BIBLIOTECA Del Centro Novarese Di Studi Letterari Collana Di Letteratura Italiana Dell’800 E ’900

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BIBLIOTECA Del Centro Novarese Di Studi Letterari Collana Di Letteratura Italiana Dell’800 E ’900 BIBLIOTECA del Centro Novarese di Studi Letterari collana di letteratura italiana dell’800 e ’900 64 SAGGI E TESTI Giovanni Tesio LA POESIA AI MARGINI NOVECENTO TRA LINGUA E DIALETTI INTERLINEA Pubblicazione realizzata con il contributo del Dipartimento di Scienze della Formazione – cofinanziamento MIUR PRIN 2008 © Novara 2014, Interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-416-8 In copertina: illustrazione di John Tenniel nella prima edizione di Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carrol, MacMillan and Co., London 1865 SOMMARIO Presentazione p. 7 SGUARDI La poesia dialettale del primo Novecento » 11 Il “laboratorio visibile” degli anni novecentosessanta » 23 Il Novecento della poesia in dialetto tra identità e alterità » 33 PROFILI Per una lettura della poesia di Piero Chiara » 49 La poesia di Leonardo Mancino come coscienza morale della storia » 61 Sui Canti di vita di Romualdo Pàntini » 71 Emanuele Sella, un poeta (dimenticato) tra orrore e rapimento » 83 Pinin Pacòt, un poeta in movimento dall’idiomatico all’universale » 93 Le canzoni di Gipo » 107 Excursus marginale sulla poesia Ad ora incerta di Primo Levi » 113 Ove la guerra «è più torva». Appunti di lettura per Le poesie sparse di Clemente Rebora » 121 I tempi di Blotto tra «l’orrida fiaba» e la sorpresa dell’«enfin!» » 135 Giorgio Calcagno, sul sentiero dei luoghi » 147 La voce di Tusiani, un dialettale in rima tra l’America e il Gargano » 155 Poche pagine per Arpino poeta » 163 «Nell’arcano della vita» di Umberto Bellintani » 173 SGUINCI Amedeo Giacomini nel grembo di Saturno » 183 Su Paolo Bertolani » 187 Mauro Marè, un “belliano” di ritorno » 191 Eugenio Tomiolo dall’uomo a Dio » 195 Achille Serrao, oltre la «canniatura» » 199 Antonio Bodrero, al confine tra la terra e il cielo » 203 Pierluigi Cappello e le prescrizioni del corpo p. 209 Renato Pennisi e lo scarso parlare » 215 Nel cuore del «nagghjìre»: a proposito della poesia di Francesco Granatiero » 219 Franca Grisoni tra cura e cura » 223 La «fodera del mondo» di Valeria Rossella » 229 Claudio Salvagno: l’armata “altra” della poesia » 235 Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce » 241 Augusto Blotto, da un «angolo di pianura» a un’invincibile vocazione d’«eternità» » 245 Tavo Burat, un impegno per l’ignoto » 251 Bianca Dorato, l’indicibile destino dell’altrove » 255 DINTORNI L’«amore lontano» di Sebastiano Vassalli » 263 Appunti su Nigra poeta » 271 L’ombra della stella » 279 Pavese e la gloria: la costanza di un’idea-guida » 285 Il peso del “contenuto”. Alcune considerazioni su parola e cosa » 295 Nota bibliografica » 311 PRESENTAZIONE Confesso di avere molto esitato prima di decidermi – dopo un Nove- cento in prosa – a mettere insieme un mio Novecento in poesia. Per più ragioni, ma per due ragioni in particolare. Prima ragione: timore di cedere a una indebita vanità, consapevole come sono dell’ombra che vigila su tutte le nostre cose. Seconda ragione: timore di rivelare trop- po scopertamente la mia vocazione ai viottoli più che alle carreggiate; in altre parole, di mostrare a chiare lettere che il mio Novecento in poesia è stato un Novecento di margini e di bordi (il che non significa incapace di sorprese e di vere e proprie rivelazioni). Ma poi mi sono deciso alla pubblicazione (in volume) quasi per le stesse ragioni che mi avrebbero dovuto indurre a soprassedere. Cedere a una vanità non proprio presuntuosa, indicare le linee (solo per caso vittoriose) di un Novecento per lo più sottratto al gioco del canone. In tanta (e non poco frustrante) ricerca di nomi saldi dalla cui riconoscibilità ricevere il legittimo grado di autenticazione critica, mostrare insomma – senza autoflagellazioni, indizio di un orgoglio mascherato – una resistenza o uno slancio di passione che inducono a procedere. D’altra parte devo riconoscere (riconoscermi) che zappetto l’orti- cello da un bel po’ di anni, e che ho seminato, tolto erbacce, sarchia- to, accompagnato fiori al loro compimento. Qualche volta parendo- mi dolce il sapore dei frutti, qualche altra amaro e persino agro. Ho recensito poeti per quarant’anni su riviste e su un quotidiano, scritto prefazioni per più di un poeta e più volte per qualche poeta, ho letto molta poesia e a volte m’è sembrato di comprendere qualcosa, di riu- scire a condividere con qualcuno quanto mi è parso via via di scor- gere. Non dirò che molti mi abbiano ascoltato, ma i miei venticinque lettori posso ben dire di averli avuti (letteralmente e non metaforica- mente) anch’io: non fossero altri che i poeti convocati nelle piccole imprese editoriali a cui ho contribuito nel tempo a dare vita. Potrò dunque strappare dall’empireo critico un sintagma che appartiene a tutto titolo a un maggiore dei maggiori? Potrò parlare anch’io di «lunga fedeltà», specie se penso alla poesia più ancora che ai poeti? Così facendo, mi parrebbe di attenuare il peso della mia ina- 8 GIOVANNI TESIO deguatezza perché potrò pur sempre appoggiare il credito eventuale al fatto di avere letto molta più poesia di quanto ne abbia sottoposta al mio tribunale. Il libro che mi sono deciso a pubblicare nasce quanto meno da una selezione rigorosa, ma anche da un riconoscimento (o auto-ri- conoscimento) di collocazione e di misura. Io so quanto il consor- zio della critica cosiddetta accademica sospetti dell’a-scientificità dei pronunciamenti prefativi o postfativi, ai quali sarebbero piuttosto delegati gli impressionismi di una pratica feriale. Ma me ne difendo, perché proprio nella densità della pagina prefativa può depositarsi – quando non si tratti di iperboliche e ipertrofiche indulgenze – il germe di un’esplorazione degna di un più documentale e probatorio prosieguo. Come – insomma – anche da una prefazione o da una postfazione si possano trarre i succhi di un giudizio degno di atten- zione, e se mai – come del resto sempre accade – di altri supplementi di indagine. Comunque stiano le cose, il libro nasce equamente bilanciato tra attenzione alla poesia in lingua e alla poesia in dialetto, a cui ho sem- pre riservato una sollecitudine speciale, documentata – chi volesse accertarlo – dalla mia bibliografia critica. E si giustifica – almeno un po’ – anche per la presenza di qualche (segnalato) testo inedito. Non mi resta dunque che prendere congedo dedicandolo sia ai miei studenti della Facoltà di Lettere del Piemonte Orientale (a cui sempre dico che andrebbero protetti come la foca monaca e il pan- da maggiore); sia ai miei più prossimi collaboratori, in particolare a Francesco Mereta, che ha generosamente curato l’Indice dei nomi; sia – ancora una volta – ai miei tre nipoti Giovanni, Lorenzo e Marta, a cui sempre guardo con lo sguardo innamorato di chi fa appello – attraverso di loro – alla necessità della speranza su cui anche un libro come questo ha – sopra tutto – bisogno di poter confidare. G.T. SGUARDI LA POESIA DIALETTALE DEL PRIMO NOVECENTO L’antologia può essere tante cose: indicazione dei nomi più saldi di una letteratura, una stagione, un genere; puro atto critico, manifesto di un movimento. Può essere polemicamente concepita o storicamen- te scandita. Ma non può sottrarsi, in modi più o meno egregi, alle istanze del tempo in cui si inscrive. Proprio per questo, uno sguardo alle antologie principali che sono uscite dalla seconda guerra mondia- le in poi sulla poesia del Novecento può essere utilmente preliminare alla delineazione complessiva del tracciato che riguarda anche la poe- sia in dialetto. A cominciare dai Lirici nuovi di Luciano Anceschi, usciti in prima edizione nel 1942 e poi ristampati nel 1964.1 La prima data – quella che ai nostri fini conta di più – sta nel punto esatto di discrimine tra l’allocuzione filo-ermetica di Carlo Bo, uscita sul fiorentino e cattoli- co “Frontespizio” nel settembre del 1938, e l’accorata contesa tra lo stesso Bo e Vittorini apparsa sul “Politecnico” subito dopo la guerra. A mezzo tra un atto di adesione e di impassibilità, di affetto criti- co e di distacco metodico, l’antologia di Anceschi si proponeva una ricognizione «fenomenologica della lirica nuova», ossia dell’ermeti- smo, in cui individua la particolare e complementare accezione in- digena della koinè simbolista di matrice francese. Nella prospettiva così specifica dell’antologia anceschiana, al di fuori di ogni tentazione protonovecentesca (la jonction Pascoli-D’Annunzio), Dino Campana assurge con decisione a primo poeta del Novecento. Ma di dialettali, ovviamente, manco a parlarne. A una maggiore licenza di escursione poteva istituzionalmente puntare l’antologia di Giacinto Spagnoletti, di cui andrebbe indagato l’intero percorso dalla prima edizione Vallecchi, intitolata Antologia della poesia italiana contemporanea (1946), all’ultima edizione Guan- da, Poesia italiana contemporanea (1909-1959) (1959) e successive ristampe. Resiste invece, nel frastagliato cammino degli aggiorna- menti e degli aggiustamenti, la sintomatica diffidenza nei confronti dell’area crepuscolare. A fronte della «stura»2 futurista, riesce tanto più eloquente il rifiuto dei «Crepuscolari», e proprio sul reclamato terreno formale. Il Futurismo è promosso nell’Introduzione a «prima 12 GIOVANNI TESIO esperienza importante sul piano del generale atteggiamento antilette- rario», capace di stimolare nel gusto delle nuove generazioni, «venute a ridosso dei tre Vati nazionali», il senso di una «diversità estetica o psicologica» insopprimibile. E la successiva chiosa non fa che marca- re la profondità del solco «dal mediocre stillicidio dei Crepuscolari alla libertà espressiva di Dino Campana e di Giuseppe Ungaretti».3 In tale quadro di riferimento l’esclusione di Pascoli e D’Annunzio causa il rifiuto dei Crepuscolari, il cui prodotto artistico riesce interamente legato all’illustre esito di fine secolo. Di contro, risulta quasi pieno l’acquisto dei vociani. Ma dei dialetti, ancora nulla. All’antologia Poesia del Novecento (1969) di Edoardo Sanguineti, concepita all’insegna di una conclamata “impazienza” (di rigore alla fine degli anni sessanta), non poteva non attagliarsi un più indelicato processo à rebours.
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