ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE

DA BAGNARA A

Storia della famiglia del capitano Carresi

Di Franco Caratozzolo

" La storia vista dall'altra parte della strada, quella che subisce la gente più debole e nulla può fare per cambiarla. Concentrata nelle due famiglie Carresi e Caratozzolo, native di Bagnara, che per effetto dei grandi drammi che periodicamente si abbattono su questa ter- ra(terremoti ed emigrazione) scelgono strade diverse. Poi in maniera strana si rincontrano a Gioia Tauro ed affrontano la vita sorretti da (la ricchezza) conqui- stata con la vera sofferenza: la fede."

P.2009

Edizione A.S.F.B.

Il sig. Caratozzolo, erede delle due famiglie protagoniste di questo racconto, ha trascritto la vera storia che ha caratterizzato la vita dei suoi discendenti per circa mezzo secolo. Egli cronologicamente ci narra delle vicissitudini, a tratti molto drammatiche, che ha visto protagonisti gli uomini e le donne della sua stirpe, dal terremoto del 1908 e fino alla conclusione della seconda guerra mondiale.

La storia viene raccontata da chi osserva dall’altra parte della strada ed annota senza pregiudizio alcuno quanto accade, verità sopra verità. Atti di crudeltà, momenti di tensione, caparbietà di padri buoni e coscienti che comprendono la varie situazioni. Delusioni tristezze e sconfitte si rimarginano con il ritrovarsi in comunione tra le famiglie stesse dopo un percorso durissimo di sofferenze soprusi e prepotenze che portano alla conquista della “fede”.

Gianni Saffioti

Questo racconto è inserito nel contesto del progetto di diffusione della storia cittadina e del popolo bagnarese raccontata dagli stessi protagonisti, che l’archivio storico fotografico bagnarese da anni oramai propone senza alcuno scopo di lucro ma con il solo intento di valorizzare la cultura popolarecittadina.

La grossa difficoltà di diffondere tali piccole ma importanti opere sta tutta nella paura di proporre, da parte chi dovrebbe promuovere la cultura popolare, argomenti e temi lontani dai soliti motivi preconfezionati fatti di feste e sagre paesane con le quali, secondo la mentalità odierna, si dovrebbe far lievitare la cultura. Lontano da questo modo altamente restrittivo di vedere le cose, credo che quello di proporre questi lavori e portare alla conoscenza di tutti scritti sconosciuti di storie di vita come questa, sia fondamentale per uno sviluppo sano e civico delle nuove generazioni. Certamente almeno lo scritto resta ed inciderà sulla coscienza di quanti avranno la bontà di leggerlo, forse potrà anche essere utile a chi saprà apprezzarlo.

collana “marineria gioiese”

1

Dedica

“Al mio amatissimo,inimitabile, mitico figlio Peppe, che ha reso felice la vita dei suoi genitori sulla terra e continua a farlo ancora dal Paradiso; ai miei adorati genitori e gli indimenticabili nonni conosciuti e non. A tutti i miei zii e zie, esempi mirabili di dedizione familiare, cristiana e forza d’animo.

Franco

Gioia Tauro gennaio 2006

2 Prologo

Se avessi intitolato questo lavoro, da Palmi a Gioia, da Amalfi o Napoli o Genova, Sicilia o Puglia a Gioia, non ci sarebbe stato nulla di offensivo o scandaloso. Gioia Tauro era sorta per sua fortuna e per quella di tanta gente, in una posizione geografica invidiabile, posta com’era(ed è) a capo di una fertile area agricola pianeggiante, conosciuta fin dai tempi più antichi. La sua vocazione commerciale di prodotti agricoli, legnami idonei alla costruzione di naviglio, vini per la presenza di estesi vigneti, granaglie varie, carbone, s’incrementò col passare del tempo, per la nascita di una serie di infrastrutture e impianti ed enormi magazzini di stoccaggio ove era conservato l’olio lampante o il vino o il grano. Prodotti che, in una fase successiva, erano rilavorate e smerciate in tutti i porti del Mediterraneo da una numerosa ed efficiente flotta di bastimenti, che facevano capo sulla spiaggia gioiese. Quivi esistevano due ampi magazzini costruiti durante il periodo borbonico che servivano a conservare la merce quando il mare non consentiva il carico o lo scarico della stessa. In ultima analisi Gioia fu per tanti anni il punto di riferimento economico della provincia reggina se non dell’intera Ma, la vocazione di un paese dipende non solo dalla sua felice posizione geografica o dalla presenza di infrastrutture tali da permettergli di operare con minori difficoltà rispetto ad altri lidi, di fronte ad una regione montagnosa e difficile, con pochi sbocchi marini. A mio parere a ciò bisogna aggiungere, anche, coloro che ne hanno intuito e sfruttato tale posizione in maniera profittevole. L’assunto finale è che il capitalismo moderno, a mio modo di vedere, è nato proprio qui, a Gioia Tauro. E’ sbarcato con i forestieri. Il detto: “Sant’Ippolito protettore dei forestieri.”, luogo per ogni paese in Calabria(non è chiaro perché il protettore della propria cittadina, debba proteggere sempre i forestieri!), a Gioia ha trovato una felice conferma, più che altrove. La fortuna economica di questa cittadina è dovuta ai forestieri che ebbero il coraggio di utilizzare le opportunità che gli si pararono davanti(il 1807, si dice,fu l’anno dell’arrivo del primo campano a Gioia). Nella proposizione precedente, ho parlato di coraggio e questa parola la si deve intendere non come “il coraggio di fare impresa”, ma, come coraggio di vivere in una zona altamente infetta dalla malaria, spauracchio di chi vi doveva passare la notte. Se si pensa che i lavoratori giornalieri dei paesi vicini rientrassero nelle loro case a fine turno di lavoro, indica la grave insalubrità dell’aria che si respirava, d’estate, nei paraggi. Nonostante tutto questo i forestieri, con audacia, trasformarono Gioia nel fulcro di ogni operazione commerciale della provincia. Questo racconto è la cronistoria delle famiglie da cui sono nato, che per uno strano gioco del destino e degli eventi, terribili per ciò che hanno prodotto, siano essi eventi sismici o l’endemica emigrazione, si rincontrarono in questa municipalità.

3 Parallelamente, potrebbe essere la cronistoria di altre centinaia di famiglie che si sono trovate in simili situazioni, che hanno subito medesima sorte malvagia: chiamateli Macrì, Caruso, Romeo, non cambia nulla nella sostanza. E’ anche la storia vista dall’altro lato della strada: quella dei deboli, delle vittime innocenti, prese nella tenaglia di chi ha fatto la storia con la “S”maiuscola, che gioca con la gente come fossero birilli. Ai quali ultimi non rimaneva che il riparo sicuro di una fede diamantina e come arma l’ottimismo della Speranza. Ma, è anche la storia di altri numerosi paesi che seguono le vicende umane con finto distacco: i paesi non sono solo le case, è anche l’anima di chi ci vive e subisce gli accadimenti terreni.

4 introduzione

Nelle buie sere d’inverno, quando il violento e cupo rumoreggiare del mare in tempesta, rintronava nelle nostre orecchie; il vento di maestrale infilandosi tra le fessure di porte e finestre sibilava paurosamente; i bagliori dei lampi perforando l’oscurità della notte illuminavano le deserte strade della marina accompagnate dal brontolio dei tuoni; il nonno con il basco blu in testa ed uno spesso giaccone di pelle sulle spalle con il gomito appoggiato sullo stipite della finestra seguiva, da vecchio lupo di mare, gli effetti del vento sul nostro albero di fichi che oscillava ad ogni folata come un albero di maestra dei vecchi velieri,fumava la pipa mandando volute di fumo, che lentamente salivano in alto; noi ragazzini seduti attorno al calduccio del braciere, ascoltavamo la nonna che ci raccontava le favole di mitiche fate dei boschi, dei folletti e del terribile “sarancuni” che rapiva i bambini monelli. Noi ragazzi, sull’onda della fantasia, dell’immaginazione, seguivamo quei lontani angoli del mondo dove, alla fine, l’eroico cavaliere azzurro vinceva sempre salvando i deboli o le innamorate e punendo i cattivi. Poi, finita la favola, candidamente, chiedevamo alla nonna perché da Bagnara fossero venuti a vivere a Gioia. La nonna ricominciava a raccontare la loro avventura di emigranti. E la nostra immaginazione seguiva parola per parola, il nuovo racconto. Di quei tempi ormai lontani ed altrettanto mitici.

L’autore Franco Caratozzolo

5 Romanzo

“Da Bagnara a Gioia Tauro”

Fu così che il capitano Carresi, perse la casa, quella fredda mattina del 28 dicembre del 1908 a causa di un terremoto seguito da maremoto, che sconquassò la Sicilia e la Calabria provocando la morte di oltre centomila persone. Si stava preparando a partire, per imbarcarsi al comando del veliero da 50 tonnellate Nuova Antonietta, in rada a Gioia Tauro. Mentre sorbiva un caffè assieme alla moglie Felicia in cucina, udì un boato, cupo, grave, seguito da un sussulto. Anche la fioca luce del lume a petrolio sembrò spegnersi. ‐“Terremoto”‐, rifletté tra sé il capitano, e, senza parlare, lentamente, per non impaurire la moglie Felicia aprì la porta. E’ noto che gli animali sentano con anticipo l’arrivo dei terremoti, ma stranamente, nell’occasione, il capitano non udì il solito latrare dei cani o il chiocciare delle galline o altri rumori amici. Vi era un silenzio irreale, come se tutta la natura si fosse fermata, presagio che qualche cosa stesse per accadere. Di li a poco, sentì un violento e secco movimento ondulatorio che lo fece rientrare rapidamente, svegliò i figli ed urlò “Fuori, fuori"! "Prendete le coperte e scappate!” Il terremoto ebbe una durata di circa trentotto secondi. Mezzi addormentati i figli più grandicelli uscirono correndo, mentre i genitori portavano in salvo i più piccini, tentando di tenersi in equilibrio con il pavimento della loro casa che oscillava e sussultava come un uomo in agonia. Felicia, con la figlia più piccola in braccio, Antonietta, guadagnò l’uscita, urlando. E i suoi gridi si confondevano con quelli degli altri scampati formando un tragico coro greco. D’improvviso la parete sud della casa, sotto l’effetto dello stimolo potente scatenatasi dal ventre della terra crollò come un fuscello sradicato durante una bufera di vento. La caduta della parete si portò appresso le travi di legno che reggevano il soffitto e le tegole e il rumore del crollo della casa del capitano si confuse con quello delle altre abitazioni che venivano giù, amplificati dal silenzio mattutino. Come periodicamente accadeva la morte bussava ancora una volta in quelle contrade povere e sventurate. In quel lembo dell’Italia meridionale, martirizzato dall’infausto evento, Bagnara contò novantasei morti e 720 feriti, e l’80% di case distrutte o danneggiate. Accorato di fronte al caos, al terrore della moglie e dei figli, alla polvere che si alzava verso la volta del cielo, il capitano Carresi si chiedeva, perché ? Perché una terra tanto più è bella e povera, tanto più deve subire gli oltraggi di una sorte avversa ? E’ come se la natura stessa, gelosa della propria bellezza, abbia voluto punirsi, per controbilanciare nascondendo nel suo seno un mostro che, di tanto in tanto fa uscire a sfregiare ciò che ha creato violentando crudamente lo splendore delle sue creature: un mare stupendo, dove il cielo vi si specchia col suo più vezzoso azzurro per trasformarsi in grigio quando il cielo è nuvoloso. Completava tanta bellezza, l’affascinante visione delle isole Eolie e della Sicilia, ancor più splendide da ammirare durante la stagione fredda, quando l’aria tersa schiarisce i profili e l’immaginazione, fino a farti scoprire i personaggi mitici che ispirarono grandi poeti e alimentarono tante leggende: Scilla, Cariddi, Eolo il dio dei venti e re delle isole Eolie, Ulisse. Bagnara, è racchiusa in una affascinante insenatura, protetta da montagne alte e selvagge che si caricano di variegati colori a seconda del tipo di macchia arborea abbarbicata sui suoi fianchi le cui forre, d’improvviso, si addolciscono, degradando in terrazze coltivate a vigneto e che produce l’uva zibibbo famosa già dai tempi più antichi.

6 Un’economia debole faceva da contrappunto a tanto mitico incanto: la pesca, l’agricoltura, l’industria boschiva e un cantiere navale, erano le attività economiche principali di Bagnara.

Qui nacque una genia di armatori e di abili navigatori che fecero parte della storia della marineria italiana. L’esempio più fulgido e qualificante fu l’impresa del capitano Vincenzo Fondacaro che attraversò l’Atlantico partendo da Rio de la Plata e approdò in Europa dopo 96 giorni di navigazione con un battello di 9 metri a vela chiamato “Leone di Caprera” in onore di Giuseppe Garibaldi. ott. 1880‐genn. 1881 Da allora, chi compie oggi, una traversata del genere è sempre una dimostrazione di coraggio, ma, con le moderne tecnologie, i rischi sono calcolati al massimo ma, niente a che vedere con il coraggio e l’ardimento dell’equipaggio del “Leone di Caprera”. Il capitano Fondacaro volle dimostrare al mondo intero il valore e l’inventiva del marinaio italiano. Aveva ideato, infatti, un’ancora “galleggiante per spargere l’olio e placare le onde del mare in burrasca” come da lui sostenuto e dagli altri marinai non ritenuto vero. Il coraggio e l’inventiva di quei marinai non ebbero in Italia il giusto riconoscimento (la storia si ripete sempre!). Nel 1895 tentò un’altra impresa eccezionale: raggiungere Chicago da Rio de la Plata; attraversare cioè l’Oceano Atlantico da sud a nord fino alla città nordamericana: ma l’impresa fallì per il naufragio del battello “Cesare Cantù” e la morte di tutto l’equipaggio, fra cui il fratello del capitano Carresi. Poi la buona razza degli armatori. Bagnara diede i natali a uno dei più grossi armatori calabresi che operarono tra l’ottocento e il novecento: Francesco Patamia. I suoi velieri trasportarono merci in tutti i porti del Mediterraneo con al comando tutti i suoi figli maschi. L’armatore Patamia s’imbarcò come mozzo a sedici anni a Gioia. Qui si fece le ossa. Diventò armatore, utilizzando questo scalo come punto logistico, l’emporio della piana, che offriva ai velieri, molte più occasioni di lavoro. A Bagnara e nel suo mare, Carresi si fece le ossa. Dopo aver frequentato la scuola, acquisì il libretto di navigazione, navigando sui “buzzetti”. Poi s’imbarcò sui velieri. Il suo primo viaggio lo fece sulla tartana “Corriere di Bagnara”, il veliero postale ufficiale, nel 1876, da mozzo. Fin da allora Francesco si era dimostrato un ragazzo sveglio, curioso e la curiosità è segno d’intelligenza, diceva un antico adagio. Apprendeva tutto con l’osservazione, ficcando il naso dentro le cose, ma principalmente chiedendo, chiedendo e chiedendo. Quando la notte , in navigazione, il nostromo mezzo intronato dal sonno, se lo vedeva spuntare vicino al timone, invece di dormire, gli chiedeva: “Stasera cosa vuoi sapere?”, Carresi, sorridendo rispondeva. “Nostromo di giorno è facile navigare perché ci muoviamo sottocosta. Ma, quando è buio, o, siamo lontani dalla terra, come fa un marinaio ad orientarsi?”. Allora il nostromo osservava il firmamento stellato e con l’indice gli indicava una serie di stelle: “Guarda Francesco quel disegno in alto: quello è il “carru maistru” e quella stella più lucente delle altre è la stella polare, essa indica il nord; è la guida del marinaio durante la notte. Un marinaio, se la segue, non sbaglia mai”. E Francesco ricominciava: “E quelle altre stelle, pure quelle fanno strani volteggi in cielo”. E il nostromo pazientemente spiegava: “Quello invece è u “carru grandi”, mentre quell’altro ammasso di stelle che vedi laggiù in fondo, è la “strata i santu iapicu” o la “strata di tempi”, queste stelle stanno ad indicare, a seconda della posizione che assumono, il vento che verrà e la sua direzione.” affermava molto convinto il nostromo.

7 Naturalmente la formazione dei venti e la loro direzione dipendevano da altri fattori che il nostromo, poverino, non poteva sapere, perché, allora, i marinai navigavano in conformità a tradizioni orali tramandate di padre in figlio, miste a credenze religiose. La conoscenza tecnica era appannaggio della Reale Marina o della marina mercantile che pilotavano navi a vapore di grossa stazza. Lo strumento della marina mercantile principe era sempre la bussola usata da tutto il tipo di naviglio che allora percorrevano i mari. Per i viaggi più lunghi, quindi velieri di grossa stazza, i marinai usavano anche il “teodolite” con la quale si misuravano gli angoli sia azimutali che zenitali. E’ noto che fino al 1874 i marinai calcolavano solo la latitudine, misurando l’altezza del sole sull’orizzonte di giorno, o della stella polare di notte. La longitudine fu introdotta solo qualche anno dopo, utilizzando il meridiano di Greenwich (Londra) indicante 0°. Ritornando ai nostri vecchi marinai, si tramandava che la “strata di santu iapicu” normalmente avesse la direzione (rosa dei venti) da maestrale a scirocco. Quando si poneva da ponente a levante, soffiavano i venti da nord, e secondo loro, veniva la bufera; se si poneva da grecale a ostro, soffiava lo scirocco o il libeccio, che i vecchi pescatori chiamavano “u tempu chi veni du canali”. Anche la luna entrava a pieno titolo nelle credenze marinare, non perché “intenerisse i loro cuori” ma perché poteva essere segno che il tempo cambiasse, e sentenziavano: “Luna a barchetta marinari all’erta !” che secondo gli antichi indicava un natante nel mare in tempesta; il detto “luna diritta marinari in cuccetta !” indicava buon tempo. Per tutto il tempo che Francesco navigava, era un continuo chiedere, approfondire entro i limiti delle conoscenze dei nostri esperti marinai: “perché la luna, a volte, ha quella nebbiolina attorno ?”‐‐ “indica che domani ci sarà vento”, ‐ “nostromo perché il vento di terra è chiamato così ?” “perché viene da terra, come dice la parola stessa !” Erano risposte senza alcun fondamento tecnico o almeno ne avevano poco considerato che così ci si spostava da una parte all’altra in quegli anni. Carresi le cognizioni tecniche razionali e utili le avrebbe apprese durante il servizio militare prestato nella Regia Marina. Studiò in maniera approfondita, con scienza e coscienza, sui testi che riusciva ad acquistare a Napoli o su quelli che gli davano in prestito gli ufficiali delle navi militari. Così capì che il vento di terra, come tutti i venti, era uno scambio di calore tra il mare e la terra collegato al tasso di umidità, nuvolosità, alle differenze di pressione tra una parte e l’altra delle aree geografiche del globo…; che non sempre la luna in quella posizione significava bufera o bonaccia. Ma, che la luna influenzasse i mari e gli oceani con la forza di gravità, e che il suo effetto raddoppiava quando il sole e la luna stavano lungo lo stesso asse della terra, assieme all’utilizzo del barometro o il sestante, divennero conoscenze normali per il Carresi, tanto da affrontare l’esame d’idoneità per ottenere il titolo di Padrone marittimo e superarlo brillantemente. Il patentino lo abilitava al comando dei velieri.

Il Carresi era un uomo alto di colorito bruno, con due labbra carnose che gli davano un' aria di serietà, d’imponenza per i due baffoni a manubrio che gli trapassavano il labbro da una parte all’altra; occhi scuri e sopracciglia ad arco che evidenziavano due zigomi alti ma non pronunciati; una dentatura perfetta, ovale lungo, un naso regolare ed una fronte ampia e spaziosa: un bell’uomo. Aveva un' eleganza naturale, uno stile inconfondibile, vestiva con cura ma sobriamente. Rispettava tutti e tutti ricambiavano. Francesco da qualche tempo corteggiava una ragazza di nome Felicia, figlia di commercianti di tessuti del posto soprannominati “i calarchi” per via del cognome della madre, appunto Calarco . Era una ragazza esile d’altezza media, capelli neri e ondulati; attraeva più per la simpatia che suscitava quando parlava, che per la bellezza dei

8 lineamenti. Era magra ma soda, due occhi piccoli e semicoperti, con uno sguardo sempre spaurito, come quello che hanno gli uccellini indifesi, e questo faceva tenerezza al capitano. Era un tipo stravagante nel vestire. Si sarebbe detto un tipetto in altri tempi. Felicia nonostante le stravaganze, era una donna istruita. Sapeva leggere e scrivere e conosceva le erbe medicinali: consigliava parenti e amici come alleviare un mal di denti, e le sue mani massaggiavano delicatamente ogni tipo di stiramento muscolare. Suonava la chitarra egregiamente, spesso intratteneva parenti e amici con canzonette in voga allora.. Era sveltissima nelle faccende di casa. Come il Capitano era sollecito nella partecipazione alla vita della Chiesa e delle sue manifestazioni, altrettanto non lo era Felicia. Non che fosse non credente, ma era più fredda. Però, seguiva alla lettera i dettami della Chiesa in fatto di costumi, di comportamenti, di etica. Una bella mattina Vincenzo Carresi, padre di Francesco, mandò l’imbasciata alla famiglia dei calarchi, per combinare il matrimonio. Dopo ampia esposizione delle qualità dei rispettivi congiunti, s’imboccò la strada più difficile, che era quella della dote. Ma, tra persone di buona volontà, i problemi si superano sempre. Così l’accordo fu stipulato tra le famiglie. In quegli anni il matrimonio era celebrato prima civilmente, per vincolare la ragazza all’uomo davanti alla società civile, poi con il rito cattolico, per vincolarli davanti a Dio. Solo dopo il secondo ufficio, il matrimonio poteva essere consumato. Francesco vincolò Felicia civilmente il 4 aprile 1885, poi espatriò in Argentina; l’idea sua era quella di farsi un gruzzoletto, rientrare ed acquistare casa a Bagnara. Quelli furono gli anni d’oro delle migrazioni verso l’Argentina da parte delle plebi meridionali. Sotto l’incalzare della povertà naturale di queste aree del paese e la crisi agraria di fine diciannovesimo secolo, milioni di persone oltrepassarono l’Oceano. Francesco Carresi rimase quattro anni in quei posti, guadagnò il suo gruzzolo e rientrò in Italia. Acquistò una casetta lungo la salita che portava alla chiesetta del Rosario. Coronò il suo sogno d’amore sposando Felicia in Chiesa, e, nel dicembre 1890 nacque un maschietto che fu chiamato Vincenzo come il nonno. Vincenzo fu battezzato nel gennaio del 1891. In quella casa vi nacquero altri sei figli, anzi, sei figlie una dietro l’altra, mentre il capitano percorreva i mari al comando di velieri che facevano spola fra Gioia Tauro e i porti del Mediterraneo. Era costume allora fare partecipe il vicinato, sia nei lieti eventi sia in quelli luttuosi, e quando le figlie più grandicelle avvisavano i vicini del lieto evento,cioè della nascita di una nuova femmina, questi non facevano loro neanche gli auguri! perché vi era un detto antico: “i figli maschi come il miele, le figlie femmine come il fiele"! Infatti, tante figlie femmine voleva dire tante doti da mettere assieme. Ma, Carresi non era tipo da scoraggiarsi: “la Provvidenza divina ci aiuterà, perché non abbandona mai i buoni cristiani !”. Questa giaculatoria fu il manto con il quale il Capitano si riparava quando le vicende umane lo colpivano. E su questo sentiero aveva educato tutti i suoi figli. Scuole per tutti; poi gli uomini indirizzati al mestiere del padre; alle femmine il tradizionale ruolo casalingo: cucito, ricamo, lavare, stirare, delle perfette donne di casa; poi garbo, cortesia verso tutti, senza distinzione di classe, nel rispetto dell’amore di Dio e del prossimo. Così crebbe la famiglia Carresi fino a quel momento. Così avrebbe continuato a vivere, nella buona e nella cattiva sorte.

Ora il povero capo famiglia era lì, ancora stravolto dall’avvenimento, mentre teneva stretti a sé tutti i suoi figli, tra la polvere, il caos, le grida e i pianti delle persone salve e il lamento dei feriti, osservando dolorosamente la moglie che da quel momento in poi rimase col sistema nervoso scosso per sempre(sindrome da terremoto). Anni ed anni di sacrifici, sogni, illusioni, distrutti in meno di un minuto. Nell’incoraggiare la famiglia, il suo pensiero andava al figlio Vincenzo, in quel momento in navigazione con la tartana

9 “Morgantina”, che collegava Bagnara con Messina, carica di merce. Il capitano non sapeva ancora del cataclisma umano e geografico che aveva sconvolto la Calabria e la Sicilia, ringraziava Dio che a suo figlio gli era stata risparmiata l’inumana vicenda. Non avrebbe mai e poi mai immaginato il rischio corso dall’equipaggio della tartana. In fase di aggancio degli ormeggi del veliero anche i marinai avevano udito quel pauroso e cupo rombo e, di colpo, una serie d’incendi scoppiò in vari punti di Messina; a questo si era aggiunto una grande quantità di vapore acqueo provenire dalle profondità del mare, molto strane in verità. Fu un’intuizione del Capitano della tartana quella di serrare la vela e prender più vento per allontanarsi. Poi si sentirono sollevare come un fuscello da un' ondata enorme, da una seconda e da una terza, che andavano a schiantarsi con fragore sui moli del porto di Messina completando l’opera distruttiva iniziata dal terremoto e dagli incendi, uccidendo coloro che si erano rifugiati verso il mare pensando di salvarsi. Gli aiuti arrivarono con molto ritardo (la storia si ripete sempre). A Bagnara i senza tetto furono migliaia, trovarono riparo dal freddo pungente di quei giorni, sui vagoni ferroviari bloccati opportunamente dentro le stazioni o utilizzando le poche case intatte. La solidarietà nazionale e internazionale fu straordinaria. Navi cariche di rifornimenti e medicinali raggiunsero le zone terremotate, dove, intanto, la flotta russa, aveva dato i primi soccorsi trovandosi in esercitazione, sul mar Tirreno in quei terribili frangenti. Il capitano Carresi considerava di cominciare daccapo, ricostruendo la casa. Ma, fece i conti senza l’oste. Felicia, alterata dall’evento, della sua casa crollata da rifare non ne volle saper nulla. E a nulla valsero le preghiere dei figli o i quarantotto anni suonati del marito. Costretto dal sistema nervoso ormai epilettico della moglie, il capitano decise di trasferirsi, ricominciare una nuova vita a Gioia Tauro marina. Gioia Tauro, per sua fortuna e dei suoi abitanti, fu risparmiata da questo spaventoso cataclisma: qualche edificio danneggiato, nessuna vittima. La cittadina, divenne il punto nodale di stoccaggio di legname per le baracche o di generi alimentari, da distribuire ai terremotati. Il Carresi acquistò, con l’aiuto dei tanti amici che aveva a Gioia, il terreno dal demanio con un finanziamento garantito da una legge dello Stato, ottenne legname Americano, e, da un falegname del luogo fece montare la baracca, voluta fortemente da Felicia in legno, che divenne la sua nuova abitazione. Così nell’estate del 1909 la famiglia Carresi lasciò Bagnara tra le lacrime assieme a tante altre famiglie colpite da identico destino.

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Un turista inglese, tale Edward Lear, così descrive il suo arrivo nei pressi di Gioia Tauro nel 1847: “Tutta la parte bassa della sua grande pianura è celebre per la malaria, così, sebbene lo scalo di Gioia Tauro è il centro di questo tratto molto fertile, dopo i primi di maggio non è abitabile, e a luglio e ad agosto dormendo lì è quasi certa la conseguenza della febbre …………………..finalmente, continuando il nostro cammino, piccole ondulate alture coperte di querce e densi boschi ci hanno dato il presagio che eravamo nelle vicinanze della strada maestra da Napoli a Reggio, e attraversandola eravamo ben presto all’interno di Gioia, un semplice villaggio che consisteva in qualche deposito di olio e una grande osteria che era vicina al mare, Stella maris. Gioia è, infatti, uno dei più afflitti paesi malarici, perché, sebbene il commercio dell’olio è considerevole e numerosi operai trasportano barili da ogni parte, queste persone provengono dalla adiacente Palmi, vengono al mattino e rientrano la sera. Nel 1847 Gioia Tauro contava circa 900 abitanti. Nel 1909, all’arrivo dei Carresi il quadro stava cambiando, anche se lentamente, ma in maniera costante e continua: vi risiedevano circa 5000 persone. Gioia Tauro era un paese medioevale, arroccato su una collinetta a 29m s.l.m. aveva una forma romboidale, i cui vertici lunghi indicavano rispettivamente il nord e il sud. Il lato nord era a strapiombo sul fiume Budello, il pestifero fiumiciattolo, che con i suoi miasmi ammorbava l’aria circostante, in estate in modo particolare. Lo stesso pericolo mortale era in agguato nei pressi dell’altro fiume il Petrace, il mitico Metauros, che circondava assieme al Budello il territorio gioiese in un abbraccio malevolo. Le vie del paese, come tutti i borghi medioevali erano strettissime, tanto da far passare appena un carro con i buoi quelle più grandi, e , come in tutti i paesi medioevali, vi era un coacervo di vicoli bui, che s’intrecciavano gli uni agli altri, larghi per appena una persona, che sboccavano infine nella piazza principale o sulla via di collegamento principale, chiamata via commercio, che attraversava tutto l’abitato declinando dolcemente verso il pianoro. Si accedeva al centro del paese tramite ripide scalinate. Una volta questo paesetto era circondato da solide e spesse mura con le sue torri di avvistamento elevate in punti diversi distanti l’una dall’altra: segno che il paese veniva assalito dai pirati saraceni, in epoche remote, molto spesso. Di giorno era un brulichio di persone e di bambini che giocavano tra i vicoli; lungo la strada principale tutti quei panni stesi ad asciugare, sui balconi o a pianoterra, assieme a vestiti, lenzuoli, sembravano tanti fantasmi svolazzanti da fare spavento e mossi dalla brezza che veniva dal mare. C’era anche un puzzo insopportabile che impregnava l’aria intorno all’abitato, generato da cause diverse. Non era l’odore putrido delle acque stagnanti del fiume: quelle case non avevano scarichi fognari; le varie famiglie del luogo preparavano il sapone con i sottoprodotti dell’olio provocando rigetti acquosi puzzolenti. Le cause che portarono alla crescita della popolazione gioiese furono diverse. Primo punto: l’igiene personale e ambientale. La malaria stava per essere sconfitta sotto l'azione di diverse sinergie messe in atto dai governi centrali e locali (non trascurando quello fatto dai Borboni) che vanno dall’inalveamento del Budello, alla piantumazione di quantità rilevanti di eucalipti o cipressi o pini, piante che avevano la caratteristica di assorbire molta acqua dal terreno in cui vegetavano, la cui azione, quindi, prosciugava gli acquitrini, sede della zanzara anofele. A seguire l’invenzione di un nuovo preparato chimico: il chinino, che diede un colpo fatale alla malattia. Buon ultimo, ma, certo non meno importante, la creazione di scoli per le acque stagnanti, l'uso di pozzi neri. Migliorando le condizioni ambientali, i lavoratori da avventizi divennero stanziali. Gioia Tauro per la sua posizione geografica era l’emporio della piana. Posta sulle rive del Mar Tirreno al confine ovest della stessa, cui diede pure il nome, si legava, rispetto ad altri lidi, in maniera dolce alle sponde del suo mare: si raggiungeva direttamente senza ostacoli

11 insormontabili. I carri a trazione animale potevano “senza gran fatica” portare le merci utilizzando una serie di infrastrutture, pronte nell’area gioiese. Il prodotto notevolmente più commercializzato era l’olio lampante prodotto in gran quantità nella piana dai frantoi. Altri prodotti commercializzati e trasportati nel Mediterraneo con i velieri erano: legnami, grano, granone, carbone da legna, agrumi, vino. Lo stoccaggio dell’olio lampante era fatto in grandi cisterne verticali poste sottoterra un po’ dappertutto a Gioia Tauro: il paese era cresciuto sul vuoto quasi totalmente, tanto che la città vecchia era chiamata, per questo motivo, Piano delle Fosse ma, anche la parte più moderna era altrettanto piena di fosse. I proprietari di queste cisterne erano stranieri e avevano in mano il monopolio del commercio dell’olio; essi erano : 1. Cisterne “Maurigoffe” una società olandese che edificò la struttura nel 1783 (da cui prese nome la salita, che poi divenne via Trento). Le sue cinquattotto cisterne potevano contenere 24000 quintali di olio. 2. Cisterne Serra‐Cardinale (palazzo Musco) edificata nel 1700 circa. 3. Cisterne Gagliardi in piazza Mercato risalenti al 1780 circa. 4. Cisterne Averni di Genova in via Trento risalenti al 1780. 5. Cisterne Cordopatri in via Rimembranze del 1830. 6. Magazzini Gargano, Zaffiro, Gambardella, Pisani, risalenti al 1845 tutti in via Lomoro. 7. Cisterne Rossi salita Giffoni del 1845. 8. Magazzini barone Musco del 1800 circa, via De Rosa. 9. Magazzini Bianchi piazza della posata del 1850 circa. 10. Cisterne Starace via Roma del 1850 circa. 11. Cisterne Castellano via Roma del 1850 circa. 12. Cisterne Aloia via Roma del 1850 circa. 13. Cisterna Gargano via piccola velocità del 1835. 14. Magazzini D’urso via Torino del 1895. 15. Magazzini di via 24 maggio. I sopraelencati gestivano in proprio il commercio o erano rappresentanti consolari di paesi stranieri. L’oro verde era utilizzato dalla maggior parte delle nazioni europee per l’illuminazione pubblica. I vice‐consoli ebbero in mano il potere politico oltre che economico dell’area. Molto spesso costoro erano in lotta fra loro per la poltrona di sindaco o per quella di consigliere provinciale, tra questi: il cav. Briglia, il cav. Giffoni, il cav. Baldari, il cav. Tripodi. Assenti sul piano politico ma non su quello economico i latifondisti nobili. I nobili con sede a Gioia erano i Serra‐ Cardinale maritata Musco, il barone Cordopatri. L’attività di trasporto dell’oro verde, tramite velieri, era curata da un’ efficiente dogana, localizzata alla fine di via marina, scendendo, sul lato sinistro della spiaggia. I rapporti tra dogana, capitaneria e rappresentanze varie erano gestite da agenti marittimi e spedizionieri doganali: Tarantino, Sofi ecc. Gioia Tauro dipendeva dall’agricoltura della piana e questa dalle infrastrutture gioiesi per la loro commercializzazione. A complemento di tutto, una serie d' impianti industriali, localizzati in loco, chiudeva un ciclo di trasformazione, con un elevato grado di verticalizzazione produttiva: nulla si perdeva di queste attività. Si fosse trattato di olive, agrumi, uva o boschi di conifere, grano.

“ Scendendo lungo la sterrata via marina, a metà strada, era localizzata una raffineria costruita da una società straniera, poi diventata Benedetto e C. oleificio". Quasi al confine con la spiaggia sorgeva la distilleria Cannizzaro.” I proprietari erano di Palmi. Questo impianto produceva alcool etilico dai residui della pigiatura dell’uva cumulati davanti alla distilleria. I carri tirati dai buoi o

12 muli provenienti dai vigneti della piana, scaricavano il materiale di fronte; poi carriole o carretti tirati da asini lo trasportavano all’interno dello stabile e qui calato in vasche di lavaggio. Dopo il lavaggio si procedeva ad una spremitura ulteriore con grossi torchi meccanici. Il liquido ottenuto si introduceva nel distillatore. Un procedimento fisico‐chimico forniva nella parte inferiore del distillatore l’alcool etilico. Il quale era poi immesso nelle botti e venduto. Ci lavoravano una ventina di operai stagionali. A sud della marina, tra le fine del XIX° secolo e l’inizio del XX° secolo era sorto un altro grosso impianto di distillazione ad opera di una società barese: Mazzurano. Questo impianto lavorava i residui della spremitura delle olive: la sansa. Tutti i frantoi pianetini vendevano i residui alla società, i cui grossi cumuli si notavano sia dentro sia fuori l’impianto. Poi con un procedimento similare a quello visto per l’alcool etilico, si otteneva l’olio, che in questa fase non era commestibile. Il prodotto era caricato su grossi vapori e trasportato in Sicilia o Liguria. Qui subendo ulteriori trattamenti, tagli e filtrature, l’olio diventava commestibile e venduto in Europa: il valore aggiunto per il commerciante si otteneva in questa fase. L’impianto occupava una quarantina di persone a pieno regime, poi diminuiva fino ad arrivare al massimo a dieci operai. Successivamente l’impianto fu acquistato dalla Gaslini S.A. di Genova, come l’ impianto similare sorto a ridosso della F.S. Lato nord nei pressi del fiume Budello, accostato al boschetto di eucalipti, piantati dai “cuatti” al tempo dei Borboni, il commerciante campano Andrea Gambardella aveva montato un impianto di sfarinamento già nell’ultimo ventennio del XX° secolo. Produceva farine di vario tipo che commercializzava lui stesso nella piana e oltre. Altra attività vigorosa era il cantiere navale che tra l’otto e il novecento produsse parecchio naviglio di media grandezza e piccole imbarcazioni. Il cantiere era di dimensioni minori che non quello di Bagnara o di Messina, ma molto attivo. L’agricoltura della piana alimentava i processi produttivi di cui sopra , e questi generavano un indotto corposo e vario di attività artigianali: falegnamerie per botti, segherie, vetture da trasporto, maniscalchi, fabbri, fiscolifici, maestri d’ascia, ramaioli, cordai, calafatari.

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Il collegamento fra la marina e Gioia centro era composto da una lunga strada sterrata, che nel periodo delle piogge diventava impraticabile anche per i carri o i traini, creando danni alla principale attività economica della piana intera. Tanto che da diversi anni, gli imprenditori privati, commercianti, artigiani, armatori ecc. avevano espressamente chiesto al sindaco la sistemazione di quell’unico collegamento viario. “Nel 1905 il consiglio comunale deliberò di contrarre un mutuo con la C.D.P. di ottantamila lire “ ……………. e con il supporto fattivo e congruo della prefettura di R.C. …… ed il 25 novembre 1905 il prefetto visita la via marina ……….. coadiuvando il comune onde facilitare il perfezionamento del mutuo”. Come sempre l’ente pubblico sopperiva le necessità dei privati. Una vecchia teoria economica affermava che il vero capitalista nasceva dal commercio, cioè, non era il proprietario dei mezzi di produzione, il proprietario terriero o l’artigiano, ma colui che acquistava il prodotto e lo rivendeva nei mercati più remunerativi. Le imprese commerciali private pur traendone le maggiori ricchezze non contribuivano al sostegno delle spese necessarie per asfaltare la strada (siamo in regime liberale). Finalmente nel 1908 quella vitale arteria di collegamento fu asfaltata con lastroni lavici, provenienti dalla Sicilia e trasportati dai velieri. La capitale della industria olearia e, più in generale, del commercio della provincia, attivava un consistente giro finanziario che costituì una delle risorse economiche della regione principali.

Anche la pesca era importante nell’economia gioiese. Bastava recarsi sulla spiaggia lato Budello per notare una variopinta quantità di barche da pesca di grandezza variabile: rinchie, luntre, buzzetti, paranze, iole. Ognuna di queste barche apparteneva, in genere, ad un gruppo familiare. Le paranze avevano un equipaggio con al comando un padrone marittimo. Le prime, le piccole, erano barche a remi, le altre a vela. I pescatori, a forza di braccia andavano a pescare al massimo entro due miglia; in luoghi più distanti ci arrivavano con le vele. La barca era il loro sostentamento, assieme agli usuali strumenti per la pesca: le reti, a paranza, ragno, strascico, giacchio, lampara, tramaglio, conso, “rizzilli” ecc. , ed essa veniva badata, curata come persona di famiglia. Nei giorni di ferma il pescatore, che era il medico, la visitava per riscontrare eventuali malattie: controllava il fasciame battendo con una mazzetta per ascoltarne la risposta. Un eco del legno diverso poteva significare una qualche lesione. Toglievano con un raschietto quella barbetta dovuta all’acqua di mare o pitturavano la poppa o la prua. Mentre un membro della famiglia svolgeva questo compito, un altro apriva la rete sulla spiaggia e riparava la lacerazione provocata durante qualche calata in mare. Alcuni di essi avevano un abbigliamento particolare che si tramandava da secoli: cappellino formato basco di cotone spesso, ed un maglione intrecciato in modo particolare dalle loro donne con i ferretti, pantaloni alla zuava, però stretti ai ginocchi e non usavano scarpe: chi li osservava avrebbe potuto supporre che non usassero calzature perché sempre con i piedi in acqua: non era un accorgimento tecnico, ma una questione di povertà. Allora le disuguaglianze di classe erano visibili ad occhio nudo, chiare, distinte: il loro aspetto esteriore; i poveri svestiti, scalzi, sporchi con il cappello in mano; la piccola e media borghesia curata e vestita discretamente; la nobiltà terriera o i ricchi borghesi, eleganti con bastoncino, cappello, scarpe in suola o stivaloni, giacche di lana pettinata, carrozze ecc.

I pescatori, come i contadini, seguivano il ritmo delle stagioni per la loro attività: il periodo delle alici, della neonata, dei tonnetti, delle seppie, per questo usavano varie reti o lenze o arpioni o la lampada a cherosene o petrolio per le aguglie.

14 Con il mare, la spiaggia, le barche, i pescatori, formavano una cosa unica: ci vivevano, ci facevano igiene (quando la facevano), i loro bisogni. “La marina conosce i miei passi” diceva padron ‘Ntoni ne i “Malavoglia” di Verga; la spiaggia gioiese conosceva ogni parte corporale dei pescatori . Cresciuti in un ambiente che sembrava non cambiare mai, non istruiti perché troppo poveri e troppo attenti a sopravvivere, vendevano il frutto del loro lavoro o lo conservavano sottosale. Quando la pesca era buona le donne dei pescatori, femmine dalla forza fisica eccezionale, sistemavano la cesta di vimini, ed urlando come ossesse attiravano i potenziali compratori o portavano il pescato alla vendita in piazza municipio, a piedi e con le caratteristiche saie.

Molto spesso, specie in inverno, il maestrale impediva loro l’attività lavorativa. I pescatori, con i volti induriti dal sale, osservavano, lungo la spiaggia dove la sera prima avevano tirato in su le barche presagendo l’arrivo della burrasca; i cavalloni che man mano si avvicinavano alla riva crescevano sempre più, e sbattendo sul bagnasciuga, sollevavano spruzzi e schizzi bianchi che trasportati dal vento colpivano i loro visi; poi, mentre l’acqua schiumante si ritirava, ecco che un altro cavallone gli si sovrapponeva in un continuo e crescente rincorrersi come fosse un gioco. Per un’antica tradizione, conosciuta molto bene anche a Bagnara, quando il mare impediva ai pescatori di esercire la loro attività, essi, muniti di chitarre cantavano canzonette di “sdegno” o “d’amore” lungo le vie della marina, addolcendo la giornata di lavoro perduta .

Qualche sciocco ignorante sosteneva che gli uomini fossero vagabondi, mentre le loro femmine lavoravano: il classico luogo comune. Esse si davano da fare perché, per il tipo di lavoro gli uomini erano sempre assenti dalle loro case, per cui le donne erano obbligate a fare tutto: figli, cucinare, vendere e, se necessario, menavano certi schiaffoni da abbattere un toro. Ma era gente poverissima, abitavano in baracche di legno nei pressi della spiaggia. Avevano famiglie numerose, ma con un alto tasso di mortalità. I loro piccoli erano sporchi e laceri con dei pantaloncini corti e forniti di un taglio centrale nel posteriore per facilitare i loro bisogni. Infatti non usavano mutande. Quando il mare, per troppo tempo, non permetteva ai pescatori di procurarsi del cibo, si rivolgevano agli enti parrocchiali, allora molto numerosi per la gran quantità di affamati, o a qualche famiglia generosa. La casa del capitano Carresi e dei Gambardella, divenne un incrocio obbligato quasi, per questa gente così povera. E con quello spirito che distingue il cristiano, l’amore verso il prossimo, la generosa famiglia Carresi li aiutava, donando cibo, vestiti dismessi, consigli igienici (tanto che donna Felicia ai loro neonati toglieva la ianca); in caso di malessere la stessa Felicia era il loro medico personale nell’attesa che arrivasse il vero medico.

La marina lato Petrace era abitata dai “parmisani”, gli originari di Palmi, che , dopo i miglioramenti igienici, si stabilirono definitivamente in loco. Era una classe sociale appartenente alla media piccola borghesia armatoriale e artigianale. Questa zona della spiaggia era piena di velieri in secca per lavori di manutenzione, posti uno di fianco all’altro con i grossi ganci laterali che bloccavano il veliero al “palo”. Si notavano a distanza con i loro altissimi alberi ed i pennoni con le vele in campana raccolte ed agganciate alle corde; si distinguevano diversi tipi di naviglio, differenti per velocità, stazza, distinguibili dalla vela o dal numero di alberi: golette, brigantini, tartane, cutter, feluche. Davanti allo specchio di mare antistante i magazzini di stoccaggio borbonici, sostava il naviglio attraccato a boe d’ormeggio e pronti a caricare, ripartire ovvero scaricare merce varia. Più lontano si notava qualche piroscafo, di stazza molto più grande, con il fumo che uscendo dal fumaiolo si perdeva nell’aria. Operavano, allora, tanti armatori locali, in gran parte bagnaresi, palmesi, siciliani, genovesi.

15 La famiglia Patamia di Bagnara; Gentile; Albonico; Purrone; Alessio Pasquale; Alessio Antonino; Auteri; Longo; La Capria, Costa e lo stesso capitano Carresi Francesco socio per vari carati. L’infrastruttura marinara era utilizzata soprattutto per esportare botti di olio. A seguire legname, granaglie, carbone, botti di vino ecc. o per importare merci per i grossi commercianti campani o pugliesi o siciliani: Achille Normanno, S.re Proto, Matteo Anastasio, Aloia, Corvo, Gambardella, Gargano, Pisani, Vissicchio, che rivendevano a tutta la piana.

Tra la fine del XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, su stime fatte dai giornali del tempo (Il tartarin) si fermavano, per carico o scarico, nella rada, oltre 500 velieri all’anno, senza contare i piroscafi ed i legni locali di piccola stazza. Un movimento ben più importante che Reggio o Vibo (allora Monteleone): “Ci fosse stato un semplice pontile d’approdo, l’attività si sarebbe raddoppiata”. Questo pensava il capitano Carresi quando dal suo veliero osservava quel movimento di navi e genti. Fosse vissuto qualche anno ancora il suo sogno l’avrebbe visto realizzato nel 1950, quando non serviva più a nessuno. Esiste a questo proposito un nutrito carteggio fra la camera di commercio di ed il ministero dei lavori pubblici fin dal 1874, dove si “pietiva” la costruzione di un pontile d’approdo e, se i costi fossero troppo alti, almeno due boe d’ormeggio. Ma i politici reggini riuscirono a far costruire il porto a Reggio Calabria e non un misero pontile d’approdo a Gioia Tauro, centro di grandi attività economiche al servizio dell’intera provincia. Ancora una volta si era persa l’occasione buona per decollare. A dimostrazione della notevole attività economica dell’area si annotava presso la camera di commercio di Reggio che le falegnamerie gioiesi riuscivano a sfornare 18 mila botti all’anno di media. Quell’anno l’armatore La Capria riarmò il veliero “Nuova Antonietta” affidandone il comando al Carresi. Nel settore marinaro, allora, non esistevano contratti di lavoro: il rapporto si stipulava personalmente (per la verità era così in tutti i settori economici): si faceva la proposta, l’accettazione, una stretta di mano e il contratto era fatto, salvo il passaggio presso l’unico ente pubblico che c’entrava al momento, la capitaneria di porto per il timbro sul libretto di navigazione. Carresi effettuava viaggi da Gioia Tauro a Salerno o ad Amalfi. E da uomo attivo e forte qual’era, al ritorno, si concedeva alle gioie dell’amore. La coppia pensò che fosse sicura dai rischi di una nuova gravidanza. Ma, come è il detto “tanto tuonò che piovve!” un bel giorno Felicia telegrafò al marito annunziandogli la nuova gravidanza. “Perdinci!” ‐ esclamò il capitano stupito ‐ “Signore ti ringrazio per questo, ma … spero che non si tratti di un'altra femmina! In ogni caso dove mangiano sei mangeranno sette.” Come se il buon Dio avesse sentito la sua preghiera, Felicia partorì un maschietto. Il parto fu felice, ma il piccolo nacque gracile ed era sempre malaticcio e prima che fosse battezzato fu colpito da paralisi al braccio sinistro: rischiò di morire. Il capitano informato continuamente dalla figlia Carmela si struggeva da morirne.. Nei momenti più bui, quando il mondo sembrava gli crollasse addosso, Carresi alzava gli occhi al cielo e si affidava alle misericordiose braccia di Gesù. Si recava in una qualunque chiesa e pregava. Quel giorno mentre vagava a Napoli in preda allo sconforto, entrò in una chiesa, bagnò le dita nell’acquasantiera e girando gli occhi si trovò davanti alla statua di S.Ciro. S’inginocchiò e pregò: “S.Ciro, tu che stai al cospetto del creatore, ti prego intercedi tu per il mio piccino, che possa salvarsi. Ascolta questo misero peccatore avvilito …….. io ti prometto: se la tua intercessione lo salverà lo battezzerò chiamandolo in tuo onore Ciro!” Il bambino si salvò. Dopo la conferma di Carmela, il capitano telegrafò ordinando di chiamarlo Ciro.

Durante il periodo estivo, ad ogni viaggio che il capitano compiva verso la Campania o la Sicilia, portava con se a turno, una delle figlie. Le ragazze a bordo osservavano con curiosità e meraviglia

16 le operazioni di carico del veliero: notavano che i velieri più grossi venivano raggiunti da una serie di barche con al traino le botti di olio da caricare. Due marinai del veliero, quando la barca era sotto bordo, agganciavano le botti con funi e tramite un paranco manuale sollevavano la merce in coperta e la sistemavano in modo opportuno. I velieri più piccoli, invece, si avvicinavano alla riva e tramite una passerella in legno, gli operai caricavano le merci, che poi l’equipaggio sistemava sottocoperta. Una volta effettuate le operazioni di carico, si aspettava la sera per partire. Ci potremmo dilungare molto nel discorso sull’attività portuale del tempo di cui raccontiamo se lo paragoniamo ipoteticamente all’attuale: i containers o contenitori, forse, non sono una invenzione moderna, ma abbastanza antica, basta tener conto del fatto che spesso nelle botti s’introduceva non solo olio o vino o alcool etilico ma pure grano o farina. Le ragazze, molto curiose, chiedevano al loro papà perché si dovesse attendere la sera. Il capitano spiegava loro che si “alzava” il vento di terra, il quale permetteva al veliero di muoversi. Infatti ad una certa ora della sera, il “segnavento” si tendeva ed il capitano dava gli ordini necessari alla partenza: il nostromo al timone, i marinai addetti alle vele le scioglievano, dopo che il veliero era stato sganciato dalla boa d’ormeggio; uno dei marinai accendeva due lumi a petrolio a prora e a poppa, si suonava il campanone in segno di saluto. Poi sotto la forza del vento di terra le vele si gonfiavano ed il veliero acquistava velocità. “Prua a Capo Vaticano, nostromo ! Rotta nord !”. Capo Vaticano aveva un faro illuminato a petrolio. Le ragazze al rientro, raccontavano alle amiche o ai vicini, ancora con gli occhi pieni di meraviglia mista ad orgoglio, quello che avevano visto nelle grandi città. Le automobili in strada o i tramvai che circolavano su piccoli binari come quelli del treno, trasportando numerose persone; le vetrine dei grandi negozi illuminati del centro; le tante persone eleganti che passeggiavano in strada o seduti ai tavolini dei bar.

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D’inverno le ragazze conducevano la vita semplice di un piccolo paese del sud. Si davano da fare in casa, specie ora con il nuovo arrivato che aveva bisogno di tanta attenzione e cura. La domenica e le feste comandate, tutte insieme si recavano alla S.Messa, che si celebrava a Gioia nella chiesa madre al “Piano delle fosse”, il centro storico. La chiesa era posta di fronte al grande magazzino di Don Achille Normanno, commerciante campano, ottimo amico del capitano Carresi. Prima di avviarsi donna Felicia, faceva le solite raccomandazioni alle figlie: come un maresciallo: “Tenete gli occhi bassi, salutate educatamente, poi testa giù!” Ella era talmente insistente, pervicace, esagerata con queste raccomandazioni, che le figlie più grandicelle scimmiottavano la loro mamma, divertendosi per le risate. “Perché pure guardando si fa peccato … e allora lo dovete confessare !” diceva categoricamente Felicia. Ma lei aveva, un motivo valido per ripetere sempre quelle cose: non era solo un aspetto culturale, ma aveva notato che Fortunata, la primogenita, quando passava davanti la falegnameria di mastro Peppe Orlando o sulla piazzetta di fronte alla distilleria Cannizzaro, era solita girare la testa a 180° per guardare insistentemente un bel ragazzo biondo con gli occhi chiari di nome Francesco. Era costui figlio di Maria Minutolo, rimasta vedova in giovane età e Francesco Caratozzolo deceduto in Argentina. Felicia di cognome andava Patamia e il Patamia,Francesco, erano primi cugini.

I coniugi Caratozzolo erano emigrati in Argentina, dopo essersi sposati prima civilmente nell’anno 1885 e, subito dopo, col rito di Santa Romana Chiesa. Poi, da Messina, assieme a tanti emigrati, lasciarono l’Italia. Il padre di Francesco, Tommaso, il viso rigato di lacrime, alla richiesta di Francesco: “Beneditemi padre!” rispose, come di consueto: “Ti benedico figlio!” e fece il segno della croce sulla sua fronte. Non era sicuro che lo avrebbe rivisto; ma Tommaso pensava, da vecchio, alla propria morte, non a quella del figlio Francesco. E non lo rivide più veramente. Francesco, quando decise di emigrare, era avanti negli anni (32). Fino ad allora aveva lavorato per la famiglia; nel sud si ha l’obbligo culturale e morale di far sposar prima le sorelle, solo dopo gli uomini si potevano ritenere liberi. Se poi le sorelle erano bruttine, si correva il rischio che gli uomini invecchiassero, e rimanessero “zitelli”. Comunque fosse, la paga bassa, la vita dura del mare, le notizie provenienti dall’Argentina sulle ricchezze da sfruttare, lo spinsero a lasciare Bagnara per un futuro migliore. Ma voleva trovare una moglie nel suo paese d’origine, per seguire il detto: “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. A parte l’età Francesco Caratozzolo era un bell’uomo: capelli castano chiari, divisi a metà, occhi azzurri e baffi alla siciliana. Abile marinaio, deciso e coraggioso, era una soddisfazione vederlo guidare la barca, alla barra del timone. Il padre Tommaso gli indicò una ragazza di circa vent’anni: Maria Minutolo. Originaria di , era orfana di entrambi i genitori. Una zia materna residente a Bagnara si era incaricata di accudirla. Era il tipo adatto a lui, pur senza dote: era un’ottima sarta, e ciò bastò a Francesco per chiedere la sua mano. Malgrado la differenza d’età, Maria accettò di buon grado il matrimonio: avere una famiglia, un futuro sicuro sia pure lontano da Bagnara era per lei, povera orfana, l’inizio di un sogno; sposarsi avere dei figli. Questo pensava Maria, mentre la nave a vapore si staccava dalla banchina del porto e si allontanava fino a diventare un punticino nell’azzurro del mare. Il vapore li stava conducendo, con un biglietto di terza classe, verso la lontana Argentina. A Buenos Aires i coniugi tramite il Consolato italiano e, con l’aiuto di parenti e amici, trovarono casa in un grosso rione della città: Palagonissa. Nel giugno del 1888 nacque la primogenita Giuseppina. Intanto,

18 Francesco forte della sua esperienza di marinaio, si era inserito bene nell’ambiente della pesca, in quell’insenatura dove l’acqua dolce incontra l’acqua salata: Il Rio de la Plata e l’oceano Atlantico. Dopo l’impresa del capitano Fondacaro e del suo equipaggio la reputazione dei marinai italiani era cresciuta notevolmente. In seguito a Francesco fu affidato il comando di un peschereccio. Era il 1891. Alla nascita del secondogenito il 26 marzo avvenuta nel quartiere Barrio di Buenos Aires, la sventura si abbatte’ sulla famiglia Caratozzolo: durante un fortunale, il peschereccio affondò con tutto l’equipaggio. Francesco aveva seguito lo stesso amaro destino del fratello Rosario perito in mare in un simile incidente. Maria Minutolo, dopo essere rimasta da ragazza, orfana dei genitori, si trovò ancora sola, con a carico due figli piccolissimi. Rientrò in Italia per il tramite della Società di Patronato e Rimpatrio per gli immigrati in Argentina: la stessa organizzazione che li aveva portati lì, li riportava in Italia, senza un avvenire certo. L’ultimo nato fu battezzato e chiamato come suo padre Francesco e non come il nonno Tommaso. I lucciconi nei suoi occhi addolorati, delusi, si vedevano da lontano mentre la nave si avvicinava al porto di Messina: quando partì pianse di gioia e di speranza per un futuro migliore, questa volta per il marito annegato, un futuro incerto e due piccolissimi figli da far crescere. Fu accolta con affetto dai parenti di Bagnara. In quegli anni la sorella di Francesco, Anna , aveva sposato Francesco Patamia l’armatore ed abitava già a Gioia. Anna prese con se Maria e i suoi due figli e li portò a vivere con sé, dove la flottiglia del marito faceva capo. La famiglia Patamia risiedeva in una casa lungo via marina. Vicino a codesta casa vi era il forno della signora Ventre sposata Scarcella, un uomo di Palmi stabilitosi a Gioia.

Maria aiutava la cognata Anna nelle faccende domestiche e nello stesso tempo, da sarta provetta lavorava per gli altri. Gran parte del suo lavoro di sarta consisteva in vestiti da rivoltare. Spesso le veniva molto difficile farlo perché erano vestiti già rivoltati varie volte. Guadagnava qualcosa ma riuscì a mandare i figli a scuola, Francesco il secondogenito imparò pure a suonare il mandolino. I tempi erano difficili veramente. Il basso ceto ne soffriva di più. I giornalieri agricoli, al mattino presto, si fermavano in piazza della Posata, si mettevano in fila con gli stracci che avevano addosso ed un fazzoletto con dentro un pezzo di pane raffermo (quarta classe ) ed al massimo un pezzetto di formaggio. Poi, subito dopo, arrivava il nobile o il suo fattore (meglio caporale) e passando in rassegna quei poveracci come fossero militari, sceglievano la gente da assumere per quella giornata di lavoro nei campi. I più forti venivano caricati su un carretto ed avviati, i più deboli e macilenti venivano scartati. Maria percorreva la strada che da casa Patamia portava a piazza municipio (o tre canali) per acquistare verdura e frutta. Spesso, mentre si trovava in mezzo a quel via vai di gente e di sporte piene di roba ed il vociare dei venditori che si sommava al raglio degli asini legati a dei grossi anelli al muro di fronte alla piazzetta (la pescheria), ecco che spuntava il banditore. Questi con voce stentorea dava notizie di qualche avvenimento nazionale o notizie riguardanti il comune stesso: apertura di scuole, tasse, o altro. Così si avvisava la gente, a quei tempi, non essendoci giornali di uso comune, e per il tasso elevato di analfabetismo. Quella mattina il banditore avvisò che i reali carabinieri avevano sparato sui socialisti “sovversivi” che avevano scioperato e che volevano assaltare la prefettura, uccidendone parecchi: “Che è successo?” chiedeva Maria spaventata a Natalina “faccia di gallina”. Questa rispondeva: “Dice che i carabinieri sono stati ammazzati dai socialisti mentre stavano in prefettura assieme!” ‐ “No!” riprendeva Rocco “panzazza”: “I carabinieri hanno sparato ai rivoluzionari!”.

19 “Gesù mio!”‐ esclamava la “ciciarara”‐ E ci sono stati morti?”. “Non ho sentito bene!” ribadiva Concetta. Così tra un vociare confuso di spavento e i gridolini delle donne, il cavalier Giffoni gridava dal predellino della sua carrozza: “Così si trattano i sovversivi socialisti … bisogna prenderli a fucilate ! Che cosa vogliono? Che uno si spogli della propria roba, sudata, e la divida con gli altri? Tutto in comune? Pure la moglie? Questi senza Dio, così bisogna trattarli!” E mentre arringava, osservava la gente intorno, per notare se approvassero o meno la sua sfuriata, naturalmente c’era l’unanimità. E riprendeva a parlare mandando fendenti con il suo bastoncino nell’aria del mattino. E mentre il cavaliere ripartiva con il suo bel calesse la gente cercava di capire le parole del banditore e del cavaliere. “Ma che vogliono questi socialisti?” domandava “faccia di gallina”. Teresa “la narda” rispondeva: “Mio marito mi raccontava che se uno ha due galline, una la deve dare a chi non ce l’ ha ! e se ha due baracche una la deve dare sempre a chi non ne ha”. Rosa “mussuni” toccata nel vivo con la storia delle galline strabuzzava gli occhi e ribadiva : “che nessuno si avvicini a casa mia ! Le galline sono mie e me le tengo !” Maria, ironicamente, ribatteva: “Si, commare Rosa, però bisogna dividere pure la fame a mio parere!” Poi con la borsa di paglia piena rientrava a casa. Lungo via marina, all’angolo, nei pressi della distilleria Cannizzaro, vi era la bottegha del falegname mastro Peppe Orlando, ereditata dal padre Paolo e originario di Palmi che all’epoca aveva ventuno anni. Costui, ogni giorno, al passaggio di Maria Minutolo si faceva trovare sull’uscio della bottega e, con modi gentili, la salutava . E lei rispondeva tranquillamente al saluto, abbassando con pudore gli occhi. Tutti i giorni. Mastro Peppe, con astuzia volpina, aveva messo due specchi sulle ante della finestra della bottega, che s’apriva verso l’esterno. In quella posizione strategica osservava la gente che vi passava. Quando adocchiava l’arrivo di Maria, si toglieva il cappello e la giacca piena di segatura e si fermava sull’uscio della sua porta, sciogliendosi in brodo di giuggiole. Dapprima Maria non ci fece caso, pensava: “E’ un vicino e mi saluta educatamente; nei paesi, si sa, ci conosciamo tutti ….”. Cominciò a sospettare quando Mico “pane di granu” e sua moglie Ciccia, intrattenendola con la scusa di un vestito da far aggiustare, tiravano fuori discorsi tipo: “Donna Maria la vita si fa dura: è difficile vivere da soli con quello che si vede e si sente in giro: tra socialisti, delinquenti. Io avrei paura a vivere sola”. Maria li guardava divertita e dava loro corda: “Ma io non sono sola, ho due figli a cui badare … Ma ditemi una cosa comare Ciccia, avete qualcosa da dirmi? Dove volete arrivare?” Questa volta Mico “pane di grano” s’intromise dicendo: “Avete ragione comare Maria, mia moglie parte sempre dalla creazione del mondo per dire una cosa: il fatto è che mastro Peppe Orlando, il falegname, ottima persona, seria, onesta, e gran lavoratore essendo solo e voi siete sola … “ e fece un gesto inequivocabile, come dire: unite le solitudini…… “Basta così compare Mico. Io ho già due figli a cui badare, loro sono la mia passione e il mio futuro, il mio unico amore !”. Chiudeva così, garbatamente, la discussione e le parole non dette sottostanti. Ma non poteva fare a meno di pensare a quanto le avevano proposto, i vicini. “D'altronde sono ancora giovane.” A chiusura del discorso comare Ciccia ripeteva: “Comunque, donna Maria se avete bisogno di qualcosa, siamo qui: che “è meglio una mala matina che una mala vicina!”.

20 Ciò che impediva a Maria di considerare realistica la faccenda, era l’età di mastro Peppe: lei aveva 2 figli e trentanni suonati, lui una ventina di anni. Allora questa differenza d’età tra i potenziali sposi era ritenuta scandalosa, specie se vi erano di mezzo due figli di un altro. In tutti i paesini del sud come Gioia, negli anni di cui si parla, si andava molto presto a letto. Maria coricava i figli, e, dietro le loro insistenze recitava una preghiera di devozione a Maria, che essa aveva imparato da bambina: “Eu mi curcu ‘nta stu lettu cu’ Maria ‘nta lu me pettu, eu dormu e idda vigghia, se ‘ndaiu bisognu mi risvigghia; mi cumbogghia cu so’ mantu, patri, figghiu, spiritu santu. E va curcati e riposa, non pensari a nudda cosa. A li cosi di la chiesa, comunioni, confessioni, ogghiu santu, patri, figghiu, spiritu santu ! Bona sira santa cruci, chi di rosi siti ornata E Gesù fu misu in cruci, bona sira santa cruci. Bona sira, mia madonna, di lu cielu siti colonna, di lu cielo siti regginan e vi dassu la bona sira e vi dassu la santa notti, saluti ai vivi e rifriscu a morti. E comu ’ndi benedicistivu a santa iornata, se possibili, benedicitindi a santa nottata.”

Addormentatisi i figli, Maria completava qualche lavoretto. Poi stanca spegneva il lume e si apprestava a dormire. Da quella notte, dopo il dialogo con i vicini, e per tutte le notti, Maria era svegliata da una serenata che un innamorato cantava alla sua bella. “Ohi Marì, ohi Marì, quanto suonno ca perdo pe te … “

Una mattina mentre, assente la cognata e i suoi figli, mastro Peppe piombò a casa di Maria. Lei si vide un uomo con il cappello in mano che emanava un forte odore di legno: “Buongiorno Donna Maria. Se mi date licenza di parlare, sarò breve … perché sono un uomo di fatti e non di parole. Perché di parole per dirvi ciò che provo per voi, ce ne vogliono poche. Ciò che provo per voi lo testimoniano le mie serenate o il cuore che mi batte come un tamburo quando vi vedo passare. Vi prego ascoltatemi fino alla fine. Non posso aspettare più. Sono un uomo semplice e non chiedo molto alla vita, se non una donna da amare e avere dei figli … se i figli arrivano va bene … se no due li abbiamo già e bastano.” Maria rimase stupita dalla repentina e decisa dichiarazione di mastro Peppe. Ma si riprese subito: “Mastro Peppe ma io sono più vecchia di voi … potete trovare una donna più giovane … “ “Questo vi fa capire quanto vi ami … mi metterò contro tutti e tutto per la mia e la vostra felicità !” E così fu, dopo una lunga lotta con i suoi genitori mastro Peppe la spuntò e convolarono a giuste nozze. Da questo matrimonio nacquero altri cinque figli: Paolo, Carmela, Antonino, Giovanna, Giuseppe. Il primogenito di Maria, Francesco figlio di F.sco Caratozzolo, suo primo marito, dopo le scuole elementari, si dedicò alla stessa attività dello “zio” Peppe Orlando e diventò ben presto un bravo ebanista. Ma era un tipo particolare: libertario, odiava le camicie di forza, superbo, gran bestemmiatore, irascibile, affabile, con una voglia di ciliegio sulla mano destra. Da giovanotto, l’età

21 in cui il mondo sembra si possa prendere con una mano e infilarlo in tasca, per una sorta di reazione psicologica alle ingiustizie e disuguaglianze allora esistenti, manifestava idee socialiste . Ma non si rendeva conto che più che socialisteggiante era libertario(anche perché i suoi parenti Patamia erano di verso opposto). Era, anche, un giovane ricco d’iniziativa. S’inventava disegni ornativi da stampigliare a fuoco sui mobili; generoso ed altruista, geloso, come la cultura del tempo “pretendeva”: ognuno al proprio posto, l’uomo al lavoro, la donna in casa. Quando le sei sorelle Carresi più il maresciallo Felicia passavano davanti alla falegnameria, inevitabilmente gli sguardi tra Fortunata e Francesco s’incontravano. E pur conoscendosi bene le due famiglie, per via della parentela, tra essi non correva buon sangue, ma si salutavano rispettosamente. Francesco, quando la vedeva arrivare, si metteva sull’uscio e con fare gentile le salutava. Il maresciallo Felicia rispondeva per tutti: “Buongiorno!”, e via di corsa. Nonostante la severità di Felicia, Fortunata era attratta irresistibilmente da quel ragazzo che sembrava un vichingo, alto, magro, sempre elegante, con il baffetto alla siciliana e l’aria ironica, da guascone. Ogni sera puntualmente, la famiglia Carresi si recava alle funzioni in chiesa per il rosario e la benedizione . Così faceva Francesco altrettanto puntualmente. In un piccolo paese, il corteggiamento di una ragazza di buona famiglia non potava passare inosservato, tanto che l’amplificatore umano trasmetteva la notizia e la ingigantiva a dismisura . Quando la voce arrivò a Maria, madre di Francesco, ella proibì al figlio di corteggiarla. “Ti proibisco di andare appresso alla figlia di Carresi! “E per quale motivo?” rispondeva lui risentito. “Sono sei femmine da sistemare, non otterrai una lira di dote. E poi, ricordati che hai una sorella nubile da sposare! “A me interessa la ragazza e non la sua dote !” e se ne andava piccato: per quella sera avrebbe dormito in falegnameria. Le vie della marina, allora un piccolissimo borgo, erano illuminate da qualche raro lampione a cherosene posto qua e la. Ma tutto sommato scarsamente illuminato. Ogni sera assieme a mastro Peppe “u burdinu” ed altri amici, armati di chitarra e mandolino, offrivano una serenata a Fortunata. Gli strati sociali della media borghesia cantavano o canzoni napoletane o romanze. Francesco per la sua innamorata aveva scelto “ideale” di F. Tosti: “Io ti seguì come iride di pace lungo le vie del cielo, io ti seguì come un amica face, nella notte del velo … e ti sentii nella luce e nell’aria nel profumo dei fior e fu piena la stanza solitaria di te e dei tuoi splendori. Torna caro ideale, torna un istante a sorridere ancora … Piano piano, nel sentire quella dolce voce e quelle parole che le attraversavano l’anima, Fortunata, con la complicità di qualche sorella, apriva piano, piano l’imposta per vedere il suo cavaliere azzurro che la omaggiava con tanto amore. E così ogni sera. L’indomani Felicia, affidato l’ultimo nato ad una delle figlie, si avviava per far la spesa in piazza, accompagnata dalla secondogenita. In quel tratto di strada s’incrociava c on tanta gente . “Cata a tignusa!”, una vecchia pettegola con pochi capelli persi per una malattia, ma la gente sosteneva che li avesse persi a causa dei suoi pettegolezzi, incontrando Felicia le diceva: “Donna

22 Felicia, è vero che avete fatto “zita” vostra figlia Fortunata con il figlio di Maria l’argentina quel vagabondo donnaiolo ?” Ognuno ci metteva la sua. Felicia risentita, sgranando gli occhi e puntando i pugni sui fianchi, rispondeva piccata, suscettibile com’era: “Questi sono cazzi che non vi riguardano ! Ma guardate che gentaglia, mettono il naso negli affari degli altri !” Qualche faccia tosta di vicina, ancora più maliziosa, non si allontanava, dopo la sfuriata di Felicia, e pervicacemente insisteva: “Donna Felicia, guardate sull’onore dei nostri figli, che a me lo hanno raccontato; voi sapete che io mi faccio i fatti miei … anzi vi posso dire nome e cognome di chi mi ha riferito queste cose … “ e ripeteva il nome di una parente di Felicia. Apriti cielo! Pare che le cose dette da estranei, non provochino la stessa reazione che provoca una cosa detta da un parente … E Felicia andava su di giri: “Che badi ai fattazzi propri per non dire una parolaccia, si è dimenticata che sua figlia è stata lasciata dal fidanzato?” E la vicina seguitava: “Ma vedrai,diceva quella vostra parente, che questo bel tomo la lascerà … e non la sposerà! A dire la verità Donna Felicia mi sono seccata pure io, e le ho risposto: “ Vi sbagliate questa è cattiveria. E’ gente per bene e timorata di Dio, sono casa e chiesa.” E sapete cosa mi ha risposto la vostra parente ?: “Ma quale casa e chiesa, quelle svergognate che vanno a ballare dai Gambardella, i napoletani !”. Felicia diventava un’ira di Dio e vomitava parole di fuoco: “Gentaglia da quattro tornesi, qui vi abitano bandiere di persone sane e timorate di Dio veramente … e poi le mie figlie ballano tra loro ! Ed avranno tutte la loro dote, perché ci sono uomini con due coglioni grossi così !” Finita l’omelia Felicia, come suo solito, esagerata, apriva la cassapanca dove era conservata la dote o roba delle figlie e la sciorinava davanti alla vicina, soddisfacendo così la curiosità della maliziosa. Quella stessa battaglia, intrisa di spiate e controspiate, creata ad uso e consumo dei buoni vicini, si svolgeva anche in casa Caratozzolo. Ma a Francesco i pettegolezzi non l’interessavano più di tanto. Voleva Fortunata e tutto il resto non esisteva. In effetti, Fortunata era la più bella delle figlie del capitano. Piccolina, magra, con un viso sottile, il naso pronunciato e l’espressione melanconica, con due zigomi alti e la bocca carnosa e pronunciata. Capelli nerissimi ed arricciati che erano l’invidia delle sorelle e delle amiche. Di poche parole, riservata ma rispondeva a tono nelle discussioni, a volte con sprudenza, specie a difesa delle sue opinioni. Non era molto espansiva per carattere, non lo dava, perlomeno, a vedere. Come tutte le sorelle era di una fede diamantina. Sapeva suonare la chitarra e accordarla. La domenica tutte insieme cantavano, in Chiesa stonando terribilmente. Ma questa storia di Fortunata e Francesco aveva creato qualche malumore in casa, più per i pettegolezzi che per altro. In fin dei conti, sul legittimo e naturale desiderio di una coppia di giovani che si volevano bene, si amavano, si desideravano, la gente ci ricamava talmente tanto che un sarto ci faceva una brutta figura al confronto. Ognuno immaginando le situazioni, deformava la realtà, per proprio conto, e poi, tiravano le somme. Già la vedevano incinta o in qualche angolo buio a baciarsi. Insomma ognuno ci metteva la sua e qualcosa di più. In effetti, né i genitori di lui né quelli di lei erano d’accordo su questo fidanzamento. I genitori di lei non vedevano di buon occhio quel ragazzo spocchioso e donnaiolo, chiacchierone e libertario, che la corteggiava. Non per la famiglia, per carità, era brava gente. Ma per lui … quell’atteggiamento di mangia mondo, che non accettava pareri e tanto meno consigli o quel modo di vestirsi, da sprecone, non gli stava bene la

23 frequentazione di circoli a giocare a carte con gli amici. L’unico spasso per i giovani, la domenica era fare qualche partita a carte, oppure a padrone sotto con il vino tanto per stare assieme. Quest’ultimo era un gioco molto in uso nei paesi del meridione. Era il passatempo preferito dagli strati più popolari nelle cantine. Il gioco del “padrone e sotto” per sua cultura aveva molte sfaccettature, ed acquistava significati a volte densi di messaggi crittografati. L’ambiente della delinquenza ne era pieno. Qui si metteva alla prova il “giovane d’onore”, la sua capacità di offendere e difendere, di rispettare capi riconosciuti nella tavolata. Il padrone era colui che nella fase iniziale del gioco aveva vinto: era, cioè, il dispensatore del vino. Ma solo il dispensatore. Poteva solo berlo, da “padrone”. Se avesse voluto distribuirlo agli altri della tavolata doveva avere il permesso del “sotto”. E qui veniva fuori la capacità di condurre il dialogo innanzi tutto, di convincere l’altro della bontà della propria proposta. La bravura del padrone era quella di far bere le persone che più gli aggradavano, specie se vi era il “ramo principale”. Ogni giocatore per farsi bello offriva sempre da bere al ramo principale, il sotto doveva, ecco i segnali ambientali, dimostrare la stessa bravura del padrone. Nel senso che avrebbe dovuto tirare per i suoi o per se stesso. Se, per esempio, tra i suoi vi era il “ramo principale” non vi erano problemi; ma, spesso, alcune teste calde non ci pensavano due volte a far scoppiare la lite. Si finiva spesso con il coltello in mano, prigionieri dei fumi dell’alcool e della cultura dello “sgarro”. Nella media borghesia la partita a carte era un modo per stare in compagnia e passare il tempo, chiacchierando del più e del meno nei circoli. Una vola accadde che nella cantina di “sangunazzo” entrò Santo Scidone, noto delinquente di Palmi e riconosciuto “tronco” della malandrineria locale. Nella discussione, che in quel momento era accesa, tra i due contendenti e vertente se una persona dovesse avere o meno il suo vino, entrando “Don Santo” disse: “E se lo bevo io, questo bicchiere di vino, c’è qualcuno in questa bella compagnia, che ha qualcosa da dire?”. Tutti salutarono devotamente ed il padrone rispose per tutti: “Per voi e per il vostro seguito, tutta la cantina Don Santo !” “Siete gente di rispetto quà e fuori di qua !” rispose don Santo Scidone. Quello era l’atto di sottomissione di quella tavola al capo riconosciuto. Di questi gaglioffi Gioia Tauro ne era piena e venivano combattuti dai carabinieri in un ambiente difficile se non ostico. Furono i ricchi borghesi o i nobili che condizionarono la vita di Gioia, proprio utilizzando la cosiddetta “gente di panza” per evitare i tanti furti che avvenivano nei loro poderi, per via della gran fame allora regnante. E proprio gli affamati, i poveri erano quelli che meno si davano da fare per aiutare la legge; per un falso senso dell’onore, che non perdevano se rubavano ai ricchi lo perdevano se relazionavano ai reali carabinieri; nel primo caso era “valenzia”, nel secondo “indegnità” . “L’uomo che è uomo non fa queste cose … e i fatti propri se li aggiusta da solo … !”. Questo era il modo di pensare dei bassi ceti del tempo. La piccola e media borghesia artigianale e professionista, pur rifiutando quelle presenze arroganti ed indisponenti, era anch’essa impregnata di quella cultura. Forse, più per un fatto di convenienza, opportunità, si tenevano alla larga da certe azioni, e non vedevano mai nulla.

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Nell’estate 1910, il capitano Carresi, di ritorno da Salerno al comando della Tartana “Nuova Antonietta”, che trasportava paste alimentari e formaggi per conto della ditta Scaramella,fu avvisato dalla moglie di quanto capitava tra Fortunata e quel bellimbusto: Felicia come tutte le donne fedeli e rispettose dei mariti, gli riferiva ogni cosa al ritorno dal viaggio. Così, assieme decisero di far fare a Fortunata un viaggio fino a Salerno: così la gente non parlerà per un pò di questa vicenda da romanzo d’appendice. Fortunata, riluttante, non voleva, ma il capitano garbatamente ma con fermezza la convinceva. Naturalmente il giovane Francesco, non vedendola passare assieme alle sorelle, domandava con lo sguardo perché Fortunata non fosse con loro e quasi impazziva per la rabbia. Una delle sorelle, con la quale si era creata una certa complicità, lo avvertì della sua partenza, consegnando a Paolo, fratello di Francesco, un biglietto di Fortunata. Intanto, mentre il veliero navigava verso Salerno, sotto la spinta di un maestralino che era una delizia sentirlo sulla pelle, Fortunata se ne stava in disparte imbronciata. Carresi a prua si godeva la frescura della brezza marina, o, gli spruzzi che la prua provocava quando tagliava l’onda a tre quarti. Cercava, inutilmente, di convincere Fortunata che Francesco non fosse il tipo adatto a lei, che poteva aspirare a partiti migliori. Era troppo spaccone, stravagante, donnaiolo. Niente da fare. Muta partì e muta rimase. Intanto Felicia, libera dalle tensioni causate dalla presenza di Fortunata con la sua storia d’amore, insieme alle altre figlie, s’interessavano solo ed esclusivamente di badare al piccolo Ciro. La spesa in piazza la faceva o l’una o l’altra delle sorelle più grandi. L’incontro con le ficcanaso, naturalmente, era quasi impossibile evitarlo. Ma le signorine sapevano come e cosa rispondere; con garbo e decisione rispondevano: “Sarà quel che Dio vorrà !” e bloccavano qualunque discorso. C’era una immagine, che rimase stampata per sempre nel loro cuore e nelle loro menti, quando si trovavano in piazza: la gran quantità di poveri che stazionavano attorno alla fontana o sui gradini che portavano alla casa comunale. Ognuno di loro si lamentava o faceva vedere le loro storpiature per sensibilizzare la gente. Esse si accoravano ogni volta che vedevano quei figli di Dio così lacrimosi … e davano qualcosina. Poi si infilavano in mezzo alle bancarelle, dove le voci dei vari venditori formavano un coro disarmonico, confuso con gli asini che ragliavano o con il nitrito dei cavalli. Giravano tutto e tanto, prima di allontanarsi, perché godevano a stare li in mezzo a sentir le liti fra chi acquistava e vendeva; bere l’acqua fresca del “tre canali”, il tutto sotto lo sguardo attento di due reali carabinieri che, con cipiglio, le loro divise scure con le strisce rosse ed un cappellone di traverso, seguivano quel via vai con i loro baffoni a manubrio. Prima di tirare verso la marina, le signorine s’indirizzavano verso la chiesa. Vi entravano con il velo in testa, recitavano le loro preghiere e tornavano a casa. Intanto la loro mamma, era alle prese con il marmocchio. Lo stava cambiando: gli toglieva quel rotolo di tela che serviva a tenere diritto il busto del bambino, altrimenti, dicevano gli antichi, potevano diventare gobbi. Timidamente, Filomena “occhi di gatta” (per via del colore) bussava e chiamava: “Donna Felicia ! Donna Felicia … mi leggete questa lettera?” e lei rispondeva: “Entra, entra Filomena … siedi, cambio il piccolino e sono da te.” Poi cominciava l’operazione. Filomena non poteva fare a meno di osservare e meravigliarsi dell’abilità con cui Donna Felicia svolgeva con leggerezza il rotolo di stoffa bianca e un po’ rigida, con cui si avvolgevano i bambini. Dopo il rotolo, in pelle vi era un altro giro di cotone più leggero e soffice. Lo srotolamento era fatto dalla mamma con delicatezza alzando quel batuffolino per i piedi delicatamente, tanto che il bambino, non si lamentava. Una volta nudo, gli faceva il bagnetto, lo incipriava e poi lo rivestiva.

25 Donna Felicia era considerata “strana” dalla gente, ma non superba , specie tra i pescatori, considerati, nella scala sociale, lo strato più basso. Dato che il figlioletto a Carmela, si sedeva, inforcava gli occhiali e leggeva, non prima di aver rilevato che la lettera fosse di suo figlio Saro. “Dice che sta bene dove l’hanno mandato a fare il militare, e che, forse, con la nave, partirà verso la Libia … saluti e baci Saro.” La lettera, ovviamente, era scritta da un'altra persona, in quanto Saro, come i suoi parenti, era analfabeta. Poi, prima che Filomena “occhi di gatta” parlasse, Felicita prendeva l’inchiostro e la penna, mentre Filomena tirava dal tascone del “faddale”, (grembiule) una busta e un foglio per la risposta. Filomena dettava e Felicia scriveva: “Caro Saro, speriamo che stai bene, noi pure stiamo bene e anche se non vogliamo dobbiamo stare bene per forza. L’annata delle alici non è andata tanto bene; perché alici non ce n’erano manco di passaggio. “Il papà con il pappù e i tuoi sette fratelli stanno riparando la barca e la rete, ti raccomando mettiti la maglia di lana per non prendere freddo, perché mi hanno detto che lì il freddo lo ammaccate con le mani. Saluti e baci da (seguiva elenco di tutti i fratelli e sorelle) oltre che dalla mamma e dal padre la nanna e il pappù.” Il foglio infilato dentro la busta, con la lingua umettava il bordo della stessa, poi Filomena, dimenando l’ampia saia, usciva. Lungo la giornata, spesso, si avvicinava tanta gente, la maggior parte delle volte sempre bagnarote, che accusavano qualche malessere. Il medico era troppo lontano. Così, ci si rivolgeva a persone di grande esperienza: Donna Felicia,come a Bagnara, era una di queste. Conosceva le erbe medicinali. Prima che la chimica prendesse piede, ci si curava, una volta, con ciò che offriva la natura. Ma la bontà di un erba non era proporzionale ad alcuna certezza. Molto spesso, la valenza di questa la si doveva al caso; se qualcuno, per esempio, soffrendo di un certo malore, avesse assaggiato un certo tipo di foglia, e spariva il malore si aveva la prova provata che quella foglia era buona. Da qui l’uso di quell’erba e la trasmissione orale agli altri. In alcune parti del meridione, l’uso delle erbe era accompagnato da atti o parole che sapevano di magia. Per esempio, chi aveva avuto la disavventura di toccare le ortiche, il fastidioso bruciore era eliminato (sic!) strofinandosi con foglie di sambuco e gridando: “Nesci ardica e trasi sambucu !” Donna Felicia sapeva, invece, che il taglio che procurava emorragia era bloccato con i dischetti presi all’interno della canna verde; con la bocca infiammata ti consigliava di masticare le foglie di basilico; per il “nervoso” la camomilla; il cavolo per le ulcere varicose, mentre l’aglio per le punture d’insetti; la lattuga per le infiammazioni della pelle; il limone per la digestione lenta; le noci contro la stitichezza. Tutte queste conoscenze Felicia le metteva a disposizione degli altri. Nelle lunghe sere d’inverno, quando il cielo annuvolato e nero prometteva pioggia, si preparava il braciere per riscaldare la stanza. Lo si lasciava fuori dopo aver messo sotto legna secca e in mezzo il carbone, della carta che si accendeva con un fiammifero. Se c’era il vento, ci pensava lui a mantenere la fiamma e infocare la legna e carbone altrimenti il ventaglio a listelle era più che buono per lo stesso fine. Le sorelle si mettevano a giocare con le scintille, che si sollevavano dal braciere per il vento e sparivano in alto. Le sorelle si lasciavano avvolgere da esse fino a quando la madre non le richiamava: “Attente agli occhi … poi ricordatevi che le scintille sono le animelle dei bambini morti che girano nell’aria !” Così rientravano tutte, impaurite. C’era un orario particolare della sera, che era caratterizzato dal passaggio, su quella via, di varia umanità. Come se si fossero dati appuntamento. Alla marina non vi abitava solo gente di mare, vi erano anche contadini. Venivano dalle campagne, bonificate, in parte, della Ciambra. Così, da una parte arrivavano, in fila, i contadini con tutta la famiglia: in testa il padre, poi a seguire la madre e i figli. Sempre identico, sempre uguale quel passaggio; il padre aveva la roncola o l’accetta, la madre

26 portava in testa un cesto con verdure varie; i figli portavano la legna per il braciere o per la cucina. Qualcuno più fortunato aveva un ciuco, che manco a dirlo, abitava nella stessa casa. Si incontravano allo stesso orario con i pescatori, che rientravano alle loro case, con le rete in testa, accompagnati dalle donne e dai figli, che portavano remi o altre attrezzature della barca. Orario uguale per stagione uguale. La vita del mare assomigliava tanto a quella dei contadini. Era molto duro il mestiere del mare; era molto duro il mestiere del contadino. D’estate il pescatore si alzava molto presto per armare la barca e andare a pescare; quando il caldo non ti faceva respirare dormiva sotto di essa, sulla spiaggia; poi, salpavano. La pesca poteva andare bene o male. Il contadino d’estate, anche lui, si alzava molto presto per seminare o zappare; perché col sole forte poi diventava difficile lavorarci. Raccoglieva quello che offriva l’estate; anche in questo caso, l’attività poteva andare bene o male. Il contadino poteva, volendo, rimanere a dormire nel pagliaio. I pescatori, però, a volte mancavano due giorni di fila, rimanendo in mezzo al mare; il contadino, volendo, poteva rientrare quando voleva. Questi ultimi, si rassomigliavano tutti nella postura; nel camminare flettevano tutti in avanti il busto, per via della posizione che assumeva il corpo per utilizzare la zappa o la falce o la roncola. Le loro dita erano annerite e le nocche ingrossate, perché artrosiche, a furia di raccogliere erba o toccare acqua. Questo appariva davanti agli occhi delle sorelle. Poi, con il buio che arrivava rapidamente, si mettevano attorno al braciere e pregavano per il loro papà e il fratello Enzo che navigavano: “Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, Deus meus, in auditorium nostrum Deum intende …” diceva Carmela. Le altre rispondevano: “Domine ad audiuvandem me festina”. “Nel primo mistero gaudioso … “ Ogni sera recitavano il Rosario, cenavano e, cominciava l’ora dei giochi, dopo i servizi domestici. “Giochiamo ?” diceva una delle sorelle. “A cosa ?” rispondeva l’altra. “A nasconderella ?” “No … a gallinella zoppa” “Si, si”. Si sedevano attorno al braciere. Ognuna di loro metteva sulla gamba il dito indice, poi un’altra cominciava la litania “Gallinella zoppa, zoppa, quante piume porti ‘n groppa; io ne porto 24, uno due tre e quattro !” chi contava, al quattro si fermava sul “reo” corrispondente e costei doveva pagare pegno. E il gioco riprendeva di nuovo, con altre vittime. Altre volte, l’intrattenimento serale era la favola. Felicia aveva una particolare attitudine a raccontare le favole. Utilizzava le parole adatte e le accompagnava con tutta la sua arte espressiva; la mimica di consumata attrice le permetteva di trasformare il suo viso in un aspetto truce, accompagnato da una voce bassa e lugubre. Ed era talmente reale che le sorelle toccavano quasi con mano il “sarancuni” di turno o il “tagliacore” ovvero raccontava di qualche miracolo mariano, accaduto tanti anni fa. E cominciava con maestria a parlare: “O bona genti statimi a sentiri nu miraculu vi vogghio cuntari . ‘Ncera ‘nu povaru cristianu c’avia e dari o patroni di ‘na ricca mercanzia e non potiva lu debitu pagari e sempri carceratu u teniva. Vinni Pasca e vinni Natali, la mugghieri lu iu a visitari, pe’ dari ‘cchiu turmentu a ‘sta fimmina, u picciriddu ‘nci catti a mari. Povara fimmana chi a chiesa iva, ed era la chiesa di la nostra Maria. ‘Na monachedda ‘nci cumpariu a latu “Pecchì ciangi devota mia ?”

27 “Bella ‘gnura aiu lu sposu carceratu, ma pe’ ‘cchiù pena lu figghiu ‘nnegatu !” Nci dissi la Signora: “Vatindi figghia mia e non dubitari, e ‘pe setti mercolì pe’ Maria hai e digiunari.” Li marinai ettàru li riti ‘nta chiddu mari e cù ‘na fedi grandi. Iddi stessi restaru stupiti quando Tirare ‘nu picciriddu ciangenti. Li marinari restaru stupiti dicendu: “Figghiu, cu ti sarbau ?” “Fu la Madonnedda chi a fiancu di la me mamma ‘nc’appariu !”

“Questo fu uno dei miracoli compiuti dalla Madonna del Carmine tanto tempo fa. Salvò il bambino e fece uscire il marito dal carcere!” concluse la mamma. Le figlie erano rimaste con gli occhi incantati, durante il racconto del miracolo. Poi una di esse chiese: “Mamma ci raccontate un miracolo della Madonna del Rosario? – “No, no ‐ rispondeva l’altra ‐ raccontateci un miracolo della Madonna dei poveri !” Alla fine Felicia le spediva tutte a letto seccata. La sveglia mattutina era anch’essa un rituale scandito dai soliti rumori, che tutta la famiglia conosceva bene. I primi a passare erano i contadini, che si recavano verso gli orti, incrociando, contemporaneamente, le capre di massaro ‘Ntoni che, belando si fermavano, per abitudine, davanti alla porta dei clienti, come se una voce li obbligasse a farlo. Felicia o una delle due figlie più grandi, porgeva il “botto” (contenitore metallico) per il latte e, come al solito, rimproveravano il capraio: “Non fate tanta schiuma!” lo pagava e rientrava in casa. L’igiene, nella famiglia Carresi, era fondamentale. Ogni mattina tutte le signorine, comprese le più piccine, facevano toeletta. Scioglievano i capelli e li lavavano, dandosi il cambio l’una con l’altra o facevano il bagno dentro una vasca mobile di legno. Usavano saponi profumati che il Capitano o Enzo portavano dalle città lontane. Semmai ci fu proverbio più azzeccato per le sorelle, è stato: “Tutte per una, una per tutte !”. Le loro discussioni, non erano mai esagerate.

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Una classe politica più lungimirante, come pure imprenditori illuminati, avrebbero dovuto, davanti a una tale rilevante attività economica, ammodernarsi e ammodernare le varie infrastrutture ivi presenti, seguendo la modernità che già camminava velocemente. Abbiamo già parlato della costruzione di un pontile d’approdo che il governo avrebbe dovuto e potuto costruire. Se ne parlò tanti anni prima . Questi era stato previsto già, nella L. del 20/11/1859, nr. D’ordine 27, ove s’indicava; “Gioia‐costruzione di un porto cabotaggio categoria 3^‐1’’. La vicenda si evolve negli anni successivi con “Nota del 20/3/1886 del Genio Civile di Reggio Calabria alla prefettura di Reggio Calabria”. Si specificava che il porto o approdo di Gioia Tauro è classificato di 2^ categoria, 2^ classe, 2^ serie; che gli enti interessati al porto sono la provincia, i 34 comuni della piana e qualcuno della provincia di . Secondo il T.U. erano porti di 2^ categoria i porti e gli approdi che servivano precipuamente alle attività commerciali; 2^ classe erano i porti che servivano una o più province e quelli dove le merci movimentate non dovevano essere inferiori a 25.000 tons, in ognuno degli anni dell’ultimo triennio. In data successiva si parla di boe d’ormeggio (1867‐1887) cioè, la pratica cominciata nel 1868, solo nel 1886 il Genio Civile di Reggio Calabria parla della “intenzione” del Ministero dei LL.PP. di far “costruire un ponte sbarcatoio ed una boa d’ormeggio nello scalo di Gioia Tauro”. Con verbale successivo, 11‐3‐1889, la spiaggia di Gioia Tauro fu consegnata allo stato in conseguenza del D.L. del 3‐6.1888 che annoverò la spiaggia medesima fra i porti di 2^ categoria, 2^ classe ecc. A fronte di questo “A Gioia funzionava un Ufficio di Porto munito di regolare sigillo di ferro (R.D. 24‐ 7‐1885 n°3271); il D.L. conteneva una norma che affermava che i Comuni interessati, nonché la Provincia, avrebbero dovuto aiutare a sostenere il costo dell’opera (1894‐95). Naturalmente (sic !) i Comuni della Piana non aderirono al progetto … perché si sosteneva da più parti ( nel 1897) “che nessun utile ne sarebbe venuto a questo paese, perché non sono né marinai né altro, ma solo contadini …” Un’ottica, come si vede, molto corta. Ma, a parziale giustificazione della posizione sopradetta, c’è da dire: Sicuramente gli imprenditori ed i politici del tempo intuendo che la ferrovia, che in tutta Italia dava nuova linfa vitale alla pur arretrata economia italiana; che le macchine mosse dal motore a scoppio avrebbero ben presto messo all’angolo l’uso del veliero come infrastruttura utile di trasporto merci; il minor tempo, minor rischio, costi minori pensarono che non sarebbe più stato utile costruire un pontile d’approdo.

Questi argomenti erano, spesso oggetto di discussione tra il Carresi con l’amico Achille Normanno che andava a salutare appena uscito dalla Chiesa Madre, mentre i suoi figli, ascoltavano assieme ad altra gente, un cantastorie che con dei quadretti disegnati ed appoggiati tutti assieme su un cavalletto di legno, raccontava le gesta del brigante Peppe Musolino, con tale partecipazione che incantava il pubblico presente. Finita la recita, la moglie del cantastorie passava con un piattino, raccogliendo ciò che la gente poteva dare. “Penso di fare gli ultimi imbarchi con la reale marina di Taranto alla guida di un rimorchiatore.” “Allora non farai più di questi viaggi ?” rispondeva il buon Achille Normanno. “Non conviene più … sono più le volte che si viaggia scarichi … il prezzo dei noli cala sempre più e non si coprono neanche le spese! Tu lo sai bene, visto che la merce, in parte, ti arriva col treno!” ripeteva sornione il Capitano, ridendo con allegria. “Guagliò!” rispondeva Don Achille con il suo accento campano: “Costa meno il viaggio in treno !”.

29 L’emporio di Don Achille era allocato nel centro storico della città, di fianco al municipio e di fronte alla chiesa madre. In quello stesso palazzo, che fu la residenza di uno dei sindaci di Gioia Tauro, il Cav. Baldari, vi era anche allocata la caserma dei reali carabinieri (cambiarono sede in quegli anni). La chiesa era piccola, misurava appena 9,24 m x 18,48m ed un altezza di 6m, e per un paese che cresceva a vista d’occhio sia in estensione che in abitanti, non riusciva a contenere la quantità dei fedeli, il cui sentimento religioso, allora, era molto più sentito. Cosicché la curia vescovile di Mileto, da cui dipendeva Gioia, provvide a far costruire una chiesetta nel rione ferrovieri, che proprio allora, per la presenza della ferrovia, aveva incrementato il numero dei locali. La stessa decisione non fu presa per il quartiere della Marina: iniziata verso la fine del XIX° sec., venne interrotta per mancanza di mezzi finanziari. Fu completata verso il 1915 in legno. La vita civile della cittadina, si svolgeva nella cittadella o “piano delle fosse”. Le signorine chiedevano perché la cittadella si chiamasse in modo così contraddittorio. Il Capitano, pazientemente, spiegava loro che la città era nata su questo cucuzzolo, come si vede dalla marina, ma era pieno di cunicoli o fosse, dove gli abitanti, al tempo dei saraceni nascondevano le ragazze o la roba da mangiare. Un giorno mentre la famigliola (di solito le ragazze da marito) si trovavano in via commercio assieme al loro papà assistettero ad un a scena particolare: un uomo guidava un carrozzino con un cavallo ; era grande e grosso il conduttore, con un grosso paio di baffoni, pantaloni di velluto scuri e una giacca chiara con una paglietta sulla testa. Le sorelle notavano la deferenza con cui le persone lo salutavano, qualcuno addirittura saliva sul carrozzino e gli baciava la mano come fosse il papa o il re. “Padre chi è quell’uomo ?” “Uno che è meglio non conoscere.” “Ma perché gli baciano la mano ?” “Perché la gente ha paura di lui: è un poco di buono, un delinquente, figlio del diavolo !” A quelle parole le sorelle si segnavano con il segno della croce.

Stava intanto per finire uno dei periodi più pacifici per l’Europa … il primo segnale fu la guerra italo‐turca. Sull’onda delle altre potenze europee, anche l’Italia cercava il suo posto al sole. La giustificazione gliela fornì la Francia, che aveva posto il protettorato sul Marocco. Così Giolitti occupò la Libia e al canto di “Tripoli bel suol d’amore …” l’annesse alla scadenza dell’ultimatum al sultano di Costantinopoli. Dopo poche scaramucce, la Turchia sia arrese e l’Italia occupò le isole del Dodecanneso, così chiamate perché erano dodici, poste al largo della Turchia. Isole montuose e brulle, un paesaggio carsico. Qui si viveva di pesca, agricoltura, allevamenti di ovini. Gli equilibri europei si stavano rompendo.

Dopo qualche giorno Carresi partì al comando di un vapore, il piroscafo “Tirreno”, invece che per Taranto. Era una nave che faceva spola tra Amantea e Salerno, adibita al trasporto sia di merci varie, sia passeggeri. Dopo aver salutato gli amici più cari, i Gambardella, Normanno ed altri commercianti, s’imbarcò sul treno e ad Amantea prese il comando del piroscafo Tirreno. Il 1912 fu un anno pieno e denso di avvenimenti per la famiglia del Capitano. Fortunata e Francesco non si erano dimenticati l’uno dell’altro. Un bel giorno Francesco inviò una lettera all’amata ragazza. La lettera la invitava a rompere gli indugi ed a fuggire con lui, se, ancora lo amava. Fortunata accettò senza pensarci due volte. Fuggirono lasciando alle rispettive famiglie una lettera dove spiegavano il loro gesto. Felicia quando lesse la lettera cominciò a strillare come un’ossessa:

30 “Che vergogna ! Che vergogna ! In questa casa onorata … dove mai era successa una cosa del genere, Dio mio, Dio mio !” girava per le stanze e si strappava i capelli come avesse il morto in casa, spaventando così il piccolo Ciro. Carmela, lo prendeva in braccio e lo calmava, allontanandolo dalla guerra. La reazione di Felicia, come spesso le accadeva, fu spropositata rispetto all’avvenimento. Chiuse tutte le finestre come fosse un lutto (allora così si faceva per una fuitina ). Naturalmente i vicini, più per curiosità morbosa che per la comprensione, chiedevano cosa fosse successo. Le signorine a questo punto dovevano spiegare l’accaduto. Questa volta la tempesta, neanche il Capitano potè evitarla. Non si era reso conto che sua figlia, lungi dall’essersi dimenticato di Francesco, era invece tanto decisa. Lui, a cui bastava uno sguardo per capire le intenzioni e le reazioni umane. Eppure sua figlia aveva ingannato la sua sensibilità. Come aveva ragione Felicia a preoccuparsi ! sentiva che Fortunata evitava lo sguardo suo. Ma i suoi genitori contavano sul tipo di educazione impartita ai figli: rispetto, onore, morale cristiana e altruismo. Evidentemente per Fortunata il prossimo era rappresentato da Francesco. Cosicché il Capitano, si vide un giorno recapitare un telegramma sul piroscafo: “Vieni subito tua figlia Fortunata stop scomparsa stop Felicia “. Con un telegramma così concepito, immaginate la paura che il povero Capitano si prese. Immediatamente chiese licenza all’armatore. Anzi lo stesso armatore si preoccupò di tranquillizzare Carresi facendolo parlare con il sindaco. Che informatisi esclusero incidenti fisici, ma solo sentimentali. Il Capitano rientrò a Gioia e quello fu il viaggio più tempestoso della sua vita ! “Ne ho passati di mari tempestosi, ma come questo mai !” così diceva mentre la carrozza si avvicinava a casa sua. La trovò ancora con finestre e porte sbarrate: alla messinscena mancavano solo i manifesti a lutto, e Felicia con l’oltraggio stampato sulla faccia: “Hai visto che ha combinato quella svergognata ? E’ fuggita con quel poco di buono … è una casa disonorata !” Questa volta Carresi non la prese bene: “Smettila ! Ma ti rendi conto che telegramma mi hai mandato? Torna subito Fortunata scomparsa…? Cosa avrei dovuto pensare? E poi, quale onore hai perso ? Noi abbiamo sbagliato a negare l’esistenza del suo amore! Chiuderemo la storia con il matrimonio … è tutto qui, chiaro? Ora andrò a parlare con i genitori di lui.” Bevve una tazza di caffè, si lavò viso e mani, si cambiò d’abito e si avviò verso il domicilio della famiglia Orlando, con il suo bastoncino, il cappello all’americana, ed un cappotto blu con martin gala. Camminava a passo svelto e deciso verso la casa di quei signori e stranamente a testa bassa. Lui, che assomigliava a una torre di guardia per come era impettito, col collo dritto e i suoi occhi che guardavano sempre avanti, si fosse trattato del mare in burrasca o di qualche poveraccio che aveva bisogno di aiuto. Ma le sue erano scottature morali. “Se non fosse successo sarebbe stato meglio” pensava il Capitano. “Ma al cuor non si comanda. E questa umiliazione ce la siamo cercata col lanternino.” Mugugnava mentre scansava le pozzanghere molto numerose esistenti sul selciato che da casa sua portava fino a casa Orlando. Si sentiva umiliato perché la figlia, con un colpo di spugna, aveva cancellato tutti i suoi insegnamenti … come se anche le altre sorelle potessero, da allora in poi, seguire l’esempio di Fortunata; e immaginava i “mali vicini” che in quello stesso momento sghignazzavano contro di lui, li vedeva che si tenevano la pancia mentre il loro ombellico sussultava per le risate. “Meglio non pensarci !” Era contrito perché capiva di avere sbagliato con la figlia, impedendo l’amore tra i due. “Questo succede quando i figli non si confidano con i genitori, perché noi non li capiamo; non vedono in noi degli amici a cui far conoscere i propri problemi. Ma è un peccato, Gesù mio, quello d’amare una

31 persona fino al punto da combattere contro convenzioni e convinzioni ? E’ l’amore che muove il mondo e lo fa vivere. Esso è nato dall’amore di Dio e per amore dell’umanità ha sacrificato il figlio. Allora qual è il peccato ? Chi fa un atto per amore, o chi quell’atto vuole impedire per egoismo ? Dammi luce tu, mio Dio, e forza per trovare la via !”. Mentre la folla di pensieri lo torturava arrivò nei pressi della bottega dello zio di Francesco, Peppe Orlando. Questi notando il capitano uscì e gli andò incontro e disse: “Capitano Carresi, io sono un uomo d’onore e ne rispondo per tutta la famiglia mia; vi darò tutte le soddisfazioni che volete ! Stabilite voi la data e tutto il resto e si riparerà la situazione”. Il Capitano, in verità, fu sorpreso dall’anticipo di mastro Peppe Orlando e dalla sua risposta perentoria. “Ci sono rimasto male, mastro Peppe, ma chiudiamo questa storia subito discutendo di ciò che si deve discutere. Facciamo rientrare gli sposi. Se sapete dove sono !” Mastro Peppe di rimando: “Non lo sappiamo manco noi dove siano, ma lo sa un suo caro amico di sicuro: Mastro Peppe Tomaselli ‘u burdino !”. “Bene! ‐ disse il Capitano ‐ vi aspetto questa sera alle diciassette a casa mia!” Quel pomeriggio di gennaio del 1912, puntuale come un orologio svizzero, la famiglia Orlando si presentò in casa del Capitano. Essi discussero degli aspetti più materiali del matrimonio ed il 14 marzo 1912 Francesco e Fortunata si sposarono prima civilmente e poi in Chiesa, coronando il loro sogno d’amore al grido augurale: “Auguri e figli maschi !” (sic !) Nel settembre dello stesso anno nacque il primogenito della novella coppia, cui fu dato il nome di Francesco come il nonno paterno, accontentando così anche quello materno. I due sposi andarono ad abitare in una casetta nei pressi della falegnameria. I mobili furono costruiti nella bottega di mastro Peppe, con l’aiuto di Paolo e Nino fratelli di Francesco.

IL Capitano mentre leggeva “Il giornale d’Italia” non poteva fare a meno di dire amaramente, quando alla fine della guerra italo‐turca si affermava retoricamente: “Si porterà una grande civiltà, una grande economia,quella italiana in quelle contrade: “Ma guarda che imbroglioni, nel sud d’Italia scarseggia tutto: strade, soldi, salute e si spendono denari per portare la grande civiltà italiana in Libia: se la grande civiltà è questa, stanno freschi i Libici ! Non potevano utilizzarli qui quelle finanze?”. Anche per una persona istruita come lui, era difficile capire quali meccanismi si mettessero in moto, quali interessi giocassero quando si prendevano tali decisioni. E’ come il famoso sassolino che cadendo dalla cima provoca una frana inarrestabile. Il capitano dopo la vicenda familiare conclusasi felicemente, era ripartito verso Amantea. Qui riprese il comando del piroscafo “Tirreno” ed a Salerno si recò a ringraziare l’armatore. Su questo piroscafo navigò esattamente per 36 mesi e 20 giorni. Rientrò verso la fine del 1914, quando quel famoso equilibrio europeo si era rotto: l’erede al trono austro‐ungarico Francesco Ferdinando fu assassinato da un croato. L’Italia nella prima fase della guerra si mantenne neutrale. Ma le tensioni sociali erano al calor bianco tra interventisti e neutralisti.

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Nei primi anni del secolo, uno status‐simbol era rappresentato dalla fotografia. La foto fatta in un salotto, vero o falso che fosse, distingueva la gente abbiente, rispetto al popolino. Non per la foto in se stessa, ma, perché in essa si racchiudeva l’unità della famiglia, il suo valore, il focolare, il rifugio ultimo di ogni vita umana. La foto fatta in un salotto costituiva la cornice, l’imprimatur di famiglia moderna. Anche cantare o conoscere le canzoni napoletane o le romanze, era un elemento di distinzione sociale tra fasce abbienti ed il popolo basso, che si sollazzava con tarantelle. Alla modernità sociale il Capitano Carresi ci teneva molto, pur dovendo ammettere che con la moglie era una guerra perduta. Felicia non intendeva cambiare il suo piccolo mondo, fatto di cose semplici, di abitudini e abiti che non cambiavano mai; non volle mai indossare un abito diverso da quello ereditato. Nel 1914 Fortunata partorì il secondogenito, a cui fu dato il nome di Vincenzo. Quando Carresi era in licenza, spesso, si recava presso l’agente marittimo Tarantino. Avete mai visto due uomini parlare, quando s’incontrano, di aspetti diversi del proprio lavoro ? E’ difficile. “Stiamo quasi per chiudere, caro Capitano …”diceva Tarantino. “Lo so bene, per questo ho preso il patentino di prima … per pilotare i piroscafi … ormai i velieri hanno chiuso , non hanno più futuro. Solo il naviglio motorizzato e a struttura in ferro può essere concorrenziale al treno …”, “Già”‐ rispondeva Tarantino mentre si puliva gli occhiali con un fazzoletto‐, E i soldi chi li mette per rimodernare il naviglio? Non ci sono neanche banche a Gioia che ha un simile giro economico “. In effetti le uniche banche presenti avevano sportelli solo a Palmi. La prima che mise piede a Gioia Tauro fu il Banco di Napoli, fortemente voluto dai Serra‐Cardinale sposata Musco, consigliere di questo istituto di diritto pubblico, nel 1915. “Ci voleva l’intervento dello stato ‐ diceva il Capitano. Ora non è più possibile, con la nazionalizzazione della ferrovia dove prendono i soldi?” “Questa è la mazzata finale per il nostro naviglio !” rispondeva il Tarantino. Uscendo l’agente Tarantino raccontava al Capitano Carresi del naufragio del veliero “Nuovo Peppino” davanti la costa di Termini Imerese con 40 botti di olio. Per un forte vento di scirocco…”. “Già, lo scirocco”‐ rispondeva il Capitano‐ Spesso è considerato un vento da quattro soldi, ma se non si sa prendere è pericoloso tanto quanto il maestrale !”. L’agente Tarantino mandava poi uno scrivano a sdoganare la merce arrivata col brigantino‐goletta S.Giovanni di 158 tons dell’armatore Patamia Francesco, proprietario per 16 carati e di Costa Antonino per 8 carati. Si trattava di granaglie e legname. “Gran bel veliero il S. Giovanni ‐ affermava Tarantino. “Veloce e solido …”. “Mi pare che sia di recente costruzione … “ rispondeva il Carresi “Si, circa tre anni e mezzo … ‐ rispondeva l’agente.. Poco discosto dalla dogana vi era in manutenzione una goletta dell’armatore Gentile di Palmi. Era un vecchio veliero, a cui il mare in burrasca , il caldo e il freddo, avevano cambiato colore; la sua carena scura sembrava il terreno di un orto; lo scafo era coperto di alghe sia verdi che brunite. I suoi alberi dritti e l’ossatura erano state costruite col miglior legno calabrese; il ponte era consumato dai passi compiuti da decine di marinai; le sartie legate agli scalmi metallici sui parapetti salivano verso la cima degli alberi, poi con abile salto si incrociavano con altre corde che attraversavano il veliero; due fori, che sembravano due occhi, uscivano ai lati della prua con l’ancora penzoloni e le gomene arrotolate sui paranchi. Le corde di canapa scorrevano dentro bozzelli di legno duro, castagno o noce di solito, scorrevoli su cuscinetti metallici pieni di sego.

33 I due uomini si fermavano nei pressi del veliero ne osservavano il fasciame che era stato da poco raschiato dal maestro d’ascia mastro Nino assieme al calafataro mastro Nicola. “Questo fasciame‐ diceva il Capitano con competenza ‐ E’ deformato, sarebbe da sostituire: non reggerà per molto la pressione delle onde”. “Capitano”, rispondeva mastro Nino mentre fumava il suo trinciato, Io metto l’asino dove vuole il padrone … loro vogliono solo ritocchi ed io ritocco !” “Oh certo! ‐ rispondeva Carresi ‐ se è sufficiente per l’armatore, lo è anche per me!” e sorrideva allontanandosi. Poi qualche vecchio amico lo incontrava e discuteva delle condizioni meteorologiche, il Capitano alzava gli occhi su nel cielo, arricciava le narici e sentenziava: “Sta cambiando la direzione del vento … Se avrà forza ci sarà “lavatura”. Quando faceva siffatte affermazioni era difficile contestarlo.

Nei primi anni del secolo, il veliero aveva raggiunto il massimo della perfezione sul piano strutturale. Già da anni si usava la carena in rame. A seconda del tonnellaggio del veliero si frazionava la velatura, per sfruttare meglio il vento anche ad altezze elevate; allo scopo di stringere meglio il vento si montavano rande leggere ma robuste. Le vele di cotone pesante o di tela venivano usate per naviglio a tre alberi; cotone leggero per il naviglio più piccolo. Il tre alberi era un veliero che toccava tutti i porti del mediterraneo e superava le cento tonnellate. L’albero di maestra piantato a centro scafo, era composto in alto da i “velacci”; a metà albero dalle vele di “gabbia”; nella parte inferiore dalla vela “maestra”. L’albero di trinchetto composto, al massimo, da cinque vele e relativi “pennoni” stava allocato a prua; l’albero di “mezzana”, il più corto, costituito da vele “belvedere”, vele di contromezzana, vele di mezzana. Le “sartie”, fissate allo scafo, sui fianchi fin su gli alberi, erano composte da lunghe corde che fissavano l’albero della nave, lo irrigidivano; queste lunghe corde erano legate trasversalmente tra loro formando dei gradini, che permettevano di raggiungere la “coffa” o i pennoni superiori. Sotto l’albero di mezzana vi era posta la “randa”, una vela “aurica”, inferiormente al “boma” e nella parte superiore al “picco”. A prua stavano fissati i “fiocchi,” vele di tipo latino dette anche di “taglio”. I vecchi marinai sapevano che il veliero si muoveva con le vele degli alberi superiori solo quando il vento veniva dritto alle stesse: con vele latine (fiocco, contro fiocco) il vento poteva anche essere di taglio per far muovere il bastimento. I maestri d’ascia guidavano il montaggio dei vari elementi che componevano un veliero: questi era pronti da un pezzo in zona. Poi il veliero veniva assemblato. Il calafataro, a sua volta, riscaldava la “pece bianca e nera” proveniente dai boschi calabri ed impermeabilizzava l’imbarcazione assieme alla “stoppa”.

Carresi osservava assieme al Tarantino quelle operazioni di montaggio eseguiti con paranchi manuali, nel vocio delle tante persone che ruotavano attorno al veliero. E in tanto movimento ogni tanto chiacchierava con il padrone marittimo Luigi Purrone, commerciante della marina. Il Capitano gli chiedeva informazioni del cutter “San Giuseppe” acquistato in Sicilia ma costruito nel 1892, un po’ vecchiotto. “Vecchiotto? … il San Giuseppe?” affermava Luigi Purrone sgranando gli occhi per la meraviglia. “Ancora non ha fatto i 50 anni di navigazione!” e il suo viso bonario si apriva in un simpatica risata che dilatava i suoi baffoni a manubrio. “Questo veliero si fermerà quando il mare si prosciugherà!” E giu un'altra risata che si trascinava anche il serioso Capitano Carresi.

34 “E il mio San Giuseppe avrà, fra poco, un altro santo in compagnia, il San Ciro, così si va tutti in paradiso!”. E tutti a ridere. Era un gran mattacchione Luigi Purrone. Al suo rientro a casa, Carresi trovava la moglie alle prese con il piccoletto, lo trastullava assieme alle figlie: il Capitano lo prendeva in braccia, lo baciava e lo sollevava in alto. Come d’abitudine si sedeva si toglieva scarpe e calze e si medicava quella fastidiosa unghia incarnita del piede destro. Poi cominciava la lettura del giornale e non poteva fare a meno di scuotere la testa e di borbottare qualcosa. Felicia nel sentirlo esclamava: “Che hai? Che dici?”. “Nulla di tranquillizzante Felicia … che i governi europei fanno di tutto per far entrare l’Italia in guerra; non sono stanchi di contare morti … e oltretutto contro i cattolici austro‐ungarici !”. Felicia si faceva il segno della croce come per allontanare la tempesta che si avvicinava esclamando: “Mio Dio ! Può essere pericoloso per te !”. “No per me no … per i giovani, per i poveri !”.

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Avevamo lasciato i due sposi nelle loro casa con due figli ancora piccoli. Spesso Fortunata si recava dai genitori, in modo particolare quando uno dei figli stava male. Felicia dava i suoi saggi consigli: toccava le parti più delicate dei bimbi, con una lieve pressione sul loro pancino sentiva se vi fosse presenza d’aria; toccando le orecchie la presenza di un’ otite e poi il rimedio erboristico in uso. A Francesco non andava giù che la moglie si allontanasse da casa: il suo era un amore totalizzante ed il solo immaginare lo sguardo lussurioso degli uomini, gli faceva fare solenni litigate con Fortunata. Ma tutto finiva, poi, in un abbraccio finale. Anima e corpo si fondevano, si sublimavano. Poi, come seguendo un programma scritto, discuteva del futuro della sua famiglia, dei suoi figli che voleva professionisti o imprenditori: i sogni, normalissimi, di tutti i padri. La sociologia chiama questi desideri, valori borghesi (piccola‐media‐borghesia). In questo senso la parte del leone la facevano le donne. Si ostentava sempre qualcosa che gli altri non avevano. L’incontro fra queste in piazza o nel recarsi in chiesa, era un chiacchiericcio continuo su vestiti, figli, i loro successi, la casa … era un grande incrocio di situazioni, di giustificazioni, di parole dette e ridette in maniera tale che la vicina o la parente o la comare sentisse bene quel che aveva poc’anzi affermato; l’altra per contro scienza ribatteva sullo stesso argomento. Era un rincorrersi continuo e tutto finiva senza né vinti né vincitori.

Francesco da uomo sveglio e d’iniziativa, cercava di convincere lo zio Peppe ad allargare il giro d’affari della falegnameria. Ma mastro Peppe non era d’accordo. Francesco, bestemmiando come un turco andava via e sfogava con la moglie: “Io mi separo da mio zio, lavorerò per conto mio, sangue del diavolo! Non capisce che la falegnameria arranca. Bisogna allargare il giro, variare le opportunità, partecipare alle gare d’appalto bandite dalla ferrovia, per la riparazione delle carrozze, dei posti a sedere, non fermarsi ai mobili soltanto o alle botti.Ma mastro Peppe non si convinceva. Il lavoro che aveva gli bastava a mantenere la famiglia ed a sposare le sue figlie femmine. Alla fine Francesco insistendo la spuntò. “Però, queste cose te le segui tu. Io non ne capisco molto di appalti!”‐ disse, non convinto mastro Peppe Orlando. La moglie, come tutte le mogli, interveniva poco in certe questioni degli uomini. Quando Francesco era alterato, ascoltava, con la consueta espressione melanconica, quello che le sembrava uno sfogo del marito. A volte rispondeva sì; a volte, quando un’ombra le passava davanti agli occhi, si preoccupava ed esprimeva il suo parere: “Ma zio Peppe, forse, si preoccupa che possa andare male …” “Ma non si può stare tutta la vita ad avere paura che le cose possano andare male! E se va male pazienza! Dobbiamo guardare avanti! Ma se lui non si convince, non lo posso obbligare. Ma neanche lui può obbligare me! Rispondeva irato Francesco. Ma dopo il si dello zio Peppe, non si parlò più della nuova iniziativa. Un altro servizio di grande valenza allora, era il trasporto a trazione animale. Per passeggeri e merci. Era tanto importante ed esercitato da tanta gente da fondare una società di Mutuo Soccorso. Questa esisteva, in modo non ufficiale, sin dal 1884 …” nell’anno 1884, Giuseppe Bagalà, con la collaborazione di pochi altri, si rendeva promotore della fondazione del sodalizio, del quale, diveniva primo presidente.” … “Presidente onorario fu nominato, all’unanimità , il Comm. Francesco Tripodi, Sindaco di Gioia a cavallo tra fine ‘800 ed il ‘900”. Ufficialmente la S.M.S vetturale si costituì nel 1890. La vettura a trazione animale, fu per tantissimi anni il solo mezzo che collegava Gioia con l’interno della Piana ed i paesi litoranei; fino a quando il treno non sostituì, e, negli anni successivi, anche la

36 ferrovia secondaria, questo tipo di trasporto. Della ferrovia a scartamento ridotto si parlava fin dall’ultimo decennio del 19° secolo. Ma era ancora fiorente il trasporto animale negli anni in corso, almeno sui tratti brevi; per qualche urgenza, senza obbligo di aspettare gli orari fissi dei treni. La grande quantità di questi mezzi in attività, voleva dire una serie di attività collaterali: falegnami, conciatori di pelli, sarti per mantici, maniscalchi per i cavalli … le vetture sostavano davanti alla stazione ferroviaria, specie all’orario di arrivo dei pochi treni che vi passavano, oppure nei pressi della spiaggia per trasportare qualche passeggero o traini più grandi per il trasporto di merce varia. La vita nei paesi del sud era scandita da poche cose rituali: una vita semplice, umile, che prevedeva tanta fatica nella case e tanta fatica degli uomini a lavoro. Gli unici sussulti provenivano o dal banditore comunale, qualche festività o matrimonio o funerale; il massimo era qualche omicidio. Uno spettacolo caratteristico da vedere era un matrimonio. Gli sposi, con tutti gli invitati, erano costretti a fare una bella sfacchinata con il corteo per raggiungere la chiesa e, poi, rientrare in casa per i festeggiamenti, a base di vino e di qualche dolce casalingo, Alla fine, fra gli strati popolari, la festa si completava con una tarantella. Anche il funerale seguito dal lutto era uno “spettacolo” niente male. Una volta Felicia, fu chiamata perché l’anziana zia Sara era morta durante la notte. Naturalmente la si doveva vestire come convenzione. Un vestito, quello che indossava normalmente, scarpe (se le aveva), pettinatura curata. Ma non tutti erano in grado di farlo. Più che il garbo , era la paura o il dolore che impediva ai parenti di intervenire direttamente. Così Felicia, accompagnata dalla figlia Carmela compiva il doloroso compito di vestire la defunta. Mentre i parenti davano inizio alla perfetta scenografia dell’avvenimento. Cominciavano a piangere, a strapparsi i capelli, a gridare in maniera tale da far paura. E questa sceneggiatura durava tre giorni interi (i parenti si davano il cambio). Così si dimostrava affetto alla defunta di fronte alla società. Anche se, ed accadeva spesso che, in vita non fosse affatto rispettata. Spesso capitava che i parenti, incapaci di esternare il loro dolore, “assumevano” una o più donne che piangessero al loro posto. E queste donne, da brave attrici consumate, ai bordi della bara, nella stanza addobbata per l’occasione con il murale ed i grossi ceri attorno alla bara, tutti gli specchi coperti, le donne decantavano le doti della defunta o del defunto. Mentre gli uomini nell’altra stanza, vestiti di nero e con le barbe lunghe, ricevevano le persone. Così, l’osservatore estraneo pensava che fosse soddisfatto il Dio del cielo, la morta o il morto, e, in primo luogo, era soddisfatta la convenzione sociale. Poi arrivava il prete, le corone, i soci della società con tanto di bandiera a mezz’asta e in lutto. Il defunto veniva accompagnato fino al cimitero. La Società di M.S. a cui il defunto apparteneva provvedeva a tutte le spese: bara, ornamenti, carro funebre intarsiato ed addobbato con paramenti a lutto, in armonia con i cavalli alluttati pur essi. Le occasioni per uscire, nei paesi del sud, erano “garantite” dal rito religioso: era la grande occasione per le figlie in età da marito. Le portavano in chiesa per la Santa Messa. Le giovinette, addestrate in precedenza, giravano gli occhietti, maliziosamente, per guardare qualche giovanotto interessante o già da tempo in “occhiata”, che, di solito, erano tutti raccolti in fondo alla navata, quasi si vergognassero di stare assieme alle donne con i veli in testa: esse erano tutte sedute avanti. Alla fine della Santa Messa, gli uomini uscivano per primi, si mettevano con le loro pagliette o berretti vari, pantaloni di fustagno marrone e giacche attillate, con camicia a colletto tondo bianca e baffoni alla moda, il cravattino.

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Francesco partiva col suo inseparabile amico Peppe u burdinu e rientrava con i bandi della ferrovia. Quando scoppiò la guerra e l’Italia aveva annunciato il suo ingresso nella contesa il 24 maggio 1915, il Capitano Carresi aveva lasciato la rotta Amantea‐Salerno ed il comando del piroscafo “Tirreno”. Fece qualche viaggetto con compagnie locali: prima col piroscafo “Pietro Micca”; poi con la Rosina Barone goletta a due alberi,per viaggi fra Messina, Palermo, Napoli. Nel pieno della guerra fu chiamato al comando del piroscafo “Storione”; poi il Genio Marina di Taranto gli affidò il comando del rimorchiatore “Diana”, viaggi: Crotone‐Taranto.

Ma Gioia, come affrontò l’evento della guerra? Niente di straordinario. Come tutti i paesi italiani. La gente bene era favorevole all’intervento armato, considerandola una “guerra d’indipendenza”: ma consideravano che a combatterla fossero gli altri. I poveri non avevano né potere d’ evitare che la guerra si facesse, né il potere di evitare che la guerra la combattessero loro stessi; la piccola e media borghesia artigiana locale (la gran maggioranza) professionale, marinara era favorevole all’intervento perché pensavano che avrebbe incrementato l’ attività economica e la crescita dei noli; i socialisti (che a Gioia erano pochini) erano, in campo nazionale, schierati contro l’intervento, perché a morire ci andava la sua base elettorale; i cattolici contro, per quella visione universale dell’amore di Dio e del prossimo. La grande borghesia agraria, industriale; i papaveri militari erano favorevoli. Ed avendo, costoro, il potere politico in mano dichiararono guerra all’impero austro‐ ungarico. Mico il fornaio vendeva pane, ed ascoltava il padrone marittimo Gentile, sostenitore della liberazione del Trentino da: “Quei senza Dio degli austriaci. Quello è territorio italiano e devono restituirlo agli italiani.” “Come, padre Vincenzo, i governanti si ricordano dopo 50 anni che il Trentino è italiano? Prima fanno i balli assieme, poi, si ricordano dei trentini e dichiarano guerra a questi senza Dio, come dite voi, e sono cattolichi come noi!” “Ma quali balli assieme? E’ la politica questa … e noi non la possiamo capire! A mio figlio lo farò arruolare, se vuole, e chi ha fegato lo faccia!”. “Padre Vincenzo, c’è la leva obbligatoria! Lo chiamano per forza, come chiameranno mio figlio Gaetano !” A volte la discussione si accendeva in piazza: era un caos incredibile, ognuno diceva la sua, che, poi, era la stessa cosa; ma ognuno voleva il primato di averla detta prima degli altri ! Mico il fornaio s’incavolava di brutto quando si sosteneva da più parti che con la guerra ci sarebbero stati affari per tutti. “Testoni, possibile che a nessuno di voi viene in mente che la guerra uno la può perdere ? Allora che cazzo ci guadagni? Anzi‐ tuonava Mico ‐ fateli partire subito i vostri figli prima che finisca! Tanto chi ci lascia la pelle sono sempre i poveracci! Mentre i ricchi hanno tutti i mezzi per non fare il soldato oppure stanno al comando !”. Mico si accalorava sempre, per carattere a dire la verità, ma diceva grandi verità, mentre infilava la lunga pala dentro la larga bocca del forno, per estrarne il pane caldo, caldo, sudato e con la farina sulla sua faccia che formava una colla speciale. Anche suo figlio Giuseppe, gran lavoratore, che aveva scelto il lavoro del padre e non il marinaio, cercava di calmarlo, con quella faccia da bravo ragazzo; un faccione tondo e le labbra grosse, capelli biondi confusi con il bianco della farina, che gli davano un’ aria seria, fidanzato con una ragazza del luogo detta “sturni”:

38 “Non ve la prendete papà, tanto è inutile … Se “quelli lassù” hanno deciso per la guerra, noi la dobbiamo combattere, pur non volendo “. Mico il fornaio aveva, di ben donde, a preoccuparsi della guerra. Gaetano il figlio maggiore, come nocchiere a bordo di un incrociatore della Reale Marina Italiana. Peppino partito qualche anno dopo in fanteria verso il Trentino. Peppino rientrò in una bara, colpito da pallottole nemiche mentre, in quelle fasi convulse e inutili, i soldati andavano alla baionetta a riprendere posizioni perdute qualche ora prima. E se lo sentiva Peppino ch’era giunta la sua ora. Prima dell’ennesimo attacco scrisse una lettera ai genitori. “Cari padre e mamma, spero che state bene, anche io sto benino, se si può dire. In questo momento sono in una trincea piena d’acqua che trapassa le nostre scarpe e i vestiti sono ‘mbunati (zeppi)d’umidità. Stiamo aspettando le cibarie, che come al solito è rappresentato da brodaglia con qualche pezzo di grasso a cui è attaccata un po’ di carne e del pane stantivo. Acqua ne abbiamo tanta ! Ma io non capisco, dobbiamo continuamente correre con i fucili da una trincea all’altra. Possibile che non sanno che si deve mangiare come si deve per fare questo? Siamo troppo indeboliti. Gaetano come sta? E le mie sorelle assieme a Mico e Rocco ? Fra poco ci avviseranno che dobbiamo occupare nuovamente la stessa trincea di due giorni fa e che ci prenderono gli austriaci. A che serve tutto questo? Tanti miei compagni sono morti … non preoccupatevi di me, io prego sempre. Un abbraccio a tutti voi. Vostro figlio Peppino. “ I genitori lo piansero una vita. Al lutto partecipò tutto il paese. Stavolta non ci fu bisogno di lacrime a pagamento. Sgorgavano come un fiume dal cuore di parenti e amici. I vicini si davano da fare per alleviare il dolore della famiglia: parlavano del destino, di fede in Dio che è una gran medicina in tali occasioni. Stemperare il dolore della famiglia con i guai di altri o propri come Maria Minutolo faceva, sia perché ci era passata, sia perché era abile nel parlare. E ogni famiglia che aveva figli in guerra pregava Dio che li riportasse a casa sani e salvi. Come faceva Ciccia. La moglie di Mico, che pregava, adesso, per il figlio Gaetano. Francesco fu richiamato, durante quelle fasi crudelissime delle trincee e la ritirata di Caporetto. Fu mandato nei bersaglieri in bicicletta. Durante un bombardamento con obici fu ferito ad una mano. Intanto da qualche anno erano cominciati ad apparire nei cieli gli aerei. Avevano eliche di legno e struttura metallica, potevano essere armati con mitragliatrici e con granate di poco peso, altrimenti con roba più pesante si correva il rischio che l’aereo non si sollevasse da terra. Essendo un ottimo ebanista, Francesco fu mandato a Napoli presso l’officina militare del comando aereo della stessa città. Fortunata lo seguì con i due figli e vissero lì, fino alla fine della guerra, non prima di aver sfornato il terzo figlio cui diedero il nome Giuseppe. Il parto fu complicato e, il bambino nacque con il braccino sinistro storto, ma non impedì a Giuseppe di muoversi regolarmente e normalmente. Chi aveva sperato, ingenuamente, che la guerra avrebbe risollevato l’economia della Piana, contando su un aumento dei prezzi delle derrate alimentari prodotte sul posto, ovvero l’utilizzo e l’incremento del prezzo dei noli dei velieri, si era ingannato, era caduto in una trappola, doppia. Gran parte della gente valida, particolarmente i braccianti agricoli, gli operai e la gioventù medio borghese dell’area, fu mandata a morire al fronte, in quel macello delle trincee e degli inutili attacchi alla baionetta, ovvero con i letali gas asfissianti, ultimo ritrovato tecnico per uccidere di più. I velieri di Gioia rimasero fermi, perché gran parte dei loro equipaggi furono richiamati in servizio nella Regia Marina Militare. Chi riusciva a salpare con un ridotto equipaggio, lo faceva a rischio e pericolo dell’armatore. L’impero Austro‐Ungarico aveva a Trieste una flotta di navi militari forte, compresa una delle ultime invenzioni utilizzate a fini di guerra: il sommergibile.

39 Gli armatori gioiesi, ne ebbero una prima prova il 4 novembre del 1916. La Goletta a due alberi “Nuovo San Luigi” di 45 tonnellate, carico di merce varia, mentre navigava con destinazione Taranto, al largo di Capo Spartivento, fu affondato dal siluro di un sommergibile austriaco. Gli armatori di quel veliero erano i signori Saffioti Paolo di Santo, Mesta Salvatore, Saffioti Giovanni ed Auteri Saverio che lo comandava, residenti a Palmi ma domiciliati a Gioia Tauro. I primi tre stavano discutendo con lo spedizioniere signor Pizi Nestore, della possibilità di fare un viaggio in Sicilia con botti piene di vino e olio, fino a Palermo, quando una telefonata interruppe le loro discussioni. Erano i reali Carabinieri che comunicavano di aver ricevuto dalla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria il seguente telegramma: “La nave Goletta Nuovo San Luigi è stata affondata al largo di Capo Spartivento da un sommergibile Austriaco, vi sono 4 uomini feriti, ma salvi tutti ! Attendiamo o l’armatore o lo spedizioniere !‐ “Signor Pizi andateci voi ‐ disse il Saffioti. Il capitano Mesta era incredulo; prese in mano il telefono e cominciò a parlare: “Veramente maresciallo? Possibile che abbiano silurato una nave a vela? “ “Certo che è possibile”‐ rispondeva il maresciallo Pizzuto ‐ la guerra è guerra per tutti! non conosce raccomandati!” e attorcigliandosi i baffoni a manubrio come fosse canapa riprendeva: “Ora vorrei i nomi e i cognomi dell’equipaggio e il tipo di carico, così contestiamo ai nemici che il veliero non era armato; eventualmente gli chiederemo i danni!” scherzava il maresciallo. Lo spedizioniere riprese il telefono e diede l’elenco dell’equipaggio, assieme alla tipologia di merce trasportata: 8 uomini più il comandante, legname per il cantiere navale di Taranto. La notizia si sparse immediatamente e fece molta impressione a Gioia Tauro. Finora la guerra era passata dalla cittadina con qualche soldato deceduto. Ora gli armatori cominciavano a preoccuparsi, davvero, della sorte dei propri velieri. Come Felicia, ma suo marito conoscendola bene, con un telegramma la tranquillizzava. La guerra fu lunga, difficile. I soldati di leva se scampavano alle pallottole e ai gas nemici, non sfuggivano alla Corte marziale italiana, per via di quei rifiuti a farsi massacrare con attacchi inutili. Intanto la guerra si combatteva, come s’è visto anche in mare, nei nostri mari. Così tra Caporetto, l’intervento Americano, la fine dello Zar in Russia e la nascita del primo paese socialista nel mondo, la marineria gioiese fu di nuovo sconvolta dall’affondamento del tre alberi Brigantino “San Giovanni” di 158 tonnellate. La notte del 10 dicembre 1917 gli armatori Patamia Francesco fu Rosario di Bagnara, domiciliato a Gioia Tauro in via Tripodi, e Costa Antonino socio di minoranza del suocero, in via Solferino, furono svegliati e invitati in caserma. Spaventati gli armatori vi si recarono e furono avvisati che il loro Brigantino “San Giovanni” , aveva urtato una mina nel Golfo di sant’Eufemia Lamezia: vi furono 2 morti e 5 feriti. Non migliore sorte toccò al brigantino a tre alberi “Virginia Gentile” di 140 tonnellate nuovissima, avendo quattro anni di vita, appena. Identica sorte toccò al Brigantino “Sant’Antonio da Padova” di 113 tonnellate dell’armatore Gentile Giuseppe di Nicola residente a Palmi, affondato dal siluro di un sommergibile nelle acque di Capo San Vito (Taranto) con un equipaggio di 20 persone: 5 feriti e tanta paura. Ennesimo affondamento dovuto ad un sommergibile fu il Brigantino‐goletta del Capitano Gentile Vincenzo di 163 tonnellate di Palmi, carico di legname e frutta secca al largo della Tunisia. Affondò anche la goletta “Maria S.S. delle Grazie” di 44 tonnellate dell’armatore Alessio Pasquale, bombardata da una nave militare prussiana nella primavera del 1917. Gli armatori Patamia Francesco e Gentile Vincenzo, negli anni della 1° guerra mondiale persero diversi legni. L’ultimo della serie fu il Brigantino “Assunzione” del Gentile, di 155 tonnellate affondato a largo di Fiumicino. La guerra lungi dal portare fortuna alle imprese, portò morti, feriti con mutilazioni gravi, crisi economica, tensioni sociali.

40 Dopo la guerra le tensioni fra gli Stati si erano acuite ed allargate al loro interno.Gli Stati Uniti si presentarono al mondo come la potenza economica e militare che “aveva salvato” l’Europa dagli imperi centrali; mentre la Russia con la rivoluzione dei Soviet nel 1917, diventava per la gente povera, ed anche meno povera, il punto di riferimento di una società di “uguali” da esportare in tutto il mondo al grido: “Aboliamo al proprietà privata !” e “Ad ognuno secondo le sue necessità !”. Il mondo era ancora in ebollizione. Le sezioni socialiste nacquero come funghi in tutta Italia. In Calabria dappertutto meno che a Gioia Tauro. La più vicina fu fondata a Palmi. Gioia ebbe molti simpatizzanti, ma non furono in grado di fondare una sezione. Essa, per quanto fosse viva nelle attività economiche, era sonnacchiosa e indifferente nella politica attiva o nell’associazionismo, ovvero le associazioni di M.S. di Gioia furono numerose. Ma non ebbero rilievo politico o ideologico. Chi le capeggiava, si era sempre guardato bene dal lasciarle fare il gran salto nella politica. Difatti, erano capeggiate dai notabili del paese. Quantomeno ne erano soci onorari coloro che avevano in mano l’economia del paese. L’unica volta che alzarono la voce contro il rappresentante del governo, il Prefetto, fu: “il 26 giugno 1899 il consiglio della Società Vetturale Agricola e quello della Società Operaia deplorano il comportamento del Signor Prefetto di Reggio Calabria, contrario a risolvere un problema di estrema importanza per il futuro della popolazione di Gioia Tauro. Il signor Rocco Nostro, in qualità di Presidente della Società Operaia e dell’assemblea, pronunziò un discorso molto sentito ed anche polemico nei confronti del Signor Prefetto, per l’importanza storica dell’evento … alla fine del discorso del focoso Presidente, ne scaturì, solamente, un telegramma al Ministero dell’epoca. Questo il testo: “A sua Eccellenza Ministro Interno‐Roma Società Operaia, Vetturale Agricola riuniti note pratiche fatte Amministrazione comunale per appalto conduttura acqua potabile, giusto progetto Mezzatesta dichiarato Sovranamente utile pubblico, plaudendo operato stessa Amministrazione classe lavoratrice e deplorando condotta Prefettura che finora ostacolato appalto importantissimo opera reclamata dall’intero paese senza nemmeno esservi degnato rispondere ai voti fatti dalle Società predette contenuti nella deliberazione 31 maggio presentato sotto Prefettura Palmi da apposita commissione, rivolgiamo preghiera E.V. disporre che diasi termine inqualificabili abusi verso Amministrazione e popolazione, le quali devote verso Augusta Dinastia e liberi Istituzioni reclamano rispetto propri diritti e sollecitano inizi lavori che daranno occupazione classe operaia affamata, cui ha dato finora sufficienti prove rispetto legge autorità costituita. E.V. strenuo difensore nostre liberi Istituzioni voglia degnarsi risolvere subito grave problema. Conformemente istanza fatta da accurata, solerte ed onesta Amministrazione Municipale cui opera mira solo pubblico bene, richiamando autorità prefettizia a più corretto e prudente indirizzo nei provvedimenti arruolati. Fidante nel suo colto senno, vivamente ringraziamo” … seguono firme Presidenti. L’ambiente Gioiese era questo. Di fronte alla gravissima situazione per la mancanza d’acqua potabile, in una zona ancora malarica, con un progetto datato 1863, sindaco Lombardo, ancor bloccato dopo 16 anni, le S.M.S. si erano “ribellate” con un semplice telegramma inviato con “rabbia” al ministro dell’interno.

41 10

L’ormai anziano Capitano Carresi, pur essendo nato e cresciuto marinaio, non aderì alla società di M.S. lavoratori del mare. Su richiesta del suo grande amico Achille Normanno si iscrisse a S.M.S. “mista lavoratori” con sede al “piano delle fosse”. Intanto da qualche anno, si stava alacremente lavorando alla costruzione della ferrovia a scartamento ridotto Gioia‐. Finalmente dopo un trentennio circa di lotte campaniliste fra i vari paesi della piana ovvero fra i politici di quel tempo, una parte del progetto trovò compimento nel 1917: il primo passo di una infrastruttura che si infilava nel cuore della piana, al servizio dei vari comuni. Bisognava continuare a lavorare per collegare il versante tirrenico con quello ionico. Nel 1918 a guerra terminata Francesco fu congedato e rientrò con tutta la famiglia, con grande gioia del parentado;proprio mentre vi erano i preparativi per il matrimonio della secondogenita del Capitano Domenica, promessa ad un marinaio gioiese di nome Rocco Bonazza. Era costui, un bell’uomo alto e robusto, di colorito bruno che aveva una particolare predisposizione alla tecnica. Conosceva perfettamente i velieri nella loro struttura, conosceva l’apparato macchina dei piroscafi ed aveva buone cognizioni di elettricità. Suo padre fu uno dei fondatori della società di mutuo soccorso “lavoratori del mare” , un padrone marittimo di origine Palmese. Fu proprio lui ad insistere per il fidanzamento tra suo figlio Rocco e la figlia del Capitano Carresi. Le famiglie per bene cercavano altre famiglie per bene per sistemare i figli. Al Carresi bastavano la serietà dei costumi, la voglia di lavorare, l’onestà, il rispetto. Al Bonazza la serietà della famiglia, che per un mestiere come il marinaio era un marchio di fabbrica. Non ci si poteva avvicinare ai Carresi in cerca di ricca dote: rimaneva deluso. Ma erano ricchi di categorie dello spirito: dedizione alla famiglia, spirito di sacrificio, rispetto per i mariti, che per quei tempi era moltissimo. Carmela, la terzogenita “filava” con un altro uomo di mare, Gaetano, primogenito di Mico il fornaio e fratello di Peppino, perito durante la prima guerra mondiale. Mentre Serafina, la quarta nata Carresi, filava con il cugino di Gaetano, Peppino. Serafina era bella come Fortunata, bruna, capelli lisci, zigomi alti, magrolina ma, instabile nel sistema nervoso, come la mamma; Peppino era con capelli castano chiaro, occhi azzurri, un cespuglio di capelli che terminavano con un gran ciuffo sulla fronte. Aveva un carattere molto chiuso. Riuscire a farlo parlare era un’impresa e quando rispondeva, lo faceva con risposte secche e decise.Una persona o parente s’intimoriva a sentirlo rispondere. Quel giorno il Capitano Carresi, con il fidanzamento tra Rocco Bonazza e Domenica, ebbe come un presentimento, mentre si festeggiava il suggello matrimoniale. Qualcosa d’indefinito, di strano, stonava in quelle felicitazioni, ma non riusciva a capire cosa. Ma scacciò subito il fastidioso pensiero. Gaetano un marinaio alto e robusto, di colorito castano chiaro, occhi chiari cangianti, aveva anch’esso navigato tutti i tipi di velieri, compresi quelli a motore. Aveva un vocione robusto, che incuteva rispetto, e il cuore molle come la panna. Gran lavoratore, instancabile. Quando i fidanzati erano invitati a pranzo dai suoceri, il maresciallo Felicia predisponeva il posto che a ognuno toccava: naturalmente i fidanzati erano tutti a ponente e le promesse a levante, sotto il suo occhio vigile: niente occhiate da pesce lesso. Se ne accorse il buon Gaetano che dopo aver bevuto del vinello, offrì il suo bicchiere a Carmela, invitandola a fare altrettanto, Felicia, reagì togliendo il bicchiere e disse con cipiglio: “Queste cazze di cose non mi piacciono !”. “Vediamo ora quali novità ci portate dalle navi !”. Carmela, la più saggia, riflessiva delle figlie del Capitano, faceva segno a Gaetano di non preoccuparsi, conoscendo bene il carattere della mamma, che a volte, per evitare ciò che ai suoi occhi era un peccato, ne commetteva uno più grosso. Carmela: sarebbe facile parlare di questa

42 donna , ma, nello stesso tempo difficile. Facile perché con un animo così disponibile e nobile verso il prossimo, si può solo dirne bene. Difficile era riuscire a capire la molla che la spingeva ad essere disponibile verso gli altri; la sua temperanza e la sua saggezza; il garbo con cui si poneva davanti alla gente per invitarle ad esporre i suoi problemi e con essa tentare di risolverli, ne facevano il punto di riferimento della famiglia e dei tanti amici, anche per compiti ingrati, come vestire qualche defunto o nelle liti. Tutto questa poteva nascere solo da una grande fede in Dio, in Gesù, di quell’uomo che si caricò del compito di portare la verità e l’amore, soffrendo: “Quando vedranno come agirete capiranno che siete cristiani “. Era la sua fede nel prossimo e nel Cristo che ne faceva un porto in cui rifugiarsi? O c’era altro? Il cuore semplice e nobile? Ma questi erano aspetti positivi di tutta la famiglia: la fede era il loro naturale rifugio. Ma a differenza delle altre sorelle era meno impulsiva. Gli aspetti positivi del Capitano e di Felicia si erano fuse mirabilmente. Nel 1919 Concetta e Rocco si sposarono, l’anno successivo, nel gennaio del 1920 contrassero matrimonio Gaetano e Carmela. In quello stesso anno il Capitano andò in pensione al compimento del 60° anno di età. Ma neanche a terra riuscì a stare fermo. Diventò rappresentante di macchine per cucire Singer. Nell’ottobre del 1920 si sposò la figlia Serafina con Giuseppe Ventre, detto lo scrivano. Grazia Carresi la quinta delle sorelle fu la meno fortunata. Anch’essa fidanzata con un marittimo locale, dopo circa un anno di frequentazione, l’uomo ruppe il fidanzamento perché aveva ricevuto offerte migliori da un'altra famiglia. Ritorniamo al Capitano ed al suo lavoro di rappresentante di macchine per cucire. Le ragazze di buona famiglia, finita la scuola dell’obbligo venivano indirizzate a imparare una qualche attività, in genere: taglio e cucito o ricamo presso qualche maestra. Infine vi erano i sarti per gli uomini (i custureri). Era qui che il Capitano indirizzava il suo lavoro nel tentativo di piazzare il prodotto ed essendo un uomo di stile, affabulatore e competente, spiegava il prodotto cercando di convincerli all’acquisto: “Questa è una invenzione americana, uno strumento che a mio parere non deve mancare nelle case dei sarti. Con poche, semplici operazioni, questa cuce un vestito intero senza ditale al dito e senza schiena curva. Muovendo appena le gambe, ci si trovava il vestito già pronto senza soverchia fatica”. Quando restava in casa teneva la contabilità delle figlie maritate. I rispettivi mariti spedivano i soldi guadagnati e il suocero li versava a loro conto alla posta. Nell’arco di un anno e mezzo tutte le figlie del Capitano partorirono. Carmela dopo un aborto, partorì una bambina nel dicembre del 1921; Fortunata un altro maschio, il quarto, Mario; Domenica una bambina, Vincenzina; Serafina un maschietto, Antonino. Per il mestiere che facevano, era raro che i cognati si trovassero tutti assieme, compagnie di navigazione diverse, viaggi diversi. In quegli anni che vanno dal 1920 al 1922, le tensioni sociali in Italia erano alle stelle, con scioperi continui, occupazione delle fabbriche, i braccianti agricoli meridionali, partiti in guerra con la promessa della terra da parte del governo, si trovarono con un pugno di mosche in mano perciò misero mano all’occupazione dei fondi agricoli incolti. Nel 1922 tutti i cognati, Rocco, Gaetano, Giuseppe e Vincenzo, si trovarono tutti assieme dal suocero. Tra una chiacchiera e l’altra il Capitano spiegava loro di quando espatriò in Argentina ed al ritorno acquistò la casa di Bagnara. Una pulce s’insinuò nell’orecchio dei cognati e dopo averne parlato con le rispettive mogli, decisero di espatriare (disertare si diceva allora) farsi il gruzzoletto nel paradiso americano e rientrare, che voleva dire assentarsi per tanti anni. I cognati Rocco, Gaetano,Vincenzo, Peppino nell’anno 1922, mentre la crisi liberale toccava l’acme cedendo sotto i colpi del fascismo e la marcia su Roma con a capo Benito Mussolini, partirono dopo la benedizione del suocero.

43 Ma prima di partire Carresi chiamò in disparte Gaetano e gli chiese di stare attento a Rocco che ultimamente si comportava stranamente. Gaetano fece strada espatriando regolarmente, gli altri abusivamente.

Il fascismo si presentò alla gran massa come il “nuovo”, come gli “aggiustatorti” capace di metter le briglie ai sindacati rossi, metter all’angolo gli imbelli liberali ormai marciti nel loro stesso brodo ed i cattolici piagnoni. Anche Gioia Tauro rispose alla chiamata di quello che sembrava il “nuovo”. Il fascio a Gioia fu costituito tra il 1919 e il 1920. Il fondatore fu Filippo Surace che trovò soci e sostenitori in un gruppo di ex combattenti, di studenti, artigiani: Vincenzo Chiappalone, Rocco Magazzù, Giuseppe Agresta, Carmelo Genovese, Antonino Caprì, Gaetano Tomaselli, Giuseppe Ardissone, Saverio Bagalà, Francesco Fedele, Salvatore Cavallaro, Gaetano Capri.Cui s’aggiunsero, qualche anno dopo, il Padrone Marittimo Giuseppe Vinci, Giuseppe Arlacchi, Domenico Labate. Il Surace fu il primo segretario politico del fascio gioiese ed una squadra d’azione formata dai primi aderenti, che, partecipò alla grande adunata di Napoli del 1922. I fascisti gioiesi ebbero modo di farsi notare in azione, quando manganellavano i “disfattisti socialisti” o i decadenti “liberali” o i “dormienti cattolici” o chiunque fosse loro contrario. Se non omicidi, come riportò la cronaca allora. In quegli anni le classi più abbienti, passavano le domeniche e le feste comandate, presso i circoli privati. Qui si incontravano amici, conoscenti, pensionati, giovani, a fare qualche partita a carte o a sorseggiare qualche bibita fra una battuta e l’altra o a osservare le carrozze passare o a “tagliare cappotti” su misura. Non scampava nessuno. Uno di questi circoli era chiamato “Stesicoro”. Il 13 dicembre 1924 ad un angolo del salone interno stavano giocando a briscola quattro amici: Vittorio La Capria, Rocco Zappia, Vincenzo Agresta e Totò Lo Presti. Questi giovani avevano in comune l’età, la voglia di vivere ed erano socialisti. Stavano ridendo e scherzando mentre giocavano. Ad un certo punto arrivarono alcuni fascisti, tra cui il noto Vincenzo Chiappalone. I quattro amici appena li videro si scambiarono un’occhiata d’intesa. Lo stesso fecero i fascisti. Il Chiappalone fanatico e provocatore, anche nella vita normale, apostrofò il gestore: “Ora pure i disfattisti trovano asilo in questo locale ! Allora vuol dire che non dobbiamo entrare noi, è vero Pietro ?” naturalmente il gestore del circolo, rispose timidamente: “No, è un locale per soci … e loro sono dei soci, come lo siete voi …!” e i fascisti: “Se ci sono vermi qui, non ci saremo noi !” e il La Capria abboccò: “E noi non stiamo con i topi di fogna, andate ad armare cricche, magari in dieci assalire uno solo !” Apriti cielo ! Tra gridate di topi di fogna, vermi, si presero a botte. Fu qui che il fanatico Chiappalone, avendo la peggio, estrasse una pistola, sparò ed uccise il La Capria, lo Zappia e ferito Agresta. Un’altra volta fecero allontanare dal podio l’oratore socialista On.Cefalì che doveva tenere un comizio per le elezioni. Il loro motto era questo: violenza su violenza in nome di una intolleranza becera ed un nazionalismo da quattro soldi. Il Capitano ancora lucido, capiva quanto stava accadendo, in maniera tragica, in tutta Italia, ed alzando gli occhi al cielo pregava: “Signore indica tu la strada migliore per tutti !”. Poi andava alla ricerca di nuovi clienti a cui vendere le singer. Il piccolo Ciro intanto prendeva lezioni di musica presso un maestro al piano delle fosse. Da qualche tempo il Capitano, presso il suo amico Normanno, aveva conosciuto il generale Adolfo Musco, consigliere del Banco di Napoli, sposato con la nobile Serra‐Cardinale. Questa famiglia di grandi latifondisti, aveva lungo la strada Salerno‐Reggio, nell’area di Vallamena, un mulino. Qui vi aveva costruito una centrale elettrica, da cui partivano le linee aree che alimentavano la pubblica illuminazione. La turbina era mossa dall’acqua del fiume Budello. Alla turbina vi era coassialmente collegata una dinamo, che forniva energia elettrica a C.C, necessaria alla illuminazione di uffici, piazze o qualche via importante. Il comune pagava al Musco 2.000 lit. annue per lampade da 16 candele, o, se si preferiva pagamento a contatore. La distribuzione, pali, cavi, fu data in appalto

44 all’impresa ing. Leonardo Albonico e c. Naturalmente non tutti i gioiesi, allora, si potevano permettere la luce elettrica: tanti ancora usavano la lucerna a olio. Uno dei primi dipendenti fu il signor Napoli, fine elettricista, che gestiva l’impianto. Dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Il debole Re affidò la formazione del nuovo governo al Cavalier Mussolini Benito.

Durante gli incontri familiari, il Capitano Carresi discuteva spesso delle vicende italiane e si chiedevano cosa, ancora, dovesse succedere in questa martoriata Italia. “Non è bastata la guerra? Come l’umanità si dimentica presto dei loro morti ! Ancora vogliono altre vittime … Dio ci punirà per questo !” diceva accorato il Capitano. “Ma no”‐ rispondeva ironico Francesco ‐ ormai è arrivato l’aggiustatorti, tra manganellate e olio di ricino, i fascisti secondo il Re, metteranno le cose a posto. E così la pensa mio cognato Peppino che è un loro estimatore. Basta solo che ad essi si uniscano i deputati cattolici, basta solo che il Papa dia il via, ed il cerchio si chiuderà”‐ disse il genero. “Vedrai che il Papa non darà l’autorizzazione ai cattolici a sostenere il governo fascista, ed il Papa non si sbaglia mai … non si può stare dalla parte dei violenti, come non si può stare dalla parte dei rivoluzionari.” Anche questa volta il Capitano si sbagliò. I cattolici sostennero il primo governo Mussolini. I fascisti nelle sedi istituzionali predicavano pace e fratellanza, in “periferia” praticavano la violenza, a Gioia qualche anno dopo successe questo episodio: Una domenica mentre la gente era attenta alle funzioni religiose, un manipolo di fanatici fascisti, guidati da Peppino Vinci detto “u salito”, arrogantemente, con protervia, fece smettere le funzioni religiose, obbligando la gente ad uscire. Era solo uno dei tanti episodi della violenza eletta a sistema. Mentre suocero e genero chiacchieravano delle vicende umane, le sorelle Carresi, in un’altra stanza e con una gran quantità di figlioli che facevano un pandemonio, tra pianti, litigi, rincorse, discutevano dei loro problemi casalinghi o dei mariti lontani o di qualche vicina poco simpatica. Ma qualunque scusa era buona per stare tutte assieme. Poi congedatosi dal suocero, passava a salutare la sorella Peppina, che si era maritata, in quegli anni, con un artigiano Giuseppe Arlacchi, il cui padre era stato uno dei fondatori della S.M.S. Operaia, originario di Palmi ma da tempo stabilitosi a Gioia, al Piano delle fosse. La sorella Peppina era mamma di un figlio chiamato Antonino. Il lavoro in quegli anni stentava per tutti. Arlacchi aveva una segheria per botti nella zona dei “cuatti”, diventata poi via S.Martino. Si lavorava per qualche botte, per qualche mobile o si vendeva legna o segatura per le fornaci o forni. Francesco era ancora assieme allo Zio Peppe e i due fratelli Paolo e Antonino.Tra molti sforzi tiravano a campare con l’economia italiana in recessione che nel Meridione si sentiva ancor di più. Diminuendo il lavoro, diminuiva la circolazione monetaria e non si potevano pagare debiti, cambiali, lavoratori, i magazzini non vendevano. Anche Francesco e suo zio non potevano pagare i debiti, come i debitori loro non pagavano i lavori eseguiti, ed erano continue alterazioni del sistema nervoso. Sia Francesco che mastro Peppe evitavano di fare discorsi di tale natura in presenza di Antonino, che era un tipetto niente male: “Una mosca davanti al naso non se la faceva passare !”. Questo era il gergo, segno di rispetto. Ma Antonino pur non essendo da malavita, una mosca dal naso non se la faceva passare veramente. Un giorno venne a sapere che un tale non aveva ancora pagato un mobile costruito da loro. E andò a ricordaglielo. Quest’uomo, lungi dal ricordarsi del debito, con atteggiamento da duro, mafiosetto, cominciò a provocarlo, pensando di impressionarlo. Antonino, calmo, calmo, rispose che era venuto solo per avere i soldi del mobile. L’altro, come giocasse con una tavola irta di chiodi, rispondeva sempre picche. Fino a che Antonino perse la pazienza e rispose:

45 “Fai il prepotente perché sei a casa tua: se hai fegato vieni e fammi vedere quanto vali, dove vuoi tu, mano a mano!” doveva essere una scazzottata. Finì in tragedia. L’uomo fece finta di accettare la sfida mano a mano, ma ci andò armato di coltello. Antonino era minorenne, ma fisicamente piazzato e svelto come un gatto. Durante la lotta, l’avversario capendo di aver sottovalutato il ragazzo, estrasse un lungo coltello a serramanico. Alla presenza di tante persone che assistevano alla scena, Antonino afferrò i braccio di quell’uomo, e ruotando il suo braccio, lo colpì mortalmente. Antonino fu arrestato e poi, con i testimoni a suo favore, fu assolto per legittima difesa. Con l’attività che arrancava, Francesco s’inventava nuove soluzioni tecniche: ornamenti più moderni, mobili nuovi, qualche macchina nuova, partecipazione a gare d’appalto, cassette per agrumi. “Ci vorrebbe un po’ di fortuna“ ripeteva Fortunata “e sarebbe ora che questo debito la fortuna lo pagasse !”. “Coraggio Fortunata, la provvidenza Divina ci verrà in aiuto !”‐ diceva Francesco. I cognati “americani” puntualmente scrivevano alle loro famiglie per raccontare la loro vita di “disertori”, di lavoratori portuali a Nuova York, come fosse la loro casa americana di“broccolino”. Solo Rocco scriveva molto raramente alla sua famiglia. Ma Domenica non sospettava nulla, pensava che suo marito non avesse avuto il tempo di scrivere. Il buon Capitano, invece, era informato da Gaetano di quanto stesse accadendo in America: Rocco aveva deciso di restare li per sempre. A questo punto Gaetano mise all’opera la sua capacità di convinzione, e spinse il cognato riottoso a rientrare in Italia. “Ora il gruzzoletto ce lo siamo fatti, possiamo rientrare in Italia. Ci reimbarchiamo qui e sbarchiamo a Genova”. “E che devo fare in Italia ? Qui si sta bene … si è liberi … c’è lavoro‐ diceva Rocco. Ma Gaetano insisteva: “Rocco, goditi la figlia, che ancora non conosci, come non conosco io la mia, è per i figli che abbiamo fatto questi sacrifici!” e Rocco si convinse. Dopo più di quattro anni dallo loro partenza per Nuova York i cognati rientrarono. Ed acquistarono dal demanio il terreno su cui costruire la loro casa: alla fine la scelta cadde sul terreno di fronte alla casa del Capitano o poco lontano.

Intanto il fascismo aveva completato il suo colpo di stato tollerato. I moderati cristiani si resero conto nel gennaio del 1925, dopo l’omicidio Matteotti, delle “qualità politiche” del fascismo e del suo “conductor” che annunciava di fatto la fine delle libertà sia individuali che collettive. Fu abolita la libertà di stampa, sciolte le organizzazioni sindacali, i partiti politici, e, i loro deputati decaduti, fu abolito il diritto di sciopero. Molti intellettuali e semplici oppositori fuggirono all’estero o si zittirono. Da oggi ogni provincia, ogni comune, ogni villaggio aveva il suo ducetto. Ogni fascista dettava legge. In ogni località, per il solo fatto di avere una camicia nera e il fez in testa, ogni fascista si sentiva padrone. Nelle strade, nelle piazze, nelle adunate o nei circoli si gridava: “Viva il Re !”‐ “Viva Mussolini !”. “Verrà un giorno che quel grido si muterà in abbasso. Verrà un giorno in cui parleranno quelli che oggi tacciono!” Così si esprimeva Pietro Nenni in quei giorni. E coloro che amavano le libertà democratiche tacquero per ventanni.

Anche a Reggio e provincia fu stroncata ogni tipo di opposizione. Da quel momento in poi, ogni parola poteva costare cara; anche la semplice chiacchierata in una cantina o dal barbiere, era preceduta dal timore di essere ascoltati dal delatore di turno, che, per dispetto o per farsi bello

46 davanti al rappresentante del potere , accusava la gente di antifascismo (lo stesso timore che si aveva per la delinquenza). Se non si fosse stati più che sicuri dei presenti nessuno fiatava. Nemmeno il Capitano Carresi, quando si recava da mastro Luigi il barbiere per un’aggiustatina ai capelli, fiatava. Poi, sottovoce, mastro Luigi diceva: “Capitano, come la pensate voi ? Pensate che questi risolveranno i problemi che abbiamo ? Lavoro che manca, strade sterrate, la delinquenza … ?” “Mah !” rispondeva con rassegnazione il Capitano “c’è troppa violenza in giro … e con la violenza non si risolvono i problemi: la violenza chiama violenza !” “E ditemi un'altra cosa Capitano, le nostre vite, insomma, saranno migliori? domandò ancora Luigi. “Mi auguro di si per tutti questi giovani come mio figlio. “ A questo punto entrava nella discussione il terzo convenuto, noto come socialista ed oppositore del fascismo: Carlo Castellano. Che con rabbia sosteneva: “Questo ci porterà alla rovina diritto diritto … altro che stare meglio !”. E’ noto che il modo migliore di far fare una cosa a un altro è quello di proibirglielo: così mastro Luigi quando vedeva la piega che prendeva la discussione si preoccupava, e agitando il rasoio o la forbice: “Carlo per piacere, non alzare la voce, se no questi mi incendiano il locale!” Carlo ribadiva ancora più forte: “Ma vi rendete conto che siamo guidati da quattro straccioni? Da chi in vita loro non ha mai contato? Che erano ladri di galline? Che non sanno né leggere né scrivere e comandano?” Mastro Luigi ancora più preoccupato: “Carlo non alzare la voce, tu mi rovini!” Poi interveniva il Capitano a calmare le acque autorevolmente: “Questi sono i saltafossi, caro Don Carlo! Sono quelli che s’imbarcano sul carro dei vincitori, di ogni vincitore … i principi, le idee vengono messe da parte … ora vediamo cosa sanno fare, può darsi che col tempo … ! “Capitano, credetemi, l’unica loro logica è la violenza; i loro principi, i loro valori sono riposti in quel manganello o nell’olio di ricino! Questi cantano il Te Deum in chiesa, poi, nelle strade cantano l’ufficio delle tenebre! Questi sono servi dei padroni più reazionari: sono forti con i deboli e deboli con i forti! Sapete, Capitano, quello che è successo l’altra sera?” “No” – rispose incuriosito il capitano Carresi. Carlo Castellano raccontò il seguente episodio: “La camicia nera Mico Labate stava chiacchierando con alcune persone, con indosso la sua camicia nera, il fez, il manganello in mano e gli stivaloni impolverati; un pecoraio, passando di la, lo urtò senza volerlo. Mico per tutta risposta, lo pestò di botte. Costui era uno dei pecorai di Filoreto Fondacaro. Quando il Fondacaro si ritrovò il pecoraio pestato a sangue, che sembrava un Cristo in croce, si mise la palandrana ed un nervo di bue in mano, e andò a chiedere spiegazioni a Mico Labate. Filoreto Fondacaro era un uomo molto rispettato, se non temuto, sia a Gioia Tauro che nei dintorni. Da poco tempo era uscito dal carcere, dove aveva scontato diversi anni per omicidio. Era un duro. Generoso ma duro. Rispettoso se lo rispettavano. Malandrino con gli irrispettosi Filoreto andò a trovare Mico Labate a casa. Lo chiamò, facendolo uscire. “Mico! ‐ disse con il ghigno da duro Filoreto Fondacaro ‐ mi hai pestato a sangue il pecoraio … perché ? … Lo hai combinato maluccio sai ?” e mentre parlava si avvicinava ‐“pure le mie pecore si sono risentite. Ora chi mando con loro?:” e via con un gran colpo in faccia. “Ahi!” esclamava Mico, mentre bianco in volto arretrava. “Ma, ma, Don … Don … Filoreto io non sapevo! Non pensavo” e il Fondacaro giù un altro colpo. E colpiva parti diverse del corpo enorme della camicia nera Labate, per fare più male. Avete capito Capitano? I colpi se li è tenuti e con la coda in mezzo alle gambe è rientrato di corsa in casa. La gente di rispetto non si deve toccare. E così è trattata la criminalità organizzata ! “

47 In effetti, come affermava, con lungimiranza e saggezza il Capitano: saltare sul carro dei vincitori, era una abitudine umana difficile da smontare. Tuttavia, nonostante la conoscenza della presenza della criminalità organizzata, un regime politico autoritario come il fascismo, in possesso di molti strumenti di repressione, avrebbe potuto combatterla in maniera decisa. Questo non avvenne, perché saltafossi lo erano un po’ tutti compresa la classe dirigente di allora. Ricordiamo il Comm. Francesco Starace Tripodi già sindaco negli anni del liberalismo, ora passato nelle file fasciste, che a guardia dei propri possedimenti e magazzini di olio, aveva messo un “uomo di rispetto” come Alfredo Barbaro, riconosciuto capo di un’associazione malavitosa e che ora si portava appresso. E come il Tripodi avevano agito gli altri ricchi borghesi della zona. Quando vi era questo genere di rapporto, meglio alleanza perché si trattava di questo, tra la ricca borghesia e la criminalità organizzata il territorio si poteva considerare completamente soggiogato. Ed il passaggio da un regime all’altro, da un sistema all’altro, gattopardescamente, significava continuare a spadroneggiare. Il Tripodi da liberale venne eletto sindaco; poi passò sotto le insegne del fascismo diventando podestà e la stessa cosa fecero i malavitosi. Il potere cerca sempre il potere. Fino a quando è possibile si deve tentare di trovare l’accordo.

Intanto Vincenzo, il primogenito del Capitano, si era sposato con una ragazza di Bagnara da qualche anno ed aveva avuto un maschietto a cui fu dato il nome del nonno: Francesco. Navigava con la società “Neptunia” e, come tantissimi lavoratori del mare, era un antifascista della prima ora. Non sopportava le malversazioni e le guasconate di tanti “camiciotti”, come li chiamava lui, che s’arrogavano il diritto di sostituirsi alla libera determinazione delle OO.SS. o alla democrazia con la violenza. “Ti raccomando Vincenzo di essere prudente con questa gente ! Ormai hanno il potere in mano … hanno tutte le leve dello stato che muovono a loro piacimento !‐ gli ripeteva il capitano continuamente. Intanto il “cantiere familiare” di Francesco e Fortunata lavorava a tutta forza. In quegli anni ebbero altri due figli, Dante e Renato. In compenso l’attività della falegnameria stentava; alti e bassi si succedevano come le montagne russe tanto che Francesco si lamentava in casa: “Questo governo qualcosa dovrà pur fare per sollevare l’economia nazionale, ci vogliono investimenti pubblici, completare la ferrovia a S.R. Gioia‐ e commesse ferroviarie; bastimenti sono anni che non si costruiscono più … “. Però le banche crescevano: è del 1926 l’apertura degli sportelli della Banca Commerciale Italiana: lo stesso anno della dipartita di sua madre Maria, moglie di mastro Peppe Orlando, all’età di 62 anni. Mastro Peppe si sarebbe risposato più tardi a Reggio Calabria dove trasferì la sua attività e con sé tutti i suoi figli. Il 21 aprile 1927, a Gioia Tauro, vi fu una grande festa per l’arrivo del primo podestà, il commendator Francesco Starace Tripodi, che fu accolto dalla cittadinanza in divisa, fra cui i figli del Capitano, e con la santa benedizione del parroco don Pasquale De Lorenzo. Francesco non ci andò volutamente. Né ascoltava le parole di suo cognato Peppino che lo invitava a presenziare per non inimicarsi il fascismo. “Sentimi Francesco ‐ diceva Peppino con le mani dietro la schiena ‐ non parlar male di questa gente, perché sono vendicativi … se tu sfoghi così alla fine … “ Francesco lo interrompeva stizzito: “Io non capisco che ci trovi di appassionante in questa teppaglia, ti metti sullo stesso piano di questa massa di ignoranti e violenti …!”. “Vedrai che l’Italia diventerà grande con Mussolini e la sua mano dura… !”. “Intanto anche tu stenti con il lavoro … finora solo questo è arrivato: il costo della vita in aumento !”. Effettivamente le cose non andavano bene. “Considerato 100 il costo della vita nel 1913 … nel 1926 era arrivato a quota 657 … !”

48 “L’Italia era tormentata dal suo malessere cronico: lo squilibrio della bilancia commerciale. Importava tante materie prime di cui era povera: petrolio, grano. Il primo atto della politica economica del fascismo fu: la battaglia del grano. Aumentava il dazio d’importazione progressivamente con l’obiettivo dichiarato di incrementare la produzione interna di cereali, bonificando terreni acquitrinosi. “Altre iniziative furono la riduzione dei consumi di petrolio, carta e la riduzione dei dipendenti pubblici. Mussolini e il fascismo avevano promesso rinascita e gloria, finora erano arrivati solo sacrifici. Ci si stava avviando verso l’autarchia, lentamente. Questo bastava a stizzire Francesco: “Lo sapevo, ora il legno d’importazione ci costerà più caro !” e giù una bestemmia. “Queste sono tutte le promesse che ha fatto nei suoi comizi o scritto sulla stampa!” Ma si stava preparando all’orizzonte del mondo una nuova catastrofe economica e finanziaria: era il 1929. Carmela e Gaetano ebbero il sospirato figlio maschio dopo tanti anni a cui fu dato il nome del nonno: Domenico. L’ultima figlia del Capitano Carresi, Antonietta sposò un altro marinaio di nome Giuseppe Romeo, nel 1928 e partorì nello stesso anno un altro maschietto a cui fu imposto il nome di Francesco, e, tanto per cambiare, come quello di suo nonno. Mentre la tempesta di Wall Street si avvicinava, Francesco discutendo con i figli più grandicelli , Francesco e Vincenzo aveva espresso la volontà di spostare la segheria dalla marina (l’attuale via Trimacria), presso il quadrivio Sbaglia di Gioia, nei pressi della ferrovia dello stato e della ferrovia a scartamento ridotto. Quella era diventata una zona di grande espansione commerciale, dopo la costante e continua caduta dell’uso della infrastruttura navale. In quella zona del quadrivio Sbaglia, dove s’incrociavano la S.S.111, la cosiddetta zona dei “caconghi”, piena di cisterne, depositi di granaglie, cereali, paste alimentari, fabbriche che trattavano gli agrumi, vetrerie, altre segherie, Francesco e i figli montarono, dopo aver affittato il terreno, i macchinari necessari all’attività. Un principio economico liberale ma ancora valido affermava che, in un mercato, il prezzo più concorrenziale è destinato ad emergere, tenendo conto della qualità del prodotto. Ma in un paese che si nutriva di falsi miti e di un individualismo esagerato, non era ammessa la capacità tecnica superiore di uno rispetto all’altro, e, invece, di tentare di superarlo, con la propria bravura, si calunniava il concorrente o si ricorreva ad atti di viltà. Mentre le cose si aggiustavano per Francesco piano, piano, una notte del 1929, dopo la nascita dell’ultimo maschio, Renzo, un tale De Stefano diede fuoco alla segheria di Francesco. I danni subiti furono gravissimi. La malasorte sotto l’aspetto del De Stefano aveva calato il suo asso. Tutta la materia prima prese fuoco facilmente; si salvarono solo le grandi seghe a nastro e a disco. I motori elettrici andarono persi, come pure l’impianto elettrico del capannone. Francesco era avvilito, distrutto, avrebbe voluto urlare al mondo intero la sua rabbia che addolorava il suo corpo oltre che l’anima. Lo stesso sentimento dei figli e della moglie. Ora era un problema molto serio. Il buon Capitano Carresi cercava di trovare i modi giusti per rincuorare la famiglia di Fortunata. “Benedetta famiglia ‐ diceva tra se ‐ mi faranno morire prima del tempo. Ma Signore mio soccorri chi ha bisogno con la tua misericordia”. Carmela e le altre sorelle, anch’esse, cercavano di attutire quel brutto colpo. Francesco immaginava che fosse tutta opera del De Stefano, come lo immaginava il figlio Francesco Jr e Vincenzo. “Ma se non abbiamo prove per denunciarlo, ci prenderemo la controdenuncia per calunnia, rimanendo cornuti e bastonati!”‐ ripeteva avvilito Francesco. “Gliela faccio pagare io a questo bastardo!” tuonava Francesco figlio. Ed altrettanto ferocemente rispondeva Vincenzo, un tipo che era tutto un programma.

49 L’umiliazione, il rancore sordo, l’impossibilità di sfogare mise a dura prova Francesco e il suo fisico, e pur non perdendosi d’animo, invitava i figli a darsi da fare per recuperare i macchinari, mentre lui si recava dai carabinieri per avere notizie o per essere ascoltato dal maresciallo dei reali carabinieri: Ciccio il massaro. Così chiamato per via dei metodi poco urbani che adoperava su chi infrangeva la legge. Questo maresciallo era, oltretutto, un buon amico di famiglia spesso si prestava la moto da Francesco Jr per andare a caccia di latitanti. Nonostante gli avvertimenti del padre a non compiere atti inconsulti, il primogenito armato di una vecchia pistola a tamburo, tra le ombre della notte, aspettò il passaggio del De Stefano e scaricò tutti i colpi del caricatore, senza, per fortuna colpirlo. L’uomo si mise a correre gridando aiuto. Francesco guadagnò la via di fuga, nascosto dalla notte. Il De Stefano, dopo la paura, denunciò il tentativo d’omicidio nei suoi confronti, contro ignoti (anche se lui immaginava l’autore). L’indomani “massaro Ciccio” invitò il capofamiglia a recarsi presso la caserma al Piano delle Fosse. Questo locale sembrava una fortezza ed aveva un che di sinistro, anche se nell’altra metà dello stesso stabile vi abitava l’amico del Capitano Achille Normanno da cui si recava spesso, quasi ogni giorno , per via del suo lavoro di esattore della luce assieme al figlio Ciro, per conto del Barone Musco. Era sinistro quello stabile solo per i delinquenti incalliti. I reali carabinieri non avevano riguardi per questa gente: colpevoli o innocenti che fossero quando uno di questi arrivava là, erano botte da orbi. E quando era reo confesso, massaro Ciccio lo incaprettava e lo portava in giro per il paese urlando: “Guardate che fine fanno i malandrini, guardate e pensateci bene prima d’infrangere la legge !”. In caserma il maresciallo spiegò l’accaduto a Francesco: tentativo d’omicidio contro il De Stefano. “So che avete avuto delle questioni con lui … “. Disse il maresciallo. “Ah … maresciallo ero convinto che eravate riusciti a scoprire chi ha messo fuoco alla mia segheria … ma io e i miei figli, lo sapete bene, di queste cose non ne facciamo. E poi siamo rimasti sempre a casa, abbiamo chi può confermare il nostro alibi”. Intanto era arrivato il resto della parentela: il Capitano ed i cognati. Le indagini, comunque sia, non portarono a risultati concreti. La notte successiva Francesco cedette. Il suo fisico provato dal continuo stress, fu colpito da emiparesi sul lato destro del corpo: il viso storto, non riusciva a muovere il braccio e la gamba destra. Fu ricoverato all’ospedale di . “Dio mio, perché altre sofferenze ? Ma sia fatta la tua volontà !” pregava così il Capitano mentre assieme a Carmela si recava dalla figlia Fortunata. La sua vita fu salva, ma il suo fisico restò menomato per sempre: neanche le scosse elettriche riuscirono a migliorare le sue menomazioni. Il regime fascista aveva plagiato ormai la società civile italiana: non aveva solo eliminato le libertà democratiche, ma l’aveva militarizzata creando organizzazioni che avevano lo scopo di rendere visibile in ogni attività umana il fascismo ed i suo creatore Mussolini. Furono quelli gli anni della cosiddetta “fascistizzazione” dello stato: dalla cultura, creando “l’Accademia d’Italia”, la legge sulla “bonifica integrale”, per coltivatori diretti, braccianti che migliorò le condizioni di alcune regioni; si ammodernarono le reti di trasporto; fu completata la ferrovia a scartamento ridotto Gioia‐; leggi a favore dei lavoratori, inquadramento di tutta la gioventù tramite l’O.M.B.; camere di commercio. Ind. Agr. Art. , furono ristrutturate e guidate da fascisti; tutto era pervaso dallo “spirito fascista”. Ogni aspetto della vita doveva contenere il fascismo: più volgarmente, veniva chiamata “tessera del pane”. Opporsi significava l’esilio.

Il tassello mancante il fascismo lo inserì l’11 febbraio del 1929 con i Patti Lateranensi, che avrebbe portato la chiesa nell’orbita della dittatura definendo i rapporti fra stato e chiesa, i confini, il cattolicesimo religione ufficiale dello stato ecc. Fu un colpo da maestro. Mussolini da Pio XI fu proclamato “L’uomo della provvidenza !”. In ogni omelia, in tutte le chiese si gridava “Viva l’uomo della provvidenza!” Così esultava Don Pasquale De Lorenzo. Il fascismo, tra l’altro, diede inizio alla costruzione di nuove chiese. In quell’anno fu

50 iniziata la costruzione del Duomo di Gioia Tauro su un terreno, donato al vescovado dal Barone Cordopatri, vicino alla ferrovia. (il posto attuale) I Patti lateranensi,sotto l’ottica politica, furono firmati contro la volontà dei politici cristiani. De Gasperi scriveva nel 1929 a Don Simone Weber: “Il vero pericolo piuttosto è nella politica concordataria. Ne verrà una compromissione della chiesa con un regime antidemocratico … “. La stessa amarezza traspariva dalle lettere di Don Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano, movimento cattolico. Il 1929, come già preannunciato, fu un anno ricco di avvenimenti, non solo per la famiglia Caratozzolo, Carresi, per l’Italia, ma per il mondo intero: calava la notte della crisi economica che avrebbe trascinato intere Nazioni del mondo a contare i disoccupati e gli affamati. “Nella piana e nella provincia di Reggio Calabria gli effetti della crisi non potevano non essere visibili sul mercato dei prodotti agricoli e dell’olio in particolare “. A questo stato di crisi economica internazionale si aggiungeva la politica economica dello stesso fascismo tendente a racimolare risorse finanziarie per l’esercito al fine di rafforzarlo per le conquiste imperiali. A Gioia la crisi dell’olio significava, in sequenza, il fermo di tante attività indotte e salari in circolazione ridotti. Francesco dopo l’incendio e la malattia era fiaccato nel corpo ma non nello spirito. La voglia di ricominciare gli era riapparsa: “Tu sei stato colpito alla gamba ed al braccio non al cervello”‐ gli diceva sua moglie Fortunata mentre gli accarezzava la testa bionda. Ma c’era stata anche la solidarietà, la vicinanza, l’affetto dei parenti tutti, che facevano a gara per infondere coraggio a Francesco. Spesso una grande famiglia, non nel senso del numero dei componenti, ma nei valori che rappresentano sono un toccasana per lo spirito, che spinge a combattere contro le avversità della vita. Il Capitano Carresi poteva essere soddisfatto di questo, di quanto insegnato ai propri figli. Le sorelle di Fortunata facevano a gara per starle vicino in quei momenti terribili. Carmela e Gaetano si offrirono con generosità. Già da tempo Vincenzo dormiva a casa loro. Anche i fratelli arrivarono in soccorso di Francesco. Dopo l’incendio della segheria, l’operatività della stessa, fu spostata in via Asmara in un terreno vicino alla stazione di proprietà di un tale Savastano Nicola. Ed ognuno si dava da fare lavorando, come poteva, dovunque. Peppino il terzogenito, chiamato dagli amici e dai parenti Pineo perché piccolo come la mamma. Francesco,il suo papà, che fumava come un turco, provvedeva a rifornirlo di sigarette, trasformando le foglie della vite, seccate e polverizzate, poi acquistava le cartine e ne faceva delle sigarette. Vincenzo partiva con lo zio Gaetano e lo zio Rocco che avevano un appalto presso il porto di Villa S. Giovanni. Vincenzo era un tipo molto chiuso di carattere, un temperamento indipendente e libero, nervoso quanto bastava, per zittire tutti; ma gran lavoratore e con una forza fisica eccezionale. Riusciva a spingere una barca in mare con la forza delle braccia. Ma poteva portare guai a non finire. “Assomiglia alla madre ‐ dicevano le sorelle ‐ per il carattere”. Un giorno poco prima di rientrare a Gioia in treno, mentre era con gli zii, un uomo che lavorava lì vicino l’apostrofò ironicamente:“A te pianoto, vieni qua !” Vincenzo lo guardò di brutto e non rispose. ”Sto parlando con te, sei pure sordo ? Vieni qua”‐ continuava quello e rideva. Vincenzo lo guatò corrucciato e gli rispose: “Sono per caso tuo fratello di sangue? Alla larga e lasciami in pace !”. Un vecchio proverbio declamava: “Tanto va la gatta a lardo che ci lascia lo zampino !” e ce lo lasciò veramente lo zampino il “cercatore” di guai. Ad una nuova provocazione, minaccioso Vincenzo si avvicinò all’uomo, quello capì di aver esagerato e prese un bastone, ma Vincenzo svelto come un gatto gli zompò addosso e lo colpì con un coltellino col quale tagliava il pane per il pranzo.

51 Gaetano lo fece nascondere invitandolo a scappare. L’uomo fu ferito in maniera leggera. Il medico gli disinfettò le ferite: “In una settimana guarirà “. L’uomo non sporse denuncia, perché aveva torto, come da testimonianze presenti. Corrente l’anno 1930, nel mese di luglio, un grave sisma colpì alcune regioni meridionali. Si contarono morti e feriti, tanti paesi furono distrutti completamente. Una di queste regioni, la più colpita delle altre, fu la Lucania. Ad un avviso pubblico del ministero interessato, Francesco montò le macchine e sbarcò a Melfi, con i figli maggiori. Era uno di quei paesi di montagna, ai piedi del monte Vulture, con le strade strette e sterrate, le case vecchie addossate una sull’altra con tegole grigie e muri spessi fatti con grosse pietre poste l’una sull’altra, cespugli d’erba uscivano dalle fessure dei muri crepati già per la vecchiaia. Gli abitanti erano contadini o pastori e, di giorno, le sue viuzze erano attraversate da greggi di capre o pecore e da asinelli con due sporte ai lati pendenti sulla loro schiena. Francesco la stessa iniziativa di costruire baracche, la prese anche sul territorio di Sulmona, devastato dallo stesso terremoto. Il primo contatto con la cittadinanza semidistrutta fu per i figli di Francesco traumatico. Ovunque case crollate, cumuli di calcinacci e pietre, le traversine di legno dei tetti sul pavimento, le già difficili stradette diventarono impraticabili. I morti furono centinaia. A quella vista il loro cuore si fece piccolo piccolo. La famiglia osservava quella tragedia umana dal vivo, da vicino, in diretta. Francesco allo sgomento dei figli, rispose con la parola: “Coraggio!” e raccontava loro che nel 1908, quando lui era giovanotto. Il terremoto di Reggio e Messina era stato ancora più tremendo. “I morti furono migliaia e migliaia e lo stesso nonno Francesco, a Bagnara perse la casa e si salvò a stento con tutta la famiglia: il maremoto completò l’opera di distruzione. Il fratello della mamma, zio Vincenzo, si salvò dal maremoto assieme al veliero perché ancora non erano attraccati alla banchina “. Questo dialogare e spiegare ridiede vigore ai ragazzi. Poi guardando in alto notarono un castello con le sue alte mura, le torri merlate e grandi finestre con le inferriate, ancora integro; e si chiedevano come avesse potuto resistere a tale furia devastatrice. Francesco spiegava, affermando: “Perché, in quel tempo, il medievo, le abitazioni si costruivano con criteri diversi ma solo per i signori, senza risparmio di materiali e manodopera. Quei nobili erano padroni della vita e della morte dei loro vassalli. Come fanno ora i fascisti. Con la differenza che i nobili sapevano leggere e scrivere, i vassalli no. Ora i fascisti spadroneggiano, pur essendo ignoranti, con il manganello … “ “Certo ‐ annuiva Vincenzo ‐ ma solo con i deboli … con i forti ci pensano due volte !” “E’ gente da quattro soldi e noi dobbiamo stare al gioco perché comandano loro. Se non avessi preso la tessera, non avremmo potuto lavorare !. Perciò ora diamoci da fare, facciamo scaricare la roba, sul posto che ci avranno assegnato … e coraggio, prima o poi, toccherà anche a loro subire … guardiamo avanti, lasciamo questi momenti brutti che abbiamo passato “‐ disse Francesco padre. “Papà, diteci voi cosa dobbiamo fare ora … vado al comune a chiedere dove mettere le macchine? – chiese Francesco figlio. “No, vado io. Chiederò notizie al municipio se è ancora in piedi … o direttamente al podestà della cittadina – rispose il padre. Cominciò così, l’avventura lucana di una parte della famiglia mentre l’altra era rimasta in buona compagnia a Gioia Tauro. Il Capitano continuava a fare l’esattore con il figlio Ciro per conto del barone; le sorelle erano sempre dalla loro mamma a farsi compagnia l’un l’altra.. La loro vita scorreva tranquilla: mare in bonaccia avrebbe detto il Capitano. Qualche novità derivava esclusivamente dalle intemperanze dei fascisti o dall’arrivo di qualche esiliato. Le scuole elementari dove le sorelle accompagnavano i figli, erano poste in un locale baraccato, all’incrocio tra lo stradone e via Solferino.

52 Obbligatoriamente in divisa, poi li accompagnavano alle organizzazioni fasciste per altre attività, chi aveva i mezzi mandava i figli a scuola di musica. Anche i più poveri furono inquadrati nelle organizzazioni fasciste. Ma il fascismo con tutta la sua “etica”, non riuscì ad alfabetizzare “i bagnaroti” che rimasero, nella scala sociale, sempre ai margini. A scuola di musica fu mandato anche il quinto figlio di Fortunata e Francesco, Dante, che in seguito (1931) avrebbe suonato nel complesso bandistico di Gioia Tauro assieme allo zio Ciro. Quella mattina il buon Dio, assopito un po’ di più, non vide quel che stava accadendo a Gioia. Mentre il Capitano e suo figlio erano intenti al loro lavoro, si presentarono dal barone Musco alcune camicie nere che gli chiesero di prestare giuramento al fascismo. I Serra‐Cardinale maritata Musco, pur appartenendo alla ricca nobiltà terriera latifondista, che in altre parti d’Italia sostennero le idee fasciste con mezzi finanziari, erano rimasti “freddi” nei confronti di questo movimento che poi diventò di massa. Non perché fossero contrari, ma erano rimasti borbonici dentro l’anima. E il bello era che lo stesso barone, nonostante annoverasse un fratello, alto ufficiale di cavalleria fascista, manifestava la sua freddezza nei confronti dei fascisti locali. Alla richiesta di questi di adesione al fascio locale, il barone che li aveva fatti accomodare, li guardò uno per uno in faccia con un’espressione seria, ma di disgusto. Poi disse: “Vedete signori, si dice, che normalmente gli uomini accettino le catastrofi, ma non le seccature … ora nella mia vita di catastrofi ne ho viste e subite tante, sia io che la mia grande famiglia, i Serra‐ Cardinale e i Musco, ed anche la catastrofe del fascismo sono disposto a subirla, senza sentimento, ma la seccatura no … questo no ! E voi siete per me una seccatura !” e si alzò dalla poltrona: “Perciò uscite immediatamente da questa casa onorata !”. I fascisti rimasero sorpresi, ma si ripresero subito: “Caro Musco, non vi chiamiamo neanche barone‐ disse l’ufficiale della milizia ‐ come c’insegna il nostro Duce “me ne frego !” anche noi siamo gente dura e a noi i contrasti non ci piacciono … e quando non ci piace una cosa la serviamo a dovere: per ora ci accontentiamo di darvi una curetta” e mise sul tavolo una bottiglia di olio di ricino “che vi ricorderà che siamo i padroni d’Italia !”. “Errato, cari camerati ‐ rispose subito il barone ‐ voi fate pure … ma vi assicuro che i padroni sono sempre coloro che hanno i soldi ! Chi ha i soldi trova sempre da comprare”! Il barone si bevve il suo olio di ricino, ma quelle camicie nere furono più purgate di lui ! L’imbarazzo fu grande in città, perché il barone era un benefattore: non era affatto uno di quei nobili attempati, sguardo severo, accigliato, riservato o molto distaccato. Anzi. E tutti tifavano per lui.

Intanto a Melfi Francesco con i figli continuavano a costruire baracche per i senzatetto. Il lavoro c’era, ma veniva pagato tardi. I giovanotti lavoravano tanto, mentre Pineo preparava da mangiare o sbrigava qualche servizio o aiutava i fratelli. Francesco, quasi settimanalmente, rientrava a Gioia a rivedere l’altro pezzo della famiglia, risiedente in via Risorgimento, una stradina nei pressi della chiesa di Portosalvo. Qualche volta, rientravano tutti assieme. Spesso a Melfi andavano a bussar al municipio a quattrini; il bando di gara era chiaro: il comune avrebbe provveduto a pagare ogni baracca richiesta. Qualche lavoro privato c’era pure: ed erano soldi in più che entravano. Ma gran parte dell’introito proveniva dall’ente pubblico. E quando l’introito non arrivava Francesco si recava a chiederne ragione al podestà Ferretti, un uomo piccolo e macilento, con un paio di baffetti da sorcio e da sorcio erano pure i due dentini che gli uscivano dalla bocca: uno, vedendolo fuori sede, gli avrebbe suscitato pietà e gli avrebbe regalato qualche tornese. Sempre dubitare delle prime impressioni che poteva dare un vecchio vestito! Ferretti aveva un paio di fessure come orbite e due occhietti che appena, appena si vedevano, poggiati su due zigomi alti e puntuti, che gli davano un’espressione da duro. E lo era anche nel tono della voce, molto autorevole e ferma.

53 Alla domanda di Francesco, sui motivi del ritardo nei pagamenti, Ferretti gli puntò gli occhietti addosso come volesse trapassarlo e scrutargli l’anima, e rispose così, mentre con il dito pollice e indice si lisciava il baffo destro: “Egregio camerata, perché lei è sicuramente un camerata e non un sovversivo, il fascismo non manca mai di parola. Voi avrete i soldi del lavoro fatto.” Francesco, nel frattempo, aveva tirato dal portafoglio la tessera del fascio, e pensava tra se e se: “E’ inutile con questa gente la musica è sempre la stessa, cambi piazza o via o paese, i fanatici sono tutti uguali …” e rispose: “Camerata podestà ecco la mia tessera d’iscrizione alla Camera di Commercio di Reggio Calabria: avete la fotocopia in mezzo ai documenti da me presentati … non ho mai messo in dubbio la serietà del fascismo e del nostro Duce, ma volevo solo ricordarvi che sono padre di otto figli. E se i miei numerosi figli non mangiano, non potranno servire a dovere il Duce “. Il podestà Ferretti, mentre Francesco esponeva le sue ragioni, aveva preso in mano la sua tessera d’iscrizione, poi rispose: “Bene, bene … ma ho avuto l’impressione che entrando non abbiate usato il saluto romano …” Francesco si rese conto di avere trascurato quest’aspetto che sembrava marginale, ma non lo era. A Francesco non andava giù quel tipo di saluto, ma per il fascista fanatico era importante. Si riprese subito: “Camerata podestà, spero che mi abbiate ben osservato: non posso alzare il braccio destro, e trascino la gamba …” e lui di rimando: “Si avvicini, caro Camerata, venga, venga …” mentre si avvicinava al podestà, sgranando gli occhi azzurri, Francesco si chiedeva cosa volesse il topo. Appena fu vicino alla scrivania, di colpo, il podestà aprì un cassetto e chiese: “Vedete soldi qui?” “No !” rispondeva Francesco sempre più stupito. Poi tirava a se l’altro cassetto: “Vi sono soldi qua?” “No!” ripeteva Francesco. “Come vede, caro camerata, ora soldi non ne abbiamo. Appena arriveranno, sarete pagato. “ e Francesco ritornava deluso dai figli. Vincenzo furibondo con la sua voce afona e alterata, diceva: “Lasciate che vada io a parlar con il topo e vedrete che i soldi spunteranno !” “Tu stai fermo dove sei … “ lo rimproverava Francesco aspramente “finora la galera l’abbiamo evitata tutti a Gioia, qui non sappiamo come può andare !”. Ma era dura da mandare giù. Non bastava il sacrificio di stare lontani da casa, ma, perdinci, non avere quello che ci tocca è il colmo ! Pensava Francesco. “Allora vuol dire che ci fermeremo fin quando non ci avranno pagati !” confermava il primogenito. “Questo è sicuro”‐ diceva Francesco ‐ noi siamo venuti qua perché il lavoro a Gioia era pochino, mica possiamo ritornare così, e dare soddisfazione ai compaesani? No, dobbiamo avere pazienza. “ E ripresero a tagliare tavole per baracche. Quando meno se lo aspettavano il podestà pagava il dovuto a Francesco. E si riprendeva con rinnovato rigore. Rimasero a Melfi circa 2 anni. Quando il lavoro si ridusse parecchio e nulla si notava all’orizzonte, i due fratelli più grandi, andavano a lavorare con imprese che ripristinavano il manto stradale. Quelle erano battute da carretti a trazione animale, asini o buoi o cavalli. Le strade erano lastricate da lastroni lavici rettangolari: quando erano bagnate facevano scivolare gli animali da tiro. Gli operai scalpellini rendevano antisdrucciolevoli i lastroni di pietra, forandoli con martello e punzone. I due fratelli lavoravano a “giornata”. L’inverno del 1932, l’ultimo anno di permanenza a Melfi, fu il più tremendo. Francesco, finito il lavoro, si decise di rientrare a Gioia. Ma furono bloccati lì per parecchio tempo da una grande quantità di neve,mai vista a memoria d’uomo. Ed il rientro fu impossibile per il tempo, per il consumo dei fondi: con il podestà sul podio la musica era sempre quella. E, mentre il freddo si

54 poteva tagliare con il coltello e la neve era tutt’uno con le baracche, il castello e la natura, Francesco mandò uno dei figli a spedire un telegramma: “Paese bloccato da neve e freddo. Spedite soldi per rientro stop Francesco”. Dopo qualche settimana con l’attrezzatura già sul punto di essere caricata sul treno, ecco che il podestà Ferretti lo fece chiamare e liquidò la rimanente parte del loro lavoro. Successivamente al loro rientro da Melfi,la stentata economia gioiese, antica da tempo immemore, aumentò per gli effetti del crollo della borsa di “Nuova York”, che fu devastante per il mondo intero, ma che già per conto suo soffriva di mali endemici: tasso di disoccupazione alto, imprese ferme, senza commesse ,economia stagnante. Rimaneva una sola strada da battere per il governo fascista: l’investimento pubblico. Francesco prima di rientrare a Gioia, ritirò i suoi macchinari anche da Sulmona, cittadina anch’essa distrutta dal terremoto, in Abruzzo, provincia dell’Aquila. Infine rientrò definitivamente a Gioia. Quivi Francesco, successivamente con gli affari che andavano benino, prese in affitto un terreno più grande, sempre in quell’area, in via Monacelli, allora una strada di campagna battuta da buoi, muli, asini, che metteva in comunicazione il ponte ferroviario di via commercio con la S.S. 18. Andando verso quella strada di campagna, il lato destro era abitato da bovari, contadini, pecorai. Sul lato sinistro vi era la segheria, vigneti, agrumeti, oliveti giù fino in fondo. Sembravano luoghi vuoti, invece era un brulicare di persone che svolgevano il loro lavoro tra gli alberi. Nei momenti di crisi economica, il settore primario assumeva un ruolo importante: la terra, la sua natura, la grazia di Dio, non ti tradisce mai. In effetti senza il frutto delle campagne, la fame in quegli anni sarebbe stata fatale. Identico discorso valeva per le industrie di trasformazione come segherie, oleifici, distillerie. L’antipatia di Francesco verso il fascismo fu sempre gagliarda; ma era un po’ più prudente. Il solo fatto che avesse dovuto iscriversi al partito in quanto: “Requisito indispensabile per la stessa capacità di diritto pubblico dei cittadini” lo obbligava alla prudenza. Ma nell’ambito familiare si sfogava. Ed il Capitano, la moglie, le cognate lo mettevano in guardia dal dire certe cose: il delatore di turno poteva stare li vicino, o, passare in quel momento, e, lui con quel carattere irruento per una parola detta in più, poteva passare guai. In effetti la delazione, la denuncia nascosta, pur essendo per la nostra cultura, un aspetto deprecabilissimo, durante il fascismo diventò una filosofia di vita. Il fascismo, nella sua ansia feroce di costringere la volontà altrui a obbedire, ad assoggettarsi completamente, capiva di aver vinto, ma non convinto gli italiani. Per colpire meglio i riottosi usò questa arma a proprio uso e consumo, pagando profumatamente i delatori. Sul piano della società civile, questa filosofia, spinse le persone a diffidare anche dei propri amici. Uno dei poche svaghi del tempo era la visione di qualche film muto, proiettato presso il locale della società operaia o qualche spettacolo teatrale. Durante la proiezione dei film muti, vi era Ciro che con un pianoforte accompagnava le vicende raccontate dal film. Oppure vi era la frequentazione dei circoli aperti dal fascismo stesso, per tutte le persone, i lavoratori, chiamati “dopolavoro” una sorta di “camera di compensazione” ove la gente comune veniva assillata, torturata nelle glorificazioni di Mussolini e del fascismo. Un aspetto umano, personalissimo come lo spasso, il divertimento, il tempo libero era proprietà del fascismo e dei suoi accoliti. Anche le tradizionali feste religiose divennero oggetto simbolico per decantare il sacro ed il profano: sia la religione che tutto ciò che riconduceva alla nazionalità, al fascismo, così fu inventata la festa della Marcia su Roma; la Befana fascista; la festa di Roma caput mundi. La befana fascista era in camicia nera con i regali per i buoni e il manganello per i cattivi. Le iniziative del fascismo che, al pari degli imperatori romani controllavano le masse con la filosofia del “Panem et circenses”, ebbero tanto successo in altri regimi dittatoriali fuori Italia, che fu imitato. Anche

55 Hitler che in Germania intanto conquistava, con la violenza, il potere, usò La concezione del tempo libero come sistema di aggregazione sociale al nazismo. Così Gioia Tauro in quegli anni ebbe il cinema pubblico, prima chiamato cinema teatro “O.N.D.”. Poi cinema teatro “Impero” (con la democrazia fu chiamato Mazzini). Era situato in piazza municipio a sinistra dei “tre canali” o uscendo dal municipio alla sua destra. Fu ristrutturato un vecchio magazzino d’olio (appartenuto al cavaliere ) ed adibito a luogo d’intrattenimento pubblico. Il fascismo s’inventò i treni popolari, le colonie, le otto ore di lavoro. Le littorine furono, allora, quelle che sostituirono la vecchia ciuf‐ciuf nelle ferrovie secondarie. Una invenzione che non fece piacere agli imprenditori e agli artigiani fu la creazione del sabato fascista. Il sabato tutti dovevano partecipare, obbligatoriamente, alle loro manifestazioni : ma nessuno dei partecipanti, specie se operaio, perdeva nulla: le imprese dovevano pagare comunque. “Che il governo si dia da fare a stimolare l’economia, piuttosto che farci perdere denaro!” Francesco non si tratteneva, nonostante i garbati rimproveri del Capitano e quelli di suo cognato Peppino.

Vincenzo al compimento del 20° anno partì militare. Il primogenito fu esentato. Francesco era favorevole che partisse il secondogenito: “Vediamo se sotto la vita militare cambia un poco”. Scampò alla guerra d’Africa ed a quella di Spagna: ma diede ugualmente notizia di sé. Un giorno del 1936, per fare lo spiritoso con i camerati di fronte a un gruppo di belle donnine, Vincenzo si tuffò forte della sua esuberanza giovanile, da uno scoglio nel mare di La Spezia. Ma fece male i suoi calcoli sulla profondità dell’acqua in quel punto: per poco non ci rimise il collo. I suoi amici non vedendolo riemergere si tuffarono e lo salvarono; era svenuto per il colpo. Quanto era chiuso di carattere Vincenzo come suo fratello Peppino o Renato; tanto era di compagnia Francesco jr. Che non disdegnava spassarsela con i suoi anici più cari: mastro Mico Romeo; Ciccio Costa e suo fratello Felice, giocando a carte o a padrone e sotto. Il sottofondo comune era, per tutti i fratelli, l’irascibilità. Il papà evitava di fare discussioni in famiglia in presenza di Vincenzo, su questioni attinenti mancati pagamenti da parte di alcuni clienti. Le sue reazioni potevano portare rogne. Una volta sfuggì ad uno dei suoi fratelli che quel tale cliente non aveva pagato. Vincenzo partì senza avvisare alcuno. Tornò con una “balilla”. “Che hai combinato stavolta?” urlava Francesco. “Mi sono fatto pagare il debito da Saffioti, non aveva soldi … mi sono preso la sua macchina a compensazione !”. Apriti cielo ! Un vocabolario di parolacce uscì dalla bocca di Francesco, oltre le solite bestemmie. “Noi abbiamo bisogno di denaro fresco, non di macchine … voi avete le motociclette, la macchina non ci serve !” Giuseppe, orso come la mamma, era il più buono dei figli, danni a casa di suo padre non ne aveva mai portati, anzi, si sentiva poco ed era riservato. Ma era di una sveltezza incredibile, sia nel camminare, sia nel lavorare. Le cassette per agrumi erano costituite da listelle di legno (tre o quattro) che poggiavano su quattro “cunei portanti triangolari”. Le listelle sia di sotto che lateralmente si dovevano chiodare. Questa operazione si faceva manualmente. La produttività di una organizzazione è il rapporto tra prodotto e unità di tempo. Nessuno riusciva a batterlo in questo: metteva tra le labbra una decina di chiodi, poi ad una ad una inchiodava le listelle, prendendo un chiodo e col martello lo batteva: ma lo faceva con un movimento rapidissimo: era un piacere vederlo: qualche volta invece del chiodo trovava il suo dito … ed allora … le stelle stanno a guardare.

56 Aveva capelli lisci e nerissimi, di corporatura esile e bassino di statura. Durante uno dei suoi viaggi, imbarcato da nostromo su una delle navi della “cooperativa Garibaldi” (nata nel 1920 durante il biennio rosso) di Genova, Rocco, il marito di Domenica, secondogenita del Capitano Carresi, comprò una delle prime radio, quelle con le valvole che sembravano lampadine per la luce. La portò a Gioia e ad alto volume faceva ascoltare le voci che venivano fuori da quel cubo di colore marrone, fornito di bottoncini, una rete ed un’asta che ruotava, indicante tante capitali nel suo muoversi. Per la gente, per i vicini, quella scatola era una magia: si sentiva parlare, cantare o si ascoltava la voce stentorea del duce: “Ma come fa la gente a stare là dentro? In una scatola così piccola?” diceva qualcuno. E muovendo uno dei bottoncini la voce si alzava o spostando l’altro bottone invece di parlare, cantavano. La gente addirittura si portava la sedia ed ascoltava per ore canzoni dell’Eiar o la propaganda del duce che annunziava grandi vittorie future per l’Italia, la numero uno della nazioni ! Al suono di “Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza !”. L’uso della radio utilizzata dal fascismo locale, portava la voce del duce direttamente tra le gente ed era una formidabile arma di propaganda. Intanto tra una crisi e l’altra, l’economia che non decollava, gli investimenti pubblici fascisti che riguardavano solo il settore degli armamenti, per via delle continue guerre intraprese dai “guerrieri italici” contro la politica della “perfida Albione”, esaurirono la pazienza di Francesco che si era stancato di pagare la gente, il sabato, senza che gli operai lavorassero. Così, una mattina si presentò dal federale di Gioia Tauro per fare rimostranza contro quella legge che imponeva agli imprenditori di pagare lo stesso gli operai che si recavano alle manifestazioni loro: “Dovreste provvedere a dare lavoro alle nostre attività, piuttosto che imporci dei dazi !”‐ disse rabbioso Francesco. “Attento a come parlate signor Caratozzolo, gli ordini del duce e del fascismo, non si discutono!”‐ rispose il federale con quel ghigno che di solito hanno i cattivi. “Io discuto quest’iniziativa: pagatela voi la giornata a costoro, altrimenti fate del male agli imprenditori!”‐ riprese con passione Francesco; e tra una domanda e l’altra, la tensione era cresciuta … Francesco alla fine buttò sul tavolo del federale la sua tessera d’iscrizione al fascio. E mal gliene incolse. La camicia nera Labate e gli altri, si erano avvicinati al federale ed al cenno del “signore” lo presero (un uomo indebolito dalla paralisi) lo legarono, gli tagliarono i capelli e gli fecero bere l’olio di ricino. E fu mandato a casa. Figuratevi i figli, specie Vincenzo. Avrebbero incendiato il paese, ma la prudenza, la saggezza del Capitano e delle zie impedirono di fare ancora fesserie. Un giorno d’estate Francesco dopo aver salutato la moglie che gestiva l’unico tabacchino della Marina, si recò in segheria. Qui dopo aver portato il carrozzino dentro la stalla, vide una contadina, che prendeva un secchio, c’infilava dentro una bottiglia d’acqua e la calava in un pozzo artesiano. Un paio d’ore più tardi la stessa contadina riportava su il secchio con la bottiglia raffreddata. La tracannava con gran soddisfazione mentre due rivoli d’acqua le scendevano dai lati della bocca. Poi si asciugava con l’avambraccio, riempiva di nuovo la bottiglia e la riportava giù. Allora il ghiaccio, in estate, era portato da una carrozza. Il barrocciaio comprava il ghiaccio a Bagnara, lo copriva con segatura e lo vendeva a Gioia. Bagnara essendo un grosso centro peschereccio che viveva dei prodotti del mare, utilizzava il ghiaccio secco per la conservazione del pescato. Francesco, in quel momento fu illuminato: perché il ghiaccio non si può produrre A Gioia? Può servire la Piana, anche i pescatori nostrani, le nostre cantine o il bar “sport”e quelli del circondario. La famiglia Caratozzolo, allora, viveva in via Risorgimento, una viuzza prospiciente il forno degli “ursulini”e casa Morgante su fino all’abitazione della famiglia Vasta, qui era nato Albino, il futuro sacerdote.

57 Più il tempo passava più l’idea si presentava alla mente con insistenza. Ma come si fabbrica il ghiaccio? Che macchinari servono? Ne parlò con i figli più grandi e con la moglie. Ma Fortunata non era convinta: “Lascia perdere, non fare altre iniziative, basta la segheria e il tabacchino, ora come ora non abbiamo problemi, i debiti li stiamo pagando … “ “L’idea è buona, c’è un bacino di centomila persone che si può servire d’estate.” E Fortunata a ribattere: “E se poi va male? Che facciamo? Ci vuole fortuna anche per le idee buone e noi non ne abbiamo tanta!”.‐ diceva tesa la moglie‐ “Ma perché sei tanto pessimista? Dai problemi ne siamo sempre usciti … “ rispondeva Francesco ma Fortunata era inconvincibile. “E non pensare che, nella difficoltà, vada a bussare a quattrini da qualche sorella !” e si chiudeva la discussione. Francesco quando era preso da un’ idea, per lui buona, non si fermava: il suo spirito d’imprenditore aveva il sopravvento. Così una mattina prese il treno e si reco’ a Bagnara con uno dei figli; passò dai parenti, si fece dare delle indicazioni sul proprietario della fabbrica del ghiaccio ed assieme a loro andò da costui, tale Musolino. Fece finta di comprare del ghiaccio, cominciò a parlare del più e del meno, sul come si formava il ghiaccio, la ditta di provenienza del macchinario, e se ne ritornò a casa con le idee più chiare. Il tabacchino era posto sull’unica strada percorribile tra Gioia centro e la Marina. La più frequentata, ovviamente, da barocciai, pedoni che erano di passaggio, contadini, marinai dei pochi velieri che ancora facevano rotta verso porti vicini o le isole Eolie, caricando merce varia; rispetto a qualche decennio prima, i velieri s‘erano muniti di motore ausiliario, come il Cutter “Assunta in cielo” di 27 tonnellate dei fratelli, Padroni Marittimi Matteo e Antonio Longo. Ogni mattina, prima di prendere il largo, zio Ciccio “u fasciano” con Matteo Longo, acquistavano sigarette e sale da portare a bordo alla nave. Zio Ciccio, già allora con la voce roca per il fumo, dopo lo scambio di gentilezze, discorrevano del più e del meno: il tempo, l’annata agricola, i velieri, la pesca andata quest’anno male. Fortunata chiedeva dove andassero ora e zio Matteo rispondeva che avevano un carico di botti d’acqua da portare a Lipari. Zio Ciccio “u fasciano” comprava, col cappellino alla siciliana di traverso, tabacco e cartine, e poi andavano via. Intanto Francesco trattava con il Banco di Napoli; accompagnato dal suocero e da una telefonata del barone Musco. Al direttore della filiale, spiegò l’intento suo di fare questo nuovo investimento acquistando il macchinario necessario per produrre il ghiaccio, utilizzabile dai circoli, bar, pescatori, privati, ospedali, per la consumazione di cibi e quant’altro. Alla richiesta di garanzia la trattativa si fermò. Così in famiglia, per compiere l’operazione, fu deciso di vendere il tabacchino, dopo l’ennesima discussione. Furono presi accordi con chi produceva quelle macchine, la Termomeccanica di La Spezia, e l’impianto fu montato a Gioia Marina, in via Trinacria. Nacque la prima industria del “freddo” della piana di Gioia Tauro. Si trattava di un motore elettrico che trascinava, tramite delle cinghie trapezoidali di gomma, una puleggia. Coassialmente collegata a questa vi erano due globi metallici che pescavano entro due vasche ripiene d’acqua. Le due vasche erano separate. Dentro la prima vasca il globo era vuoto e durante la rotazione riscaldava l’acqua. L’altro era ripieno di un gas (anidride carbonica) che ruotava entro una vasca di 6metri quadrati circa, ripiena d’acqua salata o salamoia. Il globo, per effetto del gas al suo interno si gelava e per induzione gelava l’acqua, ma l’acqua salata non ghiacciava . Longitudinalmente e trasversalmente vi erano dei longheroni in ferro che lasciavano degli spazi entro cui venivano calate le formelle piene d’acqua dolce che si ghiacciavano generando un blocco. Quando era pronto, le formelle venivano estratte dalla salamoia e calate nella vasca con acqua calda. Il ghiaccio si scioglieva qualche millimetro lateralmente, a quel punto si mandava il blocco in uno scivolo, pronto per la vendita. Non c’era famiglia, o bar o cantina della

58 zona che non acquistasse un pezzo o un blocco o mezzo blocco di quella cosa fredda che ti bruciava la mano; il freddo lo si conosceva d’inverno o quando nevicava o quando lo vendevano in strada, ma avere per tutta l’estate qualcosa che ti desse refrigerio era un avvenimento. Non cambiò il costume della gente della Piana o dei gioiesi, ma raffreddare le bibite da bere, conservare il pescato o le carni, per qualche giorno, dava l’impressione della magia. Non vi era carrettiere o contadino o nobile che, passando, non si fermasse ad acquistare bibite ghiacciate o un pezzo di ghiaccio da mettere dentro il vino o l’acqua.. I pescatori lo compravano in gran quantità per i pesci, che poi vendevano nei paesi della Piana raggiunti con la “littorina” o con carrozze, senza rischio che il prodotto si deteriorasse prima del previsto. Ogni festa patronale fu allietata, non solo dagli scoppi dei fuochi artificiali o dalle bande, ma anche dal poter gustare “calia” accompagnato da una bella birra fresca ! Da un’idea ne nasceva un’altra: come sfruttare questa novità al massimo? Vendere le bibite fresche a quella massa di persone che d’estate si recava al mare in cerca di frescura . E come fare? Concentrando, pensò Francesco, la gente, che d’estate, affollava la spiaggia di Gioia con la costruzione di un lido fornito di baracchine per spogliarsi, altalene di legno o a corde, zone di rinfresco. Era nato il primo lido di Gioia e, forse , della CALABRIA. Negli anni trenta, le spiagge, in estate, erano rigidamente separate. Vi era il settore delle donne e il settore degli uomini. Anche i costumi erano particolarmente castigati: le donne con vestaglie lunghe fino ai piedi; gli uomini con costumi interi. Era noto (e lo è ancora) che più proibizioni si mettevano più si spingeva l’essere umano a peccare. Ed era un via vai di gente che si muoveva, chi dalle cabine, dai giuochi o a comprare in baracca bibite fresche: gazzose, birra, acqua. Non era raro che la “lavatura”, così i vecchi marinai chiamavano la maestralata, portasse via tutto. Si ricominciava da capo. Le cose andavano bene allora. Anche la pace fatta da Francesco con il fascismo, personificata, successivamente alla purga, dal federale De Fazio col quale ci fu un rapporto di stima e simpatia. Intanto il cinema Impero era pronto. Bisognava darlo in gestione a un privato. Il De Fazio durante uno degli incontri con Francesco, lo invitava a fare domanda per ottenere in gestione il cinema Impero. In vero a Francesco gli frullava già in testa un’idea del genere. Un giorno mentre era in segheria ad assistere alle operazioni di lavoro, si presentò la guardia Rocco Toscano. Nel rapporto d’amicizia chiedeva in prestito la moto Guzzi per un viaggio a Vibo. “Ma sarò di ritorno molto presto.” Diceva Rocco Toscano. Francesco non rifiutava mai nulla. E nel discorrere, da ingenuo, rivelò all’amico che quanto prima avrebbe avuto in gestione il cinema. Il Toscano riuscì durante il viaggio di ritorno a rompere il motore della moto e rientrò in treno. Francesco quando si presentò al comune per fare la sua offerta, scoprì che il cinema era stato affidato in gestione ad un'altra persona, proprio in assenza del De Fazio. “E come può essere? Nessuno sapeva del fatto … nessuno?” Francesco mangiò la foglia. L’amico Rocco oltre al danno gli aveva procurato la beffa! Nonostante tutto, le sue attività andavano benino. Lo stesso vituperato fascismo gli dava lavoro: per le esercitazioni guerriere faceva costruire i fucili in legno e gran parte di questo lavoro veniva affidato a lui. La domenica dopo aver ringraziato il Creatore con la Santa Messa, i fratelli, ognuno con i propri amici si recava chi a fare un a partita a carte, chi al cinema, chi si dedicava al semplice passeggio o a corteggiare qualche ragazza (molto alla lontana) e spesso, come tutti i giovani della provincia, le discussioni futili erano all’ordine del giorno: “Ti piace quella ragazza?” “A me no, perché quella dopo il primo figlio diventerà con un culo grosso così. Preferisco quelle magre …” frasi a doppio senso, battute salaci: oppure, con decisione, la domenica gli amici

59 partivano col treno e andavano a Messina, dove esisteva l’unico casino più vicino a Gioia. Qualche volta ci si recava sulla spiaggia a vedere il mare in burrasca. “Tu lo faresti il bagno con un mare simile per una lira?” “Per una lira? Anche di meno … “ e giù una risata, mentre il vento di maestrale portava il rumore delle loro voci molto lontane. Poi si faceva una disamina delle belle ragazze del paese: la figlia di Tizio, di Caio, a cui ognuno di loro ci aveva fatto un pensierino. Vincenzo, ad esempio, era un bell’uomo, non solo forte e muscoloso: aveva un viso allungato e levigato con capelli lisci castani; aveva la faccia della madre. Allora corteggiava una bella ragazza del luogo, una certa Olga Stancampiano. Bella ragazza, alta, capelli scuri, viso perfettamente ovale, su cui luccicavano due occhi neri e grandi, anche lunghe rispetto al busto più tozzo, ma provvisto di seni non prosperosi, ma a misura, proporzionati. Anche a lei, Vincenzo, non era indifferente. Così, su una battuta semiseria di uno degli amici suoi, che sosteneva che non riusciva manco ad avvicinarla, Vincenzo rispose: “Ti farò vedere che io la bacerò in strada !” scommessa fatta. L’indomani, mentre la ragazza si recava in piazza per acquistare frutta e verdura, Vincenzo le si parò dinanzi e avvicinatosi rapidamente, la strinse sulle spalle e la baciò sulla bocca, tra i gridolini della ragazza (non si sa se di piacere o di paura), fra la meraviglia della gente per l’accaduto, Vincenzo si era allontanato mentre i suoi amici osservavano con stupore la scena, perdendo la scommessa. Ci fu in paese qualcosa che assomigliò ad una scossa di terremoto. Già parlare con una ragazza in mezzo alla strada, senza vincolo di parentela, era disdicevole . Figuriamoci un bacio. Roba da “fuitina” e, quindi, da matrimonio riparatore. Immediate le razioni da parte della famiglia di lei: il fratello lo voleva sparare. “Che venga a farlo !” gli rispondeva Vincenzo “Lo aspetto sulla spiaggia !” Francesco, il padre, era alterato, non gli rivolse la parola per diverso tempo, anzi lo scacciò di casa. Intanto il fratello di lei Pietro continuava a minacciare. Per tutta risposta Vincenzo ripetè l’impresa e, ancora una volta, dimostrò la sua natura ribelle. Nell’anno 1937, nel mese d’ottobre, mentre Pineo in segheria produceva listelle per cassette, un nodo del grosso legno che stava segando, lo costrinse a spingere con forza il legno, quello si ruppe all’improvviso, e la sua mano finì sul nastro della sega il quale gli tranciò di netto un dito (l’indice) e per metà il medio. Immediatamente soccorso fu portato in ospedale a Taurianova. Intanto il Capitano Carresi cominciava a sentire sempre più il fastidio al ditone. Era sempre infiammato, nonostante cure e lavaggi, uso di tinture e fasciature, gli doleva. Il medico visitandolo, non poteva che avvisarlo, di fare molta attenzione, altrimenti il dito poteva andare in cancrena. Felicia invece combatteva la sua battaglia con il suo sistema nervoso fragile ed esaltato. Ogni sua manifestazione diveniva oggetto di risate: bastava chiedere il racconto di barzellette a doppio senso, che subito cominciava a parlare come se si trattasse di una favola da raccontare ai bambini. Il Capitano, rassegnato e paziente, assieme ai figli e ai numerosi nipoti, agivano per difenderla dai vicini maliziosi. Negli anni trenta, meglio tardi che mai diceva un vecchio adagio, un gruppo di facoltosi olivicoltori della Piana aveva dato vita alla società ‘Olivo’ (una cooperativa per azioni) con sede a Gioia Tauro sulla S.S. 18 lato all’incrocio di via Valleamena. Finalmente gli imprenditori locali avevano capito che la produzione e la commercializzazione in proprio dell’oro verde, avrebbe potuto arrecare a loro e al territorio vantaggi e risorse da poter, successivamente, reinvestire sul posto. Considerando la frantumazione della proprietà fondiaria, il fatto che tanti produttori si fossero riuniti in cooperativa, rompeva quella cultura sociale dell’individualismo a tutti i costi, deleterio per se e per l’economia della piana. Il prodotto spedito con ferrovia in botti o, molto più raramente in nave, in varie parti d’Italia riportava all’origine il valore aggiunto ricavato e quivi reinvestito, con un effetto moltiplicatore che si immagina: operai,

60 impiegati, servizi indotti, altri dipendenti e salari spesi sul posto, che incrementavano altri comparti economici. “La cooperativa Olivo, nel progresso dei tempi ebbe momenti gloria, ma poi fu costretto ad affrontare grosse difficoltà specie con l’ammasso dell’olio durante il periodo bellico. L’obbligo dell’ammasso impedì una normale attività commerciale. La rettifica, poi, dell’olio con altri tipi di grassi vegetali, portarono alla condanna della cooperativa. Intanto fra una tensione e l’altra, gli stati europei stavano affastellando mattone su mattone, per arrivare ad una nuova guerra. L’Italia contro la Germania per l’Austria (Anchluss); la Francia e l’Inghilterra contro la Germania nazista; poi tutti contro l’Unione Sovietica, mentre ogni stato europeo o asiatico subiva le grandi pressioni dei più forti: bastava una scintilla e i fragilissimi accordi, compreso quello di Monaco, si sarebbero sciolti seduta stante. Gli Stati Uniti osservavano sonnacchiosi l’andazzo, però pronti ad intervenire, come Brenno, poggiando la loro forte economia ed il loro armamento sul piatto della bilancia politica internazionale. Mentre l’orizzonte europeo si offuscava, Giuseppe nel 1938 partì per la leva nella regia marina. Fu imbarcato a bordo dell’incrociatore “Cadorna”, come cannoniere; il fascismo con in mano tutti gli strumenti di propaganda preparava con la Germania di Hitler “Il patto d’acciaio” che obbligava ad intervenire militarmente nel caso che uno dei due stati fosse coinvolto in una guerra. Ciò voleva dire allontanarsi politicamente da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti: e questo scatenava il risentimento di Francesco: “Si sta inimicando con tutta Europa … abbandona tutte le nazioni economicamente più forti, per gettarsi nelle mani di un esaltato … !”‐ sbottava Francesco. “Ed è in contrasto con la nazione che ci ha aiutato durante l’embargo per la guerra contro l’Etiopia, l’America”. Questi avvenimenti sembravano molto lontani dalle preoccupazioni della gente: “Tanto noi non capiamo quello che dicono …!”. Ogni tanto qualche coraggioso antifascista faceva trovare fogli di giornali dell’opposizione: l’Unità o l’Avanti, con i quali si metteva sull’avviso la popolazione di quanto stava accadendo e delle reali intenzioni del fascismo e del nazismo. Ma il regime continuava nella sua opera propagandistica tendente a creare sdegno contro le nazioni “plutocratiche”; regalava patacche, premi, diplomi alle famiglie numerose. “ “Così diventano carne da macello”. commentavano le sorelle Carresi. Giuseppe navigò 7 mesi sul Cadorna, e non furono per lui mesi felici; a parte le preoccupazioni della guerra . Qualcuno sosteneva che nella propria vita s’incontra sempre un “caporale”, un omuncolo che solo per aver un nastrino sulla spalla pensava di essere un generale, questo omuncolo cominciò a vessare Giuseppe: turni massacranti, dispetti, sfottò. Finchè, un giorno, una bottiglia non partì come un siluro e colpì il “caporale di giornata” sulla testa. Giuseppe arrestato, ma subito liberato per le testimonianze di un suo superiore, un ufficiale di Reggio, per punizione, fu mandato a finire la leva nelle isole del “Dodecanneso” con sede a Rodi, destinato ad una batteria costiera. Prima di ripartire per la nuova destinazione, fu mandato in licenza a Gioia. Invano il papà tentò, tramite il suo amico federale De Fazio o il nonno Carresi con il barone Musco, di trovare un modo di lasciarlo in Italia. Ma il tribunale militare lo aveva condannato; non era permesso che la bassa forza potesse reagire, alzando le mani, su un “piccolo superiore”; il fascismo puniva pesantemente “i normali” per tutelare la sua onorabilità, lasciando chiusi gli occhi per vicende più gravi. Non si potè far nulla. Da Brindisi fu portato a Rodi dove risiedeva il comando generale, guidato dall’ammiraglio Campioni. La sua prima destinazione fu l’isola di Lero a nord di Rodi. Poi Stampalia più verso ovest, ancora più piccola di Lero. Quando Giuseppe partì il primogenito Francesco jr, stanco degli alti e bassi delle attività del padre, prese la decisione di partire per cercare fortuna al nord. Tutti cercarono di convincerlo a rinunciare quell’idea.

61 “Mi lasci ora che abbiamo buone quantità di lavoro … ! Come faccio ? Servi alla famiglia … tuo fratello è militare in Egeo … qua non si sa come finirà … ci sarà, forse, la guerra … !” Nonostante le preghiere, non si convinceva: “Mi devo sistemare, sono grande! E non ho intenzione di farlo in questo fottuto paese !” “E’ proprio vero ‐ diceva mesto Francesco ‐ la famiglia non esiste più … non siamo più ai tempi di una volta, quando bastava guardare negli occhi un figlio che subito ubbidiva !” dimenticando che i figli derivano da un padre e una madre, ne ereditano, i caratteri somatici e psicologici.

Il Capitano Carresi, anziano e stanco, camminava poco: il ditone s’infiammava continuamente. Si dedicava alla lettura o a dar consigli chi per documenti, chi per gli esami di capobarca, chi per rinnovare il libretto di navigazione, o qualche lettera di raccomandazione. Quando leggeva il giornale non nascondeva la stizza, alle notizie riportate dai quotidiani. Non riusciva a capire, se la guerra che stava per scoppiare, fosse colpa dei tedeschi, degli inglesi o dei francesi, oppure, se tutti assieme tiravano verso l’abisso. Una sera che il Capitano si sentiva una leggera febbricola, nel medicarsi il ditone, se lo trovò dolorante e nero. Fu chiamato il medico condotto dottore Gullace e l’esito fu temibile: inizio cancrena. Bisognava ricoverarlo presso l’ospedale di Rosarno. Il dottor Laghi, chirurgo, lo visitò e decise di amputare un pezzo di dito e bloccare l’avanzata della cancrena. Così fu fatto. Tutti i figli e i nipoti fecero a gara per accompagnarlo e assisterlo in ospedale. Donna Felicia, poverina, era come vivesse in un mondo tutto suo: non capiva quanto stava accadendo. La sera, al solito orario, quando non vedeva rientrare l’ultimo figlio, si piazzava all’angolo con i pugni a fianco e lo chiamava. Vicino al padre, costantemente, vi era Carmela. Era, come sempre, pronta a darsi da fare: parlava con i medici, gli infermieri, assisteva il padre nella recita del Santo Rosario. Aveva una grande ammirazione per questo papà, saggio ed esperto Capitano di Velieri e di Piroscafi, di fede diamantina, moralmente integro e notevolmente acculturato per il tempo. E tutte le sue virtù le aveva trasmesse ai figli. Le piaceva stare li al suo fianco, parlare con lui per ore intere di tutto e di tutti. Chiedeva dei figli, dei generi e dei cari nipoti, quando non li vedeva li voleva sempre intorno: forse, pensava che, potesse essere l’ultima volta. Come infatti, diversi giorni dopo, il medico aprì la fasciatura e notò che la cancrena era avanzata; la febbre non era sparita. Si decise per una nuova amputazione; un altro pezzetto. La sensazione di tutti fu di dolore e mestizia. Vincenzo, il solito figlio di Fortunata, che non aveva peli sulla lingua, prese a dire: “Ma perché non lo avete fatto subito il taglio più sopra? Invece che un pezzo per volta ?” Il dottore Laghi, infastidito, avvisò i parenti che quell’uomo non voleva vederlo più, altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri. Così Vincenzo non ci andò più in ospedale. Ma non ce ne fu bisogno: la cancrena aveva preso la rincorsa. Un sacerdote gli diede l’estrema unzione. In piena coscienza, in attesa che la setticemia invadesse tutti gli organi più importanti pregava: “Signore abbi pietà di me che sono un peccatore. Però Tu sai leggere nel mio cuore, sai bene che ti voglio bene, come so che Tu ne vuoi a me. A Te affido la mia anima.” E’ il 29 ottobre del 1939 il Capitano spirò, tra le braccia delle figlie e di tutti gli altri parenti . Gaetano e Carmela, come si usava allora, fidanzarono la primogenita Giuseppina con un marinaio del luogo, certo Rafele, detto “quartina”. Era costui una brava persona, gran lavoratore, onesto: per l’ambiente di allora era un nulla osta indiscutibile. Pur non essendo un “latin lover”. E pur ammettendo che la sua bellezza fosse un aspetto secondario nell’immaginario delle famiglie del tempo (e non è vero !) la rozzezza non lo era di certo; a Giuseppina non piaceva quell’ometto basso e tarchiato. Ma la donna, allora, era una merce da vendere a tutti i costi: con un minimo di garanzie, ma al primo richiedente. I sentimenti della donna o i suoi desideri contavano come il due di coppe con la briscola a danari. Eppure corteggiatori, Peppina, ne aveva. Ma la forza del

62 “tradizionale” era dura a morire. Le famiglie nobili si apparentavano con altre famiglie nobili, in un paese di tradizioni marinare come la marina di Gioia Tauro, le figlie o i figli di marinai, nelle quasi totalità dei casi, si sposavano con marinai. Era un concetto forte e antico e molto resistente anche se, con lentezza, stava cambiando anche nel meridione d’Italia. Il legame affettivo tra sorelle e cognati era molto solido. Ma per ognuno di loro il punto di riferimento, il porto sicuro dove approdare nella buona e nella cattiva sorte era rappresentato dalla famiglia di Gaetano e Carmela. Francesco li stimava moltissimo: se li sentiva più vicino degli altri, sapeva di poter contare su di loro, sulla loro generosità d’animo. Per usare una parafrasi li definiva i “buoni samaritani”. Per questo motivo vedeva di buon occhio un matrimonio tra suo figlio Giuseppe e sua nipote Giuseppina, che intanto occhieggiavano, anche se era necessaria la dispensa ecclesiastica, trattandosi di primi cugini. Quando poteva, Francesco, metteva in cattiva luce quel fidanzato, buono e lavoratore per carità! ma dozzinale, rozzo. Francesco quando andava in visita dai cognati, tra una chiacchiera e l’altra, faceva un complimento alla nipote: “Guardate che bella nipote che ho! e poi, per tale bellezza ci vorrebbe un bell’uomo, fine e educato. “ Carmela, quando suo cognato parlava così, capiva che Francesco volesse parare da qualche parte. E così, le sorelle si confidarono una sera e Fortunata espresse il desiderio del marito di vedere suo figlio Giuseppe legato ad una famiglia come la sua e diceva: “ Il grande è partito, il secondo dei miei figli sembra non avere né padre e né madre … io vorrei che il più buono dei miei figli si sistemasse con la figlia dei cognati che preferisco, piuttosto che cadere preda di qualche famiglia poco seria!” e Carmela rispondeva: “Ma Peppina è fidanzata … come si fa ?”. Francesco a questa opposizione rispondeva: “Perché quel pastore sembra adatto a tua figlia ?”. Questo discorso lo faceva a denti stretti: il figlio Mario infatti corteggiava una bella ragazza, appartenente ad una famiglia che a lui non piaceva. Non che fosse balorda, ma il padre della ragazza era un “senza bandiera”, un apolide, un privo d’ogni cittadinanza. In quella società, essere apolide, era come dire “senza onore”. Perciò era contrarissimo. I fratelli e le sorelle di Gaetano, da tempo, si erano trasferiti a Reggio Calabria, ed egli, quando era a casa, portava Peppina spesso dagli zii, i quali, da benestanti, la riempivano di regali: vestiti alla moda, scarpe, cappelli. Portati in un paese, che tendeva a crescere, ma ancora piccolo come Gioia, faceva bella figura davanti a tutti. I genitori di Peppina, pur lusingati della richiesta di Francesco, non sapevano come uscire dalla situazione a testa alta. Andare lì, un bel giorno, dal fidanzato e dire: la promessa è stracciata. Si faceva la figura degli sciocchi in un paese moralista per elezione. L’intenzione c’era. Mancava solo la motivazione. Un bel giorno, questa, arrivò sotto forma del fratello Mico. Egli era il secondogenito di Gaetano e Maria. Faceva il chierichetto nella chiesa di Portosalvo. Quella domenica, il fidanzato di Peppina fu invitato a pranzo dai suoceri e si aspettava il rientro di Mico. Ma i suoi genitori non sapevano dove fosse. A questa domanda il povero Rafele rispose: “Mico? Io l’ho visto in chiesa vestito da ‘chicaro! “: a volere esagerare, la parola assomigliava lontanamente ad una mala parola. Ma fu la motivazione che giustificò la rottura della promessa di matrimonio. “Come vi permette a dire a questa parola, di fronte ad una vergine ?! Vergognatevi e, per favore allontanatevi da questa casa onorata, la promessa è rotta !” Così si espresse Carmela di fronte al povero fidanzato che, incredulo, con gli occhi stupiti, non riusciva a capire quel che stava accadendo. Balbettando riprese: “Ma che ho detto ? Io ho solo detto che a Mico l’ho visto in chiesa vestito da “chicaro”! e Carmela finta offesa, continuava la sceneggiata:

63 “Peppina, vai via di quà, allontanati e non ascoltare queste parolacce! Basta, basta così!” Il poveretto stupefatto, si allontanò senza capire perché avesse perso la fidanzata. In compenso Peppina trovò un nuovo fidanzato in Giuseppe, il cugino. E quando egli venne in licenza da Rodi, fu suggellato il fidanzamento ufficiale con una festicciola. Giuseppe era un uomo molto romantico e lo manifestava in lunghe lettere che inviava a tutti i parenti, oltre che alla fidanzata o agli amici, da ogni isola in cui veniva spostato come destinazione. E quelle lettere alla fidanzata, scritte con una scrittura piccola ed elegante ma leggibile, erano cariche di sentimenti di amore, come fossero innamorati da tanto tempo. Sembrava si conoscessero da una vita. Peppina si affezionò a quelle lettere che provenivano da quella lontana parte del mondo; e s’accorse, poi, di aspettarle con sempre maggiore desiderio. Quelle belle lettere descrivevano i luoghi dove si trovava, i suoi compagni o i rapporti con gli abitanti o i momenti del calar del sole quando i grilli chiacchieravano tra loro: “cri, cri”, ruppero qualche lontana eventuale ritrosia di Peppina. Intanto l’attività di Francesco era portata avanti da Vincenzo, Mario e i soliti dipendenti di fiducia: Mastro Augusto Tedeschi, Marzano, il simpatico mastro Peppe Tomaselli u’ burdinu, amico per la pelle di Francesco, ed altri numerosi operai. Intanto Mario proseguiva imperterrito a corteggiare Gina. E le discussioni in famiglia erano continue, sembrava si fosse ritornati ai tempi di Francesco e Fortunata e al contrastato antico amore: evidentemente la storia non è poi tanto”maestra di vita”!. Dante era il quinto figlio di Fortunata e Francesco. Egli nacque affascinante ed affascinante cresceva. Aveva un ovale perfetto, due labbra carnose, due sopracciglia ad arco lunghe, perfette che coprivano due orbite con gli occhi piccoli, nerissimi e vispi. Gli zigomi alti gli davano un aspetto ironico, lo rendevano un “sex simbol” del tempo. La pelle non era levigata come, in genere, era definito il classico bello; ma diventava un aspetto secondario quando sorrideva o parlava in maniera naturale, con quel profilo da attore; la figura piccola e asciutta come la mamma e, come lei, il naso lungo; ogni pezzo, era inserito al posto giusto, il deambulare e il gesticolare, attirava ogni ragazza da marito: un “latin lover”. I suoi capelli ricci e fini lo rendevano ineguagliabile. Quando Dante discorreva con qualche ragazza, questa lo guardava con gli occhi stupiti come se di fronte avesse un ipnotizzare che gli carpiva l’anima e la plasmava a suo piacimento. Era sveglio d’ingegno e vestiva alla moda. Dante suonava il clarinetto nella banda del paese dall’età di nove anni. Il padre, essendo il ragazzo portato per lo studio, lo mandò a scuola. Completò le scuole dell’obbligo e la scuola media a Palmi, poi si iscrisse al liceo classico di Reggio Calabria. Era un gran chiacchierone, parlava in modo così colorito e simpatico che non ci si stancava di ascoltarlo. Grande spendaccione. Vezzoso e narcisista, amava vestirsi sempre in maniera impeccabile, con grandi sciarpe colorate d’inverno, cappelli all’americana o il borsalino, vestiti chiari in estate con paglietta. Per mantenersi qualche vizietto o aiutava il padre o dava lezioni di musica. Si sbizzarriva anche con il disegno, essendo un ottimo disegnatore e, spesso, partecipava a concorsi banditi dal fascismo. Una volta ne vinse uno per avere disegnato il Duce (la sua testa) con il casco da combattente denominato: “testa di ferro”. Poi partecipò ad un concorso nazionale per fare l’attore. Era molto fotogenico. L’arrivo della radio in casa Caratozzolo, ruppe le vecchie abitudini familiari. Dopo Rocco toccava a Francesco fare i biglietti per l’ascolto dello strumento radio. Era di forma rettangolare di marca Marelli color marrone. Sul lato sinistro c’erano le tre vecchie manopole color chiaro poste le une accanto all’altra; sopra le manopole vi era l’altoparlante coperto con della stoffa retinata. A destra

64 il quadro con tutte le città del mondo scritte a colori diversi. Possedere la radio, allora, significava non solo ascoltare notizie o canzoni con tutti i mitizzati cantanti di allora, che si vedevano o al cinema o sui giornali. Era uno “status‐simbol”. Piuttosto che coricarsi con le galline e rischiare di fare figli, si restava, per buona parte della sera ad ascoltare le trasmissioni EIAR. Così la domenica mattina i soliti rumori della piazza davanti alla chiesa della Marina, erano interrotti dal rumore di una musichetta fascista o dalla voce di Carlo Buti o il motivo in voga: “Se potessi avere mille lire al mese “. Che era il sogno, ovviamente, di coloro che guadagnavano molto meno di mille lire al mese. Un sogno, tutto sommato, modesto. Dante mentre si cambiava, affacciandosi ogni tanto dal balcone che dava sulla piazzetta antistante la chiesa di Portosalvo e a sinistra casa Morgante e Purrone, canticchiava la sua canzone preferita: “Fiorellin del prato, messagger d’amore, bacia la bocca che non ho mai baciato! Fiorellin del prato non mi dir di no !” osservato dai fratelli più piccoli Renato e Renzo. Chi era più attratto dal fratello maggiore era Renzo, quello che gli rassomigliava di più caratterialmente.

Intanto il fascismo compiva un altro passo verso la tragedia della guerra. Il patto d’acciaio era stato firmato anche dal Giappone. Il fascismo sostenne le annessioni fino al corridoio di Danzica. Si tentava con la politica di evitare il nuovo scontro in Europa: ma tutte le volte che si adoperava la parola pace si continuavano a costruire carri armati e cannoni e aerei e bombe … Solo chi era nei centri di comando o leggeva la stampa capiva ciò che stava accadendo, la tragedia che aleggiava sul mondo intero. Non che i giornali dicessero apertamente: è guerra; ma si capiva dalle cose non scritte . “Se la Germania continua ad annettere pezzi d’Europa, poi non reagiranno nazioni come Francia, Gran Bretagna ?”diceva Francesco. La sua preoccupazione, come quella di tante famiglie, erano i figli militari, che, in una guerra, potevano rimetterci la pelle. Intanto Giuseppe dalle isole spediva lettere e foto. Qualche volta veniva in licenza. Ed ogni suo ritorno era una festa per tutti. Da quei posti tanto lontani Giuseppe rientrava sempre con il sacco militare pieno di sigarette estere, che offriva a tutti, compreso il caro amico Pasquale De Gennaro. Mentre il fratello Renato gliele fregava e le fumava con i suoi amici: Nunziato Fiore, Arturo Panzazza, Gianni ‘u Vecchiu. Renato, settore Fortunata, chiuso di carattere, buono, di poche parole, serio aveva labbra e mento di Giuseppe, la parte superiore del fratello Mario, capelli ondulati e castani. Renzo, magro, chiacchierone, scherzoso, sempre pronto con la battuta, nervoso aveva gli zigomi della madre, alti e puntuti. Per sfotterlo il papà di sera, in inverno, lo mandava ad acquistare il vino; Renzo, come sempre, si era già piazzato con ciabatte e calzettoni lunghi invernali vicino al braciere e rispondeva: “Papà potevate dirmelo prima … ho i reumatismi alti e con questo freddo, mi fa male!” La verità vera risiedeva nei discorsi che spesso si facevano sulla presenza degli spiriti, folletti, … vicino a quel palo della luce hanno ammazzato uno… . Figurarsi se Renzo, di sera, d’inverno con quel vento sibilante che spostando le chiome degli alberi o il tronco stesso, faceva danzare le loro ombre come fossero “tagghiacori”, andava per il vino … e tutto finiva in risate. Le lettere di Giuseppe servivano a tranquillizzare tutti quando le spediva. Era lontano, è vero, ma tutto sommato faceva la “pacchia”. Era in una zona tranquilla. Tra una guerra e l’altra, la manutenzione al cannone, lo scherzare con i camerati e l’amicizia con le famiglie del luogo, che, per fortuna, non sentivano gli italiani come occupati, ma come dei vicini, tutto sommato ci si annoiava.

65 Ogni tanto arrivava una vecchia puttana, che non faceva perdere il gusto e le gioie dell’amore ai militari italiani che non potevano usare bordelli. Era talmente esperta che conosceva tutti i militari italiani che erano lì, forse dal 1911 anno della prima occupazione. Conosceva le debolezze di tutti: un militare di Udine voleva essere accarezzato dalla donna sui capelli; con un altro militare doveva gridare: “Il paradiso ! Il paradiso !”; un siciliano voleva essere chiamato con il nome di donna: solo allora raggiungeva l’orgasmo. Era una donna di famiglia. Un giorno Francesco ascoltò la notizia che non avrebbe mai voluto ascoltare: la trasmissione si aprì con le parole della canzone: “Giovinezza, giovinezza … “ Era il 10 giugno del 1940. “Ci siamo” disse Francesco “l’ora è giunta !” e dalla radio si diffuse la voce di Mussolini: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria ! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni ! Uomini e donne d’Italia, dell’impero e del regno d’Albania ! Ascoltate ! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata … Francesco ascoltava con le mascelle serrate mentre il popolo assiepato in Piazza Venezia acclamava: “Guerra ! Guerra !” “… Agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano …” “Che bugiardo ! Che bugiardo !” sbraitava Francesco. “Zitto non farti sentire !”diceva suo cognato Peppino o Fortunata la moglie.

Le urla dalla piazza in delirio si alzavano altissime prorompendo dalla membrana dell’altoparlante della radio: “Duce ! Duce ! Duce !” “L’avevo detto io, questo gaglioffo di Hitler con l’amico suo Mussolini ci hanno portato in guerra: ho due figli che sono militari di leva … e dobbiamo pregare Dio che duri poco !” Francesco aveva capito tutto perché da qualche mese prima, il Ministero delle corporazioni aveva ordinato la mobilitazione in tutta l’Italia e le colonie. “Il 20 maggio 1940 il Prefetto di Reggio Calabria organizzava una riunione per avviare la mobilitazione civile, in base agli ordini impartiti dal Ministro delle corporazione con circolare riservata n° 1069/96‐12 del 26 aprile 1940. “Ora voglio vedere quanti di quelli che gridavano: “Guerra ! Guerra !” va veramente a farla la guerra !” Ad ascoltare la dichiarazione di guerra alla radio di Francesco vi erano vicini, amici e parenti. Vi erano Gaetano, Carmela, Peppina e i più piccoli, l’amico Nicola Gargano nonché padrone di casa di Francesco, con Luigi Purrone, il signor Cannizzaro proprietario della distilleria posta di fronte alla casa di Francesco; il cognato Peppino, Nino, figlio di Peppino era partito a fare il corso di ufficiale di complemento nella fanteria. Erano un po’ tutti preoccupati: fino a quando tutto era tranquillo, gridare il proprio coraggio o guerra, guerra non costava nulla. Ma di fronte al pericolo che realmente si parava davanti, ognuno rimaneva solo con se stesso. Era come il povero che prima di comprare del pane, controllava sempre le sue tasche per verificare che avesse soldi. Così facevano tutti coloro che gridavano … Guerra ! Guerra ! Francesco di fronte alla catastrofe che si rifletteva anche sulla sua attività, in quanto tutti i giovani di età uguale a quella dei suoi figli, furono chiamati perla leva, perdeva giovani braccia e si sostituivano con quelle di persone più anziane. Lo stesso trattamento subirono gli imprenditori, di ogni specializzazione, di tutta la Piana. “Nel mese di luglio del 1940 la Piana di Gioia fu interessata dalle prime incursioni aeree alleate.

66 Nell’agosto dello stesso anno il Prefetto, in esecuzione alla circolare del Ministero della guerra n°7570 del 25 agosto 1940, ordinava l’oscuramento parziale nell’intera provincia.” L’economia locale già sfruttata dagli “stranieri” fu messa in ginocchio dalle decisioni del fascismo. “In esecuzione alla legge 25‐5‐1940 n°415, il Ministero dell’agricoltura emana un decreto con il quale si obbliga a ciascun detentore di bestiame bovino di tener vincolata fino al termine del 30 giugno 1941, una quota pari al 30% del peso vivo del bestiame posseduto …” Nelle fasi successive tale obbligo toccherà anche a cereali ed altri alimentari: vi era l’obbligo dell’ammasso. Tutte queste riserve dovevano servire per le nostre truppe. Ma gran parte delle cifre denunciate erano false: la merce, più avanti, sarebbe stata destinata al mercato nero.

Quando passavano gli aerei, i bambini, ed anche gli uomini, alzavano gli occhi al cielo e saltellavano gridando: “Gli aerei, gli aerei !” sembrava una festa per tutti. La guerra era ancora lontana. Ma i ricognitori passavano sempre sopra la Piana: “Perché?” si domandava Francesco. Che intanto provvedeva a rifornire la casa con una buona scorta alimentare. Partiva con l’amico mastro Peppe ed andava a Decollatura a comprare fagioli, patate, grano, salami e prosciutti ed altro. Il quartogenito, Mario, era partito per il militare di leva nella Regia Marina e fu mandato in Sicilia, a porto Empedocle, proprio di fronte all’Africa. Egli era il tecnico della famiglia: castani e ondulati i capelli, alto come il padre, gran chiacchierone e gran giocatore di pallone. Sempre in continua discussione con il padre per via di quella ragazza che, al papà non piaceva. La fabbrica del ghiaccio la seguiva lui dal punto di vista tecnico. Quando si doveva risparmiare sul conto dell’acqua e dell’energia elettrica, era lui che sapeva come fare. Intanto, Vincenzo. durante uno dei suoi viaggi per servizio a Reggio era tornato con una nuova “fidanzata”. Il precedente fidanzamento, voluto e forzato dal padre, era fallito dopo tre mesi. La nuova era una ragazza di vent’anni, Candelora Rappocciolo. Il papà, quando se lo vide arrivare con costei in un rapporto di convivenza, senza alcuna intenzione di sposarla, fece fuoco e fiamme per impedire che la ragazza rimanesse con lui. Ma Vincenzo non si convinse, anzi … più gliene parlavano peggio era. Neanche le buone sorelle, tutte assieme, riuscivano a spostarlo di un centimetro dalle sue convinzioni. Il primogenito, intanto, a Genova, si era sposato ed aveva avuto una bambina, che aveva chiamato come il nonno: Francesca. L’Italia in guerra, a parte qualche successo iniziale, andava male. La Regia Marina, ebbe il primo mortale colpo con il bombardamento della flotta navale in rada nel Mar Grande a Taranto, la prima volta nel novembre del 1940. Gli aerei, cacciabombardieri e aerosiluranti, provenivano da Malta e nonostante la difesa antiaerea e i palloni esplosivi, volavano al di sotto del tiro minimo dell’antiarea e sganciarono il loro carico micidiale sulla città affondando buona parte della flotta. Questo fece capire a tantissima gente che la guerra non sarebbe stata breve, e che non c’erano città o paesi sicuri dal conflitto che insanguinava, ormai, l’Europa: con un tale aereo, si raggiungeva qualsiasi porto. Ma tutto ciò non traspariva dalla propaganda del fascismo. Anzi con il prolungarsi della guerra, la propaganda sulla stampa e alla radio si accentuava sempre di più. Ma bisognava riaffermare nei notiziari, i successi dei nostri militari o dei camerati tedeschi, esaltandoli. La sera però, i più coraggiosi ascoltavano il Maggiore Stevens che da radio Londra, affermava esattamente il contrario di quanto raccontato dal fascismo. Un po’ di verità si conosceva solo quando rientrava qualche militare in licenza. Anche sul fronte terrestre le cose non andavano affatto bene come si sosteneva con la stampa o con i notiziari radio presentati dal signor “Appelius”: la guerra d’Albania e di Grecia ne furono un esempio; senza l’arrivo dei soldati tedeschi, l’Italia sarebbe stata ributtata in mare.

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L’economia locale, per i provvedimenti di politica fiscale fu messa in ginocchio definitivamente. Alcuni grossi allevatori come Filoreto Fondacaro e tanti altri, si videro ridurre il numero delle bestie. Ma, come sempre, fatta la legge trovato l’inganno. I notabili del fascio, molto spesso, in accordo con allevatori e agrari, chiudevano un occhio. La corruzione cominciava a dilagare. Anche il grano, l’orzo, l’avena si dovevano ammassare. Cereali e farine, per esigenze di guerra, furono razionate per tutta la popolazione civile, quella senza potere; mentre quella dei notabili viveva bene come sempre. La maggior parte della gente riceveva la quantità di merce o derrate alimentari, con il controllo dei tagliandi di una tessera che limitava l’acquisto al necessario. Chi aveva “imboscato” la merce, specie le cibarie, le vendeva di contrabbando alla “borsa nera”, arricchendosi. Alcuni di questi contrabbandieri si contentavano di vendere un po’ d’olio o di farina, in cambio di altro tipo di merce o in moneta sonante. Ma c’erano quelli che riuscivano ad accaparrare fortune: la gente comune li chiamava “pescecani”. Appena le prefetture deliberavano per l’obbligo dell’ammasso, i “pescecani” portavano la merce in mercati proficui, raddoppiando i prezzi, ovviamente dopo aver corrotto i funzionari fascisti. Uno di questi pescecani tale Rocco Morrone, pur essendo analfabeta si arricchì. Riusciva a trasportare ingenti quantità d’olio o altra merce con diversi mezzi: con velieri che non attiravano l’attenzione di alcuno (e caso mai si compravano), in treno o in camion. Seguiva sempre di persona i trasporti e trattava con i mediatori. Non cedeva sui prezzi da lui imposti. Era un uomo deciso e si faceva rispettare. A volte con le armi. Ma non era l’unico. In quegli anni bui tutti si dedicarono alla borsa nera. Bisognava sopravvivere. Con la situazione di guerra peggiorata, le misure di politica economica del fascismo continuarono a stringere ancor di più i consumi interni; la stampa di nuova carta moneta; emissione di bot; riduzione dei consumi di energia elettrica e la logica conseguenza delle diminuzione delle attività industriali e artigianali.: solo l’industria pesante o i cantieri navali erano esclusi dalle riduzioni, ovviamente, l’energia serviva per fabbricare armi. E per un paese senza materie prime, come rifornimento per le industrie pesanti spinse gli strateghi fascisti a far fronte alla costruzione di nuove armi con mille espedienti: si dava la caccia a tutto ciò che era ferro, cancellate, cerchi delle botti ecc. Dal 1941 a tutti i mezzi di locomozione a benzina fu proibita la circolazione. Insomma il razionamento anche dei beni di prima necessità non fece altro che rafforzare il mercato nero. Le tanto celebrate forze armate italiane si rivelarono un bluff. Francesco, Fortunata, i parenti che avevano figli al fronte soffrivano le pene dell’inferno. Ma continuavano a pregare, a chiedere alla Provvidenza Divina la protezione sui loro figli; in special modo sul primogenito di Serafina e Giuseppe che s’imbarcò su un mercantile a 16 anni. Allo scoppio delle ostilità, si trovava in Egitto (Port said) protettorato inglese, assieme a tutto l’equipaggio fu dichiarato prigioniero di guerra: ritornò solo alla fine delle ostilità. A Gioia sembrava scorrere normalmente la vita. Ciò che rompeva il tran tran era il continuo arrivare in stazione F.S. di militari tedeschi, italiani, sulla S.S. 18, camion e carri armati facevano un rumore assordante; tutti i ragazzi si divertivano a seguire tutte le operazioni di scarico di mezzi, cannoni, tende militari ecc. Per loro era uno spettacolo. Come lo era osservare il milite tedesco tanto decantato dalla propaganda fascista. Di norma, durante le guerre, si militarizzano ampie zone territoriali, strategicamente interessanti dal punto di vista bellico. Uno di questi luoghi fu la Piana di Gioia Tauro. “Tra Gioia Tauro e , nel tratto che va dalla stazione F.S. a villa Cordopatri era attestata la munitissima divisione tedesca Goering”. “A Cittanova era dislocata la 211° divisione costiera, che si prolungava

68 fino ai contrafforti montuosi, nelle contrade Fendetti, Barone e Spina”. “Mentre il 53° reggimento, il cui comando era a Gioia Tauro, era accampato alla foce del fiume Petrace”. Su tutta la superficie della spiaggia di Gioia Tauro, il fascismo vi aveva fatto costruire delle grandi postazioni militari, affondate sotto la sabbia, con il miglior cemento armato. A Cannavà, in contrada Cavallaro, nel comune di Rizziconi, vi era “ospitato” un piccolo aeroporto, nei pressi del passaggio a livello. Ad ottobre del 1942, per effetto di una legge fascista che prevedeva il diritto di avvicinamento dei militari che da almeno due anni, si trovavano lontani, Giuseppe rientrò in Italia, per la felicità dei suoi genitori, della fidanzata e suoceri. Francesco sapendo come andavano le cose in Italia, che non vi era base militare risparmiata dagli attacchi anglo‐americani, si preoccupò non poco del rientro in Italia del figlio. “Forse rimanere a Rodi sarebbe stato meglio visto che non avete sparato un solo colpo di cannone, ora potrebbero mandarti in zone molto più pericolose.” gli diceva. Come si sbagliava Francesco! Appena Pineo rientrato che fu il Dodecanneso, specie Lero, furono bombardate a più non posso dall’aviazione inglese. Successivamente, dopo l’otto settembre 1943 completarono la strage gli ex camerati tedeschi.

“Ma no papà, vedrete, al massimo mi manderanno a Reggio o a Villa S.Giovanni”. Infatti fu mandato a Villa, batterie costiere di Punta Pezzo, proprio quando gli anglo‐americani bombardavano a tappeto basi militari e città industriali. Gaetano che assieme a Francesco ascoltavano “Appelius” alla radio, che gli anglo‐americani avevano bombardato e provocato morti “solo” fra i civili, si sdegnavano: “Posso giustificare, in una guerra, che si colpiscano obiettivi militari …. Ma non giustifico le bombe nelle città contro civili inermi !” Peppino il marito di Serafina rispondeva: “Forse lo fanno per stancarci, demoralizzare la popolazione civile !”. Intanto ogni tardo pomeriggio, all’imbrunire, i ragazzini, si recavano sulla spiaggia per assistere a ciò che accadeva all’altezza dello stretto di Messina: ondate di fortezze volanti sganciavano sulla base militare siciliana il loro carico di morte e distruzione. La contraerea rispondeva al fuoco con i suoi proiettili traccianti: sembrava la festa patronale, scoppi in cielo e tanto fumo, scoppi sulla terra ed altre alte colonne fumose che si levavano verso l’alto. Poi di colpo la calma, di nuovo una nuova ondata di aerei, e lo spettacolo riprendeva con più vigore come un crescendo rossiniano. Tutti i ragazzini restavano con gli occhi sbarrati e pieni di paura, ma non riuscivano ad allontanarsi. Anche i militari della postazione vicina al Petrace, con i loro visi che si illuminavano e s’imbrunivano per via delle continue esplosioni erano preoccupati: “Madonna bona”‐ diceva un soldato toscano al suo camerata ‐“i nostri colleghi stanno ballando un po’ più del solito!” “Meno male che siamo abbastanza lontani da quell’inferno !” rispondeva un altro. Anche il figlio Mario, alla fine, per la medesima legge, fu trasferito da porto Empedocle in Calabria, esattamente a Palmi come segnalatore. Quell’anno il Natale tutta la parentela dei passò insieme le feste natalizie: zeppole, ragù di maiale e salsicce, polpettone, pasta di casa. A seguire i dolci fatti in casa, come pure i liquori: il rosolio. Era un liquore preparato con alcool, zucchero ed acqua nella stessa proporzione poi si aggiungeva un’essenza che dava il gusto ed il nome al rosolio: menta, arancio. Era un preparato di moderata gradazione alcolica ed al gusto si presentava forte e morbido.

Intanto, da un poco di tempo, Francesco spingeva il figlio Albino, penultimo dei maschi a studiare in seminario. Ci teneva molto. L’avere un figlio sacerdote in famiglia, una famiglia cristiano‐ cattolica come la sua, era motivo di orgoglio. Albino, capelli ricci e neri, come la madre , somigliava

69 in viso al padre; ma dal carattere materno. Come tutti i ragazzi del tempo, frequentava la parrocchia del Duomo; ci andava molto volentieri, si sentiva attratto dall’ambiente della chiesa, dai suoi riti, dalla maestosità del suono dell’organo e dalla immobile vocalità del canto gregoriano. Gli piaceva quell’altare pieno di piante e fiori e di candele illuminate che adornavano l’ urna ove era custodito il S.S. Sacramento, mentre in alto si stagliava la statua di S. Ippolito martire a cavallo, patrono della città, le icone della madonna o di altri santi, gli piaceva anche quell’odore di cera che impregnava l’aria e quell’atmosfera di spiritualità che si respirava all’interno della chiesa. Ci rimaneva volentieri. Anche zia Carmela lo spingeva a frequentare il seminario. Ma era un tipetto vispo che facilmente perdeva le staffe, a dispetto della Santità . Una volta mentre con alcuni cugini si recava in chiesa con la tonaca da seminarista, fu fatto oggetto di scherno da alcuni tipacci: “Ahi, ahi … tocchiamoci passa il corvo nero !” non l’avesse mai detto, si alzò la tonaca e si scagliò contro i malcapitati, tirando pugni e calci. Frequentava il seminario di Mileto: Gioia Tauro ricadeva, allora, nel vescovado di Mileto. Lo accompagnavano il padre, e, spesso qualche fratello Mario era sempre innamorato di quella ragazza che suo padre non vedeva di buon occhio, Dante frequentava il liceo e nello stesso tempo corteggiava una delle figlie di Rocco Morrone, il pescecane del mercato nero. Intanto Francesco jr era arrivato da Genova. La città era continuamente sottoposta ai bombardamenti degli anglo‐americani. Pensava che qui si fosse più sicuri che non in una città industriale del nord . Vincenzo con quella ragazza di Reggio, che di fatto era diventata sua moglie, partorì un bimbo (1942) a cui fu dato il nome di Franco, come il nonno. Abitavano quasi di fronte alla segheria; la ragazza era in cinta del secondo figlio. Ma le discussioni tra padre, madre, parenti ecc. non finivano mai. Francesco voleva legalizzare la loro situazione con il matrimonio religioso. Ai rimbrotti del padre si aggiungeva il coro delle sorelle Carresi . Ma ottenevano l’effetto contrario. Durante la guerra, poche navi di poche compagnie navigavano: il rischio era troppo alto per l’equipaggio. Così Gaetano si adattava a lavorare a terra. Spesso andava dal cognato Francesco con il figlio Mico. Lo spettacolo di Messina continuamente bombardata era un chiaro segnale che gli anglo‐ americani avrebbero quanto prima invaso l’Italia: a cominciare dalla Sicilia.

Quel sabato 20 febbraio dal 1943, Francesco, come al solito, si alzò di buonora. Riscaldò un po’ di caffè d’orzo. Fumò mezza sigaretta africa; in cucina versò dell’acqua in un bacile, si lavò con il sapone; pulì con uno spazzolino dove andava messo del bicarbonato per sbiancare i denti, sciacquò la bocca e fece qualche gargarismo. Mentre asciugava le mani, si sentì toccare la schiena: era l’ultimo figlio maschio Ciro di 10 anni. Francesco lo guardò e gli disse: “Ciro che fai alzato a quest’ora ?” “Papà”‐ rispose Ciro‐ “portami con te, la scuola non mi piace, non ci voglio andare. Fammi venire con te sul carrozzino !” e Francesco l’accontentava. Era l’ultimo dei figli maschi, Francesco si era fermato con il cantiere solo alla nascita di una femmina. Infatti, l’ultima nata fu chiamata Maria, in memoria di Maria Minutolo, madre di Francesco, di poche parole, chiusa e riservata come la madre. Ciro era come il fratello Giuseppe e come lui buono; era un amante degli animali e della natura, amava le cose semplici. In segheria, spesso, faceva il carbone con la legna, proprio come lo facevano i carbonari. Seguiva le api che si appoggiavano sui fiori, o le farfalle. La stessa mattinata si alzarono pure Mario in licenza e Renato che doveva pigliare il treno e recarsi al liceo scientifico di Reggio. Il resto si recò in segheria. Francesco scese le scale, incontrò Nicola Gargano sottocasa, si salutarono. Poi salutò il signor Cannizzaro che aveva già aperto il distillatore. Andò vicino alla stalla, posta a fianco della casa di

70 Luigi Purrone; dove alloggiava il carrozzella e il cavallo. Con Ciro e Renato e Mario legò il cavallo alla carrozzella e si avviarono. Quella fu una giornata che solo febbraio poteva regalare. Chiara e fredda: tutto era terso. Il cielo azzurrissimo si specchiava regalando il suo colore al mare. Intanto il freddo aveva trasformato la rugiada in ghiaccio e lungo la rotabile che portava verso Gioia Tauro centro, gli alberelli d’ontano ancora giovani, piantati lungo il percorso, sembravano immobili come volessero gustarsi quel chiarore. Si sentiva un odore fradicio di terra, di radici, di agrumi ancora in albero, mischiato al profumo di menta e rosmarino che proveniva da tutte quelle campagne. Ciro ogni tanto dava un colpetto al posteriore del cavallo, mentre osservava il fiato dello stesso che vaporizzava al contatto con l’aria fredda. Gli stessi rumori, amplificati dal silenzio, si riconoscevano tutti: carri di buoi, greggi di pecore, qualche motoretta o macchina. Padre e figlio si acquattavano e si stringevano l’un l’altro per riscaldarsi. Un militare qualunque, che avesse avuto un’esperienza minima di guerra, con una giornata così avrebbe detto: “E’ ideale per bombardare qualunque obiettivo”. La giornata ideale durò tutto il pomeriggio. Davanti alla segheria, Vincenzo aveva aperto il grande cancello. Poi arrivò il cognato Gaetano con suo figlio Mico. Poi arrivarono, di seguito, Augusto Tedeschi, Marzano . Vi lavoravano circa venti persone. Non si pensava alla guerra, se non quando passava qualche aereo o compagnia di militari. La guerra era ormai persa ma la verità non veniva fuori. Tutti i fronti erano persi, e si stava verificando la profezia di Nenni di tanti anni fa. I tedeschi con i loro mezzi presenti sul territorio, non sembravano in smobilitazione. Anzi. Sembravano i padroni. Un giorno uno di questi si acquartierò in casa del capitano Carresi: come hanno fatto sempre gli eserciti invasori. Spesso, da ubriaco, raccontava della sua casa, di Dresda che intanto subiva tremendi bombardamenti, e della sua famiglia che era “kaputt”. Quel giorno il militare tedesco, eccitato, dal racconto estrasse la sua pistola d’ordinanza e sparò un colpo contro la foto del Capitano che era appesa al muro. Grande spavento per i residenti, ma di nulla di serio : solo un grande dolore perché il proiettile bucò il ritratto del Capitano. A Gioia centro, invece, ci fu un episodio che rese ancor più odiosi i militari tedeschi: una giovane donna fu violentata da uno di questi. Il fratello di costei, tale Ippolito, lo ammazzò a coltellate. I militari tedeschi lo imprigionarono e lo torturarono, strappandogli i denti crudamente; tanto che lo stesso Ippolito impazzì per il dolore. Il paese di Gioia Tauro alle 17:00 del pomeriggio era ancora nel pieno della sua attività lavorativa. Era sabato, giornata di paga. Francesco, mentre si lavorava, Ciro giocava dentro la stalla col cavallo, chiamò suo nipote Mico e lo mandò dai “caconghi” a cambiare dei soldi. Mico si avviò piano, piano a compiere il servizio. Per evitare un po’ di lavoro. D’improvviso si sentì il rumore di un aereo, poi spuntò la sua sagoma da sud. Ciro uscì correndo dalla stalla e gridava: “Gli apparecchi ! Gli apparecchi!” con felicità come fecero quel giorno tutti i bambini di Gioia. Mico intanto era rientrato con i soldi cambiati ed era nel capannone. Francesco stava davanti al cancello e chiacchierava con un vicino: “Don Ciccio, questi sono aerei americani !” Francesco annuiva. “Si vede che sono molto vicini e pronti a sbarcare in Sicilia”. Fu un attimo. Il rumore assordante ritornò, questa volta accompagnato da sibili strani seguiti da forti esplosioni. Le “fortezze volanti” avevano bombardato, la ferrovia, il campo d’aviazione, i militari lì assiepati, depositi di carburanti (sic) e i civili. La segheria fu colpita in pieno. E tra il fumo, l’odore di polvere da sparo, come fosse la festa di un santo, le urla di spavento, ognuno, correndo, cercava di mettersi in salvo. Mico con la testa rotta da un mattone, Augusto Tedeschi ferito e Gaetano correvano in mezzo alla campagna circostante. Vincenzo, dopo gli scoppi e in mezzo al fumo,

71 correva per raggiungere la sua casa dove stavano sua moglie e i suoi due figli. Accecato dal fumo passò vicino al padre morente e corse verso casa, per trovare ciò che non c’era più. Mario tremante, assieme al fratello Renato, rientrato da scuola e si trovava in segheria e qualche operaio soccorsero Francesco che dava segni di vita, mentre il piccolo Ciro, il silenzioso Ciro, l’amante delle cose semplici, era rimasto intatto, ma morì per una misera scheggia di bomba che gli aveva bucato la tempia destra. Era steso, a fianco del cavallo morto anch’esso. Mario, Renato e gli operai caricarono Francesco su una carriola e cercavano disperatamente di portarlo da qualche medico. Mario, con le lacrime che gli colavano a fiotti e gli impedivano di vedere la strada, gridava: “Un medico ! Un medico ! chiamate un medico !”. Francesco era stato colpito al fianco destro ed al collo proprio sotto la mandibola, che gli penzolava sul petto. I bombardamenti del 20 febbraio avevano ucciso parecchi civili e provocato danni a parecchi palazzi, compresa la chiesa principale che dieci anni prima era stata inaugurata in pompa magna dal fascismo. Nei pressi del Duomo Mario, tra la gente terrorizzata e assiepata incontrò un giovane sacerdote: don Peppino Minà. Vedendo le gravi condizioni di Francesco, si avvicinò per confessarlo, e disse: “Vi pentite dei vostri peccati?” Francesco girò gli occhi da moribondo verso di lui, abbassò il capo più volte in senso affermativo e don Minà: “Ego te absolvo in nomine patris et filio et spiritus sancto”, Francesco subito dopo spirò. Vincenzo, intanto, aveva trovato la propria casa distrutta. Trovò Franco senza una gamba, la moglie senza testa. Li abbracciò con forza, alzò gli occhi al cielo e cominciò a piangere disperatamente, urlando il proprio dolore, imprecando contro la malasorte che ancora una volta si era ricordata di questa famiglia. Intanto i soccorsi, in modo particolare dei militari, arrivarono con sollecitudine. I corpi furono portati con mezzi al cimitero, perché non vi erano bare sufficienti, ammucchiati l’uno sull’altro, tutti i ragazzi tra cui Turi, il terzogenito di Gaetano e Carmela, uno scavezzacollo, gran lavoratore ed altri cugini, Vincenzo, Ciccio e tanta gente osservavano il triste, sconvolgente spettacolo, un altro dei suoi figli Renzo, che era stato avvisato di quanto successo, mentre saliva verso la segheria, incontrò il carretto con i morti suoi. Lo seguì, piangendo e chiamandoli per nome. Il ragazzo rimase particolarmente scosso dall’avvenimento. Ogni aereo che sarebbe passato, non era per lui una festa, ma un motivo per scappare alterato e farsi proteggere dai militari. Fortunata, in seguito, accolse tutti i suoi cari con l’anima lacerata. Non riusciva a capire del tutto quel ch’era successo: le sembrava un brutto romanzo dell’orrore. Ma cinque morti in un colpo solo erano lì a raccontare la verità, quella che ogni madre di famiglia non avrebbe mai voluto vedere. Quei corpi intrisi di sangue e di terra davanti a se, le parlavano di una realtà inumana, violenta, crudele che si accaniva sempre verso innocenti persone, i più deboli e indifesi che non dava tregua; quando sembrava che la vita seguisse il verso giusto, questa le sfuggiva, scivolava come il sapone tra le sue dita: “Quando sembra che le cose in terra vanno male, alzate sempre gli occhi al cielo e dite: Signore ti affido queste sofferenze ! Tu che conosci il mio cuore aiutami … mio Dio… “. Queste parole del Capitano venivano nella mente a Fortunata: ma, nello stesso tempo, la cruda realtà si scontrava con la fede: perché? Signore perché la malasorte si accanisce sempre sulle stesse persone ? Sulle stese famiglie ? Sembra un solco tracciato nella propria vita, che viene da molto lontano. Con gli occhi gonfi di lacrime e arrossati, in un pianto lento, continuo, composto, le veniva in mente che il marito non aveva conosciuto il padre, morto annegato nella lontana Argentina, dove era emigrato per stare meglio; o come l’altro fratello del suocero, Rosario, morto anch’esso in tragiche circostanze. Questo destino crudele, pensava, si trasmette da padre in figlio ininterrottamente. Ma la fede dava forza e coraggio a tutte le sorelle: “Guardate sempre in alto, là

72 ritroverete ristoro e forza”. Ricordavano tutti gli insegnamenti del padre. Mentre Fortunata accarezzava la testa di Ciro, che aveva i capelli sempre ispidi, e impolverati con quel forellino sulla testa; Carmela cercava di consolarla, abbracciandola, parlandole dolcemente. “Quanti sacrifici, quanti sforzi, quanti problemi, quante contrarietà abbiamo passato insieme nella vita, breve, ma intensa che abbiamo vissuto” ripeteva con amarezza Fortunata. Le buone iniziative, le idee brillanti, la voglia di fare devono sempre essere accompagnate da una buona dose di fortuna: che era come il coraggio di don Abbondio, “Se uno non ce l’ha, non se lo può dare da solo”. Gioia Tauro quel 20 febbraio 1943 capì che la guerra era vicina violenta e mortale. La stessa formazione aerea aveva bombardato la Piana quasi al completo, compreso il comune di Cittanova. Dove erano piazzate le batterie costiere del 211° battaglione. Anche lì provocò morte e distruzione tra i civili, più che a Gioia. E, nonostante, la presenza di tanti militari, non vi fu una sirena che allertasse per l’arrivo di “fortezze volanti”. Da allora, il prefetto con i comandi militari, decisero di piazzare anche a Gioia Tauro le sirene d’allarme aereo. Durante la tragedia, la gente della marina si era riparata in mezzo al boschetto di eucalipti, nei pressi del fiume Budello. Quando ritennero che i bombardamenti fossero finiti rientrarono alle proprie case: ciò dimostrava come il fascismo operasse superficialmente, alla cieca, senza organizzazione logistica, senza informazione corretta, senza preparazione. Da quella volta, ogni notte si ascoltava un aereo inglese, detto il “ferroviere”, che mitragliava le tradotte militari. Giuseppe l’indomani di quel tragico giorno fu mandato in licenza da Punta Pezzo. Mentre si trovava sulla strada nei pressi del fiume Petrace lato Palmi, ove tutti erano scesi perché il treno si era fermato per un bombardamento, il signor Cannizzaro, in macchina, diretto verso Palmi, incontrò Giuseppe e lo invitò a salire, raccontandogli quanto fosse successo in quel disgraziato giorno precedente, lo accompagnò a casa. Il pianto fu doloroso, alla vista dei suoi cari dentro due bare che ne contenevano i corpi. Anche in questo caso i suoceri, la fidanzata e gli amici cercarono di consolarlo. Nello stesso giorno Vincenzo, di buon mattino, era partito con buona lena verso la sua abitazione crollata per effetto delle bombe. Voleva trovare a tutti i costi la sua bambina di meno di un anno, che ancora giaceva sotto le macerie. E scavò per tante ore, senza tregua, spostava traverse di legno e blocchi di pietra, mattoni e calcinacci, le sue dita erano sanguinanti, ma non si fermava; non si stancava. Alla fine la trovò. La trovò ancora nella sua culletta, con una traversa in legno che l’aveva salvata dallo schiacciamento, ma non dalla polvere che l’aveva soffocata. La sua vestina bianca era diventata grigia come pure il suo visino. La raccolse dolcemente, se la strinse al petto forte, forte, con gli occhi che grondavano sangue e non acqua. E mentre squassato dal pianto, la sollevò, la gente, i militari si avvicinarono per offrire il loro aiuto. Ma rifiutò. Poi, sempre, tenendola stretta al petto, si avviò verso la casa della madre, alla Marina, seguito dai fratelli e dagli amici. Mano a mano che la gente lungo la via si rendeva conto di quanto stava accadendo, faceva ala al suo passaggio; si segnava con la croce o si inginocchiava; si accompagnava alla triste processione, sciogliendosi in lacrime, assieme a quelle di Vincenzo che diventavano una preghiera unica che raggiungeva i piedi di Cristo in cielo. Il corpicino della bambina fu messo nella stessa bara accanto, anzi sopra la madre e il fratellino Franco, uniti nella morte come uniti erano stati in vita. E qualcuno urlava: “Smaliditti i ‘ngrisi, smaliditti americani e cchiù di tutti smaliditti i fascisti, chi ‘ndi portastivu sta cruci, nui chi cruci ‘ndavivamu tanti, a decini !” “I feriti gravi furono portati chi a Taurianova, chi a Reggio. I feriti leggeri furono curati negli ospedali da campo militare”.

73 Lo stesso giorno dei funerali (fu dichiarato lutto cittadino), mentre la carrozza della Società di M.S. addobbata con lustri e lustrini, i cavalli coperti con il drappo nero e il corteo d’onore s’incamminava verso il cimitero, dopo la funzione funebre officiata da Don Peppino Minà, di colpo un rumore d’aerei in volo, scatenò paura tra la folla, che abbandonò immediatamente il corteo funebre. Compreso Renzo il figlio di Francesco che tremando, si rifugiò presso i militari vicino la casa della zia Peppina, sorella di Francesco. Ogni giorno Fortunata, vestita a lutto completamente, si recava al camposanto a piangere le ultime lacrime che le rimanevano, accompagnata dalla sorella Carmela. Oltre la paura di altri bombardamenti, vi era la paura della morte per fame. Tutto scarseggiava. Tutto bisognava procurarsi. “La provvidenza Divina ci aiuterà !” diceva Carmela. “Dio affligge ma non abbandona !” rispondeva Domenica. I figli più grandi di Francesco, tentarono di rimettere in sesto la segheria, cercando di recuperare ciò che era recuperabile. Gaetano andava a pescare con qualche amico e portava del pesce fresco, che veniva diviso con gli altri se era abbondante. Un altro cercava di procurarsi cibo con il baratto: un quadro o altra merce per il pane di mais o frutta racimolata nelle campagne. La roba di valore veniva scambiata al mercato nero. L’affascinante Dante, veniva mandato al municipio. Qui vi lavoravano diverse ragazze da marito. Tra una moina, una battuta, un occhiolino, otteneva le tessere per il cibo contingentato. Ogni capacità era buona per sopravvivere. Ciro operava con il Barone a cui non mancava di certo il cibo. Spesso Gaetano con il cognato Peppino, a rischio affondamento, partivano con una barca a vela verso Messina portando olio e scambiandolo con fave secche, fagioli, farina; poi rientravano. La guerra andava talmente male che furono richiamati anche coloro che avevano fatto già il militare. Fra questi vi fu Vincenzo; e stava per partire anche Dante. Anzi partì subito dopo il bombardamento del 20 febbraio. Fu mandato all’isola d’Elba come furiere. Per fiaccare psicologicamente le popolazioni ed i militari italiani, dopo i bombardamenti a tappeto gli alleati lanciavano manifestini che spingevano alla ribellione con parole del tipo: “ Italiani, i veri nemici sono coloro che vi hanno portato alla guerra. Ribellatevi alla dittatura fascista!”. Era uno stress continuo. Ogni sera aerei alleati mitragliavano, i posti militari della piana. Il 6 maggio del ’43, dopo tanti falsi allarmi, Reggio fu massicciamente bombardata per la prima volta, da fortezze volanti, provenienti dalla Tunisia. Vi furono 327 morti civili. Il 18 giugno del 1943 ci fu l’ennesimo bombardamento su Gioia. Gran parte delle famiglie, comprese le nostre, si rifugiarono al solito boschetto di eucalipti. Poi capirono, che ci si doveva allontanare un po’ di più. Si rifugiarono nelle campagne del Sovereto di Gioia, fra gli alti alberi di olivo e agrumeti e per tetto usavano un pagliaio. Qui partorì la moglie di Francesco jr, Valentina. Al neonato fu dato i nome di Ciro Marcello come lo sventurato figlio di Fortunata. Il povero bambino dopo qualche giorno fu aggredito dalle pulci che infestavano la zona. Se gli alleati non bombardavano Gioia, bombardavano Palmi o Rosarno o Siderno. Nessuno era risparmiato. Così il gran consiglio di famiglia decise che fosse ora di allontanarsi ancora di più: decisero di rifugiarsi a Melicuccà su suggerimento di Rosaria la moglie di Ciro, l’ultimo figlio del Capitano Carresi, che aveva partorito un maschietto nel marzo del ’43 a cui fu dato il nome di Francesco come il nonno. Facciamo qualche passo indietro. Rosaria era una ragazza bionda e con gli occhi azzurri, bassina ma sveltissima in casa, orfana della mamma. In fatto di matrimoni, da queste parti, l’ultima parola toccava ai genitori (quando ci riuscivano, vedi Fortunata) e se non c’erano i genitori, le sorelle o i fratelli (di norma). Nel caso nostro, le sorelle Carresi. Le quali si ponevano al centro del ring, per trattare la dote della ragazza. La zia di Rosaria rispondeva:

74 “La cassapanca c’è, piena di roba, che la sua povera mamma … Dio l’abbia in gloria, prima di morire ha lasciato per lei … “ e si asciugava una lacrima da un occhio semichiuso dalla nascita, per effetto, forse più di congiuntivite che di commozione. Le sorelle Carresi, commosse veramente, mentre Carmela sosteneva la contrattazione, le altre sorelle spiegavano a Felicia, la loro mamma, la situazione e lei rispondeva: “Ah, bonu, bonu, iti cu’ pondu !” Naturalmente si cercava di vedere la cassapanca ed il contenuto: “Quanto prima ve la faremo vedere … vediamo se arriviamo al quaglio !” “Nostro fratello Ciro ha un lavoro di tutto rispetto; esattore del Barone Musco, suona tanti strumenti musicali, violino, pianoforte, clarinetto e fa l’organista in chiesa. La cosa alla fine sembrava fatta, perché tutti ci si baciavano, ma prima si doveva verificate la cassapanca. Che quando arrivava, le sorelle trovavano insufficiente ed il matrimonio si bloccava. Le nacatole, sotto il letto di nonna, intanto le mangiavano i nipoti, nell’attesa che il contratto fosse firmato. Questa discussione si interruppe per ben due volte, prima di concludersi nel matrimonio. Quella mattina con le poche masserizie, in fila indiana, i parenti si rifugiarono a Melicuccà. Ogni uomo si dava da fare per racimolare da mangiare. Chi raccogliendo fichi, o pomodori che barattavano con altro. I figli di Fortunata di giorno tornavano in segheria o alla fabbrica del ghiaccio per riprendere l’attività. Un giorno Gaetano, con una vecchia bici, si recò a Gioia per trovare del cibo: pesci o “pane rosso” (pane di mais). Quando “la spesa” era fatta rientrava a Melicuccà, gettandosi al lati della strada quando, all’improvviso sentiva gli aerei volare bassi. Poi si rialzava e riprendeva a pedalare. Il buon Gaetano era un ottimo marinaio con il patentino di Padrone Marittimo, ma era uno scarso ciclista. Cosicché quel pomeriggio nei pressi di Sant’Anna, con la strada in discesa, si lanciò con la bici per far riposare le gambe stanche, quando dietro una curva, ad un incrocio, vide una pattuglia di soldati tedeschi che fermavano tutti i passanti per controllarne i documenti. Gaetano, capace di cazzare la randa, di orzare, di rallentare un veliero, non fu lesto a fermare una misera bici. I tedeschi vedendolo arrivare, con voce gutturale, gridarono: “Halt, halt… !” macchè. Gaetano cadde, perdendo l’equilibrio, sopra un sottufficiale tedesco, buttandolo a terra. Fu pestato di botte e il cibo che aveva racimolato gli fu sequestrato. Quando se lo vide arrivare, Carmela si mise le mani i capelli assieme a tutti i figli e ai parenti. La provvidenza divina, a volte, si manifestava sotto forma del fratello Domenico, che residente a Reggio Calabria, da anni, faceva il negoziante di generi alimentari. Riusciva ad avere la roba da smerciare come voleva il fascismo e la distribuiva con la tessera. Ma il grosso del profitto, Domenico, chiamato “zi abate”, perché sembrava un monaco, lo guadagnava con il mercato nero. Così periodicamente esso con un’auto e tanto di autorizzazione andava a Melicuccà dal fratello, carico di generi alimentari: ed era festa per tutti. In questo periodo, mentre gli alleati si apprestavano ad invadere la Sicilia, Giuseppe e Mario, quando potevano rientravano in licenza. Mario era sempre innamorato di quella ragazza, anzi lo era ancora di più. Ma la madre, forse memore della posizione di suo marito e per rispetto dello stesso, era sempre contraria a quel fidanzamento e non voleva saperne di ufficializzare la cosa. E Mario restava incavolato di brutto. Il 15 luglio 1943 Gioia Tauro fu di nuovo bombardata. Ma questa volta le sirene d’allarme, come il 18 giugno, suonarono in tempo e la gente guadagnò subito i ricoveri. Ma questa fu un'altra data che la famiglia Carresi non avrebbe più dimenticato. Lo stesso giorno fu bombardata anche Bagnara. Vincenzo il primogenito del Capitano Carresi stava in un bar vicino casa sua. La famiglia di Vincenzo era composta da cinque persone: marito, moglie, il primogenito Francesco che faceva il meccanico a Gioia Tauro, Felicia e l’ultimo nato Gino. La mamma, Domenica, mandò il figlioletto Gino a chiamare il papà, era ora di pranzo. Ad un tratto i rumori quotidiani, furono interrotti dal suono

75 cupo come ruggito degli aerei e dal sibilo delle bombe che, sganciate, colpirono per l’ennesima volta la popolazione civile: il piccolo Gino e suo padre Vincenzo, assieme a tanti altri civili, furono colpiti mortalmente. Anche Bagnara, come Gioia, pagò il suo tributo alla guerra. Ancora di più il nucleo familiare dei Carresi. Domenica, la moglie di Vincenzo, corse come una pazza fuori di casa, quando sentì gli scoppi e le urla dei feriti. Un fosco presentimento l’aveva avvisata che qualcosa di grave fosse accaduto: e si trovò il piccolo Gino dilaniato assieme a suo padre, in una pozza di sangue. Le sue urla di dolore squarciarono l’aria afosa di quel 15 luglio. Domenica, da allora, non si riebbe più da quel dolore dell’anima che provano le mamme quando perdono i figli. Le sorelle affrante, distrutte, si recarono a Bagnara per i funerali. I poveri morti furono seppelliti in mezzo alla strada in fretta e furia visto il pericolo.

Intanto alcuni giorni prima, il 10 luglio, le forze alleate avevano invaso la Sicilia, con la VII armata USA del Generale Patton e la VIII armata britannica. Dopo 38 giorni la Sicilia era occupata. Gli alleati ora si preparavano a sbarcare in Calabria. Come ha insegnato ogni guerra moderna, prima di uno sbarco bisognava fare terra piana con il più classico bombardamento sia dal cielo, sia dal mare. Le navi alleate cominciarono a sparare con i 305 mm e gli aerei a bombardare. Il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo dimissionò Mussolini. Fu un grido unico: “Adesso al guerra finirà !” Giuseppe e Vincenzo si trovavano sul treno fermo a Sant’Eufemia Lamezia quando fu annunciata la caduta del fascismo: anche loro pensarono che presto la guerra sarebbe finita. Intanto, però, essi furono mandati in servizio a Taranto. Giuseppe a Buffoluto, il deposito munizioni della Regia Marina. Vicenzo al castello Angioino, settore trasmissioni. Intanto tutta la costa tirrenica da Reggio fino a Napoli era battuta dagli aerei e dalle navi. Bombe e mitraglia su tutto ciò che si muoveva: tanto che una mitragliata uccise un uomo nel cimitero di Gioia Tauro. Mentre gli alleati sbarcavano a Reggio, i tedeschi cercavano di rallentare l’avanzata alleata. Intanto i nostri parenti, sotto l’incalzare delle incursioni aeree, se ne contarono sette nel mese di agosto, lasciarono pure Melicuccà e si rifugiarono sotto la galleria della ferrovia a scartamento ridotto. Lì facevano tutto, mangiare, dormire, fra i cespugli i bisogni; ed in quella galleria arrivavano tante persone di tanti paesi. Era una gran confusione. Ma si sa che in questi casi non vi erano questioni razziali, di religione o di censo che potevano porre limiti o portare a discussioni o ad atti di superbia fra loro. Anzi, la disperazione, la paura e la fame, riavvicinavano le persone. Accadevano anzi situazioni comiche. Come quella notte che un uomo s’alzò zitto, zitto, si portò nei pressi dell’ingresso della galleria per orinare: aveva paura ad allontanarsi. Renzo e Ture, se ne accorsero, lo rimbrottarono: “vai a pisciare più in là, sporcaccione!” “ma solo un pochetto ne devo fare!” rispondeva costui. “vai fuori a pisciare!” gridava Renzo. Un giorno il figlio di Fortunata, Albino il seminarista, mentre con gli altri parenti rientravano da Gioia alla galleria, videro lungo la strada un accampamento tedesco abbandonato. “Chissà se c’è da mangiare !” diceva Albino mentre inghiottiva saliva. “E se è avvelenato quel cibo ? Vi ricordate di quella bicicletta lasciata lì, vicino alla caserma della finanza? Sembrava senza padrone invece era minata e il figlio di mastro Luigi “u pirio” è saltato in aria ‐ diceva dall’alto dei suoi 18 anni, suo fratello maggiore Renato. Egli aguzzava gli occhi e diceva: “Io non m’avvicino … “ ma la fame ebbe la meglio sulle opinioni più o meno giuste degli altri.

76 “Facendo così moriremo per la fame, per lui … “ e si lanciò a “pesce” in quell’accampamento abbandonato e trovarono tanto cibo. Dopo diversi giorni dallo sbarco degli alleati a Reggio, più a nord i tedeschi cercavano di rallentarne l’avanzata. La vallata del Petrace si prestava allo scopo. Una mattina un gruppo d’ufficiali tedeschi fu visto alla Marina, mentre discutevano fra di loro con alle spalle la riproduzione esatta, stampata sul muro del vecchio magazzino borbonico posto sul lato destro della spiaggia scendendo lungo via Tripodi. Stavano discutendo dell’avanzata alleata e di bloccarla facendo saltare i ponti sul fiume. Vi erano riprodotti i piloni, le misure esatte di questi e lo spessore. Verso la fine di agosto del 1943 i tedeschi dopo averli minati li fecero saltare tutti e tre: della ferrovia dello stato, quello delle littorine, e quello della S.S. 18, un vecchio ponte di legno. Il Sud della Calabria fu separato dal resto del paese. I treni provenienti da Nord si fermavano a Gioia non potendo più proseguire. Intanto dopo l’evento del 25 luglio ’43, Mussolini, per ordine del Re fu arrestato. Il Re nominava il Maresciallo Badoglio Capo del governo e sciolse il partito fascista, e, pur dichiarando di voler rimanere in guerra al fianco dei nazisti, mandò degli emissari presso gli alleati anglo‐americani per trattare la resa. Che fu firmata il 3 settembre 1943 a Cassibile.

Gioia Tauro intanto era divenuta, dopo l’abbattimento dei ponti sul Petrace, “il capolinea, il terminale ferroviario e, conseguentemente, luogo nevralgico di traffici leciti e illeciti”. Tutti si davano da fare, per racimolare qualche soldo ed acquistare qualcosa per sopravvivere: altri continuavano a essere “pescecani”. Gaetano con i cognati, partiva sempre, stavolta a rischio ridotto, con una barca a vela portando olio di contrabbando e scambiato con altra merce a Messina. Il baratto, spesso, era olio contro sigarette americane. Che al ritorno si consegnavano ai ragazzini, ai propri figli: Mico, Turi figli di Gaetano e Carmela; Vincenzo e Francesco figli di Antonietta e zio Peppe, che in questo momento aveva intrapreso il viaggio da Genova a Gioia: parte del viaggio a piedi, parte con mezzi di fortuna; a codesta attività partecipavano tutti. In mezzo a quella gran confusione, quel caos che caratterizza il capolinea di una stazione ferroviaria, gente che va, gente che viene, carrozze con cavalli, asini, buoi, sembrava si fosse ritornati agli anni belli dei velieri e di carretti che portavano la merce da caricare, tutti approfittavano di tutto, i ragazzini si avvicinavano ai clienti come gli sciuscià napoletani, accento diverso, ma identici nella necessità, nel bisogno, gridando: “Sigaretti, sigaretti … cesterfield, marboro, luchi strica !”. Questo facevano, a volte ci riuscivano a vendere, a volte no. Turi, quasi sempre, portava a casa buoni guadagni; gli altri di meno e Vincenzo quando non ne vendeva s’incavolava. A volte la fame prendeva il sopravvento e Mico, che conosceva qualche parola d’inglese, si avvicinava ai soldati americani, che intanto avevano sostituito i tedeschi in città, e chiedeva: “Biscuit, biscuit … avere biscuit for me ?” e i generosi americani spesso accompagnavano i “biscuit” con cake e chocolat. Intanto Mario, da Palmi, rientrò a Gioia. In quella confusione chi si poteva accorgere di un militare assente ? A casa, siccome lingua batte dove il dente duole, tornava alla carica per la fidanzata. La risposta era sempre no. Cosicché i due decisero di fuggire. Si allontanarono assieme, rimasero fuori, forse, un giorno, poi rientrarono a Gioia Tauro. Ma quando Fortunata vide suo figlio Mario con la ragazza, non si rese conto di quanto fosse successo, troppa era la confusione, troppi i pensieri, come per gli altri parenti. Di fronte alla freddezza di tutti i due decisero di fuggire un'altra volta, questa volta avvisando con lettera. E si sposarono. Giuseppe, intanto, quando venne fuori la notizia che l’armistizio era stato firmato a Cassibile, a parte la manifestazione di giubilo di tutti i militari, raccolse la roba e lasciò il suo reparto assieme a

77 centinaia di altri soldati. Lungo le strade che da Taranto portavano a sud si vedevano lunghe teorie di militari che in fila indiana camminavano. Ma sbagliavano, poiché ufficialmente la guerra continuava. Così Giuseppe prima di prendere il treno per Gioia, passò dal Castello a chiamare Vincenzo e rientrare assieme. Ma egli aveva fatto venire da Reggio la sorella di Lea, la donna morta con i due figli a Gioia: era la sua nuova amante. Vincenzo chiese un favore a Giuseppe: “Per favore, vai in Via Principe Amedeo numero 38 e porta questo pacco a Tina , poi prendi le strade di campagna per rientrare a Gioia. Noi sappiamo qui, che la guerra continua, e se ti prendono ti considereranno disertore e ti possono fucilare. “ Giuseppe seguì alla lettera i consigli di Vincenzo. Si nutrì di frutta, riposò in pagliai, ogni tanto qualche buon uomo gli dava un passaggio; incontrò altri militari sbandati calabresi che facevano lo stesso tragitto suo. Qualche famiglia dava loro da mangiare: “Grazie signora, sono sei anni di militare che ho sul groppone, ora basta, mi sono stancato. La guerra per me è finita !” ma si sbagliava. Ai confini della provincia di Catanzaro, mentre dieci militari camminavano a passo spedito, sentirono un camion sopraggiungere carico di reali Carabinieri. Giuseppe ed i restanti militari scapparono e si nascosero dentro una galleria della ferrovia. Ma dietro ai carabinieri vi era un automezzo di soldati tedeschi. Anche loro videro i “disertori”, scesero subito dal mezzo, presero le loro mitragliatrici e le piazzarono agli imbocchi della galleria, pronti a sparare se non fossero usciti. Così il comandante dei reali Carabinieri il maresciallo Greco parlò loro dicendo: “Sentite camerati, vi hanno dato false notizie. La guerra ancora continua con i tedeschi, perciò vi consiglio di uscire a mani in alto, prima che questi strunzi vi sparano addosso”. Dopo un breve consulto i militari uscirono. I tedeschi chiesero loro di continuare a combattere assieme a loro, altrimenti, sarebbero stati fucilati sul posto. Giuseppe intimorito da questo, pregò il maresciallo Greco di lasciarlo andare via. E gli raccontò tutto quello che lui e la sua famiglia avevano subito con i bombardamenti: “ho perduto cinque persone in una volta!”. Il Greco s’impietosì e con una scusa gli diede il lasciapassare per una postazione militare vicina. Così Giuseppe rientrò a Gioia. Intanto il “bello” di casa, Dante, dopo essere partito per l’isola d’Elba, era rientrato a Gioia in licenza. Si era alla data successiva all’otto settembre ’43. I fascisti sentendosi traditi avevano fondato la R.S.I. di Salò e promettevano la fucilazione a coloro che disertavano la guerra: vi erano i manifesti appesi. Dante non voleva partire. Tutti i fratelli suoi erano rientrati. Pure Vincenzo da Reggio. Era rientrato a piedi portando un carico di 50kg sulle spalle pieno di sigarette e merce varia. Dante tante volte era andato alla stazione, ma poi ritornava indietro: “Ma i treni non arrivano, non parte nessuno” diceva all’amico e collega militare Caruso in via Tripodi, pronto anch’esso a partire. Ma sotto le insistenze delle sorelle Carresi e della mamma che voleva non gli succedesse nulla per mano dei fascisti, dopo quello che era successo agli altri, lo pregavano: “Parti, parti perché questa gente è spietata”. E lui una sera partì. E non tornò più. Durante un bombardamento sull’isola d’Elba, Dante non fu trovato. Il Caruso morì annegato dentro un sommergibile. Intanto la famiglia Carresi fu convocata a Bagnara per la mesta e dolorosa cerimonia del disseppellimento dei corpi del fratello Vincenzo e del di lui figlio Gino. Dopo che i corpi furono tumulati nel cimitero di Bagnara, i parenti gioiesi rientrarono a casa. Sbarcati dal treno nel versante palmese, a piedi si recarono a Gioia alle loro abitazioni. Giunti all’altezza di “due pompe” in via Tripodi, furono fermati da tre soldati americani, abbastanza alticci. Chiedevano notizie di una

78 “buona donna” del posto, che faceva il mestiere più vecchio del mondo e meno rischioso. Chiedevano della “sgargiata” e lo chiesero con lingua italiana stentata, mezzo inglese e mezzo italiano: “You conoscia “sgargiata?” Quella che fa “gig‐gig”? il marito di Antonietta, zio Peppe, e Gaetano si fermarono e non capivano cosa volessero. Si avvicinarono e zio Peppe ripeteva: “I don’t understand!” così gli americani con gesti in lingua internazionale, fecero capire di cercare una donna per “fuck”, muovendo il pugno sopra e sotto. “Oh ia … !” disse zio Peppe e la parola gli rimase sulla bocca, perché gli era arrivato uno schiaffone che l’aveva mandato a gambe all’aria. “You tedesco, fuck you! Sanama bicth, you tetesco”. Gaetano cercava di bloccarli, di spiegar loro che sbagliavano, ed anche lui per la seconda volta fu preso a botte da un soldato di nazionalità diversa. A quel punto il seminarista Albino, Vangelo o non vangelo, cominciò a scagliare sassi contro i soldati americani. Giuseppe, che sul piano fisico non poteva competere con costoro, usava la sua arma più nota, l’agilità. Così colpiva con cazzotti ben assestati sullo stomaco gli americani e scappava, poi tornava, un nuovo colpo e fuggiva passando sotto le gambe degli stessi bacchettoni americani. Alla lotta partecipavano anche le donne della comitiva, fra queste la più potente era Antonietta perché robusta e ben piantata, tirando i capelli e calci negli stinchi. Poi furono divisi da altri commilitoni e passanti che si trovavano al momento. Perché successe questo episodio ? Bisogna sapere che in America l’inglese parlato è diverso (quello ufficiale) dall’inglese vero. E ancora più differente è lo slang (un dialetto). Il buon zio Peppe pronunciò il “yes” in slang italianizzato, che assomigliava più a un “ya” che a un “yes”. Quelli ubriachi com’erano non capirono nulla ed alzarono le mani. Verso la fine del ’43, mentre Carmela sulla spiaggia di Gioia aspettava con altre persone, il rientro della barca con cui Gaetano e i suoi amici erano andati a pescare, vide sotto una barca un militare febbricitante. Carmela lo soccorse, ed al rientro di Gaetano decisero assieme di curarlo. Lo tennero in casa per una settimana, dimostrando ancora una volta la loro generosità e nobiltà d’animo. Una volta curato, il militare che era siciliano, fu accompagnato da Gaetano, con una barca a vela fino a Messina. Intanto l’orribile guerra si spostava verso il nord a mietere altre vittime innocenti. Verso la fine del mese di settembre del 1943, Fortunata ascoltando alla radio dei continui raid aerei sull’isola d’Elba, si preoccupò delle sorti dell’ultimo dei figli, Dante, ancora militare nell’area isolana: le morti e distruzioni furono molte. Si recava molto spesso ai vari comandi militari posti vicino ai cognati Arlacchi o al comune che reggevano l’amministrazione comunale per avere notizie del figlio. La risposta fu che la confusione regnava sovrana in quel lembo di terra, né si avevano notizie precise sul numero dei militari deceduti sotto quella valanga di bombe sganciate dalle fortezze volanti alleate. Un brutto presentimento attraversava la mente di Fortunata: “Spero che Dio mi risparmi l’ennesimo dolore, cinque innocenti vittime più due a Bagnara dovrebbero bastare anche per il più esigente dio!” Sperava tanto in una prigionia del figlio, da parte tedesca. Fu un andirivieni continuo dagli uffici preposti a fornire notizie di militari defunti o meno. Un giorno la famiglia decise di fare ricerche dirette recandosi sul posto. Fu Francesco a partire poiché esonerato dal servizio militare. Vincenzo, Peppino, Mario evitarono di muoversi, visto che non si erano presentati ai richiami della R.S.I., rischiavano la pelle. Portoferraio era diventata una località spettrale. In quei fatidici giorni che vanno da settembre 1943 fino agli inizi del 1944, furono sganciate migliaia di bombe per distruggere gli impianti per l’estrazione della materia prima, la ferrite, che serviva alla costruzione di armi pesanti, prima dagli alleati, in una fase successiva dagli ex alleati tedeschi, i quali deportarono migliaia di soldati italiani

79 che si erano rifiutati di combattere al loro fianco. Al suo arrivo Francesco cominciò le ricerche recandosi presso la caserma dove Dante prestava servizio come furiere. Un vecchio maresciallo alla domanda di Francesco rispose: “La caserma, l’ufficio, la città non esistono più.” Rispose il graduato. “Quest’ultimo bombardamento è stato spaventoso, ci sono stati centinaia di morti. Il ragazzo me lo ricordo, era simpatico e filava con la figlia del comandante della compagnia. Vi converrebbe recarvi in ospedale, sapere se è stato ricoverato lì ferito….. e nella migliore delle ipotesi sapere se è stato deportato in Germania. Altro non so, non ho altri consigli da darvi.” Francesco cosi fece, mostrò la foto di Dante, in tanti, locali, lo ricordavano perché tipo ameno e ciarliero. Ma dopo l’ultimo bombardamento non l’avevano visto più. Francesco decise di recarsi presso l’abitazione del comandante, a parlare direttamente con quella ragazza con cui Dante aveva filato nei tragici giorni precedenti la guerra. Neanche da lei ebbe notizie più precise, se non che era sempre in compagnia di un conterraneo, un militare di , tale Santoro. Quando Francesco rientrò senza buone nuove, la famiglia al completo cominciò ad intuire che, forse, bisognava aggiungere alla loro lunga lista, l’ennesimo nome: ma la Speranza che potesse esser stato deportato in Germania, teneva tutti col desiderio di aspettare, di continuare a cercare. Da qui la decisione di recarsi e trovare il Santoro, che era stato l’ultimo a vederlo vivo. Mario lo trovò e chiese con la speranza di sapere qualcosa di più. “Mi dispiace, amico mio, vi posso solo dire che al momento che l’allarme era cominciato a suonare, io e Dante corremmo verso i rifugi antiaerei. Sentimmo uno scoppio, io mi riparai sotto un porticato ferito alle gambe. Al risveglio mi ritrovai nell’ospedale militare. Chiesi di Dante e mi risposero che c’erano stati centinaia di morti, alcuni irriconoscibili.” Mario rientrò deluso e con una gran pena nel cuore. La vita continua. Bisognava ricominciare, la guerra era lontana, bisognava rimuoverla dal proprio cuore e dalla propria mente anche se molto difficile, dopo quei tragici avvenimenti familiari. Solo una grande fede nel Dio dell’Amore ed il sostegno morale, la solidarietà, di chi vuole bene senza se e senza ma, disinteressatamente, poteva compiere il miracolo di far dimenticare. La segheria fu riattata completamente. Qualche sega a nastro si era pensato di spostarla vicino ai luoghi di taglio dei tronchi in montagna. Segarli in grosse tavole e spostarle giù per un’ulteriore lavorazione. Una mattina del 1944, Fortunata in compagnia del figlio Renzo, si era recata a far spesa per la famiglia in piazza Tre Canali. Fortunata osservava la merce sulle varie bancarelle e ne chiedeva il prezzo mentre Renzo, individuato Melo il micone, gli chiedeva insistentemente se gli fosse spuntato il “pelo d’oro”, nel di dietro. Melo il micone, con quello sguardo intelligente, lo guardava stupito senza capire e domandava: “E che è questo pelo d’oro, che significa?” “Ma scherzi? Non sai cosa è? Ad una certa età deve nascere, come i denti: se i denti non ti spuntano ad una certa età, tu che pensi Melo? Che sei malato, no? Per il pelo d’oro è la stessa cosa, se non spunta è la stessa cosa. E deve nascere al centro del “cinque lire”, ricordati. Se esce da un’altra parte ti devono operare. Perciò Melo, ogni sera culo allo specchio e verifica, va bene? Se vuoi chiedi a tua madre.” Durante questo dialogo, Fortunata stava discutendo alquanto animatamente con un venditore. Di colpo vide la mamma cadere a terra spinta dall’energumeno. Renzo era troppo ragazzo per reagire, se non a parole. Bastò la gente ad aiutarla e a rimproverare l’uomo. Renzo accompagnò la mamma a casa, poi andò in segheria, non prima della raccomandazione della mamma di non dire nulla ai suoi fratelli. Salì verso la segheria ed avvisò i fratelli presenti. Vincenzo, Peppino, Renato, senza pensarci due volte, formarono la spedizione punitiva. Si

80 recarono in piazza a chiedere ragione dell’azione all’uomo. L’uomo tentò di spiegare che non voleva….ecc. prima che costui potesse dire più di due parole, Peppino gli scaricò un pugno in pieno viso, a ruota seguirono gli altri a menare. Vincenzo con un nodoso bastone, completò l’opera mentre l’uomo disperatamente cercava aiuto, correndo verso il comando vigili, inseguito dai fratelli che continuavano a menare botte da orbi. L’uomo si ritrovò con il braccio fratturato. Furono avvisati i carabinieri che intervenuti sul posto, fermarono Vincenzo. Peppino e Renato si dileguarono. Più tardi, imprudentemente, Renato si avvicinò alla caserma per avere notizie di Vincenzo, pensando di farla franca. Fu riconosciuto e fermato immediatamente dai carabinieri: l’assassino ritorna sempre sul luogo del delitto! Peppino stava commettendo lo stesso errore ma, l’appuntato Azzarà, si affacciò dalla finestra della caserma e avvisò Mico, che, intanto, si era avvicinato per avere notizie dell’avvenimento. Azzarà lo avvisò di non far avvicinare Peppino altrimenti finiva in gattabuia pure lui. Pineo cosi fece e non si avvicinò. Il 1944 fu l’anno dei matrimoni nella famiglia Caratozzolo. Pineo e Peppina si sposarono l’undici marzo del 1944, a dicembre dello stesso anno partorì un bambino nato morto per soffocamento da cordone ombelicale. Un nuovo dolore si era aggiunto agli altri. Lo stesso anno si dovette fare una triste operazione al cimitero. Per infiltrazioni d’acqua si dovettero spostare le bare dei defunti di Fortunata. Francesco, il marito di Fortunata, per via delle infiltrazioni d’acqua che avevano bucato la bara, si era quasi dissolto. Fortunata non potette che fare un’affermazione dolorosa: “Neanche in morte hai avuto fortuna!” Vi erano presenti i parenti più stretti, Carmela, Grazia, Domenica, Ciro e poi Renato. Quando fu rimossa la bara bianca di Ciro, ormai di colore diverso, Fortunata per un gesto d’amore di mamma, chiese al camposantaro: “Me lo fate vedere, signore?” l’uomo rispose spaventato: “Donna Fortunata, non si può, è proibito dalla legge!” Poi, in un attimo di distrazione dell’uomo, Fortunata vide un foro sulla bara del piccolo Ciro, infilò un dito fece forza ed il coperchio si aprì cadendo fragorosamente a terra: Fortunata vide il corpicino del figlioletto, bianco cinereo, la testolina girata in un lato e un foro sulla tempia destra, i capelli ispidi, una espressione di dolce serenità stampata sul viso. A quella scena Renato svenne. Fortunata abbracciò il figliolo con forza. Il camposantaro urlava per il timore di perdere il posto, altri parenti soccorsero Renato, il resto fece allontanare Fortunata e ritornarono assieme a Gioia. A casa di zia Serafina una buona notizia sconvolse la giornata della famiglia: Antonino stava per tornare dalla prigionia egiziana. Una bella notizia senza dubbio ma, impegnativa. La fame era tantissima. Come accogliere Nino? Tramite i parenti si preparò un mediocre pranzetto: pane, stoccafisso, vino. Zio Peppino si vestì elegante per accogliere il figlio, non avendo una camicia, indossò una canottiera e sopra vi piazzò una bella ed elegante cravatta. Poi andarono alla stazione. Il treno arrivò e Nino no. Zio Peppino e Serafina rientrarono a casa. La fame era tanta. Cosi nell’attesa, mangiavano un pezzetto di pane ed un pezzetto di stoccafisso. Alla fine quando Nino arrivò su quel tavolo nulla era rimasto del misero pranzetto.

FINE

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Da Carresi Vincenzo e Ruggiero Fortunata nacque Carresi Francesco che ha sposato Patamia Felicia. Carresi Vincenzo ha sposato Domenica Fedele.

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83 Bibliografia

“Gioia che cambia” Ing. Marino “Gioia Tauro” Prof. Orso “Gioia Tauro nel contesto storico calabrese” Achille Barbaro

“Storia del fascismo” A. Petacco “Documenti archivio” c.c.i.a. di RC “Le società di M.S. V. Savoia “Gioia Tauro” R. Liberti “fascismo,borghesia agraria e lotte popolari: Rizziconi 1918 – 1946” R. Lentini

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