Teresa Spignoli Tra Freud e Leopardi: modelli intertestuali nell'opera di Italo Svevo e Paolo Volponi Tra l’edizione Cappelli della Coscienza di Zeno (1923)1 e la pubblicazione di Memoriale per i tipi di Garzanti nel 19622, intercorrono circa quarant’anni di storia italiana, politica, sociale, economica e letteraria. Un lasso di tempo considerevole durante il quale il terzo romanzo dello scrittore triestino assurge al rango di classico, facendo sentire la propria influenza sulla futura produzione letteraria. Se infatti secondo la celebre definizione di Calvino, «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»3, allora, per seguire le tracce seminali e germinative del romanzo, sarà utile rivolgere l’attenzione non solo al discorso della critica, nella attivazione di nuovi percorsi di lettura, quanto all’eredità della lezione sveviana e alla sua persistenza nella produzione letteraria novecentesca. Sebbene la bibliografia critica sveviana abbia ormai raggiunto un numero assai elevato di titoli, che coprono tutti i maggiori problemi esegetici – dalla corretta restituzione filologica dei testi all’inquadramento storico-critico dell’opera – rimane ancora da scrivere il capitolo di ciò che potremmo chiamare – con un termine a la pàge – “funzione Svevo”, ovvero l’incidenza dell’opera dello scrittore triestino nel panorama letterario novecentesco e segnatamente secondo-novecentesco4. Prima vera apparizione di un narratore inattendibile che strizza l’occhio, talora in maniera beffarda, alla nuova dottrina freudiana, il romanzo sveviano appare essere capostipite di una fortunata serie di narratori imbroglioni, che mettono in crisi non solo lo statuto del romanzo e della rappresentazione, ma anche la consueta visione del mondo, e le categorie antitetiche su cui essa si basa, prima fra tutte la capitale opposizione tra normalità e a-normalità, sia da un punto di vista esistenziale che sociale. All’interno del panorama letterario e segnatamente narrativo della seconda metà del secolo, si collocano diverse opere che in modo più o meno esplicito, mostrano non poche tangenze con il romanzo sveviano, mettendo in scena narratori inattendibili come ad esempio il protagonista del Male 1 I. Svevo, La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli, 1923. Per la storia editoriale del testo, si rimanda all’introduzione e alle accurate note che accompagnano la riproposizione del romanzo nell’Edizione Nazionale delle Opere di Italo Svevo: La coscienza di Zeno, a cura di B. Stasi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008. 2 P. Volponi, Memoriale, Milano, Garzanti, 1962. Le citazioni saranno tratte dalla seguente edizione: P. Volponi, Memoriale, Torino, Einaudi, 1991. 3 I. Calvino, Perché leggere i classici [1981], in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991. 4 Una prima ricognizione sulla fortuna del modello narrativo sveviano negli autori della seconda metà del Novecento, è stata fornita da C. Verbaro nel volume Italo Svevo, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997. oscuro di Giuseppe Berto5, lo psicotecnico di Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri6, o il nevrotico protagonista del Serpente malerbiano7. A questa categoria di personaggi appartiene anche Albino Saluggia, protagonista del primo romanzo volponiano, Memoriale. Da Zeno dunque ad Albino, lontani parenti sin dal nome, che riproduce quella opposizione alfabetica, adottata da Svevo nelle pagine della Coscienza (con le tre A delle sorelle Malfenti: Ada Alberta e Augusta). Del resto è lo stesso Volponi, in un’intervista con Emanuele Zinato, a mettere in evidenza l’importanza del romanzo sveviano nella sua prima produzione narrativa: Ai tempi di Memoriale, e anche prima, avevo letto e molto amato i grandi romanzi russi dell’Ottocento; avevo avuto una grande passione soprattutto per Dostoevskij. Svevo è un autore che ho amato molto in quegli anni.8 E se Zinato si è già soffermato sulle affinità biografiche tra i due autori – entrambi hanno alternato l’attività letteraria alle incombenze lavorative, ricoprendo ruoli di prestigio in importanti aziende (la ditta Veneziani per Svevo, la Olivetti e poi la Fiat per Volponi) – tuttavia ben più probanti risultano essere le consonanze di tipo letterario, a partire da un’analoga disposizione verso la scrittura, e in particolare nei confronti di quell’“autobiografia altrui” che connota entrambi i romanzi. Confida Svevo a Montale: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie […]. Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non lo credevo insormontabile.9 Così come Volponi dichiara in un’intervista: Scrivendo uno recita molto. Io almeno, entro nel mio modo di scrivere, così dentro al personaggio, che in fondo recito quel personaggio scrivendo.10 La prima e più evidente caratteristica che accomuna i due romanzi è la forma narrativa adottata: quel memoriale che Zeno scrive dietro consiglio dello psicanalista presso cui era in terapia, e da questi pubblicato “per vendetta”, e il memoriale scritto da Albino per denunciare le ingiustizie subite all’interno della fabbrica: «Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli»11. 5 G. Berto, Il male oscuro, Milano, Mondadori, 1964. 6 O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, Milano, Bompiani, 1959. 7 L. Malerba, Il serpente, Milano, Bompiani, 1966. 8 Alcuni stralci dell’intervista sono contenuti nelle note ai testi del volume: P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1096-1097. 9 Lettera di Italo Svevo a Eugenio Montale, del 17 febbraio 1926. 10 Intervista a P. Volponi, a cura di A. Benassi, Un autore, una città. Interviste con Giorgio Bassani, Carlo Bernari, Alberto Bevilacqua, Alberto Moravia, Giovanni Testori, Paolo Volponi, Torino, Eri, 1982, p. 158. 11 Così Albino Saluggia dichiara in apertura del suo memoriale, che inizia significativamente proprio con le parole «I miei mali». La funzione di denuncia che viene ad assumere il testo e più in generale la scrittura, è Salutato dalla critica come una delle prime e più significative prove della nascente letteratura industriale – sui cui si appunta il dibattito critico di allora, basti pensare al celebre numero del «Menabò» del 1961 dedicato proprio a Letteratura e industria12 – il romanzo mette in scena la vicenda di Albino Saluggia, nato da genitori italiani in un paesino sulle rive del lago di Candia, ma vissuto in Francia ad Avignone, e tornato al paese natale dopo la conclusione della guerra. Assunto come operaio in una modernissima fabbrica, Albino mostra sin da subito l’insorgere di una malattia che viene diagnosticata dai medici che lavorano nell’azienda come tubercolosi. Più volte sottoposto a cicli di cure e costretto al ricovero in sanatorio, Albino non condivide la diagnosi dei due dottori, denunciando una congiura ordita ai suoi danni, che gli impedisce di lavorare in fabbrica e ottenere le promozioni che gli spettano. Difatti nel corso della narrazione egli viene progressivamente allontanato dai reparti produttivi della fabbrica, fino ad essere relegato all’esterno dell’edificio con il ruolo di piantone, a cui segue il definitivo licenziamento per la partecipazione allo sciopero organizzato dai lavoratori iscritti al sindacato Fiom. La narrazione si dispiega in nove capitoli e copre un arco cronologico di dieci anni, dall’ingresso in fabbrica fino al presente della scrittura, ripercorso dalla voce rammemorante di Albino. Siamo dunque in presenza di una narrazione auto-diegetica, con focalizzazione interna al personaggio, condotta con la tecnica dell’indiretto libero. La prospettiva è quindi interamente affidata al protagonista, che tiene le fila della vicenda di cui conosce già lo svolgimento e la conclusione, come risulta evidente dall’insistito ricorso all’analessi, per lo più mediata da formule come “Ora so”, che ricordano da vicino la tecnica usata da Svevo nella Coscienza13. All’interno del testo, inoltre, non è presente alcuna istanza o voce che possa correggere tale prospettiva, tanto che la vicenda può essere letta in due modi antitetici: Albino è ostacolato dai medici della fabbrica che impediscono il suo pieno reinserimento all’interno del mondo lavorativo e più in generale della società; oppure, la fabbrica – attraverso i medici – si prende cura di Albino, preoccupandosi del suo stato di salute e cercando di mantenere la sua posizione lavorativa, nonostante le resistenze da lui opposte ad ogni cura e lo sviluppo di un delirio persecutorio che si caratterizza come una forma di inoltre ribadita poco oltre «Desidero smascherare gli inganni, denunciare i colpevoli per amore di giustizia sacrificandomi come un ribelle» (ivi, p. 16). 12 «Il Menabò», a. III, n. 4, 1961. 13 Cfr. Piero dal Bon, «Memoriale»: tra lingua e stile, «Studi novecenteschi» a. XXV, n. 55, giugno 1998, p. 95; cfr. inoltre E. Zinato, note a Memoriale in P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, cit., p. 1096: «la struttura cronologica di Memoriale, la sua formula ricorrente “Ora so”, la consapevolezza acquisita da chi narra in un momento successivo all’azione, insomma la situazione autoanalitica del testo, come del resto l’attaccamento alla madre e il tema della malattia, sembrano fantasmi di matrice sveviana». paranoia. Siamo quindi a tutti gli effetti in presenza di un narratore unreliable, tanto che risulta impossibile per il lettore giungere
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