in particolare le istituzioni, chiamate a consolidare nel nostro Paese la certezza che ciascuno potrà ricevere trattamenti, terapie, cure e sostegni appropriati. Nel contempo dobbiamo credere fermamente che la ricerca scientifica potrà portare - mi auguro e ci auguriamo più a medio che a lungo termine - una risposta concreta. È fondamentale continuare a confidare del progresso scientifico e nei risultati della ricerca, perché è per noi malati uno strumento concreto di speranza. Mentre procedono gli studi clinici nell’ambito della Sla a livello mondiale, al momento è già possibile accedere in Italia alla terapia a base di edaravone, che l’Agenzia italiana del farmaco Aifa ha reso disponibile già lo scorso anno con tempi autorizzativi molto ristretti, inserendo il farmaco nell’elenco dei medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale ai sensi della legge 648/96. L’Aifa ha rinnovato tale disponibilità e ampliato peraltro i criteri di accesso alla terapia, estendendone l’impiego anche a pazienti con diagnosi accertata da oltre due anni, purché presentino le stesse caratteristiche cliniche indicate e previa valutazione del medico specialista. Spesso si sottolinea che i tempi della ricerca non sono quelli della persona malata, ma bisogna credere e avere fiducia. Perché oltre al bisogno di terapia esistono anche altre necessità che devono essere raccolte, affrontate e risolte e sulle quali ricercatori e medici si misurano ogni giorno. Penso alla realizzazione di ausili e servizi di tecnologia assistenziale per persone malate e con disabilità che oggi consentono di rispondere al bisogno di comunicare, muoversi, essere autonomi e che migliorano la qualità della vita in modo significativo. A volte, come ha dimostrato papa Francesco incontrando mercoledì i malati di Sla in Vaticano, non servono grandi scoperte, ma può bastare un solo abbraccio per essere vicini a chi soffre e aggiungere un nuovo tassello all’approccio culturale verso la malattia. È sempre una questione di sguardo: che può farsi strumento di cura, dignità e speranza e infondere la forza e la determinazione necessarie a far sì che il limite non limiti la voglia di vivere e la possibilità di cogliere e apprezzare la bellezza di ogni istante. Essere liberi di... essere.

IL GAZZETTINO di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 Il voto in Turchia è un bivio per Erdogan di Romano Prodi

La giornata di oggi in Turchia non potrebbe essere più importante: si vota sia per eleggere il Parlamento che il Presidente della Repubblica. Si vota cioè sul futuro del paese e, quindi, in particolare sul destino dell'uomo forte: il Presidente Recep Tayyip Erdogan. Nel 2002 quando Erdogan arrivò al potere fu salutato da tutta la comunità internazionale come l'uomo che avrebbe completato il processo democratico di Ataturk, garantendo anche il contenimento della forza dell'esercito che in più occasioni aveva prevalso sulle istituzioni democratiche. Nel suo programma era inoltre prevista un'apertura nei confronti della minoranza curda, una politica estera di alleanza con i paesi vicini e un progressivo avvicinamento all'Unione Europea. A questo si aggiungeva un progetto di modernizzazione e di espansione dell'economia e un programma di poderose opere pubbliche. Si presentava quindi l'ipotesi di un lungo governo di un partito islamico moderato, democratico e moderno. Le elezioni di oggi si svolgono in un quadro molto lontano dalle speranze di allora. L'economia ha in effetti progredito in modo straordinario, le opere pubbliche e il boom edilizio hanno trasformato (forse anche troppo) il disegno del paese ma sono venuti al pettine alcuni nodi sempre più pesanti e pericolosi. Dal punto di vista economico lo sviluppo si è, negli ultimi tempi, accompagnato ad un processo inflazionistico che ha causato ad una impressionante svalutazione della lira turca. Tutto ciò, da un lato, ha mantenuto elevate le esportazioni, ma ha pesantemente influito sul costo della vita e provocato crescenti scontenti: è anche per evitare che questi scontenti si tramutassero in ostilità politica che Erdogan ha voluto anticipare la data della consultazione elettorale. Con le elezioni di oggi la posta in gioco più importante non è tuttavia il futuro dell'economia ma della democrazia turca. In modo progressivo, ma soprattutto negli ultimi anni, la democrazia si è trasformata in autocrazia, mentre i buoni rapporti con i vicini si sono progressivamente deteriorati. L'obiettivo della politica estera turca non ha più avuto, come priorità, di vivere in pace coi vicini ma di diventare una grande potenza nell'area che si estende dai Balcani all'Asia Centrale, fino all'Africa passando naturalmente per il Medio Oriente. Una politica di autonomia e di ritorno alla gloria ottomana assai poco compatibile con il ruolo che la Turchia aveva sempre svolto nell'ambito della NATO. Questo processo è stato accompagnato da un progressivo avvicinamento alla Russia. Un'alleanza però che, in futuro, porterà molti problemi, data la difficile compatibilità degli interessi delle due potenze, sia nel Medio Oriente che nel Mediterraneo. La posta più importante in gioco oggi è tuttavia il futuro della democrazia turca. Il dominio di Erdogan sulla Turchia è sempre più forte e sempre più fuori dalle regole democratiche. Oltre cento giornalisti sono in carcere, centomila fra funzionari, professori e magistrati sono stati epurati e, tra questi, trentamila sono stati incarcerati. Le tensioni con i curdi si sono inasprite fino ad arrivare a continui conflitti. Non siamo perciò sorpresi che, in questo clima, la campagna elettorale abbia visto la figura di Erdogan monopolizzare tutti i media, dalla carta stampata alla televisione e ai social. Le previsioni sui risultati elettorali sono in prevalenza in favore di una vittoria di Erdogan anche perché egli ha allargato il suo consenso appoggiandosi in modo crescente alla parte tradizionale della Turchia, più nostalgica del passato che fiduciosa nel futuro. Bisogna tuttavia prendere atto che, in questa contesa elettorale, le opposizioni, pur rimanendo ancora separate, hanno aperto un più costruttivo dialogo fra di loro. Nelle ultime settimane si è inoltre fatto strada un leader più credibile dei precedenti, un ex insegnante, devoto islamico ma anche profondo democratico, che risponde al nome Muharrem Ince, erede della memoria del vecchio partito di Ataturk. Si potrebbe quindi arrivare ad una vittoria di Erdogan alle presidenziali e a una maggioranza delle opposizioni alle elezioni parlamentari, naturalmente a condizione che il Partito Curdo più rappresentativo ottenga almeno il 10% dei voti, pur essendo il suo leader ancora in prigione. Questo risultato, data l'ampiezza dei poteri presidenziali nelle decisioni politiche ed economiche, non cambierebbe radicalmente il ruolo assunto da Erdogan ma ne attenuerebbe certamente gli eccessi degli ultimi tempi. Un rapido ritorno alla normalità democratica non è però molto probabile, così come sembra essere ormai rinviata a tempi lontanissimi l'adesione della Turchia all'Unione Europea. È quindi opportuno seguire con molta attenzione quello che sta avvenendo oggi in Turchia perché da queste elezioni deriveranno conseguenze molto importanti non solo per il ruolo economico ma anche per le decisioni politiche e militari che questo grande paese Mediterraneo prenderà in futuro.

Pag 1 Noi e la scelta dell’Australia di Gianandrea Gaiani

L’energica iniziativa del governo italiano sul fronte dell’immigrazione illegale ha conseguito in pochi giorni due importanti successi. Innanzitutto ha bloccato l'accesso ai porti alle navi delle Ong eliminando un'importante anomalia che vedeva soggetti privati gestire (con l'obiettivo di trasferire in Italia il più alto numero possibile di clandestini) un'emergenza che riguarda invece direttamente la sicurezza nazionale. I ministri Matteo Salvini e Danilo Toninelli hanno ribadito la piena sovranità di Roma sugli accessi dei migranti completando l'opera avviata da Marco Minniti che aveva tentato di regolamentare l'ambigua azione delle navi delle Ong, troppo spesso in concorrenza con le motovedette libiche. Il secondo successo è stato conseguito obbligando la Ue ad affrontare l'emergenza sbarchi e mettendo in luce le sue contraddizioni , con partner pronti a rimproverare l'Italia per lo stop alle Ong ma non certo disposti ad accogliere migranti illegali sul loro territorio. Lo confermano le rabbiose reazioni di Emmanuel Macron. Ma anche le aperture di Angela Merkel a Giuseppe Conte in vista del vertice Ue e la decisione di Madrid di espellere gli oltre 600 migranti sbarcati dalla nave Aquarius e privi di ogni diritto all'asilo, un sesto dei quali pare abbiano già fatto perdere le loro tracce. In prospettiva però l'aspro confronto tra l'Italia e la Ue non potrà offrire soluzioni durature: la ripartizione dei soli aventi diritto all'asilo è fallita da tempo e nessuno ipotizza possa essere allargata a tutti i migranti illegali ma se anche così fosse ogni forma di accoglienza incoraggerebbe ulteriori flussi. I tanto citati hot spot in Nord Africa, un po' alibi e un po' foglia di fico di un'Europa che non rinuncia al linguaggio politicamente corretto, risultano inattuabili. Tunisia e Algeria li rifiutano perchè non intendono diventare meta di flussi fuori controllo di persone che sperano di essere accolte in Europa mentre le autorità di Tripoli hanno plaudito al nuovo corso italiano sostenendo che solo lo stop all'accoglienza potrà far cessare i traffici. Nulla di cui stupirsi, i trafficanti legati spesso ai gruppi jihadisti costituiscono una grave minaccia per la traballante stabilità degli Stati di Nord Africa e Sahel. Negli ultimi giorni in tutta Europa (non solo nel Gruppo di Visegrad) sono stati sdoganati i respingimenti, parola rimasta tabù finché l'Italia accoglieva chiunque pagasse criminali per raggiungere le sue coste. Se Germania e Austria intendono rimandare in Italia i migranti illegali arrivati in questi anni dalla Penisola, chi potrà rimproverare Roma se riportasse in Libia le persone soccorse in mare come già fanno le motovedette di Tripoli assistite dalla Marina italiana? L'unica risposta risolutiva è riposta nei respingimenti assistiti, aiutando le navi libiche a intercettare barconi e gommoni e riconsegnando a Tripoli i migranti soccorsi dalle navi militari italiane ed europee. Sembra muovere in questa direzione anche l'annuncio della Guardia Costiera italiana che informa chiunque soccorra migranti nelle acque di competenza libica che dovrà rivolgersi a Tripoli per sbarcarli. La Libia offre porti sicuri e le agenzie dell'Onu cooperano con il governo di Fayez al-Sarraj per accogliere dignitosamente i migranti e rimpatriarli nei Paesi di origine con voli dall'aeroporto di Tripoli. Una soluzione che ripristinerebbe legalità e controllo lungo le frontiere della Ue (oltre alla credibilità dell'Europa), azzerando i morti in mare e scoraggiando ulteriori flussi. Negli anni scorsi l'Australia fermò i trafficanti con una campagna d'informazione (No Way) in tutta l'Asia che negava ogni possibilità di accoglienza e con un'operazione (Sovereign Borders) che vide le navi militari riportare nelle acque di Indonesia e Sri Lanka i barconi di clandestini senza che si registrasse neppure una vittima. Nel 2015 Canberra propose il suo modello alla Ue ma Bruxelles rispose, quasi infastidita, che l'Europa non attua respingimenti. Oggi nel Vecchio Continente in molti sembrano pensarla diversamente.

LA NUOVA di domenica 24 giugno 2018 Pag 1 L’invenzione del ministro pigliatutto di Fabio Bordignon

La Seconda Repubblica è finita. Ma è ancora difficile dire in quale Repubblica ci troviamo, dopo il voto del 4 marzo e le firme sul contratto di governo pentaleghista. Le riforme avviate all'inizio degli anni Novanta non sono mai state completate, e il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha lasciato un quadro indefinito, per non dire indecifrabile. Nel frattempo, a carta costituzionale invariata, il sistema politico italiano è mutato più volte, virando però in direzioni diverse, in fasi diverse. A caratterizzare la Seconda Repubblica era stato soprattutto il rafforzamento della leadership di governo, che faceva apparire il Presidente del consiglio quasi come un Presidente "presidenziale": dotato di prerogative forti, derivanti da un mandato quasi- diretto. Oggi, sembra delinearsi uno scenario molto diverso. Per averne una idea, basta guardare ancora una volta a Palazzo Chigi, dove siede un presidente "debole", designato da un accordo - anzi, un contratto - tra i due partiti che compongono la maggioranza. Quasi un ribaltamento, rispetto ai trend dei 25 anni precedenti: dalla presidenzializzazione alla ri-parlamentarizzazione del sistema politico? Dalla democrazia del leader a una nuova democrazia dei partiti? Anche queste formule appaiono tuttavia inadeguate a descrivere lo scenario attuale. Visto che il M5s e la Lega sono, a loro volta, partiti "con un leader": due candidati-premier, fino a pochi giorni fa, che le circostanze hanno spinto ad accettare il ruolo di vice-premier - e di ministro. La confusione istituzionale, combinata agli equilibri elettorali, ha così prodotto uno sdoppiamento della leadership di governo, subito trasformatosi in competizione per il ruolo di "primo" ministro. Non c'è dubbio che questa gara, almeno per ora, la stia vincendo Matteo Salvini. Del resto, il leader della Lega è riuscito a navigare attraverso le complicate settimane della trattativa esibendo coerenza e fermezza. Arrivato al Viminale, ha utilizzato il palcoscenico ministeriale per dettare l'agenda di governo e per proporsi, di fatto, come autentico-leader dell'esecutivo. Nella fase successiva alla formazione del governo, Salvini ha rafforzato la sua immagine di "uomo forte che usa parole forti", pronunciate con l'esplicito intento di rompere ogni tabù: rispetto a ciò che è politicamente corretto, socialmente "desiderabile", in linea con il galateo della diplomazia internazionale. Parole pronunciate senza timore di invocare i fantasmi del passato e di soffiare sulle paure del presente. L'importante è battere i pugni, scegliendo, di volta in volta, i nemici più adatti ad alimentare il pubblico risentimento: i nemici del popolo e i loro "privilegi". Lo schema retorico è sempre lo stesso, che si tratti dei migranti irregolari o degli intellettuali di sinistra. Provate a invertire i termini del discorso salviniano - la pacchia della scorta o le vacanze all'estero a spese dei contribuenti: il risultato non cambia. Il tutto, naturalmente, con grande padronanza dei mezzi di comunicazione: tutti, dalla Tv al web. C'è molto, nella comunicazione di Salvini, del Renzi della fase ascendente: una ruspa per rottamare, il bacione al posto del ciaone, gli onnipresenti gufi e rosiconi. Nel caso del Ministro dell'Interno c'è (ancora) più cattiveria, rispetto all' "altro" Matteo, ma sempre con il sorriso, e grande successo di pubblico. Tant'è che la Lega, nei sondaggi, ha già affiancato e poi superato il M5S, oscurato mediaticamente. Così come Di Maio, incapace di tenere il passo degli annunci. Ministro dell'Interno, ma anche ministro degli esteri, dell'istruzione, della salute... è lui, il vice-premier, il vero leader del governo, in grado di ritagliarsi uno "spazio presidenziale" nella confusione di una Repubblica ancora indefinita e confusa. Sospesa tra modelli alternativi - tra leader e partiti, tra Parlamento e (vice)presidenti - l'Italia sta forse inventando una nuova forma di governo: il #vice-presidenzialismo.

Pag 1 Immigrazione, il dilemma dell’Europa di Maurizio Mistri

Una domanda che è lecito porsi è se la questione migratoria determinerà in tempi abbastanza brevi - dieci anni - un cambiamento radicale della politica, in Europa e in altre parti del mondo. La politica, e cioè l'insieme dei valori e delle scelte che si fanno, può evolvere rapidamente. Una evoluzione consistente nel rimettere in discussione valori e istituzioni che si ritenevano irreversibili. Cambiamenti di questo tipo mettono "fuori mercato" forze politiche che fino a quel momento sembravano rispondere ai bisogni, anche valoriali, della maggioranza dei cittadini. Traumi politici di questa natura avvengono quando si manifestano situazioni del tutto nuove che i cittadini ritengono divenute strutturalmente fuori controllo. Così le vecchie preferenze vengono sostituite da nuove che emergono dal magma della crisi esistenziale degli stati, confinando ai margini della politica i partiti che prima avevano raccolto il favore della gente. Ho l'impressione che in Europa una delle questioni che sta modificando il Dna politico degli europei sia quella della immigrazione. Davanti ad essa c'è chi sostiene che trattandosi di un fenomeno strutturale non ci possono essere soluzioni radicali ma solo misure con cui tentare di rendere meno brutale l'impatto sui modi di vivere delle società europee. Questo non fa che confermare in molti cittadini la preoccupazione che le forze politiche tradizionali non siano più in grado di affrontare emergenze del tutto nuove. Delle preoccupazioni dei cittadini sono certamente consapevoli i governi dei paesi europei, che difendono le loro strategie richiamandosi ad obblighi internazionali dettati, ad esempio, da organismi come l'Onu oppure la stessa Ue. Tuttavia, agli occhi di molti tali obblighi rischiano di apparire insostenibili. Oggi emergono le contraddizioni di una Ue che fino a non molto tempo addietro, per governare il fenomeno migratorio, aveva immaginato di mettere in atto politiche selettive basate sulla accoglienza di un numero limitato di immigrati condizionatamente alle necessità ed alle possibilità di assorbimento dei mercati del lavoro nazionali. Era la politica delle quote in virtù della quale si accettava un numero definito di immigrati economici e si respingevano gli immigrati che eccedevano tale numero. Logicamente non può esistere una seria politica basata sulle quote senza il respingimento di coloro che eccedono i numeri fissati. Era una politica gestita certamente negli interessi dei paesi europei ospitanti, ma anche con l'obiettivo di tranquillizzare i cittadini. Tutto razionale, dunque, ma tutto inconsistente perché le vicende politiche non seguono la nostra razionalità; ne hanno una loro che può entrare in collisione con la nostra, come oggi sta avvenendo. Così, oggi l'Ue è arrivata a sostenere che si può accogliere un numero indefinito di rifugiati, intesi nel senso dell'Onu, ma che non si debbono accogliere quegli immigrati economici che un tempo si ritenevano utili allo sviluppo delle nostre economie. A corollario di questo rovesciamento di strategia circola negli ambienti Ue l'idea della ripartizione coatta tra i paesi europei dei rifugiati che giungono in Europa. Tuttavia, molti paesi europei si oppongono a tale ripartizione coatta. Essa ha un lato debole e cioè che gli immigrati che ricevono il permesso di soggiorno nel paese A non possono trasferirsi nel paese B o G, come Germania. Tale regola contraddirebbe il principio della libera circolazione delle persone tra i paesi dell'Ue, trasformando quegli immigrati in moderni "servi della gleba", impossibilitati ad uscire dalle terre in cui sono collocati. Qui si legge la mano della Germania, timorosa che in un prossimo futuro milioni di immigrati possano uscire dal paese I, come l'Italia, per andare in Germania. Le proposte si accavallano e appaiono sempre più insensate dimostrando l'incapacità di molti governi europei di uscire dal caos concettuale in cui si trovano. Ne fanno fede le ormai deliranti affermazioni di Macron. Ma dal caos può emergere un nuovo ordine, oggi non conoscibile e, probabilmente, preoccupante.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Come proteggere l’interesse italiano in Europa di Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales

Signor Presidente del Consiglio, le dichiarazioni rilasciate a Meseberg dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sono un segno importante della volontà dei due maggiori Paesi della eurozona di riformare l’Unione monetaria. Se ne discute da anni, proposte diverse sono pervenute da parte di esperti e di istituzioni federali, ma per la prima volta l’iniziativa è stata presa da capi di Stato eletti e questa la rende più credibile. La trattativa che si svolgerà durante l’incontro dei capi di governo la prossima settimana è quindi un momento da non sottovalutare e a cui l’Italia deve partecipare con una strategia chiara. Le inviamo questa lettera aperta per condividere con Lei il nostro pensiero su quali debbano essere le linee di fondo che dovrebbero ispirarLa. Scriviamo insieme pur avendo nel passato espresso posizioni diverse sui benefici dell’euro, ma proprio per sottolineare ciò su cui si può trovare una linea unitaria nell’interesse dell’Italia in un’occasione che può essere una opportunità, ma che comporta anche rischi. Ci limitiamo a parlare della parte della proposta che riguarda i problemi economici perché è su questi che ci riteniamo più competenti. Innanzitutto apprezziamo l’impegno del Suo governo sulla partecipazione dell’Italia all’Unione monetaria, ma - data la comunicazione a volte contraddittoria di alcuni membri della coalizione -. La sollecitiamo a chiarire ogni dubbio onde evitare di minare la nostra efficacia nella trattativa. A fronte di un impegno non ambiguo dell’Italia a restare nell’euro deve esservi un analogo impegno del governo tedesco a opporsi a chi oggi in Germania solleva questioni sul saldo delle partite tra banche centrali, altrimenti noto come Target 2. Finché l’euro esiste, tale saldo non rappresenta in alcun modo un debito dell’Italia. Qualsiasi discussione su un possibile limite alla dimensione di questo saldo corrisponde a una richiesta di escludere l’Italia dall’Unione monetaria e in quanto tale è destabilizzante, sia dal punto di vista economico che politico. Comprendiamo chi ha criticato elementi della proposta franco-tedesca ma La invitiamo a non esprimere un parere negativo e accogliere invece gli elementi di progresso, insistendo sui punti che per noi sono cruciali. Con questa premessa veniamo alla sostanza della proposta. 1. Bilancio dell’eurozona - È la prima volta che si propone un bilancio comune per gli investimenti, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro. Per quanto riguarda gli investimenti si va oltre al piano Juncker. Si afferma per la prima volta la necessità di un meccanismo comune che serva a trasferire temporaneamente risorse a quei Paesi che hanno subito impatti ciclici più negativi di altri. Non è chiaro quale sarà la dimensione di questo bilancio, ma il principio è positivo e va sostenuto. I dettagli su come finanziare questo strumento sono da definire. L’Italia deve affermare il principio che nel disegnare questo bilancio comune sia necessario riconoscere che la stabilizzazione e la convergenza si devono ottenere non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso i contributi. Per mantenere un livello di inflazione più omogeneo nell’area euro è necessario che le economie in espansione contribuiscano con maggiori fondi rispetto alle economie in recessione. Se nel 2005 la Spagna avesse contribuito in modo più che proporzionale a sostenere la disoccupazione tedesca, non ne avrebbe beneficiato solo la Germania, ma la Spagna stessa, perché avrebbe ridotto l’eccessivo aumento dei prezzi, che poi ha dovuto correggere con una pesante recessione. Su questo l’Italia deve insistere. 2. Assicurazione comune alla disoccupazione - Un’assicurazione comune alla disoccupazione è una novità che introduce il principio della condivisione del rischio ciclico e va sostenuta. Rimangono comunque da chiarire dettagli e dimensioni del programma. 3. Fondo di stabilità - Qui ci sono progressi ma anche insidie. i. Un passo avanti importante è la proposta di cambiare le regole che governano il fondo, un passo che contempla un cambiamento del Trattato ad hoc che lo ha istituito. Si propone di abbandonare una gestione inter-governativa, soggetta alla regola dell’unanimità incorporando il fondo nei Trattati europei. La possibilità di un veto tedesco rimarrà - ma anche l’Italia ha un diritto di veto - ma non ci sarà più bisogno dell’unanimità, condizione essenziale per la sua credibilità; ii. Si contempla la possibilità di linee di credito precauzionali instaurando quindi il principio che bisogna attrezzarsi per poter aiutare un Paese prima che una crisi sia esplosa quando è spesso troppo tardi. Il credito si erogherebbe previa valutazione della sostenibilità delle politiche del Paese in questione, ma senza richiedere un vero e proprio programma. Anche questa proposta va accolta positivamente; iii. Si propone di introdurre maggiore trasparenza nell’analisi di sostenibilità del debito. Anche qui dobbiamo difendere il principio per evitare fenomeni, come quelli accaduti in Grecia del 2010, dove gli Stati membri pagano per gli errori delle banche. Tuttavia, è cruciale affermare il principio che i criteri di sostenibilità del debito devono basarsi su variabili storiche (per esempio il saldo di bilancio primario degli ultimi anni) e non prospettiche, per evitare che una paura del mercato si trasformi in una condanna, come successe all’Italia nel 2011. Questo è l’aspetto più insidioso dove l’Italia deve fare valere il suo punto di vista. 4. Unione bancaria e dei mercati dei capitali - Sulle banche la proposta è al di sotto delle aspettative. Si afferma la volontà di far si che l’Esm (il Meccanismo europeo di stabilità) possa erogare una linea di credito che alimenti il fondo di ricapitalizzazione delle banche («backstop»), ma si condiziona l’introduzione di questo strumento ad una sostanziale riduzione del rischio delle banche in termini di crediti deteriorati ed altri criteri che non si specificano chiaramente. Si nega quindi il principio che riduzione e condivisione del rischio debbano procedere insieme e si propone invece di procedere in sequenza: riduzione del rischio prima, condivisione dopo. La proposta rimane inoltre molto vaga sui tempi dell’introduzione di un’assicurazione comune ai depositi bancari e sulle condizioni necessarie ad introdurre il fondo di ricapitalizzazione. Chiaramente l’accordo per completare l’Unione bancaria in tempi brevi non c’è e si rimanda l’analisi a tavoli tecnici. L’Italia deve esprimere un parere critico ma adoperarsi per migliorare la proposta sui tavoli in cui verrà discussa. Queste le linee principali. Data la mancanza di dettagli su aspetti importanti della proposta, e l’invocazione di tavoli tecnici per metterli a punto, è importante che l’Italia partecipi al processo anche a livello tecnico per fare valere i suoi diritti e che non si deleghino discussione e trattativa alla Francia e alla Germania. È un primo passo, certamente ancora incompleto, per migliorare il funzionamento dell’eurozona e dotarla degli strumenti necessari ad affrontare una crisi. Ma è un passo avanti dopo sei anni in cui i progressi sono stati pressoché inesistenti. Anche il fatto che di questa proposta si discuta non nel mezzo di una grave crisi, come è avvenuto in passato, è un segnale importante. È cruciale, quindi, per l’Italia entrare attivamente e in modo costruttivo nel negoziato politico e tecnico della prossima settimana, e in quelli che seguiranno. Lo sguardo è oggi giustamente rivolto al grande tema delle migrazioni, ma il processo di costruzione europea sta segnando passi che per il nostro Paese sono altrettanto importanti.

Pag 1 La debole resistenza dei 5 Stelle di Antonio Polito Il dominio leghista

I leghisti vengono da Marte, i Cinque Stelle da Venere. Per comprendere il dominio di Salvini, quasi un premier ombra se non ce ne fosse già uno, e per spiegare la debole resistenza di Di Maio, si può forse usare la metafora che Robert Kagan applicò agli americani e agli europei dopo l’11 settembre: i primi sono i discendenti del dio della guerra, i secondi della dea dell’amore. La Lega vive in un mondo hobbesiano basato sulla forza. Conosce il potere per averlo già praticato. Dispone dunque di un ceto di professionisti capaci di maneggiarlo, nei governi locali e a Roma. Gente come Giorgetti e Calderoli si muovono tra leggi, regolamenti e burocrati come a casa propria. Soprattutto sanno che farsene del potere: lo mettono al servizio di una lista di obiettivi da raggiungere. La Lega è nata come un one-issue-party, e per molti aspetti lo è ancora. Si preoccupa solo di consegnare ai suoi elettori ciò che essi chiedono, è un «deliveroo» della politica. Tutto il resto viene dopo, e conta poco. Se servisse a ridurre gli immigrati, Salvini non esiterebbe a far saltare l’Unione Europea. La Lega ha una visione del mondo e un’ideologia, il sovranismo; dispone dunque di una rete di collegamenti internazionali, da Putin a Le Pen. La Lega ha un «capo», anzi un «capitano», si muove come una falange macedone e rade al suolo le correnti. Tutta la strumentazione della vituperata politica, che dicevano morta e sepolta, nella Lega è messa al servizio di una politica. E si vede. I Cinque Stelle vivono invece in un mondo rousseauiano, che immaginano governato dalla volontà generale. Non sono abituati né a convivere né a competere con un alleato, perché credono di rappresentare il 99% del popolo: rimossa la casta del restante 1%, il popolo si autogovernerà. Non formano dunque un personale politico, ma solo portavoce della volontà generale; e così finiscono nelle mani dei Marra e dei Lanzalone. Hanno una visione utopica del potere: per loro non serve a fare, ma a disfare, va usato per dissolverlo. Sono i discendenti della «fantasia al potere», o del «fate l’amore non la guerra». La democrazia diretta, cuore della loro straordinaria ascesa elettorale, si propone di consegnare un giorno lo scettro all’agorà, togliendolo a governo e Parlamento. Nel frattempo, visto che il potere non ammette vuoti, provano a trasferirlo su una piattaforma on line. Così i Cinque Stelle oscillano tra un’utopia rivoluzionaria e una pratica conservatrice. Il Movimento che per primo ha «visto» il futuro digitale con Gianroberto Casaleggio, ora si muove contro la sharing economy e il lavoro domenicale. Il reddito di cittadinanza con otto ore di lavoro a settimana ricorda molto da vicino i «lavori socialmente utili», inventati a Napoli tanti anni fa per sussidiare la disoccupazione fingendo di non farlo, e Di Maio assomiglia sempre più a Vincenzo Scotti, giovane ministro del lavoro degli anni 80, oggi mentore di molti «tecnici» grillini. Un po’ alla volta, il programma cinquestelle è diventato tutto un abolire: il jobs act, la Fornero, le liberalizzazioni di Monti, una decisa marcia indietro verso il futuro. Entrato finalmente nella stanza dei bottoni, il M5S non ha trovato i bottoni. Legiferare è un lavoro lungo e complesso, comporta tecnica e competenza. Il governo Conte ha finora prodotto un solo decreto legge: misure urgenti per il tribunale di Bari. La settimana prossima arriva alle Camere quello sul terremoto, che risale ancora a Gentiloni. La sensazione è che i ministri non abbiano ancora capito come tradurre gli intenti in fatti (non è facile per nessuno: Renzi fu recordman di decreti legge, ma molti rimasero sulla carta). A Salvini può bastare la dichiarazione di guerra all’Europa sui migranti, resa ancora più popolare in Italia dalle risposte di Macron; o una dichiarazione di guerra al Fisco sulle cartelle esattoriali; o a Saviano sulla scorta; o al ministro pentastellato della Sanità sui vaccini. Salvini viene da Marte, dunque è marziale: prima o poi si farà troppi nemici, però per il momento funziona. Ma Di Maio viene da Venere, quelli del «vaffa» sono spariti con Grillo e Di Battista, i due maestri del genere; e dunque non gli resta che il governo, il luogo dove ha condotto con successo un movimento che era nato come un meetup di stravaganti. La sfida del fare è perciò tutta sua, e per il momento la sta perdendo.

Pag 1 I sospetti grillini sui reali progetti degli alleati di Francesco Verderami

In Italia ci sono tre governi: quello di Salvini, quello dei grillini e quello dei tecnici, ognuno con le proprie regole d’ingaggio, il proprio lessico, i propri punti di riferimento. In mezzo c’è il premier, che per non venire sopraffatto dai cortocircuiti quotidiani preferisce la dissolvenza alla presenza. Non dev’essere facile muoversi tra compartimenti stagni, ed è singolare il modo in cui Conte ha trasformato il problema in un punto di forza, imponendo la regola di tenere separati i piani: nei primi Consigli dei ministri ha infatti chiesto si discutesse «solo di provvedimenti», bandendo così dalle riunioni la politica. Che non è di sua competenza, ma che lo assedia fuori dalla porta, oscurando puntualmente ogni sua iniziativa. Non c’è stato G7, visita all’Eliseo o telefonata con la Merkel che non siano stati sopraffatto dal braccio di ferro mediatico tra i due vicepremier. Insomma, il baricentro del potere sta da un’altra parte. Non è dunque un caso se, più che interessarsi di cosa dica Conte, al tavolo circolare di Palazzo Chigi i leghisti si chiedano sottovoce «quanto a lungo i Cinque Stelle resisteranno alla pressione». Allo stesso modo non è un caso se, più che affannarsi a sapere cosa pensi Conte, i grillini - a quello stesso tavolo - si interroghino sulla reale volontà degli alleati di proseguire nella legislatura. Eppure, l’accordo stretto tra Di Maio e Salvini prevedeva che ognuno avrebbe marcato le proprie competenze, una sorta di Yalta della Terza Repubblica che nella delimitazione dei rispettivi territori avrebbe dato lustro ai leader dei due diversi governi. Ma già sul reddito di cittadinanza il capo del Movimento deve constatare che il segretario del Carroccio «continua a pormi tante obiezioni». Mentre, sul versante delle nomine come delle deleghe, sono i grillini a fare inalberare in questi giorni il leghista Giorgetti. Sia chiaro, non c’è mai stata coalizione senza litigate furibonde. La Seconda Repubblica era fondata sui duelli: Prodi-D’Alema, Berlusconi-Fini. Semmai il «governo del cambiamento» ha introdotto la novità del premier apolide, che vive anche tecnicamente la sua solitudine: al Viminale Salvini può contare sui prefetti, alla Farnesina Moavero ha i diplomatici, mentre Conte non è stato ancora dotato di una squadra a Palazzo Chigi. C’è chi scommette che alla lunga saranno proprio le difficoltà a dargli lustro. Magari grazie anche il sostegno dell’enclave dei tecnici, che è il terzo governo nel governo, là dove si cerca di lavorare senza farsi condizionare dall’orientamento elettorale. Il titolare degli Esteri, per esempio, ogni qualvolta c’è una crisi diplomatica (e in tre settimane di governo se ne sono contate almeno tre) emette dispacci d’altri tempi. Ieri, nel bel mezzo del derby Italia-Francia, ha fatto sapere di aver «ricevuto il vice primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, lo sceicco Mohammed Bin Abdulrahman Bin Jassim Al-Thani. Nel corso del colloquio il ministro ha confermato l’impegno italiano a intensificare il dialogo politico e le relazioni bilaterali». Potrà sembrare lunare, invece serve a stemperare la tensione, mentre Salvini dà un anno di tempo all’Europa e nella crisi sull’immigrazione c'è il rischio che salti Schengen. Un pericolo che il leader leghista dovrebbe scongiurare per evitare di ritrovarsi contro i suoi stessi elettori. «Se si ripristinassero i controlli alla frontiera sarebbe un dramma per l’Italia», ricordava ieri l’azzurra Ravetto, presidente del Comitato parlamentare su Schengen nella legislatura scorsa: «La perdita annuale per l’economia del nostro Paese arriverebbe fino a dieci miliardi di euro, con una incidenza sulle famiglie di quattro euro a settimana sui soli prodotti alimentari». Perciò Moavero non parla in pubblico del gruppo di Visegrad e preferisce approfondire certi dossier con il Quirinale. Stesso atteggiamento di Tria, che non anticipa nulla della legge di Stabilità, nemmeno ai colleghi dell’Ecofin. Il titolare dell’Economia — che conosce la politica — teme di essere il vaso di coccio in mezzo ai due vasi di ferro del governo, ma sa che avrà un ruolo centrale appena le baruffe mediatiche dei leader saranno cessate. Grillini e leghisti per ora gli stanno con il fiato sul collo solo per la firma su una serie di nomine, ma lo attendono al varco sulla Finanziaria: per vedere come avrà fatto quadrare i conti «e per saggiare - come ha confidato un ministro - la sua tenuta psicologica». Raccontano che Tria a palazzo Chigi possa contare su particolare mental coach, il collega Savona, che l’ha spronato alla vigilia della sua prima trasferta europea: «Giovanni, tieni duro e tieni il punto. Su economia e immigrazione bisogna fare così».

Pag 3 Il rischio che le opinioni contino più della scienza di Luigi Ripamonti

Le parole di ieri del ministro Matteo Salvini a proposito dei vaccini, almeno per ora, vanno ascritte alla voce «opinioni». E come tali vanno rispettate. Ma se dovessero trasformarsi in atti che ricadono su tutti noi non potrebbero rimanere tali e dovrebbero essere sostenute da solide prove. Una riflessione sulla forza dei dati a favore dei vaccini appare qui superata. Sono già stati spesi fiumi di parole in proposito. E ampio è stato anche il dibattito sulla loro obbligatorietà e sulle ragioni di questa scelta. Inutile riproporre la discussione. Quello su cui è interessante riflettere ora, invece, è la discesa in campo diretta sul tema della figura emergente della politica italiana. Se il ministro è convinto di quello che ha detto si sente probabilmente in grado di provarlo davanti a una platea di esperti. In questo caso si deve supporre che, dato che la larghissima maggioranza del mondo scientifico è schierata a favore dei vaccini, il parere degli esperti (tranne quelli definiti «coraggiosi» dal ministro) non gode di molta considerazione. E allora il problema si fa più generale perché proprio questo ministro ha dimostrato di sapersi fare interprete del sentire del Paese. Ne discende allora che a essere in crisi potrebbe non essere solo la reputazione degli esperti sui vaccini, ma degli esperti in genere. Oggi i vaccini, domani qualcos’altro. E non per voce dello stesso ministro. Oggi, specie sui social network, l’informazione documentata è spesso messa all’angolo da quella che non lo è: la moneta cattiva caccia quella buona, è una legge economica. Isaac Asimov ammoniva però che non bisogna pensare che democrazia significhi che la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza. E un problema in più, nel caso in questione, è che non si tratta di ignoranza di chi non ha avuto il privilegio di studiare. L’ostilità ai vaccini è non di rado motivo di vanto in ambienti in cui il livello di istruzione è tale da far supporre di avere strumenti per sfidare la scienza medica, gli esperti insomma. Tom Nichols in «La conoscenza e i suoi nemici» (Luiss University Press), ricorda che il fisico Werner Heisember diceva: «Gli esperti sono quelli che conoscono i peggiori errori che si possono fare nel loro campo e sanno come evitarli».

AVVENIRE di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Il grido dei poveri di Eugenia Bonetti Occhi umani da ritrovare

La Giornata mondiale del rifugiato 2018 celebrata anche quest’anno il 20 giugno ha coinciso con una delle pagine più drammatiche della storia dei flussi migratori verso l’Italia e l’Europa: la vicenda della nave Aquarius, accompagnata da ripetute e offensive frasi pronunciate a livello governativo: «è finita la pacchia», «devono fare le valigie», «non possono decidere loro dove finire la crociera»... Affermazioni aggressive, il cui unico risultato è quello di far crescere rabbia, sentimenti razzisti e malcontento verso le vittime di un sistema che non viene nemmeno nominato, o viene evocato solo in seconda istanza: l’organizzazione criminale, di stampo mafioso, che alimenta il traffico di esseri umani, nuova schiavitù della nostra società. Invece di parlare delle persone in pericolo, costrette ad affrontare un viaggio difficile e a volte mortale, invece di pensare ai loro diritti violati, invece di riflettere sul fatto che in quei barconi, che solcano il Mediterraneo, ci sono padri, madri, figli e figlie, fratelli e sorelle, ci si concentra sugli interessi, i soldi, il possibile consenso politico. Tutto questo, per di più, avviene proprio in un momento in cui i dati danno delle informazioni chiare e precise. 1) Gli sbarchi di migranti in arrivo dal Nord Africa sono al livello minimo da quattro anni a questa parte. Dal 2014 al 2017, ogni anno sono sbarcati in Italia più di centomila migranti; nei primi cinque mesi del 2018 ne sono arrivati solamente 13mila (84,20% rispetto al 2017 nel lasso di tempo: 1 gennaio 19 giugno 2018), dice il Ministero dell’Interno. 2) Alla fine del 2017 le persone con una qualche forma di protezione internazionale sono circa 147mila, mentre quelle ancora in attesa e ospitate nelle strutture di accoglienza si può stimarle in circa 180mila (Rapporto della Fondazione Migrantes). A questi dobbiamo aggiungere i circa 600mila stranieri che vivono irregolarmente sul territorio italiano: persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno, o a cui è stata respinta la richiesta di asilo, e che continuano a vivere in Italia. Sembrano numeri enormi, ma vanno messi in prospettiva. L’Italia ha 60,5 milioni di abitanti, più o meno. Gli stranieri regolari sono poco più di 5 milioni, cioè l’8%. 3) Nigeria, Tunisia, Eritrea, Sudan sono i principali Paesi di provenienza. Molti migranti sono minori e donne e sono soggetti a maggior rischio di abusi e violenze sia durante il lungo viaggio che una volta arrivati qui. Nel frattempo, le situazioni dei migranti, in Italia, all’interno di Cas, Sprar, Cara, Cpr peggiorano a vista d’occhio, mentre le condizioni di vita di quanti sono sfruttati sessualmente o da datori di lavoro senza scrupoli sono ormai disumane. Eppure, senza carità e senza solidarietà umana, si parla quasi solo di repressione e di chiusure. Ma come mai abbiamo perso la memoria di quelle grosse navi che dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale, partivano da Venezia o da Genova con a bordo famiglie intere di italiani, cariche di speranze e di figli, in fuga dalla miseria e dirette verso il sogno di un futuro migliore? Molti di loro si sono inseriti in nuove realtà condividendo capacità specifiche e assumendo nuovi valori. Tra i tanti che sono partiti, anche il papà e i nonni di papa Francesco che si sono trasferiti in Argentina nel 1929. I flussi migratori non sono un fenomeno odierno, perché da sempre gli esseri umani, per diverse ragioni, hanno sentito il bisogno di muoversi e di mettersi in cammino. Un esempio su tutti, forse il più grande e significativo, è sicuramente quello della stessa Sacra Famiglia di Nazareth, bandita, esiliata, costretta a lasciare la sua terra e a bussare a porte sconosciute per trovare riparo e sicurezza, per salvare la vita al piccolo Gesù che un ricco e potente voleva togliere di mezzo per timore di perdere il proprio potere e le proprie ricchezze. L’immigrazione non è e non deve essere vista soprattutto come un problema, ma come una risorsa, incredibilmente bella e fruttuosa per l’Italia, vecchia e stanca, con una popolazione destinata a diminuire. L’immigrazione è una nuova linfa che rigenera vita e nello stesso tempo può essere una grande ricchezza di valori umani e di forza lavorativa a beneficio non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa e di ogni dove. Come non indignarci, infine, e sino all’urlo, di fronte al pianto dei bambini strappati ai genitori e rinchiusi nelle gabbie come 'deterrente' per coloro che vogliono emigrare negli Usa nella speranza di poter dare un futuro ai loro figli? È orribile e inumano ciò che sta capitando in quella superpotenza che ha perso la visione di un mondo globale e fraterno. Il grido dei poveri troverà ascolto al cospetto di Dio, mentre a ciascuno di noi sarà chiesto il conto alla fine della vita dei nostri fratelli e sorelle che non abbiamo saputo accogliere. Che possiamo sentirci dire: «Ero forestiero e tu mi hai accolto».

Pag 3 Finisce il “giogo” per la Grecia, gli 8 lunghi anni di Atene e Ue di Marta Ottaviani Chiuso un periodo drammatico, il Paese è da rianimare

Per la Grecia, almeno formalmente, è la fine di un incubo durato otto anni. Per l’Europa è una bella iniezione di ottimismo, che di questi tempi era necessaria. A patto che il banco non salti, perché l’incubo dell’austerity è finito, i problemi per l’economia ellenica no. Rimane il fatto che, dopo un negoziato durato otto ore l’altra notte, il ministro delle Finanze di Atene, Euklides Tsakalotos, ha ottenuto la fine del programma di aiuti da parte dei creditori internazionali ma, soprattutto, ha spuntato misure per alleggerire il debito e dare quindi al governo Tsipras la possibilità di fare ripartire l’economia, con l’opportunità di tornare a finanziarsi direttamente sui mercati. L’ENTUSIASMO DI BRUXELLES - L’accordo è stato salutato con una comprensibile forte soddisfazione da parte delle autorità europee, un po’ perché per prime sperano che la 'tragedia greca' sia finita, un po’ per oggettiva necessità, visti i tempi di nuovi nazionalismi ed euroscetticismo. «Questo è un momento storico – ha affermato il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker –. Combatterò sempre per la Grecia, perché resti in Europa, voglio rendere omaggio al popolo greco per la capacità di recupero. I loro sforzi non sono stati vani». E di «storico accordo» ha parlato lo stesso premier Tsipras, scherzando poi sulla cravatta che dovrà ora indossare. Anche il numero uno della Bce, Mario Draghi, con un comunicato pubblicato sul sito dell’istituzione, ha fatto pervenire il suo apprezzamento per la chiusura dell’accordo. In pratica, l’Eurogruppo ha concesso alla Grecia di uscire dal programma di aiuti finanziato da Commissione Europa, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, la spesso famigerata troika. L’ultima tranche di prestito, per 15 miliardi di euro, è fissata per il prossimo 20 agosto. Atene potrà posticipare di 10 anni il pagamento del prestito di 110 miliardi di euro previsto dal vecchio fondo salva-Stati, più altri 10 anni senza sanzioni se non dovesse riuscire a ripagare nei tempi previsti. In tutto, ad Atene, i creditori internazionali hanno concesso oltre 240 miliardi di euro di finanziamenti. Cifra che Atene ha già in parte restituito, perché quei soldi sono andati a confluire nelle banche dove erano più esposti i Paesi che hanno partecipato al maxi-prestito. Un particolare, questo, non da poco, perché avvalora l’accusa dei principali oppositori dell’austerity, ossia che di soldi alla Grecia per evitare il default e fare ripartire l’economia ne siano rimasti ben pochi. GLI ANNI DEL CONTRASTO - I presupposti perché la Grecia finisse fuori dall’Eurozona c’erano tutti e in questi lunghi otto anni non sono mancati momenti di forte contrasto. Tutto è iniziato nel 2009, quando le agenzie di rating internazionale hanno abbassato le previsioni sul debito, facendo capire che temevano un default del Paese. Il premier di allora, il socialista George Papandreou, opera i primi tagli e corre ai ripari. Ma non basta. L’Ellade è costretta a sottoscrivere il primo pacchetto di aiuti internazionali da 110 miliardi di euro. Per il popolo greco è l’inizio di un calvario fatto di privazioni e sacrifici che continua ancora oggi. La situazione politica è instabile, gli scioperi sono all’ordine del giorno e nemmeno la nomina del premier 'tecnico' Lukas Papademos porta a un miglioramento della situazione nel Paese. L’economia greca è ferma, la disoccupazione tocca il 25%, il valore più alto in Europa, con punte del 50% in quella giovanile. È il 2012. Viene sottoscritto un secondo pacchetto di aiuti, questa volta da 130 miliardi di euro, a fronte di nuovi tagli e sacrifici. Le strade di Atene si fanno roventi. Spesso le manifestazioni di protesta finiscono con scontri con la polizia e danni alla città. Sulla scena politica nazionale comincia a brillare la stella di Alexis Tsipras, classe 1974, ingegnere elettronico, con un passato da politico regionale in formazioni comuniste. Viene fondato Syriza, una confederazione di partiti di sinistra in cui convergono diverse anime. Alle elezioni anticipate del 2015, Syriza ottiene il 36,4% dei consensi, promettendo la fine dell’austerity. In Parlamento entra anche la formazione neonazista, Alba Dorata, che diventa il terzo partito, grazie a una politica anti-europea e anti- migranti, che cominciano ad arrivare in Grecia a migliaia a causa dell’aggravarsi della crisi siriana. LA SFIDA DI ATENE - Per il giovane premier e la sua squadra, la strada si presenta tutta in salita. Il ministro delle Finanze dell’epoca, Yiannis Varoufakis, inizia un tour dei Paesi più in difficoltà dell’Eurozona. L’obiettivo è quello di affrontare a muso duro i burocrati di Bruxelles e, in particolare, il 'falco dell’austerity', il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Il tentativo si rivela ben presto un fallimento, e Atene si ritrova sola a cercare di fare saltare un banco più grande di lei. Ad aumentare le difficoltà, c’è anche l’atteggiamento troppo istrionico di Varoufakis, che non viene considerato un interlocutore affidabile dall’Eurogruppo. Il 2015 è un anno drammatico. In luglio viene convocato un referendum, con il quale il popolo greco dice un secco 'no' agli aiuti internazionali (e agli obblighi conseguenti). Le banche chiudono per mancanza di contante, la popolazione è alla fame. Nonostante il risultato del referendum, Tsipras è costretto a sottoscrivere un terzo pacchetto di aiuti da 86 miliardi di euro, che viene approvato durante la notte dal Parlamento, con una seduta che tiene tutta Europa con il fiato sospeso. A settembre si torna a votare. Il giovane premier vince di nuovo, ma l’entusiasmo che accompagna la sua riconferma non è quello dei mesi precedenti. IL 'NUOVO TSIPRAS' - La lezione del 2015 lascia un segno e, dopo una fase più 'rivoluzionaria', diventa sempre più pragmatico. Al posto di Varoufakis, che se ne va in aperta polemica con il premier, viene scelto Euklides Tsakalotos, un economista che parte da posizioni anche più radicali di Varoufakis, ma che si rivela ben presto l’uomo chiave per traghettare la Grecia fuori dall’inferno e un interlocutore affidabile per Bruxelles. Per governare, Tsipras ha dovuto accettare l’alleanza con la formazione di destra dei greci indipendenti. Questa scelta e la prosecuzione, di fatto, delle politiche di austerity gli procurano un brusco calo nei consensi. La crisi dei migranti fra il 2015 e il 2016 tocca il suo punto più alto e le immagini del campo di Idomeni fanno il giro del mondo. L’accordo firmato con la Turchia per fermare il flusso porta un miglioramento della situazione, ma le condizioni della popolazione rimangono critiche. Il primi ministro dimostra di saper lavorare sul lungo termine. Chiude un contenzioso durato anni con l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Fyrom, che convince a cambiare il nome in Repubblica di Macedonia del Nord. In patria viene accolta male, ma Bruxelles applaude. Dopo pochi giorni, arriva quello per cui Tsipras si batte da anni: la ristrutturazione del debito e la liberazione dalle politiche di austerity. UN FUTURO INCERTO - Dal 20 agosto, quindi, la Grecia sarà libera da quello che è stato considerato il 'giogo' dei creditori internazionali. Ma il Paese non è del tutto al sicuro. La popolazione è allo stremo, gli stipendi hanno perso potere di acquisto e, sebbene dal Pil siano arrivati segnali positivi, si ha davanti un Paese provato da anni di austerity, che per troppo tempo ha avuto un settore pubblico ipertrofico e che, soprattutto, non dispone di una vera economia industriale. Il pericolo che si ritorni sui propri passi è dietro l’angolo, a maggior ragione se si considera che nell’autunno 2019 la Grecia tornerà alle urne. Per questo, nei prossimi anni, Atene sarà sicuramente una 'sorvegliata speciale'. Rimane da vedere cosa sarà in grado di fare Tsipras se rieletto. Il giovane premier è riuscito a concedere un minimo di assistenza alle famiglie più bisognose, troppo poco, però, davanti a quella che molti considerano una vera emergenza umanitaria. Certo, il premier non ha ancora combattuto in maniera efficace quella che rimane la più grande piaga del Paese e la cui sostanziale riduzione potrebbe determinarne un futuro più roseo: l’evasione fiscale.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Migranti, silenzi colpevoli di Stefano Allievi I toni di Salvini

Le politiche migratorie adottate da quello che appare fino ad ora come il vero presidente del consiglio, o almeno colui che detta l’agenda del governo ed è artefice della sua visibilità, Matteo Salvini, corrispondono a quanto da sempre promesso dalla Lega e richiesto dai suoi amministratori. Da un lato una stretta sugli arrivi, già cominciata attraverso i primi respingimenti: peraltro iniziata da due anni, con le iniziative del ministro dell’Interno del precedente governo, Minniti, con cui gli arrivi si sono significativamente ridotti (meno 83,67% rispetto al 2017, meno 79,98% rispetto al 2016, ancora di più rispetto al 2015); ma portate avanti con maggior vigore simbolico dal ministro Salvini: respingimenti e chiusura dei porti, appunto, e non solo politiche per impedire le partenze, come in passato. E dall’altro la promessa di energiche politiche di espulsione, ancora da attivare. E’ evidente che gli amministratori leghisti, a cominciare dal presidente veneto Zaia, non potranno che plaudire, avendo sempre chiesto le medesime cose a partire dai territori. Il loro silenzio significa adesione e consenso. E’ forse un po’ meno spiegabile, invece, il silenzio sulle modalità con cui tali politiche sono perseguite: lo stile (o la mancanza di stile) che le caratterizzano. Con elementi di bullismo istituzionale e di linguaggio ai limiti dell’accettabilità democratica, e qualche volta della denuncia per «hate speech». Non solo quando parla di «crociere» a proposito di sbarchi, di «fine della pacchia» per gli immigrati e chi li ospita (che fa un lavoro che altrove fa lo stato), di organizzazioni non governative come «avvoltoi», di italiani rom che «purtroppo ce li dobbiamo tenere» – dimenticando che, in quanto ministro, lo è anche dei rom italiani, delle Ong e dell’associazionismo, e di tutti quelli che non sono d’accordo con lui. Lo sottolineiamo perché Zaia – e va a suo merito – ci ha abituato invece a uno stile più sobrio e trattenuto, più confacente al ruolo istituzionale, mai insultante e capace anche di rimbrottare gli eccessi verbali di taluni suoi amministratori e compagni di partito. Lo diciamo, anche, perché tale atteggiamento del governo rischia di avere ripercussioni devastanti sulla pace sociale nei territori, che invece la perseguono, o dovrebbero perseguirla, come obiettivo fondamentale, nel loro interesse. Il conflitto permanente ha dei costi, e se pure lo si dichiara nei ministeri, i suoi effetti negativi si fanno sentire nelle amministrazioni locali costrette a gestirli. Sarà perché, a sinistra, siamo abituati al perenne, eccessivo, defatigante dibattito interno al Partito Democratico, in cui qualunque cosa dica chiunque è segretario, immediatamente viene criticato dalla sua temporanea minoranza (possibilmente più di una, con argomenti diversi), spesso anche solo per rimarcare il punto, senza alcun vero obiettivo strategico. Per non parlare delle infinite anime della sinistra a sinistra del PD, capaci di arrivare alla scissione dell’atomo pur di non rischiare di ottenere consenso: un po’ come quei giovani che cercano lavoro sperando di non trovarlo… O sarà perché, anche a destra, prevalevano in passato le discussioni interne tra l’ala governista moderata e quella radicale di Forza Italia (i Tajani o i Romani da un lato, e i Brunetta dall’altro). O, ancora, sarà perché persino nel Movimento 5 Stelle, uscito dall’ingombrante tutela di Beppe Grillo che tacitava ogni dissenso sradicandolo brutalmente al primo manifestarsi, assistiamo all’emergere plateale di una dialettica interna tra la componente iperistituzionale di Di Maio e quella più movimentista rappresentata dal presidente della camera Fico. Sarà per tutto questo, ma un po’ ci stupisce, invece, l’assenza assoluta di dibattito interno a quello che si configura come l’ultimo partito leninista rimasto, gestito con un ferreo centralismo poco democratico, la Lega: il fatto che non uno dei suoi colonnelli si azzardi anche solo a suggerire una minima, almeno tattica, moderazione dei toni – come se non ci fosse il diritto non diciamo al dissenso, ma anche solo all’espressione di una posizione personale. E ci inquieta, pensando che la capacità di confronto, e di ascolto reciproco, che può sembrare di inciampo quando si tratta di condurre una dura opposizione, è invece non solo auspicabile, ma indispensabile e strategica, quando si diventa partito di governo. Come la Lega di Zaia sa bene, rappresentando il governo regionale e locale da molti anni. Come la Lega di Maroni ministro dell’Interno sapeva. Come la Lega di Salvini suo omologo non sa o non vuole. Facendo crescere la conflittualità interna ed esterna. Che è precisamente il contrario di ciò che dovrebbe fare un ministro dell’Interno.

IL GAZZETTINO di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 La strigliata ai politici: responsabilità, non principi di Luca Ricolfi Elettori ed eletti

Domani i rappresentanti di una decina di Paesi, fra cui (forse) anche l'Italia, si incontreranno a Bruxelles per preparare il Consiglio europeo del 28 giugno. Immersi fino al collo nelle miserie della politica nostrana, rischiamo di non renderci conto che, da come andranno questi due incontri, dipenderà il futuro dei cittadini europei, e non solo di essi. Quanto disperata sia la situazione europea lo ha invece visto lucidamente Niall Ferguson, editorialista e professore di storia, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su The Sunday Times. Scettico fino a qualche tempo fa sulle ragioni della Brexit, ora si sta convincendo che non avevano tutti i torti i fautori dell'uscita dall'Unione Europea quando osservavano che uscire altro non era che scendere da una barca che affonda. Ora quella barca potrebbe cominciare ad affondare davvero, non per l'austerità, non per le regole sul deficit e sul debito, non per i problemi della povertà e della diseguaglianza, non per disaccordi sull'unione bancaria, o sul bilancio comune, o sul costituendo Fondo Monetario Europeo. No, l'Europa rischia di affondare, più o meno lentamente, su un unico problema: la gestione dei migranti. Un problema che Ferguson descrive con un aggettivo, intrattabile (intractable), che i matematici riservano ai problemi per i quali non esistono strumenti, non dico per risolverli, ma nemmeno per provare ad attaccarli. Da dove viene tanto pessimismo? Per Ferguson l'intrattabilità del problema migratorio ha due radici. La prima è la difficoltà di far coesistere i valori culturali dell'Occidente con quelli dell'Islam. La seconda è che milioni di africani intendono raggiungere l'Europa, ma «la frontiera meridionale dell'Europa è quasi impossibile da difendere da flottiglie di migranti, a meno che i leader europei siano preparati a lasciarli annegare». La differenza fra Europa e Stati Uniti sarebbe che all'America per evitare la guerra civile basta chiudere la frontiera con il Messico (è impensabile un'invasione dal mare), mentre questa strada è quasi impossibile da percorrere in Europa, perché il Mediterraneo è una frontiera indifendibile: uno dei tanti casi in cui è la geografia che fa la storia. È convincente una simile diagnosi? Per certi versi no. Se il problema è evitare la guerra civile, si potrebbe osservare che forme di guerra civile possono prender piede non solo perché si lasciano aperte le frontiere, ma anche perché le si chiude. Non so se, dopo la guerra civile per l'abolizione della schiavitù (1861-1865), vi sia mai stato nella storia americana un periodo in cui i cittadini statunitensi siano stati divisi come lo sono oggi, grazie a un presidente divisivo come Trump. Per l'Europa, però, forse la diagnosi di Ferguson è solo incompleta, più che sbagliata. Quel che manca, a mio parere, è la risposta alla domanda: perché la classe dirigente europea è arrivata a questo punto? Perché ha dovuto attendere che in Italia andassero al potere i cosiddetti populisti per scoprire il problema migratorio? Che cosa ha fatto sì che quasi tutti i governi occidentali più illuminati (o presunti tali) abbiano sonnecchiato in questi anni? Temo che, in ultima analisi, la risposta sia quella che, se fosse vivo, oggi darebbe Max Weber: hanno sostituito l'etica della responsabilità con l'etica dei principi (o etica della convinzione). La classe dirigente europea si è mossa come se i valori della cultura occidentale, a partire dalla filosofia dei diritti umani, avessero validità universale, e come se il sogno cosmopolita di un'unica comunità mondiale, con le relative istituzioni e la relativa polizia internazionale, fosse già realizzato. I politici che ora faticosamente cercano di non far deflagrare l'Europa, per decenni si sono dimenticati che gli Stati esistono ancora, e che è ai cittadini degli Stati che devono rispondere, se non altro perché è dagli elettori che dipende la loro permanenza al potere. Da questa dimenticanza è scaturita la retorica con cui, in tutti questi anni, si è parlato dei migranti, trattando l'accoglienza come un dovere inderogabile, e assimilando di fatto ogni legittima aspirazione a cambiare Paese come un diritto inalienabile della persona umana, valido verso qualsiasi Paese e in qualsiasi circostanza. La cosa ha funzionato finché i migranti erano veri rifugiati (come nei primi decenni del dopoguerra), o erano poco numerosi, o erano tanti ma utili alle nostre imprese e alle nostre famiglie. Ma non ha funzionato più quando l'imperativo di salvare i naufraghi si è scontrato con l'indisponibilità di vasti settori dell'opinione pubblica europea ad accogliere i migranti nel modo massiccio, disordinato e irregolare degli ultimi anni. Quel che gli elettori europei hanno cominciato a fare, in altre parole, è di richiamare i propri governanti all'etica della responsabilità: che non significa semplicemente valutare le conseguenze delle proprie azioni (in questo caso le conseguenze dell'accoglienza senza se e senza ma), ma valutarle innanzitutto in relazione ai cittadini da cui traggono la loro legittimazione, che non sono i cittadini del mondo ma i cittadini di uno specifico territorio, con le sue tradizioni, i suoi valori, i suoi bisogni e interessi. È questo che, a mio parere, ha spiazzato molti governanti europei. È come se, a un certo punto, l'opinione pubblica europea avesse voluto ricordare ad ogni Capo di Stato di essere, per l'appunto, solo un capo di stato, non il Papa di Roma. Il quale Papa può permettersi di invitare all'accoglienza universale, ignorando le conseguenze delle sue parole sui cittadini europei, per un ottimo motivo: come ogni autorità spirituale, ogni predicatore, ogni rivoluzionario, ogni convinto sostenitore di una causa, il Papa agisce secondo l'etica dei principi, non secondo l'etica della responsabilità. La sua constituency, il suo bacino elettorale, è l'umanità intera, non certo quella minuscola porzione che è l'Italia o l'Europa. La paralisi dell'Europa è anche la conseguenza di questo lungo sonno della rappresentanza. Orgogliosa di indicare la via al mondo intero, la classe dirigente occidentale (non solo europea) si è mossa come se essa fosse la guida morale del mondo, e al tempo stesso la paladina dei diritti di tutti. Ma era un film, un film girato essenzialmente per sé medesima. Gli stessi che si autoproclamavano paladini dei diritti di tutti, non esitavano a calpestare quei medesimi diritti quando interessi economici, strategici, geopolitici suggerivano l'intervento (a quante guerre umanitarie o di liberazione abbiamo dovuto assistere?) o, ancora più tragicamente, consigliavano l'astensione (ricordate i massacri del Ruanda?). L'origine dell'ondata populista forse è anche qui. Di fronte a una classe dirigente che si autopercepisce come un'autorità spirituale, ma agisce come il più temporale dei poteri, i cittadini europei hanno cominciato a presentare il conto. La lebbra populista che sale in Europa, contrariamente a quanto pensa Macron, non è un morbo di origini misteriose. Quel morbo (ammesso che sia tale) è stato accuratamente coltivato nelle cancellerie europee, là dove, lentamente e quasi inavvertitamente, l'etica della responsabilità, che dovrebbe essere il faro di una vera classe dirigente, ha ceduto il passo all'etica della convinzione, che si addice ai profeti, non a chi vuole governare un continente.

Pag 1 Ma Macron ha poco da rimproverarci di Bruno Vespa

Matteo Salvini è un uomo fortunato. Anche chi non ama i suoi toni esasperati, perfino chi non ne condivide la durezza nei confronti dei migranti, deve arrendersi dinanzi all'ipocrita arroganza di paesi europei grandi e piccoli. Il presidente francese Emmanuel Macron accusa il governo italiano di essere affetto da lebbra populista', con evidente riferimento al nostro ministro dell'Interno che gli ricambia la cortesia ogni giorno. Una espressione del genere sarebbe stata bene in bocca a Churchill nei confronti del primo Hitler, ma è sorprendente e inaccettabile che venga usata dal capo di un paese si diceva una volta amico e alleato'. La realtà supera la fantasia. Il governo italiano sta comportandosi esattamente come quello francese a Ventimiglia e a Bardonecchia con alcune significative differenze. 1. Non malmeniamo e respingiamo donne incinte disperse nella neve. 2. Non sconfiniamo in Francia per impedire che qualche migrante attraversi la frontiera. 3. Continuiamo a raccogliere, assistere e portare in Italia molte centinaia di profughi con le nostre navi militari. 4. Ne abbiamo raccolto e ospitato centinaia di migliaia, mentre aspettiamo che la Francia si prenda i novemila che ancora le spetterebbero secondo il piano europeo dei ricollocamenti. La stessa Angela Merkel è sorprendente. Come può una leader della sua esperienza concordare con Macron un documento che se non fosse stato precipitosamente ritirato più che un appunto di conversazione' per il vertice di domani sarebbe stato un cappio al collo per l'Italia? Invece di non far arrivare più migranti, in sostanza, avremmo dovuto riprenderci quelli sconfinati in altri paesi europei, in attesa che i paesi africani accettino di tenerseli. Bene ha fatto perciò il premier Conte a minacciare la diserzione del tavolo di Bruxelles, come hanno annunciato i quattro di Visegrad. Agli ordini del focoso premier ungherese Orbàn, polacchi, cechi e slovacchi fanno sapere che le loro frontiere sono già chiuse. Attentissimi ai benefici economici dell'ingresso nell'Unione europea, questi paesi strappano la pagina dei doveri di solidarietà. E bene ha fatto il governo italiano a minacciare il veto al saldo di tre miliardi dei sei dovuti alla Turchia per il blocco della frontiera orientale se non arriveranno un po' di soldi anche a noi. L'obiezione che viene mossa alla fermezza del governo è il rischio dell'isolamento dell'Italia. Torna alla mente la vecchia, famosa espressione che gli inglesi usavano prima di adottare il sistema metrico decimale: la Manica è in tempesta, l'Europa è isolata. Noi non siamo una potenza imperiale come la Gran Bretagna di allora. Ma senza Italia l'Unione europea non esisterebbe. E senza di noi non sarebbe esistito (e non esisterebbe) nemmeno l'euro. Perciò ci fecero entrare nel club della moneta unica pur sapendo che non avremmo mai raggiunto il 60 per cento nel rapporto tra debito e prodotto (eravamo nel '97 al 121 per cento, siamo al 130). E allora facciamoci forti delle nostre debolezze. Con equilibrio e buonsenso, certo. Ma insomma PS. Ieri il Financial Times ha pubblicato con grande evidenza la lettera di un economista americano dal titolo: Fu la Germania, non l'Italia, l'anomalia della zona euro. Conclusione: Non sarebbe giovevole assolvere i partner dell'Italia e in particolare la Germania dalle loro responsabilità nell'aver creato gravi squilibri nelle disfunzioni dell'unione monetaria europea. Rifiutandosi costantemente di riequilibrare i loro surplus, Germania e Olanda impediscono alla Banca centrale europea di assicurare la stabilità del sistema e tengono gli italiani in ostaggio nella camera di tortura dell'euro. Niente da aggiungere.

LA NUOVA di sabato 23 giugno 2018 Pag 1 Basta sparate, o si vota o si governa di Bruno Manfellotto

Si chiude oggi una campagna elettorale che, a ben vedere, va avanti da due anni, cioè dal referendum choc del 4 dicembre. E lunedì si apre una settimana in cui sarà esaminato al microscopio l'esito dei ballottaggi di domani che riguardano un centinaio di Comuni, tutti importanti, alcuni fortemente simbolici. Anche se si tratta di scelte locali, di nuovi sindaci e liste civiche, è chiaro che nelle valutazioni del dopo prevarranno le tendenze generali. Due settimane fa abbiamo assistito alla clamorosa débacle dei Cinque Stelle (che infatti hanno strappato pochi secondi turni), l'affermarsi prepotente della Lega e l'arretramento del Pd; al momento del ballottaggio, però, suonerà tutt'altra musica perché la sfida sarà, come nella lunga stagione prima del Rosatellum, tra centrodestra e centrosinistra. Solo che stavolta per la vittoria dell'uno o dell'altro fronte peseranno in modo decisivo i voti grillini. Per Matteo Salvini sarà la prova del nove di una strategia spregiudicata capace finora di far convivere la fedeltà all'alleanza di centrodestra, Silvio Berlusconi compreso, che viaggia unita verso la fatidica quota 40, con toni e comportamenti del più ferreo lepenismo: vedremo se pagano i tweet brutali e gli affondo aizzapopolo sulla scorta a . Ma l'appuntamento è assai importante anche per il Pd, e di riflesso per i 5S: può accadere infatti che una parte del voto finito al Movimento torni alla casa abbandonata, e questo consentirebbe alla sinistra di arroccarsi in alcune città chiave, come quelle della Toscana rossa: Siena, Carrara, più difficilmente Pisa. Per il Pd sarebbe un risultato decisivo, mentre per i 5S suonerebbe come un campanello d'allarme: forse molti seguaci di Luigi Di Maio non condividono la scelta governista e meno ancora la subalternità del vice premier all'agenda dello scatenato socio Salvini. Però, comunque vadano le cose - e sempre che Salvini non voglia rompere il giocattolo per portarci tutti alla conta finale - ora si penserà finalmente a governare, attività finora molto rumorosa e contraddittoria negli annunci, ma poco concreta nei fatti. Facendo anche attenzione che l'onda lunga del voto non arrivi a lambire il gabinetto dell'avvocato Conte, peraltro già diviso su questioni di fondo. Se c'è tensione sui mercati e lo spread è pur sempre molti punti sopra l'anno scorso è proprio perché c'è ancora buio totale sui provvedimenti in cantiere. Certo, la questione più calda è quella dei migranti. Angela Merkel, che nel suo paese sta soffrendo proprio per questo, sembra decisa ad aiutare l'Italia. L'annuncio che le discussioni ripartiranno da zero, cioè senza tener conto della bozza di accordo già circolata di cui l'Italia non sapeva niente va in questa direzione. Ma mentre questa mediazione avviene, complice il premier Conte che cerca di barcamenarsi tra Bruxelles e via Bellerio, certo non aiutano le sparate di Salvini e tanto meno i suoi sogni di alleanza con l'Austria e i paesi baltici (che più si oppongono a una divisione dei migranti tra tutti i paesi europei): sembra quasi che non cerchi un accordo, ma insegua la fine dell'Ue e dei suoi trattati. Questo non rafforza l'Italia, piuttosto isolandola la indebolisce sempre più. Specie alla vigilia di due vertici ai quali l'Italia andrà come al solito a chiedere comprensione e flessibilità. E anche sul resto le cose non sono affatto chiare. Presentando il prossimo piano economico e finanziario (Def), il ministro dell'Economia Tria si è prodotto in una doppia capriola cercando di salvare le promesse del contratto e di tenere i conti a posto. La scommessa riguarda la possibilità di trovare le risorse necessarie lanciando un piano di investimenti pubblici, da scomputare dal deficit, capaci di rilanciare la crescita. Ma mentre questa è incerta e di lungo periodo, i soldi per pensioni, flat tax e reddito di cittadinanza sono tanti, immediati e certi. Bruxelles storce il naso e se mollerà qualcosa sui migranti è difficile che faccia lo stesso, e contemporaneamente, anche per gli obblighi finanziari. Contratto o no, se ne riparlerà tra un anno.

Pag 1 I dazi di Trump ci portano nel baratro di Franco A. Grassini

Che Trump fosse anche in campo economico un pericolo lo sapevamo sin dal tempo della sua elezione, ma ora che la guerra commerciale, con reciproci aumenti dei dazi doganali, ha preso avvio può valere la pena di valutare le probabili conseguenze. Stime al riguardo sono quasi impossibili, ma fortunatamente ci ha provato il premio Nobel per l'economia Paul Krugman. Questi era uno tra i tanti che pensava l'influenza delle grandi imprese, che sarebbero gravemente danneggiate da un conflitto del genere, potesse ancora prevalere sul populismo del presidente degli Stati Uniti. Krugman, dunque, si è avventurato nello stimare tre probabili fenomeni. Il primo è il livello delle tariffe doganali cui si arriverà dopo che tutti i Paesi toccati tenderanno a modificare le loro in tempi non troppo lunghi. Qui il menzionato autore, a differenza di altri che pessimisticamente parlano di 60 per cento, pensa che mediamente si arriverà al 40 per cento. Saremmo, cioè, più bassi di quel 59 per cento raggiunto negli Stati Uniti nel 1932 nel tentativo di contenere gli effetti disastrosi della crisi avviata da un triennio. Questo farebbe sentire meno colpevoli i governi coinvolti. La seconda stima di Krugman è relativa alle conseguenze di dette nuove imposte sul commercio internazionale. Qui, con molte incertezze e la tenue speranza di sbagliare, il premio Nobel arriva a considerare una riduzione di ben il 70 per cento degli scambi. Torneremmo, cioè, ai livelli degli anni Cinquanta quando di globalizzazione non si era nemmeno iniziato a parlare e gli sforzi di tutti erano volti a ricostruire quello che la guerra aveva distrutto. La terza e quasi ultima stima di Krugman riguarda l'impatto del nuovo protezionismo sul reddito nazionale. I numeri sono molto più piccoli di quelli che ci si poteva aspettare: 2-3 per cento in funzione dell'importanza che hanno gli scambi nei diversi Paesi. Questo non significa, per altro, che le conseguenze siano meno negative in termini sociali di quello che gli anti protezionisti temono e propagandano. Krugman, infatti, valuta che negli Stati Uniti le esportazioni rappresentano il 12 per cento del reddito nazionale di cui la parte effettivamente prodotta in loco si aggira tra il 9 per cento ed il 10 per cento. Ne deriva che 9 o 10 milioni di lavoratori saranno disoccupati senza considerare che spesso gli stessi sono concentrati in alcune località e questo determinerà minori consumi e riduzione dell'occupazione anche nel settore dei servizi. Insomma un vero disastro. E per noi italiani? Anche se non raggiungiamo il 3 per cento del commercio mondiale siamo il nono Paese al mondo. Abbiamo esportato nel 2017 per Euro 448.107 milioni, pari al 31 per cento del reddito. Un'incidenza quasi tre volte quella degli Stati Uniti. Anche le importazioni, pari a 400. 659 milioni di euro svolgono un ruolo di primo piano nel nostro sistema e non sarebbero facilmente sostituibili. Dal 2010 le nostre esportazioni sono sempre in crescita e dal 2012 abbiamo un saldo positivo. Insomma se il commercio mondiale si riducesse drammaticamente come previsto da Krugman ne pagheremmo conseguenze più dure che negli Stati Uniti. Dobbiamo, allora, disperarci? Per fortuna no. A novembre gli americani voteranno ancora e la maggior parte degli osservatori pensa che i repubblicani perderanno la maggioranza nel Congresso. Certo il Presidente ha molte possibilità in campo di commercio mondiale, ma ci sono molti fatti che possono portare ad un suo impeachment. È molto triste dover contare su elettori non sempre saggi, ma in fondo la democrazia è questo.

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