Claretta E Benito, Amanti Burattini a Salò
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Claretta e Benito, amanti burattini a Salò - Gianfranco Capitta, LASTRA A SIGNA,14.11.2015 A teatro. Massimo Sgorbani, drammaturgo lombardo, autore di Arcitaliani, che racconta con cura i giorni dell'infausta repubbica sociale mescolando l'universo ideologico e visionario di Pasolini Pasolini ormai può essere, oltre che un piacere letterario «in proprio», anche punto di partenza per nuove creatività, come capita del resto a tutti i grandi classici. Massimo Sgorbani, puntuto drammaturgo lombardo (la sua ultima trilogia era dedicata alla «donne» di Hitler), parla questa volta insieme di un periodo storico e di noi oggi. Usa le cronache della fine della seconda guerra mondiale, e luniverso ideologico e visionario di Pasolini. Usa la satira e il cabaret, il balletto e il circo, il dramma borghese e la pochade. Tutto mescolato e instancabilmente sovrapposto, per costituire una amarissima quanto ridicola «commedia allitaliana». Anzi forse proprio una commedia sullItalia, di ieri, e pericolosamente anche di oggi. In cui si avverano e degenerano, incontrollati, visioni e incubi pasoliniani, che li aveva organizzati nei minuetti atroci del suo ultimo film, uscito postumo e quasi testamentario, Salò-Sade. Arcitaliani, o le seicento giornate di Salò è il titolo dellopera, che con cura millimetrica racconta i giorni dellinfausta repubblica sociale in cui si avvita tragicamente questo paese. Ma a raccontarcela sono i due «amanti perduti» Claretta e Benito (qui ridotto a Ben della retorica più sdata), impersonati da due attori/burattini (lei è Giusi Merli ormai icona santona della Grande bellezza) che si avviano con fatale incoscienza, come in un film di telefoni bianchi, verso il piazzale Loreto dellintera nazione. Nazione che è ben rappresentata da una insulsa famiglia modello, marito moglie figlio tontolone e cameriera avviata alla santità: tutti pronti a passare dalla fede fascista al trasformistico «antifascismo» che sarà loro necessario per restare a galla, dopo. Mentre si intravedono partigiani in azione e violenze repressive, paradossi sociali e porcheriole familiari. Insomma una vera satura, di linguaggi, generi e situazioni. Ma capace di non perdere mai, lungo le tre ore del racconto, una lucida cattiveria di fondo. La regia di Gianfranco Pedullà, a capo del suo Teatro popolare darte, non si tira indietro, e trasforma in ricchezza spettacolare quella massa di stimoli e suggestioni, senza mai esser loro da meno. Riuscendo anzi a dare, nella curiosa scenografia, «povera» quanto funzionale nelle sue pareti e nei suoi oggetti cartonati, un flusso e un ritmo (verso la perdizione) che pare davvero irrefrenabile. Ci sono le canzoni Eiar di quegli anni canterini, e i personaggi truccati talvolta alla maniera del signor Bonaventura e degli altri protagonisti dei fumetti del Corriere dei Piccoli, e perfino i movimenti di balletto (con la collaborazione della compagnia di Simona Bucci) di quellinconscio boogie woogie di un paese allo stremo. Ci si diverte e ci si può anche arrabbiare, tanto è facile riconoscere gli orrori che ci circondano oggi e che già lì allignavano pronti ad accerchiarci. Rasserena ogni tanto riconoscere qualche allegoria pasoliniana (una qualche geometria di Teorema, o le durissime metafore di Salò, o un odore della Terra vista dalla luna). Ma alla fine, nonostante la durata, cè soprattutto il piacere di uno squarcio di chiarezza balenato davanti agli occhi dello spettatore. © 2015 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE stamptoscana.it http://www.stamptoscana.it/articolo/spettacoli/teatro-la-tragedia-di-un-paese-ridicolo-nel-nome-di-pasolini Teatro: la tragedia di un paese ridicolo, nel nome di Pasolini Spettacoli Gabriele Rizza Firenze – Nella dilagante overdose di appuntamenti che inesorabilmente accompagna i 40 anni della morte di Pier Paolo Pasolini si segnala dalle nostre parti un interessante allestimento basato su un’altrettanto interessante novità drammaturgica. Il primo lo firma Gianfranco Pedullà, la seconda porta in calce il nome di Massimo Sgorbani. Il titolo dello spettacolo, che ha debuttato in prima assoluta al Teatro delle Arti di Lastra a Signa, è una efficace sintesi fra l’italietta fascista, conformista e piccolo borghese, il delirio di onnipotenza del mascelluto duce, marionetta travolto dalla storia insieme alla sciampista Claretta Petacci che sogna in telefoni bianchi, e profetica visione notturna di un futuro senza speranza, uscito dal tunnel della Repubblica sociale italiana. “Arcitaliani o le 600 giornate di Salò”, questo il titolo, risale la penisola dallo sbarco degli alleati in Sicilia fino a Piazzale Loreto, in un turbinio di siparietti e scene madri, avanspettacolo e dramma borghese, bandiere rosse e bandiere nere, fumetti e pupazzi, il Corriere dei Piccoli e l’Istituto Luce, marcette e canzonette, microfoni aperti sull’Eiar, dove a dominare è la cellula familiare, dominio sociale e contraddizione domestica, “sacralizzata” da Pasolini in Teorema, romanzo e film, antipasto al definitivo Salò. Nella congiunzione fra Marx e Freud, Sade e Marcuse, costruttivismo e futurismo, Prampolini e Sironi, Brecht e Bread and Puppet, sesso e potere, storia e storiella, Sgorbani corre libero e consapevole, a briglia sciolta (pur fra qualche lungaggine e pistolotto di troppo) felicemente assecondato dalla regia pimpante e polimorfa, tempi da musical e ritmi da pochade, teatro di strada e tragedia antica, di Gianfranco Pedullà. Che dialoga col cinema pasoliniano fra citazioni e suggestioni: il pappagallo in gabbia come il corvo saltellante di Uccellacci e uccellini, il Totò sor Pampurio della Terra vista dalla luna, il binocolo di Salò che lì filtra le sevizie come qui i corpi di Ben e Clara appesi a testa in giù al benzinaio di Piazzale Loreto, persino la servetta che si cala le mutande come faceva Laura Betti, la domestica Emilia di Teorema, e alla fine, ristabilito l’ordine democratico fallocratico, le note di Son tanto triste, che chiude la partita e il sipario a passo di valzer lento, come l’ultima sequenza di Salò. La tragedia di un paese e una stagione ridicoli, destinati a protrarsi nel tempo, regalano momenti di singolare quanto efficace teatralità. Condita da un cast affiatato, impreziosito da Marco Natalucci, perfetto capofamiglia uscito da una striscia del Corriere dei Picccoli, Rosanna Gentili, vaporosa svampita madre italica, un viso che ci ricorda Julianne Moore, Gaia Nanni, la colf, l’innocenza e la perseveranza, il controllo del condominio e dell’emozione. " Marco Simonelli Un salotto a Salò Pasolini in Arcitaliani di Massimo Sgorbani A quanrant’anni dal brutale omicidio di Pier Paolo Pasolini, l’humus social-mediatico italiano ha ricordato il poeta friulano glorificandone il nome e in linea di massima tacendone l’asperità e complessità dell’opera poetica e cinematografica: persino le Poste Italiane hanno emesso un francobollo che ne raffigurava l’effige, sancendone così la beatificazione nell’empireo filatelico. Chi invece ha preferito ricordare Pasolini e il suo acume critico nei confronti del perbenismo della società italiana post-bellica è il drammaturgo Massimo Sgorbani che con Arcitaliani o le 600 giornate di Salò ha omaggiato l’opera pasoliniana isolandone alcuni temi fondamentali per poi rielaborarli nella costruzione di uno spettacolo teatrale della durata di tre ore. Lo spettacolo si apre all’indomani della liberazione della Sicilia da parte degli Alleati e segue le vicende di uno strampalato e fumettistico nucleo familiare orgogliosamente fascista ispirato al personaggio di Sor Pampurio Arcicontento iconica creatura partorita dalla penna di Carlo Bisi per il Corriere dei Piccoli: un padre presuntuoso e autoritario (Marco Natalucci) che, come il suo doppio d’inchiostro, costringe la famiglia a cambiare casa continuamente; una madre (Rosanna Gentili), ingessata in un tailleur verde sotto al ginocchio, che soffre di tremende quanto provvidenziali emicranie; un figlio adolescente (Roberto Caccavo) alle prese con le prime pulsioni sessuali che comunica, attraverso stati onirici, con i fantasmi dei partigiani trucidati, una fedele e stralunata servetta di estrazione contadina (Gaia Nanni) e un pappagallino che, dalla sua gabbietta, commenta in versi le vicende dei protagonisti. Al plot principale del testo si aggiungono gli inserti grotteschi di Ben e Claretta (Mussolini e la Petacci, rispettivamente Gianfranco Quero e Giusi Merli), marionette umane dalla fisicità distorta i cui dialoghi altro non sono che decontestualizzati lacerti della corrispondenza intercorsa fra il Duce e la sua amante. Da subito il colorato e disfunzionale nucleo familiare si rivela un microcosmo di fascismo: i vari componenti infatti, avvalendosi del ricatto e della minaccia, costringeranno a turno la servetta a consumare con loro un rapporto sessuale. Esilaranti e terribili, gli amplessi a scena aperta altro non sono che esplicite citazioni pasoliniane: la famiglia borghese risemantizza quella di Teorema sconvolta dall’attrazione erotica per l’ospite Terence Stamp; il personaggio della servetta abusata è un emblema dei giovani sottoproletari che in Salò subiscono le torture dei quattro carnefici fascisti mentre il personaggio del pappagallino che interagisce con i protagonisti commentandone le azioni cita i pennuti parlanti di Uccellacci e uccellini. Ma al di là delle suggestioni pasoliniane, Arcitaliani appare come un dramma allegorico che esplora l’archetipo di una famiglia affetta da un fascismo inteso come disfunzione affettiva, violenza sopraffatrice, incomunicabilità. I componenti della famiglia