Piano dell'opera:

STORIA D'ITALIA Voi. I 476-1250 STORIA D'ITALIA Voi. II 1250-1600 STORIA D'ITALIA Voi. Ili 1600-1789 STORIA D'ITALIA Voi. IV 1789-1831 STORIA D'ITALIA Voi. V 1831-1861 STORIA D'ITALIA Voi. VI 1861-1919 STORIA D'ITALIA Voi. VII 1919-1936 STORIA D'ITALIA Voi. Vili 1936-1943 STORIA D'ITALIA Voi. IX 1943-1948 STORIA D'ITALIA Voi. X 1948-1965 STORIA D'ITALIA Voi. XI 1965-1993 STORIA D'ITALIA Voi. XII 1993-1997 MONTANELLI CERVI STORIA D'ITALIA 1943 1948

INDRO MONTANELLI I MARIO CERVI L'ITALIA DELLA GUERRA CIVILE Dall' 8 settembre 1943 al 9 maggio 194.6

INDRO MONTANELLI | MARIO CERVI L'ITALIA DELLA REPUBBLICA Dal 2 giugno 1946 al 18 aprile 1948 STORIA D'ITALIA Voi. IX

EDIZIONE PER OGGI pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano © 2006 RCS Libri S.p.A., Milano

Questo volume è formato da: Indro Montanelli - Mario Cervi Eltalia della guerra civile © 1983 Rizzoli Editore, Milano © 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

Indro Montanelli - Mario Cervi Eltalia della Repubblica © 1985 Rizzoli Editore, Milano © 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

Progetto grafico Studio Wise

Coordinamento redazionale: Elvira Modugno Fotocomposizione: Compos 90 S.r.L, Milano

Allegato a OGGI di questa settimana NON VENDIBILE SEPARATAMENTE Direttore responsabile: Pino Belleri RCS Periodici S.p.A. Via Rizzoli 2 - 20132 Milano Registrazione Tribunale di Milano n. 145 del 12/7/1948

Tutti i diritti di copyright sono riservati settembre 1943, 2 giugno 1946, 18 aprile 1948: tre giorni cruciali per la storia del nostro Paese. Il primo segna l'inizio della guerra civile che insanguinò VItalia quando «era ta­ gliata in due» (secondo un'incisiva definizione di Benedetto Croce), con la Repubblica Sociale di Mussolini a Nord tenuta in vita dai tedeschi e il Regno del Sud di Vittorio Emanuele III che godeva del sostegno degli Alleati. Fino al 25 aprile, e oltre, si combatté tra ita­ liani una guerra disperata e feroce in nome - come sostenevano su fronti opposti repubblichini e partigiani - dell'onore, della dignità e della libertà. Furono proprio gli autori di questo libro a rompere una tradizione storiografica che parlava solo di «guerra di Libera­ zione» e a far conoscere a milioni di lettori che l'Italia aveva com­ battuto una guerra civile che, pur non raggiungendo gli orrori di quella spagnola, aveva provocato nel Paese una spaccatura che so­ lo oggi si comincia timidamente a cercare di superare da entrambe le parti. Un Mussolini abulico, impotente e malato fu costretto da Hitler - pena un'occupazione ancora più feroce - a costituire una repubblica priva di un'autonomia reale, il cui unico compito era quello di aiutare i tedeschi nella repressione delle forze partigiane. Il Regno del Sud, da parte sua, cercò, collaborando con gli Alleati, di assicurare all'Italia il famoso «biglietto di ritorno» tra le grandi democrazie. Fu una guerra dura in cui «pietà era morta»: fucila­ zioni, rappresaglie, orrori e vendette private da entrambe le parti. Uscita distrutta da un conflitto immane, lacerata da una guerra intestina, guardata con diffidenza da tutte le potenze vincitrici, l'Italia ebbe la forza di voltare pagina, con il referendum del 2 giu­ gno 1946 (seconda data cruciale), scegliendo la Repubblica e infi­ ne, il 18 aprile 1948 (terza data cruciale), di ancorarsi, grazie alla vittoria elettorale della De di De Gasperi, all'Occidente e alla demo­ crazia. La lunga e faticosa ricostruzione poteva finalmente inco­ minciare.

INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in scienze politiche, inviato speciale del «Corriere della Sera», fonda­ tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor­ nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), LItalia del Nove­ cento (con Mario Cervi, 1998), La stecca nel coro (1999), LItalia del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

MARIO CERVI è nato a Crema (Cremona) nel 1921. Laureato in leg­ ge, ufficiale di fanteria durante il secondo conflitto mondiale, per molti anni è stato inviato speciale del «Corriere della Sera», arti­ colista e inviato del «Giornale» e della «Voce». E stato direttore del «Giornale» dal 1997 al 2001. Tra le sue opere ricordiamo Sto­ ria della guerra di Grecia (1965; ed. BUR 2001), Mussolini - Album di una vita (Rizzoli 1992), / vent'anni del «Giornale» di Montanelli (con Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Rizzoli 1994). Indro Montanelli - Mario Cervi

L'ITALIA DELLA GUERRA CIVILE (8 settembre 1943-9 maggio 1946) 1

i AVVERTENZA

Molti ci chiederanno come mai abbiamo intitolato questo volume L'Italia della guerra civile invece che L'Italia della Resistenza, come si è soliti chiamare quel periodo. È stata una scelta, cui ci sia­ mo sentiti autorizzati dalla nostra partecipazione a quegli eventi. Cervi, giovanissimo ufficiale di complemento in Grecia, fu de­ portato dai tedeschi. Io, arrestato dalla sulla fine del '43 per partecipazione ai gruppi di «Giustizia e Libertà», rimasi in pri­ gione fino al settembre del '44, prima a Gallarate, poi a S. Vittore, donde riuscii ad evadere e a riparare in Svizzera. Crediamo che queste credenziali ci autorizzino - e per questo le abbiamo esibite - a dire quel che pensiamo: e cioè che di quei sedici mesi di tregenda, la Resistenza fu uno degli episodi, ma non il solo, e di scarsissimo pe­ so risolutivo sugli avvenimenti. A contare molto di più fu, caso mai, la resistenza con la erre minuscola, cioè quella, quotidiana e passi­ va, fatta di piccoli e grandi sacrifici, di pazienza e di «arrangia­ menti» e anche di malizie e doppi giuochi che gl'italiani opposero, per sopravvivere, a tutto e a tutti. Questo atteggiamento di distacco ci procurerà certamente molte critiche. Ma noi crediamo che, a quarant'anni di distanza, sia tem­ po di fare Storia e di farla fuori dei miti e delle leggende. In realtà il titolo avrebbe dovuto essere non LItalia della, ma delle guerre ci­ vili, perché non una sola, ma molte se ne intrecciarono in quel pe­ riodo. Ci fu quella degli Alleati «liberatori» contro i Tedeschi «inva­ sori» (ma in realtà erano invasori gli uni e gli altri, sia pure con intenzioni e metodi diversissimi). Ci fu quella del Regno del Sud contro la Repubblica Sociale del Nord; ci fu quella degli antifasci­ sti contro i fascisti, che divise le famiglie e le coscienze; e ci fu quel­ la degli antifascisti tra loro per il tentativo comunista di assumere

5 l'esclusiva della lotta al fascismo facendo fuori, in nome di essa, tutti gli altri. Già questo intreccio di fili e filoni basta a togliere ogni fonda­ mento e credibilità al giudizio sommario con cui finora si è preteso distinguere l'Italia «buona», cioè quella degli antifascisti, dall'Ita­ lia «cattiva», cioè quella dei fascisti. Quando, il 29 aprile, andai a vedere la macabra (e ripugnante) scena di piazzale Loreto, fra quei poveri corpi appesi a testa in giù, ne riconobbi due, di cui ancora oggi non so come spiegare la vicenda che li aveva condotti lì: so sol­ tanto che non ho il diritto di giudicarla. Uno era quello di Nicola Bombacci, vecchio tribuno socialista di Romagna, prima compagno di scuola e amico di Mussolini, poi suo mortale nemico, uno dei fondatori - con Gramsci, Bordiga, Togliat­ ti, Terracini ecc. - del partito comunista, in seguito esule prima in Russia, poi in Francia, e poi spontaneamente tornato in Italia per mettersi sotto la protezione del Duce. Non aveva esitato a seguirlo a Salò, e questo si può spiegare con l'interesse e la gratitudine. Ma non aveva esitato nemmeno ad accompagnarlo in quell'ultimo viag­ gio verso una morte sicura: e per spiegare questo, ci vuole qualcosa di più. Ealtro era quello di un ragazzo, di cui le cronache non registra­ rono neppure il nome. Si chiamava Mario Nudi, era stato mio com­ pagno di battaglione in Abissinia, e non mi ero mai accorto che avesse idee politiche. Era un bell'atleta semplice e coraggioso, un po' da western, che faceva quella guerra per piacere sportivo. An­ cora mi domando cosa lo aveva condotto a Salò, e poi su quel gan­ cio da norcini accanto a un dittatore, sul quale non aveva mai nem­ meno espresso opinioni. Potrei citare infiniti altri casi di uomini che l'8 settembre fecero una scelta assolutamente imprevedibile, e molto spesso la pagarono, da una parte e dall'altra, con la vita. Ce ne furono alcuni che, da un pezzo su posizioni di fronda al regime, considerarono l'8 settem­ bre un tradimento e si sentirono in dovere di accorrere in aiuto di un Duce vinto e ormai abbandonato da quasi tutti. Nel serraglio di Salò si trovarono poi mescolati a delinquenti e avventurieri che nel­ la Repubblica Sociale vedevano solo un pretesto per fare razzia e

6 bottino. Così come vidi dei fascisti di buona e sicura fede cercare nelle file della Resistenza un lavacro e un riscatto. Altri lo fecero solo per procurarsi una benemerenza che li mettesse al riparo da una probabile «epurazione» e li accreditasse presso il nuovo regime. Tutto si mescolò in quei mesi di trambusto, di umiliazione e di violenza. E noi non abbiamo la pretesa di essere riusciti a distin­ guere il grano dal loglio, il nero dal bianco, il bene dal male, anche perché nemmeno noi sappiamo con esattezza cosa fu il bene e cosa fu il male. Abbiamo solo la certezza di esserci posti di fronte a que­ sta ingarbugliatissima matassa senza pregiudiziali di sorta, pur consci che, così facendo, avremmo scontentato tutti. Un'altra difficoltà che abbiamo incontrato, e che non siamo si­ curi di aver superato, è quella, meccanica, dell'articolazione del racconto. Le infinite storie che compongono questa storia corrono spesso parallelamente Luna all'altra, e sarebbe stato impossibile se­ guirle in simultanea senza ricorrere ad artifìci d'intreccio che ab­ biamo voluto a tutti i costi evitare. Abbiamo preferito ricostruire gli avvenimenti pezzo a pezzo: prima la costituzione del Regno del Sud, poi quella della Repubblica di Salò, poi la nascita e i primi sviluppi della Resistenza, con la tecnica del flash-back, cioè del salto all'indietro, perché quello scenario non ne consentiva altre. Saremo anche incorsi, certamente, in qualche inesattezza, omissione ecc. Ma siamo sicuri che si tratterà dì dettagli: sulla ricostruzione delle grandi linee credo che non ci potranno essere mosse obbiezioni. Un'ultima confessione. Questa Italia della guerra civile l'abbia­ mo scritta con la stessa amarezza con cui scrivemmo, L'Italia della disfatta. Né l'uno né l'altro sono stati, per il nostro Paese, capitoli gloriosi. E di questo vorremmo rendere persuasi e coscienti soprat­ tutto i giovani che non li vissero, e ai quali si sono raccontate un mucchio di fole. Sulle quali, secondo noi, non si può costruire nulla dì valido e durevole. Naturalmente non riteniamo di avere la privativa della verità. Ma crediamo dì averla onestamente cercata e, nei limiti dei nostri modesti mezzi, servita.

I. M. V CAPITOLO PRIMO

NASCE IL REGNO DEL SUD

La mattina del 10 settembre 1943 la corvetta Baionetta, con la famiglia reale, Badoglio, e una folla petulante di generali dello Stato Maggiore avvolti in coperte e pastrani, navigava in un Adriatico tranquillo. La giornata era bella, un sole cal­ do ristorava i fuggiaschi intirizziti dopo le traversie della fu­ ga da Roma. A bordo avvenivano chiassosi riconoscimenti e incontri. I capi militari si sentivano, nonostante tutto, abba­ stanza soddisfatti. Roatta, che durante la notte aveva avuto qualche perplessità sulla ragionevolezza e sulla dignità del suo comportamento, riconoscendo che forse, come Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, doveva rimanere nella capita­ le (asseriva di essersi aggregato alla colonna di Pescara pen­ sando si fermasse poco oltre, e di aver poi proseguito per forza d'inerzia), si sentiva già molto più disteso. L'incrocia­ tore Scipione l'Africano, che scortava la corvetta, le si era ac­ costato più di una volta, e in una occasione la manovra ri­ sultò troppo spericolata, cosicché un'ondata investì la co­ perta, infradiciando qualche generale e scaraventando in mare alcune valigie. Badoglio non era più il vecchio tremante del giorno pri­ ma; affrontava ormai il futuro con un certo ottimismo. Poi­ ché la radio diffondeva la notizia che i tedeschi avevano co­ minciato ad occupare città e posizioni, soprattutto nell'Italia settentrionale, commentò che si trattava sicuramente di ini­ ziative dovute a elementi isolati. Alle 11 risuonò a bordo l'al­ larme, perché un ricognitore tedesco sorvolava la nave, e furono puntati i pezzi antiaerei: il colonnello De Buzzacca- rini porse al Re e alla Regina due salvagente, ma Vittorio

9 Emanuele III si allontanò con un gesto di fastidio. La Regi­ na cercò poi un po' d'ombra a poppa, in mezzo a una cata­ sta di mine di profondità. A mezzogiorno la Baionetta era al largo di Bari. Ci si informò per sapere se la città fosse libera. Venne risposto, non si sa da chi e per quale motivo, che era occupata dai tedeschi; notizia infondata anche se un tentati­ vo di impadronirsi della città era stato abbozzato, il giorno precedente. Ma il generale Nicola Bellomo - che poi gli in­ glesi processeranno e fucileranno, in base ad accuse gonfia­ te e discutibili - lo aveva respinto con decisione. Un ra­ dio-dispaccio altrettanto infondato comunicò che anche Brindisi era in mano tedesca. In realtà Brindisi era lasciata completamente a se stessa: non c'erano gli anglo-americani - già insediati invece a Taranto - e non c'erano tedeschi. Proprio quando era vicina al porto di Brindisi la Baionetta si imbatté in un sommergibile inglese e, successivamente, fu sorvolata e seguita a lungo da un altro apparecchio della Luftwaffe. I «passeggeri» avevano da poco finito la colazio­ ne, e furono fatti scendere sotto coperta, ammutoliti d'im­ provviso. «I loquaci tacciono mentre gli ottimisti rinfodera­ no le loro speranze» raccontò un testimone. Ma lo Junker 88 se ne andò senza disturbare, e la Baio­ netta fu, alle 14,30, in vista di Brindisi. L'incrociatore Scipio­ ne l'Africano puntò i suoi cannoni, ad ogni buon conto anche le batterie costiere brandeggiarono i loro. Vi furono mo­ menti di intensa suspense: se nel frattempo i tedeschi avesse­ ro fatto irruzione in città? Si accostò alla corvetta un moto­ scafo che issava la bandiera italiana: ne sbarcò l'ammiraglio Rubartelli, comandante della base della Marina, al quale nessun radiomessaggio aveva preannunciato la presenza del Re sulle unità in arrivo. All'ammiraglio, che era restato di sasso, Vittorio Emanuele III non consentì, con la solita gelida bruschezza, di esprimere il suo stupore. «Ci sono te­ deschi a Brindisi?» interrogò. «No Maestà.» «Ci sono ingle­ si?» «No Maestà.» «Chi comanda allora?» «Comando io.» «Bene, andiamo.»

10 Così, su istruzioni di Rubartelli che andava rimuginando tra sé e sé come mai il Re e il governo si trovassero su una nave che, per quanto gli risultava, doveva portare soltanto il ministro della Marina, la Baionetta attraccò a un molo quasi di fronte all'Ammiragliato, situato nel recinto del Castello Svevo. Fu stabilito, seduta stante, che il Re, la Regina e il Principe ereditario si insediassero nell'appartamento del­ l'ammiraglio, al primo piano di una palazzina adiacente al corpo principale del Castello. Fu svegliata la signora Rubar­ telli che, fedele alle usanze del Meridione d'Italia, si era concessa la pennichella pomeridiana, e che, confusissima, comparve davanti alla Regina in vestaglia. Badoglio e Ac- quarone furono sistemati nella casermetta dei sommergibili, i generali più importanti all'Albergo Internazionale, il go­ verno - quale? - pose la sua sede negli uffici del comando della Marina, al Castello. L'aiutante di campo del Re, Pun­ toni, racimolò un nucleo di carabinieri e di marinai per .assi­ curare un sommario servizio di sicurezza. La famiglia reale decise di prendere i pasti nel suo appartamento. Il seguito e i ministri presenti - che erano poi due, De Courten della Marina e Sandalli dell'Aeronautica, oltre a Badoglio - fon­ darono una «mensa del governo». Quella stessa sera Radio Bari, troppo debole per essere ascoltata in tutta Italia, diffuse un proclama del Re nel qua­ le era detto che «per assicurare la salvezza della capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di Re, col go­ verno e con le autorità militari mi sono trasferito in un altro punto del sacro e libero suolo nazionale». Tuttavia, ancora ITI settembre, secondo un comunicato dell'agenzia Stefani, Badoglio era assente da Roma «in seguito a ispezioni milita­ ri, che richiedono la sua personale presenza». Quell'I 1 set­ tembre Vittorio Emanuele III convocò, nel salotto dell'Am­ miragliato, una riunione che non si sa bene come definire: o Consiglio della Corona, o Consiglio dei ministri, o Chiac­ chierata tra amici. Con Umberto di Savoia erano presenti Badoglio, De Courten, Sandalli, Ambrosio, Roatta, Acqua-

11 rone, Puntoni. Badoglio era di cattivo umore: nel trasbordo da un'auto all'altra durante la fuga era andato perduto il suo bagaglio, e il maresciallo si era trovato senza nemmeno un fazzoletto e senza soldi. Per acquistare un po' di corredo firmò la prima cambiale della sua vita, diecimila lire. Il Re lesse ai convenuti un messaggio, firmato da Chur­ chill e da Roosevelt e indirizzato a Badoglio, che dava meri­ to a quest'ultimo per avere liberato il paese dalla «schiavitù fascista» ma aggiungeva che restava da assolvere il compito più duro: «Sgombrare il suolo italiano dai tedeschi invaso­ ri». «Sorgi o popolo d'Italia» esortava il messaggio, aggiun­ gendo l'incitamento a «occupare tutte le città che potete, colpite forte e colpite nel segno». Badoglio rispose con l'en­ fatica promessa che «tutto quello che è possibile è e sarà fat­ to con quello stesso spirito e con quella stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di battaglia d'Italia e di Fran­ cia durante l'ultima guerra». Il riferimento di Badoglio era, evidentemente, al T5-T8. Dopo i governanti alleati, anche Eisenhower si fece vivo con concetti analoghi. «Se l'Italia si leva come un sol uomo, piglieremo i tedeschi alla gola». Gli scambi e gli invii di messaggi e proclami furono la principa­ le se non l'unica attività del «gruppo» di Brindisi in quelle prime giornate.

Benché ufficialmente esprimesse fiducia, Eisenhower era stato molto deluso dalla gravità del collasso italiano. La resi­ stenza al dilagare dei tedeschi era sporadica e fievole: d'al­ tro canto l'offensiva alleata a Salerno non risultava né rapi­ da né potente. Riferendo a Washington, Eisenhower osser­ vava che gli italiani avevano dato «poco o nessun aiuto». E aggiungeva: «Badoglio vuole vedermi. Sto per dirgli che de­ ve venire qui. Egli vuole portare qualcuno del suo staff ma non so immaginare che cosa il suo Stato Maggiore possa co­ mandare in questo momento». Per meglio orientarsi, Ei­ senhower inviò a Brindisi una missione, che ebbe formal­ mente carattere militare, e che, capeggiata dal generale in-

12 glese Mason MacFarlane già governatore di Malta, include­ va anche il generale americano Maxwell Taylor, comandan­ te della 82a divisione aerotrasportata che sarebbe dovuta sbarcare su Roma, secondo il piano originario per l'8 set­ tembre. Aggregati alla missione erano tuttavia i consiglieri politici Murphy (americano) e Macmillan (inglese), incarica­ ti di assistere MacFarlane quando fossero venuti sul tappeto i problemi più spinosi, e soprattutto «il problema»: doveva­ no gli Alleati riconoscere la legittimità del governo Bado­ glio, e del Re? E in quale misura dovevano accettare la col­ laborazione italiana, sul campo di battaglia e fuori? Il dialogo si annunciava difficile, e l'arrivo della missione era atteso con trepidazione a Brindisi dove fu possibile regi­ strare solo una buona notizia. Il generale Puntoni annotò il 12 settembre l'arrivo del duca e della duchessa di Genova. «I duchi - scrisse - sono arrivati da Taranto che hanno rag­ giunto in aereo provenienti da Venezia dopo non poche pe­ ripezie. Il Sovrano li riceve alle 17,45 ed esprime loro il suo più vivo compiacimento.» Chissà poi di cosa si compiaceva. Il 13 settembre - già Mussolini era stato liberato dalla prigionia del Gran Sasso - l'aereo che trasportava la missio­ ne alleata atterrò a Taranto. I delegati non si mossero im­ mediatamente verso Brindisi: vollero essere sicuri, prima di farlo, che l'area intorno fosse sgombra di tedeschi, e che questi ultimi avessero anche evacuato Bari. Ma già al primo contatto con la realtà italiana, avevano avuto una brutta im­ pressione. Una accozzaglia di militari italiani li aveva accol­ ti, all'arrivo, con grida festose di «pace, armistizio, armisti­ zio, pace» e ne trassero conferma alla loro convinzione che gli italiani fossero volubili, servili, spensierati. Particolar­ mente mal disposto era MacFarlane, convalescente d'itteri­ zia. Il 14 settembre la missione prese contatto, a Brindisi, con il governo - o con il clan - di Badoglio, e ricevette immedia­ tamente un invito a colazione dal maresciallo (è un'ossessio­ ne questa degli italiani di concludere tutto a tavola, pensò

13 Maxwell Taylor, assillato dal ricordo dei pranzi che s'era do­ vuto sorbire nelle ore in cui si decideva, a Roma, la vigilia dell'8 settembre, se fosse o no opportuno l'impiego della di­ visione aerotrasportata). Badoglio «si fece in quattro per mostrarsi cortese», mentre Puntoni, dalla psicologia ele­ mentare, avvertiva «un nodo alla gola che gli impediva di parlare». Finalmente il giorno successivo si cominciò a discutere seriamente. Ambrosio illustrò la situazione catastrofica del­ l'esercito italiano: spiegò che nel sud erano rimaste in qual­ che modo in piedi la divisione Mantova presso Crotone, la Legnano e la Piceno presso Brindisi e qualche reparto costie­ ro. Erano recuperabili quattro divisioni in Sardegna, una a Cefalonia e una nel Dodecanneso. Le unità del Meridione d'Italia erano a corto di tutto, e per quelle dei Balcani era urgente una operazione di reimbarco in grande stile. Am­ brosio lamentò tra l'altro che lo sbarco fosse avvenuto a Sa­ lerno, ossia in una zona che non consentiva sviluppi favore­ voli e solleciti. Al che MacFarlane, spazientito e rude, re­ plicò: «Voi non sapete niente, state zitti». In effetti i fuggia­ schi di Brindisi ignoravano che i piani anglo-americani - miopi e prudenti quanto più non avrebbero potuto - escludevano l'impegno gigantesco che sarebbe stato neces­ sario per trarre in salvo truppe alla cui capacità combattiva nessuno più credeva, giustamente; ignoravano inoltre quali dimensioni avesse assunto lo sbandamento dei reparti disse­ minati in mezza Europa. Badoglio intervenne per sottoli­ neare l'apporto italiano alle operazioni anglo-americane, e per affermare che l'Italia doveva essere ormai considerata alleata: «Soltanto in questo modo io sarei riuscito a galva­ nizzare il paese e a portarlo unanime ad affrontare i mag­ giori sacrifici». Gli inviati di Eisenhower tennero un atteggiamento fred­ do e talvolta arrogante, soprattutto MacFarlane che, quan­ do si recò in udienza da Vittorio Emanuele III, gli si pre­ sentò in maniche di camicia e shorts (in maniche di camicia

14 era anche Maxwell Taylor), ostentando la sua mancanza di riguardo: e rincarò la dose, quando tutti si ritrovarono alla mensa del comando dei sommergibili, ignorando di propo­ sito il Re, con un certo disagio dei «diplomatici» Murphy e Macmillan. Il Re fece pessima impressione. Lo trovarono «patetico, vecchissimo, piuttosto rimbambito». Andò meglio per Badoglio che a Macmillan parve «onesto, di larghe ve­ dute, arguto, di origine contadina, con il buon senso innato e la naturale accortezza dei contadini». Di Ambrosio pensa­ rono che fosse «intelligente e amichevole per quanto de­ presso e privo d'entusiasmo», e infine di Roatta «un buon linguista, un intelligente e navigato militare con tendenza ad essere un seccatore. Il perfetto attaché militare... il suo cervello è più sviluppato e ricco di sostanza del suo fegato». MacFarlane avanzò subito una richiesta spiacevole: quella cioè che fosse adottato anche nell'Italia continentale il siste­ ma delle am-lire, o lire di occupazione, già stampate in Sici­ lia senza alcun controllo del governo italiano. Il peso di que­ ste emissioni doveva ricadere interamente sul paese occupa­ to. Tanto più gli Alleati insistevano perché sapevano che ai primi di settembre Badoglio aveva fatto trasferire ingenti somme in banche di Bari per sottrarle, in previsione del peg­ gio, ai tedeschi (dove si vede come l'idea della fuga al sud fosse germinata nella sua mente con largo anticipo sull'8 set­ tembre). Per il momento Badoglio rifiutò, ma poi dovette adattarsi dlYukase, e al cambio impostogli (400 lire per ogni sterlina e 100 per ogni dollaro). Invano sottolineò l'effetto inflazionistico che avrebbero avuto le spese degli ufficiali e soldati anglo-americani «pagati circa 10 volte più dei nostri». Ma la maggiore sorpresa i delegati di Algeri - là era ancora il comando di Eisenhower - l'ebbero quando abbordarono cautamente il tema del «lungo armistizio» e della sua firma. Si avvidero che Badoglio e i suoi collaboratori, frastornati da tanti avvenimenti, ignoravano ancora o avevano appena in­ travisto l'esatto contenuto di quel documento che integrava il «corto armistizio» firmato da Castellano a Cassibile: ma lo

15 integrava appesantendolo, sotto l'intestazione - che manca­ va nel corto armistizio - di «resa incondizionata». Il lungo armistizio era rimasto nelle tasche del generale Zanussi, e Zanussi era a Brindisi, ma in tutt'altre faccende affaccendati, il Re e Badoglio se n'erano dimenticati, o l'avevano «rimos­ so» dai loro pensieri. Eppure la firma di Badoglio a quel do­ cumento era considerata da Londra e da Washington la pre­ messa necessaria di ogni futura evoluzione dei rapporti con «il Regno del Sud». Comunque i delegati decisero di tornare al Comando, e di riferire ad Eisenhower, anche perché «non c'erano dattilografe, non c'erano mezzi di trasporto, c'era pochissimo cibo». Murphy e Macmillan si fecero ancora ve­ dere, prima di ripartire, dal Re, questa volta senza la presen­ za del rozzo e provocatorio MacFarlane. Chiesero a Vittorio Emanuele III se potessero fare qualcosa per lui, nel limite delle loro possibilità. Il Re esitò, quindi rispose: «La Regina non è stata in grado di trovare delle uova fresche. E possibi­ le acquistarne una dozzina?». A Brindisi il «gruppo Badoglio» stava assumendo una fi­ sionomia abbastanza simile, ormai, a quella del governo di un paese occupato. Vittorio Emanuele III - sempre Re d'I­ talia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia, nei documenti uf­ ficiali - compiva qualche ispezione nei dintorni, e i reparti che vedeva passare erano «stanchi e in grande disordine» con «dappertutto ritardatari e sbandati». Da Tunisi era rien­ trato il diplomatico Montanari, che aveva assistito Castella­ no a Cassibile, e che portò con sé una trentina di funzionari del Ministero degli Esteri, filtrati attraverso le linee tede­ sche. Finalmente Badoglio - che i primi giorni trascorreva le ore, nel suo ufficio, leggendo Neera e Fogazzaro, e maga­ ri un libro giallo tenuto nel cassetto aperto della scrivania, il cassetto era chiuso in tutta fretta se veniva introdotto un vi­ sitatore - ebbe pratiche da sbrigare, rapporti da leggere. Al­ la sua ansia di dimostrare che le residue unità italiane erano al fianco delle truppe anglo-americane, gli Alleati replicaro­ no il 20 settembre con un secco ordine: ogni attività bellica

16 italiana doveva cessare dovunque, fino a nuovo ordine. Fu così interrotto il movimento di un superstite Corpo d'arma­ ta che al comando del generale De Stefanis si era messo in marcia verso nord, ancora sufficientemente ordinato, con le divisioni Piceno, Legnano, 210a costiera. Tra le quinte si delineavano due diverse ed egualmente importanti polemiche. Churchill e Roosevelt erano in disac­ cordo, sia pure amichevolmente, perché il premier inglese voleva fosse dato pieno sostegno al governo monarchico di Brindisi, e il presidente americano insisteva sul principio di autodeterminazione, e quindi sulla esigenza di non pregiu­ dicare in alcun modo il futuro assetto istituzionale dell'Ita­ lia. Il Re e Badoglio litigavano sul problema della dichiara­ zione di guerra alla Germania, che stava a cuore agli anglo-americani: secondo il maresciallo era un passo da fa­ re subito, secondo Vittorio Emanuele III si doveva aspetta­ re fin dopo la liberazione di Roma. Il maresciallo era alle prese con una serie di dilemmi uno più ingrato dell'altro. Ormai, a quel punto, sapeva bene co­ sa contenesse il lungo armistizio, e quanto fossero umilianti le sue clausole; e sapeva altrettanto bene che, una volta co­ nosciutine i termini, e l'accettazione, la propaganda fascista contro i «traditori» di Brindisi avrebbe assunto, se possibile, ancora maggiore virulenza, e si sarebbe rivestita di più con­ vincenti argomenti. La dichiarazione di guerra avrebbe probabilmente fruttato una attenuazione dei termini di re­ sa: ma ad essa si opponeva cocciutamente il Re, che lo sfug­ gente Acquarone informava a suo modo, e sobillava. Nel­ l'entourage reale Badoglio era in disgrazia, e ne dava testi­ monianza il diario di Puntoni, che era, come al solito, la vo­ ce del Re: «Il governo non fa nulla, sembra anzi che sosten­ ga gli oppositori della Monarchia... Badoglio è in balìa degli avvenimenti, non ha risorse, le sue idee sembrano corte e sfasate... Il Capo del governo non sa reagire con la dovuta energia per la difesa degli interessi del paese e della Monar­ chia che in fin dei conti si identificano». Il 21 settembre Vit-

17 torio Emanuele III si risolse a un passo personale. Inviò al Re d'Inghilterra - e in termini quasi identici al presidente Roosevelt - un messaggio che quando non era ovvio era pa­ tetico. Constatò che «è necessario e urgente che la più gran parte del territorio italiano venga liberata dai tedeschi»; os­ servò che «è di essenziale importanza politica per voi e per noi raggiungere al più presto Roma»; chiese che al suo go­ verno fosse concesso di esercitare i poteri civili, oltre che su quattro province della Puglia e della Sardegna, anche sulla Sicilia; invocò un cambio più favorevole per la moneta. Di­ ventato petulante, il Re assillava Badoglio con riserve su ri­ serve. Rammentava in particolare che solo lui aveva facoltà di dichiarare la guerra. Ossessionato dal timore che la dina­ stia fosse travolta dagli eventi, sganciato dalla realtà, Vitto­ rio Emanuele III si intestardiva in propositi assurdi come quello di affidare a Dino Grandi, «che deve trovarsi in qual­ che parte del Portogallo», il Ministero degli Esteri perché «Grandi è il simbolo dell'antifascismo e la sua presenza nel governo Badoglio creerà uno scisma nelle file fasciste e re­ pubblicane». Il 27 settembre il generale Bedell Smith, Capo di Stato Maggiore di Eisenhower, raggiunse Brindisi insieme a Mac­ millan e Murphy per mettere a punto l'incontro tra Ei­ senhower e Badoglio del 29 settembre, a Malta, nel corso del quale sarebbe avvenuta la firma del lungo armistizio. Se Badoglio era imbarazzato, gli anglo-americani non lo erano meno. La avvilente intransigenza del documento che veni­ va presentato a Badoglio contrastava con molte promesse e incitamenti di quei giorni, e anche con la cooperazione, sia pure largamente pregiudicata dalla inefficienza, che il go­ verno italiano aveva dato agli Alleati. «Quanto maledii gli esperti del Foreign Office!» ha scritto Macmillan. «Molte condizioni erano già inapplicabili. Molte erano al di fuori della possibilità del governo italiano di adempierle. Noi promettemmo perciò che questo punto generale poteva es­ sere coperto da una lettera del Comandante in capo da con-

18 segnarsi al momento della firma.» I delegati alleati trasmise­ ro a Badoglio un appunto di Eisenhower dal quale risultava che «sarà riconosciuto lo stato di cobelligeranza dell'Italia dopo che questa avrà dichiarato guerra alla Germania», che «il governo Badoglio deve continuare», che «una volta espulsi i tedeschi il popolo sceglierà la forma di governo che meglio gli aggrada» e che infine «appena possibile il mare­ sciallo Badoglio formerà un governo a larga base». Chur­ chill e Roosevelt avevano raggiunto un compromesso: bene il Re e Badoglio per il momento, poi si vedrà. L'accenno al principio di autodeterminazione allarmò il maresciallo che avrebbe poi dovuto riferirne allo stizzoso Vittorio Emanuele III. «Significava - si chiedeva Badoglio - che la Monarchia era in pericolo? In ogni caso potevano questioni di tal fatta essere decise a Brindisi?... La Monar­ chia era necessaria per mantenere la stabilità e l'unità d'Ita­ lia.» Quando il maresciallo gliene parlò, il Re espresse le sue perplessità. Il 28 le discussioni ripresero e Badoglio spiegò che la dizione «strumento di resa incondizionata», che era il frontespizio del lungo armistizio, avrebbe causato immenso danno. Era eccitato, addolorato. Risorgeva in lui il sospetto che Castellano lo avesse ingannato, o si fosse lasciato ingan­ nare. Fu deciso che se ne discutesse l'indomani a Malta, ma Acquarone si precipitò dal Re a soffiare sul fuoco, insinuan­ do che «Badoglio ha ignorato del tutto gli interessi della di­ nastia». Vittorio Emanuele III, ottenuta la assicurazione che non si sarebbe pretesa da lui una immediata dichiarazione di guerra alla Germania, autorizzò comunque Badoglio alla firma di Malta. Alle cinque del pomeriggio Badoglio e l'ammiraglio De Courten si imbarcarono sull'incrociatore Scipione l'Africano, che attraccò l'indomani 29 settembre a La Valletta. Ei­ senhower aspettava gli italiani sulla corazzata britannica Nelson. Il vecchio maresciallo indossava l'uniforme da cam­ po in tela di cui si era servito in Etiopia. Salì con passo stan­ co, solo - il seguito fu fatto attendere per qualche decina di

19 secondi - la scaletta, rispose agli onori di una compagnia di marìnes, strinse la mano ad Eisenhower. Il maresciallo, Ike, Bedell Smith e MacFarlane si appartarono quindi per di­ scutere; e rispuntò fuori la questione del termine «resa in­ condizionata». Di fronte alle obbiezioni di Badoglio, Ei­ senhower, Bedell Smith e MacFarlane chiesero di poter con­ ferire tra di loro, separatamente. Rientrati, dissero che non avevano il potere di modificare il testo del lungo armistizio. Quindi Eisenhower dichiarò con solennità: «Come lei ha os­ servato, vi è un'alterazione nelle condizioni militari, ma noi non ne siamo responsabili. Come le ha detto il generale MacFarlane, se lei non firmasse, ne deriverebbero gravissi­ me conseguenze per l'Italia. Le dò la mia parola di soldato che mi impegnerò a fondo per far cambiare le frasi del lun­ go armistizio, e che intanto questo documento sarà tenuto assolutamente segreto. Abbia fiducia e firmi». Badoglio firmò, e ricevette una lettera di Eisenhower che riconosceva come l'Italia fosse diventata «cooperator» delle nazioni alleate, il che rendeva anacronistiche e non più vali­ de alcune clausole dell'armistizio. Esaurita questa amara formalità, italiani e Alleati procedettero a uno scambio di idee. Badoglio espose le proprie. Appena possibile avrebbe formato un governo a base rappresentativa, e una volta a Roma avrebbe dichiarato guerra alla Germania. Se gli sarà consentito di richiamare nella penisola le truppe dislocate in Sardegna, aggiunse, il Comando italiano potrà mettere a disposizione degli Alleati otto divisioni. Eisenhower diede atto al governo di Brindisi del suo spirito di collaborazione, ma insistette per l'immediata dichiarazione di guerra. Al­ l'obbiezione di Badoglio che «il potere del governo si esten­ de ora solo su una piccola parte d'Italia, il che renderebbe una dichiarazione di guerra estremamente difficile», Ei­ senhower replicò che altri governi in esilio, «i quali non oc­ cupavano neppure un palmo del loro territorio nazionale», avevano dichiarato guerra alla Germania. «Riferirò al Re» promise Badoglio, già sapendo che il Re era contrario.

20 Quindi Eisenhower sollecitò Badoglio perché accogliesse nel suo governo elementi chiaramente antifascisti, e il pove­ ro maresciallo, cui Vittorio Emanuele III aveva legato le mani, dovette illustrare una lettera del Re che ribadiva la ri­ chiesta degli Esteri per Grandi. «Ma Grandi - esclamò Ei­ senhower - è per la nostra opinione pubblica un fascista, non un antifascista.» Costretto a un ruolo ingrato, e consa­ pevole di difendere una causa sballata, Badoglio si giustificò dicendo che, come soldato, non aveva molta pratica di per­ sonaggi politici, e che meglio di lui poteva giudicare il Re. Con garbo, ma anche con risolutezza, Eisenhower chiarì che se il Re voleva rimpastare il governo con nuovi elementi, era opportuno che «sottoponesse ufficiosamente a priori il loro nome agli Alleati tramite la missione MacFarlane». E a questo punto tirò fuori un nome che Badoglio si aspettava, e che gli annunciava altri guai. Il governo di Washington, disse il Comandante in capo alleato, desiderava che l'esule antifascista conte Sforza facesse al più presto una visita a Brindisi. Badoglio non sapeva che pesci pigliare. Cominciò con l'assicurare, anche se la cosa era assolutamente ininfluente, che conosceva bene il conte Sforza perché era con lui alla firma del trattato di Rapallo, e che aveva per il tenace oppo­ sitore di Mussolini la massima simpatia. Ma aggiunse che sfortunatamente il Re non condivideva i suoi sentimenti a causa di una dichiarazione antimonarchica del conte. «Ne parlerò al Re» concluse sospirando il maresciallo. La riunio­ ne terminò con la promessa di Eisenhower che i comunicati stampa avrebbero accennato a discussioni di carattere mili­ tare, senza far parola del lungo armistizio. Un quarto d'ora dopo mezzogiorno Badoglio si congedò. A pochissimi gior­ ni di distanza gli fu reso noto che l'intestazione del lungo armistizio era stata modificata, sostituendo la dizione «con­ dizioni integrative dell'armistizio con l'Italia» a quella «stru­ mento di resa incondizionata». Il concetto che stava a cuore agli Alleati rimase tuttavia nell'ultima frase del preambolo

21 dove si avvertiva che le clausole «sono state accettate senza condizioni dal maresciallo Badoglio, Capo del governo ita­ liano». Agli Alleati premeva che l'Italia dichiarasse guerra alla Germania, e premeva anche a Castellano che, tuttora in Nordafrica, era in contatto con Eisenhower, a sua volta pun­ golato da Roosevelt: «Il presidente e il primo ministro (Churchill) sono del parere che il Re d'Italia debba dichiara­ re guerra alla Germania il più presto possibile. Non sembra esservi alcuna necessità di attendere che Roma sia occupa­ ta». Intanto Napoli era stata liberata. Badoglio capiva che una decisione non poteva ulteriormente essere rinviata per molte ragioni: tra l'altro per impedire che i tedeschi consi­ derassero franchi tiratori, e quindi passibili di esecuzione come spie o banditi, i soldati italiani catturati. Ma il Re resi­ steva, giovandosi anche, per contrastare Badoglio, di un pa­ rere di Ambrosio, il quale dettava considerazioni non solo militari ma politiche: «La cobelligeranza dovrebbe essere oculatamente negoziata... Inoltre non dovrebbe essere per­ messa la propaganda comunista». Esasperato, Badoglio do­ vette profittare di un'assenza di Acquarone, recatosi a Napo­ li allo scopo di consultare esponenti politici locali, per strap­ pare il consenso al Re. L'annotazione del generale Puntoni sul suo diario è significativa: «A mezzo del generale Taylor gli anglo-americani ci fanno sapere, con i termini di un ulti­ matum, che desiderano, in vista della riunione che terranno domani ( 12 ottobre) ad Algeri con i delegati russi, che il go­ verno italiano si decida a dichiarare guerra alla Germania. La decisione viene presa alle 16,30, durante un colloquio tra il Sovrano e Badoglio. Alle 19 Badoglio è un'altra volta dal Sovrano per sottoporgli il testo del proclama che lancerà al paese. Acquarone è intanto tornato da Napoli con la bella notizia che nessun uomo politico napoletano intende parte­ cipare a un governo presieduto da Badoglio. "Gli uomini politici napoletani - dice - sono assolutamente contrari a una dichiarazione di guerra alla Germania." Mentre dice

22 questo viene a sapere che la guerra è già stata dichiarata. Va sulle furie e minaccia dimissioni che certamente non darà.» Così, il 13 ottobre, l'ambasciatore italiano a Madrid Pao- lucci de Calboli consegnò all'ambasciatore tedesco - che ri­ fiutò di accettarla - la dichiarazione di guerra. Il proclama del governo italiano, come al solito magniloquente, dichia­ rava che «non vi sarà pace in Italia finché un solo tedesco calpesterà il nostro suolo» e prometteva che «finita la guer­ ra il popolo italiano sarà libero di scegliere con le elezioni il governo che più gli aggraderà». Non v'era alcun accenno - unica provvisoria salvaguardia dinastica - alla possibilità di un mutamento istituzionale.

Mentre a Brindisi si discuteva sulla opportunità di dichiara­ re guerra alla Germania, la Germania stava facendo la guer­ ra all'esercito italiano. La storia di questo disfacimento, che abbiamo abbozzata nell'Italia della disfatta, esige qualche maggiore particolare per quanto riguarda le grandi unità lontane da Roma. Al sud il VI Corpo d'armata di Sicilia si era già dissolto con l'invasione anglo-americana, e il VII al di qua dello stretto di Messina - al cui comando il generale Mario Arisio aveva sostituito il 2 settembre il duca di Bergamo - poteva contare su alcune divisioni subito strette, dopo l'8 settem­ bre, tra gli Alleati sbarcanti e i tedeschi che accorrevano per contrastarli. Per di più Arisio stava trasferendo il suo co­ mando da Potenza a Francavilla Fontana, dove arrivò con pochi brandelli di reparti. Le unità dell'Italia meridionale si sciolsero dunque - tranne qualcuna in Puglia, che abbiamo già citata - come neve al sole, e la rappresaglia tedesca si scatenò contro gli inermi. A Nola furono trucidati 10 uffi­ ciali, a Castellammare di Stabia venne fucilato il comandan­ te del presidio, colonnello Olivieri. Un altro comando in trasferimento (da Orte ad Amelia) era quello della 5a armata nell'Italia centrale agli ordini del generale Mario Caracciolo di Feroleto. Caracciolo era a Ro-

24 ma il 7 settembre, ma nessuno gli aveva fatto parola di quanto stava per avvenire. Quando tentò di avere istruzioni da Palazzo Vidoni, fece squillare le sue chiamate telefoniche in uffici ormai deserti. L'armata si sbandò in poche ore. La regione militare della Lombardia e dell'Emilia setten­ trionale era agli ordini del generale Vittorio Ruggiero, mo­ narchico e antitedesco, che riuscì a mantenere nelle truppe qualche mordente. All'alba del 9 gli fu possibile interpella­ re, al Comando dell'esercito, un colonnello Bonelli cui chie­ se lumi: ma il colonnello, che ne sapeva quanto lui, si man­ tenne nel vago. Comunque Ruggiero seppe che i massimi capi militari si erano allontanati verso ignota destinazione. Fino al mattino del 10 tenne in pugno in qualche modo la situazione, sperando che gli pervenissero istruzioni precise e un appoggio militare. Infine, scoraggiato, stipulò un ac­ cordo per la resa di Milano ai tedeschi, che lo deportarono in Germania. La 4a armata (generale Mario Vercellino dai compagni d'Accademia soprannominato Cervellino) presidiava un'a­ rea assai vasta: Provenza, Liguria, Savoia, Piemonte. Tre delle quattro divisioni mobili dell'armata erano in movi­ mento dalla Provenza all'Italia. La sera dell'8 settembre a ora inoltrata il generale Vercellino ordinò che le truppe le quali avessero già oltrepassato il fiume Varo accelerassero il movimento di rientro in Italia e che i presidi della costa li­ gure si riunissero in gruppi più consistenti. Il comando si spostò - tutti i comandi erano stati presi dalla fregola degli spostamenti, in quelle ore cruciali - da Cuneo a Torino. Ma a quel punto l'armata si era polverizzata. Già la sera dell'8 settembre reparti motorizzati e corazzati tedeschi avevano ingiunto alle forze italiane sparse di collaborare o di lasciar­ si disarmare. Nella notte sul 9 alla Spezia i tedeschi avevano interrotto tutte le comunicazioni telefoniche, fatto irruzione nel comando del XVI Corpo d'armata e catturato il coman­ dante, generale Carlo Rossi. Nella Venezia Giulia, in Slovenia, Croazia e Dalmazia,

25 erano disseminati i resti di due armate italiane, l'8a e la 2a. Disponevano di 14 divisioni, meno sgangherate delle altre che erano state via via rimpatriate per essere completate di effettivi e di equipaggiamento. Anche in queste due armate (la 2a affidata a Italo Gariboldi, l'8a a Mario Robotti) era in corso un riordinamento. Si pensava di costituire un'altra grande unità da affidare a Gastone Gambara, il veterano di Spagna, d'Albania e dell'Africa Settentrionale. Sta di fatto che Gambara ripartì da Roma proprio l'8 settembre, in au­ tomobile, per mettersi in contatto con Gariboldi e Robotti: vide il primo a Padova e il secondo a Fiume, quindi prose­ guì per Lubiana dove aveva sede il suo Corpo d'armata, l'XI, mentre lo sfacelo era già in atto. Gambara non tentò in alcun modo di opporsi ai tedeschi: del resto aderì più tardi alla Repubblica di Salò. Nel suo comando i tedeschi fecero irruzione nella notte sul 10 settembre, e contempo­ raneamente gli ustascia presero prigioniero il comandante della divisione Lombardia a Karlovac, generale Scipioni. Analoga sorte toccò al comandante della divisione Isonzo. A Ragusa, contro il VI Corpo d'armata i tedeschi furono san­ guinari. Il comandante della divisione di SS Prinz Eugen, generale Ritter von Oberkampf, ordinò la fucilazione di tre generali e 45 ufficiali delle divisioni Zara e Bergamo: i gene­ rali erano Alfonso Cigala Fulgosi, Salvatore Pelligra e Raf­ faele Policardi. Attorno a Trieste, in Slovenia, in Croazia, si scatenarono contro le forze italiane in decomposizione non solo i tede­ schi, non solo gli ustascia, ma anche i partigiani di Tito che prendevano le loro prime vendette, e preparavano le loro annessioni. Nel libro sul periodo 8 settembre 1943-25 apri­ le 1945 di Piero Fortuna e Raffaele Uboldi è narrata la vi­ cenda di un giovane sergente allievo ufficiale, Giovanni Rut- ter, che guidava una colonna di automezzi e di sbandati da Fiume a Trieste e che scoprì due foibe. «Quello che gli si of­ fre è uno spettacolo sconvolgente: corpi straziati di soldati italiani, vittime della vendetta slava, vengono tratti dalle vo-

26 ragini dov'erano stati gettati. Hanno i polsi legati col fìl di ferro, sono imbrattati di sangue e di escrementi. Rutter vo­ mita. Qualche mese dopo si arruolerà nella 60a legione Istria della Guardia nazionale repubblicana. Suo coman­ dante sarà Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro.» Le quattro divisioni del Montenegro opposero resisten­ za. HEmilia riuscì a rimpatriare con una metà circa dei suoi effettivi, la Taurinense (alpina) e la Venezia si unirono con for­ ti aliquote ai partigiani iugoslavi. Si verificò una ressa di sol­ dati e di reparti che alla spicciolata affluivano verso i porti per ottenere imbarco sui mezzi della Marina. A Spalato era­ no ammassate, un certo momento, alcune decine di migliaia di sbandati, ma solo una piccola parte ebbe la possibilità di raggiungere il «Regno del Sud». La prigionia tedesca, o la vita alla macchia, anch'essa carica di stenti, di pericoli e di angherie da parte di una popolazione ostile e di partigiani diffidenti, attendeva gli altri. Le divisioni del Montenegro, come quelle dell'Albania, della Bosnia e dell'Erzegovina, dipendevano dal comando del gruppo armate est, con sede a Tirana, agli ordini del ge­ nerale Ezio Rosi. Rosi - anche lui! - era stato convocato a Roma proprio per il 9 settembre. Proclamato l'armistizio, anticipò il suo ritorno a Tirana dalla capitale italiana e co­ minciò a trattare con il generale tedesco Bessel. Fu stipulato un accordo in base al quale le dodici divisioni (oltre a repar­ ti minori) che dipendevano da Rosi sarebbero rientrate in Italia con le loro armi, eccettuate le artiglierie. Si trattava in realtà di uno stratagemma dei tedeschi per prendere tempo e consentire l'ingresso in Albania di due loro divisioni. LT1 settembre, rompendo la fragile tregua, il generale tedesco Ghann fece circondare da carri armati e paracadutisti la se­ de del comando italiano e prese prigioniero Rosi insieme a molti altri ufficiali. Non tutti i reparti italiani però si lascia­ rono travolgere subito. Alcuni nuclei della Firenze si unirono ai partigiani, e uomini della Perugia diedero del filo da tor­ cere ai tedeschi.

27 In Grecia aveva sede l'Ila armata, al comando del gene­ rale Vecchiarelli, il cui Capo di Stato Maggiore, generale Gandini, era a Roma il 7 settembre, ed aveva, almeno lui, ricevuto istruzioni per l'ipotesi di armistizio. «Dire franca­ mente ai tedeschi che le truppe italiane non avrebbero mai preso le armi contro di loro se non fossero state soggette ad atti di violenza armata.» Per l'Egeo - dipendente dall'ammi­ raglio Inigo Campioni - si stabiliva che venisse attuato il di­ sarmo delle truppe tedesche qualora fossero «prevedibili» aggressioni da parte loro. Lo stesso giorno 7, Gandini atter­ rava, con un aereo militare, a Tatoi, l'aeroporto di Atene, ma nulla fu disposto di realmente utile. Un ufficiale di Stato Maggiore che doveva recapitare le istruzioni a Campioni si mosse con ancora maggiore ritardo: bloccato - si dice dal maltempo - a Pescara, interruppe il viaggio. Gli eventi col­ sero perciò le truppe di Grecia nel loro abituale dispositivo, ossia polverizzate in una infinità di piccoli presidi mediocre­ mente armati e moralmente depressi. All'annuncio dell'armistizio si ebbe uno scoppio di esul­ tanza, seguito dal disorientamento. Il comando d'armata, con disposizioni ambigue, e del resto senza una grande ca­ pacità di prendere decisioni autonome, si gingillò in discus­ sioni. Il 10 settembre Vecchiarelli raggiunse con i tedeschi un accordo che sembrava dare buone garanzie: vi si stabili­ va che le truppe dell'I la armata sarebbero rimaste con fun­ zioni di difesa costiera per altre due settimane, e che dopo quel termine sarebbero state trasferite in Italia a cura dei te­ deschi con un armamento sufficiente per difendersi da atti ostili delle popolazioni nelle zone attraversate. Esse si impe­ gnavano a «combattere il bolscevismo che si sviluppa in Ita­ lia e a mantenere l'ordine pubblico». Se la situazione fosse diventata tale da implicare la consegna dell'armamento agli anglo-americani, il comandante dell'armata avrebbe invece provveduto a trasferirlo alla Wehrmacht. L'intesa concordata da Vecchiarelli era velleitariamente machiavellica da parte italiana e unicamente dilatoria da

28 parte tedesca. Comunque in contrasto con le clausole armi­ stiziali. Ebbe breve durata, e non poteva essere diversamen­ te. Dopo qualche giorno di temporeggiamento, i tedeschi ingiunsero la consegna delle armi. Quindi, con rapida pro­ gressione, rastrellarono reparti e militari sbandati, e li in­ viarono in Germania - compreso lo stesso Vecchiarelli - con la eccezione di coloro che aderivano alla Repubblica di Mus­ solini. I reparti e i soldati isolati che raggiungeranno la montagna per unirsi ai partigiani, gli andartes, avranno in generale una sorte terribile. Con l'incalzare dell'inverno sa­ ranno spogliati degli indumenti e delle scarpe, confinati in campi di concentramento di villaggi poverissimi, nei terri­ tori «liberati» dalla guerriglia, a volte massacrati, altre la­ sciati penare fino a morire di fame e di stenti. L'armata di dissolse. A Creta, il generale Carta, comandante della divi­ sione Siena, riuscì a mettersi in contatto con un ufficiale del servizio segreto inglese che sapeva trovarsi sull'isola, per sa­ pere se fosse previsto un qualche sbarco alleato. Gli fu ri­ sposto che non era previsto alcuno sbarco. La divisione si arrese. Nella grande tragedia dell'armistizio, in particolare del­ l'armistizio in Grecia, si inserì l'episodio atroce della divisio­ ne Acqui, che presidiava le isole di Corfù e di Cefalonia agli ordini del generale Antonio Gandin. A Corfù era di stanza il 17° fanteria (colonnello Luigi Lusignani), a Cefalonia il comando dell'intera divisione. La Acqui si trovò, l'8 settem­ bre, con viveri per novanta giorni e munizioni per trenta. Dopo l'equivoca pausa iniziale, determinata dalla cautela te­ desca, la divisione scelse il combattimento. Gandin, un ve­ neto, conosceva perfettamente la lingua tedesca e i tedeschi, ed aveva intrattenuto con loro rapporti cordiali. Tuttavia decise di non adeguarsi all'ordine di Vecchiarelli che pre­ scriveva la consegna delle armi. Hans Barge, il suo interlo­ cutore tedesco, incalzava; voleva le armi. Si tirò avanti fino al 12, quando Barge propose al generale italiano tre alter­ native: o la collaborazione, o la lotta, o la consegna delle ar-

29 mi. Gandin si consultò con i sette cappellani militari, che propendevano per la terza ipotesi. Ma i diecimila soldati avevano - diversamente dalla quasi totalità dei loro commi­ litoni - una animosa volontà di resistenza. Sapevano di di­ sporre di una netta superiorità numerica -10 mila italiani contro 1.800 tedeschi - e contavano sulla vicinanza di Brin­ disi, 200 miglia, dove già era installato il governo di Bado­ glio. Ma i tedeschi, mentre negoziavano, avevano inviato ar­ mi pesanti a Cefalonia. All'alba del 13 settembre il capitano Renzo Apollonio, un triestino intrepido, vedendo due gros­ si pontoni da sbarco che doppiavano il capo San Teodoro, ordinò alle sue batterie di aprire il fuoco. Cominciò così la battaglia. Da Cefalonia partirono subito per Brindisi messaggi radio che invocavano aiuto. Li rice­ vette, al comando della Marina, il contrammiraglio Giovan­ ni Calati, che conosceva Gandin, che era un uomo di carat­ tere, e lo aveva dimostrato opponendosi alla consegna delle sue navi agli anglo-americani, il che gli aveva meritato gli arresti in fortezza per un paio di giorni. Calati scelse due torpediniere, la Sirio e la Clio, le caricò di medicinali, pezzi antiaerei e munizioni, e fece rotta verso Cefalonia. Poi gli venne data per radio la notizia, infondata, che l'unico ap­ prodo notturno disponibile a Cefalonia era controllato dai tedeschi, e decise di far rotta verso la più vicina Corfù, dove pure si combatteva. Ma da Taranto l'ammiraglio inglese Pe- ters dispose - un'altra prova della cecità alleata, congiuran­ te con l'ignavia del clan Badoglio - che le due torpediniere rientrassero, avendo salpato le ancore senza autorizzazione dei vincitori. La missione di soccorso fallì. Fino al 22 settembre durarono, a Cefalonia, i combatti­ menti, con interventi pesanti degli Stukas che mitragliavano e bombardavano le posizioni italiane. Il 24 settembre Gan­ din fu catturato e fucilato nella schiena: prima di morire buttò a terra con sdegno la Croce di ferro che Keitel gli ave­ va concesso. La strage fu orrenda. In una scuola 600 soldati e ufficiali vennero falciati a raffiche di mitragliatrice, 360 uf-

30 fidali furono giustiziati a gruppetti. Un sottotenente andò alla morte canticchiando la canzone del Piave, un colonnel­ lo con la pipa in bocca, tranquillamente. Cinquemila furono i massacrati della vendetta tedesca, 1.200 i caduti in com­ battimento. Ad aggravare il bilancio della tragedia soprav­ venne l'affondamento, per mine, di piroscafi che avrebbero dovuto trasportare i superstiti nei lager tedeschi. Altri tremi­ la morti, in tutto 9.646. Il 25 settembre si arrese anche il presidio di Corfù, che pure nella fase iniziale degli scontri aveva catturato 400 prigionieri tedeschi. A Rodi l'ammiraglio Campioni aveva avviato trattative, ma il generale tedesco Kleeman dimostrò presto, ordinando la occupazione degli aeroporti, che tirava solo a guadagnar tempo. Tra l'altro Kleeman tese al generale Scaroina, che co­ mandava la divisione Regina, un agguato in perfetto stile ri­ nascimentale: invitatolo a pranzo, lo dichiarò prigioniero. Scaroina s'era fatto prudentemente scortare da alcune auto­ blindo, i cui equipaggi lo liberarono. Ma cadde in una secon­ da trappola. Intanto gli Stukas si avventavano su Rodi, gli in­ glesi comunicavano che prima del 15 settembre non poteva­ no far niente, e Campioni si rassegnò alla resa. Più ostinata fu la lotta a Lero e a Samo, dove erano sbarcati anche contin­ genti inglesi, e dove l'ammiraglio Luigi Mascherpa era risolu­ to a non cedere. Ma poi i tedeschi dilagarono anche lì. Con la loro resistenza, Campioni e Mascherpa avevano firmato la lo­ ro condanna a morte, sanzionata da un iniquo processo. Solo in Sardegna e in Corsica la vicenda armistiziale eb­ be un esito fausto, soprattutto perché i tedeschi avevano de­ liberato di non chiudervisi a riccio. Al comandante superio­ re in Sardegna, generale Basso, il comandante tedesco della 90a divisione aveva chiesto semplicemente che gli si desse li­ bero passaggio per trasbordare in Corsica, e di là sul conti­ nente, le sue truppe. Così avvenne. I tedeschi furono invece attaccati, in Corsica, dalle forze del generale Magli, che per­ sero settecento uomini negli scontri, ma non ebbero la forza di impedire il deflusso delle unità in ritirata.

31 Questa fu nelle sue linee generali la trama dello sfacelo. Già nell'Italia della disfatta abbiamo riferito le cifre di cui potè vantarsi il Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, Jodl, tracciando un riassunto del dopo 8 settembre. Disar­ mate sicuramente 51 divisioni italiane; disarmate probabil­ mente 29 divisioni; non disarmate 3; 547 mila prigionieri di cui 34.744 ufficiali. La débàcle ebbe innumerevoli strascichi individuali, e germinò episodi tragici e grotteschi. Non mancarono gesti, anche sublimi, di eroismo e di orgoglio. Si uccisero a Cameri il colonnello pilota Alberto Ferrano, a Ivrea il tenente colonnello dei bersaglieri Alessandro del Piano; il tenente colonnello Davide Zannier, addetto al de­ posito dell'8° alpini, a Udine, si sparò un colpo di pistola al­ la testa mentre veniva deportato, ma miracolosamente so­ pravvisse: questi ufficiali vollero darsi la morte piuttosto che subire la cattura e la prigionia. Ma la condizione generale, per i soldati italiani, fu di sofferenza e di umiliazione. Quel­ li che non finirono in campi di concentramento tedeschi vennero ridotti alla condizione di paria, dovunque si trovas­ sero. Il 4 gennaio 1944 Luigi Bolla annotava sul suo diario che «a Belgrado i nostri soldati si aggirano in condizioni pie­ tose, mentre persino i russi sono stati rivestiti con le unifor­ mi trovate, tra enormi quantità di altro materiale, nei nostri magazzini militari in Serbia. Essi compiono i lavori più umi­ li, affamati e laceri come sono, per guadagnarsi di che non morire». Unica remora alla durezza di questo trattamento fu, quando ci fu, l'umanità delle popolazioni che diedero pro­ tezione e rifugio, con rischio grave, agli sbandati. Ma lo spettacolo della immane rotta fu nel suo complesso misere­ vole, e il comportamento dei capi militari - anche qui nel complesso - inadeguato sempre, vile nei casi peggiori. CAPITOLO SECONDO

NASCE LA REPUBBLICA DI SALÒ

La liberazione di Mussolini dal Gran Sasso fu determinante per le vicende italiane dopo l'8 settembre. Essa restituì al fa­ scismo il suo capo, sia pure avvilito e diminuito dalla scon­ fitta e dalla prigionia, consentì a Hitler di avere in Italia un vassallo di grande prestigio, diede un simbolo e un nome importanti all'ultima, fosca versione del regime. Senza Mus­ solini, i tedeschi avrebbero dovuto affidarsi a un qualsiasi screditato e servile Quisling locale, un Farinacci, o un Ricci o un Buffarini Guidi: con Mussolini la Repubblica di Salò potè vantare una continuità e una legittimità; certamente potè anche opporsi con qualche efficacia a talune estreme soperchierie dell'occupante, e frapporre un diaframma, sia pure debole, tra l'ira tedesca e la popolazione civile. Tutto questo deve essere valutato: lo faremo. Un elemento emer­ ge comunque con molta chiarezza dalla cronaca degli avve­ nimenti: il protagonista della svolta, appunto Mussolini, lo fu controvoglia, per lo zelo soccorritore di Hitler, per l'in­ calzare dei fedelissimi, per una inerzia delle cose che supe­ rava di gran lunga, ormai, la volontà fiaccata e le ambizioni dell'idolo infranto. Il prigioniero era stato trasferito dalla Maddalena a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, il 27 agosto. L'albergo in cui s'era deciso di alloggiarlo ospitava ancora, quando lo spostamento fu attuato, villeggianti e militari in convale­ scenza: lo sistemarono pertanto, durante cinque giorni, in una villetta, mentre si provvedeva a sgomberare la zona. Il 2 settembre Mussolini passò aììa. suite 201 dell'albergo: in­ gresso, soggiorno, due camere da Ietto e bagno. L'altopiano

33 di Campo Imperatore è a oltre duemila metri d'altezza, e vi si accedeva solo mediante una funicolare che partiva dal sot­ tostante paesino di Assergi. Agli ordini dell'ispettore capo di pubblica sicurezza Giu­ seppe Gueli fu disposta nell'albergo, attorno ad esso, e nella vallata, la sorveglianza stretta e nutrita di 250 carabinieri, che avrebbe dovuto impedire ogni sorpresa. Tra l'altro una disposizione di Badoglio prescriveva che in nessun caso Mussolini dovesse riguadagnare la libertà: il che sembrava autorizzare, in caso di emergenza, una esecuzione somma­ ria. Ma l'8 settembre, e il caos che ne era derivato, avevano prodotto i loro effetti sia a Roma sia al Gran Sasso. Un enig­ matico radiogramma del Capo della polizia Carmine Seni- se, mezz'ora prima del colpo di mano di Skorzeny, racco­ mandava all'ispettore Gueli «massima prudenza», il che po­ teva significare che delle drastiche istruzioni di Badoglio, ir­ raggiungibile nella sua «capitale» di Brindisi, non si dovesse più tener conto. Certo è che Gueli aveva dato ai suoi uomini istruzioni ab­ bastanza singolari. «Armi automatiche accantonate nella cantina, chiuse nelle guaine e incappucciate, munizioni riu­ nite, chiuse a chiave in una stanza (erano poche ma non cu­ rai di domandarne altre); cani-poliziotto legati alla catena negli angoli morti del fabbricato.» A tutto fanno pensare, queste disposizioni, tranne che a una strenua volontà di re­ sistenza, anche se lo stesso Gueli aveva assicurato che Cam­ po Imperatore era divenuto «un fortilizio inespugnabile». Il trattamento riservato a Mussolini era tutt'altro che ri­ goroso. Privo di giornali, fu tuttavia autorizzato ad ascoltare la radio, ma non ne profittava sempre. Saltava a volte i bol­ lettini perché «tanto danno solo brutte notizie». Teneva un diario molto particolareggiato, annotandovi anche le porta­ te dei pasti, e leggeva Nietzsche. Si sentiva spettatore, e uscì dalla sua abulia solo quando seppe che secondo una radio straniera era stata deliberata la sua consegna agli anglo-americani. Annotò che «è stato costituito un governo

34 nazionale fascista il quale opera in mio nome» e aggiunse: «La cosa mi ha lasciato del tutto indifferente». Si è riferito anche di un tentativo di suicidio, tutt'altro che risoluto, con le lamette da barba, e della richiesta di una pistola al tenen­ te dei carabinieri Faiola, per potersi togliere la vita nel caso l'avessero voluto consegnare al «nemico». Ma erano i gesti e gli impulsi di un uomo che desiderava, più d'ogni altra co­ sa, di poter raggiungere la Rocca delle Caminate, e là resta­ re, se possibile, dimenticato e ignorato da tutti. Non aveva fatto i conti con la frenetica volontà di Hitler, e con l'audacia degli uomini cui era stato affidato il compito di scoprire la sua prigione, e di strapparlo ad essa, ad ogni costo. Tre furono gli ideatori e realizzatori della missione; il generale Kurt Student, comandante dei paracadutisti tede­ schi nella zona di Roma, il maggiore Hans Mors, un ufficia­ le di 33 anni d'origine svizzera che comandava il 1° batta­ glione del 7° reggimento nella 2a divisione paracadutisti, e infine il capitano delle SS Otto Skorzeny, un nazista austria­ co dal fisico imponente e dal volto segnato dalla mensur. Nei resoconti del primo momento, e anche in molta sto­ riografia successiva, Skorzeny s'è accaparrato il maggior merito dell'impresa, perché a lui erano spettate le pazienti ricerche di Mussolini durante i 45 giorni di Badoglio, per­ ché fu lui a ripartire in volo dal Gran Sasso con il Duce met­ tendone a repentaglio l'incolumità, e infine perché un suo libro di memorie, Missioni segrete, avallò una versione perso­ nalistica dei fatti. Con dichiarazioni molto secche, Mors ha ridimensionato il ruolo di questo coraggioso «bravaccio»: «Non c'è dubbio che... quest'uomo compì un buon lavoro preparatorio. A ciò comunque si riduce tutta la sua parte perché, dal momento in cui venni convocato da Student, l'esecuzione del piano era affidata a me. Il servizio segreto delle SS aveva esaurito il suo compito. Ora toccava ai para­ cadutisti». Mors stabilì che 12 alianti con un centinaio di uomini a bordo si portassero su Campo Imperatore, vi atterrassero

35 in un fazzoletto di terra nelle immediate vicinanze dell'al­ bergo, e che contemporaneamente il grosso del battaglione raggiungesse con lui la vallata e la stazione inferiore della funicolare per coadiuvare l'azione del reparto piombato dal cielo. Il tenente von Berlepsch ebbe il comando dei paraca­ dutisti aviotrasportati. Skorzeny ottenne di imbarcarsi «in qualità di ospite» su uno degli alianti, insieme ad alcuni ele­ menti delle SS. Fu comunque delle SS l'idea di associare al­ la spedizione, volente o nolente, un ufficiale superiore ita­ liano, cosicché i carabinieri di guardia, vedendolo, non osas­ sero sparare. Lo scomodo ruolo toccò al generale Fernando Soleti che, convocato con un pretesto all'aeroporto di Prati­ ca di Mare da dove gli alianti sarebbero decollati, fu spiccia- tivamente informato del compito che gli spettava: e fu cac­ ciato su un aliante accanto a Skorzeny mentre, secondo i ri­ cordi di quest'ultimo, «il colore del suo viso diventa simile al grigioverde dell'uniforme». Dei dodici alianti, solo 9 giunsero felicemente alla meta: due si fracassarono contro il cratere lasciato da una bomba sulla pista, uno s'infranse in atterraggio causando la morte di tutti gli occupanti. Dai velivoli superstiti balzarono a ter­ ra, armi in pugno, paracadutisti e SS. Fu detto che i carabi­ nieri erano stati colti del tutto di sorpresa, il che sembra in­ verosimile data la lentezza di planata degli alianti, e la vigi­ lanza che, anche per alcuni allarmi del mattino - il colpo av­ venne alle 14 esatte del 12 settembre - era esercitata. Gueli faceva la pennichella, e al trambusto si affacciò, nudo, alla finestra della sua camera: si affacciò anche Mussolini e chie­ se al suo custode, maresciallo Antichi: «Sono inglesi?». «No eccellenza, sono tedeschi.» «Questa non ci voleva proprio» fu la prima, significativa reazione di Mussolini. L'operazione procedette senza intoppi. Spingendo Soleti che gridava «non sparate» Skorzeny avanzò verso l'albergo, mentre Gueli stesso si sbracciava a far segno che nessuno mettesse mano alle armi. Un colonnello andò incontro ai te­ deschi, e Skorzeny gli ingiunse di arrendersi e di consegna-

36 re il Duce, lasciandogli un minuto per decidere. Per tutta ri­ sposta il colonnello brindò, con un bicchiere di vino, «ai vin­ citori». Una decina di minuti dopo lo sbarco, Skorzeny po­ teva irrigidirsi nel saluto militare davanti a un Mussolini più rassegnato che entusiasta dicendogli: «Duce, il mio Fùhrer mi ha inviato da voi per liberarvi. Siete libero». Mussolini lo abbracciò. «Sapevo che il mio amico Adolf Hitler non mi avrebbe abbandonato.» Il suo amico Hitler si prendeva cura di lui, fin troppo. Mussolini avrebbe preferito restare in Italia, ma gli ordini del Fùhrer erano perentori: il Duce doveva essere traspor­ tato al più presto in Germania. Per evitare possibili - anche se ormai estremamente improbabili - interventi delle forze «badogliane», era stato deliberato che dal Gran Sasso Mus­ solini raggiungesse Pratica di Mare con una «cicogna» pilo­ tata da un aviatore di eccezionali capacità, il capitano Hein­ rich Gerlach, che nel frattempo aveva avuto l'ardimento e la capacità di atterrare nel prato davanti all'albergo. Un operatore del cinegiornale tedesco, arrivato con gli uomini del maggiore Mors - che erano saliti con la funivia - volle riprendere la scena, e il liberato commentò docilmente: «Fa­ te di me ciò che volete». La «cicogna» era un piccolo biposto, e il decollo da Cam­ po Imperatore con il pilota e un passeggero presentava già difficoltà enormi. Ma a questo punto Skorzeny s'impose, non voleva consentire che la storia di quella liberazione fos­ se narrata senza di lui, e in modo diverso da come lui la vo­ leva descrivere. Pretese di issarsi sull'aereo, benché Heinri­ ch Gerlach tentasse di dissuaderlo. «Furono le insegne delle SS - ha scritto giustamente Arrigo Petacco - che indussero tutti ad accontentare quell'omone il cui peso avrebbe potu­ to compromettere tutto.» Skorzeny si accomodò alla meglio dietro Mussolini, carabinieri e paracadutisti trattennero la «cicogna» - un po' il sistema usato sulle portaerei - mentre Gerlach forzava il motore al massimo, poi l'apparecchio prese velocità, si tuffò quasi nella valle, infine assunse un as-

37 setto normale. Gerlach ce l'aveva fatta, dopo poche decine di minuti la «cicogna» era a Pratica di Mare, e la sera stessa un trimotore che l'attendeva depositò il liberato-ostaggio a Vienna. Hitler in persona telefonò a Skorzeny per ringraziarlo, e dispose che fosse insignito seduta stante delle insegne di Ca­ valiere della Croce di ferro. Telefonò anche al Duce, che si disse stanco, malato, e bisognoso soprattutto di un lungo sonno. Si buttò vestito su un letto, e dormì profondamente. Gòbbels scrisse nel suo diario. «Vedremo se è ancora capace di un'attività politica su larga scala. Il Fùhrer lo pensa».

Il 13 settembre Mussolini fu trasferito a Monaco dove lo at­ tendevano la moglie e i figli minori. Si trattenne con donna Rachele, ascoltando i notiziari fascisti. Non è chiaro se vide subito Ciano, egli pure a Monaco. Non gli fu comunque concesso molto tempo per rilassarsi: il giorno dopo dovette rimettersi in viaggio per raggiungere a Rastenburg la «tana del lupo», il Ouartier generale di Hitler. Lì si trovavano già alcuni gerarchi fascisti: Farinacci, il ras di Cremona, Ales­ sandro Pavolini, già ministro della Cultura Popolare e poi direttore del Messaggero, Renato Ricci, già capo delle orga­ nizzazioni giovanili fasciste e ministro delle Corporazioni, e infine Giovanni Preziosi, antisemita fanatico, da Mussolini stesso definito «un essere repulsivo, vera figura di prete spretato». Ad essi deve essere aggiunto Vittorio Mussolini, il primogenito del Duce. Questi oltranzisti del regime, assai diversi per estrazione, cultura e influenza, erano in Germa­ nia prima dell'8 settembre, e non appena fu proclamato l'armistizio organizzarono, dal treno speciale di Hitler in Prussia orientale, trasmissioni radio con le quali facevano appello ai fedelissimi. In mancanza di meglio, i tedeschi vi­ dero in loro il nucleo attorno al quale sarebbe stato possibi­ le ricostituire un governo fascista e una milizia capace di «garantire la sicurezza delle truppe tedesche che combatto­ no in Italia». Ma Gòbbels non si azzardava a pubblicare i no-

38 mi dei componenti di questo rinato governo fascista «che dormono attualmente sul pavimento, al Quartier generale», perché «sono troppo poco importanti». A Rastenburg, il redivivo Mussolini dovette dunque af­ frontare, in breve successione, Hitler e il gruppetto degli ir­ riducibili: l'uno e gli altri risoluti a fare di lui lo strumento per la nascita e la crescita dell'ultimo fascismo. L'incontro tra i due dittatori, entrambi, sia pure in modo molto diver­ so, avviati alla fine, durò due ore. Si erano salutati con gran­ de effusione, «un esempio di fedeltà tra uomini e camerati che ha profondamente commosso», scrisse Gòbbels. Musso­ lini era disorientato, e male informato, tanto che accingen­ dosi al colloquio aveva preso frettolosamente appunti spul­ ciando giornali e documenti. Quanto a Hitler, conservava per il camerata italiano un profondo affetto personale, che tuttavia non faceva velo ai suoi ultimi lampi di avidità politi­ ca. Proprio quel 13 settembre aveva firmato un decreto in base al quale il Trentino passava alle dipendenze del Gaulei- ter del Tirolo, Hofer, e la Venezia Giulia, con Trieste, oltre a una parte del Veneto, veniva assoggettata al Gauleiter della Carinzia, Rainer. Questo sottofondo delle intenzioni naziste si rispecchiava in una osservazione di Gòbbels: «Per quanto io sia commosso dal lato umano della liberazione del Duce, sono tuttavia scettico per quanto riguarda i vantaggi politi­ ci. Finché il Duce era fuori scena, potevamo avere le mani libere in Italia. A me sembrava che, oltre al Tirolo meridio­ nale, il nostro confine avrebbe dovuto includere le Venezie. Ciò sarà difficilissimo nel caso che il Duce rientri nella vita politica». Lasciato Hitler, Mussolini incontrò i gerarchi in una sa­ letta del Bunker, e parlò loro in modo tale da far capire che «si considerava ormai fuori dalla partita o almeno desidera­ va restarvi». Pavolini gli si rivolse in termini netti: «Il gover­ no provvisorio nazionale fascista attende la ratifica del suo Capo naturale: solo dopo si può annunciare la composizio­ ne del governo». La mattina dopo, Hitler e Mussolini s'in-

39 trattennero ancora, e il tedesco ebbe qualche osservazione agra: «Ma cos'era questo fascismo che si è dissolto come ne­ ve al sole? Per anni ho garantito ai miei generali che il fasci­ smo era l'alleanza più sicura per il popolo tedesco. Non ave­ te mai voluto dar retta alla mia diffidenza verso la monar­ chia... Vi confesso che noi tedeschi non abbiamo mai capito il vostro atteggiamento in questa materia». Quindi Mussoli­ ni tornò a Monaco, e da Roma (15 settembre) fu annunciato che « ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo in Italia», che Pavolini era il segretario «provvi­ sorio» del Partito fascista repubblicano, che la Milizia era ri­ costituita sotto il comando di Renato Ricci, che i funzionari pubblici dovevano riprendere i loro posti e che infine gli uf­ ficiali delle Forze Armate erano liberati dal giuramento pre­ stato al Re. Per Mussolini era stata allestita una residenza nel castello di Hirschberg, nella foresta bavarese. Un telefono militare tedesco lo collegava con Rastenburg e con Roma, non aveva una segretaria tanto che il ministro Anfuso - che, lasciata la legazione di Budapest, l'aveva raggiunto - assunse le fun­ zioni di «usciere, segretario e telefonista». In Baviera accor­ se anche Buffarmi Guidi, piccolo e adiposo Fouché del vec­ chio e del nuovo fascismo. La sera del 18 settembre la radio fece udire agli italiani, dopo un lungo silenzio, quella inconfondibile voce, appan­ nata dall'abbattimento e dalle frustrazioni. Un discorso piuttosto lungo, fatto di considerazioni e di rievocazioni più che di slogans. Il tribuno aveva perso il piglio imperioso d'un tempo, spiegava e recriminava. «Camicie nere, italiani e italiane - disse - ... ho tardato qualche giorno prima di in­ dirizzarmi a voi perché dopo un periodo di isolamento mo­ rale era necessario che riprendessi contatto col mondo.» Rievocò il 25 luglio, affermando che «è già accaduto in pace e in guerra che un ministro sia dimissionato, un comandan­ te silurato, ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per ventun anni servi-

40 to il Re con assoluta, dico assoluta lealtà, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del Re, costretto a salire su un'autoambulanza della Croce Rossa col pretesto di sottrar­ lo a un complotto, condotto a velocità pazza prima in una, poi in altra caserma dei carabinieri». Rese omaggio all'ami­ cizia tedesca, spiegò che «nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemici mai mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani». Si scagliò quindi contro i Savoia che avevano «voluto preparato ed organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli ed imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo». E concluse, sull'argomento: «Quan­ do una monarchia manca a quelli che sono i suoi compiti, essa perde ogni ragione di vita». Enunciò quindi i quattro punti sui quali si sarebbe fon­ data l'attività dello Stato che egli intendeva instaurare e che «sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini». 1) Riprendere le armi al fianco della Germania, del Giappone e degli altri al­ leati; 2) Preparare la riorganizzazione delle Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia; 3) Eliminare i traditori e in particolare modo quelli che fino alle ore 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nelle file del par­ tito e sono passati nelle file del nemico; 4) Annientare le plu­ tocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il sogget­ to dell'economia e la base infrangibile dello Stato. L'accenno ai traditori del Gran Consiglio preannunciava il peggio; ma Ciano vide tre volte, in quei giorni, il suocero, che gli diede assicurazioni quasi affettuose, e promise di parlar coi tede­ schi per chiarire la sua (di Ciano) posizione. Gòbbels schiu­ mava di rabbia per l'indulgenza di Mussolini. «Edda - scri­ veva - è riuscita a mutare radicalmente l'opinione del Duce riguardo a Ciano» che «è rientrato nelle buone grazie del Duce.» Sempre svogliato, ma ormai non più riluttante, Mussoli­ ni dovette partecipare, con lunghe comunicazioni telefoni-

41 che dal castello di HLrschberg, al complesso lavorìo per la formazione di un governo fascista. Gli aspiranti agli incari­ chi di maggior spicco si perdevano in beghe stizzose e futili, e per altri incarichi era impossibile trovare candidati decen­ ti. In particolare era necessario attribuire a un uomo di pre­ stigio il Ministero della Guerra, e colui che sarebbe stato più gradito ai tedeschi, il maresciallo Cavallero, si era o era sta­ to suicidato. Questa trama triangolare - Rastenburg, Hirschberg, l'ambasciata tedesca a Roma - vide alla ribalta, per parte te­ desca, due personaggi che nella vita della Repubblica di Salò avrebbero avuto una parte di primissimo piano: Ru­ dolph Rahn, ambasciatore presso Mussolini - in effetti un plenipotenziario in paese occupato - e il generale delle SS Karl Wolff. Albert Kesselring, comandante militare - dopo il progressivo disinteresse per gli affari italiani del mare­ sciallo Rommel, che era a capo del gruppo armate B e come tale ebbe temporanea giurisdizione sull'Italia settentrionale - era il terzo componente del triumvirato tedesco. Ma di Kes­ selring già erano note sia le capacità militari - che nella campagna d'Italia ebbero straordinaria dimostrazione - sia l'attaccamento al nazismo, sia, per altro verso, una certa malleabilità nei rapporti con il paese «traditore». In contra­ sto con Rommel, che voleva l'immediato abbandono di Ro­ ma, egli decise di contrastare gli Alleati al sud, e i risultati che ottenne gli diedero ragione. Rahn era un diplomatico di carriera, quarantacinquen­ ne: aveva collaborato, all'ambasciata di Parigi, con Otto Abetz, proconsole di Hitler in Francia, ed aveva dunque lunga pratica di rapporti con governi vassalli. Luigi Bolla, un diplomatico italiano che servi a Salò, ne ha lasciato que­ sta descrizione: «Colto, intelligente, versatile, con larga esperienza di uomini, non corrispondeva affatto allo stereo­ tipo del tedesco e tanto meno a quello del Gauleiter, pur es­ sendo capace di pesanti durezze. Sensibile a spunti culturali e a richiami storici, raramente si trincerava dietro ordini su-

42 periori, ma altrettanto raramente assumeva una posizione che desse qualche affidamento». D'accordo con Hitler, Rahn aveva stabilito che il governo fascista, comunque e da chiun­ que fosse composto, non sarebbe tornato a Roma. Wolff era un ufficiale delle SS del tipo burocratico più che del tipo fanatico o sadico. Diresse la polizia nazista in Italia con efficienza distaccata e con l'occhio volto alle pro­ spettive future. L'Italia poteva essere, come ha scritto Bocca nella sua Storia dell'Italia partigiana, «il paese dove si può trattare con la Chiesa, e attraverso la Chiesa con gli Alleati. E così proprio il rappresentante della spietata repressione poliziesca sarà fra gli iniziatori del doppio gioco». Più volte Wolff nella sua carriera aveva avuto occasione di vedere Mussolini: aveva assicurato i servizi di sicurezza per le visite del Duce in Germania, e aveva accompagnato Hitler in Ita­ lia nel '38 e nel '40. La lista dei ministri era stata compilata - con la collabo­ razione di Pavolini, che già s'era precipitato a Roma a ria­ prire gli uffici del Partito a Palazzo Wedekind - tra «lamen­ tevoli incertezze e incoerenze» secondo un'espressione di Rahn in un telegramma a Berlino. Guido Buffarmi Guidi ebbe gli Interni, Fernando Mezzasoma la Cultura Popolare, il che ne faceva il responsabile della propaganda, Domenico Pellegrini Giampietro, un buon tecnico, le Finanze, Carlo Alberto Biggini, un galantuomo, l'Educazione Nazionale, due ufficiali di secondo piano, l'ammiraglio Legnani e il ge­ nerale Botto, la Marina e l'Aeronautica. Sottosegretario alla presidenza (tralasciamo alcuni dicasteri di minore rilievo, affidati a uomini che ne avevano ancor meno) fu il pluride­ corato Francesco Maria Barracu. Non s'era trovato un tito­ lare adeguato per gli Esteri, anche perché Anfuso l'unico tra i «grandi» di Palazzo Chigi che si fosse schierato con Mussolini, era stato destinato alla vitale ambasciata di Berli­ no. Mussolini fu dunque il titolare degli Esteri, la cui re­ sponsabilità effettiva toccò a Serafino Mazzolini, un marchi­ giano cinquantenne e scapolo che era approdato alla carrie-

43 ra diplomatica dalle file del Partito nazionalista, grazie a una legge speciale del 1928, e che era diventato un efficien­ te funzionario. Mazzolini, nella estate del '42 indicato come amministratore civile dell'Egitto, qualora le armate italo-te- desche l'avessero conquistato, era un moderato di buon sen­ so, cui sarebbe toccato il compito di scontrarsi con Rahn e di proteggere, o tentar di proteggere, i 600 mila soldati ita­ liani internati in Germania. Restava il problema del ministero chiave, la Guerra, e alla fine fascisti e tedeschi si risolsero quasi per disperazio­ ne, a offrirne la poltrona ai maresciallo Graziani, che negli ultimi tempi del regime era caduto in disgrazia e faceva il Cincinnato nella sua tenuta in Ciociaria. Proprio lì lo rag­ giunse il 22 settembre Barracu, latore di un messaggio di Mussolini. Graziani rifiutò l'offerta. Ma quando Barracu gli disse che «il vostro rifiuto potrebbe essere giudicato pau­ ra», cedette. Era scattata in lui una duplice molla psicologi­ ca: voleva dimostrare di non essere - come da tempo si an­ dava ripetendo, dopo la miserevole azione di comando in Libia - un pavido e un incapace, e voleva opporre la sua coerenza cristallina al «tradimento» dell'odiato rivale Ba­ doglio. Si recò nell'ambasciata tedesca dove Rahn gli ri­ cordò che «l'Italia è stata dichiarata terra di preda bellica» e che se nessun uomo di prestigio avesse accettato di riscat­ tarne l'onore la sua sorte sarebbe stata simile a quella della Polonia. Trionfalmente, nel pomeriggio, Rahn potè tele­ grafare a Berlino che «l'operazione è avvenuta secondo i piani» e che «solo io sono stato capace di persuadere Gra­ ziani a entrare nel Governo un minuto prima della pubbli­ cazione del comunicato». Mussolini avallò la sera stessa la lista completa, e il 23 set­ tembre volò da Monaco a Forlì per trascorrere un ulteriore periodo di riflessione alla Rocca delle Caminate. Lì, il 27 settembre, fu convocato il primo Consiglio dei ministri nel corso del quale Mussolini affermò che la mattina del 25 lu­ glio «il tricolore sventolava ancora a Rodi, a Tirana, a Lu-

44 biana, a Spalato, in Corsica, nel Varo», e che due mesi dopo «il nemico occupa un terzo del territorio nazionale e tutte le nostre posizioni fuori dal territorio nazionale sono state sgombrate». Era necessario anzitutto, aggiunse, «dare cor­ diale e pratica collaborazione alle autorità tedesche», orga­ nizzare un nuovo sforzo militare e «preparare la Costituzio­ ne che dovrà consacrare il programma del Partito con la creazione dello Stato fascista repubblicano». Occorreva stabilire la sede del governo di quella che, do­ po un paio di ripensamenti, fu definitivamente battezzata Repubblica Sociale Italiana. Mussolini voleva Roma, ma i tedeschi su questo furono intransigenti: non ci pensasse neppure. Fu presa in considerazione Belluno, affinché i mi­ nistri vassalli fossero vicino al Quartier generale di Rom­ mel, ma Mussolini contropropose Merano o Bolzano, il che avrebbe riacceso la questione dell'Alto Adige. Finalmente i tedeschi si orientarono verso la zona del Garda, con il de­ centramento dei ministeri in località anche lontane. Un co­ municato annunciò che «come risultato della dichiarazione di Roma città aperta, il governo fisserà la sua sede in un'al­ tra località vicina al Quartier generale delle Forze Armate». Fino all'ultimo comunque i fascisti furono tenuti all'oscuro del definitivo responso tedesco, tanto che il cinque ottobre Mussolini dichiarava al suo nuovo segretario personale, il prefetto Giovanni Dolfin, che «domani o dopodomani mi trasferirò nella località prescelta... Ignoro fino a questo mo­ mento dove sia ubicata, è comunque sulla sponda occiden­ tale del Garda». Il 10 ottobre si installò nella Villa Feltrinelli di Gargnano. Gli Esteri e la Cultura Popolare furono siste­ mati a Salò, la Presidenza del Consiglio a Bogliaco, gli In­ terni e il Partito a Maderno, l'Economia a Verona, l'Agricol­ tura a Treviso, l'Educazione Nazionale a Padova, i Lavori Pubblici a Venezia, i dicasteri militari a Cremona, , Asolo, Iseo, Milano, Montecchio, Vicenza, la Giustizia a Bre­ scia, insomma era una galassia di centri di potere che non avevano potere, e che erano per lo più nella impossibilità di

45 comunicare tra loro. Intensificandosi i bombardamenti al­ leati, e peggiorando le condizioni dell'Italia, accadde che un ministro dovesse affrontare uno o due giorni di viaggio per andare in udienza da Mussolini, e riferirgli. Il centro di questo universo incoerente era la Villa Feltrinelli, «arredata modestamente, quasi volgarmente - nel ricordo di un testi­ mone che la frequentò allora - piccoli corridoi, grandi stan­ ze disadorne, aria di sala d'aspetto presso un medico di pro­ vincia». Lì era rintanato, rifiutando quelle attività fisiche di cui un tempo si compiaceva, il Duce che - sempre secondo 10 stesso testimone - fisicamente appariva ristabilito dopo il trauma della destituzione e della prigionia ma «le mani so­ no piccole e vizze e lo sguardo rivela la presenza costante di uno strazio intimo, malgrado che talvolta i suoi occhi spriz­ zino ancora delle scintille». Villa Feltrinelli era vigilata da 30 SS della guardia perso­ nale di Hitler - solo più tardi un reparto italiano potè af­ fiancarsi ai tedeschi - e un pezzo antiaereo era stato installa­ to sul tetto. Almeno in un primo momento l'unico collega­ mento con l'esterno era assicurato da un telefono da campo sotto sorveglianza tedesca, e contrassegnato dal nome in co­ dice Batavia. Con l'assestamento della organizzazione gli uf­ fici del Duce furono installati nella Villa delle Orsoline, a 600 metri di distanza, e a Villa Feltrinelli rimase la sua resi­ denza privata. I veri padroni, i tedeschi, erano appostati nei dintorni, tranne Kesselring che aveva mantenuto il Quartier genera­ le a Frascati. Rahn e l'ambasciata erano nella Villa Bassetti a Fasano, Wolff e i suoi accoliti a Gardone (successivamente a Desenzano), i servizi di sicurezza a Verona, il plenipotenzia­ rio militare generale Toussaint nei pressi di Verona. Rom­ mel restò a Belluno fino a quando, in novembre, tornò in Germania, il che segnò il passaggio di tutti i poteri militari a Kesselring. Il colonnello Jandl, ufficiale di collegamento, fu addetto alla persona di Mussolini ed era, in questo incarico, 11 più elevato in grado. A lui dobbiamo un resoconto della

46 routine di Mussolini, presto non molto dissimile, negli orari, da quella ch'egli seguiva a Palazzo Venezia: «Va regolarmen­ te in ufficio alle 8,45 e riceve i visitatori fino alle 2-2,30. Fa una breve pausa di circa mezz'ora a mezzogiorno e nel po­ meriggio continua a lavorare di solito fino alle 9. Spesso la­ vora di notte per conto proprio. Recentemente ha lavorato fino alle 6 del mattino. Capita sovente che si ritiri prima di mezzanotte, si alzi alle 4, faccia un po' di lavoro fino alle 5, e dorma ancora un po'». Una giornata intensa e insieme vuo­ ta. Il Duce riceveva, esortava, scriveva, emanava ordini, ma tutto questo mancava di risonanza e di rispondenza. Tra­ scorreva ore oziose, a fissare il muro, o in letture vagamente filosofiche. Come gli era accaduto in tutta la vita, non aveva amici e non ne cercava. Era finito e lo sapeva. Unica vera passione e interesse, gli era rimasto il giornalismo. La sua scrittura era sempre diretta, efficace, polemica. Attorno a lui brulicavano ancora passioni e interessi. Se Dolfin, prefetto e console della Milizia, era il segretario uffi­ ciale, il figlio Vittorio istituì presto un doppione anomalo di segreteria affollata di sportivi - che erano i suoi compagno­ ni abituali - e di parenti; tra essi il figlio di Arnaldo, Vito, e il cognato Vanni Teodorani. Di Vittorio Mussolini il già cita­ to diplomatico Bolla scrisse, in un suo diario, che «è uno dei più grossi beceri che esistano sulla faccia della terra» e che «ne combina di tutti i colori, in parte per virtù propria, in parte per spinta del suo seguito di atleti e pugilatori, ex compagni di palestra». (Ma delle due, l'una: o il ritrattista ha calcato la mano, o il ritrattato, con l'esperienza, maturò.) Era così nata la Repubblica di Salò. Ma la sua capitale - o meglio l'arcipelago delle sue capitali - non ne interpretava esattamente né la sostanza né l'anima. Anzi le anime, per­ ché in questa estrema versione del fascismo confluirono cin­ que filoni fondamentali. V'erano i fanatici, mossi da una fe­ de fascista cieca e da un odio violento per i badogliani, che cercavano più la vendetta che la rivincita ben sapendo - al­ meno gli intelligenti - che la rivincita era un sogno irrealiz-

47 zabile. Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uo­ mini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura. V'era in loro una sorta di ansia di distruzione e di autodistruzione, di propensione al sangue e di aspirazione all'olocausto. E strano che alla schiera degli irriducibili vota­ ti alla morte abbiano finito per aggregarsi individui che non avevano alcun motivo razionale per farlo, un ex comunista come Nicola Bombacci e un ex perseguitato come Carlo Sil­ vestri. I fanatici credevano al fascismo rigenerato anche se soccombente, purificato prima della fine da un lavacro di sangue, dei nemici e suo. Poi v'erano i servi o manutengoli dei tedeschi, alla Buffa­ rmi Guidi (e via via scendendo lungo la scala gerarchica e umana), che si prestavano ai bassi servizi dell'occupante, tessevano i loro intrighi, esprimevano la loro abbiezione, avidi del briciolo di potere e delle ricchezze che in quel mo­ mento potevano accaparrarsi, illudendosi di poter nell'ora ultima sfuggire, con chissà quale stratagemma e compro­ messo, alle rappresaglie. Sia attorno ai fanatici, sia attorno ai reggicoda dei nazisti, si aggrumò fisiologicamente una corte dei miracoli di spie professionali, di torturatori per vocazione, di sadici, di sgherri ignobili, di avventurieri, di delinquenti cui era stata concessa licenza di uccidere. Terzo: i benintenzionati, politici, intellettuali, professori che esprimevano la ribellione al voltafaccia di Badoglio più che l'adesione al tedesco e al peggiore fascismo, come il filo­ sofo Giovanni Gentile, il futurista Marinetti, il pittore e scrittore Ardengo Soffici, i giornalisti Ojetti, Barzini senior, Pettinato, Amicucci, qualche insigne cattedratico come Gio­ vanni Brugi, titolare della cattedra di anatomia all'Univer­ sità di Siena. Quarto: i militari - spesso più degni, nelle motivazioni e nelle reazioni, dei generali dai quali era stato affollato il mo­ lo di Ortona a Mare durante la fuga del Re e di Badoglio - che non accettavano né la sconfitta né il tradimento dell'al­ leato. Avevano il loro capofila in Graziani, peraltro esempla-

48 re spurio perché la sua conversione a Salò era stata esitante e quasi estorta, e il loro uomo più rappresentativo nel co­ mandante Junio Valerio Borghese. V'erano infine fascisti di secondo piano e burocrati che per contingenze occasionali, per ragioni personali, magari per debolezza o per momentanea comodità, nei casi miglio­ ri per la convinzione di riuscire a mitigare le contromisure tedesche, accettarono la «Repubblica Sociale» spesso senza capire cosa essa fosse e soprattutto cosa sarebbe diventata. Questa schematizzazione è, appunto perché tale, incomple­ ta. In quel crogiuolo che fu il fascismo di Salò è possibile in­ dividuare altri spunti e fermenti. Ma senza dubbio le cate­ gorie elencate furono le più evidenti. Nei giorni che Mussolini aveva trascorso in Germania e alla Rocca delle Caminate le federazioni fasciste si erano ria­ perte un po' dovunque per iniziativa di elementi disparati. Furono riesumati i nomi dei vecchi reparti, alcuni prefetti dovettero fare, con le buone o con le cattive, le valigie. Rie­ mersero da anni di oscurità, carichi di rancore, squadristi della prima ora che il fascismo legalitario degli anni Trenta aveva emarginato. Tra questi uomini emergenti merita una citazione particolare, per la durezza con cui si impossessò - assenzienti i tedeschi, è ovvio - delle leve di comando, o almeno di quelle poche leve di comando che l'occupante concedeva ai suoi servi, Piero Cosmin, inviato a Verona ca­ sualmente la vigilia dell'8 settembre con un incarico ammi­ nistrativo. Il Cosmin, grande invalido della guerra di Spa­ gna, superdecorato, tubercolotico all'ultimo stadio, divenne il ras di Verona, a stretto contatto con i più alti comandanti tedeschi. La sua influenza decise o almeno accelerò la sorte dei condannati del Gran Consiglio. A Bologna le file del risorgente fascismo si radunarono attorno a Giorgio Pini, divenuto direttore del Resto del Carli­ no, e al rettore dell'Università Goffredo Coppola; a Milano attorno al cieco di guerra Carlo Borsani. Ma la Toscana eb­ be un ruolo preminente nella rinascita fascista, con Pavoli-

49 ni, Buffarini Guidi e Ricci. Alcuni tra i promotori della «ri­ generazione» del partito credevano in una politica di unio­ ne nazionale e di «dimentichiamo le divisioni del passato», ma Pavolini premeva in senso opposto, e ottenne poi che Mezzasoma desse disposizione ai quotidiani affinché fossero evitati «gli appelli per la pacificazione delle menti e la con­ cordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani». Il revival fascista non procacciò alcuna delle massime ca­ riche a colui che, per il suo passato, per i suoi «meriti» ante e dopo la Marcia su Roma, e per la fedeltà ai tedeschi, sem­ brava il più qualificato ad averne: Roberto Farinacci. Que­ sto instancabile seccatore non riuscì a vincere l'ostilità che il Duce covava da sempre contro di lui, e che neppure le drammatiche contingenze politiche del momento gli faceva­ no superare. Una lettera del 21 settembre '43 a Mussolini ancora in Germania attesta la frustrazione e l'ira del gerar­ ca: «Questa notte ho profondamente meditato su tutto e ho deciso la mia linea di condotta: salvare soltanto la mia fami­ glia dalla inevitabile catastrofe. Sì, caro presidente, i tuoi ul­ timi orientamenti non lasciano alcuna speranza nei tuoi vec­ chi fedeli camerati». Quindi Farinacci tornò a Cremona, scortato e protetto dai tedeschi, riprese le pubblicazioni del suo quotidiano II Regime fascista con un articolo, «Eccomi di ritorno», sostenne sempre le tesi dell'occupante, e si affannò a dimostrare di non avere accumulato profitti illeciti. Insieme alle organizzazioni fasciste, che a Palazzo We- dekind facevano solo nominalmente capo, e che erano tante repubblichette nella repubblichina, proliferò una miriade di corpi armati autonomi e spesso concorrenti: la Decima Mas di Borghese, i battaglioni (di paracadutisti e bersaglie­ ri) che ufficiali «puri e duri» costituivano qua e là attingen­ do alle file degli internati in Germania o reclutando gente con l'assistenza del tedesco, la Legione Muti di Colombo (un sergente proclamatosi colonnello) a Milano, le SS Italiane, e poi le polizie private, predatrici o torturatrici, o l'una e l'al­ tra cosa insieme. La Repubblica e il caos. CAPITOLO TERZO

NASCE LA RESISTENZA

Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) fu costituito a Roma, in un alloggio di via Adda, alle 14,30 del 9 settembre 1943. Esso nacque da una riunione del «Comitato delle op­ posizioni» cui parteciparono l'indipendente Ivanoe Bonomi, il democristiano Alcide De Gasperi, il liberale Alessandro Ca­ sati, il socialista Pietro Nenni, il comunista Mauro Scoccimar- ro, infine Ugo La Malfa del Partito d'azione. I presenti ap­ provarono una dichiarazione che diceva: «Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo al­ leato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Non fu inserita nel testo la dichiarazione antimonarchica che La Malfa avrebbe voluta e che non andava a genio né a Bonomi, né a Casati, e in definitiva nemmeno a De Gasperi. Al Comitato aderì poi Meuccio Ruini (Democrazia del lavoro). Quest'ultima formazione politica aveva caratteri blanda­ mente socialdemocratici, mentre il Partito d'azione si pone­ va su posizioni di intransigente moralismo e chiedeva «l'in­ staurazione di un regime repubblicano, la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari assicurativi e industria­ li per recidere alle sue radici ogni potenza reazionaria del grande capitale, la restituzione alla collettività di tutte le ric­ chezze indebitamente ad essa sottratte con la complicità del fascismo». Liberali, socialisti e comunisti approdavano al CLN con le loro ben definite ideologie - anche se in campo socialista si scontravano, secondo tradizione, i massimalisti e

51 i riformisti - e i democristiani vi portavano l'eredita del Par­ tito popolare arricchita dalle spinte sociali di un neoguelfi- smo populista. Sul problema istituzionale la DC era il partito più lacerato: monarchici e repubblicani vi convivevano, e De Gasperi esortava infatti ad accantonarlo, quel problema, fino a dopo la guerra. Al CLN Bonomi rivendicò il diritto d'essere considerato «l'unica organizzazione capace di assicurare la vita del pae­ se». Gran galantuomo, ma un po' propenso ad enfatizzare, Bonomi aveva azzardato, così dicendo, una affermazione presuntuosa. Il CLN non potè, nella fase d'avvio della sua esistenza (e in verità nemmeno nelle successive) assicurare nulla: e non fu, almeno inizialmente, l'elemento propulsore dei primi nuclei ed episodi di ribellione alla dominazione nazista e alla rinascita fascista, che si svilupparono per ger­ minazione spontanea. E sintomatico che, spentisi i combat­ timenti impegnati dalle truppe della difesa di Roma e da cittadini animosi - tra essi Sandro Pertini - a Porta San Pao­ lo, Roma e l'area circostante abbiano mancato di veri e pro­ pri fatti d'arme contro l'occupante, attaccato da «comman­ dos» per il sabotaggio e il terrorismo: quei fatti d'arme che si svilupparono invece al sud, in contiguità della linea del fronte, o al nord. Due tipi diversi di Resistenza, originati da circostanze molto dissimili. Al sud la popolazione insorse contro i tedeschi in ritirata che, ripiegando passo passo sotto l'incalzare degli anglo­ americani - bloccati poi a Cassino - compivano le loro ulti­ me vendette e distruzioni. Non prima in ordine di tempo, ma più importante delle altre, fu la rivolta di Napoli, che Hitler avrebbe voluto divenisse «fango e cenere» e che era stata sottoposta agli ordini del colonnello Hans Scholl, un prussiano duro. Costui aveva fatto sapere, il 12 settembre, che «chiunque agisca apertamente o subdolamente contro le Forze Armate germaniche verrà passato per le armi» e che «il luogo del fatto e i dintorni immediati del nascondi­ glio dell'autore verranno distrutti e ridotti in rovine». A ri-

52 morchie, del tedesco, si fecero vivi anche i fascisti e un non meglio identificato Tilena esortò il 24 settembre i napoleta­ ni a «tutto osare» per difendere «la regina del Mediterraneo che le forze plutocratiche credono di avere in loro assoluto e definitivo dominio». Scholl emanò il 22 settembre un bando per il servizio obbligatorio del lavoro, riguardante tutti gli uomini dai 18 ai 33 anni: su trentamila «precettati» solo 150 risposero al­ l'appello. Del resto gli anglo-americani già incalzavano, e la Wehrmacht si apprestava a sloggiare. Le caserme furo­ no gradualmente evacuate, lasciandovi solo poche armi considerate inservibili. A quei residui attinse, nella notte dal 27 al 28 settembre, la popolazione, e il 28, mentre la ri­ tirata dei tedeschi era ancora in corso, esplose la guerriglia disordinata, improvvisata, ma insistente e spavalda. Non più di alcune centinaia di napoletani, tra essi molti scu­ gnizzi irridenti e spesso intrepidi, parteciparono per quat­ tro giorni alle azioni, e l'arrogante Scholl fu costretto per­ fino a firmare, nel suo Quartier generale, un accordo con gli insorti che consentiva il passaggio senza molestie di un suo reparto asserragliato al Vomero: in cambio dovette re­ stituire 47 prigionieri. La rilevanza militare degli episodi fu modesta, Kesselring avrebbe comunque lasciato la città; mai 66 morti di Napoli tra la popolazione civile dimostra­ rono che l'ex-alleato non poteva più contare né sulla neu­ tralità della gente, né sul suo aiuto. Gli italiani avevano cambiato campo. In circostanze analoghe a quelle di Napoli si sollevò Ma- tera (pagarono per tutti undici ostaggi, fatti saltare in aria insieme alla caserma in cui erano stati chiusi), e poi vi furo­ no Lanciano, Acerra, Rionero in Vulture, Santa Maria Ca- pua Vetere. Nella sua Storia della Resistenza italiana Roberto Battaglia ha prestato a questo punzecchiamento del tedesco in ritirata alti contenuti storico-sociali: non solo la collera contro l'occupante ma «un improvviso e quasi brusco risve­ glio ad un clima durissimo di combattimento e di sacrificio,

53 eppure già preannunciato e anticipato dagli episodi di ri­ volta contadina, anch'essi tutti da approfondire e da risco­ prire, verificatisi nelle stesse regioni durante l'ultima fase del regime fascista». La spiegazione del fenomeno è più semplice. Il tedesco era stato, sia pure nei pochi giorni di totale dominio, un padrone brutale, ed era anche un pa­ drone sconfìtto, che fuggiva. Il «guai ai vinti!» non è soltan­ to una regola non scritta ma perenne del codice guerresco, è anche un infallibile istinto di massa. E lo si constatò, in quelle occasioni, una volta di più. Al nord la ribellione si sviluppò in tutt'altro ambiente, e per altre motivazioni. Chi prese fin dall'inizio la via della montagna sperava sicuramente in un epilogo rapido della guerra. Se non il crollo immediato e totale del Reich nazi­ sta, almeno lo sgombero dell'Italia sembrava questione di giorni, al massimo di settimane. Ma i tedeschi erano presen­ ti, ancora forti, minacciosi e inferociti dal tradimento. Nei nuclei di resistenza che si andarono via via aggrumando è possibile rintracciare in una fase iniziale sia gli sbandati che, non avendo alternativa, divennero partigiani, sia uomini o ragazzi animosi che operarono una scelta consapevole. Non pensavano, né gli uni né gli altri, che la lotta sarebbe durata venti mesi: ma sapevano che lotta ci sarebbe stata. La storiografia di sinistra è stata tenacemente riduttiva nel valutare il rapporto tra lo sfascio dell'Esercito e la nasci­ ta delle formazioni partigiane. Per il Battaglia «solo in una regione dell'Italia del nord, nel Piemonte, troviamo un col­ legamento evidente tra la dissoluzione dell'esercito e l'inizio del movimento partigiano». In effetti un migliaio di sbanda­ ti della 4a armata, con un contingente cospicuo di ufficiali effettivi si radunò nella valle di Boves, nel Cuneese, subito dopo l'8 settembre, e lì organizzò una difesa che non potè reggere al primo vero scontro contro i tedeschi; i quali pro­ prio a Boves attuarono una delle loro prime e più infami rappresaglie, incendiando il paese, massacrando o brucian­ do vivi 24 abitanti (tra essi il parroco), stabilendo insomma,

54 una volta per tutte, che la legge dell'occupante era quella del terrore. La maggioranza dei «ribelli» si dissolse, dopo l'attacco: rimasero i migliori, come sempre avviene. Ma non si trattò solo del Piemonte. Di analoghe caratteristiche fu l'addensamento di militari in tutt'altra zona, sul massiccio abruzzese di Bosco Matese, a una trentina di chilometri da Teramo. Vi si organizzarono militarmente circa 1.600 uomi­ ni, tra i quali si contavano in buon numero prigionieri in­ glesi e slavi evasi dai campi di concentramento. Questa for­ mazione resistette brillantemente a un primo attacco tede­ sco, il 25 settembre, facendo decine di morti tra gli avversa­ ri (un maggiore della Wehrmacht fu catturato e fucilato sul posto, il che non torna ad onore di chi condannava, e giu­ stamente, le esecuzioni sommarie perpetrate dall'occupan­ te): ma si frantumò presto quando l'offensiva degli Alpenjà- ger si ripetè, con maggiori mezzi. Tuttavia anche in Abruzzo i resti di quella unità improvvisata diedero capi e gregari ai nuclei successivi. Ex militari - e in questo caso quasi tutti meridionali - erano i giovani che seguirono Pompeo Co- lajanni sul Bracco, militari e graduati degli alpini compose­ ro la banda di Sestrières in Val Chisone, militari erano quel­ li che s'erano asserragliati nella fortezza di San Martino so­ pra Varese, sbandati e militari i 300 che presero la via di Piz­ zo d'Erna, sulle montagne di Lecco (tra essi un centinaio di ex-prigionieri anglo-americani). Potrebbero essere citati al­ tri esempi. Ma bastano questi per dire che il filo tra la rotta dell'8 settembre e la nascita di focolai di rivolta fu molto più consistente di quanto si sia voluto far credere, per «politiciz­ zare» la guerriglia. Essa prese poi altre strade, perché cominciavano ad af- fermarvisi nuclei e capi animati da una ben definita ideolo­ gia, come il comunista Cino Moscatelli in Valsesia, o come la formazione Italia Libera di Duccio Galimberti a Madonna del Colletto, tra Valle Gesso e Valle Stura, o come gli uomini di Filippo Beltrami, cattolico (ma anche capitano dell'Eser­ cito, cosicché la sua «banda» aveva una spiccata impronta

55 militare tradizionale) in Val d'Ossola. In questo sorgere del­ la Resistenza, che era ancora di «bande» non coordinate e non organizzate (basta pensare che alla fine del 1943 i parti­ giani non raggiungevano il numero di quattromila in tutta Italia), si delineò subito una delle sue caratteristiche: la com­ petizione, più che la collaborazione, tra i vari gruppi ideolo­ gici. Gradualmente divennero minoritarie le formazioni «autonome» che, appellandosi soltanto alla lotta contro te­ deschi e fascisti, rifiutavano una etichetta di parte, e tende­ vano a ripetere nella guerriglia la disciplina e le gerarchie formali dell'Esercito. Divennero minoritarie perché prive di collegamenti con le strutture politiche clandestine che pro­ gressivamente si andavano consolidando nelle città, ma lo divennero anche perché quel tipo di mentalità non si adat­ tava alle esigenze della guerriglia: e infine perché tra questi autonomi vi erano ufficiali di fede monarchica i quali non tardarono a rendersi conto che la lotta partigiana era anti­ tedesca, antifascista, ma anche - e forse soprattutto - anti Regno del Sud. Si determinò così quello che è stato definito l'«attesismo» dei professionisti e degli specialisti: la convin­ zione cioè che non valesse la pena di sfidare il tedesco là do­ ve era forte, ma che convenisse presidiare e fortificare «san­ tuari» ben protetti. «E - ha scritto Battaglia - l'ideologia dei gruppi conser­ vatori trascinati loro malgrado nel fronte della lotta antifa­ scista.» Non loro malgrado: anzi alcuni con grande slancio ed eroismo. Ma per gli ufficiali di carriera fu difficile, a un certo punto, stare fianco a fianco con chi identificava l'Eser­ cito regolare con Badoglio, e Badoglio con il Re, e il Re con la rovina d'Italia. All'attesismo furono contrari i gruppi politicizzati, cia­ scuno con le sue peculiarità, proprio perché in loro esisteva già, in embrione, una visuale di potere. E questo vale so­ prattutto per i comunisti, alcuni dei quali - e tra i più auto­ revoli - avevano conosciuto la lotta clandestina, le sue esi­ genze, e le sue crudeltà. Nei comunisti lo scopo militare del-

56 la guerriglia - ossia il contributo alla sconfitta del tedesco - s'intrecciò indissolubilmente fin dall'inizio allo scopo politi­ co. Quando Luigi Longo spiegò, in uno scritto apparso in novembre su La nostra lotta, il perché del rifiuto all'attesi­ smo, scrisse: «Noi non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli anglo-americani. Il popolo ita­ liano potrà avere un suo governo, il governo al quale da tanto tempo aspira, un governo che faccia veramente i suoi interessi, un governo non legato alle cricche reazionarie, so­ lo se avrà lottato per la conquista della indipendenza e della libertà». Dove si vede come gli anglo-americani - lì Longo identificava senza ombra di dubbio le «cricche» - siano con­ siderati poco meno che nemici. I partigiani di «Italia libera», emanazione di «Giustizia e Libertà», interpretazione partigiana dell'azionismo, furono «puri e duri», una élite umana erede di una élite culturale, come dicono i nomi dei loro «padri storici» (Piero Gobetti, i fratelli Rosselli) e come dicono i nomi dei loro leaders politi­ ci (Parri, Lussu, Valiani, Mila, Bauer, Garosci). Duccio Ga­ limberti affermò in una lettera: «Siamo e in qualunque eve­ nienza resteremo un piccolo gruppo di italiani che mettono al disopra di tutto la fede in una Italia libera e unita, e la fe­ deltà a quei princìpi che il popolo francese ci ha insegnato ad apprezzare con una rivoluzione che l'Italia ha ancora da fare e che troppi hanno dimenticato». I cattolici, le «Fiamme verdi», forti soprattutto nel Bre­ sciano e nell'Udinese, si diedero una «legge del patriota» che insisteva sui contenuti morali a sfondo religioso, più che su quelli politici. «Il patriota è leale, combatte non per una avventura... Il patriota è onesto... Il patriota è nobile d'ani­ mo... Il patriota è sereno, fiducioso nell'aiuto di Dio che non è mai assente a chi si sacrifica per la giustizia... Il patriota è integro, è nobile anche con il nemico vinto e abbattuto...» La ribellione fu dunque un mosaico di «bande» di diversa ispirazione. Le divisioni non vennero mai veramente sana­ te. Qualche volta sfociarono in scontri, non mancarono de-

57 lazioni - od omissioni di soccorso d'una «banda» a danno di un'altra - in nome della ragione di partito. Nel territorio giuliano non bastò più neppure il mastice ideologico: la frattura nazionale ed etnica, e gli appetiti di conquista di Ti­ to, fecero sì che vi fosse ostilità tra partigiani comunisti ita­ liani e partigiani comunisti iugoslavi. Un comunista, Luigi Frausin, che già il 9 settembre si mosse da Muggia con una quarantina di operai del cantiere San Rocco per combattere la sua guerriglia, seppe presto in quale trappola si fosse cac­ ciato: da una parte c'erano i tedeschi, ma dall'altra c'erano gli sloveni, non meno spietati. E analoga sorte toccò alle for­ mazioni friulane. L'avvio della Resistenza fu ricco di episodi umanamente toccanti, ma povero di risultati. In questo periodo i tedeschi si preoccuparono molto poco delle «bande» anche se, quando esse si manifestavano, reagivano con prontezza a volte feroce. Il fenomeno partigiano era considerato uno strascico minore e non allarmante dell'8 settembre. In effetti le poche migliaia di «ribelli» non costituivano una forza militare, privi com'era­ no di un comando unificato, di direttive, di una strategia. I primi a dare un assetto organico alle loro formazioni furono, ed era logico, i comunisti, che già ai primi di novembre isti­ tuirono a Milano un Comando generale delle formazioni Ga­ ribaldi, con Longo, il veterano delle brigate internazionali in Spagna, comandante militare, e Pietro Secchia - un intratta­ bile fanatico - commissario politico. I comunisti disposero che tutte le loro organizzazioni cittadine mandassero in monta­ gna a combattere il 10 per cento dei quadri e il 15 per cento degli iscritti. Che siano stati obbediti, è dubbio: ma che abbia­ no potuto fornire un numero di partigiani superiore a quello di ogni altro schieramento ideologico, è certo. I Comitati di Liberazione Nazionale andavano intanto proliferando. Sia quello centrale, a Roma, sia quello dell'Al­ ta Italia, sia quelli regionali tennero molto più d'occhio, nel­ l'ultimo scorcio del '43, le prospettive e il futuro politico che non la possibilità di azione militare. I loro grandi dilemmi

58 erano: monarchia o repubblica? Badoglio sì o Badoglio no? Di fronte ad essi passava in secondo piano il problema della lotta ai tedeschi, anche perché quella lotta la stavano co­ munque facendo gli anglo-americani. Un altro elemento turbava il CLN, ossia le enunciazioni «socialiste», e gli appelli alla concordia della Repubblica di Salò (delle une e degli al­ tri parleremo più avanti). Qualcuno avvertiva insomma il rischio che il Mussolini dell'ultima versione riuscisse ad ac­ caparrarsi il ruolo repubblicano, derubandone i repubblica­ ni antifascisti. Per questo il CLN romano si risolse il 16 otto­ bre - contro il parere dei liberali, e nonostante le perples­ sità dei democristiani - ad approvare un documento secon­ do il quale «la guerra di liberazione - primo compito e ne­ cessità suprema della riscossa nazionale - richiede la realiz­ zazione d'una sincera e operante unità spirituale del paese che non può farsi sotto l'egida dell'attuale governo costitui­ to dal Re e da Badoglio». Perciò il CLN di Roma chiedeva la creazione d'un nuovo governo, e la promessa di «convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato». A questa impostazione aderì im­ mediatamente il CLN di Milano, che entrò ancor più nel con­ creto esigendo che i ministri, sebbene nominati dal Re, non giurassero nelle mani del Re, ma facessero «solenne pro­ messa di fronte al popolo italiano di condurre la guerra e di convocare subito dopo la Costituente». Quello che poi fu definito «il vento del nord», repubblicano e di sinistra, co­ minciava a soffiare: e, sia pure in termini cauti, gli ex-nemi­ ci erano costretti in qualche modo ad avallarlo. La Confe­ renza di Mosca, che riunì dal 18 al 30 ottobre i ministri de­ gli Esteri americano, inglese e sovietico, stabilì che «la politi­ ca alleata nei riguardi dell'Italia deve essere basata sul fon­ damentale principio che il fascismo, tutta la sua perniciosa influenza e tutto ciò che da essa deriva dev'essere totalmen­ te distrutto e che al popolo italiano deve essere data ogni possibilità di stabilire le sue istituzioni di governo... sulla ba­ se dei princìpi democratici».

59 L'autunno trascorse senza che la Resistenza impensieris­ se tedeschi e fascisti: il 27 ottobre Mussolini affermò che «l'ordine pubblico è da considerarsi avviato alla normalità» e l'affermazione, riconosce il Battaglia, pur enfaticamente laudativo della Resistenza, «non è tutta retorica». Nei CLN che si andavano via via formando sorgevano dispute per l'assegnazione degli incarichi, e per la vera o presunta inca­ pacità di comandanti «professionali». Il più significativo di questi contrasti fu determinato dalla nomina del generale Piero Operti a comandante del CLN piemontese. I comunisti asserirono che lo si era voluto solo perché aveva in suo pos­ sesso parte dei fondi della disciolta 4a armata, con i quali si sarebbe potuto mantenere per 10 mesi 20 mila partigiani. L'Operti fu poi accusato di essere non solo un temporeggia­ tore ma anche un potenziale collaboratore dei fascisti, e su proposta di Celeste Negarville, alto esponente del PCI, lo si rimosse. A fine anno ( 1943) - anticipiamo alcuni fatti, per chiarez­ za - furono definiti i poteri del CLN dell'Alta Italia o CLNAI. Il CLN romano, che sperava in una imminente liberazione di Roma, delegò al CLNAI le funzioni di «governo straordi­ nario del nord». Il CLNAI si affrettò ad annunciare che «non vi sarà posto domani da noi per un regime di reazione ma­ scherato e neppure per una democrazia zoppa» e che «di fronte all'affermarsi di proposte anticomuniste, e al deli­ nearsi di posizioni anticomuniste e antioperaie» veniva riba­ dito «il patto di riscossa che lega i cinque partiti» (comuni­ sta, socialista, democristiano, Partito d'azione, liberale, nel CLNAI non figurarono i demolaburisti). «Rivolgiamo questa diffida - concludeva il documento nel quale non era diffici­ le riconoscere una prevalente ispirazione comunista - a cer­ ti ambienti industriali e finanziari.» Gli avvenimenti più importanti di questo primo autunno della Resistenza furono estranei alla lotta armata, ma ebbe­ ro con essa una stretta connessione. Venne anzitutto realiz­ zato un legame, ancora embrionale, tra i comandi dei «ri-

60 belli» e gli alleati anglo-americani. Il contatto fu stabilito da Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti del Partito d'a­ zione, che passò il confine con la Svizzera, e là s'incontrò con una missione alleata della quale faceva parte Alien Dul- les, capo dei servizi segreti americani e fratello del futuro segretario di Stato. Parri - il Parri di allora - era particolarmente qualificato per questo approccio. Valoroso ufficiale di Stato Maggiore e più volte decorato nella prima guerra mondiale, antifascista da sempre, era stato nell'ufficio studi della Edison, e gli si attribuiva dunque una conoscenza di certo ambiente bor­ ghese e industriale lombardo. Del suo coraggio non si pote­ va dubitare, e della sua buona fede nemmeno. I suoi ideali politici, nel Partito d'azione, erano rigorosi - e nettamente repubblicani - ma non di estrema sinistra. Già all'indomani della formazione del CLN romano, Nenni aveva offerto per telefono a Parri il comando delle forze «ribelli» nel nord, ma la risposta era stata negativa. Si era al 10 settembre, e il quadro era troppo confuso, aveva pensato, ragionevolmen­ te, Parri. Egli aveva tuttavia maturato l'idea di un esercito popolare - che ricalcava quella affacciata dai comunisti con il sottinteso che in quell'esercito popolare essi sarebbero sta­ ti la forza egemone - e per alimentarlo chiese agli anglo­ americani lanci consistenti di rifornimenti, armi, mezzi. Erano progetti che, per il momento, andavano al di là delle intenzioni degli Alleati, e forse Alien Dulles, accanito antico­ munista, vi scorse proprio l'insidia di quella predominanza di sinistra che poi si verificò. L'incontro «molto cordiale» si chiuse senza risultati concreti, ma era avvenuto, e questo aveva portato alla ribalta appunto Parri. Il secondo avvenimento fu la decisione nazista e fascista, presa a metà ottobre, di chiamare alle armi alcune classi, e di mobilitare gli uomini validi per il lavoro obbligatorio. Proprio Parri disse, rievocando al Teatro Eliseo di Roma, il 13 maggio 1945, le fasi della guerra partigiana: «Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col ri-

61 chiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l'afflus­ so di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità». Si ebbero così altri uomini sia per la lotta in montagna, sia per la composizione dei GAP, quei Gruppi di azione patriottica che, mentre languiva an­ cora la guerriglia sulle montagne, compivano nei centri abi­ tati attentati e sabotaggi. La loro tecnica «terroristica» era stata largamente mutuata da esperienze straniere, soprat­ tutto da quella del «maquis» francese. Terzo avvenimento fu lo sciopero generale che fermò molte industrie, a cominciare dalla Fiat, a metà novembre, e che infranse il sogno mussoliniano di riconciliarsi con la classe operaia. Della leva fascista - per la costituzione di un esercito di Salò - e degli scioperi parleremo più avanti. Sia la leva, con i suoi risultati deludenti, sia la rivolta operaia, confermarono che la frattura tra il fascismo e le masse era, anche nel nord, insanabile. La consapevolezza che la guerra fosse, per i tedeschi, perduta, e che il suo epilogo non do­ vesse tardare molto, era diffusa in ogni ambiente e in ogni settore sociale. CAPITOLO QUARTO

IL RITORNO DEL CONTE

Il 19 ottobre 1943 il conte Carlo Sforza, ministro degli Este­ ri di Giolitti e collare dell'Annunziata, il che ne faceva un cugino del Re, tornò in Italia dopo lunghi anni di esilio. Prese alloggio, a Bari nella casa cittadina dell'editore Later­ za. Fu, il suo, un rientro politico che rese ancor più difficili le trattative attraverso le quali Badoglio tentava di formare un governo in qualche modo rappresentativo, per dare sod­ disfazione all'opinione pubblica italiana, e agli Alleati: tra i quali dovevano essere inclusi anche i sovietici che, pur non partecipando in alcun modo alla campagna d'Italia, esige­ vano voce in capitolo, ed erano membri di diritto della Commissione consultiva cui spettava di sovrintendere alla amministrazione degli occupanti. Al governo di Brindisi, che continuava ad essere una sorta di residuato del governo dei 45 giorni, si contrapponeva in qualche modo un Fronte nazionale d'azione, costituito a Bari da liberali, democristia­ ni, socialisti, comunisti e azionisti, che aveva il suo uomo più dinamico in un brillante magistrato trentenne, Michele Ci- farelli del Partito d'azione. Questi era di accesi sentimenti repubblicani, e non perdeva occasione per manifestarli: tan­ to che, avendolo gli Alleati posto a capo di Radio Bari, gli intimarono poco dopo di lasciare l'incarico perché la sua politica personale contrastava con quella che inglesi e ame­ ricani perseguivano. Dagli Alleati, e in particolare dagli inglesi, realisti e spic­ ciativi, Sforza era visto più come un procacciatore di guai che come un messaggero di libertà. Alla Camera dei Comu­ ni, Churchill aveva dichiarato, il 21 settembre, che il suo ar-

63 rivo in Italia non sarebbe stato vantaggioso «nelle condizio­ ni di estremo e tumultuoso disordine nel quale l'Italia si tro­ va». Per placare le apprensioni, il conte aveva poi inviato al sottosegretario americano agli Esteri Berle una lettera nella quale scriveva che «finché Badoglio è impegnato in questa lotta (contro i tedeschi, N.d.A.) ed è gradito agli Alleati che dedichi ad essa le risorse materiali e militari italiane, io con­ sidero criminale fare qualsiasi cosa per indebolire la sua po­ sizione ed ostacolare la sua opera nel combattimento per la liberazione dell'Italia e del popolo italiano... Sono pronto ad offrire il mio pieno appoggio finché egli è così impegna­ to». Gli inglesi, che alla sopravvivenza del binomio Vittorio Emanuele Ili-Badoglio tenevano moltissimo, se ne sentiro­ no rassicurati, e MacFarlane trasmise copia della dichiara­ zione di Sforza al maresciallo. Ansioso di ottenere il lasciapassare per l'Italia, il conte aveva un po' barato, e gli Alleati non avevano dal canto loro prestato molta attenzione ad altre sue dichiarazioni, prece­ denti la partenza. Intervistato dal New York Times, non aveva esitato a dire che l'appello perché gli italiani si raccogliesse- ro attorno al Re equivaleva a quello di «un predicatore in favore degli Stuart che fosse andato in mezzo agli arrabbiati soldati di Cromwell» e che «i dirigenti della politica europea hanno troppo spesso giuocato sul cavallo perdente». Lungo l'itinerario verso l'Italia - via Algeri - Sforza aveva visto, a Londra, Churchill, e il colloquio era stato tempestoso. «Gli ho detto chiaramente - riferì poi il primo ministro inglese - che ora andava nella zona di Ike, il quale avrebbe respinto tutto ciò che non risultasse utile alla sua azione. Egli mi trattò da vecchio pazzo e buffone, incapace di fronteggiare la tempesta se mi lasciavano le redini.» A Bari, l'altero conte che veniva da un'America lasciata intatta dalla guerra e da una Londra semidistrutta e austera, ma orgogliosa della vit­ toria ormai sicura, ebbe un'immediata visione dello squalli­ do sfacelo italiano. I marinai italiani erano associati a quelli di colore, nel porto, per i lavori più faticosi di carico e scari-

64 co delle navi, reparti militari che sembravano piuttosto gruppi di sbandati traversavano la città, monelli e mendi­ canti si assiepavano attorno agli alberghi requisiti e agli al­ loggiamenti anglo-americani, mancavano i viveri e infuria­ va il mercato nero. Da Capri - dove l'avevano portato di peso i paracadutisti inglesi, per sottrarlo ad eventuali rappresaglie tedesche - Benedetto Croce fece pervenire a Sforza, tramite il genero Craveri, una lettera calorosa, nella quale l'esortava a non prendere impegni senza essersi consultato con gli esponen­ ti politici napoletani. Qualche giorno prima, interpellato da Piccardi, Croce aveva così riassunto la situazione: «1) Mi par necessario formare un ministero politico; 2) credo che, es­ sendo ora solo urgente problema la guerra contro i tede­ schi, non convenga in alcun modo togliere dal suo posto il Badoglio che, sia per la sua capacità militare, sia per l'impe­ gno che ha preso in questa città contro il fascismo e contro i tedeschi, è l'uomo più di ogni altro adatto; 3) bisogna ac­ cantonare la questione istituzionale la quale sarà risoluta dal corso degli eventi, e soltanto cercare che il Badoglio consigli al Re, al suo ritorno a Roma, di abdicare in favore del fi­ glio». Ma il responso oracolare di Croce, con la sua disponi­ bilità compromissoria, non rispecchiava il pensiero di tutto l'ambiente antifascista, e l'azionista Alberto Tarchiani si af­ frettò a mettere i puntini sugl'i affermando che ogni parte­ cipazione dei politici di Napoli al governo «era subordinata non solo all'abdicazione del Re, ma anche alla rinuncia del Principe di Piemonte e all'assunzione al trono del Principe di Napoli assistito da un Consiglio di Reggenza». Piccardi aveva portato queste brutte notizie a Badoglio che tuttavia «non si scompose perché in guerra è la battaglia finale quel­ la che conta ed egli... aveva in riserva il conte Sforza». In casa Laterza, dove già s'erano recati a rendergli omag­ gio, e a esprimergli i loro sentimenti antimonarchici, i rap­ presentanti del Fronte nazionale di Bari, Sforza ricevette Acquarone, che gli offrì subito, a nome del Re, la vice-presi-

65 denza del Consiglio e gli Esteri, e che lo invitò a un collo­ quio con Badoglio, a Brindisi. Del comportamento del duca Acquarone, Sforza parlò poi con un certo disprezzo, asse­ rendo che poco mancava gli baciasse le mani. Con Badoglio le cose andarono meglio, almeno sul pia­ no umano. Il maresciallo contenne entro limiti decenti le sue profferte di collaborazione a Sforza, il cui aiuto gli sa­ rebbe stato di immensa utilità; e il conte rispettava Badoglio anche in memoria «della collaborazione prestatami per la conclusione della pace di Rapallo... un ricordo grato e tale da farmi dimenticare posteriori frasi pro-fasciste che non corrispondevano, lo sapevo, al pensiero di chi scrisse». Ma sul piano politico l'incontro fu un fiasco. Sforza non volle accettare nulla di ciò che gli veniva offerto, e spiegò poi i motivi della decisione nella sua prosa ornata, e venata di in­ guaribile egocentrismo: «Poiché egli (Badoglio) conosceva le mie idee non deve stupirsi del mio rifiuto: rifiuto impo­ stomi, oltre che da ragioni morali, dal fatto che avrei perso ogni modo di servire utilmente l'Italia accettando di colla­ borare con un Sovrano che avevo denunciato al mondo co­ me supremo colpevole, perché più intelligente di Mussoli­ ni, dei disastri italiani. Ma aggiunsi che sarei stato molto lie­ to di servire l'Italia con lui anche nei ranghi più modesti (missioni all'estero ecc.) se ciò fosse utile alla lotta contro la Germania». Acidamente, Puntoni annotò: «Badoglio e Sforza non hanno parlato della questione istituzionale e Badoglio del resto si è ben guardato dall'accennare alla sua solidarietà con il Re». Sforza aveva un preciso disegno a medio o lungo termine: Badoglio alla Reggenza, con il piccolo Principe di Napoli sul trono, e lui alla presidenza del Consiglio. Non è detto che questo spiacesse a Badoglio, tutt'altro, anche se dal comportamento del maresciallo non emerse alcuna vo­ lontà cospirativa. Semplicemente, egli era in contatto con la realtà, e Vittorio Emanuele III quel contatto l'aveva quasi del tutto perduto. Una sua lettera personale a MacFarlane,

66 che prometteva: a) formazione di un nuovo ministero più rappresentativo a Roma liberata (il che sembrava imminen­ te e non era), b) elezioni politiche entro quattro mesi dalla pace, e c) l'assenso della Corona a ogni espressione della vo­ lontà del paese, rappresentava un estremo sforzo per evita­ re quel passo cui i monarchici più illuminati e ovviamente tutti gli antimonarchici lo spingevano: l'abdicazione. Proprio per indurre il Re a capire cosa stesse avvenendo attorno a lui, Badoglio gli inviò, il 24 ottobre, una lettera ri­ servata, nella quale spiegava anzitutto che i maggiori partiti - liberale, democristiano, azionista, socialista, comunista - erano in sostanza d'accordo per chiedere l'abdicazione, la rinuncia di Umberto, e la corona per il nipote, con una Reg­ genza. Accennava poi alla eventualità che i partiti attuassero il proposito, già manifestato, di «creare senz'altro un gover­ no ed una Costituente non appena liberata Roma dai tede­ schi, e prima che Vostra Maestà col governo possa giunger­ vi». Aggiungeva Badoglio, «per non tacere nulla a Vostra Maestà», che «è loro intenzione (dei partiti), e me lo ha con­ fermato il conte Sforza, che sia io ad assumere la carica di Reggente». Dopo questa scoraggiante premessa, Badoglio si poneva la domanda fondamentale: cosa fare? Non si poteva ricorre­ re agli anglo-americani, perché sarebbe fioccata immediata­ mente l'accusa d'aver chiesto l'aiuto straniero; nemmeno si poteva affidarsi alle forze monarchiche. In definitiva il ma­ resciallo suggerì che un funzionario raggiungesse Roma at­ traverso le linee portando ai dirigenti dei partiti queste pro­ poste: 1) che non facessero nulla fino a quando il governo Badoglio si fosse insediato a Roma; 2) non appena ci si fosse trovato, Badoglio avrebbe consultato le forze politiche per la formazione di un nuovo governo; 3) se i partiti non aves­ sero voluto collaborare con lui, Badoglio si sarebbe dimes­ so; 4) il Re avrebbe adottato a quel punto le decisioni che ri­ tenesse più opportune. La lettera, devota nel tono ma amara nella sostanza, fu

67 per il Re una frustata. Probabilmente il pessimismo del ma­ resciallo gli parve strumentale. Per rafforzarsi in questa opi­ nione convocò quello stesso 24 ottobre i capi militari - Am­ brosio, Roatta, Sandalli, De Courten - e chiese se potesse contare sulla loro fedeltà e su quella delle Forze Armate. Tutti risposero affermativamente, anche se Roatta, il più in­ trigante ma anche il più intelligente, avanzò qualche riser­ va. Quanto alle truppe, le loro assicurazioni erano poco più che platoniche. Il raggruppamento motorizzato del genera­ le Dapino, l'unica unità che fosse pronta all'impiego, si pre­ sentava dignitosamente ma «l'armamento di cui le truppe dispongono è misero e raffazzonato» (Puntoni). Degli altri reparti meglio non parlare. «Sua Maestà - citiamo ancora da Puntoni - incontra un'aliquota del 930 reggimento fan­ teria in ricostituzione... Purtroppo assistiamo a uno spetta­ colo pietoso: gli uomini sono in completo abbandono, han­ no le uniformi lacere e ignorano assolutamente la discipli­ na. Più che un reparto organico, sembra una banda armata, e per di più armata male.» Confortato, tuttavia, dalle garanzie dei generali, Vittorio Emanuele III sguinzagliò a Bari e Napoli il solito Acquaro­ ne, nella speranza che ne tornasse con buone notizie. Tra l'altro era autorizzato a offrire a Sforza non più una vice-presidenza, ma la presidenza del Consiglio, e a contat­ tare De Nicola, Rodino e Porzio distribuendo loro incarichi ministeriali. Le buone notizie in effetti Acquarone le diede («sul principio Sforza era duro e arrogante, poi ha dimo­ strato una sufficiente comprensione»), ma sembra fossero frutto esclusivo del suo ottimismo. Badoglio, precipitatosi a sua volta a Napoli, dove ormai si era spostato il centro di gravità politico del Regno del Sud, ebbe da Sforza un nuo­ vo diniego: non sarebbe entrato nel governo se il Re non se ne andava. Tentato di prestar fede ad Acquarone, ma allarmato dal­ le buie diagnosi di Badoglio, il Re decise di procedere, a Na­ poli, a una verifica personale, tastando il polso ai notabili

68 dai quali dipendevano gli sviluppi politici. Il maresciallo tentò di dissuaderlo, senza riuscirvi. Con un ufficiale ameri­ cano, il colonnello Monfort, alle costole, il 3 novembre Vit­ torio Emanuele III si installò a Villa Maria Pia di Posillipo (o Villa Rosebery), che era stata teatro degli amori di Nel­ son e Lady Hamilton. L'automobile del Re aveva percorso una città che a Puntoni parve «un formicaio d'uomini im­ pazziti e di donne sfaccendate». Il Re s'incontrò con De Ni­ cola, Rodino e Porzio: De Nicola e Porzio, esponenti di una linea liberale, erano ben disposti verso la Monarchia, ma sa­ pevano quale ostacolo la persona di Vittorio Emanuele III rappresentasse per ogni soluzione. Rodino, che parlava a nome della Democrazia cristiana, fu cortese, ma ancora più freddo. Con Sforza il Re rinunciò a parlare dopo aver sapu­ to che aveva ribadito la sua intransigenza: «Io accetto l'inca­ rico del Re, ma pongo una sola condizione: che il giorno do­ po aver firmato la nomina di tutti i ministri che sarà presto fatta perché la scelta è piccolissima, lui abdichi. E mio inten­ dimento istituire la Reggenza. Non accetterei di diventare Reggente, il mio appoggio essendo per Badoglio che è stol­ tamente avversato dai circoli di Corte». Da Napoli, Vittorio Emanuele III rientrò a Brindisi a mani vuote, proferendo le solite accuse contro Badoglio che «anziché migliorare la situazione l'ha peggiorata», dopo aver subito un mezzo affronto che Puntoni ha così descritto: «Durante le udienze succede un fatto spiacevole. Il generale Smith, Capo di Stato Maggiore di Eisenhower, arriva a Villa Maria Pia e pretende di entrare nonostante gli dicano che nella villa c'è il Sovrano. Smith non sente ragioni, vuol pas­ sare e fa l'atto di gettare da parte un guardiano. Mi oppon­ go alzando la voce e spalleggiato da De Buzzaccarini mi metto sulla porta. Interviene d'urgenza il colonnello Monfort il quale, spaventato per la mia decisione, spiega al generale Smith che è inutile cercare di forzare una conse­ gna. Alla fine Smith capisce e se ne va mugugnando qualco­ sa che non riesco ad afferrare». Ci furono a Napoli degli ap-

69 plausi per Vittorio Emanuele III, ma quel suo tentativo di risolvere personalmente la situazione si rivelò fallimentare. Al ritorno a Brindisi trovò un'altra grossa grana. Gli Alleati non erano più disposti a tollerare che le massime cariche militari rimanessero affidate a uomini come Ambrosio e Roatta, che ritenevano - soprattutto il secondo, ex capo del Servizio informazioni - troppo implicati nella gestione fasci­ sta della guerra. Il rimpasto militare fu agevolato dal ritor­ no del maresciallo Messe, che gli Alleati avevano liberato dalla prigionia (con l'occasione furono rimpatriati anche Durand de La Penne e altri protagonisti dell'impresa di Alessandria) e per il quale professavano stima. Messe prese il posto di Ambrosio come Capo di Stato Maggiore genera­ le, Berardi - un altro reduce dalla prigionia - quello di Roatta come Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Ad Am­ brosio fu dato il contentino della carica di ispettore genera­ le di un esercito che in definitiva non c'era. Restava lo scoglio del governo. Anche qui la fantasia ita­ liana nell'escogitare formule inedite si dimostrò fervida. Poiché i politici di rango non volevano accettare, e per di più nessuno aveva destituito i ministri abbandonati a Roma dai fuggiaschi di Pescara, fu deciso che quei ministri sareb­ bero rimasti teoricamente in carica, e che di conseguenza si formasse un ministero di soli sottosegretari, abilitati tutta­ via, con appositi provvedimenti, ad agire come ministri. La formula fu varata dal Re e da Badoglio ITI novembre quan­ do Vittorio Emanuele III compiva 73 anni («Alla mensa del Governo - scrisse Puntoni - Acquarone ha fatto portare lo spumante ma nessuno, nemmeno il Capo del governo, ha sentito il dovere di brindare alla salute di Sua Maestà. L'ho fatto io, allora, guardando in faccia tutti ma soprattutto Ba­ doglio che sembrava seccato e imbarazzato»). I sottosegreta­ ri erano dei tecnici, quasi nessuno noto, tranne il professor Epicarmo Corbino, economista di valore, che a un certo punto voleva declinare l'incarico e ci ripensò dopo le sup­ pliche di Badoglio. Il sottosegretario alla Giustizia, Giusep-

70 pe De Santis, procuratore generale a Bari, aveva presieduto anni prima una commissione per l'invio al confino di antifa­ scisti, e il caso volle che s'incontrasse, uscendo dall'ufficio di Badoglio, con Dino Philipson, una delle sue «vittime». Phili- pson ruppe il gelo che s'era creato con una risata, e il mare­ sciallo evitò un altro «caso» spinoso. I sottosegretari, nella loro prima riunione del 24 novem­ bre, tolsero finalmente dalle formule ufficiali il riferimento al Regno d'Albania e all'Impero d'Etiopia, e quindi avviaro­ no la defascistizzazione istituzionale dello Stato, e l'epura­ zione. Tutti i «fascisti responsabili della soppressione delle libertà politiche ed individuali» furono dichiarati indegni di esercitare i diritti politici, fu decisa la revisione dell'intera legislazione del ventennio «per uniformarla ai princìpi ispi­ ratori della gloriosa tradizione giuridica italiana», revisione «già iniziata con l'abolizione della pena di morte, delle leggi razziali e delle disposizioni che limitano il diritto di fami­ glia». Fu ancora deliberato: «Di assicurare alla giustizia mili­ tare i responsabili di codardia di fronte al nemico, i fascisti che hanno impugnato armi fratricide, commesso violenza contro persone o cose o comunque collaborato con truppe ed autorità tedesche dopo la dichiarazione di armistizio»; di annullare nomine e promozioni dovute a meriti fascisti; di eliminare da tutte le amministrazioni i fascisti riconosciuti colpevoli di attentati alla libertà individuale; di riammettere nelle stesse amministrazioni i licenziati o congedati per mo­ tivi politici. II Regno del Sud vivacchiava così con un semigoverno di vice-ministri: e, benché disponesse di due marescialli e di molti generali, non aveva in effetti un Esercito degno di questo nome, i cui soldati non venissero addetti ad umilian­ ti e faticosi lavori di retrovia. Ne avevano impedito la resur­ rezione sia le diffidenze alleate - soprattutto inglesi - sia lo scarso slancio del Re e di Badoglio, sia la stanchezza mate­ riale e morale della popolazione, delusa okretutto dai lenti progressi delle offensive anglo-americane, bloccate infine

71 sulla linea Gustav a Cassino, cosicché la conquista di Roma, che pareva a portata di mano, si allontanò indefinitamente. A fine novembre Eisenhower era venuto in Italia a visita­ re Alexander nel suo Quartier generale di Santo Spirito presso Bari (la stessa Bari fu sottoposta dai tedeschi, forse proprio per questo, a un duro bombardamento che fece vit­ time, distrusse o danneggiò molti edifici, e affondò alcune navi nel porto). Badoglio profittò dell'occasione per riincon­ trare, accompagnato da Messe e dal generale Sandalli, il Co­ mandante supremo alleato. Chiese più armi, mezzi di tra­ sporto, equipaggiamento per i reparti che si tentava di orga­ nizzare, e fu ascoltato in silenzio da Ike, mentre Alexander opponeva a questa perorazione obbiezioni cortesi e gelide. Risultato zero. Le Forze Armate italiane furono rappresen­ tate, nelle successive battaglie, da quell'unico raggruppa­ mento motorizzato che agli ordini del generale Dapino, pro­ veniente dagli alpini, finalmente stava per entrare in linea. La nascita di questo reparto - meno di cinquemila uomi­ ni - era stata travagliata. Lo scudo sabaudo sulla manica e l'immutato giuramento di fedeltà al Re avevano irritato i partiti antifascisti, che vedevano in tutto questo un meschi­ no espediente propagandistico della Monarchia. Il soldo misero - soprattutto in raffronto con quello degli Alleati - non era fatto per galvanizzare la truppa, il clima generale di sfacelo influenzava, in senso negativo, dei giovani designati al combattimento e al sacrificio. Tuttavia il raggruppamento resse, e, dopo una esercitazione positiva il 25 e 26 novem­ bre, fu mandato alla prova del fuoco l'8 dicembre. Era stato aggregato ad una divisione americana, ed aveva per obbiet­ tivo Monte Lungo, posizione determinante per l'avanzata verso Cassino che la 5a armata si apprestava a lanciare. L'attacco italiano fu scatenato, ha scritto Agostino Degli Espinosa, «con la sicurezza che Monte Maggiore a sud-ovest di Monte Lungo fosse già in mano americana e che Monte Sammucro e San Pietro, a nord-est, venissero contempora­ neamente attaccati dagli americani stessi». In realtà «gli

72 americani avevano occupato la cima di Monte Maggiore ma i fianchi erano ancora nelle mani dei tedeschi... in tal modo le fanterie italiane, trovatesi sotto un intensissimo fuoco im­ previsto, dopo aver subito gravi perdite dovettero ripiegare sulle posizioni di partenza, su queste resistettero con sforzo estenuante a un contrattacco tedesco... Il 16 dicembre, nel quadro di un'azione generale meglio organizzata, il rag­ gruppamento conquistò e tenne l'obbiettivo fallito la prima volta». La prova non era stata fortunata, e le perdite ingen­ ti (Umberto di Savoia, dopo aver lamentato la sproporzione tra i compiti assegnati al raggruppamento e le sue forze, le valutò in 400 caduti): e il 22 dicembre il generale Dapino dovette chiedere il ritiro dell'unità, stremata, dal fronte. Ma ufficiali e soldati si erano battuti bene. Al di là degli elogi ufficiali - il generale americano Clark telegrafò a Badoglio che «la ferrea volontà dei soldati italia­ ni... può ben essere presa ad esempio da tutti i popoli euro­ pei che combattono l'oppressione tedesca» - vi furono rico­ noscimenti non di maniera. Il Times scrisse che le truppe ita­ liane «hanno sofferto perdite pesanti, una circostanza che è stata messa a carico della inabilità nelle prime fasi dell'attac­ co. Fu tuttavia una prode inabilità». Del resto, se l'attacco del raggruppamento era stato in complesso sterile, l'intera offensiva della 5a armata americana e della 8a britannica sta­ gnava, bloccata dalla esperta tenacia di Kesselring. A questo stallo, almeno per qualche settimana, sembravano del resto rassegnati gli stessi Alleati che, avendo ormai lo sguardo in­ tento al grande sbarco in Francia, relegavano il fronte italia­ no in second'ordine. Se ne andavano i comandanti più pre­ stigiosi, Eisenhower che assumeva le sue nuove funzioni di organizzatore del colpo di maglio decisivo alla fortezza Eu­ ropa, e Montgomery che sarebbe stato il suo secondo. Mai- tland Wilson assumeva il comando del settore Mediterra­ neo, in sostituzione di Eisenhower, e Alexander quello delle forze alleate in Italia.

73 Il «governo dei sottosegretari», che aveva consentito a Ba­ doglio di tirare avanti alla meglio, ebbe pessima accoglienza da parte della stampa e degli ambienti politici. I più bene­ voli lo definirono «un espediente». Sforza continuava a tuo­ nare, accusando Badoglio di avere «mandato in linea quat­ tromila uomini mentre nel Mezzogiorno vi sono molte mi­ gliaia di uomini, sbandatisi dopo l'8 settembre, che potreb­ bero diventare quasi un esercito», ma i generali e colonnel­ li del Re che avrebbero dovuto comandarli non davano affi­ damento (il conte si faceva illusioni sulla disponibilità di sol­ dati che avevano vissuto i giorni del «tutti a casa»). Croce non tuonava, ma i suoi inviti, apparentemente pacati, alla abdicazione di Vittorio Emanuele III (accennò tra l'altro al­ la eventualità di dare la Reggenza a Maria José, «la sola che si sia tenuta da più anni in relazione con gli antifascisti, e con me addirittura dal 1931») erodevano irreparabilmente il poco credito della Monarchia. Il filosofo negò che per la rinuncia di Vittorio Emanuele III si dovesse aspettare un referendum: «L'abdicazione - dichiarò a Radio Napoli il 14 dicembre - doveva sorgere, ed era aspettata da più mesi, spontanea nella coscienza del Re, per effetto della sua sen­ sibilità morale, ed essere attuata senza attesa di altrui giudi­ zio.» L'Italia liberata si avviò così, in una atmosfera di preca­ rietà politica, di umiliante vassallaggio, di disordine, mise­ ria e fame, alla fine di quel 1943. Con arroganza di occu­ panti e di vincitori - di tutti gli occupanti e di tutti i vincito­ ri - gli anglo-americani avevano proceduto a requisizioni massicce di alloggi, cosicché «possedere una stanza da ba­ gno passabilmente attrezzata era un pericolo». I soldati al­ leati erano i ricchi del momento, e gli italiani i poveri. «A Bari - ricordava Degli Espinosa - nei caffè di corso Vittorio, militari delle Nazioni Unite bevevano e mangiavano a grup­ pi, mentre tutto attorno parecchi bambini si stringevano in cerchio, posando gli occhi brillanti di cupidigia sui piatti di dolci. A volte, con mossa repentina, un bambino si scagliava

74 su uno di questi piatti, e fuggiva inseguito dal militare deru­ bato. In previsione di questi furti i camerieri facevano paga­ re le consumazioni all'atto della consegna... A volte nelle piazze soldati inglesi dritti su camion fermi buttavano gal­ lette e biscotti a folle di bambini e di donne, e ridevano del­ le zuffe che esplodevano ai loro piedi. Gli uomini occupati nei magazzini alleati raccontavano della feroce sorveglianza esercitata dai soldati negri armati di lunghe fruste.» Era l'Italia degli sciuscià (i lustrascarpe il cui nomignolo derivò, è noto, dalle parole inglesi shoe-shine), delle strade off-limits, vietate ai militari alleati perché vi si trovavano i bordelli, dei furti endemici ai rifornimenti - con la compli­ cità della stessa truppa alleata, a Napoli si calcolava che un terzo delle merci sbarcate prendesse il volo - degli interven­ ti di MP, gli uomini della Military Polke, per ridurre alla ra­ gione, con manganellate distribuite imparzialmente, gli ubriachi. Incentivata dalla povertà, la prostituzione dilaga­ va, nelle forme più sfrontate ed indecorose. I sottosegretari di Brindisi tentavano di istituire una parvenza di autorità, ma dovevano rispondere alla convocazione di un qualsiasi capitano inglese in vena di autoritarismo. I sottosegreta­ ri-ministri avevano gran difficoltà a trovare locali per gli uf­ fici, e automezzi per muoversi: tanto più che - analogamen­ te a quanto era avvenuto nel nord per la repubblica musso- liniana - i dicasteri erano disseminati in varie città, la Mari­ na a Taranto, la Guerra e gli Interni a Lecce, l'Economia, le Ferrovie, le Poste, la Giustizia, i Lavori Pubblici, l'Aeronau­ tica a Bari. A Bari era anche l'ufficio stampa del governo, dove lavoravano, tra gli altri il poeta Diego Calcagno, Ga­ briele Baldini, Alba de Cespedes, Antonietta Drago. Lo diri­ geva Filippo Naldi, tornato da un esilio ventennale in Fran­ cia, poi accusato del tutto infondatamente dagli azionisti di essere stato coinvolto nel delitto Matteotti, e costretto alle dimissioni. Con prosa tipica del tempo LItalia del Popolo, or­ gano appunto del Partito d'azione, aveva insinuato che Nal­ di, commissario delle informazioni, volesse rinverdire le

75 pratiche del «non dimenticato corruttore di Dronero (Gio- litti)» o addirittura del «funesto burattinaio di Predappio». Naldi, cui spettava anche il compito di dare l'imprimatur ai quotidiani, lesse in anticipo l'attacco, e lo approvò senza bat­ ter ciglio, congratulandosi anzi con il direttore dell'Italia del Popolo, avvocato Pastina, «per il suo giornale che leggo sem­ pre con grande profitto». Gli anglo-americani proseguivano la loro lenta campa­ gna d'Italia, e il 22 gennaio azzardarono quello sbarco di Anzio che nelle intenzioni di Churchill avrebbe dovuto esse­ re un «gatto selvatico» pronto a graffiare e mordere nelle retrovie tedesche. Il gatto si rivelò piuttosto domestico, il 6° corpo d'armata americano fu costretto in un perimetro an­ gusto e la linea Gustav di Kesselring, incernierata su Cassi­ no, non cedette. L'Alto comando badogliano aveva trasmes­ so al colonnello Montezemolo della resistenza romana, subi­ to dopo l'annuncio dello sbarco, l'ordine di «lottare con ogni mezzo possibile e con tutte le forze», trascurando la po­ litica fino a quando la Città eterna fosse stata liberata. Ma quell'ora si rivelava assai più lontana di quanto quest'Alto comando piuttosto disinformato riuscisse a pronosticare. Mancando sempre al Regno la sua capitale naturale, si pensava almeno di trasferire la capitale provvisoria da Brin­ disi ad una città che attestasse l'allargamento della giurisdi­ zione badogliana, in effetti limitata, fino a quel momento, alle quattro province della Puglia. Ma il problema non era solo logistico o amministrativo: era di politica internaziona­ le. I territori che via via si andavano aggiungendo al Regno erano liberati o occupati? E il Regno era sempre ex-nemico, o cobelligerante, o alleato? Non si trattava di fare i conti con gli anglo-americani e basta: si trattava di farli con quel Con­ siglio consultivo nel quale sovietici e francesi avevano voce in capitolo. Eisenhower - ancora in carica prima di trasferirsi a Lon­ dra per preparare lo sbarco in Normandia - propose che passasse alla amministrazione italiana tutto il territorio a sud

76 della linea Salerno-Bari, incluse le isole: il che lasciava alla totale gestione alleata proprio quelle città, Napoli o Saler­ no, in cui il governo aveva intenzione di trasferirsi. Il Consi­ glio consultivo fu convocato a Napoli il 10 gennaio. Il sovie­ tico Viscinski, annotò Macmillan «aveva una grossa squadra di segretari, contact-men, interpreti ecc. Appena arrivati, la maggior parte disparve, indubbiamente per cercare i comu­ nisti italiani, e ricomparve solo quando fu il momento di ri­ partire». Alla riunione fu ammesso anche Badoglio, che s'il­ ludeva di poter regolarmente partecipare, a pieno titolo, ai lavori: ma su questo punto fu presto disingannato. Il mare­ sciallo lesse un documento alquanto prolisso e pomposo, che magnificava l'apporto dell'Italia alla condotta della guerra, e ometteva - perché non poteva farlo - di dare indi­ cazioni concrete sull'atteggiamento di Vittorio Emanuele III, e sulla sua abdicazione. Alla fine disse: «Mi si chiede quale è e quale potrebbe essere il nostro concorso, ma io ho una domanda da fare a voi, membri della Commissione consultiva, se cioè a questo tavolo seggo come amico o come nemico». Gli rispose a nome di tutti, cogliendo la palla al balzo, Viscinski, e assicurò Badoglio che la sua persona era considerata «quella di un amico»: ripetendogli poi a quat­ tr'occhi che I'URSS voleva un'Italia libera e forte, e che lui, Viscinski, avrebbe preso direttamente contatto con il gover­ no di Badoglio. Del maresciallo riconosceva il «patriottismo realistico». Questo atteggiamento prefigurò la successiva tattica «morbida» dell'URSS: tattica non contraddetta - le pa­ role sono parole e gli affari sono affari - dalla insistenza so­ vietica per avere una parte della flotta. Con miopia politica pari soltanto alla loro inerzia bellica i governi inglese e americano avevano intanto approntato, grazie all'opera dei loro consiglieri legali, un piano di resti­ tuzione di province alla sovranità italiana che non solo con­ tinuava ad escludere Napoli e Salerno, ma ventilava super­ visioni politiche - e lottizzatrici - sull'amministrazione italia­ na, in forza delle quali i greci avrebbero potuto sovrinten-

78 dere sulla Puglia, gli iugoslavi su mezza Valle Padana, i fran­ cesi sulla Liguria e sul Piemonte, e così via. Eisenhower e Bedell Smith ne furono costernati, Macmillan si precipitò da Churchill. Dopo un laborioso negoziato Badoglio otten­ ne - si era arrivati a fine gennaio del 1944 - che il suo go­ verno riacquistasse la sovranità, o almeno la amministrazio­ ne, su tutti i territori posti sotto una linea che passava a nord di Salerno e di Foggia. Il 27 gennaio l'Italia fu formalmente riconosciuta «territorio liberato» e in quegli stessi giorni la sede del governo fu trasferita a Salerno. L'11 febbraio di­ venne operativo il «trapasso dei poteri». L'annuncio che Sa­ lerno era diventata capitale provvisoria giunse in città, ha osservato Degli Espinosa, «mentre una triste dimostrazione di donne piangenti protestava in piazza per la mancata di­ stribuzione del pane». Il Re si sarebbe stabilito, fu deciso, a Ravello, nella villa dei marchesi di Sangro. A fine d'anno Vittorio Emanuele si era una volta di più crucciato con Ba­ doglio che, in un messaggio augurale agli italiani, l'aveva ignorato. Il 28 e 29 gennaio i partiti antifascisti tennero nel Teatro Piccinni di Bari, ricorrendo il ventesimo anniversario della uccisione di Matteotti, un Congresso che aveva una chiara impronta antimonarchica. L'aveva preceduto di pochi gior­ ni, a Taranto, un raduno di ex-combattenti, concluso «da numerosi discorsi patriottici e da entusiastiche manifesta­ zioni di fede monarchica»: un ordine del giorno approvato da questi reduci ancora fedeli al Re sosteneva che «l'immi­ nente Congresso rappresenta unicamente il pensiero di li­ mitati gruppi politici». In un certo senso era vero, perché nell'Italia martoriata, affamata e affranta di quei mesi le ne­ cessità della sopravvivenza quotidiana facevano di gran lun­ ga premio sull'impegno ideologico. Ma anche i delegati de­ gli ex-combattenti, con la loro tronfia retorica, rispecchiava­ no ben poco l'immagine del paese. Con gesto diffidente, il governo Badoglio nominò a Bari, proprio nella imminenza del Congresso antifascista, un sovrintendente speciale al-

79 l'ordine pubblico nella persona del generale Pietro Cazze­ rà, che era stato fatto prigioniero in Africa Orientale, e da poco rimpatriato: talché i diffidenti notabili dei partiti di si­ nistra parlarono di «prò dittatore» e di sabotaggio al Con­ gresso, la cui apertura ebbe una cornice imponente di forze di polizia italiane e alleate. I delegati erano stati limitati a 120, e ascoltarono con ri­ spetto, e tra gli applausi, un nobile discorso di Benedetto Croce, che non si tolse il cappotto, salendo alla tribuna, per­ ché il riscaldamento era insufficiente. Il vecchio filosofo portò il dramma italiano in una sfera alta e rarefatta di con­ cetti, disse che «la presente guerra non è una guerra tra po­ poli ma una guerra civile: e più esattamente ancora non una guerra di interessi economici e politici ma una guerra di re­ ligione» cosicché gli antifascisti italiani avevano potuto di­ staccarsi dal dovere di desiderare la vittoria del loro paese. Sforza fu sdegnoso ed egocentrico, e affermò tra l'altro che la colpa del Re era maggiore di quella di Mussolini perché al primo lui, Sforza, aveva mandato un avvertimento scritto alla vigilia dell'intervento, e al secondo no. Seguì una marea di interventi, e quindi un acceso dibattito perché le sinistre volevano un ordine del giorno violento, e ad esso si oppo­ nevano i moderati. Il compromesso fu raggiunto su un do­ cumento che considerava «presupposto innegabile della ri­ costruzione morale e materiale italiana l'abdicazione imme­ diata del Re, responsabile delle sciagure del paese»; procla­ mava il Congresso «espressione vera e unica della volontà e della forza della nazione»; chiedeva fosse formato un gover­ no «con i pieni poteri del momento di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati al Congresso». Ancora una volta era stato posto sul tappeto - e ormai in maniera indilazionabile - il problema istituzionale. Vittorio Emanuele III rifiutava, con cocciutaggine patetica, l'abdica­ zione, ed era confortato in questa resistenza dai maldestri consigli di Acquarone che sentenziava: «Il Sovrano non in­ tende cedere alle imposizioni di una minoranza. Se gli Al-

80 leati vogliono che abdichi bisogna che glielo impongano. In tal caso tutte le responsabilità ricadranno, naturalmente, su di loro e su nessun altro». Badoglio fingeva di non impen­ sierirsi per la bufera, e proseguiva nella sua azione «norma­ lizzatrice». A Salerno aveva formato un governo di ministri e non di sottosegretari - furono finalmente dichiarati deca­ duti i ministri che erano stati abbandonati a Roma - che potè contate su qualche nuovo nome di spicco, come quello di Vincenzo Arangio-Ruiz alla Giustizia. Una volta di più i ministri furono sparpagliati - alcuni restarono addirittura in Puglia - e i funzionari dovettero sobbarcarsi lunghi tra­ gitti sulle strade intasate dal traffico militare e, ancor più, dal febbrile andirivieni dei piccoli e grandi trafficanti o sem­ plicemente di gente in cerca di provviste. «Era una lotta del­ l'intera collettività retrocessa a secoli lontani. I piccoli centri rurali si rinchiudevano in una povera autarchia alimentare, i grandi centri urbani come Napoli ricorrevano a primitivi mezzi di commercio e di trasporto. Uomini e donne stimo­ lati dalla miseria lasciavano in carovane le città e tornavano dopo quindici, venti giorni con un carico di farina, carne e legumi. Due o tremila lire erano sufficienti a costituire il ca­ pitale d'esercizio cosicché quasi tutti erano primitivi com­ mercianti, o lo divenivano in breve.» Entro questa cornice di convulso squallore, le teste fini del Regno del Sud si arrovellavano per escogitare la formu­ la che estromettesse il Re riluttante senza costringerlo a fare ciò che assolutamente non voleva, ossia ad abdicare. Posto così il problema, nessuno era in grado di risolverlo meglio di Enrico De Nicola, la cui sapienza giuridica si accoppiava a un piacere quasi voluttuoso per la ricerca di cavilli subli­ mi. Dopo ripetuti incontri con Vittorio Emanuele, De Nico­ la mise a punto il progetto della Luogotenenza, che avrebbe spogliato il Re delle sue prerogative trasferite a Umberto di Savoia senza costringerlo ad abdicare: progetto che ebbe l'assenso di Sforza. Questa era la successione degli avveni­ menti prevista da De Nicola:

81 a) annunzio immediato di Vittorio Emanuele che, libera­ ta Roma, Umberto sarebbe designato Luogotenente con pieni poteri mentre egli stesso conservava solo il titolo di Re, ritirandosi a vita privata; b) una volta a Roma il Re procederà direttamente verso la sua villa, senza recarsi al Quirinale; c) il governo Badoglio si dimetterebbe lo stesso giorno e Umberto chiamerebbe subito il candidato dei partiti centri­ sti a primo ministro per formare il governo. Questo gover­ no che entrerebbe in funzione sarebbe già stato concordato prima di arrivare a Roma. Il principio della Luogotenenza rimase fermo. Ma a mo­ dificare alquanto le ipotesi più propriamente politiche in­ tervennero svariati avvenimenti: tra gli altri il ritorno in Ita­ lia di Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti. CAPITOLO QUINTO

IL PROCESSO

La Repubblica di Salò volle darsi anche istituzionalmente un volto socialista. Era questa l'ultima disperata carta del­ l'ultimo disperato Mussolini, che ne affidò la realizzazione a un Congresso del Partito, convocato per il 14 novembre in un salone di Castelvecchio, a Verona. L'assemblea voleva es­ sere il prologo di una Costituente. Pavolini precisò infatti che essa avrebbe dovuto pronunciarsi «sui più importanti problemi statali e su quelle nuove realizzazioni da raggiun­ gere nel campo del lavoro le quali, più propriamente che sociali, non abbiamo alcuna peritanza a definire socialiste». Il manifesto del nuovo fascismo comprendeva 18 punti, frutto di una puntigliosa elaborazione. Sembra certo che al­ la prima stesura avesse posto mano Mussolini basandosi su un canovaccio di Nicola Bombacci. Era costui un romagnolo, maestro come Mussolini, e co­ me lui in gioventù socialista massimalista. Poi, mentre Mus­ solini veleggiava verso l'interventismo e fondava il fascismo, Bombacci aderì al neonato Partito comunista, nelle cui file fu eletto deputato. Dal pei fu espulso nel 1927, e vivacchiò successivamente in posizione equivoca: un rivoluzionario di sinistra fiancheggiatore del regime. Ora riappariva in piena luce, come consigliere del Duce. La sua figura profetica - capelli bianchi e folti un po' disordinati, barba imponente - acquistò rilievo nella Repubblica di Salò. Bombacci conti­ nuava a professarsi difensore del proletariato, il che lo met­ teva in sintonia con gli aneliti populisti del fascismo risorto e a questa impostazione aderiva il documento che aveva preparato. Il testo subì cammin facendo varie modifiche,

83 anche per intervento diretto del proconsole tedesco Rahn che attenuò «le originarie tendenze molto accentuatamente socialiste nell'interesse del mantenimento della impresa pri­ vata nella produzione bellica» e cancellò «un punto inserito dal Duce sulla preservazione della integrità territoriale». Di questo i tedeschi non volevano sentir parlare; avevano già sostanzialmente annesso la Venezia Giulia, l'Alto Adige, e inoltre Zara, Fiume, Spalato, Cattaro, e spingevano le loro superstiti ambizioni ben oltre. Basterà citare un appunto di Gòbbels: «Col Fùhrer ho affrontato una questione seria e importante, domandandogli fin dove intenda espandere il territorio del Reich. Secondo la sua idea, noi dovremmo avanzare fino ai confini del Veneto, e il Veneto stesso do­ vrebbe essere incluso nel Reich in forma autonoma». Subite queste limature e censure, i 18 punti ebbero il sì definitivo di Mussolini, cui erano stati sottoposti dopo un suo breve soggiorno alla Rocca delle Caminate. Il documen­ to mescolava curiosamente fascismo e socialismo, garanti­ smo e autoritarismo. Esso prometteva, anzitutto, che una futura vera Assemblea costituente avrebbe dovuto dichiara­ re la decadenza della Monarchia e proclamare la Repubbli­ ca sociale, il cui capo sarebbe stato eletto «dai cittadini» ogni cinque anni. Venivano quindi sanciti il diritto del cittadino a riottenere la libertà dopo sette giorni di arresto senza incri­ minazione, e l'indipendenza della magistratura. Nella Re­ pubblica sociale si sarebbero svolte regolari elezioni ma il Partito sarebbe rimasto unico: l'appartenenza ad esso non sarebbe stata tuttavia richiesta per nessun ufficio o impiego. Religione di Stato la cattolica, rispetto per gli altri culti. Agli ebrei sarebbe spettato lo «status» di stranieri, e per la durata della guerra sarebbero stati considerati di nazionalità nemi­ ca. In politica estera la Repubblica sociale avrebbe persegui­ to l'ideale di una comunità europea risoluta a respingere gli intrighi britannici. Sarebbero stati anche realizzati «l'aboli­ zione del sistema capitalistico interno e la lotta contro le plu­ tocrazie mondiali». La Repubblica sociale si sarebbe «fonda-

84 ta innanzitutto sul lavoro manuale tecnico e intellettuale» ma «la proprietà privata sarebbe stata garantita dallo Stato». Il giorno prima che il Congresso si aprisse Mussolini scrisse che con la nuova Carta «il fascismo, liberato da tutto quel­ l'orpello che ha rallentato la sua marcia e dai troppi com­ promessi che le circostanze lo hanno obbligato ad accettare, è ritornato alle sue origini rivoluzionarie in tutti i settori, e particolarmente in quello sociale». Al Congresso Mussolini diede il suo viatico, ma non la sua presenza. Sentiva che quell'assemblea di desesperados sa­ rebbe stata tumultuosa e critica, e che neppure il suo perso­ nale prestigio avrebbe potuto risparmiargli frecciate. Agli intervenuti indirizzò un proclama che amaramente ricono­ sceva: «Non abbiamo più nulla, tutto è da ricominciare. Ci rimane soltanto la volontà accompagnata da una dogmatica fede. Bisogna passare il più rapidamente possibile da paese inerme a paese combattente». Assente il Duce, Pavolini pre­ siedette la discussione, spalleggiato da Renato Ricci. Il truce Cosmin aveva predisposto il servizio d'ordine, assicurato con rozzezza da militi in maglione nero. In quell'atmosfera eccitata - di una Convenzione suicida - era assai scarso il ri­ spetto per le gerarchie, e qualche notabile del vecchio fasci­ smo lo sperimentò a sue spese (ha ricordato Bocca nel suo La repubblica di Mussolini che un generale della Milizia cercò di sedersi nelle prime file, ma fu affrontanto da Cosmin che gridò: «O torni indietro o ti faccio buttare fuori»). Non uno degli oratori, neppure Pavolini, riuscì a parlare senza essere continuamente interrotto dai delegati delle varie federazio­ ni, tra i quali gli squadristi antemarcia erano mescolati a gio­ vani fanatici acquisiti di recente al fascismo. In quel torbido dibattito le invocazioni alla vendetta con­ tro i traditori del Gran Consiglio, e soprattutto contro Cia­ no, fecero da contrappunto ai propositi di rifondazione del Partito. Fu invocata la costituzione di un Tribunale speciale che giudicasse i «rinnegati» del 25 luglio, e Pavolini promise di «portare questo voto al Duce, unico competente a decide-

85 re». I congressisti volevano il partito unico, e l'esercito poli­ tico, non di mestiere. Il segretario del Partito di chie­ se maggiori poteri per la Milizia («non vogliamo più essere fregati») e l'esteta Pavolini s'indispettì. «Queste sono espres­ sioni da caserma», disse. «Questa è una caserma» fu l'aspra replica. L'approvazione dei 18 punti ottenne una sbrigativa unanimità, ma per il resto il Congresso si perse in battibec­ chi, e non risolse nessuno dei veri nodi del momento, a co­ minciare dalla funzione del Partito e da quella dell'Esercito. Commentando, con il segretario Dolfin, la conclusione dei lavori, Mussolini disse: «E stata una bolgia vera e pro­ pria. Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e preci­ se. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi... E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chie­ dermi di combattere. E al fronte che si decidono le sorti del­ la repubblica, e non certo nei congressi». Il Partito, con i suoi 250 mila iscritti («sono quantità e non qualità» aveva ri­ levato Buffarini Guidi) rimaneva un'accozzaglia di correnti e componenti eterogenee. Ancora Buffarini Guidi notava che «moltissimi iscritti, soprattutto i più in vista, rappresen­ tano lo scarto di quello che fu il Partito fascista nel passato, e sono riguardati dalle popolazioni con disgusto, con di­ sprezzo, e qualche volta con vero e proprio terrore». V'era stato, durante il Congresso, un intermezzo dram­ matico. Pavolini si alzò, chiese silenzio, e annunciò che «il commissario federale di Ferrara, che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata Ghisellini, tre volte medaglia d'ar­ gento, tre volte medaglia di bronzo, è stato assassinato con sei colpi di rivoltella». Dalla sala infiammata si alzarono gri­ da di «tutti a Ferrara, vendichiamolo con il sangue». A sten­ to Pavolini indusse l'assemblea a proseguire i lavori, pro­ mettendo che «quello che bisognerà fare sarà fatto, sarà or­ dinato, e lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile». Ghisellini era stato trovato, la testa trapassata da sei proiettili, nella sua Fiat 1100, sulla strada di Castel d'Argile

86 di Cento. Il prefetto Marola, il vicequestore Poli, il tenente dei carabinieri ebbero qualche perplessità sulla matrice par­ tigiana dell'attentato perché i cristalli dell'auto risultavano frantumati dall'interno, e questo lasciava sospettare che lo sparatore fosse a fianco della vittima. Ghisellini non andava a genio anche ad alcuni ultra del fascismo, che gli rimprovera­ vano d'essere moderato. Quando i tre espressero i loro dub­ bi ai fascisti che sopraggiungevano, pronti alla rappresaglia, furono investiti da insulti, e trascinati nelle carceri di Ferra­ ra. In poche ore ottantaquattro persone cui erano rivolte ge­ neriche accuse di antifascismo vennero rastrellate e ammas­ sate in uno stanzone della caserma Littorio. Altri ostaggi fu­ rono prelevati dalla prigione. Undici sventurati vennero messi a morte, parte in gruppo parte alla spicciolata. Finirono presto, con questa strage, gli appelli alla con­ cordia e l'illusione di alcuni fascisti che con la Repubblica se non socialista almeno sociale, si potesse arrivare a una ri­ conciliazione degli italiani. La guerra civile dettò la sua leg­ ge sanguinaria, i GAP colpirono sempre più audacemente nelle città, tedeschi e fascisti risposero sempre più crudel­ mente. Il 25 novembre i fascisti fecero irruzione nella gran­ de masseria di Praticello, tra Campegine e Gattatico, vicino a Reggio Emilia, dove viveva la famiglia Cervi. Erano, i Cer­ vi, dei fittavoli che si erano insediati nel podere dal 1934: il padre, Alcide, la madre Genoveffa Cocconi, sette figli, il maggiore di 42 il più giovane di 22 anni. Nel loro cascinale i Cervi avevano dato ospitalità dopo l'8 settembre a prigio­ nieri e sbandati - e di questo venivano sospettati dalle auto­ rità fasciste - ma avevano anche organizzato azioni di squa­ dre per disarmare i presidi fascisti. Il rastrellamento del 25 novembre mirava proprio a snidare i prigionieri rifugiati a Praticello (vi furono infatti catturati un russo, due sudafri­ cani, un francese gollista, un irlandese, e un «rinnegato» italiano). I maschi della famiglia Cervi furono tutti trasferiti nelle carceri di San Tommaso, a Reggio Emilia. Due giorni dopo Natale a Bagnolo in Piano, nelle campagne di Reg-

87 gio, venne ucciso da un commando il segretario fascista Vin­ cenzo Onfiani, e questo segnò la condanna a morte, per rappresaglia, dei sette fratelli «rei confessi di violenze e ag­ gressioni di carattere comune e politico, di connivenza e fa­ voreggiamento con elementi antinazionali e comunisti». Il padre non seppe della feroce strage fino a quando uscì di prigione. Altro sangue a Firenze dove il primo dicembre fu «giusti­ ziato» da tre partigiani il comandante del distretto militare, colonnello Gobbi, e cinque ostaggi antifascisti pagarono con la vita. Il 18 dicembre cadde sotto il fuoco dei guerriglieri il federale di Milano Aldo Resega, e in risposta un plotone della Legione Muti fucilò all'Arena di Milano nove «resi­ stenti» che erano nel carcere di San Vittore, e che un Tribu­ nale speciale aveva sul tamburo condannato a morte. L'arci­ vescovo di Firenze cardinale Elia della Costa tentò di porre freno alla spirale dell'odio con una «notificazione» nella quale ricordava a tutti il quinto comandamento, «non am­ mazzare», per concluderne che erano inammissibili le «ucci­ sioni di arbitrio privato o a tradimento». Sul foglio clande­ stino del Partito d'azione Enzo Enriquez Agnoletti deplorò a sua volta che il cardinale, «in un momento tanto tragico e grave per la vita morale e fisica di noi italiani», non avesse preferito tacere. La catena degli attentati - durante i funerali di Resega un gappista aveva tirato da un tetto sul corteo, provocando una sparatoria nutrita e caotica - esasperò gli uomini delle formazioni fasciste più turbolente e violente. Buffarini Gui­ di riferì al Duce che aveva dovuto affrontare le squadre del­ la Muti per impedire che effettuassero una «cosiddetta mar­ cia sul Garda con la finalità di snidare il governo». Mussoli­ ni era contrario alle rappresaglie, le considerava «un atto stupido e bestiale», e prese di petto Pavolini perché le con­ sentiva. Ma poi fu costretto ad arrendersi alla politica dell'«occhio per occhio, dente per dente» Il Capo del fasci­ smo era ormai prigioniero dei «duri», disposti ancora ad

88 osannarlo, ma non ad obbedirgli quando suggeriva la cle­ menza. Per salvaguardare la sua immagine, cavalcava ormai la tigre, e con riluttanza dava soddisfazione ai fedelissimi, che lo aspettavano al varco: tra i tanti disertori del fascismo, ve n'era uno che meritava la massima punizione, ed era Ga­ leazzo Ciano, il genero del Duce. Su questo punto il Con­ gresso di Verona, per altri aspetti così confuso, aveva espres­ so una opinione perentoria. La morte di Ciano era divenu­ ta fatale nel momento stesso in cui Mussolini era stato libe­ rato dal Gran Sasso, non perché i tedeschi esercitassero pressioni, ma perché, se non sacrificava Ciano, Mussolini abdicava al suo ruolo. Sulle interferenze tedesche, tendenti ad evitare che il conte sfuggisse al castigo, si è molto insisti­ to, ne ha parlato Mussolini stesso. Una disposizione di Rib- bentrop a Rahn non le convalida. «Il Fiihrer ha stabilito - scrisse Ribbentrop - che il processo contro Ciano sia esclu­ sivamente una materia di competenza del Duce e che da parte nostra non si eserciti nessuna pressione in favore di una condanna.» I tedeschi si preoccuparono molto, per quanto li riguardava, di recuperare i Diari di Ciano, e a que­ sto scopo gli misero vicino, durante tutto il soggiorno tede­ sco, e poi durante la prigionia, Frau Felicitas Beetz, un'abile spia - anche se soltanto ventiduenne - che si chiamava in realtà Hildegard Burkhardt. Inviata a Roma nel 1943, con il nome di Alice von Wedel - parlava correntemente l'italia­ no - era stata segretaria nel Quartier generale delle SS. Quella di Frau Beetz, e di «ombra» del conte Ciano, fu la sua terza incarnazione. Felicitas Beetz era belloccia alla ma­ niera delle giovani tedesche, con tendenza ad appesantirsi. A Verona era stata invocata, contro i traditori, un'alta corte di giustizia. In realtà il governo di Salò aveva provve­ duto ripristinando, fin dal 13 ottobre del 1943, il Tribunale speciale di triste memoria, e affidandogli specificamente il compito di giudicare «il tradimento di coloro che sono ve­ nuti meno non solo al proprio dovere di cittadini, ma anche al proprio giuramento di fascisti». Stabiliva il decreto che i

89 giudici dovessero essere «fascisti di provata fede». A questi requisiti rispondevano certamente il ministro della Giustizia di Salò, Antonino Tringali Casanova, che era stato presiden­ te del Tribunale speciale fino al 25 luglio, e il giudice istrut­ tore del Tribunale speciale straordinario, Vincenzo Cersosi- mo, che aveva svolto identiche funzioni nel Tribunale spe­ ciale precedente. Galeazzo Ciano - che aveva ripetutamente chiesto di poter tornare in Italia dalla Baviera dove pure godeva di una certa libertà - fu accontentato il 19 ottobre e, sotto scorta delle SS, avendo accanto Frau Beetz, venne por­ tato in aereo a Verona e subito trasferito al carcere cittadino degli Scalzi. Già vi si trovavano i dissenzienti del Gran Con­ siglio sui quali fascisti e tedeschi erano riusciti a mettere le mani: Carlo Pareschi, ministro dell'Agricoltura, Tullio Cia- netti, ministro delle Corporazioni, Luciano Gottardi, presi­ dente della Confederazione dei lavoratoli dell'industria, Giovanni Marinelli, per vent'anni segretario amministrativo del Partito fascista e da ultimo sottosegretario alle Poste e Telegrafi. L'ottantenne maresciallo e quadrumviro Emilio De Bono - collare dell'Annunziata come Ciano - fu autoriz­ zato data l'età a rimanere sotto sorveglianza fino alla vigilia del dibattimento, nella sua villa di Cassano d'Adda, da dove fu portato direttamente a Castelvecchio.

La scelta di Verona era di cattivo auspicio per gli imputati: vi si respirava ancora il fanatismo del Congresso, vi spadro­ neggiava l'oltranzista Cosmin, e il Quartier generale di Pa­ volini era vicino, a Maderno. I nomi dei giudici furono ap­ provati il 24 novembre. Aldo Vecchini, il presidente, era sta­ to segretario del sindacato fascista degli avvocati e procura­ tori, e federale di Roma, i componenti della Corte erano tutti squadristi e ufficiali della Milizia. Uno di essi, Celso Ri­ va, operaio metallurgico, aveva da poco perso il figlio per mano dei gappisti, a Torino. Tuttavia questi estremisti del fascismo avvertirono qualche turbamento, quando seppero di essere stati designati a giudicare - sarebbe meglio dire a

90 condannare - i membri del Gran Consiglio: e lo stesso Vec- chini tentò, senza riuscirvi, di essere esonerato. Si barricò quindi in Castelvecchio, facendo allestire alla meglio un al­ loggio adiacente al suo studio, e non se ne mosse più. Te­ meva gli antifascisti, e temeva anche i fascisti. Renzo Monta­ gna, luogotenente generale della Milizia, nominato giudice, fu non solo perplesso, ma anche convinto che «ogni cosa era stata decisa e che il processo sarebbe stato fatto unicamente per dare veste legale a una sentenza già stabilita». Si propo­ se di strappare qualche imputato alla morte, se gli fosse sta­ to possibile. A quel punto accadde un imprevisto che parve agli accu­ sati un colpo di fortuna. Un infarto uccise Tringali Casano­ va, e il suo posto come ministro fu preso da Piero Pisenti, che era un serio e ragionevole uomo di legge. Questi diede un'occhiata ai fascicoli, e vide subito che l'accusa non regge­ va. Chiese udienza a Mussolini, e si trattenne con lui per due ore. Ha poi ricordato d'avergli detto: «Duce, ho esami­ nato attentamente gli atti del processo: non c'è la minima prova di una connivenza tra i firmatari dell'ordine del gior­ no Grandi e la Casa Reale. La votazione si è svolta in modo regolare e siete stato voi, Duce, a chiederla. Vi assicuro che l'accusa di tradimento non è in alcun modo dimostrabile». Secondo Pisenti, Mussolini domandò allora, roteando gli occhi, cosa si poteva fare, e il ministro suggerì che fosse al­ meno evitata la pena capitale con la concessione delle atte­ nuanti generiche. «Parlatene con Vecchini» gli avrebbe det­ to, congedandolo, il Duce. Ma Dolfin ha dato del colloquio una versione diversa. A Pisenti che insisteva, Mussolini avrebbe risposto che «voi vedete nel processo il solo lato giu­ ridico... io devo vederlo sotto il profilo politico. Le ragioni di Stato sommergono ogni altra considerazione. Ormai bi­ sogna andare fino in fondo». In realtà Mussolini era lacerato, sapeva che i tedeschi, anche se ostentavano neutralità, l'avrebbero disprezzato ove si fosse dimostrato clemente per ragioni familiari («il pro-

91 cesso di Verona era per i tedeschi la pietra di paragone del­ le possibilità rivoluzionarie della repubblica italiana» scrisse poi); sapeva altresì che i fascisti dell'ora estrema volevano Ciano morto, e che morto lo voleva la moglie Rachele «deci­ sa a far cadere la scure sul capo del novello Bruto» secondo il commento di Ermanno Amicucci, direttore del Corriere della Sera. Mentre il giudice Cersosimo svolgeva quei preli­ minari che ebbero, ma non meritavano, il nome di istrutto­ ria, Mussolini se ne stava isolato nella sua «capitale» lacu­ stre, a rimuginare il passato e a scrivere articoli per la Corri­ spondenza repubblicana. Quando accennava a Ciano Io faceva con frasi smozzicate e contraddittorie: «Non colpire Ciano sarebbe come dire che non è possibile colpire nessuno», ma «gli italiani diranno domani che il sanguinario sono stato io». Cersosimo procedette agli interrogatori degli imputati, ed ebbe qualche difficoltà, la prima volta che si recò agli Scalzi, per vedere Ciano, sorvegliato dalle SS e protetto da Frau Beetz. Non raccolse elementi che già non conoscesse. Coloro che avevano votato sì all'ordine del giorno Grandi erano stati invitati da Mussolini stesso ad approvarlo o a di­ sapprovarlo. Definire tradimento questo atto era, dal punto di vista giuridico, mostruoso. Ciano era il catalizzatore degli odi e perciò il perno del processo. Gli altri cinque - mancando il maggiore protago­ nista del 25 luglio, Dino Grandi, salvo in Portogallo - aveva­ no un ruolo di tragiche comparse. Per strappare Ciano alla morte si prodigarono, alla vigilia del dibattimento - che co­ minciò l'8 gennaio a Castelvecchio nello stesso salone in cui si era svolto il Congresso - e fino all'imminenza della esecu­ zione due donne, la moglie Edda e Felicitas Beetz. Rientra­ ta dalla Germania il 20 settembre dopo un ultimo gelido in­ contro con Hitler, Edda aveva visitato la Rocca delle Carni- nate, per salutare la famiglia, e poi Roma, per affidare ad amici sicuri i Diari, sui quali contava molto per negoziare la liberazione di Galeazzo, liberazione per la quale si impegnò con una grinta che ricordava in lei - unica tra i figli - quella

92 del primo Mussolini. Fino all'ultimo, scontrandosi aspra­ mente col padre, tentando e ritentando canali italiani e te­ deschi, fece il possibile e l'impossibile per ottenere la salvez­ za di quel suo uomo fatuo, leggero, forse un po' disprezza­ to, ma in fondo amato. A Mussolini gridò in faccia: «Siete tutti pazzi! La guerra è perduta, è inutile che vi facciate illu­ sioni. I tedeschi resisteranno qualche mese, ma non più. Tu sai quanto ho desiderato che si vincesse, ma ora non c'è più nulla da fare. E in queste condizioni si condanna Galeazzo». Frau Beetz, spia capace e magari cinica, ma pur sempre donna, e nordica, e sensibile al fascino latino, s'era presa di Ciano: e Ciano, tombeur de femmes, soprannominato dalla moglie «gallo», ebbe almeno, nelle ultime settimane di vita, questo conforto sentimentale e questa estrema soddisfazio­ ne alla sua vanità maschile. Nelle lunghe ore trascorse insie­ me, i due parlarono sì dei Diari - proprio per carpirglieli la Beetz gli era stata appioppata come un'ombra - ma parlaro­ no anche d'amore. Così nei disegni della Beetz la trattativa sui Diari ebbe un duplice scopo: quello di accontentare i «superiori» e quello di sottrarre Ciano al plotone d'esecu­ zione. Il piano di Felicitas Beetz era ingegnoso: due SS in divisa di militi fascisti avrebbero dovuto aggredire i tedeschi messi di guardia alla cella di Ciano, sopraffarli - con il consenso e la collaborazione degli assaliti - e rapire il prigioniero. Cia­ no sarebbe stato trasferito dapprima in Ungheria, quindi in Turchia: una volta in salvo, avrebbe provveduto ad avverti­ re Edda che a sua volta avrebbe consegnato i Diari. Di que­ sto copione fu informato il generale delle SS Harster, e da lui rimbalzò a Kaltenbrunner e infine al gran capo Himm- ler. A testimonianza della sua buona fede Edda consegnò al­ cuni documenti - verbali di incontri con capi di Stato, mini­ stri e diplomatici - che Ciano le aveva affidato: fu perfino stesa una sorta di contratto, firmata da Kaltenbrunner e da Ciano. Himmler e il suo vice avevano deciso «di tacere con Hitler e di agire da soli». «Invece - ha raccontato Harster -

93 ogni cosa crollò all'ultimo momento. Hitler seppe del pro­ getto e si oppose, minacciando terribili punizioni. Il pome­ riggio del 6 gennaio, la vigilia della fuga (e l'antivigilia del­ l'inizio del dibattimento, N.d.A.) mi chiamarono al telefono da Berlino. Mi fu ordinato di sospendere tutto.» A sua volta Frau Beetz ha espresso la convinzione che «la decisione di Hitler fu dovuta non tanto ad un intervento di von Ribben- trop (che si ritiene fosse stato in qualche modo informato, N.d.A.) quanto da un voltafaccia di Himmler, il quale all'ul­ timo momento ebbe paura del suo coraggio e andò a spiat­ tellare tutto al suo Flihrer». Non sappiamo se Himmler e i suoi avessero intenzione di rispettare il patto. L'avessero o no, Hitler fu per un'ostentata inflessibilità. Era la fine di ogni speranza. Galeazzo Ciano inviò alla moglie una lettera d'addio nella quale trovò accenti di gran­ de commozione: «Edda mia, mentre tu vivi ancora nella beata illusione che tra poche ore sarò libero e saremo nuo­ vamente tutti insieme, per me è cominciata l'agonia. Dio be­ nedica i nostri bambini. A te chiedo che li educhi nel rispet­ to di quei princìpi dell'onore che io ho appreso da mio pa­ dre...». Edda si rifugiò in Svizzera, dopo aver dato in conse­ gna a Frau Beetz tre lettere che rilanciavano la proposta, i Diari contro una vita. Voleva Ciano a Berna entro tre gior­ ni, scrisse al Comando tedesco in Italia, e se non l'avesse avuto i Diari sarebbero stati pubblicati. A Hitler pose la stes­ sa alternativa promettendo che «se saremo lasciati in pace, nel futuro voi non sentirete più parlare di noi». Più aspra che con chiunque altro fu con il padre: «Ho atteso sino ad oggi che tu mi mostrassi un minimo di sentimenti di uma­ nità e di giustizia. Ora è troppo. Se Galeazzo non è in Sviz­ zera entro tre giorni... tutto ciò che so, con prove alla mano, lo userò senza pietà».

In una Verona battuta da sgherri fascisti, e in un'aula fune­ reamente addobbata, il processo cominciò la mattina dell'8 gennaio. L'inverno era eccezionalmente mite, e alcuni degli

94 imputati arrivarono nel salone di Castelvecchio senza cap­ potto. Ciano indossava un soprabito chiaro. Ai sei era stata data la possibilità di scegliersi un difensore (gli avvocati più in vista rifiutarono tuttavia l'incarico, che era senza speran­ za e pericoloso, tanto che si dovette ricorrere a difensori d'ufficio), ma non di citare testimoni. Prima dell'apertura i giudici si occuparono di Marinelli, che era malato e sordo, e che della seduta del Gran Consiglio, proprio perché non ci sentiva e perché era lontano dal Duce, aveva capito ben po­ co. Qualcuno propose di sottoporlo a perizia, ma anche quest'idea fu abbandonata perché non ci dovevano essere rinvìi. I tedeschi si tennero ostentatamente in disparte: assi­ stettero soltanto un ufficiale delle SS in uniforme, due in borghese, e Frau Beetz. Rahn si trovava in Germania, e al Deakin confidò successivamente che era a sua volta interve­ nuto presso Hitler allo scopo di ottenere l'assenso alla fuga di Ciano. Data la concezione che gli italiani avevano della famiglia, disse al Fuhrer, l'esecuzione di Ciano avrebbe dan­ neggiato l'immagine di Mussolini. Hitler ribatté che la fac­ cenda riguardava esclusivamente il Duce e gli italiani. Gli interrogatori furono senza storia, e senza storia furo­ no anche le testimonianze dell'ex presidente del Senato Giacomo Suardo - che al Gran Consiglio si era astenuto - dell'ex segretario del Partito Scorza, di Farinacci. Ciano ave­ va presentato un memoriale di una ventina di pagine, altri ne avevano inviati alcuni latitanti, Alfieri, Bastianini, Bi- gnardi. Fu anche data lettura del memoriale autodifensivo che Cavallero aveva scritto mentre era detenuto a Forte Boccea durante i 45 giorni badogliani, quando il generale Carboni «gli cavava il sangue»: memoriale che accennava a propositi di sostituzione di Mussolini allorché questi, alla fi­ ne del 1942, era stato seriamente malato. Si volle così raffor­ zare il concetto di una vasta trama cospirativa precedente il 25 luglio. Agli accusati Vecchini chiese ripetutamente se avessero ben capito il dilemma di Mussolini al Gran Consi­ glio che si riassumeva così: o il Re mi dice caro Mussolini, le

95 cose non sono andate effettivamente bene in questo ultimo tempo, ma avete cominciato, continuate; o il Re mi dice, io accolgo il vostro invito a riassumere le responsabilità milita­ li, ma poiché vi ritengo responsabile della situazione, ap­ profitto della vostra mossa per liquidarvi in un colpo. «L'or­ dine del giorno Grandi - aveva allora concluso Mussolini - può mettere in giuoco l'esistenza del regime.» Questo batti e ribatti sul tasto del dilemma intendeva dimostrare come i diciannove votanti per Grandi sapessero di segnare, con il loro sì, la fine del fascismo. Di significativo, in quella parodia di dibattimento, vi fu­ rono soltanto lo smarrimento e la paura di Marinelli, e la perorazione quasi comiziesca di Cianetti, che ricordò d'ave­ re inviato a Mussolini, poche ore dopo la fine del Gran Con­ siglio, una lettera in cui ritrattava il suo voto. A quel punto - dopo gli interventi dei difensori tra i quali il solo patrono di Cianetti, avvocato Arnaldo Fortini, sapeva di disporre di ar­ gomenti validi di fronte a una simile Corte - la sentenza era una formalità. Fu letta - dopo tre ore e mezza di attesa - al­ le 14 del 10 gennaio. La voce a malapena udibile del presi­ dente Vecchini annunciò: morte per tutti gli imputati, con la sola eccezione di Cianetti, cui erano inflitti trent'anni di reclusione. Ossia una breve reclusione, finché la guerra avesse avuto il suo ormai scontato epilogo. A quanto risulta dalle memorie, non concordi, di alcuni tra i giudici, la discussione in Camera di consiglio ebbe mo­ menti di suspense. Secondo Montagna, Vecchini fece votare due volte perché la prima decisione era stata troppo indul­ gente. Secondo Franz Pagliani, la doppia votazione avvenne soltanto perché i giudici risposero a due domande: colpevo­ li o innocenti? (e la risposta fu unanime: colpevoli), e deb­ bono essere o no concesse le attenuanti generiche? (e su questo punto Montagna si impegnò in difesa di De Bono ai cui ordini aveva combattuto in Africa). Sempre secondo Pa­ gliani vi fu totale accordo nel negare le attenuanti a Ciano, e invece una maggioranza di misura (cinque contro quat-

96 tro) nel negarle a Marinelli, De Bono, Pareschi e Gottardi. Maggioranza di cinque a quattro, invece per concederle a Cianetti. Diversa, lo si è accennato, la versione di Monta­ gna, secondo il quale il console Battista Riggio, uno dei giu­ dici, che si era associato ai «clementi» per quattro imputati - il che avrebbe salvato tutti tranne Ciano - fu indotto a con­ vertirsi alla durezza da Vecchini e dal fanatico Enrico Vezza- lini. La sentenza fu ascoltata dagli imputati in un silenzio sba­ lordito. Almeno alcuni tra loro speravano che la condanna non fosse quella capitale. Marinelli non aveva afferrato be­ ne, chiese spiegazioni a Ciano che accennò a Cianetti, e dis­ se: «Solo lui si salva, per noi è finita» e tracciò con la mano destra il segno della croce. Marinelli si afflosciò senza sensi. A questo crimine giudiziario si tentò poi di dare una ra­ zionalità legale con la motivazione della sentenza, coacervo di affermazioni politiche e di aberrazioni giuridiche. All'ini­ zio di essa si affermava: «Non v'e dubbio che l'ordine del giorno mirava a estromettere il fascismo dalla vita nazionale e dalla condotta della guerra... A questo punto il Tribunale potrebbe considerare già raggiunta la prova della colpevo­ lezza degli imputati». Il resto era dunque macabro orpello. Mussolini seppe sùbito della sentenza dal suo segretario Dolfin, che si era tenuto in contatto telefonico con Verona. Non fece nulla, giustificandosi in qualche modo col dire che «per me Ciano è morto da tempo». Non fece nulla neppure quando, alle cinque del mattino successivo, il generale delle SS Wolff, cui Frau Beetz aveva trasmesso le tre lettere di Ed­ da, gli lesse per telefono quella che lo riguardava. Wolff ha dichiarato che Mussolini gli chiese un consiglio: doveva o no intervenire? Wolff ribadì che il problema non era di competenza dei tedeschi, ma si pronunciò, personalmente, contro intromissioni. A ogni buon conto, per dimostrare che i tedeschi erano estranei, dispose che cessasse la vigilan­ za delle SS attorno a Ciano. Era la vittoria di Cosmin, che ne esultava, e di Pavolini

97 (che forse dentro di sé ne soffriva). Avevano ottenuto ven­ detta contro i traditori, e immediatamente ordinarono di radunare, nella caserma della Guardia nazionale repubbli­ cana, una cinquantina di militi da cui trarre il plotone d'e­ secuzione. Ma s'interpose, a rendere frenetica la notte, un ostacolo: le domande di grazia che gli imputati avevano fir­ mate su sollecitazione dei difensori - aveva firmato anche Ciano, dopo molte esitazioni - e che dovevano pur essere respinte da qualcuno (alla loro accettazione Pavolini non pensava neppure lontanamente). Logica avrebbe voluto che le domande fossero presentate al Capo dello Stato, ossia a Mussolini. Ma proprio questa soluzione ripugnava a Pavoli­ ni che le sottopose dapprima - il suggerimento era stato di Cersosimo - al generale Umberto Piatti dal Pozzo, coman­ dante territoriale dell'Esercito a Padova. Piatti dal Pozzo, con l'avallo di un consulente legale, declinò seccamente l'in­ combenza: non competeva a lui di pronunciarsi. Pavolini, Cosmin che aveva in tasca le domande, Cersosimo, il pub­ blico accusatore Andrea Fortunato, il Capo della polizia Tul­ lio Tamburini discussero un paio d'ore, quindi si mossero tutti verso Brescia, su un'auto a gasogeno - alimentata cioè a carbone di legna - per interpellare il ministro della Giusti­ zia Pisenti. Questi li ricevette subito nel suo ufficio, a Palaz­ zo Martinengo, e disse chiaro e tondo che avrebbe portato le domande a Mussolini. Pavolini insorse adducendo - era proprio il caso! - pretesti umanitari: Mussolini non doveva essere posto di fronte a una alternativa dolorosa. Della fac­ cenda si era sempre occupato esclusivamente il Partito, e avrebbe continuato ad occuparsene. Ma colui che del Partito era segretario riluttava, per un singolare residuo di legalitarismo, a pronunciare in prima persona il fatale no. Da Brescia il gruppo si trasferì a Ma- derno, per un consulto con il ministro dell'Interno Buffari­ ni Guidi, che voleva anche lui tener fuori Mussolini, ma ri­ teneva si dovesse scovare un comandante militare disposto ad assumersi la responsabilità. Pensarono all'ufficiale di gra-

98 do più elevato della Guardia nazionale repubblicana a Ve­ rona, e ritennero d'averlo trovato nel console Trevisan, ma questi obbiettò che c'era qualcuno sopra a lui, il console Ita­ lo Vianini, ispettore della V zona, quarantaquattrenne, ex combattente in Russia, fascista accanito, ma non disposto a caricarsi di un tal peso. Assediato e incalzato per ore dagli altri, Vianini si arroccò nel suo no. Continuò a ripeterlo an­ che quando da Boscochiesanuova gli venne l'ordine di Re­ nato Ricci, il suo comandante. L'esecuzione era stata fissata per l'alba, ma alle 8 del mattino - lo ha narrato Silvio Ber­ toldi nel suo Salò - si discuteva ancora. E si discusse finché Ricci ebbe la trovata risolutiva: «Senti Vianini, per tua tran­ quillità ho parlato con Gardone, sono tutti d'accordo. Lo devi assolutamente fare». Gardone, ossia Mussolini. Vianini si rassegnò, ma volle un ordine scritto, e Tamburini scrisse un biglietto nel quale attestava semplicemente che Ricci ave­ va telefonato per ordinare a Vianini di firmare. Così, con procedura contorta, e dopo un misero giuoco di scaricaba­ rile, fu sottoscritto il documento che stabiliva di non inoltra­ re la domanda di grazia, e dava via libera all'esecuzione «in località tiro a segno». Nella notte i sei - ma Cianetti faceva ormai parte per se stesso - furono assistiti dal cappellano del carcere, don Giu­ seppe Chiot. A lui Ciano, risvegliandosi da un breve sonno, disse: «Com'è lunga a venire la morte». Ad eccezione di Ma­ rinelli, che si disperava e tremava, i condannati si comporta­ rono bene, con dignità e controllo. Secondo il racconto che ne ha fatto Cianetti nelle sue memorie Ciano tentò, in quel­ le ore tormentate, di togliersi la vita. «Alle 4,20 - questa è la testimonianza dell'unico imputato presente cui fu rispar­ miata la fucilazione - ritorno nel corridoio e scambio qual­ che parola con i militi delle SS germaniche. Ciano che sente la mia voce esce a sua volta dal 27 (il numero della sua cella, N.d.A.) e mi prende sottobraccio. È leggermente agitato. "Che hai?" gli chiedo. Riflette un attimo, poi mi risponde: "Senti... ma sai che il cianuro non m'ha fatto niente?". Mi

99 fermo di scatto: "L'hai dunque ingerito?". "Sì, da dieci mi­ nuti." "Perché Galeazzo hai fatto questo? Mi avevi promes­ so..." "Sì capisco... Mi sono seduto sul letto ed ho atteso. Niente! Ho atteso. Sempre niente. Sono stato ingannato." "Chi te lo ha procurato?" "Edda." Taccio ma non ci credo. Un pensiero inequivocabile: la giovane tedesca che - chissà a quale prezzo politico - ha finto di procurare il tossico.» Vennero così le sei del mattino, e don Chiot potè scorge­ re il riaffiorare della speranza sui volti di Ciano e degli altri. Il ritardo pareva un buon segno. Forse la grazia era stata concessa. Alle otto seppero la verità. «Passi pesanti - ha ri­ cordato don Chiot - due ufficiali tedeschi delle SS, un brivi­ do prende tutti... Un funzionario del Tribunale, passando di cella in cella, annuncia a ciascuno dei cinque il rigetto della domanda di grazia. Il cancello resta aperto, entrano squadristi vocianti e rumorosi, armati di mitra.» Mentre li conducevano via Ciano sussurrò al confessore: «Verrà pre­ sto anche l'ora di Mussolini». Un autobus portò tutti al forte Procolo dove era in attesa il plotone d'esecuzione. Nel rapporto tedesco fu scritto che «l'unico prigioniero che diede ancora da fare fu Marinelli, che parecchia gente dovette legare alla sedia» e che un con­ dannato, Pareschi o Gottardi, gridò «Viva l'Italia, Viva il Duce». Le sedie erano malferme, gli uomini del plotone mi­ rarono male, e si videro a terra i corpi dei colpiti che ancora si contorcevano, e dovettero essere abbattuti con altre scari­ che. La radio diede notizia dell'esecuzione facendola prece­ dere da Giovinezza, e Mussolini s'infuriò. «Gli italiani amano mostrarsi in ogni occasione o feroci o buffoni» disse. Poi convocò a Villa delle Orsoline don Chiot. Voleva sa­ pere. «Io non ho ricevuto alcuna domanda di grazia» si giu­ stificò con voce incerta. E aggiunse: «Nell'orribile notte, ogni volta che accendevo la luce nella mia stanza, scoprivo la tentazione irresistibile della rivoltella sul mio tavolino». Congedato don Chiot, tornò alle sue inutili udienze di inu­ tile Capo di Stato. Frau Beetz raccolse con affetto le cose di

100 Ciano e le portò di persona alla madre, Carolina, confidan­ dole: «Io l'ho amato, contessa, io lo amo ancora». Il processo di Verona fu il più clamoroso, ma non l'ulti­ mo atto di vendetta del nuovo fascismo contro chi aveva contribuito a travolgere il vecchio. Vi fu una serie di arresti e di istruttorie contro gerarchi, per non aver ostacolato Ba­ doglio, o per avergli inviato attestazioni di obbedienza, o per arricchimenti illeciti: per qualche tempo anche il pove­ ro Starace finì in carcere, poi fu rilasciato, poi vi ritornò, in­ fine fu definitivamente liberato. Gli si imputava di aver scritto, dopo il 25 luglio, a Badoglio (lo aveva fatto anche Mussolini, ma a lui non lo si rimproverò). Carlo Scorza e il suo vice Alessandro Tarabini, che dopo il Gran Consiglio avevano quietamente accettato che il Partito e la Milizia fa­ cessero karakiri, furono processati, e assolti per intervento diretto, questa volta, del Duce. Farinacci respinse con veemenza l'accusa d'essere stato un profittatore. Non lo toccarono, comunque, era protetto dai tedeschi. Fu incriminato un gran numero di generali e ammiragli: tra questi ultimi Gino Pavesi, che aveva conse­ gnato Pantelleria agli anglo-americani, Primo Leonardi, la cui base, Augusta, si era arresa in circostanze a dire il vero ignominiose, e infine Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, di nient'altro responsabili che d'avere obbedito, nel Dodecan- neso, agli ordini che Badoglio impartì, firmato l'armistizio. Campioni e Mascherpa erano, dal punto di vista militare, in regola, e non s'erano macchiati di viltà. Il capo d'imputazio­ ne diceva che «avendo ricevuto l'ordine del Comando su­ premo di non ostacolare contatti e sbarchi anglo-americani» avevano obbedito «pur essendo tale ordine palesemente cri­ minoso». Su queste basi fu pronunciata l'iniqua condanna a morte, eseguita il 24 maggio 1944. Anche per i due ammi­ ragli il ministro della Giustizia Pisenti aveva interceduto con ammirevole tenacia, recandosi da Mussolini in piena notte tanto che, ha ricordato Silvio Bertoldi, «il Duce dovette rice­ verlo in camera da Ietto». Ma non ci fu verso.

101 Tra lo scorrazzare dei militi in camicia nera, la presenza tede­ sca, le azioni dei GAP, le grandi città della Repubblica di Mus­ solini, prima tra tutte Milano, tentavano disperatamente di vivere. Erano aperti cinematografi e teatri, a San Siro si svol­ gevano le corse di cavalli, squadre di calcio improvvisate con grandi campioni si incontravano, si poteva assistere a qualche buon concerto con la direzione di maestri di fama, come An­ tonino Votto. I viveri erano scarsi con le tessere di raziona­ mento, abbondanti alla borsa nera, che garantiva pane bian­ chissimo, ottimo burro, pasta, riso, carne: ma a prezzo enor­ memente maggiorato rispetto a quello ufficiale. Una trentina di lire al chilo il burro della tessera, 150 quello clandestino: rapporto ancor peggiore per lo zucchero, da 11 a 100 lire. Sovente i quantitativi di alimenti garantiti dalla tessera - 100 grammi di carne al giorno, duecento grammi di pane nero - risultavano introvabili. Era ridotta l'erogazione di elettricità, mancavano il carbone e la legna, inesistente il caffè, cuoio e tessuti rimpiazzati da prodotti «autarchici». Il coprifuoco im­ poneva che tutti rincasassero presto, e gli spettacoli dovettero perciò essere spostati al pomeriggio. Ma il pubblico era egual­ mente numeroso. Recitavano compagnie di prim'ordine, la Ruggeri-Marchiò, la Maltagliati-Cimara, la Torrieri-Carnabu- ci, la Ricci-Magni, e poi Memo Benassi, Giulio Donadio (lui sì fervente fascista), Rascel, Nino Taranto, perfino il varietà con Marisa Maresca. A Venezia era stato trasferito, insieme al cor­ po diplomatico accreditato presso Salò, anche ciò che soprav­ viveva di Cinecittà, ma i film in cantiere restarono quasi tutti incompiuti. Tra gli attori che si aggiravano in quella necropo­ li di glorie passate, erano anche Osvaldo Valenti e Luisa Feri- da entrambi famosi, che erano legati nella vita e sarebbero ri­ masti legati nella morte: lui ostentando, più per tracotanza di spaccone che per ansia guerriera o ferocia di rastrellatore, l'uniforme della X Mas. Avrebbe perfino assistito a interroga­ tori e torture di partigiani in quella palazzina di San Siro a Mi­ lano che, divenuta Quartier generale del feroce Pietro Koch, fu ribattezzata Villa Triste.

102 Nel quadro dell'Italia non ancora occupata dagli anglo­ americani, Roma aveva una posizione singolare: intanto perché il Vaticano e i palazzi apostolici che godevano del privilegio della extraterritorialità offrivano rifugio a molti antifascisti, o antitedeschi, o in generale a perseguitati. Le camerette dei seminaristi del Laterano erano gremite di personalità politiche, e Pietro Nenni ad esempio portava il nome di don Porta, appunto il seminarista del quale usur­ pava - per le drammatiche esigenze dell'ora - il provviden­ ziale alloggio. A questa presenza vaticana faceva da contrap­ punto l'assenza di ogni vera autorità che esercitasse il pote­ re in nome della Repubblica mussoliniana. Che Salò s'im­ mischiasse nella Città eterna non lo voleva il Papa, che svol­ geva una intensa e cauta azione per preservarla dalla distru­ zione, e non lo volevano i tedeschi. Graziani era sovente a Roma, per discutere questioni militari con i «camerati ger­ manici», e anche per intavolare contatti con il segretario di Stato cardinale Maglione (profittò di una di quelle visite per far pervenire a Badoglio, via Santa Sede, un messaggio in cui proponeva di evitare, entrambi, la guerra civile: non eb­ be risposta). Gli altri ministri scendevano di rado, perché non potevano dare ordini, e non desideravano, forse, rice­ verne. Quelli che si facevano vivi, erano invitati a cena da Kesselring che alle 22 immancabilmente li congedava: «Scu­ satemi signori - diceva - ma io debbo fare la guerra». Kesselring faceva la guerra, e la faceva molto bene, ma le SS si dedicavano alla caccia degli ebrei. Vi si erano dedicate anche al nord - la Juden Aktion poteva finalmente dispiegar­ si in tutto il suo rigore, ora che Mussolini era solo un fantoc­ cio - e nella zona del Lago Maggiore avevano massacrato una cinquantina di ebrei rastrellati. Ma a Roma l'azione fu se possibile ancora più proterva. Il 26 settembre 1943 il te­ nente colonnello Herbert Kappler, capo della Gestapo, ave­ va ingiunto al presidente della comunità israelitica, Ugo Foà, che gli fossero consegnati 50 chili d'oro, ad evitare la deportazione di duecento ebrei. In due giorni quel quanti-

103 tativo d'oro era stato raccolto. Foà s'era illuso d'avere con ciò messo la comunità al riparo da pericoli, tanto più che la liberazione di Roma non poteva tardare molto. «Abbiamo pagato le nostre vite» aveva detto. Si sbagliava, tragicamen­ te. Il 16 ottobre le SS si avventarono sul ghetto, per una raz­ zia di ebrei, e poi allargarono la loro caccia agli altri quartie­ ri. Tutti dovevano seguire gli sgherri, ed erano autorizzati a portare con sé viveri per otto giorni, carte annonarie, carte d'identità, bicchieri, una valigetta con indumenti, denaro, gioielli. «Una nobildonna romana che si trova a passare nei pressi - hanno ricordato Piero Fortuna e Raffaele Uboldi - scorge su un camion un gruppo di bambini ebrei, pallidi, gli occhi dilatati dal terrore, silenziosi, le mani aggrappate alle fiancate del veicolo. In fondo a uno dei camion, alcuni neo­ nati, affamati e intirizziti, buttati a caso su un'asse di legno, gemono sotto la pioggia che continua a cadere.» I treni li portarono verso il nord, i campi di sterminio, le camere a gas. In questa Roma che non era una vera città aperta - Mus­ solini aveva rifiutato di dichiararla ufficialmente tale - ma che non era neppure una città governata, avevano presto dilagato le «polizie speciali», vere bande delinquenziali e in­ controllabili nelle cui mani ogni arrestato diventava un pro­ babile «desaparecido», o un ostaggio da barattare. Queste polizie private imperversavano in tutto il territorio della Re­ pubblica, ma a Roma le guidava addirittura il federale della città, Gino Bardi, che aveva come complice Guglielmo Pol- lastrini, un ex-ufficiale dei carabinieri. Palazzo Braschi, sede della Federazione fascista, era diventato un immenso ma­ gazzino di merci depredate: in alcuni dei suoi locali veniva praticata abitualmente la tortura verso vittime che non con­ fessassero, o non pagassero a sufficienza. Questi arbitri avevano suscitato allarme perfino nei tede­ schi, che quando intendevano commetterne, lo facevano in prima persona, e in grande, asportando macchinari e at­ trezzature, e inondando l'Italia con i loro marchi di occupa-

104 zione (dieci lire per un marco): ma non intendevano tolle­ rare le iniziative di quella che Kappler definì sprezzante­ mente «una banda di dilettanti». Il colonnello Eugen Doll- mann, capo delle SS a Roma, aveva segnalato a Mussolini lo scandalo, e dal suo eremo gardesano il Duce - usando quel poco di autorità che gli restava - ordinò alla polizia di inter­ venire. L'incursione del questore Caruso fu organizzata mi­ litarmente, con molti agenti e carri armati leggeri. Il 5 di­ cembre Palazzo Braschi venne circondato, Bardi e Pollastri- ni con una quarantina di loro manutengoli arrestati. Subi­ ranno condanne lievi. «Il buon esempio» titolarono i gior­ nali, dando notizia dell'operazione. Il Congresso di Verona aveva chiesto una svolta a sinistra della nuova Repubblica, e Mussolini, secondo il suo solito, volle trasferire la responsabilità della mossa dal partito al governo. Il 12 gennaio 1944 fu deliberata la legge sulla so­ cializzazione delle imprese, che in effetti non venne mai at­ tuata. Questa svolta dell'ultimo fascismo fu insieme un pate­ tico ritorno alle origini e un espediente. Ma arrivò quando nessuno credeva più alla sopravvivenza del regime, e alla possibilità che la «socializzazione» fosse un elemento stabile dell'assetto economico italiano. Fu voluta da Mussolini, di­ fesa dal ministro delle Corporazioni Angelo Tarchi, criticata perché «insufficiente» dalla sinistra del fascismo, accettata con riluttanza e praticamente sabotata dai tedeschi, rifiutata dagli operai, condannata dagli avvenimenti. Ecco il chiaro riassunto che Rahn ne fece a Berlino, dopo un colloquio con Tarchi: «Tutte le imprese italiane, sia so­ cietà che private, saranno socializzate (in pratica statizzate, N.d.A.) nel caso abbiano un capitale d'investimento supe­ riore a un milione e impieghino più di cinquanta persone. Il consiglio d'amministrazione di una società sarà costituito in maniera che metà dei suoi membri siano eletti da assem­ blee di azionisti, mentre l'altra metà sarà composta da rap­ presentanti del personale... Nelle imprese private la parte­ cipazione del personale sarà assicurata dalla formazione di

105 un consiglio di gestione con funzioni consultive consistente in un tecnico, un impiegato e un operaio. Nelle imprese di Stato metà del consiglio di amministrazione sarà composto dal personale. In tutte le imprese dello Stato e private il profitto netto risultante dai bilanci dopo la deduzione degli utili dei proprietari, dei fondi di riserva e dei dividendi de­ gli azionisti deve essere diviso tra i dipendenti in proporzio­ ne ai loro salari». Sia Rahn, sia - e con maggiore accentuazione - i coman­ danti militari tedeschi erano perplessi e infastiditi di fronte a una «rifondazione» della economia che rischiava di disse­ starla ancor più, mentre incalzavano le esigenze della pro­ duzione bellica. Per rassicurare Rahn, Mussolini gli scrisse che c'era «la tendenza in alcuni ambienti tedeschi a dram­ matizzare eccessivamente» e a impedire una azione diretta contro quei dirigenti dell'industria italiana «che attendono a braccia aperte gli anglosassoni e sono in gran parte re­ sponsabili del tradimento dell'8 settembre». Hitler fu meno riluttante di Rahn ad accettare il fatto compiuto non perché lo credesse efficace ma perché lo sa­ peva inutile: «Il Duce può agire in questo campo come sti­ ma più conveniente, anche se non è prevedibile che le mi­ sure otterranno un gran successo. Noi tedeschi dobbiamo guarire dall'abitudine di pensare che è per noi un dovere essere i medici di tutta Europa». Può sembrare paradossale che alcuni industriali si mostrassero indifferenti di fronte a un decreto che li espropriava: la verità è che ne sapevano la inconsistenza e ne prevedevano la effimera vita. Per questo Vittorio Valletta, direttore generale della Fiat, potè in tutta tranquillità dichiarare che «la legge del Duce sulla socializ­ zazione incontrerà l'approvazione di tutti coloro che, al di sopra degli interessi privatisti, vedono nel programma so­ ciale del fascismo... la salvaguardia per un'ordinata convi­ venza tra capitale e lavoro». Per precaria e velleitaria che fosse, la socializzazione im­ pensierì i dirigenti clandestini comunisti, che volevano af-

106 fermare, in fatto di socializzazioni e di egualitarismo, il loro monopolio. Un «comitato segreto di agitazione per il Pie­ monte, la Lombardia e la Liguria», composto in stragrande maggioranza di comunisti, promosse per i primi di marzo, contro il parere di altri esponenti antifascisti, uno sciopero generale nelle fabbriche, che fermò del tutto tre sezioni Fiat a Torino, ed ebbe un seguito parziale in altre industrie. Sin­ dacalisti fascisti si affannarono a spiegare alle maestranze gli scopi della legge, ma uno di loro annotò desolato che «le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi». La brutalità tedesca fece il resto. Per esplicita disposizione di Hitler pa­ recchi operai delle fabbriche «contagiate» furono deportati in Germania, e il divorzio tra i lavoratori e il regime fascista - che era visto come un regime tedesco-fascista, e in sostan­ za lo era - si consolidò, anziché attenuarsi. Con la socializza­ zione il Mussolini di Salò non conquistò i favori di nessuno. Era venuta male, ed era venuta tardi. CAPITOLO SESTO

LE FATICHE D'ERCOLI

Il 14 marzo 1944 il governo Badoglio diramò un annuncio che suscitò scompiglio e disorientamento nei partiti politici, sorpresa nella opinione pubblica italiana, costernazione a Londra e a Washington. «In seguito al desiderio a suo tempo ufficialmente espres­ so da parte italiana - diceva il comunicato - il governo del­ l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche ed il Regio go­ verno hanno convenuto di stabilire relazioni dirette tra i due paesi. In conformità a tale decisione sarà proceduto fra i due governi senza indugio allo scambio di rappresentanti muniti dello statuto diplomatico d'uso.» Giuocando d'anticipo, Mosca metteva così in una posi­ zione imbarazzante gli anglo-americani, che sopportavano l'intero peso militare della campagna d'Italia, che si atteg­ giavano a protettori e tutori dell'Italia stessa, ma che appa­ rivano meschini e prevaricatori, nei confronti di Badoglio e nei confronti del paese intero, a paragone con l'URSS. Stizzi­ ti e impotenti, Murphy e Macmillan tentarono di muovere obbiezioni, rinfacciando ai sovietici la mancata consultazio­ ne con gli Alleati occidentali, e al governo di Salerno la vio­ lazione delle norme armistiziali. Ma le bizzose e velleitarie proteste servirono a poco; restava il fatto che con un colpo da maestri i sovietici avevano accumulato un «capitale poli­ tico» ingente, tanto che il governo italiano promise di «non dimenticare» il gesto di Mosca «compiuto com'è in una del­ le ore più tragiche della nostra storia». Per completare il quadro negativo vi fu, in quello stesso volgere di settimane, il fallimento della offensiva anglo-americana su Cassino; fal-

108 limento che significò la rinuncia, per qualche altro mese, al­ la liberazione di Roma. Mentre I'URSS «apriva» a Badoglio, Palmiro Togliatti viag­ giava verso l'Italia. Era partito da Mosca, in aereo, il 18 feb­ braio, ma fu costretto a seguire un itinerario accidentato e tortuoso, con soste a Baku, Teheran, Il Cairo, Algeri (lì ospi­ te del Comando alleato): infine da Algeri a Napoli a bordo di un piroscafo, il Tuscania, dal quale sbarcò il 27 marzo, in­ fagottato in un abito di taglio russo, con un maglione a stri­ sce bianche e azzurre. Togliatti negò, successivamente, di avere saputo, prima di lasciare l'URSS, dell'imminente rico­ noscimento di Badoglio da parte di Stalin: asserì che «si po­ trà dire tutt'al più che la situazione mi spinse a cercare una via di uscita in una direzione che aveva qualcosa di analogo a quella accennata dalla diplomazia sovietica, ma niente di più». L'affermazione è comprensibile (Ercole Ercoli era an­ sioso di scrollarsi di dosso l'uniforme di funzionario del Co- mintern e di alto esponente del comunismo internazionale, per indossare la grisaglia del politico italiano) ma poco cre­ dibile. La manovra risultò troppo parallela, e troppo fluida­ mente orchestrata, per essere casuale. Togliatti giungeva in Italia preceduto da un prestigio in­ discusso e da una consacrazione sovietica che, allora, era per l'universo comunista determinante. I compagni napole­ tani che credevano, nella loro esuberanza pre-rivoluziona­ ria, di incontrare un «pasionario» effervescente e cordialo- ne, si trovarono di fronte a un gelido professore che usava di malavoglia il tu, e preferiva la stretta di mano agli ab­ bracci. Al Partito comunista il leader venuto dal freddo im­ pose quella che fu chiamata «la svolta di Salerno»: ossia la rinuncia ad ogni polemica antimonarchica e antibadogliana in nome della suprema esigenza di formare una grande «unione nazionale e antifascista per la ricostituzione mate­ riale e morale della nazione e per un vigoroso contributo al­ la guerra contro i tedeschi». Chiunque avesse avuto credenziali meno solide di quelle

109 togliattiane, ben difficilmente sarebbe riuscito a far digerire dai suoi una formula politica che contraddiceva i preceden­ ti atteggiamenti del Partito. Pochi giorni prima migliaia di militanti comunisti, insieme a socialisti e azionisti, avevano manifestato nella galleria Umberto di Napoli contro il go­ verno: sindacalisti di sinistra avevano tuonato contro i Sa­ voia, e infine era stato approvato un ordine del giorno che chiedeva «l'epurazione dei residui del fascismo, compreso il Re». Era una impostazione rivoluzionaria, della quale To­ gliatti fece piazza pulita sostituendo ad essa un programma di inserimento legalitario del PCI nel potere. Lo stretto collaboratore di Stalin aveva, sulla divisione delle sfere di influenza in Europa, idee molto più chiare di quelle dei suoi compagni rimasti in Italia. Benedetto Croce nel suo diario colse subito la importanza e le intenzioni del giro di boa imposto da uno «che ha il nome convenzionale di Ercoli, ma è un Togliatti... ha esortato a collaborare col go­ verno Badoglio saltando la questione dell'abdicazione del Re... un abile colpo della repubblica dei Soviet vibrato agli anglo-americani, perché sotto il colore d'intensificare la guerra contro i tedeschi introduce i comunisti nel governo». Politico duttile, e maitre a penser (fondò subito la rivista ideologica-culturale Rinascita), Togliatti ebbe screzi con Cro­ ce, cui rinfacciò la sua «resistenza privilegiata» durante il fa­ scismo, e con Sforza, ma non con Badoglio, che gli piaceva: e gli piacque anche la definizione che il maresciallo diede in piemontese di Sforza, «l'è pien 'd voeid» è pieno di vuoto. Con i rappresentanti degli altri partiti Togliatti si batté per un accordo che allargasse il governo Badoglio, dandogli una più consistente base politica. Trovò resistenze in coloro che, secondo schemi logici, avrebbero dovuto essergli più vicini, socialisti e azionisti, e pronta adesione nei democri­ stiani. Arrendevole anche nella formulazione di un docu­ mento programmatico, obbiettò soltanto per un «onde» se­ guito da un infinito e chiese che, «almeno in considerazione del fatto che si era così vicini alla città dove aveva insegnato

110 Basilio Puoti, l'errore venisse corretto». Ma questa apparen­ te morbidezza si accompagnava a un disegno preciso, e in­ fatti, ha osservato Bocca nella sua biografia di Togliatti, in­ tervenne nuovamente sul testo definitivo - e questa volta il problema era di sostanza - per chiedere che non si parlasse del diritto del popolo italiano a eleggere una «camera dei deputati», ma piuttosto del diritto a eleggere una «Assem­ blea costituente». La differenza è di rilievo. Resta il fatto che per opera di Togliatti le tendenze radicali emerse nel Con­ gresso di Bari furono ammorbidite, con la benedizione dei comunisti e dell'URSS. La svolta di Salerno, squisitamente politica, relegò sullo sfondo, per Togliatti, la lotta partigiana al nord, nonostante la sua affermazione che dovessero pri­ meggiare le esigenze della guerra. Luigi Longo dichiarò più tardi, con ironia piuttosto scoperta: «Credo che (Togliatti) abbia capito l'importanza del movimento partigiano quan­ do seppe che avevamo fucilato Mussolini a Dongo».

Gli anglo-americani avevano fretta di veder finalmente va­ rato quel governo ampliato che i loro ambienti politici e le loro opinioni pubbliche reclamavano. Ma per costituirlo era necessario superare l'ostacolo rappresentato da Vittorio Emanuele III, che non solo era risoluto a mantenere i suoi poteri formali fino alla presa di Roma, ma rifiutava di preannunciare pubblicamente l'abdicazione. Per porre al Re un ultimatum, i rappresentanti alleati ricorsero ad uno stratagemma, se non proprio scorretto, certo disinvolto. Chiesero udienza a Ravello per presentare a Vittorio Ema­ nuele III sir Noel Charles, che avrebbe sostituito Macmillan nel Consiglio consultivo alleato. Ma quando il generale MacFarlane, l'americano Murphy e gli inglesi Macmillan e Charles furono davanti al Re, diedero al colloquio un indi­ rizzo imprevisto. Pretesero che il Re decidesse e sottoscri­ vesse se non proprio seduta stante almeno in giornata il proclama con il quale rinunciava al trono, e nominava Luo­ gotenente il figlio Umberto. In un soprassalto d'orgoglio, il

111 Re dichiarò che era disposto a quel gesto, ma non subito, e non per una intimidazione che Murphy aveva formulato in termini poco meno che brutali. Avrebbe firmato, disse, ma l'indomani. Vi fu un altro aspro scambio di parole, e a quel punto Vittorio Emanuele III, ritrovando per un attimo la fierezza e la fermezza di Peschiera, ripetè di essere disposto a firmare, cedendo alle pressioni, ma che si ripresentassero 11 giorno dopo «che la vostra presenza mi ha già troppo in­ fastidito». E congedò i rappresentanti alleati. Rievocando, anni dopo, la penosa scena, Robert Murphy descrisse così il Re: «Egli continuava a stare molto eretto e dignitoso, ma il suo mento tremava e le lagrime riempirono i suoi occhi chiaro-azzurri mentre parlava con orgoglio della millenaria storia di Casa Savoia». Durante la notte Badoglio e Acquarone lavorarono alla stesura della dichiarazione sovrana che fu resa pubblica il 12 aprile. Essa recava tra l'altro: «Il popolo italiano sa che sono sempre stato al suo fianco nelle ore gravi e nelle ore liete. Sa che otto mesi or sono ho posto fine al fascismo e ho portato l'Italia, nonostante ogni pericolo e rischio, a fianco delle Nazioni Unite, nella lotta di liberazione contro il nazi­ smo... Verrà il giorno in cui, guarite le nostre profonde feri­ te, riprenderemo il nostro posto, da popolo libero accanto a nazioni libere. Ponendo in atto quanto ho già comunicato alle autorità alleate ed al mio governo, ho deciso di ritirar­ mi dalla vita pubblica nominando Luogotenente generale del Regno mio figlio Principe di Piemonte. Tale nomina di­ venterà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri, lo stesso giorno in cui le truppe alleate entreranno in Ro­ ma. Questa mia decisione, che ho ferma fiducia faciliterà l'unione nazionale, è definitiva e irrevocabile». Badoglio singhiozzava quando gli sottopose il documento per la firma («Maestà, sono cinquantacinque anni che servo la Vostra Casa, e non mi attendevo di trovarmi a questo, la­ sciate che pianga») ma il Re si limitò a battergli una mano sulla spalla. Si sfogò, per quel tanto che glielo consentiva il

112 suo freddo riserbo, con il generale Puntoni: «Non si può di­ re che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate be­ ne per la mia Casa. Solo mio nonno ne è uscito bene. Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non ave­ vo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l'avevo quasi convinto ad accogliere il mio proposito di rinunciare alla corona. Ma fu ucciso e io, in quell'ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l'avessi fatto avrebbero detto che ero un vile». Di quanto riferisce Puntoni, non c'è motivo di dubitare. Resta il fatto che, restio a salire sul trono, Vitto­ rio Emanuele III lo fu altrettanto a discenderne. La via era sgombra per la formazione del nuovo gover­ no, e su di essa s'incamminarono presto, facendo ressa, gli aspiranti a un posto presidenziale o ministeriale: anche in quella mezza Italia disastrata le poltrone facevano gola. Per la carica di Presidente il candidato ovvio era Badoglio, ma furono fatti circolare altri nomi, anche quello di Sforza - presto accantonato perché, avendo definito Churchill una «testa di passerotto» non era indicato a dialogare con lui - di Croce, che rifiutò sdegnosamente, perfino dell'azionista Cianca. Ma si trattava di assaggi senza costrutto. Quanto al resto, ha ricordato Degli Espinosa: «Da talune città giunse­ ro interi ministeri già formati. Giungevano vecchie automo­ bili sdrucite e polverose: i viaggiatori cercavano alloggio in­ vano, non sapevano dove mangiare, ma la fede che li ani­ mava era inflessibile, ed essi chiedevano di essere ricevuti dal maresciallo Badoglio vincendo i più aspri disagi». Il 22 aprile, un sabato, il governo dell'esarchia - demo­ cristiani, comunisti, socialisti, azionisti, liberali, demolaburi­ sti - era finalmente formato. Badoglio - affranto perché a Roma gli era stato arrestato il figlio Mario - tenne per sé, oltre alla Presidenza, gli Esteri. Ministri senza portafoglio furono Benedetto Croce, Carlo Sforza, Giulio Rodino (de­ mocristiano), Palmiro Togliatti, Pietro Mancini (socialista). Agli Interni andò il democristiano Aldisio. Molti i sottose­ gretari. Il governo fu presentato a Ravello al Re, che si disse

113 lieto «di sentire che le eminenti personalità che oggi entra­ no a far parte del governo, e che le diverse tendenze politi­ che della nazione, a tutto antepongono il supremo interesse del Paese». Di rilevante, nella dichiarazione programmatica, v'era l'annuncio che «la forma istituzionale dello Stato non potrà risolversi se non quando, liberato il Paese e cessata la guerra, il popolo italiano sarà stato convocato ai liberi comi­ zi... ed eleggerà l'Assemblea costituente e legislativa».

In maggio gli Alleati furono finalmente pronti per lanciare la «Operazione Diadem» che li avrebbe portati a Roma. Sulla linea Gustav di Kesselring - alle cui spalle era la linea Hitler formata da capisaldi sui quali erano state piantate, per ren­ derli più efficienti, le torrette di carri armati - si erano in­ franti i tenaci e sanguinosi attacchi di due armate multina­ zionali, potentemente armate e appoggiate da una aviazio­ ne che dominava il cielo. Il Comandante in capo, l'inglese Alexander, era un freddo e raffinato gentiluomo, ma non certo un fantasioso stratega. La capacità dei comandi tede­ schi, e la determinazione delle loro truppe, l'avevano in­ chiodato davanti a Cassino, e nella testa di sbarco di Anzio. A metà marzo era stato compiuto uno sforzo immane per sfondare a Cassino - e l'Abbazia fu sottoposta a bombarda­ menti tanto devastatori quanto, dal punto di vista militare, insensati - ma la linea Gustav non si era spezzata. Irritato, Churchill aveva chiesto che Alexander gli spiegasse «come mai questa vallata presso la collina dell'Abbazia di Monte- cassino, larga appena dai 3 ai 5 chilometri, rappresenti l'u­ nico fronte contro cui dovete continuamente dar di cozzo». Era così sfumato il sogno di un ricongiungimento tra il gros­ so dell'esercito e le truppe di Anzio, ed era sfumato anche il sogno di una irruzione verso Roma. Il fronte entrò in una fase di relativa stagnazione, anche se i bombardieri alleati non interruppero un solo momento il martellamento delle vie di comunicazione, degli obbiettivi militari, e di quelli che erano sospettati di esserlo o di poter-

114 10 diventare. L'«Operazione Strangle» - il termine «strango­ lare» bastava a qualificarne le finalità - fu meno efficace di quanto si potesse supporre, per le eccezionali doti di im­ provvisazione e di adattamento delle unità tedesche: ma non lasciava respiro. Tra il 15 marzo ed il 10 maggio - il da­ to è in Roma 1944 di Raleìgh Trevelyan - furono compiute 3.807 missioni. «Il generale Eaker - citiamo ancora Tre­ velyan - raggruppò le città italiane che vantavano monu­ menti storici e religiosi in tre categorie. Quelle che non do­ vevano in nessun caso venir bombardate senza la sua auto­ rizzazione erano Roma, Fiesole, Firenze, Venezia e Torcello. Nella seconda categoria figuravano Ravenna, Assisi, San Gi- mignano, Pavia, Urbino, Montepulciano, Parma, Aosta, Ti­ voli, Udine, Gubbio, Volterra, Spoleto, Ascoli Piceno, Co­ mo, Pesaro ed altri centri elencati enigmaticamente come Borgo San Spolone ed Aquia, cui verosimilmente corrispon­ devano Borgo San Sepolcro e l'Aquila.» «Il bombardamento di queste città - affermava la direttiva di Eaker - che al pre­ sente non hanno alcuna speciale importanza militare, dev'essere evitato finché è possibile. Se però voi giudichere­ te essenziale per ragioni operative bombardare un obbietti­ vo situato in una qualsiasi di esse, procedete senza esitazio­ ne, ed io mi assumerò la piena responsabilità dei risultati della vostra azione.» Nel terzo capitolo di quest'apocalisse figuravano città come Siena, Orvieto e Perugia, di cui la di­ rettiva di Eaker diceva: «In queste città o nelle loro vicinan­ ze sono situati importanti obbiettivi militari, che debbono essere bombardati. Quali che siano i danni che ne risulte­ ranno, essi sono accettati in partenza». Il fallimento della offensiva alleata di marzo si era riper­ cosso sull'intero sviluppo della strategia europea, che aveva 11 suo pilastro, ormai, nello sbarco in Normandia. A Tehe­ ran i tre «grandi» avevano stabilito che, prima di Overlord (questo era il nome convenzionale dell'attacco da settentrio­ ne alla fortezza Francia), le armate anglo-americane d'Italia fossero press'a poco sulla linea Pisa-Rimini, e che insieme

115 ad Overlord scattasse il piano Anvil, ossia lo sbarco sulle coste meridionali francesi. Ma il cronicizzarsi della testa di sbarco di Anzio continuava ad impegnare mezzi navali che si sa­ rebbero voluti utilizzare per Anvil, cosicché questa branca della tenaglia in cui la Francia - o per meglio dire i tedeschi che l'occupavano - avrebbe dovuto essere schiacciata non agì fino a metà agosto: con il rinvio l'operazione cambiò an­ che nome, da Anvil a Dragoon. In quest'ultimo scorcio d'inverno e nelle prime settima­ ne di primavera i reparti del raggruppamento motorizzato italiano che a Monte Lungo avevano manovrato male e combattuto bene, uscendone con il morale fiaccato, furono riorganizzati. L'ambiente non era certo favorevole agli slan­ ci patriottici, con i galoppini di alcuni partiti che giravano tra i soldati del raggruppamento incitandoli, in quanto sa­ voiardi e badogliani, a disertare. Il Comando alleato aveva a quel punto progettato di tenere nelle retrovie l'unità italia­ na, perché si unisse agli altri «reparti lavoratori», in pratica umile manovalanza da adibire ai bassi servizi. Il generale Umberto Utili, che sostituì Dapino, aveva capacità, grinta e personalità. Si rivolse direttamente a Clark, il comandante della 5a armata americana, e gli chiese di rinunciare al de­ classamento dei suoi uomini, impegnandosi dal canto suo a ricavarne una vera forza militare. Mantenne la promessa. Posti alle dipendenze del Corpo d'armata francese di Juin, e successivamente di quello polacco di Anders, gli italiani del ribattezzato CIL (Corpo Italiano di Liberazione) si dimo­ strarono all'altezza delle altre truppe. Avevano avuto l'ap­ porto di un battaglione di alpini, uno di arditi, uno di ber­ saglieri, uno di marinai da sbarco. Quindi si aggiunse loro il grosso della divisione paracadutisti Nembo, proveniente dal­ la Sardegna. Sulla efficienza bellica di questa unità non v'e­ rano dubbi: ve n'erano invece - e gli inglesi li affacciarono ostinatamente - sulla sua affidabilità politica. Era avvenuto infatti che dopo l'armistizio un battaglione della Nembo, per sollecitazione dei suoi ufficiali, fosse passato ai tedeschi, che

116 successivamente lo impiegarono al fronte (dove si comportò eccellentemente). Altrettanto bene si batterono poi in cam­ po opposto, nonostante i dubbi inglesi, i battaglioni rimasti fedeli al Re. Il che dimostra che nelle truppe speciali lo spi­ rito di corpo e il sentimento dell'onore stanno molto al di sopra dell'ideologia. Da cinquemila che erano nel raggrup­ pamento motorizzato, i combattenti italiani diventarono co­ sì 15 mila: poca cosa nel complesso di una forza militare im­ ponente, ma abbastanza per attestare che c'erano ancora in Italia dei giovani disposti a rischiare la vita per la loro ban­ diera. Umberto di Savoia avrebbe voluto assumere il co­ mando del CIL, ma la Commissione alleata di controllo glie­ lo vietò con pretesti burocratici - un generale d'armata (per la precisione Umberto era maresciallo d'Italia ma non ne portava i gradi, N.d.A.) non poteva essere messo a capo di quella che in sostanza non era che una divisione - che ma­ scheravano ragioni politiche. Il Principe si disse disposto a essere retrocesso a generale di divisione o a colonnello ma, ha scritto Leandro Giaccone nel suo Ho firmato la resa di Ro­ ma, «neppure questo modesto obolo fu concesso al regale mendicante d'onore». L'offensiva di Alexander fu scatenata il 12 maggio, e al Comandante alleato va riconosciuto un merito: i preparativi vennero condotti con molta segretezza e con accorgimenti che consentirono di cogliere i tedeschi a guardia abbassata. Kesselring supponeva che la macchina militare alleata, co­ lossale ma anche pachidermica, non potesse essere di nuovo a punto prima dell'ultima settimana del mese. Per di più gravava sul feldmaresciallo la minaccia di sbarchi sulla costa tirrenica, a Civitavecchia o a Livorno, e questo lo induceva a tenere di riserva, per un intervento mobile, unità preziose. Infine v'era l'intensificarsi della guerriglia partigiana. Fidan­ do incautamente su un momento di respiro, l'Alto comando della Wehrmacht aveva chiamato Vietinghoff, comandante della 10a armata sulla linea Gustav, in Germania, dove Hitler voleva di persona appuntargli sul petto un'alta decorazione.

117 Il Capo di Stato Maggiore di Kesselring, Westphal, il coman­ dante del XIV corpo Panzer, Senger, e il comandante della 90a divisione dei Panzer Grenadiere, Baade, erano in licen­ za. Furono richiamati in gran fretta. «Non posso ripensare a quei giorni senza un moto d'or­ rore» disse in seguito Kesselring. Le unità tedesche, pur a ranghi incompleti, e consapevoli della superiorità nemica in uomini armi e materiali, difesero strenuamente le posizioni. L'esercito alleato aveva le unità della 5a armata americana schierate sulla sinistra, dalla costa tirrenica fin ad ovest di Cassino; poi, proseguendo verso est, l'8a armata britannica. Con gli americani erano i francesi di Juin, con gli inglesi in­ diani, polacchi, canadesi, italiani e sudafricani. Lo svolgimento delle azioni non fu certo facilitato dalla ostilità di Mark Clark, il comandante della 5a armata, per Alexander. Il generale americano riluttava a considerare Alexander un suo vero e diretto superiore: ed aveva il so­ spetto che gli inglesi volessero defraudarlo del privilegio di far entrare le sue truppe per prime nella capitale italiana. «Noi non solo volevamo l'onore di conquistare Roma, ma pensavamo di averlo abbondantemente meritato... Non sol­ tanto intendevamo diventare il primo esercito che in quin­ dici secoli conquistasse Roma da sud, ma volevamo che in patria la gente sapesse ch'era stata la 5a armata a compiere l'impresa e sapesse anche a qual prezzo c'eravamo riusciti.» Il primo sfondamento della linea Gustav fu merito delle truppe di Juin, che aveva alle sue dipendenze anche i corag­ giosi ma feroci «goumiers» marocchini dei quali la popola­ zione italiana conservò poi un ricordo d'orrore: «Durante le ventiquattr'ore di contatto con i marocchini soffrimmo più che negli otto mesi sotto i tedeschi. Questi si prendevano le nostre capre, le nostre pecore e il nostro cibo, ma rispettava­ no le nostre donne e i nostri magri risparmi. I marocchini si gettarono su di noi come diavoli scatenati. Sotto la minaccia delle mitragliatrici violarono bambini, donne, uomini, giova­ ni, dandosi freneticamente il cambio come altrettante bestie.

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Si presero il nostro denaro. Ci seguirono fino al paese e por­ tarono via ogni cosa, compresa la nostra biancheria e le no­ stre scarpe. Quelli dei loro ufficiali che tentarono di interve­ nire in nostra difesa furono anch'essi minacciati». Nell'Abbazia di Montecassino entrarono i polacchi, all'al­ ba del 18 maggio. Le rovine erano state evacuate dai tede­ schi, che vi avevano lasciato soltanto i feriti gravi. Si scoprì che le grandi cantine a volta avevano resistito a migliaia di tonnellate di bombe, e che molti libri erano ancora intatti ne­ gli scaffali. Kesselring aveva dovuto impartire personalmen­ te ai paracadutisti della prima divisione l'ordine di lasciare l'Abbazia. Non volevano andarsene ed era quello, egli disse, «lo svantaggio di avere personalità così forti come coman­ danti e subordinati». Il 23 maggio si mossero, finalmente, an­ che le divisioni della testa di ponte di Anzio, e lo fecero con il formidabile appoggio di artiglieria e aereo, che era nella tec­ nica e nelle possibilità delle armate anglo-americane. Kesselring si ritirava con sufficiente ordine, ma senza po­ ter contrastare una avanzata che gli veniva sferrata con vio­ lenza da due diverse direzioni, e che puntava verso Roma. Ancora il 2 giugno, mentre la Città eterna era già in vista delle avanguardie alleate, Alexander e Clark discussero su chi dovesse entrarvi. «Quando Alexander comunicò a Clark il proprio desiderio che l'8a armata partecipasse alla conqui­ sta di Roma, Clark prese violentemente cappello... disse ad Alexander che se gli avesse impartito un ordine del genere si sarebbe rifiutato di obbedire e se l'8a armata avesse tenta­ to di marciare su Roma avrebbe dato istruzioni ai suoi uo­ mini di spararle addosso... Alexander non insistè.» Nel tardo pomeriggio del 4 giugno i primi reparti ameri­ cani penetrarono nell'abitato; il 5 giugno Clark ebbe l'ago­ gnato alloro e raggiunse in jeep il Campidoglio ma il trionfo fu oscurato, almeno nelle cronache giornalistiche, dallo sbarco in Normandia che, avvenuto a distanza di poche ore, soffocò l'eco della campagna d'Italia, e di questa sua svolta decisiva.

CAPITOLO SETTIMO

I SILENZI DI PIO XII

Nei mesi che precedettero la caduta di Roma Mussolini non potè mai rivedere la città amata-odiata nel cui nome aveva costruito l'impalcatura coreografica e lessicale del fascismo. Per i piccoli uomini che con o senza convocazione formava­ no le folle oceaniche, la dottrina del fascismo era tutta lì, nell'Impero che risorgeva sui colli fatali, nei littori, nei cen­ turioni e nelle quadrate legioni. Ma Roma, Palazzo Venezia e il balcone fatidico erano stati dichiarati off-limits, per il Du­ ce, già prima che vi irrompessero i soldati del generale Clark. Tra Salò e Roma correva una linea divisoria che si chiamava 8 settembre. I tedeschi erano i padroni dovun­ que, ma a Roma erano i soli padroni, sia pure con dei ma­ nutengoli fascisti per i bassi servizi. Tre Italie: il Regno del Sud, la Repubblica di Salò, e Roma. In questo cupo tramonto della loro potenza, l'Italia era per i militari e i funzionari tedeschi una destinazione ambi­ ta. Lo era perfino per chi doveva battersi al fronte, Io era a maggior ragione per gli ufficiali e i reparti destinati alle re­ trovie. Il clima relativamente mite, la bonarietà della massa della popolazione - anche se GAP e guerriglia partigiana da­ vano molti fastidi - la prospettiva, a sconfitta avvenuta, di una prigionia nei campi anglo-americani, spiegano lo stato d'animo degli occupanti, molti dei quali arrivavano nelle belle città italiane dall'inferno di neve e di ghiaccio delle pianure russe. Un nugolo di tedeschi si era insediato in Ita­ lia per «spremere il limone neofascista e quindi l'italiano più che sia possibile», come disse Rahn; ma anche per conce­ dersi gli ultimi balli su un Titanic che affondava. I «protettori» tedeschi sorvegliavano e vessavano quella parodia di Stato che era Salò, tentavano di ridare vigore al­ la produzione industriale, e organizzavano su vasta scala la razzia delle risorse. Sempre più frequentemente Mussolini prorompeva in amari sfoghi contro questa arroganza: «E perfettamente inutile che questa gente si ostini a chiamarci alleati. E preferibile che buttino una buona volta la masche­ ra e ci dicano che siamo un popolo e un territorio occupato come gli altri». Anche quando non lo dicevano, i tedeschi la pensavano esattamente così, e il generale Wolff spiegò che «non gli davo ordini (a Mussolini) ... in pratica però egli non poteva decidere niente contro la mia volontà e i miei consi­ gli». Per la verità in quella primavera del '44 l'ossatura eco­ nomica e produttiva dell'Italia settentrionale - che era poi l'Italia industriale - diede segni di ripresa. Per taluni settori (gli autocarri della Fiat, che furono 759, l'energia elettrica, oltre un milione di chilowattore, l'acciaio, 138 mila tonnel­ late) nel maggio furono raggiunti i livelli non solo degli altri anni di guerra, ma addirittura del 1939. Fu comunque una breve fiammata seguita da un rapido declino. Quanto alle spogliazioni, v'era un generale, Hans Leyers, che Hitler aveva incaricato di sovrintendere ad esse, spiegandogli succintamente: «Che i pantaloni glieli leviamo noi o glieli levino gli inglesi è del tutto indifferente». La gamma dei prodotti che prendevano la via della Germania era varia, a volte molto curiosa, e così (cito dalla Storia dell'I­ talia partigiana di Bocca) vi furono inclusi otto tonnellate di pipe e trentadue di bottoni, cravatte, scarpe, scope. Ma an­ che le armi del Bresciano: in aprile del '44 7.500 mitraglia­ trici, 7.000 pistole, 10.000 fucili, 100 pezzi di artiglieria. In­ fine un quarto degli ortaggi e della carne. Il governo di Salò si oppose come meglio poteva, e poteva poco, alle pretese dei tedeschi, i cui piani per il saccheggio divennero operati­ vi quando, infranta la linea Gustav, fu chiaro che l'Italia in­ tera rischiava di cadere a breve termine nelle mani degli Al­ leati. Con quella delle cose, veniva tentata anche la razzia

123 degli uomini, ma la opposizione era diffusa e tenace a tutti i livelli: v'era il sabotaggio della burocrazia repubblichina, v'era la solidarietà popolare, v'era infine l'aiuto della Resi­ stenza, che a sbandati e fuggiaschi offriva una rete di prote­ zione e, in caso estremo, la macchia. Il Gauleiter Kurt Sauckel («tipica figura da galeotto» lo aveva definito il di­ plomatico tedesco Moellhausen) escogitò le misure più spregiudicate e brutali per catturare braccia, tra l'altro reta­ te nei cinematografi, nei teatri, perfino trappole all'uscita dalle chiese. Ma gli italiani sono furbi, ed escogitarono vali­ de contromisure. Sta di fatto che, ad esempio, «a Pinerolo su 700 lavoratori convocati se ne presentarono 10, a Cuneo 7 su 800», poche centinaia di uomini vennero raggruppati in un'area che comprendeva Genova, Milano, Padova, Bo­ logna. L'Italia piaceva ai tedeschi che vi venivano destinati, ma indispettiva il sempre invasato é trasognato Hitler, che il 22 e 23 aprile si incontrò - ancora una volta nel fastoso castello di Klessheim presso Salisburgo - con il suo amico e ostaggio Mussolini. Un anno prima i due avevano discusso, in quella stessa sede, in un'atmosfera già gravida di tristi presagi, ma almeno formalmente assai diversa. Paradossalmente, pro­ prio perché era ormai di fronte a un vassallo, Hitler rispar­ miò ai suoi interlocutori il torrenziale monologo iniziale cui erano di norma sottoposti. Con Mussolini erano Graziani, Mazzolini, Anfuso e l'addetto militare a Berlino colonnello Morera; con Hitler erano Ribbentrop, Keitel, Rahn, Wolff, Toussaint e Dollmann. Mentre il Fùhrer ascoltava ingoian­ do ogni tanto le pillole magiche prescrittegli dal medico­ stregone Morell, Mussolini tracciò un quadro della situazio­ ne. Riconobbe che l'internamento in Germania delle trup­ pe italiane era stato «consigliabile» e «necessario», ma ac­ cennò all'ansia delle loro famiglie in Italia, il che faceva mi­ lioni di persone, e chiese che vivessero in condizioni miglio­ ri. Si occupò, brevemente, della nazionalizzazione attuata dall'alleato in Alto Adige e in Venezia Giulia, ma senza trop-

124 po insistere, tanto che Graziani commentò, successivamen­ te: «Mussolini... non aveva mordente, non sapeva parlar chiaro». Il Duce riconobbe che la maggioranza degli italiani oscillava tra scetticismo e pessimismo, che c'era una mino­ ranza attivamente ostile, che la Chiesa era «esitante» o av­ versa. Domandò un più caldo riconoscimento tedesco per gli sforzi del Partito fascista, e promise di richiamare alle ar­ mi alcune classi per dare gli uomini che Sauckel, Gòring (per le batterie antiaeree) e Kesselring (per i servizi di retro­ via) volevano. Più rude fu Graziani, quando venne il suo turno. Disse che il suo lavoro era stato ostacolato in mille modi, che non aveva potuto disporre di un servizio telefoni­ co e telegrafico perché questi erano riservati ai tedeschi, che mancavano forze di polizia sufficienti per obbligare i richia­ mati alle armi a presentarsi e che interi reparti disertavano perché la propaganda nemica insisteva sul fatto che la Ger­ mania aveva irrimediabilmente perso la guerra. Quel mattino Hider interruppe la riunione, atteso com'era da un consulto con i suoi generali, e ricomparve nel pomerig­ gio per spiegare il suo punto di vista. Fu amaro, tenuto conto del suo temperamento, perfino realista. «Non sappiamo se e dove può aver luogo un'invasione» ammise, ma aggiunse che se essa non fosse stata realizzata entro sei o otto settimane l'In­ ghilterra sarebbe entrata in crisi, e tra gli Alleati si sarebbero verificate frizioni. Mussolini chiese come potesse essere accele­ rato questo processo di disfacimento della coalizione: non eb­ be risposta. L'indomani vi furono altri due colloqui, e Hitler espresse la sua diffidenza verso gli italiani. «Se dei 600 mila internati militari 200 mila sottoscrivessero per il servizio attivo, lo fa­ rebbero solo per migliorare la loro sorte e non sarebbero il genere di truppe necessario ad affrontare i sacrifici necessa­ ri intorno a Cassino.» Mussolini rispose dicendosi disposto a «chiamare venti classi e impiegarle in battaglioni di lavoro». Prima di cenare a tu per tu con Mussolini, Hitler disse an­ cora di aver rotto tutti i contatti con l'Italia e di volerli man-

125 tenere solo con il Duce. «La Germania e l'Italia - concluse - devono vincere, altrimenti i due popoli e i due paesi crolle­ ranno insieme in rovina.» Congedatosi dal camerata tedesco, Mussolini confidò ad Anfuso che «le sue affermazioni sulla fine della guerra gli erano parse dannatamente ottimiste». Il gruppo italiano si trasferì quindi al campo di addestramento di Grafenwòhr, dove erano gli uomini della divisione Monterosa: 600 ufficia­ li e dodicimila sottufficiali e soldati che riserbarono al Duce una accoglienza entusiastica. Egli se ne sentì rigenerato, e «riprese in pieno la confidenza in se stesso e nel domani del­ la patria». Per allestire quello che fu l'esercito di Salò, cioè la forza militare teoricamente apolitica cui Graziani aspirava, erano stati intruppati, con lusinghe e con la costrizione, uomini di varia provenienza: veterani prelevati dai campi di prigionia tedeschi, ragazzi di leva, volontari. Furono messe in cantie­ re quattro divisioni, la San Marco, la Monterosa, l'Italia, la Lit- torio. Dovevano avere una composizione modellata sugli schemi tedeschi; per ciascuna di esse due reggimenti di fan­ teria su tre battaglioni, un reggimento di artiglieria, un bat­ taglione pionieri, un gruppo esplorante, reparti autonomi, in totale 16 mila uomini per le divisioni ordinarie (20 mila, almeno in progetto, per la divisione Monterosa che era alpi­ na). La San Marco e la Monterosa furono mandate, sia pure a organici incompleti, in Germania, per l'addestramento: a Grafenwòhr, come s'è accennato, e a Miinzingen. Per le al­ tre due ci si affannava a racimolare reclute, e a fine maggio le quattro unità contarono, tutte assieme, 57 mila uomini. Sottoposti ai metodi di addestramento tedeschi («dal mattino alle 5 andiamo dritto fino alle 19 - scrisse un uffi­ ciale della Monterosa - e molte volte oltre, specialmente chi durante la giornata non ha pienamente soddisfatto le esi­ genze degli istruttori... l'addestramento è lungo perché cu­ rato nei più piccoli particolari»), i soldati delle divisioni fa­ sciste formarono forse le unità meglio preparate al combat-

126 timento che l'esercito italiano avesse mai avuto. Ouesto fin- che rimasero in Germania, rinserrate in un cordone sanita­ rio psicologico e ambientale, prive di notizie e di contatti. Quando furono rimpatriate per l'impiego, la realtà italiana, il disprezzo della popolazione, le vicende della guerra pro­ vocarono presto diserzioni in massa. Non avevano tutti i torti i tedeschi, dal loro punto di vista, quando consigliava­ no di impiegare le divisioni di Salò o sul fronte orientale o nella difesa antiaerea in Germania (la proposta suscitò il fu­ rore di Graziani che, a tu per tu con Keitel, minacciò di di­ mettersi. Keitel cedette). Alla resa dei conti i reparti efficienti di Salò si ridussero sempre a poca cosa. Mussolini fece in maggio, conversando con il direttore del Messaggero Bruno Spampanato, la cifra di 400 mila soldati, ma vi includeva evidentemente, con molta disinvoltura (oltre ai 57 mila delle 4 divisioni), i 140 mila della Guardia nazionale repubblicana, i 55 mila di cui Graziani disponeva per la sua «burocrazia militare» (gente di distretto e di caserma) e infine tutti i reparti sfusi e auto­ nomi che i tedeschi erano andati organizzando non solo in Italia ma nei Balcani (ve ne furono impegnati perfino sul fronte russo). Per i corpi che s'erano incorporati nella Wehrmacht i te­ deschi, sempre meticolosi, avevano escogitato una formula di giuramento abbastanza generica: ma per le SS italiane (se ne mise in piedi una divisione, la 29a, per minima parte uti­ lizzata al fronte, per la massima parte in brutali rastrella­ menti) la formula era ben più esplicita: «Davanti a Dio pre­ sto questo sacro giuramento: che nella lotta per la mia pa­ tria italiana contro i suoi nemici sarò in maniera assoluta obbediente ad Adolf Hitler supremo comandante dell'eser­ cito tedesco, e quale soldato valoroso sarò pronto in ogni momento a dare la mia vita per questo giuramento». Anche in chi s'era così impegnato Himmler non aveva comunque molta fiducia perché «la debolezza del popolo italiano è nel suo sangue, nella sua razza». Anche nelle SS

127 italiane, come in tutta questa accozzaglia di reparti che il più delle volte sembravano, per lo spirito se non per l'in­ quadramento, bande rinascimentali, v'era, come ha scritto Ricciotti Lazzero, di tutto: «Idealisti, illusi, fanatici, profitta­ tori, gente in buona e malafede, persone che colsero l'occa­ sione per rientrare in Italia dai campi di concentramento, individui violenti, altri che credevano in un nuovo ordine europeo all'ombra della svastica e ne volevano essere i for­ giatori e quindi a un certo momento i privilegiati, ed anche prigionieri messi di fronte a un'alternativa, o con noi o al muro. I disertori furono molti, alcuni passarono alla Resi­ stenza e divennero noti combattenti partigiani». Dove si ve­ de quanto possa essere labile, in tempi di guerra civile, il confine ideale e fisico tra l'uno e l'altro schieramento. Le SS italiane, l'abbiamo visto, ignoravano Mussolini. La X Mas del principe Borghese gli fece la fronda, tanto che il suo co­ mandante fu a un certo punto arrestato. I fascisti di Salò lo rilasciarono, ha ricordato Luigi Del Bono, che nella X Mas militò, quando «avevamo minacciato una marcia sui laghi, dov'era sistemato il nuovo governo».

Kesselring ha scritto che «il movimento partigiano diventò per la prima volta molesto nell'aprile del '44, quando le bande cominciarono ad agire sull'Appennino». In primave­ ra, questo è certo, la lotta si dilatò e divenne ancora più cru­ dele, fino al bando del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Mischi - che aveva sostituito Gambara, ritenuto troppo morbido - con cui si annunciava che chi non si fosse arreso entro il 25 maggio non avrebbe avuto pietà. Ma pietà non ce n'era nemmeno prima, dall'una e dall'altra parte. Del re­ sto un altro generale repubblichino aveva osservato che i renitenti alla leva «sono certi della impunità, la defezione dei carabinieri ne ha impedito la ricerca» e poi «ci sono i consigli subdoli e sottili dei preti, la sfortunata coincidenza con eventi bellici poco favorevoli, la generale depressione della popolazione...» Vennero realizzati rastrellamenti mas-

128 sicci, con dure perdite partigiane: come nella piemontese Val Casotto dove la formazione del maggiore Enrico Marti­ ni (Mauri) fu annientata da seimila tedeschi, lasciò sul terre­ no cinquanta morti, e in mano nemica 160 prigionieri, in gran parte passati per le armi; o come in Val Varaita (sem­ pre in Piemonte) dove seicento garibaldini e autonomi fu­ rono sgominati, ebbero 150 caduti e 200 prigionieri depor­ tati nei campi di sterminio. Assai meglio ressero le agili «bande» di «Giustizia e Libertà». A fine aprile - citiamo da Bocca - le forze partigiane contavano in tutto e per tutto poco più di dodicimila combattenti, di cui 9.000 nel Nord Italia e oltre tremila nel Centro e nel Sud. Più cospicuo, ma non maggioritario, l'apporto dei garibaldini, ideologica­ mente ispirati dai comunisti, 5.800; e poi 3.500 autonomi, 2.600 giellisti, 700 cattolici. (Ma c'e chi afferma che queste cifre sono in difetto per quanto riguarda i cattolici «per il colossale apporto dato da preti e religiosi alla lotta contro il nazifascismo».) I GAP continuavano ad agire nelle città. Pochi uomini, al massimo qualche decina nei centri maggiori, che prendeva­ no di mira tedeschi e fascisti, colpivano e scatenavano le rappresaglie, rischiavano la vita e pagavano, sovente, con la vita. Alcuni divennero veri professionisti dell'agguato. Ve n'erano di già sperimentati, come Giovanni Pesce, veterano (nelle file «rosse») della guerra di Spagna. Avevano per co­ mune denominatore una determinazione implacabile e una forte carica di ideologia e di fanatismo. Uccidevano anche a freddo, disposti a sacrificarsi e altrettanto disposti a sacrifi­ care gli ostaggi innocenti che, dopo ogni impresa, erano fu­ cilati. In questa spirale di odio - fatale caratteristica di ogni guerra civile - s'inserì un episodio che divise anche l'antifa­ scismo: l'«esecuzione» di Giovanni Gentile. II filosofo siciliano, uno degli ingegni più lucidi della cul­ tura italiana, fascista fervente (tanto che Mussolini gli aveva affidato l'incarico di compilare la voce «fascismo» per la En­ ciclopedia Treccani salvo poi rimodellarne le parti troppo

129 rigorosamente ideologiche), autore della riforma della scuo­ la, discussa da molti ma da tutti rispettata per i suoi conte­ nuti e per la sua ispirazione, aveva aderito alla Repubblica di Salò. Era stato in questo coerente con il suo passato: e Mussolini l'aveva ricompensato con la nomina - più perico­ losa che onorifica, in quei frangenti - a presidente della Ac­ cademia d'Italia. Gentile dava senza dubbio un appoggio autorevole al nuovo regime di Mussolini. Esortava alla «cessazione delle lotte tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, ven­ duti o in buona fede ma sadisticamente ebbri di sterminii». Si sforzava tuttavia di mantenere un tono alto, patriottico, coerente con l'«idealismo» della sua filosofia e con una fede patetica nella possibilità che molto potesse essere cambiato purché si volesse cambiarlo. «Questo è tempo di costruire... Ci sono tante colpe da espiare, tanti torti da riparare; tanto male che un doveroso esame di coscienza ci può rimprove­ rare. Ma oltre il male, c'è il bene, che ora più che mai biso­ gna rammentare se non si vuol finire nella disperazione.» Nessuna partecipazione sua, né morale né tanto meno materiale, ad atti di repressione. L'uomo - lo ha ammesso Roberto Battaglia - «era personalmente bonario e tolleran­ te e, come risulta da molteplici testimonianze, si era dimo­ strato avverso alle violenze e agli orrori perpetrati in quel periodo a Firenze dalla banda Carità». Che era una delle tante polizie private che imperversavano. Nella sua propen­ sione verso il fascismo di Salò, Gentile era stato anche inco­ raggiato dalla comprensione che il ministro della Istruzio­ ne, Biggini, aveva dimostrato verso il mondo accademico, tanto da confermare nella carica di rettore della Università di Padova Concetto Marchesi: l'illustre latinista e grecista aveva accettato di restare al suo posto, pur pronunciando, presente in forma privata lo stesso Biggini, e sotto la sorve­ glianza inquietante di un gruppo di armati, una prolusione coraggiosa, affermando che «qui dentro si raduna ciò che distruggere non si può». Ma il Partito comunista - cui Mar-

130 chesi apparteneva e appartenne fino alla morte, schieran­ dosi nelle file dei più indiscriminati esaltatori dello stalini­ smo - gli ingiunse di lasciare la sua poltrona, e di rinnegai^ l'amicizia con quel ministro per bene (che era oltretutto suo vicino di casa) con il quale aveva stabilito un patto di «invio­ labilità dell'Ateneo». Tra i migliori esponenti della Repub­ blica Sociale e la cultura v'era stato dunque un tentativo di reciproco rispetto, e ad esso Gentile voleva ispirarsi. Ma proprio Concetto Marchesi, una volta troncato il le­ game con Biggini, aveva risposto con l'intransigenza dura agli appelli - per parte di Gentile non insinceri - alla con­ cordia. «Quanti oggi incitano alla concordia sono complici degli assassini fascisti e nazisti, quanti oggi invitano alla tre­ gua vogliono disarmare i patrioti e rifocillare gli assassini nazisti perché indisturbati consumino i loro crimini... Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani nazi­ sti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sua sentenza: morte!». Sulla esatta paternità di questo testo, apparso nel foglio clandestino comunista La nostra lotta, vi sono fondati dubbi. E probabile che per la massima parte esso sia stato di pugno di Marchesi: ma è altrettanto probabile - per molti sicuro - che l'ultima frase, quella che parve una sentenza capitale per Gentile, fu aggiunta dai duri del Partito, insensibili a sollecitazioni e remore culturali. Si è poi fatto, al riguardo, il nome di Girolamo Li Causi. Concetto Marchesi non volle mai sconfessare il Partito: ma privatamente negò più volte d'aver firmato l'espressione che accomunava Gentile ai peg­ giori sgherri fascisti. I familiari di Gentile hanno dichiarato d'aver sempre saputo che Marchesi aveva coperto i comuni­ sti, e che non gli si poteva imputare quella conclusione spie­ tata. L'atmosfera fiorentina si intrise di odio dopo che il 22 marzo 1944 cinque partigiani furono fucilati al Campo di Marte dai militi della Legione Muti. I gappisti deliberarono di rispondere al terrore con il terrore: e quando si trattò di

131 scegliere un bersaglio esemplare non ebbero da faticare per trovarlo. Era stato indicato, inequivocabilmente. I gappisti si appostarono il 15 aprile, alle 13,30, nei pressi di Villa Montaldo al Salviatino, dove Gentile abitava. Gli «esecutori» della sentenza, Bruno Fanciullacci e Antonio Ignesti, si ac­ costarono all'auto tenendo sotto braccio dei libri, come fos­ sero studenti. Credendo volessero parlargli, Gentile abbas­ sò il vetro, e fu colpito a bruciapelo mentre Fanciullacci gri­ dava: «Non uccido l'uomo ma l'idea». Dalla villa uscì cor­ rendo il figlio minore Benedetto, mentre l'autista avviava precipitosamente l'auto e trasportava il filosofo morente al­ l'ospedale, dove era di servizio un altro figlio, Gaetano, me­ dico. Non ci fu nulla da fare. Curiosamente, molti a Firenze pensarono che gli uccisori di Gentile potessero essere estremisti «repubblichini», sgherri della banda Carità ansiosi di liberarsi d'un modera­ to di prestigio. Negli ambienti della Resistenza la verità era tuttavia nota, e il pittore Ottone Rosai, nella cui casa Fan­ ciullacci aveva cercato rifugio, subito lo rimproverò: «Bella impresa uccidere un povero vecchio». I soli a sostenere la legittimità morale dell'impresa furono i comunisti. L'antifa­ scismo liberale ne fu indignato, e Benedetto Croce espresse il suo cordoglio. Ma anche gli azionisti, pur così duri e in­ transigenti, si dimostrarono perplessi. Alcuni, come Trista­ no Codignola, apertamente dissenzienti perché «non può sfuggire a nessuno l'odiosità di un simile attentato contro una personalità alla quale il paese intero avrebbe potuto e dovuto chiedere conto del suo operato nella forma più alta e solenne». Ma implacabili ribatterono i comunisti che Gen­ tile, il quale «tanto spesso ha vantato la provvidenzialità del­ la storia, cade vittima della moralità della storia».

Roma, l'abbiamo detto, faceva parte per se stessa. Non era città aperta - gli Alleati, in particolare gli inglesi, avevano ri­ fiutato di proclamarla tale, ricordando la smania mussoli- niana di partecipare ai bombardamenti su Londra, e i tede-

132 schi, pur patteggiando con il Vaticano, minacciavano di di­ fenderla «casa per casa» - ma non era neppure una città che potesse essere considerata alla stregua delle altre. Il Vatica­ no, le basiliche, i conventi, con i loro privilegi di extraterri­ torialità, erano un permanente intoppo per tedeschi e fasci­ sti, cui era vietato oltrepassare, in piazza San Pietro, una li­ nea bianca, che fissava il confine. All'interno di questa fron­ tiera Pio XII tracciava le linee di una condotta religiosa e politica difficilissima. Suo scopo primario fu quello di otte­ nere che Roma non finisse distrutta dai tedeschi: per realiz­ zarlo era necessario che non divampasse, quando la Wehr- macht avesse battuto in ritirata, un'insurrezione generale partigiana, sul tipo di quella che si era verificata a Napoli, e di quelle che si sarebbero poi verificate a Milano, Torino, Genova. La manovra riuscì. Al «Vicario» furono poi rimproverati cedimenti filonazisti. L'accusa è, se non infondata, discuti­ bile e probabilmente ingiusta. Pio XII, su questo non v'è dubbio, aveva per il popolo e la cultura tedesca - non per il nazismo - rispetto e ammirazione. Del suo soggiorno in Germania come nunzio apostolico aveva conservato il mi­ gliore ricordo, e molte amicizie: ed ebbe vicino a sé fino al­ l'ultimo collaboratori e domestici tedeschi. Tra essi il bava­ rese padre Pancrazio Pfeiffer, superiore generale dell'ordi­ ne salvatoriano, che intratteneva ottimi rapporti con il Ca­ po di Stato Maggiore di Kesselring, Westphal, e suor Pa­ squalina, anch'essa bavarese, onnipresente e fin troppo po­ tente. Non è dubbio nemmeno che Pio XII fosse preoccu­ pato per i progressi militari sovietici. Ma, nonostante i «si­ lenzi» ufficiali che gli furono addebitati, si prodigò per strappare alla loro orribile sorte molti ebrei, e per salvare vite umane in pericolo. Alcune delle accuse contro Pio XII paiono suffragate da rapporti dell'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Weizsaecker. Ma l'ambasciatore, non lo si deve dimenticare, descriveva a Hitler un Papa benevo­ lo verso la Germania, per evitare che il dittatore ormai in-

133 vasato mettesse in atto il proposito di sequestrarlo. «Noi sa­ pevamo - ha scritto l'ambasciatore - che una protesta vio­ lenta contro la persecuzione degli ebrei avrebbe certamen­ te fatto correre al Pontefice gravi pericoli personali, e non avrebbe salvato una sola vita ebraica.» Pio XII aveva fatto sapere ai cardinali che mai e per nessuna ragione avrebbe lasciato Roma, se non costretto con la forza, anche se li di­ spensava dall'obbligo di seguirlo. Un suo gesto solenne di denuncia della ferocia nazista l'avrebbe senza dubbio innalzato, nel giudizio storico. Non crediamo che l'abbia trattenuto dal farlo il pensiero della sua personale incolumità: piuttosto l'ansia di salvaguardare la Santa Sede e Roma da una rappresaglia distruttrice, e la preoccupazione per le migliaia di rifugiati che dietro lo scu­ do della extraterritorialità Vaticana avevano riparo. Egli fu senza dubbio cauto, fin troppo cauto, consentendo soltanto che i vescovi, di loro iniziativa, quando lo volevano, condan­ nassero la barbarie antisemitica e antipartigiana. Il giorno stesso in cui Montini divenne Papa, fu pubblicato sul gior­ nale cattolico inglese The Tablet un suo articolo che difende­ va Pio XII: «Assumere un atteggiamento di protesta o di condanna sarebbe stato, peggio che futile, dannoso: e que­ sta è l'intera verità sulla faccenda». Montini poteva parlare con conoscenza di causa. Aveva vissuto quegli avvenimenti da comprimario importante, co­ me sostituto della Segreteria di Stato. La comunità diplo­ matica in Vaticano - che includeva i rappresentanti delle potenze belligeranti - lo ammirava senza riserve. L'inglese Osborne disse che era un uomo «di mente aperta e di gran­ de coraggio, dotato di un brillante, sarcastico senso umori­ stico», e non riusciva a capire «come potesse lavorare tanto e così intensamente». Weizsaecker coniò per lui questa defi­ nizione: «La più operosa delle api operose». E si rammari­ cava di dover «disturbare questo prete sovraccarico di lavo­ ro con le mie questioni senza importanza». Ma Paolo VI do­ veva difendere Pio XII: del quale si può dire concludendo,

134 che fu in quei frangenti tragici più il Vescovo di Roma e il Sovrano dello Stato pontifìcio che il Capo spirituale della immensa comunità cattolica. Qualcuno disse che a Roma metà della popolazione na­ scondeva allora l'altra metà. Ebrei, antifascisti, renitenti al lavoro obbligatorio e alla leva militare affollavano case, col­ legi religiosi e conventi. Vi fu lo slancio della solidarietà, e vi fu l'abbiezione delle delazioni. I comandi delle polizie tede­ sche e fasciste erano stupiti dalla valanga di denunce, ano­ nime o firmate, che piovevano sui loro tavoli. Il Vaticano fingeva di ignorare ciò che gli istituti religiosi facevano, ma sapeva tutto. Centocinquanta conventi e monasteri erano divenuti il rifugio dei perseguitati ebrei: quattrocento dai francescani di San Bartolomeo all'Isola, un centinaio dai Fratelli delle scuole cristiane, altrettanti dai padri Stimmati- ni e dai Salesiani di San Giovanni Bosco, quasi duecento dalle suore di Nostra Signora di Sion e centoquattordici dal­ le Maestre Pie Filippini. Quaranta ebrei, 15 dei quali battez­ zati, avevano ospitalità in Vaticano. Altri ebrei erano stati accolti nel Seminario Laterano, un imponente edificio sul retro della basilica di San Giovanni, dove si tenevano nascosti anche i maggiori esponenti clan­ destini della vita politica, essendo il Seminario considerato più sicuro di altre sedi religiose, e specialmente protetto dalla extraterritorialità. Vi alloggiava il presidente del CLN Ivanoe Bonomi con la moglie, vi alloggiavano Nenni, De Gasperi e ufficiali del disperso esercito. I tedeschi tenevano d'occhio quell'isola ostile, ma senza ostentazione, e non intervenivano per bloccare l'andirivieni dei personaggi (alcuni dei quali, come Bonomi e Nenni, non erano credenti). La radio con cui il CLN teneva i contat­ ti con il sud era altrove, ma di fatto le fila della vita politica pre-liberazione furono tessute nel Seminario. Nenni ha la­ sciato nel suo diario una testimonianza di queste «fughe» avventurose dal «santuario» vaticano. «Oggi (18 marzo 1944, N.d.A.) riunione del Comitato di Liberazione. Siamo

135 arrivati sul luogo dell'appuntamento con Mauro (Scocci- marro) e Ugo (La Malfa) dopo una corsa mattutina in auto­ mobile attraverso Roma e lungo il Tevere. C'erano nell'aria una dolcezza e un fremito primaverile che invitavano all'ot­ timismo. Ma il dibattito mi ha lasciato la bocca amara.. Per­ ché tutto continua a essere subordinato alla liberazione di Roma mentre tutto dovrebbe essere subordinato alla lotta per la liberazione di Roma?... Bonomi non ha che una preoccupazione: sganciarsi dalla formula "governo straor­ dinario munito di tutti i poteri dello Stato" per andare in­ contro a un compromesso con il Re o col Principe o con la Reggenza.» La tutela extraterritoriale garantita dagli edifici vaticani parve compromessa quando a Roma piombò - si era agli inizi di febbraio - il nuovo questore Pietro Caruso. Napole­ tano, Caruso non aveva nulla della bonarietà della sua gen­ te. Era un fanatico - si era recato appositamente a Verona per assistere alla esecuzione di Ciano - e smaniava dalla vo­ glia di dimostrare quanto valesse, come sbirro. Assunta la carica mentre era in corso una retata dei tedeschi, che bloc­ cata la via Nazionale avevano rastrellato indiscriminata­ mente duemila uomini da mandare presso il fronte a com­ piere i lavori, o in Germania, prolungò la caccia per portare al bottino il contributo di altri duecento poveracci. Come aiutante, Caruso si prese Pietro Koch, originario di Bene­ vento, ex-commerciante di vini (come Ribbentrop), per vo­ cazione torturatore. Una notte, complice un prete che ave­ va chiesto l'apertura delle porte fingendosi bisognoso di aiuto, gli sgherri di Caruso irruppero nella basilica di San Paolo Fuori le Mura. Vennero arrestati l'abate benedettino e i rifugiati, una settantina: tra essi molti ebrei e il generale Monti. Furono compiuti vandalismi, e sequestrato quanto - alimenti e altro - era custodito nel recinto della basilica. Monsignor Montini non potè intervenire tempestivamente perché era a Messa e non lo si rintracciò. La protesta della Santa Sede fu comunque energica. Pio XII ottenne il rila-

136 scio dell'abate benedettino, non quello del generale Monti. E Mussolini, informato, rispose dal nord - secondo il conso­ le tedesco Moellhausen - con una direttiva lapidaria: «Be­ nissimo, continuate». Ma i tedeschi si protestarono estranei all'iniziativa, che non si ripetè. Si continuò a braccare alla spicciolata gli ebrei e i resistenti: i primi «venduti» da dela­ tori per cifre che oscillavano tra le cinque e le cinquantami­ la lire. Tra le jene che si specializzarono in questa odiosa bi­ sogna era una ebrea rinnegata, Celeste di Porto, diciotten­ ne, bruna, bella, ex-prostituta, soprannominata «la pantera nera». Al tradimento erano soggetti naturalmente anche i poli­ tici, ed erano soggetti gli animosi ufficiali che si erano rac­ colti nel Fronte militare attorno al colonnello Giuseppe Cor­ derò Lanza di Montezemolo: un aristocratico di molto co­ raggio, credente, monarchico. Poiché il grado di Monteze­ molo non pareva - nell'ottica burocratica del Regno del Sud - adeguato ad un comando importante, la direzione del Fronte militare era stata dapprima affidata al generale Si­ mone Simoni: un soldato che veniva dalla gavetta, e che si era comportato eroicamente nella prima guerra mondiale. Tra il Fronte militare e il CLN non correva buon sangue: fe­ dele alla Monarchia il primo, tendenzialmente - e in alcuni suoi componenti accesamente - repubblicano il secondo. Per appianare i dissensi, e realizzare una soddisfacente coo­ perazione, Simoni aveva organizzato alcuni incontri con i politici. Ma la sua attività fu troncata da una irruzione delle SS che lo catturarono in casa, e lo trascinarono nel famige­ rato Comando della Gestapo in via Tasso dove si svolgevano i più crudeli interrogatori: e dove Kappler, informato del­ l'arresto, gli si rivolse, gelido e apparentemente cortese, con la frase «finalmente abbiamo l'onore di darle il benvenuto qui». Simoni fu sottoposto a feroci sevizie, perché rivelasse quanto sapeva e soprattutto dove si trovasse Montezemolo, ma tacque, stoicamente. Erano i giorni (fine gennaio del 1944) in cui gli Alleati

137 sbarcavano ad Anzio, e la liberazione di Roma pareva immi­ nente. Montezemolo sperava di poter scatenare una guerri­ glia che accelerasse l'evacuazione nazista, e il generale Qui­ rino Armellini, che era stato designato a comandare la piaz­ za di Roma, anticipò alquanto fantasiosamente gli eventi ra­ diotelegrafando al Comando badogliano che le «bande» del Lazio e dell'Abruzzo erano in azione, che Collefiorito (un paesotto delle Marche, N.d.A.) era stato occupato dai parti­ giani e che «altre regioni entrano in azione man mano rag­ giunte ordine». Lo sbarco lo sappiamo, fu un fallimento, e lo fu anche il progetto insurrezionale. Per colmo di sventu­ ra, il 25 gennaio finì in via Tasso anche Montezemolo, che qualcuno vide, dopo il «trattamento» della Gestapo, con la mandibola slogata, gli occhi enfiati, le labbra coperte da una schiuma rossastra. Non fiatò, neppure lui. Ma l'organizza­ zione militare ne ebbe un colpo grave, e altri ne subì succes­ sivamente: il che spiega, ma solo in parte, la mancanza di una grande fiammata di rivolta quando i tedeschi se ne an­ darono. Simoni, Montezemolo, Armellini erano contrari alle im­ prese terroristiche dei GAP, che esponevano alle più brutali rappresaglie la popolazione civile, e che ripugnavano al lo­ ro concetto della guerra, e anche della guerriglia. Così pure alcuni politici che operavano nella clandestinità deplorava­ no attentati puramente dimostrativi, che provocavano i na­ zisti senza ottenere risultati efficaci. Certo è che talune azio­ ni portavano alla liberazione di prigionieri antifascisti ed al­ tre portavano alla loro esecuzione. Con un colpo di mano fondato unicamente sull'astuzia erano stati strappati al «braccio» tedesco di Regina Coeli Giuseppe Saragat e San­ dro Pertini, i futuri presidenti della Repubblica, sui quali incombeva una condanna a morte. Grazie a documenti con­ traffatti, e a una rete di coraggiose complicità, i due capi an­ tifascisti furono dimessi dalla prigione. Quando da Radio Londra la voce di Paolo Treves annunciò la fuga, Kappler e Dollmann che regolarmente l'ascoltavano ordinarono una

138 inchiesta, minacciando provvedimenti rigorosi contro i col­ pevoli. Si sentirono rispondere che nell'ordine di scarcera­ zione tutto era autentico: tutto, tranne le firme in calce. L'attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeati- ne che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza ci­ vile, e lo pongono tuttora allo storico, il problema d'un giu­ dizio sulla legittimità morale dell'attentato, sulla ammissibi­ lità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l'attentato e di chi volle la rappresaglia. L'attacco al re­ parto tedesco che ogni pomeriggio, puntualmente, percor­ reva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno cen­ tro di Roma, era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un controllo minuzioso dei tempi. L'incarico di collocare le due bombe - l'una dodici chili di tritolo, l'altra sei chili - fu affidato a Rosario Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati gappisti, cimentatisi in imprese contro il cine­ ma Barberini, e contro Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri partigiani, tra essi Franco Cala­ mandrei, pronti a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l'esplosivo, e rimase in attesa. Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Ca­ lamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo copri con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere man­ dati al fronte, erano stati destinati al servizio d'ordine in città. Lesplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mi­ tra. Il leader comunista Giorgio Amendola discuteva in quel

139 momento con De Gasperi, in un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse essere quella esplo­ sione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle no­ stre» e l'altro, con un blando sorriso: «Dev'essere così. Voi una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimetter­ si per i contrasti che lo dilaniavano. Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari te­ deschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei ci­ vili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati, nella prima reazione all'attentato). Il decesso d'un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunse­ ro in breve il comandante militare di Roma generale Maelt- zer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Con­ gestionato per l'emozione, e anche perché veniva da un lun­ go e copioso pranzo all'Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quartier genera­ le (era malandato in salute, e pochi giorni prima aveva do­ vuto ordinare l'occupazione dell'Ungheria per timore di un «tradimento all'italiana» dell'ammiraglio Horthy), dispose che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per le armi cinquanta italiani per ogni morto tede­ sco. Kesselring, in ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra Kappler - il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare gli ostaggi da sacrificare - Kesselring e il Quartier generale del Fùhrer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ri­ partì per il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare pa­ dre Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo pregò di interve­ nire perché si preparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all'ambasciata tedesca, per sapere se fos-

140 sero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Se­ de stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva in­ teresse a rompere i ponti. Kappler si mise al lavoro, quella sera stessa, per compila­ re l'elenco delle vittime; e Moellhausen (l'episodio è ripor­ tato in Roma 1944 di Raleigh Trevelyan) lo trovò che acca­ rezzava un cane ammalato mentre allineava i nomi. Anche includendo tutti gli ebrei disponibili, all'alba Kappler aveva non più di 223 nomi (su quattro soltanto era già stata pro­ nunciata una condanna a morte). Chiese aiuto al questore Caruso e a Koch, che interpellarono Buffarini Guidi, mini­ stro dell'Interno di Salò, casualmente a Roma e alloggiato nell'Hotel Excelsior. Il ministro, svegliato di soprassalto e ansante, assentì. «Sì sì dateglieli sennò chissà cosa potrebbe succedere.» Ma anche con l'aiuto di Caruso la lista rimane­ va incompleta, e così ci si rivolse a Celeste di Porto perché procurasse altri ebrei. L'orribile «pieno» fu così raggiunto (anzi, come si vide poi, risultò sovrabbondante). Per la legge di guerra il dubbio «onore» di sterminare gli ostaggi sarebbe toccato al battaglione Bozen, ma il maggiore che lo comandava, Dobrich, rifiutò perché «i miei uomini sono vecchi, alcuni molto religiosi, altri pieni di superstizio­ ni». Lincarico passò alle SS di Kappler. Fu superato anche un problema di macabra logistica. Dove ammassare tanti corpi? Un ufficiale del genio suggerì delle cave di pozzolana sulla via Ardeatina, da lui visitate alla ricerca di rifugi an­ tiaerei. Eseguita l'operazione, l'ingresso sarebbe stato fatto saltare, trasformando le cave in una fossa comune. Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Re­ gina Coeli - molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania - furono fatti entrare e finiti con colpi alla nuca. Gli ufficiali erano tenuti a dare il buon esempio sparando anch'essi, e Kappler rincuorò i carnefici, alcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco perso­ nalmente e distribuendo cognac in abbondanza. Alle otto di

141 sera - 24 marzo - tutto era finito. 335 corpi - 5 in più di quelli che la proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato - erano accatastati nelle cave. Cad­ dero alle Fosse Ardeatine, con un gran numero di ebrei, al­ cune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnel­ lo Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli già vice comandante della divisione Ariete, i comunisti Valerio Fiorentini e Gioacchino Gesmundo, gli azionisti Armando Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti. Il 25 marzo i quoti­ diani pubblicarono un comunicato che parlava della «vile imboscata» ordita da «comunisti badogliani» e annunciava la rappresaglia, «già eseguita». Quando si seppe cos'era av­ venuto Carla Capponi provò secondo quanto essa stessa ha detto «un'angoscia, una disperazione terribile» e Bentive- gna fu assalito «da ira dolore sdegno per la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori materiali già ca­ pivano che l'immane tragedia non sarebbe stata addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di autogiustifi­ cazione: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti... Avevamo solo un do­ vere: continuare la lotta». Ma EOsservatore Romano, pur nel suo linguaggio circospetto, ricordò le oltre trecento «perso­ ne sacrificate per i colpevoli sfuggiti all'arresto». Il che non piacque né ai tedeschi né ai gappisti. Due fatti sono certi: il primo è che non vi fu alcun invito delle autorità tedesche perché gli autori materiali dell'at­ tentato si costituissero. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente, e attuata in segreto. Il secondo è che i gap­ pisti non potevano pensare che la strage, progettata ed ese­ guita mentre si negoziava per proclamare Roma città aper­ ta, e rivolta contro un reparto non impegnato nei combatti­ menti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. Sul piano militare, l'azione avrebbe potuto avere un significato, sia

142 pure simbolico - era chiaro che Roma sarebbe stata liberata entro breve termine - solo se si fosse collegata a una insur­ rezione cittadina. Roma non prese le armi, né allora né quando le truppe alleate furono a distanza di pochi chilo­ metri. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordi­ ne. I morti delle Ardeatine erano stati sacrificati alla ragio­ ne politica, al proposito di dimostrare, per fini appunto po­ litici, che i tedeschi se ne andavano non soltanto perché in­ calzati dagli anglo-americani, ma perché scacciati dalla po­ polazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung Banditeti!) pubblicato di recente Bentivegna ha rivendicato la legitti­ mità, anche morale, dell'attentato, aggiungendo: «E proba­ bile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresaglia, N.d.A.) qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al posto dei martiri delle Ardea­ tine. È veramente diffìcile dire dopo se ci saremmo sponta­ neamente presentati ove ce ne fosse stata offerta prima l'op­ portunità». Nell'imminenza della evacuazione di Roma da parte dei tedeschi anche il nuovo comando militare clandestino che s'era formato era caduto in pezzi. Arrestati cinque generali, tra i quali Angelo Oddone e Filippo Caruso, anche il co­ mandante Roberto Bencivenga era stato individuato: e solo una paziente azione vaticana riuscì ad ottenere che rima­ nesse agli arresti domiciliari, con la garanzia della Santa Se­ de che non avrebbe fatto nulla. Gli ufficiali tedeschi comin­ ciarono a vuotare le stanze degli alberghi e a spedire al nord i bagagli ingombranti. La capitale stava cadendo come un frutto da tempo maturo. Ma vi fu una inutile, stupida e spietata ferocia dell'ultima ora. Da via Tasso venne fatto uscire un autocarro con quattordici detenuti, diretti, si dis­ se, verso Firenze; tra essi Bruno Buozzi, sindacalista sociali­ sta di grande ingegno e prestigio e il generale Pietro Dodi. In località La Storta, che al tempo delle diligenze era stata l'ultima stazione di posta prima della città, furono fatti scen­ dere e fucilati. Gli aguzzini Caruso e Koch presero la via di

143 Milano, partì Kappler, partì Maeltzer dopo aver ciondolato ubriaco fradicio per il suo Quartier generale. Pronto a leva­ re i tacchi, Dollmann ebbe un gesto da signore. Andò a Fra­ scati a salutare Kesselring, stremato e terreo. Poi lasciò a sua volta Roma «prima che tutti si gettassero allegramente ai piedi dei loro liberatori». CAPITOLO OTTAVO

BONOMI UNO E DUE

Perduta Roma, Kesselring dovette decidere cosa gli conve­ nisse fare. Sull'onda del successo, i generali alleati si illude­ vano di costringere i tedeschi sconfitti ad una ritirata preci­ pitosa fino alla pianura padana, e poi alle Alpi. La 14a ar­ mata di von Mackensen, sulla quale si era abbattuto il pos­ sente sforzo della 5a armata americana, era stata scompagi­ nata, ed aveva il morale a terra. Kesselring sostituì von Mackensen con il generale Lemelsen, e diede ordine alla 10a armata di von Vietinghoff - fiaccata assai meno grave­ mente - di inviare tre divisioni in soccorso dell'altra grande unità pericolante. Il movimento si svolse tra difficoltà im­ mense: le divisioni tedesche, battute instancabilmente da una aviazione spadroneggiante nel cielo, furono costrette a un trasferimento tortuoso. Ma in qualche modo quella che in taluni punti aveva assunto l'aspetto di una rotta divenne una ordinata azione ritardatrice, e il feldmaresciallo tedesco fu in grado di predisporre i suoi arretramenti con sufficien­ te metodicità. Sapeva che non si sarebbe comunque potuto fermare per una resistenza prolungata, prima della linea gotica. Era così chiamata una serie di robuste posizioni che, per una lunghezza di 320 chilometri, tagliava la penisola da Viareggio sul Tirreno a Rimini sull'Adriatico. Le opere for­ tificate della linea gotica avevano carattere semipermanente - poche quelle in cemento armato - con piazzuole per arti­ glieria, postazioni per mitragliatrici, ricoveri, riservette per munizioni, campi minati, fossi anticarro. Ma alla linea goti­ ca Kesselring voleva arrivarci dopo aver creato alle sue spal­ le un «deserto logistico» e dopo aver costretto gli Alleati a

145 pagare a caro prezzo ogni loro progresso su altri provvisori sbarramenti: la linea del Trasimeno prima, quindi la linea dell'Arno. Hitler aveva preteso una resistenza a oltranza, ti­ po Stalingrado, ma Kesselring insistette sul suo piano, sen­ sato e intelligente: ed ebbe il coraggio di difenderlo in un concitato colloquio col Fiihrer, al Quartier generale, \10kw trovò del resto modo, nei tragici frangenti in cui la Germa­ nia militarmente si trovava, di distogliere quattro divisioni - dai Balcani, dalla Danimarca, perfino dalla Russia - per inviarle di rinforzo in Italia. I tedeschi ebbero un aiuto insperato dai disegni strategici anglo-americani - nel caso specifico sarebbe più esatto dire americani - che venivano predisposti con ostinata miopia e quindi attuati senza alcuno sforzo di immaginazione militare e politica. Alexander era ansioso di sfruttare il momento fa­ vorevole'. Per farlo, doveva disporre di tutte le sue forze, ed avere via libera nello scagliare le sue due armate contro i te­ deschi ancora deboli. Egli sperava di entrare in Firenze nella seconda metà di luglio e di sfondare la linea gotica a metà agosto, proiettandosi verso la pianura padana, e il Brenne­ ro, e il valico di Lubiana, con Vienna quale obbiettivo finale. E facile capire quali prospettive schiudesse questa strategia, e quali mutamenti essa avrebbe potuto portare alle successi­ ve sorti dei Balcani, dell'Austria e dell'Europa intera. Chur­ chill patrocinò calorosamente presso Roosevelt questo pia­ no, e si sentì rispondere con un messaggio il cui finale era avvelenato. Scriveva infatti il Presidente americano che a Teheran era stata concordata una certa linea di condotta, e che se gli inglesi desideravano modificarla era necessario chiedere l'assenso di Stalin (il che equivaleva a bocciarla, per motivi ovvi). Deluso ma non rassegnato Churchill tornò alla carica, e Roosevelt si appellò questa volta a esigenze elettora­ li e di popolarità: «Io non riuscirei quaggiù a sopravvivere nemmeno a un semplice regresso dell'Overlord se si sapesse che forze abbastanza consistenti sono state dirottate nei Bal­ cani». Per volontà di Roosevelt e di Eisenhower - inconsape-

146 voli avvocati delle tesi staliniane - la Francia restò la prima­ ria se non unica preoccupazione dello Stato Maggiore com­ binato anglo-americano, l'Italia divenne un settore seconda­ rio, e ogni proposito di accelerare la penetrazione nei Balca­ ni fu abbandonato. A sostegno del suo punto di vista Roose­ velt aveva scritto a Churchill che secondo «i miei primi rudi­ menti di geometria una linea retta è la più breve distanza tra due punti», volendo intendere che conveniva piombare sul cuore della Germania dalla Francia, anziché lungo direttrici periferiche. In nome della geometria elementare mezza Eu­ ropa fu forse sacrificata. Si insistette così sulla Operazione Anvil (o Dragoon), ossia sullo sbarco sussidiario per metà agosto nella Francia meri­ dionale, in appoggio a Overlord: e per realizzarlo venne de­ ciso che già l'il giugno sarebbe stato ritirato dal fronte ita­ liano il VI Corpo d'armata USA, che prima della fine di giu­ gno se ne sarebbero andate altre tre divisioni americane, e che in luglio le avrebbero seguite due divisioni francesi par­ ticolarmente addestrate alla guerra in montagna (e quindi adatte a operazioni sull'Appennino). Ad Alexander venne fatta la vaga promessa che, una volta portata a termine l'O­ perazione Anvil, le forze sottrattegli sarebbero state restitui­ te, riorganizzate e meglio equipaggiate. In concreto Alexander perse divisioni preziose, il settan­ ta per cento delle forze aeree d'appoggio, e reparti logistici: restò con 18 divisioni, e la 5a armata americana si ridusse addirittura a cinque divisioni. A compenso gli furono offer­ ti, in tutto e per tutto, la 92a divisione negra USA, il cui arri­ vo era previsto per settembre, e una divisione brasiliana at­ tesa per la fine di ottobre. Gli rimase tuttavia quanto basta­ va ad assicurare una decisa superiorità sulle armate di Kes­ selring, e il completo dominio del cielo. Un altro elemento pregiudicò la condotta degli Alleati, e l'efficacia del loro inseguimento. «Ragioni di prestigio, anzi di puntiglio tra americani e inglesi - ha scritto il generale Mario Puddu nel suo Guerra in Italia - influirono gravemen-

147 te sulle operazioni. Sembra infatti che il Comando alleato del Gruppo d'Armate, considerando che Salerno e Napoli erano state occupate dagli americani, abbia posto a base dei suoi progetti, dall'ottobre 1943 in poi, che in Roma doves­ sero entrare prima gli inglesi. Ora, poiché... anche a Roma erano entrati prima gli americani fu disposto che il grande obbiettivo successivo - Firenze - dovesse essere occupato dagli inglesi. Una sana condotta operativa imponeva di diri­ gere la 5a armata verso la linea dell'Aimo a valle di Pontas- sieve, per le direttrici Aurelia e Cassia, e l'8a armata britan­ nica su Rimini e la Romagna, per le direttrici Flaminia e Adriatica. Invece, per aver voluto dirigere la massa delle forze dell'8a armata su Firenze, si dovette comprimere in modo assolutamente irrazionale la 5a armata americana su una ristrettissima fascia del litorale tirrenico.» In effetti il fronte dell'8a armata era quattro volte il fron­ te della 5a americana. Ne derivarono contrasti a livello di comandi, ingorghi e confusione sul terreno. I progressi fu­ rono così notevolmente più lenti di quanto Alexander aves­ se previsto, e la resistenza tedesca si andò consolidando. Il 18 luglio i tedeschi sgomberarono Ancona, il 19 gli america­ ni entrarono in Livorno, e il 4 agosto le truppe di Kessel­ ring evacuarono Firenze dopo aver fatto saltare tutti i ponti sull'Arno ad eccezione del Ponte Vecchio. Il 22 agosto il II Corpo d'armata polacco, inquadrato nell'8a armata britan­ nica, si attestò sulla riva meridionale del Metauro, poco a sud di Pesaro. La linea gotica era stata investita, e i coman­ danti alleati in Italia preparavano i piani per il suo sfonda­ mento. A queste operazioni partecipò, nell'8a armata, il Corpo Italiano di Liberazione, o CIL, che ormai contava 13 batta­ glioni di fanteria, due reggimenti di artiglieria da campa­ gna, un gruppo di artiglieria pesante e reparti del genio. Dopo essere stato aggregato al V Corpo d'armata inglese, ed avere liberato varie località (tra esse Orecchio, Orsogna, Guardiagrele, Chieti), il CIL fu trasferito alle dipendenze del

148 generale Anders, che comandava i polacchi. In questa se­ conda fase ebbe particolare rilievo il combattimento dei para della Nembo per la conquista di Filottrano, strappata a due battaglioni del 994° reggimento di fanteria tedesco. «La battaglia - ha ricordato il colonnello Leandro Giaccone che vi combatté - era stata durissima. La metà dei difensori era­ no morti, o feriti, o prigionieri: anche le perdite della Nembo erano state pesanti, più di trecento tra morti e feriti.» L'Operazione Olive, il cui obbiettivo era di infrangere in più punti la linea gotica, durò dalla fine di agosto all'otto­ bre, e consentì qualche successo, ma non la vittoria. Le 16 divisioni di Kesselring retrocedettero in più punti e con la presa di Rimini l'8a armata irruppe sulla pianura: ma poi la cintura difensiva si risaldò, e Alexander dovette segnare il passo, rinunciando a ogni progetto ambizioso. Questa len­ tezza era particolarmente frustrante se messa in rapporto con quanto accadeva negli altri scacchieri, dove gli avveni­ menti galoppavano. Eisenhower aveva preso e superato Pa­ rigi, le forze dello sbarco Anvil-Dragoon si erano congiunte l'I 1 settembre a Digione con le forze dello sbarco Overlord, a est i sovietici erano a Varsavia, la Romania aveva cambiato campo - come già l'Italia l'8 settembre 1943 - dichiarando guerra alla Germania, la Bulgaria si era ritirata dal conflitto e gli ungheresi davano chiari segni di volerla imitare. L'im­ pero tedesco era in disfacimento, ma la linea gotica tenne per un altro abbondante inverno.

Nei giorni in cui Roma veniva liberata, Vittorio Emanuele III combatté un'ultima malinconica battaglia per congedarsi dal trono non solo con dignità, ma anche con qualche solennità: e la perse. Questo vecchio signore ostinato era, per gli Alleati, un fastidio, tanto che Macmillan, deposta la sua flemma e cor­ tesia britannica, aveva detto a MacFarlane: «Se il Re fa qual­ che sciocchezza lo metta su un aereo e lo mandi nel Kenia». Ormai il Re non guardava alle contingenze presenti, ma alla storia: e preparava le pezze d'appoggio per riscattarsi

149 di fronte ad essa. Il primo giugno aveva preparato con Ac­ quarone un appunto nel quale rivendicava ad esclusivo suo merito la cacciata di Mussolini. «Caro Acquarone, l'autoriz­ zo a dichiarare che fin dal gennaio 1943 io concretai defini­ tivamente la decisione di porre fine al regime fascista e re­ vocare il Capo del governo Mussolini. L'attuazione di que­ sto provvedimento, reso più difficile dallo stato di guerra, doveva essere minuziosamente preparata e condotta nel più assoluto segreto, mantenuto anche con le persone che ven­ nero a parlarmi del malcontento del paese.» A Badoglio il Re chiese che il trapasso dei poteri al Luo­ gotenente avvenisse a Roma o in provincia di Roma, quasi, come ha scritto Benedetto Croce, per attestare un suo «for­ malistico e simbolico ritorno dove era quando la pubblica­ zione dell'armistizio lo costrinse a mettersi in salvo nell'Ita­ lia meridionale». Questa pretesa suscitò generale imbaraz­ zo. Gli Alleati avevano già altri grossi problemi da risolvere: la sostituzione di Badoglio - che non desideravano, anzi, ma che era diventata, per i partiti antifascisti e soprattutto per gli esponenti del mondo politico romano, una pregiudiziale irrinunciabile -, i tempi del trasferimento a Roma della au­ torità italiana, la composizione di un nuovo governo. Quel­ la che, nella loro ottica, era la petulanza di Vittorio Ema­ nuele III, introduceva un ulteriore nodo in un groviglio già abbastanza intricato. Anche quando, mossa a compassione, la Commissione al­ leata parve disposta a concedere a Vittorio Emanuele di toc­ care, portatovi da un aeroplano, il suolo di Roma, e di fir­ mare là il decreto, rimase il no dei politici. Arangio-Ruiz, Rodino, Croce trovavano che non c'era niente di male nel dire sì a «questo vecchio signore che ci chiede un piacere, e a noi non costa nulla». Ma gli altri insorsero contro il «Re fuggiasco». Il 5 giugno Badoglio e MacFarlane domandaro­ no udienza al Re, che la fissò alle 15. «Sono arrivati con mezz'ora di ritardo - annotò Puntoni - e MacFarlane era in pantaloni corti e in maniche di camicia. Hanno subito chie-

150 sto a Sua Maestà di firmare il decreto per il passaggio dei poteri e per la nomina del Principe a Luogotenente del Re­ gno. Il Sovrano si è irrigidito nuovamente e ha chiesto che gli venisse concesso di firmare il decreto nella capitale. Ha risposto MacFarlane: "E impossibile. Le condizioni nella città sono tali da sconsigliare la vostra presenza in Roma. Per di più a Roma non si può arrivare né per via aerea né per strada...". Il Re ha detto: "Sta bene. Voglio allora che tutto ciò mi sia messo per iscritto dal Capo del governo...". Badoglio ha risposto: "Manderò la lettera, secondo i deside­ ri di Vostra Maestà. Intanto è necessario che Vostra Maestà firmi". Il Re ha replicato: "Non firmo nulla se prima non firmerà lei...". Badoglio ha cercato di prendere tempo ma date le insistenze del Sovrano ha dovuto compilare la lette­ ra che il Re pretendeva. Solo allora Sua Maestà si è deciso ad apporre la sua firma al decreto il cui testo, compilato a Salerno nella sede del governo, per un incidente del moto­ ciclista che lo recava, è giunto con notevole ritardo. Dopo la firma, il maresciallo e MacFarlane hanno preso congedo dal Sovrano. Badoglio si e inchinato e singhiozzando ha baciato le mani al Re. Sua Maestà ha accolto il gesto con molta fred­ dezza e ha invitato il maresciallo a uscire subito.» A Vittorio Emanuele III fu perfino proibito di trasferirsi immediata­ mente, come avrebbe voluto, a Napoli. E quando vi traslocò, gli ordinarono di tornare a Ravello. Intoppi, anche se mi­ nori, derivarono dal desiderio del Luogotenente di recarsi al più presto possibile a Roma, e di potersi installare al Qui­ rinale. I problemi riguardanti i Savoia si intrecciavano del resto con quelli riguardanti il governo, che i politici sia a Napoli sia a Roma volevano dimissionario, per vararne un altro de­ mocraticamente rappresentativo. La sorte di Badoglio, co­ me Capo del governo, era dunque segnata. Egli stabilì con MacFarlane che una delegazione del governo - Badoglio più alcuni ministri in rappresentanza dei partiti - avrebbe raggiunto Roma per consultarsi con i personaggi riemersi

151 dalle penombre catacombali della clandestinità, e decidere insieme le linee future. A Roma volò anche Umberto, cui fu permesso di sostare al Quirinale, e di ricevervi alcune per­ sonalità, prima di rientrare a Napoli. Con l'occasione il Luo­ gotenente fece visita in Vaticano al Pontefice e al Segretario di Stato cardinale Maglione. Pio XII ricevette anche il gene­ rale Clark. Al Grand Hotel, dove era stato fissato questo conclave politico, Badoglio arrivò con cinque ministri - Benedetto Croce per i liberali, Sforza per i repubblicani, Rodino per i democristiani, Togliatti per i comunisti, Pietro Mancini per i socialisti - in più l'azionista Alberto Cianca, che ministro non era, e che perciò si sentiva libero di guidare l'offensiva contro il maresciallo. Dei romani intervennero il liberale Casati; il demolaburista Ruini, il comunista Scoccimarro, l'a­ zionista La Malfa, De Gasperi, Nenni, e infine, come indi­ pendenti, Bonomi e Vittorio Emanuele Orlando. In quella stessa saletta del Grand Hotel, dove alle 18 - presente Mac­ Farlane - si cominciò a discutere, Mussolini aveva formato, dopo la Marcia su Roma, il suo primo ministero. I delegati romani non persero tempo per dire a Bado­ glio, sia pure in toni diversi, che doveva andarsene per far posto a Bonomi. Nessuno dei ministri che l'avevano accom­ pagnato fiatò, tranne Togliatti che dichiarò di aderire alla proposta di Ruini (il primo ad intervenire) pur dolendogli di separarsi da Badoglio «col quale aveva così serenamente collaborato». Badoglio si alzò e tese la mano al leader comu­ nista: subito dopo Scoccimarro diede atto al maresciallo d'essersi comportato «da vero patriota» («on aura tout vu» commentò acidamente Nenni nel suo diario). Quindi Bado­ glio si disse pronto a cedere la presidenza «alle mani esper­ te dell'amico Bonomi»: ma, rivolto ai «romani», non mancò di sfogare la sua amarezza: «Siete ora riuniti intorno a que­ sto tavolo in Roma liberata non perché voi, che eravate na­ scosti o chiusi nei conventi, abbiate potuto fare qualche co­ sa: chi ha lavorato finora, assumendo le più gravi responsa-

152 bilità, è quel militare che, come ha detto Ruini, non appar­ tiene a nessun partito». Al Luogotenente, che come abbiamo accennato era an- ch'egli nella capitale, Badoglio presentò subito dopo forma­ li dimissioni. MacFarlane sapeva quel che stava accadendo e in qualche modo, fallita la speranza di far riconfermare Ba­ doglio, l'aveva accettato: non così Churchill, che considerò la «svolta democratica» uno smacco personale, e lo fece sa­ pere a Roosevelt con il suo solito pittoresco linguaggio: «La sostituzione di Badoglio con questo gruppo di decrepiti e affamati politicanti è, io credo, un gran disastro. Sin dal tempo in cui, a sprezzo del nemico, Badoglio consegnò in­ tatta la flotta nelle nostre mani, egli è stato per noi un utile strumento... Noi ci troviamo ora davanti questo branco as­ solutamente non rappresentativo». Vi fu il pericolo che la Commissione alleata considerasse come non avvenuta la rinuncia di Badoglio e la designazio­ ne di Bonomi, perché attuati senza il suo placet: tanto che Sforza protestò veementemente con il Dipartimento di Sta­ to americano. «Noi siamo pronti ad andare in prigione così come ad essere fucilati da una reazione militare piuttosto di tradire la causa della libertà italiana», proclamò un po' gi­ gionescamente. Roosevelt, dapprima contagiato dall'emo­ zione di Churchill, concluse poi che «sarebbe un serio erro­ re se non permettessimo la pronta proclamazione del go­ verno Bonomi». E gl'inglesi finirono per adeguarsi. Tutta­ via furono imposti al nuovo Presidente, per la formazione del ministero, garanzie e impegni a non finire: il Capo del governo e ogni singolo ministro dovettero sottoscrivere le clausole del lungo armistizio, e si impegnarono a non allac­ ciare relazioni con altri paesi e a non riaprire la questione istituzionale senza il consenso degli Alleati. Vennero inoltre confermati i ministri militari e quelli tecnici, e Sforza, desti­ nato inizialmente agli Esteri, rimase senza portafogli (gli Esteri furono assunti, con gli Interni, da Bonomi, e solo Bo­ nomi giurò nelle mani del Luogotenente). Con il loro giu-

153 ramento alla nazione, non alla monarchia, i ministri pro­ mettevano di non compiere «fino al momento in cui si possa convocare l'Assemblea costituente» atti capaci di «pregiudi­ care la soluzione della questione istituzionale». Nel nuovo governo Bonomi, Croce, Sforza, Togliatti, Ruini, De Gasperi, Cianca e Saragat furono ministri senza portafoglio. Tra gli altri incarichi citeremo quello di Tupini, democristiano, alla Giustizia, del liberale Soleri al Tesoro, di Gronchi, anch'egli democristiano, all'Industria, del comu­ nista Gullo all'Agricoltura, del socialista Romita ai Lavori Pubblici, del liberale Casati alla Guerra. Nenni non entrò nel ministero, nonostante le sollecitazioni dei «compagni» e le insistenze di Togliatti che tentò «fino all'ultimo il ricatto di ritirarsi se non accettavo». Nenni spiegò di essere rimasto fuori perché intendeva dedicarsi all'Avariti!, perché non gli piaceva la struttura del governo con troppi ministri e troppi sottosegretari, e perché non aveva fiducia in Bonomi che «è un buon uomo e noi abbiamo invece bisogno di un uomo forte». Infine gli seccava, ha lasciato scritto, l'arroganza al­ leata. Il 22 giugno, a Salerno, i ministri tennero il loro primo consiglio. A metà luglio il governo fu autorizzato a insediarsi a Roma, anche se con ben scarsa autonomia («per rimuovere un fattorino lamentava VAvanti! - è necessario il consenso di una Commissione di controllo»). Gradualmente le province liberate furono restituite alla amministrazione italiana, e la Commissione alleata di controllo perse quest'ultima qualifi­ cazione (e fu Commissione alleata tout court) a simboleggiare una ulteriore attenuazione dei vincoli armistiziali. Roma applaudiva i vincitori, Pio XII regalava rosari ai soldati alleati che facevano ressa nelle udienze generali - e tanti ne distribuì che a un certo punto le riserve vaticane si erano esaurite -, folle di dimostranti devastavano le sedi fa­ sciste delle quali sveltamente prendevano poi possesso par­ titi e associazioni antifasciste, scritte, fregi e insegne sfuggiti al repulisti del 25 luglio venivano immolati al nuovo corso,

154 la toponomastica subiva gli ulteriori adeguamenti di rito, i quotidiani tradizionali - a cominciare dal Messaggero e dal Giornale d'Italia - erano costretti a sospendere le pubblica­ zioni, il cambio del dollaro veniva fissato a 100 lire e quello della sterlina a 25, era soppressa l'Accademia d'Italia, e il primo agosto il conte Sforza, lasciato il governo, assumeva la carica di Alto commissario alla epurazione. Questa aveva già mosso i primi incerti passi nella buro­ crazia ministeriale e militare e nella selva dei profittatori (tra gli inquisiti Achille Lauro). A fianco di Sforza furono posti, quali alti commissari aggiunti, Mario Berlinguer, Mauro Scoccimarro, Mario Cingolani e Felice Stangoni. Scoccimarro assicurò che «nessuno sfuggirà alle proprie re­ sponsabilità come a nessuno sarà negato il riconoscimento dei diritti acquisiti». E aggiunse: «Né alcuno deve illudersi che sarà facile trarci in inganno con il sistema delle postume benemerenze che fiorisce oggi a Roma o con scappatelle del doppio gioco che taluni hanno concepito e attuato come una specie di controassicurazione per tutte le eventualità». Per i potenziali «imputati» fu importante cercare e procu­ rarsi una copertura a sinistra: la sola in grado di ridare can­ dore alle più inquinate fedine personali e politiche. Lo fece con grande prontezza il generale Carboni, «vilain» della tra­ gedia armistiziale. Ma come tutte le cose italiane, l'epurazio­ ne ebbe per caratteristica la volubilità, la casualità, un impe­ tuoso fervore iniziale e una successiva apatia, e infine la in­ certezza sulle conclusioni. Pagò caro chi fu colpito presto. Il più delle volte accadde proprio ciò che gli alti commissari garantivano di voler evitare: volarono gli stracci. D'altro canto il fascismo era durato così a lungo, ed aveva avuto ap­ poggi e consensi così ramificati - e inevitabili - che il voler spingere la indagine al di là della precisa responsabilità pe­ nale, per reati comuni, era insieme fazioso e velleitario, e in definitiva inutile. Lo si constatò presto. I proclami epurativi diedero la stura, anche questo va accennato, ad una grandi­ ne di denunce e di lettere anonime: molti vedevano nella

155 epurazione del collega o del superiore una garanzia di pro­ mozione. Anche la sorte dei peggiori sgherri, certo meritevoli di ogni pena - morte compresa - dipese molto, e questo vale anche per gli avvenimenti successivi al 25 aprile 1945 nell'I­ talia settentrionale, dal momento e dall'ambiente in cui fu­ rono processati (quando furono processati). La giustizia a tambur battente fu draconiana e spicciativa, quando non sommaria: quella dilazionata fu indulgente e a volte fin troppo, e soggetta poi al rituale colpo di spugna. Davanti al­ la Corte d'Assise di Roma venne comunque portato con straordinaria sollecitudine il questore Caruso, che nei gior­ ni della liberazione della capitale s'era diretto al nord in au­ tomobile, ma, finito contro un albero, ne aveva avuto una gamba fracassata. Era così rimasto intrappolato. Non aveva dubbi sulla sentenza che lo aspettava, e da Regina Coeli ave­ va scritto alla moglie d'essere pronto a «espiare con la vita il danno che ho arrecato alla società». Quando il processo si aprì, il 18 settembre, l'atmosfera era rovente. Con impru­ denza, per non dire con incoscienza, fu chiamato a testimo­ niare l'ex-direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, che nello svolgimento dei suoi compiti aveva sempre dato prova di umanità, prodigandosi per sottrarre alla pena capitale o alla deportazione il maggior possibile numero di ebrei e di «politici». Eccitata dalla invettiva di una donna isterica, una di quelle pasionarie o «tricoteuses» che a queste recite truci non mancano mai, la folla esagitata che gremiva l'aula si scagliò contro lo sventurato Carretta, e, dopo un pestaggio violento, lo trascinò all'aperto. Qualcuno tra i più feroci pretendeva che un tram gli passasse sopra, ma il manovra­ tore rifiutò. «Carretta - hanno scritto Fortuna e Uboldi - è allora gettato nel Tevere, dove riprende conoscenza e cerca di tornare a riva. Con dei remi gli spingono la testa sott'ac­ qua, finché annega.» Caruso, condannato a morte, fu fucila­ to nel pomeriggio del 21 settembre. Così, mentre gli epuratori cercavano di discriminare,

156 nella amministrazione e tra i notabili, i compromessi dai non compromessi (finirono in carcere, tra i più insigni, l'ex luogotenente generale in Albania Francesco Jacomoni, l'ex Governatore della Banca d'Italia Azzolini e il generale Roat­ ta) e i sicari dei tedeschi si rintanavano per sfuggire alla cat­ tura (tra essi Celeste di Porto, presa solo nel 1945), v'erano italiani che, nel grande collasso spirituale e materiale, e di fronte alla indecente esultanza di troppi profittatori e di troppi antifascisti dell'ultima ora, avvertivano un profondo moto di disgusto. Questa repulsione e questo scoramento spinsero al suicidio Fecia di Cossato, sommergibilista eroico. Alla madre scrisse una lettera di congedo, da Napoli: «Ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi tro­ vavo in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re... Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad avere commesso un ignobile gesto senza alcun risultato... Da mesi penso ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare, e penso che il mio posto è con loro...». Si ca­ pisce questa disperazione. La Napoli di allora, come tutto il Meridione liberato, dava una immagine avvilente di anar­ chia, servilismo e povertà (anche se, insieme, di inesausta e caotica vitalità). I treni locali continuavano ad essere tradot­ te del mercato nero (era accaduto che il fumo di una loco­ motiva bloccata sotto una galleria, nei dintorni di Potenza, asfissiasse centinaia di passeggeri) e una organizzazione commerciale e industriale dell'emergenza si era instaurata e consolidata nell'arbitrio. Laboratori artigiani sfornavano pezzi di ricambio per auto fatti a mano o quasi (essendo le fabbriche nel nord) e una classe di nuovi ricchi dei traffici clandestini cominciava ad emergere, con ostentati e grosso­ lani lussi. Il governo, sotto il blando impulso di Bonomi, tentava di fare la sua strada trascinando alcune pesanti palle al piede. La prima era la presenza alleata, i cui orientamenti erano

157 tra l'altro resi mal decifrabili dai contrasti che, nello stesso campo anglo-americano - per non parlare dei rapporti con l'Unione Sovietica - esistevano. La seconda era l'incognita istituzionale, di fronte alla quale i partiti avevano atteggia­ menti diversi. La terza era la precarietà di un ministero che, lo si sapeva, si sarebbe sfasciato - a Italia totalmente liberata - sotto l'imperversare del «vento del nord», così come il mini­ stero Badoglio era stato travolto dal ponentino romano. L'ultima era la disgregazione dell'apparato amministrativo, che stentava a ricomporsi per la minaccia della epurazione, per gli appetiti dei funzionari più spregiudicati, e per le spinte centrifughe del paese. Si litigava e si spettegolava do­ vunque. Rilevò Puntoni, dopo una puntata nella capitale: «Non metto piede al Quirinale che del resto, da quanto ven­ go a sapere, ha cessato di essere il palazzo del Re. Il Sovra­ no è dimenticato, chi lo ricorda lo fa purtroppo per sparlar­ ne. Al Ministero della Guerra l'atmosfera non è diversa. I generali si sbranano fra loro. Quelli che sono risaliti dal sud sono attaccati da quelli che sono rimasti a Roma insieme con Bencivenga. L'esercito romano attacca l'esercito borbonico delle Due Sicilie!». Bonomi era costretto a barcamenarsi tra sollecitazioni contrastanti. Le preoccupazioni maggiori, dal punto di vista dell'equilibrio governativo, gliele davano gli azionisti e i so­ cialisti, i primi per intransigenza antifascista e antimonar­ chica (e anche per quella voluttà del dissenso che fu il loro punto d'orgoglio, e la ragione del loro sfascio); i secondi per massimalismo velleitario e parolaio. Cauti, ben sapendo quel che volevano, i comunisti, e Nenni registrava con stu­ pefatta ammirazione, durante un incontro con loro, che la tattica di Togliatti era «opportunista nelle sue manifestazio­ ni esterne, rivoluzionaria nei suoi obbiettivi». Dopodiché trasecolava perché Saragat, presente alla riunione, aveva «accentuato troppo la nota della diffidenza per la democra­ zia dei comunisti». In politica estera Bonomi aveva confermato la scelta di

158 campo di Badoglio, in qualche modo consolidandola. La vi­ sita di Churchill in Italia all'inizio di agosto del 1944, gli die­ de modo di rafforzarsi nella convinzione che l'Italia potesse seguire un solo indirizzo: la collaborazione sempre più stretta, non solo per il futuro immediato ma anche per quel­ lo lontano, con le democrazie occidentali. In quell'occasione Churchill aveva incontrato, a Napoli, Tito, e ne aveva otte­ nuto ingannevoli assicurazioni sulla autonomia iugoslava dalla Unione Sovietica. A Roma egli vide - oltre al premier greco Giorgio Papandreu, con il quale doveva mettere a punto il piano dello sbarco di un corpo di spedizione bri­ tannico in Grecia, ad evitare che ai tedeschi si sostituissero i partigiani comunisti - anche Bonomi, Badoglio, Umberto di Savoia, i capi dei maggiori partiti, infine il Papa. Il Luo­ gotenente disse poi che Churchill si era espresso nei riguar­ di degli italiani «in termini più amichevoli di quanto si po­ tesse sperare». A Pio XII il primo ministro inglese ribadì il suo anticomunismo, trovando nell'interlocutore la più calo­ rosa comprensione. Se ne andò tuttavia amareggiato dalla stagnazione dell'offensiva militare che lo privava di un suc­ cesso di cui «avevamo così maledettamente bisogno», e con il cruccio di sapere irrealizzabile la puntata su Vienna, per strapparla alla conquista sovietica. Svaniva il suo sogno di una «pugnalata all'ascella adriatica» della Germania. Con attivismo giustificato dall'incalzare degli avvenimenti Chur­ chill incontrò Roosevelt a Quebec il 13 settembre, senza or­ mai poterlo convertire alla sua crociata contro la penetra­ zione di Stalin nell'Europa centrale e nei Balcani, il 9 otto­ bre vide a tu per tu Stalin, a Mosca. Fu allora che Churchill riassunse in un mezzo foglio di carta il suo progetto per la sistemazione delle zone di influenza in Europa: Romania 90 per cento alla Russia e 10 per cento agli anglo-americani; Grecia 90 per cento agli anglo-americani e 10 per cento alla Russia, Iugoslavia e Ungheria 50 e 50; Bulgaria 75 alla Rus­ sia e 25 agli anglo-americani (l'Italia era data per acquisita, interamente, all'influenza degli Alleati occidentali). Stalin

159 tracciò sull'appunto un grosso «visto», e quindi lo restituì a Churchill con le parole: «Conservatelo voi». Il dittatore già sapeva in qual modo avrebbe trasformato quei 90 o 75 o 50 per cento in suo favore in altrettanti cento per cento.

Pur nelle disastrate condizioni dell'Italia liberata (nell'Italia centrale, ha scritto Franco Catalano, si calcolava che il 94 per cento degli impianti elettrici fosse stato distrutto) i pro­ blemi alimentari, finanziari e in definitiva economici erano gravi, ma con sintomi di miglioramento. L'UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) già stava varando una vasta opera di assistenza sanitaria e alimenta­ re, l'Italia era autorizzata a riprendere gli scambi con l'este­ ro, e ai primi di ottobre Roosevelt dispose che le somme spese dal governo di Roma per il mantenimento delle trup­ pe americane gli fossero integralmente rifuse, in dollari. So- leri, ministro del Tesoro, poteva guardare con qualche mi­ nor apprensione all'avvenire. Non così Bonomi, come mini­ stro degl'Interni. Sull'onda del nuovo corso, e sotto la sferza dei disagi e della povertà, si accendevano fiammate di ribel­ lione. Gruppi di braccianti e contadini occupavano le terre dei grandi proprietari - o magari anche dei non grandi -, la forza pubblica era sollecitata a intervenire: e se a volte resta­ va del tutto latitante, altre volte eccedeva in durezza. Vi fu­ rono in settembre morti e feriti a Licata - per una dimostra­ zione contro il capo dell'Ufficio di collocamento, cui erano imputati precedenti fascisti - un altro morto si contò ad Anagni dove erano state invase le terre dei principi Balestra del Drago e Doria, e un altro ancora in ottobre a Ortucchio nel Fucino (proprietà Torlonia). Una vera jacquerie, violenta e caotica, si scatenò il 18 ottobre a Palermo, sulla scia di una manifestazione contro il carovita indetta dai dipendenti del Comune e dell'esattoria. A questo primo nucleo si aggregò ben presto una folla tumultuante, nella quale non mancava­ no, è certo, né i teppisti né gli eversori. «Da via Maqueda - citiamo da Fortuna e Uboldi - il cor-

160 teo degli scioperanti muove verso il Comune, che è retto da un commissario prefettizio, il barone Enrico Merlo: in se­ guito, travolti i cordoni di polizia, si dirige verso la Prefettu­ ra dove in assenza del prefetto il suo vice, dottor Pampillo- nia, chiede aiuto al comando del Corpo d'armata di Paler­ mo. La richiesta è pressante: il comando del Corpo d'arma­ ta invia un contingente di militari della divisione Sabauda, che è comandata dal generale Castellano, l'uomo dell'armi­ stizio di Cassibile. Giunti alla Prefettura, i soldati ritengono di trovarsi di fronte a una sommossa, fanno uso delle armi. Vengono uccisi novanta dimostranti; un centinaio di feriti.» Quando si diffuse a Roma, la notizia suscitò sgomento: ma la stessa stampa di sinistra parlò di provocatori infiltratisi tra i dimostranti: che c'erano davvero, anche se mai fu chia­ rito quale matrice ideologica avessero, se pure ne avevano una. Tutto induce a pensare che in questo scatenarsi di rab­ bia e di aggressività avessero una parte i separatisti, che sta­ vano diventando un grosso problema, sociale e politico. Il separatismo siciliano s'era fatto vivo non appena gli Al­ leati avevano messo piede nell'isola, rivendicando in qual­ che modo la primogenitura del disfattismo e del tradimen­ to. Confluivano nel movimento indipendentista siciliano (MIS), che aveva una sua organizzazione militare clandestina (EVIS), varie componenti: baroni nostalgici e ansiosi di im­ possibili restaurazioni, contadini che in una Sicilia sganciata dall'Italia e protetta dagli Alleati speravano di conquistare la proprietà della terra su cui lavoravano, affaristi attirati dal miraggio di buoni commerci con gli Stati Uniti, mafiosi che nello stretto collegamento politico con l'America vede­ vano schiudersi ampie prospettive per traffici leciti o illeciti. Leader del MIS era Andrea Finocchiaro Aprile, un avvocato e professore d'università che veniva da una famiglia di nota­ bili e nell'epoca prefascista era stato deputato, e sottosegre­ tario nel 1919 con Nitti. Convertitosi all'indipendentismo, ne difendeva e diffondeva le tesi con virulento slancio. Gli argomenti degli indipendentisti - un loro movimento

161 si formò anche in Sardegna, ma con minore presa popolare e ancora più fragili giustificazioni storiche - si rifacevano al «sopruso» piemontese, e alla politica di dominio, e di sman­ tellamento delle iniziative isolane, che il Regno unitario ave­ va praticato. Finocchiaro Aprile coinvolgeva nelle sue accu­ se non solo i Savoia ma anche i Borboni, rivendicando alla Sicilia una perenne insofferenza sia verso Napoli, sia verso Torino, sia verso Roma. Per liberarsi del giogo italiano, il MIS si appellava agli americani e agli inglesi: «Le nostre sof­ ferenze, l'assoluta privazione della libertà, l'odio del gover­ no italiano verso di noi - era scritto in un suo documento - ci fanno desiderare che gli Stati Uniti e l'Inghilterra rioccu­ pino militarmente l'isola». Da parte di singoli ufficiali ed esponenti alleati, più che da parte dei governi, arrivarono indubbiamente ai separatisti incoraggiamenti sotterranei e strizzate d'occhio allusive. Oriundi siciliani in USA pensava­ no all'isola come alla 49a stella della bandiera americana. Fi­ nocchiaro Aprile in una riunione pubblica del Movimento asserì che Churchill e Roosevelt l'appoggiavano e che insie­ me avevano discusso della questione siciliana. Non era vero. I due statisti - Churchill in particolare - potevano anche co­ vare tentazioni di quel tipo, ma con la consapevolezza che era impossibile tradurle in realtà: a meno che gli anglo­ americani - i cui progetti territoriali dovevano essere con­ certati con Stalin, e con i suoi vassalli, tra gli altri Tito - fos­ sero disposti a consentire l'ingerenza sovietica in un'inedita sistemazione del Mediterraneo. Nessun avallo anglo-americano, dunque, al Mis, ma an­ che l'impossibilità per un governo debole, incerto e sotto tutela come il Bonomi primo d'agire a carico dei separatisti con le misure che il loro linguaggio e il loro comportamen­ to avrebbero richiesto. Si trattava di autentico tradimento, con il supporto di una organizzazione armata clandestina. Anche quando - tramite l'ambasciatore sir Noel Charles - la Gran Bretagna fece sapere ufficialmente di non essere affat­ to schierata con il movimento separatista, Bonomi ritenne

162 opportuno placarlo, dando qualche offa ai suoi aderenti moderati, anziché reprimerlo. Aderì così alla impostazione di don Luigi Sturzo che vedeva nel regionalismo il rimedio ai danni del centralismo sabaudo e la «caratteristica dell'Ita­ lia risorta». Fu costituita, presso l'Alto commissariato per la Sicilia, una Consulta di 24 membri, che rappresentavano organizzazioni economiche e politiche, alla quale sarebbe spettato di formulare proposte per l'ordinamento regionale dell'isola: e fu stanziato un miliardo per la trasformazione del latifondo e 500 milioni per lo sviluppo dell'industria si­ ciliana: prime di una serie di elargizioni che doveva durare nei decenni, a titolo di solidarietà nazionale, con risultati deludenti: così come deludente fu la Regione autonoma, quando divenne realtà. Il primo ministero Bonomi entrò in crisi, venuto novem­ bre, non per gli immani problemi dell'ordine pubblico e della ricostruzione, ma per la frattura che, dentro la compa­ gine governativa, si stava sempre più allargando tra le sini­ stre - in particolare i socialisti e gli azionisti - e lo schiera­ mento moderato, del quale si faceva portavoce lo stesso Pre­ sidente del Consiglio. Formalmente Bonomi rassegnò le di­ missioni nelle mani del Luogotenente, il 26 novembre, per contrasti tra i ministri Soleri e De Courten e il grande epu­ ratore Scoccimarro. Quest'ultimo intendeva inquisire su funzionari e ufficiali che i titolari del Tesoro e della Marina ritenevano al di sopra di ogni sospetto. Ma nella sostanza la burrasca incombeva da molti giorni: almeno da quando, il 7 novembre, Umberto di Savoia aveva concesso al New York Times una intervista in cui sosteneva l'opportunità di affida­ re la decisione del problema istituzionale a un referendum popolare. Questo contrastava con una deliberazione che il governo aveva preso in giugno, e che deferiva invece la scel­ ta a una Assemblea costituente. Le sinistre reagirono con asprezza, anche perché si seppe che Bonomi aveva avuto in visione il testo delle dichiarazioni del Luogotenente e le ave­ va approvate «apportandovi anzi qualche correzione», co-

163 me annotò Puntoni. A sinistra il referendum - la cui corret­ tezza democratica era difficile contestare - riusciva sgradito per una serie di ragioni importanti. Si temeva che la Mo­ narchia potesse far leva sul sentimentalismo e sul tradizio­ nalismo di vasti strati della popolazione, soprattutto nel Me­ ridione: si sapeva che la formula del referendum - che de­ mandava direttamente ai cittadini di dire Monarchia o Re­ pubblica - avrebbe permesso ad alcuni partiti, in particola­ re alla Democrazia cristiana, di mantenersi agnostici: il che non avrebbero potuto fare in una discussione e in una vota­ zione di tipo parlamentare. Le forze «progressiste» che vo­ levano esautorare i prefetti in favore del CLN, e che avevano subito come un grave smacco politico, oltre che militare, il rinvio alla primavera della liberazione del nord, sbandiera­ vano il pericolo delle «forze occulte della reazione in aggua­ to» (fu coniata perfino una sigla, Fodria, per riassumere lo slogan). Il Consiglio dei ministri fu costretto a ribadire, in un comunicato, che l'Assemblea costituente era lo sbocco normale della procedura istituzionale. Mentre democristiani e liberali pigiavano sul freno, i so­ cialisti tentavano di forzare la mano a tutti, comunisti com­ presi. Per commemorare il XXVII anniversario della Rivo­ luzione russa si riunirono il 12 novembre (del '44 si capisce) allo stadio di Domiziano sul Palatino (era stata rifiutata da Bonomi piazza Navona) ottantamila persone, e Nenni s'ine­ briò di demagogia: «Questo popolo - scrisse alquanto trom- bonescamente nel suo diario - mi considera come il suo in­ terprete. Direi che sente che la parola mi è stata data per esprimere il mio pensiero, mentre intuisce in Togliatti una riserva mentale che lo turba. E stata una successione di ova­ zioni che hanno raggiunto il delirio ogni volta che ho attac­ cato la Monarchia. Non v'e dubbio che l'odio della massa è oggi diretto contro il Quirinale. E questa è stata, in grande parte, opera mia. Anche Togliatti stamattina ha dovuto alfi­ ne pronunciare la parola Repubblica». Era una crisi particolarmente complessa, quella che si

164 aprì a fine novembre del '44, perché contrapponeva due autorità ormai inconciliabili, e irreconciliabili. Il Luogote­ nente diede l'avvio, nella più rigorosa osservanza delle for­ me, a consultazioni con le alte personalità dello Stato, e con quegli esponenti politici che accettavano di farsi consultare. Ma il CLN rivendicava il diritto di designare esso stesso, in nome dell'antifascismo, chi dovesse assumere la guida del paese, e lo fece chiamando a dirigere i suoi lavori il conte Sforza: che diventava così l'anti-Bonomi. Questa preferenza delle sinistre per il conte si scontrò subito con un veto bri­ tannico a che fosse nominato non soltanto Capo del gover­ no, ma ministro degli Esteri. Se il primo veto, del giugno, era stato una iniziativa personale del generale MacFarlane, dalla quale gli americani si erano dissociati, questo di fine novembre fu comunicato ufficialmente a Bonomi e al CLN dall'ambasciatore di Londra, Charles. Gli inglesi non perdonavano a Sforza d'aver rinnegato, rientrando in Italia dal lungo esilio, la promessa di mostrar­ si collaborativo verso Badoglio e rispettoso verso la Monar­ chia. Parlando ai Comuni, Churchill disse che il veto era sta­ to una ritorsione agli «intrighi (di Sforza ovviamente) che erano culminati nella espulsione del maresciallo Badoglio dal suo ufficio». Ma più tardi - avendo gli americani preso le distanze anche questa volta - addossò all'ambasciatore Charles la responsabilità maggiore del pesante intervento, che non fu però reso noto. Nel CLN Sforza spiegò la sua po­ sizione. Ammise - e Nenni Io registrò - d'essersi impegnato ad appoggiare con la sua autorità Badoglio e il Re, ma ag­ giunse che, giunto a Brindisi, aveva visto «che il Re e Bado­ glio non avevano altro proposito che di salvare il fascismo nella sua sostanza se non nel suo nome». Escluso Sforza, che rinunciò alla presidenza del CLN, so­ cialisti e comunisti cercarono di ripiegare su Meuccio Ruini: ma nella schermaglia che si andava svolgendo Ruini fu ri­ fiutato dai liberali e accettato dalla DC solo «in via subordi­ nata», cioè se fosse caduta la riconferma di Bonomi. Questi

165 sapeva di manovrare da una posizione di forza, perché i suoi avversari erano disuniti, gli Alleati tendevano alla stabi­ lità, e il Luogotenente avrebbe visto con soddisfazione un reincarico, che sarebbe anche stato una sconfitta, palese o mascherata, del più acceso schieramento repubblicano. Bo­ nomi agì con accortezza da vecchia volpe: a democristiani, socialisti e comunisti inviò lettere con cui proponeva di as­ sociarli strettamente, dandogli tre vicepresidenze, nella ge­ stione del futuro governo. Scontata l'intransigenza del Partito d'azione del quale tuttavia si andava sempre più rivelando la scarsa presa po­ polare, la peggiore posizione era quella dei socialisti, che non volevano Bonomi, non volevano rompere l'unità d'a­ zione con i comunisti, ma neppure volevano seguire i co­ munisti nel governo. La conclusione fu che Bonomi formò (7 dicembre) un ministero a quattro (liberali, democristiani, democratici del lavoro, comunisti), mentre socialisti e azio­ nisti ne rimasero fuori. «Ieri - osservò amaramente Nenni - i comunisti avevano pubblicato che non si sarebbero divisi dai socialisti, ma è evidente che per loro marciare coi socia­ listi vuol dire che, in ogni caso, i socialisti devono seguirli.» Pur di concludere, Bonomi diede al pei qualche soddi­ sfazione: elaborò un programma in base al quale l'epurazio­ ne e la repressione dei delitti fascisti sarebbero state accen­ tuate (così come l'avocazione dei profitti di regime), lo sfor­ zo di guerra avrebbe avuto una accelerazione, al CLNAI sa­ rebbe stata data una delega di poteri governativi. Tutte que­ ste sottolineature antifasciste non riuscivano però a cancel­ lare la sensazione che la crisi avesse giovato ai moderati più che alle sinistre. Togliatti ebbe una vicepresidenza, e un'al­ tra il cattolico Rodino. A De Gasperi andarono gli Esteri, al comunista Pesenti le Finanze, al liberale Arangio-Ruiz l'I­ struzione. Quello stesso 7 dicembre, in un salone del Grand Hotel, il generale inglese Maitland Wilson, Comandante delle for­ ze alleate nel Mediterraneo, firmò un protocollo formale

166 con i quattro delegati che il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) aveva inviato da Milano via Lugano- Lione: erano Ferruccio Parri, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno, e Alfredo Pizzoni (quest'ultimo «ministro delle Fi­ nanze» della organizzazione partigiana). Si era discusso, nei giorni precedenti - tra notevoli diffi­ denze alleate - sui lanci di armi al nord e sul finanziamento della guerriglia. Maitland Wilson offriva cento milioni al mese, Pizzoni ne voleva 160, e li ottenne: 60 al Piemonte, 20 alla Liguria, 25 alla Lombardia, 20 all'Emilia, 35 al Veneto. Il protocollo riconobbe il CLNAI e il CVL (Corpo Volontari della Libertà), stabilì che a liberazione avvenuta le armi sa­ rebbero state riconsegnate, e che la Resistenza avrebbe ri­ nunciato a pretendere l'inserimento dei suoi uomini nell'E­ sercito regolare. Parri ricordò così la breve cerimonia: «Da un canto imponente, maestoso come un proconsole sir Mai­ tland Wilson: dall'altra noi quattro. Un bicchiere di qualche cosa, qualche parola, una stretta di mano: poi la firma. Mi domando se quando i proconsoli britannici firmano proto­ colli con qualche sultano del Belucistan o dell'Hadramaut non sia un po' la stessa cosa». I delegati non videro Bonomi, indaffarato a sciogliere i nodi della crisi. Tra il Sud e il Nord c'era qualcosa di più della linea gotica: c'era una frattura politica e psicologica. Ma il protocollo di Roma ci ricollega ad un altro filone di avvenimenti, quello della Repubblica di Salò e della Resistenza, che dobbiamo riprendere al pun­ to in cui l'abbiamo lasciato. CAPITOLO NONO

L'ULTIMO DISCORSO

Per la caduta di Roma, Mussolini aveva ordinato tre giorni di lutto nella sua Repubblica che si andava rimpicciolendo, con chiusura dei teatri, dei cinematografi e di ogni centro di ritrovo. «La Repubblica - egli disse in un proclama agli italiani - è minacciata dalla plutocrazia e dai suoi mercenari di ogni razza.» Durante la avanzata alleata fino alla linea go­ tica fascisti e tedeschi avevano constatato, una ennesima vol­ ta, quanto poco affidamento potesse essere fatto sui reparti italiani ricostituiti alla meglio. La guarnigione dell'Elba si era arresa agli anglo-americani, fanfara in testa, non appe­ na essi si erano affacciati sulle coste, i carabinieri disertava­ no dovunque e liberavano i prigionieri. A Graziani che con­ tinuava a insistere per la creazione di una struttura militare valida, i tedeschi replicavano con diffidenza del tutto giusti­ ficata. «Ci dobbiamo convincere - scrisse il colonnello Heg- genreiner, ufficiale di collegamento con il Quartier generale di Graziani - che un popolo a cui e già stata messa davanti agli occhi la prospettiva della pace non è più capace di por­ tare le armi, ma solo di essere sfruttato per lavoro. Il mare­ sciallo Kesselring dopo l'episodio dell'Elba, non vuole avere niente più a che fare con le truppe italiane in cui ha perdu­ to ogni fiducia.» Vi erano conati di energia molto simile alla disperazione. Proprio in quel volgere di tempo Pavolini raggruppò i fede­ lissimi evacuati da Roma e dalla Toscana per costituire le Brigate Nere, eterogenee formazioni di sbandati, esaltati, e a volte delinquenti, un «esercito personale» del segretario del Partito. Ha scritto Ricciotti Lazzero: «Non vi furono mai,

168 nella nostra storia recente, reparti di più basso livello mora­ le e tecnico-militare, e fu subito evidente a tutti, anche a Mussolini, che quell'insieme di giovani e vecchi, riottosi alla disciplina... non contava militarmente e poteva soltanto co­ stituire un tampone alla guerriglia dal punto di vista poli­ ziesco. Alla prova del fuoco, quelle poche volte in cui venne­ ro chiamate accanto ai tedeschi a far numero in azioni diffi­ cili, le Brigate Nere, che pur ebbero molti morti, dimostra­ rono - sempre salve le eccezioni - di essere del tutto impre­ parate... Squallido e lugubre il loro stile, nefande certe loro azioni di vendetta. I tedeschi, che li controllavano e li cono­ scevano molto bene, avendo l'esperienza dei cosacchi, dei mongoli, degli ucraini, dei croati e di tutti gli altri collabora­ zionisti, non permisero mai che si affacciassero al fronte, do­ ve avrebbero rappresentato un pericolo gravissimo». Istigato da Pavolini, il Duce tuonava contro i «ribelli» promettendo di annientarli tutti con una «marcia della Re­ pubblica sociale contro la nuova Vandea», ma si trattava di parole al vento. Salò contava sempre meno anche perché, raggiunta dagli Alleati la linea gotica, la giurisdizione mili­ tare tedesca - che escludeva in sostanza ogni altra autorità - era stata estesa a tutte le province sulla sponda destra del Po. Il territorio su cui l'ultimo fascismo esercitava ancora un qualche effettivo potere fu diviso in quattro regioni ammi­ nistrative, nello sforzo di frenare la disgregazione: Emilia- Romagna, Veneto, Liguria, Piemonte, ciascuna posta agli ordini di un commissario «con il nominale controllo assolu­ to - come ha ricordato il Deakin - sui prefetti e su tutte le funzioni di polizia, e direttamente responsabile di fronte a Mussolini». Ma ogni dirigente della Repubblica di Salò, con una parziale eccezione soltanto per Mussolini in persona, era esposto al discredito e al disprezzo dei tedeschi. Ne fece­ ro esperienza il Capo della polizia Tamburini e il ministro degl'Interni Buffarini Guidi, accusati - sicuramente non a torto - d'avere incamerato argenteria e altri beni di cui era­ no stati spogliati gli ebrei. E ancora: un giorno il colonnello

169 tedesco Dietrich si presentò al sottosegretario all'Aeronauti­ ca, Manlio Molfese, a Bellagio, per annunciargli che i suoi avieri dovevano passare nelle formazioni tedesche e che gli aeroporti erano tutti presidiati e occupati dalla Luftwaffe. Il Duce inviò una querula protesta al Fiihrer («tutto ciò è inintelligente, tutto ciò è sommamente dannoso alla nostra causa, tutto ciò giova splendidamente ai nostri nemici») fa­ cendo eco a precedenti lamenti di Graziani («perché non mi è consentito di rimettere in piedi un vero esercito?»). Accad­ de perfino che a funzionari ministeriali di Salò fosse ordina­ to dai tedeschi di scavare trincee in riva al Garda, e che il ministro delle Finanze Pellegrini Giampietro non trovasse più, all'uscita da una riunione, la sua automobile di servizio, che un ufficiale delle SS aveva requisito. Il governo di Mus­ solini era quotidianamente ridicolizzato, e anche quando riusciva a far qualcosa lo faceva male, tra dissensi e vere e proprie risse (litigarono anche il generale Mischi e Pavolini, perché le formazioni militari del Partito non intendevano sottostare a comandi dell'Esercito). Di questo sfascio si fece clamorosamente eco, in un arti­ colo di fondo dal titolo «Se ci sei batti un colpo», il direttore della Stampa di Torino, Concetto Pettinato: chi doveva bat­ tere un colpo - come i fantasmi evocati al tavolino a tre gambe - era la inesistente autorità di Salò. Mezzasoma giu­ dicò quella sortita «il colpo più duro finora inferto al presti­ gio del governo fascista repubblicano». Pettinato non aveva agito di testa sua: s'era fatto espressione della profonda de­ moralizzazione dei fascisti piemontesi - e anche dei tedeschi - per la latitanza totale di un governo che si faceva vivo solo con ampollosi o truculenti proclami, ma che non riusciva a impedire il dilagare della guerriglia, e gli scioperi nelle in­ dustrie. Su un punto il padronato e gli operai erano d'ac­ cordo: che si lavorasse il meno possibile, ma senza portare le cose a un punto tale da indurre l'occupante a trasferire subito gli impianti in Germania. Le istruzioni del senatore Agnelli (Fiat) a Valletta furono esplicite: «Contrarre la pro-

170 duzione senza scendere sotto il minimo tollerabile e aiutare i partigiani, sia assumendoli sia finanziandoli in larga misu­ ra». Torino era praticamente assediata: «I ribelli la possono occupare quando vogliono» scriveva un rapporto. E Petti­ nato rincarava la dose: «Il banditismo... in barba alla repres­ sione minacciatagli prima del 25 maggio ruba, saccheggia e ammazza come se i poteri costituiti non fossero se non un ricordo di altri tempi». Chiedeva infine che si trasferissero a Torino almeno alcuni degli organi centrali del governo.

In questa cupa atmosfera il Duce smagrito dell'ultimo fasci­ smo decise di compiere, in Germania, una nuova ispezione alle quattro divisioni che stavano concludendo il loro adde­ stramento e che si sospettava avrebbero avuto la prima pro­ va del fuoco non al fronte ma al momento del rimpatrio. Al­ lora si sarebbero contati i disertori. Con l'occasione Mussoli­ ni avrebbe visto Hitler. La partenza da Gargnano per la Germania fu fissata per il 15 luglio: sul treno speciale presero posto, insieme al Du­ ce, Graziani, Mazzolini, Anfuso, Vittorio Mussolini e Rahn. Il viaggio subì interruzioni per gli allarmi aerei - «è una for­ tuna che siano solo quattro divisioni» mormorò a un certo momento Rahn, spazientito e preoccupato da quel girova­ gare, all'orecchio di Anfuso - ma rianimò Mussolini. Con la puntualità e infallibilità di sempre, il suo magnetismo fun­ zionava. I ragazzi delle divisioni gli tributarono accoglienze entusiastiche, non foss'altro, probabilmente, che per il pia­ cere di ritrovare un capo italiano dopo tanti giorni di sog­ gezione ai duri sergenti tedeschi. Il 18 luglio Mussolini si congedò da quelli che avrebbero dovuto essere i soldati del­ la sua Repubblica, a Sennelager, non lontano da Paderborn dove nel 9 dopo Cristo le tribù teutoniche di Arminio ave­ vano annientato le legioni di Varo. Graziani, nella sua ro­ boante conclone, tentò anche di rifarsi a quel precedente storico, ma s'accorse che non era il caso, date le circostanze: e cambiò argomento, imbarazzato.

171 p

Il treno speciale si avviò quindi verso il Quartier genera­ le di Rastenburg nella Prussia orientale: nella vettura salone di Mussolini, il gruppo degli italiani preparò, d'accordo con Rahn, un elenco dei punti da discutere con Hitler: al primo posto stava il problema degli internati in Germania, e della loro sorte (e utilizzazione). Quando il treno si approssimava ormai alla meta - era il 20 luglio - fu improvvisamente av­ viato alla stazione di Gòrlitz (non si trattava di una località ma del nome convenzionale dato al centro ferroviario crea­ to a breve distanza dal Quartier generale) su un binario morto. Gli italiani non sapevano cosa stesse accadendo; il barone Doernberg, capo del protocollo della Wilhelmstras- se, che li accompagnava era agitato ma ermetico. Poi il cam­ mino riprese, ma con cautele drammatiche: «Qualcosa di grave era avvenuto - ricordò Anfuso -, e tanto grave da co­ stringerli (i tedeschi, N.d.A.) a rallentare la marcia del tre­ no, e farci giungere a Rastenburg con le finestre ermetica­ mente chiuse ed oscurate... Infine il treno, sempre in quella sinistra blindatura, giunse a destinazione. Doernberg aprì con ogni cautela qualche finestrino... Da questo finestrino apparve il solito schieramento: Hitler qualche passo avanti a Gòring e dietro, allineati, Ribbentrop, Himmler, Bor- mann, Keitel, Doenitz e altri capi nazisti». Avvolto in un mantello nero, apparentemente calmo an­ che se la mano destra tremò un poco alzandosi nel saluto nazista (e sulla mano si vedeva una leggera scalfittura), Hi­ tler andò incontro a Mussolini e disse: «Duce, proprio ades­ so mi e stato scagliato un infernale ordigno». Poco prima (12,42) era esplosa nella Wolfschanze, la «tana del lupo», la bomba portatavi dal colonnello von Stauffenberg. Il Fiihrer, uscito miracolosamente indenne dall'attentato - e vide nella sua salvezza un segno del destino - aveva già dato le prime disposizioni per la scoperta dei congiurati e per la repres­ sione che avrebbe portato all'impiccagione, o alla fucilazio­ ne, di circa cinquemila tedeschi: tra essi alti ufficiali, diplo­ matici, funzionari, uomini politici, religiosi. Sospettati di es-

172 sere implicati nella trama furono costretti al suicidio due feldmarescialli, von Kluge e Rommel. Era dunque un Hitler furibondo e assetato di vendetta quello che accolse i visitatori italiani, ai quali dedicò poco tempo, impegnato com'era a concertare con i suoi collabo­ ratori - ma solo chi si trovava nella Wolfschanze era vera­ mente al di sopra di ogni sospetto - le spietate contromisu­ re. La sua esposizione era continuamente interrotta da mes­ saggi e telefonate cui seguivano ordini concitati. Dopo le congratulazioni di Mussolini per lo scampato pericolo, «prova speciale dell'intervento divino», Hitler spiegò sbri­ gativamente le cause, a suo dire tecniche, del grave momen­ to che la Germania attraversava, e quindi si dilungò sul suo tema preferito, perché schiudeva la porta all'ultima speran­ za: le armi segrete. Già le VI avevano cominciato a piomba­ re su Londra, e nell'autunno sarebbero entrate in azione anche le V2 delle quali il Fiihrer illustrò le caratteristiche ri­ voluzionarie, assicurando che la capitale britannica sarebbe stata martellata «fino alla completa distruzione». La V di queste armi stava per Vergeltung (rappresaglia). La VI era, in parole povere, un aeroplanino a reazione sen­ za pilota, imbottito di una tonnellata di esplosivo. La sua ve­ locità non superava i 400 chilometri orari, e la sua quota i mille metri. La V2 era invece un razzo che, sempre con una tonnellata di esplosivo, volava a quasi seimila chilometri l'o­ ra e toccava una quota di un centinaio di chilometri, rag­ giungendo poi silenziosamente l'obbiettivo perché viaggia­ va più rapida del suono. Londra fu colpita da 2.419 VI, al­ tri punti dell'Inghilterra da 3.132, Anversa da 2.448. Delle V2, ne cadde un migliaio su Londra e sul resto dell'Inghil­ terra, e 1.265 su Anversa. Pur temibili e distruttrici, queste armi non ebbero gli effetti apocalittici su cui Hitler contava, e che Churchill temeva. Illustrati i piani per l'utilizzazione delle nuove armi, Hi­ tler ribadì che era esclusa ogni resa al nemico, e si occupò dell'Italia per chiedere che gli fossero forniti uomini e re-

173 parti. Allo Stato Maggiore tedesco avrebbe fatto comodo di trattenere in Germania le due divisioni italiane già pronte, per destinarle alla contraerea sul fronte orientale. Ma Mus­ solini, replicando a Hitler, propose e ottenne subito - il suo interlocutore aveva fretta - che le divisioni rimpatriassero, e che gli internati avessero migliore trattamento e impiego. Anche nel viaggio di ritorno il treno speciale procedette con i finestrini ermeticamente chiusi. A Gargnano Mussolini os­ servò con sollievo: «Non siamo più soli in quanto a tradi­ menti».

L'euforia per gli applausi delle reclute italiane in Germania, e l'acre soddisfazione per la riedizione del 25 luglio che era toccata - assai più sanguinosa e truce, come si addice a tutto ciò che è tedesco - a Hitler, svanirono presto. Hitler consi­ derava Mussolini «il mio migliore amico, e forse l'unico al mondo», ma la miriade di uffici tedeschi disseminati in Ita­ lia - 73 nella sola Milano, secondo un appunto del Duce a Gòbbels - non tenevano in alcun conto il governo che «o sarà posto in condizione di funzionare o si dimetterà». Benché Hitler si aggrappasse alle sue farneticazioni otti­ mistiche - contava sempre su una rottura della «innaturale alleanza» tra anglo-americani e sovietici - e benché il Duce fingesse a sua volta di aver fiducia, fascisti e tedeschi in Ita­ lia già pensavano all'estrema disperata resistenza. In una lettera a Mussolini dell'8 settembre il segretario del Partito Pavolini affacciò l'idea («nella deprecata eventualità di una ulteriore e pressoché completa invasione del territorio re­ pubblicano») di «arroccarci con le camicie nere, con le no­ stre armi e con il nostro governo in una zona difendibile quale la provincia di Sondrio e parte di quella di Como». I tedeschi propendevano sempre per Merano, ma lo stesso Pavolini osservava che tale scelta avrebbe «tolto ogni valore al nostro proposito di una resistenza estrema del fascismo mussoliniano in una roccaforte italiana», perché «a Merano si tratterebbe di un governo fantasma ospitato malvolentieri

174 dal Gauleiter Hofer». Mussolini costituì uno speciale organi­ smo, «il ridotto repubblicano alpino», per lo studio del pro­ blema, ma esso non diede altro frutto che qualche progetto cartaceo. Cresceva intanto l'attività partigiana, e in una lettera del­ l'ottobre a Rahn il Duce avvertiva che «le bande sono diven­ tate brigate e divisioni regolarmente inquadrate e coman­ date da generali di carriera sottoposti ad uno Stato Maggio­ re centrale», che il loro armamento era «ottimo», che in molti luoghi i tedeschi patteggiavano con i partigiani alle spalle dei fascisti, e che infine «l'organizzazione partigiana in Italia con un totale di centomila uomini ripartiti in 60 bri­ gate costituisce un pericolo crescente contro il quale non si agisce con la dovuta efficacia». La Resistenza si andava in effetti irrobustendo, e le sue formazioni acquistavano una più precisa struttura militare, anche se con profonde sottolineature politiche. Ansiosi - co­ me sempre in queste fasi fluide della lotta politica o rivolu­ zionaria - di stabilire una larga convergenza a carattere na­ zionale, i comunisti, che pure avevano già un loro comando unico, accettarono la istituzione di uno Stato Maggiore par­ tigiano cui tutte le «bande» facessero capo. Nelle loro istru­ zioni essi avevano del resto raccomandato ai capi locali di non dimenticare che «l'unità militare non appartiene al par­ tito, non è un organo di partito, non ha e non deve avere il carattere di partito. Essa è un organo del Corpo Volontari della Libertà». Ai buoni propositi facevano seguito, sovente, azioni che clamorosamente li contraddicevano. Ma al verti­ ce i buoni propositi furono tutto sommato rispettati. Il 9 giugno venne costituito un «Comando generale per l'Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà», diviso in più sezioni (assistenza, operazioni, informazioni e controspio­ naggio, aviolanci, trasporti e collegamenti, prigionieri allea­ ti, falsi). Al settore operazioni, ovviamente il più importante, ven­ nero preposti Ferruccio Parri e Luigi Longo. A comandante

175 fu designato - dopo che un aereo alleato l'aveva paracadu­ tato sull'Italia del nord - il generale Raffaele Cadorna, che a 55 anni s'era dovuto allenare per il pericolóso lancio. Il suo addestramento era stato curato, nella base di San Vito dei Normanni, dagli inglesi della Special Force. Quando Ca­ dorna fu pronto, lo affiancarono, nel salto verso l'ignoto, il capitano inglese Oliver Churchill e il tenente della Guardia di Finanza Augusto De Laurentis. De Laurentis era stato scelto perché Cadorna risultava, a giudizio degli inglesi, un po' «impacciato» (senza dubbio a causa dell'età) e pareva op­ portuno vi fosse qualcuno che l'aiutasse dopo l'atterraggio. La preparazione dei lanci di rifornimenti e di uomini, così come la preparazione di agenti di collegamento, rien­ trava nei compiti dei servizi segreti anglo-americani, ricchi di mezzi ma gelosi delle rispettive competenze e poco incli­ ni a collaborare: la già citata Special Force inglese e l'oss (Of­ fice of Strategie Services) statunitense. Oltre che a San Vito dei Normanni gli allievi paracadutisti erano addestrati in Algeria: lì formò la sua esperienza, tra gli altri, Edgardo So­ gno, poi intrepido capo delle formazioni Franchi (di impron­ ta liberale e monarchica), che sempre intrattenne ottimi rapporti con gli Alleati non solo per la sua moderazione ideologica, ma anche perché parlava perfettamente l'ingle­ se. Sogno stesso ha raccontato come fosse stato accolto, al Club des Pins di Algeri (un villaggio balneare) dall'allora ca­ pitano di artiglieria Alberto Li Gobbi - anch'egli poi paraca­ dutato sul nord - che gli mostrò le attrezzature e gli spiegò la tecnica dell'addestramento: questo durò una decina di giorni, con molta ginnastica e cinque lanci. I rapporti di Cadorna con i vice comandanti Parri e Lon­ go (in particolare con il secondo, sospettoso e, nonostante la linea ufficiale del suo Partito, deciso a mantenere al movi­ mento partigiano una forte impronta di sinistra) non furo­ no facili. Cadorna era visto insieme come un possibile re­ stauratore dei classici princìpi gerarchici militari contro la spontaneità popolare delle bande, e come un interprete dei

176 disegni strategici degli Alleati contro la volontà rivoluziona­ ria delle masse. Senza ammorbidimenti diplomatici, Longo scrisse che il generale era stato «inviato dagli Alleati nel Nord con il preciso compito di controllare e contenere il movimento partigiano». Sogno ha spiegato a Franco Fucci, autore di un libro (Spie per la libertà) sui servizi segreti nella Resistenza, come fosse difficile per Cadorna far valere le sue prerogative di comandante. «Ceixai - ha detto Sogno - di rafforzare il più possibile la posizione di Cadorna in seno al Comando generale del CVL fornendogli servizi quali i tra­ sporti e i collegamenti, ma soprattutto facendo passare at­ traverso il generale e il suo staff militare le informazioni di cui venivo in possesso. Ciò perché ogni partito cercava di far passare le informazioni attraverso i propri canali e non attraverso Cadorna. Il PCI e il Partito d'azione per esempio mandavano il loro materiale al Sud scavalcando il coman­ dante generale del CVL.» E certo che Alexander, attenendosi del resto alle istruzio­ ni di Churchill, preferiva destinare i suoi lanci alle «bande» non comuniste, e organizzare i contatti delle sue missioni segrete in modo da favorire il meno possibile quella parte della Resistenza che ostentava propositi non solo antimo­ narchici, ma antiborghesi, anticapitalisti, e - per quanto ri­ guarda i comunisti - filosovietici. Tuttavia un foglio di istru­ zioni di cui Cadorna fu munito prima di raggiungere il Nord era abbastanza imparziale: «Purché ogni organizza­ zione in Alta Italia si dimostri capace e pronta ad effettuare operazioni offensive contro i tedeschi, il colore politico di tale organizzazione non ci interessa». Ma, aggiungeva il do­ cumento, «dove le tendenze politiche interferiscono con l'organizzazione e con i piani di operazione che formano una parte integrale della avanzata alleata in Italia, l'aiuto non verrà fornito da questo Quartier generale». Le direttive di massima di Alexander erano poi tradotte in pratica in maniera farraginosa, a volte contraddittoria, dai servizi segreti. «Gli Alleati - ha rilevato Parri, e su que-

177 sto non possiamo dargli torto - conoscevano poco l'Italia e noi, né erano sempre bene informati e quindi ben orienta­ ti.» La linea politica generale spettava agli inglesi, ma capi­ tava che gli americani si intromettessero con il loro ottimi­ smo schematico e impiccione aggravando la confusione e le incertezze. Il timore del comunismo influiva sul comporta­ mento degli inglesi, e ciò che stava avvenendo nel quadro generale della guerra (e nella azione di Stalin) legittimava pienamente le loro diffidenze. Il sospetto - anch'esso rievo­ cato da Parri - che i comunisti «avrebbero fatalmente assor­ bito e fagocitato le altre correnti, almeno sul piano militare» e che gli azionisti avrebbero potuto aderire a «un frontismo generico a direzione comunista» era avvalorato dai fatti. Ca­ dorna e Sogno rappresentarono una qualche garanzia con­ tro questo rischio. Ancora da un ricordo di Parri - per concludere con que­ sta sintesi della struttura partigiana - citiamo alcuni dati: con l'avvertenza che, nello schema da lui tracciato, comandi e reparti sembrano assai più organici, razionali e collegati al centro di quanto in concreto fossero. Mentre la fine della Germania si approssimava inesorabilmente, le «bande» ac­ quistavano consistenza numerica e determinazione. Non di­ vennero mai, né lo potevano in quelle condizioni, un vero esercito, o un vero controesercito. Spiegò dunque Parri: «Dipendevano dal Comando gene­ rale i comandi regionali costituiti a Torino, Genova, Milano, Padova e Bologna e formati da un comandante militare, che fu spesso un valente generale, assistito da rappresentanti dei gruppi di formazioni... Si venne elaborando nel tempo un organico dell'esercito partigiano semplice ed uniforme: dall'unità elementare, che era la squadra, si saliva al distac­ camento, forte di 3-5 squadre: 2-3 distaccamenti compone­ vano generalmente un battaglione, 2-3 battaglioni si rag­ gruppavano in una brigata che era la nostra unità tattica fondamentale, legata ad una determinata valle, della forza tipica di circa 300 uomini. Col tempo si formarono le divi-

178 sioni che organizzarono militarmente o una grande valle o alcune valli collegate: ebbero forza assai variabile che passò, secondo le regioni, da cinquecento a cinquemila uomini... Ai reparti corrispondevano i gradi: per noi valeva soltanto la gerarchia partigiana; ed un ex cuoco od un sergente de­ gli alpini potè comandare una divisione... Volemmo cioè, resistendo ad ogni sollecitazione e pressione in contrario, salvaguardare il carattere borghese del movimento». Dove il termine borghese significa, in realtà, carattere politico e non tecnico. Tra il luglio e l'agosto del 1944, mentre gli Alleati ancora avanzavano, lasciando sperare in una totale liberazione del­ l'Italia, la Resistenza intensificò la sua attività, e nella zona di Montefiorino, in Emilia, sostenne contro i tedeschi quella che può essere definita una battaglia campale di tipo classi­ co. Alle spalle della linea gotica, sulle propaggini dell'Ap­ pennino, i partigiani presidiarono in quell'area (tra le pro­ vince di Reggio e di Modena) un territorio di cinquanta chi­ lometri per ottanta: e i tedeschi impegnati a fondo contro gli anglo-americani ne erano così allarmati che nella secon­ da metà di luglio proposero alle forze ribelli, comandate da un contadino improvvisatosi capo militare, Armando Ricci, una tregua. Fu promessa la sospensione dei rastrellamenti e la liberazione degli ostaggi, a patto che i partigiani inter­ rompessero la loro attività. Ricci respinse il documento del generale Messerle che a fine mese lanciò, con effettivi se­ condo il Battaglia equivalenti a tre divisioni, la sua offensi­ va. I partigiani, che erano stati abbondantemente riforniti con aviolanci alleati, combatterono bravamente ma non fu­ rono in grado di bloccare l'attacco. Riuscirono tuttavia a ri­ piegare ordinatamente in una «zona di salvezza» montana. Le perdite furono pesanti da entrambe le parti, con qual­ che centinaio di morti. A Montefiorino era stata creata, per il tempo in cui la zo­ na fu sgombra dai tedeschi, una mini repubblica, con ordi­ namenti embrionali. Di queste piccole repubbliche Luigi

179 Longo ne elencò quindici nel suo Un popolo alla macchia: ma si trattò per lo più di effimeri e precari «santuari» partigia­ ni, presto spazzati via. Tre furono - oltre quella di Monte- fiorino - le piccole repubbliche di qualche importanza: Os­ sola, Carnia e Alto Monferrato. Nell'Ossola, dove i partigiani erano privilegiati per la contiguità con il confine, i presidi fascisti si arresero l'uno dopo l'altro, demoralizzati e demotivati, tra la fine d'agosto e i primi di settembre: alle loro richieste di rinforzi i coman­ di di Milano non rispondevano neppure. Il 9 settembre, raggiunto un accordo con i tedeschi che venivano autoriz­ zati a defluire senza subire attacchi, le formazioni garibaldi­ ne e quelle cattoliche di Di Dio e Cefis entrarono nel capo­ luogo, Domodossola, seguite da un nugolo di politici che si erano rifugiati in Svizzera, e che lì ritrovarono il gusto della democrazia, e anche della bizantina rissa verbale: tra essi i comunisti Concetto Marchesi, Giancarlo Pajetta e Terracini, il sindacalista socialista Fernando Santi e gli altri socialisti Ezio Vigorelli e Mario e Corrado Bonfantini, il democristia­ no Piero Malvestiti. Ettore Tibaldi, un medico socialista che aveva tenuto i rapporti tra i partigiani e gli esuli in Svizzera (e anche tra i partigiani e gli emissari alleati Alien Dulles e McCaffery) fu designato presidente della giunta. La sua «giurisdizione» si estendeva dalle sponde del Lago Maggio­ re alla Valsesia, da Gravellona al Sempione. Il clima fu all'i­ nizio di entusiasmo confusionario, con grandi discorsi sul­ l'universo scibile, compreso il Sud America, la questione femminile, la differenza tra democrazia sostanziale e demo­ crazia formale. Si respirava aria di Grande Costituente e di piccola patria, con molte velleità, molte parole, e anche con molta onestà. Ma quando, cominciando l'ottobre, Kessel­ ring ebbe stabilizzato la linea gotica, e potè distogliere forze dal fronte per occuparsi delle plaghe dominate dalla Resi­ stenza, per la repubblica dell'Ossola fu la fine. La città fu persa il 10 ottobre, il 20 Tibaldi ripassò il confine reggendo una borsa in cui teneva i documenti contabili della sua ge-

180 stione. Nelle battaglie dell'Ossola Ezio Vigorelli aveva perso i due figli, Bruno e Fofi. Ad Ampezzo fu insediata il 26 settembre, dopo una lenta e graduale azione di ampliamento della «zona libera», la giunta della Carnia, che sovrintendeva a 37 comuni con cir­ ca ottantamila abitanti, su un territorio di circa 2.500 chilo­ metri quadrati. A fine novembre anche questa repubblica morì nel sangue, debellata da quarantamila uomini che era­ no una internazionale nazifascista; oltre ai tedeschi e ai «re­ pubblichini», i terribili cosacchi, gli ustascia croati, i francesi di Vichy. Stranieri militavano anche nelle forze partigiane; tra gli altri i russi di un battaglione Stalin che erano fuggiti dai campi di prigionia della Stiria. Si difesero fianco a fian­ co, mentre il rastrellamento procedeva implacabile nel gri­ giore autunnale, nelle vallate e su per i costoni, i garibaldini dal fazzoletto rosso e i cattolici dal fazzoletto verde della Osoppo. In pochi giorni le forze agli ordini dei tedeschi fe­ cero spietata «pulizia», mentre i sopravvissuti si raggruppa­ vano in posizioni defilate. Per questa povera Osoppo sacrifi­ cata nella difesa della Carnia si preparava un altro duro col­ po (anticipiamo qui la cronologia degli avvenimenti) nel febbraio del 1945: non glielo assestarono i tedeschi, ma i «compagni» garibaldini. Episodio di lotta feroce fra «bande» partigiane che, nonostante i conclamati propositi di concor­ dia contro il comune nemico, rivelò la tensione e la faziosità politica sotto la apparente «neutralità militare». La Osoppo combatteva al confine con il mondo slavo: in un settore cioè dove Tito e i suoi emissari già annunciavano i più avidi propositi di annessione di territori italiani, e do­ ve i garibaldini, diversamente dagli altri partigiani italiani, erano disposti in nome dell'ideologia ad accettare questa «mainmise» straniera. Tra Tito e Bonomi (o Cadorna) sce­ glievano Tito. È stato scritto dalla pubblicistica comunista - ripresa da Bocca piuttosto acriticamente - che la Osoppo commise l'errore di lasciare alle malghe di Porzus un distac­ camento agli ordini di Francesco de Gregori detto Bolla,

181 «uomo sbagliato nel luogo sbagliato». Perché sbagliato? Per­ ché (citiamo da Bocca) «è un attesista affetto da grafomania, il quale invece di difendere l'italianità del luogo sui campi di battaglia scrive in continuazione rapporti al CLN di Udine sulle mene slavo-comuniste». Porzus è in comune di Attimis, a nord-est di Udine, e Bolla con i suoi uomini della Osop- po-Friuli aveva stabilito lassù un'isola «verde» in un mare «rosso». Tanto attesista tuttavia il Bolla non doveva essere se in memoria gli fu concessa la medaglia d'oro al valor milita­ re. Era invece un deciso anticomunista, preoccupato dall'e­ spansionismo titino: il che gli era valso l'odio dei garibaldini della brigata Natisone, i quali operavano agli ordini del IX Corpus sloveno. Tra i garibaldini era Mario Toffanin detto «Giacca», un gappista padovano che osannava Stalin e vede­ va spie dovunque, anche tra gli altri partigiani, se non era­ no della sua risma. Per Toffanin «Bolla» era perciò un tradi­ tore, e come lui lo erano tutti coloro che gli stavano intorno. Il 7 febbraio del 1945 «Giacca» marciò sulle malghe di Por­ zus, catturò con uno stratagemma gli uomini della Osoppo, e li sterminò accusandoli di inesistenti collusioni con i tede­ schi. Tutti fascisti, decretò, avviando le esecuzioni. Questa vicenda attestò nel sangue che, sul confine, i comunisti sta­ vano «dall'altra parte». Lo si vide anche nel CLN di Trieste, dal quale i delegati del pei uscirono dopo che era stata re­ spinta la loro proposta di inserirvi un rappresentante degli sloveni. In ordine di nascita, la «repubblica» dell'Alto Monferrato fu l'ultima. Il suo atto di battesimo, con la data del 5 novem­ bre, è così riassunto in un telegramma a Bonomi: «In nome e per ordine di codesto governo e del CLNAI insediasi oggi giunta popolare governativa zona libera provincia Asti, de­ stra Tanaro, comprensiva quaranta comuni». Difendevano la zona libera due «divisioni» garibaldine, comandanti Giambattista Reggio e Davide Lajolo (Ulisse), e una divisio­ ne autonoma appartenente alle formazioni di «Mauri»: no­ me di battaglia di Enrico Martini, maggiore in servizio per-

182 manente effettivo dell'Esercito, che aveva raccolto intorno a sé alcuni ufficiali coraggiosi e centinaia di giovani, e guidava i suoi partigiani autonomi con piglio rigoroso e a volte con metodi spicciativi verso veri o presunti traditori e spie. Già il 10 ottobre Mauri - in concorrenza con i garibaldini - ave­ va occupato Alba, e quando il primo novembre gli era stata intimata dai tedeschi la resa aveva spavaldamente risposto issando il tricolore sul campanile. Ma dovette sgomberare, e alcuni giorni dopo anche l'Alto Monferrato ricadde sotto il controllo nazifascista.

Non tutti i reparti tedeschi e non tutti i reparti fascisti ebbe­ ro, in questa guerra che - come tutte quelle con connotazio­ ni di guerra civile - era sporca e feroce, eguale comporta­ mento. Ve ne furono di sufficientemente umani, se non cor­ retti, e ve ne furono di spietati. V'erano differenze anche tra le molte polizie - ufficiali e «private» - che imperversa­ vano nelle città, e tra le «ville tristi» dove sgherri, autorizza­ ti e non, si abbandonavano alle loro vendette, eseguivano le loro torture e le loro uccisioni. Le polizie erano l'una contro l'altra armate, e il bieco Koch, trasferitosi a Milano come sappiamo, dopo la caduta di Roma, e messosi agli ordini di Buffarini Guidi, fu arrestato il 24 settembre da un drappel­ lo della Legione Muti al comando del questore Bettini: per­ ché, osservava Bettini, la Koch «è ormai diventata... un'infa­ mia e un marchio di Milano». Nei locali della Villa Triste mi­ lanese di via Paolo Uccello a San Siro, che di Koch era il Quartier generale, furono scoperti «un gran numero di pri­ gionieri che erano stati nei decorsi mesi o passati alle carce­ ri o rimessi in libertà... con atto assolutamente arbitrario si usava dividere quello che si toglieva al prigioniero». Gli in­ terrogatori della Villa Triste di Milano avevano una sceno­ grafia caricaturalmente giudiziaria, un lampadario 900 pen­ deva dal soffitto a stucchi, Koch presiedeva, domande e ri­ sposte erano interrotte da percosse e torture. Una segreta­ ria verbalizzava 1'«udienza» alla macchina da scrivere ma di

183 tanto in tanto si alzava per sferrare calci negli stinchi ai pri­ gionieri. Capitava che si affacciasse alla porta della sala Osvaldo Valenti, stralunato per la droga o per la commozio­ ne; e consolava le vittime, «poverini come siete conciati», e le esortava a parlare, «è per il vostro bene». Forse fingeva, forse no, i suoi sentimenti erano contorti e confusi, la sepa­ razione tra messinscena cinematografica e cruda realtà ri­ maneva per lui incerta. Almeno agli orrori di via Paolo Uc­ cello l'intervento della Muti - nel ruolo molto inconsueto di riparatrice di torti - pose finalmente termine. Ma Koch fu presto liberato per intervento di Farinacci. Non è che un esempio di come in questo crepuscolo - or­ mai quasi tenebra - della Germania e della Repubblica di Salò tutto fosse in decomposizione: e questo valeva, in qual­ che modo, anche per i tedeschi, che «tenevano» con straor­ dinaria tenacia al fronte ma affrontavano il disperato avve­ nire in varia maniera. Se la Wehrmacht continuava a batter­ si con onore, e il capo delle SS in Italia generale Wolff già meditava i suoi propositi di trattativa e di resa, altri come il maggiore Reder dava sfogo a un furore insieme metodico e allucinato. V'era una logica militare nei rastrellamenti che i tedeschi compirono a ridosso della linea gotica, per ripulir­ ne le retrovie, a costo di creare la terra bruciata. Ma l'inter­ pretazione che alcuni ufficiali ne diedero fu terrificante. Il Battaglia ha ritracciato l'itinerario di sangue dei battaglioni SS. Reder, detto il monco, cominciò la sua opera il 12 ago­ sto a Sant'Anna di Stazzema in Lucchesia (360 vittime civi­ li); quindi, superato l'Appennino, fece 107 vittime a Valla, poi ordinò d'impiccare a San Terenzio 53 ostaggi che dalla Lucchesia s'era trascinati dietro. Il 24 agosto, affiancato da brigatisti neri, distrusse Vinca nel comune di Fivizzano, il 13 settembre procedette alla fucilazione di 108 rastrellati, il 16 settembre devastò e uccise a Bergiola, e infine tra il 29 settembre e il primo ottobre compì l'ultima e maggiore stra­ ge a Marzabotto. Marzabotto è una borgata dell'Appennino emiliano, tra

184 la strada porrettana e la strada pistoiese. Ecco un resoconto di ciò che vi avvenne: «Due reggimenti di SS Adolf Hitler, di ritorno da un rastrellamento, circondano la zona oltre il fiu­ me Reno. Nella frazione Casaglia una folla s'è raccolta nella chiesa, in preghiera. Irrompono i tedeschi, uccidono il pre­ te officiante: nella chiesa trucidano tre vecchi che non obbe­ discono in fretta all'intimazione di uscire. Gli altri, in nume­ ro di 147, tra cui 50 bambini, sono ammassati nel cimitero e mitragliati: 28 famiglie sono sterminate al completo, si sal­ vano solo alcuni bambini. Centosette, tra cui 24 bambini, sono gli assassinati della frazione Caprata. In casolari poco discosti periscono 282 persone, a gruppi o isolate, tra loro 38 bambini e due suore. In località Cerpiano 49 infelici, tra cui 24 donne e 19 bambini, sono rinchiusi in un oratorio e mitragliati a gruppi. Si salvano una maestra e due bambini. Altre 103 vittime i nazisti disseminano poco lontano, sco­ vandole casa per casa. Ripiglia la strage più oltre... Il comu­ ne di Marzabotto lamenta 1.830 morti, tra cui 5 preti». Nefando episodio, con aspetti di ferocia belluina. Le stes­ se autorità fasciste stentarono a credere alle prime testimo­ nianze: quando il segretario comunale Agostino Grava ne riferì a Bologna al prefetto Dino Fantozzi si sentì risponde­ re che era impossibile, non poteva essere vero. Ma poi Fan- tozzi, persuaso, andò a Gardone e vide due volte Mussolini. «Nemmeno lui ne sapeva nulla - e alle mie parole si impres­ sionò e si adirò. Chiamò al telefono Hitler e gli disse: "Non si può protestare per le fosse di Katyn quando qui in Italia c'e Marzabotto".» A Marzabotto fu praticata la strage per la strage, gratui­ ta. Il suo unico risultato fu di suscitare odio. Per questo an­ cora più odiosa, Marzabotto, delle Fosse Ardeatine, un mas­ sacro che almeno aveva la sua giustificazione nel codice di guerra: e quindi più odiosa anche dell'altro eccidio di piaz­ zale Loreto a Milano, dove il 9 agosto i gappisti avevano fat­ to saltare, in viale Abruzzi, un autocarro militare germani­ co: cinque soldati morti sul colpo, altri quattro nei giorni

185 successivi, a causa delle ferite. Kesselring voleva fosse appli­ cata anche lì la regola del 10 per uno, poi l'arcivescovo Schuster riuscì, supplicandolo, a ridurre da 50 a 15 il nu­ mero degli ostaggi da sacrificare. Un plotone d'esecuzione di fascisti sterminò accanto al distributore di benzina di piazzale Loreto, all'alba del 10 agosto, i prescelti, tutti dete­ nuti politici prelevati da San Vittore. Come macabro con­ trappasso a quel sacrificio di antifascisti, Mussolini e Garet­ ta Petacci finirono poi appesi a quello stesso distributore. A novembre del 1944, benché gli anglo-americani fosse­ ro sul Reno e i sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia, fu chiaro a tutti che un altro inverno di guerra aspettava l'Eu­ ropa. In Italia, Alexander non sperava più di sfondare la linea gotica: l'onore e l'onere di farlo sarebbe spettato all'a­ mericano Mark Clark, che gli succedette in gennaio (Alexander, promosso, era divenuto Comandante dell'inte­ ro scacchiere mediterraneo). Apprestandosi al congedo dal teatro di operazioni italiano, Alexander non colse altri allo­ ri militari, e in compenso incappò in un infortunio nei suoi rapporti con il movimento partigiano. Diramò il 13 novem­ bre un proclama - pare in realtà fosse stato steso da un suo maldestro aiutante - che dava alla Resistenza italiana istru­ zioni per l'inverno. Avvertiva il proclama che «i patrioti de­ vono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'in­ verno», che l'aviazione alleata avrebbe potuto volare poco ed effettuare pochi lanci e che quindi era opportuno «ces­ sare le operazioni organizzate su vasta scala, conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti per nuovi ordini; approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti e continuare nella raccolta di notizie di carattere militare concernenti il nemico». Si accompagnavano a queste disposizioni «attesiste» le con­ gratulazioni di rito per l'efficace apporto della Resistenza alla lotta comune. Tutto sommato, le direttive di Alexander erano logiche.

186 Ma furono diffuse per radio (il che consentì ai tedeschi di sapere che avrebbero goduto di un periodo di relativa tran­ quillità sia da parte degli Alleati sia da parte delle «bande») e inoltre erano formulate con una perentorietà certo non diplomatica. Esse fecero pessima impressione su quei parti­ giani di base che ormai non volevano più dar tregua agli av­ versari, e provocò costernazione al vertice tra chi - come Longo - al fine militare associava un fine politico, e temeva uno squagliamento massiccio. In effetti tra l'ottobre e il di­ cembre - a volte con la giustificazione di «licenze», concesse a malincuore - gli effettivi partigiani si ridussero da ottanta a cinquantamila uomini. Questo benché Longo, interpre­ tando a modo suo gli ordini di Alexander, ammonisse che «noi dobbiamo prevedere non una contrazione, non un in­ debolimento della lotta partigiana, ma bensì la sua intensifi­ cazione», e scontando l'affievolirsi dei lanci e degli aiuti fi­ nanziari alleati intimasse a «banchieri industriali profittatori che hanno trovato miliardi di buona moneta per finanziare le imprese fasciste» di trovare «i mezzi per sostenere la no­ stra lotta di liberazione».

La Repubblica di Mussolini era agonizzante, e il suo Capo lo sapeva: tanto lo sapeva che aveva avviato trattative a Ber­ na nel tentativo di assicurare un asilo sicuro ai suoi familia­ ri, e si era liberato dell'ormai ingombrante proprietà del Po­ polo d'Italia, venduto all'industriale Gian Riccardo Cella (i termini finanziari dell'affare sono poco chiari, perché for­ malmente Cella non pagò nulla, ma si accollò soltanto i 35 milioni di debiti che gravavano sul quotidiano). I vertici fa­ scisti ondeggiavano tra estremi sogni di riscossa e la predi­ sposizione alla fuga, e in quel crepuscolo torbido continua­ vano ad agitarsi gli eretici di varia tendenza che all'ombra dell'ultimo fascismo avevano abbozzato stravaganti iniziati­ ve politico-culturali. Accenneremo soltanto alla Crociata Italica di don Tullio Cal­ cagno, un prete di Terni che in quella città era divenuto cano-

187 nico e parroco della cattedrale e che dopo l'8 settembre 1943 si era schierato senza esitazioni dalla parte degli irriducibili. Protetto e foraggiato da Farinacci, Calcagno pubblicò appun­ to a Cremona Crociata, Italica, disordinato guazzabuglio di cat­ tolicesimo e di fascismo: «Noi crociati italiani abbiamo procla­ mato e proclamiamo alto e forte, senza ambiguità, che la no­ stra Patria, l'unica vera nostra Patria è l'Italia che il 22 maggio strinse il Patto d'Acciaio con la Germania, il 10 giugno 1940 scese in guerra contro le plutocrazie occidentali Francia e In­ ghilterra, l'8 settembre 1943 non abbandonò e non tradì l'al­ leata Germania». Tra i grandi nomi, solo Ezra Pound, Giovan­ ni Papini e Pericle Ducati aderirono al movimento, inviso a molti fascisti, e avversato dalle gerarchie ecclesiastiche che pri­ ma sospesero a divinis, poi scomunicarono don Calcagno, uc­ ciso infine nella grande mattanza del dopo 25 aprile. Ancor più singolare fu la vicenda della «opposizione so­ cialista» del filosofo Edmondo Cione: professore di liceo, napoletano, per qualche tempo reggiborsa di Benedetto Croce, e a Croce così umilmente appiccicato che l'avevano soprannominato 'o vaccariello, il vitellino che sta sempre die­ tro la mucca. Queste sue frequentazioni gli avevano acquisi­ to fama di antifascista, e meritato alcuni mesi di carcere al­ l'inizio della guerra. Poi aveva rotto con Croce, ma per orientarsi verso il socialismo, e, trasferitosi a Milano, vi in­ tratteneva rapporti con uomini come Lelio Basso e Placido Martini, che sarà ucciso alle Fosse Ardeatine. In campo fa­ scista conosceva e stimava Carlo Alberto Biggini, ministro dell'Educazione Nazionale di Salò. E proprio a Salò, men­ tre faceva del cicloturismo - nonostante i tempi calamitosi - 'o vaccariello aveva rivisto Biggini, che l'accompagnò (luglio 1944) da Mussolini. Il Duce era in una fase psicologica di profondo rancore verso i tedeschi, che lo usavano insieme come simbolo e come ostaggio, e di revival socialista (aveva riallacciato ad esempio i rapporti con Carlo Silvestri, un giornalista un po' pasticcione che se n'era andato dal Corrie­ re della Sera, per coerenza antifascista, quando ne furono

188 estromessi gli Albertini, e che ora aveva messo in piedi una «Croce Rossa Silvestri» il cui scopo era di battersi per sot­ trarre gli antifascisti alle polizie di Salò). Per impressionare Cione, Mussolini esordì, incontrandolo, con una rivelazio­ ne: «Diciannove anni fa ho pubblicamente dichiarato che non avevo letto neppure un rigo di Benedetto Croce. Non è vero: ne conosco tutte le opere e posso dire di essermi for­ mato sul suo pensiero». Quindi chiese: «Sareste capace di sacrificare al patriottismo di cui offrite nobile esempio il vo­ stro passato antifascista per capeggiare un movimento di oppositori che... mettessero da parte i risentimenti per col­ laborare alla difesa dell'onore e del patrimonio nazionale ed all'attuazione dei princìpi di Verona?». Cione si dichiarò disposto a costruire questo «ponte» tra fascismo e antifascismo: nacque cosi il «Raggruppamento nazionale repubblicano socialista». A nome di esso, Cione fu autorizzato a prendere contatti con esponenti della Resi­ stenza: in particolare con Corrado Bonfantini, comandante delle formazioni socialiste Matteotti. Vale la pena di ram­ mentare che Bonfantini, arrestato, fu liberato nel gennaio del 1945 per intervento diretto di Graziani, probabilmente suggerito da Cione. Ancora Cione si adoperò perché il fasci­ smo, in segno di pacificazione, scarcerasse alcuni antifascisti democristiani di Como, tra essi Enrico Falk e Mentasti. Il fi­ losofo ebbe anche un suo giornale, LItalia del Popolo, dalla vita breve e travagliata (gli squadristi, inferociti dagli attac­ chi ai gerarchi del ventennio, in particolare a Starace, inva­ sero e devastarono la redazione). Il ponte non fu mai crea­ to, e il Raggruppamento rimase soltanto come sintomo del­ lo sforzo trasformistico con cui la parte moderata di Salò vo­ leva arrivare a un trapasso morbido dei poteri. Basta legge­ re, per capire quale aria tirasse, il testo di questa lettera del Capo della polizia generale Montagna a Silvestri (1° feb­ braio 1945), lettera riguardante la liberazione di Parri im­ prigionato: «Sono anch'io del tuo parere che la sua (di Par- ri, N.d.A.) presenza alla testa delle forze di liberazione, data

189 la sua serietà e il suo sincero patriottismo, costituisca una garanzia di cui sarebbe bene non privarsi... La partenza di Parri per Verona non deve impressionare. Egli non sarà in­ viato in campo di concentramento e sarà trattato con ogni riguardo». Tra un Pavolini e un Montagna o un Biggini c'e­ ra ormai un abisso, quasi maggiore di quello che divideva un Montagna o un Biggini dalla Resistenza.

Mentre la catastrofe si avvicinava, Mussolini uscì - fu l'ulti­ ma volta prima della estrema resa dei conti - dal suo limbo lacustre, e per tre giorni tornò a Milano dove il fascismo era nato e dove stava per morire. Volevano la sua riapparizione i fascisti intransigenti, e la volevano anche i tedeschi. Anfuso scrisse d'aver saputo da Rahn che il Duce, esortato a cele­ brare a Milano la ricorrenza della Marcia su Roma, il 28 ot­ tobre, aveva rifiutato perché «sentiva di non avere niente da dire». Oltre a questo, temeva certamente di essere accolto con ostilità in una metropoli devastata dai bombardamenti, provata dalle sofferenze, consapevole della sconfitta cui la Germania e il fascismo erano irresistibilmente avviati. Ma il 13 dicembre decise di tentare la prova, e fissò per il 16 suc­ cessivo, alle 11 del mattino, il suo discorso al Teatro Lirico: pur insistendo perché il suo programma e i suoi spostamen­ ti rimanessero segreti fino all'ultimo. Il momento era propizio. L'offensiva tedesca nelle Ar- denne, scatenata quello stesso giorno, provocò scompiglio nello schieramento anglo-americano in Europa, e offrì una imprevista dimostrazione di vitalità dei tedeschi. La notte che precedette l'adunata i fascisti della città furono avvertiti con una serie di telefonate, poi la radio preannunciò «la cro­ naca di una manifestazione di eccezionale importanza». Dal­ la provincia affluirono i fedelissimi. Quando Mussolini salì sul palco, in una vecchia e disadorna divisa, il volto smagri­ to ma gli occhi sempre magnetici, la sala del Lirico era gre­ mita, e migliaia di persone si assiepavano all'esterno. Mol­ tissimi i «camerati» in uniforme, ma molta anche la gente

190 qualunque incuriosita e affascinata da quel fantasma nel cui nome si riassumevano tanti anni e tanti avvenimenti. Dal 1936 il Duce non parlava più in pubblico a Milano. Non improvvisò né recitò il suo discorso, lo lesse. Ritornò, come ormai faceva ossessionantemente, sul tema del «tradi­ mento», pur rivendicando all'Italia il merito d'aver tradito meno obbrobriosamente di altri perché «romeni bulgari e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato e uno di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze mobilitate le unità tede­ sche, rendendone diffìcile e sanguinosa la ritirata». Esaltò l'apporto della Repubblica alla guerra e promise che nel 1945 esso avrebbe avuto «maggiori sviluppi». Promise che le «armi nuove» avrebbero ridato ai tedeschi l'iniziativa e as­ sicurò che «questo è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano». E infine, con un appello su­ premo: «Noi vogliamo difendere con le unghie e coi denti la valle del Po: noi vogliamo che la valle del Po resti repub­ blicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. E Milano che deve dare gli uomini, le armi, la volontà e il segnale del­ la riscossa». Gli applausi furono deliranti, dentro e fuori il teatro, e si rinnovarono quando Mussolini percorse in una cupa scenografia di edifici distrutti le vie di Milano per tor­ nare nel rifugio sul Garda. I tedeschi, che temevano una azione della guerriglia, furono stupefatti sia da questa fiam­ mata di popolarità, sia dalla inerzia dei partigiani. Ma l'eco del discorso si spense presto, così come si era arenata, tra­ sformandosi in disastro, la avanzata nelle Ardenne. Il Duce tornò alla sua burocratica e disperata routine, procedette perfino a un «cambio della guardia» ministeriale destituen­ do il 21 febbraio 1945 Buffarmi Guidi, ministro degl'Inter­ ni, «un uomo che ha molti meriti ma è odiato da tutti, anti­ fascisti e fascisti: è odiato persino più di me». Erano, le sue, mosse inutili su una scacchiera che andava in pezzi. Non c'e­ ra nulla da cambiare. La guardia non esisteva più. CAPITOLO DECIMO

LA LUNGA RESA

A partire dalla seconda metà di gennaio del 1945 la guerra accelerò implacabilmente il suo corso, in Europa, stringen­ do sempre più la Germania in una morsa della quale solo il vaneggiante Hitler si rifiutava di riconoscere la forza morta­ le. Cominciò a muoversi - e qui sconfiniamo brevemente dagli avvenimenti italiani per meglio inserirli nel quadro generale - il fronte orientale: più esattamente, cominciò a crollare sotto l'urto di tre milioni di russi che avanzavano a valanga dal Baltico alla Slesia, appoggiati da 46 mila canno­ ni, 8 mila carri armati, e 10 mila aeroplani. Il 25, il mare­ sciallo Koniev informò Stalin che le sue avanguardie aveva­ no stabilito una testa di ponte presso Glogau, sulla riva occi­ dentale dell'Oder. Il 3 febbraio anche il Gruppo d'Armate di Zukov attraversò il fiume nella zona di Kùstrin. Il 3 feb­ braio venne accerchiata Breslavia. Il giorno successivo, a Yalta, Roosevelt, Stalin e Churchill si riunirono per decide­ re le sorti del mondo; per deciderle, in verità, adeguandole a quanto era già stato largamente fissato, sul terreno di bat­ taglia, dalle opposte offensive. I tre «grandi» s'erano incontrati quattordici mesi prima a Teheran, in ben altra atmosfera. Gli Stati Uniti a quell'epo­ ca non avevano ancora completato il loro gigantesco spiega­ mento di forze, né avevano tolto alla Gran Bretagna lo scet­ tro di regina dei mari. L'URSS, a sua volta, benché avesse su­ perato l'immane crisi iniziale dello scontro con i tedeschi, e fosse passata ovunque alla controffensiva, aveva ancora l'e­ sercito di Hitler sul suo territorio. Tutto era ormai cambia­ to. L'America grondava potenza e ricchezza, l'Inghilterra

192 era fiera ma esausta e l'Unione Sovietica - come Stalin si af­ frettò ad annunciare dopo una telefonata di Zukov - aveva piantato bandiera a settanta chilometri da Berlino. Se la Conferenza di Teheran era stata soprattutto un dialogo Churchill-Roosevelt, con Stalin interlocutore importante ma non arrogante, quella di Yalta fu un duetto, per non di­ re un idillio, tra Roosevelt e Stalin, e Churchill ebbe il ruolo del terzo incomodo. Inascoltata Cassandra, Churchill tentò di ricordare a Roosevelt - perché ne tenesse conto nelle di­ scussioni - che il pericolo nazista stava per essere eliminato, ma il pericolo comunista ne risultava, per un fatale gioco di contrappesi, ingigantito. La tragedia degli Stati Uniti (e del­ l'Occidente intero) fu d'essere impersonati in quella occa­ sione da un uomo molto malato e tragicamente stanco, co­ me la sua morte dimostrò poche settimane dopo. Roosevelt fu, se non circuito, certo abilmente influenzato da Stalin, che per dimostrargli i suoi buoni propositi aveva sciolto il Comintern: e questo avrebbe dovuto essere un segnale di rinuncia ad ogni politica di espansione ideologica, e rivolu­ zionaria. Là dove Roosevelt aveva sempre davanti agli occhi l'esigenza di punire la Germania, Churchill aveva quella di contenere l'URSS. Ma era, se Roosevelt non l'appoggiava, impotente. Questo il clima in cui fu disegnato lo schema dell'Europa di Yalta. La Germania, mutilata e smembrata, avrebbe cessa­ to di esistere come Stato unitario. L'Austria e l'Ungheria sa­ rebbero tornate ai confini del 1918 e cosi pure la Cecoslovac­ chia, salvo la cessione della Rutenia subcarpatica all'URSS. La Iugoslavia avrebbe ottenuto vantaggi territoriali a spese del­ l'Italia, e la Polonia si sarebbe ripagata delle terre cedute al- I'URSS con terre strappate ai tedeschi. LURSS avrebbe ingloba­ to, oltre alla Rutenia, alla Bessarabia, a una larga fetta di Po­ lonia, e agli sventurati Paesi baltici, anche parte della Prussia orientale, incluso il capoluogo Kònigsberg, patria di Kant; truppe russe avrebbero «temporaneamente» occupato tutta l'Europa orientale e centrale, fino all'Elba e al Danubio.

193 Questo per i confini. Ma il criterio delle zone d'influenza - quello che Stalin e Churchill avevano già abbozzato a Mo­ sca, come abbiamo accennato in precedenza - peggiorava l'arbitrio delle mutilazioni territoriali, che avrebbero provo­ cato dolorose migrazioni di popolazioni intere. Con quel criterio si consentì, mediante una formula ambigua - ma da Stalin capita senza ambiguità alcuna - che l'URSS affermasse la sua supremazia su tutte le nazioni in cui erano arrivate le sue truppe: e vi imponesse non solo un dominio militare - per forza di cose transeunte - ma una cappa ideologica perenne. Tutto questo non avvenne subito, né fu subito del tutto evidente. A Yalta, per la verità, era stato formalmente sancito che in ogni nazione occupata o liberata - incluse ov­ viamente quelle dell'orbita sovietica - fossero tenute libere e genuine elezioni, e i popoli potessero scegliere il regime, i dirigenti e la costituzione che preferivano. In realtà, am­ messa la ingerenza russa in mezza Europa, quella mezza Eu­ ropa era votata al totalitarismo staliniano. Ci si chiede se Roosevelt sapesse di consegnare alla tirannide 130 milioni di europei. Forse non lo immaginò, e fu ingenuo. Forse lo immaginò e lo consentì, e fu cinico; forse lo immaginò, e avrebbe voluto evitarlo, ma non seppe, e fu semplicemente impari alle sue responsabilità. A Yalta non si parlò solo della divisione della Germania e dell'Europa. Fu approvato il progetto per la creazione dell'ONU, che a Roosevelt - permeato di insopprimibile idealismo americano - pareva stare a cuore più d'ogni altra cosa. Comunque Roosevelt garantì che, diversamente da quanto era accaduto con Wilson e la Società delle Nazioni, gli Stati Uniti, grandi promotori dell'ONU, ne sarebbero an­ che divenuti membri. I piani per la nuova organizzazione internazionale andarono in porto quando Stalin ottenne il diritto di veto, e inoltre l'ammissione come Stati indipen­ denti aventi diritto di voto - il che era una smaccata finzio­ ne - dell'Ucraina e della Bielorussia. Fu infine raggiunto un accordo di massima sulla punizione dei criminali di guerra.

194 Mentre la conferenza era in corso, gli Alleati passarono all'offensiva sul fronte occidentale. L'8 febbraio, tra Nime- ga e Aquisgrana, si mossero contemporaneamente sette ar­ mate - tre americane, tre anglo-canadesi e una francese - che erano divise in tre gruppi, rispettivamente al coman­ do di Montgomery, Bradley e Devers. Contro di loro von Rundstedt schierava cinque armate, tre delle quali erano reduci dal massacro delle Ardenne. I carri armati tedeschi erano all'incirca uno per cinque avversari, la protezione aerea non esisteva più. Ciononostante i tedeschi ressero per un paio di settimane, poi le loro linee furono sfondate da Montgomery a nord-ovest di Dusseldorf. Von Rund­ stedt si dimise da comandante del fronte occidentale e a prenderne il posto fu chiamato dall'Italia Kesselring. La breccia si allargò rapidamente, il 6 marzo gli Alleati erano attestati sulla riva occidentale del Reno per l'intero tratto tra St. Goar e Colonia, il 7 lo traversarono servendosi del famoso ponte di Remagen, il solo che non fosse stato fatto saltare, il 22 Patton, forzato il passaggio sul fiume Eifel e scavalcato a sua volta il Reno a Oppenheim, si lanciò verso il cuore della Germania. Ai primi di aprile, in Italia, cedet­ te la linea gotica, spezzata inizialmente - tra il 10 e l'I 1 - nel settore adriatico, dove operavano i gruppi di combatti­ mento italiani, e poi demolita gradualmente anche negli altri tratti. Il 12 aprile morì, stroncato da un'emorragia cerebrale mentre posava per un ritratto a olio, Franklin Delano Roo­ sevelt, che nonostante l'aspetto da vecchio, era soltanto ses­ santatreenne. Gli succedette Harry Truman. Hitler lo com­ memorò con un comunicato in cui si affermava che «il più grande criminale di guerra» si era «sottratto alla giustizia degli uomini». Pare impossibile, ma la fine di Roosevelt riac­ cese in Hitler e in Mussolini fugaci e assurde speranze di ri­ volgimenti, nella coalizione nemica, che offrissero ai tede­ schi una via d'uscita certo non vittoriosa, ma negoziata. Tut­ to durò lo spazio di un giorno.

195 Nelle due Italie - ancora per poco divise - quelle ultime set­ timane furono vissute con sentimenti contrastanti. Il sud «ufficiale» era impegnato in una routine penosa e affannosa insieme, aspettando l'impatto con l'ormai imminente e im­ petuosa folata di «vento del nord». Il governo emanava de­ creti su decreti, a volte razionali, a volte improvvisati e vel­ leitari, per dare prova di socialità e di antifascismo, così da non dover poi subire troppe critiche dagli intransigenti del CLNAI. Fu dato il voto alle donne, e vennero epurati in mas­ sa ufficiali e funzionari, mentre l'Alta corte di giustizia in­ fliggeva pene severe a noti gerarchi e generali, accusati di non aver fatto il loro dovere. In effetti la casistica prevista dai provvedimenti era così tremenda che - l'ha rilevato Ma­ rio Silvestri - molti si domandavano quale italiano sarebbe passato indenne al setaccio dei tre commissariati in cui l'Al­ to commissariato era stato diviso: per i delitti fascisti, per l'epurazione e per i profitti di regime. Bonomi si era giusti­ ficato affermando che, se il governo non faceva il terribile, ci avrebbero pensato a farlo, molto più realisticamente, i co­ munisti. «Lo sbandierato terrore legale - citiamo sempre Silvestri - era un mezzo per comprimere il temuto terrore illegale...». Il Ministero dell'Istruzione aveva messo sotto giudizio qualche dozzina di uomini illustri, quali Francesco Severi, Giuseppe Ungaretti, Gioacchino Volpe e Ugo Spiri­ to. Il senatore Sforza epurò quattro quinti del Senato esclu­ dendo solo coloro che a sentirli, «avevano indossato la cami­ cia nera per necessità». Si verificavano casi paradossali, co­ me quello di Giacomo Acerbo che, condannato a morte in contumacia nel processo di Verona perché aveva votato, in Gran Consiglio, a favore dell'ordine del giorno Grandi, si beccò poi 48 anni di reclusione come fascista (presidente del collegio giudicante era un tale che nel febbraio 1927 aveva fatto condannare Amerigo Dumini, implicato nel delitto Matteotti, per «offesa alla sacra persona del Duce»). Acerbo venne, dopo tante vicissitudini, scagionato, come moltissimi altri: e fu prosciolto - grazie all'amnistia deliberata dal guar-

196 dasigilli Togliatti nel 1946 - insieme all'avvocato Andrea Fortunato, che a Verona aveva chiesto la sua testa. Fu in­ somma un rigore all'italiana, nel quale pagò con la vita chi pagò subito, e gli altri dovettero soltanto aspettare l'ora del­ l'indulgenza, che sopravvenne puntuale. Ma in quel clima di caccia al collaborazionista, che confondeva stoltamente i veri criminali con i semplici arrivi­ sti, o con i mediocri conformisti, suscitò indignazione - in parte autentica e in parte gonfiata per fini di parte - la noti­ zia che il generale Roatta era fuggito dall'ospedale militare di via Giulia a Roma, dove, dopo l'arresto, l'avevano ricove­ rato perché accusava disturbi cardiaci. All'ex Capo di Stato Maggiore dell'Esercito era addebitata l'attività svolta come capo del SIM (e la implicazione nella fine dei fratelli Rossel­ li). Su di lui fu posta una taglia, allora enorme, d'un milione di lire, e i partiti di sinistra indissero proteste veementi, a carattere spiccatamente antimonarchico. Il 6 marzo una manifestazione al Colosseo finì nel sangue. Annotò Puntoni: «Un grande comizio di protesta si è concluso con una dimo­ strazione ostile davanti al Quirinale. Tra la folla sono state gettate bombe a mano. C'è stato un morto e diversi feriti. La folla, impadronitasi del cadavere, l'ha alzato sulle teste come una bandiera e l'ha portato davanti al Viminale chie­ dendo con urla selvagge le dimissioni del governo». Fu diffusa la voce che la polizia avesse usato le armi. In realtà la bomba era scoppiata nelle mani di un dimostrante che si accingeva a lanciarla. Comunque per l'incidente saltò il comandante dei carabinieri generale Orlando, sostituito dal generale Brunetto Brunetti, e con lui il questore di Ro­ ma, mentre continuava a esservi fermento nelle piazze, e anche Regina Coeli era in rivolta. Probabilmente anche per placare gli animi fu annunciato che Federzoni, Bottai e Ros- soni erano stati deferiti all'Alta corte di giustizia, che con­ dannò a morte (12 marzo) Filippo Anfuso, all'ergastolo Roatta, Emanuele e Navale (tutti ritenuti responsabili del­ l'uccisione dei Rosselli), a 24 anni l'ex-luogotenente in Alba-

198 nia Jacomoni e l'ex sottosegretario agli esteri Suvich. È inu­ tile aggiungere che i funzionari addetti alle procedure d'e­ purazione avrebbero dovuto in massima parte, stando alla lettera della legge, essere epurati essi stessi. Umberto di Savoia, nel Quirinale assediato dalle polemi­ che e dalle accuse, cercava di conciliare la neutralità richie­ stagli come Luogotenente con la difesa degli interessi mo­ narchici, e la lealtà di figlio con una inevitabile presa di di­ stanza «politica» dalla persona e dalla figura storica di Vitto­ rio Emanuele III, diventato, secondo Puntoni, «il paraful­ mine sul quale si scaricano tutte le responsabilità». Il Luo­ gotenente poteva tuttora contare sui capi militari, rimastigli fedeli anche attraverso la catena delle sostituzioni e delle epurazioni. Ma tendeva a lasciarsi condizionare da consi­ glieri troppo spesso miopi, e mediocri. Propenso com'era alla discrezione, non allenato a decidere e a comandare, troppo elegante per essere un capopopolo e troppo corret­ to per essere uno spregiudicato restauratore, Umberto si destreggiava, dando anche a chi credeva in lui sensazione di incertezza, a volte di confusione. In febbraio il nuovo Ca­ po di Stato Maggiore dell'Esercito, generale Ronco, si era sfogato: Umberto si appoggiava troppo agli Alleati e così fa­ voriva «la propaganda di coloro che sostengono che la mo­ narchia pur di rimanere al potere non esita a vendersi agli eserciti stranieri che s'accampano sul territorio nazionale». Secondo Ronco il Luogotenente avrebbe dovuto «accostarsi di più alle truppe, familiarizzare di più con i soldati». Come Umberto potesse scrollarsi di dosso la tutela degli inglesi, che si battevano per lui, non si vede bene. Probabil­ mente gli sarebbe stata utile la immediata abdicazione del padre - la consigliava anche Falcone Lucifero - ma il vec­ chio Re, che presto avrebbe ottenuto di trasferirsi da Ravel­ lo a Napoli, continuava a rifiutarla con senile ostinazione. Interprete dei suoi pensieri, Puntoni era esplicito: «L'abdi­ cazione equivarrebbe alla rottura del compromesso e della cosiddetta tregua. L'atto di Sua Maestà poi potrebbe essere

199 sfruttato dai partiti estremisti contro la Dinastia. Ho l'im­ pressione che si cerchi di staccare il figlio dal padre, e la co­ sa certamente creerà altre amarezze per il Re». Comunisti, socialisti e Partito d'azione non perdevano occasione per sottolineare la indegnità di Umberto a rappresentare la nuova Italia, e quando, nel primo anniversario dell'eccidio delle Ardeatine, egli fu presente in Santa Maria degli Ange­ li a una messa di suffragio, v'erano state invettive e grida contro di lui. Vittorio Emanuele III vedeva abbastanza di rado il figlio. Nel suo isolamento amaro, seguiva tuttavia attentamente gli avvenimenti, e li commentava con la freddezza - altri dice con il cinismo - che erano nella sua natura. Saputo che a Salò era stato destituito il ministro dell'Interno Buffarmi Guidi, osservò secco: «Non ha perso l'abitudine di combi­ narne di grosse. Ha finito per stancare anche i suoi». Parve impassibile anche il giorno in cui seppe - si era ormai a metà aprile - che la figlia Mafalda era morta, otto mesi pri­ ma, nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Con quella luttuosa notizia Vittorio Emanuele III, che per l'8 settembre aveva già duramente pagato sul piano politico e militare, pagava ora crudelmente sul piano umano, e fa­ miliare. Mafalda cadde infatti vittima delle incertezze con cui l'armistizio fu attuato, e dei segreti dai quali fu avvolto. Mafalda era moglie del principe tedesco Filippo d'Assia che Hitler aveva più volte utilizzato come speciale «portalet­ tere» per i suoi rapporti con Mussolini: e aveva raggiunto a fine agosto del 1943 la Bulgaria, per assistere ai funerali di re Boris, spirato al ritorno da un burrascoso incontro con Hitler - si parlò di complotto e di assassinio, ma senza prove - e per confortare la sorella Giovanna, vedova di Boris. I funerali si svolsero a Sofia il 5 settembre, e Mafalda ripartì per l'Italia il 7 usando ancora - come nell'andata - un mezzo lento e peri­ coloso, il treno. Né le venne dal Quirinale alcuna sollecitazio­ ne a cambiare i suoi programmi e a scegliere l'aereo: il che può provare che Vittorio Emanuele III sacrificò i suoi affetti

200 alla ragion di Stato, ma può anche attestare che il Re e i suoi consiglieri, confidando sempre che l'armistizio non sarebbe stato proclamato prima del 12 settembre, supponevano vi fosse tempo sufficiente per il rientro della principessa, che era accompagnata da un gentiluomo di Corte, il conte Fede­ rico Avogadro di Vigliano. La sera fatale dell'8 settembre il treno traversava la campagna rumena. Mafalda fu avvertita dal personale ferroviario che la regina madre Elena di Ro­ mania sarebbe salita sulla vettura, in piena notte, a Sinaja, per una comunicazione urgente: e la comunicazione era quel­ la dell'avvenuto armistizio. Tuttavia il viaggio proseguì senza inciampi, Mafalda arrivò a Budapest dove il capo missione italiano Anfuso le suggerì di raggiungere Francoforte: in fin dei conti era una cittadina tedesca (ma non sapeva che il ma­ rito, al Quartier generale di Hitler, era più un sorvegliato spe­ ciale, ormai, che un alto ufficiale con incarichi importanti). In ansia per i tre figli (Enrico, Otto ed Elisabetta) che erano a Roma, la principessa non accettò il consiglio. Ottenne invece che un aereo militare italiano raggiungesse Budapest per rimpatriarla, e IT 1 settembre atterrò a Pescara, dove ancora non si erano insediati i tedeschi. Con lentezze e ingenuità in­ credibili, Mafalda e il Vigliano rimasero da quelle parti fino al 20 settembre, quando in treno riuscirono a raggiungere Ro­ ma. La principessa tornò addirittura nella sua residenza di Villa Polissena, visitò i figli che vivevano in Vaticano sotto la protezione di monsignor Montini, ebbe insomma una enne­ sima occasione di sottrarsi alla cattura. Candida e mal consi­ gliata com'era, accorse invece all'ambasciata di Germania quando il «padrone di Roma» colonnello Kappler le fece sa­ pere che doveva recarvisi d'urgenza per una comunicazione telefonica con il marito. Era una trappola. Fu arrestata, trasportata a Ciampino e di là in volo a Berlino: dopo una sosta di tre settimane, la trasferirono a Buchenwald, il campo che non era, tecnica­ mente, di sterminio, ma nel quale si contarono 60 mila mor­ ti su 260 mila prigionieri immatricolati.

201 A Buchenwald, Mafalda di Savoia non fu rinchiusa nella parte interna del campo, ma lasciata con altri prigionieri il­ lustri (tra essi Leon Blum, il leader comunista tedesco Thàl- mann, poi «eliminato», l'industriale dell'acciaio Thyssen) in baracche poste all'esterno del recinto. Divideva la sua con i coniugi Breitscheid, lui un ex-deputato socialdemocratico (morirà come Mafalda sotto un bombardamento alleato), lei amica e confidente. Adiacente alla baracca (l'alloggio di Ma­ falda aveva anche una cucina e un bagno, e per le pulizie l'aiutava un'altra prigioniera, Maria Ruhnau) era un giardi­ netto: più oltre un muro alto tre metri sormontato da filo spinato. Il 24 agosto 1944 le sirene diedero l'allarme, e gli occupanti della baracca numero 15, quella di Mafalda, si buttarono in un fossato. Lì caddero tre bombe la cui esplo­ sione uccise il Breitscheid, e ferì gravemente a un braccio la principessa. Le cure che le vennero praticate erano proba­ bilmente sommarie e inadeguate: il 26 agosto, per evitare la cancrena, fu praticata l'amputazione dell'avambraccio. Ma­ falda, debolissima, non resse all'intervento. Come tanti sol­ dati che l'8 settembre aveva votato alla prigionia e alle rap­ presaglie tedesche, anche lei morì lontana dall'Italia e dai suoi.

All'inizio dell'ultima primavera di guerra la Germania era divorata dai cingoli sovietici e anglo-americani. Nel suo Bunker Adolf Hitler era il condottiero di una guerra virtual­ mente già finita, e impartiva ordini ad armate non più esi­ stenti, o sottratte ormai al suo diretto controllo. Alcuni dei supremi gerarchi attorno a lui, e i proconsoli lontano da lui, pensavano concretamente a una sola cosa: la resa. Agivano senza coordinazione, o addirittura in concorrenza. Ma agi­ vano. Cauti accenni di compromesso erano stati fatti da Rib- bentrop, e Kaltenbrunner aveva incaricato agenti fidati di eseguire sondaggi. Ma l'approccio più operativo era stato tentato da Himmler, che aveva visto crescere enormemente il suo potere dopo l'attentato del luglio '44 e la sostanziale

202 emarginazione di Gòring, e che voleva accordarsi - proprio lui, il peggiore dei nazisti - con gli anglo-americani. S'illu­ deva che restasse spazio per un patteggiamento: l'offerta delle divisioni di SS agli Alleati occidentali, perché le usasse­ ro in funzione antisovietica. La manovra era, in quei termini, inattuabile: ma i due uomini che se ne incaricarono - il colonnello Dollmann co­ me discreto e capace tessitore, a livello personale, e il gene­ rale Wolff, cui restava l'unico importante comando delle SS fuori del territorio tedesco, a livello ufficiale - le diedero forma in modo realistico e spregiudicato. I propositi di Himmler coincidevano, almeno per questo aspetto, con quelli della curia milanese, che intendeva risparmiare alla città le distruzioni che sarebbero avvenute ove fosse stata applicata la tattica della terra bruciata, e anche con quelli degli ambienti economici svizzeri, che nell'Italia settentrio­ nale avevano interessi importanti. Un uomo d'affari italiano abituato a bazzicare gli am­ bienti internazionali, il barone Luigi Parrilli, si propose co­ me tramite per allacciare i contatti che, egli pensò ragione­ volmente, non avrebbero avuto successo se fossero avvenuti attraverso i comandi militari alleati, rigidi nei loro schemi; più opportunamente dovevano essere tentati attraverso i servizi d'informazione, ossia attraverso quel potente Alien Dulles che aveva stabilito il suo Quartier generale a Berna. Napoletano, cavaliere di Malta, cameriere di cappa e spada del Pontefice, Parrilli non fece grande impressione agli emissari di Dulles quando per la prima volta li avvicinò a Lucerna. Dulles l'ha descritto come «un signore basso, ma­ gro e calvo dai modi cerimoniosi, che faceva pensare al pro­ prietario di un alberghetto italiano, che volesse convincerci a mangiare da lui». Ma l'intermediario dimostrò la sua ca­ pacità, e fece in modo che, in una successiva fase di sondag­ gio, fossero presenti Dollmann e un ufficiale del Quartier generale di Wolff, il tenente Zimmer. Non si trattava, nelle intenzioni degli Alleati, di contravvenire al diktat della resa

203 incondizionata, ma semplicemente di ottenere che le venti divisioni tedesche in Italia - più le formazioni fasciste - de­ ponessero le armi a patto che si consentisse loro di ritirarsi senza essere martoriate dagli Alleati e senza essere sottopo­ ste ad agguati partigiani. Due elementi erano vitali, nella trattativa: che Wolff, concludendola, potesse ottenere l'as­ senso del comandante delle truppe maresciallo Kesselring, e che Hitler non ne venisse a conoscenza. Il Capo della poli­ zia di Verona, generale Harster, che era un emissario di Kal­ tenbrunner, ne era invece al corrente. A Dollmann fu chiesta immediatamente una prova di buona volontà, che attestasse le intenzioni dei suoi capi: os­ sia la liberazione di Ferruccio Parri e di Antonio Usmiani (quest'ultimo, maggiore degli alpini, era un partigiano in­ trepido che, scrisse lo stesso Dulles, «aveva raccolto per me informazioni militari in Italia settentrionale, facendo un la­ voro magnifico»). Sia Parri che Usmiani erano caduti nelle mani delle SS, e un audace tentativo di Edgardo Sogno per strappare «Maurizio» ai suoi carcerieri, nell'Hotel Regina di Milano, era fallito malamente, portando alla cattura dello stesso Sogno. Parri e Usmiani furono liberati, e messi a di­ sposizione di Alien Dulles in Svizzera. Quando vide l'ameri­ cano, Parri, con il coraggio che era la sua miglior dote, gli disse senza preamboli: «Quali patti ha fatto coi tedeschi per convincerli a farmi uscire? Voglio che lei sappia che non ac­ cetterò restrizioni di sorta alla mia libertà d'azione. Intendo ritornare immediatamente in Italia e continuare la lotta contro tedeschi e fascisti». Di lotta, in verità, non c'era più molto bisogno. I tedeschi erano pronti a cedere, e Wolff dimostrò che faceva sul serio raggiungendo Zurigo e incontrandosi con Alien Dulles. Il generale delle SS spiegò, in riassunto, che il suo scopo era quello di evitare inutili distruzioni e spargimenti di sangue, che aveva dalla sua l'ambasciatore Rahn, e che contava di convincere Kesselring. Per sé non chiese alcuna speciale im­ munità. Promise di interrompere la lotta ai partigiani, di li-

204 berare alcune centinaia di ebrei detenuti a Bolzano, di far passare in Svizzera Sogno, e infine di garantire il buon trat­ tamento dei prigionieri di guerra americani e inglesi. La faccenda sembrava bene avviata ma subì una battuta d'arre­ sto perché - come sappiamo - Kesselring fu designato co­ mandante del fronte occidentale in sostituzione di von Rundstedt, e un aereo inviato appositamente da Hitler l'a­ veva già allontanato dall'Italia. Si trattava ora di chiedere l'assenso del nuovo comandante in capo, generale Vietin- ghoff, che Wolff informò il primo aprile di quanto accadeva (intanto, ottemperando a una richiesta degli Alleati, egli di­ spose che le unità ai suoi ordini non procedessero a distru­ zioni di impianti industriali e il 6 aprile si sforzò di piegare le ultime esitazioni di Vietinghoff, abbai~bicato ai concetti di onore e di fedeltà al Fùhrer). Finalmente pareva fatta. Ma poi la trama si incagliò, ri­ schiando il naufragio, per due gravi e contemporanei sco­ gli, messi sulla sua rotta da Berlino e da Washington. Himmler, che osava e poi si pentiva, chiamò Wolff a rappor­ to. Questo generale delle SS che sapeva così bene essere di­ plomatico (e che in Italia si era anche acquistata fama di se­ duttore) aveva del fegato. Non invocò scuse - e gli sarebbe stato facile - ma andò a Berlino (17 aprile) e subito fu sotto­ posto alle critiche incrociate di Himmler e di Kaltenbrun- ner, che avevano voluto o approvato il negoziato, ma ora l'accusavano d'avere ecceduto in zelo. Quindi fu ammesso, in piena notte, nel Bunker di Hitler, che si mostrò amareg­ giato più che in collera. Disse d'aver saputo da Kaltenbrun- ner dei suoi sondaggi con gli Alleati e di considerarli «una colossale mancanza di riguardo verso i superiori». Come s'e­ ra arrogato, lui semplice generale, il diritto di prendere ini­ ziative di tanto rilievo, senza riflettere che potevano essere in contrasto con i piani strategici globali studiati dal Fùh­ rer? Invitato così bruscamente, e da quell'interlocutore pa­ ranoico, a discolparsi, Wolff dovette essere - stando al suo racconto, unica fonte di cui disponiamo perché ogni altro

205 testimone è morto - di una straordinaria abilità: pretese d'a­ vere «aperto una via che metteva direttamente in contatto col presidente degli Stati Uniti e col primo ministro Chur­ chill, sempre che il Fùhrer intendesse servirsene». Era so­ stanzialmente una panzana, ma funzionò. Hitler rispose che ci avrebbe pensato, e diede appuntamento a Wolff per il giorno dopo. L'indomani Hitler esordì tracciando un progetto strate- gico-politico che non aveva alcun nesso con la realtà. In Germania sarebbero stati organizzati tre grandi capisaldi, uno attorno a Berlino, un secondo a nord con lo Schleswig- Holstein, la Danimarca e la Norvegia, il terzo a sud con il cosiddetto baluardo alpino: questo in attesa che anglo-ame­ ricani e sovietici arrivassero al conflitto aperto. Hitler si sa­ rebbe allora schierato «con la parte che mi offrirà di più», disposto a cedere i suoi poteri (stanco com'era di esercitarli) «al più competente fra i miei collaboratori». Wolff avrebbe voluto una risposta precisa circa gli agganci con gli Alleati, ma Hitler, distratto e quasi trasognato, lo congedò esortan­ dolo a resistere a oltranza, e incaricandolo di portare i suoi saluti al bravo Vietinghoff. Wolff decollò da Tempelhof e il 20 aprile era nel suo Quartier generale di Fasano. L'altro intoppo era venuto ad Alien Dulles da Washing­ ton, ed era il riflesso dei bastoni tra le ruote messi da Mosca. I sovietici, saputo del negoziato, pretendevano che non pro­ cedesse a meno che fosse consentito loro di intromettervisi. E gli Stati Maggiori riuniti di Washington erano stati presi dal panico - come sempre accadeva quando Stalin si faceva arrogantemente vivo - e avevano posto l'alt ad Alexander che l'aveva trasmesso ad Alien Dulles. Gli uomini di Wolff attendevano invano, in Svizzera, d'essere chiamati a Caserta per la firma dell'atto di resa già pronto nei suoi termini. Le ragioni della mossa sovietica erano di tutta evidenza. «Un crollo prematuro del fronte tedesco nell'Italia del nord, prima della proclamazione della insurrezione gene­ rale da parte dei partigiani italiani e dell'arrivo del mare-

206 sciarlo Tito a Trieste avrebbe ostacolato - ha osservato il Deakin - i piani politico-militari del governo sovietico in questo settore europeo. E significativo anche che l'ordine generale di insurrezione da parte del Comando partigiano venne dato il 25 aprile, dopo il veto di Stalin alla manovra di Dulles e prima che il maresciallo Alexander fosse riuscito a ottenere il consenso a dar seguito all'operazione.» Vedre­ mo più avanti come la manovra di Wolff si sia intrecciata al­ la abortita mediazione del cardinale Schuster a Milano, e al­ l'azione del CLNAI. Basterà per ora chiudere il capitolo di­ cendo che alle 14 del 29 aprile due plenipotenziari tedeschi inviati da Vietinghoff e da Wolff (quest'ultimo aveva nel frattempo trasferito a Bolzano, dopo drammatiche peripe­ zie, il suo Quartier generale) firmarono a Caserta quella che Ferruccio Lanfranchi definì «la resa degli ottocentomila». L'entrata in vigore del cessate il fuoco fu fissata al 2 maggio, ma i tedeschi del fronte italiano avevano già smesso da gior­ ni di combattere contro gli Alleati.

Mentre trattavano i tedeschi, tentavano di trattare - con as­ sai minore prestigio e ascolto, per la trascurabilità delle loro forze - anche i fascisti. Mussolini - ormai un travicello tra­ scinato dalla corrente vorticosa degli avvenimenti - oscilla­ va senza coerenza tra propositi di resistenza a oltranza, lun­ ghi momenti di rassegnazione passiva e incerti passi per una resa condizionata. Il 6 marzo aveva ripetuto i concetti vigo­ rosi del Lirico in un discorso agli ufficiali della Guardia na­ zionale repubblicana: «Noi abbiamo promesso che difende­ remo la valle del Po città per città, casa per casa. Questo è un impegno sacro che dobbiamo prendere. Se poi gli avve­ nimenti ci permettessero di prorompere oltre l'Appennino - nessuno può escluderlo - io credo che troveremo un'on­ data di entusiasmo come forse non supponiamo nemme­ no». E il 22 marzo il Consiglio dei ministri decise che entro il 21 aprile fossero socializzate tutte le imprese con almeno cento dipendenti e un milione di capitale, una «mina socia-

207 le» che il Duce voleva porre sul cammino di chiunque arri­ vasse dopo di lui. Wolff - che già conduceva la sua trattativa - s'era sforzato, senza successo, di dissuaderlo ricordandogli che dato l'atteggiamento inglese «volto a serrare le file con­ servatrici in Europa contro i russi, sarebbe stato forse inte­ ressante ritardare l'applicazione della legge». Mussolini ten­ ne duro. Ma, pur atteggiandosi a oltranzista con i tedeschi, inviò il figlio Vittorio dall'arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso Schuster, come latore d'una proposta di pace. Al tempo del fascismo trionfante, Schuster, il cui aspetto asceti­ co nascondeva una notevole volontà e capacità di manovra politica, era stato tra gli alti prelati più «collaborazionisti». Ora pensava soprattutto alla protezione della sua diocesi, e di Milano, pur mantenendo nella corrispondenza con il Du­ ce un tono deferente, quasi affettuoso. Quando aveva sapu­ to, in febbraio, che si progettava, negli ambienti di Salò, di fare della metropoli lombarda un caposaldo di difesa dispe­ rata alla maniera di Stalingrado, si era rivolto a Mussolini supplicandolo perché rinunciasse ad un tale proposito. «La distruzione di Milano costituirebbe un delitto storico che tutti i secoli condannerebbero. Bisogna salvare la Lombar­ dia per risalvare l'Italia.» A Schuster fu dunque recapitato un abbozzo di disegno secondo il quale la pace sarebbe stata possibile, ma a condizioni che - dettate da chi era a capo della fatiscente Repubblica di Salò, e vassallo della agoniz­ zante potenza tedesca - apparivano, più ancora che arro­ ganti, sciocche. In base ad esse le Forze Armate di Mussolini avrebbero mantenuto l'ordine fino a quando non fossero sopravvenuti gli anglo-americani; ogni «movimento incon­ trollato ed estremista» da parte di «formazioni irregolari e di piazza» sarebbe stato controbattuto «dalle Forze Armate repubblicane e da quelle alleate»; il Comando alleato dove­ va impegnarsi a «impedire che le formazioni partigiane svolgano azioni indiscriminate e di rapina e provvederanno al loro disarmo prima delle formazioni regolari della Rsi»; infine dovevano «immediatamente cessare gli arresti, i pro-

208 cessi e ogni altra forma di persecuzione... parimenti si gra­ direbbe conoscere la sorte che avrebbero i membri del go­ verno e quanti hanno avuto funzioni di comando nella Rsi». In compenso «il Partito repubblicano fascista si scioglie». Tramite il nunzio apostolico in Svizzera questi termini ap­ prodarono alla Santa Sede, e di là al Quartier generale al­ leato, la cui risposta fu la solita: nessun negoziato, resa sen­ za condizioni. I tedeschi si erano dunque dimostrati più rea­ listi di Mussolini, restituendo agli italiani, con gli interessi, le bugie dell'8 settembre. A metà marzo Rahn disse a Melli- ni Ponce de Leon, che reggeva il Ministero degli Esteri do­ po la morte di Mazzolini in attesa che vi si insediasse per po­ chi giorni Filippo Anfuso, richiamato da Berlino: «Io non intendo seguire l'esempio e i sistemi che ha usato con me Badoglio. Il Duce può essere sicuro nel modo più assoluto che di qualsiasi decisione di abbandono di zone o di qualun­ que trattativa in proposito con i nemici o coi ribelli, non mancherei di informarlo. In ogni caso, egli non ha che da interrogarmi e io gli risponderò con tutta franchezza». Ma ancora il 14 aprile, quando Wolff, Vietinghoff e Dollmann s'incontrarono a Gargnano con Mussolini, non gli fu detto nulla di preciso sul dialogo con Alien Dulles. La posizione dei tedeschi - almeno di quelli che non dovessero risponde­ re di crimini di guerra - e dei fascisti era ben diversa, e que­ sto spiega molte cose. I tedeschi, ufficiali e truppa, sapeva­ no che, una volta riguadagnata la Germania o consegnatisi nelle mani degli Alleati, avrebbero dovuto tutt'al più affron­ tare i disagi della prigionia: ma in Patria nessuno avrebbe potuto rimproverar loro altro che d'aver combattuto fino all'estremo, con eroica risolutezza. I fascisti sapevano che proprio nel loro paese, e per mano dei loro connazionali, avrebbero corso i più gravi pericoli, affrontato le più spieta­ te vendette. Per questo, come Mussolini, anche molti alti gerarchi erano all'affannosa ricerca di uscite di sicurezza. «Montagna e Zerbino, Buffarmi Guidi e Tarchi - rivelò Leo Valiani -

209 sono tra le decine di gerarchi fascisti che ci fanno sapere (al CLNAI, N.d.A.,) attraverso le vie più tortuose che sarebbero disposti a negoziare la propria resa.» Lo era perfino l'in­ transigente Pavolini. Vi furono avances curiose, come quella di Carlo Silvestri che s'illudeva, ha osservato Bertoldi, «di coinvolgere i socialisti con l'offerta di consegnare loro la so­ cializzazione». Certo è che Mussolini avrebbe potuto fino al­ l'ultimo salvarsi, qualora si fosse risolto ad abbandonare i seguaci e a trovare scampo solo per sé e la famiglia. Il sotto­ segretario all'Aeronautica Ruggero Bonomi aveva disposto che un S79 fosse tenuto pronto all'aeroporto di Ghedi (Bre­ scia) per portare il fuggiasco in Spagna, dove l'avrebbero accolto i parenti della moglie di Luigi Gatti, il suo ultimo se­ gretario particolare, che era spagnola. «Per coprire nel mi­ glior modo l'operazione e dissipare ogni sospetto tedesco - ha lasciato scritto Bonomi - avevo provveduto a far iscri­ vere i membri dell'equipaggio all'Aeroclub di Ghedi come normali appassionati di volo, mentre erano garantite ad ogni istante le scorte di carburante e le possibilità di imme­ diato decollo... Quel volo ebbe luogo e quell'apparecchio passò realmente e senza ostacoli in Spagna; fu esattamente il 22 aprile 1945. Senonché a bordo non c'era Mussolini. Nella carlinga dell'S79 sedevano quel giorno il professor Francesco Petacci, sua moglie e sua figlia Myriam, la moglie dell'ambasciatore germanico a Lisbona e l'avvocato Manci­ ni, un amico dei Petacci che portava con sé una documenta­ zione dei crediti italiani nei riguardi della Spagna. Atterra­ rono indenni a Barcellona.» Mancavano, in questo gruppo di famiglia, due dei Petac­ ci, Claretta e Marcello, rimasti insieme al Duce e destinati a morire con lui. Alla sorella Myriam, Claretta aveva affidato una lettera-testamento in cui scriveva tra l'altro: «Io seguo il mio destino, che è il suo. Non lo abbandonerò mai, qualun­ que cosa avvenga». E a un amico confidò: «Dove va il pa­ drone, va il cane». La favorita aveva voluto essere accanto a Mussolini, nel-

210 l'ora della disfatta, con una abnegazione patetica e suicida, in qualche modo eroica. Nessuno la voleva sul Garda, quan­ do la Repubblica sociale vi installò i suoi vertici: non la vole­ va Rachele, ovviamente, non la volevano i fascisti intransi­ genti, che a Claretta imputavano la mollezza e l'imborghesi­ mento del Duce, non la voleva il Duce stesso che, debole e ir­ resoluto com'era in queste cose, finì per cedere alle sue insi­ stenze: chiese soltanto che non si installasse a Gargnano, ma a qualche distanza, e così fu scelta Villa Fiordaliso che era a quattro chilometri dalla residenza di Mussolini, e che appar­ teneva all'industriale Polenghi. A far buona guardia su Cla­ retta i tedeschi avevano designato un ufficiale altoatesino delle SS, Franz Spoegler, ventottenne, che finì per affezio­ narsi a quella donna melanconica e appassionata, sempre in attesa delle rare visite del suo Ben così come lo era stata a Palazzo Venezia: solo che ora l'onnipotente e l'insonne era il fantasma di se stesso, e Claretta doveva fargli coraggio. At­ torno alla Petacci ribollivano odi e piccole congiure, con Buf­ farmi Guidi che si divideva tra la moglie e l'amante del Du­ ce, confidente e complice di entrambe, e di nessuna. Vi furono, in quel soggiorno gardesano della Petacci, episodi drammatici, episodi melodrammatici, e scene da po­ chade. Un giorno, avendo Rachele detto al marito che «quel­ la» passava regolarmente ai tedeschi le lettere ch'egli le an­ dava scrivendo, un funzionario di polizia, il questore Emilio Bigazzi Capanni, fu incaricato di perquisire Villa Fiordaliso, e secondo alcune testimonianze la Petacci si oppose addirit­ tura impugnando una pistola. Claretta scrisse a Ben, dopo l'incursione del Bigazzi, che «è la delusione più atroce che io abbia avuto da te e dalla vita, aver tanto dato senza aver lasciato nulla...» Ma accadde qualcosa di peggio, poco tem­ po dopo (era l'ottobre del 1944). Rachele, tanto più forte quanto più Mussolini era vulnerabile e frastornato, si risolse ad aggredire la rivale nel suo rifugio, facendosi accompa­ gnare per la bisogna da Buffarmi Guidi e da alcuni tipi fida­ ti. Spoegler tentò di bloccare il «commando» al cancello,

211 mentre Buffarini Guidi, madido per la pioggia che cadeva fitta e per il sudore, teneva per la gonna Rachele che, furio­ sa, accennava ad arrampicarsi, nonostante la mole, sulle sbarre di recinzione. Finalmente Claretta fece entrare i visi­ tatori, e Rachele l'abbordò con una battuta sarcastica: «Che cosa siete voi? Signora o signorina?». Della conversazione, che in alcuni momenti divenne alterco, in altri scenata, in altri ancora quasi confidenze tra donne tradite (è tipico di queste situazioni), non vale la pena di riferire molto. Essa ricalcava i luoghi comuni, e li ricalcò anche la telefonata che Mussolini, preoccupato, fece mentre le sue due donne era­ no insieme, ingiungendo a Rachele di piantarla, e di torna­ re a casa. Il repertorio di Rachele era quello classico: «Che eleganza! Veste proprio bene la mantenuta! Ecco come si veste la mantenuta di un capo di Stato! E guardate me che me lo sono sposato». Il Capo del fascismo morente non te­ lefonò a Claretta né rincasò per incontrare Rachele quella sera; trascorse la notte su una branda in ufficio. Poco altro c'è da dire sul soggiorno gardesano della Pe­ tacci. Si trasferì a un certo punto, per motivi di sicurezza, dalla Villa Fiordaliso nella Villa Mirabella, situata all'inter­ no del Vittoriale dannunziano; pare avesse anche proposto il fratello Marcello e l'avvocato Mancini per due cariche im­ portanti nel governo di Salò (addirittura il Ministero delle Finanze e il Ministero della Pubblica Istruzione) provocan­ do una reazione sdegnata di Mussolini. Ma ormai queste co­ se non contavano, e in fondo Claretta lo sapeva. Quando Mussolini lasciò Gargnano per la Prefettura di Milano, in­ giungendo alla Petacci di non muoversi, lei non intese ra­ gioni, si precipitò a sua volta a Milano, e subito telefonò al Duce, che le suggerì di rifugiarsi in Spagna con la famiglia. Il no di Claretta fu perentorio.

I tedeschi e il cardinale Schuster speravano che Mussolini restasse quieto sul lago ad aspettare gli eventi che precipita­ vano, senza creare problemi. Lo sperava Wolff, per il quale

212 la Repubblica fascista era divenuta, nel negoziato e nella progettata ritirata verso l'Alto Adige, una zavorra inutile: lo sperava Schuster che sapeva, lo si è detto, come il Duce pro­ gettasse un ritorno a Milano, la città del fascio primigenio: un ritorno alla culla nell'ora della morte. Ma Mussolini a Milano poteva significare combattimenti, distruzioni, lutti e complicazioni. Tuttavia il capo del fascismo covava la sua idea, e l'andava concretando: perché a Milano, pensava, po­ teva essere raggiunto, tramite la Curia, un eventuale com­ promesso, e da Milano le truppe della Repubblica avrebbe­ ro potuto puntare sul ridotto valtellinese. Un comando po­ litico-militare italiano a Sondrio avrebbe dovuto rimanere in collegamento con il Quartier generale tedesco in Alto Adige, tutte le forze sparse del fascismo di Salò si sarebbero riunite in un esercito regolare di 30-50 mila uomini, una trentina di emissari inviati in Svizzera avrebbero dovuto provvedere a creare una «centrale fascista» e a costituire un fondo di valuta estera. Il progetto sarebbe stato folle - di fronte alla strapotenza alleata - anche se avesse avuto qual­ che possibilità di attuazione. Ma non ne aveva nessuna. Quando Pavolini lo illustrò a Vietinghoff e Wolff, il primo obbiettò che era difficile dare adeguata preparazione alla raccolta di quella massa di truppe; il secondo l'approvò ma «dimostrando scarso interesse». Sappiamo perché. Grazia­ ni, presente, non si faceva illusioni tanto che quando Rahn, con scarso tatto, gli aveva fatto dono qualche tempo prima d'una pistola d'antiquariato, aveva supposto che si trattasse di un implicito invito al suicidio. La mattina del 16 aprile il Duce annunciò ai ministri riu­ niti la imminente partenza per Milano. Alle sette di sera del 18 aprile un convoglio di cinque automobili con un furgone per i bagagli, e un reparto delle SS come scorta, si mosse dal Garda diretto alla Prefettura di corso Monforte. Musso­ lini aveva rifiutato la Villa Reale di Monza, un po' perché vi era morto Umberto I, e gli pareva un soggiorno di malau­ gurio, un po' perché la Prefettura era vicina all'Arci vesco va-

213 do. Rahn, che insisteva ancora perché rinunciasse a trasfe­ rirsi, spiegando che Milano poteva diventare una trappola, si sentì rispondere che di lì era più facile aprirsi una strada verso la Valtellina per l'ultima resistenza. In quel suo prov­ visorio ufficio, vigilato da sentinelle tedesche, il Duce tenne una serie di febbrili riunioni e colloqui legati alle uniche al­ ternative che ormai gli si offrivano: o una «soluzione italia­ na», ossia un accordo con il CLNAI, O la fuga in Svizzera, o il ridotto montano della disperazione. Proprio mentre Mussolini arrivava a Milano gli Alleati avanzavano a ventaglio, piombando a est su Ferrara, Vero­ na e Padova, mentre al centro le forze di Clark, disceso l'Ap­ pennino, puntavano su Modena e Bologna dove l'onore di entrare per primi sarebbe toccato agli italiani del gruppo Legnano. L'offensiva non incontrava ostacoli seri, tanto che la mattina del 21 - quando gli Alleati varcarono il Po - Gra­ ziani, in uno dei tanti conciliaboli, aveva commentato: «Se sono abbastanza audaci possono essere qui domani». Tutto crollava. Il giorno prima, 20 aprile, Hitler aveva celebrato il suo cinquantaseiesimo compleanno. Dal Bunker della vecchia Cancelleria, dove viveva ormai rintanato da tre mesi, era salito fino al cortile e vi aveva passato in rivista un picchetto d'onore: duecento ragazzi della Hitler-]ugend, tutti fra i 14 e 16 anni. Imbacuccato in un pastrano militare, col bavero alzato, il Fùhrer andò loro incontro con passo in­ certo, si fermò a parlare con alcuni e al più piccolo diede un buffetto sulla guancia. Poi ridiscese nel sotterraneo da dove non sarebbe uscito mai più. Vi fu un breve rinfresco cui par­ teciparono tutte le alte gerarchie del Reich: Gòring, Gòb­ bels, Himmler, Ribbentrop, Speer, Bormann, Keitel, Jodl, Doenitz e il nuovo capo di stato maggiore dell'esercito Krebs. Gòbbels ammise che tutto era finito e che ai capi del nazismo non restava che immolarsi tra le macerie di Berli­ no. Ma Hitler contava ancora sul cosiddetto Gruppo d'Ar­ mate Steiner che operava in Baviera e avrebbe potuto ac­ correre verso nord. Tracciò quindi un piano in base al qua-

214 le Doenitz avrebbe dovuto assumere il comando della Ger­ mania nord-occidentale non ancora occupata, e Kesselring quello della Baviera e dell'Austria. Steiner si sarebbe lancia­ to al salvataggio di Berlino. Non erano che favole. A sud i russi avevano oltrepassato Vienna, a ovest gli Alleati avanza­ vano su Monaco di Baviera. E il gruppo di armate Steiner si era dissolto una settimana prima. Hitler delirava, e Mussolini tentennava. Almeno per quan­ to riguardava lui e i gerarchi più famosi, o famigerati, la pro­ spettiva dell'espatrio in Svizzera svanì presto. Il 20 aprile Mellini Ponce de Leon ebbe incarico di sondare il consigliere commerciale elvetico a Milano - in effetti un ambasciatore uf­ ficioso - signor Troendle e di domandargli quale sarebbe sta­ to l'atteggiamento del suo governo «in caso si determinasse una situazione minacciosa» per la vita dei gerarchi e dei loro familiari. La sollecitazione ebbe accoglienza fredda. Troendle ritenne «né materialmente possibile né consigliabile di inizia­ re una procedura per ottenere un visto vero e proprio». Ag­ giunse a titolo personale che «le famiglie delle personalità po­ litiche - donne e bambini - in qualunque momento si fossero presentate alla frontiera svizzera sotto una minaccia seria ed immediata per la loro sorte sarebbero state fatte entrare». Al­ tro discorso per le personalità politiche, che potevano essere accolte «purché non siano delinquenti comuni» ma che co­ munque dovevano essere indicate in una lista da consegnare al dipartimento federale che avrebbe deliberato in merito. In quei frangenti, e con il ritmo che gli avvenimenti avevano preso, era un larvato rifiuto. Chiusa la via svizzera, restava quella di un patto con il Comitato di Liberazione Nazionale tramite la Curia. Delle intenzioni e iniziative di Schuster si è già detto. Bisogna tut­ tavia aggiungere che il cardinale aveva intessuto, parallela­ mente a quella con Mussolini, una trama con il solito Wolff, al quale era stato sottoposto un piano che mirava, come gli altri, a salvaguardare Milano, la sua popolazione e le sue in­ dustrie, e che prometteva l'azione della Curia «per persua-

215 dere i gruppi d'opposizione e particolarmente i partigiani a non fare alcuna azione contro i tedeschi prima e durante la loro ritirata», con l'avvertimento tuttavia che «questo si rife­ risce solo ai tedeschi, non ai fascisti». E Wolff aveva dato a Schuster affidamenti, lasciandogli addirittura credere di po­ ter venire a Milano per firmare la resa, deciso invece a fir­ marla, sì, ma nei confronti degli Alleati, che in quei giorni tergiversavano intimiditi dal veto di Mosca. Altro punto di riferimento essenziale della situazione era il CLNAI: ma per esaminarne il comportamento, le perplessità, le divisioni e le decisioni dobbiamo fare un altro dei frequenti passi in­ dietro in questa storia fitta di vicende parallele.

La Resistenza, nei primi mesi del 1945, non era più un fatto militare neppure nella misura in cui lo era stata preceden­ temente. Era soltanto un fatto politico. Gli esponenti dei partiti di sinistra - in particolare comunisti e azionisti - ave­ vano un progetto preciso: travasare la struttura, gli equili­ bri, le finalità del CLNAI nello Stato italiano, e far camminare il paese, a totale liberazione avvenuta, sui binari tracciati al nord. Gli Alleati avrebbero dovuto limitarsi a fiancheggiare e garantire, con la loro presenza, un'azione politica e ammi­ nistrativa che, nonostante i cauti riconoscimenti formali, era contro la linea degli Alleati stessi, contro la linea del gover­ no legale, e contro la promessa di lasciare irrisolto per il momento il problema istituzionale. Così, quando alla metà di febbraio del 1945 i comandi delle formazioni garibaldine e di Giustizia e Libertà proposero la «unificazione» dei par­ tigiani, ossia la rinuncia alle etichette di parte, e la trasfor­ mazione dei vari nuclei in reparti di un vero esercito, la pro­ posta apparentemente apartitica aveva un profondo signifi­ cato partitico. Longo - che propugnava questa concezione, e aveva anche forza sufficiente per tentare di imporla - sa­ peva che quell'esercito partigiano spoliticizzato sarebbe sta­ to in effetti un esercito a disposizione del Partito comunista. Ove questo esercito fosse stato travasato, come elemento do-

217 minante e maggioritario, nelle Forze Armate regolari del ri­ nato Stato italiano, il PCI avrebbe raccolto un frutto immen­ so - specificamente politico - dalla Resistenza. La manovra era abile, ma anche molto evidente. Ne af­ ferrò tutte le possibili implicazioni il generale Cadorna, che constatava quotidianamente quanto poco valore avesse la sua carica di comandante militare: intanto perché c'era po­ co da comandare, ormai, e poi perché i vicecomandanti, sorretti dai partiti, ignoravano o ostacolavano o contraddi­ cevano i suoi ordini. Per Cadorna il CLNAI era una emana­ zione del potere di Roma, e inoltre un organismo vincolato da obblighi di lealtà verso gli anglo-americani: per comuni­ sti, socialisti, giellini era l'elemento determinante di un nuo­ vo corso, il già accennato «vento del nord». Lo scontro sfociò in una crisi. Cadorna si dimise con mo­ tivazioni aspre: «Ho colto al volo l'occasione favorevole, che attendevo da un pezzo, per mostrare che, se da un lato com­ prendo le esigenze di transazione in questo comando assai più politico che militare, dall'altro non intendo farmi mena­ re per il naso come un burattino ed avallare, col credito del­ la mia persona, certe manovre dei partiti. Solamente se il CLNAI mi darà serie garanzie riprenderò il mio posto. Co­ munque lo riprenderò a testa alta... Non intendo assumere la responsabilità della anarchia che regna nelle formazioni perché i maneggi dei partiti distruggono il principio di au­ torità in tutta la gerarchia». Il dissidio fu composto laboriosamente, e Cadorna si im­ pegnò a rispettare le direttive del CLNAI «purché esse con­ cordino con quelle degli Alleati e del governo italiano». Ma era un rattoppo. Nella Resistenza ognuno lavorava per sé, ormai. E i comunisti lavoravano per il futuro politico del partito. Con iniziativa autonoma il PCI aveva diramato il 10 apri­ le le «direttive per l'insurrezione» in base alle quali, ricono­ scendo che «l'esercito tedesco è in rotta disordinata su tutti i fronti», avvertiva che «anche noi dobbiamo scatenare l'assal-

218 to definitivo... Non si tratta più solo di intensificare la guer­ riglia ma di predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali». Ancora ammoniva, la direttiva comunista, che «per nessuna ragione il nostro partito e i compagni che lo rappresentano... devono accettare proposte, consigli, pia­ ni tendenti a limitare, a evitare, impedire l'insurrezione na­ zionale di tutto il popolo». Quanto agli Alleati anglo-ameri­ cani, «dobbiamo essere intrattabili sul punto della necessità dello scatenamento della lotta insurrezionale di tutto il po­ polo». Un'ossessione, questa di non lasciar perdere la gran­ de occasione, che comportava odio profondo verso gli «atte­ sisti», ossia verso coloro che consideravano inutili sul piano militare altri lutti e rovine, e ingenuo o velleitario sul piano politico il tentativo di ridare all'Italia una verginità antifasci­ sta acquistata mentre Hitler stava per immolarsi nel Bunker di Berlino e Mussolini era finito. Nella sua storia della Resistenza, Roberto Battaglia ha riassunto con foga tribunizia il punto di vista comunista defi­ nendo «rete d'intrighi, vero e proprio nido di vipere che de­ ve essere schiacciato decisamente» ogni tesi anti-insurrezio- nale. Il Battaglia riconosce che «la liberazione d'Italia si inse­ risce tra gli avvenimenti già scontati sul piano militare» ma aggiunge che ne restava impregiudicato «il modo, decisivo per l'avvenire del nostro paese». Quello che esaminava pro­ poste e trattative di resa era dunque un CLNAI ufficialmente unitario e sostanzialmente diviso, anche se andava adottan­ do provvedimenti di rigore rivoluzionario: come quello se­ condo cui Mussolini e i suoi gerarchi avrebbero dovuto esse­ re considerati criminali di guerra, e condannati a morte. Tuttavia, pronunciata la sentenza, i delegati del CLNAI si in­ contrarono ancora con il maggiore tra i criminali di guerra. Nella Prefettura, attorno alla quale era stato creato un rudimentale sistema di reticolati e fortificazioni chiamato pomposamente «il quadrilatero», dove il Duce affermava di sentirsi «a casa sua», quei giorni preziosi prima dell'epilogo furono sprecati in chiacchiere, con riunioni militari che non

219 decidevano nulla, ma prendevano semplicemente atto della inarrestabile avanzata alleata e della disgregazione delle for­ ze fasciste, e con Consigli dei ministri - almeno quelli pre­ senti - dei quali il titolare della Educazione nazionale Biggi­ ni ci ha lasciato, in un diario pubblicato molto dopo la sua morte, un resoconto che è, nella sua aridità, più eloquente d'una descrizione appassionata. «Alle ore 11 - è il 22 aprile 1945 - mi sono recato in Pre­ fettura in udienza dal Duce. In anticamera, mentre atten­ devo di essere ricevuto per il consueto rapporto, ho parlato della situazione militare, aggravatasi con la perdita di Bolo­ gna, e di quella politica, con il maresciallo Graziani, con i ministri Pavolini, Zerbino e Mezzasoma, con la medaglia d'oro Borsani, con Gemelli sottosegretario alla Marina, con vari capi provincia e con altre personalità. Ricevuto dal Du­ ce ho conferito con lui attorno alle cose più urgenti; la nuo­ va legge sui maestri, definitivamente concordata e approva­ ta, una comunicazione da fare alla radio su quanto da me realizzato in quest'ultimo anno per il completamento e il potenziamento dell'Università di Trieste...» Giorgio Bocca ricorda che «il generale Diamanti sceglie proprio questa giornata (24 aprile) per presentare al Duce suo figlio che desidera una foto con autografo; i dirigenti della RAI vengo­ no a sottoporgli un programma di lavori; il commissario della Mondadori gli presenta un libro di Settimelli, Trenta anni di commenti a Mussolini». Il quale Mussolini dimostrava, come rileva il suo medico tedesco dottor Zachariae, «un'as­ soluta mancanza di energia e di intelligenza». Non mangia­ va e non dormiva quasi più. A un gruppo di fascisti raduna­ ti nel cortile del palazzo si limitò a dire che «l'ora è grave, io posso passare ma voi dovete stringere i vincoli del camerati­ smo», e promise di dare ordini adeguati al federale Costa: ma poi si limitò ad assistere alla proiezione di un documen­ tario sulla sua visita a Milano in dicembre. Ancora il 24 apri­ le giunse in Prefettura un messaggio di Hitler, l'ultimo della lunga corrispondenza tra i due dittatori.

220 «La lotta per l'essere e il non essere ha raggiunto il suo punto culminante. Impiegando grandi masse e materiali il bolscevismo e il giudaismo si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze distruttive al fine di precipitare nel caos il nostro continente. Tuttavia nel suo spirito di tenace sprezzo della morte il popolo tedesco e quanti altri sono animati dai medesimi sentimenti si scaglie- ranno alla riscossa, per quanto dura sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno mutare il corso della guer­ ra in questo storico momento in cui si decidono le sorti del­ l'Europa per i secoli a venire». Insieme a questo estremo sproloquio, un po' amletico e un po' invasato, l'alleato tede­ sco fece arrivare alla Repubblica sociale, tramite l'ambascia­ tore Rahn, una delle sollecitazioni burocratico-amministra- tive alle quali i sacerdoti della scartoffia non rinunciano neppure sull'orlo dell'abisso. Un appunto che Mellini Pon­ ce de Leon trasmise a Mussolini il 25 aprile spiegava che «l'ambasciatore Rahn ha pregato di farvi presente, Duce, come un rifiuto del governo italiano a pagare il contributo di guerra in questo momento avrebbe, dopo tanti sforzi fat­ ti in comune, il risultato di creare una sfavorevole atmosfe­ ra in tutto l'ambiente militare germanico». Par di sognare. Il 25 aprile Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, s'illudeva di sovrintendere, con la sua abilità di mediatore e con la sua autorità di principe della Chiesa, alla resa dei te­ deschi. Aveva inviato in mattinata un messaggio a Wolff spiegandogli di poter convocare «in qualsiasi momento» le altre parti, ossia in definitiva il CLNAI, per dare esecuzione alle proposte della Curia, da tutti ormai accettate. L'atto non poteva essere differito. «Per favore - ammoniva la lettera di Schuster - dite l'ora precisa e le persone incaricate di firma­ re per i tedeschi. Per il luogo: l'Arcivescovado andrà bene.» Ma non si poteva prorogare la firma, insisteva Schuster, ol­ tre le sei del pomeriggio. Quanto a Cadorna aveva già fatto sapere d'essere pronto a firmare alle due precise. Wolff ave­ va tutt'altre intenzioni, e doveva trovarsi a Bolzano per la

221 fase definitiva delle trattative con gli Alleati. Tuttavia inca­ ricò il suo rappresentante a Milano colonnello Rauff di an­ nunciare che in serata sarebbe stato (lui Wolff) a Milano. I fascisti non erano previsti, come protagonisti di questa so­ lenne capitolazione. Ma vi s'inserirono grazie ai maneggi dell'industriale Riccardo Cella, che da Mussolini aveva ac­ quistato i macchinari e l'edificio del Popolo d'Italia e che si ri­ volse a Marazza, esponente democristiano del CLN, per sol­ lecitare un incontro tra Mussolini e i capi della Resistenza. Questi ultimi acconsentirono, in linea di massima. E il Cella la mattina del 25 aprile riferì in proposito al Duce, che ave­ va incaricato Zerbino e Montagna di intraprendere passi per un passaggio dei poteri, ma che ora si risolse ad agire di persona. Il futuro si stava colorando di sangue per i fascisti, e già si aveva notizia di ammazzamenti indiscriminati nelle città liberate dagli Alleati o dall'insurrezione partigiana, che stava dilagando. Cinque giorni prima era stata deliberata, dal Comitato di Liberazione, l'istituzione di Tribunali straordinari. Nelle prime ore pomeridiane del 25 aprile - le tre all'in- circa - Mussolini lasciò la Prefettura su una vettura di rap­ presentanza, dignitosa e antiquata, che era stata inviata da Schuster. Erano con lui il prefetto Bassi, il sottosegretario alla presidenza Barracu, Zerbino, e Cella: all'ultimo mo­ mento si aggregò un tenente delle SS che - anche qui in ob­ bedienza alla routine - non volle dividersi dall'uomo che era stato incaricato di proteggere, e s'infilò a forza sulla limousi­ ne «sedendo quasi sulle ginocchia di Mussolini». Graziani, che aveva saputo del colloquio, e sconsigliato a Mussolini di parteciparvi, seguì in ritardo. La situazione era equivoca, perché Schuster credeva di avere nel suo studio i plenipo­ tenziari partigiani, tedeschi e fascisti, Mussolini credeva di andare a patteggiare, il CLNAI - che aveva designato a rap­ presentarlo Cadorna, Marazza e Lombardi - credeva di ri­ cevere la resa incondizionata di tedeschi e fascisti. Poiché Mussolini aveva preceduto tutti, Schuster fu costretto a in-

222 trattenersi con lui in un tu per tu imbarazzante e penoso. Tanto per prender tempo, il cardinale assicurò Mussolini che «gli onesti avrebbero riconosciuto il valore del suo po­ stumo gesto». Poi parlarono di varia umanità, tra l'altro del­ le relazioni tra Stato e Chiesa durante il ventennio. «Veden­ dolo un po' depresso - rivelò poi Schuster, e non si può dire mancassero motivi per quella depressione - insistei perché gradisse almeno un po' di conforto. Egli per cortesia si in­ dusse ad accettare un bicchierino di rosolio con un biscot­ to.» In questa atmosfera felpata la conversazione proseguì stentatamente, Schuster fece dono a Mussolini di una vita di San Benedetto. Finalmente si passò a parlare del presente, e il Duce illustrò il suo progetto di sciogliere l'indomani l'e­ sercito e la Guardia nazionale repubblicana, e di ritirarsi poi con tremila fedelissimi in Valtellina. «Ella ha intenzione di continuare la guerra sulle montagne?» s'informò il cardina­ le, e Mussolini, con una sorta di candore: «Ancora per un poco poi mi arrenderò». Quando Schuster, affabile ma non disposto a lasciar passare affermazioni temerarie, osservò che tremila decisi a tutto non erano facili da trovare, e che forse era più ragionevole contare su 300, Mussolini ebbe un sorriso malinconico. «Forse saranno un po' di più ma non di molto. Non mi faccio illusioni.» Intanto nell'anticamera Graziani schiumava perché il prefetto Bassi aveva appreso - riferendogliene immediatamente - che i tedeschi trattava­ no da tempo. Ma il Cella, con ostentazione d'ottimismo lom­ bardo, volle far capire che a tutto c'è rimedio: «Animo, ma­ resciallo! Oggi è una grande giornata. Ora giungerà anche il generale Wolff e sarà firmato l'armistizio». Dopo che Mussolini aspettava da un'ora abbondante, ar­ rivarono i delegati del Comitato di Liberazione, che entra­ rono nello studio di Schuster, seduto su un divano accanto a Mussolini, e si accomodarono, senza saluti e presentazioni, a un lato del tavolo: all'altro presero posto i fascisti. Uno del CLN - non è ben chiaro se Marazza o Lombardi - avvertì che ai fascisti poteva essere concessa solo la resa incondizionata,

223 e che i termini di essa dovevano essere accettati entro due ore. Le forze fasciste si sarebbero dovute concentrare nel triangolo Milano-Como-Lecco. A questo punto - e il Duce pareva incline ad acconsentire - si intromise Graziani per dire del negoziato tedesco, Mussolini s'infuriò e minacciò di denunciare per radio «il tradimento», Schuster esortò alla calma. Mussolini e i suoi si congedarono promettendo di dare una risposta entro un'ora, liberi com'erano da ogni ob­ bligo di lealtà dopo il colpo basso dei tedeschi. Riccardo Lombardi non credette alla sorpresa di Mussolini, che «si espresse con parole acri quando apprese (o finse di appren­ dere, perché era impossibile che egli non sapesse) le tratta­ tive dei tedeschi, e disse che avrebbe protestato». Retrospet­ tivamente, riesce diffìcile capire quale importanza avesse, mentre l'universo nazifascista veniva polverizzato, chi e co­ me avesse trattato, e con chi. Nell'Arcivescovado i delegati della Resistenza aspettaro­ no la risposta di Mussolini, ed ebbero intanto una ennesima - e come le precedenti falsa - conferma dai tedeschi circa l'intenzione di Wolff di venire a Milano. Solo che l'appunta­ mento con lui doveva essere rinviato all'indomani. Queste tergiversazioni accrescevano, tra i capi del CLN, le incertezze e anche i contrasti. Sandro Pertini, che nel Partito socialista impersonava l'ala più intransigente, saputo dell'incontro nello studio del cardinale, proclamò a gran voce che ogni negoziato era impensabile e che Mussolini doveva essere considerato un prigioniero di guerra «da consegnare poi, forse, agli Alleati». Poco dopo le 8 di sera ci si decise a te­ lefonare dall'Arcivescovado in Prefettura per sapere quale fosse la risposta del Duce. Il prefetto Bassi rispose che Mus­ solini era già partito; il «quadrilatero» era ormai sguarnito. I tedeschi tennero in piedi anche l'indomani la messinscena dell'imminente arrivo di Wolff, e Schuster preparò inutil­ mente il discorso che avrebbe annunciato, la sera del 26 aprile, la fine delle ostilità in Italia. Tornato in Prefettura dall'Arcivescovado, Mussolini si

224 chiuse nel suo ufficio, non prima però d'essersi scagliato contro Cella, minacciandolo addirittura di fucilazione per­ ché quel convegno era stato un inganno: «Volevano giunge­ re unicamente alla mia cattura e a un altro 25 luglio». Era ossessionato dall'idea del tradimento: «Qui mi si vuole arre­ stare un'altra volta». Stando a una testimonianza del gene­ rale Diamanti, meditò il suicidio, e traendo da un cassetto una rivoltella disse: «A me ci penso io». Era smarrito, irreso­ luto, ma poi agiva d'impulso, come spinto da una oscura fa­ talità. Buttò giù due lettere, le sue ultime, a Carlo Silvestri e a Miglioli - l'uno e l'altro interpreti dell'ipotesi «ponte», os­ sia di un passaggio morbido dalla Repubblica sociale ai so­ cialisti resistenziali - infine alle otto di sera, sollecitato da Pavolini, decise: «Andiamo!». Un saluto romano per i fedeli, qualcuno dei quali invocava «non partire, non lasciarci so­ li», quindi salì di scatto sull'auto. Aveva accanto a sé Bom­ bacci, che portava con sé soltanto una valigia molto piccola, e a Vittorio Mussolini che se ne stupiva spiegò: «E di che al­ tro c'e bisogno? Sono esperto di queste cose, ero nell'ufficio di Lenin a Pietroburgo quando le truppe bianche di Jude- nic avanzavano sulla città e ci preparavamo ad abbandonar­ la». Seguivano altre auto, ultima la berlina a gasogeno del­ l'industriale Cella il cui autista, un vecchio milanese che sa­ peva fiutare il vento, visto che tutte le macchine uscendo svoltavano a sinistra, annunciò: «Commendatore, noi voltia­ mo a destra», e si allontanò in direzione opposta. Si ferma­ rono in Prefettura, oltre a Bassi, il ministro della Giustizia Pisenti e il Capo della polizia, generale Montagna. All'alba il palazzo fu occupato dalle Guardie di Finanza il cui coman­ dante, generale Malgeri, collaborava da tempo con la Resi­ stenza. Restavano nuclei abbastanza consistenti ma demora­ lizzati di fascisti armati, e i partigiani non si stavano ancora muovendo; erano cauti, l'Albergo Regina, in qualche modo fortificato, era sempre in mano ai tedeschi, e si temeva che i reparti fascisti superstiti fossero in grado di tentare qualco­ sa. Le prime formazioni partigiane entrarono in Milano il

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28 aprile alle 17,30: erano seicento uomini provenienti dal­ l'Oltrepò Pavese. Mezz'ora dopo sopraggiunsero, dall'Osso- la, uomini dell'ottava brigata Matteotti, con l'avvocato Anto­ nio Greppi che si era unito ad essa da poco, proveniente dal rifugio svizzero, e che divenne poi sindaco della città. In quegli stessi giorni si assistette alla moltiplicazione dei parti- gianii da 70 mila divenuti centomila, e poi trecentomila. L'insurrezione generale divampò, in pratica, quando non c'era più nulla contro cui insorgere. CAPITOLO UNDICESIMO

MACELLERIA MESSICANA

Da Milano a Como l'autocolonna con Mussolini e i gerarchi procedette senza intoppi, e alle nove di sera del 25 aprile aveva raggiunto la sua destinazione: un'altra Prefettura - l'ultima di questa vicenda - altri inconcludenti conciliabo­ li, altre indecisioni fatali. Nel disordine, tra l'andirivieni di armigeri stravolti e di funzionari pallidi di paura, la moglie del prefetto ebbe pur sempre modo di organizzare nel salo­ ne, con vasellame di lusso, un pranzo durante il quale furo­ no un'ennesima volta discusse le opzioni che si offrivano ai naufraghi dell'avventura fascista. Mussolini aveva sciolto dall'obbligo di fedeltà tutti i suoi seguaci, anche se con i re­ parti fascisti «milanesi» che affluirono nella notte a Como avrebbe potuto tentare efficacemente una azione armata verso la Valtellina, o almeno asserragliarsi a difesa fino al­ l'arrivo degli Alleati che galoppavano verso le Alpi. Ma in questo frangente - come il 25 luglio - del Duce fu straordi­ naria soprattutto l'abulia, quasi un inconscio desiderio di autodistruzione. Non l'autodistruzione folle e a suo modo epica di Hitler, ma la rinuncia a lottare. Era svuotato di pas­ sione politica, e svuotato anche, in qualche modo, di affetti personali. Si lasciò imporre il modo, lo scenario, le circo­ stanze e i personaggi della scena finale. Con Rachele parlò per telefono (ma qualcuno asserì che la moglie si era fatta brevemente vedere in Prefettura). Rachele Mussolini era con i figli minori, Anna Maria e Romano, a Villa Mantero, poco distante. Mussolini vi mandò alcuni brigatisti, con l'in­ carico di ritirare la sua roba, e rimase a rimuginare con i commensali impossibili uscite di sicurezza.

227 Buffarmi Guidi suggerì che il gruppo tentasse di passare in Svizzera, altri insistette per il ridotto valtellinese, non fa­ cile da raggiungere perché della valle si stavano impadro­ nendo i partigiani. L'asilo svizzero avrebbe consentito a Mussolini non soltanto di salvare la pelle, ma anche di «spendere» nel migliore dei modi la sua merce di scambio, documenti vari, e in particolare le lettere che Churchill gli aveva inviato durante i mesi della cobelligeranza italiana. Di quei documenti molti erano informati, tanto che il rozzo ca­ po della Muti, Colombo, gli aveva gridato in faccia: «Duce, se volete andare in Svizzera per i documenti, anche in Val­ tellina possono essere messi in salvo». Ma gli svizzeri, già lo sappiamo, non erano inclini ad accollarsi visitatori ingom­ branti, tanto che Rachele si vide rifiutare l'ingresso a Ponte Chiasso. Buffarini Guidi, fervido di trovate, aveva escogita­ to una soluzione: «Sfondiamo la sbarra di confine con l'au­ tomobile e una volta di là ci tengono». Mussolini non si pro­ nunciava. Non s'era voluto servire dell'aereo che l'avrebbe portato in Spagna per non abbandonare i suoi fedeli, ma poi finì per abbandonarli egualmente, in una fuga incoe­ rente e avvilente. Da Como si trasferì d'improvviso, l'indomani prima del­ l'alba, a Menaggio, dove ancora vagolò incerto, mentre i ge­ rarchi lo tallonavano dubbiosi, ma incapaci di trovare solu­ zioni diverse, e Pavolini portava di rinforzo un pugno di mi­ liti e un autocarro artigianalmente corazzato e trasformato in autoblindo. Il tenente tedesco Fritz Birzer, cui Hitler ave­ va ordinato di non mollare mai il Duce, gli stava alle costole ostinato e implacabile. Vani erano stati i tentativi di «semi­ narlo». E vani anche quelli di distanziare Claretta Petacci che, insieme al fratello Marcello, alla compagna di lui Zita Ripossa, e ai nipotini, ritrovava con patetico accanimento le fila dell'itinerario seguito da Ben. Le era stato suggerito di lasciare Como, dove si era precipitata, di mettersi in salvo: non ascoltava ragioni, e quando la vide a Menaggio anche Mussolini, che non era un sentimentale, ne fu toccato:

228 «Questa donna, che ha già subito il carcere e che ha perso tutto per colpa mia, ha voluto seguirmi anche adesso...». A Menaggio un fuggiasco di primo piano, Rodolfo Gra­ ziani, si staccò dalla colonna di Mussolini e di Pavolini per rientrare al suo Quartier generale di Mandello Lario: mos­ sa furba, o fortunata, che lo salvò. Per gli altri sopravvenne un imprevisto che parve provvidenziale, e fu fatale: o alme­ no non cambiò quel che doveva avvenire, semmai lo acce­ lerò. Nella notte dal 26 al 27 aveva imboccato la strada Re­ gina, che corre lungo la sponda occidentale del lago di Co­ mo, un reparto della contraerea tedesca, al comando del te­ nente Fallmeyer. Si trattava di una unità ancora ordinata, con numerosi automezzi, decisa a raggiungere l'Alto Adige. Era un aiuto insperato per i fascisti e il loro capo: almeno questi tedeschi sapevano dove volevano andare, e come ar­ rivarci. Erano anche meno esposti dei fascisti agli attacchi dei partigiani, per una sorta di tacita intesa. Non sempre es­ sa fu rispettata. Accadde che formazioni della Resistenza - magari quelle dell'ultima ora - attaccassero reparti in riti­ rata che chiedevano soltanto di evacuare tranquillamente l'Italia causandovi inutili perdite e provocandone le contro­ misure, talvolta spietate. Proprio questo avvenne, ad esem­ pio, a Pedescala, frazione di Valdastico in provincia di Vi­ cenza, dove il 30 aprile 1945 i tedeschi di una colonna che se ne andava - ma erano numerosi in essa i russi e gli ucrai­ ni intruppati nella Wehrmacht - furono oggetto di una spa­ ratoria partigiana. Per rappresaglia sterminarono 63 poveri innocenti del paese. La medaglia d'oro al valor militare, conferita recentemente per quell'episodio a Pedescala, è sta­ ta rifiutata da molti dei suoi abitanti, i quali giudicano l'a­ zione dei partigiani insensata e provocatoria. «Spararono e poi sparirono», così un manifesto polemico ha riassunto questa pagina tragica, simile a molte altre. Consultatosi brevemente con i suoi fidi, il Duce decise dunque che convenisse porsi - ancora - sotto lo scudo te­ desco. E ripetè a Claretta, che supplicava d'essere presa

229 con lui, di andarsene, di scappare. S'avviò così una nuova più solida colonna armata, in testa l'autoblindo di Pavolini, poi Birzer (raggiunto dal maggiore Otto Kisnatt, ch'era suo superiore) e la scorta di SS, e dietro in fila le auto di Mus­ solini e dei gerarchi e i camion della Flak, la contraerea te­ desca. A un certo punto Mussolini, che non abbandonava mai due borse con incartamenti e valuta, si trasferì sull'au- toblindo di Pavolini. Superata una curva, poco più d'un chilometro prima dell'abitato di Musso, l'automezzo di te­ sta fu bloccato da uno sbarramento di tronchi d'albero e pietre collocato dai partigiani che erano appostati nei pres­ si e che spararono una raffica intimidatoria, senza uccidere fascisti o tedeschi, ma facendo secco l'operaio di una cava vicina. Gli insorti appartenevano alla 52a brigata garibaldi­ na, ed erano comandati da Pier Bellini delle Stelle, un gio­ vanotto toscano che s'era trasferito sul lago per motivi fa­ miliari, e che era provvisto d'un titolo nobiliare e d'un no­ me di battaglia, Pedro. Era ormai piena mattina - circa le 7,30 - e la radio aveva dato notizia della insurrezione milanese contro i fascisti (o contro il nulla). Non indugeremo sui laboriosi e diffidenti conciliaboli che gli ufficiali tedeschi intrapresero con Pedro, mentre tra i gerarchi maggiori e minori dilagava il timore, poi il panico, tanto che alcuni cercarono rifugio presso gen­ te del posto, offrendo in ricompensa denaro e gioielli. Per i fedelissimi non v'era scampo, già erano stati catturati Buffa­ rini Guidi e Tarchi che s'erano incaponiti a voler raggiun­ gere la frontiera svizzera, Pavolini con la sua autoblindo si dibatté come un animale in gabbia e insieme a lui la meda­ glia d'oro Barracu e altri; si ritrovarono poi tutti sul lungo­ lago di Dongo, per morirvi. L'unico che i tedeschi si preoc­ cupassero ormai di proteggere era Mussolini, che fu indot­ to da Birzer a indossare un pastrano da caporale e un el­ metto della Wehrmacht: mascherata che doveva consentir­ gli di superare indenne l'ispezione cui la colonna sarebbe stata sottoposta, come s'era concordato, a Dongo. Così ca-

230 muffato il Duce si issò pesantemente sull'autocarro e Claret­ ta - ancora lì nonostante le proteste - restò a terra. A Dongo uno dei partigiani che esaminavano l'interno dei camion, Giuseppe Negri, incuriosito dall'atteggiamento di un massiccio tedesco che se ne stava accasciato in un an­ golo («ubriaco, vino» dicevano gli altri tedeschi), volle ve­ derlo meglio, e riconobbe «el testùn», il testone. Ne avvertì il vice-commissario politico della brigata, Urbano Lazzaro (Bill), che si fece consegnare da un Mussolini rassegnato il mitra che teneva tra le gambe e la pistola, una Glisenti. Nel municipio di Dongo fu steso un inventario di quanto il Du­ ce aveva con sé: parecchi documenti - tra gli altri un dossier intestato a Umberto di Savoia - e poi sterline, assegni, un paio di guanti, un fazzoletto, una matita. Sopravvenne, mentre i tedeschi ripartivano liberati dall'ingombrante compagnia, Michele Moretti (Pietro), fervente comunista, che della 52a brigata era commissario politico: e fu stabilito di trasferire il prigioniero per maggior sicurezza a Germasi- no, nella caserma della Guardia di Finanza. A tarda sera lo si prelevò di là per riportarlo a Como, e fu concesso a Cla­ retta di riunirsi a lui. Ma durante il tragitto la scorta parti­ giana cambiò idea: correva voce, nei vari posti di blocco in cui via via il gruppo incappava - a Mussolini era stata fascia­ ta la testa per evitare che venisse riconosciuto - che gli Al­ leati fossero già a Como: i loro messaggi chiedevano insi­ stentemente «l'esatta situazione di Mussolini» come premes­ sa alla sua «consegna». Fu pertanto deliberato dai catturatori e carcerieri di Mussolini - Bellini delle Stelle, Luigi Canali (Neri), Moretti, Giuseppina Tuissi (Gianna) - di far marcia indietro, e rico­ verare il prigioniero, insieme alla Petacci, nella cascina dei contadini De Maria, che ai partigiani avevano dato rifugio in passato: un fabbricato rustico a mezza costa, in località di Mezzegra. In quel modèsto casolare, nello stesso letto, l'ex-dittatore e l'ex-favorita, trascorsero prigionieri l'ultima notte della loro vita (ma anche la prima in cui fosse-

231 ro stati insieme: a Claretta, Mussolini aveva sempre conces­ so soltanto i ritagli del suo tempo). Mentre Mussolini peregrinava sotto sorveglianza da un paese all'altro, da una prigione provvisoria all'altra, la noti­ zia della sua cattura giungeva - era il tardo pomeriggio del 27 aprile - a Milano, nel comando del Corpo Volontari del­ la Libertà. Vi era approdata indirettamente, attraverso il ca­ po della Finanza, Malgeri, che stava facendo visita al nuovo prefetto Riccardo Lombardi. Questa procedura tortuosa, insieme alla sosta del prigioniero in una caserma di finan­ zieri, spiega perché Leo Valiani, rievocando quei momenti, abbia detto che «a sera arrivò la notizia che Mussolini era stato catturato dalla Guardia di Finanza». I capi della Resi­ stenza, in particolare comunisti, socialisti e azionisti, aveva­ no un assillo: impedire che il Duce cadesse nelle mani degli Alleati. Ha detto Valiani al suo intervistatore Massimo Pini (Sessantanni di avventure e battaglie): «Noi quattro del comita­ to insurrezionale ci consultammo, senza neppure riunirci, per telefono. Pertini, Sereni, Longo e io prendemmo nella notte la decisione di fucilare Mussolini senza processo, data l'urgenza della cosa. Gli americani infatti chiedevano, per radio, che Mussolini fosse consegnato a loro. Longo chiese a Cadorna di dare il lasciapassare a due suoi ufficiali, Lam- predi e Audisio, perché si recassero a prelevarlo. Cadorna racconta lealmente nelle sue memorie di avere subito capito che andavano per fucilarlo, ma di aver ugualmente firmato il foglio. Cadorna non era un cospiratore antifascista come noi, ma pensava che era più giusto che Mussolini morisse per mano di italiani che per mano di stranieri: perciò firmò il lasciapassare. Enrico Mattei (democristiano, N.d.A.) e Fer­ mo Solari (azionista, N.d.A.) l'approvarono. Alcuni giornali­ sti sostengono che Cadorna poi si pentì, arrivò da lui un uf­ ficiale americano, Daddario (al quale già si era consegnato Graziani, N.d.A.)... Quella notte Daddario chiese invano la consegna di Mussolini. Per scongiurare l'intromissione de­ gli anglo-americani il CVL mentì, nella notte sul 28, con un

232 messaggio che annunciava: "Spiacenti non potervi conse­ gnare Mussolini che processato tribunale popolare è stato fucilato stesso posto dove precedentemente fucilati da nazi­ fascisti quindici patrioti" (piazzale Loreto, N.d.A.)». In realtà la sentenza era stata pronunciata, ma l'esecuzione sol­ tanto ordinata. Con un pugno di tipi risoluti, Walter Audisio (Valerio) e Aldo Lampredi (Guido) viaggiavano, all'alba del 28, verso Como. La scelta di Lampredi era stata ragionata, era il brac­ cio destro di Longo, un uomo dell'apparato. Walter Audi­ sio, alias colonnello Valerio, un ragioniere trentaseienne di Alessandria, era anche lui un compagno di provatissima fe­ de, ma di assai minore equilibrio. Un tipo, ha osservato Va- liani, «un po' prepotente», «un po' matto»; il che, secondo Secchia, non guastava. «Forse, se non fosse stato un po' mat­ to, non avrebbe portato a termine la missione, malgrado gli ostacoli che incontrò». Il «Compito storico» di uccidere il Duce gli toccò per caso; lo si deduce almeno da quanto ha affermato Fermo Solari, stretto collaboratore di Longo. «Quando telefonarono da Musso che il Duce era prigionie­ ro, Longo uscì per fare alcune telefonate e dare degli ordini e poi mi disse: "Ho trovato solo Audisio, ho mandato su lui perché ce lo porti a Milano".» Quanto ci fosse di sincero e quanto di reticente in quel "ce lo porti a Milano" è difficile dire. Probabilmente Longo non precisò subito se lo voleva, Mussolini, vivo o morto, ma lasciò intuire cosa preferisse. Divenne comunque esplicito durante una telefonata con Audisio che, fatta sosta a Como nel tragitto verso Dongo, si era imbattuto in esponenti della Resistenza dalla mentalità «formalistica» e «legalitaria», i quali gli «mettevano i bastoni tra le ruote». Chiamò allora Milano per avere istruzioni da Longo, che seccamente rispose: «O fate fuori lui, o sarete fatti fuori voi». Il comportamento del colonnello Valerio fu contrasse­ gnato - una volta raggiunta Dongo - da una volontà fanati­ ca, isterica e feroce di far presto, anticipare i possibili salva-

233 tori. Condannare, fucilare, vendicare. Con Bellini delle Stelle, che tentava di muovere obbiezioni e di opporsi a quelle sommarie e sanguinarie procedure, Walter Audisio si comportò, più che da superiore, da bravaccio intimidato- re. Volle l'elenco dei gerarchi catturati, e con furia appose accanto a ciascun nome la crocetta che significava morte. Accertò con rapidità - grazie alla sua conoscenza dello spa­ gnolo - che Marcello Petacci, il quale s'era spacciato per di­ plomatico di Franco, era un bugiardo e lo scambiò per il fi­ glio del Duce, Vittorio. A ogni buon conto, morte anche per lui. Morte naturalmente per Mussolini, morte per Cla­ retta Petacci, e quando Bellini delle Stelle protestò: «Non ha nessuna colpa», Valerio ribatté spietatamente: «E stata consigliera di Mussolini e ha ispirato la sua politica per tut­ ti questi anni. È responsabile quanto lui». E poi aggiunse: «Non la condanno io. E già stata condannata». Era una menzogna. Valiani l'ha ripetuto, riecheggiando le analoghe dichiarazioni di Pertini, trentott'anni dopo i fatti. «Quanto alla Petacci, ha ragione Pertini. Il CLNAI non la condannò mai e non c'era un motivo valido per fucilarla. Non so per­ ché sia stata uccisa». Della fine di Mussolini e della Petacci, Walter Audisio die­ de almeno quattro versioni, concordanti nell'essenza, di­ scordanti in alcuni particolari non trascurabili. L'ultima vol­ ta, in un memoriale pubblicato postumo - era morto 1' 11 ot­ tobre '73 - nel 1975. Ha raccontato che, accompagnato da Lampredi e da Moretti (quest'ultimo essendo del posto sa­ peva come raggiungere Giulino di Mezzegra) arrivò alla ca­ scina, e indusse Mussolini e la Petacci ad accompagnarlo di­ cendo d'essere venuto per liberarli. All'andata, aveva già adocchiato il luogo adatto per l'esecuzione: «Una curva, un cancello chiuso su un frutteto, la casa sul fondo palesemen­ te deserta (si chiamava Villa Belmonte, N.d.A.)». Così si av­ viarono, Mussolini in un soprabito color nocciola, la Petacci impacciata dai tacchi alti delle scarpe nere scamosciate. Per­ corsero il breve tratto fino alla 1100 nera con cui i messag-

234 geri di morte avevano fatto il viaggio, e furono portati a de­ stinazione. Non mette conto di citare gli scambi di frasi tra i protagonisti di questo epilogo, né la descrizione sprezzante che Valerio diede di Mussolini, delle sue ultime baldanze (credette davvero per un momento d'essere avviato verso la libertà?), poi del suo terrore. Fatti scendere Mussolini e la Petacci dall'auto, Audisio prese a leggere un foglio. «Per or­ dine del comando generale del Corpo Volontari della Li­ bertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italia­ no». Trascriviamo, a questo punto, l'ultima e, per quanto ri­ guarda il PCI, definitiva versione del colonnello Valerio. «Con il mitra in mano scaricai cinque colpi su quel corpo tremante. Il criminale di guerra si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. La Pe­ tacci, fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente, fu col­ pita anche lei e cadde di quarto a terra. Erano le 16,10 del 28 aprile 1945.» Inutilmente autodifensiva e grottesca la descrizione della fine di Claretta Petacci. Walter Audisio - se fu lui il «giustizie­ re» - l'aveva condannata, voleva che morisse, ed ebbe soddi­ sfazione. Quanto alla parte riguardante il Duce, è possibile che in sostanza sia autentica, benché molte perplessità siano emerse. Gianfranco Bianchi e Fernando Mezzetti, che all'e­ pilogo fascista hanno dedicato un libro molto documentato, portano testimonianze secondo le quali esecutore materiale sarebbe stato il Moretti. Altri ha indicato in Longo il giusti­ ziere, altri ancora ha accennato alla intromissione di un in­ glese, incaricato di recuperare i documenti che Mussolini aveva con sé e che infastidivano Churchill. A un Longo che avrebbe provveduto personalmente alla uccisione, Valiani non era molto disposto a credere: «Non ho motivo di esclu­ derlo, però mi pare improbabile. Se la mia memoria non mi inganna, Longo, il giorno che si sarebbe dovuto trovare a Dongo, era a colazione a casa mia in via Benedetto Marcel- Io». E poi: «Ho l'impressione che fosse quel giorno, 28 apri­ le, però potrei sbagliare: potrei confondere le date... e può

235 darsi che Longo sia andato a Dongo. Non ci credo molto però, anche perché non vedo quali attitudini di tiratore Lon­ go avesse. Aveva guidato le brigate internazionali in Spagna, si era battuto con sagace coraggio, era spesso in prima linea, ma come ispettore generale, non come tiratore scelto: però può darsi che abbia voluto prendersi questo gusto». Quanto ad Audisio: «Che Mussolini l'abbia ucciso lui, questo è dub­ bio: la versione che noi apprendemmo subito dopo, da Lon­ go, fu che era stato Lampredi ad eseguire la bisogna. Questa era la versione interna. Ma forse fu il comasco Michele Mo­ retti». Il mistero resta dunque tale: è un mistero importante per la ricostruzione cronistica degli avvenimenti, non per il loro profilo storico e politico. Il CLNAI, e il CVL, e nel CVL i co­ munisti in primo luogo, poi i socialisti e gli azionisti, vollero, fortissimamente vollero che Mussolini fosse sottratto agli Al­ leati e consegnato al mitra. Il resto è dettaglio.

Fosse stato o no l'uccisore di Mussolini e della Petacci, il co­ lonnello Valerio tornò a Dongo, subito dopo l'incursione a Giulino di Mezzegra, con l'aria di chi alla giustizia somma­ ria avesse preso gusto, e volesse insistere. Nella sala d'oro del municipio i gerarchi bloccati con Mussolini erano sem­ pre guardati a vista dagli uomini di «Pedro»: un gruppo ete­ rogeneo che comprendeva l'indomabile Pavolini, ministri, federali, lo strano compagno di strada Bombacci, la meda­ glia d'oro Barracu, quindici in tutto i fucilandi, per pareg­ giare simbolicamente le vittime di piazzale Loreto. Furono ammassati sulla piazza, tre minuti e un prete per l'assolu­ zione a chi la voleva, poi la scarica. Walter Audisio s'era ac­ corto poco prima che mancava quel falso spagnolo che ave­ va creduto fosse Vittorio Mussolini, e che, identificato per Marcello Petacci, era stato separato dagli altri. In fin dei conti era al più un profittatore, non uno dei capi del fasci­ smo, e infatti i morituri non lo avevano nemmeno voluto in­ sieme a loro. Restò isolato, e morì isolato. Ma Audisio non rinunciò a lui. Il Petacci, robusto, giovane, si divincolò e

236 tentò la fuga, riuscì a tuffarsi nel lago e fu finito in acqua. In quella operazione di rastrellamento, prima della strage, e dopo di essa, vi fu certamente passaggio, e poi dispersione e trafugamento di denaro, bagagli con valori, gioielli, sterline d'oro e marenghi a migliaia. Del «tesoro di Dongo», che prese le più disparate destinazioni, di partito o personali, si cercò successivamente di ricostruire la fine con un classico «processo fiume» all'italiana, poi insabbiato e finito in nulla. Chiuso questo conto di sangue, Audisio non era ancora appagato. Voleva un supplemento spettacolare (proprio sua fu l'iniziativa della esposizione in piazzale Loreto). Buttò i cadaveri di Dongo su un camion, a Giulino di Mezzegra prelevò gli altri di Mussolini e della Petacci che erano stati sorvegliati da due partigiani, con quel mucchio nel cassone si diresse verso Milano dove entrò in piena notte, e depositò il carico sotto la tettoia del distributore di piazzale Loreto. Altri quattro corpi furono poi aggiunti, e la messinscena completata più tardi issando alcuni morti a testa in giù, co­ me nel negozio del beccaio. Turpe scena da «revolución» centroamericana o da colpo di Stato irakeno, che ha disono­ rato chi la volle, chi la consentì, e la folla eccitata che inde­ centemente si accanì contro i poveri resti, li insultò, li spu­ tacchiò, li insudiciò in modo ancor peggiore. Infieriva esul­ tante, il «popolo», su colui che aveva acclamato fino a non molti mesi prima. Cadorna parlò di «sconcio», Parri di «ma­ celleria messicana». Secondo Valiani il colonnello america­ no Charles Poletti, neonominato governatore della Lom­ bardia, approvò invece, dopo avervi assistito, la disgustosa esibizione, da Bocca sorprendentemente definita «atto rivo­ luzionario su cui si farà dell'inutile moralismo». Prima che quella parata dell'orrore, purtroppo resa nota al mondo da una serie agghiacciante di fotografie e filmati, avesse finalmente termine, una vittima di spicco allungò l'e­ lenco dei giustiziati: Achille Starace. Anche l'ex-segretario del Partito, pur ripudiato e in disgrazia, era, come Claretta, un cane che doveva finire là dove muore il padrone. Messo

237 al bando con disprezzo già negli ultimi anni del fascismo pre-25 luglio, additato anzi come responsabile di ogni ga­ glioffaggine mussoliniana, Starace non aveva ricoperto al­ cuna carica nella Repubblica di Salò. Nella Milano della Mu­ ti e di Villa Triste, conduceva una vita da sbandato: povero, diviso dalla moglie, mal tollerato dai figli, non piaceva né ai vecchi né ai nuovi fascisti. Come ai bei tempi era tuttavia maniaco delle flessioni, della ginnastica e, ante litteram, del jogging. Correva anche il 28 aprile, in una via del centro, in tuta. Riconosciuto, preso, maltrattato, subì una condanna a morte in un simulacro di processo, ed ebbe la fierezza di di­ chiararsi fascista, per sempre. I partigiani l'avevano «giudi­ cato» e tenuto rinchiuso in un'ala del Politecnico: la mattina dopo, mentre Mussolini e la Petacci erano in mostra, gli fe­ cero traversare la città su un autocarro scoperto, alla gogna. Finalmente fu in piazzale Loreto, a fissare il suo idolo, ap­ peso come un animale da macello. Starace fu animoso, il co­ raggio non gli era mai mancato. I suoi persecutori si accani­ vano a percuoterlo, a inveire, a beffeggiare. «Fate presto» li esortò. Cadde alzando la mano nel saluto fascista e gridan­ do «Viva il Duce». In questi che furono i giorni di una mattanza spietata e insieme volubile, la sorte dei fascisti maggiori o minori di­ pese, lo si è accennato in precedenza, da circostanze fortui­ te. Roberto Farinacci, che s'era in un primo tempo propo­ sto di raggiungere il ridotto valtellinese, e vi si era diretto insieme a una guardia del corpo e alla marchesa Caria Me­ dici del Vascello, segretaria dei fasci femminili, cambiò poi itinerario, per raggiungere Oreno dove viveva una sorella della marchesa, sposata a un Gallarati-Scotti. Così facendo, Farinacci di distaccò da una colonna di fascisti cremonesi che si era mossa insieme a lui. Incappò, senza difesa, nei partigiani e la mattina del 28 subì un «processo popolare» nel municipio di Vimercate. La sentenza fu di morte, ese­ guita. Il bolognese Leandro Arpinati, squadrista e manganella-

238 tore in gioventù, ma nemico giurato di Starace e oppositore interno di Mussolini - che aveva tentato invano di recupe­ rarlo per la Repubblica di Salò - fu prestamente abbattuto da partigiani penetrati nella sua cascina emiliana. Buffarmi Guidi venne trascinato alla fucilazione, il 10 luglio, dopo un giudizio un poco più regolare: aveva ingoiato un veleno, per evitare l'esecuzione, e fu collocato di peso sulla sedia dove la scarica lo finì. Cinque giorni prima era stato fucilato Pietro Koch. Giovanni Preziosi e la moglie si tolsero la vita, alla tedesca, buttandosi da una finestra. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, catturati da uomini della brigata Pasubio di Giuseppe Marozin detto «Vero», furono destinati alla morte per spicciativa sentenza del capo partigiano, e fucilati a Mi­ lano in corso Sempione. Valenti, drogato e declamatorio («era — ha scritto qualcuno - il tipo del baro da Costa Azzur­ ra, aveva un poco del manipolatore di turf, un poco del bar­ man di transatlantico, molto del gigolò parigino di classe»), recitò fino all'ultimo il suo copione. «La commedia è finita» disse. Ma la Ferida si ribellava, «non voglio morire, perché devo morire anch'io?». Fu giustiziato anche il cieco di guer­ ra Carlo Borsani. E impossibile seguire i molti altri destini, tragici e non, che l'ondata della liberazione travolse. Questo periodo ebbe l'ambizione d'essere rivoluzionario; ma della rivoluzione spartì solo in piccola parte i connotati nobili ed epici, l'ardo­ re del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro, e in larga parte i connotati deteriori: la ferocia e la vendetta. Luna e l'altra rispondevano ad altre ferocie e ad altre vendette. Ma chi se ne fece interprete, in entrambi i casi, era intercambiabile, salvo poche onorevoli eccezioni: v'è una professionalità dell'estremismo, e del san­ gue, che ha per costante l'ansia di uccidere, e per accessorio casuale l'ideologia cui applicarla. Quanti furono i giustiziati o gli assassinati? (Assassinati perché nel conto vanno messe anche vittime di vendette personali, cui fu sovrapposta una motivazione politica, e in-

239 nocenti indicati da delazioni ignobili, o scambiati per altre persone.) Il computo è reso difficile dal prolungarsi nel tempo di questi regolamenti di conti; basta pensare al cosid­ detto «triangolo della morte» in Emilia e alle «Volanti rosse» che vi imperversavano, o alla irruzione nelle carceri di Schio con lo sterminio dei detenuti politici che vi erano rin­ chiusi. Sceiba, come ministro dell'Interno, parlò di 1.732 uccisi o scomparsi dal 25 aprile al 5 maggio 1945. Cifra non convincente, perché calcolata burocraticamente, e ristretta a un periodo troppo breve, nel quale avvenne la maggior parte delle uccisioni ma non si ebbe la maggior parte degli accertamenti. Qualcuno ha buttato là il numero di 300 mila morti, «a fantastic exaggeration», come ha rilevato un docu­ mento dell'Amministrazione alleata in Italia. Si è parlato, in inchieste dovute a nostalgici, di 50-70 mila uccisi. Probabil­ mente troppi. Ma poi lo stesso Bocca, che fa giustizia di que­ sti bilanci a suo avviso inattendibili, e ingiuriosi per la Resi­ stenza, ammette che i «giustiziati» poterono essere «3.000 in Milano e 12.000-15.000 in tutta l'Italia del nord». Gli Allea­ ti, che ne stavano prendendo possesso, cercavano di far ca­ pire agli organismi resistenziali che il potere vero non era il loro, ma quello di chi aveva vinto la guerra: ma non si ado­ perarono molto - salvo i casi segnalati e di rilievo - per stroncare la caccia all'uomo. Spesso non sapevano, e anche quando sapevano forse ritennero, cinicamente, che conve­ nisse lasciar sfogare gli odi intestini, purché non disturbas­ sero troppo gli ultimi strascichi delle operazioni militari.

La guerra «calda» con la Germania era sostanzialmente fini­ ta, per gli anglo-americani, mentre venivano poste le pre­ messe della guerra «fredda» con l'Unione Sovietica. La mat­ tina del 29 aprile Hitler ricevette nel Bunker della Cancelle­ ria la notizia della fucilazione di Mussolini. La sera iniziò la stesura del suo testamento politico e del suo testamento per­ sonale. Il 30 aprile, mentre la bandiera con la falce e mar­ tello veniva issata sul Reichstag, si uccise insieme a Eva

240 Braun; Gòbbels, sua moglie e i loro sei figli ne seguirono l'esempio il giorno dopo, così come il generale Krebs e alcu­ ni capi militari e notabili del nazismo. Per altre quarantotto ore, e sembra impossibile, Berlino resistette. Si batterono i ragazzi armati di Panzerfaust, i sessantenni coi fucili della prima guerra mondiale, i soldati delle unità corazzate che, a mano a mano che esaurivano il carburante, interravano i loro carri per tramutarli in fortini. Non s'è mai saputo chi sia caduto per ultimo in quell'estremo massacro che in­ ghiottì, dall'una e dall'altra parte, mezzo milione di vite. Si sa invece che l'ultima croce di ferro fu concessa, curiosa­ mente, a un francese, il sottufficiale petainista Eugène Vau- lot, inquadrato in una divisione di SS. Nella notte tra IT e il 2 maggio il comandante della piazza di Berlino, generale Weidling, decise di ordinare la resa. Consegnatasi Berlino ai sovietici, sopravvisse a Flensburg sul Baltico il governo dell'ammiraglio Doenitz, che Hitler aveva nominato suo successore poche ore prima di togliersi la vita. In nome di Doenitz, Jodl e l'ammiraglio von Friede- burg firmarono il 7 maggio a Reims la capitolazione della Germania agli anglo-americani. Il giorno successivo a Berli­ no Keitel sottoscrisse la resa ai sovietici, che nel frattempo avevano dilagato. In Cecoslovacchia l'Armata Rossa ricevet­ te tra l'altro la resa di 150 mila russi anticomunisti dell'Ar­ mata formata dal generale transfuga Vlasov. Questi fu im­ piccato a Mosca, con altri ufficiali. Tra i suoi uomini si con­ tarono migliaia di suicidi, e anche migliaia di «eliminazio­ ni». Le truppe di prima linea sovietiche erano violente, pri­ mitive, in più di un caso feroci. Razziavano, stupravano, pic­ chiavano, uccidevano con facilità. Lo facevano nei territori del nemico, ma lo facevano imparzialmente nei territori de­ gli amici «liberati», fossero essi polacchi o cecoslovacchi. Sull'esempio dei protettori sovietici, anche i miliziani di Tito si affacciarono ai territori etnicamente «misti» della Ve­ nezia Giulia, e a quelli integralmente e indiscutibilmente ita­ liani, con il rancore di chi si rivale d'antichi torti - e torti ce

241 n'erano stati, sia da parte del fascismo, sia da parte delle truppe di occupazione - e con la tracotanza dei vincitori. Il loro cammino fu disseminato di foibe e d'infoibati: nelle foi­ be, cavità naturali della zona carsica, finirono molti ustascia e fascisti, ma anche molti italiani che rivendicavano sempli­ cemente il diritto di continuare ad esserlo, e borghesi invisi e sospetti in quanto tali, e infine le solite vittime di cupidigie e ritorsioni personali. Non vogliamo dare un elenco delle foibe, e dei macabri ritrovamenti che successivamente vi av­ vennero (si parla di quelle rimaste in territorio italiano). Ba­ sterà dire che dalla foiba di Basovizza gli anglo-americani estrassero tra il luglio e l'agosto del 1945 «450 metri cubi di resti umani» (il dato fu riportato da Diego de Castro nel suo Il problema di Trieste). Gli istriani e i triestini erano angosciati perché gli Alleati procedevano troppo lenti verso nord, an­ che se Alexander aveva dato l'incarico di lanciarsi sulla Ve­ nezia Giulia al neozelandese generale Freyberg, che era uo­ mo risoluto. Altrettanto risoluti, e mossi da bramosia milita­ re e ideologica, erano gli iugoslavi. Alcune migliaia di parti­ giani di Tito, «stanchi e male in arnese», appoggiati da cin­ que carri armati e da pochi reparti regolari, entrarono al­ l'alba del primo maggio a Trieste e per prima cosa disarma­ rono i partigiani e gli esponenti italiani del CLN. L'importan­ za che Tito attribuiva a Trieste è dimostrata dai tempi delle altre occupazioni: solo il 4 maggio Fiume e Pola, solo dopo il 7 maggio Lubiana e Zagabria. Quello stesso primo maggio i neozelandesi erano a Ron­ chi dei Legionari, e vi avevano stabilito un contatto con ele­ menti della IV armata iugoslava: dal comando di essa fu fat­ to sapere che la presenza degli Alleati a Trieste e a Gorizia era indesiderabile. Freyberg aveva ordini precisi, e lo disse, ottenendo di poter varcare l'Isonzo il giorno successivo e di insediarsi a Trieste, nel palazzo del Lloyd triestino in piazza dell'Unità. I 2.600 tedeschi della guarnigione avevano sag­ giamente deciso di aspettare Freyberg, per arrendersi, e lo fecero nelle sue mani. Ma i neozelandesi - e le truppe an-

242 glo-americane che li seguirono - accettarono una ben stra­ na situazione. Non ricevettero dal CLN i poteri - come era accaduto nelle altre città italiane - e si adattarono a rimane­ re dietro una linea di demarcazione che lasciava loro il por­ to e le vie di accesso al mare, abbandonando il resto - ossia tutto - agli iugoslavi. L'Italia intera ne fu costernata, e solo l'Unità, di tutta la stampa, esultò con un grande titolo, «Trie­ ste è libera». La vera Trieste era in lutto. Tito voleva la Ve­ nezia Giulia con Trieste e per averle s'era assicurato l'ap­ poggio dell'URSS. Non certo per caso il 12 aprile era stato annunciato al mondo un patto di alleanza venticinquennale tra l'Unione Sovietica e la Iugoslavia. Al giornale di Mosca Stella Rossa Tito si era affrettato a dichiarare che «il deside­ rio della popolazione dell'Istria e di Trieste di essere accolte nella nuova Iugoslavia sarà esaudito» e che «l'Italia ci dovrà delle riparazioni per i danni arrecati». Alle parole seguirono i fatti. Il generale Dusan Kveder fu nominato governatore di Trieste (e Franz Stoka commissa­ rio politico), il tricolore italiano fu ammainato dovunque, i conti in banca furono bloccati e 170 milioni in banconote custoditi nella sede della Banca d'Italia trasferiti in Iugosla­ via. Il 10 maggio l'esercito iugoslavo assunse il controllo di tutte le imprese e ordinò la requisizione dei beni dei crimi­ nali di guerra, il che diede luogo a spoliazioni e rapine. Fu­ rono fondati i sindacati unici, assoggettati i giornali, insom­ ma poste spicciativamente le premesse di un regime da re­ pubblica popolare. Per realizzarla si fece ampio ricorso al terrore. Fucilazioni con o senza processo sommario, arresti, rapimenti, minacce, campi di concentramento. Il 15 novem­ bre 1945 Parri, allora presidente del Consiglio, parlerà in una conferenza stampa di ottomila deportati. La posizione del governo di Roma era lineare. La Vene­ zia Giulia doveva essere affidata agli anglo-americani, così come era avvenuto per il resto del territorio italiano, essen­ done la sorte impregiudicata. Di essa, e di eventuali rettifi­ che di confine, si sarebbe discusso quando i due governi ita-

243 liano e iugoslavo «avranno l'autorità che può loro derivare dalla liberazione di tutto il territorio nazionale... e dalla vo­ lontà dei supremi organismi elettivi dei due paesi». Roma protestava, con la flebile voce che le era concessa, e intanto Tito spadroneggiava con internamenti, e requisizioni; il 12 maggio fu ordinata l'occupazione delle sedi della Banca d'I­ talia a Trieste e a Gorizia. La questione di Trieste metteva in imbarazzo i comunisti, e privava l'URSS - schierata senza in­ certezze con Tito - dei frutti propagandistici raccolti con il riconoscimento di Badoglio. Piuttosto goffamente, Togliatti aveva liquidato le foibe come «giustizie di italiani (antifasci­ sti) contro italiani (fascisti)». Gli appetiti iugoslavi per Trie­ ste - paralleli a quelli francesi sulla Valle d'Aosta, smentiti con una nota di Parigi che tuttavia accennava a modifiche del confine, e favoriti dalle mene dei soliti «irredentisti» più o meno prezzolati - posero subito sul terreno i nodi del trat­ tato di pace. Gli Alleati negoziarono con gli iugoslavi fino al 9 giugno per poter avere ciò che loro spettava, ossia il con­ trollo di Trieste, di Gorizia e delle comunicazioni per l'Au­ stria. L'accordo fu firmato a Belgrado, e stabilì che le truppe iugoslave - tranne un contingente simbolico - dovessero ri­ tirarsi al di là della linea Morgan, così chiamata dal nome del generale inglese preposto alla trattativa: era la linea che racchiudeva la cosiddetta Zona A del futuro Territorio libe­ ro, giuridicamente parificata alla Zona B lasciata in mani iu­ goslave. Si trattò di una linea che sacrificava Capodistria, per non parlare dell'Istria e di Fiume, anche se in quel pro­ tocollo si precisava che i suoi termini rispondevano a esi­ genze militari, e non volevano anticipare la conclusione del trattato di pace: e che, per quanto riguardava le zone A e B, divenne sostanzialmente definitiva. Dopo 40 giorni, per i triestini finì un incubo e cominciò una lunga attesa. Trieste era e restò per anni la «questione nazionale». La formazione di un nuovo governo che fosse insieme il pro­ dotto e l'interprete del «vento del nord» era invece la «que-

244 stione politica» del momento, ed ebbe nelle preoccupazioni romane e milanesi la prevalenza, come attestano i vari diari e ricordi. Non si trattava soltanto di un braccio di ferro tra Bonomi e il CLNAI: si trattava, secondo molti, di una svolta che avrebbe determinato il futuro dell'Italia. CAPITOLO DODICESIMO

UN GALANTUOMO SMARRITO

A Liberazione avvenuta, gli Alleati mantennero in vita per qualche tempo la linea gotica come «cordone sanitario» ed elemento di distinzione tra le due Italie: ossia tra due so­ cietà, due economie, e due ambienti politici che avevano vis­ suto per molti mesi, esperienze diverse, in qualche modo opposte. Anche al sud v'era stata una fioritura resistenziale, tanto rigogliosa quanto artificiale e per più d'un aspetto co­ mica. Essa non fu attestata soltanto dalle richieste a valanga di brevetti e certificati di benemerenza partigiana. A Caulo- nia, un grosso centro della Calabria - l'intera regione pullu­ lava di bande, s'erano avuti scontri sanguinosi tra carabinie­ ri e ribelli più o meno politicizzati - fu proclamata alla fine di febbraio 1945 una sorta di repubblica popolare, capeg­ giata da un boss comunista di cui era stato arrestato il figlio. Per ottenerne la liberazione il padre, certo Cavallero, aveva occupato la città, sequestrato i carabinieri di servizio e la fa­ miglia del pretore, instaurato un Tribunale del popolo che, ha scritto Giovanni Artieri, «condanna alcuni degli ostaggi alla fustigazione, altri a trasportare pesanti pietre». Poi la ri­ volta sbollì: era stata, se non favorita, consentita dalla pre­ senza a Reggio Calabria di un prefetto politico, Antonio Priolo, che venne rimosso ma rifiutò di andarsene, definen­ do anzi «fascisti» Bonomi e De Gasperi. Per indurlo a slog­ giare lo si dovette nominare sottosegretario ai Trasporti: un caso, il suo, che anticipò l'altro più clamoroso del prefetto Troilo a Milano. Ma queste jacqueries meridionali, cui non mancavano connotati di delinquenza organizzata tipo 'ndrangheta o

247 mafia o camorra, non alteravano il quadro nel complesso moderato e restauratore del Sud, in contrapposizione a quello rivoluzionario del Nord. La miscela delle due realtà rischiava di essere esplosiva. Proprio per graduarla, gli an­ glo-americani stabilirono che i politici romani non potesse­ ro recarsi subito in missione nell'Italia appena liberata, su­ scitando con ciò ire e lamenti soprattutto nella sinistra, i cui esponenti avevano una gran voglia di scambiarsi opinioni e di contare le loro forze, per arrivare al nuovo corso. Esso doveva poggiare su tre pilastri: la riconferma dei poteri, e della legittimità democratica, del CLN centrale e del CLNAI, che si consideravano veri e unici depositari del potere po­ polare; la formazione di un governo nel quale i vari mini­ steri, e in particolare quello dell'Interno, fossero affidati a uomini che avessero sempre combattuto il fascismo e che dessero prova «di saper degnamente esprimere i bisogni di vita e di giustizia sociale e le profonde aspirazioni democra­ tiche delle masse lavoratrici e partigiane che sono state all'a­ vanguardia della nostra lotta di Liberazione»; la prefigura­ zione, in maniera irreversibile, di uno Stato repubblicano, e perciò l'emarginazione del Luogotenente. Umberto di Savoia, che era nell'ingrata situazione di sta­ re teoricamente al di sopra delle parti, ma di dover anche combattere una battaglia disperata a difesa della monarchia, sapeva che il CLNAI non lo voleva né a Milano né altrove, al di sopra della linea gotica: ma sapeva egualmente che una sua inerzia in quei giorni sarebbe equivalsa alla rinuncia a far valere la sua presenza e la sua autorità di Capo dello Sta­ to nei feudi della Resistenza. Ai primi di maggio, con il be­ neplacito alleato, era perciò a Milano. L'indomani, avutane licenza dai «padroni» anglo-americani, una delegazione po­ litica del Nord sarebbe andata a Roma, per portarvi un sof­ fio vigoroso del suo vento. Alla vigilia della partenza Pertini, che della delegazione faceva parte, volle dare, alla sua ma­ niera impulsiva e guerrigliera, un avvertimento al Luogote­ nente. Ha scritto Nenni nel suo diario, rievocando l'arrivo

248 dei «milanesi» a Ciampino: «Sandro racconta l'ultima sua prodezza. Ieri sera ha preso una squadra Matteotti, si è re­ cato alla villa che ospita il Principe di Piemonte in visita a Milano: ha fatto scaricare i mitra contro le finestre illumina­ te, "a titolo dimostrativo", dice ridendo». Dell'impresa Per­ tini parlò poi, vantandosene, in un comizio, a Roma, e An- dreotti, cronista in attesa di più importanti incarichi, an­ notò: «Pertini fa un discorso incendiario contro il Luogote­ nente rivendicando a sé il merito di aver fatto mitragliare la villa dove il Principe era sceso a Milano, e ammonendo che si guardi bene dal tornare a Milano, altrimenti finirà in piazzale Loreto». Il 5 maggio, dunque, Nord e Sud s'incontrarono attorno a un tavolo del Viminale, dov'era la presidenza del Consi­ glio. La riunione risultò, come altre che seguirono, interlo­ cutoria. Fu presto evidente che i liberali con risolutezza, i democristiani con il loro stile alla gommapiuma, mettevano freni alla corsa populista delle sinistre. La «sfinge De Gaspe- ri», come lo definiva Nenni, preferì dapprima tenersi in di­ sparte, e delegare il compito a Sceiba. Sceiba, diversamente dal suo maestro, sapeva essere bru­ tale. Una volta non esitò a rinfacciare a Togliatti gli eccessi e i tumulti delle «masse» comuniste, e «l'illegalismo partigia­ no al nord dove ci sarebbero ottocento fucilati solo a Reggio Emilia e più morti che in tutta la rivoluzione francese». Con fredda rabbia Togliatti (attingiamo queste citazioni dai diari di Nenni) ribatté che «se i democristiani non credono alla democrazia dei comunisti, egli non crede alla loro». Cattani per i liberali fu fermissimo nel precisare che il tentativo di diffondere il CLN in tutta la struttura della società (si parlava di CLN rionali, aziendali, etc.) avrebbe posto le basi di un se­ condo Stato accanto allo Stato democratico introducendo «un autoritarismo collettivo, una forma nuova di totalitari­ smo a sei». O, si sarebbe detto più tardi, di lottizzazione. Fu, quello romano, un round d'assaggio, dal quale risultò con chiarezza che Bonomi non aveva molte probabilità di

249 varare un suo terzo ministero: ma il nome del successore non era ancora affiorato. Più di ogni altro ricorreva quello di Nenni. De Gasperi obbiettava tuttavia che il patto d'azio­ ne con i comunisti - e in prospettiva, si temeva, la formazio­ ne di un partito unico - sconsigliavano una presidenza so­ cialista. I «romani» restituirono la visita nella seconda metà di maggio, e i negoziati ripresero a Milano. Togliatti e Nenni, in pellegrinaggio alle loro roccheforti elettorali e ai grandi centri operai, avevano una gran voglia di tener discorsi, ma gli Alleati imponevano restrizioni varianti da luogo a luogo, qualche volta severe. Al leader comunista erano state prepa­ rate accoglienze trionfali, alle porte di Novara il capo parti­ giano Moscatelli gli fece passare in rivista due «brigate» in perfetto assetto di guerra (questo mentre venivano emanate «gride» che imponevano la consegna delle armi e che i mili­ tanti del PCI non presero in considerazione). Ma Togliatti fu, per quel che lo riguardava, scrupolosissimo nell'attener- si alle disposizioni. Non così Nenni, arrestato a Vercelli dal­ la polizia militare inglese per aver tenuto un comizio non autorizzato. Fu posto in libertà dopo che ebbe scritto una lettera in cui riconosceva il suo errore. Tramontata la candidatura di Nenni (che proprio in quei giorni aveva saputo della morte della figlia Vittoria, in un lager nazista), tramontata anche una candidatura di De Ga­ speri, i sei partiti si accordarono sul nome di Ferruccio Par- ri. Il 17 giugno il primo governo italiano post-liberazione era fatto, con «Maurizio» alla presidenza e agli Interni, Nen­ ni e Brosio alle due vicepresidenze, De Gasperi agli Esteri, Togliatti alla Giustizia, Marcello Soleri (un economista libe­ rale di notevole valore) al Tesoro, Scoccimarro alle Finanze. Degli altri mette conto di citare Gronchi che ebbe il Lavoro e la Previdenza sociale, La Malfa (Trasporti), Lussu (Ripresa postbellica), Gullo (Istruzione pubblica). Così Parri fu visto e giudicato da Nenni alla prima presa di contatto tra i ministri: «Manca a Parri ogni eloquenza: si

250 esprime con difficoltà. Ha meno comunicativa di Bonomi. Ha qualificato straordinaria la sua avventura di borghese qualsiasi designato dal caso a una funzione politica. Si è de­ finito il partigiano qualunque, al di sopra di ogni partito». Se mai un presidente del Consiglio italiano meritò la qualifica di galantuomo, questi fu Parri. Era timido nella vi­ ta quotidiana, sapeva essere intrepido nei frangenti perico­ losi. Aveva sofferto il carcere e il confino. Alla Edison, dove gli avevano dato un posto, era stato tenuto in un'ombra pro­ tettrice negli anni del Mussolini trionfante, e aveva svolto studi «sui diversi tipi di contatori a gas in uso nel mondo». Vice-comandante del Corpo Volontari della Libertà, arre­ stato dai tedeschi e poi liberato, come s'è visto, in pegno di buona volontà verso gli anglo-americani, era assente quan­ do fu decisa l'esecuzione di Mussolini, e in altri casi si distin­ se per interventi moderatori. «Triste, modesto, onesto, per­ sonalmente mite, cortesissimo, alieno da violenza, molto miope, paziente» - così lo ha descritto assai bene Artieri - avrebbe certamente voluto essere un Capo del governo sag­ gio ed equilibrato. Purtroppo rappresentava un partito, quello d'azione, che nell'antifascismo portava un rovello e un accanimento intellettuale ed elitario contro i quali milioni di italiani si ri­ bellarono presto (cosa fu l'Uomo Qualunque di Giannini se non una reazione a questo robespierrismo da salotto?); rap­ presentava inoltre un movimento, la Resistenza, che era sta­ to intessuto anche di fatti memorabili, ma che ora, usucapi­ to dai partiti di sinistra e rivendicato da un esercito di mili­ tanti dei quali non s'era vista traccia nella lotta vera, stava diventando la solita oceanica sceneggiata italiana: in defini­ tiva era il simbolo del vento del nord visto come premessa della bufera rivoluzionaria. Il suo nome, è stato osservato, veniva associato ingiustamente a piazzale Loreto e ai Tribu­ nali del Popolo. Non v'era uomo più lontano, per indole e stile, dagli eccessi. Era, semmai, rancoroso, un cattivo per­ dente. Un vero politico, al posto di Parri, avrebbe saputo

251 rettificare la sua immagine, scrollarsi di dosso i condiziona­ menti indebiti, imporre la sua autonomia. Parri, che era for­ te nel subire la persecuzione e debole nell'azione politica, fu travolto. Ora che quel galantuomo è morto, possiamo scri­ vere una cosa che abbiamo sempre pensato. Quando i tede­ schi portarono Parri in Svizzera per dimostrare che tratta­ vano in buona fede, resero un buon servizio a se stessi, e uno pessimo a lui. Fosse finito allora, il candido, umile e fie­ ro Maurizio, ne conserveremmo un ricordo tutto in positi­ vo, fulgido e commovente, senza le molte ombre che, una volta frammischiato alla vita politica e strumentalizzato, sul­ la sua biografia si addensarono successivamente. Delusioni, frustrazioni e rancori gli fecero commettere sbagli che fini­ rono per appannare una figura morale altrimenti tra le più alte di cui l'Italia avrebbe potuto vantarsi. I problemi che Parri fronteggiava erano tali da impres­ sionare, se non scoraggiare, anche uno statista di grande le­ vatura. Sarebbero bastati i due dell'economia e dei confini, da difendere contro i convergenti appetiti iugoslavi, france­ si, greci, perfino austriaci per richiedere tutto l'impegno di un Capo di governo. Ma Parri scelse la via peggiore. Anzi­ ché concentrare la sua attenzione sull'essenziale e scartare il resto, volle saper tutto e vedere tutto. Era sommerso dal mare delle pratiche che spontaneamente approdavano sul suo tavolo o che egli stesso richiamava dai più disparati uffi­ ci e ministeri, per orientarsi. Non si muoveva dall'ufficio, mangiava pane e salame a colazione, lavorava strenuamen­ te per capire sempre più, e finiva per capire sempre meno. Poteva contare su due ministri di prim'ordine, Soleri per l'economia - ma morì dopo poche settimane e fu una perdi­ ta grave - e De Gasperi per la politica estera, ma erano pro­ prio, soprattutto il primo, i ministri che si opponevano agli indirizzi massimalisti perseguiti dall'ala ciellenistica del mi­ nistero. V'era, in economia, un problema immediato di ricostru­ zione e un problema mediato di riforme. L'Italia - evacuato

252 dai tedeschi il settentrione senza che gli fossero state arreca­ te distruzioni ingenti - era ancora valida, per potenziale produttivo, ma priva di scorte, povera di rifornimenti, falci­ diata nei mezzi di comunicazione. Il tessuto industriale - ci riferiamo a una analisi di Franco Catalano - non era stato fortemente depauperato. Tutto sommato l'industria era a tre quarti della sua capacità ottimale, ma i mezzi di traspor­ to ferroviari erano a un sesto, gli autocarri a meno della metà, la flotta mercantile a un decimo, e gli approvvigiona­ menti di carbone per il trimestre giugno-luglio-agosto del 1945 venivano valutati a un decimo del fabbisogno. Analo­ ghe carenze si avevano in altri rifornimenti di materie pri­ me, alimentari e non (lo zucchero e la carne rispettivamente al 10 e al 25 per cento dell'anteguerra). V'era anche, è ov­ vio, un problema di occupazione: non solo perché le indu­ strie, costrette a funzionare al minimo, non davano lavoro a sufficienza, ma anche perché vi erano stati immessi molti giovani sottratti ai rastrellamenti tedeschi che, lasciate le campagne, ora rifiutavano di tornare alla terra. Le cifre del bilancio - grazie alla decisione anglo-americana di rifonde­ re all'Italia, in dollari, le spese per le truppe di occupazione, e grazie alla oculata politica seguita dal ministro delle Fi­ nanze di Salò Pellegrini Giampietro - non erano catastrofi­ che: 350 miliardi di circolante, 1.000 di debito pubblico, 150 di deficit previsto. Dopo il disastro della guerra perduta si poteva temere peggio. I liberali, con Einaudi, e i democri­ stiani vedevano la via del risanamento in una «normalità» che non suscitasse allarmi. Le sinistre chiesero invece a gran voce, senza ottenerlo, il cambio della moneta; la sola misu­ ra, dicevano, che avrebbe potuto smascherare profitti e ar­ ricchimenti illeciti, e colpire chi se n'era giovato. Ancora og­ gi la polemica su ciò che avrebbe potuto essere e non fu si trascina, nelle rievocazioni degli storici e degli economisti. E impossibile dire cosa sarebbe avvenuto se la tesi di sinistra fosse prevalsa. E invece possibile dire, con certezza, che la li­ nea Soleri, poi proseguita da Corbino, portò l'Italia, pur

253 con un carico di ingiustizie sociali e magari di abusi, a una ricostruzione che lasciò stupitoli mondo, e al «miracolo eco­ nomico». Quando, nelle decisioni economiche, cominciaro­ no a imporsi - con la nazionalizzazione della energia elettri­ ca e successivamente con una serie di altre misure - le forze che nel 1945 erano state, sulla questione del cambio della moneta, sconfitte, l'Italia si avviò verso un veloce declino e deterioramento della sua economia e della sua moneta. Come troppe volte era loro accaduto in passato, le sini­ stre italiane - soprattutto le sinistre non comuniste, intem­ peranti e incoerenti - enunciavano una serie di obbiettivi ri­ voluzionari senza realizzarne uno solo, ma provocando e in­ timidendo tutte le forze che ad essi potevano opporsi. Pro­ positi da comitato di salute pubblica, annunci di consigli di gestione che avrebbero privato d'ogni potere la proprietà delle industrie si intrecciavano a misure economiche sostan­ zialmente ortodosse. Gli Alleati vigilavano su ciò che stava accadendo; e vigilavano con tanto maggiore rigore quanto più erano stati scottati dalla guerra civile greca del dicem­ bre precedente, allorché i partigiani comunisti avevano in­ gaggiato combattimenti aspri non solo contro i rivali mo­ narchici, ma anche contro le truppe inglesi che, partiti i te­ deschi, sbarcavano al Pireo. Nenni, Pertini e anche Valiani avevano l'ossessione della Repubblica, la volevano a ogni co­ sto, e per averla chiedevano che fosse eletta al più presto la Costituente. A questa battaglia subordinarono tutto il resto. Così ottennero la repubblica ma consentirono a De Gasperi di preparare il 18 aprile 1948. Umberto di Savoia ha detto e ripetuto al suo biografo Artieri che avrebbe voluto, se fosse rimasto Re, un governo socialista. Forse, nel giuoco di equi­ libri e contrappesi psicologici dell'elettorato, questo sarebbe stato possibile, con la garanzia monarchica. Quando essa fu eliminata, l'Italia moderata si affidò con slancio alla Demo­ crazia cristiana considerandola l'unica garanzia superstite contro il pericolo comunista. Nell'attesa della Costituente, il governo Parri varò un'as-

254 semblea senza poteri deliberanti, la Consulta, di 448 mem­ bri scelti - secondo criteri rappresentativi stabiliti dall'alto - nelle forze politiche e nelle organizzazioni di categoria. Nel­ le sue 40 sedute - la prima il 25 settembre 1945 - la Consul­ ta, presieduta da Carlo Sforza, diede sfogo ad altri tenori parlamentari dell'Italia prefascista, gli Orlando, i Nitti, i Bo­ nomi, e ai nuovi leaders. Vi ebbero un posto di rilievo partiti dei quali le elezioni dimostrarono presto l'inconsistenza: il Partito d'azione e la Democrazia del Lavoro, eserciti fatti so­ lo di generali, come aveva subito rilevato Guglielmo Gianni­ ni. Si dibatté se la Consulta dovesse votare, e quale valore avesse il suo voto. Ma fu un organismo dalla vita breve, inu­ tile e innocua. Strano a dirsi, con il governo Parri l'Italia si ritrovò in guerra: una guerra che l'interessava assai poco, contro il Giappone. La richiesta dell'intervento italiano - che era scontato rimanesse platonico - era venuta dal Dipartimento di stato americano: il quale s'era affrettato ad aggiungere che non ci sarebbero stati forniti, per affrontare il nuovo ne­ mico, né mezzi di trasporto né altro (ma vi furono dei gio­ vani che chiesero d'arruolarsi per combattere in Estremo Oriente). Quando De Gasperi pose la questione sul tappeto, il 3 luglio, Nenni fu contrario così come Togliatti: Parri in­ vece favorevole, Lussu anche. Il 14 luglio la fievole sfida d'un paese, il cui governo aveva effettiva giurisdizione su 36 province soltanto, fu lanciata al remoto agonizzante Giap­ pone: mancava un mese giusto alla resa di Tokio, dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Ma questo, pur essendo oggetto di accanita discussione, a Roma, nel Consiglio dei ministri, era poco più che folklo­ re sul piano internazionale. Altre erano le questioni vitali, sia per quanto riguardava l'ordinamento mondiale, sia per quanto riguardava l'Italia in particolare. Nei due mesi dal 25 aprile al 25 giugno (del '45, s'intende) la Conferenza di San Francisco fissò i criteri in base ai quali avrebbe funzio­ nato l'Organizzazione delle Nazioni Unite. I rappresentanti

255 di una cinquantina di Stati misero a punto - o piuttosto si fecero dettare dai «grandi» - i meccanismi di quell'ONU che ha eguagliato e forse superato, per inefficienza e verbosità, la non rimpianta Società delle Nazioni. Da San Francisco l'Italia, che sperava d'essere invitata, rimase esclusa nono­ stante le proteste di Parri a Roma e, in America, di don Sturzo, il quale opportunamente parlò di «diritto del più forte». Diritto che fu sancito nel regolamento del Consiglio di Sicurezza, dove i cinque membri permanenti - Stati Uni­ ti, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina - si assicuravano il privilegio del veto, ossia la possibilità di bloccare ogni riso­ luzione che li infastidisse. Con ciò I'ONU nasceva condiziona­ ta e handicappata. Quanto poco valessero, nella pratica, le ostentate buone intenzioni di rimettere i problemi internazionali a un orga­ nismo collettivo, lo si vide presto a Potsdam, dove Truman, Stalin e Churchill rifinirono e consolidarono l'assetto del mondo che era stato delineato a Yalta. Si trattava di mettere in cantiere i trattati di pace, il che comportava lo sciogli­ mento di alcuni nodi. Due in particolare: quello tedesco-po­ lacco (ossia la scelta tra la frontiera della Neisse orientale, voluta da Churchill, e quella della Neisse occidentale, volu­ ta da Stalin); e quello giuliano, con la sorte dell'Istria e di Trieste. In vista di questa trattativa, Stalin aveva accondisceso a che alcuni dei maggiori esponenti del governo polacco in esilio a Londra tornassero in Polonia, assumendovi cariche pubbliche. Il capo degli esuli, Mikolaiczyk, era stato nomi­ nato vice-primo ministro. Il gesto distensivo, e per dirlo con un linguaggio venuto poi di moda, pluralistico, voleva solo buttar fumo negli occhi. Churchill non si lasciò troppo in­ gannare. Ma Potsdam consacrava, con evidenza maggiore di Yalta, il bipolarismo mondiale: v'erano due sfere di in­ fluenza da spartire tra i veri vincitori, Stati Uniti e URSS. La Gran Bretagna aveva prestigio, ma non forza: e si trovò an­ che con meno prestigio dopo che, il 26 luglio, i laburisti eb-

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bero vinto le elezioni inglesi (la conferenza dovette essere sospesa per consentire a Clement Attlee di sostituire Chur­ chill). Il vecchio Winnie era un mastino con il quale Stalin doveva fare i conti (la durezza di Churchill fu sperimentata, proprio a Potsdam, anche dall'Italia: egli si oppose alla pro­ posta di Truman per l'ammissione nelle Nazioni Unite «di un paese che aveva inferno il colpo di pugnale alla Francia e dichiarato guerra alla Gran Bretagna nell'ora del massimo pericolo»). Attlee era mediocre, sensato, tenace, ma fu cata­ pultato tra gli altri due grandi all'improvviso, insperata­ mente, senza avere le necessarie informazioni e la necessa­ ria preparazione e senza poter contare, come Truman, l'al­ tro neofita, sul peso di una immensa potenza industriale e militare. Per di più i laburisti avevano impostato la campa­ gna elettorale, in politica estera, sulla stretta collaborazione con l'Unione Sovietica e, in generale, con i movimenti di si­ nistra nel mondo. Furono costretti a essere più acquiescenti verso Stalin sul tema delle frontiere tedesche, e bloccarono l'ammissione della Spagna franchista, per peccati di lesa de­ mocrazia, in quelle Nazioni Unite dove orgogliosamente se­ deva tra i membri permanenti, in nome della democrazia, la Russia di Stalin. Potsdam delegò a un consiglio dei ministri degli esteri dei «cinque» (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina) l'ela­ borazione dei trattati di pace, e indicò i criteri direttivi di quello tedesco, che sarebbe stato durissimo, con il totale smantellamento delle industrie belliche, la sottoposizione del paese a tempo indeterminato a un regime di occupazio­ ne che impedisse l'istituzione d'un governo centrale, le li­ bertà democratiche concesse solo a patto che non intralcias­ sero le esigenze dei vincitori. Nelle intenzioni non il nazi­ smo ma la Germania doveva essere fiaccata, e per sempre. Quanto all'Italia, si riconosceva che prima tra le potenze al­ leate della Germania aveva rotto i rapporti con essa, che aveva dato un contributo alla sua sconfìtta, che si era unita agli Alleati con la dichiarazione di guerra al Giappone e che

258 «sta facendo buoni progressi sulla via della restaurazione di un governo e di istituzioni democratiche». Il comunicato non scese al concreto per quanto riguardava i confini, affi­ dandone lo studio appunto ai ministri degli Esteri. Pot­ sdam, insomma, confermò la divisione del mondo e la deca­ denza dell'Europa. L'Italia, con la tragedia dei suoi confini, era presa «tra due macine di mulino», come ebbe più tardi occasione di osservare De Gasperi. La rivalità tra anglo-americani e so­ vietici la preservava da amputazioni analoghe a quelle che avrebbe subito la Germania, ma impediva che fossero accet­ tati, per fissare la linea divisoria con la Iugoslavia, criteri ge­ nuinamente etnici. Tito poteva contare sul possesso di mas­ sima parte del territorio contestato, e questo garantiva a lui e a Stalin una favorevole base di trattativa. La linea Morgan frutto di decisioni militari e soltanto militari, consegnava agli iugoslavi città e popolazioni indiscutibilmente italiane. Roma sarebbe stata ben lieta, ora, di accettare quella linea Wilson che a Versailles aveva suscitato nel T 9 le ire lagrimo- se di Vittorio Emanuele Orlando. Ma era chiaro che stavol­ ta ci sarebbero stati chiesti ben più gravi sacrifici. Per Trieste era univoco il punto di vista sovietico-iugosla- vo: tutto alla Iugoslavia fin quasi a Udine. Tra gli occidenta­ li si delineavano invece differenze, e se il segretario di Stato americano Byrnes era disposto a darci sulla costa istriana Dignano e Pola, inglesi e francesi escludevano Pola (date per perse, ovviamente, Fiume e Zara). L'intera questione fu affrontata dai cinque ministri degli Esteri dei «grandi» nella conferenza di Londra, dal 10 settembre al 2 ottobre (1945): e lo scontro tra i due blocchi - non si capiva bene cosa stesse a farci il cinese - assunse nuova evidenza. La assunse, anzi­ tutto, perché l'URSS avrebbe voluto che si parlasse, oltre che dell'Italia, anche degli Stati ex nemici, Ungheria, Bulgaria, Romania, che appartenevano alla sua sfera d'influenza. Ma gli occidentali rifiutarono. La premessa ai trattati di pace, obbiettarono, era la conversione dei vinti alla democrazia, e

259 di democrazia in quei paesi non c'era traccia. Le mosse di Molotov, anche sorprendenti, si susseguivano; a un certo punto egli rivendicò all'Unione Sovietica il Dodecanneso - che sembrava pacifico finisse alla Grecia - e la Libia. E co­ sì entrava nel giuoco anche la sorte delle colonie italiane (per il resto delle frontiere v'era da fare i conti con l'incapo­ nirsi di De Gaulle, militare e pressato dai militari, ad avere Briga e Tenda, e l'irredentismo altoatesino). Il dramma dei giuliani suscitava in Italia una ondata emotiva potente, e trovava concordi nella difesa dell'italia­ nità di quelle genti tutti i partiti ad eccezione del comunista. Togliatti aveva esortato i triestini, quand'erano sotto il tallo­ ne iugoslavo, a «non essere vittime di elementi provocatori interessati a seminare discordia tra il popolo italiano e la Iu­ goslavia democratica» (sottile la distinzione: da una parte uno Stato democratico, dall'altra «il popolo italiano» senza qualificazioni, e comunque senza alcuna patente di demo­ crazia allo Stato in cui viveva). Ora insisteva che erano in corso «campagne menzognere e di odio» contro un «regime di democrazia avanzata». (Si noti che nel Congresso comu­ nista del gennaio '46 la delegazione giuliana, guidata da Marino Solieri, fu per l'annessione di Trieste alla Iugosla­ via.) Anche le mire sovietiche sulla Libia parevano a Togliat­ ti legittime perché, in opposizione alle «scemenze imperiali» del fascismo «noi consideriamo che... quanto maggiore sarà il numero degli Stati interessati al regolamento di questa questione, tanto maggiori saranno per noi le garanzie di in­ dipendenza». Arenata, la conferenza della Lancaster House sollecitò suggerimenti, per guadagnar tempo, dalle più va­ rie parti. Esposero il loro parere sui confini italiani rappre­ sentanti dell'Australia, del Canada, della Nuova Zelanda, della Polonia, della Russia Bianca, dell'Ucraina. Si ebbe almeno la decenza di interpellare, tra i tanti, an­ che i diretti interessati, Iugoslavia e Italia. De Gasperi ar­ rivò a Londra per dire ai delegati delle maggiori potenze quali fossero le angosce e le speranze del suo paese e del

260 suo governo. Di quel viaggio ufficiale, e del trattamento subito dal ministro degli Esteri italiano, sono rimaste aspre testimonianze. Gli si volle far intendere, nel momento stes­ so in cui scendeva da un apparecchio militare nell'aeropor­ to di Finchley, che non era un ospite di riguardo. Dovette mettersi in coda, e subì le domande di prammatica. Gli fu domandato quanto tempo volesse rimanere in Inghilterra. «Il meno possibile» rispose asciutto. Gli ricordarono inoltre che non poteva ambire, in territorio britannico, a un im­ piego remunerato. Maria Romana De Gasperi ha scritto che il padre era arrivato a Londra indossando un cappotto nuovo «che lo risparmiò dalle brume londinesi ma non dal­ la fredda accoglienza che gli era stata riserbata alla Lanca- ster House dove non gli mancarono né amarezze né umi­ liazioni». Poiché lo iugoslavo Kardelj, che doveva preceder­ lo, era indisposto, fece anticamera per un pomeriggio e per la mattina seguente. I cinque ministri gli concessero poi, per colloqui bilaterali, un quarto d'ora ciascuno del loro tempo prezioso. L'ex-nemico restava tale, e non glielo na­ scosero. De Gasperi si espresse con dignità, serio e sobrio. Una fi­ gura d'italiano atipico. Fu ascoltato, il 18 settembre: e riferì poi al Consiglio dei ministri. Ecco il riassunto che Nenni fe­ ce della sua relazione: «Il ministro degli Esteri è stato am­ messo a dire le nostre ragioni, o a esporre le nostre tesi, a una sola seduta, durante la quale ha parlato meno di mezz'ora per indicare con quale spirito la nuova Italia de­ mocratica affronta il giudizio dei cinque: cosciente delle re­ sponsabilità del vecchio regime fascista, desiderosa di ripa­ rare nella misura del possibile i torti da questo fatti... Solo in brevi colloqui personali coi vari ministri degli Esteri, De Gasperi ha potuto accennare ai problemi concreti. Egli tor­ na moderatamente ottimista e convinto che niente d'irrepa­ rabile è stato deciso. Sta però di fatto che la Venezia Giulia andrà in massima parte agli iugoslavi». I ministri decisero, alla Lancaster House, di non decidere, e delegarono ai loro

261 «sostituti» l'approfondimento dei temi su cui s'erano scon­ trati. Se ne sarebbe ridiscusso dopo qualche mese. Sulla questione giuliana, Ferruccio Parri era stato total­ mente solidale con il suo ministro degli Esteri, ed aveva di­ feso le posizioni italiane: in questo differenziandosi netta­ mente dai comunisti. Ma il primo governo del dopo-Libera- zione era egualmente dilaniato dalle polemiche, e la perso­ na del suo presidente ogni giorno più contestata. Il diffuso malumore dei moderati fu tradotto in vera e propria offen­ siva politica dai liberali che rimproveravano a Parri le sue ripetute professioni di fede repubblicana - il che rompeva la tregua istituzionale cui i partiti si erano impegnati - e a Nenni, Alto commissario per l'epurazione, talune faziosità. In realtà i liberali erano impensieriti dalla concorrenza e dal successo dell'Uomo Qualunque, e volevano recuperare, come si suol dire, a destra. Nenni era a sua volta vessato da una acrimoniosa campagna che riesumava i suoi trascorsi come fondatore del fascio di Bologna: si chiedeva addirittu­ ra la sua incriminazione per «atti rilevanti» in favore del fa­ scismo. L'accusa era abbastanza futile, ma lasciava il segno. «Per difendermi - osservava Nenni - dovrei dire che quel tale fascio di Bologna rispose a una esigenza imposta dalla demagogia neutralista. Ma ciò suonerebbe critica alla politi­ ca socialista d'allora.» I liberali lamentarono, in una lettera del 17 novembre agli altri partiti della coalizione, «la frattura tra il paese così detto legale e il paese così detto reale»: ed era, il loro, un appunto sacrosanto. Lo stesso Croce si fece autorevole in­ terprete del malcontento moderato. Ma la tesi che egli sotto sotto propugnava - il ritorno ai nomi dell'Italia prefascista, Bonomi, De Nicola, Nitti, Orlando - non era più attuale. Era anche la tesi di parecchi monarchici, allarmati dal cla­ more delle sinistre per la Costituente, e dalla presenza di un repubblicano di ferro come Parri a Capo del governo nell'imminenza della prova elettorale. Se la questione istitu­ zionale fosse stata decisa dalla futura Costituente, la monar-

262 chia non avrebbe avuto scampo. Tra i partiti dell'esarchia, solo il liberale era in larga prevalenza monarchico. Dall'al­ tra parte della barricata si ponevano compatti i socialisti, i comunisti e gli azionisti. Prevalentemente repubblicana, tra gli iscritti non tra gli elettori, la Democrazia cristiana (un sondaggio aveva accertato, appunto tra i militanti, il sessan­ ta per cento per la repubblica, il 17 per cento per la monar­ chia, il resto incerto o agnostico). Ondeggianti anche i de­ molaburisti, ma non contavano. Infatti le prime elezioni amministrative stabilirono una concreta e attendibile gerar­ chia dei partiti, spazzando via azionisti e demolaburisti, dando ai democristiani poco meno del 35 per cento dei voti (e il 42 per cento alle sinistre). Fu confermato che da una assemblea politica e partitica la Corona sarebbe stata boccia­ ta di sicuro. Lasciava qualche maggiore possibilità alla mo­ narchia la formula che, a lungo dibattuta, fu infine appro­ vata, e che portò alle elezioni del 2 giugno '46: elezioni con il sistema proporzionale per la Costituente, che avrebbe ela­ borato la Costituzione; abbinato a esse un referendum che ponesse ai cittadini il dilemma «monarchia o repubblica?». Ma per arrivare a questo - abbiamo infatti anticipato al­ cuni avvenimenti - era opportuno rimpiazzare Parri con un «arbitro» meno parziale: e, lo si è accennato, i liberali pensa­ vano a qualcuno tra i revenants disponibili nell'archivio poli­ tico italiano. Il 22 novembre i ministri liberali annunciaro­ no le loro dimissioni, il 24 Parri diede le sue. Lo fece male, con un gesto stizzoso, convocando il governo nella Sala Ros­ sa del Viminale, presenti giornalisti e operatori fotografici e cinematografici. Parri spiegò d'essere vittima d'una azione proditoria (pronunciò anche le parole «colpo di Stato»). Un «discorso violento», secondo la definizione di Nenni, «ma detto così male, e così male raffazzonato che l'effetto è stato scarso. Peccato che egli (Parri, N.d.A.) manchi di qualità po­ litiche e di comunicativa umana. E veramente una ghiac­ ciaia». Il succo delle dichiarazioni di Parri fu questo: avreb­ be presentato le dimissioni al CLN e non al Luogotenente.

263 Aveva fatto i conti senza De Gasperi che gli rispose bene - come sapeva nelle repliche, non nelle lunghe esposizioni - per ribadire che non v'era stato alcun colpo di Stato, e che il governo cadeva in quanto gli mancava la fiducia di una del­ le sue componenti. De Gasperi «parlava agitando una sotti­ le matita» e Parri, ascoltandolo a testa bassa, prendeva nota. Quando l'altro ebbe finito, si alzò per scusarsi, e per dire che la parola aveva tradito il pensiero. Quindi andò al Qui­ rinale per rassegnare formalmente le dimissioni. Umberto di Savoia gli conferì, come voleva la consuetudine, il cava­ lierato di Gran Croce dell'Ordine mauriziano, cui aggiunse il brevetto di medaglia d'argento per il valore dimostrato durante la Resistenza. Parri rifiutò cortesemente i due rico­ noscimenti, dicendo in particolare, per quanto riguardava la medaglia d'argento, che sarebbe stato «improprio» per lui accettarla mentre c'erano tanti morti sconosciuti. Della crisi vale la pena di ricordare alcuni momenti. An­ zitutto il rapido cadere della candidatura Orlando, che a Umberto di Savoia stava particolarmente a cuore, tanto che un suo messaggero era volato in Sicilia per strappare l'accet­ tazione al vegliardo. Ma Oliando tentennava, e ancor più tentennò quando, tornato a Roma, vide quanto le sinistre gli fossero ostili, considerando la sua presidenza uno «slitta­ mento a destra». Temeva, spiegò, «di bruciarsi», compro­ mettendo il suo avvenire politico. Svanì egualmente l'altro progetto - dei liberali e del Luogotenente - di varare un go­ verno che comunque includesse il trinomio Orlando-Nit- ti-Bonomi. Accantonato anche Sforza, emerse la candidatu­ ra di De Gasperi, e il 3 dicembre pareva che i giuochi fosse­ ro fatti. Ma poi Cattani riassunse in un decalogo i propositi dei liberali - che dovevano entrare nel governo a sei - per la gestione futura, e Togliatti si ribellò sostenendo che i dieci punti riecheggiavano il programma dell'Uomo Qualunque. Tra il 5 e il 6 dicembre, fu messo in cantiere un governo a cinque che avrebbe escluso i liberali e fatto la felicità delle si­ nistre. Ne derivò grande allarme al Quirinale, in Vaticano,

264 negli ambienti economici, forse anche nell'amministrazione alleata, e De Gasperi fu subissato di telefonate e messaggi ammonitori o supplichevoli. Ma si era compromesso - con le sinistre e anche con al­ cuni dei suoi, come Piccioni, Spataro e Sceiba - per le tratta­ tive a cinque, e veniva incalzato su quest'altro fronte. Lo soccorse - sarebbe accaduto altre volte in futuro - un prov­ videnziale svenimento. Nenni ha raccontato che dopo una conversazione telefonica con Falcone Lucifero, ministro del­ la Real Casa, De Gasperi si era presa la testa tra le mani mormorando: «Cominciano i guai!». Poi aveva ripreso le di­ scussioni nell'ufficio del suo capo di gabinetto per decidere della vicepresidenza e del Tesoro. «Qui - trascriviamo dal diario di Nenni - è stato colto da un breve deliquio. Erano ormai le due (di notte, N.d.A.) e s'è convenuto di sospende­ re la riunione perché potesse ritirarsi a casa e riaversi. Inve­ ce... si è recato al Quirinale dove il Luogotenente lo ha ri­ chiamato all'impegno di fare il governo a sei. L'indomani De Gasperi era a letto. Formalmente si considerava impe­ gnato dal voto della notte precedente ma l'animus non c'era più... Così mentre noi distribuivamo in casa De Gasperi i portafogli per il governo a cinque, in verità già ci si avviava al governo a sei, con una lettera di De Gasperi ai liberali che dava assicurazione sul programma.» Il 10 dicembre il primo governo De Gasperi giurò nelle mani di Umberto di Savoia. Il leader democristiano tenne per sé anche gli Esteri, Nenni ebbe la vicepresidenza e il Mi­ nistero per la Costituente, Togliatti e Scoccimarro furono confermati alla Giustizia e alle Finanze, Corbino ebbe il Te­ soro, Romita gli Interni, Manlio Brosio la Guerra, La Malfa la Ricostruzione, Sceiba le Poste e Telecomunicazioni, Ric­ cardo Lombardi i Trasporti, Mole la Pubblica Istruzione, Gronchi l'Industria e commercio, congeniali alla sua perso­ nalità, Cattani i Lavori Pubblici. L'impronta ciellenistica re­ stava solennemente confermata, l'esigenza di maggiore competenza affacciata dai liberali disattesa.

265 Poteva sembrare che non fosse cambiato molto, nel pas­ saggio da Parri a De Gasperi: ed era invece avvenuto un giro di boa in qualche modo più decisivo di quello, imminente, tra Monarchia e Repubblica. L'Italia si lasciava alle spalle - senza avvedersene - non solo le recenti smanie resistenzia­ li (o almeno i loro contenuti rivoluzionari), ma anche la tra­ dizione risorgimentale. Si affermava, al vertice del paese, un politico fuori dagli schemi. Non un prefascista, non un tipico esponente dell'antifascismo combattivo ed esule, non infine un esponente delle generazioni nuove, cariche di humus fa­ scista e di intransigenza antifascista: ma un cattolico trentino «prestato all'Italia» che affondava le sue radici in tutt'altro contesto storico-politico e in un'altra cultura. A sessantadue anni, De Gasperi era per l'Italia un uomo nuovo. CAPITOLO TREDICESIMO

IL TRENTINO PRESTATO ALE ITALIA

Alla caduta del fascismo, Alcide De Gasperi era uno scono­ sciuto per la quasi totalità degli italiani. Pur avendo preso il posto di don Sturzo esule, come capo del Partito popolare, nei primi anni del regime, non aveva avuto il tempo né il modo, in quell'atmosfera politica ormai asfittica e condizio­ nata, di acquistare popolarità. Prima del fascismo era stato la personalità emergente del cattolicesimo trentino e italia­ no, dopo l'affermazione della dittatura divenne un perse­ guitato e infine un oscuro, modesto burocrate vaticano. Un curioso appunto autografo riassumeva così, fino agli anni Trenta, la sua parabola. 1906. Direttore del quotidiano // Trentino. 1908. Vicepresidente e membro di direzione della Banca industriale di Trento. 1909. Consigliere municipale a Trento. 1911. Deputato alla provincia e al parlamento austriaco di Vienna. 1918. Membro del consiglio amministrativo della società editoriale e tipografica Tridentum con 1 milione di capitale che gestiva una delle maggiori tipografìe cattoliche dell'epoca. 1921. Deputato al parlamento italiano. Presidente del gruppo popolare. 1921. Segretario della società Grandi Alberghi. 1924. Segretario generale del PPL Infine l'ultima amara annotazione. 1929. Avventizio nella Biblioteca Vaticana a 1.000 lire e poi a 1.500 lire il mese.

267 Il ragazzo De Gasperi - di famiglia modesta, il padre era capo della gendarmeria a Pieve Tesino - aveva studiato con sacrifìci, protetto e aiutato da un prete intelligente, don Gentili, e dal vescovo di Trento monsignor Endrici. Aveva doti di polemista, e le dimostrò alla direzione del quotidia­ no cattolico trentino. Come molti cattolici impegnati delle terre italiane incorporate ancora nell'Impero austro-unga­ rico, era più autonomista che irredentista. L'esperienza par­ lamentare a Vienna gli aveva insegnato che uno Stato mul­ tinazionale poteva essere tollerante e rispettoso verso i dirit­ ti delle minoranze. L'intervento italiano, che non creò alcun problema di coscienza a Cesare Battisti e a chi, come lui, vo­ leva completata a Trento e a Trieste l'epopea risorgimenta­ le, fu per De Gasperi un dramma. Si sentiva profondamen­ te italiano, e nello stesso tempo si sentiva cittadino di un im­ pero, e di una società, nei quali gli era stato dato modo di affermare le sue doti. Umberto di Savoia, che lo stimò, ha così descritto il comportamento di De Gasperi durante la prima guerra mondiale: «Alla dichiarazione di guerra De Gasperi è neutrale; durante e dopo la crisi militare dell'ot- tobre-novembre 1917, quando sembra che l'Italia sia sul­ l'orlo della sconfitta, si trova a Vienna: dopo la riscossa del Piave e il trionfo di Vittorio Veneto, mentre i soldati italiani, già a Innsbruck, sono pronti a marciare su Vienna, De Ga­ speri passa il confine e arriva addirittura a Roma. Qui parla alla folla dal balcone di Palazzo Braschi... Il Re, mio padre, si recò a Trento con il generale Diaz e lo Stato maggiore e venne ricevuto da una delegazione di irredentisti trentini della quale non faceva parte De Gasperi». Il temperamento di De Gasperi, che pur era a suo modo forte, fu contrassegnato dal rifiuto delle posizioni intransi­ genti e dalla vocazione per la mediazione: perciò la sua ita­ lianità, che era, come tutti i suoi sentimenti, profonda e sin­ cera, fu temperata dall'ammirazione per l'architettura poli­ tica dell'Impero austro-ungarico, e il suo cattolicesimo, al­ trettanto profondo, fu temperato dalla ripulsa dell'integra-

268 lismo e della sopraffazione clericale. De Gasperi era un de­ mocristiano che credeva in Dio. E, credendo in Dio, non aveva bisogno di fare il clericale bigotto. Alla Chiesa fu sem­ pre personalmente ligio. Sottolineava con orgoglio la sua qualifica di cristiano e di cattolico. Pur senza ostentazione, era praticante e osservante. Ma, salvo alcuni come il vescovo Endrici di Trento e pochi altri, i preti avvertivano in lui un gran puzzo di laicismo, e non lo amavano. Spesso ricambia­ ti. Venuto dalla sacrestia, De Gasperi ne conosceva a fondo i pregi e i difetti. Per un momento, al sorgere del fascismo, anch'egli pensò probabilmente che potesse essere addomesticato (senza tut­ tavia collaborare, come Gronchi). Le illusioni caddero pre­ sto, e da allora la sua opposizione fu netta, nell'Aventino e dopo. Non una opposizione cospirativa, ma una ripulsa mo­ rale, e infine il ritorno, dopo l'esperienza politica che sem­ brava promettere tanto e aveva mantenuto così poco, alle protettrici sacrestie. Tra l'una e le altre vi fu un processo, e la prigione. La notte dell'I 1 marzo 1927 Alcide De Gasperi, che con la moglie viaggiava in treno verso Trieste, dove pen­ sava di vivere almeno per qualche tempo (gli squadristi e la polizia fascista gli stavano rendendo la vita difficile a Roma, con vessazioni e minacce), fu arrestato alla stazione di Firen­ ze. Aveva dei documenti contraffatti e un passaporto regola­ re, benché scaduto. Lo accusarono d'aver voluto espatriare clandestinamente e di falso in atto pubblico. La sentenza fu di quattro anni di reclusione, ridotti a due e mezzo in appel­ lo. Tornò in libertà nel luglio del '28, scontata metà della pe­ na, e accolta la sua domanda di grazia. Dopo quattro mesi a Regina Coeli era stato trasferito nella clinica Ciancarelli, in via di Villa Patrizi, fino alla scarcerazione. La condanna gli era piombata addosso come una mazza­ ta, materiale e morale. Intanto perché non se l'aspettava. Non era, per temperamento, un ribelle, rifulgeva più nel­ l'accettazione - cristiana e umana - dei colpi della sorte che nei gesti di rivolta. Non aveva accettato il fascismo, ma non

269 l'avrebbe avversato mai con attentati o trame clandestine. «Il Capaneo dantesco - scrisse alla moglie - si lascia brucia­ re sdegnoso e fiero dalle fiamme: ma egli aveva voluto pu­ gnare contro Giove: io invece rimasi folgorato proprio nel momento in cui, abbandonata ogni milizia, mi rannicchiavo nella mia famigliola.» V'era nei sentimenti di De Gasperi in­ dignazione contro la dittatura che perseguitava gli inermi, e rimorso per i disagi economici e le umiliazioni cui moglie e figlie venivano, per colpa sua, sottoposte. De Gasperi non aveva una professione di ripiego, costretto com'era, oltre­ tutto, a vivere a Roma. A Trento avrebbe potuto essere pro­ fessore di tedesco. A Roma dovette appoggiarsi alla Chiesa, e nel momento peggiore: proprio quando Mussolini stava diventando «l'uomo della Provvidenza» e con il cardinale Maglione metteva a punto gli articoli controversi della Con­ ciliazione. Una mano il Vaticano gliela diede, ma senza slan­ cio: «collaboratore soprannumerario addetto al catalogo de­ gli stampati» nella Biblioteca Vaticana. Nel '33 il cardinale Tisserant gli rifiutò un aumento dello stipendio perché De Gasperi «è pagato sul ricavato delle vendite, capitolo incer­ to nel nostro bilancio e soggetto in questo momento a crisi di diminuzione piuttosto che ad aumenti». Pio XI non lo ri­ cevette mai. Quando lasciò la Biblioteca, De Gasperi aveva 62 anni, guadagnava 2.000 lire, ed era segretario. Di quella inerzia studiosa, negli anni che per un politico rappresenta­ no la piena e rigogliosa maturità, ebbe sempre un ricordo cocente. Questo spiega i suoi scatti contro i fascisti che, su­ perate le maglie dell'epurazione, tornavano ad agitarsi: «Non osino chiedere più della libertà di vivere e di guada­ gnare che a noi non fu concessa». Dalla penombra l'Italia della guerra perduta vide emer­ gere questo personaggio inconsueto, e che proprio per que­ sto forse la rassicurò assai più dei santoni prefascisti o dei tonitruanti tribuni alla Nenni. De Gasperi era anomalo: e questa fu la ragione prima della sua sostanziale solitudine, nel partito, nella classe politica, nel paese. Una zona d'aria

270 fredda sembrava circondarlo perennemente. Era un uomo in grigio, dalla grigia e asciutta oratoria senza pennacchi, dagli occhi grigi così poco cesarei, dal volto di pietra, grigia anch'essa. Era calmo, paziente, refrattario alla retorica e al­ la ostentazione. Non era un uomo d'ideologia, era un uomo d'ideali, che sono cosa assai diversa. Era un borghese rima­ sto irriducibilmente tale, anche nelle ristrettezze d'un bilan­ cio familiare quasi di fame, perché fedele a determinati va­ lori di decoro e a determinati princìpi di moralità. Era un conservatore, se con questo termine s'intende chi non crede alle riforme messianiche, e, avendo visto crollare mondi cui era affezionato, se li è anche visti sostituire da altri mondi peggiori. Ma conosceva le ansie, le aspirazioni e le sofferen­ ze delle «masse» benché la loro immagine fosse per lui, an­ che a Roma, anche in anni di governo d'un paese caotico e improvvisatore, quella dei contadini e degli operai trentini, non quella delle jacqueries meridionali o dei picchettaggi vio­ lenti nelle varie Stalingrado d'Italia. «Era un uomo dotato di senso dello Stato» ha detto Va- liani di De Gasperi. Potremmo aggiungere, con una battuta che non vuol essere spregiativa, che lo fu indipendentemen­ te dallo Stato in cui agiva. Lo fu a Vienna, e lo fu a Roma. Ebbe fortemente quel senso dello Stato che mancò ai cattoli­ ci subito dopo l'Unità, che mancò a molti tra loro anche cent'anni dopo. Alla luce della forte consapevolezza che De Gasperi aveva dell'interesse nazionale deve essere valutato anche il suo atteggiamento verso la Monarchia. «De Gasperi - ha affermato Valiani - non era repubblicano, era di tradi­ zioni monarchiche... Accettò tuttavia la Repubblica... quan­ do capì che solo in tal modo si assicurava la democraticità dello Stato italiano. Una monarchia contestata da metà del Paese non poteva essere democratica. Un tempo si era det­ to: la repubblica ci dividerebbe, la monarchia ci unisce: così Crispi nel 1861 e anni successivi. Nel 1945-46 De Gasperi capì che la repubblica ci avrebbe unito, la monarchia ci avrebbe diviso.»

271 Non in contrasto con questa, e piuttosto interessante, l'o­ pinione che Umberto di Savoia espresse, al riguardo, ad Ar­ tieri: «(De Gasperi) partecipava, senza saperlo, del dramma della monarchia austro-ungarica... Forse considerò la cadu­ ta della monarchia di Vienna come una colpa della Casa Sa­ voia. Con la fine della seconda guerra mondiale dovette ap­ parirgli chiaro che fosse giunta l'ora del contrappasso, che la monarchia italiana fosse sul punto di subire la sorte del­ l'altra. E molto probabile. Nel suo intimo inoltre non dove­ va trovare facile schierarsi a favore dello Stato monarchico costituzionale visto che l'altro Stato, quello di Vienna, mo­ dello di ordine, decoro, potenza era stato demolito. In que­ sto senso si può ritenere che De Gasperi non pensasse tanto da repubblicano convinto quanto da monarchico deluso». Sembra accertato che il giorno del referendum abbia vo­ tato repubblica. Ma in pubblico fu sempre cauto, ben sapen­ do quanta parte del suo potenziale elettorato fosse monar­ chica, e ben sapendo delle propensioni monarchiche esi­ stenti in Vaticano e caldeggiate da una parte consistente del­ l'alto clero. In un comizio disse un giorno, parlando più da moralista che da politico: «Volete voi instaurare la repubbli­ ca? Vi sentite capaci cioè di assumere su di voi, popolo ita­ liano, tutte le responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta quella maggiore partecipazione che esige tale regime, il quale fa dipendere tutto, anche il Capo dello Stato, dalla vo­ stra personale decisione espressa con la scheda elettorale? Se rispondete sì vuol dire che prendete impegno solenne e definitivo, per voi e per i vostri figli, di essere preoccupati della cosa pubblica più di quanto non foste sin qui...». La struttura del governo era decisamente repubblicana, con il posto chiave degli Interni a Romita, un ingegnere so­ cialista di piccola statura e di modi vivaci. Ma il primo presi­ dente del Consiglio italiano politicamente «cattolico» non pose ostacoli alla repubblica soprattutto perché gli premeva di frenare la spinta populista delle sinistre nel funzionamen­ to quotidiano delle strutture statali. Agli slogans di Nenni («la

272 Costituente o il caos», «politique d'abord», «dal governo al potere») oppose la sua tenacia moderatrice e restauratrice. Gli ambienti economici percepirono subito il cambiamento, e la Borsa reagì alla novità con un progresso vigoroso. Lo percepirono anche gli Alleati che decisero di restituire al go­ verno italiano le province del nord tuttora soggette alla loro giurisdizione. Mancò a De Gasperi, dicono i suoi critici, la volontà o la capacità di cambiare, profittando delle contin­ genze eccezionali, alcune cose che, specialmente nella buro­ crazia e nei meccanismi amministrativi, avrebbero potuto e magari dovuto essere cambiate. Ebbe un limite: fu un gran­ de «normalizzatore», non un innovatore.

Abbiamo già accennato al processo attraverso il quale l'Ita­ lia si avvicinava al 2 giugno (1946), per le elezioni della Co­ stituente e il referendum istituzionale. Ai primi di marzo le elezioni amministrative che interessarono 15 milioni e mez­ zo di elettori dimostrarono che la DC aveva all'incirca la stes­ sa forza delle sinistre coalizzate. Il Partito liberale fu ridi­ mensionato, il Partito d'azione quasi annullato. II Luogote­ nente avrebbe voluto un rinvio delle «politiche» adducendo il motivo, non infondato, che molti prigionieri di guerra erano ancora fuori dai confini, e avevano pur diritto di esprimere la loro volontà. Il 18 marzo, pressato, Umberto di Savoia firmò i decreti per le elezioni del 2 giugno accom­ pagnandoli con una lettera in cui garantiva che avrebbe ac­ cettato il responso delle urne, quale che fosse. Sciolse anche dal giuramento di fedeltà alla Corona tutti coloro che ne erano vincolati. La formula del referendum, che per la Mo­ narchia era la più favorevole - un sondaggio Doxa la dava addirittura favorita - aveva avuto il sostegno di De Gasperi, per una ragione evidente: essa sollevava la Democrazia cri­ stiana dall'obbligo di pronunciarsi, come partito, sul pro­ blema istituzionale, e di agire di conseguenza nell'Assem­ blea costituente. Demandata la decisione al popolo, si trat­ tava soltanto di seguirne la volontà. Infatti il congresso del-

273 la DC voleva uno Stato non clericale ma «di ispirazione cri­ stiana» perché «il cristianesimo è il lievito della civiltà politi­ ca» e la vita del cristiano «è il sostegno della società». Apparentemente monolitico e sostanzialmente incerto, fu il congresso del PCI che delineava due politiche contrad­ dittorie: da una parte le «larghe alleanze democratiche» che presupponevano intese con tutte le forze popolari, e dun­ que anche con i democristiani; dall'altra l'avvio della fusio­ ne con i socialisti, che avrebbe potuto avere le sue prime realizzazioni in un patto federativo tra i due partiti. L'unità a sinistra non poteva sfociare che in una situazione di bloc­ co contro blocco. Proprio questo nodo dei rapporti con i comunisti trava­ gliò il congresso socialista nel quale s'incontravano, come sempre nella storia del partito, l'anima massimalista e l'ani­ ma riformista, costrette a convivere, ma incapaci di collabo­ rare. Tra Saragat e Basso correva un abisso ideologico e umano. Ne uscì il solito compromesso, con Nenni relegato alla presidenza - restituì poi il favore a Saragat emarginan­ dolo alla presidenza della Costituente - con Ivan Matteo Lombardo segretario e mediatore, con le varie correnti rap­ presentate in direzione. La tendenza fusionista era stata in pratica sconfitta, tanto che Togliatti parlò di una «azione or­ ganizzata e predisposta per spezzare l'unità tanto del Parti­ to socialista quanto della classe operaia e dei lavoratori ita­ liani». Vi fu maretta anche nel congresso liberale, sia per le po­ lemiche tra fautori e avversari della Repubblica - questi ul­ timi, in minoranza, contavano su nomi di spicco come Bro- sio e Carandini - sia per la dissidenza di alcuni elementi del­ la sinistra che se ne andarono, tra gli altri Franco Antonicel- li. I monarchici prevalsero anche sugli agnostici alla Bene­ detto Croce, tuttavia confermato nella presidenza: e firma­ tario tra l'altro, sul piano elettorale, del manifesto di una Unione democratica nazionale che includeva Nitti, Bonomi, Orlando.

274 Impegnato in questa convulsa fase politica e assillato dai problemi economici, tra gli altri la minaccia della carestia - a fine aprile s'era presentata la necessità di ridurre a 150 grammi la razione di pane - De Gasperi partì il 2 maggio per Parigi, dove si sarebbe svolta una seconda tornata delle riunioni dei ministri degli Esteri, sui trattati di pace. EPILOGO

De Gasperi tornò da Parigi alle 15 dell'8 maggio. Nenni, che andò a prenderlo a Centocelle, dice di avergli accenna­ to al problema dell'abdicazione di Vittorio Emanuele, che alcune voci di palazzo davano per imminente. Ma sembra che De Gasperi non se ne mostrasse molto interessato. L'indomani mattina però, 9 maggio, egli andò in Quiri­ nale, dove ebbe con Umberto un incontro che poi diede esca a qualche polemica. Ad abdicazione avvenuta, infatti, durante un Consiglio dei ministri, alcuni di costoro lo accu­ sarono di avergli taciuto la notizia della rinuncia di Vittorio Emanuele, di cui il Luogotenente doveva averlo informato. Secondo le sinistre, questo gesto rompeva il «Patto istituzio­ nale», ossia l'impegno assunto parallelamente dalla Corona e dal governo di rispettare lo status quo, e quindi De Gasperi avrebbe dovuto comunicarlo in tempo ai suoi ministri. In realtà esse temevano che l'avvento sul trono di Umberto riaccreditasse, alla vigilia del referendum, la monarchia. De Gasperi rispose che il Luogotenente non gliene aveva dato notizia. Ma quando si trattò di mettere la dichiarazione a verbale, vi fece aggiungere la parola «ufficialmente». Il che ci fa ritenere che, confidenzialmente, era stato informato. Lo stesso giorno, subito dopo l'incontro con De Gasperi, Umberto prese l'aereo per Napoli. E qui conviene lasciar la parola a Puntoni, sulla cui notarile scrupolosità non si pos­ sono avanzare dubbi: «9 maggio 1946. Senza preavviso, alle 12,45 arriva il Principe di Piemonte accompagnato dal duca Acquarone, dal generale Cassiani e dal capitano Avalle. Chiede subito di

276 parlare con Sua Maestà. Gli dice che è opportuno che l'ab­ dicazione e la partenza avvengano in giornata. Gli comuni­ ca inoltre che il viaggio sarà compiuto con il Duca degli Abruzzi, il quale sarà scortato dal caccia Granatiere. Ritengo che si siano accelerati i tempi per far trovare il Consiglio dei ministri di fronte al fatto compiuto. De Gasperi che, appena tornato da Parigi, ha avuto un colloquio con il Luogotenen­ te, dov'essere al corrente della cosa. Anche Stone, che rap­ presenta gli Alleati, è d'accordo... «Vedo il Sovrano soltanto alle 15, quando scende per re­ digere l'atto di abdicazione. L'atto, anzi, è già stato redatto dal Re su carta semplice, ed è il duca Acquarone che lo por­ ta nel salone al pianterreno della villa, dove si trovano in at­ tesa il Sovrano, il notaio Angrisani, il sottoscritto e il tenente colonnello De Buzzaccarini. Angrisani guarda il foglio e fa notare che è necessario che sia trascritto su carta bollata. Sua Maestà risale al piano superiore insieme con Acquaro­ ne. Dopo pochi minuti il Re scende solo, con l'atto di abdi­ cazione in mano. Saluta il notaio. Sembra calmo e sereno, ma è facile capire che fa ogni sforzo per dominare l'emozio­ ne. Io capisco che la sua voce non ha il solito tono. Si rivolge a me. Dice: "Hai visto? E successo più presto di quello che credevamo". Il notaio si accinge a postillare l'atto. Il Sovra­ no guarda e dice: "Ho usato la stessa formula usata da Car­ lo Alberto nel 1849". «Angrisani dice: "Maestà, le faccio osservare che sull'atto ha messo la data 6 Maggio, anziché 9". II Re fa la correzio­ ne. Come mai tale sbaglio? Ritengo che Sua Maestà abbia ri­ copiato all'ultimo momento una minuta che aveva prepara­ to fin dal 6 maggio, data la sua intenzione di compilare l'at­ to di abdicazione in maniera identica a quella del suo avo... «Alle 18 appare nelle acque di Posillipo il cacciatorpedi­ niere Granatiere. Alle 19 appare il Duca degli Abruzzi. Due motoscafi attendono le Loro Maestà e il seguito, attraccati al piccolo molo di Villa Maria Pia. Soltanto verso le 19, quan­ do il Sovrano viene sulla terrazza insieme con l'ammiraglio

277 De Courten per osservare le navi che s'avvicinano, posso parlargli. Il suo viso e impenetrabile. Non profferisce una parola che denoti debolezza e rimpianto. Non mi ringrazia e non dice neppure che si rammarica di staccarsi da me. È il suo carattere... «Re Umberto è fermo sulla riva e osserva l'imbarco degli Augusti Genitori. Alle 19,40 l'incrociatore leva l'ancora e si muove lentamente. Inizia il viaggio che porta il Re verso l'e­ silio. Non si sente una voce. Si sente soltanto il silenzio». Non sappiamo cosa pensasse e provasse Umberto in quel momento. Se nell'addio c'era stato fra i due qualche abban­ dono alla commozione, questo era avvenuto nell'incontro di qualche ora prima, che si era svolto senza testimoni. Ma ne dubitiamo. Gli abbandoni non erano contemplati nel gala­ teo dei Savoia, di cui padre e figlio - l'uno forse per cini­ smo, l'altro per disciplina - furono sempre scrupolosi osser­ vanti. Ma da quanto, nel rifugio di Cascais, Umberto confidò a uno degli autori di questo libro, egli comprese benissimo che su quella nave si allontanava per sempre non un Re, ma la Monarchia. Quello ch'egli si accingeva a vivere non era che un poscritto. Doveva durare in tutto 23 giorni. Indro Montanelli - Mario Cervi

L'ITALIA DELLA REPUBBLICA (2 giugno 1946-18 aprile 1948) AVVERTENZA

Questo volume, che va dal referendum istituzionale del giugno '46 alle elezioni del 18 aprile '48, avremmo anche potuto intitolarlo «LItalia delle scelte» perché fu in questo triennio che il nostro Paese fece quelle fondamentali: instaurò la Repubblica al posto della Mo­ narchia, e si schierò nel campo delle Democrazie occidentali. Si dirà che questa seconda scelta non la facemmo noi; l'avevano già fatta, per noi, gli accordi di Yalta, dove gli anglo-americani e i russi si erano spartiti l'Europa, e più ancora l'avevano fatta gli eserciti che la occupavano. Ma questo è vero solo per quanto ri­ guarda i Paesi dell'Est, piantonati dall'Armata Rossa, che non con­ sentì loro di esprimere la propria volontà. Eltalia, come tutte le al­ tre nazioni liberate dagli anglo-americani, avrebbe potuto decidere il proprio destino contro i loro interessi. Le truppe che ci occupava­ no non sarebbero mai intervenute per impedircelo: su questo punto i governi di Washington e di Londra furono sempre espliciti: pronti a dare manforte alla nostra democrazia se fosse stata aggredita con mezzi illegali e violenti, ma anche ad abbandonarla alla sua sorte, se con mezzi democratici, cioè con libere elezioni, avesse deciso dì se­ guirne un'altra. Lora della verità scoccò il 18 aprile del '48. Ma a determinare il risultato di quelle elezioni fu proprio il biennio che le precedette, e che costituisce la materia di questo libro. Non sono più molti, temo, gl'italiani che abbiano un ricordo nitido di quel periodo convulso, fatto insieme di grandi speranze e di grandi paure: l'impeto con cui tutti si gettarono a ricostruire ciò che le bombe avevano distrutto, ma anche il disordine con cui lo fecero, ognuno intento soltanto al­ le cose proprie e al proprio tornaconto, senza un minimo di pro­ grammazione, senza alcun riguardo all'interesse generale; la rapi-

281 dita e la spregiudicatezza con cui furono aggirati tutti gl'impacci e restrizioni imposte dall'amministrazione militare alleata; il fiorire della borsa nera che. creò una categoria di nuovi ricchi dediti ai lus­ si più sfrenati in un panorama di macerie; l'epopea della bicicletta, unico mezzo di locomozione sicuro e sottratto alle strettoie dei tesse­ ramenti di combustibile; la corsa ai brevetti di partigiano e le sma­ nie dell'«epurazione» nutrite da un'alluvione di lettere anonime di denuncia contro qualche fascista (ognuno aveva il suo, di cui occu­ pare il posto o la casa); le strade rigurgitanti di gente indaffarata a rimettere in piedi i propri affari, studi e negozi; le piazze ingombra­ te dai capannelli degli agit-prop, quasi tutti comunisti, concionanti sui destini della democrazia; la frenesia dei comizi che provocavano mobilitazioni di masse molto simili alle «oceaniche adunate» del «bieco ventennio» o, come usualmente lo si chiamava. E una gran voglia di vivere mescolata a un'altrettanto grande ansietà. Di coloro che avevano votato Repubblica, la stragrande mag­ gioranza lo aveva fatto per punire un Re che aveva accettato il fa­ scismo, subito la guerra, e poi era fuggito abbandonando il Paese e l'esercito al loro destino. Pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l'Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai opera­ to a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una co­ scienza nazionale. Ma, scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizio­ ne. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per ventanni l'a­ veva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato so­ prattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo. Ci fu chi, prevedendo lo sfacelo, cercò scampo nei Paesi che sì riaprivano alla nostra emigrazione: America Latina, Canada, Au­ stralia. Era un'emigrazione assai diversa da quella col passaporto rosso delle epoche prefasciste, di badilanti e zappaterra. C'era gente in cerca di un clima adatto alla sua intraprendenza, e anche tecni­ ci e dirìgenti che, epurati o temendo di esserlo, preferirono mettere altrove a profitto la propria esperienza, e la fecero brillare.

282 Ma un fenomeno ancora più sconvolgente fu quello dell'emigra­ zione interna, che subito prese l'aire dal Sud verso il Nord e assun­ se dimensioni alluvionali. Le strutture patriarcali del contadiname meridionale non avevano retto al rimescolìo della guerra, al conta­ gio degli eserciti d'occupazione, alle seduzioni della borsa nera e della prostituzione. A trattenere i contadini nelle campagne non valsero le promesse di una riforma agraria che, quando venne, era già in ritardo dì alcuni decenni. Essi l'anticiparono con occupazio­ ni arbitrarie dì terre, da cui però si accorsero subito che non avreb­ bero ricavato alcunché. E allora si misero in movimento prima ver­ so le città più vicine, poi verso il Nord, dove li risucchiava il vigo­ roso decollo industriale. Questo fenomeno doveva farsi ancora più imponente negli anni Cinquanta, ma era già in sviluppo quando ancora, per compiere il tragitto da Napoli o da Bari a Milano, i treni, rigurgitanti dì viaggiatori, impiegavano trentasei ore, e non sevipre arrivavano a destinazione. La frenesia di vita che animava l'Italia somigliava a quella che, a quanto sì dice, s'impadronì dei passeggeri del Titanio dopo l'urto con l'iceberg. Dovunque e in tutti c'era un senso di provvisorio. Il frenetico attivismo dei comunisti, i loro toni trionfalistici, la pressio­ ne a cui tenevano sottoposta la pubblica opinione incalzandola un po' con le minacce, un po' con le lusinghe, davano l'impressione ch'essi avessero ormai partita vinta. E in certe regioni infatti l'ave­ vano, come l'Emilia, dove il «triangolo della morte» coi feroci am­ mazzamenti perpetrati dai comunisti subito dopo la Liberazione, in­ vece di provocare una reazione dì rivolta, aveva sortito - e forse continua a sortire - gli effetti dell'intimidazione. Nenni parlava, compiacendosene, di un «vento del Nord», e con ragione, perché tutto il Nord sembrava ormai in balìa dell'ondata rossa. Ma non il Sud. E fu questa differenza di clima, ideologico e pas­ sionale, molto più che la difficoltà dei mezzi di comunicazione, e il diverso trattamento amministrativo cui dapprincìpio gli Alleati sot­ toposero i due tronconi della penisola, ad approfondire il solco fra di essi. Fu proprio in opposizione al vento del Nord che nacque il «qualunquismo», fenomeno essenzialmente meridionale e - in quel momento - salutare, come sedativo dì certe frenesie. Ma le frenesie

283 sembravano avere il sopravvento e trascinare il Paese verso avven­ ture, di cui era facile prevedere lo sbocco: Nostradamus nel cui ine­ saurìbile magazzino c'è, per chi ci crede, qualcosa da pescare per ogni emergenza, aveva profetato che un giorno ì cosacchi avrebbero dissetato ì loro cavalli alle fontane di Piazza S. Pietro. Qualcuno dice che l'Italia non era mai stata grande come in quel momento per lo slancio con cui affrontò la ricostruzione, per la fiducia che mostrò nel proprio destino e per la elasticità con cui si adattò alle nuove esigenze. Qualche altro dice che l'Italia non era mai stata così abbietta per la facilità con cui la gente cambiò ban• diera, per la disinvoltura con cui ripudiò il proprio passato e per la spensieratezza con cui sacrificò ogni scrupolo di solidarietà e di ci­ vismo al proprio interesse personale. Forse hanno ragione gli uni e gli altri. Ma è certo che l'atavico istinto dì conservazione fece presto ad avere la meglio. Più i partiti della sinistra si agitavano, in gara tra loro a chi reclamava le rifor­ me più audaci, più l'italiano della strada, pur fingendo in piazza di partecipare ai grandi slanci progressisti, si arroccava in casa a difesa dei valori tradizionali e più ancora dei suoi interessi privati. Gli storici, anche quelli anticomunisti, sono concordi nel dire che Togliatti esercitò un'azione sedativa sulle masse rosse un po' per scrupolo legalitario e allergìa alla violenza, un po' in ossequio agli ordini di Stalin, che non voleva allarmare gli ex-alleati destabiliz­ zando un Paese che, secondo le pattuizioni dì Yalta, apparteneva alla loro zona d'influenza, nel momento in cui riduceva a colonie quelli dell'Est. Può darsi che sia così. Togliatti non era un rivoluzionario. Da vero uomo di «apparato» cresciuto alla scuola sovietica, disprezzava le inasse; forse temeva, scatenandole, di restarne prigioniero; e forse ancora di più paventava che l'instaurazione a Roma di un regime comunista facesse dì lui uno di quei «proconsoli» che il padrone del Cremlino sottoponeva a regolari «purghe» per sottrarre ì loro suc­ cessori a tentazioni d'indipendenza. Ma può darsi anche ch'egli allentasse la tensione delle piazze per­ ché queste gli davano la certezza di poter raggiungere il potere senza il bisogno di ricorrere a mezzi illegali. La sicumera con cui, quando

284 fu sbarcato dal governo, andava ripetendo nei comizi di aver ordi­ nato al calzolaio un paio di scarpe chiodate per poter prendere me­ glio a pedate De Gasperi, era probabilmente sincera. E a rafforzarla c'era forse anche la convinzione che un potere raggiunto per via de­ mocratica grazie a un consenso liberamente espresso di popolo gli avrebbe dato maggior forza anche nei confronti di Mosca. Sono soltanto supposizioni: nessuno ha mai penetrato ì veri pen­ sieri e sentimenti di Togliatti. Ma il fatto che gli se ne possano attri­ buire di questo tenore basta a dimostrare quanto, in questo decisivo triennio, l'Italia apparente fosse talmente diversa da quella reale da trarre in inganno anche un politico perspicace e consumato come Togliatti. Lo slancio dì entusiasmo e di fiducia che aveva animato il Paese al momento della Liberazione si stava esaurendo. Solo i mili­ tanti socialcomunisti seguitavano ad animare il dibattito ideologico. La grande opinione pubblica già si mostrava stanca dei partiti e non seguiva che straccamente i lavori della Costituente, intenta a confezionare la Magna Charta della democrazia italiana e delle sue libertà. Non riconosceva in essi la propria espressione, e già co­ minciava a chiedersi se non avesse avuto ragione Mussolini a te­ nerli in quarantena per vent'anni. Fu in quest'atmosfera che incubò la disfatta elettorale socialco- munista del '48, terminale del dopoguerra vero e proprio. I. M. CAPITOLO PRIMO

IL RE DI MAGGIO

L'abdicazione di Vittorio Emanuele III (9 maggio 1946), e la sua immediata partenza per l'esilio egiziano furono defi­ niti da Palmiro Togliatti «l'ultima fellonia di una casa re­ gnante di fedifraghi che dimostra ad ogni passo di mancare a quella buona fede costituzionale che è essenziale per chi deve regnare non con una legge assoluta, ma con una costi­ tuzione che risponda alla volontà sovrana del popolo». L'enfasi di questo linguaggio, così poco nello stile della «svolta di Salerno», dimostra che il congedo del vecchio Re, pur atteso e scontato, e la successione al trono di Umberto II, sortirono nel mondo politico italiano l'effetto di un elet­ trochoc. Togliatti («una volta tanto intransigente» annotò Nenni) sostenne che la Monarchia aveva violato la tregua istituzionale, concordata quando era stata creata la Luogo­ tenenza, e che per legittima ritorsione De Gasperi, nella sua qualità di Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto assume­ re le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. Si è discusso parecchio sulle ragioni di quest'atteggia­ mento del capo comunista: qualcuno - ad esempio il mini­ stro liberale Leone Cattani - l'attribuì a puro calcolo, ossia al suo desiderio di rifarsi, dopo tanti cedimenti, una vergi­ nità repubblicana. Altri vide in esso, invece, una reazione emotiva se non proprio uno scatto nervoso per l'improvviso rimescolamento delle carte. Certo è che Togliatti si trovò isolato, e nel Consiglio dei ministri che si riunì il 10 maggio accettò, sia pure rinnovando le sue accuse alla Corona, la tattica minimizzatrice di De Gasperi e, tutto sommato, an­ che dei socialisti. Fu deciso di considerare l'accaduto «un at-

287 to interno di Casa Savoia». Uno schema di decreto approva­ to a tambur battente stabilì che i documenti dello Stato avrebbero avuto d'allora in poi l'intestazione «In nome di Umberto II, Re d'Italia», ma senza la formula tradizionale «per grazia di Dio e volontà della Nazione». Ma l'«atto interno» risultò tutt'altro che tale. Uentourage di Umberto (abbiamo in proposito la testimonianza di uno dei suoi aiutanti di campo, l'ammiraglio Franco Garofalo) lo considerava il «qualcosa di nuovo che scuotesse l'opinione pubblica e ridestasse negli italiani quei princìpi e quelle energie che l'equivoco della Luogotenenza aveva fatto di­ menticare e sopire, nella convinzione che la monarchia già non esistesse più». All'investitura di Umberto, De Gasperi non intendeva opporsi. Sappiamo che era stato informato in anticipo, an­ che se a titolo privato, della abdicazione di Vittorio Ema­ nuele. Sappiamo egualmente che, di fronte a questa even­ tualità, si era consultato con l'ammiraglio Ellery Stone, ame­ ricano, e capo della Commissione alleata per l'Italia. Stone, in una lettera che De Gasperi aveva già in mano l'8 maggio, precisò che per gli Alleati la novità non aveva rilievo: «I Ca­ pi di Stato Maggiore sono del parere che l'abdicazione del Re non comporta nessuna azione o commento da parte del­ la Commissione alleata, in quanto non tocca per nulla i po­ teri costituzionali del principe Umberto». Gli anglo-americani erano risoluti a ostentare, per il di­ lemma istituzionale, una posizione di rigorosa neutralità. Stone aveva, personalmente, simpatie monarchiche. Uffi­ ciale già anziano della Riserva navale degli Stati Uniti, era stato mandato ad Algeri, quando la Commissione di con­ trollo per l'Italia vi si era insediata, come tecnico delle co­ municazioni postali e telegrafiche. L'Artieri riferisce che a procacciargli quell'incarico era stato tra l'altro il fatto di es­ sere stato insignito della Commenda della Corona d'Italia. Per i meccanismi delle promozioni e delle sostituzioni, Stone s'era trovato ad essere il vice dell'inglese Mason MacFarlane,

288 protagonista dei primi contatti tra gli Alleati e il governo di Brindisi. Rimosso MacFarlane, brutto carattere - e ostile ai Savoia, tanto che s'era scontrato in proposito con Churchill - Stone ne aveva preso il posto, sia pure a titolo provvisorio (tra inglesi e americani vigeva la regola dell'alternanza, se avessero mandato via anche lui l'incarico sarebbe stato asse­ gnato ad Harold Macmillan, il futuro Primo ministro con­ servatore britannico). A Roma Stone s'era lasciato ammaliare dal bel mondo e dall'aristocrazia (vi trovò perfino moglie) e aveva stretto amicizia con il generale Infante, aiutante di Umberto. Ma nelle capitali alleate l'atmosfera era cambiata: soprattutto a Londra, dove i laburisti, vinte le elezioni, erano andati al governo, e si mostravano molto più freddi di Churchill ver­ so la Monarchia. Inoltre i risultati delle elezioni amministra­ tive di marzo, e la condotta di De Gasperi, rendevano assai meno inquietante, per Londra e per Washington, l'ipotesi di una vittoria della Repubblica. Tuttavia l'indifferenza dei vincitori per l'ascesa al trono di Umberto II fu un elemento rassicurante per i monarchici. Se gli anglo-americani, su­ pervisori della legalità democratica, non obbiettavano, per­ devano forza le proteste e le indignazioni dei partiti. Ciò che alla fine indusse i leaders politici - compreso, do­ po una pausa di riflessione, l'infuriato Togliatti - alla rasse­ gnazione fu la conferma della data del 2 giugno per il refe­ rendum. I monarchici avevano chiesto ripetutamente che la duplice prova - referendum istituzionale ed elezione del­ l'Assemblea costituente - fosse rinviata a epoca più oppor­ tuna. Sottolineavano, non senza fondamento, che avrebbe­ ro forzatamente disertato le urne centinaia di migliaia di prigionieri tuttora in attesa del rimpatrio, nonché i cittadini della Venezia Giulia e dell'Alto Adige. Meglio aspettare. Ma la richiesta di rinvio aveva, al di là di queste spiegazioni pa­ triottiche, una molla strumentale. Gli ambienti della Corte sentivano che, via via che si placava il vento del Nord, si svi­ luppava nel Paese una rimonta monarchica. Ma ventiquat-

289 tro giorni erano pochi perché Umberto, finalmente Re a tutti gli effetti, liberato dall'ingombrante presenza del pa­ dre, riuscisse a ricostruire la sua immagine e a rinnovare quella della Monarchia. Il suo compito era quasi proibitivo. L'uomo che nei mesi della Luogotenenza s'era distinto per la scrupolosa osser­ vanza degli obblighi costituzionali e per la signorilità sorri­ dente e autorevole del tratto, doveva, come Re, essere al di sopra delle parti, e nello stesso tempo fare propaganda elet­ torale. Non esisteva un vero partito monarchico, i consiglie­ ri di Umberto avevano scartato questa soluzione. Difficile dire, oggi, se avessero visto giusto. Era questo che aveva arroventato le proteste contro l'ab­ dicazione di Vittorio Emanuele. Poiché la Corte voleva il rinvio delle elezioni, e i partiti intendevano tener ferma la data del 2 giugno, fu evidente ai leaders politici repubblicani che una crisi originata dall'abdicazione poteva diventare proprio il diversivo che Umberto cercava. Dal conflitto tra Re e governo - se al conflitto aperto si fosse giunti - sarebbe derivato un intrico di problemi costituzionali e politici. Um­ berto aveva la facoltà di licenziare il governo, sia pure sol­ tanto per guadagnare tempo. E in tal caso gli Alleati sareb­ bero diventati probabilmente arbitri dello scontro. Ma in una atmosfera incandescente di accuse e controaccuse, refe­ rendum ed elezioni per la Costituente sarebbero stati irrea­ lizzabili, o comunque viziati. In questa occasione Nenni portò acqua al mulino di De Gasperi, cui premeva di to­ gliersi la spina del referendum, senza troppe ambasce per il suo esito. De Gasperi era consapevole della forza sua e del suo partito, su cui Nenni invece prendeva abbaglio. Il capo socialista annotava il 14 maggio nel suo diario: «Da Verona sono rientrato in aereo (dopo una serie di comizi) con De Gasperi, il quale aveva parlato dopo di me a Verona, nella elegante Piazza Dante, davanti a poche centinaia di persone sbandate rapidamente per la pioggia. È impressionato per il successo dei nostri comizi e inquieto circa l'avvenire».

290 Liberato dall'incubo di un rinvio del referendum, il gover­ no rimase tuttavia con quello dell'ordine pubblico. L'assillo di evitare l'incidente grave, e forse fatale, poneva in sottor­ dine ogni altra considerazione. E questo fece sì che venisse­ ro approvate con noncuranza, e con negligenza, misure del­ le quali il Paese subisce tuttora le conseguenze. Venne ad esempio varato in fretta un progetto - mandato ai ministri della Consulta siciliana - che concedeva alla Sicilia una au­ tonomia inconcepibilmente ampia, ritagliata sulle esigenze, le ambizioni, gli appetiti di una classe politica locale avida, spensierata e prodiga, non certo sull'interesse del Paese. L'ordine pubblico, considerato la vera misura della effi­ cienza governativa, era affidato a due uomini, entrambi di sinistra, entrambi repubblicani dichiarati: Togliatti, mini­ stro di Grazia e Giustizia, e Giuseppe Romita, socialista, mi­ nistro dell'Interno. Togliatti non dimenticava mai l'ideolo­ gia, e gli obbiettivi politici comunisti. La cautela di cui diede prova, come Guardasigilli, era in sintonia con la sua tattica morbida, compromissoria, tesa a una conquista indolore del potere (sia pure, inizialmente, a mezzadria). Ma era anche in sintonia con la sua personale ripugnanza per gli eccessi e per gli sfoghi rivoluzionari incomposti. Professorale, intel­ lettualmente e caratterialmente altero, non aveva certo im­ parato, nei molti anni di soggiorno moscovita, ad apprezza­ re le esplosioni e le convulsioni barricadiere. Ai magistrati inviò una circolare in cui rilevava che in molte province si erano verificate «manifestazioni di protesta da parte di di­ soccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro i funzionari. Pertanto questo ministero... si rivolge alle Signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipen­ denti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie e i relativi giudizi dovranno essere espletati con assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione». Egualmente duro era

291 stato il suo intervento contro Riccardo Lombardi, prefetto politico socialista e resistenziale di Milano, che aveva desti­ tuito il direttore del carcere di San Vittore dopo una delle ricorrenti rivolte di detenuti, rimpiazzandolo con un ex­ partigiano comunista: «Apprendo arbitraria destituzione di­ rettore carcere e sua sostituzione con funzionario non com­ petente. Invitola immediatamente a revocare provve­ dimento». Dottrinariamente rivoluzionario, ma istinti­ vamente repressore, consapevole dei limiti che la «protezio­ ne» alleata poneva alle velleità insurrezionali, Togliatti blandì la magistratura, utilizzò i funzionari fascisti, accettò il sostanziale fallimento della epurazione. Le «volanti» rosse, i comunisti alla Secchia con i loro arsenali nascosti e i loro mi­ tra che talvolta si facevano sentire - come nelle carceri di Schio dove era stata fatta strage, nel giugno del '45, degli accusati di fascismo che vi erano rinchiusi - erano una riser­ va. Ma per il momento la parola d'ordine era la legalità. To­ gliatti aveva riconosciuto la necessita di un'amnistia che sa­ nasse almeno in parte i troppi conti - politici e giudiziari - in sospeso: ma volle che, decisa a fine maggio, fosse promul­ gata dopo il referendum perché il Re non se ne potesse at­ tribuire il merito. Romita era un ingegnere sulla sessantina. Tortonese di nascita, si era formato, come militante socialista, a Torino. Il padre, capomastro, era stato fervente monarchico e galop­ pino elettorale di deputati conservatori. Molto piccolo di statura, con una faccia brutta e simpatica da gnomo, Romita aveva modi bonariamente bruschi. I giornalisti che lo inter­ rogavano sapevano che, se la domanda era appena imperti­ nente, avrebbero avuto per risposta un ceffone semipaterno o un pugno. Quando s'era trattato di nominare, nel primo Gabinetto De Gasperi, il ministro dell'Interno, l'allora Luo­ gotenente avrebbe visto volentieri la designazione d'un vec­ chio «saggio»: Orlando, Nitti, Bonomi. In vista d'una con­ sultazione da cui dipendeva il destino della Monarchia, uno di questi revenants (fantasmi, come li aveva sprezzantemente

292 definiti Vittorio Emanuele III) sarebbe stato garanzia di correttezza e obbiettività. I dosaggi politici volevano invece che la poltrona fosse assegnata a un socialista: ne era dub­ bio solo il nome. Anche qui la Corte aveva un suo preferito, Angelo Corsi, che era, in casa socialista, uno degli uomini meglio disposti verso Umberto. In subordine Gaetano Bar­ bareschi, un mite sindacalista. Venne invece designato Ro­ mita, che non era certo un massimalista, ma aveva grinta: e sbandierava ai quattro venti la sua inconcussa fede repub­ blicana. Nell'Italia disastrata di quel primo dopoguerra, con gli strascichi della mattanza di fascisti al Nord, con i fenomeni di banditismo un po' dovunque - in Sicilia, ma anche a Mi­ lano o sul passo del Bracco in Liguria, dove i rapinatori era­ no in sistematico agguato - la poltrona di ministro dell'In­ terno era forse la più scomoda del governo. Nel Sud divam­ pavano frequenti jacqueries sanguinose - proprio quelle che avevano provocato la citata circolare di Togliatti - nelle qua­ li i moventi veri della fame e della disoccupazione si intrec­ ciavano all'azione di sobillatori. L'Arma dei carabinieri ave­ va mantenuto, nonostante tutto, una apprezzabile discipli­ na e una discreta efficienza. Alto era inoltre il suo prestigio, e intatto il rispetto della popolazione nei suoi confronti. Non era lo stesso per la polizia, che dovette subire il recluta­ mento di ufficiali e agenti ausiliari - quindicimila - tratti dalle file partigiane. Era una misura benintenzionata, alme­ no per la maggioranza dei componenti il governo: mirava ad inquadrare nel servizio pubblico elementi avviati allo sbando e alle violenze. Accadde tuttavia che - in particolar modo a Milano, dove al posto di Lombardi si era installato un altro «politico», Ettore Troilo, avvocato e capo partigia­ no abruzzese - i nuovi poliziotti si rivelassero bravacci ma­ neschi, e anche disonesti. Dopo un'inchiesta si procedette all'arresto di un vicequestore ausiliario, e altri elementi ven­ nero allontanati o puniti. La polizia era insomma un orga­ nismo ambiguo, troppo vecchio e troppo nuovo insieme,

293 politico per residui fascisti e politico per inquinamenti rivo­ luzionari ed eversivi di sinistra. Romita - lo ricordiamo a suo merito - ebbe una parte decisiva nel ripristino dei prefetti di carriera, dopo le tante nomine azzardatamente politiche (Milano rimase un'ecce­ zione). Il Consiglio dei ministri s'era occupato del problema in due riprese, il 31 gennaio e il 15 febbraio 1946, e De Ga­ speri aveva vigorosamente sostenuto la tesi che le prefetture dovessero tornare nelle mani di funzionari di carriera, libe­ ri da influenze ideologiche e politiche. «I prefetti di carriera sono dei politicanti e dei reazionari, hanno ancora le liste degli antifascisti e non quelle dei fascisti» gli aveva replicato il comunista Scoccimarro. Ma con De Gasperi e con i libera­ li si era schierato Romita, rendendo possibile la «restaura­ zione». Restava, con tutto questo, il fatto inoppugnabile che il re­ ferendum sarebbe stato preparato e sorvegliato da un mini­ stro accesamente repubblicano: e i monarchici di allora - così come la successiva pubblicistica monarchica, Fino al recente volume di Artieri su Umberto II - non mancarono di lamentare la situazione di svantaggio in cui la loro batta­ glia veniva combattuta. Dal punto di vista politico la lagnan­ za è ineccepibile. Non solo la nomina di Romita, ma l'intera impostazione governativa privilegiava la Repubblica, e la dava per ineluttabile (il motto di Nenni non era forse «la Repubblica o il caos»?). A dissentire, nel governo, c'era la sola voce dei liberali, che era flebile e nemmeno concorde. Uno degli esponenti maggiori del PLI, Manlio Brosio, mini­ stro della Guerra, aveva optato per la Repubblica, ed ebbe lo scrupolo di informarne personalmente Umberto II, il quale, con molta eleganza, gli rispose che non questo im­ portava, ma la sua capacità di ministro. Tutt'altro discorso va invece fatto per l'apparato ammini­ strativo e per la magistratura: come si vide quando sembrò che le sorti del referendum dipendessero da una pronuncia della Cassazione. I due più stretti collaboratori di Romita, il

294 Comandante dei carabinieri generale Brunetto Brunetti, e il Capo della polizia Ferrari, erano entrambi monarchici fer­ venti. E - specialmente il primo - non si curavano di na­ sconderlo. «Da quel rigido militare che era - ha scritto Ro­ mita riferendosi al generale Brunetti - mantenne costante­ mente nei miei confronti un atteggiamento improntato al massimo rispetto, ma pure restava monarchico a tal punto che se parlava del suo Re gli venivano ì lucciconi agli occhi.» Nelle settimane che precedettero il referendum, Romita non si mosse praticamente mai dal Viminale, e la sera cena­

va insieme a Brunetti, a Ferrari, al vice-capo della polizia De Cesare. Con loro era abitualmente anche la moglie di Romita, che gli portava la biancheria pulita. Il Viminale era una fortezza. «Chiusi gli ingressi principali, vi si accedeva dalla parte posteriore presso la caserma della "Celere". E jeeps, autoblindo, squadroni a cavallo sostavano in perma­

nenza all'interno, fra cavalli di Frisia... jvjon meno efficiente era la difesa del Quirinale, che avevo fatto organizzare da un colonnello, ovviamente dei carabinieri, Permetti.» Non appena divenuto Re, Umberto rivolse al Paese un

proclama che, pur pacato nel tono e nobile nei propositi, contribuì ad allarmare i repubblicani. H Re promise di ri­ spettare «le libere determinazioni dell'imminente suffragio» ma si riferì anche a una «rinnovata monarchia costituziona­ le», e formulò l'auspicio che tutti si stringessero «intorno al­ la bandiera, sotto la quale si è unificata la patria e quattro generazioni di italiani hanno saputo laboriosamente vivere

ed eroicamente morire». «Davanti a Dio - concludeva il messaggio - giuro alla Nazione di osservare lealmente le

leggi fondamentali dello Stato, che la volontà popolare do­ vrà rinnovare e perfezionare.» Gli entusiasmi monarchici ri­ presero lena non solo nel Sud, ma anche nella apatica Ro­ ma: e lo stesso 10 maggio - Umberto aveva iniziato la gior­ nata assistendo con la famiglia alla Messa nella cappella del­ l'Annunziata, attigua ai suoi appartamenti nel Quirinale - fu organizzata una manifestazione di fedeli della Corona. La

295 folla monarchica, con musiche e bandiere, si riunì davanti al Quirinale e applaudì a lungo Umberto, Maria José, i figli. Romita aveva ordinato che non vi dovessero essere cortei, ma una parte dei dimostranti si inoltrò verso il Viminale. Dal Ministero mossero reparti di polizia sujeeps e a cavallo che agirono rudemente, perfino «con le mitragliere pesanti puntate» per disperdere quella che Romita, qui esplicita­ mente fazioso, bollò come «ignobile gazzarra». Si lamenta­ rono molti contusi e qualche ferito. Nenni ha ricordato che i monarchici volevano a ogni costo che al Viminale fosse esposta la bandiera, evidentemente con lo scudo sabaudo. «Quando sono arrivato al Viminale, Romita si dibatteva fra le esitazioni del Capo della polizia Ferrari e De Gasperi che, al telefono, gli chiedeva di esporre la bandiera. Mi sono re­ cisamente opposto dicendo che, se si vuole il ricorso alla piazza, rion ci sarà da ridere, ma da piangere.» Per ritorsio­ ne, il giorno successivo a Roma fu sospeso il lavoro nelle fab­ briche e negli uffici e, dopo un appello dei maggiori partiti - tranne il liberale - e della Camera del Lavoro, i sostenito­ ri della Repubblica gremirono Piazza del Popolo. Parlò tra gli altri Saragat, e diversi cortei dilagarono per la capitale. Altre masse, in altre città, soprattutto settentrionali, reagi­ rono con comizi al «colpo di mano» del Re di maggio. Con poca convinzione (aveva confidato a Luigi Barzini jr. che «la Repubblica si può reggere col cinquantuno per cen­ to dei voti, la Monarchia nò»), ma con il senso del dovere che sempre l'aveva caratterizzato, Umberto fu, nelle setti­ mane che seguirono, il propagandista di se stesso. Lo solle­ citavano ad un attivismo intenso, quasi frenetico, i più bat­ taglieri tra i suoi intimi: Enzo Selvaggi, segretario generale del Partito democratico italiano, Edgardo Sogno, valoroso comandante partigiano, il senatore Bergamini, il primo aiu­ tante di campo generale Infante, con qualche esitazione an­ che il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero. Nel loro fervore, questi consiglieri ebbero intuizioni felici, ma indus­ sero anche Umberto a più di una goffaggine. Come quando

296 gli fecero firmare un messaggio ai milanesi in cui, per giu­ stificare l'assenza sua, e di ogni principe della Casa Savoia, dalla guerra partigiana, diceva: «Ho seguito sempre la vo­ stra lotta col rimpianto di non poter essere fra voi, perché impedito dalle cure del mio ufficio e dalle direttive politiche che il Comando supremo alleato dettava». I «grandi vecchi» monarchici, Vittorio Emanuele Orlan­ do e Benedetto Croce, non facevano mistero delle loro con­ vinzioni ma riluttavano ad impegnarsi troppo scopertamen­ te: Orlando, forse perché nonostante gli ottantacinque anni suonati sperava nella Presidenza della neonata Repubblica, Croce perché in lui era ben netta la distinzione tra la Mo­ narchia come istituto - che giudicava degno di sopravvivere e ancora utile nella situazione italiana - e i due uomini che fino al 9 maggio e dopo il 9 maggio l'avevano impersonata e l'impersonavano. Umberto fu a Genova, a Milano, a Torino, a Venezia, a Napoli, in Sicilia, in Calabria, in Sardegna. Ebbe molti ap­ plausi e segni di affetto a volte delirante nel Sud, accoglien­ ze fredde con sporadici fischi e grida ostili al Nord. Il suo peregrinare nelle metropoli del «triangolo industriale» fu comunque meno tempestoso di quanto si potesse temere, nell'infuriare delle accuse che le sinistre muovevano alla Monarchia. Non avvennero incidenti di rilievo. La città più ostica fu Genova, dove il prefetto tentò di indurre Umberto ad andarsene subito. «Non ne volle sapere - scrive Romita - così che dall'automobile potè vedere in faccia gli uomini e le donne che, per le strade, gli urlavano contro insulti.» Pro­ prio da Genova, a conclusione di questo «patetico ma poco dignitoso trasferirsi da un palazzo reale all'altro, da un san­ tuario all'altro, da una tomba all'altra» (citiamo da La fine della monarchia di Domenico Bartoli), il Re lanciò, a campa­ gna elettorale chiusa, cosicché i partiti non furono in grado di replicare, un proclama a sorpresa. Osservò, in esso, che gli italiani erano «costretti ad assu­ mere, per sé e per i propri figli, una scelta così grave». Co-

297 stretti, quasi per imposizione straniera o politica. Annunciò poi che se l'esito di questo primo referendum fosse stato fa­ vorevole alla Monarchia, egli ne avrebbe comunque indetto un altro, alla fine dei lavori della Costituente. Era una mos­ sa abile, che agli incerti prospettava la scappatoia d'un giu­ dizio d'appello. La concessione di decine di migliaia di Cro­ ci di cavaliere o d'altre onorificenze integrò lo sforzo eletto­ rale del Re, cui la regina Maria José collaborò di malavo­ glia, e avaramente. Era apparsa al balcone del Quirinale, con il marito, il principe ereditario, le principesse, per offri­ re ai monarchici festanti l'immagine d'una famiglia unita e serena. Ma poi limitò la sua azione propagandistica alle con­ suete iniziative benefiche tramite la Croce Rossa e a qualche viaggio. Un giorno che, a una cerimonia della Croce Rossa, era stata presa a male parole da donne repubblicane, te­ lefonò a Umberto Zanotti Bianco, promotore dell'iniziativa: «Io non ce la faccio, e tutto sommato non c'entro». Era pes­ simista. «Che figura se avremo soltanto il dieci o il quindici per cento» fu udita mormorare. Durante la vigilia infuocata del 2 giugno, e subito dopo, corsero le immancabili voci di complotti monarchici e di maneggi della sinistra, per impedire o inquinare il voto. Ro­ mita ha asserito che si progettò di rapirlo, che due batta­ glioni di carabinieri erano pronti ad un putsch, che al Vimi­ nale «si notò un certo movimento non autorizzato di carabi­ nieri in borghese che, a piccoli gruppi, si disponevano nei corridoi interni, fra la direzione di pubblica sicurezza e il mio gabinetto». Era accaduto che agenti di polizia di sinistra arrestassero, dopo un comizio monarchico, dei carabinieri in borghese che vi avevano partecipato, e che ufficiali del­ l'Arma si precipitassero in Questura, armi in pugno, per li­ berare i prigionieri. L'Artieri sostiene a sua volta che «la stes­ sa topografia del Viminale venne modificata, mediante chiusure di corridoi, aperture di altri, uso di paraventi e sbarramenti aleatori di legno e di plastica: tutto per rende­ re accessibili ai soli fiduciari del ministro certi uffici e isolare

298 il gabinetto dello stesso Romita». Questo però sa più di illa­ zione che di prova. Sicuro è invece che, se in talune località meridionali la propaganda di sinistra fu osteggiata, pesante fu l'intimidazione esercitata, in larghe aree del Settentrione, contro gli attacchini e i manifesti monarchici (ne furono dif­ fusi centomila con la scritta su fondo azzurro «Monarchia»). Quattro quotidiani, tutti romani, erano dichiaratamente monarchici, Italia Nuova diretto da Enzo Selvaggi, Risorgi­ mento liberale diretto da Mario Pannunzio, II Secolo XX diret­ to da Manlio Lupinacci, Il Giornale della Sera. Tendenzial­ mente favorevole alla Corona fu anche, dopo un effimero decollo socialisteggiante (per la presenza tra i fondatori di Leonida Rèpaci) II Tempo di Renato Angiolillo. Il Corriere del­ la Sera di Milano, l'organo di gran lunga più influente, si batté a oltranza in favore della Repubblica, sotto la direzio­ ne di Mario Borsa. Per la Repubblica fu anche La Stampa di Torino. Si dette il caso di tipografi che rifiutarono di stam­ pare pubblicazioni o volantini che fossero a sostegno della Monarchia. La pubblicistica ostile a Umberto abbondò nella riproduzione di fotografie sue (gli archivi ne ridondavano) con il braccio levato nel saluto romano, o accanto a Mussoli­ ni e a Hitler in cerimonie ufficiali. Ci si poteva aspettare di peggio, dopo la prima impetuosa raffica del vento del Nord: e bisogna ammettere, nella prospettiva storica, che la Monarchia, accanto alla quale il fascismo si era imposto ed aveva governato, era esposta a questi incerti. Ma il duello non fu ad armi pari. La Chiesa si dichiarò, nello scontro, neutrale. Nella for­ ma lo fu. Nella sostanza assai meno. Degli otto milioni di vo­ ti democristiani, sei andarono alla Monarchia, benché il partito avesse scelto la Repubblica; e questa ripartizione non fu frutto del caso. Molti appartenenti al basso clero e la stra­ grande maggioranza dei vertici ecclesiastici preferivano la scelta monarchica perché era quella che presentava minori incognite. Pio XII era un conservatore, ma senza le aperture e l'e-

299 lasticità di De Gasperi, che lo era anche lui, ma in modo di­ verso. Si disse che Umberto gli piaceva perché era un buon cattolico, assai lontano in questo dall'agnosticismo paterno. La spiegazione ci pare riduttiva. Contava ben altro, in quei frangenti, che l'osservanza delle pratiche religiose da parte del Re. Più probabilmente, Pio XII non si fidava della poli­ tica e delle prospettive di De Gasperi. Non se ne fidò mai. Artieri, confidente di Umberto, sostiene che la «leggenda» di un Papa favorevole alla Monarchia e di un pro-segretario di Stato (Giovanni Battista Montini) contrario ad essa è infondata. «Montini all'inizio non parve del tutto contrario, ma alla fine, quando la causa della Monarchia venne palese­ mente abbandonata dagli Alleati anglo-americani, non potè... non tenere conto della realtà.» La testimonianza è di prima mano. Tuttavia insistiamo nel ritenere che la «leggen­ da» fosse sostanzialmente vera.

Così venne il 2 giugno, e gli italiani scelsero. Anche il Re votò già rassegnato alla sconfitta. La mattina stessa incaricò infatti il generale Infante di concordare con De Gasperi le modalità della partenza per l'esilio. Gli premeva inoltre sa­ pere se - stando ai precedenti - fosse opportuno o no che si recasse a votare: uno dei più vecchi maggiordomi della Ca­ sa Reale rammentò d'avere accompagnato al seggio eletto­ rale - almeno un quarto di secolo prima - Vittorio Emanue­ le III, e il figlio si regolò allo stesso modo. Raggiunse, ac­ compagnato da Infante, la sezione di via Lovanio, non lon­ tana da Villa Savoia. Fu accolto con simpatia. Non lo lascia­ rono in coda, in segno di rispetto, e si assicura che abbia de­ posto, sia per il referendum sia per la Costituente, scheda bianca. Poiché la gente lo applaudiva, il presidente di un seggio vicino si avvicinò ad ammonire che erano proibite le manifestazioni politiche. Verso sera, nella sezione di Largo Brazza votò Maria José, che era scortata da Manlio Lupi- nacci. Si vuole che, infilata una scheda bianca per il referen­ dum, per la Costituente avesse invece scelto il socialismo, e

300 dato la preferenza a Saragat. Ma dai documenti della Presi­ denza De Gasperi, raccolti dal suo capo di Gabinetto Barto- lotta, e citati da Antonio Gambino, risulterebbe che Umber­ to, quando il Presidente del Consiglio gli fece cenno delle voci sul voto di Maria José, telefonò alla moglie per sapere cosa ci fosse di vero. Maria José rispose che «le notizie pub­ blicate dai giornali sono inesatte». Tuttavia (è Nenni che lo annota il 4 giugno) «il bel Peppino (Saragat) che non sta nel­ la pelle ha raccontato a Togliatti e a me di aver saputo da Lupinacci che la Regina ha votato per i socialisti, dando la preferenza a lui». A Nenni che gli chiedeva, il primo giugno, per chi avreb­ be votato, De Gasperi aveva risposto: «Il voto è segreto. Ma sono pronto a scommettere con te che il mio Trentino nero darà più voti alla Repubblica della tua rossa Romagna» (l'az­ zeccò). La figlia Maria Romana attestò poi che sia il padre, sia lei, avevano votato Repubblica. Il paese si mantenne, nella prova, calmo, la partecipazio­ ne alle urne fu alta, l'89 per cento. CAPITOLO SECONDO

IL 2 GIUGNO

Nella notte fra il 3 e il 4 giugno, quando i dati elettorali che affluivano al Viminale prendevano già consistenza, Romita temette che la Repubblica fosse stata sconfitta. «Intorno alle ventiquattro sembrava che ogni speranza fosse perduta. Mi chiusi nello studio per scorrere e riscorrere quei dati. No, non era possibile! Tornai a leggerli, prendendo appunti, fa­ cendo calcoli. No, non era possibile! Eppure le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile!» Il ministro dell'Interno esagera alquanto, per rendere la concitazione drammatica del momento, con i punti escla­ mativi. Ma era un ingegnere, non uno scrittore: e di nume­ ri se n'intendeva. «Il guaio - citiamo ancora Romita - fu che anziché dal Nord i primi dati arrivarono dal Sud. Una vera beffa della sorte. A conoscenza di quanto accadeva, in quel­ le prime ore, fummo soltanto De Gasperi, Nenni e io.» Il ministro s'illudeva, per quanto concerneva la segretez­ za. De Gasperi stesso, attento a non compromettere le chan- ces sue e del suo partito in caso di successo monarchico, ave­ va informato Falcone Lucifero della tendenza iniziale. «Si­ gnor ministro - gli scrisse il 4 giugno - le invio i dati perve­ nuti al Ministero dell'Interno fino alle 8 di stamane. Come vedrà si tratta di risultati assai parziali che non permettono nessuna conclusione. Il ministro Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana. Io personalmente non credo che si possa - rebus sic stantibus - giungere a tale con­ clusione. Cordialmente. De Gasperi. P.S. Le cifre sono anco­ ra confidenziali. Le sarò grato se Ella mi mandasse Sue eventuali informazioni accertate.»

302 Rincuorato anche da questa autorevole anticipazione, Umberto vide risorgere la possibilità, insperata, di una vit­ toria. «Ho l'impressione - disse a Falcone Lucifero nel po­ meriggio di quello stesso giorno - che si stia attuando l'ipo­ tesi prevista nel messaggio agli italiani rivolto da Genova. Offrirò dunque, a breve scadenza, un secondo referen­ dum.» Anche i giornalisti avevano avuto sentore della iniziale prevalenza monarchica, ma, cedendo alla dietrologia nazio­ nale, rifiutarono la spiegazione più semplice e ne elaboraro­ no una sofisticata. Il socialista Romita aveva di proposito la­ sciato trapelare, supposero, notizie favorevoli alla Monar­ chia, per poi tirar fuori dal cassetto un milione di voti re­ pubblicani che vi aveva accantonato, e godersi il colpo di scena. Secondo la versione di Romita, che nella sostanza è stata confermata da testimonianze autorevoli e insospettabi­ li, l'altalena dei risultati dipese unicamente dal modo in cui pervennero al centro. Non appena divenne massiccio il pe­ so del Settentrione, la Repubblica passò in vantaggio, tanto che il computo finale le diede 12.182.000 voti contro i 10.362.000 della Monarchia. Un milione e mezzo, ma lo si seppe dopo, le schede bianche o nulle (che nella successiva contestazione tra il Re e il governo acquisteranno importan­ za decisiva). «Il milione di voti era arrivato - commentò Ro­ mita nelle sue memorie - ma non era uscito dal mio casset­ to, sibbene da centinaia, da migliaia di urne.» II referendum aveva tuttavia dimostrato, caso mai ce ne fosse bisogno, che esistevano due Italie, e che il periodo do­ po l'8 settembre 1943 - con il Regno del Sud e la Repubbli­ ca di Salò - aveva accentuato le loro dissimiglianze. In tutte le province a nord di Roma, tranne due, aveva prevalso la Repubblica, in tutte quelle a sud di Roma, tranne due, ave­ va prevalso la Monarchia. Le eccezioni furono Cuneo e Pa­ dova a nord, Latina e Trapani a sud. All'85 per cento che la Repubblica ebbe a Trento, al 77 per cento che ebbe in Emi­ lia-Romagna, si contrapposero il 77 per cento che la Monar-

303 chia ebbe in province come Napoli e Messina (ma la sua punta massima fu a Lecce, 85 per cento).

La pubblicistica monarchica continua ad alimentare, dopo un quarantennio, i dubbi sulla correttezza del conteggio. Il recupero repubblicano fu preceduto - osserva l'Artieri - da un lungo silenzio, e da minacce di sciopero generale se la Monarchia avesse prevalso (l'intenzione c'era negli ambien­ ti di sinistra; Romita stesso ha raccontato d'avere ricevuto, alcuni giorni prima, un gruppo di operai che l'avevano av­ vertito: «Se vincerà la Monarchia indiremo lo sciopero ge­ nerale»). Era logico, con questi precedenti, che la successiva valanga repubblicana suscitasse qualche sospetto. Quando, la notte sul 5, un corrispondente straniero telefonò a Infan­ te per comunicargli che ormai la Repubblica era in testa con due milioni di voti in più, il generale ribatté: «E un assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte». Ma al di là di questa sensazione di sconcerto e di qualche minore episodio locale, la tesi monarchica della manipolazione delle schede o dei numeri non ha validi sostegni. Gli ambienti di Corte accet­ tarono inizialmente il responso delle urne con amarezza, ma senza obbiezioni alla sua genuinità. Falcone Lucifero lo comunicò a Umberto (notte sul cinque giugno), e così ha descritto la scena: «Eravamo tutti e due commossi per quan­ to non volessimo darlo a vedere. Le sconfitte rivelano gli animi meglio delle vittorie». La mattina del 5 la vittoria repubblicana era data già per certa, anche se con qualche residua cautela. Il singolare ti­ tolo dell' Unità rivelava un'ombra di perplessità: «Il compa­ gno Nenni ha informato il compagno Togliatti che la Re­ pubblica ha vinto». Se era una frottola, tanto peggio per il compagno Nenni. All'alba (sempre del 5 giugno) Enzo Sel­ vaggi, cui erano pervenute, nella redazione dell'Italia Nuo­ va, informazioni sugli annunci, da parte della stampa re­ pubblicana, della ormai consolidata maggioranza antimo­ narchica, telefonò a Romita. Quelle anticipazioni, protestò,

304 violavano l'impegno secondo il quale dovevano essere rese note solo cifre ufficiali. Romita promise una precisazione. Il suo capo di Gabinetto Vicari dichiarò che, per quanto gli ri­ sultava, «la notizia della maggioranza repubblicana non ha fondamento», e un comunicato di Romita definì «non atten­ dibili» i gridi di trionfo giornalistici. Sulla base di queste ret­ tifiche l'Italia Nuova li bollò come menzogneri. In realtà era­ no un po' azzardati, non falsi. Alle 10,30 De Gasperi, che aveva chiesto l'appuntamento alcune ore prima, fu introdotto al Quirinale nello studio di Umberto: lo accompagnavano Bartolotta e Giulio Andreot- ti. (Nel suo Visti da vicino Andreotti ricorda un De Gasperi «sempre tranquillo, fin dal primo colloquio», anche se, «si­ curo della lealtà e del buon senso del Re, non Io era altret­ tanto per quel che riguardava i suoi consiglieri».) Professan­ dosi «dolorosamente sorpreso», De Gasperi informò il Re della «considerevole maggioranza per la Repubblica», leg­ gendo le cifre che Romita gli aveva fornito. Tra breve disse, il governo avrebbe fatto una dichiarazione ufficiale: la pro­ clamazione spettava comunque alla Corte di Cassazione. Il Presidente del Consiglio illustrò anche la procedura che a suo avviso doveva essere seguita per il trapasso dei poteri. Avutosi il responso dalla Corte, De Gasperi, il primo presi­ dente Giuseppe Pagano e il procuratore generale Pilotti ne avrebbero solennemente riferito al Re (o ex-Re) al Quirina­ le. De Gasperi avrebbe quindi scortato Umberto alla par­ tenza. Umberto espresse il desiderio di rivolgere un mes­ saggio d'addio al Paese, e De Gasperi acconsentì. A sua vol­ ta aveva in animo di pronunciare due brevi discorsi, l'uno a suggello della cerimonia con cui la Cassazione doveva aval­ lare l'esito del referendum, l'altro per esprimere a Umberto in partenza per l'esilio il riconoscimento, da parte del go­ verno, della sua correttezza costituzionale e democratica. Questo progetto protocollare pareva non solo realizzabi­ le, ma certo, a contrassegno di una unanime volontà disten­ siva. Alla Corte premeva soprattutto di ridurre al minimo la

305 durata della «situazione penosa» in cui era il Re. Nel tardo pomeriggio, al Viminale, i rappresentanti dei partiti che avevano presentato liste nazionali e una folla di giornalisti ascoltarono Romita - dopo un perfetto uppercut a George Brian dell'Associated Press, perché gli stava troppo addosso - che dava lettura dei risultati. Quando i partiti di sinistra proposero che il 2 giugno fosse dichiarato festa nazionale, perfino Selvaggi si associò. La famiglia reale si affrettò a fare le valige. Umberto vol­ le che Maria José e i figli partissero immediatamente per Napoli, e si imbarcassero sull'incrociatore Duca degli Abruzzi che era stato messo a loro disposizione. Maria José oppose qualche resistenza, quando già era a Napoli, e Umberto in­ caricò Infante di precipitarvisi per costringerla «anche con la forza» (Artieri) a lasciare l'Italia. I principi di Casa Savoia ebbero analogo ordine dal Re, che la sera del 6 giugno, mentre il Duca degli Abruzzi già navigava verso il Portogallo, cenò al Quirinale con i suoi più stretti collaboratori (la co­ siddetta Corte nobile), avendo accanto a sé il Conte di Tori­ no e il duca Aimone d'Aosta. Il Conte di Torino pregò Um­ berto di dispensarlo dalla partenza («sono vecchio, quasi cieco, che fastidio posso dare a questa benedetta Repubbli­ ca? Non si potrebbe fare un'eccezione per me?»), ma la pa­ rola del Re, e la legge, non potevano essere trasgredite. Il passaggio si prospettava tranquillo, e in qualche modo con­ sensuale, tanto che i politici già congetturavano sulla lottiz­ zazione delle poltrone più importanti, e Nenni, che avrebbe visto volentieri De Gasperi «nella nicchia della Presidenza della Repubblica», capì che da quest'orecchio il leader demo­ cristiano non ci sentiva. De Gasperi «insiste sulla candidatu­ ra Bonomi alla Presidenza della Repubblica e sulla sua alla Presidenza del Governo, lasciando a noi socialisti la Presi­ denza della Costituente». La bomba che mandò in pezzi l'intesa deflagrò la matti­ na del 7 giugno. Giovanni Cassandre, che era segretario del PLI, informò Cattani, anche lui liberale, monarchico, e mini-

306 stro dei Lavori pubblici, che un gruppo di docenti di diritto dell'Ateneo padovano aveva presentato alla magistratura un ricorso contro i risultati del referendum: o piuttosto contro l'interpretazione che ad essi era stata data. Non sappiamo chi in realtà avesse innescato la miccia, e se Cassandro e Cat- tani fossero stati davvero sorpresi dalla novità: che - pur li­ quidata da Nenni come una «questione da mozzaorecchi» - era seria. I professori osservavano che il decreto luogote­ nenziale del 16 marzo precedente con il quale era stato in­ detto il referendum si riferiva a «maggioranza degli elettori votanti», non dei voti validi. E la cifra degli elettori votanti mancava tra quelle rese note da Romita, che s'era limitato a indicare i voti per la Repubblica e i voti per la Monarchia. Occorreva una maggioranza qualificata, da calcolare tenen­ do conto anche delle schede bianche e nulle: occorreva cioè, come si dice in gergo elettorale, un quorum. Un successivo decreto (23 aprile) aveva una dizione assai diversa, perché disponeva che nelle singole circoscrizioni si procedesse «alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribui­ ti alla Monarchia», ignorando un numero base (totale dei votanti) su cui ci si dovesse regolare. Ed è probabile che la formulazione del primo decreto fosse derivata soltanto da quella scarsa diligenza legislativa che rende l'Italia il terre­ no di coltura ideale dei cavilli. I successivi accertamenti di­ mostrarono tra l'altro false le voci secondo le quali le schede bianche o nulle erano state assai più numerose nel referen­ dum che nelle elezioni per la Costituente (furono invece quasi mezzo milione in meno, un milione e mezzo contro 1.930.000, e questo si spiega con la maggior complessità della votazione per la Costituente). Restava il fatto che il cal­ colo ufficiale del Ministero dell'Interno dava alla Repubbli­ ca il 54,26 per cento dei voti, e alla Monarchia il 45,74, men­ tre il calcolo dei docenti padovani, che Selvaggi e poi anche Cassandro e Cattani adottarono, riduceva la maggioranza repubblicana al 51,01 per cento. Così esigua che uno spo­ stamento causato dalla scoperta di errori e illegalità - a que-

307 sto i ricorrenti intendevano arrivare - poteva vanificarla completamente. Ancora il 7 giugno, nonostante quel che bolliva in pento­ la, Umberto si attenne al programma del congedo, e andò dal Papa. Il cerimoniale - non visita di un Capo di Stato a un altro Capo di Stato, ma visita «privata» di un Capo di Stato - era stato elaborato con sottigliezza. Il Re era in uniforme di maresciallo, ma senza decorazioni. L'udienza durò mezz'ora, il commiato fu freddo, Pio XII pronunciò frasi di circostanza («È nel segno del rispetto della legge umana e divina che Vostra Maestà troverà in questi giorni amarissimi la giusta strada secondo le tradizioni della sua casa»). Ma l'8 giugno l'iniziativa dei docenti padovani di­ venne crisi politica perché Selvaggi se ne appropriò, met­ tendo in causa il referendum nella sua globalità, e opponen­ dosi alle conseguenze che se ne dovevano trarre. In due successive lettere a De Gasperi, il segretario del Partito de­ mocratico nazionale riassunse le argomentazioni dei giuristi padovani sul quorum, insinuò che il governo volesse risolve­ re la questione con un colpo di Stato strisciante, e propose infine di subordinare «la formazione di un eventuale gover­ no provvisorio repubblicano ad un impegno, solennemente preso da tutti i partiti e garantito internazionalmente, di sottoporre a nuovo e regolare referendum il problema isti­ tuzionale». Il governo sperava che la Cassazione desse il suo responso il 9 giugno, così che ne risultasse abbreviato un pericoloso tempo di incertezza. Ma il presidente Giuseppe Pagano decise per il pomeriggio del 10 giugno, alle 18. Co­ me sede della cerimonia fu prescelta la Sala della Lupa, a Montecitorio, chiamata a quel modo per una lupa romana di bronzo che vi era collocata. Si diffuse in anticipo l'informazione che la Cassazione non si sarebbe sbilanciata, tanto che l'ammiraglio Stone e i rappresentanti del corpo diplomatico non si fecero vedere, e L'Osservatore Romano, stampato mentre la cerimonia era in corso scrisse che si era avuta la proclamazione «dei soli voti

308 attribuiti alla Monarchia e alla Repubblica con riserve di ret­ tifiche che verrebbero rese note attraverso la Gazzetta uffi­ ciale». Nell'imminenza della pronuncia della Cassazione i ministri furono convocati in gran fretta perché, spiegò loro De Gasperi, «il Re chiedeva il rinvio della proclamazione... a domani mattina, e ciò perché egli non poteva partire alle sette di sera per un viaggio in aereo di almeno cinque ore. Abbiamo offerto di anticipare la cerimonia e si è poi deciso di lasciare le cose come stavano». Pur nel colmo dell'offensi­ va monarchica, Umberto sembrava sempre risoluto ad an­ darsene senza porre problemi. Ma i più battaglieri tra i suoi intimi lo stavano lentamente convincendo a resistere. La Cassazione - e della Cassazione i due massimi esponenti, il primo presidente Giuseppe Pagano e il procuratore gene­ rale Pilotti - assumeva, imprevedibilmente, un ruolo di pri­ mo piano nella vertenza istituzionale. La faccenda del quo­ rum dava al loro intervento un contenuto non più formale, e celebrativo, ma sostanziale. Pagano e Pilotti erano magistrati scrupolosi, di vecchia scuola, ma sicuramente mal disposti verso la Repubblica. Pagano, palermitano, prossimo alla pensione, apparteneva a una dinastia di uomini di toga. Il padre Giambattista, se­ natore del Regno, era stato nominato conte da Vittorio Emanuele III nel 1910, quando il nuovo palazzo di giustizia di Roma era stato consegnato all'ordine giudiziario. Con­ servatore, Pagano era stato tuttavia tra i pochi magistrati che avevano rifiutato l'iscrizione al Partito fascista. Egual­ mente conservatore - e con maggiore animosità antirepub­ blicano - era Massimo Pilotti, ancora in carica all'inaugura­ zione dell'anno giudiziario del 1947, quando ad Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, egli non rivolse nep­ pure una parola di saluto o di omaggio, suscitando scanda­ lo e riprovazione. Alle 18, dunque, magistrati, governo, giornalisti erano nel­ la Sala della Lupa. Venti i giudici della Cassazione (oltre al primo presidente e al procuratore generale, sei presidenti di

309 sezione, e dodici consiglieri). Scelti e di alto rango gli invitati, tra i quali gli ex-Presidenti del Consiglio Orlando, Bonomi e Parri. A un tavolo avevano preso posto, davanti a due addi­ zionatrici con manovella del tipo usato un tempo nelle botte­ ghe, due «computisti» dei quali ci sono stati tramandati i no­ mi: il ragionier Ciccarelli (che avrebbe sommato i voti per la Repubblica nelle 31 circoscrizioni, man mano che il presiden­ te Pagano ne desse lettura), e il ragionier Fracassi, che avreb­ be proceduto alla stessa operazione per la Monarchia. Nella solennità di quella cornice, solo un po' compro­ messa dalle macchine contabili, cessato lo sventolìo di gior­ nali con cui i presenti tentavano di difendersi dalla scirocco- sa calura pomeridiana, Pagano prese a leggere con voce a malapena udibile i verbali. Tirate le somme, i computisti posero due foglietti di carta davanti al Presidente che an­ nunciò i totali, ma - citiamo dall'Artieri - commise una svi­ sta e attribuì alla Repubblica dodicimila voti, corretti subito in dodici milioni. A conclusione Pagano disse: «La Corte, a norma dell'articolo 19 del decreto luogotenenziale 23 aprile 1946 numero 1.219, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, proteste, reclami presentati agli uffici delle singole sezioni, a quelle centrali e circoscri­ zionali e alla Corte stessa concernenti le operazioni relative al referendum: integrerà il risultato con i dati delle sezioni ancora mancanti (erano pochissime 118, e in ogni caso inin­ fluenti, N.d.A.) e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti, dei voti nulli e dei voti attribuiti». Nessuna proclamazione (qualcuno che teneva d'occhio De Gasperi affermò d'averlo visto contrarre il viso in un moto di disap­ punto); Pilotti, che avrebbe dovuto alzarsi e dire: «Proclamo che il popolo italiano nel referendum del 2 giugno sulla for­ ma istituzionale dello Stato ha scelto la Repubblica», non si mosse. L'Italia non era più Monarchia e non era ancora Re­ pubblica, tanto che non si potè, rispondendo all'invocazio­ ne di una piccola folla, esporre a Montecitorio la bandiera, perché non si sapeva quale fosse.

310 Naufragata la sua intenzione di andare subito al Quiri­ nale con Pagano e Pilotti, e chiudere il capitolo istituzionale, De Gasperi vi si avviò ugualmente in compagnia del liberale Arpesani, monarchico. Umberto sapeva già cosa era avve­ nuto, e assunse una posizione rigida. «La Corte ha rinviato a un secondo tempo la proclamazione dei risultati definiti­ vi... La proclamazione di un governo provvisorio repubbli­ cano è un'illegalità. Preferirei, se un trapasso dovesse esser­ ci, nominarla io stesso reggente civile. Non è possibile ade­ rire alla sua richiesta di un trapasso di poteri e la mia conse­ guente partenza: in simili condizioni essa assomiglierebbe ad una fuga.» La tesi Selvaggi era ormai la tesi del Re, di­ sposto a delegare poteri che rimanevano formalmente suoi. Dal Quirinale - erano le otto di sera - De Gasperi si pre­ cipitò al Viminale per consultarsi con gli altri ministri. Nella sua ansia di evitare conflitti - a Napoli si avvertivano i pro­ dromi di un'esplosione della «piazza» monarchica - sconsi­ gliò che la Repubblica fosse data per formalmente acquisita. Un trapasso di poteri «provvisorio» era forse la migliore strada. Molte furono le obbiezioni: tutte «repubblicane», con la sola eccezione di Cattani. Fu disposto che De Gasperi tornasse immediatamente al Quirinale. Lo fece, dopo una telefonata di preavviso, accompagnato non più da Arpesa­ ni, ma dal ministro Mario Bracci, azionista, e ardente re­ pubblicano. Era il sintomo d'una diversa disposizione del Presidente. De Gasperi e Bracci discussero con due consi­ glieri del Re, Falcone Lucifero e Carlo Scialoja, il testo d'u­ na dichiarazione soddisfacente per tutti. Il governo era di­ sposto ad accettarne una in base alla quale, poiché i dati co­ municati dalla Cassazione erano «suscettibili di modificazio­ ni e di integrazioni», il Re consentiva che «fino alla procla­ mazione dei risultati definitivi il Presidente del Consiglio eserciti i poteri di Capo dello Stato, a partire dalle ore zero dell'I 1 giugno 1946, ai sensi dell'articolo 2 del decreto luo­ gotenenziale del 16 marzo 1946». A prima vista questo consenso reale non era molto diver-

311 so dalla delega già proposta da Umberto. La differenza, ha osservato Antonio Gambino nella sua Storia del dopoguerra, era invece sostanziale. «Nel testo studiato da Bracci e De Ga­ speri, nonostante si parli di un consenso da parte di Um­ berto II, i poteri che vengono assunti dal Presidente del Consiglio non derivano dal Sovrano ma dal decreto legge del marzo precedente.» Alle 10 di sera la nuova formula fu sottoposta al Re, che era febbricitante, e ricevette De Gasperi e Bracci, contro il suo solito, con gelida correttezza, e senza amabilità alcuna. Fu un incontro breve, che non smosse il Re. Tra Quirinale e Viminale il solco si approfondiva, in De Gasperi cresceva una fredda collera trentina, e Falcone Lu­ cifero si lasciava trascinare, secondo la testimonianza di Bracci, da una collera calda, calabrese. Raccontò il ministro azionista che Lucifero, affrontato De Gasperi che non si ri­ solveva a lasciare la reggia senza disinnescare la mina istitu­ zionale, «era iroso, addirittura violento... Ci disse che era un assurdo parlare di trasferimento di poteri prima della decisione dei ricorsi e che erano state indegne le nostre pressioni sulla Cassazione, e sbatteva gli occhiali sul petto di De Gasperi che se ne stava tutto assorto e che sembrava straordinariamente più alto di questo inquieto signore». I particolari di questa scena sono stati, secondo Lucifero, «in­ ventati di sana pianta» dal Bracci in un articolo del 1946 sul­ la rivista II Ponte. Lucifero ha ricordato, smentendo Bracci, che questi era divenuto ministro solo nel febbraio preceden­ te, in sostituzione di Ugo La Malfa e che, a parere dello stes­ so De Gasperi, era «il più fazioso del suoi ministri, più di Nenni e Togliatti». La divergenza tra Bracci e Lucifero riguarda comunque circostanze accessorie. Resta fermo che, durante il dramma­ tico colloquio, De Gasperi pronunciò una frase grave: «E sta bene: domattina o verrà lei a trovare me a Regina Coeli o verrò io a trovare lei». Fu uno scatto. Dopo il quale l'instan­ cabile mediatore chiese di rivedere il Re, che fu duro: «Io

312 scompaio, vi affido l'Esercito e la Marina, mi astengo da qualsiasi gesto che possa scatenare la guerra civile. Non po­ tete chiedermi di più... Lei senta il Consiglio dei ministri e domattina ci si rivedrà. Raccomandi al Consiglio di avere pazienza. Non casca il mondo se passa qualche giorno». Il generale Infante, in una intervista alla France Presse, aveva a sua volta dichiarato che «senza voler abusare del termine frode» erano stati comunque commessi errori. «La ripeti­ zione del referendum diventa in queste condizioni consi­ gliabile.» Brosio, ministro della Guerra, era del parere che tra i consiglieri di Umberto si fossero formati due partiti, l'uno moderato «al quale a quanto mi consta apparteneva il Re», e un «gruppo di giovani turchi, composto in prevalen­ za di ufficiali estremisti, deciso ad approfittare della situa­ zione giuridicamente incerta per un colpo di forza. Che questo secondo gruppo avesse degli addentellati anche al­ l'interno dello Stato Maggiore non posso affermarlo. Ma quello che posso dire, perché è una mia esperienza diretta, è che in quei giorni, quando la mattina mi recavo al mini­ stero, piombavo immediatamente in uno stato di isolamen­ to assoluto: intorno a me si creava il vuoto». Il Consiglio dei ministri sedeva, in pratica, ininterrotta­ mente. Dall'una di notte in avanti ascoltò una ennesima «informativa» di De Gasperi, e un'altra ne ebbe a mezzo­ giorno dell'I 1 giugno, dopo che il Presidente del Consiglio aveva incontrato l'ammiraglio Stone e l'ambasciatore ingle­ se, sir Noel Charles. Per entrambi la pronuncia della Cassa­ zione non era sufficientemente chiara. Questo Stone l'aveva detto anche a Umberto, che se n'era sentito rafforzato nella volontà di non cedere. L'uno dopo l'altro venivano appron­ tati documenti che ripetevano le stesse risapute cose in for­ me un po' diverse: ad esempio si abbinava la delega del Re al Presidente del Consiglio ad un riferimento al decreto del 16 marzo, così che il trapasso dei poteri fosse insieme ope le- gis e per volontà di Umberto. Poiché il Quirinale scartava via via le opzioni governati-

313 ve, Orlando ne architettò una che per la sua semplicità ven­ ne battezzata «l'uovo di Colombo». Non facciamo nulla, sug­ geriva (in fondo con sensatezza) il vegliardo statista, lascia­ mo trascorrere nell'inazione i pochi giorni che mancano al responso definitivo della Cassazione (la nuova seduta era stata fissata per il 18 giugno), e poi agiremo in base a un verdetto inoppugnabile. Ma l'uovo di Colombo arrivava sul­ la tavola delle trattative quando gli animi erano troppo ac­ cesi. Pressato da Togliatti, da Nenni, dagli azionisti, De Ga­ speri obbiettò al Re (che accettava la soluzione Orlando) che il governo riteneva d'aver già ricevuto, per effetto dei risul­ tati, i poteri. Umberto prospettò allora la possibilità di com­ portarsi autonomamente, nominando un luogotenente: se De Gasperi non voleva, quella carica poteva essere di Or­ lando o di Thaon di Revel. Questo avveniva nel primo pomeriggio dell' 11 giugno. Per le 16 fu stabilito un nuovo appuntamento al Quirinale, ma il Re - segno di straordinaria tensione, in un uomo così compito - ricevette De Gasperi, che spazientito aveva più volte minacciato di andarsene, con quasi un'ora e mezza di ritardo. Gli disse che s'era consultato con Orlando, ma che aveva bisogno di sentire altri giuristi. Chiedeva insomma di poter riflettere ancora. De Gasperi si fece a quel punto so­ lenne: «Senta, le parlo come in Sacramento. A me non im­ porta nulla, posso sparire domani stesso dalla scena politi­ ca. Ho due sole cose a cuore, che ho sempre difeso: l'unità morale e l'unità territoriale dell'Italia. Sono entrambe in pe­ ricolo. Non faccia un passo falso. Danneggerebbe oltre tutto la dinastia che sinora si è comportata in modo tale da pote­ re in un eventuale domani aspirare a ritornare. Non rovini la sua reputazione». Fermo nel rivolgersi al Re, De Gasperi cercava di calma­ re i più esagitati quando si ritrovava, al Viminale, tra i mini­ stri. Alle nove di sera telefonò al Quirinale, ma Umberto era introvabile e i suoi aiutanti risposero che, stanco, aveva pre­ so un bagno ed era uscito per cena. Senza lasciarsi vincere

314 dall'irritazione, De Gasperi partecipò a una riunione serale del governo, e rimbeccò Sceiba secondo il quale «Umberto II da ieri non è che un privato cittadino. Non è pertanto tollerabile che il nuovo Capo dello Stato (De Gasperi, N.d.A.) si rechi da lui». «Questo è vero in teoria - obbiettò De Gasperi - ma politicamente sarebbe un errore: questa è opinione non soltanto mia. Non mi pare giunto il momento di fare un passo (l'annuncio del passaggio dei poteri, N.d.A.) che può determinare la guerra civile.» E il Consiglio dei ministri soprassedette. L'indomani, 12 giugno, la situazione precipitò, per ciò che accadeva a Roma e per ciò che accadeva lontano da Ro­ ma. Napoli, almeno la Napoli monarchica dei bassi, era in rivolta. Già si erano lamentati due morti in incidenti politici prima del 10 giugno; il 12 i morti furono 11, e si rischiò una carneficina. Sui muri della città erano apparse scritte «Viva Masaniello! Abbasso la Repubblica!», e un «Movimento di li­ berazione del Mezzogiorno» aveva fatto affiggere un mani­ festo farneticante: «Ci proponiamo, seppure col cuore stra­ ziato di fronte agli eventi che infrangono l'Unità d'Italia, di ridare alle nostre regioni del Mezzogiorno quella libertà e quell'indipendenza politica ed economica che già le resero tranquille e prospere». L'appello separatista era opera di pochi esaltati. Ma un sentimento di frustrazione, una gran voglia di ammuina serpeggiavano in città, e i giovani agenti di un battaglione allievi di PS mandati da Roma, e visti come braccio armato del Nord prevaricatore, venivano coperti d'insulti, quando non attaccati. Non fu mai accertato che qualcuno avesse di proposito provocato i disordini. Non oc­ correvano istigazioni, in quell'atmosfera sovreccitata. All'u­ na del pomeriggio, il 12 giugno, fu presa d'assalto la sede della Federazione comunista (s'era insediata, in via Medina, negli uffici della Federazione fascista). La rabbia della folla era divampata perché ad una finestra era esposto, insieme alla bandiera rossa (o sovietica, come si disse?) anche un tri­ colore con l'immagine d'una donna turrita, anziché lo scu-

315 do di Savoia, sul rettangolo bianco. In un tumulto proprio alla Masaniello furono rovesciate vetture tranviarie, erette barricate agli sbocchi di Piazza Municipio, e parecchi scal­ manati, dopo aver preteso invano che le bandiere fossero ammainate, presero a scalare la facciata della sede comuni­ sta, i cui occupanti sbarravano porte e finestre. Intervenne­ ro carabinieri e polizia, anche con autoblindo, vi furono scontri e scaramucce che si prolungarono per ore, mentre veniva buttata benzina su improvvisate cataste, date poi alle fiamme. Si sparò, con pistole, fucili, mitra, furono anche lanciate bombe a mano. Tristissimo il bilancio: due carabi­ nieri e nove giovani o addirittura ragazzi (tra essi una stu­ dentessa ventenne di Milano) uccisi, una settantina di feriti alcuni dei quali gravi. Giorgio Amendola, sottosegretario al­ la presidenza, presente casualmente a Napoli, era nella Fe­ derazione comunista; fu «fermato» nel trambusto, dalla Mi- litary Police alleata e subito rilasciato. I monarchici si erano scatenati, ma qualcuno, tra le forze dell'ordine, aveva perso la testa. Ricordò Romita: «Fra i provvedimenti che adottai ve ne fu uno veramente drastico: in una sola notte feci sosti­ tuire tutte le forze dell'ordine presenti a Napoli. In tal mo­ do portai sul posto elementi nuovi, estranei all'ambiente, più liberi di agire con quell'imparzialità che il delicato mo­ mento imponeva». Mentre Napoli si dava alle barricate, Falcone Lucifero consegnava a De Gasperi - ore 13 del 12 giugno - una gran­ de busta bianca con una breve lettera del Re: così breve, sec­ ca e perentoria che Bracci la definì «regio viglietto». «Signor Presidente - scriveva Umberto - ritengo opportuno confer­ marle ancora una volta la mia decisa volontà di rispettare il responso del popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Suprema Corte di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo.» Il Re assicurava quindi il suo massimo contri­ buto alla «pacificazione degli spiriti» e alla «collaborazione». Ma due punti rimanevano fermi: la maggioranza andava

316 calcolata sui votanti, non sui voti validi, e tutto restava im­ pregiudicato fino al responso definitivo della Cassazione. Turbato da una presa di posizione che lasciava ben poco margine, ormai, ai compromessi, De Gasperi attese fino alle nove di sera, tenendo in tasca la lettera, per indire un enne­ simo Consiglio dei ministri. A conclusione di esso fu stilato un documento nel quale ogni parola era pesata. «Il Consi­ glio dei ministri riafferma che la proclamazione dei risultati del referendum... ha portato automaticamente all'instaura­ zione di un regime transitorio durante il quale... l'esercizio delle funzioni del Capo dello Stato spetta ope legis al Presi­ dente del Consiglio in carica.» La rottura non voleva essere totale. Regime transitorio, non repubblicano, ed esercizio delle «funzioni», non dei poteri di Capo dello Stato. A un giornalista straniero che voleva veder chiaro in questa selva oscura giuridico-costituzionale, De Gasperi spiegò ch'egli si considerava ormai, «praticamente», il Capo dello Stato, ed esemplificò: «Se vi fosse necessità di emanare una legge ur­ gente, non potrei che firmarla io». De Gasperi sperava pro­ babilmente, con quella dizione calibrata, di tener buono il Re. Ma sperava troppo, e pretendeva troppo da Umberto. Rifiutatagli la delega, rifiutato l'uovo di Colombo, trasmesse al Presidente del Consiglio le funzioni di Capo dello Stato, l'esito del referendum era dato per acquisito prima della pronuncia definitiva della Cassazione. Non la Cassazione aveva deciso, ma il governo.

De Gasperi, avuto la mattina il «regio viglietto», aveva insi­ stito con Falcone Lucifero che il Re lasciasse il Quirinale, trasferendosi magari a Castelporziano. Quella sera fatale Umberto uscì in effetti dalla reggia, e vi rientrò soltanto l'in­ domani. Con il generale Graziani raggiunse Villa Feltrinelli, che apparteneva alla moglie di Luigi Barzini^V. Insieme ai padroni di casa, era a cena il senatore Bergamini. Giannali- sa Barzini Feltrinelli si era fratturata una gamba, il giorno precedente, in un incidente automobilistico, e accolse gli

317 ospiti sdraiata a letto. Nella tarda serata Barzini lasciò gli al­ tri per un impegno di lavoro, al Tempo. Là apprese della co­ municazione governativa che sanciva la decadenza della Monarchia e telefonò alla moglie che informò immediata­ mente il Re. Questi, congedatosi dalla Barzini, trascorse la notte - l'ultima in terra italiana - nella casa di un altro co­ noscente, l'ingegner Corrado Lignana, in via Verona 3. Molti personaggi insigni della politica italiana disertarono del resto il loro domicilio e il loro letto, in una notte percor­ sa da sussurri di golpe. Togliatti chiese asilo all'ambasciato­ re sovietico, Scoccimarro a un amico monarchico. Da casa Lignana, Umberto si tenne in contatto con Falcone Lucife­ ro, rimasto al Quirinale: e due volte lo ricevette in via Vero­ na, la mattina del 13 giugno. Nella notte i consiglieri del Re avevano formulato alcu­ ne ipotesi di comportamento, che gli sottoposero. La pri­ ma era quella dello scontro aperto. Umberto avrebbe di­ chiarato decaduto il governo per nominarne un altro pre­ sieduto da un alto funzionario, da un personaggio politico, o da Falcone Lucifero. «Il nuovo governo deve impadro­ nirsi delle leve di comando, assicurare l'ordine pubblico, e procedere ad un'inchiesta sulla condotta delle votazioni. Se il referendum risultasse non valido, dovrebbe essere rifatto in un secondo tempo, quando le condizioni del Paese lo consentissero. Se il governo attuale facesse resistenza, i mi­ nistri verrebbero arrestati.» Era la possibilità, anzi la pro­ babilità della guerra civile. Nella capitale questa riedizione del 25 luglio avrebbe avuto quasi certamente successo. Uno dei capi della PS aveva confidato a Manlio Lupinacci: «In due ore potrei arrestare tutti i ministri. Posso garantire in modo sicuro lo svolgimento della operazione di polizia a Roma. Ma dopo?». Seconda ipotesi era che il Re, ignorando il «colpo di Sta­ to» con cui il governo l'aveva esautorato, si limitasse ad aspettare la riunione della Cassazione, il 18 giugno, atte­ nendosi alla formula di Orlando. Il disagio e i problemi per

318 lui sarebbero stati seri: ma per il governo sarebbero stati an­ cora più gravi. Terza ipotesi (in qualche modo una subordinata della precedente) era che Umberto aspettasse, ma non passiva­ mente: e con un proclama al Paese denunciasse «l'arbitrio e l'usurpazione del governo» (Artieri). Quarta ipotesi (poi avveratasi). Partenza del Re, senza abdicazione e senza passaggio di poteri, proclama al Paese, come nella terza ipotesi, e rifiuto di considerare legittima­ mente e genuinamente risolta la questione istituzionale. La decisione di Umberto, presa in casa Lignana, fu la meno traumatica che il viluppo degli avvenimenti ormai consentisse: e aderiva al temperamento di questo Savoia. Compreso della sua dignità, dotato di un forte senso del do­ vere, corretto e cortese, il Re era alieno da gesti di forza che potessero comportare lo spargimento di altro sangue tra ita­ liani. Sempre, nella sua vita, il principio dell'obbedienza aveva fatto premio sugli slanci personali. Lo si era visto du­ rante la fuga di Pescara, e nel tormentato periodo del Re­ gno del Sud che aveva preceduto la Luogotenenza. Forse taluni suoi irrigidimenti durante l'estenuante negoziato con De Gasperi derivarono più dalle pressioni dell'entourage che dalla sua volontà. Quando tuttavia si arrivò al punto che rendeva impossibile una soluzione concordata, Umberto adottò la più distensiva. Solo a metà della giornata ricomparve al Quirinale, per una breve estrema sosta. Passeggiando nei giardini elaborò con Falcone Lucifero il contenuto d'un proclama agli italia­ ni che, abbozzato soltanto nelle grandi linee, fu completato dallo stesso Lucifero, dal senatore Bergamini e da altri. In un abito grigio alquanto stazzonato, un cappello a cencio, la barba lunga, Umberto salutò il personale del Quirinale, quindi passò in rivista - erano ormai le 15 - i corazzieri e la cosiddetta «piccola guardia d'onore» dei granatieri: il corpo cui egli stesso apparteneva. I corazzieri erano in uniforme blu al comando del colonnello duca Giovanni Riario Sforza,

319 che consegnò al Re un piatto d'argento con incise le firme di tutti. Cinque automobili - tra cui quella di Umberto con la drappella di Casa Savoia e la bandiera azzurra con i gradi di maresciallo ai lati del cofano - si avviarono verso Ciampi- no, dov'era in attesa un quadrimotore Savoia Marchetti 95 lì trasferito pochi momenti prima da Centocelle, ovviamen­ te con autorizzazione degli Alleati cui spettava il controllo degli aeroporti. Le modalità della partenza erano state sta­ bilite dal ministro dell'Aeronautica Mario Cevolotto - cui l'uso dell'aereo era stato chiesto alle 14 - e dal generale Adolfo Infante. Cevolotto, demolaburista, era schiettamen­ te repubblicano: ma lo univano a Infante vincoli di parente­ la e una lunga amicizia. Cevolotto e il ministro della Marina ammiraglio Raffaele De Courten erano sulla pista, per con­ trollare che tutto procedesse senza intoppi. Il Re non volle stringere loro la mano. L'aereo avrebbe fatto tappa a Ma­ drid, e s'era pensato di imbarcarvi anche il nuovo ambascia­ tore d'Italia in Spagna, duca Gallarati Scotti. Ma i consiglie­ ri della Corona rifiutarono, per la preoccupazione che il viaggio insieme a un diplomatico con le credenziali della Repubblica ne implicasse il riconoscimento: i bagagli del­ l'ambasciatore furono scaricati. Alcune decine di fedeli erano attorno all'apparecchio quando il Re si affacciò al portello salutando, con un sorriso impeccabile, un po' forzato. Dalla torre del Quirinale un graduato aveva sorvegliato con il binocolo la zona dell'aero­ porto, per togliere la bandiera con lo scudo sabaudo nel momento in cui il quadrimotore si levasse in volo. Nell'im­ minenza dell'addio all'Italia Umberto aveva fatto, a chi gli era stato vicino in quei frangenti, distribuzione di decora­ zioni e titoli nobiliari. Questi aristocratici dell'ultima ora fu­ rono comunemente chiamati «conti di Ciampino».

Verso le cinque del pomeriggio (13 giugno 1946) Guido Go- nella si affacciò allo studio di De Gasperi e lo vide, lui che

320 non fumava mai, quasi sdraiato nella poltrona dietro il suo tavolo di lavoro, con una sigaretta in bocca. Gonella ignora­ va che Umberto di Savoia aveva lasciato l'Italia un'ora pri­ ma, e il Presidente del Consiglio gli diede la notizia, aggiun­ gendo: «Per me è una grande liberazione perché avevo una paura enorme che, o per la resistenza dei monarchici o per la fretta dei repubblicani, si sviluppasse un attrito che pote­ va assumere le caratteristiche di una guerra civile». De Ga­ speri mostrò a Gonella quattro o cinque fogli sui quali, con la sua larga scrittura, «aveva buttato giù l'abbozzo di un di­ scorso di saluto che, se l'ex-Re Io avesse avvisato, avrebbe voluto rivolgergli a Ciampino... De Gasperi sapeva che la maggioranza repubblicana era stata esigua e che una fase di distensione era assolutamente indispensabile. Nonostante i suoi scontri con Lucifero, era quindi pronto a mantenere fermo il suo programma di un gesto finale di conciliazione nazionale. La partenza rapidissima e quasi segreta del Re glielo aveva impedito». Tra le altre cose, De Gasperi voleva dire che il verdetto popolare andava rispettato, ma che pro­ prio in quel momento si doveva rendere omaggio ai meriti che la Monarchia aveva avuto nella storia d'Italia. Le ansie per il Capo del governo e dello Stato non erano però finite. Il pomeriggio e la sera gliene diedero altre. La prima fu la pubblicazione, su // Giornale della Sera, monar­ chico, d'una informazione secondo la quale erano stati gli Alleati a volere la partenza del Re. Stone e l'ambasciatore inglese Charles smentirono immediatamente. La seconda, di maggior rilievo, fu il preannuncio d'un proclama d'addio di Umberto, trasmesso all'Ansa «dopo attenta revisione e di­ scussione con i consiglieri in casa Bergamini, quando il Re era già in volo sul Mediterraneo» (l'ammissione è dell'Artie­ ri). Si può sospettare che alcuni passaggi particolarmente polemici del messaggio fossero effettivamente dovuti alla penna dei consiglieri, non a quella di Umberto. «Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parzia­ li fatta dalla Corte suprema - recava il messaggio - di fronte

321 alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei vo­ ti nulli, di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io ancor ieri ho ripetuto ch'era mio dovere di Re attendere che la Corte di Cassazio­ ne facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta... Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il Governo ha compiuto un ge­ sto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitra­ rio poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.» Umberto, che spiegava di voler compiere questo sacrificio (la partenza) «nel supremo interesse della patria», ma di do­ ver egualmente elevare la sua protesta contro il sopruso subito, scioglieva tuttavia dal giuramento alla Corona, nella parte finale del proclama, gli appartenenti alle Forze Arma­ te, e rivolgeva un saluto ai caduti e ai combattenti. Solo dopo le nove di sera De Gasperi seppe del procla­ ma, e diede ordine alla radio di comunicarne l'esistenza, senza riferirne il testo. Ma alle 23 77 Giornale della Sera lo stampò in una sua edizione straordinaria, vanificando la cautela governativa. Chiusosi nel suo studio, il Presidente del Consiglio preparò speditamente, insieme a Gonella, una precisazione-risposta, molto aspra. Il proclama era definito «documento penoso, impostato su basi false e su argomen­ tazioni artificiose». «I due ultimi periodi del proclama - proseguiva la nota ufficiosa - quello che scioglie dal giura­ mento e quello che rivolge un saluto ai caduti ed ai vivi, so­ no due periodi superstiti del proclama che Umberto aveva in precedenza preparato per un pacifico commiato. Ame­ remmo credere che quanto di fazioso e di mendace vi si è aggiunto in questa definitiva sciagurata edizione, sia pro­ dotto dal clima passionale e avvelenato degli ultimi giorni. La responsabilità tuttavia è gravissima e un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna. Il Go-

322 verno e il buon senso degli italiani provvederanno a ripara­ re a questo gesto disgregatore, rinsaldando la loro concor­ dia per l'avvenire democratico della Patria.» La controversia, istituzionale e giuridica, è sbiadita con il trascorrere dei decenni. Certo trionfalismo repubblicano dimentica la ristrettezza sorprendente del margine con cui - al di là di quell'elemento tecnico che era il quorum - la Re­ pubblica si affermò. I voti che la Monarchia ebbe non erano tutti propriamente monarchici. Erano, in particolare al Nord, voti di moderati i quali ritenevano che dopo tanti sconvolgimenti la Monarchia rappresentasse tuttora un'an­ cora solida, un simbolo di continuità e di stabilità: e che, nel- l'infuriare di polemiche ideologiche e partitiche, di minacce e appetiti stranieri, la Monarchia potesse salvaguardare me­ glio, e più imparzialmente, gli interessi del Paese. Per con­ tro la tesi del proclama di Umberto - a chiunque dovuta -, forse formalmente ineccepibile, secondo la quale Umberto abbandonava la scena italiana nella pienezza dei suoi poteri, non «debellato» come lo erano stati ad esempio i Borboni del Regno delle due Sicilie o la Casa Reale di Francia, non ridotto a persona privata, ignora la realtà storica e politica. La Casa Savoia era stata debellata due volte, dagli anglo­ americani e dai tedeschi. Il resto fu solo un codicillo crude­ le - soprattutto per l'incolpevole Re di maggio - di quella immensa, doppia tragedia d'una Dinastia e d'una Nazione. Si può supporre che Umberto e i suoi consiglieri mirassero a tenere schiusa l'eventualità di una rivincita monarchica a breve scadenza. Barzinij>: ha attribuito all'ex-Re, non appe­ na fu a Lisbona, questa frase: «Le monarchie sono come i sogni. O si ricordano subito o non si ricordano più». La querelle giuridica non era stata tuttavia troncata dalla partenza di Umberto. L'alimentavano l'imminenza del defi­ nitivo responso della Cassazione e le mormorazioni - fon­ date - secondo le quali lo stesso procuratore generale Pilot­ ti si sarebbe schierato, nella valutazione del ricorso Selvag­ gi, per la tesi monarchica. Vi fu un proliferare di pareri au-

323 torevoli prò o contro il riferimento ai «votanti», e non ai vo­ ti validi, per stabilire la maggioranza. I grossi calibri del di­ ritto spararono le loro bordate, Carnelutti, Manzini, Orlan­ do, Scialoja (tra gli altri) per i votanti, Calamandrei, Temolo, Crisafulli, Vassalli, Mortati per i voti validi. Da notare che Achille Battaglia, repubblicano convinto, fu tuttavia, come tecnico, del parere che se fosse mancata una maggioranza sicura rispetto ai votanti, il match sarebbe stato nullo, e si sa­ rebbe imposta la ripetizione del referendum. Il 18 giugno, convocata ancora - con assai minore solennità - la Corte di Cassazione, Pilotti illustrò la sua requisitoria che concludeva per l'accoglimento del ricorso Selvaggi, quindi si votò: dodi­ ci giudici furono per il rigetto del ricorso, sette per il suo ac­ coglimento. Tra questi ultimi il primo presidente Pagano. L'atteggiamento di Pagano e di Pilotti può ingenerare, e in molti ha ingenerato, il sospetto che il dissenso tecnico na­ scondesse qualcosa di più grave: ossia la consapevolezza che il referendum non era stato genuino, e i suoi conteggi vizia­ ti. Pagano, sopravvissuto molti anni al pensionamento, chiarì invece i termini del problema, nel 1960, ad un gior­ nalista amico, Oreste Mosca. E fu chiaro che il problema era e restava di interpretazione. La legge, ripetè Pagano, era stata fatta male, ed egli l'aveva segnalato tempestivamente a Togliatti, Guardasigilli, che s'era schermito rilevando che non era farina del suo sacco, e che era stata riveduta da Or­ lando. Il quale era una disgrazia, quando metteva mano in testi di rilevanza storica: lo si era visto con la famosa aggiun­ ta «la guerra continua» al messaggio badogliano del 25 lu­ glio 1943, lo si rivide per la legge sul referendum. Non vi furono brogli, precisò Pagano. E quanto al ricorso Selvaggi disse: «Tra i sette voti favorevoli al ricorso ci fu il mio. Ma il suo accoglimento non avrebbe mai potuto spostare la mag­ gioranza a favore della monarchia, poteva soltanto diminui­ re sensibilmente la differenza tra il numero dei voti a favore della monarchia e quello dei voti a favore della repubblica». CAPITOLO TERZO

I PRIMI PASSI

L'importanza e la passionalità del referendum avevano mes­ so in ombra la contemporanea elezione della Costituente, specchio assai più sfaccettato degli orientamenti politici ita­ liani. La Democrazia cristiana ottenne 8.080.000 voti, il 35,2 per cento del totale, contro i 4.758.000 voti dei socialisti (20,7 per cento) e i 4.360.000 voti (19 per cento) dei comu­ nisti. Solo di poco dunque i due partiti di sinistra, uniti dal patto di unità d'azione, risultavano insieme più forti della DC, che confermava il suo diritto ad assumere la guida del governo. Era per di più arbitrario sommare i voti della sini­ stra, come se si trattasse d'un blocco omogeneo: lo era in particolare perché il Partito socialista, uscito bene dalla sen­ tenza elettorale era minato dalle faide intestine. Sotto un unico simbolo convivevano - come era del resto nella tradi­ zione - due anime socialiste, quella massimalista - e quindi filocomunista o, come si diceva allora, fusionista - che aveva il suo uomo rappresentativo in Nenni, e quella riformista, autonomista, che aveva trovato un leader in Saragat. Gli autonomisti s'erano sentiti incoraggiati da un succes­ so che - contrapposto al mediocre risultato comunista - sug­ geriva che PSIUP e PCI andassero ciascuno per la sua strada, raccogliendo suffragi in settori sociali diversi. Con le sue maggioranze nelle metropoli industriali (Milano e Torino), dove aveva distanziato sia la DC sia i comunisti, il PSI ambiva ad essere il partito dell'avvenire, di una Italia moderna, in­ dustrializzata, efficiente. Purtroppo questo progetto si rive­ stiva, nell'ala massimalista, dei colori d'un populismo arcai-

325 co, pasticcione, fazioso, e attratto dalle esperienze del «so­ cialismo reale» cioè dei regimi comunisti. Il partito si ubria­ cava di parole anche quando voleva passare al concreto, e un piano di Morandi per il risanamento della situazione economica («è necessario ottenere una riduzione del costo della vita... elevare senza emissione di nuova moneta il po­ tere di acquisto dei salari e degli stipendi... effettuare nello stesso tempo l'assorbimento su vasta scala della mano d'o­ pera eccedente o disoccupata... diminuire i costi di produ­ zione ai fini di accrescere l'esportazione» e così via) era aria fritta, e della più ovvia. Il Partito comunista era stato sconfitto alle urne, e una ri­ soluzione della direzione lo ammetteva senza mezzi termini: «Ci proponevamo di ottenere tra il nostro partito e il parti­ to socialista una somma di voti che ci permettesse di contare la metà dei deputati della Costituente. Questo obbiettivo non è stato raggiunto. Ci proponevamo inoltre di affermar­ ci come il partito più forte della classe operaia e come il se­ condo partito del paese. Anche questo obbiettivo non è sta­ to raggiunto». La delusione (in taluni la costernazione) fu grande, al vertice e ancor più alla base. I militanti che vive­ vano di riunioni, dimostrazioni e cortei, e che vi vedevano il PCI dominare incontrastato, che ignoravano come entità ir­ rilevante quella che fu poi definita «maggioranza silenzio­ sa», scoprirono d'un tratto che la realtà era ben altra e che il loro partito, egemone nella Resistenza, era fortemente mi­ noritario nel Paese. Al quarto posto si collocò, con un milione e mezzo di voti (meno del sette per cento), l'Unione democratica nazionale: ossia la formazione capeggiata dai «quattro vecchi» (Croce, Bonomi, Nitti e Orlando) nella quale erano confluiti, per l'occasione elettorale, il PLI e i demolaburisti. Fu un risultato modesto, in particolare ove si pensi che i liberali si erano pronunciati nel loro congresso per la Monarchia (pur la­ sciando libertà di scelta agli elettori). La loro immagine, sto­ ricamente gloriosa, era sembrata all'elettorato troppo vec-

326 chia (proprio per quei quattro capofila), troppo debole, troppo compromissoria. Avvenne così che gran parte del voto schiettamente moderato e tiepidamente monarchico si riversasse sulla DC, che era stata repubblicana nel suo con­ gresso, ma agnostica nel comportamento di molti suoi espo­ nenti: e che il voto monarchico ruggente si orientasse in buona misura verso il Movimento dell'Uomo Qualunque, al quale andarono infatti un milione 211 mila voti, e trenta seggi. EUomo Qualunque fu dapprima la testata di un giornale nato sotto il segno della protesta. L'aveva fondato Gugliel­ mo Giannini che, da buon teatrante, autore di commedie senza troppe pretese, ma di grande mestiere, aveva vivissi­ mo il senso del pubblico e sapeva coglierne a volo gli umori. Questi umori erano soprattutto dei malumori provocati, specialmente nel Sud, non soltanto dalle frustrazioni e dai disagi della sconfitta, quanto dalla diversa temperie in cui erano immersi i due tronconi del Paese. Occupato subito dagli Alleati, il Sud non aveva avuto la Resistenza, e quindi non ne condivideva le passioni. Subiva il vento del Nord co­ me un sopruso, che gli risvegliava nel sangue nostalgie bor­ boniche, e rifiutava tutto ciò che puzzasse di CLN. Giannini intuì questo stato d'animo, e lo interpretò alla perfezione, soprattutto in due rubriche del suo giornale, le «vespe» e le «parolacce». Sebbene di madre inglese, era un napoletano verace, alla Scarfoglio, portava il monocolo, la sua eleganza era un po' da guappo, e se nei rapporti umani non mancava di finezze, nel suo linguaggio di giornalista sapeva adeguarsi a quello del loggione e della taverna. Ma fu proprio questa voluta rozzezza a renderlo efficace. Senza rifuggire dal turpiloquio, ostentato anzi come antitesi della nuova oratoria e pubblicistica, egli prese a smontarne i miti, l'enfasi resistenzialista e il virtuismo democratico. Ebbe il compito facilitato dai suoi avversari, specialmente da quelli di sinistra, che con le loro pretese di palingenesi e le loro smanie epuratrici stavano provocando nel Paese una crisi di

327 rigetto. In pochi mesi L'Uomo Qualunque raggiunse quasi il milione di copie. E probabilmente fu proprio questo succes­ so la sua disgrazia. Giannini se ne sentì indotto a creare ad­ dirittura un partito. Chi scrive può testimoniare ch'egli non aveva in realtà né vocazione né ambizione politica. Tant'è vero che, fondato il partito, egli l'offrì a Nitti («Ve lo volete accolla' - gli disse - 'sto pupazzo?»), che rifiutò. Il vecchio statista lucano sapeva benissimo che il qualunquismo non era affatto, come dicevano i suoi denigratori - che erano tutti - una riedizione del fascismo. Giannini non era mai stato fascista, aveva perso l'unico figlio nella guerra voluta dal fascismo, era l'interprete di una certa «maggioranza si­ lenziosa» (ma non tanto) che anche sotto e contro il fascismo aveva protestato. Ma Nitti sapeva anche che un partito (ma Giannini lo chiamava «Movimento») senza radici nella storia né ancoraggio ideologico, basato soltanto sulla protesta, non poteva avere un domani. E così fu. Ma ciò non toglie che nel '46 avesse un presente. Glielo assicuravano gli altri par­ titi coi loro errori, e soprattutto con la loro pretesa di riscri­ vere la storia d'Italia a loro immagine e somiglianza e pre­ sentando il ventennio mussoliniano come un lungo golpe perpetrato da un manipolo di criminali contro il popolo. Alla politica, che voleva impadronirsi di tutto - ed erano i primi segni di quella partitocrazia che tuttora avvelena l'I­ talia - Giannini oppose una vaga alternativa di «Stato am­ ministrativo», non politico o almeno non politicante, che soddisfaceva soprattutto una piccola borghesia impiegatizia meridionale, allergica a una demonizzazione del fascismo in cui si sentiva coinvolta. Era una reazione di pelle, povera d'idee, su cui non si poteva costruire nulla di duraturo. Ma ciò non toglie che Giannini un servigio lo rese: sgonfiò, ridi­ colizzandoli, molti miti, smascherò molte bugie. Ci sono vo­ luti decenni perché alcune delle verità sbandierate da Gian­ nini, come ad esempio il fatto che il fascismo aveva goduto un imponente consenso popolare, venissero riconosciute e, sia pure a denti stretti, accettate.

328 La stella di Giannini declinò con la stessa rapidità con cui si era accesa. Il qualunquismo era stato un fenomeno spon­ taneo, reazionario nel senso etimologico della parola. E si esaurì quando la sua funzione divenne superflua, cioè quasi subito. Giannini morì povero e solo: nemmeno il giorno del funerale gli furono risparmiati scherni e beffe. Solo il «ri­ flusso» gli ha reso, trent'anni dopo, un po' di giustizia. All'ascesa qualunquista corrispose l'anemizzazione del Blocco della Libertà, monarchico schietto, che dovette ac­ contentarsi di 600 mila voti. Sul versante di sinistra si assi­ stette alla virtuale sparizione del Partito d'azione che, pur alleato a un partito sardista, racimolò meno di mezzo milio­ ne di voti, al di sotto del due per cento. Il Partito d'azione era stato distrutto dal suo carattere arrogantemente elita­ rio, dall'indifferenza agli umori del popolo (di cui non man­ cava occasione per proclamarsi apostolo), dalle lotte intesti­ ne. In realtà era già finito con il congresso di febbraio, e con la secessione di Parri e La Malfa che fondarono un Movi­ mento democratico repubblicano al quale ebbero l'impru­ denza di pronosticare buone fortune elettorali. Crollò inve­ ce il Partito d'azione, e non decollò il Movimento democra­ tico repubblicano che, presi due soli seggi alla Costituente, defunse presto anch'esso. Meglio andarono le cose per il Partito repubblicano storico che - in odio alla Monarchia - non aveva avuto alcuna «contaminazione» governativa, e che raccolse un milione di voti (4,4 per cento). Così, dei 556 Costituenti, ci furono 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 dell'Unione democratica nazionale, 30 qualunquisti, 23 repubblicani, poi liste mino­ ri. Loro compito non era di legiferare - le sinistre l'avrebbe­ ro voluto, scontrandosi con la recisa opposizione democri­ stiana e liberale - ma di elaborare la nuova Costituzione. Inoltre la Costituente diede maggioranze parlamentari al governo, e dibatté i problemi del momento: ed erano di ec­ cezionale gravità, in politica interna e in politica internazio­ nale.

329 Tre erano le scadenze immediate che si ponevano ai partiti maggiori, e ai loro capi: l'elezione del presidente della Co­ stituente, la nomina del Capo dello Stato - provvisorio, in attesa che la Repubblica avesse il suo primo Presidente desi­ gnato con tutte le formalità volute dalla Costituzione ancora in fieri - e la formazione di un altro governo, essendo previ­ sto dalla legge sul referendum che quello in carica desse le dimissioni. De Gasperi e Nenni avevano concordato che a presiede­ re la Costituente fosse chiamato un socialista. Ma Nenni - benché forse tentato - rifiutò la carica che molti gli offri­ vano. «È troppo neutra per me. Essa mi collocherebbe al di sopra dei partiti, mentre io sono nella mischia e non inten­ do allontanarmene.» Avrebbe visto volentieri su quella pol­ trona Romita, che «meritava dal partito una manifestazione di cordiale solidarietà e amicizia». La vicenda ebbe invece tutt'altro epilogo, e Nenni stesso la raccontò in questi termi­ ni nei suoi taccuini: «La questione della presidenza della Costituente si è conclusa questa sera con un inaspettato col­ po di scena. Il mio rifiuto non è servito a Romita, ma a Sa­ ragat. E questo non per una manovra di Saragat, ma per un eccesso di furberia da parte dei miei amici. Questi si erano messi in testa che De Gasperi da un lato e Saragat dall'altro mi spingessero alla presidenza per immobilizzarmi in una cornice dorata. E hanno fatto il ragionamento infantile del rovesciamento del gioco. Non hanno pensato che il presti­ gio personale di Saragat uscirà rafforzato dalle sue nuove funzioni. Infatti egli che era perplesso dopo l'elezione, mi ha telefonato più tardi che capiva la manovra, ma ne pren­ deva l'utile, sicuro di sventarne l'insidia». Stilettate tra com­ pagni di partito, preludio a ben altro. Se la presidenza della Costituente era, nella sostanza, una questione interna dei socialisti, il nome del Capo dello Stato poteva uscire solo da una trattativa interpartitica. Poi­ ché De Gasperi non era disposto a farsi promuovere (e ri­ muovere dal governo) la lista dei nomi possibili si restringe-

330 va alle figure insigni del prefascismo, recuperate dal postfa­ scismo. Attento ai dosaggi, preoccupato di rassicurare la mezza Italia monarchica, De Gasperi aveva in mente un identikit ben definito del primo Capo dello Stato repubblica­ no. Doveva essere filomonarchico, e doveva essere meridio­ nale. Perciò non erano proponibili né il piemontese Einau­ di né il lombardo Bonomi. Benedetto Croce sembrava ri­ spondere ai requisiti richiesti. E i socialisti, lanciandone la candidatura, erano convinti d'andare sul sicuro. L'idea fu attribuita a Nenni che in verità se ne fece paladino, ma sen­ za entusiasmo. «Alla direzione - raccontò lui stesso - è sbu­ cata fuori d'improvviso la questione della nostra adesione a una eventuale candidatura Croce... La proposta iniziale è di Cacciatore. L'hanno ripresa Silone, inquadrandola nel più vasto piano del laicismo, e Saragat per esigenza di equilibrio interno. Io trovo l'iniziativa avventata, ma dopotutto non mi spiace di dare una punzecchiatura ai democristiani.» E Nenni in persona firmò suìì'Avanti! del 23 giugno (manca­ vano due giorni all'apertura della Costituente) un articolo in favore di Croce Capo dello Stato. Il filosofo si mostrava riluttante a impegnarsi totalmente nell'attività politica. Ma al di là di queste remore personali, esisteva un veto democristiano, morbidamente ma ostinata­ mente motivato. Croce, obbiettava la DC, era presidente del PLI, quindi legato specificamente a un partito, non super par- tes come il suo delicato ruolo imponeva. Il pretesto era buo­ no, ma rimaneva un pretesto. Altri erano, agli occhi della DC, gli handicaps di Croce: la scarsa malleabilità, e il laicismo intransigente. Sua era stata la opposizione alla richiesta de­ mocristiana d'avere il Ministero della Pubblica istruzione, quando s'era formato il ministero Parri. De Gasperi aveva ceduto, ma non dimenticato. E il povero Nenni, bocciatogli Romita in casa, si vide bocciare Croce fuori casa. Croce de­ clinò, con una lettera a Nenni, l'offerta socialista. Ma rinun­ ciava a ciò che non era più, comunque, alla sua portata. Chi allora? De Gasperi sosteneva Orlando, ma era pron-

331 to ad accettare un altro nome idoneo. E il nome fu quello di Enrico De Nicola, che era napoletano, era stato consigliere della Corona (suo l'espediente della Luogotenenza per Um­ berto) e, infine, come sperimentato parlamentare e come giurista insigne, avrebbe saputo meglio di chiunque altro ideare un protocollo e una procedura tutte da inventare per una carica «anomala». Ma se la carica era anomala, ancor più lo era l'uomo de­ signato a ricoprirla. Grande avvocato napoletano, si era af­ fermato non con l'eloquenza focosa e alluvionale che carat­ terizzava la scuola forense meridionale, ma col suo ferrato puntiglio giuridico, e soprattutto procedurale. In un am­ biente non sempre cristallino, ammorbato dalla spregiudi­ catezza, dalla venalità e anche da compromissioni camorri­ stiche, aveva portato un suo personale, severissimo costu­ me. Non incassava i vaglia dei clienti se non dopo aver deci­ so di occuparsi del loro caso, e non prendeva un soldo se, esaminato semplicemente il fascicolo, decideva per il no. Scapolo, ritroso, solitario, suscettibilissimo, perse quasi tutto il patrimonio accumulato in una lunga e fortunata vita pro­ fessionale perché, da patriota imprevidente, aveva avuto fi­ ducia nei titoli di Stato. Allo scoppio della guerra investì in buoni del tesoro, all'interesse del 3,50 per cento, dieci mi­ lioni (di allora, ovviamente), che furono polverizzati dall'in­ flazione. La sua eleganza accurata e antiquata, la sua retti­ tudine, il suo stile, l'avevano reso popolare in una città che vedeva in lui ciò che avrebbe voluto essere, e che non era. Sulla scia dei brillanti successi forensi, De Nicola era ap­ prodato alla politica, ed era stato eletto deputato di Afrago- la sconfiggendo il candidato giolittiano. Il che non gli im­ pedì di essere fatto dallo stesso Giolitti sottosegretario alle Colonie, nel 1913. Era allora trentaseienne. Praticò la vita pubblica con gli stessi scrupoli di correttezza esasperata cui s'era ispirata la sua vita professionale. «Aveva l'abitudine - riferì Bartoli nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi - di scrivere la corrispondenza privata su carta senza intestazio-

332 ne, e di fare affrancare le lettere a proprie spese.» Gli fosse­ ro piaciuti il potere, e il governo, De Nicola sarebbe diven­ tato senza difficoltà ministro, Presidente del Consiglio. Ma­ nifestò prestissimo, invece, la sua vocazione al rifiuto. L'as­ sunzione di una carica pubblica era preceduta sistematica­ mente da una fase durante la quale De Nicola si faceva pre­ gare, e accettava, se accettava, di malavoglia. Altrettanto si­ stematicamente sopravveniva una seconda fase durante la quale De Nicola si dimetteva, e veniva indotto a recedere dalla sua decisione - quando recedeva - con insistenze non minori di quelle che erano state necessarie per indurlo ad accettare. Gli estenuanti negoziati si svolgevano sovente a lunga distanza, perché De Nicola, alla minima contrarietà, si rifugiava nella sua villa di Torre del Greco, e di là era dif­ ficilissimo stanarlo. Questo cerimoniale contrassegnò il cur­ sus honorum di De Nicola che era Presidente della Camera quando il fascismo si impadronì del potere. Occupava la sua poltrona a Montecitorio il giorno che Mussolini - nel novembre del 1922 - minacciò di fare del­ l'aula «sorda e grigia» un bivacco di manipoli: e non redar­ guì l'oratore. Anzi richiamò al silenzio il deputato socialista Modigliani che aveva gridato «Viva il Parlamento». Una di­ mostrazione di pavidità che a De Nicola fu sempre rinfac­ ciata. Durante il ventennio De Nicola, rassegnato ogni inca­ rico, si appartò dignitosamente, sospendendo la serie delle offerte, dei rifiuti, delle rinunce alle rinunce. Accettò tutta­ via nel 1929, la nomina a senatore che Mussolini - il cui con­ senso era indispensabile - forse non propose, ma che certo non avversò. Proprio perché così riluttante ad occupare poltrone, in un Paese dove per conquistarle i politici si scannavano, De Nicola finiva per essere subissato di proposte. Gliele faceva­ no sapendo che le declinava, e che, se diceva sì, si trattava pur sempre di un sì provvisorio e fragile, che non sbarrava definitivamente la strada agli altri concorrenti. Ma i suoi no erano dosati, c'erano quelli definitivi e irrevocabili, c'erano

333 quelli tenaci, e c'erano quelli che preludevano all'assenso, purché estorto. Nelle elezioni per la Costituente non aveva voluto candidarsi. Era un no vero. Gli avevano fatto visita, per indurlo a entrare nella Unione democratica nazionale, Benedetto Croce e Porzio. «L'ho fatto io che non sono un uomo politico - aveva detto Croce - a maggior ragione do­ vete farlo voi che vi siete occupato di politica per tanti an­ ni.» Dopo di lui Porzio era ricorso alla mozione degli affetti: «Mi sono sognato mamma tua» aveva detto a De Nicola, la cui risposta era stata fulminea: «Anch'io l'ho sognata: mi ha detto di non presentarmi candidato». Avendo a che fare con un personaggio di questa fatta, la Costituente deliberò la sua nomina a Capo provvisorio dello Stato senza chiedergli se era d'accordo. Il 27 giugno - mentre già sul suo nome convergevano tutti - ribadiva di non volerne sapere, e quando Saragat, nell'imminenza del voto, lo chiamò per vincerne la ritrosia, staccò il telefono. Solo a elezione avve­ nuta pronunciò il sospirato sì, e molti sospettarono che il precedente irremovibile no alla candidatura in una lista di partito mirasse proprio a lasciarlo libero per la successiva ben più alta designazione. Capo dello Stato per ventidue mesi - cessò di essere provvisorio e assunse la qualifica di Presidente della Repub­ blica solo il primo gennaio 1948, con l'entrata in vigore del­ la Costituzione - De Nicola rifiutò il fasto del Quirinale, e preferì il Palazzo Giustiniani, noto come sede di una delle Massonerie italiane, che è accanto a Palazzo Madama. Pa­ zientemente, ingegnosamente, da procedurista raffinato, elaborò il protocollo sul quale la Repubblica avrebbe poi lar­ gamente campato di rendita, senza tuttavia perseverare nel­ lo stile sobrio e sparagnino di questo suo primo Presidente. Era schivo, ma con impennate di puntiglioso orgoglio se ap­ pena avvertiva un'ombra di irrispettosità. Fu un Capo dello Stato senza corazzieri, e senza first lady. Con De Gasperi e i ministri era cordiale, cauto, buttando là qualche avvertimento politico, ma più sovente insistendo

334 perché alcuni atti solenni non avvenissero di venerdì, gior­ no infausto. Il suo soggiorno a Palazzo Giustiniani fu pun­ teggiato di scatti umorali, e da qualche sdegnoso ma tempo­ raneo ritiro a Torre del Greco. Su alcuni «incidenti» più gra­ vi con il governo, e sulle vicende della sua mancata ricandi­ datura ed elezione, ritorneremo. Da Palazzo Giustiniani uscì in collera, così come in collera lasciò negli anni successivi la Presidenza del Senato e quella della Corte Costituzionale. Risolse brillantemente nella sua esistenza, infinite volte, gli altrui dilemmi umani, o giuridici, o politici, ma non risolse mai il suo proprio dilemma: che era quello d'un amore-odio per il potere, per le dignità, per gli onori. Questa incertezza lo rendeva, lui così amabile, litigioso e anche offensivo. Sem­ brava scaricasse sugli altri l'insoddisfazione per quel suo piacere morboso di volere gli inviti, infuriandosi se non gli erano rivolti, per poi sdegnarli.

Le trattative per il secondo governo De Gasperi, cui De Ni­ cola aveva dato l'avvio il primo luglio, si trascinarono per dodici giorni, con gran dispetto di Nenni che accusava De Gasperi di averle condotte troppo lentamente: un «errore di metodo», diceva, che «ha rischiato di buttarci in una crisi senza fine». Non immaginava, Nenni, quali altre lungaggini negoziali aspettavano la neonata Repubblica. De Nicola ave­ va seguito, per le consultazioni, una regola molto nobile e molto perditempo, dopo d'allora sempre rispettata, che im­ pone di sollecitare i pareri di personaggi insigni ma del tut­ to inutili allo scopo per il quale sono convocati. A sua volta De Gasperi si muoveva con la tenacia del montanaro e la cautela dell'uomo di curia, risoluto comun­ que a trarre tutto il possibile utile dalla vittoria elettorale. Cinque furono le novità di rilievo nel nuovo Ministero: la designazione di Nenni agli Esteri (e la perdita degli Interni per i socialisti); la rinuncia di Togliatti; l'ingresso dei repub­ blicani; l'uscita dei liberali; l'assegnazione del Ministero del­ la Pubblica istruzione a un democristiano, Guido Gonella.

335 Delle quattro, l'ultima era senza dubbio la più interes­ sante. La scelta di un esponente dei partiti laici per il Dica­ stero che governa la scuola era stata uno dei punti fermi delle precedenti trattative. Lo stesso De Nicola s'era detto favorevole al mantenimento di questo principio. Ma De Ga­ speri, consapevole della sua forza, proprio su questa preclu­ sione, e sulla sua inaccettabilità, s'era impuntato. Quando i socialisti Ivan Matteo Lombardo e Ludovico D'Aragona gli avevano comunicato che la direzione del loro partito voleva un laico a quel posto, la replica di De Gasperi era stata iro­ nica, quasi provocatoria: «Non ho mai pensato di proporre per l'incarico un sacerdote». I due precisarono che per laico intendevano un non democristiano, e De Gasperi li incalzò domandando se alla Pubblica istruzione potesse andare un ebreo, un ateo, un qualsiasi anticristiano, ma non un cattoli­ co. D'Aragona, che era un gran brav'uomo, ma non all'al­ tezza del suo interlocutore, ammise che, sì, le cose stavano proprio a quel modo. E De Gasperi un po' teatralmente si alzò, fece cenno alla delegazione democristiana che lo af­ fiancava di fare altrettanto, e dichiarò che considerava il ne­ goziato interrotto. Ci volle una mediazione di Togliatti per riannodarne le fila. E all'Istruzione andò Gonella, uomo colto e democratico cristallino, ma anche integralista con­ vinto. Poiché gli Interni se li era tenuti De Gasperi, Nenni ebbe dunque gli Esteri. Ma fu convenuto che, essendo in pieno sviluppo la discussione parigina sul trattato di pace con l'I­ talia, e avendovi De Gasperi partecipato fino a quel momen­ to, l'insediamento di Nenni sarebbe stato rinviato. Avvenne infatti il 18 ottobre. Nel frattempo, Nenni ebbe l'interim di De Gasperi alla Presidenza, durante le sue assenze. Era evi­ dente a ogni persona di buon senso, e sicuramente De Ga­ speri lo era, che Nenni non aveva le qualità d'un buon mi­ nistro degli Esteri. Dotato di intuito politico e di carisma de­ magogico, non aveva nulla dell'uomo di Stato, anzi ne era la negazione: gli mancavano specialmente quelle conoscen-

336 ze ed esperienze internazionali - al di fuori dell'ambito so­ cialista - che la politica estera richiede. Per di più il suo tem­ peramento - che qualcuno ha definito «femmineo» - lo ren­ deva molto sensibile alla forza, fosse quella di Togliatti o fos­ se quella dell'Unione Sovietica. Per Nenni De Gasperi aveva umana simpatia e amicizia. Ma agli Esteri lo mandò per cal­ colo freddo, se non cinico. Togliatti si defilò - la poltrona di Guardasigilli fu occupa­ ta dal suo compagno Fausto Gullo - per motivi che possia­ mo soltanto ipotizzare. Probabilmente l'esperienza di Guar­ dasigilli lo aveva deluso. Aveva scontentato i «duri» del suo partito, e non era riuscito a catturare gli amanti della legge e dell'ordine. L'amnistia, formulata con imprecisione e ap­ plicata dalla magistratura con eccezionale latitudine, aveva azzerato le pendenze penali di molti ex-fascisti; o di ex-par­ tigiani che, finita la guerra civile, l'avevano continuata per loro conto e tornaconto, ammazzando e rubando. Era stato passato un colpo di spugna su crimini che l'esasperazione delle passioni non bastava a giustificare. Di fronte a talune sentenze l'opinione pubblica di sinistra rimproverava a To­ gliatti - e dal suo punto di vista non aveva torto - la dizione che escludeva dall'amnistia solo gli autori di «sevizie parti­ colarmente efferate», e che mandò liberi parecchi biechi fi­ guri di Salò. Così come andarono liberi parecchi «giustizie­ ri» che si fregiavano della qualifica di partigiani. In com­ penso Togliatti aveva ottenuto per la Resistenza riconosci­ menti formali - come l'aggiunta del suo vilipendio alle altre ipotesi di questo reato già esistenti - che contribuivano a renderla impopolare, anziché a tutelarla. Ma vi doveva es­ sere nel ritorno di Togliatti al partito, a tempo pieno, anche un disegno politico. E la diagnosi di Vittorio Foa: «I comu­ nisti, dato che le circostanze non consentivano loro un con­ trollo sul potere statale pari a quello democristiano, preferi­ vano riservarsi il massimo di libertà d'azione, ossia di oppo­ sizione se non diretta almeno indiretta, attraverso l'azione di massa e le organizzazioni sindacali».

337 V'erano altre spiegazioni più terra terra. «Si dice - an­ notava Nenni nel suo diario - che Togliatti non è entrato nel governo perché voleva esserne l'unico vicepresidente. Lo racconta il pettegolino della Democrazia cristiana, An- dreotti. E una sciocchezza da respingere e non è a misura dell'uomo. Più logico pensare a una decisione ben più im­ portante, cioè al progressivo disimpegno dei comunisti dal nuovo corso politico. Verosimile invece che Pacciardi, il quale stamattina si è fatto sostituire al governo da Macrelli, sia uscito dal Ministero solo perché De Gasperi non ha po­ tuto offrirgli la vicepresidenza. Si dicono molte altre cose, e che cioè De Gasperi non è stato per poco sbranato dai suoi che volevano portafogli e portafogli. Egli stesso mi ha rac­ contato di avere invano cercato di indurre Gonella a restar­ sene al Popolo.» Mentre i repubblicani entravano nel governo ne usciva­ no i liberali. La loro defezione era in rapporto diretto con i risultati elettorali non incoraggianti della Unione cui aveva­ no aderito. Il partito sperava di tonificarsi con un periodo di opposizione, anche se la linea di De Gasperi spuntava molti dei suoi argomenti polemici. Il leader democristiano non voleva tuttavia privarsi della collaborazione di Corbino che era, agli occhi del mondo imprenditoriale, qualcosa di più d'un valente economista: era la garanzia d'una gestione economica refrattaria alle utopie dirigiste e alle velleità pro­ grammatrici della sinistra: la quale sinistra accoppiava in questo campo le ambizioni di un profondo cambiamento ad una sconcertante superficialità e ignoranza tecnica. Corbino ministro del Tesoro era un contrappeso rassicurante a Scoc­ cimarro ministro delle Finanze. Per rimanere nel governo Corbino ricorse all'espediente di dimettersi dal PLI pur con­ tinuando a capeggiarne il gruppo parlamentare alla Costi­ tuente. Nel governo Corbino ci stette tuttavia per poco: il 2 settembre se ne andò sbattendo la porta perché si sentiva «politicamente isolato», e perché i comunisti lo prendevano quotidianamente a bersaglio. Lo sostituì Giovan Battista

338 Bertone, che era stato ministro delle Finanze con Facta, il Presidente del «nutro fiducia».

Probabilmente Corbino avvertiva che, oltre a De Gasperi, ben pochi politici - anche in casa democristiana - concorda­ vano con la sua «filosofia» liberistica, e con il suo rigore anti- inflazionista, che pure avevano dato frutti indubbi. Le ra­ zioni alimentari erano state migliorate, 250 grammi al gior­ no il pane, tre chilogrammi al mese prò capite i generi da mi­ nestra; la lira recuperava valore rispetto alle valute «forti» (dall'inizio del '46 al maggio il franco svizzero era sceso da 120 a 90 lire, e il dollaro da 350 a 280); la produzione indu­ striale era in ripresa così come le esportazioni, quadruplica­ te tra l'aprile e il settembre di quello stesso anno. Anche la implacabile erosione del potere d'acquisto di salari e stipen­ di era stata bloccata. All'atto della formazione del secondo governo De Gaspe­ ri fu deliberato di dare ai lavoratori un «premio straordina­ rio della Repubblica»: tremila lire a chi, guadagnando me­ no di 30 mila lire mensili, avesse carico di famiglia, 1.500 a chi non l'avesse. L'elargizione, criticata da molti per il suo carattere demagogico, costò 30 miliardi: e fu, com'è regola, presto vanificata da aumenti dei prezzi. Ma è difficile crede­ re a Riccardo Lombardi, il quale sosteneva che con quei trenta miliardi, se prelevati dallo Stato sotto forma di impo­ sizione straordinaria, «si sarebbe potuto occupare per sei mesi un quarto dei nostri disoccupati; avremmo potuto rad­ doppiare il programma delle ricostruzioni ferroviarie; avremmo potuto fare opere immense in Calabria e in Sar­ degna; si sarebbero potuti costruire 100-150 mila vani di abitazione per la povera gente». I calcoli di Lombardi, lo si vide anni più tardi con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, tornavano solo quando non potevano essere verifi­ cati. Il risanamento che Corbino - e con lui De Gasperi - per­ seguivano, era una restaurazione, e delle restaurazioni ave-

339 va i pregi e i difetti. I «padroni» furono reimmessi gradual­ mente nelle industrie da cui l'epurazione disordinata li ave­ va cacciati: vi furono riammessi anche perché i «commissa­ ri» politici incaricati di gestirle, di solito incapaci e comun­ que condizionati, avevano dato prova disastrosa. Alla Fiat aveva ripreso il timone Vittorio Valletta, rientrato dalla Sviz­ zera dove s'era messo al riparo insieme ad altri grossi espo­ nenti del mondo imprenditoriale (Marinotti, Cini, Donega- ni). In cambio Valletta concesse che alla Fiat fosse istituito uno di quei Consigli di gestione che, nella concezione dei CLN, avrebbero dovuto esercitare la loro sorveglianza affin­ ché gli «interessi particolaristici e speculativi non prevales­ sero sul bene dell'intera comunità». Ma l'innovazione ebbe vita breve, e scarso peso. Vanno messi nel conto della ripresa gli aiuti alleati (e in prevalenza americani): entro la fine del '46 l'Italia ricevette 507 milioni di dollari in soccorsi di emergenza, 520 milioni di dollari in assistenza anch'essa gratuita tramite I'UNRRA (l'Agenzia delle Nazioni Unite per la ricostruzione dei Paesi colpiti dalla guerra), 134 milioni di dollari in aiuti diretti del governo di Washington e 250 milioni di dollari per il mantenimento delle Forze Armate anglo-americane. La spesa per questa voce era stata, ha osservato il Gambino, tre o quattro volte superiore: ma non è accaduto sovente nella storia che i vincitori risarcissero sia pure in parte i vinti per le spese dell'occupazione. Il liberismo - almeno un liberismo economico di fondo - era una ricetta che in definitiva funzionò: solo che Corbino, da tecnico, intendeva somministrarlo al Paese con una coe­ renza rigida che le proteste, i moti di piazza, le agitazioni sindacali spesso legittimate da autentico grave disagio - infi­ ne le superstiti attese rivoluzionarie che covavano in seno al Partito comunista e alla post-Resistenza, rendevano inappli­ cabile. V'erano esplosioni improvvise di collera anarchica. A fine agosto la destituzione ad Asti d'un capitano della po­ lizia immessovi dalle file partigiane, tale Carlo Lavagnino

340 (era accusato di rapina), indusse il Lavagnino stesso a darsi alla macchia con una trentina di uomini, armi, viveri. Altri partigiani piemontesi s'erano uniti agli ammutinati. Nenni, che sostituiva De Gasperi, faticò non poco, con concessioni e mozioni degli affetti, per placare questa ribellione che mi­ nacciava di estendersi a macchia d'olio. Ancora Nenni vide il Viminale invaso da dimostranti con randelli, bastoni e tra­ vi quando vi arrivò la mattina del 9 ottobre. Gli assalitori erano manovali - ma anche estremisti e pro­ vocatori - eccitati dalla notizia che certi lavori di sterramen­ to nei dintorni di Roma sarebbero stati sospesi, e i cantieri chiusi. Erano lavori inutili, con appalti scandalosi, come Nenni riconosceva: «Il Genio Civile paga centinaia di milio­ ni. Gli imprenditori assoldano lavoratori di ogni categoria dove gli operai edili sono il quindici o il venti per cento, li pagano trecentonovanta lire al giorno per un lavoro di po­ che ore o magari, in alcuni casi, per non lavorare affatto, e intascano milioni... La situazione crea una specie di solida­ rietà tra questa massa, che chiede di vivere, e gli imprendi­ tori che vogliono perpetuare il sistema attuale dei lavori a regia, contro il governo e Romita in particolare (Romita era passato dagli Interni ai Lavori pubblici, N.d.A.), che vuole abolire i lavori a regia, da lui inventati in un momento di emergenza». L'annuncio della sospensione - ma i Lavori pubblici negarono d'avere dato un ordine in proposito - scatenò la piazza. La polizia sparò, si contarono due morti e 150 feriti. Un episodio tra i tanti: che tuttavia chiarisce co­ me fosse diffìcile evitare gli sperperi sociali. Infatti dopo la battuta d'arresto che Corbino aveva ottenuto, l'inflazione ri­ prese. La miseria era ancora grande in Italia, e grandissima la strumentalizzazione della miseria. Gli artefici stessi della ri­ costruzione e della ripresa non sospettavano neppure l'im­ peto delle sue successive fasi. Ma a due uomini - oltre che al tessitore De Gasperi - va riconosciuto un ruolo e, ciascuno a suo modo, un merito particolare in questi difficili e torbidi

341 inizi del «miracolo»: Angelo Costa, presidente della Confin- dustria, e Giuseppe Di Vittorio, massimo dirigente della Confederazione generale del lavoro. Costa era un industria­ le e un grande borghese ligure, onesto e rigoroso, ispirato in economia dalla saggezza einaudiana, fermo nelle sue idee, ma pragmatico nella loro applicazione: un cattolico li­ berale - un vero credente - che difendeva la concezione classica del capitalismo. Ostile - come scrisse Giovanni Spa­ dolini - alla linea di Valletta («dar lavoro a qualunque co­ sto»), contrario a ogni blocco dei licenziamenti, a ogni for­ ma di autoritarismo economico o di regolazione artificiosa del mercato. «Questo industriale in senso antico - sono an­ cora osservazioni di Spadolini - pilotò negli anni degaspe- riani un indiretto ma efficace ed operoso patto sociale.» Questo potè avvenire perché l'interlocutore di Angelo Costa era Giuseppe Di Vittorio, figlio di contadini pugliesi: il padre, «curatolo» (cosi si chiamavano i braccianti specia­ lizzati) a Cerignola, morì, pare di polmonite dopo un tem­ porale, quando il figlio Peppino aveva sette anni. Il ragaz­ zetto fu anche lui bracciante, con una istintiva curiosità per i libri e per la politica, e con una gran voglia di ribellarsi al­ la ingrata condizione della «cafoneria» meridionale. Alla vi­ gilia della prima guerra mondiale s'era già fatta una fama consolidata di agitatore: ma al fronte si portò bene, e venne gravemente ferito. Riprese la sua attività sindacal-politica subito dopo il congedo, e seppe d'essere stato eletto deputa­ to nelle liste socialiste (era il 1921) mentre era in carcere a Lucerà. Passò nel 1924 al PCI, poi fu esule in Francia, e com­ missario politico nel battaglione Garibaldi delle Brigate in­ ternazionali, comandato da Randolfo Pacciardi, durante il conflitto civile spagnolo. Pur così intriso di ideologia marxi­ sta, non fu mai un cremlinizzato alla Togliatti, conservò il contatto con la realtà italiana, ed espresse ostinatamente la convinzione che molti giovani fascisti fossero in buona fede, e che si dovesse convertirli, se possibile, non condannarli. Quest'uomo singolare - uno dei pochi dirigenti comuni-

342 sti espressi dal mondo contadino - divenne il maggior leader sindacale italiano. Non rinunciò, nei comizi, alle tesi massi- maliste e agli slogans tonitruanti. Ma aveva profondo il sen­ so del possibile e la sua lotta ebbe sempre un limite: la vitto­ ria della fazione non doveva essere ottenuta sulla pelle del Paese. Un fondo di concretezza e di patriottismo senza ostentazione accomunava l'armatore Costa all'ex-bracciante Di Vittorio. Ha raccontato un collaboratore del sindacalista: «Con Angelo Costa, il presidente della Confindustria, si era instaurato un rapporto chiaro, come fra due potenze nemi­ che che si rispettano. Quando c'era una vertenza importan­ te o un rinnovo di contratto, Costa e Di Vittorio si davano appuntamento alla stazione di Bologna. Salivano su un va­ gone-letto, e passavano la notte a discutere. Quando il tre­ no arrivava a Roma l'accordo era fatto. Naturalmente, do­ po, i rappresentanti della Confindustria e quelli della CGIL s'incontravano. Mugugnavano, ma si attenevano a quel che avevano già concordato Costa e Di Vittorio». Non un inna­ turale idillio, dunque, ma un rapporto duro e leale, fatto di stima reciproca, e di civismo. La confusione dei ruoli sareb­ be venuta più tardi, in politica, in economia, nel sindacato: e con altri protagonisti. CAPITOLO QUARTO

GUAI AI VINTI

Il trattato di pace tra l'Italia e le potenze vincitrici ha avuto ed ha un nome improprio. L'Italia non trattò: subì le condi­ zioni che le vennero imposte e potè soltanto esporre - senza gran frutto - le sue ragioni. A De Gasperi, italiano incon­ sueto, severo nell'aspetto e asciutto nell'eloquio, toccò il compito amaro di farsi difensore d'una causa persa in par­ tenza. Quello suo - e del Paese - fu un Calvario del quale crediamo convenga ripercorrere, a questo punto, tutte le tappe: anche se alcune sono già state rievocate ne LItalia del­ la guerra civile. De Gasperi non si faceva illusioni. «La mia posizione - disse alla vigilia d'uno dei suoi viaggi a Parigi - è per quat­ tro quinti quella di imputato e responsabile di una guerra che non ho fatto e che il popolo non ha voluto, e per un quinto quella di belligerante.» Alcuni sacrifici erano sconta­ ti. Non potevamo realisticamente opporci alla cessione delle isole del Dodecanneso, rivendicate dalla Grecia e abitate da greci. E neppure potevamo pensare di mantenere, in una qualsiasi forma, la «unione dinastica» tra Italia e Albania, vanificata anche sul piano formale dalla proclamazione del­ la Repubblica. Era parimenti scontato un sacrificio territo­ riale nella Venezia Giulia: ma si sperava di contenerlo entro limiti, se non di equità, almeno di accettabilità. Quanto alle colonie, era perduta l'Etiopia, frutto di una conquista che portava il marchio fascista. Senonché Hailé Selassié preten­ deva anche l'Eritrea. Sulla Libia gravava una ipoteca del Se- nusso, che si rifaceva a una promessa inglese degli anni di guerra. Questi appetiti sulle colonie non sarebbero stati

344 preoccupanti, in una fase storica nella quale i maggiori im­ peri coloniali si avviavano al disfacimento, se avessero ri­ guardato solo le popolazioni locali. Purtroppo riguardava­ no anche gli italiani là insediati: nel '40, 75 mila in Eritrea, 10 mila in Somalia, 150 mila in Libia. La Francia aveva in un primo momento garantito di non voler avanzare pretese territoriali ma i buoni propositi era­ no andati scolorendo nell'ambiguità. Perfino la Valle d'Ao­ sta pareva insidiata. In un discorso a Nizza, il 10 aprile del 1945, De Gaulle aveva accennato, con linguaggio profetico, a un vento di vittoria «che aleggia intorno alle nostre ban­ diere sul Reno» e che soffia «anche sulle Alpi, e sta per su­ perarle». L'Austria rivendicava l'Alto Adige, atteggiandosi a vittima dell'austriaco Hitler, e v'era il rischio che il criterio etnico, rinnegato in Venezia Giulia, venisse invece applicato a sud del Brennero. In questa corona di spine, la spina che più pungeva era quella giuliana. Tito aveva voluto creare il fatto compiuto, e alla fine di aprile del '45, occupata Fiume, si era buttato ver­ so Trieste e Gorizia in gara di velocità con le truppe alleate del generale Freyberg, che si insediò a Trieste, ma non potè tenerne fuori gli iugoslavi. Solo il 9 giugno (sempre del '45) gli Alleati avevano ottenuto che le truppe di Tito si ritirasse­ ro da Trieste, ad eccezione di un modesto contingente. La zona alleata e la zona iugoslava vennero divise dalla linea Morgan, così chiamata dal nome del generale che comanda­ va le truppe alleate: era una linea che, concepita in funzio­ ne di esigenze militari, aveva pregiudicato irreparabilmente i diritti italiani. Correva infatti lungo l'Isonzo sfiorando Go­ rizia, e descriveva attorno a Trieste un arco che delimitava pressappoco (ma alquanto più favorevolmente) l'attuale confine. Tra gli interlocutori di De Gasperi il meglio dispo­ sto nei riguardi dell'Italia era il segretario di Stato america­ no Byrnes. Ma, politicante di vecchio stampo, era anche un uomo di compromessi, cui a volte furono strappate per stanchezza concessioni per noi deleterie. Oltretutto non ca-

345 piva l'accanimento con cui era difeso un «fazzoletto di ter­ ra». De Gasperi esaminò e meditò a lungo, con i suoi collabo­ ratori, l'atteggiamento da prendere. A Paolo Canali, fidatis- simo segretario particolare, disse che voleva soprattutto evi­ tare che si pensasse a un'Italia astuta e sorniona. Gli preme­ va di dare una sensazione di lealtà: per questo - forse sba­ gliando - non avanzò tesi massime, da cui ripiegare poi su tesi minori, ma volle indicare subito i sacrifici cui il governo e il popolo italiano erano spontaneamente disposti, e quelli che invece si sarebbero fatti soltanto imporre. Indicò per­ tanto come base per la nuova frontiera italo-iugoslava la li­ nea Wilson del 1919, ammettendo dolorosamente l'abban­ dono di Fiume e di Zara. Promise la più generosa autono­ mia alle minoranze allogene, ed espresse la speranza che l'I­ talia ottenesse un mandato sulle colonie prefasciste. La procedura di massima per i trattati di pace era stata concordata dai «grandi» (Truman, Stalin, Attlee) a Potsdam tra il luglio e l'agosto del 1945. In base ad essa, i ministri degli Esteri che avevano stipulato le condizioni di resa dei Paesi «nemici» (incluso il francese che in realtà non aveva partecipato all'accordo e con in più il cinese) avrebbero ab­ bozzato i trattati, sottoposti a una conferenza dei 21 Stati che avevano partecipato alle operazioni belliche contro la Germania, il Giappone, l'Italia e i loro alleati minori. La prima conferenza dei ministri degli Esteri fu aperta a Londra, alla Lancaster House, ITI settembre del 1945, e De Gasperi venne convocato per il 18 settembre. Parlò con lo slancio secco e la franchezza che gli erano abituali, in ita­ liano. Fu un viaggio umiliante. De Gasperi tornò in Italia con un aereo americano che, per ragioni note soltanto a qualche sergente alleato, venne dirottato su Marsiglia e là bloccato. Sarebbe ripartito, fu detto ai viaggiatori, solo l'in­ domani. Il leader democristiano, atteso per importanti im­ pegni a Roma, era di umore nerissimo. Con il segretario, s'inerpicò su una cigolante corriera che lo portò a Marsi-

346 glia, costeggiando tra l'altro un campo di prigionieri italia­ ni. Gli fu procurata a stento una camera all'Hotel de Noail- les, per Paolo Canali fu pescata una soffitta. Nella hall del­ l'albergo De Gasperi incrociò, non riconosciuto, il console generale d'Italia, che vi alloggiava, e che solo più tardi, sa­ puto chi fosse quel signore magro e triste, si precipitò a of­ frirgli la sua collaborazione. Tranne la perdita del Dodecanneso, alla Lancaster Hou­ se non furono prese decisioni definitive per quanto riguar­ dava l'Italia. E prima che, nell'aprile del '46, si riunisse una nuova sessione a Parigi, fu inviata in Venezia Giulia una Commissione d'inchiesta che prendesse diretta conoscenza, sul posto, della situazione. Poteva essere un test importante, a favore dell'Italia, se i «commissari» avessero avuto libertà di orientamento e di valutazioni. Essi cercavano invece la conferma alle tesi dei rispettivi governi. In particolare i rus­ si volevano soltanto dimostrare che gli appetiti di Tito era­ no legittimi. Gli iugoslavi avevano organizzato, dovunque passassero i componenti la delegazione, manifestazioni massicce: eppu­ re gli italiani riuscirono a far sentire, tra minacce e violenze, la loro voce. Un giornale svizzero riportò un episodio signi­ ficativo. A Pola, all'arrivo della commissione, italiani e slavi avevano dimostrato contemporaneamente in due diverse strade attigue all'edificio in cui la commissione stessa era in­ sediata. Un capetto locale dei comunisti iugoslavi accompa­ gnò un delegato russo a una finestra e, mostrando gli attivi­ sti titini in tripudio, disse enfaticamente: «Ecco il popolo di Pola». Il russo traversò allora la stanza e, affacciato a una fi­ nestra che dava sulla facciata opposta, chiese con qualche ironia, additando la folla che invocava l'Italia: «E questo che popolo è?». Ma queste realtà umane poco potevano contro le esigenze politiche dei vincitori. Molotov era, a parole, ra­ gionevole. («Gli italiani stiano con gli italiani, gli slavi con gli slavi»), ma poi tracciò sulla carta una proposta che riportava la frontiera addirittura a ovest del tracciato del 1866. La li-

348 nea americana e la inglese si avvicinavano entrambe a quel­ la Wilson: un po' migliore l'americana che ci lasciava anche Albona con le miniere dell'Arsa. Il francese Bidault, con la solita dichiarata buona intenzione di facilitare un accordo, varò una linea francese che ancor più ci pregiudicava per­ ché intaccava i sobborghi di Gorizia. La diplomazia italiana assisteva, impotente, a queste av­ visaglie del peggio. De Gasperi chiese e ottenne di essere ascoltato dai ministri degli Esteri, che tenevano la loro riu­ nione al Palazzo del Lussemburgo. Insieme alla moglie giunse nella capitale francese il 2 maggio 1946 (il primo d'u­ na serie tormentosa di viaggi) e occupò l'appartamento ri­ servato agli ospiti nell'ambasciata di Rue de Varenne, da po­ co restituita all'Italia. Quella volta, come le successive, uscì pochissimo, e solo per doveri d'ufficio, tranne una breve passeggiata. Una sera si lasciò trascinare a teatro: la comme­ dia che si rappresentava era d'argomento serio, non gli spiacque. Ma la Parigi notturna non volle mai conoscerla. A volte, in piena notte - lo hanno ricordato sia la moglie Fran­ cesca, sia l'ambasciatore Quaroni - indiceva riunioni im­ provvise e segrete, dalle quali erano esclusi i rappresentanti dei comunisti. Era a Parigi come consulente di De Gasperi l'ambasciatore a Varsavia Reale, che più tardi lasciò il PCI: e i comunisti erano, a Roma, nel governo. I documenti segre­ ti venivano perciò protetti gelosamente, ad evitare che, tra­ mite i comunisti, la delegazione russa fosse informata delle mosse e dei contatti di De Gasperi. In quella visita parigina di maggio De Gasperi, assillato da ciò che accadeva in Italia - con l'imminente abdicazione di Vittorio Emanuele III e il referendum istituzionale or­ mai vicino - non fu né molto brillante né molto efficace. Era già rientrato a Roma quando seppe, e per il governo fu una sorpresa ingrata, che i ministri dei «grandi» stavano metten­ do a punto un progetto inedito: la costituzione del «Territo­ rio libero di Trieste», da Duino a Cittanova. Il progetto fu avanzato da Bidault, che così peggiorava le sue già cattive

349 precedenti proposte, sottraendo all'Italia, all'interno della sfavorevole linea francese, il territorio che sarebbe divenuto «libero». Il 3 luglio l'idea francese fu accettata anche da in­ glesi e americani. L'equilibrio etnico veniva «rispettato» la­ sciando 180 mila italiani alla Iugoslavia, e 20 mila slavi in territorio italiano. Si disse poi che Byrnes aveva accondisce­ so in uno stato di vera prostrazione, dopo uno svenimento. Paolo Canali ha così riassunto i motivi che facilitarono il compromesso, rovinoso per l'Italia: «La Russia, impotente a far subito accettare che Trieste fosse assegnata alla Iugosla­ via, non chiedeva di meglio che un espediente, pur di non lasciarla all'Italia; la Francia, favorendo I'URSS con il proget­ to dell'internazionalizzazione, mirava ad ottenere l'adesio­ ne russa ai suoi piani di pace con la Germania; gli Stati Uni­ ti, non ancora abbandonata la politica di appeasement con I'URSS, desideravano mettere fine allo snervante negoziato; la Gran Bretagna, ansiosa a sua volta di non inasprire i rap­ porti con l'URSS, non si sentiva, per Trieste, di pregiudicare l'accordo proprio in extremis». Dai colpi di accetta eravamo riusciti a preservare l'Alto Adige. I ministri degli Esteri alleati avevano accettato alla Lancaster House il principio di «rettifiche secondarie» in fa­ vore degli austriaci, che tempestavano con memorandum e istanze di gruppi irredentisti, e volevano spostare il confine alla stretta di Salorno. Quello spiraglio lasciato alle ambizio­ ni austriache era pericolosissimo. Fu richiuso nelle riunioni di maggio e giugno, soprattutto perché I'URSS si dichiarò contraria alle esigenze di Vienna; ma poteva da un momen­ to all'altro riaprirsi. Questo era il grande timore di De Ga­ speri. Oggi, con il senno di poi, molti affermano che De Ga­ speri si lasciò impaurire dai fantasmi, e che firmò l'accordo con il ministro degli Esteri austriaco Gruber del 5 settembre - un accordo che garantiva agli altoatesini di lingua tedesca ampi diritti e larghissima autonomia, ma sanciva la intangi­ bilità della frontiera al Brennero - per prevenire una mi­ naccia inesistente. Chi ragiona a questo modo non ricorda

350 probabilmente che 150 deputati inglesi avevano biasimato il loro ministro degli Esteri Bevin per la mancanza di iniziati­ va sul problema altoatesino, e che lasciando che le cose se­ guissero il loro corso si era arrivati per la Venezia Giulia alla formula del Territorio libero di Trieste. La conferenza dei 21 durò dal 29 luglio al 15 ottobre 1946. Oltre a Stati Uniti, URSS, Gran Bretagna, Francia e Ci­ na vi furono ammessi anche Australia, Belgio, Brasile, Cana­ da, Cecoslovacchia, Etiopia, Grecia, India, Iugoslavia, Norve­ gia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Bielorussia, Ucraina, Unione Sudafricana. Potevamo contare, in quel consesso, su pochissimi amici. L'americano Byrnes tra i «grandi»; il brasi­ liano e l'olandese tra i minori. Questi ultimi si sentivano schiacciati dalla preponderanza dei «grandi», tanto che il neo­ zelandese Jordan sbottò un giorno: «Che lazza di conferenza è questa, in cui una minoranza di quattro tizi ha sempre ra­ gione? Questa è roba da Hitler e da Mussolini». Dalle discussioni eravamo esclusi. De Gasperi avrebbe parlato all'Assemblea generale, gli altri componenti la dele­ gazione italiana, in particolare Giuseppe Saragat e Ivanoe Bonomi, peroravano le nostre ragioni, su punti specifici, nelle commissioni formate all'uopo. La preparazione del di­ scorso che il Presidente del Consiglio pronunciò il 10 agosto fu laboriosa e carica di dubbi. De Gasperi aveva convocato a Parigi i più importanti ambasciatori italiani per averne l'a­ vallo, che era anche un avallo politico. Nicolò Carandini (Londra) rappresentava i liberali, Tarchiani (Washington) il Partito d'azione, Reale (Varsavia) i comunisti, Quaroni (Mo­ sca) la diplomazia di carriera. L'ambasciata italiana a Parigi era scoperta da quando Saragat era divenuto presidente della Costituente, e nessuno voleva ricoprire quel posto per il timore di dover apporre la sua firma al diktat. Si erano recati a Parigi anche i capi delle grandi correnti del sindacalismo italiano per portare ai delegati, in sede pri­ vata, la voce delle «masse lavoratrici antifasciste e democra­ tiche». Byrnes aveva profuso, per loro, molte cortesi parole.

351 Ma il laburista e sindacalista Bevin (l'episodio è stato rac­ contato da Uguccione Ranieri che era a capo dell'ufficio stampa della delegazione italiana e che accompagnò, come interprete, i sindacalisti) fu aspro, quasi sprezzante. Accolse i rappresentanti dei lavoratori italiani senza alzarsi in piedi, senza nemmeno tendere la mano. E, ascoltate freddamente le loro parole, ribatté ricordando le colpe del fascismo, e astenendosi da ogni distinzione tra il regime e il popolo ita­ liano. Nella preparazione del discorso De Gasperi, ha anno­ tato Canali, «distillava testi già preparati, memoriali, verba­ li, pareri di colleghi», riceveva delegati istriani, e alti ufficia­ li delle Forze Armate che si disperavano per le proposte li­ mitazioni militari. Via via gli abbozzi erano tradotti e scarta­ ti. Anche questa volta si pose, come in occasioni precedenti, il problema della lingua da usare. Fu di nuovo preferito l'i­ taliano, e fu saggia decisione. I componenti l'assemblea avrebbero seguito il discorso attraverso le traduzioni: era giusto che De Gasperi potesse mettere, in ogni sua parola, il calore che solo l'uso della lingua materna gli consentiva. An­ cora a mezzogiorno del 10 agosto il discorso subì qualche ultimo ritocco. Alle 15 furono pronte le traduzioni. Un'ora più tardi i delegati italiani vennero ammessi, ad un cenno di Bidault che presiedeva, nell'aula delle riunioni, dove mil­ lecinquecento rappresentanti di ventun nazioni aspettava­ no. Il ministro francese ebbe parole di circostanza per la «nuova Italia», si accesero i riflettori, presero a ronzare le ci­ neprese mentre De Gasperi, in un silenzio impressionante, saliva alla tribuna. Cominciò un po' in sordina, ma senza nervosismo. Con­ fidò poi che si sentiva calmo, che non avvertiva soggezione. L'esordio fu di alto livello drammatico: «Prendendo la paro­ la in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vo­ stra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex-nemico, che mi fa considerare imputato, e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni, in una lunga e faticosa elabo-

352 razione». Con sobrietà di gesti, ma anche con voce sempre più calda e crescente vigore, De Gasperi disse che il trattato aveva un'impostazione punitiva, e affrontò la questione giu­ liana. «La linea francese - osservò - era una linea politica di comodo, non già una linea etnica nel senso delle decisioni di Londra, perché rimanevano nel territorio slavo 180 mila italiani, e in quello italiano 59 mila slavi: soprattutto essa escludeva dall'Italia Pola e le città minori della costa istriana occidentale ed implicava per noi una perdita insopportabi­ le. Ma, per quanto inaccettabile, essa era almeno una fron­ tiera italo-iugoslava che aggiudicava Trieste all'Italia. Ebbe­ ne, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso durante il giugno, perché il 3 luglio il consiglio dei quattro rovescias­ se le decisioni di Londra e facesse della linea francese non più la frontiera fra Italia e Iugoslavia, ma quella di un co­ siddetto territorio libero di Trieste?» E proseguì: «Per cor­ rere il rischio di tale espediente, voi avete dovuto aggiudi­ care l'81 per cento del territorio della Venezia Giulia alla Iugoslavia, avete dovuto far torto all'Italia rinnegando la li­ nea etnica, avete abbandonato alla Iugoslavia la zona di Pa- renzo-Pola senza ricordare la Carta Atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali». Fu un buon discorso, fermo e pieno di dignità. Venne ac­ colto in silenzio. Per gli italiani, la cui voce doveva purtrop­ po risuonare nel deserto degli egoismi altrui, era già venuto il momento di andarsene. Prima, però, stettero ad aspettare che fossero lette le traduzioni (non funzionavano ancora in queste occasioni i moderni sofisticati impianti di traduzione simultanea). Poiché De Gasperi risaliva l'emiciclo per seder­ si, Byrnes gli si fece incontro, alzandosi dal suo scanno, gli strinse la mano con calore e gli sussurrò qualcosa all'orec­ chio (voleva vederlo in privato dopo la seduta). Sforza, che era in viaggio nell'America Latina per sollecitare interventi a nostro favore, telegrafò poi a De Gasperi, con egocentri­ smo scoperto e inconsapevole, che il suo (di De Gasperi) di-

353 scorso era stato il miglior aiuto all'opera che lui (Sforza) an­ dava in quel momento svolgendo. De Gasperi aveva fatto ottima impressione. Il New York Times notò che era toccato a una nazione sconfitta di rialza­ re il tono della verbosa conferenza. «Voi parlaste - scrisse un autorevole pubblicista inglese in una "lettera aperta al si­ gnor De Gasperi" - non a una conferenza di pace ma a una conferenza di guerra. Voi sì, signore, avete il diritto di pre­ sentarvi come antifascista e democratico, perché non ab­ bracciaste il signor Ribbentrop sotto il segno della croce un­ cinata. Ma voi, nonostante tutto, foste ascoltato dai milioni che anelano alla pace che voi prospettate.» Uno di coloro che avevano abbracciato Ribbentrop, il so­ vietico Viscinski, ebbe, in un discorso che ribatteva le tesi italiane, uno scatto violento e insultante. «Non è vero che Trieste sia italiana. Trieste è stata fondata dagli slavi, e anzi è colpa dell'Italia se è decaduta dal rango che aveva di pri­ mo porto di tutto il Mediterraneo. Non è vero che il signor Bonomi sia un democratico, anzi è stato ministro della Guerra del regime fascista. Non è vero che l'Esercito italia­ no ha abbattuto l'impero austro-ungarico: l'impero austro­ ungarico fu vinto dai russi del generale Brussiloff che nel 1916 fecero prigionieri due milioni di austriaci. Anzi, sanno tutti che gli italiani sono molto più bravi a scappare che a combattere.» Non appena la delegazione italiana seppe che erano state pronunciate queste frasi e in particolare l'ulti­ ma, deliberatamente offensiva, chiese di avere dall'amba­ sciata sovietica una copia del discorso. Quando l'ottenne constatò che, la frase incriminata non c'era più.

L'attività di De Gasperi era febbrile, e le ricorrenti minacce di crisi di governo - la classe politica non dimostrava ecces­ siva sensibilità per l'ora grave che il Paese attraversava - im­ ponevano al Presidente improvvisi ritorni a Roma. I ventu­ no dal canto loro non riuscivano a mettersi d'accordo nem­ meno nel limitato spazio decisionale che i ministri dei

354 «grandi» avevano lasciato loro: non si arrivò ad un'intesa, ad esempio, sullo statuto del Territorio libero di Trieste, e la questione venne rinviata ai soliti «grandi». Il 4 novembre 1946 a New York, al trentasettesimo piano di un grattacielo, Byrnes, Bevin, Molotov e Couve de Mur- ville (quest'ultimo in sostituzione di Bidault impegnato nel­ le elezioni francesi) ripresero in mano la materia dei trattati per «rifinirla». Davanti a loro, il 6 novembre, l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti Alberto Tarchiani, contrastato con furore dallo iugoslavo Simich, chiese che alle genti giuliane fosse almeno accordato il diritto ad un plebiscito. Parlava al vento. Ma una bomba politica scoppiò il giorno successivo in Italia, per un'intervista di Togliatti all'Unità, nella quale era proposta una inedita soluzione del problema giuliano (Togliatti aveva intervistato se stesso, è ovvio). Reduce da un incontro a Belgrado con il maresciallo Tito, Togliatti, che aveva raggiunto la capitale iugoslava in automobile il 3 no­ vembre, rivelava: «Il maresciallo Tito mi ha dichiarato di es­ sere disposto a consentire che Trieste appartenga all'Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana, qualora l'Italia consenta a lasciare alla Iugoslavia Gorizia, città che anche secondo i dati del nostro Ministero degli Esteri è in prevalenza slava». Il baratto parve eccellente alla segreteria del PCI che espresse «la riconoscenza del popolo italiano al maresciallo Tito». Ma negli altri settori politici vi fu una vera sollevazione. Il Ministero degli Esteri negò d'avere mai ammesso la non italianità di Gorizia, anche se il ministro Nenni, affascinato e dominato intellettualmente da Togliatti, era assai meno ri­ soluto dei funzionari. Basta leggere il suo diario: «I demo­ cristiani gridano alla manovra. Io propendo per una inter­ pretazione alquanto diversa, pur rendendomi conto che se diamo l'impressione di cedere su Gorizia la conseguenza può essere grave a New York dove si decide del nostro de­ stino». E il giorno successivo, 8 novembre: «La destra è sca­ tenata contro Togliatti. Ma non raggiunge l'acredine della

355 stampa cattolica e del Popolo. C'è una incapacità totale della nostra borghesia di sollevarsi al di sopra dei suoi odi sociali e dei clericali di ragionare in termini nazionali. Per i primi Tito è l'espropriatore, per i secondi è lo scomunicato, il per­ secutore della Chiesa, l'uomo che ha condannato monsi­ gnor Stefanic». Nenni non capiva che Togliatti tentava, con la sua «tro­ vata» di cogliere due piccioni con una fava: ossia di scrollar­ si di dosso l'accusa di rinunciare, per solidarietà ideologica, alla Venezia Giulia in favore degli iugoslavi, e nello stesso tempo di rendere un servizio a Tito, barattando una città italiana con un'altra città italiana. Il Partito comunista era, in Venezia Giulia, totalmente infeudato a Tito, consenziente Togliatti. Ha scritto Bocca nella biografia di Togliatti: «Nel partito giuliano sono stati creati i gruppi dei cinque, l'orga­ nizzazione dei fedelissimi; e non c'è gruppo dei cinque in cui manchi un membro della polizia politica iugoslava. La dipendenza da Lubiana è totale. E là che si decidono le no­ mine e i trasferimenti del partito giuliano... Ma vi è qualco­ sa di peggio: Rankovic pretende che i compagni italiani col­ laborino con il servizio segreto (iugoslavo)... Togliatti è un muro di gomma». Questo muro di gomma, che tale era soprattutto nei ri­ guardi di Tito, si risentì acrimoniosamente per il naufragio del baratto (naufragio provocato tra l'altro da un voto una­ nime del governo nel quale sedevano quattro comunisti). In un articolo di fondo dal titolo «La politica dei calci nel sede­ re», pubblicato il 10 novembre dall'Unità, Togliatti accusò De Gasperi d'avere, lui sì, compromesso la sorte delle popo­ lazioni giuliane. «(De Gasperi) non ha barattato nulla, ma ha perduto tutto, eccetto l'umiliante carezza fattagli sul dor­ so ricurvo dal compassionevole ministro Byrnes.» Togliatti sembrava aver perso le staffe ma, come ha scritto Giorgio Amendola, la sua virulenza era probabilmente calcolata. Rincarò la dose in un comizio a Livorno insinuando addirit­ tura che De Gasperi avesse di proposito ritardato il rimpa-

356 trio dei prigionieri dalla Iugoslavia, e questa volta il leader democristiano pretese, in Consiglio dei ministri, un chiari­ mento: e l'ottenne da Scoccimarro: «Dichiaro, certo di in­ terpretare il pensiero personale dei miei colleghi, e dello stesso intero mio partito, che nulla può contestarsi di meno che onorevole per il Presidente del Consiglio». E facile con­ statare, oggi, quanto sarebbe stato insensato lo scambio che Togliatti caldeggiava: Trieste è tornata all'Italia, Gorizia è ri­ masta italiana. Il 4 dicembre i ministri degli Esteri dei «grandi» conclu­ sero a New York l'ultima fase del loro lavoro. I trattati ave­ vano ricevuto la stesura definitiva, e il nostro rimaneva du­ rissimo. Tuttavia Kardelj affermava sdegnosamente che la Iugoslavia, insoddisfatta, non l'avrebbe ratificato. Voci con­ tro la ratifica sorgevano e s'infittivano - con maggior fonda­ mento - anche in Italia. De Gasperi disse: «Se fosse possibi­ le decidere secondo criteri ideali e di giustizia, il trattato sa­ rebbe da respingere». Era possibile respingerlo? Era oppor­ tuno rifiutare la firma? Da allora, per un anno, l'angoscioso dilemma politico, morale e giuridico assillò il governo e l'o­ pinione pubblica italiani. La firma non significava di per se stessa accettazione, costituendo un semplice atto di proce­ dura (i tedeschi avevano firmato ma non accettato il Tratta­ to di Versailles). E l'accettazione veniva, senza dubbio, con la ratifica. Il dilemma era di prima grandezza, anche dal punto di vista pratico. Firma e ratifica avrebbero liberato l'Italia dalle pesanti condizioni armistiziali, anche se già alleggerite: ma potevano sembrare il riconoscimento di clausole ingiuste, vessatorie, odiose. Ingiuste in gran parte le clausole territo­ riali. Inutilmente vessatoria l'imposizione di consegnare ai vincitori la miglior parte di quella flotta che disciplinata­ mente si era affidata, dopo la proclamazione dell'armistizio, agli Alleati. Stati Uniti e Gran Bretagna rinunciarono a que­ sto diritto di preda, la Francia accordò concessioni, I'URSS fu inflessibile. Odiosa, anche se ricalcata su analoghe norme

357 La finzione del Territorio libero di Trieste del Trattato di Versailles, la clausola che consentiva ai vinci­ tori di rivalersi, per il pagamento delle riparazioni, sui beni di privati cittadini italiani posti nel loro territorio. (Per deci­ ne d'anni si sono trascinate molte pratiche di emigrati che, spogliati di tutto, hanno dovuto attendere da una burocra­ zia lentissima e insensibile il risarcimento cui il governo ita­ liano si era impegnato.) Ripugnava infine al sentimento pazionale l'articolo 16, a stento approvato dalla conferenza dei ventuno a Parigi (10 voti contro 9). Eccone il testo: «L'Italia non incriminerà, né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle Forze Armate, per il solo fatto di avere, durante il periodo di tempo dal 10 giugno 1940 all'entrata in vigore del presente trattato, espresso simpatia od avere agito in favore della causa delle potenze alleate ed associa­ te». Era un articolo che poteva sì salvaguardare gli idealisti, i resistenti politici, i fuorusciti che avevano avversato il fasci­ smo in nome delle loro convinzioni, ma che copriva con il mantello dell'impunità anche biechi traditori e spie. Qual­ cuno ha asserito che questa clausola era stata rafforzata e completata da patti segreti. Da autorevoli fonti l'ipotesi ci è stata smentita. La rende poco verosimile la partecipazione alle trattative degli Stati Uniti, acerrimi avversari, allora, delle clausole segrete (già dopo la prima guerra mondiale Wilson aveva rifiutato validità al Patto di Londra tra l'Italia e l'Intesa proprio perché stipulato segretamente). Inoltre non si direbbe che l'articolo 16 abbisogni di occulte integra­ zioni. Ma esso dava fondamento al sospetto che determina­ te persone avessero reso agli Alleati ambigui favori, e ne avessero ricevuto compensi di vario tipo in epoca prearmi­ stiziale: quando, piaccia o no, questo comportamento era fellonia bella e buona. Firma e ratifica erano due atti distinti. La prima spettava al governo, la seconda all'Assemblea costituente, con una controfirma del Capo dello Stato. Il «cuore» del Paese era contro l'accettazione, anche soltanto formale, del diktat; la

359 ragione suggeriva l'atteggiamento opposto. L'economia era ancora assillata da angosciose incertezze: e la precaria situa­ zione giuridica e internazionale non era fatta per dissiparle. Si profilava in particolare il rischio che, mancando l'accetta­ zione del trattato, gli Stati Uniti, cui De Gasperi aveva do­ vuto fare drammaticamente appello per le «saldature» ali­ mentari e per i rifornimenti, sospendessero ogni aiuto. E sarebbe stato il disastro. Posto di fronte all'alternativa «firmare o non firmare», De Gasperi era, secondo la testimonianza dell'ambasciatore Quaroni, esitante, anzi pareva propendere - ma era molto riservato - per un rifiuto. Il governo si pronunciò infine per la firma con ampie riserve. L'8 febbraio 1947, due giorni prima che l'ambasciatore Meli Lupi di Soragna firmasse a Parigi, De Gasperi chiarì alla Costituente il punto di vista del governo. «La nostra firma - disse - non può mutare la realtà come si è svolta e quale fu denunziata in ogni fase del­ la Conferenza; Essa non può cancellare il fatto che nono­ stante la Carta Atlantica e la stessa recente Costituzione francese, il trattato dispone dei popoli senza consultarli, e neppure può eliminare il fatto, purtroppo incontrovertibi­ le, che la nostra economia da sola, nonostante ogni buon volere, non può sopportare il peso di cui il trattato la grava. Non rifiutare la firma richiesta vuol dire che il governo ita­ liano non intende pregiudizialmente fare atto di resistenza contro l'esecuzione del trattato: significa che l'Italia vuol da­ re prova di buona volontà e di ogni sforzo ragionevole e possibile per liquidare la guerra; vuol dire che l'Italia, no­ nostante il contenuto del trattato, non dispera, non vuole disperare dell'avvenire.» E così Meli Lupi di Soragna firmò, dopo una estrema schermaglia diplomatica nel corso della quale il governo ita­ liano ribadì che il plenipotenziario sottoscriveva il docu­ mento «con riserva di ratifica da parte dell'Assemblea costi­ tuente». Firmò, dopo tonanti dichiarazioni in contrario, an­ che la Iugoslavia ma a sua volta con riserva per il mancato

360 accoglimento delle rivendicazioni su Gorizia, Monfalcone e Trieste. Lo stesso giorno della firma a Parigi l'italiana Maria Pasquinelli uccise a Pola, per sanguinosa protesta contro l'ingiustizia del diktat, il generale inglese De Winton. Per effetto del trattato, l'Italia perdette Zara, la quasi to­ talità della Venezia Giulia, l'isola di Saseno, l'Etiopia, l'Eri­ trea, la Libia, il Dodecanneso, Briga e Tenda, la concessione cinese di Tien-Tsin. Sulla Somalia ottenemmo nel 1949 l'amministrazione fiduciaria per mandato dell'ONU, durata fino al 1960. Trieste e la zona A del Territorio libero torna­ rono all'Italia nel 1954. Ci fu imposto di pagare cento milio­ ni di dollari all'URSS, 125 alla Iugoslavia, 105 alla Grecia, 25 all'Etiopia, 5 all'Albania. Secondo le clausole militari l'Eser­ cito italiano doveva essere limitato a 250 mila uomini (com­ presi 65 mila carabinieri) con non più di 200 carri armati; la Marina a 2 corazzate, 4 incrociatori, 4 caccia, 16 torpedinie­ re, 20 corvette (e 22.500 uomini al massimo); l'Aviazione a 200 caccia e ricognitori, 150 aerei da trasporto, nessun bombardiere, al massimo 25 mila uomini. L'Italia s'impe­ gnava infine a smantellare le fortificazioni ai confini france­ se e iugoslavo, a smilitarizzare Pantelleria, Lampedusa e Pianosa, e a non acquistare missili guidati, cannoni con git­ tata oltre i 30 chilometri, corazzate, sommergibili e portae­ rei. Vincoli molto pesanti, che già contrastavano clamorosa­ mente, quando Meli Lupi di Soragna firmò, con la mutata situazione in Italia e nel mondo: tanto che, al momento del­ la ratifica, quel trattato era già anacronistico.

Molte cose avvennero infatti tra l'autunno del 1946 e l'au­ tunno del 1947. Le accenniamo soltanto - su quasi tutte do­ vremo tornare - per chiarire in quale diversa atmosfera si siano svolti i dibattiti prò o contro la ratifica. Un viaggio di De Gasperi a Washington, la scissione socialista di Palazzo Barberini, poi la formazione, nella primavera del '47, d'un governo monocolore democristiano integrato da poche per­ sonalità di alto livello - Einaudi per il Bilancio, Sforza per

361 gli Esteri, Merzagora per il Commercio con l'estero - segna­ vano una decisa svolta politica. Socialisti e comunisti erano estromessi dal governo: e i comunisti non vi sarebbero mai più rientrati. Washington, pressata dalle esigenze della guerra fredda, vedeva con ottica diversa l'Italia e anche la Germania. Mosca procedeva nel consolidamento del suo impero, e già in Ungheria la minoranza comunista si era impadronita con la violenza del potere. In Grecia divampa­ va la guerra civile, e gli Stati Uniti avevano surrogato la Gran Bretagna nel compito di sostenere quel bastione occi­ dentale contro l'espansionismo di Mosca. Un profondo cambiamento: e all'ombra di esso, le solite miserie e la solita avidità umana. Così, ad esempio, abili trafficanti avevano ammassato a Briga e a Tenda grosse quantità di merci che in Francia avevano un prezzo più elevato per ottenerne, quando fosse stata ammainata la bandiera italiana, l'espor­ tazione occulta e ingenti profitti, senza pagamento di diritti doganali. Voci autorevoli in America recriminavano sull'errore commesso con quelle condizioni onerose. Sumner Welles deplorava che fosse stato favorito l'espansionismo sovietico in Adriatico, il senatore Lodge definì il trattato una «igno- ble and unacceptable solution». Se questo era consolante per l'Italia, era anche imbarazzante per il governo di Roma: il quale si vedeva costretto a perorare davanti all'Assemblea costituente la ratifica d'un trattato che i nemici stessi defini­ vano ignobile. Gli uomini dell'Italia prefascista erano in generale con­ tro la ratifica. Francesco Saverio Nitti, estensore di una rela­ zione di minoranza contrapposta a quella di maggioranza presentata da Gronchi, giustificava il rifiuto con un argo­ mento giuridico. Le grandi potenze non avevano ancora, esse stesse, ratificato (tale era la situazione mentre si discu­ teva). Perché dunque l'Italia avrebbe dovuto precederle? Con alte parole espresse il suo dissenso, il 24 luglio 1947, Benedetto Croce: «Si è preso oggi il vezzo, che sarebbe di-

363 sumano se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra con l'en­ trare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi... Il governo italiano certamente non si opporrà all'esecuzio­ ne del trattato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche singolo provvedimento legislativo lo seconderà do­ cilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approva­ zione, no». Con accento più acre Vittorio Emanuele Orlan­ do, che pure aveva conosciuto nel '19 molte umiliazioni in una conferenza della pace alla quale partecipava come «grande» e vincitore, sferzava il governo. Ecco il passaggio più celebre del dibattito. Orlando - Accettare in precedenza, senza alcun assillo, questa pace disonorante, significa porsi dinanzi ad una enorme responsabilità assunta per cupidigia di servilità... Presidente - Invito l'onorevole Orlando a riprendere la parola affinché da ciò che egli dirà risulti il valore del suo pensiero. Orlando - Chiarisco di avere inteso che la parola servi­ lità qualifica l'atto e non le persone. Nessuno quindi può re­ stare offeso. Il testo ufficiale reca il termine servilità, mentre altre ver­ sioni - tra l'altro quella di Nenni nel suo diario - riferiscono che Orlando parlò di servilismo. La durezza del termine re­ sta comunque intatta: e proprio quella durezza provocò una vera sollevazione dei democristiani, contrastati dalle sini­ stre. Lo scontro verbale degenerò in tumulto. E Nenni, per l'occasione nazionalista, se ne compiacque: «Nessuno to­ glierà a De Gasperi il marchio con cui Orlando l'ha bollato». Il trattato fu ratificato il 31 luglio. Dapprima la Costi­ tuente respinse una «sospensiva» proposta da Corbino, quindi con duecentosessantadue voti favorevoli, sessantotto contrari, e ottanta astenuti approvò la ratifica, subordinan-

364 dola a quella dei quattro «grandi». L'ultimo strascico di que­ sta vicenda dolorosa fu provocato da una delle classiche im­ puntature di Enrico De Nicola. Citiamo da Bartoli: «Il Pre­ sidente rifiutò di firmare lo strumento di ratifica del trattato di pace perché, diceva, la sua qualità di Capo soltanto prov­ visorio dello Stato non gli permetteva di consacrare con la sua firma un documento così importante. De Gasperi e Sforza andarono a Palazzo Giustiniani accompagnati dal se­ gretario generale del Ministero degli Esteri e da un esperto di storia diplomatica, il professor Mario Toscano, al quale toccò convincere il Presidente. La formula che Toscano pro­ pose era volutamente ambigua: da essa poteva sembrare che il Capo dello Stato, invece di ratificare il trattato, tra­ smettesse la ratifica compiuta dal governo. De Nicola lesse paragrafo per paragrafo il contenuto del documento conte­ standone ogni espressione e a un certo punto, irritato dalle repliche dell'esperto e dalle sue minute osservazioni legali, gettò per aria le carte, rosso in volto per la collera. Alla fine accettò di firmare. Ma rimandò di un giorno per evitare il venerdì». CAPITOLO QUINTO

LA SVOLTA

Riesce difficile, in questi tempi di politica e diplomazia iti­ neranti fino alla frenesia, capire l'importanza del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, ai primi del 1947. Ma quella fu la sua vera consacrazione internazionale. L'invito era arriva­ to dalla rivista Time che aveva organizzato, a Cleveland, un «forum» sul tema: «Cosa si attende il mondo dagli Stati Uni­ ti?». Si discusse, tra gli intimi di De Gasperi, se fosse oppor­ tuno e dignitoso che il Presidente del Consiglio italiano tra­ versasse l'Oceano per partecipare a una riunione accademi­ ca e in qualche modo privata. Ma il problema venne risolto dall'ambasciatore italiano Alberto Tarchiani, che ottenne fosse rivolto a De Gasperi, insieme a quello di Time, un invi­ to ufficiale dell'Amministrazione americana. Le circostanze della visita non parevano, a tutta prima, le più favorevoli. De Gasperi era un Capo di governo che s'ap­ prestava a firmare il duro trattato di pace; ed era anche un leader politico reduce da una cocente anche se parziale scon­ fìtta elettorale. Il 10 novembre del '46 s'era votato per le amministrative in sei grandi città - Roma, Napoli, Genova, Torino, Firenze, Palermo -, e la DC non aveva confermato il successo del 2 giugno, anzi: dovunque i suoi voti s'erano ri­ dotti parecchio, in qualche caso alla metà o meno (a Roma da 218.000 a 103.000, a Napoli da 89.000 a 28.000, ad esempio). Questo calo era spiegato anche dallo scarso afflus­ so alle urne; ma c'era dell'altro. Come tendenza generale, i comunisti erano cresciuti a sinistra e i qualunquisti a destra. Nell'area di sinistra il PCI s'era nettamente avvantaggiato sui socialisti. Nenni aveva annotato: «Il peggiorato rapporto di

366 forze tra noi e i comunisti è meritato. Negli ultimi tre mesi abbiamo offerto all'elettorato lo spettacolo delle nostre po­ lemiche interne... Ho esaminato con Togliatti e De Gasperi i risultati elettorali. Il primo si rende conto che non deve ti­ rar troppo la corda. De Gasperi è amaro. A destra lo hanno mollato perché cede ai comunisti. A sinistra perché è accu­ sato di cedere al neofascismo. Cristo in croce». Il segnale d'allarme era serio per la Democrazia cristia­ na. In Francia le elezioni politiche, indette per lo stesso giorno, avevano dato risultati analoghi. Trionfo comunista con 172 deputati, duro scacco dei socialisti ridotti da 118 a 93, e segni di logoramento del MRP (che era la Democrazia cristiana francese), che gradualmente fu cancellato dall'o­ rizzonte politico. La tattica del PCI - essere presente nel go­ verno con esponenti di secondo piano, ma avere le mani li­ bere per fare opposizione nel Paese - dava soddisfazioni a Togliatti, e dispiaceri a De Gasperi. Non erano ancora ma­ turate le condizioni per lo «sbarco» dei comunisti dalla zat­ tera del governo: ma già il 15 novembre Attilio Piccioni, in­ telligente, pigro e taciturno notabile della DC, scriveva ai di­ rigenti periferici che «il tripartitismo non è stato una colla­ borazione ma una coabitazione forzata». La DC di De Gaspe­ ri rifiutava d'essere considerata un partito conservatore, e anche di identificarsi totalmente con la Chiesa che, per boc­ ca di Pio XII, tuonava il 22 dicembre in una grandiosa adu­ nata di cattolici in Piazza San Pietro: «Dal suolo romano il primo Pietro, circondato dalle minacce di un pervertito po­ tere imperiale, lanciò il fiero grido di allarme: resistete forti nella fede. Su questo medesimo suolo noi ripetiamo oggi con rinnovata energia: o con Cristo o contro Cristo; o per la sua Chiesa, o contro la sua Chiesa». Non era, o non era an­ cora per la DC, il momento della crociata. Si avvicinava tut­ tavia quello del divorzio dal PCI. La spedizione americana ebbe un avvio difficile, per mol­ ti aspetti. Inclemente il tempo, che costrinse il De 6 Skyma- ster di De Gasperi ad attcrraggi fuori programma. La figlia

367 Maria Romana ha ricordato che, mentre l'aereo era sballot­ tato dalla bufera, chiese al padre cosa pensasse. «Penso co­ me farà Menichella (Menichella era il corpulento governa­ tore della Banca d'Italia, N.d.A.) ad allacciarsi il paracadu­ te. Nella prova che abbiamo fatto prima della partenza mi sono accorto che i paracadute sono studiati per i soli ma­ gri». E fredde le accoglienze a Washington il 5 gennaio. Del­ le personalità americane era presente il solo ambasciatore a Roma Dunn. Un po' poco. Il Presidente del Consiglio italiano, che sperava d'essere salutato dal segretario di Stato Byrnes, ebbe un moto d'irrita­ zione. «Se le cose vanno così - disse - questo viaggio, invece di aumentare il mio prestigio in Italia, rischia di distrugger­ lo.» Per la verità, non v'era alcuna intenzione scortese verso De Gasperi nell'assenza di Byrnes. Questi, malandato in salu­ te e da tempo in contrasto con il Presidente Truman, era di­ missionario (ne fu dato annuncio il giorno dopo) e prestava ormai agli affari del suo Dicastero scarsa attenzione: fu in questo stato d'animo che ricevette De Gasperi. Il colloquio durò una mezz'ora in tutto e fu generico. Ma la visita prose­ guì in crescendo, De Gasperi fu ricevuto alla Casa Bianca, vi­ de molte personalità, e nel discorso al «forum» disse: «A Lon­ dra fui accolto come nemico, a Parigi fui riconosciuto bellige­ rante, qui a Cleveland sono stato invitato come membro del Convegno internazionale dopo essere stato accolto a Wa­ shington e a Chicago come amico». De Gasperi ebbe final­ mente l'onore della sfilata lungo la Broadway, dalla punta di Manhattan fino al palazzo del Municipio. Precedettero il cor­ teo quaranta guardie a cavallo in uniforme, che scortavano la bandiera italiana. La folla era fitta, amichevole, plaudente. Questo per l'aspetto celebrativo, una sorta di solenne ri­ conciliazione tra due Paesi, ma soprattutto tra due popoli. Poi vi fu l'aspetto sostanziale, economico e politico. All'Italia occorrevano crediti. Li ottenne. Cento milioni di dollari del­ l'Export-import Bank, altri cinquanta milioni a compenso delle spese sostenute per le Forze Armate americane in Ita-

368 Ha. Non erano cifre da capogiro, basta pensare che nel mag­ gio del 1946 la Francia aveva ottenuto un prestito di un mi­ liardo e 370 milioni di dollari. Ma quei fondi erano indi­ spensabili all'economia italiana (furono puntualmente rim­ borsati). Si disse allora, e si ripetette insistentemente negli anni successivi, che Washington aveva premuto su De Gasperi perché estromettesse le sinistre dal governo, e che anzi la promessa di questa svolta era stata condizionante per la concessione degli aiuti economici. Di ciò non v'è traccia nei documenti ma si può obbiettare che non vi sarebbe nemme­ no se qualche intesa in proposito fosse esistita. Con tutta probabilità la sollecitazione americana non fu perentoria, e s'intrecciò a un proposito che De Gasperi già maturava per ragioni interne. Del resto, in contrasto con le tesi di suoi compagni che attribuivano a ordini americani il comporta­ mento successivo di De Gasperi, Giorgio Amendola scrisse che «erano le forze interne, capitalistiche, conservatrici, che volevano riassumere il pieno controllo del governo per far fronte allo sviluppo del movimento operaio». Certo la guer­ ra fredda, che non era stata ancora dichiarata, si stava deli­ neando, e l'Unione Sovietica imponeva un po' dovunque, con colpi di Stato o elezioni addomesticate, i «blocchi del popolo» (eufemismo per indicare l'egemonia comunista) nei Paesi occupati dall'Armata Rossa. L'Occidente doveva reagire. Rientrando dagli Stati Uniti, De Gasperi spiegò che i suoi interlocutori americani aveva­ no insistito sulla «stabilità e sul consolidamento del regime democratico italiano» e l'avevano esortato a sottrarre la sua azione «alle manifestazioni e agli atteggiamenti in contrasto con la collaborazione governativa». Non ci poteva essere equivoco: il riferimento era ai socialcomunisti, e ai comuni­ sti in particolare.

Ma, quali che fossero state le insistenze americane, e le in­ tenzioni di De Gasperi, un avvenimento cui sia gli america-

369 ni sia i democristiani erano estranei spinse comunque alla crisi ministeriale, anche se non a un giro di boa politico. Quell'avvenimento fu la scissione socialista. Abbiamo usato il termine «estranei», per i democristiani: che tuttavia, sia ben chiaro, non furono indifferenti né as­ senti. Per quel poco o quel molto che poteva, De Gasperi aveva contribuito ad attizzare le divisioni, in campo sociali­ sta, incitando Saragat a dar vita ad un partito «con cui alla Democrazia cristiana fosse possibile collaborare». L'avven­ tato Nenni agevolò gli sforzi della DC. Tentando di con­ fondere le acque, e di far credere che nelle amministrative si fosse avuto un successo di sinistra - s'era avuto un suc­ cesso comunista soltanto - lanciò uno dei suoi prediletti slo- gans «dal governo al potere», lasciando trapelare il proposi­ to di emarginare la DC in declino. Era quanto di meglio De Gasperi potesse aspettarsi per allarmare i moderati e legit­ timare ogni suo irrigidimento. Togliatti capì il pericolo in­ sito nell'azzardata proposizione nenniana, e le diede una cauta «interpretazione autentica», spiegando che non si do­ veva credere che la formula «dal governo al potere» signifi­ casse l'abbandono, da parte di comunisti e socialisti, del metodo democratico. «Se riusciremo a conquistare la mag­ gioranza in Parlamento, noi intendiamo collaborare leal­ mente con la DC.» Ma nello stesso momento in cui attenuava alcune impo­ stazioni di Nenni, Togliatti approfondiva le fratture sociali­ ste prendendo di mira ripetutamente, e con grande asprez­ za, Saragat e i suoi compagni di corrente. «Non è forse pre­ mio sufficiente alla fatica dell'onorevole Saragat - scriveva Togliatti sull'Unità - il fatto che (un suo articolo) gli abbia val­ so la simbolica concessione della tessera ad honorem del Mo­ vimento dell'Uomo Qualunque?» A questo punto, parados­ salmente, gli scopi di De Gasperi e gli scopi di Togliatti coin­ cidevano. La scissione socialista faceva comodo ad entrambi per ragioni di fondo identiche. Sia i comunisti, sia i democri­ stiani, volevano avere al loro fianco, come alleato, un Partito

370 socialista che fosse in posizione subalterna, indebolito, e affi­ dabile. Per meglio controllare, nel Partito socialista, i settori «fusionisti», il PCI vi aveva sparso degli «infiltrati», comandati in missione. Lo hanno scritto Bruno Corbi e Fabrizio Ono- fri, due dirigenti comunisti (attingiamo le citazione dalla Sto­ ria del dopoguerra di Antonio Cambino). Ha rivelato Corbi che «di tanto in tanto, quando un giovane particolarmente capace mostrava il desiderio di iscriversi al PCI, il consiglio che gli veniva dato dai dirigenti comunisti era invece di indi­ rizzarsi verso i socialisti». E Onofri: «La presenza del PCI al­ l'interno del PSIUP era desiderata sia da coloro che si richia­ mavano alla linea Togliatti sia da coloro che si richiamavano alla linea Secchia. Per questi ultimi l'infiltrazione tra i sociali­ sti era una delle tante mosse con cui ci si preparava all'ora X. Per Togliatti e per i togliattiani, che non credevano all'ora X, era invece solo un mezzo per garantirsi contro uno slitta­ mento socialdemocratico del PSIUP». Nel Congresso di Firenze le fazioni socialiste avevano raggiunto un compromesso faticoso e fragile, che resse dal­ la primavera all'autunno del '46. Poi i contrasti divamparo­ no. Su posizioni autonomiste erano i riformisti di Critica so­ ciale, legati alla tradizione turatiana, e i massimalisti antico­ munisti di Iniziativa socialista, capeggiati da Mario Zagari. La coalizione saragatiana voleva un Partito socialista che «da retroguardia del bolscevismo diventasse avanguardia della democrazia». A sinistra stava Lelio Basso, risoluto a seguire in tutto e per tutto - anche nel doppio giuoco - i comunisti. Nenni, che era per l'unità d'azione con i comunisti pur sen­ za aderire totalmente alle tesi di Basso, non credeva che la scissione potesse avere conseguenze devastanti. Un giorno Sandro Pertini l'andò a trovare, presenti Ignazio Silone e Fernando Santi, e fu colpito dall'abulia di Nenni. «Il nostro colloquio quasi subito assunse un tono molto violento. Ai miei tentativi di scuoterlo, Nenni rispondeva stancamente, con frasi quasi ironiche, dicendo che dal partito se ne sareb­ bero andati via quattro gatti: e infatti qualche giorno dopo,

371 in un discorso pubblico, pronunciò la famosa frase dei rami secchi. Gli risposi allora bruscamente che si ingannava in modo grossolano... La discussione assunse un tono così con­ citato, e tutti e due gesticolavamo a tal punto, che più tardi gli uscieri andarono a riferire, erroneamente, che Nenni e io eravamo venuti alle mani.» Sicuro di sé, Nenni indisse un congresso anticipato del partito, dal 9 al 13 gennaio (1947). Era preparato - senza molto turbamento, forse con una punta di soddisfazione - al distacco degli autonomisti. «Dietro - malignò nel suo dia­ rio - ci sono Vaticano e America, con i quali non credo si faccia un Partito socialista, ma si fa però una scissione.» Quando, nell'Aula magna dell'Università di Roma, si apri­ rono i lavori, vari esponenti di Critica sociale sedevano tra i delegati. Mentre Iniziativa socialista aveva deliberato di igno­ rare il Congresso, i riformisti erano invece, al proposito, molto divisi. Nel pomeriggio stesso del 9 gennaio Matteo Matteotti lesse, a nome degli oppositori, una dichiarazione che invalidava il Congresso. In quelle ore a Palazzo Barberi­ ni si radunavano Saragat e i suoi. Il giorno successivo - mentre nel Congresso il fusionista Tolloy proclamava spa­ valdamente «per cinquantamila borghesi che se ne vanno, cinquecentomila nuovi aderenti operai», e Angelica Balaba- noff era subissata di fischi per aver attaccato Lenin e Stalin - veniva tentata in extremis una mediazione. Ne fu protagoni­ sta Sandro Pertini, direttore dell'Avanti!, che andò a Palazzo Barberini (lo accolsero, quando arrivò, con applausi frago­ rosi e grida di «Sandro, Sandro», perché credevano volesse unirsi ai dissidenti). Pertini, che ostentava disperazione per le lacerazioni, e minacciava addirittura il suicidio se alla scis­ sione si fosse arrivati, propose un compromesso, respinto dapprima dall'assemblea, poi anche da Saragat, in un lungo faccia a faccia tra i due dirigenti socialisti. La mattina dell'II gennaio, Saragat annunciò di perso­ na, al Congresso socialista, la decisione del suo gruppo. L'I­ talia aveva ormai due partiti socialisti: il PSI (Nenni e i suoi

372 avevano riesumato questa storica sigla, nel timore d'esserne defraudati dai secessionisti) e il PSLI, Partito socialista dei la­ voratori italiani. I quattro gatti cui aveva accennato Nenni furono invece, sul piano parlamentare, quasi la metà del partito. Su 115 deputati del PSIUP alla Costituente, 52 si schierarono con il PSLI: tre di essi erano nel governo (il mi­ nistro del Lavoro e della Previdenza sociale Ludovico D'A­ ragona e i sottosegretari all'Interno e all'Industria e Com­ mercio, Angelo Corsi e Roberto Tremelloni).

Rientrato a Roma dagli Stati Uniti, De Gasperi trovò questa situazione nuova: e ne trasse le conclusioni con una spiccia- tività per lui inusitata, rassegnando le dimissioni del gover­ no, il 20 gennaio, senza neppure aver convocato il Consi­ glio dei ministri. E difficile dire se mirasse, fin da allora, a estromettere i comunisti, o se volesse procedere a un più modesto aggiustamento. Questa seconda ipotesi pare più verosimile anche perché - mancando la firma del trattato di pace - gli conveniva associare a quella decisione impopolare quante più forze politiche potesse. Si può supporre dunque che avesse in mente un allargamento del governo anche a partiti e uomini che ne erano fuori: azionisti, liberali, indi­ pendenti. Il che gli avrebbe consentito sia di diluire la pre­ senza socialcomunista, sia di avere un maggior sostegno. Ma i suoi propositi risultarono vani. Bonomi e Carandi- ni, a destra, non vollero la Difesa e gli Esteri, Riccardo Lombardi (segretario generale del Partito d'azione), cui era stato proposto il Tesoro, declinò a sua volta l'offerta. Intan­ to Nenni, per non essere scavalcato a sinistra dal PSLI che era per l'uscita dal governo, si dimetteva da ministro degli Esteri e cercava di alzare il prezzo della collaborazione del suo partito: tra l'altro pretendeva una legge «per la difesa della Repubblica», il ripristino del controllo statale sull'im- port-export, un'imposta straordinaria patrimoniale, il cam­ bio della moneta, un piano di ammasso dei generi di prima necessità. Più flessibili, al solito, i comunisti, anche se un ar-

373 ticolo di Togliatti («Il tamburino e il tamburo») insinuava che le dimissioni fossero state «se non imposte, per lo meno suggerite con insistenza dall'estero, e precisamente dagli esponenti di quei circoli politici americani che si erano affol­ lati intorno a lui (De Gasperi) durante il viaggio negli Stati Uniti». La crisi approdò sostanzialmente a una riedizione del tri­ partito, con in più il repubblicano indipendente Sforza (do­ po 25 anni d'intervallo) agli Esteri, Sceiba all'Interno, tre dicasteri ai socialisti e tre ai comunisti. Il numero delle pol­ trone era stato ridotto da 21 a 16, e le sinistre, la cui presen­ za era numericamente rispettata (da 8 i loro ministri si era­ no ridotti a 6, il che era adeguato al totale dei Ministeri) ave­ vano tuttavia perduto gli Esteri e le Finanze. I saragatiani passarono all'opposizione. Una tempesta in un bicchier d'acqua, stando alle apparenze. De Gasperi, partito per li­ cenziare i comunisti, aveva ottenuto alla fin fine il risultato opposto, ossia quello di licenziare i saragatiani. Ma si tratta­ va soltanto d'una scaramuccia d'avanguardie, in attesa della vera battaglia. Si ha la sensazione che De Gasperi si rendesse pienamen­ te conto di questa realtà, e che invece Togliatti, ingannato forse dalla sua stessa sottigliezza, e abituato a risolvere i pro­ blemi con accordi di vertice, si facesse delle illusioni. La sua condotta in quei mesi obbedì alla convinzione che, mancan­ do in Italia le condizioni che avevano dato il monopolio del potere, all'Est, ai «blocchi del popolo», la collaborazione tra cattolici e comunisti dovesse durare indefinitamente. Solo così si spiega il voto comunista in favore dell'inserimento dei Patti lateranensi del 1929 nella Carta costituzionale. Il tema dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, affrontato alla Co­ stituente in sede di commissioni, vi aveva suscitato scontri aspri tra i democristiani e i «laici». La bozza dell'articolo 7 - originariamente, per l'esattezza, era l'articolo 5 - era stata oggetto di controversie, per la forma e per la sostanza. Già la dizione della sua prima parte, «lo Stato e la Chiesa cattoli-

374 ca sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovra­ ni», era parsa opinabile, perché sanciva l'ovvio, e perché, secondo i critici, introduceva nella Costituzione un proble­ ma di rapporti bilaterali che doveva rimanerne fuori. Ma su questo punto i comunisti cedettero presto. Resistette invece fino all'ultimo la disputa sulla seconda parte dell'articolo, nella quale si riconosceva che i rapporti tra Chiesa e Stato erano regolati dai Patti lateranensi. In tutti i settori non confessionali dell'Assemblea s'era avuta una sollevazione contro questo avallo dei Patti che non solo portavano la fir­ ma di Mussolini, ma contenevano norme difficilmente di­ fendibili in un'ottica liberale: come quelle che discriminava­ no tra la religione cattolica e gli altri culti, o che limitavano i diritti civili degli spretati, e così via (norme, si può rammen­ tare, che il nuovo Concordato, firmato dal cardinale Casa- roli e da Craxi nel 1984, ha abolito). Furono tentate formu­ le di compromesso («I rapporti tra Stato e Chiesa sono re­ golati in termini concordatari»), ma i democristiani le re­ spinsero. Erano indotti a questo atteggiamento rigido sia dalla loro convinzione di credenti, sia dai pesanti interventi della Gerarchia. Una lettera del presidente dell'Azione Cat­ tolica, Vittorino Veronese, a De Gasperi aveva toni poco me­ no che ricattatori. Veronese pronosticava reazioni forte­ mente negative della massa elettorale «qualora i democri­ stiani dimostrassero perplessità, anche solo di forma, su un problema fondamentale», si riferiva a un «desiderio preciso della stessa autorità ecclesiastica» (leggi di Pio XII), espri­ meva «un monito a tutti i deputati, a qualunque partito ap­ partengano e che facciano professione di cattolicesimo, per­ ché ricordino lo stretto dovere di coscienza di votare secon­ do i princìpi cattolici». De Gasperi si risentì del tono intimi­ datorio, e chiosò la lettera in questi termini: «Ho fatto capi­ re che se queste cose le hanno da dire, le devono dire diret­ tamente, e che non accettavo intimazioni di questo stile, benché contro la sostanza non abbia obbiezioni». Il pei pareva saldamente installato nella trincea del no al-

375 l'articolo 7. Solo nell'imminenza del voto i deputati comuni­ sti alla Costituente seppero che Togliatti aveva rovesciato la sua strategia. Vi fu sconcerto, e il leader comunista convocò il gruppo parlamentare per spiegare il voltafaccia. I più si adeguarono subito, inchinandosi alla autorità intellettuale e politica di Togliatti. Tre rimasero fermi nel rifiuto fino al­ l'ultimo. Il vecchio militante Fabrizio Maffi che scongiurò Togliatti di non umiliarlo obbligandolo a votare con i preti, Concetto Marchesi che rivendicò per l'occasione la sua au­ tonomia, e chiese di essere liberato dalla disciplina di parti­ to, e infine la moglie stessa del «Migliore», Rita Montagna- na. Nella discussione fu detto tra l'altro, per legittimare l'as­ senso all'articolo 7, che nel PCI v'era la presenza di un ottan­ ta per cento almeno di cattolici, e che le smanie laicistiche erano «piccolo-borghesi». Insieme ai dirigenti la virata to- gliattiana colse di sorpresa la base. Vittorio Gorresio rac­ contò sull'Europeo che il giorno dopo il voto in molte sezioni comuniste erano ancora affisse caricature di Mussolini e del cardinale Gasparri congiuranti per intrappolare gli italiani. Nulla lascia supporre che vi sia stato tra De Gasperi e To­ gliatti un qualsiasi previo patteggiamento. È anzi verosimile che De Gasperi preferisse avere una maggioranza assicura­ ta dall'Uomo Qualunque, e non «inquinata» dai comunisti. Molti deputati democristiani si resero conto dell'atteggia­ mento comunista solo mentre Togliatti pronunciava il suo discorso alla Costituente, nel pomeriggio del 25 marzo 1947. Andreotti ha riferito che Togliatti l'incaricò d'infor­ mare De Gasperi del sì comunista un'ora prima della seduta a Montecitorio. L'articolo 7 passò così con 350 voti favorevo­ li e 149 contrari. A favore anche Nitti Orlando, Bonomi, Sforza, i notabili del prefascismo. Poi Togliatti spiegò a Le­ lio Basso - ed era, lo si vide presto, una profezia non azzec­ cata - che con quel voto «il PCI si era assicurato il posto al governo per i prossimi venti anni». In epoca molto successiva il leader comunista diede una motivazione più articolata: «Ci fu una dichiarazione di voto

376 di De Gasperi immediatamente precedente alla mia - disse - in cui egli fece chiaramente intendere che se l'articolo col ri­ chiamo ai Patti lateranensi fosse stato respinto, sarebbe sta­ to chiesto e deciso un secondo referendum, e in un secondo referendum la Repubblica sarebbe stata probabilmente bat­ tuta perché sarebbe cambiata la posizione della Democrazia cristiana». Nenni - che con i socialisti aveva votato contro - diede una sua interpretazione: «Togliatti ha ragionato così: "De Gasperi ci dichiara guerra: Nenni non l'accetta ed è ve­ ro che per fare la guerra bisogna essere in due. Ma per di­ chiararla basta uno solo. Per togliervi il pretesto di dichia­ rarci la guerra, votiamo con voi l'articolo 7". E cinismo ap­ plicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di chi ha un obbiettivo e non vede altro. E la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla chiesa e ai cattolici. Togliatti crede così di salvaguardare dieci, venti anni di col­ laborazione con la Democrazia cristiana. Mi sembra un cal­ colo sbagliato da cima a fondo. Sono lieto di avere votato no». HUnità presentò la decisione comunista con questo ti­ tolo: «Il più alto esempio di responsabilità nazionale - Per la pace religiosa e l'unità dei lavoratori i comunisti accettano di votare l'articolo 7». Tutto sommato anche Piero Calaman­ drei attribuì un valore positivo alla mossa togliattiana che aveva «spezzato in mano ai democristiani l'arma più poten­ te che questi stavano affilando contro di loro per la prossi­ ma lotta elettorale», ossia l'additarli come nemici della reli­ gione. Furono insomma in pochi, fra gli stessi protagonisti, a ca­ pire che, nonostante la spregiudicatezza e le furberie di To­ gliatti, il tripartito formato da DC, pei e PSI viveva in Italia la sua ultima stagione, così come sull'orizzonte internazionale viveva la sua ultima stagione l'altro tripartito formato da Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna (la Francia figurava tra i «grandi», ma la sua era una presenza onoraria). L'insedia­ mento di Truman alla Casa Bianca non vi aveva portato so­ lo un cambio di persona: vi aveva portato un cambio di

377 mentalità. Alla arrendevolezza rooseveltiana alle mosse e ai disegni di Stalin, era succeduta una diffidenza profonda, e ampiamente legittimata dai fatti. Il 12 marzo 1947, Truman pronunciò davanti al Congresso (Senato e Camera dei rap­ presentanti riuniti in seduta straordinaria) il discorso che dichiarava la guerra fredda. L'occasione per questa storica presa di posizione gli era stata offerta dagli avvenimenti greci. In quel paese la guerriglia comunista, alimentata dal­ la Iugoslavia ancora fedele a Mosca (a ridosso del confine greco-iugoslavo esistevano campi di addestramento e «san­ tuari» per gli andartes, i ribelli greci), metteva a dura prova il governo di Atene, che reagiva con durezza, in un seguito di botte e risposte sanguinose. Tradizionalmente la Grecia era sotto la tutela degli inglesi, che tuttavia non avevano né i mezzi né - con un governo laburista - una gran voglia di reggere a quello sforzo immane. Sulla scia della Grecia an­ che la Turchia, secondo Washington, correva pericoli. Truman enunciò allora un programma che assunse il no­ me di «dottrina Truman» e che, razionalizzato e ideologiz­ zato da George Kennan qualche mese dopo, diede luogo al­ la teoria del containment, il «contenimento». Dovunque I'URSS manifestasse propositi espansionistici, gli Stati Uniti si sarebbero opposti. «Non potremo raggiungere i nostri ob­ biettivi - disse Truman - se non siamo disposti ad aiutare i popoli amanti della libertà nel mantenere le loro libere isti­ tuzioni e la loro libera integrità nazionale contro i movi­ menti aggressivi che cercano di imporre i propri regimi to­ talitari.» Truman chiese al Congresso di stanziare 400 milio­ ni di dollari per la Grecia e 100 per la Turchia, la millesima parte di quanto la guerra era costata agli Stati Uniti, «un in­ vestimento per la libertà e la pace» perché «i semi dei regi­ mi totalitari prosperano nella miseria e nel bisogno». Con ciò gli USA diventavano di fatto una potenza anche mediter­ ranea. Bollata dalla stampa comunista come reazionaria e bellicista, assimilata all'imperialismo tedesco, la «dottrina Truman» era la risposta occidentale alla dottrina Stalin nel-

378 l'Europa dell'Est. Due giorni prima del discorso era comin­ ciata a Mosca una conferenza dei ministri degli Esteri dei «grandi» che avrebbe dovuto definire i trattati di pace tede­ sco e austriaco, e che si concluse il 24 aprile senza aver adempiuto il suo compito perché ormai due blocchi si fron­ teggiavano. Gli Stati Uniti vi furono rappresentati dal nuo­ vo segretario di Stato, il generale George Marshall, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate durante la guerra: un militare equilibrato, ma senza dubbio più energico del suo predecessore Byrnes. Fu in sintonia con la «dottrina Truman» che il Diparti­ mento di Stato accentuò il suo interesse per le vicende ita­ liane, che non erano tali da confortare Washington. Il 20 e 21 aprile (1947) si votò in Sicilia per eleggere l'Assemblea regionale, e i segni di logoramento denunciati dalla DC nelle amministrative di novembre si aggravarono. In percentua­ le, i democristiani passarono dal 33,6 al 20,5 per cento dei voti, il Blocco del popolo, che includeva comunisti, sociali­ sti, e Partito d'azione, s'impennò dal 21 a più del 30 per cento. Con le «politiche» alle viste (si credeva in quel mo­ mento che sarebbero state indette per l'ottobre successivo), nella DC si diffuse un'ansietà molto simile al panico. Sceiba riteneva che «andare alle elezioni politiche con un governo comprendente il PCI sarebbe stato da tutti i punti di vista un suicidio. Forse ancora più dei dirigenti centrali, erano quel­ li periferici ad avere nettissima questa sensazione. Per De Gasperi, che d'altra parte neppure lui aveva dubbi in pro­ posito, si trattava solo di scegliere le circostanze più adatte per condurre in porto con successo questa operazione». Lo sprone americano non era dunque necessario. Tuttavia Marshall fu esplicito, in un messaggio all'ambasciatore a Ro­ ma James Dunn, nel chiedergli se De Gasperi non si propo­ nesse di abbandonare la guida del governo «o di formare un governo senza l'estrema sinistra, nella speranza di mi­ gliorare le prospettive della Democrazia cristiana». Nella sua risposta Dunn sottolineò: «Io sono convinto che nessun

379 miglioramento delle condizioni di qui può avvenire con un governo composto come quello attuale. I comunisti, che so­ no rappresentati nel Gabinetto da un gruppo di uomini di secondo piano, fanno tutto il possibile, al di dentro e al di fuori del governo, per provocare la crisi e il caos econoni- co...». De Gasperi ruppe gli indugi il 28 aprile (1947) con un discorso radiodiffuso che si prestava a varie letture, ma nel quale era inequivocabile un messaggio: la composizione del governo doveva esser cambiata, se possibile con un allarga­ mento che coinvolgesse tutte le categorie produttive nella gestione del Paese. Il Presidente del Consiglio deplorò la febbre speculativa da cui era pervasa l'Italia: «Dattilografe e fattorini giocano in Borsa. Chi ha roba non vende, un fero­ ce istinto egoistico e antisociale si impadronisce degli animi pavidi... La speculazione freddamente calcolatrice gioca al rialzo, nasconde le merci, trafuga all'estero valute e gioielli, e attende in agguato la crisi nella criminosa speranza di far­ si ricca nella miseria generale». Ma accanto alla denuncia del parassitismo affaristico vi fu l'accusa agli alleati sleali che tradivano il dovere della solidarietà «nell'amministrazione dello Stato e nella legislazione della cosa pubblica», vi fu l'appello «a tutti coloro che avevano idee perché si facessero avanti per una collaborazione concreta», e vi fu la conferma d'una sostanziale fiducia negli italiani protagonisti di «uno sforzo rinnovatore che stupisce gli stranieri». La vitalità ita­ liana era impressionante e caotica, con sintomi degenerati­ vi, l'inflazione aveva assunto un ritmo vertiginoso (oltre il cinquanta per cento di aumento del costo della vita dall'a­ gosto '46 all'aprile '47) e come sempre accade venivano du­ ramente penalizzate le categorie a reddito fisso. V'era, al so­ lito, concordia sulla entità preoccupante del fenomeno e di­ scordia sui mezzi con cui avrebbe dovuto essere combattu­ to. I «monetaristi» come il governatore della Banca d'Italia Einaudi e il presidente della Confìndustria Costa imputava­ no alla emissione di carta moneta, imposta dagli oneri stata-

380 li, la colpa maggiore per il degrado della lira: e suggerivano misure «ortodosse», come la riduzione delle spese governa­ tive e l'abolizione di alcune misure sociali molto costose per l'erario e non altrettanto benefiche, prima tra tutte il prezzo politico del pane. Le sinistre insistevano invece sull'aspetto speculativo dell'inflazione, e propugnavano una tassazione più severa, controlli sulle manovre di importazione ed esportazione che consentivano di accantonare capitali all'e­ stero, calmieri, tesseramenti differenziati, un controllo glo­ bale dello Stato sulla produzione. Probabilmente la ricetta «liberista» peccava di scarsa fantasia e di miopia conservatri­ ce, ma sicuramente la ricetta di sinistra apparteneva al ma­ gazzino degli espedienti dirigisti che già imperavano allora e hanno continuato a imperare nelle cosiddette democrazie popolari, con i risultati che tutti conosciamo. Se De Gasperi aveva posto, con il discorso del 28 aprile, le premesse per la svolta, - e tutto induce a credere che così fosse - ricevette senza dubbio incoraggiamento da quanto stava accadendo in Francia. Il 30 aprile il governo presiedu­ to da Ramadier (socialista), e che includeva cinque ministri comunisti, dovette decidere se accettare o no le richieste sa­ lariali dei 20 mila operai della Renault, scesi in sciopero. Ra­ madier era per il rifiuto, e la «delegazione» comunista ab­ bandonò, in segno di protesta, un Consiglio dei ministri. Quando due giorni più tardi i comunisti votarono contro il governo all'Assemblea nazionale, la frattura delle sinistre ebbe la sua definitiva sanzione. Il Presidente Auriol reinca­ ricò Ramadier che il 9 maggio formò un governo senza i co­ munisti. In Italia l'attenzione dell'opinione pubblica - e dei politi­ ci - si era intanto spostata da Roma alla Sicilia, per l'eccidio di Portella delle Ginestre. In quella località vicina a Piana dei Greci si erano radunati il primo maggio operai e conta­ dini che celebravano la festa del lavoro. «È un luogo - scris­ se Nenni nel suo diario - circondato quasi da venerazione perché lì parlò Nicola Barbato, nel 1894, per festeggiare il

381 Primo Maggio. Cominciava a parlare il vecchio compagno Schirò quando dai monti si è aperto il fuoco sulla pacifica folla contadina. Dapprima i manifestanti hanno creduto a fuochi di gioia, i mortaretti tanto in uso nell'isola. Poi sono caduti i primi muli e i primi cristiani.» Si contarono dieci morti e decine di feriti. Le sinistre individuarono subito nel massacro una «risposta degli agrari ai risultati elettorali del 20 aprile», Sceiba negò poco convincentemente la matrice politica dell'episodio; solo con un ritardo di anni si potè ac­ certare che della sparatoria era stata responsabile la banda Giuliano, e che i mandanti andavano cercati nei vertici ma­ fiosi e reazionari. Il 2 maggio alla Costituente che discuteva dell'eccidio vi furono scontri e pugilati tra le sinistre da una parte, i qualunquisti e i monarchici dall'altra. La tragedia siciliana rallentò di poco, senza interrom­ perla, l'evoluzione politica. In Consiglio dei ministri, il 7 maggio, De Gasperi ebbe accenti drammatici: «Il volto del governo è straziato - ammonì - uomini e partiti non han­ no ancora la sensazione di come sia gravissima la realtà, quasi tragica, sia per il presente che per l'avvenire». Era un altro sasso nello stagno, la conferma che De Gasperi aveva deciso. Come avveniva allora e sempre dopo d'allora è avvenuto nella DC, vi furono attorno al leader defezioni e mormorazio­ ni. Ha raccontato Andreotti: «E assolutamente vero che du­ rante i primi quattro mesi del '47 la maggioranza dei diri­ genti periferici e anche nazionali della DC aveva richiesto a gran voce una rottura immediata e definitiva con il pei. Ma quando tra la fine di aprile e l'inizio di maggio ci si rese con­ to che De Gasperi aveva imboccato appunto una simile stra­ da, il coraggio di molti venne meno. Il loro timore, non in­ giustificato, era di dover fronteggiare non tanto un tentati­ vo di colpo di Stato quanto un'ondata di disordini che, pa­ ralizzando il Paese, avrebbe cercato di obbligare la DC a ri­ tornare al tripartito, infliggendole una sconfitta politica che sul piano elettorale avrebbe avuto conseguenze disastrose.

382 Il risultato fu che al momento della scelta definitiva De Ga­ speri si trovò quasi solo. Una volta che, ai primi di maggio, lo andai a trovare nel suo studio, la sua disperazione per le incertezze del partito era tale che, lo ricordo benissimo, a un certo punto smise di parlare e, appoggiandosi con la fronte contro lo stipite di una finestra, rimase a lungo in si­ lenzio. Quando si voltò di nuovo verso di me, mi accorsi che aveva gli occhi pieni di lagrime». De Gasperi stesso, scriven­ do a Tarchiani, ambasciatore a Washington, a crisi risolta, spiegherà più tardi: «Ho passato ore mortalmente pericolo­ se. Mi sentivo solo, abbandonato anche da molti amici, e so­ lamente la coscienza di lavorare per il Paese mi ha sostenu­ to. Se costì non si comprende quale sforzo io abbia compiu­ to per il bene dell'Italia e della pace, se non mi si appoggerà in pieno in questa svolta pericolosa, sarà vano sperare in ri­ torni». Gli diedero una mano, per decidere nel senso da lui vo­ luto, i soliti imprudenti socialisti. Nitti aveva chiesto che la Costituente discutesse, nella seduta del 13 maggio, la situa­ zione economica e finanziaria. De Gasperi non voleva quel dibattito, che prometteva di dilungarsi per settimane e di condizionare poi le sue decisioni; ma nemmeno poteva ri­ fiutarlo. Senonché i socialisti avvertirono che al dibattito non si doveva arrivare senza un chiarimento della situazio­ ne ministeriale, e che comunque il PSI non avrebbe accettato uno spostamento a destra dell'equilibrio politico del Paese. Era quanto occorreva a De Gasperi per convocare, la sera del 12 maggio, la direzione democristiana, ottenerne l'as­ senso per l'apertura della crisi, e poi darne notizia a De Ni­ cola che si era dichiarato nettamente ostile a una crisi extra­ parlamentare. Dopo le consultazioni di rito De Nicola, con­ trario a un reincarico a De Gasperi, affidò a Nitti il tentativo di formare un nuovo governo. Molti videro in questo passaggio di mano l'avvio al tra­ monto della DC come partito cardine della politica italiana, o almeno al tramonto di De Gasperi. Secondo Nenni «De

383 Gasperi non ha più credito nel Paese, non ne ha nell'Assem­ blea, ne ha poco nel suo stesso gruppo». Nitti era sugli ot­ tanta, ma li portava abbastanza bene. La sua fama di econo­ mista brillante fece sì che la Borsa reagisse con un deciso rialzo all'annuncio della designazione. Si poteva dunque supporre che fosse acquisito, per lui, l'appoggio delle de­ stre, e meno facile quello della DC e delle sinistre. Saragat gli aveva subito dichiarato guerra, per antipatia personale. E Togliatti era molto cauto, subodorando l'inanità del tentati­ vo. Vi fu un primo inceppamento perché la cosiddetta Pic­ cola Intesa, ossia i «laici» (ma senza i liberali), rivendicava una sorta di affidamento a scatola chiusa della gestione eco­ nomica, con Riccardo Lombardi a Finanze e Tesoro, Tre- melloni a Industria e Commercio, Ivan Matteo Lombardo al Commercio con l'estero, Ugo La Malfa all'Agricoltura. Nitti venne volta a volta accusato di voler cedere troppo a destra e di voler cedere troppo a sinistra (a Nenni raccontò l'aneddoto di un conte francese che nello stesso giorno ave­ va subito due processi, uno intentatogli dalla moglie per im­ potenza, l'altro intentatogli da una ragazza per stupro). Or­ lando, di sette anni più anziano ma con rancori e ambizioni non ancora placati, litigò con lui. Andreotti, che era in visita ad Orlando, ebbe occasione di orecchiare una conversazio­ ne tra i due vegliardi. «Partendo dai loro contrasti sulla si­ tuazione attuale, cominciarono a rinfacciarsi i loro rispettivi comportamenti negli anni dell'avvento del fascismo, e infi­ ne a insultarsi nei termini più crudi e volgari» (dalla Storia del dopoguerra di Antonio Gambino). Il 21 maggio Nitti an­ nunciò che il suo «compito di pacificazione» era fallito. Una missione esplorativa affidata a Orlando fu ancora più breve, e naufragò in un giorno. Il 23 maggio - era un venerdì - De Nicola non prese iniziative, per scaramanzia, e il 24 mag­ gio reincaricò De Gasperi. Quando De Gasperi riprese in mano il bandolo della ma­ tassa infuriava una polemica virulenta tra Togliatti e Sum- ner Welles, già sottosegretario di Stato di Roosevelt. In

384 un'intervista radiofonica questo personaggio di spicco ave­ va accennato alla grande disponibilità di mezzi finanziari dei comunisti italiani, aggiungendo che la loro fonte era si­ curamente Mosca. Togliatti sfidò Sumner Welles a provare le sue affermazioni. Se non l'avesse fatto sarebbe stato consi­ derato «mentitore e calunniatore» dalle persone oneste di tutto il mondo. Non contento di questa intimazione, espres­ sa in un telegramma, Togliatti dedicò agli americani un arti­ colo sull'Unità dal titolo inequivocabile (e abbastanza volga­ re): «Ma come sono cretini». Togliatti era in malafede. Il mentitore era lui, non Sumner Welles le cui affermazioni ri­ spondevano rigorosamente a verità. Il pei era sovvenziona­ to da Mosca, in varie forme, e continuò ad esserlo per molti anni. (Quando nel 1954 scoppiò lo scandalo Seniga - que­ sto stretto collaboratore di Pietro Secchia, che aveva in ma­ no l'organizzazione del partito, scappò con la cassa, supper­ giù seicento milioni di allora - Togliatti non inoltrò alcuna denuncia alla magistratura, né accusò pubblicamente il transfuga. Lasciò lo scandalo sotto silenzio, perché sapeva di non poter giustificare la provenienza di quegli ingenti fondi.) Ma il leader comunista, flessibile e perfino remissivo quando sapeva d'aver ragione, diventava aggressivamente spavaldo quando era in torto: una tattica appresa senza dubbio a Mosca, e che la diplomazia dell'URSS segue da de­ cenni. Negli Stati Uniti gli insulti di Togliatti suscitarono sensa­ zione forse di proposito ostentata, e il governo affettò fred­ dezza verso una delegazione ufficiale italiana che vi si trova­ va per discutere accordi commerciali. Può darsi che si trat­ tasse di una manovra concordata con De Gasperi, proprio allo scopo di dimostrare che i comunisti non dovevano re­ stare al governo. Procedendo nei colloqui politici a Roma, De Gasperi volle soprattutto far capire ai suoi interlocutori che una riedizione del «tripartito» era impossibile. Il 26 maggio vide Togliatti, presente Sforza che, conoscendo le intenzioni del Presidente, commentò: «Dunque è la guer-

385 ra». Togliatti era disposto a scusarsi in qualche modo per la violenza delle sue dichiarazioni. «Non ti facciamo difficoltà per il Ministero - disse -, ma non tolleriamo esclusioni per­ ché allora ci confesseremmo fuori della nazione.» La rispo­ sta del leader democristiano fu formulata morbidamente, ma con sufficiente chiarezza per chi volesse capire. Disse che «si tratta del pane» (ossia che premevano i problemi economici per la cui soluzione era indispensabile l'aiuto statunitense) e che la nuova situazione sarebbe stata di «breve periodo». Lasciò insomma balenare a Togliatti la eventualità di un ri­ torno al governo non appena la burrasca fosse passata. Pro­ babilmente Togliatti ci credette. Di sicuro non sospettò, allo­ ra, che il passaggio all'opposizione del pei dovesse diventa­ re un dato definitivo e irrevocabile della politica italiana. Tra il 27 e il 30 maggio De Gasperi tessè la sua tela, assil­ lato da remore e perplessità di democristiani anche di pri­ mo piano (tra gli altri Piccioni e Pella). Pervenne così alla formazione di un Ministero monocolore democristiano in­ tegrato da due liberali, Einaudi (vicepresidente) per il Bi­ lancio e Grassi per la Giustizia, e quattro indipendenti: Sfor­ za rimasto agli Esteri, Merzagora al Commercio estero, Cor­ bellini ai Trasporti, Del Vecchio al Tesoro. Un Ministero, es­ senzialmente, di democristiani e di tecnici; fuori tutti gli al­ tri. Ma tra i tutti, quelli che contavano erano i socialisti e più ancora i comunisti. Anche se non molti se ne avvidero (Nen­ ni ebbe, una volta tanto, buon fiuto scrivendo: «Avremo un governo col doppio avallo del Vaticano e dell'America... il fatto mi pare di una gravità senza precedenti») la virata era di portata storica. Togliatti, che un po' se l'era voluta, o l'a­ veva accelerata, non fece per il momento la voce grossa. Il 21 giugno, alla Costituente, il governo «passò» con 274 voti favorevoli, 231 contrari. Quando già pareva che, varato il Ministero, le acque politiche potessero rimanere calme al­ meno per un po', De Nicola provvide ad agitarle annun­ ciando che si dimetteva. Non stava molto bene, era corruc­ ciato per gli itinerari tortuosi che la crisi di governo aveva

386 seguito, e infine era stato preso da uno dei suoi scrupoli le­ galitari: la Costituente s'era autoprorogato il mandato, e De Nicola riteneva che, stando così le cose, dovesse confermar­ lo anche a lui, rimasto con investitura di dubbia validità. La conferma ci fu, con una votazione quasi plebiscitaria, e il Capo provvisorio dello Stato, più sereno ma ancora stanco, si rintanò a Torre del Greco per un periodo di meditazione e di riposo. CAPITOLO SESTO

LA LINEA EINAUDI

Caratterizzato sul terreno politico dal licenziamento delle sinistre, il monocolore allargato di De Gasperi lo fu, sul ter­ reno economico, dalla «dittatura» di Luigi Einaudi. Al pro­ fessore piemontese che s'era appartato dall'insegnamento e dalla vita pubblica durante il ventennio littorio, De Gasperi aveva delegato la supervisione dell'economia: una materia nella quale egli s'addentrava malvolentieri, e svogliatamen­ te, disposto sovente - come tutti i politici «puri» - a forzarne le regole per esigenze di grande o anche di piccola cucina governativa e parlamentare. Einaudi era invece uno dei più grandi economisti euro­ pei, «liberista» di sicuri convincimenti, espressi, quando gli capitava di scriverne, in articoli e saggi dal linguaggio un po' antiquato ma dalla chiarezza cristallina. Avversava i pro­ grammi dirigisti delle sinistre - che sognavano di coniugare l'espansione produttiva con una selva di vincoli politici e as­ sistenziali - ma non era disposto ad agevolare il ruggente boom, nel quale era facile avvertire un che di malsano. Il presidente della Confindustria, Angelo Costa, era schierato senza esitazioni al lato di Einaudi, e della sua seve­ rità. Ma a moltissimi imprenditori il degrado della lira - con i salari impegnati nella consueta vana rincorsa dei prezzi - non era dispiaciuto: più d'uno lo considerava la molla della ripresa. Proprio nei mesi di massima inflazione - tra il giu­ gno del '46 e il giugno del '47 - le fabbriche, ripristinate in buona parte la loro attrezzatura e la loro efficienza, lavora­ rono a ritmo intenso. Nel volgere di un anno la produzione automobilistica triplicò, quella del cotone e della lana su-

388 però i livelli d'anteguerra. Le quotazioni azionarie salivano quasi di pari passo, tutti compravano e vendevano in Borsa. «Se nessun avvenimento e nessun provvedimento verranno a guastare l'attività delle Borse - scrisse la Rivista Bancaria - l'anno 1947 segnerà una data di cospicuo rilievo nella no­ stra economia industriale e produttiva.» Questa spinta impetuosa era però inquinata dalla febbre speculativa. Infatti, lo ha rilevato Franco Catalano, «ad un aumento della circolazione di 20 volte rispetto al 1938 cor­ rispondeva un aumento dei prezzi di 50 volte, il che stava ad indicare che la svalutazione della moneta derivava non tanto dall'aumento del circolante, quanto piuttosto da quel­ la che gli economisti dicevano velocità di circolazione, e le sinistre speculazione». Einaudi non intendeva certo porre ostacoli alla ripresa: ma intendeva correggerne le degene­ razioni, quel surriscaldamento che si traduceva in inflazio­ ne. Gli ambienti finanziari avevano ben valutato, fin dall'i­ nizio, le implicazioni negative della linea Einaudi: tanto che la Borsa ne accolse l'avvento non con un rialzo, ma con una flessione. I provvedimenti che abolivano il prezzo politico del pane e aumentavano vari prezzi pubblici - gas, poste, ferrovie, elettricità - erano impopolari, ma non potevano essere evi­ tati se si voleva che il deficit di bilancio - mille miliardi di uscite, cinquecento di entrate - fosse un po' attenuato. Inol­ tre il cambio ufficiale del dollaro fu portato da 225 a 350 li­ re: ben lontano dal cambio «libero» che, toccata una punta di 972 lire quando la sfiducia nella lira era massima e l'infla­ zione galoppante, si era assestato sulle 600 lire. A fine anno ogni controllo sul cambio venne comunque abolito. Ciò fa­ vorì le esportazioni - le nostre merci risultarono più conve­ nienti per i compratori - ma fece lievitare i prezzi dei pro­ dotti importati. Sempre nella direttrice «liberista» Cesare Merzagora consentì, con le norme sul «franco valuta», che fosse autorizzata l'importazione di merci, senza alcuna pa­ stoia burocratica, utilizzando fondi esistenti all'estero. A chi

389 gli chiedeva ragione di questa impunità concessa agli espor­ tatori di capitali, Merzagora replicò che la sua era una «guerra ai disertori», ma fatta con l'allettamento, non con le punizioni. I risultati gli diedero ragione e ci valsero 100 mi­ lioni di dollari d'importazioni franco valuta nel solo quarto trimestre del 1947. Tutto questo andava ottimamente per gli imprenditori. Andava molto male invece la stretta creditizia che Einaudi deliberò. Portò il tasso di sconto dal 4 al 5,5 per cento, pre­ scrisse che le banche investissero importanti aliquote dei de­ positi bancari in titoli di Stato o in conti speciali fruttiferi presso la Banca d'Italia, inaridì insomma il flusso di denaro che fino a quel momento aveva finanziato l'industria. I titoli crollarono, tra il settembre e l'ottobre del 1947 si ebbero perdite di oltre la metà del loro valore di mercato, con il massimo del 91 per cento per la Breda, del 74 per cento per l'Isotta Fraschini, del 75 per cento per Pirelli e Fiat. All'in­ flazione seguirono sintomi di deflazione, con un calo dei prezzi all'ingrosso, tra il settembre e il dicembre del 1947, dell'8 per cento circa, e un analogo decremento del costo della vita. La produzione industriale si contrasse, la disoc­ cupazione salì da meno di due milioni d'unità a oltre due milioni e mezzo. La terapia Einaudi era dura, amara, infles­ sibile; scontentò i settori più audaci o più avventurosi del mondo imprenditoriale, provocò proteste di massa, con va­ ste agitazioni dei metallurgici e dei tessili, e uno sciopero contadino in Val Padana che trovava paragoni per la sua ampiezza e compattezza solo negli scioperi agricoli del pre­ cedente dopoguerra.

La linea Einaudi non si sarebbe imposta, quali che fossero le qualità e l'autorità del suo assertore, se non avesse obbe­ dito a esigenze interne e a esigenze internazionali, politiche ed economiche, che non possiamo fare a meno, a questo punto, di riassumere. Il mondo si stava dividendo in due blocchi, e in quello

390 occidentale il «la» ad ogni iniziativa era dato dagli Stati Uni­ ti che reggevano i cordoni della borsa. La loro potenza eco­ nomica, che era immensa, s'era moltiplicata nel raffronto con l'impoverimento dell'Europa. Era nell'interesse di Wa­ shington che gli amici europei si rialzassero dalla rovina: per costituire un fronte contro il comunismo, ma anche per offrire un mercato ai prodotti americani. Gli USA erano per­ ciò disposti ad aiutare largamente gli europei, ma a certe condizioni, che furono precisate il 5 giugno. Quel giorno il generale Marshall annunciò, in un discor­ so al circolo dei laureati dell'Università di Harvard, che gli Stati Uniti si proponevano di sostituire un progetto organi­ co ai loro frammentari aiuti. «E evidente - disse - che prima che il governo degli Stati Uniti possa ulteriormente prose­ guire i suoi sforzi per alleviare la situazione e avviare il mondo europeo verso la rinascita, si dovrà raggiungere un accordo tra i Paesi europei in merito alle necessità della si­ tuazione e alla parte che questi Paesi stessi dovranno svolge­ re... Il programma dovrebbe essere unico e costituire il ri­ sultato dell'accordo fra parecchie, se non fra tutte, le nazio­ ni europee.» L'invito era dunque esteso all'intera Europa dall'Atlanti­ co agli Urali: e nel momento in cui con la «dottrina Tru­ man», si consolidavano i fronti contrapposti dell'Est e del­ l'Ovest, il «piano Marshall» pareva, nella formulazione se non nelle intenzioni, un estremo tentativo di collaborazio­ ne e di intesa mondiale. Bevin per la Gran Bretagna e Bi- dault per la Francia aderirono prontamente e invitarono il loro collega sovietico, Molotov, a una conferenza che defi­ nisse l'atteggiamento dell'Est nell'ambito europeo. Molo­ tov accettò. Non è dato sapere se l'abbia fatto solo per la vetrina, o con il serio proponimento di valutare i prò e i contro. Se recitò, non lesinò nella messinscena. Portò con sé a Parigi, per la Conferenza che s'aprì il 27 giugno, 4 mi­ nistri plenipotenziari, 18 consiglieri ed esperti, 17 segretari e traduttori, 56 ausiliari. Tutto questo solo per arrivare a

391 un niet. «I crediti americani - disse Molotov - servirebbero non a ricostruire l'Europa, ma a porre una parte dei Paesi europei in antagonismo con gli altri Paesi europei, cosa che potrà apparire vantaggiosa a quelle potenze che aspirano a dominare gli altri Paesi. Il governo sovietico crede di dover mettere in guardia i governi francese e britannico contro le conseguenze di una tale azione, che tenderebbe non a uni­ re gli sforzi dei Paesi europei nell'opera di ricostruzione post-bellica, ma a realizzare dei propositi completamente diversi.» Con prevedibile docilità, anche se con molto segreto rammarico, quelli che già erano i satelliti del Cremlino si adattarono ad una decisione della quale si deve riconosce­ re la logica politica. Mosca impedì ai russi e ai popoli vas­ salli di profittare d'una offerta che certo non era totalmen­ te disinteressata, ma che avrebbe consentito di dare slancio enorme alla ricostruzione. Ma non poteva scegliere altra strada. Sicuramente gli Stati Uniti avrebbero chiesto, per dare i loro quattrini, adeguate garanzie: prima fra tutte quella che i dollari prestati o regalati non fossero utilizzati per fabbricare armi rivolte contro gli Stati Uniti. Una trat­ tativa di questo tipo sarebbe stata per I'URSS frustrante, e inconcludente. Il 3 luglio Bevin e Bidault diramarono un nuovo invito a 22 Paesi, ridotti a 16 per la forzata defezione di Polonia, Un­ gheria, Romania, Iugoslavia, Bulgaria e Cecoslovacchia. I sedici formularono entro settembre (1947) un rapporto che spiegava come dovessero essere destinati i ventidue miliardi di dollari in quattro anni previsti dal piano Marshall: ma quel rapporto non piacque troppo a Washington dove lo si considerò «una semplice lista di acquisti» il cui costo sarebbe stato sopportato dall'America, senza l'effettiva indicazione di una «sia pur minima collaborazione economica continen­ tale». Il Congresso diffidò e si mostrò restìo ad approvare il piano: ma quando, nel febbraio del '48, il mondo fu scosso dal colpo di Stato cecoslovacco, la procedura ebbe una spin-

392 ta decisiva. Il 3 aprile del '48 fu autorizzata da Truman la concessione di sei miliardi di dollari per il primo anno. L'America aveva finalmente e per sempre capito quale fosse l'interpretazione che Stalin voleva dare agli accordi di Yalta. Al riparo dell'Armata Rossa, nei Paesi da questa occu­ pati, i dirigenti comunisti s'impadronivano di tutte le leve del potere, mantenendo in funzione dei governi di fittizia «unità nazionale», ma cancellando ogni opposizione, e an­ che ogni timida dissidenza. Si celebravano riti elettorali che non erano ancora le farse totalitarie del 99 per cento dei vo­ ti ai comunisti, ma già rovesciavano, con pressioni e intimi­ dazioni d'ogni genere, i veri rapporti di forza. 1131 agosto del 1947, quando s'era votato in Ungheria, la coalizione so- cialcomunista aveva raccolto il 37 per cento dei suffragi, e il Partito dei piccoli proprietari - esule dal maggio Ferenc Nagy - era precipitato dal 57 al 14 per cento. Quasi negli stessi giorni il Partito nazionale contadino era stato messo fuori legge in Romania, e il Partito agrario fuori legge in Bulgaria dopo la condanna a morte di Petkov. In settembre fu deliberato in Cecoslovacchia il patto d'unità d'azione tra Partito comunista e Partito socialista, e infine il 17 febbraio 1948 il leader comunista Gottwald prese le redini del gover­ no in Cecoslovacchia. Il ministro degli Esteri di quel paese, Jan Masaryk, che pure si era «allineato» al nuovo corso, ma era tormentato dai più cupi pentimenti e presentimenti, morì misteriosamente il 10 marzo successivo «cadendo» da una finestra del Palazzo Czernin, dove aveva l'ufficio. Se­ condo la versione ufficiale, tutt'altro che persuasiva, si era tolto la vita per un grave collasso nervoso. Questo rosario di colpi di mano e di usurpazioni ebbe una cornice politica: il Cominform, risorto dalle ceneri del defunto Comintern nel quale Palmiro Togliatti aveva avuto un ruolo di primo piano. Il Cominform raggruppò solo una parte dei Partiti comunisti che erano affiliati al Comintern (o Terza internazionale), sciolto da Stalin nel maggio del 1943. Oltre ai Partiti comunisti dell'Europa orientale furo-

393 no invitati a parteciparvi - unici rappresentanti dell'Occi­ dente - gli italiani e i francesi. Dubbio onore concesso - fu spiegato ufficialmente - «perché (Francia e Italia) sono i paesi che al momento attuale sono più minacciati dalle mire aggressive dell'imperialismo e che più possono fare per re­ spingere la sua offensiva». La verità è che a Stalin i Partiti comunisti minori - belga, spagnolo, inglese e così via - in quel momento non interessavano. Dal Cominform, che teo­ ricamente aveva il compito di coordinare lo scambio di informazioni tra Partiti comunisti, Stalin pretendeva in realtà una diligente esecuzione delle sue direttive. Alla guerra fredda di Truman il dittatore sovietico rispondeva con un irrigidimento cui veniva dato - per il tipico gusto so­ vietico della mascheratura verbale - il nome di «offensiva di pace». Il conclave comunista si radunò a Szklarska Poreba, una località polacca della Slesia ex-tedesca, nei pressi di Bresla- via. Non vi intervennero i «grandi», a cominciare da Stalin. I delegati erano tuttavia autorevoli: Zdanov e Malenkov per I'URSS, Kardelj e Gilas per la Iugoslavia, Duclos e Fajon per la Francia, Slansky (poi condannato a morte e giustiziato) e Bastovanshky per la Cecoslovacchia, Gomulka (il persegui­ tato di qualche anno dopo) e Minz per la Polonia, altri per­ sonaggi di analogo rango per Ungheria e Bulgaria. Togliat­ ti designò Eugenio Reale e Luigi Longo. L'invito era stato indirizzato a lui. Ma - sia che subodorasse le critiche di cui sarebbe stato subissato in Polonia, sia che ritenesse troppo modesto il livello degli altri partecipanti - si schermì dicen­ do che non se la sentiva d'affrontare un viaggio così fatico­ so. Raccomandò ai suoi «ambasciatori» di mettere in rilievo la funzione dirigente dei comunisti nella lotta partigiana nonché la forza numerica del partito. Zdanov diede l'avvio ai lavori nella villa - normalmente adibita a casa di riposo per funzionari di polizia, e vigilata da migliaia di soldati e agenti - in cui si tenne la Conferen­ za: e disse che i popoli amanti della libertà avevano «l'im-

394 portantissimo compito di assicurare una pace democratica e duratura, consolidando la vittoria sul fascismo». Un compi­ to nel quale «spetta all'Unione Sovietica e alla sua politica estera una funzione dirigente». Quanto ai Partiti comunisti italiano e francese, erano impegnati a «prendere nelle loro mani la bandiera della difesa dell'indipendenza nazionale e della sovranità dei rispettivi Paesi». Si era ancora alle gene­ rali. Il peggio, per Reale e Longo, venne dopo. Il «revisio­ nismo» italiano e francese aveva fatto, nell'ottica di Stalin, il suo tempo. Soprattutto, il duttile e disponibile Togliatti, l'uomo della svolta di Salerno e della alleanza con i cattolici, doveva essere riconvertito alla durezza. Fedele ad una col­ laudata tecnica sovietica, Zdanov non pronunciò personal­ mente la requisitoria. L'affidò ai compagni iugoslavi i quali, per rancore anti-italiano oltre che per ortodossia ideologi­ ca, non chiedevano di meglio. Kardelj attaccò Togliatti che non riusciva ad essere «un capo che trascina il suo popolo», fece del sarcasmo sull'affermazione togliattiana secondo la quale un tentativo rivoluzionario avrebbe fatto dell'Italia un'altra Grecia («La situazione greca è migliore, dopotutto, di quella francese e italiana»), osservò che la politica di unio­ ne nazionale aveva un senso là dove il Partito comunista era egemone, non là dove s'imponeva una vera «collaborazione con i partiti borghesi». Anche i francesi ebbero la loro razio­ ne di pesanti critiche. Longo reagì, ha testimoniato Euge­ nio Reale, «con dignità e con una certa quale fierezza», Du- clos «come un piccolo bottegaio colto a rubare sul peso». Comunque i delegati italiani firmarono docilmente la di­ chiarazione finale, che significava una svolta in senso intran­ sigente della politica comunista. L'ombra di Stalin giganteg­ giava sulla Conferenza, per sua dettatura fu deciso che la te­ stata del giornale del Cominform sarebbe stata Per una pace durevole, per una democrazìa popolare, non proprio un esem­ pio di concisione ed efficacia. «Stalin - ha scritto Bocca nella sua biografìa di Togliatti - si occupa di tutto, decide tutto. La sera stessa in cui si chiude la conferenza gli italiani, che

395 versano in difficili condizioni economiche, chiedono al dele­ gato sovietico Scevliaghin che si occupa dei partiti italiano e francese di procurare un finanziamento per YUnità, e Stalin per telefono approva l'acquisto da parte russa di 20 mila tonnellate di aranci e limoni: un funzionario iugoslavo ver­ serà la cifra della mediazione al compagno Paolo Robotti, incaricato dal pei per queste delicate operazioni.» Tramontava, con la nascita del Cominform, il disegno delle vie nazionali al socialismo. Il Cominform, ha ammesso Giancarlo Pajetta, «pesò sui Partiti comunisti dell'Europa occidentale. Molti ne furono come schiacciati». E Alessan­ dro Natta: «Senza dubbio la costituzione del Cominform in­ troduce un elemento di contraddizione e di freno». L'atto fi­ nale della Conferenza, oltre a contrapporre la democratica Unione Sovietica agli imperialisti americani, si scagliò con virulenza contro «la politica di tradimento fatta dai socialisti di destra del tipo Blum in Francia, Attlee e Bevin in Inghil­ terra, Schumacher in Germania, Saragat in Italia. Costoro si sforzano di dissimulare il carattere brigantesco della poli­ tica imperialista». In questo clima, e sotto le sferzate ammonitrici del tiran­ no di Mosca, il PCI, che già aveva largheggiato in servilismo e adulazione verso l'Unione Sovietica e Stalin, divenne un organismo dalle reazioni pavloviane. Nero e bianco, inferno e paradiso, tutto il male del mondo a occidente, tutto il be­ ne a est. I notabili del partito battevano I'URSS e i suoi satel­ liti, e ne tornavano - stando ai loro discorsi e ai loro articoli - con il cuore gonfio di gioia per ciò che vi avevano visto, e nello stesso tempo gonfio di amarezza per il contrasto tra quella serena letizia e le sofferenze del popolo italiano. La pubblicistica comunista raggiunse rari vertici di piaggeria, che sarebbe stata a malapena tollerabile se si fosse in qual­ che modo avvicinata alla verità, ma diventava ripugnante perché consapevolmente falsa. II tono e lo stile surclassava­ no, in certezza fideistica e tracotanza inquisitoria, i peggiori eccessi clericali (non ne mancavano).

396 Ogni aspetto della società sovietica - negli anni staliniani - era esaltato. In un libro pubblicato nel 1978 (I primi della classe) Ruggero Guarini e Giuseppe Saltini raccolsero un flo­ rilegio insieme divertente e avvilente degli inneggianti spro­ positi espressi non da incolti braccianti e operai - essi erano anzi le vittime della gigantesca mistificazione - ma da politi­ ci, intellettuali, giornalisti: alcuni tra loro poi tardivamente «pentiti». Concetto Marchesi, grecista illustre, scriverà senza arrossire che «l'opera di Stalin è opera liberatoria da qua­ lunque oppressione: da quella che fa l'uomo schiavo della fame e della fatica a quella che lo fa strumento e oggetto di rovina». Gastone Manacorda ironizzerà su chi aveva dei dubbi circa la correttezza delle grandi purghe staliniane de­ gli anni Trenta: «Sembra incredibile che ancora possa avere qualche successo il mito di questi processi, quando ormai il carattere di quinta colonna nazista della congiura bukhari- niano-trotzkista è larghissimamente documentato da fonti non sospette». Per Lucio Lombardo Radice «è assurdo voler porre il problema dell'indipendenza nazionale nei confron­ ti dell'URSS allo stesso modo in cui lo si pone nei confronti dei Paesi imperialisti. Non può esistere timore, sospetto di oppressione nazionale del Paese del socialismo a danno di altri popoli». Dello stesso Lombardo Radice questa memo­ rabile sentenza: «La scuola nell'Unione Sovietica è civiltà che si sviluppa: a noi, che viviamo in una civiltà che agoniz­ za, tutto ciò sembra quasi fiabesco!». I biechi capitalisti non prendono sul serio un saggio linguistico di Stalin? Togliatti li mette in riga: «Non ci soffermeremo sul preteso scandalo di Stalin che scrive sui rapporti tra il marxismo e la lingui­ stica, perché non riusciamo a capire chi con più competen­ za avrebbe dovuto scriverne, chiudendo una polemica du­ rata anni e anni, se non Stalin che è, e nessuno vorrà negar­ lo, il più competente e autorevole dei marxisti». Se questo era folklore, la polemica più propriamente po­ litica del PCI fu, dopo la creazione del Cominform, un river­ bero preciso del «nuovo corso» dettato da Stalin. Ne deriva-

397 rono imbarazzi per i socialisti, alleati dei comunisti, prima scavalcati a destra, ora scavalcati a sinistra, e Nenni osserva­ va il 7 ottobre 1947: «Salvo un fatto nuovo, si avvera che stiamo per essere sospinti a essere cento per cento o con l'Occidente o con l'Oriente, ciò che per noi è impossibile». Unica consolazione per i socialisti la confluenza nel PSI del Partito d'azione, nel frattempo defunto - ne riparleremo - anche ufficialmente.

In parallelo con il «gelo», si deteriorava in Italia la situazio­ ne sociale. Sempre più frequenti erano le manifestazioni violente, gli scontri, gli spargimenti di sangue. Nenni regi­ strava allarmato il propagarsi di questa torbida inquietudi­ ne. «12 novembre. Una ventata di terrorismo si è abbattuta sull'Alta Italia e particolarmente su Milano. Si è cominciato con le bombe alle sedi comuniste cui sono seguite misure di rappresaglia che a loro volta hanno provocato altri attenta­ ti. Un cerchio infernale. Ieri a Mediglia un agrario ha spa­ rato su degli operai uccidendone uno ed è stato linciato. Stamattina una bomba è stata lanciata contro una sede co­ munista a Milano. Ne è seguito uno sciopero generale con devastazioni di giornali e di sedi del MSI, dei qualunquisti ecc.. 13 novembre. L'ondata di violenza dilaga. A Napoli oggi ci sono stati grossi incidenti. Così a Livorno, nel Saler­ nitano, a Palermo ecc. Sedi di organizzazioni di destra e giornali sono presi d'assalto. Il ministro Sceiba ha risposto oggi a ben undici interrogazioni. Non supponevo in lui tan­ to cinismo e una così scarsa sensibilità politica. 14 novem­ bre. Nel Paese la situazione è sempre molto tesa e si temono gravi incidenti a Cremona. Insomma l'atmosfera del '21, con la differenza che siamo più folti d'allora.» Più che De Gasperi, per le sinistre il nemico era Sceiba, ministro dell'Interno, anzi, secondo la locuzione che esse preferivano, ministro di polizia. De Gasperi dettava le gran­ di strategie, e in questo fu insuperabile. Einaudi reggeva il timone dell'economia. Ma il peso della accentuata pressione

398 comunista, che si traduceva in moti di piazza (e alla quale si contrapponevano i rigurgiti fascisti) lo sopportò per intero questo avvocato non ancora cinquantenne. Siciliano come don Sturzo, del quale era stato fedele se­ guace e affettuoso discepolo, antifascista senza tentenna­ menti, repubblicano, fermo nelle sue idee - non voleva la firma del trattato di pace, e lo disse chiaramente - Sceiba non aveva paura d'aver coraggio. Il che ne faceva un demo­ cristiano anomalo, un muro tra tanti materassi di gomma­ piuma. Di statura un po' inferiore alla media, ma quadrato di spalle e dal gestire risentito, quasi completamente calvo anche in età giovanile, gli occhi piccoli, neri e mobilissimi, il volto pallido rotondetto e dalla pelle lucida e tirata sul qua­ le si inseguivano continuamente espressioni fugacissime di divertimento, stupore, irritazione, Sceiba replicava agli at­ tacchi che in un Parlamento tumultuante gli venivano rivol­ ti, con forte accento siciliano, ma anche con un linguaggio scarno, aderente alle cose: ciò che Nenni scambiava per ci­ nismo. Affermava, quasi ostentava il diritto dello Stato a di­ fendersi. Per la ragion di Stato era pronto anche a mentire - lo si vide nel caso Giuliano -, mai però a tradire il suo do­ vere. Con la sua polizia ancora «infiltrata» da elementi parti­ giani che erano elementi comunisti, con la sua Celere racco­ gliticcia, Sceiba aveva l'immane compito di fronteggiare non soltanto i pericoli presenti, ma quelli potenziali. Ci voleva del fegato. Con trent'anni di anticipo sull'Argentina, l'Italia fu allora la patria dei desaparecidos. Togliatti non voleva fare la rivoluzione, ma alcuni dei suoi - Pietro Secchia in parti­ colare, lo vedremo - sì. Togliatti lasciava comunque che i militanti «duri» credessero alla possibilità d'una risolutiva lotta armata. Il partito parallelo, e l'«esercito popolare» pa­ rallelo, avevano inquadramento e armi. Soffitte, scantinati, fienili erano zeppi di fucili, mitra, pistole, bombe a mano. Poteva bastare una scintilla per appiccare l'incendio e tra­ sformare l'Italia, se non in una Polonia o in una Cecoslovac-

399 chia, almeno in una Grecia. Sceiba calamitò l'odio delle sini­ stre, e in un certo modo si compiacque di farlo, lasciando agli «amici» della DC, che di amicizia gliene mostrarono sem­ pre pochissima, il lusso dei «dialoghi». Incappò, proprio per questo suo carattere spigoloso, in errori e grossolanità: mai in slealtà. Non aveva la stoffa dello statista, e lo si vide quan­ do, scomparso De Gasperi, resse il governo: ma in abbinata con De Gasperi, fu uno dei pilastri della Democrazia cristia­ na e anche della democrazia tout court. La rivolta armata non ci fu, ma le sue «prove generali» sarebbero bastate per sprofondare nel panico un uomo meno forte: la prima fu la cosiddetta «guerra di Troilo», a Milano, della quale ci occu­ peremo subito. CAPITOLO SETTIMO

LA GUERRA DI TROILO

Ettore Troilo, ufficiale di complemento, avvocato, militante del Partito d'azione, era stato un valoroso comandante di formazioni partigiane della Maiella. Le benemerenze resi­ stenziali l'avevano abilitato a ricoprire la carica di Prefetto di Milano quando Riccardo Lombardi se n'era tolto, nel gennaio del 1946, per assumere il Dicastero dei Trasporti nel primo governo De Gasperi. Lombardi aveva posto come condizione, per allontanarsi da Milano, che la Prefettura passasse non a un funzionario di carriera, ma a un altro politico antifascista. Troilo, picco­ lo, garbato, con folti capelli scuri e occhi un po' sporgenti in un volto facilmente atteggiato alla stupefazione, non aveva né la stoffa del prefetto né quella del politico. Erano stati gli avvenimenti a portarlo nel palazzo di corso Monforte, e lui se ne lasciava trascinare dimostrando un certo buon senso, ma anche una certa mollezza: quanto sarebbe bastato a farlo galleggiare in tempi di ordinaria amministrazione, ma non bastava proprio in quei mesi infuocati. Era ansioso di ga­ rantirsi - dopo tanti sommovimenti e tanti rischi - un tran­ quillo futuro personale: scoprì invece, all'improvviso, d'es­ sere diventato un Simbolo, incarnazione della Resistenza dell'Antifascismo, della Democrazia, tutto in maiuscolo. La poltrona su cui sedeva era scomoda. In Lombardia la tensione era grande, e le masse di sinistra, tra le quali si an­ nidavano minoranze che praticavano la violenza sanguina­ ria e volevano la rivoluzione, mordevano il freno. L'episo­ dio di Giorgio Magenes - dirigente qualunquista che asse­ diato nella sua cascina presso Mediglia, aveva ucciso uno

401 degli assalitori, ed era stato poi linciato - portò il fermento al di sopra del livello di guardia. I moderati chiedevano il siluramento del Prefetto che non aveva saputo prevenire l'attacco al Magenes, né far intervenire con tempestività le forze dell'ordine quando la folla si era scatenata; le sinistre inscenavano manifestazioni eccitate - una imponente, il 13 novembre (1947), in Piazza del Duomo a Milano - contro «i delitti e gli assassini dei fascisti». In questo clima esacerbato la rimozione dalla Prefettura più importante d'Italia - an­ che più della Prefettura di Roma, meno autonoma perché controllata a vista dal governo - dell'ultimo Prefetto politico sarebbe stata considerata dal pei ufficiale, e ancor più dalla sua struttura parallela e clandestina, una sfida: la definitiva archiviazione dei «valori della Resistenza». Probabilmente Troilo, attento soprattutto al suo «particulare», non capì tut­ to questo. Se lo capì, ne fu più impaurito che affascinato. E preferì tagliare la corda. Sulla circostanza delle dimissioni esistono due versioni. Secondo la prima - che fu la versione di Sceiba - Troilo am­ biva da tempo ad essere trasferito nei ranghi della diploma­ zia. Il 18 ottobre (1947) aveva inviato a De Gasperi una let­ tera nella quale lo pregava «di voler considerare da oggi a sua disposizione il posto che occupo», accennava al fatto che «il lavoro massacrante e le responsabilità che mi oberano mi hanno letteralmente esaurito», si impegnava a non dare la notizia della sua rinuncia finché non fosse stato designato un successore, e si augurava di poter ancora servire il Paese «in Patria o all'estero». De Gasperi - cui non pareva vero, nel suo piano restauratore, di liquidare l'ultimo Prefetto po­ litico - si adoperò presso il ministro degli Esteri Sforza, che trovò a Troilo un incarico, pare all'oNU. Stando a quanto Sceiba dichiarò poi alla Costituente, Troilo s'era detto felice della sistemazione «diplomatica», e anzi il 27 novembre ave­ va telefonato al sottosegretario agli Interni Marazza per sol­ lecitare l'avvicendamento. Marazza ne avvertì Sceiba, e Scei­ ba chiese al Prefetto di Torino Ciotola se fosse disposto a tra-

402 sferirsi a Milano. Ottenuto l'assenso comunicò il «movimen­ to» alle agenzie di stampa senza aver l'accortezza di sottoli­ neare che Troilo lasciava il posto a sua richiesta, e dopo va­ rie sue insistenze. Assai diversa la versione di sinistra, raccontata da Miriam Mafai nel suo Luomo che sognava la lotta armata (una biogra­ fia di Pietro Secchia). La Mafai afferma che De Gasperi ave­ va ripetutamente tentato d'indurre Troilo alle dimissioni. «Ma Troilo non era disponibile ed anzi, di fronte a una let­ tera di deplorazione che gli giunge da Sceiba, reagisce con una protesta sdegnata al Presidente del Consiglio. Ormai la testa di Troilo è diventata per Sceiba una questione di prin­ cipio, ma la sua permanenza a Milano è diventata una que­ stione di principio anche per tutte le forze democratiche della città che promuovono a suo favore manifestazioni, cortei, ordini del giorno.» La versione di Sceiba, anche se burocratica e riduttiva, è di gran lunga più attendibile per quanto riguarda l'atteg­ giamento di Troilo, che aveva accettato - lo confermò egli stesso - di passare dalla Prefettura a un'ambasciata e che, placata la sommossa milanese, penosamente insistette per essere accontentato. Egli divenne un emblema resistenziale suo malgrado. Fu costretto ad esserlo dalla animosità e dai rancori dei comunisti, nonché dalla retorica di chi si acco­ dava a loro: come il sindaco socialista Antonio Greppi, un galantuomo emotivo, verboso ed enfatico, che inviava a De Gasperi un appello drammatico: «Troilo resti a Milano: le parlo in nome della città, voglio sperare che la città verrà ascoltata». Ma la fragilità del motivo invocato dalle sinistre sarà retrospettivamente confermata da Nenni che nel suo diario (in data 1 dicembre) scriverà: «C'è molto fermento nelle fabbriche ma si cerca il modo di tirare i remi in barca. I nostri sono caduti in una provocazione di Sceiba. Se nel suo primo comunicato il ministro avesse pubblicato la lette­ ra di dimissioni di Troilo, e avesse fatto conoscere la sua de­ stinazione a un posto diplomatico, nessuno si sarebbe mos-

403 so di fronte all'intesa, o al mercato, fra il governo e il suo rappresentante». Dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri che no­ minava Ciotola, la protesta assunse presto i connotati di un'insurrezione, o almeno di una pre-insurrezione. Sotto la spinta comunista si formò a Milano, nella notte tra il 27 e il 28 novembre, un Comitato cittadino, reviviscenza dei Co­ mitati di liberazione nazionale, si dimise Greppi, si dimise il Consiglio comunale, si dimisero 170 sindaci della provincia. Risoffiava impetuoso il vento del Nord. Nelle fabbriche chiuse alla produzione (non solo in Lombardia, ma anche a Genova e altrove) furono mobilitati gli attivisti di sinistra, che concionarono le maestranze e radunarono autocarri in gran numero, prendendoli disinvoltamente dal parco auto­ mezzi degli stabilimenti, per una marcia su Milano. Il 28 no­ vembre 1947 - era una grigia giornata autunnale - queste colonne affluirono sulla metropoli lombarda, e si diressero verso corso Monforte e il Palazzo Diotti in cui ha sede la Pre­ fettura. Non tutti i militanti in giubbotto di pelle nera che stavano nei cassoni degli autocarri avevano le idee ben chia­ re su quanto stava accadendo. Qualche pattuglia issava car­ telli con la scritta «a morte Troilo», il Prefetto essendo, per definizione, il rappresentante dello Stato oppressore e rea­ zionario. Il comando delle operazioni era stato preso da Giancar­ lo Pajetta, federale comunista per la Lombardia, che si era insediato, con altri dirigenti del partito, in Prefettura: con­ senziente, ma tremebondo, il povero Troilo, tuttora in cari­ ca. Presto la Prefettura fu invasa da centinaia di miliziani che s'installarono un po' dovunque, sovrapponendosi facil­ mente alle forze dell'ordine che, prive di direttive, non sa­ pevano cosa fare. Le strade attorno al palazzo furono bloc­ cate da autocarri, vennero istituiti posti di blocco controlla­ ti da attivistiràèl PCI, furono allineati cavalli di Frisia trovati chissà dove. Richiamata dall'«happening» - una presa della Bastiglia all'italiana, con il rappresentante del governo che

404 sta dalla parte dei rivoltosi - s'era precipitata in corso Monforte una campionatura variopinta della società mila­ nese: i maggiori capi comunisti - Alberganti, Scotti, Venan- zi, oltre a Giancarlo Pajetta - ma anche resistenti salottieri precursori dei radical-chic degli anni Settanta, e teste con­ fuse come l'impresario teatrale Remigio Paone, le cui con­ cioni, nell'anticamera di Troilo, non contribuivano certo a chiarirgli le idee. Da Roma, Sceiba taceva. Sapeva che il Questore Agnesina era asserragliato nel suo fortilizio di via Fatebenefratelli, e aveva cercato di raggiungere subito il Comandante del Corpo d'Armata di Milano e il Coman­ dante della divisione Legnano. Essendo entrambi risultati per il momento introvabili, s'era rivolto al Comandante mi­ litare della piazza di Bergamo dandogli ordini per una oc­ cupazione della Prefettura, se fosse stato necessario, anche con la forza. Mentre le ore trascorrevano, cominciarono a schierarsi attorno alla Questura, e anche a qualche distanza dalle mili­ zie operaie e dai cavalli di Frisia, soldati della Legnano, cara­ binieri, agenti. La famigerata e sanguinaria Volante Rossa, che solitamente agiva nell'ombra, questa volta era uscita al­ lo scoperto. Un suo autocarro stava ostentatamente accanto al portone di corso Monforte, guardato da figuri con mitra e pistole. Per l'intera mattinata Troilo non aveva ritenuto di dover informare il ministro che qualcosa di inconsueto stava acca­ dendo a Milano (solo alle 17 rispose a un telegramma incal­ zante di Sceiba con quest'altro singolare telegramma: «Sono qui in piena libertà e in attesa dell'arrivo dell'onorevole Ma- razza. Ordine pubblico normale nonostante sciopero gene­ rale in atto»). Ettore Troilo doveva avere una concezione molto peculiare della normalità. Nel suo ufJSfe spadroneg­ giava Pajetta, che ogni tanto, forse annoiaiMHpaceva qual­ che telefonata. Una volta, stando a quant|9^HB:to Miriam Mafai che certamente dispone di notiziV^^Hma mano, Pajetta chiamò il Viminale e a Sceiba disse ironicamente: «Ti

405 avverto che da adesso hai una Prefettura in meno, quella di Milano». Sceiba tacque. Un'altra volta Pajetta si mise in co­ municazione con Togliatti per annunciargli spavaldamente: «Abbiamo la Prefettura di Milano». E Togliatti, gelido: «Bra­ vi, e cosa intendete farne?». A posteriori Pajetta ha asserito che lui e gli altri promo­ tori dell'occupazione non avevano intenzioni eversive. «Si trattava di mostrare che avevamo una forza notevole ed era­ vamo pronti a usarla, in modo da impedire che certa gente si illudesse di poterci liquidare facilmente. Ma nulla di più.» Quando il generale Capizzi cui Sceiba, pur esitante, pensa­ va di affidare ogni potere a Milano, entrò in Prefettura fa­ cendosi largo tra i facinorosi, e riusci ad arrivare fin davanti a Troilo, Pajetta - lo ha raccontato egli stesso - si rivolse a uno dei suoi luogotenenti e gli chiese di quanti uomini il PCI potesse disporre. «Trentamila mi rispose il compagno, e il generale che era arrivato da noi deciso a proclamare lo sta­ to d'assedio se ne andò senza aver fatto nessuna minaccia. Ma raggiunto questo scopo io chiamai subito accanto a me gli altri dirigenti comunisti e dissi loro che una cosa doveva essere ben chiara: se l'esercito arrivava davvero e si creava­ no le condizioni per un conflitto, noi ci saremmo ritirati.» Che così Pajetta pensasse veramente nelle ore infuocate dalla Prefettura, è tutto da dimostrare. Certo la doccia fred­ da di Togliatti non l'incoraggiò a giuocare il tutto per tutto. Quanto a Troilo, balbettava patetico. Quando fu avvicinato da qualche giornalista si disse «molto dolente di quanto è avvenuto senza alcuna mia responsabilità», definì una ina­ dempienza del governo la mancata missione all'ONU («Si ve­ de che di me non sanno che farsene all'ONU»), poi lamentò querulo che non lo si fosse almeno lasciato a Milano fino al­ la primavera successiva. Uno degli autori di questo libro, che era allora un giovane cronista del Corriere della Sera, e che potè anche lui - dopo inquisizioni degli scherani comu­ nisti di guardia - avvicinare Troilo, chiese che gli fosse con­ cesso d'usare il telefono per avvertire, al giornale, che si tro-

406 vava chiuso in Prefettura, senza possibilità di comunicazio­ ne. Troilo cortesemente assentì, indicando il suo apparec­ chio personale. Ma intervenne Pajetta. «Non si può lasciarlo adoperare - disse - è un telefono di Stato.» Alla perplessa occhiata del cronista, Troilo rispose, scrollando sconsolata­ mente le spalle: «Se è un telefono di Stato...». La città, e la Prefettura, erano sospese in un'atmosfera di forte, trattenuta tensione, mentre il sottosegretario Marazza viaggiava in treno verso Milano, dove sarebbe arrivato solo in piena notte. Stranamente, non vi furono molti incidenti, né ostentate violenze. I «benpensanti» s'erano rintanati in casa, e le milizie di sinistra facevano il bello e il cattivo tem­ po, senza trovare altra opposizione che quella dei cordoni di forza pubblica, qua e là. Un'unica tragedia contrassegnò la giornata. Igino Mortari, ch'era stato nella legione repub­ blichina Muti, litigò in una tabaccheria di via Lomazzo con un gruppo d'operai della Innocenti. Fu trascinato via su una jeep, e lo ritrovarono poi in un prato della periferia freddato dal classico colpo alla nuca. Nel resto d'Italia le no­ tizie milanesi, riecheggiate in linguaggio burocratico dalla radio, non furono percepite nella loro gravità. La gente era maggiormente scossa dall'annuncio che il pianista Arnaldo Graziosi era stato condannato a 24 anni di reclusione, su in­ dizi assai tenui, per avere ucciso la moglie. Scendendo dal treno alla Stazione Centrale di Milano, Marazza incontrò Agnesina, e con lui si chiuse in Questura. Poi telefonò a Troilo, invitandolo - ed era un invito che, da Sottosegretario a Prefetto, equivaleva a un ordine - a rag­ giungerlo. Troilo l'avrebbe anche accontentato. Ma il solito Pajetta s'oppose. Presagiva, nonostante l'ostentata euforia barricadiera della folla che s'ammassava in Prefettura, l'epi­ logo deludente di questa presa della Bastiglia. E voleva qualche soddisfazione. Impose pertanto che non Troilo ma Marazza si scomodasse, raggiungendo il corso Monforte. Il Sottosegretario pretese delle garanzie, che Pajetta avventu­ rosamente gli diede. Presumeva di poter governare quella

407 ciurmaglia stanca e nervosa. Sugli scaloni del palazzo, e per i corridoi, c'erano cartocci con resti di cibo, bucce d'arance, fiaschi vuoti. Nel momento in cui la jeep di Marazza varcò il portone dal quale Mussolini era uscito il 25 aprile 1945 per avviarsi verso il fatale traguardo di Giulino di Mezzegra, de­ cine di uomini vocianti in giubbotto la sommersero: pallido ma dignitoso, il rotondetto Marazza si avventurò nello stret­ to corridoio tra due siepi umane che si era riusciti ad aprir­ gli, sfilò davanti all'eterogenea guarnigione degli «occupan­ ti», e finalmente si trovò faccia a faccia con Troilo, Pajetta, Venanzi. La trattativa durò qualche ora, non perché fosse in dub­ bio, ormai, che il governo aveva vinto, ma perché si doveva in qualche modo salvare la faccia a Pajetta e ai suoi caudata­ ri. Fu stabilito, alla fine, che Troilo avrebbe lasciato il suo in­ carico (egli brigò dopo d'allora per avere quell'ambasciata che gli era stata ancora promessa, sottovoce, ma non ci riu­ scì), che in Prefettura si sarebbe insediato temporaneamente il Prefetto di Pavia, Celona, e che il designato Ciotola avreb­ be assunto le sue funzioni due mesi più tardi «avendo egli chiesto un congedo di tale durata». Venne concordato, ov­ viamente, che nessuno di coloro che avevano violato la legge sarebbe stato deferito alla magistratura. L'addio alla rivolu­ zione fu malinconico. Pajetta voleva affidare ad Alberganti, uno tra i più «duri», il compito di dire ai miliziani d'andarse­ ne. Alberganti rifiutò secco: «Non sarò io a ordinare una riti­ rata». «Allora ci vado io» disse Pajetta. E così fece. All'alba il palazzo di corso Monforte fu evacuato, lenta­ mente e tra mugugni, dagli invasori, gli autocarri gremiti di gente armata ripartirono per la «cintura rossa» milanese e per le città di provenienza, reparti della Legnano e della Ce­ lere presero possesso della Prefettura. A Roma Troilo e Greppi, convocati da De Gasperi e Sceiba, diedero la loro versione dei fatti, mentre a Milano i vari comitati parainsur- rezionali lanciavano gli ultimi vacui appelli allo spirito resi­ stenziale. I militari americani che dovevano imbarcarsi a Li-

408 vorno per fare ritorno negli Stati Uniti, e che erano stati trattenuti in Italia, a titolo di ammonimento, in vista della emergenza Troilo, seppero che la loro partenza era rinviata solo di qualche giorno. (In base a precedenti decisioni, l'ul­ timo contingente americano d'occupazione doveva lasciare l'Italia entro il 15 dicembre 1947, e lo sgombero era stato pressoché completato. Washington precisò per l'occasione che se fosse stato necessario ristabilire un equilibrio di forze o di situazioni eventualmente turbato, potevano essere rafforzate le truppe americane di stanza in Austria.) In una lettera al sindaco Greppi, Alcide De Gasperi sot­ tolineò che «l'autorità dello Stato sarebbe profondamente lesa se, invece di attingere la sua forza da un governo re­ sponsabile innanzi al Parlamento, subisse l'influsso di azioni e reazioni tumultuarie». E, accennato ai problemi economi­ ci e sociali, aggiunse con appena velata severità: «Senza dubbio le difficoltà sono ancora molte e prevediamo giorni duri... Ma riusciremo, se manterremo in casa nostra ordine e disciplina, se non scaveremo con le nostre mani le basi del­ l'autorità dello Stato, la cui tutela deve essere al di sopra delle competizioni e dei partiti».

Nel PCI il «partito parallelo» aveva mostrato la sua faccia vio­ lenta durante l'occupazione della Prefettura di Milano. E la mostrò ancora nei giorni successivi con i raduni e le sfilate indetti, in molte città italiane, per il I Congresso nazionale della Resistenza. A Modena, presenti ventimila partigiani e duecentomila persone affluite da tutta l'Emilia rossa, furo­ no decorati di medaglia d'oro Longo e Secchia. Lo fu perfi­ no Togliatti resistente di Mosca e di Salerno, che accettava senza entusiasmo questi rituali. Il 6 dicembre si svolse a Ro­ ma la manifestazione conclusiva, e centomila partigiani ir­ ruppero nella città preoccupata e torpida. Ecco il significati­ vo racconto d'un partecipante alla kermesse rossa (racconto riportato da Miriam Mafai): «Partimmo da Genova dove alla stazione funzionava per-

409 fettamente la sussistenza. A tutti fu distribuita per la notte una razione K, razioni d'emergenza delle truppe america­ ne... Nel mezzo della Maremma ci fu una sosta obbligatoria, penso sia stata dovuta al confluire di diversi convogli... Do­ po pochi minuti corse la voce sabotaggio. Esasperazione. Inutilmente nel buio staffette passavano di carro in carro spiegando le ragioni della sosta. Dal carro degli spezzini partì un colpo di bazooka. Per pochi secondi, ma intensissi­ ma, seguì una sparatoria infernale. Raffiche di sten, colpi di pistola e scoppi di bombe a mano... Roma era deserta, ec­ cetto le ali di folla plaudente tutto era deserto. Non si vede­ va né polizia né soldati, tutti erano pronti, ma nelle caser­ me... Ricordo la delusione di tutti quelli che mi circondava­ no quando, nel discorso ufficiale, Longo raccomandò la cal­ ma... Le intenzioni di tutti al basso erano ben diverse. Da parte di tutti c'era il proposito di spaccare il mondo e a un certo punto la sensazione che si stava per concludere qual­ che cosa di grosso. Ma poi la tensione cadde in un sciogliete le righe... Le armi erano rimaste sotto il giubbotto, anche se non c'era timore alcuno e ogni tanto si poteva vedere con facilità spuntare di sotto l'abito qualche manico di rivoltel­ la». Migliaia, anzi decine e forse centinaia di migliaia erano le pistole custodite da ex-partigiani e duri del PCI per l'ora X: e tante mitragliatrici e mitragliatori, tante bombe a ma­ no, non pochi bazooka. L'ambasciatore degli USA a Roma, Dunn, scrisse in un rapporto che il pei poteva contare su 50 mila uomini addestrati ed equipaggiati con armi leggere. Togliatti fingeva d'ignorare questo inquietante e segreto volto del suo partito. Se ne compiaceva invece Pietro Sec­ chia, potente e irruente capo dell'organizzazione, un posto che gli consentiva di far le pulci a tutti, perfino a Togliatti: il quale dovette infatti piatire da lui un nuovo alloggio quan­ do, separatosi dalla moglie, decise di metter su casa con Nil­ de J otti. Pietro Secchia, detto Botte, era di Occhieppo Superiore,

410 nel biellese. Figlio di povera gente (padre contadino, madre operaia tessile), aveva compiuto tuttavia gli studi ginnasiali, integrati successivamente dalla cultura ideologizzata dei ri­ voluzionari autodidatti. Ventenne al tempo della Marcia su Roma, s'era buttato senza esitazioni alla lotta clandestina, nelle file comuniste. Gli erano state presto affidate missione delicate - tra l'altro nel 1924 era stato delegato al Congres­ so dell'internazionale giovanile comunista a Mosca - poi aveva vissuto in Francia, era rientrato nascostamente in Ita­ lia, aveva subito i primi arresti e le prime schedature. «È di carattere impulsivo, educazione scarsa, intelligenza pronta. Ha una cultura discreta. Ha tendenze all'ozio e vive con le prebende che gli frutta la campagna comunista. Appartiene al Partito comunista di cui è seguace fanatico.» Questo il profilo di Secchia tracciato dalla polizia fascista. Prima che Mussolini cadesse, Secchia aveva trascorso tredici anni della sua vita (e ne aveva solo quaranta) tra carcere e confino. Era stato tra i capi della Resistenza, coraggioso e spietato. Per il Togliatti amico di Badoglio, Guardasigilli, fautore del compromesso con i cattolici, questo personaggio rozzo e deciso costituiva insieme una risorsa e un ingombro. Poteva essere utilizzato (aveva indubbi talenti di coordinatore e di trascinatore), ma doveva anche essere attentamente control­ lato. Per questo «il Migliore» se lo portò a Roma. «Sentii su­ bito un certo disagio - lamentò Secchia - perché a Roma trovai un ambiente completamente diverso. I nostri, inseriti già da tempo, quasi da un anno, nel lavoro parlamentare e ministeriale, erano tutti volti ad altri problemi. Compresi che per la seconda volta eravamo rimasti fregati.» A Roma Secchia visse austeramente, con la sua compagna Alba, e con la vicinanza assidua di un guardaspalle-segretario-fac­ totum: Nino Seniga, l'uomo che qualche anno più tardi lo lascerà portando con sé la cassa del partito, e provocando la rovina politica del suo «padrone». Delle strutture di partito Secchia aveva una concezione rigida, ereditata sia dalla lotta clandestina sia dall'inquadra-

411 mento militare della Resistenza. Nel rivoluzionario si senti­ va il piemontese. Al militante era concesso di ubbidire, e an­ che di pensare con juicio, mai di dubitare. Il Quaderno dell'at­ tivista, che usciva settimanalmente, non era un prontuario di partito: era un precettano degno dell'Inquisizione, che pretendeva di regolare tutto: perfino a quali lingue stranie­ re convenisse dedicarsi («Mi sembra veramente ridicolo - ammoniva seriosamente un dirigente nazionale del PCI - che alcuni compagni studino ancora l'inglese o il francese anziché il russo»). Secchia era pignolo, infaticabile, brusco e spicciativo, ma un maestro nell'addestrare le truppe e i quadri del partito. La sua mentalità schematica, il suo spirito rivoluzionario erano ancora adatti ai tempi, e ancora più lo divennero con l'instaurarsi della guerra fredda. Nessuno meglio di Secchia poteva gestire insieme il PCI affiorante e quello sotterraneo: e incoraggiare o coprire sottobanco le azioni dei militanti facinorosi, qualche volta sanguinari, lasciando ai Togliatti e agli Amendola il compito di deplorarli, ufficialmente. Un giorno (Togliatti era ministro della Giustizia) si presentaro­ no a Roma, chiedendo di vederlo, i «compagni» che nelle carceri di Schio avevano operato una mattanza di ex-mili­ tanti della Repubblica di Salò, imprigionati. Questi «giusti­ zieri» erano tecnicamente dei latitanti. Quando Massimo Caprara - allora segretario di Togliatti - gliene annunciò la visita, la risposta fu sferzante: «Ma sono pazzi, digli che non posso assolutamente occuparmi di loro». Ma altri si occupava, nel pei, di questi comunisti macchia­ ti di sangue, e li avviava oltre frontiera, verso i «santuari» dell'Est. Così Praga divenne un covo di imputati e di con­ dannati in contumacia e, ha ricordato Miriam Mafai, «attor­ no alla Radio in lingua italiana hanno vissuto e lavorato per anni molti di coloro che, dopo il 25 aprile, non avevano ri­ nunciato all'azione armata e agli atti di terrorismo, e lì costi­ tuirono una piccola comunità che aveva rapporti regolari con il PCI».

412 Analogamente, il Partito comunista non sponsorizzava formalmente, ma neppure rinnegava interamente, nel fon­ do, i fatti e misfatti di quei gruppi - con il linguaggio lati­ noamericano potremmo chiamarli squadroni della morte - che praticarono la giustizia sommaria nei giorni della Libe­ razione, ma seguitarono a praticarla - almeno gli irriducibi­ li - anche dopo. Gli sterminatori agivano anche all'ombra di associazioni innocue, e insospettabili. Ad esempio i compo­ nenti la famigerata Volante Rossa erano, per la facciata, membri d'un circolo ricreativo con sede presso la Casa del Popolo di Lambrate (un quartiere della periferia di Mila­ no). In mezzo ai tanti che veramente si ricreavano, v'era un nucleo ristretto di killer professionali. Lo guidava «Alvaro», un giovane operaio reduce dalla guerra partigiana, nella quale aveva comandato la 118a brigata Garibaldi. La Volante - scuola e modello delle future Brigate rosse - si esibì a volte in azioni clamorose e rivendicate - le uccisio­ ni di Franco de Agazio fondatore e direttore del «nostalgi­ co» Meridiano d'Italia, e del generale Ferruccio Gatti - altre volte in ammazzamenti spiccioli e oscuri. «Andavamo a prendere l'individuo - rivelò uno che sapeva - lo portava­ mo dalle parti del campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato e la mattina passava l'obitorio a ritirarlo.» A volte era il Lago Maggiore a far da obitorio, grazie a una pietra lega­ ta al collo della vittima, condotto a fare una gita in barca senza ritorno. Non mancava, nelle iniziative della Volante, un pizzico di truce goliardia. Un dirigente della Falck, l'in­ gegnere Italo Toffanello, fu sequestrato in casa di notte­ tempo e lasciato in mutande - era pieno inverno - a poca distanza dal Duomo. L'impresa fu firmata «un gruppo di bravi ragazzi». S'è già visto che la Volante si mostrò spaval­ damente alla ribalta, credendo fosse giunta l'ora X, duran­ te la «guerra di Troilo». Quindi risprofondò nell'ombra, fi­ no a quando la cattura d'un giovane appartenente alla or­ ganizzazione portò alla sua scoperta, e alla identificazione dei capi.

413 Secchia, terzo nella gerarchia del PCI ufficiale, era il pri­ mo nella gerarchia del PCI sotterraneo. A Mosca lo sapevano benissimo: fino al 1956 tutti i verbali dei dibattiti in seno al­ la direzione o al Comitato centrale vennero inviati, per op­ portuna conoscenza, al Cremlino. In quei dibattiti le posi­ zioni di Secchia affioravano vistosamente. Non per caso dunque fu volentieri accettato da Stalin che Secchia - anzi­ ché il riluttante Togliatti - andasse a Mosca, nel dicembre del 1947, per avere istruzioni, o almeno illuminazioni sul nuovo corso comunista. Caricato all'aeroporto di Mosca sulla immancabile Ciaika nera dalle tendine abbassate, ospitato in una dacia per «compagni» di riguardo, Secchia vide anzitutto Zdanov, che pochi giorni prima aveva aspramente criticato i comunisti italiani. Zdanov sembrava, a quattr'occhi, un po' meno se­ vero, anche se a una cauta richiesta di Secchia per la rinun­ cia dell'URSS ad avere le navi da guerra italiane in conto ri­ parazioni, ribatté brusco: «Noi non facciamo la politica ame­ ricana alla rovescia». Quanto al resto, «mi è dispiaciuto - disse Zdanov - d'aver dovuto fare delle critiche al vostro partito, ma era necessario perché voi avete condotto finora una politica fiacca, di capitolazione, avete troppe illusioni parlamentari...». Era un rimprovero che Secchia proprio non meritava: ma Zdanov parlava alla nuora perché la suocera (ossia To­ gliatti) intendesse. Secchia espose allora le sue idee, ed era­ no musica per le orecchie di Zdanov, che lo invitò a conden­ sarle in un rapporto. Con diligenza, nella dacia isolata, Sec­ chia lo scrisse, muovendo anche appunti a «compagni» non precisati. In realtà sia lo scrivente, sia i destinatari del rap­ porto avevano in testa un nome solo. «Ci sono dei compa­ gni - era detto nel rapporto - che osservano che De Gaspe­ ri avrebbe avuto piacere se noi, nel momento in cui stavamo per essere esclusi dal governo, avessimo organizzato lo scio­ pero generale, perché così avrebbe potuto dimostrare che noi ci ponevamo sul terreno extra-legale, sul terreno della

414 violenza... Ma noi riteniamo non esatto questo giudizio per­ ché non si trattava già di dare la parola d'ordine dell'insur­ rezione, ma di organizzare una grande mobilitazione di po­ polo, prima ancora che fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla a fare l'insurrezione ci corre... Il nostro errore sta nel fatto che troppo spesso ci siamo lasciati dominare dalle minacce della guerra civile, e dell'intervento straniero...» E più avanti, dopo aver accennato alla possibilità che il PCI fos­ se impegnato in una lotta non legalitaria: «Possiamo ancora prendere l'offensiva, vi sono le forze per farlo, e se il nemi­ co cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, noi dispo­ niamo di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni violenza e di portare i lavoratori italiani al successo decisivo». Il rapporto fu covato per tre giorni nel Cremlino, e ap­ prodò anche sulla scrivania di Stalin mentre Secchia aspet­ tava nella dacia. Finalmente venne la convocazione per un colloquio con il capo supremo e indiscusso del comunismo mondiale. Era la prima volta che Secchia vedeva «Giusep­ pe» (così lo nominò negli appunti presi frettolosamente). Era emozionato, ma sicuro. Al fianco di Stalin erano Zda- nov, Beria e Molotov. Secondo il suo stile, Stalin fu pruden­ te. Ascoltò tirando lunghe boccate dalla pipa, e si guardò bene dallo sconfessare Togliatti. Obbiettò alla strategia ag­ gressiva di Secchia che «non si tratta di porre il problema dell'insurrezione, ma di condurre lotte economiche e politi­ che più decise, con maggiore ampiezza». In sostanza, Stalin sapeva di non poter1 ribaltare gli assetti politici italiani, ma voleva dare il massimo fastidio al governo e agli americani. Sapeva altresì di avere, nel PCI, due diversi proconsoli, per due diverse ipotesi: la possibilista e la rivoluzionaria. Inge­ nuo, e anche gaffeur, come tutti i fanatici, Secchia sostò a Belgrado, sulla via del ritorno da Mosca, e lì pranzò con Gi- las e Kardelj. «Beati voi che siete stati liberati dalle armate sovietiche!» esclamò rivolto ai suoi commensali. «Macché ar­ mate sovietiche!» ribatté Gilas, furente.

415 Questa fase della politica comunista ebbe in Italia il suo im­ primatur dal VI congresso del PCI, aperto il 4 gennaio 1948 a Milano. Il partito di Togliatti era numericamente imponen­ te - quasi due milioni e trecentomila iscritti - ed era ancora un partito operaista (il 45 per cento di operai, il 17 per cen­ to di salariati agricoli). Fu il congresso «dell'obbedienza al Cominform», secondo la definizione di Bocca. «Tutti i lavori del Congresso dovranno svolgersi alla luce della situazione nazionale e internazionale così come è stata definita dalla Conferenza dei nove partiti (Cominform) e dal recente Co­ mitato centrale del nostro partito.» Togliatti e Longo furo­ no confermati rispettivamente segretario e vicesegretario. Secchia si risentì (e questo per Togliatti non era molto gra­ ve) ma si risentì anche Mosca, ed era gravissimo. Consapevole d'aver umiliato insieme Secchia e il Cremli­ no, Togliatti corse ai ripari con una procedura che, anche per il disinvolto autoritarismo comunista, era scandalosa. Senza neppure attendere una convocazione del Comitato centrale, scrisse a tutti coloro che ne facevano parte perché consentissero a creare un nuovo vicesegretario da affianca­ re a Longo nella persona di Pietro Secchia. Tutti risposero sì, a stretto giro di posta, ma non mancò qualcuno che ri­ levò l'arbitrio. CAPITOLO OTTAVO

LA COSTITUZIONE

Il 1947 si chiuse con un rimpasto del governo De Gasperi - allargato ai socialdemocratici e ai repubblicani - e con l'ap­ provazione della Carta Costituzionale. Pochi giorni separa­ rono i due avvenimenti (il 16 dicembre il rimpasto, il 22 il sì alla Costituzione): e la successione cronologica ne contrad­ disse il significato. Il varo della Costituzione rappresentò infatti l'epilogo della collaborazione ciellenistica e dell'unanimismo antifa­ scista. La Costituzione passò con 453 voti a favore e solo 62 contrari, di destra: una maggioranza cui anche quarantan­ ni dopo, ad esempio per l'elezione del Presidente Cossiga, sarebbe stato dato il nome - improprio, anzi truffaldino - di «arco costituzionale». La nuova struttura del governo am­ pliò e consolidò invece il blocco anticomunista, mentre prendeva definitivamente forma il Fronte popolare di To­ gliatti e Nenni: e insieme delineò la formula di maggioran­ za politica sulla quale la democrazia italiana si sarebbe retta, sia pure con tentennamenti e lacerazioni, nei decenni suc­ cessivi. Della Costituzione ci siamo occupati a proposito dell'arti­ colo 7, e del voto con cui i comunisti si associarono all'inse­ rimento in essa dei Patti lateranensi. Vediamola ora nel suo insieme. La Magna Charta della Repubblica italiana fu concepita sotto l'ossessione di un ritorno della dittatura, ossessione che ne condizionò e spesso viziò gli istituti: e venne tenuta a battesimo, nella sostanza, da due forze politiche - la cattoli­ ca e la marxista - che erano state estranee al Risorgimento,

417 quando non ostili, e che erano per tradizione, e per i perso­ nali convincimenti di alcuni loro uomini, scarsamente sensi­ bili ai grandi ideali liberali. Tortuosa e farraginosa fu inoltre la procedura attraverso la quale si arrivò alla formulazione di questa legge fondamentale. Dai 600 costituenti fu espres­ sa una commissione più ristretta, detta dei Settantacinque, che a sua volta si divise in sotto-commissioni per la redazio­ ne di questa o quella parte, di questo o quell'articolo. I testi che dai gruppi settoriali risalivano ai Settantacinque, e dai Settantacinque all'assemblea plenaria, erano sganciati l'uno dall'altro e scaturivano a volte da ispirazioni diverse. Con la conseguenza, rilevata da Piero Calamandrei, che «quando si arriverà a montare questi pezzi usciti da diverse officine po­ trà accadere che ci si accorga che gli ingranaggi non comba­ ciano e che le giunture del motore non coincidono: e potrà occorrere qualche ritocco per metterlo in moto». La Costi­ tuzione ebbe una impronta unitaria, e omogenea, proprio in quella che si rivelerà una delle sue caratteristiche più ne­ gative: la voluta debolezza del potere esecutivo, cioè del go­ verno, nel nome di un parlamentarismo esasperato che il tempo trasformerà in partitocrazia e lottizzazione. Nessuno dei freni che in altri paesi già esistevano o furo­ no adottati per scongiurare l'instabilità dei governi - e in definitiva del sistema - e la frammentazione del quadro po­ litico fu accolto dai costituenti. Niente collegio uninominale, niente soglia del cinque per cento (come nella Germania fe­ derale) per l'ammissione di un partito in Parlamento, nien­ te premio di maggioranza (nel '53 De Gasperi tenterà di in­ trodurlo con quella che sarà malignamente bollata come la «legge truffa», e sarà battuto), niente obbligo di presentare una maggioranza di ricambio già pronta prima di far cade­ re la maggioranza sulla quale si regge il governo. Tutto il potere al Parlamento, non soltanto l'esame delle leggi im­ portanti ma anche quello delle famigerate «leggine», una giungla nella quale il lavoro di deputati e senatori dovrà aprirsi il varco con stento, e in tempi lunghi. Il sistema bica-

418 merale, sicuramente utile per correggere taluni errori d'u­ na Camera, finiva per diventare, in quel trionfo della len­ tezza, un ulteriore motivo di ritardo all'iter dei disegni di legge. Nel documento erano contenuti, in nuce, la girandola dei governi, la perennità delle crisi, l'esigenza che il Presi­ dente del Consiglio e i suoi ministri s'impegnino quotidia­ namente più a sopravvivere che ad amministrare. Parados­ salmente, la DC e il PCI, l'una e l'altro per niente tranquilli sull'esito delle elezioni politiche prossime venture, erano in egual misura interessati a castrare l'esecutivo. Il PCI perché una democrazia debole è una democrazia facilmente infil­ trabile e rovesciabile, la DC perché un Fronte popolare trionfante avrebbe trovato, proprio in quella Costituzione, più d'una remora all'instaurazione d'un potere autoritario. Da qui certi aspetti equivoci della Costituzione, di cui Mario Paggi scrisse che era «un fragile tessuto fatto di non armo­ niose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dal­ l'altro, con qualche malinconico residuo di un liberalismo che ha persino pudore della parola libertà». Da questo ibrido, o da questa confusione, derivò un cer­ to tono messianico e verboso della Costituzione (la stessa so­ lenne affermazione secondo la quale la Repubblica italiana è fondata sul lavoro appartiene più alla retorica politica che alla legislazione). Sempre Calamandrei, non sospettabile di tentazioni reazionarie ma acuto, sottolineava che nel suo complesso la Magna Charta «rischia di riuscire piuttosto che un documento giuridico, uno strumento politico: piuttosto che la attestazione di una raggiunta stabilità legale, la pro­ messa di una stabilità sociale che è appena agli inizi». A que­ ste aspirazioni vagamente progressiste si intrecciava, pro­ prio per la difficoltà di concretarle, lo «spirito di rinvio», os­ sia la rinuncia al compito di fissare vere norme, demandan­ dole a future leggi di attuazione. Le quali sono ancora in qualche caso di là da venire: come la regolamentazione del diritto di sciopero. Su alcuni temi scottanti, in particolare l'assetto economico, lo sforzo di conciliare l'ortodossia libe-

419 1 rale con conati sociali e dirigisti è quasi patetico (lo ha rile­ vato Franco Catalano). Così si garantisce «l'iniziativa econo­ mica privata libera» ammonendo peraltro che essa non può porsi «in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La proprietà privata è riconosciuta e garantita ma la legge ne determina «il modo di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla acces­ sibile a tutti». La smania di regolare tutto, con minuzia notarile e insie­ me con velleità innovatrici, diede all'Italia una Costituzione prolissa e lacunosa insieme. In realtà quel documento che ambiva a guidare la vita della nuova Repubblica per chissà quanti decenni futuri era lo specchio della situazione e del momento politico in cui fu formulato. Non che manchino, in esso, parti degne di sopravvivere. La Costituente aveva nel suo seno ingegni politici e giuridici quali forse l'Italia non ritrovò più nelle fasi successive della sua storia. Ma an­ che i migliori vollero impedire il ritorno del passato e porre le basi di un radioso futuro sociale - c'era in questo l'ideolo­ gia, seppure temperata, della Resistenza - trascurando l'op­ portunità loro offerta di formulare una Charta chiara, sem­ plice e non soggetta - come la Charta che concepirono - a letture diverse, a volte opposte: tanto che la Corte Costitu­ zionale ha dato, degli stessi articoli, interpretazioni varianti secondo i tempi e le occasioni. Del resto, a tambur battente, e quando la Corte Costituzionale era ancora di là da venire, la Cassazione si affrettò a sancire che si doveva distinguere tra le norme costituzionali «programmatiche» e le norme «precettizie», suddivise a loro volta queste ultime in «com­ plete» e «incomplete». Solo le norme precettizie e complete annullavano le leggi in contrasto con esse che già esistesse­ ro. Per le precettizie ma incomplete, o per le programmati­ che, il dettato costituzionale dava semplicemente direttive dejure condendo. In un'ottica di sinistra Antonio Gambino ha visto in tutto questo un disegno della destra per consentire

420 innovazioni «prive di garanzie di esigibilità», che restavano una pura astrazione, in cambio «di un consolidamento di fatto dello Stato conservatore». Non ci sembra che la mano­ vra fosse così netta, e nemmeno così consapevole. L'ibrido ambiguo e il messianesimo verboso della Costituzione furo­ no lo specchio di quell'«arco costituzionale» che la concepì: e che pretese di armonizzare gli opposti. Per questo la Co­ stituzione non è soltanto vecchia. E invecchiata male.

L'esigenza di dare al governo - in vista delle elezioni politi­ che - una base che raccogliesse il più ampiamente possibile le forze moderate e socialdemocratiche era ben avvertita da De Gasperi cui il monocolore, allargato o no, piaceva poco perché faceva della DC l'unico bersaglio dell'opposizione, e perché rendeva incerte e fluttuanti le maggioranze; ed era avvertita anche dagli americani. Il PSLI aveva con il mondo sindacale e politico d'oltreoceano legami privilegiati, e que­ sto spiega le sollecitudini del segretario di Stato generale Marshall perché al partito di Saragat fossero spalancate le porte governative: «Lei potrebbe profittare dei colloqui con i leaders democristiani e socialdemocratici - scrisse Marshall all'ambasciatore Dunn - per comunicare una certa delusio­ ne a causa del mancato accordo per la partecipazione del PSLI al governo. Lei potrebbe spiegare ai dirigenti del PSLI il punto di vista americano secondo cui la situazione italiana richiede, nell'interesse nazionale, la cooperazione di tutti gli elementi realmente democratici». La strada per una collaborazione ministeriale con il PRI e il PSLI era stata però disseminata di mine e di dispetti, sia per le cautele di De Gasperi, sia per le pretese di Saragat e di Pacciardi, che non erano interlocutori comodi. Si era ar­ rivati addirittura, in autunno, alla presentazione di mozioni di sfiducia contro il governo proprio per iniziativa dei suoi futuri alleati. All'origine dell'incidente fu Nenni, che a fine settembre si fece avanti, alla Costituente, con una mozione di sfiducia

421 perché, secondo lui, il Ministero si era dimostrato del tutto impari ai compiti che doveva affrontare, e soprattutto ai no­ di dell'emergenza economica. Ai deputati Nenni parlò con la consueta foga tribunizia, ma anche con insolita asprezza, accusando la maggioranza «d'avere messo le sue sporche operazioni di politica interna sotto il patronato americano, così come fino al '45 le metteva sotto il patronato di Chur­ chill». La «palude» (per usare la definizione dello stesso Nenni) insorse e il conte Sforza sfidò i socialisti a portare una sola prova di quanto asserivano. «E stato messo dura­ mente a posto» si vantò Nenni nel suo diario. Sulla scia dei socialisti anche socialdemocratici e repubblicani avanzarono mozioni di sfiducia, che non erano tanto uno strumento per abbattere il governo, quanto un grimaldello per forzarne la porta ed entrarci. Infatti il discorso di Saragat fu una dichia­ razione di guerra alle sinistre, piuttosto che a De Gasperi. Si era alla vigilia di elezioni amministrative a Roma, fissa­ te per il 12 ottobre (1947), e De Gasperi era preoccupato. Temeva che un'impressione di sfascio della sua maggioran­ za si ripercuotesse negativamente sul voto nella capitale. Al­ la Costituente si rivolse in tono grave, per dire che «la mar­ cia comune dei socialisti e comunisti, la quale si richiama al­ le stesse origini marxiste fino alla dittatura del proletariato, rende sospetta, difficile e impossibile ogni collaborazione con loro». La mozione di Nenni fu respinta con largo mar­ gine, 271 voti contro 178, quella di Saragat con margine in­ feriore (271 contro 224), infine per la bocciatura della mo­ zione repubblicana (270 voti contro 236) fu necessario a De Gasperi l'appoggio di Guglielmo Giannini. I qualunquisti avevano percorso negli ultimi mesi un itinerario a zig zag, con appetiti governativi e insieme con ammiccamenti ai co­ munisti (ammiccamenti che Togliatti, spregiudicato come sempre, aveva finto di ricambiare). Se ne accorgessero o no, i qualunquisti erano in una fase declinante, e in modo pre­ cipitoso, della loro parabola. Lo dimostrarono le elezioni a Roma. La DC raddoppiò i

422 voti (da 104 mila a 204 mila) rispetto alle elezioni di appena un anno prima, persero i monarchici e i liberali, ma ancora più persero i qualunquisti caduti da 106 mila a 62 mila voti. I socialcomunisti accrebbero i voti (da 190 mila a 208 mila) ma, essendo parecchio cresciuto il numero dei votanti, si vi­ dero togliere tre seggi, andati al PSLI. Se rettamente inter­ pretato, questo segnale avrebbe dovuto far presagire l'esito del 18 aprile. Ma pochi, anche tra gli addetti ai lavori, capi­ rono che esso prefigurava la grande adunata di tutti i mo­ derati sotto le insegne democristiane. Il congresso della DC a Napoli (nel novembre del 1947) fu tranquillo. De Gasperi lasciò la segreteria per assumere la presidenza, e Attilio Piccioni prese il suo posto. Ai con­ gressisti De Gasperi aveva lasciato intendere che un rimpa­ sto era auspicabile. Fu attuato, come s'è detto, a metà di­ cembre. Saragat e Pacciardi si affiancarono, quali vice-presi­ denti del Consiglio, a Luigi Einaudi, i socialdemocratici Tre- melloni e D'Aragona ebbero rispettivamente l'Industria e le Poste, il repubblicano Facchinetti la Difesa. Infine fu inseri­ to, come ministro senza portafoglio per il coordinamento delle attività economiche del governo - incarico che prefi­ gurava quello dei futuri ministri per le Partecipazioni statali II democristiano Togni. Può essere interessante rileggere, a tanti anni di distanza, i criteri che subito Togni espose per quanto riguardava lo Stato imprenditore: «Una gestione a sfondo privatistico che implichi la necessità di quadratura dei bilanci, di determina­ zione di utili e di indispensabile controllo amministrativo da parte di chi apporta capitali; possibilità di un continuo con­ fronto di gestione tra le aziende di Stato e le aziende di pro­ prietà privata; minore burocratizzazione; più facile trapasso dalla proprietà dello Stato a proprietà di privati, e viceversa; una minore tentazione di ricorrere a particolari privilegi e sottrarsi ad oneri fiscali a danno e a spese della collettività». Erano princìpi saldamente ancorati alla visione economica einaudiana che l'avvenire avrebbe quasi sempre traditi. Alla

423 linea di Einaudi si adeguava - sia pure con qualche transito­ rio dissapore - anche il produttivista Merzagora, che deli­ berò una serie di provvedimenti per favorire il rientro dei capitali. Traendo spunto da questi indirizzi economici non­ ché dai provvedimenti di amnistia e di attenuazione delle norme epurative - grazie ad essi migliaia di dipendenti pub­ blici allontanati per fascismo tornarono ai loro incarichi - so­ cialisti e comunisti denunciarono una «restaurazione» capi­ talista e filoimperialista, per non dire nostalgica.

Comunisti e socialisti marciavano ormai insieme, ignari di procedere a ranghi serrati verso una catastrofe elettorale. Nenni, non Togliatti, aveva voluto stringere i legami tra i due partiti. Spiegò poi: «Forse perché nella mia mente si era fissata con tanta forza l'esperienza del Fronte popolare fran­ cese, io ero convinto che uno schieramento compatto delle sinistre ci avrebbe portato al successo». Togliatti aveva fon­ date perplessità sugli esiti d'una linea troppo scopertamen­ te fusionista, e s'era lamentato: «Cosa ci posso fare io se Nenni e Basso vogliono il Fronte elettorale a tutti i costi?». Basso, per la verità, era molto tiepido. L'entusiasta era Nen­ ni, un po' ingenuo e un po' cinico, coccolato dall'establish­ ment comunista interno e internazionale. A fine novembre del '47 andò a Praga, su invito dei so­ vietici, e a Karlovy Vary dialogò a lungo con Malenkov, il vi­ ce-Stalin, «grasso, un po' flemmatico, perfettamente orien­ tale». Il povero Nenni chiese a Malenkov, tra l'altro, cosa l'Unione Sovietica potesse fare per l'economia italiana, e il sovietico, lontano le mille miglia dal sospettare quale fosse la vitalità rinascente dell'economia occidentale, e ancorato ai moduli dirigistici di casa sua, rispose seriamente: «Se le sinistre vincono le elezioni e tornano al governo, nel 1948 l'Unione Sovietica potrà far fronte al fabbisogno di grano. Per il carbone non può far nulla per ancora tre anni». Era archeologia economica, e nessuno dei due interlocutori se ne rendeva conto.

424 Benché segretario dei PSI fosse Basso, Nenni se ne rite­ neva l'effettivo leader: un leader che, dopo il trauma della scissione saragatiana di gennaio, aveva colto qualche signifi­ cativo alloro. Tra gli operai i consensi socialisti, pur netta­ mente inferiori ormai a quelli comunisti, superavano di quasi il doppio i consensi cattolici e socialdemocratici. A li­ vello di vertice il PSI aveva avuto l'apporto di gran parte dei dirigenti del Partito d'azione: personalità di notevole rilievo intellettuale e morale anche se la loro forza politica era assai più corrosiva che costruttiva. La sinistra non marxista ag­ glutinatasi nel Partito d'azione non aveva mai avuto requie, dalla Liberazione in poi. Alcuni suoi uomini sentivano il ri­ chiamo della sinistra popolare - per i cui comportamenti non avevano vocazione alcuna - altri propendevano per un liberalismo elitario e progressista, nella scia dell'insegna­ mento di Gobetti e dei fratelli Rosselli. Queste forze centrifughe si acuirono con la scissione di Palazzo Barberini perché al polo socialista tradizionale si contrappose, esercitando una attrazione eguale e contraria, il polo socialdemocratico. Stato maggiore senza truppe, il Partito d'azione era stanco di esistere, e voleva confondersi in una forza politica più vasta. Questa forza sembrò identifi­ carla, agli inizi del 1947, nel PSLI. Ma gli umori cambiarono, e si arrivò a una fase di equidistanza, poi (fine giugno) alla scelta del PSI. Questa opzione fu approvata dal direttivo del Partito d'azione a stretta maggioranza, 19 voti contro 16: e fu da alcuni considerata un colpo di mano. Dall'esecutivo si dimisero Calamandrei, Valiani e Garo­ sa. A sua volta Riccardo Lombardi, che pure era orientato nettamente a sinistra, rinunciò alla segreteria del partito. Lombardi non amava la sudditanza del PSI ai comunisti, e ripeteva, a proposito del Fronte popolare, che «non esisto­ no due partiti e una sola politica, bensì due partiti e due po­ litiche, che possono coincidere ma anche non coincidere». Gli azionisti filosocialisti, che erano maggioranza, tratta­ rono con il PSI le modalità della fusione, e riuscirono a rea-

425 lizzarla nonostante gli accorati appelli di Saragat. Anche Lombardi finì per associarsi alla maggioranza, e il 21 otto­ bre 1947 il Partito d'azione, lo si è già accennato, fece uffi­ cialmente harakiri. Ignazio Silone, strenuo avversario della manovra, fondò in quelle settimane Europa socialista, la rivi­ sta che ambiziosamente si poneva come punto di riferimen­ to per chi non abbracciava il PSI ma nemmeno il PSLI. Si legò a quel gruppo anche l'ex-segretario del PSIUP Ivan Matteo Lombardo che, con i suoi amici di Critica sociale, era ormai quasi un estraneo nel PSI. Esautorati, isolati e resi impotenti nel PSI i riformisti su­ perstiti, l'opposizione al Fronte popolare e alle liste eletto­ rali con il PCI fu condotta da leaders della sinistra, in partico­ lare da Sandro Pertini e - con ambiguità - dallo stesso se­ gretario, Lelio Basso, che pure non aveva alcun preconcetto anticomunista, e si sarebbe anzi distinto, negli anni a venire, per zelo filosovietico. Pertini fece sapere a chiare lettere - e lo ripetè al Congresso che si aprì il 19 gennaio 1948 - che il fronte socialcomunista per le elezioni era un errore. Lo era perché diventava un vassallaggio appena mascherato del PSI al PCI, e perché confermava gli argomenti di Saragat al tem­ po della scissione. Con Pertini si schierò l'ex-azionista Ric­ cardo Lombardi che esigeva dai comunisti chiarezza sui problemi internazionali (ma in effetti i comunisti erano chiarissimi, per loro I'URSS aveva sempre ragione). Le tesi di Basso erano più sfumate e contorte, e in larga misura obbe­ divano a motivi di bassa cucina di partito rivestiti di panni ideologici. «Io ho - disse Basso - l'impressione che il partito abbia commesso l'errore di discutere la tattica elettorale pri­ ma di esaminare le condizioni politiche della battaglia... Ec­ co perché sono stato reticente. Io credo che non vi sia dub­ bio che se il Fronte si realizza la conseguenza elettorale non può essere che una sola. Il problema è di dire se siamo riu­ sciti a creare questa atmosfera nel paese.» Tutti gli avversari del Fronte erano, nel PSI, condizionati dalla demagogia ope­ raista e proletaria: perfino Giuseppe Romita, che presto sa-

426 rebbe passato ai socialdemocratici, si dichiarò in favore del­ l'alleanza, e contrario soltanto a liste elettorali comuni. Così Nenni trionfò, e sul diario scrisse sprezzantemente che «Le­ lio (Basso) e l'apparato hanno veramente balcanizzato il partito». Il Congresso si pronunciò per il Fronte (maggio­ ranza del 99,43 per cento) e anche per le liste uniche con i comunisti: ma su questo punto, non foss'altro che per moti­ vi di interesse personale (gli aspiranti parlamentari temeva­ no, non a torto, che la fusione facesse fondere, elettoral­ mente, soprattutto i socialisti), la maggioranza fu assai infe­ riore (66,78 per cento). Nella lunga vigilia elettorale l'esistenza del Fronte, e l'in­ timo legame con i comunisti, furono per il PSI una pesante catena. Lombardi aveva visto giusto, subordinando il patto socialcomunista a una emancipazione del pei dall'obbedien­ za cieca al Cremlino. Il Fronte divenne invece realtà, per sfortuna dei socialisti (ma se l'erano cercata), proprio nei mesi in cui l'URSS, impegnata nella guerra fredda, e decisa a trasformare in proconsolati o semicolonie tutti i paesi occu­ pati dall'Armata Rossa, pretendeva che i Partiti comunisti occidentali non solo tollerassero, ma acclamassero. Puntual­ mente, era obbedita. A braccetto con il PCI, il PSI si trovò co­ stretto ad applaudire - tra mugugni nelle sue file - le peg­ giori infamie. Il colpo di stato di Praga - al quale abbiamo già fatto riferimento nel sesto capitolo - precedette di due mesi scarsi le elezioni politiche del 18 aprile 1948. A Stalin, che attuava un disegno brutale e coerente, questa consulta­ zione in un Paese che Yalta poneva al di fuori della sua sfera di influenza interessava molto meno della mainmise all'Est. Ma la tragedia cecoslovacca, con gli arresti, le persecu­ zioni, le epurazioni attuate da Gottwald con la collaborazio­ ne dello spietato ministro dell'Interno Nocek fu una trage­ dia anche per i socialisti. La reazione pavloviana del PCI e dell' Unità a quei fattacci era scontata, anche se abbietta: le centrali spionistiche e reazionarie americane avevano ordi­ to un complotto sventato dal sano popolo lavoratore. Ma i

427 socialisti, cui giungevano via via gli echi delle martellate con cui si crocifiggeva la democrazia cecoslovacca, dei penosi ce­ dimenti di Benes, del sacrificio di Masaryk, dovevano asso­ ciarsi all'ostentato tripudio dei compagni comunisti. E cian­ ciarono anch'essi di «vittoria di popolo» a Praga e di «smar­ rimento dei circoli reazionari». Nenni non ritenne valesse la pena di dedicare una sola riga del suo diario al secondo olo­ causto della Cecoslovacchia, né di distinguere in pubblico le posizioni del suo partito da quelle di Togliatti. Perfino nel rifiuto del piano Marshall il PSI finì per accodarsi docilmen­ te, con temporanei ripensamenti, ai comunisti. Quando a Londra i laburisti indissero una Conferenza internazionale per convincere i socialisti italiani a recedere dall'opposizio­ ne al generoso piano americano, la delegazione del PSI (Mo- randi, Vecchietti, Amaduzzi) «ha piantato in asso la riunio­ ne. E ha fatto benissimo». Il commento è di Nenni, che si sentiva euforico perché il 15 febbraio, a Pescara, in una vo­ tazione amministrativa, il Blocco del popolo socialcomuni- sta aveva conquistato la maggioranza assoluta. CAPITOLO NONO

LA VIGILIA

Il Fronte democratico popolare di Togliatti e Nenni non comprendeva soltanto i comunisti e i socialisti. Vi erano in­ cluse formazioni minori, come la Democrazia del lavoro, il Partito cristiano sociale - flebile contraltare trasformista del­ la Democrazia cristiana - e anche elementi socialdemocrati­ ci e repubblicani. Questa tecnica d'un blocco - antifascista, resistenziale e laico - che si opponesse alle bieche forze del­ l'oscurantismo, riecheggiava - ed era, alla luce di ciò che an­ dava accadendo un'eco per più motivi sinistra - altre coali­ zioni «democratiche» attuate e imposte nei Paesi dell'Est. Nelle liste uniche «popolari» a più voci, contavano solo le voci comuniste e socialiste. Si sarebbe poi visto anche in Ita­ lia alla luce dei risultati che il PCI aveva tutto organizzato per farsi la parte del leone: nella vittoria, se ad essa si fosse arri­ vati, ma anche nella disfatta che invece si avverò. Sulla trin­ cea opposta stava essenzialmente la DC, cui in caso d'esito incerto si sarebbero affiancati i socialdemocratici, i repub­ blicani, e i conservatori dell'alleanza stretta tra i liberali e l'Uomo Qualunque. Le elezioni del 18 aprile erano un avvenimento decisivo, quale che fosse l'angolazione da cui lo si considerava. Wal­ ter Lippmann ne individuò con molta lucidità, in uno scrit­ to della vigilia, la straordinaria importanza. «Dopo la secon­ da guerra mondiale - scrisse - l'Armata Rossa è avanzata fi­ no al centro dell'Europa. Tutti i Paesi rimasti alle sue spalle sono stati sottoposti al dominio comunista. Ma fino a oggi nessun Paese che non sia stato occupato o circondato dal­ l'Armata Rossa è diventato comunista... Se il popolo e il go-

429 verno italiano si arrendono ora al comunismo, l'Italia sarà il primo Paese in cui la sola quinta colonna comunista, sepa­ rata dalle altre quattro colonne dell'Armata Rossa, sarà riu­ scita a conquistare uno Stato moderno. Il risultato in Italia dimostrerà dunque se il Cremlino può o meno assicurarsi il controllo dell'Europa attraverso la guerra fredda.» Questo era il dilemma. È molto facile parlare oggi di atmosfera iste­ rica, di toni apocalittici del clero, di metodi propagandistici che arrivavano al ricatto: ricatto della fame (se votate Fron­ te popolare gli Stati Uniti non ci aiuteranno più), o ricatto religioso (la scomunica per gli aderenti al blocco socialco- munista). La posta legittimava ogni mezzo. Dall'una e dal­ l'altra parte ci si batté con il randello, non con il fioretto: si può riconoscerlo e magari deplorarlo, aggiungendo peral­ tro che le caratteristiche della lotta imponevano quel com­ portamento. La Chiesa si batté in prima linea ammettendo e addirit­ tura ostentando questo suo interventismo che in taluni mo­ menti dovette parere eccessivo anche allo stesso De Gasperi. Pio XII aveva già detto che la scelta era «con Cristo o contro Cristo». I vescovi di grandi diocesi - Ildefonso Schuster a Milano, Giuseppe Siri a Genova, ma anche altri - precisaro­ no che costituiva peccato mortale sia il non votare sia il vo­ tare «per le liste e per i candidati che non danno sufficiente affidamento di rispettare i diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini». La distinzione, che sarebbe venuta con Giovanni XXIII, tra l'errore e l'errante, era sconosciuta a questa du­ ra impostazione. I presuli presero cura di precisare che il comunismo era contrario alla fede - a coloro che ne condi­ videvano l'ideologia doveva essere negata l'assoluzione - «anche quando si presenta, come attualmente accade, sotto spoglie che non sono sue». In apparenza il legame tra la Democrazia cristiana e la Chiesa - che era operativamente un legame tra la Democra­ zia cristiana e le parrocchie - assicurava una penetrazione capillare nell'universo dei credenti al messaggio politico de-

430 mocristiano. Esisteva inoltre l'Azione Cattolica, che il fasci­ smo aveva compresso e condizionato ma mai soppresso, ed esisteva la SPES, il Servizio propaganda e studi della DC sorto a metà del 1947 proprio per rendere più efficace l'azione del partito. In questa struttura Pio XII e il suo prosegreta­ rio di Stato, monsignor Montini, dovettero tuttavia avverti­ re lacune e debolezza. Si affidarono allora a Luigi Gedda, presidente degli uomini di Azione Cattolica, per la creazio­ ne, nel febbraio del 1948, dei Comitati Civici. Luigi Gedda, uno studioso che era stato allievo del famo­ so endocrinologo Pende, e che si era specializzato in ricer­ che sui gemelli, era l'esponente di un integralismo cattolico esasperato. Dal '34 al '46 aveva diretto, con indubbio talen­ to organizzativo e slanci mistici, il settore giovanile dell'A­ zione Cattolica, per essere poi preposto agli uomini di A.c Era ambizioso, e probabilmente riteneva che le sue qualità meritassero più alti riconoscimenti: ne faceva fede una let­ tera - rimasta senza risposta - che indirizzò a Badoglio, do­ po il 25 luglio 1943. «Le forze dell'Azione Cattolica moral­ mente sane, di provata fedeltà alla patria e scevre di passio­ nalità politica - proponeva - possono essere vantaggiosa­ mente impiegate.» E indicava una vasta gamma di utilizza­ zioni, che avrebbero portato l'Azione Cattolica a surrogare la Gioventù italiana del Littorio, l'Opera nazionale dopola­ voro, l'Opera nazionale maternità e infanzia, e via dicendo. Infine Gedda si dichiarava pronto a suggerire persone ido­ nee a dirigere I'EIAR (la RAI dell'epoca) per «controbattere la propaganda sovversiva del fuoruscitismo comunista favori­ ta dalle radio straniere le quali fanno opera di disfattismo spirituale, patriottico e politico». Quest'uomo impastato di fede e di arrivismo era però riuscito a radunare in Piazza San Pietro, davanti al Papa, nel settembre del 1947, settantamila «baschi blu» (il colore, spiegò, gli era stato ispirato dal gran mazzo di fiordalisi of­ ferto alla Madonna di Lourdes, durante un pellegrinaggio) e in altre occasioni masse imponenti di baschi verdi, creati

431 poco dopo. Pio XII fu conquistato dalla sua sicurezza e dal­ la sua fermezza. De Gasperi ne era più impensierito che af­ fascinato. Pensava in particolare agli interessi della DC, al pericolo d'un secondo partito cattolico, alla concorrenza dei Comitati Civici nella raccolta di fondi elettorali. Gedda, forte del placet Vaticano, si diede a tessere una re­ te di trecentomila volontari affiancati alle 22 mila parroc­ chie italiane. E ritenne sempre d'aver avuto un ruolo deter­ minante nel successivo trionfo. «Il 18 aprile - dichiarò - è stata una bella pagina scritta dall'Italia cattolica, un'Italia che per quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della DC, ma questa fu la veste di circostanza della protagonista, l'Italia cattolica che si era andata prepa­ rando da almeno tre generazioni a questo grande momen­ to... Dovevamo svegliare il gigante addormentato, chiarirgli le idee, spingerlo a raccogliere l'indimenticabile appello del Vicario di Cristo.» I dirigenti democristiani del tempo tendono a ridimen­ sionai^, se non a minimizzare, l'apporto dei Comitati Civici, rilevando, come Gonella, che «la nostra forza veniva dalle parrocchie... e anche senza l'intervento di Gedda questo ap­ poggio non ci sarebbe certamente venuto a mancare». An- dreotti ha riconosciuto ai Comitati Civici un contributo pre­ zioso nel «portare la gente a votare», insegnare ai meno col­ ti dove bisognava mettere la croce, coniare slogans efficaci come «coniglio chi non vota», in riassunto «scuotere gli stra­ ti più assonnati delia popolazione». Le sinistre, e i radical- chic che hanno in odio il 18 aprile, insistono sui risvolti su­ perstiziosi e pittoreschi di quella mobilitazione e ricordano «le Madonne che piangevano e muovevano gli occhi». Ma c'era ben altro. C'era anzitutto il netto miglioramento della situazione economica, dovuto insieme alla politica di risanamento ei- naudiana e al consistente appoggio americano. Ormai la crescita dei salari aveva sopravanzato quella del costo della vita (rispetto al 1939 il rapporto nella primavera del 1948

432 era di 1 a 49 per il costo della vita, di 1 a 51 per i salari). Non mancavano gli elementi negativi, come la crescita dei disoccupati di mezzo milione d'unità, ma la gente avvertiva che l'Italia stava economicamente risorgendo. E avvertiva inoltre che questo slancio avrebbe perso ogni vigore qualo­ ra l'Italia avesse votato per il Fronte. Nel periodo tra la metà del '47 e la metà del '48 - che ri­ chiedeva una saldatura tra gli aiuti dell'UNRRA, finiti, e gli aiuti del piano Marshall, ancora da iniziare - Washington destinò all'Italia un contributo di emergenza di trecento milioni di dollari, essenzialmente in alimentari e medicina­ li. Fu stabilito che l'arrivo in un porto italiano di ogni cen­ tesima nave di aiuti fosse celebrato con una cerimonia cui intervenisse il dinamico ambasciatore Dunn. I comunisti ne trassero spunto per accusare l'ambasciatore di essersi tra­ sformato in propagandista della DC: e sostennero che l'Ita­ lia vendeva agli americani la sua indipendenza in cambio di cibo. Ma gli italiani, che non sono sciocchi, sapevano che l'URSS non avrebbe mai voluto né potuto fare alcunché di simile: e che se, per pura ipotesi, l'avesse fatto, la gratitudine comu­ nista per il generoso gesto del Paese del socialismo avrebbe di gran lunga superato, in servilismo e piaggeria, ogni ma­ nifestazione filoamericana. Dunn, - chi può negarlo? - col­ laborò apertamente con il governo, ossia con la DC. Ogni opera e iniziativa finanziata dagli USA nasceva tra discorsi inneggianti all'amicizia italo-americana e all'opera del go­ verno De Gasperi. Sarebbe stato strano fosse avvenuto il contrario. L'America intera - gli italoamericani in particola­ re, ma anche gli altri - si sentiva coinvolta nella contesa elet­ torale; centinaia di migliaia di americani - sollecitati da una campagna insistente e intelligente - inviarono lettere a cit­ tadini italiani, di loro conoscenza o non, per esortarli a non dare un voto - al Fronte - che avrebbe significato l'esclusio­ ne dell'Italia dal piano Marshall, il blocco all'emigrazione italiana negli Stati Uniti, e anche, per completare la rosa dei

433 castighi, la maledizione di Dio. Dove si può supporre che la minaccia trascendente contasse assai meno di quelle concre­ te e attuali. Il Fronte, conscio del peso che la minaccia di interruzio­ ne degli aiuti americani poteva avere sulle elezioni, tentò di parare il colpo: e andava spiegando - a mezza bocca i comu­ nisti, ammanettati a Mosca che del piano Marshall era ne­ mica, un po' più chiaramente i socialisti - che quand'anche le sinistre avessero vinto, gli invii USA sarebbero stati bene accettati. La contromosssa americana fu risoluta. Con una serie di dichiarazioni sempre più perentorie il governo di Washington - direttamente o attraverso indiscrezioni di stampa lasciate volutamente filtrare - ammonì gli italiani: non potrete, diceva in sostanza, essere nemici dell'America e mungerla nello stesso tempo. Finché venne una conferen­ za stampa in cui Michael McDermott, alto funzionario nel Dipartimento di Stato, dissipò ogni possibile equivoco. «I comunisti in Italia hanno sempre detto di non volere I'ERP (European Recovery Program, etichetta ufficiale del piano Marshall, N.d.A.). Se i comunisti vinceranno - cosa che non possiamo credere, conoscendo lo spirito e lo stato d'animo del popolo italiano - non si porrà più il problema di un'ul­ teriore assistenza economica da parte degli Stati Uniti.» Nel caso non bastasse, il generale Marshall in persona in­ tervenne a Berkeley il 20 marzo 1948: «Dato che l'associa­ zione all'ERP è completamente volontaria, i cittadini di ogni Paese hanno il diritto di cambiare idea e, in effetti, di riti­ rarsi. Se decidono di votare per mandare al potere un go­ verno nel quale la forza politica dominante... ha spesso, pubblicamente ed enfaticamente proclamato la propria osti­ lità per questo programma, questo voto potrebbe essere giudicato solo come una prova del desiderio di tale Paese di dissociarsi dal programma stesso. Al nostro governo non ri­ marrebbe che prendere atto che l'Italia si è tagliata fuori dai benefìci dell'ERP». Queste prese di posizione furono vituperate dalle sini-

434 stre come ricattatorie. In questa ottica tutta la politica inter­ nazionale è ricattatoria, specie nei rapporti bilaterali. Il ri­ catto americano aveva almeno una particolarità positiva: domandava al popolo italiano di decidere, con il voto, cosa dovesse essere dato, e cosa dovesse essere ottenuto. Ai po­ poli dell'URSS e dei satelliti questa facoltà di scelta, per il pia­ no Marshall, era stata negata. La strategia occidentale per influire sulle elezioni non po­ teva ignorare né la ferita giuliana, tuttora sanguinante, né in generale le dure condizioni del trattato di pace. Agli ameri­ cani si associò volonterosamente, su questo terreno, il mini­ stro degli Esteri francese Bidault, che a un certo punto par­ ve perfino disposto a restituire una parte dei territori alpini tolti meschinamente all'Italia, e propose che fossero ridate all'Italia stessa, senza condizioni, le vecchie colonie (ma qui si scontrò con un inflessibile diniego inglese). Il perno delle iniziative restava comunque Trieste, dove il Territorio libero tardava a prendere forma, e non si era ancora arrivati alla designazione di un governatore. Gli Occidentali temevano tra l'altro - in base a rapporti probabilmente infondati dei loro diplomatici - che I'URSS potesse giuocare d'anticipo, e pronunciarsi per un ritorno della zona A all'Italia. Il 20 marzo (1948) Bidault s'incontrò a Torino con Sfor­ za e gli comunicò, anche a nome degli americani e degli in­ glesi, una nota in cui si proponeva che il Territorio libero tornasse sotto la sovranità italiana. Poiché era fuori discus­ sione che gli iugoslavi cedessero la zona B, il passo riguar­ dava in sostanza la zona A. L'URSS, cui la nota era anche di­ retta, esitò a rispondere, e quando lo fece il suo fu un niet appena camuffato da formule giuridiche. Nenni commentò che «i tre regalano ciò che non hanno (la sorte di Trieste di­ pende dalla Iugoslavia) e si tengono quello che hanno (Bri­ ga, Tenda, le Colonie)». HUnità si scagliò contro il «volgare tentativo di trascinare l'Italia in un'atmosfera di guerra». La nota tripartita ebbe per il momento valore platonico sulla sorte di Trieste: probabilmente non solo platonico sul voto.

435 .y

Qualcuno - ad esempio Antonio Gambino nella sua Sto­ ria del dopoguerra - ha dedicato molta attenzione all'ipotesi d'un intervento militare americano se il Fronte avesse pre­ valso. A Washington la fiducia - per la verità crescente a ma­ no a mano che il 18 aprile si avvicinava - si alternava a fasi di pessimismo. I pronostici degli esperti davano al Fronte tra il 37 e il 45 per cento dei suffragi, nessuno osò prevede­ re quanto sarebbe stata bassa la sua marea, coincidente con l'altissima marea democristiana. Il Dipartimento di Stato e il Consiglio nazionale di sicurezza, organismo quest'ultimo che è alle dirette dipendenze del Presidente, esaminarono in diversi documenti le opzioni che potevano presentarsi in vista del 18 aprile. Non mancarono opinioni drastiche e av­ venturose, come quella di George Kennan, allora direttore del Policy Planning Staff, che si domandava se al governo italiano non convenisse mettere fuori legge il Partito comu­ nista, rimandando sine die le elezioni. Secondo Kennan una guerra civile, cui sarebbe seguito l'intervento militare ame­ ricano, con una possibile divisione dell'Italia, «sarebbe pre­ feribile a una vittoria elettorale (del Fronte) senza spargi­ mento di sangue e senza nostra opposizione che darebbe ai comunisti l'intera penisola e disseminerebbe il panico nelle aree circostanti». Ma il Dipartimento di Stato annotò, a lato di questa relazione, che le idee in essa espresse erano «poco sagge». L'autore della postilla volle probabilmente usare un eufemismo. Il Consiglio nazionale di sicurezza - che aveva ben pre­ senti, non dobbiamo dimenticarlo, le esperienze dei paesi dell'Est - stabilì, nella più dura tra le sue indicazioni, che in caso di dominio comunista del governo italiano «con mezzi legali» si potesse ricorrere a una mobilitazione parziale del­ le Forze Armate americane anche ripristinando la coscrizio­ ne obbligatoria «come chiara indicazione della decisione de­ gli Stati Uniti di opporsi all'aggressione comunista e di pro­ teggere la sicurezza nazionale». Era consigliato inoltre che gli USA rafforzassero le «posizioni militari nel Mediterraneo»

436 (ossia, ne deduce arbitrariamente Gambino, avrebbero stac­ cato dall'Italia la Sicilia e la Sardegna) e inoltre fornissero «ai gruppi clandestini anticomunisti assistenza finanziaria e militare». E evidente da questo contesto che il Consiglio na­ zionale di sicurezza fondava le contromisure sul presuppo­ sto che si fosse consolidato in Italia un regime comunista «tipico», ossia oppressivo e intimidatorio: tale cioè da co­ stringere gli oppositori ad agire nella clandestinità. In que­ sto scenario estremo le misure ventilate sono rimarchevoli più per il loro grado di prudenza che per quello di interfe­ renza nelle vicende italiane.

«Il Fronte vince - vota Fronte.» Questo era lo slogan prima­ rio dell'alleanza socialcomunista, corredato da altre parole d'ordine accessorie che insistevano sulla soggezione del go­ verno a forze estranee e reazionarie (gli Stati Uniti, il Vatica­ no) e sulla dubbia italianità dello stesso De Gasperi il cui co­ gnome veniva distorto in Von Gasper. L'affluenza ai comizi di sinistra era immensa, e i leaders più emotivi ne erano ubriacati. Il Fronte contrapponeva il suo radioso futuro pro­ gressista al capitalismo clericale e austriacante del governo, imputava a De Gasperi le concessioni agli imprenditori con l'arricchimento ruggente di molti, il colpo di spugna sull'e­ purazione, il tradimento della Resistenza. Gli intellettuali s'e­ rano schierati largamente con le sinistre; un appello lanciato dall'Alleanza per la cultura aveva raccolto quattromila firme. Molte erano di opportunisti e conformisti i quali sapevano che se la DC avesse vinto, la loro adesione allo schieramento opposto non li avrebbe pregiudicati, mentre se avesse vinto il Fronte l'averlo subito preferito sarebbe stato di enorme vantaggio. Ma si contarono tra i firmatari anche uomini emi­ nenti che in nome del laicismo e della tradizione risorgimen­ tale e anticlericale finivano per identificare la libertà di pen­ siero con le sinistre, e l'oscurantismo con De Gasperi e i suoi alleati. Così figurarono nelle liste Arturo Carlo Temolo, Gia­ como De Benedetti, Guido Calogero, Giacomo Devoto.

437 L'ottimismo dei leaders non era soltanto di maniera. Se­ condo Nenni «le prospettive del Fronte stanno tra la certez­ za della maggioranza relativa e la possibilità della maggio­ ranza assoluta». Da un riassunto pubblicato dall' Unità la mattina stessa del voto risultava che tutti i «federali» comu­ nisti esprimevano la fiducia in avanzate massicce, uno scatto in avanti dall'otto al dieci per cento nel Lazio e in Abruzzo, abbondanti maggioranze assolute in Toscana, in Emilia, in Liguria, in Piemonte, forti affermazioni anche nel Sud. A posteriori Giancarlo Pajetta spiegò che i comunisti, avendo visto che il loro appello «era stato accolto anche da gruppi di socialdemocratici, di cattolici di sinistra, di repub­ blicani, di intellettuali progressisti», erano convinti «di esse­ re riusciti a ricreare un'atmosfera simile a quella del CLN» e le piazze plaudenti «ci confermavano nella certezza di avere con noi la maggioranza del Paese...». Tale era la fiducia in un successo che Togliatti e Nenni si posero il problema della Presidenza del Consiglio. Lelio Basso ne discusse con entrambi e, rievocando quei concilia­ boli, rivelò poi che secondo Nenni il posto toccava senza dubbio ai socialisti, mentre Togliatti, cauto e insinuante, ob­ biettava che in teoria un socialista sembrava più indicato d'un comunista per occupare quella poltrona senza allar­ mare i ceti medi, ma che, essendosi Nenni «qualificato come un estremista», forse la moderazione da lui stesso (Togliatti) dimostrata «lo rende ormai accettabile a larghi strati della borghesia». Da altre fonti fu invece riferito che i socialcomu- nisti pensavano a un Presidente del Consiglio indipenden­ te, o alla designazione d'un democristiano di sinistra come Gronchi (il che implicava evidentemente una sorta di «com­ promesso storico» ante luterani). Vi fu anche una querelle preelettorale sul comportamento che il Capo dello Stato avrebbe dovuto tenere nel caso il Fronte avesse avuto la maggioranza relativa. I socialcomu- nisti sostennero che De Nicola fosse tenuto, come primo at­ to, a offrire l'incarico di formare il governo a un esponente

438 della formazione più forte (il problema sarà riaffacciato ne­ gli anni '80, quando diventerà concreta l'eventualità di un sorpasso comunista in danno della DC). La DC era di tutt'al­ tro avviso, e affermava che in una repubblica parlamentare non conta l'entità numerica del partito più forte, ma l'entità numerica di una possibile concreta maggioranza. De Nicola non rappresentava, contro quella che i demo­ cristiani e i loro alleati consideravano un'insidia politica, giuridica e costituzionale, una buona difesa, anzi. Citiamo dal Da Vittorio Emanuele a Gronchi di Domenico Bartoli: «Nei corridoi romani si diceva che De Nicola, prima che fossero conosciuti i risultati del 18 aprile, avesse scoperto una semplice regola aritmetica per risolvere il più grave problema politico che si ponesse al Capo dello Stato: quella di affidare il potere al leader del gruppo parlamentare più numeroso... Sembra dubbio che De Nicola potesse effetti­ vamente ricorrere a questo espediente infantile per non prendere nessuna responsabilità su di sé. Ma la voce era insistente». Fu una voce che in definitiva giovò a De Gaspe­ ri. Questi potè infatti proclamare che per sventare il peri­ colo «rosso» non bastava fare della DC il partito singolar­ mente più forte. Bisognava dare alla sola DC un solido van­ taggio sul Fronte. Le ultime illusioni il Fronte le ebbe dai comizi di chiusu­ ra della campagna elettorale. Per ascoltare Togliatti in Piaz­ za San Giovanni, la sera di venerdì 16 aprile affluì a Roma una folla oceanica. Questo politico professorale, che citava i classici e ostentava finezze da erudito, cedette allora, forse per deliberato calcolo, forse per tracotanza, forse perché ec­ citato dalla massa, alla volgarità che del resto in lui convive­ va benissimo con la cultura. Poiché De Gasperi gli aveva rin­ facciato d'aver «come il diavolo, il piede forcuto» Togliatti replicò che, tentato per un momento di mostrare che i suoi piedi erano normali, aveva poi cambiato idea: «Mi tengo le scarpe ai piedi, anzi ho fatto mettere ad esse due file di chio­ di e ho deciso di applicarle a De Gasperi dopo il 18 aprile in

439 una parte del corpo che non voglio nominare». I militanti erano in delirio. Ma durò poco.

Abbiamo riassunto gli elementi - politici, sociali, economici, emotivi - che prepararono il 18 aprile. Ma questa serie di addendi, che pur dovevano essere illustrati, non dà la som­ ma alla quale si pervenne. Sbagliava Gedda, nel suo oltran­ zismo clericale, riducendo il trionfo della DC a una rivalsa, se non a una vendetta, dell'Italia cattolica: perché la misura di quel trionfo - lo dissero i successivi referendum riguar­ danti problemi che incidevano direttamente sul terreno del­ la fede - superò di gran lunga l'ambito del mondo clericale e parrocchiale e anche dei credenti praticanti. Sbagliò chi vide nel risultato esclusivamente l'effetto d'un ricatto della fame. La scelta incluse anche questi elementi. Ma fu, consa­ pevolmente o inconsapevolmente, di più ampio respiro: fu - o almeno fu intesa - come scelta tra libertà e non libertà. Gli italiani sono abbastanza smaliziati per capire i trucchi e gli inganni della propaganda politica. Ma sapevano, o senti­ vano, che sotto le affermazioni e le promesse della DC v'era un solido fondo di verità. Il «mito dell'America», la «rendita di posizione degli Stati Uniti» per usare le espressioni di Cambino, non erano il frutto di leggende: derivavano da conoscenze ed esperien­ ze, magari eccessivamente acritiche, ma vere. La potenza, lo sforzo di solidarietà, la democrazia degli Stati Uniti erano fatti, non fanfaluche. Così come erano percepiti intensa­ mente l'onestà di Alcide De Gasperi, il suo liberalismo di fondo, il sostanziale pluralismo della DC dove si dispiegava un arco di opinioni - quasi di ideologie - che andava dalla destra monarchica alla sinistra che sarebbe poi stata definita catto-comunista: e dove non mancavano, già allora, espo­ nenti tutt'altro che teneri verso quella potenza protettrice - gli Stati Uniti - che pure dava loro un totale appoggio. Nell'affresco elettorale democristiano spiccavano le tona­ che dei preti, i bigotti, le pinzòchere, i baschi blu, i baschi

440 verdi, le Madonne pellegrine. Ma dietro quelle figure appa­ riscenti, la vera forza stava sullo sfondo. Era la forza di chi voterà DC - svuotando gli altri partiti moderati o centristi - per salvaguardarsi da una sorte, politica ed economica, tipo repubblica popolare dell'Est. Il ragionamento di Gedda va radicalmente rettificato, se non rovesciato. Non vi fu un'Ita­ lia cattolica che si rivestì di panni democristiani; vi fu un'I­ talia democratica, liberale, anticomunista che rivestì - insie­ me all'Italia propriamente cattolica - panni democristiani. Il Fronte, che attribuì poi la sconfitta ai voti delle beghi­ ne analfabete, ebbe invece il torto di fidare troppo sulla ignoranza e sprovvedutezza dell'elettorato. Non che talune particolari critiche dei socialcomunisti alla gestione di De Gasperi e di Einaudi fossero irragionevoli. Vennero com­ messi, dalla DC e dai suoi governi, in quegli anni e ancora più negli anni successivi, errori gravi: ma non fu commesso né tentato il crimine supremo di togliere la libertà. Il Fronte si sforzava di spiegare che, dandogli il voto, il popolo italiano avrebbe avuto un avvenire più democratico, ma poi portava come modello politico e sociale l'Unione So­ vietica. Questo non era abbellimento propagandistico della realtà. Era menzogna. Mentivano gli oratori del Fronte, mentivano più di ogni altro i notabili del PCI quando, di ri­ torno dai loro frequenti viaggi in URSS O nei Paesi ad essa as­ soggettati, descrivevano le meravigliose conquiste di quei popoli, e le condizioni di vita ideali ad essi assicurate, in contrapposto alla miseria e alle sofferenze degli operai e dei contadini italiani. La faziosità è ammessa, tra avversari: ma la falsità di que­ sti confronti superava i limiti della decenza. Già si sapeva abbastanza di Stalin e dei suoi sistemi, anche se non tutto. La DC utilizzò quelle verità per screditare la campagna delle sinistre. La conseguenza fu che la propaganda socialcomu- nista, smantellata nel suo cuore ideologico, divenne poco credibile anche là dove era sorretta da buone ragioni. Fu una tragedia soprattutto per i socialisti. Almeno i comunisti

441 recitavano il loro copione. Ma il PSI dovette adattarsi a una complicità da molti sofferta: come Vittorio Foa che poi rim­ pianse d'aver dovuto, per dovere di militante, gettare «chi comunque la pensasse diversamente da noi nel campo degli imperialisti e dei rinnegati».

In un discorso elettorale il ministro dell'Interno Sceiba ave­ va avvertito che «nel caso di violenza o di attentati alla li­ bertà del voto, il governo è pronto a intervenire anche du­ rante le votazioni, per sospenderne lo svolgimento». Il che corrispondeva allo slogan dallo stesso Sceiba lanciato: «O vo­ tano tutti, o non vota nessuno». Togliatti aveva polemizzato con lui sostenendo che spettava al nuovo Parlamento di pronunciarsi sulla regolarità delle elezioni, e che il governo non aveva la facoltà di intervenire mentre erano in corso. I sospetti e le accuse di disordini, brogli, pressioni indebite sugli elettori, e anche di un colpo di Stato a risultati ottenu­ ti, correvano in entrambi i campi. Sceiba ha successivamente spiegato, in una conversazione con Cambino, che «era stata messa a punto un'infrastruttura capace di far fronte a un tentativo insurrezionale comuni­ sta». A questo scopo l'intero Paese era stato diviso in una se­ rie di grosse circoscrizioni, comprendenti varie province, e affidate a un funzionario, una sorta di prefetto regionale, ri­ servatamente designato per assumervi la responsabilità del­ l'ordine pubblico in caso di emergenza. Il designato non era necessariamente il prefetto più importante. Poteva anche es­ sere un questore che godesse dell'assoluta fiducia di Sceiba. Inoltre, per impedire che i socialcomunisti paralizzassero il sistema di comunicazioni impadronendosi dei gangli vitali, «avevamo organizzato un sistema di comunicazioni alternati­ ve, servendoci come punti di appoggio d'un certo numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo». Nei ranghi del Fronte (ma quasi esclusivamente tra i co­ munisti), furono adottate misure per l'emergenza. Secchia era fatto apposta per preparare le ore X, e fu attivissimo in

442 quei giorni, con la collaborazione di Nino Seniga, vicere­ sponsabile della Commissione di vigilanza. Furono verificati e rafforzati i collegamenti con ex-partigiani, furono fissate parole d'ordine e sistemi di comunicazione. «I capi delle brigate partigiane che si sono sciolte solo tre anni prima - ha scritto Miriam Mafai - riprendono contatto con i loro uomini. Quello che si prepara può essere un nuovo 25 apri­ le: la consegna è di tenersi pronti ad ogni evenienza. E gli uomini dissotterrano le armi, le preparano e in molte zone addirittura tornano ad ostentarle in segno di prematura vit­ toria o minaccia.» Un fratello di Pietro Secchia, Matteo, andava e veniva dall'ambasciata sovietica portandone consigli, ordini, e si può facilmente supporre, anche fondi. Fu affannosa la ri­ cerca di recapiti clandestini per i maggiorenti del PCI. Citia­ mo ancora la Mafai: «Appartamenti, ville e casali vengono acquistati, altri vengono affittati per conto del partito da prestanome assolutamente insospettabili (generalmente professionisti che non risultavano iscritti al PCI), altri infine vengono messi a disposizione da ignare zie, nonne, cugine di fedeli militanti appartenenti alla buona borghesia roma­ na e milanese. Di tutti questi appartamenti e recapiti, di città e di campagna, Nino Seniga ha una pianta dettagliata, nome del proprietario, indirizzo, telefono. Ed è lui, con gli altri compagni della Vigilanza, a decidere dove dovranno rifugiarsi, nei giorni del pericolo, i dirigenti più autorevoli del partito. Va a finire che Togliatti - che in verità detesta questi spostamenti - è costretto a dormire per alcune notti in una stanzetta dell'Istituto Eastmann, in viale della Regi­ na, una stanza cui poteva avere accesso solo uno dei medici di servizio. Non dormono a casa loro, naturalmente, nem­ meno Secchia, né Longo, né Scoccimarro, né D'Onofrio. Non dormono a casa loro i segretari regionali e provinciali. I membri della Direzione hanno avuto tempestivamente as­ segnato un recapito dove, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbero stati al sicuro, e assieme al recapito avevano rice-

443 vuto documenti falsi e una somma di denaro, una somma assai alta, sufficiente per uscire dal Paese se necessario o, se necessario, per rimanervi in condizioni di illegalità. I docu­ menti più importanti del partito erano già stati messi in sal­ vo per tempo». Si può ammirare la prudenza, l'esperienza, la disposizione alla lotta, comunque gli fosse imposta, del Partito comunista. Ma si deve anche osservare che le cautele del PCI erano il riflesso d'una sua peculiare concezione della vita politica, e della conquista del potere. Secchia attribuiva agli avversari le intenzioni che egli avrebbe indubbiamente covato, se si fosse trovato al loro posto. Nenni non aveva di questi patemi. Attese le notizie a Gussago, presso Milano (dove votò), nella villa d'un amico del quale era abitualmente ospite quando andava nella ca­ pitale lombarda. Era affranto, e annotò: «Per ora non ho che un desiderio: dormire, dormire, dormire!». CAPITOLO DECIMO

LA VALANGA

L'Italia votò compatta. L'aveva già fatto il 2 giugno 1946, quando era andato alle urne l'89,l per cento degli aventi diritto. Questa volta la percentuale fu addirittura del 92 per cento. La sera del 19 aprile l'orientamento dell'elettorato era ormai inequivocabile. De Gasperi che, secondo il suo uomo di fiducia Giulio Andreotti, aveva atteso l'esito «in grande tranquillità, senza tradire emozione e preoccupazio­ ne», commentò asciuttamente: «Credevo che piovesse, non che grandinasse». Al Popolo dettò una dichiarazione molto breve: «Sento un solo orgoglio: quello di aver avuto fiducia nel popolo italiano». Manipolando i dati ancora parziali, V Unità tentò la matti­ na del 20 di capovolgere la verità scrivendo che si delineava «uiia potente affermazione del Fronte in tutto il paese» e che il blocco delle sinistre superava, secondo le prime informa­ zioni, la Democrazia cristiana. Ma Nenni riconosceva, in quelle stesse ore: «Nessun dubbio, siamo battuti». AH*Avanti! trasmise queste istruzioni: «Reputo opportuno un commen­ to realistico con l'aperto riconoscimento della nostra sconfit­ ta che ci lascia sereni nella coscienza di avere tentato di por­ tare avanti una politica giusta. Sottolineare che abbiamo sot­ tovalutato l'influenza di tre fattori: la Chiesa, l'America, la secessione (saragatiana, N.d.A.). Staremo coerentemente al­ l'opposizione lavorando perché le cose cambino al più pre­ sto possibile». Il giorno successivo annoterà, con una sorta di candore: «Come mai ci è sfuggito il senso di paura al quale dobbiamo la sconfitta? Siamo dunque così staccati dal Paese da non saperne più controllare i sentimenti e le opinioni?».

445 I risultati definitivi diedero la misura della vittoria de­ mocristiana e della sconfìtta socialcomunista. Al partito di De Gasperi era andato il 48,5 per cento, contro il 35,2 del voto per la Costituente; al Fronte il 31 per cento contro il 39,7 di due anni prima. I socialdemocratici (7,1 per cento) avevano ottenuto, in condizioni diffìcili, un'affermazione notevole. Tutte perdenti le altre formazioni. Quasi dimezza­ ti i repubblicani (dal 4,4 al 2,5 per cento), sostanzialmente distrutta la coalizione liberal-qualunquista. L'Unione demo­ cratica (ossia il partito liberale con la benedizione dei «gran­ di vecchi» del prefascismo) aveva conquistato il 2 giugno il 6,8 per cento dei suffragi, l'Uomo Qualunque il 5,3: totale 12,1. Questa volta dovettero accontentarsi, insieme, del 3,8 per cento. La DC aveva assunto a pieno titolo la rappresen­ tanza politica dei moderati, decretando il declino liberale e la rapida marcia verso l'estinzione del qualunquismo. La Camera (574 deputati) risultò composta da trecento democristiani,, centoventisei comunisti, cinquantatré sociali­ sti, trentacinque socialdemocratici, tredici liberal-qualun- quisti, tredici monarchici, dieci repubblicani storici, ventitré del gruppo misto (tra essi cinque missini). Non ci fossero stati i senatori di diritto (politici prefascisti e antifascisti) la DC avrebbe conseguito la maggioranza assoluta anche in Se­ nato dove si contarono, su 334 senatori, centoquarantanove democristiani, sessantasei comunisti, trentanove socialisti, ventuno socialdemocratici, undici liberal-qualunquisti, nove repubblicani storici, otto democratici di sinistra, trentuno del gruppo misto. Anche per le preferenze De Gasperi stra­ vinse: a Roma ne ebbe 285 mila contro le 97 mila di Togliat­ ti e le 57 mila di Nenni. Un'analisi del voto secondo le diverse aree geografiche portava a una conclusione certa: il Fronte aveva tenuto, e in alcuni casi perfino guadagnato (Roma, Napoli, Campo­ basso) al sud, ma era invece franato al nord, proprio là do­ ve riteneva d'avere le sue roccheforti. V'era stato un trava­ so di voti non soltanto dai socialisti ai socialdemocratici

446 (questo poteva essere attribuito allo scisma di Palazzo Bar­ berini) ma anche dal Fronte alla DC, direttamente. Se ne ac­ corse anche Giorgio Amendola, matita alla mano. L'Italia del vento del Nord aveva voltato le spalle all'utopia rivolu­ zionaria. Voleva lavoro, e sapeva come, e da chi, le poteva essere assicurato. Ufficialmente il Fronte sfoderò due alibi per giustificare la disfatta: l'interferenza straniera e i brogli. Già il 22 aprile Togliatti disse: «Affermo che quella del 18 aprile non è stata una libera consultazione. Vi è stato, in modo brutale, l'in­ tervento straniero per coartare la volontà degli elettori. La massa intermedia, oscillante e politicamente non attiva, ha subito in grande misura le conseguenze delle violenze, inti­ midazioni e pressioni». In meno scoperto tono propagandi­ stico Rinascita sostenne che le elezioni per il Parlamento si erano trasformate in un referendum anticomunista: e ne dedusse che era motivo d'orgoglio, per il Fronte, che un elettore su tre avesse rifiutato di prestarsi al giuoco. «Alcune illusioni di rapido successo sono cadute - ammise Rinascita - ma rimane nella massa lavoratrice e nelle sue avanguardie la volontà di andare avanti, per non lasciare che il Paese ca­ da nel marasma economico, nella dipendenza dallo stranie­ ro, nell'asservimento alle vecchie caste reazionarie.» Circa un mese dopo le elezioni, su Cronache sociali, Lelio Basso accennò, quasi enpassant, a «una serie di piccoli brogli che possono approssimativamente calcolarsi dell'entità complessiva di un milione di voti attribuiti alla DC». Fossero stati veri, e dimostrabili, quei brogli non erano poi tanto pic­ coli. Rappresentavano la differenza tra la maggioranza as­ soluta e la maggioranza relativa in Parlamento. Ma proprio per il modo in cui ne rivelava l'esistenza, Basso attestava d'essere il primo a non crederci. Secondo alcune testimonianze Togliatti, impassibile di fronte alla delusione dei militanti, era contento d'aver per­ so. A Franco Rodano avrebbe confidato: «Erano i risultati migliori che potevamo ottenere, va bene così»; in un dibatti-

447 to di partito preelettorale avrebbe ostentato preoccupazio­ ne in vista d'un eventuale successo perché «se per combina­ zione avessimo la maggioranza alle elezioni, chi di voi sa­ rebbe all'altezza di reggere alla situazione, se fate politica con il sentimento e non con il calcolo?». Può darsi che To­ gliatti si sia così espresso: con l'abitudine, acquisita in de­ cenni di sopravvivenza staliniana, a prepararsi assicurazioni e controassicurazioni per ogni evenienza e svolta, alternava la boutade paradossale e la diagnosi controcorrente agli squilli di tromba dell'ottimismo. Ma dedurne che gli piac­ que la bastonatura politica del 18 aprile è troppo. Anche se si rendeva conto delle difficoltà di tentare in Italia ciò che era stato realizzato in Cecoslovacchia, o in Polonia, o in Un­ gheria, non poteva non preferire una trattativa da posizioni di forza. E sicuro invece che della strategia togliattiana faceva par­ te il ridimensionamento del Partito socialista, cui toccò di portare il maggior peso della sconfitta. Il diario di Nenni è zeppo, nei giorni successivi al 18 aprile, di patetici lamenti per l'egoismo comunista. «24 aprile... Il colpo di grazia ci è dato dal gioco delle preferenze che manderà alla Camera meno di cinquanta socialisti (furono cinquantatré, N.d.A.) e più di centoventi comunisti. Così nella sconfitta del Fronte c'è la sconfitta del partito. Ho detto a Sandro (Pertini) che vedo in lui l'uomo che può prendere nelle sue mani la dire­ zione per un riesame generale della situazione quale si im­ pone.» «25 aprile. Io sono eletto a Roma, dove vengo secon­ do a distanza dopo Togliatti, a Palermo, dove sembra sia se­ condo dopo il comunista Berti, a Milano, dove riusciamo quattro socialisti su quattordici assai distanziati dai comuni­ sti. Lelio (Basso), per il quale l'apparato della Federazione ha lavorato a fondo, mi distanzia di circa tremila voti. Ciò dimostra che in nessuno dei tre collegi i comunisti hanno votato per me. Ne sono lieto perché è la prova della mia in­ dipendenza. Essi dovrebbero esserne umiliati come della prova del loro settarismo.» «30 aprile. Le elezioni del 18

448 aprile sono state l'ultima occasione per tentare nel '48 ciò che avremmo dovuto tentare nel '45 e cioè la scalata al po­ tere... Sacrificare, come io ho fatto, una posizione personale e di partito all'unità della classe operaia, per un socialista è un titolo di onore. Ma posso io rifiutare di prendere atto che sotto bandiera, direzione, o ispirazione comunista (ap­ parente o reale poco importa) non si vince in Occidente? Possono Togliatti e gli altri dirigenti comunisti non prende­ re atto di questa situazione? Oppure tutto ciò è per essi sen­ za importanza purché ci sia un forte Partito comunista, sal­ damente legato alle esperienze dell'Oriente e in grado di te­ nere finché si produca una situazione favorevole?» Alla ri­ cerca disperata d'una bussola nella tempesta, Nenni finì per trovarla nel malinconico pessimismo longanesiano. «Letto In piedi e seduti del mio conterraneo Leo Longanesi. E un li­ bro amaro, scettico, nichilista. Una stroncatura degli italia­ ni. Vi si sente una segreta nostalgia di Mussolini e nel con­ tempo l'odio per il fascismo. Si coglie questo dato che pur­ troppo è vero: gli italiani si sono riconosciuti in Mussolini finché s'è trattato di feste, di esposizioni, di parate. Appena ha chiesto loro, con la guerra, qualcosa di serio, lo hanno abbandonato e si sono messi a sedere... Se gli italiani fossero quelli descritti da Longanesi non stupisce che a tre anni dal 25 aprile vi sia stato il 18 aprile e che nel naufragio di ogni ideale di grandezza (militare con Mussolini, civile e sociale con noi) trionfino i preti e i moderati, la parte da cui sem­ briamo destinati a non guarirci mai.» Sulle piaghe socialiste anche i democristiani buttarono sale respingendo le dimissioni di deputati comunisti che, in base ad accordi tra Togliatti e Nenni, avrebbero dovuto es­ sere sostituiti da esclusi del PSI. La Camera decise che i co­ munisti restassero al loro posto e i socialisti fuori. Nonostan­ te questi dispetti vi fu tuttavia fin d'allora, da parte di De Gasperi, un assai diverso comportamento verso Nenni e verso Togliatti. Verso Nenni, anche pubblicamente, fu cor­ tese. E in privato gli dimostrò simpatia e amicizia. Con To-

449 gliatti s'erano sempre trattati freddamente, ma dopo il 18 aprile gelidamente. Alla figlia Maria Romana De Gasperi confidò che Togliatti non lo salutava nemmeno più, se s'in­ contravano alla buvette di Montecitorio. In pochi giorni, senza troppi problemi, De Gasperi portò a conclusione il rimpasto del suo governo, più che mai con­ vinto - secondo l'espressione della figlia Maria Romana - di «ricollegare il primo al secondo Risorgimento». In famiglia egli ammise che la vittoria del 18 aprile diventava, per la Democrazia cristiana, un impegno fin troppo pesante. Para­ gonato ad essa, ogni futuro risultato sarebbe sembrato in­ soddisfacente. Nel nuovo Ministero entrò, come vicepresi­ dente, il segretario della DC Attilio Piccioni, e come ministro della Difesa Pacciardi a spese di Facchinetti. Il socialdemo­ cratico Tremelloni fu incaricato di concertare il Cir (Comi­ tato interministeriale per la ricostruzione) con I'ERP (piano Marshall). Le sinistre sollevarono una questione costituzio­ nale di lana caprina, pretendendo che anche i ministri con­ fermati prestassero giuramento, come se il loro fosse un nuovo incarico: questo perché non funzionavano e non esi­ stevano, quand'erano stati designati, tutti i meccanismi co­ stituzionali mancando un Parlamento investito di veri pote­ ri legislativi (la Costituente aveva l'unico compito di elabo­ rare la Costituzione). Era una di quelle dispute bizantine che fanno la felicità dei giuristi e avvocati presenti in folla nel Parlamento, ma che lasciavano indifferente De Gasperi «che anzi considerava male speso il tempo che vi si doveva dedicare». Alla vexata quaestio di tempo se ne dedicò comun­ que parecchio, in un dibattito sulle dichiarazioni del gover­ no che si distinse per i suoi toni accesi e a tratti tumultuosi, con scambi di invettive e anche di pugni. Il primo Parla­ mento repubblicano debuttò male: e i rancori dei socialco- munisti battuti si scontrarono con gli zeli clericali dei demo­ cristiani. Il 9 giugno socialisti e comunisti da una parte e de­ mocristiani dall'altra, per opposte ragioni eccitati da un di­ scorso di Gullo del PCI, nel quale erano state messe sotto ac-

450 cusa le intromissioni della Chiesa, si cazzottarono di santa ragione. Dopodiché si alzò nell'aula un coro democristiano - abbastanza inopportuno - di «Viva il Papa», cui si contrap­ pose un «Viva il 20 settembre» delle sinistre. Del program­ ma e dei problemi futuri, che erano immani, ci si occupò molto meno che della cronaca e della politica elettorale re­ trospettiva. Nonostante questi strascichi virulenti d'una battaglia che aveva diviso in due il Paese, De Gasperi visse allora la sua stagione più felice. Aveva grande prestigio all'estero, im­ menso in Italia. Era l'ora solare di un uomo grigio, l'anti- mussolini, ma non nel senso che Nenni, rifacendosi a Lon­ ganesi, dava all'espressione. Per il momento gli integralisti alla Gedda e quelli alla Dossetti e alla La Pira - i volti di un'altra democrazia cristiana - erano costretti ad inchinarsi al prudente tessitore. In Vaticano si placarono - anche lì per il momento - i sospetti: il debole De Gasperi si era rivelato sorprendentemente forte. L'antico suo superiore della Bi­ blioteca Vaticana, cardinale Tisserant, gli inviò una lettera di congratulazioni senza dubbio lusinghiera, anche se vi tra­ spariva un certo atteggiamento protettivo e didascalico: «Come Vescovo di una diocesi italiana posso dirle che mi aspetto assai da questa vittoria, che dovrebbe segnare non il termine di una battaglia contro l'ateismo materialista marxi­ sta, ma il principio di una lunga e dura lotta». La crociata, più che la politica. Al nuovo Parlamento che aveva eletto i suoi presidenti - Ivanoe Bonomi per i senatori, Giovanni Gronchi per i de­ putati (quest'ultimo votato soltanto dai democristiani e solo da loro applaudito benché avesse pronunciato un discorso grondante aperture sociali) - spettava il compito di elegge­ re il Presidente della Repubblica. Giulio Andreotti, che alla manovra conclusa con la nomi­ na di Einaudi partecipò attivamente, e in prima persona, ne ha dato una versione edulcorata, o almeno semplificata: i suoi ricordi sono sovente avvolti da cellophane diplomatico.

451 «L'onorevole De Nicola - ha scritto Andreotti - aveva più volte manifestato il fermo proposito di non cedere alle pres­ sioni perché mantenesse il massimo ufficio. Si era dovuto anzi far fatica per indurlo a non abbandonare il suo posto prima delle elezioni politiche. Ho potuto successivamente accertare, in una conversazione proprio nel giorno dei fu­ nerali dell'onorevole De Gasperi, che sulla decisione dell'o­ norevole De Nicola pesò notevolmente la convinzione che il Presidente De Gasperi preferisse altro candidato. Non so da che cosa fosse nata questa sensazione, ma è certissimo che ad altra scelta De Gasperi pensò soltanto quando ebbe dalla viva voce di De Nicola il reiterato annuncio della volontà contraria alla rielezione... I rapporti tra De Nicola e De Ga­ speri erano sempre stati i migliori...» Tutto questo è vero, ma può anche essere falso. Nel sen­ so che De Nicola e De Gasperi, cortesi entrambi, sia pure con diverso stile, non erano uomini che si abbandonassero ai litigi; e anche nel senso che l'avere dalla «viva voce di De Nicola il reiterato annuncio» d'un rifiuto alla rielezione era la cosa più facile del mondo. De Nicola rifiutava sempre: e ci voleva un fine psicologo, se non uno psicanalista, per co­ gliere nelle umbratili profondità di quel temperamento la sottile linea che divideva il rifiuto rifiuto dal rifiuto sempli­ ce. Si può seriamente mettere in dubbio che De Gasperi spasimasse per riavere insieme a sé, e sopra di sé, quel per­ sonaggio intelligente e onestissimo, ma umorale, impreve­ dibile, tentennante. De Nicola lo tolse comunque d'impac­ cio, formalmente, dicendo che non ne voleva sapere d'una conferma, e rifugiandosi nel solito buen retiro di Torre del Greco. Era davvero risoluto a lasciare? Domenico Bartoli non la pensa così: «I motivi di salute non erano validi: aveva passato i settanta, ma stava bene e visse infatti ancora più di undici anni. Non si può dire neppure che avesse fermamen­ te deciso di non occuparsi più della cosa pubblica: accettò successivamente due incarichi, la presidenza del Senato e quella della Corte Costituzionale, e non si vede perché allo

452 stesso modo non avrebbe dovuto accogliere con favore l'of­ ferta della presidenza più alta. In realtà il ritiro a Torre del Greco, l'anticipato rifiuto di un'eventuale rielezione dove­ vano servire a mettere in moto l'abituale meccanismo di cla­ morose insistenze, di rinnovati dinieghi, di commoventi ap­ pelli con l'epilogo della riluttante accettazione». De Gasperi aveva in mente un suo candidato, il ministro degli Esteri Carlo Sforza. Sotto una vernice di vanità ego­ centrica, aggravata dall'altezzosità del portamento e da quella barbetta da pochade, Sforza possedeva solide qualità di statista, e di galantuomo. Oltretutto egli aveva conquista­ to - o s'illudeva? - il suscettibile De Nicola, che lo riteneva, tra i papabili, il più idoneo alla successione. Molti assicura­ vano d'aver visto sul tavolo di De Nicola a Palazzo Giustinia­ ni una cartella con l'intestazione «per Carlo» e giuravano che v'erano descritte tutte le fasi del trapasso di potere e dell'insediamento presidenziale, così come le aveva studiate il grande procedurista napoletano. A meno che De Nicola ostentasse la sua predilezione per Sforza perché sapeva ch'era egualmente inviso alle sinistre e alle destre, e perciò vulnerabile. Prima però di rendere pubblica la candidatura di Sforza, De Gasperi volle che una volta di più, da Torre del Greco, De Nicola reiterasse la sua rinuncia, ufficialmente. Gli scris­ se, per incarico di De Gasperi, il ministro della Difesa Pac- ciardi, e gli scrisse anche Sforza sollecitando in qualche mo­ do un appoggio per se stesso. De Nicola ribadì che «date le mie condizioni di salute» era indisponibile per il Quirinale, ma rifiutò anche di recarsi a Roma per sostenere chicches­ sia ad evitare «qualsiasi censura sulla gravissima incostitu­ zionalità, in questo momento, di un mio intervento, in quanto esso stabilirebbe il grave precedente che colui che abbandona il posto designi colui che deve sostituirlo». Se ne rimase in disparte, e non si fece vivo nemmeno per le con­ segne al successore. Accantonata l'ipotesi De Nicola (ma il suo nome riemerse

453 prepotentemente negli scrutini), doveva essere portata a termine l'operazione Sforza. L'esito del 18 aprile aveva ri­ mosso, secondo logica, i maggiori ostacoli che si opponeva­ no alla sua nomina. La Democrazia cristiana, partito insie­ me moderato e antifascista, dominava il Parlamento; non avrebbero dovuto più nuocere a Sforza né il suo risoluto an­ ticomunismo (Togliatti lo aveva definito un «servile marine americano») né il suo risoluto antifascismo. Gli nocque, e inabissò la sua candidatura - o almeno vi aprì una falla rovinosa - la fama di tombeur de femmes. Non solo quella naturalmente. Si intrecciarono nell'infortunio di De Gasperi - il primo d'una lunga serie d'infortuni dei lea- ders democristiani nelle designazioni presidenziali - anche motivazioni politiche. Ma la «questione morale» (o questio­ ne sessuale) ebbe un peso notevole. Nelle prime due vota­ zioni, in cui era richiesta - come nella terza - la maggioran­ za di due terzi il grosso fu diviso, suppergiù in parti uguali, tra De Nicola cui andavano i voti delle sinistre e di altri gruppi, e Sforza, con qualche residuo a Einaudi, Bonomi, Facchinetti, Casati. Al primo scrutinio (10 maggio 1948) si contarono 535 voti per Sforza e 396 per De Nicola, con una sortita di «franchi tiratori» tra i democristiani. Al secondo scrutinio Sforza sembrò avviato alla vittoria con i suoi 405 suffragi, mentre De Nicola regrediva a 336, e i saragatiani sfoderavano il nome di Pieraccini. Secondo Nenni a quel punto «Saragat ha offerto i quarantanove voti del suo grup­ po contro compensi in sede governativa». De Gasperi ri­ fiutò. Ma se i democristiani fossero rimasti compatti, alla quarta votazione - con la maggioranza semplice - Sforza sa­ rebbe passato. Invece in casa democristiana c'era maretta. Una riunione dei gruppi parlamentari rivelò a De Gasperi che Sforza sarebbe probabilmente caduto in altre imboscate guerrigliere. Ai deputati e ai senatori che lo applaudivano mentre entrava nella sala dov'era stato convocato il gruppo parlamentare della DC, De Gasperi aveva detto seccamente: «Meno applausi e più voti». E poi aveva commentato: «Que-

454 sta impopolarità (di Sforza) è in gran parte il frutto della ventennale denigrazione compiuta dalla propaganda fasci­ sta». Sta di fatto che La Pira (citiamo Andreotti) «si era detto preoccupatissimo perché Sforza aveva fama d'essere un cac­ ciatore di gonnelle tuttora in attività, analoga tesi aveva so­ stenuto presso un alto prelato il direttore autorevolissimo di un quotidiano romano (si trattava di Missiroli, N.d.A.) so­ stenitore ardente della candidatura del senatore Casati. Contro Sforza si espressero anche le deputate signora Lom­ bardi e signora Federici». Anche secondo Andreotti però Sforza l'avrebbe spuntata se gli avessero dato l'appoggio i socialdemocratici, dichiaratisi contrari a oltranza. A tarda sera del 10 maggio una ristretta delegazione di democristiani (Piccioni, Cingolani, Andreotti) raggiunse Sforza nella sua villetta di via Linneo. Furono fatti attendere in un salottino: e videro sulla scrivania un manoscritto che cominciava con le parole «Onorevoli senatori, onorevoli de­ putati». Con immenso imbarazzo i tre esposero la situazione a Sforza, che li mise subito a loro agio, da quel gran signore che era. «De Gasperi mi aveva offerto la candidatura e io mi rimetto completamente al suo giudizio. Non mi perdonerei mai se arrecassi a lui fastidio o disturbo. Mi ritiro senz'altro dalla competizione e sono a disposizione per continuare o no la mia opera nel Ministero secondo quello che si riterrà più conveniente agli interessi del Paese. Ci mancherebbe al­ tro che i personalismi pesassero in momenti come questi.» Tramontato Sforza, l'alternativa era Einaudi, il cui nome sarebbe stato presentato ai gruppi parlamentari della DC alle otto del mattino successivo ( 11 maggio) prima del terzo scru­ tinio. De Gasperi delegò seduta stante Andreotti a comuni­ care a Einaudi la proposta democristiana. Il vicepresidente del Consiglio viveva ancora nella residenza che gli era stata assegnata come governatore della Banca d'Italia, in via Tu- scolana. Ricevette l'ambasciatore di De Gasperi alle sei e mezzo, con le prime luci del giorno: si disse lieto d'accettare anche se confessò che la sua zoppia gli causava qualche per-

455 plessità. Temeva gli mancasse «la prestanza necessaria nelle pubbliche cerimonie, e particolarmente nelle riviste milita­ ri». «Sono claudicante e in piedi ho bisogno di appoggiarmi al bastone con la mano destra. La sinistra sarà occupata a te­ nere il cappello. Come farò a salutare bandiere e a stringere la mano a generali e ammiragli?». Rassicurato, riaffermò la sua disponibilità. Einaudi, marito modello, non trovò obbiet- tori tra i deputati e senatori della DC. Con una delle sue ca­ ratteristiche mosse, Togliatti avrebbe voluto, alla terza vota­ zione, far convergere su Einaudi anche i voti delle sinistre, consentendone la nomina al terzo scrutinio. «Il suo proposi­ to - scrisse Nenni - è stato mandato all'aria dalla faziosità dei democristiani che hanno rifiutato una sospensione di seduta per lasciare ai gruppi il tempo di consultarsi. C'è stato allora un tentativo dei comunisti di uscire dall'aula in segno di pro­ testa. Mi sono opposto e i comunisti sono rapidamente rien­ trati... D'altro canto non c'era nessuna ragione di votare Ei­ naudi che un anno fa ha recato alla svolta moderata della DC l'apporto della propria rispettabilità accademica e liberale.» In extremis le sinistre estrassero dalla manica il nome di V. E. Orlando, sperando di dividere la maggioranza. Ma al quarto scrutinio Einaudi uscì senza problemi, cinquecentodiciotto voti contro trecentoventi a V. E. Orlando. L'indomani, a Montecitorio, Einaudi giurò e lesse il mes­ saggio d'insediamento nel quale ricordò di aver votato per la Monarchia nel referendum del 2 giugno 1946, «una opi­ nione radicata nella tradizione e nei sentimenti», ma s'im­ pegnò a dare «al nuovo regime voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione». I parlamentari monarchici, che avevano atteso l'arrivo di Einaudi inchinandoglisi, se ne uscirono «compostamente zitti ed in punta di piedi dalla porta di destra» (Gorresio) mentre egli giurava. La Repubblica italiana aveva la sua Costituzione, il suo primo vero Parlamento, il suo primo vero Presidente: aveva soprattutto un protagonista, Alcide De Gasperi. POSCRITTO

Gl'italiani della generazione cui appartengono gli autori di questo libro sono soliti definire il periodo che va dal refe­ rendum istituzionale alle elezioni del 18 aprile come quello delle grandi speranze. Lo fu. Ma fu anche quello delle grandi paure e delle prime delusioni. Tutto sommato, nel confronto con altri Paesi diventati anche senza loro colpa campi di battaglia, l'Italia se l'era ca­ vata abbastanza a buon mercato. Come perdite di vite uma­ ne, ne avevamo avute meno che nella prima guerra mon­ diale, e le ferite inferteci dai bombardamenti impallidivano di fronte a quelle subite dagli altri Paesi belligeranti. Nel Nord occupato dai tedeschi, la strafe, il castigo, annunziato da Hitler dopo l'8 settembre, era stato attutito dalla Repub­ blica di Salò (questo è un merito che non le si può contesta­ re), e nel Sud gli Alleati erano sbarcati senza intenzioni pu­ nitive. Ma la grande illusione, covata dalla maggioranza del­ la popolazione, che l'Italia potesse trasferirsi e inserirsi nel campo dei vincitori senza pagare dazio, come se i tre anni di guerra combattuta, sia pure di malavoglia, a fianco dei tedeschi, potessero essere cancellati con un colpo di spugna, fece presto a cadere lasciandosi dietro una scia di amarezze e di rancori, che non rimasero senza conseguenze sulla ri­ presa politica. Pochi italiani si rendevano conto che quello fattoci dai vincitori era un trattamento di favore, e che per esempio la perdita delle colonie, dolorosa per i connaziona­ li che vi si erano trasferiti, ci liberava da un problema che altrimenti avrebbe avvelenato tutta la nostra vita politica, come l'Indocina e l'Algeria avvelenarono in seguito quella

457 francese. L'unica vera e grave amputazione fu quella delle terre dàlmate e giuliane, che ci costò la perdita di città e po­ polazioni fra le più civili e le più italiane. Ma era impossibile evitarla, visto il contributo di sangue che gli iugoslavi aveva­ no dato alla resistenza antitedesca. Era già un mezzo mira­ colo che gli Alleati ci aiutassero a salvare Trieste e Gorizia. Ma più che sproporzionati alle nostre colpe, i sacrifici par­ vero addirittura una ingratitudine verso i nostri meriti resi­ stenziali, che la propaganda comunista seguitava a gonfiare sino a far apparire determinante il nostro contributo alla vittoria finale, e poco meno che pleonastico quello delle ar­ mate anglo-americane sbarcate nella penisola. E su questi sentimenti e risentimenti il partito di Togliatti poteva giuo- care - e giuoco - da par suo per trascinarci nell'altro cam­ po, o quanto meno per distaccarci da quello alleato. Gli or­ rori dello stalinismo non si erano ancora rivelati agli occhi di molti italiani, che li consideravano fandonie o almeno esagerazioni della propaganda «capitalista». L'Italia si era buttata alla ricostruzione, ma si aveva l'im­ pressione che lo facesse febbrilmente, girando in folle, e cia­ scuno per sé, guidato soltanto dall'istinto della sopravviven­ za. Questo trionfo del «particulare» era in stridente contra­ sto con le grandi predicazioni ideologiche, tutte volte all'e­ saltazione del collettivo e del comunitario, e aumentava la confusione, ma non alimentava le speranze. Che lo facesse per convinzione o per paura, il cosiddetto uomo della stra­ da si era annodato al collo il fazzoletto rosso e «dimostrava» soltanto sotto quella bandiera. Tra la fine del '47 e gl'inizi del '48 erano in pochi a dubitare che la neo-restaurata de­ mocrazia non avrebbe retto alla grande prova elettorale e sarebbe diventata «popolare» come quelle instaurate nei Paesi dell'Est piantonati dall'Armata Rossa. Fu in questo clima che si svolse la prima vera campagna elettorale del dopoguerra, quella che doveva decidere le sorti del Paese. Bisognava anzitutto far capire agl'italiani l'importanza della posta. Ma non bastava. Bisognava anche

458 persuaderli che per combattere un blocco come quello so- cialcomunista, reso ferreo dalla disciplina del partito di To­ gliatti, occorreva un altro blocco, che si poteva costituire so­ lo intorno a un altro partito di massa. E nel campo demo­ cratico ce n'era uno solo che presentasse questo requisito: la Democrazia cristiana. Per i moderati di parte laica, fu un boccone amaro da in­ ghiottire. Essi non avevano un gran ricordo del «Partito po­ polare» di Don Sturzo, di cui la Democrazia cristiana era l'e­ rede. Dopo la prima guerra mondiale, esso aveva fatto con­ correnza ai socialisti non solo nel tenere in agitazione le piazze, le fabbriche e le campagne, ma anche in quel cumu­ lo di errori che avevano spianato a Mussolini la via del pote­ re. Non aveva mai voluto intendersi con le forze cosiddette «borghesi», ch'era l'unico modo per sbarrargliela. E la sua pattuglia parlamentare (che era più di un reggimento: 150 deputati) si era adoperata soltanto a paralizzare i fatiscenti governi liberaldemocratici che cercavano di riportare un po' d'ordine fra le opposte fazioni rosse e nere. Ma ora non c'era scelta: solo facendo quadrato intorno alla bandiera scudo-crociata, si poteva sperare di far diga al­ la montante marea socialcomunista. E così per la prima vol­ ta si videro scendere in campo in suo aiuto anche i laici più gelosi di questa etichetta. La Chiesa di Pio XII fece altrettanto. E anche questo era la prima volta che succedeva. Essa aveva sempre avversato la costituzione di un partito cattolico, e quando Don Sturzo aveva fondato il suo, gli aveva proibito di chiamarlo cattoli­ co e di assumerne la rappresentanza in Parlamento, riba­ dendone l'incompatibilità con la veste talare. Dopo l'instau­ razione della dittatura fascista, quando De Gasperi, che fa­ ceva le veci di Don Sturzo, dovette disciogliere il partito e cercare un posto di lavoro in Vaticano, Pio XI gli fece dare quello di bibliotecario, ma a condizione che cessasse ogni at­ tività politica, e non volle mai riceverlo. Il suo successore, Pio XII, non abbandonò le sue prevenzioni verso il rifugia-

459 to nemmeno quando questi diventò Capo del governo e della crociata anticomunista. Ma schierò la Chiesa in suo aiuto. Oggi si fanno molte ironie sulle armi ch'essa impiegò in quella battaglia: le «volanti» di frati e monache per converti­ re al voto i renitenti, le processioni, le Madonne che piange­ vano, la voce tonante di Padre Lombardi, il «microfono di Dio». Era una propaganda che aveva realmente aspetti av­ vilenti, da Terzo Mondo. Ma coloro che a distanza di qua- rant'anni ne fanno la facile caricatura, forse dimenticano che ad essa devono, almeno in parte, la salvaguardia del di­ ritto di fare caricature. Pochi tuttavia erano disposti a credere che ciò bastasse a sventare il pericolo. Molto meglio organizzata, la campagna socialcomunista poteva contare su messinscene più dram­ matiche, su adunate più «oceaniche», su cori di folla meglio orchestrati, su slogans più efficaci. Il ministro degl'Interni, Sceiba, mi confidò che più si avvicinava la data del 18 apri­ le, più cresceva la massa dei capitali fuggiti all'estero, molto spesso seguita da coloro che li avevano esportati (ed è allora che chi scrive si persuase che il capitalismo meriterebbe de­ gli uomini migliori dei capitalisti). La paura tuttavia giuoco in due sensi. Se da una parte spinse alla diserzione molti di coloro che potevano permet­ tersela - e che in fondo erano pochi -, dall'altra fece da ma­ stice alla resistenza coagulandola intorno al partito e all'uo­ mo che ne erano assurti a protagonisti. De Gasperi non ave­ va nulla che lo qualificasse a questo ruolo. La sua oratoria non era granché e, caso mai, era più da aula che da piazza. Non aveva il genio degli slogans ad effetto, nei quali Nenni era un maestro. Il suo italiano era un po' tradotto dal tede­ sco. Insomma, non esercitava sul podio nessun carisma. Per di più, era del tutto sprovvisto di quelle arti di lusinga e di seduzione che attirano le simpatie degl'intellettuali. Di co­ storo, quasi tutti schierati su posizioni di sinistra, quello che gli dette l'aiuto più sostanzioso fu il gruppo che faceva capo

460 al settimanale umoristico Candido di Mosca e Guareschi. So­ prattutto Guareschi, sebbene laico e anticlericale, si rivelò con la sua satira efficacissimo non solo nell'interpretare, ma anche nell'orientare gli umori popolari. De Gasperi non fe­ ce nulla per sollecitarne l'appoggio, e Guareschi non chiese nulla per darglielo. I due uomini non erano fatti per inten­ dersi, e infatti s'intesero così poco che qualche tempo dopo De Gasperi mandò in galera Guareschi ad epilogo di un processo per diffamazione. La diffamazione c'era. Ma avrebbe dovuto esserci anche un po' di gratitudine per un uomo che del tutto disinteressatamente, e anche a dispetto delle proprie personali allergie, aveva dato al successo della DC un contributo decisivo. Il fatto è che De Gasperi non sa­ crificava nulla ai sentimenti e alle passioni, era incapace di abbandonarvisi: e lo si sentiva anche dalla sua disadorna oratoria che non riscaldò mai le piazze. Ma proprio questa sua antiretorica, dopo i vent'anni di retorica fascista, avvalo­ rava l'impressione di un uomo duro, di scarsa immagina­ zione, in certe cose anche un po' ottuso, ma serio, onesto e coraggioso, che meritava la fiducia e la rendeva contagiosa. NOTA BIBLIOGRAFICA

Come per LItalia della disfatta, la pubblicistica riguardante il pe­ riodo storico trattato nell'Italia della guerra civile e nell'Italia della Repubblica è sterminata. Per non affollare pagine e pagine di titoli, e per non offrire indicazioni incomplete, abbiamo deciso di rinun­ ciare a una sistematica bibliografia. I riferimenti essenziali sono tuttavia indicati nel testo. CRONOLOGIA

1943 - 8 settembre. Il maresciallo Badoglio e il generale Ei­ senhower rendono noto l'armistizio firmato a Cassibile (Si­ racusa) tra il governo italiano e gli Alleati. 1943 - 9 settembre. I sovrani e Badoglio abbandonano Roma e ri­ parano a Brindisi. Sbarco anglo-americano a Salerno. Si co­ stituisce a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). 1943 - 10 settembre. Le truppe tedesche occupano Roma. 1943 - 12 settembre. Mussolini viene liberato a Campo Imperato­ re da un commando di paracadutisti tedeschi e portato in Germania. 1943 - 13-22 settembre. Battaglia ed eccidio di Cefalonia. 1943 - 18 settembre. Da Monaco, Mussolini annuncia la costitu­ zione della Repubblica Sociale Italiana. 1943 - 13 ottobre. Il governo Badoglio dichiara guerra alla Ger­ mania. 1943 - 9 novembre. Costituzione dell'UNRRA, creata dalle Nazioni Unite per l'assistenza alle popolazioni colpite dalla guerra e per la ricostruzione. 1943 - 14 novembre. A Verona il Congresso del Partito fascista re­ pubblicano approva i 14 punti programmatici della Re­ pubblica Sociale. 1943 - 23-27 novembre. Conferenza del Cairo tra Roosevelt, Churchill e Ciang Rai-shek per l'assetto postbellico dell'A­ sia. 1943 - 28 novembre-1 ° dicembre. Conferenza di Teheran tra Sta­ ti Uniti, Gran Bretagna e URSS. Gli Alleati si impegnano a sbarcare in Europa entro il maggio 1944. 1944-8-10 gennaio. Processo di Verona: Ciano, De Bono, Got- tardi, Pareschi e Marinelli sono condannati a morte. 1944 - 22 gennaio. Sbarco ad Anzio della 5a armata americana.

463 1944- 14-15 febbraio. Bombardamento alleato dell'Abbazia di Montecassino. 1944 - 23 marzo. A Roma, attentato di via Rasella. 1944 - 24 marzo. Eccidio delle Fosse Ardeatine. 1944 - 12 maggio. Le truppe alleate iniziano l'offensiva contro la linea Gustav. 1944 - 4 giugno. Gli Alleati entrano in Roma. 1944 - 5 giugno. Vittorio Emanuele III nomina il figlio Umberto II Luogotenente generale del Regno. 1944 - 6 giugno. Le forze alleate sbarcano in Normandia. 1944 - 9 giugno. I. Bonomi è incaricato di formare un nuovo go­ verno. 1944 - 20 luglio. A Rastenburg, attentato contro Hitler, che resta leggermente ferito. 1944- 1° agosto. Inizio dell'insurrezione di Varsavia, promossa dal governo polacco in esilio a Londra. 1944 - 25 agosto. Le forze alleate entrano a Parigi. 1944- 10 settembre. Inizio dell'offensiva alleata contro la linea gotica. 1944- 11-16 settembre. Conferenza di Quebec tra Churchill e Roosevelt, per la definizione della strategia da adottare nell'Europa occidentale. 1944 - 29-30 settembre. Eccidio di Marzabotto. 1944 - 7 novembre. F. D. Roosevelt è rieletto Presidente degli Sta­ ti Uniti. Vicepresidente è H. Truman. 1945 - 4-11 febbraio. Conferenza di Yalta. 1945 - 12 aprile. Morte del Presidente degli Stati Uniti F. D. Roo­ sevelt. Gli succede il vicepresidente H. Truman. Vienna è occupata dalle truppe sovietiche. 1945 - 25 aprile-25 giugno. Conferenza di San Francisco: costitu­ zione dell'ONU. 1945 - 25 aprile. Inizio dell'insurrezione partigiana a Milano. Il CLNAI assume i poteri civili e militari. 1945 - 27 aprile. Mussolini è catturato dai partigiani a Musso (Como). 1945 - 28 aprile. Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. 1945 - 29 aprile. A Caserta le forze tedesche firmano la resa per il teatro d'operazione italiano. 1945 - 30 aprile. Suicidio di Hitler e di Eva Braun nel Bunker della Cancelleria.

464 1945 - 2 maggio. Le truppe sovietiche entrano a Berlino. Gòbbels e altri gerarchi nazisti si tolgono la vita. 1945 - 7-8 maggio. A Reims e a Berlino, firma della resa incondi­ zionata della Germania. 1945 - 5 giugno. La Germania viene divisa in quattro zone di oc­ cupazione. 1945 - 12 giugno. Dimissioni del governo Bonomi. 1945 - 19 giugno. Costituzione del governo Parri. 1945 - 14 luglio. LItalia dichiara guerra al Giappone. 1945 - 16 luglio. Esplosione della prima bomba atomica speri­ mentale a Los Alamos (Nuovo Messico). 1945 - 17 luglio-2 agosto. Conferenza di Potsdam. 1945 - 6 agosto. Bomba atomica su Hiroshima. 1945 - 8 agosto. L'URSS dichiara guerra al Giappone. 1945 - 9 agosto. Bomba atomica su Nagasaki. 1945 - 2 settembre. Nella rada di Tokyo, a bordo della corazzata Missouri, firma della capitolazione del Giappone. Ha così termine la seconda guerra mondiale. 1945 - 18 settembre. De Gasperi espone a Londra la posizione del governo italiano sul problema di Trieste. 1945 - 13 novembre. Il generale De Gaulle viene eletto Presiden­ te del governo provvisorio francese. 1945 - 20 novembre. A Norimberga inizia il processo contro i principali gerarchi nazisti. 1945 - 24 novembre. Dimissioni del governo Parri. 1945 - 10 dicembre. Costituzione del governo De Gasperi. 1946 - 2-8 maggio. De Gasperi a Parigi per partecipare alla Con­ ferenza della pace. 1946 - 9 maggio. Abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore di Umberto II. 1946 - 2 giugno. Referendum istituzionale: vittoria della Repub­ blica. Elezioni per l'Assemblea Costituente. 1946 - 13 giugno. Umberto II lascia l'Italia. 1946 - 28 giugno. Enrico De Nicola eletto Presidente provvisorio della Repubblica. 1946 - 16 luglio. Costituzione del secondo Ministero De Gasperi (DC, PSIUP, PCI, PRI). 1946 - 21 luglio. Inizio a Parigi della Conferenza per la pace. 1946 - 10 agosto. Discorso di De Gasperi alla Conferenza per la pace.

465 1946 - 5 settembre. Accordo De Gasperi-Gruber per l'Alto Adige. 15 settembre. In Bulgaria proclamazione della Repubblica popolare. 1946 - 16 dicembre. In Francia costituzione di un governo socia­ lista presieduto da Leon Blum. 1947 - 5-15 gennaio. Viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti. 1947 - 11 gennaio. Scissione di Palazzo Barberini: il PSIUP si divi­ de in PSI e PSLI. 1947 - 20 gennaio. Dimissioni del Ministero De Gasperi. 1947 - 3 febbraio. Costituzione del terzo Ministero De Gasperi. 1947 - 10 febbraio. A Parigi firma del trattato di pace tra gli Allea­ ti e l'Italia. 1947 - 12 marzo. Truman espone al Congresso il suo programma di «contenimento» dell'URSS (dottrina Truman). 1947 - 13 maggio. Dimissioni del Ministero De Gasperi. 1947 - 30 maggio. Costituzione del quarto Ministero De Gasperi (monocolore DC). 1947 r- 5 giugno. «Piano Marshall» per la ricostruzione economica dell'Europa. 1947- 15 agosto. Proclamazione dell'indipendenza dell'India: P. Nehru Primo ministro. Nascita della Repubblica del Pakistan. 1947 - 5 ottobre. Costituzione del Cominform. 1947 - 22 dicembre. Approvazione della Costituzione della Re­ pubblica italiana. 1947 - 28 dicembre. Morte di Vittorio Emanuele III ad Alessan­ dria d'Egitto. 1947 - 30 dicembre. In Romania proclamazione della Repubblica popolare. 1948 - 23 gennaio. PCI e PSI costituiscono il Fronte democratico popolare. 1948 - 30 gennaio. A Nuova Delhi assassinato il mahatma Gandhi. 1948 - 17 febbraio. In Cecoslovacchia costituzione del Ministero Gottwald. 1948 - 10 marzo. A Praga, morte del ministro degli Esteri J. Ma- saryk. 1948 - 18 aprile. Elezioni politiche in Italia: grande vittoria della Democrazia cristiana. 1948 - 11 maggio. Luigi Einaudi eletto Presidente della Repubblica. INDICE DEI NOMI

Abetz, Otto, 42 Amaduzzi, 428 Abruzzo, 55, 138,438 Ambrosio, Vittorio, 11, 14-15, Acerbo, Giacomo, 196 22, 68, 70 Acerra, 53 Amelia, 24 Achtung Banditeti!, 143 Amendola, Giorgio, 139-40, 142, Acquarone, Pietro, 11-12, 17, 19, 316, 356, 369,412,447 22, 65-66, 68, 70, 80, 112, America, v. Stati Uniti 150, 276-77 America Latina, 353 Acqui, divisione, 29 Amicucci, Ermanno, 48, 92 Adriatico, 9, 145, 363 Am-lire, 15 Afragola, 332 Ampezzo, 181 Africa, 96 Anagni, 160 Africa Orientale, 80 Ancona, 148 Africa Settentrionale, 22, 26 Anders, Wladislaw, 116, 149 Agazio, Franco de, 413 Andreotti, Giulio, 249, 305, 338, Agnelli, Giovanni, 170 376, 382, 384, 432, 445, 451- Agnesina, Vincenzo, 405, 407 52,455 Alba, 183 Anfuso, Filippo, 40, 43, 124, 126, Albania, 16, 26-27, 71, 157, 198, 171-72, 190, 198, 201, 209 344,361 Angiolillo, Renato, 299 Alberganti, Giuseppe, 405, 408 Angrisani, Luigi, 277 Albertelli, Pilo, 142 Antichi, Osvaldo, 36 Albona, 349 Antonicelli, Franco, 274 Aldisio, Salvatore, 113 Anversa, 173 Alexander, Harold Rupert, 72- Anvil, Operazione, 116, 147, 149 73, 114, 117-18, 120, 146-49, Anzio, 76, 114, 116, 120, 138 177, 186-87, 206-07, 242 Aosta, 115 Alfieri, Dino, 95 Appennini, 128, 147, 179, 184, Algeri, 15, 22, 64, 109, 176, 288 207, 214 Algeria, 176, 457 Apollonio, Renzo, 30 Alpi, 145, 227, 345 Aquila, L',115 Alto Adige, 45, 84, 124, 213, 229, Aquisgrana, 195 289,345,350 Arangio-Ruiz, Vincenzo, 81, 150, «Alvaro», 413 166

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