SOFTWARE LIBERO PENSIERO LIBERO VOLUME PRIMO Raramuri Sono super-maratoneti, detengono ogni record mondiale di corsa dai 100 km in su, ma vivono nell’anonimato e nella povertà più profondi nella Sierra Madre del Messico del Nord. Sono gli indios Tarahumara, una tribù dimen- ticata dai bianchi, da essi considerati il diavolo, e dal loro stesso Dio. Si sono dati un nome poetico, Raramuri, «piedi che corrono», perché su queste lun- ghissime distanze volano come se volessero salire al cielo. Non c’è nessuno che li batta, perché per loro i piedi sono delle ali. Vivono di agricoltura e di una strana caccia, quella ai cervi, non con l’arco e le frecce ma coi piedi, la loro unica arma: sfiancano gli animali correndo loro dietro giorni e giorni, finché la preda non si abbatte esausta. Roba da leggenda...

Ennio Caretto “Corriere della Sera” - 31/07/2002

Foto di copertina: Kerth Dannemiller (Corriere della Sera) Introduzione

Un esperimento globale per l’affermazione della libertà Offrire al mondo programmi informatici che possano essere liberamente usati e copiati, modificati e distribuiti, gratis o a pagamento. Questa la scommessa lanciata nell’ormai lontano 1984 da Richard Matthew Stallman. Qualcosa (apparentemente) impossibile perfino a concepir- si, in un’epoca in cui informatica era (ed è) sinonimo di monopoli, pro- duzioni industriali, mega-coporation. Un approccio tanto semplice quanto rivoluzionario, il concetto stesso di software libero, che ci ripor- ta finalmente con i piedi per terra. E la cui pratica quotidiana è ispi- rata a un principio anch’esso basilare ma troppo spesso dimenticato: la libera condivisione del sapere, qui e ora, la necessità di (ri)prendere in mano la libertà individuale di creare, copiare, modificare e distribui- re qualsiasi prodotto dell’ingegno umano. Ponendo così le condizioni per un ribaltamento totale proprio di quell’apparato pantagruelico che ha piegato l’attuale ambito informatico alla mercé di un pugno di colos- si, inarrivabili e monopolistici. Nella rapida trasformazione degli equilibri in gioco nell’odierna rivo- luzione tecnologica e industriale, il software libero va dunque scardi- nando certezze antiche, aprendo al contempo le porte a scenari del tut- to nuovi e inimmaginabili. Senza affatto escluderne i riflessi nel mon- do della piccola e grande imprenditoria e a livello commerciale: basti ricordare l’ampio utilizzo del sistema operativo GNU/Linux (spesso indicato, in maniera imprecisa, solo come ‘Linux’) sia su macchine high-end come pure su quelle più economiche e dispositivi portatili vari, mentre il 70 per cento dei server web su internet girano su Apache, pro-

3 gramma di software libero. Considerando insomma la centralità assun- ta dal software in quanto comparto industriale strategico all’interno di una poliedrica età dell’informazione, c’è da scommettere che la rivolu- zione innescata da Richard Stallman continuerà a produrre un’onda assai lunga negli anni e nei decenni a venire. Predisposto all’isolamento sociale ed emotivo, fin da ragazzo Stallman dimostra un’acuta intelligenza unita a una sviscerata attrazione per le discipline scientifiche. Laureatosi in fisica ad Harvard nel 1974, alla carriera di accademico frustrato preferisce l’ambiente creativo degli hacker che danno vita al Laboratorio di Intelligenza Artificiale presso il prestigioso MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston. Si tuffa così nella cultura hacker di quegli anni, imparando i linguaggi di programmazione e lo sviluppo dei sistemi operativi. È qui che, poco più che ventenne, scrive il primo estendibile, . Ma soprattutto abbraccia lo stile di vita anti-burocratico, creativo e insof- ferente di ogni autorità costituita, tipico della prima generazione di computer hacker al MIT. Nei primi anni ‘60 si deve a costoro, ad esem- pio, la nascita di Spacewar, il primo video game interattivo, che inclu- deva tutte le caratteristiche dell’hacking tradizionale: divertente e casuale, perfetto per la distrazione serale di decine di hacker, dava però concretezza alle capacità di innovazione nell’ambito della program- mazione. Ovviamente, era del tutto libero (e gratuito), di modo che il relativo codice venne ampiamente condiviso con altri programmatori. Pur se non sempre queste posizioni di apertura e condivisione erano parimenti apprezzate da hacker e ricercatori “ufficiali”, nella rapida evoluzione del settore informatico i due tipi di programmatori finiro- no per impostare un rapporto basato sulla collaborazione, una sorta di una relazione simbiotica. La generazione successiva, cui apparteneva Richard Stallman, aspirava a calcare le orme di quei primi hacker, par- ticolarmente a livello etico. Onde potersi definire tale, all’hacker era

4 richiesto qualcosa in più che scrivere programmi interessanti; doveva far parte dell’omonima cultura e onorarne le tradizioni in maniera analoga alle corporazioni medievali, pur se con una struttura sociale non così rigida. Scenario che prese corpo in istituzioni accademiche d’a- vanguardia, quali MIT, Stanford e Carnegie Mellon, emanando al contempo quelle norme non ancora scritte che governavano i compor- tamenti dell’hacker – l’etica hacker. Proprio per garantire massima consistenza e aderenza a tale etica, dopo non poche vicissitudini, all’inizio del 1984 Stallman lascia il MIT per dedicarsi anima e corpo al lancio del progetto GNU e della successiva Free Software Foundation. Come scrive Sam Williams nella biografia ‘ufficiosa’ di Stallman (Codice Libero, Apogeo, 2003), il «passaggio di Richard Matthew Stallman da accademico frustrato a leader poli- tico nel corso degli ultimi vent’anni, testimonia della sua natura testar- da e della volontà prodigiosa, di una visione ben articolata sui valori di quel movimento per il software libero che ha aiutato a costruire». A ciò va aggiunta l’alta qualità dei programmi da lui realizzati man mano, «programmi che ne hanno cementato la reputazione come svi- luppatore leggendario». Un attivismo spietato, il suo, sempre al servi- zio della libertà di programmazione, di parola, di pensiero. Non cer- to casualmente alla domanda se, di fronte alla quasi-egemonia del software proprietario, oggi il movimento del software libero rischi di perdere la capacità di stare al passo con i più recenti sviluppi tecnolo- gici, Stallman non ha dubbi: «Credo che la libertà sia più importan- te del puro avanzamento tecnico. Sceglierei sempre un programma libe- ro meno aggiornato piuttosto che uno non-libero più recente, perché non voglio rinunciare alla libertà personale. La mia regola è, se non posso condividerlo, allora non lo uso». Questo in estrema sintesi il percorso seguito finora dall’ideatore del movimento del software libero, rimandando ulteriori approfondimen-

5 ti alle risorse segnalate in appendice. Ma per quanti hanno scarsa fami- liarità con simili dinamiche e con lo Stallman-pensiero, oppure per chi vuole esplorare tematiche più ampie, questa collezione di saggi è certa- mente l’ideale. Primo, perché copre vent’anni di interventi pubblici da parte di colui che viene (giustamente) considerato il “profeta” del softwa- re libero. Secondo, perché nella raccolta vengono sottolineati gli aspetti sociali dell’attività di programmazione, chiarendo come tale attività pos- sa creare davvero comunità e giustizia. Terzo, perché nel panorama del- l’informazione odierna spesso fin troppo rapida e generica, ancor più in ambito informatico, è vitale tenersi correttamente aggiornati su faccen- de calde, tipo le crescenti potenzialità del copyleft (noto anche come “per- messo d’autore”) oppure i pericoli dei brevetti sul software. La raccolta riporta inoltre una serie di documenti storici cruciali: il “Manifesto GNU” datato 1984 (leggermente rivisto per l’occasione), la definizione di software libero, la spiegazione del motivo per cui sia meglio usare la definizione ‘software libero’ anziché ‘open source’. Il tutto mirando ad un pubblico il più vasto possibile: “non occorre avere un background in com- puter science per comprendere la filosofia e le idee qui esposte”, come reci- ta infatti la nota introduttiva del libro originale – Free Software, Free Society: Selected Essays of Richard M. Stallman. L’edizione italiana di quest’ultima è stata scomposta in due distinti volumi: quello che avete per le mani, dove sono raccolte le prime due sezioni della versione inglese, verrà seguito a breve da un secondo con i testi rimanenti. Tra questi, vanno fin d’ora segnalate le trascrizioni di alcuni importanti interventi dal vivo di Stallman (quali “Copyright e globalizzazione nell’epoca delle reti informatiche” e “Software libero: libertà e cooperazione”), oltre al testo integrale delle varie licenze GNU, a partire dalla più affermata, la GPL, General Public License. Si è optato per due volumi italiani onde rendere più agile e godibile l’intera opera originale, considerando lo spessore e la complessità spesso

6 presenti nei vari saggi. Presi nella loro interezza, questi forniranno al lettore un quadro ampio e articolato su questioni pressanti, non sol- tanto per l’odierno ambito informatico. Proprio perché Stallman non si risparmia affatto, gettando luce sul passato e soprattutto sul futuro di tematiche al crocevia tra etica e legge, business e software, libertà individuale e società trasparente. Senza infine dimenticare come a complemento del tutto sia già attiva un’apposita area sul sito web di Stampa Alternativa (http://www.stam- palternativa.it/freesoft/index.html) dove circolano interventi vari in tema di software libero e dove troverà spazio l’intera versione italiana del libro. Oltre naturalmente alle relative modifiche, ovvero le segnala- zioni di lettori e utenti riguardo errori, contributi, aggiornamenti e quant’altro possibile. Il materiale qui raccolto sarà ulteriormente dispo- nibile sul sito dell’Associazione Software Libero, il quale ospita il grup- po dei traduttori italiani dei testi del progetto GNU (http://www.softwa- relibero.it/gnudoc/) che ha validamente contribuito alla stesura di que- sto lavoro. Un lavoro, va detto nel caso qualcuno avesse ancora dei dub- bi, portato avanti interamente via internet tra i vari soggetti coinvolti, dalla fase di progettazione a quella di consegna dei materiali definitivi, e ricorrendo al software non proprietario per quanto possibile. Un progetto in evoluzione continua, quindi, in sintonia con la prati- ca di massima apertura e condivisione su cui vive e prospera il movi- mento del software libero a livello globale – espressione concreta di un esperimento teso all’affermazione della libertà di tutti e di ciascuno. Bernardo Parrella marzo 2003

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

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Parte Prima

Il progetto GNU e il software libero

Il progetto GNU

La prima comunità di condivisione del software Quando cominciai a lavorare nel laboratorio di Intelligenza Artifi- ciale del MIT [Massachusetts Institute of Technology] nel 1971, entrai a far parte di una comunità in cui ci si scambiavano i pro- grammi, che esisteva già da molti anni. La condivisione del softwa- re non si limitava alla nostra comunità; è una cosa vecchia quanto i computer, proprio come condividere le ricette è antico come l’ar- te culinaria. Ma noi lo facevamo più di chiunque altro. Il laboratorio di Intelligenza Artificiale usava un sistema operativo a partizione di tempo (timesharing) chiamato ITS (Incompatible Timesharing System) che il gruppo di hacker del laboratorio aveva progettato e scritto in linguaggio assembler per il Digital PDP-10, uno dei grossi elaboratori di quel periodo. Come membro di que- sta comunità, hacker di sistema nel gruppo laboratorio, il mio com- pito era quello di migliorare il sistema. Non chiamavamo il nostro software “software libero”, poiché que- sta espressione ancora non esisteva, ma proprio di questo si tratta- va. Ogni volta che persone di altre università o aziende volevano convertire il nostro programma per adattarlo al proprio sistema e utilizzarlo, gliene davamo volentieri il permesso. Se si notava qual- cuno usare un programma sconosciuto e interessante, gli si poteva sempre chiedere di vederne il codice sorgente, in modo da poterlo leggere, modificare, o cannibalizzarne alcune parti per creare un nuovo programma.

11 L’uso del termine “hacker” per indicare qualcuno che “infrange i sistemi di sicurezza” è una confusione creata dai mezzi di informa- zione. Noi hacker ci rifiutiamo di riconoscere questo significato, e continuiamo a utilizzare il termine nel senso di “uno che ama pro- grammare, e a cui piace essere bravo a farlo”1.

La comunità si dissolve La situazione cambiò drasticamente all’inizio degli anni ‘80, con la dissoluzione della comunità hacker del laboratorio d’Intelligenza Artificiale seguita dalla decisione della Digital di cessare la produ- zione del computer PDP-10. Nel 1981 la Symbolics, nata da una costola del laboratorio stesso, gli aveva sottratto quasi tutti gli hacker e l’esiguo gruppo rimasto fu incapace di sostenersi (il libro Hackers di Steve Levy narra questi eventi, oltre a fornire una fede- le ricostruzione della comunità ai suoi albori [in italiano: Hackers, Shake Edizioni Underground, 1996]). Quando nel 1982 il labora- torio di Intelligenza Artificiale acquistò un nuovo PDP-10, i siste- misti decisero di utilizzare il sistema timesharing non libero della Digital piuttosto che ITS. Poco tempo dopo la Digital decise di ces- sare la produzione della serie PDP-10. La sua architettura, elegan- te e potente negli anni ‘60, non poteva essere estesa in modo natu- rale ai maggiori spazi di intervento che andavano materializzando-

1 È difficile dare una definizione semplice di qualcosa talmente variegato come l’hacking, ma credo che la maggior parte degli “hacks” abbiano in comune la giocosità, la bravura e l’esplorazione. Perciò hacking vuol dire esplorare i limiti di quel che è possibile fare, in uno spirito di scaltra giocosità. Quelle attività che evidenziano queste caratteristiche conqui- stano il valore di hacking. Si può aiutare a correggere le interpretazioni poco corrette ponen- do la semplice distinzione tra intrusioni nei sistemi di sicurezza e hacking – usando il ter- mine “cracking” per tali intrusioni. Coloro che si dedicano a quest’attività vengono defini- ti “cracker”. Alcuni di loro potrebbero anche essere degli hacker, come altri potrebbero gio- care a scacchi o a golf; ma la maggior parte non lo sono. – On Hacking, RMS, 2002.

12 si negli anni ‘80. Questo stava a significare che quasi tutti i pro- grammi che formavano ITS divenivano obsoleti. Ciò rappresentò l’ultimo chiodo conficcato nella bara di ITS; 15 anni di lavoro anda- ti in fumo. I moderni elaboratori di quell’epoca, come il VAX o il 68020, ave- vano il proprio sistema operativo, ma nessuno di questi era libero: si doveva firmare un accordo di non-diffusione persino per otte- nerne una copia eseguibile. Questo significava che il primo passo per usare un computer era promettere di negare aiuto al proprio vicino. Una comunità coo- perante era vietata. La regola creata dai proprietari di software pro- prietario era: «se condividi il software col tuo vicino sei un pirata. Se vuoi modifiche, pregaci di farle». L’idea che la concezione sociale di software proprietario – cioè il sistema che impone che il software non possa essere condiviso o modificato – sia antisociale, contraria all’etica, semplicemente sba- gliata, può apparire sorprendente a qualche lettore. Ma che altro possiamo dire di un sistema che si basa sul dividere utenti e lasciar- li senza aiuto? Quei lettori che trovano sorprendente l’idea posso- no aver data per scontata la concezione sociale di software proprie- tario, o averla giudicata utilizzando lo stesso metro suggerito dal mercato del software proprietario. I produttori di software hanno lavorato a lungo e attivamente per diffondere la convinzione che c’è un solo modo di vedere la cosa. Quando i produttori di software parlano di “difendere” i propri “diritti” o di “fermare la pirateria”, quello che dicono è in realtà secondario. Il vero messaggio in quelle affermazioni sta nelle assun- zioni inespresse, che essi danno per scontate; vogliono che siano accettate acriticamente. Esaminiamole, dunque. Un primo assunto è che le aziende produttrici di software abbiano

13 il diritto naturale indiscutibile di proprietà sul software e, di con- seguenza, abbiano controllo su tutti i suoi utenti. Se questo fosse un diritto naturale, non potremmo sollevare obiezioni, indipen- dentemente dal danno che possa recare ad altri. È interessante nota- re che, negli Stati Uniti, sia la costituzione che la giurisprudenza rifiutano questa posizione: il diritto d’autore non è un diritto natu- rale, ma un monopolio imposto dal governo che limita il diritto naturale degli utenti a effettuare delle copie. Un’altra assunzione inespressa è che la sola cosa importante del software sia il lavoro che consente di fare – vale a dire che noi uten- ti non dobbiamo preoccuparci del tipo di società in cui ci è per- messo vivere. Un terzo assunto è che non avremmo software utilizzabile (o meglio, che non potremmo mai avere un programma per fare que- sto o quell’altro particolare lavoro) se non riconoscessimo ai pro- duttori il controllo sugli utenti di quei programmi. Quest’assun- zione avrebbe potuto sembrare plausibile, prima che il movimento del software libero dimostrasse che possiamo scrivere quantità di programmi utili senza bisogno di metterci dei catenacci. Se rifiutiamo di accettare queste assunzioni, giudicando queste que- stioni con comuni criteri di moralità e di buon senso dopo aver mes- so al primo posto gli interessi degli utenti, tenendo conto che gli utenti vengono prima di tutto, arriviamo a conclusioni del tutto dif- ferenti. Chi usa un calcolatore dovrebbe essere libero di modificare i programmi per adattarli alle proprie necessità, ed essere libero di condividere il software, poiché aiutare gli altri è alla base della società.

Una difficile scelta morale Una volta che il mio gruppo si fu sciolto, continuare come prima fu impossibile. Mi trovai di fronte a una difficile scelta morale.

14 La scelta facile sarebbe stata quella di unirsi al mondo del software proprietario, firmando accordi di non-diffusione e promettendo di non aiutare i miei compagni hacker. Con ogni probabilità avrei anche sviluppato software che sarebbe stato distribuito secondo accordi di non-diffusione, contribuendo così alla pressione su altri perché a loro volta tradissero i propri compagni. In questo modo avrei potuto guadagnare, e forse mi sarei divertito a programmare. Ma sapevo che al termine della mia carriera mi sarei voltato a guardare indietro, avrei visto anni spesi a costruire muri per dividere le persone, e avrei compreso di aver contribuito a ren- dere il mondo peggiore. Avevo già sperimentato cosa significasse un accordo di non-diffu- sione per chi lo firmava, quando qualcuno rifiutò a me e al labora- torio d’Intelligenza Artificiale del MIT il codice sorgente del pro- gramma di controllo della nostra stampante (l’assenza di alcune funzionalità nel programma rendeva oltremodo frustrante l’uso del- la stampante). Per cui non mi potevo dire che gli accordi di non- diffusione fossero innocenti. Ero molto arrabbiato quando quella persona si rifiutò di condividere il programma con noi; non pote- vo far finta di niente e fare lo stesso con tutti gli altri. Un’altra possibile scelta, semplice ma spiacevole, sarebbe stata quel- la di abbandonare l’informatica. In tal modo le mie capacità non sarebbero state mal utilizzate, tuttavia sarebbero state sprecate. Non sarei mai stato colpevole di dividere o imporre restrizioni agli uten- ti di calcolatori, ma queste cose sarebbero comunque successe. Allora cercai un modo in cui un programmatore potesse fare qual- cosa di buono. Mi chiesi dunque: c’erano un programma o dei pro- grammi che io potessi scrivere, per rendere nuovamente possibile l’esistenza di una comunità? La risposta era semplice: innanzitutto serviva un sistema operativo.

15 Questo è difatti il software fondamentale per iniziare a usare un computer. Con un sistema operativo si possono fare molte cose; senza, non è proprio possibile far funzionare il computer. Con un sistema operativo libero avremmo potuto avere nuovamente una comunità in cui hacker possono cooperare e invitare chiunque a unirsi al gruppo. E chiunque sarebbe stato in grado di usare un cal- colatore, senza dover cospirare fin dall’inizio per sottrarre qualcosa ai propri amici. Essendo un programmatore di sistemi, possedevo le competenze adeguate per questo lavoro. Così, anche se non davo il successo per scontato, mi resi conto di essere la persona giusta per farlo. Scelsi di rendere il sistema compatibile con Unix, in modo che fosse por- tabile, e che gli utenti Unix potessero passare facilmente a esso. Il nome GNU fu scelto secondo una tradizione hacker, come acroni- mo ricorsivo che significa “GNU’s Not Unix” [GNU non è Unix]. Un sistema operativo non si limita solo al suo nucleo, che è proprio il minimo per eseguire altri programmi. Negli anni ‘70, qualsiasi sistema operativo degno di questo nome includeva interpreti di comandi, assemblatori, compilatori, interpreti di linguaggi, debug- ger, editor di testo, programmi per la posta e molto altro. ITS li ave- va, Multics li aveva, VMS li aveva e Unix li aveva. Anche il sistema operativo GNU li avrebbe avuti. Tempo dopo venni a conoscenza di questa massima, attribuita al sapiente ebraico Hillel: Se non sono per me stesso, chi sarà per me? E se sono solo per me stesso, che cosa sono? E se non ora, quando? La decisione di iniziare il progetto GNU si basò su uno spirito simile. Essendo ateo, non seguo alcuna guida religiosa, ma a volte mi tro- vo ad ammirare qualcosa che qualcuno di loro ha detto.

16 “Free” come libero Il termine “free software” [il termine ‘free’ in inglese significa sia gratuito che libero] a volte è mal interpretato: non ha niente a che vedere col prezzo del software; si tratta di libertà. Ecco, dunque, la definizione di software libero. Un programma è software libero per un dato utente se: • l’utente ha la libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo; • l’utente ha la libertà di modificare il programma secondo i pro- pri bisogni (perché questa libertà abbia qualche effetto in pratica, è necessario avere accesso al codice sorgente del programma, poi- ché apportare modifiche a un programma senza disporre del codi- ce sorgente è estremamente difficile); • l’utente ha la libertà di distribuire copie del programma, gratui- tamente o dietro compenso; • l’utente ha la libertà di distribuire versioni modificate del pro- gramma, così che la comunità possa fruire dei miglioramenti apportati. Poiché “free” si riferisce alla libertà e non al prezzo, vendere copie di un programma non contraddice il concetto di software libero. In effetti, la libertà di vendere copie di programmi è essenziale: rac- colte di software libero vendute su CD-ROM sono importanti per la comunità, e la loro vendita è un modo di raccogliere fondi impor- tante per lo sviluppo del software libero. Di conseguenza, un pro- gramma che non può essere liberamente incluso in tali raccolte non è software libero. A causa dell’ambiguità del termine “free” [vale solo per l’inglese], si è cercata a lungo un’alternativa, ma nessuno ne ha trovata una vali- da. La lingua inglese ha più termini e sfumature di ogni altra, ma non ha una parola semplice e non ambigua che significhi libero; “unfettered” è la parola più vicina come significato [termine di tono

17 aulico o arcaico che significa libero da ceppi, vincoli o inibizioni]. Alternative come “liberated”, “freedom” e “open” hanno altri signi- ficati o non sono adatte per altri motivi [rispettivamente liberato, libertà, aperto].

Software GNU e il sistema GNU Sviluppare un intero sistema è un progetto considerevole. Per rag- giungere l’obiettivo decisi di adattare e usare parti di software libe- ro tutte le volte che fosse possibile. Per esempio, decisi fin dall’ini- zio di usare TeX come il principale programma di formattazione di testo; qualche anno più tardi, decisi di usare l’X Window System piuttosto che scrivere un altro sistema a finestre per GNU. Per questi motivi, il sistema GNU e la raccolta di tutto il software GNU non sono la stessa cosa. Il sistema GNU comprende pro- grammi che non sono GNU, sviluppati da altre persone o gruppi di progetto per i propri scopi, ma che possiamo usare in quanto software libero.

L’inizio del progetto Nel gennaio 1984 lasciai il mio posto al MIT e cominciai a scrive- re software GNU. Dovetti lasciare il MIT, per evitare che potesse interferire con la distribuzione di GNU come software libero. Se fossi rimasto, il MIT avrebbe potuto rivendicare la proprietà del lavoro, e avrebbe potuto imporre i propri termini di distribuzione, o anche farne un pacchetto proprietario. Non avevo alcuna inten- zione di fare tanto lavoro solo per vederlo reso inutilizzabile per il suo scopo originario: creare una nuova comunità di condivisione di software. A ogni buon conto, il professor Winston – allora responsabile del laboratorio d’Intelligenza Artificiale del MIT – mi

18 propose gentilmente di continuare a utilizzare le attrezzature del laboratorio stesso.

I primi passi Poco dopo aver iniziato il progetto GNU, venni a sapere del Free Uni- versity Compiler Kit, noto anche come VUCK (la parola olandese che sta per “free” inizia con la V, “vrij”). Era un compilatore proget- tato per trattare più linguaggi, fra cui C e Pascal, e per generare codi- ce binario per diverse architetture. Scrissi al suo autore chiedendo se GNU avesse potuto usarlo. Rispose in modo canzonatorio, dicendo che l’università era sì libera, ma non il compilatore. Decisi allora che il mio primo programma per il progetto GNU sarebbe stato un com- pilatore multilinguaggio e multipiattaforma. Sperando di evitare di dover scrivere da me l’intero compilatore, ottenni il codice sorgente del Pastel, un compilatore multipiat- taforma sviluppato ai Laboratori Lawrence Livermore. Il linguag- gio supportato da Pastel, in cui il Pastel stesso era scritto, era una versione estesa del Pascal, pensata come linguaggio di programma- zione di sistemi. Io vi aggiunsi un frontend per il C, e cominciai il porting per il processore Motorola 68000, ma fui costretto a rinun- ciare quando scoprii che il compilatore richiedeva diversi megaby- te di memoria sullo stack, mentre il sistema Unix disponibile per il processore 68000 ne permetteva solo 64K. Mi resi conto allora che il compilatore Pastel interpretava tutto il file di ingresso creandone un albero sintattico, convertiva questo in una catena di “istruzioni”, e quindi generava l’intero file di uscita senza mai liberare memoria. A questo punto, conclusi che avrei dovuto scrivere un nuovo compilatore da zero. Quel nuovo com- pilatore è ora noto come Gcc; non utilizza niente del compilatore Pastel, ma riuscii ad adattare e riutilizzare il frontend per il C che

19 avevo scritto. Questo però avvenne qualche anno dopo; prima, lavorai su GNU Emacs.

GNU Emacs Cominciai a lavorare su GNU Emacs nel settembre 1984, e all’inizio del 1985 cominciava a essere utilizzabile. Così potei iniziare a usare sistemi Unix per scrivere; fino ad allora, avevo scritto sempre su altri tipi di macchine, non avendo nessun interesse a imparare vi né ed. A questo punto alcuni cominciarono a voler usare GNU Emacs, il che pose il problema di come distribuirlo. Naturalmente lo misi sul server ftp anonimo del computer che usavo al MIT (questo com- puter, “prep.ai.mit.edu”, divenne così il sito ftp primario di distri- buzione di GNU; quando alcuni anni dopo andò fuori servizio, tra- sferimmo il nome sul nostro nuovo ftp server). Ma allora molte del- le persone interessate non erano su Internet e non potevano otte- nere una copia via ftp, così mi si pose il problema di cosa dir loro. Avrei potuto dire: «trova un amico che è in rete disposto a farti una copia». Oppure avrei potuto fare quel che feci con l’originario Emacs su PDP-10, e cioè dir loro: «spediscimi una busta affranca- ta e un nastro, e io te lo rispedisco con sopra Emacs». Ma ero sen- za lavoro, e cercavo un modo di far soldi con il software libero. E così feci sapere che avrei spedito un nastro a chi lo voleva per 150 dollari. In questo modo, creai un’impresa di distribuzione di softwa- re libero, che anticipava le compagnie che oggi distribuiscono inte- ri sistemi GNU basati su Linux.

Un programma è libero per tutti? Se un programma è software libero quando esce dalle mani del suo autore, non significa necessariamente che sarà software libero per

20 chiunque ne abbia una copia. Per esempio, il software di pubblico dominio (software senza copyright) è software libero, ma chiunque può farne una versione modificata proprietaria. Analogamente, molti programmi liberi sono protetti da diritto d’autore, ma ven- gono distribuiti con semplici licenze permissive che permettono di farne versioni modificate proprietarie. L’esempio emblematico della questione è l’X Window System. Svi- luppato al MIT e pubblicato come software libero con una licenza permissiva, fu rapidamente adottato da diverse società informatiche. Queste aggiunsero X ai loro sistemi Unix proprietari, solo in forma binaria, e coperto dello stesso accordo di non-diffusione. Queste copie di X non erano software più libero di quanto lo fosse Unix. Gli autori dell’X Window System non ritenevano che questo fosse un problema, anzi se lo aspettavano ed era loro intenzione che accadesse. Il loro scopo non era la libertà, ma semplicemente il “successo”, defi- nito come “avere tanti utenti”. Non interessava loro che questi utenti fossero liberi, ma solo che fossero numerosi. Questo sfociò in una situazione paradossale, in cui due modi diver- si di misurare la quantità di libertà risultavano in risposte diverse alla domanda «questo programma è libero?». Giudicando sulla base della libertà offerta dai termini distributivi usati dal MIT, si sareb- be dovuto dire che X era software libero. Ma misurando la libertà dell’utente medio di X, si sarebbe dovuto dire che X era software proprietario. La maggior parte degli utenti di X usavano le versio- ni proprietarie fornite con i sistemi Unix, non la versione libera.

Il permesso d’autore [copyleft] e la GNU GPL Lo scopo di GNU consisteva nell’offrire libertà agli utenti, non solo nell’ottenere ampia diffusione. Avevamo quindi bisogno di termi- ni di distribuzione che evitassero che il software GNU fosse tra-

21 sformato in software proprietario. Il metodo che usammo si chia- ma copyleft. Il permesso d’autore [copyleft] usa le leggi sul diritto d’autore [copyright], ma le capovolge per ottenere lo scopo opposto: invece che un metodo per privatizzare il software, diventa infatti un mez- zo per mantenerlo libero. Il succo dell’idea di permesso d’autore consiste nel dare a chiunque il permesso di eseguire il programma, copiare il programma, modi- ficare il programma e distribuirne versioni modificate, ma senza dare il permesso di aggiungere restrizioni. In tal modo, le libertà essenziali che definiscono il “free software” sono garantite a chiun- que ne abbia una copia, e diventano diritti inalienabili. Perché un permesso d’autore sia efficace, anche le versioni modifi- cate devono essere libere. Ciò assicura che ogni lavoro basato sul nostro sia reso disponibile per la nostra comunità, se pubblicato. Quando dei programmatori professionisti lavorano su software GNU come volontari, è il permesso d’autore che impedisce ai loro datori di lavoro di dire: «non puoi distribuire quei cambiamenti, perché abbiamo intenzione di usarli per creare la nostra versione proprietaria del programma». La clausola che i cambiamenti debbano essere liberi è essenziale se vogliamo garantire libertà a tutti gli utenti del programma. Le aziende che privatizzarono l’X Window System di solito aveva- no apportato qualche modifica per portare il programma sui loro sistemi e sulle loro macchine. Si trattava di modifiche piccole rispetto alla mole di X, ma non banali. Se apportare modifiche fosse una scusa per negare libertà agli utenti, sarebbe facile per chiunque approfittare di questa scusa. Una problematica correlata è quella della combinazione di un pro- gramma libero con codice non libero. Una tale combinazione sareb-

22 be inevitabilmente non libera; ogni libertà che manchi dalla parte non libera mancherebbe anche dall’intero programma. Permettere tali combinazioni aprirebbe non uno spiraglio, ma un buco grosso come una casa. Quindi un requisito essenziale per il permesso d’au- tore è tappare il buco: tutto ciò che venga aggiunto o combinato con un programma protetto da permesso d’autore, dev’essere tale che il programma risultante sia anch’esso libero e protetto da per- messo d’autore. La specifica implementazione di permesso d’autore che utilizziamo per la maggior parte del software GNU è la GNU General Public License [licenza pubblica generica GNU], abbreviata in GNU GPL. Abbiamo altri tipi di permesso d’autore che sono utilizzati in circostanze specifiche. I manuali GNU sono anch’essi protetti da permesso d’autore, ma ne usano una versione molto più semplice, perché per i manuali non è necessaria la complessità della GPL. Nel 1984 o 1985, Don Hopkins, persona molto creativa, mi mandò una lettera. Sulla busta aveva scritto diverse frasi argute, fra cui que- sta: “Permesso d’autore – tutti i diritti rovesciati”. Utilizzai l’espres- sione “permesso d’autore” [copyleft] per battezzare il concetto di distribuzione che allora andavo elaborando.

La Free Software Foundation Man mano che l’interesse per Emacs aumentava, altre persone par- teciparono al progetto GNU, e decidemmo che era di nuovo ora di cercare finanziamenti. Così nel 1985 fondammo la Free Software Foundation (FSF), una organizzazione senza fini di lucro per lo svi- luppo di software libero. La FSF fra l’altro si prese carico della distri- buzione dei nastri di Emacs; più tardi estese l’attività aggiungendo sul nastro altro software libero (sia GNU che non GNU) e ven- dendo manuali liberi.

23 La FSF accetta donazioni, ma gran parte delle sue entrate è sempre stata costituita dalle vendite: copie di software libero e servizi cor- relati. Oggi vende CD-ROM di codice sorgente, CD-ROM di pro- grammi compilati, manuali stampati professionalmente (tutti con libertà di ridistribuzione e modifica), e distribuzioni Deluxe (nelle quali compiliamo l’intera scelta di software per una piattaforma a richiesta). I dipendenti della Free Software Foundation hanno scritto e curato la manutenzione di diversi pacchetti GNU. Fra questi spiccano la libre- ria C e la shell. La libreria C di GNU è utilizzata da ogni programma che gira su sistemi GNU/Linux per comunicare con Linux. È stata svi- luppata da un membro della squadra della Free Software Foundation, Roland McGrath. La shell usata sulla maggior parte dei sistemi GNU/Linux è Bash, la Bourne Again Shell, che è stata sviluppata da Brian Fox, dipendente della FSF. Finanziammo lo sviluppo di questi programmi perché il progetto GNU non riguardava solo strumenti di lavoro o un ambiente di sviluppo: il nostro obiettivo era un sistema operativo completo, e questi programmi erano necessari per raggiungere quell’obiettivo. [“Bourne Again Shell” è un gioco di parole sul nome “Bourne Shell”, che era la normale shell di Unix; “Bourne again” richiama l’espressione cristiana “born again”, “rinato” (in Cristo)].

Il supporto per il software libero La filosofia del software libero rigetta in particolare una diffusa pra- tica commerciale, ma non è contro il commercio. Quando un’im- presa rispetta la libertà dell’utente, c’è da augurarle ogni successo. La vendita di copie di Emacs esemplifica un modo di condurre affa- ri col software libero. Quando la FSF prese in carico quest’attività, dovetti trovare un’altra fonte di sostentamento. La trovai nella ven-

24 dita di servizi relativi al software libero che avevo sviluppato, come insegnare argomenti quali programmazione di Emacs e personaliz- zazione di GCC, oppure sviluppare software, soprattutto adatta- mento di GCC a nuove architetture. Oggi tutte queste attività collegate al software libero sono esercitate da svariate aziende. Alcune distribuiscono raccolte di software libe- ro su CD-ROM, altre offrono consulenza a diversi livelli, dall’aiu- tare gli utenti in difficoltà, alla correzione di errori, all’aggiunta di funzionalità non banali. Si cominciano anche a vedere aziende di software che si fondano sul lancio di nuovi programmi liberi. Attenzione però: diverse aziende che si fregiano del marchio “open source” in realtà fondano le loro attività su software non libero che funziona insieme con software libero. Queste non sono aziende di software libero, sono aziende di software proprietario i cui prodot- ti attirano gli utenti lontano dalla libertà. Loro li chiamano “a valo- re aggiunto”, il che riflette i valori che a loro farebbe comodo che adottassimo: la convenienza prima della libertà. Se riteniamo che la libertà abbia più valore, li dovremmo chiamare prodotti “a libertà sottratta”.

Obiettivi tecnici L’obiettivo principale di GNU era essere software libero. Anche se GNU non avesse avuto alcun vantaggio tecnico su Unix, avrebbe avuto sia un vantaggio sociale, permettendo agli utenti di coopera- re, sia un vantaggio etico, rispettando la loro libertà. Tuttavia risultò naturale applicare al lavoro le regole classiche di buona programmazione; per esempio, allocare le strutture dati dinamicamente per evitare limitazioni arbitrarie sulla dimensione dei dati, o gestire tutti i possibili codici a 8 bit in tutti i casi ragio- nevoli.

25 Inoltre, al contrario di Unix che era pensato per piccole dimensio- ni di memoria, decidemmo di non supportare le macchine a 16 bit (era chiaro che le macchine a 32 bit sarebbero state la norma quan- do il sistema GNU sarebbe stato completo), e di non preoccupar- ci di ridurre l’occupazione di memoria a meno che eccedesse il megabyte. In programmi per i quali non era essenziale la gestione di file molto grandi, spingemmo i programmatori a leggere in memoria l’intero file di ingresso per poi analizzare il file senza dover- si preoccupare delle operazioni di I/O. Queste decisioni fecero sì che molti programmi GNU superassero i loro equivalenti Unix sia in affidabilità che in velocità di esecu- zione.

Donazioni di computer Man mano che la reputazione del progetto GNU andava crescen- do, alcune persone iniziarono a donare macchine su cui girava Unix. Queste macchine erano molto utili, perché il modo più semplice di sviluppare componenti per GNU era di farlo su di un sistema Unix così da sostituire pezzo per pezzo i componenti di quel siste- ma. Ma queste macchine sollevavano anche una questione etica: se fosse giusto per noi anche solo possedere una copia di Unix. Unix era (ed è) software proprietario, e la filosofia del progetto GNU diceva che non avremmo dovuto usare software proprieta- rio. Ma, applicando lo stesso ragionamento per cui la violenza è ammessa per autodifesa, conclusi che fosse legittimo usare un pac- chetto proprietario, se ciò fosse stato importante nel crearne un sostituto libero che permettesse ad altri di smettere di usare quello proprietario. Tuttavia, benché fosse un male giustificabile, era pur sempre un male. Oggi non abbiamo più alcuna copia di Unix, perché le abbia-

26 mo sostituite con sistemi operativi liberi. Quando non fu possibi- le sostituire il sistema operativo di una macchina con uno libero, sostituimmo la macchina.

L’elenco dei compiti GNU Mentre il progetto GNU avanzava, e un numero sempre maggiore di componenti di sistema venivano trovati o sviluppati, diventò uti- le stilare un elenco delle parti ancora mancanti. Usammo questo elenco per ingaggiare programmatori che scrivessero tali parti, e l’e- lenco prese il nome di elenco dei compiti GNU. In aggiunta ai com- ponenti Unix mancanti inserimmo nell’elenco svariati progetti uti- li di programmazione o di documentazione che a nostro parere non dovrebbero mancare in un sistema operativo veramente completo. Oggi non compare quasi nessun componente Unix nell’elenco dei compiti GNU; tutti questi lavori, a parte qualcuno non essenziale, sono già stati svolti. D’altro canto l’elenco è pieno di quei progetti che qualcuno chiamerebbe “applicazioni”: ogni programma che interessi a una fetta non trascurabile di utenti sarebbe un’utile aggiunta a un sistema operativo. L’elenco comprende anche dei giochi, e così è stato fin dall’inizio: Unix comprendeva dei giochi, perciò era naturale che così fosse anche per GNU. Ma poiché non c’erano esigenze di compatibilità per i giochi, non ci attenemmo alla scelta di giochi presenti in Unix, preferendo piuttosto fornire un elenco di diversi tipi di giochi potenzialmente graditi agli utenti.

La licenza GNU per le librerie La libreria C del sistema GNU utilizza un tipo speciale di permesso d’autore, la “Licenza Pubblica GNU per le Librerie”, che permette l’u-

27 so della libreria da parte di software proprietario. Perché quest’ecce- zione? Non si tratta di questioni di principio: non c’è nessun princi- pio che dica che i prodotti software proprietari abbiano il diritto di includere il nostro codice (perché contribuire a un progetto fondato sul rifiuto di condividere con noi?). L’uso della licenza LGPL per la libreria C, o per qualsiasi altra libreria, è una questione di strategia. La libreria C svolge una funzione generica: ogni sistema operativo proprietario e ogni compilatore includono una libreria C. Di conse- guenza, rendere disponibile la nostra libreria C solo per i programmi liberi non avrebbe dato nessun vantaggio a tali programmi liberi, avrebbe solo disincentivato l’uso della nostra libreria. C’è un’eccezione a questa situazione: sul sistema GNU (termine che include GNU/Linux) l’unica libreria C disponibile è quella GNU. Quindi i termini di distribuzione della nostra libreria C determina- no se sia possibile o meno compilare un programma proprietario per il sistema GNU. Non ci sono ragioni etiche per permettere l’uso di applicazioni proprietarie sul sistema GNU, ma strategicamente sem- bra che impedirne l’uso servirebbe più a scoraggiare l’uso del sistema GNU che non a incoraggiare lo sviluppo di applicazioni libere. Ecco perché l’uso della licenza LGPL è una buona scelta strategica per la libreria C, mentre per le altre librerie la strategia va valutata caso per caso. Quando una libreria svolge una funzione particola- re che può aiutare a scrivere certi tipi di programmi, distribuirla secondo la GPL, quindi limitandone l’uso ai soli programmi libe- ri, è un modo per aiutare gli altri autori di software libero, dando loro un vantaggio nei confronti del software proprietario. Prendiamo come esempio GNU Readline2, una libreria scritta per

2 La libreria GNU Readline fornisce una serie di funzioni utilizzabili da applicazioni che consentono all’utente la modifica della linee di comando man mano che queste vengono composte.

28 fornire a Bash la modificabilità della linea di comando: Readline è distribuita secondo la normale licenza GPL, non la LGPL. Ciò pro- babilmente riduce l’uso di Readline, ma questo non rappresenta una perdita per noi; d’altra parte almeno una applicazione utile è stata resa software libero proprio al fine di usare Readline, e questo è un guadagno tangibile per la comunità. Chi sviluppa software proprietario ha vantaggi economici, gli autori di programmi liberi hanno bisogno di avvantaggiarsi a vicenda. Spero che un giorno possiamo avere una grande raccolta di librerie coperte dalla licenza GPL senza che esista una raccolta equivalente per chi scrive software proprietario. Tale libreria fornirebbe utili moduli da usare come i mattoni per costruire nuovi programmi liberi e costituendo un sostanziale vantaggio per la scrittura di ulteriori programmi liberi. [Nel 1999 la FSF ha cambiato nome alla licenza LGPL che ora si chiama “Lesser GPL”, GPL attenuata, per non suggerire che si trat- ti della forma di licenza preferenziale per le librerie].

Togliersi il prurito? Eric Raymond afferma che «ogni buon programma nasce dall’ini- ziativa di un programmatore che si vuole togliere un suo persona- le prurito». È probabile che talvolta succeda così, ma molte parti essenziali del software GNU sono state sviluppate al fine di com- pletare un sistema operativo libero. Derivano quindi da un’idea e da un progetto, non da una necessità contingente. Per esempio, abbiamo sviluppato la libreria C di GNU perché un sistema di tipo Unix ha bisogno di una libreria C, la Bourne Again Shell (Bash) perché un sistema di tipo Unix ha bisogno di una shell, e GNU tar perché un sistema di tipo Unix ha bisogno un pro- gramma tar. Lo stesso vale per i miei programmi: il compilatore GNU, GNU Emacs, GDB, GNU Make.

29 Alcuni programmi GNU sono stati sviluppati per fronteggiare spe- cifiche minacce alla nostra libertà: ecco perché abbiamo sviluppa- to gzip come sostituto per il programma Compress, che la comu- nità aveva perduto a causa dei brevetti sull’algoritmo LZW3. Abbia- mo trovato persone che sviluppassero LessTif, e più recentemente abbiamo dato vita ai progetti GNOME e Harmony per affrontare i problemi causati da alcune librerie proprietarie (come descritto più avanti). Stiamo sviluppando la GNU Privacy Guard per sosti- tuire i diffusi programmi di crittografia non liberi, perché gli uten- ti non siano costretti a scegliere tra riservatezza e libertà. Naturalmente, i redattori di questi programmi sono coinvolti nel loro lavoro, e varie persone vi hanno aggiunto diverse funzionalità secon- do le loro personali necessità e i loro interessi. Tuttavia non è questa la ragione dell’esistenza di tali programmi.

Sviluppi inattesi All’inizio del progetto GNU pensavo che avremmo sviluppato l’in- tero sistema GNU e poi lo avremmo reso disponibile tutto insie- me, ma le cose non andarono così. Poiché i componenti del sistema GNU sono stati implementati su un sistema Unix, ognuno di essi poteva girare su sistemi Unix mol- to prima che esistesse un sistema GNU completo. Alcuni di questi programmi divennero diffusi e gli utenti iniziarono a estenderli e a renderli utilizzabili su nuovi sistemi: sulle varie versioni di Unix, incompatibili tra loro, e talvolta anche su altri sistemi. Questo processo rese tali programmi molto più potenti e attirò finan- ziamenti e collaboratori al progetto GNU; tuttavia probabilmente ritardò di alcuni anni la realizzazione di un sistema minimo funzio-

3 L’algoritmo Lempel-Ziv-Welch è usato per la compressione dei dati.

30 nante, perché il tempo degli autori GNU veniva impiegato a curare la compatibilità di questi programmi con altri sistemi e ad aggiunge- re nuove funzionalità ai componenti esistenti, piuttosto che a prose- guire nella scrittura di nuovi componenti.

GNU Hurd Nel 1990 il sistema GNU era quasi completo, l’unica parte signi- ficativa ancora mancante era il kernel. Avevamo deciso di imple- mentare il nostro kernel come un gruppo di processi server che girassero sul sistema Mach. Mach è un micro-kernel sviluppato alla Carnegie Mellon University e successivamente all’Università dello Utah; GNU Hurd è un gruppo di server (o “herd of ”: man- dria di ) che gira su Mach svolgendo le funzioni del kernel Unix. L’inizio dello sviluppo fu ritardato nell’attesa che Mach fosse reso disponibile come software libero, come era stato promesso. Una ragione di questa scelta progettuale fu di evitare quella che sem- brava la parte più complessa del lavoro: effettuare il debugging del kernel senza un debugger a livello sorgente. Questo lavoro era già stato fatto, appunto in Mach, e avevamo previsto di effettuare il debugging dei server Hurd come programmi utente con GDB. Ma questa fase si rivelò molto lunga, e il debugging dei server multi- thread che si scambiano messaggi si è rivelato estremamente com- plesso. Per rendere Hurd robusto furono così necessari molti anni.

Alix Originariamente il kernel GNU non avrebbe dovuto chiamarsi Hurd; il suo nome originale era Alix – come la donna di cui ero innamorato in quel periodo. Alix, che era amministratrice di siste- mi Unix, aveva sottolineato come il suo nome corrispondesse a un

31 comune schema usato per battezzare le versioni del sistema Unix: scherzosamente diceva ai suoi amici: «qualcuno dovrebbe chiama- re un kernel come me». Io non dissi nulla ma decisi di farle una sor- presa scrivendo un kernel chiamato Alix. Le cose non andarono così. Michael Bushnell (ora Thomas), prin- cipale autore del kernel, preferì il nome Hurd, e chiamò Alix una parte del kernel, quella che serviva a intercettare le chiamate di siste- ma e a gestirle inviando messaggi ai server che compongono Hurd. Infine io e Alix ci lasciammo e lei cambiò nome; contemporanea- mente la struttura di Hurd veniva cambiata in modo che la libreria C mandasse messaggi direttamente ai server, e così il componente Alix scomparve dal progetto. Prima che questo accadesse, però, un amico di Alix si accorse della presenza del suo nome nel codice sor- gente di Hurd e glielo disse. Così il nome raggiunse il suo scopo.

Linux e GNU/Linux GNU Hurd non è pronto per un uso non sperimentale, ma per for- tuna è disponibile un altro kernel: nel 1991 Linus Torvalds sviluppò un kernel compatibile con Unix e lo chiamò Linux. Attorno al 1992, la combinazione di Linux con il sistema GNU ancora incom- pleto, produsse un sistema operativo libero completo (natural- mente combinarli fu un notevole lavoro di per sé). È grazie a Linux che oggi possiamo utilizzare una versione del sistema GNU. Chiamiamo GNU/Linux questa versione del sistema, per indicare la sua composizione come una combinazione del sistema GNU col kernel Linux.

Le sfide che ci aspettano Abbiamo dimostrato la nostra capacità di sviluppare un’ampia gamma di software libero, ma questo non significa che siamo

32 invincibili e inarrestabili. Diverse sfide rendono incerto il futuro del software libero, e affrontarle richiederà perseveranza e sforzi costanti, talvolta per anni. Sarà necessaria quella determinazione che le persone sanno dimostrare quando danno valore alla pro- pria libertà e non permettono a nessuno di sottrargliela. Le quat- tro sezioni seguenti parlano di queste sfide.

Hardware segreto Sempre più spesso, i costruttori di hardware tendono a mantenere segrete le specifiche delle loro apparecchiature; questo rende diffi- cile la scrittura di driver liberi che permettano a Linux e XFree864 di supportare nuove periferiche. Anche se oggi abbiamo sistemi completamente liberi, potremmo non averli domani se non saremo in grado di supportare i calcolatori di domani. Esistono due modi per affrontare il problema. Un programmatore può ricostruire le specifiche dell’hardware usando tecniche di reverse engineering. Oppure si può scegliere hardware supportato dai programmi libe- ri: man mano che il nostro numero aumenta, la segretezza delle spe- cifiche diventerà una pratica controproducente. Il reverse engineering è difficile: avremo programmatori sufficiente- mente determinati da dedicarvisi? Sì, se avremo costruito una for- te consapevolezza che avere programmi liberi sia una questione di principio e che i driver non liberi non sono accettabili. E succederà che molti di noi accettino di spendere un po’ di più o perdere un po’ più di tempo per poter usare driver liberi? Sì, se il desiderio di libertà e la determinazione a ottenerla saranno diffusi.

4 XFree86 è un programma che fornisce un ambiente desktop che interfaccia con le perife- riche dell’hardware, quali mouse e tastiera; gira su molte piattaforme diverse.

33 Librerie non libere Una libreria non libera che giri su sistemi operativi liberi funzio- na come una trappola per i creatori di programmi liberi. Le fun- zionalità attraenti della libreria fungono da esca; chi usa la libreria cade nella trappola, perché il programma che crea è inutile come parte di un sistema operativo libero (a rigore, il programma potreb- be esservi incluso, ma non funzionerebbe, visto che manca la libre- ria). Peggio ancora, se un programma che usa la libreria proprie- taria diventa diffuso, può attirare altri ignari programmatori nella trappola. Il problema si concretizzò per la prima volta con la libreria Motif5, negli anni ‘80. Sebbene non ci fossero ancora sistemi operativi libe- ri, i problemi che Motif avrebbe causato loro erano già chiari. Il pro- getto GNU reagì in due modi: interessandosi presso diversi proget- ti di software libero perché supportassero gli strumenti grafici X libe- ri in aggiunta a Motif, e cercando qualcuno che scrivesse un sosti- tuto libero di Motif. Il lavoro richiese molti anni: solo nel 1997 Les- sTif, sviluppato dagli “Hungry Programmers”, divenne abbastanza potente da supportare la maggior parte delle applicazioni Motif. Tra il 1996 e il 1998 un’altra libreria non libera di strumenti grafi- ci, chiamata Qt, veniva usata in una significativa raccolta di softwa- re libero: l’ambiente grafico KDE. I sistemi liberi GNU/Linux non potevano usare KDE, perché non potevamo usare la libreria; tuttavia, alcuni distributori commercia- li di sistemi GNU/Linux, non scrupolosi nell’attenersi solo ai pro- grammi liberi, aggiunsero KDE ai lori sistemi, ottenendo così siste- mi che offrivano più funzionalità, ma meno libertà. Il gruppo che sviluppava KDE incoraggiava esplicitamente altri programmatori a usare Qt, e milioni di nuovi “utenti Linux” non sospettavano mini- 5 Motif è un’interfaccia grafica e manager di finestre che gira su X Windows.

34 mamente che questo potesse costituire un problema. La situazione si faceva pericolosa. La comunità del software libero affrontò il problema in due modi: GNOME e Harmony. GNOME (GNU Network Object Model Environment, model- lo di ambiente per oggetti di rete) è il progetto GNU per l’am- biente grafico (desktop). Intrapreso nel 1997 da Miguel de Icaza e sviluppato con il supporto di Red Hat Software, GNOME si ripromise di fornire funzionalità grafiche simili a quelle di KDE, ma usando esclusivamente software libero. GNOME offre anche dei vantaggi tecnici, come il supporto per svariati linguaggi di pro- grammazione, non solo il C++. Ma il suo scopo principale era la libertà: non richiedere l’uso di alcun programma che non fosse libero. Harmony è una libreria compatibile con Qt, progettata per rende- re possibile l’uso del software KDE senza dover usare Qt. Nel novembre 1998 gli autori di Qt annunciarono un cambia- mento di licenza che, una volta operativo, avrebbe reso Qt softwa- re libero. Non c’è modo di esserne certi, ma credo che questo fu in parte dovuto alla decisa risposta della comunità al problema posto da Qt quando non era libero (la nuova licenza è scomoda e iniqua, per cui rimane comunque preferibile evitare l’uso di Qt)6. Come risponderemo alla prossima allettante libreria non libera? Riuscirà la comunità in toto a comprendere l’importanza di evita- re la trappola? Oppure molti di noi preferiranno la convenienza alla libertà, creando così ancora un grave problema? Il nostro futuro dipende dalla nostra filosofia.

6 Nel settembre 2000 Qt venne ri-ridistribuito sotto la GNU GPL, il che ha sostanzial- mente risolto questo problema.

35 Brevetti sul software Il maggior pericolo a cui ci troviamo di fronte è quello dei brevet- ti sul software, che possono rendere inaccessibili al software libero algoritmi e funzionalità per un tempo che può estendersi fino a vent’anni. I brevetti sugli algoritmi di compressione LZW furono depositati nel 1983, e ancor oggi non possiamo distribuire pro- grammi liberi che producano immagini GIF compresse. Nel 1998 un programma libero per produrre audio compresso MP3 venne ritirato sotto minaccia di una causa per violazione di brevetto. Ci sono modi per affrontare la questione brevetti: possiamo cerca- re prove che un brevetto non sia valido oppure possiamo cercare modi alternativi per completare ugualmente il lavoro. Ognuna di queste tecniche, però, funziona solo in certe circostanze; quando entrambe falliscono, un brevetto può obbligare tutto il software libe- ro a rinunciare a qualche funzionalità che gli utenti desiderano. Cosa dobbiamo fare quando ciò accade? Chi fra noi apprezza il software libero per il valore della libertà rimarrà comunque dalla parte dei programmi liberi; saremo in gra- do di svolgere il nostro lavoro senza le funzionalità coperte da bre- vetto. Ma coloro che apprezzano il software libero perché si aspet- tano che sia tecnicamente superiore probabilmente grideranno al fallimento quando un brevetto ne impedisce lo sviluppo. Perciò, nonostante sia utile parlare dell’efficacia pratica del modello di svi- luppo “a cattedrale”7, e dell’affidabilità e della potenza di un dato programma libero, non ci dobbiamo fermare qui; dobbiamo par- lare di libertà e di principi.

7 Probabilmente intendevo scrivere “del modello a bazaar”, poiché era questa l’alternativa nuova e inizialmente controversa.

36 Documentazione libera La più grande carenza nei nostri sistemi operativi liberi non è nel software, quanto nella carenza di buoni manuali liberi da include- re nei nostri sistemi. La documentazione è una parte essenziale di qualunque pacchetto software; quando un importante pacchetto software libero non viene accompagnato da un buon manuale libe- ro, si tratta di una grossa lacuna. E di queste lacune attualmente ne abbiamo molte. La documentazione libera, come il software libero, è una questio- ne di libertà, non di prezzo. Il criterio per definire libero un manua- le è fondamentalmente lo stesso che per definire libero un pro- gramma: si tratta di offrire certe libertà a tutti gli utenti. Deve esse- re permessa la redistribuzione (compresa la vendita commerciale), sia in formato elettronico che cartaceo, in modo che il manuale pos- sa accompagnare ogni copia del programma. Autorizzare la modifica è anch’esso un aspetto cruciale; in genera- le, non credo sia essenziale permettere alle persone di modificare articoli e libri di qualsiasi tipo. Per esempio, non credo che voi o io dobbiamo sentirci in dovere di autorizzare la modifica di articoli come questo, articoli che descrivono le nostre azioni e il nostro pun- to di vista. Ma c’è una ragione particolare per cui la libertà di modifica è cru- ciale per la documentazione dei programmi liberi. Quando qual- cuno esercita il proprio diritto di modificare il programma, aumen- tandone o alterandone le funzionalità, se è coscienzioso modificherà anche il manuale, in modo da poter fornire una documentazione utile e accurata insieme al programma modificato. Un manuale che non permetta ai programmatori di essere coscienziosi e completa- re il loro lavoro, non soddisfa i bisogni della nostra comunità. Alcuni limiti sulla modificabilità non pongono alcun problema; per

37 esempio, le richieste di conservare la nota di copyright dell’autore originale, i termini di distribuzione e la lista degli autori vanno bene. Non ci sono problemi nemmeno nel richiedere che le ver- sioni modificate dichiarino esplicitamente di essere tali, così pure che intere sezioni non possano essere rimosse o modificate, finché queste sezioni vertono su questioni non tecniche. Restrizioni di questo tipo non creano problemi perché non impediscono al pro- grammatore coscienzioso di adattare il manuale perché rispecchi il programma modificato. In altre parole, non impediscono alla comu- nità del software libero di beneficiare appieno dal manuale. D’altro canto, deve essere possibile modificare tutto il contenuto tec- nico del manuale e poter distribuire il risultato in tutti i formati usua- li, attraverso tutti i normali canali di distribuzione; diversamente, le restrizioni creerebbero un ostacolo per la comunità, il manuale non sarebbe libero e avremmo bisogno di un altro manuale. Gli sviluppatori di software libero avranno la consapevolezza e la determinazione necessarie a produrre un’intera gamma di manuali liberi? Ancora una volta, il nostro futuro dipende dalla nostra filo- sofia.

Dobbiamo parlare di libertà Stime recenti valutano in dieci milioni il numero di utenti di siste- mi GNU/Linux quali Debian GNU/Linux e Red Hat Linux. Il software libero ha creato tali vantaggi pratici che gli utenti stanno approdando a esso per pure ragioni pratiche. Gli effetti positivi di questa situazione sono evidenti: maggior inte- resse a sviluppare software libero, più clienti per le imprese di software libero e una migliore capacità di incoraggiare le aziende a sviluppare software commerciale libero invece che prodotti softwa- re proprietari.

38 L’interesse per il software, però, sta crescendo più in fretta del- la coscienza della filosofia su cui è basato, e questa disparità cau- sa problemi. La nostra capacità di fronteggiare le sfide e le minacce descritte in precedenza dipende dalla determinazione nell’essere impegnati per la libertà. Per essere sicuri che la nostra comunità abbia tale determinazione, dobbiamo diffondere l’i- dea presso i nuovi utenti man mano che entrano a far parte del- la comunità. Ma in questo stiamo fallendo: gli sforzi per attrarre nuovi uten- ti nella comunità sono di gran lunga maggiori degli sforzi per l’educazione civica della comunità stessa. Dobbiamo fare entrambe le cose, e dobbiamo mantenere un equilibrio fra i due impegni.

“Open Source” Parlare di libertà ai nuovi utenti è diventato più difficile dal 1998, quando una parte della comunità decise di smettere di usare il ter- mine “free software” e usare al suo posto “open source”. Alcune delle persone che suggerirono questo termine intendevano evitare che si confondesse “free” con “gratis”, un valido obiettivo. D’altra parte, altre persone intendevano mettere da parte lo spirito del principio che aveva dato la spinta al movimento del software libero e al progetto GNU, puntando invece ad attrarre i dirigenti e gli utenti commerciali, molti dei quali afferiscono a una ideologia che pone il profitto al di sopra della libertà, della comunità, dei principi. Perciò la retorica di “open source” si focalizza sulla possi- bilità di creare software di buona qualità e potente, ma evita deli- beratamente le idee di libertà, comunità, principio. Le riviste che si chiamano “Linux...” sono un chiaro esempio di ciò: sono piene di pubblicità di software proprietario che gira sotto

39 GNU/Linux; quando ci sarà il prossimo Motif o Qt, queste riviste avvertiranno i programmatori di starne lontano o accetteranno la sua pubblicità? L’appoggio delle aziende può contribuire alla comu- nità in molti modi; a parità di tutto il resto è una cosa utile. Ma ottenere questo appoggio parlando ancor meno di libertà e princi- pi può essere disastroso; rende ancora peggiore lo sbilanciamento descritto tra diffusione ed educazione civica. “Software libero” (free software) e “sorgente aperto” (open source) descrivono più o meno la stessa categoria di software, ma dicono cose differenti sul software e sui valori. Il progetto GNU continua a usare il termine “software libero” per esprimere l’idea che la libertà sia importante, non solo la tecnologia.

Provaci! La filosofia di Yoda (“Non esiste provarci”) suona bene, ma per me non funziona. Ho fatto la maggior parte del mio lavoro angu- stiato dal timore di non essere in grado di svolgere il mio com- pito e nel dubbio, se fossi riuscito, che non fosse sufficiente per raggiungere l’obiettivo. Ma ci ho provato in ogni caso perché nes- suno tranne me si poneva tra il nemico e la mia città. Sorpren- dendo me stesso, qualche volta sono riuscito. A volte ho fallito, alcune delle mie città sono cadute; poi ho tro- vato un’altra città minacciata e mi sono preparato a un’altra bat- taglia. Con l’andar del tempo ho imparato a cercare le possibili minacce e a mettermi tra loro e la mia città, facendo appello ad altri hacker perché venissero e si unissero a me. Oggigiorno spesso non sono da solo. È un sollievo e una gioia quan- do vedo un reggimento di hacker che scavano trincee per difende- re il confine e quando mi rendo conto che questa città può soprav- vivere; per ora. Ma i pericoli diventano più grandi ogni anno, e ora

40 Microsoft ha esplicitamente preso di mira la nostra comunità. Non possiamo dare per scontato il futuro della libertà; non diamolo per scontato! Se volete mantenere la vostra libertà dovete essere pronti a difenderla.

La versione originale inglese di questo saggio è apparsa nel libro Open Sour- ces: Voices from the Open Source Revolution (O’Reilly, 1999), e in italiano in Open Sources: Voci dalla rivoluzione open source (Apogeo, 1999). Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

41 Il manifesto GNU

Il manifesto GNU venne scritto all’inizio del progetto GNU, per sti- molarne la partecipazione e il sostegno. Nei primi anni è stato aggior- nato in maniera ridotta per documentarne gli sviluppi, ma oggi sembra meglio lasciarlo inalterato per come lo ha visto la maggior parte della gente. Da allora, ci siamo accorti di alcuni equivoci comuni che l’uso di una diversa terminologia potrebbe aiutare a evitare. Nel corso degli anni sono state aggiunte delle note a chiarimento di tali equivoci.

Cos’è GNU? Gnu non è Unix! GNU, che sta per “Gnu’s Not Unix” (Gnu Non è Unix), è il nome del sistema software completo e Unix-compatibile che sto scrivendo per distribuirlo liberamente a chiunque lo possa utilizzare1. Molti altri volontari mi stanno aiutando. Abbiamo gran necessità di contributi in tempo, denaro, programmi e macchine. Fino a ora abbiamo un editor Emacs fornito di Lisp per espander- ne i comandi, un debugger simbolico, un generatore di parser com-

1 Qui la scelta delle parole è stata poco accurata. L’intenzione era che nessuno dovesse paga- re per il permesso di usare il sistema GNU. Ma le parole non lo esprimono chiaramente, e la gente le interpreta spesso come asserzione che GNU debba sempre essere distribuito in forma gratuita o a basso prezzo. Non è mai stato questo l’intento; più oltre il manifesto par- la della possibile esistenza di aziende che forniscano il servizio di distribuzione a scopo di lucro. Di conseguenza ho imparato a distinguere tra “free” nel senso di libero e “free” nel senso di gratuito. Il software libero è il software che gli utenti sono liberi di distribuire e modificare. Alcuni lo avranno gratuitamente, altri dovranno pagare per ottenere le loro copie, e se dei finanziamenti aiutano a migliorare il software tanto meglio. La cosa impor- tante è che chiunque ne abbia una copia sia libero di cooperare con altri nell’usarlo.

42 patibile con yacc, un linker e circa 35 utility. È quasi pronta una shell (interprete di comandi). Un nuovo compilatore C portabile e ottimizzante ha compilato se stesso e potrebbe essere pubblicato quest’anno. Esiste un inizio di kernel, ma mancano molte delle caratteristiche necessarie per emulare Unix. Una volta terminati il kernel e il compilatore sarà possibile distribuire un sistema GNU utilizzabile per lo sviluppo di programmi. Useremo TeX come for- mattatore di testi, ma lavoriamo anche su un nroff. Useremo inol- tre il sistema a finestre portabile libero X. Dopo di che aggiungere- mo un Common Lisp portabile, il gioco Empire, un foglio elettro- nico e centinaia di altre cose, oltre alla documentazione in linea. Speriamo di fornire, col tempo, tutte le cose utili che normalmen- te si trovano in un sistema Unix, e anche di più. GNU sarà in grado di far girare programmi Unix, ma non sarà iden- tico a Unix. Apporteremo tutti i miglioramenti che sarà ragione- vole fare basandoci sull’esperienza maturata con altri sistemi ope- rativi. In particolare, abbiamo in programma nomi più lunghi per i file, numeri di versione per i file, un filesystem a prova di crash, forse completamento automatico dei nomi dei file, supporto indi- pendente dal terminale per la visualizzazione e forse col tempo un sistema a finestre basato sul Lisp, attraverso il quale più program- mi Lisp e normali programmi Unix siano in grado di condividere lo schermo. Sia C che Lisp saranno linguaggi per la programma- zione di sistema. Per le comunicazioni vedremo di supportare UUCP, Chaosnet del MIT e i protocolli di Internet. GNU è inizialmente orientato alle macchine della classe 68000/16000 con memoria virtuale, perché sono quelle su cui è più facile farlo girare. Lasceremo agli interessati il lavoro necessario a farlo girare su macchine più piccole. Vi preghiamo, per evitare confusioni, di pronunciare la ‘G’ nella

43 parola ‘GNU’ quando indica il nome di questo progetto [questa avvertenza serve a chiarire che in inglese “GNU” va pronunciato con la g dura, gh-nu, piuttosto che come “new”, niu; identica la pronuncia italiana].

Perché devo scrivere GNU Credo che il punto fondamentale sia che, se a me piace un pro- gramma, io debba condividerlo con altre persone a cui piace. I ven- ditori di software usano il criterio “divide et impera” con gli uten- ti, facendo sì che non condividano il software con altri. Io mi rifiu- to di spezzare così la solidarietà con gli altri utenti. La mia coscien- za non mi consente di firmare un accordo per non rivelare infor- mazioni o per una licenza d’uso del software. Ho lavorato per anni presso il Laboratorio di Intelligenza Artificiale per resistere a que- ste tendenze e ad altri atteggiamenti sgradevoli, ma col tempo que- ste sono andate troppo oltre: non potevo rimanere in una istitu- zione dove ciò viene fatto a mio nome contro la mia volontà. Per poter continuare a usare i computer senza disonore, ho deciso di raccogliere un corpus di software libero in modo da andare avanti senza l’uso di alcun software che non sia libero. Mi sono dimesso dal Laboratorio di Intelligenza Artificiale per togliere al MIT ogni scusa legale che mi impedisca di distribuire GNU.

Perché GNU sarà compatibile con Unix Unix non è il mio sistema ideale, ma non è poi così male. Le carat- teristiche essenziali di Unix paiono essere buone e penso di poter colmare le lacune di Unix senza rovinarne le caratteristiche. E adot- tare un sistema compatibile con Unix può risultare pratico anche per molti altri.

44 Come sarà reso disponibile GNU GNU non è di pubblico dominio. A tutti sarà permesso di modifi- care e ridistribuire GNU, ma a nessun distributore sarà concesso di porre restrizioni sulla sua ridistribuzione. Questo vuol dire che non saranno permesse modifiche proprietarie (18k caratteri). Voglio esse- re sicuro che tutte le versioni di GNU rimangano libere.

Perché molti altri programmatori desiderano essere d’aiuto Ho trovato molti altri programmatori molto interessati a GNU che vogliono dare una mano. Molti programmatori sono scontenti della commercializzazione del software di sistema. Li può aiutare a far soldi, ma li costringe in gene- rale a sentirsi in conflitto con gli altri programmatori, invece che solidali. L’atto di amicizia fondamentale tra programmatori è con- dividere programmi; le politiche di commercializzazione attual- mente in uso essenzialmente proibiscono ai programmatori di trat- tare gli altri come amici. Gli acquirenti del software devono decide- re tra l’amicizia e l’obbedienza alle leggi. Naturalmente molti deci- dono che l’amicizia è più importante. Ma quelli che credono nella legge non si sentono a proprio agio con queste scelte. Diventano cinici e pensano che programmare sia solo un modo per fare soldi. Lavorando e utilizzando GNU invece che programmi proprietari, possiamo comportarci amichevolmente con tutti e insieme rispet- tare la legge. Inoltre GNU è un esempio che ispira gli altri e una bandiera che li chiama a raccolta perché si uniscano a noi nel con- dividere il software. Questo ci può dare una sensazione di armonia che sarebbe irraggiungibile se usassimo software che non sia libero. Per circa la metà dei programmatori che conosco è una soddisfa- zione importante, che il denaro non può sostituire.

45 Come si può contribuire Chiedo ai produttori di computer donazioni in denaro e macchi- ne, e ai privati donazioni in programmi e lavoro. Donare delle macchine può far sì che su di esse giri ben presto GNU. Le macchine devono essere sistemi completi e pronti all’u- so approvati per l’utilizzo in aree residenziali e non devono richie- dere raffreddamento o alimentazione di tipo sofisticato. Ho conosciuto moltissimi programmatori desiderosi di contribui- re a GNU a metà tempo. Per la gran parte dei progetti, un lavoro a metà tempo distribuito risulterebbe troppo difficile da coordina- re, perché le varie parti scritte indipendentemente non funzione- rebbero insieme. Ma per scrivere un sostituto di Unix questo pro- blema non si pone, perché un sistema Unix completo contiene cen- tinaia di programmi di servizio, ognuno con la propria documen- tazione separata, e con gran parte delle specifiche di interfaccia date dalla compatibilità con Unix. Se ogni partecipante scrive un solo programma da usare al posto di una utility di Unix, il quale fun- zioni correttamente al posto dell’originale su un sistema Unix, allo- ra questi programmi funzioneranno bene una volta messi assieme. Anche considerando qualche imprevisto dovuto a Murphy2, assem- blare tali componenti è un lavoro fattibile. Il kernel invece richie- derà una più stretta cooperazione, e verrà sviluppato da un gruppo piccolo e affiatato. Donazioni in denaro possono mettermi in grado di assumere alcune persone a tempo pieno o a metà tempo. Lo stipendio non sarà alto rispetto agli standard dei programmatori, ma io cerco persone per le quali lo spirito della comunità GNU sia importante quanto il dena-

2 Questo è un riferimento alla “Legge di Murphy”, una legge umoristica secondo la quale, qualora esista la possibilità che qualcosa vada male, allora andrà male.

46 ro. Io lo vedo come un modo di permettere a degli appassionati di dedicare tutte le loro energie al lavoro su GNU senza essere costretti a guadagnarsi da vivere in un altro modo.

Perché tutti gli utenti dei computer ne trarranno beneficio Una volta scritto GNU, ognuno potrà avere liberamente del buon software di sistema, così come può avere l’aria3. Questo significa molto di più che far risparmiare a ciascuno il costo di una licenza Unix: vuol dire evitare l’inutile spreco di ripetere ogni volta lo sforzo della programmazione di sistema. Queste energie possono essere invece impiegate ad avanzare lo stato dell’arte. I sorgenti completi del sistema saranno a disposizione di tutti. Di conseguenza, un utente che abbia necessità di apportare dei cam- biamenti al sistema sarà sempre in grado di farlo da solo o di com- missionarne le modifiche a un programmatore o a un’impresa. Gli utenti non saranno più in balìa di un solo programmatore o di una impresa che, avendo la proprietà esclusiva dei sorgenti, sia la sola a poter fare le modifiche. Le scuole avranno la possibilità di fornire un ambiente molto più educativo, incoraggiando gli studenti a studiare e migliorare il software di sistema. I laboratori di informatica di Harvard avevano una politica per cui nessun programma poteva essere installato nel sistema senza che i sorgenti fossero pubblicamente consultabili, e la praticarono rifiutandosi effettivamente di installare alcuni pro- grammi. Questo comportamento mi è stato di grande ispirazione. Infine, scompariranno le necessità burocratiche di tener conto di

3 Questo è un altro punto dove non sono riuscito a distinguere chiaramente tra i due signi- ficati di “free”. La frase, così com’è, non è falsa – si possono ottenere gratuitamente copie del software GNU, o dagli amici o attraverso la rete. Ma in effetti suggerisce un’idea sbagliata.

47 chi sia il proprietario del software di sistema e di chi abbia il dirit- to di farci cosa. Ogni sistema per imporre tariffe d’uso di un programma, compre- se le licenze d’uso per le copie, è sempre estremamente costoso in termini sociali a causa del complesso meccanismo necessario per decidere quanto (cioè per quali programmi) ognuno debba pagare, e solo uno stato di polizia può costringere tutti all’obbedienza. Immaginate una stazione spaziale dove l’aria deve essere prodotta artificialmente a un costo elevato: far pagare ogni litro d’aria con- sumato può essere giusto, ma indossare la maschera col contatore tutto il giorno e tutta la notte è intollerabile, anche se tutti posso- no permettersi di pagare la bolletta. E le videocamere poste in ogni dove per controllare che nessuno si tolga mai la maschera sono offensive. Meglio finanziare l’impianto di ossigenazione con una tassa pro capite e buttar via le maschere. Copiare un programma in tutto o in parte è tanto naturale per un programmatore quanto respirare ed è altrettanto produttivo. Dovrebbe essere altrettanto libero.

Alcune obiezioni facilmente confutabili agli obiettivi GNU “La gente non lo userà se è gratuito, perché non potrà avere l’assi- stenza”. “Un programma deve essere a pagamento, per poter fornire sup- porto adeguato”. Se la gente preferisse pagare per GNU più l’assistenza piuttosto che avere GNU gratis senza assistenza, allora un’impresa che fornisse assistenza a chi si è procurato GNU gratis potrebbe operare con profitto. Si deve distinguere tra il supporto sotto forma di lavoro di pro-

48 grammazione e la semplice gestione. Il primo non è ottenibile da un venditore di software. Se il problema non è sentito da un nume- ro sufficiente di clienti allora il venditore dirà al cliente di arran- giarsi. Per chi deve poter contare su questo tipo di supporto l’unica solu- zione è di disporre dei sorgenti e degli strumenti necessari, in modo da poter commissionare il lavoro a chi sia disposto a farlo, invece che rimanere in balìa di qualcuno. Con Unix il prezzo dei sorgenti rende ciò improponibile per la maggior parte delle impre- se. Con GNU questo sarà invece facile. Si darà sempre il caso che non siano disponibili persone competenti, ma questo non potrà essere imputato al sistema di distribuzione. GNU non elimina tutti i problemi del mondo, solo alcuni. Allo stesso tempo, gli utenti che non sanno nulla di computer han- no bisogno di manutenzione, cioè di cose che potrebbero fare facil- mente da soli ma che non sono in grado di fare. Servizi di questo genere potrebbero essere forniti da aziende che vendono solo gestione e manutenzione. Se è vero che gli utenti sono disposti a pagare per un prodotto con servizio, allora saranno anche disposti a pagare per il servizio avendo avuto il prodotto gratuita- mente. Le aziende di servizi si faranno concorrenza sul prezzo e sul- la qualità; gli utenti d’altra parte non saranno legati a nessuna di esse in particolare. Nel frattempo, coloro che non avranno bisogno del servizio saranno sempre in grado di usare il programma senza pagare il servizio. “Non si può raggiungere molta gente senza pubblicità, e per finan- ziarla si deve far pagare il programma”. “È inutile reclamizzare un programma gratuito”. Ci sono molte forme di pubblicità gratuita o a basso costo che pos-

49 sono essere usate per informare un gran numero di utenti di com- puter riguardo a cose come GNU. Ma può essere vero che la pub- blicità può raggiungere molti più utenti di microcomputer. Se fos- se veramente così, una ditta che reclamizzasse il servizio di copia e spedizione per posta di GNU a pagamento dovrebbe aver abba- stanza successo commerciale da rientrare dai costi della pubblicità e da guadagnarci. In questo modo, pagano la pubblicità solo gli utenti che ne beneficiano. D’altro canto, se molta gente ottiene GNU da amici e queste azien- de non hanno successo, vorrà dire che la pubblicità non era neces- saria per diffondere GNU. Perché tutti questi difensori del libero mercato non vogliono lasciare che sia il libero mercato a decidere?4. “La mia azienda ha bisogno di un sistema operativo proprietario per essere più avanti della concorrenza”. Con GNU, i sistemi operativi non rientreranno più fra gli elementi di concorrenza. La vostra azienda non potrà essere concorrenziale in quest’area, ma egualmente non potranno esserlo i concorrenti. Vi farete concorrenza in altre aree, mentre in questa godrete di mutui benefici. Se vendete sistemi operativi non apprezzerete GNU, ma è un problema vostro. Se avete un’attività di altro tipo, GNU vi può evitare di essere spinti nel costoso campo della vendi- ta di sistemi operativi. Mi piacerebbe che lo sviluppo di GNU fosse sostenuto da dona-

4 La Free Software Foundation raccoglie la maggior parte dei suoi fondi da un servizio di distribuzione, anche se è più un ente senza fini di lucro che un’azienda. Se nessuno sceglie di ottenere copie del software ordinandole alla FSF, questa sarà impossibilitata a prosegui- re la propria opera. Ma questo non vuole dire che siano giustificate restrizioni proprietarie per costringere gli utenti a pagare. Se una piccola frazione degli utenti ordina le sue copie dalla FSF, questo sarà sufficiente per tenerla a galla. Quindi chiediamo agli utenti di aiu- tarci in questo modo. Hai fatto la tua parte?

50 zioni da parte di numerosi produttori e utenti, riducendo così la spesa per tutti5. “Ma i programmatori non meritano una ricompensa per la loro creatività?”. Se qualcosa merita una ricompensa questo è il contribuire al bene sociale. La creatività può essere un contributo al bene sociale, ma solo nella misura in cui la società è libera di usarne i risultati. Se i programmatori meritano una ricompensa per la creazione di pro- grammi innovativi, allora con la stessa logica meritano una puni- zione se pongono restrizioni all’uso di questi programmi. “Un programmatore non dovrebbe poter chiedere una ricompensa per la sua creatività?”. Non c’è niente di male nel chiedere di esser pagati per il proprio lavoro, o mirare a incrementare le proprie entrate, fintanto che non si utilizzino metodi che siano distruttivi. Ma i metodi comuni nel campo del software, al giorno d’oggi, sono distruttivi. Spremere denaro dagli utenti di un programma imponendo restri- zioni sull’uso è distruttivo perché riduce i modi in cui il program- ma può essere usato. Questo diminuisce la quantità di ricchezza che l’umanità ricava dal programma. Quando c’è una scelta deliberata di porre restrizioni, le conseguenze dannose sono distruzione deli- berata. La ragione per cui un buon cittadino non usa questi metodi distrut- tivi per diventare più ricco è che, se lo facessero tutti, diventerem- mo tutti più poveri a causa delle distruzioni reciproche. Questa è etica kantiana, la Regola Aurea: poiché non mi piacciono le conse-

5 Un gruppo di imprese di software ha recentemente costituito dei finanziamenti per soste- nere la manutenzione del nostro compilatore C.

51 guenze che risulterebbero se tutti impedissero l’accesso alle infor- mazioni, devo considerare sbagliato che uno lo faccia. In particola- re, il desiderio di una ricompensa per la propria creatività non giu- stifica il privare il mondo nel suo insieme di tutta o parte di questa creatività. “Ma i programmatori non moriranno di fame?”. Potrei rispondere che nessuno è obbligato a fare il programmatore. La maggior parte di noi non è in grado di andare per strada a fare il mimo, ma ciò non vuol dire che siamo condannati a passare la vita per strada a fare i mimi, e morire di fame. Facciamo un altro lavoro. Ma è la risposta sbagliata, perché accetta l’assunzione implicita di chi pone la domanda, e cioè che senza proprietà del software non è possibile pagare ai programmatori il becco di un quattrino. Un’as- sunzione del tipo tutto o niente. La vera ragione per cui i programmatori non moriranno di fame è che sarà per loro egualmente possibile essere pagati per program- mare, solo non pagati così tanto come ora. Porre restrizioni sulle copie non è l’unico modello di affari nel cam- po del software. È il modello più comune perché è il più redditizio. Se fosse vietato, o rifiutato dagli utenti, l’industria del software si sposterebbe su altri modelli organizzativi, adottandone altri ora meno comuni. Ci sono sempre numerosi modi per organizzare un qualunque tipo di affari. Probabilmente, programmare nel nuovo modello organizzativo non sarà più così redditizio come lo è ora. Ma questo non è un argo- mento contro il cambiamento. Che gli addetti alle vendite riceva- no i salari che ora ricevono non è considerata un’ingiustizia. Se i programmatori avessero gli stessi stipendi (in pratica guadagnereb- bero molto di più), non sarebbe nemmeno quella un’ingiustizia.

52 “Ma le persone non hanno diritto di controllare come la loro crea- tività viene usata?”. Il “controllo sull’uso delle proprie idee” in realtà costituisce un con- trollo sulle vite degli altri; e di solito viene usato per rendere più difficili le loro vite. Le persone che hanno studiato con cura i vari aspetti del diritto alla proprietà intellettuale (come gli avvocati) dicono che non c’è alcun diritto intrinseco alla proprietà intellettuale. I tipi dei supposti dirit- ti alla proprietà intellettuale riconosciuti dal governo furono creati da specifici atti legislativi per scopi specifici. Per esempio, la legislazione sui brevetti fu introdotta per incorag- giare gli inventori a rivelare i dettagli delle loro invenzioni. Lo sco- po era avvantaggiare la società, più che avvantaggiare gli inventori. A quel tempo la validità di 17 anni per un brevetto era breve se con- frontata con la velocità di avanzamento dello stato dell’arte. Poiché i brevetti riguardano solo i produttori, per i quali il costo e lo sfor- zo degli accordi di licenza sono piccoli in confronto all’organizza- zione della produzione, spesso i brevetti non costituiscono un gran danno. E non ostacolano la gran parte degli individui che usano prodotti coperti da brevetto. L’idea del copyright non esisteva in tempi antichi, quando gli auto- ri copiavano estesamente altri autori in opere non narrative. Que- sta pratica era utile, ed è il solo modo attraverso cui almeno parte del lavoro di alcuni autori è sopravvissuto. La legislazione sul copy- right fu creata espressamente per incoraggiare l’originalità. Nel campo per cui fu inventata, cioè i libri, che potevano essere copia- ti a basso costo solo con apparecchiature tipografiche, non fece mol- to danno e non pose ostacoli alla maggior parte dei lettori. Tutti i diritti di proprietà intellettuale sono solo licenze concesse dalla società perché si riteneva, correttamente o meno, che conce-

53 derle avrebbe giovato alla società nel suo complesso. Ma data una situazione particolare dobbiamo chiederci: facciamo realmente bene a concedere queste licenze? Che atti permettiamo di compie- re con esse? Il caso dei programmi ai giorni nostri differisce enormemente da quello dei libri un secolo fa. Il fatto che la via più facile per passa- re una copia di un programma sia da persona a persona, che il pro- gramma abbia un codice sorgente e un codice oggetto che sono cose distinte, e infine il fatto che un programma venga usato più che let- to e gustato, combinandosi creano una situazione in cui qualcuno che impone un copyright minaccia la società nel suo insieme, sia materialmente che spiritualmente, una situazione in cui quel qual- cuno non dovrebbe farlo, che la legge lo permetta o no. “La competizione fa sì che le cose siano fatte meglio”. Il paradigma della competizione è la gara: premiando il vincitore incoraggia ognuno a correre più veloce. Quando veramente il capi- talismo funziona in questo modo, fa un buon lavoro; ma chi lo difende ha torto nell’asserire che agisce sempre così. Se i corridori dimenticano il motivo per cui è offerto il premio e si concentrano solo sul vincere non curandosi di come, possono trovare altre stra- tegie, come ad esempio attaccare gli altri concorrenti. Se i corrido- ri si azzuffano, arrivano tutti in ritardo al traguardo. Il software proprietario e segreto è l’equivalente morale dei corri- dori che si azzuffano. Triste a dirsi, l’unico arbitro che abbiamo pare non muovere alcuna obiezione alle zuffe, al più le regolamenta (“ogni dieci metri puoi tirare un pugno”). Dovrebbe invece divi- derli e penalizzarli anche se solo provassero a combattere. “Ma senza un incentivo economico non smetterebbero tutti di pro- grammare?”.

54 In realtà molta gente programmerebbe senza alcun incentivo eco- nomico. Programmare ha un fascino irresistibile per alcune perso- ne, solitamente per quelli che ci riescono meglio. Non mancano certo i musicisti professionisti che insistono pur non avendo spe- ranza di guadagnarsi da vivere suonando. Ma in realtà questa domanda, benché posta spesso, non è appro- priata. La paga per i programmatori non sparirà, semplicemente diminuirà. Quindi la domanda corretta è: “qualcuno si metterà mai a programmare per un minore incentivo economico?”. La mia esperienza dice che sì, ci si metterà. Per più di dieci anni molti tra i migliori programmatori del mon- do hanno lavorato nel Laboratorio di Intelligenza Artificiale per molti meno soldi di quanti ne avrebbero potuti ricevere in ogni altro posto. Hanno avuto soddisfazioni non economiche di moltissimi tipi, ad esempio fama e riconoscenza. E la creatività è anche diver- tente, un premio di per sé. Poi molti se ne sono andati quando hanno avuto la possibilità di fare lo stesso interessante lavoro per un mucchio di soldi. Ciò che i fatti mostrano è che la gente programma per altre ragioni che non siano il denaro; ma se viene data la possibilità di fare la stessa cosa per un mucchio di soldi, allora cominceranno ad aspettarseli e a richie- derli. Le organizzazioni che pagano poco sono svantaggiate in con- fronto a quelle che pagano molto, ma non sarebbero necessariamente in questa posizione se quelle che pagano molto fossero bandite. “Abbiamo un disperato bisogno dei programmatori. Se ci chiedo- no di smettere di aiutare i nostri vicini dobbiamo obbedire”. Non si è mai così disperati da dover obbedire a questo genere di pretese. Ricorda: milioni in difesa, ma non un centesimo in tribu- ti [è una famosa frase di George Washington].

55 “I programmatori devono guadagnarsi da vivere in qualche modo”. A breve termine è vero. Ma ci sono un’infinità di modi in cui i pro- grammatori possono guadagnarsi da vivere senza vendere i diritti d’uso dei programmi. Questo metodo è comune ai giorni nostri perché porta la maggior quantità di denaro a programmatori e aziende, non perché sia l’unica strada per guadagnarsi da vivere. È facile trovarne altre, nel caso lo si voglia. Ecco una serie di esempi: - Un produttore che immette sul mercato un nuovo computer pagherà per il porting dei sistemi operativi sul nuovo hardware. - I servizi a pagamento di insegnamento, gestione e manutenzione possono impiegare dei programmatori. - Persone con idee nuove possono distribuire i programmi gratui- tamente chiedendo donazioni agli utenti soddisfatti, o vendendo servizi di gestione. Ho incontrato persone che già lavorano con successo in questo modo. - Utenti con necessità simili possono formare gruppi e pagare. Un gruppo potrebbe stipulare un contratto con un’impresa di pro- grammazione per scrivere i programmi che i membri del gruppo vorrebbero usare. Tutti i tipi di sviluppo possono essere finanziati da una Tassa per il Software: • Supponiamo che chiunque compri un computer debba pagare un x per cento del costo del computer come tassa per il software. Il governo girerebbe questi fondi a un’agenzia come la NSF [più o meno l’equivalente del nostro CNR] per impiegarli nello svilup- po del software.

56 • Ma se è lo stesso acquirente a fare una donazione per lo sviluppo del software, potrebbe ottenere un credito nei confronti di queste tasse. Potrebbe fare una donazione a un progetto di sua scelta – tipicamente, scelto perché spera di usarne i risultati quando que- sto verrà completato. Potrebbe ottenere un credito per ogni dona- zione fatta, fino al valore totale della tassa che dovrebbe pagare. • Il gettito complessivo di questa tassa potrebbe essere deciso dal voto di chi la paga, pesato secondo l’ammontare pagato.

Le conseguenze: • La comunità degli utenti di computer sosterrebbe lo sviluppo del software. • La comunità sceglierebbe il livello di sostegno necessario. • Gli utenti che fossero interessati a sapere su che progetto venga- no spesi i loro soldi avrebbero la possibilità di gestire personal- mente la cosa. Nel lungo periodo, rendere liberi i programmi è un passo verso l’e- poca della fine del bisogno, quando nessuno sarà obbligato a lavo- rare molto duramente solo per guadagnarsi di che vivere. La gente sarà libera di dedicarsi ad attività divertenti, come programmare, dopo aver passato le dieci ore settimanali necessarie in compiti come legiferare, fare consulenza familiare, riparare i robot e prevedere il moto degli asteroidi. Non ci sarà bisogno di guadagnarsi da vivere con la programmazione. Abbiamo già ridotto moltissimo la quantità di lavoro che la società nel suo complesso deve fare per ottenere la sua produttività attua- le, ma poco di questo si è tradotto in benessere per i lavoratori per- ché è necessario accompagnare l’attività produttiva con molta atti- vità non produttiva. Le cause principali sono la burocrazia e gli sfor- zi a tutto campo contro la concorrenza. Il software libero ridurrà di

57 molto questo drenaggio di risorse nell’area della produzione del software. Dobbiamo farlo affinché i guadagni tecnici in produtti- vità si traducano in meno lavoro per noi.

Originariamente scritto nel 1984. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

58 La definizione di software libero

Sosteniamo questa definizione di software libero per indicare chia- ramente ciò che deve essere vero di un particolare programma software perché sia considerato software libero. Il “software libero” è una questione di libertà, non di prezzo. Per capire il concetto, bisognerebbe pensare alla “libertà di parola” e non alla “birra gratis” [il termine ‘free’ in inglese significa sia ‘gratuito’ che ‘libero’, in italiano il problema non esiste]. L’espressione “software libero” si riferisce alla libertà dell’utente di eseguire, copiare, distribuire, studiare, cambiare e migliorare il software. Più precisamente, esso si riferisce a quattro tipi di libertà per gli utenti del software:

• Libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo (libertà 0). • Libertà di studiare come funziona il programma e adattarlo alle proprie necessità (libertà 1). L’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito. • Libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare il prossimo (libertà 2). • Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3). L’accesso al codice sorgente ne è un prere- quisito.

Un programma è software libero se l’utente ha tutte queste libertà. In particolare, se è libero di ridistribuire copie, con o senza modi-

59 fiche, gratis o addebitando delle spese di distribuzione a chiunque e ovunque. Essere liberi di fare queste cose significa (tra l’altro) che non bisogna chiedere o pagare nessun permesso. Bisogna anche avere la libertà di fare modifiche e usarle privata- mente nel proprio lavoro o divertimento senza doverlo dire a nes- suno. Se si pubblicano le proprie modifiche, non si deve essere tenu- ti a comunicarlo a qualcuno in particolare o in qualche modo par- ticolare. La libertà di usare un programma significa libertà per qualsiasi tipo di persona od organizzazione di utilizzarlo su qualsiasi tipo di siste- ma informatico, per qualsiasi tipo di attività e senza dover succes- sivamente comunicare con lo sviluppatore o con qualche altra entità specifica. La libertà di ridistribuire copie deve includere le forme binarie o eseguibili del programma e anche il codice sorgente, sia per le versioni modificate che non modificate. (La distribuzione di pro- grammi in forma eseguibile è necessaria per consentire un’age- vole installazione dei sistemi operativi liberi). È legittimo anche se non c’è alcun modo di produrre una forma binaria o esegui- bile, ma si deve avere la libertà di ridistribuire tali forme nel caso si trovi o si sviluppi un modo per farlo. Affinché le libertà di fare modifiche e di pubblicare versioni miglio- rate abbiano senso, si deve avere accesso al codice sorgente del pro- gramma. Perciò, l’accessibilità al codice sorgente è una condizione necessaria per il software libero. Queste libertà per essere reali devono essere irrevocabili fin tanto che non si fa qualcosa di sbagliato: se lo sviluppatore del software ha il potere di revocare la licenza anche senza che l’utente sia causa di tale revoca, il software non è libero. Tuttavia, certi tipi di regole sul come distribuire il software libero

60 sono accettabili quando non entrano in conflitto con le libertà prin- cipali. Per esempio, il permesso d’autore [copyleft] è (detto in due parole) la regola per cui, quando il programma è ridistribuito, non è possibile aggiungere restrizioni per negare ad altre persone le libertà principali. Questa regola non entra in conflitto con le libertà principali, anzi le protegge. Indipendentemente dal fatto che si siano ottenute copie di softwa- re GNU a pagamento o gratuitamente, si ha sempre la libertà di copiare e cambiare il software, e anche di venderne copie. “Software libero” non vuol dire “non-commerciale”. Un program- ma libero deve essere disponibile per uso commerciale, sviluppo commerciale e distribuzione commerciale. Lo sviluppo commer- ciale di software libero non è più inusuale: questo software com- merciale libero è molto importante. Regole su come fare un pacchetto di una versione modificata sono accettabili, a meno che esse in pratica non blocchino la libertà di distribuire versioni modificate. Regole del tipo «se rendi disponi- bile il programma in questo modo, lo devi rendere disponibile anche in quell’altro modo» possono essere pur esse accettabili, con le stesse condizioni. (Si noti che tale regola lascia ancora aperta la possibilità di distribuire o meno il programma). È anche accettabi- le che la licenza richieda che, se avete distribuito una versione modi- ficata e un precedente sviluppatore ne richiede una copia, dobbia- te inviargliene una. Nel progetto GNU, noi usiamo il “copyleft” [permesso d’autore] per proteggere queste libertà legalmente per tutti. Ma esiste anche software libero senza copyleft. Crediamo che ci siano importanti ragioni per cui sia meglio usare il permesso d’autore, ma se un pro- gramma è software libero senza il permesso d’autore, possiamo comunque utilizzarlo.

61 Qualche volta le leggi sul controllo delle esportazioni e le sanzioni sul commercio possono limitare la libertà di distribuire copie di pro- grammi verso paesi esteri. I programmatori non hanno il potere di eliminare o di aggirare queste restrizioni, ma quello che possono e devono fare è rifiutare di imporle come condizioni d’uso del pro- gramma. In tal modo, le restrizioni non influiranno sulle attività e sulle persone al di fuori della giurisdizione degli stati che applica- no tali restrizioni. Quando si parla di software libero, è meglio evitare di usare espres- sioni come “gratuito”, perché esse pongono l’attenzione sul prezzo, e non sulla libertà. Parole comuni quali “pirateria” implicano opinio- ni che speriamo non vogliate sostenere. [Al riguardo, il secondo volu- me dei saggi conterrà il testo Ter mini da evitare]. Abbiamo inoltre sti- lato un elenco di traduzioni del termine “free software” in varie lin- gue (http://www.gnu.org/philosophy/fs-translations.html). Infine, si noti che criteri come quelli indicati in questa definizione di software libero richiedono un’attenta interpretazione. Per deci- dere se una determinata licenza software si qualifichi come licenza per il software libero, noi la consideriamo basata su questi criteri al fine di determinare se corrisponde al loro spirito così come alle pre- cise parole. Se una licenza include restrizioni irragionevoli, la rifiu- tiamo, anche se in questi criteri non anticipiamo il problema. Qual- che volta le richieste di una licenza sollevano un problema che richiede un’analisi dettagliata, oltre a discussioni con un avvocato prima di poter decidere se la richiesta sia accettabile. Quando rag- giungiamo una conclusione riguardo a un nuovo problema, spesso aggiorniamo questi criteri per fare in modo che sia più facile capi- re perché determinate licenze siano adeguate o meno. Se siete interessati a sapere se una determinata licenza abbia le caratte- ristiche per essere una licenza di software libero, consultate il nostro

62 elenco delle licenze (http://www.gnu.org/licenses/license-list.html). Se la licenza che vi interessa non vi è elencata, potete interpellarci invian- doci un’e-mail a .

Originariamente scritto nel 1996. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

63 Perché il software non dovrebbe avere padroni La tecnologia dell’informazione digitale contribuisce al progresso mondiale rendendo più facile copiare e modificare le informazio- ni. I computer promettono di rendere questo più facile per tutti noi. Non tutti vogliono che sia così facile. Il sistema del copyright [dirit- to d’autore] dà ai programmi software dei “proprietari”, molti dei quali mirano a nascondere i potenziali vantaggi del software ad altri. Vorrebbero essere i soli a poter copiare e modificare il software che usiamo. Il sistema del diritto d’autore è nato e cresciuto con la stampa, una tecnologia per la produzione di massa di copie. Il copyright si adat- ta bene a questa tecnologia perché pone restrizioni solo ai produt- tori di massa di copie. Non riduce le libertà dei lettori di libri. Un lettore ordinario, che non possiede una sua tipografia, può copiare i libri solo a mano e pochi lettori sono stati perseguiti per questo. La tecnologia digitale è più flessibile della stampa tipografica: quan- do l’informazione è in forma digitale, la si può copiare facilmente per condividerla con altri. Questa grande flessibilità si adatta male ad un sistema come quello del diritto d’autore. Questo spiega le misure sempre più sgradevoli e draconiane che vengono oggi usate per far rispettare il diritto d’autore sul software. Consideriamo que- ste quattro regole della Software Publishers Association (SPA): • Propaganda massiccia per dire che è sbagliato disobbedire ai pro- prietari per aiutare gli amici.

64 • Richieste insistenti di informatori che forniscano informazioni su compagni di lavoro e colleghi. • Incursioni (con l’aiuto della polizia) in scuole e uffici, durante le quali viene detto alle persone che devono provare che non fanno copie illegali. • Citazione in giudizio (da parte del governo degli Stati Uniti, su richiesta della SPA) di persone come David LaMacchia del MIT, non per aver copiato software (non è stato accusato di averne copiato), ma per avere lasciato senza sorveglianza strumenti per la copia e per non averne censurato l’uso. (Il 27 gennaio 1975 il caso su David LaMacchia è stato archiviato e non è stato ancora pre- sentato appello). Tutte queste quattro pratiche assomigliano a quelle usate nella ex Unione Sovietica dove ogni fotocopiatrice aveva una guardia per impedire le copie proibite e dove le persone dovevano copiare le informazioni in segreto e passarsele di mano in mano come “samiz- dat”. Naturalmente c’è una differenza: il motivo per il controllo del- l’informazione nell’Unione Sovietica era politico; negli Stati Uniti il motivo è il profitto. Quello che ci riguarda sono le azioni, non il loro motivo. Ogni tentativo di bloccare la condivisione delle infor- mazioni, quale ne sia il motivo, porta agli stessi metodi e alla stes- sa severità. I proprietari di software usano vari tipi di argomenti per ottenere il potere di controllare in che modo usiamo l’informazione.

L’uso dei nomi I proprietari di software usano sia parole calunniose come “pirate- ria” e “furto”, sia terminologia tecnica come “proprietà intellettua- le” e “danneggiamento”, per suggerire al pubblico una certa linea

65 di pensiero, un’analogia semplicistica fra i programmi e gli oggetti fisici. Le nostre idee e intuizioni a proposito della proprietà di oggetti materiali riguardano se sia giusto portar via un oggetto a qualcuno. Non si applicano direttamente al fatto di fare una copia di qualco- sa. Ma i proprietari ci chiedono di applicarle lo stesso.

Esagerazioni I proprietari di software dicono che subiscono “danni” o “perdite economiche” quando gli utenti copiano i programmi per conto loro. Ma la copia non ha un effetto diretto sul proprietario e non danneggia nessuno. Il proprietario ha una perdita solo quando chi ha fatto la copia ne avrebbe acquistata una da lui se non l’avesse copiata. Una piccola riflessione ci mostra che la maggior parte di queste per- sone non avrebbe comprato la copia. Tuttavia i proprietari calcola- no le loro “perdite” come se invece tutti ne avrebbero comprato una. Questa è, a metterla gentilmente, esagerazione.

La legge I proprietari spesso descrivono la legislazione vigente e le dure san- zioni con cui possono minacciarci. Implicito in questo approccio c’è il suggerimento che la legge attuale riflette un’idea indiscutibile del- la moralità, e allo stesso tempo siamo invitati a vedere queste san- zioni come fatti di natura per i quali non si può biasimare nessuno. Questa linea argomentativa non è progettata per affrontare un pen- siero critico; è intesa a rafforzare il modo di pensare comune. È ovvio che non è la legge che decide cosa è giusto e cosa è sba- gliato. Ogni americano dovrebbe sapere che, quaranta anni fa, era

66 contro la legge, in molti stati, che una persona di colore si sedesse in un autobus nei posti anteriori; ma solo i razzisti avrebbero det- to che fosse sbagliato sedersi lì.

Diritti naturali Gli autori spesso rivendicano un legame speciale con i programmi che hanno scritto e affermano che, come conseguenza, i loro desi- deri e i loro interessi rispetto al programma superano quelli di chiun- que altro, perfino quelli di tutto il resto del mondo. (In genere sono le aziende, non gli autori, che detengono il copyright sul software, ma ci si aspetta che non si faccia caso a questa differenza). Per quelli che lo propongono come un assioma etico – l’autore è più importante di voi – posso solo dire che io stesso, noto autore di software, lo considero una fandonia. Ma in generale è probabile che si provi simpatia solo per la riven- dicazione dei diritti naturali, per due ragioni. Una ragione è la forzata analogia con gli oggetti materiali. Quan- do mi cucino degli spaghetti reclamerò se a mangiarli è qualcun altro, perché non posso più mangiarmeli io. La sua azione mi dan- neggia esattamente nello stesso modo in cui favorisce chi li man- gia; solo uno di noi può mangiare gli spaghetti, così la domanda è: chi? La più piccola differenza fra di noi è sufficiente a spostare l’a- go della bilancia da un punto di vista etico. Ma se viene eseguito o modificato un programma che ho scritto io, questo riguarda voi direttamente e me solo indirettamente. E se date una copia a un vostro amico, questo riguarda voi e il vostro amico molto di più di quanto riguardi me. Io non dovrei avere il potere di dirvi di non fare queste cose. Nessuno dovrebbe averlo. La seconda ragione è che è stato detto che i diritti naturali dell’au- tore sono una tradizione accettata e indiscussa della nostra società.

67 Ma a guardare la storia, è vero l’opposto. L’idea dei diritti naturali degli autori è stata discussa e fermamente respinta quando venne stesa la Costituzione degli Stati Uniti. Ecco perché la Costituzione permette soltanto un sistema di diritto d’autore e non lo richiede; ecco perché dice che il diritto d’autore deve essere temporaneo. Sta- bilisce anche che lo scopo del diritto d’autore è di promuovere il progresso, non di premiare l’autore. Il copyright premia infatti in qualche modo l’autore e più ancora l’editore, ma è inteso come un mezzo per modificare il loro comportamento. La tradizione radicata nella nostra società è che il diritto d’autore riduce i diritti naturali del pubblico, e questo può essere giustifica- to solo per il bene del pubblico.

Economia L’ultimo argomento usato per l’esistenza di proprietari del softwa- re è che questo porta alla produzione di più software. Al contrario degli altri, questo argomento almeno usa un approc- cio legittimo al problema. È basato su un fine valido: soddisfare gli utenti del software. Ed empiricamente è chiaro che le persone pro- ducono di più se vengono pagate bene per farlo. Ma l’argomento economico ha un difetto: è basato sull’assunto che la differenza è solo questione di quanti soldi dobbiamo pagare. Pre- suppone che la “produzione di software” sia ciò che vogliamo, sia che il software abbia proprietari sia che non li abbia. Le persone accettano prontamente questo assunto perché si accor- da con le nostre esperienze relative agli oggetti materiali. Si consi- deri un panino, per esempio. Si può avere uno stesso panino sia gra- tis che a pagamento. In questo caso la sola differenza è la cifra che si paga. Sia che lo si debba pagare o meno, il panino avrà lo stesso sapore, lo stesso valore nutritivo e in entrambi i casi lo si potrà man-

68 giare solo una volta. Che il panino sia stato acquistato da un pro- prietario o meno non ha conseguenze dirette su niente eccetto che sulla quantità di denaro che si avrà successivamente. Ciò vale per qualunque oggetto materiale – il fatto che abbia o meno un proprietario non riguarda direttamente ciò che è o ciò che ci si può fare se lo si acquista. Ma il fatto che un programma abbia un proprietario ha molte con- seguenze su ciò che è e su ciò che si può fare con una copia, quan- do se ne compra una. La differenza non è solo una questione di denaro. Il sistema di proprietà del software incoraggia i proprietari del software a produrre qualcosa, ma non quello di cui la società ha realmente bisogno. E causa un intangibile inquinamento etico che ha conseguenze su tutti noi. Di cosa ha bisogno la società? Ha bisogno di una informazione che sia realmente disponibile ai suoi cittadini - per esempio programmi che si possano leggere, correggere, adattare e migliorare, non soltan- to usare. Ma quello che viene consegnato di solito dai proprietari del software è una scatola nera che non si può studiare o cambiare. La società ha anche bisogno di libertà. Quando un programma ha un proprietario, gli utenti perdono la libertà di controllare parte della loro stessa vita. Ma soprattutto la società ha bisogno di stimolare nei propri citta- dini lo spirito di cooperazione volontaria. Quando i proprietari del software ci dicono che aiutare i nostri vicini in maniera naturale è “pirateria”, essi inquinano lo spirito civico della nostra società. Questo è il motivo per cui diciamo che il software libero è una que- stione di libertà, non di prezzo. L’argomento economico a favore dei proprietari di software è sba- gliato, ma la questione economica è reale. Alcune persone scrivono software utile per il piacere di scriverlo o per ammirazione e amo-

69 re; ma se vogliamo più software di quanto già si scriva, bisogna rac- cogliere fondi. Da dieci anni gli sviluppatori di software libero provano vari metodi per trovare fondi, con un certo successo. Non c’è bisogno di far diven- tare tutti ricchi, il reddito medio di una famiglia americana, circa 35.000 dollari annui, ha dimostrato di essere un incentivo sufficien- te per molti lavori che sono meno soddisfacenti del programmare. Per anni, fin quando un’associazione lo ha reso non necessario, mi sono guadagnato da vivere con miglioramenti a richiesta del softwa- re libero che avevo scritto. Ciascun miglioramento è stato aggiun- to alla versione standard rilasciata e reso così disponibile al pubbli- co. I clienti mi pagavano perché lavorassi sui miglioramenti che volevano loro, piuttosto che sulle funzionalità che altrimenti avrei considerato di più alta priorità. La Free Software Foundation (FSF), una fondazione senza scopo di lucro per lo sviluppo del software libero, raccoglie fondi con la ven- dita di CD-ROM, magliette, manuali, e confezioni Deluxe di GNU (che gli utenti sono liberi di copiare e modificare), e anche con donazioni. Attualmente ha un organico di cinque programmatori, più tre impiegati che gestiscono gli ordini postali. Alcuni sviluppatori di software libero guadagnano offrendo servizi di supporto. Cygnus Support, che ha circa 50 impiegati [quando que- sto articolo è stato scritto, nel 1994], stima che circa il 15 per cento delle attività del suo personale riguarda lo sviluppo del software libe- ro – una percentuale rispettabile, per una società di software. (Cygnus Support ha continuato ad avere successo, ma poi ha accet- tato investimenti esterni, è diventata avida, e ha iniziato a sviluppa- re software non-libero. Infine è stata acquistata da Red Hat, che ha ri-ridistribuito gran parte di quei programmi come software libero). Un gruppo di imprese che comprende Intel, Motorola, Texas Instru-

70 ments e Analog Devices si sono unite per finanziare il continuo svi- luppo del compilatore libero GNU per il linguaggio C. Nel frattem- po il compilatore GNU per il linguaggio Ada viene finanziato dalla US Air Force, che ritiene questa la modalità di spesa più efficace per ottenere un compilatore di alta qualità. [Il finanziamento della US Air Force è finito un po’ di tempo fa; il compilatore GNU Ada è ora in servizio e la sua manutenzione è finanziata commercialmente]. Tutti questi sono piccoli esempi; il movimento del software libero è ancora piccolo e ancora giovane. Ma in questo paese [gli USA] l’e- sempio di radio sostenute dagli ascoltatori mostra che è possibile sostenere una grande attività senza costringere gli utenti a pagare. Come utenti di computer oggi ci si può trovare ad usare un pro- gramma proprietario. Se un amico ti chiede una copia sarebbe sba- gliato rifiutare. La cooperazione è più importante del diritto d’au- tore. Ma una cooperazione nascosta e segreta non contribuisce a rendere giusta la società. Una persona dovrebbe aspirare a vivere una vita onesta, apertamente e con fierezza, e questo comporta dire “No” al software proprietario. Meritate di poter cooperare apertamente e liberamente con altre persone che usano software. Meritate di poter imparare come fun- ziona il software e con esso di insegnare ai vostri studenti. Merita- te di poter assumere il vostro programmatore favorito per aggiu- starlo quando non funziona. Meritate il software libero.

Originariamente scritto nel 1994. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

71 Cosa c’è in un nome?

I nomi trasmettono significati; la scelta che facciamo dei nomi determina il significato di ciò che diciamo. Un nome inappropria- to comunica agli interlocutori un’idea sbagliata. Una rosa, qualsia- si nome abbia, avrebbe comunque un buon profumo, ma se la chia- miamo penna, gli interlocutori saranno piuttosto disorientati quan- do la utilizzeranno per scrivere. E se chiamiamo “rose” le penne, può darsi che gli interlocutori non capiscano a che cosa servano. Se chiamiamo “Linux” il nostro sistema operativo, verrà trasmessa un’idea sbagliata dell’origine, storia e scopo del sistema. Se lo chia- miamo GNU/Linux, verrà trasmessa (anche se non in dettaglio) un’idea accurata. Questo è forse importante per la nostra comunità? È importante che si conoscano l’origine, la storia e lo scopo del sistema? Sì, per- ché chi dimentica la storia è spesso condannato a ripeterla. Il Mon- do Libero che si è sviluppato intorno a GNU/Linux non è sicuro; i problemi che ci hanno portato a sviluppare GNU non sono stati completamente eliminati e minacciano di ripresentarsi. Quando spiego perché è più appropriato chiamare il sistema ope- rativo “GNU/Linux” invece che “Linux”, a volte ottengo questa risposta: “Ammesso che il Progetto GNU meriti riconoscimento per questo lavoro, vale davvero la pena di preoccuparsi quando non gli viene dato credito? La cosa importante non è forse che il lavoro sia stato fatto, non chi l’abbia fatto? Dovete rilassarvi, essere orgogliosi del lavoro ben fatto e non preoccuparvi del riconoscimento”.

72 Questo sarebbe un saggio consiglio, se solo la situazione fosse que- sta – se il lavoro fosse terminato e fosse il momento di rilassarsi. Se soltanto questo fosse vero! Ma le sfide abbondano e questo non è il momento di ipotecare il futuro. La forza della nostra comunità sta nel dedicarsi alla libertà e alla cooperazione. Utilizzare il nome GNU/Linux è un modo perché le persone si ricordino e informi- no gli altri di questi obiettivi. È possibile scrivere del buon software libero senza pensare a GNU; parecchio buon lavoro è stato fatto anche nel nome di Linux. Ma “Linux” è stato associato fin dalla sua creazione a una filosofia che non è vincolata alla libertà di cooperare. E avremo ancora più problemi a farlo associare allo spirito comunitario, dal momento che il nome viene utilizzato sempre di più dal mondo degli affari. Una grande sfida al futuro del software libero viene dalla ten- denza delle società che distribuiscono “Linux” ad aggiungere software non libero a GNU/Linux nel nome della convenienza e del potere. Lo fanno tutti gli sviluppatori delle maggiori distri- buzioni commerciali: tra queste, solamente Red Hat offre un pro- dotto in CD completamente libero, ma non lo si trova in nessun negozio; le altre società non producono nemmeno qualcosa del genere. La maggior parte delle società non permette di identifi- care chiaramente i pacchetti non liberi delle loro distribuzioni; molte perfino sviluppano software non libero e lo aggiungono al sistema. La gente giustifica l’inserimento di software non libero in nome del- la “popolarità di Linux”, dando in effetti maggior valore alla popo- larità rispetto alla libertà. Talvolta viene ammesso apertamente. Per esempio la rivista Wired, dice Robert McMillan, editore di Linux Magazine, “percepisce che lo spostamento verso il software open

73 source dovrebbe essere alimentato da decisioni tecniche piuttosto che politiche”. E l’amministratore delegato (CEO) di Caldera ha apertamente esortato gli utenti ad abbandonare l’obiettivo della libertà e a lavorare invece per la “popolarità di Linux”. Inserire software non libero nel sistema GNU/Linux può aumen- tarne la popolarità, se per popolarità intendiamo il numero di per- sone che utilizza alcuni GNU/Linux insieme a software non libe- ro. Ma, allo stesso tempo, incoraggia implicitamente la comunità ad accettare software non libero come fatto positivo e a dimentica- re l’obiettivo della libertà. Non ha senso guidare più velocemente per poi uscire di strada. Quando l’“add-on” non libero è una libreria o uno strumento di programmazione, può diventare una trappola per gli sviluppatori di software libero. Quando scrivono del software che dipende dal pacchetto non libero, il loro software non può essere parte di un sistema completamente libero. (In passato le librerie grafiche Motif e Qt hanno intrappolato in questo modo grandi quantità di software libero, creando problemi la cui soluzione ha richiesto anni. Il problema Qt è risolto perché oggi Qt è libero; il problema Motif non è ancora completamente risolto, dal momento che il suo sostituto libero, LessTif, ha biso- gno di qualche rifinitura – offritevi volontari! L’implementazione Java non libera e le librerie Java non standard della Sun vanno ora causando un problema analogo, e la loro sostituzione con software libero è attualmente un importante sforzo di GNU). Se la nostra comunità continua a muoversi in questa direzione, potrebbe mutare il futuro di GNU/Linux in un mosaico di com- ponenti liberi e non liberi. Fra cinque anni avremo sicuramente ancora moltissimo software libero; ma se non faremo attenzione sarà a malapena utilizzabile senza il software non libero con cui gli

74 utenti si aspettano di trovarlo. Se succederà, la nostra campagna per la libertà sarà fallita. Se rilasciare alternative libere fosse semplicemente un problema di programmazione, la soluzione di problemi futuri potrebbe diven- tare più facile dal momento che aumentano le risorse per lo svi- luppo della nostra comunità. Ma dovremo affrontare ostacoli che minacciano di renderla più difficile: le leggi che proibiscono il software libero. Dato che i brevetti sul software sono in aumento e leggi come il DMCA (Digital Millennium Copyright Act) vengo- no utilizzate per proibire lo sviluppo del software libero per impor- tanti compiti come guardare un DVD o ascoltare una trasmissione RealAudio, per combattere i formati di dati brevettati e segreti non avremo altro modo se non rifiutare i programmi non liberi che li utilizzano. (Il Digital Millennium Copyright Act del 1998 punta ad aggior- nare le leggi statunitensi in tema di copyright; tra le questioni ivi incluse troviamo norme relative alla circonvenzione della protezio- ne di sistemi a tutela del copyright, uso legittimo, responsabilità dei fornitori di servizi online. Per ulteriori dettagli sul DMCA, si veda più avanti il testo L’interpretazione sbagliata del copyright – una serie di errori). Affrontare queste sfide richiederà molti sforzi di diverso genere. Ma ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno, per fronteggiare qualsiasi tipo di sfida, è ricordare l’obiettivo della libertà di cooperare. Non possiamo aspettarci che il solo desiderio di avere del software poten- te e affidabile motivi le persone a impegnarsi molto. Abbiamo biso- gno del tipo di determinazione che si ha quando si combatte per la libertà e la comunità, la determinazione a continuare per anni e a non mollare. Nella nostra comunità, questo obiettivo e questa determinazione

75 provengono principalmente dal Progetto GNU. Siamo noi quelli che parlano della libertà e della comunità come qualcosa su cui non cedere; le organizzazioni che parlano di “Linux” normalmente non lo dicono. Le riviste su “Linux” sono normalmente piene di annun- ci che pubblicizzano il software non libero; le società che mettono insieme dei pacchetti “Linux” aggiungono al sistema software non libero; altre società “supportano Linux” con applicazioni non libe- re; gli user group di “Linux” invitano normalmente i fornitori a pre- sentare queste applicazioni. È probabile che anche persone di rilie- vo della nostra comunità si imbattano nell’idea di libertà e nella determinazione che c’è nel Progetto GNU. Ma quando le persone vi si imbattono, sentono che riguarda anche loro? Chi sa che sta utilizzando un sistema proveniente dal Progetto GNU riesce a vedere una relazione diretta tra se stesso e GNU. Non sarà automaticamente d’accordo con la nostra filosofia, ma vedrà almeno un motivo per pensarci seriamente. Al contrario, chi si con- sidera un “utente Linux” e crede che il Progetto GNU “abbia svi- luppato strumenti che si sono rivelati utili per Linux”, percepisce normalmente soltanto una relazione indiretta tra sé e GNU. Que- sto tipo di persona potrebbe semplicemente ignorare la filosofia GNU quando vi si imbatte. Il Progetto GNU è idealistico e chiunque incoraggi l’idealismo oggi deve affrontare un grande ostacolo: l’ideologia prevalente incorag- gia a rifiutare l’idealismo in quanto “irrealizzabile”. Il nostro idea- lismo è stato estremamente pratico: è il motivo per cui abbiamo un sistema operativo GNU/Linux libero. Chi ama questo sistema deve sapere che è il nostro idealismo divenuto reale. Se “il lavoro” fosse davvero già terminato, se non ci fosse niente in gioco oltre al riconoscimento, forse sarebbe più saggio lasciar cade-

76 re la questione. Ma non siamo in questa posizione. Per stimolare le persone a fare il lavoro che deve essere fatto, abbiamo bisogno che ci venga riconosciuto il lavoro fatto finora. Per favore aiutateci, chia- mando GNU/Linux il sistema operativo.

Originariamente scritto nel 2000. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

77 Perché “software libero” è da preferire a “open source”

Mentre il software libero chiamato in qualunque altro modo offri- rebbe le stesse libertà, fa una grande differenza quale nome utiliz- ziamo: parole differenti hanno significati differenti. Nel 1998, alcuni sviluppatori di software libero hanno iniziato a usare l’espressione “software open source” (http://www.opensour- ce.org) invece di “software libero” per descrivere quello che fanno. Il termine “open source” è stato rapidamente associato a un approc- cio diverso, una filosofia diversa, valori diversi e perfino un criterio diverso in base al quale le licenze diventano accettabili. Oggi il movimento del Software Libero e il movimento dell’Open Source sono due movimenti diversi con diversi punti di vista e obiettivi, anche se possiamo lavorare, e in effetti lavoriamo, insieme su alcu- ni progetti concreti. La differenza fondamentale tra i due movimenti sta nei loro valo- ri, nel loro modo di guardare il mondo. Per il movimento Open Source, il fatto che il software debba essere Open Source o meno è un problema pratico, non un problema etico. Come si è espresso qualcuno, “l’Open Source è una metodologia di sviluppo; il Softwa- re Libero è un movimento di carattere sociale”. Per il movimento Open Source, il software non libero è una soluzione non ottimale. Per il movimento del Software Libero, il software non libero è un problema sociale e il software libero è la soluzione.

78 La relazione tra il movimento del Software Libero e il movimen- to Open Source Il movimento del Software Libero e quello Open Source sono come due partiti politici all’interno della comunità del Software Libero. Negli anni ‘60 i gruppi radicali si sono fatti la reputazione di esse- re faziosi: le organizzazioni si dividevano per disaccordi sui det- tagli della strategia da utilizzare e poi si odiavano reciprocamen- te. O per lo meno questa è l’immagine che si ha di essi, vera o fal- sa che sia. La relazione tra il movimento del Software Libero e quello Open Source è semplicemente l’opposto di questa situazione. Siamo in disaccordo sui principi di base, ma siamo più o meno d’accordo sugli aspetti pratici. Perciò possiamo lavorare e in effetti lavoria- mo assieme su molti progetti specifici. Non vediamo il movi- mento Open Source come un nemico. Il nemico è il software pro- prietario. Noi non siamo contro il movimento Open Source, ma non voglia- mo essere confusi con loro. Riconosciamo che hanno contribui- to alla nostra comunità, ma noi abbiamo creato questa comunità e vogliamo che si sappia. Vogliamo che quello che abbiamo rea- lizzato sia associato con i nostri valori e la nostra filosofia, non con i loro. Vogliamo che ci sentano, non vogliamo sparire dietro a un gruppo con punti di vista diversi. Per evitare che si pensi che facciamo parte del movimento Open Source, ci preoccupiamo di evitare di utilizzare il termine “open” per descrivere il software libero, o il suo contrario, “closed”, per parlare di software non libero. Quindi, per favore, menzionate il movimento del Software Libe- ro quando parlate del lavoro che abbiamo fatto e del software che abbiamo sviluppato – come il sistema operativo GNU/Linux.

79 I due termini a confronto Il resto di questo articolo confronta i due termini “software libero” e “open source”. Spiega perché il termine “open source” non risol- ve i problemi, anzi di fatto ne crea alcuni.

Ambiguità L’espressione “software libero” ha un problema di ambiguità [il ter- mine “free” in inglese può significare sia “libero” sia “gratis”, in ita- liano non succede]: un significato non previsto, “software che si può avere senza spendere niente” corrisponde a quell’espressione altret- tanto bene del significato previsto, cioè software che dà all’utente certe libertà. Abbiamo risolto questo problema pubblicando una definizione più precisa di software libero, ma questa non è la solu- zione perfetta. Non può eliminare completamente il problema. Sarebbe meglio un termine corretto e non ambiguo, presupponen- do che non ci siano altri problemi. Sfortunatamente, tutte le alternative in inglese presentano proble- mi. Abbiamo considerato molte alternative che ci sono state sug- gerite, ma nessuna è così completamente “corretta” che sia una buo- na idea sceglierla. Tutte le soluzioni proposte per “software libero” hanno un qualche tipo simile di problema semantico, se non peg- gio, incluso “software open source”. La definizione ufficiale di “software open source”, come pubblica- ta dalla Open Source Initiative, si avvicina molto alla nostra defi- nizione di software libero; tuttavia, per certi aspetti è un po’ più ampia, ed essi hanno accettato alcune licenze che noi consideriamo inaccettabilmente restrittive per gli utenti. Tuttavia, il significato ovvio di “software open source” è «puoi guardare il codice sorgen- te». Questa è una espressione meno vigorosa di “software libero”;

80 include il software libero, ma include anche software semi-libero come ad esempio Xv e perfino qualche software proprietario, inclu- sa Qt nella sua licenza originale (prima della QPL). Questo significato ovvio di “open source” non è quello inteso dai suoi sostenitori. Il risultato è che la maggior parte delle persone fraintende quello che quei sostenitori sostengono. Ecco come lo scrittore Neal Stephenson ha definito “open source”: Linux è software “open source” e questo significa, semplicemente, che chiunque può ottenere le copie del suo codice sorgente. Non penso che abbia cercato deliberatamente di rifiutare o contra- stare la definizione “ufficiale”. Penso che abbia semplicemente applicato le convenzioni della lingua inglese per arrivare al signifi- cato. Lo stato del Kansas ha pubblicato una definizione simile: «Utilizzare software open source (SOS). SOS è software il cui codi- ce sorgente è disponibile liberamente e pubblicamente, anche se gli specifici accordi di licenza variano relativamente a quanto sia per- messo fare con quel codice». Ovviamente, chi si occupa di open source ha cercato di affrontare questo problema pubblicando una definizione precisa del termine, proprio come abbiamo fatto noi per “software libero”. Ma la spiegazione di “software libero” è semplice: chi ha capito il concetto di “libertà di parola, non birra gratis” non sbaglierà più [in inglese, l’espressione “free speech, not free beer” mette sinteti- camente in contrasto i due significati della parola “free”]. Non c’è un modo più breve per spiegare il significato di “open source” e indicare chiaramente perché la definizione ovvia è quella sbagliata.

La paura della libertà Il principale argomento a favore dell’espressione “software open source” è che “software libero” può far sentire a disagio. Ed è vero:

81 parlare di libertà, di problemi etici, di responsabilità, così come di convenienza, è chiedere di pensare a cose che potrebbero essere ignorate. Questo può causare imbarazzo e alcune persone possono rifiutare l’idea di farlo. Questo non vuol dire che la società stareb- be meglio se smettessimo di parlare di questi argomenti. Anni fa, gli sviluppatori di software libero si accorsero di queste rea- zioni di disagio e iniziarono a cercare una soluzione a questo pro- blema. Pensarono che mettendo in secondo piano l’etica e la libertà e parlando piuttosto dei benefici pratici immediati di qualche software libero, sarebbero stati in grado di “vendere” il software più efficacemente a una determinata utenza, in particolar modo alle aziende. Il termine “open source” viene offerto come un modo per venderne di più – un modo per essere “più accettabili alle aziende”. Il punto di vista e i valori del movimento Open Source derivano da questa decisione. Questo approccio al problema ha dimostrato di funzionare, alle sue condizioni. Oggi molte persone passano al software libero per ragio- ni puramente pratiche. Questa è una buona cosa, di per sé, ma non è tutto quello che dobbiamo fare! Non basta attirare gli utenti ver- so il software libero: questo è solo il primo passo. Prima o poi questi utenti saranno invitati a utilizzare nuovamente software proprietario per alcuni vantaggi pratici. Un enorme nume- ro di aziende cerca di offrire questa tentazione, e perché gli utenti dovrebbero rifiutare? Solo se hanno imparato a valorizzare la libertà che viene offerta loro dal software libero di per sé. Tocca a noi diffondere quest’idea – e per farlo, dobbiamo parlare di libertà. Una parte dell’approccio “teniamole tranquille” nei confronti delle aziende può essere utile per la comunità, ma dobbiamo comunque parlare molto di libertà. Attualmente, è molto diffuso l’approccio “teniamole tranquille”,

82 ma non si parla abbastanza della libertà. La maggior parte delle per- sone coinvolte nel software libero parla molto poco della libertà – di solito perché cerca di essere “più accettabile per le aziende”. I distributori di software sono quelli che più seguono questa regola. Alcune distribuzioni del sistema operativo GNU/Linux aggiungo- no pacchetti di software proprietario al sistema libero di base e invi- tano gli utenti a considerarlo un vantaggio, invece che un passo indietro rispetto alla libertà. Non riusciamo a rimanere alla pari rispetto all’afflusso di utenti di software libero, non riusciamo a insegnare alle persone cosa siano queste libertà e cosa sia la nostra comunità man mano che vi entra- no. Questo è il motivo per cui software non libero (come lo era Qt la prima volta che divenne popolare) e le distribuzioni di sistemi operativi parzialmente non liberi, trovano un terreno così fertile. Smettere di utilizzare la parola “libero” adesso sarebbe un errore. Abbiamo bisogno che si parli di più, e non di meno, di libertà. Che coloro che usano il termine “open source” portino più utenti alla nostra comunità è senz’altro un contributo, ma significa che dobbia- mo impegnarci ancora di più per portare il problema della libertà all’at- tenzione di quegli utenti. Dobbiamo dire “è software libero e ti dà libertà!” sempre di più e più forte che mai.

Un marchio registrato può aiutare? I sostenitori del “software open source” hanno tentato di rendere questo un marchio registrato, pensando di poter così prevenire uti- lizzi scorretti. Il tentativo è fallito quando, nel 1999, la richiesta è stata fatta decadere. Per cui lo status legale di “open source” è lo stesso di quello del “software libero”: non esiste nessuna restrizione legale per il suo utilizzo. Ho sentito, talvolta di persona, molte aziende chiamare “open source” i loro pacchetti software anche se

83 questi non rientravano, per le loro caratteristiche, nella definizione ufficiale. Ma avrebbe davvero fatto questa grande differenza usare un termi- ne che fosse un marchio registrato? Non necessariamente. Le aziende inoltre hanno fatto annunci che danno l’impressione che un programma sia “software open source” senza dirlo esplicita- mente. Ad esempio, un annuncio di IBM riguardo a un program- ma che non rientrava nella definizione ufficiale diceva questo: «Come è comune fare nella comunità open source, gli utenti della ... tecnologia saranno inoltre in grado di collaborare con IBM ...» Questa frase non dice che il programma è “open source”, ma mol- ti lettori non hanno notato quel dettaglio. (Devo comunque far notare che IBM era sinceramente interessata a rendere questo pro- gramma software libero e ha successivamente adottato una nuova licenza che lo rendeva tale e “open source”. Ma quando questo annuncio è stato fatto, il programma non si qualificava come nes- suno dei due). Ed ecco come Cygnus Solutions, che fu creata come azienda di software libero e successivamente estese la sua attività (per così dire) al software proprietario, pubblicizzava alcuni prodotti software pro- prietari: «Cygnus Solution è una azienda leader nel mercato open source e ha appena lanciato due prodotti sul mercato [GNU/]Linux». Diversamente da IBM, Cygnus non stava tentando di rendere que- sti pacchetti software libero e questi pacchetti non si avvicinavano minimamente a poter essere definiti tali. Ma Cygnus non ha in realtà detto che questo è “software open source”, ha soltanto utilizzato que- sto termine per dare quest’impressione a un lettore poco attento. Queste osservazioni suggeriscono che un marchio registrato non avrebbe risolto sul serio i problemi legati al termine “open source”.

84 Le errate interpretazioni di “open source” La definizione di open source è abbastanza chiara ed è abbastanza chiaro che il tipico programma non libero non rientra in questa definizione. Quindi penserete che una “azienda Open Source” pro- duca software libero (o qualcosa del genere), giusto? Non sempre è vero, molte aziende stanno anche cercando di dargli un differente significato. All’incontro “Open Source Developers Day” svoltosi nell’agosto 1998, molti degli sviluppatori commerciali invitati dissero che era- no intenzionati a creare come software libero (o “open source”) solo una parte del loro lavoro. Il fulcro del loro business è lo sviluppo di aggiunte proprietarie (software o documentazione) da vendere agli utenti di questo software libero. Ci chiedono di considerarlo come legittimo, come parte della nostra comunità, poiché parte del dena- ro viene donato per lo sviluppo di software libero. In effetti, queste aziende tentano di guadagnare una favorevole immagine “open source” per i loro prodotti software proprietari – anche se questi non sono software “open source” – poiché hanno una qualche relazione con il software libero o perché la stessa azien- da mantiene anche un qualche software libero. (Il fondatore di una azienda ha esplicitamente detto che avrebbero messo, nei pacchet- ti di software libero da loro supportati, un po’ del loro lavoro per poter far parte della comunità). Negli anni, molte aziende hanno contribuito allo sviluppo del software libero. Alcune di queste aziende sviluppavano principal- mente software non libero, ma le due attività erano separate. Per questo potevamo ignorare i loro prodotti non liberi e lavorare con loro sui progetti di software libero. Quindi potevamo poi onesta- mente ringraziarli per i loro contributi al software libero, senza par- lare degli altri prodotti che portavano avanti.

85 Non possiamo fare altrettanto con queste nuove aziende, poiché loro non lo accetterebbero. Queste aziende cercano attivamente di portare il pubblico a considerare senza distinzione tutte le loro atti- vità. Vogliono che noi consideriamo il loro software non libero come se fosse un vero contributo, anche se non lo è. Si presentano come “aziende open source” sperando che la cosa ci interessi, che le renda attraenti ai nostri occhi e che ci porti ad accettarle. Questa pratica di manipolazione non sarebbe meno pericolosa se fatta utilizzando il termine “software libero”. Ma le aziende non sembrano utilizzare il termine “software libero” in questo modo. Probabilmente la sua associazione con l’idealismo lo rende non adatto allo scopo. Il termine “open source” ha così aperto tutte le porte. In una mostra specializzata di fine 1998, dedicata al sistema ope- rativo spesso chiamato “Linux”, il relatore di turno era un alto diri- gente di una importante azienda di software. Era stato probabil- mente invitato poiché la sua azienda aveva deciso di “supportare” questo sistema. Sfortunatamente, la forma di “supporto” consiste- va nel rilasciare software non libero che funziona con il sistema – in altre parole, utilizzava la nostra comunità come un mercato ma non vi contribuiva affatto. Disse: “Non renderemo mai il nostro prodotto open source, ma for- se lo renderemo tale ‘internamente’. Se permetteremo al nostro staff di supporto ai clienti di avere accesso al codice sorgente, potrà risol- vere gli errori per i clienti e potremo quindi fornire un prodotto e un servizio migliori”. (Questa non è la trascrizione esatta del discorso, poi- ché non avevo preso nota delle parole, ma rende comunque l’idea). Alcune persone tra il pubblico mi dissero successivamente “non ha capito il senso del nostro lavoro”. Era forse vero? Quale senso non aveva colto?

86 In realtà aveva colto il significato del movimento Open Source. Questo movimento non dice che gli utenti dovrebbero avere libertà, dice solo che permettendo a più persone di guardare il codice sor- gente e di aiutare a migliorarlo, consentirà uno sviluppo più velo- ce e migliore. Il dirigente ha colto perfettamente quel significato: non ha voluto utilizzare questo approccio nella sua interezza, uten- ti inclusi, pensando di utilizzarlo parzialmente all’interno della sua azienda. Il significato che non ha colto è quello che l’“open source” ha pro- gettato di non sollevare: cioè che l’utente merita la libertà. Diffondere l’idea della libertà è un lavoro difficile: ha bisogno del vostro aiuto. Per questo il progetto GNU rimarrà legato al signifi- cato di “software libero”, per aiutare a diffondere l’idea di libertà. Se sentite che libertà e comunità sono importanti in quanto tali – non soltanto per la convenienza implicita in esse – unitevi a noi nel- l’utilizzare il termine “software libero”.

Joe Barr ha scritto un articolo intitolato “Live and let license” dove illustra il proprio punto di vista su questo argomento: http://www.itworld.com/App- Dev/350/LWD010523vcontrol4/

Originariamente scritto nel 1998. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002.

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

87 Rilasciare software libero se lavorate all’università

All’interno del movimento del software libero, crediamo che gli utenti informatici debbano godere della libertà di modificare e distribuire il software che usano. Il termine “free”, riferito al softwa- re libero, indica la libertà: in altre parole, gli utenti hanno la libertà di eseguire, modificare e ridistribuire il software. Il software libero contribuisce alla conoscenza umana, al contrario di quanto fa il software non libero. Le università dovrebbero perciò incoraggiare il software libero per l’avanzamento della conoscenza umana, così come dovrebbero incoraggiare ricercatori e studenti a pubblicare i propri lavori. Ahimè, molti amministratori universitari dimostrano una tendenza caratterizzata dall’avidità verso il software (e verso la scienza); vedo- no nei programmi l’opportunità per trarne dei profitti, non per con- tribuire alla conoscenza umana. Gli sviluppatori di software libero hanno dovuto far fronte a questa tendenza per almeno vent’anni. Quando iniziai a sviluppare il sistema operativo GNU, il primo pas- so fu quello di lasciare il mio posto al MIT. Lo feci proprio per impedire all’ufficio licenze del MIT di interferire con il rilascio di GNU come software libero. Avevo pianificato un approccio preci- so per licenziare programmi GNU in modo che fosse assicurato il mantenimento delle versioni modificate come software libero, un approccio concretizzatosi nella GNU General Public License (GNU GPL), e non volevo supplicare l’amministrazione del MIT perché me lo lasciasse fare.

88 Nel corso degli anni, spesso esponenti universitari hanno contatta- to la Free Software Foundation per chiedere consiglio su come con- vincere gli amministratori che considerano il software soltanto come qualcosa da vendere. Un buon metodo, applicabile anche a progetti finanziati ad hoc, è basare il vostro lavoro su un program- ma già esistente rilasciato sotto la licenza GNU GPL. A quel pun- to potete dire agli amministratori: “Non possiamo rilasciare la ver- sione modificata con una licenza che non sia la GNU GPL, qual- siasi altro modo violerebbe il diritto d’autore”. Quando l’immagi- ne del dollaro sfumerà davanti ai loro occhi, generalmente accon- sentiranno a rilasciarlo come software libero. Potete anche chiedere aiuto allo sponsor che finanzia. Quando un gruppo della NYU [New York University] sviluppò il compilatore GNU Ada con i fondi della US Air Force, il contratto prevedeva esplicitamente la donazione del codice risultante alla Free Softwa- re Foundation. Contrattate prima lo sponsor, poi chiarite gentil- mente all’amministrazione dell’università che non è possibile rine- goziare l’accordo preso. Preferiranno avere un contratto per svilup- pare software libero piuttosto che non averne affatto, così molto probabilmente acconsentiranno. Per tutto ciò che fate, sollevate presto la questione – sicuramente prima che il programma sia stato sviluppato per metà. A questo punto, l’università avrà ancora bisogno di voi e potrete giocare le vostre carte: dite all’amministrazione che finirete il programma, lo renderete utilizzabile, se accetterà per iscritto che sia software libe- ro (e accoglierà la vostra scelta di licenziarlo come software libero). In caso contrario, ci lavorerete sopra quel tanto che basta per scri- verne una ricerca, e senza mai creare una versione sufficientemen- te evoluta da poter essere distribuita. Quando gli amministratori si renderanno conto che la scelta è tra avere pacchetti di software libe-

89 ro che porteranno credito all’università o non avere proprio nien- te, generalmente sceglieranno la prima opzione. Non tutte le università seguono politiche basate sull’avidità. La politica comunemente seguita alla University of Texas prevede il rilascio come software libero sotto GNU General Public License di tutto il software sviluppato al suo interno. La Univates in Brasile e l’International Institute of Information Technology di Hyderabad (India) seguono entrambe una politica favorevole al rilascio di software sotto GPL. Sviluppando prima il supporto per la facoltà, potrete riuscire a instaurare una politica analoga nella vostra uni- versità. Presentatela come una questione di principio: l’università ha la missione di stimolare l’avanzamento della conoscenza umana, o il suo unico scopo è quello di perpetuare se stessa? Qualunque approccio usiate, aiuta mostrarsi determinati e adotta- re una prospettiva etica, come facciamo nel movimento del softwa- re libero. Per trattare il pubblico in modo eticamente corretto, il software dovrebbe essere libero – nel senso della libertà – per chiun- que. Molti sviluppatori di software libero professano ragioni stretta- mente pratiche per farlo: sostengono di voler consentire ad altri di condividere e modificare il software come espediente per renderlo potente e affidabile. Se questi valori vi spingono a sviluppare softwa- re libero, funzionante e utile, vi ringraziamo per il contributo. Ma tali valori non vi offrono una forte presa per resistere quando gli amministratori universitari tentano di convincervi a scrivere software non-libero. Possono, ad esempio, sostenere che: “Potremmo renderlo ancora più potente e affidabile con tutto il denaro che potremmo farci”. Questa pretesa può o meno rivelarsi valida alla fine, ma è dura da confutare a priori. Possono suggerire una licenza che offra copie

90 “gratuite, esclusivamente a uso accademico”, sottintendendo così che il pubblico generico non meriti la libertà e che ciò solleciterà la cooperazione dei ricercatori, che è tutto quello di cui (dicono) ave- te bisogno. Se partite da valori “pragmatici”, è difficile trovare una buona ragio- ne per rifiutare queste proposte senza via d’uscita, ma potete riuscir- ci facilmente se basate la vostra fermezza su valori etici e politici. Cosa c’è di positivo nel creare un programma potente e affidabile a spese della libertà degli utenti? Non si dovrebbe applicare la libertà sia all’in- terno che all’esterno delle istituzioni accademiche? Le risposte sono ovvie se la libertà e la comunità rientrano tra i vostri obiettivi. Il software libero rispetta la libertà degli utenti, mentre il software non libero la nega. Non c’è nulla che rafforzi la vostra risolutezza come sapere che la libertà della comunità dipende, in primo luogo, da voi stessi.

Originariamente scritto nel 2002. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

91 Vendere software libero

Molta gente crede che lo spirito del progetto GNU sia che non si debba far pagare per distribuire copie del software, o che si debba far pagare il meno possibile – solo il minimo per coprire le spese. In realtà noi incoraggiamo chi ridistribuisce il software libero a far pagare quanto vuole o può. Se vi sembra sorprendente, per favore continuate a leggere. Il termine “free’’ ha due legittimi significati comuni: può riferirsi sia alla libertà che al prezzo. Quando parliamo di “free software’’, parliamo di libertà, non di prezzo. Ci si rammenti di considerare “free” come in “free speech” (libertà di parola) anziché in “free beer” (birra gratis). In particolare, significa che l’utente è libero di ese- guire il programma, modificarlo, e ridistribuirlo con o senza modi- fiche. I programmi liberi sono talvolta distribuiti gratuitamente, e talvol- ta a un prezzo consistente. Spesso lo stesso programma è disponi- bile in entrambe le modalità in posti diversi. Il programma è libe- ro indipendentemente dal prezzo, perché gli utenti sono liberi di utilizzarlo. Programmi non-liberi vengono di solito venduti a un alto prezzo, ma talvolta un negozio vi darà una copia senza farvela pagare. Que- sto non rende comunque il software libero. Prezzo o non prezzo, il programma non è libero perché gli utenti non hanno libertà. Dal momento che il software libero non è una questione di prezzo, un basso prezzo non vuol dire che il programma sia più libero o più vicino a esserlo. Perciò, se state ridistribuendo copie di software libe-

92 ro, potreste anche venderle a un prezzo consistente e guadagnarci. Ridistribuire il software libero è una attività buona e legale; se la fate, potete anche trarne profitto. Il software libero è un progetto comunitario, e chiunque vi dipen- da dovrebbe cercare modalità per contribuire a costruire la comu- nità. Per un distributore il modo di farlo è dare parte del profitto alla Free Software Foundation o a qualche altro progetto di svilup- po di software libero. Finanziando lo sviluppo, potete far progre- dire il mondo del software libero. Distribuire software libero è un’opportunità per raccogliere fondi per lo sviluppo. Non sprecatela! Per contribuire ai fondi, avete bisogno di avere un sovrappiù. Se fate pagare un prezzo troppo basso, non vi avanzerà niente per soste- nere lo sviluppo.

Può un prezzo della distribuzione più alto danneggiare alcuni utenti? La gente talvolta si preoccupa del fatto che un alto compenso per la distribuzione possa mettere il software libero fuori dalla portata degli utenti che non hanno molto denaro. Con il software pro- prietario, un alto compenso fa esattamente questo – ma il softwa- re libero è diverso. La differenza è che il software libero tende naturalmente a diffon- dersi, e ci sono molti modi per procurarselo. Coloro che fanno incetta di software cercheranno in tutti i modi di impedirvi di eseguire un programma proprietario senza pagare il prezzo stabilito. Se questo prezzo è alto, sarà difficile per alcuni utenti utilizzare il programma. Con il software libero, gli utenti non devono pagare il costo della distribuzione per utilizzare il software. Possono copiare il pro-

93 gramma, da un amico che ne abbia una copia o con l’aiuto di un amico che abbia accesso alla rete. Oppure diversi utenti possono unirsi, dividere il prezzo di un CD-ROM e a turno installare il software. Un alto prezzo del CD-ROM non è un grosso ostacolo quando il software è libero.

Può un prezzo della distribuzione più alto scoraggiare l’uso del software libero? Un altro problema comune è la popolarità del software libero. La gente pensa che un prezzo alto per la distribuzione riduca il nume- ro di utenti o che un prezzo basso è probabile che li incoraggi. Questo è vero per il software proprietario – ma il software libero è diverso. Con così tanti modi di procurarsi le copie, il prezzo del ser- vizio di distribuzione ha meno effetto sulla sua popolarità. Alla fine, il numero di persone che utilizza il software libero è deter- minato principalmente da quanto il software può fare, e dalla faci- lità di utilizzo. Molti utenti continueranno a utilizzare software pro- prietario se il software libero non può fare tutto ciò che essi voglio- no. Perciò, se vogliamo aumentare il numero di utenti a lungo anda- re, dobbiamo soprattutto sviluppare più software libero. Il modo più diretto per farlo è scrivere da sé il software libero o i manuali necessari. Ma se voi li distribuite piuttosto che scriverli, il miglior modo di aiutare è raccogliere i fondi perché altri li scrivano.

Anche l’espressione “vendere software” può confondere A rigor di termini, “vendere” significa commerciare prodotti per denaro. Vendere una copia di un programma libero è legale, e noi lo incoraggiamo. Tuttavia, quando la gente pensa di “vendere software”, di solito

94 immagina di farlo nel modo in cui lo fa la maggior parte delle società: facendo software proprietario piuttosto che libero. Così, a meno che non vogliate fare precise distinzioni – come le fa questo articolo – noi suggeriamo sia meglio evitare di utilizzare l’e- spressione “vendere software” e scegliere invece qualche altra espres- sione. Per esempio, potreste dire “distribuire software libero dietro compenso” – che non è ambiguo.

Compensi alti o bassi, e la GPL GNU Tranne che per una situazione particolare, la General Public Licen- ce GNU (GPL GNU) non detta condizioni su quanto potete chie- dere per distribuire una copia di software libero. Potete non chie- dere niente, chiedere dieci lire, mille lire, o un miliardo di lire. Deci- dete voi, e il mercato, perciò non lamentatevi con noi se nessuno vuole pagare un miliardo di lire per una copia. L’unica eccezione si ha nel caso in cui i binari vengono distribuiti senza il corrispondente codice sorgente completo. A coloro che lo fanno la GPL GNU impone di fornire il codice sorgente a una suc- cessiva richiesta. Senza un limite al compenso per il codice sorgen- te, loro potrebbero stabilire un compenso troppo alto da pagare per chiunque – per esempio, un miliardo – e così fingere di rilasciare il codice sorgente che in realtà continuano a mantenere segreto. Per- ciò, in questo caso, dobbiamo mettere un limite al compenso del sorgente, per assicurare la libertà dell’utente. In situazioni norma- li, tuttavia, non c’è nessuna giustificazione simile per limitare i com- pensi per le distribuzioni, perciò non li limitiamo. Qualche volta le aziende, le cui attività oltrepassano il limite di quel- lo che la GPL GNU permette, richiedono l’autorizzazione, dicen- do di “non chiedere nessun pagamento per il software GNU” o simili. In questo modo non vanno da nessuna parte. Il software libe-

95 ro riguarda la libertà, e far rispettare la GPL vuol dire difendere la libertà. Quando difendiamo la libertà dell’utente, non siamo svia- ti da questioni secondarie come per esempio quanto compenso ven- ga richiesto per una distribuzione. La libertà è il problema, l’intero e solo problema.

Originariamente scritto nel 1996. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

96 Il software libero ha bisogno di documentazione libera

Il più grande difetto nei sistemi operativi liberi non sta nel softwa- re – è la mancanza di buoni manuali liberi da poter includere in questi sistemi. Molti dei programmi più importanti non hanno un manuale completo. La documentazione è una parte essenziale di qualunque pacchetto di software; quando un pacchetto importan- te di software libero è fornito senza un manuale libero, si ha una grossa lacuna. A tutt’oggi abbiamo molte di queste lacune. Una volta, molti anni fa, pensai di imparare il Perl. Presi una copia di un manuale libero, ma lo trovai difficile da leggere. Quando chie- si alternative agli utilizzatori del Perl mi dissero che c’erano manua- li introduttivi migliori – ma non erano liberi. Come mai? Gli autori dei buoni manuali li avevano scritti per la O’Reilly Associates che li pubblicava con termini restrittivi – divie- to di copia, divieto di modificazione, sorgenti non disponibili – il che li escludeva dalla comunità del software libero. Non era la prima volta che accadeva questo tipo di cose, e (con gran- de perdita per la nostra comunità) non era neanche l’ultima. Gli edi- tori di manuali proprietari da allora hanno indotto molti degli auto- ri a porre limitazioni ai loro manuali. Molte volte ho sentito un uten- te di software GNU parlarmi entusiasticamente di un manuale che stava scrivendo, che si aspettava avrebbe aiutato il progetto GNU – ma poi le mie speranze si spezzavano, quando procedeva a spiegar- mi che aveva firmato un contratto con un editore che ne avrebbe ristretto l’uso cosicché non avremmo potuto usarlo.

97 Dato che scrivere in un buon inglese è un’abilità rara fra i pro- grammatori, possiamo permetterci a malapena di perdere manua- li in questo modo. La documentazione libera, come il software libero, è una que- stione di libertà, non di prezzo. Il problema con questi manuali non era che la O’Reilly Associates imponesse un prezzo per le copie stampate – che di per sé va bene (anche la Free Software Foundation vende copie dei manuali GNU liberi). Ma i manua- li GNU sono disponibili in forma sorgente, mentre questi manua- li sono disponibili solo su carta. I manuali GNU vengono forni- ti con il permesso di copiarli e modificarli; i manuali del Perl no. Il problema sono queste restrizioni. I criteri per un manuale libero sono sostanzialmente gli stessi del software libero: è questione di dare a tutti gli utenti certe libertà. La redistribuzione (compresa quella commerciale) deve essere per- messa, così il manuale potrà accompagnare ogni copia del pro- gramma, sia online che su carta. Anche il permesso di fare modi- fiche è cruciale. Come regola generale non credo che sia essenziale per le persone avere il permesso di modificare ogni sorta di articoli e libri. I pro- blemi relativi agli scritti non sono necessariamente identici a quel- li del software. Per esempio, non penso che io o voi siamo obbli- gati a dare il permesso di modificare articoli come questo in cui descriviamo le nostre azioni e i nostri punti di vista. Ma c’è una ragione particolare per cui la libertà di effettuare modi- fiche è cruciale per la documentazione del software libero. Quan- do le persone esercitano il loro diritto di modificare il software, e aggiungono o cambiano funzionalità, se coscienziosamente cam- biassero anche il manuale, potrebbero fornire documentazione accurata e utilizzabile per il programma modificato. Un manuale

98 che proibisce ai programmatori di essere coscienziosi e completa- re il lavoro, o che più precisamente richiede loro di scrivere da capo un nuovo manuale se cambiano il programma, non rispon- de alle necessità della nostra comunità. Mentre una proibizione generale sulle modifiche è inaccettabile, alcuni tipi di limitazione sui metodi delle modifiche non pongo- no problemi. Ad esempio, vanno bene quelle di mantenere la nota di copyright dell’autore originale, i termini di distribuzione, o la lista degli autori. Non c’è problema anche nel richiedere che ver- sioni modificate diano nota del loro essere tali, e anche che abbia- no intere sezioni che non possono essere tolte o cambiate, fintanto che hanno a che fare con argomenti non tecnici (alcuni manuali GNU le hanno). Questo tipo di restrizioni non sono un problema perché, dal pun- to di vista pratico, non impediscono al programmatore coscien- zioso di adattare il manuale per corrispondere alle modifiche del programma. In altre parole, non impediscono alla comunità del software libero di fare pieno uso del manuale. Tuttavia deve essere possibile modificare tutti i contenuti tecnici del manuale, e distribuire il risultato attraverso tutti i mezzi con- sueti, attraverso tutti i canali usuali; altrimenti le restrizioni bloc- cherebbero la comunità, il manuale non sarebbe libero e così ci servirebbe un altro manuale. Sfortunatamente, è spesso difficile trovare qualcuno che scriva un altro manuale quando esiste un manuale proprietario. L’ostacolo è che molti utenti pensano che un manuale proprietario è suffi- ciente – così non vedono la necessità di scrivere un manuale libe- ro. Non vedono che i sistemi operativi liberi hanno una lacuna che deve essere riempita. Perché gli utenti pensano che i manuali proprietari siano suffi-

99 cienti? Alcuni non hanno considerato il problema. Spero che que- sto articolo faccia qualcosa per cambiare tutto ciò. Altri utenti considerano i manuali proprietari accettabili per le stesse ragioni per cui molte persone considerano accettabile il software proprietario: giudicano soltanto in termini pratici e non usano la libertà come criterio. Queste persone hanno diritto alle loro opinioni, ma poiché queste opinioni derivano da valori che non includono la libertà, essi non sono di esempio per quelli di noi che danno importanza alla libertà. Per favore, spargete la voce riguardo a questo problema. Conti- nuiamo a perdere manuali a favore di pubblicazioni proprietarie. Se spargiamo la voce che i manuali proprietari non sono suffi- cienti, forse la prossima persona che vuole aiutare il progetto GNU scrivendo documentazione si renderà conto, prima che sia troppo tardi, che deve anzitutto renderla libera. Incoraggiamo inoltre gli editori commerciali a vendere manuali liberi con permesso d’autore invece di manuali proprietari. Una maniera di far questo è di controllare i termini di distribuzione di un manuale prima di comprarlo, e preferire manuali con permesso d’autore [copyleft] a quelli senza permesso d’autore.

[Nota: La Free Software Foundation mantiene una pagina web che elenca libri di documentazione libera pubblicati da altri editori, http://www.gnu.org/doc/other-free-books.html] Originariamente scritto nel 2000. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

100 La canzone del software libero

Sulla melodia della canzone folk bulgara “Sodi Moma”.

101 Le liriche in italiano:

Unitevi a noi e condividete il software, Sarete liberi, hacker, sarete liberi

Qualche avido potrà fare mucchi di soldi, È vero, hacker, è vero Ma non potrà aiutare i vicini Questo non va bene, hacker, non va bene

Quando avremo abbastanza software libero A disposizione, hacker, a disposizione Getteremo via quelle sporche licenze Sempre più, hacker, sempre di più

Unitevi a noi e condividete il software, Sarete liberi, hacker, sarete liberi

Originariamente scritto nel 1993. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

102 Parte seconda

Copyright, copyleft e brevetti

Il diritto di leggere

Tratto da “La strada verso Tycho”, raccolta di articoli sugli eventi pre- cedenti la Rivoluzione Lunaria, pubblicata a Luna City nel 2096. Per Dan Halbert, la strada verso Tycho si rivelò all’epoca del colle- ge – quando Lissa Lenz gli chiese in prestito il computer. Il suo si era rotto e, a meno di non poterne usare un altro, avrebbe manca- to la scadenza per la presentazione del progetto di metà corso. Non osava chiederlo a nessun altro tranne Dan, ponendolo così di fron- te a un grave dilemma. Dan aveva il dovere di aiutarla – ma una volta prestatole il computer, Lissa avrebbe potuto leggerne ogni libro. A parte il rischio di finire in carcere per molti anni per aver consentito ad altri l’accesso a tali libri, inizialmente Dan rimase assai colpito dall’idea stessa di una simile eventualità. Come chiunque altro, fin dalle elementari gli era stato insegnato quanto fosse mal- vagio e sbagliato condividere i libri – qualcosa che soltanto i pirati si azzardavano a fare. Ed era impossibile che la SPA – la Software Protection Agency, l’A- genzia per la tutela del software – avesse mancato di smascherarlo. Nel corso sul software, Dan aveva imparato che ogni libro era dota- to di un apposito sistema di monitoraggio sul copyright in grado di riportare all’Agenzia centrale per le licenze quando e dove ne fos- se avvenuta la lettura, e da parte di chi. (Questi dati venivano poi utilizzati nelle indagini per la cattura dei pirati della lettura, ma anche per vendere ai grossisti i profili sugli interessi personali dei singoli). La prossima volta che il suo computer fosse stato collega- to al network centrale, l’Agenzia l’avrebbe scoperto. In quanto pro-

105 prietario del computer, sarebbe stato lui a subire la punizione più pesante – per non aver fatto abbastanza nella prevenzione di quel crimine. Naturalmente non era affatto scontato che Lissa avesse intenzione di leggere i libri presenti sul computer. Forse lo avrebbe usato sol- tanto per finire la relazione di metà corso. Ma Dan sapeva che la sua condizione sociale non elevata le consentiva di pagare a mala- pena le tasse scolastiche, meno che mai le tariffe per l’accesso alla lettura dei testi. Una situazione che comprendeva bene; lui stesso era stato costretto a chiedere in prestito dei soldi per pagare le quo- te necessarie alla consultazione di tutte le ricerche disponibili. (Il dieci per cento di tali quote andava direttamente agli autori delle ricerche; poichè Dan puntava alla carriera accademica, poteva spe- rare di ripagare il prestito con la percentuale sulle proprie ricerche, nel caso venissero consultate con una certa frequenza). Solo più tardi Dan avrebbe appreso dell’esistenza di un’epoca pas- sata in cui chiunque poteva recarsi in biblioteca a leggere articoli e ricerche senza dover pagare nulla. E i ricercatori indipendenti ave- vano accesso a migliaia di pagine, pur in assenza di contributi gover- nativi alle biblioteche. Ma negli anni ‘90 sia gli editori nonprofit sia quelli commerciali iniziarono a imporre delle tariffe per la con- sultazione di quei materiali. A partire dal 2047, le biblioteche che offrivano accesso pubblico e gratuito alle opere dei ricercatori non erano altro che una memoria del passato. Naturalmente esistevano vari modi per ingannare la SPA e l’Agen- zia centrale per le licenze. Modalità del tutto illegali. Uno degli stu- denti che aveva seguito il corso sul software con Dan, Frank Mar- tucci, era entrato in possesso di un programma illecito per il debug- ging [l’attività di collaudo del software], e lo aveva utilizzato per disattivare il codice di monitoraggio del copyright per la lettura dei

106 libri. Purtroppo era andato in giro a raccontarlo a troppi amici e uno di loro l’aveva denunciato alla SPA in cambio di una ricom- pensa in denaro (gli studenti fortemente indebitati erano assai pro- ni al tradimento). Nel 2047 Frank era in prigione, non per lettura illegale, bensì per il possesso di un debugger. In seguito Dan avrebbe saputo che tempo addietro a chiunque era consentito il possesso di simili programmi. Circolavano libera- mente persino su CD o tramite download via internet. Ma i comu- ni utenti presero a usarli per superare le restrizioni sul monitorag- gio del copyright, e alla fine una sentenza giudiziaria stabilì come questa fosse divenuta pratica comune nell’impiego di tali pro- grammi. Di conseguenza, questi vennero dichiarati illegali e gli svi- luppatori di debugger [programma per l’attività di collaudo del software] condannati al carcere. Pur se i programmatori avevano comunque bisogno di program- mi per il debugging, nel 2047 i produttori ne distribuivano sol- tanto copie numerate, e unicamente a programmatori provvisti di licenza e assicurazione ufficiali. Il debugger a disposizione di Dan nel corso sul software era dotato di uno speciale firewall [sistema a protezione di accessi non autorizzati], in modo da poter essere utilizzato soltanto per gli esercizi in classe. Onde superare le restrizioni sul monitoraggio del copyright, era altresì possibile installare una versione modificata del kernel di siste- ma. Dan avrebbe poi scoperto l’esistenza di kernel liberi, perfino di interi sistemi operativi liberamente disponibili, negli anni a caval- lo del secolo. Ma non soltanto questi erano illegali, al pari dei debugger – non era comunque possibile installarli senza conoscere la password centrale del computer. Qualcosa che né l’FBI né il ser- vizio-assistenza di Microsoft ti avrebbero mai rivelato. Dan concluse che non avrebbe potuto semplicemente prestare il

107 computer a Lissa. Ma nemmeno poteva rifiutarsi di aiutarla, per- ché l’amava. Qualsiasi opportunità di parlare con lei lo riempiva di gioia. E il fatto che avesse chiesto aiuto proprio a lui poteva signi- ficare che anche lei gli voleva bene. Dan risolse il dilemma con una decisione perfino più impensabile – le prestò il computer rivelandole la propria password. In tal modo, se Lissa avesse letto i libri ivi contenuti, l’Agenzia centrale avrebbe ritenuto che fosse Dan a leggerli. Si trattava pur sempre di un cri- mine, ma la SPA non avrebbe potuto scoprirlo in maniera auto- matica. Ciò avrebbe potuto avvenire soltanto dietro un’esplicita denuncia di Lissa. Naturalmente, se la scuola avesse scoperto che aveva rivelato la pas- sword personale a Lissa, entrambi avrebbero chiuso con la carriera scolastica, a prescindere dall’utilizzazione o meno di tale password. Qualsiasi interferenza con i dispositivi predisposti da un istituto accademico sul monitoraggio nell’impiego dei computer da parte degli studenti provocava delle sanzioni disciplinari. Non importa- va se si fossero arrecati o meno danni materiali – il crimine consi- steva nel rendere difficile il controllo sui singoli da parte degli amministratori locali. I quali potevano cioè presumere che tale comportamento nascondesse ulteriori attività illegali, e non aveva- no bisogno di sapere quali fossero. In circostanze simili generalmente gli studenti non venivano espul- si – almeno non in maniera diretta. Se ne impediva piuttosto l’ac- cesso ai sistemi informatici dell’istituto, provocandone così l’inevi- tabile voto insufficiente in ogni corso. Più tardi Dan avrebbe scoperto come una siffatta procedura fosse stata implementata nelle università a partire dagli anni ‘80, quan- do gli studenti iniziarono a fare ampio uso dei computer accade- mici. In precedenza, le università seguivano una strategia diversa

108 per le questioni disciplinari, punendo soltanto le attività che pro- vocavano danni materiali, non quelle che potevano suscitare appe- na dei sospetti. Lissa non denunciò Dan alla SPA. La decisione di aiutarla condus- se al loro matrimonio, e li spinse anzi a mettere in discussione quel che era stato insegnato loro fin da piccoli riguardo la pirateria. I due presero a documentarsi sulla storia del copyright, sulle restrizioni sulla copia in vigore in Unione Sovietica e perfino sul testo origi- nale della Costituzione degli Stati Uniti. Decisero poi di trasferirsi su Luna, per unirsi agli altri che in maniera analoga gravitavano lon- tano dalla lunga mano della SPA. Quando nel 2062 scoppiò la rivol- ta di Tycho, il diritto universale alla lettura ne costituì subito uno degli obiettivi prioritari.

109 Nota dell’autore Il diritto di leggere è una battaglia che si va combattendo ai gior- ni nostri. Pur se potrebbero passare 50 anni prima dell’oscura- mento dell’attuale stile di vita, gran parte delle procedure e del- le norme specifiche descritte sopra sono state già proposte; parecchie fanno parte integrante del corpo legislativo negli Sta- ti Uniti e altrove. Nel 1998 il Digital Millenium Copyright Act statunitense ha stabilito le basi legali per limitare la lettura e il prestito di libri computerizzati (e anche altri materiali). Una direttiva sul copyright emanata nel 2001 dall’Unione Europea ha imposto analoghe restrizioni. Esiste però un’eccezione: l’idea che l’FBI e Microsoft possano tene- re segreta la password centrale di ogni personal computer, senza informarne l’utente, non ha trovato spazio in alcun disegno di leg- ge. In questo caso si stratta di una estrapolazione di quanto conte- nuto nel testo sul chip Clipper e in analoghe proposte sulle chiavi di decifrazione avanzate dal governo statunitense. Ciò in aggiunta a una tendenza in atto da tempo: con sempre maggior frequenza i sistemi informatici vengono progettati per fornire agli operatori in remoto il controllo proprio su quegli utenti che utilizzano tali siste- mi. È tuttavia evidente come ci si stia avviando verso un simile scena- rio. Nel 2001 il senatore Hollings, con il sostegno economico di Walt Disney, ha presentato una proposta di legge denominata Secu- rity Systems Standards and Certification Act (ora sotto il nuovo titolo di Consumer Broadband and Digital Television Promotion Act) che prevede l’introduzione obbligatoria in ogni nuovo com- puter di apposite tecnologie atte a impedire ogni funzione di copia e impossibili da superare o disattivare da parte dell’utente. Nel 2001 gli Stati Uniti hanno avviato il tentativo di utilizzare il

110 trattato denominato Free Trade Area of the Americas per imporre le medesime norme a tutti i paesi dell’emisfero occidentale. Que- sto è uno dei cosiddetti trattati a favore del “libero commercio”, in realtà progettati per garantire all’imprenditoria maggior potere nei confronti delle strutture democratiche; l’imposizione di legislazio- ni quali il Digital Millenium Copyright Act è tipico dello spirito che li pervade. La Electronic Frontier Foundation sta chiedendo a tutti di spiegare ai propri governi i motivi per cui occorre opporsi a questo progetto. La SPA, che in realtà sta per Software Publishers Association, l’As- sociazione degli editori di software statunitensi, è stata sostituita in questo ruolo simil-repressivo dalla BSA, Business Software Allian- ce, l’allenza per il software commerciale. Attualmente questa non ricopre alcuna funzione ufficiale in quanto organo repressivo; uffi- ciosamente però agisce in quanto tale. Ricorrendo a metodi che ricordano i tempi dell’ex-Unione Sovietica, la Business Software Alliance invita gli utenti a denunciare amici e colleghi di lavoro. Una campagna terroristica lanciata in Argentina nel 2001 minac- ciava velatamente quanti condividevano il software di possibili stu- pri una volta incarcerati. Quando venne scritto il racconto di cui sopra, la Software Publi- shers Association stava minacciando i piccoli fornitori di accesso a internet, chiedendo loro di consentire alla stessa associazione il monitoraggio dei propri utenti. Sotto il peso delle minaccie, molti fornitori d’accesso tendono ad arrendersi perchè impossibilitati ad affrontare le conseguenti spese legali (come riporta il quotidiano Atlanta Journal-Constitution, 1 ottobre 1996, pag. D3). Dopo esser- si rifiutato di aderire a tale richiesta, almeno uno di questi fornito- ri, Community ConneXion di Oakland, California, ha subìto for- male denuncia. L’istanza è stata successivamente ritirata dalla

111 Software Publishers Association, ottenendo però l’approvazione di quel Digital Millenium Copyright Act che le fornisce quel potere che andava cercando. Le procedure di sicurezza in ambito accademico sopra descritte non sono frutto dell’immaginazione. Ad esempio, quando si ini- zia a usare un computer di un’università nell’area di Chicago, que- sto è il messaggio che viene stampato automaticamente:

“Questo sistema può essere utilizzato soltanto dagli utenti autoriz- zati. Coloro che ne fanno uso privi di apposita autorizzazione, oppure in maniera a questa non conforme, possono subire il con- trollo e la registrazione, da parte del personale addetto, di ogni atti- vità svolta sul sistema. Nel corso dell’attività di monitoraggo su usi impropri degli utenti oppure durante la manutenzione del sistema, possono essere monitorate anche le attività di utenti autorizzati. Chiunque utilizzi questo sistema fornisce il proprio consenso espli- cito al monitoraggio e viene avvisato che, nel caso ciò dovesse rive- lare attività illegali o violazioni alle norme universitarie, il persona- le addetto potrà fornire le prove di tali attività alle autorità univer- sitarie e/o agli ufficiali di polizia”. Ci troviamo così di fronte a un interessante approccio al Quarto Emendamento della Costituzione statunitense: forti pressioni con- tro chiunque per costringerlo a dichiararsi d’accordo, in anticipo, sulla rinuncia a ogni diritto previsto da tale emendamento.

Questo il testo del Quarto Emendamento: “Il diritto degli individui alla tutela della propria persona, abita- zione, documenti ed effetti personali contro ogni perquisizione e sequestro immotivato, non potrà essere violato e nessun mandato verrà emesso se non nel caso di causa probabile, sostenuta da giu-

112 ramento o solenne dichiarazione, riguardanti in particolare la descrizione del luogo soggetto a perquisizione, e gli individui o gli effetti da sequestrare”.

Riferimenti: - La White Paper dell’amministrazione USA: “Information Infra- structure Task Force, Intellectual property and the National Infor- mation Infrastructure: The Report of the Working Group on Intel- lectual Property Rights” (1995). - Una spiegazione della suddetta White Paper: “The Copyright Grab”, Pamuela Samuelson, Wired, gennaio 1996 (http://www.wired.com/wired/archive/4.01/white_paper_pr.htm). - “Sold Out”, James Boyle, The New York Times, 31 marzo 1996 - “Public Data or Private Data”, The Washington Post, 4 novembre 1996. - Union for the Public Domain, organizzazione mirata alla resi- stenza e al ribaltamento degli eccessivi ampliamenti di potere asse- gnato al copyright e ai brevetti (http://www.public-domain.org).

Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta (nell’originale inglese) sul numero di febbraio 1997 della rivista Communications of the ACM (volume 40, numero 2). La Nota dell’autore è stata aggiornata nel 2002. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

113 L’interpretazione sbagliata del copyright una serie di errori

Qualcosa di strano e pericoloso sta accadendo alle legislazioni in materia di copyright [diritto d’autore]. Come stabilito dalla Costi- tuzione degli Stati Uniti, il copyright esiste a beneficio degli uten- ti – chiunque legga dei libri, ascolti della musica, guardi dei film o utilizzi del software – non nell’interesse degli editori o degli auto- ri. Tuttavia, anche quando la gente tende sempre più a rifiutare e disubbidire alle restrizioni sul copyright imposte “a loro beneficio”, il governo statunitense vi aggiunge ulteriori restrizioni, nel tentati- vo di intimorire il pubblico e costringerlo a ubbidire sotto la pres- sione di nuove e pesanti sanzioni. In che modo le procedure sul copyright sono divenute diametral- mente opposte agli obiettivi dichiarati? E come possiamo fare in modo che tornino ad allinearsi con tali obiettivi? Per comprendere la situazione, è bene partire dando un’occhiata alle radici delle leg- gi sul copyright degli Stati Uniti, il testo della stessa Costituzione.

Il copyright nella Costituzione statunitense Nella stesura del testo della Costituzione, l’idea che agli autori potesse essere riconosciuto il diritto al monopolio sul copyright venne proposta – e rifiutata. I padri fondatori degli Stati Uniti par- tirono da una premessa diversa, secondo cui il copyright non è un diritto naturale degli autori, quanto piuttosto una condizio- ne artificiale concessa loro per il bene del progresso. La Costitu-

114 zione permette l’esistenza di un sistema sul copyright tramite il seguente paragrafo (articolo I, sezione 8): «Il Congresso avrà il potere di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni». La Corte Suprema ha ripetutamente affermato che promozione del progresso significa apportare dei benefici agli utenti delle opere sot- to copyright. Ad esempio, nella causa Fox Film v. Doyal, la Corte ha sostenuto: «L’unico interesse degli Stati Uniti e l’obiettivo primario nell’asse- gnazione del monopolio [sul copyright] va cercato nei benefici generali derivanti al pubblico dai lavori degli autori». Questa decisione fondamentale illustra il motivo per cui nella Costituzione statunitense il copyright non venga imposto, bensì sol- tanto consentito in quanto opzione possibile – e perché se ne ipo- tizza la durata per “periodi di tempo limitati”. Se si trattasse di un diritto naturale, qualcosa assegnato agli autori perché lo meritano, nulla potrebbe giustificarne la cessazione dopo un determinato periodo, al pari dell’abitazione di qualcuno che dovesse divenire di proprietà pubblica trascorso un certo tempo dalla sua costruzione.

Il “contratto sul copyright” Il sistema del copyright funziona tramite l’assegnazione di privile- gi e relativi benefici per editori e autori. Ma non lo fa nell’interes- se di costoro, quanto piuttosto per modificarne il comportamento: per fornire un incentivo agli autori a scrivere di più e agli editori a pubblicare di più. In effetti, il governo utilizza i diritti naturali del pubblico, a nome di quest’ultimo, come parte di una trattativa con-

115 trattuale finalizzata a offrire allo stesso pubblico un maggior nume- ro di opere. Gli esperti legali definiscono questo concetto “contratto sul copyright”. Qualcosa di analogo all’acquisto da parte del gover- no di un’autostrada o di un aeroplano usando i soldi dei contri- buenti, con la differenza che qui il governo spende la nostra libertà anziché il nostro denaro. Ma l’esistenza di un tale contratto può davvero considerarsi un buon affare per il pubblico? È possibile considerare molti altri accor- di alternativi; qual’è il migliore? Ogni singola questione inerente le procedure sul copyright rientra nel contesto di una simile doman- da. Se non si comprende pienamente la natura di tale domanda, tenderemo a prendere decisioni errate sulle varie questioni coin- volte. La Costituzione autorizza l’assegnazione dei poteri del copyright agli autori. In pratica, costoro tipicamente li cedono agli editori; generalmente spetta a questi ultimi, non agli autori, l’esercizio di tali poteri onde trarne la maggior parte dei benefici, pur se agli auto- ri ne viene riservata una piccola porzione. Ne consegue che nor- malmente sono gli editori a spingere per l’incremento dei poteri conferiti dal copyright. Onde offrire una riflessione più attenta sul- la realtà del copyright, piuttosto che sui suoi miti, il presente sag- gio cita gli editori, anziché gli autori, come detentori dei poteri del copyright. Ci si riferisce inoltre agli utenti delle opere sotto copy- right con il termine di “lettori”, pur se non sempre s’intende l’a- zione di leggere, perché “utenti” è troppo astratto e lontano.

Primo errore: “il raggiungimento di un equilibrio” Il contratto sul copyright pone il pubblico al primo posto: il bene- ficio per il lettore è un fine in quanto tale; i benefici (nel caso esi- stano) per gli editori non rappresentano altro che un mezzo per il

116 raggiungimento di quel fine. Gli interessi dei lettori e quelli degli editori sono qualitativamente diseguali nelle rispettive priorità. Il primo passo verso un’errata interpretazione sugli obiettivi del copy- right consiste nell’elevare gli interessi degli editori al medesimo livello d’importanza di quelli dei lettori. Si dice spesso che la legislazione statunitense sul copyright mira al “raggiungimento di un equilibrio” tra gli interessi degli editori e quelli dei lettori. I sostenitori di questa interpretazione la presenta- no come una riproposizione delle posizioni di partenza affermate nella Costituzione; in altri termini, ciò viene ritenuto l’equivalen- te del contratto sul copyright. Ma le due interpretazioni sono tutt’altro che equivalenti: sono dif- ferenti a livello concettuale, come pure nelle implicazioni annesse. L’idea di equilibrio dà per scontato che gli interessi di editori e let- tori differiscano per importanza soltanto a livello quantitativo, rispetto a “quanto peso” va assegnato a tali interessi e in quali cir- costanze questi vadano applicati. Allo scopo di inquadrare la que- stione in un simile contesto, spesso si ricorre al concetto di “parte- cipazione equa”; in tal modo si assegna il medesimo livello d’im- portanza a ciascun tipo d’interesse per quanto concerne le decisio- ni sulle procedure applicative. Questo scenario ripudia la distin- zione qualitativa tra gli interessi degli editori e quelli dei lettori che è alla radice della partecipazione del governo nelle trattative con- trattuali sul copyright. Le conseguenze di una simile alterazione della situazione appaiono di ampia portata, perché la grande protezione del pubblico inclusa nel contratto sul copyright – l’idea secondo cui i privilegi del copy- right possano trovare giustificazione soltanto in nome dei lettori, mai in nome degli editori – viene ripudiata dall’interpretazione del “raggiungimento di un equilibrio”. Poichè l’interesse degli editori

117 è considerato un fine in se stesso, può motivarne i privilegi sul copy- right; in altre parole, il concetto di “equilibrio” sostiene che i privi- legi possano trovare giustificazione in nome di qualche soggetto che non sia il pubblico. A livello pratico, la conseguenza di tale concetto di “equilibrio” con- siste nel ribaltare l’onere di motivare i cambiamenti da apportare alle legislazioni in materia. Il contratto sul copyright impegna gli editori a convincere i lettori nel cedere loro determinate libertà. Pra- ticamente l’idea di equilibrio capovolge quest’onere, perché in genere non esiste alcun dubbio che gli editori trarranno beneficio dai privilegi aggiuntivi. Così, a meno di non comprovare un dan- no arrecato ai lettori, sufficiente da “pesare di più” di tale benefi- cio, siamo inclini a concludere che agli editori vada garantito pres- soché qualsiasi privilegio richiesto. L’idea del “raggiungimento di un equilibrio” tra editori e lettori va respinta, in quanto nega a questi ultimi la priorità cui hanno diritto.

Raggiungere un equilibrio con cosa? Quando il governo acquista qualcosa per il pubblico, agisce in nome di quest’ultimo; è sua responsabilità ottenere l’accordo più vantag- gioso possibile – per il pubblico, non per gli altri soggetti coinvol- ti nella trattativa. Ad esempio, quando firma un contratto con degli imprenditori edi- li per la costruzione di autostrade, il governo tende a spendere la mini- ma quantità possibile di denaro pubblico. Le agenzie statali ricorro- no a gare d’appalto competitive per spingere i prezzi al ribasso. A livello pratico, il prezzo non può risultare pari a zero, perché gli imprenditori non accettano contratti così bassi. Pur in assenza di condizioni particolari, costoro hanno i medesimi diritti di ogni cit- tadino in una società libera, compreso quello di rifiutare contratti

118 svantaggiosi; per un imprenditore anche l’offerta più bassa potreb- be rivelarsi sufficiente onde guadagnare qualcosa. Esiste quindi una sorta di equilibrio. Ma non si tratta di un equilibrio deliberatamente cercato tra due interessi che esigono considerazioni particolari. È un equilibrio tra un obiettivo pubblico e le dinamiche del merca- to. Il governo tenta di ottenere per i contribuenti motorizzati il miglior contratto possibile nel contesto di una società libera e di un libero mercato. Nella trattativa contrattuale sul copyright, il governo spende la nostra libertà anziché il nostro denaro. La prima è più preziosa del secondo, motivo per cui la responsabilità del governo nello spenderla in manie- ra saggia e parsimoniosa è decisamente maggiore di quella relativa alle spese economiche. Lo stato non deve mai porre gli interessi degli edi- tori sullo stesso piano della libertà del pubblico.

Non “equilibrio” ma “scambio” L’idea di raggiungere un equilibrio tra gli interessi dei lettori e quel- li degli editori è la maniera sbagliata di giudicare le procedure sul copyright, ma in realtà esistono due interessi da soppesare: entram- bi riguardano i lettori. Questi hanno interesse nella propria libertà per l’utilizzo delle opere pubblicate; a seconda delle circostanze, possono inoltre avere interesse nell’incoraggiare la pubblicazione tramite qualche sistema d’incentivazione. Il termine “equilibrio”, nelle discussioni in tema di copyright, è divenuto sinonimo di scorciatoia per l’idea di “raggiungere l’equi- librio” tra lettori ed editori. Di conseguenza, l’uso di tale termine per indicare questi due interessi dei lettori provocherebbe confu- sione – c’è bisogno di un altro termine. In generale, quando un’entità presenta due obiettivi in parziale con- flitto tra loro e non è in grado di raggiungerli entrambi in maniera

119 completa, la situazione viene definita “scambio”. Pertanto, anziché riferirci al “raggiungimento del giusto equilibrio” tra entità diver- se, dovremmo parlare di “trovare il giusto scambio tra il consumo e la conservazione della libertà”.

Secondo errore: privilegiare un unico aspetto Il secondo errore delle politiche sul copyright consiste nell’adotta- re l’obiettivo di massimizzare la quantità di opere pubblicate, non soltanto di incrementarle. L’erroneo concetto del “raggiungimento del giusto equilibrio” aveva posto gli editori al medesimo livello dei lettori; questo secondo errore li eleva molto al di sopra. Quando compriamo qualcosa, generalmente non acquistiamo l’intera quantità di articoli disponibili in magazzino o il model- lo più costoso. Preferiamo piuttosto risparmiare per ulteriori compere, acquistando soltanto quanto ci occorre di una deter- minata merce, e scegliendo un modello di buon livello anziché della qualità migliore in assoluto. Sulla base del principio della diminuzione del profitto, spendere tutti i soldi per un unico arti- colo si rivela con tutta probabilità una gestione inefficiente del- le risorse disponibili. La diminuzione del profitto si applica al copyright come a qualsia- si acquisto. Le prime libertà che dovremmo scambiare sono quelle di cui potremo fare più facilmente a meno, pur offrendo il mag- giore incoraggiamento possibile alla pubblicazione. Mentre barat- tiamo le libertà aggiuntive via via più familiari, ci rendiamo conto come ogni scambio comporti un sacrifico maggiore del preceden- te, portando al contempo un minore incremento all’attività lette- raria. Assai prima che tale incremento raggiunga quota zero, pos- siamo ben dire che ciò non giustifica ulteriori aumenti di prezzo; dovremmo quindi raggiungere un accordo che preveda l’aumento

120 del numero delle pubblicazioni in circolazione, senza tuttavia arri- vare al massimo possibile. L’accettazione dell’obiettivo di massimizzare la quantità delle pub- blicazioni comporta il rifiuto aprioristico di tutti questi accordi più saggi e vantaggiosi – tale posizione impone al pubblico di cedere quasi tutta la propria libertà di utilizzo delle opere pubblicate, in cambio di un incremento modesto delle pubblicazioni.

La retorica della massimizzazione In pratica, l’obiettivo di massimizzare le pubblicazioni prescin- dendo dal prezzo imposto alla libertà si fonda sulla diffusa reto- rica secondo cui la copia pubblica sia qualcosa di illegale, ingiu- sto e intrinsecamente sbagliato. Ad esempio, gli editori defini- scono “pirati” coloro che copiano, termine dispregiativo mirato ad equiparare l’assalto a una nave e la condivisione delle infor- mazioni con il vicino di casa. (Quel termine dispregiativo era già stato impiegato dagli autori per descrivere quegli editori che ave- vano scovato dei modi legali per pubblicare edizioni non autoriz- zate; il suo utilizzo attuale da parte degli editori riveste un signi- ficato pressoché opposto). Questa retorica ripudia direttamente le basi costituzionali a supporto del copyright, ma si presenta come rappresentativa dell’inequivocabile tradizione del sistema legale americano. In genere la retorica del “pirata” viene accettata perché inonda a tal punto tutti i media che pochi riescono ad afferrarne la radicalità. Si dimostra efficace perché, se la copia a livello pubblico è fonda- mentalmente qualcosa di illegittimo, non potremmo mai obietta- re alla richiesta degli editori di cedere quella libertà che ci appar- tiene. In altre parole, quando il pubblico viene sfidato a spiegare perché gli editori non dovrebbero ottenere ulteriori poteri, il moti-

121 vo più importante di tutti – “vogliamo copiare” – subisce una degra- dazione aprioristica. Ciò non lascia spazio per controbattere l’incremento di potere asse- gnato al copyright se non ricorrendo a questioni collaterali. Di con- seguenza oggi l’opposizione al maggior potere del copyright poggia quasi esclusivamente su tali questioni collaterali, e non osa mai cita- re la libertà di distribuire delle copie in quanto legittimo valore pub- blico. A livello pratico, l’obiettivo della massimizzazione consente agli edi- tori di sostenere che “una determinata pratica sta portando alla ridu- zione delle vendite - o crediamo possa farlo – così riteniamo che ciò sia causa della diminuzione di una quantità imprecisata di pubbli- cazioni, e di conseguenza occorre proibirla”. Siamo portati a cre- dere all’oltraggiosa conclusione secondo cui il bene pubblico vada misurato dalle vendite degli editori. Quello che va bene per i Gran- di Media va bene per gli Stati Uniti.

Terzo errore: massimizzare il potere degli editori Una volta riconosciuto agli editori l’assenso a una politica mirata alla massimizzazione della quantità di pubblicazioni in circolazio- ne, costi quel che costi, il passo successivo è quello di ritenere che ciò significhi assegnare loro i massimi poteri possibili – ricorrendo al copyright per regolamentare ogni impiego immaginabile di un’o- pera, oppure applicando altri strumenti legali dall’effetto analogo, tipo le licenze accettate automaticamente dall’utente nel momento in cui apre la confezione originale di un prodotto. Quest’obiettivo, che implica l’abolizione di ogni uso legittimo e del diritto alla pri- ma vendita, viene perseguito con forza a ogni livello governativo, dai singoli stati USA alle organizzazioni internazionali. Si tratta una procedura errata perché norme sul copyright eccessi-

122 vamente rigide impediscono la creazione di opere nuove e utili. Ad esempio, Shakespeare prese in prestito la trama di alcuni suoi testi teatrali da altri lavori in circolazione già da alcuni decenni; appli- cando a quell’epoca le odierne norme sul copyright, le sue opere avrebbero dovuto considerarsi illegali. Pur mirando alla maggiore quantità possibile di pubblicazioni, volendo ignorarne il prezzo ai danni del pubblico, è sbagliato arri- varci massimizzando i poteri degli editori. Come mezzo per la pro- mozione del progresso, ciò si rivela controproducente.

I risultati dei tre errori L’attuale tendenza delle legislazioni sul copyright è quella di con- cedere agli editori maggiori poteri per periodi di tempo più lunghi. Il principio concettuale del copyright, che emerge distorto a segui- to della serie di errori sopra illustrati, raramente offre la base per poter dire no a tale tendenza. A parole i legislatori sostengono l’i- dea del copyright al servizio del pubblico, mentre in realtà cedono a qualunque richiesta degli editori. Ad esempio, così si è espresso il senatore statunitense Hatch nel 1995, durante la presentazione del disegno di legge S. 483 finaliz- zato all’estensione dei termini del copyright di ulteriori 20 anni: «Credo che oggi il punto sia quello di dare una risposta alla doman- da se gli odierni termini del copyright possano tutelare adeguata- mente gli interessi degli autori e alla questione connessa se quei ter- mini possano continuare a fornire un sufficiente incentivo per la creazione di nuove opere». Questa legge ha esteso il copyright su opere già pubblicate, scritte a partire dal 1920. La modifica è stata un regalo agli editori senza alcun possibile beneficio per il pubblico, poichè è impossibile

123 aumentare in maniera retroattiva il numero di libri pubblicati allo- ra. Tuttavia, ciò costa al pubblico una libertà oggi significativa – la redistribuzione dei libri del passato. La normativa estende inoltre il copyright di opere che devono esse- re ancora scritte. Per i lavori su commissione, il copyright durerà 95 anni invece degli attuali 75. In teoria ciò dovrebbe rivelarsi un maggiore incentivo per la creazione di nuove opere; ma qualunque editore che sostenga la necessità di un simile incentivo dovrebbe motivarlo con le previsioni di bilancio fino all’anno 2075. Inutile aggiungere che il Congresso non ha posto in dubbio gli argomenti degli editori: la legislazione per l’estensione del copy- right è stata approvata nel 1998. È stata chiamata Sonny Bono Copyright Term Extension Act, riprendendo il nome di uno dei proponenti poi scomparso in quell’anno. La vedova, che ne ha proseguito il mandato parlamentare, ha rilasciato la seguente dichiarazione: «In realtà, Sonny voleva far durare il copyright all’infinito. Qualcu- no dello staff mi ha informato che ciò violerebbe la Costituzione. Vi invito tutti a lavorare con me per rafforzare le norme sul copyright in ogni modo possibile. Come sapete, esiste anche una proposta di Jack Valenti per farlo durare indefinitamente meno un giorno. For- se la commissione potrebbe prenderla in esame nel corso della pros- sima sessione congressuale». La Corte Suprema ha accettato di esaminare la richiesta dell’an- nullamento di tali norme sulla base del fatto che un’estensione retroattiva sia contraria all’obiettivo costituzionale della promozio- ne del progresso. Un’altra legge, approvata nel 1996, ha trasformato in reato grave la copia, in quantità sufficientemente elevate, di qualsiasi lavoro pub- blicato, anche nel caso di successiva distribuzione agli amici per

124 pura gentilezza. In precedenza ciò non veniva affatto considerato reato negli Stati Uniti. Una legislazione finanche peggiore, il Digital Millennium Copyri- ght Act (DMCA), è stata progettata per imporre nuovamente pro- tezioni anti-copia (detestate dagli utenti informatici), rendendo reato ogni infrazione a tali protezioni, o perfino la pubblicazione di informazioni sul modo di superarle. Questa legge dovrebbe essere chiamata “Domination by Media Corporations Act” (legge per la dominazione delle corporation dei media) perché consente di fat- to agli editori la possibilità di scrivere leggi sul copyright a proprio vantaggio. Queste norme permettono loro l’imposizione di qual- siasi tipo di restrizioni sull’utilizzo di un’opera, con le annesse san- zioni repressive, purché le opere siano dotate di qualche tipo di crit- tazione o di licenza onde poterle applicare. Una delle tesi a sostegno di questa legge era che sarebbe servita all’implementazione di un recente trattato mirato all’espansione dei poteri del copyright. Il trattato è stato promulgato dalla World Intellectual Property Organization, entità in cui dominano gli inte- ressi dei detentori di copyright e di brevetti, con l’aiuto della pres- sione esercitata dall’amministrazione Clinton; poiché il trattato non fa altro che ampliare il potere del copyright, è assai dubbio che possa servire gli interessi del pubblico in altri paesi. In ogni caso, la normativa andò ben oltre quanto richiesto dal trattato stesso. Le biblioteche costituirono un elemento chiave nell’opposizione a quella proposta, particolarmente riguardo alle norme che impedi- vano le varie forme di copia considerate “uso legittimo”. Come han- no risposto gli editori? L’ex deputato Pat Schroeder, attualmente impegnato in azioni di lobby per conto della Association of Ame- rican Publisher, l’Associazione degli editori statunitensi, ha soste- nuto che “gli editori non possono aderire alle richieste [delle biblio-

125 teche]”. Poiché queste ultime chiedevano semplicemente di man- tenere parte dello status quo, si potrebbe replicare chiedendosi come abbiano fatto gli editori a sopravvivere fino a oggi. Il parlamentare Barney Frank, nel corso di una riunione con il sotto- scritto e altri oppositori della legge, mostrò fino a che punto sia stato travisato il concetto di copyright incluso nella costituzione. Secondo il deputato statunitense, occorreva stabilire urgentemente nuovi pote- ri, sostenuti da pene severe, perché “l’industria cinematografica è preoccupata”, come pure “il settore discografico” e “altre industrie”. Allora gli ho chiesto: «Ma ciò sarebbe forse a favore dell’interesse pub- blico?». La sua replica è stata: «Perché mai tiri fuori l’interesse pubbli- co? Queste persone creative non devono cedere i propri diritti a favo- re dell’interesse pubblico!». Così “l’industria” viene identificata con le “persone creative” cui dà lavoro, il copyright è trattato come un dirit- to che le appartiene e la costituzione viene completamente ribaltata. IL DMCA è stato approvato nel 1998. Nella stesura finale si legge che l’uso legittimo rimane formalmente tale, ma gli editori hanno la facoltà di vietare tutto il software o l’hardware necessario per poterlo mettere in pratica. Di fatto, l’uso legittimo viene proibito. Sulla base di questa legge, l’industria cinematografica ha imposto la censura sul software libero per la lettura e la visione dei DVD, e perfino sulle relative informazioni. Nell’aprile 2001 il professor Edward Felten della Princeton University, minacciato di denuncia dalla Recording Industry Association of America (RIAA), ha riti- rato una ricerca scientifica in cui illustrava quanto aveva imparato sul sistema cifrato proposto per impedire l’accesso alla musica regi- strata. Stiamo inoltre assistendo all’avvento di libri elettronici (e-book) che cancellano molte delle libertà tipiche del lettore tradizionale – ad esem- pio, quella di prestare il libro a un amico, di rivenderlo a un libreria

126 dell’usato, di prenderlo in prestito da una biblioteca, di acquistarlo senza dover fornire le proprie generalità al database aziendale, perfino la libertà di poterlo rileggere. Generalmente i libri elettronici cifrati impediscono tutte queste libertà – è possibile leggerli soltanto grazie a un particolare software segreto, progettato per imporre simili restri- zioni al lettore. Non acquisterò mai uno di questi e-book crittati e protetti, e spe- ro che anche voi li rifiuterete. Se un libro elettronico non offre le medesime libertà di un tradizionale volume cartaceo, non accetta- telo! Chiunque diffonda in modo indipendente un software in grado di leggere gli e-book cifrati rischia di andare in galera. Nel 2001 un programmatore russo, Dimitry Sklyarov, venne arrestato mentre si trovava negli Stati Uniti per intervenire a una conferenza, perché aveva scritto un tale programma in Russia, dove ciò era pienamen- te legale. Ora anche la Russia sta varando una legge per vietare simi- li attività, e recentemente l’Unione Europea ne ha adottata una ana- loga. Finora il mercato di massa dei libri elettronici si è dimostrato un fallimento commerciale, ma non perché i lettori abbiano deciso di difendere le proprie libertà; gli e-book sono poco interessanti per altri motivi, tra cui la difficile lettura dei testi sul monitor del com- puter. A tempi lunghi non possiamo affidare la nostra tutela a que- sto felice incidente di percorso; il prossimo tentativo di promuove- re gli e-book prevede l’utilizzo di “carta elettronica” – oggetti somi- glianti ai comuni volumi all’interno dei quali scaricare libri elet- tronici crittati e protetti. Se questa superficie simile alla carta doves- se risultare più leggibile degli odierni monitor, saremo chiamati a tutelare la nostra libertà onde poterla conservare. Nel frattempo gli e-book vanno aprendosi un mercato di nicchia: la New York Uni-

127 versity e altri istituti richiedono agli studenti di acquistare i libri di testo nel formato elettronico protetto. L’industria dei media non è ancora soddisfatta. Nel 2001 il senato- re Hollings, sovvenzionato dalla Disney, ha presentato una propo- sta di legge chiamata “Security Systems Standards and Certification Act” (SSSCA), in seguito rinominata Consumer Broadband and Digital Television Promotion Act, la quale prevede la presenza in tutti i computer (e altri apparecchi digitali per la registrazione e la lettura) di sistemi anti-copia imposti dal governo. Ciò rappresenta l’obiettivo finale dell’industria, ma il primo punto all’ordine del giorno mira a vietare qualunque dispositivo in grado di interveni- re sulla sintonia della HDTV (High Definition TV, la TV digitale ad alta definizione), a meno che non sia progettato in modo tale da impedire all’utente di “manometterla” (ovvero, di modificarla a sco- po personale). Poichè il software libero è tale proprio perché gli utenti possano modificarlo, qui ci troviamo di fronte per la prima volta a una proposta di legge che vieta esplicitamente il software libero per determinate funzioni. Certamente seguiranno analoghi divieti per ulteriori funzioni. Nel caso la Federal Communications Commission statunitense dovesse adottare simili proposte, pro- grammi di software libero già esistenti quali GNU Radio verreb- bero censurati. Occorre mobilitarsi a livello politico per bloccare queste normati- ve (a partire dai seguenti siti web: http://www.digitalspeech.org e http://www.eff.org).

Come arrivare a un contratto equo Qual’è la maniera adeguata per stabilire una corretta politica del copyright? Se quest’ultimo è un patto raggiunto a nome del pub- blico, dovrebbe innanzitutto servire l’interesse pubblico. Il dovere

128 del governo, quando si appresta a smerciare la libertà pubblica, è quello di vendere soltanto quanto necessario e al prezzo più caro possibile. Come minimo dovremmo controbilanciare al massimo l’estensione del copyright pur conservando un’analoga quantità di pubblicazioni disponibili. Poiché è impossibile raggiungere questo livello minimo di libertà tramite gare d’appalto competitive, come nel caso dei progetti edi- lizi, quale strada conviene seguire? Un metodo possibile consiste nel ridurre i privilegi del copyright in maniera graduale e osservarne i risultati. Verificando se e quando si raggiunge un livello misurabile nella diminuzione delle pubblica- zioni, potremo capire quanto sia il potere del copyright effettiva- mente necessario per il raggiungimento degli obiettivi del pubbli- co. Ciò va giudicato tramite l’osservazione diretta, non sulla base di quanto gli editori ritengano debba accadere, perché questi han- no tutto l’interesse a esagerare le previsioni negative in caso ne ven- ga ridotto in qualche modo il potere. Le politiche sul copyright comprendono svariate dimensioni tra loro indipendenti, le quali possono essere organizzate in maniera separata. Dopo aver raggiunto il livello minimo relativo a una di tali dimensioni, è sempre possibile ridurre altre dimensioni del copyright pur mantenendo la voluta quantità di pubblicazioni. Una dimensione importante del copyright riguarda la sua durata, che tipicamente oggi è dell’ordine di un secolo. La limitazione del monopolio sulla copia a dieci anni, a partire dalla data di pubbli- cazione di un’opera, potrebbe rivelarsi un buon passo iniziale. Un altro aspetto del copyright – quello concernente la realizzazione di lavori derivati – potrebbe invece continuare a esistere per un perio- do più lungo. Perché si parte dalla data di pubblicazione? Perché il copyright su

129 lavori inediti non limita direttamente la libertà dei lettori; avere la libertà di copiare un’opera è qualcosa di fittizio quando non ne cir- colano degli esemplari. Consentire perciò maggior tempo per pub- blicare qualcosa non procura alcun danno. Raramente gli autori (che in genere prima della pubblicazione sono titolari del copyri- ght) sceglieranno di ritardare la pubblicazione soltanto per esten- dere all’indietro l’esaurimento dei termini del copyright. Perché dieci anni? Perché è una proposta adeguata; a livello prati- co possiamo ritenere che questa riduzione produrrà scarso impatto sulle odierne attività editoriali in generale. Per la maggior parte dei settori e dei generi, le opere di successo sono molto remunerative nel giro di qualche anno, e perfino tali opere di successo general- mente vanno fuori catalogo assai prima dei dieci anni. Anche per i testi di consultazione generale, la cui vita d’utilità può estendersi fino a parecchi decenni, un copyright di dieci anni dovrebbe risul- tare sufficiente: se ne pubblicano regolarmente nuove stesure aggiornate, e gran parte dei lettori preferiranno acquistare l’ultima edizione sotto copyright, anziché una versione di dominio pubbli- co del decennio precedente. Dieci anni potrebbe comunque essere un periodo più lungo del necessario: una volta sistemate le cose, potremmo provare un’ulte- riore riduzione per meglio rifinire il sistema. Nel corso di una discussione sul copyright durante una manifestazione letteraria, dove proponevo il termine dei dieci anni, un noto autore di testi fantastici che mi sedeva accanto protestò con veemenza, sostenen- do che qualunque termine superiore ai cinque anni sarebbe stato intollerabile. Ma non c’è motivo di applicare la medesima durata a tutti i tipi di lavori. Il mantenimento di una stretta uniformità per le politiche sul copyright non è cruciale all’interesse pubblico, e già le legisla-

130 zioni correnti prevedono numerose eccezioni per impieghi e ambi- ti particolari. Sarebbe folle pagare per ogni progetto autostradale la stessa somma necessaria per i progetti più difficili realizzati nelle aree più costose del paese; parimenti folle sarebbe “pagare” ogni tipo di produzione artistica al prezzo più caro in termini di libertà rite- nuto necessario per un’opera specifica. Così forse i romanzi, i dizionari, i programmi informatici, le can- zoni, le sinfonie e i film dovrebbero seguire una durata diversa per il copyright, in modo da poterla ridurre per ciascun genere al ter- mine necessario a garantire la pubblicazione di un certo numero di lavori. Forse i film che durano più di un’ora potrebbero avere un copyright di vent’anni, considerandone le spese di produzione. Nel mio settore, la programmazione informatica, tre anni dovrebbero bastare, perché i cicli di produzione sono anche più brevi di un tale periodo. Un’altra dimensione delle politiche sul copyright riguarda l’esten- sione dell’uso legittimo: quelle modalità di riproduzione totale o parziale di un lavoro, legalmente consentite anche quando l’opera pubblicata è coperta da copyright. Il primo passo naturale nella riduzione di questa dimensione del potere del copyright consiste nel permettere la copia e la distribuzione tra i singoli individui a livello occasionale, privato e in piccole quantità. In tal modo si evi- terebbe l’intrusione della polizia nella vita privata della gente, pur avendo probabilmente scarso effetto sulle vendite dei lavori pub- blicati. (Potrebbe rivelarsi necessario intraprendere ulteriori passi legali onde assicurarsi che le licenze incluse automaticamente nelle confezioni originali dei prodotti non possano essere utilizzate in sostituzione del copyright per limitare tali attività di copia). L’e- sperienza di Napster dimostra che dovremmo altresì consentire la redistribuzione integrale non-commerciale a una comunità più

131 vasta – quando una parte così ampia del pubblico decide di copia- re e condividere qualcosa, considerando assai utili simili pratiche, ciò potrà essere bloccato soltanto ricorrendo a misure draconiane, e il pubblico merita di avere quanto chiede. Per i romanzi, e in generale per le opere d’intrattenimento, la redi- stribuzione integrale non-commerciale potrebbe dimostrarsi una libertà sufficiente per i lettori. I programmi informatici, essendo utilizzati per scopi funzionali (portare a termine determinati com- piti), richiedono ulteriori libertà aggiuntive, compresa la pubblica- zione di versioni migliorate. A motivazione delle libertà che dovreb- bero avere gli utenti di software si veda il testo incluso in questo stesso volume “La definizione di software libero”. Tuttavia, un com- promesso accettabile potrebbe rivelarsi quello di rendere tali libertà universalmente disponibili soltanto dopo un ritardo di due o tre anni dalla data di pubblicazione del programma. Questa serie di modifiche finirebbero per allineare il copyright con la volontà del pubblico di usare le tecnologie digitali per copiare. Sen- za dubbio gli editori considereranno “sbilanciate” simili proposte; potrebbero minacciare di prendere le proprie biglie e andarsene via, ma non lo faranno sul serio, perché il gioco rimarrà comunque red- ditizio e sarà l’unico possibile. Mentre si vanno considerando le possibili riduzioni ai poteri del copy- right, dobbiamo accertarci che le varie aziende del settore non lo sosti- tuiscano semplicemente con apposite licenze relative all’utente fina- le. Sarà necessario vietare l’uso di contratti mirati a imporre restri- zioni sulla copia che vadano oltre quelle già previste dal copyright. Nel sistema legale statunitense è pratica comune stabilire simili dispo- sizioni su quanto previsto dai contratti non-negoziabili per settori di grande consumo.

132 Una nota personale La mia attività riguarda la programmazione informatica, non l’am- bito giuridico. Mi sono interessato alle questioni legate al copyri- ght perché è impossibile evitarle nel mondo delle reti informatiche (essendo internet quella più vasta al mondo). In quanto utente di computer e di reti informatiche per trent’anni, attribuisco molto valore alle libertà che abbiamo abdicato, e a quelle che potremmo perdere in futuro. In quanto autore, rifiuto la mistica romantica che ci considera alla stregua di creature semidivine, immagine spesso citata dagli editori a giustificare l’incremento di poteri sul copyri- ght agli autori, i quali poi li trasferiscono agli stessi editori. Per la gran parte questo saggio presenta fatti e ragionamenti facil- mente verificabili, oltre a una serie di proposte su cui ciascuno di noi può farsi una propria opinione. Chiedo tuttavia al lettore di accettare un solo elemento basato sulla mia parola: autori come il sottoscritto non meritano di avere poteri speciali sugli altri. Se qual- cuno vuole ricompensarmi ulteriormente per il software o i libri che ho scritto, accetto volentieri un assegno – ma vi invito a non rinun- ciare alla vostra libertà a nome mio.

Questa è la prima versione mai pubblicata di questo saggio, e fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

133 La scienza deve mettere da parte il copyright

Dovrebbe essere evidente che lo scopo dell’editoria scientifica è la dif- fusione delle conoscenze scientifiche, e che le relative pubblicazioni esistono per facilitare un simile processo. Di conseguenza le norme che regolamentano tale attività editoriale dovrebbero assecondare il raggiungimento di quest’obiettivo. Le regole attualmente in vigore, note come copyright, vennero stabi- lite all’epoca dell’invenzione della stampa, metodo intrinsecamente centralizzato per la copia a livello di massa. Nel settore della stampa, il copyright sugli articoli di queste pubblicazioni riguardava soltanto gli editori, imponendo loro l’ottenimento del permesso per la pub- blicazione dei materiali, e i potenziali plagiaristi. Ciò consentì a quel- l’attività editoriale di operare e diffondere conoscenza, senza interfe- rire con l’utile attività di ricercatori e studenti, sia in quanto autori o lettori dei testi. Si trattava di norme adeguate a quel sistema. Tuttavia, la tecnologia moderna per l’editoria scientifica è il World Wide Web. Quali le norme che possono garantire al meglio la massi- ma diffusione di materiale e conoscenze scientifiche sul Web? Gli arti- coli andrebbero distribuiti in formati non-proprietari, garantendone il libero accesso a tutti. E chiunque dovrebbe avere il diritto a crearne dei mirror, ovvero a ripubblicarli altrove in versione integrale con gli adeguati riconoscimenti. Regole queste che andrebbero applicate sia a testi passati che futuri, quando venga distribuito in formato elettronico. Ma non esiste alcun bisogno reale di modificare l’attuale sistema di copyright relativo alle

134 pubblicazioni cartacee, poichè il problema non riguarda quel settore. Sembra purtroppo che non tutti siano d’accordo con l’evidente verità che ha aperto questo saggio. Numerosi editori di pubblicazioni scien- tifiche sembrano ritenere che lo scopo dell’editoria specializzata sia quello di consentire loro quell’attività in modo da incassare le quote di abbonamento da ricercatori e studenti. Un ragionamento meglio noto come “confondere il fine con il mezzo”. L’approccio di costoro è stato quello di impedire l’accesso perfino alla lettura del materiale scientifico a quanti possono e sono disposti a pagare per farlo. Si è ricorso alle leggi sul copyright, che rimangono in vigore nonostante l’inadeguatezza rispetto alle reti informatiche, come scusa per impedire ai ricercatori di scegliere nuove regole. Nell’interesse della cooperazione scientifica e del futuro dell’umanità, dobbiamo rifiutare alla radice un simile approccio – non soltanto i sistemi di blocco realizzati su queste basi, ma anche le errate priorità a cui sono ispirati. Talvolta questi editori sostengono che l’accesso online richiede l’impie- go di costosi server di alta potenza, e che devono imporre delle tariffe onde pagare le relative spese. Questo “problema” è una conseguenza del- l’analoga “soluzione”. Offriamo a tutti la libertà di creare dei mirror, e saranno le biblioteche di ogni parte del mondo a occuparsi di tali mir- ror per far fronte alle richieste. Una soluzione decentralizzata che ridurrà le necessità dell’ampiezza di banda e garantirà la rapidità d’accesso, tute- lando al contempo i materiali di ricerca contro perdite accidentali. Secondo gli editori, inoltre, lo stipendio dei redattori interni richiede l’imposizione di tariffe per l’accesso ai materiali. Diamo per scontato il fatto che i redattori vadano remunerati. La spesa per la revisione di una comune ricerca varia tra l’uno e il tre per cento del costo necessa- rio alla sua realizzazione. Una percentuale talmente ridotta non può giustificare l’ostruzione nell’utilizzo dei risultati delle ricerche.

135 Al contrario, le spese di revisione potrebbero essere recuperate, ad esempio, imponendo una tariffa per pagina a carico degli autori, i qua- li a loro volta verrebbero rimborsati dagli sponsor della ricerca. È pro- babile che costoro non sollevino obiezioni, visto che attualmente sostengono spese ben più sostanziose per via delle tariffe a copertura degli abbonamenti delle biblioteche universitarie alle varie pubblica- zioni. Modificando il modello economico in modo che le spese di revi- sione siano a carico degli sponsor della ricerca, è possibile eliminare l’apparente bisogno di limitare la visione dei materiali on-line. L’au- tore occasionale non affiliato con alcuna istituzione o azienda, e pri- vo del sostegno di uno sponsor, potrebbe essere esente dalle spese di revisione, i cui costi andrebbero aggiunti a quegli autori che operano all’interno delle istituzioni. Un’ulteriore giustificazione per l’imposizione di quote per accedere alle pubblicazioni on-line concerne la conversione degli archivi carta- cei in formato digitale. Occorre certamente portare a termine simili progetti, ma dovremmo trovare modalità alternative per sostenerne le spese, modalità che non prevedano simili restrizioni d’accesso. Il lavo- ro in se stesso non risulterà più difficoltoso, né produrrà la maggiora- zione delle spese. È controproducente riversare gli archivi in formato digitale per poi sprecarne i risultati limitandone l’accesso. La Costituzione statunitense sostiene che il copyright esiste per “pro- muovere il progresso della scienza”. Quando è il copyright a impedi- re tale progresso, la scienza deve metterlo da parte.

Questo saggio è apparso per la prima volta nel 1991 sul sito http://www.nature.com nella sezione Web Debates. Questa versione fa par- te del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stal- lman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

136 Cos’è il copyleft?

Il copyleft [permesso d’autore] è un metodo generale per realizza- re un programma di software libero e richiedere che anche tutte le versioni modificate e ampliate dello stesso rientrino sotto il softwa- re libero. La maniera più semplice per rendere libero un programma è quella di farlo diventare di pubblico dominio, senza copyright [diritto d’auto- re]. Ciò consente a chiunque di condividere tale programma e i relati- vi perfezionamenti, se questa è l’intenzione dell’autore. Ma così facen- do, qualcuno poco incline alla cooperazione potrebbe trasformarlo in software proprietario. Potrebbe apportarvi delle modifiche, poche o tante che siano, e distribuirne il risultato come software proprietario. Coloro che lo ricevono in questa versione modificata non hanno la stes- sa libertà riconosciuta loro dall’autore originale; è stato l’intermediario a strappargliela. L’obiettivo del progetto GNU è quello di offrire a tutti gli utenti la libertà di ridistribuire e modificare il software GNU. Se l’interme- diario potesse strappar via la libertà, potremmo vantare un gran numero di utenti, ma privati della libertà. Di conseguenza, anziché rendere il software GNU di pubblico dominio, lo trasformiamo in “copyleft”. Questo specifica che chiunque ridistribuisca il software, con o sen- za modifiche, debba passare oltre anche la libertà di poterlo copia- re e modificare ulteriormente. Il copyleft garantisce che ogni uten- te conservi queste libertà. Il copyleft fornisce inoltre ad altri programmatori l’incentivo ad

137 aggiungere propri contributi al software libero. Importanti pro- grammi liberi, quali il compilatore GNU C++, esistono soltanto grazie a tali incentivi. Il copyleft aiuta altresì quei programmatori disposti a offrire con- tributi per migliorare il software libero a ottenerne il permesso. Spesso costoro lavorano per aziende o università che sarebbero disposte a quasi tutto pur di guadagnare qualcosa. Un program- matore potrebbe voler offrire alla comunità le proprie modifiche, ma il datore di lavoro vorrebbe invece inserirle all’interno di un pro- dotto di software proprietario. Quando gli spieghiamo che è illegale distribuirne versioni miglio- rate se non come software libero, generalmente il datore di lavoro decide di diffonderle in quanto tali piuttosto che buttarle via. Per trasformare un programma in copyleft, prima lo dichiariamo sotto copyright; poi aggiungiamo i termini di distribuzione, stru- mento legale onde garantire a chiunque il diritto all’utilizzo, alla modifica e alla redistribuzione del codice di quel programma o di qualsiasi altro da esso derivato, ma soltanto nel caso in cui i termi- ni della distribuzione rimangano inalterati. Così il codice e le libertà diventano inseparabili a livello legale. Gli sviluppatori di software proprietario ricorrono al copyright per rubare agli utenti la propria la libertà; noi usiamo il copyright per tutelare quella libertà. Ecco perché abbiamo scelto il nome oppo- sto, modificando “copyright” in “copyleft”. Il copyleft è un concetto generale; esistono svariate modalità per definirne i dettagli. Nel progetto GNU, i termini specifici della nostra distribuzione vengono indicati nella GNU General Public License (Licenza Pubblica Generica GNU), spesso abbreviata in GNU GPL. Al riguardo esiste l’apposita pagina che risponde alle domande più frequenti (FAQ, Frequently Asked Questions:

138 http://www.gnu.org/licenses/gpl-faq.html). È inoltre possibile infor- marsi sul perché la Free Software Foundation riceva dei progetti sot- to copyright da vari collaboratori (http://www.gnu.org/copyleft/why- assign.html). Una forma alternativa di copyleft, la GNU Lesser General Public License, nota con l’acronimo LGPL, viene applicata ad alcune libre- rie GNU, ma non a tutte. Inizialmente questa licenza era chiama- ta GNU Library GPL, ma ne abbiamo modificato il nome perché quello precedente incoraggiava gli sviluppatori a usarla con mag- gior frequenza di quanto avessero dovuto. La GNU Library GPL, è tuttora disponibile in formato HTML e testo, pur essendo stata superata dalla LGPL. La GNU Free Documentation License, abbreviata in FDL (Licen- za per Documentazione Libera GNU) è una forma di copyleft sti- lata per l’utilizzo in manuali, libri di testo o altri documenti onde garantire a chiunque l’effettiva libertà di copiare e ridistribuire tali materiali, con o senza modifiche, sia a livello commerciale che non- commerciale. La licenza appropriata è inclusa in numerosi manua- li e in ogni distribuzione del codice sorgente GNU. La GNU GPL è progettata in modo da poter essere facilmente applicata a ogni programma, qualora l’autore ne detenga il copyri- ght. Per farlo non è necessario apportare modifiche a tale licenza, basta aggiungere al programma una nota che faccia corretto riferi- mento al testo della GNU GPL. Per rendere copyleft un programma usando la GNU GPL oppure la GNU LGPL, occorre riferirsi alla pagina con le apposite istru- zioni (http://www.gnu.org/copyleft/gpl-howto.html). È importan- te notare che, qualora si decida di fare uso della GPL, bisogna ripor- tarne il testo per intero. Si tratta di un insieme integrale, di cui non è consentita la copia parziale. (Analogo discorso per la LGPL).

139 Il ricorso agli stessi termini di distribuzione per programmi diver- si tra loro ne facilita la copia del codice. Poichè tutti i programmi seguono i medesimi termini di distribuzione, non occorre preoc- cuparsi se questi siano o meno compatibili. La LGPL comprende una nota che consente la modifica dei termini di distribuzione per aderire alla GPL normale, in modo da renderne possibile la copia del codice in un altro programma già coperto dalla GPL. Per rendere copyleft un manuale tramite la GNU FDL si consulti la pagina delle relative istruzioni (http://www.gnu.org/copyleft/fdl-how- to.html). Come nel caso della GNU GPL, occorre usare la licenza per intero; non sono ammesse copie parziali.

Originariamente scritto nel 1996. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002.

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

140 Copyleft: idealismo pragmatico

Ogni decisione presa nella vita emerge dai valori e dagli obiettivi personali. Questi possono variare da individuo a individuo; la fama, il denaro, l’amore, la sopravvivenza, il divertimento e la libertà, sono soltanto alcuni degli obiettivi perseguiti da una brava persona. Quando l’obiettivo è quello di aiutare tanto gli altri quanto se stes- si, lo si definisce idealismo. La mia attività nel campo del software libero è motivata da uno sco- po idealistico: diffondere libertà e collaborazione. Voglio stimolare la diffusione del software libero, sostituendo il software proprieta- rio che vieta la cooperazione, per contribuire così al miglioramen- to della società. Questa la motivazione centrale per cui la GNU General Public License – il copyleft. (Quest’ultimo è anche definito permesso d’au- tore, mentre il copyright è il diritto d’autore). Tutto il codice aggiunto a un programma coperto dalla GPL deve essere software libero, anche se incluso in un file a parte. Rendo disponibile il mio codice affinché venga utilizzato nel software libero, e non nel software proprietario, in modo da incoraggiare altri programmato- ri a fare altrettanto. La mia posizione è che, se gli sviluppatori di software proprietario ricorrono al copyright per impedirci di condividere i programmi, noi che preferiamo cooperare possiamo usare il copyright per offri- re a ulteriori collaboratori un vantaggio particolare: diamo loro il permesso di utilizzare il nostro codice. Non tutti coloro che usano la GNU GPL puntano a un simile obiet-

141 tivo. Molti anni fa, a un amico venne chiesto di ridistribuire un pro- gramma già coperto da copyleft sotto termini non-copyleft, e la sua risposta fu più o meno questa: «Talvolta mi occupo di software libero, altre volte di software pro- prietario – ma in quest’ultimo caso, mi aspetto di essere retribuito». Era disposto a spartire il proprio lavoro con una comunità che con- divide il software, ma non vedeva alcun motivo di fare lo stesso con un’azienda i cui prodotti avrebbero escluso tale comunità. Pur per- seguendo uno scopo diverso dal mio, riconobbe l’utilità della GNU GPL per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Per ottenere qualcosa al mondo, l’idealismo da solo non è sufficien- te – occorre scegliere un metodo che ci consenta di raggiungere lo scopo prefisso. In altri termini, bisogna essere “pragmatici”. La GPL è pragmatica? Diamo un’occhiata ai suoi risultati: Prendiamo il compilatore GNU C++. Perché esiste un compilato- re C++ libero? Soltanto perché ciò viene stabilito dalla GNU GPL. GNU C++ è stato sviluppato da un consorzio industriale, la MCC, partendo dal compilatore GNU C. Normalmente la MCC realizza prodotti quanto più proprietari pos- sibile. Ma hanno distribuito il front end C++ come software libe- ro, poichè secondo la GNU GPL questo era l’unico modo per poterlo distribuire. Il front end C++ comprendeva parecchi nuovi file, ma poiché erano stati progettati per essere collegati con GCC, anch’essi dovevano aderire alla GPL. Il beneficio per la nostra comu- nità è evidente. Passiamo a GNU Objective C. Inizialmente NeXT (sistema ope- rativo creato da Steve Jobs, successivamente acquistato dalla Apple) voleva farne un front end proprietario; proposero di distribuirlo come file .o, lasciando agli utenti la possibilità di collegarlo con il resto di GCC, ritenendo così di poter aggirare i requisiti della GPL.

142 Ma secondo il nostro avvocato, ciò non avrebbe potuto eludere tali requisiti e non era consentito farlo. E così distribuirono il front end Objective C come software libero. Questi esempi si riferiscono a diversi anni fa, ma la GNU GPL con- tinua a portarci sempre più software libero. Molte delle librerie GNU rientrano sotto la GNU Library General Public License, ma non per tutte è così. Una di queste librerie coper- ta dalla GNU GPL ordinaria è Readline, la quale implementa l’e- diting a linea di comando. Una volta ho scoperto un programma non libero che prevedeva l’utilizzo di Redline, e dissi all’autore che si trattava di un uso non consentito. Egli avrebbe potuto elimina- re dal programma soltanto le funzionalità dell’editing a linea di comando, ma in realtà decise di ridistribuirlo sotto la GPL. Ora è un programma di software libero. Non di rado i programmatori che mettono a punto dei migliora- menti a GCC (oppure a Emacs, Bash, Linux, o qualsiasi altro pro- gramma coperto dalla GPL) lavorano presso qualche azienda o uni- versità. Quando costoro vogliono ridistribuire quelle migliorie alla comunità e vedere il proprio codice incluso nella versione del pro- gramma, il datore di lavoro potrebbe dire: «Fermo lì – quel codice ci appartiene! Non vogliamo condividerlo con altri; abbiamo deciso di trasformare la tua versione migliorata in un prodotto di software proprietario». È qui che arriva in soccorso la GNU GPL. Il programmatore chia- risce al datore di lavoro che un simile prodotto di software pro- prietario costituirebbe una violazione del copyright, e costui com- prende di trovarsi davanti a due sole possibilità: distribuire il nuo- vo codice come software libero oppure non distribuirlo affatto. Quasi sempre il programmatore ottiene carta bianca, e il codice vie- ne inserito nella versione successiva del programma.

143 La GNU GPL non è sempre accondiscendente. Dice “no” ad alcu- ne delle cose che talvolta si vogliono fare. Secondo alcuni utenti, ciò sarebbe un elemento negativo – la GPL “esclude” degli svilup- patori di software proprietario che invece “occorre portare nella comunità del software libero”. Ma non siamo noi a escluderli dalla nostra comunità; sono loro che scelgono di non entrarvi. La decisione di produrre software proprietario significa scegliere di starne fuori. Farne parte vuol dire unirsi e contribuire al lavoro collettivo; non possiamo “por- tarli nella comunità” se non vogliono unirsi a noi. Quel che possiamo fare è offrire loro un incentivo a farne par- te. La GNU GPL è progettata in modo da fornire loro un incen- tivo sulla base del software preesistente: «Se rendete libero il vostro software, potrete usare questo codice». Naturalmente ciò non basta per convincere tutti, ma talvolta funziona. Lo sviluppo di software proprietario non porta benefici alla nostra comunità, ma non di rado quei programmatori ci chiedono di pas- sar loro qualcosa. Gli utenti di software libero possono dare qual- che soddisfazione all’ego personale di quanti sviluppano software libero – riconoscenza e gratitudine – ma la tentazione è molto for- te quando un’azienda ti dice: «Basta che tu ci consenta di includere il tuo pacchetto nel nostro programma di software proprietario, e questo verrà utilizzato da migliaia e migliaia di persone!». La tentazione potrebbe essere davvero forte, ma a lungo termine è meglio per tutti riuscire a resistere. È più difficile riconoscere le lusinghe e le pressioni quando queste arrivano in maniera indiret- ta, tramite organizzazioni di software libero che hanno adottato politiche favorevoli al software proprietario. Ne offrono un esem- pio l’X Consortium (e il suo successore, l’Open Group): finanziati

144 da produttori di software proprietario, per un decennio hanno cer- cato di convincere i programmatori a non usare il copyleft. Ora che l’Open Group ha distribuito X11R6.4 come software non-libero, quelli tra noi che hanno resistito sono contenti di averlo fatto. (Nel settembre 1998, diversi mesi dopo il rilascio di X11R6.4 con termini di distribuzione non liberi, l’Open Group ha fatto marcia indietro, decidendo di ri-rilasciarlo sotto la medesima licenza di software libero, priva del copyleft, usata per il precedente X11R6.3. Ringrazio l’Open Group, ma il tardivo ripensamento non invalida le nostre conclusioni sul fatto che fosse effettivamente possibile aggiungere quelle restrizioni). A livello pragmatico, pensare agli obiettivi a più lungo termine rafforzerà la capacità di resistenza contro simili pressioni. Concen- trando l’attenzione sulla libertà e sulla comunità che si può costrui- re rimanendo fermi sulle proprie posizioni, si rinsalda la volontà di farcela. “Battiti per qualcosa o soccomberai per un nonnulla”. E se i cinici mettono in ridicolo la libertà e la comunità... se i “rea- listi più intransigenti” sostengono che l’unico ideale possibile è il profitto... basta ignorarli, e continuare a usare il copyleft.

Originariamente scritto nel 1998. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

145 Il pericolo dei brevetti sul software

Credo siate a conoscenza del mio lavoro a sostegno del software libero. L’intervento odierno non riguarda questo tema, ma affron- ta la questione degli abusi legislativi tesi a trasformare lo sviluppo del software in un’attività pericolosa. Questo è ciò che accade quan- do le norme sui brevetti vengono applicate al campo del software. Il punto non è la brevettabilità del software. Una simile descrizione sarebbe decisamente errata ed equivoca, perché non si tratta di brevet- tare dei programmi singoli. Se così fosse, non farebbe alcuna differen- za, sarebbe qualcosa di fondamentalmente innocuo. La questione riguarda invece la brevettabilità delle idee. Ciascun brevetto copre qual- che idea. I brevetti sul software sono brevetti che coprono qualche idea sul software, idee che prevediamo di usare nello sviluppo del software. In tal senso ciò rappresenta un ostacolo pericoloso per lo sviluppo del software nella sua interezza. Forse avrete sentito qualcuno usare un termine ingannevole, “pro- prietà intellettuale”. Come potete notare, questa definizione è basa- ta su un pregiudizio: dà per scontato che, qualunque sia il tema in discussione, il modo di trattarlo è considerarlo una sorta di pro- prietà, mentre in realtà è soltanto una delle molte alternative dispo- nibili. Il termine “proprietà intellettuale” si pone come pregiudi- ziale sulle questioni fondamentali di qualsiasi tematica ci si stia occupando. Ciò non porta a considerazioni chiare e aperte. Esiste un ulteriore problema in quel termine, il quale non ha nulla a che fare con la promozione delle opinioni personali: è d’intralcio nella comprensione perfino dei fatti. L’espressione “proprietà intel-

146 lettuale” viene usata come una sorta di panacea generale: raggruppa insieme aree del tutto disparate del corpo legislativo quali il copyri- ght (il diritto d’autore) e i brevetti, ambiti completamente diversi tra loro che differiscono in ogni dettaglio. Nel mucchio finiscono anche i marchi registrati, qualcosa di ulteriormente diverso, e altri elementi in cui ci s’imbatte più di rado. Nessuno di questi settori ha nulla in comune con gli altri. Storicamente hanno origini completamente distinte; le rispettive legislazioni furono progettate in maniera indi- pendente; interessano ambiti diversi della vita e delle comuni atti- vità. Le questioni di politica pubblica che sollevano non presentano alcuna relazione tra loro, di modo che cercando di affrontarli come un unico insieme è garantito il raggiungimento di conclusioni folli. È letteralmente impossibile avere un’opinione motivata e intelli- gente sulla “proprietà intellettuale”. Perciò, se si vuole considerare la questione con chiarezza, evitiamo di fare d’ogni erba un fascio. Meglio affrontare il copyright di per sé, e poi occuparsi dei brevet- ti. Impariamo a conoscere le norme sul copyright, e separatamente quelle sui brevetti. Queste alcune delle maggiori differenze esistenti tra copyright e bre- vetti: • Il copyright concerne i dettagli dell’espressione di un’opera, ma non copre alcuna idea. I brevetti riguardano soltanto le idee e il loro utilizzo. • Il copyright è automatico. I brevetti vengono concessi dal relati- vo ufficio in risposta a un’apposita richiesta. • I brevetti sono molto onerosi. In realtà le spese degli avvocati per la stesura della richiesta sono perfino più esose della domanda stes- sa. Normalmente occorrono alcuni anni prima che la richiesta venga presa in considerazione, anche se i vari uffici brevetti lavo- rano in maniera estremamente lenta nell’esame delle domande.

147 • La durata del copyright è tremendamente lunga. In alcuni casi si arriva anche a 150 anni. I brevetti durano 20 anni, periodo bre- ve rispetto alla vita umana ma comunque eccessivo per i ritmi di un settore come quello del software. Basti pensare a 20 anni fa, quando il PC era qualcosa di nuovo. Immaginiamo di dover esse- re costretti a sviluppare software utilizzando soltanto i concetti conosciuti nel 1982. • Il copyright copre unicamente la copia. Se qualcuno scrive un romanzo che si scopre essere identico parola per parola a Via col vento, potendo al contempo dimostrare di non averlo mai visto, ciò rappresenterebbe un’ottima difesa contro ogni accusa di infra- zione al copyright. • Un brevetto è un monopolio assoluto sull’utilizzo di un’idea. Anche potendo dimostrare di aver avuto quell’idea per conto pro- prio, ciò sarebbe del tutto irrilevante se quell’idea è stata già bre- vettata da qualcun altro. Spero possiate dimenticarvi del copyright per il resto del mio inter- vento, perché parlerò invece dei brevetti, e le due questioni non dovrebbero mai essere messe insieme - unica possibilità per com- prendere con chiarezza le rispettive questioni legali. Pensiamo a cosa potrebbe accadere nella comprensione della chimica pratica (o del- l’arte culinaria) se dovessimo confondere l’acqua con l’etanolo. Quando si sente qualcuno parlare del sistema dei brevetti, normal- mente questo viene descritto dal punto di vista di chi speri di otte- nere un brevetto - le procedure che bisognerebbe eventualmente seguire per richiederlo, la sensazione che si proverebbe nel cammi- nare per strada avendone uno in tasca, in modo da tirarlo fuori ogni tanto e sbatterlo in faccia a qualcuno dicendo: «Dammi tutti i sol- di che hai!». C’è una ragione dietro questi pregiudizi, perché la maggior parte di

148 quanti ci descrivono il sistema dei brevetti vanta qualche tipo di interesse in tale sistema, perciò ce ne dipingono i tratti piacevoli. Esiste un’ulteriore motivazione: il sistema dei brevetti somiglia parecchio a una lotteria, perché soltanto una minima parte dei bre- vetti porta effettivamente qualche beneficio ai rispettivi possessori. Non casualmente una volta la rivista The Economist lo ha parago- nato a una “lotteria spreca-tempo”. Se avete dato un’occhiata alle inserzioni pubblicitarie delle lotterie, avrete notato come queste ci spingano sempre a pensare alla possibilità di vincere. Non invitano certo a considerare l’eventualità di perdere, pur essendo questa la probabilità più concreta. Lo stesso vale per il sistema dei brevetti: vengono sempre presentati come un invito a considerarci tra i vin- citori. Per controbilanciare questa serie di pregiudizi, mi accingo a descri- vere il sistema dei brevetti dal punto di vista delle vittime – ovve- ro, dal punto di vista di qualcuno che vuole sviluppare del softwa- re, ma è costretto a convivere con un sistema di brevetti sul softwa- re che potrebbe risultare in una denuncia. Qual’è dunque la prima cosa da fare dopo aver avuto un’idea sul tipo di programma che ci si appresta a scrivere? Tanto per comin- ciare, dovendo aver a che fare con il sistema dei brevetti, si potreb- be cercare di scoprire quali siano i brevetti che coprono il futuro programma. Compito impossibile. Il motivo è che alcune delle domande pendenti sono segrete. Possono essere pubblicate soltan- to dopo un certo tempo dalla presentazione, qualcosa tipo 18 mesi. Si tratta tuttavia di un periodo più che sufficiente per scrivere un programma, e finanche per distribuirlo, senza poter conoscere se sia già coperto da brevetto o meno, e rischiare di conseguenza la denuncia. Non è una faccenda puramente accademica. Nel 1984 venne realiz-

149 zato compress, un programma per la compressione dei dati. All’epo- ca non esistevano brevetti sull’algoritmo di compressione LZW usa- to in quel programma. Più tardi, nel 1985, l’ufficio statunitense dif- fuse un brevetto su tale algoritmo, e nel corso degli anni successivi coloro che ne curavano la distribuzione iniziarono a ricevere minac- ce legali. Era impossibile per l’autore dell’algoritmo di compressione prevedere che potesse subire una denuncia. Non aveva fatto altro che usare un’idea trovata in una pubblicazione, proprio come era sempre successo tra i programmatori. Non aveva capito che non era più pos- sibile usare liberamente un’idea trovata in qualche pubblicazione. Dimentichiamo questo problema. I brevetti approvati vengono pubblicati dall’apposito ufficio, così da poterne reperire il lungo elenco e vedere con esattezza cosa dicono. Ovviamente, in realtà è impossibile leggere la lista per intero, perché ne comprende una quantità enorme. Negli Stati Uniti esistono centinaia di migliaia di brevetti sul software. Non c’è alcun modo di tener traccia di tutte le aree coperte. L’unica possibilità è provare a cercare quelli più rile- vanti. Qualcuno sostiene che dovrebbe trattarsi di un compito semplice nell’attuale epoca informatica. Si può ricorrere a ricerche per paro- le chiave e così via, ma ciò funziona soltanto fino a un certo pun- to. Si troveranno alcuni brevetti riguardanti l’area d’interesse, ma non necessariamente tutti. Ad esempio, c’era un brevetto sul software (che oggi potrebbe esse- re estinto) relativo alle operazioni di ricalcolo secondo l’ordine naturale per i fogli di calcolo elettronici. In pratica ciò significa che, facendo dipendere determinate celle da altre precedenti, si procede sempre al ricalcolo di tutti gli elementi inseriti dopo quelli da cui dipendevano, in modo che dopo ogni operazione il totale risulta sempre aggiornato. Nei primi fogli di calcolo elettronici si proce-

150 deva dall’alto verso il basso, e facendo dipendere una cella da quel- la sottostante, impostando al contempo una serie di simili passag- gi, occorreva ricalcolare il totale svariate volte per far propagare il nuovo valore verso l’alto. (Si presupponeva che ogni elemento dipendesse dalla cella sovrastante). Allora qualcuno ha pensato, perché non rifare i calcoli in modo che ogni valore venga ricalcolato immediatamente dopo quello da cui dipende? Questo algoritmo è conosciuto col nome di ‘classificazio- ne topologica’. Il primo riferimento che sono riuscito a trovare è datato 1963. Il brevetto copriva diverse dozzine di modalità in cui si poteva implementare la classificazione topologica. Non era tuttavia possibile reperire tale brevetto cercando con “fogli di calcolo elettronici”. Né lo si trovava provando con “ordine natu- rale” oppure “classificazione topologica”. La spiegazione non com- prendeva nessuno di questi termini. Veniva in realtà descritto come un metodo per “compilare formule in codici oggetto”. Quando lo vidi per la prima volta non credevo fosse quello giusto. Supponiamo di trovarci davanti a un elenco di brevetti e di volerci rendere conto di quel che sia consentito fare. Quando si prova a studiarne le descrizioni, si scopre che sono molto difficili da com- prendere, poiché sono scritte in un tortuoso linguaggio legale il cui significato è tutt’altro che facile da capire. Spesso quanto dice l’uf- ficio brevetti ha un significato diverso da quello apparente. Negli anni ‘80 il governo australiano ha condotto una ricerca sul sistema dei brevetti. La conclusione fu che, al di là delle pressioni internazionali, non c’era alcun motivo per l’esistenza di un tale siste- ma – non portava alcun giovamento al pubblico – e ne raccoman- dava l’abolizione, se non fosse per le pressioni internazionali. Lo studio riportava che gli ingegneri non cercavano neppure di legge- re i brevetti per imparare qualcosa, consideratane la difficoltà di

151 comprensione. Veniva citata l’opinione di un ingegnere: “Non rie- sco a riconoscere le mie stesse invenzioni in linguaggio brevettese”. Questo non è uno scenario teorico. Verso il 1990 un programmatore di nome Paul Heckel denunciò la Apple, sostenendo che Hypercard infrangeva un paio di suoi brevetti. Quando lo vide per la prima vol- ta, gli sembrò che Hypercard non avesse nulla a che fare con quei bre- vetti, con le sue “invenzioni”. Non pareva simile a queste. Ma quan- do l’avvocato gli fece notare che quei brevetti potevano essere inter- pretati a coprire una parte di Hypercard, decise di attaccare la Apple. Nel corso di un mio successivo intervento a Stanford menzionai quel- la circostanza, con Heckel presente tra il pubblico. Mi interruppe per ribattere: “Non è vero, è solo che non compresi la portata della tute- la legale!”. Io replicai: “Si, proprio quello che intendevo dire”. Così, in pratica occorre spendere un sacco di tempo a parlare con gli avvocati per capire quel che i brevetti proibiscono di fare. Alla fine se ne usciranno con qualcosa tipo: “Se fai qualcosa in quest’area, sei sicuro di perdere; se intervieni in quest’altra area (Stallman fa dei gesti circolari con le mani), in sostanza si rischia di perdere; e se vuoi essere davvero al sicuro, meglio star lontano da quest’area (facendo gesti circolari più ampi). E tieni comunque conto che qualsiasi denuncia comporta qualche elemento di rischio sostanziale”. Ora che avete un terreno prevedibile su cui basare i vostri affari(!), cosa pensate di fare? Bé, si può scegliere fra tre diverse eventualità, ciascuna delle quali è applicabile in determinate circostanze. Eccole: 1) evitare il brevetto; 2) ottenere la licenza per il brevetto; 3) ribaltare il brevetto in tribunale. Consentitemi di illustrare questi tre scenari per capire cosa li ren- da praticabili o meno.

152 Evitare il brevetto “Evitare il brevetto” vuol dire non usare l’idea già coperta da qual- che brevetto. Posizione semplice o difficile da seguire, dipende dal tipo di idea in oggetto. In alcuni casi, soltanto una funzione risulta brevettata. In tal caso si può eludere il brevetto evitando di implementarla. Il punto sta nell’importanza di tale funzione. In alcune situazioni, se ne può fare a meno. Tempo fa gli utenti dell’elaboratore testi XyWrite vennero notificati di un downgrade (declassamento) del programma. Ne fu rimossa una funzione che consentiva la predefinizione delle abbre- viazioni. Ovvero, quando si digitava un’abbreviazione seguita da un carattere d’interpunzione, questa sarebbe stata immediatamente sostituita dalla relativa espansione. In tal modo per alcune frasi lun- ghe era possibile definire l’abbreviazione, digitare soltanto que- st’ultima e l’intera frase sarebbe apparsa nel documento. Gli svi- luppatori mi scrissero riguardo questa opzione perché sapevano che l’editor Emacs presentava una funzione analoga. Infatti ne faceva parte fin dagli anni ‘70. Fu interessante perché ciò dimostrò che in vita mia avevo avuto almeno un’idea meritevole di essere brevetta- ta. Posso affermarlo con certezza, perché poco tempo dopo è pro- prio quel che fece qualcun altro! In realtà gli sviluppatori considerarono tutte e tre le strategie. Pri- ma tentarono di negoziare con il detentore del brevetto, il quale si rivelò trattare in cattiva fede. Poi analizzarono le probabilità con- crete di poter ribaltare il brevetto in tribunale. Alla fine decisero che la cosa da fare fosse l’eliminazione di quella funzione. È possibile farne a meno. Se l’elaboratore testi difetta di quest’unica opzione, forse gli utenti continueranno a utilizzarlo ugualmente. Ma se le mancanze cominciano ad accumularsi, alla fine si avrà un pro- gramma non troppo soddisfacente, ed è probabile venga ignorato.

153 In questo caso si trattava di un brevetto limitato su una funzione assai specifica. Come la mettiamo con il brevetto in possesso di Bri- tish Telecom sugli hyperlink [i link del world wide web] accoppia- to con l’accesso tramite la comune chiamata telefonica? Il ricorso agli hyperlink è assolutamente essenziale nell’odierno uso del com- puter, al pari della connessione via telefono. Come faremmo senza tale opzione? Per chiarezza, questa non può neppure considerarsi una singola funzione, bensì la combinazione di due opzioni arbi- trariamente interconnesse tra loro. Qualcosa di analogo al posses- so di un brevetto su divano e televisione in una stessa stanza. Talvolta l’idea brevettata appare talmente vasta e basilare che prati- camente finisce per coprire un intero settore. È ad esempio il caso della crittazione a chiave pubblica, il cui brevetto statunitense è sca- duto nel 1997. Fino ad allora fu quel brevetto a impedire per la maggior parte il ricorso alla crittazione a chiave pubblica negli Sta- ti Uniti. Un certo numero di programmi in corso di lavorazione vennero bloccati – non furono mai realmente disponibili perché i detentori del brevetto presero a minacciarne gli autori. Poi ne uscì fuori uno, PGP, che inizialmente venne distribuito come software libero. In questo caso sembra che i possessori del brevetto lasciaro- no passare del tempo prima di minacciare la denuncia, e a quel pun- to si resero conto della cattiva pubblicità che avrebbero potuto subi- re. Così imposero delle restrizioni, rendendolo disponibile soltan- to per usi non-commerciali, onde impedirne l’eccessiva diffusione. In tal modo, per un decennio e oltre l’uso della crittazione a chia- ve pubblica venne fortemente limitato. Non c’era modo di supera- re quel brevetto. Era impossibile inventarsi qualcos’altro per scri- vere programmi di crittazione a chiave pubblica. Altre volte viene brevettato un algoritmo specifico. Esiste ad esem- pio un brevetto su una versione ottimizzata del Fast Fourier Tran-

154 sform, grazie al quale quest’ultimo gira a velocità doppia. Per evi- tarlo basta usarne una comune versione, anche se questa parte del programma impiegherà il doppio del tempo. Forse non è poi una funzione così importante, forse ciò riguarda una parte minima del tempo totale in cui gira il programma. Anche se è due volte più len- to, può darsi che nessuno se ne accorga. Oppure, al contrario, il programma non si lancerebbe affatto perché richiede il doppio del tempo reale per operare come previsto. Gli effetti possono variare. In qualche caso si può cercare un algoritmo migliore. Ciò può tor- nare utile o meno. Non potendo usare ‘compress’ all’interno del progetto GNU, iniziammo a cercare un algoritmo alternativo adat- to alla compressione dati [compress è una utility per i sistemi Unix con algoritmo brevettato, per cui non poteva essere utilizzata nel progetto GNU: il brevetto avrebbe posto una limitazione alla redi- stribuzione, rendendo impossibile distribuire il software con licen- za GPL]. Qualcuno ci informò di averne uno disponibile; aveva scritto un programma e decise di offrircelo come contributo. Eravamo sul punto di distribuirlo. Per pura coincidenza mi capitò di vedere una copia del New York Times che casualmente aveva la rubrica setti- manale dedicata ai brevetti. (Non sfogliavo quel quotidiano più di una volta ogni paio di mesi). Così inizio a dargli un’occhiata e leg- go che qualcuno aveva ottenuto un brevetto per “aver inventato un nuovo metodo per la compressione dei dati”. Decido che è meglio capire come stanno le cose. Ne prendo una copia e scopro che tale brevetto copriva proprio il programma che ci apprestavamo a distri- buire nel giro di una settimana. Il programma morì prima ancora di esser nato. In seguito trovammo un altro algoritmo non coperto da brevetto. Divenne il programma gzip, oggi l’efficace standard de facto per la

155 compressione dati. Come algoritmo per essere usato in simili pro- grammi, risultò perfetto. Chiunque volesse ricorrere alla compres- sione dei dati poteva usare gzip invece di compress. Lo stesso algoritmo di compressione già brevettato LZW veniva impiegato anche in formati per immagini, tra cui GIF. Ma in que- sto caso, poichè la gente non voleva semplicemente comprimere dei dati bensì avere un’immagine che fosse possibile visualizzare con il proprio software, si rivelò estremamente difficile trovare un algo- ritmo diverso. Non ci siamo ancora riusciti dopo 10 anni! Si, gli utenti ricorrevano all’algoritmo ‘gzip’ con cui definire un altro for- mato per l’immagine, una volta piovute minacce di possibili denun- cie per l’uso di file GIF. Quando iniziammo a dire in giro di smet- terla di usare quei file GIF per passare all’altro formato, la replica fu: “Non possiamo cambiare, il browser non supporta ancora il nuovo formato”. Gli sviluppatori di browser ribatterono: “Non abbiamo alcuna fretta, dopo tutto nessuno usa quel formato”. In effetti la società ha dimostrato così tanta inerzia nell’utilizzo del formato GIF che non siamo riusciti a convincere la gente a cam- biare. In pratica il continuo ricorso della comunità a tale formato forza tuttora i vari siti a farne uso, con il risultato che si rivelano vulnerabili a possibili minacce legali. Anzi, la situazione è ben più strana. In realtà sono due i brevetti che coprono l’algoritmo LZW. L’ufficio brevetti non si è reso conto che stava assegnando due brevetti su una medesima idea; non erano riu- sciti a esaminare adeguatamente le richieste. Ciò però poggia su una buona ragione: occorre parecchio tempo per studiare con attenzio- ne i due brevetti prima di rendersi conto che coprono veramente la stessa cosa. Se si fosse trattato di due brevetti su dei processi chimici, sarebbe stato assai più semplice rendersene conto. Bastava identificare le

156 sostanze impiegate, gli ingredienti e i risultati, quali le azioni con- crete intraprese. Prescindendo dal modo in cui ciò veniva descritto, si sarebbe visto di cosa si trattava e ci si sarebbe accorti della somi- glianza. Se un’azione è puramente matematica, è possibile descri- verla in molti modi anche assai diversi tra loro. Non appaiono simi- li neppure a livello superficiale. Bisogna comprenderli fino in fon- do prima di accorgersi che stanno descrivendo qualcosa d’identico. L’ufficio brevetti non ha abbastanza tempo. Alcuni anni fa l’ufficio brevetti degli Stati Uniti dedicava mediamente 17 ore a ciascuna richiesta presentata. Un periodo di tempo insufficiente per analiz- zarle con attenzione, ovvio quindi che si possano commettere erro- ri come questo. Lo stesso è accaduto al programma menzionato sopra, quello morto prima ancora di nascere. Anche quell’algoritmo è coperto da due brevetti, entrambi rilasciati negli Stati Uniti; sem- bra si tratti di una circostanza nient’affatto insolita. Evitare i brevetti può quindi essere semplice, oppure impossibile. Se è semplice, può darsi che renda inutile il programma – dipende dalla situazione specifica. Vorrei puntualizzare un’altra questione. Talvolta un’azienda o un consorzio riesce a imporre un formato o un protocollo come stan- dard de facto. Nel caso tale formato o protocollo venga poi brevet- tato, è un vero e proprio disastro. Esistono perfino degli standard ufficiali soggetti alle limitazioni dei brevetti. Nel settembre del 2001 ci fu una grande sollevazione politica quando il World Wide Web Consortium propose di iniziare ad adottare degli standard coperti da brevetti. La comunità si oppose, costringendoli a ripensarci. Il consorzio fece marcia indietro, ribadendo che qualsiasi brevetto doveva essere liberamente applicabile da chiunque e che gli stan- dard dovevano essere liberi in modo che tutti potessero implemen- tarli. Si trattò di una vittoria interessante. Credo che quella fu la

157 prima volta in cui un’organizzazione sugli standard prese quel tipo di decisione. È normale per tali organizzazioni voler inserire all’in- terno degli standard qualche elemento coperto da brevetto, impe- dendo agli utenti di procedere liberamente all’implementazione. Bisogna far pressione su entità organizzative analoghe per costrin- gerle a modificare quelle norme.

Ottenere la licenza per il brevetto La seconda possibilità, oltre quella di evitare il brevetto, consiste nel- l’ottenerne la licenza. Non è detto ciò possa essere necessariamente un’opzione fattibile. Chi detiene il brevetto non deve offrirvi alcuna licenza; non è obbligato a farlo. Dieci anni fa, la League for Pro- gramming Freedom ricevette una richiesta d’aiuto da parte di qual- cuno la cui attività familiare riguardava la costruzione di macchine per i giochi d’azzardo nei casinò, e già allora usavano i computer. Ave- va ricevuto la lettera di un’altra azienda che minacciava: “Quel bre- vetto l’abbiamo noi. Non ti è consentito fare quelle cose. Smettila!”. Decisi di dare un’occhiata a quel brevetto. Copriva una situazione in cui un certo numero di computer venivano collegati in rete in modo che ciascuna macchina fosse in grado di gestire più giochi diversi e l’utente potesse giocarvi simultaneamente. Si scopre così che l’ufficio brevetti ritiene davvero brillante la capa- cità di fare più di una cosa in contemporanea. Non si rendono con- to che in campo informatico ciò rappresenta la maniera più ovvia per generalizzare qualsiasi cosa. Lo hai fatto una volta, perciò ades- so puoi rifarlo quante volte vuoi, si può creare una subroutine [una funzione del programma]. Credono che se riesci a fare qualcosa più di una volta, ciò in qualche modo significa che sei brillante e che nessuno è in grado di tenerti testa, hai il diritto di dare ordini agli altri come ti pare e piace.

158 Comunque sia, al tipo in questione non venne offerta alcuna licen- za. Fu costretto a smettere. Non poteva neppure permettersi le spe- se legali per il tribunale. Direi che quel particolare brevetto copri- va un’idea piuttosto ovvia. È possibile che il giudice si fosse dichia- rato d’accordo, ma non potremo mai saperlo perché non c’erano i soldi per avviare il procedimento. Tuttavia, parecchi possessori di brevetti sono soliti offrire le relati- ve licenze. Ma spesso chiedono cifre salate. L’azienda in possesso del brevetto per il ricalcolo secondo l’ordine naturale pretendeva il 5 per cento delle entrate lorde di ogni foglio di calcolo elettronico venduto negli Stati Uniti. Qualcuno mi riferì che si trattava del prezzo ridotto precedente l’eventuale denuncia – se fossero stati costretti ad andare veramente in tribunale e avessero vinto, avreb- bero preteso di più. Può darsi che su uno specifico brevetto ci si possa permettere quel 5 per cento per la licenza, ma cosa succede quando occorrono le licenze su 20 brevetti diversi per realizzare un certo programma? A quel punto tutti i ricavi servono a pagare le licenze. Cosa succede- rebbe se fossero necessarie le licenze su 21 brevetti? Persone che ope- rano nel settore mi hanno spiegato che a livello pratico due o tre di tali licenze porterebbero al fallimento di qualsiasi attività. Esiste una situazione in cui ottenere la licenza è un’ottima soluzio- ne. Ovvero nel caso di una mega-corporation multinazionale. Dato che queste aziende possiedono una gran quantità di brevetti, pos- sono offrirsi le licenze a vicenda. In tal modo evitano gran parte del danno insito nel sistema dei brevetti e usufruiscono soltanto degli aspetti positivi. Tempo fa l’IBM pubblicò sulla rivista Think – credo fosse il nume- ro 5 del 1990 – un articolo sul pacchetto di brevetti aziendale, dove si illustravano i due tipi di vantaggi derivanti alla stessa IBM dal

159 possesso di 9.000 brevetti statunitensi. (Credo che oggi tale cifra sia più ampia). Si trattava, primo, di incassarne le quote sui diritti, e, secondo, di ottenere “accesso ai brevetti altrui”. Spiegavano come quest’ultimo beneficio fosse notevolmente maggiore del primo. I vantaggi derivanti all’IBM dalla possibilità di utilizzare le idee bre- vettate da altri equivaleva a dieci volte il beneficio diretto ottenuto dall’offerta di licenze sui propri brevetti. Cosa significa veramente tutto ciò? Quali vantaggi ricava l’IBM da un simile “accesso ai brevetti altrui”? Si tratta in pratica del benefi- cio di essere esenti dai problemi provocati dal sistema dei brevetti. Un sistema analogo a una lotteria: qualsiasi brevetto può finire in un nonnulla, o rivelarsi una fortuna per alcuni detentori, oppure un disastro per chiunque altro. Ma consideratene le ampie propor- zioni, per l’IBM lo scenario risulta vantaggioso. Un’azienda simile è in grado di valutare sia i danni sia i benefici di quel sistema. In que- sto caso, i guai causati da un tale sistema avrebbero superato di dieci volte gli aspetti positivi. Ho detto “avrebbero” perché, grazie allo scambio vicendevole delle licenze, l’IBM può evitare ogni problema. Questi esistono soltanto a livello potenziale, non si concretizzeranno mai per una tale azienda. Eppure quest’ultima, calcolando i benefici derivan- ti dalla possibilità di evitarli, ne stima in dieci volte il valore del denaro raccolto dai brevetti di cui è titolare. Questo fenomeno del trasferimento reciproco delle licenze serve a confutare un mito comune, quello del “genio morto di fame”, il mito secondo cui i brevetti servano a “tutelare” il “piccolo invento- re”. (Si tratta di termini di propaganda. Non andrebbero usati). Questo lo scenario che ci troviamo di fronte: supponiamo che qual- cuno abbia in mente un progetto “brillante”. Supponiamo che abbia trascorso “anni in soffitta morendo di fame” nella stesura di

160 un progetto nuovo e meraviglioso di qualcosa, e ora vuole passare a produrlo. Non è forse un’ingiustizia che qualche grande azienda decida di fargli concorrenza, di rubargli il mercato e farlo “morire di fame”? Devo sottolineare che quanti lavorano nel settore dell’alta tecnolo- gia generalmente non operano in proprio, che le idee non prendo- no forma nel vuoto – sono basate su quelle altrui – e che oggigior- no vantano ottime probabilità di ottenere un buon impiego qualo- ra ne avessero bisogno. Perciò un tale scenario – il fatto che un’idea brillante sia scaturita da qualcuno che lavora in solitudine – è inve- rosimile, così come impensabile è l’eventualità che sia in pericolo di morire di fame. È invece plausibile che qualcuno possa avere una buona idea che, insieme ad altre 100 o 200, sia alla base della realizzazione di un qual- che tipo di prodotto, e che le grandi aziende vogliano fargli concor- renza. Vediamo perciò cosa potrebbe accadere nel caso costui tenti di usare un brevetto per bloccarle. Eccolo dire all’IBM: “No, non puoi competere con me, quel brevetto è mio”. Al che l’IBM replica: “Vediamo un po’ il tuo prodotto. Noi abbiamo questo brevetto, e quest’altro, quest’altro, quest’altro, quest’altro, e quest’altro ancora, rispetto ai quali il tuo prodotto commette delle infrazioni. Se credi di poter controbattere a tutti questi brevetti in tribunale, sicuramen- te ne troveremo degli altri. Perché invece non ci cediamo reciproca- mente le licenze?”. E allora al brillante inventore non resta che cede- re: “Va bene, scambiamoci pure le licenze”. Così può rimettersi al lavoro e portare a termine quel meraviglioso progetto. Ma lo stesso fa l’IBM, la quale ottiene “l’accesso” al suo brevetto e anche il dirit- to a fargli concorrenza, il che significa che tale brevetto non lo ha “tutelato” affatto. Non è questo l’obiettivo del sistema dei brevetti. Per la gran parte, le mega-corporation evitano i pericoli di tale siste-

161 ma; ne sperimentano principalmente i lati positivi. Questo il moti- vo per cui vogliono avere i brevetti sul software: saranno loro a trar- ne vantaggio. Ma ciò non funziona per il piccolo inventore o per chi lavora in una piccola struttura. Possono provarci, ma il proble- ma è che un’azienda di proporzioni limitate non arriverà mai a pos- sedere una quantità adeguata di brevetti per riuscirci (cioè, costrin- gere gli altri allo scambio reciproco delle licenze). Ciascun brevetto punta in una certa area. Così se una piccola azien- da possiede dei brevetti relativi a determinati settori, e laggiù (Stal- lman indica in una direzione diversa) c’è qualcuno che gliene pun- ta uno contro e vuole tutti i soldi, alla piccola azienda non resta che arrendersi. L’IBM può permetterselo, perché con 9000 brevetti copre ogni settore; a prescindere dall’area in cui si operi, è proba- bile esista già un brevetto dell’IBM. Questa può così costringere quasi sempre gli altri allo scambio reciproco delle licenze. Le pic- cole aziende possono riuscirci invece solo occasionalmente. Sosten- gono di volere i brevetti a scopo difensivo, ma non riescono mai ad accumularne abbastanza da poterlo fare realmente. Esistono tuttavia dei casi in cui neppure l’IBM può costringere qualcuno a scambiare delle licenze a vicenda. Ovvero quando l’u- nica attività di un’impresa è quella di prendere un brevetto e spre- mere soldi dagli altri. Esattamente ciò che faceva l’azienda deten- trice del brevetto per il ricalcolo secondo l’ordine naturale. L’unica sua pratica consisteva nel minacciare gli altri di denuncia e incas- sare le quote di chi stava effettivamente sviluppando qualche pro- dotto. Non esistono brevetti sulle procedure legali. Credo che gli avvoca- ti comprendano bene gli affanni di avere personalmente a che fare con il sistema dei brevetti. Il risultato è che diventa impossibile otte- nere brevetti che possano costringere questo tipo di aziende allo

162 scambio reciproco. Così vanno in giro a spremere soldi agli altri. Ma credo che entità quali l’IBM considerino ciò parte del prezzo insito nell’attività commerciale, e si siano adattate di conseguenza. Questo dunque il quadro sulle possibilità di ottenere la licenza di un brevetto, cosa realizzabile o meno, e di cui è possibile o meno sostenere il peso economico – il che ci porta alla terza strategia.

Ribaltare il brevetto in tribunale Normalmente, qualsiasi cosa venga brevettata deve risultare nuova, utile e non ovvia. (Questa la terminologia usata negli Stati Uniti; credo che in altri paesi il linguaggio sia pressoché analogo). Natu- ralmente, quando entra in ballo l’ufficio brevetti inizia a dare la pro- pria interpretazione di “nuovo” e “originale”. Si scopre così che “nuovo” equivale a “non presente nel nostro archivio” e “non ovvia” tende a significare “non ovvia per qualcuno con un quoziente d’in- telligenza di 50” [per una persona comune è intorno ai 140]. Secondo qualcuno che studia la maggior parte dei brevetti sul software assegnati negli Stati Uniti – almeno, una volta era solito farlo, non so se riesce ancora a starci dietro – il 90 per cento non avrebbe superato “l’esame di Crystal City”, per intendere che nel caso gli addetti all’ufficio brevetti avessero deciso di passare in edi- cola e procurarsi qualche rivista d’informatica, avrebbero scoperto come quelle idee fossero già note. L’ufficio brevetti prende decisioni così chiaramente folli che non occorre neppure essere aggiornati sulle ultima novità per rendersi conto della loro assurdità. Ciò non si limita soltanto al software. Una volta ho visto il famoso brevetto sul topo di Harvard, ottenu- to dopo che i ricercatori locali avevano modificato geneticamente il topo iniettandogli il gene portatore del cancro. Tale gene era già conosciuto, e venne inserito ricorrendo a tecniche note all’interno

163 di una catena preesistente di cellule di topo. Il brevetto concesso loro copriva l’inserimento di qualsiasi gene portatore di cancro in qualunque mammifero usando un metodo qualsiasi. Non occorre saper nulla di ingegneria genetica per rendersi conto di quanto ciò sia ridicolo. Mi si dice che questo “eccesso di rivendicazione” sia pratica comune, e che talvolta l’ufficio brevetti statunitense invita i richiedenti a estendere ulteriormente il campo coperto dal bre- vetto. Praticamente si finisce per coprire il massimo possibile fino a quando non ci si accorge di essere vicini a un’area certamente già occupata da opere precedenti. Si cerca di arraffare quanto più ter- ritorio possibile dello spazio mentale a disposizione. Quando i programmatori considerano molti brevetti sul software, non possono far a meno di osservare: “quest’idea è ridicolmente ovvia!”. I burocrati dei brevetti tirano fuori ogni tipo di scuse pur di giustificare la loro ignoranza del pensiero dei programmatori. Replicano così: “Bisogna però considerarla rispetto a come stavano le cose dieci o venti anni fa”. Per poi scoprire che se portate alle estreme conseguenze, simili posizioni diventano controproducen- ti. Qualsiasi cosa può apparire originale quando se ne scompongo- no i pezzi, quando la si analizza abbastanza a fondo. Semplicemente svanisce ogni standard di ovvietà, o quantomeno si perde la capa- cità di giustificare qualunque standard di ovvietà o non ovvietà. A quel punto, naturalmente, si finisce per descrivere tutti coloro che possiedono un brevetto come dei brillanti inventori; di conseguen- za, non possiamo mettere in discussione il loro diritto a imporci cosa fare. Se si decide di andare in tribunale, è probabile che i giudici mostri- no maggiore attenzione alla questione della ovvietà o meno. Ma il problema è che per arrivarci bisogna spendere milioni di dollari. Ho sentito parlare di un caso, l’accusato ricordo era la Qualcomm,

164 in cui credo la sentenza finale fu di 13 milioni di dollari, la mag- gior parte dei quali servì a coprire l’onorario degli avvocati di entrambe le parti. Rimasero un paio di milioni di dollari per il que- relante (fu la Qualcomm a perdere la causa). In un contesto più ampio, la questione della validità o meno di un brevetto dipende dalle circostanze storiche. Meglio, da una gran quantità di indizi storici, tipo cosa e quando venne pubblicato, il materiale che si riesce a recuperare, quello non andato perduto, le date precise e così via. È la presenza di un certo numero di prove storiche a determinare la validità di un brevetto. In realtà, è alquanto strano che British Telecom presentò domanda nel 1975 per il brevetto sugli “hyperlink accoppiato alla connes- sione telefonica”. Credo fosse nel 1974 che il sottoscritto sviluppò per la prima volta il pacchetto Info, grazie al quale è possibile col- legare tra loro gli hyperlink, mentre gli utenti usavano il telefono per accedere al sistema. Di fatto avevo realizzato un’invenzione pre- cedente a quel brevetto. Questa è la seconda idea brevettabile che so di aver avuto in vita mia. Ma non credo di avere alcuna prova al riguardo. Non l’avevo con- siderata sufficientemente importante da pubblicarla. Dopo tutto, l’idea di seguire gli hyperlink mi venne dalla dimostrazione dell’e- laboratore creato da Doug Engelbart. Fu lui ad avere un’idea inte- ressante da pubblicare. Quel che feci io, lo definii “ipertesto del pover’uomo”, poiché dovetti implementarlo nel contesto del TECO [acronimo per Text Editor and COrrector, era l’aggiorna- mento di un elaboratore testi per telescriventi, adattato da Stallman alla macchina PDP-6 operante nel Laboratorio di Intelligenza Arti- ficiale del MIT, con innovazioni importanti per quei tempi, primi anni ‘70, come i testi a tutto schermo]. Non risultò altrettanto potente del suo ipertesto, ma almeno si dimostrò utile per naviga-

165 re nella documentazione, che era poi l’obiettivo finale. E per quan- to concerne l’accesso via telefono al sistema, bé, funzionava così, non mi venne in mente che esistesse una relazione particolare tra le due cose. Non pensai di dover pubblicare una ricerca per dire: “Ho realizzato l’ipertesto del pover’uomo, e indovinate un po’, c’è la linea telefonica anche nel computer!”. Sospetto non esista alcun modo per stabilire con esattezza la data in cui riuscii a implementare tutto ciò. Venne forse pubblicato in qualche modo? Bé, invitammo alcuni ospiti dal giro di ARPANET a collegarsi online dalla nostra macchina – può darsi che navigan- do nella documentazione usando il pacchetto Info si siano accorti della cosa. Se ce l’avessero chiesto, avrebbero scoperto l’esistenza dell’accesso tramite la chiamata telefonica. Come è possibile nota- re, quindi, sono le circostanze storiche a determinare l’esistenza o meno di un’opera precedente. Naturalmente esiste una pubblica- zione sull’ipertesto curata da Engelbart che loro, gli imputati, si apprestano a mostrare. Non credo tuttavia dica nulla sul fatto del- l’accesso telefonico presente nel computer, per cui non è chiaro se ciò potrà risultare sufficiente. La possibilità di andare in tribunale per ribaltare il brevetto rap- presenta un’opzione possibile. A causa delle spese necessarie, però, viene considerata di rado pur potendo provare l’esistenza certa di un’opera precedente che sembri sufficiente a ribaltare il brevetto. Come risultato, un brevetto non valido, un brevetto che a livello nominale non avrebbe dovuto esistere (come infatti dovrebbe esse- re per moltissimi brevetti), rappresenta un’arma pericolosa. Se qual- cuno vi attacca con un brevetto non valido potrebbe davvero pro- curarvi grossi guai. Potreste bluffare tirando fuori un’opera prece- dente. Dipende dal fatto se ciò possa essere sufficiente per spaven- tarli. Potrebbero invece pensare, “Bé, stai soltanto bluffando, non

166 ce la farai ad andare in tribunale, non puoi permettertelo, per cui ti denunciamo lo stesso”. Tutte e tre questi scenari costituiscono altrettante opzioni a dispo- sizione, ma spesso è impossibile usarle. In pratica occorre affronta- re un brevetto dopo l’altro. Ogni volta può darsi sia possibile ricor- rere a una di tali opzioni, ma subito dopo c’è un altro brevetto e poi un altro ancora. È come attraversare un campo minato. È difficile che a ogni passo, a ogni decisione progettuale, si possa cadere su un brevetto esistente, e per un raggio limitato è probabile non ci sia alcuna esplosione. Ma le probabilità di riuscire ad attraversare indenni il campo minato e sviluppare il programma che si ha in mente senza mai inciampare in un brevetto, diminuiscono in maniera direttamente proporzionale all’ampiezza del programma. A questo punto, qualcuno è solito chiedermi: “Anche in altri set- tori esistono i brevetti, perché mai il software dovrebbe esserne esen- te?”. Notiamo la stranezza di questa supposizione, per cui in qual- che modo saremmo tutti costretti a soffrire passando attraverso il sistema dei brevetti. È come dire: “C’è gente che si prende il can- cro, perché non dovresti averlo anche tu?”. Per come la vedo io, è un bene che non tutti siano malati di cancro. Ma dietro quest’aspetto si nasconde una domanda meno pregiudi- ziale, una buona domanda: il software è forse diverso da altri set- tori? Le politiche sui brevetti dovrebbero forse essere diverse per cia- scun ambito? Se sì, perché mai? Consideriamo l’intera questione: i brevetti hanno funzionalità diverse a seconda dei settori, perché si comportano altrettanto diversamente con i rispettivi prodotti. A un estremo abbiamo l’industria farmaceutica, dove una determi- nata formula chimica ottiene il brevetto in modo tale che questo copra un unico e singolo prodotto. Una nuova medicina non può

167 essere coperta da un brevetto preesistente. Se dev’esserci un brevet- to per questo nuovo prodotto, verrà assegnato a chiunque lo abbia sviluppato. Ciò è coerente con l’idea infantile del sistema dei brevetti che abbia- mo oggi: se hai realizzato qualcosa di nuovo, te ne spetta “il bre- vetto”. L’idea è che a ciascun prodotto corrisponda un brevetto in grado di coprire l’idea alla base di quel prodotto. In alcuni settori tale scenario è vicino alla realtà; in altri assai lontano. Il software rientra all’estremo opposto di questa seconda categoria: cia- scun programma interseca numerosi brevetti. Ciò per via del fatto che normalmente i pacchetti software sono di ampie dimensioni. Fanno uso di molte idee diverse in combinazione tra loro. Se il programma è nuovo e non soltanto copiato, allora è probabile ricorra a una diffe- rente combinazione di idee – inserite, ovviamente, all’interno di codi- ce sorgente interamente riscritto, perché è impossibile limitarsi a enun- ciare tali idee e farle funzionare come per magia. Bisogna implemen- tarle una dopo l’altra all’interno di quella combinazione. Ne risulta che anche nella stesura di un programma si fa uso di mol- te idee differenti, ciascuna delle quali potrebbe essere stata brevet- tata da persone diverse. In ogni programma esistono perciò migliaia di elementi, migliaia di punti vulnerabili potenzialmente già coper- ti dal brevetto di qualcuno. Ecco perché i brevetti sul software tendono a ostacolare il progres- so del software – il lavoro di sviluppo di un programma. Se fosse “un brevetto, un prodotto”, allora i brevetti non impedirebbero lo sviluppo di nuovi prodotti perché è impossibile che ciascuno di que- sti sia stato già brevettato da qualcuno. Ma quando un programma è il risultato della combinazione di parecchie idee diverse, è assai probabile che il nuovo prodotto (in parte o per intero) sia già coper- to da qualche brevetto precedente.

168 Non a caso una recente indagine economica rileva proprio come l’imposizione del sistema dei brevetti in un settore basato sull’in- novazione per incrementi possa rallentarne il progresso. I sosteni- tori del sistema dei brevetti dicono: “Sì, è vero, possono nascere dei problemi, ma ancora più importante è il fatto che i brevetti debba- no promuovere l’innovazione, e ciò è talmente importante che non importa quanti problemi possano provocare”. Naturalmente si guardano bene dal dirlo ad alta voce perché è un’affermazione ridi- cola, ma implicitamente vogliono farci credere che fino a quando il sistema dei brevetti riesce a stimolare il progresso, ciò supera qual- siasi costo possibile. Ma in realtà non esiste motivo per ritenere che ciò sia effettivamente in grado di stimolare il progresso. Oggi esiste un modello preciso a dimostrazione delle modalità con cui i bre- vetti possono rallentare il progresso. Il caso in cui applicare tale modello descrive abbastanza bene il campo del software, un cam- po/sistema a innovazione incrementale. Perché il software si trova all’estremità opposta dello spettro? Il motivo è che nel software sviluppiamo oggetti matematici astratti. Si può costruire un castello complicato e poggiarlo su una linea sot- tile, si reggerà perché non pesa nulla. In altri settori, si ha a che fare con la perversità della materia, degli oggetti fisici. La materia è qual- cosa di ben preciso. Possiamo tentare di modellarla, ma se il com- portamento reale non corrisponde al modello predisposto allora sono guai, perché la sfida consiste nel costruire oggetti materiali capaci di funzionare sul serio. Se voglio inserire un costrutto “if” all’interno di un “while” non devo preoccuparmi se il costrutto “if” possa oscillare a una deter- minata frequenza e collida con il ciclo “while” provocando la rot- tura delle due strutture. [L’intero esempio è basato su “if” e “whi- le”, due costrutti usati nella programmazione]. Non ho bisogno di

169 preoccuparmi se ciò possa oscillare a una frequenza così alta da indurre una iniezione di segnale che provochi un cambiamento di valore di qualche altra variabile. Né devo preoccuparmi di quanta corrente attraversi il costrutto “if” e se questo possa dissiparla in calore all’interno del ciclo “while”, o se possa verificarsi un calo di voltaggio all’interno del ciclo “while” tale da impedire il funziona- mento del costrutto “if”. Neppure devo preoccuparmi del fatto che, nel caso faccia girare il programma in un ambiente con acqua sala- ta, il sale possa infilarsi tra il costrutto “if” e il ciclo “while” e cau- sare corrosione. [Il pubblico ride durante tutto il corso della descri- zione]. Non devo preoccuparmi, quando utilizzo il valore di una variabile, se stia superando il limite di fan-out utilizzandola 20 volte. Né devo preoccuparmi della sua capacità massima, e se esista tempo suffi- ciente per caricarla alla giusta tensione. Quando scrivo un programma, non ho bisogno di preoccuparmi di come in seguito dovrò assemblare materialmente ogni copia del pro- gramma, e se possa riuscire ad avere spazio sufficiente per infilare quel costrutto “if” all’interno del ciclo “while”. Né devo preoccu- parmi di come aprire l’apparato nell’eventualità di una rottura del costrutto “if” per rimuoverlo e sostituirlo con uno nuovo. Ci sono così tanti problemi di cui non dobbiamo preoccuparci con il softwa- re; ciò rende sostanzialmente più semplice scrivere un programma anziché progettare un oggetto materiale capace di funzionare. Ciò potrà apparire strano, perché probabilmente avrete sentito dire in giro quanto sia difficile progettare del software, e quanto sia com- plicato trovare soluzioni adeguate ai vari problemi. Non si tratta della medesima questione che sto illustrando ora. Il confronto cui mi riferivo riguarda i sistemi di software e quelli materiali aventi una complessità analoga, un identico numero di componenti.

170 Ritengo che un sistema di software sia molto più facile da proget- tare di un sistema fisico. Ma l’intelligenza usata in questi campi diversi è la stessa, e allora cosa facciamo quando ci troviamo a ope- rare in un contesto semplice? Decidiamo di andare più avanti! Spin- giamo al limite massimo le nostre capacità. Di fronte alla sempli- cità dei sistemi di dimensioni analoghe, ne aumentiamo la gran- dezza di dieci volte – allora sì che diventeranno difficili! Ecco cosa facciamo: costruiamo sistemi di software molto più estesi, in ter- mini di numero dei componenti, dei sistemi fisici. Un sistema fisico il cui progetto preveda un milione di pezzi diver- si diventa un megaprogetto. Un programma informatico che inclu- da un milione di pezzi raggiunge forse le 300.000 righe di codice; un pugno di persone impiegheranno un paio d’anni per scriverlo. Non si tratta di un programma particolarmente gigantesco. Oggi GNU Emacs conta svariati milioni di pezzi, credo. È composto da un milione di righe di codice. Si tratta di un progetto realizzato essenzialmente senza alcun tipo di sostegno economico, in gran par- te scritto da varia gente nel proprio tempo libero. Il software offre anche un altro grosso risparmio. Dopo aver pro- gettato un prodotto fisico, il passo successivo concerne la costru- zione della fabbrica dove produrlo. Operazione che potrà costare milioni o decine di milioni di dollari, laddove per fare delle copie di un programma è sufficiente digitare “copia”. Lo stesso comando consente di copiare qualsiasi programma. Volendo copiare su un CD, basta realizzare il master e spedirlo a un produttore di CD. Qui verranno utilizzate le medesime apparecchiature impiegate per copiare qualsiasi contenuto su un comune CD. Non bisogna costruire una fabbrica specializzata capace di produrre ogni artico- lo specifico. Il tutto comporta una semplificazione enorme e la dra- stica riduzione dei costi nella fase di progettazione.

171 Un’azienda automobilistica, che spenderà 50 milioni di dollari nel- la costruzione della fabbrica in cui verrà prodotto un nuovo model- lo di autovettura, può assumere degli avvocati per occuparsi delle trattative sulle licenze dei brevetti. Volendo, potranno anche risol- vere felicemente eventuali denuncie legali. La progettazione di un programma di analoga complessità potrà costare 50.000 o 100.000 dollari. Al confronto, le spese per trattare con il sistema dei brevet- ti sono schiaccianti – anzi, la progettazione di un programma aven- te le stesse complessità del progetto meccanico di un’autovettura richiede forse un mese di lavoro. Di quante parti è composta un’au- tomobile... meglio, un’automobile priva di sistemi computerizzati? Ciò non vuol dire che sia facile progettare un buon modello, sol- tanto che questo non include poi così tante componenti. (La trasmissione automatica è composta da circa 300-400 pezzi uni- ci, e generalmente questa è la parte più complicata di un autovei- colo. La fase di progettazione della trasmissione può richiedere dai sei mesi a un anno, e a quel punto ci vorrà ancora più tempo per costruirla e renderla operativa. Invece un programma dotato di 500- 800 parti funzionanti sarà praticamente composto da 200-300 righe di codice, e probabilmente un buon programmatore impie- gherà da un giorno a una settimana per realizzarlo, incluse prove e collaudi). Ne risulta che il software è veramente diverso da altri settori, per- ché quando si lavora con elementi matematici la progettazione di qualcosa è infinitamente più semplice. Di conseguenza possiamo realizzare regolarmente sistemi molto, molto più grandi grazie appena a un paio di persone. Il risultato è che invece di essere vici- ni a “un brevetto, un prodotto”, ci troviamo in un sistema in cui ciascun prodotto ingloba un’enorme quantità di idee che potreb- bero essere già state brevettate.

172 Il modo migliore per illustrare questa situazione è l’analogia con le sinfonie di musica classica. Anche una sinfonia è lunga e comprende parecchie note diverse, e probabilmente usa un gran numero di idee musicali. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se i governi del- l’Europa del 1700 avessero deciso di promuovere il progresso della musica sinfonica tramite l’attivazione di un ufficio brevetti per la musica europea, con il compito di assegnare i brevetti a ogni tipo di idea musicale che fosse possibile descrivere a parole. Immaginiamo di trovarci verso il 1800 e di impersonare Beethoven alle prese con la stesura di una sinfonia. Scoprirete ben presto come metterne insieme una che non infranga nessun brevetto, sia qual- cosa di assai più arduo che scrivere una buona sinfonia. Quando ve ne lamentate, i vari detentori brevetti potrebbero rispondere: “Ah, Beethoven, ti lamenti soltanto perché non hai idee originali. Tutto quello che vuoi fare è rubare le nostre invenzioni”. In realtà Beethoven ha un sacco di nuove idee musicali – ma deve anche usarne parecchie tra quelle esistenti per rendere riconoscibi- le la sua musica, in modo che possa piacere agli ascoltatori, i quali devono identificarla in quanto musica. Nessuno è talmente bril- lante da poter reinventare della musica completamente differente e realizzare al contempo qualcosa a cui si voglia prestare ascolto. Pier- re Boulez disse di volerci provare, ma quanta gente ne ascolta la musica? Nessuno è così brillante da poter reinventare tutta l’informatica, per rifarla completamente da capo. Se qualcuno potesse riuscirci, il risultato sarebbe talmente strano che gli utenti si rifiuterebbero di utilizzarla. Quando consideriamo un elaboratore testi odierno, vi scopriremo, credo, centinaia di funzioni diverse. Se qualcuno svi- luppa un elaboratore testi nuovo e ben fatto, ciò vuol dire che pre- senta delle idee nuove, ma dovrà comprendere anche centinaia di

173 idee preesistenti. Nel caso fosse illegale usarle, risulterebbe impos- sibile realizzare un elaboratore testi innovativo. Poiché il lavoro del- lo sviluppo del software è così ampio, ne risulta che non abbiamo alcun bisogno di schemi artificiali per incentivare nuove idee. Basta avere qualcuno che voglia scrivere del software e l’ispirazione non mancherà di arrivare. Se volete scrivere un programma di buon livello, vi verranno sicuramente delle idee e troverete il modo di applicarne alcune. Visto che opero nel campo del software fin da prima dell’arrivo dei relativi brevetti, di solito succedeva che la maggior parte degli svi- luppatori pubblicava qualsiasi nuova idea ritenuta valida, per le quali ritenevano di poter meritare qualche lode o riconoscimento. Le idee troppo ridotte o non sufficientemente valide non venivano pubblicate perché sarebbe stato sciocco farlo. Ora, si suppone che il sistema dei brevetti debba incoraggiare la manifestazione delle idee. In realtà in passato nessuno le custodiva gelosamente. È vero che tenevano segreto il codice. In fondo scrivere codice rappresen- tava il grosso dell’attività. Non rivelavano il codice e ne pubblica- vano le idee, in modo che gli sviluppatori potessero ottenerne qual- che riconoscimento e sentirsi apprezzati. Dopo l’introduzione del sistema dei brevetti, continuarono a tener- ne segreto il codice brevettando al contempo le idee, e di fatto non viene fatto assolutamente nulla per incoraggiare la diffusione delle idee. Quello che veniva tenuto segreto allora rimane tale ora, ma le idee che solitamente venivano pubblicate in modo che altri potes- sero usarle oggi è probabile vengano brevettate e tenute fuori por- tata per 20 anni. Cosa può fare un paese per cambiare questa situazione? In che modo dovremmo riformare l’attuale politica onde risolvere il problema? Due sono i fronti che è possibile attaccare. Uno è il luogo fisico

174 addetto al rilascio dei brevetti, l’omonimo ufficio. L’altro è laddo- ve tali brevetti trovano applicazione. Questa faccenda riguarda quel che copre effettivamente un brevetto. Un modo è quello di stabilire un buon criterio per l’assegnazione dei brevetti. Ciò può funzionare in un paese che finora non ha ancora autorizzato il ricorso ai brevetti sul software, come accade ad esem- pio nella maggior parte dei paesi europei. Una buona soluzione per l’Europa sarebbe semplicemente quella di rafforzare con chiarezza le norme dell’ufficio brevetti europeo, che stabiliscono la non brevetta- bilità del software. Attualmente l’Europa sta vagliando una direttiva per i brevetti sul software. (Credo che tale direttiva sia di portata più ampia, ma una delle implicazioni più importanti riguarda i brevetti sul software). Sarebbe sufficiente modificarla ribadendo che le idee sul software non possono essere coperte da brevetti, così da tenere gran parte dei problemi fuori dall’Europa, fatta eccezione per alcuni paesi che potrebbero trovarsi davanti a problemi interni, e uno di que- sti purtroppo è la Gran Bretagna (purtroppo per voi). Un approccio simile non funzionerebbe negli Stati Uniti. Il moti- vo è che qui esiste già un’ampia quantità di brevetti sul software, e qualsiasi mutamento nel criterio per l’assegnazione non potrà libe- rarsi di quelli precedenti. (Quando parlo di “brevetti sul software” cosa intendo dire in realtà? L’ufficio brevetti statunitense non divide ufficialmente i brevetti sul software dagli altri. Così qualsiasi brevetto che è possibile applica- re a qualche tipo di software viene considerato la base presumibil- mente valida per poter denunciare chiunque scriva dei programmi. I brevetti sul software sono brevetti che si possono potenzialmente applicare al software, brevetti che potenzialmente possono motiva- re la denuncia contro chi sviluppa del software). Così per gli Stati Uniti la soluzione dovrebbe materializzarsi trami-

175 te il cambiamento dell’applicabilità, dello scopo dei brevetti: affer- mando cioè che la pura implementazione del software, operante su un hardware generico che in sé non infrange il brevetto, non è coperta da alcun brevetto e non si può subire alcuna denuncia uni- camente su tali basi. Questo è l’altro tipo di soluzione possibile, mentre la prima, quella relativa ai tipi di brevetti che possono risul- tare validi, è una buona soluzione da applicare in Europa. Quando negli Stati Uniti venne introdotto il sistema dei brevetti non ci fu alcun dibattito politico. Anzi, non se ne accorse nessuno. Per la maggior parte, neppure quanti operavano nel campo del software ne presero nota. Nel 1981 una decisione della Corte Supre- ma prese in esame il brevetto su un procedimento per la lavorazio- ne della gomma. Secondo la sentenza, il fatto che l’apparecchiatu- ra in questione fosse dotata di computer e di programma come par- te del processo per la lavorazione della gomma, non ne impediva la brevettabilità. L’anno successivo, la corte d’appello che si occupa di tutti i casi relativi ai brevetti chiarì meglio il concetto: l’esistenza di un computer e di un programma rende il prodotto brevettabile. Il fatto che all’interno di un oggetto qualsiasi ci sia un computer e un programma, consente la brevettabilità di tale oggetto. Ecco perché negli Stati Uniti piovvero le richieste di brevetti sulle procedure commerciali: queste venivano eseguite tramite un computer e ciò le rendeva brevettabili. Così venne emanata quella sentenza, e subito dopo credo che il bre- vetto per il ricalcolo secondo l’ordine naturale fosse uno dei primi a essere assegnato, se non addirittura il primo. Per tutti gli anni ‘80 non ne sapemmo nulla. Fu intorno al 1990 che i programmatori statunitensi iniziarono a rendersi conto dei pericoli cui andavano incontro con il sistema dei brevetti. Ho visto come operava il settore prima di quel periodo e come lo fece dopo.

176 Dopo il 1990 non notai alcuna particolare accelerazione del pro- gresso operativo. Negli Stati Uniti non si ebbe alcun dibattito politico, ma in Euro- pa se ne è avuto uno di ampie proporzioni. Parecchi anni fa ven- nero segnalate forti pressioni per apportare degli emendamenti al trattato di Monaco che implementava l’ufficio europeo dei brevet- ti. Una clausola del documento stabilisce la non brevettabilità del software. Le pressioni miravano a modificare tale clausola in modo da iniziare a consentire i brevetti sul software. Ma la comunità si accorse di questa manovra. Furono anzi gli sviluppatori e gli uten- ti di software libero a guidare le proteste. Non siamo solo noi a subi- re i pericoli del sistema dei brevetti. Ogni sviluppatore ne è minac- ciato, e lo stesso vale anche per gli utenti. Ad esempio, Paul Heckel – dopo che la Apple non venne intimi- dita dalle sue minacce – avvertì che avrebbe preso a denunciarne gli utenti. L’eventualità preoccupò non poco la Apple, la quale com- prese che non poteva permettersi di lasciar denunciare i propri clienti a quel modo, anche se in ultima analisi avrebbero vinto la causa. Ma il punto è che anche gli utenti possono subire una denun- cia, sia come modo per attaccare gli sviluppatori sia soltanto per spremere loro dei soldi o provocare gravi danni. Tutti gli sviluppa- tori e gli utenti sono vulnerabili. Ma in Europa è stata la comunità del software libero a organizzare l’opposizione. Fu così che per due volte i paesi responsabili dell’uf- ficio europeo dei brevetti votarono no all’emendamento del tratta- to. Allora intervenne l’Unione Europea e le varie commissioni si mostrarono divise sulla questione. Quella il cui compito riguarda la promozione del software è contro i brevetti, almeno così pare, ma non aveva potere decisionale su questo tema. Ne è responsabi- le la commissione sul libero mercato, e chi la presiede sembra favo-

177 revole ai brevetti sul software. In pratica tale commissione non ha tenuto alcun conto delle posizioni espresse dal pubblico, propo- nendo una direttiva che consente i brevetti sul software. Il governo francese ha già dichiarato la propria opposizione. Mol- ta gente sta facendo pressione sui vari governi nazionali affinché si oppongano ai brevetti sul software, ed è vitale iniziare a muoversi anche qui in Gran Bretagna. Secondo Hartmut Pilch, uno dei lea- der europei nella battaglia contro i brevetti sul software, l’impeto maggiore arriva dall’ufficio brevetti britannico, il quale è apriori- sticamente a favore dei brevetti sul software. L’ufficio britannico ha condotto una serie di consultazioni pubbliche, rivelatesi in mag- gioranza di segno contrario. Poi ha diffuso un documento in cui si sostiene che la gente sembra apprezzare quei brevetti, ignorando completamente le risposte ricevute dal pubblico. In ogni caso, la comunità del software libero aveva avvisato gli utenti: “Per favore inviate le risposte sia a loro che a noi”. Così hanno pubblicato tali risposte, che in genere esprimevano opposizione. Sarebbe stato impossibile desumere tutto ciò dal rapporto pubblicato dall’ufficio brevetti britannico. Questo ricorre spesso a un termine chiamato “effetto tecnico”. È una definizione che può essere ampliata in maniera tremenda. Dovremmo credere che questa stia a indicare che l’idea di un pro- gramma possa essere brevettata soltanto nel caso in cui si riferisca a specifiche azioni fisiche. Se questa è l’interpretazione corretta, in gran parte risolverebbe ogni problema. Se fosse davvero possibile brevettare soltanto le idee di un programma effettivamente corre- late allo specifico risultato tecnico, fisico brevettabile in assenza di tale programma, ciò andrebbe bene. Il problema sta nel fatto che quel termine può subire delle estensioni. Quel che si ottiene facen- do girare un certo programma può essere descritto come un effet-

178 to fisico. In che modo quest’ultimo si differenzia da qualsiasi altro risultato? Bé, lo è in quanto deriva da quel calcolo specifico. Di con- seguenza l’ufficio brevetti britannico sta proponendo qualcosa che sembra condurre per lo più alla soluzione del problema, ma che in realtà offre carta bianca per poter brevettare quasi ogni cosa. I responsabili dello stesso dipartimento sono coinvolti anche sulle tematiche del copyright, che in realtà non c’entra nulla con i bre- vetti sul software, eccetto per il fatto che in questo caso se ne occu- pano le stesse persone. (Forse sono stati indotti dal termine “pro- prietà intellettuale” a mettere insieme le due questioni). Si tratta di interpretare la recente direttiva dell’Unione Europea in tema di copyright, normativa orribile tanto quanto il Digital Millennium Copyright Act statunitense, pur se i singoli paesi hanno qualche spazio di manovra sulla sua implementazione. La Gran Bretagna vorrebbe massimizzare l’effetto tirannico della direttiva. Sembra che sia un certo gruppo – forse il Ministero del Commercio e dell’In- dustria? – a meritare la nostra attenzione. È necessario monitorar- ne le attività, in modo da bloccare la creazione di nuove forme di potere. I brevetti sul software possono incastrare ogni sviluppatore e ogni utente informatico in una nuova forma di burocrazia. Se gli impren- ditori che utilizzano i computer riuscissero a comprendere il gran numero di problemi che ciò finirà per provocare loro, sarebbero pronti a dar battaglia, e sono sicuro che riuscirebbero a fermare que- ste iniziative. L’imprenditoria non ha alcuna voglia di farsi legare le mani dalla burocrazia. Naturalmente, talvolta questa è utile al rag- giungimento di obiettivi importanti. Esistono alcuni settori in cui vorremmo che il governo britannico si fosse dimostrato più rigo- roso nell’imporre maggiore burocrazia a certe aziende, come per lo spostamento e il commercio di animali (onde rendere difficile la

179 diffusione della variante del morbo di Creutzfeldt-Jacob, meglio noto come “mucca pazza”). Ma nei casi in cui ciò non persegue altro scopo se non la creazione di monopoli artificiali in modo che qual- cuno possa interferire con lo sviluppo dei programmi – spremen- do denaro dagli sviluppatori e dagli utenti – allora dovremmo opporre un rifiuto. Dobbiamo informare i dirigenti imprenditoriali sulle conseguenze dei brevetti sul software nei loro confronti, così da ottenerne il sostegno nella lotta contro i brevetti sul software in Europa. La battaglia non è ancora finita. Possiamo ancora vincerla.

Trascrizione dell’intervento tenuto all’Università di Cambridge, Londra, il 25 marzo 2002. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002.

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

180 Appendice

Risorse utili

Per una buona infarinatura generale, è bene iniziare da questi libri ita- liani: AA.VV., Open Sources: Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, 1999, euro 14,46 (disponibile anche online: http://www.apogeonli- ne.com/libri/00545/scheda) Mariella Berra e Angelo Raffaele Meo, Informatica Solidale: Storia e prospettive del software libero, Bollati Boringhieri, 2001, euro 14,46 Sam Williams, Codice Libero (Free as in Freedom): Richard Stallman e la crociata per il software libero, Apogeo, 2003, euro 14 (disponibile anche online: http://www.apogeonline.com/libri/02108/scheda) Per approfondimenti e aggiornamenti vari, meglio sbizzarrirsi sul web. Questi sono alcuni dei maggiori siti da seguire, a partire ovvia- mente da quelli in inglese: Free Software Foundation e GNU Project: http://www.fsf.org Sito personale di Richard Stallman: http://www.stallman.org Free Software Foundation Europe: http://www.fsfeurope.org/ Eurolinux alliance: http://www.eurolinux.org Associazione Software Libero: http://www.softwarelibero.it Software libero nella didattica: http://scuola.softwarelibero.org PLUTO Free Software Users Group: http://pluto.linux.it

Associazione Software Libero: fondazione e storia L’Associazione Software Libero (Assoli) è un’entità legale senza sco- po di lucro che nasce nel novembre 2000 e che annovera, tra i suoi obiettivi, la diffusione del software libero in Italia e una corretta infor-

183 mazione sull’argomento. Nel maggio 2002, diventa l’affiliata italiana della Free Software Foundation Europe e, attraverso le sue liste (in particolare [email protected] e [email protected]), riesce a radunare circa duecento persone interessate a dibattere di licenze, questioni legali, avvicinamento alla pubblica amministrazio- ne e attività pubbliche a sostegno del software libero. La decisione di creare Assoli nasce da una semplice constatazione: se il software libero, dal punto di vista tecnico, ha iniziato ad attecchi- re ormai da qualche anno, non è accaduto altrettanto per la com- prensione dei diversi tipi di licenza e per le conseguenze giuridiche della loro adozione. Lo prova la confusione - ancora attuale anche negli ambienti degli “addetti ai lavori” - verso termini come freewa- re, shareware, open source e software libero, utilizzati come sinonimi quando invece le differenze che queste diverse forme di software han- no in termini di uso privato e aziendale, creazione di un mercato e incentivo allo sviluppo tecnologico sono notevoli, specialmente in un’ottica di lungo periodo. Altra prova della diffusa mancanza di conoscenza sull’argomento è stata la legge italiana sul diritto d’autore (n. 248/2000), legge dove tutto il software è stato equiparato a quello proprietario, determi- nando così una effettiva difficoltà per la diffusione di software distri- buito con licenze differenti. Gli ostacoli insorti al momento dell’en- trata in vigore della legge sono stati in parte corretti dal regolamento attuativo che segue di oltre un anno la nuova normativa e le recenti modifiche a esso apportate, ma permangono ancora oggi problemi alla diffusione del software libero, collegati a legislazioni potenzial- mente restrittive, come la direttiva europea 2001/29/CE (European Union Copyright Directive, Eucd).

I progetti Eucd: le conseguenze e i pericoli (http://www.softwarelibero.it/pro- getti/eucd/index.shtml). La campagna nasce per diffondere una maggiore conoscenza della

184 direttiva europea 2001/29/CE, più nota come European Union Copyright Directive (Eucd). Il provvedimento introduce una serie di novità legali nel campo del “diritto d’autore”, puntando unicamente alla salvaguardia degli interessi economici dei grossi editori e dei pro- duttori di software proprietario. I diritti degli utenti (e non solo) sono messi completamente in secondo piano, se non addirittura calpesta- ti. Le norme della direttiva mettono in grave pericolo il diritto alla copia privata, la possibilità di usufruire delle opere in formato digi- tale (come e-book, dvd, cd musicali) secondo condizioni ragionevo- li, la futura garanzia di poter accedere senza censure a documenti di rilevanza storica, la possibilità di cedere o rivendere materiale digita- le regolarmente acquisito, la possibilità di produrre software libero interoperante, la libertà di ricerca e di espressione su Internet. L’ap- plicazione dell’Eucd in Italia appare molto vicina, dato che è già pron- to uno schema di decreto legislativo per il recepimento della diretti- va. Esiste già una legge in vigore che applica le stesse norme previste dall’Eucd: si tratta dello statunitense Digital Millennium Copyright Act (DMCA. http://www.anti-dmca.org/).

Bollino Howto (http://www.softwarelibero.it/bollino/html/Bollino- HOWTO.html). Dal momento dell’approvazione della legge 248/2000, nota come “legge del bollino”, e del successivo regolamento attuativo, molti gruppi e osservatori hanno mosso varie critiche e osservazioni a que- sti testi, osservazioni incentrate su aspetti legati alla possibilità di una reale applicazione della legge e ai diritti dei consumatori. Inoltre si sono andate delineando difficoltà a cui sarebbero andate incontro pic- cole realtà produttive esistenti in Italia. Per questo, l’Associazione Software Libero e il Lug Roma (http://www.lugroma.org/) hanno cer- cato di capire come far “convivere” il software libero con questa leg- ge: sono avviati dei contatti con la sede centrale della Siae, con gli organi preposti per discutere delle problematiche che l’interpretazio- ne della legge pone in relazione alle opere libere e delle possibili solu-

185 zioni per rendere manifesta l’esclusione di questo genere di opere dal- l’ambito di applicazione della normativa. In seguito al primo incon- tro e alla luce dei chiarimenti avuti, l’Associazione Software Libero e il progetto GNUtemberg! (http://www.gnutemberg.org/) hanno pre- sentato, in luoghi e circostanze diversi, e ottenuto una richiesta di esenzione. Sono seguiti i cd-rom e il materiale creato da numerosi Lug (Linux User Group), distribuiti sul territorio nazionale. Il docu- mento è stato scritto, revisionato e pubblicato con la volontà di favo- rire la conoscenza della legge e degli strumenti che questa mette a disposizione per evitare l’applicazione del contrassegno.

Formati Il progetto ha come obiettivo la definizione di formati di dati e di for- mati di dati liberi individuando quali siano le migliori applicazioni nel- l’ambito pubblico e privato. Ogni volta che si usa un applicativo softwa- re, vengono prodotti dati, generalmente memorizzati su hard disk, floppy o altri supporti oppure inviati a un altro elaboratore via rete. Poi- ché i dati sono di proprietà dell’utente che li ha creati, è fondamentale che egli possa disporre di essi, indipendentemente dal formato di memorizzazione o di trasmissione utilizzato. In altre parole, l’utente deve essere nella condizione di accedere ai propri dati conservando la libertà di scelta del software da utilizzare. Affinché i dati siano utili, è necessario che utenti differenti possano condividerli e utilizzarli, senza alcun vincolo di dipendenza da un unico produttore. Dunque, un pre- requisito nella creazione e nell’accesso ai dati è costituito da formati chiari, facilmente accessibili e riutilizzabili all’interno di prodotti diffe- renti. Benché il concetto di libertà dei formati di dati sia strettamente correlato al concetto di libertà del software, una definizione di forma- ti di dati liberi prescinde dalla natura del software essendo valida sia per il software libero che per quello proprietario. Dizionario libero (http://www.softwarelibero.it/progetti/dizionario/). Il Progetto Dizionario Libero ha come obiettivo la realizzazione di un

186 dizionario italiano e di ulteriori strumenti linguistici disponibili al pubblico sotto licenza libera. Uno degli aspetti in cui il software libe- ro in italiano si è dimostrato più carente è quello della mancanza di un vocabolario di qualità sufficientemente elevata. Oltre a ciò, man- ca in generale quello che invece è disponibile per molte altre lingue, come un dizionario e una raccolta di sinonimi e contrari. Questo pro- getto mira a costruire le basi necessarie per colmare queste lacune e i risultati saranno rilasciati con licenza libera (GPL, LGPL o FDL, a seconda dei casi). Il primo passo è stato quello di creare una mailing list di coordinamento ([email protected]) e qui si stabili- scono le modalità di evoluzione del progetto, obiettivi ulteriori e modalità di realizzazione. Il secondo passo è la creazione di deposito centralizzato per una lista di parole semplici, a cui diventi possibile fare riferimento come punto di raccolta per la stesura del vocabola- rio. A questo si aggiungerebbe una procedura automatica per la rac- colta di nuove parole, e procedure più o meno automatiche per la relativa integrazione. Storia del software libero in Italia (http://www.softwarelibero.it/pro- getti/storia/). Scopo del progetto è l’individuazione e la descrizione dei personaggi e dei momenti che hanno contribuito alla diffusione del software libe- ro e del movimento di pensiero a esso collegato. Il lavoro, attualmente in via di sviluppo, è aperto a interventi, suggerimenti, contributi, che possono essere sottoposti all’indirizzo della mailing list di coordina- mento, [email protected]

Le attività Una parte importante del lavoro di Assoli è la partecipazione a con- ferenze ed eventi pubblici presentando quelli che sono i concetti filo- sofici e legali correlati al software libero. Inoltre, sono state portate avanti iniziative in collaborazione con associazioni che si occupano di argomenti simili. Tra queste, insieme alla Italian Linux Society

187 (ILS, http://www.linux.it/), ha sollecitato una raccolta di firme per sostenere la discussione in parlamento del disegno di legge sul softwa- re libero: “Norme in materia di pluralismo informatico sulla adozione e la diffusione del software libero e sulla portabilità dei documenti infor- matici nella Pubblica Amministrazione” (XIV Legislatura Atto Senato n. 1188, www.parlamento.it/leg/14/Bgt/Schede/Ddliter/16976.htm), attualmente all’esame della Commissione Affari Costituzionali del Senato). In proposito, ha lavorato anche Promezio.net (http://open- mind.promezio.net/), Opensource.it (http://www.opensource.it/dise- gnolegge.php) e ezboard (http://pub47.ezboard.com/fsicurezzanet- frm2.showMessage?topicID=68.topic). Con Agnug (Associazione Gnug, http://www.gnug.it/) e alla sezione italiana delle Free Software Foundation Europe (http://www.fsfeuro- pe.org/), sostiene la campagna “Libera il tuo software!” (http://www.liberailsoftware.org/) per la creazione di una rete di eco- nomia solidale a sostegno dello sviluppo del software libero. Il primo obiettivo è favorire la realizzazione in tempi brevi della nuova versio- ne di Samba, in grado di consentire una migrazione indolore dei ser- ver Windows Nt a Gnu/Linux piuttosto che a Windows 2000. Assoli ha infine contribuito alla realizzazione delle mozioni comuna- li per l’introduzione del software libero e dei formati liberi con una serie di gruppi consiliari italiani, tra cui Firenze, Torino e Bologna. Per maggiori informazioni e contatti: http://www.softwarelibero.it/

188 Indice

Introduzione ...... 3

PARTE PRIMA: Il progetto GNU e il software libero ...... 9 Il progetto GNU...... 11 Il manifesto GNU...... 42 La definizione di software libero ...... 59 Perché il software non dovrebbe avere padroni...... 64 Cosa c’è in un nome? ...... 72 Perché “software libero” è da preferire a “open source”...... 78 Rilasciare software libero se lavorate all’università ...... 88 Vendere software libero ...... 92 Il software libero ha bisogno di documentazione libera . . . . . 97 La canzone del software libero...... 101

PARTE SECONDA: Copyright, copyleft e brevetti...... 103 Il diritto di leggere...... 105 L’interpretazione sbagliata del copyright – una serie di errori. 114 La scienza deve mettere da parte il copyright ...... 134 Cos’è il copyleft? ...... 137 Copyleft: idealismo pragmatico...... 141 Il pericolo dei brevetti sul software ...... 146

APPENDICE ...... 181

e-mail: [email protected] http://www.stampalternativa.it/ eretica

STAMPA ALTERNATIVA Casella postale97-01100Viterbo fax0761.352751 s impaginazione progetto grafico copia siamantenutalacitazionedelcopyrightequestanota. articoli diquestolibro,nellalorointegrità,acondizionechesuogni Si consentelacopialetteraleedistribuzionediunootuttigli Email: [email protected] Boston, MA02111-1307,USA 59 Temple Place,Suite330, Free Software Foundation Copyright ©2002FreeSoftware Foundation,Inc. of RichardM.Stallman Titolo originale:FreeSoftware, FreeSociety:TheSelectedEssays del progettoGNU Traduzioni diBernardoParrella eGruppotraduttoriitaliani A curadiBernardoParrella eAssociazione Software Libero © 2003NuoviEquilibri presso latipografia finito distampare nelmesediaprile2003 A A direttore editoriale Software libero licabili eresistenti,dellavergognadelconformismo. no voce.Sianoimuridiuncarcereoquelli,ancorapiùinva- toriali cheancoraseparanoenascondonocolorononhan- ta, controcorrente.Questacollanavuoleabbattereimuriedi- Contro ilcomunesensodelpudore,controlamoralecodifica- Non vengono forniti pareri e schede di lettura. di schede e pareri forniti vengono Non u concessionedellaFreeSoftware Foundation Non si considerano testi inviati per e-mail. per inviati testi considerano si Non t t t t e e n n z z Saggi sceltidiRichardStallman i i o o n n e e ! ! P I manoscritti inviati all’editore non si restituiscono. restituiscono. si non all’editore inviati manoscritti I ensiero libero Littlered Graffiti Anyone! W via Catania8-00040 Pavona (Roma) Marcello Baraghini eb: http://www.gnu.org

RICHARD STALLMAN

SOFTWARE LIBERO PENSIERO LIBERO VOLUME SECONDO

Libertà di software e di pensiero, grazie!

Prosegue la presentazione italiana dei saggi e degli interventi più significativi di Richard Matthew Stallman, fondatore del movimen- to del software libero. Come annunciato nel primo volume (maggio 2003), questo secondo tomo include i testi integrali delle varie licen- ze GNU, a partire dalla più affermata, la GPL, General Public License, nonché le trascrizioni di alcuni importanti interventi dal vivo di Stallman (quali “Copyright e globalizzazione nell’epoca del- le reti informatiche” e “Software libero: libertà e cooperazione”). Vie- ne così completata la versione nostrana di un libro originale – Free Software, Free Society: Selected Essays of Richard M. Stallman – dove vengono condensati oltre 20 anni di testi e interventi pubblici che hanno modificato la nostra stessa concezione dell’informatica e della tecnologia. Testi che, a scanso di equivoci, non si limitano a fare la storia del movimento del software libero, ma gettano anzi forti luci sul futuro di dinamiche al crocevia tra etica e legge, business e softwa- re, libertà individuale e società trasparente.

Questo secondo volume è inoltre arricchito da un’importante appen- dice: un documento in cui l’Associazione Software Libero aggiorna lo scenario su alcuni temi di scottante attualità anche per la scena ita- liana: l’EUCD (European Union Copyright Directive), i brevetti sul software, la pubblica amministrazione e il software libero. Si tratta in pratica di tre cavalli di battaglia – avviati dall’Associazione ma ovviamente aperti a chiunque voglia e vorrà coinvolgersi – attraver- so i quali “scardinare, o almeno tentare, la visione imperante del-

3 l’informatica legata al pagamento delle licenze, alla mera esecuzione dei programmi, alla limitazione delle informazioni per trasformare gli utenti in ‘pigiatori’ di tasti e icone a cui manca però la conoscen- za di fondo, quella che si cela dietro alle interfacce grafiche e che costi- tuisce uno dei presupposti della libertà.” In ambito più generale, va invece segnalata l’iniziativa legale avvia- ta lo scorso marzo dalla ex-Caldera, ora nota come Santa Cruz Ope- ration (SCO), contro IBM e altre aziende che fanno uso del sistema GNU/Linux. Iniziativa che sembra porsi come una sfida lanciata contro l’intero mondo dell’open source e del software libero, ovvero mirata agli stessi utenti insieme a qualche big dell’industria infor- matica. Al riguardo è senz’altro il caso di riportare alcuni stralci del- la posizione assunta a fine giugno dalla Free Software Foundation (FSF), in cui Eben Moglen, esperto legale e Consigliere Generale del- la stessa FSF, interviene su alcuni dettagli importanti: “SCO accusa IBM di aver infranto i vincoli contrattuali tra le due aziende e di aver incorporato in ciò che SCO chiama genericamente “Linux” segreti industriali che riguardano la progettazione del siste- ma operativo UNIX. Quest’ultima affermazione è stata recentemen- te ampliata in dichiarazioni extragiudiziarie da parte del personale di SCO e di alcuni suoi dirigenti che hanno specificato che “Linux” incorpora materiale copiato da UNIX, violando il Copyright di SCO. Un’affermazione di questo tenore è contenuta anche in una lettera che SCO pare abbia inviato a 1500 tra le più grandi aziende al mondo mettendole in guardia dall’utilizzo del Software Libero sulla base di possibili responsabilità concernenti violazione di Copyright.”

Il testo di Eben Moglen (reperibile interamente in versione italiana: http://www.it.gnu.org/philosophy/sco-statement.it.html) prosegue sottolineando la confusione, apparentemente voluta, della posizione

4 di SCO rispetto all’utilizzo del termine “Linux” per intendere “tutto il Software Libero” o “tutto il Software Libero che costituisce un siste- ma operativo simile a UNIX”. Aggiungendo come pur a fronte delle contestazioni sul segreto industriale, le uniche mosse nella causa con- tro IBM, va comunque notato il “semplice fatto che SCO ha per anni distribuito copie del kernel, Linux, come parte di sistemi GNU/Linux. Tali sistemi sono stati distribuiti da SCO nel pieno rispetto della GPL, e per ciò, includevano l’intero codice sorgente.” Con una conclusione che offre una precisa presa di posizione della FSF e dei sostenitori del software libero: “Di fronte a questi fatti, le dichiarazioni pubbliche di SCO sono quantomeno fuorvianti ed irresponsabili. SCO ha abilmente appro- fittato del lavoro di coloro che hanno fornito contributi da tutto il mondo. Le loro attuali dichiarazioni pubbliche costituiscono un vol- gare abuso dei principi della comunità del Software Libero, da par- te di un membro che ha utilizzato tutto il nostro lavoro per il proprio tornaconto economico. La Free Software Foundation invita SCO a ritirare le proprie sconsiderate ed irresponsabili dichiarazioni e di provvedere a separare immediatamente i propri disaccordi commer- ciali con IBM dai propri doveri e le proprie responsabilità nei con- fronti della comunità del Software Libero.”

Da parte sua, Richard Stallman ha commentato qua e là la faccen- da, ma senza eccessive preoccupazioni. Chiarendo, tra l’altro, punti chiave come il seguente: “In una comunità di più di mezzo milione di sviluppatori, non possiamo aspettarci che non avvengano mai casi di plagio. Ma non è un disastro; possiamo scartare tale materiale e proseguire. Se c’è materiale in Linux che è stato aggiunto senza il dirit- to legale di farlo, gli sviluppatori di Linux lo individueranno e lo sosti- tuiranno. SCO non può usare i propri copyright, o i propri contratti

5 con altre parti, per sopprimere i legittimi contributi di migliaia di altri soggetti. Lo stesso Linux non è più essenziale: il sistema GNU è diventato popolare in congiunzione con Linux, ma oggi gira su due kernel BSD e con il kernel GNU. La nostra comunità non può esse- re sconfitta da questa vicenda.” Va aggiunto che, in piena estate 2003, le posizioni di media e indu- stria, aziende e organizzazioni, addetti ai lavori e avvocati, a parti- re dalla scena statunitense per ampliarsi al resto del mondo, concor- dano su un fatto: l’iniziativa a tutto campo di SCO appare assurda, immotivata e condannata alla sconfitta. L’impressione generale è che l’ex-Caldera miri a risultati finanziariamente vantaggiosi, onde recu- perare i diversi milioni di dollari persi sul mercato in anni recenti. Ciò include varie possibilità, dall’acquisto da parte della stessa IBM denunciata o altro gigante high-tech all’imposizione di licenze ad aziende Linux e/o ai singoli utenti. Non a caso l’ultima mossa di SCO è la registrazione di una nuova licenza di UnixWare avente come tar- get gli utenti commerciali di Linux, e in cui si impone ai distributo- ri di usarne il kernel soltanto in versione binaria, bloccando in pra- tica l’accesso al codice sorgente, dal kernel 2.4 in poi. Pur senza quan- tificare, al momento SCO propone insomma ad aziende e utenti di pagare la licenza per il suo UnixWare 7.1.3, su cui girano sia appli- cazioni Linux che Unix. Comunque sia, finora tali iniziative non hanno provocato alcuna ripercussione negativa a livello di mercato, mentre le testate specializzate USA confermano che gli utenti non paiono per nulla scossi dalle minacce di SCO, vere o presunte che sia- no. A ridosso di ferragosto, è infine arrivata l’attesa contro-denuncia di IBM, la quale chiede in sostanza ai giudici dello Utah di archi- viare la pratica vista la falsità delle accuse, imponendo anzi a SCO un rimborso danni “compensatori e punitivi”, pur senza specificarne l’ammontare.

6 In attesa di ulteriori sviluppi giudiziari o, forse meglio, del previsto patteggiamento tra le parti in causa, la vicenda ribadisce innanzi- tutto la forza raggiunta dal movimento free software (e open source) a livello commerciale, tale da replicare con fermezza anche a improv- vise sfide legali ed eventuali ricadute a largo raggio. Un ambito com- plessivo in cui, oltre a difendersi in aula se e quando sarà il caso, resta- no più che valide le concezioni efficacemente illustrate da Richard Stallman in queste stesse pagine. Per rafforzarsi ulteriormente, ribat- tere a simili accuse e affrontare adeguatamente ogni tipo di sfida futu- ra, possiamo giurare su un fatto: il movimento continuerà ad evol- versi in sintonia con le pratiche di massima apertura e condivisione a livello globale che lo contraddistinguono da sempre. Espressione tan- to concreta quanto catalizzante di un esperimento teso, ieri come oggi e domani, all’affermazione della libertà di tutti e di ciascuno.

Bernardo Parrella [email protected] agosto 2003

7 8 Parte Prima

Libertà, società e software 10 Possiamo fidarci del nostro computer?

Da chi dovrebbe ricevere ordini il nostro computer? La maggior parte della gente ritiene che il computer dovrebbe obbedire all’u- tente, non a qualcun altro. Con un progetto denominato “infor- matica fidata” (trusting computing), le grandi corporation dei media, incluse l’industria cinematografica e quella musicale, insie- me ad aziende informatiche quali Microsoft e Intel, stanno cer- cando di fare in modo che il computer obbedisca a loro anziché all’utente. I programmi proprietari presentavano già delle funzio- ni ambigue, ma tale progetto le renderebbe universali. Sostanzialmente software proprietario significa che l’utente non può controllarne le funzionalità; né può studiarne il codice sor- gente o modificarlo. Non deve sorprendere il fatto che qualche sagace imprenditore trovi il modo di usare il proprio potere per metterci in svantaggio. Microsoft lo ha fatto parecchie volte: una versione di Windows era progettata per segnalare a Microsoft tut- to il software presente sull’hard disk dell’utente; un recente upgra- de “di sicurezza” per Windows Media Player imponeva l’assenso dell’utente per nuove restrizioni. Ma Microsoft non è certo l’uni- ca: il software di file sharing per la musica KaZaa è progettato in modo che i suoi partner commerciali possano affittare ai propri clienti l’uso del computer dell’utente. Spesso simili funzioni ambi- gue rimangono segrete, ma perfino quando se ne conosce l’esi- stenza, è difficile rimuoverle perché l’utente non ne possiede il codice sorgente. Nel passato questi erano incidenti isolati. “L’informatica fidata” li

11 renderebbe dilaganti. Una definizione più appropriata sarebbe “informatica ingannevole” (treacherous computing), poiché il pia- no è progettato per assicurarsi che il computer disubbidisca siste- maticamente all’utente. Anzi, è progettato per impedire al com- puter di operare come un computer per usi generici. Ogni opera- zione potrebbe richiedere un’autorizzazione esplicita. L’idea tecnica alla base dell’informatica ingannevole è che il com- puter include un congegno per la cifratura e la firma digitale, le cui chiavi vengono tenute segrete all’utente. (La versione Micro- soft di tale sistema si chiama “Palladium”). I programmi proprie- tari useranno questo congegno per controllare quali altri pro- grammi l’utente possa far girare, a quali documenti o dati può accedere e in quali programmi possa trasferirli. Tali programmi preleveranno in continuazione nuove autorizzazioni via Internet, imponendole automaticamente all’utente. Se quest’ultimo non consente al proprio computer di ottenere periodicamente nuove regole da Internet, alcune capacità smetteranno automaticamen- te di funzionare. Naturalmente, Hollywood e le aziende discografiche prevedono di ricorrere all’informatica ingannevole per il “DRM” (Digital Restrictions Management, gestione delle restrizioni digitali), in modo che i video e la musica scaricata possano essere visti e ascol- tati soltanto su un determinato computer. Risulterà del tutto impossibile condividerli, almeno usando i file autorizzati ottenuti da tali aziende. Noi, il pubblico, dovremmo avere sia la libertà sia la capacità di condividere queste cose. (Prevedo che qualcuno tro- verà il modo di produrre delle versioni cifrate, di diffonderle onli- ne e condividerle, in modo che il DRM non potrà avere pieno suc- cesso, ma ciò non è una scusante per l’esistenza di tale sistema). Negare la possibilità di condividere è già qualcosa di negativo, ma

12 c’è di peggio. Si prevede di usare procedure analoghe per email e documenti – provocando la scomparsa dell’email entro due setti- mane, oppure consentendo la lettura dei documenti unicamente sui computer di una sola azienda. Immaginiamo di ricevere una email dal nostro datore di lavoro che ci dica di fare qualcosa che consideriamo rischioso; un mese dopo, quando scoppia qualche grana, non potremo usare quell’e- mail per dimostrare che non siamo stati noi a prendere la decisio- ne. “Metterlo per iscritto” non ci tutela quando l’ordine è scritto con inchiostro (simpatico?) che scompare. Immaginiamo di ricevere un’email in cui il nostro datore di lavo- ro voglia imporci una procedura illegale o moralmente equivoca, come la distruzione dei documenti aziendali relativi a un’audizio- ne fiscale, o lasciar passare senza verifiche una pericolosa minac- cia al nostro paese. Oggi è possibile far arrivare il messaggio a un giornalista e rendere pubblica quell’attività. Ma grazie all’infor- matica ingannevole, il giornalista potrebbe non leggere il docu- mento, il suo computer rifiuterebbe di obbedirgli. L’informatica ingannevole diventa il paradiso della corruzione. Gli elaboratori di testi come Microsoft Word potrebbero ricorre- re all’informatica ingannevole quando salvano i documenti, per assicurarsi che non possano esser letti da nessun elaboratore di testi rivale. Oggi dobbiamo scoprire i segreti del formato Word trami- te laboriosi esperimenti onde poter realizzare elaboratori di testi liberi capaci di leggere i documenti Word. Se quest’ultimo doves- se cifrare i documenti ogni volta che li salva, la comunità del software libero non avrebbe alcuna possibilità di sviluppare software in grado di leggerli – e anche se riuscissimo a farlo, simi- li programmi potrebbero essere dichiarati illegali sotto il Digital Millennium Copyright Act.

13 I programmi che usano l’informatica ingannevole scaricheranno in continuazione via Internet nuove regole per le autorizzazioni, onde imporle automaticamente al nostro lavoro. Qualora a Micro- soft, o al governo statunitense, non dovesse piacere quanto andia- mo scrivendo in un documento, potrebbero diffondere nuove istruzioni dicendo a tutti i computer di impedire a chiunque la lettura di tale documento. Una volta scaricate le nuove istruzioni, ogni computer dovrà obbedire. Il nostro documento potrebbe subire la cancellazione retroattiva, in pieno stile “1984”. Lo stes- so utente che lo ha redatto potrebbe trovarsi impossibilitato a leg- gerlo. È il caso di riflettere sulle spiacevoli conseguenze dell’applicazione dell’informatica ingannevole, studiarne le dolorose possibilità, e decidere se sia il caso di accettarle o meno. Sarebbe stupido e inop- portuno accettarle, ma il punto è che l’affare che si crede di fare non potrà rivelarsi tale. Una volta dipendenti da quel programma, non se ne potrà più fare a meno, e loro lo sanno bene; a quel pun- to, vi apporteranno delle modifiche. Alcune applicazioni faranno automaticamente un upgrade che comporta cambiamenti funzio- nali – e non è possibile scegliere di rifiutare tale upgrade. Oggi si possono evitare le restrizioni del software proprietario facendone a meno. Usando GNU/Linux o un altro sistema ope- rativo libero, ed evitando di installarvi sopra delle applicazioni proprietarie, allora è l’utente a controllare cosa fa il computer. Se un programma libero include una funzione dannosa, altri pro- grammatori della comunità la toglieranno e se ne potrà usare la versione corretta. Sarà inoltre possibile far girare applicazioni e strumenti liberi su sistemi operativi non-liberi; ciò non offre pie- na libertà, ma molti utenti lo fanno. L’informatica ingannevole pone a rischio l’esistenza stessa dei siste-

14 mi operativi liberi e delle applicazioni libere, perché potrebbe esse- re del tutto impossibile farle girare. Qualche versione dell’infor- matica ingannevole potrebbe richiedere che il sistema operativo sia specificamente autorizzato da un’azienda particolare. Potrebbe essere impossibile installare dei sistemi operativi liberi. Altre ver- sioni dell’informatica ingannevole potrebbero richiedere che cia- scun programma sia specificamente autorizzato da chi ha svilup- pato il sistema operativo. Sarebbe impossibile per l’utente far gira- re dei programmi liberi su tale sistema. Se trovate il modo di far- lo, e lo raccontate in giro, potrebbe essere un reato. Negli Stati Uniti esistono già delle proposte legislative che vor- rebbero imporre a tutti i computer di supportare l’informatica ingannevole, con il divieto di collegare a Internet i vecchi com- puter. Una di queste è il CBDTPA (da noi definito Consume But Don’t Try Programming Act, Legge per consumare ma senza cer- care di programmare). Ma pur se non potranno costringerci legal- mente a passare all’informatica ingannevole, ci sarà un’enorme pressione perché venga accettata. Spesso oggi si usa il formato Word per comunicare, nonostante ciò provochi un gran numero di problemi (si veda, in inglese, http://www.gnu.org/no-word- attachments.html; in italiano: http://www.gnu.org/philo- sophy/no-word-attachments.it.html). Se soltanto una macchina basata sull’informatica ingannevole fosse in grado di leggere i documenti Word più recenti, molta gente finirà per adeguarvisi, qualora considerino la questione puramente in termini individuali (prendere o lasciare). Onde opporsi all’informatica ingannevole dobbiamo unire le forze ed affrontare la situazione come una scel- ta collettiva. Per ulteriori dettagli sull’informatica ingannevole, si veda (in inglese) http://www.cl.cam.ac.uk/users/rja14/tcpa-faq.html.

15 Per bloccare l’informatica ingannevole occorre la mobilitazione di un vasto numero di cittadini. C’è bisogno del vostro aiuto! La Elec- tronic Frontier Foundation (www.eff.org) e l’organizzazione Public Knowledge (www.publicknowledge.org) hanno avviato una campagna di opposizione all’informatica ingannevole, e lo stesso sta facendo il Digital Speech Project sponsorizzato dalla Free Software Foundation (www.digitalspeech.org). Visitate questi siti Web e cercate di sostenerne l’attività. Si può aiutare anche scri- vendo agli uffici per i rapporti con il pubblico di Intel, IBM, HP/Compaq, o qualsiasi altro produttore da cui abbiate acqui- stato un computer, spiegando loro che non volete subire pressio- ni per l’adozione di sistemi informatici “fidati” (trusted) e che quindi non volete ne producano affatto. Ciò servirà a dare potere ai consumatori. Se contate di scrivere lettere simili, inviatene copia alle organizzazioni nominate sopra.

Post Scriptum: Il progetto GNU distribuisce GNU Privacy Guard, program- ma per l’implementazione di firme digitali e cifratura a chiave pubblica, che può essere usato per inviare email sicure e priva- te. È utile esplorare il modo in cui GPG differisce dall’infor- matica fidata, e vedere cosa rende vantaggioso uno e così peri- colosa l’altra. Quando si usa GPG per l’invio di un documento cifrato, e si ricorre a GPG per decodificarlo, il risultato è un documento non cifrato che è possibile leggere, inoltrare, copiare e perfino ri-cifrare onde essere inviato con sicurezza a qualcun altro. Un’applicazione di informatica ingannevole ci consentirebbe di leggere le parole sul monitor, ma non di produrre un docu- mento non cifrato da utilizzare in altri modi. GPG, un pac-

16 chetto di software libero, mette le funzioni di sicurezza a dispo- sizione degli utenti; sono questi ultimi a usare il programma. L’informatica ingannevole è progettata per imporre le restrizio- ni sugli utenti; è tale informatica a usare gli utenti.

Questa è la prima versione mai pubblicata di questo saggio e fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stall- man, GNU Press, 2002.

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

17 Perché il software dovrebbe essere libero

Inevitabilmente l’esistenza del software solleva la domanda su come dovrebbero essere prese le decisioni per il suo utilizzo. Sup- poniamo ad esempio che una persona in possesso di una copia di un programma incontra qualcun altro che ne vorrebbe anch’egli una copia. C’è la possibilità di copiare quel programma; a chi spet- ta la decisione se farlo o meno? Alle persone coinvolte? Oppure ad un altro soggetto, definito il “proprietario”? Gli sviluppatori di software tipicamente affrontano simili que- stioni sulla base dell’assunto che il criterio per la risposta sia quel- lo di massimizzare i profitti degli stessi sviluppatori. Il potere poli- tico dell’imprenditoria ha portato all’adozione da parte del gover- no sia di questo criterio sia della risposta degli sviluppatori. Ovve- ro, che esiste il proprietario del programma, tipicamente una cor- poration associata con il suo sviluppo. Vorrei affrontare la medesima domanda sulla base di un diverso criterio: la prosperità e la libertà del pubblico in generale. Questa risposta non può essere decisa dall’attuale legislazione – dovrebbe essere la legge a conformarsi all’etica, non viceversa. Non spetta neppure alle pratiche correnti decidere su tale questione, pur potendo queste suggerire possibili risposte. L’unico modo di giudicare è considerare chi viene aiutato e chi danneggiato dal rico- noscimento dei proprietari del software. In altri termini, si dovreb- be condurre un’analisi costi-benefici per conto della società nel suo

18 complesso, prendendo in considerazione la libertà individuale come pure la produzione di beni materiali. Nel presente saggio illustrerò gli effetti dovuti all’esistenza dei pro- prietari, dimostrandone i risultati negativi. La mia conclusione è che i programmatori hanno il dovere di incoraggiare gli altri a con- dividere, ridistribuire, studiare e migliorare il software che scri- viamo: in altri termini, a scrivere software libero (“free software”).1

In che modo i proprietari giustificano il proprio potere Quanti traggono benefici dall’attuale sistema in cui i programmi sono considerati una proprietà, offrono due argomenti a sostegno delle proprie tesi a favore di tale proprietà: l’argomento emotivo e quello economico. L’argomento emotivo funziona così: “Ci metto il sudore e l’anima in questo programma. Viene da me, è mio!” Quest’argomento non richiede una seria refutazione. La sensazio- ne di attaccamento è qualcosa che i programmatori possono col- tivare quando meglio si adatta loro; non è inevitabile. Conside- riamo, ad esempio, con quanta decisione gli stessi programmato- ri siano soliti concedere con una firma tutti i diritti ad una gran- de corporation in cambio di uno stipendio; l’attaccamento emo- tivo scompare misteriosamente. All’opposto, consideriamo inve- ce i grandi artisti e artigiani del Medioevo, che non si curavano neppure di firmare le proprie opere. Per loro, il nome dell’artista non era importante. Quello che contava era portare a compimento quell’opera – e lo scopo cui era destinata. Questa la visione pre- valente per centinaia di anni.

1 Il termine “free” in “free software” si riferisce alla libertà, non al prezzo (‘free’ in inglese significa sia ‘libero’ sia ‘gratuito’); il prezzo pagato per la copia di un programma libero può essere zero, basso oppure (raramente) piuttosto elevato.

19 L’argomento economico funziona così: “Voglio diventare ricco (generalmente descritto in maniera poco accurata come ‘guada- gnarsi da vivere’), e se non mi consentite di diventare ricco con la programmazione, allora smetterò di scrivere programmi. Tutti gli altri sviluppatori la pensano come me, per cui nessuno vorrà mai programmare. E allora rimarrete senza alcun programma!” In genere questa minaccia viene velata come un amichevole avviso da una saggia fonte. Più avanti spiegherò perché tale minaccia non è altro che bluff. Prima vorrei affrontare un assunto implicito che acquista maggior visibilità in un’altra formulazione dell’argomento. Questa formulazione parte mettendo a confronto l’utilità sociale di un programma proprietario con l’assenza di programmi, per poi concludere che lo sviluppo di software proprietario è, nel suo insie- me, qualcosa di benefico e andrebbe incoraggiato. L’errore qui consiste nel contrapporre soltanto due scenari – software proprie- tario contro niente software – assumendo l’inesistenza di ulterio- ri possibilità. Considerando un sistema di copyright sul software, lo sviluppo del software viene solitamente connesso all’esistenza di un proprietario che ne controlli l’utilizzo. Fintantoché esisterà questa connessione, siamo spesso costretti a confrontarci con la scelta tra software pro- prietario o niente software. Tuttavia, tale connessione non è qual- cosa di inerente o inevitabile; è una conseguenza della specifica deci- sione socio-legale che mettiamo in discussione: la decisione di ave- re dei proprietari. Presentare la scelta come tra software proprieta- rio o niente software significa travisare la questione.

L’argomento contro l’esistenza di proprietari La domanda in ballo è: “Lo sviluppo del software dovrebbe esse-

20 re connesso con l’esistenza di proprietari cui spetti limitarne l’u- tilizzo?” Onde poter sciogliere il quesito, dobbiamo giudicare gli effetti sul- la società di ciascuna delle due attività seguenti in maniera indi- pendente tra loro: l’effetto dello sviluppo del software (prescin- dendo dai relativi termini di distribuzione) e l’effetto derivante dalla limitazione del suo utilizzo (assumendo che il software sia stato sviluppato). Se una di queste attività dovesse risultare giove- vole e l’altra dannosa, sarebbe bene lasciar andare tale connessio- ne e optare soltanto per quella giovevole. In altri termini, se limitare la distribuzione di un programma già sviluppato risulta dannoso per la società in generale, allora lo svi- luppatore etico rifiuterà una simile opzione. Onde stabilire l’effetto di limitazioni nella condivisione, occorre paragonare il valore sociale di un programma ristretto (ovvero, proprietario) con quello dello stesso programma disponibile a chiunque. Ciò significa mettere a confronto due mondi possibili. L’analisi affronta anche il semplice argomento talvolta contrap- posto a questo, secondo cui “il beneficio al vicino nel fornirgli o fornirle la copia di un programma viene cancellato dal danno pro- curato al proprietario”. Questo contro-argomento assume che il danno e il beneficio siano di proporzioni identiche. L’analisi inclu- de un raffronto fra tali proporzioni, per concludere che il benefi- cio risulta di gran lunga maggiore. Per meglio illustrare l’argomento, applichiamolo ad un altro ambi- to: la costruzione di una rete stradale. Tramite i pedaggi sarebbe possibile finanziare la costruzione di tutte le strade. Ciò comporterebbe la presenza di appositi caselli a tutti gli angoli. Un simile sistema risulterebbe di grande incentivo al miglio- ramento della rete stradale. Offrirebbe inoltre il vantaggio di costrin-

21 gere quanti usano quella specifica strada al pagamento del relativo pedaggio. Eppure un casello per il pedaggio rappresenterebbe un’o- struzione artificiale alla fluidità di guida – artificiale perché non è una conseguenza di come funzionano le strade o le autovetture. Paragonando le strade libere e quelle a pedaggio sulla base della loro utilità, scopriamo che (tutto il resto essendo identico) le stra- de senza caselli richiedono meno denaro per essere costruite e gestite, sono più sicure e più efficienti nell’utilizzo.2 In un paese povero molti cittadini sarebbero impossibilitati a usa- re le strade a pedaggio. Perciò le strade senza caselli offrono alla società maggiori benefici a costi minori; sono da preferire per la società. Di conseguenza, la società dovrebbe scegliere di reperire i finanziamenti in un altro modo, non tramite i caselli a pagamen- to. L’uso delle strade, una volta costruite, dovrebbe essere libero. Quando i sostenitori dei caselli li propongono unicamente come un modo per raccogliere denaro, distorcono la scelta a disposizio- ne. È vero che i caselli a pedaggio portano soldi, ma provocano anche altre conseguenze: in realtà degradano la strada. Una stra- da a pedaggio non è così positiva come una libera; pur offrendo strade in numero maggiore o tecnicamente superiori, ciò non sarebbe un miglioramento qualora dovesse comportare la sostitu- zione delle strade libere con quelle a pagamento. Ovviamente la costruzione di una strada libera necessita di fondi, che in qualche modo il pubblico è chiamato a sborsare. Tuttavia

2 Le questioni relative a inquinamento e congestioni di traffico non alterano questa conclusione. Nel caso si volesse rendere più esosa la guida onde scoraggiarla in generale, è svantaggioso farlo tramite dei caselli a pedaggio, i quali contribuiscono sia all’inquinamento che al traffico. Molto meglio ricorrere a una tassa sulla benzina. Allo stesso modo, la volontà di ottenere maggior sicurezza limitando la massima velocità consentita non è un fattore rilevante; una strada ad accesso libero estende la velocità media evitando fermate e ritardi, all’interno dei limiti di velocità designati.

22 ciò non implica l’inevitabilità del pedaggio. Noi che dobbiamo comunque sostenerne le spese, ricaviamo maggior valore dal nostro denaro acquistando una strada libera. Non sto dicendo che una strada a pagamento sia peggiore di non avere alcuna strada. Ciò sarebbe vero nel caso il pedaggio fosse tal- mente elevato da impedirne l’utilizzo quasi a tutti – procedura questa improbabile per chi dovesse riscuotere il pedaggio. Tutta- via, finché i caselli provocano spreco e inconvenienti significativi, è meglio raccogliere i fondi necessari in maniera meno limitante. Applicando la medesima logica allo sviluppo del software, passerò ora a dimostrare come l’esistenza di “caselli a pedaggio” per utili programmi risulti assai esosa per la società: rende i programmi più costosi da realizzare, più costosi da distribuire, meno soddisfacenti ed efficaci da usare. Ne consegue che la costruzione dei program- mi va incoraggiata in qualche altro modo. Proseguirò poi spie- gando altri metodi per incoraggiare e (finché sia realmente neces- sario) per reperire fondi per lo sviluppo del software. Il danno provocato dall’ostruzione del software Consideriamo per un momento lo scenario in cui un programma sia stato sviluppato, e ogni pagamento necessario al suo sviluppo sia stato coperto; ora la società deve scegliere se renderlo proprie- tario oppure se garantirne condivisione e utilizzo liberi. Come assunto, l’esistenza e la disponibilità del programma sono qualco- sa di desiderabile.3

3 Un particolare programma informatico potrebbe essere considerato dannoso fino a negarne la disponibilità, come è accaduto al database per dati personali Lotus Marketplace, ritirato dal mercato a seguito della disapprovazione del pubblico. Gran parte di quanto sostengo non si applica a casi simili, ma ha poco senso affermare la necessità di un proprietario sulla base del fatto che quest’ultimo potrebbe limitare la disponibilità del programma. Il proprietario non lo metterà mai completamente fuori commercio, come si vorrebbe nel caso di un programma il cui impiego è considerato distruttivo.

23 Le restrizioni sulla distribuzione e sulla modifica del programma non possono facilitarne l’utilizzo. Possono soltanto interferire. Così l’effetto sarà soltanto negativo. Ma fino a che punto? E di che tipo? Questa ostruzione produce tre diversi livelli di danno materiale: 1. Un minor numero di persone usa il programma. 2. Nessun utente può adattare o aggiustare il programma. 3. Gli altri sviluppatori non possono imparare dal programma, né usarlo come base per nuovi lavori. Ciascun livello di danno materiale riflette una forma concomi- tante di danno psico-sociale. Ciò si riferisce all’effetto prodotto dalle decisioni della gente sui successivi sentimenti, attitudini e predisposizioni. Questi cambiamenti nel modo di pensare avran- no poi un ulteriore effetto sulle relazioni con i concittadini, e potranno causare conseguenze materiali. I tre livelli di danno materiale fanno sprecare parte del valore che il programma potrebbe offrire, ma non possono ridurlo a zero. Se provocano lo spreco quasi totale del valore, allora scrivere il pro- gramma danneggia la società in misura pari allo sforzo necessario per scriverlo. A ragione, un programma che produce dei guadagni nelle vendite deve fornire qualche beneficio materiale diretto. Tuttavia, considerando il concomitante danno psico-sociale, non esistono limiti al danno causato dallo sviluppo del software pro- prietario.

Impedire l’uso dei programmi Il primo livello di danno impedisce il semplice utilizzo del pro- gramma. La copia di un programma ha un costo marginale quasi vicino a zero (e si può pagare tale costo facendola da soli), così che in un mercato libero avrebbe un prezzo vicino a zero. Una licen-

24 za a pagamento è un disincentivo significativo nell’uso del pro- gramma. Se un programma molto utile è software proprietario, verrà usato da un numero alquanto ridotto di persone. È facile dimostrare che il contributo complessivo di un program- ma rispetto alla società risulta ridotto assegnandogli un proprie- tario. Ogni utente potenziale del programma, di fronte alla neces- sità di dover pagare per usarlo, potrebbe scegliere di pagare o meno, o anche di rinunciare a utilizzarlo. Quando un utente sce- glie di pagare, questo è un trasferimento di ricchezza a quota zero tra due entità. Ma ogni volta che qualcuno decide di rinunciare all’uso del programma, ciò danneggia quell’individuo senza gio- vare a nessuno. La somma di cifre negative e zeri risulta negativa. Ma ciò non riduce l’ammontare di lavoro necessario per svilup- pare il programma. Come risultato, viene ridotta l’efficacia del- l’intero processo, ovvero la soddisfazione dell’utente ottenuta per ogni ora di lavoro. Ciò riflette una differenza cruciale tra le copie di un programma e oggetti quali automobili, sedie o panini. Non esiste una mac- china per copiare gli oggetti materiali al di fuori della fantascien- za. Ma i programmi sono facili da copiare; chiunque è in grado di produrne quante copie ne vuole con uno sforzo minimo. Ciò non si applica agli oggetti materiali perché la materia si conserva: ogni nuova copia dev’essere costruita dal materiale grezzo nella stessa maniera con cui è stata costruita la prima copia. Con gli oggetti materiali ha senso creare un disincentivo al loro impiego, perché l’acquisto di un minor numero di oggetti signi- fica minor materiale grezzo e minor lavoro per costruirli. È vero che generalmente esiste anche un costo iniziale d’ammortamen- to, un costo di sviluppo, che viene frazionato lungo la fase di pro- duzione. Ma finché il costo marginale della produzione è signifi-

25 cativo, l’aggiunta di una quota del costo di sviluppo non provoca una differenza qualitativa. E non richiede restrizioni sulla libertà dei comuni utenti. Tuttavia l’imposizione di un prezzo su qualcosa che altrimenti sarebbe libera rappresenta un cambiamento qualitativo. Una tarif- fa sulla distribuzione del software, imposta a livello centralizzato, diventa un potente disincentivo. Inoltre, la produzione centrale come viene praticata oggi è ineffi- cace perfino in quanto mezzo per diffondere copie del software. Questo sistema prevede la chiusura di dischi o nastri materiali all’interno di pacchetti inutili, la loro spedizione in gran quantità intorno al mondo, e il loro immagazzinamento per la vendita. Questo costo viene presentato come una spesa di tale attività com- merciale; in realtà, è parte dello spreco causato dall’esistenza dei proprietari.

Danneggiare la coesione sociale Supponiamo che una persona e il proprio vicino considerino utile l’impiego di un certo programma. Con attenzione etica per il vici- no, ci si dovrebbe rendere conto che un’adeguata gestione della situa- zione consentirà a entrambi di utilizzarlo. La proposta di consentire l’uso del programma soltanto a uno dei due, impedendolo all’altro, è divisoria; entrambi la considererebbero inaccettabile. Firmare un tipico contratto per la licenza del software significa tra- dire il vicino: “Prometto di privare il mio vicino di questo program- ma in modo che possa averne una copia tutta per me”. Quanti opta- no per simili scelte subiscono una pressione psicologica interna per giustificarle, diminuendo l’importanza di aiutare il vicino – in tal modo, lo spirito pubblico ne soffre. Questo è il danno psicologico associato con quello materiale di scoraggiare l’uso del programma.

26 Molti utenti riconoscono inconsciamente l’errore nel rifiuto a condividere, così decidono di ignorare licenze e leggi, e condivi- dere comunque il programma. Ma spesso si sentono in colpa per averlo fatto. Sanno che devono infrangere la legge onde poter esse- re dei buoni vicini, ma rispettano ancora l’autorità giuridica, e concludono che il fatto di essere dei buoni vicini (come sono in effetti) è qualcosa di male o di cui vergognarsi. Anche questo è un tipo di danno psicologico, che però si può evitare decidendo che tali licenze e leggi non posseggono alcuna forza morale. Anche i programmatori subiscono il danno psicologico di sapere che a numerosi utenti non verrà consentito di utilizzare il proprio lavoro. Ciò porta a un’attitudine di cinismo o diniego. Uno svi- luppatore potrà descrivere in maniera entusiasta un lavoro che considera tecnicamente eccitante; poi quando gli si chiede, “Mi sarà permesso di usarlo?”, impallidisce e ammette che la risposta è no. Per evitare di sentirsi scoraggiato, la maggior parte delle vol- te finisce per ignorare questo fatto oppure adotta un atteggia- mento di cinica distanza mirato a minimizzarne l’importanza. Fin dal periodo di Reagan4, la maggiore scarsità degli Stati Uniti non riguarda l’innovazione tecnica, ma piuttosto la volontà di lavorare insieme per il bene pubblico. Non ha alcun senso inco- raggiare la prima a spese del secondo.

Impedire gli adattamenti personalizzati di programmi Il secondo livello di danno materiale è l’impossibilità di adattare i programmi. La facilità di modificare il software è uno dei suoi grandi vantaggi rispetto alle vecchie tecnologie. Ma la gran parte

4 Ronald Reagan, il 40° Presidente degli Stati Uniti, è famoso per aver tagliato numerosi programmi sociali. A lui si deve inoltre la creazione di una politica economica, definita “trickle down economics” (economia che sgocciola), considerata da molti un fallimento.

27 del software disponibile in ambito commerciale non può essere modificato, neppure dopo averlo acquistato. È disponibile a sca- tola chiusa, prendere o lasciare, tutto qui. Un programma che è possibile far girare è composto da una serie di numeri dall’oscuro significato. Nessuno, neanche un buon pro- grammatore, è in grado di modificare facilmente tali numeri onde rendere il programma diverso in qualche modo. Normalmente gli sviluppatori lavorano con il “codice sorgente” di un programma, che è scritto in un linguaggio di programmazione tipo Fortran o C. Ricorre a dei nomi per indicare i dati usati e le par- ti di un programma, e rappresenta le operazioni con simboli quali + per le addizioni e - per le sottrazioni. È progettato per aiutare gli svi- luppatori a leggere e modificare il programma. Ecco un esempio; un programma per calcolare la distanza tra due punti su un piano:5 float distance (p0, p1) struct point p0, p1; { float xdist = p1.x - p0.x; float ydist = p1.y - p0.y; return sqrt (xdist * xdist + ydist * ydist); } Ecco lo stesso programma in formato eseguibile6, sul computer che uso normalmente: 1314258944 -232267772 -231844864 1634862

5 Non è importante capire in che modo operi il codice sorgente; quel che è importante è notare che tale codice sorgente viene scritto ad un livello di astrazione piuttosto comprensibile. 6 Si noti l’incomprensibilità del codice eseguibile; è chiaramente più difficile capirne qualcosa rispetto al codice sorgente di cui sopra.

28 1411907592 -231844736 2159150 1420296208 -234880989 -234879837 -234879966 -232295424 1644167167 -3214848 1090581031 1962942495 572518958 -803143692 1314803317 Il codice sorgente è utile (almeno potenzialmente) per chiunque usi un programma. Ma alla maggioranza degli utenti non è con- cesso avere copie di tale codice. Normalmente il codice sorgente di un programma proprietario viene tenuto segreto dal proprieta- rio, prevenendo chiunque altro dall’impararne qualcosa. Gli uten- ti ricevono unicamente i file di numeri incomprensibili che il com- puter eseguirà. Ciò significa che soltanto il proprietario di un pro- gramma può modificarlo. Una volta un’amica mi raccontò di aver lavorato come program- matore in una banca per circa sei mesi, scrivendo un programma simile a qualcosa di commercialmente disponibile. Se avesse potu- to avere il codice sorgente di quel programma commerciale, avreb- be potuto facilmente adattarlo alle necessità del caso. La banca era disposta a pagare per questo, ma non le venne concesso – il codi- ce sorgente era un segreto. Così fu costretta a lavorare in tal modo per sei mesi, lavoro che fa parte del prodotto nazionale lordo ma che in realtà fu uno spreco. Intorno al 1977 il laboratorio di intelligenza artificiale del MIT ricevette in regalo una stampante grafica dalla Xerox. Era gestita da un software libero a cui aggiungemmo parecchie funzioni uti- li. Ad esempio, il software avrebbe notificato l’utente non appena finito il lavoro di stampa. In caso di problemi, come l’inceppa- mento dei fogli o la mancanza di carta, il software ne avrebbe infor- mato tutti gli utenti che avevano in corso una stampa. Queste fun- zioni facilitavano il corso delle operazioni. Più tardi la Xerox diede al laboratorio una stampante più nuova e

29 veloce, una delle prime stampanti laser. Veniva gestita da un software proprietario che girava su un apposito computer dedica- to, in modo che non potemmo aggiungere alcuna delle nostre opzioni favorite. Riuscimmo a sistemare l’invio di una notifica quando la stampa veniva inviata al computer dedicato, ma non quando avveniva effettivamente la stampa (e generalmente il ritar- do era considerevole). Non c’era alcun modo di sapere quando il lavoro veniva realmente stampato, si poteva solo indovinare. E nessuno veniva informato nel caso di fogli incastrati, così spesso la stampante finiva fuori uso per un’ora. Il sistema di programmatori del laboratorio di intelligenza artifi- ciale era in grado di sistemare simili problemi, probabilmente tan- to quanto gli autori originari del programma. Ma la Xerox non ave- va alcun interesse a risolverli, e scelse di impedircelo, di modo da costringerci ad accettare tali problemi. Non vennero mai risolti. Molti buoni programmatori hanno sperimentato una simile fru- strazione. La banca poteva permettersi di risolvere il problema scri- vendo un nuovo programma da zero, ma un comune utente, a pre- scindere dalle proprie capacità, può soltanto rinunciare. La rinuncia provoca un danno psico-sociale – allo spirito della fiducia in se stessi. È demoralizzante vivere in una casa che non si può riarrangiare secondo i propri bisogni. Porta a rassegnazione e scoraggiamento, che finiscono per colpire altri aspetti della vita di una persona. Chi si trova in simili circostanze diventa infelice e non fa un buon lavoro. Immaginiamo come sarebbe qualora le ricette venissero trattate alla stregua del software. Qualcuno potrebbe dire, “Come faccio a modificare questa ricetta per toglierci il sale?” e il grande cuoco risponderebbe, “Come osi insultare la mia ricetta, il prodotto del mio cervello e del mio palato, cercando di interferire? Non pos-

30 siedi il giudizio necessario per poterla modificare e farla funzio- nare bene!” “Ma il dottore mi ha detto di non mangiare cibi salati!” “Sarò contento di farlo. La mia tariffa è di appena 50.000 dolla- ri”. (Dato che il proprietario ha il monopolio sulle modifiche, la tariffa tende ad essere elevata). “Però adesso non ho tempo. Sono occupato con una commissione per il progetto di una nuova ricet- ta di biscotti per le navi con il Ministero della Marina. Potrò occu- parmi di te fra un paio d’anni.”

Impedire lo sviluppo del software Il terzo livello di danno materiale colpisce lo sviluppo del softwa- re. Solitamente questo era un processo evolutivo, in cui una per- sona ne riscriveva delle parti per una nuova funzione, e poi qual- cun altro ne avrebbe riscritto altre parti per aggiungere un’altra funzione; in alcuni casi, ciò andava avanti per un periodo di vent’anni. Nel frattempo, parti del programma sarebbero state “cannibalizzate” per dar forma alla nascita di ulteriori programmi. L’esistenza di proprietari impedisce un’evoluzione di questo tipo, rendendo necessario partire da zero nello sviluppo di un pro- gramma. Impedisce altresì a nuovi praticanti di studiare i pro- grammi esistenti onde imparare tecniche utili o anche la struttu- ra di programmi di ampie dimensioni. I proprietari impediscono anche l’educazione. Ho incontrato bril- lanti studenti d’informatica che non avevano mai visto il codice sorgente di un programma di ampie dimensioni. Possono essere bravi a scrivere piccoli programmi, ma non potranno acquisire le diverse capacità necessarie per scriverne di grandi se non possono vedere come hanno fatto gli altri. In ogni ambito intellettuale, è possibile raggiungere altezze mag-

31 giori stando sulle spalle di chi ci ha preceduti. Ma in genere ciò non è più consentito nel campo del software – si può stare sol- tanto sulle spalle dei colleghi della propria azienda. Il danno psico-sociale associato colpisce lo spirito della cooperazio- ne scientifica, solitamente così solido tra i ricercatori al punto che questi collaboravano anche quando i rispettivi paesi erano in guer- ra tra loro. Sulla base di questo spirito, gli oceanografi giapponesi abbandonati in un laboratorio su un’isola del Pacifico conservaro- no con attenzione il lavoro svolto per i Marine statunitensi in arri- vo, lasciando una nota per chiedere loro di prendersene cura. I conflitti per denaro hanno distrutto quello che si era salvato nei conflitti internazionali. Oggigiorno i ricercatori di molte discipli- ne non pubblicano dati sufficienti nelle proprie ricerche onde con- sentire agli altri di replicare quegli esperimenti. Pubblicano sol- tanto quanto basta per fare in modo che i lettori possano meravi- gliarsi di quanto siano riusciti a ottenere. Ciò è sicuramente vero per l’informatica, dove il codice sorgente dei programmi su cui si scrive è generalmente segreto.

Non importa come si limiti la condivisione Ho discusso finora gli effetti di prevenire la gente dall’attività di copia, modifica e costruzione su un programma. Non ho specifi- cato il modo in cui questa ostruzione viene portata avanti, perché ciò non ne influenza la conclusione. Sia che ciò venga imposto tra- mite il divieto di copia, o il diritto d’autore, o le licenze, o la crit- tazione, o le schede ROM, o i numeri seriali sull’hardware, se rie- sce a impedirne l’utilizzo, allora procura dei danni. Gli utenti con- siderano comunque alcuni di questi metodi più sgradevoli di altri. Io suggerirei che i metodi più odiosi sono quelli che raggiungono lo scopo prefissato.

32 Il software dovrebbe essere libero Fin qui ho illustrato il modo in cui la proprietà di un programma – il potere di limitarne la modifica o la copia – sia d’intralcio. I suoi effetti negativi sono diffusi e importanti. Ne consegue che la società non dovrebbe avere proprietari per i programmi. Un altro modo di comprenderlo è che ciò di cui abbisogna la società è il software libero, e il software proprietario ne è un sosti- tuto insoddisfacente. Incoraggiare i sostituti non è un modo razio- nale di ottenere ciò di cui abbisogniamo. Vaclav Havel ci ha messo sull’avviso dicendo, “Lavorare per qual- cosa perché è bene, non soltanto perché si ha possibilità di riusci- re”. L’attività di realizzare software proprietario contiene possibi- lità di riuscita in termini ristretti, ma non è un bene per la società.

Perché si sviluppa il software Se eliminiamo il copyright come mezzo per incoraggiare la gente a sviluppare software, all’inizio se ne svilupperà di meno, ma tale software risulterà maggiormente utile. Non è chiaro se la soddi- sfazione generale degli utenti sarà minore; ma se così fosse, oppu- re se volessimo incrementarla comunque, esistono altri modi per incoraggiare lo sviluppo, proprio come esistono altri modi oltre i caselli a pedaggio per raccogliere denaro per la costruzione di stra- de. Prima di illustrare le modalità con cui ciò può esser fatto, vor- rei affrontare la questione di quanto incoraggiamento artificiale sia davvero necessario.

Programmare è divertente Ci sono alcuni tipi di lavori che pochi accetterebbero se non per denaro; la costruzione di strade, ad esempio. Esistono altri campi di studio e arte in cui esistono scarse possibilità di diventare ric-

33 chi, ma che la gente sceglie per il loro fascino o per il presunto valore agli occhi della società. Gli esempi includono la logica mate- matica, la musica classica, l’archeologia e l’attivismo politico orga- nizzato tra i lavoratori. La gente compete, più tristemente che amaramente, per le poche posizioni pagate disponibili, nessuna delle quali è remunerata granché. Qualcuno è perfino disposto a pagare di tasca propria pur di lavorare in quel campo, se può per- metterselo. Un certo settore può trasformarsi nel giro di una notte se inizia ad offrire la possibilità di diventare ricchi. Quando un lavoratore diventa ricco, altri chiedono la medesima opportunità. Presto tut- ti potrebbero volere ingenti somme di denaro per fare quel che erano soliti fare per il piacere. Trascorsi un altro paio d’anni, chiun- que coinvolto in quel campo deriderà l’idea che si debba lavorare in quel settore senza grossi ricavi economici. Spiegheranno ai pia- nificatori sociali che è possibile assicurare tali ricavi, assegnando privilegi sociali, poteri e monopoli man mano che si renderà neces- sario. Questo è il cambiamento avvenuto nel campo della programma- zione informatica durante lo scorso decennio. Quindici anni fa7 giravano articoli sulla “computer-dipendenza”: gli utenti erano “on-line” tutto il tempo e avevano vizi da cento dollari a settima- na. In genere si accettava il fatto che la gente amava a tal punto la programmazione da rompere non di rado il proprio matrimonio. Oggi, in genere si accetta che nessuno farebbe il programmatore se non in cambio di un lauto stipendio. La gente ha dimenticato come stavano le cose quindici anni fa. Anche se fosse vero che ad un certo punto la maggior parte della gente lavorerà in un certo campo soltanto per un lauto stipendio,

7 Quindici anni prima della stesura di quest’articolo correva l’anno 1977.

34 lo scenario non deve necessariamente rimanere tale. La dinamica del cambiamento può girare all’inverso, qualora la società forni- sca l’input adatto. Se eliminiamo la possibilità di grandi ricchez- ze, allora dopo qualche tempo, una volta risistemate le attitudini personali, la gente sarà nuovamente ansiosa di lavorare in quel campo per la gioia di riuscire. La domanda “Come fare a pagare i programmatori?” trova faci- le risposta una volta compreso che non si tratta di pagarli una fortuna. Il semplice guadagnarsi da vivere è più facile da met- tere insieme.

Finanziare il software libero Le istituzioni che pagano i programmatori non devono essere i produttori di software. Esistono già parecchie altre istituzioni in grado di farlo. I produttori di hardware considerano essenziale sostenere lo svi- luppo del software pur non potendone controllare l’utilizzo. Nel 1970 gran parte del loro software era libero perché non si curava- no di porre limitazioni. Oggi la crescente volontà di aderire a dei consorzi dimostra che hanno compreso come possedere il softwa- re non è una cosa veramente importante per loro. Le università svolgono numerosi progetti di programmazione. Oggi spesso ne rivendono i risultati, ma non fu così negli anni ‘70. Esiste forse alcun dubbio che le università svilupperebbero softwa- re libero qualora non fosse loro consentito di vendere il software? Questi progetti potrebbero essere finanziati dagli stessi contratti e borse di studio governativi che attualmente finanziano lo svilup- po di software proprietario. Oggi è comune per i ricercatori universitari ottenere borse di stu- dio per lo sviluppo di un sistema, realizzarlo fino quasi al punto

35 finale e definirlo “completato”, per poi fondare delle aziende in cui portano davvero a compimento il progetto e lo rendono uti- lizzabile. Talvolta dichiarano “libera” la versione non finita; se sono corrotti fino in fondo, ottengono invece una licenza esclusiva dal- l’università. Ciò non è certo un segreto, viene ammesso aperta- mente da ogni soggetto coinvolto. Eppure se i ricercatori non fos- sero esposti alla tentazione di comportarsi in questo modo, pro- seguirebbero tuttora le proprie ricerche. Gli sviluppatori che scrivono software libero possono guadagnar- si da vivere vendendo servizi connessi al software. Io sono stato assunto per portare il compiler GNU C su un nuovo hardware, e per realizzare le estensioni dell’interfaccia-utente per GNU Emacs. (Offrirò queste migliorie al pubblico una volta completate). Ten- go anche dei corsi per cui vengo pagato. Non sono il solo a lavorare in tal modo; oggi esiste una corpora- tion di successo e in crescita che fa soltanto questi tipi di lavori. Anche diverse altre aziende offrono supporto commerciale per il software libero del sistema GNU. Questo è l’inizio dell’industria a sostegno del software indipendente – un’industria che potrebbe raggiungere dimensioni piuttosto ampie se il software libero diventasse prevalente. Ciò offre agli utenti un’opzione general- mente non disponibile per il software proprietario, eccetto a chi è molto ricco. Nuove8 istituzioni quali la Free Software Foundation possono altresì sostenere i programmatori. Gran parte dei finanziamenti della Foundation arrivano dagli acquirenti di dischi e nastri tramite posta. Il software sui nastri è libero, il che significa che ogni utente ha libertà di copiarlo e modi- ficarlo, ma in ogni caso molti pagano per averne delle copie.

8 Quest’articolo è stato scritto il 24 aprile 1992.

36 (Ricordiamoci che “free software” si riferisce alla libertà, non al prezzo). Alcuni utenti già in possesso di una copia, ordinano i nastri come modo per offrire l’obolo che secondo loro noi meri- tiamo. La Foundation riceve inoltre donazioni di una certa ampiezza dai produttori di computer. La Free Software Foundation è un ente senza fini di lucro, e i rica- vi vengono spesi per ingaggiare quanti più programmatori possi- bile. Se fosse stata impostata come attività commerciale, distri- buendo al pubblico lo stesso software libero per la medesima cifra odierna, fornirebbe un’ottima fonte di sostentamento al suo fon- datore. Essendo la Foundation un ente senza fini di lucro, spesso i pro- grammatori vi lavorano per metà della cifra che potrebbero chie- dere altrove. Lo fanno perché siamo liberi dalla burocrazia, e per- ché sono soddisfatti nel sapere che il loro lavoro non subirà ostru- zioni nell’utilizzo. Ma soprattutto lo fanno perché programmare è divertente. In aggiunta, dei volontari non pagati hanno scritto per noi molti programmi utili. (Abbiamo perfino scrittori tecnici volontari). Ciò conferma come la programmazione sia tra i campi più affa- scinanti di tutti, insieme alla musica e all’arte. Non dobbiamo temere che non ci sarà gente che vorrà programmare.

Cosa devono gli utenti agli sviluppatori? C’è una buona ragione per chi usa il software di sentirsi moral- mente obbligati a contribuire al suo sostegno. Gli sviluppatori di software libero contribuiscono alle attività degli utenti, e oltre che giusto è nell’interesse a lungo termine degli stessi utenti dare loro i finanziamenti per continuare. Ciò tuttavia non si applica a chi sviluppa software proprietario, per-

37 ché l’ostruzionismo merita una punizione anziché una ricompensa. Eccoci così di fronte a un paradosso: chi sviluppa software utile ha diritto al sostegno degli utenti, ma qualsiasi tentativo di tra- sformare quest’obbligo morale in un requisito distrugge le basi stesse di tale obbligo. Uno sviluppatore può meritare o richiedere una ricompensa, ma non entrambe le cose. Credo che di fronte a tale paradosso uno sviluppatore dotato di senso etico deve fare in modo di meritare la ricompensa, ma dovrebbe anche stimolare gli utenti alle donazioni volontarie. Alla fin fine gli utenti impareranno a sostenere gli sviluppatori senza costrizione, così come hanno imparato a sostenere le stazioni radio e televisive pubbliche.

Cos’è la produttività del software? Se il software fosse libero, esisterebbero ancora i programmatori, ma forse in numero minore. Ciò sarebbe un male per la società? Non necessariamente. Oggi le nazioni avanzate hanno meno agri- coltori che nel 1900, ma non lo consideriamo un male per la società, visto che un numero minore offre ai consumatori una quantità maggiore di cibo. Ciò viene definito miglioramento pro- duttivo. Il software libero richiederebbe un numero assai minore di programmatori per soddisfare la domanda, per via dell’accre- sciuta produttività del software a tutti i livelli: – Utilizzo più ampio di ciascun programma sviluppato. – Capacità di adattare i programmi esistenti per la personalizza- zione, invece di partire da zero. – Migliore educazione dei programmatori. – L’eliminazione dei doppioni nei progetti di sviluppo. Quanti si oppongono alla cooperazione sostenendo che provo- cherebbe l’assunzione di un numero minore di programmatori van-

38 no in realtà opponendosi alla maggiore produttività. Eppure costo- ro generalmente accettano la credenza comune secondo cui l’indu- stria del software necessiti di un incremento produttivo. Come mai?9 La “produttività del software” può avere due significati diversi: la produzione complessiva dell’intero settore di sviluppo del softwa- re oppure la produttività di progetti individuali. La produttività complessiva è quel che la società vorrebbe migliorare, e la manie- ra più diretta per farlo è eliminare gli ostacoli artificiali alla coo- perazione che riducono tale produttività. Ma i ricercatori che stu- diano il campo della “produttività del software” si concentrano unicamente sul secondo, limitato, significato del termine, dove il miglioramento richiede difficili avanzamenti tecnologici.

La competizione è inevitabile? È inevitabile che si cerchi di competere, di sorpassare i propri riva- li nella società? Forse lo è. Ma la competizione in se stessa non è dannosa; la cosa dannosa è il combattimento. Esistono molti modi di competere. La competizione può consiste- re nel cercare di raggiungere sempre di più, di superare quel che hanno fatto gli altri. Ad esempio, in passato c’era competizione tra i maghi della programmazione – competizione per chi riusciva a far fare al computer le cose più incredibili, o per chi riusciva a crea- re il programma più breve o più veloce per un particolare compi-

9 Secondo Eric Raymond, il 95% dei posti di lavoro dell’industria del software riguarda la produzione di software personalizzato, nient’affatto previsto per la pubblicazione. Ne consegue che pur assumendo lo scenario teorico peggiore, ovvero che non esisteranno posti di lavoro per lo sviluppo di software libero (e già sappiamo che ne esistono alcuni), il passaggio al software libero potrà avere uno scarso effetto sul numero totale di posti di lavoro per il software. Esiste una gran quantità di spazio per chi voglia scrivere software personalizzato e sviluppare software libero quando avanza tempo. Non esiste alcun modo per sapere se la piena conversione al software libero porterebbe all’aumento o alla diminuzione del numero di posti di lavoro nel campo del software.

39 to. Questo tipo di competizione può giovare a chiunque, fintan- toché si mantiene lo spirito della buona lealtà sportiva. La competizione costruttiva è sufficientemente competitiva da spingerci a fare grandi sforzi. Un certo numero di persone stanno gareggiando per essere i primi ad aver visitato tutti i paesi sulla ter- ra; qualcuno spende anche una fortuna nel tentativo di riuscirci. Ma non cercano di corrompere i capitani delle navi perché abban- donino i rivali su un’isola deserta. Sono contenti di lasciar vince- re la persona più in gamba. La competizione diventa lotta quando coloro che gareggiano ini- ziano a bloccarsi a vicenda invece di pensare al proprio avanza- mento – quando “lasciar vincere la persona più in gamba” si tra- sforma in “lasciar vincere me stesso, più in gamba o meno che sia”. Il software proprietario è dannoso, non perché sia una forma di competizione, ma perché è una forma di combattimento tra i cit- tadini della società. Nell’imprenditoria competizione non significa necessariamente lotta. Ad esempio, quando due negozi di alimentari sono in com- petizione, i loro sforzi si concentrano sul miglioramento delle pro- prie operazioni, non sul sabotaggio del rivale. Ma ciò non dimo- stra un particolare attaccamento all’etica commerciale; piuttosto, ha poco senso combattere in questo tipo di attività senza ricorre- re alla violenza fisica. Non tutti i settori imprenditoriali condivi- dono questa caratteristica. Tenere segrete informazioni che potreb- bero aiutare tutti ad avanzare è una forma di combattimento. L’ideologia commerciale non prepara la gente a resistere alla ten- tazione di lottare come forma di competizione. Alcuni tipi di com- battimento sono stati vietati con legislazioni anti-monopolio, leg- gi sulla veridicità della pubblicità, e così via, ma anziché genera- lizzare ciò in un principio di rifiuto della lotta in generale, i diri-

40 genti hanno inventato altre forme di combattimento che non sono specificamente proibite. Le risorse della società vengono sperpe- rate nell’equivalente economico di una guerra civile tra fazioni.

“Perché non te ne vai in Russia?” Negli Stati Uniti chiunque sostenga qualsiasi posizione diversa dalla forma più estrema di laissez-faire egoistico ha sentito spesso quest’accusa. Viene ad esempio usata contro i sostenitori di un sistema nazionale d’assistenza sanitaria, come ne esistono in tutte le altre nazioni industrializzate del mondo libero. Viene usata con- tro i sostenitori del sostegno pubblico alle arti, anch’esso univer- sale nei paesi avanzati. In America l’idea che i cittadini abbiano qualche obbligo nei confronti del bene pubblico viene identifica- ta con il comunismo. Ma si tratta davvero di idee similari? Il comunismo per come fu praticato nell’Unione Sovietica era un sistema di controllo centralizzato dove tutta l’attività era irreggi- mentata, apparentemente per il bene comune, ma in realtà a van- taggio dei membri del partito comunista. E dove i dispositivi per la copia erano sorvegliati da vicino onde evitare la copia illegale. Il sistema americano del diritto d’autore sul software impone il controllo centralizzato sulla distribuzione di un programma, e i dispositivi per la copia sono sorvegliati tramite sistemi anti-copia automatici onde evitare la copia illegale. All’opposto, il mio lavoro punta alla costruzione di un sistema in cui la gente sia libera di decidere sulle proprie azioni; in partico- lare, libera di aiutare i vicini, e libera di alterare e migliorare gli strumenti che usano nella vita quotidiana. Un sistema basato sul- la cooperazione volontaria e sulla decentralizzazione. Perciò, se dovessimo giudicare le posizioni sulla somiglianza al comunismo russo, sarebbero i proprietari di software a essere comunisti.

41 La questione delle premesse In questo saggio parto dalla premessa che l’utente di software non sia meno importante di un autore, o anche del datore di lavoro di un autore. In altri termini, gli interessi e le necessità di tutti costo- ro hanno un uguale peso quando si tratta di decidere il miglior corso d’azione. Questa premessa non è accettata a livello univer- sale. Molti sostengono come il datore di lavoro di un autore sia essenzialmente più importante di chiunque altro. Si dice, ad esem- pio, che lo scopo nell’avere proprietari di software è quello di dare al datore di lavoro di un autore il vantaggio che merita – prescin- dendo dal modo in cui ciò possa influenzare il pubblico. È inutile cercare di convalidare o confutare tali premesse. Ogni pro- va si basa su premesse condivise. Perciò gran parte di quanto vado sostenendo è indirizzato soltanto a quanti condividono le premes- se che uso, o almeno a quanti sono interessati a vederne le conse- guenze. Per quanti ritengono che i proprietari siano più importan- ti di chiunque altro, questo saggio è semplicemente irrilevante. Ma perché un gran numero di americani dovrebbe accettare una premessa che eleva l’importanza di alcuni individui su chiunque altro? In parte perché ci si basa sulla credenza che tale premessa faccia parte della tradizione legale della società americana. Per qualcuno, dubitare della premessa significa mettere in discussio- ne le basi stesse della società. È importante informare costoro che tale premessa non è parte del- la nostra tradizione legale. Né lo è mai stata. Ovvero, la Costituzione dice che lo scopo del copyright è quello di “promuovere il progresso della scienza e delle arti utili”. La Cor- te Suprema ha elaborato su quest’idea, affermando nella causa Fox Film vs. Doyal che “l’unico interesse degli Stati Uniti e l’oggetto primario nel conferire il monopolio [del copyright] risiede nei

42 benefici generali derivanti al pubblico dal lavoro degli autori”. Non siamo obbligati a essere d’accordo con la Costituzione o con la Corte Suprema. (A un certo punto, entrambi perdonarono la schiavitù). Le loro posizioni non condannano la premessa sulla supremazia del proprietario. Spero però che la consapevolezza per cui ciò sia un assunto della destra radicale, piuttosto che un fatto tradizionalmente riconosciuto, perderà il proprio fascino.

Conclusione Ci piace pensare che la società incoraggi l’aiuto al vicino; ma ogni volta che ricompensiamo qualcuno perché fa ostruzione, o lo ammiriamo per la ricchezza accumulata in tal modo, stiamo inviando il messaggio opposto. L’accumulazione del software è una forma della nostra volontà generale di non considerare il benessere della società a favore del profitto personale. Possiamo notare questa mancanza di conside- razione da Ronald Reagan a Jim Bakker10, da Ivan Boesky11 a Exxon12, dalle banche fallite alle scuole fallite. Possiamo misurar- la con la quantità di gente senza casa e di popolazione carceraria. Lo spirito antisociale si nutre da solo, perché più ci rendiamo con- to che gli altri non ci aiuteranno, più sembra futile aiutarli. Così la società si trasforma in una giungla.

10 Negli anni ‘80 Jim Bakker raccolse milioni di dollari in televisione per i suoi gruppi religiosi Heritage USA, PTL e Inspirational Network. Venne condannato a 45 anni di carcere per frode via posta e banca per le campagne di raccolta fondi a favore di PTL. 11 Ivan Boesky fu mandato in prigione e multato per 100 milioni di dollari per trading scorretto negli anni ‘80. Divenne famoso per aver detto una volta, “L’avarizia è un bene. Voglio farvi sapere che ritengo salutare l’avarizia. Potete essere avari e sentirvi comunque in pace con voi stessi”. 12 Negli anni ‘80 la Exxon Valdez provocò la più vasta fuoriuscita di petrolio al mondo al largo delle coste dell’Alaska, causando danni immensi. Finora le multe e le operazioni di pulizia gli sono costate oltre un miliardo di dollari.

43 Se non vogliamo vivere in una giungla, dobbiamo modificare il nostro atteggiamento. Dobbiamo iniziare a veicolare il messaggio che un buon cittadino è quello che coopera quando appropriato, non quello che è bravo a prendere dagli altri. Spero che il movi- mento del software libero possa offrire dei contributi in tal senso: almeno in un campo, sostituiremo la giungla con un sistema più efficace che incoraggi e giri sulla cooperazione volontaria.

Originalmente scritto nel 1992, questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002.

La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

44 Diritto d’autore e globalizzazione nell’era delle reti informatiche

Introduzione David Thorburn, moderatore: Il relatore di oggi, Richard Stallman, è una figura leggendaria del mondo informatico, e la mia espe- rienza nel tentativo di trovare un correlatore per condividere il podio con lui è stata istruttiva. Un distinto professore del MIT mi ha detto che Stallman va considerato al pari della figura carisma- tica di una parabola biblica – una sorta di aneddoto-lezione del Vecchio Testamento. “Immagina”, mi ha detto, “un Mosè o un Geremia – meglio, un Geremia”. Gli ho replicato: “Bene, davve- ro ammirevole. Ciò conferma la mia sensazione sul tipo di con- tributo che ha dato al mondo. Allora perché sei riluttante a divi- dere il podio con lui?” La sua risposta: “Come Geremia o Mosè, ne sarei semplicemente sopraffatto. Non posso tenere un inter- vento insieme a lui, ma se mi avessi chiesto di nominare cinque persone viventi nel mondo che hanno veramente aiutato tutti noi, Richard Stallman sarebbe uno di questi.”

L’intervento di Stallman Dovrei iniziare spiegando perché ho rifiutato il permesso alla tra- smissione sul web di questo forum, nel caso la questione non fos-

45 se sufficientemente chiara: il programma impiegato per la tra- smissione sul web richiede all’utente di prelevare determinato software per poter ricevere il segnale. Questo software non è software libero. È disponibile a costo zero ma soltanto come ese- guibile, cioè una misteriosa sequenza di numeri. Ciò che fa è segreto. Non lo si può studiare, non lo si può modi- ficare, e certamente non se ne può pubblicare una versione modi- ficata. E queste rientrano fra le libertà essenziali incluse nella defi- nizione di “software libero”. Così, se devo essere un onesto sostenitore del software libero, non posso andare in giro a fare discorsi e poi spingere le persone ad usare software non libero. Nuocerei alla mia stessa causa. E se non dimostro di prendere i miei principi sul serio, non posso aspet- tarmi che altri li prendano sul serio. Tuttavia il mio intervento non riguarda il software libero. Dopo aver lavorato per anni nel movimento per il software libero e aver visto la gente usare alcune parti del sistema operativo GNU, ho iniziato a ricevere inviti per tenere interventi nei quali il pubblico prese a chiedermi: “Bene, come è possibile ampliare le idee sulla libertà per gli utenti del software ad altri tipi di cose?” E naturalmente facevano domande stupide tipo, “Dovrebbe for- se essere libero anche l’hardware?”, “Dovrebbe essere libero que- sto microfono?” Cosa significa tutto ciò? Dovremmo essere liberi di copiarlo e modificarlo? Per quanto riguarda le modifiche, una volta com- prato il microfono, nessuno ci impedirà di modificarlo. E per copiarlo, nessuno possiede una copiatrice di microfoni. Al di fuo- ri di Star Trek, queste cose non esistono. Forse un giorno ci saran- no analizzatori ed assemblatori nanotecnologici, e sarà realmente possibile copiare un oggetto fisico, e allora il problema del se si è

46 liberi di farlo o meno comincerà ad essere davvero importante. Vedremo aziende agricole che vorranno impedire alla gente di copiare il cibo, e questo diventerà un problema politico impor- tante, se mai esisterà una simile capacità tecnologica. Non so se succederà, a questo punto si tratta soltanto di pura speculazione. Ma per altri tipi di informazioni, il problema può essere sollevato perché ogni tipo di informazione che può essere memorizzata su un computer, presumibilmente, può essere copiata e modificata. Così i problemi etici del software libero, i problemi del diritto di un utente di copiare e modificare il software, sono identici a quel- li relativi ad altri tipi di informazioni pubblicate. Non mi riferi- sco a informazioni private, diciamo, i dati personali, che non devo- no essere mai rese disponibili al pubblico. Parlo dei diritti di un utente quando ottiene copie di cose pubblicate senza alcun tenta- tivo di tenerle segrete.

La storia del copyright Per meglio illustrare le mie idee in materia, vorrei rivedere la sto- ria della distribuzione delle informazioni e del diritto d’autore. Nel mondo antico, i libri erano scritti a mano con una penna, e chiun- que sapesse leggere e scrivere poteva copiare un libro in maniera efficace come chiunque altro. Probabilmente qualcuno che vi si dedicava tutto il giorno, aveva imparato a farlo meglio, ma non esisteva alcuna differenza sostanziale. E poiché le copie erano fat- te una per volta, non c’era un grande valore economico. Fare die- ci copie richiedeva dieci volte il tempo necessario per fare una copia. Non esisteva alcuna costrizione verso la centralizzazione – un libro poteva essere copiato ovunque. A causa di questa tecnologia, poiché non imponeva che le copie fossero identiche, nel mondo antico non esisteva una differenza

47 sostanziale tra copiare e scrivere un libro. Ci sono cose nel mezzo che avevano senso. Comprendevano l’idea di un autore. Sapeva- no, diciamo, che una certa commedia era stata scritta da Sofocle, ma tra scrivere un libro e copiare un libro, c’erano altre cose utili che si potevano fare. Per esempio, si poteva copiare parte di un libro, poi scrivere alcune parole nuove, copiare ancora e scrivere alcune nuove parole e così via. Questo lo si definiva “scrivere un commentario”. Si trattava di un’attività piuttosto comune, e que- sti commentari erano apprezzati. Si poteva anche copiare un passaggio da un libro, poi scrivere altre parole, e copiare un passaggio da un altro libro e scrivere ancora e così via, e così si creava un compendio. Anche i compendi erano molto utili. Ci sono opere che sono andate perdute, ma parti di esse sono sopravvissute se riprese in altri libri che hanno avuto più popolarità dell’originale. Forse si sono copiate le parti più inte- ressanti, e così se ne sono fatte molte copie, ma non ci si è preoc- cupati di copiare l’originale, perché non era abbastanza interes- sante. Ora, per quanto posso saperne, nel mondo antico non esistevano cose come il diritto d’autore. Chiunque volesse copiare un libro poteva farlo. Più avanti, è stata sviluppata la tecnica della stampa e i libri hanno iniziato ad essere stampati. La stampa non è stata solo un miglioramento quantitativo per copiare in maniera più agevole. Ha influenzato i diversi tipi di copia in modo diverso per- ché ha introdotto una certa economia di scala. Occorreva lavora- re parecchio per impostare la macchina tipografica, e assai meno lavoro per fare molte copie identiche della pagina. Come risulta- to, la copia dei libri iniziò a diventare un’attività centralizzata di produzione di massa. Probabilmente le copie di un certo libro saranno state fatte soltanto in determinati luoghi.

48 Ciò significava inoltre che i comuni lettori non potevano copiare i libri in maniera efficace. Ci si riusciva solo se si aveva una mac- china per la stampa: era un’attività industriale. Ora, nei primi secoli di vita della stampa, i libri stampati non han- no sostituito totalmente le copie fatte a mano. Se ne facevano ancora, a volte dai ricchi e a volte dai poveri. I ricchi lo facevano per avere una copia particolarmente bella che avrebbe dimostrato quanto erano ricchi, e i poveri lo facevano perché forse non ave- vano abbastanza soldi per comprare una copia stampata, ma ave- vano tempo per copiare un libro a mano. Come dice la canzone, “Il tempo non è denaro quando tutto ciò che hai è il tempo”. Così, si facevano ancora copie a mano. Fu nel 1800, credo, che la stampa divenne in realtà abbastanza economica da consentire anche ai poveri di acquistare libri stampati, se sapevano leggere. Ora, il diritto d’autore si è sviluppato insieme all’uso della stam- pa e, considerando questa tecnologia, ha avuto l’effetto di una regolamentazione industriale. Non regolava quel che fosse con- cesso fare ai lettori; limitava ciò che potevano fare gli editori e gli autori. Inizialmente in Inghilterra il diritto d’autore è stato una forma di censura. Per pubblicare un libro bisognava avere il per- messo del governo. Ma poi il concetto è cambiato. Con la Costi- tuzione degli Stati Uniti, si giunse ad un’idea diversa sugli scopi del diritto d’autore, e credo che tale idea venisse accettata anche in Inghilterra. Per la Costituzione statunitense venne proposto di assegnare il copyright agli autori, un monopolio sulla copia dei propri libri. Questa proposta fu respinta. Se ne adottò invece una fondamen- talmente diversa e cioè che, per promuovere il progresso, il Con- gresso poteva stabilire eventualmente un sistema di diritti d’auto- re che avrebbe poi creato questi monopoli. Così i monopoli,

49 secondo la Costituzione statunitense, non esistono per il bene di chi li possiede; esistono per promuovere il progresso della scienza. I monopoli sono concessi agli autori come modalità per modifi- care il proprio comportamento onde fare qualcosa di utile per il pubblico. Così l’obiettivo è avere un maggior numero di libri scritti e pub- blicati che gli altri possano poi leggere. E si ritiene che questo [il copyright] contribuisca ad una maggiore attività letteraria, ad ampliare la produzione di scritti scientifici e in altri campi, e che la società possa imparare grazie a ciò. Questo è il fine da perse- guire. La creazione di monopoli privati è stata solo un mezzo per raggiungere un certo fine, e questo è un fine pubblico. Nell’epoca della stampa il diritto d’autore era praticamente indo- lore perché si trattava di una regolamentazione industriale. Limi- tava soltanto le attività di editori ed autori. In senso stretto, anche i poveri che copiavano i libri a mano potevano infrangere il dirit- to d’autore. Ma nessuno cercò mai di imporre il copyright nei loro confronti perché venne considerato una regolamentazione a livel- lo industriale.1 Inoltre, nell’era della stampa era semplice imporre diritto d’auto- re, perché andava applicato soltanto laddove esistesse un editore, e gli editori, per la natura stessa della loro attività, si facevano cono- scere. Se si cerca di vendere libri, bisogna dire al pubblico dove andare a comprarli. Non si va nelle case di tutti ad imporre il dirit- to d’autore. Infine, in quel contesto il diritto d’autore può essere stato un siste- ma benefico. Negli Stati Uniti il copyright viene considerato dagli studiosi di legge un patto tra il pubblico e gli autori. Il pubblico 1 Gli statuti originali parlavano soltanto di editoria e stampa. Non esisteva alcuna regolamentazione per la copia a mano – molto probabilmente perché la regolamentazione riguardava l’industria.

50 scambia alcuni dei propri diritti naturali a fare copie, e in cambio ottiene il beneficio di avere un maggior numero di libri scritti e pubblicati. Ora, si tratta di un patto vantaggioso? Be’, quando il pubblico non può fare delle copie perché queste vengono fatte in maniera effi- cace solo con macchine per la stampa – e la maggior parte della gente non possiede tali macchine – il risultato è che il pubblico sta scambiando una libertà che non può esercitare, una libertà che non è di nessun valore pratico. Perciò se si possiede qualcosa che non è di primaria importanza o è inutile, e si ha la possibilità di scambiarla per qualcos’altro di un qualche valore, ci si guadagna. Ecco perché a quel tempo può darsi che il diritto d’autore sia sta- to un patto vantaggioso per il pubblico. Ma il contesto va mutando, e ciò deve cambiare la nostra valuta- zione etica del diritto d’autore. Ora, i principi alla base dell’etica non sono modificati dai progressi nella tecnologia; sono troppo fondamentali per essere toccati da simili contingenze. Ma le nostre decisioni su una determinata questione dipendono dalle conse- guenze delle alternative disponibili, e le conseguenze di una certa scelta possono cambiare quando cambia il contesto. Questo è ciò che succede nell’area della legge sul copyright, perché l’epoca del- la stampa sta per chiudersi, lasciando gradualmente spazio all’era delle reti informatiche. Le reti informatiche e le tecnologie dell’informazione digitale ci riportano ad un ambito più simile al mondo antico, dove chiun- que sapesse leggere ed usare le informazioni poteva anche copiar- le e poteva fare copie facilmente al pari di chiunque altro. Si trat- ta di copie perfette e valide quanto le copie che potrebbe fare chiunque altro. Così la centralizzazione e l’economia introdotta dalla stampa e da simili tecnologie va scomparendo.

51 Questo mutamento nel contesto generale cambia il modo in cui funziona la legislazione in tema di diritto d’autore. Il copyright non svolge più una funzione di regolamentazione dell’industria: è diventata una restrizione draconiana imposta al pubblico. Origi- nariamente tale legislazione voleva essere una restrizione imposta agli editori a favore degli autori; oggi, all’atto pratico, è una restri- zione imposta al pubblico a favore degli editori. Una volta il dirit- to d’autore era una pratica relativamente priva di effetti negativi, che non suscitava discussioni, e non costituiva una limitazione per il pubblico. Oggi ciò non è più vero. Se possedete un computer, l’interesse primario degli editori è quello di imporvi delle restri- zioni. Il diritto d’autore una volta era facile da far rispettare per- ché era una restrizione solo per gli editori, ed era facile trovarli per esaminare quanto pubblicavano. Ora il diritto d’autore è una restrizione su tutti e ciascuno di voi. Per imporne il rispetto occor- re sorveglianza, intrusioni e pene severe, e stiamo osservando l’in- troduzione di queste misure nelle leggi degli Stati Uniti e di altri paesi. Il diritto d’autore era effettivamente uno scambio vantaggioso per il pubblico, perché quest’ultimo dava in cambio delle libertà che di fatto non poteva esercitare. Ma oggi il pubblico può esercitare tali libertà. Cosa fate se avete un sottoprodotto che una volta non vi serviva, eravate abituati a scambiarlo e improvvisamente ne sco- prite un uso? Potete consumarlo o utilizzarlo. Cosa farete in pra- tica? Non lo scambiate affatto, ne tenete almeno una parte. E natu- ralmente questo è quanto vorrebbe fare la gente. È ciò che il pub- blico fa ogniqualvolta gli viene data voce per esprimere la propria preferenza, conserva una parte della propria libertà e la esercita. Napster, in cui il pubblico decide di esercitare la libertà di copia invece di rinunciarvi, è un grande esempio di questo principio. La

52 cosa naturale da farsi per rendere la normativa sul diritto d’auto- re adatta alla situazione odierna è ridurre l’ammontare di potere nelle mani dei detentori del copyright, ridurre la quantità di restri- zioni che essi impongono al pubblico, e aumentare la libertà con- servata dalla gente. Ma ciò non piace agli editori, i quali vogliono esattamente l’op- posto. Gli editori intendono aumentare i poteri del diritto d’au- tore fino al punto in cui possano controllare rigidamente ogni uti- lizzo delle informazioni. Ciò ha portato a legislazioni che conce- dono un aumento di potere senza precedenti per i detentori del copyright. Vengono così sottratte quelle libertà che il pubblico era solito mantenere nell’era della carta stampata. Consideriamo ad esempio gli e-book, i libri elettronici. Oggi van- no tremendamente di moda, è difficile evitarli. Mentre ero in Bra- sile ho preso un aereo e nella rivista a bordo c’era un articolo in cui si prevedeva che entro 10 o 20 anni saremmo tutti passati agli e-book. Chiaramente, questo tipo di campagna pubblicitaria è pagata da qualcuno. Perché? Credo di saperlo. La ragione è che gli e-book costituiscono l’opportunità per togliere alcune delle libertà che i lettori della carta stampata hanno sempre avuto e continua- no ad avere – la libertà, per esempio, di prestare un libro ad un amico, o di prenderlo a prestito da una biblioteca pubblica, o di venderne una copia ad un negozio di libri usati, o di comprarne una copia in modo anonimo e senza dover inserire i dati dell’ac- quirente in un apposito database. E forse persino il diritto di leg- gerlo due volte. Sono queste le libertà che gli editori vorrebbero eliminare, ma non possono farlo per i libri stampati perché sarebbe una presa di pote- re troppo ovvia e provocherebbe una reazione generalizzata. E così hanno trovato una strategia indiretta. Prima, ottengono una legi-

53 slazione che elimini questi diritti per gli e-book quando non ci sono e-book; così non si crea alcuna controversia. Non esistono lettori di libri elettronici a difendere le libertà a cui erano abitua- ti. Obiettivo ottenuto con il Digital Millennium Copyright Act del 1998. Successivamente hanno introdotto gli e-book, convin- cendo tutti a passare gradualmente dai libri stampati a quelli elet- tronici, e il risultato finale è che i lettori hanno perso quelle libertà senza che ci sia stato un preciso momento in cui quelle libertà sia- no state sottratte e ci si potesse battere per conservarle. Allo stesso tempo possiamo osservare analoghi tentativi per pri- vare la gente delle proprie libertà nell’uso di altri tipi di opere pub- blicate. Ad esempio, i film su DVD vengono cifrati in un forma- to considerato segreto – era stato progettato per essere segreto – e l’unico modo per farsi dire dalle società cinematografiche il meto- do di cifratura, in modo da poter costruire dei lettori DVD, era firmare un contratto che obbligava a implementare determinate restrizioni negli apparecchi, con il risultato di impedire al pubbli- co perfino l’esercizio dei propri diritti legali. A un certo punto alcuni programmatori europei scoprirono il formato dei DVD e scrissero un programma libero per leggerli.2 Ciò rese possibile uti- lizzare software libero e GNU/Linux per guardare un DVD rego- larmente acquistato, il che è una cosa assolutamente legittima. È giusto poterlo fare con software libero. Ma le società cinematografiche non erano d’accordo, e portarono la questione in tribunale. Sapete, l’industria cinematografica una volta produceva un sacco di film con scienziati pazzi e qualcuno diceva, “Ma, dottore, ci sono alcune cose che l’Uomo non dovreb- be conoscere”. Probabilmente queste società hanno visto troppi dei loro film, perché sono giunte alla conclusione che il formato

2 Oggi esistono diversi pacchetti analoghi; il primo si chiamava “DeCSS”.

54 dei DVD fosse qualcosa che l’Uomo non doveva conoscere, e sono riuscite ad ottenere una sentenza di censura totale sul software usa- to per leggere i DVD. È stato proibito persino l’inserimento di un link ad un sito fuori dagli Stati Uniti dove è legale diffondere que- ste informazioni. La sentenza è già stata portata in appello. In tale occasione ho presentato un documento di sostegno, e ne sono orgoglioso, anche se in effetti sto giocando un ruolo minimo in questa specifica battaglia. Il governo degli Stati Uniti è intervenuto direttamente a sostegno della parte avversa. Ciò non deve sorprendere se consideriamo in primo luogo il motivo per cui è stato approvato il Digital Millen- nium Copyright Act. La ragione risiede nel sistema di finanzia- mento delle campagne elettorali che abbiamo negli Stati Uniti, cioè essenzialmente una corruzione legalizzata in cui i candidati vengono comprati dalle varie aziende prima ancora di essere elet- ti. E, ovviamente, conoscono bene i loro padroni – sanno per chi stanno lavorando, e approvano quelle leggi che danno maggior potere a tali aziende. Non sappiamo come andrà a finire questa battaglia. Nel frattem- po l’Australia ha approvato una legge simile e anche l’Europa si appresta a farlo; il piano è di non lasciare alcun luogo al mondo dove siano disponibili queste informazioni. Gli Stati Uniti riman- gono comunque i primi nel tentativo di impedire al pubblico la distribuzione di informazioni già pubblicate. Gli Stati Uniti non sono tuttavia il primo paese per cui ciò rap- presenti una priorità: era molto importante anche per l’Unione Sovietica. Dove l’attività di fare copie non autorizzate e ridistri- buirle era nota come Samizdat, e per debellare il fenomeno mise- ro a punto una serie di metodi. Primo, guardie vicino ad ogni dispositivo di copia, per controllare cosa venisse copiato e preve-

55 nire copie vietate. Secondo, dure punizioni per chiunque fosse sorpreso in attività di copia illecita: si poteva essere spediti in Sibe- ria. Terzo, incoraggiare la delazione, chiedendo a tutti di spiare vicini e colleghi e riferire alla polizia dell’informazione. Quarto, responsabilità collettiva: “Tu! Tu sei responsabile per quel gruppo di persone! Se becco uno qualsiasi di loro a fare copie illegali, in prigione ci vai tu. Quindi, è meglio se li controlli per bene”. E quinto, la propaganda, a partire dall’infanzia, per convincere tut- ti che solo un acerrimo nemico del popolo rischierebbe di fare copie illecite. Oggi gli Stati Uniti stanno utilizzando tutti questi metodi. Primo, agenti a guardia dei dispositivi di copia. Nelle copisterie ci sono guardie umane per controllare cosa si copia. Ma costerebbe trop- po ingaggiare degli esseri umani per fare lo stesso con gli utenti di computer, il lavoro umano è troppo caro. Così hanno messo a guardia dei robot. Questo è lo scopo del Digital Millennium Copyright Act. L’unico modo per accedere a certi dati è inserire nel computer un particolare software, che vi impedisce di copia- re quegli stessi dati. Oggi esiste un progetto per l’introduzione di tale software in ogni hard disk, e in questo modo potreste trovarvi dei file a cui non potete accedere, a meno di ottenere il permesso da qualche server di rete. E il tentativo di aggirare quel software, o persino di dire ad altri come aggirarlo, costituisce un crimine. Secondo, punizioni dure. Alcuni anni fa, fare copie di qualcosa e passarle a un amico giusto per aiutarlo, non costituiva reato; non lo era mai stato negli Stati Uniti. Poi venne trasformato in un cri- mine, e si può essere incarcerati per anni solo per aver condiviso qualcosa con il vicino. Terzo, informatori. Avrete visto quelle pubblicità in TV e nella

56 metropolitana di Boston che incitavano a denunciare i colleghi alla polizia dell’informazione, ufficialmente nota come Software Publishers Association. Quarto, responsabilità collettiva. Negli Stati Uniti ciò è stato fat- to cooptando i provider d’accesso a internet, rendendoli legal- mente responsabili per tutto ciò che distribuiscono i loro utenti. L’unico modo che hanno per non essere considerati comunque responsabili è l’applicazione di una procedura non modificabile per disconnettere l’utente o rimuovere l’informazione inviata entro due settimane da un reclamo. Giusto qualche giorno fa ho sentito che un sito di protesta contro alcune brutte pratiche di Citybank è stato cancellato in questo modo. Oggigiorno, non si fa nemmeno in tempo ad arrivare in tribunale: il vostro sito vie- ne semplicemente fatto sparire. E infine, la propaganda a cominciare dall’infanzia. È per questo che si ricorre al termine “pirata”. Se ci pensate, qualche anno fa tale termine veniva utilizzato per definire quegli editori che non pagavano gli autori. Ma ora il significato è stato completamente stravolto. Oggi viene applicato a quei membri del pubblico che sfuggono al controllo degli editori. Viene usato per convincere la gente che solo un nemico del popolo farebbe delle copie illegali. Il termine trasmette il messaggio che “condividere qualcosa con il vicino è moralmente equivalente ad attaccare una nave”. Spero che non siate d’accordo con questa caratterizzazione, e se non lo sie- te, spero che vi rifiuterete di utilizzare il termine in tal senso. Gli editori stanno comprando delle leggi onde dotarsi di maggio- ri poteri. Stanno inoltre estendendo la durata del diritto d’autore. La Costituzione degli Stati Uniti dice che il copyright è valido per un periodo di tempo limitato, ma gli editori vogliono farlo dura- re per sempre. Ma siccome ottenere una modifica costituzionale

57 risulterebbe piuttosto difficile, hanno trovato un modo più sem- plice per raggiungere lo stesso risultato. Ogni 20 anni si estende in maniera retroattiva il diritto d’autore di 20 anni. Così il risul- tato è che in ogni momento il diritto d’autore dura nominalmen- te per un periodo determinato e un giorno qualsiasi copyright è destinato a terminare. Ma quel termine non verrà mai raggiunto perché ogni 20 anni quel copyright verrà esteso di 20 anni; così nessuna opera potrà mai tornare di pubblico dominio. Questa pra- tica è stata chiamata “perpetual copyright on the installment plan”, copyright perpetuo nel progetto rateale. La legge del 1998 che estende il diritto d’autore per ulteriori 20 anni è nota come il “Mickey Mouse Copyright Extension Act”3 perché uno dei suoi principali sponsor fu la Disney. Questa si rese conto che il diritto d’autore su Topolino stava per scadere, qual- cosa che andava assolutamente evitato perché da quel copyright guadagnava molto denaro.

Globalizzazione In effetti il titolo di questo intervento doveva essere “Diritto d’au- tore e Globalizzazione”. Per quanto riguarda la globalizzazione, questa viene portata avanti tramite una serie di politiche imple- mentate in nome dell’efficienza economica ovvero i cosiddetti accordi per il libero commercio, che in realtà sono pensati per dare potere alle imprese a scapito delle leggi e della politica. Non han- no nulla a che fare con il libero scambio, ma piuttosto con un tra- sferimento di potere: togliere il potere decisionale e legislativo ai cittadini di qualsiasi paese possa plausibilmente tenere in consi- derazione i propri interessi, e assegnarlo alle imprese, che non ter-

3 Il titolo ufficiale è “The Sonny Bono Copyright Term Extension Act”.

58 ranno nella minima considerazione l’interesse di quei cittadini. Dal loro punto di vista, è la democrazia ad essere un problema e questi accordi vengono stipulati per porvi fine. Ad esempio, il NAFTA4 contiene dei provvedimenti che, mi sembra, consento- no alle aziende di querelare un altro governo per sbarazzarsi di qualche legge che ritengano stia interferendo con i loro profitti in quel paese. Così le società straniere possono avere maggior pote- re dei cittadini di una nazione. Sono in atto tentativi per ampliare queste posizioni oltre il NAF- TA. È ad esempio questo uno degli obiettivi della cosiddetta “area del libero scambio delle Americhe”, che mira ad estendere questo principio a tutti i paesi sudamericani e caraibici, mentre l’accor- do multilaterale sugli investimenti doveva estenderlo al mondo intero. Una cosa evidenziatasi negli anni ‘90 è che tali accordi hanno ini- ziato ad imporre il copyright in tutto il mondo, in maniera sem- pre più forte e restrittiva. Questi trattati non sono accordi per il libero scambio. Sono in realtà accordi commerciali utilizzati per fornire alle aziende il controllo sul commercio in tutto il mondo, in modo da eliminare il libero scambio. Quando nel 1800 gli Stati Uniti erano un paese in via di svilup- po, lo stato non riconosceva i diritti d’autore esteri. Questa fu una decisione presa con attenzione, e si rivelò intelligente. Si conven- ne che, per gli Stati Uniti, il riconoscimento di quei diritti sareb- be stato semplicemente svantaggioso e avrebbe succhiato denaro senza dimostrarsi particolarmente utile. Oggi si dovrebbe applicare la stessa logica ai paesi in via di svi- luppo, ma gli Stati Uniti hanno sufficiente potere per costringer- li ad andare contro i propri interessi. In realtà è un errore parlare

4 North American Free Trade Agreement.

59 degli interessi delle nazioni in questo contesto. Infatti, sono sicu- ro che la maggior parte di voi sappia quanto sia sbagliato tentare di giudicare l’interesse pubblico facendo la somma della ricchez- za individuale. Se i lavoratori americani perdessero un miliardo di dollari e Bill Gates ne guadagnasse due, sarebbero forse gli ameri- cani in generale più ricchi? Potrebbe dirsi un bene per l’America? Se si considera solo la cifra totale, sembra lo sia. Tuttavia, l’esem- pio mostra in concreto che guardare al totale è il modo sbagliato di giudicare, poiché Bill Gates non ha alcun bisogno di altri due miliardi di dollari, ma la perdita di un miliardo di dollari da par- te di chi non ha altrettanto denaro da cui partire può essere dolo- rosa. Dunque, discutendo su uno di questi trattati commerciali, quando si sente qualcuno parlare degli interessi di questa o di quel- la nazione, non si fa altro che sommare le entrate di tutti i citta- dini. I ricchi vengono sommati ai poveri. È solo una scusa per met- tere in atto lo stesso inganno per farci ignorare l’effetto sulla distri- buzione delle ricchezze all’interno del paese e il fatto che quegli accordi la renderanno ancora più disomogenea, come è accaduto negli Stati Uniti. Non è quindi l’interesse degli Stati Uniti a giovarsi dell’inaspri- mento delle norme sul diritto d’autore in tutto il mondo. È solo quello di alcuni imprenditori, molti dei quali vivono in quel pae- se, mentre altri risiedono altrove. Ciò non favorisce in alcun modo l’interesse pubblico.

Ripensare il copyright Ma cosa ha senso fare? Se crediamo nello scopo del diritto d’au- tore incluso, ad esempio, nella Costituzione degli Stati Uniti, cioè quello di promuovere il progresso, quali linee politiche intelligenti andrebbero seguite nell’era delle reti informatiche? Chiaramente,

60 anziché aumentare i poteri del copyright dovremmo ridimensio- narli in modo da offrire al pubblico un certo grado di libertà, con cui trarre vantaggio dai benefici della tecnologia digitale e delle reti informatiche. Ma fino a che punto si deve arrivare? È una domanda interessante, poiché non credo sia necessario abolire totalmente il diritto d’autore. L’idea di rinunciare ad alcune libertà in cambio di un maggior progresso risulterebbe vantaggiosa ad un certo livello, anche se il copyright tradizionale rinuncia a troppa libertà. Ma per ragionare in maniera intelligente sulla questione, la prima cosa da riconoscere è che non esiste alcun motivo per ren- dere tutto uniforme. Non c’è alcuna ragione per insistere nell’a- vere un unico accordo per ogni tipo di opere. Anzi, questo è un caso già superato poiché esistono numerose ecce- zioni per la musica. La legislazione sul diritto d’autore considera le opere musicali in maniera molto diversa tra loro. Ma i produt- tori ricorrono astutamente a un’arbitraria insistenza sull’unifor- mità. Prendono in esame alcuni casi particolari e sostengono degli argomenti secondo cui, in quei casi particolari, sarebbe vantag- gioso avere tutto questo diritto d’autore. Successivamente affer- mano che, per uniformità, le restrizioni applicate nei casi partico- lari devono essere estese al tutto. Così, chiaramente, scelgono un caso particolare in cui possono produrre gli argomenti più forti, anche se tale caso è piuttosto raro e non così importante nel con- testo generale. Ma forse, per quel caso specifico, è giusto che esista tutto quel copyright. Non dobbiamo pagare lo stesso prezzo per ogni cosa che compriamo. Spendere un migliaio di dollari per una macchi- na nuova sarebbe un ottimo affare, ma spenderne altrettanti per una confezione di latte sarebbe, al contrario, un pessimo affare. Di certo, in altre situazioni della vita, non si pagherebbe un prez-

61 zo speciale per tutto ciò che si compra. Perché farlo in questo caso? Dobbiamo considerare le varie opere in maniera diversa tra loro, e vorrei proporvi un possibile modo per farlo. La prima serie di opere riguarda quelle funzionali – ovvero, opere il cui utilizzo consente di portare a termine un qualche compito. Questa categoria include ricette, programmi informatici, manua- li e libri di testo, opere di consultazione come dizionari ed enci- clopedie. Credo che per tutte queste opere funzionali la questio- ne sia essenzialmente identica a quella del software e possano esse- re applicate le stesse conclusioni. Si dovrebbe avere la libertà di pubblicarne anche una versione modificata, poiché è molto utile modificare una di tali opere. Le necessità della gente non sono le stesse per tutti. Se io scrivo un’opera affinché faccia qualcosa che credo debba essere fatto, qualcun altro potrebbe avere un’idea diversa al riguardo. E costui potrebbe voler modificare quell’ope- ra per fargli fare ciò che è meglio per lui. A questo punto, altre persone potrebbero avere le stesse esigenze di chi ha modificato l’originale, e la versione modificata potrebbe andar bene anche per loro. Chiunque cucini lo sa, e lo sa da centinaia di anni. È del tut- to normale fare copie di ricette e distribuirle ad altri, ed è altret- tanto normale modificare una ricetta. Se si cambia una ricetta e la si prepara per gli amici e a loro piace, potrebbero chiedere “Posso avere la ricetta?”. Allora si scriverà la propria versione della ricet- ta e se ne daranno copie agli amici. Questa è esattamente la stes- sa cosa che, molto tempo dopo, abbiamo iniziato a fare nella comunità del software libero. Ecco dunque una prima categoria di opere. La seconda, tratta delle opere il cui obiettivo è diffondere il pen- siero di determinate persone. Il loro intento è parlare di tali per- sone. Ciò include, ad esempio, memorie, saggi d’opinione, arti-

62 coli scientifici, offerte di compravendita, cataloghi di prodotti in vendita. Il punto centrale di queste opere è che esprimono ciò che qualcuno pensa, ha visto o crede. Modificarle significa mistifica- re quel che intende dire l’autore; modificare queste opere non è attività socialmente utile. Perciò la copia letterale è l’unica cosa che si può veramente essere autorizzati a fare. La domanda successiva è: si dovrebbe avere il diritto di commer- ciare con tali copie letterali? Oppure è sufficiente la copia lettera- le senza fini di lucro? Come vediamo, qui si tratta di due attività diverse tra loro, per cui affronteremo le due questioni in maniera separata – il diritto di fare copie letterali a scopo non commercia- le e quello di farle a scopo di lucro. Dunque, un buon compro- messo potrebbe essere quello di avere copie commerciali coperte dal diritto d’autore accordando però a tutti il diritto di farne copie letterali non commerciali. In tal modo, il copyright sulle copie commerciali, così come sulle versioni modificate – solo l’autore può approvare una versione modificata – continuerà a produrre lo stesso flusso di entrate fornito ora per sovvenzionare la scrittu- ra di tali opere, in qualsiasi misura lo faccia. Consentire la copia letterale non commerciale vuol dire che il diritto d’autore non deve invadere più la casa di nessuno. Diven- ta nuovamente una regolamentazione industriale, facile da rinfor- zare e indolore, non richiedendo più punizioni draconiane e infor- matori per imporla. Così possiamo ottenere il massimo del bene- ficio del sistema attuale, evitandone buona parte dell’orrore. La terza categoria riguarda le opere artistiche o di intrattenimen- to, in cui la cosa più importante è la sensazione che si prova nel guardarle. In questo caso il problema della modifica è molto com- plesso poiché, se da un lato c’è l’idea che queste opere riflettono la visione di un artista, modificandole se ne mistifica tale visione.

63 Dall’altro lato, si ha il fatto che spesso esiste un processo di riela- borazione popolare, in base al quale attraverso le modifiche appor- tate da una serie di persone, si producono a volte dei risultati di alto livello. Spesso anche per gli stessi artisti è utile attingere da opere precedenti. Alcuni dei lavori di Shakespeare si basano su tra- me prese da opere altrui. Se fossero state in vigore le attuali leggi sul diritto d’autore, queste opere sarebbero state illegali. La que- stione del cosa fare circa la pubblicazione di versioni modificate di un’opera artistica o estetica è complessa, e per risolvere il pro- blema forse dovremmo introdurre ulteriori suddivisioni della cate- goria. Ad esempio, il settore dei computer game potrebbe essere trattato in maniera particolare, dove ognuno sarebbe libero di pubblicarne versioni modificate. Ma forse un romanzo dovrebbe essere trattato diversamente; in questo caso, forse la pubblicazio- ne a scopo commerciale dovrebbe richiedere un accordo con l’au- tore originale. Ora, se la pubblicazione commerciale di queste opere artistiche è coperta da copyright, ciò fornirà la maggior parte delle entrate oggi disponibili per sostenere gli autori e i musicisti, nella misura limi- tata in cui il sistema attuale li sostiene, visto che [tale sistema] svol- ge una pessima funzione. Potrebbe perciò trattarsi di un compro- messo ragionevole, come nel caso precedente delle opere che rap- presentano determinate persone. Se si guarda al futuro, al tempo in cui l’era delle reti informatiche sarà davvero iniziata, quando avremo superato questo stadio tran- sitorio, si può immaginare per gli autori un altro metodo per far soldi dalle proprie opere. Si pensi ad un sistema di pagamento digi- tale che consenta di ottenere denaro per il proprio lavoro. Possia- mo immaginare un sistema di pagamento digitale che permetta di inviare a qualcuno denaro attraverso Internet; ciò può essere rea-

64 lizzato in vari modi, utilizzando la crittografia, ad esempio. Si immagini che sia consentita la copia letterale di queste opere arti- stiche, ma scritte in modo che, quando le si ascolti o le si legga o le si guardi, in un angolino dello schermo appaia una finestrella che dice “Premere questo pulsante per spedire un dollaro all’au- tore”, o al musicista o a chiunque sia. Questa finestra compare e basta, non è invadente, sta nel suo angolino. Non dà fastidio, ma è lì, a ricordarvi che è una buona cosa sostenere scrittori e musi- cisti. Perciò, se l’opera che si sta leggendo o ascoltando piace, si può pensare “Perché non dare un dollaro a questa gente? È solo un dol- laro. Cosa vuoi che sia? Non mi mancherà di certo.” E così le per- sone cominceranno a spedire un dollaro. La cosa più bella di tut- to ciò è che il meccanismo renderebbe la copia un alleato di auto- ri e musicisti. Quando qualcuno ne invia a un amico una copia per email, costui potrebbe spedire un dollaro. Se l’opera piace vera- mente, si potrebbe mandare un dollaro più di una volta e questo dollaro sarebbe più di quanto gli autori guadagnano oggi quando si acquista un loro libro o CD, poiché ora ricevono solo una pic- cola parte del guadagno. Gli stessi editori che chiedono il controllo totale sul pubblico in nome di autori e musicisti, li stanno fre- gando da sempre. Vi raccomando la lettura dell’articolo di Courtney Love sulla rivi- sta online Salon, un articolo sui pirati che usano il lavoro dei musi- cisti senza pagarli. Questi pirati sono le case discografiche che pagano ai musicisti il 4% dell’ammontare delle vendite, in media. Ovviamente, i musicisti di successo hanno più potere: prendono più del 4% delle loro ampie vendite, il che vuol dire che la mag- gior parte dei musicisti con un contratto di produzione riceve meno del 4% delle loro vendite limitate.

65 Ecco come funziona: la società discografica investe in pubblicità e considera questa spesa un anticipo ai musicisti, anche se questi ultimi non vedranno mai quei soldi. Perciò, in teoria, quando si acquista un CD, parte di quel denaro dovrebbe andare ai musici- sti, ma in pratica non sarà così. In realtà andrà a rimborsare le spe- se pubblicitarie e i musicisti vedranno parte di quel denaro solo se otterranno molto successo. I musicisti, naturalmente, firmano i contratti perché sperano di essere tra i pochi fortunati ad avere un grande successo. Sostan- zialmente vengono lusingati con l’offerta di una lotteria. Anche se sono bravi, possono non essere così bravi e così sottili nel ragio- namento da accorgersi della trappola. Perciò firmano e probabil- mente quello che ottengono è solo la pubblicità. Allora, perché non facciamo loro pubblicità in modo diverso, non attraverso un sistema da complesso industriale che limita il pubblico e che ci riempie di brutta musica facile da vendere? Invece, perché non far sì che il naturale impulso dell’ascoltatore a condividere la musica preferita diventi alleato dei musicisti? Se utilizziamo il riquadro che appare sul monitor per inviare un dollaro ai musicisti, allora le reti informatiche potrebbero essere il sistema per far loro pub- blicità, la stessa pubblicità ora ottenuta tramite i contratti. Dobbiamo riconoscere che l’attuale sistema del diritto d’autore rende un cattivo servizio nel sostenere i musicisti, così come il commercio mondiale produce un cattivo servizio nell’elevare gli standard di vita nelle Filippine e in Cina. Esistono “aree impren- ditoriali” estere in cui la gente lavora per aziende che li sfrutta e tutti i prodotti sono fabbricati in aziende che sfruttano i dipen- denti. La globalizzazione è un sistema assai poco efficace per ele- vare gli standard di vita all’estero. Diciamo che per produrre qual- cosa uno statunitense viene pagato 20 dollari l’ora; per lo stesso

66 lavoro, un messicano riceve forse 6 dollari al giorno. In quest’ul- timo caso succede che a un lavoratore americano viene tolta una notevole quantità di denaro, e una piccola frazione di questa, ovve- ro una minima percentuale, viene data a un messicano mentre il resto va all’azienda. Perciò, se l’obiettivo è elevare gli standard di vita dei lavoratori messicani, ecco un modo del tutto inefficace di farlo. È interessante notare come un identico fenomeno si riscontri nel- l’industria del copyright, la stessa idea generale. Nel nome di quei lavoratori che certamente meritano qualcosa, si propongono misure che riservano loro una minima parte sostenendo invece prioritariamente il potere delle grandi società che controllano le nostre vite. Per sostituire un sistema valido, bisogna lavorare molto seriamen- te onde proporre un’alternativa migliore. Sapendo che il sistema attuale è inefficace, non è così difficile trovare un’alternativa migliore: lo standard con cui ci si confronta è oggi molto basso. Dovremmo sempre ricordare tutto ciò, quando prendiamo in con- siderazione le problematiche sulla politica del diritto d’autore. Penso di aver detto la maggior parte di quanto volevo dire. Vorrei ricordarvi che domani in Canada è il Phone-In Sick Day.5 Domani inizierà un summit mirato alla firma dell’accordo sull’a- rea di libero scambio per le Americhe, con l’intento di estendere il potere delle grandi società in altri paesi. In Quebec sono previ- ste grosse iniziative di protesta. Per bloccarle sono stati impiegati metodi estremi. A molti americani viene impedito l’ingresso in Canada attraverso quel medesimo confine che è loro permesso oltrepassare in ogni altro momento. Con la più debole delle scu-

5 20 aprile 2001; iniziativa nazionale di protesta, in cui tutti i dipendenti prendono un giorno di malattia dal lavoro.

67 se, intorno al centro di Quebec è stata costruita una fortezza onde impedire l’accesso ai dimostranti. Abbiamo visto utilizzare molti sporchi trucchi contro la manifestazione pubblica di protesta rispetto a questi trattati. Qualsiasi democrazia ci sia rimasta, dopo aver tolto i poteri di governo ai governatori democraticamente eletti per darli ad aziende e organismi internazionali non eletti, qualsiasi cosa rimanga dopo tutto questo, potrebbe non sopravvi- vere alla repressione delle proteste pubbliche. Ho dedicato 17 anni della mia vita a lavorare per il software libe- ro e le annesse questioni. Non l’ho fatto perché penso che questo sia il problema politico più importante al mondo. L’ho fatto per- ché ho ritenuto che fosse il settore in cui dovevo usare la mia com- petenza per fare del bene. Ma è successo che gli aspetti generali della politica sono mutati e il maggior problema politico attuale è contrastare la tendenza a dare potere all’imprenditoria nei con- fronti del pubblico e dei governi. Io considero il software libero e i problemi correlati agli altri aspetti dell’informazione che ho discusso oggi, come parte del problema principale. Perciò mi sono trovato a lavorare indirettamente su tale questione. Spero di poter dare il mio contributo a questa causa.

Sessione di domande e risposte David Thorburn: Tra poco il pubblico potrà fare domande e com- menti. Ma permettetemi di replicare brevemente. Mi sembra che il consiglio pratico più incisivo ed importante che Stallman ci dà abbia due elementi chiave. Uno è riconoscere che i vecchi pre- supposti ed usi del diritto d’autore sono inappropriati: vengono messi in discussione e delegittimati dall’avvento del computer e delle reti informatiche. Può sembrare ovvio, ma è fondamentale. L’altro è riconoscere che l’era digitale esige che si riconsideri il

68 modo in cui distinguiamo e valutiamo le diverse tipologie di lavo- ro intellettuale e creativo. Stallman ha sicuramente ragione sul fat- to che certi tipi di imprese intellettuali abbiano bisogno più di altre di essere protette dal copyright. Cercare di individuare siste- maticamente questi diversi tipi o livelli di protezione del diritto d’autore mi sembra un modo efficace di affrontare i problemi rela- tivi al lavoro intellettuale posti dall’avvento del computer. Ma penso di intravedere un altro tema che sta dietro a quanto ha affermato Stallman e che non riguarda direttamente i computer, ma più ampiamente le istituzioni democratiche e il potere che il governo e le aziende esercitano in misura sempre maggiore sulla nostra vita. Questo aspetto populista e anti-monopolista del discorso di Stallman è interessante ma anche riduttivo e poten- zialmente semplicistico. Ed è forse anche eccessivamente idealista. Per esempio, come potrebbe sopravvivere un romanziere o un poe- ta o un autore di canzoni o un musicista o un autore di testi acca- demici in un mondo meraviglioso in cui le persone siano inco- raggiate a pagare gli autori, ma non siano obbligate a farlo? In altre parole, mi sembra che la differenza tra la pratica attuale e le pos- sibilità visionarie su cui specula Stallman sia ancora enorme. Concludo chiedendo a Stallman di approfondire maggiormente alcuni aspetti del suo intervento, e in particolare di ampliare i con- cetti sul modo in cui potrebbero essere tutelati dal suo sistema di copyright quelli che noi chiamiamo “creatori tradizionali”.

Richard M. Stallman: Prima di tutto, devo far notare che non dovremmo utilizzare il termine “protezione” per descrivere le incombenze del diritto d’autore. Il diritto d’autore limita le per- sone. “Protezione” è un termine di propaganda per le aziende che detengono il copyright. Tale termine significa impedire la distru-

69 zione di qualcosa. Be’, non credo che una canzone venga distrut- ta se ne esistono più copie suonate più volte. Non penso nemme- no che un romanzo si distrugga se più persone ne leggono una copia. Perciò non userei quel termine. Penso che porti ad identi- ficarsi con la parte sbagliata. Inoltre, pensare in termini di proprietà intellettuale è una cattiva idea per due motivi: in primo luogo perché pregiudica la doman- da cruciale in questo campo, che è: in che modo dovrebbero esse- re trattate queste cose? Dovrebbero essere trattate o meno come qualche tipo di proprietà? Utilizzare il termine “proprietà intel- lettuale” per descrivere quest’ambito significa presupporre che la risposta alla seconda domanda sia “sì”, che è questo, e non un altro, il modo in cui la questione va considerata. In secondo luogo, incoraggia una iper-generalizzazione. La pro- prietà intellettuale è un concetto onnicomprensivo per parecchi sistemi legali diversi tra loro con origini indipendenti, come per esempio diritti d’autore, brevetti, marchi registrati, segreti indu- striali e altro. Sono quasi completamente diversi tra loro, non han- no nulla in comune. Ma l’uso del termine “proprietà intellettua- le” porta la gente a pensare erroneamente che esista un principio generale di proprietà intellettuale da applicare a settori specifici, presupponendo così che questi diversi campi di applicabilità del- la legge siano simili. Ciò porta non solo a pensare in modo con- fuso su quel che sia giusto fare, ma conduce anche alla mancata comprensione di cosa dica realmente la legge, perché si suppone che la legge sul copyright e la legge sui brevetti e la legge sui mar- chi registrati siano simili, mentre invece, di fatto, sono completa- mente diverse. Se si vuole incoraggiare un’attenta riflessione e una corretta com- prensione di quanto dice la legge, evitiamo il termine “proprietà

70 intellettuale”. Si parli di diritto d’autore, o di brevetti, o di mar- chi registrati o di qualsiasi altro argomento si voglia. Ma non si parli di proprietà intellettuale. Sarebbe assurdo avere un’opinione sulla proprietà intellettuale. Non ho un’opinione sulla proprietà intellettuale, ma ho opinioni sul diritto d’autore, sui brevetti e sui marchi registrati, e sono diverse. Ci sono arrivato attraverso pro- cessi di pensiero diversi perché questi sistemi legali sono comple- tamente diversi tra loro. Ho fatto una digressione, ma era estremamente importante. Adesso arrivo al dunque. Naturalmente ora non possiamo sapere se funzionerà bene, se funzionerà chiedere agli utenti di pagare volontariamente autori e musicisti preferiti. Una cosa ovvia è che tale sistema funzionerà proporzionalmente al numero di persone che utilizzeranno la rete e quel numero, si sa, aumenterà di vari ordini di grandezza nei prossimi anni. Se lo provassimo oggi, potrebbe fallire, ma questo non proverebbe nulla, perché potreb- be funzionare se il numero delle persone paganti fosse dieci volte maggiore. L’altra è che non abbiamo ancora a disposizione un tale sistema digitale di pagamento in contanti, quindi oggi non siamo in gra- do di metterlo alla prova. Possiamo provare a fare qualcosa di simi- le. Esistono servizi tramite i quali è possibile pagare qualcuno, cose come Pay Pal. Ma prima di poterlo fare, si devono affrontare un mucchio di formalità e fornire i propri dati personali. E vengono effettuate registrazioni sui destinatari dei pagamenti. Ci si può fidare che non se ne abusi? Non è il dollaro da pagare che potrebbe scoraggiare, ma i pro- blemi connessi alle modalità di pagamento. L’idea generale è che quando si vuole pagare qualcuno, dovrebbe essere facilissimo e non dovrebbe esserci nulla che lo sconsigli se non la somma stes-

71 sa di denaro. E se la somma è abbastanza piccola, perché dovreb- be scoraggiare? Sappiamo comunque che i fan amano davvero i musicisti e sappiamo che alcuni gruppi musicali che avevano ed hanno un certo successo, come i Grateful Dead, hanno inco- raggiato i propri fan a copiare e ridistribuirne la musica. Non hanno avuto problemi a guadagnarsi da vivere con la loro musi- ca per aver incoraggiato i fan a registrarla e a copiare le casset- te. Ciò non ha neppure provocato riduzioni nella vendita di dischi. Stiamo gradualmente passando dall’epoca della stampa all’era delle reti informatiche, ma ciò non può accadere in un giorno. La gente continua ad acquistare molti dischi, e probabilmente continuerà a farlo per molti anni ancora, forse per sempre. Fin- ché si andrà avanti in questo modo, continuare semplicemente ad applicare i diritti d’autore alla vendita commerciale di dischi dovrebbe sostenere i musicisti quasi altrettanto bene di oggi. Naturalmente, il sistema non è del tutto soddisfacente, ma alme- no non sarà peggiore. Domanda: [Un commento e una domanda riguardo la libertà di download e il tentativo di Stephen King di vendere uno dei suoi racconti a puntate sul web.] Stallman: Si, è interessante sapere quello che ha fatto e cosa è acca- duto. Quando ne sentii parlare la prima volta ero euforico. Pen- savo, forse sta per fare un passo verso un mondo non basato sulla volontà di tenere il pubblico in pugno. Poi ho visto che in realtà scriveva per chiedere al pubblico di pagare. Per spiegare cosa ha fatto, stava pubblicando un racconto a puntate, a rate, e diceva: “se otterrò abbastanza denaro, ne scriverò ancora”. Una richiesta che ben difficilmente poteva considerarsi tale. Era una minaccia

72 contro il lettore. Diceva: “se non pagate siete cattivi, e se ci sono troppi fra voi che si comportano male, semplicemente smetterò di scrivere”. Be’, chiaramente questo non è il modo di far sentire il pubblico invogliato a mandarti dei soldi. Devi far sì che ti amino, non che ti temano. Stessa persona del pubblico: I dettagli sono che chiese ad una certa percentuale di persone – non so esattamente, probabilmente intorno al 90% – d’inviare una certa quantità di denaro, che, cre- do, fosse di un dollaro o due o qualcosa di quest’ordine di gran- dezza. Per scaricare il racconto bisognava fornire il proprio nome, l’indirizzo e-mail e alcune altre informazioni, e se la percentuale non fosse stata raggiunta dopo il primo capitolo, King disse che non avrebbe diffuso il capitolo successivo. Era molto antagonisti- co nei confronti di quanti scaricavano il testo. Domanda: Lo schema in cui non esiste diritto d’autore ma alle per- sone è richiesto di fare donazioni volontarie, non è aperto all’a- buso da parte dei plagiari? Stallman: No. Non è quello che ho proposto. Ricordate, sto pro- ponendo l’esistenza di un diritto d’autore che copra la distribu- zione commerciale e permetta solo la redistribuzione letterale non commerciale. Così chiunque abbia modificato un’opera per met- tere un puntatore al proprio sito invece che a quello dell’autore reale, continuerebbe a violare il diritto d’autore e potrebbe essere citato in giudizio esattamente come avviene oggi. Domanda: Capisco. Quindi immagini comunque un mondo in cui esista sempre il copyright? Stallman: Si. Come ho detto, per questo tipo di opere. Non sosten-

73 go che dovrebbe essere permesso tutto. Sto proponendo di dimi- nuire i poteri del diritto d’autore, non di abolirli. Thorburn: Una domanda che mi è venuta in mente mentre stavi parlando, Richard, e di nuovo adesso che stavi rispondendo a que- sta domanda, è perché non consideri i modi con cui il computer può eliminare completamente l’intermediario – e che Stephen King si è rifiutato di usare – per stabilire così una relazione per- sonale. Stallman: Certo, possono farlo, e infatti la donazione volontaria è uno di questi modi. Thorburn: Pensi davvero che questa modalità non debba passare affatto tramite un editore? Stallman: Assolutamente no. Spero di no, perché gli editori sfrut- tano gli autori in maniera terribile. Quando chiedi qualcosa ai rap- presentanti degli editori su questo, loro dicono: “Be’, sì, se un autore o un gruppo non vogliono passare attraverso di noi, non gli viene legalmente richiesto di farlo”. Ma in realtà operano al meglio per fare in modo che ciò non sia fattibile. Ad esempio, stan- no proponendo dei formati multimediali con restrizioni sulla copia, e per poter pubblicare in tali formati devi passare per i gran- di editori perché non spiegano a nessuno come farlo. Sperano in un mondo in cui tutti i riproduttori utilizzino questi formati e per poter ottenere qualcosa da riprodurre sarà necessario passare dagli editori. Così, anche senza nessuna legge che impedisca ad un auto- re o un musicista di pubblicare direttamente un’opera, la cosa non sarebbe fattibile. C’è poi anche il richiamo di una possibile ric- chezza. Dicono: “Ti faremo pubblicità e forse diventerai ricco come i Beatles” (o qualsiasi altro gruppo a scelta). Naturalmente

74 solo a un numero minimo di musicisti potrà accadere quello che è successo a loro. Ma ciò potrebbe indurli a firmare un contratto che li imprigionerebbe per sempre. Gli editori tendono ad essere molto scorretti nel rispetto dei con- tratti con gli autori. Per esempio, di solito i contratti dei libri sta- biliscono che se un libro è esaurito i diritti tornano all’autore, e gli editori non riescono a convivere bene con questa clausola. Spesso bisogna costringerli a farlo. Be’, adesso stanno cominciando ad usare le pubblicazioni elettroniche per dire che non si può esauri- re un’edizione; così non dovranno mai restituire i diritti. La loro idea è: quando l’autore non ha voce in capitolo, spingerlo a fir- mare, e da allora non avrà più potere; il potere rimane solo all’e- ditore. Domanda: Sarebbe bene avere delle licenze libere per diverse tipi di opere che salvaguardino la libertà di tutti gli utenti di copiarle nella maniera più appropriata per quel tipo di opera? Stallman: Be’, qualcuno sta lavorando. Ma per opere non fun- zionali, una cosa non sostituisce l’altra. Prendiamo un’opera di tipo funzionale, diciamo un elaboratore di testi. Bene, se qual- cuno realizza un elaboratore di testi libero, lo si può usare, non serve l’elaboratore di testi non libero. Ma non direi che una can- zone libera possa sostituire tutte le canzoni non libere, o che un racconto libero possa sostituire tutti i racconti non liberi. Per questo tipo di opere le cose sono diverse. Penso perciò che dob- biamo semplicemente riconoscere come queste leggi non meri- tino di essere rispettate. Non è sbagliato condividere qualcosa con il vicino, e se qualcuno dice che non puoi farlo, non biso- gna dargli retta. Domanda: A proposito delle opere funzionali, come si bilancia l’e-

75 sigenza di abolire il copyright con l’esigenza di incentivi econo- mici per favorire lo sviluppo di queste opere funzionali? Stallman: Possiamo notare che, prima di tutto, questi incentivi economici sono molto meno necessari di quanto si fosse sup- posto. Basta guardare al movimento del software libero in cui abbiamo più di 100.000 volontari a tempo ridotto che svilup- pano software libero. Dunque esistono altri modi per racco- gliere fondi, non sono basati sull’impedire al pubblico di copia- re e modificare queste opere. Questa è l’interessante lezione data dal movimento del software libero. A parte il fatto che offre un modo per utilizzare il computer mantenendo la libertà di con- dividere e cooperare con altri, ci mostra anche che è semplice- mente sbagliato presupporre che la gente non farebbe mai cose simili senza dare loro poteri speciali per costringere gli altri a pagarli. Molta gente è disposta a fare queste cose. Inoltre, con- siderando ad esempio la stesura di monografie che servono come libri di testo in molti campi scientifici, tranne per quelle piuttosto basilari, ci si accorge che in questo modo gli autori non guadagnano nulla. Abbiamo un progetto di enciclopedia libera che è, di fatto, un progetto commerciale di enciclopedia libera, e sta facendo progressi. Avevamo un progetto per una enciclopedia GNU, ma ci siamo uniti a quello commerciale quan- do hanno adottato la nostra licenza. In gennaio sono passati alla Licenza per Documentazione Libera GNU per tutti gli articoli di quell’enciclopedia. Così abbiamo detto, “Bene, uniamo le nostre forze e invitiamo la gente a contribuire”. Si chiama NUPEDIA, e ne trovate il link all’indirizzo http://www.gnu.org/encyclope- dia. Così abbiamo esteso lo sviluppo comunitario di una base libera di conoscenze utili dal software all’enciclopedia. Sono piuttosto fiducioso che in tutte queste aree del lavoro funzio-

76 nale non serva un incentivo economico fino al punto di dover rivedere l’uso di queste opere. Thorburn: E a proposito delle altre due categorie [le opinioni di un autore e l’intrattenimento]? Stallman: Per le altre due categorie di opere, non saprei come fare. Non so se un giorno si scriveranno romanzi senza preoccuparsi se ci si faranno dei soldi o meno. In una società del dopo-scarsità, cre- do si preoccuperanno. Forse quello che dobbiamo fare per poter rag- giungere una società del dopo-scarsità è liberarci dal controllo del- le corporation sull’economia e sulle leggi. Così in effetti si tratta del problema dell’uovo e della gallina. Cosa facciamo prima? Come pos- siamo ottenere un mondo dove le persone non debbano disperata- mente rincorrere il denaro se non eliminando il controllo delle cor- poration? E come possiamo rimuovere tale controllo? Non lo so, ma ecco perché sto tentando di proporre prima un sistema di copyri- ght di compromesso e, successivamente, il pagamento volontario sulla base di un tale sistema di compromesso come modo per pro- curare un reddito a chi scrive queste opere. Domanda: Come ti aspetti in pratica di realizzare questo sistema di diritto d’autore di compromesso sotto la stretta soffocante degli interessi delle corporation sui politici americani, dovuti al sistema di finanziamento delle campagne elettorali? Stallman: Non saprei. Vorrei saperlo. È un problema terribilmen- te difficile. Se sapessi come risolvere questo problema, lo risolve- rei e niente al mondo mi renderebbe più fiero. Domanda: Come si può lottare contro il controllo delle corpora- tion? Perché, se consideriamo le somme di denaro attivato dalle lobby aziendali nelle cause processuali, è enorme. Credo che il caso

77 del DeCSS (Decryption of Contents Scrambling System) di cui stai parlando, stia costando qualcosa come un milione e mezzo di dollari alla difesa. Dio sa quanto stia costando alle corporation. Hai una qualche idea di come avere a che fare con queste enormi somme di denaro? Stallman: Ho una proposta. Se suggerissi di boicottare totalmen- te i film, credo che la gente lo ignorerebbe. Lo considererebbero troppo radicale. Perciò vorrei offrire un suggerimento leggermen- te diverso, ma che, alla fine, arriva quasi allo stesso risultato, e cioè: non andate a vedere un film a meno che non abbiate un valido motivo per pensare che è bello. Questo condurrà in pratica allo stesso risultato di boicottare total- mente i film di Hollywood. Per estensione è quasi identico, ma nelle intenzioni è molto diverso. Mi sono reso conto che molta gente va al cinema per ragioni che non hanno nulla a che fare con il fatto di ritenere valido quel film. Se cambiamo le nostre abitu- dini, se si va a vedere un film solo quando si ha qualche sostan- ziale ragione per pensare che sia valido, si toglierà loro un sacco di soldi. Thorburn: Una maniera per capire tutto questo discorso, pen- so, è riconoscere che quando una qualunque tecnologia radica- le e potenzialmente rivoluzionaria fa la sua comparsa nella società, si crea uno scontro su chi la controlla. Oggi stiamo ripe- tendo quello che è avvenuto in passato. Perciò da questo pun- to di vista può darsi che non ci sia motivo di disperare, o anche solo di essere pessimisti, su quanto avverrà nel lungo periodo. Ma a breve termine la lotta per il controllo dei testi e delle immagini, su tutte le altre forme di informazione, sarà proba- bilmente dolorosa e pervasiva. Per esempio, come insegnante di

78 tecnologie della comunicazione il mio accesso alle immagini è stato di recente limitato in una maniera mai vista prima. Se scri- vo un saggio in cui voglio utilizzare immagini, tratte anche da film, è diventato molto più difficile ottenere il permesso di uti- lizzarle, e i prezzi richiesti per usarle sono molto più elevati – anche quando sostengo argomenti quali la ricerca intellettuale e la categoria legale dell’uso legittimo (“fair use”). Per questo ritengo che, in un momento di diffuse trasformazioni, le pro- spettive di lungo periodo possano non essere così sconvolgenti come quanto accade a breve termine. Ma in ogni caso dobbia- mo comprendere che l’insieme della nostra esperienza contem- poranea è una versione rinnovata dello scontro per il controllo delle risorse tecnologiche che è un principio ricorrente della società occidentale. È anche essenziale capire che la storia delle tecnologie più anti- che è di per sé una materia complessa. L’impatto della stampa in Spagna, per esempio, è radicalmente diverso dall’impatto avuto in Inghilterra o in Francia. Domanda: Una delle cose che mi sconcerta nelle discussioni sul diritto d’autore è che spesso si comincia con: “Vogliamo un cambiamento totale. Vogliamo sbarazzarci di ogni tipo di con- trollo”. Mi pare che a monte della suddivisione nelle tre cate- gorie suggerite ci sia il riconoscimento che il copyright abbia qualche senso. Alcuni critici dell’attuale sistema del diritto d’au- tore credono che in effetti bisognerebbe sostenerlo e farlo fun- zionare in modo molto più simile a brevetti e marchi registrati per quanto riguarda la sua durata. Vorrei che il nostro ospite commentasse questa strategia. Stallman: Concordo sul fatto che abbreviare la durata del dirit-

79 to d’autore sia una buona idea. Non c’è assolutamente bisogno, per quanto riguarda l’incoraggiamento alla pubblicazione, del- la possibilità che i diritti d’autore durino fino a 150 anni, cosa possibile in alcuni casi con le attuali legislazioni. Ora, le azien- de sostenevano che un diritto d’autore di 75 anni su un’opera da loro pagata non fosse abbastanza lungo per renderne possi- bile la produzione. Vorrei sfidare queste aziende a presentare proiezioni di bilancio per i prossimi 75 anni a partire da ora, onde validare una simile affermazione. Quel che volevano dav- vero era semplicemente poter estendere il copyright sulle vec- chie opere, in modo da poter continuare a restringerne l’utiliz- zo. Sinceramente mi sfugge come si possa incoraggiare una mag- giore produzione di opere prodotte negli anni Venti estenden- do oggi il diritto d’autore, a meno che tali aziende non abbia- no una macchina del tempo da qualche parte. Certamente in uno dei loro film avevano una macchina del tempo. Quindi for- se è questo che li ha influenzati. Domanda: Hai mai pensato di estendere il concetto di “uso legit- timo”, e potresti chiarircene qualche sfumatura? Stallman: L’idea di dare a tutti il permesso di fare copie integrali per usi non commerciali, per due dei tre tipi di opere, certamen- te potrebbe essere intesa come un’estensione dell’uso legittimo (“fair use”). È un concetto più ampio dell’attuale. Se l’idea è che il pubblico rinunci a certe libertà per avere più progresso, allora si può segnare il confine in vari punti diversi: quali libertà il pub- blico abbandona e quali libertà mantiene? Domanda: Per ampliare un attimo la discussione, in certi campi dello spettacolo esiste il concetto di rappresentazione pubblica. Così, ad esempio, il diritto d’autore non ci impedisce di cantare i

80 canti natalizi al momento opportuno, ma impedisce la loro ese- cuzione in pubblico. E mi chiedo se non sarebbe utile espandere l’uso legittimo, anziché alla copia letterale e non commerciale sen- za limiti, a qualcosa di più restrittivo ma comunque più ampio del concetto attuale di “fair use”. Stallman: Prima pensavo che ciò sarebbe stato sufficiente, ma poi Napster mi ha convinto del contrario, perché gli utenti lo usano per una ridistribuzione letterale non commerciale. Il server di Napster, in sé, è un’attività commerciale, ma chi mette a disposi- zione il materiale lo fa senza scopo di lucro, ed avrebbe potuto altrettanto facilmente metterlo a disposizione sui propri siti web. L’incredibile eccitazione, interesse e utilizzo di Napster ne dimo- stra la grande utilità. Perciò ora sono convinto che si debba avere il diritto a copie ridistribuite, non commerciali e letterali di qual- siasi cosa. Domanda: Un’analogia suggeritami recentemente dall’intera vicenda di Napster è quella di una biblioteca pubblica. Credo che quanti abbiano seguito le discussioni su Napster devono averla già sentita. Vorrei che la commentassi. A volte, quanti difendono la posizione secondo cui Napster dovrebbe conti- nuare senza restrizioni, sostengono qualcosa del tipo: “Quando si va in una biblioteca pubblica e si prende in prestito un libro, non lo si paga, e lo si può prendere in prestito decine, centinaia di volte, senza alcun pagamento aggiuntivo. Perché Napster sarebbe diverso?” Stallman: Non è esattamente la stessa cosa. Ma bisogna sottoli- neare che gli editori vogliono trasformare le biblioteche pubbliche in negozi “pay-per-use”. Quindi sono contro le biblioteche pub- bliche.

81 Domanda: Queste idee sul copyright potrebbero suggerire nuove soluzioni per certe questioni relative alle leggi sui brevetti, come la produzione di farmaci generici a basso costo da usare in Africa? Stallman: No, sono due cose completamente diverse. Le que- stioni sui brevetti sono completamente diverse da quelle sul diritto d’autore. L’idea che abbiano qualcosa in comune è una delle spiacevoli conseguenze dell’uso del termine “proprietà intellettuale”, e della pressione a tentare di trattare alla stessa stregua queste questioni, perché, come avete sentito, finora ho parlato di questioni in cui il prezzo della copia non è l’elemen- to centrale. Ma qual è la questione cruciale a proposito della produzione di farmaci per l’AIDS da usare in Africa? È il prez- zo, null’altro che il prezzo. Qui spunta fuori la questione di cui parlavo, perché la tecno- logia dell’informazione digitale offre a ogni utente la possibi- lità di fare copie. Insomma, nulla può dare a tutti la capacità di copiare dei medicinali. Io non sono capace di copiare un medicinale che ho. E nessuno è capace; i medicinali non si fan- no così. Quei medicinali si possono fare solo in grandi indu- strie e in effetti sono tutti prodotti in costose società centra- lizzate, sia i farmaci generici sia quelli importati dagli Stati Uni- ti. In ogni caso, sono destinati ad essere prodotti in un picco- lo numero di aziende, e la questione è semplicemente quanto costino e se siano disponibili ad un prezzo che gli africani pos- sano permettersi. Si tratta perciò di una questione terribilmente importante, ma completamente diversa. Esiste un’unica area in cui emerge un problema con i brevetti che in effetti è simile alle questioni con- cernenti la libertà di copia, cioè il settore dell’agricoltura. Poi- ché in effetti ci sono delle cose brevettate che possono essere

82 copie, più o meno, e sono gli esseri viventi. Si copiano quando si riproducono. Non è necessariamente una copia esatta, c’è un rimescolamento di geni. Ma il fatto è che da millenni i conta- dini sfruttano la capacità di autocopiarsi degli organismi viven- ti che coltivano. L’agricoltura consiste, essenzialmente, nel copiare le cose che si sono coltivate e continuare a copiarle ogni anno. Quando varietà vegetali e animali vengono brevettate, quando dei geni vengono brevettati e utilizzati tra loro, il risul- tato è che i contadini non possono più comportarsi come han- no sempre fatto. Un contadino canadese aveva una varietà brevettata che cresce- va nel suo campo, e spiegò: “Non l’ho fatto apposta. Il polline è stato trascinato dal vento, e i geni di quel polline sono entra- ti nel mio assortimento di piante”. Gli è stato risposto che ciò non importava: doveva distruggerle in ogni caso. È un caso limi- te di quanto il governo possa appoggiare un monopolista. Quindi credo che, seguendo gli stessi principi che applico alla copia di cose sul computer, gli agricoltori dovrebbero avere l’in- discutibile diritto di mettere da parte i semi e di fare incroci con il bestiame. Ci potrebbero forse essere brevetti che proteggano i produttori di semi, ma non dovrebbero comunque influenza- re l’operato dei contadini. Domanda: Perché un modello abbia successo serve ben più di una licenza. Puoi parlarcene? Stallman: Certo. Ecco, non è che possa trovare tutte le risposte giuste. Ma credo che l’idealismo abbia una parte essenziale nello sviluppo di un’informazione libera e funzionale. Occorre capire l’importanza di mantenere libera l’informazione, solo quando è libera se ne può fare pieno uso: quando è limitata, è impossibile

83 farlo. Bisogna riconoscere che l’informazione non libera è un ten- tativo di dividerci, tenerci impotenti e sottometterci. Allora si potrà afferrare il concetto: “Lavoriamo insieme per produrre l’informazione che vogliamo usare, in modo che non sia sotto il controllo di qualche persona potente che ci ordini cosa possiamo farne”. Ciò offre una tremenda spinta [allo sviluppo della comu- nità del software libero]. Non so quanto potrebbe funzionare in aree diverse, ma credo sia possibile farlo concretamente nel cam- po dell’istruzione, quando si cercano libri di testo. Ci sono tan- tissimi insegnanti al mondo, docenti che non lavorano in univer- sità prestigiose (magari insegnano alle superiori, o al college) dove non scrivono né pubblicano un sacco di cose e non sono molto ricercati. Ma molti di loro sono brillanti. Molti conoscono bene le loro materie e potrebbero scrivere libri di testo per molte discipline, condividerli con il mondo intero e ricevere molti apprezzamenti da chi avrà imparato da loro. Domanda: È quanto avevo proposto. Ma, per combinazione, conosco la storia dell’istruzione. È il mio lavoro: progetti educa- tivi, elettronici, multimediali. E non sono riuscito a trovare nep- pure un esempio di questo tipo. Tu ne conosci qualcuno? Stallman: No. Ho cominciato a proporre questa enciclopedia e a seguire le risorse per l’apprendimento libero un paio di anni fa, e credevo che ci sarebbero voluti una decina d’anni perché la cosa cominciasse a funzionare. Invece già adesso abbiamo un’enciclo- pedia che funziona. Quindi le cose stanno andando più velocemente di quanto spe- rassi. Credo che ci serva qualcuno che cominci a scrivere dei libri di testo liberi.

84 Scrivetene uno sulla vostra materia preferita, o scrivetene una par- te. Scrivetene alcuni capitoli e sollecitate altri a finirlo. Domanda: Veramente cercavo qualcosa di più. Quello che conta in quest’ambiente è qualcuno che crei un’infrastruttura a cui chiunque altro possa contribuire. Non c’è da nessuna parte un’in- frastruttura a livello di scuola di base a cui contribuire per questo tipo di materiali. Le informazioni si possono ottenere da molti posti, ma non sono fornite sotto licenze libere, quindi non si pos- sono usare per fare un libro di testo libero. Stallman: Veramente non esiste un copyright sulle informazioni in sé. Il diritto d’autore copre il modo in cui un’informazione è scritta. Quindi si può imparare una materia da qualsiasi parte e poi scrivere un libro di testo, e poi rendere quel libro di testo libe- ro, se si vuole. Domanda: Ma non posso scrivere da solo tutti i libri di testo di cui uno studente ha bisogno nella sua carriera scolastica. Stallman: Certo, è vero. Ma anch’io non ho scritto un intero sistema operativo libero. Ho scritto qualche pezzo e invitato altri ad unirsi e scrivere altri pezzi. Quindi, ho solo dato l’e- sempio. Ho detto: “Vado in questa direzione. Unitevi a me e raggiungeremo l’obiettivo”. E si è unita abbastanza gente fin- ché siamo riusciti a raggiungerlo. Può essere scoraggiante pen- sare in termini di “Come farò da solo a finire quest’immenso lavoro?”. Quindi il punto è: non considerarlo in questo modo, ma pensa a fare il primo passo e ti accorgerai che dopo averlo fatto, altri faranno nuovi passi e, insieme, alla fine il progetto sarà portato a termine. Supponendo che l’umanità non si spazzi via da sola, il lavoro

85 che facciamo oggi per produrre l’infrastruttura educativa libe- ra, la risorsa libera di apprendimento per il mondo, sarà utile finché esisterà l’umanità. Anche se ci volessero vent’anni per farla, cosa importa? Non bisogna pensare alle dimensioni dell’intero lavoro, ma alle dimensioni della parte che si vuol fare. Ciò dimostrerà a tutti che è possibile crearla, e così altri faranno altre parti.

Questa è la trascrizione riveduta di un intervento tenuto durante il Com- munications Forum svoltosi al MIT il 19 aprile 2001, e fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

86 Software libero: libertà e cooperazione

Introduzione Mike Uretsky: Sono Mike Uretsky della Stern School of Busi- ness. Sono anche uno dei condirettori del Center for Advanced Technology. E a nome di tutti noi del Dipartimento d’infor- matica, sono qui a darvi il benvenuto. Vorrei fare alcuni com- menti, prima di passare il microfono a Ed, che introdurrà il nostro relatore. Il ruolo di una università è quello di stimolare il dibattito e pro- porre discussioni interessanti. E il ruolo di una grande univer- sità è quello di proporre discussioni particolarmente interes- santi. E questa specifica presentazione, questo seminario rien- tra in questa categoria. Trovo particolarmente interessanti le discussioni sull’open source. In un certo senso.... [il pubblico ride] Richard M. Stallman: Io faccio software libero. L’open source è un movimento diverso. [il pubblico ride] [applausi] Mike Uretsky: Quando negli anni ‘60 sono entrato per la prima volta in questo campo, praticamente il software era libero. E si andava avanti seguendo dei cicli. Diventò libero, e poi i pro- duttori di software, per la necessità di espandere il mercato, lo spinsero in altre direzioni. Gran parte dello sviluppo che ebbe

87 luogo con l’arrivo del PC seguì esattamente il medesimo tipo di ciclo. C’è un filosofo francese molto interessante, Pierre Levy, che par- la del movimento in questa direzione e del passaggio al cyber- spazio non soltanto in quanto connesso alla tecnologia ma anche alla ristrutturazione sociale, alla ristrutturazione politica, tramite un cambiamento nel tipo di relazioni che miglioreran- no il benessere dell’umanità. Speriamo che questo dibattito rap- presenti un movimento in tale direzione, che questo dibattito sia qualcosa che tagli attraverso le molte discipline che normal- mente agiscono in solitudine all’interno dell’Università. Confi- diamo in una discussione molto interessante. Ed? Ed Schonberg: Sono Ed Schonberg del Dipartimento d’informati- ca presso il Courant Institute. Dò a tutti voi il benvenuto a que- st’evento. In genere, e particolarmente qui, chi fa l’introduzione è un aspetto inutile delle presentazioni pubbliche, ma in questo caso in realtà presenta una qualche utilità, come Mike ha facilmente dimostrato, perché un commento inaccurato di chi fa l’introdu- zione, ad esempio, può consentire [al relatore] di raddrizzare e cor- reggere, [il pubblico ride] per rifinire in maniera considerevole i parametri del dibattito. Consentitemi perciò di fare la più breve introduzione possibile a una persona che non ne ha bisogno. Richard è il perfetto esem- pio di qualcuno che, agendo a livello locale, ha iniziato a pen- sare a livello globale – a partire, parecchi anni fa, dai problemi concernenti l’indisponibilità del codice sorgente dei driver del- la stampante al laboratorio di intelligenza artificiale del MIT. Egli ha messo a punto una filosofia coerente che ha costretto tutti noi a riesaminare le nostre idee su come viene prodotto il software, su cosa significa proprietà intellettuale, e su cosa rap-

88 presenta in concreto la comunità del software. Diamo il benve- nuto a Richard Stallman. [applausi]

Software libero: libertà e cooperazione Richard M. Stallman: Qualcuno può prestarmi un orologio? [il pubblico ride] Grazie. Vorrei ringraziare Microsoft per avermi for- nito l’opportunità [il pubblico ride] di essere su questo podio. Nel- le ultime settimane mi sono sentito come un autore il cui libro è stato fortuitamente vietato da qualche parte.1 [il pubblico ride] Eccetto per il fatto che tutti gli articoli sulla vicenda riportano in maniera errata il nome dell’autore, perché Microsoft descrive la GNU GPL come una licenza open source, e lo stesso ha fatto gran parte della stampa. La maggior parte della gente, ovviamente altrettanto in buona fede, non si rende conto che il nostro lavoro non ha nulla a che fare con l’open source, che anzi abbiamo svol- to la maggior parte di tale lavoro prima che il termine “open sour- ce” venisse perfino coniato. Noi facciamo parte del movimento del software libero, e mi accin- go a parlare su cosa sia il movimento del software libero, cosa signi- fichi, quanto abbiamo fatto e, poichè quest’evento è in parte spon- sorizzato da una School of Business, dirò qualcosa, più di quanto sia solito fare, sulla relazione tra software libero e imprenditoria, e su altri ambiti della vita sociale. Ora, alcuni di voi non scriveranno mai programmi informatici, ma forse cucinate. E se cucinate, a meno che non siate davvero bravi, probabilmente userete delle ricette. E se usate delle ricette, è probabile abbiate sperimentato di ricevere la copia di una ricet- ta da un amico che voglia condividerla. E probabilmente avrete

1 Meno di un mese prima, il vicepresidente di Microsoft, Craig Mundie, aveva tenuto un intervento in cui attaccava il software libero (definendolo “open source”).

89 anche sperimentato, a meno che non siate dei completi neofiti, l’atto di modificare una ricetta. Questa dice certe cose, ma non dovete seguirla in maniera esatta. Se ne può omettere qualche ingrediente. Aggiungervi dei funghi perché vi piacciono. Metter- ci meno sale perché il medico vi ha consigliato di ridurre il sale – o quant’altro. Si possono anche apportare cambiamenti sostan- ziali, a seconda delle capacità individuali. E se avete modificato qualcosa in una ricetta, e la preparate per degli amici, e a loro pia- ce, un amico potrebbe dire, “Puoi darmi la ricetta?” E allora cosa fate? Scrivete la vostra versione modificata della ricetta e ne date una copia all’amico. Questa è la cosa naturale da fare con ricette utili e funzionali di ogni tipo. Una ricetta assomiglia molto a un programma informatico. E un programma informatico è assai simile a una ricetta: una serie di passaggi per arrivare al risultato che ci si è prefissi. Perciò è altret- tanto naturale fare la stessa cosa con i programmi informatici – passarne una copia agli amici. E apportarvi delle modifiche, per- ché il lavoro per cui era stato scritto non è esattamente quanto vogliamo. Ha fatto un buon lavoro per qualcun altro, ma il nostro lavoro è diverso. E, dopo averlo modificato, è probabile possa tor- nare utile ad altri. Forse costoro devono fare un lavoro simile al nostro. Così ci chiederanno, “Posso averne una copia?” Natural- mente, se vogliamo essere gentili, gliene diamo una copia. È così che si comporta una persona decente. Immaginiamo allora cosa accadrebbe se le ricette venissero impacchettate dentro scatole nere. Non se ne potrebbero vedere gli ingredienti usati, per non parlare neppure di modificarli, e immaginando di averne fatto una copia per un amico, vi chiamerebbero pirata e cercherebbero di sbattervi in galera per anni. Un mondo simile creerebbe proteste tremende da parte di tutti coloro che sono soliti scambiare ricet-

90 te. Ma questo è esattamente il mondo del software proprietario. Un mondo in cui la comune decenza verso gli altri è proibita o impedita. Ora, come mi sono accorto di tutto ciò? Me ne sono reso conto perché negli anni ‘70 ho avuto la buona fortuna di far parte di una comunità di programmatori che condividevano il software. Le radici di questa comunità possono essere rintracciate sostanzial- mente fino agli albori dell’informatica. Tuttavia negli anni ‘70 era un po’ raro trovare una comunità in cui si condivideva il softwa- re. Si trattava anzi di un caso estremo, perché nel laboratorio dove lavoravo l’intero sistema operativo era software sviluppato dai membri della comunità, e lo condividevamo con tutti. Chiunque era il benvenuto nel venire a dare un’occhiata e prenderne una copia, e farci quel che voleva. Su questi programmi non c’era alcu- na nota di copyright. La cooperazione era il nostro modo di vive- re. E ci sentivamo sicuri di vivere a quel modo. Non lottammo per ottenerlo. Non dovemmo combattere per averlo. Vivevamo sem- plicemente in quel modo. E, per quanto ci riguardasse, avremmo continuato a vivere così. C’era il software libero, ma non il movi- mento del software libero. Ma poi la comunità fu distrutta da una serie di calamità che la col- pirono. Alla fine fu spazzata via. Alla fine il computer PDP-10,2 che usavamo per ogni lavoro, venne messo fuori uso. Il nostro sistema – denominato Incompatible Timesharing System – fu scritto a partire dagli anni ‘60, perciò era scritto in linguag- gio assembler. Negli anni ‘60 si usava tale linguaggio per scrivere un sistema operativo. Ovviamente l’assembler vale per una parti- colare architettura informatica; se non viene più usato, tutto il

2 Programming Data Processor modello 10, un computer mainframe usato negli anni ’70 da molti importanti enti di ricerca e governativi.

91 lavoro svolto diventa polvere – è inutile. E questo è quanto avven- ne nel nostro caso. I circa 20 anni di lavoro della nostra comunità divennero polvere. Ma prima che ciò accadesse, ebbi un’esperienza che mi preparò, mi aiutò a capire cosa fare, perché ad un certo punto la Xerox die- de al laboratorio di intelligenza artificiale, dove lavoravo, una stampante laser, e fu un regalo stupendo, perché era la prima vol- ta che qualcuno al di fuori della Xerox aveva una stampante laser. Era molto veloce, stampava una pagina al secondo, assai precisa sotto molti punti di vista, ma era inaffidabile, perché in realtà era una fotocopiatrice per ufficio ad alta velocità modificata in stam- pante. E le fotocopiatrici s’incastrano, ma c’è qualcuno pronto a sistemarle. La stampante s’incastrava e nessuno se ne accorgeva. Così rimaneva bloccata per parecchio tempo. Be’, ci venne un’idea per risolvere il problema. Modificarla in modo che ogni volta che la stampante s’inceppava, il computer che la gestiva poteva informarne la nostra macchina timesharing, e far sapere agli utenti in attesa della stampa di andare a sistema- re la stampante – perché se soltanto avessero saputo che era inca- strata... ovviamente, se sei in attesa di una stampa e sai che la stam- pante è inceppata, non vuoi startene seduto ad aspettare per sem- pre, ti alzi e vai a sistemarla. Ma a quel punto eravamo completamente bloccati, perché il software che gestiva la stampante non era software libero. Era arri- vato incluso nella stampante, era soltanto un file binario. Non potevamo averne il codice sorgente; la Xerox non ci avrebbe fatto avere il codice sorgente. Così, nonostante le nostre capacità di sviluppatori – dopotutto ave- vamo scritto il nostro sistema timesharing – eravamo del tutto ina- deguati ad aggiungere questa funzione al software della stampante.

92 Non ci restava che soffrire rimanendo in attesa. Per stampare qual- cosa ci voleva un’ora o due, perché la maggior parte delle volte la stampante s’inceppava. Aspettavi un’ora pensando, “So che finirà per incastrarsi. Aspetterò un’ora e poi andrò a prendere la mia stampa”, e allora ti rendevi conto che era rimasta incastrata per tutto il tempo, nessun altro l’aveva sistemata. Così la rimettevi a posto e aspettavi un’altra mezz’ora. Poi tornavi a controllare, e vedevi che si era nuovamente inceppata, prima di eseguire il tuo lavoro. Stampava per tre minuti e poi s’inceppava per trenta minu- ti. La frustrazione saliva alle stelle. Ma la cosa peggiore era sapere che avremmo potuto risolvere la cosa, eppure qualcun altro, per egoismo personale, ci bloccava, ci impediva di migliorare il softwa- re. Così, naturalmente, ce ne risentimmo. Allora venni a sapere che qualcuno alla Carnegie Mellon Univer- sity aveva una copia di quel software. Qualche tempo dopo mi ci recai in visita, andai nel suo ufficio e gli feci, “Salve, vengo dal MIT. Potrei avere una copia del codice sorgente della stampante?” E lui replicò, “No, ho promesso che non ve l’avrei data.” [il pub- blico ride] Rimasi di stucco. Ero talmente – talmente arrabbiato, e non avevo alcuna idea su come ottenere giustizia. Tutto ciò che riuscii a pensare fu di girarmi sui tacchi e uscire da quella stanza. Forse ho sbattuto la porta. [il pubblico ride] E ripensandoci più tardi, mi resi conto che non stavo osservando un tipaccio isolato, ma un fenomeno sociale che era importante e colpiva parecchie persone. Fui fortunato, ne ebbi appena un assaggio. Altri dovevano farci i conti tutto il tempo. Ci riflettei sopra a lungo. Vedete, quel tizio aveva promesso di rifiutare ogni collaborazione con noi, i colleghi del MIT. Ci aveva traditi. Ma non lo fece soltanto con noi. È pro- babile che abbia tradito anche te [indicando qualcuno tra il pub-

93 blico]. E credo che molto probabilmente abbia fatto lo stesso a te [indicando qualcun altro tra il pubblico] [il pubblico ride]. Ed è probabile lo abbia fatto anche a te [indicando una terza persona tra il pubblico]. Probabilmente ha tradito la maggioranza dei pre- senti in questa sala – eccetto, forse, i pochi che non erano ancora nati nel 1980. Perché aveva promesso di rifiutare ogni coopera- zione praticamente con l’intera popolazione del pianeta terra. Ave- va firmato un accordo di non divulgazione (“non-disclosure agree- ment”). Ora, questo era il mio primo incontro diretto con un accordo di non divulgazione, e m’insegnò una lezione importante – una lezio- ne che è importante perché la maggioranza dei programmatori non l’impara mai. Quello fu il mio primo incontro con un accor- do di non divulgazione, e io ne ero la vittima. Io e l’intero labo- ratorio ne fummo le vittime. E la lezione che m’insegnò fu che gli accordi di non divulgazione provocano delle vittime. Non sono qualcosa d’innocente. Non sono innocui. La maggior parte dei programmatori s’imbattono per la prima nell’accordo di non divulgazione quando vengono invitati a firmarne uno. E c’è sem- pre qualche tentazione – qualche vantaggio che finiscono per otte- nere se firmano. Così inventano qualche scusa. Dicono, “Be’, quel tizio non riuscirà mai a ottenerne una copia in ogni caso, perché quindi non dovrei unirmi alla cospirazione per impedirglielo?” Dicono, “Si è sempre fatto così. Chi sono io per oppormici?” Dico- no, “Se non lo firmo io, lo farà qualcun altro.” Scuse varie per met- tere il bavaglio alla propria coscienza. Ma quando qualcuno mi invitò a firmare un accordo di non divul- gazione la mia coscienza era già sensibilizzata. Si ricordò di quan- to fossi arrabbiato quando qualcuno promise di non aiutare me e l’intero laboratorio a risolvere il problema. Non potevo voltarmi

94 dall’altra parte e fare la stessa identica cosa a qualcun altro che non mi aveva mai arrecato alcun danno. Se qualcuno mi avesse chie- sto di promettere di non condividere qualche informazione utile con un odioso nemico, avrei detto di sì. Se qualcuno ha fatto qual- cosa di male, lo merita. Ma gli estranei – non mi hanno fatto alcun danno. Come possono meritare quel tipo di trattamento negativo? Non puoi consentire a te stesso di trattare male praticamente tutti e chiunque. A quel punto diventi un predatore sulla società. Così risposi, “Grazie mille per avermi offerto questo bel pacchetto softwa- re. Ma in tutta coscienza non posso accettarlo sulla base delle con- dizioni richieste, perciò ne farò a meno. Grazie molte.” E così, non ho mai firmato volontariamente un accordo di non divulgazione su informazioni tecniche d’utilità generica come il software. Esistono altri tipi d’informazioni che sollevano questioni etiche diverse. Ad esempio, le informazioni personali. Se un’amica vuo- le raccontarmi quel che va accadendo tra lei e il suo ragazzo, e mi chiede di non rivelarlo a nessuno, posso dirmi d’accordo nel man- tenere il segreto, perché non si tratta di informazioni tecniche d’u- tilità generica. Almeno, probabilmente non si tratta di informazioni general- mente utili [il pubblico ride]. Esiste una scarsa probabilità – e comunque potrebbe essere possibile – che l’amica possa rivelarmi qualche nuova strabiliante tecnica sessuale [il pubblico ride], e allora sentirei il dovere morale [il pubblico ride] di informarne il resto dell’umanità, in modo che tutti possano trarne beneficio. Forse dovrei porre una condizione a quella promessa. Qualora si trattasse soltanto di dettagli su chi voglia questa cosa, e chi s’arrabbia contro chi, e robe da telenovela... tutto ciò posso tenerlo in privato, ma non così per qualcosa di cui l’umanità pos- sa beneficiare terribilmente, qualora ne fosse informata. Obietti-

95 vo della scienza e della tecnologia è quello di sviluppare informa- zioni utili per l’umanità, onde aiutare la gente a vivere una vita migliore. Se promettiamo di non rivelare tali informazioni, se le teniamo segrete, allora stiamo tradendo la missione della nostra disciplina. E ciò, decisi, non dovrei farlo. Ma nel frattempo la mia comunità si era frantumata, e mi ritro- vai in una brutta situazione. Vedete, l’intero Incompatible Time- sharing System divenne obsoleto, perché lo era il PDP-10, e così non esisteva alcun modo per cui potessi continuare a lavorare in quanto sviluppatore di un sistema operativo come avevo fatto fino ad allora. Ciò dipendeva dal far parte di una comunità, dall’usare il software della comunità e dal migliorarlo. Questa possibilità non esisteva più, e ciò mi pose un dilemma morale. Cosa avrei fatto? Perché la possibilità più ovvia consisteva nell’andare contro quel- la decisione che avevo preso. Accettare che le cose fossero diverse, che dovevo semplicemente abbandonare quei principi e iniziare a firmare accordi di non divulgazione per sistemi operativi proprie- tari, e molto probabilmente anche scrivere software proprietario. Ma compresi che in tal modo avrei potuto divertirmi con il codi- ce e guadagnare bene – soprattutto se l’avessi fatto al di fuori del MIT – ma alla fine, osservando la mia carriera all’indietro avrei detto, “Ho speso la vita a costruire muri che dividono la gente”, e mi sarei vergognato di quella vita. Così mi son messo alla ricerca di un’alternativa, e una era ovvia. Avrei potuto lasciare il campo del software e mettermi a fare qual- cosa d’altro. Non ero dotato di altre capacità particolari, ma sono sicuro che avrei potuto fare il cameriere [il pubblico ride]. Non in un ristorante di lusso, non mi avrebbero assunto, [il pubblico ride] ma da qualche parte avrei fatto il cameriere. Molti sviluppatori mi dicono, “Quelli che assumono i programmatori richiedono que-

96 sto, questo e questo. Se non lo faccio, morirò di fame”. È la ter- minologia che usano letteralmente. Be’, come cameriere non si può morire di fame. [il pubblico ride] Così, in realtà, non si tro- vano affatto in pericolo. Ma – e questo è importante – talvolta ten- diamo a giustificare qualcosa che danneggia gli altri sostenendo che altrimenti a noi accadrà qualcosa di peggio. Se costoro stesse- ro veramente morendo di fame, allora sarebbero giustificati a scri- vere software proprietario [il pubblico ride]. Se qualcuno ti pun- ta contro una pistola, allora direi che è perdonabile [il pubblico ride]. Ma trovai il modo di sopravvivere senza dover fare qualco- sa di poco etico, perciò quella scusa non si può usare. Però mi sono reso conto che fare il cameriere non sarebbe stato divertente, e avrei sprecato le mie capacità in quanto sviluppatore di sistemi opera- tivi. Almeno avrebbe evitato di usare male tali capacità. Sviluppa- re software proprietario avrebbe significato usare male le mie capa- cità. Meglio perciò sprecarle che usarle male, ma non è davvero una bella cosa. Per queste ragioni, decisi di cercare altre alternative. Cosa può fare qualcuno che sviluppa sistemi operativi per migliorare veramente la situazione, per rendere migliore il mondo? E mi resi conto che ciò di cui c’era bisogno era esattamente qualcuno capace di svi- luppare sistemi operativi. Il problema, il dilemma, esisteva per me e per chiunque altro, poiché tutti i sistemi operativi disponibili per i computer moderni erano proprietari. I sistemi operativi libe- ri erano per computer vecchi e obsoleti, giusto? Così per i com- puter moderni – chi voleva avere un computer moderno e usarlo era costretto a ricorrere a un sistema operativo proprietario. Per- ciò se uno sviluppatore avesse scritto un altro sistema operativo per poi dire, “Venite tutti qui e condividete questo sistema, siete i benvenuti” – ciò avrebbe offerto a chiunque un via d’uscita al

97 dilemma, un’alternativa. Compresi così che c’era qualcosa che avrei potuto fare per risolvere il problema. Avevo proprio le capa- cità adatte per riuscirci. Ed era la cosa più utile che avessi potuto immaginare di fare con la mia vita. Si trattava di un problema che nessun altro stava cercando di risolvere. Se ne stava lì, a peggiora- re, e non c’era nessuno tranne il sottoscritto. Così mi dissi qual- cosa come, “Sono un eletto. Devo lavorarci sopra. Se non io, chi?” Decisi perciò che avrei sviluppato un sistema operativo libero, oppure sarei morto provandoci... di vecchiaia, naturalmente [il pubblico ride]. Ovviamente dovevo decidere che tipo di sistema operativo sareb- be stato. Bisognava prendere delle decisioni di progettazione tec- nica. Per una serie di motivi, optai per renderlo compatibile con Unix. Prima di tutto, avevo appena visto diventare obsoleto un sistema operativo che amavo davvero, perché scritto per un tipo di computer specifico. Non volevo che accadesse di nuovo. Dove- vamo avere un sistema portabile. Be’, Unix lo era. Perciò se ne aves- si seguito il progetto, avrei avuto buone probabilità di realizzare un sistema che sarebbe stato anch’esso portabile e funzionale. Inol- tre, perché non renderlo compatibile nei dettagli? Il motivo è: gli utenti odiano le modifiche incompatibili. Se avessi progettato il sistema secondo le mie preferenze – cosa che mi sarebbe piaciuto molto fare, ne sono certo – avrei prodotto qualcosa di non com- patibile. I dettagli sarebbero stati diversi. Se avessi scritto un tale sistema, la gente mi avrebbe detto, “È molto bello, ma incompa- tibile. Richiede troppo lavoro passare a questo. Non possiamo per- metterci tanti problemi giusto per usare il tuo sistema invece di Unix, per cui ce ne restiamo con Unix”. Se avessi voluto creare concretamente una comunità di persone che usavano questo sistema libero e traevano vantaggio dalla

98 libertà e dalla cooperazione, dovevo realizzare un sistema che la gente avrebbe utilizzato, un sistema al quale sarebbe stato sempli- ce passare, che non doveva cadere su un ostacolo simile appena all’inizio. Rendere il sistema compatibile con Unix fece decidere tutta la successiva progettazione, perché Unix è composto da mol- ti pezzi che comunicano tra loro grazie a interfacce più o meno documentate. Se si vuole essere compatibili con Unix occorre quindi sostituire ciascun pezzo, uno ad uno, con un altro compa- tibile. Le rimanenti decisioni di progettazione rimangono all’in- terno di ciascun pezzo, e possono essere prese in seguito da chiun- que decida di scrivere quel pezzo. Non devono essere decise all’i- nizio. Tutto quel che dovemmo fare per iniziare a lavorare fu trovare un nome al sistema. Noi hacker cerchiamo sempre qualche nome divertente o strambo per un programma, perché riteniamo che pensare alla gente che se la ride per il nome costituisca metà del divertimento di scrivere il programma [il pubblico ride]. E abbia- mo la tradizione degli acronimi ricorsivi, per dire che il program- ma che si sta scrivendo è in qualche modo analogo a un altro già esistente. È possibile chiamarlo con un acronimo ricorsivo per dire: questo non è quell’altro. Così, ad esempio, negli anni ‘60 e ‘70 esistevano troppi text editor Tico, e generalmente si chiama- vano qualcosa-o-qualcos’altro TECO. Poi un hacker arguto chiamò il proprio Tint, per Tint Is Not TECO (Tint non è TECO) – il primo acronimo ricorsivo. Nel 1975 sviluppai il primo text editor Emacs, e c’erano parecchie imitazioni di Emacs, ma una si chiamava Fine, per Fine Is Not Emacs, e c’era Sine, per Sine Is Not Emacs, e Eine, per Eine Is Not Emacs, e MINCE per Mince Is Not Complete Emacs (questa era un’imitazione ridotta all’osso) [il pubblico ride]. Poi Eine venne riscritto quasi completamente,

99 e la nuova versione fu chiamata Zwei, per Zwei Was Eine Initial- ly (Zwei era Eine all’inizio).3 Mi misi così alla ricerca di un acronimo ricorsivo per Something Is Not Unix (Qualcosa non è Unix). Provai tutte le 26 lettere del- l’alfabeto (inglese) per scoprire che nessuna poteva formare una parola. [il pubblico ride] Hmm, prova qualcos’altro. Usai una con- trazione. In tal modo avrei avuto un acronimo a tre lettere, per Something’s Not Unix. Provai le varie lettere, e venne fuori il ter- mine “GNU” – la parola “GNU” è la più divertente della lingua inglese. [il pubblico ride] Proprio così. Ovviamente il motivo per cui è divertente sta nel fatto che secondo il dizionario si pronun- cia “new” (nuovo). Ecco perché la si usa in parecchi giochi di paro- le. Ma devo informarvi che si tratta del nome di un animale che vive in Africa. E la pronuncia africana aveva un suono come di un clic. [il pubblico ride] Forse ce l’ha ancora. I colonizzatori euro- pei, quando arrivarono lì, non si preoccuparono di imparare a pro- nunciare quel suono di clic. Lo lasciarono fuori, e scrissero una ‘g’ che stava a significare “qui dovrebbe esserci un altro suono che non pronunciamo” [il pubblico ride]. Stanotte partirò per il Sud Afri- ca, e li ho implorati, spero che riescano a trovarmi qualcuno che possa insegnarmi a pronunciare GNU nel modo corretto, quan- do indica l’animale. Ma quando si tratta del nostro sistema, la pronuncia corretta è “guh-NEW” (guh-niu), con la ‘g’ dura. Se si parla del “new” (niu) sistema operativo, la gente finirà col confondersi perché ci stiamo lavorando ormai da 17 anni, per cui non è più così “new”, nuo- vo. [il pubblico ride] Ma è ancora, e sarà sempre, GNU, “guh- NEW” – non importa quante persone lo chiameranno Linux per errore [il pubblico ride].

3 Eine e Zwei significano uno e due in tedesco, rispettivamente.

100 Così nel gennaio 1984, lascio il mio posto al MIT per iniziare a scrivere le varie parti di GNU. 4 Al MIT furono così bravi da consentirmi di usare le strutture inter- ne. Allora pensai che avremmo scritto tutti i pezzi per costruire l’intero sistema GNU, e poi avremmo annunciato, “Venite a pren- derlo,” e la gente avrebbe iniziato a usarlo. Non è andata così. Le prime parti che scrissi non erano altro che buone sostituzioni, con un numero minore di bug, di alcuni pezzi di Unix, ma nulla di particolarmente eccitante. Nessuno pareva interessato a volerli e a installarli. Ma poi, nel settembre 1984, iniziai a scrivere GNU Emacs, che era la mia seconda implementazione di Emacs, e pre- se a funzionare all’inizio del 1985. Potei usarlo per tutto il mio lavoro di editing, il che fu un grande sollievo perché non avevo alcuna intenzione di imparare a usare vi, l’editor di Unix. [il pub- blico ride] Fino a quel momento, feci l’editing su qualche altra macchina, e salvavo i file via rete, in modo che potessi fare dei test. Ma quando GNU Emacs prese a girare abbastanza bene da con- sentirmi di usarlo, spuntò fuori altra gente che voleva usarlo. Così dovetti occuparmi dei dettagli relativi alla distribuzione. Ovviamente ne misi una copia nella directory dell’anonymous FTP, e ciò andava bene per quanti erano in rete – bastava che pre- levassero un file tar5 – ma c’erano anche parecchi programmatori che nel 1985 non erano ancora in rete. Mi mandavano email chiedendo, “Come posso averne un copia?” Dovevo decidere come avrei replicato. Be’, avrei potuto dire: “Voglio spendere il mio tempo scrivendo altro software GNU, non a copiare nastri, perciò trova un amico che è su Internet, che abbia

4 È possibile leggere l’annuncio originario del progetto GNU nel testo “Il Manifesto GNU”. 5 Programma Unix per l’archiviazione. Integrato con gzip, rappresenta l’alternativa GNU al formato di compressione non libero ZIP.

101 voglia di fare il download e metterlo su nastro per te,” e sono sicu- ro che prima o poi avrebbero trovato qualche amico disposto a far- lo. Avrebbero ottenuto quelle copie. Ma ero senza lavoro. Anzi, fin da quando avevo lasciato il MIT nel gennaio 1984 non avevo avuto alcun impiego. Stavo cercan- do il modo di fare dei soldi grazie a quanto andavo facendo con il software libero, e perciò avviai un’attività commerciale di softwa- re libero. Diedi l’annuncio, “Mandami 150 dollari e ti spedisco un nastro con Emacs.” E gli ordini presero ad arrivare. A metà anno divennero regolari. Ricevevo 8-10 ordini al mese. Se necessario, avrei potuto vivere soltanto con questi, perché ho sempre vissuto con poco. Pratica- mente vivo come uno studente. E mi piace, perché significa che non è il denaro a impormi cosa fare. Posso fare quel che ritengo sia importante per me. Ciò mi ha consentito di fare quel che mi sembrava valido. Sforzatevi seriamente di evitare di cadere in tut- te le abitudini dello stile di vita dei tipici americani. Perché se lo fate, allora sarà la gente con i soldi a imporvi cosa fare con la vostra vita. Non sarete in grado di fare quello che è veramente impor- tante per voi. Le cose andavano bene, ma la gente mi chiedeva, “Cosa intendi con software libero se costa 150 dollari? [il pubblico ride] Il moti- vo di queste domande stava nella confusione generata dai signifi- cati multipli del termine “free” in inglese. Un significato indica il prezzo, e un altro la libertà. Quando parlo di software libero mi riferisco alla libertà, non al prezzo. Pensiamo alla libertà d’espres- sione (“free speech”), non alla birra gratis (“free beer”). [il pubbli- co ride] Non avrei certo dedicato così tanti anni della mia vita per esser certo che i programmatori guadagnassero di meno. Non è questo il mio obiettivo. Sono un programmatore anch’io e non mi

102 dispiacerebbe guadagnare bene. Non dedicherei la mia vita a far soldi, ma non mi dispiace averne. Quindi, dato che l’etica è la stes- sa per chiunque, non sono neppure contrario al fatto che altri pro- grammatori guadagnino bene. Non voglio che i prezzi siano bas- si. Non è affatto questo il punto. La questione è la libertà. Libertà per chiunque usi il software, che si tratti o meno di un program- matore. A questo punto dovrei darvi la definizione di software libero. Meglio passare ai dettagli concreti, perché è troppo vago dire sol- tanto “credo nella libertà”. Esistono così tante libertà in cui si può credere, e sono in conflitto tra loro, perciò la vera domanda poli- tica è: quali sono le libertà importanti, le libertà di cui occorre assi- curare l’esistenza a tutti? Vi darò la mia risposta a questa domanda relativamente all’area dell’utilizzo del software. Un programma è “software libero” per uno specifico utente quando quest’ultimo ha le seguenti libertà: – Primo, libertà zero è la libertà di far girare il programma per qual- siasi scopo, in ogni modo che si vuole. – Libertà uno è la libertà di aiutare se stessi a modificare il pro- gramma secondo le proprie necessità. – Libertà due è la libertà di aiutare il vicino a distribuire copie del programma. – E libertà tre è la libertà di aiutare a costruire una comunità pub- blicando una versione migliorata in modo che gli altri possano trarre vantaggi dal proprio lavoro. Se avete tutte queste libertà, il programma è software libero, per l’utente – e ciò è cruciale. Ecco perché uso questa terminologia. Lo spiegherò meglio più avanti, quando parlerò della Licenza Pub- blica Generica GNU (GNU GPL), ma ora illustrerò cosa signifi- ca software libero, che è una questione più fondamentale.

103 La libertà zero è piuttosto ovvia. Qualora all’utente non venga nep- pure concesso di far girare il programma come meglio preferisce, si tratta di un programma decisamente restrittivo. Ma succede che la maggior parte dei programmi concedono almeno la libertà zero. E legalmente la libertà zero deriva come conseguenza della libertà uno, due e tre – questo è il modo con cui funziona la legislazione sul copyright. Così le libertà che distinguono il software libero dal software comune sono le libertà uno, due e tre, per cui le illustrerò a fondo e ne spiegherò l’importanza. La libertà uno è la libertà di aiutare se stessi a modificare il softwa- re secondo le proprie necessità. Ciò potrebbe significare sistema- re i bug presenti. Potrebbe significare aggiungere nuove funzioni. Potrebbe significare crearne la versione per un computer diverso. Potrebbe significare tradurne i messaggi d’errore in Navajo. Qual- siasi cambiamento l’utente voglia apportare, deve essere libero di farlo. È ovvio come gli sviluppatori professionisti possano fare uso di tale libertà in maniera assai efficace, ma non sono i soli. Chiun- que dotato di una comune dose d’intelligenza può imparare un po’ di programmazione. Ci sono lavori difficili e altri facili, e la maggioranza non imparerà abbastanza da fare i lavori difficili. Ma parecchia gente può imparare a sufficienza per occuparsi dei lavo- ri facili, proprio come 50 anni fa molti uomini americani hanno imparato a riparare le automobili, situazione che consentì agli Sta- ti Uniti di avere un esercito motorizzato nella seconda guerra mon- diale e vincerla. È assai importante avere parecchie persone in gra- do di riparare qualcosa. E se si tratta di qualche popolano, che non vuole saper nulla del- la tecnologia, ciò significa che probabilmente avrà un sacco di ami- ci e potrà chiedere loro dei favori [il pubblico ride]. È probabile

104 che alcuni di questi siano dei programmatori. Così potrà chiede- re loro: “Potresti modificarlo per me? Puoi aggiungerci questa fun- zione?” Ecco allora che potranno essere in parecchi a beneficiare di questa libertà. Ora, se non avete tale libertà, ciò provoca danno materiale, con- creto alla società. Ci rende prigionieri del nostro stesso software. Ho spiegato cosa accadde con la stampante laser. Funzionava male, e non potemmo ripararla, perché eravamo prigionieri di quel software. Ma ciò colpisce anche il morale della gente. Se l’uso del compu- ter è continuamente frustrante, e la gente lo usa, la loro vita finirà per essere frustrante, e se lo usano al lavoro, sarà quest’ultimo ad essere frustrante, finiranno per odiarlo. E per autoproteggersi dal- la frustrazione, si decide di fregarsene. Così ci troviamo davanti persone la cui attitudine è, “Be’, oggi sono andato a lavorare. Non devo fare altro. Se non compio progressi, il problema non è mio, ma del datore di lavoro”. E quando ciò accade, è negativo per costoro e negativo per la società come insieme. Questa è la libertà uno, la libertà di aiutare se stessi. La libertà due è la libertà di aiutare il vicino di casa distribuendo copie di un programma. Per degli esseri in grado di pensare e impa- rare, la condivisione di conoscenze utili è un atto fondamentale di amicizia. Quando si usa il computer, quest’atto di amicizia pren- de la forma di condivisione del software. Gli amici condividono tra loro. Gli amici si aiutano a vicenda. È la natura stessa dell’a- micizia. Anzi, questo spirito di buona volontà – lo spirito di aiu- tare il proprio vicino, volontariamente – è la risorsa più impor- tante della società. È l’elemento di differenza tra una società vivi- bile e una giungla tipo cane-mangia-cane. Per migliaia d’anni que- st’importanza è stata riconosciuta dalle maggiori religioni del

105 mondo, le quali cercano esplicitamente d’incoraggiare un simile atteggiamento. Quando andavo all’asilo, i maestri cercavano d’insegnarci que- st’attitudine – lo spirito della condivisione – con delle applicazio- ni pratiche. Credevano che in tal modo l’avremmo imparato. Così dicevano, “Se porti delle caramelle a scuola, non puoi tenertele per te; devi condividerle con gli altri bambini”. La società è stata orga- nizzata in modo da insegnare questo spirito di cooperazione. E perché dovremmo farlo? Perché la gente non coopera del tutto. Questo è un aspetto della natura umana, ma ce ne sono altri. Esi- stono molti altri aspetti della natura umana. Perciò, se si vuole una società migliore bisogna incoraggiare lo spirito della condivisione. Non si arriverà mai al 100%. Ciò è comprensibile. Occorre anche prendersi cura di se stessi. Ma se in qualche modo ne ampliamo la portata, sarà un bene per tutti. Oggigiorno, secondo il governo statunitense, gli insegnanti dovrebbero fare esattamente l’opposto. “Oh, Johnny, hai portato del software a scuola. Non puoi condividerlo. No, condividere è sbagliato. Condividere significa essere un pirata”. Cosa intendo- no quando dicono ‘pirata’? Sostengono che aiutare il vicino sia l’e- quivalente morale di attaccare una nave. [il pubblico ride] Cosa avrebbero detto al riguardo Gesù o Budda? Scegliete pure il vostro leader religioso preferito. Non so, forse Manson avrebbe detto qualche altra cosa, [il pubblico ride] Chissà cosa direbbe Ron Hubbard? Ma... Domanda: [inascoltabile] RMS: Certo, è morto. Ma non l’ammettono. Cosa? Domanda: Lo stesso vale per gli altri, tutti morti. [il pubblico ride] Anche Charles Manson è morto. Sono tutti morti, Gesù, Budda...

106 RMS: Si, è vero [il pubblico ride]. Credo allora che in tal senso Ron Hubbard non sarebbe peggiore degli altri. Comunque... Domanda: Ron Hubbard usava sempre il software libero – lo ha liberato da Zanu [il pubblico ride]. RMS: Comunque, ritengo questo sia il motivo più importante per- ché il software debba essere libero: non possiamo permetterci di inquinare la risorsa più importante della società. È vero che non si tratta di una risorsa materiale come l’aria pulita e l’acqua pulita. È una risorsa psico-sociale, ma è altrettanto concreta, e produce una differenza tremenda sulle nostre vite. Le azioni che compiamo influenzano il pensiero degli altri. Quando ce ne andiamo in giro dicendo alla gente, “Non condividete tra voi”, se dovessero ascol- tarci, avremo un effetto sulla società, e non sarebbe certo positivo. Questa è la libertà due, la libertà di aiutare il proprio vicino. Ah, inoltre, se tale libertà viene a mancare, ciò non provoca dan- no soltanto a questa risorsa psico-sociale, ma causa uno spreco – un danno pratico, materiale. Se il programma ha un proprietario, e costui organizza le cose in modo che ciascun utente debba paga- re onde poterlo usare, qualcuno finirà per dire, “Vorrà dire che ne farò a meno”. E ciò è uno spreco, spreco inflitto in maniera deli- berata. La cosa interessante riguardo il software, naturalmente, è che quantità minore non significa doverne fare di meno. Se c’è meno gente che compra autovetture, se ne faranno di meno. C’è un risparmio. Nel costruire una macchina, esistono delle risorse da allocare o meno. Si può dire cioè che mettere un prezzo su un’autovettura sia qualcosa di positivo. Previene la gente dall’usa- re molte risorse sprecate per costruire macchine che non sono vera- mente necessarie. Ma se ogni ulteriore macchina non richiedesse alcuna risorsa, non ci sarebbe nulla di positivo nel risparmiarne la

107 costruzione. Per gli oggetti materiali, come le autovetture, biso- gnerà sempre usare delle risorse per costruirne un altro, per ogni esemplare aggiuntivo. Ma ciò non vale per il software. Chiunque può farne una copia. Ed è talmente semplice farlo. Non occorre alcuna risorsa, eccetto un minimo di elettricità. Non c’è nulla che possiamo risparmiare, nes- suna risorsa da allocare in maniera migliore imponendo un disin- centivo economico sull’uso del software. Spesso si trova gente che prende le conseguenze di un ragionamento economico, basato su premesse inapplicabili al software, cercando di trapiantarle da altri ambiti della vita in cui si applicano quelle premesse, e le conclu- sioni possono essere valide. Non fanno altro che prendere tali con- clusioni e ne assumono la validità anche per il software, quando invece l’argomento è basato sul nulla, nel caso del software. In tal caso le premesse non funzionano. È molto importante esaminare il modo in cui si raggiungono le conclusioni, e su quali premesse siano basate, per vedere se possano essere considerate valide o meno. Così, questa è la libertà due, la libertà di aiutare il vicino. La libertà tre è la libertà di aiutare a costruire la propria comunità tramite la pubblicazione di una versione migliorata del software. La gente mi diceva di solito, “Se il software è libero, allora nessu- no verrà pagato per lavorarci sopra, perché mai qualcuno dovreb- be farlo?” Ovviamente facevano confusione tra i due diversi signi- ficati di ‘free’, tale ragionamento era basato su un’incomprensio- ne di partenza. Ma in ogni caso questa era la loro teoria. Oggi pos- siamo confrontare tale teoria con dei fatti empirici, per constata- re che centinaia di persone sono pagate per scrivere software libe- ro, e oltre 100.000 lo fanno come volontari. Abbiamo un sacco di gente che lavora sul software libero, per motivi diversi. Quando diffusi per la prima volta GNU Emacs – il primo pezzo

108 del sistema GNU che la gente prese davvero ad usare – e quando iniziò ad avere degli utenti, dopo qualche tempo, ricevetti un mes- saggio che diceva, “Credo di aver visto un bug nel codice sorgen- te, ed ecco qui come sistemarlo.” E poi arrivò un altro messaggio, “Questo è il codice per aggiungere una nuova funzione.” E poi un altro bug, e un’altra funzione nuova. E così via finché ne fui som- merso in maniera talmente rapida che stava diventando un lavo- ro enorme soltanto riuscire a usare tutto quest’aiuto. Microsoft non ha di questi problemi. [il pubblico ride] Alla fine, il fenomeno attirò l’attenzione generale. Negli anni ‘80 parecchi di noi ritenevano che forse il software libero non sareb- be stato così efficace come il software non libero, perché non avremmo avuto denaro sufficiente per pagare la gente coinvolta. E naturalmente persone come il sottoscritto, a cui stanno a cuore la libertà e la comunità, dicevano: “Be’, useremo comunque il software libero.” Vale la pena di fare qualche sacrificio riguardo la mera convenienza tecnica in cambio della libertà. Ma quel che la gente iniziò a notare, verso il 1990, fu che il nostro software in realtà era migliore. Era più potente e più affidabile delle alterna- tive proprietarie. All’inizio degli anni ‘90 qualcuno trovò il modo di misurare scien- tificamente l’affidabilità del software. Ecco cosa fece. Prese alcu- ne serie diverse di programmi comparabili che eseguivano lavori analoghi – gli stessi identici lavori – su sistemi differenti. Ciò gra- zie all’esistenza di certe utilità di base simili a Unix. E i lavori ese- guiti erano più o meno gli stessi – ovvero, seguivano le specifiche POSIX – in modo da essere identici in termini di risultati otte- nuti; ma erano mantenuti da persone diverse, e scritti separata- mente tra loro. Il codice era diverso. Così dissero, bene, prende- remo questi programmi e li faremo girare con dati a caso, e misu-

109 reremo quanto spesso si bloccano o funzionano male. Lo misura- rono, e la serie di programmi più affidabile fu quella GNU. Tut- te le alternative commerciali, che erano software proprietario, risultarono meno affidabili. Così l’autore della ricerca la pubblicò e ne informò tutti gli sviluppatori. Qualche anno dopo ripeté lo stesso esperimento con versioni più recenti, e ottenne il medesi- mo risultato. Le versioni GNU si dimostrarono più affidabili. Sapete, ci sono cliniche per il cancro e i servizi del 9116 che usa- no il sistema GNU, perché è così affidabile, e per loro l’affidabi- lità è decisamente importante. Comunque, c’è perfino un gruppo di persone che usa questo par- ticolare vantaggio come motivazione principale nel consentire agli utenti di fare queste varie cose, di avere queste libertà. Se mi ave- te ascoltato, avrete notato come, parlando per il movimento del software libero, parli di questioni etiche, e di quale tipo di società vogliamo avere, su cos’è che rende positiva una società, come pure sui vantaggi pratici, materiali. Sono entrambi questioni impor- tanti. Questo è il movimento del software libero. L’altro gruppo di persone – definito il movimento open source – cita soltanto tali vantaggi pratici. Negano che si tratti di una questio- ne di principio. Negano il riconoscimento alla libertà di condivi- dere con il proprio vicino e di vedere come funziona il program- ma e di modificarlo se non ci piace. Sostengono tuttavia l’utilità di consentire alla gente di fare tutto ciò. Così vanno dalle varie aziende e dicono loro, “Potete fare più soldi se consentite alla gen- te di fare ciò.” Quel che possiamo vedere, in un certo senso, è che spingono verso una direzione similare, ma per ragioni filosofiche fondamentalmente, totalmente diverse.

6 In molte aree degli Stati Uniti il 911 è il numero telefonico per le chiamate d’emergenza.

110 Sulla questione più profonda di tutte, quella etica, i due movi- menti sono in disaccordo. Nel movimento del software libero diciamo, “L’utente ha diritto a queste libertà. Non dovrebbero impedirgli di fare queste cose.” Nel movimento open source dico- no, “Si, possono impedirglielo se vogliono, ma cercheremo di con- vincerli a permettere all’utente di fare queste cose.” Be’, hanno dato un contributo – hanno convinto un certo numero di azien- de a diffondere parti sostanziali di software come software libero nella nostra comunità. Il movimento open source ha contribuito in maniera sostanziale alla comunità, e lavoriamo insieme [a loro] su progetti pratici. Ma a livello filosofico esiste un disaccordo ter- ribile. Purtroppo il movimento open source è quello che ottiene il soste- gno della maggioranza dell’imprenditoria, e quindi la gran parte degli articoli sul nostro lavoro ci descrivono come open source, e parecchia gente ritiene parimenti in buona fede che facciamo tut- ti parte del movimento open source. Ecco perché insisto con que- sta distinzione. Voglio farvi notare che movimento del software libero, che ha creato questa comunità e ha sviluppato il sistema operativo libero, è ancora qui – e che continueremo a batterci per questa filosofia etica. Voglio farvelo sapere, in modo che non pos- siate informare erroneamente qualcun altro. Ma anche perché così potete riflettere sulle vostre stesse posizioni. Spetta a ciascuno di voi decidere quale movimento sostenere. Pote- te dichiararvi d’accordo con il movimento del software libero e con le mie osservazioni. Potete dichiararvi d’accordo con il movi- mento open source. Potete dichiararvi in disaccordo con entram- bi i movimenti. Tocca a voi decidere da che parte stare su queste faccende politiche. Ma nel caso siate d’accordo con il movimento del software libero

111 – se credete esista la questione della gente la cui vita è controllata e diretta da simili decisioni, e volete dire la vostra al riguardo – spero allora che vorrete dichiararvi d’accordo con il movimento del software libero, e un modo per dimostrarlo è usare il termine software libero (“free software”) e aiutare a informare gli altri del- la nostra esistenza. Allora, la libertà tre è molto importante a livello sia pratico sia psi- co-sociale. La mancanza di tale libertà provoca danno pratico e materiale, perché questa comunità di sviluppo non esisterebbe, e non potremmo avere software potente e affidabile. Ma ciò causa anche danno psico-sociale perché colpisce lo spirito della coope- razione scientifica – l’idea che stiamo lavorando insieme per l’a- vanzamento della conoscenza umana. Il progresso scientifico dipende in modo cruciale dalla capacità di lavorare insieme. Oggi- giorno, tuttavia, ci si imbatte spesso in piccoli gruppi di ricerca- tori che operano come fossero in guerra con ogni altra banda di ricercatori e ingegneri. Ma se non condividono i dati a vicenda, rimangono tutti bloccati. Queste sono dunque le tre libertà che distinguono il software libe- ro dal software comune. La libertà uno è la libertà di aiutare se stessi, operando i cambiamenti necessari alle proprie esigenze. La libertà due è la libertà di aiutare il proprio vicino distribuendo del- le copie. E la libertà tre è la libertà di aiutare a costruire la propria comunità apportando delle modifiche e pubblicandole per l’uso altrui. Se esistono tutte queste libertà, il programma è software libero per chi lo usa. Ora, perché lo definisco in tal modo rispet- to a un utente specifico? Si tratta forse di software libero per te? [indicando qualcuno tra il pubblico] È software libero per te? [indicando qualcun altro tra il pubblico] Oppure per te? [indi- cando una terza persona tra il pubblico] Sì?

112 Domanda: Puoi illustrare meglio la differenza tra la libertà due e la tre? RMS: Be’, sono certamente correlate, perché non avendo affatto la libertà di ridistribuzione, sicuramente non si potrà avere quel- la di ridistribuirne una versione modificata, ma si tratta di attività diverse. La libertà due è: l’utente ne fa una copia esatta, e la passa agli ami- ci, in modo che anche costoro possano farne uso. O forse ne fa delle copie identiche e le vende a un po’ di persone, e questi pos- sono farne uso. La libertà tre riguarda i miglioramenti apportati dall’utente – o almeno, quelli che quest’ultimo ritiene tali e su cui anche altri si dichiarano d’accordo. Questa è la differenza. Ah, c’è anche un altro punto cruciale. Le libertà uno e tre dipendono dall’accesso al codi- ce sorgente. Perché modificare un programma solo binario è estre- mamente difficile [il pubblico ride] – perfino cambiamenti stupi- di come le quattro cifre per la data7 – se non si hanno i sorgenti. Così per motivi impellenti, pratici, l’accesso al codice sorgente è una pre-condizione, un requisito, per il software libero. Perché allora definisco tale il software libero rispetto a un utente specifico? Il motivo è che talvolta uno stesso programma può esse- re software libero per qualcuno, e non libero per altri. Siccome questa potrebbe sembrare una situazione limite, vi farò un esem- pio così da chiarirne meglio le circostanze. Un grande esempio – forse il più grande possibile – di questo problema fu il sistema X Windows, sviluppato al MIT e diffuso sotto una licenza che lo

7 Ci si riferisce qui al problema “Y2K”, dove molti vecchi programmi riportavano l’anno in due cifre; non era quindi chiaro se la data “00” indicasse il 2000 o il 1900, o qualsiasi altro anno che finiva in 00. Svariati milioni di dollari vennero spesi per riparare il problema in migliaia di sistemi informatici prima dell’anno 2000.

113 rese software libero. La versione con la licenza del MIT offriva all’utente le libertà uno, due e tre. Per chi lo usava era software libero. Ma tra quanti ne ottennero delle copie c’erano alcuni pro- duttori che distribuivano sistemi Unix, e vi apportarono le modi- fiche necessarie per farlo girare sui quei sistemi. Probabilmente tali modifiche interessavano appena qualche migliaio di righe su un totale di centinaia di migliaia di righe. Così lo compilarono, mise- ro i file binari nel sistema Unix e lo distribuirono sotto gli stessi accordi di non divulgazione che coprono il resto del sistema Unix. E allora milioni di persone ottennero queste copie. Avevano il sistema X Windows, ma nessuna di queste libertà. Per quegli uten- ti non era software libero. Così, il paradosso fu che X era software libero a seconda da dove lo si misurava. Misurandolo tra il gruppo di sviluppatori, si dice- va, “Io rispetto tutte queste libertà. È software libero.” Misuran- dolo tra gli utenti, si diceva “Hmmm, la maggioranza degli uten- ti non ha queste libertà. Non è software libero.” Per gli sviluppa- tori di X ciò non rappresentava un problema, poichè il loro obiet- tivo era semplicemente la popolarità – ego, sostanzialmente. Mira- vano a un grande successo professionale. Volevano sentirsi tipo, “Ah, c’è un sacco di gente che usa il nostro software.” Ed era vero. Molte persone usavano quel software ma non avevano libertà. Be’, nel progetto GNU, se qualcosa di simile fosse accaduto al software GNU, sarebbe stato un fallimento, perché il nostro obiet- tivo non era soltanto diventare popolari; lo scopo era dare libertà alla gente, e incoraggiare la cooperazione, consentire alla gente di cooperare. Ricordiamolo, non bisogna costringere mai nessuno a cooperare con qualcun altro, ma occorre assicurarsi che a chiun- que sia consentito cooperare, che tutti abbiano la libertà di farlo, se così decidono. Se milioni di persone avessero usato le versioni

114 non libere di GNU, ciò non sarebbe stato affatto un successo. L’in- tera situazione sarebbe scaduta in qualcosa di ben lontano dalla meta. Così mi misi alla ricerca di un modo per impedire ciò. Il metodo che misi a punto è definito “copyleft”. Viene chiamato copyleft (permesso d’autore) perché è qualcosa di simile a prendere il copy- right (diritto d’autore) e rigirarlo sottosopra. [il pubblico ride] A livello legale, il copyleft funziona sulla base del copyright. Usiamo le attuali leggi sul copyright ma in modo tale da raggiungere un obiettivo molto diverso. Ecco cosa facciamo. Diciamo, “Questo programma è sotto copyright.” E naturalmente ciò significa per definizione che ne è vietata la copia, la distribuzione o la modifi- ca. Ma poi diciamo, “L’utente è autorizzato a distribuirne delle copie. L’utente è autorizzato a modificarlo. L’utente è autorizzato a distribuirne versioni modificate e versioni ampliate. Può modi- ficarlo in qualsiasi modo voglia”. Esiste però una condizione. E la condizione, ovviamente, è il moti- vo per cui ci siamo dati la pena di fare tutto ciò, in modo da poter aggiungere tale condizione. La condizione recita: Ogni volta che l’utente distribuisce qualunque cosa che contenga una parte qual- siasi di questo programma, quell’intero programma deve essere distribuito sotto gli stessi termini, niente di più e niente di meno. L’utente può cambiare il programma e distribuirne una versione modificata, ma quando lo fa, a quanti lo ricevono dall’utente spet- ta la medesima libertà che abbiamo dato a tale utente. E non sol- tanto per le parti che quest’ultimo ha copiato dal nostro pro- gramma, ma anche per le altre parti di tale programma che gli altri hanno ricevuto dallo stesso utente. Per coloro che lo ricevono, il programma nella sua interezza deve essere libero. Le libertà di cambiare e ridistribuire questo programma diventano

115 diritti inalienabili – un concetto derivato dalla Dichiarazione d’In- dipendenza statunitense. Diritti che vogliamo esser certi non ven- gano portati via all’utente. La licenza specifica che dà corpo all’i- dea di copyleft è la Licenza Pubblica Generica GNU (GNU GPL), una licenza controversa perché in realtà possiede la forza di dire no a coloro che vorrebbero fare i parassiti della nostra comunità. Ci sono molte persone che non apprezzano gli ideali di libertà. E sarebbero molto contente di prendere il lavoro che abbiamo fatto per usarlo come spinta d’avvio nella distribuzione di un pro- gramma non libero e nell’allettare la gente a rinunciare alle pro- prie libertà. Il risultato sarebbe – se consentiamo alla gente di far- lo – che dopo aver sviluppato questi programmi liberi, dovrem- mo costantemente competere con le versioni migliorate dei nostri stessi programmi. Nient’affatto divertente. Molta gente chiede anche, “Vorrei offrire il mio tempo per contri- buire senza compenso alla comunità, ma perché dovrei offrire volon- tariamente il mio tempo per contribuire a migliorare il programma proprietario di quell’azienda?” Qualcuno potrebbe perfino non rite- nere che ciò sia un male, ma vogliono essere pagati per un simile lavoro. Personalmente, preferisco piuttosto non farlo affatto. Tuttavia entrambi questi gruppi di persone – quelli come me che dicono, “Non voglio aiutare i programmi non liberi a mettere un piede nella nostra comunità”, e quelli che sostengono, “Certo, sono disposto a lavorare per loro, ma voglio essere pagato” – hanno una buona ragione per usare la Licenza Pubblica Generica GNU. Per- ché questa dice a ogni azienda, “Non puoi soltanto appropriarti del mio lavoro, e distribuirlo senza la libertà.” Mentre ciò viene con- sentito dalle licenze non copyleft, come quella per X Windows. Questa dunque è la grande divisione tra le due categorie di softwa- re libero, a livello di licenza. Ci sono programmi sotto copyleft in

116 modo che la licenza tuteli la libertà del software per ciascun uten- te. E ci sono i programmi non coperti da copyleft per i quali sono permesse versioni non libere. Qualcuno può prendere questi ulti- mi programmi e strapparne via la libertà. L’utente può ricevere quel programma in una versione non libera. Questo problema esiste ancor oggi. Ci sono ancora versioni non libere di X Windows usate sui nostri sistemi operativi liberi. C’è perfino dell’hardware che non è veramente supportato eccetto che da una versione non libera di X Windows. E questo è un proble- ma importante per la nostra comunità. Ciò nonostante non defi- nirei negativamente X Windows. Direi che gli sviluppatori non operarono al meglio. Ma diffusero comunque parecchio software che tutti noi possiamo usare. C’è molta differenza tra meno che perfetto e negativo. Esistono molte gradazioni tra bene e male. Dobbiamo resistere alla tenta- zione di dire, se qualcuno non ha fatto la cosa assolutamente migliore possibile, che è tutto negativo. Le persone che hanno svi- luppato X Windows hanno fornito un grande contributo alla comunità. Ma avrebbero potuto fare qualcosa di meglio. Avreb- bero potuto mettere sotto copyleft alcune parti del programma onde prevenire l’ulteriore distribuzione di quelle versioni che negavano la libertà. Ora, il fatto che la Licenza Pubblica Generica GNU difenda la libertà dell’utente, ricorrendo alle leggi sul copyright per tutelare la libertà dell’utente, è naturalmente il motivo per cui oggi Micro- soft ci attacca. Microsoft vorrebbe davvero riuscire a prendere tut- to il codice che scriviamo e metterlo in programmi proprietari, qualcuno poi gli apporterà qualche miglioria... o forse tutto ciò di cui hanno bisogno è soltanto qualche modifica incompatibile [il pubblico ride].

117 Con la potenza del marketing, Microsoft non deve migliorarlo per far sì che la propria versione soppianti la nostra. Gli basta render- lo diverso e incompatibile. E poi metterlo sulla scrivania di tutti gli utenti. Perciò non gradiscono affatto la GNU GPL. Perché que- sta non consente loro di fare così. La GNU GPL non permette di “abbracciare ed estendere.” Dice, se l’utente vuole condividere il codice dei suoi programmi, può farlo. Ma deve condividere, e con- dividere allo stesso modo. Ogni cambiamento fatto dall’utente dev’essere parimenti condiviso da tutti noi. Si tratta cioè di una cooperazione a due canali, che è poi la vera cooperazione. Molte aziende – anche quelle grandi tipo IBM e Hewlett-Packard – hanno deciso di usare il nostro software su queste basi. IBM e Hewlett-Packard hanno offerto miglioramenti sostanziali al software GNU. E sviluppano altro software libero. Ma Microsoft non vuole farlo, rinunciando così a ogni attività commerciale che abbia a che fare con la GPL. Be’, se tale attività non includesse IBM, Hewlett-Packard e Sun, allora forse avrebbero ragione [il pubblico ride]. Ne parleremo meglio più avanti. Vorrei concludere l’aspetto storico. Siamo partiti nel 1984 non sol- tanto per scrivere software libero ma anche per fare qualcosa di mol- to più coerente: sviluppare un sistema operativo che fosse intera- mente software libero. Ciò significava che avremmo dovuto scri- verne un pezzo dopo l’altro. Naturalmente eravamo sempre alla ricerca di scorciatoie. Un compito talmente vasto che la gente soste- neva che non saremmo mai stati capaci di portarlo a termine. Io ritenevo che avevamo almeno una possibilità di completarlo, ma ovviamente valeva la pena di cercare delle scorciatoie. Così conti- nuavamo a guardarci intorno. Esistevano programmi scritti da altri che avremmo potuto maneggiare in modo da adattarli, da inserir- li qui dentro, e in tal modo evitare di doverli scrivere partendo da

118 zero? Ad esempio, il sistema X Windows. È vero che non era sot- to copyleft, ma era software libero, quindi potevamo usarlo. Ora, fin dal primo giorno avrei voluto mettere un sistema a fine- stre all’interno di GNU. Avevo scritto un paio di sistemi a fine- stra al MIT, prima di iniziare GNU. E così pur se nel 1984 Unix non aveva un sistema a finestre, decisi che GNU l’avrebbe avuto. Ma non arrivammo mai a scrivere un sistema a finestre GNU per- ché arrivò X. E allora feci: “Ottimo! Un grosso lavoro che non dob- biamo fare. Useremo X.” Dissi, prendiamo X e inseriamolo nel sistema GNU. E faremo in modo che le altri parti di GNU operi- no bene con X, quando necessario. Poi trovammo nuovi pezzi di software scritti da altri, come il formattatore di testi TeX, e qual- che codice di libreria da Berkeley. A quei tempi esisteva Berkeley Unix, ma non era software libero. Inizialmente questo codice di libreria veniva da un gruppo diverso a Berkeley, che faceva ricerche sul punto di fluttuazione. Così mettemmo insieme questi pezzi. Nell’ottobre 1985 fondammo la Free Software Foundation. È il caso di notare che fu il progetto GNU a venire prima. La Free Software Foundation arrivò almeno due anni dopo l’annuncio del progetto GNU. La Free Software Foundation è un ente senza fini di lucro che raccoglie fondi per promuovere la libertà di condivi- dere e modificare il software. Negli anni ‘80 una delle cose più importanti che facemmo con i fondi raccolti fu assumere gente per scrivere parti di GNU. E programmi essenziali, quali la shell e la libreria C, vennero scritti in questo modo, come pure parti di altri programmi. Il programma tar, che è assolutamente essenzia- le, pur se nient’affatto eccitante [il pubblico ride], è stato scritto in questo modo. Credo lo stesso valga anche per il grep GNU. E così ci avvicinavamo alla meta prefissata. Nel 1991 mancava soltanto un pezzo importante, si trattava del

119 kernel. Ora, perché lasciai da parte il kernel? Probabilmente per- ché non importa granché in quale ordine si integrano i vari pezzi, almeno a livello tecnico non importa. Devi comunque farli tutti. E in parte perché speravo che saremmo partiti da un kernel trova- to da qualche parte. E così fu. Trovammo Mach, che era stato svi- luppato alla Carnegie Mellon. Non era il kernel intero, solo la metà inferiore. Dovevamo perciò scrivere quella superiore; cose tipo il file system, il codice di rete, e così via. Ma quelli che girano su Mach sono essenzialmente programmi per utenti, i cui bug devono risul- tare facili da sistemare. Il debug si può fare contemporaneamente con un vero debugger a livello di codice. Credevo che in tal modo avremmo potuto fare in tempi brevi le parti di alto livello del ker- nel. Non andò così. Questi processi asincroni e plurilivelli, l’invio di messaggi tra di noi, si dimostrarono molto difficili per il debug. E il sistema basato sul Mach che usavamo aveva un terribile ambiente per il debug, ed era inaffidabile. Impiegammo anni e anni per far funzionare il kernel GNU. Ma fortunatamente la comunità non doveva aspettare il kernel GNU. Perché nel 1991 Linus Torvalds sviluppò un altro kernel libero, chiamato Linux. Usò il buon vecchio progetto monolitico e accadde che il suo funzionò in tempi molto più rapidi del nostro. Forse questo fu uno degli errori che commisi: la decisione pro- gettuale. Comunque, all’inizio non sapevamo nulla di Linux, per- ché Torvalds non ci contattò mai per parlarne, pur sapendo del- l’esistenza del progetto GNU. Ma l’annunciò ad altre persone e altrove in rete. E poi qualcun altro si occupò di integrare Linux con il resto del sistema GNU, arrivando a completare il sistema operativo libero. Sostanzial- mente, realizzando la combinazione GNU più Linux. Ma non avevano capito che era questo che stavano facendo. Dice-

120 vano, “Abbiamo un kernel – guardiamoci intorno per vedere qua- li altri pezzi possiamo trovare da mettere insieme al kernel.” Così si guardarono intorno, ed ecco che tutto ciò di cui avevano biso- gno era già disponibile. “Che bella fortuna,” andavano dicendo. [il pubblico ride] “È tutto bell’e pronto. Possiamo trovare tutto quanto ci occorre. Basta prendere tutte queste cose diverse e met- terle insieme per avere un sistema.” Non sapevano che la maggior parte di quanto trovarono erano pez- zi del sistema GNU. Così non si accorsero che stavano integran- do Linux nel varco del sistema GNU. Credevano di star costruen- do un sistema derivante direttamente da Linux. Perciò lo chia- marono Linux. [Qualcuno tra il pubblico chiede] “Ma si tratta forse di maggior fortuna che trovare il sistema X Windows e Mach?” [Stallman replica e poi prosegue] Giusto. La differenza sta nel fatto che gli sviluppatori di X e Mach non avevano l’obiettivo di fare un sistema operativo libero completo. Eravamo soltanto noi a volerlo fare. E il sistema esisteva grazie al nostro tremendo lavoro. In realtà noi facemmo la parte più ampia del sistema rispet- to a qualsiasi altro progetto. Non si trattò di una coincidenza, per- ché quella gente scrisse utili parti del sistema. Ma non lo fecero perché volevano completare il sistema. Avevano altri motivi. Quanti svilupparono X ritenevano che realizzare un sistema a fine- stre tramite la rete fosse un buon progetto, e lo era. E accadde che ci fu d’aiuto nel realizzare un buon sistema operativo libero. Ma non è quanto speravano quegli sviluppatori. Non ci pensavano neppure. Fu un incidente. Un incidente benefico. Non sto sostenendo che quanto fecero fosse mal fatto. Portarono a termine un ampio pro- getto di software libero. Un’ottima cosa da fare. Ma non avevano una visione complessiva. Fu il progetto GNU a incarnare tale visione. E così noi riuscimmo a fare ogni piccolo pezzo che non aveva fat-

121 to nessun altro. Perché sapevamo che senza questi pezzi non avremmo avuto un sistema completo. E pur essendo totalmente noioso e poco romantico, come tar o mv8 [il pubblico ride], lo facemmo. Oppure ld – sapete, non c’è nulla di eccitante in ld, ma io ne ho scritto uno [il pubblico ride]. E mi sono sforzato per far sì che occupasse una quantità minima di disco I/O in modo da poter essere più veloce e gestire programmi più ampi. Mi piace fare un buon lavoro; mi piace migliorare varie cose nel programma men- tre ci lavoro su. Ma la ragione per cui lo feci non era che avessi delle idee per un ld migliore. Il motivo per cui lo feci era che ave- vamo bisogno di una versione che fosse libera. E non potevamo aspettarci che lo facesse qualcun altro. Dovevamo farlo noi, o tro- vare qualcuno che lo facesse. Così, nonostante a questo punto sono migliaia le persone e i progetti che hanno contribuito a questo sistema, c’è un progetto alla base dell’esistenza stessa di tale siste- ma, ed è il progetto GNU. Sostanzialmente si tratta del sistema GNU con altre cose aggiunte in seguito. La pratica di chiamare il sistema Linux è stato un grave colpo per il progetto GNU, perché normalmente non si riconosce a qual- cuno quel che non ha fatto. Credo che Linux, il kernel, sia un pez- zo di software libero assai utile, e ho soltanto cose buone da dire al riguardo. In realtà, avrei un paio di cattiverie da dire su Linux. [il pubblico ride] Ma in sostanza ho apprezzamenti positivi. Tut- tavia, la pratica di definire il sistema GNU con “Linux” è proprio un errore. Vorrei pregarvi di compiere il piccolo sforzo necessario per chiamare il sistema GNU/Linux, aiutandoci così ad ottenere parte del riconoscimento. [Qualcuno tra il pubblico urla] “Vi serve una mascotte! Trova un

8 Un semplice programma per spostare o rinominare i file.

122 animale di peluche!” [Stallman risponde] Ne abbiamo uno. [La persona replica] “E qual’è?” [Stallman risponde, provocando gran- di risate] Abbiamo un animale, lo gnu. Giusto, quando disegna- te un pinguino metteteci anche uno gnu di fianco. Ma conservia- mo le domande per la fine. Devo parlare di altre cose. Perché dunque mi preoccupo di questa faccenda? Perché credo val- ga la pena di disturbarvi e forse farvi una cattiva impressione [il pubblico ride] sollevando la questione del riconoscimento? Quan- do lo faccio, qualcuno ritiene che è per soddisfare il mio ego, vero? Naturalmente non vi sto chiedendo di chiamarlo “Stallmanix”, giusto? [il pubblico ride] [applausi] Vi chiedo di chiamarlo GNU perché voglio che il progetto GNU ottenga il giusto riconoscimento. E c’è un motivo specifico per questo, che è molto più importante del riconoscimento per chic- chessia, in e per se stesso. Oggigiorno guardandosi intorno nella nostra comunità la maggior parte della gente ne parla e ne scrive senza mai menzionare GNU, e non citano mai neppure questi obiettivi di libertà – questi concetti politici e sociali. Perché il luo- go da cui arrivano tali concetti è GNU. Le idee associate con Linux, la loro filosofia è molto diversa. Praticamente è la filosofia apolitica di Linus Torvalds. Così, quando si ritiene che l’intero sistema sia Linux, si tende a pensare: “Oh, tutto dev’essere stato iniziato da Linus Torvalds. La sua filosofia è quella che dovrem- mo considerare con attenzione.” E quando sentono parlare della filosofia GNU, dicono: “Ma ciò è così idealista, dev’essere terri- bilmente impraticabile. Io sono un utente Linux, non un utente GNU.” [il pubblico ride] Com’è ironico! Se soltanto sapessero! Se sapessero che il sistema che piace loro – o, in alcuni casi, che amano e di cui vanno pazzi – è la nostra filosofia idealista, politica resa in concreto.

123 Non sarebbero comunque d’accordo con noi. Ma almeno vedreb- bero un motivo per prenderla sul serio, per rifletterci con atten- zione, per darle una possibilità. Vedrebbero come ciò sia in rela- zione con la propria vita. Se si rendessero conto, “Uso il sistema GNU. Ecco la filosofia GNU. Questa filosofia è la ragione per l’e- sistenza stessa del sistema che mi piace così tanto,” quantomeno lo considererebbero con mente più aperta. Ciò non significa che sarebbero tutti d’accordo. La gente pensa in modo diverso. Va bene così – ciascuno dovrebbe ragionare con la propria testa. Ma voglio che questa filosofia ottenga il beneficio del riconoscimento per i risultati raggiunti. Guardandosi intorno nella comunità, si noterà che quasi ovunque le istituzioni definiscono il sistema Linux. Per lo più i giornalisti lo chiamano Linux. Non è corretto, ma lo fanno. Lo stesso dicasi per le varie aziende che impacchettano il sistema. E gran parte di quei giornalisti, quando scrivono degli articoli, generalmente non la con- siderano una questione politica o sociale. Normalmente parlano di una faccenda puramente commerciale o di quali aziende avranno più o meno successo, che in realtà è una questione decisamente minore per la società. E se consideriamo le aziende che impacchet- tano il sistema GNU/Linux per l’utenza, be’, la maggioranza lo chia- ma Linux. E tutte vi aggiungono software non libero. La GNU GPL dice che se si prende del codice, e si tratta di codi- ce da un programma coperto dalla GPL, e vi si aggiunge altro codi- ce per fare un programma più ampio, quest’ultimo va diffuso nel- la sua interezza sotto la GPL. Ma si possono mettere altri pro- grammi separati su uno stesso disco (hard disk o CD) e questi pos- sono avere altre licenze. Ciò viene considerata una mera aggrega- zione e, sostanzialmente, la semplice distribuzione contempora- nea di due programmi è qualcosa su cui non abbiamo nulla da

124 dire. Perciò non è vero – talvolta vorrei lo fosse – che se un’azien- da usa un programma coperto dalla GPL all’interno di un pro- dotto questo debba essere completamente software libero. Non è così, non raggiunge quest’ampiezza, questo scopo. Si tratta del- l’intero programma. Se ci sono due programmi separati che comu- nicano tra loro a distanza ravvicinata, tipo inviandosi messaggi a vicenda, allora sono legalmente separati, in generale. Queste azien- de, quando aggiungono al sistema software non libero, danno agli utenti un’idea molto sbagliata, a livello filosofico e politico. Dico- no loro, “È bene usare software non libero. Lo mettiamo perfino qui in aggiunta.” Se diamo un’occhiata alle riviste sull’uso del sistema GNU/Linux, in maggioranza hanno titoli quali “Linux qualcosa-o-qualcos’al- tro”. La maggior parte delle volte definiscono il sistema Linux. E sono zeppe di annunci di software non libero che si può far gira- re sul sistema GNU/Linux. Questi annunci suggeriscono un mes- saggio comune. Dicono: “Il software non libero è un bene per l’u- tente. A tal punto che puoi persino pagare per averlo.” [il pubbli- co ride] E li chiamano “pacchetti a valore aggiunto”, il che ne rivela i valo- ri. Questa gente dice: Date valore alla convenienza pratica, non alla libertà. Io non sono d’accordo con questi valori, per cui li chia- mo “pacchetti a libertà sottratta.” [il pubblico ride] Perché, aven- do installato un sistema operativo libero, allora si vive nel mondo libero. Si apprezzano i benefici della libertà su cui abbiamo lavo- rato per anni onde garantirli all’utente. Quei pacchetti offrono invece la possibilità di legarsi a una catena. Se poi consideriamo le mostre specializzate dedicate all’uso del sistema GNU/Linux, le chiamano tutte “Linux”. E sono piene di stand che espongono software non libero, sostanzialmente ponen-

125 do il timbro d’approvazione sul software non libero. Così, quasi ovunque si guardi nella comunità, le istituzioni appoggiano il software non libero, negando completamente quell’idea di libertà per cui fu sviluppato GNU. L’unico ambito in cui ci si imbatte con l’idea di libertà è in connessione con GNU, e in connessione con il software libero, il termine software libero. Ecco perché vi chiedo: Per favore chiamate il sistema GNU/Linux. Per favore fate sapere alla gente da dove arriva e perché esiste quel sistema. Naturalmente, il solo uso di quel nome non significa offrirne una spiegazione storica. Si possono inserire altri quattro caratteri e scri- vere GNU/Linux; si possono dire due sillabe aggiuntive. Ma GNU/Linux contiene meno sillabe di Windows 2000 [il pubbli- co ride]. Non si spiega granché agli altri, ma li si prepara a saper- ne di più su cos’è GNU, e così vedranno come sia collegato a loro e alla propria vita. E ciò, indirettamente, può fare una differenza tremenda. Per favore dateci una mano. Avrete notato come Microsoft abbia definito la GPL una “licen- za open source.” Non vogliono che la gente consideri la questio- ne in termini di libertà. Si scopre che invitano la gente a pensare in maniera ristretta, in quanto consumatori, e naturalmente a pen- sare neppure molto razionalmente in quanto tali, se si apprestano a scegliere prodotti Microsoft. Ma non vogliono che la gente pen- si in quanto cittadini o uomini di stato. Ciò risulterebbe avverso per loro. Almeno è avverso al loro attuale modello commerciale. Ora, come fa il software libero... be’, potrei illustrarvi la relazione tra software libero e società. Un argomento secondario che potrebbe inte- ressare alcuni di voi è la relazione tra software libero e imprenditoria. In effetti, il software è tremendamente utile per l’imprenditoria. Dopo tutto, nei paesi avanzati la maggioranza delle aziende fa uso di software. Soltanto una minima parte lo sviluppa.

126 E il software libero è tremendamente vantaggioso per qualsiasi azienda che fa uso di software, perché significa esserne in controllo. Praticamente software libero significa che gli utenti sono in con- trollo di quello che fa il programma. Sia individualmente, se si vuole esserlo, sia collettivamente, quando si vuole esserlo. Chiun- que abbia motivo sufficiente per farlo, può esercitare qualche influenza. Se non t’importa granché, non lo compri. Allora usi quel che preferiscono gli altri. Ma se la cosa ti preme, allora puoi dire la tua. Con il software proprietario, sostanzialmente non hai voce in capitolo. Con il software libero l’utente può modificare quel che vuole. E non importa se in azienda non ci sono programmatori, va bene così. Se si vogliono spostare le pareti di casa, non occorre essere una ditta di costruzioni. Basta trovarne una e chiedere, “Quanto volete per fare questo lavoro?” Volendo cambiare qualcosa nel software che si usa, non occorre essere un’azienda di programma- zione. Basta trovarne una e chiedere “Quanto volete per imple- mentare queste funzioni? E quando potreste occuparvene?” E se non possono farlo, si cerca qualcun altro. Per l’assistenza c’è il mercato libero. Perciò ogni azienda interes- sata al supporto troverà un vantaggio tremendo nel software libe- ro. Con il software proprietario il supporto è un monopolio, per- ché è una sola azienda ad avere il codice sorgente – o forse un pic- colo numero di aziende che pagano un’esorbitante somma di denaro per avere il codice sorgente, se si tratta dei sorgenti condi- visi di un programma Microsoft – ma sono ben poche. Non esi- stono molte possibili fonti di assistenza per l’utente. E ciò signifi- ca che, a meno che non si tratti un vero gigante industriale, non si curano di quell’utente. L’azienda di costui non è abbastanza importante perché possano preoccuparsi delle sue perdite com-

127 merciali. Una volta che l’utente usa il programma, lo ritengono incastrato nel dover chiedere loro il supporto, perché passare a un programma diverso è un lavoro gigantesco. Così si finisce con cose tipo pagare per il privilegio di segnalare un bug. E dopo aver paga- to, dicono all’utente, “Bene, abbiamo preso nota della segnala- zione. Nel giro di qualche mese potrai comprare l’aggiornamento e vedrai se l’abbiamo sistemato o meno.” [il pubblico ride] I fornitori di assistenza per il software libero non possono cavar- sela così facilmente. Devono mostrarsi gentili con il cliente. Ovvia- mente si può anche ottenere un sacco di supporto gratis. Basta spie- gare il problema in un messaggio su Internet. Può darsi che il gior- no seguente si ottenga una risposta. Ma naturalmente non è affat- to garantito. Per esserne certi, meglio mettersi d’accordo con un’a- zienda e pagarla. E questo è, naturalmente, uno dei modi in cui funziona l’attività commerciale legata al software libero. Un altro vantaggio del software libero per l’imprenditoria che fa uso di software riguarda la sicurezza e la privacy. Vedete, quando un programma è proprietario, è impossibile perfino dire come opera in concreto. Potrebbe avere delle funzioni inserite deliberatamente che non piacciono all’utente, qualora ne fosse informato. Potrebbe avere ad esempio una back door onde consentire allo sviluppatore di accedere alla macchina dell’utente. Potrebbe spiare quanto si sta facendo e ridistribuire queste informazioni. Non è insolito. Qualche software Microsoft lo faceva. Ma non è soltanto Micro- soft. Esistono altri programmi proprietari che spiano l’utente. E quest’ultimo non può neppure dire se ciò avvenga o meno. Natu- ralmente anche assumendo la completa onestà dello sviluppato- re, ogni programmatore compie degli errori. Potrebbero esserci dei bug relativi alla sicurezza di cui nessuno ha colpa. Ma il pun-

128 to è: se non è software libero, l’utente non può trovarli. E non può sistemarli. Nessuno ha il tempo di verificare i sorgenti di ogni programma che usa. Non lo fa nessuno. Ma con il software libero esiste un’ampia comunità, e al suo interno c’è gente che controlla que- ste cose. Si può trarre vantaggio da quest’attività, perché se c’è un bug accidentale, ce ne sono di sicuro, di tanto in tanto, in ogni programma, qualcuno può trovarlo e sistemarlo. Ed è meno probabile che la gente ci metta dentro apposta un Trojan horse, o una funzione per spiare, se pensano di poter essere beccati. Gli sviluppatori di software proprietario sanno di non poter essere colti in flagrante. Possono farla franca senza che nessuno lo noti. Ma uno sviluppatore di software libero deve tener conto che la gente verificherà il codice e vedrà cosa c’è. Nella nostra comu- nità, sentiamo che è impossibile farla franca nel forzare una fun- zione nella gola degli utenti se questi non la gradiscono. Sap- piamo che se agli utenti non piace, ne faranno una versione modificata priva di tale funzione. E poi prenderanno tutti ad usare questa versione. Anzi, possiamo tutti ragionarci su, possiamo tutti prevedere ciò abbastanza in anticipo che probabilmente non inseriremo quella funzione. Dopo tutto, si tratta di scrivere un programma libero; voglio che alla gente piaccia la mia versione; non voglio metterci qualcosa che molte persone finiranno per odiare, e vedere un’al- tra versione modificata prendere il posto della mia. Così ci si ren- de conto che nel mondo del software libero l’utente è il re. Nel mondo del software proprietario, il cliente non è il re. Perché non è altro che un cliente. Non ha alcuna voce in capitolo nel softwa- re che usa. In tal senso, il software libero è un nuovo meccanismo per far ope-

129 rare la democrazia. Il professor Lessig,9 ora a Stanford, ha fatto notare che il codice opera come una specie di legislazione. Chiunque riesca a scrivere quel codice che viene usato pratica- mente da tutti per ogni scopo e intento, sta scrivendo le leggi che gestiscono la vita della gente. Con il software libero, tali leggi ven- gono scritte in maniera democratica. Non la forma classica di democrazia – non abbiamo grandi elezioni e cose tipo, “Tutti devono votare su come fare questa funzione” [il pubblico ride]. Invece diciamo, praticamente, quelli tra voi che vogliono lavora- re all’implementazione della funzione in questo modo, proceda- no pure. E se qualcuno vuole lavorare all’implementazione della funzione in quell’altro modo, lo faccia. In un modo o nell’altro la cosa viene realizzata. E se parecchia gente la vuole in questo o quel modo, è così che viene fatta. Tutti contribuiscono alla decisione sociale compiendo semplicemente dei passi nella direzione che cia- scuno preferisce. E ognuno è libero di fare tanti passi quanti se ne vuole, a livello personale. Un’azienda è libera di commissionare a qualcuno i pas- si che ritiene utile compiere. E dopo aver aggiunto tutte queste cose, ciò indica la direzione in cui sta andando il software. Spesso torna molto utile poter prendere dei pezzi da un program- ma già esistente – presumibilmente pezzi alquanto ampi, in gene- re – e poi scrivere in proprio una certa quantità di codice, onde avere un programma che fa esattamente quanto ci occorre, che costerebbe una gamba e un braccio da sviluppare nel caso biso- gnasse scriverlo da zero, se non fosse possibile cannibalizzare ampie porzioni da qualche pacchetto di software libero preesistente. Un’altra cosa derivante dal fatto che l’utente è il re, è che si tende ad essere molto precisi rispetto a commutabilità e standardizza-

9 Lawrence Lessig ha scritto l’introduzione al volume originale inglese.

130 zione. Perché? Perché è quel che piace agli utenti. È probabile che gli utenti rifiutino un programma che presenti incompatibilità inutili. Talvolta c’è un determinato gruppo di utenti che ha dav- vero bisogno di un certo tipo di incompatibilità, e allora l’avran- no. A posto così. Ma quando gli utenti vogliono aderire a uno standard, noi sviluppatori dobbiamo seguirlo, e lo sappiamo. Al contrario, se osserviamo gli sviluppatori di software proprietario, spesso trovano vantaggioso il fatto di non seguire deliberatamen- te uno standard, e non perché ritengano in tal modo di offrire un vantaggio all’utente, ma piuttosto perché così s’impongono all’u- tente, lo incastrano. E si scopre perfino che di tanto in tanto appor- tano modifiche al formato dei file, soltanto per costringere la gen- te a dotarsi della versione più recente. Gli archivisti10 si stanno confrontando con un problema, che spes- so non si può accedere ai file scritti su un computer di dieci anni fa; vennero scritti con software proprietario che sostanzialmente oggi è andato perduto. Se fossero stati scritti con software libero, li si potrebbe aggiornare e far girare. E quel materiale non sareb- be perduto, non sarebbe inaccessibile. Recentemente ci si lamen- tava di questa situazione anche sulla National Public Radio,11 citando il software libero come soluzione. In effetti, usare un pro- gramma non libero per archiviare i propri dati è come nasconde- re la testa sottoterra. Ho illustrato il modo in cui il software libero interessi la maggior parte dell’imprenditoria. Ma come influisce su quella particolare area ristretta che è l’attività commerciale del software stesso? Bene,

10 Numerosi archivisti conservano e condividono migliaia di file via Internet. 11 La National Public Radio è un ente privato e non-profit che, all’epoca di questo intervento, conta 620 stazioni radio pubbliche che trasmettono quotidianamente notizie e musica.

131 la risposta è che per lo più non ha alcuna influenza. E la ragione è che il 90% dell’industria del software, da quanto mi si dice, riguarda lo sviluppo di software personalizzato, software che non è affatto destinato ad essere distribuito. Per il software personaliz- zato, questa questione, la questione etica di essere libero o pro- prietario, non sussiste. La faccenda è che, vedete, è consentito agli utenti modificare e ridistribuire il software? Qualora esista un uni- co utente, il quale ne detiene i diritti, non c’è problema. Quell’u- tente è libero di fare tutte queste cose. In effetti, qualsiasi pro- gramma personalizzato sviluppato da un’azienda per usi interni è software libero, fintantoché si ha il senso di insistere ad avere il codice sorgente e tutti i diritti. La questione praticamente non esiste per il software che opera in un orologio da polso o in un forno a microonde o nel sistema d’ac- censione di un’automobile, perché si tratta di luoghi in cui non si preleva alcun software da installare. Non è un vero computer, per quanto riguarda l’utente, così non solleva simili questioni al pun- to tale da essere eticamente importanti. Per la maggior parte, l’in- dustria del software andrà avanti proprio come ha sempre fatto. E la cosa interessante è che una frazione così ampia di posti di lavo- ro riguarda tale industria, pur in mancanza di possibilità per atti- vità commerciali di software libero, gli sviluppatori di software libero potrebbero trovare impiego scrivendo software personaliz- zato. [il pubblico ride] Ce ne sono così tanti; la percentuale è tal- mente ampia. Succede però che esiste un’imprenditoria del software libero. Esi- stono aziende di software libero, e alla conferenza stampa che seguirà parteciperanno anche rappresentanti di un paio di tali aziende. Naturalmente ci sono anche aziende che non si occu- pano di software libero ma che sviluppano utili parti di softwa-

132 re libero per la distribuzione, e il software libero che producono è sostanziale. Ora, come operano le aziende di software libero? Alcune di loro vendono copie. L’utente è libero di copiare, ma tali aziende pos- sono anche vendere migliaia di copie al mese. Altre vendono sup- porto e altri tipi di servizi. Personalmente, nella seconda metà degli anni ‘80 ho venduto servizi di assistenza al software libero. Prati- camente, dicevo, per 200 dollari l’ora posso modificare qualsiasi cosa volete nel software GNU che ho scritto. Sì, era una tariffa esosa, ma si trattava di un programma di cui ero l’autore, la gen- te avrebbe capito che avrei concluso il lavoro in molte meno ore. [il pubblico ride] Mi guadagnai da vivere in tal modo. Anzi, gua- dagnai più di quanto avessi mai fatto prima. Ho anche tenuto dei corsi. Continuai così fino al 1990, quando ricevetti un grosso pre- mio12 e non dovetti più farlo. Ma il 1990 fu quando si formò la prima corporation nell’impren- ditoria del software libero, che fu Cygnus Support. Sostanzial- mente la loro attività era dello stesso tipo di quanto avevo fatto io. Sicuramente avrei potuto lavorare per loro, qualora ne avessi avu- to bisogno. Non avendone bisogno, ritenni positivo per il movi- mento rimanere indipendente da qualsiasi azienda. In tal modo avrei potuto dire cose buone e cattive sulle varie aziende di softwa- re libero e di software non libero, senza conflitti d’interesse. Così avrei potuto servire meglio il movimento. Ma se avessi avuto biso- gno di guadagnarmi da vivere, avrei lavorato per loro. È un’attività commerciale etica. Per nessuna ragione mi sarei vergognato di lavo-

12 Il riferimento è al MacArthur Fellowship, definito da altri anche come “il sussidio del genio”. Si tratta di un sussidio di sostentamento della durata di cinque anni, dato a individui che mostrano meriti eccezionali e promettono di proseguire e migliorare il proprio lavoro creativo.

133 rare con loro. E quell’azienda raggiunse dei guadagni netti nel pri- mo anno di vita. Venne fondata con un capitale minimo, soltanto il denaro dei tre fondatori. Continuò a crescere ogni anno e ad ave- re profitti ogni anno, finché divennero ingordi di denaro e cerca- rono investitori esterni, e rovinarono tutto. Ma ci furono svariati anni di successo, prima di diventare ingordi. Ciò illustra uno degli aspetti eccitanti del software libero. Il software libero dimostra che non si ha bisogno di tirare su dei capitali per sviluppare software libero. Se si hanno dei capitali, si può assumere qualcuno per scrivere vario software. Ma si può fare parecchio con un piccolo numero di persone. Anzi, la tre- menda efficacia del processo di sviluppo del software libero è una delle ragioni per cui è importante che il mondo passi al software libero. Ciò inoltre smentisce quanto sostengono in Microsoft, quando dicono che la GNU GPL è negativa perché rende loro più difficile mettere insieme i capitali per lo svilup- po di software non libero e prendere il nostro software libero e mettere il nostro codice nei loro programmi che non vogliono condividere. Praticamente non abbiamo bisogno che raccolga- no dei capitali in tal modo. Possiamo farcela comunque. Stia- mo per farcela. La gente era solita dire che non avremmo mai potuto avere un sistema operativo libero completo. Ora l’abbiamo fatto e anche molto di più. Direi che abbiamo raggiunto un ordine di grandez- za superiore allo sviluppo di software ad uso generico sufficiente a coprire le necessità del mondo intero. E ciò in un mondo in cui oltre il 90% degli utenti ancora non usa software libero. Ciò in un mondo dove oltre la metà di tutti i server Web del mondo girano su GNU/Linux con Apache come server Web. Domanda: Cos’hai appena detto, Linux?

134 RMS: Ho detto GNU/Linux. Domanda: Davvero? RMS: Sì, se parlo del kernel lo definisco Linux. È così che si chia- ma. Il kernel è stato scritto da Linus Torvalds, e dovremmo chia- marlo con il nome scelto da lui, per rispetto all’autore. In generale, nell’imprenditoria la maggioranza degli utenti non usa GNU/Linux. Gran parte dei comuni utenti ancora non usa il nostro sistema. Quando lo faranno, dovremmo avere automatica- mente 10 volte il numero di volontari e 10 volte il numero di clien- ti per le aziende di software libero degli attuali. Ciò ci porterà a quell’ordine di grandezza. A questo punto, nutro molta fiducia che riusciremo a farcela. Ciò è importante perché Microsoft sembra voglia sentirci dispe- rati. Dicono, “L’unico modo con cui poter avere software, l’unico modo con cui si può avere innovazione, è dandoci potere. Con- sentiteci di dominarvi. Fateci controllare cosa potete fare con il software che usate, in modo che possiamo spremervi un sacco di soldi, e usarne una parte per sviluppare software, tenendo il resto come guadagno”. Be’, non dovremmo mai sentirci talmente disperati. Non dovrem- mo mai sentirci così disperati da rinunciare alla libertà. Sarebbe molto pericoloso. Un’altra cosa riguardo Microsoft, be’, non soltanto Microsoft, la gente che non sostiene il software libero generalmente adotta un sistema di valori dove l’unica cosa che conta sono i benefici prati- ci a breve termine: Quanti soldi riuscirò a fare quest’anno? Qua- le lavoro potrò concludere oggi? Pensieri a breve termine e pen- sieri ristretti. L’assunto è che è ridicolo immaginare che qualcuno possa mai fare un sacrificio in nome della libertà.

135 Ieri13 molta gente ha tenuto discorsi sugli americani che hanno fatto dei sacrifici per la libertà dei compatrioti. Alcuni di loro han- no fatto grandi sacrifici. Hanno sacrificato perfino la propria vita per quei tipi di libertà di cui ognuno nel nostro paese ha sentito parlare. (Almeno in alcuni casi; credo che occorra ignorare la guer- ra in Vietnam). Ma fortunatamente conservare la libertà nell’uso del software non richiede grandi sacrifici. Bastano sacrifici minimi, piccoli, come imparare l’interfaccia a linee di comando, se ancora non abbiamo un programma con interfaccia grafica. Come fare un lavoro in questo modo, perché non abbiamo ancora un pacchetto di softwa- re libero per farlo in quell’altro modo. Come dare dei soldi a un’a- zienda che sta per sviluppare un certo pacchetto di software libe- ro, in modo che lo si possa avere nel giro di qualche anno. Vari piccoli sacrifici che tutti noi possiamo fare. E in tempi lunghi ne avremo beneficiato anche noi. In realtà è più un investimento che un sacrificio. Dobbiamo soltanto mantenere una prospettiva a lungo termine per comprendere che è positivo per noi investire nel miglioramento della società, senza fare i conti in tasca a chi guadagna qualcosa a seguito di tale investimento. A questo punto, direi di aver praticamente concluso. Vorrei menzionare che un nuovo approccio all’attività commer- ciale del software libero viene proposto da Tony Stanco, da lui defi- nito “sviluppatori liberi” (“Free Developers”), che include una cer- ta struttura imprenditoriale che spera alla fine di pagare una par- te degli utili a tutti gli autori di software libero aderenti a tale orga- nizzazione. Ora stanno considerando la prospettiva di ottenere dei grossi contratti governativi per lo sviluppo di software in India,

13 Il giorno prima era Memorial Day, la festività statunitense in cui si commemorano gli eroi di guerra.

136 perché qui si apprestano a usare software libero come base di par- tenza, visti i tremendi risparmi di spesa. E ora credo che dovrei sollecitare le vostre domande.

Sessione di domande e risposte Domanda: In che modo un’azienda come Microsoft potrebbe includere un contratto di software libero? RMS: Veramente, Microsoft prevede di trasformare buona parte della propria attività in servizi. E quel che pensano di fare è qual- cosa di sporco e pericoloso, ovvero legare i servizi ai programmi, uno all’altro, in una specie di zigzag. In modo che per usare que- sto servizio bisogna prima usare questo programma Microsoft, il che significa che si avrà bisogno di quel servizio, quel programma e così via... è tutto cucito insieme. Questo è il loro piano. Ora, la cosa interessante è che la vendita di tali servizi non solle- va la questione etica del software libero e del software non libero. Potrebbe essere perfettamente corretto per loro avere un’attività per le aziende che vendono quei servizi in rete. Tuttavia, quel che Microsoft prevede di fare è usarle per imporre un blocco ancor più grande, un monopolio ancora più ampio, sul software e sui servi- zi, e ciò veniva descritto in un recente articolo. Qualcun altro sostiene che sta trasformando la rete nella Microsoft Company Town. E ciò ha una certa rilevanza perché i giudici del processo antitru- st raccomandavano di dividere l’azienda – ma sotto un certo pun- to di vista ciò non avrebbe alcun senso, non porterebbe nulla di positivo – in una parte per il sistema operativo e un’altra per le applicazioni. Ma dopo aver letto quell’articolo, credo possa tornare utile e effi- cace dividere Microsoft in due parti, un’azienda per i servizi e

137 un’altra per il software, imponendo a entrambe di operare a una certa distanza tra loro. All’azienda dedicata ai servizi andrebbe altresì imposto di pubblicare il codice delle interfacce impiegate, in modo che chiunque possa scrivere un programma client per comunicare con tali interfacce, e direi che simili servizi debbano essere a pagamento. Be’, ciò sarebbe positivo. Questa è una fac- cenda completamente diversa. Se Microsoft venisse divisa in tal senso... servizi e software, non potrebbero usare il proprio software per far fuori la competizione con i servizi Microsoft. E non sarebbero in grado di usare i propri servizi per bloccare la competizione con il software Microsoft. Noi potremmo creare il software libero, e forse gli utenti lo userebbe- ro per parlare con i servizi Microsoft, e non ce ne preoccuperemo. Perché, dopo tutto, nonostante Microsoft sia l’azienda di softwa- re proprietario che ha sottomesso la maggior parte di persone – gli altri ne hanno sottomessi di meno, non che non ci abbiano pro- vato, è soltanto che non sono riusciti a conquistarne così tanti. Il problema non è Microsoft e soltanto Microsoft. Microsoft è l’e- sempio più eclatante del problema che stiamo cercando di risol- vere, ovvero il software proprietario che ruba agli utenti la libertà di cooperare e dare vita a una società etica. Per cui non dovrem- mo concentrarci troppo su Microsoft, anche se mi hanno offerto l’opportunità di essere su questo podio. Ciò non li rende così importanti. Non sono tutto per tutti. Domanda: Prima parlavi delle differenze filosofiche tra open sour- ce e software libero. Come vedi la recente tendenza delle distribu- zioni GNU/Linux verso l’esclusivo supporto di piattaforme Intel? E il fatto che sembra che un numero sempre minore di sviluppa- tori scriva programmi in modo corretto, software che si compili ovunque? E fa software che funziona unicamente su sistemi Intel?

138 RMS: Non vedo alcuna questione etica qui. Pur se, in effetti, tal- volta le aziende produttrici portano il sistema GNU/Linux sulle proprie macchine. Sembra che recentemente lo abbia fatto Hew- lett-Packard. E non si sono curati di pagare per portarvi Windows, perché sarebbe costato troppo. Ma per il supporto di GNU/Linux, credo siano serviti cinque programmatori per qualche mese. Era facilmente fattibile. Naturalmente io incoraggio la gente a usare autoconf, un pac- chetto GNU che facilita la portabilità dei progammi. Li incorag- gio a fare così. Oppure quando qualcun altro sistema quel bug che non compilava su una certa versione del sistema, e ti spedisce la riparazione, dovresti inserirla. Ma non considero ciò come una questione etica. Domanda: Due commenti. Uno è: recentemente sei intervenuto al MIT, ne ho letto la trascrizione. Qualcuno ha fatto una doman- da sui brevetti, e tu hai risposto che “i brevetti sono una faccenda completamente diversa. Non ho nulla da commentare al riguar- do.” RMS: Esatto. In realtà avrei molto da dire sui brevetti, ma ci vuo- le un’ora. [il pubblico ride] Domanda: Volevo dire questo: Mi sembra che ci sia una questio- ne da affrontare. Esiste un motivo per cui le aziende definiscono sia i brevetti che i copyright come delle proprietà importanti nel tentativo di far passare questo concetto, ovvero che vogliono usa- re il potere dello Stato per creare un monopolio per se stesse. Ciò che accomuna queste cose non è che ruotino intorno alle medesi- me questioni, che la motivazione non è veramente una faccenda di servizio pubblico, quanto quella dell’imprenditoria di arrivare a un monopolio per i propri interessi privati.

139 RMS: Hai ragione sul fatto che vogliono questo. Ma esiste un ulte- riore motivo perché insistono a usare il termine proprietà intel- lettuale. È che non vogliono incoraggiare la gente a pensare con attenzione alle questioni del copyright o dei brevetti. Perché le leg- gi sul copyright e quelle sui brevetti sono totalmente differenti, e gli effetti del copyright sul software e gli effetti dei brevetti sul software sono completamente diversi tra loro. I brevetti sul software sono una restrizione sui programmatori, vie- tando loro di scrivere certi tipi di programmi, diversamente da quanto fa il copyright. Con il copyright, almeno se si è l’autore del programma, se ne consente la distribuzione in proprio. Perciò è assai importante separare le due questioni. Hanno appena qualcosa in comune, a un livello minimo, e tutto il resto è diverso. Vi invito quindi a incoraggiare una riflessione chiara, o si discute di copyright oppure di brevetti. Ma non par- liamo di proprietà intellettuale. Non ho opinioni su quest’ultima. Ma ho opinioni sul copyright, sui brevetti e sul software. Domanda: All’inizio hai detto che un programma informatico è un linguaggio funzionale, come le ricette. Ma c’è un ampio diva- rio per passare dalle ricette di cucina ai programmi informatici, e dalla lingua inglese ai programmi informatici – la definizione di “linguaggio funzionale” è molto ampia. Ciò sta provocando dei problemi nel caso del DeCSS per i DVD. RMS: Le questioni sono in parte simili ma in parte diverse, per le cose che non sono funzionali in natura. Parte della questione può essere trasferita ma non per intero. Purtroppo ci vorrebbe un’altra ora per chiarirlo, non ho il tempo di farlo. Ma direi che tutte le opere funzionali devono essere libere nello stesso senso del softwa- re. Intendo, libri di testo, manuali, dizionari, ricette, e via di segui- to.

140 Domanda: Stavo pensando alla musica online. Esistono differen- ze e analogie in tutti questi casi. RMS: Esatto. Direi che la libertà minima che dovremmo avere per qualsiasi tipo di informazioni pubblicate sia la libertà di ridistri- buirle a livello non commerciale, in integrale. Per opere funzio- nali, dobbiamo avere la libertà di pubblicare a livello commercia- le una versione modificata, perché ciò è incredibilmente utile alla società. Per opere non funzionali, lavori d’intrattenimento, o este- tici, che esprimono il punto di vista di una persona, forse non dovrebbero essere modificate. E forse ciò significa che è bene ave- re il copyright a coprirne la distribuzione commerciale. Teniamo a mente che secondo la costituzione statunitense lo sco- po del copyright è a beneficio del pubblico. È quello di cambiare il comportamento di certe entità private, in modo che pubblichi- no più libri. E il beneficio è che la società può discutere sulle varie questioni e trarne giovamento. E poi abbiamo la letteratura. Abbiamo le opere scientifiche. Lo scopo è incoraggiare tutto ciò. Il copyright non esiste a favore degli autori, per non parlare del vantaggio degli editori. Costoro esistono a servizio dei lettori e di tutti coloro che trarranno beneficio dalla comunicazione del- l’informazione che avviene quando qualcuno scrive e altri leggo- no. E quest’obiettivo mi trova d’accordo. Ma nell’epoca delle reti informatiche il metodo non è più soste- nibile, perché oggi richiede leggi draconiane che invadono la pri- vacy di chiunque e terrorizzano tutti. Anni di carcere per aver con- diviso con il vicino. Non era così all’epoca della stampa. Allora il copyright era una regolamentazione industriale. Poneva limita- zioni agli editori. Oggi sono questi ultimi a imporre restrizioni al pubblico. Il rapporto di potere è stato ribaltato di 180 gradi, pur trattandosi della medesima legislazione.

141 Domanda: Cioè, potremmo avere la stessa cosa, tipo fare musica da altra musica? RMS: Giusto. Questa è un’interessante... Domanda: E opere uniche, nuove, e ciò significa ancora parecchia cooperazione. RMS: Lo è. Credo che probabilmente richieda un qualche con- cetto di uso legittimo (“fair use”). Sicuramente prendere qualche secondo di musica per usarlo in altri lavori, dovrebbe essere chia- ramente un uso legittimo. Non saprei dire se i giudici siano d’ac- cordo, ma dovrebbero. Ciò non comporterebbe alcun cambia- mento sostanziale nel sistema in vigore finora. Domanda: Cosa pensi della pubblicazione di informazioni pub- bliche in formati proprietari? RMS: Oh, non dovrebbe succedere. Il governo non dovrebbe mai imporre ai cittadini di usare programmi non liberi per l’accesso, per comunicare con il governo in qualsiasi modo, in qualunque contesto. Domanda: Ho usato, ora lo dico, GNU/Linux... RMS: Grazie. [il pubblico ride] Domanda: ...per gli ultimi quattro anni. Una cosa che mi ha crea- to problemi e che è piuttosto essenziale, credo, per tutti noi, è poter navigare sul Web. RMS: Sì. Domanda: Una cosa che è stata decisamente una debolezza nel- l’uso del sistema GNU/Linux riguarda la navigazione sul Web, perché lo strumento più diffuso per farlo, Netscape...

142 RMS:... non è software libero. Consentitemi di rispondere su questo. Voglio arrivare al punto, per meglio chiarire la questione. Sì, c’è stata una forte tendenza a usare Netscape Navigator sui sistemi GNU/Linux. Anzi, viene incluso in tutti i sistemi commerciali. È una situazione ironica: abbiamo lavo- rato così duramente per fare un sistema operativo libero e ora, quan- do si va in un negozio, vi si trovano versioni di GNU/Linux, in mag- gioranza viene chiamato Linux, e non sono libere. Be’, per una par- te lo sono. Ma poi c’è Netscape Navigator, e forse anche altri pro- grammi non liberi. Così diventa difficile trovare un sistema vera- mente libero, a meno di non sapere bene cosa si stia facendo. O, naturalmente si può non installare Netscape Navigator. In realtà per molti anni sono esistiti dei browser Web liberi. C’è un browser libero che ero solito usare, chiamato Lynx, è un brow- ser non grafico, solo testuale. Ha un grosso vantaggio, nel senso che non vedi la pubblicità. [il pubblico ride] [applausi] In ogni caso, esiste un progetto grafico libero chiamato Mozilla, che ora sta raggiungendo il punto in cui è possibile usarlo. E occa- sionalmente lo faccio. Domanda: Konqueror 2.01 funziona molto bene. RMS: Ecco un altro browser grafico libero. Finalmente stiamo risolvendo il problema, credo. Domanda: Puoi parlare delle divisioni filosofiche/etiche tra softwa- re libero e open source? Ritieni che siano inconciliabili [cambio di nastro, manca la fine delle domanda e l’inizio della risposta] RMS:... per la libertà e l’etica. O se basta dire, Spero che voi imprenditori decidiate che è economicamente vantaggioso per voi consentirci di fare queste cose.

143 Ma, come ho già detto, in molti lavori pratici non importa veramen- te quali siano le idee politiche di una persona. Quando costui si offre di aiutare il progetto GNU, non gli diciamo: “Devi essere d’accordo con le nostre idee politiche.” Gli diciamo che in un pacchetto GNU devi definire il sistema GNU/Linux e chiamarlo software libero. Quel che dici quando non hai a che fare con il progetto GNU è affar tuo. Domanda: L’IBM ha lanciato una campagna diretta alle agenzie governative, per vendere le loro grandi macchine nuove, usando Linux come punto forte di vendita, loro dicono Linux. RMS: Si, naturalmente si tratta di GNU/Linux. [il pubblico ride] Domanda: Infatti! Ma vallo a dire al manager delle vendite. Non sa nulla di GNU. RMS: Il problema è che hanno già deciso con cura quel che voglio- no dire onde trarne vantaggio. E la questione di cosa sia più accu- rato, o legittimo, o il modo corretto di descriverlo non è di pri- maria importanza per un’azienda come quella. Per qualche azien- da minore, c’è un responsabile. E se il responsabile si mostra incli- ne a considerare piccole questioni come questa, potrebbe decidere in tal senso. Ma non una grande corporation. È una vergogna. C’è un’altra questione più importante e più sostanziale su quanto va facendo IBM. Dicono che stanno mettendo un miliardo di dollari in “Linux.” Ma forse dovrei usare le virgolette anche per “in”, per- ché parte di quel denaro servirà a pagare persone che sviluppano software libero. Ciò è un contributo concreto alla comunità. Ma con altre parti si pagheranno persone per scrivere software proprietario, o versioni di software proprietario che possano girare su GNU/Linux, e ciò non è affatto un contributo alla nostra comunità. Ma IBM sta ammucchiando tutto insieme. Parte potrebbe essere

144 pubblicità, che è un qualche tipo di contributo, pur se parzialmen- te errato. È una situazione complicata. Una parte di quanto vanno facendo è un contributo, un’altra non lo è, e un’altra parte ancora lo è in qualche modo ma non precisamente. E non si può soltanto ammucchiare tutto insieme e dire, “Bene! Un miliardo di dollari dal- l’IBM.” [il pubblico ride] È una semplificazione eccessiva. Domanda: Puoi parlare ancora un po’ delle idee che portarono alla Licenza Pubblica Generica? RMS: Le idee che portarono alla Licenza Pubblica Generica? In parte volevo tutelare la libertà della comunità contro i fenomeni che ho descritto con X Windows, che si sono verificati anche con altri programmi liberi. Anzi, quando riflettevo su questa faccenda X Windows non era stato ancora diffuso. Ma avevo visto sorgere il problema in altri programmi liberi. TeX, ad esempio. Volevo esser certo che tutti gli utenti avessero avuto la libertà. Altrimenti, mi resi conto che avrei scritto un program- ma e forse un sacco di gente l’avrebbe usato, ma senza avere la libertà. E qual’è il punto di fare così? Ma l’altra questione su cui andavo riflettendo era che volevo dare alla comunità la sensazione che non fosse uno zerbino, la sensazio- ne che non potesse essere preda di un parassita qualsiasi che se ne andava in giro. Se non si usa il copyleft, sostanzialmente si dice: [con voce sommessa] “Prendi il mio codice, fanne quel che vuoi, non dico no.” Così può avvicinarsi chiunque e dire: [con voce molto decisa] “Ah, ne farò una versione non libera, me lo prendo.” Allora probabilmente lo miglioreranno un po’, e quelle versioni non libe- re piaceranno agli utenti, finendo per sostituire le versioni libere. E allora, cosa avremmo ottenuto? Avremmo soltanto fatto una dona- zione a qualche progetto di software proprietario.

145 E quando la gente si accorge di cosa succede, quando vede altri pren- dere quel che ho fatto io, senza dare nulla in cambio, può essere demoralizzante. Non si tratta di pure congetture. L’ho visto acca- dere. Fu parte di quanto avvenne con la scomparsa della comunità a cui appartenevo negli anni ‘70. Qualcuno prese a diventare poco cooperativo. E ne assumemmo che stavano guadagnandoci sopra in qualche modo. Certamente si comportavano come se stessero gua- dagnandoci sopra. Ci rendemmo conto come fosse possibile appro- priarsi semplicemente della nostra cooperazione e non dar nulla in cambio. E non potevamo far nulla per impedirlo. Fu molto scorag- giante. Ne discutemmo tra quelli che non gradivano la tendenza, ma non ci venne in mente alcuna idea per bloccarla. La GPL è progettata per bloccare ciò. Dice: Sì, sei benvenuto nella nostra comunità e puoi usare questo codice. Puoi usarlo per ogni tipo di lavoro. Ma se ne diffondi una versione modificata, devi farlo nel- la comunità, come parte di questa, come parte del mondo libero. In effetti esistono ancora parecchi modi in cui è possibile trarre vantaggio dal nostro lavoro senza contribuirvi, come il fatto di non dover scrivere alcun software. Molta gente usa GNU/Linux e non scrive alcun software. Non esiste alcun requisito perché l’utente debba fare qualcosa per noi. Ma se si fa un certo tipo di cose, biso- gna dare il proprio contributo. È questo che s’intende dicendo che la comunità non è un zerbino. E credo che ciò abbia aiutato la gente a rafforzarsi per dire, Non vogliamo essere calpestati dal pri- mo che passa, ci difenderemo. Domanda: Considerando il software libero ma non sotto copyleft, visto che chiunque può prenderlo e renderlo proprietario, non è possibile anche prenderlo, modificarlo e diffondere l’intero pro- gramma sotto la GPL?

146 RMS: Sì, è possibile. Domanda: Allora ciò imporrebbe la GPL a tutte le copie future. RMS: Derivanti da quel programma. Ecco perché in genere non lo facciamo. Fatemi spiegare. Volendo, potevamo prendere X Windows e farne una copia coperta dalla GPL con delle modifi- che. Ma c’è un gruppo più ampio di gente che lavora a migliora- re X Windows senza metterlo sotto GPL. Così, se lo avessimo fat- to, ci saremmo divisi da loro (“forking”). E ciò non è un com- portamento positivo nei loro confronti. Fanno parte della comu- nità, producono dei contributi. Secondo, si sarebbe rivelato un boomerang, perché stanno lavo- rando su X assai più di quanto avremmo fatto noi. La nostra ver- sione sarebbe stata inferiore alla loro, la gente non l’avrebbe usa- ta, il che vuol dire, perché mai darsi la pena di farlo? Se qualcuno apporta dei miglioramenti a X, gli direi di collabora- re con il gruppo di sviluppo di X. Faglielo avere e lascia che lo usi- no a modo loro. Perché stanno sviluppando un pezzo di software libero molto importante. È positivo per noi collaborare con loro. Domanda: Eccetto che, considerando X in particolare, circa due anni fa, X Consortium era ben addentro nell’open source non libero.... RMS: Be’, in realtà non era open source. Possono aver detto lo fosse, non ricordo se lo dissero o meno. Ma non era open source. Era ristret- to. Non lo si poteva distribuire a livello commerciale, credo. O non se ne poteva distribuire commercialmente una versione modificata, o qualcosa del genere. C’era una restrizione considerata inaccettabile sia dal movimento del software libero sia da quello open source. E sì, ciò è quanto si rischia quando si usa una licenza non copy- left. In effetti, X Consortium aveva una posizione molto rigida.

147 Dicevano: Se una parte anche minima del programma è sotto copyleft, non lo distribuiremo affatto. Non lo inseriremo nella nostra distribuzione. In tal modo molte persone vennero pressate a non usare il copy- left. E il risultato fu che più tardi tutto il loro software rimase aper- to e disponibile. Quando le stesse persone fecero pressione su uno sviluppatore perché troppo permissivo, allora il gruppo di X disse: “Va bene, ora possiamo porre delle restrizioni,” il che non era mol- to etico da parte loro. Ma considerata la situazione, vogliamo vera- mente danneggiare le nostre risorse per mantenere una versione alternativa di X coperta dalla GPL? Non avrebbe alcun senso far- lo. Ci sono molte altre cose che dobbiamo fare. Occupiamoci di queste invece. Meglio collaborare con gli sviluppatori di X. Domanda: Puoi commentare, GNU è un marchio registrato? Ed è pratico includerlo come parte della Licenza Generica Pubblica che consente i marchi registrati? RMS: In realtà stiamo per richiedere la registrazione del marchio per GNU. Ma non ha nulla a che fare con ciò. Sarebbe una sto- ria lunga spiegarne il perché. Domanda: Si potrebbe imporre di esporre il marchio nei pro- grammi coperti dalla GPL. RMS: No, non credo sia possibile. Le licenze coprono programmi singoli. E quando un programma fa parte del progetto GNU, nes- suno mente al riguardo. Il nome del sistema è una questione com- pletamente diversa. È una faccenda laterale. Non vale la pena discuterne ulteriormente. Domanda: Se potessi premere un pulsante per costringere tutte le aziende a rendere libero il proprio software, quale pulsante sarebbe?

148 RMS: Be’, lo userei soltanto per il software pubblicato. Credo che la gente abbia il diritto a scrivere programmi privati e a farne uso. E ciò include le aziende. Questa è una questione di privacy. È vero, possono esserci delle volte in cui ciò sia sbagliato, come quando qualcosa è terribilmente utile all’umanità e invece la si tiene segre- ta. È sbagliato, ma è un errore di tipo diverso. Si tratta di una fac- cenda diversa, pur riguardando la medesima area. Sì, direi che tutto il software pubblicato debba essere libero. E ricordiamolo, quando non è software libero, lo si deve all’inter- vento governativo. Il governo interviene per renderlo non libero. Il governo crea poteri giuridici speciali da trasferire ai proprietari dei programmi, in modo che questi possano chiamare la polizia per impedirci di usare quei programmi in un certo modo. E con questo, direi di terminare. Ed Schonberg: L’intervento di Richard ha creato una quantità enor- me di energia intellettuale. Vorrei suggerire che parte di questa dovrebbe essere diretta per usare, e possibilmente per scrivere, softwa- re libero. Dovremmo chiudere rapidamente. Vorrei aggiungere che Richard ha iniettato in una professione nota al pubblico generale per un’apatia politica terminale, un livello di discussione politica e mora- le che, credo, sia senza precedenti nella nostra professione. E per que- sto gli dobbiamo davvero molto. [il pubblico applaude]

Questa è la trascrizione di un intervento tenuto alla New York University il 29 maggio 2001. Questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

149 Termini da evitare

Ci sono vari termini ed espressioni che raccomandiamo di evita- re perché risultano ambigui oppure implicano un’opinione che speriamo non condividiate per intero. Licenze tipo-BSD L’espressione “licenza di tipo BSD” crea confusione perché fa un solo fascio di licenze che presentano differenze importanti. Ad esempio, la licenza BSD originale con la sua clausola pubblicita- ria è incompatibile con la Licenza Pubblica Generica (GPL), men- tre invece la nuova licenza BSD è compatibile con la GPL. Per evitare confusioni, è meglio indicare la specifica licenza cui ci si riferisce, evitando la vaga locuzione “di tipo BSD”. Commerciale È bene non usare “commerciale” come sinonimo di “non-libero”. Ciò confonde due questioni del tutto diverse tra loro. Un programma è commerciale se viene sviluppato come attività imprenditoriale. Un programma commerciale può essere libero o non-libero, a seconda della relativa licenza. Analogamente, un programma sviluppato da una scuola o da un individuo può esse- re libero o non-libero sulla base della relativa licenza. Le due que- stioni, quale tipo di entità ha sviluppato il programma e quale la libertà concessa agli utenti, sono indipendenti tra loro. Nel primo decennio di attività del Movimento del Software Libe- ro, i pacchetti di software libero erano quasi sempre non-com- merciali; le componenti del sistema operativo GNU/Linux furo- no sviluppate da individui, da organizzazioni senza scopo di lucro

150 come la Free Software Foundation o da università. Ma negli anni ‘90 ha preso a circolare il software libero commerciale. Il softwa- re libero commerciale è un contributo per la nostra comunità, per- ciò dovremmo incoraggiarlo. Ma quanti credono che “commerciale” significhi “non-libero”, tenderanno a considerare contraddittoria la combinazione “libe- ro commerciale”, scartando questa possibilità. Bisogna stare atten- ti a non utilizzare il termine “commerciale” in tal senso. Contenuto L’utilizzo del sostantivo “contenuto” (content) per descrivere ope- re scritte e di altro tipo create da un autore rivela un atteggiamento specifico nei confronti di tali opere: le considera come beni di con- sumo intercambiabili il cui scopo è quello di riempire una scato- la e far soldi. In realtà ciò significa considerare in maniera irri- spettosa le opere stesse. Coloro che usano questo termine sono spesso editori tesi ad otte- nere un maggior potere nel copyright a nome degli autori (o “crea- tori”, come vanno definendoli) delle opere. Il termine “contenu- to” ne rivela i sentimenti concreti. Finché altri continuano ad usare l’espressione “fornitori di conte- nuto”, i dissidenti politici potranno sicuramente autodefinirsi “fornitori di sconten(u)to”. (In inglese “content” significa sia “contento” che “contenuto”). Creatore Applicare il termine “creatore” agli autori significa paragonarli implicitamente a una deità (“il creatore”). Questo termine viene usa- to dagli editori per elevare la statura morale degli autori al di sopra della gente comune, onde giustificare un maggior potere del copy- right che gli editori possono esercitare a nome degli stessi autori.

151 Digital Rights Management (Gestione dei diritti digitali) Il software per il “Digital Rights Management” in realtà è progetta- to per imporre restrizioni agli utenti di computer. Il ricorso al ter- mine “diritti” in questo contesto è pura propaganda, mirata a farci considerare inconsciamente la questione dal punto di vista dei pochi che impongono tali restrizioni, ignorando al contempo quella dei molti a cui le restrizioni vengono imposte. Buone alternative sono espressioni quali “Digital Restrictions Management” (Gestione del- le restrizioni digitali) e “handcuffware” (software-manette). For free (gratuito) Quando ci si riferisce a un programma di software libero (free software), meglio non dire che è disponibile “for free”, gratuita- mente. Questo termine (in inglese) significa specificamente “a costo zero”. Il software libero è una questione di libertà, non di prezzo. Spesso le copie di programmi di software libero sono disponibili “for free”, a costo zero – ad esempio, tramite download via FTP. Ma copie di programmi di software libero sono disponibili anche a pagamento su CD-ROM; invece, le copie di software proprie- tario talvolta sono disponibili gratuitamente a fini promozionali e alcuni pacchetti proprietari sono normalmente disponibili a costo zero per determinati utenti. Onde evitare confusioni, si può dire che il programma è disponi- bile “come software libero”. Freeware Evitiamo per favore il termine “freeware” come sinonimo di “software libero” (free software). Il termine “freeware” veniva spes- so usato negli anni ‘80 per indicare programmi rilasciati per la sola esecuzione, senza renderne disponibili i codici sorgenti. Oggi tale termine non indica alcuna specifica definizione generale.

152 Inoltre, per lingue diverse dall’inglese, è bene evitare di prendere in prestito termini inglesi come “free software” o “freeware”. Cer- cate di utilizzare le espressioni spesso meno ambigue offerte dalla vostra lingua. Questo un elenco di traduzioni raccomandate e non ambigue per il termine “free software” in altre lingue: Ceco: svobodny software Coreano: ja-yu software Danese: fri software OPPURE frit programmel Esperanto: libera softwaro Finnico: vapaa ohjelmisto Francese: logiciel libre Giapponese: jiyuu-na software Indonesiano: perangkat lunak bebas Islandese: frjls hugbnaur Italiano: software libero Norvegese: fri programvare Olandese: vrije software Polacco: wolne oprogramowanie Portoghese: software livre Slovacco: slobodny softver Sloveno: prosto programje Spagnolo: software libre Svedese: fri programvara Tedesco: freie Software Turco: ozgur yazilim Ungherese: szabad szoftver Usando un termine nella vostra lingua, dimostrate che vi riferite effettivamente alla libertà e non state semplicemente cercando di scimmiottare qualche misterioso concetto straniero di marketing.

153 All’inizio, il riferimento alla libertà potrà sembrare strano o fasti- dioso ai vostri concittadini, ma quando ne considereranno il signi- ficato preciso, capiranno veramente di cosa si tratta. Furto I sostenitori del diritto d’autore spesso usano termini quali “ruba- to” e “furto” per descrivere le infrazioni al copyright. Allo stesso tempo costoro ci chiedono di considerare il sistema giudiziario come un’autorità in campo etico: se copiare è vietato, allora dev’es- sere qualcosa di male. Perciò è pertinente ricordare che il sistema giuridico – almeno negli USA – nega il concetto secondo cui l’infrazione al diritto d’autore sia un “furto”. I sostenitori del copyright si appellano a un’autorità... e presentano in maniera sbagliata quanto sostiene tale autorità. L’idea secondo cui siano le leggi a stabilire ciò che è giusto o sbagliato in generale è errata. Nel migliore dei casi, que- ste norme rappresentano il tentativo di ottenere giustizia: soste- nere che siano le leggi a definire la giustizia o il comportamento etico equivale a ribaltare completamente le cose. Pirateria Spesso gli editori descrivono l’attività proibita della copia come “pirateria” (piracy). In questo modo, sottintendono che effettua- re una copia illegale equivale eticamente all’assalto di navi in alto mare, al rapimento e all’assassinio di quanti si trovano a bordo. Se non ritenete che effettuare copie illegali sia analogo al rapi- mento e all’assassinio, forse preferirete evitare il ricorso al termi- ne “pirateria” per descrivere tale pratica. In sostituzione, si posso- no usare espressioni neutre quali “copia proibita” o “copia non autorizzata”. Alcuni potrebbero addirittura preferire un’espressio- ne positiva come “condividere informazioni con il vicino”.

154 Proprietà intellettuale Editori e avvocati amano descrivere il diritto d’autore come “pro- prietà intellettuale”. Questo termine contiene un presupposto nascosto – che il modo più naturale di considerare la questione della copia sia basato su un’analogia con gli oggetti fisici, e sull’i- dea di considerarli una proprietà. Ma quest’analogia ignora la differenza cruciale esistente tra gli oggetti materiali e l’informazione: l’informazione può essere copiata e condivisa quasi senza sforzo, mentre ciò non è vero degli oggetti materiali. Basare la riflessione su una tale analogia equiva- le a ignorare questa differenza. Neppure il sistema giuridico statunitense accetta per intero l’ana- logia, poiché non tratta il copyright alla pari del diritto di pro- prietà relativo agli oggetti fisici. Se non volete limitarvi a questo modo di pensare, è bene evitare l’uso del termine “proprietà intellettuale” nelle vostre parole e riflessioni. Esiste un ulteriore problema con “proprietà intellettuale”: è un con- tenitore generico in cui vengono messi insieme svariati sistemi giu- ridici differenti, incluso il copyright, i brevetti, i marchi registrati e altre cose che hanno pochissimo in comune tra loro. Questi sistemi giuridici hanno origini separate, coprono attività diverse, operano in maniera differente, e suscitano questioni diverse di politica pub- blica. Se, ad esempio, imparate qualcosa riguardo le norme sul copy- right, fareste bene a presumere che ciò non possa applicarsi alla legi- slazione sui brevetti, perché è quasi sempre così. Trattandosi di legislazioni talmente diverse tra loro, il termine “proprietà intellettuale” è un invito a fare una super-generalizza- zione semplicistica. Qualsiasi opinione sulla “proprietà intellet- tuale” risulterà quasi sicuramente avventata. Ad un livello così

155 generico, è impossibile perfino prendere in considerazione le spe- cificità di politica pubblica suscitate dalle norme sul copyright, o le diverse questioni sollevate dalla legislazione sui brevetti o su uno qualsiasi degli altri settori. Il termine “proprietà intellettuale” por- ta la gente a concentrarsi sul minimo aspetto comune di queste legi- slazioni differenti tra loro, vale a dire sul fatto che istituiscono una serie di concetti astratti che possono essere acquistati e venduti, per ignorarne l’aspetto centrale, ovvero le restrizioni che tali norme impongono al pubblico e le conseguenze positive o negative che ne risultano. Onde riflettere con chiarezza sulle problematiche sollevate dai bre- vetti, dal diritto d’autore e dai marchi registrati, o anche soltanto per conoscere il contenuto di queste norme, il primo passo è dimen- ticare di aver mai sentito il termine “proprietà intellettuale”. Meglio invece presentare il tema come copyright, brevetti, o qualsiasi altra legislazione specifica di cui si stia discutendo. Secondo il professor Mark Lemley della University of Texas Law School, l’uso generalizzato del termine “proprietà intellettuale” è una moda recente, diffusasi a partire dalla fondazione dell’Orga- nizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (World Intellec- tual Property Organization) nel 1967.1 Quest’organizzazione rap- presenta gli interessi dei detentori di copyright, di brevetti e di mar- chi registrati, ed esercita pressione sui governi per incrementarne il potere. Uno dei trattati dell’organizzazione segue le direttive del Digital Millennium Copyright Act, che negli Stati Uniti è stato usa- to per censurare l’impiego di utili pacchetti di software libero.2

1 Si veda la nota n. 123 alla sua recensione del libro di James Boyle, Romantic Authorship and the Rhetoric of Property, pubblicata nel marzo 1997 nella Texas Law Review. 2 Si veda http://www.wipout.net/ per la campagna contro la World Intellectual Property Organization.

156 Protezione, tutela Gli avvocati degli editori adorano ricorrere al termine “protezio- ne” o “tutela” in riferimento al diritto d’autore. Questi termini implicano l’idea di voler bloccare qualche distruzione o sofferen- za; di conseguenza, incoraggiano la gente a identificarsi con il pro- prietario e con l’editore che traggono dei benefici dal copyright, anziché con gli utenti che ne subiscono le restrizioni. È facile evitare “protezione” o “tutela” per sostituirli invece con altri termini. Ad esempio, anziché: “La tutela del copyright dura molto a lungo”, si può dire: “Il copyright dura molto a lungo”. Per criticare il diritto d’autore piuttosto che sostenerlo, basta ricor- rere all’espressione “le restrizioni del copyright”. RAND (reasonable and non-discriminatory) Le entità incaricate di stabilire gli standard limitati dai brevetti che vietano il software libero, in genere seguono la prassi di ottenere licenze su tali brevetti dietro il pagamento di una somma fissa per ogni copia di programma conforme. Spesso queste licenze vengono indicate con il termine “RAND”, acronimo che sta per “ragionevoli e non discriminatorie”(reasonable and non-discriminatory). Il termine conferisce una rispettabilità apparente a una serie di licen- ze sui brevetti che normalmente non sono né ragionevoli né non- discriminatorie. È vero che tali licenze non discriminano contro nes- sun particolare individuo, e tuttavia discriminano a sfavore della comunità del software libero, e ciò le rende irragionevoli. Perciò, una metà del significato di “RAND” è fuorviante mentre l’altra metà esprime un pregiudizio. Le entità responsabili degli standard dovreb- bero riconoscere che queste licenze sono discriminatorie e abbando- nare l’uso dell’espressione “ragionevoli e non discriminatorie” per descriverle. Finché non lo faranno, altri scrittori che non vogliono essere associati a quella rispettabilità fasulla, bene farebbero a riget-

157 tare tale espressione. Accettarla e usarla soltanto perché le aziende che detengono i brevetti l’hanno ampiamente diffusa significa consenti- re a tali aziende di imporre agli altri quelle opinioni. In sostituzione, suggerisco l’espressione “uniform fee only”, soltanto dietro paga- mento di una tariffa uniforme, o l’acronimo “UFO” (gioco di paro- le: UFO comunemente sta per unidentified flying objects, i dischi volanti). È una descrizione accurata perché la sola condizione per queste licenze è il pagamento di una tariffa uniforme per le royalties. Regalare software È fuorviante usare il termine “regalare” (give away) quando si vuole intendere “distribuire un programma come software libero”. È lo stesso problema già visto in “for free” (in inglese): implica che il pun- to in questione sia il prezzo, non la libertà. Un modo per evitare que- sta confusione consiste nel dire: “rilasciare come software libero”. Vendere software L’espressione “vendere software” è ambigua. In senso stretto, scam- biare la copia di un programma libero con una somma di denaro significa “vendere”, ma in genere si associa il termine “vendere” alle restrizioni proprietarie nel successivo utilizzo del software. Per essere più precisi, ed evitare confusioni, si può dire: “distribuire copie di un programma dietro pagamento di una quota” oppure “imporre restrizioni proprietarie sull’uso di un programma”, a seconda di ciò cui ci si riferisce.

Originariamente scritto nel 1996, questa versione fa parte del libro Free Software, Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman, GNU Press, 2002. La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.

158 Parte Seconda

Le licenze Licenza Pubblica Generica (GPL) del Progetto GNU

Versione 2, Giugno 1991 Copyright (C) 1989, 1991 Free Software Foundation, Inc. 59 Temple Place, Suite 330, Boston, MA 02111-1307 USA Chiunque può copiare e distribuire copie letterali di questo docu- mento di licenza, ma non ne è permessa la modifica. (NdT: Questa è una traduzione italiana non ufficiale della Licen- za Pubblica Generica, GPL. Non è pubblicata dalla Free Softwa- re Foundation e non ha valore legale nell’esprimere i termini di distribuzione del software che usa la licenza GPL. Solo la versio- ne originale inglese della licenza ha valore legale. Speriamo ad ogni modo che questa traduzione aiuti le persone di lingua italiana a comprendere meglio il significato della GPL.)

Preambolo Le licenze della maggior parte dei programmi hanno lo scopo di togliere all’utente la libertà di condividere e modificare il pro- gramma stesso. Viceversa, la Licenza Pubblica Generica GNU è intesa a garantire la libertà di condividere e modificare il softwa- re libero, al fine di assicurare che i programmi siano liberi per tut- ti i loro utenti. Questa Licenza si applica alla maggioranza dei pro- grammi della Free Software Foundation e ad ogni altro program-

160 ma i cui autori hanno deciso di usare questa Licenza. Alcuni altri programmi della Free Software Foundation sono invece coperti dalla Licenza Pubblica Generica Minore. Chiunque può usare questa Licenza per i propri programmi. Quando si parla di software libero (free software), ci si riferisce alla libertà, non al prezzo. Le nostre Licenze (la GPL e la LGPL) sono progettate per assicurarsi che ciascuno abbia la libertà di distribuire copie del software libero (e farsi pagare per questo, se vuole), che ciascuno riceva il codice sorgente o che lo possa otte- nere se lo desidera, che ciascuno possa modificare il programma o usarne delle parti in nuovi programmi liberi e che ciascuno sap- pia di potere fare queste cose. Per proteggere i diritti dell’utente, abbiamo bisogno di creare del- le restrizioni che vietino a chiunque di negare questi diritti o di chiedere di rinunciarvi. Queste restrizioni si traducono in certe responsabilità per chi distribuisce copie del software e per chi lo modifica. Per esempio, chi distribuisce copie di un programma coperto da GPL, sia gratis sia in cambio di un compenso, deve concedere ai destinatari tutti i diritti che ha ricevuto. Deve anche assicurarsi che i destinatari ricevano o possano ottenere il codice sorgente. E deve mostrar loro queste condizioni di licenza, in modo che essi conoscano i propri diritti. Proteggiamo i diritti dell’utente in due modi: (1) proteggendo il software con un copyright, e (2) offrendo una licenza che dia il permesso legale di copiare, distribuire e modificare il Programma. Inoltre, per proteggere ogni autore e noi stessi, vogliamo assicurarci che ognuno capisca che non ci sono garanzie per i programmi

161 coperti da GPL. Se il programma viene modificato da qualcun altro e ridistribuito, vogliamo che gli acquirenti sappiano che ciò che hanno non è l’originale, in modo che ogni problema introdotto da altri non si rifletta sulla reputazione degli autori originari. Infine, ogni programma libero è costantemente minacciato dai brevetti sui programmi. Vogliamo evitare il pericolo che chi ridi- stribuisce un programma libero ottenga la proprietà di brevetti, rendendo in pratica il programma cosa di sua proprietà. Per pre- venire questa evenienza, abbiamo chiarito che ogni brevetto deb- ba essere concesso in licenza d’uso a chiunque, o non avere alcu- na restrizione di licenza d’uso. Seguono i termini e le condizioni precisi per la copia, la distribu- zione e la modifica.

Termini e condizioni per la copia, la distribuzione e la modi- fica 0. Questa Licenza si applica a ogni programma o altra opera che contenga una nota da parte del detentore del copyright che dica che tale opera può essere distribuita sotto i termini di questa Licen- za Pubblica Generica. Il termine “Programma” nel seguito si rife- risce ad ogni programma o opera così definita, e l’espressione “ope- ra basata sul Programma” indica sia il Programma sia ogni opera considerata “derivata” in base alla legge sul copyright; in altre paro- le, un’opera contenente il Programma o una porzione di esso, sia letteralmente sia modificato o tradotto in un’altra lingua. Da qui in avanti, la traduzione è in ogni caso considerata una “modifica”. Vengono ora elencati i diritti dei beneficiari della licenza. Attività diverse dalla copiatura, distribuzione e modifica non sono coperte da questa Licenza e sono al di fuori della sua influenza.

162 L’atto di eseguire il Programma non viene limitato, e l’output del programma è coperto da questa Licenza solo se il suo contenuto costituisce un’opera basata sul Programma (indipendentemente dal fatto che sia stato creato eseguendo il Programma). In base alla natura del Programma il suo output può essere o meno coperto da questa Licenza.

1. È lecito copiare e distribuire copie letterali del codice sorgente del Programma così come viene ricevuto, con qualsiasi mezzo, a condizione che venga riprodotta chiaramente su ogni copia una appropriata nota di copyright e di assenza di garanzia; che si man- tengano intatti tutti i riferimenti a questa Licenza e all’assenza di ogni garanzia; che si dia a ogni altro destinatario del Program- ma una copia di questa Licenza insieme al Programma. È possibile richiedere un pagamento per il trasferimento fisico di una copia del Programma, è anche possibile a propria discrezione richiedere un pagamento in cambio di una copertura assicurativa.

2. È lecito modificare la propria copia o copie del Programma, o parte di esso, creando perciò un’opera basata sul Programma, e copiare o distribuire tali modifiche o tale opera secondo i termini del precedente comma 1, a patto che siano soddisfatte tutte le con- dizioni che seguono: a) Bisogna indicare chiaramente nei file che si tratta di copie modi- ficate e la data di ogni modifica. b) Bisogna fare in modo che ogni opera distribuita o pubblicata, che in parte o nella sua totalità derivi dal Programma o da parti di esso, sia concessa nella sua interezza in licenza gratuita ad ogni terza parte, secondo i termini di questa Licenza.

163 c) Se normalmente il programma modificato legge comandi inte- rattivamente quando viene eseguito, bisogna fare in modo che all’inizio dell’esecuzione interattiva usuale, esso stampi un mes- saggio contenente una appropriata nota di copyright e di assenza di garanzia (oppure che specifichi il tipo di garanzia che si offre). Il messaggio deve inoltre specificare che chiunque può ridistri- buire il programma alle condizioni qui descritte e deve indicare come reperire questa Licenza. Se però il programma di partenza è interattivo ma normalmente non stampa tale messaggio, non occorre che un’opera basata sul Programma lo stampi. Questi requisiti si applicano all’opera modificata nel suo com- plesso. Se sussistono parti identificabili dell’opera modificata che non sia- no derivate dal Programma e che possono essere ragionevolmen- te considerate lavori indipendenti, allora questa Licenza e i suoi termini non si applicano a queste parti quando queste vengono distribuite separatamente. Se però queste parti vengono distribui- te all’interno di un prodotto che è un’opera basata sul Program- ma, la distribuzione di quest’opera nella sua interezza deve avve- nire nei termini di questa Licenza, le cui norme nei confronti di altri utenti si estendono all’opera nella sua interezza, e quindi ad ogni sua parte, chiunque ne sia l’autore. Quindi, non è nelle intenzioni di questa sezione accampare diritti, né contestare diritti su opere scritte interamente da altri; l’intento è piuttosto quello di esercitare il diritto di controllare la distribuzio- ne di opere derivati dal Programma o che lo contengano. Inoltre, la semplice aggregazione di un’opera non derivata dal Programma col Programma o con un’opera da esso derivata su di un mezzo di memorizzazione o di distribuzione, non è sufficien-

164 te a includere l’opera non derivata nell’ambito di questa Licenza. 3. È lecito copiare e distribuire il Programma (o un’opera basata su di esso, come espresso al comma 2) sotto forma di codice ogget- to o eseguibile secondo i termini dei precedenti commi 1 e 2, a patto che si applichi una delle seguenti condizioni: a) Il Programma sia corredato del codice sorgente completo, in una forma leggibile da calcolatore, e tale sorgente sia fornito secon- do le regole dei precedenti commi 1 e 2 su di un mezzo comune- mente usato per lo scambio di programmi. b) Il Programma sia accompagnato da un’offerta scritta, valida per almeno tre anni, di fornire a chiunque ne faccia richiesta una copia completa del codice sorgente, in una forma leggibile da calcola- tore, in cambio di un compenso non superiore al costo del trasfe- rimento fisico di tale copia, che deve essere fornita secondo le rego- le dei precedenti commi 1 e 2 su di un mezzo comunemente usa- to per lo scambio di programmi. c) Il Programma sia accompagnato dalle informazioni che sono sta- te ricevute riguardo alla possibilità di ottenere il codice sorgente. Questa alternativa è permessa solo in caso di distribuzioni non commerciali e solo se il programma è stato ottenuto sotto forma di codice oggetto o eseguibile in accordo al precedente comma B. Per “codice sorgente completo” di un’opera si intende la forma preferenziale usata per modificare un’opera. Per un programma eseguibile, “codice sorgente completo” significa tutto il codice sorgente di tutti i moduli in esso contenuti, più ogni file associa- to che definisca le interfacce esterne del programma, più gli script usati per controllare la compilazione e l’installazione dell’esegui- bile. In ogni caso non è necessario che il codice sorgente fornito

165 includa nulla che sia normalmente distribuito (in forma sorgente o in formato binario) con i principali componenti del sistema ope- rativo sotto cui viene eseguito il Programma (compilatore, kernel, e così via), a meno che tali componenti accompagnino l’eseguibile. Se la distribuzione dell’eseguibile o del codice oggetto è effettua- ta indicando un luogo dal quale sia possibile copiarlo, permette- re la copia del codice sorgente dallo stesso luogo è considerata una valida forma di distribuzione del codice sorgente, anche se copia- re il sorgente è facoltativo per l’acquirente.

4. Non è lecito copiare, modificare, sublicenziare, o distribuire il Programma in modi diversi da quelli espressamente previsti da questa Licenza. Ogni tentativo di copiare, modificare, sublicen- ziare o distribuire il Programma non è autorizzato, e farà termi- nare automaticamente i diritti garantiti da questa Licenza. D’al- tra parte ogni acquirente che abbia ricevuto copie, o diritti, coper- ti da questa Licenza da parte di persone che violano la Licenza come qui indicato non vedranno invalidata la loro Licenza, pur- ché si comportino conformemente ad essa.

5. L’acquirente non è tenuto ad accettare questa Licenza, poiché non l’ha firmata. D’altra parte nessun altro documento garantisce il permesso di modificare o distribuire il Programma o i lavori deri- vati da esso. Queste azioni sono proibite dalla legge per chi non accetta questa Licenza; perciò, modificando o distribuendo il Pro- gramma o un’opera basata sul programma, si indica nel fare ciò l’accettazione di questa Licenza e quindi di tutti i suoi termini e le condizioni poste sulla copia, la distribuzione e la modifica del Programma o di lavori basati su di esso.

166 6. Ogni volta che il Programma o un’opera basata su di esso ven- gono distribuiti, l’acquirente riceve automaticamente una licenza d’uso da parte del licenziatario originale. Tale licenza regola la copia, la distribuzione e la modifica del Programma secondo que- sti termini e queste condizioni. Non è lecito imporre restrizioni ulteriori all’acquirente nel suo esercizio dei diritti qui garantiti. Chi distribuisce programmi coperti da questa Licenza non è comunque tenuto a imporre il rispetto di questa Licenza a terzi.

7. Se, come conseguenza del giudizio di un tribunale, o di una imputazione per la violazione di un brevetto o per ogni altra ragio- ne (non limitatamente a questioni di brevetti), vengono imposte condizioni che contraddicono le condizioni di questa licenza, che queste condizioni siano dettate dalla corte, da accordi tra le parti o altro, queste condizioni non esimono nessuno dall’osservazione di questa Licenza. Se non è possibile distribuire un prodotto in un modo che soddisfi simultaneamente gli obblighi dettati da questa Licenza e altri obblighi pertinenti, il prodotto non può essere affat- to distribuito. Per esempio, se un brevetto non permettesse a tut- ti quelli che lo ricevono di ridistribuire il Programma senza obbli- gare al pagamento di diritti, allora l’unico modo per soddisfare contemporaneamente il brevetto e questa Licenza è di non distri- buire affatto il Programma. Se una qualunque parte di questo comma è ritenuta non valida o non applicabile in una qualunque circostanza, deve comunque essere applicata l’idea espressa da questo comma; in ogni altra cir- costanza invece deve essere applicato questo comma nel suo com- plesso. Non è nelle finalità di questo comma indurre gli utenti ad infran-

167 gere alcun brevetto né ogni altra rivendicazione di diritti di pro- prietà, né di contestare la validità di alcuna di queste rivendica- zioni; lo scopo di questo comma è unicamente quello di proteg- gere l’integrità del sistema di distribuzione dei programmi liberi, che viene realizzato tramite l’uso di licenze pubbliche. Molte per- sone hanno contribuito generosamente alla vasta gamma di pro- grammi distribuiti attraverso questo sistema, basandosi sull’appli- cazione fedele di tale sistema. L’autore/donatore può decidere di sua volontà se preferisce distribuire il software avvalendosi di altri sistemi, e l’acquirente non può imporre la scelta del sistema di distribuzione. Questo comma serve a rendere il più chiaro possibile ciò che cre- diamo sia una conseguenza del resto di questa Licenza.

8. Se in alcuni paesi la distribuzione o l’uso del Programma sono limitati da brevetto o dall’uso di interfacce coperte da copyright, il detentore del copyright originale che pone il Programma sotto questa Licenza può aggiungere limiti geografici espliciti alla distri- buzione, per escludere questi paesi dalla distribuzione stessa, in modo che il programma possa essere distribuito solo nei paesi non esclusi da questa regola. In questo caso i limiti geografici sono inclusi in questa Licenza e ne fanno parte a tutti gli effetti.

9. All’occorrenza la Free Software Foundation può pubblicare revi- sioni o nuove versioni di questa Licenza Pubblica Generica. Tali nuove versioni saranno simili a questa nello spirito, ma potranno differire nei dettagli al fine di coprire nuovi problemi e nuove situazioni. Ad ogni versione viene dato un numero identificativo. Se il Pro-

168 gramma asserisce di essere coperto da una particolare versione di questa Licenza e “da ogni versione successiva”, l’acquirente può scegliere se seguire le condizioni della versione specificata o di una successiva. Se il Programma non specifica quale versione di que- sta Licenza deve applicarsi, l’acquirente può scegliere una qualsia- si versione tra quelle pubblicate dalla Free Software Foundation.

10. Se si desidera incorporare parti del Programma in altri pro- grammi liberi le cui condizioni di distribuzione differiscano da queste, è possibile scrivere all’autore del Programma per chieder- ne l’autorizzazione. Per il software il cui copyright è detenuto dal- la Free Software Foundation, si scriva alla Free Software Founda- tion; talvolta facciamo eccezioni alle regole di questa Licenza. La nostra decisione sarà guidata da due finalità: preservare la libertà di tutti i prodotti derivati dal nostro software libero e promuove- re la condivisione e il riutilizzo del software in generale.

Nessuna garanzia 11. POICHÉ IL PROGRAMMA È CONCESSO IN USO GRATUITAMENTE, NON C’È GARANZIA PER IL PROGRAMMA, NEI LIMITI PERMESSI DAL- LE VIGENTI LEGGI. SE NON INDICATO DIVERSAMENTE PER ISCRITTO, IL DETENTORE DEL COPYRIGHT E LE ALTRE PARTI FORNISCONO IL PROGRAMMA “COSÌ COM’È”, SENZA ALCUN TIPO DI GARANZIA, NÉ ESPLICITA NÉ IMPLICITA; CIÒ COMPRENDE, SENZA LIMITARSI A QUE- STO, LA GARANZIA IMPLICITA DI COMMERCIABILITÀ E UTILIZZABILITÀ PERUNPARTICOLARE SCOPO. L’INTERO RISCHIO CONCERNENTE LA QUALITÀ E LE PRESTAZIONI DEL PROGRAMMA È DELL’ACQUIRENTE. SEILPROGRAMMA DOVESSE RIVELARSI DIFETTOSO, L’ACQUIRENTE SI ASSUME IL COSTO DI OGNI MANUTENZIONE, RIPARAZIONE O COR- REZIONE NECESSARIA.

169 12. NÉILDETENTORE DEL COPYRIGHT NÉ ALTRE PARTI CHE POS- SONO MODIFICARE O RIDISTRIBUIRE IL PROGRAMMA COME PER- MESSO IN QUESTA LICENZA SONO RESPONSABILI PER DANNI NEI CONFRONTI DELL’ACQUIRENTE, A MENO CHE QUESTO NON SIA RICHIESTO DALLE LEGGI VIGENTI O APPAIA IN UN ACCORDO SCRIT- TO. SONO INCLUSI DANNI GENERICI, SPECIALI O INCIDENTALI, COME PURE I DANNI CHE CONSEGUONO DALL’USO O DALL’IMPOS- SIBILITÀ DI USARE IL PROGRAMMA; CIÒ COMPRENDE, SENZA LIMI- TARSI A QUESTO, LA PERDITA DI DATI, LA CORRUZIONE DEI DATI, LE PERDITE SOSTENUTE DALL’ACQUIRENTE O DA TERZI E L’INCAPACITÀ DEL PROGRAMMA A INTERAGIRE CON ALTRI PROGRAMMI, ANCHE SE IL DETENTORE O ALTRE PARTI SONO STATE AVVISATE DELLA POSSI- BILITÀ DI QUESTI DANNI. Fine dei termini e delle condizioni

Appendice: come applicare questi termini a nuovi programmi Se si sviluppa un nuovo programma e lo si vuole rendere della mag- giore utilità possibile per il pubblico, la cosa migliore da fare è ren- dere tale programma libero, cosicché ciascuno possa ridistribuir- lo e modificarlo sotto questi termini. Per fare questo, si inserisca nel programma la seguente nota. La cosa migliore da fare è mettere la nota all’inizio di ogni file sor- gente, per chiarire nel modo più efficiente possibile l’assenza di garanzia; ogni file dovrebbe contenere almeno la nota di copyri- ght e l’indicazione di dove trovare l’intera nota.

Una riga per dire in breve il nome del programma e cosa fa Copyri- ght (C) anno nome dell’autore Questo programma è software libero; è lecito redistribuirlo o modi-

170 ficarlo secondo i termini della Licenza Pubblica Generica GNU come è pubblicata dalla Free Software Foundation; o la versione 2 della licenza o (a propria scelta) una versione successiva. Questo programma è distribuito nella speranza che sia utile, ma SEN- ZA ALCUNA GARANZIA; senza neppure la garanzia implicita di NEGOZIABILITÀ o di APPLICABILITÀ PER UN PARTICO- LARE SCOPO. Si veda la Licenza Pubblica Generica GNU per ave- re maggiori dettagli. Questo programma deve essere distribuito assieme ad una copia della Licenza Pubblica Generica GNU; in caso contrario, se ne può otte- nere una scrivendo alla Free Software Foundation, Inc., 59 Temple Place, Suite 330, Boston, MA 02111-1307 USA Si aggiungano anche informazioni su come si può essere contat- tati tramite posta elettronica e cartacea. Se il programma è interattivo, si faccia in modo che stampi una breve nota simile a questa quando viene usato interattivamente: Orcaloca versione 69, Copyright (C) anno nome dell’autore Orca- loca non ha ALCUNA GARANZIA; per dettagli usare il comando ‘show g’. Questo è software libero, e ognuno è libero di ridistribuir- lo secondo certe condizioni; usare il comando ‘show c’ per maggiori dettagli. Gli ipotetici comandi “show g” e “show c” mostreranno le parti appropriate della Licenza Pubblica Generica. Chiaramente, i comandi usati possono essere chiamati diversamente da “show g” e “show c” e possono anche essere selezionati con il mouse o attra- verso un menù, o comunque sia pertinente al programma. Se necessario, si deve anche far firmare al proprio datore di lavo-

171 ro (per chi lavora come programmatore) o alla propria scuola, per chi è studente, una “rinuncia al copyright” per il programma. Ecco un esempio con nomi fittizi:

Yoyodinamica SPA rinuncia con questo documento ad ogni diritto sul copyright del programma ‘Orcaloca’ (che s’inchina davanti ai compi- latori) scritto da Giovanni Smanettone. firma di Pinco Pallino, 1 Aprile 1989 Pinco Pallino, Presidente I programmi coperti da questa Licenza Pubblica Generica non possono essere incorporati all’interno di programmi proprietari. Se il proprio programma è una libreria di funzioni, può essere più utile permettere di collegare applicazioni proprietarie alla libreria. Se si ha questa intenzione consigliamo di usare invece la GNU Library General Public License.

172 Licenza Pubblica Generica Attenuata (LGPL) del progetto GNU

Versione 2.1, Febbraio 1999 Copyright © 1991, 1999 Free Software Foundation, Inc. 59 Temple Place, Suite 330, Boston, MA 02111-1307, USA Chiunque può copiare e distribuire copie letterali di questo docu- mento di licenza, ma non ne è permessa la modifica. [Questa è la prima versione rilasciata della Licenza Pubblica Gene- rica Attenuata, e conta come successore della Licenza Pubblica Generica per Librerie del Progetto GNU, versione 2, da cui la ver- sione numero 2.1] (NdT: Questa è una traduzione italiana non ufficiale della Licen- za Pubblica Generica Attenuata, LGPL. Non è pubblicata dalla Free Software Foundation e non ha valore legale nell’esprimere i termini di distribuzione del software che usa la licenza LGPL. Solo la versione originale inglese della licenza ha valore legale. Speria- mo ad ogni modo che questa traduzione aiuti le persone di lingua italiana a comprendere meglio il significato della LGPL.)

Preambolo Le licenze della maggior parte dei programmi hanno lo scopo di togliere all’utente la libertà di condividere e modificare il pro-

173 gramma stesso. Viceversa, le Licenze Pubbliche Generiche GNU sono intese a garantire la libertà di condividere e modificare il software libero, al fine di assicurare che i programmi siano liberi per tutti i loro utenti. Questa Licenza, la Licenza Pubblica Generica Attenuata (LGPL), si applica a specifici pacchetti software, tipicamente librerie, del- la Free Software Foundation e di altri autori che decidono di usa- re questa Licenza. Chiunque può usare questa licenza, ma sugge- riamo prima di valutare attentamente se questa licenza, piuttosto che la normale Licenza Pubblica Generica, sia la migliore strate- gia da usare per ogni specifico caso, sulla base delle seguenti spie- gazioni. Quando si parla di software libero (free software), ci si riferisce alla libertà, non al prezzo. Le nostre Licenze Pubbliche Generiche sono progettate per assicurarsi che ciascuno abbia la libertà di distri- buire copie del software libero (e farsi pagare per questo, se lo si vuole); che ciascuno riceva il codice sorgente o che, se vuole, pos- sa ottenerlo; che ciascuno possa modificare il programma o usar- ne delle parti in nuovi programmi liberi; e che ciascuno sappia di poter fare queste cose. Per proteggere i diritti dell’utente, abbiamo bisogno di imporre restrizioni che vietino ai distributori di negare tali diritti o di chie- dere agli utenti di rinunciarvi. Queste restrizioni si traducono in determinate responsabilità a carico di chi distribuisce copie del software o di chi lo modifica. Ad esempio, chi distribuisce copie di una libreria LGPL, sia gra- tis sia in cambio di un compenso, deve concedere ai destinatari tutti i diritti che ha ricevuto. Deve anche assicurarsi che i desti- natari ricevano o possano ottenere il codice sorgente. Se è stato collegato altro codice alla libreria, deve fornire tutti questi codi-

174 ci ai destinatari, in modo che essi possano ricollegarli alla libre- ria dopo averla modificata e ricompilata. E deve mostrar loro queste condizioni della licenza, in modo che essi conoscano i propri diritti. Tuteliamo i diritti dell’utente in due modi: (1) proteggendo la libreria attraverso il copyright, e (2) offrendo una licenza che dia il permesso legale di copiare, distribuire e modificare la libreria. Per proteggere ogni distributore, vogliamo rendere assolutamen- te chiaro che non esistono garanzie per la licenza libera. Inoltre, se la licenza viene modificata da qualcun altro e ridistribuita, gli acquirenti dovrebbero essere informati che quanto in loro posses- so non è la versione originale, in modo che ogni problema even- tualmente introdotto da altri non danneggi la reputazione del- l’autore originario. Infine, l’esistenza di ogni programma libero è costantemente sot- to la minaccia dei brevetti sul software. Vogliamo esser certi che una azienda non possa effettivamente porre restrizioni sugli uten- ti di un programma libero tramite l’uso di licenze restrittive di qualche proprietario di brevetto. Perciò insistiamo sul fatto che qualsiasi licenza di brevetto ottenuta per una versione della libre- ria debba risultare coerente con la piena libertà d’uso specificata in questa licenza. La maggior parte del software GNU, incluse alcune librerie, è coperto dalla normale Licenza Pubblica Generica (GPL) del Pro- getto GNU. Questa licenza, la Licenza Pubblica Generica Atte- nuata (LGPL), si applica a certe librerie specifiche ed è assai diver- sa dalla Licenza Pubblica Generica normale. Questa licenza viene usata per determinate librerie in modo da permettere il collega- mento di tali librerie a programmi non liberi. Quando un programma è collegato con una libreria, sia statica-

175 mente che usando una libreria condivisa, legalmente parlando la combinazione dei due elementi è un lavoro combinato, un deri- vato della libreria originale. Perciò la normale Licenza Pubblica Generica permette tale collegamento solo se l’intera combinazio- ne risulta conforme ai propri criteri di libertà. La Licenza Pubbli- ca Generica Attenuata consente criteri più rilassati per collegare altro codice alla libreria. Questa licenza viene definita la Licenza Pubblica Generica «Atte- nuata» perché fa meno per proteggere la libertà dell’utente rispet- to alla normale Licenza Pubblica Generica. Essa fornisce inoltre minori vantaggi agli sviluppatori di software libero nella compe- tizione con programmi non liberi. Questi svantaggi sono la ragio- ne per cui usiamo la Licenza Pubblica Generica per molte libre- rie. Tuttavia, la Licenza Pubblica Generica Attenuata fornisce dei vantaggi per certe circostanze speciali. Ad esempio, in rare occasioni, può presentarsi la necessità parti- colare di incoraggiare l’uso più ampio possibile di una determi- nata libreria, in modo che divenga uno standard de facto. Onde raggiungere quest’obiettivo, i programmi non liberi devono esse- re in grado di utilizzare la libreria. Un caso più frequente è che la libreria libera svolga lo stesso compito di librerie non libere mol- to usate. In questa situazione, ha poco senso limitare la libreria libera al solo software libero, quindi utilizziamo la Licenza Pubblica Generica Attenuata. In altri casi, il permesso di usare una specifica libreria in pro- grammi non liberi consente a un maggior numero di persone l’u- so di un’ampia quantità di programmi liberi. Per esempio, il per- messo di utilizzare la libreria C del Progetto GNU in programmi non liberi consente a molte più persone di usare l’intero sistema

176 operativo GNU, come pure della sua variante più comune, il siste- ma operativo GNU/Linux. Sebbene la Licenza Pubblica Generica Attenuata tuteli la libertà degli utenti in misura minore, garantisce all’utente di un pro- gramma collegato alla Libreria la libertà e i mezzi per eseguire tale programma usando una versione modificata della Libreria. Seguono i termini e le condizioni precise per la copia, la distribu- zione e la modifica. Si faccia molta attenzione alla differenza tra “opera basata sulla libreria” e “opera che usa la libreria”. La prima contiene codice derivato dalla libreria, mentre la seconda deve essere combinata con la libreria per poter funzionare.

Termini e condizioni per la copia, la distribuzione e la modifica Questa Licenza si applica a ogni libreria software o altro pro- gramma che contenga una nota posta dal detentore del copyright o da altro soggetto autorizzato in cui si specifichi che tale libreria o programma vada distribuito secondo i termini della Licenza Pubblica Generica Attenuata (definita anche “questa Licenza”). Per “libreria” s’intende una raccolta di funzioni software e/o dati preparati in modo da poter essere facilmente collegati con pro- grammi applicativi (che utilizzano alcune di queste funzioni e dati) così da formare degli eseguibili. Il termine “Libreria” usato da qui in poi si riferisce a ogni tipo di libreria software o opera che sia stata distribuita in questi termi- ni. L’espressione “un’opera basata sulla Libreria” indica sia la Libre- ria sia ogni opera derivativa come definito dalla legge sul diritto d’autore: ovvero, un’opera contenente la Libreria o una sua parte, sia inalterata sia con modifiche e/o tradotta direttamente in un altro linguaggio. (Da qui in avanti, la traduzione viene inclusa sen- za limitazioni nel termine “modifica”.)

177 Per “codice sorgente” di un’opera s’intende la forma di codice usa- to di preferenza per apportare modifiche. Per una libreria, il codi- ce sorgente completo è il codice sorgente di tutti i moduli conte- nuti, più ogni file associato per la definizione delle interfacce, più gli script utilizzati per controllare la compilazione e l’installazio- ne della libreria. Attività diverse dalla copia, distribuzione e modifica non sono coperte da questa Licenza e sono al di fuori della sua influenza. L’atto di eseguire un programma che usa la Libreria non viene limi- tato, e l’output di tale programma è coperto da questa Licenza solo nel caso in cui il contenuto costituisce un’opera basata sulla Libre- ria (indipendentemente dal fatto che sia stato creato utilizzando la Libreria). Se ciò corrisponda o meno al vero, dipende da cosa fa la Libreria e da cosa fa il programma che usa la Libreria.

1. È lecito copiare e distribuire copie letterali del codice sorgente completo della Libreria così come viene ricevuto, con qualsiasi mez- zo, a condizione che venga riprodotta chiaramente su ogni copia un’appropriata nota per il copyright e per la mancanza di garanzie; che si mantengano intatti tutti i riferimenti a questa Licenza e all’as- senza di ogni garanzia; e che si distribuisca una copia di questa Licen- za insieme alla Libreria. Si può richiedere un pagamento per il tra- sferimento fisico di una copia, ed è anche possibile, a propria discre- zione, offrire a pagamento una garanzia aggiuntiva.

2. È consentito modificare la propria copia o le copie della Libre- ria o qualsiasi sua parte, creando in questo modo un’opera basata sulla Libreria, e copiare o distribuire tali modifiche o tale opera secondo i termini del precedente comma 1, purché vengano sod- disfatte tutte le seguenti condizioni:

178 a) L’opera modificata deve essere a sua volta una libreria software. b) Bisogna inserire nei file modificati una chiara nota in cui si spie- ghi che avete cambiato il file e riporti la data di ogni modifica. c) Occorre fare in modo che l’opera venga concessa nella sua inte- rezza in licenza gratuita ad ogni terza parte sotto i termini di que- sta Licenza. d) Se una funzionalità della Libreria modificata implica che una funzione o una tabella dati vengano forniti da un programma applicativo che usa tale funzionalità, in casi diversi dal passaggio di argomenti quando la funzionalità viene invocata, allora biso- gna accertarsi al meglio delle proprie possibilità che, nel caso l’ap- plicazione non fornisca tale funzione o tabella, la funzionalità pos- sa operare comunque ed esegua qualsiasi parte della propria fun- zione abbia ancora senso. (Ad esempio, la funzione di una libreria per il calcolo delle radici quadrate ha un fine ben determinato indipendente dall’applica- zione. Di conseguenza, il sotto-comma 2d richiede che ogni fun- zione fornita dall’applicazione o dalla tabella usata da tale funzio- ne debbano essere opzionali: Qualora l’applicazione non le forni- sca, la funzione radice quadrata deve comunque poter calcolare le radici quadrate.) Questi requisiti si applicano all’opera modificata nella sua inte- rezza. Se sezioni identificabili di questa opera non sono derivate dalla Libreria e possono essere ragionevolmente considerate indi- pendenti e opere separate in quanto tali, allora questa Licenza, e i suoi termini, non si applicano a quelle sezioni che vengano distri- buite come opere separate. Ma quando tali sezioni sono distribuite in blocco come parte di un’opera basata sulla Libreria, la distri-

179 buzione dell’opera completa deve essere rilasciata sotto i termini di questa Licenza, i cui permessi per successivi licenziatari si esten- dono all’opera completa, e quindi ad ogni sua parte, indipenden- temente da chi l’abbia scritta. Così l’intento di questa sezione non è quello di accampare o con- testare alcun diritto su opere scritte interamente da altri; piutto- sto, l’intento è quello di esercitare il diritto al controllo della distri- buzione di lavori derivati o collettivi basati sulla Libreria in que- stione. In aggiunta, la semplice aggregazione con la Libreria di un’altra opera non basata sulla Libreria (o anche con un’opera basata sulla Libreria) su un mezzo di memorizzazione o distribuzione, non implica che l’altra opera ricada sotto l’influenza di questa Licenza.

3. È lecito decidere di applicare a una copia della Libreria i ter- mini della normale Licenza Pubblica Generica GNU (GNU GPL) al posto di questa Licenza. Per farlo, è necessario cambiare tutti i riferimenti a questa Licenza, in modo che rimandino alla norma- le Licenza Pubblica Generica GNU versione 2, anziché a questa Licenza. (Se dovesse essere pubblicata una versione della Licenza Pubblica Generica GNU successiva alla 2, volendo si può specifi- care questa nuova versione). Non va cambiato nessun altro riferi- mento o nota. Una volta operato questo cambiamento su una determinata copia, esso diviene irreversibile e la Licenza Pubblica Generica GNU si applica a tutte le successive copie e opere deri- vate create a partire da tale copia. Questa opzione torna utile qua- lora si voglia copiare parte del codice della Libreria in un pro- gramma che non è una libreria. 4. È consentito copiare e distribuire la Libreria (o parti o derivati di essa, come espresso dal comma 2) sotto forma di codice ogget-

180 to o eseguibile secondo i termini dei precedenti commi 1 e 2, a condizione che venga allegato il corrispondente codice sorgente completo, in formato leggibile dal calcolatore, distribuito secon- do quanto stabilito dai commi 1 e 2 su un mezzo comunemente utilizzato per lo scambio di software. Nel caso la distribuzione di codice oggetto dovesse avvenire tra- mite accesso alla copia da un determinato luogo, allora l’offerta di analogo accesso per copiare il codice sorgente dal medesimo luo- go soddisfa il requisito di distribuzione del codice sorgente, anche se terze parti non sono obbligate a copiare il sorgente insieme al codice oggetto.

5. Un programma che non contenga alcun derivato di nessuna porzione della Libreria, ma è progettato per lavorare con la Libre- ria attraverso compilazione o collegamento con questa, viene defi- nito “un’opera che usa la Libreria”. Tale opera, isolata, non è deri- vata dalla Libreria, e pertanto ricade al di fuori dell’influenza di questa Licenza. Tuttavia, collegando “un’opera che usa la Libreria” con quest’ulti- ma si crea un eseguibile che è derivato dalla Libreria stessa (poi- ché ne contiene delle parti), piuttosto che “un’opera che usa la Libreria”. Di conseguenza, il codice eseguibile è coperto da que- sta Licenza. Il comma 6 illustra i termini per la distribuzione di questo tipo di eseguibili. Quando “un’opera che usa la Libreria” utilizza materiale da un file di header che fa parte della Libreria, il codice oggetto dell’opera può essere un’opera derivata dalla Libreria anche se il codice sor- gente non lo è. Per determinare questa condizione risulta partico- larmente significativo il fatto che l’opera possa essere compilata

181 senza la Libreria, oppure nel caso l’opera sia una libreria essa stes- sa. La soglia per determinare questa distinzione non viene stabili- ta in modo preciso dalla legge. Se tale file oggetto utilizza solo parametri numerici, schemi di strutture dati e accessori, e piccole macro-funzioni o piccole fun- zioni in linea (lunghe al massimo 10 righe), allora l’uso del file oggetto non è sottoposto a restrizioni, indipendentemente dal fat- to che sia o meno un’opera derivata a livello legale. (Eseguibili che contengano tale codice oggetto in aggiunta a porzioni della Libre- ria sono comunque regolati dal comma 6). Altrimenti, nel caso l’opera sia derivata dalla Libreria, si può distri- buire il codice oggetto dell’opera in base ai termini del comma 6. Ogni eseguibile contenente quell’opera ricade comunque sotto i termini del comma 6, prescindendo dal fatto che siano diretta- mente collegati o meno alla Libreria stessa.

6. Come eccezione al comma precedente, si può combinare o col- legare “un’opera che usa la Libreria” con quest’ultima onde creare un’opera che contenga porzioni della Libreria, e distribuire tale opera secondo termini di propria scelta, purché questi termini consentano la modifica dell’opera ad uso privato e il reverse engi- neering per il debugging delle modifiche. Occorre includere in ogni copia dell’opera una chiara nota in cui si specifichi l’utilizzo della Libreria e il fatto che la Libreria e il suo impiego vengono regolati da questa Licenza. È obbligatorio forni- re una copia di questa Licenza. Se durante l’esecuzione l’opera visua- lizza le note di copyright, insieme a queste bisogna mostrare le note di copyright della Libreria, oltre al riferimento diretto ad una copia di questa Licenza. È inoltre necessario fare una delle seguenti cose:

182 a) Fornire insieme all’opera il codice sorgente completo della Libre- ria in un formato leggibile dal calcolatore, comprese tutte le modi- fiche apportate (che devono essere distribuite secondo i termini pre- visti dai commi 1 e 2); e, nel caso l’opera sia un eseguibile collega- to con la Libreria, fornire “l’opera che usa la Libreria” con il codice oggetto e/o sorgente completo, in modo che l’utente possa modifi- care la Libreria e poi ricollegare il tutto onde produrre un eseguibi- le modificato contenente la Libreria modificata. (È assodato che l’u- tente che dovesse cambiare il contenuto dei file di definizione del- la Libreria non sarà necessariamente in grado di ricompilare l’ap- plicazione per usare tali definizioni modificate). b) Usare un appropriato meccanismo di condivisione delle libre- rie per collegare la Libreria. Un meccanismo appropriato è quello che (1) durante l’esecuzione utilizza una copia della libreria già presente nel computer dell’utente, anziché copiare le funzioni del- la libreria nell’eseguibile, e (2) funzionerà correttamente con una versione modificata della libreria, se l’utente ne installa una, fin- tanto che la versione modificata non sia compatibile a livello di interfaccia con la versione con la quale è stata creata l’opera. c) Allegare all’opera un’offerta scritta, valida per almeno 3 anni, per la fornitura allo stesso utente dei materiali specificati nel pre- cedente sotto-comma 6a, ad un costo non superiore a quello di distribuzione. d) Se la distribuzione dell’opera viene effettuata tramite accesso alla copia da un luogo specifico, va offerto analogo accesso alla copia dei materiali sopra specificati dallo stesso luogo. e) Verificare che l’utente abbia già ricevuto una copia di questi materiali o che gliene sia già stata trasferita una copia.

183 Per un eseguibile, bisogna fornire ogni dato o programma di uti- lità necessario per ricreare l’eseguibile che forma “l’opera che usa la Libreria”. Tuttavia, come eccezione particolare, tra i materiali da distribuire non vanno necessariamente inclusi tutti quelli nor- malmente distribuiti (in forma sorgente o binaria) con i principali componenti (compilatore, kernel e così via) del sistema operativo sul quale funziona l’eseguibile, a meno che tali componenti non siano distribuiti insieme all’eseguibile. Può accadere che questo requisito contraddica le restrizioni det- tate da licenze di altre librerie proprietarie normalmente non for- nite con il sistema operativo. Queste incongruenze comportano l’impossibilità di utilizzare insieme tali librerie e la Libreria in un eseguibile da distribuire.

7. È possibile inserire in un’unica libreria delle funzionalità che sono un’opera basata sulla Libreria, di fianco ad altre funziona- lità non regolate da questa Licenza, e distribuire questa libreria combinata, purché venga comunque consentita la distribuzio- ne separata dell’opera basata sulla Libreria e delle altre funzio- nalità di libreria, e posto che vengano rispettate le seguenti due condizioni: a) Insieme alla libreria combinata, occorre fornire una copia del- la stessa opera basata sulla Libreria, non combinata con nes- sun’altra funzionalità di libreria. Questa deve essere distribuita rispettando i termini enunciati sopra. b) Affiancare alla libreria combinata una chiara nota in cui viene specificato che parte di essa è un’opera basata sulla Libreria, spie- gando altresì dove trovare la versione non combinata della stessa opera.

184 8. Non è consentito copiare, modificare, rilicenziare, collegare con o distribuire la Libreria se non nei termini espressamente enun- ciati in questa Licenza. Qualsiasi tentativo di copiare, modificare, rilicenziare, collegare con o distribuire la Libreria sotto altri ter- mini non è valido e terminerà automaticamente i diritti ricevuti con questa Licenza. Tuttavia, ai quei soggetti che avessero ricevu- to copie, o diritti, sotto i termini di questa Licenza non verrà ter- minata la licenza fintanto che tali soggetti ne rimangano in piena conformità.

9. L’utente non è tenuto ad accettare questa Licenza, poichè non l’ha firmata. In ogni caso, nessun altro documento garan- tisce il permesso di modificare o distribuire la Libreria o le ope- re da essa derivate. Queste azioni sono proibite dalla legge per chi non accetta questa Licenza. Di conseguenza, modificando o distribuendo la Libreria (o qualsiasi opera basata sulla Libre- ria), si indica l’accettazione di questa Licenza in tal senso, e quindi di tutti i suoi termini e condizioni relativamente a copia, distribuzione e modifica della Libreria o di opere basa- te su questa.

10. Ogni volta che la Libreria (o un’opera basata sulla Libreria) viene distribuita, il ricevente ottiene automaticamente una licen- za d’uso da parte del licenziatario originario che regola la copia, la distribuzione, la modifica e il collegamento con la Libreria secon- do i termini e le condizioni ivi specificate. Non è consentito imporre ulteriori restrizioni ai riceventi nell’esercizio dei propri diritti qui garantiti. Chi distribuisce programmi coperti da questa Licenza non è comunque tenuto a imporne il rispetto nei con- fronti di terze parti.

185 11. Se, a seguito di una sentenza di tribunale o di una imputazio- ne per violazione di brevetto o per qualsiasi altro motivo (non limi- tatamente a questioni di brevetti), vengano imposte all’utente, sia dal tribunale sia da accordi tra le parti o altro, delle condizioni in contrasto con quanto stabilito da questa Licenza, tali condizioni non esimono alcun soggetto dal rispetto di questa Licenza. Nel caso non sia possibile distribuire un programma in un modo da soddisfare simultaneamente gli obblighi dettati da questa Licenza e altri obblighi ad essa pertinenti, non si potrà procedere ad alcu- na distribuzione. Se, ad esempio, un brevetto vietasse a tutti quel- li che ricevono direttamente o indirettamente la Libreria, la sua ridistribuzione senza pagamento di diritti, allora l’unico modo per rispettare contemporaneamente tale brevetto e questa Licenza è quello di non distribuire affatto la Libreria. Se una parte qualsiasi di questo comma venga ritenuta non valida o inapplicabile in una qualunque circostanza specifica, deve comun- que essere applicato quanto espresso in questo comma, e in ogni altra circostanza va applicato questo comma nel suo complesso. Non rientra nelle finalità di questo comma indurre l’utente ad infrangere alcun brevetto né altre rivendicazioni sul diritto di pro- prietà, né di contestare la validità di tali rivendicazioni. L’obietti- vo di questo comma è unicamente quello di proteggere l’integrità del sistema di distribuzione dei programmi liberi implementato tramite l’utilizzo di licenze pubbliche. Molte persone hanno gene- rosamente contribuito alla vasta gamma di programmi distribui- ti attraverso questo sistema, basandosi sulla fedele applicazione di tale sistema. Spetta soltanto all’autore/donatore decidere se prefe- risca o meno distribuire il software tramite altri sistemi, e l’uten- te non può imporre tale scelta.

186 Questo comma punta a chiarire fino in fondo ciò che crediamo sia una conseguenza del resto di questa Licenza.

12. Se in alcuni paesi la distribuzione o l’impiego della Libreria sono limitati da brevetti o da interfacce coperte da copyright, il detentore del copyright originario che pone la Libreria sotto que- sta Licenza può aggiungere esplicite limitazioni geografiche alla distribuzione onde escluderne tali paesi, in modo da consentire la distribuzione soltanto in quei paesi non inclusi in queste restri- zioni. In tal caso, le limitazioni geografiche vengono incorporate a tutti gli effetti nel testo di questa Licenza.

13. Di quando in quando Free Software Foundation potrebbe pubblicare versioni nuove o riviste della Licenza Pubblica Gene- rica Attenuata (LGPL). Tali versioni saranno simili a questa nello spirito, ma potranno differire nei dettagli al fine di coprire pro- blemi e situazioni nuove. A ciascuna versione viene assegnato un numero identificativo. Se la Libreria specifica di essere coperta da una particolare versione di questa Licenza e “da qualsiasi versione successiva, l’utente può scegliere di aderire alle condizioni della versione specificata o a quelle di una successiva. Se la Libreria non specifica il numero del- la versione, l’utente può optare per una versione qualsiasi tra quel- le pubblicate dalla Free Software Foundation.

14. Nel caso si voglia incorporare parti della Libreria in altri pro- grammi liberi le cui condizioni di distribuzione siano incompati- bili con queste, si può scrivere all’autore per chiederne l’autoriz- zazione. Per il software sotto il copyright della Free Software Foun- dation, occorre contattare quest’ultima; talvolta facciamo delle

187 eccezioni a queste regole. La nostra decisione sarà guidata da due finalità: preservare la libertà di tutti i prodotti derivati dal nostro software libero e promuovere la condivisione e il riutilizzo del software in generale.

Nessuna garanzia 15. POICHÈ LA LIBRERIA VIENE CONCESSA CON LICENZA GRATUITA, NON ESISTE ALCUNA GARANZIA PER LA LIBRERIA, NEI LIMITI CON- SENTITI DALLE VIGENTI LEGGI. SE NON INDICATO DIVERSAMENTE PER ISCRITTO, IL DETENTORE DEL COPYRIGHT E LE ALTRE PARTI FORNISCONO IL PROGRAMMA “COSÌ COM’È”, SENZA ALCUN TIPO DI GARANZIA, NÉ ESPLICITA NÉ IMPLICITA; CIÒ INCLUDE, SENZA LIMI- TARSI A QUESTO, LA GARANZIA IMPLICITA DI COMMERCIABILITÀ E UTILIZZABILITÀ PER UNO SCOPO PARTICOLARE. TUTTI I RISCHI SU QUALITÀ E PRESTAZIONI DELLA LIBRERIA SONO A CARICO DELL’U- TENTE. SELALIBRERIA DOVESSE RIVELARSI DIFETTOSA, L’UTENTE SI ASSUME L’ONERE DI OGNI MANUTENZIONE, RIPARAZIONE O COR- REZIONE NECESSARIA.

16. NÉILDETENTORE DEL COPYRIGHT, NÉ ALTRE PARTI AUTORIZ- ZATE A MODIFICARE E/O RIDISTRIBUIRE LA LIBRERIA SECONDO QUANTO STABILITO IN QUESTA LICENZA, SONO RESPONSABILI IN ALCUN MODO PER EVENTUALI DANNI NEI CONFRONTI DELL’UTEN- TE, A MENO CHE CIÒ NON SIA RICHIESTO DALLE LEGGI VIGENTI O SIA SPECIFICATO IN UN ACCORDO SCRITTO. SONO INCLUSI DANNI GENERICI, SPECIALI O INCIDENTALI, COME PURE I DANNI CONSE- GUENTI DALL’USO O DALL’IMPOSSIBILITÀ DI USARE LA LIBRERIA (INCLUSO, MA SENZA LIMITARSI A QUESTO, LA PERDITA E LA COR- RUZIONE DEI DATI, LE PERDITE SOSTENUTE DALL’UTENTE O DA TER- ZE PARTI E L’INCAPACITÀ DA PARTE DELLA LIBRERIA DI INTERAGIRE

188 CON ALTRO SOFTWARE), ANCHE NEL CASO IL DETENTORE O LE ALTRE PARTI SIANO STATE AVVISATE DELL’EVENTUALITÀ DI TALI DANNI. Fine dei termini e delle condizioni

Come applicare questi termini a nuove librerie Se si sviluppa una nuova libreria, e la si vuole rendere della mag- giore utilità possibile per il pubblico, la cosa migliore è renderla libera, in modo che chiunque possa ridistribuirla e modificarla sot- to questi termini (o, alternativamente, sotto i termini della nor- male Licenza Pubblica Generica). Per applicare questi termini, basta inserire nella libreria le seguen- ti note. La procedura migliore è inserirle all’inizio di ogni file sor- gente, per chiarire nel modo più efficace possibile l’assenza di garanzie; e ciascun file dovrebbe contenere almeno la nota di copy- right e l’indicazione di dove poter reperire la nota per esteso.

Una riga per indicare il nome della libreria e dare un’idea di cosa fac- cia. Copyright (C) anno nome dell’autore Questa libreria è software libero; ne è concessa la ridistribuzione o la modifica secondo i termini della Licenza Pubblica Generica Atte- nuata GNU come pubblicata dalla Free Software Foundation; si può scegliere a piacimento la versione 2.1 della Licenza oppure una qual- siasi versione successiva. Questa libreria è distribuita nella speranza possa mostrarsi utile, ma SENZA ALCUNA GARANZIA; senza neppure la garanzia impli- cita di COMMERCIABILITÀ o APPLICABILITÀ PER UN PAR-

189 TICOLARE SCOPO. Per maggiori dettagli si veda la Licenza Pub- blica Generica Attenuata GNU. Insieme a questa libreria, l’utente dovrebbe aver ricevuto copia della Licenza Pubblica Generica Attenuata GNU; in caso contrario, si può contattare la Free Software Foundation, Inc., 59 Temple Place, Sui- te 330, Boston, MA 02111-1307, USA

È inoltre il caso di aggiungere informazioni per poter essere con- tattati tramite posta elettronica e cartacea. Se necessario, occorre far firmare al proprio datore di lavoro (per chi lavora come programmatore) o al proprio istituto, per gli stu- denti, una “rinuncia al copyright” per la Libreria. Ecco un esem- pio contenente nomi fittizi: Yoyodinamica SPA rinuncia con questo documento ad ogni diritto sul copyright della libreria ‘Orcaloca’ (una libreria per girarsi i pollici) scritto da Giovanni Smanettone. firma di Pinco Pallino, 1 Aprile 1990 Pinco Pallino, Presidente Questo è tutto!

190 Licenza per Documentazione Libera (FDL) del Progetto GNU

Versione 1.1, Marzo 2000 Copyright (C) 2000 Free Software Foundation, Inc. 59 Temple Place, Suite 330, Boston, MA 02111-1307 USA Chiunque può copiare e distribuire copie letterali di questo docu- mento di licenza, ma non ne è permessa la modifica. (NdT: Questa è una traduzione italiana non ufficiale della Licen- za per Documentazione Libera, FDL. Non è pubblicata dalla Free Software Foundation e non ha valore legale nell’esprimere i ter- mini di distribuzione del software che usa la licenza FDL. Solo la versione originale inglese della licenza ha valore legale. Speriamo ad ogni modo che questa traduzione aiuti le persone di lingua ita- liana a comprendere meglio il significato della FDL.)

0. Preambolo Lo scopo di questa licenza è di rendere un manuale, un testo o altri documenti scritti “liberi” nel senso di assicurare a tutti la libertà effettiva di copiarli e redistribuirli, con o senza modifiche, a fini di lucro o no. In secondo luogo questa licenza prevede per autori ed editori il modo per ottenere il giusto riconoscimento del

191 proprio lavoro, preservandoli dall’essere considerati responsabili per modifiche apportate da altri. Questa licenza è un “copyleft”: ciò vuol dire che i lavori che deri- vano dal documento originale devono essere ugualmente liberi. È il complemento alla Licenza Pubblica Generale GNU, che è una licenza di tipo “copyleft” pensata per il software libero. Abbiamo progettato questa licenza al fine di applicarla alla docu- mentazione del software libero, perché il software libero ha biso- gno di documentazione libera: un programma libero dovrebbe accompagnarsi a manuali che forniscano la stessa libertà del software. Ma questa licenza non è limitata alla documentazione del software; può essere utilizzata per ogni testo che tratti un qual- siasi argomento e al di là dell’avvenuta pubblicazione cartacea. Raccomandiamo principalmente questa licenza per opere che abbiano fini didattici o per manuali di consultazione.

1. Applicabilità e definizioni Questa licenza si applica a qualsiasi manuale o altra opera che con- tenga una nota messa dal detentore del copyright che dica che si può distribuire nei termini di questa licenza. Con “Documento”, in seguito ci si riferisce a qualsiasi manuale o opera. Ogni fruito- re è un destinatario della licenza e viene indicato con “voi”. Una “versione modificata” di un documento è ogni opera conte- nente il documento stesso o parte di esso, sia riprodotto alla let- tera che con modifiche, oppure traduzioni in un’altra lingua. Una “sezione secondaria” è un’appendice cui si fa riferimento o una premessa del documento e riguarda esclusivamente il rappor- to dell’editore o dell’autore del documento con l’argomento gene-

192 rale del documento stesso (o argomenti affini) e non contiene nul- la che possa essere compreso nell’argomento principale. (Per esem- pio, se il documento è in parte un manuale di matematica, una sezione secondaria non può contenere spiegazioni di matematica). Il rapporto con l’argomento può essere un tema collegato storica- mente con il soggetto principale o con soggetti affini, o essere costituito da argomentazioni legali, commerciali, filosofiche, eti- che o politiche pertinenti. Le “sezioni non modificabili” sono alcune sezioni secondarie i cui titoli sono esplicitamente dichiarati essere sezioni non modifica- bili, nella nota che indica che il documento è realizzato sotto que- sta licenza. I “testi copertina” sono dei brevi brani di testo che sono elencati nella nota che indica che il documento è realizzato sotto questa licenza. Una copia “trasparente” del documento indica una copia leggibi- le da un calcolatore, codificata in un formato le cui specifiche sono disponibili pubblicamente, i cui contenuti possono essere visti e modificati direttamente, ora e in futuro, con generici editor di testi o (per immagini composte da pixel) con generici editor di imma- gini o (per i disegni) con qualche editor di disegni ampiamente diffuso, e la copia deve essere adatta al trattamento per la format- tazione o per la conversione in una varietà di formati atti alla suc- cessiva formattazione. Una copia fatta in un altro formato di file trasparente il cui markup è stato progettato per intralciare o sco- raggiare modifiche future da parte dei lettori non è trasparente. Una copia che non è trasparente è “opaca”. Esempi di formati adatti per copie trasparenti sono l’ASCII puro

193 senza markup, il formato di input per Texinfo, il formato di input per LaTex, SGML o XML accoppiati ad una DTD pubblica e disponibile, e semplice HTML conforme agli standard e proget- tato per essere modificato manualmente. Formati opachi sono PostScript, PDF, formati proprietari che possono essere letti e modificati solo con word processor proprietari, SGML o XML per cui non è in genere disponibile la DTD o gli strumenti per il trat- tamento, e HTML generato automaticamente da qualche word processor per il solo output. La “pagina del titolo” di un libro stampato indica la pagina del titolo stessa, più qualche pagina seguente per quanto necessario a contenere in modo leggibile, il materiale che la licenza prevede che compaia nella pagina del titolo. Per opere in formati in cui non sia contemplata esplicitamente la pagina del titolo, con “pagina del titolo” si intende il testo prossimo al titolo dell’opera, prece- dente l’inizio del corpo del testo.

2. Copie letterali Si può copiare e distribuire il documento con l’ausilio di qualsiasi mez- zo, per fini di lucro e non, fornendo per tutte le copie questa licenza, le note sul copyright e l’avviso che questa licenza si applica al docu- mento, e che non si aggiungono altre condizioni al di fuori di quelle della licenza stessa. Non si possono usare misure tecniche per impe- dire o controllare la lettura o la produzione di copie successive alle copie che si producono o distribuiscono. Però si possono ricavare compensi per le copie fornite. Se si distribuiscono un numero suffi- ciente di copie si devono seguire anche le condizioni della sezione 3. Si possono anche prestare copie e con le stesse condizioni sopra menzionate possono essere utilizzate in pubblico.

194 3. Copiare in notevoli quantità Se si pubblicano a mezzo stampa più di 100 copie del documen- to, e la nota della licenza indica che esistono uno o più testi coper- tina, si devono includere nelle copie, in modo chiaro e leggibile, tutti i testi copertina indicati: il testo della prima di copertina in prima di copertina e il testo di quarta di copertina in quarta di copertina. Ambedue devono identificare l’editore che pubblica il documento. La prima di copertina deve presentare il titolo com- pleto con tutte le parole che lo compongono egualmente visibili ed evidenti. Si può aggiungere altro materiale alle copertine. Il copiare con modifiche limitate alle sole copertine, purché si pre- servino il titolo e le altre condizioni viste in precedenza, è consi- derato alla stregua di copiare alla lettera. Se il testo richiesto per le copertine è troppo voluminoso per esse- re riprodotto in modo leggibile, se ne può mettere una prima par- te per quanto ragionevolmente può stare in copertina, e conti- nuare nelle pagine immediatamente seguenti. Se si pubblicano o distribuiscono copie opache del documento in numero superiore a 100, si deve anche includere una copia tra- sparente leggibile da un calcolatore per ogni copia o menzionare per ogni copia opaca un indirizzo di una rete di calcolatori pub- blicamente accessibile in cui vi sia una copia trasparente comple- ta del documento, spogliato di materiale aggiuntivo, e a cui si pos- sa accedere anonimamente e gratuitamente per scaricare il docu- mento usando i protocolli standard e pubblici generalmente usa- ti. Se si adotta l’ultima opzione, si deve prestare la giusta atten- zione, nel momento in cui si inizia la distribuzione in quantità ele- vata di copie opache, ad assicurarsi che la copia trasparente riman- ga accessibile all’indirizzo stabilito fino ad almeno un anno di

195 distanza dall’ultima distribuzione (direttamente o attraverso rivenditori) di quell’edizione al pubblico. È caldamente consigliato, benché non obbligatorio, contattare l’autore del documento prima di distribuirne un numero consi- derevole di copie, per metterlo in grado di fornire una versione aggiornata del documento.

4. Modifiche Si possono copiare e distribuire versioni modificate del docu- mento rispettando le condizioni delle precedenti sezioni 2 e 3, pur- ché la versione modificata sia realizzata seguendo scrupolosamen- te questa stessa licenza, con la versione modificata che svolga il ruolo del “documento”, così da estendere la licenza sulla distribu- zione e la modifica a chiunque ne possieda una copia. Inoltre nel- le versioni modificate si deve: * A. Usare nella pagina del titolo (e nelle copertine se ce ne sono) un titolo diverso da quello del documento, e da quelli di versioni precedenti (che devono essere elencati nella sezione storia del documento ove presenti). Si può usare lo stesso titolo di una ver- sione precedente se l’editore di quella versione originale ne ha dato il permesso. * B. Elencare nella pagina del titolo, come autori, una o più per- sone o gruppi responsabili in qualità di autori delle modifiche nel- la versione modificata, insieme ad almeno cinque fra i principali autori del documento (tutti gli autori principali se sono meno di cinque). * C. Dichiarare nella pagina del titolo il nome dell’editore della versione modificata in qualità di editore. * D. Conservare tutte le note sul copyright del documento origi- nale.

196 * E. Aggiungere un’appropriata licenza per le modifiche di segui- to alle altre licenze sui copyright. * F. Includere immediatamente dopo la nota di copyright, un avvi- so di licenza che dia pubblicamente il permesso di usare la versio- ne modificata nei termini di questa licenza, nella forma mostrata nell’addendum alla fine di questo testo. * G. Preservare in questo avviso di licenza l’intera lista di sezioni non modificabili e testi copertina richieste come previsto dalla licenza del documento. * H. Includere una copia non modificata di questa licenza. * I. Conservare la sezione intitolata “Storia”, e il suo titolo, e aggiungere a questa un elemento che riporti al minimo il titolo, l’anno, i nuovi autori, e gli editori della versione modificata come figurano nella pagina del titolo. Se non ci sono sezioni intitolate “Storia” nel documento, createne una che riporti il titolo, gli auto- ri, gli editori del documento come figurano nella pagina del tito- lo, quindi aggiungete un elemento che descriva la versione modi- ficata come detto in precedenza. * J. Conservare l’indirizzo in rete riportato nel documento, se c’è, al fine del pubblico accesso ad una copia trasparente, e possibil- mente l’indirizzo in rete per le precedenti versioni su cui ci si è basati. Questi possono essere collocati nella sezione “Storia”. Si può omettere un indirizzo di rete per un’opera pubblicata alme- no quattro anni prima del documento stesso, o se l’originario edi- tore della versione cui ci si riferisce ne dà il permesso. * K. In ogni sezione di “Ringraziamenti” o “Dediche”, si conser- vino il titolo, il senso, il tono della sezione stessa. * L. Si conservino inalterate le sezioni non modificabili del docu- mento, nei propri testi e nei propri titoli. I numeri della sezione o equivalenti non sono considerati parte del titolo della sezione.

197 * M. Si cancelli ogni sezione intitolata “Riconoscimenti”. Solo questa sezione può non essere inclusa nella versione modificata. * N. Non si modifichi il titolo di sezioni esistenti come “miglioria” o per creare confusione con i titoli di sezioni non modificabili. Se la versione modificata comprende nuove sezioni di primaria importanza o appendici che ricadono in “sezioni secondarie”, e non contengono materiale copiato dal documento, si ha facoltà di rendere non modificabili quante sezioni si voglia. Per fare ciò si aggiunga il loro titolo alla lista delle sezioni immutabili nella nota di copyright della versione modificata. Questi titoli devono esse- re diversi dai titoli di ogni altra sezione. Si può aggiungere una sezione intitolata “Riconoscimenti”, a pat- to che non contenga altro che le approvazioni alla versione modi- ficata prodotte da vari soggetti – per esempio, affermazioni di revi- sione o che il testo è stato approvato da una organizzazione come la definizione normativa di uno standard. Si può aggiungere un brano fino a cinque parole come Testo Copertina, e un brano fino a 25 parole come Testo di Retro Coper- tina, alla fine dell’elenco dei Testi Copertina nella versione modi- ficata. Solamente un brano del Testo Copertina e uno del Testo di Retro Copertina possono essere aggiunti (anche con adattamen- ti) da ciascuna persona o organizzazione. Se il documento inclu- de già un testo copertina per la stessa copertina, precedentemen- te aggiunto o adattato da voi o dalla stessa organizzazione nel nome della quale si agisce, non se ne può aggiungere un altro, ma si può rimpiazzare il vecchio ottenendo l’esplicita autorizzazione dall’e- ditore precedente che aveva aggiunto il testo copertina. L’autore/i e l’editore/i del “documento” non ottengono da questa licenza il permesso di usare i propri nomi per pubblicizzare la ver-

198 sione modificata o rivendicare l’approvazione di ogni versione modificata.

5. Unione di documenti Si può unire il documento con altri realizzati sotto questa licenza, seguendo i termini definiti nella precedente sezione 4 per le ver- sioni modificate, a patto che si includa l’insieme di tutte le Sezio- ni Invarianti di tutti i documenti originali, senza modifiche, e si elenchino tutte come Sezioni Invarianti della sintesi di documen- ti nella licenza della stessa. Nella sintesi è necessaria una sola copia di questa licenza, e mul- tiple sezioni invarianti possono essere rimpiazzate da una singola copia se identiche. Se ci sono multiple Sezioni Invarianti con lo stesso nome ma contenuti differenti, si renda unico il titolo di cia- scuna sezione aggiungendovi alla fine e fra parentesi, il nome del- l’autore o editore della sezione, se noti, o altrimenti un numero distintivo. Si facciano gli stessi aggiustamenti ai titoli delle sezio- ni nell’elenco delle Sezioni Invarianti nella nota di copyright del- la sintesi. Nella sintesi si devono unire le varie sezioni intitolate “storia” nei vari documenti originali di partenza per formare una unica sezio- ne intitolata “storia”; allo stesso modo si unisca ogni sezione inti- tolata “Ringraziamenti”, e ogni sezione intitolata “Dediche”. Si devono eliminare tutte le sezioni intitolate “Riconoscimenti”.

6. Raccolte di documenti Si può produrre una raccolta che consista del documento e di altri realizzati sotto questa licenza; e rimpiazzare le singole copie di que- sta licenza nei vari documenti con una sola inclusa nella raccolta,

199 solamente se si seguono le regole fissate da questa licenza per le copie alla lettera come se si applicassero a ciascun documento. Si può estrarre un singolo documento da una raccolta e distribuirlo individualmente sotto questa licenza, solo se si inserisce una copia di questa licenza nel documento estratto e se si seguono tutte le altre regole fissate da questa licenza per le copie alla lettera del documento.

7. Raccogliere insieme a lavori indipendenti Una raccolta del documento o sue derivazioni con altri documenti o lavori separati o indipendenti, all’interno di o a formare un archi- vio o un supporto per la distribuzione, non è una “versione modi- ficata” del documento nella sua interezza, se non ci sono copyri- ght per l’intera raccolta. Ciascuna raccolta si chiama allora “aggre- gato” e questa licenza non si applica agli altri lavori contenuti in essa che ne sono parte, per il solo fatto di essere raccolti insieme, qualora non siano però loro stessi lavori derivati dal documento. Se le esigenze del Testo Copertina della sezione 3 sono applicabi- li a queste copie del documento allora, se il documento è inferio- re ad un quarto dell’intero aggregato i Testi Copertina del docu- mento possono essere piazzati in copertine che delimitano solo il documento all’interno dell’aggregato. Altrimenti devono appari- re nella copertina dell’intero aggregato.

8. Traduzioni La traduzione è considerata un tipo di modifica, e di conseguen- za si possono distribuire traduzioni del documento seguendo i ter- mini della sezione 4. Rimpiazzare sezioni non modificabili con traduzioni richiede un particolare permesso da parte dei detento-

200 ri del diritto d’autore, ma si possono includere traduzioni di una o più sezioni non modificabili in aggiunta alle versioni originali di queste sezioni immutabili. Si può fornire una traduzione della presente licenza a patto che si includa anche l’originale versione inglese di questa licenza. In caso di discordanza fra la traduzione e l’originale inglese di questa licenza la versione originale inglese prevale sempre.

9. Termini Non si può applicare un’altra licenza al documento, copiarlo, modificarlo, o distribuirlo al di fuori dei termini espressamente previsti da questa licenza. Ogni altro tentativo di applicare un’al- tra licenza al documento, copiarlo, modificarlo, o distribuirlo è deprecato e pone fine automaticamente ai diritti previsti da que- sta licenza. Comunque, per quanti abbiano ricevuto copie o abbia- no diritti coperti da questa licenza, essi non ne cessano se si rima- ne perfettamente coerenti con quanto previsto dalla stessa.

10. Revisioni future di questa licenza La Free Software Foundation può pubblicare nuove, rivedute ver- sioni della Licenza per Documentazione Libera GNU volta per volta. Qualche nuova versione potrebbe essere simile nello spirito alla versione attuale ma differire in dettagli per affrontare nuovi problemi e concetti. Si veda http://www.gnu.org/copyleft. Ad ogni versione della licenza viene dato un numero che distin- gue la versione stessa. Se il documento specifica che si riferisce ad una versione particolare della licenza contraddistinta dal numero o “ogni versione successiva”, si ha la possibilità di seguire termini e condizioni sia della versione specificata che di ogni versione suc- cessiva pubblicata (non come bozza) dalla Free Software Founda-

201 tion. Se il documento non specifica un numero di versione parti- colare di questa licenza, si può scegliere ogni versione pubblicata (non come bozza) dalla Free Software Foundation. ADDENDUM: Come usare questa licenza per i vostri documenti Per applicare questa licenza ad un documento che si è scritto, si includa una copia della licenza nel documento e si inserisca il seguente avviso subito dopo la pagina del titolo: Copyright (c) anno nome. È garantito il permesso di copiare, distribuire e/o modificare questo documento seguendo i termini della Licenza per Documentazione Libera GNU, Versione 1.1 o ogni versione successiva pubblicata dal- la Free Software Foundation; con le Sezioni Non Modificabili ELEN- CARNE I TITOLI, con i Testi Copertina ELENCO, e con i Testi di Retro Copertina ELENCO. Una copia della licenza è acclusa nella sezione intitolata “Licenza per Documentazione Libera GNU”. Se non ci sono Sezioni non Modificabili, si scriva “senza Sezioni non Modificabili” invece di dire quali sono non modificabili. Se non c’è Testo Copertina, si scriva “nessun Testo Copertina” inve- ce di “il testo Copertina è ELENCO”; e allo stesso modo si ope- ri per il Testo di Retro Copertina. Se il vostro documento contiene esempi non banali di program- ma in codice sorgente si raccomanda di realizzare gli esempi con- temporaneamente applicandovi anche una licenza di software libero di vostra scelta, come ad esempio la Licenza Pubblica Gene- rale GNU, al fine di permetterne l’uso come software libero.

202 Parte Terza

Risorse utili ASSOLI: Progetti operativi in Italia e in Europa

Introduzione L’Associazione Software Libero (http://www.softwarelibero.it/) nasce nel novembre 2000 ponendosi come scopi di base la cor- retta informazione e la diffusione della conoscenza secondo quan- to definito nel 1984 da Richard Stallman all’atto della creazione della Free Software Foundation: libertà di utilizzo del software, libertà di studio, libertà di modifica, libertà di ridistribuzione. Il tutto poggia su un presupposto: l’accesso al codice sorgente. Sono stati sufficienti tre anni di attività perché fosse chiaro come le principali minacce a questo genere di libertà non derivassero esclusivamente dalle holding dell’informatica, promulgatrici dagli Anni Ottanta in avanti di una politica di chiusura delle informa- zioni. Le minacce, ad oggi, arrivano anche dalle istituzioni che, in ritardo e a volte con scarsa cognizione di causa, legiferano sotto la spinta di lobby interessate alla preservazione dei propri privilegi di mercato. Ed ecco che non si va più solo a ledere la libertà di svi- luppo del software, elemento che già di per sé dovrebbe indurre a una riflessione, ma anche le libertà fondamentali dei cittadini, identificabili con quella di espressione e parola. Perché provvedi- menti come la brevettazione delle invenzioni immateriali (che coincide con il software) e la direttiva europea sull’armonizzazio- ne del diritto d’autore insinuano proprio questo genere di rischi. Danneggiando sviluppatori e utenti, tecnici e profani.

204 Ma a volte capita anche che un movimento nato spontaneamen- te agli albori dell’era digitale e poi ufficializzatosi per difendersi dalle aggressioni delle regole del business, qual è il software libe- ro, penetri le mura di quelle stesse istituzioni portando, seppur lentamente e con difficoltà di comprensione, i propri valori al vaglio di amministrazioni centrali e periferiche. Contribuendo così non solo alla veicolazione del proprio messaggio intrinseco, ma anche a una maggiore democratizzazione degli enti pubblici attraverso l’accesso ai dati e alle informazioni. E, non ultimo, a volte anche al superamento del gap tecnologico tra il primo mon- do, l’Occidente industrializzato e potente, e gli altri mondi, quel- li dai capitali limitati e dall’assenza di tecnologia capillare o, quan- to meno, diffusa. Sono questi i motivi per cui di seguito vengono presentati tre pro- getti dell’Associazione Software Libero, tre cavalli di battaglia attraverso i quali scardinare, o almeno tentare, la visione impe- rante dell’informatica legata al pagamento delle licenze, alla mera esecuzione dei programmi, alla limitazione delle informazioni per trasformare gli utenti in ‘pigiatori’ di tasti e icone a cui manca però la conoscenza di fondo, quella che si cela dietro alle interfacce gra- fiche e che costituisce uno dei presupposti della libertà. Parte dei testi riportati sono presenti sul sito dell’Associazione, sono liberamente consultabili e altrettanto liberamente sono vei- colabili secondo quanto riportato in calce alle pagine web: “la copia letterale e la distribuzione del materiale qui raccolto nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che questa nota sia riprodotta (se non diversamente indicato)”.

EUCD (European Union Copyright Directive) L’EUCD viene contrassegnata come legge comunitaria 29/2002,

205 e le sue intenzioni sono l’armonizzazione della disciplina relativa al diritto d’autore. Peccato che tale provvedimento, recepito in Ita- lia a fine marzo 2003 per decreto legislativo ed entrato in vigore il 29 aprile successivo, non miri tanto a tutelare chi, teoricamen- te, dovrebbe beneficiare dalla sua introduzione, cioé gli autori. Il suo obiettivo è invece la preservazione di benefici già esistenti (quelli imposti di fatto dalle multinazionali dell’informatica e del- l’entertainment, tanto per citarne due) e semmai radicalizzarli attraverso recrudescenze legislative. L’EUCD è la direttiva della Comunità europea nata per uniforma- re la legislazione sul diritto d’autore in vigore nei Paesi membri. Si tratta di un argomento estremamente importante per la società, per- ché ogni persona ha a che fare con il diritto d’autore ogni volta che accede ad una qualunque opera, documento o informazione. Il diritto d’autore è un insieme di leggi che forniscono agli auto- ri alcune prerogative sulle proprie creazioni (come il monopo- lio sulla riproduzione). L’esistenza di tali leggi è giustificata dal fatto che esse incoraggiano la produzione di nuove opere, favo- rendo la diffusione del sapere e il progresso sociale: (http://www.biblio.liuc.it:8080/biblio/liucpap/pdf/44.pdf).

L’EUCD introduce nuove norme che ampliano il diritto d’autore, ma di fatto ne contraddicono le finalità positive. Concede nuovi pri- vilegi legali ai colossi del settore, senza però offrire alcuna nuova garanzia agli utenti. Questa impostazione sposta il bilanciamento dei diritti e dei doveri, favorendo i grossi produttori a spese di tut- ti coloro che, in vario modo, utilizzano le moderne tecnologie. Con- tiene quindi molte norme pericolose, tutte riconducibili a un pro- blema fondamentale: la tutela legale per le “misure tecnologiche di protezione”, ovvero per i sistemi che regolano l’accesso e la copia di

206 materiali coperti da diritto d’autore. La “tutela legale” implica che ogni tentativo di aggirare queste misure diventa reato. Sancisce quindi un nuovo potere per gli editori: quello di ricorre- re a sistemi digitali che stabiliscono in che modo gli utenti possa- no utilizzare le opere possedute (come e-book, CD contenenti musica o dati, DVD). Questo significa che domani assisteremo alla diffusione di e-book a tempo, che diventano inutilizzabili dopo un certo periodo, e non possono essere stampati o ceduti a parenti o amici; CD musicali che non si possono copiare, o memorizzare sul computer o sul let- tore MP3 portatile; film in DVD che si possono guardare solo in certi Paesi e con certi sistemi operativi; programmi che automati- camente cancellano dal proprio PC i file ritenuti “illegali”; com- puter, periferiche e sistemi operativi che si rifiutano di leggere dati ritenuti “non autorizzati”. L’elenco potrebbe continuare ed è potenzialmente molto ampio. Una applicazione estensiva di que- sti sistemi potrà togliere agli utenti ogni controllo sul funziona- mento delle macchine in loro possesso. Non si tratta di semplici ipotesi: tutto questo avviene già oggi. Ma l’EUCD richiede che gli Stati europei difendano queste misure tecnologiche, creando leggi apposite: domani, quindi, ogni tenta- tivo di aggirare le vessazioni di questi sistemi di protezione potreb- be essere punito con il carcere; chi crea programmi che leggono certi tipi di file potrebbe commettere un reato; anche chi sola- mente discute su come evitare una limitazione tecnologica potreb- be rischiare la galera. Le persone accusate potrebbero essere puni- te anche se non avessero mai commesso atti oggi illeciti perché ritenuti violazioni del diritto d’autore. Con l’applicazione dell’EUCD, alcuni casi recentemente balzati all’onore delle cronache avrebbero avuto conseguenze diverse: il

207 creatore del DeCSS sarebbe stato condannato; chi ha scoperto come superare le limitazioni dei CD anti-copia usando un pennarello sarebbe un criminale; anche chi utilizza o semplicemente rende note queste invenzioni correrebbe il rischio di ritorsioni legali. Negli Stati Uniti questo scenario è già realtà, a causa del Digital Millennium Copyright Act (DMCA): una legge che ha permesso a varie aziende di ottenere arresti, intimidazioni e censure che han- no colpito utenti, programmatori, ricercatori. E le norme del DMCA sono le stesse previste dall’EUCD. Con le norme introdotte dalla direttiva, diventa illegale l’aggira- mento di tutte le “misure tecnologiche” (anche se facilmente supe- rabili) che regolano l’accesso e la copia delle opere digitali, e diven- ta illegale l’offerta di informazioni e servizi, o la creazione di pro- grammi che possano facilitare tale aggiramento. Gli autori/edito- ri possono proibire agli utenti di cedere o rivendere le opere digi- tali, come software o e-book, regolarmente acquistate attraverso Internet, e possono controllarne qualunque diffusione. Agli utenti non viene riconosciuta alcuna garanzia di poter utiliz- zare in modo ragionevole le opere in formato digitale. Il ricono- scimento legale delle “misure tecnologiche” di protezione sanci- sce, di fatto, l’introduzione di un nuovo privilegio per i detentori dei diritti sulle opere: la possibilità di poter influire sull’utilizzo delle opere stesse. Infatti le “misure tecnologiche” dichiarate intoc- cabili dall’EUCD potrebbero imporre restrizioni estremamente severe per gli utenti, ed esse non potrebbero essere aggirate per alcun motivo. Si pensi ai film in DVD che possono essere guar- dati solamente in certi Paesi, agli e-book che non possono essere stampati, o ai cosiddetti “CD anti-copia” che non possono essere ascoltati su computer: queste vere e proprie truffe ai danni degli utenti verrebbero protette dalla legge, e rese inaggirabili.

208 A rischio anche la possibilità di scegliere quale software utilizzare per gestire i propri dati. La creazione di software interoperante richiede il superamento delle misure tecnologiche che proteggo- no i formati dati. Questa procedura è indispensabile per creare, per esempio, programmi che leggano i DVD, o altri documenti (anche di propria creazione) criptati, protetti da password o comunque memorizzati con alterazioni (anche molto semplici) che ne impediscano una lettura diretta. L’aggiramento delle misu- re tecnologiche, tuttavia, è vietato dall’EUCD – e quindi la diret- tiva di fatto riserva ad una sola azienda la possibilità di creare appli- cazioni che gestiscano un formato dati da essa creato. Gli utenti potrebbero perdere qualunque possibilità di scelta. Verrebbe altresì negata la possibilità di cedere o rivendere i mate- riali digitali ottenuti attraverso Internet. Questo rende impossibi- le la nascita di un mercato degli e-book o del software “usati”, che porti a una riduzione dei prezzi come avvenuto nel mercato del libro tradizionale. Inoltre, ogni documento diffuso via Internet potrebbe essere censurato in qualunque momento dalla sua fon- te, l’autore o l’editore, e nessuna delle persone che ne abbia otte- nuto legalmente una copia avrebbe il diritto di renderla nota in alcun modo. Questo pone dei gravi rischi alla futura possibilità di accesso a materiale di rilevanza storica e documentaristica. Sarà impossibile sapere se i programmi utilizzati siano sicuri o meno. Le informazioni sulle falle e difetti (bug) del software potrebbero agevolare l’aggiramento di “misure tecnologiche” difettose. Tali informazioni potrebbero essere quindi censurate, e gli utenti potrebbero essere tenuti all’oscuro dei problemi dei pro- grammi utilizzati – con grande vantaggio di varie aziende pro- duttrici di software proprietario, non più costrette a correggere i problemi dei propri prodotti.

209 La libertà di espressione su Internet sarà in grave pericolo. Qualun- que informazione in grado di agevolare l’elusione di misure tecno- logiche potrebbe essere dichiarata illegale, con gravi conseguenze sulla libertà di espressione e di stampa. Inoltre, le informazioni e i programmi resi illegali dall’EUCD potrebbero essere rimossi da Internet in modo estremamente rapido, con atti di censura che non richiedono l’intervento di un tribunale. Infatti, a causa della già cita- ta direttiva sul commercio elettonico, ogni ISP (Internet Service Provider) che ospita le pagine Web degli utenti verrebbe di fatto costretto a soddisfare le richieste di oscuramento (più o meno moti- vate) provenienti dalle grosse aziende. Agli utenti verrebbero lascia- te ben poche garanzie e possibilità di sfuggire alla censura. Agli sviluppatori viene proibita la creazione di software in grado di interoperare con altri programmi e sistemi operativi proprieta- ri: per produrre software interoperante, infatti, è necessario stu- diare il comportamento del software originario, aggirando le misu- re tecnologiche che rendono difficoltosa la lettura dei formati di scambio dei dati. Ma l’EUCD rende illegale questa pratica di aggi- ramento – e quindi un’azienda che subisca la concorrenza di un nuovo programma in grado di gestire gli stessi dati potrebbe denunciarne il creatore per il reato di “elusione di misure tecno- logiche”. Uno sviluppatore che superi una misura tecnologica per garantire l’interoperabilità potrebbe essere incarcerato, anche se egli non avesse mai compiuto alcuna violazione del diritto d’au- tore. Inoltre, i programmi (liberi e non) ritenuti scomodi da qual- che azienda potrebbero essere rimossi da Internet con una sem- plice telefonata intimidatoria all’ISP che ne ospita il sito, magari con l’accusa di essere degli strumenti in grado di agevolare l’elu- sione di misure tecnologiche. Tutto questo porta direttamente al monopolio legale sui formati dei dati.

210 Da notare, infine, che gli studi su crittografia e sicurezza sono basa- ti essenzialmente sull’analisi della robustezza del software e degli algoritmi; questa analisi viene effettuata eseguendo dei tentativi di aggiramento delle misure tecnologiche di protezione. Purtroppo, tale pratica è vietata dall’EUCD – ed anche la comunicazione dei dati su questi studi è dichiarata illegale, e censurabile con estrema facilità. Chiunque aggiri delle misure tecnologiche, o diffonda informazioni su questo argomento, potrebbe essere arrestato, pur senza aver mai compiuto violazioni del diritto d’autore. Tali limitazioni rappresentano un evidente ostacolo alla libertà di ricerca, e frenano inevitabilmente i progressi nel campo della crit- tografia e della sicurezza informatica: fino ad oggi, queste attività sono state svolte alla luce del sole, ed hanno portato enormi bene- fici per il miglioramento del software disponibile; ma, a causa dei divieti previsti dall’EUCD, le ricerche su crittografia e sicurezza diventerebbero sostanzialmente illegali e per questo verrebbero trattate solo “sotterraneamente”, per scopi tutt’altro che leciti (gli stessi che l’EUCD cerca di contrastare).

EUCD in Italia Per l’Italia il pericolo appare assai concreto e vicino: infatti è diven- tato esecutivo il decreto legislativo per il recepimento dell’EUCD. Essendo nato da una delega ottenuta dal Governo, il decreto finale potrebbe essere approvato senza alcuna discussione in Parlamento. Da quando ha iniziato a circolare, la bozza del decreto ha destato notevole interesse per un suo aspetto in particolare: gli aumenti di prezzo previsti per i supporti di memorizzazione come CD-R e CD-RW, causati da un incremento delle tasse destinate alla SIAE. La rivista AFDigitale ha addirittura indetto una petizione on-line per l’annullamento dei rincari (http://www.edisport.it/edi-

211 sport/afdigitale/petizione.nsf/Editoriale?Openpage). Tuttavia, per quanto estremamente discutibile, la questione rincari appare paradossalmente il problema meno grave della bozza di decreto legislativo. Tale decreto, infatti, comprende sopprattutto le peri- colose innovazioni previste dall’EUCD: –rende estremamente problematica e complessa la tutela dei dirit- ti degli utenti, specie contro gli abusi legati a “misure tecnologi- che” troppo restrittive; –rende pericolosa e potenzialmente illegale la produzione di software interoperante, specie se libero: i creatori di applicazioni poco gradite a qualche grosso produttore di software proprietario rischiano fino a tre anni di carcere; –rende illegale la ricerca su crittografia e sicurezza informatica: lo schema di decreto legislativo vieta l’aggiramento di “misure tec- nologiche” e la diffusione di informazioni sull’argomento, senza alcuna tutela per la ricerca scientifica; – vieta di cedere o rivendere il materiale digitale acquistato via Internet, con i rischi già illustrati per la futura possibilità di acces- so al sapere. Grazie ad una delega ottenuta dal Governo, tale decreto è giunto in tempi brevi ad una forma definitiva ed esecutiva, senza dibat- tito parlamentare. Purtroppo, il clamore attorno ai (discutibilissi- mi) aumenti di prezzo ha posto in secondo piano altri aspetti deci- samente più importanti e preoccupanti dello schema di decreto legislativo: esso, infatti, rappresenta il recepimento dell’EUCD nella legislatura italiana, ed introduce tutte le pericolose innova- zioni previste dalla direttiva. Per ulteriori dettagli, incluse le modifiche al decreto proposte da Assoli, oltre che per seguire i futuri sviluppi della questione: http://www.softwarelibero.it/progetti/eucd/index.shtml

212 Brevetti sul software “Proteggiamo l’innovazione in Europa: no ai brevetti software” è il titolo dell’appello ai parlamentari europei diffuso in appoggio all’iniziativa intrapresa da FFII (Free Information Infrastructure, http://ffii.org/), associazione non-profit di Monaco di Baviera che si dedica alla maggior diffusione possibile dell’informazione sul- l’elaborazione dei dati. Un’azione, quella partita dalla Germania, sostenuta in Italia da Assoli, anche se nel caso specifico si appog- gia al sito http://swpat.xsec.it/ e all’ufficio dell’europarlamentare Marco Cappato. Già dall’intestazione dell’appello si evince il ber- saglio: la brevettazione delle opere immateriali e, più nello speci- fico, del software. Un pericolo che in Europa è alla sua terza apparizione e che va a insidiare gli articoli 52.2 e 52.3 della Convenzione di Monaco (Convenzione sulla concessione di brevetti europei, Cbe), appro- vata il 5 ottobre 1973. Il primo tentativo coincide con i lavori del- la Conferenza di Parigi (14-25 giugno 1999). Il secondo si ripre- senta meno di un anno e mezzo più tardi con la Conferenza di Monaco (20-29 novembre 2000). Entrambi non hanno sortito l’effetto desiderato. In risposta al terzo tentativo, lanciato a settembre, Assoli ha rac- colto il testimone europeo diffondendo la “Richiesta di azione” proposta negli altri paesi e sollecitando piccole e medie imprese e professionisti attivi nel campo del software libero a firmare l’ap- pello ai parlamentari europei contro i brevetti. La proposta della Commissione Europea sulla brevettabilità delle innovazioni nel software richiede che il Parlamento Europeo, i governi degli stati membri ed altre figure politiche diano una chia- ra risposta. Le maggiori preoccupazioni riguardano diversi fatti: – l’Ufficio Europeo per i Brevetti (UEB), in contraddizione con

213 il testo e lo spirito della legge, abbia garantito decine di migliaia di brevetti sulle idee riguardanti la programmazione e gli affari, che chiameremo “brevetti sul software”; – la Comissione Europea (CEC) sta esercitando pressioni affin- ché questi brevetti siano legalizzati e resi applicabili in tutta Euro- pa. Nel fare ciò, la CEC sta ignorando il chiaro e ben argomenta- to appello della grande maggioranza di professionisti del softwa- re, compagnie, scienziati ed economi; – la CEC basa la sua proposta su una bozza di documento scritta apparentemente dalla Business Software Alliance (BSA), una orga- nizzazione statunitense guidata da poche grandi compagnie, come Microsoft, che ha un considerevole interesse su tale argomento, dato che attualmente il 60% dei brevetti per il software accordati dall’UEB sono detenuti da compagnie statunitensi; –i brevetti sul software interferiscono con il diritto d’autore su questo e per i creatori di software tendono a portare all’espropria- zione piuttosto che alla protezione della loro proprietà. Dei nume- rosi studi economici esistenti, nessuno conclude che i brevetti sul software portino ad una maggiore produttività, innovazione, dif- fusione del sapere o siano, in qualche altro modo, macro-econo- micamente vantaggiosi. La brevettabilità del software proposta da CEC/BSA, inoltre, porta a diverse inconsistenze all’interno del sistema dei brevetti e annulla le centrali assunzioni su cui si basa. Come risultato, ogni cosa diventa brevettabile e non ci può più essere alcuna sicurezza legale; – le istituzioni del sistema europeo dei brevetti non sono in alcun modo soggette significativamente ad un controllo democratico. La divisione tra potere legislativo e giudiziario non è sufficiente ed in particolare l’UEB sembra essere terreno fertile per gli abusi e la pratica dell’illegalità.

214 Per queste ragioni, gli appelli delle varie Associazioni avanzano le seguenti richieste: – sollecitiamo il Parlamento ed il Consiglio Europeo a rifiutare la proposta direttiva COM(2002)92 2002/0047; – sollecitiamo il Parlamento Europeo a trovare un modo per obbli- gare l’UEB a rifondarsi, per come è intesa la brevettabilità, sulle sue linee guida d’indagine del 1978 o un equivalente, in modo da reinstaurare la corretta interpretazione della CBE; – suggeriamo che un tribunale europeo indipendente sia obbliga- to a riesaminare su richiesta di un qualunque cittadino un qual- siasi brevetto che a prima vista possa sembrare accordato sulla base di una scorretta interpretazione delle direttive sulla brevettabilità dell’EPC, e che l’UEB, in tali casi, sia obbligata a rimborsare ai precedenti detentori del brevetto tutte le tasse da loro pagate; – sollecitiamo i legislatori, sia a livello europeo che nazionale, affinché approvino il corrente testo dell’EPC e considerino la sua riapplicazione in accordo alla proposta (http://swpat.ffii.org/sti- di/epc52/index.de.html), ciò fino a quando sarà ritenuto necessa- rio, in modo da evitare interpretazioni scorrette da parte dei tri- bunali; –proponiamo che il Parlamento ed il Consiglio Europeo consi- derino di rendere palesi i limiti della brevettabilità nel caso del software e delle creazioni dell’ingegno emanando una direttiva europea secondo le linee delle contro-proposte disponibili su http://swpat.ffii.org/stidi/javni/index.de.html e http://swpat.ffii.org/papri/eubsaswpat0202/index.en.html#prop – chiediamo che ogni proposta di legge (incluse le proposte della direttiva CEC e le regole create dai precedenti giuridici) riguar- dante la brevettabilità sia verificata attraverso un sistema di prove costituito da esempi di applicazione del brevetto, in modo da vede-

215 re al di là di ogni dubbio se ciò porterà effettivamente i risultati desi- derati e non lascerà spazio ad alcuna interpretazione sbagliata; –proponiamo che il Parlamento Europeo crei un Comitato Per- manente sulla Brevettabilità, con lo scopo di assicurare che i bre- vetti siano accordati solo nelle condizioni in cui questi vadano nel- la direzione del pubblico interesse. Questo comitato dovrebbe esse- re composto da persone del MEP ed indipendenti, esperti in vari campi dell’ingegno quali matematica, informatica, scienze natura- li, ingegneria, economia, epistemiologia, etica e giurisprudenza. Il numero dei detentori di brevetti, funzionari dell’ambiente o altre persone le cui entrate e carriere dipendano dalla comunità dei bre- vetti, deve essere mantenuto esiguo (ad esempio il 10-20%). Il comi- tato dovrà controllare ogni legge sui brevetti così come le interpre- tazioni che gli uffici brevetti e i tribunali ne faranno. Inoltre dovrà istituire incontri, proporre studi specifici sugli effetti del sistema dei brevetti e stimolare una ricerca correlata nel modo più aperto e inclusivo possibile. Il comitato dovrebbe segnalare al Parlamento Europeo in che misura la realtà dei brevetti è conforme alla teoria ed agli obiettivi di politica pubblica della Comunità Europea e dei relativi membri. Il lavoro di questo comitato dovrà rivolgersi verso le preoccupazioni sollevate dal Comitato del Parlamento Europeo per gli Affari Legali ed il Mercato Interno per il Controllo di Qua- lità nell’UEB, come espresso nella discussione sulla regolamenta- zione comunitaria sui brevetti COM(2000)0412; –proponiamo che il Parlamento Europeo crei un Comitato d’in- chiesta per investigare sulle varie accuse di comportamenti irrego- lari tenuti da coloro che propongono le direttive sulla brevettabilità del software e delle opere d’ingegno all’UEB ed al CEC, come la loro stretta collaborazione con una limitata cerchia di potenze, il loro ragionare incoerente ed il loro apparente disprezzo dei princi-

216 pi democratici e legali, e di proporre misure per una riforma in modo da prevenire il ritorno di questi fenomeni nel futuro; – riteniamo che, almeno fino a quando i problemi nell’UEB non saranno risolti, ogni nuova regolamentazione, come Brevetto comu- nitario, sia implementata attraverso istituzioni differenti dall’UEB. Per ulteriori dettagli, nonchè per seguire i futuri sviluppi della que- stione: http://swpat.ffii.org/ e http://swpat.xsec.it/

Pubblica Amministrazione Il software libero sta diventando un argomento sempre più spes- so collegato alla pubblica amministrazione. La conferma più isti- tuzionale a questa affermazione deriva dalle indicazioni contenu- te nell’“Indagine conoscitiva sul software a codice sorgente aper- to nella Pubblica Amministrazione”: (http://www.innovazione.gov.it/ita/comunicati/open_source/ind agine_commissione_os.pdf). Un documento frutto del lavoro della Commissione ministeriale di indagine sull’open source, pre- sieduta da Angelo Raffaele Meo, docente al Politecnico di Torino, che dà un rilievo ufficiale all’argomento. L’argomento, tuttavia, non è nuovo. E se anche l’Aipa (Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione), nel maggio 2002, aveva rilasciato uno studio dal titolo “Il software Open Source (OSS), scenario e prospettive” curato da Francesco Grasso (http://www.aipa.it/servizi%5B3/notizie%5B2/scenariooss.pdf), la comunità del software libero si interroga da tempo sui rappor- ti e sui vantaggi per la cosa pubblica dalla sua adozione. Da que- sto presupposto, scaturisce anche il progetto di Assoli “Il Softwa- re Libero per la Pubblica Amministrazione” il cui contenuto è illu- strato nella sua introduzione.

217 “L’Associazione Software Libero constata con soddisfazione che la pubblica amministrazione italiana, a vari livelli, sta favorendo l’ado- zione del software libero tramite appositi provvedimenti volti a rimuovere ostacoli alla sua diffusione, o lo promuove attivamente riconoscendone l’importanza strategica. Gli enti pubblici locali e nazionali che vorrebbero impegnarsi su questa strada, però, rischia- no di essere ostacolati dalla carenza di informazione sul tema. Vista la delicatezza del dibattito che si è ormai esteso al di fuori della comu- nità, per coinvolgere media ed importanti organi politici, l’Associa- zione costituisce un gruppo di lavoro, che si propone di raccogliere sistematicamente le fonti di conoscenza sull’argomento, e di diffon- derle comunicando direttamente con stampa e organi politici. Come primo passo per facilitare il lavoro è stata creata una mailing list di discussione e coordinamento all’indirizzo: [email protected]”. Il documento prosegue indicando quelli che, nell’opinione di Asso- li, sono i cardini – riportati integralmente – su cui confrontarsi e discutere. Prima di procedere nella loro presentazione, va ricordato che l’Associazione, per mantenere aggiornata l’evoluzione della que- stione, ha avviato anche due sezioni che si occupano di monitorare rispettivamente il dibattito e quanto viene pubblicato. Un numero sempre maggiore di amministrazioni locali e nazio- nali privilegiano, con appositi atti di legge, il software libero nel- l’utilizzo all’interno delle proprie infrastrutture informatiche. Ricordiamo in breve i benefici principali attribuiti all’adozione del software libero da parte degli enti pubblici: – La promozione dello sviluppo economico locale: il modello di svi- luppo e vendita del software libero è, infatti, un modello collabora- tivo e diffuso, che consente a una pluralità di attori economici di beneficiarne (sviluppatori, imprese di servizi, utenti). I costi di acqui- sto del software, infatti, si spostano dalle licenze alla personalizza-

218 zione, consentendo lo sviluppo di imprese locali di servizi. Questo può rilanciare un’economia nazionale del software, mentre finora molti paesi erano costretti ad importare costosi pacchetti dall’estero. – La trasparenza e la sicurezza: il fatto di poter disporre del codi- ce sorgente dei programmi con cui vengono memorizzati e trat- tati i dati dei cittadini offre la possibilità di verificare la sicurezza delle applicazioni software. La disponibilità del sorgente a una vasta comunità di programmatori interessati a testarlo comporta notevoli vantaggi nella risoluzione di problemi, senza dover atten- dere le soluzioni ufficiali emesse dai produttori. – La condivisibilità del software: il fatto di poter mettere a dispo- sizione di altri enti pubblici il software sviluppato da un ente, nel- l’ottica di promozione del bene comune che è propria di questo settore; questa possibilità è garantita dalle licenze software “libe- re”, in conformità alla legge n. 340 del 24 novembre 2000 (art. 25, comma I) che richiedeva proprio questo in ogni contratto di acquisto software stipulato da un ente pubblico, legge ampia- mente disattesa anche perché poco nota. – L’ereditarietà del software: il fatto di poter cambiare fornitore senza dover perdere l’investimento fatto; grazie agli standard aper- ti utilizzati nel software libero infatti tutti i professionisti IT, uti- lizzando linguaggi comuni, possono lavorare sulle applicazioni svi- luppate in precedenza da altri. Diventa così più semplice mettere in concorrenza i propri fornitori (non è un caso che il modello di sviluppo proprietario o chiuso abbia generato un impressionante monopolista), quando si hanno le specifiche e la documentazio- ne relative al codice software. Per ulteriori dettagli e aggiornamenti: http://www.softwarelibero.it/pa/ Associazione Software Libero, luglio 2003

219 Indice

Libertà di software e di pensiero, grazie! ...... 3

PARTE PRIMA: Libertà, società e software...... 9 Possiamo fidarci del nostro computer?...... 11 Perché il software dovrebbe essere libero ...... 18 Diritto d’autore e globalizzazione nell’era delle reti informatiche 45 Software libero: libertà e cooperazione ...... 87 Termini da evitare ...... 150

PARTE SECONDA: Le licenze ...... 159 Licenza Pubblica Generica (GPL) del progetto GNU ...... 160 Licenza Pubblica Generica Attenuata (LGPL) del Progetto GNU. 173 Licenza per Documentazione Libera (FDL) del Progetto GNU . 191

PARTE TERZA: Risorse utili ...... 203 ASSOLI: Progetti operativi in Italia e in Europa ...... 204 e-mail: [email protected] http://www.stampalternativa.it/ eretica

STAMPA ALTERNATIVA Casella postale97-01100Viterbo fax0761.352751 s impaginazione progetto grafico © 2004NuoviEquilibri copia siamantenutalacitazionedelcopyrightequestanota. articoli diquestolibro,nellalorointegrità,acondizionechesuogni Si consentelacopialetteraleedistribuzionediunootuttigli Email: [email protected] Boston, MA02111-1307,USA 59 Temple Place,Suite330, Free Software Foundation Copyright ©2002FreeSoftware Foundation,Inc. of RichardM.Stallman Titolo originale:FreeSoftware, FreeSociety:TheSelectedEssays del progettoGNU Traduzioni diBernardoParrella eGruppotraduttoriitaliani A curadiBernardoParrella eAssociazione Software Libero presso latipografia finito distampare nelmesedigennaio2004 A A direttore editoriale Software libero licabili eresistenti,dellavergognadelconformismo. no voce.Sianoimuridiuncarcereoquelli,ancorapiùinva- toriali cheancoraseparanoenascondonocolorononhan- ta, controcorrente.Questacollanavuoleabbattereimuriedi- Contro ilcomunesensodelpudore,controlamoralecodifica- Non vengono forniti pareri e schede di lettura. di schede e pareri forniti vengono Non u concessionedellaFreeSoftware Foundation Non si considerano testi inviati per e-mail. per inviati testi considerano si Non t t t t e e n n z z Saggi sceltidiRichardStallman i i o o n n e e ! ! P I manoscritti inviati all’editore non si restituiscono. restituiscono. si non all’editore inviati manoscritti I ensiero libero Littlered Graffiti Anyone! W via Catania 8-00040Pavona (Roma) Marcello Baraghini eb: http://www.gnu.org ERETICA L’ARTE DELLA GIOIA di G. Sapienza PA PALAGI REBIBBIA RHAPSODY di Tuiavii di Tiavea di Echaurren e Fioravanti CASTANEDA E LE SNATCH COMICS STREGHE DEL NAGUAL di JD Jachini SCIAMANI DELLE DUE UOMINI SU UOMINI AMERICHE di M.B. Bianchi APOCALISSE GIOIOSA STORIE DI SOGNI di T. McKenna E MALATTIE di I. Majore MONDO HACKER 1.0 di A. Forni SI VIVE SOLO DUE VOLTE di C. Castaneda HOTEL CALIFORNIA di A. Azzaroni TAXI BROUSSE di M. Aime KATANGA CHE SORPRESA! CUORE DI PULP LINGUE di AA.VV. di Giovannini & Tentori PER RAGAZZE DI COLORE... BANCA BASSOTTI di G. Cloza di N. Shange IL MANIFESTO DI COSÌ PARLÒ BALAUSTRA UNABOMBER di Vercillo & Zecchino SOMMI PECCATORI CHI HA VERAMENTE COSTRUITO LE PIRAMIDI di A. Cavoli E LA SFINGE CREDERE OBBEDIRE di Giacobbo & Luna COMBATTERE ERESIE PSICHEDELICHE di C. Galeotti di AA.VV. CANNABIS, NON SOLO FUMO TUTTO VERO! MEMBRI DI di B. Parrella PA R TITO di A. Selvaggi LA NOTTE DI STALIN di P. Pieri PICCOLI ERGASTOLI di Echaurren & Fioravanti NEOPAGANESIMO di AA.VV. RUBA QUESTO LIBRO di A. Hoffman CORSARI VERDI di S. Apuzzo LUCI ROSSE di D. Soffiati UN LETTO DI RISO di AA.VV. NON PROVATE A DEFINIRCI di AA.VV. COME UCCISI MIA MADRE di L. Puliti L’OBBEDIENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ EXTRATERRESTRI di L. Milani di T.C. Lethbridge I SIGNORI ERESIA PURA DELLA TRANSIZIONE di A. Petta di A. Segre IN AMORE VINCE IL CANE SESSO ANNUNCIATO di S. Cecchi di B.J. Loz SIGNORA EROINA CONTROARREDATURA di A. Bongusto di S. Ricciardi IO, ULTRAS GIORDANO BRUNO di A. Arena IL PROCESSO CORPI ESTRANEI E LA CONDANNA di P. Echaurren di A. Castronovo LA NOTTE DEGLI PIOGGIAFANGOMERDA STRAMURTI VIVENTI SOLEBLUES di E. Verrengia di M. Rossi EDITORI A PERDERE DEPUTATI A FAR RIDERE di M. Bendia e A. Barocci di C.A. Colombo ASSASSINATI SOGNI AMERICANI di S. Carnazzi di Sapphire BLOC BOOK IL LIBRO È NUDO a cura di F. Giovannini di F. Del Moro ROMA DIVINA QUESTA È L’AFRICA di P. Ravasenga di G.A. Rolla CAMERATA TOPOLINO BAMBINI ASSASSINI di A. Barbera a cura di Giovannini e Tentori IL PAROLIFERO PINO ZAC di I. Capizzi di V. Vecellio MANUALE PRATICO QUATTRO SBERLE DELLA DONNA PADANA IN PADELLA di N. Bresciani di S. Carnazzi e S. Apuzzo FIDO NON SI FIDA LA VENDETTA di S. Apuzzo e E. Meyer DEL RISPARMIATORE PALESTINESI di G. Cloza di J. Genet DONNE COL PISELLO ROGHI FATUI di K. Valli Bentivoglio di A. Petta L’ANTICRISTO VA DO, L’AFFONDO E di F. Nietzsche TORNO WACO – UNA STRAGE di M. La Ferla DI STATO AMERICANA SESSO DENARO POTERE di C. Stagnaro di Osho PERCHÉ GLI INGLESI OMOCIDI NON USANO IL BIDET? di A. Pini di P. Guagliumi IL SENSO DELLA VITA È PA RTODITESTA NONROMPERE I COGLIONI di A. Barocci di G. Nardella LE PAROLE DELLA TERRA PELLE DI TERRA di L. Veronelli - P. Euchaurren di V. Bottaro

MANUALE PER I FIGLI DI BABELE DIFENDERSI DAI di V. Ruotolo GIORNALISTI di C. Draghi L’ULTIMO COLPO DI

FUMA PURE HORST FANTAZZINI SCIENZA SENZA SENSO di P. Diamante di S. Milloy SELVATICO E COLTIVATO CEFALONIA Rete Bioregionale Italiana DOPPIA STRAGE di L. Caroppo LA MARIJUANA FA BENE MACHI FINI FA MALE DI CARTA di G. Blumir di A. Torreguitart Ruiz PORNO ITALIA ERBA MEDICA di F. Giovannini Associazione Canapa Terapeutica ADDIO, MAREMMA BELLA ECCHIME di A. Cavoli di V. Cavallo

VITE MINIME RACCONTI CONTRO TUTTI di M. Twain di D. Boccardi

IO SONO GESÙ CRISTO SOFTWARE LIBERO di A. Artaud PENSIERO LIBERO - Vol. 2 di R. Stullman DA FIUME A ROMA di G. Ferrero

PSICOFUNGHI ITALIANI di G. Camilla

L’UOMO DI ATLANTIDE di M. La Ferla

SOFTWARE LIBERO Redazione: PENSIERO LIBERO Stampa Alternativa di R. Stullman C.P. 741 00100 Roma Centro L’ARTE DELLA GIOIA e mail: [email protected] di G. Sapienza http: //www.stampalternativa.it

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