Teresa Spignoli

Tra Freud e Leopardi: modelli intertestuali nell'opera di Italo Svevo e

Tra l’edizione Cappelli della Coscienza di Zeno (1923)1 e la pubblicazione di Memoriale per i tipi di Garzanti nel 19622, intercorrono circa quarant’anni di storia italiana, politica, sociale, economica e letteraria. Un lasso di tempo considerevole durante il quale il terzo romanzo dello scrittore triestino assurge al rango di classico, facendo sentire la propria influenza sulla futura produzione letteraria. Se infatti secondo la celebre definizione di Calvino, «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»3, allora, per seguire le tracce seminali e germinative del romanzo, sarà utile rivolgere l’attenzione non solo al discorso della critica, nella attivazione di nuovi percorsi di lettura, quanto all’eredità della lezione sveviana e alla sua persistenza nella produzione letteraria novecentesca. Sebbene la bibliografia critica sveviana abbia ormai raggiunto un numero assai elevato di titoli, che coprono tutti i maggiori problemi esegetici – dalla corretta restituzione filologica dei testi all’inquadramento storico-critico dell’opera – rimane ancora da scrivere il capitolo di ciò che potremmo chiamare – con un termine a la pàge – “funzione Svevo”, ovvero l’incidenza dell’opera dello scrittore triestino nel panorama letterario novecentesco e segnatamente secondo-novecentesco4. Prima vera apparizione di un narratore inattendibile che strizza l’occhio, talora in maniera beffarda, alla nuova dottrina freudiana, il romanzo sveviano appare essere capostipite di una fortunata serie di narratori imbroglioni, che mettono in crisi non solo lo statuto del romanzo e della rappresentazione, ma anche la consueta visione del mondo, e le categorie antitetiche su cui essa si basa, prima fra tutte la capitale opposizione tra normalità e a-normalità, sia da un punto di vista esistenziale che sociale. All’interno del panorama letterario e segnatamente narrativo della seconda metà del secolo, si collocano diverse opere che in modo più o meno esplicito, mostrano non poche tangenze con il romanzo sveviano, mettendo in scena narratori inattendibili come ad esempio il protagonista del Male

1 I. Svevo, La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli, 1923. Per la storia editoriale del testo, si rimanda all’introduzione e alle accurate note che accompagnano la riproposizione del romanzo nell’Edizione Nazionale delle Opere di Italo Svevo: La coscienza di Zeno, a cura di B. Stasi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008. 2 P. Volponi, Memoriale, Milano, Garzanti, 1962. Le citazioni saranno tratte dalla seguente edizione: P. Volponi, Memoriale, Torino, Einaudi, 1991. 3 I. Calvino, Perché leggere i classici [1981], in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991. 4 Una prima ricognizione sulla fortuna del modello narrativo sveviano negli autori della seconda metà del Novecento, è stata fornita da C. Verbaro nel volume Italo Svevo, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997. oscuro di Giuseppe Berto5, lo psicotecnico di Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri6, o il nevrotico protagonista del Serpente malerbiano7. A questa categoria di personaggi appartiene anche Albino Saluggia, protagonista del primo romanzo volponiano, Memoriale. Da Zeno dunque ad Albino, lontani parenti sin dal nome, che riproduce quella opposizione alfabetica, adottata da Svevo nelle pagine della Coscienza (con le tre A delle sorelle Malfenti: Ada Alberta e Augusta). Del resto è lo stesso Volponi, in un’intervista con Emanuele Zinato, a mettere in evidenza l’importanza del romanzo sveviano nella sua prima produzione narrativa:

Ai tempi di Memoriale, e anche prima, avevo letto e molto amato i grandi romanzi russi dell’Ottocento; avevo avuto una grande passione soprattutto per Dostoevskij. Svevo è un autore che ho amato molto in quegli anni.8 E se Zinato si è già soffermato sulle affinità biografiche tra i due autori – entrambi hanno alternato l’attività letteraria alle incombenze lavorative, ricoprendo ruoli di prestigio in importanti aziende (la ditta Veneziani per Svevo, la Olivetti e poi la Fiat per Volponi) – tuttavia ben più probanti risultano essere le consonanze di tipo letterario, a partire da un’analoga disposizione verso la scrittura, e in particolare nei confronti di quell’“autobiografia altrui” che connota entrambi i romanzi. Confida Svevo a Montale:

Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie […]. Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non lo credevo insormontabile.9 Così come Volponi dichiara in un’intervista:

Scrivendo uno recita molto. Io almeno, entro nel mio modo di scrivere, così dentro al personaggio, che in fondo recito quel personaggio scrivendo.10 La prima e più evidente caratteristica che accomuna i due romanzi è la forma narrativa adottata: quel memoriale che Zeno scrive dietro consiglio dello psicanalista presso cui era in terapia, e da questi pubblicato “per vendetta”, e il memoriale scritto da Albino per denunciare le ingiustizie subite all’interno della fabbrica: «Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli»11.

5 G. Berto, Il male oscuro, Milano, Mondadori, 1964. 6 O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, Milano, Bompiani, 1959. 7 L. Malerba, Il serpente, Milano, Bompiani, 1966. 8 Alcuni stralci dell’intervista sono contenuti nelle note ai testi del volume: P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1096-1097. 9 Lettera di Italo Svevo a Eugenio Montale, del 17 febbraio 1926. 10 Intervista a P. Volponi, a cura di A. Benassi, Un autore, una città. Interviste con , , , , Giovanni Testori, Paolo Volponi, Torino, Eri, 1982, p. 158. 11 Così Albino Saluggia dichiara in apertura del suo memoriale, che inizia significativamente proprio con le parole «I miei mali». La funzione di denuncia che viene ad assumere il testo e più in generale la scrittura, è Salutato dalla critica come una delle prime e più significative prove della nascente letteratura industriale – sui cui si appunta il dibattito critico di allora, basti pensare al celebre numero del «Menabò» del 1961 dedicato proprio a Letteratura e industria12 – il romanzo mette in scena la vicenda di Albino Saluggia, nato da genitori italiani in un paesino sulle rive del lago di Candia, ma vissuto in Francia ad Avignone, e tornato al paese natale dopo la conclusione della guerra. Assunto come operaio in una modernissima fabbrica, Albino mostra sin da subito l’insorgere di una malattia che viene diagnosticata dai medici che lavorano nell’azienda come tubercolosi. Più volte sottoposto a cicli di cure e costretto al ricovero in sanatorio, Albino non condivide la diagnosi dei due dottori, denunciando una congiura ordita ai suoi danni, che gli impedisce di lavorare in fabbrica e ottenere le promozioni che gli spettano. Difatti nel corso della narrazione egli viene progressivamente allontanato dai reparti produttivi della fabbrica, fino ad essere relegato all’esterno dell’edificio con il ruolo di piantone, a cui segue il definitivo licenziamento per la partecipazione allo sciopero organizzato dai lavoratori iscritti al sindacato Fiom. La narrazione si dispiega in nove capitoli e copre un arco cronologico di dieci anni, dall’ingresso in fabbrica fino al presente della scrittura, ripercorso dalla voce rammemorante di Albino. Siamo dunque in presenza di una narrazione auto-diegetica, con focalizzazione interna al personaggio, condotta con la tecnica dell’indiretto libero. La prospettiva è quindi interamente affidata al protagonista, che tiene le fila della vicenda di cui conosce già lo svolgimento e la conclusione, come risulta evidente dall’insistito ricorso all’analessi, per lo più mediata da formule come “Ora so”, che ricordano da vicino la tecnica usata da Svevo nella Coscienza13. All’interno del testo, inoltre, non è presente alcuna istanza o voce che possa correggere tale prospettiva, tanto che la vicenda può essere letta in due modi antitetici: Albino è ostacolato dai medici della fabbrica che impediscono il suo pieno reinserimento all’interno del mondo lavorativo e più in generale della società; oppure, la fabbrica – attraverso i medici – si prende cura di Albino, preoccupandosi del suo stato di salute e cercando di mantenere la sua posizione lavorativa, nonostante le resistenze da lui opposte ad ogni cura e lo sviluppo di un delirio persecutorio che si caratterizza come una forma di

inoltre ribadita poco oltre «Desidero smascherare gli inganni, denunciare i colpevoli per amore di giustizia sacrificandomi come un ribelle» (ivi, p. 16). 12 «Il Menabò», a. III, n. 4, 1961. 13 Cfr. Piero dal Bon, «Memoriale»: tra lingua e stile, «Studi novecenteschi» a. XXV, n. 55, giugno 1998, p. 95; cfr. inoltre E. Zinato, note a Memoriale in P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, cit., p. 1096: «la struttura cronologica di Memoriale, la sua formula ricorrente “Ora so”, la consapevolezza acquisita da chi narra in un momento successivo all’azione, insomma la situazione autoanalitica del testo, come del resto l’attaccamento alla madre e il tema della malattia, sembrano fantasmi di matrice sveviana». paranoia. Siamo quindi a tutti gli effetti in presenza di un narratore unreliable, tanto che risulta impossibile per il lettore giungere ad una verità con gli elementi che gli sono forniti dal testo, se non ricorrendo a quell’orizzonte di senso comune che “circonda” il discorso e che da esso viene ad essere costantemente interrogato e problematizzato. Come evidenza Angelo Guglielmi, Memoriale «si sviluppa secondo una doppia linea: per un verso, è la descrizione di un caso clinico, per un altro verso rappresenta la condizione dell’operaio nella fabbrica neocapitalistica. Alla reificazione industriale si sovrappone la paranoia, e quella è vista ed esperita attraverso quest’ultima»14. Il romanzo volponiano sembra infatti adottare la struttura dei casi clinici freudiani, con particolare riferimento – come già dimostrato in modo convincente da Maria Carla Papini nella sua dettagliata analisi15 - alle Memorie del Prof. Schreber, nella individuazione dei tratti caratterizzanti il delirio paranoico e il suo sviluppo, così come nella funzione di denuncia che in entrambi i casi assume il testo. Pubblicate nel 190316, e prontamente ritirate dal commercio dai familiari, le Memorie del Presidente della Corte d’Appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, furono lette e partitamente analizzate da Freud nel 191017, in uno studio sul delirio paranoico interamente basato sul dettagliato racconto della malattia e della cura contenuto nel testo, trattato alla stregua di un vero e proprio caso clinico18. Da Schreber dunque a Albino, e con movimento speculare potremmo dire da Schreber a Zeno. Come ha opportunamente rilevato Stefano Carrai19 infatti, La coscienza di Zeno mostra più di un tratto in comune con il celebre caso clinico, dalla forma del memoriale al dettagliato racconto della malattia e della cura, a cui si aggiunge la fantasia di catastrofe apocalittica che connota il delirio di Schreber e occupa la celebre conclusione del romanzo sveviano. Non si dimentichi che all’epoca della composizione del testo, i casi clinici erano molto discussi nei salotti viennesi e triestini, nonché all’ordine del giorno dei

14 G. Guglielmi, recensione a Memoriale, «Mondo operaio», luglio 1962. 15 M. C. Papini, Da Schreber a Edipo: l’iter di un personaggio [1983], ora in Ead., Paolo Volponi. Il potere, la storia, il linguaggio, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 13-33. 16 D. Paul Schreber, Denkwürdigkeiten eines Nervenkranken, Lipsia, Oswal Mutze, 1903; le Denkwürdigkeiten sono state pubblicate in italiano con il titolo Memorie di un malato di nervi, trad. di F. Scardanelli e S. de Waal, a cura di R. Calasso, Milano, Adelphi, 1974. 17 Freud lesse le Memorie di Schreber nel 1910, dietro segnalazione di Jung, e l’anno seguente pubblicò lo studio Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia, trad. it: Osservazioni psicanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber), ora consultabile, tra le molte edizioni, in S. Freud, Casi clinici, presentazione di M. Ranchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 479-548, da cui si cita. 18 Si veda quanto affermato da Freud nella Premessa allo studio delle Memorie (ivi, pp. 481-482), nella quale giustifica la possibilità di basare la propria analisi su una testimonianza scritta e non sull’osservazione diretta, come consuetudine: «Ritengo […] che non sia del tutto arbitrario basare un’interpretazione psicoanalitica sulla storia della malattia di un paranoico […] che non ho mai conosciuto, ma che ha descritto egli stesso il proprio caso clinico e l’ha reso pubblico attraverso la stampa». 19 S. Carrai, Il caso clinico di Zeno, «Allegoria», n. 59, 2009, pp. 92-103. famosi “mercoledì” organizzati da Freud, i cui resoconti erano riportati da Stekel nell’edizione domenicale del «Neues Wiener Tagblatt»20. Se infatti Svevo ha dichiarato a più riprese – come già sottolineato e ampiamente dimostrato dalla critica – il valore per così dire narrativo della tecnica psicanalitica di contro alla sua inefficacia terapeutica21, è allora opportuno osservare più attentamente la struttura della Coscienza in relazione a ciò che più nell’opera freudiana mostra esplicite tangenze con il discorso narrativo, ovvero i casi clinici. Nati dalle terapie intraprese con i pazienti, rielaborati a memoria in assenza di appunti, e spesso pubblicati a molti anni di distanza dopo successive revisioni, i casi clinici presentano uno stretto rapporto con la narrazione, di cui condividono, come rileva Cesare Musatti, anche un certo tasso, costitutivo, di ambiguità:

Quando uno psicoterapeuta si accinge a esporre e a illustrare la malattia e la guarigione di un proprio paziente, è sempre possibile il sospetto che la storia venga da lui involontariamente, se non proprio falsificata, perlomeno prospettata in modo non del tutto obiettivo.22 Freud organizza il testo alla tregua di un narratore onnisciente, che si riserva in una prefazione di spiegare il metodo seguito e orientare la comprensione del lettore, ordinando poi la materia in una rigorosa struttura narrativa in cui dà conto dell’ambiente familiare, della storia del paziente, dello svolgimento della malattia e del contenuto delle sedute psicanalitiche, talvolta ricorrendo a veri e propri dialoghi o all’inserimento di appunti diaristici. A ciò segue un commento conclusivo in cui il “narratore” riassume la vicenda, espone compiutamente la diagnosi e in alcuni casi accenna ai fatti intervenuti in seguito alla cura. In modo non dissimile la Coscienza è costituita da una Prefazione e un Preambolo, a cui segue il resoconto della malattia di Zeno, concluso da un commento in cui il protagonista discute l’esito della cura e indica i fatti intervenuti in seguito. Tra tutti i casi clinici proposti

20 Per quanto riguarda l’importanza dell’influenza di Stekel nell’elaborazione della Coscienza di Zeno, in particolare relativamente al capitolo dedicato a Il fumo, si veda l’interessante contributo di A. M. Accerboni Pavanello, La sfida di Italo Svevo alla psicoanalisi: guarire della cura, in Guarire dalla cura. Italo svevo e i medici, a cura di Riccardo Cepach, Trieste, Museo sveviano, 2008, pp. 85-131. Uno studio specifico sui “mercoledì” che si tenevano a casa di Freud e sulla loro ricezione in ambito triestino, è stato condotto da E. Schächter, Svevo, Trieste and the Vienna Circle: Zeno’s Analyst Analysed, «European Studies Review», vol. 12, 1982, pp. 45-65. Per maggiori informazioni sul rapporto tra Stekel e Freud si rimanda all’edizione in lingua inglese della corrispondenza intercorsa tra i due: The Stekel-Freud Correspondence, edited and translated by J. Bos and P. Roazen, in J. Bos, L. Groenendijk, The Self-Marginalization of Wilhelm Stekel: Freudian Circles Inside and Out, New York, Springer, 2007. 21 Si tralascia in questa sede di ripercorrere le molte dichiarazioni di Svevo sulla psicanalisi, contenute sia nei saggi che nelle lettere come negli scritti autobiografici, facendo riferimento al volume di E. Ghidetti, Italo Svevo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 233- 246, in cui sono partitamente ricostruite le tappe di avvicinamento di Svevo ai testi freudiani nonché la sua conoscenza di Stekel e Weiss. 22 C. Musatti, Introduzione a Gradiva. Un racconto di Wilhelm Jensen e uno studio analitico di Sigmund Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1961, ora riproposto in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 375. da Freud, è inoltre evidente una particolare consonanza, già accennata da Carrai23, con il Frammento di un’analisi d’isteria (caso clinico di Dora)24. Nella descrizione del trattamento clinico Freud illustra brevemente le caratteristiche del procedimento terapeutico, che ha inizio proprio con il racconto della paziente: «Questa prima narrazione è paragonabile a un fiume non navigabile il cui corso è ora ostruito da rocce, ora deviato e impoverito da banchi di sabbia»25 ed è caratterizzata da frequenti «lacune ed enigmi»26 che lasciano interi periodi «completamente oscuri»27:

Le interconnessioni, anche solo apparenti, sono quasi sempre spezzate, la successione dei diversi avvenimenti è incerta; durante la stessa narrazione l’ammalata corregge ripetutamente un’affermazione, una data, per poi, dopo lunghe esitazioni, ritornare forse alla prima dichiarazione.28 Descrizione questa, che sembra calzare a pennello con il racconto di Zeno, incerto per quanto riguarda la successione cronologica degli avvenimenti, e caratterizzato da amnesie più o meno volontarie che riguardano fatti o interi periodi (si pensi al deposito di legname di Guido, opportunamente taciuto da Zeno)29. Non solo: sia Dora che Zeno reagiscono con indignazione alle “rivelazioni” del medico30, mettendone in dubbio l’autorità e la capacità

23 S. Carrai, Il caso clinico di Zeno, cit., p. 100. 24 S. Freud, Bruchstück einer Hysterie-Analyse, pubblicato per la prima volta nel 1905, la traduzione italiana - Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora) - è consultabile in S. Freud, Casi clinici, cit., pp. 147-246. La fascinazione romanzesca dello studio – e più in generale dei “casi clinici” - viene rilevata in modo indiretto dallo stesso Freud che, ben consapevole del notevole interesse del pubblico e della sua pruriginosa curiosità, afferma di aver ritardato la pubblicazione del testo per tutelare l’identità della donna: «So che, almeno in questa città, vi sono molti medici che – cosa abbastanza disgustosa – vorranno leggere un caso clinico di questo genere non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave destinato al loro divertimento» (ivi, p. 152; il corsivo è mio). Nel corso dell’esposizione, inoltre, Freud fa più volte riferimento alla scrittura creativa: «Devo ora parlare di un’altra complicazione, a cui certo non dedicherei spazio alcuno se fossi un artista che deve inventare un simile stato d’animo in un racconto, invece di un medico che ne deve fare la dissezione. L’elemento cui ora alluderemo non può che offuscare e dissolvere la bellezza, la poesia del conflitto che abbiamo dovuto ascrivere a Dora; esso verrebbe a buon diritto sacrificato dalla censura dell’artista che, del resto, quando appare nelle vesti di psicologo, semplifica e astrae» (ivi, p. 193). 25 Ivi, p. 156. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 157. 29 Di particolare rilievo è inoltre la tangenza tra i ricordi presentati da Zeno nel capitolo Psico-analisi, in cui il soggetto si vede come attore della scena: «Io mi vidi uscire dalla mia villa» (CZ, p. 1051); «Io mi vedeva chiuso in quella stanza» (CZ, p. 1052), e la teorizzazione del ricordo di copertura da parte di Freud (Über Deckerinnerungen, trd. it.: Ricordi di copertura [1899], ora in Id., Opere scelte, a cura di A. A. Semi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 160): «Se nel ricordo la propria persona compare come un oggetto tra gli oggetti, questa contrapposizione dell’Io attore e dell’Io evocatore può essere considerata una prova del fatto che l’impressione originaria ha subìto una rielaborazione». Non meno interessante è la definizione sveviana del ricordo come «correzione della realtà» («Il ricordo corregge. Tutto esso fa dolcemente fondere», Pagine di diario. Frammento (I), R, p. 773) che risulta assai prossima alla definizione freudiana del ricordo di copertura come «ricordo sostitutivo», resultante da un processo di vera e propria «falsificazione della memoria (S. Freud, Il ricordo di copertura, in Id., Opere scelte, cit., pp. 145; 156). 30 Dopo il racconto del “secondo sogno” Freud espone la sua diagnosi, che ruota attorno al significato dell’episodio dello schiaffo dato da Dora al Signor K, ed esprime la sua «soddisfazione per i risultati ottenuti» terapeutica: «E dove sarebbero questi gran risultati?»31, chiede infatti Dora al termine dell’analisi, così come Zeno si fa beffe della diagnosi del Dottor S.32 “ridendone di cuore”: «Era una malattia che mi elevava alla più grande nobiltà»33. Entrambi inoltre piantano in asso lo psicanalista con intenti più o meno vendicativi, lasciando il medico con un palmo di naso: «Era stato indubbiamente un atto di vendetta, quell’interrompere così bruscamente la cura demolendo tutte le mie speranze di condurla a buon esito, proprio quando le speranze divenivano più fondate»34, privando così il medico - osserva Freud - «della soddisfazione di guarirla radicalmente»35. Dal canto suo, anche il Dottor S. si duole che il paziente non abbia potuto trarre i benefici della strana ed eretica cura che gli aveva imposto – la scrittura del memoriale - «[i risultati] sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie»36. Del resto, chiosa Freud, «Qual miglior vendetta37 per il malato che dimostrare al medico, con la sua stessa persona, quant’egli sia impotente e incapace?»38, cosa questa, che Dora e Zeno non mancano di fare: la prima presentandosi a distanza di tempo ed esibendo la sua perfetta guarigione, Zeno invece rivendicando la nuova salute che deriva dai successi commerciali. Per comprendere meglio la qualità e le modalità dell’utilizzo dello schema dei casi clinici nella Coscienza, sarà inoltre opportuno rivolgere l’attenzione ad un altro studio di Freud, citato tra l’altro dallo stesso Svevo nella Conferenza su James Joyce, nella quale sottolinea che l’opera del narratore irlandese meriterebbe «altrimenti lo studio di quella

(in Casi clinici, cit., p. 232). Sarà da rilevare per inciso, come “lo schiaffo” costituisca un elemento cardine anche nella Coscienza, nel capitolo La morte di mio padre. 31 Ivi, p. 232. 32 Cfr. CZ, p. 1049: «La mia cura doveva essere finita perché la mia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: Avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre». E’ inoltre da notare come la precipitazione con cui il Dottor S. rivela al paziente la sua diagnosi, sia di fatto contraria a quanto enunciato da Freud in Weitere Ratschläge zur Technik der Psychoanalyse (trad. it.: Nuovi consigli sulla tecnica della psicanalisi), che anzi censura nettamente comportamenti analoghi: «ma ci vuole una bella presunzione e avventatezza per rivelare a un estraneo conosciuto da poco, ignaro di tutte le premesse analitiche, ch’egli è legato incestuosamente a sua madre, che nutre desideri di morte verso la moglie apparentemente amata, che accarezza l’intenzione di ingannare il suo principale e così via!» (Zur Einleitung der Behandlung [1913], trad. it.: Inizio del trattamento [1913], in Id., Opere scelte, cit., p. 425). 33 Ibidem. 34 S. Freud, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), in Id., Casi clinici, cit., pp. 235- 236. 35 Ivi, p. 246. 36 CZ, p. 625. 37 Si noti l’importanza del termine «vendetta» impiegato Da Freud per qualificare il gesto di Dora, che interrompe la cura proprio quando sembrava giunta ad una positiva conclusione, e che viene utilizzato anche dal Dottor S. per motivare la pubblicazione delle memorie di Zeno, reo di aver abbandonato «sul più bello» la terapia: «Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia» (CZ, p. 625). 38 S. Freud, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), in Id., Casi clinici, cit., p. 244. povera Gradiva del Iensen ch’ebbe l’onore dei celebri commenti del Freud stesso»39. Se dunque da un lato lo psicanalista veste i panni del narratore avvalendosi dei suoi strumenti nell’esposizione dei casi clinici, dall’altro lato non è infrequente che l’analisi venga esercitata proprio su testi letterari o memorie autobiografiche, come per l’appunto nel caso delle Memorie del Prof. Schreber e nella celebre analisi della Gradiva di Jensen40. Commentando la novella Freud, infatti, osserva: «Troviamo […] che tutte le sue descrizioni sono così fedelmente aderenti alla realtà, che non vi sarebbe nulla da obiettare se la Gradiva fosse descritta non come una fantasia, ma come uno studio psichiatrico»41, individuando uno nesso assai stretto tra poesia e psichiatria: «Così né il poeta può sfuggire allo psichiatra, né lo psichiatra al poeta, e la trattazione poetica di un caso psichiatrico può, senza perdere la propria bellezza, risultare corretta»42. Non è quindi un caso che Svevo si rivolga – sornionamente - a Weiss per invitarlo ad analizzare il suo romanzo dal punto di vista psicanalitico su una rivista medica, in modo non dissimile da come la “poco meritevole” Gradiva era stata oggetto dell’attenzione freudiana43. Se dunque i casi clinici costituiscono l’intertesto che sta alla base sia della Coscienza di Zeno che di Memoriale, divergono tuttavia le modalità di assunzione e utilizzazione del testo freudiano. Laddove nel romanzo sveviano è evidente un intento parodico che mira a mettere in dubbio l’efficacia del procedimento terapeutico e in ultima analisi la possibilità di guarigione da una malattia che si identifica con la vita stessa, nel testo volponiano il delirio paranoico è invece riprodotto fedelmente in tutte le sue fasi, e assunto quale strumento di indagine conoscitiva che consente la messa in evidenza delle aporie del sistema socio-

39 TS, p. 936. 40 La novella di W. Jensen, Gradiva – ein pompejanisches Phantasiestück, Dresda-Lipsia, Reissner, 1903 (2° ristampa 1913) fu letta e analizzata da Freud nel 1906, dietro segnalazione di Jung. Lo studio freudiano (Der Wahn und die Träume in W. Jensens «Gradiva», 1907) è adesso consultabile in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 457-539, accompagnato da una Introduzione e da un Commento di C. L. Musatti, nonché dalla riposizione del testo della novella. 41 Ivi, p. 490. Nel corso dello studio inoltre Freud ribadisce l’osmosi tra letteratura e analisi psicanalitica, poeta ed analista: «Probabilmente, noi e lui, attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con metodo diverso; e la coincidenza dei risultati sembra costituire una garanzia che abbiamo entrambi lavorato in modo corretto» (ivi, p. 536). 42 Ivi, p. 492. 43 Dell’episodio esitono due diverse versioni: se Weiss nega che l’episodio sia effettivamente avvenuto in quei termini, Svevo al cntrario ne dà un diffuso resoconto nel Soggiorno Londinese (RS, p. 686), in cui riconduce il “silenzio” del medico all’offesa per essersi riconosciuto nel personaggio del Dottor S. (cfr. A. M. Accerboni, La sfida di Italo Svevo alla psicoanalisi: guarire dalla cura, in Guarire dalla cura. Italo Svevo e inmedici, cit., pp. 113-118). Curiosamente – a testimonianza della continua osmosi tra letteratura e vita nella libera ricreazione di essa – un antecedente “letterario” dell’episodio è ravvisabile nella novella Lo specifico del Dottor Menghi, che tra l’altro anticipa più di un tratto della Coscienza. Nella conclusione del testo il Dr. Clementi, ultimata la lettura delle memorie di Menghi, attribuisce l’acrimonia di quest’ultimo al fatto di essersi riconosciuto in un suo studio pubblicato anni addietro, Lo scienziato paranoico: «negai ma egli evidentemente non me lo perdonò più» (RS, p. 91). economico – pur nelle sue più “illuminate” realizzazioni - e del disagio esistenziale ad esso collegato. In entrambi i casi tuttavia l’adozione di uno sguardo “altro” rende labile e incerto il confine tra salute e malattia, normalità e a-normalità, sigillando il testo in una ambiguità che impedisce al lettore di distinguere verità da menzogna se non attraverso la messa in discussione di quella norma che per l’appunto la scrittura costantemente sfida e incrina nei suoi presupposti costitutivi:

la normalità non esiste, è un concetto molto approssimativo, del tutto di comodo; è un concetto astratto riferito ad un sistema sociale e alle norme che reggono tale sistema, ed è ben lontano dal rappresentare niente di ciò che è dentro le coscienze, nei confronti, nei rapporti, nelle speranze, nelle paure.44 La nevrosi diviene dunque il grimaldello per incrinare la consueta rappresentazione della realtà, in favore di una visione anomala e distonica in grado di mettere in dubbio le acquisite certezze interpretative dei rapporti sociali, economici e politici che di quella realtà sono parte:

Prendo gli atipici, i nevrotici, perché li credo più dolenti, e quindi più sensibili registratori della carica d’infelicità che scuote la terra, più capaci di indagine, di reazione, di introspezione che non l’uomo normale, una specie di lente di ingrandimento per mettere a fuoco certi problemi.45 Lo sguardo visionario del nevrotico costituisce quindi il congegno deformante del testo46, il mezzo scelto, o meglio la lente di ingrandimento, per attuare – come osserva Maria Corti - «il processo artistico dello straniamento»47. E se la deformazione della realtà appare essere il principio costitutivo di Memoriale - «Non mi interessa tanto il racconto, la raffigurazione, quanto la deformazione che riesce a dare effetti più larghi di una situazione, di un paesaggio, di una condizione sociale»48, afferma infatti Volponi – non diversamente nella Coscienza di Zeno, se ne possono rinvenire i prodromi, nella complicazione dei punti di vista da cui traguardare il testo, in un continuo gioco di specchi che preclude la possibilità di una

44 P. Volponi, Conferenza per l’Associazione culturale italiana, Milano, 11 febbraio 1966, ora consultabile con il titolo Le difficoltà del romanzo, in P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, cit., p. 1034. 45 Interview with P. Volponi, a cura di P. N. Pedroni, «Italian Quarterly», 1984, n. 96, p. 85. 46 E’ da notare come lo stesso Freud nell’analisi delle Memorie di Schreber, avesse individuato quale meccanismo precipuo del delirio paranoico, proprio la deformazione: «L’indagine psicanalitica della paranoia sarebbe assolutamente impossibile se i malati non possedessero la prerogativa di tradire, sia pure in forma deformata, proprio ciò che gli altri nevrotici tengono celato come un segreto» (p. 481) per questo motivo, prosegue Freud, risulta possibile condurre un’analisi su un testo scritto: «Poiché i paranoici non possono essere indotti o forzatamente a superare le loro resistenze interne e comunque dicono solo quel che hanno voglia di dire, proprio per questa malattia è possibile supplire alla conoscenza personale del malato con una relazione scritta o con un caso clinico stampato» (ibidem). 47 Maria Corti, Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, p. 136. La studiosa nota infatti come nei romanzi di Volponi, Malerba e Villa, la realtà sia osservata «dalla specola di un personaggio nevrotico visionario»: «dalla specola di questa nevrosi visionaria la realtà esce deformata; il personaggio è il portatore vivente della deformazione, il congegno deformante, è dunque il principio costruttivo dei romanzi stessi; in altre parole esso è una prospettiva in cui vedere diversamente il reale, è il mezzo scelto dallo scrittore per attuare il processo artistico dello straniamento» (ibidem). 48 Interview with P. Volponi, «Italian Quarterly», cit., p. 85. rappresentazione univoca della realtà, in favore di un relativismo conoscitivo connaturato all’esistenza stessa. La lente deformante assunta da Volponi quale metafora della propria attività scrittoria, trova un antecedente nei diversi dispositivi ottici richiamati a più riprese da Svevo nei suoi testi, a partire da quelle tre qualità d’occhiali di cui ormai il “vecchio” scrittore - come confida nel Diario49 - non può fare a meno e che il lettore della Coscienza non può esimersi dall’indossare, per seguire nelle sue evoluzioni il funambolico racconto di Zeno. Se infatti la realtà del presente rimane preclusa allo sguardo “annebbiato” del presbite Zeno50, per intendere la vera qualità e il significato di quelle ombre lontane e dei fantasmi che la scrittura attraverso la memoria salva e convoca sulla pagina, occorrerebbe allora «un ausilio ottico»51 in grado di capovolgere la realtà, e di intendere così, attraverso il rovescio parodico, quella parola di verità che rimane sigillata per sempre52 tra le pieghe di una coscienza continuamente camuffata ed elusa. La verità dunque, inattingibile nella sua interezza perché sfuggente a qualsiasi definizione, può essere indagata solo attraverso la deformazione, ossia quella correzione della realtà esperibile attraverso la scrittura53, che, ormai affrancata da qualsiasi tipo di rappresentazione mimetica, viene ad essere “creazione di mondi nuovi”, proprio perché svincolata dalla pedissequa reduplicazione del reale: «nell’oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere»54, così Zeno commenta la lunga requisitoria di Ada, smentendo, ma nello stesso tempo avvalorando, la

49 Cfr. nota del 13 giugno 1917 contrassegnata con la lettera «L» (RS, p. 754): «Un uomo vecchio è necessariamente un uomo ordinato. Adesso a 56 anni io devo badare a tre qualità d’occhiali e ciò m’abituò all’ordine». 50 Zeno si presenta nel Preambolo nell’atto di prendere la penna in mano, impegnato a ricordare gli anni della sua infanzia, così come gli era stato prescritto dal Dottor S.: «Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora» (CZ, p. 626). 51 Ricordando un sogno che gli è occorso durante la notte, Zeno afferma: «Ombre lontane! Io credo che per scorgervi occorra un ausilio ottico e sia questo che vi capovolga» (CZ, pp. 676-677). L’affermazione ovviamente fa riferimento ai meccanismi di capovolgimento che avvengono nei sogni, laddove il sogno, come rileva F. Vittorini nelle note al romanzo, «sostituisce ciò che nella realtà è sgradito al sognatore con l’“esatto contrario” secondo un meccanismo individuato dalla psicanalisi» (I. Svevo, Romanzi e racconti, cit., p. 1582). 52 Si pensi ad esempio alle immagini “perdute per sempre” che Zeno cerca di fissare sulla carta nel Preambolo: «L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ebbi altro risultato che un gran ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre» (CZ, p. 626); oppure alla parola non pronunciata dal padre morente: «La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre» (CZ, p. 680). 53 Sul significato del termine «deformazione» in rapporto alla scrittura sveviana si rimanda all’analisi di E. Bacchereti (La formica e le rane. Strategie della scrittura sveviana, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 49) che nota come l’oscillazione tra verità e menzogna «si costruisce proprio attraverso l’atto del “raccontare” che non è mai riprodurre, ma sempre una inconscia alterazione, una deformazione espressiva della banalità del reale […]. La sovrarealtà che così si costruisce acquista allora la stessa concreta corposità dell’essere stato, tanto da costituirsi in unica realtà su cui nuovamente costruire un racconto, in un sistema dalla ripetibilità infinita che è appunto l’approdo della strategia letteraria sveviana». 54 CZ, pp. 1042-1043. reale natura dei suoi sentimenti per Guido. La parola è dunque costantemente menzognera e necessariamente ambigua, così come imperfetta è per l’appunto la conoscenza umana e in ultima analisi la vita stessa. Macchiata dalla colpa sin dal suo primo manifestarsi - «E’ impossibile – infatti - tutelare la […] culla» del «fantolino»55 - la vita è una malattia che non “sopporta” cura, «inquinata fin dalle radici» e minacciata dai “tristi” ordigni fabbricati dall’«occhialuto» uomo56. Difatti La coscienza di Zeno si chiude proprio con l’esplosione apocalittica di un ordigno che riduce la terra a una nebulosa priva di «parassiti e malattie» di nuovo errante nei cieli, siglando così nella “inaudita catastrofe”, la speranza palingenetica di una terra tornata al suo stadio primordiale di “abbozzo”, ma proprio perciò disponibile a nuove e diverse possibilità di evoluzione57. E’ opportuno rilevare a questo proposito come la conclusione della Coscienza sia di fatto anticipata, ed esperita da un punto di vista teorico, in una serie di saggi rimasti allo stadio frammentario58, che Svevo compone a ridosso (o durante) la stesura del romanzo e nei quali è particolarmente evidente una consonanza con la riflessione leopardiana59. Si pensi ad esempio allo scritto La corruzione dell’anima in cui sin dal titolo è rilevabile un riferimento a quella «corruzione umana»60 che Leopardi nello Zibaldone individua nel «profitto» quale «causa prima e motrice di ogni conflitto», in modo non dissimile da come Svevo indica nell’«ordinamento sociale ed economico»61 uno degli ordigni prodotti dall’anima corrotta dell’uomo, riconducendo nel Frammento [A] del saggio Sulla teoria della pace proprio «al possesso del mercato»62 - e dunque al profitto - l’“inevitabilità della guerra”. Animale

55 L’innocenza e la purezza infatti, precedono la nascita, che segna l’entrata nel tempo, nella storia, e dunque nella colpa: «Eppoi - fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono» (CZ, p. 627). 56 CZ, p. 1084. 57 Non diversamente da come, su di un piano individuale, accade all’uomo nella fase iniziale del suo sviluppo (I. Svevo, L’uomo e la teoria darwiniana. Frammento, TS, p. 849): «Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo». 58 Si tratta del saggio Sulla teoria della pace rimasto allo stato progettuale e di cui si conservano il sommario, una parte del testo e due frammenti (denominati con le sigle di A e B). L’elaborazione del saggio, come ipotizzato da F. Bertoni nell’Apparato genetico e commento (p. 1683), si colloca «sullo scorcio del conflitto, prima che venga intrapresa la stesura del romanzo [La coscienza di Zeno] e che cominci l’ultima, grande stagione della scrittura sveviana». A questo ambito cronologico e tematico appartengono anche il saggio La corruzione dell’anima, e il frammento L’apologo del Mammut. F. Bertone nell’Apparato (TS, 1665) ne riconduce il periodo elaborativo agli anni della Coscienza. 59 Sull’importanza dell’opera leopardiana nella Coscienza di Zeno si è soffermato Giovanni Palmieri nel saggio Leopardi in Svevo. Risonanze e fonti, in «Quel libro senza uguali». Le «Operette morali» e il Novecento italiano, a cura di N. Bellucci, A. Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 43-51. 60 G. Leopardi, Zibaldone, 1170, 16 giugno 1821. 61 TS, p. 886. 62 TS, p. 873. «disgraziatissimo»63 e, leopardianamente, «imperfettissimo»64, l’uomo infatti a differenza della “bestia” «la cui attitudine perennemente guerresca non oltraggia il destino delle razze»65, si evolve contrariamente allo stato di natura66 e all’istinto di conservazione, producendo ordigni in grado di «cancellare ogni traccia di vita da paesi interi e domani forse scardinare la terra stessa»67:

La guerra poi non somiglia più alla lotta per la vita in natura. L’animale che lotta per il pascolo non comincia col distruggerlo, ma a lotta finita lo ha intero. Invece la guerra che lotta anch’essa per le cose – in questo adagiata nello stato di natura – nel suo corso ne distrugge tante che vincitori e vinti ne risultano impoveriti e non per una ma per molte generazioni.68 Il tema dell’allontanamento dell’uomo dallo stato di natura ricorre, con termini analoghi, nel leopardiano Dialogo tra due bestie, in cui il toro e il cavallo discutono i motivi dell’estinzione del genere umano, che – unico tra le altre razze – «non viveva già naturalmente», ma a causa delle «passioni», dell’«ambizione», del «denaro», della «guerra», aveva smarrito la felicità «destinata dalla natura in questo mondo come a tutti gli esseri, perduta da noi per esserci allontanati dalla natura»69. La prosa delinea una sorta di storia del genere umano in cui i due animali nel frammento Dialogo di un cavallo e un bue, descrivono gli uomini ormai estinti come «una sorta di bestie a quattro zampe come siamo noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli, e coll’altre due s’aiutavano a strapazzare la gente (Segue il discorso sopra gli effetti naturali di questa costituzione)»70; analogamente Svevo rappresenta così il «malcontento uomo» ne La corruzione dell’anima, esplicitando gli effetti della sua malaugurata «costituzione»: «Imperfettissimo non ebbe le ali

63 La corruzione dell’anima, TS, p. 886. 64 Ivi, p. 885. 65 Si riporta per intero la citazione tratta da Sulla teoria della pace (TS, p. 860): «Strano che noi dopo di aver assistito alla distruzione di tanta parte di vita e di civiltà, compromesso la gioia di vivere di varie generazioni e aver scoperto che l’uomo non è più come l’animale selvaggio la cui attitudine perennemente guerresca non oltraggia il destino delle razze, ma è tale ormai da saper già cancellare ogni traccia di vita da paesi interi e domani forse scardinare la terra stessa». 66 Leopardi aveva individuato la causa dell’imperfezione e dell’infelicità umana nella «suprema conformabilità e organizzazione dell’uomo che lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri, lo rende eziando per conseguenza il più in felicitabile […] cioè lo rende il più disposto a potersi, e più di ogni altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità» (Zibaldone, 2901-2902, 6 luglio 1923, ). 67 Ibidem. Ma si veda anche il processo evolutivo dell’uomo tratteggiato da Svevo nella Corruzione dell’anima (TS, p. 886): «La bestia nuova era nata e le sue membra invece che perfezionarsi quali ordigni, divennero capaci di maneggiare quelli ch’essa creò. Anzi una volta che gli ordigni erano nati le sue membra non poterono più mutarsi […] così l’uomo benché sempre torvo e malcontento si riprodusse uguale per poter maneggiare gli ordigni che s’erano cristallizzati. E così nacquero i grandi popoli perché grandi sono quei popoli che hanno gli ordigni migliori e in grande quantità». 68 Frammento [A], TS, 873. 69 G. Leopardi, Dialogo tra due bestie. P.e. un cavallo e un toro, in Id. Prose e poesie, vol. II, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1988, p. 238. 70 Dialogo di un cavallo e di un bue, ivi, p. 239. e neppure quattro mani come i quadrumani né quattro piedi come le fiere ma sempre due mani e due soli piedi, questi per portar lentamente quelle tuttavia male armate»71. E forse non sarà un caso che nelle note alla prosa leopardiana ricorra proprio il riferimento al mammut72, protagonista dell’Apologo sveviano di cui la Corruzione risulta essere una successiva riscrittura, e nel quale la forma narrativa prescelta appare essere assai vicina alla struttura delle Operette73. La figura dell’elefante è presente anche nel quarto romanzo di Paolo Volponi Il pianeta irritabile74, che – come nota Maria Carla Papini75 – mostra numerose tangenze con il Dialogo di due bestie, e con l’opera del recanatese nel suo complesso (dai Canti alle Operette), riportando in epigrafe un passo degli Accorgimenti di memoria: «immortalità selvaggia»76. Il romanzo si apre proprio laddove si era chiusa la Coscienza, su di uno scenario apocalittico seguito all’esplosione di un ordigno atomico77 che ha distrutto gran parte del pianeta provocando l’estinzione del genere umano. Gli unici sopravvissuti sono i membri di un improbabile quartetto composto dal Nano Mamerte, l’elefante Roboamo, l’oca Plan calcule e la scimmia Epistola, che assume il ruolo di capo secondo una gerarchia rovesciata in cui l’ultimo posto è occupato proprio dall’unica figura latamente umana, il nano Mamerte78. Nel lungo viaggio intrapreso dal gruppo, verso una terra ancora abitabile, Mamerte si spoglia progressivamente della sua umanità per raggiungere quella «immortaltà selvaggia», che sola può garantire la salvezza e la pace, in un mondo privo di uomini (libero da «parassiti e malattie»79), e al di fuori di qualsiasi finalità, che non sia quella della vita

71 La corruzione dell’anima, TS, pp. 885-886. Si veda la tangenza, segnalata anche da F. Bertoni nell’Apparato, con un passo tratto dallo Zibaldone leopardiano: «Solo l’uomo […] è per natura così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non potrebb’essere, e quindi, laddove tutte l’altra cose sono in natura perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi dall’essere la prima in natura, è anzi l’ultima di tutte le specie conosciute». (Zibaldone, 6 luglio 1823, 2899-2900). 72 Cfr. G. Leopardi, Al dialogo del cavallo e del bue, in Id. Prose e poesie, vol. II, cit., p. 244: «Il Mammut grandissimo quadrupede. Non è ben deciso se distinguasi dall’Elefante o se sia la stessa cosa». 73 Cfr. M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino, Einaudi, 1986, p. 172. 74 P. Volponi, Il pianeta irritabile, Torino, Einaudi, 1978. Le citazioni saranno tratte dall’edizione Einaudi del 1994. 75 M. C. Papini, La desinenza in “ale”: Paolo Volponi e Giacomo Leopardi [2004], in Ead., La scrittura e il suo doppio, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 315-341. 76 Zibaldone, 223, 23 agosto 1820. 77 Per quanto riguarda la centralità del tema della bomba nell’opera di P. Volponi, si rimanda ancora una volta al volume di M. C. Papini, Paolo Volponi: il potere, la storia, il linguaggio, cit., con particolare attenzione al saggio In viaggio dopo la bomba, pp. 67- 103. 78 Come opportunamente nota M. C. Papini (La desinenza in “ale”: Paolo Volponi e Giacomo Leopardi, in Ead., La scrittura e il suo doppio, cit., p. 316) il riferimento alla preminenza assunta dalla scimmia è ravvisabile anche nel Dialogo tra due bestie. P.e. un cavallo e un toro (in G. Leopardi, Prose e poesie, vol. II, cit., pp. 237-238): «[gli uomini] Esercitavano un grande impero sugli altri animali, sopra noi sopra i buoi ec. come fanno adesso le scimie, che qualche volta ci saltano addosso, e con qualche ramoscello ci frustano e ci costringono a portarle». Analogamente nell’Apologo del Mammut, l’uomo è schiavo dell’animale, dal quale dipende la sua sopravvivenza, ma a cui si ribella dando luogo alla prima delle sue infauste rivoluzioni; da allora infatti, scrive Svevo, l’uomo «spezza, uccide, tradisce» (TS, p. 889). 79 CZ, 1085. stessa: «Ciascun [animale] è sempre nuovo perché sa di andare con ogni gesto e anche insieme con ogni altro verso la sua finalità. La finalità è la vita»80. Il processo evolutivo di de-formazione che investe il nano Mamerte, nella perdita delle sue fattezze e caratteristiche umane, culmina nello scontro con il Governatore Moneta e dunque nella negazione di quell’organizzazione economica e sociale che aveva determinato l’estinzione del genere umano, così come in senso lato di qualsiasi «intenzione» («L’intenzione ha sempre prodotto ordine e quindi sovranità»81) e ordinamento sociale, che per l’appunto, anche nella interpretazione di Svevo, viene ad essere definito come un ennesimo «ordigno», «per far convivere in una guerra dall’aspetto di pace il triste e malvagio animale guerresco»82. I molti fili che si dipanano dalla Coscienza di Zeno all’opera di Paolo Volponi, testimoniano dunque di una continuità ravvisabile sia nell’adozione delle forme narrative e dei congegni testuali, che nei modelli di riferimento intertestuali (Freud e Leopardi), ma soprattutto testimoniano della natura pienamente novecentesca del romanzo sveviano, che portando a maturazione la temperie letteraria e filosofica ottocentesca italiana e mitteleuropea, si pone come capostipite di molta parte della futura produzione letteraria. Lontano dall’aver «l’ufficio di clisterio»83 da propinare alla stregua di un “tranquillante” alle coscienze dei lettori, la letteratura per Svevo ha infatti il compito di indagare le crepe che si aprono tra normalità e a-normalità, salute e malattia, individuo e mondo, così per Volponi la scrittura si insinua come un cuneo all’interno del conflitto fra «società e realtà», svelandone tutte le contraddizioni:

Dalle crepe di questo conflitto sono nati in ogni tempo, i romanzi migliori, anche se difficili, difficili proprio perché in contrasto con le regole, i principi, la lingua, gli interessi della società.84

80 P. Volponi, Il pianeta irritabile, cit., p. 160. 81 Ivi, p. 174. 82 La corruzione dell’anima, TS, 886. 83 I. Svevo, Una burla riuscita, RS, p. 257. 84 P. Volponi, Le difficoltà del romanzo, in Id. Romanzi e prose, vol.I, cit., p. 1026. LEGENDA

Si esplicitano di seguito le sigle utilizzate nel saggio e le edizioni di riferimento da cui sono tratte le citazioni.

Opere di Italo Svevo CZ = Italo Svevo, La coscienza di Zeno [1923], in Id. Romanzi e «Continuazioni», edizione critica con apparato genetico e commento di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 2004. RS = Italo Svevo, Racconti e scritti autobiografici, edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, Saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 2004. TS = Italo Svevo, Teatro e saggi, edizione critica con apparato genetico e commento di Federico Bertoni, Saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 2004.