NEL BUIO

Notte buia, piena, fonda. Dove non esiste altro che il vuoto il sonno è il viatico che chiude le giornate senza senso, inerti e uguali, di una piccola donna triste. Ma ancora una volta, verso mattino un incubo ricorrente la lascia ansimante tra le lenzuola impregnate di sudore freddo. Nel sogno tutto converge intorno a un viaggio, una vacanza programmata poco prima che il Traditore scomparisse: tre incredibili settimane da spendere nei paesi nordici, loro due soli, sino a perdersi nel più esclusivo degli spettacoli offerti dalla natura, l’aurora boreale. Ma non erano mai partiti. Succedeva invece che quel viaggio Isabella lo cominciasse da sola, in sogno, e non le piaceva. Si trovava in un aeroporto sconosciuto avvolto in una nebbia fosforescente, tra confusione e rumori assordanti, circondata da una miriade di persone. Sguardi dolenti erano rivolti verso lei che davanti all’imboccatura di un enorme Boeing non si decideva a entrare. Una gelida paura l’attanagliava alla gola: dov’era il suo uomo? Lo cercava con gli occhi, gridava il suo nome ma non aveva voce e lui non appariva. Nel sonno si agitava sempre più angosciata: “Ora mi sveglio”, si diceva. “Perchè ti nascondi? Dobbiamo partire, non ricordi? E’ tremendo questo sogno, mi fa morire di paura… dove sei? Vieni, svegliami!” E come fosse stata una risposta alla sua invocazione, in un ultimo brivido, aveva udito - mai successo prima- la voce suadente dell’Indegno sussurrare il suo nome: “Isabella, Isa!”. Aveva percepito la sua vicinanza e un grido le era sfuggito, forse per timore. O per rabbia. O per nostalgia. Ma era stato solo un attimo: da troppo tempo in quel letto dormiva sola. Si era alzata stralunata più del solito: “Verme, misero verme”, era stato il suo buongiorno. Passando dal corridoio aveva sfiorato un vecchio giaccone da uomo di cerata gialla. Lui, il Traditore lo utilizzava nel tempo libero. Amava pescare e in compagnia del fedele bastardino lo indossava per raggiungere l’unico laghetto di Milano, il Redecesio, dove fosse possibile catturare qualche alborella distratta. Gli dava un’aria da consumato lupo di mare: lei lo prendeva in giro e lui fingeva di offendersi. Poi, regolarmente tornava a casa nudo e crudo o con un cartoccio preso in pescheria. E ridevano, ridevano. Questo una vita e una galassia fa. Ma ormai, sul vecchio attaccapanni, assieme ad un guinzaglio anche esso giallo, l’indumento pendeva impolverato e misero; lei l’aveva guardato con astio: si trovava in casa solo per l’insistenza del figlio che pareva colto da raptus ogni qualvolta lei cercava di liberarsene. Trovava oltremodo irritante quel suo parteggiare per il genitore, manco fosse stato vittima di chissà quale ingiustizia, non il carnefice che l’aveva abbindolata con il miraggio di un viaggio da favola eclissandosi poi in un battito di ciglia. Con una donna, ovvio. Il viaggio era un tranello, scema lei che non l’aveva capito. Pensare che il Giuda in tanti anni, mai si era lasciato andare ad un’occhiata a un’altra o a un apprezzamento che andasse più in là di un laconico “simpatica!”. L’aveva intortata per benino con i bagliori dell’aurora boreale, squagliandosela senza proferire verbo in una serata di primavera: una puttana qualunque, lui con la sua cerata gialla e il cane al guinzaglio. Rimasta sola, il figlio se n’era andato per la propria strada, la sua vita si dipanava in una inesorabile ipocondria; le bastavano pochi minuti per arrangiare quattro lavori indispensabili, una misera spesa, dei pasti penosi, poca cura della persona e il resto erano ozio e cattivi pensieri. Lo sfacelo del suo vivere trovava una labile tregua verso il crepuscolo, quando si accostava alla finestra del soggiorno, immobile figuretta sbiadita; il calar del sole indeboliva, finalmente, quel suo continuo pascersi di astio. Dopo il rinnovarsi dell’incubo la giornata era stata il solito tormento, mitigato però dalla certezza di aver udito - non sono matta - la “sua” voce! la stessa di quando lui rientrava dal turno di notte o si accingeva a uscire per quello del mattino. Le si accostava, la sfiorava appena e mormorava il suo nome: lei lo sentiva e rispondeva con un lieve gemito ed era bellissimo. Ci ripensava mentre le si affacciava alla mente una scena, un già vissuto, che arrivava da lontano: si componeva lentamente, come fossero dei flash. Rivide l’ approssimarsi di un temporale. Il cielo era diventato improvvisamente scuro e un vento prepotente sollevava nugoli di polvere. “Porto giù Teo prima che piova.”, aveva deciso il marito. Giusto il tempo di mettere il collare alla bestiola, infilarsi il giaccone, prendere l’ombrello e raggiungere il portone che si era scatenato l’inferno: l’acqua scrosciante accompagnava una tipica grandinata estiva milanese; il cielo si sfogava alla grande, rombando mentre demoni ubriachi prendevano possesso della città. Gli alberi si piegavano sino a terra in un turbinio di foglie e rami cadenti. Dall’alto, dietro i vetri grondanti lei, preoccupata, aveva visto le due figure che seminascoste dal parapioggia si apprestavano ad attraversare la strada per raggiungere l’area cani davanti a casa, a due passi dal portone, dove passanti colti di sorpresa si erano riparati; anche le auto, poche, avevano accostato al marciapiede. Non c’era nessuno per strada, perciò non era riuscita a spiegarsi perché in mezzo al fragore dei tuoni avesse udito, così distintamente come in un silenzio assoluto, lo stridio di una frenata improvvisa, un grande botto e un urlo. Uscito dalla sua gola. Poi era svenuta. Quando aveva ripreso i sensi accanto a lei c’era suo figlio pallidissimo e muto e tante, troppe persone. Lei non capiva il perchè del brusio, delle parole smorzate. Sembrava che tutti fossero informati che non ci sarebbe stato nessun rientro: né uomo, né cane. Sulla sedia in corridoio erano posati il giaccone giallo e il guinzaglio, gettati lì come cose inutili. Una volta realizzato che lui era sparito, non ci aveva messo molto a mettere insieme due più due: “ se tu, con un tempaccio esagerato, hai voluto uscire con la scusa del cane anzichè stare tranquillino aspettando che finisse la tempesta, avevi già in partenza una forte motivazione. Se passano giorni e giorni e non ti fai vedere né sentire, fammi capire un po’ il perché: magari una donna? Certo che sì!”. Ora, pur assorta nei ricordi, percepiva l’avvicinarsi di un cambiamento di tempo. Un’ansia indicibile la stava prendendo. Il sogno, la voce, il vento, le nubi che già coprivano il cielo, la scuotevano a forzare la cortina che le annebbiava la mente. Stordita, tornava a osservare quanto avveniva al di là della finestra, mettendo a fuoco l’approssimarsi del temporale. Come allora. Rivedeva lui giù con il cane: sarebbe passata anche adesso un’auto e lei avrebbe urlato ancora? Socchiuse gli occhi: non accadde nulla. Il maltempo si era allontanato con la stessa rapidità con cui si era annunciato. Capì: basta con la sua vita sospesa! Era arrivato il momento di ammetterlo: lo aveva sempre saputo che non c’era stata nessuna donna, nessun tradimento, nessun tranello. C’era stato solo un imprevisto: la pioggia, un guidatore , un’auto assassina. In definitiva la morte, la solitudine, il buio. Doveva prenderne atto. Doveva prenderne atto: e perché mai? Restò salda nella sua scelta, ingannevole ma vitale: lo amava ancora troppo per poterlo pensare morto. Meglio dilaniarsi l’anima, sentirsi vittima di un inganno, rodersi di gelosia anche, ma illudersi che fosse vivo. La notte prima non era forse venuto a cercarla? Sarebbe tornato. Si scostò dalla finestra, calò la tapparella, spense la luce e ciabattando si diresse verso la camera da letto.