Indice Prefazione (Di Gian Luca Rossi) Pag.6 Antefatto Pag.8 1942

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Indice Prefazione (Di Gian Luca Rossi) Pag.6 Antefatto Pag.8 1942 Indice Prefazione (di Gian Luca Rossi) pag.6 Antefatto pag.8 1942-1960: la maglia nerazzurra presa di corsa pag.11 1960-1968: Herrera lancia Giacinto e la Grande Inter pag.17 1968-1978: il sigillo del campione pag.27 1978-2006: da dirigente a presidente pag.35 4 settembre 2006: addio Cipe pag.42 Appendice statistica: i numeri del Facchetti calciatore pag.48 Appendice “virgolettata”: cinque anni senza Giacinto nelle parole di chi lo ha conosciuto pag.54 PREFAZIONE di Gian Luca Rossi * Il popolo interista ha sempre avuto molte anime e in un quarto di secolo al seguito professionale di questa affascinante squadra ne ho conosciute tante. Quella colta, “legale” e alpina dell’avvocato Peppino Prisco, quella industriale e borghese della dinastia Moratti, quella semplice e romantica di Giacinto Facchetti, uomo d’altri tempi e campione di tutti, non solo dell’Inter. E poi le tante anime dei tifosi interisti, i più esigenti del mondo. Non potrò mai dimenticare quel tifoso di mezza età, in quel pomeriggio di qualche anno fa, che picchiava con violenza i pugni sul pullman dell’Inter insultando a squarciagola Marco Materazzi. Quell’anonimo invasato indossava però una maglia nerazzurra col numero ventitré, quella di Materazzi, naturalmente. E poi l’amico Marco Policastro, che il 22 maggio 2010 allo stadio “Santiago Bernabeu” di Madrid, al minuto novantadue, quando eravamo già tutti coi pugni al cielo al grido di Campioni d’Europa, riusciva ancora a mandare a quel paese Pandev dopo un passaggio sbagliato. Giacinto Facchetti però è stato unico, trasversale e indimenticabile, quasi un eroe romantico. Oggi in più di un comune italiano gli hanno dedicato una via o una piazza: a Cesano Maderno la cerimonia d’inaugurazione l’ho presentata proprio io. La Lega Calcio gli ha intitolato il Campionato Nazionale Primavera, la più importante competizione giovanile. E quante interviste, quanti fuori- onda mi hanno legato a lui, all’Inter ed a un’altra nostra comune passione, il tennis. Facchetti non è stato solo un calciatore e un presidente vincente, Facchetti è stato un mito e lo sarà sempre. E, come un supereroe della Marvel, basta il suo nome a lavare la fanghiglia che le anime dannate da Calciopoli, quelle condannate da ogni tribunale ed espulse dallo sport vero, hanno provato a versargli addosso per conto del vomitevole teorema “tutti colpevoli, nessun colpevole”. A certi pigmei, che vagano come spiriti senza pace in vecchi castelli, ha già risposto la storia. Fëdor Dostoevskij prima e George Orwell poi hanno detto che, dopo una certa età, ognuno ha la faccia che si merita. Ogni tanto guardate quella di Giacinto Facchetti e poi confrontatela con tante altre. 1942-1960: LA MAGLIA NERAZZURRA PRESA DI CORSA Nel variopinto universo del calcio, solitamente, è rara l’esistenza di giocatori dalle impressionanti virtù agonistiche ed al contempo morali: chi nel proprio ruolo è un padreterno (come lo sono stati ad esempio i Garrincha, i Maradona, i Best e i Ronaldo) spesso si rende protagonista di comportamenti fuori dal campo quantomeno eccentrici o discutibili, se non addirittura in alcuni casi tendenti al censurabile. Giacinto Facchetti ha invece incarnato una delle poche eccezioni: uno dei laterali sinistri più grandi di sempre, dalle qualità impeccabili sia all’interno che all’esterno del rettangolo verde. Campione senza frontiere all’apparenza inaccessibile, ma in realtà disponibile con tutti. Uomo con nel dna l’eleganza di chi è stato chiamato con il nome di un fiore. Mite colomba venuta alla luce nel corso di una feroce lotta bellica: più che uno strano appuntamento col destino, un autentico ossimoro. Sullo sfondo, gli echi della battaglia di El Alamein, combattuta dalle potenze dell’Asse contro l’Armata britannica: in primo piano, un’Italia angosciata da un violento conflitto che non sembrava avere fine. Mentre in Egitto deflagrava una degli scontri simbolo della sanguinosa ed ingiustificabile Seconda Guerra Mondiale, a Treviglio, antica ed indaffarata cittadina a metà tra Bergamo (nella cui provincia è compresa) e Milano, il 18 luglio 1942 nasceva Giacinto Facchetti detto Cipe. Figlio di mamma Elvira e papà Felice, ferroviere-capo appellato bonariamente “Ammazzacristiani” per i modi arcigni con i quali giocava a pallone, Giacinto sin da piccolo mostrò immediatamente passione per il calcio ed enorme attitudine per un vocabolo: correre, il verbo che più avrebbe marcato la carriera sportiva dell’instancabile stantuffo orobico e, nello specifico, ne avrebbe profondamente segnato l’adolescenza. A scuola, nelle gare di atletica, bruciava gli ottanta metri in otto secondi e nove decimi quando il record tricolore era allora di otto e otto. Nella squadra del suo oratorio prima, dov’era impiegato da punta ed era compagno dell’odierno vescovo di Lodi monsignor Giuseppe Merisi, e successivamente nelle giovanili dell’Inter si distinse subito per il naturale incedere assiduo ed inarrestabile. L’andatura dinamica era poi una doverosa prerogativa che il Cipe doveva considerare anche all’uscita dall’istituto di ragioneria da lui frequentato, atteso dal padre in sella ad una bici e con un’altra tenuta fra le mani per l’erede: pedalata spedita per dirigersi alla stazione, dove, consumando un panino veloce dentro i vagoni e dando un rapido sguardo ai compiti per il dì seguente, un treno avrebbe condotto Giacinto all’ombra della Madonnina e, via tram, all’impianto d’allenamento dei ragazzi nerazzurri situato a Rogoredo. Terminata la sessione di fatiche sul campo, nuovamente tram-treno-bici e quindi a casa per cenare ed ultimare le residue mansioni scolastiche. Stesso percorso tutti i giorni, lampante avviso di un’immensa forza di volontà che, a costo di significativi sacrifici per un individuo non ancora maggiorenne che poggiava però su due solidi cardini quali studio e famiglia, lo portava ad ambire al sogno di poter vestire la maglia della compagine tanto amata da papà Felice: l’irrequieta e blasonata F.C. Internazionale, espressione nobile del capoluogo lombardo, ad oggi la sola formazione italiana onnipresente in Serie A, nata sotto il segno dei Pesci nel 1908 dal pennello del pittore Giorgio Muggiani e perciò da sempre raffinata, geniale, imprevedibile, pazza. Un’emozione che Facchetti, una volta indossati i panni di presidente, sintetizzerà al meglio con la frase “amare l’Inter vuol dire conoscerne ogni particolare, saperne apprezzare le sfumature, perlustrare questo lungo bellissimo mistero”. Un “mistero” per il quale, se necessario, ci si poteva pure intestardire: accadde dopo che il diligente alunno padano dall’ampia falcata, inizialmente scartato da un provino sostenuto con il club milanese all’età di sedici anni, fu aggregato ai promettenti virgulti dell’Atalanta. Non appena la società interista tornò sui suoi passi, decisa a dare l’ok per il trasferimento del caparbio “Giac” nelle fila del proprio vivaio, il Cipe non ebbe tuttavia un attimo d’esitazione nel rispondere affermativamente alla proposta, impuntandosi dunque per far evaporare l’approdo al sodalizio bergamasco. Fu così che il perseverante ragazzo trevigliese cominciò l’avventura professionale cui, ovviamente ancora inconsapevole, avrebbe dedicato l’intera vita: un’avventura intrapresa con ben chiare nella mente due regole essenziali – il rispetto e la cultura del lavoro – impartitegli dai poco loquaci ma premurosi genitori che, assieme all’irreprensibile lealtà ed all’umile gentilezza d’animo, avrebbero in futuro perennemente caratterizzato l’esemplare figura di colui che presto sarebbe divenuto un riverito mito del calcio, tanto da essere inserito, in occasione del centenario della FIFA celebrato nel 2004, tra i viventi centoventicinque più grandi giocatori di ogni tempo. Ad accoglierlo, nelle vesti di mister della comitiva junior interista, il figlio dell’Ammazzacristiani trovò un’istituzione come Giuseppe “Peppino” Meazza, il centravanti più forte dell’ultrasecolare storia del Biscione e, probabilmente, del football del Belpaese: estroso cannoniere milanese con doti pedatorie prodigiose e debolezze da comune mortale (le donne ed il gioco d’azzardo), fantasioso ed adorato fuoriclasse designato emblema di un periodo – quello in mezzo ai due atroci Conflitti – che guardava al popolare, imbrillantinato ed orfano di guerra Peppino come all’italiano modello. Quattrocentootto presenze totali e 287 reti siglate con la Beneamata vincitrice di due Scudetti ed una coppa Italia, due Mondiali (1934 e 1938) conquistati con la Nazionale e lo stadio di San Siro meritatamente intitolatogli dodici mesi dopo la scomparsa avvenuta il 21 agosto 1979: il simbolo all’epoca più maestoso di una città fieramente rappresentata dall’indomabile ed affascinante Ambrosiana-Inter, temporaneamente ribattezzata in tal maniera per volere del governante regime fascista, cui faceva da contraltare un irrilevante Milan alle prese con un disastroso ciclo che l’avrebbe visto distante da qualsivoglia forma di trionfo per ben quarantaquattro stagioni consecutive (cifra resa viepiù clamorosa dal fatto che il dirimpettaio club nerazzurro, a dimostrazione di un’oggettiva e senza eguali continuità di risultati, sia ancora oggi l’unico team dello Stivale ad essersi aggiudicato almeno un trofeo in ciascun decennio disputato). Di Giacinto, Meazza intuì subito le notevoli abilità atletiche e lo piazzò sul lato sinistro della difesa, malgrado quel ragazzotto alto, biondo e poderoso (che sino a qualche anno addietro, però, disponeva di un fisico gracilino che mai avrebbe fatto pensare ad una repentina esplosione di muscoli in stile statua
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