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CHICCO FRONGIA

Buongiorno. Vengo da Ballao, paese incluso nella lista rossa dei 31 Comuni la cui scomparsa è prevista nei prossimi decenni.

Ballao è situato sul corso del Flumendosa, secondo fiume della Sardegna per lunghezza e primo per portata d'acqua, le cui acque irrigano i terreni della Trexenta, della Marmilla, del Campidano; soddisfano le esigenze idriche di un quarto della popolazione sarda e delle zone industriali del Sud-Sardegna. Portano dunque una risorsa a chi ne è privo, consentendo benessere e ricchezza. Lungo i 122 km del fiume non vi è però traccia di irrigazione. Neanche nei 500 ettari della piana che a Ballao è attraversata dal Flumendosa.

Durante questa terribile annata siccitosa, con i pascoli desertificati, abbiamo assistito all'arrivo triplicato di foraggio per gli allevamenti del Gerrei. L'acqua prelevata dal nostro fiume ha prodotto il foraggio che la Trexenta ci ha venduto. E' il paradosso di chi dispone della risorsa, la perde, e, impoverito, paga per averne il frutto. Se allora la popolazione si riduce agli 800 abitanti del 2017, contro i 1500 del 1975, non è per colpa di un destino crudele e ineludibile. Vi sono certamente gravi responsabilità degli amministratori locali, ma la Regione ha comunque portato avanti una politica di rapina delle risorse.

Nel mai abbastanza criticato Piano delle Acque della Regione Sardegna, destinato a soddisfare le esigenze idriche della nostra isola per i successivi 50 anni, non erano previsti né i fabbisogni ambientali del fiume stesso, né quelli delle zone interne. Lo spopolamento allora non è frutto del caso, ma programmato per colpevole inerzia se non per precisa volontà.

Possiamo sottoscrivere una pianificazione finalizzata a invertire la tendenza in atto che, come prospettava il Prof. Pulina, darebbe i primi frutti tra 20 anni. C'é chi sostiene non si possa attendere tanto. Siamo d'accordo. Ma iniziare subito significa, appunto, programmare subito. Ciò che non è, ne mai è stato fatto.

Fu proprio un sindaco di Ollolai, Michele Columbu, a promuovere l'epica marcia da qui a Sassari e poi a per protestare contro le politiche urbano-centriche. Negli anni 80- 90 altro alfiere delle zone interne fu poi Bachisio Porru, della vicina Olzai. Con studi concreti ed interventi puntuali denunciò la politica della Ciambella Demografica: le coste popolate e all'interno il vuoto. Apprezzamenti e condivisione, ma investimenti altrove.

Nel 1995 ero consigliere provinciale a Cagliari. L'ente aveva allora circa 800 dipendenti. Un centinaio di questi, fra bidelli degli istituti superiori, cantonieri e disinfestori, ossia gli impieghi meno retribuiti e più marginali, risiedeva distribuito nell'intera provincia, dal Sarrabus al Sulcis. La gran parte dei dipendenti, comprese le qualifiche con gli stipendi più elevati, dirigenti, funzionari, impiegati, risiedevano nell'area vasta di Cagliari. Quella che oggi è Area Metropolitana. Oltre il 60% del bilancio della Provincia era destinato alle spese correnti. Ma con gli stipendi, le convenzioni, l'affitto di locali, la manutenzione, pulizia, vigilanza, assicurazioni, ecc., ecc. già si contribuisce alla occupazione e al reddito di una parte della Sardegna e di un'altra no.

E' poi vano attendere un riequilibrio dalle spese per investimenti, laddove 24 consiglieri su 36 sono espressione proporzionale del numero di elettori concentrati nel capoluogo e dintorni, e solo un terzo del restante vasto territorio. Con lo spopolamento in atto anche la rappresentanza politica delle zone interne risulterà sempre più debole. Non è dissimile la situazione a livello di Ente Regione.

Negli anni 90, e fino al 2012, l'Unione Europea ha erogato alla Sardegna importanti (enormi) risorse finanziarie. Nell'ambito di una politica di coesione non si riteneva compatibile la realizzazione di una nuova Europa in presenza di forti diseguaglianze sociali ed economiche. Nacque così il Quadro Comunitario di Sostegno. Le regioni con reddito pro-capite inferiore al 75% della media europea avrebbero goduto di finanziamenti extra in grado di promuoverne lo sviluppo. La Sardegna rientrava in quei parametri. Cagliari, Quartu, , Pula, Sarroch o , avevano però reddito uguale al 100 della media europea. Erano invece Comuni come , Siurgus, , , o San Basilio, e decine di altri in quella e nelle altre provincie , che, con redditi dimezzati , consentivano l'arrivo dei finanziamenti. L'utilizzo spesso distorto di quei fondi ha provocato ulteriori diseguaglianze e peggiorato il divario tra zone privilegiate e zone svantaggiate.

Fino agli anni 90 le rimesse degli emigrati contribuivano ancora all'economia dei nostri paesi, specie nell'edilizia e artigianato. Ai giorni nostri se l'emigrato decide di investire i propri risparmi in Sardegna, lo fa nelle località balneari. Se la parte pubblica continua a investire nelle zone urbane e costiere, anche il privato fugge dalla Barbagia così come dal Gerrei per puntare sulle coste Galluresi o del Sarrabus.

Si sono auspicate politiche di attrattiva sociale, di decentramento, di fiscalità di vantaggio, di reindustrializzazione, di Master Plan per le zone interne. Tutte dovrebbero essere adottate per conseguire il riequilibrio e la giustizia territoriale. Ma la Sardegna ha usufruito della solidarietà europea con il Quadro Comunitario di Sostegno. Uno strumento analogo, dotato quindi di risorse certe e orientato nell'orizzonte temporale, è indispensabile per dare corpo alla battaglia contro lo spopolamento. Con l'auspicio di un uso più razionale e responsabile delle risorse pubbliche. E sempre che la solidarietà ricevuta da altri popoli ispiri i sardi in favdei fratelli meno tutelati.

BACHISIO PORRU

Con la recente pubblicazione dello studio Spop. Istantanea sullo spopolamento in Sardegna, a cura di Sardarch, formato da un gruppo di giovani professionisti cagliaritani che studia fenomeni di trasformazione urbana e territoriale, è ripartito con forza il tema dello spopolamento della Sardegna. Curiosamente tutto questo avviene esattamente 20 anni dopo la 1^ Conferenza regionale sui piccoli comuni, novembre 1996 e che ebbe il merito di porre all’attenzione della opinione pubblica regionale il fenomeno del collasso demografico delle zone interne. In quei giorni ci fu una vasta presa di coscienza del fenomeno, anche grazie allo studio che il movimento degli amministratori commissionò al demografo Giuseppe Puggioni e che fornì una base certa su cui impostare le piattaforme rivendicative nei confronti della Regione e del Governo. Ci fu una forte denunzia sul taglio dei servizi, specie nei territori più deboli e marginali, e una grande opposizione alla crisi del sistema dei poli industriali. L’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa era enorme. Gli amministratori nazionali e regionali invece si limitarono a fare ammuina… Negli anni 2000 il tema scorre sottotraccia riesplodendo in questi giorni interessando demografi, studiosi del territorio, urbanisti e economisti, oltre che amministratori locali, regionali e mondo del volontariato. La stessa Chiesa, in preparazione della 48^ Settimana sociale del prossimo ottobre, ha dedicato un apposito seminario, allo spopolamento e alle politiche ambientali. Ma non si può certo sottacere che si riparte ab ovo, da dove ci si era lasciati 20 anni fa, col fenomeno che si è fortemente aggravato e con una fondamentale ineludibile domanda: assistiamo ad una riorganizzazione insediativa delle popolazioni sul territorio o ad un dramma demografico, economico, sociale e culturale ormai irrimediabile? Non sono pochi quelli che pensano che, al Moloch della modernità, dobbiamo pagare l’alto prezzo della disantropizzazione delle zone interne e che interessa sempre più, non solo i comuni sotto i 5.000 abitanti, ma anche centri identitari più grandi: Nuoro, Lanusei, Macomer, Tempio, , Bonorva. E’ di questi giorni un post del sindaco di Fonni, comunità tra le più ricche della Barbagia, che ha da tempo puntato su uno sviluppo economico proprio, non derivandolo dalla pubblica amministrazione e dai servizi sociali territoriali, come la vicina Gavoi ad esempio, ma su vere e proprie piccole industrie dell’agro alimentare, dal pane, ai biscotti, ai salumi, ai formaggi. Ebbene, la sindaca Falconi ci informa che dal 2015 la comunità perde tra i 50 e i 100 abitanti l’anno tanto che di quel passo anche Fonni, entro 10 anni andrebbe sotto i 3000 abitanti. Coloro che giustificano questo disastro antropologico non si pongono certo troppe domande. Ma se davvero decine di comunità sarde entro 20-40 anni dovessero morire, che ne farà la comunità regionale dell’immenso patrimonio culturale, linguistico, architettonico, urbanistico, ambientale che ogni comunità rappresenta? C’è anche una larga schiera di intellettualità regionale che si fa carico dei problemi dello spopolamento in maniera poetica. Ha a cuore i problemi delle comunità in morienza, presta la propria voce in difesa di quanto esse hanno storicamente rappresentato e che potrebbero non rappresentare più. Ma quelle comunità non le salviamo con la poesia Se non vogliamo essere vox clamans in deserto dobbiamo effettuare una istantanea sullo spopolamento precisa, realistica e il più disincantata possibile, per evocare ed organizzare una filosofia ed una politica della prassi con qualche speranza di incidere su dinamiche demografiche epocali. Secondo le proiezioni più attendibili, (ONU), la popolazione mondiale passerebbe dai 7,3 miliardi del 2016 a 9,7 nel 2050 e a 11,2 nel 2100. Al contrario in Europa si passerebbe dai 748 milioni del 2016 ai 650 milioni dello stesso periodo. L’Italia da 59 milioni attuali a 49 milioni. Il dato più sensibile riguarda tuttavia la percentuale di inurbamento. Attualmente il 54% della popolazione mondiale vivrebbe in 500 grandi città e megalopoli, destinata in Europa ad arrivare progressivamente al 75%. Proiezioni e non previsioni, avvertono i demografi che tuttavia indicano come il fenomeno dello spopolamento, andrà a colpire tutte le zone interne dell’Europa e non solo dell’Italia o della Sardegna. Questi dati contribuiscono certo a scoraggiare i più ed a ingrossare le fila di coloro che ritengono ineluttabile il processo di inurbamento selvaggio e di desertificazione di aree interne ricche di risorse ambientali, culturali e di biodiversità, conseguenti a secolari processi di antropizzazione. Non ci si può certo opporre a tali processi pensando di farlo alla spicciolata e sperando in risultati nel breve, medio periodo. Abbiamo di fronte una sfida titanica e dagli esiti non scontati. Eppure sempre più si sente la necessità di provare a contrastare quest’onda impetuosa che tutto vorrebbe concentrare e tutto omologare. La politica regionale, prova a battere un colpo. L’errore più grave continua ad essere quello di sfogliare la margherita petalo per petalo. Con misure, di per sé anche ragionevoli, ma che, non andando al cuore del problema, lo aggravano. E’ il caso delle politiche di settore, che pensano cioè solo al comparto, all’industria, al turismo piuttosto che all’agricoltura o all’artigianato. Hanno sin qui contribuito al più a consolidare gli squilibri territoriali e ad aggravare, conseguentemente, l’emergenza insediativa. Rispondono a una visione che mostrava gravi limiti già con la crisi dell’industria petrolchimica quando ipotizzava uno sviluppo a macchia d’olio dei territori a partire dai poli di sviluppo. Alcune proposte vengono avanzate recentemente da coloro che pensano di attirare i Paperoni internazionali con esenzioni fiscali mirate. Altri ancora pensano a specifici aiuti alle giovani coppie che intendessero creare una nuova famiglia. Non si capisce perché tali aiuti dovrebbero andare alle sole coppie residenti nelle aree a forte spopolamento e non anche a tutti coloro che in Sardegna e in Italia vogliano fare altrettanto. Nell’isola, con 1,1 figli per donna, siamo all’ultimo posto nella graduatoria delle regioni quanto al tasso di fecondità e in Italia con 1,38, agli ultimi posti tra tutti gli altri paesi (174^ posto su 195). Credo anche che non basti chiedere al governo deroghe ai criteri di modifica del dimensionamento dei servizi sociali per contribuire efficacemente a contrastare un fenomeno così grave. Lo si vede per quanto riguarda il servizio di istruzione. In questi anni ogni sindaco che si rispetti è stato in prima linea per difendere il diritto di ogni comunità a tener aperta la scuola. Direi che intorno a questa battaglia è stata eretta una vera e propria linea Maginot. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Man mano che gli anni passano gli alunni diminuiscono sino a rendere inutile la difesa di una scuola senza alunni. Ho citato spesso un caso- emblema. Orune, scuole elementari: 1960, 925 alunni. 1999, 123 alunni. 2017, 83 alunni. Di recente, in un paese di montagna, alla volontà del sindaco di tenere aperta a tutti i costi una pluriclasse, ha corrisposto il rifiuto dei genitori che hanno preferito portare i loro figli alle scuole viciniori, costringendo l’amministrazione comunale a pagare oltre che le spese dell’edificio scolastico anche quelle per lo scuolabus. Il messaggio era chiaro: la scuola non purchessia ma una scuola di qualità per tutti i nostri figli, a maggior ragione per quelli che risiedono nelle realtà più svantaggiate e periferiche. Che fare dunque, posto che i più importanti atti di governo adottati dalla Regione creano la città metropolitana di Cagliari e il parallelo rafforzamento del polo settentrionale come dimostra la scelta sulla Asl unica con sede a Sassari? C’è stata nella vita autonomistica della Regione sarda una stagione animata da importanti esperienze di programmazione, che determinò un fenomeno di straordinaria mobilitazione e, per un ventennio, un ritmo di sviluppo, secondo nel Mezzogiorno solo a quello della parte costiera del’Abruzzo oltre che un contenimento significativo delle precedenti dinamiche demografiche. Era la stagione della Rinascita. L’isola fu articolata in Zone Omogenee in base alle proprie affinità geografiche, economiche, storiche e culturali. In ogni area lavorava un organo di coordinamento che si adoperava per lo sviluppo e la crescita del territorio. A quella stagione si può guardare per recuperare unitarietà dell’approccio politico, positività delle azioni di programmazione e di governo. Ogni zona/area dovrebbe essere ri-pensata come Città-territorio cui assicurare adeguati servizi sociali e di cittadinanza: accessibilità fisica e informatica (banda larga), servizi sanitari (ospedalizzazione diffusa) e soprattutto una offerta di istruzione territoriale di qualità a partire dal primo ciclo, il secondo ciclo con corsi tecnici e professionali calibrati sulle vocazioni economiche specifiche. Le stesse Università messe nelle condizioni di rilasciare nel territorio Corsi di laurea adeguati, così come suggeriva la Commissione Medici e realizzavano le prime esperienze di Università diffusa. Il corso di laurea di Scienze Forestali a Nuoro per esempio. Un tale ripensamento di riorganizzazione territoriale ed insediativa richiederà con forza che ciò che non è essenziale a Cagliari possa e debba essere articolato per promuovere e sostenere la rinascita dei territori interni. Come fece Giovanni Lilliu che da consigliere regionale fu promotore della istituzione dell’ISRE a Nuoro. Tutto questo non esime gli attori pubblici e privati locali dall’assumere in prima persona le responsabilità necessarie perché le vocazioni, le risorse economiche, ambientali e culturali necessarie promanino dal basso superando le monoculture tradizionali e si intreccino in maniera plurale. E’ questo il libro dei sogni? Può essere, ma non ha alternative e sarà realizzato solo se si riuscirà ad evocare una stagione partecipativa come quella che ha animato la Rinascita, con classi dirigenti politiche a cui continuiamo a guardare, nonostante i loro numerosi errori, con tanta giustificata ammirazione e nostalgia.

ANTONELLO FALOMI

Permettetemi di fare alcuni ringraziamenti non formali. Innanzitutto alla Associazione ex parlamentari della Sardegna e al suo Presidente collega Giorgio Carta, non solo perché mi ha invitato a concludere questo incontro, ma anche perché ha costruito questo incontro su un tema di particolare rilevanza.

Vorrei ringraziare anche Giacomo Mameli che si è sobbarcato il compito di guidare e moderare questo nostro dibattito, non mancando, però, di introdurre la discussione con alcune osservazioni rilevanti sul tema oggetto di questo nostro incontro. Vorrei ringraziare tutti i relatori che sono intervenuti e tutti i Sindaci presenti che sotto vari profili, quello istituzionale, quello scientifico, quello sociale, hanno voluto dare un contributo che ha fatto di questo nostro confronto, un confronto di alto profilo. Sarà bene, come diceva Giorgio Carta, raccoglierne gli atti, che costituiranno un materiale importante per far crescere il livello di consapevolezza attorno ai temi trattati.

Un confronto dal quale, io, che non sono un esperto della materia, credo di avere imparato molte cose. Lo diceva prima Giorgio Carta, ma può sembrare un po’ una cosa strana che gli ex parlamentari si mettano a parlare di temi come questi.!In realtà noi siamo delle persone che sicuramente hanno smesso di fare la loro attività istituzionale, che tuttavia non vogliono cessare di continuare ad alimentare quella che è una loro passione, la passione di fare politica. Siamo persone che hanno deciso di dare volontariamente, gratuitamente, attraverso il lavoro della Associazione degli ex parlamentari, un loro contributo di discussione intorno a temi rilevanti. Basta ricordare che , come Associazione, abbiamo fatto dei convegni sui temi della Riforma elettorale, della politica internazionale, dell’economia e del lavoro, una serie di attività come quella dell’illustrazione di figure di particolare spicco dell’attività parlamentare nel corso di questo secondo dopoguerra. Stiamo facendo una campagna, d’accordo con il Ministero della Pubblica istruzione, in tutte le scuole intorno ai temi della Costituzione Italiana. Gli ex parlamentari vanno nelle scuole d’Italia a raccontare la loro esperienza nelle istituzioni e a far capire che cosa sono le istituzioni, il Parlamento e che cosa è la nostra Costituzione.

Nonostante di noi si parla soltanto quando si tratta dell’argomento vitalizi, in realtà come ex parlamentari, vogliamo parlare di argomenti che interessano gli italiani e su questi cercare di dare il nostro contributo e lo facciamo anche con una certa caparbietà, perché proprio non vogliamo essere una sorta di associazione di combattenti e reduci o di sindacalisti degli ex parlamentari, ma vogliamo essere una Associazione che sviluppa temi e questioni di grandissimo rilievo nazionale. Oggi abbiamo discusso una questione molto importante, non è una questione marginale e nemmeno settoriale.

Basta qualche cifra che è stata data per capire di che cosa stiamo parlando. Quando si parla di aree interne nel nostro Paese si parla del 52% di Comuni italiani, si parla del 23% della popolazione italiana, si parla del 61% della superficie del nostro Paese. Quando trattiamo un tema come quello delle zone interne, in realtà stiamo parlando di una questione generale che non può essere affrontata in modo settoriale, ma deve essere affrontata in modo generale e con una politica nazionale.

Voglio sottolineare che nell’art. 44 della nostra Costituzione si parla della necessità che la legge disponga provvedimenti a favore delle zone montane. E’ l’unico articolo che parla delle zone montane. Certo le aree interne sono sia pianura che zona montana. Sono, però, in gran parte sono zone montane e quindi c’è un’attenzione particolare che la Costituzione dedica a queste zone a cui, dobbiamo dire, che non ha corrisposto altrettanta attenzione nelle scelte politiche concrete che sono state fatte. Quindi è chiaro che siamo difronte ad un problema generale, nazionale e non ad un problema di settore da affrontare con una logica di settore.

È stata fatta pure una legge nazionale sui piccoli comuni, però, come veniva ricordato è una legge sostanzialmente più programmatica, una sorta di manifesto sulle politiche da fare all’interno dei piccoli Comuni e che, però, non ha risorse adeguate al programma che pure viene proposto. 100 milioni in 7 anni sono una piccolissima cifra per tutto il territorio nazionale per affrontare questi problemi.

Non voglio qui tirare una conclusione del dibattito, intanto perché non sono un esperto, ma voglio semplicemente aggiungere qualche considerazione che ascoltando il dibattito mi è venuto di proporre a voi. Abbiamo sentito i sindaci che hanno illustrato soluzioni concrete con le quali si è intervenuti per invertire delle tendenze che tutti noi vorremmo che fossero invertite. Ci sono state proposte concrete, già in corso di realizzazione, e proposte ipotizzate. Io penso che nel momento in cui andiamo alla ricerca delle soluzioni concrete il rischio sia di perdere la visione generale della questione. Il rischio, che anche questa diventi una delle tante politiche micro settoriali e non parte di un disegno politico generale è molto forte. Dobbiamo cercare di fare emergere la visione generale che presiede alle scelte politiche concrete.

Il Prof. Tagliagambe poneva una questione molto importante e interessante che voglio riprendere perché poi mi consente di aggiungere una riflessione. Diceva che lo spazio, il territorio, deve essere inteso come un tessuto di relazioni. Non parliamo solo di orografia, di paesaggio, di natura, laghi, flora e fauna ma di comunità, di uomini e donne che danno vita a queste realtà. Le relazioni che queste comunità hanno, tra loro e con l’esterno, sono un punto essenziale di riflessione per una politica di intervento in questo campo. È da qui che bisogna partire.

È vero che le soluzioni in questo campo sono complesse ma credo che nonostante ciò, se si parte da una effettiva partecipazione delle comunità locali che vivono i problemi e possono contribuire a dare concretezza alle soluzioni che si adottano, penso che questa sia la strada per affrontare problemi di questa complessità.

Ci sono molte motivazioni che spingono le persone ad abbandonare i loro territori a molte delle quali non è possibile dare una risposta. C’è gente che aspira ad un altro modello di vita, la vita urbana, a chi piace vivere nelle grandi città, ecc. Non si può intervenire su tutto ovviamente, ma ci sono terreni sui quali si può e si deve intervenire per affrontare il tema dello spopolamento.

Noi sappiamo dalla storia delle migrazioni, tema che peraltro investe fortemente tuttora il nostro Paese. Si ragiona soltanto di emigrazioni in entrata, nessuno parla delle migrazioni in uscita dal nostro Paese. Anzi c’è chi sostiene, recentemente ho letto un saggio sull’argomento, che il numero di italiani che emigrano all’estero in cerca di lavoro e migliori opportunità per la propria vita è, se non superiore, almeno pari alla quantità di persone che entrano nel nostro Paese per cercare migliori condizioni di vita per loro. Forse sarebbe bene che il dibattito politico ragionasse anche su questo se vogliamo avere una visione politica non propagandistica e demagogica del fenomeno.

Circa le motivazioni che spingono allo spopolamento ed alla migrazione non riprendo considerazioni di altro tipo, come quelle che riguardano aspetti demografici di cui ha parlato il Prof. Pulina.!Il tema delle migrazioni è la ricerca di migliori condizioni di vita per se e la propria famiglia. È evidente che si emigra per ragioni di necessità che parliamo di spopolamento imposto dalla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste migrazioni non si possono fermare con le leggi. Ci aveva provato il fascismo con la legge sull’urbanesimo che impediva a chi stava nelle campagne di emigrare nelle città a meno che nelle città non avessero il lavoro e quindi grazie al lavoro si potessero iscrivere come residenti in quelle città.

Quella legge, che poi è stata abrogata nel 1959 nel nostro paese, non ha impedito in alcun modo che la gente si spostasse dalle campagne verso le città. Allo stesso modo penso che non riusciranno a bloccare le migrazioni in entrata semplicemente costruendo muri, ponendo paletti e impedendo alla genti di muoversi.

Io penso che il vero problema è intervenire sulle cause che provocano questi movimenti di popolazione, che provocano lo spopolamento di intere zone.!A proposito di cause, qui c’è chi ha sottolineato la carenza di servizi, soprattutto i servizi all’istruzione, i servizi per la salute, i servizi della mobilità, c’è chi invece ha parlato del tema dello sviluppo economico, della produzione e del reddito.

Ci si è posti anche la domanda se vengono prima i servizi o lo sviluppo, sono cioè i servizi che creano lo sviluppo o è lo sviluppo che fa crescere l’esigenza dei servizi ?!Io penso che affrontare in questo modo il problema è riduttivo. E’ evidente che bisogna agire su tutti i tasti della questione, bisogna agire dal lato dei servizi, bisogna agire dal lato dello sviluppo. Qui sono state dette molte cose interessanti sulle politiche di sviluppo che si possono fare e che possono determinare la crescita di reddito, la crescita di ricchezza. L’unica cosa che volevo sottolineare è che bisogna stare attenti, sapendo che parliamo di una complessità di interventi e dell’esigenza di un coordinamento di questi interventi, a non dire o fare cose che una al contrario dell’altra.

Per esempio, non possiamo parlare di spopolamento, di necessità di coordinamento delle politiche, tra politiche dei servizi e politiche dello sviluppo e poi fare politiche settoriali che contraddicono pesantemente queste impostazioni. Se si fanno politiche il cui risultato è ridurre l’offerta formativa, per esempio, queste politiche, come diceva prima Giacomo Mameli, ne ha parlato a proposito della parolaccia “dimensionamento”, dobbiamo sapere che dietro quella parola, in realtà, ci sono politiche di riduzione dell’offerta formativa.

E questo è andare in contrasto, invece, con le esigenze che stiamo ponendo noi per una diversa politica dello sviluppo che freni lo spopolamento. Quando parliamo, per esempio, di politiche di riorganizzazione dei servizi, e parliamo di accorpamenti muovendo da giuste esigenze di efficienza, tuttavia, dobbiamo sapere che l’efficienza non è tutto per giudicare un servizio, va valutata anche l’efficacia di quel servizio. Sono due parole che non sono sinonimi, che hanno significati profondamente diversi, perché se, in nome dell’efficienza, poi, alla fine della fiera, riduco le offerte di tutela della salute, riduco le offerte formative e così via, in realtà sto facendo una politica di settore che contrasta con le cose che qui ci siamo detti. Anche perché il parametro dell’efficienza, che è un parametro mutuato dalla visione economica delle questioni, non può diventare l’esclusivo parametro; Il paradigma economico è un paradigma importante ma non può essere esclusivo, perché ci sono questioni che devono essere affrontate prescindendo dagli aspetti economici del problema.

C’è un ulteriore tema su cui voglio brevemente soffermarmi, che è stato posto anche nella discussione, ci vogliono risorse pubbliche o ci vogliono risorse private ? Anche qui, sappiamo ovviamente, che per creare reddito, per creare sviluppo, bisogna creare reddito nei territori, bisogna creare sviluppo. Però, noi dobbiamo sapere che il ruolo del pubblico è quello di fare da volano allo sviluppo delle attività private. Io penso alle politiche che sono state fatte in altre epoche, parlo delle autostrade, ad esempio, che sono state uno straordinario volano di sviluppo. Le politiche pubbliche devono costituire un’occasione per lo sviluppo perché non credo che spontaneamente noi troviamo imprenditori pronti a fare questo e a fare quello e a mettere in moto processi di sviluppo, anzi stiamo registrando grandi difficoltà a che questo accada.

C’è bisogno dello Stato, della politica pubblica che faccia interventi sia sul terreno dei servizi sia sul terreno delle politiche di sviluppo. Bisogna stare attenti a non contrapporre la strada delle risorse private alla strada delle risorse pubbliche, che certo devono lavorare insieme ma ho l’impressione che, se non c’è un deciso intervento pubblico su questo fronte, difficilmente si riesca a mobilitare anche le energie private che possono essere mobilitate in queste politiche. Io concludo qui, con queste riflessioni sparse sulla base anche degli stimoli venuti dal dibattito.

Sarei soddisfatto se questo nostro confronto servisse ad accrescere intanto il livello di consapevolezza delle questioni che abbiamo dibattuto e se - riprendo qui una questione denunciata come mancanza da Mameli, cioè che non c’è mai stato un dibattito in Consiglio regionale su questo argomento - sarei soddisfatto se questo nostro incontro provocasse, ad esempio, la scelta di fare una bella discussione nel merito attorno a questi temi di quel Consiglio. Grazie.

ANGELO ROJCH

Lo spopolamento delle zone interne a prevalente economia agro-pastorale è un trend irreversibile senza un progetto di sviluppo organico da avviare non solo con gli interventi ordinari ma con un nuovo Piano di Rinascita con i punti franchi nelle aree strategiche dell’antica società del malessere

L’associazione Ex Parlamentari, con la partecipazione attiva del suo Presidente Falomi e con la scelta del tema sullo spopolamento delle zone interne, ha conferito al convegno di Ollolai, cuore pulsante della Barbagia, una connotazione politica di alto livello e attualità.

Dal 1992, a parte alcune iniziative della Cisl, dell’associazione degli industriali e il richiamo di qualche illuminato consigliere regionale, il discorso sulle zone interne è scomparso dal vocabolario politico sardo e nazionale. Cosi come è scomparsa la storica battaglia sulla “Questione sarda” e in parallelo la “Questione meridionale”.

Il dato che emerge, come logica conseguenza, è che oggi non c’è un progetto organico, non c’è una forte solidarietà dello Stato e dell’Unione Europea, se si esclude la generosa disponibilità del Ministro del Rio, non c’è una linea adeguata alla drammatica situazione della Sardegna.

Una Regione che non ha più una struttura industriale capace di creare lavoro, con un artigianato in crisi, la pastorizia ai limiti della sopravvivenza: il sistema economico sardo non crea nuovi posti di lavoro e nelle aree interne la situazione è ancora più grave. I provvidenziali due o tre mesi di turismo non sono sufficienti a rilanciare l’economia isolana.

Lo spopolamento si combatte soltanto con una politica di sviluppo, con investimenti regionali ed internazionali, capaci di creare posti di lavoro per bloccare la fuga biblica dei giovani tutti a iniziare dai laureati e non, prevalentemente orientati verso l’estero.

1992 l’ultima battaglia per le zone interne: la camera dei deputati approva la legge di rinascita, art 13, su proposta di tutti i segretari politici nazionali

L’ultima battaglia per le zone interne è del 1992, quando alla Camera dei Deputati, in sede legislativa, venne approvata una proposta di legge in attuazione dell’art 13 dello Statuto Sardo dal valore costituzionale.

Era stata la spinta della politica sarda ad un grande impegno parlamentare a livello nazionale: tutti i leader dei partiti sono stati primi firmatari della proposta di legge, la DC con De Mita, il PCI con Natta, il PSI con Craxi, AN con Pazzaglia, il Partito Sardo con Loi- Columbu, hanno presentato alla Camera una propria proposta di legge, dal confronto e sintesi, la commissione bilancio, in sede legislativa, aveva elaborato e approvato un testo unico. Tale iniziativa è stata preceduta da proposte della Regione Sardegna

Alle zone interne fu riconosciuto, riprendendo lo spirito delle conclusioni della commissione di inchiesta parlamentare sul banditismo, un giusto rilievo: nel gruppo ristretto per gli emendamenti, con il sostegno di Carrus e Cherchi, presentai un emendamento per riconoscere all’area interna, il massimo delle agevolazioni pari a quelle delle Regioni terremotate (art. 10).

La legge approvata prevedeva 4mila 700 miliardi dal ‘92 al 2001, con un articolazione cosi stabilita: 100 miliardi nel ‘92, 200 nel ‘93, 550 nel ‘94 e a seguire.

Legge non approvata in senato per mancanza di tempo, una follia!

La legge, trasmessa al senato nella commissione competente, non fu approvata in quanto non ritennero sufficiente il tempo per approfondirla. Una follia politica.

Non si comprende ancora oggi la posizione di debolezza dei pur autorevoli senatori sardi presenti, un danno immenso per l’isola e il suo futuro. Da quel momento è iniziato un lungo silenzio della politica autonomistica in Sardegna.

Fu cosi vanificato, il grande impegno delle forze politiche autonomistiche maggioranza e opposizione. Anche la grande battaglia dei Giamburrasca e Forze Nuove, in sintonia con la popolazione che scendeva nelle piazze a protestare e rivendicare giustizia da parte dello Stato, sostanziata attraverso una serie di iniziative mozioni, proposte di legge sulle zone interne, convegni, portati avanti da Ligios, Severino Floris, Gianoglio, Peppe Mura, Salvatore Murgia Presidente della provincia e naturalmente il sottoscritto.

Il problema della società del malessere divenne la questione delle zone interne tale da richiamare l’attenzione del governo italiano e di tutte le forze politiche.

La DC nuorese, con le sue dirompenti iniziative, a iniziare dagli anni 60, aveva sensibilizzato la politica regionale e trovato in Paolo Dettori e Pietrino Soddu un riferimento di alto valore politico.

Il monito profetico di Paolo Dettori

Come non ricordare Paolo Dettori, quando nel 1973, Presidente della commissione programmazione, nel suo intervento sulla genesi e caratteristiche dei fenomeni di criminalità in Sardegna, con epicentro nelle zone interne, ebbe profeticamente a dire “l’articolo 13 dello Statuto si potrà considerare pienamente attuato soltanto quando sarà compiuta la rinascita e saranno cancellate le dolorose conseguenze della nostra storica inferiorità”.

“Nostra storica inferiorità”, una linea in perfetta consonanza con le idee della Dc nuorese, un monito questo alle future generazioni, alla politica di ieri e di oggi. Purtroppo negli ultimi 20 anni si è creato il vuoto, l’azione svolta da Forze nuove, sulla riforma agro-pastorale, aspetto nodale per le zone interne, fu notevole: numerosi gli incontri, i dibattiti, le manifestazioni, le iniziative politiche e istituzionali, Pietro Soddu da assessore alla programmazione nel 1976, avviò la riforma agro-pastorale in collaborazione con Nonne.

La sede dell’Etfas per la gestione della riforma viene attribuita a Nuoro, capitale delle zone interne

In sede di commissione, Angelo Rojch si batte perché la gestione della riforma delegata all’Etfas avvenisse a Nuoro, cosi è stato. La battaglia per le zone interne, diventata “questione delle zone interne”, ritrovò l’unità delle forze politiche, maggioranza e opposizione.

Questa convergenza si manifestò sempre in consiglio quando presentai una mozione nell’81 come primo firmatario del gruppo DC, dopo una serie di numerosi interventi, tra i quali Franco Mulas, Peppe Mura, Onida e altri si concluse con un ordine del giorno unitario “Rojch-Barranu” e gli altri.

Così quando, con una mia mozione, presentata in Consiglio regionale proposi l’istituzione della Commissione di indagine sulle zone interne, la conclusione fu sempre unitaria.

Il senso politico, mi spingeva e tenera alta l’attenzione della Regione sulla questione “zone interne” perché non venisse meno l’impegno.

Il Presidente della Commissione industria del senato Mucchetti si chiede: “perche i sardi non riescono a valorizzare le eccellenze di cui dispongono, spesso di grande dimensione?”

C’è un male, che sembra bloccare le conquiste politiche in Sardegna.

Il Presidente della Commissione industria senatore Mucchetti, poco fa nel suo intervento si è chiesto “perché i sardi non riescono a valorizzare le eccellenze di cui dispongono”, così nel settore agro-industriale, così nelle telecomunicazioni che potevano vantare in primato, cosi quando, mi permetto di aggiungere, nella competizione con la Francia per la Disneyland in Sardegna ebbi contro la stampa e in modo strisciante la politica, altra follia. La Sardegna oggi sarebbe stata diversa. Cosi non cogliamo la grande opportunità della centralità dell’isola nel Mediterraneo rimanendo chiusi nel nostro mondo, contenti di vivere o proclamare un’autonomia autarchica.

Aveva ragione Carlo V:“Purtroppo i sardi di oggi non sono diversi da quelli di ieri”.

Dal 1992, iniziò una fase di silenzio politico sull’art 13 e sulle zone interne.

La politica si era dimenticata dell’inchiesta parlamentare sul banditismo delle proposte della commissione di indagine consigliare della Regione. Peraltro, la politica nazionale con la soppressione della Cassa del Mezzogiorno voleva imboccare una strada che sembrava più coerente: il problema del Mezzogiorno andava affrontato nel quadro della politica nazionale con il risultato che anche la “Questione meridionale” è scomparsa dal vocabolario e gli investimenti sul Mezzogiorno sono drammaticamente calati. Il divario tra Mezzogiorno e Italia riprende a crescere, cosi quello della Sardegna con il resto del Paese.

In Sardegna oggi finita la grande industria non c’è un settore trainante, il turismo da solo non riesce a coprire la fame del lavoro.

L’aspetto più grave è la caduta degli investimenti nei settori produttivi e la scomparsa della struttura industriale. Oggi non c’è in Sardegna un settore economico trainante. Il convegno degli ex parlamentari, ha cercato di indicare una nuova politica, la questione delle zone interne non si risolve con le proposte attualmente in campo, nonostante generosi tentativi della Giunta. Lo stesso assessore Erriu ha fatto un eccellente intervento:“Ma dov’è la strategia, il “Progetto zone interne” della giunta?”. Il tentativo del progetto per l’Area Vasta di Nuoro, la scelta di interventi nel campo dell’università è certamente positivo; siamo tuttavia nel campo delle precondizioni dello sviluppo. Se tale sforzo non viene accompagnato dagli investimenti, da un progetto organico per creare lavoro e occupazione c’è il rischio di formare nuove professionalità, nuove coscienze imprenditoriali, aspetto certamente lodevole, ma è un contributo per formare personale altamente qualificato e regalarlo all’estero a nostre spese. (vedi Progetto Erasmus)

Occorre riprendere il disegno di sviluppo organico per tutte le zone interne, anche se il passato non è ripetibile. Tuttavia, il metodo può essere ripreso: l’antico disegno prevedeva per battere lo spopolamento e aggredire il malessere sociale e ambientale, la collocazione nelle aree strategiche di insediamenti industriali, a Ottana per la Barbagia e il Goceano, Isili per il Sarcidano, Suni per la Planargia, Sologo per le Baronie e la Barbagia di Bitti e Orune.

Si confrontano due linee di sviluppo per creare lavoro e battere lo spopolamento delle zone interne.

Quale linea è oggi attuabile? “Che fare?” è la domanda che sorge spontanea.

Due le linee:

1. Quella in atto, praticata da lungo tempo dalla politica sarda e non solo dalla Giunta attuale, non ispirata da un progetto globale e strategico, è fondata sui progetti europei, sulle risorse della Regione e dello Stato in continua diminuzione. Una linea dal corto respiro incapace di assicurare il futuro alle nuove generazioni, tale linea della Regione si estende ai comuni e a tutte le strutture di base. Uno sforzo notevole, non orientato a creare sviluppo produttivo nei settori economici ma a creare le precondizioni dello sviluppo. Dove sono le risorse per agevolare la nascita di nuove imprese industriale dei giovani, dell’artigianato che rischia di scomparire, nel turismo quello locale dei piccoli imprenditori, nel settore agro-industriale, nell’industria tecnologicamente avanzata, anche derivata dai brevetti mai sfruttati del consorzio CRS-4. Per questo si registra la caduta degli investimenti, senza questi non si crea occupazione, non si batte lo spopolamento delle zone interne. Manca altresì per attuare la bilocazione delle imprese in Sardegna-Mediterraneo, Sardegna-Europa. La politica è costretta ad affrontare le sfide della globalizzazione, dovrà ritrovare lo spirito e la passione delle grandi sfide a cui la Sardegna non può rinunciare. 2. Non bisogna avere paura di riprendere la battaglia politica e popolare per il rilancio dell’autonomia speciale, anche in chiave sovranista sull’esempio della Catalogna. Al Capo dello Stato Mattarella nel corso della sua recente visita in Sardegna, il Presidente Pigliaru con correttezza istituzionale ha detto: “Ascoltateci!”. Sara sufficiente? Forse dobbiamo cambiare metodo e tono: usare quello dei pastori delle zone interne, trasferire la loro rabbia, quella dei minatori e dei giovani sardi senza lavoro per far sentire la protesta di un popolo. Allo Stato, al suo Presidente, al Presidente del Consiglio, va gridato: “Perché non rispettate la Costituzione, in quanto lo Statuto sardo ha un valore costituzionale, perché lo ignorate?”. Lo statuto prevede tassativamente il finanziamento di un piano organico di rinascita (art. 13), prevede altresì l’istituzione, punti franchi per la posizione centrale dell’isola nel Mediterraneo. Lo Stato deve rispettare questa norma costituzionale. La preoccupazione politica è che le stesse cose le chiederebbero le altre Regioni: nessuno può vantare una norma costituzionale come la Sardegna, e la sua collocazione insulare al centro del Mediterraneo. È la Sardegna tutta che lo deve gridare, il monito profetico di Paolo Dettori è di una attualità sconcertante, finché la Sardegna…. Purtroppo la politica sarda, mentre al suo interno assume anche toni alti, quando si confronta con Roma e Bruxelles lo vive con una certa timidezza, ieri ed oggi.

La situazione dell’isola, oggi, di fronte alla globalizzazione: nei confronti di Roma c’è una certa timidezza nella politica sarda, di oggi e anche di ieri

La situazione dell’isola, oggi, di fronte alla globalizzazione ha meno prospettive degli anni 70. Non mi stanco di ripetere quanto da anni affermo: qualunque legge, provvedimento, anche il migliore per l’Italia, la ricaduta in Sardegna con la diseconomia esistente, sarà decisamente inferiore al resto del Paese e nelle zone interne la metà del resto dell’isola.

E’ un rilancio dell’articolo 13 nuovo piano di rinascita abbinato ai punti franchi, visto in un quadro europeo mediterraneo, è una grande opportunità non solo per l’isola ma per l’Italia e l’Europa.

Una legge di rinascita cosi concepita, che superi l’autonomismo autarchico sarebbe capace di attrarre ingenti investimenti del mondo arabo, dai paesi dell’Asia centrale, della Cina,della Russia e degli Stati Uniti.

Aprirebbe un nuovo scenario anche per le migliaia di imprese italiane trasferite all’estero che, creandosi condizioni favorevoli, potrebbero rientrare con grande beneficio per il Paese e non solo per la Sardegna.

I Costituenti hanno visto bene: la Sardegna ha nel Mediterraneo una posizione centrale, lo conferma la sua storia antica e la proietta come ponte tra Europa e Paesi emergenti.

Mi auguro che finalmente la politica sarda torni a raccogliere questa grande sfida con coraggio e lungimiranza.

Solo così le zone interne, come attestano i recenti dati, che danno all’isola il primato nazionale degli omicidi, quasi a confermare le analisi effettuate dalla Commissione sul banditismo. Si evita una nuova escalation della violenza di antico ricordo.

C’è un punto debole: la popolazione sarda, non ha fiducia nella politica, non protesta non scende in piazza come negli anni 70. Eppure oggi non vede nel tunnel buio alcune luce. Gli uomini più illuminati di maggioranza e minoranza, di oggi o di domani, ritrovino lo spirito, sappiano interpretare la rabbia silenziosa della gente e far rispettare una norma costituzionale, lo Statuto speciale della Sardegna, che tuttavia va adeguato e trasformato.

BENEDETTO BÀRRANU

L’andamento demografico fotografa in modo implacabile la vivibilità economica e ambientale delle diverse aree geografiche. Nella gran parte dei casi si tratta di spostamenti definitivi, come dimostra lo spopolamento delle aree interne a vantaggio di quelle costiere ed urbane. Più raramente interventi rilevanti di politica economica hanno invertito la tendenza allo spopolamento, a conferma che comunque la creazione di aspettative di vivibilità economica e ambientale può favorire una utilizzazione più equilibrata del territorio, può ridurre gli aspetti negativi di eccessive concentrazioni urbane e costiere e può utilizzare in modo più lungimirante le risorse naturali e l’ambiente. Gli spostamenti della popolazione sono conseguenza di due fattori economici rilevanti. In primo luogo, e questa è una ovvia constatazione, sono il risultato di una crescita economica diseguale sia tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, sia all’interno dei paesi sviluppati. In secondo luogo, e questo è invece un aspetto che troppo spesso viene sottovalutato, per il notevole cambiamento avvenuto nel contributo relativo dei tre settori fondamentali (primario, secondario e servizi) alla formazione del PIL, cioè della ricchezza prodotta nelle diverse aree geografiche e,quindi, anche in Sardegna. Anche se lo spopolamento delle zone interne e montane continua a crescere, se è vero che nei tre quinti del territorio nazionale si stima che viva un quinto della popolazione del Paese, è legittimo porsi delle domande sul perché ciò avviene e sulle scelte che sono state fatte e che possono essere fatte non solo in materia di politica economica, ma ancor di più di organizzazione del territorio e della vita delle persone. Dobbiamo dare per scontato che la crescita economica, lo sviluppo sociale, l’innovazione tecnologica portino a concentrare la popolazione nelle aree urbane, mentre le aree interne debbono essere condannate ad un progressivo spopolamento? Lo sviluppo, inteso come crescita globale e non solo quantitativa ed economica, deve per forza coincidere con porzioni concentrate di territorio? Spopolamento è sinonimo di emigrazione, come i conglomerati urbani sono sinonimo di immigrazione. Concetti che valgono per le tante zone interne, che sono le aree sottosviluppate del mondo e per le tante aree urbane, che sono le aree sviluppate e più ricche della terra. Le zone interne ( e le zone montane che con esse spesso coincidono) e le aree urbane sono elementi necessariamente alternativi e conflittuali, nel senso che lo sviluppo di queste ultime va a discapito delle prime? Una lettura immediata, che fotografa le aree interne spopolate e quelle urbane sovrappopolate, porta a constatare che tale alternatività esiste. Un esito che in parte rilevante è conseguenza del contributo sempre più elevato dei servizi nella formazione del PIL, con un calo relativo dei settori primario e secondario. Mentre questi ultimi trovano e trovavano localizzazioni naturali al di fuori delle aree urbane, i servizi tendono concentrarsi in queste ultime. A cominciare dalle sedi di alta formazione le quali, per le caratteristiche specialistiche sempre più dominanti, trovano sbocco prevalente nelle aree urbane. Con una differenza fondamentale fra aree urbane economicamente sviluppate ed evolute ed aree urbane di territori meno sviluppati o in ritardo di sviluppo, come la Sardegna. Un laureato sardo in economia dei mercati finanziari o in ingegneria gestionale a Milano è molto probabile che trovi occupazioni nella stessa città e non torni in Sardegna. Poiché in Sardegna nella composizione interna dei servizi, il 32 % è fornito dai dipendenti pubblici, la speranza di trovare uno sbocco professionale in loco si restringe in assoluto e, comunque, in un ambito molto più ristretto. Peraltro i dati più recenti elaborati dall’ufficio studi della Banca d’Italia (giugno 2017) indicano che il contributo dei tre settori fondamentali alla formazione del valore aggiunto regionale è fortemente deteriorato e distorto. Parlo naturalmente di indicatori relativi , che sono quelli che contano. L’agricoltura incide per il 5,1% rispetto al 2,2 % media nazionale e al 4% media meridionale; l’industria ha subito un vero e proprio tracollo, con un’incidenza del 12,8% sul valore aggiunto regionale, di cui il 7,8% industria in senso stretto e 5% costruzioni. Mentre nelle regioni del nord, con l’eccezione della Liguria e del centro-nord, con l’eccezione del Lazio, e al Sud anche in Abruzzo e Basilicata, la partecipazione dei servizi al valore aggiunto regionale si attesta attorno al 71%, in Sardegna si colloca all’82,1% , come in Sicilia, Campania, Calabria e , appunto, in Liguria e Lazio. Tali distorsioni nella composizione del reddito regionale avvengono contestualmente a un forte peggioramento dei valori assoluti del reddito prodotto. Valori che vedono un crollo dai 34 miliardi e 789 milioni di euro del 2008 ( con valori comunque costanti sui 34 miliardi dal 2004 al 2008) ai 30 miliardi e 788 milioni del 2015: un calo di 4 miliardi di reddito prodotto, l’11,5% in meno ! Come ho già evidenziato, la partecipazione dei dipendenti pubblici ( amministrazioni pubbliche, sanità e istruzione) al valore aggiunto dei servizi è, in Sardegna, pari al 32 %, mentre in Lombardia è pari al 15,8%. Lo spopolamento delle zone interne nella nostra isola provoca, quindi, una duplice penalizzazione, poiché per un verso costringe ad emigrare fuori dal territorio isolano per i lavori più qualificati e in genere più appaganti sul piano professionale ed economico, mentre per altro verso le prospettive di inserimento lavorativo con il trasferimento nelle aree urbane sarde è molto più limitato sul piano quantitativo e, soprattutto, qualitativo. La fuga verso le città ( così come il flusso migratorio incontrollato dai Paesi sottosviluppati a quelli più sviluppati) ha creato e crea problemi sempre più complessi e difficili da governare con l’ampliarsi dei quartieri ghetto, con i problemi di emarginazione derivanti dalle difficoltà di integrazione, con il rischio di conflitti sociali non gestibili con il semplice, seppure doveroso, richiamo ai doveri della solidarietà e dell’accoglienza. La risposta non può essere solo quella, pur necessaria ma insufficiente, di una politica di interventi economici significativi. Occorre avere un progetto organico di sviluppo equilibrato su piano territoriale, che affronti complessivamente i temi della produzione, dell’occupazione e dell’organizzazione sociale e civile delle popolazioni. Non si tratta di obiettivi astratti o di fughe intellettualistiche, ma di obiettivi seri e perseguibili. Come in parte è avvenuto in passato, anche qui nella Sardegna centrale, come qualche decennio fa si preferiva identificare queste aree della nostra isola. Quando si realizzarono gli interventi di industrializzazione in queste aree della Sardegna, nella prima parte degli anni ’70 del secolo scorso ( mi riferisco al complesso degli interventi industriali che riguardavano la chimica, il tessile e la metalmeccanica), interventi che coinvolgevano migliaia di lavoratori ( 5mila solo nella zona di Ottana-Bolotana e oltre 1500 fra Macomer e Siniscola) e di loro famiglie , sia da parte del governo e della Regione che finanziavano gli interventi, sia da parte imprenditoriale venne proposto un piano abitativo per dipendenti e famiglie localizzato in tre centri (Nuoro, Ottana e Macomer). Le forze politiche, le organizzazioni sindacali e le amministrazioni locali si opposero,perché si sarebbero spopolati gran parte dei paesi dell’interno e si sarebbero realizzate tre aree urbane con il conseguente spopolamento dei paesi di provenienza.. Si pretese e, alla fine, si ottenne il finanziamento e la realizzazione di un piano insediativo distribuito in tutti i paesi facenti parte del bacino di manodopera delle industrie: Barbagia, Marghine, Mandrolisai e Goceano. Al di là della valutazione che si può fare sul merito delle politiche industriali attuate, la scelta si ispirava ad una visione complessiva delle politiche di sviluppo, con una attenzione coordinata fra produzione, occupazione e organizzazione territoriale delle politiche economiche. La produzione del reddito, misurabile quantitativamente, veniva intesa in modo diffuso : dall’attività industriale localizzata in tre poli alle attività commerciali e di servizio mantenute e potenziate nei singoli paesi. Significativi, anche se spesso trascurati perché non misurabili con i parametri del PIL, furono la crescita del capitale umano, l’ammodernamento dell’organizzazione civile e sociale e la formazione di una nuova classe dirigente in gran parte dei comuni interessati. Non intendo qui esprimere un giudizio di merito su quelle scelte politiche, non perché non le condivida, ma perché non è questa la sede. Voglio solo sottolineare che quella esperienza di 45 anni fa era comunque legata ad una visione progettuale che consapevolmente si proponeva di realizzare interventi per la crescita produttiva e occupativa come parte di una politica di sviluppo equilibrato sul piano territoriale. Non è una risposta credibile quella di pretendere che le zone interne si trasformino in aree urbane. Trasferire e decentrare una serie di servizi è senz’altro utile, soprattutto quando si tratta di servizi alla persona. Mi riferisco ad esempio al campo socio-sanitario dove l’assistenza territoriale va potenziata per garantirne una immediata fruizione da parte degli individui. Non ha molto senso, invece, pretendere di trasferire e spezzettare uffici e servizi pubblici sia perché vanno a discapito dell’efficienza sia perché viene meno l’integrazione necessaria per accelerare le procedure nelle decisioni amministrative già troppo lente nella tradizione italiana. Pensare a uno sviluppo delle zone interne puntando a sbocchi occupativi prevalentemente determinati dal pubblico impiego non è realistico né corretto. Le scorciatoie alle quali si è ricorso nella individuazione di nuovi enti locali dopo la crociata contro le provincie hanno aggravato i problemi. Non solo perché si è pensato di sopprimere le province dimenticandosi delle funzioni intermedie ad esse attribuite con il risultato che da otto enti intermedi siamo passati a un numero ben più elevato fra città metropolitana, rete metropolitana, città medie e unioni dei comuni. Soprattutto perché si è rinunciato a individuare un progetto credibile di sviluppo autonomo e percorribile per la aree interne partendo dalle risorse locali, quelle naturali e quelle acquisite con le esperienze importanti vissute con le politiche di industrializzazione e di ammodernamento dei processi produttivi avviate nei decenni passati e con la crescita dei livelli formativi tra le nuove generazioni. Penso a piani di investimento nelle produzioni zootecniche, dove le capacità di trasformazione dei prodotti sono molto al di sotto delle potenzialità. Penso alla valorizzazione delle notevoli risorse ambientali garantendo redditività ai comuni nella gestione dei beni ricadenti nei propri territori. Si invoca ancora la creazione di un Parco del Gennargentu, magari pensando all’ente parco che dovrebbe gestirlo al posto dei comuni, dimenticando che il parco c’è già, in gran parte delle nostre coste e nell’interno, perché i comuni e le popolazioni di queste aree hanno avuto la capacità e la sensibilità di difenderle dagli assalti della speculazione immobiliari e dell’occupazione selvaggia. Comuni e popolazioni alle quali, oggi, non si può chiedere di rinunciare a gestire questo enorme patrimonio e a ricavarne i benefici economici, dopo aver avuto il merito di preservarne la bellezza naturale. Si avrebbe, infatti, un singolare paradosso: laddove i comuni “violano” o hanno violato” il territorio adottando piani urbanistici, poi approvati dalla Regione, che hanno autorizzato le costruzioni di residenze e alberghi, hanno avuto e continuerebbero ad avere la gestione dei vantaggi economici di questa “violazione” ambientale in termini di tributi, mentre ai comuni che non hanno adottato piani urbanistici edificatori o chiesto di autorizzare interventi che intaccassero l’ambiente naturale non verrebbe riconosciuta la gestione della redditività economica delle aree ricadenti nella propria giurisdizione. L’attività di questi comuni costieri e montani dovrebbe , quindi, essere agevolata sia sul piano finanziario sia su quella dell’assistenza operativa. Penso allo stimolo, che è stato finora francamente impercettibile, che la Regione dovrebbe dare per la predisposizione dei piani di valorizzazione delle terre civiche, circa 400mila ettari in gran parte ricadenti nella Sardegna centrale, previsti da una legge di metà degli anni novanta, in gran parte inattuata. Piani che possono consentire modalità di utilizzazione moderna di questo immenso patrimonio sia nei settori tradizionali dell’allevamento e dell’agricoltura sia in attività nuove, a cominciare da quelle ricettive e turistiche. Penso alla possibilità di creare una rete fra coste e interno, favorendo interventi di recupero del notevole patrimonio abitativo, spesso sottoutilizzato e abbandonato, dei paesi dell’interno. Sono scelte e direttrici che si collegano con quanto vanno facendo varie amministrazioni locali, a cominciare da Ollolai, con interventi e decisioni volte a favorire l’acquisto di abitazioni da parte di non residenti. I collegamenti infrastrutturali realizzati negli anni ’70 e ’80 in funzione delle aree industriali possono oggi agevolare la creazione di una rete turistica di questo tipo. Penso alla riproposizione di un piano di interventi organico nella formazione universitaria di nicchia, specializzata in campi nei quali possa essere polo di attrazione per il resto dell’isola e non solo. Un’idea dei primi anni ’90, che si ispirava ad esempi importanti realizzati in altre parti d’Europa ( Regno Unito, Irlanda), spesso, come in Irlanda, in sostituzione delle aree franche doganali ormai economicamente superate e, nel Regno Unito, al posto delle aree franche industriali, che fu proposta e anche finanziata nella fase iniziale, contestualmente a una rete di parchi tecnologici di cui la formazione universitaria costituisce elemento caratterizzante. Tale obiettivo, sostenuto in diverse fasi e con diverse proposte da persone come Paolo Savona e Carlo Rubbia, non riuscì a decollare non tanto per ragioni finanziarie quanto per la scarsa convinzione di una parte del mondo accademico, che considerava tali interventi una sottrazione di risorse alle Università storiche sarde e le incomprensioni con importanti settori dell’imprenditoria regionale che consideravano tali idee come utopie irraggiungibili preferendo la certezza degli investimenti tradizionali a cominciare dalle costruzioni. Ricordo l’affermazione del presidente di una delle associazioni imprenditoriali regionali più in vista “prima pensiamo al pane senza pretendere il companatico”, la cui traduzione era; finanziate l’edilizia (il pane) perché investire nell’innovazione (il companatico) per la Sardegna è un’utopia. L’iniziativa politica non può esaurirsi nell’amministrare il quotidiano. Occorre avere una visione, cioè la capacità e la volontà di affrontare i problemi del momento proiettandoli nel lungo periodo e senza mai smarrire gli ideali nei quali si crede. Enrico Berlinguer ricordava come dovesse essere “ sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di “pensieri lunghi”, di progetti. Naturalmente questi pensieri devono essere sorretti da un’analisi scientifica della realtà, altrimenti i progetti si trasformano in vuote proclamazioni retoriche. Bisogna avere il coraggio di una utopia che lavori sui “tempi lunghi” per raggiungere l’obiettivo di migliorare la vita degli uomini”. Contrastare lo spopolamento delle zone interne non è un’esigenza territoriale, ma è parte di un processo di sviluppo equilibrato e diffuso sul piano economico, sociale e civile. Non ci può essere progresso se esso si realizza accentuando le diseguaglianze territoriali, costruendo,per carenza di “pensieri lunghi”, nuovi Sud. La storia economica ci dimostra che c’è sempre un’area più a Nord che evidenzia la debolezza di processi di crescita locali non equilibrati territorialmente. Ciò è tanto più vero nell’era del digitale e della connessione globale che riduce il peso e l’antieconomicità delle distanze fisiche in molti comparti produttivi e, soprattutto, nei comparti dei servizi. Non può essere una soluzione la semplice redistribuzione delle poche risorse utilizzate, tanto meno può essere una prospettiva credibile, capace di ridare fiducia alle nuove generazioni dei nostri paesi, la pur necessaria redistribuzione territoriale dei dipendenti pubblici. Sono, invece, necessarie politiche economiche basate sul sostegno mirato alle attività produttive e a quelle dei servizi avanzati destinati alla vendita, sulla capacità di produrre di più e in modo competitivo per soddisfare da un lato la domanda interna e dall’altro per accrescere la capacità di esportare nei mercati esterni con prodotti di qualità. L’offerta turistica svolge per noi questa funzione in modo rilevante, ma contribuisce per il 4,5% alla formazione del PIL regionale, che si stima arrivi al 7% considerando il sommerso. Non è poco, ma non possiamo pensare che possa sostituire l’apporto degli altri comparti produttivi, che restano fondamentali per garantire sviluppo e occupazione. Quando vengono diffusi i dati sulle esportazioni, la Sardegna registra incrementi ( e decrementi) percentuali talvolta rilevanti, ma ingannevoli. In realtà l’81,3% delle nostre esportazioni ( 3 miliardi e 423 milioni di euro su un totale di 4miliardi e 209 milioni di euro, dati Banca d’Italia) dipende dai prodotti petroliferi e neppure dalle loro quantità, ma dalla semplice variazione dei prezzi del petrolio. La verità è che il secondo comparto esportatore, posizione condivisa con la metallurgia e la chimica dopo il crollo dei due comparti, è quello agroalimentare, che si attesta però, con un valore di 182 milioni di euro, attorno al 4,3 %%, di cui appena il 2,9% l’industria lattiero-casearia. Uno studio effettuato anni fa sulla bilancia commerciale regionale sarda indicava, peraltro, che i mercati di sbocco delle imprese sarde sono prevalentemente provinciali, poco rilevanti sul piano regionale e scarsi sui mercati esterni all’isola, fatta eccezione per i prodotti petroliferi. Secondo i dati ISTAT la distribuzione percentuale per provincia vede Cagliari ( cioè la Saras) con l’85,6% di esportazioni sul totale, Nuoro con il 2,7%, l’Ogliastra con il 2,4% , Sassari con il 5,9%, Olbia con l’1,7%, Oristano con lo 0,9%, Carbonia con lo 0,6% e il Medio Campidano con lo 0,2%. E’ la fotografia di un’economia chiusa, di ambito provinciale, con l’eccezione di Cagliari, ma , come sappiamo, in virtù del peso dei prodotti petroliferi. Occorre definire e realizzare un progetto di respiro che incida in modo strutturale sulla base produttiva della Sardegna, modificandone in modo significativo le direttrici fondamentali e finalizzata ad acquisire nuovo spazi nel soddisfacimento della domanda interna, ma soprattutto, data la ristrettezza di quest’ultima, ad acquisire competitività nei mercati esterni all’isola. Ciò può avvenire investendo molto nella qualità, nella formazione, nell’innovazione, nella valorizzazione delle risorse ambientali e territoriali di cui disponiamo. Interventi diversi, ma coordinati e rispondenti ad una visione e ad un progetto di sviluppo organico e non dispersivo, negli obiettivi e nell’utilizzo delle risorse finanziarie regionali, statali ed europee disponibili. Formazione qualificata di livello universitario, incentivi per favorire un’offerta turistica integrata fra coste e aree interne, premialità per i comuni che garantiscono un utilizzo corretto del territorio, sostegno agli investimenti privati e pubblici nelle attività produttive, assistenza alle imprese nell’inserimento nei mercati esterni all’isola, utilizzo dell’ingente patrimonio delle terre civiche. Sono direttrici su cui è possibile lavorare con l’obiettivo di assumere una forte iniziativa politica e culturale. Collocando, comunque, la rivendicazione di politiche economiche in grado di favorire la crescita delle aree interne della Sardegna come parte di un piano organico di sviluppo dell’intera isola. La Sardegna, e non solo le zone interne, ha bisogno di avere fiducia nelle proprie risorse umane e nelle notevoli risorse naturali, ha bisogno di attuare una politica di “pensieri lunghi”, di progetti in grado di valorizzare le tante energie di cui dispone, spesso utilizzate fuori dall’isola e ancora più spesso sottoutilizzate. Non sono obiettivi facili, ma sono obiettivi possibili di cui la classe politica dirigente, le forze economiche e sociali, gli intellettuali devono farsi carico.

CRISTIANO ERRIU

Il ruolo degli enti locali per governare lo sviluppo ed arginare lo spopolamento delle aree interne della Sardegna

Il tema dello spopolamento delle aree marginali ha assunto oggi un’attenzione particolare. L’abbandono dei territori, oltre che un problema sociale e culturale, diventa anche ambientale, di sicurezza generale e di perdita, per una collettività, della propria identità. Come ricorda l’OCSE, non contano solo i dati numerici relativi a PIL ed alle relative statistiche economiche ma in queste particolari aree interessano le condizioni materiali e la qualità della vita nelle quali garantire un adeguato livello di servizi. Prendendo spunto dal significativo studio relativo agli indicatori di malessere demografico (IDMS – Comuni in estinzione – Gli scenari dello spopolamento in Sardegna) condotto nel 2014. l’Isola, maggiormente nelle aree interne, si spopola con una tendenza progressiva che dura dagli anni ‘60 del XX secolo ed allontana da sé particolarmente i giovani, dando origine a nuove migrazioni. I Comuni oggetto di spopolamento sono quelli più difficilmente collegati ai servizi ed alle comunità maggiori. Il trend demografico incrementa le realtà costiere, anche se non tutte evidenziano il medesimo comportamento (i Comuni della costa occidentale, ad esempio, ad esclusione di Alghero). Le politiche intraprese non sono state tuttavia determinanti per contrastare il fenomeno dello spopolamento tanto che il tema resta aperto e quotidiano nel dibattito pubblico. Tuttavia, le attenzioni ai territori interni sono state molteplici negli anni, ed incisive in materia di sviluppo locale. Tra queste, per citarne alcune: la Progettazione Integrata Territoriale, il Piano Sulcis, il Piano di Rilancio del Nuorese, Aree di crisi, Gal, Flag ed altre ancora. Ma il territorio regionale ha un “funzionamento” dissimile tra aree della stessa isola. L’evoluzione è leggibile anche attraverso i Sistemi Locali del Lavoro (SLL), sempre più piccoli territorialmente, che denotano un autocontenimento elevato e con carenze di opportunità locali diversificate ed alternative. I Sistemi Locali del Lavoro sono aree funzionali definite in base a dove la popolazione risiede e lavora, e dove tende a esercitare la maggior parte delle proprie relazioni sociali ed economiche. Gli SLL sono dunque delimitati aggregando più unità territoriali elementari (in particolare i Comuni nei loro confini amministrativi) in base al loro grado di interazione, misurato utilizzando i flussi di pendolarismo, e cioè a partire dal numero di occupati che effettuano lo spostamento dalla località di alloggio a quella di lavoro, di studio o di svago. Trattandosi di una classificazione dello spazio che tiene conto dell’organizzazione delle scelte e delle azioni delle persone e degli attori locali, questa partizione territoriale consente di superare le tradizionali letture per settore, dimensione e partizioni amministrative, favorendo una lettura più flessibile dell’eterogeneità del sistema socio- economico della nostra Isola. Quello che emerge è, in estrema sintesi, il mutamento delle relazioni e dei ranghi anche tra Amministrazioni. Quindi occorre una flessibilità d’azione, anche programmatoria, capace di adattarsi alle modifiche della componente sociale della comunità. La contraddizione più evidente è leggibile anche nelle nuove aree eleggibili GAL, le quali ricomprendono oggi territori che non avevano caratteristica rurale per vocazione (vedi Calangianus), ovvero si assiste ad un allargamento delle dimensioni dell’ambito di relazione vasto come nel Sistema Locale del Lavoro di Cagliari, che supera ben oltre il confine “amministrativo” di Città Metropolitana. Probabilmente, per contrastare il malessere demografico e riequilibrare i territori verso nuove opportunità non bastano solo le misure di incentivazione, da qualsiasi fonte queste arrivino (comunitarie, nazionali e regionali), tecnicamente semplici da concepire e da attuare ma che possono risolversi solo se il territorio modifica il proprio atteggiamento culturale nei confronti del “luogo che li ospita”. Ma gli strumenti con cui operiamo sono sempre retrospettivi. Da questo punto di vista, lo spopolamento necessita di una “politica” e di una visione strategica che richiede interventi estremamente mirati e rapidi, perché l’abbandono di paesi e territori ha forti implicazioni ambientali (degrado di zone già antropizzate), territoriali (aumento pregresso e futuro di gravi squilibri in assenza di interventi) e socio‐ economiche (perdita di patrimoni di identità e pluralità, appiattimento verso modelli insediativi urbani). Il contrasto allo spopolamento deve necessariamente basarsi sulla individuazione e promozione di un sistema di opportunità di lavoro, da accompagnare con una adeguata dotazione di servizi per le persone e le imprese. Gli interventi che mirano ad accrescere l’attrattività insediativa attuati anche in altre regioni d’Europa, con obiettivi di adattamento e mitigazione (risposta agli effetti dei cambiamenti), sono stati di varia tipologia (IDMS Regione Sardegna): - organizzativi, per la costituzione di reti di servizi; - di potenziamento dei servizi, secondo forme idonee agli insediamenti minori; - di incentivazione (fiscalità di vantaggio; incentivi all’insediamento diretti e indiretti, ivi compresi contributi per l’acquisto e la ristrutturazione di abitazioni e unità produttive locali); - di promozione (azioni di marketing territoriale su opportunità residenziali e di insediamento produttivo rivolte all’interno e all’esterno dell’area). Dall’analisi sulle politiche regionali europee è evidente che tutte le nazioni sono coinvolte in questo per limitare il degrado delle proprie comunità marginali. In questo particolare momento storico, con un’Europa a più velocità, con regioni che hanno tassi di natalità bassi, migrazioni e disoccupazione vi sono politiche attrattive governate a livello statale. Queste sono rivolte ad attrarre fondamentalmente le tre componenti socio-economiche principali ovvero capitali, imprese e cittadini. Tra queste nazioni si evidenziano in particolare Portogallo, Malta, Irlanda, Paesi Bassi e Cipro. In questo contesto dove la competizione territoriale è particolarmente spinta di livello sovralocale, le politiche regionali devono vedere l’introduzione di azioni complementari per compensare gli svantaggi naturali delle aree marginali montane ed insulari. La riforma degli enti locali guarda con attenzione al riequilibrio territoriale, alla qualità e alla distribuzione dei servizi. Citando Giovanni Maciocco, il tema dell’attivazione di nuove forme istituzionali (Unioni di Comuni e loro associazioni, come previsto nella L.R. n. 2/2016) sono indispensabili per una risposta adeguata e necessaria alla ridefinizione degli equilibri tra centri urbani e territori interni e di periferia. Una nuova ricchezza per il territorio regionale e nuova ricchezza collettiva come è la densità di storia e di natura di queste “nuove città del territorio” che devono essere ridisegnate e ripensate sulle Unioni di Comuni. La nostra Legge Regionale 4 febbraio 2016 n. 2 pone particolare attenzione alle politiche pubbliche per il contrasto allo spopolamento, con particolare riguardo alle aree con maggiore disagio socio-economico ed ai piccoli Comuni. Qui di seguito si riprendono alcuni riferimenti significativi: (…) definiscono le prestazioni delle Unioni di Comuni che possono consistere, nel rispetto degli orientamenti dell'Unione Europea in materia di aiuti di Stato, anche in finanziamenti e contributi. Art. 15, c. 6 - La Regione promuove le iniziative delle Unioni di Comuni orientate all'attivazione o implementazione di servizi di prossimità, tenuto conto degli indici di svantaggio socio-economico. La Regione dunque promuove la gestione associata delle funzioni e dei servizi di competenza comunale e sovracomunale. Attraverso le Unioni di Comuni si costituisce lo strumento di governo del territorio sulla base delle relazioni che da sempre avvengono nelle cosiddette regioni storiche. Le politiche regionali per i territori che presentano indici di svantaggio socio-economico sono attuate attraverso azioni e specifiche misure di sostegno, tra cui il Fondo Unico per gli enti locali, per favorire: - la mobilità interna; - il radicamento delle imprese nel territorio; - l’inserimento e l’accompagnamento di giovani imprenditori; - la diffusione dei servizi di prossimità; - l’attenzione all’ordine pubblico; - la valorizzazione attrattiva dei centri storici; - la qualità della vita; - la scuola e la formazione; - la presenza di presìdi socio-sanitari di prossimità. Queste politiche se opportunamente integrate, ispirate ai valori della coesione e della diffusione adeguata della crescita economica e sociale, possono essere di vantaggio per le aree svantaggiate, alle aree interne e rurali e ai territori più deboli e marginali. Vi sono già oggi numerosi interventi per le politiche di riequilibrio tra cui, a mero titolo esemplificativo, le “case ad un euro”, le “terre ai giovani”, la messa a valore del patrimonio immobiliare regionale, e ancora altre. Ma per essere maggiormente incisivi rispetto all’agenda di programma ed all’attenzione doverosa nei confronti della comunità insediata è opportuno fare alcune riflessioni anche a seguito dell’ultima pubblicazione (aprile 2017) dell’Istat relativa a “Il futuro demografico del paese – Previsioni regionali della popolazione residente al 2065”. Lo scenario rappresentato evidenzia un declino demografico progressivo con migrazioni interne regionali verso le città ed interregionali verso il centro-nord del Paese. Nella futura dinamica demografica, un contributo determinante sarà quello esercitato dalle migrazioni con l’estero. Similmente, i dati relativi all’occupazione evidenziano che la Sardegna è tra le regioni d’Europa con il tasso di disoccupazione più elevato, collocandola al sesto posto di questa infelice classifica, in particolar modo nelle età tra i 15 ed i 24 anni. La sfida che vogliamo cogliere è modificare in senso positivo la possibilità di far rinascere i nostri paesi per favorire ed incentivare gli ausili di accompagnamento verso lo “stare” ed il “ritornare” delle persone e delle famiglie nelle comunità, in particolare dell’interno. Un significativo contributo come richiamato sopra può essere dato dalle Unioni di Comuni, che nel nuovo assetto istituzionale dell’Isola rafforzano il ruolo del singolo Comune, diventando una reale opportunità di miglioramento dei livelli di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa, a sostegno del sistema delle imprese e dei cittadini. Ricordiamo che per “funzioni” s’intendono tutti i compiti e le attività proprie del Comune o ad esso delegate; mentre con quello di “servizi” si fa riferimento ai servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività, rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Attraverso uno sviluppo concreto delle forme associative sovracomunali sarà possibile, per i piccoli Comuni, raggiungere auspicati livelli di adeguatezza e vedersi garantiti quegli indispensabili spazi di autonomia, senza che si sottraggano ad essi le competenze di cui sono titolari per rimetterle ad altri livelli di governo del territorio. Dunque, il punto da cui prendere le mosse è quello dell’ambito territoriale ottimale legato al Piano di Riordino di cui alla Legge 2/2016, “all’interno del quale è più semplice definire politiche di servizi più efficienti e più efficaci, attraverso la riduzione dei costi unitari delle funzioni associate e con evidenti economie di scala”. La gestione associata delle funzioni e dei servizi comporta la possibilità di specializzare le risorse umane con un conseguente aumento della qualità dei servizi per la comunità allargata. Rendere le comunità attrattive ed efficienti diventa dunque un problema di governance, di sintonia fra tante energie messe in campo da diversi attori e da fonti finanziarie articolate e diverse, che l’Assessorato degli Enti locali si propone di coordinare e gestire nell’integrazione con il supporto strumentale che già effettua per competenza e per ruolo. Fra queste attività vi è la definizione e l’attuazione di azioni volte all’assistenza alle Amministrazioni locali per contrastare il fenomeno dello spopolamento e della disoccupazione, per preservare il patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico per dare una nuova prospettiva di sviluppo alle aree interne. Un nuovo assetto per il territorio, per garantire i diritti dei cittadini in un abitare non necessariamente urbano, adeguati e di prossimità. Le linee strategiche d’intervento possono essere individuate in un piano strategico articolato, un nuovo “patto per la Sardegna” dove gli elementi chiave sono: - intervenire sulle condizioni dell’abitare; - valorizzare i centri storici e il paesaggio; - garantire il diritto di cittadinanza attraverso le reti di servizi, delle infrastrutture ed i sistemi di connessione (banda ultralarga); - favorire le attività economiche e l’agricoltura di precisione; - incoraggiare nuove forme di identità attraverso l’ospitalità, l’accoglienza e il commercio; - garantire viabilità e accessibilità ai luoghi ed alle persone in coerenza con le necessità degli abitanti; - portare a valore e razionalizzare l’utilizzo e la gestione del patrimonio pubblico; - intervenire sulla finanza locale per garantire un sistema adeguato, flessibile e di eccellenza per la gestione delle funzioni fondamentali del sistema delle autonomie locali della Sardegna.