F-4 L'ufficio Difesa Dello Stato

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F-4 L'ufficio Difesa Dello Stato STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO V Reparto Affari Generali - Ufficio Storico L’Ufficio Difesa dello Stato (1903-1915) Vita, funzioni e contraddizioni di una struttura dello Stato Maggiore del Regio Esercito a cura di Paolo FORMIGONI PREMESSA Il fine del lavoro è quello di fornire un quadro della nascita dell’l’Ufficio Difesa dello Stato, quale strumento del capo Stato Maggiore dell’Esercito il quale per la propria specialità di “organo tecnico” deputato a potenziare e coordinare la protezione del territorio metropolitano da eventuali aggressioni, riassume meglio di altri nella propria attività gli orientamenti e i timori della politica estera, e quindi di quella militare, del giovane Regno d’Italia. Si è cercato di ricostruire, attraverso una indagine bibliografica, il periodo precedente la nascita dell’Ufficio e di inquadrarlo nella situazione italiana e internazionale del periodo a cavallo fra XIX e XX secolo. Dall’analisi dei documenti si sono poi ricavate le elementi fondamentali sul funzionamento, l’evoluzione e le procedure dell’Ufficio Difesa attraverso i suoi rapporti con gli altri organi dello Stato Maggiore, i ministeri, i comandi militari, fino al momento dell’entrata in guerra, e al confluire dell’ufficio stesso nel Comando Supremo. 2 PARTE PRIMA 1. L’ITALIA “TRIPLICISTA” 1.1. L’Italia postunitaria Nel 1870 il giovane Regno d’Italia si trovò fin quasi dal giorno successivo alla presa di Roma, sia all’interno dei propri confini che nei rapporti con le altre nazioni europee, in una situazione assai delicata e con mezzi piuttosto limitati per farvi fronte. Mentre il brigantaggio meridionale assorbiva ancora le energie dell’esercito in una lunga operazione di polizia controllo del territorio non priva di aspetti particolarmente brutali, la società nazionale, già scossa dai prodromi di quella che sarà la “questione sociale”, era lacerata da una grave frattura fra la componente laica di ispirazione risorgimentale e quella cattolica, percepita non senza ragione come strumento delle rivendicazioni clericali sui territori del cessato Stato della Chiesa. A queste rivendicazioni, che erano di fatto una delegittimazione dello stesso Stato unitario e un palese invito alla sua dissoluzione, facevano da sponda non solo il paese ritenuto il tradizionale nemico del Regno d’Italia, l’Impero austriaco, ma anche la risorta Repubblica di Francia, la quale era stata sotto Napoleone III il principale appoggio alla politica antiaustriaca dei Savoia, ma allo stesso tempo aveva costituito il presidio più saldo del potere temporale del Papa1. Il catastrofico conflitto con la Prussia bismarckiana aveva infatti cancellato dalla scena politica europea il secondo Impero, rendendo possibile all’Italia l’annessione del Lazio con la città di Roma, ma aveva compromesso in maniera esiziale i rapporti fra le due nazioni. L’Italia, pur essendosi mantenuta neutrale, aveva a lungo ondeggiato fra la possibilità di scendere in campo a fianco della Prussia, come il cancelliere prussiano più volte ci sollecitò a fare, con l’obbiettivo di riguadagnare Nizza e la Corsica alla “Nazione Italiana”, e la spericolata tentazione di correre in aiuto del vecchio alleato, come il re Vittorio Emanuele II voleva a tutti i costi2. Dopo la guerra, in Francia il risentimento verso l’Italia toccò vertici piuttosto aspri, i nazionalisti francesi rimproveravano di fatto il governo italiano di non essere intervenuto nel conflitto contro la Prussia, mentre i conservatori e i clericali 1 SALVATORE ROMANO, L’Italia del Novecento, vol. I, Roma, Biblioteca di storia patria, 1965, p. 296. 2 BENEDETTO CROCE, Storia d’Italia dal 1871-1915, Bari, Laterza, 1977, [1ª ed. 1928], p. 33. 3 muovevano accuse parimenti accese per aver portato un offesa alla cristianità approfittando delle disgrazie della Francia per occupare Roma3. Nessuno si stupì che in questo clima persino il generale Garibaldi, che pure aveva combattuto in difesa della Repubblica contro i prussiani, e con esiti più felici dei generali francesi, venisse accolto da grida e insulti al suo ingresso nel Parlamento di Parigi, al quale era stato eletto nel collegio della sua Nizza. L’astio anti-francese in Italia non era meno virulento: apparve nel 1871, ed ebbe discreta fortuna, persino un opuscolo anonimo che accusava il governo francese di avere commissionato l’avvelenamento del conte di Cavour4. Il governo francese dal canto suo mostrava un atteggiamento poco benevolo, mantenendo una nave da guerra nel porto di Civitavecchia a disposizione del Papa, qualora avesse voluto lasciare la Penisola, e ostinandosi per un certo tempo di mandare comunicazioni ufficiali e ambasciatori a Firenze, invece che a Roma. L’Italia si trovava così nella condizione di aver perduto il proprio tradizionale alleato, la Francia, di avere ancora un nemico formidabile nell’Austria incombente dai bastioni alpini sulla pianura veneta, e di aver constatato, nella precedente guerra del 1866 come tanto il suo esercito che la sua marina non fossero ancora strumenti affidabili quanto sarebbe servito. In queste condizioni l’isolamento internazionale, alimentato dalla politica decisamente ostile del papato, diveniva per il giovane Regno un rischio insostenibile, privo come era di un sistema di alleanze che potesse garantire i suoi interessi sulla scena internazionale e sostenerli nel caso, che non era affatto aleatorio, di una guerra. Rimaneva, oltre alla lontana Inghilterra, un paese amico, o almeno non nemico, al quale l’Italia potesse accostarsi: il Reich federale tedesco era stato alleato dell’Italia contro l’Austria, ed aveva favorito l’acquisizione di Roma con la sua guerra contro la Francia, della quale rimaneva il principale rivale sul continente. Nella scelta dell’Italia di avvicinarsi alla Germania giocò poi un ruolo assai importante il forte magnetismo che esercitava sulla classe politica italiana la Germania prussificata con la sua solida potenza militare e industriale, l’efficiente macchina amministrativa, l’efficace centralismo politico amministrativo, e soprattutto la vittoriosa politica antifrancese ed anti- asburgica, e quindi anticattolica5. La politica del Principe di Bismark aveva però riavvicinato la Germania all’Austria, per cui un accordo dell’Italia con Berlino avrebbe 3 SERGIO ROMANO, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milano, Longanesi, 1998, pp. 123-124. 4 Cavour avvelenato da Napoleone III. Documenti storici di un ingrato, Torino, Domenico Cena, 1871 (autore anonimo). 5 S. ROMANO, L’Italia del Novecento, cit., p. 298. 4 significato anche un miglioramento dei rapporti in quella direzione, con un giovamento della complessiva situazione militare del Paese, che avrebbe cessato di avere contemporaneamente due pericolosi vicini, entrambi affacciati sull’arco alpino e a poca distanza dalle sue coste. Un accordo con l’Austria avrebbe significato inevitabilmente mettere da parte l’irredentismo bollente della sinistra risorgimentale e dei nazionalisti, che non cessavano di sperare il ricongiungimento delle ultime terre irredente alla madrepatria. Andava tuttavia scomparendo proprio in quel periodo la classe dei principali protagonisti del risorgimento, e al loro posto si affacciava un nuovo tipo di politici, che seppure anch’essi di provenienza risorgimentale e non del tutto immuni ai richiami dell’espansionismo, potevano più facilmente, in nome della “politica reale” stringere un patto con il vecchio nemico austriaco. Diverse sarebbero state le ragioni che avrebbero spinto il governo italiano nel 1882 a questo passo apparentemente sorprendente, che metteva un regno nato sul principio di nazionalità a fianco di un impero come quello asburgico che sopravviveva esclusivamente sulla negazione di questo principio6. Innanzitutto il capo del governo Agostino Depretis intendeva dare un assetto sicuro alla posizione internazionale dell’Italia, in modo da potersi dedicare con maggiore tranquillità alla composizione dei contrasti sociali e dei problemi economici del Paese. In secondo luogo lo stesso Depretis non aveva nessuna inclinazione ad occuparsi in prima persona della politica estera, prerogativa della quale il successore Crispi sarebbe stato invece tenacemente geloso. Stipulando l’accordo di alleanza con le potenze assolutistiche dell’Europa centrale, Depretis riteneva di essersi sottratto ad un terreno per il quale non si riteneva preparato e sul quale l’Italia era ancora troppo fragile per potersi avventurare7. Quest’ultima convinzione poi doveva essere particolarmente radicata nello stesso presidente del Consiglio dai tempi in cui da ministro della Marina aveva dovuto assistere alla deludente prova della flotta nel conflitto italo-austriaco. L’elemento decisivo che spinse all’accordo il primo ministro italiano, tuttavia fu probabilmente la crisi internazionale maturata negli anni precedenti e scoppiata nel 1881 durante il ministero di Benedetto Cairoli; anche quest’ultimo infatti non si era curato della politica estera in modo particolare, anzi, convinto assertore di un lungo periodo di assestamento 6 S. ROMANO, L’Italia del Novecento, cit., pp. 300-302. 7 Il Papa Pio X non aveva esitato ad invocare persino l’aiuto del luterano Guglielmo II, Kaiser di Germania, al quale aveva implorato: “Rendez-moi Rome!”. GIOACCHINO VOLPE, Storia dell’Italia moderna, Firenze, Le lettere, 2002, vol. I, p.109. 5 del giovane corpo nazionale, si era astenuto rigorosamente dallo stipulare qualsiasi alleanza sia pure sulla base di occasionali contingenze. Cairoli, un vecchio garibaldino, fratello di due martiri del Risorgimento e coraggioso combattente
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