pro lingua Band 35

Roland Bauer · Hans Goebl (a cura di / Hrsg.)

PARALLELA IX

Testo – variazione – informatica Text – Variation – Informatik

gottfried egert verlag

pro lingua herausgegeben von Otto Winkelmann Band 35

Roland Bauer • Hans Goebl (a cura di / Hrsg.)

PARALLELA IX

Testo – variazione – informatica Text – Variation – Informatik

Atti del IX Incontro italo-austriaco dei linguisti (Salisburgo, 1 – 4 novembre 2000) Akten des IX. Österreichisch-italienischen Linguistentreffens (Salzburg, 1. – 4. November 2000)

gottfried egert verlag 2002 Gedruckt mit freundlicher Unterstützung von: Universität Salzburg Stiftungs- und Förderungsgesellschaft der Universität Salzburg

Bibliografische Information Der Deutschen Bibliothek Die Deutsche Bibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über abrufbar.

ISBN 3-926972-95-5

© gottfried egert verlag, Postfach 1180, D-69259 Wilhelmsfeld, 2002 www.egertverlag.de Alle Rechte vorbehalten. Satz und Layout: Roland Bauer Herstellung: Textstudio Maser, Weinheim Printed in Germany Prefazione dei curatori

Dal 1 al 4 novembre 2000 l’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Salisburgo ha avuto l’onore di ospitare il IX Incontro italo-austriaco dei lin- guisti, dedicato al tema “Testo-variazione-informatica”. Questa scelta temati- ca rispecchia le attività di ricerca particolarmente radicate nella romanistica salisburghese e serve quindi a mettere in rilievo il profilo scientifico del no- stro ateneo. Tutti e 26 i contributi pubblicati nel presente volume sono stati presentati a livello orale durante le sedute del convegno. Gli Atti sono strut- turati in una duplice maniera. Gli articoli si trovano in ordine alfabetico secondo i cognomi degli autori, l’indice (tematico) invece segue il triplice titolo del convegno, l’ordine del quale è stato rovesciato in base al numero di contributi per ogni sezione. Vengono presentati prima i 13 articoli di linguistica variazionale, seguono poi quelli di linguistica testuale (10) ed infine appaiono gli articoli di linguistica computazionale (3). È ovvio, che l’assegnazione delle comunicazioni ad una delle tre sezioni sopraindicate risulta talvolta ambigua e va quindi considerata approssimativa. A livello redazionale i curatori hanno cercato di rendere ben leggibili tut- te le tabelle, le illustrazioni e i grafici, vista l’importanza fondamentale di es- si, almeno per alcuni contributi, al fine di consentire una giusta comprensione del testo ai lettori. A parte l’aspetto grafico, sono state al centro della nostra attenzione redazionale sia la completezza e la strutturazione uniforme delle indicazioni bibliografiche sia la spiegazione di tutte le abbreviazioni utilizza- te dagli autori in appositi elenchi. Data l’enorme eterogeneità tematica dei contributi, abbiamo invece dovuto rinunciare alla generazione di indici com- plessivi (sia di nomi che di cose). Desideriamo esprimere la nostra più viva gratitudine alle seguenti istitu- zioni ed imprese, senza il cui generoso contributo logistico e materiale non sarebbe stato possibile riuscire nell’organizzazione del nostro convegno: Università Paris-Lodron Salisburgo, Istituto Italiano di Cultura Vienna, Isti- tuto Italiano di Cultura Innsbruck, Comune di Salisburgo, Regione/Land Sa- lisburgo, Assicurazioni Generali Salisburgo, Landes-Hypothekenbank Salis- burgo, Wirtschaftsförderungsinstitut Salisburgo, Segafredo Zanetti Austria e

V Fratelli Woerle Henndorf sul Wallersee. Un particolare ringraziamento va anche ai numerosi colleghi, laureati e studenti del nostro istituto che ci hanno gentilmente assistito e nella fase preparatoria e durante le quattro giornate del convegno. Ringraziamo infine la casa editrice Gottfried Egert per la gradita collaborazione e per l’accoglienza di questo volume nella prestigiosa collana “pro lingua”.

I curatori Salisburgo, ottobre 2002

VI Vorwort der Herausgeber

Im Jahr 2000 fand am Institut für Romanistik der Universität Salzburg vom 1. bis 4. November das IX. Österreichisch-italienische Linguistentreffen statt, dessen thematisches Motto “Text-Variation-Informatik” lautete. Damit soll- ten drei Forschungsbereiche angesprochen werden, die für das wissenschaft- liche Profil der Salzburger Romanistik kennzeichnend sind. Die im vorlie- genden Sammelband nunmehr publizierten 26 Beiträge basieren ausnahmslos auf den im November 2000 in Salzburg gehaltenen Vorträgen. Die innere Struktur des Bandes ist zweifach gegliedert. Der Textteil ist alphabetisch nach Autoren aufgebaut, das (thematische) Inhaltsverzeichnis folgt hingegen dem dreigliedrigen Tagungsmotto (allerdings in der Reihenfolge “Variation- Text-Informatik”, die dem numerischen Aufkommen der Beiträge in den drei Themenblöcken entspricht), wobei offensichtlich ist, dass die inhaltliche Zu- ordnung bisweilen nur sehr approximativ erfolgen konnte. Die Herausgeber haben bei der redaktionellen Betreuung der eingereich- ten Beiträge ganz besonderes Augenmerk auf die leserfreundliche Gestaltung von Tabellen, Figuren und Graphiken gelegt, was bei einigen Beiträgen für deren gutes Verständnis durch den Leser in der Tat von entscheidender Be- deutung ist. Ferner wurde auf die Vollständigkeit der bibliographischen An- gaben und auf deren einheitliche Gestaltung besonderer Wert gelegt und auch darauf geachtet, dass facheinschlägige Abkürzungen in entsprechenden Tabellen aufgelöst wurden. Angesichts der relativ großen thematischen Hete- rogenität der Beiträge wurde allerdings auf die Erstellung zusammen- fassender Sach- und Namensregister verzichtet. Dankenswerterweise wurde die Abhaltung des IX. Österreichisch-italieni- schen Linguistentreffens finanziell durch folgende Institutionen und Firmen unterstützt: Paris-Lodron Universität Salzburg, Italienisches Kulturinstitut Wien, Italienisches Kulturinstitut Innsbruck, Magistrat der Stadt Salzburg, Amt der Salzburger Landesregierung, Generali Versicherung AG Salzburg, Landes-Hypothekenbank Salzburg, Wirtschaftsförderungsinstitut Salzburg, Segafredo Zanetti Austria und Gebrüder Woerle Henndorf am Wallersee. An der Vorbereitung und konkreten Durchführung des Treffens wirkten zahl-

VII reiche Mitglieder und Studierende des Instituts für Romanistik als hilfreiche Geister und auch Absolventen des Instituts als großzügige Mäzene (im Sinne der Bereitstellung von Sachspenden wie Kaffee etc.) mit. Ihnen allen sowie dem Gottfried Egert-Verlag, der diesen Band freundlicherweise in die Reihe “pro lingua” aufgenommen hat, sei an dieser Stelle für jegliche Unterstüt- zung und das gezeigte Entgegenkommen herzlich gedankt.

Die Herausgeber Salzburg, im Oktober 2002

VIII Indice tematico/ Thematisches Inhaltsverzeichnis

Prefazione dei curatori...... V Vorwort der Herausgeber ...... VII

Indirizzi elettronici degli autori e dei curatori/ E-Mail-Adressen der Autoren und Herausgeber...... XII

1. Linguistica variazionale/Variationslinguistik

Luisa AMENTA / Marina CASTIGLIONE (Palermo): Fenomeni di convergenza nella variazione diatopica e diastratica: l’italiano regionale di Sicilia...... 1

Donato CERBASI (Salerno): Italiano e dialetti nelle tradizioni teatrali regionali tra fine ‘800 ed inizio ‘900 ...... 69

Mari D’AGOSTINO (Palermo): Lingue, spazio, percezione. Problemi teorici e dati empirici...... 77

Vittorio DELL’AQUILA (Vasa): Dati linguistici e cartografia tematica ...... 149

Francesca M. DOVETTO (Napoli): Pomodoro, pomo d’oro, pomo d’amore, ...... 173

Sabine E. KOESTERS GENSINI (Rom): Die Flexionsmorphologie in der gesprochenen deutschen Sprache: ein Vergleich zwischen Standard und Substandard...... 259

IX

Julia KUHN (Innsbruck): Romanische und deutsche Toponyme am Südabhang des Gebirgszuges der (Kanton St. Gallen, Schweiz)...... 275

Fabio MONTERMINI (Paris/Bologna): Formazione delle parole e variazione sociolinguistica: il caso dell’apocope in italiano ...... 305

Nicola MUNARO (Padova): Variazione linguistica e sintassi teorica: il caso dei dimostrativi-wh nelle varietà alto-italiane...... 321

Sandra RZEHAK (Graz): Il linguaggio e la posizione socioculturale delle scritte murali di Torino....341

Johannes SCHNITZER (Wien): Sprachvariation und Terminologie (am Beispiel des Terminus cash flow) ...... 361

Rossella SPINA / Wolfgang U. DRESSLER (Vienna): Variazione morfologica nella flessione verbale italoromanza ...... 389

Margrit WETTER (Chieti/Pescara): Standarddeutsch in Raum und Zeit: veraltete und neue nationalstaatliche Varianten...... 409

2. Linguistica testuale/Textlinguistik

Donella ANTELMI / Francesca SANTULLI (Milano): Presupposizioni linguistiche e linguaggio della politica: osservazioni preliminari a una tipologia testuale...... 17

Stefania BISCETTI / Wolfgang U. DRESSLER (Vienna): Funzioni testuali degli alterativi...... 53

Paul DANLER (Innsbruck): Grammatica testuale e semantica testuale: due metodi d’analisi complementari?...... 99

X Monika DANNERER (Salzburg): Scherzen und Lachen in innerbetrieblichen Besprechungen ...... 115

Maurizio DARDANO (Roma): Aspetti della testualità nella poesia italiana del secondo Novecento...... 133

Fiorenza FISCHER (Vienna): Variazione testuale e uso degli eponimi nel linguaggio dell’economia...... 209

Livio GAETA / Davide RICCA (Torino): Corpora testuali e produttività morfologica: i nomi d’azione italiani in due annate della Stampa (1996–1997)...... 223

Axel HEINEMANN (Salzburg): Italiano e francese a confronto: la nozione corporale nelle espressioni figurate ...... 251

Arturo LARCATI (Salisburgo): Dialetto come “educazione alla diversità”. L’etica del dialetto nelle poetiche degli anni Novanta ...... 293

Laura SERGO (Saarbrücken): “Europa vor dem Ziel” – “Schröder ha sbagliato tutto”. L’intervista scritta: traduzione o elaborazione?...... 373

3. Linguistica computazionale/Computerlinguistik

Manuel BARBERA (Trieste): Pronomi e determinanti nell’annotazione dell’italiano antico. La POS “PD” del Corpus Taurinense ...... 35

Giuliana FIORENTINO (Roma): Computer-Mediated Communication: lingua e testualità nei messaggi di posta elettronica in italiano ...... 187

Antonio ZAMPOLLI (Pisa): Alcuni contributi italiani alla evoluzione della linguistica computazionale ...... 425

XI Indirizzi elettronici degli autori e dei curatori/ E-Mail-Adressen der Autoren und Herausgeber

Luisa AMENTA (Palermo) ...... Roland BAUER (Salzburg)...... Manuel BARBERA (Trieste)...... Stefania BISCETTI (Wien)...... Marina CASTIGLIONE (Palermo) ...... Donato CERBASI (Salerno)...... Mari D’AGOSTINO (Palermo)...... Paul DANLER (Innsbruck) ...... Monika DANNERER (Salzburg) ...... Maurizio DARDANO (Roma) ...... Vittorio DELL’AQUILA (Vasa) ...... Francesca M. DOVETTO (Napoli)...... Wolfgang U. DRESSLER (Wien)...... Giuliana FIORENTINO (Roma) ...... Fiorenza FISCHER (Wien)...... Livio GAETA (Torino)...... Hans GOEBL (Salzburg) ...... Axel HEINEMANN (Salzburg) ...... Gudrun HELD (Salzburg) ...... Sabine E. KOESTERS GENSINI (Roma) ...... Julia KUHN (Innsbruck) ...... Arturo LARCATI (Salzburg)...... Fabio MONTERMINI (Paris/Bologna)...... Nicola MUNARO (Padova)...... Davide RICCA (Torino)...... Sandra RZEHAK (Graz)...... Francesca SANTULLI (Milano) ...... Johannes SCHNITZER (Wien)...... Laura SERGO (Saarbrücken)...... Rossella SPINA (Wien)...... Margrit WETTER (Chieti/Pescara)...... Antonio ZAMPOLLI (Pisa) ......

XII Fenomeni di convergenza nella variazione diatopica e diastratica: l’italiano regionale di Sicilia Luisa Amenta / Marina Castiglione1

1. Premessa Le definizioni di italiano regionale (IR) possono essere molto semplici, fi- nanche banali se si limitano a prevedere la circoscrivibilità areale-regionale della varietà di lingua considerata.2 Nella fattispecie, la situazione siciliana ci consente facilmente di limitare l’ambito geografico della nostra ricerca, sebbene l’insularità non sia da osta- colo alla diffusione dei dialetti messinesi al di là dello Stretto e sebbene essa non abbia impedito la ricezione di spinte esterne e, ancora, sebbene essa o- spiti al suo interno altre sub-insularità, linguistiche, socioeconomiche, am- bientali, etc.3 Ma diamo per scontato che l’IR di Sicilia sia semplicemente l’italiano che si parla in Sicilia: ma chi ne fa uso? In realtà, qui già sorge la necessità di ap- porre un primo corollario alla semplice definizione areale, considerando che “non è sempre facile distinguere fra tratti dell’IR e dell’italiano popolare e dei codici misti anche perché varietà diverse possono coesistere non solo all’interno di una comunità o di un gruppo sociale, ma, come avviene sempre più spesso, anche nella competenza del singolo parlante”.4 L’IR avrebbe dun- que al suo interno una differenziazione diastratica che opporrebbe un IR di parlanti istruiti ad un IR popolare (IRP) di parlanti incolti e semi-istruiti,5 o, come preferiamo definirli, “acculturati”.6 ————— 1 I paragrafi 1.–3. sono di M. Castiglione, i paragrafi 4.–5. di L. Amenta. 2 In Telmon 1994, 603–604, alla nota 2, si citano alcune definizioni “storiche” di Italiano Regionale. 3 Per una disamina ampia e dettagliata della situazione dialettale siciliana cf. Ruffi- no 1991 e il più recente Ruffino 2001. 4 Sobrero/Tempesta 1986, 107. 5 E quanto sostiene Sabatini 1985, differenziando tra un “italiano regionale delle classi istruite” e “italiano regionale delle classi popolari”. Anche Sobrero/Roma- nello 1981 prevedono una bipolarità dell’italiano regionale contemplando nel loro schema classificatorio un italiano regionale alto e un italiano regionale basso. 6 Si tratta, infatti, di una quota della popolazione che, in assenza di una precisa normativa legislativa che prevede l’obbligo scolastico sino alla terza media (e, oggi, sino ai 16 anni d’età), non avrebbe avuto un contatto così prolungato con

1 Lo spazio diventa contenitore di alterità sociali rinvenibili non soltanto dall’occhio del linguista o del sociologo, ma, in prima battuta, dei parlanti stessi. La nostra ipotesi di lavoro è partita dal constatare ciò che a livello teorico sembra chiaro ormai da circa un ventennio, ossia che l’IR – e questo è il se- condo corollario alla definizione iniziale – si caratterizzi per l’inconsape- volezza nei parlanti del suo sostrato di riferimento, ossia quello dialettale.7 In particolare la linea di demarcazione tra IR delle classi istruite e IRP sarebbe costituita dal giudizio metalinguistico dei parlanti con istruzione alta. Secon- do la ricerca comparata di Chiara Grassi Braga proprio l’inconsapevolezza accomunerebbe le varietà regionali italiane e francesi in contrapposizione al- le Umgangssprachen, di impiego intenzionale quando non ufficializzato; ciò, dunque, dovrebbe trovare applicazione nella ricerca empirica. Si dovrebbe, cioè, approdare ad una classificazione effettuata dagli stessi parlanti che contempli grosso modo le due varietà distinte da Sabatini, ossia “IR delle classi istruite” e “IR delle classi popolari”. Considerando però che, in linea teorica ciò che è considerato normativamente corretto dai parlanti con istruzione alta lo sia ancor più per i parlanti con un basso livello d’istruzione, preferiamo parlare di un IR unitario (IRU), verso cui converge la percezione di tutti i parlanti a prescindere dalla socio-cultura di base, e di IRP la cui “italianità” è percepita soltanto in assenza di un adeguato grado

l’istruzione. Molti, al termine del ciclo obbligatorio di studi, propendono per una qualche attività lavorativa e cessano ogni esercizio culturale precipitando verso una progressiva dealfabetizzazione. 7 Per le definizioni di IR in cui si fa più o meno apertamente riferimento al criterio dell’accettabilità si rimanda a: Poggi Salani 1986, 224; Foresti 1986, 220; Telmon 1990, 16; Grassi Braga 1990. Basti qui segnalare l’articolato pensiero di Loi Cor- vetto 1983, 9: “L’accettabilità è infatti, a nostro avviso, un elemento che permette di caratterizzare l’italiano regionale rispetto all’italiano popolare, le cui peculiari- tà, proprio perché sono momentanee e in alcuni casi individuali, vengono conside- rate dagli interlocutori come ‘deviazioni’ troppo marcate perché risultino accetta- bili. L’italiano regionale è invece, secondo noi, quel sistema linguistico le cui rea- lizzazioni, comuni a tutti i parlanti di una data area, derivano dall’interferenza del dialetto locale e/o dei dialetti delle aree contigue e, inoltre, dalla parziale uti- lizzazione delle possibilità previste dalla lingua italiana”. In tale assunto teorico la connotazione di “accettabilità” non risente delle teorie semantiche di corrispon- denza del significante rispetto al significato, ma corrisponde, piuttosto, al senso di “correttezza” rispetto al sistema. Questo criterio essendo citato quasi fugacemente e non trovando, comunque, poi alcuna applicazione nelle fasi della ricerca sul campo, viene definito anche “neutralità comunicativa” o “naturalezza”.

2 d’istruzione.8 La coscienza metalinguistica della regionalità o dialettalità del fenomeno può però non incidere sulla frequenza effettiva del fenomeno stes- so nel momento in cui il parlante, pur consapevole di far ricorso ad una for- ma locale, la impiega per fini d’espressione, d’identificazione o di necessità. Si ritorni alla definizione iniziale e si integri, infine, con quanto emerso: l’IRU è, secondo noi, quella varietà di lingua la cui circoscrivibilità areale non è avvertita dai suoi stessi utenti e si distingue dall’IRP la cui dialettalità risulta invece marcata agli occhi dei parlanti con istruzione alta. Tutti i feno- meni regionali che, pur essendo impiegati nella comunicazione quotidiana, l’autocoscienza dei parlanti fa ritenere censurabili rientrano nell’Italiano dell’Uso Regionale (IUR). Uso e accettabilità sono allora due parametri entrambi necessari a classi- ficare i fenomeni regionali: i due parametri possono coincidere ma possono anche divergere secondo le seguenti possibilità:

ACCETTABILITÀ = USO Una forma considerata corretta trova spazio nell’uso ACCETTABILITÀ ≠ USO Una forma considerata corretta non trova spazio nell’uso NON ACCETTABILITÀ = USO Una forma considerata scorretta viene ugualmente usata NON ACCETTABILITÀ ≠ USO Una forma considerata scorretta viene bandita dall’uso Tabella 1

2. Metodologia Partendo da queste premesse si è strutturato un questionario fondato su una lista di lessemi e di fenomeni morfosintattici indicatici dalle fonti più accredi- tate come regionali.9 I questionari sono poi stati distribuiti da noi stesse e da collaboratori sparsi nelle diverse province al fine di raccogliere un campione che comprendesse famiglie di tutti i capoluoghi e del loro territorio provin- ————— 8 “Le chances dell’italiano regionale sono tutte affidate a questo potente fattore, a torto ritenuto il più delle volte trascurabile: che noi siamo pessimi ascoltatori di noi stessi”. Potremmo chiosare quanto affermato da Baroni/D’Urso/Renzi 1979, 80, dicendo che l’IRU e l’IRP hanno il loro fondamento proprio nell’inconsape- vole prelievo dal sostrato dialettale e locale. 9 In particolare Leone 1982, Tropea 1976, Rossitto 1976 e Alfieri 1992.

3 ciale, per un totale di circa 1000 questionari. Il campione è stato dicotomiz- zato prevedendo due tipologie familiari: una con istruzione medio-alta e un’altra con istruzione medio-bassa. I questionari rientrati e già interamente inseriti nell’elaboratore sono stati in tutto 580. L’articolazione definitiva del questionario comprendeva due sezioni, una di dati socio-biografico-linguistici e una propriamente linguistica, costituita a sua volta da cinque tipologie di fenomeni. Considerando che il nostro obiet- tivo è quello di verificare la rilevanza delle variabili diatopiche e diastratiche nella caratterizzazione e nella percezione dell’IR, ci sembra interessante sof- fermarci sui materiali emersi da alcune domande della prima parte e su alcu- ne sezioni della seconda, relative rispettivamente ai popolarismi, ai verbi pro- nominali e ad alcuni costrutti morfo-sintattici.

3. Percezione dell’italiano regionale In questa sede analizziamo le risposte alle domande 23–26 della prima sezio- ne da cui è possibile ricavare alcune language attitudes10 nonché la consape- volezza della variabilità diatopica presso i nostri informatori. Esse tendevano, infatti, ad acquisire informazioni circa le tipologie d’italiano presenti nel pa- norama percettivo dei nostri utenti e nel discriminare i tratti causa delle diffe- renziazioni. Si cercava inoltre di far emergere, se possibile, la consapevolez- za della variabilità diatopica presso i nostri informatori. Le nostre fonti spes- so si sono affidate a due o più opzioni tra quelle presentate nel questionario e taluno ha anche precisato il proprio pensiero con note a margine.

23. C’è una regione o città d’Italia in cui, secondo Lei, si parla un buon italiano? □ Sì □ No □ Non saprei Quale?…………………………………

————— 10 Atteggiamenti e stereotipi linguistici sono oggi particolarmente analizzati dalla cosiddetta “dialettologia percettiva” o “soggettiva”, la quale ha trovato terreno fertile soprattutto negli studi americani di Dennis Preston, ma che si è ufficializ- zata anche in Italia grazie al Congresso internazionale “Che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux? Percorsi della dialettologia percettiva all’alba del nuovo mil- lennio”, Bardonecchia 25–27 maggio 2000, che ha avuto una recente propaggine nella giornata di Studi, Percezione dello spazio, spazio della percezione. La va- riazione linguistica fra vecchi e nuovi strumenti di analisi, Palermo 5 marzo 2001. Per la bibliografia cf. Canobbio/Iannàccaro 2000.

4 24. Ha avuto l’impressione che l’italiano che si parla in altre regioni d’Italia sia diverso da quello parlato nella sua regione? □ Sì □ No □ Non saprei 25. Se sì, perché? □ È un italiano con altro accento □ È un italiano più chiaro □ È un italiano con altre parole ed espressioni □ Altra risposta, e cioè………… □ È un italiano con altre regole grammaticali 26. Cosa intende Lei per italiano parlato male? □ Un italiano con parole dialettali □ Un italiano con accento locale □ Un italiano sgrammaticato □ Altra risposta, e cioè………………… Tabella 2 Interessante è l’articolazione delle risposte emerse dalla domanda 23. È evi- dente che il nostro campione non desideri offrire la palma a nessun italiano d’Italia. I più istruiti rispondono spesso con un “no” secco al quesito, mentre l’altra fascia di parlanti si orienta verso il “non saprei”. L’atteggiamento im- plicito di queste risposte è, in realtà, abbastanza chiaro: la subalternità dell’Italiano di Sicilia, o forse della Sicilia in generale, è sconfessata dalla fiera rivendicazione dell’essere linguisticamente uguali agli altri.

No 23,44% Toscana 19,65%Milano 2,41% Non saprei 33,79% Firenze 4,82% Roma 2,75% Lombardia 2,75%Altro 12,75% Tabella 3: risposte alla dom. 23 (“C’è una regione o città d’Italia in cui, secondo Lei, si parla un buon italiano?”) La tabella 3 mostra come più della metà del campione non si esprima a favo- re di nessun’altra regione o città d’Italia; i restanti intervistati puntano lo sguardo verso la Toscana in generale, ma, somma villania per la città-simbo- lo dell’italiano “puro”, Firenze non supera neanche uno stentato 5% di con- sensi. Fatta eccezione per chi risponde attribuendo alla stessa Sicilia il prima- to del miglior italiano, o per chi, ancor più campanilisticamente sceglie la propria città, lo sguardo è orientato verso il Nord e non si scende mai più a sud di Roma. Sebbene i nostri informatori non rintraccino il bon usage in nessuno tra i diversi italiani d’Italia senza dubbio però trovano differenziazioni diatopiche. Questa certezza trova conferma nelle risposte alla domanda successiva, la 24 (“Ha avuto l’impressione che l’italiano che si parla in altre regioni d’Italia

5 sia diverso da quello parlato nella sua regione?”), la quale voleva sondare la percezione di differenti italiani sparsi sul territorio nazionale. Innanzitutto non vi è unanimità nel ritenere che l’italiano di Sicilia sia in qualche modo diverso da quello delle altre regioni d’Italia: il 18,27% del campione esclude una variabilità dell’italiano mentre il 13,44% non si esprime. Dal restante 68,27% emerge come i tratti intonativi, scarsamente segnalati (come si vedrà tra breve) come marcatori di un buon italiano, siano invece indicatori della provenienza regionale di un parlante. Le risposte libere alla domanda hanno dato pochi frutti, perché il campione si è più spesso affidato alle opzioni esplicite; è interessante segnalare che gli informatori hanno attri- buito la differenza percepita tra il proprio italiano e quello dei non siciliani o alla velocità d’eloquio o alla endemica assenza di dialetto che sarebbe pro- pria, a loro dire, delle regioni settentrionali.

Altro accento 50,87% Altre parole ed espressioni 36,84% Altre regole grammaticali 2,63% Più chiaro 8,33% Altra risposta 1,31% Tabella 4: risposte alla dom. 25 (risponde il 68,27% del campione) L’inventario lessicale ed idiomatico contraddistinguerebbe dunque i diversi italiani regionali, ma subordinatamente all’accento che si conferma come tratto-bandiera; al contrario la grammatica è, anche per i parlanti, la struttura stessa della langue, e, come tale, immutabile nello spazio. La grammatica, infatti, parte della lingua senza dubbio più complessa e ir- riflessa, risulta essere lo spartiacque tra italiano e dialetto, come ribadito dal- le risposte ottenute alla domanda 26.

Parole dialettali 24,37% Accento locale 6,87% Sgrammaticato 65,31% Altra risposta 1,25% Non saprei 2,18% Tabella 5: risposte alla dom. 26 (“Cosa intende Lei per ‘italiano parlato male’?”) Secondo la graduatoria delle nostri fonti, dunque, asse grammaticale (morfo- sintassi), asse lessicale e asse fonetico-fonologico sono, in ordine, gli ele- menti che strutturano l’architettura della lingua.

6 In conclusione la diatopicità, dunque, non è per il nostro campione una va- riabile significativa e si potrebbe arrivare ad ammettere che, fatta eccezione per l’intonazione e alcune frasi idiomatiche, l’IR, per i parlanti, non esisterebbe.

4. Analisi morfosintattica Ciò risulta particolarmente vero se si prende in considerazione il livello mor- fosintattico della lingua che, nella percezione dei nostri informatori, non con- tribuisce a determinare differenziazioni diatopiche, quanto piuttosto segna la demarcazione tra italiano e dialetto. Pertanto, abbiamo deciso di soffermarci in particolare sull’analisi di alcuni fenomeni morfosintattici, sia per l’impor- tanza conferita dai nostri informatori all’asse grammaticale, quale indicatore di un corretto uso linguistico, sia per verificare la rilevanza dell’altra variabi- le, quella diastratica. Proprio a tale livello di analisi, infatti, è possibile scor- gere con maggiore evidenza la presunta differenziazione tra uso e grado di accettabilità di alcuni fenomeni da parte di informatori con alto e con basso livello di istruzione. I soggetti intervistati dovevano esprimersi circa la conoscenza, l’uso in dialetto, l’uso in italiano e l’accettabilità per ogni singolo fenomeno indaga- to, e soltanto i fenomeni la cui accettabilità avesse superato il 50% dei con- sensi ad entrambi i livelli di istruzione, secondo il nostro impianto metodolo- gico, si sarebbero potuti attribuire alla categoria di IRU. Invece, a quella di IRP, i fenomeni per i quali si registrassero percentuali superiori al 50% sol- tanto ad un basso livello di istruzione. Su un piano empirico, dunque, la defi- nizione fornita all’inizio del nostro discorso avrebbe trovato conferma nelle percentuali relative all’inconsapevole dialettalità. In particolare, abbiamo esaminato il comportamento linguistico dei nostri informatori in relazione ad alcuni costrutti che le fonti citano tra i tratti mor- fosintattici che caratterizzano l’area meridionale, e che dunque sono connota- ti diatopicamente. In questa sede, tra i fenomeni indagati, limiteremo la no- stra attenzione a: 1. Confusione di modi tra protasi e apodosi del periodo ipotetico; 2. Uso di “senza” come avverbio di negazione davanti a participi passa- ti (PP) e ad infinito; 3. Inversione pronominale; 4. Frequenza d’uso di verbi pronominali intensivi; 5. Uso transitivo dei verbi intransitivi. L’accettabilità di tali forme anche ad un livello alto di istruzione avrebbe permesso di relativizzare il peso percepito dell’interferenza dialettale e di de-

7 lineare i contorni dell’IRU come uno spazio in cui si realizza una convergen- za d’uso a prescindere da una dimensione di variazione diastratica.

4.1. Confusione di modi tra protasi e apodosi del periodo ipotetico Relativamente al primo punto, la confusione dei modi nel periodo ipotetico dell’irrealtà è un esempio assai studiato di semplificazione dell’italiano popo- lare (cf. tra gli altri Berruto 1983). Nel nostro questionario abbiamo sottoposto ai nostri informatori un pe- riodo ipotetico con un doppio condizionale quale: se potrei venire, verrei. Tale forma nell’IR è citata da Rossitto (1976, 167–169) come ipercorret- tismo per reazione al doppio congiuntivo presente nel periodo ipotetico in dialetto. Istr. Alta Istr. Bassa Totale Uso in dialetto 33,7% 44,1% 38,6% Uso in italiano 9,0% 36,0% 21,7%

Accettabilità 5,1% 28,6% 16,2% Tabella 6: Confusione modi nel periodo ipotetico (es. “Se potrei venire, verrei subito a trovarti.”) Nel nostro questionario, il costrutto con doppio condizionale era quasi una voce tranello, in quanto la forma si caratterizza per una iper-distanziamento dal sostrato dialettale. I dati relativi all’uso e all’accettabilità in italiano di costrutti con doppio condizionale mostrano uno scarto considerevole nelle percentuali tra infor- matori con alto e con basso livello di istruzione. Tuttavia testimoniano come, ad entrambi i livelli, il periodo ipotetico con ipercorrettismo sia poco usato e poco accettato. La forma pertanto non può essere considerata propria neppu- re dell’IRP. Ciò permette di sottolineare che, anche ad un basso livello di i- struzione, non tutto ciò che viene percepito come non dialettale, e per cui non è possibile rintracciare un’interferenza con il dialetto, automaticamente è considerato corretto in italiano. D’altra parte è interessante notare che la per- cezione della non italianità del costrutto per molti informatori ha comportato anche una erronea attribuzione della forma al dialetto in cui tuttavia il condi- zionale è quasi del tutto scomparso.11 ————— 11 Il condizionale esisteva in siciliano antico (cf. Leone/Landa 1984, 83–86). Forme di condizionale sono ancora attestate nell’area messinese; in proposito si rimanda ai dati di Leone 1995, 40–41.

8 4.2. Uso di “senza” Per quanto riguarda l’uso della negazione senza, va notato che, dalla funzio- ne originaria nella lingua standard di congiunzione subordinante, che nega lo stato di cose espresso dalla principale, introducendo una proposizione esclu- siva implicita (come in frasi del tipo: “È partito senza salutare.”), nell’IR di Sicilia senza passa a ricoprire una funzione di avverbiale di negazione davan- ti a infiniti per la formazione dell’imperativo negativo. Il costrutto ellittico così formato si pone in concorrenza con la forma non + infinito, di cui risulta essere la variante più marcata diafasicamente.

Istr. Alta Istr. Bassa Totale Uso in dialetto 69,0% 71,4% 70,1% Uso in italiano 54,6% 74,6% 63,6%

Accettabilità 36,8% 68,2% 51,0% Tabella 7: Senza + infinito (es. “Bambini, senza correre che cadete!”) Dall’analisi dei dati emerge che l’avverbio di negazione senza è più diffuso in contesti italiani popolari, benché abbia un buon margine di impiego anche presso le classi colte, che però non lo impiegherebbero in contesti formali, percependone l’interferenza dialettale, come è dimostrato dalle percentuali relative all’accettabilità. È interessante, in proposito, confrontare questi dati con quelli relativi ad un uso parallelo di senza che analogamente ricorre quale avverbio di nega- zione davanti a participi passati. Neppure in questo caso, i dati in percentuale permettono di considerare il costrutto come proprio dell’IRU. Infatti, benché ad un livello di istruzione basso l’avverbio di negazione senza risulta essere usato ed accettato da circa il 50% degli informatori, ciò non accade ad un livello alto di istruzione, con uno scarto che induce a considerare il costrutto ancora una volta marcato dia- straticamente.

Istr. Alta Istr. Bassa Totale Uso in dialetto 50,0% 59,5% 54,4% Uso in italiano 27,2% 49,2% 37,5%

Accettabilità 15,5% 41,9% 27,9% Tabella 8: Senza + PP (es. “Il caffè compralo senza macinato!”)

9 4.3. Inversione pronominale Un altro tratto caratteristico dell’IR di Sicilia è l’inversione nell’ordine di collocazione dei pronomi del tipo si ci in luogo di ci si.12 La frase sottoposta ai nostri informatori “Non si ci può dire niente.” pre- sentava anche un tratto tipico dell’italiano popolare, ossia la forma dativale ci del pronome personale di terza persona. Anche in questo caso è possibile notare una differenziazione diastratica tra uso e accettabilità. La forma viene infatti percepita come scarsamente ac- cettabile ad un alto livello di istruzione mentre è usata e accettata ad un livel- lo di istruzione basso con percentuali superiori al 50% che comportano l’inserimento del fenomeno nel novero dei tratti dell’IRP.

Istr. Alta Istr. Bassa Totale Uso in dialetto 73,3% 82,9% 77,6% Uso in italiano 31,1% 60,9% 44,4%

Accettabilità 13,6% 56,9% 32,8% Tabella 9: Inversione pronominale (es. “Tua sorella si arrabbia subito, non si ci può dire niente!”)

4.4. Verbi pronominali L’uso di verbi pronominali intensivi, benché sia accettato più che in passato nell’italiano dell’uso medio panitaliano (cf. Sabatini 1985, 167), è uno dei tratti morfosintattici che sembra caratterizzare per l’alta frequenza di occor- renze le regioni del centro-Sud. Questa tendenza risulta confermata dai dati raccolti con il nostro questionario in Sicilia. Nell’indagine da noi svolta ab- biamo inserito sia verbi che, oltre a presentare il pronome intensivo, sono dei regionalismi e la cui accettabilità, pertanto, dovrebbe essere accordata soltan- to da parlanti con un basso livello di istruzione, sia verbi dello standard che in altre varietà ricorrono in prevalenza nella forma non pronominale. Relati- vamente a questi verbi la scelta di pronominalizzazione, benché risenta di una caratterizzazione diatopica, dovrebbe prescindere da connotazioni dia- stratiche e la loro accettabilità non dovrebbe dipendere dal livello di istruzio- ne dei parlanti. ————— 12 Il nesso di clitici del tipo si ci del dialetto e dell’italiano regionale potrebbe avere un suo antecedente formale nella costruzione esistenziale del siciliano antico, in cui le particelle, seppure con funzione differente, presentano lo stesso ordine. In proposito, si rimanda a Amenta (2001, 82–85).

10 In particolare, tra i verbi proposti nel questionario, in questa sede ci limi- tiamo a prendere in considerazione: stranizzarsi; sbattersi la testa al muro; buttarsi malato; consumarsi per una spesa; ripassarsi la lezione e farsi i compiti. I primi quattro sono dei regionalismi mentre l’uso pronominale in- tensivo del verbo fare (specialmente con espressioni quali farsi la doccia, farsi una passeggiata, una dormita) viene attestato con particolare frequenza anche in altre zone dell’Italia centro-meridionale. Con alcuni di questi verbi, stranizzarsi, buttarsi malato, consumarsi per una spesa, che non ammettono una forma non pronominale, il clitico ricorre per l’espressione di una diatesi media e consente di sottolineare la maggiore partecipazione del soggetto all’azione. Invece, i verbi ripassarsi la lezione e farsi i compiti, che potrebbe- ro ricorrere anche nella forma non pronominale, trovano nell’IR di Sicilia un più largo impiego nella forma pronominale.

Istr. Alta Istr.Bassa Totale Uso Acc. Uso Acc. Uso Acc. farsi i compiti 79,8% 51,9% 88,2% 77,9% 83,7% 64,1% ripassarsi la lezione 74,0% 50,0% 80,1% 69,1% 76,8% 58,9% sbattersi la testa al muro 59,7% 34,4% 66,1% 58,0% 62,7% 45,5% stranizzarsi 58,4% 46,7% 50,0% 43,3% 54,4% 44,8% consumarsi 40,2% 25,3% 55,2% 44,8% 47,5% 34,4% buttarsi malato 13,6% 3,8% 26,4% 19,8% 19,6% 11,3% Tabella 10: Verbi pronominali intensivi (es. “Conoscendolo, mi stranizza la sua risposta.”) L’analisi dei dati ha permesso di notare come i verbi pronominali intensivi (ripassarsi la lezione, farsi i compiti) possano a pieno titolo rientrare nell’IRU in quanto, ad entrambi i livelli di istruzione, le percentuali di accet- tabilità sono superiori al 50%. La forma pronominale intensiva, nell’IR di Si- cilia, è effettivamente particolarmente usata. Tra i verbi che sono regionali- smi lessicali, stranizzarsi è quello che viene maggiormente accettato anche ad un alto livello di istruzione, mentre per le altre forme, che si sono più o meno cristallizzate nell’uso, è più forte la percezione dell’interferenza dialet- tale. Ciò si avverte con maggiore evidenza per l’espressione buttarsi malato che è scarsamente accettata anche ad un basso livello di istruzione.

11 4.5. Transitivizzazione dei verbi intransitivi Il gruppo dei verbi intransitivi usati transitivamente comprende per lo più verbi che appartengono alla classe semantica dei verbi di movimento uscire, entrare, salire, scendere, venire. In base all’analisi dei dati, l’uso transitivo di verbi intransitivi risulta es- sere una risorsa molto produttiva per i parlanti siciliani, come è testimoniato dall’alta frequenza con cui ricorrono tali verbi, in espressioni quali esci la macchina dal garage; sali la spesa.13 In questa sede limitiamo la nostra attenzione alla coppia entrare/uscire. La più alta frequenza di attestazioni si registra per il verbo uscire che ricorre anche nell’espressione lessicalizzata uscire la lingua, seguito dal verbo en- trare:

Uso Accettibilità Istr. Alta Istr. Bassa Istr. Alta Istr. Bassa Uscire q.sa 94,0% 87,0% 71,0% 82,0% Entrare q.sa 93,0% 91,0% 73,0% 78,5%

Tabella 11: Verbi intransitivi transitivizzati (es. “Entra le lenzuola che sta piovendo!”) Il più alto numero di occorrenze di entrare/uscire si registra proprio nei par- lanti con il più alto livello di istruzione. L’uso di tali verbi non presenta una connotazione diastratica e appartiene al repertorio parlato informale delle classi istruite, per le quali si può ipotizzare una mancata percezione del calco strutturale sul modello dialettale, confermata dalle alte percentuali di accetta- bilità. I verbi entrare e uscire usati transitivamente rientrano pertanto a pieno titolo nell’IRU.

5. Conclusioni Per concludere, possiamo affermare che, relativamente ai fenomeni morfo- sintattici esaminati la variabile diastratica mantiene la sua rilevanza.

————— 13 Questo tratto, caratteristico dell’Italia meridionale, mostra una tendenza tipologi- ca della varietà siciliana differente rispetto alla lingua standard, in cui ricorrono verbi sintagmatici con preposizione, e più vicina ad altre lingue romanze. In pro- posito si rimanda a Schwarze 1985, 357.

12 Ben pochi tratti, infatti, possono testimoniare a livello morfosintattico una reale convergenza nell’uso e nell’accettabilità a prescindere dai livelli di i- struzione. Gli unici fenomeni che si caratterizzano in tal senso, sono quelli che appartengono all’IRU e che rientrano nell’italiano dell’uso medio tra le forme accettate a prescindere da connotazioni regionali. È il caso ad esempio dei verbi pronominali intensivi, per cui sembra parallelamente assottigliarsi la linea della marcatezza diatopica. In controtendenza vanno segnalati i verbi intransitivi transitivizzati, per i quali anche se permane molto forte la conno- tazione regionale, possono essere considerati come l’unico tratto morfo- sintattico, tra quelli presi in esame, che prescinde realmente dalla diastratia. Per quanto riguarda gli altri fenomeni considerati, rientrano nell’IRP le costruzioni con senza come avverbio di negazione e l’inversione pronomina- le. Questi tratti popolari, che risultano tali sul versante della coscienza meta- linguistica, ricorrono tuttavia anche nell’uso dei parlanti colti. Infatti, per tutti i fenomeni indagati si ripropone una stessa linea ascensionale che tocca i suoi livelli più bassi nel giudizio di accettabilità espressa dai parlanti con istruzio- ne alta, passa per gli usi italiani degli stessi e comincia a salire con il giudizio di accettabilità dei parlanti con istruzione bassa, per raggiungere la più alta percentuale con l’uso in italiano da parte di questi ultimi. Tutte le forme, ad eccezione dei verbi transitivizzati e dei pronominali intensivi, fanno registra- re un’ampia divaricazione tra le percentuali di accettabilità, espresse dai sog- getti intervistati a seconda della loro scolarità. Le due variabili indubbiamente si intersecano in una possibile definizione dell’IR che tenga conto della poliedricità della realtà linguistica, perché pro- prio i parlanti con un alto livello di istruzione che, pur interrogati sulla possi- bile differenziazione diatopica anche del livello grammaticale si erano e- spressi negativamente, nella situazione inchiesta dimostrano di percepire chiaramente l’interferenza dialettale e pertanto rifiutano costrutti che appaio- no troppo marcati in tal senso.

13 6. Bibliografia Alfieri, Gabriella, La Sicilia, in: Bruni, Francesco (ed.), L’italiano nelle regioni, To- rino, 1992, 798–860. Amenta, Luisa, “Costrutti esistenziali e predicazioni locative in siciliano antico”, in: Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani 19 (2001), 75–99. Baroni, Maria Rosa/D’Urso, Valentina/Renzi, Lorenzo, “Siciliani e veneti a Padova. Uno studio sociolinguistico sperimentale”, in: Albano Leoni, Federico (ed.), I dia- letti e le lingue delle minoranze, Roma, 1979, 67–82. Benincà, Paola, (ed.), Italiano e dialetto nel tempo. Saggi di grammatica per G. C. Lepschy, Roma, 1996. Berruto, Gaetano, “La natura linguistica dell’italiano popolare”, in: Holtus, Günter/ Radtke, Edgar (edd.): Varietätenlinguistik des Italienischen, Tübingen, 1983a, 87–106. ———, “L’italiano popolare e la semplificazione linguistica”, in: Vox Romanica 42 (1983b), 38–79. ———, “Una nota su italiano regionale e italiano popolare”, in: Benincà, Paola et al. (edd.): Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, 1983c, 481– 488. Canobbio, Sabina/Iannàccaro, Gabriele, Contributo per una bibliografia sulla dialet- tologia percettiva, Alessandria, 2000. Cortelazzo, Michele A./Mioni, Alberto M., (edd.), L’italiano regionale, Roma, 1990. Foresti, Fabio, “Tra ‘carezze’ e ‘addii’ a Bologna”, in: Italiano e Oltre 5 (1986), 218– 221. ———/Menarini, Alberto, Parlare italiano a Bologna, Bologna, 1985. Grassi Braga, Chiara, “Spunti per un confronto tra i concetti di ‘Lingua regionale’ in Italia e nelle aree francòfone e germanòfone”, in: Cortelazzo/Mioni (edd.) 1990, 53–73. IR = italiano regionale. IRP = italiano regionale popolare. IRU = italiano regionale unitario. IUR = italiano dell’uso regionale. Leone, Alfonso, L’italiano regionale in Sicilia, Bologna, 1982. ———, Profilo di sintassi siciliana, Palermo, 1995. ———/Landa, Rosa, I paradigmi della flessione verbale nell’antico siciliano, Paler- mo, 1984. Loi Corvetto, Ines, L’italiano regionale di Sardegna, Bologna, 1983. Nesi A./Poggi Salani, Teresa, “Preliminari per una definizione dell’italiano di Tosca- na: il lessico”, in: Quaderni dell’Atlante Lessicale toscano IV (1986), 7–38. Poggi Salani, Teresa, “Lingua italiana in bocca toscana”, in: Italiano e Oltre 5 (1986), 222–225. Rossitto, Concetto, “Di alcuni tratti morfosintattici del siciliano e delle loro interfe- renze sull’italiano di Sicilia”, in: N.N. (edd.), Problemi di morfosintassi dialetta- le, Pisa, 1976, 153–176.

14 Ruffino, Giovanni, Dialetto e dialetti di Sicilia, Palermo, 1991. ———, Profili linguistici delle regioni. Sicilia, Roma/Bari, 2001. Sabatini, Francesco, “‘L’italiano dell’uso medio’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane”, in: Holtus, Günter/Radtke, Edgar (edd.), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Tübingen, 1985, 154–184. ———, “‘Italiani regionali’ e ‘italiano dell’uso medio’”, in: Cortelazzo/Mioni (edd.) 1990, 75–78. Schwarze, Christoph, “‘Uscire’ e ‘andare fuori’: struttura sintattica e semantica lessi- cale”, in: Franchi De Bellis, Annalisa/Savoia, Leonardo M. (edd.), Sintassi e mor- fologia della lingua italiana d’uso. Teorie e applicazioni descrittive, Roma, 1985, 355–371. Sobrero, Alberto A./Romanello, Maria Teresa, L’Italiano come si parla in Salento, Lecce, 1981. ———, “La Puglia una e bina”, in: Italiano e Oltre 2 (1986), 107–114. Stehl, Thomas, “Il problema di un Italiano Regionale in Puglia”, in: Cortelazzo/Mioni (edd.) 1990, 265–280. Telmon, Tullio, Guida allo studio degli italiani regionali, Alessandria, 1990. ———, “Varietà regionali”, in: Sobrero, Alberto A. (ed.), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma/Bari, 1993, 93–149. ———, “Gli italiani regionali contemporanei”, in: Asor Rosa, Alberto, (ed.), Storia della lingua italiana. Vol. 3: Le altre lingue, Torino, 1994, 597–626. Tropea, Giovanni, Italiano di Sicilia, Palermo, 1976.

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Presupposizioni linguistiche e linguaggio della politica: osservazioni preliminari a una tipologia testuale Donella Antelmi / Francesca Santulli1

1. La lingua della politica tra le lingue speciali Nella ridda di classificazioni (e di termini) che tentano di mettere ordine tra le diverse varietà individuabili all’interno di una lingua non è, a ben guarda- re, semplice collocare i mezzi espressivi tipici della comunicazione politica in modo univoco e netto. Ciò deriva da un lato dalle difficoltà che comunque emergono nella costruzione di tassonomie che ambiscono, per loro natura, a segmentare una realtà multiforme riconducendola entro schemi discreti (sal- vo poi a dover moltiplicare le dimensioni della variazione per riuscire a dar conto, almeno in parte, della complessità dei fenomeni); dall’altro, più speci- ficamente, dalle caratteristiche stesse dell’argomento, o evento, politico che, riferendosi appunto alla “cosa pubblica” coinvolge, soprattutto nelle sue ac- cezioni più ampie, aspetti anche diversi, e non sempre tecnici, della vita di una comunità. Pur senza voler qui affrontare la questione terminologica (efficacemente analizzata in Garzone 1998), in cui si riflette la difficoltà di individuare chia- ramente i parametri di variazione, sarà necessaria qualche precisazione, al fi- ne di comprendere la complessità delle variabili sociologiche e linguistiche coinvolte. Difatti, se si accetta per le lingue speciali una caratterizzazione es- senzialmente tematica, esse vengono ad individuare ambiti mutuamente e- scludentisi, ma non per questo si collocano in un rapporto altrettanto discreto rispetto alla lingua comune. È partendo da questa considerazione che Corte- lazzo (1994) ha proposto, in modo sistematico, di analizzare le lingue specia- li non solo, nella dimensione orizzontale, sulla base dei diversi settori di affe- renza, bensì anche tenendo conto del diverso grado di “specificità” della co- municazione, articolata su un asse, verticale, di variazione essenzialmente diafasica. L’analisi di Cortelazzo, tuttavia, risulta particolarmente efficace negli ambiti tecno-scientifici, per i quali era stata in realtà primariamente formulata (nei quali ci si muove, per riprendere l’immagine di Sobrero 1993, 241, tra i due poli estremi del linguaggio scientifico e del linguaggio divulga- tivo), ma non risolve tutte le difficoltà connesse all’individuazione di caratte- ristiche specifiche della lingua della politica. ————— 1 La responsabilità di questo studio è condivisa dalle due Autrici. Tuttavia, la stesu- ra dei paragrafi va così attribuita: 1, 2, 6 e 7 a F. Santulli; 3, 4 e 5 a D. Antelmi.

17 Alla luce delle osservazioni fin qui proposte il carattere non (necessaria- mente) tecnico non solo della comunicazione bensì dei “fatti” stessi che rica- dono nell’ambito della politica ha particolare rilievo: il testo che “usa” il lin- guaggio politico,2 difatti, non può sempre individuarsi in modo netto sulla base di un argomento (è, ad esempio, “politica” la determinazione dei pro- grammi scolastici? o il commento della cronaca giudiziaria, soprattutto se questa coinvolge personaggi politici? o, ancora, la discussione su ideologie che pure non sembrano avere rapporto diretto con la vita politica di un Pae- se?), né, per altro verso, la variazione di tipo verticale ammette differenze ve- ramente marcate rispetto al “tecnicismo” e neppure rispetto al “formalismo”, inteso come variazione di registro (Berruto 1980, 45ss.), della comunicazio- ne. Ché in realtà, essendo come si diceva all’inizio la politica la “cosa pub- blica”, la differenziazione rispetto al destinatario non è immediatamente ap- plicabile: la comunicazione si rivolge, almeno potenzialmente, ad ogni citta- dino, benché le scelte ideologiche possano permettere, soprattutto in alcuni casi, di individuare gruppi più ristretti, rispetto ai quali l’autore del messag- gio si colloca in modo inclusivo, che costituiscono l’obiettivo primario e in qualche modo dichiarato della comunicazione stessa, pur non escludendo, e anzi talvolta quasi necessariamente implicando, il richiamo agli avversari. Un elemento di differenziazione può, piuttosto, individuarsi nel diverso canale (nel senso di Jakobson), che determina una variazione diamesica, ma forse (si perdoni il neologismo) più propriamente “diamediatica”, sicché il linguaggio politico televisivo presenta delle specificità rispetto a quello dei giornali e per di più le variazioni individuabili (e tendenzialmente codificate) tra le varie forme comunicative all’interno di un medium (intervista, dibattito, tribuna politica e, all’interno di questa, presentazione, confronto, appello agli eletto- ri; cronaca, intervista, editoriale o eventualmente pagina speciale, inserto, e così via) assumono la valenza forse maggiore. Ciò porta naturalmente ad e- vocare il concetto (pure talvolta vago o comunque non univocamente defini- to) di genere, che qui naturalmente non discuteremo, ma accoglieremo nella sua dimensione di orizzonte d’attesa, insieme di caratteristiche (e talvolta ve- re e proprie convenzioni tipiche di una comunicazione o interazione lingui- stica) che guidano le scelte dell’emittente e condizionano le aspettative del ricevente, configurandosi come uno sfondo su cui si colloca ogni nuovo te- ————— 2 Nella scelta terminologica adottata in questo testo, l’uso del termine linguaggio (nel senso di varietà di lingua), in alternativa a lingua non implica il coinvolgi- mento di codici non verbali, sicché le due espressioni sono considerate equivalen- ti. Ciò benché alcuni autori preferiscano attenersi a una distinzione più rigida (co- sì Sobrero 1993, 238–239).

18 sto, che soddisfa quelle attese ma pure le delude e così, più o meno gradata- mente, le modifica. È senz’altro possibile osservare che, nella comunicazione specialistica, i generi, benché anch’essi soggetti ad accumulazione diacroni- ca, danno luogo a realizzazioni testuali notevolmente uniformi (“un fatto giu- stificabile con l’assenza di straniamento nel testo non letterario”, come os- serva Garzone 1998, 96), poiché l’autore si affida volentieri ai canoni preesi- stenti, elaborati in rapporto alle esigenze della situazione comunicativa e so- prattutto presenti nella competenza del destinatario (si pensi ad una comuni- cazione in un convegno o ad un articolo scientifico). In ciò le lingue speciali sembrano differire più nettamente dalla comunicazione letteraria, in cui il si- gnificato del testo si coglie proprio negli scarti rispetto alla norma, nei suoi elementi, anche formali, di originalità. Se questa (dal punto di vista della let- teratura) è una visione che va comunque depurata dalle suggestioni dell’indi- vidualismo post-romantico (e non è un caso che la questione dei generi si sia posta innanzi tutto nello studio delle letterature medioevali), il linguaggio della politica (già, come si è visto, scarsamente tecnico), soprattutto nelle forme testuali che mettono in primo piano le valenze espressive e persino po- etiche della comunicazione, potrebbe lasciar presagire un alto livello di ori- ginalità e quindi di differenziazione formale, persino difficilmente riconduci- bile ad una qualche forma di classificazione. Ciò tuttavia non è sempre vero, e anzi le analisi da noi condotte paiono proprio indicare l’esistenza di indicatori formali non disomogenei, funzionali a particolari finalità comunicative che si incrociano a loro volta con le carat- teristiche specifiche di particolari tipi testuali (Dressler 1984). Nell’indivi- duazione di questi ultimi non è però facilmente eliminabile una forma di cir- colarità.

2. Caratteristiche e funzioni dell’articolo di fondo Nell’ambito di una ricerca molto ampia, e di stampo prevalentemente socio- logico, sulla comunicazione politica in coincidenza con una consultazione e- lettorale (le europee del giugno 1999; Livolsi/Volli 2000) abbiamo avuto modo di dedicarci ad un tipo particolare di testo, l’articolo di fondo. Già in quella occasione ci eravamo poste il problema della selezione del campione, riflettendo sulle caratteristiche che di norma si attribuiscono a questa partico- lare forma del linguaggio giornalistico. Nella letteratura, piuttosto copiosa soprattutto in ambito anglosassone, che si dedica allo studio della comunica- zione attraverso i media, trova spazio, naturalmente, anche l’analisi dei testi giornalistici nei quali primariamente si esprime l’opinione della testata (cf. ad es. Fowler 1991); essi, pur traendo spunto da una notizia recente, di norma

19 riportata in altre parti della pubblicazione, si pongono come una proposta di valutazione soggettiva dei fatti, solitamente in linea con le scelte ideologiche proprie del quotidiano stesso, e condivise dai lettori, benché lo spazio del fondo possa pure in alcuni casi (sempre però esplicitamente indicati di volta in volta) essere consegnato all’espressione di opinioni diverse, e solitamente provenienti da voci autorevoli, a conferma del pluralismo e della tolleranza che si attribuiscono, quanto meno nelle intenzioni, in primo luogo ai giornali (almeno apparentemente) indipendenti. La scelta stessa del tema a cui il fon- do è dedicato si configura come l’affermazione soggettiva di una opinione, in quanto il direttore decide qual è “il fatto del giorno”, che può corrispondere ad un evento di ampio rilievo, ma può anche essere una notizia apparente- mente marginale cui però si vuole dare risonanza per così dire ideologica, traendone spunto per una discussione di più ampio respiro, nella quale di- chiaratamente si manifesta l’orientamento della testata. Molti quotidiani britannici riservano spazi ben precisi a questo scopo, de- nominandoli in vario modo (editorial, opinion, we say), in tal modo distin- guendo esplicitamente la componente di valutazione soggettiva e, per contra- sto, rafforzando implicitamente l’idea che le altre parti della pubblicazione ri- feriscano puri fatti oggettivi. Nella tradizione italiana le colonne più a sinistra della prima pagina erano riservate a questo tipo di testi, ma l’introduzione di nuovi formati, accompa- gnatasi più in generale alla preferenza per strategie tipografiche più orientate alla lettura di massa, ha determinato, non solo per le testate che li hanno adot- tati, notevoli cambiamenti. Ciò non ha comportato però la scomparsa, né nel- le aspettative dei lettori né tantomeno nelle intenzioni dell’editore, dello spa- zio canonicamente, e quasi contrattualmente, dedicato alle valutazioni e ai commenti. Ancor oggi, nel mondo della stampa virtuale, i quotidiani presenti sulla rete, per favorire la ricerca dei vari articoli da parte degli utenti, rubricano sotto una voce separata (di solito: commenti) i pezzi finalizzati non già alla trasmissione di informazioni quanto alla diffusione di opinioni, che vengono quindi raccolti in uno stesso gruppo, che prescinde dagli argomenti affrontati (ciò è particolarmente evidente se si scorrono le altre voci, quali: economia, sport, spettacoli, etc.). La classificazione proposta sulla rete rivela di per sé che, lungi dallo scomparire, l’articolo di commento si è piuttosto moltiplica- to, seppur talvolta nascosto in particolari rubriche e addirittura ridotto ad un trafiletto, circostanza che tuttavia rende per altro verso più difficile indivi- duare il “fondo” per così dire canonico, che risponde più pienamente alle esi- genze, diverse ma complementari, di emittente e destinatario.

20 L’articolo di fondo deve, innanzi tutto, essere caratterizzato da una certa ampiezza e complessità: la tesi sostenuta può anche rivelarsi, ad un esame più accurato, di scarsa consistenza e persino banale, ma le argomentazioni devo- no essere articolate e apparire il frutto di lunga riflessione, prevedendo even- tualmente anche le possibili obiezioni e quindi confutandole; anzi, il fondo, contravvenendo al principio generale della unidirezionalità della comunica- zione a stampa, tendenzialmente si colloca nell’ambito di un ideale dibattito, aprendo uno spazio di confronto (o inserendosi in uno preesistente) nel quale possono essere coinvolti diversi soggetti, e persino personaggi che hanno partecipato alle vicende commentate, e che può svolgersi attraverso mezzi diversi, dalla stampa anche non quotidiana alle trasmissioni radio-televisive. Lo spunto tratto dalla notizia deve essere sviluppato anche nella dimensione cronologica che travalica così la quotidianità, eventualmente ricorrendo a vo- ci autorevoli del passato e in qualche caso prospettando eventi futuri. Il patto non scritto tra editore e lettori, se da un lato mette il primo nella posizione di poter sostenere che le altre parti del giornale si limitano alla mera esposizione dei fatti e sono dunque dominate dall’ossequio ad una finalità di tipo “refe- renziale”, dall’altra genera, nei secondi, l’attesa di un testo più articolato e stimolante dal punto di vista dei contenuti nonché fruibile anche per le sue caratteristiche estetiche; in questo contesto l’autore del pezzo è obbligato da un lato a mettere in atto strategie che diano adeguato rilievo alla trasmissione di valori e convinzioni, rendendola il più possibile esplicita, dall’altro ad a- dottare espedienti formali capaci di soddisfare anche le esigenze di godibilità dei destinatari. Ciò determina, come è facile rilevare, l’uso frequente di mez- zi sofisticati, da svariate figure retoriche a citazioni o evocazioni letterarie, dal ricorso ai motti tipici della sapienza popolare (non di rado manipolati e stravolti) ai veri e propri giochi di parole, dall’ironia che può trasformarsi in sarcasmo all’effetto straniante di espressioni colloquiali e persino volgari. Nella prospettiva funzionale quindi, escluso canonicamente e contrat- tualmente il predominio della referenzialità, si pone piuttosto in primo piano una valenza, per dirla con Jakobson (1966), emotiva, in quanto il testo costi- tuisce innanzi tutto l’espressione di un’idea individuale, benché potenzial- mente condivisa da quanti la pensano allo stesso modo, configurandosi tal- volta (e soprattutto quando è affidato ad una penna indipendente, benigna- mente ospitata dalla testata) come uno sfogo personale. Tale voce individuale esprime così un messaggio che tende verso la finalità poetica, materializzata nell’adozione di tutte le variazioni formali menzionate, che colloca così que- sti testi in un ambito non distante da quello tipico della produzione letteraria, con tutte le conseguenze sulla rigidità dei canoni e la valutazione degli scarti di originalità di cui abbiamo fatto cenno. Ciò in qualche modo rende ancor

21 maggiore la variazione possibile all’interno della tipologia testuale che si vorrebbe qui individuare, che resta così non facilmente isolabile oltre che per la variabilità dei contenuti, anche per la labilità dei caratteri formali coinvolti. Risulta inoltre coinvolta nell’articolo di fondo anche la funzione conativa, poiché l’espressione di valori e convinzioni, adeguatamente argomentate, implicitamente si propone (pur negandolo spesso a parole) di creare un’opi- nione, di trovare appoggi e consensi. Tale intento persuasivo di norma non si traduce, peraltro, nell’esortazione ad un comportamento o ad un’azione specifica; anzi, nel clima di tolleranza e di libero scambio di libere opinioni tipico soprattutto dei quotidiani che non si pongono dichiaratamente come espressione di una precisa ideologia politi- ca, l’autore di un fondo difficilmente potrebbe assumere un tono decisamente esortativo o pur vagamente imperativo, e neppure si sforzerebbe troppo pale- semente di convincere i lettori della giustezza delle proprie opinioni. Un’occasione in cui, però, si contravviene più facilmente a questo atteggia- mento sono le elezioni. Soprattutto nell’imminenza del voto, nell’articolo di fondo l’espressione dell’opinione si traduce più direttamente, anche se non sempre in modo esplicito, in un’esortazione ad esprimere le scelte in una cer- ta direzione. Anche alla luce di queste considerazioni abbiamo deciso di prendere in esame per questa indagine i quotidiani italiani del 12 giugno 1999 (a campagna elettorale ufficialmente conclusa); per disporre di un cam- pione diversificato abbiamo incluso, per quel che riguarda le testate, accanto a quelle a più ampia diffusione nazionale (senza trascurare le più caratteriz- zate da un punto di vista politico-ideologico) anche alcune a diffusione pre- valentemente locale. Nell’ambito delle pubblicazioni selezionate si poneva poi il problema dell’individuazione dell’articolo, con tutti i rischi di circolari- tà di cui abbiamo detto. A questo proposito è opportuno tuttavia rilevare che, nonostante tutti i pa- rametri aleatori coinvolti, il lettore abituale della testata sa molto bene dove cercare, e come riconoscere, l’articolo di fondo, benché si debba puntualizza- re che, in alcuni casi, se ne presentano due, con caratteristiche analoghe, de- dicati in genere ad argomenti diversi. Il punto è che, nell’individuazione da parte del destinatario gioca un ruolo molto importante l’aspetto esteriore del pezzo: dato che non tutti i quotidiani hanno conservato l’abitudine tipografi- ca del passato, la collocazione (sempre sulla prima pagina, benché spesso so- lo per poche righe di apertura e quindi con proseguimento all’interno del giornale) è una caratteristica specifica della testata che, in alcuni casi, ammet- te anche delle variazioni in dipendenza dall’impaginazione nella sua globalità (può accadere, ad esempio, che il fondo sia collocato accanto all’articolo che riferisce la notizia da questo commentata, addirittura sotto i titoli in corpo

22 maggiore che la annunciano). Alcuni quotidiani adottano anche un carattere tipografico marcato rispetto al resto della pagina, di solito grassetto ma in qualche caso anche corsivo. Più costanti si presentano altre caratteristiche, tra le quali possiamo provare ad indicare quelle più appariscenti: la presenza di una firma, la mancanza di una indicazione di luogo, un titolo difficilmente esplicito e piuttosto ammiccante, con riferimenti solo indiretti al fatto che si vuole commentare, richiamato di solito più facilmente nell’occhiello, in ge- nere presente, mentre più rara è l’occorrenza di sottotitoli. Tali attributi este- riori dell’oggetto-articolo sembrano dunque quelli meno soggetti a variazioni e valutazioni individuali, sicché nella selezione dei testi è a questi che ab- biamo fatto innanzi tutto riferimento. La circolarità, tuttavia, non è del tutto eliminata e certamente l’individuazione di altri indicatori, linguistici, risulte- rebbe utile per confermare l’omogeneità tipologica del campione oltre a met- terne in luce particolari valenze semantiche e finalità.

3. Il “non detto” nell’articolo di fondo Questa indagine parte dall’assunto che nel “fondo” politico siano reperibili modalità linguistiche peculiari, dotate di una propria funzione comunicativa, e veicolate da strutture formali individuabili in modo indipendente. La speci- ficazione di tali modalità assolverebbe al duplice scopo di: a) rilevare un trat- to del contenuto di tali testi utile ad una loro classificazione tematica, e, b) delineare un insieme di marche linguistiche in base alle quali reperire, su ba- se formale e quindi indipendente, il tipo testuale “editoriale”. Il tratto che ci è sembrato costante nelle procedure argomentative dei di- versi editoriali (pur con oscillazioni e con corrispondenze non rigidamente deterministiche, come vedremo sub 5.) è stato l’ampio ricorso a meccanismi di implicito. Le occasioni in cui un parlante può voler dire qualcosa senza, nel con- tempo, esporsi, ed esporre a critiche o confutazioni la sua idea, sono molte- plici. Nel discorso politico questa strategia discorsiva si intreccia con la vo- lontà (talvolta anche inconscia) di trasmettere sottintesi e posizioni ideologi- che in modo occulto. Il ricorso all’implicito permette di far pervenire certi contenuti in modo tale che essi siano accettati acriticamente dall’ascoltatore, dato che non rientrano nella parte discutibile o giudicabile del discorso, ma ne costituiscono la premessa, ovvero il quadro entro cui si situa la comunica- zione stessa. Questa affermazione, per la verità, limita il tipo di implicito ad una categoria particolare, quella delle presupposizioni, la cui caratteristica, secondo Ducrot (1972), è quella di non dipendere da inferenze di tipo logico o psicologico basate sulla conoscenza del contesto situazionale o generica-

23 mente del “mondo” da parte dei parlanti, bensì quella di far parte del significato letterale degli enunciati stessi. Per tale motivo è possibile tentare una ricogni- zione sui testi alla ricerca dei meccanismi formali che attivano tali impliciti. Lo studio delle presupposizioni, assai vivace negli anni 70, ha dato luogo ad una bibliografia sterminata alla quale, per forza di cose, faremo riferimen- to solo occasionalmente. Per semplificare il nostro compito, che non è una messa a punto della nozione di presupposizione, ma una indagine sul suo uso in particolari tipi di testo, ci richiameremo ad una definizione classica, quella di Strawson (1950), ripresa da Levinson (1993, 178–180): “Una affermazio- ne A presuppone un’affermazione B se e solo se B è una precondizione della verità o falsità di A” (cf. Il cappello di Mario è verde, in cui è presupposto che Mario abbia un cappello). L’informazione presupposta resta valida anche se l’enunciato viene negato, o espresso in forma interrogativa (Il cappello di Mario non è verde; Di che colore è il cappello di Mario?) determinando quindi una sorta di sfondo, un frame accettato e condiviso entro il quale si colloca l’affermazione posta. Naturalmente è sempre possibile sfuggire a questa sorta di imposizione contestando la veridicità non del posto ma del presupposto; tuttavia questa possibilità, nella prospettiva di una interazione discorsiva, viene giudicata aggressiva, poiché, di fatto, impedisce che il dia- logo continui, quando addirittura non comporti una chiara accusa di falsità al parlante (Ducrot 1972, 106). Ciò che contraddistingue le presupposizioni dagli altri tipi di implicito è comunque la loro dipendenza dalla struttura linguistica del discorso: a diffe- renza dei secondi, infatti, il cui riconoscimento e decodifica sono affidati alla capacità inferenziale del destinatario della comunicazione e sono quindi lega- ti a fattori contestuali e situazionali, le presupposizioni sono inscritte esplici- tamente nell’enunciato, e, essendo riconducibili a precise parti di esso, non richiedono, per essere interpretate, il ricorso ad altre procedure che quelle u- sate per la comprensione dei significati letterali. Una conseguenza di ciò, particolarmente pertinente dato il tipo testuale oggetto di indagine, è che le inferenze prodotte a partire dalla forma lingui- stica hanno un tratto di certezza, di “non confutabilità”: stabilendo il quadro entro cui collocare e proseguire la comunicazione, le presupposizioni limita- no la possibilità, da parte dell’ascoltatore, di opporre eccezioni (Violi 1997). Non a caso, nello studio già menzionato, Ducrot sosteneva che la scelta dei presupposti, modificando le possibilità di parola dell’interlocutore, si confi- gura come un atto illocutorio, dotato di valore istituzionale, giuridico. Dal punto di vista funzionale, pertanto, le presupposizioni hanno effetti pragmati- ci rilevanti, assimilabili a quelli degli atti linguistici, e la loro incidenza, nei vari testi, sarà correlabile alle caratteristiche sociolinguistiche del testo, agli

24 scopi (persuasivi o informativi) del testo stesso, all’argomento affrontato, etc., venendo così a rappresentare un potenziale indice di classificazione dei tipi di testo (Textsorten). Dal punto di vista formale le presupposizioni presentano rispondenze si- stematiche con precise strutture linguistiche. Si è da tempo osservato che de- terminate costruzioni sintattiche, o determinate parole convogliano presuppo- sizioni: si suole parlare di “attivatori” presupposizionali (Fillmore 1971, Ki- parsky/Kiparsky 1971) tra i quali i più noti sono le formule esistenziali indi- viduate da Frege (1892). Come mostreremo, a fianco di questi, anche altri costrutti formalmente ben identificabili sono ampiamente rappresentati nel campione di testi in esame.

4. Forme di implicito Prima di procedere ad un esame dei dati emersi – l’incidenza di presupposi- zioni nell’editoriale e la loro distribuzione in relazione alla valenza ideologi- ca dell’implicito da trasmettere – osserviamo i tipi di presupposizione consi- derati. La tipologia formale qui proposta non è, evidentemente, esaustiva, ma considera i tipi più frequenti nel campione di testi sopra descritto.

4.1 Presupposizioni esistenziali Il presupposto di esistenza è collegato a quelle espressioni che in logica si chiamano “descrizioni definite”. Questo tipo di costruzione, oltre ad implica- re l’esistenza, è usata per attribuire a qualche soggetto una qualità, positiva o negativa, o per predicare uno stato. Quando il giornalista, ad esempio, scrive: (1) “(Berlusconi) guarda con interesse alle difficoltà e alle liti degli av- versari...” (Foglio) afferma implicitamente che gli avversari di Berlusconi sono in difficoltà e li- tigano tra loro. Così, nell’affermazione (2) “La delusione del cittadino è profonda” (Stampa) che il cittadino sia deluso è fuori di dubbio. Come si può osservare dagli esempi, sebbene la posizione nella frase sia di preferenza quella di topic, possiamo trovare la costruzione anche in altri contesti, come commento, o complemento di vario tipo: (3) “... aggiungete che la gente è già disamorata o nauseata per l’overdose di votazioni...” (Giornale) (in cui la presupposizione è data nel complemento di causa: c’è o c’è stata una overdose di votazioni).

25 4.2 Presupposizioni fattuali e controfattuali La descrizione di questo tipo di presupposizioni fa riferimento ad una classe ristretta di predicati: tali predicati permettono di inferire la fattualità del con- tenuto proposizionale della frase da essi dipendente, introdotta da “che” o “se”. Vediamo, negli esempi seguenti, che è presupposta la fattualità delle a- zioni espresse nelle proposizioni dipendenti dai verbi sapere, riconoscere, convincere: (4) “... sappiamo che la maggioranza di centro sinistra è riuscita a coniu- gare la fermezza militare con la diplomazia”; (5) “E oggi tutti riconoscono che il ruolo giocato dal governo e dal par- lamento italiano è stato determinante per il raggiungimento della pa- ce....” (Unità). Nel campione è rappresentato anche il procedimento opposto, ovvero “con- trofattuale”, in cui si elicitano le conseguenze che sarebbero scaturite dal non aver fatto qualcosa (presupponendo, quindi, che questo “qualcosa” sia invece stato fatto): (6) “Se non l’avessimo fatto [di portare l’Italia nell’Euro], ora saremmo alla bancarotta” (Unità).

4.3 Presupposizioni lessicali In questo gruppo si trovano gli impliciti che derivano dalle proprietà seman- tiche di singole voci lessicali. Le voci lessicali che possiedono un correlato semantico di presupposizioni non sono molte, quindi la loro incidenza nei te- sti esaminati è modesta. Troviamo sia presupposizioni indotte da verbi che implicano un cambiamento di stato, come in: (7) “… perché l’Italia continui a mantenere fermissimi i suoi rapporti con gli altri paesi” (Unità); (8) “C’è qui il sospetto che l’aver concentrato la campagna soprattutto sui riflessi interni del passaggio elettorale (...) abbia contribuito alla con- fusione (...) abbia accresciuto l’indifferenza quando non l’irritazione dell’elettore...” (Avvenire); sia presupposizioni legate ad altre parti del discorso (congiunzioni, avverbi), come in: (9) “Un parlamento in prevalenza moderato potrà aiutare l’Europa a non arrancare più dietro la locomotiva americana...” (Giornale).

26 4.4 Presupposizioni focali Gli impliciti discorsivi legati all’intonazione dell’enunciato sono manifesti soprattutto nelle interazioni orali. In testi scritti gli effetti intonativi non sono avvertibili, tuttavia l’uso della punteggiatura e gli ordini marcati dei costi- tuenti assolvono spesso la funzione di presupporre certe informazioni. In par- ticolare è comune la struttura scissa (È X CHE Y) in cui la parte che segue il CHE contiene l’implicazione presupposta. Il procedimento discorsivo vuole porre enfasi sulla parte referenziale della frase, rappresentata dal sintagma che segue la copula, X, al quale viene attribuita (per contrasto) la proprietà Y: (10) “Ed è stata ancora la sinistra che si è fatta carico della necessità di mettere fine alla tragedia del Kosovo...” (Unità).

4.5 Frasi relative Le frasi relative, in quanto modificatori del nome, possono essere assimilate ad aggettivi, ma la loro struttura di frase permette l’espressione di contenuti più complessi: attraverso una relativa è infatti possibile presentare scenari e raccontare eventi non riassumibili in un semplice aggettivo. È per questo mo- tivo che questa costruzione ci sembra – assieme alle descrizioni definite – il più importante tra i mezzi sintattici usati nel campione per veicolare presup- posizioni. A ciò si aggiunga che la relativa che modifica un nome contribui- sce ad individuarlo in modo univoco, rendendolo, perciò, definito: si ha così che due meccanismi concorrono a generare un medesimo quadro presupposi- tivo. Si consideri, come esempio: (11) “...sulle soluzioni da proporre per portare il paese fuori dalla crisi nel- la quale l’ha trascinato la sinistra ...” (Foglio).

4.6 Participio passato Analoga alla struttura esplicita vista negli esempi sopra, è la forma implicita costituita da un participio passato, che può essere sciolto in forma di frase re- lativa passiva: (12) “Il generoso sforzo messo in atto da Veltroni...” (Repubblica); (13) “L’opposizione non ha posti di comando occupati in forza d’una mag- gioranza inesistente...” (Giornale); (14) “Gli stessi traguardi fin qui raggiunti, come l’euro, torneranno a ri- schio...” (Avvenire).

27 5. Effetti pragmatici nell’articolo di fondo Come si sarà potuto vedere dagli esempi, i contenuti che vengono introdotti nel discorso in forma di presupposizioni hanno tutti una valenza pragmatica marcata. Attraverso di essi si esprime al massimo grado la funzione conativa: la presupposizione serve a “convincere” il lettore, esprimendo osservazioni negative sulle formazioni politiche antagoniste, o esaltando le azioni del pro- prio partito, o, ancora, proferendo opinioni su temi di portata generale facen- dole passare per “dati di fatto” (cf. “la popolazione stanca per l’overdose di votazioni”). Sebbene non rigida, è possibile rilevare una corrispondenza tra tipo di presupposizione e valenza semantico-ideologica dell’implicito: spesso (e soprattutto) le presupposizioni esistenziali, infatti, sono impiegate con la funzione di discreditare l’avversario: là dove l’argomentazione politica si ser- ve della polarizzazione dei valori (“noi” vs. “loro”), è abbastanza regolare accompagnare la menzione degli avversari politici con un costrutto o un epi- teto che ne presuppone qualche demerito. È evidente che questa procedura è funzionale all’aggregazione del gruppo (in questo caso della formazione po- litica) e alla costruzione di una immagine di esso fortemente antagonista nei confronti di chi non ne fa parte. D’altro canto, attraverso frasi relative e strut- ture focalizzate possono essere introdotte descrizioni ed interpretazioni di ampio respiro, sottraendole nel contempo alla verifica e al giudizio. È questa capacità della presupposizione di essere veicolo di persuasione ideologica (quando addirittura non di manipolazione) che permette di inserir- la tra i vari mezzi retorici disponibili per indurre una convinzione nell’udi- torio. È possibile, anzi, riconoscere a tali procedure una valenza illocutiva simile a quella degli atti linguistici più noti (Sbisà 1976). Ciò che, forse, po- trebbe rendere difficile una completa inclusione della presupposizione tra gli atti linguistici è la relativa lassità della corrispondenza atto presuppositivo – veste formale. Ma, a nostro modo di vedere, l’argomento non è convincente, poiché anche molti atti linguistici possono essere formulati in modo in un certo senso improprio (è banale ricordare quanti ordini possono presentarsi in veste di domanda), mentre, d’altra parte, la sommaria descrizione delle forme sintattiche veicolo di presupposizioni che abbiamo delineato per gli articoli di fondo del nostro campione mostra che la correlazione funzione – struttura si presenta in modo piuttosto regolare. La tabella seguente riporta l’incidenza delle costruzioni presuppositive (limitatamente alla tassonomia considerata sopra) nelle testate prese in esa- me:

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Tipi di presupposizioni Testate a b c d e tot. Il Foglio 4 2 3 1 10 Il Resto del Carlino 1 4 1 2 8 La Repubblica 5 1 8 8 22 L’Unità 1 4 5 3 1 14 Il Giornale 5 6 2 4 17 L’Avvenire 1 3 6 6 16 L’Avanti 4 1 2 7 Il Corriere della Sera 2 2 1 5 Il Secolo d’Italia 5 5 7 17 La Stampa 3 3 3 1 10 Il Manifesto 3 1 4 Presenza di attivatori presupposizionali in articoli di fondo Tipi di presupposizioni: a: presupposizioni esistenziali (La moto di Marino); b: presupposizioni fattuali (Gianni sa che Luisa è partita); c: presupposizioni lessicali (Maria continua a fumare); d: presupposizioni focali (È Mario, che ti ha telefonato!); e: presupposizioni attivate da frasi relative (L’uomo che tutti ammirano per il suo valore…). Come si può osservare, a parte le presupposizioni focali (che, come si è det- to, sono più consuete in un messaggio orale) gli altri tipi di presupposizioni hanno, nei vari quotidiani, una occorrenza paragonabile, dipendente, in ulti- ma istanza, da scelte “di parte”: le testate che tendono maggiormente a pola- rizzare il dibattito politico e l’informazione fanno maggior uso di presuppo- sizioni. La pressoché nulla presenza di presupposizioni nel Manifesto e nell’Avanti si può spiegare ponendo mente al fatto che le due testate, rivol- gendosi a lettori in un certo senso già persuasi, non hanno necessità di fare ricorso ad impliciti, mentre il Corriere della Sera si caratterizza per una netta sobrietà sotto questo aspetto. Tuttavia, a parte questi casi, che si distinguono dagli altri, l’impiego di questa strategia da parte degli altri giornali è netto.

6. Confronto con altri tipi di testi giornalistici A conferma del fatto che una tale regolarità potrebbe costituire una sorta di indice o marca formale utile alla individuazione del genere articolo di fondo, risulta indispensabile un confronto con articoli di cronaca, politica e non, per verificare l’incidenza delle presupposizioni nel testo.

29 L’esame di diversi articoli di cronaca tratti dalle stesse pubblicazioni in cui avevamo selezionato gli articoli di fondo ha mostrato con evidenza im- mediata la bassissima rilevanza di presupposizioni riconducibili alla tipologia formale utilizzata per l’analisi degli editoriali: in alcuni casi esse erano del tutto assenti, in altri comparivano in modo davvero sporadico. Un’eccezione è costituita dai titoli (compresivi di occhiello e sottotitolo) che, oltre a collo- care l’articolo nel “mondo” delle informazioni e a stabilire un legame con eventi passati rispetto ai quali si colloca il nuovo, rivelano, come osserva an- che Sbisà (1979, 54), “il tentativo di suscitare l’interesse del lettore: dare per scontate nel titolo (...) cose che di fatto il lettore ancora non sa o non ricorda più equivale a dirgli: ‘ma come? non lo sai? e allora leggi’”. Per quel che riguarda, invece, la cronaca politica, sempre alla stessa data pre-elettorale il numero di presupposizioni, rilevato dall’esame di diversi ar- ticoli, restava basso, benché queste fossero comunque presenti, soprattutto nelle citazioni di dichiarazioni fatte da personaggi politici. Così, in un pezzo tratto dal Corriere, Cossiga dichiara: (15) “Sono nati dal rifiuto del loro leader di vestire la casacca del Partito popolare...”; mentre Scognamiglio afferma che (16) “D’Alema (...) non potrebbe che allontanare anche il ministro degli Esteri che ha rappresentato l’ala pacifista e filoserba del governo” (Corriere). L’analisi degli articoli di cronaca pareva dunque confermare l’ipotesi che nell’editoriale siano più facilmente individuabili impliciti di natura linguisti- ca. Questa impressione potrebbe tuttavia derivare dal carattere pre-elettorale dei testi esaminati per questa indagine, nei quali prevale maggiormente una funzione di tipo conativo, sicché l’uso della presupposizione risulterebbe le- gato alla natura dell’atto linguistico coinvolto piuttosto che al genere del te- sto esaminato. Si imponeva perciò una verifica, per quanto puramente indica- tiva, su altri articoli di fondo, di vario argomento, nei quali l’occorrenza delle presupposizioni si rivelava nuovamente piuttosto elevata. Tra quelli esamina- ti particolarmente significativi risultano due editoriali dedicati al commento di atti giudiziari, entrambi del 20 giugno scorso, in cui abbondano presuppo- sizioni, spesso veicolate con mezzi lessicali: (17) “non ne azzeccano più una...”; (18) “il capo dell’opposizione (...) potrebbe smetterla di mettere sotto ac- cusa la magistratura” (Repubblica). e con frasi relative:

30 (19) “il lodo Mondadori, con cui tolse al gruppo Espresso la più grande ca- sa editrice italiana...”; (20) “un processo in cui (...) c’erano batterie di avvocati miliardari...” (Repubblica). (21) “un clima, politico e culturale, che è andato lentamente cambiando...” (Resto del Carlino). Non mancano neppure esempi di focalizzazione: (22) “Il 9 maggio scorso fu un collegio giudicante (...) a mandare assolto il Cavaliere ...” (Resto del Carlino); né di presupposizioni esistenziali: (23) “l’ennesima sconfitta dei pubblici ministeri...”; (24) “la serie ininterrotta di avvisi di garanzia...; (25) “il progressivo affievolimento della carica accusatoria....”; (26) “la lunga e spaventosa doppia vicenda giudiziaria [di Andreotti]” (Resto del Carlino). In altri articoli, dedicati alla politica internazionale ma anche ad argomenti di natura etica come l’eutanasia, le presupposizioni occorrono non sporadica- mente, benché paia configurarsi un’incidenza minore, come se, allorquando il tema trattato si allontana progressivamente dall’area di azione dei nostri politici, diminuisse l’esigenza di convogliare informazioni attraverso implici- ti. Un esempio molto evidente offre il confronto tra due editoriali apparsi in due numeri ravvicinati del Corriere del luglio scorso (19 e 21): in quello de- dicato al commento delle trattative condotte da Clinton nella questione me- dio-orientale l’occorrenza di presupposizioni è minore rispetto a quella che si constata nel pezzo che mette a confronto la politica italiana e quella tedesca.

7. Osservazioni conclusive Per sintetizzare le osservazioni fin qui proposte può essere inizialmente utile rileggere i dati dal punto di vista del tratto formale – l’incidenza di attivatori presupposizionali – la cui variazione può essere messa in relazione lineare sia con l’argomento, sia con i tipi di testo analizzati. La presenza di un numero elevato di attivatori, essendo decisamente legata agli intenti perlocutivi dell’autore, è più rilevante là dove maggiormente si ambisce a creare o raf- forzare opinioni, a costruire un consenso, quindi nei testi di commento più che in quelli d’informazione, e, d’altra parte, in quelli che affrontano temati- che in cui l’intervento diretto del destinatario si presuppone più immediato

31 (in fondo, la politica in senso stretto è l’azione politica dei governanti, rispet- to alla quale, nei regimi cosiddetti democratici, per il cittadino l’unica vera azione possibile è l’espressione del voto). Se, viceversa, gli attivatori presup- posizionali si presentano in numero più esiguo, non per questo si può esclu- dere di trovarsi di fronte ad un testo di argomento politico o ad un articolo di fondo; per determinare la natura dell’articolo, bisognerà tener conto di altre variabili, poiché i pezzi di cronaca politica rivelano un numero decisamente inferiore di attivatori, mentre anche nell’editoriale le presupposizioni posso- no occorrere solo sporadicamente, come rivelano alcuni articoli da noi esa- minati (ad esempio un fondo del Corriere dedicato all’eutanasia). A ulteriore conferma del carattere non deterministico di questa correlazione si può os- servare che persino un editoriale politico (anche pre-elettorale) può in certi casi (benché in qualche misura eccezionali) fare scarso uso di impliciti, quando la base ideologica comune è pre-costituita grazie alla selezione di un pubblico di lettori decisamente in sintonia con l’orientamento (esplicitamente dichiarato) della pubblicazione, come accade, tra i testi da noi esaminati, ne- gli articoli apparsi sul Manifesto e sull’Avvenire. Concludendo osserviamo perciò che pare possibile stabilire una distribu- zione topologica dei testi in uno spazio continuo bidimensionale, determinato dall’incrociarsi di due assi: l’uno indica l’incidenza degli attivatori presuppo- sizionali, mentre l’altro definisce il tipo testuale (“intramediatico”) compreso tra i due poli dell’articolo di cronaca e dell’editoriale. Su questo spazio si manifesterà un addensamento di testi nell’intorno della retta che rappresenta la correlazione lineare tra le due variabili, mentre assai più raramente potran- no verificarsi casi in cui al (progressivo) incremento dell’una corrisponda un basso livello dell’altra, e viceversa. Pertanto la presenza di presupposizioni, pur non essendo da sola sufficiente ad individuare univocamente un genere testuale (neppure se si incrocia la classificazione dei tipi testuali con quella degli argomenti), costituisce comunque un indice tendenziale, tanto più signi- ficativo se non si ambisce ad una tassonomia basata su categorie discrete, ma si cerca di individuare una caratterizzazione graduale, eventualmente fondata sulla prossimità più o meno accentuata ad un prototipo.

32 8. Bibliografia Berruto, Gaetano, La variabilità sociale della lingua, Torino, 1980. Bonomi, Andrea (ed.), La struttura logica del linguaggio, Milano, 1973. Cortelazzo, Michele A., Lingue speciali: la dimensione verticale, Padova, 1994. Dressler, Wolfgang, “Tipologia dei testi e tipologia testuale”, in: Coveri, Lorenzo (ed.), La linguistica testuale, Roma, 1984, 87–94. Ducrot, Oswald, Dire et ne pas dire, Paris, 1972. Fillmore, Charles, “Types of lexical information”, in: Steinberg, Danny/Jakobovits, Leon (edd.), Semantics, Cambridge, 1971, 370–392. Fowler, Roger, Language in the News: Discourse and Ideology in the Press, London, 1991. Frege, Glottlob, “Über Sinn und Bedeutung [1892]”, trad. it.: “Senso e denotazione”, in: Bonomi (ed.) 1973, 9–32. Garzone, Giuliana, “Lingue speciali, linguaggi specialistici”, in: AAVV, Lingua d’oggi. Varietà e tendenze, Milano, 1998, 73–142. Jakobson, Roman, “Closing Statements: Linguistics and Poetics”; trad. it.: “Linguisti- ca e poetica”, in: idem, Saggi di linguistica generale, Milano, 181–218. Kiparsky, Paul/Kiparsky Carol, “Fact”, in: Steinberg, Danny/Jakobovits, Leon (edd.), Semantics, Cambridge, 1971, 345–369. Levinson, Steven, Pragmatics, Cambridge, 1983; La pragmatica, Bologna, 1993. Livolsi, Marino/Volli, Ugo (edd.), Personalizzazione e distacco. Le elezioni europee e regionali 1999, Milano, 2000. Sbisà, Marina, “Perlocuzione e presupposizioni”, in: Albano Leoni, Federico/Piglia- sco, Maria Rosaria (edd.), Retorica e scienze del linguaggio, Roma, 1979, 37–60. Sobrero, Alberto, “Lingue speciali”, in: idem (ed.), Introduzione all’italiano contem- poraneo. Le variazioni e gli usi, Roma/Bari, 1993, 237–278. Strawson, Peter F., “On referring”, in: Mind 59 (1950); trad. it.: Sul riferimento, in: Bonomi (ed.) 1973, 197–224. Violi, Patrizia, Significato ed esperienza, Milano, 1997.

33

Pronomi e determinanti nell’annotazione dell’italiano antico. La POS “PD” del Corpus Taurinense Manuel Barbera

Que de choses il faut ignorer pour “agir”! Paul Valéry, Tel quel .I. (Choses tues), 1930/41

1. Introduzione Il Corpus Taurinense (CT)1 è la versione annotata morfosintatticamente del Corpus ItalAnt o Padua Corpus (PdC), un sottoinsieme del Tesoro della lin- gua italiana delle origini (TLIO)2 costituito da ventun testi fiorentini datati tra 1251 e 1300, scelto da L. Renzi e G. Salvi per preparare una sintassi dell’italiano antico (cf. Renzi 1998), ideale continuazione della Grande Grammatica Italiana di Consultazione (Renzi/Salvi 1988, 1991, 1995). Il CT è uno dei risultati del lavoro del gruppo di ricerca “Per una grammatica te- stuale dell’italiano antico”, costituito da C. Marello e dal sottoscritto, coordi- natore locale B. Mortara Garavelli, all’interno della ricerca cofinanziata 1997–99 “Ricerche linguistiche sull’italiano antico”, coordinatore nazionale L. Renzi. Il Padua Corpus è consultabile in ambiente PC con GATTO, un sistema di ricerca pensato per esigenze soprattutto lessicografiche (cf. Iorio-Fili 1997). Il CT è stato invece annotato con un tagset (il “CT-Tagset”, presenta- to al congresso SILFI 2000) che soddisfa gli standard europei EAGLES3, ed è interrogabile in ambiente UNIX (Solaris o Linux) con il CQP (Corpus Query Processor), il motore di ricerca del CWB (Corpus Work Bench) svi- luppato dall’IMS Stuttgart (cf. Christ/Schulze 1996). È inoltre ormai pronta un’interfaccia Web sperimentale per interrogare il nostro corpus con il CQP anche attraverso Internet. Sono possibili (sia in query locale, cioè sulla pro- pria postazione UNIX, sia via Web da qualsiasi PC) ricerche per diverse ca- tegorie di fenomeni vuoi linguistici (lemma, POS, categorie morfologiche)

————— 1 Per tutte le abbreviazioni utilizzate nel testo cf. l’apposito elenco alfabetico, p. 50. 2 Cf. il sito: http://www.ovisun199.csovi.fi.cnr.it/italnet/OVI. 3 EAGLES (Expert Advisory Group on Language Engineering Standards), è un’iniziativa della Commissione Europea all’interno del DG XIII Linguistic Re- search and Engineering Program. Cf. il sito http://www.ilc.pi.cnr.it/EAGLES96/ browse.html.

35 vuoi filologici (correzioni editoriali, genere letterario, prosa/verso) in qual- siasi combinazione seriale. Oggetto specifico di questa comunicazione è una porzione particolarmen- te critica del tagset che abbiamo fissato4 per il CT, quella che potremmo “in- genuamente” (nel senso di Graffi 1991) indicare come “pronomi”. Verifiche- remo prima la consistenza della POS stessa (2.), ponendo a confronto le no- stre decisioni con quelle delle altre iniziative europee, quindi illustreremo (3.) l’articolazione interna della POS “PD” che abbiamo proposto e le strategie che abbiamo adottato per renderla efficiente.

2. Consistenza della categoria e rappresentazione nei tagsets Naturalmente, il primo e più generale problema che ci troviamo ad affrontare è quello della consistenza stessa della POS (Part Of Speech) in questione. Il problema è aggravato dall’essere quello dei “pronomi” un tipico territorio di confine, all’incrocio tra molteplici esigenze. Non solo, infatti, qui si confrontano due tradizioni grammaticali diverse, quella anglo-germanica in cui sono consuete due POS, Pronouns e Determi- ners (comprendente anche gli articoli), e quella romanza in cui si tende ad avere una sola POS (con articoli a parte) entro cui si distingue poi una fun- zione aggettivale (in italiano è usuale parlare di “pronomi” ed “aggettivi pro- nominali”), ma si scontrano anche le differenti prospettive speculative della linguistica teorica, in cui la sintassi tende a far la parte del leone nella defini- zione delle categorie grammaticali, e pratiche della linguistica computaziona- le, in cui le POS dovrebbero essere mantenute a base il più possibile morfo- logica, demandando l’analisi sintattica ad un parsing5 successivo. Linguisticamente, la differenza di approcci è naturalmente motivata dalle diverse realtà linguistiche di cui tali tradizioni sono specchio: ad es. in ingle- se i possessivi sono in distribuzione complementare con l’articolo (Determi- ners), ma di norma non così in italiano. Non è, comunque, tanto la definizio- ne puramente linguistica del problema qui ad interessarci, quanto la sua por- tata dal punto di vista computazionale e la sua configurazione nell’economia del tagset, ossia – più in generale – il tipo di “compromesso” raggiungibile ————— 4 I risultati che qui presento, di cui pure mi assumo piena responsabilità, sono stati discussi e concordati insieme a C. Marello. Ringrazio anche M. Squartini per l’aiuto prestato, specie nel trattamento dei personali. 5 Così si suole indicare “the process of reconstructing the derivation(s) or phrase structure tree(s) that give rise to a particular sequence of words” (Manning/ Schütze 1999/2000, 107).

36 tra struttura della lingua analizzata ed esigenze corpus-oriented dello stru- mento di analisi. Non a caso le raccomandazioni EAGLES6 (Monachi- ni/Calzolari 1996), che rappresentano la più recente summa sulla standardiz- zazione della annotazione morfosintattica, sono sufficientemente elastiche da consentire soluzioni differenziate, e, comunque, si sono di fatto registrate molte incertezze nella definizione dei tagsets nelle varie iniziative europee che si sono finora succedute (cf. Monachini/Calzolari 1996, 193).

2.1. ELM-EN ed i tagsets per l’inglese Dato che la linguistica dei corpora è nata e si è in gran parte sviluppata in paesi britannici, è da qui che sarà bene prender le mosse. In effetti il modello della tradizione grammaticale inglese è risultato certo determinante nella an- notazione di corpora; lo schematizzo (a maglia larga) pertanto qui sotto, compendiandolo nella forma che sta alla base della grammatica di riferimen- to (Quirk et al. 1985/1990) e che è più comunemente divulgata (cf. ad es. Leech/Cruickshank/Roz 1989/1999, 116 e 398):

– definite article personal pr. – PRONOUNS possessive pr. possessives DETERMINERS demonstrative pr. demonstratives – indefinite article indefinite pr. quantity words relative pr. wh-pronouns wh-words Tav. 1 ————— 6 Sulla struttura dei tagsets EAGLES, basati su features tipate gerarchicamente (HDF < Hierarchy-Defining Features), incrociabili con altre features mor- fologiche non gerarchiche (MSF < MorphoSyntactic Features), cf. Barbera 2000b. Mi limito qui ai pochi cenni indispensabili. In generale un’annotazione tipata è una HDF che si proietta in un albero gerarchi- co, ad es. [[[[subfeatureX][subfeatureY]featureA][featureB]type1][type2]POS], al cui nodo si trova la POS. Le HDF sono, ossia, features che si proiettano su una gerarchia risalendo alla POS lungo un unico percorso; ma non tutte le features ne- cessarie in un tagset hanno questa caratterististica. Il genere, ad es., non risale ad un’unica sorgente, ma si proietta su più POS o tipi distinti (nome, aggettivo, pro- nome, participio): in altre parole, gli alberi che descrive si incrociano con molte- plici cross branchings, vanificando la inequivocità dell’ereditarietà gerarchica. Bisogna pertanto distinguere alcune MSF (morphosyntactic features) dalle HDF (hierarchy-defining features). Nell’architettura EAGLES (e quindi nella nostra) solo le seconde si costruiscono in gerarchia tipata, mentre le prime si applicano liberamente sui tags tipati.

37 La distinzione tra le due POS è talora verificabile solo sintatticamente, e ciò non può non creare difficoltà nella annotazione di corpora. In effetti tale pa- radigma risulta quasi sempre distorto almeno in qualche zona nella maggior parte dei tagsets. Negli ormai storici e gloriosi Brown Corpus Tagset e Penn Treebank Tagset7, ad esempio, i dimostrativi risultano praticamente indiffe- renziati. Nel più recente ICE-GB Tagset8, invece, a livello di wordclass tag- ging si ha la sola POS “PRON” (affiancata da “ART”), mentre la distinzione viene recuperata a livello di parsing.

PRON personal refl poss dem indf wh rel interr she them- mine this some whom which selves +MSF +pers +pers – – – +case +case +case +num +num +gend +gend DET poss dem indf wh rel excl interr my this some whose which what +MSF +pers +num +num – – – +gend +n-pos ART def idef an the +MSF +num +num Tav. 2

ELM-EN, il tagset delle Guidelines EAGLES per l’inglese (Teufel 1996), nonostante le difficoltà informatiche, si è invece mantenuto molto vicino al modello descrittivo usuale nella grammatica inglese, discostandosene solo per l’introduzione di una POS indipendente per gli articoli, decisione su cui, al di là di considerazioni di confrontabilità interlinguistica, ha esplicitamente (cf. Monachini/Calzolari 1996, 153) pesato la proposta della TEI9 di mante- nere in generale la POS “Article”. Nella tavola 2 condenso la porzione del

————— 7 Riprodotti anche in van Halteren 1999, risp. 306–307 e 307–308. 8 Per l’ICE-GB (International Corpus of English - Great Britain Component) cf. il sito http://www.ucl.ac.uk/english-usage/. 9 Per le Guidelines della TEI (Text Encoding Initiative) cf. il sito http://www.tei-c. org/.

38 Tagset ELM-EN10 che ci riguarda, la cui impostazione si è perlopiù rivelata molto influente sugli altri tagsets EAGLES finora proposti.11

2.2. ELM-DE ed il tagset tedesco

PRON pers refl poss demo idf rel interrog sg;pl sg;pl sg;pl inflect non- sg;pl sg;pl 1;2;3 1;2;3 sg;pl inflect du mich seines dieser mancher man die wen +MSF +gend +case +gend +gend +gend – +gend +gend +case +case +case +case +case +case DET poss demo idf rel interrog sg;pl sg;pl inflect non- inflect non- sg;pl inflect sg;pl inflect seine dieser manche manch dessen welchen wessen +MSF +gend +gend +gend – – +gend – +case +case +case +case ART sg pl ein,der die +MSF +gend +defin +defin +case +case Tav. 3

La medesima suddivisione di POS si ha ovviamente nel tagset ELM-DE per il tedesco, dove, in effetti, la definizione morfologica delle POS ha risoluzione ancora maggiore (difficoltà vi sono in pratica solo per dimostrativi ed articoli) e non riveste in genere un carattere particolarmente problematico. Le principali differenze stanno semmai nel diverso smistamento di HDF e MSF, che rispon- de ad esigenze più complesse, su cui non posso qui sostare. Sintetizzo nella ta- vola 3 la porzione di ELM-DE che ci interessa (rappresento solo a grana grossa le HDF numb e pers ed i loro incroci con le MSF gend e case). ————— 10 Le labels dei vari tags sono quelle usate nelle Guidelines EAGLES. Sono di solito piuttosto trasparenti, tanto da non richiedere apposite glosse. Va semmai avvertito che non sono sempre uguali nei diversi tagsets: nella prospettiva della standardiz- zazione EAGLES più che l’uniformità delle labels importa l’omogeneità a livello di tags, che garantisce l’intertraducibilità dei diversi tagsets in un unico interme- diate tagset (cf. Leech/Wilson 1999, 70–80). Ricordo che la differenza tra tag e label è quella tra ‘la categoria morfologica associata ad una determinata parola’ (ad esempio ‘preposizione’) ed ‘il nome o la codifica con cui un tag è indicato’ (ad esempio “prep” o “IN”). 11 Va però detto che le più recenti proposte di standardizzazione, procedenti dallo stesso alveo di EAGLES (cf. Leech/Wilson 1999, 63–64) o da correnti parallele (cf. il sopra menzionato tagset ICE-GB), muovono ormai in una direzione oppo- sta, che è poi risultata essere quella stessa su cui noi ci siamo mossi (cf. oltre).

39 2.3. ELM-FR ed il tagset francese Se, data la struttura della lingua tedesca, il tagset ELM-DE risulta solidamen- te fondato anche morfologicamente, il tagset EAGLES più “linguistico”, nel senso di sintatticamente fondato, è quello proposto per il francese, ELM-FR (von Rekowski 1996), che si può fare forte di una tradizione grammaticale locale già piuttosto raffinata in questo senso (cf. ad es. il pur precipuamente normativo Grevisse 1936/1993). Pur mantenendo la convenzione di sottrarre gli articoli alla POS “deter- minanti” cui pure sintatticamente apparterrebbero, motivata dalla necessità in sede interlinguistica di mantenere un intermediate tagset compatibile con i principali standard europei TEI ed EAGLES, qui la partita viene giocata su tre anziché due scacchieri, facendo scendere in campo, accanto a pronome (“P”) e determinante (“D”), anche la POS aggettivo (“A”) per quella che, nella tradizione grammaticale “ingenua” italiana chiameremmo la funzione predicativa degli aggettivi pronominali. A questa triplice ripartizione sono sottoposti, in base a test sintattici, non solo “possessivi” ed “indefiniti” ma anche i “cardinali”, che nella più parte dei tagsets sono mantenuti nella POS “numerali” per comodità di standardizzazione interlinguistica: cf. gli ess. 1–3 (da von Rekowski 1996, risp. 48, 49 e 34).

P D A (1) poss c’est le nôtre c’est notre livre ce livre est nôtre (2) indf tel était son destin tel père, tel fils un tel homme me plaît (3) card deux ont aboyé deux chiens ont les deux chiens ont aboyé aboyé La porzione di tagset ELM-FR in esame è pertanto schematizzabile al modo seguente:

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P pers refl poss dem indf rel int excl card str wk str wk lui il lui- se le ce quel- le- quel quel deux même nôtre que quel + +pers +pers +pers +pers +gen +gen +gen +gen +gen +gen – M +gen +gen +gen +gen +num +num +num +num +num +num SF +num +num +num +num +pP +case +nbP D poss dem indf rel int excl card notre ce quel- le- quel quel deux que quel + MSF +pers +gen +gen +gen +gen +gen – +gen +num +num +num +num +num +num +pos A qual poss indf ord card rouge nôtre quel- deux- deux que ième + MSF +gen +gen +pP +gen +gen – +num +num +nbP +num +num ART def indf part le un du + MSF +gen +gen +gen +num +num +num Tav. 4: (str = strong; wk = weak; +pP = +persPron; +nbP = +nbPos)

2.4. ELM-IT ed il tagset italiano moderno ELM-IT, il tagset EAGLES per l’italiano moderno (Monachini 1996), segue da vicino il modello “germanico” nella distinzione tra pronomi (“pron”) e de- terminanti (“det”), rinunciando a molti degli artifici messi in opera dai fran- cesi: la funzione predicativa non è distinta, ed è mantenuta (oltre, come usua- le, l’articolo) la “convenzionale” POS autonoma per i numerali. Il problema è che manca quasi completamente ogni supporto morfologico per distinguere le due classi, ed anche molte delle regole distribuzionali (ad es. la commuta- tività tra possessivi ed articoli) dirimenti per inglese, tedesco e francese non sono qui invocabili in maniera così netta. Lo schema di ELM-IT è il seguente:

41 PRON pers poss dem indf int rel excl strg weak nom obl obl io mi me mio quello alcuni che? che che! +MSF +pers +pers +pers +pers +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +numb +numb +numb +numb +numb +numb +numb +numb +numb DET poss dem indf int rel excl 1,2,3

mio quello alcuni che? che che! +MSF +gend +gend +gend +gend +gend +gend +numb +numb +numb +numb +numb +numb ART def indf il uno +MSF +gend +gend +numb +numb Tav. 5

Tale sistema richiede per molte forme un elevato numero di transcategorizza- zioni12, dovendosi aggiungere le ambiguità “pron” ~ “det” su sei tipi a quelle comunque inevitabili quali, per menzionare solo le più seriali, quelle dei tre tipi-wh (cioè “rel”, “excl” ed “int”) tra di loro e con gli indefiniti (“indf”), e quelle tra pronomi/determinanti (“indf” e wh) ed avverbi. Quelle con gli av- verbi, pur sempre diagnosticabili prevalentemente per via sintattica, si confi- gurano in modo sistematico, tanto da far quasi desiderare un trattamento simmetrico a quelle con i determinanti. Cf.:

PRON DET ADV (4) indf tanto fece che fece tanto lavoro mangiando tanto la spuntò che crollò passa la fame (5) int quanto ne vuoi? quanto pane quanto corre quel vuoi? cavallo?

2.5 Il CT-tagset per l’italiano antico Confrontati anche noi con questi problemi, dopo varie riflessioni, considerate le specifiche difficoltà presentate dall’italiano antico13, abbiamo deciso di se- ————— 12 “Transcategorizzazione” (transcategorization) è il termine usato nelle Guidelines EAGLES (cf. Monachini 1996 e Monachini/Calzolari 1996) per indicare la possi- bilità di una medesima forma di appartenere a più POS: che, ad esempio, “tran- scategorizza” tra congiunzione, tre tipi di pronome e tre tipi di determinante. 13 Dovute non solo alle oscillazioni introdotte dalle diverse pratiche filologiche con cui i testi sono stati curati, ma anche dalla natura “fluida” ed ancora non normati-

42 guire una strada diversa da quelle orientate sintatticamente (cf. ELM-FR) od anglo-convenzionalmente (cf. ELM-IT), che, pur spinte da motivazioni di- verse, conducevano entrambe ad un analogo duplice risultato se applicate all’italiano, quello di discostarsi (1) dal piano prettamente morfologico (con conseguente maggiore difficoltà computazionale) e (2) dalla nativa tradizione grammaticale “ingenua” (con conseguente minore riutilizzabilità dei risultati). A fronte dei vantaggi (più profonda penetrazione linguistica dell’analisi e maggiore confrontabilità con il modello anglofono) ci è parso che gli inconve- nienti, se posti sull’altro piatto della bilancia, fossero tutto sommato più pesanti. L’aumento della componente sintattica nella POS adnotation rende infatti difficile il còmpito a qualsiasi sistema computazionale che non possa appog- giarsi ad una preesistente Constraint Grammar in cui le regole sintattiche si trovino già formulate, come l’efficiente CG2 sviluppata per l’inglese da Atro Voutilainen. E le dimensioni stesse (non da ultimo economiche) del nostro progetto non rendevano possibile la messa in cantiere di una CG per l’italiano antico. Uno studio recente ha perdipiù rilevato alcune significative discordanze tra forma morfologica e funzione sintattica nei pronomi inglesi e norvegesi (Johannessen 1998) anche in corpora annotati in base alla CG2. D’altra parte, tenere ben distinti i diversi livelli di una analisi è sempre stata una buona norma metodologica. Nella moderna ottica della riciclabilità dei dati informatici, inoltre, è stato più volte sottolineato che “it is a good idea for adnotation schemes to be ba- sed as far as possible on consensual or theory-neutral analyses of the data” (Leech 1997, 7). E da questo punto di vista l’utilizzare il più possibile le ca- tegorie “ingenue” della grammatica nativa tradizionale permette di rendere i propri dati utilizzabili anche fuori dalle conventicole dei linguisti di più stret- ta osservanza – cioè, nel nostro caso, soprattutto da quella dei filologi. Que- sto in pratica, ma in Barbera 2000b ne avevo tratto anche conseguenze di na- tura più teorica. Abbiamo così deciso di costituire oltre all’articolo un’unica POS, che ab- biamo battezzato “PD”, a base prevalentemente morfologica (demandando il livello sintattico ad una fase successiva e diversa), e con un’articolazione in- terna particolarmente studiata dal punto di vista dell’economia del tagset e

vizzata di quei testi, che fa salire vertiginosamente il numero delle varianti grafi- co-linguistiche di ogni forma e crea molteplici problemi nella individuazione dei tokens. Per tokens, noto per inciso, si intendono le unità minime in cui il testo e- lettronico è diviso; in altre parole “token means the individual appearance of a word in a certain position in a text. For example, one can consider the wordform dogs as an instance of the word dog. And the wordform dogs that appears in, say, line 13 of page 143 as a specific token” (Grefenstette 1999, 117).

43 della adeguatezza all’italiano antico, pur cercando di mantenere la maggiore simmetria possibile con il tagset gemello ELM-IT (ed in ciò siamo stati mol- to aiutati dalla lungimirante elasticità dell’architettura EAGLES). Ecco la struttura della porzione del CT-Tagset in esame14:

P pers poss dem indf int rel excl D strg wk strg wk strg wk nom obl obl io mi me mio ÷ma quello ne alcuni che? che che! + +pers +pers +pers +pers +pers +pers – +pers +pers +pers +pers M +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gend +gen S +num +num +num +num +num +num d F S (37) (38) (39) (33) (34) (30) (31) (32) (35) (36) (40) A def indf il uno + MSF +gend +gend +num +num S (60) (61) Tav. 7: (num = numb; wk = weak; A = ART; S = ShN)

2.6 Le nuove Tagset Guidelines EAGLES Il progetto EAGLES, nel suo cammino verso la standardizzazione, è tuttora in movimento, ed alla fine dell’anno scorso è uscita una sintetica presenta- zione delle nuove Guidelines per la costruzione di POS tagsets (Leech/Wil- son 1999).

————— 14 I codici dati tra tonde nella riga contrassegnata “ShN” (Short Notation) sono quel- li di una delle due notazioni intercambiabili usate nel CT. Ad esempio il tag asso- ciato alla forma io è rappresentabile tanto, sinteticamente, come 37 (codice in cui è collassata l’intiera gerarchia tipata) tanto, analiticamente, come POS=PD.type= pers.infl=strg.case=nom (o, più abbreviatamente, nella sintassi del CWB, pd.per. s.no). Entrambe le possibilità sono utilizzabili in fase di ricerca da CQP, la prima ricorrendo all’ “attributo posizionale” kat, l’altra a pos, cf. Barbera 2000a. Anche le MSF hanno una ShN numerica, che riporto qui per comodità: person 1 pers=1 number 6 num=sg 2 pers=2 7 num=pl 3 pers=3 6;7 num=n gender 4 gen=masc degree 8 degr=pos 5 gen=fem 9 degr=comp 4;5 gen=c 10 degr=sup Tav. 6

44 È stata per noi una piacevole sorpresa, ed una conferma di avere lavorato nella giusta direzione, poter constatare che G. Leech ed A. Wilson, i due co- ordinatori delle Guidelines, hanno raggiunto conclusioni molto simili alle no- stre. “The parts-of-speech Pronoun, Determiner and Article”, argomentano i due studiosi, “heavily overlap in their formal and functional characteristics and different analyses for different languages entail separating them out in different ways. For the present purpose, we have proposed placing Pronouns and Determiners in one ‘super-category’, recognizing that for some descrip- tions it may be thought best to treat them as totally different part-of-speech. There is also an argument for subsuming Articles under Determiners. The present guidelines do not prevent such a realignment of categories, but do propose that articles (assuming they exist in a language) should always be recognized as a separate class, whether or not included within determiners” (Leech/Wilson 1999, 63–64). E concludevano che “The requirement is that the descriptive scheme adopted should be automatically mappable into the present one”: ed il nostro schema lo è sicuramente ed agevolmente.

3. Articolazione interna del CT-tagset Avevamo già detto che l’articolazione interna del CT-tagset è stata partico- larmente studiata nella sua architettura in funzione tanto dell’economia del tagset15 quanto della adeguatezza all’italiano antico, pur cercando di mante- nere la maggiore simmetria possibile con ELM-IT. Questo risultato è stato conseguito [1] ponendo molta attenzione ai rap- porti con le altre POS (transcategorizzazioni etc.), [2] calibrando con partico- lare cura l’incastro tra HDF e MSF, [3] smistando l’informazione linguistica tra tagset (morfologia) e dizionario (lessico) e [4] concentrando accuratezza nella lemmatizzazione e granularità nella annotazione solo nelle aree più cri- tiche della grammatica dell’italiano antico, come (per quello che qui ci per- tiene) quella dei clitici.

————— 15 Il contenimento delle dimensioni del tagset risponde a precise esigenze pratiche. È noto, infatti, che se si limita il tagset a non più di 70 tags gerarchici, il corpus così annotato avrà un rendimento ottimale come training corpus per un annotatore stocastico (cf. Heid 1998). Per consapevole scelta progettuale (cf. Barbera 2000b) abbiamo disegnato il nostro tagset (che novera 67 tags) proprio in modo da poter usare il CT come training corpus per annotare altri testi italiani antichi.

45 3.1 Rapporti con le altre POS Una volta stabilita la POS “PD”, si tratta in sostanza della vexata quaestio dei rapporti con gli aggettivi e con gli avverbi. La serie presentata con gli ess. 4– 5 potrebbe fare venire in mente una soluzione che approfondisse l’imposta- zione attuale introducendo una feature “funct” (function) nel solo “PD”, al modo sg.:

POS type funct infl case POS type POS type PD dem p-pro weak nom ADJ qual ADV general indf p-det strg obl particle poss p-adv int +pers +pers +gend rel +gend +gend +numb pers +numb +numb +degr excl +degr Tav. 8 Ma la feature “funct” per essere attribuita richiede o una accurata ispezione manuale dei contesti, o, se non un vero e proprio parsing, perlomeno un chunking16: sicché, nella nostra prospettiva riassumibile nel motto “prima la morfologia, poi la sintassi”, risulta inapplicabile. Ed analogo discorso vale per altre possibili soluzioni che partissero da impostazioni diverse dalla no- stra, come – ad esempio – la seguente, con i “det” sussunti nell’aggettivo:

POS type infl case POS type subtype POS type PRO dem weak nom ADJ qual dem ADV general indf strg obl det indf particle poss poss wh int int indf rel +pers rel +pers +gend pers +gend +gend +numb excl +numb +numb +degr Tav. 9

3.2 Incastro tra HDF e MSF Non v’è sempre accordo (come vi sarete accorti scorrendo i tagset EAGLES testé esaminati) se una classe di tratti alternativi debba venire considerata una

————— 16 “Chunking” equivale a dire “recognizing higher level units of structure [“chunks”] that allow us to compress our description of a sentence” (Manning/ Schütze 1999/2000, 408); a sua volta “the practice of parsing can be considered a straight- forward implementation of the idea of chunking” (ibid.).

46 sub-branched HDF od una MSF: abbiamo così visto come persona e numero sono gerarchizzati come HDF per ELM-DE, mentre sono mantenuti in gene- re come MSF non gerarchiche nella maggior parte degli altri tagsets. Un criterio generale di coerenza e semplicità vorrebbe che fosse gerar- chizzata ogni classe di tratti alternativi che è POS-specifica e che fosse inve- ce tenuta come MSF ogni classe di tratti alternativi che si applica a più POS. Talvolta ragioni di altra natura possono portare a soluzioni diverse (partico- larmente evidenti nel tagset tedesco), ma, qualora applicabile, il criterio più semplice presenta indubbiamente una maggiore comodità informatica. Nel nostro sistema la ripartizione tra MSF e HDF è rigorosa (sono HDF solo fe- atures che ereditano un’unica POS) in modo da non appesantire il sistema con sub-branching incrociati, e da non gonfiare quantitativamente il tagset moltiplicando tags HDF non strettamente necessari. Abbiamo, ad esempio, così evitato di introdurre una specifica HDF per la persona del possessore nei pronomi possessivi, come fa ELM-IT, bastando a ciò la normale MSF “pers”, associata ad una lemmatizzazione accortamente studiata. Pratica questa che ci conduce direttamente al punto successivo.

3.3 Lemmatizzazione sostitutiva di annotazione Molte distinzioni morfologiche apparentemente “perse” a livello di tagset (e nei pronomi ciò accade spesso, se non si vuole troppo dilatare il tagset) si possono infatti recuperare scaricandole a livello lessicale. Un esempio tipico di ciò è quello offerto dall’intreccio tra numero del possessore e numero del posseduto nei possessivi. Qui la rinuncia ad intro- durre uno specifico tag per il numero del possessore (oltre che per quello del posseduto, nostro vs. nostri), recuperandolo invece lessicalmente con i lemmi distinti mio e nostro (cosa peraltro molto “naturale” per la tradizione lingui- stica italiana), consente di evitare l’introduzione di una apposita HDF, che potrebbe essere la subfeature “refN” (reference number) o “nbPos” come nel tagset ELM-DE. Metto ora a confronto le due diverse impostazioni, quella che abbiamo accolto, e quella che abbiamo scartato (marcata con l’asterisco), sia schema- ticamente (tav. 10) sia con un fascio di esempi (6–13):

tagset *PD POS PD POS poss type VS. poss type strg weak infl strg (33) weak (34) infl sgR (336) plR (337) sgR (346) plR (347) refN Tav. 10

47 *CT CT (6) il vostro signore lem=tuo,337,2,4,6,0,0 lem=vostro,33,2,4,6,0,0 (7) la vostra signora lem=tuo,337,2,5,6,0,0 lem=vostro,33,2,5,6,0,0 (8) i vostri signori lem=tuo,337,2,4,7,0,0 lem=vostro,33,2,4,7,0,0 (8) le vostre signore lem=tuo,337,2,5,7,0,0 lem=vostro,33,2,5,7,0,0 (10) il tuo signore lem=tuo,336,2,4,6,0,0 lem=tuo,33,2,4,6,0,0 (11) la tua signora lem=tuo,336,2,5,6,0,0 lem=tuo,33,2,5,6,0,0 (12) i tuoi signori lem=tuo,336,2,4,7,0,0 lem=tuo,33,2,4,7,0,0 (13) le tue signore lem=tuo,336,2,5,7,0,0 lem=tuo,33,2,5,7,0,0

3.4 Accuratezza proporzionale alle specificità dell’italiano antico La necessità di contenere il tagset non deve mai andare a discapito della sua adeguatezza descrittiva. Si è pertanto accentuata l’accuratezza nella lemma- tizzazione e la granularità nella annotazione proprio nelle aree più critiche della grammatica dell’italiano antico. Daremo due esempi di ciò, entrambi sottospecificati in ELM-IT.

3.4.1 Il problema della “particelle” Il trattamento delle “particelle”, tipo ne, ci etc., è particolarmente cruciale in italiano antico. Qui ci si è rassegnati ad introdurre specificazioni che richie- dono necessariamente un’ispezione manuale del contesto da parte del filolo- go-linguista annotatore, nella convinzione che la mancanza di tali informa- zioni sarebbe stata fortemente controproducente (per importanza contestuale e frequenza) in qualsiasi successiva procedura automatica. Abbiamo così in- trodotto la feature “weak” di “dem”, affiancandole una simmetrica feature “particle” in “adv”. Si sono pertanto sempre distinti i principali tipi di ne, ci e vi: (1) pronominale a valore dimostrativo (e.g. dàmmene17, ne dice, non ci credo, etc.), annotato “pro.dem.weak”; (2) avverbiale a valore neutro o loca- tivo (e.g. vàttene, se ne va, non ci entra, non vi passa, etc.), annotato “adv.particle”; (3) pronominale a valore personale (e.g. non ci conviene, non vi devo nulla), annotato “pers.weak.obl”. Riassumo quanto detto con un fascio di esempi (14–19) tratti dal CT: ————— 17 Come meglio dirò più avanti, tutti i clitici graficamente uniti (che, nella nostra procedura, chiamiamo “grafoclitici” ed indichiamo con il segno del divide ÷), grazie ad una complessa ed accurata tokenization, sono attualmente trattati come tokens autonomi. L’annotazione di ne autonomo e ÷ne grafoclitico è pertanto la medesima, ed anche per quanto riguarda la lemmatizzazione il lemma è unico tan- to per le forme grafoclitiche che per le separate, e comprende, nel caso di ne, le forme ne, ’n, n’, nne, nn’, ÷ne, ÷nne, e ÷n.

48 (14–5) HDF 31 “pro.dem.weak”: “Eh , maestro : i’ ho veduto cosa che molto mi dispiace | all’ animo mio : ch’ io vidi un vecchio di gran- dissimo tempo | fare laide mattezze : onde , se la vecchiezza n’ ha colpa , io | m’ accordo di voler morire giovane anziché invecchiare e | matteggiare . Onde per Dio , maestro , metteteci consiglio , se | essere può”. (Fiore di filosafi, lxviij, p. 284). (16) HDF 46 “adv.particle”: Hacci gente di corte | che sono use ed a- corte | a sollazzar la gente , (Tesoretto, v. 1495, p. 228). (17) HDF 46 “adv.particle”: Una giovane donna di Tolosa , | bell’ e gentil , d’ onesta leggiadria , | è tant’ e dritta e simigliante cosa , | ne’ suoi dolci occhi , della donna mia , | che fatt’ ha dentro al cor disiderosa | l’ anima , in guisa che da lui si svia | e vanne a lei ; ma tant’ è päurosa , | che no le dice di qual donna sia . (Cavalcanti, Rime xxix, v. 7, p. 531). (18–9) HDF 39 “pers.weak.obl”: […] Per la Fede si | rende la prima ra- gione , si conosce Iddio e crede : perché la Fede | è quella che ci mostra quello ch’ è Iddio e dimostraci come dobbiamo | credere i· llui . […] (Bono, Libro vizi e virtù, xij, p. 132).

3.4.2 Il problema del “personale debole” Una feature “weak” è stata introdotta anche nei possessivi per notare il tipo soreta, la cui estensione antica e pantoscana per quanto modesta è comunque superiore all’odierna, cf. ad es. il pisano suorse ‘le sue sorelle’ (Castellani 1965/1980, 134=325 riportato anche da Rohlfs 1968, §430) od il senese fra- telta (Castellani 2000, 358). Tale tipo caratterizza indubbiamente anche il fiorentino antico, pur essendo nel nostro corpus prevalentemente limitata alla prima persona e legata a registri non letterari (libri di conti, etc.), con un’unica eccezione nel Novellino (cf. es. 21). La annotazione completa della forma ÷ma è pertanto in ShN “lem=÷ma,34,1,5,6,0,0”, e analogamente sono annotati i vari ÷ta, ÷sa, etc. A fianco di un esempio tipico della casistica del CT, riporto anche l’unicum del Novellino: (20) Avemo datto a Giovani , die XVJ intrante genaio ano novanta | due , lb~ IIIJ pi~ , i quali diedi in mano di Giovanni , ke li ebi | da Guarente ke fae le balestra d’ uno mantello k’ io li ve&[n&]dei | di molia ÷ma , e quand’ io li le diedi sì v’ era Lapo Gilichi . (Libro Riccomanni, p. 554).

49 (21) L’ angelo li parlò e disse così : “Salamone , per la tua colpa tu se’ degno di perdere lo reame ; ma così ti manda lo Nostro Signore a dire : che , per li meriti de ÷lla bontà di tuo padre , elli no ’l ti torrà a ÷l tuo tempo ; ma , per la colpa tua , egli lo torrà a ÷l figliuol ÷to. [...]” (Novellino, vj, p. 138).

4. Sigle/abbreviazioni CQP Corpus Query Processor CT Corpus Taurinense CWB Corpus Work Bench EAGLES Expert Advisory Group on Language Engineering Standards ELM EAGLES Lexicon Morphosyntax proposal HDF Hierarchy-Defining Features ICE-GB International Corpus of English – Great Britain Component MSF MorphoSyntactic Features PD Pronome determinante PdC Padua Corpus POS Part of Speech refN Reference Number ShN Short Notation TEI Text Encoding Initiative TLIO Tesoro della lingua italiana delle origini

5. Bibliografia Barbera, Manuel, CT Specifications Guide, pagina nel sito WWW Corpus Taurinense, http://www.ims.uni-stuttgart.de/projekte/CQPDemos/italant/, 2000a. Accesso a ri- chiesta (rivolgersi all’autore). ———, “Italiano antico e linguistica dei corpora: un Tagset per ItalAnt”, in: Burr, Elisabeth (ed.), Tradizione & innovazione. Linguistica e filologia alle soglie di un nuovo millennio, Firenze, in stampa. ———/Marello, Carla, “L’annotazione morfosintattica del Padua Corpus: strategie adottate e problemi di acquisizione”, in: Revue romane 36 (2001), 3–20. Castellani, Arrigo, “Pisano e lucchese”, in: Studi linguistici italiani 5 (1965), 97–135; poi in: Castellani 1980, vol. I, 283–326. ———, Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946–1976), Roma, 1980. ———, Grammatica storica della lingua italiana. I. Introduzione, Bologna, 2000.

50 Christ, Oliver/Schulze, Bruno Maximilian, “CWB. Corpus Work Bench. Ein flexibles und modulares Anfragesystem für Textcorpora”, in: Feldweg, Helmut/Hinrichs, Erhard W. (edd.), Lexikon und Text. Wiederverwendbare Methoden und Res- sourcen zur linguistischen Erschließung des Deutschen, Tübingen, 1996, 121– 133. Duden, Grammatik der deutschen Gegenwartssprache. Bearbeitet von Paul Grebe et al., Mannheim, 19662, 19844. Eisenberg, Peter, Grundriß der deutschen Grammatik, Stuttgart/Weimar, 19943. Graffi, Giorgio, “Concetti ‘ingenui’ e concetti ‘teorici’ in sintassi”, in: Lingua e stile 26 (1991), 347–363. Grevisse, Maurice, Le bon usage. Grammaire française, Paris/Louvain-la-Neuve, 19361, 199313. Heid, Ulrich, “Annotazione morfosintattica di corpora ed estrazione di informazioni linguistiche”. Comunicazione al convegno Annotazione morfosintattica di cor- pora e costruzione di banche di dati linguistici, Torino, 26.11.1998, inedito. Iorio-Fili, Domenico, “Un nuovo software lessicografico: GATTO”, in: Opera del Vocabolario italiano. Bollettino 2 (1997), 259–270. Johannessen, Janne Bondi, “Tagging and the Case of Pronouns”, in: Computers and the Humanities 32 (1998), 1–38. Leech, Geoffrey/Cruickshank, Benita/Roz, Ivanič, An A–Z of English Grammar Us- age, Harlow 19891, 1999. ———/Wilson, Andrew, “Standards for Tagsets”, in: Van Halteren (ed.) 1999, 55–80. Manning, Christopher D./Schütze, Hinrich, Foundations of Statistical Natural Lan- guage Processing, Cambridge/London 19991, 20003. Monachini, Monica, ELM-IT: EAGLES Specifications for Italian Morphosyntax – Lexicon Specifications and Classification Guidelines, Pisa, 1996. ———/Calzolari, Nicoletta, Synopsis and Comparison of Morphosyntactic Pheno- mena Encoded in Lexicons and Corpora. A Common Proposal and Application to European Languages, Pisa, 1996. Quirk, Randolph et al., A Comprehensive Grammar of the English Language, Lon- don/New York, 19908, 19851. Renzi, Lorenzo, “Perché una grammatica dell’italiano antico: una presentazione”, in: idem (ed.), ITALANT: per una Grammatica dell’Italiano Antico, Padova, 1998, 21– 32. ———/Salvi, Giampaolo (edd.), Grande grammatica italiana di consultazione. I.– III., Bologna, 1988–1995. Rohlfs, Gerhard, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Vol. I: Fonetica. Vol. II: Morfologia. Vol. III: Sintassi e formazione delle parole, Torino, 1966, 1968, 1969. Teufel, Simone, ELM-EN. EAGLES Specifications for English Morphosyntax. Draft Version, Stuttgart, 1996. ———/Stöckert, Christine, ELM-DE. EAGLES Specification for German Morpho- syntax. Lexicon Specification and Classification Guidelines, Stuttgart, 1996.

51 van Halteren, Hans (ed.), Syntactic Wordclass Tagging, Dordrecht/Boston/London, 1999. von Rekowski, Ursula, Specifications for French Morphosyntax – (ELM-FR), Paris, 1996.

52 Funzioni testuali degli alterativi Stefania Biscetti / Wolfgang U. Dressler

1. Premessa Il nostro approccio teorico al livello testuale si basa sulla pragmatica testuale. Come nella pragmatica in generale, anche nella pragmatica testuale possiamo distinguere una dimensione statica e una dimensione dinamica. La dimen- sione statica comprende la situazione globale di un testo ovvero di una sua porzione coerente, mentre la dimensione dinamica comprende l’atto lingui- stico testuale (il “macro speech act” di van Dijk 1977 e Viehweger 1990), cioè l’illocuzione e perlocuzione macrostrutturale. In questo contributo vo- gliamo integrare l’approccio pragmatico testuale col nostro approccio morfo- pragmatico allo studio degli alterativi.

2. Quadro teorico Dressler/Merlini Barbaresi (1994) hanno elaborato un modello morfo- pragmatico dei suffissi diminutivi e accrescititvi con particolare attenzione all’italiano e al tedesco. Biscetti (1998) ha applicato questo modello allo stu- dio contrastivo della resa di tali effetti pragmatici nella traduzione inglese del Pasticciaccio di C.E.Gadda. Entrambe le ricerche si sono limitate al livello dei singoli enunciati. In questa sede invece ci proponiamo, come già detto, di allargare l’ambito di indagine al livello testuale e inoltre di considerare i peg- giorativi italiani. Per gli alterativi avevamo identificato, accanto al valore semantico, un valore pragmatico autonomo [fittizio] che ha carattere valutativo (ovvero e- sprime un giudizio di valore secondo standard soggettivi di valutazione). Più specificamente, per i diminutivi il tratto pragmatico individuato era [non- serio], a cui si arriva dal più generale tratto pragmatico [fittizio] attraverso il tratto semantico valutativo [non-importante], allosema di [piccolo]. Il tratto [fittizio] si applica a) alla situazione pragmatica di un enunciato (situazione che può essere per esempio pedocentrica (“child-centered”) o zoocentrica1 (“pet-centered”) o amorosa (“lover-centered”) a seconda che i partecipanti

————— 1 Mancando un equivalente italiano del composto inglese, questa resa ad hoc per analogia a “pedocentrico” ci sembra, se non certo la più felice, almeno la più fun- zionale.

53 siano rispettivamente bambini, animali domestici o innamorati); e b) all’atto linguistico, del quale l’alterativo modifica la forza illocutoria o perlocutoria. Secondo la prospettiva macrostrutturale qui assunta, la dimensione statica di un testo si identifica con la situazionalità macrotestuale, che varia in rela- zione alla cornice convenzionale del genere letterario nel quale il testo si in- scrive. Quindi il nostro approccio dovrà tener conto del genere o della cate- goria testuale (nel senso del tedesco “Textsorte”: ad esempio, la situazione globale di un libro per bambini, o di una favola, o filastrocca è pedocentrica).

3. Dimensione statica Cominciamo la nostra analisi con due campioni di poesia pastorale del Sette- cento; il primo un sonetto di Giambattista Felice Zappi (1667–1719), uno dei membri fondatori dell’Accademia romana d’Arcadia (1690); il secondo un’egloga dell’abbate Giuseppe Paolucci, dedicata allo stesso Zappi e inclusa nella raccolta di rime di quest’ultimo. Il valore pragmatico [fittizio] degli alterati in generale, e specificamente il valore [non-serio] dei diminutivi convengono perfettamente al genere pasto- rale. Cifra distintiva della poesia arcadica è infatti il suo carattere di evasione attraverso la celebrazione di un mondo immaginario, isolato dalla realtà sto- rica, insomma, fittizio; un mondo di fantastica perfezione dove non c’è posto per il disordine o l’eccesso sentimentale, e dove l’amore è soprattutto avven- tura galante, gioco (quindi [non-serio]). La dimensione idillica, l’effusione ludico-sentimentale, il gusto miniaturistico sono anche i tratti salienti della poesia di Zappi: [1] Sognai sul far dell’alba, e mi parea ch’io fossi trasformato in cagnoletto; sognai ch’al collo vago laccio avea; e una striscia di neve in mezzo al petto. Era in un praticello, ove sedea Clori, di ninfe in un bel coro eletto; io d’ella, ella di me prendeàn diletto; dicea: “Corri Lesbino”: ed io correa. Seguìa. “Dove lasciasti, ove sen gìo, Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?” Io gìa latrando, e volea dir “Son io”. M’accolse in grembo, in duo piedi m’alzai, inchinò il suo bel labbro al mio, quando volea baciarmi io mi svegliai. (Sonetto XXIV).

54 La dimensione onirica come cornice macrostrutturale dell’idillio amoroso permette l’associazione non metaforica ma de facto di una situazione amoro- sa con una situazione zoocentrica. Qui infatti uno dei due amanti non si fin- ge, ma è un cagnolino coccolato dall’amata. In tal modo, il potenziamento del carattere giocoso dell’amore (e dunque dell’elemento fittizio) unito alla sottocornice bucolica, rappresentano condizioni molto forti per l’uso diminu- tivo e motivano rispettivamente cagnoletto2 (amore) e praticello (natura). La sensibilità arcadica per la natura, edenicamente raffigurata, è più chiaramente espressa nell’egloga di Giuseppe Paolucci: [2] Su su, mie pecorelle, uscite, uscite, Su liete andiam’ con Tirsi, ove n’aspetta Delia nostra per piagge alme e fiorite. Ivi al girar de gli occhi suoi, l’auretta Vedrem scherzar più dolce intorno al suolo, E più bella spuntar co’ fiori l’erbetta. (vv. 58–63). Cantiamo, Alessi: e voi per lo poggetto Pascete, armenti miei, pascete l’erba. Sediamci qui fra i lauri e ’l ruscelletto; (vv. 314–316). Certamente qui la presenza dei diminutivi è anche motivata dal loro trovarsi in forza di rima. Il che non implica tuttavia perdita di valore semantico e pragmatico. L’ipotesi contraria dell’identità di significato sia semantico sia pragmatico tra queste forme alterate e le corrispondenti forme base in virtù della loro alta frequenza o di una precisa scelta poetica (stilistica) è in gene- rale sostenibile solo a patto che l’uso “neutro” di un alterato sia costante nell’intero testo, che cioè un certo alterato non compaia mai insieme alla sua forma base. Nella poesia di Zappi, tale ipotesi risulta inficiata dalla copresen- za di a) praticello ([1], v. 5) e “prato” (“Giunse dal prato, o pur dal ciel di- scende?” XXV, 4); b) auretta (“Come l’auretta quando muove un fiore.” XXVI, 11) e “aura” (“Vedi l’aura che scherza, e le dirada” XXII, 5); c) er- bette e “erbe” (“Star tra l’erbe e tra i fioretti; / Che tra l’altre erbette belle,”, “Scherzo improvviso”, vv. 10–11). Nell’egloga di Paolucci ruscelletto figura insieme a “ruscello” (“L’onda di quel ruscello e di quel fiume” v. 384); per

————— 2 Baldi et al. (1995) osservano come questo diminutivo sia “indice significativo dell’amore che l’alta borghesia del secolo riversa su questo animale domestico, status symbol trattato con ogni considerazione e rispetto” (p. 296, nota 2). Tutta- via, anche se l’alterato sembra oltrepassare i limiti del contesto ludico-amoroso fittizio e puntare all’ambiente sociale da cui questi componimenti traggono spunto e per il quale sono confezionati, il realismo è comunque minimo.

55 giunta abbiamo un ruscelletti interno al verso (“O ruscelletti che per vie fio- rite” v. 358). Accanto all’evasione idillica e bucolica, nella letteratura arcadica non mancano aspirazioni eroiche, che si traducono nel gusto di esplorare sublimi contrasti interiori. Tale tendenza si esprime nel melodramma. Un bell’esem- pio del duplice atteggiamento verso la materia amorosa è dato dalla diversa concezione dell’amore nei libretti mozartiani Così fan tutte (cf. Da Ponte, 1790) e Don Giovanni (cf. idem, 1787), può essere studiata come contrasto di intenzionalità macrotestuale. In Così fan tutte, dove la macro situazione è amorosa e ludica, si registra un’elevata presenza di forme diminutive; mentre nel Don Giovanni, dove l’amore è raramente giocoso e anzi drammaticamen- te concepito, i diminutivi sono molto meno numerosi. Con la contrapposizione dei due libretti di Lorenzo Da Ponte (1749– 1838) abbiamo già oltrepassato la dimensione statica della situazionalità e siamo entrati, almeno parzialmente, nella dimensione dinamica dell’atto lin- guistico macrotestuale. In effetti questa contrapposizione riflette la prospetti- va dell’autore, che si manifesta nell’atto illocutorio. Tentiamo ora di distinguere le due dimensioni nell’opera di uno stesso autore, P.P. Pasolini (1922–1975), cominciando dalla dimensione statica. Se gli alterati servono molto bene la rappresentazione fantastica, immagi- nifica, se ne deduce che, ad esempio, il realismo di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959) come cornice macrosituazionale di genere si con- cilii difficilmente con il significato pragmatico [fittizio] dei diminutivi. Am- mettiamo pure che tale deduzione possa lasciare perplessi, specie se si ritie- ne, come Ihwe (1972, 232)3, che il mondo rappresentato nell’opera letteraria, per quanto aderente alla realtà, rimanga pur sempre fittizio per la natura stes- sa della creazione letteraria.4 Ma se invece si ritiene che sia giusto tener con- to dell’intenzionalità del produttore del testo, (come fa van Dijk (1972, 336) quando afferma che i romanzi realisti “are both intended and interpreted to have empirical reference”), allora è possibile ammettere che una volontà do- cumentaria, qual è quella sottesa ai due romanzi analizzati, minimizzi gli e- lementi fittizi e massimizzi quelli realistici. Per chiarire il significato di realismo nei romanzi analizzati, è utile ripor- tare quanto afferma lo stesso Pasolini: “[...] io credo soltanto nel romanzo ————— 3 Cf. anche Fludernik 1996, 35–38. 4 Del resto, lo stesso Pasolini afferma in un’intervista del 1959, lo stesso anno di Una vita violenta: “...bisogna, certo, lasciar parlare, fisicamente, immediatamente, le cose: ma per ‘lasciar parlare le cose’, occorre ‘essere scrittori, e anche perfino vistosamente scrittori’.” (Pasolini 1999, 2744).

56 ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’ […] ‘destini e vi- cende puramente individuali e fuori dal tempo storico’ per me non esistono: che marxista sarei?” (op.cit. nota 3, p. 2745). Il socialismo che anima la sua produzione letteraria diventa un “metodo di conoscenza”, l’unico “che consenta di porsi in un rapporto oggettivo e ra- zionale col mondo” (ivi, p. 2743). Tradotta in programma stilistico-narrativo, l’oggettività di Pasolini consiste nel “far parlare le cose”, consiste cioè in “violenta e assoluta mimesi ambientale” (ivi, p. 2742). Nell’ambito della morfologia alterativa, l’operazione mimetica si attua nella minimizzazione del tratto [fittizio] mediante l’uso denotativo dei dimi- nutivi; uso che però, reiterato, produce l’effetto pragmatico secondario di de- solazione e miseria. Tale effetto serve a ottenere il superscopo di denuncia sociale. Da Ragazzi di vita (RV): [3] “Genesio se ne stava zitto, dando le ultime tirate alla cicca ridotta alla sola brace, e prendendo a calci i ciottoli di via Selmi, affondata tra orticelli stri- minziti, casucce lasciate a metà e eserciti di bucati.” (p. 163). [4] [Il Lenzetta e il Riccetto] “Entravano dietro quattro cespugli scheletriti lungo l’Appia Nuova, salivano su per la scesa incrostata di due spanne di polvere, e tra cave e caverne, crinali, praticelli bruciati, burroncelli, mozziconi di torri e carraie si spingevano dentro la sconfinata e accidentata promessa ch’era l’Acqua Santa.” (p. 100). E inoltre: stradine (p. 8), cortiletto (p. 10), alberelli (pp. 16, 17, 107, 143), spiaggetta (p. 20), osteriuccia (p. 34), porticina (p. 48), seggioletta (p. 48), ponticello (p. 64), loggetta (p. 92), alberello (p. 93), praticelli (pp. 93, 99, 143), caffeuccio illuminato (p. 93), muriccioli (pp. 94, 108), tranvetto (p. 97, 147), cinemetto (p. 97), stanzetta (p. 104), scalette (p. 104), finestrine (p. 107), villaggetto (p. 113), fabbrichetta (p. 113), marciapiedino (p. 116), por- ticella (p. 123), orticelli (p. 130), villaggetti (p. 130), stanzuccia (p. 138), al- beretti (p. 144), tranvetti (p. 146), campicelli (p. 146), bottegucce (p. 184), cinemetti (p. 184), raduretta (p. 199), finestrelle (pp. 205, 210), finestruccia (p. 206). Da Una vita violenta (VV): [5] “... chi bussava alle porte delle altre casette, contro il prato, chi portava via dei giovanotti, e pure delle donne. Alcuni attizzavano i cani su per il prato, se qualcuno s’era dato da qualche finestrella di dietro, altri facevano luce tutt’intorno coi lanternini accesi. I cani abbaiavano a rotta di collo, e le donne strillavano dentro le case, sotto le tettoiette.” (p. 126). [6] “Gli altri, fuori, ricominciarono a tartassare la porticella. Coi piedi a terra, reggendo le scarpe in mano, il Zimmìo andò ad aprire, e siccome per tutta la

57 cucinetta, dall’altra parte della tenda, c’era la stesa dei panni lavati, ciecato com’era, andò a sbattere contro il treppiede con la concolina, pieno d’acqua zozza, facendolo andare per terra.” (p. 125). E inoltre: alberuccio (p. 13), stanzette (p. 13), orticelli (p. 25), porticina (p. 26), paretina (p. 26), credenzina (p. 26), stanzetta (pp. 26, 125), auletta (p. 30), finestrelle (p. 36), cortiletto (pp. 36, 122), cortiletti (pp. 37, 128), albe- retto (p. 37), orticelli (pp. 65, 278), baretto (pp. 70, 128, 164), saletta (p. 73), cinemetto (p. 97), grattacieletto (p. 109), lettino (p. 122), lavandinetto (p. 123), tettuccio (p. 125), alberucci (p. 170), ponticello (p. 188), paretine (p. 185), alberelli (p. 279), oleandretti (p. 323), fabbrichetta (p. 323), albe- rello (p. 343). Anche gli accrescitivi, benché usati denotativamente per esprimere gran- dezza dimensionale, creano quasi sempre un effetto secondario di sordidezza e squallore, effetto specialmente potenziato dalla vicinanza contrastante di un diminutivo: [7] “Quando ch’ebbero lasciato alle spalle, passo passo, Porta Furba e si furono bene internati in mezzo a una Shangai di orticelli, strade, reti metalliche, vil- laggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane, e quasi erano arrivati alla Borgata degli Angeli...” (RV, 130). [8] “... avevano costruito tre quattro palazzoni nuovi, scuri e grandi, come monti, pieni pieni di finestrelle, con tanti cortiletti, ingressi e scale.” (VV, 276). Nel caso in cui la forma alterata diminutiva abbia acquisito una connotazione positiva stabile inconciliabile col generale effetto negativo voluto, il suffisso diminutivo viene rimpiazzato da un peggiorativo: “Tommasino si rotolò sull’erbaccia soffocandosi dal ridere.” (VV, 19) (anziché “sull’erbetta”); e “Il Riccetto se ne stava ignudo, lungo sull’erbaccia, con le mani sotto la nuca guardando in aria.” (RV, 14). Altri casi di elementi della natura modificati da peggiorativo sono: frattacce (RV, 328, 218; VV, 19); cannacce (RV, 127); fogliacce (VV, 222). Se ne ricava il senso di un’ambiente, di una natura in- fernale, rovesciamento di quella gentile e soave cantata dagli àrcadi.

4. Dimensione dinamica Ora passiamo decisamente alla dimensione dinamica, dove l’atto illocutorio può essere modificato da fattori regolativi come la simpatia e l’empatia, che costituiscono una frequente realizzazione del valore pragmatico [non-serio] dei diminutivi (cf. Dressler/Merlini Barbaresi 1994, 206–213). Nei due ro- manzi pasoliniani la simpatia e, in misura minore, l’empatia, rappresentano le

58 uniche realizzazioni pragmatiche macrotestuali del significato [non-serio] dei diminutivi. La simpatia della voce narrante si esprime abbastanza spesso mediante l’uso di diminutivi in riferimento agli animali. Quest’uso è naturalmente tutto diverso da quello individuato nella letteratura pastorale, dove i diminutivi so- no semplici elementi di genere nella visione della natura. Ecco qualche e- sempio: [9] “S’erano accucciati intorno a Zambuia, tenendosi ognuno tra le ginocchia un cuccioletto, mentre Zambuia seguiva tutte le loro mosse con occhio esperto. [...] L’esaminato stiracchiava un po’ la pelle, dava un piccolo guaito, e poi saltellava con le sue gambette storte intorno alle ginocchia nude del ragazzi- no;” (RV, 49). In [10], dove un cagnolino rognoso viene portato via dall’accalappiacani, la simpatia è veicolata soprattutto dall’accrescitivo occhioni: [10] “Il cane, vedendo tutta quella gente che stava ad attenderlo all’uscita, e tutti quegli occhi puntati su di lui, ebbe come un momento d’incertezza. S’impuntò, guardandosi attorno con una zampetta alzata. […] si continuava a guardare intorno, e anzi, puntava addirittura gli occhi sulla gente che lo stava ad aspettare: ma si vedeva che provava vergogna, con quegli occhioni neri che, tra il pelame, gli luccicavano, osservando qua e là.” (VV, 89–90). Sempre in Pasolini, più che verso gli animali, la simpatia si manifesta in for- ma più o meno velata nei confronti delle dramatis personae. In Ragazzi di vi- ta c’è simpatia, o meglio, velata compassione verso una ragazzina che, tor- mentata dalla madre per essere stata sedotta e abbandonata, reagisce così: [11] “M’ammazzo, m’ammazzo” stava a gridare [...] stringendosi la testa tra le braccine magre e nude...” (RV, 215). Piena di compassione è la scena dell’annegamento di un ragazzino nel tenta- tivo di attraversare l’Aniene: [12] “... Genesio, in mezzo al fiume, che non cessava di muovere le braccine svel- to svelto nuotando a cane, senza venire avanti di un centimetro. [...] Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino [...]; finalmente, quand’era già quasi vicino al ponte [...] andò sotto per l’ultima volta, senza un grido, e si vide solo ancora per un poco affiorare la sua testina nera.” (RV, 240). Invece, tranne che il seguente esempio “Il Riccetto, svegliato, poverello, da chissà che sogni – forse di mangiare a un ristorante o di dormire su un letto – s’alzò stropicciandosi gli occhi...” (p. 149), non abbiamo rilevato nella nostra analisi altri diminutivi esprimenti un particolare atteggiamento simpatetico o

59 viceversa ostile della voce narrante nei confronti del personaggio principale. Perciò l’osservazione di Antonio Vitti (1987, 49–50) sulla “morte morale del Riccetto” ricalcata sul piano morfologico dall’abbandono del diminutivo per descriverlo risulta infondata. In Una vita violenta la simpatia della voce narrante per il protagonista è spesso realizzata con l’ipocoristico Tommasino, o con diminutivi ad esso ri- feriti come, faccina (p. 12), pancetta (p. 15) e faccetta (p. 15), boccuccia e dentini (p. 24). In generale, in questo romanzo le istanze simpatetiche sono più manifeste che nell’altro, specie verso l’infanzia (cf. Asor Rosa 1979, 422). Di tali istanze si fanno ancora carico i diminutivi. Ecco per esempio un momento di violenza subita da un bambino ad opera di Tommaso per averlo offeso: [13] “[Tommaso] gli diede uno spintone che lo mandò giù, e come fu per terra, col corpicino lungo sul fango e le gambette per aria, gli s’accostò e gli lasciò andare due o tre pedate alle costole.” (VV, 25). In [14] un fratellino di Tommaso [14] “si mise a guardarlo dal basso all’alto, restando lì affissato, con la faccina gonfia dove il moccio, scolando, aveva lavorato la zella in tante macchie, sfumate al centro, nere alle cimose. Gli occhietti celesti quasi bianchi pare- vano quelli d’un cecato, sotto i riccioletti essi pure inguacchiati di polvere e moccio.” (VV, 27). Riflesso della simpatia che circonda tre fratellini, l’empatia del narratore ver- so il loro cane affiora nelle pagine finali di Ragazzi di vita:

[15] “Seduto accanto, c’era il loro cagnoletto,5 di nome Fido, anche lui in un mo- mento di riposo.” (RV, 218). [16] “Genesio [uno dei fratelli]... si prese il cane... e se lo mise tra le ginocchia al- lisciandolo. ... Il cagnoletto sul suo grembo si stava quasi ad appennicare...” (RV, 219). Imparentato con l’uso simpatetico ed empatetico, è l’uso degli alterativi per indicare stati emotivi. Nel Pasticciaccio di Gadda, il commissario Ingravallo raccoglie la testimonianza della signora Menegazzi, vittima di un’aggressio- ne a domicilio e furto di preziosi. Due sono i resoconti, entrambi riportati nel ————— 5 Che l’animale non sia di piccola taglia (che cioè il diminutivo non sia semplice- mente denotativo) risulta chiaro da “[Fido] si guardava intorno, ... e sfiorando o- gni tanto con un’occhiata placida i suoi tre padroncini che, appetto a lui, erano proprio dei pischelletti, ...” (RV, 219). Tra l’altro, nella citazione è da osservare la funzione empatetica di padroncini.

60 discorso indiretto libero con intarsi di dialogato. Nel primo, la testimone − ancora sull’onda dell’emozione − usa un peggiorativo, avente una forte cari- ca valutativa: [17] “Quello [il ladro], neanche un baleno, aveva già involtato il cofano dentro una sorta di suo fazzolettaccio sudicio, o forse un cencio, fu fu fu, con la feb- bre alle dita [...]” (p. 21). Nel secondo resoconto, “esausta” per lo sforzo mnemonico di ricordare i par- ticolari utilissimi per le indagini, il fazzolettaccio diventa meno emotivamen- te, e dunque con mutato atteggiamento del parlante, fazzolettone: [18] “Talché finì, esausta, col confermargli che il toso, già, sì, quel malvivente, aveva levato la pistola di tasca o di dove ce l’aveva, sì, proprio lì, davanti al comò poi quel fazzolettone sporco, o un cencio da meccanico, forse, da invol- tare la scatola di pelle... delle gioie, quando l’aveva tolta fuori dal cassetto.” (p. 27). Il cambiamento di atteggiamento, questa volta del narratore, è molto chiaro in un brano tratto da un racconto di Thomas Mann (1875–1955), il cui stile nar- rativo è spesso indicato come ironico (cf. Baumgart 1964, Muecke 1970). A questo stile si confanno particolarmente i diminutivi, che agiscono da segna- latori di ironia leggera e spesso giocosa, specie nel passaggio dalla prospetti- va esterna del narratore a quella interna dei personaggi (cf. Stanzel 1991, 70s.). L’elemento giocoso diventa esplicito nel racconto Das Wunderkind (1914, “Il bambino prodigio”): [19] “Es trägt ein weißseidenes Jäck-chen von phantastischem Schnitt. Aber ge- gen die weißseidenen Hös-chen stechen scharf die bloßen Bein-chen ab, die ganz braun sind; denn es ist ein Griechenknabe. Er hat das harmloseste Kin- dergesicht-chen von der Welt, ein unfertiges Näs-chen. Das Wunderkind setzt sich auf den Drehsessel und angelt mit seinen Bein-chen nach den Peda- len und hebt die rechte Hand. Es ist ein bräunlich naives Kinderhänd-chen.” In questo racconto tutti i diminutivi sono concentrati nel passaggio iniziale qui riportato. Nel resto della narrazione le stesse parti del corpo e gli stessi indumenti del bambino non ricevono suffissazione diminutiva. Poiché il bambino non è cresciuto, ciò che è cambiato è l’atteggiamento del narratore, che ora racconta della incredibile bravura del bambino prodigio e del suo grande successo. Questo cambiamento è già anticipato in “Hand”, dove la mano prodigiosa che sta per cominciare a suonare è nella forma base, in con- trasto con gli altri diminutivi (cf. Lämmert 1970 sull’immagine del giovane artista nell’opera giovanile di T. Mann).

61 Un altro esempio di ironia testuale si trova nel racconto intitolato “Una buona nutrizione” (1953) di C. E. Gadda (1893–1973). Oggetto di divertente ma pungente ironia del narratore è il lessico di una madre nel quale si espri- me tutto l’atteggiamento iperprotettivo nei confronti della figlia ormai diciot- tenne, un lessico pullulante di forme diminutive come nelle più tipiche situa- zioni pedocentriche: [20] “Il pedagogismo della mamma si esercitava ne’ più amorosi gorgheggi, di fi- nestra a giardino. ‘Luisa!’ ‘Mammina!’ Tutta la gamma, tutta la tavolozza dei diminutivi famigliari: il vestitino, i dolcini, il tortino (di carciofi): il bagno stesso si spiritualizzava in un bagnino. A non registrare le mutandine, i cor- pettini, gli elastichini. Il tè soltanto riusciva a sfuggire alla vezzeggiatura, non poteva raffinarsi in teino: ma lo inseguivano, a cascatelle, cucchiaini e biscottini.” (p. 180). La portata testuale dell’ironia del passaggio si coglie pienamente quando ap- pare chiara la responsabilità di questo eccesso di attenta vigilanza materna, che impedisce alla figlia di vivere una storia d’amore. Osservando le forme diminutive della sequenza, si nota facilmente che i lessemi più diminutivizza- ti sono quelli afferenti alla sfera alimentare,6 oltre che a quella dell’abbiglia- mento. Preannunciato dal titolo, il cibo è appunto l’ipertema del testo, e nella vicenda diventa lo strumento di controllo materno attraverso cui si perpetra la distruzione del legame tra la figlia (Lisa) e il giovane che ha preso a frequen- tarne l’abitazione. “Gli amabili per quanto interminabili tè della signora Gemma” (la mam- ma) e spesso le cene, non fanno che sottrarre intimità ai due giovani. In que- ste sequenze quasi rituali, l’ironia che investe il lessico culinario, sempre di- minutivizzato, si amplifica grazie al gustoso contrappunto tra cibo miniatu- rizzato e mole gigantesca dell’ospite. [21] L’ora del tè. “[Il giovane] si conformava di buon grado a tutte le esortazioni [...] della signora Gemma e della Lisa a gara perché prendesse un dolcino, un petit-four, un altro, una prima, una seconda tazza di tè, ‘con più zucchero, con una fettina di limone, con un pochino di latte’. [...] I petit-fours e i dolci- ni disparivano, si dissolvevano in lui, come un corbello di mele fradicie, l’una via l’altra, nell’essenza ampia e grigiastra dell’elefante, allo Zoo.” (p. 181). [22] La cena. “Maciullava [il giovane] senza misericordia quanto gli veniva fatto introdurre [...] Certi medaglioncini di filetto, come vengono denominati nelle liste. [...]. Il medaglioncino, in un battibaleno, si era bell’e sottratto agli ————— 6 I diminutiva culinaria di Staverman 1953. Vedi anche Klimaszewska 1983.

62 sguardi delle tre oblatrici; e tutte le patatine secolui. Saldamente tenuto da due diti, un pezzettin di pane faceva il gir del piatto: come diligente ramazza, nelle mani di uno spazzino, che recuperi insino all’ultimo frùstolo.” (pp. 184–185). In questo esempio testuale perciò i diminutivi,7 focalizzando l’ironia sul tema alimentare introdotto dal titolo, sono strumenti di richiamo anaforico (dunque coesivo) e stabiliscono coerenza con l’ipertema del testo. Alla funzione di espressione degli stati interiori dell’alterato può talvolta essere associata la funzione focalizzatrice: l’alterato può servire, cioè, anche a segnalare lo spostamento del punto di vista, esterno (narratore) vs. interno (personaggio).8 Una vita violenta ci regala il seguente esempio al centro del quale è un particolare fisico del personaggio di Irene, la ragazza di Tommaso. Al primo incontro con Tommaso Irene è così descritta: [23] “…una bassetta, ma grossa, robusta, quasi come un maschio, coi capelli ar- ricciati dalla permanente, che le stavano alti e come intostati tutt’intorno la faccia rossa e quadra.” (p. 91). Al momento di congedarsi, Irene: [24] “... allungò un po’ impacciata la mano grossa e rossa.” (p. 96). dove i due aggettivi “grossa” e “rossa” riprendono e sintetizzano la descrizio- ne di poco prima in prospettiva esterna, sebbene vicina, ai personaggi. Per il primo appuntamento, Tommaso ha invitato Irene al cinema. Qui ha luogo un tentativo di approccio sessuale, durante il quale Tommaso: [25] “…cercò una mano d’Irene e la strinse nella sua. Lei aveva una mano che pa- reva quella d’un uomo, ma era arrapante uguale…” (p. 101).

————— 7 La presenza delle forme lessicalizzate tortino e cucchiaini [20] e fettina [21] non affievolisce la forza dello scopo illocutorio dei due passaggi, né tantomeno può attribuirsi alla disattenzione o ignoranza di uno scrittore noto per l’estrema consa- pevolezza linguistica e la cura maniacale dello scrivere. Prima ancora delle scelte espressive del personaggio, l’ironia vuole colpire l’atteggiamento che le motiva: una sorta di furia vezzeggiativa che applica la regola diminutiva -ino (e nessun al- tra) appena può. In questo contesto perciò, anche per l’inevitabile effetto di collo- cazione con le forme trasparenti che agisce su quelle lessicalizzate rivitalizzando- le, la distinzione lessicalizzato/trasparente viene a ridursi. 8 Come in parte illustrato in [19]. Sul concetto di focalizzazione oltre a Genette 1972, 1991 e Stanzel 1991, 70 s. vedi Fludernik 1996, 27–28, 178–221.

63 La prospettiva è adesso quella di Tommaso. La similitudine infatti esprime la sensazione tattile del personaggio, e dal punto di vista coesivo richiama “ma- no grossa” in [24] e “come un maschio” in [23]. Ma ammettiamo pure che il cambiamento di prospettiva non sia proprio chiaro: si potrebbe ancora tratta- re della voce esterna sovrapposta al punto di vista di Tommaso. Nella fase seguente però la presenza dell’alterato non lascia dubbi. Dopo questa stretta di mano, Tommaso, che pretende qualcosa di più da colei che ha accettato il suo invito, cerca di avvicinare a sé la mano di Irene, che invece oppone resi- stenza e cerca di “svincolare la mano” (p. 103). A un certo punto di questo ti- ra e molla, Tommaso, furibondo: [26] “La strinse ancora più forte, da farle scrocchiare l’ossa di quella manaccia che c’aveva. Irene fece una smorfia di dolore e la smise di tirare.” (p. 104). Il peggiorativo indica inequivocabilmente il punto di vista interno al perso- naggio, esprimendone lo stato d’animo. In più, nella sua complessità denota- tivo-pragmatica (-accio è anche accrescitivo), l’alterato opera una sintesi co- esiva dei precedenti “mano grossa e rossa” e “mano che pareva quella di un uomo”. Può inoltre accadere che il percorso della macrostruttura testuale in dire- zione drammatica blocchi l’uso pragmatico dei diminutivi. Ciò si verifica nel primo capitolo di Ragazzi di vita quando il Riccetto bambino si butta nel fiume per salvare una rondine che sta annegando. I diminutivi rondinelle e rondinella nella scena preparatoria all’azione del Riccetto sono simpatetici : [27] “Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti ch’era proprio una rondinella che stava affogando” (pp. 27–28). Il Riccetto è tutto intento ad osservare l’animale e sta per compiere il suo ge- sto eroico: da questo punto in poi, per tutta la durata dell’azione di salvatag- gio, la rondinella sarà rondine (cinque volte). La sospensione del diminutivo serve a segnalare il volgere della scena in direzione drammatica e lo sposta- mento del fuoco narrativo dalla rondine al Riccetto. Il diminutivo simpatetico rondinella avrebbe fuorviato l’attenzione dalla linea principale dell’azione drammatica, compromettendone la tensione e la qualità eroica. Questo dato è tanto più importante se confrontato con la scena finale del romanzo, dove in- vece il Riccetto, già quasi giovanotto, non muove un dito per salvare un ra- gazzino che sta annegando [12]. Stavolta il fuoco dell’azione drammatica è sul bambino, e non v’è alcun eroismo da esprimere: i diminutivi braccine e testina compaiono proprio in riferimento alla vittima.

64 Oltre che in presenza di drammaticità, il blocco dei diminutivi si ha pure quando un personaggio maschile si trova a interpretare un ruolo “adulto”, vi- rile. Così accade ad esempio che Tommaso di Una vita violenta sia nelle par- ti narrate indifferentemente Tommaso o Tommasino, ma per tutta la durata della sua prima uscita con Irene è sempre Tommaso.9 In questo caso l’effetto di simpatia o tenerezza creato dall’ipocoristico avrebbe sminuito la virilità che il personaggio è chiamato ad esprimere. Abbiamo già visto infatti quali effetti i diminutivi possano creare in una situazione amorosa con la poesia di Zappi, i cui sonetti furono definiti dal caustico Giuseppe Baretti nel 1763 “smascolinati” e “mollemente femminili”.10 Quando invece il personaggio non è emotivamente coinvolto nell’approc- cio sessuale, né tantomeno è in gioco la sua virilità, e non v’è dunque perico- lo di un’interferenza di effetti pragmatici con l’effetto di simpatia proprio dell’uso ipocoristico, la forma ipocoristica Tommasino compare accanto a Tommaso. È il caso della sequenza, di nuovo all’interno di un cinema, della prostituzione di Tommaso con un omosessuale, al quale immediatamente do- po Tommaso estorce denaro con la minaccia di un coltello. Nella fattispecie l’ipocoristico sembrerebbe svolgere un’ulteriore funzione in rapporto alla tensione drammatica, funzione che non può essere spiegata senza la premessa seguente. La concentrazione dell’ipocoristico Tommasino è particolarmente elevata nel primo capitolo del romanzo (26 pp.), dedicato ad alcuni episodi dell’infanzia del protagonista (dunque situazionalmente pedocentrico): la proporzione è di 75 volte contro le 36 di Tommaso. Già nel secondo capitolo (49 pp.), con Tommaso adolescente, l’ipocoristico Tommasino occorre solo 21 volte (contro le 69 di Tommaso) e la sua frequenza diminuisce ulterior- mente nei capitoli successivi, sebbene non scompaia mai del tutto. Ci sembra allora che l’alta densità d’uso dell’ipocoristico Tommasino nel- le pagine “infantili” del romanzo, non possa essere circostanza testuale priva di conseguenze sugli effetti pragmatici dei suoi usi successivi. Tornando alla scena in questione (siamo nell’ultimo capitolo), l’ipocoristico richiama la

————— 9 L’ipocoristico Tommasino è prerogativa esclusiva del narratore. Nell’interazione dialogica le dramatis personae si rivolgono a Tommaso con l’apocope “Tomà”; con il cognome (apocopato e non) “Puzzì” e “Puzzilli”; o con i soprannomi “Pie- dizzozzi” e “Spia”. 10 Riportiamo uno stralcio del giudizio distruttivo di Baretti (1719–1789), critico e letterato antiarcadico: “il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi [...] il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose [...]. Oh cari que’ suoi smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminili, tutti pieni d’amorini!”. La citazione è tratta da Baldi et al. 1995, 297.

65 dimensione fanciullesca del personaggio, e immette nella situazione dramma- tica principale il valore [non-serio] proprio della situazione pedocentrica. Il valore [non-serio] crea così una certa distanza tra il personaggio e la situa- zione drammatica principale. Tale distanza solleva parzialmente il personag- gio dalla responsabilità di un atto che è sì moralmente riprovevole, ma detta- to da pura necessità, ed ha inoltre l’effetto di alleggerire la tensione dramma- tica della scena (tensione che in generale blocca l’uso degli alterati).

5. Conclusione Servendoci dell’approccio morfopragmatico, abbiamo dimostrato come gli alterativi possano contribuire alla costruzione della pragmatica testuale sia nella dimensione statica della situazionalità macrostrutturale che nella dimen- sione dinamica del “macro speech-act”. Un’osservazione teorica emersa da questo studio ci pare soprattutto im- portante, e riguarda la fondamentale differenza tra la prospettiva microstrut- turale e macrostrutturale nell’uso degli alterativi. Tale differenza non pertiene tanto alla dimensione statica della situazione, quanto piuttosto alla dimensio- ne dinamica dell’illocuzione e perlocuzione. Nel loro studio, Dressler/Merlini Barbaresi avevano individuato fattori costitutivi e regolativi dell’uso alterativo nei singoli enunciati. Sono fattori costitutivi il valore pragmatico [non-serio] e i suoi allopragmi quali il caratte- re ludico, l’ironia, l’eufemismo, l’understatement; sono invece fattori regola- tivi l’emozione, la famigliarità tra gli interlocutori, la simpatia e l’empatia. Confrontando gli usi macrotestuali degli alterativi con gli usi microtestuali altrove analizzati, ci siamo accorti che lo scarto è minimo dal punto di vista della dimensione statica situazionale, ma non da quello della dimensione di- namica illocutoria e perlocutoria. Sul piano macrotestuale infatti, ben pochi sono stati gli allopragmi dinamici riscontrati. Questa differenza si spiega col fatto che la dimensione statica situazionale è estendibile, cosicché la situa- zione macrotestuale può costituire l’amplificazione di una situazione micro- testuale; mentre è impensabile che un macro speech-act, con la sua comples- sità, possa costituire la versione magnificata di un singolo enunciato.

6. Bibliografia Asor Rosa, Alberto, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Roma, 1965 [19798], (nuova edizione: Torino, 1988, con un altro sottotitolo: Il populismo nella letteratura italiana contemporanea). Baldi, Guido et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. II, Torino, 1995.

66 Baumgart, Reinhard, Das Ironische und die Ironie in den Werken Thomas Manns, München, 1964. Biscetti, Stefania, Due sistemi morfologici a confronto. Il caso degli alterativi gad- diani nella traduzione inglese. Tesi di laurea discussa alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Pisa, A.A. 1997–98. Canzonieri di Alessandro Guidi e de’ due Zappi, Venezia, 1789. Da Ponte, Lorenzo, “Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni. Dramma giocoso in due atti”, in: Memorie. Libretti mozartiani, Milano, 1787 [19955]. ———, “Così fan tutte, ossia La scuola degli amanti. Dramma giocoso in due atti”, in: Memorie. Libretti mozartiani, Milano, 1790 [19955]. Dijk, Teun A. van, Some Aspects of Text Grammars, The Hague, Paris, 1972. ———, Text and context, London, 1977. Dressler, W.U./Merlini Barbaresi, L., Morphopragmatics. Diminutives and Intensifi- ers in Italian. German and Other Languages, Berlin/New York, 1994. Fludernik, Monika, Towards a Natural Narratology, London, 1996. Gadda, Carlo Emilio, Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, 1957 [199510]. ———, Accoppiamenti giudiziosi, Milano, 1963 [19952]. Génette, Gérard, Discours du récit. Figures III, Paris, 1972. ———, Fiction et diction, Paris, 1991. Ihwe, J., Linguistik in der Literaturwissenschaft. Zur Entwicklung einer modernen Theorie der Literaturwissenschaft, München, 1972. Klimaszewska, Zofia, Diminutive und augmentative Ausdrücksmöglichkeiten des Nie- derländischen, Deutschen und Polnischen: eine konfrontative Darstellung. Wroc- ław, 1983. Lämmert, E., “Doppelte Optik über die Erzählkunst des frühen Thomas Mann”, in: Rüdinger, K. (ed.), Literatur-Sprache-Gesellschaft, München, 1970, 50–72. Muecke, D.C., Irony, London, 1970. Pasolini, Pier Paolo, Ragazzi di vita, Milano, 1955 [199912]. [= RV]. ———, Una vita violenta, Milano, 1959 [199910]. [= VV]. ———, “9 domande sul romanzo”, in: Nuovi Argomenti 38–39 (1959); ora in: Siti, W./Laude, S. de (edd.), Saggi sulla letteratura e sull’arte, 2 voll., Milano, 1999, 2740–2745. RV = Pasolini 1955. Schmidt, Siegfried J., “Towards a pragmatic interpretation of ‘fictionality’”, in: Dijk, Teun A. van (ed.), Pragmatics of Language and Literature, Amsterdam, 1976, 161–178. Stanzel, Franz Karl, Theorie des Erzählens, Göttingen, 1979. Staverman, W.H., “Diminutivitis Neerlandica” [Eccesso di diminutivi olandesi], in: De Gids 116/7 (1953), 407–419. Viehweger, Dieter, “Illokutionswissen und Textinterpretation”, in: Schildt, Joa- chim/Viehweger, Dieter (edd.), Proceedings of the XIVth International Congress of Linguists, Berlin, 1990, 199–207.

67 Vitti, Antonio, Il primo Pasolini e la sua narrativa, New York, 1987. VV = Pasolini 1959.

68 Italiano e dialetti nelle tradizioni teatrali regionali tra fine ‘800 ed inizio ‘900 Donato Cerbasi

1. Introduzione Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento vi fu, nell’Ita- lia da poco unificata, una fioritura di opere teatrali dialettali un po’ in tutta la penisola, fioritura che fu poi fortemente osteggiata dal fascismo e dalla sua politica culturale avversa ai dialetti ed alle culture regionali. I testi teatrali dialettali prodotti durante quell’interessante fase politica e sociale spesso non sono scritti integralmente in dialetto, ma presentano una coesistenza ed una fruttuosa interazione tra italiano e dialetto, con fenomeni di code mixing e di code switching che attirano l’attenzione del linguista per vari aspetti. In que- sta sede presentiamo alcuni risultati di una ricerca che finora è stata incentra- ta sull’analisi di testi di quattro tradizioni regionali, vale a dire quella pie- montese, quella ligure, quella campana e quella siciliana.

2. La coesistenza di italiano e dialetto come risorsa per il testo In primo luogo, si può rilevare che il fatto stesso che molti autori in quell’epoca abbiano scelto l’utilizzo combinato dell’italiano e di un dialetto implica che essi consideravano la disponibilità di due codici linguistici diver- si come una risorsa sfruttabile in vari modi. Uno di tali modi consiste nell’ampliamento dei mezzi utilizzabili ai fini della coesione sintattica e della coerenza semantica del testo. Infatti, in opere teatrali sia settentrionali che meridionali la disponibilità di parole dialettali fruibili in alternativa a quelle italiane favorisce non solo la varietà lessicale, ma anche i vari processi che consentono la “tessitura” del testo come tale. Considereremo alcuni esempi di tali fenomeni, in ordine crescente di complessità. Nelle commedie del geno- vese Gilberto Govi, ad esempio, sovente una forma italiana è seguita dall’equivalente dialettale e viceversa, con ricadute positive non solo per la comprensibilità del testo da parte di lettori non liguri, bensì anche per la struttura del testo medesimo, come si può evincere dalle seguenti citazioni,1 ————— 1 Per ogni citazione da testi teatrali nel corso dell’articolo si indicano l’autore e l’incipit del titolo dell’opera da cui è tratta, l’atto, la scena, la pagina dell’edizione utilizzata e, tra parentesi quadre, l’anno di composizione o di prima rappresenta- zione dell’opera stessa. La lista delle edizioni utilizzate per le opere teatrali ana- lizzate è in fondo all’articolo.

69 che traiamo da una commedia scritta originariamente da Nicolò Bacigalupo e rimaneggiata e rappresentata per la prima volta da Govi nel 1914: (1) (all’alzarsi del sipario si sentono due scampanellate) Comba – (di dentro) Vengo… végno… (altra scampanellata) (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto I, scena I, p. 14) [1914] (2) Steva: (…) Bisogna vedere che röba… Ragni, mosche e sinsae… Cosa c’è di zanzare! (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto I, scena I, p. 15) [1914] Nell’esempio (1) si ha una semplice iterazione di una voce verbale, con la forma dialettale che consente di variare rispetto a quella italiana. Nell’esempio (2) “zanzare” riprende “sinsae” e nello stesso tempo lo traduce. La disponibilità di equivalenti dialettali delle parole italiane (e viceversa) co- stituisce una risorsa aggiuntiva rispetto ai sostituenti anaforici ed ai sinonimi per realizzare quella rete di collegamenti e di rimandi che tengono insieme un testo. Si consideri anche il seguente esempio tratto da Santi Savarino: (3) Ninetta: La genti chi vi vidi, chi sà che cosa pensa? Vera: Dici ca siti civette. Ninetta: Sfacciate. Vera: Impertinenti. Ninetta: ‘Ncueta cristiani. (Savarino, Don Gesualdo…, atto I, scena I, p. 165) [1925] Qui l’espressione siciliana “’ncueta cristiani” è una risorsa per arricchire e completare la serie costituita dai precedenti “civette”, “sfacciate” e “imperti- nenti”, termini che insieme configurano un campo semantico, permettendo la coerenza semantica del testo dialogato. Un esempio abbastanza simile lo tro- viamo in una commedia del napoletano Edoardo Scarpetta, dove ad un certo punto una ragazza completa con un termine dialettale una serie di epiteti a- morosi in italiano rivolti al suo innamorato: (4) Lisetta: Zucchero, tesoro, scisciunciello mio, (…) (Scarpetta, Nu Turco…, atto II, scena VIII, p. 190) [1888] Un altro esempio di fenomeno testuale interessante lo traiamo da un’altra o- pera napoletana, vale a dire da “Assunta Spina” di Salvatore Di Giacomo: (5) Donn’Emilia: E tène già n’ati dduie ferimente ncuollo! Federigo: Recidivo? Meglio! (Di Giacomo, Assunta…, atto I, scena VI, p. 123) [1909] Qui la popolana Donn’Emilia, parlando di una causa in corso al tribunale, fa riferimento ad un imputato che ha già dei precedenti (“Ha già altri due feri- menti addosso”, cioè “È già colpevole di altri due ferimenti”) e il vice cancel- liere, Federigo, sintetizza l’espressione in dialetto stretto della donna col ter-

70 mine italiano colto “recidivo”, un tecnicismo del linguaggio giuridico. Il ter- mine italiano, in altre parole, fa da ‘incapsulatore’ che ingloba l’intera frase precedente, favorendo ancora una volta la coesione e la coerenza del testo dialogato.

3. La riflessione sui rapporti tra italiano e dialetto nella vita sociale In questi testi teatrali si può individuare poi un altro piano: quello della ri- flessione metalinguistica da parte degli autori sui rapporti tra italiano e dialet- to nella vita sociale. Tale tipo di riflessione è spesso sottesa al testo e talvolta viene resa esplicita mediante osservazioni nell’ambito delle didascalie o commenti inseriti nelle battute pronunciate dai personaggi. Un contenuto molto interessante di questa riflessione, presente sia nelle opere di origine settentrionale sia in quelle sorte in ambiente meridionale, consiste nella con- sapevolezza del fatto che la competenza linguistica superiore non consiste nella padronanza del solo italiano e nell’ignoranza del dialetto, bensì nella padronanza dell’italiano e del dialetto insieme e delle modalità con cui ser- virsi dell’uno o dell’altro in modo adeguato e flessibile a seconda delle circo- stanze, degli interlocutori e dei fini della comunicazione. Spesso in questi te- sti teatrali vi sono personaggi che risultano ridicoli non perché parlano in dia- letto, bensì perché sono goffi e maldestri nell’uso dell’italiano e non sanno passare agevolmente da un codice all’altro (ciò costituisce una notevole fonte di comicità nelle commedie). Sul versante opposto vi sono i personaggi che hanno una buona competenza attiva e passiva sia dell’italiano che del dialet- to, sono sempre a proprio agio nella comunicazione e talvolta mettono in e- videnza i limiti dei personaggi meno dotati dal punto di vista linguistico. Non si trovano, invece, casi di personaggi che risultino goffi e ridicoli per il fatto di non capire o di non parlare il dialetto, a riprova del fatto che quest’ultimo viene comunque ritenuto meno prestigioso rispetto all’italiano. Ma passiamo a commentare alcuni esempi, cominciando da due tratti da un testo piemontese: (6) Slúbia: Sissignôr! Ch’a gôarda lagiú a l’albero pretorio… Liranda: Bôrich! Albo pretorio as dis. Slúbia: Albo, albero a fa l’istéss – mi del rest i l’eu sempre dit parèi. (Baretti, I fastîdi…, atto I, scena I, p. 22) [1927] (7) Slúbia: (…) Mi sento chiamare… a l’era lo stallone… Sughillo: Lo stalliere? Slúbia: Sì, stalliere, stallone a fa l’istéss… (Baretti, I fastîdi…, atto I, scena VII, p. 36) [1927]

71 Slúbia è un semplice inserviente comunale, il quale in (6) compie un proces- so di paretimologia, sostituendo al termine colto “albo” la parola “albero”, a lui naturalmente molto più familiare, mentre in (7) confonde i significati dei due derivati “stallone” e “stalliere”. Per di più, egli dimostra in entrambe le occasioni di non avere consapevolezza dell’importanza della proprietà di lin- guaggio, concludendo con battute improntate ad un totale pressappochismo. Liranda, invece, è farmacista ed assessore, dunque un personaggio di rango sociale e culturale superiore, che padroneggia sia il dialetto che l’italiano ed è in grado di correggere gli errori di Slúbia, il quale però continua a non com- prendere; Sughillo, da parte sua, parla solo in italiano ma comprende anche il dialetto ed è in grado di esercitare la stessa funzione correttrice di Liranda. Lo stesso Liranda, in altra occasione, ascoltando la moglie del sindaco, fa un commento malevolo sul tentativo della donna di esprimersi in un italiano al- quanto goffo (che viene visto come un maldestro “toscaneggiare”): (8) Madleña: Che a l’abia pazienza, signor Cavaliere, mio marito si sta infilando il fracco, si buta il sottopancia e poi viene subito. Liranda (al conte): La Sîndachëssa a tôscanégia… (Baretti, I fastîdi…, atto I, scena V, p. 33) [1927] Da notare l’uso del dialetto nel commento di Liranda, come a dire che un’espressione schietta in dialetto è preferibile ad un italiano pretenzioso quanto incerto. Qualcosa di simile si riscontra anche in un commento dello stesso personaggio ad un discorso del sindaco del paese (il quale con l’italiano non se la cava molto meglio della moglie): (9) Gandila (alla folla): Ancheui i dôvôma festegé un d’j pì ilustri nostri cônssita- diñ, una gloria dël nostr paijs… Una gloria del nostro paese! … E mi i spero che iv cômpôrtréve côn côla calma, côn côla dignità… Côn côla dignità, il quale… Liranda (fra sé): Sôr Sîndich a s’ambreuia… (Baretti, I fastîdi…, atto I, scena X, pp. 46–47) [1927] D’altra parte, l’uso consapevole del dialetto da parte di chi padroneggia bene anche l’italiano non suscita né ilarità né riprovazione, anzi appare come un tratto di disinvoltura, quasi un lusso, come quello che si concede (sempre nell’opera di Baretti) un ministro in visita al proprio paese natale nel rispon- dere ad un personaggio che gli si rivolge in un italiano piuttosto enfatico: (10) Sughillo (entrando col Ministro): Che buona popolazione! Che cuori eccel- lenti! Che semplicità affettuosa in quella rozzezza di modi. Ministro: Sì, a l’è propri una cosa ch’a consôla ‘l saveisse così béñ vist… (Baretti, I fastîdi…, atto I, scena XIV, p. 84) [1927]

72 Un esempio di uso maldestro dell’italiano (con il ricorso a una paretimolo- gia) lo troviamo poi in ambito siciliano: (11) Don Gesualdo: (…) Vedrai che tua madre sarà contentissima di aver la co- noscenza di una signorina così altolocata, che appartiene alla sua vita mon- tana. Ciccino: Mondana, papà. Don Gesualdo: Scusami, certi paroli non saccio chiddo ca significano. (Savarino, Don Gesualdo…, atto III, scena I, p. 199) [1925] Qui è un uomo di provincia siciliano ad essere corretto dal figlio, il quale stu- dia a Roma e si avvale del suo livello di scolarizzazione più alto. Il teatro sembra così riflettere cambiamenti in corso nella società, in particolare l’emergere di livelli differenziati di padronanza dell’italiano nel passaggio da una generazione all’altra. Vale anche la pena di notare che Don Gesualdo, una volta commessa la gaffe, sembra scoraggiato, in preda ad un disagio psi- cologico, tanto da cessare il suo tentativo di parlare in italiano, ricorrendo al dialetto per esprimere le proprie scuse. Ma, come abbiamo già visto, non sempre è il popolano ad avere difficoltà con l’italiano. Nelle commedie di Govi, ad esempio, si ritrova talora il perso- naggio del piccolo borghese arricchito che ha ambizioni di elevazione sociale che vengono frustrate, tra l’altro, proprio dalla sua inadeguatezza sul piano linguistico, come accade al personaggio Steva nelle seguenti citazioni: (12) Steva: Scì, scì, quella è Carlotta, è mia nessa… mia, sì, resterebbe la figlia di mio fratello Michele, mia… Riccardo: …nipote. Steva: Ecco, sì… voi dite nipote, noi invece in italiano diciamo “nessa” che è lo stesso… (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto II, scena XV, p. 44) [1914] (13) Steva (confuso): No… va ben, l’ho visto… alticcio. Riccardo: Alticcio poi no, mio babbo è astemio. Steva (che non ha capito): E?… Riccardo: È astemio. Steva: Oh bella, io credevo che fosse genovese… (…). (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto II, scena XV, p. 44) [1914] Qui Steva dimostra addirittura di non conoscere termini anche del lessico di base e, su un piano più generale, di non rendersi ben conto nemmeno della distinzione tra italiano e dialetto. In (12) ha problemi con una parola comune come “nipote”, mentre in (13) prima usa “alticcio” impropriamente come al- terato di “alto” (per riferirsi alla statura di una persona), poi interpreta in ma- niera erronea la parola “astemio”. In un’altra occasione si impappina alle pre- se con un termine scientifico:

73 (14) Steva: (…) mi hanno detto che ci sono dei raggi del sole che fanno tanto be- ne… viola… vio… raggi violanti… Giggia: Scì! … i raggi ultravioletti. Steva: Scì, ultraviolanti… (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto I, scena IV, p. 18) [1914] Giggia, la moglie di Steva, cerca inutilmente di correggere il marito, il quale però cade ripetutamente in deformazioni delle parole italiane ed in ridicole etimologie popolari, come in quest’altro esempio: (15) Steva: (…) mi hanno detto che è un…sa…sa… sanatore… Giggia: Senatore, scemmo! (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto II, scena V, p. 35) [1914] Ma il fatto che Giggia padroneggi l’italiano molto meglio del marito non im- pedisce che qualche volta anch’ella incappi in qualche gaffe linguistica, co- me quando si avventura imprudentemente nell’uso di espressioni latine (nell’esempio qui sotto vorrebbe dire “lapsus linguae”): (16) Giggia: (…) oh mi scusino, è stato… come si dice… una lapislingua… (Govi-Bacigalupo, I manezzi…, atto I, scena XIII, p. 25) [1914] Resta, comunque, il fatto interessante che, al nord come al sud, nel teatro sia- no di solito le donne, specialmente in ambiente borghese, ad avvertire il maggior prestigio dell’italiano rispetto al dialetto. Se la Giggia di Govi bac- chetta il marito per i suoi strafalcioni in italiano, nella commedia “Nu Turco napulitano” di Scarpetta il parvenu Pasquale vive il proprio disagio linguisti- co nel dialogo con la figlia Lisetta, la quale ad un certo punto esprime la pro- pria conflittualità col padre negandogli la comunicazione in dialetto (che, mentendo, asserisce di non saper parlare) e costringendolo a restare sul terre- no, per lui infido, dell’italiano: (17) Pasquale: Io voglio sapé che significa sto risponnere accussì alterato. Io so- no padre, e come padre intendo di essere rispettato, capisci? Lisetta: Io vi rispetto, vi stimo, vi voglio bene, so che mi siete padre, ma non avete il diritto di rendermi infelice per tutta la vita! Pasquale: Non parlà italiano che me tuocche li nierve! Lisetta: Il dialetto non lo so parlare. Pasquale (a Michele): Chelli canchere de monache francese, me l’hanno mparata accussì superba! (…) (Scarpetta, Nu Turco…, atto I, scena V, p. 167) [1888] Anche qui, come in (11), sembra giocare un ruolo il passaggio generazionale ed il diverso livello di istruzione dei figli rispetto ai genitori (si veda l’in-

74 dispettita considerazione finale di Pasquale a proposito delle monache che hanno educato la figlia).

4. Riflessioni finali Lo spunto per una riflessione conclusiva ce lo offre un estratto dall’opera di Pirandello “Pensaci, Giacuminu!”: (18) Toti: Pregiatissimo signor Direttore. Prego, prego – stia comodo. Se mi permette un momento… (s’accosta a Lilla e le parla piano, in fretta) Scappa subitu a’ casa… di me’ soggiru… Lilla: Ora? Toti: Ora, subitu, ti dicu. Lilla: E ‘u picciriddu a cu’ ‘u lassu? Toti: ‘U picciriddu è ccu sò matri… Non c’è poi ‘a ‘gna Milla? (volto al Di- rettore) Prego, prego, Direttore, si metta a sedere… (a Lilla) Hai capitu? (Pirandello, Pensaci…, atto II, scena I, p. 52) [1916] L’opera è ambientata in un paesino siciliano e coinvolge personaggi del mon- do della scuola. Toti, un professore locale, ha una competenza linguistica completa e versatile. Egli si serve perfettamente sia dell’italiano sia del dia- letto, alternandoli al momento opportuno a seconda degli interlocutori. Col Direttore, che è personaggio di riguardo e non è siciliano (nel testo viene an- che menzionato come “’u diritturi cuntinentali”, cioè il direttore continentale, venuto dal continente), egli si esprime in un italiano corretto, formale, forbi- to, stilisticamente adeguato alla circostanza, ma è pronto a passare al siciliano stretto quando si deve rivolgere a Lilla, che da parte sua parla solo il dialetto. Egli, dal punto di vista linguistico, è sempre a proprio agio, capace di rego- larsi nel modo giusto con interlocutori anche molto diversi tra loro e di commutare la lingua adoperata in modo rapido, agile, flessibile, senza incorrere mai in errori e gaffes. Egli può essere considerato, nella finzione scenica, la dimostrazione vivente del fatto che non sono tanto i singoli codici verbali in sé ad essere inferiori o superiori, quanto la competenza linguistica complessiva ad essere più o meno ampia e completa. E questo spunto, che abbiamo tratto dal Pirandello di prima dell’avvento del fascismo (dopo egli cambiò le sue posizioni) ci ricorda ancora oggi che la varietà linguistica in tutte le sue forme non va repressa, ma valorizzata; infatti, essa fornisce a ciascun individuo un’intera gamma di strumenti di cui servirsi per tutte le esigenze comunicative che la complessità della vita sociale di volta in volta impone.

75 5. Bibliografia di riferimento Altieri Biagi, Maria Luisa, La lingua in scena, Bologna, 1980. Antonucci, Giovanni, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma, 1988. Bassano, Serena/Montarese, Mauro, (edd.), Il teatro di Govi, Genova, 1995. Cirillo, Teresa, Plurilinguismo in commedia, Napoli, 1992. De Felice, Francesco, Storia del teatro siciliano, Catania, 1984. Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, 1975. Nicastro, Guido, Teatro e società in Sicilia (1860–1918), Roma, 1978. Pullini, Giorgio, Il teatro in Italia, Roma, 1995. Scaglione, Massimo, Storia del teatro piemontese da Giovanni Toselli ai giorni no- stri, Torino, 1998. Viviani, Vittorio, Storia del teatro napoletano, Napoli, 1992.

6. Edizioni utilizzate per le opere teatrali analizzate Baretti, Eraldo, I fastîdi d’un grand om, Torino, 1927. Di Giacomo, Salvatore, “Assunta Spina”, in: idem, Tutto il teatro, Roma, 1991, 107– 146. Govi, Gilberto/Bacigalupo, Nicolò, “I manezzi pe maiâ na figgia”, in: Bassano/Mon- tarese (edd.) 1995, 13–54. Pirandello, Luigi, “Pensaci, Giacuminu!”, in: idem, Tutto il teatro in dialetto (vol. I), Milano, 1993, 25–92. Savarino, Santi, “Don Gesualdo e la ballerina”, in: Mango, Achille (ed.), Teatro sici- liano (vol. II), Palermo, 1961, 162–213. Scarpetta, Eduardo, “Nu Turco Napulitano”, in: idem, Tutto il teatro, Roma, 1992, 159–206.

76 Lingue, spazio, percezione. Problemi teorici e dati empirici Mari D’Agostino

1. Premessa Una ricognizione sistematica del vocabolario teorico delle discipline lingui- stiche, e in particolare di quelle che operano all’interno di una prospettiva va- riazionista, non può che mettere in luce grandi continuità con il pensiero an- tico e nello stesso tempo grandi travasi, momenti in cui più profondo è stato ed è lo scambio con ambiti di ricerca che si muovono in spazi contigui, dall’antropologia, alla sociologia, alla psicologia sociale. Molte nozioni ed unità di analisi utilizzate in ambito variazionista hanno origine in una di que- ste aree e, spesso, hanno oggi pregnanza specifica in più di una (si pensi a termini quali comunità, identità, etnicità, prestigio/stigma, rete sociale). Inol- tre, non difformemente da altri ambiti della ricerca linguistica, uso comune e vocabolario specialistico (o meglio vocabolari specialistici) convivono e si intrecciano, determinando, come più volte si è rilevato, confusioni e impreci- sioni. Un particolare interesse nell’interrogarsi sullo statuto teorico dei propri costrutti si ha quando ci si avventura in territori di ricerca in tutto o in parte nuovi nei quali si intravedono problemi interessanti ma di cui incerti appaio- no ancora metodi, strumenti e la perimetrazione stessa dell’area oggetto di indagine. Uno di questi ambiti scientifici, all’interno del quale si collocano queste pagine, è reperibile oggi sotto le diverse etichette di “dialettologia dei parlanti” (Mattheier 1980), “dialettologia soggettiva/percezionale” (Telmon in stampa), “folk linguistics, folk dialectology, perceptual dialectology” (Pre- ston 1989, 1999) “epilinguistica” (Culioli 1968), termini sicuramente non equivalenti ma che, comunque, designano tutti l’interesse a rendere oggetto di studio il “punto di vista” dei parlanti sulle proprie e altrui produzioni lin- guistiche. L’idea di fondo che anima questo settore di ricerca è, dunque, che ci siano un insieme di immagini e di saperi linguistici, in parte consapevoli e in parte no, che possono essere verbalizzati dai parlanti, e costituire oggetto di riflessione per i linguisti.

2. Le diverse accezioni di “percepire” In queste pagine ci proponiamo di fare emergere il “punto di vista” dei par- lanti siciliani relativamente allo spazio linguistico in cui sono immersi, in particolare ci occuperemo di come essi percepiscono la variazione linguistica

77 dei due codici (italiano e dialetto) che si trovano a convivere sia nel microco- smo della realtà familiare che nel macrocosmo della realtà insulare tutta. Preliminare a questo lavoro che si occuperà, dunque, di sistematizzare, seppure ancora provvisoriamente, una serie di dati empirici, ci sembra neces- sario esplicitare in quale significato utilizziamo qui il verbo percepire, termi- ne di larga circolazione all’interno della “linguistica dei parlanti”, ma poco o nulla presente nei vocabolari specialistici. Data tale assenza, il punto di partenza saranno i due significati principali del termine rinvenibili sotto un qualsiasi lessico della lingua italiana. Alla voce percepire del recente Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (2000) troviamo ad esempio: 1a. “avvertire, distinguere attraverso i sensi”; 2a. “intuire, capire, specialmente in modo vago e impreciso”.

2.1. “Percezione” vs. “consapevolezza” Lasciando per ora da parte il significato 1a. e concentrandoci su 2a. possia- mo elencare una serie di usi del tipo “percepire un pericolo”, “percepire un errore”, “percepire un ostacolo” di contro a “essere consapevoli, coscienti, di un pericolo (un ostacolo, un errore)” rimandando questi ultimi esempi ad una situazione di chiarezza e saldezza cognitiva assente nei primi. Tale distinzione (“percezione” vs. “coscienza, consapevolezza”) è in qualche modo presente anche all’inizio di queste pagine quando per riferirci al “punto di vista dei parlanti” abbiamo adoperato due termini (“immagini” e “saperi”) intuitivamente chiari nel riferirsi l’uno a qualcosa di abbastanza fluido, non strutturato, l’altro a una realtà in qualche modo più consapevole e chiara. Certamente uno dei parametri più immediatamente utilizzabili per ca- ratterizzare la capacità del parlante di riflettere sui problemi della lingua e della comunicazione è quello di pensare a una scalarità nei gradi di consape- volezza e sistematicità, a partire da un’elementare e ingenua capacità di me- tacognizione fino alla riflessione scientifica degli specialisti. Per fare solo un esempio questo schema è utilizzato, fra gli altri, in Techtmeier (1989, 138) che individua un continuum ai cui estremi possiamo collocare da una parte la coscienza ingenua, l’intuizione linguistica (Sprachgefühl) e dall’altra la co- scienza degli specialisti (wissenschaftliches Bewusstsein/Expertenbewusst- sein) sulla base del parametro –/+ “riflessione sistematica”. Pur all’interno di un pensiero assai più ricco e complesso, in tale direzio- ne (o almeno anche in questa direzione) va il pensiero di Benvenuto Terraci- ni nel suo distinguere fra sentimento linguistico e coscienza linguistica defi- nendo il primo come il “sentimento intuitivo che i parlanti hanno della pro-

78 pria lingua che, quando è aiutato dalla riflessione, si eleva a coscienza” (1963, 210). Uno degli usi non specialistici del verbo percepire va dunque nel senso di assimilarlo in modo più o meno preciso alla “coscienza ingenua”, “al senti- mento linguistico” vedendo in esso un primo embrione, poco o nulla consa- pevole, della capacità metalinguistica dei parlanti. Da questo punto di vista occuparci della percezione linguistica dei parlanti siciliani altro non significa se non portare alla luce il loro punto di vista di non specialisti in quanto tali che proprio per questo è vago e impreciso, non strutturato e non sistematico.

2.2. “Percezione” e stimoli esterni Il secondo uso di percepire a cui ci siamo riferiti sopra (“avvertire, distingue- re attraverso i sensi”) copre una diversa area semantica, rimandando specifi- camente all’esistenza di un sistema percettivo, un meccanismo di analisi (e di elaborazione) dell’input esterno che ci permette di “avvertire e distinguere” oggetti e realtà. Da questo punto di vista possiamo generalmente intendere con percezione la “classe delle esperienze che non sono meramente immagi- nate, rappresentate o pensate” (Koffka 1922). Occuparci della “percezione linguistica” significherà cercare, dunque, di portare alla luce gli elementi che si riferiscono a una osservazione (più o meno accurata, più o meno consape- vole) di un input in qualche modo circoscrivibile e individuabile. Nella “lin- guistica dei parlanti” non vi è, dunque, solo un problema di grado di accura- tezza di ciò che il parlante riferisce della lingua ma anche di legame, più o meno stretto, con uno stimolo esterno. Si pensi alla differenza, da questo punto di vista, fra domande come que- sta “Lei nota delle differenze tra il siciliano che si parla nel Suo paese/città e il siciliano che si parla nei paesi/città vicini?” e la seguente “Secondo Lei ci sono delle differenze tra il siciliano che si parla nel Suo paese/città e il sici- liano che si parla nei paesi/città vicini?”, dove nella prima si tende a porre in primo piano un dato percettivo (“Lei nota”) mentre nella seconda un elemen- to più legato alle opinioni (“Secondo Lei”). Ovviamente tale distinzione ri- schia di essere in tutto o in parte fuorviante nel momento in cui ci accorgia- mo di come anche le risposte alla prima domanda, possano avere poco o nul- la di “percepito” e molto o tutto di “immaginato, supposto” ma mantiene una sua validità in quanto focalizza l’attenzione su ciò che i nostri informatori ri- feriscono di sapere avendone fatta esperienza diretta (avendolo loro stessi no- tato) rispetto a saperi, immagini, opinioni, in cui tale legame, vero o suppo- sto, con un input esterno non sia in primo piano.

79 Non sembri, per altro, improprio l’avere come continuo punto di riferi- mento una pratica discorsiva (o almeno anche discorsiva) sollecitata e indotta dal ricercatore, prima della quale, e senza la quale, non vi è possibilità di os- servare percezioni, saperi, immagini, opinioni e alla quale vanno quindi ri- condotti continuamente i frammenti attraverso cui emerge la realtà che vo- gliamo indagare. Parliamo quindi di “percezione della variazione linguistica” da parte dei parlanti siciliani in quanto il punto di partenza della loro riflessione (cioè l’interrogativo posto dal ricercatore) si proponeva di dirigere il loro sguardo sulla esperienza di ascoltatore immerso in un flusso linguistico, su una classe di esperienze, quindi, “non meramente immaginate, rappresentate o pensate”.

3. I dati utilizzati I dati che utilizzeremo in queste pagine sono quelli dell’Atlante linguistico della Sicilia (ALS),1 una vasta inchiesta geolinguistica ancora in corso di svolgimento in Sicilia e di cui stanno per essere completate le rilevazioni del- la sezione sociovariazionale. Nella prima parte del questionario sociolingui- stico che viene somministrato a tutti gli informatori, un insieme assai corposo di domande spinge il parlante a volgere l’attenzione su diversi aspetti della realtà linguistica attorno a lui, a partire dall’organizzazione sincronica e dia- cronica del proprio repertorio e di quello della propria famiglia, fino allo spa- zio regionale e alla sua collocazione in esso. In altra sede (cf. D’Agostino et al. in stampa) ci siamo occupati di come il particolare metodo di campionamento prescelto (tre generazioni all’interno di uno stesso nucleo familiare), e la presenza di un set di domande specifica- mente rivolto a fare emergere non solo lo sguardo su di sé, ma anche quello sugli altri membri della famiglia, permetta di individuare pienamente là dove paiono annidarsi maggiormente incoerenze e contraddizioni, là dove i fram- menti che i diversi parlanti ci consegnano del loro e altrui universo linguisti- co sembrano privi di qualsiasi “costanza percettiva”, sia fra i vari membri

————— 1 Dopo una lunga fase di preparazione, e dopo avere sperimentato più modelli di analisi e di raccolta del dato (cf. D’Agostino/Pennisi 2001), le inchieste definitive della sezione variazionale dell’ALS hanno preso avvio nel 1999 e si concluderan- no entro i primi mesi del 2002. Sono previste in totale circa 1.200 interviste effet- tuate nei centri metropolitani (Palermo, Catania e Messina), in tutti gli altri capo- luoghi di Provincia (Trapani, Caltanissetta, Enna, Agrigento, Siracusa e Ragusa), in altri 17 centri “dinamici” e in 26 microreticoli di piccoli centri. Per uno sguar- do d’insieme sul progetto ALS cf. Ruffino 1995.

80 della comunità (cf. D’Agostino in stampa) sia da parte dello stesso soggetto in momenti diversi (su questo cf. ora, in particolare, Castiglione in stampa).

3.1. Lo studio dei confini linguistici In queste pagine analizzeremo un altro settore del questionario, quello rivolto all’area più classicamente indagata dalla dialettologia percettiva: i giudizi dei parlanti sui confini linguistici. Negli ultimi anni un’attenzione crescente è stata posta nella ricostruzione storica di come, a partire dagli anni ’30, con forme e modalità diverse in Europa e in Giappone, si sia fatta strada l’idea di un’indagine specifica sulla percezione soggettiva dei confini linguistici, di quali tecniche ed indagine e di rappresentazione del dato siano state adottate, e del legame fra quest’area di ricerca e la “dialettologia dei linguisti”, là dove in particolare essa si propone di tracciare mappe e limiti dialettali. Un deciso passo avanti in questa direzione si è avuto di recente con la traduzione e la riedizione di molti contributi dei dialettologi giapponesi, veri pionieri in que- sto settore di indagine (cf. i saggi raccolti in Preston (ed.) 1999). Le due di- verse strade sistematicamente percorse da questi e altri ricercatori per indaga- re la percezione dei confini dialettali, emergono in queste pagine con singola- re chiarezza. La prima è quella che lavora sui giudizi di similarità (formulati nella tipica domanda: “In quale luogo, o in quali luoghi, nella vostra area si parla il vostro stesso dialetto o un dialetto simile?”), la seconda si concentra invece sulla percezione della differenza (attraverso l’interrogativo: “In quale luogo, o luoghi, nella vostra area si parla diversamente da qui? Potrebbe menzionare delle differenze?”). Si tratta di due prospettive difformi, e i cui risultati non sono complemen- tari, in quanto inducono l’informatore a porre attenzione ad aspetti diversi dell’ambiente (linguistico) che li circonda. Nel primo caso, facendo leva sulla intrinseca complessità del concetto socio-psicologico di similarità, il parlante non può che porre in primo piano confini e limiti extralinguistici, mentre nel secondo, pur tenendo presente che la comunità linguistica è anzitutto una comunità di vita (living community), si raccoglieranno anche dati relativi a singoli elementi (morfologici, sintattici, lessicali) rilevanti nell’area in que- stione. Riassumendo i termini della questione Grootaers così conclude: The subjective awareness that speakers have of the dialect unit is first based on an extralinguistic factor – in other words, on daily life in the village; thus subjective borders of the first degree (based on responses to the question: “Where do people talk like you?”) indicated by the inhabitants of the region of Itoigawa coincide with the administrative village boundaries. But a second category with wider boundaries (based on responses to the question: “Where

81 is the language different to the point of no longer understanting it?”) seems to combine the extra-linguistic elements of the medieval feudal political community with important isoglosses that now separate the territories of an- cient medieval feudal fiefs (Grootaers 1964 [1999], 116). Posta in altri termini, e continuando il filo del ragionamento che abbiamo fin qui sviluppato, la richiesta di individuazione di differenze linguistiche, e so- prattutto la successiva domanda che chiede di fornire degli esempi, induce in sostanza il parlante a rapportarsi alla lingua anche come semplice ascoltato- re, quindi a riferire (insieme a tante altre cose) anche dati di natura più stret- tamente percettiva. È questa la motivazione che ci ha spinto ad adottare nella nostra indagine la formulazione che invita a porre attenzione alla diversità linguistica sia del dialetto che dell’italiano.

4. L’ALS: le domande relative ai confini Nella costruzione di questa sezione del questionario del Questionario Varia- zionale dell’ALS, come per tutte le altre (sia di tipo metalinguistico che rela- tive alla competenza linguistica), abbiamo scelto di operare costantemente su entrambi i codici in contatto nella convinzione che questo ci fornisca alcune chiavi di lettura indispensabili per comprendere il dispiegarsi di processi lin- guistici le cui modalità di svolgimento rimarrebbero, altrimenti, in tutto o parzialmente opache.2 Anche in questo caso, come negli altri, tale strada si sta rilevando proficua poiché, dalle inchieste finora effettuate3 sta emergen- do, assieme a una generalizzata percezione di vivere in un ambiente linguisti- co assai diversificato e con un forte radicamento spaziale, la diversità di ruoli assegnati dai parlanti ai due idiomi (cf. infra cap. 8). In epoca di globalizzazioni auspicate o temute la quasi totalità dei nostri intervistati assegna in particolare al dialetto un forte valore demarcativo della propria comunità; il confine fra “noi” e “loro” passa ancora, come ad altre la- titudini spaziali o temporali, a pochi chilometri di distanza dalle proprie case ed assume la veste di pochi precisi elementi linguistici.

————— 2 Per ciò che attiene ai problemi di tipo metodologico relativi alla costruzione dell’ALS cf. D’Agostino/Pennisi 1995 e 2001. 3 Per quanto attiene ai dati quantitativi ci riferiamo qui a circa 700 interviste (in una sessantina fra singoli punti e microreticoli di centri) su un totale di 1.200 in una ottantina di centri, che costituiscono il campione totale delle inchieste della sezio- ne variazionale dell’Atlante linguistico della Sicilia.

82 La serie di domande relativa alla percezione del dialetto era la seguente: [1.] Lei nota delle differenze tra il siciliano che si parla nel Suo paese/città e il siciliano che si parla nei paesi/città vicini? Sì No Non so [2.] (Se ha risposto “Si” alla dom. precedente): Saprebbe dirmi per quali paesi specialmente Lei nota delle differenze? [3.] Saprebbe indicarmi qualche particolarità (pronunzia, parole, espressioni) che non é usata nel dialetto del Suo paese/città ed è invece tipica del dialetto di qualche paese/città vicini?

Le percentuali di risposte “Sì” al quesito [1.] (“Lei nota delle differenze….”) sono davvero impressionanti (superiori al 90%). Interessante è, inoltre, con- statare come la minoranza estrema di chi risponde “No” (o più spesso “Non so”) è costituita in parecchi casi non da contestatori della diversificazione diatopica ma dai classici “confusi”, soggetti con basso livello di istruzione, che in tutto quanto il corso dell’intervista fanno registrare un gran numero di incongruenze e contraddizioni mostrando, in particolare, una forte difficoltà a collocare sé stessi in uno spazio linguistico percettivamente chiaro.4 A parte questi casi, che andranno analizzati uno per uno, il resto del campione, senza alcuna incertezza, è fortemente proteso a esibire una percezione dialettologi- camente assai netta. “Tutti i dialetti sono diversi; in ogni paese il dialetto è diverso; di un paisi all’autru cc’è sempri differenza, ogni dialetto lassa u so stràscinu”, aggiungono spesso gli informatori, a commento del loro “Sì”. In un gran numero di casi a questa prima risposta immediata, che non pone grandi problemi all’informatore, segue (come replica puntuale alla successiva [2.] “Saprebbe dirmi per quali paesi specialmente lei nota delle differenze”) una elencazione di paesi e centri fra quelli più vicini in un ordine del tutto ca- suale. Solo dopo la formulazione precisa della domanda seguente [3.] (“Sa- prebbe indicarmi qualche particolarità…”), e spesso dopo ripetuti inviti alla riflessione, vengono individuate delle caratteristiche specifiche di alcuni, spesso solo uno o due, fra i numerosi centri elencati in precedenza. A volte il riferimento puntuale riguarda comuni non compresi nel primo elenco, mentre non raro è il caso che a una lunga lista di punti sentiti come linguisticamente differenti non segua poi nessun esempio concreto e ci si rifugi nel classico “non mi ricordo”. Di frequente il dato linguistico è accompagnato da una se- ————— 4 Tale dato conferma pienamente quello che era emerso nelle inchieste di prova della sezione variazionale dell’ALS effettuate negli anni 1992–94 su circa 200 soggetti in 13 centri. In quel caso alla stessa domanda le risposte “Sì” erano state il 94,4% (solo due “No” e 16 “Non so”).

83 rie di altre annotazioni relative alla situazione concreta, o alla persona, da cui si trae la consapevolezza che si sta comunicando all’intervistatore, collocan- do, quindi, le proprie asserzioni in un contesto esperenziale preciso. Per fare solo un esempio, Vita, un’anziana donna di Favignana, piccola isola delle Egadi, risponde alle domande facendo riferimento al suo rapporto con i turi- sti in estate (“nnà staciuni”): Ammettiamo che passa qualcuna ca è marsalisa, si capisci ‘mprima a parlatu- ra. – Chissa marsalisa è – o sinnò i palermitani puru u stesso; i napulitane… Per esempia chi passa qualcuno nnà staciune, chi ppassanu di ccà, aogghia quantu ni passanu chi vvennu … perciò cci fazzu iò, chissa è palermitana, è napulitana… [Poniamo il caso che passi qualcuna di Marsala, si capisce dal modo di parlare. Questa è di Marsala – o altrimenti i palermitani… lo stes- so… i napoletani. Per esempio passa qualcuno di qua d’estate, che passa di qua, hai voglia quanti ne passano, che vengono, perciò dico io, questa è pa- lermitana, è napoletana]. La figlia Rachele, dopo avere individuato in Trapani, come quasi tutti gli altri informatori di Favignana, il luogo in cui nota diversità linguistiche, così con- tinua: Io, per esempio, ricordo una frase, una frase di una persona che conoscevo di Trapani, cioè una frase così, di ridere, comunque che questa ragazza mi dice- va quando eravamo ragazze, che ci conosciamo da ragazze, “a lingua è n’addrizzu”5, linguaggio trapanese. E questo è trapanese, chisto è proprio trapanese. E, da ultimo, il figlio Francesco, dopo avere elencato centri viciniori (Maret- timo, altra piccola isola dell’Arcipelago delle Egadi, Castellamare, Marsala, Trapani) prosegue spostando il suo sguardo più lontano: Agrigento già c’è differenza. Conosco gente di Agrigento e ti pallano tipo… qualche parola… no, ora non mi viene in mente…

5. Tipologia delle risposte Ma quale è il livello di precisione delle risposte (quando esse vengono forni- te) e, soprattutto, quali sono gli elementi che più spesso vengono sottolineati?

————— 5 La traduzione che ne dà lo stesso soggetto nel proseguo dell’intervista è: “la lin- gua è una dote”. Addrizzu è qui, dunque, nel significato di “certo numero di capi di biancheria analoghi (da 4 a 12) che fanno parte del corredo della sposa” (cf. Tropea 1988).

84 Una prima distinzione va fatta relativamente al livello di dettaglio e di precisione che il parlante sa, o vuole, dare alla sua dichiarazione. Abbiamo, infatti, risposte di tipo generico e altre in cui si riferisce (a volte si commen- ta) un elemento specifico. Nel riquadro sottostante, dove vengono forniti de- gli esempi, vediamo che risposte di tipo globale (quasi sempre relative al les- sico [1a] o alla componente fonica, spesso relativa a fenomeni soprasegmen- tali [1b]) possono anche essere esplicitamente connotate diastraticamente [1c]. Esempi di risposte di tipo generico: [1a] Parole diverse Paroli curiusi Paroli sfirriusi [1b] Dialetto con un accento diverso Dialetto con un accento diverso nella marcatura delle parole Modo di parlare più veloce Parlano più lentamente Cantilena più marcata Tono diverso Dialetto cantilenato Sembra che cantano quando parlano [1c] Dialetto stretto Dialetto dei pecorai Dialetto più rozzo Dialetto più marcato, più calcato, più sguaiato Parlano a sanfasò

Gli esempi [1c] hanno una particolare consistenza numerica; non è raro, in- fatti, che i parlanti distinguano il proprio centro e il proprio modo di parlare da altri sulla base delle categorie “parrari bbonu, parrari normali, parrari puli- tu” vs. “parrari mali, parrari stranu” o, ancora, “siciliano simile all’italiano” di contro a “siciliano siciliano”. Sulla base di questa dicotomia, ad esempio, Antonio, un diciottenne di Termini Imerese, una località costiera vicino a Pa- lermo, contrappone il proprio dialetto e quello palermitano: Il siciliano di Termini, secondo me, è un siciliano che si avvicina di più all’italiano, invece quello di Palermo è proprio siciliano siciliano; si capisce subito che è siciliano da come parlano, anche dal tono, perché hanno un suo- no continuo quando finiscono la frase.

85 L’utilizzo di queste semplici modalità di classificazione può avvenire sia in individui con diploma o laurea sia in parlanti di basso livello di istruzione, anche se non di rado affiora, pure in questi ultimi, la consapevolezza di come sia sempre possibile rovesciare il punto di vista, come rileva Gaetana, una cinquantenne di Agìra piccolo comune dei Nebrodi, sul versante Sud verso Catania: Pe mmia u mio dialetto nun ave nessuna lassata, ma pe mmia ca u parru, ca poi cc’è che pî leonfortesi, a mmia mi pari ca parranu mali iddi e forse a iddi cci pari ca parramu mali nui. [Per me il mio dialetto non lascia nessuno strascico, ma per me che lo parlo, accade poi che i leonfortesi, a me sembra che parlano male loro, e forse a loro sembra che parliamo male noi]. A pochi giorni di distanza un informatore laureato di 50 anni dello stesso centro così si era espresso: Il dialetto catanese, o dell’hinterland comunque, ha una sua particolare in- flessione, cosa che l’agirino non ha, il dialetto agirino è abbastanza piatto, equidistante tra il catanese e il palermitano, non ha cadenza particolare. Considerazioni di questo tipo, relative all’assenza di tratti specificamente lo- cali nella propria parlata, sono ampiamente rintracciabili in molte altre realtà linguistiche caratterizzate dalla compresenza di più idiomi, e, per ciò che at- tiene alla Sicilia, per fare un solo esempio, abbondano nel più grande dei suoi demologi, il palermitano Giuseppe Pitrè che più di un secolo or sono, affer- mava che il dialetto di Palermo “fra i vari accenti che piglia il dialetto negli altri luoghi dell’isola, più all’italiano si assomiglia” (Pitrè 1870, 5).6

5.1. Morfologia Per quanto riguarda le risposte che invece focalizzano l’attenzione su un trat- to specifico, esse si concentrano su diversi livelli. Un gran numero di riferi- menti puntuali riguarda innanzitutto la morfologia (in particolare pronomina- le e verbale) e ciò non sorprende in quanto si tratta di elementi fortemente sa- lienti per il loro alto indice di frequenza all’interno di un qualsiasi tipo di te- sto. Alcuni esempi tipici, fra i più ricorrenti, sono riportati nella tabella se- guente. Essi riguardano il pronome di prima persona singolare io che assume ————— 6 Le asserzioni di Pitrè sono fatte all’interno di una riaffermazione della necessità di un siciliano comune depurato di tutte le particolarità diatopiche che possa fun- gere da lingua letteraria. A questo ruolo, secondo Pitrè, ma anche a parere di Sa- lomone Marino, non poteva aspirare altri che il palermitano proprio per le sue in- trinseche qualità di dialetto simile all’italiano (cf. D’Agostino 1992).

86 in Sicilia un gran numero di forme diverse7 e il pronome e aggettivo posses- sivo (di cui viene segnalata quasi sempre la forma della prima persona me, mo, ma, mèa, mìa, e, solo a volte, la seconda to, ta etc.). Risposte puntuali: morfologia:

PRONOME DI PRIMA PERSONA SINGOLARE IO: Valderice iu vs. Marsala eo, eu S. Vito Lo Capo iò vs. Castellammare/Golfo eo, Marsala eo Valderice iu vs. Paceco eo Trapani io vs. Marsala eo Marsala eo vs. Mazara iè vs. Trapani io Favignana iò vs. Trapani io, Marsala eo Favignana iò vs. Marettimo iu Misilmeri io vs. Baucina iò, Campofelice iò Mistretta iò vs. Reitano ìu Sinagra iò vs. Ucria ìa

PRONOME E AGGETTIVO POSSESSIVO: Tusa mo pà vs. Mistretta mèa pà, mìa pà Tusa mo matri vs. Capizzi a ma mamma Tusa mo pà vs. Castel di Lucio ma pà Mistretta me frati, me matri vs. Motta ma frati, ma matri Raffadali me frati vs. Racalmunto ma frati Raffadali to patri vs. Caltanissetta ta pò Tusa to matri vs. Palermo ta matri

Non episodica è, inoltre, la segnalazione delle diverse forme del verbo anda- re (ad esempio Mistretta mi nn’ìi vs. Reitano mi nn’ievi; Mussomeli ni nni amu vs. Campofranco ni nni emu vs. S.Giovanni ni nni ieme) come riflesso della diversa distribuzione areale di imu/emu, iemu (cf. Ruffino 1984, carta 11), mentre non sembra esserci una reale caratterizzazione diatopica nella opposizione fra le forme della III persona singolare del passato remoto (dei verbi in –ari) fra la desinenza –au (del tipo manciàu, purtàu) di contro a quella priva di dittongo (manciò, purtò) come invece di sovente viene indica-

————— 7 Possiamo individuare due diverse tipologie. La prima, comprendente le forme eu, ieu, e, iè ha come punto di partenza il latino EGO, la seconda, invece, si sviluppa più recentemente per influsso dell’italiano e comprende iu, ia,io, iù, iò, etc.

87 to dai parlanti (ad esempio a Misilmeri si rileva come, di contro al proprio manciau, il confinante comune di Villabate ha la forma manciò).8

5.2. Lessico Un secondo aspetto quantitativamente assai corposo è relativo al lessico. La segnalazione di termini sentiti come peculiari di altri centri si riferisce, anzi- tutto, alle tradizionali isoglosse che appaiono percettivamente rilevanti nelle località prossime al confine fra due diversi tipi. Esempi di questa classe di ri- sposte sono la distinzione fra giri e zarchi segnalata laddove, secondo le no- stre conoscenze dialettologiche (cf. Ruffino 1984, carta 37) passa il limite fra le due diverse forme. Si tratta dei nomi delle “bietole”: l’uno (giri) continua- tore del latino *BLĒTA con varianti di diverso tipo (agiti, agidi, agiri, gedi, giri, iti); l’altro (zarchi) dell’arabo salq. I nostri informatori di S.Elisabetta, piccolo centro dell’agrigentino, rilevano la forma zarchi (di contro al locale giri), a Raffadali, un centro distante pochi chilometri, dove, evidentemente, si è imposto il tipo prevalente nell’Isola e diffuso in tutta la parte nord- occidentale. Un secondo esempio è la molteplice rilevazione delle due diverse forme per “bambino”: carusu vs. picciriddu. Il primo tipo, di maggiore diffusione nell’Isola, copre tutta l’area orientale e arriva a nord poco lontano da Paler- mo, dove invece è presente picciriddu (cf. Ruffino 1984, carta 3). Proprio al- le porte di Palermo, nei due centri situati l’uno poco a Est sulla costa (Termi- ni Imerese), l’altro (Misilmeri) a 15 km dal capoluogo, lungo l’asse viario Palermo–Agrigento, troviamo costantemente l’attribuzione a paesi vicini di carusu, segnalato fin quasi dentro il capoluogo di Regione (a Ficarazzi, co- mune inglobato nella sua periferia Est). Nella stessa area troviamo anche una continua percezione della differenza fra le due forme arruspigghiari (arru- spigghiarisi) vs. struvigghiari (struvigghiarisi) corrispondenti all’italiano “svegliare, svegliarsi”. In questo caso il dato dialettologico tradizionale (cf. Ruffino 1984, carta 18) che vede la forma struvigghiarisi/sduvigghiarisi ab- bastanza lontana da Palermo e compattamente presente nell’area centrale, viene, forse, aggiornato dai dati percettivi. I nostri parlanti di Misilmeri, il piccolo centro vicinissimo a Palermo di cui si diceva prima, indicano più vol- te come una delle marche differenziali tra il loro paese e gli altri circumvicini (situati nella costa) sia proprio rappresentato dalla presenza lì della forma ar-

————— 8 Ruffino (2001, 55) nota come la diversa distribuzione fra le due forme sembra es- sere legata alla caratterizzazione sociale dei parlanti, più che a fattori di tipo dia- topico.

88 ruspigghiarisi di contro al loro struvigghiarisi. Similmente a Termini Imere- se, situato come si è già visto sulla costa a una ventina di km a est di Paler- mo, troviamo costanti segnalazioni della forma struvigghiarisi/sduvigghiarisi nelle aree interne immediatamente adiacenti (il riferimento è a centri situati alle pendici e sulle Madonie, catena montuosa che si snoda parallelamente al- la costa Nord della Sicilia). Una seconda tipologia di osservazioni relative al lessico riguarda non rea- li isoglosse ma piuttosto termini arcaici sentiti, per ciò stesso, come estranei e quindi attribuiti a un “altrove” connotato spazialmente. Emblematico è il caso di un informatore di Trapani, che segnala per Salemi bunnaca avvertendo pe- rò di non saperne il significato. Si tratta della voce arcaica per “giacca da uomo” registrata nell’AIS (vol. II/carta 261) abbastanza omogeneamente in tutta l’Isola ma sporadica nell’ALI e oggi ormai quasi completamente scom- parsa lasciando il posto a giacca, semplice calco dell’italiano. Ancora più chiaro è l’esempio riferito da una informatrice di Aliminusa, paesino dell’interno appartenente alla provincia di Palermo, ma residente da molti anni a Termini Imerese: A Termini dicono “a strummula” mentre ad Aliminusa dicono “a truottula”, perciò è molto diverso, vai a capire sta strummula cos’è. Ovviamente truottula è un semplice adattamento fonetico della voce italiana trottola e quindi forma innovativa priva di caratterizzazione diatopica. Se controlliamo il recente e ricchissimo studio sulle voci della trottola, effettuato all’interno del primo modulo della sezione etno-dialettale dell’Atlante lingui- stico della Sicilia (Ruffino ed. 1997), vediamo che ad Aliminusa, in realtà, è presente lo stesso tipo lessicale di Termini Imerese strummula che l’informa- trice percepisce invece come estraneo. In questo ed altri casi, i dati percettivi sono quindi indizi non sulla situazione diatopica ma sulla vitalità di singoli termini nelle aree indagate. Più rara è la situazione inversa, cioè l’attribuzione alla propria parlata di un tipo arcaico o addirittura di una patente di arcaicità complessiva come questa che emerge dalle parole di una ragazza di Favignana: Per esempio qui a Favignana si usa dire per tovaglia da tavola “u trubbere, u trubberi9 dâ tavola” l’hai sentito dire mai? Invece a Trapani per esempio non ————— 9 Il termine, assai poco comune, è presente nell’AIS (V/950) relativamente a “cen- cio” (“si asciuga con un cencio”) solo nel punto 821 (Vita, in provincia di Trapa- ni). A un sommario controllo delle inchieste ALS finora effettuate, rileviamo che la voce è segnalata anche da un altra informatrice di 69 anni a Siculiana (AG) che riferisce: “Io posso fare il confronto con il mio paese, con Agrigento (…) quando

89 si dice, si dice “a tuvagghia”. Ci sono delle parole, forse, qui, più arcaiche ri- spetto a quello che c’è a Trapani. Un caso che può essere collocato all’interno di questa tipologia è quello rela- tivo alla voce it. secchio che presenta nell’Isola tre diversi tipi catu, caddu, sicchiu. In più centri indagati emergono attribuzioni a paesi vicini di termini di- versi rispetto a quelli sopramenzionati. Ad esempio a S.Elisabetta, il piccolo centro dell’agrigentino già in precedenza citato, si attribuisce al vicino S.Biagio Platani10 la voce bardu (di contro al proprio catu); a Vallelunga nel- la provincia di Caltanissetta si riferisce a S.Caterina Villaermosa, distante pochi chilometri, la voce bigliolu (restando invariato catu per il “noi dicia- mo”); nella medesima area, a Villalba, percezioni convergenti indicano nella non lontana Resuttano il termine traituri (mentre catu viene sempre indicato come termine autoctono); ancora a Favignana troviamo la voce stallu sentita questa volta come propria rispetto a un area circostante in cui si dice catu o caddu. In realtà tutti e quattro termini sopra menzionati (bardu, bigliolu, trai- turi, stallu) sono voci specifiche che indicano tipi particolari di secchio11 che hanno convissuto con catu/caddu/sicchiu all’interno del settore del lessico relativo ai recipienti (“per mungere il latte, per attingere o trasportare acqua”, etc.). Quelli che emergono dalle nostre interviste sono dunque termini resi- duali, frammenti di un campo semantico in via di sfaldamento che riaffiorano nella percezione dei parlanti suscitando una sensazione di estraneità, un ché di esotico che si risolve, come si è detto, in un processo di distanziazione spaziale.

5.3. Fonetica Dopo morfologia e lessico una grande quantità di osservazioni, esempi, a volte seguiti da tentativi, più o meno riusciti, di riproduzione e di imitazione,

mi sono sposata, mia suocera mi ha detto ‘prendi il trubbere’. Io non sapevo cosa fosse, poi mio marito mi ha detto: è il tappeto”. 10 S.Biagio Platani è punto AIS 851 e nella carta V/965 (voce “la secchia di rame”) troviamo registrato, così come in tutta l’area, il tipo catu. 11 In particolare: bardu è presente nella carta V/965 dell’AIS (“la secchia di rame”) solo nel centro galloitalico di Sperlinga (punto 836); stallu, assente nell’AIS è re- gistrata da Tropea 1988 che ne dà questa descrizione “grosso secchio di lamiera adibito per diversi usi” di contro a catu “piccolo secchio di lamiera”; biglio- lu/bigghiolu ha una discreta diffusione nella carta V/966 (“il secchio di legno”); traituri è attestato solo per il punto 845 (Calascibetta) nella carta 965 dell’AIS. Tutti quanti i termini sono spesso assenti nei vocabolari siciliani.

90 riguardano la fonetica. Anche in questo caso il grado di accuratezza delle ri- sposte è alquanto vario. Oltre le generiche considerazioni che abbiamo esem- plificato sopra e che si riferiscono in gran parte alle diverse curve intonative (“cantilena più marcata; tono diverso; sembra che cantano quando parlano; dialetto che ha una cantilena, come ci fosse una rima, proprio come se fosse una musica”)12 un buon numero di notazioni, ancora molto generiche, è foca- lizzato sul grado di apertura vocalica (“parlano stringendo la bocca”, “pro- nuncia chiusa” vs. “pronuncia aperta”). In molti altri casi invece si arriva a un grado di precisione più alta, fornendo degli esempi precisi o una somma- ria regola o, a volte, gli uni e l’altra. Ad esempio Manuela S., una adolescen- te di Vallelunga, cita come fenomeno fonetico tipico della vicinissima Villal- ba l’aprirsi della /i/ in [e] e della u in [o] dando anche degli esempi: A posto delle “i” mettono le “e”. Io ho una compagna di Villalba che a volte mi dice “Che ti lo faceste lo lateno oi?”. E io rispondo “Sì, me lo fece”. Op- pure al posto delle “u” ci mettono le “o”. “Studio” per loro è “stodio”.13 Come si vede in questo caso l’informatrice si produce anche in una riuscita imitazione esplicitando precisamente quale sia lo shibboleth che serve a iden- tificare “il villalbese” nella propria comunità. Così come spesso è stato notato “per il parlante, una volta stabilita la diversità, basta un tratto a caratterizzare la parlata altrui, e tutti gli altri sono ridondanti […] tra tutte le isoglosse pos- sibili ch’egli potrebbe citare ne sceglie una o due, che presso la comunità ha conseguito il ruolo di stereotipo linguistico”(Iannàccaro 1995, 101). Le nostre registrazioni offrono, quindi, anche un repertorio di caricature linguistiche; un tipo di dato, che come è stato spesso notato, di difficile elici- tazione. In questo ed in altri casi, per altro, si registra una chiara accentua- zione della caratteristica fonetica oggetto di attenzione, in accordo con uno dei principi fondamentali che guidano la formazione degli stereotipi: “quan- do una classificazione è correlata con una dimensione continua (…), si manifesterà una tendenza a esagerare le differenze su tale dimensione tra stimoli che appartengono a distinte classi e a minimizzare le differenze entro ciascuna delle classi” (Tajfel 1969, 83).

————— 12 Si tratta di fenomeni sfuggenti e per i quali è difficilissimo passare da enunciazio- ni generiche a osservazioni più precise. Cf. su questo, fra gli altri, De Simonis 1984/85; Iannàccaro 1995. 13 Tale fenomeno che interessa /i/ ed /u/ toniche (derivate rispettivamente da Ē, Ī, Ĭ, Ū, Ō, Ŏ, se infine di parola vi è una /i/o/u/, interessa una ampia zona delle provin- ce di Enna e Caltanissetta (cf. Mocciaro 1980).

91 Una ricognizione sistematica delle osservazioni fonetiche sembra per altro particolarmente interessante (per una prima campionatura si veda D’Agostino in stampa) in quanto è a questo livello che troviamo, appunto, quel forte accordo intracomunitario su cui si basa la formazione e il funzio- namento degli stereotipi. Si vedano, per fare due soli esempi, le inchieste di Racalmuto, in provincia di Agrigento, dove 10 informatori su 17 individuano una diversa pronunzia del nesso /str/ nella vicinissima Grotte (“nuavutri ricemu minestra, iddi minescia”), nella stessa area a Raffadali è la poco distante Palma di Montechiaro a essere ricordata nella quasi totalità dei casi per la pronunzia chiavi vs. ciavi.

6. Gli antagonisti dialettali Non è, peraltro, infrequente che anche a livello morfologico e lessicale la co- scienza collettiva rilevi un unico tratto distintivo capace di marcare la varia- bilità spaziale. A Misilmeri è il centro di Villabate, distante pochi chilometri e che si trova anch’esso alle porte di Palermo, a ricevere un alto numero di segnalazioni in riferimento alla già segnalata chiusura del dittongo /au/ della terza persona singolare del passato remoto (manciò, pigghiò di contro a man- ciau, pigghiau); ad Agrigento 10 fonti sulle 17 al momento intervistate per- cepiscono un dialetto diverso a Favara elencando gli stessi lessemi, ad esem- pio lumia per l’italiano “limone”. È documentata, inoltre, una sorta di reci- procità nella percezione spaziale. In alcuni punti presi in esame, infatti, l’informatore del paese A individua un dialetto diverso nel paese B, e così fa l’informatore del paese B nei confronti del paese A. Ed ecco che a Trapani 3/4 degli informatori individuano in Marsala “l’antagonista dialettale” indi- cando come tratto-bandiera il pronome di prima persona singolare, lo stesso tratto che anche gli informatori di Marsala indicano come percettivamente sa- liente. Si è visto ripetutamente che i centri ai quali riferire le particolarità sono, di norma, quelli più vicini al proprio e, solo raramente, quelli più distanti, in stretta connessione, in questo caso, con una caratteristica biografica del sin- golo soggetto o della famiglia, che quasi sempre viene esplicitamente ricor- data. Ancora una volta, quindi, l’esigenza di nitidezza dei contorni spaziali impone anzitutto una linea di confine molto prossima che segni la demarca- zione fra “noi” e la “nostra maniera di parlare” rispetto a “loro” e alla “loro maniera di parlare”.

92 Si tratta di una modalità di rappresentazione del proprio ambiente lingui- stico abbastanza comuni14 ma in qualche modo tutto questo rischia di entrare in rotta di collisione con ciò che nella descrizione dei linguisti è spesso scon- tato. Crisi dei dialetti, tendenze koinezzanti, regressione della dimensione diatopica, sono, in fondo, le linee guida all’interno cui si muovono le descri- zioni relative alla situazione linguistica dell’Italia contemporanea. Nella per- cezione dei parlanti, almeno dei nostri parlanti siciliani, le isoglosse, i confini linguistici, sono invece ben nitidi e saldi.

7. Io sono riconoscibile Da rilevare è, inoltre, che la percezione dei connotati spaziali della variazione non riguarda solo gli altri, ma coinvolge in qualche misura anche lo stesso soggetto. Di nuovo circa il 70% dei nostri intervistati ritiene che le proprie caratteristiche linguistiche siano un passaporto che ci si porta addosso in ogni circostanza della vita, come può in fondo essere interpretata la risposta “Sì” alla domanda:

Immagini di essere in un altro paese della Sicilia: pensa che, sentendola parlare in siciliano, si accorgerebbero che Lei è di………………

Anche in questo caso non possiamo che registrare una forte convergenza nel- le dichiarazioni del nostro campione. L’unica variabile che, nella fase attuale dell’analisi, incide sulla compat- tezza dell’universo è la dicotomia “centro fortemente urbanizzato” di contro a “centro con caratteristiche rurali”, per usare categorie in qualche modo intuitivamente chiare. Confermando una precedente inchiesta (effettuata, come si è detto – cf. nota 5 –, utilizzando il questionario di prova dell’Atlante linguistico della Sicilia) la percezione che i processi d’identificazione hanno un forte connotato linguistico sembra siano maggiori là dove siamo in presenza di una caratterizzazione marcatamente urbana dello spazio in cui si è immersi. A una domanda come quella vista in precedenza (“Immagini di essere in un altro paese della Sicilia…”) l’80% dei residenti urbani risponde “Sì”, quindi di sentirsi pienamente riconoscibile dal punto di vista linguistico, di contro a una percentuale di circa il 20% inferiore nei piccoli centri. Il parlante del grande centro, dunque, percepisce nel proprio dialetto delle marche precise e distinguibili attorno a cui costruire radicati sentimenti identitari, mentre sembrerebbe che il sentimento di alterità/differenza ha più difficoltà a proiettarsi dall’altro (gli altri sono diversi/riconoscibili) a se ————— 14 Cf., da ultimo, l’interessante contributo di Canobbio in stampa.

93 proiettarsi dall’altro (gli altri sono diversi/riconoscibili) a se stesso (io sono diverso/riconoscibile), nei comuni medio-piccoli. Vi è, probabilmente, una sorta d’effetto-traino che si ripercuote dal grande spazio urbano sul singolo parlante, la cui riconoscibilità è garantita dall’alone proiettato dalla città sul territorio circostante. Una possibilità non prevista dalla struttura della nostra domanda, ma che sta emergendo in maniera abbastanza consistente, è il rispondere con un “Sì, ma…” e in particolare precisando che si tratta di una possibilità di ricono- scimento non relativa al singolo centro, ma all’area. “Non capirebbero che vengo proprio dal mio Comune, ma che sono di questa zona sì.” È questa l’affermazione che troviamo significativamente ripetuta in particolare per al- cune zone, non tutte, dell’Isola dove, evidentemente, vi è la percezione di un “noi”, di una “nostra parlata” che sorpassa i confini amministrativi del singo- lo Centro. Anche in questo caso si impone una mappatura dei dati più analiti- ca di quella che siamo in grado di fornire oggi.

8. La percezione dell’italiano Ci siamo fin qui riferiti a dati percettivi relativi al dialetto, sicuramente i più ricchi e interessanti, ma cosa accade se spostiamo l’oggetto dell’attenzione dei nostri informatori dal dialetto all’italiano? I dati quantitativi sembrereb- bero andare in direzione del tutto analoga a quella fin qui vista, come si può evincere dalla chiara maggioranza di risposte “Sì” alla seguente domanda:

Ha avuto qualche volta l’impressione che l’italiano che si parla in altre zone della Sicilia, per esempio a (indicare zone assai distanti dal punto di inchiesta), sia in qualche modo diverso da quello del Suo paese/città?

Anche in questo caso l’universo dei nostri intervistati appare molto compat- to; le variabili classiche, quali istruzione ed età, sembrano incidere molto po- co sulla risposta (abbiamo un leggero calo dei “Sì” nei giovani e negli istrui- ti, ma di entità tale che solo il dato definitivo ci potrà consentire di valutarne la significatività). Se andiamo oltre alla semplice rilevazione numerica scopriamo però che sia i soggetti che forniscono una risposta positiva sia gli altri, sono concordi nell’aggiungere, come notazione personale, che sono solo “l’accento”, “la cadenza”, “l’inflessione” gli elementi che distinguono l’italiano parlato nella loro località da quello di altre zone distanti dalla sua. “L’italiano è uguale per tutti, ma l’inflessione e la cadenza sono diverse; è un problema di accento e di pronuncia; l’italiano, le parole sono le stesse, è il tono che cambia”, sono

94 le frasi che si ripetono continuamente. In pochissimi casi a queste osserva- zioni immediate ne seguono altre più puntuali, del resto non sollecitate né le une né le altre da una specifica richiesta dei nostri rilevatori. Sorprende, a una prima disamina non sistematica, la totale assenza di indicazioni riguar- danti forme microareali e macroareali di italiano regionale, come quelle se- gnalate più volte dagli studiosi (cf., in particolare, Colonna Romano/Mam- mana 1997) e che stanno costantemente emergendo nella sezione del Que- stionario relativa ai regionalismi. Ciò che si sta profilando è, dunque, un ruolo diverso, e forse complemen- tare, fra i due idiomi che si trovano a convivere nello stesso spazio geografi- co. Dialetto e italiano sembrano riferirsi a due diversi “noi”, due diverse i- dentità dei nostri informatori. C’è un “noi” che si proietta sulle piccole, a vol- te piccolissime, comunità e che si manifesta attraverso frontiere dialettali percettivamente chiare e robuste, e un “noi” che ha come suo teatro uno spa- zio più ampio costituito dall’Isola nella sua interezza e che ha come veicolo (o meglio uno dei suoi veicoli) l’italiano laddove, al di là di una generica sensazione di diversità, si percepisce una sostanziale unità regionale. I dati percettivi, così come altri aspetti del sapere e della pratica comunicativa dei parlanti, rinviano, dunque, a identità complesse, a molteplicità interrelate in cui più appartenenze territoriali, sociali, linguistiche, convivono, a volte si scontrano, nello stesso individuo.

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Grammatica testuale e semantica testuale: due metodi d’analisi complementari? “Per il mio Paese” di Silvio Berlusconi dalla prospettiva dell’analisi del discorso Paul Danler

1. Introduzione In senso lato con il termine “grammatica” si intende il complesso delle regole sintattiche, semantiche e fonologiche, come pure il lessico. Lo scopo imme- diato di una teoria grammaticale del testo linguistico è quello di descrivere la struttura di testi linguistici del “parlante nativo ideale” (cf. Petöfi 1972, 31). Chomsky non si accontenta della descrizione, ma richiede a qualsiasi teoria di essere un pronostico applicabile. Quindi in un primo momento prova a creare la possibilità di produrre un numero illimitato di frasi in base ad un numero limitato di regole sintattiche. Solo dopo Katz e Fodor, Chomsky ag- giunge la componente semantica alla sua grammatica (cf. van Dijk 1972, 21s.). Tale “grammatica di produzione” non può esistere per i testi. Infatti, ovviamente, non ci si può occupare della grammatica senza tenere conto del- la semantica. Comunque sia, anche per quel che riguarda il testo, c’è sempre la forma ed il contenuto o rispettivamente il significante ed il significato. Di- cono Halliday/Hasan (1976, 2), “a text is not something that is like a sen- tence, only bigger; it is something that differs from a sentence in kind. A text is best regarded as a semantic unit: a unit not of form but of meaning.” Co- munque, un testo è anche un’unità di forma di cui si occupa, tra l’altro, la grammatica testuale. Essa esamina da un lato come vengano esplicitate le u- nità semantiche e dall’altro come queste forme, che esprimono un determina- to contenuto, siano collegate nella struttura superficiale. Quindi la grammati- ca testuale è innanzi tutto una grammatica descrittiva, che vuole descrivere in primo luogo le invarianti ricorrenti nel testo (cf. Kalverkämper 1981, 53), in secondo luogo l’uniformità (cf. Heinemann/Viehweger 1991, 36), e infine la coesione grammaticale della struttura superficiale. Questa è la nozione di grammatica testuale in senso stretto. Riguardo all’importanza della semantica e rispettivamente della sintassi, Garnham (1985, 139) dice, “what people re- member has been characterized in several ways: gist rather than verbatim de- tail, content as opposed to form, ‘semantics’ and not syntax.” La grammatica funzionale parte proprio dall’analisi delle funzioni alle quali assegna elemen- ti linguistici (cf. Kallmeyer et al. 1974, 238). C’è comunque frequentemente una gamma di tali elementi fra cui l’autore può scegliere, cioè una certa liber-

99 tà, anche se limitata, un determinato margine nella struttura superficiale di un sistema linguistico che consente di mettere in risalto le forme di determinati contenuti rispetto alle quali le forme in cui vengono esplicitati altri contenuti passano in secondo piano. Per questo motivo il lettore o, rispettivamente, l’uditore si ricorderà di alcune cose mentre presterà meno attenzione ad altre. Quindi è anche la grammatica che, tramite l’ordine delle parole, gli elementi di referenza con le loro forme di rinvio, contribuisce a determinare a quali contenuti, esplicitati in forme, si presti attenzione e in quale misura. Appli- cando le teorie di van Dijk e di Metzeltin proverò a ricavare dal discorso il suo contenuto. Inoltre considerando che alcuni aspetti verrebbero trascurati, proverò ad includerli integrando l’analisi con un altro approccio, attraverso quelle che definisco conclusioni implicite delle proposizioni e delle loro pre- supposizioni. Infine vorrei verificare se un’analisi limitata alla superficie te- stuale possa aggiungere ulteriori risultati.

2. Un approccio teorico al testo La nozione teorica di testo lo definisce come struttura astratta che sta alla ba- se del discorso (cf. van Dijk 1980a, 29). Per analizzare un discorso è impre- scindibile l’esame separato della sua struttura superficiale e di quella più pro- fonda. Si tratta di un concetto di organizzazione di sistemi complessi in cui le due strutture interagiscono e dipendono anche da altri fattori, come ad esem- pio quelli pragmatici. È la scomposizione del discorso nei suoi elementi co- stitutivi che permette di delimitare i vari tipi di caratteristiche del testo come fenomeno globale. In tale contesto Motsch ritiene la semantica il ponte ideale dalla grammatica all’analisi testuale. Forse sarebbe più corretto parlare della semantica come ponte ideale dalla grammatica alla comprensione testuale, dal momento che la semantica testuale è solo uno strumento dell’analisi te- stuale di cui la comprensione testuale è lo scopo. Motsch (1996, 5) sottolinea tuttavia che l’analisi del testo non può prescindere dai fenomeni grammatica- li. Partendo dall’esistenza delle due strutture del sistema linguistico, le do- mande cruciali sono: in primo luogo come funziona la trasposizione fra le strutture e in secondo luogo come si costituisce il significato della frase. Poi- ché la struttura superficiale del discorso si basa sui rapporti semantici e visto che la sintassi della stessa viene determinata anche dalla struttura semantica (cf. van Dijk 1978, 285s.), è opportuno esaminare innanzitutto le modalità di analisi della semantica di un testo.

100 3. Il modello di van Dijk 3.1. Le macroregole Il modello di van Dijk (1980c, 53) si fonda su quelli che egli chiama fatti. Dice testualmente: “as denotata of sentences expressing propositions we do not take truth values, but facts.” Le proposizioni sono le unità intensionali mentre quei fatti, come unità estensionali, si riferiscono ad azioni, stati o pro- cessi in un qualche mondo possibile. Se un fatto si riferisce ad un’azione, uno stato, un processo, il fatto non rispecchia una sola proposizione, bensì uno schema di proposizioni (cf. van Dijk 1980a, 56), cioè le strutture di fatti sono serie ordinate di fatti, ad esempio sequenze di eventi collegati causal- mente (cf. van Dijk 1977, 97s). Van Dijk distingue fra due tipi di relazioni: una relazione condizionale fra fatti se un fatto è una condizione possibile, probabile o necessaria per un altro fatto o se un fatto è la conseguenza possi- bile, probabile o necessaria di un altro fatto. Il secondo tipo è la relazione funzionale, cioè quella intensionale, che si riferisce al significato (cf. van Dijk/Kintsch 1983, 150s). Una proposizione ha una funzione rispetto ad un’altra. Può essere una specificazione, un esempio, un paragone, etc. A cau- sa di queste relazioni come condizioni necessarie per la coerenza in un qual- che mondo possibile, ci sono restrizioni nella scelta lessico-semantica. Nono- stante ci siano varie possibilità di selezione o di attribuzione di un significato ad un significante o rispettivamente di un contenuto ad una forma nel senso della semantica procedurale (cf. Schäffner 1989, 86), bisogna rispettare un “tout significatif”, come dice Adam (1990, 99). Una sequenza è appunto coe- rente se ognuna delle sue proposizioni si interpreta in modo intensionale ed estensionale rispetto alle altre proposizioni della sequenza (cf. van Dijk 1980b, 39). Al di là di questo tipo di coerenza locale si trova inoltre la coe- renza globale del testo. Tale coerenza globale è una condizione necessaria per la struttura del significato globale, cioè per la macrostruttura del testo. Van Dijk (1980a, 57) propone l’applicazione di determinate macroregole per arrivare alle macroproposizioni organizzate in macrofatti. Le macroregole comprendono tre operazioni: l’eliminazione o la selezione, la generalizzazio- ne e la costruzione. Le macroregole non sono regole d’interpretazione ma re- gole di derivazione o d’inferenza che deducono dalle basi testuali le macro- proposizioni corrispondenti. L’applicazione delle macroregole permette di derivare la macrostruttura come struttura globale del significato dalle micro- strutture. Si tratta di ridurre l’informazione, di ricondurre vari microconcetti ad un macroconcetto e di articolare l’informazione presente nelle microstrut- ture solo implicitamente. Un discorso non è mai completo, un fatto si costi- tuisce di un certo numero di fatti, una macroproposizione si compone di una

101 determinata quantità di microproposizioni. Comunque, non è necessario spe- cificare tutto in un testo e inoltre sarebbe impossibile precisare tutti i dettagli. Tuttavia è importante indicare gli elementi rilevanti per la comprensione del discorso. Incompleto non significa necessariamente implicito. Da una parte si può ricostruire cognitivamente quello che è presente implicitamente. D’altra parte l’incompletezza può anche essere funzionale, cosa che proverò a dimo- strare più avanti. Quanti più dettagli rispetto ad un fatto vengono indicati, tanto più importante è il fatto stesso, secondo van Dijk (1980a, 93). Comun- que, in un discorso politico questo non è necessariamente vero. Tramite la presentazione di un’abbondanza di dettagli banali, l’oratore potrebbe anche perseguire lo scopo di distogliere i pensieri degli uditori da altri temi magari più importanti oppure quello di relativizzare argomenti trattati brevemente che pur essendo di grande interesse sono forse più delicati. Quali sono i principi delle macroregole? In primo luogo vengono elimi- nate le proposizioni che non determinano altre proposizioni che non siano condizioni o conseguenze normali o plausibili di altri fatti. L’eliminazione di una proposizione non pregiudica la verità di un’altra. In secondo luogo si a- strae da dettagli semantici per arrivare a proposizioni iperonimiche concet- tualmente più generali e in terzo luogo si costruiscono macroproposizioni congiungendo le proposizioni che solo se collegate esprimono un determina- to concetto (cf. van Dijk 1980a, 44s.). Nell’analisi del discorso l’eliminazione riguarda le proposizioni irrilevan- ti e ripetitive perché esprimono condizioni normali oppure non determinano altre proposizioni. Prendiamo ad esempio il primo paragrafo del discorso “Per il mio Paese” di Berlusconi (2000, 289).

3.2. L’applicazione delle macroregole al discorso Il primo paragrafo del discorso “Per il mio Paese” consiste di quattro frasi:

L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei oriz- zonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprendi- tore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Queste quattro frasi contengono le otto proposizioni basilari (P) seguenti: P1: Berlusconi (B.) ama l’Italia; P2: B. ha le sue radici in Italia; P3: B. ha le sue speranze in Italia; P4: B. ha i suoi orizzonti in Italia; P5: B. ha imparato il suo mestiere in Italia; P6: B. ha imparato il suo mestiere di imprenditore da suo padre;

102 P7: B. ha imparato il suo mestiere di imprenditore dalla vita; P8: B. ha appreso la passione per la libertà in Italia. Di queste proposizioni vengono eliminate la seconda, la sesta e la settima. Tramite la generalizzazione le restanti risultano nella macroproposizione: Berlusconi crede nel futuro dell’Italia. Qui si vede chiaramente che, applicata la macroregola della generalizzazione, le microproposizioni individuali non sono più recuperabili. Si perdono nella macroproposizione risultante. Nel ter- zo paragrafo Berlusconi (2000, 289) dice:

Per poter compiere questa nuova scelta di vita, ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che ho fondato. Rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza e tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza. Le dieci proposizioni basilari di questo paragrafo sono: P14: B. vuole occuparsi della cosa pubblica; P15: B. ha deciso di scendere in campo; P16: B. aveva fondato un’impresa; P17: B. ha rassegnato le sue dimissioni da ogni carica sociale nella sua impresa; P18: B. rinuncia al suo ruolo di editore; P19: B. rinuncia al suo ruolo di imprenditore; P20: B. mette la sua esperienza a disposizione della cosa pubblica; P21: B. mette il suo impegno a disposizione della cosa pubblica; P22: B. lotterà per sistemare la cosa pubblica; P23: B. è convinto di riuscire a sistemare la cosa pubblica. Quattro di queste proposizioni, cioè la 16, la 17, la 18 e la 19 rendono la ma- croproposizione “Berlusconi abbandona la sua impresa” tramite la macrore- gola della costruzione. Tutte e quattro sono condizioni necessarie per soddi- sfare la verità della macroproposizione che ne risulta. La 14 e la 15 si cancel- lano perché sono ripetizioni, mentre la 20, la 21, la 22 e la 23 conducono, tramite la generalizzazione, alla macroproposizione “Berlusconi è convinto di poter sistemare la cosa pubblica con la sua esperienza e il suo impegno”. Applicate le macroregole al testo intero risultano le macroproposizioni (MP) seguenti: MP1: B. crede nel futuro dell’Italia; MP2: Poiché B. non vuole vivere in un paese totalitario e corrotto, si oc- cupa della cosa pubblica; MP3: B. abbandona la sua impresa;

103 MP4: B. è convinto di poter sistemare la cosa pubblica con la sua espe- rienza e il suo impegno. MP5: Molti italiani vogliono cambiare il sistema politico italiano; MP6: Il vecchio sistema politico è fallito; MP7: I vecchi governanti sono responsabili delle difficoltà attuali in Ita- lia; MP8: L’Italia ha bisogno di bravi politici; MP9: Gli italiani a favore della libertà vogliono un’Italia moderna; MP10: Qualcuno deve proporre agli italiani i valori delle democrazie oc- cidentali; MP11: I vecchi partiti della sinistra, incompatibili sia con gli ideali della politica liberale che con quelli dell’economia liberista, pretendono di cambiare, ma sono troppo rigidi; MP12: Le sinistre, corrotte e senza valori, provocano solo insoddisfazio- ne e caos; MP13: B. e i suoi aderenti credono nei valori borghesi; MP14: B. chiede ai presenti di seguirlo nella lotta contro le convinzioni delle sinistre in questo periodo decisivo per costruire una nuova Italia; MP15: La futura Italia sarà umana; MP16: B. propone il suo movimento “Forza Italia” che consiste in una li- bera organizzazione di elettori e di elettrici affinché questo con- duca ad un governo efficiente; MP17: Il programma di B. sarà concreto e chiaro; MP18: B. sosterrà gli imprenditori moderni che creano benessere; MP19: La nuova società sarà solidaria coi deboli; MP20: Il nuovo governo baderà al rispetto delle leggi e dell’ordine; MP21: L’ex-imprenditore B. che scende in campo parla da cittadino; MP22: B. è sicuro di sé, ottimista e sereno; MP23: Il nuovo sistema di B. porrà fine alla politica incomprensibile, di- lettantesca e rozza del vecchio sistema. Applicando le cosiddette estinzioni forti per eliminare le MP che non ne de- terminano altre, si potrebbe ancora ridurre la quantità delle MP per redigere un riassunto del contenuto proposizionale del discorso, cosa che costituisce infatti uno dei due scopi principali dell’applicazione delle macroregole se- condo il modello di van Dijk. Sebbene il riassunto, a volte dato dall’oratore stesso alla fine del discorso, esprima solo ciò che lui stesso ritiene rilevante, bisogna ammettere che anche le macrostrutture derivate dal discorso di un individuo, non possono mai essere obiettive al cento per cento. L’altro scopo principale da perseguire tramite l’applicazione delle macroregole è quello di ricavare il tema o i temi del testo.

104 4. Il tema del discorso Per Hlavsa (1989, 16), “the element that unifies the most extensive progres- sions of the text [...]” costituisce il tema del testo. Per questo teorizza l’esis- tenza di una relazione stretta fra i temi delle frasi e il tema testuale. Questo sarà da dimostrare analizzando la struttura superficiale del discorso. È pro- prio lì che confluiscono la semantica testuale e la grammatica testuale. Finora possiamo solo constatare che il tema principale delle proposizioni, cioè quel- lo che unisce la progressione della maggior parte delle proposizioni, è Berlu- sconi stesso, che rappresenta il tema in 79 delle 197 proposizioni. Se van Dijk distingue fra discorso e testo, Metzeltin, facendo la stessa di- stinzione, definisce i due livelli testo e testura. Con il termine testura si in- tende l’elenco di proposizioni sulle quali si basa il testo (cf. Metzeltin 1983, 35). Analogamente a van Dijk, Metzeltin parte dalla necessità di ridurre le proposizioni a un minimo per poter finalmente ricavare le proposizioni basi- lari che portano l’informazione basilare. Oltre alle proposizioni basilari ci possono essere delle proposizioni amplificanti in forma di tautologie, pre- supposizioni ed implicazioni. Nonostante vengano eliminate in una prima a- nalisi sia le proposizioni amplificanti sia le digressioni, le quali pur aggiun- gendo ulteriori informazioni non chiariscono il tema, per Metzeltin l’eliminazione non è definitiva. Egli ritiene essenziale prendere in esame in una fase successiva le proposizioni provvisoriamente eliminate (cf. op.cit., 52). La reintegrazione d’informazioni apparentemente irrilevanti all’inizio, e perciò cancellate definitivamente da van Dijk, ed estinte solo provvisoria- mente da Metzeltin, permette infine di riconoscere significati globali. Lo stesso discorso vale anche per quelle che chiamo conclusioni implicite, cosa che proverò a dimostrare più avanti.

5. Il modello di Metzeltin 5.1. I testoidi Il cardine della teoria di Metzeltin sono i testoidi, cioè le basi per forme tipi- che di messaggi complessi che emergono in vari tipi di testi come schemi te- stuali ricostruibili. Distingue fra testoidi descrittivi, narrativi, compensatori ed argomentativi. Nel discorso di Berlusconi sopra citato si delineano tre tipi di testoide. Ci sono i due tipi di testoide: narrativo, che può essere successivo o trasformativo, e compensatore. Nel testoide narrativo successivo i predicati, gli stati e i processi si riferiscono allo stesso soggetto. In contrasto con l’ordine libero delle proposizioni caratteristico nel testoide descrittivo, c’è

105 qui una determinata successione di predicati, cioè la cronologia è stabilita (cf. Metzeltin 1983, 53–54).

5.2. La deduzione di testoidi 5.2.1. Il testoide narrativo successivo Per illustrare chiaramente lo schema del testoide narrativo successivo è op- portuno redigere anche qui un riassunto delle numerose proposizioni. Il sog- getto è l’Italia; in questo caso la cronologia non risulta dalla successione li- neare dei predicati, ma piuttosto dall’ordine stabilito dai tempi grammaticali. In 14 proposizioni basilari si può abbozzare lo sviluppo successivo dell’Italia visto da Berlusconi: P1: L’Italia (L’I.) adotta i valori della chiesa cattolica; P2: L’I. condivide i valori delle grandi democrazie occidentali; P3: L’I. è pulita, ragionevole e moderna; P4: L’I. è governata dalle sinistre; P5: L’I. rischia di perdere tutti i valori e ideali; P6: L’I. rischia di cadere in miseria e rovina; P7: L’I. è impreparata e incerta; P8: L’I. si trova in un momento storico; P9: L’I. ha bisogno di bravi politici; P10: L’I. si trova in grandi difficoltà; P11: L’I. deve rinnovarsi; P12: L’I. può salvarsi; P13: L’I. sarà giusta, generosa, prospera, serena, moderna, efficiente; P14: L’I. sarà protagonista in Europa e nel mondo. Risulta chiaramente che l’Italia è un tema centrale dall’inizio alla fine del di- scorso. Ma non solo questo, anzi, è quasi come se mancasse la proposizione “l’Italia si è decisa per Berlusconi”, suggerimento implicito che forse ottiene maggiore effetto.

5.2.2. Il testoide trasformativo Il secondo tema essenziale è Berlusconi stesso, cosa che si evidenzia tramite un testoide trasformativo. Il testoide trasformativo si compone di otto propo- sizioni. Nella prima, la persona X si trova nella situazione S0 che è piacevole o neutra. Poi la causa C disturba questa situazione. Nella terza proposizione X si trova nella situazione spiacevole S1 dopo di che X ha l’intenzione I di cambiarla. Nella quinta proposizione X agisce per raggiungere la situazione piacevole S2. E proprio lì accade la trasformazione T. Nella sesta proposi- zione Y, che sarebbe l’adiuvare A, aiuta X. Poi Z prova ad aiutare X a supe-

106 rare le difficoltà D. Nell’ottava proposizione X raggiunge la situazione pia- cevole S2 (cf. Metzeltin 1983, 54). Questo è lo schema completo di tale te- stoide. Spesso, comunque, questo tipo di testoide rimane incompleto, nel senso che X non riesce a raggiungere la situazione piacevole S2, che sparisce o non si comprende dove sia. Nonostante si tratti di un testoide narrativo, colpisce il fatto che questo schema sia adatto per strutturare le proposizioni riguardanti Berlusconi. All’inizio Berlusconi si trova nella situazione zero, S0: Berlusconi è contento, felice, pieno di successi. Le sinistre, la causa C, salgono al potere e gli tolgono i suoi valori e ideali, la sua libertà. Berlusconi si trova nella situazione S1 in cui è scontento e insoddisfatto. Per questo ha l’intenzione I di cambiare il sistema per recuperare la sua felicità. Quest’intenzione provoca la trasformazione T. Berlusconi abbandona la sua impresa per dedicarsi alla cosa pubblica. I suoi sostenitori l’appoggiano, l’aiutano a perseguire i suoi scopi, sono loro che rappresentano l’adiuvare A. Invece le sinistre ingannano la gente facendo finta di cambiare. Quest’opposizione da parte delle sinistre rappresenta la difficoltà D. L’elemento che manca nella narrazione “Per il mio Paese” è la situazione S2 che per il momento esiste solo in un altro mondo possibile, cioè nei sogni di Berlusconi. Si vede comunque che Berlusconi non rappresenta solo il filo conduttore del discorso ma diventa a poco a poco una specie di eroe fiabesco o persino mitologico.

5.2.3. Il testoide compensatore Il terzo testoide è quello compensatore che consiste di sei proposizioni: 1) X promette qualcosa a Y; 2) X chiede un riconoscimento a Y; 3) Y accetta l’offerta; 4) Y si impegna al compenso dovuto; 5) X adempie ciò che ha pro- messo; 6) e finalmente Y provvede al riconoscimento. Questo è lo schema canonico del testoide compensatore (cf. Metzeltin 1983, 56). In questo di- scorso politico invece, la rete di obbligazioni bilaterali non è solo ipotetica fin dall’inizio, ma anche in massima parte implicita. Inoltre la quinta e la se- sta proposizione si susseguono in ordine opposto. Quindi Berlusconi promet- te di sistemare la cosa pubblica (1). In seguito chiede alla gente di scendere in campo anch’essa (2). Implicitamente le chiede di condividere i suoi ideali e soprattutto di votare per lui (3). È certo che la gente non potrà fare a meno di accettare quest’offerta (4), di votare per lui (5); dopo di che il paese sarà sicuro, efficiente, generoso, tollerante, etc. (6) sempre grazie alla politica di Berlusconi. Si sa come operano i contratti ma tramite questo discorso gli udi- tori diventano la parte contraente senza rendersene conto; cioè sono confron- tati con un’offerta allettante a cui devono reagire.

107 Abbiamo visto che il testoide successivo serve a illuminare lo schema di fondo, quello trasformativo a ricavare il protagonista e quello compensatore a chiarire come funzioni l’interazione pragmatica. Le macroregole e i testoidi permettono di riassumere il discorso nel modo più obiettivo possibile, di comprendere la situazione globale, di ricavare sia il protagonista, sia le sue strategie.

5.3. La connessione di testoidi Se due proposizioni di due testoidi distinti si trovano in una determinata rela- zione connessiva, si può assumere che i testoidi stessi siano connessi nello stesso modo (cf. Metzeltin 1983, 61). Colpisce il fatto che in ognuno dei tre testoidi analizzati manca sempre una proposizione perché sia completo il te- stoide corrispondente. Nel testoide successivo ne manca una dopo la dodice- sima, cioè – L’Italia si è decisa per Berlusconi. Come detto prima nel testoi- de trasformativo manca la situazione S2 in cui Berlusconi raggiunge il suo scopo e quindi recupera la sua felicità. Nel testoide complementare la quarta proposizione – Y si impegna al compenso – deve essere eseguita prima che Berlusconi possa mantenere le sue promesse. Nei tre casi viene suggerito im- plicitamente che l’Italia deve votare o voterà per Berlusconi.

6. Le conclusioni implicite Ascoltato o letto tale discorso, si ha l’impressione che determinate cose sca- turiscano solo in forma di allusioni. Anche se sono rimaste non dette, sono state comunque espresse. Diventa quindi ancora più difficile cogliere il loro significato. Propongo perciò di elaborare uno schema che permetta di richia- mare la dovuta attenzione su ciò che sopra ho definito conclusioni implicite perché forse sono proprio queste che recano i messaggi decisivi. In primo luogo è necessario ricavare le proposizioni dalle frasi analogamente ai mo- delli di van Dijk o Metzeltin. In secondo luogo si devono estrapolare le con- clusioni implicite sia dalle proposizioni che dalle loro presupposizioni. In se- guito si eliminano le ripetizioni e si sistemano le altre proposizioni per farle finalmente confluire, una volta raggruppate, nelle macroproposizioni delle conclusioni implicite. La tappa dell’estrapolazione delle conclusioni implicite verrà illustrata con l’esempio di poche proposizioni. Ho segmentato le frasi del discorso in 197 proposizioni (P) dalle quali ho estratto 310 conclusioni implicite (CI). Le proposizioni 98 fino a 102 assieme alle loro presupposizio- ni (PR), ricavate inizialmente dalle conclusioni implicite, dicono quanto se- gue:

108 P98: Le sinistre vogliono trasformare il paese in una piazza urlante; PS: Le sinistre vogliono il caos; CI: È meglio che la gente stia zitta; P99: Le sinistre vogliono il chiasso; PR: Le sinistre permettono alla gente di gridare; CI: Bisognerà proibire le grida della gente; P100: Le sinistre vogliono l’insoddisfazione; PR 1: Le sinistre permettono alla gente di riflettere; PR 2: Le sinistre permettono alla gente di avere desideri; PR 3 (di sopra): La gente sarà generosa; PR 4 (di sopra): La gente sarà senza invidia; CI 1: La gente non avrà desideri; CI 2: La gente si accontenterà di quello che ha; P101: Le sinistre vogliono la critica; PR: Le sinistre permettono alla gente di criticare; CI 1: Criticare è negativo; CI 2: Non si deve prestare attenzione alla critica; P102: Berlusconi ed altri devono contrapporsi alle tendenze negative; PR 1: Esprimersi è una tendenza negativa; PR 2: Sentire i propri desideri è una tendenza negativa; PR 3: Lottare è una tendenza negativa; PR 4: Criticare è una tendenza negativa; CI 1: I buoni non si esprimono; CI 2: I buoni non hanno desideri; CI 3: I buoni non lottano; CI 4: I buoni non criticano. Le conclusioni implicite, recuperate in un lavoro minuzioso, vengono poi tra- sformate in macroproposizioni tramite l’applicazione della macroregola della generalizzazione. Successivamente le macroproposizioni permettono di ela- borare un riassunto affinché tutto sia ben strutturato e chiaro.

7. Un riassunto dei messaggi espliciti e impliciti del discorso Sebbene non sia possibile garantire l’obiettività assoluta, come sopra esposto, uno dei risultati possibili nel caso di questo discorso sarebbe il seguente: I vecchi partiti, rigidi, sporchi, ingiusti, deboli ed inefficienti hanno perso tutti i valori. Per loro la famiglia, l’individuo, l’impresa, la competizione, lo sviluppo, la so- lidarietà, la giustizia e l’efficienza non significano niente. Per questo motivo le sini- stre non funzionano più. Hanno lasciato un vuoto che deve essere colmato. Il popolo ha il potere di cambiare tutto perché può scegliere. I buoni italiani han- no già dimostrato di essere maturi manifestando il loro scontento nei confronti della vecchia politica. Non vogliono più parole ma risultati concreti. Gli italiani sono stati

109 ingannati. Adesso non devono più essere ingenui. Hanno un dovere, devono assumer- si le proprie responsabilità. Per questo devono decidersi per Berlusconi che creerà una nuova repubblica. La nuova politica cambierà gli italiani, provocherà una trasforma- zione di valori e causerà un diverso atteggiamento nei confronti del lavoro. Berlusconi spiegherà agli italiani i valori necessari per potenziare la libertà. Tutti i buoni italiani devono condividere i suoi ideali. I buoni italiani non devono più esitare a votare per Berlusconi. Nella nuova repubblica non ci sarà più spazio per le democrazie non-occidentali o non-cattoliche perché esse non perseguono i veri ideali. Il mondo cattolico invece è pulito, ragionevole e moderno per cui corrisponde alle esigenze dell’attualità. La politica liberale è un valore fondamentale come pure l’economia liberista. Gli imprenditori potranno contare su Berlusconi. Li sosterrà, darà loro soldi ed emanerà leggi vantaggiose per loro. Per questo motivo si dovranno trovare quei soldi altrove. Inoltre, leggi vantaggiose per gli imprenditori saranno svantaggiose per gli operai. Se per gli imprenditori ci sarà sostegno finanziario, ci sarà sostegno in forma di speranza per i deboli, i malati, i pensionati e i disoccupati. Nella nuova repubblica i buoni italiani avranno dei valori diversi. Rinunceranno a vantaggi personali ed egoistici, riterranno gli altri più importanti, rispetteranno la ric- chezza degli altri perché non invidieranno più nessuno. Si sottometteranno alle nuove regole. Ameranno il lavoro, si sacrificheranno per gli altri ma non tollereranno gli in- vidiosi, gli intransigenti, i pigri, gli egoisti. Si accontenteranno di ciò che hanno e non chiederanno di più. Non odieranno la società di classi perché le classi si rispetteranno, anzi, sosterranno pure loro gli imprenditori. Accettando questi valori e rispettando l’ordine e le leggi come principi basilari della nuova repubblica, gli italiani saranno sereni. Il successo economico e la sicurezza pubblica garantiranno la stabilità e la pace. I buoni italiani non criticheranno, non grideranno, non lotteranno e non avranno deside- ri egoistici. Poiché l’osservanza delle leggi sarà assolutamente necessaria, non si perdonerà più alcuna trasgressione. Per imporre l’ordine e per poter garantire una disciplina se- vera si dovranno adottare le misure di sicurezza più rigorose. La polizia e tutto l’esecutivo avranno più influenza e più potere. Berlusconi scende in campo per insegnare agli italiani la vita e la verità che i vec- chi partiti hanno tradito. Per inaugurare la nuova repubblica e poter implementare i nuovi concetti, i vecchi partiti devono sparire. Così Berlusconi formerà un governo e una maggioranza parlamentare solo con i suoi sostenitori e nessuno potrà più control- larlo. Berlusconi avrà il potere assoluto e potrà trasformare l’Italia come riterrà oppor- tuno.

110 8. Aspetti della grammatica testuale rilevanti per l’analisi del discorso di Berlusconi Per concludere vorrei dare uno sguardo ad un aspetto particolare della strut- tura superficiale del citato discorso. Come detto sopra, la grammatica testuale analizza tra l’altro come sono collegate le frasi che costituiscono un testo, le regolarità ed irregolarità trasfrastiche che servono da strategie di codificazio- ne e rispettivamente di decodificazione (cf. Gislimberti 1988, 2), poi analizza le forme assunte dalle unità semantiche sulla superficie e in che modo esse contribuiscano alla coesione come espressione della coerenza. Harweg (1968, 10s.) considera i pronomi i mezzi espressivi responsabili della costitu- zione del testo. Ventuno volte Berlusconi è il soggetto logico, che viene e- spresso nel discorso dal soggetto grammaticale io che, in ogni caso, essendo un soggetto sottointeso molte volte, si ricava solo dalla flessione verbale. Nove volte questo soggetto funge da elemento referenziale per gli aggettivi possessivi della prima persona singolare come forma di rinvio e tre volte è il pronome personale mi che rinvia ad esso. In questi casi la relazione fra ele- mento referenziale e forma di rinvio corrispondente è inequivocabile. D’altronde, non è sempre così chiaro. Il settimo paragrafo comincia con le parole “Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate [...]” (Berlusconi 2000, 290). L’elemento referenziale di “le nostre” è noi, riferendosi a Berlu- sconi assieme a tutti gli italiani. Più avanti dice, “[...] siamo costretti a con- trapporci a loro. Perché noi crediamo nell’individuo [...]” (op.cit., 291). In questo caso non è chiaro se noi, la prima volta sottointeso, la seconda volta espresso, si riferisca a “Berlusconi e tutti i buoni italiani” oppure a “Berlu- sconi e i suoi sostenitori politici attivi”. Nel nono e nel decimo paragrafo continua, sempre parlando del movimento politico, “[...] Ciò che vogliamo farne è una libera organizzazione di elettrici e di elettori [...], ciò che voglia- mo offrire agli italiani [...], noi vogliamo rinnovare la società italiana [...], vogliamo un governo e una maggioranza parlamentare [...]” (op.cit., 291– 292). Qui è chiaro che l’elemento referenziale è Berlusconi e i suoi sostenitori politici attivi. Verso la fine, quando dice “vogliamo una maggioranza” è senz’altro più ambiguo. Potrebbe benissimo includere almeno un’allusione a Berlusconi assieme a tutti i buoni italiani. Berlusconi conclude il discorso di- cendo “[...] possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano” (op.cit., 292). Qui è chiarissimo: sia il soggetto sottinteso, sia il pronome personale, sia pure l’aggettivo possessi- vo si riferiscono tutti a “Berlusconi assieme a tutti i buoni italiani”.

111 Questo discorso contiene varie ripetizioni assolute del sintagma nominale semplice l’Italia o rispettivamente Italia: “L’Italia è il Paese che amo” (op.cit., 289), “[...] mai come in questo momento l’Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di [...]” (op.cit., 290), poi, parlando del fallimento dei partiti comunisti in tutti i paesi, dice: “Né si vede come a questa regola elementare potrebbe fare eccezione proprio l’Italia” (loc.cit.). Una prima volta Italia appare nel sintagma nominale complesso “la storia d’Italia”, una seconda volta in “un’Italia più giusta, più generosa” (loc.cit.), e una terza volta nel nome Forza Italia (op.cit., 291). Si può osservare che la ripetizione della forma dà omogeneità e uniformità al discorso. Lo fa apparire come un’unità. Comunque, all’interno di una forma si possono o si devono nascondere distinti contenuti o concetti. E ciò non è casuale. Nel primo e- sempio il recettore è dapprima informato degli scopi perseguiti da Berlusconi assieme ai suoi sostenitori politici attivi. Invece, alla fine del discorso, il re- cettore, facendo parte del – noi possiamo e noi dobbiamo – viene coinvolto nel movimento senza accorgersene. L’elemento referenziale è stato cambiato, la forma di rinvio è rimasta identica. Anche nel secondo esempio le ripetizioni assolute e parziali creano quest’unità. La forma rimane uguale, il contenuto cambia. Se Berlusconi ama l’Italia, il suo amore si riferirà alla terra, alla bellezza del paese, alla storia, ai monumenti, al clima e magari anche alla gente del paese. Se invece più avan- ti dice che “l’Italia deve diffidare di profeti”, l’Italia significa esclusivamente “gli italiani”, e di nuovo il recettore ha un incarico senza rendersene conto. Hanno ragione Heinemann/Viehweger (1991, 36) quando affermano che la grammatica testuale da sola non può spiegare come funziona un testo. Comunque, non lo può fare da sola nemmeno la semantica testuale.

9. Bibliografia Adam, Jean-Michel, Éléments de linguistique textuelle, Liège, Mardaga, 19902. Berlusconi, Silvio, “Per il mio Paese”, in: Guzzanti, Paolo (ed.), L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, Milano, 2000, 289–292. Dijk, Teun A. van, Beiträge zur generativen Poetik, München, 1972. ———, Text and Context. Explorations in the semantics and pragmatics of discourse, London, 1977. ———, “Aspekte einer Textgrammatik”, in: Dressler, Wolfgang (ed.), Textlinguistik, Darmstadt, 1978, 268–299. ———, Macrostructures, Hillsdale, 1980a. ———, Textwissenschaft. Eine interdisziplinäre Einführung, Tübingen, 1980b.

112 ———, “The Semantics and Pragmatics of Functional Coherence in Discourse”, in: Boyd, J./Ferrara, A. (edd.), Speech Acts Theory: Ten Years Later, Milano, 1980c, 49–65. ———/Kintsch, Walter, Strategies of Discourse Comprehension, London, 1983. Garnham, Alan, Psycholinguistics. Central Topics, New York, 1985. Gislimberti, Silvio, Coesione testuale, Wilhelmsfeld, 1988. Halliday, Michael/Hasan, Ruqaiya, Cohesion in English, London, 1976. Harweg, Roland, Pronomina und Textkonstitution, München, 1968. Heinemann, Wolfgang/Viehweger, Dieter, Textlinguistik. Eine Einführung, Tübingen, 1991. Hlavsa, Zdenek, “Some comments on semantic macrostructures”, in: Hlavsa/Viehwe- ger 1989, 14–19. ———/Viehweger, Dieter (edd.), Makrostrukturen im Text und im Gespräch, Berlin, 1989. Kallmeyer, Werner et al., Lektürekolleg zur Textlinguistik. Band 1: Einführung, Frankfurt am Main, 1974. Kalverkämper, Hartwig, Orientierung zur Textlinguistik, Tübingen, 1981. Lerchner, Gotthard, “Zur Interaktion von Superstrukturen und Makrostrukturen bei der Konstituierung der Äußerungsbedeutung, dargestellt an einem literarischen Text”, in: Hlavsa/Viehweger 1989, 51–74. Metzeltin, Michael/Jaksche, Harald, Textsemantik, Tübingen, 1983. Motsch, Wolfgang, “Ebenen der Textstruktur”, in: idem (ed.), Ebenen der Textstruk- tur, Tübingen, 1996, 3–33. Petöfi, János S., “Zu einer grammatischen Theorie sprachlicher Texte”, in: Klein, Wolfgang (ed.), Textlinguistik, Frankfurt a. M., 1972, 31–58. Schäffner, Christiane, “Makrostruktur und Wortbedeutung illustriert am modernen politischen Wortschatz”, in: Hlavsa/Viehweger 1989, 75–94.

113

Scherzen und Lachen in innerbetrieblichen Besprechungen1 Monika Dannerer

1. Untersuchungsgegenstand und Untersuchungsbereich Humor, Witz, Ironie, Komik und Lachen sind Phänomene, die aus ver- schiedenen theoretischen Perspektiven seit langem beschrieben und erforscht werden. Erinnert sei hier nur an die antike Rhetorik, die Literaturwissen- schaft und in jüngerer Zeit nicht zuletzt auch an die Pragmatik. Die Abgrenzung der Begriffe ist allerdings offenbar nicht nur in der All- tagssprache unscharf; sowohl interdisziplinär als auch innerhalb der einzel- nen Fachbereiche scheint es bislang noch keine einheitlichen Definitionen zu geben (vgl. Günthner 1996, 81; Hartung 1998, 11–29; Preisendanz/Warning (edd.) 1976; Bakhtin 1968). Um terminologische Probleme vorerst hintanzu- stellen und nicht vorschnell den Blick auf ganz bestimmte Formen des Hu- mors einzuengen, möchte ich im Folgenden den Begriff des “Scherzens” bzw. der “Scherzkommunikation” im Sinne von Kotthoff als Oberbegriff verstehen, der Witziges, Komisches, Humor und Ironie einschließt (Kotthoff 1996, 8s. und 1998, 46).2 Als Grundlage von Humor bzw. Scherzen wird mehrheitlich die Inkon- gruenz hervorgehoben. Häufig geht es dabei um ein Spiel mit Normalform- erwartungen, um die Ausnutzung von Ambiguität und Phantasie (vgl. Kotthoff 1996, 10s. und 1998, 51). Inkongruenz ist allerdings nicht nur im Bezug auf semantische Relationen zwischen einzelnen Zeichen zu sehen, sondern ist im Sinne eines Spiels mit den Normen des sozialen Milieus und den kulturellen Wissensbeständen hochgradig situationsspezifisch und damit umgekehrt oftmals nur aus der Situation heraus verstehbar (vgl. Coser 1960/19962 und Kotthoff 1998, 61). Schmidt formuliert dies prägnant als Re- gel, ausgehend von der logischen Struktur des Prädikates komisch: “Ein Kommunikationspartner X ist komisch für/wirkt komisch auf den Kommuni- kationspartner Y aufgrund einer Situation a.” (1976, 168). Er verweist damit gleichzeitig darauf, dass es keine anthropologischen Gesetzmäßigkeiten des Komischen gibt, sondern dass das Komische historischen, sozialen und kul- ————— 1 Dieser Beitrag erscheint in einer längeren Fassung auch in: Becker-Mrotzek, Michael/Fiehler, Reinhard (edd.), Unternehmenskommunikation, Tübingen, im Druck. 2 Hier wird allerdings auch “Humor” als Oberbegriff gefasst und synonym zu “Scherzkommunikation” verwendet.

115 turellen Bedingungen unterliegt. Dieser Umstand bringt es mit sich, dass Scherze umgekehrt Rückschlüsse auf die Sozial-, Gefühls- und Wertestruktur der Beteiligten gewähren (vgl. Kotthoff 1996, 147). Inkongruenz kann so- wohl innerhalb der Proposition auftreten als auch bezogen sein auf die sprachlichen Handlungsnormen, mit denen eine Äußerung als solche nicht kongruent ist. Im Bezug auf die Funktionen, die das Scherzen erfüllt, herrscht weitge- hend Übereinstimmung, wobei immer wieder auf Sigmund Freud zurückge- griffen wird. Es sind dies zum einen Degradation und Aggression bzw. Ag- gressionsabfuhr (das Lachen als Verlachen) und die Austragung von Kon- flikten, und zum anderen Entspannung bzw. Unterhaltung (vgl. Kotthoff 1996, 11s.; Hartung 1996, 118). Beides kann mit der Etablierung oder Festi- gung von Gruppensolidarität in Verbindung stehen. Zwar gibt es Scherze bzw. Komik, auf die nicht mit Lachen oder Lächeln reagiert wird, doch ist das Lachen im allgemeinen eine der wichtigsten Kon- texualisierungsformen von Scherzen (vgl. Schwitalla 2001; Kotthoff 1996, 147). Lachen und Lächeln sind ein physiologisch, akustisch und/oder optisch mess- und beschreibbares Verhalten, das teilweise intentional ist und teilwei- se – als spontaner Ausdruck bestimmter Emotionen – ein symptomatisches Zeichen (vgl. Schwitalla 2001; Fietz 1996, 9). Es sind kommunikative, para- verbale Mittel, deren Bedeutung und Funktion allerdings weniger stark co- diert ist als der von verbalen Sprachanteilen.3 Lachen und Lächeln weisen sehr verschiedene Spielarten auf (z.B. ein unsicheres oder aber ein überlege- nes Lachen)4 und sind für sich genommen zunächst einmal ambivalent. Dies bringt es mit sich, dass sie jeweils nur im Kontext anderer Aktivitäten analy- sierbar sind. Sie können Ausdruck von Entspannung und Vergnügen sein und dieses indizieren bzw. herstellen,5 aber auch von Spannung und Kon- flikt. Kotthoff merkt allerdings an, dass das Lachen generell strengeren An- ————— 3 Inwieweit Lachen eindeutig decodierbar ist, wird u.a. von Fietz hinterfragt; er bemängelt, dass es bislang “weder Untersuchungen zu einer ‘Phonologie des La- chens’ [gibt], ganz zu schweigen von einer Analyse des Zusammenspiels von akustischen und körpersprachlichen Elementen im Rahmen eines eruierbaren und verifizierbaren kommunikativen Codes des Lachens.” (Fietz 1996, 11s.). 4 Vgl. z.B. Kotthoff (19962, 122s., 124); Fiehler (1990, 170); sowie den Verweis von Fietz (1996, 7) auf die Untersuchung zum Wortfeld “Lachen” von Schlaefer (1987). 5 Vgl. auch den Hinweis von Fineman (1996, 554), dass Lächeln und Humor den MitarbeiterInnen v.a. für Kontakte mit KundInnen antrainiert werden. Das Lä- cheln, das sie zur Schau tragen sollen, ist damit eben nicht Ausdruck ihrer aktuel- len Emotion, sondern ein intentionales Verhalten.

116 gemessenheitskriterien unterliegt, da es auch mehr Aggression ausdrücken kann (Kotthoff 19962, 124). Schwitalla (2001) unternimmt auf der Basis mehrerer Korpora den Ver- such, verschiedene Funktionen des Lachens zu systematisieren. Von beson- derer Bedeutung erscheinen mir unter den zwölf Funktionen, die er anführt, v.a. die folgenden:

• Ausdruck von freundlicher Einstellung (d.h. die phatische Funktion des Lachens), • Kontextualisierung von Scherz/Komik, • Schutz des fremden face, • Schutz des eigenen face, • Bedrohung des fremden face, • Bekenntnis zur Normdurchbrechung.6 Lachen kontextualisiert also einerseits das Scherzen und erfüllt zumeist ver- gleichbare Funktionen wie das Scherzen; allerdings ist es wichtig festzuhal- ten, dass Scherzen und Lachen zwar häufig, aber nicht notwendigerweise ge- meinsam auftreten. Scherzkommunikation und Lachen sind in der Linguistik empirisch v.a. in privaten Kommunikationssituationen erforscht worden (vgl. z.B. Kotthoff 1998, Hartung 1998). Im beruflichen Alltag bzw. in berufsbezogener Kom- munikation ist bislang sowohl von der Linguistik als auch von Soziologie und Psychologie wenig Augenmerk auf Formen scherzhafter Interaktion ge- legt worden (vgl. aber z.B. Schütte 1991; ferner den Forschungsüberblick von Fineman 1996). Nur am Rande beschäftigt sich die Unternehmenssoziologie und -psycho- logie mit Emotionen am Arbeitsplatz ganz allgemein, wobei Scherzen bzw. Lachen als eine der möglichen Ausdrucksformen von Emotionen gesehen werden können. Solchen Manifestationen werden allerdings meist nur be- ————— 6 Letzteres könnte allerdings – je nach konkreter Situation – auch als Schutz des ei- genen face interpretiert werden (wenn man selbst eine Normdurchbrechung voll- zogen hat und deren Relevanz herabstufen will) oder aber auch als Indiz des Ko- mischen (dann, wenn die Normdurchbrechung, die Regelverletzung schon als et- was Komisches gesehen werden kann – vgl. Fietz 1996, 19: “sympathisierendes Lachen”). Die anderen von Schwitalla genannten Funktionen lassen sich m.E. den von mir hervorgehobenen unterordnen: Die “Ankündigung eines peinlichen The- mas”, die “Distanzierung von verwendeten Wörtern”, der “Ausdruck von Überra- schung” und die “Ankündigung von etwas Paradoxem” können als Formen des Schutzes des eigenen face interpretiert werden, die “Demonstration von emotionaler Selbstdistanz” steht entweder ebenfalls dem Schutz des eigenen face nahe oder lässt sich mit der Kontextualisierung von Scherz/Komik in Verbindung bringen.

117 stimmte Zeiten und Plätze zugeschrieben, Fineman z.B. spricht von “emotio- nalized zones” (Fineman 1996, 556). Als ein Beispiel für solche Orte der Emotionalität nennt er – unter Bezugnahme auf Turner (1969) und Kunda (1992) – spielerische und informelle Episoden zwischen formal strukturierten Diskursformen wie z.B. Besprechungen. Fineman unterscheidet somit zwi- schen formal relativ stark geregelter berufsbezogener, “ernster” Kommunika- tion und informellen Gesprächen oder Gesprächsphasen am Arbeitsplatz, in denen über Berufliches oder über private Themen gesprochen und auch ge- scherzt werde. Eine solche Dichotomie wirkt auf den ersten Blick überzeugend. Jeder kennt aus eigener Erfahrung Scherze in der homileïschen Kommunikation in Arbeitspausen; Scherze in “ernsthaften” Arbeitssituationen scheinen demge- genüber vernachlässigbar selten vorzukommen.7 Gerade Besprechungen, de- nen ich mich in der Folge zuwenden möchte, sind ein institutioneller Dis- kurstyp, in dem – zumindest nach dem Wunsch der Firmenleitung und oft- mals auch nach den Vorstellungen der Teilnehmer8 – Effizienz angestrebt werden sollte, d.h. Sachlichkeit, hohe Informationsdichte und Kürze. Diese Voraussetzungen lassen es auf den ersten Blick eher nicht erwarten, dass hier auch scherzhafte Kommunikation stattfindet.9 Und doch lässt sich bei näherer Analyse eine Vielfalt an Scherzen und Lachen entdecken, die im Hinblick auf den Diskurstyp und seine spezifischen Handlungsmuster aufschlussreich ist. Ich möchte dabei der Frage nachgehen, wer mit wem worüber und an welchen Stellen in Besprechungen scherzt bzw. lacht und welche Funktionen das Scherzen und Lachen erfüllen.10 ————— 7 In manchen Korpora bzw. Besprechungen dürfte dies tatsächlich so sein. Vgl. einzelne Besprechungen aus meinem Korpus oder auch der Hinweis von Meier (1997, 222), s. Abschnitt 5. 8 Geschlechtsneutral im Sinne von “Teilnehmerinnen und Teilnehmer” verwendet. 9 Überdies haben Formen des “unernsten Sprechens” auch in der einschlägigen di- daktischen Literatur (Leitfäden zur Gestaltung von Besprechungen für Mutter- sprachlerInnen bzw. Beispiele von Besprechungen in Lehrwerken für Deutsch als Fremdsprache) keinen Platz. Inwiefern Scherze gerade im Hinblick auf die Etab- lierung von Macht, die ja auch ganz wesentlich innerhalb von Besprechungen er- folgt (vgl. Dannerer 1999, 257–289), aussagekräftig sind, wäre ebenfalls eine ein- gehendere Untersuchung wert (vgl. auch den Hinweis von Thimm/Augenstein 1996, 248, dass sich verschiedene Funktionen des Lachens auch als implizite Formen von Durchsetzung beschreiben lassen). 10 Hartung (1996, 111s.) hält fest, es sei sinnvoll, “Formen von Scherzkommunika- tion nach dem sozialen Gefüge zu differenzieren, in dem sie stattfinden, da sich Funktion und Beschaffenheit in systematischer Weise unterscheiden.”

118 2. Datenkorpus Das hier zugrundeliegende Korpus besteht aus acht Videoaufnahmen von Besprechungen mit einem Gesamtumfang von ca. zwölf Stunden. Ich habe diese Besprechungen in einer großen österreichischen Firma aus dem Bereich Maschinenbau und Messtechnik aufgezeichnet. Es waren authentische, d.h. nicht für die Aufnahme inszenierte Besprechungen in zwei verschiedenen, abteilungsübergreifend zusammengesetzten Gruppen. Die Teilnehmer – unter ihnen war nur eine Frau – standen in der Firmenhierarchie auf verschiedenen Ebenen, vom “einfachen” Projektmitarbeiter bis zur Ebene des Hauptab- teilungsleiters. Die Gruppe “Forschung und Entwicklung” (FuE) war für die Entwick- lung eines neuen technischen Gerätes zuständig, an der sie zum Zeitpunkt der Aufnahmen seit ca. einem Jahr arbeitete. Bei den von mir aufgezeichneten Besprechungen waren jeweils maximal sechs Personen anwesend, je zwei aus einer Abteilung. Besprechungen fanden in dieser Gruppe ca. alle vier bis sechs Wochen statt, je nach Bedarf auch mit erweitertem Teilnehmerkreis. Informelle Kontakte gab es wesentlich öfter, teilweise täglich. Die Gruppe “Software” (EDV) beschäftigte sich mit der Implementierung bzw. Optimierung und besseren Akzeptanz einer neuen, firmeninternen Soft- ware. Diese Gruppe war weniger fest gefügt bzw. auch weniger klar struktu- riert. Einige Mitarbeiter nahmen an wöchentlichen Treffen teil, andere kamen nur sporadisch.

3. Positionen, Formen und Funktionen von Scherzkommunikation 3.1 Scherzen und Lachen in den Handlungsmustern “Besprechungs- eröffnung” und “Besprechungsbeendigung” Besprechungen sind Gesprächstermine, bei denen im vorhinein für einen be- stimmten Teilnehmerkreis die Behandlung eines vereinbarten Themas/ver- einbarter Themen in einem fixierten Zeitrahmen festgelegt wird. Zum Zeit- punkt des Beginns von Besprechungen müssen alle Teilnehmer pünktlich am vereinbarten Ort eintreffen und ihre gerade aktuelle Arbeit aufgeben und sich auf etwas anderes (das Besprechungsthema) konzentrieren. Dabei entstehen zum einen meist Wartezeiten und zum anderen muss der Besprechungsleiter dann zunächst einmal die thematische Fokussierung etablieren und die Grup- pe “arbeitsfähig” machen. Wenn man die Herstellung oder Festigung von Gruppensolidarität und den Abbau von Spannungen als wichtige Funktionen des Scherzens auffasst und Scherze v.a. als Bestandteil homileïscher Kommunikation vermutet, so ist es

119 daher naheliegend, zunächst einmal in den Besprechungseröffnungen und -beendigungen nach Scherzkommunikation zu suchen, dort also, wo die ge- meinsame Kommunikationssituation hergestellt bzw. wieder aufgelöst wird. Die Wartezeit vor dem Beginn von Besprechungen wird teilweise mit Smalltalk gefüllt (hierbei sind Scherze häufig), teilweise mit Ad-hoc- Gesprächen über Fachliches, die sehr konzentriert geführt werden und in de- nen ich keine Formen des Scherzens beobachten konnte. Das Handlungsmuster “Besprechungseröffnung” selbst weist die folgen- den Musterpositionen auf: Begrüßung, Identifikation der Teilnehmer sowie Festlegung ihrer besprechungsspezifischen Rollen (Besprechungsleiter und Protokollschreiber), Themenbenennung, Festlegung des Vorgehens zur The- menbearbeitung, Festlegung des gemeinsamen Besprechungszieles und Rati- fizierung oder Ergänzung von Thema, Bearbeitung und/oder Bespre- chungsziel (vgl. Dannerer 1999, 60ss.). Scherze finden sich in meinem Korpus v.a. dann, wenn das Vorgehen bei der Themenbearbeitung fixiert wird, wenn die Aufgabe des Protokollschrei- bens festgelegt wird (s.u., Abschnitt 3.2.) und natürlich auch im Hinblick auf die ungewohnte Aufnahmesituation.11 In einer der EDV-Besprechungen ist auch eine ironische Bemerkung gegenüber einem Zuspätkommenden zu fin- den. In allen Fällen werden Scherze im Rahmen dieses Handlungsmusters von statushöheren Teilnehmern gemacht.12 Im Handlungsmuster “Besprechungsbeendigung” ist ebenfalls die Festi- gung des Gruppengefühls die am häufigsten anzutreffende Funktion von Scherzen. Dies scheint v.a. dann als notwendig empfunden zu werden, wenn Konflikte die Besprechung dominiert haben. Insgesamt sind Scherze am Ende von Besprechungen allerdings nicht so häufig wie bei den Besprechungser- öffnungen, mit ein Grund dafür mag der oftmals beobachtbare Zeitdruck sein.

3.2 Scherzen und Lachen im Handlungsmuster “Aufgaben-Festlegen” Die Scherze, die während des “Hauptteils” von Besprechungen gemacht wer- den, entfallen zu einem auffallend großen Teil auf ein Handlungsmuster,

————— 11 Dies ist ein Indiz dafür, dass sich die MitarbeiterInnen zu Beginn der Bespre- chung der Aufnahmesituation noch bewusst sind; im Hinblick darauf sollte man das gehäufte Auftreten von Scherzen in den Besprechungseröffnungen vielleicht auch nicht überbewerten. 12 Zu den Zusammenhängen zwischen Scherzen und Macht bzw. Hierarchie vgl. Abschnitt 4.

120 nämlich das “Aufgaben-Festlegen”.13 Die Ursachen dafür möchte ich anhand von zwei Beispielen verdeutlichen. Das Handlungsmuster “Aufgaben-Festlegen” ist zentral im Rahmen der Planung von weiterer Kooperation und gleichzeitig interaktiv nicht immer einfach zu realisieren. Die wesentlichen Musterpositionen sind:

• Benennung der Aufgabe (und fakultativ auch ihre Begründung), • Benennung des/der Ausführenden, • Angabe eines Zeitrahmens und • Ratifizierung. Der Zweck dieses Handlungsmusters ist die verbindliche Zuordnung zwi- schen einer zu erfüllenden Aufgabe und einer Person, die prinzipiell in der Lage ist, die dazu nötigen Tätigkeiten auszuführen. Dabei kann sich der Aus- führende selbst benennen – ich spreche dann von einem selbstinitiierten Auf- gaben-Festlegen – oder aber durch andere Teammitglieder vorgeschlagen bzw. aufgefordert werden, dann handelt es sich um ein fremdinitiiertes Auf- gaben-Festlegen. Ein Teil der Scherze zu Beginn von Besprechungen steht mit diesem Handlungsmuster im Zusammenhang, da hier – wie erwähnt – die Aufgabe des Protokollschreibens festgelegt wird. Üblicherweise stellt dabei der Be- sprechungsleiter die Frage, ob sich jemand freiwillig meldet. Da die Aufgabe unbeliebt ist, sind Fremdzuweisungen und z.T. auch Ausweichversuche zu beobachten, die häufig mit Scherzen verbunden sind. Beispiel 1: “danke für den ehrenwerten Auftrag” (FuE-3, 2-8)14

W bereiterklärt den * Diskussionsleiter zu machen, * wer 2

Ku der Herr Doktor Hall * W macht den * Schriftführer. *** der #- 3

H danke für den ehrenwerten Auftrag * #------lachend ------# Ko #- - - lacht - - - - # W Herr Doktor Hall - lachend - - - # 4 ————— 13 Selbstverständlich kommt Scherzkommunikation auch an anderen Stellen bzw. in anderen Handlungsmustern vor. Hierbei scheint es allerdings keine signifikante Bindung an bestimmte Handlungsmuster zu geben. 14 Zu den Transkriptionskonventionen vgl. 8. Anhang.

121 H angenommen #- lacht - -# #lachend # Ku angenommen. ja, das war ja nur ein Vorschlag. #- - - lachend ------# 5 alle lachen H ja, das war ein Vorschlag. #- - lachend ------# L Herr Kurz Sie habn so viel 6

Ko einstimmig angenommen # - - - -lachend - -# L Autorität, daß wir des nie wagen würden Ihre Vorschläge #- - - lachend - 7

L in Frage zu z/ stelln * ja. - - - - lachend - - - # W * aber i glaub soll ma no 8

H # ------macht Notizen ------W wartn. hm, oder, ** wart ma nich / ich ich * hätte ebn 9 Auf die Frage des Besprechungsleiters Watt hin (“wer macht den Schriftfüh- rer”) entsteht eine Pause von drei Sekunden, dann benennt der Abteilungsleiter Kurz einen anderen Abteilungsleiter, Herrn Hall, als Protokollant (“der Herr Doktor Hall”). Er tut dies in einer sehr direktiven Weise, indem er einfach sei- nen Namen (mit dem vorangestellten bestimmten Artikel und der Anrede “Herr Doktor”) nennt. Herr Watt wiederholt dies echohaft aber lachend, auch Herr Kolb stimmt in dieses Lachen ein. Herr Hall antwortet ebenfalls lachend, indem er sich ironisch für den “ehrenwerten Auftrag” bedankt (Bsp. 1, 4). Die Auffor- derung zur Ratifizierung (“angenommen. ja,”) bzw. die Ratifizierung (“angenommen”) werden von Kurz und Hall ebenfalls lachend ausgeführt. Hiermit ist die eigentliche Aufgabenfestlegung abgeschlossen. Die Scherz- sequenz wird von Herrn Kurz aber noch weiter ausgebaut, indem er die Illo- kution seiner Äußerung als “Vorschlag” thematisiert, was drei weitere la- chende Äußerungen von Hall, Kolb und Land evoziert. Die Replik von Herrn Land, Herr Kurz habe “so viel Autorität”, ist dabei eine in gewissem Sinne ironische Übertreibung. Zwar verfügt Herr Kurz tatsächlich über eine (v.a. fachliche) Autorität in der Gruppe; allerdings ist Land neuerdings sein Vor- gesetzter und könnte sich, wie in anderen Fällen auch, durchsetzen. Das abschließende “ja.” mit fallender Intonation und ein Wechsel im Tonfall kontextualisieren das Ende der Scherzinteraktion.

122 Hier entsteht Komik offensichtlich durch Inkongruenz im Bezug auf die Kommunikationsnormen: Mit seiner elliptischen Äußerung hat Herr Kurz zweifach die in der Gruppe geltenden Normen durchbrochen. Zum einen würde in dieser Situation eine selbstinitiierte Aufgabenfestlegung eindeutig bevorzugt, d.h. normalerweise – das wird aus anderen Festlegungen des Pro- tokollschreibers deutlich – meldet sich jemand “freiwillig” als Schriftführer. Zum anderen liegt seiner Äußerung nicht die präferierte Realisierung der Il- lokution zugrunde: Eine Fremdinitiierung müsste zumindest als höfliche Bit- te gegenüber dem hierarchisch gleichgestellten Herrn Hall formuliert werden, oder eben als “Vorschlag”, nicht aber als Festlegung, die eine face- Bedrohung darstellt. Herr Kurz vollzieht hier also eine Normübertretung und markiert gleichzeitig mit seinem Lachen, dass er dies bewusst tut. Das Scherzen erfüllt hier eine face-wahrende Funktion sowohl für Herrn Kurz als auch für Herrn Hall: Herr Kurz bekennt sich zur Normdurchbre- chung (vgl. Schwitalla 2001) und ermöglicht gleichzeitig Herrn Hall die An- nahme seiner direktiven Aufgaben-Festlegung ohne dass Halls Ansehen da- durch Schaden nehmen würde. Auch bei anderen Aufgaben-Festlegungen treten immer wieder scherz- hafte Interaktionen und Lachen auf. Das zweite Beispiel stammt aus einer EDV-Besprechung. Der Hauptabteilungsleiter Perg hat in dieser Bespre- chung die Forderung nach einem Handbuch für die neue Software erhoben. Die festzulegende Aufgabe ist also die Erstellung eines solchen Handbuches. Es wird zunächst mit der “Aushandlung des Zeitrahmens” begonnen; ohne hier zu einem Ergebnis zu kommen, wird die Musterposition “Aushandlung des potentiell Ausführenden” eingebettet. Herr Perg lehnt die von Projektlei- ter Stab vorgeschlagene Mitarbeiterin nämlich ab und verlangt jemanden mit entsprechendem Wissen über die Software FIP (Bsp. 2, s-254-255).15 Herr Stab, der nicht nur Projektleiter sondern genauso wie Herr Perg Hauptabtei- lungsleiter ist, bietet daraufhin an, dass Herr Perg sich selbst eine Arbeits- kraft aus dem FIP-Team auswählen solle, die ihm geeignet erscheine (Bsp. 2, s-257-260). Beispiel 2: “suchn Sie si an aus” (EDV-1, s-254-261)

P na es braucht ja an relativ an relativ St zuordnen. hab i s-254 ————— 15 Der Index “s” in Verbindung mit der Partiturflächennummer bedeutet, dass es sich um einen Abschnitt in der Besprechung handelt, der nach den ersten Signalen für eine Beendigung der Besprechung angesiedelt war.

123 P gscheitn Mann der des schreibt. des is ja net so ohne. St na ah s-255

St naja aber * ja. wähln Sie si an aus aus m Projektteam. s-256

St wen des is es * des is es FIP-Know-how. lacht W lacht s-257

S ( ) ich stelle die Frage anders. St ( ) das sind s-258

St Leute mit FIP-Know-how. die können des machn. * wer s-259

P Stab könnt St soll’s machn. suchn Sie si an aus * # - lachend - - - # s-260

P des gut. #alle lachen ------# S Herr Doktor Stab i seh’s / s-261 Sowohl in Bsp. 2, 257 als auch in 260, bei der Wiederholung des Angebots, lacht Herr Stab bzw. spricht lachend. Damit signalisiert er bereits den unerns- ten Charakter dieses Angebots. Perg antwortet darauf ironisch “Stab könnt des gut”. Er greift also den Scherz auf und steigert ihn noch – es wäre bereits ungewöhnlich, wenn der Projektleiter die Auswahlfunktion jemand anderem überließe, noch ungewöhnlicher wäre es, wenn er selbst die Aufgabe des Handbuch-Verfassens übernehmen würde. Alle Teilnehmenden quittieren diese Replik daher auch mit einem Lachen. Noch bevor dieses abebbt, ver- sucht Herr Salz erneut (wie bereits auch in 258), den turn zu erhalten und führt zur Musterposition “Aushandeln des zeitlichen Rahmens” zurück. Auch hier resultiert die Komik aus der Inkongruenz bzw. dem Verstoß gegen die kommunikativen Normen in der Gruppe, die regeln, wer in wel- cher Weise welche Aufgaben festlegen kann bzw. wer wen in welcher Weise zu einer Aufgabe verpflichten kann. Dazu kommt noch, dass Perg auf Stab nicht mit dem Anredepronomen referiert, sondern ausschließlich mit der Nennung des Namens, so als ob er über einen Abwesenden sprechen würde. In dieser Weise und für diese Aufgabe kann Herr Perg Herrn Stab also nicht verpflichten. Seine Schlagfertigkeit – die Antwort kommt durchaus über- raschend – löst überdies allgemeines Lachen aus.

124 Die Ursache für die scherzende Äußerung von Stab und damit auch von Herrn Perg ist hier allerdings eine andere als im dritten Beispiel: In diesem Fall geht es nicht nur um eine einfache Aufgabenfestlegung, sondern es droht ein Konflikt, da Herr Perg mit seiner Ablehnung der vorgeschlagenen Mitar- beiterin eigentlich seine Kompetenzen überschritten hat. Indem Herr Stab ihm lachend nachträglich diese Kompetenz auch erteilt und Herr Perg darauf mit einem Scherz eingeht, wird dieser potentielle Konflikt sozusagen “im Keim beigelegt”. Allerdings ist damit auch die Musterposition “Benennung des/der Ausführenden” abgeschlossen und wird vorläufig nicht mehr thema- tisiert. Herr Perg hat sich mit seinem Scherz erfolgreich der “Verpflichtung” entzogen, einen konstruktiven Gegenvorschlag zu machen.16 Abgesehen von solchen Beispielen ist bei Aufgaben-Festlegungen auch manchmal ein Lachen zu beobachten, das nicht die Funktion der Kontextuali- sierung von Scherzen erfüllt. Dies ist v.a. dann der Fall, wenn einem status- niedrigeren Mitarbeiter sozusagen “von oben” Aufgaben übertragen werden und er sich nicht gegen die Übernahme dieser Aufgaben wehren kann. Das Lachen kann hier in der Aushandlungsphase Ansätze von Widerstand signa- lisieren, es kann aber auch – nachdem eine Aufgabe übernommen werden musste – dem Schutz des eigenen face dienen: Der Unterlegene signalisiert mit seinem Lachen, dass er der Angelegenheit keinen größeren Wert beimisst (vgl. auch Schwitalla 2001). Abschließend scheint es mir noch wichtig darauf hinzuweisen, dass im Rahmen des Handlungsmusters “Aufgaben-Festlegen” auch in anderen Kor- pora von Besprechungen Beispiele des Scherzens zu finden sind. So etwa bei Menz (2000, 260–263), wo es um die Aushandlung bzw. Bestätigung eines Termins für eine Aufgabe geht, d.h. um die Musterposition “Angabe eines Zeitrahmens”. Die beiden Mitarbeiter signalisieren sich ge- genseitig durch ironisierendes Sprechen ihre übereinstimmend negative Be- wertung von Freitag-Nachmittag-Terminen.17 ————— 16 Eine ähnliche Funktion erfüllen auch die Beispiele bei Müller (1997, 278s.); die Ernsthaftigkeit eines drohenden Konfliktes wird reduziert, indem die erwartbare Reaktion auf eine Äußerung durch einen Scherz ersetzt wird. 17 Das Scherzen hat hier zwei Funktionen: Einerseits die Wahrung des face, denn beide Mitarbeiter sehen die Notwendigkeit, dass Arbeiten an einer EDV-Anlage außerhalb der Hauptarbeitszeiten erfolgen müssen und bestätigen sich gegenseitig, dass es we- der ihre Schwäche noch böse Absicht dem Kollegen gegenüber ist, mit den Kunden solche Termine zu vereinbaren. Andererseits erfüllt das Scherzen hier eine gruppen- dynamische Funktion, die beiden Mitarbeiter zeigen Übereinstimmung in der Be- wertung solcher Arbeitszeiten. Vgl. auch die ausführlichere Interpretation unter Ein- bezug der prosodischen Signale bei Menz (2000, 260–264).

125 An einem amerikanischen Korpus innerbetrieblicher Kommunikation aus einem kleinen Familienbetrieb hat auch Vinton die Beobachtung gemacht, dass Scherze, speziell Frotzeleien, häufig genutzt werden, um Aufgaben fest- zulegen bzw. Handlungsaufforderungen auszusprechen (Vinton 1989). Müller (1997) analysiert ebenfalls einige Vorkommen von Scherzen in seinen Besprechungen (z.B. 204s. und v.a. 278–283), die im Rahmen des Handlungsmusters “Aufgaben-Festlegen” stehen. Müller interpretiert dabei die Funktion des Scherzens dahingehend, dass Zweckorientiertheit und The- menfixiertheit von Gesprächen kurzzeitig ausgeblendet werden und dass er- wartbare Reaktionen auf Äußerungen vermieden oder zumindest verschoben werden können; der Sprecher weiche der Situation aus, indem er sie umdefi- niert. Dadurch werde die Ernsthaftigkeit eines drohenden Konflikts reduziert (z.B. scherzen statt Schuld eingestehen).18

4. Macht und Hierarchie in Scherzen Insgesamt werden Scherze zum überwiegenden Teil von ranghöheren Teil- nehmern initiiert, Rangniedrigere tendieren eher zum Mitlachen bzw. sind ih- re Scherze eher reaktiv (vgl. auch Thimm/Augenstein 1996). Dies gilt auch für Scherze, die auf Wortspielen, Paradoxien und anderen Formen “purer Komik” basieren und hier bisher noch nicht erwähnt wurden. Die wenigen Fälle, in denen rangniedrige Teilnehmer mit Hilfe von Scherzen Kritik äußern oder Aufgaben-Festlegungen ablehnen, kommen nur in Besprechungen vor, in denen insgesamt häufig(er) gescherzt wird (einzel- ne Besprechungen der EDV-Gruppe bzw. Besprechungen im Korpus von Menz 2000). Ob es hier einen signifikanten Zusammenhang gibt, müsste al- lerdings noch überprüft werden. Das Scherzen dient dabei in jedem Fall da- zu, die Äußerungen abzuschwächen und damit die face-Bedrohung gegen- über dem Vorgesetzten zu reduzieren. Außerdem sichert sich der Statusnied- rigere damit eine Rückzugsmöglichkeit. Sollte daraus ein Konflikt entstehen, kann er sich darauf berufen, “nur einen Scherz” gemacht zu haben bzw. er kann seine Äußerung weiter abschwächen. Während das Scherzen also statusabhängig ist, ist dies das Lachen ohne Scherzen zum überwiegenden Teil offenbar nicht. Lachen zum Schutz des ei- genen face ist beispielsweise dann festzustellen, wenn jemand innerhalb der ————— 18 In meinem Korpus treten zwar solche Fälle durchaus auf (s.o.), allerdings möchte ich die Funktion von Scherzen in Besprechungen keineswegs darauf reduzieren. Auch das Vorkommen am Ende von “Interaktionsmustern” (Müller 1997, 279) sehe ich keineswegs so durchgehend gegeben.

126 Fachdiskussion einen unfachlichen Vergleich oder Ausdruck verwendet. Das Lachen signalisiert dabei, dass sich der Sprecher dieser Normverletzung be- wusst ist. Gelacht wird auch, wenn aus anderen Gründen unzutreffende Äu- ßerungen gemacht wurden oder Irrtümer passierten, auch hier dient das (ent- schuldigende) Lachen vorwiegend dem Schutz des eigenen face.

5. Zur quantitativen und qualitativen Relevanz des Scherzens und La- chens in Besprechungen Ich möchte den bisherigen qualitativen Analysen noch einige quantitative Beobachtungen ergänzend hinzufügen,19 zumal ja – wie eingangs erwähnt – Scherzen und Lachen in Besprechungen häufig als ein marginales oder gar inexistentes Phänomen von einer näheren Untersuchung ausgeschlossen wer- den.20 In meinem eigenen Korpus ist auffällig, dass die Häufigkeit des Lachens und Scherzens offensichtlich z.T. gruppenspezifisch ist. Umgerechnet auf die Gesamtlänge sind sie in den EDV-Besprechungen mehr als dreimal so häufig wie in den FuE-Besprechungen. In den viereinhalb Stunden, die von der FuE-Gruppe transkribiert vorliegen, sind es lediglich 13 Stellen, die überdies zumeist kürzere Sequenzen darstellen, manchmal auch nur ein einmaliges kurzes Auflachen eines Mitarbeiters. Darüber hinaus sind jedoch auch zwischen den einzelnen Besprechungen ein und derselben Gruppe sehr große Schwankungen festzustellen: Beispiels- weise wird in der ersten FuE-Besprechung während mehr als 90 Minuten le- diglich einmal gescherzt, in der dritten hingegen sind in 60 Minuten sechs Vorkommen von Scherzen oder Lachen zu verzeichnen. Auch in der EDV- Gruppe sind die Unterschiede zwischen den einzelnen Besprechungen be- trächtlich. ————— 19 Dabei bin ich mir sehr wohl der Problematik eines quantitativen Vorgehens be- wusst, u.a. auch aufgrund der nicht immer eindeutigen Identifikation von Scherz- kommunikation (vgl. auch Hartung 1998). Auch die Vergleichbarkeit von Korpo- ra ist wohl nur sehr bedingt gegeben. 20 Meier (1997, 222) streicht heraus, dass sich u.a. in diesem Bereich Unterschiede zwischen Arbeitsbesprechungen und Besprechungen im Freundeskreis manifestie- ren, wo Einwände gegen Vorschläge oder Argumente u.a. für Frotzeleien, Witze und Fiktionalisierungen genutzt werden, während sie im beruflichen Kontext “zumeist in einer sachlichen Art und Weise vorgebracht” werden. Diese Gegen- überstellung trifft zwar für sein Korpus zu, ich denke aber, dass dies bestenfalls als Tendenz, nicht aber als signifikantes Unterscheidungsmerkmal oder als abso- luter Gegensatz gewertet werden kann.

127 Die Gruppenspezifik in der Häufigkeit von Scherzen, die in gleicher Wie- se in privater Kommunikation beobachtet worden ist,21 erklärt wohl auch die sehr unterschiedlichen Ergebnisse in den einzelnen Korpora von Besprechun- gen. Während Meier (1997, 222) in seinen Arbeitsbesprechungen keine nen- nenswerten Vorkommen von Scherzen feststellt, Müller und Schwandt keine näheren Angaben machen,22 zählt Coser (1960/19962, 100) hingegen durch- schnittlich fünf Witze pro Besprechung23 und Menz (2000) gibt sogar eine kurze Sequenz von sieben Minuten wieder, in der allein sechs Scherze auftre- ten. Welche Faktoren in einer Gruppe sind nun dafür verantwortlich, ob und wieviel gescherzt wird? Im Bereich der privaten Kommunikation werden diesbezüglich folgende Variablen als relevant genannt: die Dauer der Bezie- hung, ihre Intensität, ihr Zweck und ihre Aktualisierung, d.h. die Zweckge- richtetheit des aktuellen Gesprächs (Hartung 1996, 111s.). Ohne hier im Detail auf meine Befunde einzugehen sei festgehalten, dass diese Faktoren für Besprechungen in groben Zügen plausibel erscheinen, dass sich aber auch Unterschiede ergeben und jedenfalls nicht auf monokau- sale Erklärungen zurückgegriffen werden kann. Bezüglich der Dauer und Intensität der Arbeitsbeziehungen gibt es zwi- schen den beiden Gruppen keine signifikanten Unterschiede, die das wesent- lich häufigere Scherzen in der EDV-Gruppe plausibel machen würden: wenn man die diesbezüglichen Werte nicht nur für die Teilnehmer berücksichtigt, die vornehmlich an den Scherzen beteiligt sind, sondern jeweils für die Ge- samtgruppe vergleicht, so liegen sie sogar in der FuE-Gruppe um einiges hö- her.24 ————— 21 Hartung (1998, 70) zählt umgerechnet zwischen 7 und 40 Vorkommen ironischer Kommunikation je 90 Minuten. 22 Müller hat jedoch einige Scherzsequenzen ausführlich thematisiert, wobei drei der Beispiele aus ein und derselben Meisterbesprechung stammen (Müller 1997, 202s., 213, 248s.). Die Beispiele von Schwandt (1995, 196, 199) sind nicht aus- reichend kontextualisiert und daher im Bezug auf das Scherzen nicht auswertbar. 23 Allerdings macht sie keine Angaben über die Länge der Meetings; wichtig ist, dass Coser auch nur diejenigen scherzhaften Äußerungen berücksichtigt, die als solche intendiert sind und auf die auch mit Lachen reagiert wird; wieviele unfrei- willig komische Äußerungen und nicht-ratifizierte Scherze es in ihrem Korpus gibt, hält sie leider nicht fest. 24 In der FuE-Gruppe schwankt die Dauer der Bekanntheit stark (zwischen einem und elf Jahren), der Grad der Bekanntheit wird im Durchschnitt mit 1,9 angege- ben (1 = sehr gut, 5 = fast nicht), wobei die Schwankungsbreite der Angaben zwi- schen 1 und 3,5 liegt (13-mal wird 1 oder 1,5 angegeben). In der EDV-Gruppe

128 Auch die Variable der Zielgerichtetheit greift nicht durchgehend. Im all- gemeinen besteht in den Besprechungen der EDV-Gruppe ein niedrigerer zeitlicher Problemlösungsdruck bzw. eine geringere Notwendigkeit, ein kon- kretes Ergebnis zu erzielen als in der FuE-Gruppe. Allerdings ist es auffällig, dass gerade in der zweiten EDV-Besprechung, wo ein solcher Druck eben- falls gegeben ist, keineswegs weniger gescherzt wird. Ergänzend möchte ich daher die Hypothese aufstellen, dass sich in einer Firma, einer Abteilung oder auch einer Projektgruppe so etwas wie ein “Gruppenstil” herausbilden kann, der den Umgang miteinander prägt und über Faktoren wie Thema oder Tagesverfassung hinaus wirksam ist. Dieser Stil kann beeinflusst sein durch die kommunikative Gewandtheit, die Pro- fessionalität in der Kommunikation, aber auch durch spontane individuelle Sympathie – man “kann miteinander”. Diese Hypothese ließe sich auch anhand des folgenden Interviewaus- schnittes aus Menz (2000, 139s.) stützen, in dem deutlich wird, dass eine ho- he Bereitschaft zum Scherzen bzw. allgemein zum Ausleben von Emotionen innerhalb der Firma als etwas Besonderes aufgefasst wird. Eine Mitarbeiterin berichtet über das Arbeitsklima in ihrer Abteilung, dass es zwar manchmal durch Privates negativ beeinflusst werde, jedoch

“da gibt s aba die ZEIT – da fang ma um NEUN Uhr an zum LA:CHn und dann LACH ma den ganzn TAG bisunter und TUN LAUter BLÖDsinn. dann mach ma MA:rathonLAUF durch die ganz / durch die ganze Nerix [...] wurscht ob Kundn DA sind oder nicht – wir SCHREIn uns gegnseitig an oda LACHn oda erZÄHLn WITZe oda - - / es is - / ich WEISS nicht also es is a SCHON eine KOMische Firma wo ich da REINgekommen bin - - aba: - wie gesagt ich bin EHer so ein LUStiger TYP.”

6. Zusammenfassung • Besprechungen sind zwar ein Diskurstyp, der stark durch institutionelle Vorgaben geprägt ist und in dem häufig das Streben nach Effizienz eine Rolle spielt, allerdings handelt es sich keineswegs um einen Diskurs- typ, in dem nur dann gescherzt und gelacht wird, wenn es eine Pause in der Besprechung gibt, wenn die Besprechung sozusagen ausgesetzt und homileïsche Kommunikation eingeschoben wird, oder in dem auf Scherze per definitionem überhaupt verzichtet würde. Es ist also eine

schwankt die Dauer des Sich-Kennens zwischen zwei und 13 Jahren, der Grad der Bekanntheit wird im Durchschnitt mit 2,5 beurteilt, hier schwanken die Angaben zwischen 1 und 5 (8-mal 1 oder 1,5) (vgl. Dannerer 1999, 34–38).

129 Fiktion, dass in Besprechungen oder gar in berufsbezogener Kommuni- kation allgemein nicht gescherzt oder gelacht würde. • Scherzen erscheint in Besprechungen eher als eine Modalität des Spre- chens, mit deren Hilfe Inkongruenzen und Normübertretungen markiert werden können, die funktional ist im Bezug auf Konfliktreduzierung, Etablierung von Wir-Gefühl und facework. Demgegenüber tritt das Scherzen als Erzählen von Witzen, Anekdoten oder lustigen Erlebnis- sen tatsächlich in den Hintergrund. Ich habe den Eindruck gewonnen, dass in diesem Diskurstyp eher “allen Ernstes” gescherzt wird. • Berücksichtigt man diese Funktionen, so ist es sehr plausibel, dass Scherze und Lachen verstärkt in den Handlungsmustern “Bespre- chungseröffnung” und “Aufgaben-Festlegen” auftreten. Bei der Be- sprechungseröffnung geht es um die Stabilisierung der Gruppe, das “Aufgaben-Festlegen” ist oftmals problematisch im Hinblick auf mögli- che Verletzungen des face. Scherzen ist daher hier oft bezogen auf die Zulässigkeit von Handlungsverpflichtungen – wer kann wie direkt je- manden zur Ausführung einer Aufgabe verpflichten? Scherze erfüllen hier sowohl die Funktion, dass Aufgaben v.a. bezüglich des Ausführen- den oder des Zeitrahmens „unernst“ – quasi probeweise – festgelegt werden können (die Rücknahme mit dem Verweis, dass ja alles nur ein Scherz war, kann immer noch erfolgen) als auch die Funktion, dass Aufgaben-Festlegungen mit einem Scherz zurückgewiesen werden können. • Auch das Lachen ohne Scherzen kann Ansätze von Widerstand gegen eine Aufgaben-Festlegung anzeigen, kann Ausdruck von Hilflosigkeit von rangniedrigeren Teilnehmern sein. Dieses Lachen wird von den Vorgesetzten im allgemeinen offenbar übergangen. • Scherzen steht im Zusammenhang mit der Macht bzw. der hierarchi- schen Position eines Mitarbeiters. Es scherzen überwiegend ranghöhere Teilnehmer, rangniedrigere tendieren zum Mitlachen bzw. zum Lachen ohne Scherzen. • In meinen Augen wäre es aufgrund dieser Ergebnisse dringend nötig, Scherzkommunikation verstärkt in berufsbezogener Kommunikation zu analysieren und zwar nicht nur unter dem Blickwinkel, dass hier das “eigentliche” berufsbezogene Handeln ausgesetzt wird, sondern unter dem Aspekt, dass Scherze gerade im Bezug auf dieses Handeln funk- tional eingesetzt werden können.

130 7. Literatur Bakhtin, Michail M., Literatur und Karneval: Zur Romantheorie und Lachkultur, München, 1968. Becker-Mrotzek, Michael/Fiehler, Reinhard (edd.), Unternehmenskommunikation, Tübingen, in Druck. Coser, Rose Laub, “Laughter among colleagues“, in: Psychiatry 23 (1960), 81–95; Wiederabdruck in deutscher Übersetzung: “Lachen in der Fakultät”, in: Kotthoff (ed.) 19962, 97–120. Dannerer, Monika, Besprechungen im Betrieb. Empirische Analysen und didaktische Perspektiven, München, 1999. ———, “Imagearbeit in der ‘Innerbetrieblichen Besprechung’. Stellenwert–Formen– Berücksichtigung im DaF-Unterricht”, in: Ehnert, Rolf (ed.), Wirtschaftskommu- nikation kontrastiv, Frankfurt/M u.a., 2000, 221–250. Fiehler, Reinhard, Kommunikation und Emotion. Theoretische und empirische Unter- suchungen zur Rolle von Emotionen in der verbalen Interaktion, Berlin/New York, 1990. Fietz, Lothar, “Möglichkeiten und Grenzen einer Semiotik des Lachens”, in: id./Fich- te, Joerg O./Ludwig, Hans-Werner (edd.), Semiotik, Rhetorik und Soziologie des Lachens. Vergleichende Studien zum Funktionswandel des Lachens vom Mittelal- ter zur Gegenwart, Tübingen, 1996, 7–20. Fineman, Stephen, Emotion and Organizing, in: Clegg, Stewart R./Hardy, Cynthia/ Nord, Walter R. (edd.), Handbook of Organization Studies, London/New Delhi, 1996, 543-564. Günthner, Susanne, “Zwischen Scherz und Schmerz – Frotzelaktivitäten in Alltagsin- teraktionen”, in: Kotthoff (ed.) 1996, 81–108. Hartung, Martin, “Ironische Äußerungen in privater Scherzkommunikation”, in: Kott- hoff (ed.) 1996, 109–143. ———, Ironie in der Alltagssprache. Eine gesprächsanalytische Untersuchung, Opladen, 1998. Kotthoff, Helga, (ed.), Scherzkommunikation. Beiträge aus der empirischen Ge- sprächsforschung, Opladen, 1996. ———, “Vorwort”, in: id. (ed.) 1996, 7–19. ———, (ed.), Das Gelächter der Geschlechter. Humor und Macht in Gesprächen von Frauen und Männern, Konstanz, 19962. ———, “Vom Lächeln der Mona Lisa zum Lachen der Hyänen”, in: id. (ed.) 19962, 121–163. ———, Spaß verstehen: Zur Pragmatik von konversationellem Humor, Tübingen, 1998. Kunda, Gideon, Engineering Culture. Control and Commitment in a High-Tech Cor- poration, Philadelphia, 1992. Meier, Christoph, Arbeitsbesprechungen. Interaktionsstruktur, Interaktionsdynamik und Konsequenzen einer sozialen Form, Opladen, 1997.

131 Menz, Florian, Selbst- und Fremdorganisation im Diskurs. Interne Kommunikation in Wirtschaftsunternehmen, Wiesbaden, 2000. Müller, Andreas P., ‘Reden ist Chefsache’. Linguistische Studien zu sprachlichen Formen sozialer ‘Kontrolle’ in innerbetrieblichen Arbeitsbesprechungen, Tübin- gen, 1997. Preisendanz, Wolfgang/Warning, Rainer (edd.), Das Komische, München, 1976. Schlaefer, Michael, Studien zur Ermittlung und Beschreibung des lexikalischen Para- digmas “lachen” im Deutschen, Heidelberg, 1987. Schmidt, Siegfried J., “Komik im Beschreibungsmodell kommunikativer Handlungs- spiele”, in: Preisendanz/Warning 1976, 165–189. Schütte, Wilfried, Scherzkommunikation unter Orchestermusikern, Tübingen, 1991. Schwandt, Bernd, “Erzähl mir nix”. Gesprächsverlauf und Regelaushandlung in den Besprechungen von Industriemeistern, München, 1995. Schwitalla, Johannes, “Lächelndes Sprechen und Lachen als Kontextualisierungsver- fahren”, in: Adamzik, Kirsten/Christen, Helen (edd.), Sprachkontakt, -vergleich, -variation. Festschrift für Gottfried Kolde zum 65. Geburtstag, Tübingen, 2001, 325–344. Thimm, Caja/Augenstein, Susanne, “Lachen und Scherzen in einer Aushandlungssi- tuation oder: Zwei Männer vereinbaren einen Termin”, in: Kotthoff (ed.) 1996, 221–254. Turner, Victor W., The Ritual Process, Chicago, 1969. Vinton, Karen L., “Humor in the Workplace. It is More Than Telling Jokes”, in: Small Group Behavior 20/2 (1989), 151–166.

8. Anhang: Transkriptionskonventionen * kurze Pause bis zu einer Sekunde ** Pause bis zu zwei Sekunden *** Pause bis zu drei Sekunden *5* Pause über drei Sekunden (mit Angabe der Dauer in Sekunden) gut, steigende Intonation gut. fallende Intonation und betont ham S’ Apokopen und Synkopen, dort wo die Lesbarkeit ohne Markierung beeinträchtigt scheint (haben Sie) (und) vermuteter Wortlaut ( ) unverständlicher Wortlaut / Abbruch (im Wort oder in der Konstruktion) zu Ko nonverbales Verhalten (bei Bedarf wird mit #- - -# die Extension markiert)

132 Aspetti della testualità nella poesia italiana del secondo Novecento Maurizio Dardano

1. Testualità poetica A partire dalla fine degli anni Ottanta, anche in Italia, lo studio delle tipolo- gie testuali si è affermato come uno dei principali obiettivi della ricerca lin- guistica. Tale studio può essere condotto secondo diverse prospettive, tenen- do conto di volta in volta del mezzo, della destinazione, della semantica del discorso, del criterio funzionale o di quello cognitivo.1 Di tipi testuali si parla non soltanto a livello specialistico, ma anche nella didattica dell’italiano e delle lingue straniere, con riferimento a testi orali e scritti, a testi pragmatici e letterari. Le tipologie sono esplicative, ma sono condizionate anche dai carat- teri del periodo storico, tanto che da tempo gli studiosi parlano di “tradizioni discorsive” proprie di questa o quella epoca. Il fenomeno è particolarmente evidente non soltanto nel campo letterario, ma anche nei linguaggi settoriali.2 Le “tradizioni discorsive”, diverse da epoca ad epoca, regolano la formaliz- zazione dei testi, determinandone anche le scelte linguistiche. Per il periodo delle Origini, che è stato oggetto di una riflessione approfondita, sono state proposte diverse classificazioni, fondate su vari criteri: la distinzione tra testi religiosi e laici, tra oralità e scrittura mediale, tra diverse modalità di trasmis- sione e conservazione dei testi (Casapullo 1999, 32–34). Per quanto riguarda la poesia italiana del secondo Novecento, la novità dei temi e dell’orizzonte culturale, l’affermarsi di nuove forme di stile, di testualità e di “transtestuali- tà”3 hanno imposto un rinnovamento dei metodi e delle prospettive; la ricerca ha affrontato nuovi percorsi. Anche ai fini dell’individuazione di una tipolo- gia testuale, appare significativa la crescita d’interesse manifestatasi, negli ul- timi anni, per l’analisi della macrostruttura poetica. L’attenzione degli stu- diosi si è soffermata sui caratteri del “libro di poesia”, sull’“impaginazione” tematica e compositiva dei testi poetici (Testa 1983 e 1984); queste ricerche ————— 1 Alcuni punti di riferimento: Mortara Garavelli (1988), Della Casa (1994), Brinker (19974). 2 Si vedano i saggi raccolti in Mensching/Röntgen (1995) e in Jacob/Kabatek (2001). 3 Genette (1997) distingue cinque tipi di relazioni transtestuali: “intertestualità”, “paratestualità”, “metatestualità”, “ipertestualità” e “architestualità”, sofferman- dosi sulla parodia, tema centrale del saggio.

133 si sono giovate anche delle indagini riguardanti la genesi e la struttura delle antologie poetiche (AAVV 1999). La macrostruttura si fonda sull’insieme delle isotopie semantiche, di tempo, di spazio e di persone, sui dispositivi che regolano la carica informativa del “libro”, sulla progressione semantica, sulla combinazione dei temi (che determinano ridondanze ed equilibri di strutture). Pertanto l’attenzione si sofferma su aspetti formali un tempo trascurati: i se- gnali di inizio e di fine di ciascuna composizione e d’insiemi di composizio- ni, i segnali di collegamento, le partizioni interne, i titoli e i sottotitoli (dispo- sti a vari livelli), gli apparati paratestuali. Sono percorsi di ricerca sviluppati- si soprattutto grazie alle indagini condotte da studiosi quali: P. V. Mengaldo, V. Coletti, E. Testa.4 L’analisi delle strutture in cui si organizzano le raccolte di versi permette spesso di recuperare un’unità di fondo contrapposta alle forze centrifughe e disgregatrici che possono risultare dal montaggio delle singole composizioni. Il modello più compiuto di organizzazione testuale è quello classico, attuato da Umberto Saba nel suo Canzoniere (1921). Con Il conte di Kevenhüller (1986) Giorgio Caproni propone una diversa e innovativa testualità, fondata tra l’altro su ben calcolate partizioni. I numerosi accoppiamenti e rimandi in- terni di Satura e del Diario montaliani confermano che anche il modo epi- grammatico è inserito in una rete di rapporti e di riferimenti. La postuma si- stemazione editoriale, che è alla base dell’Opera in versi di Montale, non na- sconde le analogie di struttura ricorrenti tra gli Ossi e le Occasioni, e ancora nella Bufera e in Satura. All’interno di questi “libri di poesia” risaltano poi unità minori: si pensi al microromanzo di Clizia, delineato, su basi tematiche e formali, nelle Occasioni. Le serie di forme brevi dimostrano una più spicca- ta tendenza al raggruppamento: come accade, per esempio, con i Sonetti dell’anniversario e con Gli anni tedeschi di Caproni. Nella grammatica del discorso si distinguono: 1) i rapporti extratestuali, 2) le relazioni intratestuali, 3) il collegamento tra le unità di contenuto (dato- nuovo, progressione tematica), 4) l’organizzazione del discorso (tipi e gene- ri) (Mortara Garavelli 1993). Ciò vale anche per i testi poetici, i quali tutta- ————— 4 Aspetti strutturali dei “libri” di poesia di Montale, Fortini e Caproni sono trattati in Mengaldo (1995; 1996; 2000, 169–195). Coletti/Testa (1993) si occupano di “fenomeni compositivi”. Testa (1999) tratta dell’“istituzione del personaggio in poesia”. La funzione della domanda e del dialogo nella strutturazione del testo poetico è indagata in Coletti (2000, 45–52). Si noti il tono ludico della seguente nota apposta da Zanzotto (2001, 54) alla composizione Spine, cinorodi, fibule: “Cinorrodi: pseudo-frutti della rosa canina. La bandiera britannica e la rosa cani- na, vanno insieme per una certa tradizione. Buone sono le marmellate di cinorro- di”.

134 via, rispetto ai testi pragmatici mostrano una specificità funzionale, distribui- ta in tutti i livelli di analisi. Per esempio: una particolare marcatezza attribui- sce ai coesivi una valenza retorica; le suddivisioni del testo segnano la scan- sione di un tempo interno; le ripetizioni sono correlate alla prosodia. La rot- tura di forme tradizionali avviene mediante motivazioni specifiche. Le tipo- logie testuali assumono nuove configurazioni. Nelle pagine che seguono mi occuperò, mediante una rapida esemplifica- zione, di alcuni fenomeni riguardanti a vario titolo la testualità della poesia. Cercherò di mostrare per quali vie e secondo quali modalità singole compo- sizioni si ordinano lungo le linee di un libro, che di quelle composizioni giustifica l’esistenza e illustra le occasioni nonché il significato. Esiste dunque una “testualità esterna”, riguardante testi di uno stesso autore ordinati in una raccolta e per lo più sussunti sotto un unico titolo. In tale circostanza l’analisi deve tener conto necessariamente dei caratteri del paratesto: un campo d’indagini fondato su nuove basi alla fine degli anni Ottanta (Genette 1989). Illustrerò alcune relazioni intratestuali ricorrenti nella poesia di Umberto Saba, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Franco Fortini, Giovanni Giudici; si tratta per lo più di tecniche di ripetizione verbale, variamente attuate e sviluppate. Tenterò di delineare alcune tipologie testuali, sottese tra narrazione e argomentazione: la poesia-dialogo, la poesia-racconto, il poemetto narrativo, la poesia-refrain, l’epigramma, l’epistola. Accennerò infine ad alcuni aspetti dell’intertestualità, riguardante sia testi di diversi poeti sia la ripresa-riformulazione di elementi “esterni” (regionalismi, tecnicismi, termini di gergo, citazioni saggistiche).

2. Il libro di poesia Le composizioni di un autore si ordinano per lo più in una raccolta, dotata di un titolo, o in una struttura più complessa, comprendente anche dei sottotito- li. Le ripartizioni interne corrispondono a criteri diversi: tematici, cronologi- ci, formali. In tal modo s’interpreta un disegno generale, che può essere in parte mutato da successivi ripensamenti e correzioni. Il “libro” di poesia mira allora ad autogiustificarsi come struttura, a fondare le occasioni e la situazio- ne di ciascun pezzo rispetto al progetto e all’ideologia complessiva, al signi- ficato dell’opera. Sovente un dinamismo “ordinante” anima il paratesto, cre- ando gerarchie tra titoli, sottotitoli, partizioni, dediche, sfruttando le risorse del metalinguaggio, attuando una possibile variatio tra poesia e prosa, tra l’uso di diverse disposizioni e caratteri tipografici. Tutto ciò si collega all’uso di varie forme metriche e rimiche nonché alla successione e al collegamento reciproco tra diversi tipi di discorso: narrativo, argomentativo, didascalico.

135 Anche un elemento apparentemente neutro, come l’indicazione precisa delle date (relative all’occasione o al momento della composizione) può diventare presso alcuni autori (Vittorio Sereni, Giovanni Giudici) un fattore fondante nell’ambito della testualità. In ogni modo l’accresciuta importanza del para- testo, degli autocommenti e delle note esplicative sviluppa in nuove direzioni la testualità delle raccolte facendo progredire l’autoreferenzialità. Nella “Nota” allegata da Giovanni Giudici alla raccolta di poesie Salutz (1984–86), l’autore ricostruisce la genesi dell’opera. In tal modo si ha la pos- sibilità di acquisire una serie di “illustrazioni” che condizionano la lettura del testo: l’identificazione del “modello” suggeritogli, in una particolare e ben precisa circostanza, dal filologo Gianfranco Folena: la “lettera epica” compo- sta da Raimbaut de Vaqueiras nel 1205; l’elaborazione concettuale dello spunto (cui sottostà una sorta d’identificazione tra l’io poetante e il perso- naggio del passato), la dispositio degli attanti (l’io poetante, Raimbaut, il filo- logo-mediatore), i caratteri formali della raccolta (improntati a visibili sim- metrie e rispondenze testuali, sintattiche e metriche), alcuni chiarimenti lin- guistici e filologici che connotano e ambientano precisamente l’intera raccol- ta. Leggiamo un passo significativo di questa “Nota”: La “lettera epica” [...] è dunque una specie di consuntivo a cui la prematura morte del Poeta avrebbe poi conferito un valore quasi pretestamentario, an- che se Raimbaut si limita a una garbata ma ferma richiesta di riconoscimento per i servigi resi al Marchese. Folena me ne disse a memoria i primi versi, con una voce che mi sembrò percorsa da un’affettuosa melanconia. La matti- na dopo proseguii il mio viaggio per Trieste [...]. Però l’idea di scrivere anch’io un salutz (anzi qui, all’accusativo, un salut) era intanto maturata nel- la mia mente: non mi restava che attendere il momento, il modo e lo stimolo, ben sapendo che, in poesia, l’eccesso d’intenzione è, di solito, una pessima guida. Il mio saluto dovevo scriverlo, insomma, non per ambizione, ma pro- prio per una necessità mia, privata, personale (come era stato probabilmente il caso di Raimbaut quando, nella pausa d’una guerra bizantina, aveva scritto al suo signore la “lettera”). Fu così che, tra il sabato 18 e il venerdì 24 feb- braio dell’anno dopo, m’avvenne di scrivere (sia pure sulla base di passati appunti) le dieci poesie di 14 versi ciascuna che diedero luogo a una prima parte [...].5 Il paratesto nasce come una sorta di cronaca o diario dell’occasione poetica. Il racconto in prima persona, ricco di particolari e di precisazioni, si sofferma sulla programmazione della scrittura: si veda il giudizio sull’“eccesso d’intenzione” e l’evidenziazione di “una necessità mia, privata, personale”; ————— 5 Giudici (2000, 742).

136 ma al tempo stesso esalta l’idea di un’ingiustizia subita dal poeta, di cui la scrittura rappresenta l’inevitabile risarcimento. La “Nota” riproduce l’ideo- logia sottostante all’intera raccolta e ne ripete il carattere misto tra lirismo e argomentazione: esattamente come era avvenuto nel testo di Raimbaut. Il pa- ratesto è qui in funzione di un dinamismo interno al testo: il suo carattere specifico risalta dal confronto con gli autocommenti che altri poeti hanno apposto alle loro composizioni; si pensi, per es., all’Autobiografia di Umberto Saba e alle note, assai diverse tra loro per caratteri e stile, di Giorgio Caproni e di Andrea Zanzotto.6 Le raccolte poetiche esibiscono anche dinamismi di altra natura, che pro- vengono dalla loro ristrutturazione. I trasferimenti interni ed esterni di singoli componimenti hanno sovente una finalità testuale. Caproni sposta Litania da Il seme del piangere a Il passaggio d’Enea, accrescendo, nella prima di que- ste opere, l’effetto narrativo che deriva dalla consecuzione dei vari “pezzi”: “Se li [= i versi] pongo in un certo ordine ho proprio l’impressione che il li- bro sia stato progettato (come si dice oggi, programmato)” (Caproni 1998, 1627). Le (ri)sistemazioni, dislocazioni, integrazioni, le aggiunte, le soppres- sioni, attuate al momento di (ri)pubblicare le poesie in nuove strutture, men- tre modificano le titolature, sottintendono una progettualità testuale. Mario Luzi impone un iper-titolo: Frasi nella luce nascente, che raggruppa in una nuova unità tre precedenti raccolte (Per il battesimo dei nostri frammenti, Frasi e incisi di un canto salutare, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini). Il motivo unificante è dato dal discorso poetico orientato verso la luce (Luzi 1998, 951, 953–954). Il testo del Viaggio è preceduto da un eser- go, una dedica e un corsivo, tra i quali intercorre un chiaro collegamento te- matico. Nel corsivo, dopo la presentazione di personaggi, circostanze e inten- ti, è chiarita la genesi e il carattere “teatrale” della scrittura:7 [Esergo:] Ascolta tu pure: è il Verbo / stesso che ti grida di tornare (Agostino, Confessioni IV 11) [Dedica:] alla città di Siena / alla mia adolescenza / alla memoria dei miei compagni [Corsivo: ] Simone Martini, secondo le storie divulgate, morì ad Avignone / nel 1344. Forse reco offesa alla verità storica, forse no immagi/nando questo estremo viaggio intrapreso al richiamo di Siena e / del suo mondo. Con la moglie Giovanna, con il fratello Donato, / pittore, e la moglie di lui bella e ————— 6 Cf. “Nota al Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee” in Capro- ni (1998, 271–272). 7 Riproduco i corsivi e gli accapo del testo; questi ultimi sono segnalati con una sbarretta; la doppia sbarretta indica l’accapo e il bianco.

137 strana, di nome anch’essa Gio-/vanna e le loro figlie e qualche domestico si mette in cammino. / La carovana ha da seguire un percorso lungo e fatico-/ so. Lo accompagna uno studente (è da supporre di teologia) che rientra al termine dei suoi studi a Siena: testimone, interprete e / cronista oltre che par- te integrante dell’avventura. Lo scriba è un po’ / ciascuno di loro e nessuno in particolare. // I titoli fungono in questo caso da semplici didascalie. Nell’opera spicca una struttura gerarchica di titoli e di sottotitoli-didascalie, che va studiata tenendo conto anche dell’estensione variabile delle sottostanti sequenze testuali e dei richiami istituiti tra esse (D’Arienzo 2000/2001). A tale struttura è affidata in primo luogo la scansione teatrale del Viaggio. Le tipologie dei moderni libri di poesia corrispondono alle intenzioni ma- nifestate dall’autore. Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti (1969, 19–58) è un diario di guerra e al tempo stesso il compendio di un’esperienza poetica, un laboratorio di varianti e di esercizi metrici. Il Canzoniere di Umberto Saba è un romanzo, di cui si distinguono tre parti “cronologiche” e, all’interno di ciascuna di esse, alcuni settori compatti (come, per esempio, i sonetti di Au- tobiografia).8 Questo muro di Franco Fortini presenta una struttura a sezioni, tra le quali si allacciano evidenti rapporti. Il poemetto di Mario Luzi Nel cor- po oscuro della metamorfosi enfatizza le alternanze discorsive mediante schemi appropriati: sette capitoli, tutti, ad eccezione dell’ultimo, divisi in se- quenze; a ogni suddivisione (marcata anche tipograficamente) è affidato un compito diverso cui corrispondono variazioni di registro; si va dalla prosa al lirismo, dai cultismi ai tecnicismi, dai vocaboli stranieri alle varie idiosincra- sie del parlato (Luzi 1998, 378–391).

3. Strutture d’ingresso Lo sviluppo diacronico della testualità offre spunti alla riflessione. Il secondo Sereni mostra un’intensificazione della narratività, che in Frontiera è ancora incerta e limitata a singoli episodi, mentre diventa più robusta, perché votata a una chiara esigenza autobiografica, non priva di tonalità epiche, nel Diario d’Algeria. Un tale progetto è sostenuto da una minuziosa datazione e localiz- zazione dei componimenti, da precisi riferimenti agli eventi; ne risulta una sorta di giornale di bordo (Sereni 1995, 71–85). Allo stesso effetto perviene Franco Fortini inserendo alcune date nella raccolta Paesaggio con serpente (Fortini 1990, 229–305). Un progetto “biografico”, che procede in parallelo col passaggio dalla poesia alla prosa, è alla base della raccolta La vita in ver- si, pubblicata da Giovanni Giudici nel 1965 (Giudici 2000, 3–63). ————— 8 Mario Lavagetto, “Introduzione”, in: Saba 1994, XIII.

138 Una struttura portante si consolida talvolta mediante elementi metapoeti- ci, come accade nel secondo Mario Luzi, che adibisce alla costruzione del te- sto brevi componimenti proemiali (riferiti a determinati settori del “libro”), caratterizzati da tratti sintattici e testuali comuni. Alcuni esempi di ingloba- mento testuale si ritrovano in Al fuoco della controversia, dove una voce, co- stante ma continuamente variata, percorre l’insieme, rafforzandone la testua- lità (Luzi 1998, 405–499). Procedimenti analoghi ricorrono in Giorgio Ca- proni, che nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee po- ne una quartina proemiale, ripresa con varianti in altri luoghi della medesima raccolta (Caproni 1998, 237–272). Tali sovrapposizioni formali hanno un corrispettivo nella figuralità delle coppie (figlio-fidanzato, figlio-padre, inse- guitore-inseguito, assassinato-assassino, Roma-Genova). Le connessioni in- terne provengono talvolta da tracce minime, come brevi riferimenti e prean- nunci, potenziati però da collocazioni strategiche. Un’elaborata “struttura d’ingresso” è attuata nel Muro della terra, dove appare una sequenza costi- tuita da cinque elementi: un esergo di Annibal Caro, due versi intitolati Quasi ad aulica dedica, tre brevi poesie (ciascuna di quattro versi, stampati in cor- sivo, e provvista di un titolo), incorniciate da un unico soprattitolo Tre voca- lizzi prima di cominciare (op.cit., 279–283). Servendosi di formule allocutive e di gradazioni discorsive, l’io poetante della Camera da letto di Bertolucci conferisce una prospettiva unitaria al susseguirsi di diversi componenti: fluente narratività e vena fantastica, schemi metrici e sintattici dissonanti, va- rietà lessicali appartenenti a diversi settori. Il tono di ciascun canto è fissato nell’attacco; non mancano rapporti intertestuali con poesie appartenenti ad altre raccolte (Verso Casarola, I rastrellatori) (Bertolucci 1997, 201–202, 252). Al polo opposto di questa solidarietà intertestuale ritroviamo la dispersio- ne, l’assenza di un progetto. Accade nei Frammenti lirici di Rebora (1913), nei Frantumi di Boine (1911–16), complesso work in progress, in Preghiera del nome (1990) di Viviani. Opere che accentuano il carattere della raccolta occasionale, preparata editorialmente. La narrazione lirica, dove è presente, procede per istantanee e per schegge.

4. Ripetizioni Consideriamo alcune relazioni intratestuali. L’attenuazione dei segnali di ini- zio e di fine, indizio di decentramento e di sovversione dell’ordine discorsi- vo, appare sia in testi poetici che in prosa. Anche la riduzione della coesione testuale e della coerenza semantica, sono fenomeni che conseguono all’uso di un parlato non mimetico, tendente alla “naturalezza”. Aumentano i modi col-

139 loquiali e i connettivi discorsivi. Risalta un certo frammentarismo, procurato dagli stacchi delle incidentali e delle parentetiche. Sono fenomeni presenti sia nella poesia che nella prosa. Nella prima tuttavia risalta una ripresa della fun- zione verbale, utilizzata per allestire micro-racconti e per la messa in scena di personae, fenomeno non nuovo in sé, ma che al presente s’impone in virtù della sua accentuata ricorrenza e della perfezione dello stile (Coletti/Testa 1993). Le relazioni intratestuali sono spesso fondate su tecniche di ripetizio- ne. In diverse poesie Umberto Saba esibisce un forte parallelismo di avvio: talvolta tutte le strofe (o parte di esse) cominciano con lo stesso sintagma. Nella Sesta fuga, a intervalli di quattro quartine, il primo verso suona: “Io non so più dolce cosa” (sette volte); poi con alcune variazioni: “Io non so più grande cosa”, “Io non so più lieta cosa”, “Io non so più caldo amore”, “Io non so più cieco amore”, “Io non so di questo amore”, “Io non so più dolce cosa” (quattro volte), “Io non so più breve cosa”, “Io non so più dolce cosa” (due volte); gli inizi del tutto diversi della quartultima e dell’ultima strofa in- troducono altri elementi di variatio (Saba 1994, 376–387). Varie modalità di ripetizione ricorrono nelle Fughe XI e XII e altrove. Osserviamo, per esem- pio: la ripetizione di un singolo componente (tre volte il Qui, all’inizio di al- trettante strofe di Città vecchia), di un sintagma (Una donna appare all’inizio di ciascuna delle tre strofe che compongono l’omonima poesia),9 di un intero verso (“Ti vedo, mia povera Lina” appare all’inizio di ciascuna delle tre stro- fe che compongono L’ultima tristezza), di una formula: l’insieme “Tu sei come + aggettivo + sostantivo indicante animale” appare all’inizio di ciascu- na delle sei strofe, di varia lunghezza, di A mia moglie. Lo schema comporta delle variazioni; infatti nella prima strofa gli aggettivi sono due: “Tu sei co- me una giovane / una bianca pollastra”; nella terza e nella quinta strofa segue una relativa, nelle altre strofe si ha l’interruzione della frase (op.cit., 74–76). Nel complesso “la struttura semplicissima può far pensare a una litania” (La- vagetto 19892, 66–67). Le sei stanze di Versi in All alone di Giorgio Caproni (Il passaggio d’Enea) cominciano tutte con il sintagma “Uomini miti”; le tre strofette di A Franco cominciano con “Era un angelo” (Caproni 1998, 145– 148, 165). Sono esempi di un nodo cantabile variamente modulato, diverso dalla ritmicità delle dodici Stanze della funicolare, le quali terminano tutte con l’espressione “chiedere l’alt” (ma IX reca “segnar l’alt”); il vocabolo l’ora conclude sempre il penultimo verso (con l’unica eccezione di IV); l’ultima stanza (ben distinta dalle altre per le insistite anafore) è suggellata ————— 9 Modalità cui il poeta ricorre in altre occasioni (Saba 1994, 132, 136); cf. ancora le riprese del tipo: “Caffè Tergeste […] Caffè di ladri […] Caffè di plebe” (op.cit., 163).

140 dalla ripetizione dello stesso verbo nei due versi finali: “chiedere l’ora” e “chiedere l’alt” (op.cit., 136–142). Con la ripetizione in parallelo di alcune sequenze si produce quella intensificazione espressiva, propria della poesia- refrain, di cui abbiamo già visto alcuni esempi. È qui evidente il collegamen- to con le esperienze di Walt Whitman, Paul Eluard e Bert Brecht. In alcuni di questi casi potremmo parlare di una simmetria imperfetta: un’altra applica- zione di quel tipo particolare di variatio ricorrente nella poesia moderna. Un caso molto particolare di ripetizione (della parola Genova e di strutture no- minali parallele) appare nella celebre Litania: “Genova, mia città intera / Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, / mia lavagna, arenaria” (op.cit., 172–178; corsivi nel testo). Un preciso assetto simmetrico risalta in Esercizi sul settembre di Attilio Bertolucci, che comprende tre strofe ciascuna di cinque versi (la base è l’endecasillabo); il primo e ultimo verso di ciascuna strofa termina con il vo- cabolo indicante il mese (Bertolucci 1997, 188). Ispirandosi a modelli brechtiani, Franco Fortini attua vari tipi di ripetizioni e parallelismi: Foglio di via presenta per tre volte, all’inizio del verso, la ripetizione di Dunque e di Dove; le strofe che compongono A metà iniziano tutte con il sintagma “A metà della strada”; il parallelismo è contrastato da un elemento di variazione: la seconda strofa è di cinque versi, mentre le altre tre sono quartine). Nella giovanile Valdossola si ha la variazione del refrain: “E il tuo fucile sopra l’erba del pascolo […] E il tuo fucile nell’acqua della fontana […] E il tuo fucile sotto la pietra di neve” (Fortini 1990, 25, 50, 14). Nella Ballata della lingua di Giovanni Giudici nove strofe cominciano con il sintagma Mia lin- gua; si noti il perfetto parallelismo della prima e ultima strofa: “Mia lingua – italiana / variante colta milano-romanese / lingua del mio bel paese / cantata in amabili suoni / di ricche clausole / e di elette commozioni. […] Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guasta- ta nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni” (Giudici 2000, 212–213). Della ripetizione, intesa come fattore strutturante della frase poetica, si potrebbe tracciare un percorso nella nostra poesia novecentesca. Intesa come ossequio a moduli tradizionali, la variatio è respinta dai Crepuscolari, ma è coltivata da Sergio Corazzini e, con diversa modalità, da Dino Campana e da Marino Moretti. Ha per lo più funzione esornativa in Eugenio Montale, che in chiusura replica il verso d’avvio: “Tu non ricordi la casa dei doganieri […] Tu non ricordi la casa di questa / mia sera” (Montale 1980, 161); in Vittorio Sereni può essere procedimento della mimesi del parlato: “fa dire che più non ce la fa e invece [...] ancora ce la fa” oppure sottolineatura discorsiva: “Ma i volti i volti non so dire: / ombra più ombra di fatica e d’ira” (Sereni 1995,

141 153, 103). In Mario Luzi corrisponde spesso a un intento argomentativo: “Si- lenzio della terra, bocche, bocche / cucite dalle lagrime”, ma può diventare anche gioco di parole: “Chi sono questi allora, / che non guardati non ci guardano / e come noi passiamo passano / sullo schermo formicolante” (Luzi 1998, 99, 724). Vittorio Sereni si serve della ripetizione per evidenziare un tema: “la sua cattolica penombra [...] la cattolica penombra”; “solo adesso / si comincia a capire [...] Solo adesso si comincia a capire” (Sereni 1995, 161, 174–175); la ripetizione serve anche per attuare giochi di parole: “la bambina N. denudava il corpo magro / dal crétonne della tunica marina – salina / nelle estati di Marina” (Bertolucci 1997, 344). Un valore ben diverso (intensivo e tematico) assume la ripetizione del vocabolo nebbia (7 volte) nell’ultima strofa di Versi di Giorgio Caproni, il quale nella composizione Su un vecchio appunto (compresa nel “libro” Il franco cacciatore) si serve della ripetizione del vocabolo albero per legare il proemio in prosa con la prima strofa (Ca- proni 1998, 508):

Ora, sazio della città − delle sue tentazioni e dei suoi crimini − mi sono ritirato al limi- tare del bosco. Ad appagarmi la vista, poco mi basta: lo scintillio del fiume nel sole del mattino, giù a fondo valle. Un albero… Un albero… Com’è leggero un albero, tutto ali di foglie − tutto voli verdi di luci azzurre nel celeste dell’aria …

5. Tipologie testuali Il tono declamatorio, variamente orientato verso l’insegnamento, la denuncia e la satira, è reso anche mediante alcune tipologie testuali: la poesia-dialogo, la poesia-racconto, il poemetto narrativo, certi modi della poesia-refrain, l’epigramma, l’epistola. Tutti questi tipi attuano sia forme canoniche che in- novative. I nuovi modi dell’allocuzione si affacciano per primi nella poesia- dialogo, modalità sperimentata dai Crepuscolari, con un largo impiego di e- lementi fatici e di attualizzatori. I Versi militari e i Nuovi versi alla Lina di Umberto Saba si distinguono, rispetto alla sua produzione anteriore, per la più fitta presenza di parti dialogiche e di appelli al lettore. In seguito il poeta sviluppa il canto amebeo, presente nelle quattro quartine de Il fanciullo e la verga (Saba 1994, 338) e, più ampiamente, nelle Fughe. Elemento fondante

142 della poesia-dialogo è la presenza iniziale di un allocutario, al quale ci si ri- volge con una denominazione diretta. Questo tratto ricorre sovente in Umber- to Saba, mentre Attilio Bertolucci predilige imperativi marcati: “Portami con te”, “Lasciami sanguinare sulla strada”, nonché elementi deittici: “Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero [...] sono io all’età di quarantanove anni” (Bertolucci 1997, 220, 246, 236). Variamente modulato è il tu monta- liano, che apre alcuni Mottetti: “Lo sai: debbo riperderti e non posso”, “La speranza di pure rivederti”; ma il tu appare anche nel mezzo della composi- zione: “Fu il tuo esilio”, o alla fine: “Altro era il tuo stampo” (Montale 1980, 133, 138, 135, 141). Nei Mottetti si riscontra costantemente la bi- e pluripar- tizione strofica, che riproduce la polarità del rapporto io / tu o io / lei. La poesia argomentante, svolta in forma di dialogo, ha diversi modi di at- tuazione. In Satura i sedici versi di Dialogo (op.cit., 327) comprendono uno scambio di rapide battute su temi filosofici. Un colloquio amoroso con diver- sa estensione delle parti (l’uomo ha la prevalenza) è Il primo amore di Par- ronchi (1998, 212–213). I sette tempi che compongono La poesia delle rose di Franco Fortini (1990, 159–165) passano dalla terza persona al tu, al voi e al noi; quest’ultimo ritorna nell’ultima stanza prima dell’apoftegma conclusi- vo. Negli Strumenti umani di Vittorio Sereni con l’io poetante dialogano più personaggi, che hanno funzione “protettiva e certificante” piuttosto che “dia- lettica” (Mengaldo 1975, 379). Diverso dal tu montaliano, quasi sempre amo- roso, quello di Mario Luzi si rivolge sovente all’ultraterreno e a non definiti interlocutori. Il secondo Mario Luzi adotta sequenze dialogiche di: interroga- zione, dubitazione, dilemma, correzione avversativa, contrasto, dissenso; un esempio in Dizione: “Chiusa la profezia, impossibile l’annuncio? / Infranta la parabola? / o è questa, / negata dal suo rovesciamento, parabola / anch’essa, oltrepassata la lingua e il testo?” (Luzi 1998, 510). Si nota anche un’organizzazione sintagmatica delle sequenze dialogiche, in rapporto alla si- tuazione, ai ruoli degli attanti e alle dinamiche argomentative. La poesia-narrazione adatta i modi narrativi e le voci narranti (etero- o omodiegetiche) alla nuova ambientazione testuale; ne risultano mutati anche gli aspetti sintattici e metrici. Fenomeni rilevanti sono la dislocazione spazia- le degli attanti, il montaggio dei componenti delle microstorie e la successio- ne delle sequenze testuali.10 Nel Canzoniere di Umberto Saba sono elementi caratterizzanti: il dinamismo dei personaggi, reso con verbi di moto posti in successione; la descrizione di ambienti e oggetti evocanti situazioni e stati d’animo particolari; il racconto di microstorie, incorniciate da formule di av- ————— 10 Come accade, per es., nella tecnica “cinematografica” con la quale P. P. Pasolini monta le sequenze dei suoi versi (Mengaldo 1994, 417).

143 vio e di conclusione; l’alternarsi delle battute di dialogo e l’uso delle didasca- lie (disse, rispose etc.). Si giunge a sequenze narrative più estese sia nel po- emetto L’Uomo sia nella raccolta Il piccolo Berto, dove le cadenze narrative si ampliano (Saba 1994, 349–363, 403–426). Un recitativo che diventa racconto è il caproniano Lamento (o boria) del prete deluso (Caproni 1998, 254), dove è narrata (con toni quasi pariniani) la conversione del protagonista. Nei versi 45–50 di Verso Casarola, Attilio Bertolucci sperimenta una mobilità discorsiva interna al testo: come in una sequenza filmica, l’obiettivo si sposta dal primo piano dell’io poetante, assor- to in un monologo (“Lasciate che m’incammini per la strada in salita”, “noi che parliamo”, “potessi io”), alla rappresentazione di un quadro esterno: “Scende, o sale, verso casa dai campi / gente di Montebello prima, poi di Be- lasola, assorta / in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera / s’è ri- composta, appare impicciolita più in alto / finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco / di cerri” (Bertolucci 1997, 202). Nel poemetto Un posto di vacanza di Vittorio Sereni (1995, 223–233) un mirabile svolgimento discorsivo consegue alla presenza di più “voci” tra loro alternantesi: “Invece torna a tentarmi in tanti anni quella voce / (era un disco) di là, dall’altra riva”, “discorrono voci sotto casa”, “dicono le voci soprag- giunte in coda al fortunale”. Le “voci”, oltre ad essere “temi portanti del po- emetto” (Testa 1999, 63), ne costituiscono anche la mobile struttura, in ac- cordo con il variare del piano temporale, della qualità (triste o lieta) delle immagini, della compagine testuale, metrica e iconica: Un giorno a più livelli, d’alta marea − o nella sola sfera del celeste. Un giorno concavo che è prima di esistere sul rovescio dell’estate la chiave dell’estate. Di sole spoglie estive ma trionfali. Così scompaiono giorno e chiave nel fiotto come di fosforo della cosa che sprofonda in mare. Mai la pagina bianca o meno per sé sola invoglia tanto meno qui tra fiume e mare. Nel punto, per l’esattezza, dove un fiume entra nel mare Venivano spifferi in carta dall’altra riva: Sereni esile mito filo di fedeltà non sempre giovinezza è verità ...... Strappalo quel foglio bianco che tieni in mano.

144 Fogli o carte non c’erano da giocare, era vero. A mani [ vuote senza messaggio di risposta tornava dall’altra parte [ il traghettatore. L’epistola poetica è un tipo testuale passibile di variazioni quasi sempre mo- derate. Il collegamento intertestuale è attuato, per esempio, mediante un’in- terrogativa iniziale priva di verbo: “Sopravvivenza, la nostra terra? Ma dura- no a lungo / questi crepuscoli”; qui Attilio Bertolucci (1997, 231), rispon- dendo a Pasolini, imita un tratto del parlato, che, nei titoli della stampa, è di- ventato formula ricorrente. Rivolto allo stesso interlocutore, Franco Fortini (1990, 327) adotta un giro sintattico più tradizionale: “Non imiterò che me stesso, Pasolini. / Più morta di un inno sacro / la sublime lingua borghese è la mia lingua”; il titolo di questa composizione, Diario linguistico, funge da se- gnale di riconoscimento: si tratta infatti di una nota operetta del destinatario. Avviati da un vocativo sono i versi indirizzati ancora da Attilio Bertolucci (1997, 232) a un amico: “Mario, questo tuo libro uscito nell’anno ’60”. Elementi strutturanti del testo poetico sono anche le categorie grammati- cali: le persone del verbo e i pronomi personali, tra l’altro. In Trota in acqua di Mario Luzi (1998, 648–650) il pesce eponimo appare soltanto nel titolo; anche il fiume, l’altro attante dinamico della poesia, è anticipato da due de- terminanti (“il vasto”, “pazzo”), da un pronome (“lui le svaria intorno”), ma compare dapprima nella terza strofa: “Così l’abbaglia a volte / ma la porta / in sé il fiume, le apre ogni barriera”; ripreso poi mediante pronomi personali, riemerge soltanto negli ultimi versi: “Sa il fiume e non sa”. Si noti come la forma forte del pronome personale si alterni con quella debole: “lui le svaria intorno […] la sospinge, egli, la ferma, la riprende” (vv. 27 e 49). Il monologo si allontana talvolta dalle forme tradizionali. Il Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni (1998, 243–245: si tratta di nove strofet- te di base settenaria e di varia misura) si fonda su ripetizioni e modalità tipi- che del parlato; le variazioni, che sono immesse dalle numerose parentesi, in- troducono didascalie, commenti, note, fasciano sia segmenti di frasi sia un’intera strofa. Un’analoga struttura ritorna in Ad portam inferi (op.cit., 204–207): lungo dieci strofette ricorre ancora una volta − ma con varianti fi- gurative − il tema del viaggio; lo svolgimento è narrativo: un io onnisciente descrive la madre seduta in una sala d’aspetto della stazione, ne trascrive pensieri e sentimenti, cita brani di una sua letterina. I versi non hanno una misura fissa, anche se i settenari prevalgono. Ancora dieci strofette compon- gono Il fischio (op.cit., 250–253), permettono all’io poetante, “il guardiacac- cia”, di svolgere un breve recitativo, punteggiato di elementi deittici e di ap- pelli al locutario; l’allegoria della morte, onnipresente, è resa, ancora una

145 volta, mediante un’ opposizione locativa: “che vale temere il nemico / fuori, quando è già dentro?”.11 Connessioni sintattiche e iconiche procedono in pa- rallelo: il confronto oppositivo tra Genova e Roma di Caproni (op.cit., 264) si può accostare a una similitudine usata da Saba (1994, 487: “alberi silenzio- si […] belli / come bei giovanetti”) e a una sillessi di Luzi (1998, 215: “In- contro / anni al piede degli alberi, anni e bacche / cadute”).

6. Intertestualità Ho riservato da ultimo una riflessione sulla intertestualità: un modo di com- porre tipico, soprattutto nella seconda metà del Novecento, che si è sviluppa- to anche nella poesia italiana: basti pensare alla presenza di Dante in poeti quali Eugenio Montale e Giovanni Giudici.12 Nella composizione Una visita in fabbrica Vittorio Sereni (1995, 127) riformula un famoso verso di Giaco- mo Leopardi,13 subito contrastandolo con una ripresa del parlato e con una negazione. “E di me splendea la miglior parte / tra spasso e proteste degli al- tri – ma va là – scatenati. // La parte migliore? Non esiste”.14 In Fernando Bandini (1998, 119), un’interrogazione “parlata” media tra una citazione ca- valcantiana e una nota introspettiva svolta con stile elevato: “Noi siàn le tristi penne isbigotite / le cesoiuzze e’l coltellin dolente. / E Bandini? Egli sente / le temibili cose apparse nel cuore”. In un luogo di Pasque Andrea Zanzotto (1999, 382) fa urtare una citazione dantesca (Par. XIX, 64–65) con il verso “umile” che segue: “Lume non è che non venga. / Il tizzone l’hai visto, nel brolo?”. Più tardi, nel contesto di un’“ipersonetto” il poeta sperimenta lo scontro tra elementi aulici (l’incipit è una citazione petrarchesca), ludismi e neologismi di varia natura: “Che fai? che pensi? Ed a chi mai chi parla? / Chi e che cerececè d’augèl distinguo, / con che stillii di rivi il vacuo impinguo / del paese che intorno a me s’intarla?” (op.cit., 604). Varie sono le forme e i toni della poesia del secondo Novecento. In que- sta breve comunicazione ho cercato di mostrare come le une e gli altri trovi- no nell’analisi della testualità il loro punto di riferimento centrale.

————— 11 La contrapposizione “fuori/dentro” è analoga a quella “alto/basso”, che ritrovia- mo nelle Stanze della funicolare e ne L’ascensore (Caproni 1998, 136ss., 168ss.). 12 Sugli aspetti dell’intertestualità cf. Holthuis 1993, Bernardelli 2000. 13 A Silvia, v. 18 “e di me si spendea la miglior parte”. 14 I corsivi sono nel testo.

146 7. Bibliografia 7.1. Opere Bandini, Fernando, Meridiano di Greenwich, Milano, 1998. Bertolucci, Attilio, Opere, a cura di P. Lagazzi e G. Palli Baroni, Milano, 1997. Boine, Giovanni, Frantumi, seguiti da “Plausi e botte”, Firenze, 1918. Caproni, Giorgio, L’opera in versi, a cura di L. Zuliani, Milano, 1998. Fortini, Franco, Versi scelti 1939–1989, Torino, 1990. Giudici, Giovanni, I versi della vita, a cura di R. Zucco, Milano, 2000. Luzi, Mario, L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Milano, 1998. Montale, Eugenio, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, 1980. Parronchi, Alessandro, Diadema. Antologia personale 1934–1997, Milano, 1998. Rebora, Clemente, Le poesie (1913–1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Mi- lano, 19982. Saba, Umberto, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Milano, 1994. Sereni, Vittorio, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, 1995. Ungaretti, Giuseppe, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, 1969. Viviani, Cesare, Preghiera del nome, Milano, 1990. Zanzotto, Andrea, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Milano, 1999. ———, Sovrimpressioni, Milano, 2001.

7.2. Studi AAVV, L’Antologia poetica. Numero monografico di Critica del testo II/1 (1999). Bernardelli, Andrea, Intertestualità, Firenze, 2000. Brinker, Klaus, Linguistische Textanalyse. Eine Einführung in Grundbegriffe und Me- thoden, Berlin, 19974. Casapullo, Rosa, Il Medioevo, Bologna, 1999. Coletti, Vittorio, Dietro la parola. Miti e ossessioni del Novecento, Alessandria, 2000. ———/Testa, Enrico, “Aspetti linguistici della poesia italiana dell’ultimo Novecen- to”, in: Nuova Corrente 40 (1993), 285–310. D’Arienzo, Matteo, Aspetti della paratestualità e della testualità nell’opera poetica di Mario Luzi. Tesi di Laurea, Università di Roma Tre, 2000/2001. Della Casa, Maurizio, Scrivere testi. Il processo, i problemi educativi, le tecniche, Fi- renze, 1994. Genette, Gérard, Soglie. I dintorni del testo, Torino, 1989. ———, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, 1997. Holthuis, Susanne, Intertextualität. Aspekte einer rezeptionsorientierten Konzeption, Tübingen, 1993. Jacob, Daniel/Kabatek, Johannes (edd.), Lengua medieval y tradiciones discursivas en la Península Ibérica, Frankfurt/Madrid, 2001.

147 Lavagetto, Mario, La gallina di Saba, Torino, 19892. Mengaldo, Pier Vincenzo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, 1975. ———, Il Novecento, Bologna, 1994. ———, “‘L’opera in versi’ di Eugenio Montale”, in: Asor Rosa, Alberto (ed.), Lette- ratura italiana. Le Opere: Il Novecento, I: L’età della crisi, Torino, 1995, 625– 668. ———, “‘Questo muro’ di Franco Fortini”, in: Asor Rosa, Alberto (ed.), Letteratura italiana. Le Opere: Il Novecento, II: La ricerca letteraria, Torino, 1996, 931–951. ———, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, 2000. Mensching, Guido/Röntgen, Karl-Heinz (edd.), Studien zu romanischen Fachtexten aus Mittelalter und früher Neuzeit, Hildesheim/Zürich/New York, 1995. Mortara Garavelli, Bice, “Italienisch: Textsorten/Tipologia dei testi”, in: Holtus, Gün- ter/Metzeltin, Michael/Schmitt, Christian (edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, IV: Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen, 1988, 157–168. ———, “Strutture testuali e retoriche”, in: Sobrero, Alberto A. (ed.), Introduzione all’italiano contemporaneo. I: Le strutture, Roma/Bari, 1993, 371–402. Testa, Enrico, “Alcuni appunti per una descrizione del macrotesto poetico”, in: Cove- ri, Lorenzo (ed.), Linguistica testuale, Roma, 1984, 131–152. ———, Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali, Genova, 1983. ———, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, 1999.

148 Dati linguistici e cartografia tematica Vittorio Dell’Aquila

1. Introduzione La geografia è la scienza che descrive la superficie terrestre nelle sue caratte- ristiche fisiche, climatiche, politiche, economiche, sociali e antropologiche. La lingua è stata da sempre oggetto di studio da parte dei geografi, ma solo recentemente si è sviluppata un’analisi sistematica dei fenomeni linguistici in chiave geografica configurandosi come sottodisciplina a sé stante con il no- me di geolinguistica. La geolinguistica è l’“analisi sistematica della lingua nel suo contesto fisico e umano” (Williams 1996, 63): essa si prefigge di fare luce sul contesto socio-spaziale dell’uso e delle dinamiche linguistiche. I suoi scopi principali sono quello di “misurare la distribuzione delle lingue e la lo- ro variazione; identificare le caratteristiche dei gruppi linguistici […]; siste- matizzare le dinamiche della crescita o del declino delle lingue e render conto dei fattori ambientali e sociali che creano tali dinamiche” (Williams 1988, 2). La geolinguistica comprende due sottodiscipline: una chiamata linguistica areale, o micro-geolinguistica e l’altra geografia delle lingue o macro- geolinguistica.1 La prima si occupa delle forme linguistiche (fonetica, morfo- logia, lessico, etc.) così come esse si distribuiscono sul territorio,2 la seconda studia invece gli aspetti extralinguistici delle lingue stesse nella loro varia- zione diatopica: si interessa in particolare della distribuzione delle lingue e del loro uso (“the identification of segregation patterns, zones of contact and core areas within a spatial framework of language diversity”),3 del cambio linguistico (“the identification of areas of growth and decline amidst the dynamic structure of a language in time and space”) e dell’ambiente in cui le lingue si trovano ad esistere (“the identification of the physical, social, histo- rical, political and economic fabric within which the distribution of and change in language take place”).

————— 1 In seguito si farà uso dei termini micro- e macro-geolinguistica, anche se il termi- ne geografia delle lingue è forse meno ambiguo. Per le definizioni cf. Mackey 1988, 22. 2 Per un’ampia bibliografia riguardante la micro-geolinguistica si veda almeno Pop 1950 e García Mouton 1994. 3 Questa, e le due definizioni che seguono tra parentesi, sono di Van der Marwe 1993 citate in Williams 1996, 63.

149 La geolinguistica rientra in parte anche nella sociolinguistica, ma mentre lo sguardo sociolinguistico analizza in verticale la società di un determinato territorio dividendola in classi sociali e situazioni comunicative senza ap- prezzare le sue variazioni diatopiche, l’analisi geolinguistica, invece, è atten- ta alle differenze linguistiche (strutturali, d’uso, sociologiche, etc.) sul piano spaziale, ma ignora – spesso per necessità – quelle diastratiche che vengono viste come appiattite su un piano solo.4 Trudgill (1983, 6) considera inoltre geolinguistica e sociolinguistica come strumenti metodologici per lo studio della variazione linguistica e ritiene che (in Chambers/Trudgill 1980) la dia- lettologia, la micro-geolinguistica (dialect geography), la dialettologia urba- na e la geografia umana vadano considerate come subdiscipline di una stessa disciplina scientifica. Questo contributo vuole brevemente analizzare e commentare un elemen- to indispensabile della macro-geolinguistica, cioè la cartografazione dei dati linguistici. La cartografia geolinguistica, in quanto disciplina che tratta i dati riguardanti le lingue, così come essi vengono ci vengono forniti da censimen- ti e da surveys socio-linguistici, rientra a pieno titolo nella cartografia temati- ca, e si serve delle stesse metodologie e considerazioni teoriche per i suoi scopi. La cartografia tematica, con l’aiuto del computer, ha acquisito negli ulti- mi anni nuove potenzialità; la particolare facilità della manipolazione dei dati consentita dall’informatica permette una maggiore attenzione all’organizzazione e alla leggibilità della carta, e al tempo stesso favorisce una più ampia scelta del tipo di presentazione del dato adatto a raffigurare l’oggetto di analisi, tra numerosi modelli possibili. Di seguito verranno brevemente analizzate alcune caratteristiche peculiari della cartografia tematica alla luce della geolinguistica e dell’analisi sociolin- guistica del dato statistico cartografato. Particolare attenzione verrà posta a quelle caratteristiche della cartografazione del dato linguistico che sembrano necessitare di una diversa metodologia grafica rispetto ai dati demografici, economici, sociali o politici che rappresentano l’oggetto principale della car- tografia tematica classica.

2. Il dato La fonte principale di dati per la geolinguistica sono i censimenti linguistici, e, in aggiunta a questi, i dati quantitativi ottenuti tramite indagini sociolingui-

————— 4 Cf. Dell’Aquila/Iannàccaro 1999, 5.

150 stiche e inchieste sul campo. Innanzitutto, per il geolinguista è importante prestare attenzione agli errori insiti nel dato stesso, in particolare quelli rela- tivi alle lingue registrate da statistiche e censimenti ufficiali. Esistono tre tipi fondamentali di errore di fronte a cui il geolinguista si può trovare:5 l’errore statistico, insito nella raccolta stessa dei dati da parte di chi ha fatto la ricerca. Questo errore è pressoché nullo nei censimenti ed è (o dovrebbe essere) e- spresso esplicitamente nei dati ricavati da sondaggi o ricerche statistiche fatte su campioni di popolazione. L’errore intenzionale, cioè quella distorsione del dato voluta dalle istituzioni o dal ricercatore per ragioni politiche o ideologi- che: questa alterazione può essere provocata semplicemente falsificando i da- ti (caso raro) o strutturando le domande e le eventuali serie di riposte a scelta multipla in modo da influenzare l’intervistato. L’errore psicologico, cioè, ad esempio, la sovraestimazione dei dati riguardanti le lingue di prestigio (l’intervistato si sente, consciamente o inconsciamente, in dovere di dichiara- re la conoscenza di una lingua nazionale o ufficiale) e la sottoestimazione di lingue minoritarie o di varietà considerate negativamente dalla società. Esiste poi il problema della classificazione delle lingue: un problema a- perto e sul quale molti autori si sono confrontati, senza tuttavia trovare una soluzione univoca e convincente.6 I punti di vista dai quali si parte per tratta- re questo argomento (linguistico, politico, storico, letterario, legale) e i pre- supposti metodologici che ne stanno alla base (linguistica storica, linguistica tipologica, sociologia, psicologia) sono così vari e molteplici che non è com- pito del geolinguista affrontarli: chi cartografa dei dati linguistici di tipo sta- tistico non può che utilizzarli così come gli vengono forniti, anche se in mo- do critico e consapevole dei possibili limiti ed errori in essi contenuti, even- tualmente riportando a commento eventuali note sociolinguistiche o sociopo- litiche riguardanti la classificazione linguistica cartografata: questa soluzione “pragmatica” consente di ottenere in verità, nella maggioranza dei casi, una buona aderenza alla realtà percepita dai parlanti stessi.7 Una carta delle lin- gue parlate in Alto Adige (cf. carta 1), ad esempio, basata sui dati del censi- mento, che impieghi un colore “A” per il tedesco, uno “B” per l’italiano e uno “C” per il ladino, rappresenta la realtà linguistica della regione non solo ————— 5 Cf. Mackey 1973, de Vries 1985, 1991, 1996, 1997, Finnäs 1991, 1997, Corbetta 1999. 6 Ma per una panoramica generale sulla problematica della classificazione delle lin- gue ad uso della geolinguistica o del language planning, si vedano Breton 1976b, Kloss 1967, 1974, Voegelin 1977 e Fodor/Hagège 1989. 7 Per una rassegna bibliografica sulla dialettologia percettiva cf. Canobbio/Iannàc- caro 2000.

151 come viene interpretata dal punto di vista amministrativo, ma anche come es- sa è percepita dalla popolazione stessa. Un’interpretazione di tipo sociolin- guistico di questa carta sarà – per l’impossibilità oggettiva di ottenere dati quantitativi più approfonditi – un passo successivo che il sociolinguista dovrà fare alla luce delle sue conoscenze della situazione generale dell’area: una ta- le lettura potrà – se il geolinguista è anche sociolinguista – essere aggiunta in nota (o in legenda) alla carta stessa. Il colore “A” potrà essere quindi inter- pretato come rappresentativo della diglossia Hochdeutsch (varietà alta) – dia- letti tirolesi (varietà bassa) (con italiano L2), il colore “B” il monolinguismo italiano o dilalia8 italiano (varietà alta) – dialetti italiani (varietà bassa) ed e- ventualmente tedesco come L2 e infine il colore “C” come situazione socio- linguistica in cui le funzioni di varietà alta sono coperte funzionalmente dal tedesco (Hochdeutsch), dall’italiano e (solo in parte) dal ladino, mentre la va- rietà bassa è costituita dal solo ladino. Se è però spesso vero che i dati ricavati dai censimenti linguistici non so- no sufficienti per poter essere interpretati sociolinguisticamente, non bisogna dimenticare che questi dati non potrebbero in alcun modo essere ottenuti da singoli ricercatori, specialmente nella loro profondità territoriale e temporale. È chiaro che una metodica e continua comparazione di questi ultimi con i ri- sultati di ricerche sociologiche o sociolinguistiche, più limitate nello spazio e nel tempo, ma più dettagliate e precise nella metodologia di indagine lingui- stica, può fornire un’immagine abbastanza aderente alla realtà linguistica esi- stente su un determinato territorio ed essere con successo cartografata.

3. La carta 3.1 Aspetti generali Fino qui si sono analizzati alcuni fattori esterni che possono influenzare il contenuto di una carta geolinguistica: vediamo adesso quali sono invece la caratteristiche interne che rendono una carta geolinguistica più o meno leggi- bile, significativa, informativa. Una carta geografica, in generale, è definibile come la rappresentazione del mondo o di una sua parte e di uno o più fenomeni o caratteristiche del ter- ritorio che si vogliono rendere graficamente; trasmette delle informazioni che sono state previamente raccolte, selezionate, analizzate e infine tradotte in di- segno.

————— 8 Per il termine dilalia cf. Berruto 1987.

152 La carta macro-geolinguistica è un tipo particolare di carta tematica che rappresenta la situazione linguistica di un determinato territorio così come questo appare configurato dai dati statistici raccolti. Secondo Ambrose/Wil- liams (1991, 300) una carta geolinguistica possiede sei funzioni: definire l’area e i limiti della ricerca; osservare, raccogliere e registrare informazioni in maniera ordinata; classificare, correggere e aggiornare i dati in modo coe- rente; analizzare secondo gli strumenti della cartografia; presentare risultati; interpretare questi risultati. Essa ha lo scopo di mostrare un ordine, delle dif- ferenze, delle eccezioni (Brunet 1987, 40): rappresentare un “ordine” signifi- ca cartografare l’intensità o le percentuali di uso di un determinato codice quando esse variano col variare della realtà territoriale ad esempio lungo con- fini linguistici (francese vs. tedesco in Svizzera), in presenza di minoranze (lo sfumare della popolazione di lingua albanese in quella di lingua macedo- ne in Macedonia (cf. carta 2) o col passare del tempo (la riduzione dell’area di lingua gaelica in Scozia); può anche significare il mostrare graficamente il grado di vitalità linguistica del codice (ad esempio l’uso del gallese scritto in Galles), il suo grado di ufficialità (le lingue ufficiali nei comuni della Finlan- dia). Questi due ultimi elementi possono anche essere visualizzati come dif- ferenze all’interno dell’area in cui lo stesso codice è in uso (come per la vita- lità e uso dei dialetti lombardi in Ticino e in Lombardia). Rappresentare gra- ficamente delle eccezioni significa, tra l’altro, localizzare sulla carta piccole minoranze o isole linguistiche (ad esempio comunità di lingua albanese nell’Italia meridionale). Una carta è fatta per essere guardata: bisogna che attiri l’attenzione e che allo stesso tempo fornisca delle informazioni. Per impattare la carta possiede la forza dell’immagine: diversamente da un testo, che si legge parola dopo parola, essa viene letta contemporaneamente su almeno due dimensioni. Una carta deve dunque fornire con immediatezza una chiara immagine d’insieme, le opposizioni e i punti di ordine di grandezza principali, solo in seguito deve attirare l’attenzione sui particolari. Ogni rappresentazione cartografica pre- suppone dunque un compromesso tra precisione e leggibilità. Una carta linguistica della Svizzera, ad esempio, deve prima di tutto mo- strare con chiarezza e con dei colori o scale di colore ben distinguibili tra lo- ro, le quattro aree linguistiche della Confederazione, i confini tra i cantoni, le principali città e capitali cantonali e alcuni fiumi che fungano da riferimento geografico; solo ad un’analisi più attenta saranno riconoscibili i vari gradi di presenza delle diverse lingue e le unità territoriali alle quali i dati fanno rife- rimento (distretti, comuni, eccetera). Ma le carte sono molto più che un mero insieme di simboli e di accurati e gradevoli giochi di colore: il modo in cui esse sono disegnate e in cui i dati

153 sono trattati può influenzare enormemente la loro utilità, la loro fruibilità e l’interpretazione da parte del lettore del messaggio stesso che si vuole comu- nicare (cf. Williams 1996, 67).

3.2 La struttura Una carta geografica in generale, e una geolinguistica in particolare, deve es- sere accompagnata da una serie di elementi che, pur situandosi fisicamente o idealmente al margine, ne rendono possibile la corretta lettura. • Prima di tutto il titolo, che deve essere breve, netto, tecnico e preciso e soprattutto chiaro. • La scala, uno degli attributi fondamentali della carta: non bisogna infatti mai dimenticare che una carta è una riduzione proporzionale di un territo- rio e che quindi senza di essa vengono a mancare i parametri per potersi rapportare alla realtà. • La legenda, che è la chiave di lettura della carta, anche se la carta stessa dovrebbe poter essere letta in modo più semplice possibile e senza troppi riferimenti esterni: i simboli usati devono essere il più possibile intuitivi e classificati secondo principi chiari e logici. Nel caso di carte ad aree è as- solutamente indispensabile riportare in legenda un istogramma che renda conto dell’estensione delle classi di variabili in rapporto alla loro distri- buzione statistica o della corrispondenza del colore con una determinata lingua. • La scelta dell’inquadramento di una carta è una questione al tempo stesso di chiarezza e di estetica: riempire il quadro con le aree geografiche cir- costanti quella studiata può rendere più piacevole l’immagine e fornire punti di riferimento esterni per localizzare l’oggetto, ma al contrario può facilmente distrarre il lettore e spingere la sua attenzione verso particolari non pertinenti. Inoltre non sempre si hanno a disposizione i dati necessari o comparabili per le aree limitrofe a quella in esame. • Infine la toponomastica: le carte tematiche, specialmente quelle disegnate a computer, spesso non riportano la nomenclatura geografica. Ciò è inve- ce fondamentale per una carta geolinguistica: aiuta il lettore a orientarsi sulla carta, serve per comparare i dati cartografati con le fonti e, non me- no importante, aggiunge valore estetico alla carta stessa. Non va dimenti- cato poi il fatto che potrebbe essere interessante in una carta linguistica riportare la toponomastica nelle varie lingue trattate.

154 3.3 I tipi di carta La scelta della tecnica di cartografazione, così come quella dei colori, della scala e di tutti gli altri espedienti cartografici, influisce sensibilmente sull’aspetto finale della carta tanto da poterne fare un utile se non indispen- sabile strumento per lo studio linguistico.

3.3.1 Carte coroplete Le carte coroplete (cioè ad aree colorate o a livelli di grigi) permettono di rappresentare delle variabili di tipo nominale (tipo di lingua) o numerica, continua o discreta (percentuale di parlanti una determinata lingua), ma non delle quantità o dei valori assoluti. Ogni classe di valori è rappresentata da un colore, i cui limiti, definiti di volta in volta e esplicitati nella legenda, sono ottenuti per ognuna delle unità statistico-territoriali della carta come se fosse- ro uniformi al suo interno.

3.3.2 Carte coroplete con variabile nominale Pur essendo un metodo di cartografazione dalle possibilità limitate, è quello più frequentemente usato in geolinguistica. In questo tipo di carte i fenomeni linguistici vengono considerati nella loro totalità, nella loro qualità e non nel- la loro quantità: ciò significa che ogni fenomeno viene visualizzato nella sua estensione massima sul territorio con un colore o un pattern specifico. La carta geolinguistica coropleta rientra in quel tipo di carta tematica (economi- ca, sociale, politica) che assegna ad ogni unità territoriale un solo elemento statistico: si pensi ad una classica carta della distribuzione delle lingue in Eu- ropa in cui ad ogni lingua (o famiglia linguistica) viene assegnato un colore e in cui le zone bi- o plurilingui si perdono nel colore della lingua di maggio- ranza o di quella storicamente autoctona. Oppure ad una carta delle lingue uf- ficiali del Belgio in cui i colori (o i pattern) rappresentano univocamente le lingue legalmente in uso nelle diverse aree (cf. carta 3).

3.3.3 Carte coroplete con variabile numerica È una varietà di carta ad aree che possiede la particolarità di essere graduata, di mostrare cioè la variazione d’intensità di un fenomeno sul territorio. Di- versi metodi di discretizzazione permettono la suddivisione in classi delle va- riabili continue (i dati). Diverse gamme di colori assicurano l’espressività grafica della variazione statistica del dato. Ma mentre una carta ad aree basa- ta su variabili di tipo nominale ci permette di rappresentare sinotticamente la distribuzione (di massima) di più lingue sul territorio, una carta ad aree basa-

155 ta su una variabile numerica ci consente di rappresentare i dati riguardanti una sola lingua alla volta9 (per es. conoscenza del gaelico in Irlanda).

3.3.4 Cerchi proporzionali Le carte a cerchi proporzionali sono destinate a rappresentare dei valori asso- luti (delle quantità o degli effettivi) ma non i dati relativi: una carta della po- polazione di lingua gallese, ad esempio, creata con questo sistema permette al lettore di apprezzare la distribuzione geografica dei gallesofoni, ma ha lo svantaggio di non darci informazioni riguardo ai parlanti inglese (cf. Aitchi- son/Carter 1994, 90). D’altra parte una tale carta ha il vantaggio di essere perfettamente leggibile anche in bianco e nero.

3.3.5 Cerchi proporzionali colorati Più lingue possono essere rappresentate sulla stessa carta con lo stesso meto- do abbinando colori diversi per ogni lingua, ma la leggibilità del disegno di- venta allora inversamente proporzionale al numero di variabili (lingue) rap- presentate.

3.3.6 Carte coroplete + cerchi proporzionali Le carte a cerchi proporzionali su superfici colorate permettono di rappresen- tare simultaneamente delle quantità assolute e dei valori numerici relativi. Una carta geolinguistica della popolazione Lappone di Svezia disegnata se- condo questi criteri, ad esempio, dà la possibilità di ponderare la lettura della carta ad aree (percentuale di popolazione lappone per comune) secondo dei dati assoluti (la popolazione totale di ogni unità amministrativa) in modo da evitare ogni errore di interpretazione del fenomeno: le aree abitate dai lappo- ni, pur essendo territorialmente abbastanza estese, sono quelle in assoluto meno popolate di tutto il paese (cf. carta 4).

————— 9 In verità, in aree in cui solo due lingue sono presenti, essa rappresenta i dati di en- trambe, una in positivo e l’altra in negativo (cf. gallese e inglese in Galles: chi non parla gallese parla solo inglese). Inoltre, accostando più scale di colore è pos- sibile rappresentare i dati che riguardano più di due lingue, ma la leggibilità della carte ne risente gravemente (ma per un ottimo risultato di carta coropleta con tre variabili numeriche, cf. la carta della ripartizione etnica della Bosnia Erzegovina in Foucher 1993, 205).

156 3.3.7 Carte a dispersione Le carte a dispersione di punti rappresentano, come le carte a cerchi propor- zionali, dei valori assoluti: ogni punto, localizzato all’interno dell’unità spa- ziale alla quale appartiene, è calibrato in maniera da rappresentare una fra- zione della quantità totale registrata nell’unità spaziale stessa. Si ottiene così un effetto di densità che rende conto, in modo gradevole e di facile lettura d’insieme, della localizzazione delle lingue sul territorio. Anche in questo ca- so, se si applica una sola variabile (una sola lingua) si possono ottenere degli ottimi risultati anche con il bianco e nero, mentre se si vogliono localizzare più lingue diventa essenziale l’uso del colore. L’aleatorietà della posizione dei punti viene convenientemente ridotta se le unità statistico-territoriali di base sono sufficientemente piccole (cf. carta 5). Tale carta, però, oltre a rap- presentare soltanto i dati assoluti, difficilmente può essere arricchita con dati geografici di riferimento, come la toponomastica o una fitta rete di confini amministrativi, i quali renderebbero l’intera immagine illeggibile.

3.3.8 Le carte a diagramma Una carta a diagramma consiste nel posizionare dei diagrammi su una carta geografica in modo da poter localizzare su di essa diverse variabili contem- poraneamente. Esistono due tipi di carte a diagramma: nel primo, più classico e largamente usato, in particolare nella stampa periodica o nelle pubblicazio- ni di carattere più divulgativo, i dati sono rappresentati sovrapponendo dei diagrammi a barre o a torta, degli istogrammi o dei quadrati divisi in celle, al- le unità territoriali alle quali i dati si riferiscono. Queste carte, tuttavia, si ri- velano spesso poco efficaci e la loro precisione si perde nelle insormontabili difficoltà di lettura: esse potrebbero essere di interesse per qualche località presa isolatamente, ma in questi casi una tabella o una serie di semplici grafi- ci risultano sicuramente più precisi e d’effetto. Nel secondo tipo, invece, si trasforma l’unità territoriale stessa in dia- gramma dividendola in bande (verticali o trasversali) o in quadrati propor- zionali ai dati da visualizzare: il risultato è quello di una carta coropleta rivi- sitata e resa più precisa e ricca di dati con la tecnica della carta a diagramma. Questo secondo tipo di carta, usato in particolare con successo nella cartogra- fazione di dati sulla vegetazione e o sull’agricoltura, si rivela molto utile an- che per la cartografia geolinguistica (cf. carta 1).

157 3.3.9 Diagramma a bande trasversali La distribuzione delle lingue sul territorio, specialmente in aree di confine, si presta molto bene ad essere cartografata con il sistema delle bande trasversa- li: con una discretizzazione del dato linguistico in 4, 5 o 6 classi – ma non di più – si possono ottenere, con l’aiuto dei colori, delle carte geolinguistiche di facile lettura e di grande effetto. È un metodo che mette insieme elementi po- sitivi della cartografazione per aree colorate su scala nominale (che per loro natura sono di facile lettura ma limitate nelle possibilità espressive) e altri delle carte a diagramma che possono rappresentare simultaneamente vari tipi di dati. Questo tipo di carta deve necessariamente essere realizzato a colori.

3.3.10 Carte a griglia. In casi molto particolari, in cui si abbiano a disposizione dati suddivisi per unità statistico-territoriali piuttosto estese e molto disomogenee al loro inter- no, ma di cui, attraverso altri studi linguistici o sociologici, si conosca la di- slocazione geografica (almeno indicativa) delle varie comunità linguistiche, si può fare uso di carte a griglia. Il principio su cui si basano è piuttosto sem- plice: si crea una griglia regolare (visibile o invisibile) sotto il disegno della carta e si colorano, in maniera proporzionale al dato, le maglie della griglia, tutte della stessa dimensione, e normalmente in forma quadrata: il risultato grafico è molto piacevole e la lettura d’insieme è d’effetto, ma l’analisi detta- gliata della carta può risultare difficile.10 La scelta del passo (cioè della di- mensione del reticolo) è chiaramente essenziale: teoricamente, più il passo è piccolo, più i dati sono precisi; ma se i dati sono imprecisi all’origine (unità sta- tistiche troppo vaste) e la griglia molto piccola, la precisione diventa illusoria.

Mackey (1988, 25) ritiene che: “since only people speak languages, the basis for their geographical distribution has to be, not political or physical, but demographic” e suggerisce dunque che solo le aree abitate debbano essere incluse nella carte geolinguistiche.11 Ma poiché il cartografo delle lingue de- ve comunque sempre prestare attenzione alla leggibilità della carta, sia allo sguardo generale, sia nel dettaglio, il limitarne l’estensione alle aree abitate sembra avere più aspetti negativi che positivi, in quanto la carta “still has the

————— 10 Si vedano ad es. le carte linguistiche nell’Atlas der Donauländer (Breu 1989). 11 Cf. Atlas Narodov Mira (Bruk/Alencenko 1964), che applica un sistema di questo genere pur mantenendo comunque un buon grado di leggibilità.

158 disadvantage of imperfectly represent the density of population speaking any one language” (Mackey 1988, 22). Le carte a dispersione di punti possono costituire un’adeguata soluzione a questo tipo di problema, in particolare quando si tratti di regioni con una den- sità di popolazione molto disomogenea (come ad esempio l’area alpina): la loro non eccessiva chiarezza di lettura può essere aggiustata abbinandole a carte ad aree colorate. Carte tridimensionali, in cui la densità della popola- zione sia rappresentata verticalmente e la distribuzione del fenomeno lingui- stico sul territorio orizzontalmente, potrebbero costituire una soluzione pos- sibile, pur rimanendo di difficile realizzazione e al tempo stesso pesanti nella lettura. Un buon compromesso, semplice da realizzare e di buon effetto gra- fico, è quello delle carte miste “aree colorate/cerchi proporzionali” o più semplicemente quello delle carte ad aree colorate sulle quali vengono rappre- sentate, come nelle più comuni carte geografiche politico-amministrative o politico-fisiche, con simboli proporzionali solo alla popolazione delle princi- pali località abitate.

3.4 Il fondo della carta e le unità statistiche minime Il fondo di una carta tematica può variare di molto: può essere un fondo to- pografico dettagliato sul quale vengono sovrapposti colori o pattern o, oltre ai contorni geopolitici del territorio da studiare, può essere assente ogni altro tipo di indicazione. Una carta geolinguistica necessita invece di una quantità di informazioni di fondo che permettano al lettore di orientarsi facilmente sul territorio, ma non può al tempo stesso essere troppo ricca di dettagli che po- trebbero sviare l’attenzione rispetto al fenomeno linguistico in questione. La scelta delle aree geografiche minime e della scala è dunque un mo- mento fondamentale nella realizzazione di una carta geolinguistica. Le unità politico-amministrative già esistenti sono spesso la scelta pragmaticamente più adeguata se non obbligata, poiché i dati che si hanno a disposizione corri- spondono normalmente proprio a queste aree. La scelta di aree geografiche di estensione ampia, come stati o regioni, facilmente disomogenei linguistica- mente al loro interno, può essere adeguata solo se lo scopo della carta è di rappresentare le lingue ufficiali di tali entità o simili elementi linguistici di ti- po socio-politico. Si ricordi in particolare che nella realizzazione di una carta ad aree colorate, i valori per ogni unità minima sono considerati in maniera uniforme e rappresentano quindi la media matematica del dato nell’unità stessa: se l’unità minima è troppo grande e molto eterogenea, la carta può di- ventare completamente inutile – si pensi ad esempio ad una carta del Belgio che tratti in modo uniforme per tutto il paese i dati sulle lingue. Ma se lo sco-

159 po è quello di descrivere un aspetto più dettagliato della realtà linguistica di un territorio, unità amministrative molto più piccole, come i comuni, sembra- no essere la scelta più appropriata, sebbene queste, pur essendo facilmente omogenee linguisticamente al loro interno, per forma, estensione e popola- zione siano molto disomogenee. Spesso però la mancanza di dati disaggregati per piccole aree obbliga il cartografo a utilizzarne di più grandi. È inoltre importante decidere i contorni di quali unità amministrative mantenere nella carta e quali non riportare: la conservazione dei confini delle entità più piccole permettono la loro identificazione, ma distraggono il lettore a causa della loro forma eterogenea e della fitta rete di linee scure che li rap- presentano. Quelle di entità più grosse sono comunque fondamentali per orientarsi sulla carta. Una carta amministrativa di base con i limiti delle unità a cui i dati fanno riferimento (o ad unità appena più grandi quando le prime siano molto picco- le) e con le principali città e fiumi sembra poter essere quindi la soluzione più adeguata (cf. Atlas Narodov Mira, Bruk/Alencenko 1964).

3.5 I metodi di discretizzazione La discretizzazione del dato, cioè l’aggregazione dei valori di una variabile in classi distinte, è un passaggio obbligato nella cartografazione tematica: es- sa serve a quantificare con una scala di colori il dato sulla carta.12 Molti sono i metodi di discretizzazione del dato ad uso della cartografia tematica, alcuni più spontanei, empirici e comodi – e più comunemente usati –, altri più com- plessi in apparenza, ma con i quali, in moltissimi casi, l’analisi della carta ri- sulta più appropriata e approfondita.

3.5.1 Classi a intervalli uguali La discretizzazione del dato in classi della stessa ampiezza (10%, 10.000 per- sone, etc.) è un procedimento molto usato per la sua immediatezza di lettura e di realizzazione: la legenda si interpreta con facilità e le cifre tonde sono gra- dite al lettore. Ma nella cartografia tematica specializzata (non geolinguisti- ca) questo tipo di discretizzazione viene volentieri evitato a causa delle sue caratteristiche considerate negative:13 spesso alcune classi restano vuote e al- ————— 12 In verità oggi, con l’uso della grafica computerizzata, è in teoria anche possibile rappresentare una serie continua di valori con una serie continua di colori, ma la carta risultante, forse apprezzabile dal punto di vista estetico, è difficilmente ana- lizzabile quantitativamente. 13 Brunet 1987, 172–173.

160 tre troppo piene; l’immagine è dunque sensibile ai limiti dell’ampiezza delle classi, con la conseguenza che sulla carta un colore facilmente predomina su- gli altri. In verità in una carta geolinguistica le stesse caratteristiche risultano assai utili: nel rappresentare ad esempio, l’estensione della conoscenza di una determinata lingua, poniamo il catalano in Catalogna, la discretizzazione in classi della stessa ampiezza ci dà un’ottima immagine del fenomeno sul terri- torio. La carta sarà, è vero, dominata dalle sfumature di colore che indicano le percentuali più alte di conoscenza della lingua, ma saranno facilmente ri- conoscibili le località di penetrazione dello spagnolo come piccole aree dalle sfumature opposte localizzate intorno alle aree urbane. Il colore inoltre, se usato secondo gli adeguati criteri, distingue ad esempio le aree in cui il cata- lano è la lingua conosciuta dalla maggioranza, da quelle in cui è in minoran- za, elementi questi fondamentali per un’analisi sociolinguistica del territorio; poco importa se alcune classi di valori resteranno vuote.

3.5.2 Classi con numero uguale di effettivi La cartografia tematica economica e sociale fa spesso uso della discretizza- zione per classi contenenti lo stesso numero di effettivi, cioè di unità statisti- co-geografiche, in cui a variare sono gli intervalli delle classi stesse. Le carte sono stabili e i colori equilibrati visualizzano con grande precisione cluster di ordinati dati: ma per il geolinguista a che cosa serve sapere quali sono i primi 10 o 20 comuni in cui si parla di più lo svedese in Finlandia o il francese in Svizzera, in particolare se la differenza tra l’ultimo del primo gruppo e il pri- mo del secondo è minima?

3.5.3 Classi a valori centrati La discretizzazione del dato secondo lo scostamento semplice medio (o lo scarto quadratico medio) è uno dei metodi più rigorosi nell’analisi cartografi- ca tematica: per la cartografazione si usa dividere i dati in quartili, quintili o sestili (rispettivamente 4, 5 o 6 classi) che indicano la differenza, positiva o negativa, dalla media. La divisione in quantili è anche qui preferibile per classi contenenti un numero uguale di effettivi. Analizzando ad esempio in questo modo i dati sulle lingue e i dialetti parlati in famiglia nella Svizzera Italiana, così come risultano dal censimento federale del 1990, si potrebbe, alla luce anche dei dati sociolinguistici a noi già noti, addirittura ipotizzare una quantificazione della variazione territoriale tra diglossia e dilalia nella re- gione.

161 3.6 L’uso dei colori L’uso del colore nella cartografia è fondamentale. Solo in due casi si possono giustificare oggi carte geolinguistiche in bianco e nero: quando le carte sono molto semplici e dunque il bianco e nero rende graficamente come il colore e quando le necessità economiche obbligano al risparmio nella stampa delle carte stesse. La realizzazione di carte a colori richiede in verità qualche sfor- zo in più rispetto a quelle in bianco e nero, per rispettare alcune regole fon- damentali senza le quali l’uso del colore stesso risulta inutile. È prima di tutto importante non mescolare o giustapporre mai i colori in modo casuale: un rosa, un verde e un blu di seguito, in una gamma gerarchi- ca, non rappresentano per nessuno una progressione. È necessario quindi gio- care sui toni piuttosto che sulle sfumature del colore: nel disegnare una carta ad aree su variabile numerica è necessario creare una gamma gerarchica di colori che va dal chiaro allo scuro. Perché i colori siano separabili in modo da poter distinguere chiaramente i valori statistici ai quali essi fanno riferi- mento, bisogna, come anche nelle scala di grigi, rendere ben evidente il salto tra un tono e l’altro e tener conto che la separazione tra colori chiari risulta più riconoscibile all’occhio che quella tra colori scuri: all’interno della stessa sfumatura di colore sono facilmente distinguibili non più di cinque toni. Se si necessitano più classi di colore per rappresentare il dato si possono utilizzare due diversi espedienti: il primo è quello di arricchire la scala, dalla parte dei toni scuri, con delle sfumature di colori diversi rispettando comunque la gra- dazione della tonalità e l’ordine dei colori nello spettro solare. L’altra è quel- la di formare una scala con due gradazioni di colori differenti, in cui il tono più chiaro stia nel mezzo e i toni scuri agli estremi. Ognuno dei due sistemi possiede lati positivi e lati negativi nella rappresentazione dei dati linguistici: con il primo si può rappresentare l’intensità del fenomeno linguistico sul ter- ritorio giocando sull’effetto chiaroscuro, in modo che i toni chiari indichino la bassa intensità e quelli scuri quella alta; purtroppo, però, anche ampliando lo spettro delle tonalità con delle sfumature di colore diverso, difficilmente si possono superare le 8 o 9 classi ben separabili tra di loro. Il secondo sistema invece è indispensabile per mettere in evidenza gli scarti dalla media, o sem- plicemente le aree in cui il fenomeno linguistico – o la lingua stessa – è in si- tuazione di maggioranza o di minoranza: punto questo particolarmente im- portante per l’analisi sociolinguistica del territorio. Con due scale di cinque toni distinti che partono al centro dal bianco o da una sfumatura appena ac- cennata si possono ottenere 11 valori chiaramente distinguibili, in cui i toni chiari indicano la vicinanza alla media (o alla metà della popolazione) e quel- li scuri gli estremi (o la presenza totale o l’assenza del fenomeno presso la

162 popolazione). Bisogna infine fare attenzione, oltre che all’aspetto fisico della visione del colore, ai valori psicologici o simbolici che certi colori portano con sé. In una scala doppia, che passi dalle sfumature di rosso a quelle di verde attraverso un giallo chiaro come punto medio, una tra le soluzioni più usate e dai migliori effetti grafici, questi due aspetti stanno in chiara contrap- posizione: dal punto di vista della percezione fisica, i colori caldi (i rossi, in questo caso) avanzano, sembrano più vicini al lettore, quasi in rilievo rispetto al testo, attirando quindi l’attenzione, mentre quelli freddi (i verdi) sembrano indietreggiare e sprofondare. Ma allo stesso tempo, almeno per la cultura eu- ropea, il rosso simboleggia il pericolo, il divieto, la situazione critica, mentre il verde la sicurezza, il permesso, la situazione ottimale. Nel cartografare l’estensione dell’uso di una lingua minoritaria, come ad esempio il basco, se- condo questa scala, ci si pone il problema di quale sfumatura applicare ai va- lori alti di bascofonia e quale ai bassi: se si applicano i colori caldi al basco si attira l’attenzione su di esso, ma si crea un effetto di pericolo e di instabilità nel nucleo centrale dell’area basca (cosa che può ben funzionare se si osserva la situazione da un punto di vista ispanocentrico); all’opposto si sposta l’attenzione sulle aree non bascofone esterne e l’area centrale basca sprofon- da e si perde (e forse è vero) nell’incombente mare rosso circostante che rap- presenta lo spagnolo e il francese.

4. Il significato della carta geolinguistica Ma qual è il significato di una carta macro-geolinguistica? D’accordo con Mackey (1988, 28) la carta linguistica non rappresenta le lingue, ma le loro funzioni e il loro uso: “It is an act of faith to believe that reality is as the map says it should be” (Williams 1996, 67). Una carta geolinguistica può mostra- re le lingue ufficiali di stati o regioni, le principali lingue parlate di una de- terminata area, la distribuzione relativa o assoluta della popolazione che con- divide la stessa lingua materna; può visualizzare un confine linguistico reale o percepito o la dislocazione di isole linguistiche sul territorio; descrivere l’evoluzione delle lingue nel tempo, gli aspetti territoriali del declino o della espansione di una lingua, il rapporto tra tipologia del territorio e vitalità lin- guistica; analizzare la variazione territoriale dello stesso fenomeno linguisti- co rispetto allo standard o la sua diversificazione sociale secondo la variabile territoriale; prevedere linee di tendenza e cambiamenti, nel tempo e nello spazio, dei fenomeni linguistici. La carta geolinguistica, per sua natura dunque, può presentare solo alcuni fenomeni alla volta della realtà indagata: per questo, per potere investigare la realtà in maniera completa ed esauriente, compatibilmente con i dati a dispo-

163 sizione, è necessario realizzare più carte della stessa area, non solo basate su dati diversi, ma anche usando metodologie differenti. La possibilità di visualizzazione di diversi dati su una stessa carta di base, permette di investigare la realtà in maniera molto più completa ed esauriente. Ciò si rivela particolarmente utile per l’approfondimento dell’indagine su si- tuazioni linguistiche, concentrazione di parlanti in aree omogenee, valutazio- ni di carattere spaziale dell’innovazione o della conservazione linguistica, per dare insomma al lettore un’immagine più ampia possibile della realtà lingui- stica dell’area in esame. “Maps shape an imagined reality which takes on a life of its own and often become the basis for understanding and action” (Williams 1996, 66).

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166 10°30' 11° 0' 11°30' 12° 0' 12°30'

Südtirol / Alto Adige

47° 0'

47° 0'

Sterzing/Vipiteno m

l Bruneck/Brunico 46°45'

46°45' l Brixen/Bressanone Meran/Merano l Sarntal/Sarentino m Laas/Lasa m m Lana m Urtijëi/St. Urlich/Ortisei 46°30' Bolzano/Bozen Eppan/Appiano o 46°30' l

l Laives/Leifers

m Kaltern/Caldaro Sprachgruppen Gruppi linguistici

1991 46°15' Deutsch 46°15' Tedesco Italiano Italienisch Realizzazione/Bearbeitung: Vittorio Dell'Aquila Fonti/Quelle: 13. Allgemeine Volkszählung 1991 / Ladin 13º Censimento generale della popolazione 1991, ASTAT: Bolzano/Bozen, 1995 Ladinisch/Ladino Carta base/Grundkarte: Vittorio Dell'Aquila, Milano - Vaasa/Vasa Alfred Wegener, AWI, Bremerhaven 0 5 10 20 30 km MARUM, Universität Bremen Viôrayli 2001© C.E.L.E.

10°30' 11° 0' 11°30' 12° 0' 12°30' Carta 1: I gruppi linguistici dell'Alto Adige (1991) 20°30' 21° 0' 21°30' 22° 0' 22°30' 23° 0'

MAKEDONIJA 1994 l Shqiptarë Albanci 42°15' 42°15' Albanesi – Albaner m

l m l m

42° 0' m m 42° 0' o m

m m m

m

41°45' m 41°45' m m

m

m m m 41°30' m 41°30' m m

m m m l

41°15' 41°15' m l m m m m 0% m 5% 41° 0' 41° 0' 15% l 25% 50% Realizzazione/Bearbeitung: Vittorio Dell'Aquila Fonti/Quelle: 75% Carta base/Grundkarte: Vittorio Dell'Aquila, Milano - Vaasa/Vasa Alfred Wegener, AWI, Bremerhaven 0 5 10 20 30 km MARUM, Universität Bremen Viôrayli 2001© C.E.L.E. 40°45' 40°45'

20°30' 21° 0' 21°30' 22° 0' 22°30' 23° 0' Carta 2: La popolazione albanese in Macedonia (1994)) 3° 4° 5° 6°

51°30' ¡ Middelburg ¡ Bergen-op-Zoom 51°30' ¢ Helmond Duisburg q Belgique ¢ Eindhoven Venlo Krefeld België ¢ ¢ ¡ Terneuzen ¡ Belgien Turnhout Oostende Brugge Düsseldorf 2001 ¢ ¢ Antwerpen ¢ ¢ q ¡ ¡ Mönchen-Gladbach Eeklo Sint-Niklaas Veurne ¡ Gent ¢ ¡ Diksmuide ¤ Dunkerque 51° 0' 51° 0' Aalst ¢ Roeselare Hasselt ¡ ¡ Leuven ¢ Maastricht ¡ Ieper ¡ Oudenaarde q Bruxelles/ ¢ ¢ Kortrijk Brussel ¡ Aachen St.Truiden ¤ ¡ Mouscron Halle ¡ Roubaix ¢ ¡ Nivelles Liège ¢ Ath ¤ ¡ Eupen Lille ¡ Tournai ¡ ¡ ¢ Soignies Verviers

50°30' 50°30' ¢ ¢ Namur Mons Malmédy ¡ Taalgebieden • Régions linguistiques ¡ Valenciennes ¡ Charleroi • Sprachgebiete • St.Vith Nederlandse taalgebied ¡

¡ Marché-en-Famenne Nederlandse taalgebied ¡ Cambrai met beschermde Franstalige minderheid Beauraing ¡ Région de langue française Couvin ¡ Bastogne Bitburg 50° 0' Région de langue française avec ¡ 50° 0' minorité de langue néerlandaise protégée ¡ Région de langue française avec ¢ Amiensminorité de langue allemande protégée Neufchâteau ¢ ¡ ¡ Région de langue française avec faculté de protection des minorités de langue allemande Ettelbruck et/ou de langue néerlandaise Charleville-Meziere ¢ ¢ Région bilingue français - néerlandais Arlon (Arlen) Trier Tweetalig gebied Nederlands - Frans ¡ Luxembourg/ Lëtzebuerg Deutsches Sprachgebiet mit geschützter ¢ Minderheit französischer Sprache ¡ Virton Esch 49°30' Réalisation/Bearbeitung: Vittorio Dell'Aquila ¡ 49°30' Sources/Quelle: België/Belgique/Belgien, Lier: Van In, 1980 Fond de carte/Grundkarte: Vittorio Dell'Aquila, Milano - Vaasa/Vasa Philippe Waniez, Paris 0 10 20 30 km Alfred Wegener, AWI, Bremerhaven ¡ MARUM, Universität Bremen Viôrayli 2001© C.E.L.E. 3° 4° 5° 6° Carta 3: Le regioni linguistiche del Belgio - Lingue uffciali (2001) Sverige 5° 10° 15° 20° Samerna Popolazione lappone 68° 68°1945 (1997)

< 1%

3% - 4% Kiruna

7%

11% 66° 66° Befolkning Luleå Popolazione totale 1997 Skellefteå 727339 450000

130000 64° 64° Umeå 5000 Östersund Viôrayli 2001 © C.E.L.E. Örnsköldsvik

Härnösand

Sundsvall 62° 62°

Gävle

Uppsala 60° 60°

Stockholm

Norrköping

58° 58° Linköping Göteborg Jönköping Visby

Halmstad Kalmar Helsingborg Realisering/Realizzazione: Vittorio Dell'Aquila 56° Karlskrona Data/Fonti: Folkräkningen den 31 december 1945; 56° Totala räkningen. Behandlar statistiken över lappbefolkningen. Stockholm: Statistiska Centralbyrån, 1949 Malmö Kristianstad Grundkarta/Carta base: Vittorio Dell'Aquila, Milano - Vaasa/Vasa Philippe Waniez, Paris 0 50 100 200 km Alfred Wegener, AWI, Bremerhaven 10° 15°MARUM, Universität Bremen Carta 4: La popolazione lappone (Sápmi) in Svezia (1945 - estrapolazione 1997) -70° -68° -66° -64° -62° -60° -58°

Elaboración/Realizzazione: Vittorio Dell'Aquila Fuentes/Fonti: Censo Nacional de Población y Vivienda 1992, La Paz, Instituto Nacional de Estadística, 1994 Bolivia Digitalización de los datos/ Louis Arréghini & Violette Brustlein Elaborazione dei dati: ©IRD/CREDAL/INE -10° -10° 1992 Mapa base/Carta base: Vittorio Dell'Aquila, Milano – Vaasa/Vaasa Philippe Waniez, Paris Alfred Wegener, AWI, Bremerhaven MARUM, Universität Bremen

-12° -12°

-14° -14°

-16° -16°

-18° -18°

-20° -20°

Aymará -22° -22° 1 punto = 200 hablantes 1 punto = 200 parlanti

0 50 100 200 300 km 1 Punkt = 200 Sprecher Viôrayli 2001© C.E.L.E.

-70° -68° -66° -64° -62° -60° -58° Carta 5: La distribuzione dell'Aymará in Bolivia (1992)

Pomodoro, pomo d’oro, pomo d’amore ... Francesca M. Dovetto

0. Introduzione La diffusione in Italia della metafora “pomo dorato/d’oro” si riflette nella de- nominazione di diverse piante, per lo più appartenenti alla famiglia delle So- lanacee e caratterizzate da un frutto costituito da una bacca o capsula di colo- re vario, dal giallo-arancio al rosso, fino al nero, e, in particolare, si riflette nella denominazione volgare del Solanum lycopersicum, ossia del pomodoro. La stessa metafora è presente in realtà nella denominazione di un altro frutto dorato, l’albicocca (Prunus armeniaca), detta in area meridionale 1 cr´suomm´l´/crisommula , dal greco τò χρυσóµηλον “pomo d’oro”, termine che indicava per lo più la mela cotogna. In questo caso, tuttavia, la metafora originaria in italiano si è oscurata e la diffusione del termine pomo d’oro non ha interferito con la diffusione della voce crisommola2, solo apparentemente affine per semantica. Dalle carte dell’Atlante Italo-Svizzero (AIS) emerge in- fatti come nelle località dell’Italia meridionale, dove quest’ultimo termine è attestato, siano in realtà presenti entrambe le denominazioni metaforiche sen- za che vi sia confusione tra i relativi designati (cf. AIS VII, cc. 1374, 1276). D’altra parte la distribuzione del termine pomodoro, più vasta e comples- sa rispetto all’area italiana esposta ad influenza greca, porta ad escludere un’origine greca anche per quest’ultima metafora. Le motivazioni che sono alla base delle denominazioni relative al pomodoro dipendono piuttosto dalle modalità della diffusione di questo ortaggio e di frutti affini in Europa in ge- nerale e in Italia in particolare, nonché dalla loro utilizzazione come orna- mento, come sostanza dai poteri medicamentosi e/o magici, e, infine, come alimento.

————— 1 Le forme qui riportate corrispondono alle voci napoletana e siciliana, ma il termi- ne è diffuso in tutta l’area meridionale: abruzzese cr´som´la, lucano grisommulu, calabrese crisommulu, con numerose varianti (cf. Cortelazzo/Marcato 1998, s.v. cr´suomm´l´; AIS VII, c. 1276). 2 La forma italianizzata (crisòmmole, pl.) si ritrova in Rea (1994, 139), ma con l’ulteriore slittamento semantico per “granata”.

173 1. Le denominazioni del Solanum lycopersicum Il termine it. pomodoro è ampiamente diffuso in tutta l’Italia centromeri- dionale e nordorientale, fatta eccezione soltanto di due aree, relative all’Italia nordoccidentale e alla Sardegna, dove lo stesso frutto viene detto piuttosto, con un termine di lontana origine azteca, tomata: cf. genov. tomata (DEI, s.v.), piem. tomatica (Sant’Albino, s.v.), milan. tomàtesa (Cherubini, s.v.), sardo tomátta/tamátta con diverse varianti (Wagner, s.v.), etc. Nelle regioni dell’America tropicale si ritrovano le origini sia di quest’ultimo termine, sia del referente che questo termine designa. Nell’area compresa tra il Cile settentrionale e l’Ecuador erano anticamente diffuse va- rie forme di Lycopersicum allo stato spontaneo, ridotte a coltivazione nel V secolo a.C. (cf. Martin 1963, 139).3 La coltivazione dell’ortaggio si diffuse poi in Messico dove quest’ultimo prese il nome di tomatl, voce di origine az- teca che Loewe (1934, 95–96) riporta a una radice tomau presente nel verbo tomaua “ingrossarsi, crescere”.4 Dal Messico l’oggetto, con la sua denomi- nazione, venne infine introdotto in Europa dagli spagnoli agli inizi del XVI secolo e, nei territori di lingua francese e spagnola dove venne dapprima im- portato, assunse la denominazione appunto di tomate. In Sicilia la voce “pomodoro” è attestata invece con diversa terminologia. Qui infatti il pomodoro viene detto pumu d’amuri/pumadamuri (cf. Gioeni 1885, s.v.; AIS VII, c. 1374), in analogia quindi con il fr. pomme d’amour, il ted. Liebesapfel e l’ingl. love-apple. In un articolo del 1973 Kurt Baldinger segnalava per l’area italiana una diversa (e originaria) denominazione dello stesso ortaggio come pomo dei Mori, termine che ne avrebbe sottolineato l’origine esotica e che si sarebbe via via modificato per etimologia popolare dapprima in pomo d’amore e quindi in pomo d’oro (Baldinger 1973, 259–260). Purtroppo l’ipotesi di Baldinger non è confortata dal controllo diretto sul- le fonti5 e sembra fondarsi essenzialmente su un articolo di Knobloch del

————— 3 Secondo GDE (XVI, s.v.) la domesticazione della pianta sarebbe avvenuta già nel 1000 a.C. 4 Cf. anche REW n. 8773. Secondo Coromines (VIII, s.v. tomàquet) la prima atte- stazione, nella forma castellanizzata tomate, sarebbe da attribuire a Bernardino Ribeira de Sahagùn e al 1532, quando cioè il missionario e storico spagnolo era sbarcato in Messico. 5 Grazie alla generosità del prof. Max Pfister, che mi ha messo a disposizione le schede del Lessico Etimologico Italiano (LEI) riguardanti la voce it. pomodoro e le sue varianti, ho potuto effettuare un ampio controllo sulle fonti relative alla di-

174 1968 relativo ai termini che avrebbero origine dal fraintendimento della de- nominazione originaria. Tra questi Knobloch cita infatti il termine pomi dei Mori (mala Aethiopica) frainteso in Francia come pommes d’amour e da qui tradotto in Germania come Liebesapfel e in Inghilterra come love apples (Knobloch 1968, 238). A questo proposito va tuttavia almeno ricordato come l’aggettivo more- sco designi, in più casi, una generica origine esotica e venga pertanto utiliz- zato nelle denominazioni popolari di alcuni frutti di diversa e lontana prove- nienza. In sardo infatti il peperone, altra pianta che proviene dall’America tropicale, viene detto, con un procedimento non molto dissimile, pibiri mori- scu, laddove l’aggettivo moriscu indicherebbe appunto una generica origine esotica (cf. Porru, s.v. pìbiri; Penzig 1924, 93–94). Allo stesso modo un si- nonimo minoritario del fico d’India sarebbe costituito dalla forma figu mori- sca (Porru, s.v. figu; Wagner, s.v. fíku), laddove l’aggettivo certamente non vuol indicare la reale provenienza del frutto, quanto piuttosto la sua lontana origine.6 Infine, un’ulteriore variante in uso per designare il Solanum lycopersicum è stata registrata da Ruffino (1973, 300) nella località siciliana di Terrasini, e in particolare nella parlata degli agricoltori, dove il termine pomodoro avreb- be subìto una nuova e genuina evoluzione e sarebbe stato modificato, ancora una volta attraverso un procedimento di etimologia popolare, in puparamuri.

2. Molteplicità dei referenti Tra le denominazioni del pomodoro più d’una presenta significativi margini di sovrapposizione con le terminologie in uso per designare altre piante simili per diversi aspetti o appartenenti alla stessa famiglia delle Solanacee. Quest’ultima, costituita da piante dicotili con fiori actinomorfi il cui frutto ha forma di bacca o capsula, comprende circa 1.700 specie di piante tra orticole, ornamentali e medicinali, per lo più originarie dell’America tropicale. Tra le piante orticole delle Solanacee, le più comuni sono la patata (Sola- num tuberosum), il peperone (Capsicum annuum), la melanzana (Solanum melongena) e il pomodoro (Solanum lycopersicum L., detto anche Lycopersi- cum esculentum Mill.). Altre specie commestibili a noi poco note, ma larga-

stribuzione areale del termine, ma da nessuna di queste emerge alcuna indicazione sulla diversa denominazione riportata da Baldinger e da questi ritenuta originaria. 6 Anche questa pianta (Opuntia ficus indica), appartenente alle Cactacee, è origina- ria del Messico e trovò diffusione in molte altre regioni calde soltanto dopo la scoperta del Nuovo Mondo.

175 mente diffuse in America tropicale, sono il tomatillo (Physalis ixocarpa), l’albero dei pomodori (Cyphomandra betacea), l’alchechengi peruviana (Physalis peruviana), etc. Ancora più numerose sono le specie ornamentali tra cui il Solanum pseu- docapsicum, con bacche rosse e globose o, ancora più comune, l’alchechengi (Physalis alkekengi) i cui sepali larghi formano delle piccole lanterne rosse o arancioni molto decorative. Il primo, in particolare, contribuisce alla diffu- sione – nonché alla confusione tra i possibili referenti – del termine pomo d’amore, giacché con tale nome è conosciuto e utilizzato come pegno, ap- punto, d’amore, come dimostra la seguente espressione dialettale attestata nel veneto adriatico orientale: “Ogni matina un mazeto de pomi d’amor a la sua bela. I pomi d’amor, bei fiori de un rosso vivo assai in uso a Lussin.”7 Altre specie delle Solanacee, come ad esempio lo stramonio (Datura stramo- nium) o la mandragora (Mandragora officinarum) sono infine specie medici- nali dalle quali si estraggono alcaloidi come la mandragorina, l’atropina, la iosciamina o la scopolamina. Tra le Solanacee due sole specie crescono spontanee in Italia: Solanum dulcamara e Solanum nigrum o “[erba] morella”. In area meridionale la pri- ma è conosciuta anche come pomodoro delle serpi8 (cf. Scorcia 1967, s.v. (bar.) pemedòre de le sìirpe); la seconda come pomodoro selvatico o pomo- doro pazzo (Beccaria 2000, 127; cf. anche Penzig 1924, 464–465). Più in particolare, la prima pianta, diffusa oltre che in Europa, anche in Algeria, A- sia temperata e America boreale e dotata di fiori violacei e di un frutto costi- tuito da una piccola bacca rossa alla maturità, è usata in medicina come dia- foretico, diuretico e depurativo del sangue. La seconda invece, la cui bacca può avere colore vario, ma nero alla maturità, ha proprietà narcotiche. È singolare intanto notare come la confusione tra le denominazioni delle diverse piante solanacee riguardi principalmente quelle che vengono designa- te con il termine pomo d’oro, con evidente riferimento al frutto di queste piante, che per tutte è costituito appunto da un frutto rotondeggiante, un po- mo, di colore rosso o dorato. Questa denominazione viene così a comprende- re sia il nostro pomodoro, sia bacche e/o erbe realmente velenose o con parti-

————— 7 Si tratta di Lussinpiccolo (Mali Lošinj), località dell’Isola di Lussino (Lošinj) in Croazia (Rosamani 1958, s.v. pomo). 8 Con lo stesso termine sembrano essere conosciute anche varie specie di caprifo- glio (cf. Beccaria 2000, 291).

176 colari proprietà medicamentose come, ad esempio, l’erba morella e la man- dragora.9 Allo stesso gruppo dovrebbe inoltre essere ascritta anche una pianta non appartenente alle Solanacee, ossia il giglio martagone, pianta delle Liliacee, il cui bulbo è detto infatti in Trentino pom d’or, probabilmente dall’antica denominazione come malus aureus, attribuita dagli alchimisti alla pianta am- piamente utilizzata nelle loro pratiche (cf. Pedrotti/Bertoldi 1930, 221).10 Tra le piante così raggruppate, la mandragora in particolare è stata larga- mente utilizzata per le sue proprietà sia in medicina, sia nelle arti magiche. Infatti tutte le parti di questa pianta, ritenuta un potente afrodisiaco, sono ve- lenose e sono dotate di proprietà stupefacenti. D’altra parte anche il pomodo- ro possiede alcune proprietà simili: nelle parti vegetative della pianta e nella buccia dei pomodori verdi si ritrova una sostanza, detta solanina, che, se in- gerita senza un’adeguata cottura, risulta tossica, mentre con gli acidi forma sali amari e velenosi (cf., tra gli altri, Selvaggi 1950, s.v. pumedore; Battaglia XIX, s.v. solanina). Le testimonianze relative alle prime accoglienze riservate a questa singo- lare pianta spiegano le perplessità e i timori che accompagnarono il diffon- dersi dell’ortaggio non soltanto come pianta ornamentale, come venne dap- prima conosciuto in Europa nel XVI secolo, ma anche e soprattutto come ci- bo. D’altra parte il pomodoro come cibo posto sulla tavola (e inizialmente cotto come le melanzane, cioè fritto con pepe, sale e olio) non venne ritenuto né di particolare bontà, né di buon nutrimento. La prima ricetta che si cono- sca sul modo di cucinare il pomodoro mette infatti in rilievo soprattutto le proprietà decorative di questo cibo, piuttosto che la sua bontà. La ricetta, della seconda metà del Cinquecento, è illustrata dal medico modenese Costanzo Felici: “Pomo d’oro, così detto vulgarmente dal suo intenso colore, o vero pomo del Perù, ancora lui da ghiotti et avidi de cose nove è desiderato nel medemo mo- ————— 9 La pianta della mandragora, dotata di un frutto costituito da una bacca di colore giallo-arancio alla maturità, è presente in Italia con due specie diversamente di- stribuite sul territorio: la mandragora officinarum, diffusa in alcune regioni dell’Italia settentrionale come la Val d’Aosta e il Veneto, e la mandragora autum- nalis comune in Sicilia, Sardegna e in Italia meridionale. 10 I poteri magici del giglio martagone sono noti: dal bulbo della pianta gli alchimi- sti estraevano una bevanda, aurum potabile, che se ingerita avrebbe avuto la pro- prietà di far ringiovanire e di prolungare la vita (cf. Beccaria 2000, 286 n). La stessa confusione terminologica e referenziale che si ritrova in italiano è riprodot- ta anche nel ted. Goldapfel, che, insieme a Goldblume, designa oltre al martagone anche altre varietà di piante (cf. Grimm VIII, s.vv.).

177 do [delle ‘melanciane’] et ancora fritto nella padella, ma è più presto bello che buono al mio gusto; e vogliono alcuni che sia il licopersico de Galeno, ma se è frutto venuto dal Perù malamente suole esser cognosciuto dagli antichi co- mo d’altri intraviene.” (Lettera sulle insalate diretta a Ulisse Aldrovandi [datata 5.2.1565], 98).11 Ancora nel 1684 Castore Durante, considerando i “pomi d’oro” come “mala insana”, riteneva che dessero “poco, et cattivo nutrimento”, mentre a un seco- lo di distanza, nel 1795, si ritrova sì un accenno al pomodoro come cibo po- sto in tavola, ma “mangiato impunemente”, senza cioè danno: “Tomatos or Love-Apple ... is also admitted to the table and eaten with impu- nity.” (Martyn Thomas, Rousseau’s Letters on the Elements of Botany, tr. 1795 [1794], in OED IX, s.v. love-apple).

3. Diffusione delle denominazioni metaforiche La prima attestazione della metafora “pomo d’oro” in area europea viene as- segnata dal botanico olandese Rembert Dodoen (1557) al 1552 con la forma aurea mala “Goldäpfel” (cf. Martin 1963, 143), alla quale corrisponderebbe- ro le forme tedesche della fine del secolo: goltäpffel (1591), goldöpfel (1600) (Grimm VIII, s.v. Goldapfel). Benché Martin (1963, 143) ritenga la forma italiana un calco dal tedesco, in realtà la prima attestazione come pomo d’oro è precedente a tutte le forme sopra citate e si ritrova infatti in Mattioli a partire dalla metà del Cinquecen- to. L’it. pomo d’oro appare pertanto una innovazione italiana (così in Batta- glia XIII, s.v.) anche rispetto al termine pomme d’amour (dal 1549, FEW IX, 155, s.v. pōmum) che andava diffondendosi contemporaneamente in Francia e di cui resta oggi ancora traccia in Sicilia.12 Nel XVI e XVII secolo erano presenti in Francia anche le forme pomme dorée (1597–1872) e pom d’or (1611–1694), così come anche in area tedesca era conosciuta, già dalla fine ————— 11 D’altra parte anche la storia etimologica della melanzana non sembra essere molto diversa. Benché la voce derivi dall’arabo bādingiān, nel passato si è sostenuto in- fatti che la sua origine fosse da ricercare piuttosto in mela insana per le proprietà che anticamente si attribuivano alle melanzane, quando si credeva cioè che il man- giarle potesse portare alla pazzia (cf. Mattioli (1563) in Battaglia X, s.v.; DEI, s.v.). 12 E possibile che in un’attestazione di poco precedente (1547) pomme d’amour e- quivalesse a mandragoras e poi, dal 1549, prendesse genericamente il significato di “pomodoro” (FEW IX, 159). Altre attestazioni dimostrano come lo stesso ter- mine valesse anche come “bacca del solanum pseudocapsicum” (id., 155) e, nei dialetti della Normandia, come “physalis alkekengi” (id.).

178 del Cinquecento, anche la metafora “pomo d’amore”, attestata per la prima volta come libäpffel nel 1591 (Grimm XII, s.v. liebesapfel).13 Nel 1918 Kretschmer (19692, 531) segnalava l’uso del termine commer- ciale Tomate per l’intera Germania e la Svizzera, ma non per l’Austria dove il vocabolo, inusuale e spesso incomprensibile, era sostituito piuttosto dalle forme Paradeisapfel, Paradeis, Paradies, Paradiesapfel. Questa terminolo- gia, come annota Martin (1963, 144–145), risulterebbe nota anche nel canto- ne svizzero di Zurigo nelle forme Paradīsepfel, Paradīsli, Parädīsli, pur col diverso significato di “Kantapfel”.14 Alla forma paradīs-apfel del tedesco medio Lexer (II, 205, s.v.) attribuisce d’altra parte il significato di “pomum granatum”; Grimm anche quello di “malum paradisianum” (XIII, 1455, s.v. paradies), con riferimento pertanto sia al melograno, sia alla mela colta da Adamo nel Paradiso terrestre. Riguardo invece al termine Gold- che costituisce la prima parte di nume- rosi composti di lingua tedesca relativi a piante o animali, lo stesso Martin (1963, 143–144) suggerisce come questo possa avere una duplice motivazio- ne, segnalando o una particolare varietà cromatica del referente (per lo più rosso o giallo) o la sua utilità e/o impiego in diversi ambiti, tra cui, princi- palmente, quello della medicina popolare. Diversamente, l’antica denomina- zione come malum o pomum amoris metterebbe piuttosto in evidenza le pro- prietà eccitanti del frutto. Le prime attestazioni italiane illustrano molto bene le caratteristiche cro- matiche e gli impieghi della pianta così variamente denominata. La prima si deve al botanico Pierandrea Mattioli che nel volgarizzamento commentato dell’opera di Pedanio Dioscoride (I sec. d.C.), pubblicato in numerose edi- zioni a partire dal 1544, dà la seguente descrizione del pomodoro: “Portasene ai tempi nostri un’altra specie in Italia, li quali si chiamano pomi d’oro. Sono queste schiacciate come le mele rose e fatte a spicchi, di colore

————— 13 Da notare come la forma affine Liebapfel assumesse un diverso significato: “toll- apfel, mandragora, malum amatorium, insanum”, laddove il termine Liebesapfel si sarebbe piuttosto specializzato nella sola denominazione del “pomodoro”, in- sieme al termine commerciale di origine azteca Tomate (cf. Grimm XII e XXI, s.vv.). Viceversa il termine Goldapfel registra in area tedesca i significati di “to- mate, solanum lycopersicum”, nonché “lilium martagon”, pur indicando allo stes- so tempo anche diversi altri frutti di colore per lo più giallo (id. VIII, s.v.; ma, a questo proposito, si veda oltre). 14 Si tratterebbe di una specie di mela di tipo solcato, a spicchi.

179 prima verdi e, come sono mature in alcune piante, rosse come sangue e in al- tre di color d’oro.” (Volgarizzamento di Dioscoride (1563), in: Battaglia XIII, s.v.). Quanto ci dice Mattioli trova per altro riscontro nella tipologia delle varietà inizialmente introdotte in Europa: la prima qui giunta infatti, dalla quale sa- rebbero poi derivate le varietà attualmente diffuse, sembra essere stata una varietà giallo-rossa a forma di ciliegia oggi conosciuta, appunto, come cherry o cerasiforme.15 Negli stessi anni di Mattioli, Gianvettorio Soderini paragonava piuttosto la pianta del pomodoro alle melanzane: “I pomo d’oro sono pianta che è venuto il seme dall’Indie; fa le foglie simili alle melenzane.” (Il trattato della cultura degli orti e giardini, in: Battaglia XIII, s.v.). Una descrizione più dettagliata, benché per molti aspetti simile a quella data da Mattioli, si ritrova nel 1684 in Castore Durante, medico romano: “Sono Spetie di melenzane, sono schiacciate come le mele rose, et fatte a spi- chi di color prima verde, come sono mature in alcune piante rosse come san- gue; et in altre di color d’oro, chiamanle alcuni pomi d’ethiopia. Ritrovasene una sorte che non fa i frutti a spichi, ma tondi come le mele appie, et gialle et rossi. QUALITÀ, ET VIRTÙ. Sono frigidi: ma non tanto come le Mandragore. Mangiansi nel medesimo modo come le Melanzane con pepe, sale et olio, ma danno poco, et cattivo nutrimento.” (Durante 1684, 356). Cenni invece agli impieghi culinari del frutto, diffusi dapprima nelle cucine italiane e poi via via nel resto dell’Europa, si trovano già in testi della fine del Seicento, e in particolare nell’opera di Antonio Latini, uno dei massimi scalchi italiani del tempo presso il Regno di Napoli,16 intitolata Lo scalco alla moderna (1694). In questo lavoro Latini presenta per primo in Italia la “Cas- suola di Pomadoro” (I, 390), ossia uno stufato di diversi tipi di carni con pomodoro passati sulla brace, oppure una “Salsa di Pomadoro, alla Spa- gnuola” (I, 444), un tritato di pomodori alla brace uniti a cipolla, peperoni, serpillo (timo) o pepe, il tutto condito con sale, olio e aceto. ————— 15 La stessa varietà sembrerebbe corrispondere al nome popolare di pommadora a fiaschella dell’area napoletana (cf. D’Ambra 1873, s.v.; ma cf. anche Andreoli 1887, s.v. pummarola). 16 Lo scalco era un nobile di rango elevato che sovraintendeva alla regia dei grandi banchetti e che, in generale, organizzava e coordinava le attività delle cucine e cantine presso le maggiori corti italiane.

180 A partire dal 700, infine, con Vincenzo Corrado, il pomodoro venne fi- nalmente utilizzato nella preparazione delle salse, composte da pomodori prima abbrustoliti sulla brace, quindi tritati con prosciutto, aglio, basilico e alloro, soffritti e passati poi al setaccio (“Colì di Pomidoro”), mentre nel 1817, in un piccolo ricettario anonimo pubblicato a cura dell’editore Saverio Giordano compare forse la prima ricetta della pasta condita con la conserva di pomodoro (cf. Bemporat 1990, 6–10; Corrado 17863, 139–141 e 18206, 21, 198).

4. Dalla coltivazione all’industria conserviera: varietà e denominazioni del pomodoro Riguardo, infine, alle varietà di pomodori conosciute inizialmente in Europa, sappiamo che agli inizi del Seicento erano certamente diffuse quattro diverse varietà: Yellow, Golden, Red e White, mentre agli inizi dell’Ottocento erano note quattro varietà di pomodoro rosso e due di giallo: Large, Small, Large Yellow, Pear Shaped, Cherry17 e Yellow Cherry (cf. AAVV 1991, 4–5).18 Com’è evidente, quest’ultima terminologia si caratterizza prevalentemen- te per l’impiego della specificazione cromatica quale parametro dal quale di- pende l’identificazione delle diverse varietà del frutto. Viceversa, la qualifica di “dorato/d’oro” che la voce pomodoro formalmente include, proprio in quanto quest’ultima risulta definitoria dell’intera specie orticola, comprensi- va cioè di tutte le sue diverse varietà cromatiche, esprime piuttosto una quali- tà inerente al referente stesso inteso nella sua genericità, segnalando in particolare, più che il suo colore specifico, la sua brillantezza e luminosità. Un elenco comparso invece in ambito letterario verso la fine dell’Otto- cento considera un numero sensibilmente maggiore di varietà diversamente denominate, tra le quali sono comprese anche specie poco commerciali e, forse, non tutte commestibili: “Pomodoro a forma di Ciliegia; P. a forma di Pera; P. a forma di Susina; P. a pericarpio levigato grossissimo; P. a pericarpio cresputo grossissimo; P. gial- lo di Slesia; P. giallo precoce; P. primaticcio di Portoferrajo; P. ramoso; P. rosso di Leyda; P. tardivo giallo; P. tardivo rosso; P. Pomo d’America; P. Pomo d’Amore; P. Pomo Humboldtiano” (Cazzuola 1876, s.v.).

————— 17 Alcuni ritengono che le varietà di pomodori oggi coltivate derivino tutte dal tipo Cherry (cf. AAVV 1991, 3). 18 Questa è la terminologia con la quale le diverse varietà di pomodori diffuse tra Seicento e Ottocento in Europa sono note all’industria conserviera internazionale.

181 5. Conclusioni Le conclusioni di questo breve lavoro si articolano necessariamente intorno a due questioni fondamentali: quali siano le caratteristiche che soddisfino la denominazione di “pomo-d’oro” (nonché le altre: “pomo-d’amore”, “pomo- moresco” etc.) e, di conseguenza, quante specie o varietà questo termine de- signi. I pomi-d’oro innanzi tutto sono tondi e di un colore acceso, vivo, brillan- te, che tuttavia non corrisponde necessariamente al giallo. Esistono infatti, come si è visto, varietà di pomodoro di diverso colore: giallo, dorato, rosso e bianco, ma anche arancio (i pomodori pugliesi); inoltre, quando sono imma- turi (nonché venefici per le sostanze che contengono), i pomodori sono verdi. Un termine, quindi, come pomodoro, che sembra per altro alludere semanti- camente ad un’unica tonalità di colore giallo, appare paradossalmente in gra- do di designare tutte le varietà cromatiche della pianta. Ma questo non sor- prende se si considera come la qualifica “dorato/d’oro/color oro” implichi etimologicamente più il luminoso, il brillante, che il color giallo, come dimo- stra innanzi tutto la seguente affermazione di Isidoro: Aurum ab aura dictum, id est ab splendore, eo quod repercusso aere plus ful- geat. Unde et Vergilius (Aen. 6, 204): Discolor inde auri per ramos aura refulsit, hoc est splendor auri. Naturale enim est ut metallorum splendor plus fulgeat luce alia repercussus. Hinc et aurarii dicti, quorum fulgor splendidos reddit. (Isid. Etym. 16, 18, 11–17). Anzi, è proprio il colore rosso che diventa a volte attributo dell’oro, del quale costituisce infatti non tanto il termine di specificazione, indice di una partico- lare varietà cromatica, quanto piuttosto un attributo generico ed esornativo del metallo stesso (cf. Chiusaroli 1994, 141).19 D’altra parte, nelle descrizioni dell’oro in generale, si dà per lo più rilievo proprio al carattere della lumino- sità dell’oggetto, piuttosto che alla sua peculiare sfumatura cromatica. Possono allora essere qualificati come “pomi-d’oro” tutti i frutti delle So- lanacee che rispondono alle caratteristiche sopra ricordate: 1. rotondità (anche non perfetta, come nel caso, ad es., delle varietà di pomodoro a forma di pera); 2. lucentezza e levigatezza della buccia; ————— 19 Si veda ad es. quanto scrive Chiusaroli (1994, 142–143) a proposito dell’accosta- mento in ags. fra gold e æppled “a forma di mela”, che evocherebbe appunto “non soltanto la struttura sferoidale, ma in particolare anche la tinta variegata, rossastra o gialla, del frutto, insieme alla levigatezza della buccia lucida”.

182 3. colore del frutto che, alla sua maturità, può assumere diverse sfumature tra giallo, arancio e rosso (fino al nero). Così definite le caratteristiche del “pomo-d’oro” diviene più facile compren- dere come mai con questo termine siano stati identificati più frutti, come, ad es., il fiore/frutto a lanterna dell’alchechengi, ossia la bacca racchiusa nel fio- re a calice nelle varietà Physalis alkekengi o pumedore amerechène (in àpu- lo-bar., Selvaggi 1950, s.v.) e Physalis pubescens detta in pugl. pomidoro americano e in calabr. pumadoreja americana (Penzig 1924, 350); la bacca nera dell’erba morella (variamente denominata nei dialetti italiani e in parti- colare detta in nap. pomadorelle selvagge, in abr. pumatorelle pazze: op.cit., 464); la bacca gialla del Solanum sodomaeum (cf. Ischia pomidoro selvaggio spinoso, op.cit., 465); la bacca rossa della dulcamara (cf. Ischia pummadu- rèlle sarevateche rosse, Jovene 1964, s.v.); il frutto della Cyphomandra be- tacea (ossia il pomodoro arboreo), oltre ovviamente all’ortaggio che ormai è il principale componente della dieta mediterranea. Ma sono detti ugualmente “pomi-d’oro” anche altri frutti/fiori che presen- tano le stesse caratteristiche, come ad es. la crisommola, ossia l’albicocca se- condo la terminologia dell’Italia meridionale, o il bulbo del giglio marta- gone.20 Tra l’altro lo spoglio delle voci relative agli stessi termini nelle altre lin- gue europee porta ad accrescere ancora di più la varietà già ricca dei referenti concreti che questi stessi termini designano, fino a comprendere qualsiasi frutto rotondo, brillante alla maturità (come ad es. la mela cotogna, il limone, l’arancia (amara) etc.). Viceversa, corrispondono a “pomi-d’amore” tutti i frutti delle Solanacee che sono o sono stati considerati afrodisiaci o genericamente eccitanti, sia per ————— 20 Vanno ancora aggiunti, della famiglia delle Ranuncolacee – piante spesso tossi- che, ornamentali, con fiori quasi sempre gialli e frutto costituito per lo più da a- cheni, raramente da bacche o capsule –, il Ranunculus bulbosus (detto in tosc. an- che Spilli d’oro, Stelle d’oro, in lig. pomo d’oro e pomidoro sarvaigo, in piem. butòn d’or: Penzig 1924, 397), il Ranunculus repens (detto in tosc. anche Stellet- tine d’oro, Spilli d’oro, in lig. pom d’or e in lomb. botòn d’oro: op.cit., 399) e la Ficaria verna (detta in lig. Pomin d’oro, op.cit., 198), nonché il crescione selvati- co (Pom d’or a Oneglia, Dionisi 1906, s.v.), pianta delle Crucifere – piante per lo più erbacee con frutto deiscente – con fiori piccoli e bianchi, utilizzata in cucina nelle insalate e dotata di proprietà diuretiche. In quest’ultimo caso in particolare va segnalato come, essendo la pianta priva del frutto rotondo e lucente qui inteso come caratteristica comune e significativa nella denominazione di diverse specie, l’appellativo di Pom d’oro per il crescione selvatico trovi giustificazione soltanto in virtù delle proprietà narcotiche e medicamentose in generale possedute dalla pianta (a questo proposito cf. Martin 1963).

183 capacità intrinseca della pianta, sia per bellezza esteriore del fiore o per bontà del frutto, come ad es. la dulcamara (cf. sic. pumiddu d’amuri d’acqua, Pen- zig 1924, 463), il pomodoro (sic. puma d’amuri, op.cit., 286),21 il Solanum pseudocapsicum (piem. pomìn d’amoùr, op.cit., 465) o la melanzana.22 Infine, la denominazione “pomi-dei-Mori”, citata da Baldinger ma in que- sta sede revocata in dubbio, dovrebbe comunque rappresentare l’esito di una diversa modalità denominativa e indicare piuttosto il luogo di origine, sia es- so reale o ideale, del prodotto. Nel caso specifico indicherebbe l’origine eso- tica del frutto in contrapposizione, ad es., al tipo pumedore amerechene, do- ve l’aggettivo indica piuttosto l’origine reale dell’oggetto, non diversamente dal pomodoro di Sorrento, varietà appunto sorrentina, o dal San Marzano, al- tra varietà di pomodoro che prende metonimicamente il nome dal luogo in cui essa è prodotta, ossia dalla località di San Marzano nell’agro nocerino- sarnese dell’Italia meridionale, dove ha avuto inizio e poi si è diffusa questa coltivazione.23 I termini che abbiamo verificato essere usati per designare lo stesso or- taggio (o frutti affini) potrebbero così essere raggruppati semanticamente in tre grandi tipologie designative: una prima con riferimento a qualità espe- rienziali e alla quale apparterrebbero le denominazioni pomo d’oro e pomo- doro giallo, verde, peared shaped, [a] ciliegia, a grappolo, del pendolo, etc.; una seconda di ambito ideologico che comprenderebbe termini quali pomo d’amore, pomodoro pazzo, etc.; e una terza, infine, relativa all’area geografi- ca di provenienza relativa alle voci pomodoro moresco, americano, ma anche pumiddu d’amuri d’acqua24 etc. Come è facile notare, gran parte delle denominazioni qui segnalate, e so- prattutto le più diffuse e note in ambito popolare, del fiore/frutto che desi- gnano mettono in evidenza soprattutto la luminosità, brillantezza (o intensità cromatica) e, perché no, forse anche la sua piacevolezza per il palato. ————— 21 Una forma pomin d’amor col significato di “solanum lycopersicum” si ritrova an- che in piemontese, benché non sia contemplata tra le varianti segnate sulla carta 1374 dell’AIS (cf. Zalli 1815, s.v.; cf. anche Penzig 1924, 285: piem. pum d’amùr). 22 “Le melenzane in altro nome chiamansi pomi d’amore, per la bellezza e bontà lo- ro” (Soderini, Il trattato della cultura degli orti e giardini, in: Battaglia X, s.v.). Cf. anche Penzig (1924, 463) il quale annota, tra gli antichi termini con cui era nota la melanzana: pomo d’amore, mela insana, albergamo e pomo disdegnoso. 23 La nascita del San Marzano si può datare con esattezza al 1902 (cf. Di Pace/So- riente 1997, 31). 24 La pianta così denominata (Solanum dulcamara) cresce infatti nei luoghi umidi.

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186 Computer-Mediated Communication: lingua e testualità nei messaggi di posta elettronica in italiano Giuliana Fiorentino1

1. Introduzione Con la nascita dell’Internet l’uso del computer per comunicare tra persone è divenuta una possibilità concreta per un numero via via crescente di utenti. Con questa nuova realtà si misura anche il linguista, che, da un lato, analizza il modo in cui la lingua è influenzata dall’uso del nuovo mezzo e, dall’altro, osserva come il computer abbia dato luogo a nuove modalità di comunica- zione, non immediatamente comparabili né con la scrittura tradizionale, né con l’oralità pura e semplice. In maniera del tutto ovvia, si osserva come il quadro della variabilità diamesica2 si complichi con la comparsa del nuovo medium (il quadro da evocare è del tipo mcluhaniano di The Gutenberg Ga- laxy del 1962 e di Understanding Media del 1964; sull’influenza del compu- ter sulle modalità di comunicazione si veda lo studio di Murray 1988), il che non esime, naturalmente, dall’intraprendere più puntuali esplorazioni. Gli studi più risalenti sulla lingua usata nella comunicazione al computer, talvolta definita lingua elettronica, sono soprattutto di area angloamericana (dagli anni ’80 in poi). Questa ricerca – peraltro ancora iniziale ed esplorativa – si propone di contribuire alla costituzione di una bibliografia, che anche per l’italiano ini- zia a accumularsi su questo tema. Si analizzeranno, da un lato, le caratteristi- che linguistiche dell’italiano “elettronico” e, dall’altro, aspetti più generali della organizzazione testuale di un tipo particolare di testi elettronici (i mes- saggi di posta elettronica): resterà comunque sullo sfondo la più ampia que- stione dell’inquadramento della comunicazione via computer da un punto di vista della variabilità diamesica.

————— 1 Questa ricerca è finanziata da una Borsa post-dottorale del Dipartimento di Lin- guistica di Roma Tre e dai fondi di ricerca del Progetto sul Parlato “Una prospet- tiva multimodale nello studio delle unità del parlato”, coordinato dalla prof. Orlet- ti (Roma Tre). Ringrazio tutti coloro che mi hanno inviato loro messaggi di posta elettronica affinché li usassi per costituire il corpus di analisi. 2 Per variabilità diamesica intendo con G. Berruto la variazione legata al mezzo. Le varietà diamesiche fondamentali sono parlato e scritto (Berruto 1993, 37–56). Il termine di variabilità diamesica si deve a A. Mioni.

187 2. Computer-Mediated Communication La Computer-Mediated Communication (d’ora in poi CMC) è la “communi- cation that takes place between human beings via the instrumentality of com- puters” (Herring 1996, 1). Si tratta di un termine generale che copre diverse nuove forme di comunicazione legate alla nascita e alla diffusione capillare del computer. Di CMC si occupano studiosi con interessi anche molto diver- si: esiste un filone di studi psicologico, sociologico-etnografico, culturale, ol- tre a quello linguistico. Nell’approccio linguistico, uno degli aspetti più comunemente discusso della CMC è se essa dia luogo a una comunicazione scritta tradizionale o se sia possibile individuare punti di contatto con la comunicazione orale. Questa seconda eventualità ovviamente è stata spesso enfatizzata e considerata una delle caratteristiche più interessanti della scrittura elettronica (cf. il lavoro di Collot/Belmore 1996). Baron (1998), ad esempio, colloca le diverse forme di “testi” della CMC lungo un continuum che va da un polo decisamente scritto ad un polo fortemente orale. Il polo “orale” è costituito da comunicazioni che hanno carattere sincrono e dialogico come le conversazioni in chat-line, gli ambienti MUD e MOO. Altre variabili che Baron considera nel distinguere tra diversi tipi di “testi” elettronici sono il carattere dialogico o non dialogico e il rapporto uno-a-uno o uno-a-molti della comunicazione, nonché il caratte- re noto o ignoto dei partecipanti allo scambio. In tutti gli studi sulla CMC e in quelli che si occupano anche solo della lingua dei messaggi di posta elettronica il dato che viene più comunemente evidenziato è la possibilità che emerga molto più facilmente rispetto a una “lettera” tradizionale, anche la più informale, uno stile molto informale, sem- plificato e creativo (per una sintesi sulla Computer-Mediated Communication cf. Herring 1996 e Paccagnella 2000; studi specifici sui messaggi di posta e- lettronica sono Baron 1998 e 2000, con una ricca bibliografia di riferimento, Gains 1999 per l’inglese; Rauch 1999 per il tedesco).

3. Obiettivi della ricerca e quadro teorico La ricerca che propongo ha un duplice obiettivo: • studiare le peculiarità linguistiche dell’italiano dei messaggi di e-mail, in particolare rispetto all’asse di variazione scritto–parlato (in questa fase, più che un’analisi di singole variabili linguistiche, per la quale rimando a lavori in preparazione, ho tenuto conto di caratteristiche più generali); • studiare le peculiarità testuali dei messaggi di posta elettronica, soprattut- to in relazione al tipo testuale più vicino, cioè la lettera tradizionale.

188 Il quadro di riferimento più idoneo a discutere gli obiettivi proposti mi pare essere una discussione a priori delle proprietà dello scritto vs. parlato. Un recente lavoro Voghera (2001) propone una griglia interpretativa della variabilità diamesica che mi pare particolarmente felice per avviare la discus- sione. Tale griglia propone le seguenti “costanti” del parlato da considerare co- me “una serie di caratteristiche molto generali, ampiamente condivise inter- linguisticamente” riferite soprattutto al parlato spontaneo (Voghera 2001, 76–88): a. organizzazione dialogica; b. massimo uso di coesione della prosodia; c. massima ridondanza; d. massimo uso della ripetizione; e. massimo uso dei segnali discorsivi; f. massimo uso della deissi; g. minima specificazione segmentale del segnale; h. massimo uso di lessico e strutture polisemiche; i. minima densità lessicale; j. sintassi concatenativa e non gerarchizzata. Le 11 costanti appena elencate ovviamente devono essere filtrate per la no- stra analisi eliminando i parametri decisamente “fonici” che non possono ri- trovarsi nella scrittura elettronica, e cioè la costante b. e quella al punto g. Delle costanti rimanenti si terrà conto in questa sede in un’analisi che non si propone come quantitativa ma piuttosto qualitativa. Preliminarmente, pare opportuno offrire una sintetica presentazione dei concetti esposti nel lavoro di Voghera (2001). L’organizzazione dialogica è la naturale condizione del parlato ad essere eminentemente dialogico, strutturato cioè nell’interazione faccia a faccia in cui si realizza l’equilibrio migliore tra programmazione e produzione, da un lato, e ricezione e elaborazione dall’altro. Questa proprietà del parlato non si riscontra nel parlato monologico, e tantomeno nello scritto. La costante della massima ridondanza viene intesa soprattutto come ri- dondanza tematica cioè come progressione non lineare dell’andamento tema- tico. Anche per tale costante, che deriva dalla forte presenza di rumore nel parlato, non ci si può aspettare una forte presenza nello scritto, che invece, data la sua minore evanescenza, evita esplicitamente la ridondanza. Allo stesso modo la ripetizione, intesa in senso stretto come ripetizione di materiali lessicali già usati, in generale è esclusa dallo scritto.

189 Per quanto riguarda la presenza di segnali discorsivi, dotati di funzione pragmatica e/o testuale, che servono ad organizzare la struttura del discorso e a facilitare la ricezione da parte del ricevente, è chiaro che essi non sono gli stessi nel parlato e nello scritto. Esiste probabilmente, peraltro, una qualche corrispondenza tra alcuni segnali discorsivi e la punteggiatura o alcuni con- nettivi testuali. Le altre proprietà (deitticità, lessico polisemico e scarsa densità lessicale, ed infine sintassi concatenativa) sono sicuramente comuni anche allo scritto, perlomeno ad uno scritto poco pianificato o intenzionalmente non curato, in- formale, rapido. La deitticità possibile nel parlato tocca ovviamente dei pic- chi che probabilmente lo scritto non riuscirà mai a raggiungere, ma su questo aspetto tornerò in sede di analisi. In conclusione, si osserva che le costanti più tipiche del parlato (da a. ad e.), legate cioè alla peculiarità del contesto di programmazione e pianifica- zione e alle sue limitazioni (rumore, breve capacità di memoria, scarso tempo di progettazione ed elaborazione), sono tendenzialmente escluse dallo scritto. Le altre proprietà, che riguardano scelte linguistiche in parte più controllabili (dalla deitticità, al lessico e alla sintassi) possono invece considerarsi meno nucleari nella definizione del parlato e rappresentano probabilmente un bloc- co di proprietà che si possono ritrovare anche nello scritto perché attraversa- no la variabilità diamesica e caratterizzano la comunicazione informale, poco pianificata o poco curata (sono presumibilmente i fattori che si possono sce- gliere intenzionalmente per creare anche nella scrittura un “effetto parlato”).

4. Corpus Il corpus è costituito da tre tipi di messaggi di posta elettronica, tutti in italia- no e tutti raccolti tra il 1999 e il 2000. Non avendo, per il momento, alcuna pretesa di realizzare uno studio quantitativo dei materiali, non mi sono preoc- cupata, in questa fase, di questioni come le dimensioni del corpus o la rap- presentatività del campione. Si tratta infatti di un’analisi qualitativa che mira a individuare alcuni fatti generali relativi all’italiano della e-mail e alla orga- nizzazione testuale dei messaggi di posta elettronica. Il primo gruppo di messaggi è una raccolta di e-mail provenienti dalla ba- checa pubblica di un fan-group musicale. Gli iscritti al gruppo, una ventina all’epoca della raccolta dei dati, sono presumibilmente e principalmente degli adolescenti. I messaggi di questo tipo sono circa 150. Il secondo gruppo è una raccolta di messaggi circolati all’interno di una mailing list di fan di un gruppo musicale italiano. Presumibilmente gli scri- venti sono adolescenti, come nel caso precedente. Esiste uno staff che gesti-

190 sce la lista e che svolge il ruolo di moderatore. I messaggi di questo tipo sono circa 70. Infine un terzo gruppo di messaggi abbastanza consistente (circa 400 messaggi) ed eterogeneo è stato raccolto in modo asistematico. I messaggi sono prevalentemente informali e derivano da scambi tra amici e colleghi. Una parte ha una valenza amichevole e un’altra parte è rappresentata da mes- saggi che si possono definire “di servizio” scambiati perlopiù in contesto la- vorativo. Molti dei soggetti che hanno inviato messaggi dai loro outbox sono studenti universitari o dipendenti dell’università (ricercatori, docenti), quindi il livello culturale è da considerarsi alto. L’età media è compresa tra i 20 e i 40 anni. In tutte le raccolte il tono prevalente è informale. Ci sono alcuni messaggi nel terzo gruppo che sono leggermente più formali, trattandosi di messaggi inviati a gruppi di lavoro, e comunque con finalità lavorative.

5. Aspetti linguistici Se si lasciano da parte i frequenti errori di battitura, dovuti alla fretta con cui talvolta sono scritti i messaggi, errori che, soprattutto nei messaggi informali, non vengono corretti (il che potrebbe essere inteso come indice di velocità e scarsa pianificazione), la lingua dei messaggi si presenta sostanzialmente come un italiano di uso “medio”, senza però particolari libertà sintattiche e morfologiche (per una definizione di italiano dell’uso medio si veda Sabatini 1985). Questo può dipendere anche dal grado relativamente alto di cultura degli utenti che accedono a questo servizio. Non si registrano quindi esempi di italiano “sgrammaticato” del tipo dell’italiano popolare. I messaggi del mio corpus presentano in maggioranza una facies italiana e si ascrivono al registro informale. Esistono ovviamente messaggi più for- mali che sono, come scrivevo sopra, messaggi di servizio. La differenza di registro dipende dal destinatario, dal contenuto e dallo scopo del messaggio. Siamo ovviamente all’interno di una variabilità del tutto prevedibile e norma- le, quale si registra sia nello scritto che nel parlato. La prevalenza di messag- gi informali varia da persona a persona e dipende dall’uso che si fa della po- sta elettronica. Tra gli adolescenti si può ipotizzare che questo tipo di comu- nicazione abbia soppiantato del tutto la scrittura della lettera tradizionale. La variabilità diafasica è la variabile significativa nel contrasto tra i se- guenti messaggi (sono stati omessi mittente e destinatario per ragioni di privacy, i nomi sono comunque stati cambiati).

191 1. Oggetto: Mario, li mortacci tua, puoi mandare in attachment il tuo cazzo di file sul cyberspazio a questo indirizzo di posta elettronica? | gbd 2. Oggetto: Scadenza Gentile Professore, sono un dottorando del XX ciclo. Vorrei sapere quale è il calendario degli a- dempimenti (discussione tesi, consegna in segreteria etc.) per la conclusione del ciclo di dottorato. Ho infatti la possibilità di trascorrere un periodo di tem- po nei Paesi Bassi in un laboratorio della XXXX University e vorrei cercare di ottimizzare i miei tempi. Scusi per il fastidio. | M. Rossi Il messaggio 1. presenta alta deitticità, brevità e una struttura di domanda, che sono impensabili in una lettera tradizionale: qui il messaggio sostituisce una telefonata, o comunque una forma di comunicazione più tipicamente ora- le, dialogica. Totalmente diverso invece 2., che riprende la struttura di una lettera tradizionale. L’elemento di assoluta novità, che il nuovo medium introduce e che gioca a favore dell’informalità, è il fattore tempo: la velocità con cui i messaggi cir- colano consente di ricorrere a questo tipo di comunicazione molto più di quanto non si possa ricorrere alla lettera tradizionale e per scopi del tutto nuovi, prima non affidati alla scrittura. In molti casi la mimesi del parlato sembra intenzionale e crea uno stile specifico della lingua dei messaggi di e-mail. Si vedano gli esempi 3. e 4. in cui si registrano ripetizioni lessicali, forte presenza di elementi deittici, un tentativo di rappresentare una pronuncia prolungata della vocale attraverso la ripetizione (Noooooo): 3. Oggetto: O mio Dio, o mio Dio, o mio Dio NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO OOOOOOOOOOOOO :“((((((((((((((((((((((((( NON CI SARANNO ALTRE DATE???????????????? NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO IO MI UCCIDO | ADDIO | ULTIMO MESSAGGIO A VOI: VI VOGLIO BENE | ULTIMO MESSAGGIO A MAX: | SEI UN MITO 4. Oggetto: Re: Attenzioneeeeeeeeeeeee NOOOOOOOOOOO | Vi prego! almeno qui no!! basta con queste stronzate! | Giovanni

192 Accanto all’imitazione del parlato però emergono anche scelte grafiche che rimandano a convenzioni tipiche dello scritto, come l’uso di abbreviazioni del tipo xò (simbolo aritmetico della moltiplicazione seguito da “ò”), oppure di forme miste di scrittura con numeri e lettere (4ever per “forever”). In molti messaggi di posta elettronica si osservano fenomeni linguistici mutuati dalla lingua delle chat (sulle caratteristiche delle chat in italiano si vedano Maggi 1995 e Pistolesi 1997). Questi fenomeni, che ho registrato perlopiù nei mes- saggi dei fan-club della bacheca e in quelli della mailing list, sembrano avere una valenza specifica, fanno parte di un gergo elettronico da “navigatore e- sperto”. Dalla lingua delle chat ad esempio vengono mutuate abbreviazioni (cmq per “comunque”, msg per “messaggio”) che in quel caso sono imputa- bili alla rapidità con cui si scrive, trattandosi di comunicazione sincrona, mentre qui possono considerarsi delle scelte intenzionali di stile. Si mutuano anche gli emoticons, ossia le faccine ottenute con caratteri della tastiera per aggiungere chiavi di interpretazione alle frasi (faccine che sorridono, faccine tristi, ammiccanti). Si veda qualche esempio: 5. Oggetto: Hmmm ho un centinaio di messaggi arretrati...... vabbè ora vi saluto poi legge- rò con calma:)! ....Ma avete visto “Il grande Fratello”???...io proporrei invece di farlo con persone normali di farlo con i vips o i cantanti...... eh eh eh non mi spiacerebbe vedere gli 883 per 24 ore su 24 :))))) A voi no?? ;))))) Ciauz!! 6. Oggetto: Ciao a tutti!!!! Oggi era il primo giorno di scuola e come al solito è stato skazzante!!!!! Xò ho una nuova compagna (abbastanza carina) Che ha visto le fascette dei con- certi degli 883 che ho attaccate allo zaino ed è venuta li a dirmi: “Ti Piacciono gli 883?” Risposta: “a qualunque essere con un po’ di cervello piacciono gli 883!!! Cmq x me sono una religione” e lei: “anch’io li adoro!!!” Questo x di- mostrare che Max è unico!!!!!! x Rebby: Grazie Mille di avermi chiarito la sitazione, aspetto ansioso il termi- ne della sezione software!!!! Domanda: Qualcuno sa come vanno le vendite di Mille Grazie??? Rispondete Please!! | ciao a tutti!!!! 7. Oggetto: a quanto pare non sono l’unica rimasta traumatizzata dal “grande incubo”... uffaaaaa!!!! i miei prof già rompono con le interrogazioni, ma dico!!!! siamo appena rientrati!!!!! : “((((((( x cix: (sperando che legga questo msg in tempo) stasera a ke ora vai in chat?

193 x pinu: siamo in due ad essere depresse!!! mi rendo sempre + conto che mi trovo in un manicomio!! ciao a tuuuuttiiiii !!!!!!!! | p.s.:voglio Maax !! Sempre all’interno dei messaggi dei fan-club, si osserva un uso più frequente di anglismi, anche questo mutuato dalla lingua delle chat, e da assumere for- se come segnale di identificazione con il gruppo di chi è esperto di naviga- zione, di interazione col mondo della comunicazione via computer. 8. Oggetto: Salve Gente! | Auguri a tutti gli studenti che sono ritornati a svolgere il loro dovere, e ad affinare nuove tecniche per copiare nei compiti in classe :-) SEE YA! Nel caso dell’esempio 8. la formula di saluto è improntata all’inglese see you, e rispecchia la trascrizione della pronuncia americana. Le caratteristiche appena evidenziate mostrano una notevole consape- volezza del medium da parte degli utenti.

6. Testualità nei messaggi di posta elettronica Accanto a questi tratti, che rendono agile e giovane la lingua della e-mail, l’aspetto più interessante riguarda soprattutto i tratti della testualità. È evidente che il modello testuale più vicino al messaggio e-mail, almeno inizialmente, è costituito dalla lettera. Il messaggio e-mail ha un destinatario e un mittente espliciti. Il testo ha una parte iniziale contenente una formula di apertura e di saluto talvolta col nome del destinatario. Segue spesso un’indi- cazione del motivo della scrittura. Questo occupa la parte centrale del testo ed infine il messaggio viene concluso da un saluto e dalla firma. Ritornerò tra breve sulle caratteristiche testuali specifiche rilevate nei messaggi del mio corpus. Prima però vorrei soffermarmi sulle caratteristiche strutturali esterne che rendono a priori un messaggio di posta elettronica di- verso da una lettera ordinaria. Gli elementi di novità sono in diretta relazione con il mezzo usato.

6.1. Caratteristiche esterne Il messaggio viene “scaricato” dal server attraverso un programma di gestio- ne posta che in genere evidenzia i seguenti campi: mittente, oggetto, data e orario di ricezione. Una volta scaricato, il messaggio può essere aperto e let- to. Il messaggio aperto presenta una struttura bipartita:

194 • una parte iniziale (talvolta racchiusa in una finestra) in cui vengono indi- cati mittente, oggetto, data e orario di invio, e destinatario; • una seconda parte, contenente il messaggio vero e proprio. Si veda in 9. un esempio della bipartizione del messaggio. Da “Oggetto” a “Data” ci sono i campi che forniscono informazioni esterne, segue il messag- gio vero e proprio. 9. Oggetto: Adieu... | Data: sabato, 7 ottobre, 2000 14:03 Ragazzi vi dovrò lasciare per un po’ scusatemi se non rispondo alle e-mail.... Ci vediamo, spero, presto baci Francymor x ever Per rispondere ad un messaggio, si utilizza un tasto di risposta che copia au- tomaticamente il mittente e lo scrive come destinatario, l’“Oggetto” conterrà l’“Oggetto” del messaggio a cui si risponde, preceduto da una “R” (o “Re”) che sta per Reply. Il testo del messaggio a cui si risponde può essere ricopiato nel nuovo messaggio (ma può anche essere cancellato). In 10. un esempio di risposta (si tratta della risposta a 9.): 10. Oggetto: Re: Adieu... | Data: sabato, 7 ottobre, 2000 14:48 ohhhh da come lo dici mi verrebbe da dirti “Riposa in pace” ;-) attendiamo tutti con ansia il tuo ritorno! Dato ancora più interessante, la coppia di esempi 9. e 10. evidenzia tra l’altro anche come il messaggio di e-mail consenta di dare spazio ad una sorta di dialogicità: il messaggio di risposta non riprende il primo messaggio (come si farebbe in una lettera tradizionale, in cui la risposta arriverebbe differita nel tempo) ma risponde entrando nel merito del discorso, come se si trattasse di un turno di risposta in una conversazione faccia a faccia. Si osservi l’altissima deitticità di lo dici, in cui lo è riferito al messaggio di Francymor. Già solo da questa rapida considerazione si osserva che i messaggi di po- sta elettronica: • contengono una serie di informazioni in più, o più dettagliate, rispetto alla lettera ordinaria (ad esempio l’indicazione precisa dell’orario di invio del messaggio); • possono stabilire una coesione molto forte con il testo dell’interlocutore (alcuni scriventi usano la struttura interlineare, alternando, a porzioni di testo dell’interlocutore, le proprie risposte, per cui il risultato è un testo misto a quattro mani); • da un punto di vista comunicativo, contengono una più alta dialogicità; • consentono infine la creazione di una tipologia di comunicazione uno-a- molti più spesso di quanto non si possa immaginare per la lettera informa-

195 le tradizionale. In questo modo non solo nel caso delle mailing list o delle bacheche di discussione, ma anche nel caso di gruppi costruiti col proprio indirizzario, la scrittura diventa un po’ più pubblica e consente di realiz- zare una sorta di conversazione a più voci, anche se le diverse voci ri- spondono in tempi differiti.

6.2. Struttura e brevità Il testo di posta elettronica può ovviamente essere strutturato in tutto simil- mente alla lettera tradizionale, e contenere cioè tutte le parti che contiene quest’ultima, e che si possono elencare come segue: Luogo e data, formula di apertura con saluto e spesso il nome del destina- tario, testo vero e proprio, formula di chiusura e saluto, firma, eventualmente post-scriptum. Di tutti questi elementi manca solo il primo: in nessun messaggio elettro- nico si indica il luogo in cui è stato scritto il testo. L’indirizzo elettronico in- dica semplicemente quale server di appoggio si usa per gestire la propria po- sta e non corrisponde ad un luogo fisico. Anche la data manca perché è au- tomaticamente assegnata dal calcolatore ed è posta, come si diceva, nella fi- nestra iniziale. Gli altri elementi possono in teoria essere tutti presenti. La maggior parte dei messaggi però tende ad essere incompleta e a omettere almeno qualche parte, e soprattutto tende ad essere più breve di quanto ci si aspetta normal- mente nel caso di una lettera ordinaria: la posta elettronica cioè sostituisce una telefonata, un messaggio lasciato ad una segreteria telefonica, insomma sostituisce diverse forme di comunicazione scritte o orali; alcuni messaggi cioè non potrebbero essere scritti come lettera ordinaria, non avrebbero sen- so. Lo spazio comunicativo coperto dai messaggi elettronici non coincide quindi con quello della lettera tradizionale. La presenza del mittente e la rapidità con cui si possono susseguire i mes- saggi nel tempo consentono, in caso di messaggi scambiati in uno stretto in- tervallo temporale, l’omissione di estese parti di testo. Si eliminano la formu- la di saluto, la parte centrale del testo, la firma: il messaggio si riduce ad un unico enunciato e assume a questo punto uno stile tipico di botta e risposta che assomiglia molto alla turnazione conversazionale. Nei messaggi 11. e 12., entrambi di risposta ad un altro messaggio, si os- servano nuovamente come in 10. una altissima deitticità, brevità, stile infor- male, scarsa densità lessicale: 11. Oggetto: Re: NON ARRIVA NIENTE... telomandoperfax. | cia’

196 12. Oggetto: Re: | Sì, vediamoci. Poi ti chiamo. Ciao. | P Ancora una volta, gli esempi forniti testimoniano la possibilità del medium di dare luogo a testi caratterizzati almeno in parte da una maggiore condivisione di proprietà con il parlato che non con la scrittura. Si tratta ovviamente di una parte dei messaggi; ce ne sono anche di più simili ad una lettera tradizionale.

6.3. Destinatario multiplo La proprietà del destinatario multiplo (equivalente alla situazione della lettera circolare, ma solo in parte) può riguardare mailing list pubbliche (in cui qua- lunque messaggio arriva a tutti gli iscritti, anche se diretto ad un solo mem- bro del gruppo), gruppi che ciascuno può costruire col proprio indirizzario, infine può essere rappresentata da un gruppo di utenti che condividono lo stesso server (stesso indirizzo elettronico). In quest’ultimo caso tutti coloro che hanno un certo indirizzo (condividono un server) possono essere rag- giunti da un messaggio indirizzato a “all@….” (“tutti”@…). Questo tipo di messaggi in genere è caratterizzato da un registro linguisti- co meno informale. Interessante in questi casi è osservare come si possano accavallare singoli temi all’interno di un discorso più generale. Si veda il se- guente esempio: 13. Oggetto: Ciao Alessio e benvenuto tra noi! Per mandare messaggi a tutti non devi far altro che inviare la tua mail (come hai già fatto senza sapere) all’indirizzo della list, ovvero: ------il messaggio arriverà automaticamente a tutte le persone iscritte alla mailing list, inoltre vorrei ricordare a tutti che sul sito della mailing list per gli iscritti cè anche la chat di ------… sarebbe bello incontrarsi un giorno.... Per la notizia del matrimonio di Max...non saprei anche se sarebbe ora! Co- munque ragazze non abbattetevi! Anche da sposato rimarrebbe sempre il “no- stro” Max! Se avessi anche una sola remnota possibilità di diventare la sua “donna” (in questo caso prrima dovre diventare una donna!) farei un incate- simo alla sua ragazza, ma siccome tanto non mi cambia niente è inutile pren- dersela quindi non disperatevi... | Baci Kica! In 13. si legge un messaggio inviato da parte di uno dei membri dello staff della mailing list come benvenuto ad un nuovo iscritto. Nella seconda parte del testo però lo scrivente si rivolge a tutti gli iscritti alla mailing list per commentare una notizia che era circolata in alcuni messaggi (la notizia del matrimonio del leader del gruppo musicale). In questo testo, quindi, il desti- natario è prima unico, poi diventa generale; e anche per quanto concerne il tema, il messaggio è bipartito.

197 Al messaggio 13. fa seguito un altro messaggio, riportato in 14., in cui un membro della mailing list interviene su un’affermazione di “Kica” (del 13.), e a sua volta si rivolge prima al membro dello staff e poi, cambiando tema e destinatario, al nuovo arrivato, Alessio. Si veda l’esempio 14.: 14. Oggetto: Re: R: R: CHE SCOPERTA! PER CHICA: | non disperarsi.... | sembra facile! BENVENUTO ALESSIO Da questo intervento nasce un’ulteriore replica di “Kica”: 15. Oggetto: Re: R: R: CHE SCOPERTA! Chi cavolo è CHICA? :) | Baci Kica! Ed infine segue l’ulteriore risposta del primo interlocutore: 16. Oggetto: R: R: R: CHE SCOPERTA! OPS... scusa!!! ;-) BUONA DOMENICA A TUTTI By Cix Come si può notare il messaggio 16. “riparatorio” rispetto all’errore di tra- scrizione del nickname (o pseudonimo) del membro dello staff “Kica” è co- stituito da un messaggio completo, con saluto, firma (Cix) e un emoticon o faccina parlante che sorride e “strizza l’occhio”. Nella serie di esempi di questo paragrafo si osserva l’alternanza tra due tipi di messaggio: uno più lungo e strutturato 13. e l’altro (esemplificato da 14.–16., simile al tipo di 10., 11. e 12., che sono tutte risposte), caratterizzato da quella brevità e dialogicità che appare ormai in modo evidente come una delle peculiarità dei messaggi di e-mail.

6.4. Formule di apertura Nello schema proposto in 17. vengono riassunte le formule di apertura che si ritrovano in una sottoparte del corpus, nel terzo gruppo di messaggi, quello costituito da messaggi personali. L’esclusione degli altri due gruppi è dovuta al fatto che i destinatari in quel caso sono sempre tutti i membri della mailing list o tutti quelli che visitano la bacheca del sito del gruppo musicale, quindi la formula di apertura o non esiste o è generica, perché ci si rivolge a tutti.

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17. nessuna formula 104 28% caro “nome” 89 25% ciao “nome” 75 21% ciao 37 10% gentile professore, gentile signora, 11 3% gent.mo prof. “cognome”, caro professore nome 7 2% carissimo “nome” 6 2% formule varie3 33 9% totale 362 100%

Circa un terzo dei messaggi entra nel vivo del discorso senza nessuna formu- la di saluto al destinatario, un altro terzo circa si rivolge col tradizionale caro seguito dal nome (tipico delle lettere), mentre il ciao seguito dal nome, uso piuttosto “parlato” e informale, copre un po’ meno di un terzo dei messaggi. Il terzo caso, quello in cui il messaggio inizia col nome proprio del destinata- rio e basta, come un vocativo del discorso, è interessante. Si veda qualche e- sempio in 18.–19.: 18. Oggetto: Maria, | ho fatto il grande passo: l’abbonamento mensile! Quindi domani ci sarò anch’io….(continua)

19. Oggetto: ricezuione [SIC!] Marisa, | mi fai sapre se hai ricevuto precedente messaggio con due allegati. Ricordati le stampe!!!! | Un bacio, Adele L’analisi delle formule di apertura è particolarmente significativa al fine di cogliere l’informalità e il modello implicito nei messaggi in esame. L’assenza di formula di apertura (28%) e l’uso del ciao con o senza il nome o la pre- senza del solo nome (totale 33%) si modellano visibilmente sul parlato e ca- ratterizzano la maggior parte dei messaggi del corpus (61%). Mentre il caro / carissimo … (27%) insieme ad altre formule più formali (gentile, caro prof. 3%) costituiscono un terzo dei messaggi e rimangono più legati all’uso scrit- to. In qualche modo i due tipi di formule mostrano che il modello implicito per gli scriventi in alcuni casi è più orale che in altri.

————— 3 Si tratta di usi che non superano le dieci occorrenze: ciao carissima, ciao a tutti, ciao dottorandi, cari amici/amiche, caro Cognome, carissimi (-e, -o, -a), caro dottor Cognome, Gentile Nome e Cognome, gentile Società, cari, signor Cogno- me.

199 6.5. Il campo “Oggetto” Un aspetto peculiare della posta elettronica e assolutamente diverso rispetto alla lettera informale tradizionale è la presenza del campo “Oggetto” (che può ovviamente non essere riempito). Le funzioni di questo campo sono al- meno due: sintetizzare il messaggio ed evidenziare lo scopo della comunica- zione. Oltre a queste funzioni tradizionali, esso può anche diventare un testo nel testo, un testo parallelo, o il testo principale. Costituisce così un micro- genere autonomo. Il campo “Oggetto” in genere compare sulla schermata iniziale del pro- gramma di gestione della posta al momento in cui il messaggio viene scarica- to dal server. Esso può avere valore puramente informativo, oppure può esse- re usato per fornire la chiave di interpretazione del tono del messaggio (scherzoso, ironico, etc.), una sorta di “glossa” metacomunicativa (sulla no- zione di glossa si veda Orletti 1983). In alcuni casi anticipa il contenuto “leg- gero” del messaggio, e rimanda implicitamente alla funzione puramente fàtica di un messaggio (mantenere un canale di conversazione aperto). Es. di “Oggetto” con funzione puramente informativa: 20. Oggetto: cambio telefono Cari amici, | come state? Ho cambiato indirizzo e numero di telefono: tel.------E-mail e cellulare restano invece invariati. Un caro saluto a tutti, | Giovanni Ferzetti Es. di “Oggetto” con funzione fàtica: 21. Oggetto: ci sei? rispondimi se puoi e non sei troppo stanco, come e’ andato il concorso? baci | Fabrizia La presenza dell’“Oggetto” ha anche la funzione di mettere sull’avviso chi legge sulle possibili “noie” derivanti da quel messaggio, o sul tipo di richie- sta implicito. Questo vale soprattutto per i messaggi scambiati in ambito ac- cademico, o comunque lavorativo. Infine la possibilità di conservare o di ricopiare e manipolare il testo di un precedente messaggio, oltre alla velocità con cui i messaggi possono essere scambiati, consentono di stabilire dei richiami testuali molto più complessi di quanto non accada nella posta ordinaria. In 22. si osserva un eccellente esempio del tipo di coerenza e coesione che caratterizzano i messaggi di e-mail, del valore dell’“Oggetto” come mi- cro-genere a sé e del genere di dialogo uno-a-molti che è possibile realizzare

200 con la posta elettronica. L’esempio è in inglese ed è indirizzato a “tutti” (all@…) gli affiliati di un Istituto di ricerca a cui lo scrivente si rivolge con la formula iniziale Dear All. 22. Oggetto: Things to give away Date: Thu, 24 Aug 2000 12:09:22 +0100 From: ------<----@------> | To: all@------Dear all, I am leaving on the 30th after being at the Institute for a year, and I have a couple things that I am willing to give to anyone interested: a touch-tone telephone (desk type, dark red) a vacuum cleaner a couple of sharp knives and a peeler I will be away from Friday afternoon to Monday evening. Nome e Cognome 23. Oggetto: Vacuum cleaner taken | Date: Thu, 24 Aug 2000 12:15:17 +0100 From: ------<----@------> | To: [email protected] if anyone would like the telephone, please contact me. Nome e Cognome 24. Oggetto: The rest is taken | Date: Thu, 24 Aug 2000 12:21:46 +0100 From: ------<----@------> | To: all@------Thanks very much! Si noti l’orario dei messaggi (talmente ravvicinato da rendere superfluo alla fine apporre firma o una qualche formula di saluto) e il fatto che l’“Oggetto” alla fine diventa il testo vero e proprio, rilevante e informativo, tanto che il testo del messaggio invece contiene solo una formula di saluto. L’esempio appena discusso rientra ancora una volta nella tipologia dei te- sti che il nuovo medium rende possibili e che si orientano piuttosto verso una modalità di scambio comunicativo orale, o comunque che ha un buon numero di proprietà in comune con il parlato (cf. §3.)

6.6. Scopi e funzioni dei messaggi Per quanto concerne gli scopi e le funzioni di un messaggio di posta elettro- nica, essi possono essere molto vari. Un messaggio si usa per invitare, per in- formare, per chiedere, per inviare materiali e documenti. Talvolta sembra so- stituire un altro tipo di “comunicazione”, come una telefonata, o un messag- gio rilasciato alla segreteria telefonica, o infine un messaggio SMS dei tele- foni cellulari. Si veda qualche esempio:

201 25. Oggetto: Ciao Ciao Irma, io sono a Firenze. Mi farebbe piacere vederti, fammi sapere se possiamo pren- dere un caffe’ insieme. | Ciao, | Alfredo 26. Oggetto: Re: importante Ciao Chiara, al momento posso ancora sopravvivere, qunidi non c’è bisogno di preoccupar- si (ho circa 80$ e mi bastano per un po’). Comunque spero che il trasferimen- to arrivi tra oggi e lunedì. | Andrea 27. Oggetto: ricezuione (uguale all’esempio 19.) Marisa, mi fai sapre se hai ricevuto precedente messaggio con due allegati. Ricordati le stampe!!!! | Un bacio, Adele Anche per i messaggi 25.–27. valgono le osservazioni già espresse qua e là: si osservi anche in 25. la tendenza ad usare una sintassi concatenativa e poco gerarchizzata.

7. Conclusioni Le conclusioni di questa rapida incursione nel complesso mondo della comu- nicazione via computer non possono che essere molto provvisorie, anche se alcune linee di tendenza mi sembrano abbastanza chiare e in grado di sugge- rire ulteriori percorsi di ricerca da verificare in modo più sistematico. 7.1 Dal punto di vista strettamente linguistico, si osserva che la lingua dei mes- saggi è un italiano scritto che rispecchia sostanzialmente la lingua dell’uso medio, rispettando strutture morfologiche e sintattiche dell’italiano. Le parti- colarità linguistiche si sono registrate soprattutto in due gruppi di messaggi (quelli legati al mondo degli adolescenti e della musica), e fanno individuare un gergo “elettronico” che affiora qua e là e una forte sensibilità per gli a- spetti emotivi e paralinguistici della comunicazione. Lo stile dei messaggi dei giovani non è probabilmente tipico solo dei messaggi di e-mail, ma si ritrova in altri tipi di scrittura giovanile (si pensi alla scrittura dei diari personali sco- lastici, o ad altre forme di scrittura non istituzionale dei giovani). 7.2 Dal punto di vista della testualità, il messaggio di posta elettronica può avere tutte le parti che costituiscono la lettera tradizionale, ma può anche ometterle tutte ed essere ridotto ad un ringraziamento (cf. esempio 24.). Si individua

202 quindi una struttura testuale molto più libera e flessibile. I messaggi di e-mail possono coprire tutte le funzioni della corrispondenza tradizionale, ma co- prono anche altre funzioni comunicative, rispetto alla lettera, e cioè assolvo- no alle funzioni di messaggi orali (telefonate, messaggi rilasciati alle segrete- rie telefoniche), o scritti di altro tipo (telegrammi, fax, messaggi SMS). Que- sto mostra come l’uso del computer abbia moltiplicato la quantità di scambi che ognuno di noi realizza ed in particolare come abbia ampliato la gamma di usi della scrittura, se vogliamo, a danno dell’oralità. Questa potenzialità del computer in generale, e della posta elettronica in particolare, è ben sfrut- tata dagli adolescenti. La testualità nella posta elettronica dipende strettamen- te dall’uso del computer, sia per quanto riguarda l’organizzazione strutturale delle parti (cf. §6.1.), sia più in generale per la coerenza e la coesione testua- li, che possono superare i limiti del singolo messaggio. 7.3 Dal punto di vista della variabilità diamesica, infine, si osserva che la lingua e la testualità dei messaggi di e-mail solo in parte implicano come modello la lettera tradizionale, cartacea, vale a dire un tipo di comunicazione espressa- mente scritto. Molti messaggi che sono stati presentati nel corso della discus- sione, specie quelli di risposta, sembrano piuttosto orientarsi verso un model- lo più orale e condividono alcune delle proprietà indicate nel §3 come co- stanti del parlato. Di queste, come già ipotizzato, non sono tanto le costanti nucleari a poter essere riprese nello scritto, ma quelle un po’ più periferiche (deitticità, lessico polisemico e minima densità lessicale, sintassi concatenati- va e poco gerarchizzata). Rispetto a quanto ipotizzato nel §3, una costante che può in parte applicarsi, pur con cautela, ad alcuni messaggi di e-mail, ma che è sconosciuta in questa misura alla scrittura tradizionale, è la dialogicità, resa possibile dal fattore “tempo”, dalla velocità con cui i messaggi possono essere scambiati così da assomigliare abbastanza a “turni” conversazionali. L’analisi dei messaggi di e-mail conferma che la variabilità diamesica, dovuta al mezzo, al canale della comunicazione, è in qualche modo prece- dente a tutto il resto perché comporta delle scelte obbligate: il mezzo usato infatti impone alla comunicazione condizionamenti specifici che si traducono in particolarità linguistiche e testuali. In modo non sistematico, De Mauro (1993) osservava gli effetti che il mezzo usato, nel caso del parlato “telefonico”, comportava in relazione al re- gistro dell’informalità. La conclusione a cui giungeva era che il livello mag- giore di informalità nei vari tipi di parlato da lui analizzati non si registrava nelle conversazioni informali faccia a faccia, ma in quelle informali telefoni- che. La spiegazione di questo risultato dipende proprio dagli effetti che il

203 medium “telefono” comporta. La telefonata è una conversazione a distanza in cui il mezzo crea un avvicinamento anche più intenso di quanto non avvenga comunemente: “il parlarsi all’orecchio” reso possibile dal telefono esclude aspetti visivi della conversazione, e quindi anche possibili distrazioni, esclu- de altri riceventi “di passaggio” e crea un luogo della massima intimità e in- formalità. La voce diventa l’unico centro d’attenzione per ricevere informa- zioni sull’interlocutore, insieme ai messaggi scambiati. Un effetto simile, e al tempo stesso diverso, si produce nella comunica- zione on-line. Anche in questo caso le potenzialità del mezzo usato sembrano ridurre la distanza tra gli scriventi (anche le distanze in senso sociale e psico- logico). Il centro di interesse diventa la scrittura, che rappresenta anche l’unica fonte d’informazioni sull’interlocutore. Nella vita di comunicazione in rete quello che conta è come si scrive, quanto si riesce a comunicare con la parola scritta, quanto si è originali e quanto si riesce a farsi notare dagli altri grazie alla scrittura. 7.4 A conclusione di quest’analisi si deve tentare di dare una collocazione all’italiano dei messaggi di e-mail. A tale fine, la tradizionale distinzione tra le categorie dello “scritto” e del “parlato” sembra rivelarsi inadeguata. Di certo, la comunicazione che si realizza con i messaggi di e-mail non rientra nel parlato, perché di questo mancano la fonicità e tutta una serie di proprietà connesse (cf. §3). La CMC, anzi, si presenta come fortemente ca- ratterizzata in funzione delle peculiari caratteristiche del mezzo con il quale si realizza, e ciò non solo sotto il profilo della elaborazione manuale del testo scritto, ma anche della ricerca di uno stile testuale particolare. Deve conside- rarsi, a tal proposito, che l’accesso alla CMC presuppone un’abilità ed una cultura di base che non è di fatto tuttora disponibile per l’intera popolazione, ma è limitata alla classe dei soggetti in grado di utilizzare con una certa pa- dronanza il computer e la rete Internet per motivi professionali o personali. Anche tenendo conto di ciò, appare evidente che i fenomeni di “imitazione” del parlato (quali l’utilizzazione di segni grafici per riprodurre i suoni non linguistici della lingua parlata (hmmm nell’esempio 5.), o l’intonazione, il to- no ed il volume della voce (NOOOOOO degli esempi 3. e 4.), nonché gli altri segnali non verbali tipici del parlato: ad es. gli emoticons etc.), non possono essere valutati come se si trattasse di effettive analogie tra comunicazione scritta ed orale: al contrario, essi sembrano tentativi decisamente consapevoli (e niente affatto ingenui) di utilizzare e, in qualche modo, creare, uno stile te- stuale tipico del mezzo usato (stile anche, per certi aspetti, riconducibile a forme testuali esistenti, quali il linguaggio dei fumetti).

204 Né la comunicazione on-line, ed in particolare quella dei messaggi di e- mail, può farsi rientrare in quella varietà intermedia che Nencioni (1983) de- finiva scritto–parlato. Infatti se per scritto–parlato intendiamo un copione teatrale o la sceneggiatura di un film, siamo di fronte ad uno scritto che è de- stinato all’oralità, a divenire parlato (o meglio, recitato o “interpretato”). Nel caso dei messaggi di e-mail (ma anche delle conversazioni in chat-line) sia- mo di fronte a qualcosa di profondamente diverso: la destinazione all’oralità manca del tutto, ed è la struttura dell’interazione elettronica, con le sue carat- teristiche di velocità e immediatezza, che è “parlata”, o meglio dialogica. Le tradizionali categorie della comunicazione scritta, d’altronde, non sembrano applicabili al fenomeno in esame, innanzitutto perché in esso è molto accentuata un’esplicita e consapevole intenzione di imitare lo stile ora- le (oltre ai fenomeni di imitazione del parlato già segnalati, e tipici soprattut- to del mondo degli adolescenti e della musica, si veda la prevalenza di “ciao” o l’assenza di formula di apertura rispetto alla formula caro …), ma soprat- tutto perché nel messaggio di e-mail c’è una chiara attesa di risposta: la scrit- tura in questo caso è tesa verso il dialogo, è interattiva. In effetti è la stessa distinzione tra scritto e parlato a non sembrare idonea a descrivere compiutamente le particolari caratteristiche di alcune delle nuo- ve forme di comunicazione elettronica, dal momento che quella distinzione è fondata esclusivamente sul mezzo usato per la comunicazione, ma non dà conto del tipo di comunicazione posto in essere. Sotto questo ultimo aspetto, invece, la distinzione deve avvenire sull’asse che individua, da un lato, la conversazione (comunicazione dialogica ad alto grado di interazione) e, dal lato opposto, il monologo (comunicazione del tutto priva di interazione). In questa classificazione, poi, può essere interessante notare che la comunica- zione epistolare sembra porsi in una posizione intermedia, poiché essa, pur es- sendo connotata dal parametro dell’interazione, lo presenta in un grado debole. Probabilmente, la tradizionale contrapposizione tra le caratteristiche dello “scritto” e del “parlato”, in qualche modo offusca la distinzione tra i due pia- ni di classificazione sopra indicati (mezzo e tipo). Il motivo può forse essere ricercato nel fatto che, fino all’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione fondati sull’uso dei computer e della rete Internet, non esisteva una categoria di comunicazione linguistica che fosse al tempo stesso scritta (per quanto at- tiene al mezzo) e fortemente interattiva (per quanto attiene al tipo). Forse una categoria di tal genere esisteva anche, se in questa inquadriamo l’uso della comunicazione telegrafica o quella tramite telescrivente (telex), ma aveva un impatto sociale e culturale di scarsissimo rilievo, anche quantitativo, con la conseguenza che “parlato” è stato spesso inteso come sinonimo di comunica- zione ad interazione forte, cioè di conversazione.

205 Nell’ottica appena considerata dunque alcune caratteristiche tradizional- mente considerate tipiche del “parlato” risultano, ad un più attento esame, in realtà da riferire a quella categoria trasversale che è la conversazione, ovvero la comunicazione a forte interazione, indipendentemente dal mezzo con il quale essa è realizzata. Al contrario solo una parte delle caratteristiche tradi- zionalmente collegate al parlato può dirsi strutturalmente connaturata a tutte le tipologie di comunicazione orale, anche non interattiva, e quindi rappre- sentare il nucleo caratteristico di tale tipo di comunicazione. Orbene, la CMC (o almeno una parte di essa, e certamente quella che si realizza nelle chat e, sia pure in misura meno netta, nell’uso dell’e-mail con funzioni non comparabili a quelle della tradizionale comunicazione epistola- re), sembra proprio porre in essere, in maniera rilevante, e con un evidente impatto di novità sul piano culturale e sociale (impatto tra l’altro in continua espansione), una forma di comunicazione scritta con gradi di interazione an- che forte, che in passato mancava tra le categorie di comunicazione linguisti- ca oggetto di indagine linguistica. Ciò mette in particolare evidenza la neces- sità di procedere, con cautela e rigore, all’adeguamento ed alla esatta delimi- tazione delle classificazioni tradizionali in materia. Il peso e le potenzialità del mezzo usato sono responsabili della descritta particolarità strutturale dei messaggi di e-mail. La differenza fondamentale tra messaggio di e-mail e lettera tradizionale è costituita dalla circostanza che in quest’ultima non sono possibili le infinite variazioni di destinatario, l’informalità e soprattutto la rapidità di scambio, che la posta elettronica ren- de possibili e anzi che la posta elettronica ha creato; può pertanto dirsi che nella comunicazione per mezzo della posta elettronica, rispetto alla comuni- cazione epistolare classica, l’interazione è molto più forte. D’altra parte, le preesistenti forme di comunicazione scritta con un grado di interazione com- parabile a quello dell’e-mail (telex, telegrammi) non sono mai state in grado di raggiungere un’apprezzabile diffusione, in ragione delle caratteristiche strutturali dei mezzi necessari per realizzarle. Nessun’altra forma di scrittura tradizionale, per quanto imiti il parlato, riesce a creare una struttura intera- zionale forte. Al carattere intrinsecamente interazionale della comunicazione attraverso la posta elettronica si può quindi ragionevolmente applicare la definizione di scrittura conversazionale. A livello teorico, la scrittura conversazionale porta a ripensare alla testualità e alla variazione linguistica, tenendo conto di un e- lemento nuovo, quello della valenza interazionale di un atto/testo linguistico. La CMC pone quindi nuove sfide al linguista e mostra come anche un’opposizione classica quale quella di scritto–parlato possa essere attraver- sata, stravolta e resa più sfumata dalla comparsa di nuovi mezzi di comunica-

206 zione. La materia mi sembra richiedere altro studio, anche sul versante te- stuale, per cogliere somiglianze e differenze tra vecchie e nuove tipologie te- stuali.

8. Bibliografia Baron, Naomi S., “Letters by phone and speech by other means: the linguistics of Email”, in: Language and Communication 18 (1998), 133–170. ———, Alphabet to Email. How Written English Evolved and Where It’s Heading, London/New York, 2000. Berruto, Gaetano, “Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche”, in: Sobrero (ed.) 1993, 37–92. Collot, Milena/Belmore, Nancy, “Electronic Language”, in: Herring (ed.) 1996, 13– 28. De Mauro, Tullio et al. (edd.), Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Milano, 1993. Gains, Jonathan, “Electronic Mail - a new style of communication of just a new me- dium: An investigation into the text features of E-mail”, in: English for Specific Purposes 18 (1999), 81–101. Herring, Susan C. (ed.), Computer-Mediated Communication. Linguistic, Social and Cross-Cultural Perspectives, Amsterdam/Philadelphia, 1996. Holtus, Günter/Radtke, Edgar (edd.), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Tübingen, 1985. Maggi, Alessandra, “Ubi scripta volant”, in: Italiano & Oltre 2 (1995), 76–80. McLuhan, Marshall, The Gutenberg Galaxy. The making of Typographic man, To- ronto, 1962. ———, Understanding media, New York, 1964. Murray, Denise E., “The context of oral and written language: A framework for mode and medium switching”, in: Language in Society 17 (1988), 351–373. Nencioni, Giovanni, “Parlato–parlato, parlato–scritto, parlato–recitato”, in: idem (ed.), Di scritto e di parlato, Bologna, 1983, 126–179. Orletti, Franca, “Pratiche di glossa”, in: Id. (ed.) 1983, 77–103. ——— (ed.), Comunicare nella vita quotidiana, Bologna, 1983. Paccagnella, Luciano, La comunicazione al computer, Bologna, 2000. Pistolesi, Elena, “Il visibile parlare di IRC (Internet Relay Chat)”, in: Quaderni del Dipartimento di Linguistica - Università di Firenze 8 (1997), 213–246. Rauch, Irmengard, “Toward a Grammar of German E-mail”, in: Rauch/Garr (edd.) 1999, 181–199. ———/Garr, Gerald F. (edd.), New Insights in Germanic Linguistics, New York, 1999. Sabatini, Francesco, “L’‛italiano dell’uso medio’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane”, in: Holtus/Radtke (edd.) 1985, 154–184.

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208 Variazione testuale e uso degli eponimi nel linguaggio dell’economia Fiorenza Fischer

1. La variazione testuale nei linguaggi specialistici Il tema della variazione testuale nell’ambito dei linguaggi specialistici può difficilmente essere affrontato senza che si ponga la questione della variazio- ne del grado di specializzazione del linguaggio, che nei vari tipi di testi si manifesta, in altri termini senza che faccia capolino la questione del rapporto tra lingua comune e linguaggi di specialità. Com’è noto i linguisti definiscono la lingua comune come l’insieme dei mezzi linguistici di cui sono in grado di servirsi tutti gli appartenenti di una determinata comunità linguistica, mentre i linguaggi specialistici ne costitui- scono invece una varietà “funzionale-contestuale” dipendente da una comu- nità di parlanti che è più ristretta e che può essere identificata con la cerchia degli esperti o degli “addetti ai lavori” (cf. Berruto 1986, 53), dagli ambiti d’uso e dal dominio oggettuale della disciplina. Trattando di linguaggi settoriali e di tipi di testi specialistici, è ovvio che la dimensione del contenuto assuma un ruolo di primo piano. Adamzik (1998, 184) osserva: Am wichtigsten ist dabei zweifellos die Inhaltsdimension, die jedoch auch besondere Probleme aufwirft, da man bekanntlich im Prinzip über jeden Ge- genstand auch in der “Gemeinsprache” kommunizieren kann (und dies über viele Fachgegenstände geläufigerweise auch tut). Gerade deswegen ist es je- doch notwendig, das Kriterium des Inhalts in einer Weise zu fassen, die Ur- teile über einen geringeren oder größeren Fachlichkeitsgrad erlaubt. In effetti il grado di specializzazione costituisce un elemento fondamentale quando si debbano analizzare dei testi specialistici “in funzione” ovvero quando si debba considerarli nello svolgimento della loro peculiare funzione comunicativa. All’atto di comunicazione sottende infatti un rapporto tra chi produce il testo e chi lo legge, in cui il grado di competenza in materia da parte degli attanti costituisce un elemento determinante: il livello del sapere specialistico che l’emittente possiede o dà a intendere di possedere e quello che presume esistere nel ricevente regolano le modalità di realizzazione del testo specialistico stesso. Adamzik (ibid.) muove da una definizione di “Fach (...) als (...) Menge von Kenntnissen und Fertigkeiten, die gesamtgesellschaftlich erarbeitet wor-

209 den sind, die aber nicht an allen Mitgliedern der Gesellschaft (in allen allge- meinen Ausbildungsinstitutionen) weitergegeben werden”. Connettendo il concetto di sapere specialistico e quello di società Adam- zik può quindi identificare una scala di competenza specialistica in cui: [...] den niedrigsten Grad von Fachlichkeit hätten demgemäß diejenigen Kenntnisse und Fertigkeiten, die in den für alle Mitglieder der Gesellschaft vorgesehene Ausbildungsgänge vermittelt werden; der Fachlichkeitsgrad steigt in dem Maße an, wie die zum Erwerb der Kenntnisse notwendige Aus- bildung sich gegenüber dem Minimum verlängert und spezialisiert [...]. Den höchsten Grad an Fachlichkeit hätten dabei Kenntnisse und Fertigkeiten, die überhaupt (noch) nicht in einem Ausbildungsgang weitergegeben werden, sondern soeben erst erarbeitet worden sind (Forschung) (ibid.). Il concetto ora definito di Fachlichkeit si presta bene ad essere utilizzato co- me criterio per l’analisi della variazione testuale nell’ambito dei linguaggi di specialità, poiché permette di mettere adeguatamente a fuoco la dimensione funzionale1 e quella situazionale dei testi specialistici.

2. L’uso degli eponimi nei linguaggi specialistici Attualmente la comunicazione specialistica, che si concretizza in vari tipi di testi, appare in generale caratterizzata da un enorme bisogno di creare termini e denominazioni nuove. Ciò è diretta conseguenza dello sviluppo e della con- tinua crescita del sapere specialistico. Le innovazioni scientifiche e tecniche sono infatti strettamente connesse alla capacità degli esperti, che comunicano nei vari campi di specializzazio- ne, di innovare anche il linguaggio, ossia di adeguare all’emergere della no- vità i loro mezzi espressivi. Lange (1996, 107) sostiene: “sprachliche Varia- tion und Innovation sind für die Generierung neuer Ideen von außerordentli- cher Bedeutung”. L’intensa dinamica tra conoscenza e linguaggio si manife- sta nel fatto che la creazione di nuove teorie, la scoperta di nuovi metodi e l’enuclearsi di nuovi concetti determinano un’ampia esigenza di nominazione del nuovo sapere prodotto. Nella Fachsprachenforschung si pone allora il compito di analizzare il modo in cui avvengono i processi di denominazione delle novità: attraverso, ad esempio, la risemantizzazione di parole già in uso nella lingua comune o ————— 1 Con questa espressione si intende qui indicare la funzione che sottende al testo specialistico, che può essere quella di servire a trasmettere o a elaborare ex novo o a utilizzare il sapere specialistico; mentre facendo riferimento alla situazione si intende indicare la cerchia degli attanti.

210 travasate da altri linguaggi specialistici; attraverso la formazione di parole, con la creazione di neologismi veri e propri; o – pratica questa ormai diffu- sissima soprattutto nel campo dell’economia – attraverso massicci prestiti da lingue straniere. La presente indagine si propone di esaminare il modo in cui le esigenze di nominazione ora descritte possano essere soddisfatte anche attraverso termini onimici, ossia termini costituiti con una componente rappresentata da un no- me proprio (in altre parole come interi moduli di sapere specialistico possano essere indicati sinteticamente) e in che modo essi costituiscano anche una marca caratteristica di un certo tipo di discorso, e si propone successivamente di analizzare le diverse modalità dell’uso degli eponimi nei diversi tipi di te- sti che si riscontrano nel linguaggio dell’economia, per mostrare come questo elemento del lessico specialistico possa costituire un interessante criterio nell’analisi della variazione testuale.

3. Aspetti particolari dell’uso dei termini eponimici nel discorso economico La forte presenza dei termini eponimici nelle varie discipline specialistiche è un dato evidente. Esso balza agli occhi in modo eclatante ad esempio nel lin- guaggio della medicina, dove l’eponimia viene usata sia per la denominazio- ne delle parti del corpo (il tendine di ACHILLE, le trombe di EUSTACHIO), sia per le cause delle patologie (bacillo di KOCH), sia per le patologie stesse (sarcoma di KAPOSI), sia per i metodi di analisi (test di NELSON) sia infine per le terapie (cura DI BELLA, cura del dott. KNEIPP). Si può osservare che nell’ambito della medicina l’uso degli eponimi non rimane riservato al solo piano del discorso scientifico tra esperti: anche il pa- ziente può sapere ad esempio di soffrire del morbo di ALZHEIMER, pur non es- sendo un esperto della materia. Da questo punto di vista non si può dire lo stesso per quanto concerne il linguaggio dell’economia. Qui, al contrario, osserviamo che, a parte rari casi di termini che hanno goduto di una certa diffusione anche nella comunica- zione divulgativa non specialistica (pensiamo ad esempio a termini come po- stFORDismo, REAGANomics, THATCHERismo, probabilmente noti a ogni lettore di Repubblica o del Corriere della Sera), in generale l’uso degli eponimi in economia rimane riservato soprattutto al piano del discorso scientifico, in cui la distanza comunicativa tra emittente e ricevente è minima o per lo meno re- lativamente bassa. Si nota che nella comunicazione da economista a economista l’uso di ter- mini eponimici consente di fatto un grande risparmio di mezzi linguistici. Il

211 Il richiamo al nome proprio di un certo economista basta ad attivare imme- diatamente delle coordinate concettuali che consentono di collocare entro un quadro teorico già definito l’affermazione in questione. Ciò si può verificare leggendo il passo seguente: Nel postfordismo è invece la domanda che detta i modi e i tempi all’offerta: la fabbrica deve sincronizzarsi con l’evoluzione del mercato. L’esistenza di scorte, in questo caso, è dunque il sintomo di un mancato o tardivo adegua- mento della produzione al mutare dei gusti dei consumatori. Questo sistema di produzione flessibile, detto in inglese zero-stock just in time production (produzione in tempo reale a scorte zero) fu introdotto per la prima volta in Giappone, negli anno ’50, nelle officine Toyota: è stato quindi naturale chiamarlo “toyotismo” in analogia con il fordismo, anche se in verità è il successore in fabbrica del taylorismo. Quest’ultimo corrisponde all’organiz- zazione del lavoro propria del fordismo. (....) Il modo di regolazione del po- stfordismo è stato finora il neoliberismo: all’interventismo keynesiano e al neocorporativismo sindacale del fordismo hanno fatto seguito il rigore mone- tario e finanziario e la liberalizzazione del mercato del lavoro. (Enciclopedia dell’economia De Agostini, Novara, 1998, 405).

Dalla lettura si può notare che l’uso dei nomi di TAYLOR, FORD e KEYNES funge da richiamo per il concetto del management scientifico e per le politi- che economiche di deficit spending senza che essi vengano effettivamente spiegati o nominati, fatto questo che consente una elevatissima efficienza nella comunicazione. Questo è possibile ovviamente, perchè l’autore nell’atto di produrre il te- sto ha mentalmente presente un gruppo di destinatari – ossia di lettori virtua- li – non ignoto e generico, bensì definito, relativamente omogeneo e dotato di conoscenze precedentemente acquisite, comuni alle sue e rispondenti a un canone corrente. Mediante l’uso di nomi propri di economisti, l’autore di un testo econo- mico scientifico coinvolge il gruppo dei lettori per mezzo di una serie di ri- mandi ad altre conoscenze, ad altri testi che si presumono già letti. Come af- ferma Kalverkämper (1994, 225): “Schon der Einsatz von Namen weist über den aktuellen Text hinaus. Der Name ist nämlich ein Appell an den Leser o- der Hörer, sein Vorwissen in den Textverstehensprozeß hier einzubringen. Namengebrauch entspricht daher einem Setzen von deutlichen Vorwissen- smarkierungen”. Determinando un rimando a conoscenze comuni l’uso di termini speciali- stici con una componente onimica crea quindi un senso di appartenenza ad un determinato gruppo, che è appunto quello della scientific community degli economisti. Nel contempo però esso costituisce anche una barriera, che può

212 essere insormontabile per la comprensione del testo, per coloro che non di- spongono delle particolari conoscenze presupposte. Di questo fatto sembrano essere coscienti gli autori stessi, infatti, uno stesso economista, se scrive un articolo giornalistico per il Corriere della se- ra o per La Repubblica, anziché per una rivista scientifica di economia, tro- vandosi a dover usare eponimi, provvede probabilmente ad accompagnarli con una frase relativa, con una incidentale o con una parentesi esplicativa che consenta al lettore di comprendere il riferimento extratestuale veicolato dal nome proprio.

4. Variazione testuale e uso dei termini contenenti nomi propri nel linguaggio dell’economia Da quanto sinora osservato emerge che esaminare l’uso degli eponimi nei te- sti economici può consentire di cogliere con una certa precisione determinate caratteristiche della situazione comunicativa e in particolare può contribuire a far luce sul rapporto tra emittente e ricevente che sottende alla produzione dei testi. Le modalità d’uso dei termini eponimici in economia rivelano infatti il grado di Fachlichkeit della comunicazione discusso in 1. In questo lavoro di ricerca su eponimi e variazione testuale nel linguaggio economico si è deciso di procedere definendo delle costanti di contenuto, da mantenere per quanto possibile tali, e identificando delle variabili di contesto e linguistiche da osservare nella varietà della loro occorrenza. L’elemento mantenuto costante nella ricerca è l’argomento, nella fattispe- cie la tassa di TOBIN. Si tratta di una imposizione fiscale per scoraggiare le transazioni finanziarie di tipo speculativo, che dovrebbe essere applicata da tutti i governi del mondo, anche se in percentuale molto modesta. Le entrate fiscali così ottenute potrebbero essere utilizzate per combattere la povertà e il sottosviluppo nel terzo mondo. L’economista che per la prima volta introdus- 2 se questa idea rivoluzionaria è l’americano James TOBIN, professore all’Università di Yale, premio Nobel per l’economia nel 1981. Per chi si oc- cupa di eponimi economici è interessante osservare che nei dizionari e nelle enciclopedie economiche si può trovare un termine che porta il nome di TOBIN, ossia la variabile q di TOBIN, ma non si trova traccia della tassa di TOBIN, benché l’idea sia apparsa già negli anni Settanta e benché, come si ————— 2 TOBIN ha svolto studi sull’elasticità al tasso di interesse della domanda di moneta, sulla preferenza per la liquidità come comportamento verso il rischio, sulle scelte di portafoglio, sull’equilibrio generale e sulla teoria monetaria, ma si è occupato anche di analisi della povertà e della difesa dei gruppi più svantaggiati.

213 vede dai testi che costituiscono il corpus d’analisi di questa ricerca, il termine esista, goda di innegabile vitalità e sia diffuso a livello internazionale. Gli elementi che costituiscono le variabili su cui si focalizza l’attenzione nell’indagine per coglierne la varietà, sono: sul piano linguistico a) le espres- sioni usate per esprimere il concetto di tassa di TOBIN, b) l’uso di determi- nanti e aggettivi con particolare valenza semantica; e sul piano del contesto: A) l’intenzione della comunicazione, B) il rapporto tra gli attanti, C) la situa- zione comunicativa, e infine D) il canale.

5. Analisi empirica della variazione linguistica e testuale Il corpus d’analisi su cui si basa la presente indagine è costituito da 37 testi raccolti seguendo, nei limiti del possibile, il criterio della “costanza” del con- tenuto. Tra i testi esaminati ne sono stati scelti 6, di cui verranno presentati ora brani, o in alcuni casi la versione completa.

5.1. Primo testo Pressione fiscale: un punto in meno nel ’98, scendiamo al settimo posto Ocse: fisco più leggero in Italia I Ds: introduciamo la TOBIN TAX ROMA – L’impegno del governo a sollecitare il varo – in primo luogo a livel- lo europeo – di un’imposta sulle transazioni finanziarie a scopo speculativo, la cosiddetta TOBIN TAX. È questa la richiesta contenuta in una mozione presen- tata alla Camera da 23 deputati della maggioranza, […] L’obiettivo della TOBIN TAX, nata da un’idea del premio Nobel per l’economia James Tobin e sostenuta a livello internazionale da un vero e proprio movi- mento sorto nei mesi scorsi in Francia, è spostare reddito dal capitale al lavo- ro. È stato calcolato che con una tassazione minima – tra lo 0,1 e lo 0,5 per cento – dei flussi finanziari speculativi (non facilmente individuabili per la verità) si avrebbe un gettito a livello mondiale di centinaia di miliardi. La TOBIN TAX – che dovrebbe far parte di un pacchetto di iniziative tra le qua- li la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo e una serie di misure contro la criminalità finanziaria e i cosiddetti paradisi fiscali – avrebbe scar- sissimi effetti se applicata a livello nazionale. [....]. “La TOBIN TAX è già stata approvata dal parlamento del Canada e da quello della Finlandia – sottolinea Giorgio Panattoni, Ds, uno dei promotori – cosa quest’ultima molto importan- te perché la Finlandia ha attualmente la presidenza dell’Ue. […] Il testo è costituito da un articolo comparso su La Repubblica del 4.11.1999. Si tratta di un pezzo scritto allo scopo di divulgare una notizia, l’intenzione è quindi quella di informare un pubblico che si presume vasto e generico, come

214 può essere quello che legge un quotidiano di grande tiratura a livello nazio- nale; l’autore non si pone nella posizione di un conoscitore del tema, bensì di un professionista cui compete il compito di diffondere un’informazione. Il rapporto tra gli attanti appare caratterizzato da un basso grado di competenza specialistica da entrambe le parti e il linguaggio mostra a sua volta un basso grado di specializzazione. Si può osservare che il termine oggetto della pre- sente analisi, prima di comparire è preceduto dalla spiegazione del suo signi- ficato e anche dall’aggettivo “cosiddetto”. Esso appare inoltre nella versione inglese “TOBIN TAX” anziché in quella italiana. Si nota infine che il termine compare nel titolo e poi subito in apertura di articolo.

5.2. Secondo testo “Bit o BoT tax?” […] A ciascun accesso, potrebbe scattare un’imposizione fiscale; siccome pe- rò, l’utente di un Paese può accedere a Internet tramite una società di un altro Paese, per tassarlo è necessario che i governi si coalizzino e che la tassazione stessa sia così uniforme. In altri termini, nessun governo può più tassare da solo. Una seconda forma di tassazione della nuova realtà informatica è LA COSIDDETTA TOBIN TAX, un progetto dell’americano James Tobin, premio No- bel dell’economia. Per ovviare all’estrema volatilità dei capitali finanziari, i quali possono attraversare le frontiere virtuali di un Paese anche più volte al giorno, per andare a impiegarsi in altri Paesi, sfruttando piccolissimi differen- ziali di prezzo, Tobin propone che le autorità si coalizzino imponendo un’uniforme imposta di bollo su ciascuna transazione. […] Il testo tratta il tema di una possibile imposizione fiscale sull’utilizzo di in- ternet. L’articolo, della lunghezza di quattro pp., è comparso su Economia e Finanza (12/1996) a firma del pubblicista Mario Deaglio, che è autore di sva- riate pubblicazioni di argomento economico. L’emittente è dunque un esperto di economia pur non essendo una scienziato; lo scopo del testo è indubbia- mente anche in questo caso di tipo informativo; i riceventi però sono ben di- versi dal pubblico generico dei lettori di un quotidiano: chi legge un articolo di quattro pp. sul futuro del fisco nell’era dell’informatica in una rivista di economia non è ovviamente il lettore medio di Repubblica. Il grado di com- petenza specialistica degli attanti in questo caso è più elevato e anche il lin- guaggio appare più accurato e ricco di termini tecnici. Anche in questo caso si incontra l’anglicismo Tobin tax e l’aggettivo “cosiddetto”, il termine com- pare per la prima volta nella terza pagina.

215 5.3. Terzo testo Il terzo testo, oggetto d’esame è costuito della piattaforma adottata dall’as- semblea costitutiva del 3, giugno 1998 dell’associazione ATTAC (Associa- zione per una tassazione delle transazioni finanziarie di aiuto ai cittadini) che rappresenta un’iniziativa di tipo politico-etico-sociale. Piattaforma dell’associazione ATTAC adottata dall’Assemblea Costitutiva del 3 giugno 1998 […] La maggior parte degli ingranaggi di questo meccanismo produttore di disuguaglianza, sia fra il Nord ed il Sud che all’interno degli stessi paesi indu- strializzati, può ancora essere bloccata. Troppo spesso il pretesto della fatalità si basa sulla silenzio imposto agli organi di informazione rispetto a soluzioni alternative. È per questa ragione che le istituzioni finanziarie internazionali ed i maggiori mezzi di informazione (di cui i beneficiari della globalizzazione, spesso, sono proprietari) non hanno dato alcuno spazio alla proposta dell’economista americano James Tobin, premio Nobel per l’economia, di tas- sare le transazioni speculative sul mercato delle valute. Anche fissata ad un tasso particolarmente basso dello 0,05%, LA TASSA DI TOBIN sarebbe in grado di raccogliere circa 100 miliardi di dollari all’anno. […] A tale fine, i sottoscrittori si propongono di creare l’associazione ATTAC (A- zione per una TASSA DI TOBIN d’Aiuto ai Cittadini) che permetterà loro di produrre e di diffondere le informazioni per un’azione comune sia nei rispet- tivi paesi che a livello europeo ed internazionale. […] Ovviamente per questo testo non si può rintracciare un individuo come auto- re, essendo appunto il prodotto del lavoro di un’assemblea, di fatto l’emit- tente è costituito da un gruppo, da un movimento. La Textsorte è quella del manifesto politico; lo scopo del testo è di sensibilizzare il maggior numero possibile di cittadini sugli effetti della globalizzazione finanziaria e sui pro- blemi della povertà e della disuguaglianza. Il ricevente del testo in questo ca- so può essere qualsiasi cittadino. Il grado di Fachlichkeit appare relativamen- te basso. Il linguaggio, dal tono messianico, appare fortemente influenzato dal forte impegno morale a risvegliare la coscienza critica verso una realtà sentita come ingiusta. Il termine TASSA DI TOBIN nella forma italiana, compare verso la fine del testo dopo che è stato introdotto il nome dell’economista che la propose e compare anche nella conclusione in una posizione molto rilevan- te ossia nella sigla dell’associazione stessa.

5.4. Quarto testo Il quarto esempio di uso dell’eponimo in esame si trova nel testo di una pro- posta di legge alla Camera. Si tratta del Progetto di legge N. 6788:

216 Onorevoli Colleghi! – La proposta dell’istituzione di una tassa sulle transa- zioni internazionali in valuta, di natura speculativa, ha origini lontane. Essa risale al 1972 ed è stata, come noto, formulata dal professore James Tobin, premio Nobel nel 1981. […] James Tobin riprese la proposta nel 1978: essa diede luogo ad un dibattito in tutto il mondo, che ebbe momenti di particolare intensità e momenti di pausa. Nel frattempo però il fenomeno aveva assunto ormai dimensioni talmente considerevoli – ed in continua ascesa – da non essere più commisurabile con le variabili reali. […] La reazione nel mondo. All’inizio degli anni novanta, dopo anni di pausa, ricominciò in tutto il mondo una fase di grande interesse sia scientifico che politico sulla tassazione dei flussi valutari speculativi. Nel 1992 e nel 1993, durante le crisi monetarie eu- ropee, e alla fine del 1994 con il crollo del peso messicano, LA “TASSA TOBIN” riemerse; nel 1994, al vertice di Copenaghen, il presidente François Mitterand ne rilanciò l’idea; LA TASSA fu nuovamente evocata ad Halifax nel 1995, die- tro le quinte della riunione dei sette Paesi maggiormente industrializzati (G7). Ogni volta, tuttavia, il progetto veniva rapidamente interrato, e LA TASSA sem- brava condannata a vedersi sistematicamente qualificata come “idealista” e “irrealista”. Malgrado qualche riserva formulata qua e là, la maggior parte degli esperti concluse che valeva la pena che LA TASSA fosse seriamente considerata, o al- meno che meritava di essere studiata più a fondo. […] Il nucleo iniziale della proposta, quale strumento di regolazione dei tassi di cambio, fu arricchito da proposte concrete. Si valutò che LA TASSA – qualora fosse diffusamente applicata – avrebbe potuto procurare un gettito rilevante che secondo alcune stime […] avrebbe potuto aggirarsi intorno ai 180 e i 220 miliardi di dollari ogni anno. […] Un’altra proposta circa l’impiego del gettito DELLA TASSA è stata avanzata, in sede europea, per finanziare interventi contro la disoccupazione […]. Soprattutto nei Paesi europei si è presa consapevolezza che l’adozione di TALE TASSA potrebbe essere utile per ristabilire la sovranità nazionale sulle politi- che fiscali, che in era di liberalizzazione e di concorrenza fiscale è fortemente indebolita. Innanzitutto, la liberalizzazione opera prevalentemente come fatto- re di blocco di politiche di bilancio espansive. Inoltre, comportamenti di con- correnza fiscale tra i diversi Paesi volti a mantenere al proprio interno i capi- tali necessari a finanziare gli investimenti, in presenza di perfetta mobilità, fanno sì che la tassazione su tali fattori tenda ad essere estremamente bassa. LA TOBIN TAX potrebbe, al contrario, costituire una misura regolatrice della liberalizzazione e della globalizzazione […]. In questo caso il testo è scritto, ma è concepito per essere pronunciato oral- mente, in situazione di presenza fisica dell’interlocutore, in altri parole è con- cepito per essere letto di fronte all’assemblea dei deputati. L’emittente è l’esponente di un partito politico; lo scopo dell’atto comunicativo è quello di

217 convincere i riceventi dell’importanza dell’iniziativa e di indurli ad approva- re il progetto di legge durante la votazione. I riceventi sono un gruppo ben definito, noto all’emittente, sia per quanto riguarda le conoscenze supposte date, sia per quanto riguarda l’atteggiamento in materia. Il contesto dell’atto comunicativo è completamente definito. Il rapporto emittente ricevente è di quasi totale parità e appare quindi solo poco asimmetrico. La Textsorte è quella del discorso ufficiale: il testo, di cinque pp., comincia con il vocativo “Onorevoli Colleghi!”, lo stile è ufficiale. L’eponimo “tassa Tobin”, senza preposizione, compare tra virgolette alla fine della prima pagina, dopo che il nome dell’economista è stato menzionato due volte. Nel testo il nucleo no- minale dell’eponimo, la parola tassa, che indica il concetto di “tassa Tobin” viene ripreso più volte senza che compaia il nome proprio, ma sempre ac- compagnato da un determinante definito, la tassa oppure tale tassa. È inte- ressante notare che l’emittente parte dalla premessa che l’uditorio non cono- sca già il concetto designato dal termine. Egli è quindi indotto a spiegarlo, ma non lo fa in modo conciso, come avverrebbe in un articolo giornalistico, bensì per esteso menzionando più volte il nome del creatore del concetto e spiegandone la storia e lo sviluppo.

5.5. Quinto testo Dopo gli ultimi due testi, che costituiscono esempi rappresentativi di “discor- so ufficiale”, si può passare ora ad un caso diverso, che potrebbe quasi essere classificato come “commento critico” da parte di una personalità di rilievo. Questo quinto esempio di uso dell’eponimo in questione è tratto dall’archi- vio-web di Noam Chomsky: l’articolo è intitolato “Finanza e silenzio” ed è comparso su Le MONDE diplomatique nel dicembre 1998. Finanza e silenzio (Noam Chomsky) […] I mercati sono divenuti sempre più volatili, sempre meno prevedibili, e le crisi finanziarie sempre più frequenti. La proposta di una tassazione delle transazioni sui mercati dei cambi è stata avanzata all’inizio degli anni 70 dal premio Nobel per l’economia James To- bin. Il suo obiettivo è di immettere “granelli di sabbia” nell’ingranaggio dei flussi speculativi, favorendo gli investimenti produttivi a lungo termine (1). Idee di questo tipo erano allora correnti; fino agli anni 80, la maggior parte dei paesi ricchi esercitava un certo controllo sui flussi dei capitali. Alcuni sta- ti, come ad esempio il Cile, lo fanno tuttora. LA TASSA TOBIN è all’ordine del giorno da quasi un quarto di secolo, ma le grandi istituzioni finanziarie non ne vogliono assolutamente sentir parlare. E non a caso, dato che approfittano enormemente dell’attuale situazione, sia pu- re al prezzo di un rallentamento dell’economia reale e di crisi di notevole por-

218 tata. Anche i settori manifatturieri e industriali, che pure dovrebbero esserne i potenziali beneficiari, sono in genere contrari a una misura del genere; proba- bilmente perché considerano vantaggiosi gli effetti delle misure di liberalizza- zione finanziaria sulle politiche sociali, e la forte pressione che esercitano sul costo del lavoro. Non desta quindi sorpresa il fatto che un importante libro SULLA TASSA TOBIN, pubblicato due anni fa, sia stato boicottato dalla stampa in seguito alle pressioni degli organismi internazionali e degli ambienti finan- ziari, soprattutto americani. […] Il testo riportato si rivela interessante per il particolare status dell’emittente, caratterizzato da prestigio scientifico e autorevolezza morale. Scopo del testo è indubbiamente quello di stimolare una presa di coscienza e destare un at- teggiamento critico nel lettore. Notiamo che l’eponimo nella traduzione ita- liana del testo inglese, viene usato nella forma tassa Tobin senza preposizione.

5.6. Sesto testo Il sesto esempio di uso del termine onimico in parola si trova in un testo pro- dotto da uno scienziato, Riccardo Bellofiore, professore di economia politica al Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bergamo (testo in- tegrale dell’intervento alla Camera del Lavoro di Brescia, 7 giugno 1999). Come sconfiggere il capitale finanziario. Portata e limiti della Tobin Tax. 1. Introduzione Nel corso dell’ultimo anno e mezzo la discussione sulla dinamica capitalistica e sulle scelte possibili di politica economica ha registrato mutamenti di rilie- vo. Negli anni ’90 si erano affermate quattro idee-chiave. In conseguenza de- gli effetti di lungo periodo della crisi del fordismo e del keynesismo, ma anche della rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni e nei trasporti, il capitali- smo avrebbe raggiunto lo stadio di una globalizzazione pressoché compiuta nel commercio, nella produzione, nel mercato del lavoro, e nella finanza. L’instabilità dell’ambiente in cui si trovano a operare le imprese, come la ri- cerca di costi del lavoro più bassi, avrebbero dato vita a innovazioni tecniche e organizzative postfordiste. Che lo si volesse o meno, una lettura di questo tipo finiva con il convergere con l’ideologia thatcheriana, divenuta nel frattempo senso comune, del “non c’è alternativa”. Inoltre, il taylorismo ha visto negli ultimi due decenni una estensione quanti- tativa, mentre le ridotte aree di riqualificazione del lavoro non sfuggono alla frammentazione del lavoro e non invertono la tendenza al rallentamento di ve- locità della produttività per l’economia nel suo complesso; in presenza di di- soccupazione e di minori garanzie, il tempo di lavoro tende non a proseguire la tendenza secolare alla riduzione ma ad allungarsi e intensificarsi.

219 Gli stessi centri del potere capitalistico si sono dovuti porre la questione se non si fosse andati troppo in là nella liberalizzazione senza regole dei movi- menti di capitale, mentre hanno ripreso forza le poche voci che da tempo insi- stono per porre un argine all’internazionalizzazione della finanza. Tra queste, ha avuto particolare eco, e ha suscitato una vasta mobilitazione, l’idea di isti- tuire una tassa universale e uniforme sulle transazioni in valuta estera per ren- derle più costose, e quindi per rallentare la crescita in volume della specula- zione. In Francia è nata, e si è poi estesa ad altri paesi, tra cui l’Italia, una as- sociazione, ATTAC, che ha per obiettivo di imporre ai governi l’adozione di questa misura. 2. Crisi finanziarie e speculazione Come è evidente, il punto di partenza, del tutto condivisibile, della campagna per LA TOBIN TAX – dal nome del suo primo proponente, l’economista keyne- siano e Premio Nobel James Tobin, che la lanciò nel lontano 1972, per “getta- re sabbia” negli ingranaggi della speculazione (cf. Tobin 1974 e 1978) – è che la globalizzazione finanziaria, benché “oggettivo”, non sia fenomeno naturale, ma politico, e che su di essa sia dunque possibile intervenire in modo efficace con le armi della politica. […] Il testo appartiene senza dubbio alla Textsorte dell’articolo scientifico, la lun- ghezza è di 18 pp. L’intenzione che sottende alla produzione del testo è quella di trasmettere conoscenza scientifica su un tema di alto interesse poli- tico e sociale. Il rapporto tra gli attanti appare caratterizzato da un alto grado di Fachlichkeit. Sia chi produce il testo, sia chi lo riceve appartiene alla cer- chia degli esperti. Nel testo il termine nella versione dell’anglicismo Tobin tax appare nel titolo e poi per la prima volta nella terza pagina dopo che sono stati usati spesso altri eponimi: precisamente in ordine di comparsa: fordismo, keynesianismo, organizzazione postfordista, ideologia thatcheriana e taylori- smo. Questa densità dell’uso degli eponimi è una marca caratteristica del di- scorso economico scientifico. Riguardo al modo in cui l’eponimo oggetto d’analisi viene introdotto, è interessante notare che, pur essendo il testo diret- to ad un pubblico di “addetti ai lavori”, trattandosi di un concetto ancora nuovo, o in ogni caso non ancora completamente legittimato o non apparte- nente al canone delle conoscenze economiche correnti, l’autore si sente in dovere di chiarire l’origine del termine. Egli fa questo per mezzo di un inciso e spiega chi è James Tobin usando un altro eponimo ossia dicendo che è un economista keynesiano e nella parentesi rimanda il lettore alla lettura delle opere da lui scritte nel 1974 nel 1978, le cui indicazioni bibliografiche sono poi riportate nella bibliografia alla fine dello stesso articolo scientifico. Que- sto è chiaramente un modo di introdurre un eponimo caratterisico della co- municazione da esperto ad esperto, non lo si potrebbe trovare mai in uno dei tipi di testi analizzati precedentemente.

220 6. Osservazioni conclusive Dalla ricerca svolta e in particolare dagli esempi presentati risulta che analiz- zare l’uso degli eponimi nel linguaggio dell’economia permette di cogliere determinati aspetti della variazione linguistica e testuale così come essa si presenta nei testi specialistici. Sul piano del contesto e della situazione dell’atto comunicativo le diverse modalità dell’uso dei termini eponimici servono a chiarire quale tipo di rap- porto esiste tra chi produce e chi recepisce un testo rivelando qual è il grado di competenza specialistica degli attanti e se tra essi sussiste disparità. Sul piano linguistico si osserva che lo stesso concetto, ovvero lo stesso termine eponimico può realizzarsi attraverso una pluralità di varianti. Com- plessivamente nei 37 testi che costituiscono il corpus su cui si è basata la ri- cerca si potevano rintracciare le seguenti nove varianti: 1. la tassa di Tobin 6. la “Tobin tax” 2. la “tassa di Tobin” 7. la tassa di tipo Tobin 3. la tassa Tobin 8. la tassa di Robin Hood 4. la “tassa Tobin” 9. la tassa di Tobin (Hood) 5. la Tobin tax Le ultime due varianti ludiche effettuano attraverso l’uso di un altro notissi- mo nome proprio un rimando ad un “geteiltes Wissen”, che fa dedurre che la Tassa di Tobin, come il famoso personaggio della foresta di Sherwood, in- tende togliere ai ricchi per dare ai poveri. In particolare l’uso addirittura di due nomi propri nell’ultima variante sembra davvero confermare quanto e- merso dall’indagine svolta.

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222 Corpora testuali e produttività morfologica: i nomi d’azione italiani in due annate della Stampa (1996–1997) Livio Gaeta / Davide Ricca

1. Introduzione In questo contributo1 si presentano i primi risultati di un più ampio progetto d’indagine sulla morfologia dell’italiano basato su materiali estratti da corpo- ra. In particolare, in questo lavoro sono state prese in considerazione due an- nate della Stampa, debitamente lemmatizzate e organizzate in data-base. La scelta di un corpus giornalistico non è stata ovviamente casuale: ci sembra infatti che per la varietà di registri stilistici e di tipi di testo la lingua dei gior- nali sia tra le più adatte per un’indagine sulla formazione delle parole, oltre ad esser quella che fotografa più da vicino la varietà (settentrionale) di italia- no medio. In questo corpus sono stati analizzati cinque suffissi che formano nomi d’azione tra i più produttivi e/o frequenti dell’italiano contemporaneo quali -mento, -zione, -tura, -aggio e -(n)za, su cui è stata verificata la pratica- bilità delle recenti proposte di H. Baayen riguardo ad un approccio quantita- tivo alla controversa nozione di produttività morfologica. Il lavoro è organiz- zato come segue: nel §2 viene illustrato il modo in cui è stato costruito ed e- laborato il corpus; nel §3 viene introdotta e discussa la nozione di produttivi- tà morfologica e quella di hapax legomenon, fondamentale per la compren- sione dell’approccio di Baayen discusso nel §4. Nel §5 vengono trattati i problemi più squisitamente morfologici posti dall’indagine dei suffissi italia- ni; infine nel §6 viene proposto un nuovo approccio alla produttività morfo- logica che permette di risolvere alcune incongruenze nell’applicazione del modello di Baayen.

2. Definizione ed elaborazione del corpus La base dati di partenza della nostra indagine è costituita dalle annate 1996 e 1997 della Stampa di Torino disponibili su CD-ROM. La costruzione del da- ta-base morfologico propriamente detto a partire dai CD-ROM ha richiesto una serie abbastanza complessa di passaggi, che qui verranno descritti nelle loro linee essenziali.

————— 1 Questo lavoro, in parte finanziato da un contributo MURST ex-60%, è stato con- cepito e realizzato congiuntamente dai due autori. Tuttavia, la redazione dei §§1, 3 e 5 è da attribuire a L. G., quella dei §§2, 4 e 6 a D. R.

223 Il primo passo è consistito nell’esportazione (permessa dal software in- cluso nel CD-ROM) dei testi degli articoli in files di formato testo. Si tratta di una grande mole di dati: un’annata della Stampa si traduce in circa 180 MB di files in formato testo. Questo materiale testuale è stato suddiviso, già in fa- se di esportazione, in 36 chunks, tre per ogni mese, ciascuno dei quali è quin- di risultato della dimensione di circa 5 MB. A questo punto, una prima radicale “pulizia” del corpus si è resa necessa- ria perché a ciascun articolo nel CD-ROM originale è premesso un data-base in italiano e inglese utile alla consultazione sul CD-ROM, e contenente quin- di informazioni su luoghi, date, nomi propri presenti nell’articolo, e soprat- tutto una sequenza di parole chiave che avrebbero alterato in modo molto sensibile i dati quantitativi del nostro corpus. Si è quindi provveduto a elimi- nare dal testo di ogni articolo (in modo automatico ovviamente) l’intero data- base e anche il titolo dell’articolo, che a sua volta avrebbe potuto introdurre rilevanti distorsioni nel computo degli hapax legomena (vedi oltre §3). Que- sto processo ha comportato un sensibile snellimento del corpus di partenza, da circa 28 a circa 25 milioni di tokens per ciascuna annata.2 I chunks di testo così ottenuti sono stati trattati per mezzo di un noto sof- tware di analisi testuale, il DBT elaborato da E. Picchi al CNR di Pisa, co- struendo un corpus di testi (analogo, per intenderci, a quello della Letteratu- ra Italiana Zanichelli) per ciascuna delle due annate ’96 e ’97, dove i singoli “testi” sono costituiti dai chunks di 10 giorni. In questo modo, si è potuto di- sporre di corpora progressivi, di dimensione crescente, corrispondenti, ad e- sempio, ai primi tre chunks (gennaio), ai primi sei chunks (gennaio e feb- braio) eccetera, fino al corpus completo di 36 chunks corrispondenti all’in- tera annata. Questa disponibilità di corpora testuali progressivi è indispensa- bile per alcune delle analisi che seguiranno, in quanto fornisce una dimensio- ne dinamica dell’accrescimento del lessico che è essenziale per estrarre una nozione di produttività a partire da una base dati statica quale è quella di un corpus testuale. Nel seguito, oltre al corpus dell’intera annata, verranno con- siderati 6 corpora parziali, corrispondenti rispettivamente ai primi 1, 2, 3, 4, 6 e 8 mesi dell’anno: il più piccolo contiene circa 2 milioni di tokens, e gli al-

————— 2 Rimangono alcuni difetti d’origine nati in sede di compilazione dei CD-ROM del- la Stampa, che in modo apparentemente casuale presentano alcuni articoli inter- rotti a metà e altri raddoppiati. Se il primo difetto è del tutto irrilevante ai fini del- la nostra ricerca, il secondo può introdurre alcune distorsioni per le parole a bassa frequenza e in particolare per gli hapax legomena; per questi ultimi si è intervenu- ti manualmente, reintroducendo i (pochi) casi che non erano stati individuati au- tomaticamente come tali appunto perché presenti negli articoli raddoppiati.

224 tri sono grosso modo multipli del primo, fino a quello complessivo di circa 25 milioni di tokens.3 A questo punto, si è potuto procedere alla costruzione della vera e propria base dati morfologica relativa a ciascuno dei corpora parziali sopra menzio- nati. Il software DBT consente infatti di elaborare un indice completo delle parole di un corpus, ordinate alfabeticamente, con associato il numero delle loro occorrenze. Questo file (circa 11 MB in formato testo per l’intera anna- ta) contiene, in potenza, tutta l’informazione morfologica estraibile dai testi. Per l’ultimo passaggio preliminare indispensabile, si è poi fatto ricorso al no- to programma Microsoft Access, che ha permesso di realizzare, a partire dall’indice alfabetico, l’indice inverso delle parole di ciascun corpus (una modalità non consentita dal DBT al di là del singolo testo), nella forma di una grande tabella (oltre 120.000 righe per l’intera annata). Di qui è ovvio ri- cavare i dati relativi a ciascun suffisso selezionando ed esportando le oppor- tune sottotabelle contenenti tutte le forme di parola con uguale terminazione (ad esempio tutte le parole uscenti in -mento e -menti, poi raggruppabili age- volmente in un unico lemma sempre tramite Access). Infine, questi dati hanno richiesto un’inevitabile e laboriosa ripulitura manuale, perché nessun computer è in grado di distinguere tra il nome astrat- to e il mobile in credenza, o di eliminare e/o ricondurre al lemma corretto i numerosi errori di stampa, che se lasciati, avrebbero costituito in massima parte altrettanti hapax legomena in grado di stravolgere completamente i dati.

3. Produttività morfologica e hapax legomena Il concetto di produttività di una regola morfologica è alquanto controverso (per una recente rassegna della questione, cf. Plag 1999). Tuttavia, la mag- gioranza degli studiosi, anche di ispirazioni teoriche diverse, è sostanzial- mente d’accordo con la ben nota definizione di Schultink (1961, 113, tradu- zione inglese di Booij 1977, 4):

————— 3 Per la precisione, il corpus “ripulito” consta di 24,5 milioni di tokens per il ’97 e 25,5 milioni per il ’96. Non è stato possibile chiarire con certezza se questa diffe- renza a favore del ’96 corrisponda a un maggior numero effettivo di parole nel senso linguistico del termine, o se non sia dovuta a scelte parzialmente diverse da parte dei compilatori dei CD-ROM (in particolare, il mantenimento di un maggior numero di parti di giornale non linguisticamente significative, come elenchi di sottoscrittori contenenti liste di cifre e nomi propri, e sim.). I valori di frequenza complessiva dei diversi suffissi, che mostrano una differenza sistematica a sfavore del ’96 (vedi oltre §6) punterebbero a favore di questa seconda ipotesi.

225 “Productivity as morphological phenomenon is the possibility which language users have to form an in principle uncountable number of new words uninten- tionally, by means of a morphological process which is the basis of the form- meaning correspondence of some words they know.” Come debba essere poi interpretata e misurata questa “possibilità di coniare un numero teoricamente infinito di neologismi in maniera non intenzionale”, resta peraltro problematico. Innanzitutto, il concetto di intenzionalità appare discutibile, come messo in evidenza da Plag (1999, 13), che osserva come la coscienza metalinguistica vari da parlante a parlante, per cui quel che appare come intenzionale a qualcuno può passare inosservato ad un altro. Inoltre, procedimenti morfologici produttivi vengono massicciamente impiegati nell’ambito della terminologia, che è per definizione intenzionale. Per quanto ci riguarda, sono stati esclusi dal computo quei pochi derivati che chiaramen- te denunciano una creazione intenzionale e scherzosa da parte del parlante, come ad esempio abbattistamento (c’è ... l’“abbattistamento”, che sarebbe l’avvistamento di Lucio Battisti, 21-6-1997, 29), insognamento (Sentir dire “squasi” invece di “quasi”, “insognamento” per “sogno”, ... alla lunga fa ridere, 9-8-1997, 26), moglieggiamento, moglieggiatura (la particolare co- pertura informativa che in America si chiama “wifing” (moglieggiamento?, moglieggiatura?), 27-4-1996, 5). Da un punto di vista qualitativo, si può ad una prima approssimazione concordare con Booij (1977, 120) che mette la produttività in rapporto inver- so col numero di restrizioni cui una regola di formazione delle parole soggia- ce. Se e come debba poi essere verificata quantitativamente la portata di un processo morfologico resta tuttavia nell’ombra. Poco praticabile appare cer- care di avvalorare quantitativamente un concetto sfuggente quale quello di “parola potenziale” utilizzato da Aronoff (1976), che considera la produttivi- tà come il rapporto tra parole usuali e parole possibili o potenziali generabili con un certo procedimento morfologico. La misura del rapporto tra parole usuali e potenziali conduce infatti ad una serie di incongruenze (ad esempio il fatto che per regole molto produttive, cioè con un numero di parole poten- ziali tendente a infinito si ottiene una produttività tendente a zero: cf. Plag 1999, 23 per una discussione), né tantomeno ci si può affidare, come suggeri- to da qualcuno (cf. Neuhaus 1973), al vago concetto di neologismo, spesso definibile solo per via lessicografica. In questo senso, non ci è chiara la con- trapposizione assunta da Dressler/Ladányi (2000, 104) tra un livello di com- petenza grammaticale, dove sarebbe situata la nozione di produttività come capacità potenziale di formare parole nuove, e un livello di performance, do- ve invece si situerebbero le realizzazioni individuali (dove cioè è possibile

226 misurare la type/token frequency di un determinato suffisso). Secondo questi autori, la distanza che intercorre tra il livello (potenziale) della competenza e quello concreto delle realizzazioni individuali renderebbe impossibile deriva- re la nozione di produttività da quella della type/token frequency. Tuttavia, come riconoscono gli stessi autori più avanti nel loro lavoro (cf. Dres- sler/Ladányi 2000, 127), è proprio a livello della performance che ha senso la verifica della nozione di produttività, ed è pertanto l’indagine empirica il test decisivo che può sancire l’adeguatezza di una teoria. Da questo punto di vi- sta, un approccio di tipo quantitativo basato sull’indagine di ampi corpora te- stuali e un approccio di tipo qualitativo sono tutt’altro che in contrasto. In una serie di contributi recenti, H. Baayen (cf. Baayen 1992, 1993, Ba- ayen/Lieber 1991) ha proposto di ancorare la nozione di produttività alla mi- sura del numero di hapax legomena, cioè parole con frequenza 1, presenti in un dato corpus. La misura proposta di produttività p è il risultato del numero h di hapax legomena presenti all’interno del corpus diviso per il numero N di tutti i tokens formati con quel suffisso nel corpus: (1) p = h / N p indice di produttività di un suffisso h frequenza assoluta di hapax legomena N frequenza assoluta di tutti i tokens formati con il suffisso Anche indipendentemente dall’indice p di produttività, su cui si tornerà nel §4, è indubbio che gli hapax legomena siano un oggetto di indagine interes- sante. Come fanno osservare Baayen/Renouf (1996), benché gli hapax lego- mena non siano di per sé dei neologismi, è tuttavia molto plausibile che sia proprio tra le parole a frequenza più bassa che vadano ricercate parole di nuova formazione. È chiaro come la nozione di neologismo sia estremamente sfuggente. In assenza di criteri autorevoli può esser opportuno utilizzare la tradizione lessicografica e negativo: possiamo infatti stipulare di considerare neologismi le parole non riportate in un dizionario molto ricco ed aggiornato, e per di più uscito posteriormente rispetto al materiale raccolto nel nostro corpus, come il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (= GDU). Il GDU, pe- raltro, è decisamente sovradimensionato rispetto alla competenza lessicale di un ipotetico parlante medio. Un dizionario che più vi si avvicina in termini quantitativi è presumibilmente lo Zingarelli 1998 (= Z98), anch’esso apparso posteriormente rispetto al corpus preso in considerazione. In figura 1 si vede come i neologismi, cioè le parole non contenute nel GDU o nello Z98, si af- follino tra gli hapax legomena e decrescano in misura netta man mano che si considerano parole con frequenza crescente.

227 Numero di types -mento -zione 158 124 158 58 47 52

1234 Tokens - rqez nel Frequenza 19 10 18

93

23 70

corpus -zione della 15

8

6 6 Stampa

39 71 -mento 1997 9 8 2 3 49 22 tett e u dizionari due nei attestati Z98 in GDU attestati in non né Z98 in né attestati non Tra i neologismi non attestati nel GDU si incontrano ad esempio automortifi- cazione (20-8-1997, 1), autoreclusione (14-12-1997, 12), criptazione (23-6- 1997, 4), crittografazione (23-6-1997, 5), declassazione (2-5-1997, 5), di- sneyzzazione (10-12-1997, 9), magiarizzazione (19-10-1997, 9), ammanet- tamento (26-4-1997, 14), frullamento (30-12-1997, 23), giganteggiamento (4-6-1997, 7), ingaglioffimento (13-12-1997, 7), risucchiamento (19-2-1997, 5), sgranchimento (23-10-1997, 2), spupazzamento (23-1-1997, 33). Nel grafico in figura 1 emerge anche un altro dato che rende l’analisi de- gli hapax legomena interessante. Per entrambi i suffissi indagati, -mento e -zione, il numero di types attestati decresce in maniera molto netta man mano che cresce la frequenza. Come osservano Baayen/Lieber (1991, 810), questo comportamento è tipico dei suffissi molto produttivi rispetto a quelli scarsa- mente o per nulla produttivi o rispetto alle parole morfologicamente non complesse.

4. Tokens, types, produttività: teoria e primi dati illustrativi Per illustrare da un punto di vista più matematico il concetto di produttività di Baayen e collaboratori è utile fare subito riferimento a dati concreti. La figura 2 riporta il numero di types diversi, d’ora in poi indicato con V, presenti nei corpora di dimensioni crescenti relativi all’anno ’96, per tre suf- fissi derivazionali di alta frequenza: i due suffissi deverbali -mento (82.710 occorrenze, pari a circa il 3,2‰ di tutte le parole del corpus4) e -(n)za (56.004, il 2,2‰) e il suffisso avverbiale -mente (106.351, il 4,2‰). Natu- ralmente, non è sempre ovvio decidere quali formazioni vadano effettiva- mente contate come types di un dato suffisso derivazionale: si tornerà am- piamente su questo punto nel §5. Nel discutere la figura 2, si può lasciare provvisoriamente da parte la questione: nel diagramma si sono inclusi due suffissi non problematici dal punto di vista della segmentazione, cioè -mente

————— 4 Il “circa” premesso alle percentuali fornite è dovuto al fatto che il numero totale di tokens del corpus (un dato fornito ovviamente con procedura automatica dal software) non coincide esattamente con le parole come sarebbero contate da un linguista, dato che include un numero difficilmente quantificabile con precisione di iniziali di nomi propri, sigle di autori, indicazioni della data dell’articolo, e vari altri elementi “spuri” che hanno l’effetto complessivo di sottostimare leggermente tutte le percentuali di frequenza dei suffissi. È chiaro però che questa distorsione ha carattere assolutamente sistematico, e quindi mantiene immutati i rapporti tra le frequenze dei diversi suffissi, e non influisce minimamente sull’andamento dei dati calcolati in termini del numero N di tokens dei suffissi, come il numero di types V(N) o la produttività p(N).

229 V(N) : Numero di types 1000 1500 2000 2500 500 0

00 00 00 00 000120000 100000 80000 60000 40000 20000 0

aStampa La N

ueodi Numero : tokens

e suffisso del types -(n)za -mento -mente e -mento, e per -(n)za si sono considerate le sole forme con piena trasparenza morfotattica, definibili a partire da un tema verbale coincidente col participio presente, come partenza o alleanza.

230 Ciascuna delle tre curve di figura 2 risulta dall’unione con tratti lineari di set- te punti (evidenziati nel diagramma) corrispondenti ai corpora progressivi di 1, 2, 3, 4, 6, 8 e 12 mesi dell’anno ’96. In ascissa è riportato il valore di N, cioè il numero di tokens di un dato suffisso presenti nei diversi corpora pro- gressivi. Ovviamente il calcolo di V(N) si riferisce agli stessi sette corpora per i tre suffissi; ma poiché i tre suffissi in questione (anche se tutti e tre mol- to frequenti) non hanno la stessa identica frequenza, le tre curve non si inter- rompono nello stesso punto e i punti intermedi non corrispondono agli stessi valori sull’asse delle ascisse. È molto importante sottolineare questo fatto: per ciascun suffisso a un dato punto N il valore di V(N) dà il numero totale di derivati diversi quando si sono incontrate complessivamente N occorrenze di quel suffisso (non N parole del corpus!). Se il suffisso è anche minimamente produttivo, man mano che si procede nello spoglio del corpus si incontreranno per forza nuovi types: il valore di V non può quindi che aumentare (si tratta, in termini matematici, di una funzio- ne monotona non decrescente); ma, per qualunque suffisso, il ritmo di accre- scimento di V rallenta man mano che si procede nello spoglio, perché sarà sempre più probabile che nuove istanze del suffisso vadano ad ingrossare i ranghi via via più numerosi dei types già attestati. È evidente dalla figura 2 che le curve V(N) crescono a un ritmo diverso per ciascuno dei tre suffissi. L’idea fondamentale di Baayen e collaboratori è allora che proprio il ritmo di accrescimento di V(N) sia una misura linguisti- camente significativa della produttività di un suffisso: in effetti, se, dopo aver incontrato nello spoglio progressivo un ugual numero di occorrenze di suffis- sati con a e con b, la curva dei types cresce più in fretta per un suffisso a che per un suffisso b, significa che per a è più alta la probabilità di incontrare, procedendo ulteriormente nello spoglio, un nuovo derivato: in altre parole, che il suffisso a è più disponibile di b a nuove formazioni.5 Se il corpus è ab- bastanza grande, si può ritenere che la stessa dinamica di accrescimento regi- strata nel corpus si riproduca nella realtà della produzione linguistica, e ri- fletta dunque la produttività sincronica dei due suffissi in questione. Il caso di -(n)za appare immediatamente dal diagramma come quello di un suffisso di produttività bassissima, anche se molto frequente: il totale dei types presenti nel corpus alla fine dell’anno è già quasi raggiunto dopo il primo mese, e le potenzialità di accrescimento successivo di V appaiono vici- ne allo zero, con V(N) che approssima una retta pressoché orizzontale.

————— 5 Come giustamente osserva Plag (1999, 34) questa nozione di produttività è pros- sima alla disponibilité della tripartizione proposta da Corbin (1987, 177).

231 Gli altri due suffissi, al contrario, mostrano entrambi un andamento tipico dei suffissi decisamente produttivi: per entrambi, la curva V(N) è ancora chia- ramente crescente al termine dello spoglio del corpus annuale (e lo rimane anche al termine dello spoglio in sequenza del corpus biennale di 50 milioni di tokens, non riprodotto nel grafico). D’altra parte, la figura 2 consente già di ordinare qualitativamente i due suffissi in termini di produttività: infatti, fissato un qualunque valore di N, la curva con la pendenza (e di conseguenza la produttività) maggiore è quella di -mente, in accordo con le intuizioni dei linguisti. Per una valutazione quantitativamente più precisa, però, occorrerà calcolare la pendenza della curva per diversi valori di N e confrontare i valori relativi ai due suffissi a parità di N. Matematicamente, il ritmo di accrescimento di una funzione V(n) in un punto N è misurato dalla sua derivata in quel punto, V’(N), che rappresenta la pendenza della tangente alla curva in quel punto. D’altra parte, si può age- volmente dimostrare che la pendenza di V(n) in un punto può essere espressa in termini del numero h di hapax legomena del suffisso registrati per quel va- lore di n,6 e quindi la misura della produttività diventa (Baayen/Lieber 1991, 812): (2) p(N) = h(N) / N La formula (2), già menzionata sopra come (1), pone in rilievo il ruolo cru- ciale degli hapax legomena per una valutazione quantitativa della produttivi- tà, che è stato già illustrato, con considerazioni di ordine differente, nel §3. Nel §6 verranno presentati i valori ottenuti per i cinque principali suffissi di nome d’azione italiani segmentabili con mezzi automatici (mancano quindi tre tipi importanti: le conversioni in -a e -o dal tema verbale e quella dal par- ticipio passato femminile, cioè i tipi acquisto, rinuncia, mangiata/corsa, e al- tri meno rilevanti come -ìo in cinguettio) e per un suffisso di riferimento, in- discutibilmente molto produttivo e morfotatticamente non problematico, co- me -mente.

————— 6 In effetti, pensando allo spoglio progressivo dei tokens di un suffisso come a una serie di successive estrazioni a sorte, il ritmo di accrescimento di V in un punto N (cioè il rapporto incrementale ∆V/∆N per piccoli ∆N) equivale alla probabilità di “estrarre” un nuovo type “sorteggiando” il successivo token dopo che si sono e- stratti N tokens di quel suffisso; ma un nuovo type, al momento in cui viene estrat- to, è ovviamente un hapax legomenon. Quindi, per una generale nozione di calco- lo delle probabilità, la produttività di un suffisso psuf(N) calcolata a N tokens è da- ta dal rapporto tra gli hapax di quel suffisso presenti in quel momento nel corpus e tutti i suoi tokens: ovvero a hsuf(N)/N.

232 Si è già sottolineato che, per la corretta applicazione di (2), è essenziale tenere presente che la produttività p(N) è una funzione del numero N dei to- kens del suffisso che si trovano in un dato corpus; anzi per qualunque suffis- so, anche il più produttivo, p(N) tende a zero per N tendente ad infinito (Baa- yen/Lieber 1991, 837). Quindi, per confrontare tra loro le produttività di due suffissi, occorrerà calcolare p(N) per uguali valori di N: il che implica che per suffissi di frequenze sensibilmente diverse, il loro confronto sarà possibile solo facendo riferimento a corpora di dimensioni molto diverse, inversamen- te proporzionali alle frequenze dei due suffissi. Per questo motivo occorre di- sporre di una sequenza di corpora affini dal punto di vista testuale e di di- mensioni progressivamente crescenti, come quella impiegata nel presente la- voro. Non sempre si è tenuto conto di questo fatto, a nostro avviso assoluta- mente centrale, nell’attribuire un significato linguistico ai dati ricavabili con la formula in (2). Prima di presentare i dati, è opportuno fare alcune considerazioni su alcu- ni punti problematici nell’applicazione concreta di questo approccio, troppo raramente menzionati in letteratura. Una prima questione concerne la possibilità di verificare la stabilità dei risultati al variare dei corpora. La disponibilità di due annate parallele dello stesso giornale ci consente una verifica semplicissima dell’entità delle flut- tuazioni puramente statistiche dei nostri dati: nell’ipotesi ragionevole che i due corpora della Stampa ’96 e ’97, di analoghe dimensioni e strutturazione in termini di tipologia testuale, riflettano globalmente lo stesso frammento di repertorio linguistico (pur nella ricchezza delle sue componenti interne), la coerenza tra i dati ottenuti indipendentemente sulle due annate sarà una con- vincente prova della loro attendibilità per quel particolare tipo di testo, anzi, con un minimo di audacia, per l’italiano giornalistico contemporaneo (setten- trionale). Nel §6, i dati ottenuti saranno quindi forniti fianco a fianco per i due corpora, e si riveleranno sostanzialmente stabili. Non si pretende natu- ralmente di estrapolare meccanicamente i risultati ottenuti a varietà molto di- verse di italiano, come quelle riflesse da un corpus di testi letterari o di testi unicamente a carattere scientifico-specialistico, per non dire del parlato. Solo calcoli specifici su corpora nettamente differenziati tra loro, e di estensione paragonabile, consentirebbero di determinare con sicurezza lo spettro com- pleto di variazione sociolinguistica dei dati quantitativi qui presentati.

5. Problemi “di confine” nel trattamento dei dati Un secondo e più importante punto sta nella valutazione dei criteri con cui si identificano i types di un suffisso derivazionale. Plag (1999, 28–29) ha giu-

233 stamente notato che Baayen e collaboratori non discutono affatto il comples- so di questioni spinose che si pongono a questo riguardo, e non esplicitano le scelte fatte. Certamente, il complesso dei suffissi di nomi d’azione italiani obbliga a confrontarsi con un ventaglio molto ampio di scelte metodologiche che non possono essere in alcun modo eluse. In questa sezione presenteremo le principali, esemplificando con dati reali e indicando con chiarezza le scelte fatte, sia pure negli stretti limiti di spazio consentiti in questo contributo. Tut- te le formazioni escluse, per le diverse ragioni discusse nel seguito, dai con- teggi quantitativi sono state peraltro mantenute nei data-base morfologici di ciascun suffisso, e identificate per mezzo di opportune etichette, in modo da essere recuperabili per eventuali verifiche o conteggi di altra natura.

5.1. Opacità semantica rispetto alla base Una prima questione riguarda il caso di formazioni morfotatticamente traspa- renti in termini di analisi sincronica, ma in cui il rapporto semantico tra base e derivato presenta un livello molto alto di opacità: si tratta di casi come se- dimento, stazione, temperatura, sentenza. Queste formazioni non sono in ve- rità molto numerose in termini di types, ma alcune potrebbero influire in mo- do rilevante sui dati a causa della loro alta frequenza di tokens. Si è scelto di non includerle tra i tokens dei rispettivi suffissi nei conteggi che seguono, ma si è adottato un approccio molto restrittivo nell’identificarle. In sostanza, solo fenomeni di lessicalizzazione idiosincratica, che si traducono nella perdita di un rapporto con la semantica della base, sono stati giudicati meritevoli di e- sclusione. Nei casi molto più frequenti di deriva semantica anche ampia, ma trattabile in termini di polisemia regolare, come definita in Apresjan (1974), Rainer (1993, 136), Gaeta (1999a, in stampa), le formazioni corrispondenti sono state incluse tra i types del suffisso: anche perché nella maggior parte dei casi formazioni di questo tipo mantengono, accanto all’estensione seman- tica più consueta, la possibilità di essere impiegate come nomi d’azione, e pertanto sul piano cognitivo appare decisamente plausibile che contribuisca- no all’identificazione (e all’entrenchment nella competenza morfologica del parlante) di un suffisso con tale funzione. Si pensi a casi come armamento, composizione, cucitura, sporgenza, tatuaggio.

5.2. Basi non verbali Un secondo continuum non semplice da segmentare concerne la categoria lessicale della base. Nel nostro conteggio sono stati inclusi tutti i derivati compatibili con un’analisi come nomi deverbali, e in particolare derivati co- me quelli in (3a), in cui è possibile ricondurre il nome d’azione sia ad una

234 base verbale che nominale attestata (cf. bighellone/bighellonare, ambien- te/ambientare, punzone/punzonare, tubo/intubare, vagabondo/vagabondare): (3) a. Base N/V b. Base N bighellonamento tunnellamento ambientazione sudorazione punzonatura grammatura intubazione insolazione vagabondaggio killeraggio Sono stati invece esclusi dal conteggio derivati come quelli in (3b), che pur pre- sentando una chiara semantica di tipo “eventivo” (cf. Levin/Rappaport 1988), non sono tuttavia riconducibili ad una base verbale: tunnel/*tunnellare, sudo- re/*sudorare, grammo/*grammare, sole/*insolare, killer/*killerare. Si noti che anche nel raro caso di nomi d’azione derivati per mezzo di parasintesi, come in- solazione, si è preferito considerare questi derivati come denominali, senza do- ver ricorrere ad improbabili passi intermedi non attestati. Per i suffissi -mento, -zione, -tura, peraltro, l’esclusione del tipo (3b) non costituisce un problema numericamente molto rilevante, data la marginalità del tipo denominale per questi suffissi. La questione di eventuali basi verbali possibili ma non attestate è risultata invece di particolare rilievo nel caso di -aggio, che risulta (debolmente) produttivo sia con basi esclusivamente ver- bali (settaggio) che con basi esclusivamente nominali (hackeraggio), con buona pace dell’ipotesi della base unica corrente in morfologia generativa. Poiché la conversione nome-verbo è essa stessa un processo largamente pro- duttivo, in vari casi in cui il nome ha chiara preminenza cronologica e di uso è arduo decidere se il verbo derivato per conversione sia da considerare esi- stente o no nella competenza media dei parlanti. Si prendano ad illustrazione due casi come attacchinaggio e dossieraggio: i giudizi di accettabili- tà/normalità dei rispettivi verbi attacchinare e dossierare, senz’altro possibi- li, divergono con ogni probabilità da parlante a parlante. In questi casi un margine di arbitrarietà è certamente inevitabile: si è comunque adottato un criterio “largo”, considerando l’eventuale attestazione del verbo convertito in primo luogo nel corpus stesso, poi nei lessici (salvo termini arcaici), e infine anche la sua accettabilità nel lessico mentale dei ricercatori: solo in presenza di risultati negativi concordi a tutti e tre i livelli, si è optato per l’esclusione.7 ————— 7 A rigore, un’applicazione troppo generosa di questo criterio condurrebbe ad in- cludere, in termini di derivati da verbi possibili, anche tutte le parole in (3b) come killeraggio. Poiché questa opzione non sembra del tutto implausibile, abbiamo anche provato a calcolare la produttività di -aggio con questo criterio, ottenendo peraltro risultati non sostanzialmente dissimili. Anche adottando questa procedura

235 5.3. “Derivati senza base” Sono state anche escluse dal conto quelle formazioni che pur presentando una semantica di tipo eventivo, non sono tuttavia riconducibili a una base verbale: ad esempio agnizione, collazione, ovazione, sedizione, detrimento, lamento, cesura, molitura, massaggio, etc. Il ruolo di queste formazioni è difficilmente valutabile da un punto di vista teorico, dal momento che non è chiaro il loro statuto psicolinguistico e quindi l’opportunità di considerare le loro terminazioni come istanze di suffissi. Inoltre, può diventare in qualche caso difficile discriminare tra questi “derivati senza base” con una semantica di tipo eventivo e forme che sembrano chiaramente da escludere, in quanto presentano solo la terminazione in questione, come dimensione, mansione, razione, legislatura, struttura, vantaggio, elemento, etc.

5.4. Derivati da basi complesse Un altro punto problematico riguarda il trattamento dei derivati da basi com- plesse. Come è stato osservato da Plag (1999, 29), infatti, l’argomento psico- linguistico impiegato da Baayen per giustificare l’inclusione nel conto di de- rivati da basi inesistenti, in quanto in grado di attivare l’affisso interessato, è in teoria estendibile anche ai casi in cui in cui l’affisso compare all’interno di un ciclo derivazionale precedente, come nel caso di regolamentazione. Que- sta parola rappresenta sicuramente un type del suffisso -zione; tuttavia si po- trebbe immaginare che allo stesso tempo debba essere considerata anche un’istanza del suffisso -mento, presente in cicli derivazionali precedenti. In- cludere tutti i derivati di cicli precedenti tra i types di un suffisso derivaziona- le risulterebbe peraltro un compito quasi impossibile dal punto di vista prati- co, oltre che poco coerente con la scelta adottata per i “derivati senza base”. Seguendo in questo Plag (1999, 108), si è quindi tenuto conto unicamente dell’ultimo ciclo di derivazione. Sul piano pratico, il criterio adottato non pone alcun problema nel caso di derivati con suffissazioni multiple, dove l’ultimo ciclo è ovviamente il più e- sterno. Più delicata risulta invece la sua applicazione se il derivato in que- stione presenta, oltre al suffisso di nome d’azione, un processo di prefissa- zione o di composizione. In molti casi, la scelta di quale sia l’ultimo ciclo è

vanno comunque senz’altro esclusi i numerosi derivati in -aggio come chilome- traggio, piumaggio in cui il suffisso ha un valore collettivo ben distinto da quello qui considerato.

236 abbastanza chiara. Per esempio, preregistrazione e pseudoregistrazione an- dranno ragionevolmente analizzate come in (4):8

(4) a. [registra-]V → [pre- [registra-]V]V → [[pre- [registra-]V]V -zione]N b. [registra-]V → [[registra-]V -zione]N → [pseudo [[registra-]V -zione]N] N Conseguentemente, preregistrazione è stato incluso tra i types di -zione, men- tre pseudoregistrazione no, perché in questa seconda parola il processo deri- vazionale che coinvolge -zione non costituisce l’ultimo ciclo. Tuttavia, anche in questo caso la transizione tra (4a) e (4b) costituisce un continuum: non è evidente, ad esempio, se una parola come videoproiezione vada interpretata come un derivato di un verbo videoproiettare (plausibile ma non stabilizzato nel lessico), nel qual caso costituirebbe un nuovo type di -zione, o invece va- da considerata un composto con proiezione come secondo membro, nel qual caso sarebbe esclusa tout court dal conteggio.9

5.5. Opacità morfotattica Altro aspetto problematico, per altro completamente tralasciato da Baayen e collaboratori nei loro lavori, è la questione dell’opacità morfotattica. Com’è noto, per un certo numero di suffissi italiani sono possibili diverse analisi (per una rassegna cf. Gaeta in stampa). Il caso più eclatante è sicuramente il suffisso -zione, per il quale è problematico stabilire con certezza sia la forma della base che quella del suffisso. I due problemi sono ovviamente connessi e conducono a ipotesi diverse sulla forma del procedimento morfologico da as- sumere. Come si vede dai dati riportati in (5), (5) a. legittimazione [[legittima]TV -zione]N [[legittimat]PPass -ione]N spedizione [[spedi]TV -zione]N [[spedit]PPass -ione]N apparizione [[appari]TV -zione]N *[[appars]PPass -ione]N

————— 8 Anche nel caso di preregistrazione è in teoria possibile un’analisi alternativa si- mile a quella di (3b). In presenza di una base verbale preregistrare, lo si è tuttavia considerato un derivato deverbale, seguendo il criterio di massimizzazione dell’input già adottato in precedenza. 9 Si noti che, se si adottasse la scelta di includere anche cicli diversi dal primo al- meno nel caso della prefissazione (dando espressione alla ben nota asimmetria tra prefissazione e suffissazione, che anche a livello psicolinguistico sembrano avere uno statuto diverso, cf. Hall 1991), le istanze di pseudoregistrazione dovrebbero comunque essere raccolte sotto un unico type con quelle di registrazione, mentre quelle di preregistrazione darebbero luogo a un type indipendente. Questa scelta alternativa manterrebbe quindi invariato il problema di discriminare tra derivati del tipo (4a) e derivati del tipo (4b) nei casi dubbi.

237 b. delusione *[[deludi]TV -zione]N [[delus]PPass -ione]N assunzione *[[assumi]TV -zione]N [[assunt]PPass -ione]N c. adesione *[[aderit]PPass -ione]N [[ades]PLat -ione]N emissione *[[emess]PPass -ione]N [[emiss]PLat -ione]N d. gestione [[gest]Rad -ione]N invenzione [[invent]Rad -ione]N i derivati con questo suffisso si prestano fondamentalmente a due analisi pos- sibili. La prima (cf. Thornton 1988) prevede che la regola derivazionale prenda come input il tema verbale, costituito dalla radice con la vocale tema- tica, cui si aggiunge un suffisso -zione, come esemplificato in (5a) nella co- lonna di sinistra. Accanto a quest’ipotesi è possibile formularne una seconda (cf. Scalise 1983), in cui la regola prende in input il tema del participio pas- sato, cui si aggiunge il suffisso -ione che eventualmente provoca l’affricazione morfofonologica della dentale che chiude il tema del participo passato, come illustrato in (5a) nella colonna di destra. Questa seconda ipote- si avrebbe il vantaggio sulla prima di unificare i casi (5a) e (5b), in cui l’ipotesi del tema verbale con il suffisso -zione porta a risultati scorretti. En- trambe queste ipotesi sono però insufficienti perché bisogna poi assumere almeno altre due allomorfie esemplificate in (5c) e (5d): nel primo caso la ba- se di derivazione non è costituita dal tema del participio passato, ma piuttosto da quello del participio perfetto latino, mentre nel secondo caso la base di de- rivazione è costituita dalla radice verbale cui si aggiunge il suffisso -ione, e- ventualmente con la regola di affricazione della dentale finale (cf. invent-are → invenzione). A parte questi ultimi due casi, che hanno un dominio ristretto all’interno del lessico e sono dovuti alla stratificazione del lessico italiano di origine diacronica o alloglotta, le due ipotesi conducono anche ad assumere forme diverse della base e del suffisso. Come osserva Thornton, tuttavia, contro l’ipotesi unificatrice di Scalise si può obiettare il fatto che le forma- zioni del tipo delusione si trovano sempre con participi passati di diretta filia- zione latina, e in questo senso sono analoghi al tipo visto in (5c). Non succe- de mai invece che un participio passato di genuina formazione italiana costi- tuisca l’input della regola, come è testimoniato dall’inaccettabilità di *apparsione rispetto ad apparizione in (5a).10 Questa osservazione importan- te, che nasce dell’esigenza di distinguere ciò che è effettivamente produttivo in italiano da ciò che invece è ereditato da strati linguistici preesistenti, ci ha condotto ad assumere come ipotesi di base quella di Thornton, e a verificare ————— 10 Per essere coerente con il sistema, l’approccio di Scalise costringe ad assumere una filiazione latina di derivati come apparizione, che ricadrebbero pertanto nel caso (5c).

238 rispetto a questa il peso delle allomorfie di altro tipo esemplificate sopra. Problemi analoghi si ritrovano almeno per un altro suffisso indagato, -tura. In mancanza di spazio, ci limitiamo a riportare in tabella 1 i dati estratti dall’annata ’97 del nostro corpus concernenti il suffisso -zione, suddivisi a seconda delle rispettive categorie esemplificate sinora. Questi dati, nei limiti di un corpus giornalistico, possono fornire una trac- cia del tipo di distribuzione in termini di type/token dei derivati effettivamen- te impiegati da un ipotetico parlante medio e quindi anche riguardo al grado di dispersione delle allomorfie illustrate in precedenza. A parte la trascurabile presenza, non riportata in tabella per brevità, di prefissati/composti sia in ter- mini di types (cf. nota 9) che di tokens, che sono meno del 2% del totale, rilevante appare la presenza di derivati lessicalizzati, da altre categorie lessi- cali, e soprattutto “senza base”, che costituiscono complessivamente il 15% circa del totale dei tokens rispetto ad un 8% di types. Passando a considerare i soli nomi inclusi nel conto, si noti come i deriva- ti formati secondo l’ipotesi di Thornton rappresentino ben il 78% dei types. Solo il 9% circa dei derivati costituiscono la base di dati che supporta l’ipote- si unificatrice di Scalise, che assume come input di derivazione il tema del participio passato italiano, cui poi va aggiunto un 13% di ulteriori allomorfie, tra cui anche i derivati dal tema del participio perfetto latino. Va tuttavia messo in evidenza che l’ipotesi di Scalise non è falsificata da questi dati, per- ché sarebbe comunque possibile argomentare che in realtà riesce a prevedere ben l’87% dei types attestati nel corpus.11 Un altro indizio che rafforza l’approccio di Thornton può essere rintracciato nella valutazione dei tokens. Da questo punto di vista, il rapporto è quasi inver- so, dal momento che al 78% di types formati secondo l’ipotesi tema verbale più -zione corrisponde solo il 52% circa dei tokens complessivi, mentre al tipo che rappresenta le ulteriori allomorfie corrisponde un 32,5% dei tokens complessi- vi. Questo dato è in accordo con l’intuizione che i tipi ad alto tasso di allomor- fia siano immagazzinati nel lessico in quanto tali e dispongano di una frequenza elevata. Se consideriamo ora il tipo intermedio, cioè i derivati che selezionano il tema del participio passato italiano, osserviamo come al 9% di types corrispon- de ben il 15% dei tokens complessivi: in altre parole questi derivati sono in maggioranza parole ad alta frequenza, tendenzialmente immagazzinate nel les- sico come tali, e pertanto al massimo trattabili per mezzo di regole lessicali di analisi (cf. Aronoff 1976, Thornton 1988). ————— 11 Va segnalato che di recente Scalise (1996, 304) ha ammorbidito la sua posizione, adottando per il suffisso in questione una rappresentazione complessa [-zione; -ione], in cui “-zione seleziona temi del presente e -ione del participio passato”.

239 Tipo di formazione Sigla Esempi N Types % Types N Tokens % Tokens su su su su tutti quelli tutti quelli i deri- inclusi i deri- inclusi vati nel vati nel conto conto T.verb. in –a + -zione - narrazione 1.379 69,3% 75,4% 169.730 42,3% 49,7% T.verb. in –i + -zione - spedizione 57 2,9% 3,1% 9.042 2,3% 2,6% TOT. - 1.436 72,1% 78,5% 178.772 44,5% 52,3% Tema verb. + -zione PP it. + -ione Y fusione, 99 5,0% 5,4% 29.941 7,5% 8,8% espulsione PP it. +-ione con affr. Yaf assunzione 60 3,0% 3,3% 22.008 5,5% 6,4% TOT. allomorfie 159 8,0% 8,7% 51.949 12,9% 15,2% con base PP it. PP lat. Ylat pressione, 191 9,6% 10,4% 88.631 22,1% 25,9% (+) rimozione Rad. verb. + -ione Yi gestione, 13 0,7% 0,7% 14.171 3,5% 4,1% ribellione Rad. verb. + -ione Yiaf diserzione, 17 0,9% 0,9% 6.139 1,5% 1,8% con affricazione invenzione Tema verb. + -gione Yg impicca- 10 0,5% 0,5% 337 0,1% 0,1% (+) gione Su modello francese Yfr estradi- 3 0,2% 0,2% 472 0,1% 0,1% zione Altre allomorfie Y+ coalizione 1 0,1% 0,1% 1.282 0,3% 0,4% TOT. allomorfie 235 11,8% 12,8% 111.032 27,7% 32,5% con base ≠ PP it. TOT. derivati in- 1.830 91,9% 100% 341.753 85,1% 100% clusi nel conto Derivati senza base X alluvione, 100 5,0% 29.359 7,3% delazione, ustione Base nominale (con o N balneazione, 20 1,0% 1.558 0,4% senza allomorfie) dentizione Base aggettivale (con A concisione, 30 1,5% 6.992 1,7% o senza allomorfie) devozione Opacità semantica L fazione, 11 0,6% 21.874 5,4% rispetto alla base mozione, nazione, stazione TOT. parole non 161 8,1% 59.783 14,9% incluse nel conto TOTALE GEN. 1.991 100% 401.536 100%

Tab. 1: Suffisso -zione/-ione: quadro complessivo delle allomorfie (La Stampa ’97).

240 In ogni caso, per verificare in che misura le diverse ipotesi influiscano sul conteggio della produttività, abbiamo compiuto tre diversi conteggi relativa- mente al suffisso -zione/-ione, che tengono conto di un numero di types via via crescente: il primo comprende le sole formazioni trattabili in termini di tema verbale + -zione; il secondo vi aggiunge tutte le formazioni trattabili con la regola di Scalise PP it. (+affricazione) + -ione; il terzo è ulteriormente esteso a tutte le allomorfie (in particolare 5c e 5d) che sfuggono a entrambe le proposte teoriche. Lo stesso è stato fatto per il caso di -tura, che presenta problemi di forma della regola in tutto analoghi a quelli di -zione. Nel caso di -(n)za, che seleziona come input della regola il tema del parti- cipio presente verbale (cf. Gaeta 1999b), sono stati fatti un conteggio minimo che esclude le allomorfie e uno massimo che le include. Tra le allomorfie re- lative a -(n)za, si possono citare i casi di input costituito dal participio presen- te latino in -iente, come obbedienza, i casi di allomorfia latina del tema ver- bale, come residenza, penitenza, e pochi casi di inserimento di -isc-, come reviviscenza. Infine, gli stessi doppi conteggi con e senza allomorfi sono stati fatti an- che per -aggio e -mento; ma in questi due casi il rilievo numerico delle allo- morfie è così limitato che nel seguito si forniranno solo i dati relativi al conto massimale, con le allomorfie incluse. Tra gli esempi di allomorfie del tema verbale per -aggio si possono citare i francesismi beveraggio, finissaggio, salvataggio; per -mento, l’unico caso quantitativamente rilevante è movimen- to (e derivati), che non presenta il livellamento analogico di -uo- proprio del paradigma verbale, a cui si aggiungono pochi altri casi isolati, come decre- mento, leggibile in sincronia in termini di allomorfia sottrattiva a partire dal tema verbale di decrescere, e l’allomorfia latina in nocumento.

6. I nomi d’azione nella Stampa: come confrontare le produttività Siamo ora in grado di trarre le conclusioni quantitative riguardo alla produt- tività dei vari suffissi di nome d’azione in italiano. Come sottolineato nel §4, un confronto tra i valori di p(N) ha senso solo per valori uguali di N, cioè del numero di tokens dei diversi suffissi: e valori uguali di N corrispondono a dimensioni molto diverse dei corpora nel caso di suffissi con frequenza mol- to diversa. Questo è proprio il caso dei nomi d’azione in italiano: la tabella 2 riporta i dati di frequenza per i tokens dei suffissi in questione, espressi in numero di tokens del suffisso per mille tokens del corpus. I dati sono forniti per entrambi gli anni ’96 e ’97, in modo da evidenziare il grado di stabilità dei dati di frequenza nelle due annate.

241 Si noterà che le frequenze non coincidono completamente per le due an- nate. Lo scarto, che è circa del 6–8%, è però sistematicamente a sfavore dei dati del ’96 e sembra quindi imputabile in buona parte a una maggior quanti- tà di elementi “spuri” in questo corpus, che in effetti è sovrabbondante rispet- to a quello del ’97 di un fattore analogo in termini di tokens totali (vedi nota 3). A conferma di ciò, la fluttuazione tra le due annate risulta meno ampia per i dati di produttività in tabella 3, per i quali il numero di tokens spuri è irrile- vante. Se dunque la differenza non riflette una fluttuazione statistica, come migliore approssimazione per le frequenze andrà preso il dato, più elevato, del ‘97, che anzi risulta ancora lievemente sottostimato, come detto alla nota 4.

Suffisso Frequenza di tokens (‰) La Stampa ’96 La Stampa ’97 -aggio 0,3 0,3 T. verb. + -tura 0,3 0,3 -ura con allomorfi 0,8 0,9 PPres. + -za 2,2 2,3 -(n)za con allomorfi 2,7 2,8 -mento 3,2 3,5 T. verb. + -zione 6,9 7,3 PP it. + -ione 8,8 9,4 -ione con allomorfi 13,1 13,9 Tab. 2: Suffissi dei nomi d’azione in ordine di frequenza crescente Come si vede in tabella 2, i suffissi -aggio e -tura hanno dati di frequenza bas- sissimi: un’intera annata della Stampa contiene meno istanze di -aggio di quelle di -ione (includendo tutti gli allomorfi) che si incontrano nei primi dieci giorni dell’anno! Una disparità così grande nelle frequenze rende difficoltosa l’applicazione del metodo suggerito nel §4, perché non si può ridurre oltre un certo limite la dimensione di un corpus senza che i dati diventino inattendibili statisticamente, e i corpora poco comparabili tra di loro. In pratica, per confron- tare -aggio e -ione non sembra sensato fare appello a un corpus di -ione che consista di un solo chunk di dieci giorni. Bisognerà rinunciare a comparare tra loro direttamente suffissi di frequenze troppo lontane, e ricorrere a suffissi di frequenza intermedia (con cui entrambi possano essere ragionevolmente con- frontati) per stabilire un ordinamento attendibile delle loro produttività. Tenendo presente questo punto, si possono presentare nella tabella 3 i suf- fissi dei nomi d’azione ordinati in termini di produttività decrescente. Nella prima riga della tabella si trova il suffisso -mente, che ovviamente non è un suf-

242 fisso di nomi d’azione, ma è stato preso come termine di paragone in quanto presumibilmente si tratta del suffisso derivazionale più produttivo in assoluto in italiano. I dati quantitativi presentati confermano solidamente questa aspettati- va, così come più in generale si può senz’altro sostenere che l’ordinamento dei suffissi proposto appare intuitivamente più che plausibile. La tabella 3 non presenta i valori di produttività per un unico valore di N, ma per una sequenza di valori crescenti, il più basso dei quali (N = 7000) coin- cide con il massimo ottenibile per un’annata del suffisso meno frequente, cioè - aggio. I valori di p(N) sono ottenuti per interpolazione lineare dai valori di p re- lativi ai corpora progressivi descritti nel §2. Dovunque è stato possibile, si sono affiancati i valori ottenuti indipendentemente per i corpora delle due annate ’96 e ’97, in modo da verificare direttamente la stabilità dei dati. Per N grandi (più o meno grandi a seconda della frequenza dei suffissi), questo non è stato più possibile, perché il valore di p andava calcolato su un corpus di estensione su- periore a un anno (cioè, tutto il ’96 più parte del ’97): in questo caso, l’unico valore di p è riportato al centro delle colonne relative alle due annate. Le caselle in grigio sono quelle con N troppo grande perché ci siano dati disponibili (per i suffissi meno frequenti), o al contrario (per i suffissi più frequenti), con N trop- po piccolo perché il corpus corrispondente abbia dimensioni affidabili. Si è scelto di non scendere sotto una soglia minima di N corrispondente a circa 5 milioni di tokens dell’intero corpus, pari a circa due mesi e mezzo: infatti sotto questa soglia i dati appaiono molto più fluttuanti da un anno all’altro. Come si vede, l’ordinamento tra i suffissi è stabile al variare di N, pur nella diminuzione generale del valore di p al crescere di N (la funzione p(N), come già detto, tende a zero per N tendente ad infinito per qualunque suffisso). Com- plessivamente, si registra una netta cesura tra -mento, -zione/-ione e -ura -tura, tutti chiaramente produttivi, e gli altri due suffissi. Dalla tabella 3 si vede inoltre come la produttività del suffisso -zione/ -ione a parità di N risulti identica indipendentemente dalle allomorfie prese in considerazione. Questo è un risultato molto confortante per la significatività lin- guistica di p. In presenza di un processo globalmente produttivo, infatti, non sa- rebbe desiderabile che l’inclusione delle allomorfie modificasse radicalmente la produttività complessiva, che invece risulta governata, per così dire, dal segmen- to produttivo della regola. Alla luce di questi risultati, diventa anche meno cru- ciale l’incidenza delle scelte teoricamente problematiche discusse estensivamen- te nel §5. Discorso non dissimile è probabilmente valido anche per -tura/-ura, dove l’inclusione delle allomorfie comporta peraltro una apprezzabile diminu- zione della produttività. Purtroppo la bassa frequenza complessiva del suffisso non consente di verificare l’entità di questo effetto per valori di N più alti e quin- di più affidabili.

243

244 L’andamento generale delle funzioni p(N) per un sottoinsieme dei suffissi coinvolti, a partire dai valori di N corrispondenti a due mesi, è mostrato grafi- camente nella figura 3. Si noterà che il numero di punti delle curve corri- spondenti ai diversi suffissi non è costante: per -ura con allomorfi (il suffisso meno frequente tra quelli mostrati in tabella) compaiono le intere due annate, mentre per -ione con allomorfi solo 4 chunks del ’96.

245 La figura 3 mostra chiaramente la notevole vicinanza tra i valori di pro- duttività di -mento e -ione/-zione, così come la coincidenza delle curve per -ione con e senza le allomorfie, a dispetto delle grandi differenze di frequen- za tra gli ultimi due processi, ricavabili dalla tabella 2. La produttività di -ura (allomorfi inclusi), pur valutabile solo per valori di N relativamente piccoli, appare collocarsi con sufficiente sicurezza al di sotto di quelle di -mento e -zione, anche se non a grande distanza. Risultati radicalmente diversi, e decisamente controintuitivi, si otterrebbe- ro se si confrontassero le produttività non a parità di N bensì a parità di cor- pus; cosa che in genere è stata fatta finora, anche se Baayen/Lieber (1991, 823) sono consci del problema. Procedendo in questo modo, si favorirebbero infatti in modo schiacciante i suffissi poco frequenti (data la presenza di N al denominatore nella formula di p): nel caso specifico, i suffissi -ura/-tura e -aggio. Il risultato che ne conseguirebbe è rappresentato in figura 4 per i di- versi corpora progressivi dell’anno 1996; si consideri inoltre la tabella 4, che riporta i valori di p calcolati sui corpora annuali del ’96 e del ’97 e disposti in ordine crescente:

Suffisso p relativa al corpus (‰) La Stampa ’96 La Stampa ’97 -(n)za con allomorfi 0,2 0,3 -ione con allomorfi 1,1 1,0 PP it. + -ione 1,5 1,4 T. verb. + -zione 1,8 1,7 -aggio 2,8 3,5 -mento 3,6 4,2 -mente 6,1 5,8 -ura con allomorfi 6,4 6,2 T. verb. + -tura 16,3 16,3 Tab. 4: Produttività p calcolata sui corpora annuali Si noterà che con questo procedimento, -aggio raggiungerebbe una produtti- vità (francamente implausibile) quasi pari a quella di -mento, e -ura (con al- lomorfi) addirittura leggermente superiore a quella di -mente. Ancora meno accettabile sarebbe l’entità del divario tra i valori per -ura con e senza allo- morfi: il secondo, avendo frequenza di tokens pari a meno della metà del pri- mo, raggiungerebbe valori altissimi di produttività, ben superiori a quelli dell’avverbio -mente. È il paradosso che già van Marle (1992, 154) eviden- ziava a proposito dei suffissi olandesi -ter e -ster (e che si ritroverebbe pari pari, da alcuni conteggi preliminari che qui non riportiamo, per la coppia ita-

246 liana -tore/-trice): un paradosso che in realtà non sminuisce la significatività di p(N) come misura di produttività, ma solo quella di una sua scorretta o in- cauta applicazione.

247 7. Bibliografia

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249

Italiano e francese a confronto: la nozione corporale nelle espressioni figurate Axel Heinemann

Sono molti i modi di dire che s’incontrano leggendo e ancora più numerosi quelli che si usano parlando. Per varie ragioni che non sto ad elencare può capitare che due (o più) lingue, specie se affini, come l’italiano e il francese, usino una stessa immagine per esprimere lo stesso concetto: sans queue ni tê- te – senza capo né coda. Ma non è certo un caso molto frequente. L’italiano e il francese presentano strutture simili a livello lessicale e se- mantico, per cui si potrebbe pensare che sia facile tradurre da una lingua all’altra. Invece non è così, perché sia l’una che l’altra lingua hanno delle proprie espressioni idiomatiche. Infatti, chi al di qua delle Alpi colpisce alle spalle al di là colpirebbe dans le dos. Quando si dice oltralpe rougir jus- qu’aux oreilles, in italiano si arrossisce fino alla punta dei capelli. È facile immaginare in che situazione vengono a trovarsi di volta in volta un italofo- no e un francofono di fronte a tali espressioni. L’ipotesi che mi ha guidato quando ho scelto di parlare del campo seman- tico corporale è che il corpo umano occupa un posto privilegiato nella lingua, come oggetto ma anche come fonte di designazioni. Nel nostro contesto si tratta del corpo umano in tutte le sue condizioni, come lo rappresentano o immaginano la lingua italiana e quella francese. Le locuzioni e i modi di dire che ho raccolto provengono per la maggior parte dai dizionari monolingui contemporanei (Zingarelli 1996, Robert 1995) ma anche da quelli bilingui come ad es. il Boch (19902). Evidentemente l’articolo non pretende di esauri- re tutta la fraseologia relativa all’argomento.

1. La teoria della fraseologia Secondo la terminologia della scuola sovietica (Vinogradov 1947, Amosova 1963) più tardi seguita da quella tedesca (Burger 1973, Pilz 1978, Häusermann 1977), s’intende per fraseologia la paremiologia nel senso più ampio, cioè pro- verbi, locuzioni idiomatiche, frasi fatte, comparazioni fraseologiche e termini fraseologici. Quello che Bally 1909 e Permjakov 1970 denominano cliché. Di tutti questi gruppi, ci proponiamo di trattare qui solo le locuzioni i- diomatiche, le frasi fatte e i proverbi o microtesti. Le locuzioni sono la classe fraseologica per eccellenza. Semanticamente le locuzioni non sono però il ri- sultato dell’amalgama di ciascuno dei loro componenti. Le espressioni idio- matiche sono cristallizzate, non ammettono variazioni e in quanto tipiche di

251 ogni lingua possono avere degli equivalenti in altre lingue, ma non consento- no quasi mai una traduzione letterale. All’interno di una lingua si possono analizzare i fraseologismi da un pun- to di vista sintattico stilistico, morfologico o semantico, a seconda che si tratti di una frase avverbiale, parattatica, figurativa, di un asindeto o di un’allitterazione. Tuttavia la fraseologia è un campo che permette benissimo lo studio comparativo fra due idiomi sia diacronicamente per ricercare un prototipo comune (bibbia, mitologia), sia sincronicamente. La fraseologia sovietica distingue fra gli studi comparativi, cioè studi tra due idiomi affini come per esempio l’italiano e il francese, e tra quelli contrastivi, fra due lin- gue non affini come per esempio l’italiano e l’indonesiano. In generale però i termini contrastivo e comparativo vengono usati come sinonimi. Se si paragonano i fraseologismi di due lingue si constata che ci sono fra- seologismi che hanno un corrispondente esatto nelle due lingue, come per e- sempio: bocca a bocca che corrisponde a bouche à bouche o di bocca in bocca, l’equivalente del francese de bouche en bouche. Altri, al contrario, presentano soltanto un’equivalenza parziale, cioè sono semanticamente e sti- listicamente equivalenti, ma presentano varianti lessicali, grammaticali e an- che varianti che riguardano le immagini, come per esempio: rompere le sca- tole a qd. che equivale a casser les pieds à qn. Altri ancora non presentano nessuna equivalenza. Queste equivalenze dipendono dal fatto che per tutte e due le lingue esiste un prototipo comune o anche dal fatto che ha avuto luogo un prestito da una cultura all’altra. Spesso non si può identificare l’origine del fraseologismo. A volte è possibile anche che i fraseologismi siano sorti parallelamente, soprattutto quelli che riguardano luoghi topici comuni sulla saggezza e sull’esperienza popolare e che si basano su immagini analoghe senza che ci sia stata interinfluenza tra di loro. Dal punto di vista etnologico (Hain 1951, Röhrich 1973) si è voluto vede- re nei fraseologismi unità culturali con valori nazionali inerenti a un’area de- terminata; è innegabile che ci sono alcuni fraseologismi che non hanno equi- valenza in nessun’altra lingua e che sono esclusivi della cultura che li ha pro- dotti, come per esempio Hinz und Kunz in tedesco (ital. “Tizio, Caio e Sem- pronio”). E ce ne sono altri che appartengono al patrimonio comune interna- zionale come per esempio il cavallo di Troia. Per i luoghi topici comuni, come per esempio la sincerità, l’onestà, la cru- deltà, l’ipocrisia, la felicità etc. ci sono fraseologismi con un contenuto seman- tico più o meno equivalente in tutte le lingue. Lo studio comparativo dei fraseo- logismi serbo-croati e tedeschi sull’atteggiamento dei due popoli riguardo alla morte di P. Mikić (cf. Mikić/Skara 1992) non ha notato differenze essenziali.

252 Si pensi in questo contesto a Lakoff/Johnson (1998) che ci fanno rivolge- re l’attenzione all’estensione universale della metafora nonché al ruolo pri- mario e irrinunciabile che ha nella percezione in generale. Gli autori hanno dimostrato che l’attività mentale e linguistica si organizza secondo schemi me- taforici. Blank (1997, 113) mette in rilievo l’importanza della metafora dal pun- to di vista cognitivo e la su capacità di dare una veste “concreta” ai concetti a- stratti. Benché la scuola sovietica neghi qualsiasi specificità nazionale nel siste- ma fraseologico, tuttavia riconosce alcune asimmetrie isolate per cui non ha una spiegazione determinata. Si sono per esempio paragonati fraseologismi russi e tedeschi dove risulta che in tedesco predominano quelli del tema “de- ridere”, mentre in russo abbondano quelli sul tema “servilismo”. Qualche tema, però, appartiene solo a un’area culturale geografica ben de- terminata, come per esempio alcuni costumi tipici dai quali si possono dedurre alcune caratteristiche specifiche. Ci sono caratteristiche internazionali, cioè fra- seologismi, che presentano un’equivalenza totale o parziale nell’altra lingua e poi ci sono quelle nazionali che non hanno equivalenza in nessun’altra lingua.

2. Il corpo nella lingua “Je n’en peux plus, j’en ai plein le dos, mal au cœur, mal au ventre, ça me pèse sur la poitrine et je ne ferme pas l’œil de la nuit. Je suis tout simplement mal dans ma peau et voudrais faire peau neuve [...]” (Brenot 1992, 7–8). È sorprendente quanti fraseologismi riguardino le percezioni sensoriali, nel senso che le immagini si riferiscono a queste percezioni. Quasi tutte le parti del corpo e gli elementi di queste parti vengono usati come fonte poiché “le bien ou le mal-être sont mis en mots, lorsqu’ils s’échangent et se partagent, lorsqu’ils vivent dans la langue du peuple” (loc. cit.). S’immagini di fare un piccolo viaggio fuori e dentro il corpo umano, curiosando fra i vari organi che potrebbero essere l’oggetto di uno studio approfondito; le espressioni i- diomatiche legate agli organi del corpo contengono nomi che, di volta in vol- ta, sono di origine popolare, letteraria o dotta, sono eufemistici o volgari, immediatamente comprensibili o astrusi, tuttora usati o così arcaici da susci- tare incredulità. Vediamo qualche esempio: la barba è simbolo dell’esperien- za, dell’autorità, della qualità e di altre doti analoghe che sono considerate tipiche dell’uomo adulto (appunto con la barba); per antifrasi si trova anche in espressioni che indicano fastidio, noia, monotonia e simili (far venire la barba, essere una barba). O la bocca che si trova in frasi che si riferiscono sia alla funzione della nutrizione, all’atto del mangiare, al senso del gusto, sia alla funzione vocale

253 intesa in senso molto ampio, dal semplice parlare al fare pettegolezzi, al par- lar male, al criticare, etc. C’è da rilevare anche il lessema culo, uno dei ter- mini più interessanti per la vastità dei significati che ricopre, spesso in antite- si fra loro; da espressioni di ingiuria generica, anche in contesti sessuali, pas- sa a indicare paura (avere la stipa, la cacca al culo), fatica (farsi un culo co- sì), maltrattamenti, imbrogli e danni (mettere nel culo), manifestazioni di an- tipatia (faccia da culo); infine è simbolo della fortuna (avere culo) ma anche, in altri contesti, della sfortuna (restare col culo per terra). Come si vede, la lista dei termini sopra elencati potrebbe facilmente esse- re allargata (ci sono per esempio le parti del corpo capello, braccio, dito, cazzo, calcagno, con una vasta fraseologia). Questo nostro contributo è in- centrato intorno alle espressioni del lessema somatico occhio e della sua e- quivalenza œil in francese. Perché proprio occhio? Perché è “l’un des domai- nes principaux du symbolisme corporel. L’œil représente la perception et, métaphoriquement, la connaissance, mais aussi la lumière, le regard, d’où la conscience morale. Chez de nombreux peuples, le soleil est considéré comme l’œil de Dieu” (Rey/Chantreau 1994, 554).

3. L’occhio e la sua fraseologia Ci proponiamo di classificare onomasiologicamente alcune espressioni figu- rate contenenti il lessema somatico occhio nonché d’indicare le sue equiva- lenze francesi. Evidentemente il far rientrare le varie espressioni nelle cate- gorie stabilite non è definitivo. La prima categoria (A.) si riferisce all’Occhio come organo della vista e comprende i seguenti sottogruppi: A.1. L’occhio come vede: anatomia, patologia, fisiologia dell’occhio cavarsi gli occhi se crever les yeux avere un occhio che guarda a destra avoir un œil qui dit merde à l’autre e l’altro a manca A.2. L’occhio tale quale è visto: forma, stato, colore, espressione dell’occhio fare gli occhiacci faire de gros yeux fare degli occhietti vivaci faire des yeux en vrille avere degli occhietti tondi e fissi avoir des yeux en bouton de bottine A.3. L’occhio dell’uomo comparato a quello di un animale avere gli occhi di gazzella avoir les yeux de gazelle avere gli occhi da gufo avoir les yeux de hibou avere gli occhi di lince avoir les yeux de lynx avere gli occhi di triglia avoir les yeux de carpe (de merlan frit)

254 È interessante in questo contesto constatare che la locuzione francese avoir des yeux de chat è resa in italiano con vederci al buio. Il francese prende dunque l’animale stesso per descrivere la caratteristica dell’occhio, mentre l’italiano ricorre all’immagine del buio per sottolineare questa capacità. Lo stesso succede nell’espressione francese avoir des yeux de cochon, dove l’italiano usa semplicemente il diminutivo occhietti, caratteristici dei porci: avere degli occhietti porcini. A.4. L’occhio e la luce aprire gli occhi ouvrir les yeux non chiudere occhio ne pas fermer l’œil (les yeux) in un batter d’occhio en un clin d’œil A.4.1. L’occhio aperto alla luce, immagine di nascita e di conoscenza aprire gli occhi a qd. ouvrir les yeux à qn. aprire gli occhi alla luce ouvrir les yeux à qn. A.4.2. L’occhio chiuso alla luce, immagine della morte, dell’ignoranza, della confidenza (cieca) chiudere un occhio su qc. fermer les yeux sur qc. far qc. a occhi chiusi faire qc. les yeux fermés

La seconda classe B. L’occhio in quanto sguardo è suddivisa come segue: B.1. L’occhio nella sua azione e nella sua funzione di vedere vedere con i propri occhi voir de ses propres yeux con la coda dell’occhio du coin de l’œil guardando negli occhi regarder les yeux dans les yeux covare qd. con gli occhi couver qn. des yeux divorare qd. con gli occhi dévorer qn. des yeux dare una occhiata a qc. parcourir qc. des yeux mettere gli occhi addosso a qd. jeter les yeux sur qn. a occhio nudo à l’œil nu a quattr’occhi entre quatre yeux avere gli occhi in tasca avoir des yeux pour ne pas voir lontano dagli occhi, lontano dal cuore loin des yeux, loin du cœur B.2. L’occhio centro dell’attività mentale. B.2.1. L’occhio strumento d’osservazione. non perdere d’occhio ne pas quitter des yeux dormire con un occhio solo ne dormir que d’un œil avere occhio avoir l’œil (américain) essere tutt’occhi e tutt’orecchi être tout yeux, tout oreilles

255 Si noti in questo contesto che l’espressione francese avoir l’œil aux aguets allo stesso modo di quella ne pas avoir les yeux en face des trous non hanno una corrispondenza somatica in italiano dove si dice rispettivamente stare all’erta e non esssere ben sveglio. B.2.2. L’occhio strumento di giudizio gettare polvere negli occhi jeter de la poudre aux yeux saltare agli occhi sauter aux yeux non credere ai propri occhi ne pas en croire ses propres yeux guardare di buon (mal)occhio regarder qc. d’un bon (mauvais) œil Anche qua c’è da notare che né l’espressione francese se mettre le doigt dans l’œil né quella mon œil! vengono rese in italiano tramite un lessema somati- co: nella prima gli Italiani dicono semplicemente sbagliare di grosso, nella seconda un corno! o stai fresco! B.2.3. L’occhio specchio dell’anima fare gli occhiacci faire de gros yeux avere gli occhi fuori dalle orbite avoir les yeux qui sortent de la tête dare nell’occhio taper dans l’œil

Concludiamo la nostra classificazione con le espressioni ripartite nelle tre se- zioni seguenti: C. L’occhio, oggetto di prezzo, simbolo di richezza costare un occhio della testa coûter les yeux de la tête non avere che gli occhi per piangere ne plus avoir que les yeux pour pleurer per i tuoi begli occhi pour tes beaux yeux D. L’occhio, immagine della pienezza, della sazietà, dell‘ebrezza avere gli occhi più grandi della bocca avoir les yeux plus grands que le ventre lustrarsi la vista se rincer l’œil Per quanto riguarda il francese si potrebbero aggiungere le espressioni être enceinte jusqu’aux yeux e sortir par les yeux che vengono però tradotte in italiano senza ricorrere a un elemento somatico: essere in stato di avanzata gravidanza nel primo caso, dare la nausea o stufare nel secondo. E. L’occhio, oggetto di violenza e di sfortuna gettare il malocchio a qd. jeter le mauvais œil à qn. cavarsi gli occhi se crever les yeux occhio per occhio, dente per dente œil pour œil, dent pour dent

256 4. Conclusione È sorprendente vedere quanto le espressioni figurate con l’autosemantico oc- chio/œil presentino equivalenze a livello di strutture grammaticali. Nella maggior parte l’autosemantico si presenta sotto forma di sintagma preposi- zionale o come complemento diretto. Poche sono le espressioni strutturate in maniera diversa. Le concordanze accertate nel campo delle equivalenze assolute sono ri- conducibili a delle strutture componenziali simili nonché ai processi di fra- seologicizzazione basati su immagini uguali. Evidentemente ci sono comu- nanze interlinguali per quanto riguarda le caratteristiche semantiche. Gran parte dei fraseologismi attingono da un ambito concettuale comune come la bibbia, la letteratura mondiale o l’antichità. Per la genesi di fraseologismi na- zionali sono determinanti particolarità socioculturali della singola comunità linguistica corrispondente. Le differenze tra il francese e l’italiano osservabili a livello paradigmatico riguardano la scelta che l’italiano opera nell’ambito degli autosemantici. Al francese œil corrispondono in italiano tra l’altro vista, sguardo ma anche sostantivi modificati tramite suffissi come ad es. -ata o -atina in occhiata e sbirciatina, accrescitivi come occhiacci o diminutivi co- me occhiolino o occhietti. Gli esempi della cosiddetta “Nulläquivalenz” (cf. Hundt 1994, 99), cioè dell’equivalenza mancante riflettono fraseolessemi verbali con componenti speciali come pronomi ad es. infischiarsene, sbattersene per il francese s’en battre l’œil, parafrasi semplici ad es. non sapere se piangere o ridere per l’espressione francese pleurer d’un œil et rire de l’autre o altri fraseolessemi somatici che non riguardano il campo semantico del vedere (occhiata, vista, sbirciatina), ma altre parti del corpo come nell’espressione italiana arrossire fino alle orecchie (fino alla punta dei capelli) che corrisponde al francese rougir jusqu’au blanc des yeux. Nonostante Wilhelm von Humboldt affermi che le diverse lingue rappre- sentano altrettante concezioni del mondo e che quindi hanno delle fraseolo- gie differenti, bisogna fare attenzione ai fraseologismi comuni nelle varie lingue poiché, come hanno detto Braun e Krallmann (1990, 86), “aus der In- ternationalismusforschung es dann nicht nur nationalsprachlich geprägte, sondern auch intersprachlich geformte Weltansichten gibt. Und diese – ange- sichts der geschichtlichen und politischen Aufgaben unserer Zeit – die glei- che, wenn nicht eine größere Beobachtung und Beachtung verdienen”. Certo, il presente articolo tratta solo una piccola parte delle immense fra- seologie italiana e francese che si basano sull’elemento corporale; speriamo che contribuisca tuttavia a chiarire l’importanza della fraseologia corporale.

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258 Die Flexionsmorphologie in der gesprochenen deutschen Sprache: ein Vergleich zwischen Standard und Substandard Sabine E. Koesters Gensini

Das Thema dieser Untersuchung ist die Morphologie in der gesprochenen deutschen Sprache oder, genauer ausgedrückt, die Flexionsmorphologie in zwei verschiedenen Sprachstilen, und zwar im Standard und im Substandard. Meine Ausführungen gliedern sich in drei Teile: (1) Zunächst erläutere ich den theoretisch-methodologischen Hintergrund der Arbeit (d.h. ich werde sowohl die Forschungsmotivation darlegen, die zu dieser Untersuchung ge- führt hat als auch erklären, was ich unter den Varietäten “Standard” und “Substandard” verstehe und inwiefern mir die hier untersuchten Korpora ty- pisch für die beiden Varietäten erscheinen. (2) Dann stelle ich einige Daten vor, mit denen ich versuche, die Flexionsmorphologie in den beiden Sprach- stilen zu erfassen, um dann am Ende (3) die Daten auszuwerten, indem ich sowohl beide Sprachstile mit der geschriebenen Sprache vergleiche als auch auf allgemeinere Problematiken zurückkomme, die auf Grund dieser Unter- suchung in anderem (vielleicht teilweise kritischerem) Licht betrachtet wer- den können.

1. Der theoretisch-methodologische Hintergrund der Untersuchung In der deutschen Sprachwissenschaft ist die Erforschung der gesprochenen Sprache bereits seit mehreren Jahrzehnten1 ein zentrales Thema. Allein be- züglich der Unterschiede zwischen den beiden diamesischen Varietäten kön- nen zwei bedeutende Forschungstraditionen unterschieden werden. Die erste beschäftigt sich mit der Erarbeitung einer angemessenen Forschungsmetho- dik zur Analyse der verschiedenen Arten gesprochener Sprache (man denke hierbei etwa an die Arbeiten zum sogenannten Umgangsdeutsch, wie Ruoff 1973, Bichel 1983, Schank/Schoenthal 1976, Steger 1984 oder aber die Stu- dien zur Konversationsanalyse, während die zweite sich der Beschreibung der linguistischen Merkmale der gesprochenen Sprache zuwendet. In diesem Rahmen hat die syntaktische Ebene besonderes Interesse erweckt (man denke ————— 1 Das Bewusstsein der vielfältigen Unterschiede zwischen der geschriebenen und der gesprochenen Sprache geht natürlich chronologisch dem Anfang einer wirk- lichen Forschungstradition der gesprochenen Sprache voraus. Man denke hier nur an den wichtigen Beitrag Otto Behaghels zum sogenannten “Umgangsdeutsch” (1899).

259 etwa an die Arbeiten von Leska 1965, Engel 1995, Sommerfeldt 1988). Von diesen Studien abgesehen, auf die hier aus einsichtigen Gründen nicht weiter eingegangen werden kann, kommen wichtige Erkenntnisse zur gesprochenen Sprache aus zwei weiteren Forschungsgebieten, und zwar den Studien der deutschen Phonetik und Phonologie und denen der deutschen Dialektologie. Während die erste nicht nur bedeutende Merkmale der deutschen Standard- sprache aufgezeigt (Meinhold 1973, Meinhold/Stock 1980, Kohler 1979, 19952, Wiese 1996, Dressler 1985), sondern auch weniger artikulierte Sprachstile analysiert hat, wie eben die deutsche Umgangssprache (Bresson 1982, Froitzheim 1984, Seidelmann 1976, Dressler/Leodolter/Cromec 1976, Dressler/Wodak 1982, Moosmüller 1991), untersucht die deutsche Dialekto- logie seit mehreren Jahrzehnten nicht nur die verschiedenen Dialekte der deutschen Sprache, sondern auch die regionale und überregionale deutsche Umgangssprache. So stammen die größten Sammlungen empirischen Sprachmaterials und die umfangreichsten Untersuchungen, sowohl auf der phonetisch-phonologischen Ebene als auch in der Lexikologie (vgl. Besch et al. (edd.) 1983, Mattheier 1983b, 1990, Mattheier/Wiesinger (edd.) 1994, Heike 1964) aus dem Bereich der Dialektologie. Vor diesem Hintergrund erscheint die Tatsache beachtlich, dass eine sys- tematische Untersuchung zur Morphologie der gesprochenen Sprache noch aussteht. Der Grund hierfür liegt mit größter Wahrscheinlichkeit in dem still- schweigenden Akzeptieren zweier Hypothesen, und zwar: (1) Die Hypothese Raths (1985), derzufolge sich die Morphologie der ge- sprochenen Sprache nicht wesentlich von der der geschriebenen Sprache un- terscheidet.

“Gesprochene und geschriebene Sprache unterscheiden sich nicht hinsichtlich ihrer zugrundeliegenden Grammatik. Diese Hypothese dürfte heute allgemein akzeptiert sein.” (Rath 1985, 1652). Rath zufolge würde also auch für die Morphologie der gesprochenen Sprache die Beschreibung gelten, die in den traditionellen Grammatiken geliefert wird. (2) Die These einiger Phonetiker (wie Kohler 1979, Meinhold 1973), nach der die für die natürliche Sprache üblichen artikulatorischen Reduktio- nen nur dann stattfänden, wenn durch sie keine Vermengung morphologi- scher Formen produziert würden. Man sehe hierzu beispielsweise die folgen- den Ausführungen Kohlers zur artikulatorischen Reduktion des zentralen Vokals in der 3. Ps. Sg. des Präteritums.

260 “In der 3. Pers. Sing. des Präteritums ist bei enklitischer Position des Subjekt- pronomens eine Elision des [´] möglich, wenn sich dadurch keine Vermen- gung mit dem Präsens ergibt...” (Kohler 1979, 18). In anderen Worten, die Fachliteratur erweckt den Eindruck, die Morphologie der gesprochenen deutschen Sprache sei einerseits identisch mit der der ge- schriebenen Sprache, andererseits bilde die Tatsache, dass ein phonetisches Segment morphologische Informationen enthält, eine Sperre für die artikula- torische Reduktion. Beide Annahmen stehen nicht nur in einem krassen Wi- derspruch zu meinen persönlichen Intuitionen, sondern würden auch bedeu- ten, dass sich die deutsche Sprache in diesem Bereich wesentlich von ande- ren Sprachen wie dem Italienischen oder dem Französischen unterscheidet, für die die bedeutenden Unterschiede zwischen den beiden diamesischen Va- rietäten seit Jahren belegt und beschrieben worden sind (vgl. u.a. Koch/Oes- terreicher 1990, Holtus/Radtke (edd.) 1985). Da meines Wissens nach die oben zitierten Hypothesen noch nicht systematisch überprüft worden sind, erscheint es sinnvoll, die Problematiken anhand des hier vorliegenden Sprachmaterials zu untersuchen. Bevor die empirischen Daten vorgestellt werden können, gilt es noch kurz das definitorische Problem der Varietäten des Standard und Substandard zu behandeln. In diesem Zusammenhang berufe ich mich weiterhin grund- sätzlich auf die Interpretation Berrutos (1995), in der die Verflochtenheit der diatopischen, diastratischen und diaphasischen Faktoren besonders deutlich zum Ausdruck kommt. In diesem Sinne geht Berruto davon aus, dass jede Äußerung gleichzeitig unter allen variationslinguistischen Aspekten zu defi- nieren ist. Folglich versteht er unter Substandard:

“l’insieme della variazione diatopica, diafasica e diastratica che si colloca al di sotto del livello della lingua standard, presa come metro di riferimento sui tre assi, orientati ciascuno da un alto a un basso” (Berruto 1995, 150). Während der jeweils untere Bereich der Achsen, mit Hilfe derer das Varia- tionsgefüge einer jeden Sprache dargestellt werden kann, als sprachlicher Substandard gilt, können als Standard (und hier als gesprochener Standard) etwa die Äußerungen verstanden werden, die im mittleren Feld der Achsen angesiedelt würden. Diese Erwägungen haben die Auswahl des zu analysierenden Sprach- materials weitgehend bestimmt. Während für die Varietät des Standards auf bereits veröffentlichtes Sprachmaterial zurückgegriffen werden konnte, liegt für den Substandard meines Wissens kein öffentlich zugängliches Korpus vor, das den oben aufgeführten Kriterien gerecht wird. Folglich ist das Kor- pus für den Substandard von mir persönlich zusammengestellt und bearbeitet

261 worden. Im folgenden werden die beiden Korpora, auf die sich die hier be- sprochene Untersuchung stützt, kurz vorgestellt.

1.1. Das Korpus für den Substandard Bezüglich des Substandards berufe ich mich hier auf ein etwa vierstündiges Korpus, das ich selbst anlässlich meiner Dissertation in allgemeiner Sprach- wissenschaft erstellt habe. Da es mir in diesem Falle darum ging, ein mög- lichst prototypisches Exemplar von Substandard zu analysieren, unterlag die Materialsammlung recht strengen Kriterien. So sollte Sprachmaterial unter- sucht werden, das nicht nur in allen Variationen “unterhalb” des Standards anzusiedeln ist, sondern in dem die Merkmale des Substandards extra deut- lich zu erkennen und bestimmen sind. Aus diesem Grunde wurden Ge- sprächssituationen untersucht, in denen die extralinguistischen Größen wie die soziokulturelle, regionale Herkunft der Sprecher und die Gesprächssitua- tion deutlich “markiert” waren. Konkret wurden acht Personen ausgesucht, die über eine minimale Schulbildung und Berufsausbildung verfügen (ohne Hauptschulabschluss oder Ausbildung), alle mittleren Alters (30–35 Jahre), alle seit Generationen in derselben dialektalen Gegend ansässig (Köln und Bonn). Diese Personen wurden bei sich zu Hause oder an ihrem Arbeitsplatz in ein längeres Gespräch verwickelt (3–4 Stunden), von dem der (vor-)letzte Teil untersucht wurde. (Auf diese Weise war sichergestellt, dass sich die Sprecher an die Aufnahmesituation gewöhnt hatten.) Der Inhalt und Verlauf der Gespräche war durchaus frei, meist ging es um autobiographische Schil- derungen. Alle an der Untersuchung beteiligten Personen kannten mich seit mehreren Wochen, wussten, dass unser Gespräch aufgenommen wurde, wussten aber nicht, dass es einer linguistischen Analyse unterzogen würde. Zusammenfassend kann man sagen, dass sowohl die diastratische als auch die diaphasische und die diatopische Variation deutlich “markiert” ist, und das Korpus von daher geeignet erscheint, um die linguistischen Merkmale für diese Art von Substandard zu bestimmen.

1.2. Das Korpus für den Standard Bezüglich des gesprochenen Standards habe ich ein Korpus analysiert, das an der Universität Kiel (Institut für Phonetik und digitale Sprachverarbeitung) unter der Leitung von Prof. Kohler erstellt worden ist. Es handelt sich um Sprachmaterial (ca. 50 Minuten), welches auf sogenannten map-tasks beruht, d. h. zwei einander nicht bekannte Personen sprechen in geräuschisolierten Laboren miteinander, um Arbeitstreffen zu vereinbaren. Die Sprecher stam- men alle aus Norddeutschland und sind größtenteils Studenten der Universi-

262 tät. Die Gesprächssituationen sind natürlich eindeutig gestellt, die Sprecher verhalten sich wie Geschäftspartner und dies verleiht den Gesprächen einen mittleren Grad an Formalität. Der entscheidende Vorteil dieses Korpus ist, dass die Hintergrundgeräusche, in jeder natürlichen Gesprächssituation un- vermeidbar, hier so gut wie ausgeschlossen sind und das Sprachmaterial aus diesem Grunde einer akustischen Analyse unterzogen werden konnte. Zu- sammenfassend denke ich, dass diese Gespräche jeweils im mittleren Bereich der Achsen dargestellt würden, die die einzelnen Variationssphären beschrei- ben und aus diesem Grunde erscheinen sie mir geeignet, um die linguisti- schen Merkmale des gesprochenen Standards zu untersuchen. In beiden Korpora dient als Grundlage für diese Untersuchung eine breite phonetische Transkription, die mittels IPA (International Phonetic Alphabet) realisiert wurde. Im Vergleich zu einer einfachen orthographischen Tran- skription kann auf diese Weise der inneren Variabilität, die jede (gesproche- ne) Sprache auszeichnet, besser Ausdruck verliehen werden.

2. Die Flexionsmorphologie im gesprochenen Standard und Substandard Da es in diesem Rahmen nicht darum gehen kann, konkret die Flexionspro- zesse für die einzelnen Kategorien vorzustellen,2 beschränke ich mich im fol- genden auf eine allgemeine Beschreibung der morphologischen Varianten. In anderen Worten wird in dieser Untersuchung vorgestellt, inwiefern die Fle- xionsprozesse tatsächlich eine Veränderung der lexikalischen Formen bewir- ken und, darauf aufbauend, welche Funktion der Flexion im hier untersuch- ten Kommunikationsvorgang zukommen kann. Zu diesem Zweck sind die Verbalflexion und die Nominalflexion getrennt betrachtet worden. Zunächst zur Verbalflexion:

2.1 Die Verbalflexion Die Untersuchungen zur Verbalflexion sind auf die morphologischen Kate- gorien der Person und des Numerus beschränkt worden, da die anderen Kate- gorien im Korpus für den Standard nur unzureichend vertreten waren. Um den Ausgangspunkt meiner Analyse zu verstehen, mag folgende The- se aus dem Duden (1984) dienen:

————— 2 Für den Substandard ist dies in meiner Dissertation (Koesters Gensini 1998) un- ternommen worden, deren überarbeitete Fassung in Kürze auch in deutscher Spra- che erscheinen wird.

263 “Steht das Subjekt in der 1. Person, dann steht auch das Verb in der ersten Person; das gleiche gilt für die 2. und 3. Person… Wir beobachten also eine strenge, vom Subjekt her bestimmte Abhängigkeit. Die Wahl der Verbform richtet sich in Person und Numerus nach dem Subjekt.” (Duden 1984, 190). Um die Beziehung zu überprüfen, die in diesen Korpora tatsächlich zwischen Verbform und Subjekt besteht, ist für beide morphologischen Kategorien der zahlenmäßige und prozentuale Anteil dreier verschiedener Arten von Allo- morphen3 berechnet worden, und zwar: a. der Anteil der monosemen Allomorphe, d.h. der Allomorphe, die im Flexionspa- radigma nur ein einziges Morphem realisieren;4 b. der Anteil der polysemen Allomorphe, d.h. der Allomorphe, die verschiedene Morpheme der Person ausdrücken5 und c. der Anteil der Nullallomorphe.6 Die folgenden Tabellen (1, 2) stellen die Ergebnisse dieser Untersuchung zu- nächst bezüglich der Kategorie der Person für den gesprochenen Standard und Substandard vor.

Monosem Polysem Nullallomorph Total [ge˘st] [ge˘t] [ge˘] Verbalphrase 62 189 125 376 % 16,5% 50% 33,2% 100% Tab. 1: Der Ausdruck der Kategorie der Person im Standard

Monosem Polysem Nullallomorph Total Verbalphrase 1697 1866 1747 5310 % 32% 35% 33% 100% Tab. 2: Der Ausdruck der Kategorie der Person im Substandard ————— 3 Wie allgemein in der Sprachwissenschaft üblich verstehe ich hier unter Allo- morph die konkret realisierte Variante eines Morphems. In diesem Sinne sind die hier vorgefundenen Allomorphe für die 1. Ps. Sg. Präs. die Formen a) [´] und b) das Nullallomorph (Ø). 4 In diesem Sinne ist im deutschen geschriebenen Standard ein Beispiel für ein mo- nosemes Allomorph der Repräsentant für das Morphem der 2. Ps. Sg. Präs. Indi- kativ ‘-st’ (du geh-st, du kauf-st), da diese Form im betreffenden Paradigma kein anderes Morphem ausdrückt. 5 Ein Beispiel für ein polysemes Allomorph im Paradigma des geschriebenen Präs. Indikativ ist die Form ‘-en’ (geh-en, kauf-en), die sowohl das Morphem der 1. Ps. Plur. als auch das der 3. Ps. Plur. ausdrückt. 6 Als Beispiel für das Nullallomorph mag die häufige Bezeichnung der 1. Ps. Sg. Präs. Indikativ in der gesprochenen Sprache (ich [ge˘; kaUf]) gelten. 264 Aus den ersten beiden Tabellen geht deutlich hervor, dass die im Duden aus- gedrückte Hypothese der strengen Abhängigkeit zwischen Subjekt und Verb- form bezüglich der Person für die gesprochene Sprache, wie sie in den bei- den hier untersuchten Korpora erscheint, nur sehr bedingt haltbar ist. Allein ein Sechstel der Verbformen im Standard und ein Drittel der Verbformen im Substandard lassen eine eindeutige Beziehung zum Subjekt erkennen, das heißt, allein in diesen Formen ist durch die reine Verbform eindeutig erkenn- bar, um welche Person es sich im Satz handelt. In einem weiteren Drittel im Substandard und in gut 40% im Standard kann man zwar eine Beziehung zwischen der Verbform und dem Subjekt erkennen, doch erscheint diese Be- ziehung nicht “streng”, in anderen Worten das bezeichnete Allomorph drückt mehrere Formen im Paradigma aus.7 Interessant erscheint aber in diesen Tabellen besonders der große Anteil der Nullallomorphe, die sowohl im Standard als auch im Substandard insge- samt ein Drittel der Verbformen betragen. Das heißt, ein Drittel der Verbfor- men unterliegt (im Vergleich zur kanonischen Ausspracheweise, wie sie in Aussprachewörterbüchern wie dem Duden 1990 vorgesehen wird) einer arti- kulatorischen Reduktion und enthält somit keinerlei Art morphologischer In- formation bezüglich der Person. Diese Daten, so erscheint es mir, erwecken einen durchaus anderen Ein- druck, als im Duden vermittelt wird. Wenden wir uns nun der Kategorie des Numerus zu. Man sehe hierzu Tab. 3 und 4:

Monosem Polysem Nullallomorph Total [ge˘´] [ge˘t] [ge˘] Verbalphrase 241 10 125 376 % 64% 3% 33,2% 100% Tab. 3: Der Ausdruck der Kategorie des Numerus im Standard8

————— 7 Am Rande mag angemerkt werden, dass meiner Meinung nach die zahlenmäßigen Unterschiede zwischen Standard und Substandard wahrscheinlich wenigstens teil- weise durch die Art des Korpus für den Standard erklärt werden können, der, wie gesagt, aus einem Gespräch zweier Personen besteht, die sich siezen. Bekanntlich ist die Höflichkeitsform im Deutschen mit der 3. Ps. Plur. formidentisch. 8 Ein Beispiel für ein monosemes Allomorph ist in diesem Fall die Form [-´], da sie nur für den Sg. benutzt wird, polysem ist hingegen die Form [-t], da sie so- wohl für die 3. Ps. Sg. Präs., als auch für die 2. Ps. Plur. Präs. verwendet wird.

265 Monosem Polysem Nullallomorph Total [ge˘´] [ge˘t] [ge˘] Verbalphrase 2312 1251 1747 5310 % 43,5% 23,6% 33% 100% Tab. 4: Der Ausdruck der Kategorie des Numerus im Substandard Auch was den Numerus betrifft, kann man nicht grundsätzlich von einer strengen Abhängigkeit zwischen Verbform und Subjekt sprechen. Im Ver- gleich zur Kategorie der Person wird jedoch deutlich, dass der Numerus ein- deutiger ausgedrückt wird als die Person. Dennoch kann man sagen, dass im Substandard über die Hälfte der Verbformen keine wirklich nützliche Infor- mation über den Numerus enthalten, und zwar nicht nur die Nullallomorphe, sondern auch die polysemen Allomorphe. (In einer Kategorie, die nur zwi- schen zwei Größen, dem Singular und dem Plural unterscheidet, besteht letztlich kein qualitativer Unterschied zwischen einer polysemen Information und gar keiner Information.) Im Standard ist dieser Anteil geringer, auch wenn die Vermutung nahe liegt, dass die Erklärung hierfür weniger in dem Unterschied zwischen den Varietäten zu sehen ist, als vielmehr in dem oben angedeuteten häufigen Erscheinen der 3. Ps. Plural.

2.2. Die Nominalflexion Die Analyse der Nominalflexion ist in diesem Rahmen auf die Kategorie des Kasus beschränkt, welche im Gegensatz zu anderen morphologischen Kate- gorien eine ausschließlich syntaktische Funktion besitzt. Um darzustellen, welche Rolle der Nominalflexion in den hier untersuchten Korpora zu- kommt, erscheint es zunächst bedeutend aufzuzeigen, wie die verschiedenen Kasusformen in diesen Korpora verteilt sind. Man sehe hierzu Tab. 5 und 6:

Nom. Gen. Dat. Akk. Total NP 356 3 67 118 541 % 65,4% 0,6% 12,3% 21,6% 100% PP – – 148 29 177 % – – 83,6% 16,4% 100% TOT. 356 3 215 147 721 % 49,4% 0,4% 29,8% 20,3% 100% Tab. 5: Die Verteilung der Kasusformen in den Nominal- (NP) und Präpositionalphrasen (PP) im Standard

266 Nom. Gen. Dat. Akk. Total NP 5395 29 245 2062 7731 % 69,8% 0,35% 3,2% 26,7% 100% PP – 5 1234 375 1614 % – 0,3% 76,45% 23,2% 100% TOT. 5395 34 1479 2437 9345 % 57,7% 0,36% 15,8% 26,1% 100% Tab. 6: Die Verteilung der Kasusformen in den Nominal- (NP) und Präpositionalphrasen (PP) im Substandard

Die Tabellen drücken aus, dass der mit Abstand am häufigsten gebrauchte Kasus der Nominativ ist (ca. 50 bzw. 57 % der Nominalphrasen). Diese Zahl gibt Auskunft über die syntaktische Struktur der Korpora: Die Sätze unterlie- gen einem ausgesprochen einfachen Satzbau, was aus der Tatsache hervor- geht, dass im Standard auf jede Nominalphrase im Nominativ (in der Regel also auf jedes Subjekt) ziemlich genau ein Objekt kommt, im Substandard sind die Nominativphrasen sogar zahlreicher als die Objekte. Die folgenden Tabellen (7, 8) stellen nun die Ergebnisse der Untersu- chung vor, auf welche Weise die Casus obliqui ausgedrückt werden. Auch in dieser Untersuchung habe ich drei Typen von Allomorphen unterschieden, und zwar: a. die expliziten Allomorphe, d.h. die Allomorphe, die eine spezifische, sie vom No- minativ unterscheidende Form aufweisen;9 b. die sogenannten anderen Allomorphe, d.h. die Allomorphe, die eine andere Form haben, als der Standard vorsieht (d.h. unter anderem auch die Nullallomorphe, wenn der geschriebene Standard ein explizites Allomorph vorsieht);10 c. und schließlich die Nullallomorphe (wie z.B. im Akkusativ Femininum, Neutrum und im Plural).11

————— 9 Ein Beispiel für ein explizites Allomorph ist im Deutschen der Repräsentant ‘-es’ in der Genitivform ‘eines Mannes’. 10 ? ? ? Vgl. z. B.: [ ICze˘ ajnnag´l] (“Ich seh ein Nagel.”) statt [ ICze˘ ? ajn´nnag´l] (“Ich seh einen Nagel.”). 11 Vgl. z. B.: “Eine Frau sieht mich.” und “Ich sehe eine Frau.”.

267

Explizit Anders Nullallomorph Total Genitiv 3 – – 3 Dativ 185 30 – 215 Akkusativ 35 12 100 147 TOTAL 223 42 100 365 % 61,1% 11,5% 27,4% 100% Tab. 7: Allomorphe für den Kasus im Standard Aus Tab. 7 wird zunächst deutlich, dass in gut einem Drittel der Phrasen ent- weder keine morphologische Information enthalten ist, die das Objekt von ei- nem potentiellen Subjekt unterscheidet (27%), oder aber eine Art der Infor- mation vorliegt, die nicht diejenige ist, die ein Zuhörer auf Grund der ge- schriebenen Grammatik erwartet (11,5%). In den verbleibenden 60% der Phrasen hingegen ist die morphologische Information explizit. Dennoch darf die soeben geschilderte Situation nicht zu einem Missver- ständnis verleiten. Die Tatsache, dass eine Phrase über explizite morphologi- sche Information verfügt, heißt nicht unbedingt, dass die Allomorphe keiner artikulatorischen Reduktion unterliegen. Um dies zu verdeutlichen, ist die Distribution einiger Allomorphe genauer berechnet worden. Man sehe an dieser Stelle nur ein einziges Beispiel: das Allomorph, dem im geschriebenen Standard die Form -en entspricht, kommt in diesem Korpus 411 mal vor. Von diesen 411 Allomorphen haben allerdings nur 10 tatsächlich die Form [´n] (also ein zentraler Vokal und ein dentaler nasaler Konsonant), in den verbleibenden 401 Fällen ist nur der nasale Konsonant erhalten. Mit anderen Worten, die morphologische Information wird durch ein phonetisches Seg- ment ausgedrückt, das in der Gesprächskette über ein minimales Ausmaß verfügt.12 Die Situation im deutschen Substandard wird durch Tab. 8 veranschaulicht: Explizit Anders Nullallomorph Total Genitiv 29 5 – 34 Dativ 1190 289 – 1479 Akkusativ 320 117 2000 2437 TOTAL 1539 411 2000 3950 % 39% 10,4% 50,6% 100% Tab. 8: Allomorphe für den Kasus im Substandard ————— 12 Aus offensichtlichen Platzgründen kann das hier veranschaulichte Problem in die- sem Rahmen nicht weiter vertieft werden. Für eine Diskussion dieses Problems vgl. Koesters Gensini 2001.

268 Tab. 8 ist eindeutig zu entnehmen, dass der prozentuale Anteil der expliziten Allomorphe im Substandard deutlich geringer ist als im Standard und dies scheint mir ein wesentlicher Unterschied zwischen den beiden Varietäten zu sein. Gut 60% der Casus obliqui im Substandard enthalten entweder gar kei- ne morphologische Information, die sie von einem potentiellen Subjekt un- terscheidet, oder aber sie weisen eine Form auf, die in jedem Falle nicht der Form entspricht, die der geschriebene Standard vorsieht. Um nun schließlich noch ansatzweise darzustellen, inwiefern sich die Fle- xionsprozesse tatsächlich auf die einzelnen Wortformen auswirken, liefert die folgende Tabelle den Anteil der expliziten Kasusmarkierung auf die Ge- samtzahl der Nominal- und Präpositionalphrasen:

Explizit Anders/Null Total Standard 223 498 721 % 30,9% 69,1% 100% Substandard 1539 7806 9345 % 16,5% 83,5% 100% Tab. 9: Anteil der expliziten und andersartigen/Nullallomorphe im Stan- dard und Substandard13 Aus Tab. 9 geht deutlich hervor, wie wenig sich letztlich die Flexionsprozes- se auf die Form der Wörter auswirken. 70% der Nominalphrasen im Standard und sogar 83% der Nominalphrasen im Substandard hätten dieselbe Form, wenn es in der deutschen Sprache keinerlei Nominalflexion gäbe. Um aber die Hypothesen zu überprüfen, die ursprünglich zu dieser Unter- suchung geführt haben, gilt es nun, die Formen, die in der geschriebenen Sprache ein explizites Allomorph aufweisen, zu denen in Beziehung zu set- zen, die auch in den hier untersuchten Korpora tatsächlich ein explizites Al- lomorph aufweisen. Man sehe hierzu die letzten Tabellen (10 und 11):

Explizit Anders Total Genitiv 3 – 3 Dativ 185 30 215 Akkusativ 35 12 47 TOTAL 223 42 265 % 84% 16% 100% Tab. 10: Allomorphe für den Casus Obliquus im Standard ————— 13 Für Beispiele zu diesen Formen vgl. die Fußnoten 10, 11 und 12.

269 Explizit Anders Total Genitiv 29 5 34 Dativ 1190 289 1479 Akkusativ 320 117 437 TOTAL 1539 411 1950 % 78,2% 21,8% 100% Tab. 11: Allomorphe für den Casus Obliquus im Substandard Die Tabellen zeigen zunächst deutlich, dass sich die gesprochene Sprache (in beiden hier untersuchten Varietäten) auf bedeutsame Weise von der Gram- matik der geschriebenen Sprache unterscheidet. Im Standard weist etwa jedes 6. Morph, im Substandard sogar etwa jedes 5. Morph eine andere Form auf, als die, die der Hörer auf Grund seiner Kenntnisse der geschriebenen Sprache erwartet. Sicherlich nicht der einzige, dennoch aber der vorrangige Grund hierfür scheint mir die artikulatorische Reduktion zu sein, der das akustische Signal in der Gesprächskette unterliegt. Und hiermit sind wir auf die zweite in diesem Rahmen zu überprüfendende Hypothese zurückgekommen. Aus den oben angeführten Daten geht recht offensichtlich hervor, dass die gram- matische Information eben grundsätzlich kein Hindernis für die artikulatori- sche Reduktion bildet.

3. Auswertung der Ergebnisse Zusammenfassend kann also festgestellt werden, dass die Morphologie der gesprochenen Sprache (und hier unterscheiden sich die beiden untersuchten Varietäten des Standards und Substandards nur graduell) durchaus erhebliche Unterschiede im Vergleich zur geschriebenen Sprache aufweist.14 Aufgrund dieser Tatsache stellt sich natürlich nun unvermeidbar die Frage, was dies für den hier untersuchten Kommunikationsprozess bedeutet. In anderen Worten, welche Folgen entstehen aus den oben angeführten Daten für die Rezeption des Signals von Seiten des Hörers? Die Antwort auf diese Frage ergibt sich zunächst aus dem Verhalten der Gesprächspartner, und hier zeigt sich ein- deutig, dass die Verständigung der Sprecher keineswegs durch die im Ver- gleich zur geschriebenen Sprache fehlende oder andersartige morphologische ————— 14 Dieses kann an sich nicht erstaunen, man denke nur daran, dass die geschriebene Sprache unter anderem auch durch die morphologische Information all diejenigen Elemente kompensieren muss, die ihr im Vergleich zur gesprochenen Sprache fehlen, wie etwa die Prosodie und wesentliche extralinguistische Elemente (vgl. hierzu De Mauro 1995, Koesters Gensini 2001).

270 Information behindert wird.15 In anderen Worten, die interne Variabilität der gesprochenen Sprache16 stellt sich nicht als ein Defekt des Sprachsignals dar, sondern vielmehr als eine seiner – bisher weniger bekannten – natürlichen Eigenschaften. Und diese Tatsache wirft ein allgemeines Problem auf, und zwar die Frage, welcher Stellenwert der Variabilität der Sprache zukommt, eine Frage, die meines Erachtens auch in der Varietätenlinguistik nicht er- schöpfend behandelt worden ist. Der Großteil der sprachwissenschaftlichen Arbeiten beruht auf einem Modell, demzufolge die Sprache als ein festes, invariables System verstanden wird, das, wenn überhaupt, unter bestimmten Bedingungen, wie etwa im re- gionalen oder unformalen Sprachgebrauch oder aber in der gesprochenen Sprache auf eine variable Art benutzt wird. In diesem Sinne gilt als Aus- gangspunkt für jegliche Erforschung der Sprache das Modell der (geschrie- benen) Standardvarietät und es werden dann die Abweichungen von diesem Modell in den einzelnen (diamesischen, diastratischen etc.) Varietäten be- schrieben. Die Variabilität der Sprache stellt sich somit als Summe der Ab- weichungen von der Standardvarietät dar und wird auf die reine Sphäre der Performanz zurückgeführt. In diesem Sinne wird die Variabilität nicht nur als ein dem Sprachsystem externes Element aufgefasst, sondern erscheint letzt- lich auch ohne Auswirkungen auf das Sprachsystem. Die hier vorgestellten Daten sind mit dieser Art des Sprachmodells kaum zu vereinbaren. Gerade im Vergleich der beiden gesprochenen Varietäten konnte deutlich aufgezeigt werden, dass es zwar durchaus Unterschiede zwi- schen dem gesprochenen Standard und dem gesprochenen Substandard gibt, dass diese Unterschiede aber nicht absoluter, sondern vielmehr gradueller Natur sind. Das heißt, die hier vorgestellten Unterschiede zwischen der Mor- phologie der gesprochenen Sprachvarietäten und den traditionellen Beschrei- bungen in den Grammatiken der deutschen Sprache scheinen in erster Linie auf die Dichotomie gesprochene/geschriebene Sprache zurückzuführen zu ————— 15 Wenn die hier angeführten Daten also konkret den Eindruck vermitteln, dass der morphologischen Information in der sprachlichen Realität durchaus nicht die vor- rangige Bedeutung zukommt, die man ihr traditionell zugeschrieben hat, so schei- nen sie aber außerdem auch den Theorien Recht zu geben, die davon ausgehen, dass das sprachliche Zeichen durchaus kein festes, in sich geschlossenes System darstellt, sondern vielmehr ein intrinsisch variabler Teil eines untrennbaren Zu- sammenspiels von Sprecher, Hörer, sprachlichem Kotext und pragmatischem Kontext ist. 16 Die These, dass sich die interne Variabilität der gesprochenen Sprache nicht nur auf die phonetische Ebene beschränken lässt, wird u.a. in Koesters Gensini (2000 und 2001) diskutiert.

271 sein. Hier schließt sich natürlich sofort die Frage an, welcher Stellenwert der gesprochenen Sprache im Diasystem der (deutschen) Sprache zukommt. Wenn hier auch sicherlich nicht der geeignete Ort ist, erneut den in pan- chronischem, historischem, soziologischem, psychologischem und funktio- nellem Sinne primären Charakter der gesprochenen Sprache aufzuzeigen (vgl. hierzu z.B. De Mauro 1971), so ist es dennoch erstaunlich, wie wenig Auswirkungen die Erforschung der gesprochenen Sprache letztlich auf die Sprachtheorien hat. Eine bedeutende Ausnahme in diesem Sinne ist Ferdi- nand de Saussure (1916), dessen Erwägungen sowohl zur gesprochenen Sprache als auch zur Sprachvariation auch im Hinblick auf die hier unter- suchte Problematik außerordentlich aktuell erscheinen. Fasst man nämlich, so wie Ferdinand de Saussure (im Gegensatz zu vielen ihn missverstehenden Strukturalisten) es vorsieht, die Sprache als ein von den Faktoren der temps und masse parlante bestimmtes System auf (vgl. De Mauro 1995, Coseriu 1971), so kann die Sprachvariation in ihren vielfältigen Aspekten keineswegs als ein oberflächliches, der reinen Performanz angehöriges Phänomen ver- standen werden. Sie erscheint vielmehr als ein internes Merkmal des Sprach- systems, welches eben gerade auf den Einfluss der Faktoren temps und masse parlante auf das Sprachsystem zurückzuführen ist. Die Sprachen bilden so- mit äußerst komplexe und keineswegs geschlossene Strukturen, die sich eben gerade durch ihre intrinsisch variable Natur auszeichnen. Dies ist eine der Voraussetzungen dafür, dass die Sprecher ihre Sprache in jedem einzelnen Kommunikationsakt ihren individuellen, stets veränderlichen und nie völlig vorhersehbaren Bedürfnissen anpassen können. Kurz, es ist eine der Voraus- setzungen dafür, dass die Sprache als Kommunikationsmittel funktionell ist. In anderen Worten, nur und eben gerade dadurch, dass sie variabel sind, er- halten die Sprachen ihren pragmatischen und semantischen Wert (vgl. De Mauro 1995). Wenn man von diesem Ansatz ausgeht, erscheint die Sprach- variation durchaus nicht als ein (zu vernachlässigendes) Oberflächenphäno- men, sondern vielmehr als ein primäres Merkmal der historisch natürlichen Sprachen, und als solches als notwendiger Ausgangspunkt für jegliche Sprachbeschreibung.

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274 Romanische und deutsche Toponyme am Südabhang des Gebirgszuges der Churfirsten (Kanton St. Gallen, Schweiz) Überlegungen zum Gepräge einer alpinen Namenlandschaft im räto- romanisch-deutschen Kontaktraum Julia Kuhn

1. Einleitung Die Namenlandschaft um den ist romanisch geprägt.1 Besonders deutlich wird dies an den Namen zahlreicher Fluren und Orte in Tallage, die auf ein lateinisches Etymon zurückgeführt werden können (siehe im einzel- nen Kuhn, im Druck). Es fällt nun auf, daß ganz im Gegensatz dazu die Ber- ge und Berggipfel stark deutsch geprägt sind, und sich so als Toponyme deutschen Ursprungs inmitten der romanischen Namenlandschaft im wahrs- ten Sinne des Wortes abheben. Als Beispiele seien etwa die Namen der Churfirsten und angrenzender Gipfel genannt: Nägliberg (Koordinaten: 735- 223; 2163 m ü.M.); Schären2 (Koord.: 736-223; 2171 m ü.M.); Wart3 (Koord.: 737-223; 2068 m ü.M.); Frümsel4 (Koord.: 738-223/4; 2263 m ü.M.); Brisi5 (Koord.: 739-224; 2279 m ü.M.); Zustollen6 (Koord.: 740-224; ————— 1 Das Gebiet wurde um das Jahr 15 v. Chr. von den Römern erobert und wurde in der Folge romanisches Siedlungsgebiet. Das hier entstandene romanische Idiom war eine frühe Form des Rätoromanischen. Durch den Zuzug germanischer Sied- ler wurde das Gebiet sukzessive verdeutscht. Die Verdeutschung wird zwischen 1300 und 1400 nach Chr. angesetzt. Entsprechend den Siedlern ist die Namen- landschaft des Gebiets v.a. geprägt von einer älteren, romanischen Namenschicht und einer jüngeren, germanischen Namensschicht. 2 Schären < schweizerdeutsch Schär, in Bergnamen für scherenartig spitze Felsbe- bilde, besonders Gipfel, gebraucht; man vergleiche Scheerhorn (Hilty 1983, 219). 3 Namen für hochgelegene Geländepunkte (Bergweiden, Übergänge, Burgen) mit der Bedeutung “Ort, wo man ausspäht, wo man ausschauen kann” (Hilty 1983, 221). 4 Frümsel dürfte als stark zerrissener, aufgeworfenener Berg und Felskegel auf eine Form frumisal (zu altdeutsch frum “vorwärts”, althochdeutsch frummen “vorwärts bringen”) zurückgeführt werden: die Grundbedeutung des Namens wäre dann “der Vorstehende, Vorschiessende, Aufgeschichtete” (Hilty 1983, 217). 5 in der Churfirstengruppe gehört vielleicht zum schweizerdeutschen (beson- ders toggenburgischen) Brisi m. “Heidekraut”, entsprechend seinen weiten Gras- und Heidegebieten am Nordhang (Hilty 1983, 216). 6 Zuestoll ist als “Felskuppe daneben” [neben dem Schibenstoll(en)] [...] aufzufas- sen; man vergleiche mittelhochdeutsch zuestôz “Anbau, Nebengebäude” +

275 2235 m ü.M.); Schibenstoll7 (Koord.: 740-224; 2234 m ü.M.); Hinterrugg (Koord.: 741-224; 2306 m ü.M.); Tristencholben8 (Koord.: 743-224; 2159 m ü.M.); Höchst (Koord.: 744-223; 2024 m ü.M.); Sichelchamm (Koord.: 745- 222; 2269 m ü.M.); Gamsberg (Koord.: 746-222; 2384 m ü.M.).9 Die Reihe dieser Namen legt nun die Annahme nahe, daß die Benennung der Berggipfel erst relativ spät, durch deutsche Siedler,10 erfolgte. Die Situation ist somit die folgende: die günstigeren, tieferen Lagen sind zu einem guten Teil romanisch benannt, die höchsten Gipfel tragen weitgehend deutsche Namen. Die Frage die sich nun stellt ist, in welcher Sprache die dazwischenliegende Stufe, die Alpstufe, benannt wurde. Greift man die Alpstufe südlich der Churfirsten (sowie in westöstlicher Richtung etwas darüber hinaus) heraus, reihen sich die folgenden Namen aneinander: Gurtimon, Laubegg, Stäfeli, Hag, Gäsi, Säls, (Alt) Stofel, Schwaldis, Langegg, Schrina, Rugg11, Grund, Chlaffenbo- den, Palis, Tschingel, Tieregg, Tschänna, Büls, Brunnen, Gampalon.12 Frei- lich mögen hier Namen wie Laubegg, Hag, Gäsi, Langegg, Rugg, Grund, Chlaffenboden, Tieregg und Brunnen für den (schweizer)deutschsprachigen Betrachter durchsichtig sein. Weniger klar sind dafür die Namen Stäfeli, Säls, Schwaldis, Schrina, Palis, Tschingel, Tschänna, Büls, und Gampalon, auf deren Herkunft und Bedeutung im folgenden näher eingegangen werden soll.

schweizerdeutsch Stoll(e)(n) “Stütze, Unterlage”, in Namen als Geländebezei- chnung, “Felskuppe, schmaler, hoher (stützenartiger) Fels, besonders wenn er ein- zeln steht” (Hilty 1983, 219). 7 Schweizerdeutsch Schîbe “Scheibe”, in Namen häufig bei scheibenartigen Gebil- den + schweizerdeutsch Stoll(e)(n) (Hilty 1983, 219). 8 Tristencholben enthält als reiner Bergformname das in alpinen Namen häufige schweizerdeutsche Tristen “Kegel” (ursprünglich “kegelförmiger Haufen Heu oder Streue”, eigentlich “Haufen von Gedroschenem”) und Cholben “Kolben, Keule” (Hilty 1983, 220). 9 Eine Ausnahme in dieser Reihe stellt Selun (Koord.: 737-224; 2204 m ü.M.) dar, ein Toponym, das schon Hilty (1963, 296 ff.) romanisch erklärt und zu lat. SOLUM “Boden”, SOLAMEN stellt. Hilty zeigt plausibel, daß es sich bei die- sem, einen Boden benennenden Namen, wohl um den ursprünglichen Namen ei- ner tieferliegenden Alp gehandelt haben mag, der hinaufgewandert sei. 10 Die Verdeutschung ist in diesem Raum im 14. Jhd. anzusetzen. 11 Für Rugg könnte eine romanische Herleitung < lat. RUNCU, deverbale zu lat. RUNCARE “jäten, roden” in Betracht gezogen werden, doch soll aufgrund des Realbefundes hier der deutschen Deutung < dt. Rücken der Vorzug gegeben werden. 12 Die Reihung der Namen erfolgt hier (im Einleitungsteil) nach ihrer geographi- schen Lage von Westen nach Osten. Im Namenteil wird die alphabethische Rei- hung der Namen vorgenommen.

276 2. Onomastischer Teil 2.1. BÜLS13 [pTls, ts ~, bis uf ~, ts ~ Und, uf ~, go ~]; VORDERE ALP BÜLS [fordIri Alp pTls, Uf d ~, Uf dr ~, fU dr ~ ] / HINDERE ALP BÜLS [hIndIri Alp pTls], Alp auf zwei einander zugeneigten mächtigen Felsköpfen, auf Terras- sen gelagert, die seitlich durch stark ausgeprägte Eggen deutlich abgegrenzt sind. Nördl. von Walenstadtdorf. 1400 m ü.M./1480 m ü.M. Koord.: 742, 180-222, 820 / Koord.: 741, 790-223, 210.

2.1.1. Urkundliche Belege 1466 püls, büls, pils (“alb p., b. bach, ze p.”) OBA Walenstadt, Uk Nr. 16 1466 püls (“alb p.”) OBA Walenstadt, Uk Nr. 16, 23. Juni 1466 *1542 (Kopie 1565) büls OBA Walenstadt, Uk Nr. 73, 15. April 1565 1609 Bülß (“die Alpp Bülß”) OBA Walenstadt, Uk Nr. 98, 4. Oktober 1609 nach 1609 Pulß Kamm (“Alpung Inn P.”) OBA Walenstadt, Uk, Nr. 5, Schachtel C 1801 Büls HK Walenstadt, Nr. 1067

2.1.2. Lautliche Wertung der urkundlichen Belege Die urkundlichen Belege lassen zumeist auf eine Ausspracheform *psls schließen, wovon lediglich die Form *pils (1466) mit entrundetem (Ton)- vokal sowie Pulß (1609) mit entpalatalisiertem Vokal abweichen.

2.1.3. Bisherige etymologische Deutungen DRG 2, 583: Bülsalp Walenstadt < vorröm. *BULIUM “Trog” (REW 1193 b; RN 2, 54), rtr. bügl (E); bigl (C), begl (S) Götzinger 1891, 85: Büls Walenstadt

2.1.4. Besprechung und etymologische Deutung Dem im DRG angeführten Ansatz von vorröm. *BULIUM14 als Etymon ist zuzustimmen. Lat. *BULIUM (vorröm.) “Trog”, insbesondere “Brunnentrog,

————— 13 Hierzu auch das Kompositum Bülserchamm.

277 Futtertrog” (REW 1193 b; RN 2, 54), rtr. bügl (E), bigl (C), begl (S) + Plural -s. Der Name, der mit “bei den Trögen, bei der Viehtränke” übersetzt werden kann, ist in Graubünden, aber auch in den nördlich angrenzenden verdeutsch- ten Gebieten, gut vertreten, was Schorta (DRG 2, 583) durch die Tatsache erklärt, daß Brunnentröge, die im Dorf, am Wege oder an der Weide liegen, einprägsame Punkte in der Landschaft sind, die jedermann kennt und sich so zur Benennung von Fluren anbieten. Hierher zu stellen ist auch der Name Püls Grabs (Stricker 1974, 212f.). Andere Reflexe von *BULIUM in Unterrätien sind außerdem Falpalas War- tau (Stricker 1981, 35 ff.), Purlerau Wartau (op. cit. 365 ff.), Plätsch Sevelen (< BULIUM + -ACEU) (Vincenz 1983a, 267 und Vincenz 1992a, 49) und Pöls Gams (Vincenz 1992a, 49), Bölsbrunna, Bölsbünt, Bölsfeld, Bölsgass Eschen (Stricker/Banzer/Hilbe 1999, Bd. 5, 91).

2.2. GAMPALON [kampalg, dr ~, uf em ~, uf e ~, fBm ~, fUr em ~], Weide, früher Wiese, über Lüsis, nördl. von Tscherlach. Sie befindet sich auf einem langgezogenen, ebenen Platz am Fuße einer Steilhalde. 1370 m ü.M. Koord.: 743, 7-222, 6.

2.2.1. Etymologische Deutung Der erste Namenteil Gamp- ist zu lat. CAMPUS “Feld” (REW 1563; RN 2, 66; DRG 3, 241), rtr. champ (Eo.), chomp (Eb.) zu stellen. Der zweite Teil des Namens erinnert an lat. LONGUS “lang” (REW 5119; RN 2 190), rtr. lung (E), liung (S). Bei dieser Deutung bliebe allerdings der in der heutigen Namenform enthaltene Zwischentonvokal -a- ohne Erklärung. Die Verbindung CAMPU + LONGU15 ist häufig belegt, wobei bei den Bündner Namen der in Gampalon auftretende Zwischentonvokal in der Re- gel fehlt. Schon Stricker (1974, 67 und 76 f.) diskutiert dieses Problem aus-

14 Das Ergebnis von lat. U-´[ ist in unserer Gegend nicht einheitlich. Vgl. Gafadur Quarten, wo es Regression zu u (< ü) zeigt, im Gegensatz zu Ingglasür Sevelen (*CLUSURA) und → Büls Walenstadt, in denen die palatale Stufe erhalten ist. Bei letzerem kann das urspr. palat. l die Rückentwicklung verhindert haben (vgl.: DRG 2, 538). 15 Im St. Galler Oberland: < Gabluem Wangs (Vincenz 1992b, 62), Gapluem Wart- au (Stricker 1981, 139 ff.), ev. < Gaplan Buchs (Vincenz 1983a, 57f.), < Gampa- long Grabs (Stricker 1974, 67), ev. Gamilann Grabs (op. cit. 76 f.). Diese Ver- bindung ist für Graubünden bezeugt (RN 2, 67) und erscheint auch in Tirol, so bei Innsbruck Kaplum Volders, Geplum Ampaß (Stricker et al. 1999 Bd. 5, 103); für Südtirol nennt Finsterwalder (1990f., 218) urk. 1314 Gamplung bei Meran.

278 führlich am Beispiel der Namen < Gampalong und Gampilann Grabs und führt die folgenden beiden möglichen Deutungen an, die uns auch für das hier besprochene Gampalon passend erscheinen: a) Lat. CAMPUS “Feld” (REW 1563; RN 2, 66; DRG 3, 241), rtr. champ (Eo.), chomp (Eb.) + -ELLU + -^NE b) Lat. CAMPUS “Feld” (REW 1563; RN 2, 66; DRG 3, 241), rtr. champ (Eo.), chomp (Eb.) + -ELLU + lat. LONGUS, wobei durch die Akzentbedin- gungen des Dt. aus artr. *kampèl lúng > *kàmpellúng > *kàmpe- lúN entstanden sein kann, wobei hier die Übernahme des rtr. velaren *-N als alemannisches *-n anzusetzen ist.

2.3. GURTIMON [kFrtimG, dr ~, ufI ~, der obIr ~, unde ~], Wildheuplatz und Lichtung in bewaldetem Gebiet auf der Egg. 1260 m ü.M. Koord.: 733,250-222,090.

2.3.1. Etymologische Deutung a) Spätlat. CURTINUM (DRG 4, 582), adj. Ableitung von CURTIS < COHORS16 (REW 2032; FEW 2, 849; RN 2, 101), curtin (E), curtgin (S) “eingefriedetes Grundstück, meist neben dem Hause, Einfang, Baumgarten, Ziergarten, Pferch” (DRG 4, 582) + -^NE. Wobei ursprüngliches *gurti- nUn > *gurtimUn dissimiliert werden mußte, und auslautendes -n spä- ter gefallen sein muß. b) Lat. COHORS, -ORTE (REW 2032; FEW 2, 849; RN 2, 101), rtr. cuort “Hofraum, Hof, Alpstafel”17 + DE + lat. MONS (REW 5664, RN 2, 208), rtr. munt “Berg” (E), “Höhe, Haufen” (S). Die heutige Namenform kann aus einem artr. *cUrt de munt mit Fall des auslautenden Okklusivs - t nach Nasal -n- entstanden sein.

————— 16 Cf. DRG 4, 585: Für CURTINUM “ist ursprünglich wohl eine adjektivische Funktion anzunehmen, wobei mit pratum curtinum die nahe bei der CURTIS, beim Hof, liegende, ausschließlich durch diesen genutzte und infolgedessen ein- gezäunte oder ummauerte Wiese gemeint ist. Wesentlich ist die Abgrenzung von der übrigen, mit der Servitut der Gemeindesatzung belasteten Flur und allenfalls gegenüber der Allmende. Daraus erklärt sich die leichte Übertragbarkeit auf ande- re eingehegte Parzellen bis hinauf zum Viehlagerplatz auf der Alp. Im Vergleich zu cuort scheint curtin in Bünden nie einen Gebäudekomplex, einen Gebäudeteil und auch nicht einen zu einem Wohn- oder Wirtschaftsbau gehörenden Platz be- zeichnet zu haben.” 17 Diese letzte Bedeutung ist auf Flurnamen beschränkt (vgl.: RN 2, 101).

279 2.4. PALIS [palGs], breite Egg, die einen Boden bildet, zwischen Klaffenböden und Riet- boden, nordöstl. der Alp → Schrina, westl. der Alp → Tschingle. 1630-1650 m ü.M. Koord.: 739, 8-223, 6.

2.4.1. Urkundlicher Beleg 1801 Pallis HK Walenstadt, Nr. 61.

2.4.2. Bisheriger Vorschlag zu einer etymologischen Deutung Götzinger 1891, 85: Balis Walenstadt, Name ist romanisch.

2.4.3. Etymologische Deutungsvorschläge a) Personenname PAULUS (RN 2, 583) + -RNU + -s, wobei artr. -íns ins Deutsche normal als -js übernommen worden und durch Entnasalierung zu > -is geworden sein kann.18 Die Benennung nach einem früheren Besitzer Na- mens Paul ist gut möglich.19 Es läge hier, wie im Falle von → Schwaldis Be- nennung nach einem Personennamen vor. b) Lat. PALUS “Sumpf” (REW 6183; RN 2, 229; FEW 7, 530), rtr. pa- lü(d) (E), paliu (S) + -s. Auch in Graubünden sind ähnliche Reflexe zu die- sem Etymon belegt, wie z. B. Davos Palis Medel Lucmagn (RN 2, 230). Die Benennung der Flur als “Sumpf, sumpfiger Boden” ist gut vorstellbar, zumal in unmittelbarer Nähe Rietboden, quasi als deutsches Namenpendant, gelegen ist.

2.5. SÄLS [(Alp) sIls, d ~, Uf dr ~, Uf d ~, fo dr ~], Eigene (Kuh)alp von Quinten mit neuer, gut ausgestatteter Alphütte. Unterhalb der Churfirsten gelegen. Süd- lich unterhalb wird die Alp von steilen Felsabbrüchen begrenzt. Im Westen

————— 18 Eine ähnliche Entwicklung des Suffixes beobachtet auch schon Stricker (1974, 1 s.v. Amasis Grabs), wobei beim Grabser Namen die Entnasalierung durch Dissi- milation zum Nasal des Stamms erklärt werden kann, die in Palis allerdings nicht gegeben ist. Die Endung –is kann auch deutschen Ursprungs sein, und den Geni- tiv der Diminutivform, ähnlich dem Graubündner Namen Paulis Zipfel Says (RN 2, 583), markieren. Im Falle von Palis müßte ein ursprüngliches, begleitendes Appellativ wie Gut oder Wiese gefallen sein. 19 In Liechtenstein enthält der Name Balishof St. Margarethen (Stricker et al. 1999 Bd. 5, 391) den Personennamen Paul.

280 und Osten grenzt die Alp an bewaldetes Gebiet. Das Gelände ist steil. 1413 (Hütte) – 1600 m ü.M. Koord.: 736,145-222,185.

2.5.1. Urkundliche Belege 1577 Sältz/Sälis OBA Quinten, Uk 1710 alb Säls, alp Selß OBA Quinten, Rod

2.5.2. Lautliche Wertung Die Belege reflektieren den Anlaut in einer artr. Ausspracheform *sIl-, der Auslaut erscheint als *-ts, *-lis und *-ls.

2.5.3. Bisherige etymologische Deutung Hilty u.a. 1983, 219: “Säls wahrscheinlich romanisch; nicht befriedigend er- klärt.” Schlatter 1913, 89: Sälsalp, Alp am Südabhang der Kurfirsten < SALIX Götzinger 1891, 74: “Sälsalp. Quarten, unter den Churfirsten. Es liegt nahe, den Namen dieser Alp mit lat. SALIX, rtr. salisch, salsch, Weide, in Zusammenhang zu bringen. Oder liegt ein Personenname darin? vgl. das bekannte Bündnerge- schlecht Salis.”

2.5.4. Besprechung obiger etym. Deutungen sowie Deutungsvorschläge a) SALIX ist aufgrund der palatalen Färbung des Tonvokals der Form Säls von dem Namen fernzuhalten. Lat. SALIX (REW 7542; RN 2, 299) zeigt so- wohl in den appellativischen Reflexen im heutigen Rätoromanischen, so rtr. salsch (E), salisch (S) als auch in Flurnamen, die von SALIX abgeleitet sind den Tonvokal [a], so in Bünden (RN 2, 299) wie im Kanton St. Gallen, zum Beispiel < Saltschinen Buchs (Vincenz 1983a, 293), Salez (Vincenz 1992a, 118), urk. Schalzinis Vilters (Vincenz 1992b, 72). Sachlich ist gegen eine Herleitung aus SALIX “Weide” nichts einzuwenden, da beispielsweise die (Netz-)Weide im Alvier- und Churfirstengebiet auf einer Höhe zwischen 1270 m und 2347 m ü.M. anzutreffen ist. b) Vorröm. *silia “langer Ackerstreifen” (RN 2, 313)20, rtr. saglia (E), seglia (S) + -s. Die Entwicklung von T > vlat. e in geschlossener Silbe > E ————— 20 Mit diesem Etymon erklärt Karl Finsterwalder (1990f., 115) den Namen Sels, Sel- si bei Terlan in Südtirol < vorrom. SILIA “langer Ackerstreifen”.

281 ist regelmäßig (Lutta 1923, 52 und 55). Der Abfall von auslautendem -ia und der Hinzutritt von -s an dieser Stelle ist auch beim Graubündner Namen Sils im Engadin (RN 2 op. cit.) zu beobachten. Allerdings stellt sich die Frage, ob auf der Seehöhe von Säls, einem Alpgebiet in 1413–1600 m ü.M., die Be- nennung einer Flur als “langer Ackerstreifen” wahrscheinlich ist. c) Nicht auszuschließen ist ein Zusammenhang mit lat. SELLA “Sessel, Sattel” (REW 7795; N 2, 308), rtr. sella (E), siala (S), allg. auch “Bergüber- gang”.21 Ein lautlich erklärbarer Weg führt über Abfall des etymologischen -a und hinzutritt von -s zur heutigen Namenform. Allerdings ist der Wegfall von etymologischem -a an keinem der für Graubünden im RN(2, 308) ange- führten Beispiele nachzuvollziehen. Für eine Alp ist die Benennung mit SELLA “Sattel” sachlich schwer vorstellbar.

2.5.5. SÄLSFEEDER [sIlsfgdIr, d ~, Uf dr ~, Uf d ~], Der Alp Säls vorgelagerte Geländestufen mit steilen Felswänden und Abbrüchen. Dazwischen liegen relativ ebene, kleinere, bewachsene Stufen. 1000–1400 m ü.M. Koord.: 735/6-222.

2.5.6. Etymologische Deutung → Säls + lat. VETERE “alt” (REW 9292; RN 2, 208), rtr. veider, -dra (E), veder, -dra (S). -fcdär ist in unterrätischen Flurnamen häufiger Reflex von lat. VETERE, so in < Montfeder Grabs (Stricker 1974, 182); Frastafeders Franstanz (Tiefentaler 1968, 102), Stafelfeder Frastanz (ders., 204), Stellfe- der Nenzing (ders., 206); Amapfeder Gams (Stricker 1976, 153);

2.6. SCHRINA [(alp) SrGnI, d ~, Uf der ~, Uf d ~], Alp am Walenstadterberg, in einer bei- nahe kesselartigen Lage, am Fuß von Felsköpfen (das Obersäß befindet sich ————— 21 Freundl. Hinweise von Dr. V. Vincenz.

282 über den Felsköpfen). Umfaßt auch die westl. gelegene Egg, sehr mäßig an- steigend. In der Mulde weiter ebener Boden, auf dem Hütten stehen. 1360 m ü.M. Koord.: 737/738-222,7.

2.6.1. Urkundliche Belege 1515 Erschrinen (“Staffelgnossen zu E.”) OBA Walenstadt, Uk Abt. Schwaldis 1712 Erschrinen (“Stöß alp Ihn E. [gelegen]”) OBA Walenstadt, Uk, Abt. Schwaldis 1746 schriner alp (“gegen der s.”) OBA Walenstadt, Uk Nr. 24 v, Buch Nr. 10 1749 Alp Schrinen OBA Walenstadt, Uk Nr. 37 v, Buch Nr. 10 1801 Schrinen HK Walenstadt, Nr. 1066

2.6.2. Lautliche Wertung Die urkundlichen Belege geben ein nicht uneinheitliches Bild. Die urk. For- men von 1515 und 1712 reflektieren *erSrGnI anlautendes er- ist in den Belegen von 1746 und später gefallen. Für die etymologische Deutung ist von einer artr. Aussprachform *erSrGnI auszugehen.

2.6.3. Bisherige etymologische Deutungen Vincenz 1983a, 166: Schrina Walenstadt < lat. ACEREUS op. cit, 240 N: Schrina Walenstadt < lat. ACER, dazu vlat. Adj. ACE- REUS, rtr. ascher (E), ischi (S) + -INA Vincenz 1983b, 25: Schrina Walenstadt < lat. ACER + -INA Hilty u.a. 1983, 220: Schrina < lat. acerina “Ahornbestand” Götzinger 1891, 90: Schrinenalp Walenstadt

2.6.4. Besprechung der vorgeschlagenen Deutungen Der von Hilty und Vincenz vorgeschlagenen Deutung ist zuzustimmen.

2.6.5. Etymologische Deutung Lat. ACER “Ahorn” (REW 91; RN 2, 3 f.), rtr. ascher (E), ischi (S) + -RNA. So kann von einem artr. *aSerínα ausgegangen werden, aus dem durch Aphärese des Anlautvokals und Schwund des zwischentonigen Reduktions- vokals die heutige Namenform entstehen konnte. In der Belegreihe ist die Aphärese des Anlautvokals erst ab dem urkundlichen Beleg von 1746 zu be-

283 obachten. Zuvor reflektiertes anlautendes Er- weist unetymologischen Ein- schub des Liquids -r- auf, eine Erscheinung, die in der Vortonsilbe nicht un- üblich ist.22 Der Namentyp ist in der Romania Submersa Unterrätiens häufig anzutreffen.23

2.7. [ALP] SCHWALDIS [Alp SwDldis, die ~, Uf dr ~, Uf d ~, fo dr ~] Alp oberhalb der Weide → (Alt) Stofel gelegen. Im oberen Teil beginnt das Gelände teils waldig, teils felsig zu werden. Die Alp ist zum Teil überbaut, zum Teil bewaldet und von einzelnen Bäumen bestanden. Westlich der Alp verläuft eine kammartige Er- hebung. Im Osten verläuft ein kleines Tälchen, das von einem Bach durch- flossen wird. Nördlich hinter der Alp erheben sich steil und felsig die Süd- Abhänge der Churfirsten. 1434 m ü.M. Koord.: 737,1-222,8.

2.7.1. Bisherige Erwähnung Götzinger 1891, 90: Schwaldis [Alp] Walenstadt.

2.7.2. Zur etymologischen Deutung PN Oswald, bzw. dessen Kurzform Schwald (RN3, 139) + -is (< -INU + -s cf. → Palis). Auch andere Toponyme des Untersuchungsgebiets lassen sich auf einen PN, an den die Endung -is angefügt ist, zurückführen. Der Perso- nenname könnte Auskunft über frühere Besitzverhältnisse geben.

2.8. STÄFELI [StIfIli, es ~, Bm ~, B ts ~], kleiner Weideplatz, auf dem zuweilen Galtvieh weidet und lagert. 1800 m ü.M. Koord.: 736,16-216,32.

2.8.1. Etymologische Deutung Lat. STABULUM “Stall” (REW 8209; RN2, 322), rtr. stavel, stabel, stebel (E), stavel (S) “Platz bei der Sennhütte auf der Alp (Alpläger)”, auch “Wei- destufe einer Alp mit dazugehörigen Gebäuden”, manchmal “Alpgebäude al- lein”.

————— 22 Vgl. Vincenz 1992b, 21. 23 Zur Verbreitung cf. Kuhn 2001, s.v. Naserina I.

284 Das Wort fand als Lehnwort schwdt. Stafel, Stofel, Stavel (ID 10, 1394 ff. Zinsli 1984, 584; Hug 1988f., 3.272 f.) Eingang ins Schweizerdeutsche und bezeichnet hier die “Alpweide, Sammel-, Ruheplatz des Alpviehs, Melkplatz, Alp im engeren Sinn eines besiedelten Alpbodens, Hütten mit den umliegen- den Weidegebieten, Alpstation (einzelner Ort der Gesamtalp), wo man sich zeitweilig aufhält, Gebäude in der Alpwirtschaft”. Von der Häufigkeit, mit der dieses Wort vorkommt, zeugen auch die zahlreichen Flurnamen, die in unserem Gebiet mit Stafel gebildet wurden: Stafelbord, Stafelwand, Mornerstafel, Stafelgaden (Koord.: 733,78-216,35). Stäfeli ist eine nach deutschem Wortbildungsmuster gebildete Diminutiv- form. Andere STABULUM-Reflexe für Unterrätien sind: Alten Stofel Wartau (Vincenz 1983a, 3), Stafanell Buchs (Vincenz 1983a, 121), Stafanell Sevelen (Vincenz 1983a, 304), Stofeli I+II Sevelen (Vincenz 1983a, 304), Stofel Rüthi, Salez, Lienz (Vincenz 1992a, 174f., 125, 149) und Stöfeli Frümsen (Vincenz 1992a, 125).

2.9. (ALT) STOFEL [nlt StGfel, der ~, Bn ~, Bm ~, fBm ~], Weide unterhalb der Alp → Schwaldis, am Waldrand über den Felsen. 1250–1280 m ü.M. Koord.: 737, 130-222, 500.

2.9.1. Etymologische Deutung Die Deutung des Namens Alt Stofel schließt an die Deutung von → Stäfeli an. Während Stäfeli diminutivisch von alem. Stofel, Stavel deriviert ist, re- flektiert Alt Stofel das Basismorphem, an das dt. Adj. alt24 hinzugetreten ist.

2.10. TSCHÄNNA [tSInI, dr ~, ab em ~, Bm ~, Uf e(m) ~, B ~], Wald auf einem massigen Fels- klotz zwischen Isoliten und Tschännatobel, nordöstl. Walenstadterbergdorf. Auf diesem Felsklotz liegt weiter einwärts auch Hinter-Büls. Der Wald aber

————— 24 Dt. alt bedeutet in der Mundart grundsätzlich das gleiche wie in der Hochsprache, also den Gegensatz zu jung oder neu (vgl. auch schon Hug/Weibel 1988f., 1, 106). Heinrich Schmid (1980, 130) weist darauf hin, daß in einigen Fällen hinter alt auch rom. alt “hoch” verborgen sein kann. Dies wird hier kaum der Fall sein, da auch der zweite Namenbestandteil aus einem im Alemannischen gebräuchli- chen Appellativ besteht (die Tatsache, daß es sich hierbei um ein Lehnwort han- delt, kann außer Acht gelassen werden).

285 ist von Hinter-Büls aus nur über eine schmale Weidegg erreichbar, da er durch das tief eingeschnittene Tobel fast abgeschnitten ist. 1200–1400 m ü.M. Koord.: 741, 560-222, 760.

2.10.1. Urkundlicher Beleg 1609 Tschennen OBA Walenstadt, Uk Nr. 98

2.10.2. Lautliche Wertung der Namenform und des Belegs Nur ein Beleg steht zur Verfügung, der eine artr. Ausspracheform *tSDne reflektiert.

2.10.3. Zur etymologischen Deutung Als Etymon ist lat. CENTENARIUM “Gut, dessen Zins in Hundertsteln be- rechnet wurde” (RN 2, 90), rtr. tschantaner (S) “Jahrhundert” in Erwägung zu ziehen. Bei diesem Ansatz ist ein *tSEntanér o.ä. erwartetes Ergebnis (vgl. auch das zuvor angeführte rtr. Appellativ tschantaner). Eine Entwick- lung des Nexus nt > n ist möglich, was zu einem Resultat *tSEnanér füh- ren konnte, woraus durch Elision des Zwischentonvokals *tSEnnér entste- hen konnte. Aufgrund der anderen Betonungsverhältnisse im Deutschen ist ein Akzentsprung auf die Anlautsilbe möglich, was zu dem Ergebnis *tSDne führen konnte. Die karge Beleglage bringt allerdings kein Zeugnis für eine derartige Entwicklung. Klarer liegen (teils aufgrund der Beleglage, teils aufgrund der heutigen Namenform) die Verhältnisse bei anderen Namen aus dem Kanton St. Gallen, die ebenfalls zu CENTENARIUM zu stellen sind. So beispielsweise Tschenner Vasön, urk. schentenar (Camenisch 1962, 27 f.), < Tschintenär Bad Ragaz, < Tschintenär Sargans und Mels (alle drei Camenisch 1962, 28), < Tschint(e)neren Sargans (Bolliger-Ruiz 1990–91, 264/5) sowie Tschenner Valens, urk. Schentner und Tschentner (Schlatter 1913, 3). Von den Realia her stellt sich die Frage, ob die Annahme eines Gu- tes in diesem felsigem Gelände gerechtfertigt ist. Eventuell muß Namenüber- tragung angenommen werden, sonst ist aufgrund der sachlichen Gegebenhei- ten die Deutung nur eingeschränkt wahrscheinlich.

2.11. TSCHINGLE [tSBngIl, ts ~, Uf ~, fU ~, bis Uf ~, B dr ~, ix gu go ~], Schmaler, langge- streckter Alpboden mit steilen Weidhängen, nördlich des → Walenstadter- bergs. Pt. 1526. Koord.: 740, 770-223, 57.

286 2.11.1. Urkundliche Belege 1542 Tschinglen OBA Walenstadt, Uk Nr. 73, 28.April 1565 1609 Tschingell (“den Schwamm uf dem T.”) OBA Walenstadt, Uk Nr. 98, 4. Oktober 1609 1801 Tschinglen HK Walenstadt, Nr. 1068

2.11.2. Bisherige Erwähnung Götzinger 1891, 23: Tschíngelnalp G. Walenstadt

2.11.3. Etymologische Deutung Lat. CINGULUM “Gürtel” (REW 1928; RN 2, 93), rtr. tschenghel (S) “Ra- senband im Felsen”, wurde in frühromanischer Zeit als Tschingel25 “Fels- band, Grasband, Felskopf” (Zinsli 1946, 316 mit weiterer Lit.) appellativisch ins Alemannische entlehnt und fand weite Verbreitung. Tschingel gehört zu einem weit verbreiteten Namentyp, der in zwei Erscheinungsformen, nämlich Tschingel und Zingel auftritt. Der Walenstadter Name gehört zu einer Kom- pakten Tschingel-Zone, die sich über die ganze Breite des hochalpinen Ale- mannischen erstreckt, so ist Tschingel die Form des Berner Oberlands, des größten Teils von Uri sowie des Linthgebiets (Glarus, Walensee) und reicht von dort weit nach Osten (St. Galler Oberland und Rheintal, Vorarlberg, Ti- rol).26 Zingel ist hingegen in der präalpinen Zone anzutreffen. Diese Erschei- nung erklärt Schmid (1980, 155) dadurch, daß die normale Lautentwicklung C+I > tS > ts im Voralpenraum schneller vor sich ging, und das Gebirge länger den Lautstand tS bewahrte. Das oben Gesagte wird unterstützt durch die in den angrenzenden Gebieten auftretenden Reflexe von CINGULUM: So finden sich im Kanton St. Gallen noch Tschingel I-II Sargans (Bolliger- Ruiz 1990–91, 100f.), Tschindel Grabs (Stricker 1974, 256 f.), < Tschindels und Tschingel Wartau (Stricker 1981, 435 f.), Tschindel I-II Sevelen (Vin- cenz 1983a, 312), Tschingel Sax, Frümsen (Vincenz 1992a, 128 f.) und Tschingel I-II Wangs (Vincenz 1992b, 212 f.). In Graubünden gibt es Tschingel (Schorta 1936, 28) und zahlreiche andere Beispiele cf. RN 2, 93. In Liechtenstein: Tschingel I + II, < Tschingelberg Balzers (Stricker et al. 1999, Bd. 1, 245 f.).27 ————— 25 Frühestens ab Ende des 8. Jahrhunderts in dieser Form (Boesch 1963, 243). 26 Schmid (1980, 155) bringt zum Namenpaar Tschingel-Zingel “Rasenband in den Felsen” < lat. CINGULUM “Gürtel” weiterführende Literatur. 27 Zum Namentyp artr. tschinghel cf. auch Stricker et al. 1999, Bd. 5, 551.

287 3. Abschließende Bemerkungen Ausgehend von einem auffälligen Nebeneinander dominant romanischer To- ponyme in Tallagen und fast durchgehend germanischer Benennung der Berggipfel der Romania Submersa um den Walensee, wurde die Frage aufge- worfen, welchen Gepräges denn die Benennung der Zwischenstufe zwischen Berg und Tal sei. Die Churfirsten und angrenzende Gipfel, die als Zeugen deutscher Benennung der höchsten Erhebungen angeführt wurden, liegen al- lesamt über 2000 m ü.M. (zwischen 2024 und 2384 m ü.M.). Die Tallagen sind etwas über 400 m ü.M. angesiedelt, so etwa Walenstadt auf 422 m ü.M. Zur Klärung der gestellten Frage wurden nun die Namen der größeren Al- men (sowie z.T. auch angrenzender Gebiete) zusammengestellt, die sich auf der Alpstufe am Südabhang der Churfirsten finden. Die untersuchten Alpen und anderen Fluren liegen allesamt auf einer Höhe von 1200–1800 m ü.M. (mit Ausnahme von Sälsfeeder, Geländestufen, die sich von 1400 m ü.M. bis hinunter auf 1000 m ü.M. erstrecken). Von den insgesamt 20 angeführten Flurnamen (Gurtimon, Laubegg, Stä- feli, Hag, Gäsi, Säls, (Alt) Stofel, Schwaldis, Langegg, Schrina, Rugg, Grund, Chlaffenboden, Palis, Tschingel, Tieregg, Tschänna, Büls, Brunnen, Gam- palon) sind neun rein deutsch. Alt Stofel und Stäfeli reflektieren das aus dem Romanischen (rtr. stavel) ins Schweizerdeutsche eingedrungene Lehnwort Stofel, Stafel, Stavel. Es ist somit in diesem Fall nicht oder nur schwer zu entscheiden, ob diese beiden Toponyme Reliktnamen von schon in romanischer Zeit mit rtr. stavel benan- nter Fluren sind, oder die Fluren von deutschen Siedlern benannt wurden, die zur Benennung das bereits ins Alemannische eingedrunge Lehnwort heranzo- gen. Stäfeli und Alt Stofel geben somit wenig Auskunft über die Mutterspra- che ihrer “Benenner”. Im Namenteil wurde gezeigt, daß neun Toponyme auf romanische Etyma zurückgeführt werden könnten, wobei allerdings Schwaldis und Palis in ers- ter Linie durch ihre Endung -is, das auf -INU + -s zurückgeführt wurde, als romanische Toponyme gekennzeichnet wurden. Eine nicht-romanische Deu- tung dieses Suffixes ist allerdings nicht ausgeschlossen. Durch die recht gleichmäßige Verteilung von Namen mit deutschem und romanischem Etymon, ergibt sich nun auf der Alpstufe eine weit weniger deutsch geprägte Namenlandschaft, als bei den Berggipfeln. Es kann somit davon ausgegangen werden, daß bereits zur Zeit der romanischen Besiedlung des Raumes die Alpweiden am Südabhang der Churfirsten genutzt und be- nannt wurden. Es zeigt sich somit an der älteren, romanischen Benennung der Alpstufe, die in höheren Regionen fehlt, daß nutzbare Fluren viel früher

288 von Interesse waren, als die kahlen Berggipfel und daher ältere Namens- schichten aufweisen.

4. Verwendete Literatur Boesch, Bruno, “Das Ortsnamenbild zwischen Zürich- und Walensee als Zeugnis für die Sprachgrenze im 7. und 8. Jahrhundert”, in: Zinsli, Paul (ed.), Sprachleben der Schweiz. Festschrift R. Hotzenköcherle, Bern, 1963, 241–259. Bolliger-Ruiz, Lucie, “Die romanischen Orts- und Flurnamen von Sargans”, in: Vox Romanica 49/50 (1990–91), 166–270. Camenisch, Werner, Beiträge zur alträtoromanischen Lautlehre auf Grund romani- scher Orts- und Flurnamen im Sarganserland, Zürich, 1962. DRG: Planta, Robert de et al. (edd.), Dicziunari Rumantsch Grischun, Cuoira, 1939–. FEW: Wartburg, Walther von, Französisches Etymologisches Wörterbuch. Eine Dar- stellung des galloromanischen Sprachschatzes, 25 vol. und Bibliographisches Beiheft, Supplement zur 2. Aufl. des Beiheftes (1957), Bonn/..., 1922–. Finsterwalder, Karl, “Die Silbe Ver- in Namen wie Verpeil, Vermunt und die Vorton- silbe in Fremdnamen Tirols, Vorarlbergs und Graubündens”, in: Germanistische Abhandlungen 6 (1959), 305–324. ———, Tiroler Ortsnamenkunde. 3 Bände, Innsbruck, 1990–1995. Götzinger, Wilhelm, Die romanischen Ortsnamen des Kantons St. Gallen, St. Gallen, 1891. Hilty, Gerold/Sonderegger, Stefan/Stricker, Hans, “Zu den Orts- und Flurnamen des Gebietes”, in: Führer durch das Speer-, Churfirsten- und Alviergebiet, Bern, 19832, 221–223. Hug, Albert/Weibel, Viktor, Urner Namenbuch. Die Orts- und Flurnamen des Kann- tons Uri, 4 Bände, Altdorf, 1988–1991. ID: Staub, Friedrich et al., Schweizerisches Idiotikon. Wörterbuch der Schweizerdeut- schen Sprache, Frauenfeld, 1881ff. Kuhn, Julia, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Walenstadt und Quarten, Innsbruck, im Druck 2001. Lexer, Matthias, Mittelhochdeutsches Handwörterbuch. Bd. 1–3. Nachdruck der Aus- gabe von 1872–78, Stuttgart, 1979. Lutta, C. Martin, Der Dialekt von Bergün und seine Stellung innerhalb der rätoroma- nischen Mundarten Graubündens, Halle, 1923. Mätzler, M. Clarissa, Romanisches Wortgut in den Mundarten Vorarlbergs, Inns- bruck, 1968. REW: Meyer-Lübke, Wilhelm, Romanisches etymologisches Wörterbuch, Heidel- berg, 19353. RN 2: Schorta, Andrea, Rätisches Namenbuch, Band 2, Bern, 1964. Schlatter, Thomas, St. Gallische romanische Ortsnamen und Verwandtes. Beiträge zur Ortsnamenkunde des Kantons St. Gallen, 2 Teile, St. Gallen, 1903/1913.

289 Schmid, Heinrich, “An der Westgrenze des Rätoromanischen. Verkappte Zeugen einstigen Romanentums im Linthgebiet und benachbarten Teilen der Inner- schweiz”, in: Vox Romanica 39 (1980), 120–182. Schorta, Andrea, “Über Ortsnamen des Vorder- und Hinterrheingebietes”, in: Club- führer durch die Bündner Alpen. 7. Band: Rätikon, Chur, 1936, 381–424. ———, Lautlehre der Mundart von Müstair, Paris/Zürich/Leipzig, 1938. Sonderegger, Stefan, Die Orts- und Flurnamen des Landes Appenzell. Band I: Gram- matische Darstellung, Frauenfeld, 1958. Stricker, Hans/Banzer, Toni/Hilbe, Herbert, Liechtensteiner Namenbuch. 6 Bände, Vaduz, 1999. ———, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Grabs, Zürich, 1974. ———, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Wartau St. Galler Namenbuch, Chur, 1981. ———, “Eine Besonderheit der unterrätischen Namenlandschaft. Zur Agglutination deutscher Ortspräpositionen an romanischen Flurnamen”, in: Annalas 89 (1976), 147–181. Tiefenthaler, Eberhard, Die rätoromanischen Flurnamen der Gemeinden Frastanz und Nenzing, Innsbruck, 1968. Vincenz, Valentin, “Die romanischen Orts- und Flurnamen des Sarganserlandes, eine Herausforderung für die Sprach- und Namenforschung”, in: Terra Plana 2 (1983b), 21–25. ———, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Buchs und Sevelen, Chur, 1983a. ———, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Gams bis zum Hirschensprung, Buchs, 1992a. ———, Die romanischen Orts- und Flurnamen von Vilters und Wangs, Mels, 1992b. Zinsli, Paul, Grund und Grat. Die Bergwelt im Spiegel der schweizerdeutschen Alpen- mundarten, Bern, 1946. ———, Südwalser Namengut. Die deutschen Orts- und Flurnamen der ennetbirgi- schen Walsersiedlungen in Bosco-Guin und im Piemont, Bern, 1984.

5. Verzeichnis der benützten Quellen28 Handschriftliche Quellen Archiv der Ortsgemeinde Quinten OBA Quinten, Rod.: Rechnungsrodel OBA Quinten, Uk: Urkunden

————— 28 Insgesamt wurden 18 gedruckte und 66 handschriftliche Quellen ausgewertet. In der Bibliographie werden jedoch nur die Quellen angeführt, die in der Arbeit zi- tiert sind.

290 Staatsarchiv St. Gallen HK: Helvetischer Kataster 1801/02: Die Bände des in den Jahren 1801 und 1802 für den ganzen Distrikt Mels (=Sarganserland) angefertigten Helvetischen Katas- ters gliedern sich folgendermassen: Vättis, Valens (mit Vasön), Pfägers, Bad Ragaz, Vilters, Wangs, Sargans, Mels, Weisstannen, Flums, Berschis, Tscher- lach, Walenstadt (mit Walenstadtberg), Quarten (auch mit Mols, Oberterzen, Murg, Quinten).

Archiv der Ortsgemeinde Walenstadt OBA Walenstadt, UK: Urkunden verschiedenen Datums. Nicht sicher: Urkunden. Für die Urkunden vor 1532 wird nach den Nummern des bis dahin bestehenden Ur- kundenverzeichnisses zitiert, später nach den Nummern der Briefumschläge und Schachteln, in denen sich die Urkunden befinden. Eine Kartonmappe, ge- nannt Faszikel E, enthält 90 Nummern Papier-Urkunden zwischen 1700 und 1795.

291 292 Dialetto come “educazione alla diversità”. L’etica del dialetto nelle poetiche degli anni Novanta Arturo Larcati

1. Introduzione: italiano e dialetto negli anni Novanta Nel delineare lo sfondo culturale su cui si snoda la poesia neodialettale del secondo dopoguerra e in particolare degli anni Settanta e Ottanta, il critico Franco Brevini individua un antagonismo di fondo tra due istanze irriducibi- li: da una parte il poeta, “con il suo appassionato appello alla differenza, con il suo bisogno di testimoniare l’originalità di un mondo, di una cultura e di un’esperienza nel linguaggio che le ha accompagnate; dall’altra una società onnivora e omologante, che ha disintegrato, ‘confuso’ ogni identità, contrab- bandando tale condizione come convivenza cosmopolita.”1 Applicato agli anni Novanta, il discorso di Brevini conserva tutta la sua validità, se conside- riamo che il conflitto da lui individuato, invece che appianarsi, continua a farsi sentire in tutta la sua drammaticità e le forze che si contrappongono so- no rimaste in sostanza le stesse; a mutare o a spostarsi, invece, sono stati piuttosto i contenuti di questo “appassionato appello alla differenza”, dato che la società si trasforma continuamente e con essa si sono trasformate le tendenze “onnivore e omologanti” che – secondo un programma diffuso an- zitutto da Pier Paolo Pasolini a partire dagli anni Cinquanta – i poeti si devo- no impegnare a fronteggiare. Il senso della poesia in dialetto è dunque più che mai quello di “testimoniare la differenza” e di “custodire l’altro”,2 solo che nell’ultimo decennio la polemica pasoliniana contro il linguaggio tecno- logico, individuato come responsabile dell’unificazione negativa del lin- guaggio parlato dagli italiani, si è modificata e riguarda ora realtà che Pasoli- ni non poteva ancora conoscere. Basta passare in rassegna anche in modo sommario, come si vuole tentare in questa sede, alcune delle più rappresenta- tive poetiche3 degli anni Novanta per rendersi conto come in questi anni cre- sca a dismisura la preoccupazione per la presenza sempre più assidua e pene- trante dei moderni mass media e come si individui nelle nuove forme di co- ————— 1 Brevini 1990, 31. 2 Op.cit., 48. 3 Il termine ‘poetica’ viene usato in senso lato come sinonimo di ‘insieme di rifles- sioni poetologiche’. Come è tipico di tutto il 20° secolo, queste riflessioni hanno raramente il carattere sistematico che contraddistingue le poetiche dei secoli pre- cedenti.

293 municazione e nelle loro metonimie – il computer e internet – un fenomeno inquietante che, come sostengono voci autorevoli, porta a un generale impo- verimento del linguaggio, impoverimento che, a sua volta, non si fa sentire solo a livello letterario, ma si rispecchia anche in una percezione “disturba- ta”, in un senso della realtà appiattito e in forme alienate di contatto umano. Per cui, a venire attaccato ora è soprattutto il linguaggio mediatico, in parti- colare il linguaggio dei computer. Inoltre, così come è mutata la dimensione linguistica della lotta contro le ipotetiche forze omologanti della società, sono cambiati, rispetto ai decenni precedenti, anche i fenomeni più squisitamente culturali e sociologici che si vogliono combattere. Per Pasolini, da sempre una figura-chiave del dibattito, esaltare la vitalità e la pluralità dei linguaggi dialettali significava in primo luogo opporsi all’appiattimento e alla standar- dizzazione del linguaggio ad opera di una tecnocrazia italiana orientata sul modello delle tecnocrazie europee e mondiali nonché contrastare i tentativi di egemonia della classe borghese e del neocapitalismo. Oggi, invece, con la va- lorizzazione dei dialetti non si vogliono più difendere interessi di classe, ma prendere posizione riguardo a una realtà culturale e sociologica più di attuali- tà: il risveglio dei particolarismi etnici, delle tendenze secessioniste, nonché il problema dell’identità individuale e collettiva in una società multiculturale. Partendo da questi presupposti, il pensiero della differenza che si ritrova nelle recenti poetiche del dialetto si snoda in due direzioni, una retrospettiva e una prospettiva. La prima prende spunto dalla preoccupazione per la perdi- ta, paventata, di un passato che viene sentito non solo come un patrimonio molto prezioso, ma anche e soprattutto come una parte irrinunciabile della nostra coscienza individuale e collettiva. Da questo punto di vista, il dialetto viene concepito come testimonianza di mondi successivamente travolti dalla storia e messo al centro di concezioni della memoria, che vengono accentuate in modo diverso. È interessante notare come questi sforzi rientrino in un cli- ma culturale più vasto, che va al di là della problematica del dialetto e che ri- guarda la riflessione teorica sulle forme individuali e collettive della memo- ria, riflessione che si concentra nei paesi di lingua tedesca ma che – sulla spinta dell’approccio promosso dai cultural studies – si sta diffondendo sem- pre più intensamente in tutta Europa.4 Il secondo filone della riflessione è più orientato sul futuro ed è pruden- temente utopico. Questo filone promuove un approfondimento etico, una pre- sa di coscienza etica e morale del valore del dialetto, si fa portatore di valori come la tolleranza e la coesistenza pacifica fra culture e etnie diverse, e in-

————— 4 Uno dei testi canonici del dibattito è Assmann 19772.

294 tende sostenere un federalismo delle culture locali basato sulla circolazione dei linguaggi dialettali, alternativo al federalismo promosso dalla politica. L’elemento che unifica i due filoni (storico ed etico) della riflessione è la va- lorizzazione dell’idea di differenza attraverso la valorizzazione del dialetto. L’“educazione alla diversità”, come è stata chiamata, è dunque la proposta per il prossimo millennio che gli autori della letteratura in dialetto vogliono promuovere e lasciare in eredità ai posteri. Le forme di questa educazione e i modelli cui essa si ispira sono il tema specifico del nostro saggio, che intende analizzare un gruppo di interventi, pubblicati nel numero di novembre- dicembre 1996 della rivista Micromega sotto il titolo di “L’Italia salvata dalle lingue” e riguardanti il rapporto tra italiano e dialetto, l’uso del dialetto in poesia e “le conseguenze culturali e sociali dei mutamenti accelerati del no- stro tempo”.5 Le prese di posizione più significative, che ci sono sembrate quelle di Andrea Zanzotto, Vincenzo Consolo e Franco Loi, vengono presen- tate e commentate insieme a un provocante saggio di Tiziano Scarpa dal tito- lo “Lettere di spasimanti alle amiche di mia nonna Assunta e HTML We- bmaster 4.0”.

2. Andrea Zanzotto Zanzotto, una delle voci più autorevoli della poesia in dialetto, si pone il pro- blema della “convivenza degli idiomi”6 in un’epoca che gli appare minaccia- ta da un paese come l’America, il quale, a suo giudizio, non solo usa e vuole imporre “una lingua di dominio universale” (94), ma si rifiuta anche di parla- re le lingue altrui, soprattutto le lingue di alto prestigio culturale diverse dall’inglese. Contro quello che viene sentito come un programma di “colo- nizzazione” linguistica, contro quello che viene definito “l’inquinamento lin- guistico” (96) e soprattutto contro la televisione, “che impone modelli ed e- spressioni ricalcati su situazioni ‘americanoidi’” (96), Zanzotto afferma che bisogna difendersi, a tutti i livelli: a livello nazionale ogni paese dovrebbe impostare una difesa a partire dalle caratteristiche del proprio sistema lingui- stico, mentre a livello sovranazionale si tratta di curare e valorizzare le tradu- zioni. Nel caso specifico dell’Italia Zanzotto si fa portavoce di un’universalità diversa da quella promossa dall’inglese e dalla cultura ameri- cana, un’universalità resa possibile dalla poesia, un’universalità paradossale, perché ottenuta secondo lui “attraverso il poco e il meno” (99) e cioè valoriz- ————— 5 AAVV 1996, 86. 6 Zanzotto 1996 (rinvii alle pp. tra parentesi nel testo).

295 zando un tipo di linguaggio basato su fonemi o sillabazioni primordiali, con- tenuti ad esempio nei testi gnostici o nel linguaggio dei bambini, “che corri- spondono a pulsioni legate alla corporeità” (99). A sentire Zanzotto, la lingua della poesia in generale e quella del dialetto in particolare esprimono una “tensione verso un al di là di ogni lingua” (98), un’aspirazione universale as- sicurata dall’omologia e dalla contiguità che esiste tra i segni linguistici e le pulsioni fisiche. In questo, i due linguaggi si distinguono dal linguaggio vei- colare, dove questo contatto tra segni linguistici e corpo non viene minima- mente raggiunto.7 Il punto di vista di Zanzotto rivela un approccio al linguaggio che pone in primo piano esperienze di tipo gnoseologico-esistenziale più che interessarsi a problemi etici o di convivenza sociale. L’attenzione alla dimensione esteti- ca del linguaggio e l’importanza attribuita al buon gusto si accompagna a un pathos molto elitario e al malcelato disprezzo del grande poeta nei confronti della massa ignorante: gli ignoranti sono all’estero naturalmente gli america- ni e in Italia i veneti. Parlando delle abitudini linguistiche dei veneti che guardano le telenovelas e chiamano i loro figli Alex o Thomas, Zanzotto le chiama “bovine consuetudini” (97). La sua più grande paura è “lo spettro del proletariato linguistico” (99), che vede profilarsi minacciosamente all’orizzonte. Quello che ironicamente viene chiamato il “Nume Internet” (100) sembra essere il nuovo idolo di questo proletariato. I termini dei quali Zanzotto si serve per formulare la sua diagnosi sullo stato di decadenza del linguaggio tradiscono una posizione piuttosto conservatrice e basata su pre- supposti problematici: come esempio di amore per le lingue di alto prestigio da rivalutare Zanzotto cita infatti l’imperatore Nerone e loda il suo gesto di

————— 7 Per questo punto della poetica zanzottiana, che insiste sulla contiguità di suoni originari, pulsioni fisiche, infanzia e creatività poetica cf. la seguente citazione: “Il cinguettio della primissima infanzia, suoni ancora inarticolati ma carichi di ca- pacità espressiva, melodia in qualche modo già significante che nasce da un in- sieme di attività muscolari tendenti ad armonizzarsi, è la radice di un dire creativo che si congiunge alla stessa possibilità di memoria. La strutturazione della ‘conti- nuità’ fisica, della memoria-identità in cui viene ad accamparsi la dinamica dei ‘fantasmi’ originari, si compie anche nel gioco variatissimo di questi elementi fo- nici e delle loro leggi: dal canto lieve del babillage e dal suono interiettivo a quel- lo delle primissime sillabe (non a caso iterative) e poi parole, all’incanto delle fi- lastrocche, delle contine, delle serie ritmiche in cui la lingua viene proposta e ac- cettata come estrosa autoproduzione, autopoesia.” (Zanzotto 1978, 99.) È quasi superfluo notare che il cratilismo, su cui si basano le riflessioni di Zanzotto, nel dibattito odierno sulle teorie linguistiche occupa una posizione marginale a causa delle sue premesse “premoderne”.

296 dare la libertà ai greci schiavi che hanno riconosciuto il suo talento poetico. In tal modo ripropone un’immagine del grande poeta e del ruolo della poesia decisamente poco consona ai problemi del ventesimo secolo.

3. Vincenzo Consolo L’impostazione delle riflessioni di V. Consolo è molto diversa da quella di Zanzotto perché va alla ricerca di una corrispondenza tra novità stilistica e impegno etico.8 Lo scrittore siciliano parte “dal problema della lingua italiana come riflesso della società italiana” (111) e distingue nella letteratura italiana due grandi tradizioni: quella che lui chiama “geometrizzante”, più orientata sui valori della comunicazione e della chiarezza, e quella invece più espressi- va, che esplode nel barocco con il padre Daniello Bartoli e che nel corso del- la propria diffusione promuove anche la diffusione dei dialetti, in particolare autori come Giuseppe Gioachino Belli, Carlo Porta e Giambattista Basile. Consolo isola queste due grandi tradizioni per collocarsi nella linea secente- sco-barocca e manifestare la sua ammirazione per due autori di questa tradi- zione che costituiscono i punti di riferimento più importanti per la sua conce- zione della scrittura: Leonardo Sciascia, da una parte, con cui Consolo si i- dentifica per il suo grande senso etico e la sua consapevolezza storica e, dall’altra, Pasolini, che viene apprezzato soprattutto per la sua opposizione all’italiano tecnologico e alle sue tendenze “geometrizzanti”. Per contrastare l’orientamento “geometrizzante” del linguaggio, sia nelle forme presenti che in quelle passate, e per ottenere una scrittura fortemente espressiva, Consolo, nei suoi romanzi, fa una scelta di tipo sperimentale, cioè si serve, da un lato, di una lingua vicino all’oralità e, dall’altro, avvicina la prosa del romanzo a quella della poesia, accentuando il ritmo e intensificando quello che lui chiama il “mistilinguismo” nonché il gusto per il pastiche (115s.). Nel Sorri- so dell’ignoto marinaio (1976), ad esempio, lo scrittore inserisce nella narra- zione dei documenti storiografici originali scritti in dialetto, mescolandoli con altre varietà dell’italiano letterario e regionale e ottenendo così una scrit- tura multilinguistica e un effetto polifonico.9 Per esaltare ulteriormente que- sta scrittura basata sulla pluridimensionalità Consolo intitola un altro suo ro- manzo Retablo (1987), usando un termine che in spagnolo designa un’antica composizione pittorica in diversi quadri. L’intenzione che traspare dalla scel- ta di questo riferimento è di creare un polittico del linguaggio, dove i diversi ————— 8 Consolo 1996 (rinvii alle pp. tra parentesi nel testo). 9 Cf. Messina 1998.

297 quadri simboleggiano le diverse lingue (in particolare le diverse varietà di italiano) e le diverse culture. Consolo chiama una letteratura concepita in tal senso una “letteratura come palinsesto”, laddove “il palinsesto che sta alla base della letteratura non è stato cancellato” (116). Il lavoro di Consolo è un lavoro di tipo “archeologico” che vuole assicurare la sopravvivenza di voca- boli, di modi di dire e di forme grammaticali che per lui rappresentano i segni delle civiltà che, in Sicilia, si sono sovrapposte e stratificate. Secondo lo scrittore, la storia morale di un popolo nasce proprio da questa stratificazio- ne, da questi connubi, da questi scambi; e l’essenza della letteratura, il suo scopo fondamentale, è di recuperare la memoria, portando alla superfice e rimettendo in circolazione forme dialettali e voci che non esistono nel voca- bolario italiano. In queste voci confluiscono vocaboli connotati come dialet- tali, ma anche come spagnoli, francesi, greci e arabi. Facendo rivivere la memoria di grandi commistioni di etnie e di culture, come quelle che si sono verificate in Sicilia, Consolo vuole difendere i valori della coesistenza, della tolleranza e della multiculturalità. Con questa sua ricerca in cui confluiscono esigenze di tipo stilistico e nel- lo stesso tempo principi etici Consolo si propone di contrastare la lingua geo- metrizzata, che a suo giudizio ha un carattere centralizzante, totalizzante e repressivo, perché vuole eliminare la memoria culturale e popolare, in parti- colare la memoria di quello che è marginale. Lo scrittore polemizza in parti- colare contro il linguaggio mediale, quello che lui chiama “il rullo compres- sore della grande koiné mediatica” (118) che, nella sua funzione “geometriz- zante”, mortifica l’espressività, fa scomparire i dialetti e fa dell’italiano una lingua aziendale, che ha gli stessi difetti dell’italiano di tipo tecnologico criti- cato da Pasolini e in più subisce la minaccia di lingue più forti come l’inglese. Riprendendo un concetto molto provocatorio di Roland Barthes, Consolo considera la lingua geometrizzata e il linguaggio mediale come for- me di fascismo linguistico.10 Così come contrasta il linguaggio mediatico, Consolo si oppone anche al recupero del dialetto in senso leghista. Al Nord lo scrittore siciliano vede mancare il back ground dialettale che esiste in Sicilia, e quindi considera tale recupero del dialetto voluto dalla Lega un’operazione artificiosa e prevarica- trice che avviene nel segno della regressione e che viene strumentalizzata per scopi populisti e secessionisti. ————— 10 Cf. Barthes 1980, 19: “Doch die Sprache als Performanz aller Rede ist weder re- aktionär noch progressiv, sie ist ganz einfach faschistisch, denn Faschismus heißt nicht am Sagen hindern, es heißt zum Reden zwingen.” (si cita per comodità dall’edizione tedesca).

298 4. Franco Loi La posizione di F. Loi è per molti aspetti simile a quella di Consolo, perché è fortemente improntata su valori etici e morali, anche se in essa confluiscono elementi, come ad esempio il nesso tra suoni, emozioni e fisicità, che abbia- mo trovato in Zanzotto. Il legame di Loi col dialetto milanese è strettamente legato alla sua vicenda biografica. Lo scrittore caratterizza il milanese come la lingua in cui è stato socializzato dopo essere arrivato nella metropoli lom- barda con la famiglia di origine genovese, come la lingua in cui è avvenuta la sua integrazione di immigrato e la lingua che ha accompagnato le sue prime esperienze di tipo emozionale. Al pari di Consolo, Loi pone in primo piano, tra le funzioni che attribuisce al dialetto, quella fondamentale di assicurare a chi lo usa un’identità basata sulla multiregionalità e quindi sulla multicultura- lità, questa volta non sullo sfondo della Sicilia plurietnica ma della Milano della ricostruzione, della Milano ancora capitale morale e civile dell’Italia. Legato a questo aspetto ce n’è un altro altrettanto importante. Il dialetto rap- presenta per Loi uno spazio di libertà e di autonomia in molti sensi: anzitutto in senso estetico e linguistico, perché trasporta il gesto della trasgressione nei confronti della grammatica, anima il desiderio di conoscere una lingua nuova e di fare la scoperta di parole nuove, ma anche in senso ideologico e politico: il dialetto è a giudizio di Loi la lingua dei poveri, di chi vive ai margini della società, la lingua che si contrappone all’arroganza dei ricchi e dei potenti, la lingua che al suo arrivo a Milano gli fa scoprire la propria identità di classe, che è un’identità proletaria. La spinta anarchica (trasgressiva) verso la libertà da una parte e i valori di tolleranza e di integrazione dall’altra costituiscono anche il patrimonio che deve essere trasmesso dal dialetto in quella che Loi chiama l’“educazione alla diversità”.11 Secondo lo scrittore la poesia ha una fondamentale funzione sociale che consiste, esattamente come in Consolo, nel trasmettere la memoria e nel formare gli individui dotati di capacità crea- tive. Per realizzare il suo programma di una “educazione alla diversità”, Loi pensa in concreto a un progetto che, in particolare nelle scuole, faccia circo- lare la poesia nei vari idiomi italici, in maniera che i giovani, familiarizzando con i diversi dialetti e imparando a conoscere i capolavori della poesia dialet- tale, possano da un lato sviluppare un nuovo modo di vivere le lingue e le culture basato sul rispetto e, dall’altro, ritrovare la coscienza di un’unità non solo letteraria, ma anche morale e civile. La poesia in dialetto quindi potreb- be favorire una rivoluzione linguistica e sociale che consiste nel “vivere l’unità nella differenza” (125). La convinzione di Loi è che “la comunicazio- ————— 11 Loi 1996 (rinvii alle pp. tra parentesi nel testo).

299 ne basata sulla diversità può essere un fattore di unione, e non di disgrega- zione” (ibid.). Come Consolo, anche Loi prende le distanze dalla strumenta- lizzazione del dialetto per scopi demagogici operata da Umberto Bossi. La derivazione del lombardo da ascendenze celtico-lombarde gli sembra una mera fantasia linguistica che nasconde una realtà molto inquietante: la totale mancanza di rispetto che i lombardi hanno (avuto) sia per i dialetti che per la natura. Distruzione dei dialetti e distruzione della valle del Po sono a suo giudizio due facce della stessa medaglia.

5. Tiziano Scarpa I vari filoni dell’attuale dibattito sul dialetto che abbiamo schematicamente sintetizzato sin qua convergono tutti in un divertente racconto di Tiziano Scarpa, intitolato “Lettere di spasimanti a mia nonna Assunta e HTML Web- master 4.0”, che comincia così: “Se ho capito bene, oggi a tutto il mondo pia- ce parlare di cose tipo l’HTML Webmaster 4.0, che forse non si chiama esattamente così, e forse non esiste neanche. Io oggi però vi parlerò di mia nonna.”12 Prendendo sul serio questo proposito, Scarpa si impegna ad analiz- zare la lettera di un semianalfabeta di Treviso, innamorato di sua nonna, che un giorno le manda una busta con un pezzettino di lardo e un foglio dove c’è scritto che il suo cuore si strugge per lei “come questa fríssica di lardo”. (‘Fríssica’ deriva da friggere e vuol dire appunto “pezzo fritto”) (164). Scar- pa analizza dettagliatamente tutte le connotazioni legate a questa espressione dialettale, un po’ come gli sembra abbia fatto Luigi Meneghello nei suoi libri, e poi passa a raccontare l’importanza che ha avuto la nonna per la sua biogra- fia e la sua percezione del mondo, sottolineando che si tratta di un’importanza strettamente legata al dialetto. Come lo scrittore racconta, sua nonna era una sartina che diversamente dalle altre sartine del suo tempo leg- geva – cosa percepita come scandalosa agli inizi del secolo – e attraverso le sue letture aveva maturato un fortissimo senso per la comicità attingendolo dal contrasto tra italiano e dialetto, anzi dall’“attrito”, come dice Scarpa, “fra l’impostura dell’italiano e l’inadeguatezza del dialetto” (168). Nel raccontare gli aneddoti ereditati dalla nonna, aneddoti fissatisi in modo indelebile nella sua memoria, Scarpa mette in evidenza il legame tra la comicità della nonna e la sessualità, dato che gli aneddoti raccontati consistevano di norma in “epi- sodi sessuali, scandali di paese, scene scabrose vissute dalla nonna e dalle amiche”, etc. (168). Scarpa ricorda in particolare come poco prima di morire

————— 12 Scarpa 2000, 164 (rinvii alle pp. tra parentesi nel testo).

300 la nonna avesse ripreso a raccontare questi episodi senza più censure e che alla fine si concentrasse soprattutto su aneddoti di tipo sessuale o di tipo lin- guistico giocando sulla commistione e sulla confusione di italiano e dialetto. La conclusione che Scarpa trae da questa vicenda biografica è molto radicale: sua nonna, con la sua comicità e i suoi aneddoti, rappresenta il Novecento come l’ha vissuto lui, un Novecento che coincide poco col Novecento rac- contato dagli altri. Questo suo Novecento tutto particolare lo riassume così: “Corpi impregnati di linguaggio, impastati! Le stimmate delle parole! I di- scorsi maciullano la carne! Sbornia delle parole, goduria! Effervescenza della comunicazione, schiuma! Parole manipolate sino a farle venire dal piacere! Fino a farle svenire dal dolore! Sotto le parole ci sono i corpi! Corpi verbofo- ri! Parole somatofore! In nome delle parole strage e orgia!” (169). Dalla cita- zione non trapela solo il gusto per il paradosso, bensì anche una posizione molto provocatoria sulla storia e sulla memoria: la tesi di Scarpa è che le suggestioni legate al corpo – e quindi al linguaggio e al dialetto – sono le suggestioni che resistono di più, che passano di più, sono quelle che in fondo oltrepasseranno nel nuovo secolo. (Non bisogna dimenticare che il testo è stato scritto nel 1999). Rispetto a queste suggestioni legate alla fisicità e al linguaggio, la storiografia ufficiale, la cultura egemonica, se vogliamo, persi- no le grandi ideologie appaiono delle sovrastrutture più leggere, meno pro- fonde, meno resistenti: a giudizio di Scarpa, insomma, nella cultura resiste quello che ha un nesso più diretto colla fisicità, che si rivela più importante per il singolo individuo della storia raccontata dai libri di storia. Scarpa con- clude il racconto provando scherzosamente a tirare tutte le conseguenze pos- sibili da questo primato del dialetto basato sul legame con la fisicità e sulla sessualità: “La storia monta come panna montata! Impazzisce come panna montata! Celebra le piccolezze! Le debolezze! Legami sociali che diventano gingilli! Raccontini! Episodi! Aneddoti! Ricordini! Souvenir! Vetrinette! Avere vissuto è porno! Parlare è porno! Avere un’inflessione dialettale è porno! La mia voce ha un’inflessione dialettale! Il mio volto ha un’inflessione dialettale! Il mio corpo ha un’inflessione dialettale! La mia ca- sa ha un’inflessione dialettale! Il mio paesaggio ha un’inflessione dialettale! Le costellazioni del mio pezzettino di cielo hanno un’inflessione dialettale! Dappertutto senso del ridicolo! I veneti fanno ridere! Sono ridicoli! Siamo ridicoli! facciamo ridere i polli! Li facciamo morire dal ridere! Intanto noi moriamo di derisione!” (170). Al di là del gusto per il paradosso, le tesi di Scarpa vogliono promuovere una concezione alternativa della storia che vede il Novecento come trionfo del quotidiano, del rimosso, del corporeo, di ciò che apparentemente è insi- gnificante, insomma di tutta una serie di istanze che trionfano sulla politica,

301 sulla morale ufficiale e sui meccanismi di censura. Si tratta di una lettura del- la storia fatta alla luce del principio della differenza, nel senso che è stato te- orizzato da Michel Foucault nell’introduzione alla sua Archeologia del sape- re, e cioè di una lettura che si propone di rendere visibile tutto quello che viene rimosso o emarginato dalle forme di discours ufficiali, riconosciute e sostenute dal potere.13 Con l’approccio di Scarpa abbiamo dunque una nuova variante dell’uso del dialetto come strumento di un’educazione alla diversità, che si aggiunge alle posizioni teorizzate da Zanzotto, Consolo e Loi. Detto questo, resta un punto chiave ancora da chiarire, che riguarda il rapporto tra il mondo del dialetto e quello del computer. Su questo aspetto Scarpa non prende posizione chiaramente, per cui bisogna cercare di inter- pretare il suo pensiero. L’inizio del racconto sembrerebbe suggerire un rap- porto conflittuale tra le realtà del dialetto e del computer, visto che quest’ultimo potrebbe essere messo in relazione alla cultura della sorveglian- za e della censura nel senso teorizzato da Foucault: con la messa a punto dei più grandi archivi che siano mai esistiti, il computer diventa funzionale alla società che sorveglia e punisce la devianza. Su questo asse argomentativo si muovono in sostanza, direttamente o direttamente, gli autori della letteratura in dialetto, come fa ad esempio Consolo che sottolinea il legame tra lingua mediatica e potere, nonché la loro alleanza nel sopprimere l’espressività e la memoria. D’altra parte, però, se si osserva più da vicino il tipo di scrittura di Scar- pa, ci si rende subito conto che la sua operazione è di tipo fortemente intellet- tuale, che contiene a livello di poetica implicita tutte le caratteristiche della cosiddetta “ingegneria letteraria”, che la rivalutazione del dialetto viene so- stanzialmente contraddetta dalla forme in cui questa rivalutazione viene pro- posta. Il testo di Scarpa infatti è basato su una divertentissima contaminazio- ne tra cultura bassa (del dialetto) e cultura alta (della letteratura classica e moderna) e su uno stuzzichevole gioco intertestuale che mette in evidenza i contatti tra le due culture, che fa apparire le due culture come due vasi comu- nicanti (nel senso molto spesso teorizzato da Umberto Eco). Altrettanto im- ————— 13 Cf. Foucault 1995, 22s.: “Als habe man dort [in der Geschichte des Denkens, A.L.], wo man daran gewöhnt war, nach Ursprüngen zu suchen, unbegrenzt die Linie der Rückläufigkeiten abzulaufen, Traditionen zu rekonstruieren, Entwick- lungskurven zu verfolgen, Teleologien zu entwerfen und unaufhörlich zu den Le- bensmetaphern zurückzugreifen, eine eigenartige Abneigung verspürt, den Unter- schied zu denken, Abweichungen und Dispersionen zu beschreiben, die vergesse- ne Form des Identischen aufzulösen. [...] Als hätten wir Angst, das Andere in der Zeit unseres eigenen Denkens zu denken.” (anche qui si cita per comodità l’edizione tedesca).

302 portante è anche un altro aspetto che porta nella stessa direzione. Facendo partire il “gioco” intertestuale dalle parole e dalle espressioni della lettera dello spasimante prese singolarmente, il testo di Scarpa, con un po’ di fanta- sia, può apparire come il frontespizio di una home-page, dove basta cliccare su singoli link per ottenere degli ulteriori riferimenti e approfondimenti lette- rari. Visto così, il computer e la sua memoria non sono più uno strumento re- pressivo ma diventano un suggestivo modello di creatività: il computer mette a disposizione gli archivi di infiniti dati letterari da cui si può liberamente at- tingere nel senso postulato dalla poetica postmoderna del pastiche.14 Da que- sto punto di vista, il testo di Scarpa sarebbe un testo performativo, perché non solo teorizza un certo ideale e cioè l’incontro produttivo tra le due cultu- re, ma mostra anche sul piano della prassi letteraria come realizzare questo ideale, valorizzando il patrimonio della cultura in dialetto e sfruttando nello stesso tempo le nuove tecnologie. Se questa seconda interpretazione ha una qualche plausibilità, allora la posizione di Scarpa sarebbe un notevole passo in avanti rispetto alle reazioni di rifiuto, anzi di demonizzazione del linguag- gio mediatico che abbiamo passato in rassegna. Chi si arrocca dietro all’antimodernismo intransigente, rischia di chiudersi nella torre d’avorio, di ostacolare il necessario dialogo tra culture diverse e di non vedere i potenzia- li di libertà e di emancipazione legati ai mass media, che, ad esempio, a ra- gione o a torto sono stati teorizzati da Gianni Vattimo. In aperta polemica con il main stream, il filosofo torinese vede infatti proprio nei nuovi mass media e nella Rete gli strumenti per valorizzare il principio della differenza, tanto a livello di percezione del mondo quanto a livello linguistico e a livello sociale: “Ma in che cosa consiste, più specificatamente, la possibile portata emancipativa, liberatoria, della perdita del senso della realtà, della vera e propria erosione del principio di realtà nel mondo dei mass media? Qui l’emancipazione consiste piuttosto nello spaesamento, che è anche, e nello stesso tempo, liberazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Caduta l’idea di una ra- zionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità ‘locali’ – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, ————— 14 Si tenga presente, a questo proposto, il dibattito su Umberto Eco e l’ingegneria letteraria, dove si poneva il problema del rapporto tra creatività e computer – e si accusava Eco di aver costruito “a tavolino” i suoi romanzi montando files etero- genei.

303 effimere, contingenti. Questo processo di liberazione delle differenze, detto di passaggio, non è necessariamente l’abbandono di ogni regola, la manife- stazione bruta dell’immediatezza: anche i dialetti hanno una grammatica e una sintassi, e anzi solo quando acquistano dignità e visibilità scoprono la propria grammatica. La liberazione delle diversità è un atto con cui esse ‘prendono la parola’, si presentano, dunque si ‘mettono in forma’ in modo da potersi far riconoscere; tutt’altro che una manifestazione bruta dell’immedia- tezza.”15

6. Bibliografia AAVV, “L’Italia salvata dalle lingue”, in: Micromega 5 (1996), 86–126. Assmann, Jan, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München, 19772. Barthes, Roland, Leçon/Lektion. Antrittsvorlesung am Collège de France, Frank- furt/Main, 1980. Brevini, Franco, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino, 1990. Consolo, Vincenzo, “L’invenzione della lingua”, in: Micromega 5 (1996), 111–118. Foucault, Michel, Archäologie des Wissens, Frankfurt/Main, 19957. Loi, Franco, “Il dialetto come educazione alla diversità”, in: Micromega 5 (1996), 119–126. Messina, Nicolò, “Plurilinguismo in Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Con- solo”, in: Muljačić, Žarko (ed.), L’italiano e le sue varietà linguistiche, Aarau, 1998, 97–124. Scarpa, Tiziano, “Lettere di spasimanti a mia nonna Assunta e HTML Webmaster 4.0 [1999]”, in: Idem, Cos’è questo fracasso? Alfabeto e intemperanze, Torino, 2000, 164–170. Vattimo, Gianni, La società trasparente, Milano, 1989. Zanzotto, Andrea, “Infanzie, poesie, scuoletta”, in: Pirodda, Giovanni (ed.), L’in- segnamento della lettaratura. Scrittori di didattica per la scuola di oggi, Torino, 1978, 99–113. ———, “La convivenza degli idiomi”, in: Micromega 5 (1996), 94–100.

————— 15 Vattimo 1989, 16–17.

304 Formazione delle parole e variazione sociolinguistica: il caso dell’apocope in italiano Fabio Montermini

1. Introduzione All’interno della variazione sociolinguistica la variazione lessicale è sempre stata considerata un parametro importante di studio. In particolare, per quan- to riguarda la cosiddetta variazione diafasica, le scelte lessicali operate dai parlanti vengono considerate determinanti per definire l’appartenenza di una particolare produzione ad un registro piuttosto che ad un altro. Ad esempio, nella distinzione proposta da Berruto (1993b, 70) tra registri e sottocodici (o lingue speciali), questi ultimi sono considerati semplici lessici alternativi in- nestati sulle strutture (fonologiche, morfologiche e sintattiche) della lingua standard. Partendo da un punto di vista opposto ma complementare, chi studia il lessico, e in particolare la formazione delle parole, può legittimamente do- mandarsi se questa caratteristica dei sottocodici diafasicamente marcati della lingua dipenda, totalmente o in parte, da caratteristiche intrinseche delle sin- gole unità lessicali o di determinati procedimenti di formazione di parola. Per alcuni procedimenti, poi, tale domanda è tanto più legittima, in quanto essi sembrano essere all’opera esclusivamente, o quasi, in registri della lingua considerati non standard. È il caso, ad esempio, del procedimento che forma apocopi, che potremmo definire “espressive”, come quelle esemplificate in (1).1

(1) bicicletta → bici chemioterapia → chemio cinematografo → cinema frigorifero → frigo Juventus → Juve Matusalemme → matusa

————— 1 Occorre chiarire che il termine apocope non viene quasi mai impiegato in italiano per definire le forme di (1), malgrado tecnicamente si tratti di apocopi. Rifacen- dosi ad una tradizione che risale a Migliorini (1957; 1963), infatti, i linguisti ita- liani prediligono il termine più descrittivo e meno tecnico di accorciamento. In questo lavoro, tuttavia, si è scelto di impiegare regolarmente il termine apocope, poiché è evidente che tecnicamente è di un procedimento di questo tipo che si tratta.

305 Spesso anche gli studiosi di morfologia tendono a considerare questo proce- dimento marginale rispetto a quelle che sono considerate le regole morfolo- giche classiche, derivazione e composizione. È dall’analisi di un corpus di forme come quelle di (1) che le riflessioni proposte in questo articolo sono nate e si sono sviluppate. Nel §2 prenderò in esame come questo procedi- mento è stato trattato nella letteratura sociolinguistica e morfologica, nel §3 cercherò di valutare la posizione realmente occupata da questo procedimento nel sistema sociolinguistico dell’italiano, nel §4 discuterò l’apocope dal pun- to di vista morfologico e ne proporrò una spiegazione in termini di regolarità, nel §5 valuterò la rilevanza per l’apocope di un modello linguistico basato sulla dinamica centro/periferia, e infine nel §6 proporrò alcuni argomenti per spiegare anche dal punto di vista della grammatica la posizione sociolingui- sticamente periferica di questo procedimento.

2. I trattamenti dell’apocope in letteratura Forme come quelle di (1) sono nate e continuano a nascere prevalentemente nei registri della lingua considerati al di sotto dello standard. È certamente vero che attualmente il loro uso si sta ampliando fino a coprire ambiti d’uso tipici dello standard; si pensi, ad esempio, all’uso di auto o cinema come semplici varianti di automobile e di cinematografo: oggi sono le ultime due forme, semmai, ad essere marcate sociolinguisticamente, come appartenenti ad un linguaggio aulico o tecnicistico. Tuttavia, in generale, le apocopi come quelle di (1), soprattutto quelle di minore diffusione, vengono di preferenza attribuite dai parlanti e dai linguisti ai registri o ai sottocodici “bassi” della lingua. Così, ad esempio, Berruto (1993b, 76–77) cita l’“uso normale di for- me abbreviate: bici, cine, tele, moto, poli (per politecnico)” tra i tratti più si- gnificativi della “sezione bassa della scala dei registri” (cf. anche Berruto 1987, 150). In particolare, l’impiego di forme apocopate viene spesso defini- to tipico di sottocodici particolari come il gergo o il linguaggio giovanile (che con il gergo ha molti tratti in comune).2 L’oggettiva facilità con cui le apocopi vengono impiegate nelle varietà substandard della lingua ha fatto sì che tale procedimento ricevesse spesso da parte dei linguisti valutazioni più o meno esplicitamente negative, sia, con in- tenti di precettistica, per quanto riguarda l’opportunità del suo impiego, sia per quanto riguarda la sua legittimità ad essere considerato un fenomeno lin- ————— 2 Senza ricordare gli innumerevoli lavori sull’argomento, ci si limiterà qui a citare alcuni esempi significativi, come Ageno (1957, 408) o Migliorini (1957, 102– 104) per il gergo, e Cortelazzo (1994, 309) per il linguaggio giovanile.

306 guistico degno di nota e di studio. Quando non vengono semplicemente igno- rati, nei lavori di linguistica, i fenomeni di apocope vengono definiti, di volta in volta, “colloquiali”, “gergali”, “scherzosi”, e così via, con un’implicita presa di distanza da parte dell’autore. Così accade, ad esempio, nei principali dizionari dell’italiano, in cui spesso le apocopi lemmatizzate sono contrasse- gnate da marche d’uso che ne mettono in evidenza il carattere sociolinguisti- camente marcato. A questo atteggiamento negativo, per così dire precettistico, nei confronti dell’apocope si sovrappone, in opere con finalità diverse, un’attitudine pes- simistica sulla possibilità di descrivere tale fenomeno in termini di regolarità e di prevedibilità. Così, in un libro recente di introduzione alla linguistica, De Mauro (1998, 66) ricorda, tra gli altri procedimenti morfologici, l’abbrevia- zione, da lui definita un “procedimento meno regolare” che “opera su lesse- mi, spesso composti, di particolare lunghezza”. Quella che abbiamo definito “attitudine pessimistica” nei confronti di un’ipotesi di regolarità dei fenomeni di apocope si manifesta poi in maniera massiccia nella gran parte dei testi di morfologia dedicati alla formazione delle parole, di qualunque ispirazione. Muovendosi in un’ottica rigorosamente strutturalista, Marchand, ad esempio, nel suo volume sulla formazione delle parole in inglese afferma, in un passo spesso citato, che

“[t]he process of clipping, therefore, has not the grammatical status that com- pounding, prefixing, suffixing, and zero-derivation have, and is not relevant to the linguistic system (la langue) itself but to speech (la parole)” (Marchand 1969, 441).3 Anche gli sviluppi ulteriori della morfologia, in particolare all’interno del programma generativista, hanno manifestato un analogo pessimismo nei con- fronti della possibilità di trattare le apocopi, così come altri fenomeni morfo- logici, alla pari dei procedimenti “classici” di formazione di parola, deriva- zione e composizione. Tra l’altro, l’esclusione di questi fenomeni dalla sfera di interesse della morfologia di stampo generativo è stata facilitata dal dichia- rato intento dei fautori di tale orientamento teorico di occuparsi solamente degli aspetti centrali della lingua, lasciando da parte tutto ciò che è considera- to periferico perché influenzato da fattori casuali e non prevedibili.4 Nel la- voro che di fatto inaugura la morfologia generativa, Aronoff (1976, 20–21) dedica un breve paragrafo a quelle che definisce “oddities”, nelle quali non

————— 3 L’enfasi è mia. 4 Su questo punto cf. il §5.

307 include esplicitamente l’apocope, ma è del tutto plausibile che essa ne faccia parte. L’appartenenza dell’apocope al novero dei fenomeni che non sono me- ritevoli di essere presi in seria considerazione dalla teoria morfologica è tut- tavia resa esplicita successivamente da diversi autori di ispirazione dichiara- tamente generativista, tra cui ad esempio Spencer (1991, 461), il quale affer- ma di fenomeni come l’apocope (“clipping” in inglese), i “blendings”, gli a- cronimi, etc. che “[n]one of these is of any great importance to morphologi- cal theory”.5 Per quanto riguarda l’italiano, si può ricordare la posizione di Scalise (1994, 42), secondo cui gli acronimi, le parole macedonia e le apoco- pi “sono il prodotto di una morfologia che abbiamo definito ‘minore’ perché si tratta di fenomeni sporadici, non prevedibili”. Come si vede, i giudizi della morfologia moderna, che riconosce una posizione centrale nella formazione delle parole ai procedimenti di derivazione e di composizione, e relega tutti gli altri in una periferia che non si presta ad essere analizzata in termini di re- golarità, ricordano molto da vicino i giudizi negativi, su base sociolinguisti- ca, formulati dalla linguistica tradizionale. È facile perciò immaginare che i giudizi negativi sulla possibilità di un trattamento dell’apocope e di altri fe- nomeni di morfologia “minore”, per usare il termine di Scalise, siano stati almeno in parte suggeriti dal perdurare di un certo pregiudizio secondo cui ad una posizione non centrale dal punto di vista sociolinguistico corrisponde- rebbero automaticamente una minore regolarità e quindi una minore prevedi- bilità.

3. Apocope e sociolinguistica Per valutare la posizione effettivamente occupata dai fenomeni di apocope nel sistema sociolinguistico dell’italiano, sono partito da osservazioni empi- riche su un corpus di vari dizionari italiani. È evidente che i dati presentati qui meriterebbero di essere verificati attraverso indagini sociolinguistiche più accurate e su larga scala, il che trascende peraltro gli scopi e le possibilità del presente lavoro. Ritengo tuttavia ragionevole pensare che le conclusioni che verranno abbozzate non subirebbero modifiche sostanziali da una simile in- dagine, ma ne risulterebbero anzi avvalorate.

————— 5 In un articolo successivo, Spencer (1998, 140) riconosce che l’operazione di tron- camento di lessemi “can regularly be analysed as the fitting of the original pho- neme string of the word to a prosodically defined template” (per questo tipo di spiegazione ai fenomeni di apocope, cf. il §3), ma continua a dichiararsi scettico sul fatto che tale fenomeno abbia lo status di fenomeno morfologico in senso stretto.

308 In primo luogo, ho recensito le apocopi del tipo presentato in (1) in cin- que dizionari di registri substandard dell’italiano: Forconi (1988), Ferrero (1991), Lotti (1992), che sono dedicati ai gerghi in generale, Lanza (1977), un dizionario di italiano giovanile degli anni Settanta, e LinguaGiovani (LG 2000), un dizionario on line del linguaggio giovanile ospitato dal sito Internet dell’università di Padova, che prevede per gli utenti la possibilità di aggiun- gere lemmi. I dati di questa prima indagine sono riassunti nella tabella (2), dove è in- dicato, nella prima colonna, il totale delle entrate di ciascun dizionario,6 nella seconda il numero di apocopi accolte come entrate nel dizionario, e nella ter- za la percentuale che esse rappresentano sul totale del dizionario:

(2) Totale lemmi Apocopi % Forconi 1988 ≈ 2.100 36 1,71 LG 2000 1.498 22 1,46 Lanza 1977 ≈ 1.900 15 0,78 Lotti 1992 ≈ 7.100 46 0,64 Ferrero 1991 ≈ 5.300 25 0,47 È del tutto evidente che le diverse finalità, i diversi criteri di compilazione e la discrepanza diacronica tra questi dizionari possono incidere in maniera si- gnificativa su questi dati. È significativo, però, a mio avviso, il fatto che la differenza tra il dizionario che contiene il maggior numero in percentuale di apocopi e quello che ne contiene il minor numero sia di poco superiore all’1%, uno scarto del tutto ragionevole. Un altro fatto a mio avviso piuttosto significativo è che più cresce il numero totale dei lemmi accolti da un dizio- nario più diminuisce l’incidenza percentuale delle apocopi sul totale, segno del fatto che esse rappresentano un procedimento importante, degno di essere registrato in maniera massiccia anche in dizionari con un numero relativa- mente ridotto di entrate. In seguito, i dati ottenuti da questo primo spoglio sono stati confrontati con il totale delle apocopi registrate nel dizionario oggi probabilmente più completo ed affidabile sulla lingua italiana contemporane- a, De Mauro (1999). Tale dizionario contiene più di 250 mila entrate e regi-

————— 6 Purtroppo, nessuno dei quattro dizionari cartacei considerati riporta il totale, nemmeno approssimativo, delle entrate. Poiché un conteggio manuale è eviden- temente improponibile, i totali delle entrate sono stati da me ricavati, ritengo con buona approssimazione, dal totale medio di entrate per pagina moltiplicato per il numero totale delle pagine.

309 stra 116 apocopi,7 ossia lo 0,04% del totale. In (3) è riassunta la situazione ottenuta da questo calcolo, confrontata con la media delle apocopi osservate negli altri dizionari.

(3) Totale lemmi Apocopi % media altri diz. ≈ 3.580 29 1,01 De Mauro 1999 261.624 116 0,04 Come si vede, la percentuale di apocopi contenute in De Mauro (1999) è di 25 volte inferiore a quella media degli altri dizionari, e comunque, quasi di dieci volte inferiore a quella del dizionario che contiene la percentuale più bassa di apocopi. Ovviamente, come osservato più sopra, le modalità di compilazione dei diversi dizionari, e le loro finalità in generale, fanno sì che essi non riflettano appieno il reale uso della lingua. Perciò, i dati ottenuti dallo spoglio dei di- zionari citati sopra sono stati integrati con i dati sulle parole apocopate accol- te nel LIP (lessico dell’italiano parlato, De Mauro et al. 1993), sia per quanto riguarda la lemmatizzazione che per quanto riguarda la frequenza. I dati otte- nuti sono quelli riassunti nella tabella (4):

(4) Totale Apocopi % lemmi ≈ 15.000 15 0,1 frequenza ≈ 500.000 163 0,03 Il LIP contiene circa 15.000 lemmi diversi (types) e circa 500.000 entrate to- tali (tokens). Come si vede, la percentuale di apocopi sia sul totale dei types che sul totale dei tokens è di gran lunga inferiore a quella registrata nei di- zionari di lingue speciali citati sopra. In particolare, il dato sulla frequenza è quello che qui ci interessa. Se dobbiamo fidarci dei dati del LIP, un lessico di frequenza costituito da testi appartenenti a diversi registri della lingua, nell’italiano in generale l’impiego di apocopi costituisce solamente lo 0,03% del totale dell’uso lessicale dei parlanti. Questi dati mostrano in maniera abbastanza chiara, con le dovute cautele espresse sopra, che l’uso di apocopi è effettivamente un fenomeno che si os- serva assai più nettamente nei registri non standard dell’italiano, e in maniera

————— 7 Tale computo è approssimativo, vista la difficoltà di recensire la totalità delle a- pocopi riportate dai dizionari, dovuta al fatto che le apocopi non vi ricevono un’indicazione univoca, ma vengono definite alternativamente “abbreviazioni”, “accorciamenti”, o in altri modi.

310 ancora più marcata in alcuni sottocodici speciali, come i gerghi o il linguag- gio giovanile. Vi è poi un’altra osservazione che testimonia a favore di una posizione non centrale dell’apocope nel sistema sociolinguistico dell’italiano: per la co- struzione del corpus analizzato una fonte importante di apocopi è rappresen- tata da alcuni ambiti semantici particolari, ambiti che sono legati a sfere dell’attività sociale in cui è più facile che si creino gruppi chiusi, o comunque nei quali vi è la tendenza ad una maggiore familiarità tra i parlanti. Molte del- le apocopi del corpus, ad esempio, sono legate all’ambito sportivo, e in parti- colare calcistico (oltre a diversi nomi di squadre ho registrato (tappa a) cro- nometro → crono, panchina → panca, semifinale → semi, etc.), o all’ambito scolastico (soprattutto, ma non solo, per quanto riguarda i nomi delle materie, insufficienza → insuffi, matematica → mate, professore → prof, ragioneria → ragio, etc.). Anche l’ampio uso dell’apocope nella formazione di ipocori- stici, non solo in italiano, è evidentemente da ricollegare a questa sua caratte- ristica. Da queste osservazioni possiamo effettivamente concludere con una certa sicurezza che, in un modello del sistema sociolinguistico come ad esempio quello proposto da Berruto (1993a, 12), l’apocope è un fenomeno da colloca- re nella parte bassa della scala delle varietà dell’italiano. Rimane vero, come già osservato nel §1, che in alcuni casi vi è una forte tendenza all’estensione dell’uso di alcune apocopi tra le più diffuse anche nelle varietà standard dell’italiano. Tale tendenza si osserva in modo partico- lare nel linguaggio giornalistico, il quale predilige l’uso di forme abbreviate non tanto per ragioni materiali di spazio, ma anche e soprattutto per una mar- cata tendenza a ricercare espressioni che creino una certa sensazione di am- miccamento nei confronti del lettore. Tanto per fare un esempio, negli artico- li pubblicati nell’anno 2000 da un giornale a grande tiratura (La Repubblica), la parola Juventus compare 717 volte, mentre la forma apocopata Juve com- pare ben 966 volte. Un’apocope in grande espansione nel linguaggio giorna- listico è prof (← professore), la quale nella medesima annata compare 124 volte, sempre più spesso al di fuori dei titoli (dove avrebbe una giustificazio- ne in termini di risparmio di spazio) e in contesti assolutamente neutri in cui non ha alcuna connotazione particolare, come emerge dagli esempi seguenti:

“Bolzano, bufera per un prof che porta in aula feti di plastica” (21 aprile); “Al liceo senese, poi, i prof sembra abbiano fatto fino in fondo il loro dovere” (21 giugno); “L’aggressione al prof ebreo finisce in Europa” (21 settembre); “Por- ta a scuola un topo, panico tra alunni e prof” (30 dicembre).

311 4. Apocope e morfologia Una volta stabilito che la formazione e l’impiego di apocopi è un fenomeno che occupa una posizione effettivamente periferica nel sistema sociolingui- stico dell’italiano, cerchiamo di verificare se è vero che a tale perifericità cor- risponde anche una perifericità dal punto di vista della grammatica e se, quindi, si tratta di un fenomeno tendenzialmente irregolare e non prevedibile, come sostenuto da molti morfologi. I giudizi pessimistici visti nel §2 sulla possibilità di considerare l’apocope un procedimento morfologico alla pari degli altri e di darne una spiegazione in termini di regolarità si giustificano soprattutto per la difficoltà di applicare ad essa lo schema classico delle regole morfologiche. Gli studiosi che negano all’apocope lo status di procedimento morfologico, cioè, lo fanno soprattutto perché ad essa sembra essere assolutamente estranea la nozione di morfema, che è considerato l’unità di base di qualsiasi operazione morfologica canoni- ca. L’output di un’operazione di apocope, in effetti, spesso non è spiegabile né come l’eliminazione di un morfema, né come l’eliminazione di una o più sillabe. È sufficiente osservare le parole di (1) per rendersene conto: tra esse soltanto chemio è il risultato del troncamento della parola di base in corri- spondenza del confine tra due morfemi, mentre bici, cinema e frigo sono a- pocopi di parole morfologicamente complesse troncate però non in corri- spondenza con un confine di morfema riconoscibile; e Juve e matusa sono addirittura apocopi di parole morfologicamente non analizzabili. L’esempio di Juve suggerisce inoltre che una spiegazione in termini di semplice sottra- zione sillabica è parimenti insufficiente a rendere conto di tutti i casi, poiché nella parola di base la seconda sillaba è chiusa (/ju.’ven.tus/), mentre è aperta nella seconda sillaba dell’output (/’ju.ve/). In realtà, vari lavori convergenti in diverse lingue hanno proposto una spiegazione dei fenomeni di apocope ispirati alla morfologia prosodica e ba- sati sulla nozione di parola prosodica minima, che si definisce come il forma- to prosodico minimo che una sequenza fonologica deve avere per essere con- siderata una parola in una determinata lingua (cf. McCarthy/Prince 1998, 289). In questo senso, la parola minima può essere considerata anche come l’esempio più prototipico di parola di una lingua. L’analisi proposta dalla morfologia prosodica parte proprio dall’osservazione che “[t]he hypocoristic pattern of many languages is simply MinWd [Minimal Word]” (loc. cit.): ciò significa che in un numero elevato di lingue geneticamente e tipologicamente diverse la formazione di ipocoristici si realizza come la riduzione di una pa-

312 rola data al formato della parola minima di quella determinata lingua.8 Per l’italiano la nozione di parola minima è stata applicata alla formazione di a- pocopi per la prima volta da Thornton (1996), la quale definisce la parola minima italiana come un trocheo bisillabico, ossia come un piede bisillabico accentato sulla prima sillaba (Thornton 1996, 83). Tale formato è effettiva- mente quello della gran parte delle apocopi che si incontrano in italiano ed anche di quelle recensite nel corpus preso in esame qui. In (5) sono riportati due esempi di apocopi di parole italiane (un sostantivo ed un nome proprio), che si realizzano appunto come l’allineamento della parola base al formato della parola minima così come è stato definito più sopra: (5) bicicletta [bici’klet:a] → bici [’bici] Alessandro [ale’s:andro] → Ale [’ale] Se è vista in quest’ottica, l’apocope non è affatto un procedimento irregolare e non prevedibile, ma anzi si rivela, unitamente ad altre condizioni che ne re- golano il funzionamento, un procedimento molto fine che consiste nel tra- sformare ogni parola alla quale si applica nella parola italiana prototipica.9 Come ulteriore prova della validità dell’ipotesi della parola minima, si può osservare che in alcuni casi, parole già bisillabiche, ma accentate sulla se- conda sillaba subiscono, nel linguaggio colloquiale, uno spostamento di ac- cento che le adatta esattamente al formato della parola minima, come nei se- guenti esempi: (6) Dalcò (/dal’kO/) → Dálco (/’dalko/) ce l’ho (/ce’lO/) → célo (/’celo/) tigì (/ti’ji/) → tígi (/’tiji/) caffè (ka’f:E/) → cáffio (/’kaf:jo/)10

————— 8 A mia conoscenza, spiegazioni dei fenomeni di apocope espressiva, in particolare nella formazione di ipocoristici, basati sulla nozione di parola minima sono stati proposti, ad esempio, da Mester (1990) McCarthy, Prince (1998) per l’inglese, Scullen (1997) per il francese, Piñeros (2000) per lo spagnolo, oltre all’articolo, citato più sotto, di Thornton (1996) per l’italiano. 9 Per essere pienamente esplicativa è preferibile che l’ipotesi della parola minima sia verificata anche con argomentazioni indipendenti. Alcune osservazioni in me- rito sono proposte dalla stessa Thornton (1996, 94–103) e da Montermini (1998, 93–95). 10 Dalcò è un cognome che ho udito varie volte trasformato nella maniera indicata (soprattutto come vocativo), celo appartiene al linguaggio degli scambi di figurine tra ragazzini, tigi è stato da me più volte udito nel corso di una trasmissione sulla

313 Delle 339 apocopi registrate nel corpus, ben 246 possono ricevere una spie- gazione in termini di adattamento allo schema prosodico della parola minima, eventualmente con lievi riaggiustamenti che vanno dall’aggiunta della vocale tematica tipica della classe a cui appartiene la parola base (benzina → benza, cf. anche caffio in (7)), all’aggiunta di un suffisso, il più delle volte valutati- vo (ad esempio /i/ per i nomi propri, Francesca → Francy).11 Come si vede, l’ipotesi della parola minima ci permette di costruire un modello della forma- zione di apocopi in italiano basato su un’ipotesi di regolarità e prevedibilità, almeno dal punto di vista fonologico. Essa, peraltro, incontra perfettamente l’intuizione dei parlanti ed è alla base della formazione della gran parte degli ipocoristici creati per riduzione in italiano: Thornton (1996, 88-89) elenca un numero consistente di nomi propri e di cognomi che, apocopati, hanno il for- mato della parola minima. Abbiamo detto, tuttavia, che non tutte le apocopi del corpus raccolto sono trattabili in termini di adattamento allo schema della parola minima. In parti- colare, questo gruppo di apocopi comprende forme: i) monosillabiche (professore → prof, subacqueo → sub); ii) bisillabiche tronche (paracadutista → parà, metropolitana → metrò); iii) tri- o quadrisillabiche (cinematografo → cinema, otorinolaringoiatra → otorino).12 Anche queste apocopi funzionano tuttavia secondo schemi almeno parzial- mente regolari e prevedibili. Ad esempio, occorre sicuramente ammettere che in italiano è all’opera un meccanismo di troncamento delle parole morfologi- camente complesse in corrispondenza di un confine morfologico sufficiente- mente percepito come tale dai parlanti (cf. Thornton 1993, 145; Montermini 1999, 155). Anche questa strategia si verifica in altri casi in italiano ed è pro- babilmente alla base della formazione di molte apocopi monosillabiche e più che bisillabiche, come quelle esemplificate in (7): (7) subacqueo → sub transessuale → trans tossicodipendente → tossico dattilografia → dattilo

rete televisiva Canale 5, caffio compare nel romanzo di P.P.Pasolini Una vita vio- lenta (ringrazio Stefania Biscetti per la segnalazione). La sequenza finale di quest’ultima parola fa parte delle strategie di riaggiustamento che verranno espo- ste qui sotto. 11 Per questi riaggiustamenti cf. Thornton (1996, 91–93), Montermini (1998, 100). 12 La proporzione delle apocopi registrate nel corpus è la seguente: monosillabiche 18, bisillabiche 259, trisillabiche 45, quadrisillabiche 15, pentasillabiche 2.

314 Alcuni argomenti ci permettono di considerare le apocopi di (7) come deriva- te attraverso un meccanismo di apocope non diverso da quello della riduzio- ne prosodica. Innanzitutto, le strategie di riaggiustamento descritte sopra che funzionano per le apocopi prosodiche funzionano in alcuni casi anche per quelle morfologiche (canottiera → canotta), in secondo luogo, delle 246 a- pocopi prosodiche del corpus sopra citate, 119 possono ricevere una spiega- zione anche come troncamenti morfologici (automobile → auto, fotografia → foto, etc.). Per esse è oggettivamente impossibile – e probabilmente privo di senso – stabilire se siano state formate attraverso un procedimento o l’altro. Vi è inoltre una serie di cause esterne che possono avere contribuito a formare in italiano apocopi che hanno una forma non compatibile con l’ipotesi della parola minima, in particolare: i) prestiti da altre lingue (parà per paracadutista è certamente di origine francese, mentre pro per professionista è probabilmente di origine in- glese) o da varianti locali (ad esempio la -a finale dell’apocope del nome Berlusconi in Berlusca risente certamente di un sostrato lombar- do); ii) passaggi di varietà sociolinguistiche: è noto, ad esempio, che nello scritto funziona un procedimento di abbreviazione del tutto distinto da quello che presiede alla formazione di apocopi; così mi sembra che una parola come prof possa tranquillamente essere considerata come l’estensione all’orale di una convenzione scritta; iii) coincidenza con parole già esistenti nella lingua, che favorisce la scel- ta di una forma piuttosto che di un’altra per l’output di un’apocope, anche per ragioni ludiche (ad esempio marocchino → marocco, mari- juana → maria); iv) fenomeni di semplice analogia; ad esempio, l’apocope trisillabica me- teo (← meteorologia) non può essere spiegata in termini di tronca- mento morfologico (la cesura morfemica nella base è tra meteoro- e -logia), ma può essere facilmente spiegata con l’interazione tra una tendenza alla massima brevità dell’output di un’apocope e il fatto che la gran parte delle apocopi di parole di origine colta termini per -o.

5. Apocope e dinamica centro/periferia All’interno del corpus considerato la ripartizione delle apocopi secondo i modi di formazione esposti nel paragrafo precedente è la seguente:

315 (8) prosodiche (bicicletta → bici) 107 prosodiche con riaggiustamento, (benzina → benza) 20 prosodiche / morfologiche (fotografia → foto) 119 totale prosodiche 246 morfologiche (tossicodipendente → tossico) 45 morfologiche con riaggiustamento (canottiera → canotta) 12 totale morfologiche 57 altre spiegazioni (parà, prof, meteo) 36 totale 339 cifre assolute Come si vede dalla tabella (8), anche dal punto di vista quantitativo, è possi- bile tracciare in maniera abbastanza netta una linea che separa un centro di fenomeni regolari e prevedibili da una periferia di manifestazioni meno rego- lari anche all’interno del procedimento che forma apocopi in italiano. È an- che possibile stabilire una serie di parametri secondo i quali calcolare la maggiore o minore centralità (o, in altri termini, prototipicità) di un’apocope rispetto ad un’altra. Poiché si tratta, evidentemente, di parametri parzialmente contrastanti, le apocopi centrali, più prototipiche, saranno non quelle che li rispettano appieno, ma quelle che si allontanano il meno possibile da ciascu- no di essi.13 Nello specifico, mi sembra che queste siano quelle prosodiche. In particolare, mi sembra che un’apocope debba rispondere a tre esigenze fondamentali: 1) brevità: un’apocope deve essere sempre più breve della sua base, e la forma prescelta sarà sempre la più breve possibile. Questo significa che la ri- duzione operata da un’apocope può variare da zero (come nel caso di Dalco, etc.) a una porzione consistente della base, e che l’output può, a sua volta, variare in maniera anche significativa nella dimensione, dal monosillabo a- perto ((giardino) zoologico → zoo, /dzO/) al tri- o al quadrisillabo (otorinola- ringoiatra → otorino); 2) comprensibilità: l’apocope migliore sarà quella che unisce il massimo di brevità al massimo di comprensibilità, intesa come trasparenza nel rappor- to tra la base e l’output; è ovvio che questa condizione contrasta in maniera netta con 1), poiché più un’apocope è breve, maggiori saranno le difficoltà a ricondurla univocamente ad una base e maggiore l’ambiguità; ————— 13 Tali osservazioni si ispirano, almeno nella filosofia di fondo, a teorie come quella dell’ottimalità (Prince/Smolensky 1993), basate sull’idea che, in fonologia, la forma preferita è non tanto quella che rispetta tutte le condizioni possibili, ma quella che le viola in maniera meno decisiva.

316 3) adeguatezza al sistema fonologico della lingua: l’apocope migliore è quella che non viola le regole fonologiche di una determinata lingua; per questo, le apocopi che seguono lo schema della parola minima sono più pro- totipiche delle apocopi monosillabiche, e/o tronche, e/o che terminano per consonante. Finora si è parlato di centro e periferia per l’apocope solamente per quan- to riguarda la fonologia, è probabile però che le tre condizioni appena illu- strate vadano integrate con considerazioni legate agli altri livelli di analisi linguistica, e che si possa parlare, quindi, di apocopi più o meno prototipiche anche dal punto di vista morfologico, semantico, etc. Dal punto di vista mor- fologico, ad esempio, un’apocope prototipica conserva inalterati la categoria lessicale e i tratti di sottocategorizzazione della base, dal punto di vista se- mantico, il suo significato rappresenta solamente una variante connotata in senso valutativo del significato della base. Così, una forma come rotocalco (← rotocalcografia) che ha il significato idiosincratico di “rivista illustrata” è sicuramente meno prototipica dell’apocope di un nome proprio. Abbiamo visto nel §2 che la dinamica centro/periferia è stata spesso usata all’interno della grammatica generativa per escludere a priori una serie di fe- nomeni, nel caso che ci interessa l’apocope. In realtà, mi sembra evidente a questo punto che si tratta non tanto di un modello utile a tracciare confini netti tra un procedimento e l’altro, quanto piuttosto di una rappresentazione che deve essere considerata trasversale rispetto alla ripartizione tra i fenome- ni, e che anche all’interno di un fenomeno apparentemente più marginale è possibile individuare un centro e una periferia. Come non vedere, ad esem- pio, la coincidenza tra l’affermazione di Chomsky (1981, 123), secondo cui “each actual language will incorporate a large periphery of borrowings, hi- storical residues, inventions, and so on”, e le cause per la formazione di apo- copi non prototipiche elencate nel paragrafo precedente?

6. Conclusione A questo punto, mi sembra chiaro che la perifericità di un procedimento co- me l’apocope dal punto di vista sociolinguistico non deriva automaticamente dalla sua presunta perifericità all’interno della grammatica. A parziale con- ferma di questo fatto si può portare l’esempio di prof. Nel §3 si è visto che prof è una delle apocopi in maggiore espansione nello standard, il che si ma- nifesta nell’uso massiccio che ne viene fatto nella prosa giornalistica. Dal punto di vista della grammatica, tuttavia, prof è tutt’altro che prototipica; in particolare, è monosillabica, laddove le apocopi tipiche dell’italiano sono bi-

317 sillabiche, e termina con una consonante, tra l’altro non ammessa in italiano in fine di parola.14 Qual è allora la ragione della perifericità sociolinguistica dell’apocope in italiano e in altre lingue? Vi è una ragione intrinseca a questo procedimento o si tratta di una mera casualità? Personalmente, ritengo piuttosto che la perifericità sociolinguistica dell’apocope sia da attribuire alla convergenza di due fattori decisivi, e par- zialmente collegati. In primo luogo, dal punto di vista semantico, essa espri- me soprattutto la familiarità, la vicinanza tra il locutore e la realtà denotata.15 Non è un caso, credo, che la stragrande maggioranza delle apocopi si osservi, nelle lingue del mondo, per la formazione di ipocoristici. Non ho gli stru- menti per dimostrarlo in questa sede, ma mi sembra fortemente probabile, anzi, che alla base della nascita di questo fenomeno, vi sia proprio la forma- zione degli ipocoristici. In secondo luogo, si tratta di un’operazione di tipo sottrattivo, laddove i procedimenti morfologici di tipo concatenativo sono di gran lunga preponderanti nelle lingue del mondo. Curiosamente, tale osser- vazione non trova spazio nei lavori morfologici di ispirazione generativista che negano la possibilità di trattare l’apocope in termini di regolarità, benché essa sarebbe assai più decisiva, a mio avviso, di quelle addotte. Tuttavia, questo potrebbe essere sì un argomento convincente per attribuire una posi- zione marginale all’apocope e ai fenomeni analoghi all’interno della morfo- logia dell’italiano e delle altre lingue, ma contemporaneamente, esso non e- scluderebbe a priori la possibilità di darne una spiegazione in termini di rego- larità e di prevedibilità. La minore centralità dei procedimenti morfologici sottrattivi, e dunque anche dell’apocope, è stata messa in luce, invece, più volte nell’ambito della morfologia naturale. Secondo la morfologia naturale (cf. ad esempio Dressler 1985, 328–329) la miglior relazione diagrammatica, ossia di iconicità tra forma e senso, si realizza nel caso dei procedimenti mor- fologici additivi, mentre i procedimenti sottrattivi sono addirittura antidia- grammatici in quanto la riduzione della forma è in contrasto con l’aumento di significato che si realizza nella relazione tra l’input e l’output in un’operazione morfologica. Per questo, come osserva Dressler (1985, 328), le operazioni morfologiche che prevedono una riduzione del significante dell’output rispetto all’input sono assai rare e non si incontrano praticamente

————— 14 Ricordo che le consonanti ammesse in fine di parola in italiano sono le sonoranti e la /s/. 15 Sulla semantica dell’apocope cf. in particolare Wierzbicka (1984), Montermini (1999), Thornton (in stampa).

318 mai nella morfologia di gran parte delle lingue, in particolare indoeuropee. L’unico caso di procedimento morfologico sottrattivo che, sempre secondo Dressler, è produttivo è, appunto, quello degli ipocoristici o diminutivi, che, come abbiamo visto, in diverse lingue, tra cui anche l’italiano hanno spesso la forma di apocopi. Quello però che è più interessante nell’analisi di Dres- sler è che la marginalità dei procedimenti morfologici sottrattivi è stipulata sulla base di osservazioni empiricamente convincenti e ben documentate nel- le diverse lingue. Per rispondere alla domanda formulata nell’introduzione, vi sono effetti- vamente procedimenti morfologici che per loro natura sono più legati a regi- stri non standard della lingua, ma non centralità sociolinguistica non significa automaticamente irregolarità e non prevedibilità. Spero di avere dimostrato che la dinamica centro/periferia, al contrario, deve essere considerata come utile e fruttuosa solo se contestualizzata in relazione al punto di vista da cui si osserva la lingua, per non dare spazio a equivoci che rischiano di compro- metterne l’interesse di ricorrere ad essa e la sua adeguatezza esplicativa.

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320 Variazione linguistica e sintassi teorica: il caso dei dimostrativi-wh nelle varietà alto-italiane Nicola Munaro

1. Introduzione Il principale obiettivo del presente contributo è quello di evidenziare la rile- vanza dell’analisi della variazione linguistica, a livello sia diatopico che dia- cronico, nella definizione di un quadro empirico sufficientemente esaustivo da consentire la formulazione di ipotesi teoriche di una certa attendibilità. Verrà avanzata la proposta che l’elemento interrogativo kwe attestato in numerose varietà piemontesi e liguri sia analizzabile, sulla base dei dati ri- portati nell’Atlante Italo Svizzero, come derivato diacronicamente dal tron- camento del dimostrativo kwelu.1 Questa ipotesi sembra empiricamente supportata dall’uso del dimostrativo quello, attestato in vari dialetti alto-italiani ed in italiano standard, in funzio- ne di costituente-wh interrogativo e relativo, nonché dall’utilizzazione del dimostrativo, attestata invece sul piano diacronico in piemontese, in frasi e- sclamative e relative. Si tenterà inoltre, sulla base dell’ipotesi avanzata, di fornire un’analisi della strutturazione interna di kwe proponendo che tale elemento, essendo connesso derivativamente al dimostrativo quello, sia caratterizzato da una struttura più complessa rispetto agli altri sintagmi interrogativi; in particolare, esso sarebbe assimilabile strutturalmente ad una relativa libera mancante della predicazione dell’elemento relativizzato; si evidenzierà anche come questa analisi renda conto delle peculiari proprietà distribuzionali di kwe in una delle varietà considerate.

————— 1 L’analisi di kwe proposta qui è stata formulata per la prima volta nel sesto capito- lo della mia tesi di dottorato (Munaro 1997). Una successiva, più elaborata ver- sione del lavoro è stata presentata a Going Romance XIII (Leiden, 1999) ed alla Sesta giornata italo-americana di dialettologia (Padova, 2000) ed è in corso di stampa nel volume Going Romance 1999: selected papers. La presente versione è stata invece presentata al Secondo incontro di dialettologia (Bristol, 2000) ed a Parallela IX (Salzburg, 2000). Ringrazio l’uditorio dei suddetti convegni per le utili osservazioni; ringrazio inoltre P. Benincà per aver letto e commentato una precedente versione di questo lavoro e G. Cinque, M. Parry e M. Vai per i com- menti relativi a diversi aspetti dell’analisi; naturalmente la responsabilità di quan- to proposto è soltanto mia. In mancanza di indicazioni specifiche, i dati dialettali presentati qui si intendono desunti dall’ASIS (Atlante Sintattico dell’Italia Setten- trionale), un progetto di ricerca in corso di realizzazione presso il Centro di Stu- dio per la Dialettologia Italiana del CNR con sede in Padova.

321 Si mostrerà infine che, in base al valore semantico dell’elemento implica- to, l’acquisizione di un tratto interrogativo nei dimostrativi implica necessa- riamente la perdita di alcuni tratti semantici inerenti.

2. Quello (che) in italiano standard In italiano standard il dimostrativo quello può fungere da elemento testa di una frase relativa restrittiva in cui esso può riferirsi ad un referente specifico appartenente ad un insieme conosciuto ad entrambi gli interlocutori.2 (1) a. Quello che mi hanno mandato non mi piace. b. Preferisco quello che hai comprato. Nello stile colloquiale quello è attestato in interrogative subordinate con il si- gnificato più generico di che cosa; esso è tuttavia, diversamente dall’elemen- to-wh cosa, obbligatoriamente seguito dal complementatore che: (2) a. Non so quello *(che) ha fatto ieri. b. Ho chiesto loro quello *(che) hanno visto. (3) a. Non so cosa (*che) ha fatto ieri. b. Ho chiesto loro cosa (*che) hanno visto. Inoltre, la struttura esemplificata in (1) può essere selezionata solo da predi- cati che possono sottocategorizzare anche dei sintagmi nominali: (4) a. Non so la soluzione/il motivo/i dettagli. b. Ho chiesto la soluzione/il motivo/i dettagli. (5) a. ??Mi domando quello che ha fatto ieri. b. ??Mi domando quello che hanno visto. c. ??Mi domando la soluzione/il motivo/i dettagli. L’impossibilità di omettere il complementatore e la restrizione ad una speci- fica classe di predicati induce ad analizzare le frasi subordinate di (2) come delle relative; proporrò quindi, seguendo l’analisi delle frasi relative proposta da Kayne (1994), che quello salga dalla posizione argomentale interna alla relativa fino ad una posizione strutturale situata nella periferia frasale sini- stra. È inoltre plausibile ipotizzare che nelle interrogative subordinate introdot- te da quello la predicazione dell’elemento-wh stesso (testa della frase relati- va) sia banalmente soddisfatta dal costituente frasale introdotto dal comple- mentatore che. ————— 2 I giudizi di grammaticalità relativi agli esempi inclusi in questa sezione sono miei, ma sono stati verificati con altri parlanti.

322 3. Un excursus diacronico dei dimostrativi-wh in piemontese In questa sezione si evidenzierà come sia ampiamente documentata in pie- montese, sia a livello diacronico che sincronico, l’utilizzazione in funzione di costituenti-wh di forme correlate con il dimostrativo.

3.1. I dati del XIX secolo Come discusso ampiamente in Parry (in corso di stampa), in alcuni testi pie- montesi del XIX secolo sono attestati casi di esclamative introdotte da dimo- strativi (o pronomi personali derivanti da un dimostrativo) seguiti dal com- plementatore che che introduce un complemento frasale:3 (6) a. O costa si, ch’a l’é na brava fia (Il conte Pioletto (1784), p.56) oh questa si, che scl-scl-è una brava figlia ‘Oh, questa sì che è una brava ragazza!’ b. Chila ch’a l’é fin-a! (Marioma Clarin (c.1860), p.97) quella che scl-scl-è fine! ‘Lei è veramente raffinata!’ c. Côl ch’ a l’é un toch d’ un aso! (I fastidi d’un grand om (1881), p.148) quello che scl-scl-è un pezzo di un asso! ‘Lui è veramente un asso!’ (7) a. È cola Brigida c’a l’è ancora nen tornà d’an piassa! (Le miserie (1863), p.59) e quella Brigida che scl scl è ancora non ritornata da in piazza! ‘È (quella) Brigida che non è ancora ritornata dalla piazza!’ b. O lò ch’i sent! (Un bacan spiritual (1867), p.17) oh! quello che scl-sento! ‘Oh, cosa sento!?’ Intorno alla metà del secolo cominciano ad essere attestati nel corpus analiz- zato complementatori foneticamente realizzati in relative introdotte dall’ele- mento-wh chi: (8) a. E ch’ a-i ven-a chi ch’ a veul... (La Cichin-a‘d Moncalé (c.1850), p.30) e che scl-scl-vengano chi che-scl-vuole ‘E che venga chi(unque) vuole...’ b. Chi ch’ a dipend nen da chila (Guera o pas (1859), p.27) chi che scl-dipende non da quella ‘Chiunque non dipenda da Lei’ c. A chi ch’ a j pias nen parèj (Marioma Clarin (c.1860), p.100) a chi che scl-gli-piace non così ‘Per coloro ai quali non piace questo’ ————— 3 Per un dettagliato elenco delle fonti letterarie da cui sono attinti i dati riportati in questa sezione si rimanda all’articolo di M. Parry citato in bibliografia da cui essi sono stati tratti.

323 Secondo Parry, l’inserzione di che distingue qui due funzioni precedente- mente associate in una singola forma, e potrebbe essere stata favorita dall’e- sistenza di costruzioni relative contenenti il dimostrativo quello seguito da che come la seguente: (9) Côl ch’ a parla quello che scl-parla ‘Quello/La persona che parla’ Parry propone inoltre che tali strutture possano aver contribuito alla diffusio- ne di che nelle interrogative, data la parziale corrispondenza semantica e morfologica di pronomi relativi ed interrogativi: (10) a. Sevo lòn ch’ i veuj fé? sapete-cl quello che scl-voglio fare? ‘Sapete che cosa voglio fare?’ b. Dime lòn/col ch’ it veule dimmi quello che scl-vuoi ‘Dimmi che cosa/quale vuoi’ (El nodar onorà (1774–79), p.57) Strutture introdotte da lò(n) che e col che, originariamente analizzate come relative restrittive, potrebbero cioè essere state reinterpretate come interroga- tive incassate in contesti in cui il predicato matrice permette questa interpre- tazione.4

3.2. I dati dell’AIS I dati riportati nell’Atlante Italo-Svizzero riguardanti il pronome dimostrativo quello ed il pronome interrogativo cosa nell’area italiana nord-occidentale possono essere riassunti nel seguente schema:

(11) 5 cosa quello ligure: cos(a)/cose/cusi kwelo/kwelu/kölu piemontese meridionale: cosa lo/lu piemontese centrale: kwe/kwa lon/lun piemontese settentrionale: kwe kul(lu) valdostano: kye (t)sò/sèn

————— 4 Secondo Levi (1927) la forma lo sarebbe da ricondurre etimologicamente al latino illum e da analizzare come una formazione analogica sulla forma so, mentre la sua variante lon sarebbe analogica su son; si veda anche più avanti la nota 8. 5 Le carte dell’AIS che sono state utilizzate sono la VI 1113 ‘...cosa ne fareste?’, la VIII 1589 ‘pagatemi quello... (che mi dovete!)’ e la VIII 1661 ‘faranno ciò che vorranno’.

324 Questo quadro riassuntivo suggerisce le due seguenti generalizzazioni de- scrittive: – le forme kwélo/kwélu/kölu del dimostrativo quello sono attestate solo nei dialetti liguri che hanno la forma cosa (o varianti di essa) per il sintagma- wh cosa; – i dialetti piemontesi centro-settentrionali ed il valdostano, dove l’ele- mento-wh cosa è espresso principalmente dalla forma kwe (o da sue varianti) mancano della forma kwélo/kwélu del dimostrativo. Sulla base di questi dati osservativi, avanzerò l’ipotesi che la forma kwe attestata in piemontese possa derivare dalla riduzione, attraverso la perdita della seconda sillaba, dell’originaria forma dimostrativa kwe(lo/lu) che sa- rebbe passata ad un uso interrogativo, essendo sostitutita nell’uso dimostrati- vo da forme alternative.6

3.3. I dati del piemontese centro-settentrionale contemporaneo La forma lò(n) è attestata attualmente in numerosi dialetti piemontesi in frasi interrogative principali come elemento-wh nel significato di che cosa. In (12) sono riportati degli esempi in torinese in cui si vede come lon sia sempre se- guito dal complementatore: (12) a. Lon ch’ i devo caté? quello che-scl-devo comprare? ‘Che cosa devo comprare?’ b. Lon ch’ it l’has fait? quello che scl-cl-hai fatto? ‘Che cosa hai fatto?’ ————— 6 Che l’uso interrogativo di forme connesse al dimostrativo fosse piuttosto diffuso in quest’area già nella prima metà del XX secolo (i dati dell’AIS sono stati raccol- ti tra il 1919 ed il 1926) sembra dimostrato dai seguenti esempi riportati per la carta VI 1113 rispettivamente nelle varietà di Pianezza, Cavaglià e Sauze di Ce- sana: (i) a. Kul è chi nu fe? quello è che ne fate? b. Lun chi na fey? quello che ne fate? c. Kela cu nèm farìa? quello che ne fareste? ‘Che cosa ne fareste?’ Come si è già anticipato alla nota 1, in mancanza di diversa indicazione, i dati ri- portati nelle sezioni successive sono desunti dall’ASIS, il progetto di ricerca tutto- ra in corso che mira alla elaborazione di un atlante sintattico di un campione suf- ficientemente rappresentativo di varietà alto-italiane.

325 L’uso di lò(n) che in interrogative principali è presumibilmente da ricondurre all’uso esclamativo o, più probabilmente, al suo uso originario in costruzioni relative, come esemplificato in (10).7 L’inversione tra verbo e pronome clitico soggetto è attestata con l’elemento-wh còs(a) in torinese, in (13), come pure con la forma soc (deri- vante dalla fusione del dimostrativo so con il complementatore) in altre va- rietà come quella di Rodoretto di Prali esemplificata in (14):8 (13) a. Còs dev-ne caté? cosa scl-devo-cl comprare? ‘Che cosa devo comprare?’ b. Còsa it l’ has-to fàit? cosa scl-cl-hai-scl fatto? ‘Che cosa hai fatto?’ (14) a. E mi, soc minjou-lò? e io, quello-che mangio-scl? ‘Ed io, che cosa mangio?’ b. Soc al aourè-lò dit Giorgi quello-che scl-avrebbe-scl detto Giorgio? ‘Che cosa avrebbe detto Giorgio?’ Come evidenziato da Parry (in corso di stampa), in alcune varietà piemontesi la struttura scissa è obbligatoria in interrogative principali introdotte da ele- menti-wh formati dal dimostrativo, che, come si vede in (15b), non può esse- re seguito direttamente dal nome a cui si riferisce: (15) a. Cole ch’ a-son le cite ch’ it conosse? quelle che scl-sono le ragazze che-scl-conosci? ‘Quali sono le ragazze che conosci?’ ————— 7 Si noti che in torinese l’elemento-wh lon sembra essere l’unico ad ammettere la cooccorrenza di complementatore ed inversione tra verbo flesso e pronome clitico soggetto, che sono generalmente incompatibili, anche in altre varietà italiane set- tentrionali; nel seguente esempio, attestato nell’ASIS, il complementatore è segui- to dal clitico vocalico a, dal clitico preverbale l’ e dall’ausiliare flesso cui si encli- ticizza un secondo pronome soggetto: (i) Lon c’ a l’ a-lo fat? quello che scl-cl-ha-scl fatto? ‘Che cosa ha fatto?’ 8 Etimologicamente, la forma so deriva secondo Levi (1927) dal latino ecce hoc, mentre son, di cui la forma sen esemplificata in (27) e (28) potrebbe essere una variante, sarebbe collegabile ad ecce hunc. Se questa analisi etimologica è corret- ta, la forma soc in (14) può venire analizzata come derivante dalla fusione del di- mostrativo so con il complementatore, esattamente come si può (più chiaramente) vedere in (27) e (28); come si è osservato sopra, anche il dimostrativo lo(n) è ge- neralmente seguito dal complementatore.

326 b. Col ch’ a l’ é ‘l to can? quello che-scl scl-è il tuo cane? ‘Qual’è il tuo cane?’ Il costituente interrogativo è seguito in questo caso dal complementatore che introduce una struttura predicativa in cui il nome cui si riferisce l’elemento- wh appare in positione postverbale, eventualmente modificato da una frase relativa, come in (15a).

4. L’elemento-wh kwe 4.1. Kwe in posizione iniziale Nei dialetti piemontesi centro-settentrionali kwe è attestato come elemento- wh con il significato di che cosa; esso appare generalmente in posizione ini- ziale di frase seguito dal complementatore che; gli esempi riportati in (16) e (17) sono rispettivamente delle varietà di Borgofranco d’Ivrea e di Livorno Ferraris: (16) a. Kwe che foma adess? quello che facciamo adesso? ‘Che cosa facciamo adesso?’ b. Kwe che devo catar? quello che devo comprare? ‘Che cosa devo comprare?’ (17) a. Kwe ch’ i mangg? quello che scl-mangio? ‘Che cosa mangio?’ b. Kwe ch’ a fann? quello che scl-fanno? ‘Che cosa stanno facendo?’ I seguenti esempi, ancora della varietà di Livorno Ferraris, mostrano che an- che nei contesti selezionati kwe è obbligatoriamente seguito dal complemen- tatore: (18) a. I-sai nen kwe ch’ al faja Gianni scl-so non quello che scl-faccia Gianni ‘Non so che cosa faccia Gianni’ b. Dimi kwe ch’ a mangia Maria dimmi quello che cl-mangia Maria ‘Dimmi che cosa mangia Maria’ Come ha osservato Tortora (1997), nella varietà piemontese nord-orientale di Borgomanero gli elementi-wh in generale possono opzionalmente essere se-

327 guiti dal complementatore in frasi interrogative sia principali che subordina- te, come esemplificato rispettivamente in (19) e (20): (19) a. Chi (ca)l venja stasera? chi (che)scl venga stasera? ‘Chi viene stasera?’ b. Cus (ch)i möngiu? cosa (che)scl mangiano? ‘Che cosa mangiano?’ c. Quöndu (c)l à parlà? quando (che)scl ha parlato? ‘Quando ha parlato?’ (20) a. I so mija chi (c)l à mangià la torta scl-so mica chi (che)scl-ha mangiato la torta ‘Non so chi ha mangiato la torta’ b. I so mija cus (ca) tal möngi scl-so mica cosa (che) scl-mangi ‘Non so che cosa mangi’ L’unico elemento-wh che fa eccezione sotto questo aspetto è kwe; il borgo- manerese è quindi l’unico dialetto in cui kwe non è mai seguito dal comple- mentatore (né in frasi principali né in frasi secondarie): (21) a. I so mija kwe (*ca) tal möngi scl-so mica quello (*che) scl-mangi ‘Non so che cosa mangi’ b. Me i ciami kwe (*ca) tal fè mi scl-domando quello (*che) scl-fai ‘Mi domando che cosa fai’ Proporrò di interpretare tale dato come indizio del fatto che, diversamente da quanto accade in altri dialetti (ed in italiano standard), in questo caso la posi- zione occupata dall’elemento-wh all’interno della frase relativa non coincide con la proiezione funzionale più alta, bensì con la posizione di specificatore di una proiezione più bassa: ciò inibirebbe la realizzazione fonetica del com- plementatore nella corrispondente posizione di testa.9

————— 9 Che l’opzione di omettere il complementatore nelle relative libere possa essere connessa in alcuni casi alla presenza del dimostrativo quello è suggerito indipen- dentemente da casi di complementizer deletion come quelli esemplificati in (i), at- testati nel toscano del XV secolo e nel veneziano del XVI secolo (tratti rispetti- vamente da Scorretti 1981 e da Benincà 1995): (i) a. Nulla di quello __ mi fia possibile. b. In quelo __ desidré.

328 4.2. Kwe in situ in borgomanerese L’elemento-wh kwe è caratterizzato in borgomanerese da un’altra peculiarità, cioè dal fatto di apparire, diversamente dall’elemento-wh cus, obbligatoria- mente in situ in una interrogativa principale, come mostra il contrasto tra (22) e (23): (22) a. Cus l’ è ca tal-serchi? cosa scl-è che scl-cerchi? ‘Che cosa stai cercando?’ b. Cus t’ é mangià? cosa scl-hai mangiato? ‘Che cosa hai mangiato?’ c. Da cus i ön parlà? di cosa scl-hanno parlato? ‘Di che cosa hanno parlato?’ (23) a. Tal serchi kwe? scl-cerchi quello? ‘Che cosa stai cercando?’ b. T’ é mangià kwe? scl-hai mangiato quello? ‘Che cosa hai mangiato?’ Adotterò qui l’analisi dei wh-in situ suggerita da Pollock/Munaro/Poletto (1999) (basata a sua volta sull’analisi di Kayne/Pollock in corso di stampa).10 Proporrò quindi che, dopo la salita di kwe (contenuto all’interno di un costi- tuente frasale di tipo relativo) ad una proiezione funzionale della periferia si- nistra, la struttura frasale residua salga allo specificatore di una proiezione

————— 10 Pollock et al. (1999) propongono che una struttura interrogativa come quella e- semplificata in (i), attestata in alcune varietà venete settentrionali, sia derivabile attraverso l’applicazione di una serie di operazioni di movimento che spostano materiale lessicale a diverse posizioni strutturali della periferia sinistra della frase per verificare alcuni tratti interpretativi associati alle posizioni stesse. Secondo una versione aggiornata dell’analisi citata, l’aggiunzione del verbo flesso alla si- nistra del clitico soggetto sarebbe seguita dalla salita dell’elemento-wh ad una po- sizione più alta, seguita a sua volta dalla salita del costituente frasale residuo (contenente il participio) ad una posizione strutturale ancora più alta; infine, il nesso formato da verbo flesso e pronome clitico salirebbe alla posizione di testa della proiezione funzionale gerarchicamente più prominente, determinano l’ordine lineare attestato: (i) A-lo fat che? has-scl fatto che? ‘Che cosa ha fatto?’ Il processo derivazionale descritto sopra, prescindendo dalla prima e dall’ultima operazione, può essere utilizzato per rendere conto anche della struttura in (23).

329 più alta, identificando da tale posizione la porzione strutturale della relativa che rappresenta la predicazione dell’elemento-wh kwe.11 L’analisi proposta è potenzialmente estendibile alla distribuzione di kwe in monnese, varietà lombarda nord-orientale, per spiegarne l’occorrenza in posizione interna di frase nelle interrogative dirette: (24) a. Ch’ à-l fat kwe? che ha-scl fatto quello? ‘Che cosa ha fatto?’ b. Ch’ è-t cumprà kwe? che hai-scl comprato quello? ‘Che cosa hai comprato?’ Questa analisi dei dimostrativi-wh si basa crucialmente sulla possibilità di stabilire una configurazione strutturale che soddisfa la predicazione interna alla frase relativa dell’elemento-wh (cioè la testa della frase relativa stessa), determinandone una adeguata identificazione; questo requisito può essere soddisfatto, secondo la presente analisi, mediante il sollevamento del costi- tuente frasale residuo ad una posizione di specificatore funzionale della peri- feria frasale sinistra. Riguardo alle strutture in cui il dimostrativo appare in posizione iniziale di frase seguito dal complementatore, adotteremo l’ipotesi di Poletto/Vanelli (1995) secondo cui le interrogative-wh principali contenenti un elemento-wh seguito dal complementatore che sarebbero originate come copie di costru- zioni subordinate; più specificamente, seguendo la proposta di Parry (in cor- so di stampa), è possibile interpretare tali strutture, esemplificate in (12), (15), (16), (17) e (19), come riflettenti la struttura delle corrispondenti inter- rogative indirette (pur mancando esse del predicato introduttivo). Questo ap- proccio spiegherebbe anche le forme interrogative derivanti dai dimostrativi, che, come si è visto sopra, erano originariamente attestate in contesti selezio- nati.

————— 11 L’ipotesi che l’uso interrogativo di una forma dimostrativa possa essere connesso alla occorrenza in situ della stessa forma nelle interrogative principali riceve so- stegno empirico dalla varietà bellunese da me parlata, dove il dimostrativo kwel, diversamente dall’elemento-wh kwal, può apparire, in una interrogativa principa- le, soltanto in posizione interna di frase, come mostra il contrasto tra (ia) ed (ib): (i) a. A-tu ciot kwal/kwel? hai-scl preso quale/quello? ‘Quale hai preso?’ b. Kwal/*Kwel à-tu ciot? quale/quello hai-scl preso? ‘Quale hai preso?’

330 4.3. Una analisi alternativa di kwe La forma kwe non è attestata soltanto nel piemontese centro-settentrionale, ma anche nel Piemonte sud-occidentale (più precisamente nell’alta Val Grana e nell’alta Val d’Esturo): (25) a. Kwe péi far? quello posso fare? ‘Che cosa posso fare?’ b. Kwe fasèn? quello facciamo? ‘Che cosa facciamo?’ Parry (1999) propone di analizzare la forma kwe attestata in questi dialetti come residuo di una struttura scissa; basandosi sull’esistenza della forma ko nella varietà di Rueglio, l’autrice propone di interpretare la forma kwe del dialetto di Oglianico, esemplificata in (26a), come derivante dall’espressione ko è che, dove ko si unisce al verbo copulare è; questa ipotesi sarebbe avva- lorata dal fatto che in alcune varietà il pronome clitico soggetto l(o) si encliti- cizza all’ elemento-wh producendo la forma kwe-l(o) (come esemplificato in (26b) di nuovo con il dialetto di Oglianico): (26) a. Kwe ch’ a fan? cosa che scl-fanno? ‘Che cosa fanno?’ b. Kwel che pos faje? cosa che posso fare? ‘Che cosa posso fare?’ La vocale finale accentata di kwe deriverebbe dalla copula di una struttura ad inversione, dato che la agglutinazione del pronome sarebbe inspiegabile al- trimenti.12

————— 12 L’analisi proposta alla sezione 4.2 rende conto diversamente dell’esistenza di tali forme. È interessante notare che, come evidenziato da Parry (1998), nel dialetto di Oglianico la struttura con l’elemento-wh seguito dal complementatore che riceve l’interpretazione ordinaria, mentre la tradizionale struttura con inversione esprime sorpresa e viene perciò utilizzata in contesti pragmaticamente marcati in tal senso: (i) a. Kwe ch’ et-fè? quello che scl-fai? ‘Che cosa stai facendo?’ b. Kwe fè-të? quello fai-scl? ‘Che cosa (diavolo) stai facendo?!’

331 5. Il dimostrativo quello come elemento-wh in altri dialetti settentrionali In numerose varietà italiane settentrionali è attestato l’uso di forme correlate al dimostrativo quello in interrogative-wh sia principali che secondarie non- ché in frasi relative. In questa sezione si cercherà di fornire un quadro suffi- cientemente rappresentativo dei dati rilevanti.

5.1. I dialetti di area alpina In alcune varietà valdostane, esemplificate qui con Chatillon in (27) e Cour- mayeur in (28), la forma sen-che, probabile risultato della agglutinazione del dimostrativo con il complementatore, può introdurre frasi interrogative diret- te o indirette: (27) a. Sen-che fi-yen? quello-che facciamo-scl? ‘Che cosa facciamo?’ b. Sen-che t’ a-t feit? quello-che scl hai-scl fatto? ‘Che cosa hai fatto?’ (28) a. Sen-che fièn-nò? quello-che facciamo-scl? ‘Che cosa facciamo?’ b. Dì-me sen-che meudgie Marie dimmi quello-che mangia Maria ‘Dimmi che cosa mangia Maria’ Nella varietà lombarda settentrionale di Albosaggia, esemplificata in (29), si ritrova lo stesso fenomeno di agglutinazione tra dimostrativo e complementa- tore, mentre in quella di Villa di Tirano, in (30), il dimostrativo viene utiliz- zato come costituente-wh per introdurre una interrogativa indiretta: (29) a. Chel-ca mai? quello-che mangio? ‘Che cosa mangio?’ b. So chel c’al-fa al Gianni so quello che-scl-fa il Gianni ‘So che cosa fa Gianni’ (30) a. So miga quel ca’l fa al Giani so mica quello che-scl-fa il Gianni ‘Non so che cosa fa Gianni’ b. Dim quel ca la mangia Maria dimmi quello che scl-mangia Maria ‘Dimmi che cosa mangia Maria’ Nella varietà lombarda nord-orientale di Monno si riscontra invece, nelle in- terrogative indirette, un uso piuttosto peculiare del dimostrativo quello, nel

332 senso che la forma singolare e quella plurale si specializzano semanticamen- te; come esemplificato rispettivamente in (31) e (32), il singolare col viene usato con il significato di che cosa, mentre il plurale cü significa chi: (31) a. Dim col che la maja la Maria dimmi quello che scl-mangia la Maria ‘Dimmi che cosa mangia Maria’ b. M-domandio de col che j-à ciacolà mi domando di quello che scl-hanno parlato ‘Mi domando di che cosa hanno parlato’ (32) a. ‘L so miga cü ch’ à ciacolà con la Maria cl so mica quelli che hanno parlato con la Maria ‘Non so chi ha parlato con Maria’ b. I domandarò cü che à telefonà ‘stasera gli domanderò quelli che hanno telefonato stasera ‘Gli domanderò chi ha telefonato stasera’ In qualche altra varietà lombarda orientale, come quella di Marone, il dimo- strativo quello può essere utilizzato come elemento testa di una relativa ap- positiva:13 (33) a. Maria, chela che ta conoset a te, l’ é a Napoli Maria, quella che scl-conosci anche tu, scl-è a Napoli ‘Maria, che conosci anche tu, è a Napoli’ b. Carlo, chél che ’l maja tant, l’ é piü magher de te Carlo, quello che scl-mangia tanto, scl-è più magro di te ‘Carlo, che mangia molto, è più magro di te’ L’utilizzazione del dimostrativo in frasi relative, sia restrittive che appositive, è attestato anche nell’area nord-orientale, e precisamente nel dialetto cadori- no di Vodo di Cadore: (34) a. Chel riedo a chel che te goles dà al libro l’è partì quel ragazzo a quello che scl-volevi dare il libro scl-è partito ‘Il ragazzo al quale volevi dare il libro è partito’

————— 13 In alcune varietà piemontesi sud-occidentali, come quelle di Mondovì e Fontane esemplificate in (ia) ed (ib), troviamo, al contrario, l’elemento cosa nel secondo termine di paragone di costrutti comparativi dove invece viene comunemente uti- lizzato il dimostrativo: (i) a. Gianni o-è pi furb ‘d cos ‘t credi Gianni scl-è più furbo di cosa scl-credi ‘Gianni è più furbo di quello che credi’ b. Gianni l’oi ‘d pì fuib’ d cus cred Gianni scl-è di più furbo di cosa credi ‘Gianni è più furbo di quello che credi’

333 b. Mario, a chel che goleo dai an libro, l’è ormai sindù Mario, a quello che volevo dargli un libro, scl-è ormai andatosene ‘Mario, al quale volevo dare un libro, se n’è già andato’ c. L’è proprio Franco chel che no goleo incontrà scl-è proprio Franco quello che non volevo incontrare ‘È proprio Franco che non volevo incontrare’ Si ritrova invece nuovamente l’uso in funzione interrogativa, in contesti non selezionati, nelle varietà di area bellunese: (35) a. A-tu ciot kwel? hai-scl preso quello? ‘Quale hai preso?’ b. Ghe regale-li kwel? gli regalano-scl quello? ‘Quale gli regalano?’ L’utilizzazione del dimostrativo in frasi interrogative e relative è quindi atte- stato piuttosto ampiamente nell’intero dominio italiano settentrionale.

5.2. I dialetti liguri In numerose varietà liguri di area genovese le due forme kwelu e kwe possono entrambe essere utilizzate in funzione interrogativa nel significato di quale. In (36) sono riportati alcuni esempi dal dialetto di Arenzano, in cui kwelu può comparire in frasi interrogative principali in funzione pronominale: (36) a. Kwelu l’ e c u t a scozìu? quello scl-è che scl-ti ha criticato? ‘Quale ti ha criticato?’ b. Cun kwelu ti te vedi? con quello scl-ti-vedi? ‘Con quale ti incontri?’ c. Kwelu ti e sernüü? quello scl-hai scelto ‘Quale hai scelto?’ Nelle varietà di Fontanigorda e Arzeno, esemplificate in (37) e (38), è invece la forma ridotta kwe ad essere utilizzata come elemento interrogativo, in fun- zione sia nominale che aggettivale:14

————— 14 In funzione aggettivale è attestato tuttavia l’uso della forma che, sia nella varietà di Arenzano che in quella di Fontanigorda, dove essa alterna con quale e kwelu, come esemplificato in (i) e (ii) rispettivamente: (i) a. Che culéga u ratéla cun ti? che collega scl-litiga con te?

334 (37) a. Kwe lìbbru ti sèrni? quel libro scl-scegli? ‘Quale libro scegli?’ b. Kwe t e sernüu? quello scl-hai scelto? ‘Quale hai scelto?’ (38) a. Kwe culega u l’a ratellòu cun ti? quel collega scl-ha litigato con te? ‘Quale collega ha litigato con te?’ b. Kwe u te crìtiche? quello scl-ti-critica? ‘Quale ti critica?’ c. Cun kwe ti t’ incuntri? con quello scl-ti-incontri? ‘Con quale ti incontri?’ Secondo l’analisi di Cuneo (1997), anche nel dialetto di Cicagna il pronome dimostrativo kölu, corrispondente a quello, può essere usato, invariabilmente seguito dal complementatore, in frasi interrogative principali per rendere l’elemento-wh quale: (39) a. Kölu che t’ à telefunò? quello che ti ha telefonato? ‘Quale ti ha telefonato?’ b. Kölu che t’ è pestò? quello che scl-hai picchiato? ‘Quale hai picchiato?’ c. De kölu che ti m’ è parlò? di quello che scl-mi-hai parlato? ‘Di quale mi hai parlato?’ L’elemento-wh kölu non può però mai apparire adiacente al nome a cui si ri- ferisce, che è sempre dislocato a destra, come si vede in (40): (40) a. Kölu che t’ à telefunò, culèga? quello che ti ha telefonato, collega? ‘Quale collega ti ha telefonato?’

‘Quale collega litiga con te?’ b. Che libru ti e sernüu? che libro scl-hai scelto? ‘Quale libro hai scelto?’ (ii) Cun che/quale culèga ti t e incuntròu? con che/quale collega scl-ti-hai incontrato? ‘Con quale collega ti sei incontrato?’ Nella varietà di Arzeno la forma che alterna invece con kwe in funzione aggettivale: (iii) Che/Kwe libru t’ insérni? che/quel libro scl-scegli? ‘Quale libro scegli?’

335 b. Kölu che ti ö, vin? quello che scl-vuoi, vino? ‘Quale vino vuoi?’ Kölu può anche assumere il significato, più neutrale, di che cosa; ciò accade più frequentemente quando esso introduce una interrogativa indiretta, come esemplificato in (41b); si noti inoltre che nella struttura scissa in (41a) kölu è comunque seguito dal complementatore: (41) a. Kölu che l’ è che ti m’ è dìtu? quello che scl-è che scl-mi-hai detto? ‘Che cosa mi hai detto?’ b. Dime kölu che ti gh’ è acatò dimmi quello che scl-gli-hai comprato ‘Dimmi che cosa gli hai comprato’ Nei dialetti liguri l’acquisizione di un tratto-wh non sembra quindi associata alla sostituzione del dimostrativo con una forma morfologicamente diversa, in quanto è attestata soltanto una forma ridotta; ciò è presumibilmente dovuto al fatto che nell’uso interrogativo del dimostrativo viene mantenuta una componente semantica di referenzialità che lo rende ancora compatibile con la sua funzione originaria: la specificità interpretativa dell’elemento interrogativo quale è infatti quella di richiedere l’identificazione del referente all’interno di un insieme di entità noto ad entrambi gli interlocutori.

6. La perdita del tratto [+deittico] nei dimostrativi-wh Vanelli (1992) evidenzia l’esistenza, in italiano standard, di un uso particola- re del dimostrativo quello in cui il suo valore deittico è neutralizzato; ciò ac- cade quando quello è seguito da un aggettivo, un sintagma preposizionale o una frase relativa: (42) a. Di queste gonne, quella (*gonna) nera costa di meno. b. Prendi una penna... prendi quella (*penna) nell’astuccio, qui. c. Quella (*stanza) in cui ci troviamo ora è la stanza più calda della casa. L’autrice osserva che in questi contesti quello perde la sua funzione di indi- catore di deissi, mantenendo solo la funzione di indicatore di definitezza; in altre parole, quello sembra fungere da determinatore e può quindi essere vi- sto come forma suppletiva dell’articolo definito usata quando l’articolo ha funzione pronominale (nel senso che il nome a cui si riferisce è omesso). Va- nelli nota inoltre che, come risulta chiaro dagli esempi in (43), l’uso prono- minale dell’articolo con l’omissione del nome è possibile soltanto prima di un aggettivo:

336 (43) a. Di queste gonne, la ___ nera costa di meno. b. Prendi una penna; *prendi la ___ nell’astuccio qui. c. *La ___ in cui ci troviamo ora è la stanza più calda della casa. Analogamente, in (44a) il sintagma quella matita nera si referisce ad una ma- tita specifica, diversamente dal sintagma quella rossa in (44b), dove il refe- rente del sintagma la matita nera non è unico, ma è moltiplicabile in base al numero dei destinatari coinvolti: (44) a. Non scrivete con quella matita nera. b. No, non usate la matita nera; vi ho detto di scrivere con quella/la rossa. Il fatto che in (44b) quello abbia referenza multipla (tipica dell’articolo e di solito esclusa per elementi deittici) mostra secondo Vanelli che in questo par- ticolare contesto quello funge realmente da articolo (da cui esso può effetti- vamente essere sostituito). Facendo riferimento all’analisi di Brugè (2000), secondo cui i dimostrati- vi sono definiti come elementi caratterizzati dai due tratti semantici inerenti [+referenziale]/[+deittico], sembra quindi possibile ipotizzare che un proces- so di impoverimento deittico simile a quello esemplificato in (42)/(44) sia at- tivo nelle strutture interrogative analizzate nei precedenti paragrafi. È quindi ragionevole assumere che l’acquisizione del tratto-wh implichi almeno la per- dita del tratto [+deittico].15 Dal momento che nei dialetti liguri il dimostrativo-wh è interpretato come quale (richiedendo l’identificazione di un elemento appartenente ad un in- sieme ben definito), in queste varietà il tratto [+referenziale] deve essere pre- sumibilmente mantenuto accanto al nuovo tratto-wh. Nel suo uso interrogativo nei dialetti piemontesi, valdostani e lombardi il dimostrativo-wh è interpretato come che cosa, e non richiede quindi l’identificazione di un referente specifico all’interno di un insieme la cui co- ————— 15 Ciò sembra dimostrato indipendentemente, ad esempio, dall’impossibilità per il dimostrativo-wh kwel di cooccorrere con la particella deittica là in bellunese: (i) a. A-tu ciot kwel (*là)? hai-scl preso quello (*là)? ‘Quale hai preso?’ b. A-tu ciot kwel *(là)? hai-scl preso quello *(là)? ‘Hai preso quello?’ La struttura esemplificata in (ia), in cui la presenza della particella locativa pro- voca agrammaticalità, può soltanto essere interpretato come interrogativa-wh e kwel viene interpretato come quale; al contrario (ib), in cui kwel, accompagnato dalla particella locativa, funge da vero dimostrativo, è interpretata come interro- gativa si/no.

337 noscenza è condivisa dal parlante e dall’ascoltatore; possiamo perciò ragio- nevolmente ipotizzare che in questo caso, come pure nel caso di occorrenza in una frase relativa, anche il tratto [+referenziale] sia stato perso e soltanto il tratto-wh acquisito venga mantenuto.

7. Conclusione Attraverso l’analisi qui presentata si è cercato di dimostrare l’importanza, nello studio di alcuni fenomeni grammaticali, e più specificamente sintattici, della variazione linguistica sincronica e diacronica in qualsiasi approccio teo- rico orientato alla formulazione di generalizzazioni osservative che possano vantare un certo grado di correttezza. Utilizzando i dati dell’AIS nonché una ampia base empirica attinta dall’ASIS, si è proposto che il costituente interrogativo kwe attestato in alcu- ne varietà italiane nord-occidentali sia analizzabile come derivante dal tron- camento del dimostrativo kwelu. Questa ipotesi è stata sostenuta dalla presentazione di alcune attestazioni diacroniche, nei dialetti piemontesi, di utilizzazione dei dimostrativi come e- lementi-wh in frasi esclamative e relative; a livello sincronico è attestato in- vece, in diverse varietà alto-italiane nonché in italiano standard, l’uso di for- me correlate al dimostrativo quello in funzione di elemento-wh in frasi inter- rogative principali e secondarie ed in frasi relative. Allo scopo di rendere conto della sua occorrenza in posizione interna di frase nelle interrogative-wh principali in una delle varietà esaminate, si è proposto che kwe possa essere analizzato strutturalmente come una frase rela- tiva libera mancante della predicazione dell’elemento-wh; tale inerente difet- tività sarebbe compensata dall’applicazione di una operazione di movimento sintattico del costituente subfrasale ad una posizione di specificatore funzio- nale della periferia frasale sinistra strutturalmente più alta di quella che ospita kwe. Infine, sulla base di alcuni dati dell’italiano standard, si è proposto che, in relazione al valore semantico del termine considerato, l’ acquisizione di un tratto-wh nei dimostrativi implichi in alcuni dialetti la perdita del tratto [+deittico] mentre in altri sia il tratto [+referenziale] che quello [+deittico] vengono necessariamente persi.

338 8. Bibliografia AIS: Jaberg, Karl/Jud, Jakob (edd.), Sprach- und Sachatlas Italiens und der Süd- schweiz, Zofingen, 1928–1940. ASIS: Benincà, Paola et al. (edd.), Atlante Sintattico dell’Italia Settentrionale, Uni- versità di Padova, (in corso). Benincà, Paola, “I dati dell’ASIS e la sintassi diacronica”, in: Banfi, Emanuele et al. (edd.), Italia Settentrionale: crocevia di idiomi romanzi, Tübingen, 1995, 133– 143. Brugè, Laura, Categorie funzionali del nome nelle lingue romanze, Milano, 2000. Cuneo, Marco, “Il sintagma interrogativo kölu...ke nel dialetto di Cicagna”, in: Qua- derni di lavoro dell’ASIS 1 (1997), 31–61. Kayne, Richard, The Antisymmetry of Syntax, Cambridge, 1994. ———/Pollock, Jean-Yves, New Thoughts on Stylistic Inversion, in: Hulk, Aaf- ke/Pollock, Jean-Yves (edd.), Inversion in Romance, New York/Oxford, in corso di stampa. Levi, Attilio, Dizionario etimologico del dialetto piemontese, Torino, 1927. Munaro, Nicola, Proprietà strutturali e distribuzionali dei sintagmi interrogativi in alcuni dialetti italiani settentrionali, tesi di dottorato, Università di Padova e Ve- nezia, 1997. ———, “Free relatives as defective wh-elements: evidence from the North-Western Italian dialects”, in: D’Hulst, Yves/Rooryck, Johan/Schroten, Jan (edd.), Going Romance 1999: selected papers, Amsterdam, in corso di stampa. Parry, Mair M., “‘It capissesto quaicosa ti?’ La costruzione interrogativa in piemonte- se”, in: Clivio, Gianrenzo/Pasero, Dario/Pich, Censin (edd.), At dij XII e XIII Rë- scontr antërnassional dë studi an sla lenga e literatura piemontèisa, Ivrea, 1999, 295–307. ———, “‘Cosa ch’a l’é sta storia?’ The interaction of pragmatics and syntax in the development of wh-interrogatives with overt complementizer in Piedmontese”, in: Tortora, Christina (ed.), The Syntax of Italian Dialects, New York/Oxford, in corso di stampa. Poletto, Cecilia/Vanelli, Laura, “Gli introduttori delle frasi interrogative nei dialetti italiani settentrionali”, in: Banfi, Emanuele et al. (edd.), Italia Settentrionale: cro- cevia di idiomi romanzi,, Tübingen, 1995, 145–158. Pollock, Jean-Yves/Munaro, Nicola/Poletto, Cecilia, “‘Eppur si muove!’ On compar- ing French, Portuguese and Bellunese wh-movement”, in: Chomsky Virtual Cele- bration, http://mitpress.mit.edu/celebration, 1999. Scorretti, Mauro, “Complementizer ellipsis in 15th century Italian”, in: Journal of Italian Linguistics 6/1 (1981), 35–47. Tortora, Christina, “I pronomi interrogativi in borgomanerese”, in: Quaderni di lavo- ro dell’ASIS 1 (1997), 83–88. Vanelli, Laura, La deissi in italiano, Padova, 1992.

339

Il linguaggio e la posizione socioculturale delle scritte murali di Torino Sandra Rzehak

1. Osservazioni preliminari C’è chi ama Deborah e chi si sfoga contro la Juve. Ci sono quelli che fanno arte e quelli che imbrattano i muri lasciando un messaggio indelebile. Già dall’inizio, però, è importante non confondere due concetti diversi: le scritte murali e i graffiti (i “murales”), anche se hanno un punto in comune: entrambi sono segni indelebili sui muri e perciò soggetti dell’osservazione pubblica. Con scritte murali s’intendono i messaggi scritti che vogliono trasportare qualsiasi dichiarazione sensata o insensata, e guai se vengono scambiate con i murales o graffiti. Secondo Garelli (1978, 28) i murales non comunicano nul- la, perché viene lanciato un messaggio formale che appartiene più all’arte fi- gurativa che al linguaggio di comunicazione. Per la legge e per il profano gli imbrattatori dei muri sono sempre dei vandali – i graffitisti però (o meglio i “writer”) si sentono artisti di strada, distinguendosi da quelli che sporcano i muri con messaggi scritti. Lo spunto per analizzare un fenomeno a prima vista più socioculturale che non linguistico, mi è venuto proprio dall’interesse per le scritte criptiche, che invadono i muri di tutte le città di una certa dimensione. Il punto di par- tenza di questa relazione, che riporta i risultati della mia tesi di laurea è stato un istituto tecnico torinese ricoperto di scritte murali. Incuriosita dai messaggi incomprensibili ho esteso l’indagine in primo luogo seguendo il mio interesse personale a questioni più strettamente lingui- stiche. Dal momento in cui ho deciso di elaborarne un lavoro scientifico, l’im- postazione del problema risultava piuttosto vaga. Si aprirono tante strade che condussero in direzioni diverse. L’idea di mettere in confronto le scritte mu- rali con il linguaggio giovanile è nata durante la mia attività in un istituto tecnico, dove ero in diretto contatto con il linguaggio alternativo degli adole- scenti.

1.1. Torino e la scelta del corpus Come metropoli latente Torino si presenta terreno fertile per variopinte scrit- te murali. Inconvenienti sociali come microcriminalità, l’alto tasso della di- soccupazione giovanile, l’abuso abbondante della droga, come anche

341 l’immigrazione illegale favoriscono la produzione dei messaggi critici. Tori- no ha in più il nomignolo di “squatteropoli”, per l’attività vivace degli “squatters”, gli occupanti di case, i maggior responsabili delle scritte politi- che. L’analisi si basa su una raccolta di 753 scritte autentiche, diverse tra loro non soltanto per il contenuto, ma anche per la loro grafia. La ricerca era limi- tata sia per il tempo: da maggio ad agosto del 1999, sia per lo spazio: ristretta solamente a Torino. La prima premessa che le scritte sui muri sono una te- stimonianza di persone giovani è stata autenticata dal fatto che i luoghi di ri- trovo sono punti d’incontro per questi ultimi (scuole, centro, stadio, centri sociali).

2. Condizioni extralinguistiche Integrata in un ambito complesso di ricerca, l’indagine delle scritte murali of- fre tante possibilità d’analisi. Essa richiede un punto di partenza interdisci- plinare, perché l’analisi intralinguistica può rivelarsi soddisfacente solo se accompagnata dalla realtà extralinguistica.

provocazione divertimento 7% 14%

sfogo ideologie di 43% diverso tipo 36%

La motivazione per “imbrattare” i muri.

Le scritte murali compiono come forma di comunicazione tra giovani diverse funzioni comunicative e sociali. Con la parola scritta sta al primo piano il bi- sogno di sfogarsi. Il motivo per lasciare un messaggio indelebile sui muri va- ria e dipende non raramente dagli argomenti trattati e dal profilo del destina- tario, influenzandosi spesso reciprocamente. Troviamo dediche d’amore, im- plicazioni alla lotta, manifestazioni d’appartenenza ad un certo gruppo, prete- se politiche, etc. con diversi tipi di destinatari, tra i quali il destinatario espli- cito, implicito, collettivo, privato, pubblico, etc.

342 Importante è il hic et nunc, l’attualità dell’evento, caratterizzata da com- ponenti temporali e spaziali, cioè la forte inclusione della situazione comuni- cativa. Secondo l’indagine sociolinguistica (si veda l’appendice) che ho condotto a Torino con 65 giovani da 14 a 26 anni risulta che il 43% di questi ritiene l’atto di imbrattare i muri una valvola per sfogarsi, il 36% cerca di trasportare un’ideologia sociale o filosofica, il 14% lascia un segno sui muri per divertir- si e dilettare, e solamente il 7% indica provocazione e protesta, sia contro il sistema e la società capitalistica, sia contro il tabù della lingua, come motivo. L’analisi permette anche riflessioni sull’intreccio della situazione socio- linguistica, in tal modo che è stato possibile confermare l’opinione di Corte- lazzo (1994, 294) secondo cui il linguaggio giovanile è una varietà di lingua orientata diastraticamente verso il basso. Il diretto paragone effettuato con due scuole secondarie frequentate da allievi aventi un profilo sociale diffe- rente, sottolinea nuovamente l’affermazione di Cortelazzo. Per mettere in ri- lievo la differenza tra le diverse scuole mi sembra opportuno evidenziare che da una parte il Liceo Classico Privato Margara è “sporcato” da solo due scritte rivolte agli studenti delle scuole private:

1. PER LE SCUOLE PRIVATE: POCHI SOLDI, TANTE MAZZATE!!! 2. FIGHETTI AL ROGO! Al contrario l’Istituto Tecnico Pubblico Santorre di Santarosa, è ricoperto di variopinte scritte d’ogni dimensione e contenuto, spesso molto elaborate per quanto riguarda il lessico, le figure retoriche e giochi linguistici, tipici del linguaggio giovanile:

3. F + S X S 4. MI MANDI IN TILT 5. NON CALPESTARE L'ERBA – FUMALA 6. GOBBI FROCI 7. TANTI AUGURI EL PASO 8. BASTARDO 6 E NON CAMBIERAI 9. SVAMPARE FA MALE, MA NON SVAMPARE È PEGGIO 10. MI MANCHI 1 CASINO, BY 1 Il paragone tra queste scuole permette la considerazione secondo cui ovvia- mente i giovani di condizione sociale alta tendono a scrivere meno (oppure di nascosto) sui muri, in confronto ai giovani di condizione sociale inferiore - almeno non sulle mura del loro luogo d’istruzione. Certamente è vero che gli istituti privati vengono puliti più spesso, ma ciò nonostante la ricerca rende chiaro che gli studenti che li frequentano tendono molto meno a imbrattare.

343 Questa tendenza corrisponde inoltre ai risultati dal mio questionario. I giova- ni con genitori laureati si sono espressi più spesso in modo negativo per quanto riguarda la gente che “sporca” i muri, in confronto ai loro coetanei con genitori non laureati: “Non si rendono conto che distruggono i muri”, “Gente ignorante che non vuole esprimere niente, ma crede di vincere il si- stema in questo modo”. Queste osservazioni sparse per quanto riguarda l’asse diastratico, però, sono ancora da approfondire in ulteriori ricerche. Non soltanto i luoghi di ritrovo, ma anche gli argomenti trovati sui muri confermano di nuovo la premessa che i messaggi sono una testimonianza scritta dei giovani. Gli argomenti equivalgono alla conversazione spontanea all’interno del gruppo, principalmente su temi centrali della condizione gio- vanile: quali la scuola, l’amore, il sesso, le amicizie, l’attività sportiva, la dro- ga, da non dimenticare la politica. Una gran parte delle scritte è costituita da messaggi politici-ideologici, che derivano dai cosiddetti “squatters”, il mondo anarchico. Si tratta di gio- vani che occupano case, i centri sociali, e il loro profilo socio-ideologico si distingue dai coetanei, per quanto la loro ideologia si oppone al sistema capi- talistico, proponendo autonomia e autogestione. La funzione principale è l’organizzazione di protesta e resistenza. Torino con le sue 14 case occupate (le più note sono: Askatasuna, Prinz Eugen, El Paso, C.S.O.A. Gabrio) sta in primo piano tra le città anarchiche d’Italia, perciò non è da meravigliarsi del grande numero delle scritte anticonformiste, rivolte contro lo stato, la polizia come rappresentante dell’ordine pubblico, le leggi e i prigioni. È vero, però, che le scritte politiche, soprattutto quelle che parlano di fa- scismo e capitalismo sono povere d’idee e poco spiritose, riportando fraseo- logismi già usati trent’anni fa. Spesso queste scritte perdono la loro funziona- lità e diventano solo imitazione di una lingua di potere (cf. Garelli 1978, 58). Le scritte private, costituite da un linguaggio colorato e svariato, reagiscono alle spinte innovative attraverso varie forme d’uso ludico della lingua. La natu- ralezza con la quale viene usato un codice ristretto tramite un mezzo di comuni- cazione scritto presuppone una conoscenza precisa relativa alle loro funzioni, sia da parte del “producente” di un messaggio scritto, sia da quella del riceven- te. Per decifrare il codice uno deve far parte del gruppo o deve avere almeno un background comune al producente. All’esterno il linguaggio alternativo ha una funzione di contrapposizione sia verso il mondo degli adulti, sia verso altri gruppi giovanili, Cortelazzo (1994, 295) parla di una forte “carica contestativa e antagonistica” (cf. anche Coveri 1992 e Giacomelli 1988). Questa contrappo- sizione rende le scritte volutamente incomprensibili che in questo modo mo- strano una somiglianza con diversi linguaggi segreti.

344 3. L’analisi linguistica Lo scopo del lavoro scientifico mira a rivelare fino a che punto il linguaggio murale corrisponda al vero parlato giovanile, cioè alle sue caratteristiche, che si manifesta sull’asse diamesico. Già all’inizio, però, si pongono delle domande: I. Quanto possa essere giustificato indagare su fenomeni aderenti alla lingua parlata dei giovani in base a un corpus di testi scritti? II. Basta un corpus limitato come il mio, costituito da 753 scritte diverse per confermare la domanda di partenza? III. Quali funzioni assumono gli elementi tipicamente giovanili inseriti nei messaggi sui muri? ad I) Due fattori mi hanno incoraggiato ad indagare su questa varietà diame- sica: Da una parte risulta dal mio questionario, che i giovani sono consapevo- li del loro linguaggio alternativo. L’80% degli intervistati ha dichiarato, che per le scritte murali viene usato il gergo giovanile che si sente in giro e con gli amici: “Assomiglia alla lingua parlata di chi scrive”; “Spesso si riportano le espressioni più comuni della lingua parlata”; “[Le scritte] sono comprensi- bili solo da chi conosce il gergo”. Dall’altra parte negli ultimi anni l’attenzione di tanti studiosi si è concen- trata maggiormente su questo campo di ricerca, cioè sul parlato giovanile. Le ricerche sono iniziate negli anni ottanta, ed estese soprattutto sul piano lessi- cale. La citazione di M. Dardano (in: Garelli 1978, 13) “Tranne alcune ecce- zioni, gli studenti si esprimono in maniera non acculturata; si può dire che scrivono come parlano” mi ha assicurato che la direzione dell’indagine pote- va essere sensata. Anche un altro ricercatore, E. Radtke, ha già proposto nel 1993 di espandere gli studi su tale tipo di linguaggio all’asse diamesico indi- cando le scritte murali: “L’indagine sul linguaggio giovanile dovrebbe essere coniugata anche sul versante dello scritto, attenzione alle modalità e ai sup- porti stessi della scrittura del mondo giovanile: scritte murali, stickers, etc.” (Radtke (ed.) 1993, 41). ad II.) Il corpus a prima vista ristretto ma svariato risultò più che sufficiente per effettuare un’analisi valida. Grazie alla fantasia e il coraggio dei Torinesi, che si sono impegnati ad imbrattare i muri della loro città con accuratezza e con una vasta gamma di argomenti, ho trovato 753 scritte, diverse tra loro per quanto riguarda il contenuto e la grafia. Il corpus autentico costituisce la base dell’analisi linguistica, che è solamente sensata se messa in diretto paragone con il materiale scientifico elaborato da diversi studiosi. Sono potuta ricorre- re ad una bibliografia ampia di questa varietà di lingua, soprattutto per quan-

345 to riguarda il lessico, perché è quel campo del linguaggio giovanile sul quale si è finora indirizzato l’interesse dei ricercatori. Il corpus ha subito più volte delle divisioni per soddisfare le esigenze linguistiche su diversi piani. Le in- dagini finora svolte, soprattutto i dizionari sul linguaggio giovanile, si rivela- vano utili per la decifrazione di tante scritte, dal punto di vista della linguistica. ad III.) I giovani sentono il bisogno di trasgredire le regole, rompere dei tabù e di scavalcare provocatoriamente le norme, e questo si manifesta anche sui muri, perché già l’atto di imbrattare i muri, in quanto illegale, è di per sé una rottura con il sistema, e potrebbe essere punito come un vero reato. L’integrazione di parole tipicamente giovanili sui muri esercita una fun- zione precisa come nel vero parlato e vengono riportati gli stessi concetti: e- sprimere anche linguisticamente a quale gruppo uno appartiene o con il quale si vorrebbe identificare, come anche l’emarginazione dal mondo degli adulti attraverso provocazione e protesta, sia per quanto riguarda gli argomenti trat- tati, sia i tabù della lingua, e da non trascurare l’aspetto ludico della scritta stessa. Spesso le scritte criptiche sono rivolte a destinatari precisi con un codice linguistico comune, emarginando in questo modo gli altri “lettori”. Prima di passare a riflessioni più linguistiche, mi sembra opportuno dare una definizione concisa della varietà di lingua in argomento, prescindendo da alcune caratteristiche. Il linguaggio giovanile è definito una varietà diafasica di lingua, per lo più orale, usato dagli appartenenti ai gruppi di ragazzi in determinate situa- zioni comunicative, usando mezzi precisi che toccano tutti i livelli linguistici. Per sintetizzare la vasta panoramica delle conoscenze sulle varietà giovanili1, riporto una rapida esposizione dei meccanismi linguistici che vengono usati nella conversazione spontanea. Tra i quali ritroviamo la forte inclusione del contesto situazionale (parole deittiche, uso abbondante di pronomi diretti, se- gnali discorsivi), la spontaneità, generecismi, trasgressioni morfosintattiche, l’uso abbondante di superlativi, la sintassi frammentata, il gioco con deriva- zioni, lo spostamento di significato, etc.

————— 1 Per un inquadramento sociolinguistico delle problematiche relative al linguaggio giovanile vedi anche Radtke (ed.) 1993, Cortelazzo (1994, 293), Banfi/Sobrero 1992, Coveri 1992, Giacomelli (1988, 93), Pörksen/Weber 1984, Nowottnig 1989.

346 3.1. La divisione del corpus in due poli contrari: privato vs. pubblico Cito qui alcuni esempi per una breve rappresentazione degli aspetti linguistici con l’attenzione ai giochi di parole e alle figure retoriche:

11. NAZISKIN PIÙ CAPELLI CHE CERVELLI 12. PULCINO TI AMO SEMPRE DI + 13. UN BASTARDO 6 E NON CAMBIERAI 14. GRANATA: IL COLORE DELLA CAGATA 15. SOLE È VIVA, I MORTI SIETE VOI 16. CONIGLI + ULTRAS = - DI 0 17. U.S.A E GETTA Per ricavare risultati verificabili dall’analisi linguistica ho ritenuto opportuno dividere il corpus in tre gruppi principali, siccome il materiale autentico si presentava in modo assai eterogeneo per la vastità degli argomenti trattati sui muri. Basandomi su aspetti comunicativi ho effettuato una divisione in tre parti per soggetti: il privato (con chiacchiere private, vedi 5.1.), il pubblico (con messaggi ideologici-politici, vedi 5.3.), e il semipubblico (con argomen- ti del mondo giovanile, vedi 5.2.). Molto significativa è la presenza di due poli contrari, cioè scritte private vs. scritte pubbliche, tralasciando le scritte semipubbliche, dato che rappresentano una miscela tra le prime due. Tutti e due i poli vengono determinati da caratteristiche precise come ad es. dal pro- filo sociologico e linguistico dell’emittente e del destinatario. Le scritte di questi due poli si differenziano notevolmente, per quanto concerne il lessico, la sintassi e le strutture adoperate. Visto che in questa sede non è possibile toccare tutti i livelli analizzati2 riporto qui un’analisi parziale, avendo selezionato una sola scritta rispec- chiante un pezzo del mondo in cui vive un certo gruppo di adolescenti torine- si. Sulla scorta della stessa emergono tanti particolari appartenenti al lin- guaggio giovanile:

18. TARRI DISCOTECARI DEL CAZZOS BRUCERETE DENTRO AL NAXOS La variabilità del lessico costituisce una delle caratteristiche più appariscenti di questo (Nowottnik 1993, 161), e la bibliografia sul lessico è ampia, perché

————— 2 Per un’informazione più ampia rinvio alla mia tesi di laurea: Le scritte murali di Torino. Eine sprachwissenschaftliche Analyse unter Einbeziehung des soziokultu- rellen Kontextes Jugendlicher in Turin, Graz, 2000.

347 su questo campo di ricerca è facile ottenere risultati che permettono non sol- tanto una valutazione qualitativa, ma anche quantitava.3 Per indagare sul lessico delle scritte murali mi sono servita del modello di Sobrero, che è stato ampliato da Cortelazzo, secondo il quale l’uso del lessi- co giovanile è caratterizzato dalla presenza di sette strati:4 1) una base d’italiano colloquiale informale, scherzoso (casino, beccare, bestiale); 2) uno strato dialettale (banfone); 3) uno strato gergale “tradizionale” (figo, cesso, bona); 4) uno strato gergale “innovante”, spesso effimero (essere fuori di se, svampare, fuso, sclero); 5) uno strato proveniente dalla lingua della pubblicità e dei mass-media; 6) uno strato costituito da inserti di lingue straniere, particolarmente inglese, ma anche spagnolo (starci inside, mandare qc. in tilt, justice); 7) l’influsso dei linguaggi settoriali (mongoli, handi, schizo). Diversi lavori sul lessico mi sono stati utili per la spiegazione dei termini.5 “TARRI” (abbreviazione di tamarro, “persona grezza, rozza”; anche sino- nimo di truzzo) è un termine dispregiativo tipicamente torinese e milanese, che denomina gruppi di torinesi giovani con un profilo preciso, per quanto riguarda il lessico (assai volgare), il modo di vestirsi e di comportarsi visto- samente, e viene generalmente usato come insulto. Risulta che il lessico eterogeneo sui muri corrisponde a quello del parlato dei giovani, non soltanto per quanto riguarda le interferenze di altri linguag- gi, ma equivale ad esso anche per la sua forte dimensione innovativa. Il lessi- co dei tossicodipendenti, ad es., non si identifica con tutto il linguaggio gio- vanile, ma lo arricchisce con cambiamenti semantici. Vediamo infatti la voce “BRUCIARE” che deriva dal “sottocodice dei drogati” dove ha subito uno spo- stamento semantico, esprimendo un’intenzione connotativa, spesso negativa

————— 3 Questionari sul lessico giovanile sono un metodo sicuro per ricavare dati parago- nabili e verificabili. Si veda ad esempio Banfi (1992, 137–138). 4 Cf. Sobrero, Alberto A., “Varietà linguistiche giovanili fra passato e futuro”, in: Martignoni, G. (ed.), Seduzioni di normalità. Linguaggi giovanili e anni Ottanta, Comano, 1990, 97–109, citato da Cortelazzo 1994, 293. Nella bibliografia emer- gono spesso definizioni diverse per quanto riguarda gli strati enunciati. Si veda Radtke (1992, 12) che definisce i termini derivati dall’ambiente della droga come gergo settoriale, Sobrero però come gergo innovante. 5 Si veda ad esempio Manzoni 1997, Giacomelli 1988, De Zuani 1999, Messina 1980.

348 come anche in questo caso. Allude alle conseguenze dannose del consumo di droghe, soprattutto da quella artificiale “extasy”, che “brucia” il cervello, cioè che rende le persone incapaci di pensare in modo chiaro. Queste droghe vengono consumate dai cosiddetti “tarri” che frequentano la discoteca torine- se “NAXOS”. L’indicazione del luogo manifesta di nuovo la forte relazione al contesto situazionale, che è strettamente legato al momento. Con il termine “CAZZOS” si uniscono due caratteristiche del linguaggio alternativo sul muro: da una parte l’uso drastico del linguaggio scatologico con la tendenza all’esagerazione. Quello che colpisce è la lingua diretta e volgare, preferiti sono i termini dalla sfera sessuale e anale. Il lessico volgare costituisce il 7% di tutto il lessico murale analizzato, colorando espressiva- mente l’enunciato ed enfatizzando singoli costituenti:

19. 6 UN BASTARDO / COGLIONE DI MERDA / VAI A CAGARE STRONZO “Cazzo” è ormai diventato un termine passe-partout, sostituendo “cosa”:

20. CHE CAZZO VUOI? Dall’altra parte notiamo la figura retorica preferita delle scritte pubbliche, la rima canonica. In questo caso la rima falsa con “NAXOS” richiede la forma- zione di un neologismo (o meglio: d’un ispanismo falso molto frequente, ag- giungendo -os finale). Come ho già accennato soprattutto i messaggi politici ed ideologici fanno ampio uso di figure retoriche allo scopo di raggiungere un’alto livello di effi- cacia persuasiva. L’analisi mostra che tra quelle preferite emergono l’allitterazione:

21. KOSSIGA/KOSSUTA/KOSSOVO, l’antitesi:

22. KORPS FEROCI / DRUGHI VELOCI, l’ambiguità:

23. U.S.A. E GETTA, la metafora:

24. TORINO = CESSO DEGLI IMMIGRATI, e il parallelismo sintattico:

25. NASCI SQUATTER / MUORI ULTRA.

349 Per aumentare l’efficacia del messaggio si trovano con una certa abbondanza delle combinazioni delle diverse figure retoriche, sottolineando così l’ironia, la dinamica e la fantasia dell’enunciato. L’appello al destinatario rende trasparente l’alto grado di informalità della conversazione tra giovani, che non ammette eccezioni all’uso del “tu” gene- ralizzato e il chiamarsi per nome (Sobrero 1992, 52), anche se le scritte sono rivolte a politici o giudici:

26. CASTELLANI HAI FINITO DI FAR FESTA 27. SBIRRO BOIA È ORA CHE TU MUOIA Vale a dire che si esprime in tal modo il disprezzo verso la persona in questio- ne. Di molto rilievo si presenta anche l’alta emotività di coloro che scrivono, segno tipico della conversazione spontanea. Questa riguarda l’affettività (verso il partner) e l’espressività (verso il soggetto trattato). Verbi che espri- mono emozione, termini con suffissi, come anche slittamenti nel significato (sia positivo, sia negativo) aumentano l’emotività e rendono le scritte più vi- vaci. Nel corso delle mie ricerche ho potuto constatare che le scritte private corrispondono ai parametri della concezione parlata/grafica.6 Le scritte pub- bliche invece, sono da considerare una miscela tra testualità ed oralità finta . Per quel che concerne la parola “DISCOTECARI” passiamo al piano della morfologia, che ha un ruolo di rilievo per il parlato giovanile. Bisogna sotto- lineare l’importanza della produzione di neologismi attraverso suffissi (amo- ruccio, piccantella, graffitista). Un’altra forte tendenza di voci innovative si manifesta in forme derivate, superlativi ed esagerazioni (è troppo bellissima, ti amissimo). Dunque possiamo riconoscere soprattutto questo livello d’analisi come un campo fertile dell’uso ludico della lingua parlata. Molto frequentemente si ritrovano anche parole abbreviate, che patiscono uno slit- tamento semantico quando entrano nel linguaggio dei giovani. Pure il comportamento linguistico “spensierato” dell’oralità è usato sui muri, vale a dire che molti “lapsus” (Berrutto 1991, 101) di un discorso par- lato sono presenti nei messaggi scritti. Le “trasgressioni” grammaticali ed ortografiche costituiscono degli indizi utilissimi per studiare il modo con cui coloro che comunicano tendono a richiamare l’attenzione ed a divertire:

28. A ME MI SCAPPA LA PIPPI 29. NON L'HAI LETTO IL MESSAGGIO DI PRIMA?

————— 6 Le condizioni di comunicazione di Koch/Oesterreicher (1990, 8–9) mi sono servi- te per paragonare il linguaggio delle scritte murali con il codice orale.

350 30. ANALFABETA IMPARA PRIMA DI SCRIVERE Indagando sul piano della sintassi sorge il dubbio, se sia possibile mettere in comparazione diretta il linguaggio dei muri con quello dell’oralità vera, op- pure con il linguaggio giovanile. Troppo eterogenea si presenta la sintassi dei due poli. Dall’indagine risulta che il 66% delle scritte è costituito da frasi in- complete. Qui, però, non parliamo della frammentarietà tipica del testo orale, siccome la pianificazione per la produzione di una scritta è molto più alta che per un testo parlato. Questa frammentarietà è una delle peculiarità delle scrit- te murali, spesso voluta per motivi dell’economia linguistica. Le parole vuote vengono eliminate per evidenziare le “Schlagwörter” e per trasportare tant’informazione su poco spazio. Si è notata l’alta frequenza di costruzioni nominali, ricche di ellittici e di olofrasi. Dominano frasi brevi e “smozzica- te”, spesso solo alludendo ad un fatto qualsiasi. Le scritte pubbliche si pre- sentano in maggior parte frammentate, seguendo la sintassi degli slogans po- litici (cf. Klein 1979, 225). Un contesto sociale e linguistico simile a colui che si esprime pubblicamente sui muri rende più facile la decifrazione di una scritta murale. Solamente il 34% del corpus sono frasi complete, quasi sempre enunciati monoproposizionali, al massimo si tratta di frasi subordinate. Interessante è anche il fatto che con il 64% prevalgono le frasi da due a quattro parole. Una frase di tale brevità viene raccolta in un attimo fuggente e viene letta anche inconsciamente. Dal conseguimento di un risultato più dettagliato, che non è possibile fare in questa sede, è stato possibile ricavare la conclusione che tra i due poli, le scritte private assomigliano alla conversazione spontanea fra coetanei, le frasi “smozzicate” equivalgono all’imprecisione di un discorso orale, dato che l’emotività e la spontaneità non garantiscono una sintassi corretta:

31. MASSIMO DAI / DECIDITI UNA BUONA VOLTA! Æ PERCHÉ?

4. Riepilogo Lo scopo di queste mie riflessioni era di fare alcune modeste proposte per una possibile impostazione d’analisi che attiene al comportamento linguistico sui muri. Pare che le indagini fin qui svolte confermino l’assunto dal quale sono partita: non soltanto fattori extralinguistici determinano le scritte murali come fenomeno dei giovani, ma anche sul piano linguistico troviamo elemen- ti particolari del parlato di questi ultimi, che lo distingue dalla lingua parlata comune.

351 Come forma di comunicazione tra persone di certa età le scritte murali non corrispondono a nessun tipo di testo preconcetto, ma dimostrano diverse caratteristiche tra i quali emergono la brevità, la pregnanza, la frammentarie- tà, e l’alta emotività. Gli enunciati sui muri possono essere ritenuti uno spec- chio di avvenimenti sociali – spesso il retroscena socioculturale rende traspa- rente i motivi per “imbrattare” – e concedono uno sguardo veloce nella vita emotiva dei ragazzi, in più possono essere considerati un interessante feno- meno linguistico. È sicuramente un campo di ricerca che lascia spazio per al- tre indagini. Dal lavoro sul corpus, l’analisi linguistica comprende i piani del lessico, della semantica, della morfologia e della sintassi, ho potuto dedurre risultati interessanti. Sono riuscita a confermare quello che gli studiosi sostengono da tanto tempo: i giovani scrivono come parlano usando determinati formali precisi. Soprattutto il lessico murale rende evidente una rimarchevole presen- za di fattori tipici adolescenziali, influenzata da una forte propensione ludica. Voci appartenenti al linguaggio giovanile (tra l’altro tante imprecazioni) vengono inserite con l’intenzione di rompere tabù sociali e linguistici, e di rendere il messaggio incomprensibile agli altri. Concludendo si può constatare, che le scritte murali corrispondono a tanti parametri della lingua alternativa dei giovani, che concordano in massima parte con quelli della lingua parlata. Da ciò è possibile dedurre la conclusione che i messaggi sui muri costituiscono un’ampia area di testi che nella sfera privata possono essere classificati come il vero parlato giovanile.

(32) 18-01-97 INIZIO DI UN GRANDE AMORE 8-06-97 FINE DI UN GRANDE AMORE

5. Le scritte murali di Torino Ecco una selezione della raccolta delle scritte murali, rese qui uniformi sia per il colore, sia per la grafia, e risalenti alla mia ricerca sul campo nell’estate 1999 a Torino. Questi messaggi sono da considerare un’istantanea, un mo- mento fuggente, perché oggi saranno già cancellate o cambiate in qualche maniera. Purtroppo in questa sede non mi è stata possibile aggiungere la sim- bologia ricca alla quale ricorrono i giovani, enfatizzando così i messaggi. Ai simboli grafici noti a tutti come la svastica, il falce e martello, la “A” anar- chica, la kappa tedesca, “W”-evviva, etc. si aggiungono tanti altri simboli in- ventati (rinvio alla mia tesi di laurea).

352 5.1. Le scritte private 5.1.1. Amore/Amicizia

1. ALEX SEI INVITATO AL MIO MATRIMONIO / IO SONO LA SPOSA E LO SPOSO SEI TU / By Manu TU INVECE 6 UNA TROIA / BY ENZO 2. SONO BIONDA / HO 20 ANNI / SONO LIBERA E TU ALEX / IO TI ASPETTO / ROBERTA 3. PIPPO FACCIAMO UN BAMBINO? 4. MELY TI AMO ABBESTIA / IL TUO CUCCIOLO  QUANTO TEMPO BASTARDO? / BY ME 5. TI AMISSIMO 6. LOLLY E DOMMY X EVER 7. HO CONOSCIUTO DEBORAH / È TROPPO BELLISSIMA 8. PULCINO TI AMO SEMPRE DI + / SEI LA MIA FOCA 9. SONO PAZZO DI TE 10. SIAMO LA COPPIA PIÙ BELLA DEL MONDO 11. LAVORO TUTTO IL GIORNO / E TUTTO IL GIORNO PENSO A TE 12. LE TUE LABBRA COME PETALI DI ROSE / LA TUA PELLE COME SETA PREZIOSA 13. GIGI PERCHÈ NON LO CAPISCI / VOGLIO SOLO IL TUO AFFETTO / LINA UFFA! NON LO CAPIRÒ MAI LO SAI

5.1.2. Sesso

1. AH! AH! AH! SONO PORCELLINA E PICCANTELLA / TUTTA BRUCIATA E BAGNATA / CHIAMAMI SUBITO AMORUCCIO MIO / TI ASPETTO A LINGUA BAVOSA E GAMBE APERTE!!! / Tel: 011 2. CHIAMAMI TROIONA 3. RIKKI PUTTANO 4. DOLLY È UNA PORCELLINA / DA UNO CHE LA CONOSCE BRAVA TROIA 5. ROTTA DENTRO IN CULO – FIGA – BOCCA / GRATIS 011-5… / NON È UN TELEFONO EROTICO (DAL VIVO) 6. FUORI COMPAGNI DALLE COMPAGNE 7. ANNA FIGHISSIMA: MOGLIE A FAR POMPINI 8. ALE 6 BONO 9. CARLO SEI TROPPO UN FIGO 10. ANDATE TUTTI A FARE NEL KULO! GUIDI TU? 11. CHI AMA COME ME LA FIGA METTA QUI UNA RIGA 12. STI CAZZI / STA MINCHIA

353 5.2. Le scritte semipubbliche 5.2.1. Droghe e musica

1. FANKULO AGLI ARTICOLO 31 E A TUTTI I HIP-HOPPISTI DI MERDA! 2. LEGALIZE AND SMOKE IT / HAVE A GOOD TRIP 3. CALATI LA MUSICA DELL’IMPERIALE 4. X ALI / PENSO CHE SIA GIUNTA L’ORA / DI FARE QUESTO VIAGGIO INSIEME SENZA FINE / SENZA FERMATE / SENZA RITORNO / DIMMI DI SI ! 5. LUCIA S’È FATTA LA CANNA 6. NON CALPESTARE L’ERBA – FUMALA! 7. FUMARE È BELLO SE SI FUMA LO SPINELLO! 8. VIETATO FUMARE SPINELLI 9. QUI NON SI FANNO CANNE 10. SVAMPARE FA MALE MA NON SVAMPARE È PEGGIO 11. SONO FUSO COME UN CANE 12. DROGARSI FA MALE / TI BRUCIA IL CERVELLO

5.2.2. Calcio

1. VIOLA MERDA, FIRENZE IN FIAMME! DRUGHI … 2. OVUNQUE TORO COMUNQUE 3. SCUSA MERDA SE TI CHIAMO TORO 4. SUPERGA E STATA E RESTERA GRANATA 5. GOBBI: 100 ANNI DI FURTI 6. GOBBI VI ODIAMO / DRUGHI 7. JUVE: IL FURTO CONTINUA 8. TORINO SIAMO NOI U.G. (ULTRAS GRANATA) 9. GRANATA: IL CUORE DELLA CAGATA 10. GLI ULTRAS STANNO RITORNANDO SONO SOLO PAROLE 11. CON I KORPS OVUNQUE! IN CULO 12. KORPS FEROCI … DRUGHI VELOCI !

5.2.3. Gruppi giovanili

1. PIAZZA STATUTO = ZONA MODS 2. IL FUTURO CI APPARTIENE / MODS 3. GIORNO PER GIORNO CHE IO VIVO IO SONO UN MOD / ALDO 4. METALLARI VV PANINARI 5. X LE PRIVATE: SOLDI POCHI, TANTE MAZZATE 6. FIGHETTI AL ROGO 7. TRUZZI AL ROGO SOLO POGO 8. TARRI DISCOTECARI DEL CAZZOS / BRUCERETE DENTRO AL NAXOS

354 5.3. Le scritte pubbliche 5.3.1. Fascismo/Comunismo/Centri sociali/Razzismo

1. NAZISKIN PIÙ CAPELLI CHE CERVELLI 2. VIVA IL DUCE / DUX MEA LUX BENITO MUSSOLINI / IL DUCE DEI CRETINI 3. MEGLIO ESSERE EBREO CHE NAZZISTA 4. ANTIFASCISMO MILITANTE CSOA GABRIO BRUCIA SU VOSTRA MADRE 5. IL PIEMONTE CONTRO IL FASCISMO 6. SALARIO GARANTITO + ATM GRATIS (Aziende Torinese Mobilità) 7. TORINO È COMUNISTA / E COMUNISTA X SEMPRE SARA! OKKIO AI KRANI 8. TANTI AUGURI EL PASO / EL PASO NON MUORE 9. IL 10 SETTEMBRE PUÒ SUCCEDERE SEMPRE / NO AGLI SGOMBERI / C.S.O. GABRIO 10. ASKATASUNA DISTRUTTO / PAGHERETE TUTTO 11. SABATO 15 MAGGIO (1999) SERATA DI AUTOFINANZIAMENTO PER LA RICOSTRUZIONE 12. MAIALE DROGATO BRUCIA NEL TUO CENTRO SOCIALE 13. CENTRI SOCIALI: I FIGLI DI PAPÀ SI RIBELLANO AL SISTEMA: PAGLIACCI! 14. OCCUPARE LE CASETTE DEI PUFFI! SONO PIENE BUFFONI!

5.3.2. Giustizia

1. LIBERTÀ X SILVIA BARALDINI 2. SOLE E BALENO LIBERI 3. SMONTA LE QUESTURE / FUOCO ALLE GALERE 4. CONTRO LA POLIZIA E LE SUE LEGGI OMICIDE 5. FOTTITI LE LEGGI 6. SOLE E BALENO DUE ZECCHE IN MENO 7. LO STATO HA ASSASSINATO SOLE E EDO 8. SOLE È VIVA / I MORTI SIETE VOI 9. EDO SEMPRE NEL CUORE 10. UNITI NELLA LUTTA / GABRIO 11. SBIRRI E TOSSICI FUORI DAI COGLIONI 12. NE SBIRRI NE ROBBA

5.3.3. Guerra sui Balcani

1. NÈ GUERRA / NÈ LAGER / GABRIO 2. AMERIKKKA GO HOME

355 3. FUORI LA NATO DALL’ITALIA / FUORI LA NATO DAI BALCANI / FUORI LA NATO DAL SISTEMA SOLARE 4. U.S.A. - NATO - POLIZIA / STESSA PORCHERIA / ETARRAS 5. FUOCO SULLE BASI NATO 6. A MALI ESTREMI / ESTREMA SINISTRA 7. LA SERBIA SARÀ LA VOSTRA VIETNAM / STOP WAR 8. D’ALEMA CREPA CON TUTTO LO STATO 9. GIÙ LE MANI DAI BALCANI / GIÙ LE MANI DALLA JUGOSLAVIA 10. U.S.A. E GETTA 11. QUANDO LO STATO È PRONTO A UCCIDERE SI FA CHIAMARE PATRIA 12. SABATO 19/04/99 TUTTI AL CORTEO / NO ALLA GUERRA 13. I GIOVANI NON VOGLIONO LA GUERRA / ASKATASUNA

5.3.4. Partiti

1. PDS ALLA GUIDA DELLO STATO / BRUTTO AFFARE X IL PROLETARIATO 2. PADANIA LIBERA / PADANIA È REALTÀ 3. VIA DA ROMA / LEGA NORD 4. W BOSSI / BASTA TASSE 5. ROMA GODE / PADANA PAGA 6. TORINO LIBERATI DALLA LEGA NORD FINCHÈ SEI IN TEMPO! 7. IL 23 APRILE CORRI AL MARE / NON VOTARE MAI 8. 13/05/99 NON VOTATE CHI FA LA GUERRA 9. AVETE VOTATO? CONTINUATE A LAMENTARVI 10. CASTELLANI ORA HAI FINITO DI FARE FESTA

6. Bibliografia Albano Leoni, Federico/Pigliasco, M. Rosaria (edd.), Retorica e scienze del linguag- gio, Roma, 1979. Allerbeck, Klaus/Rosenmayr, Leopold, Aufstand der Jugend? Neue Aspekte der Ju- gendsoziologie, München, 1971. Baacke, Dieter, Jugend und Jugendkulturen. Darstellung und Deutung, Wein- heim/München, 19932. Banfi, Emanuele, “Conoscenza ed uso di lessico giovanile a Milano e a Trentino”, in: Banfi/Sobrero (edd.) 1992, 99–146. ———/Sobrero, Alberto A. (edd.), Il linguaggio giovanile degli anni Novanta. Rego- le, invenzioni, gioco, Bari, 1992. Berruto, Gaetano (ed.), Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, 1991. ———, Fondamenti di sociolinguistica, Bari, 1995. Brozman, Dusan/Dschen, Meili/Suter, Beat (edd.), Anarchie und Aerosol. Wandsprü- che und Graffiti 1980–1995, Wettingen, 1995.

356 Cortelazzo, Michele A., “L’influsso dei linguaggi settoriali”, in: Banfi/Sobrero (edd.) 1992, 71–84. ———, “Il parlato giovanile”, in: Serianni/Trifone (edd.) 1994, 291–317. Coveri, Lorenzo, “Gli studi in Italia”, in: Banfi/Sobrero (edd.) 1992, 59–69. De Zuani, Roberto, Il linguaggio giovanile di Torino. Tesi di laurea, Torino, 1999. Dittgen, Andrea Maria, Regeln für Abweichungen. Funktionale sprachspielerische Abweichungen in Zeitungsüberschriften, Werbeschlagzeilen, Werbeslogans, Wandsprüchen und Titeln, Frankfurt/Main, 1989. Garelli, Cesare, Il linguaggio murale. Amore, esibizionismo, oscenità e protesta nel linguaggio spray dei muri, Milano, 1978. Giacomelli, Roberto, Lingua Rock. L’italiano dopo il recente costume giovanile, Na- poli, 1988. Janke, Klaus/Niehues, Stefan, Echt abgedreht. Die Jugend der 90er Jahre, München, 1995. Klein, Gabriella, “Lo slogan politico. Osservazioni sull’interazione tra retorica, prag- matica e linguistica”, in: Leoni/Pigliasco (edd.) 1979, 224–243. Koch, Peter/Oesterreicher, Wulf, Gesprochene Sprache in der Romania: Französisch, Italienisch, Spanisch, Tübingen, 1990. Kreuzer, Peter, Das Graffiti-Lexikon. Wandkunst von A bis Z, München, 1986. Manzoni, Gian Ruggero, Peso vero sclero. Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio, Milano, 1997. Messina, Giuseppe, Il gergo dei drogati, Roma, 1980. Mioni, Alberto M., “Uao! Clap, clap! Ideòfoni e interiezioni nel mondo dei fumetti”, in: Banfi/Sobrero (edd.) 1992, 85–96. Mosca, Giuseppina, “Attuale uso di figure retoriche: il linguaggio figurato nel parlare quotidiano, nel linguaggio dei giovani”, in: Albano Leoni/Pigliasco (edd.) 1979, 281–305. Müller, Siegfried, Graffiti. Tätowierte Wände, Bielefeld, 1985. Neumann, Renate, Das wilde Schreiben. Graffiti, Sprüche und Zeichen am Rand der Straßen, Essen, 1986. Nowottnick, Marlies, Jugend, Sprache und Medien. Untersuchungen von Rund- funksendungen für Jugendliche, Berlin/New York, 1989. ———, “Gioventù, lingua e mass media visti dalla prospettiva della linguistica tede- sca”, in: Radtke (ed.) 1993, 161–174. Poggi, Isabella, “La comprensione di frasi incomplete”, in: De Mauro, Tullio (ed.), Dalla parte del ricevente: percezione, comprensione, interpretazione, Roma, 1988, 237–244. Pörksen, Uwe/Weber, Heinz, Spricht die Jugend eine andere Sprache? Heidelberg, 1984. Radtke, Edgar, “La dimensione internazionale del linguaggio giovanile”, in: Ban- fi/Sobrero (edd.) 1992, 5–35. ——— (ed.), La lingua dei giovani, Tübingen, 1993.

357 Schlobinski, Peter/Heins, Niels-Christian (edd.), Jugendliche und ‘ihre’ Sprache, Opladen/Wiesbaden, 1998. Schnitzer, Johannes, Wort und Bild: Die Rezeption semiotisch komplexer Texte. Dar- gestellt anhand einer Analyse politischer “Pintadas”, Wien, 1994. Serianni, Luca/Trifone, Pietro (edd.), Storia della lingua italiana. Vol. 2: Scritto e parlato, Torino, 1994. Siegl, Norbert, Kommunikation am Klo. Graffiti von Frauen und Männern, Wien, 1993. Sobrero, Alberto, “Varietà giovanili: come sono, come cambiano”, Banfi/Sobrero (edd.) 1992, 45–58. ———/Lavinio, Cristina (edd.), La lingua degli studenti universitari, Firenze, 1991. Suter, Beat, Graffiti – Rebellion der Zeichen, Frankfurt/Main, 19943.

APPENDICE: Questionario sulle scritte murali di Torino • età______, sesso______, professione/attività______, (quale indirizzo di scuola) ______• Tuo padre è laureto/diplomato/altro. Tua madre è laureata/diplomata/altro. • Quando esci di sera che tipo di locali frequenti: centri socia- li/discoteche/birrerie/altro. • Che cosa provi quando vedi le scritte murali? Rabbia/divertimento/stupore/ provocazione/altro______. • Le leggi: sì (con / senza interesse), no (passi davanti senza guardarle) ______• Quali ti piacciono: ______, quali no: ______• Sei d’accordo con alcune scritte? Quali? ______• Alcune ti fanno pensare? Quali? ______• Scrivi anche tu? Sì/no • Se si: che argomenti ti piacciono: politica/guerra/calcio/amore/musica/altro: ____ Che tipo di scritte: esclamazioni (forza …)/dediche d’amore (… ti amo)/ pretese politiche (Lavoro per tutti!)/altro: ______• Scrivi sui muri perché…(più risposte sono possibili) …vorresti trasmettere un messaggio ad una certa persona …vorresti manifestare un serio desiderio politico …vorresti manifestare che appartieni a un certo gruppo (ad es. partito di calcio, centro sociale…) …ti senti ascoltato …hai delle idee spiritose …altro: ______• Se no: Che cosa scriveresti? Vedi sopra! ______

358 • Secondo te che tipo di gente scrive sui muri? Conosci qualcuno? Che cosa vogliono esprimere? Vedi sopra! ______• Alcune scritte sono abbastanza volgari – corrispondono alle parole/ai discorsi che senti a scuola/in giro/nella compagnia? sì (quali? ______), no. • Secondo te le scritte murali assomigliano alla lingua parlata? Sì/no. Perché sì: ______, perché no: ______• Pensi che le scritte possano cambiare/influenzare il modo di pensare di alcune persone? ______• Che cosa pensi delle occupazioni dei centri sociali? ______• Conosci il significato dei seguenti simboli? • Spiega le seguenti scritte (scrivi sull’altro lato del foglio): 1. Sole e Baleno – due zecche in meno. 8. Roma ladrona – Padania paga. 2. Fuori le acciughe dalle scatole. 9. Pantere armato. 3. Clinton boia. 10. No agli sgomberi. 4. Antifascismo militante. 11. Autonomia operaia. 5. Mosche Bianche. 12. Okkio ai krani. 6. Mi mandi in tilt. 13. Korps feroci… drughi veloci! 7. Squatters – squalo – squola. 14. Astensionismo. • Spiega le seguenti parole: Dux, Ultras, truzzi, viaggio, squatters, Resa Nabal, Dingo, sbirri, okkio (con la kappa). • Ti vengono in mente altre cose riguardanti le scritte murali?

359 360 Sprachvariation und Terminologie (am Beispiel des Terminus cash flow) Johannes Schnitzer

1. Einleitung Auf den ersten Blick könnte es scheinen, als ob mein Beitrag zwei Dinge verbinde, die sich nur sehr schlecht miteinander vertragen. Lange Zeit hin- durch war Sprachvariation in einer primär anwendungsorientierten Termino- logielehre schließlich hauptsächlich als Ärgernis präsent, das es zu eliminie- ren galt. Bestes Zeugnis dafür ist wohl die Tatsache, welche Merkmale der Fachsprache im Allgemeinen und den Termini im Speziellen zugesprochen wurden: Exaktheit, Eindeutigkeit, Eineindeutigkeit, etc. (cf. Schmidt 1969). Heute hat sich jedoch die Einsicht durchgesetzt, dass es sich bei diesen Cha- rakteristika eher um Ansprüche an den Terminus (bzw. das Fachwort) han- delt, um eine klare und effiziente Kommunikation zu gewährleisten, dass a- ber natürlich im konkreten Sprachgebrauch die verschiedensten Parameter der Sprachvariation auch auf den einzelnen Terminus und darüber hinaus auf ganze terminologische Systeme einwirken (cf. Cabré 1999). Mittlerweile ist ziemlich klar, dass alle Aspekte des Terminus Ansatz- punkte von Sprachvariation sein können, dass also auf formaler Ebene (Zei- chenausdruck), auf semantischer Ebene (Zeicheninhalt) und hinsichtlich der Verwendung und deren Frequenz Unterschiede auftreten können. Vor diesem Hintergrund wird nun der Terminus cash flow im Französi- schen, Italienischen und Spanischen einer Analyse unterzogen, deren konkre- te Ausgangspunkte und Zielsetzungen anhand dreier Hypothesen dargestellt werden sollen. Es kann davon ausgegangen werden, dass die dabei erzielten Resultate auf andere, ähnlich gelagerte Termini zumindest im Prinzip über- tragbar sind.

2. Ausgangspunkte und Zielsetzungen Mit dem Terminus cash flow haben wir es mit einem Anglizismus zu tun, der anscheinend auf noch keine 50 Jahre Bestehen zurückblicken kann. Die zeit- lichen Angaben zu seiner Prägung sind schwankend; das – in diesem Zusam- menhang weithin als Autorität anerkannte – Oxford English Dictionary (1989, II, 938f.) bringt jedenfalls einen Erstbeleg aus dem Jahre 1954. Seit- her hat der Terminus eine weltweite Verbreitung gefunden und ist in die hier untersuchten Sprachen massiv eingedrungen.

361 Beide Aspekte (relativ rezente, aber nicht allerneueste Prägung; weite Ver- breitung) lassen bereits die Vermutung aufkommen, dass es in den einzelnen Sprachen zu unterschiedlichen Übersetzungsvarianten gekommen sein muss. Dies müsste zudem durch den Umstand begünstigt werden, dass seine Be- deutung komplex genug ist, um unterschiedlichen Übertragungen Raum zu las- sen. Als bekannt vorausgesetzt werden darf, dass der Terminus auch in der ur- sprünglichen Form in den erwähnten Sprachen weiterhin verwendet wird. Hypothese 1: Zu cash flow lassen sich in den untersuchten Sprachen je- weils unterschiedliche Übersetzungen finden. Cash flow ist ein Terminus, dessen Bedeutung weitgehend nur dem Spezia- listen zugänglich ist. Nicht-Fachleute können nur in den seltensten Fällen mehr über ihn aussagen, als dass er irgendeine relevante Kennzahl von Unternehmen darstellt. Geht man davon aus, dass cash flow in erster Linie von Experten ver- wendet wird und dass er zudem eine enorme praktische Bedeutung in der Un- ternehmensbewertung hat, dass es sich also nicht um einen primär theoriege- bundenen Terminus handelt, dessen Bedeutung in der wissenschaftlichen Dis- kussion immer wieder aufs Neue thematisiert und weiterentwickelt wird, so ist anzunehmen, dass eine relativ stabile, weithin anerkannte Bedeutung und nicht eine permanent hinterfragte Semantik vorliegen muss. Dafür sprechen auch die in der Wirtschaftsliteratur immer wieder anzutreffenden Aussagen, die dem Cash Flow eine große fachliche Konsistenz und Aussagekraft auch im Ver- gleich mit anderen betriebswirtschaftlichen Kennzahlen zubilligen (“El benefi- cio es sólo una opinión, pero el cash flow es un hecho.” http://www.mercosur- news.com/noticias/9905/n9905212.htm vom 8.9. 1999). Hypothese 2: Die Bedeutung von cash flow ist dem Experten klar, sie ist stabil und weitgehend anerkannt. Aufgrund des bereits angesprochenen hohen Fachsprachlichkeitsgrads von cash flow ist zu erwarten, dass bei popularisierenden Erklärungen im weite- ren Sinn Verkürzungen und Vereinfachungen auftreten, wodurch sich in Ab- hängigkeit vom jeweiligen fachsprachlichen Niveau gewisse Bedeutungsva- riationen ergeben. Demzufolge müsste – so man den Definitionen in Wörter- büchern nachgeht – die Darstellung in gemeinsprachlichen Werken am allge- meinsten, diejenige in wirtschaftlichen Werken, die nicht direkt die Bereiche Unternehmensführung, Buchhaltung, Finanzierung und Investition, etc. be- treffen, bereits deutlich präziser und schließlich diejenige in der Speziallite- ratur am genauesten sein. Hypothese 3: Bedeutungsdifferenzierung ergibt sich aus dem Fachsprach- lichkeitsgrad der Darstellung und Erklärung in der unter- suchten Literatur (hier: Wörterbücher und Enzyklopädien).

362 Zielsetzung dieses Beitrags ist somit die Untersuchung der Erklärungen des Terminus cash flow in Wörterbüchern und Enzyklopädien im Hinblick auf die genannten drei Hypothesen.

3. Methode Als erster Schritt wurden die am Institut für Romanische Sprachen der Wirt- schaftsuniversität-Wien verwendeten Wörterbücher hinsichtlich des Termi- nus cash flow und dessen Übersetzungen konsultiert. Man kann davon aus- gehen, dass damit eine doch sehr repräsentative Stichprobe der existierenden Wörterbücher in den jeweiligen Sprachen untersucht wurde, wenn auch die Gesamtzahl der insgesamt vorhandenen Werke in den einzelnen Sprachen unterschiedlich ist. Diese erste Konsultation hatte zum Ziel, die in den drei Sprachen existie- renden Übersetzungsvarianten aufzufinden, wobei dabei bereits sowohl die eigentlichen Lemmata, als auch die in den jeweiligen Erklärungen verwende- ten Formen berücksichtigt wurden. Nachdem die Frequenz der einzelnen Formen in den lexikographischen Werken nur bedingt Rückschlüsse auf die tatsächliche Verwendungshäufigkeit erlaubt, wurde den gefundenen Formen anschließend in einer Internetrecherche mittels der Suchmaschine Altavista zunächst unter Eingabe der jeweiligen Form und der gesuchten Sprache, an- schließend in einem zweiten Schritt unter Eingabe der jeweiligen Form, des Länderkürzels und der gesuchten Sprache nachgegangen (Eingabeformel: +Wort +host:Länderkürzel sowie Angabe der Sprache). Auf diese Weise ist eine weitaus repräsentativere Stichprobe der in den jeweiligen Sprachen und auf den Internetseiten in den einzelnen Ländern verwendeten Formen mög- lich, selbst wenn man die durch das Suchmedium bedingten Beschränkungen (nicht alle Seiten werden erfasst, zufällige, d.h. nicht-terminologische For- men werden als Terminus interpretiert, Mehrfacherfassung derselben Seite, etc.) berücksichtigt. Ein Rückschluss auf die tatsächliche Frequenz der ein- zelnen Formen ist somit möglich. In einem weiteren Schritt wurden die in den Werken enthaltenen Bedeu- tungserklärungen analysiert, wobei nur die jeweils bedeutungsidentifizieren- den Erklärungsteile Berücksichtigung fanden, darüber hinausgehende enzy- klopädische Informationen hingegen ausgeschlossen blieben. Die Bedeutungsangaben wurden schließlich mit der oben angeführten Fach-(sprach)lichkeitsskala (allgemeinsprachliche Werke, allgemein-wirt- schaftssprachliche Werke und andere Wirtschaftsdisziplinen betreffende Werke, Fachwörterbücher zur Unternehmensführung, Buchhaltung, Finan- zierung und Investition) in Beziehung gesetzt.

363 4. Resultate 4.1. Übersetzungsformen In allen drei Sprachen konnten neben der massiven Verwendung von cash flow bzw. cash-flow verschiedene Übertragungen festgestellt werden. Die Si- tuation präsentiert sich in den drei untersuchten Sprachen jedoch recht unter- schiedlich: Die nachfolgenden Tabellen geben zunächst eine Übersicht über die Fre- quenz der einzelnen Übersetzungen in Wörterbüchern und Enzyklopädien. Dabei wurden alle Übersetzungsvorschläge aufgenommen, die in der konsul- tierten Literatur anzutreffen waren, ohne deren “Richtigkeit” oder tatsächli- che Verwendung zunächst zu berücksichtigen (offensichtliche Fehlformen sind jedoch mit eckigen Klammern gekennzeichnet). Weiters geben die Tabellen einen Überblick über die Frequenz der ein- zelnen Formen im Internet (Eingabe = Form und Sprache). Hier ist insbeson- dere zu berücksichtigen, dass manche Formen (z.B. flujo de fondos oder re- cursos generados) bisweilen auch in anderen Verwendungsweisen als in der hier gesuchten verwendet werden. Die angegebenen Zahlen haben daher nur bedingten Aussagewert und sind ausschließlich als Indikatoren zu verstehen. Den gebräuchlichsten Formen (mindestens 5 Vorkommen in lexikogra- phischen Werken und/oder mindestens 100 Belege in Altavista) wurde schließlich im Hinblick auf ihre regionale Verbreitung nachgegangen.

4.1.1. Italienisch Für das Italienische konnten insgesamt 20 lexikographische Werke für die Analyse herangezogen werden. Auf den ersten Blick ersichtlich ist die herausragende Stellung, die der englischen Originalform sowohl in den lexikographischen Werken als auch im Internet zukommt. Aus der weiteren Untersuchung ausgeklammert wurde die Form autofinanziamento, die auf einen wesentlich weiteren Begriff als cash flow referiert. Im Vergleich zu den anderen beiden Sprachen stellt sich die regionale Verbreitung im italienischen Sprachraum naturgemäß relativ einfach dar: In Italien konnte ein hauptsächlicher Gebrauch von cash flow (59% aller Vorkommen), aber doch auch eine oftmalige Verwendung von flusso di cassa (14%) und margine operativo lordo (27%) festgestellt wer- den, in der Schweiz wird dagegen – offensichtlich bedingt durch die Gepflo- genheiten in deutschen Texten – nur cash flow (100%) gebraucht.

364 Form absolute Frequenz absolute Frequenz WB+Enzykl. Internet cash flow 18 1.124 flusso di cassa 8 286 flusso di tesoreria 3 5 flusso monetario 2 42 margine operativo lordo 1 190 margine operativo netto 1 27 [autofinanziamento] [1] [2.724]

4.1.2. Französisch Für das Französische konnten ebenfalls 20 Einträge in Wörterbüchern und Enzyklopädien lokalisiert werden:

Form absolute Frequenz absolute Frequenz WB+Enzykl. Internet cash flow/cash-flow 14/2 1.696 marge brute 14 540 d’autofinancement capacité d’autofinancement 7 937 [argent vif] [1] [19] flux de trésorerie 1 1.193 surplus monétaire 1 14 surplus potentiel d’encaisse 1 1

Für die Form argent vif wurde kein einziger wirtschaftlicher Beleg gefun- den – die im Internet anzutreffenden Vorkommen beziehen sich großteils auf die Alchimie – sie wurde daher nicht weiter berücksichtigt. Interessant ist in den französischen Wörterbüchern und Enzyklopädien, dass die Übersetzung marge brute d’autofinancement mit annähernd der glei- chen Häufigkeit verzeichnet ist wie cash flow, wenn auch ihre Gebrauchsfre- quenz im Internet weit unter derjenigen des Originalterminus liegt. Hinsichtlich der regionalen Gebrauchsvariation ist die Situation hier be- reits deutlich komplizierter als im Italienischen: Für die französischen Varie- täten konnte in Europa außerhalb Frankreichs (Belgien, Schweiz) ebenfalls eine primäre Verwendung von cash flow (jeweils knapp über 80% der Vor- kommen aller Formen im jeweiligen Land) festgestellt werden. In Frankreich ist das Panorama etwas ausgeglichener, wobei insbesondere capacité d’auto- financement (33%) gleich häufig wie cash flow (34%) verwendet wird, aber auch die anderen beiden Formen flux de trésorerie (20%) und marge brute d’autofinancement (12,5%) eine hohe Frequenz haben. Gänzlich anders ist

365 die Situation jedoch auf den französischsprachigen kanadischen Internetsei- ten, wo eindeutig flux de trésorerie (62%) dominiert, die anderen genannten Varianten dann eine einigermaßen ausgeglichene Verteilung aufweisen. Die geringe Frequenz dieser Form in den analysierten lexikographischen Werken führe ich auf die mangelnde Verfügbarkeit von in Kanada erschienenen Wer- ken zurück, der entsprechende Wert in der Tabelle ist also im vorliegenden Fall nicht aussagekräftig. Wie diese Unterschiede im Einzelnen zu erklären sind, muss hier weitge- hend dahingestellt bleiben. Gerade für das Französische kann man jedoch davon ausgehen, dass die in den jeweiligen Ländern praktizierte explizite Sprachpolitik, deren Bedeutung und Intensität eine besondere Rolle spielt. Damit in engem Zusammenhang steht ein weiterer Aspekt, der über das Fran- zösische hinausgehend Gültigkeit hat: Die terminologische Vorgabe in den Bilanzierungsvorschriften der einzelnen Länder fördert nicht nur, sondern er- zwingt geradezu in manchen Texten den Gebrauch der einen oder anderen Variante.

4.1.3. Spanisch Für das Spanische wurden 28 Wörterbücher und Enzyklopädien analysiert, wobei sich für diese Sprache die Situation am komplexesten erweist, und zwar sowohl hinsichtlich der Menge der Übertragungsvarianten als auch in Bezug auf die regionale Verbreitung der einzelnen Formen. Margen bruto de autofinanciación taucht ausschließlich in aus dem Fran- zösischen übersetzten Texten auf und wurde deswegen nicht weiter berück- sichtigt.

Form absolute Frequenz absolute Frequenz WB+Enzykl. Internet cash flow/cash-flow 14/10 2.397 flujo de caja 13 1.857 flujo de tesorería 5 21 flujo de efectivo 3 1.723 flujo de fondos 2 837 caja generada 1 7 [margen bruto de autofinancia- [1] [4 (1) ] ción (-financiamiento)] recursos generados 3 761 recursos autogenerados 1 21 movimiento de caja 1 37

366 Für das Spanische ist zunächst festzuhalten, dass nur in der peninsularen Va- rietät der Gebrauch von cash flow eindeutig dominiert (85% der Vorkommen aller Formen). In allen lateinamerikanischen Ländern werden andere Formen häufiger, sogar weitaus häufiger gebraucht. Welche dies jeweils sind, ist stark unterschiedlich und soll an dieser Stelle anhand dreier Beispiele ver- deutlicht werden: In Argentinien dominiert flujo de fondos (48% der Vor- kommen aller Formen) vor cash flow (29%) und flujo de caja (15%); in Chile ist gerade die letztgenannte Form flujo de caja mit 68% der Vorkommen am häufigsten, gefolgt von flujo de efectivo (14%) und recursos generados (8%); in Mexiko wiederum ist flujo de efectivo die häufigste Form (65%) vor re- cursos generados (17%) und flujo de caja (10%), während auf cash flow ge- rade einmal 2% aller Vorkommen in diesem Land entfallen. Die in den Wör- terbüchern relativ häufig anzutreffende Übersetzung flujo de tesorería scheint in der Praxis nirgendwo massiv verwendet zu werden. Zu diesen Zahlen ist anzumerken, dass die meisten Wörterbücher und En- zyklopädien des Korpus in Spanien erschienen sind, wodurch sich die Diffe- renz zwischen der Vorkommenshäufigkeit in diesen Werken und im Internet erklärt (besonders deutlich sichtbar bei flujo de efectivo – eine Variante, die auch nur in mexikanischen Wörterbüchern zu finden ist).

4.2. Zur Bedeutung von cash flow Nachdem den einzelnen als Synonyme angegebenen Formen und deren Fre- quenz nachgegangen wurde, soll nun die Bedeutung von cash flow unter- sucht werden. Ausgangshypothese war zunächst, dass der Terminus eine klar umrissene Bedeutung haben müßte, die – wenn auch vielleicht in simplifi- zierter Form – relativ einheitlich beschrieben sein sollte. Die diesbezügliche Sichtung des Korpus zeigt jedoch schnell das Gegenteil, und zwar in einem überraschenden Ausmaß. Um an dieser Stelle nicht in wirtschaftliche Details und allzu spezialisierte Unterscheidungen einzudringen, wird im Folgenden nur ein Überblick über die unterschiedlichen Auffassungen und Definitions- perspektiven gegeben: Zunächst zeigt sich, dass von cash flow sowohl hinsichtlich eines Unter- nehmens als auch einer konkreten Investition gesprochen wird:

“Nell’analisi di progetti di investimento, i flussi di cassa futuri generati dall’investimento stesso, vengono attualizzati (→ discounted cash flow) per calcolare il rendimento lordo del progetto medesimo e per confrontare quest’ultimo con il costo del capitale.” (Garzanti 19893, 236).

367 Bleibt man bei ersterem Ansatz, können gleich vier unterschiedliche Bedeu- tungen festgehalten werden: 1. “Jeglicher Fluss liquider Mittel zum oder vom Unternehmen”: “I flussi di cassa in entrata sono rappresentati soprattutto dai ricavi delle ven- dite, dell’alienazione di componenti del patrimonio, dall’emissione di azioni a pagamento, obbligazioni e da prestiti. I flussi di cassa in uscita sono rappre- sentati dal pagamento di costi di produzione, debiti, dividendi, imposte e da investimenti.” (Il Mondo 1992, 124). 2. “Angabe der erwirtschafteten finanziellen Mittel”: “Indica l’aumento o la diminuzione che si verifica, in un dato periodo di tem- po, nei mezzi numerari di una azienda.” (Bazzano 1988, 73). 3. “Buchhalterisches Dokument zur Erfassung der entsprechenden Geld- ströme” (nur in lateinamerikanischen Wörterbüchern zu finden): “Es el estado financiero que muestra el origen de los fondos y su aplicación en las operaciones de la empresa...” (Barandiarán 19902, 65). 4. Als Synonym von “Bilanz” (nur zweimal in allgemeinsprachlichen i- talienischen Wörterbüchern und offensichtlich fälschlicherweise): “...la locuzione può anche essere definita come l’esposizione... dell’attivo e del passivo di un’azienda...” (Mini 1994, 48). Vertieft man Punkt 2, ergibt sich eine weitere Bedeutungssplittung: 2.1. “Gesamtheit aller erwirtschafteten Mittel”: ”Importe de los medios financieros producidos por una empresa por unidad de tiempo...” (Ahijado/Aguer, 1996, 103). 2.2. “Gesamtheit der liquiden Mittel” (ähnlich 2.1.): ”Disponibilità finanziarie uttilizzabili da un’azienda.” (Cortelazzo/Cardinale 1986, 39). 2.3. “Gesamtheit der sich aus der ordentlichen Geschäftstätigkeit ergeben- den Mittel”: ”Recursos que genera la empresa originados por su propia actividad.” (Heras 1998, 29). In allen drei Fällen ergibt sich die Möglichkeit, den Cash Flow eines Unter- nehmens unterschiedlich zu berechnen:

368 2.a. Als “Differenz von Einnahmen und Ausgaben”: ”Disponibilità finanziaria data dalla differenza tra incassi e pagamenti di un’azienda in un certo periodo di tempo.” (Spagnesi 1994, 34). 2.b. Als “Summe diverser Ergebnisse und Kennzahlen des Unternehmens, insbesondere von Gewinn und Abschreibungen”. In dieser Perspektive ergibt sich eine ganze Kaskade von Definitionen in Ab- hängigkeit davon, welche Elemente jeweils berücksichtigt werden: 2.b.1. “Reingewinn + Abschreibungen”: ”Il sistema del flusso di cassa consente di valutare le possibilità di espansione di un’impresa... attraverso la valutazione ... degli utili netti di bilancio e degli ammortamenti...” (Pasquarelli/Palmieri 1987, 72). 2.b.2. “Reingewinn nach Dividendenauschüttung + Abschreibungen” (nur Italien): ”È costituito da: a) il totale degli utili meno imposte e dividendi pagati, più b) le riserve per ammortamento del capitale fisso.” (Picchi 19902, 161). 2.b.3. “Gewinn + Abschreibungen + alle oder Teil der Rückstellungen”: ”Marge constituée par l’addition des termes suivants: dotations aux amortisse- ments, dotations de tout ou une partie des provisions, résultat net de l’exercice après impôt, et représentant la capacité d’autofinancement de l’entreprise, dé- gagée avant une eventuelle distribution de bénéfice ...” (Académie des scien- ces commerciales s.a., 394). 2.b.4. “Gewinn + Abschreibungen + Rückstellungen + Rücklagen”: ”Renta neta de una organización más amortizaciones, mermas, provisiones, y dotaciones para reservas, que constituyen deducciones contables no pagadas, de hecho, por caja.” (Rosenberg 1989, 191). Auf komplexere Bedeutungserklärungen, die die einzelnen Posten weiter auf- schlüsseln, teilweise erweitern oder limitieren, soll hier nicht weiter einge- gangen werden. 2.c. Als “Summe von Eigenfinanzierung und Dividendenausschüttung” bzw. – gerade das Gegenteil davon – als “Eigenfinanzierung und ein- behaltener Gewinn”: ”... capacité d’autofinancement (égale à l’autofinancement plus les dividendes versés), appelée souvent cash flow.” (Piriou 1996, 14).

369 ”La capacité d’autofinancement, ou marge brute d’autofinancement, ou en- core cash flow, est égale à la somme de l’autofinancement et des bénéfices non distribués.” (Capul/Garnier 1996, 31). Es dürfte deutlich geworden sein, auf welch vielfältige, in sich teilweise wi- dersprüchliche Art und Weise die Bedeutung von cash flow in der konsultier- ten Literatur beschrieben wird. Die Konfusion setzt sich dann natürlich in den verschiedenen Arten des “Cash Flow” (brutto, netto, operativer...) in der gleichen Art und Weise fort. Nimmt man – von betriebswirtschaftlicher Ter- minologie unbelastet – zwei, drei oder auch mehr Wörterbücher zur Hand und vergleicht die entsprechenden Einträge, so kann man leicht den Eindruck gewinnen, dass völlig unterschiedliche Bedeutungen von cash flow existie- ren. Nur in wenigen Wörterbüchern wird auf die beschriebenen verwickelten Beziehungen eingegangen, in den meisten Fällen wird einfach eine der oben angerissenen Perspektiven als DIE Bedeutung von cash flow präsentiert. Der Eindruck eines begrifflichen Chaos, das über die offensichtlich real existie- rende Polysemie noch hinausreicht, kann dabei sehr leicht entstehen.

4.3. Die Bedeutungsbeschreibungen von cash flow auf verschiedenen Fach- sprachlichkeitsebenen Wie oben erwähnt, wurden die untersuchten Wörterbücher und Enzyklopä- dien in drei Gruppen eingeteilt, die grosso modo auf drei unterschiedlichen Ebenen von Fach(sprach)lichkeit angesiedelt sein sollten: allgemeinsprachli- che Werke, generelle Wirtschaftsliteratur bzw. Werke aus anderen Bereichen der Wirtschaftswissenschaften (Marketing, Börse, etc.) und spezifische Wer- ke zu Unternehmensführung, Buchhaltung, Finanzierung und Investition. Mengenmäßig waren die allgemein-wirtschaftswissenschaftlichen Wör- terbücher und Enzyklopädien im Korpus am häufigsten vertreten (insgesamt ca. die Hälfte), während auf die anderen beiden Gruppen jeweils ca. ein Vier- tel der Werke entfiel. Ohne hier auf Details eingehen zu können, zeigt sich, dass auf der Ebene der allgemeinsprachlichen Wörterbücher – wie erwartet – sehr allgemeine Bedeutungsangaben vorherrschen (”Disponibilità finanziarie utilizzabili da un’azienda”, Cortelazzo/Cardinale 1986, 39). Auch die im vorherigen Ab- schnitt angesprochenen offensichtlichen Irrtümer (Gleichsetzung von cash flow mit Bilanz) sind hier angesiedelt. Es finden sich aber vereinzelt auch Definitionen, die die Beziehungen zwischen den dargestellten Perspektiven und Berechnungsmethoden widerspiegeln. Obwohl auch auf der nächsthöheren Ebene der allgemein wirtschafts- sprachlichen oder eigentlich andere wirtschaftliche Bereiche betreffenden

370 Werke ebenfalls noch sehr rudimentäre Bedeutungsbeschreibungen zu finden sind, ist diese Tendenz hier deutlich ausgeprägter. Vereinzelt zeigt sich als Folge davon eine weitere Komplikation: Für die einzelnen Ansätze werden unterschiedliche Übertragungen (insbesondere ins Spanische) vorgeschlagen, also wäre z.B. cash flow in Bedeutung x als “flujo de caja”, in Bedeutung y als “recursos generados” zu übersetzen. Abgesehen davon wird natürlich der enzy- klopädische Anteil in den Einträgen stärker (Auswirkungen, Sinnhaftigkeit). In einem noch stärkeren Ausmaß trifft dies dann auf die eigentlichen Spe- zialwörterbücher zu, wobei auch die hier relevanten bedeutungsdifferenzie- renden Elemente in ihrer Komplexität weiter ausgeführt sind, bisweilen sogar mehrere Einträge bilden. Kurioserweise finden sich aber auch in der Spezial- literatur (also Fachwörterbücher der Buchhaltung, etc.) sehr rudimentäre Be- handlungen des Terminus cash flow, die sich im Einzelfall von derjenigen in manchen allgemeinsprachlichen Wörterbüchern kaum unterscheiden. Es ist dies m.E. ein Indiz dafür, dass die unterschiedenen vertikalen Ebe- nen der Fachsprachlichkeit in diesem Bereich nur sehr geringe Aussagekraft haben, dass also andere Kriterien als das im Titel genannte Fachgebiet we- sentlicher sind, um eine Prognose über die Aussagekraft der einzelnen Erklä- rungen anstellen zu können. Abgesehen von der hier nicht berücksichtigten Dimension des Umfangs kommt man hier unweigerlich zur Frage der Qualität von Fachwörterbüchern, die an dieser Stelle jedoch dahingestellt bleiben muss.

5. Fazit Wenn man sich die drei in Kapitel 2. aufgestellten Hypothesen in Erinnerung ruft und diese im Licht der gewonnen Erkenntnisse noch einmal betrachtet, so können folgende Schlußfolgerungen gezogen werden: a) Hypothese 1 zur vermuteten Existenz verschiedener Übersetzungsvari- anten in den drei Sprachen trifft voll zu. Neben der bloßen Existenz konnten darüber hinaus auch regionale Frequenzunterschiede festge- stellt werden, in der stärksten Ausprägung im Spanischen. b) Die Annahme einer stabilen und zumindest in Fachkreisen anerkannten und klaren Bedeutung von cash flow entpuppte sich als zu optimistisch. Es ergaben sich zunächst einige klar zu unterscheidende Grundbedeu- tungen, deren offenbar gebräuchlichste wiederum durch eine Vielzahl von unterschiedlichen, ja widersprüchlichen Bedeutungselementen ge- prägt wird. Als gemeinsamer Nenner ergäbe sich in diesem Fall eine nur sehr abstrakte und eigentlich nichtssagende Bedeutungsangabe, mit der man im Bereich des fachlichen und fachsprachlichen Wirkens wohl

371 kaum mehr etwas anfangen kann. Die Vermutung, dass im wirtschaftli- chen Handeln jeweils sehr genau untersucht wird, wie ein angegebener Cash Flow jeweils definiert und berechnet wird, dass man sich somit nicht auf eine einmal erlernte terminologische Begriffsklärung blind verlässt, liegt nahe. c) Ebenfalls als weitgehend falsifiziert kann Hypothese 3 gelten, dass sich die unterschiedlichen Bedeutungen und Bedeutungsangaben durch ver- tikale Variation erklären lassen, sofern man – wie hier – versucht, die diversen Ebenen an außersprachlichen Merkmalen festzumachen. Der durch das jeweilige Werk abgedeckte fachliche und sprachliche Be- reich gibt bestenfalls eine Tendenz vor, die aber keine Aussagekraft über die Vollständigkeit und Qualität des einzelnen Werkes liefert.

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372 “Europa vor dem Ziel” – “Schröder ha sbagliato tutto”. L’intervista scritta: traduzione o elaborazione? Laura Sergo (Saarbrücken)

1. L’intervista Accanto a notizie, servizi, reportages e commenti l’intervista a personaggi del mondo della politica, della cultura, dello sport e dello spettacolo è un e- lemento essenziale della stampa quotidiana e periodica e contribuisce ad ac- crescere la personalizzazione dell’informazione. Definita “dialogo asimme- trico” (Stati 1982, 17), “spezifische Mischform aus Informationsvermittlung (Nachricht), Meinungsdarstellung (Kommentar) und kommunikativem Rol- lenspiel” (Ecker et al. 1977, 18), viene inserita anche all’interno di altri tipi di testi come ad esempio in commenti e notizie (Burger 19902, 74) e impie- gata quale completamento di un tematica allo scopo di metterne ulteriormente in rilievo particolari aspetti e prospettive. Tramite l’intervista si intende inol- tre sottolineare da una parte il carattere di immediatezza dell’informazione e dall’altra suscitare nel lettore un’impressione di autenticità (Lüger 19952, 142). Comune a tutti i tipi di intervista è la struttura dialogica di fondo: si tratta di una forma di comunicazione cui partecipano almeno due locutori, un inter- vistatore e un intervistato (Burger 19902, 58). La distribuzione dei ruoli è a- simmetrica: l’intervistatore è dotato di maggiori diritti conversazionali rispet- to all’intervistato: spetta a lui dirigere l’andamento dell’intervista e scegliere gli argomenti (Stati 1982, 14). In questo senso si può parlare di intervista come di “umgekehrtes Lehrgespräch”, un “esame alla rovescia” in cui l’alunno che sa poco o niente sul tema, assume il ruolo dell’insegnante po- nendo domande e dirigendo il dialogo (Hundsnurscher 1994, 210). Il terzo elemento è il pubblico, e in ciò essa si distingue dal dialogo in senso generale e da tutti gli altri tipi di intervista impiegati in discipline quali la medicina, la psicologia, la sociologia, etc. In questo senso l’intervista sulla stampa rivela delle analogie con il teatro: innanzitutto in entrambi i generi te- stuali il dialogo non è originato da necessità comunicative private dei locuto- ri, ma è destinato alla ricezione da parte di un pubblico (Ecker et al. 1977, 24) tramite media quali televisione, radio o stampa. A ciò si aggiunge l’analoga ridondanza dell’informazione nel gioco delle domande e delle ri- sposte.1 ————— 1 Per questa osservazione desidero qui ringraziare i miei studenti di Saarbrücken.

373 Intervistatore, intervistato, medium e pubblico sono quindi gli elementi della forma comunicativa “intervista”. Il dialogo tra gli interlocutori, gli e- mittenti, dà origine al testo dell’intervista e costituisce la cosiddetta “situa- zione primaria”; in una “situazione secondaria” separata dalla prima dal pun- to di vista spaziale o temporale, o da entrambi, a seconda che si tratti di un’intervista televisiva, radiofonica o stampata, il pubblico, cioè il vero e proprio destinatario, recepisce il testo in una versione più o meno modificata in base alle esigenze del medium. Situazione primaria e secondaria sono inse- rite in un contesto di convenzioni e norme sociali le quali determinano il comportamento dei partecipanti (Ecker et al. 1977).

2. L’intervista scritta nell’ottica della tecnica del giornalismo In una presentazione per quanto veloce e sommaria di questo genere testuale non si può prescindere dai contributi in materia provenienti da ricerche e ma- nuali di tecnica del giornalismo. L’intervista viene qui presentata come uno dei settori più importanti, come base stessa dell’attività giornalistica, in quan- to ogni prodotto di tale attività presuppone sempre un colloquio con altre persone (Netzer 1970, 31). Nonostante l’intervista sia considerata come lo strumento fondamentale del giornalista, vengono tuttavia espresse delle ri- serve nei confronti di quella stampata: “Ein gedrucktes Interview: das heißt das Stenogramm eines Gesprächs. Wird es unredigiert gedruckt, dann gerät unser Auge ins Stolpern, stört uns der holprige Satzbau, der Mangel an Grammatik. Wird es redigiert, dann ist es zu glatt – es fehlen die Pausen, die Äh’s und Oh’s, wir bekommen das Zögern auf eine Antwort nicht mit, das bisweilen mehr aussagen kann als die Ant- wort selbst.” (op.cit., 33). La diffusione sempre maggiore di interviste sui quotidiani e periodici è da ri- condurre ad una sorta di concorrenza con gli altri media, come la radio e la televisione,2 nei quali essa viene impiegata non tanto per il suo carattere di autenticità informativa quanto allo scopo di offrire una documentazione a so- stegno dell’opinione o delle affermazioni del giornalista in questione, sempre soggette ad essere criticate o messe in dubbio. Le interviste scritte sono il prodotto di un lungo processo di elaborazione (Henning 1996, 298) introdotto da una fase di preparazione costituita dalla scelta della persona da intervistare, dalla documentazione personale del gior- nalista, da incontri preliminari fra i partner nei quali viene stabilito lo schema dell’intervista stessa e talvolta perfino già proposte le domande. ————— 2 Cf. Dardano (1994, 214): “La stampa mima lo stile della televisione.”

374 L’intervista vera e propria viene registrata e successivamente trascritta. Il testo che risulta dalla trascrizione subisce una rielaborazione da parte dell’in- tervistatore in previsione della pubblicazione: in questa fase le modifiche ri- guardano non soltanto elementi microtestuali come l’eliminazione di ripeti- zioni, anacoluti, parentesi, dislocazioni e altre irregolarità di tipo sintattico e lessicale, o anche di particelle modali e altri segnali discorsivi, di correzioni, di omissioni, etc., ma anche elementi macrostrutturali come la quantità e l’ordine delle domande. Ciò avviene non soltanto tramite l’eliminazione, ma anche tramite riassunti e spostamenti di sequenze di domande e risposte. Il parlato viene trasformato in lingua scritta3 e più precisamente nella lingua ca- ratteristica di quel determinato giornale o rivista: esigenze di “drammaturgia” e di retorica possono richiedere una diversa successione nelle domande e nel- le risposte, successione che non era stato possibile mantenere nel corso dell’intervista. Non sempre il testo così elaborato può essere immediatamente stampato perché all’intervistato viene concesso di vederlo ancora una volta prima che ne sia autorizzata la pubblicazione. Ciò significa perciò che anche l’inter- vistato può intervenire sul testo modificandolo.

3. Il corpus Tra i numerosi tipi di classificazione all’interno del genere testuale viene normalmente ritenuto fondamentale quello più semplice che comporta due sole categorie (Netzer 1970, 32): “Interview zur Sache” e “Interview zur Per- son”. Nel primo caso è rilevante ciò che viene detto, nel secondo chi lo dice. In queste due categorie si possono inserire tutti i tipi di intervista. Non do- vrebbe trattarsi qui, a nostro avviso di una rigida dicotomia, ma piuttosto di una tendenza predominante. Haller (19972, 149) aggiunge una terza categoria cioè l’intervista il cui tema è costituito dai rapporti tra fatti e persona. La pre- valenza dell’uno o dell’altro elemento dipende spesso dal livello del giornale nel quale essa è pubblicata: a seconda del tipo di lettori e dei loro presunti in- teressi l’intervista verterà sulla persona o piuttosto invece sui fatti. Sui maggiori quotidiani e settimanali italiani come La Repubblica, Il Cor- riere della Sera, L’Espresso, etc., da cui è tratto il corpus di traduzioni ana- lizzate, vengono regolarmente pubblicate delle interviste – o anche contributi di altro genere – apparse originariamente sia su giornali o riviste tedesche di ————— 3 Il grado dell’adeguamento alle norme della lingua scritta sarà più o meno elevato a seconda del tipo di intervista. Va perciò relativizzata la collocazione di questo genere testuale all’interno dello schema proposto da Koch/Österreicher (1985, 17).

375 livello più alto, come Süddeutsche Zeitung, Die Zeit o Der Spiegel, sia su giornali popolari come Welt am Sonntag o Bild am Sonntag. Tale eterogenei- tà non dovrebbe costituire a mio parere un problema per l’inserimento dei te- sti nel quotidiano italiano: a differenza della scena giornalistica tedesca, in cui è ben chiara la distinzione tra i giornali cosiddetti “seri” e quelli popolari, in Italia tale differenza non esiste, almeno a livello di quotidiani. Un quoti- diano italiano è contemporaneamente serio e popolare, in esso vengono di- scussi problemi filosofici o questioni letterarie, ma una parte notevole dello spazio viene dedicata anche a pettegolezzi, cronache di incidenti e delitti, sport (Giardina 2000, 46). È quindi possibile ad un quotidiano italiano assor- bire senza “cadute di stile” sia l’intervista pubblicata originariamente su una rivista quale Die Zeit sia quella apparsa su un giornale popolare quale Bild am Sonntag. Il ruolo dell’intervistato, peculiarità e problemi, funzione dell’intervista stessa stanno alla base della tipologia proposta da Haller (19972, 152ss.): 1. Experten-Interview, 2. Augenzeugen-Int., 3. Hauptpersonen-Int., 4. Publi- kum-Int., 5. Prominenten-Int., 6. Dichter-/Denker-/Künstler-Int., 7. Politiker- Int., 8. Helden-Int., 9. Menschen wie Du und ich. Il corpus analizzato finora è costituito da interviste a esponenti del mondo della cultura e a politici. Il presente contributo si limiterà tuttavia alle inter- viste a politici. Lo scopo dell’intervista a un politico è quello di rendere trasparenti de- terminati processi politici presentandoli dalla prospettiva dell’attore (Haller 19972, 163s.). Il personaggio intervistato illustra e giustifica il suo modo di agire in una determinata circostanza, interpreta eventi politici nei quali non è necessariamente coinvolto in maniera diretta, ne spiega le cause e le possibili conseguenze dal suo proprio punto di vista, assumendo quindi in certe situa- zioni anche il ruolo dell’esperto. Il presente studio si basa sull’analisi di sette interviste a politici pubblica- te su: Süddeutsche Zeitung, Welt am Sonntag e Bild am Sonntag, le cui tradu- zioni sono apparse contemporaneamente, cioè lo stesso giorno, tranne un’eccezione, tutte sul quotidiano La Repubblica. Gli intervistati sono il can- celliere Gerhard Schröder (due interviste), l’ex-cancelliere Helmut Kohl (due interviste), Oskar Lafontaine, ex Ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, ex segretario della CDU e Henry Kissinger (un’intervista ciascuno). Non si è tenuto conto in questo lavoro di tutti gli aspetti non verbali con- nessi con l’intervista scritta, quali impaginazione ed altri elementi grafici, fo- tografie, illustrazioni etc.

376 4. L’intervista: originale e traduzione 4.1 Il testo originale Le interviste stampate costituiscono un genere testuale fortemente standar- dizzato e dal profilo paragonabile in entrambe le lingue considerate. L’analisi di originali e rispettive traduzioni permette tuttavia di mettere in luce la pre- senza di notevoli divergenze relative soprattutto alla sfera pragmatica (Tho- me 1998, 58). Saranno perciò presentati quali termini di paragone alcuni testi paralleli costituiti da interviste originali a politici italiani apparse su La Re- pubblica e Il Corriere della Sera. Nel presente contributo si fa riferimento al metodo sviluppato da Thome (1998) applicato già in diverse occasioni all’analisi di testi giornalistici (Thiel/Thome 1987; Thome 1998). Tale approccio prevede un’analisi del te- sto originale ed un confronto originale – traduzione a tre livelli, strettamente connessi, cioè quello del contenuto, quello pragmatico e quello funzionale. L’accento principale verrà qui posto sull’aspetto pragmatico, che permette di determinare la funzione del testo di partenza e di quello di arrivo, allo scopo di stabilire se la traduzione dell’intervista comporti o no un’equivalenza fun- zionale rispetto all’originale stesso. Verrà poi discussa la questione se nel ca- so dei testi di arrivo si tratti di traduzioni o non piuttosto di elaborazioni (Schreiber 1993). Per quanto riguarda il contenuto, le interviste presentano una struttura più complessa rispetto, ad esempio, agli articoli o ai commenti in quanto in esse vengono trattati nella maggior parte dei casi diversi argomenti portati poi a- vanti per sequenze più o meno lunghe di segmenti dialogici. Nelle interviste a politici le domande si riferiscono sostanzialmente a temi quali i rapporti all’interno del rispettivo partito o tra i partiti costituenti la coalizione di go- verno e i problemi di politica interna, sociale ed estera; un particolare rilievo viene frequentemente attribuito alle relazioni tra i paesi membri dell’Unione europea. All’interno di tali sequenze la coesione è garantita da riprese anafo- riche e connettivi, la coerenza da un’omogenea articolazione tema-rema (cf. intervista a Schröder, 11/2/1999) e da un numero limitato di catene isotopi- che. Cambiamenti e rispettivamente riprese di determinati temi come pure l’insistere su una precisa questione vengono realizzati tramite formule quali: “Kommen wir von der deutschen Politik zu den deutschen Interessen” (Lafontaine, Welt am Sonntag 12/3/2000) “Ich komme zurück auf den Kern Ihrer Frage” (Kohl, Welt am Sonntag 7/11/1999)

377 Un ruolo particolarmente importante compete alla scelta del titolo nel quale viene realizzata la funzione fàtica di presa di contatto tra emittente e destina- tario del testo (Nord 1993, 143; Held 1998a, 1998b); il titolo deve suscitare l’interesse dei destinatari nei confronti del cotesto, e dirigerne le aspettative. A tale scopo vengono impiegate in particolare nella stampa citazioni tratte dal cotesto e considerate rappresentative del testo nella sua totalità. Tale for- ma di intertestualità è particolarmente frequente nelle interviste, tanto che si potrebbe parlare in questo caso di una vera e propria convenzione (Nord 1993, 191). Le citazioni sono individuabili come tali grazie alla presenza di virgolette, eventualmente grazie all’uso della prima persona o di costruzioni analoghe e di espressioni colloquiali:

“ICH HABE AUCH FORTUNE GEHABT” “Ich habe natürlich hart gearbeitet. Aber ich habe auch ‘Fortune’ gehabt.” (Kohl, Welt am Sonntag, 7/11/1999)

“ICH WERDE MICH WEITER EINMISCHEN.” “Ich werde mich weiterhin in die politische Debatte einmischen.” (Lafontaine, Welt am Sonntag, 12/3/2000) Altre volte la citazione è realizzata tramite parafrasi (De Beaugrande/Dressler 1981, 62) o ricorrenze parziali (op.cit., 51):

“EUROPA AUS DER WELT DER TRÄUME IN DIE REALITÄT FÜHREN:” “Am meisten tut derjenige was für Europa, der Europa herausnimmt aus der Welt der Träume und hinführt zur Welt der Realität.” (Schröder, Süddeutsche Zeitung, 11/2/1999)

SCHRÖDER: 2002 NUR NOCH 3,5 MILLIONEN ARBEITSLOSE! “Ich rechne damit, dass es uns gelingt, bis zum Ende der Legislaturperiode 2002 die Arbeitslosigkeit auf unter 3,5 Millionen zu drücken.” (Schröder, Bild am Sonntag, 20/8/2000) Sul piano pragmatico l’atteggiamento dell’emittente risulta determinato sia dalla linea politica rappresentata dal giornale che dal livello di questo; accan- to a intervistatore e intervistato interagisce nella produzione del testo la reda- zione del giornale stesso assumendo quindi anch’essa il ruolo di “autore”. Così le interviste all’ex-cancelliere Kohl nel quotidiano Welt am Sonntag la- sciano sempre intravedere una particolare concordia tra intervistatori e inter- vistato che viene segnalata da risposte quali: “Ja, natürlich”; “Ja, wir haben auch Fehler gemacht”; (Kohl, Welt am Sonntag 7/11/2000) e da domande retoriche:

378 “Ist es auch parteistrategisch wirklich intelligent, ständig die Stammkund- schaft unter den Wählern vor den Kopf zu stoßen für eine Laufkundschaft, die man noch gar nicht hat?” (Kohl, Welt am Sonntag 7/11/2000) Al contrario l’intervista allo stesso ex-cancelliere pubblicata nella Süddeut- sche Zeitung è contrassegnata da formulazioni particolarmente dirette come la seguente: “Kurz gesagt: Sie haben nichts gegen die Türken, Sie wollen sie aber nicht in der EU haben.” (Kohl, Süddeutsche Zeitung, 11–12/9/1999) L’intervista a politici realizza dunque sia la funzione rappresentativa che quella appellativa, da una parte informa su fatti e contesti politici dal punto di vista dell’intervistato, dall’altra appoggia o influenza le opinioni del destinatario.

4.2 La traduzione Dal confronto originale – traduzione risulta a tutti i livelli di analsi una ten- denza a rendere più esplicito il testo di arrivo tramite riduzioni, spostamenti e aggiunte di segmenti (Koller 19975, 267; Thome 1998, 63). Tali interventi si possono situare in un continuum fra due poli: da una parte il mantenimento dell’originale nella sua interezza e anche nella sequenza delle coppie doman- da-risposta, estremamente raro (Lafontaine, Welt am Sonntag, La Repubbli- ca, 12/3/2000); dall’altra il grado massimo di riduzione dei temi toccati nell’intervista (Schröder, Bild am Sonntag, La Repubblica, 20/8/2000) con spostamenti di elementi dialogici che possono rendere il testo di arrivo quasi irriconoscibile rispetto a quello di partenza. Un caso particolare è costituito dall’intervista a Schäuble. Si tratta qui, nell’originale, di una forma mista in cui accanto alla parte redazionale, si tro- vano inserite numerose citazioni dirette del politico tedesco, segnalate dalla presenza di virgolette, e di discorso riportato. È una forma frequente soprat- tutto nella stampa popolare, ma presente anche nel giornalismo cosiddetto “serio”, in particolare quando lo scopo è non soltanto quello di trasmettere il contenuto, ma anche le circostanze dell’intervista, e di dare ulteriori informa- zioni sulla persona dell’intervistato (Burger 19902, 67ss.). Nella traduzione il testo viene trasformato in vera e propria intervista. Le citazioni vengono usate come risposte, per le quali vengono formulate delle adeguate domande sia costruite tramite materiale linguistico appartenente alla parte redazionale, sia formulate dal giornalista senza riferimento diretto all’intervistato, sia create semplicemente ad hoc.

379 La prima selezione sui contenuti avviene dunque a livello redazionale, non è difficile identificarne i criteri: normalmente vengono scartati i temi pre- supposti di scarso interesse per il lettore italiano, quali ad esempio la politica interna della Germania, come dimostrano anche alcuni esempi del corpus. La diversa distribuzione dei temi e delle relative coppie domanda-risposta nell’originale e nella traduzione può essere illustrata dall’intervista al cancel- liere Schröder pubblicata sui quotidiani Süddeutsche Zeitung e La Repubbli- ca l’11/2/1999. Dei cinque temi trattati nel testo di partenza cioè: a) Disoccupazione e problemi relativi al mondo del lavoro: domande 1–6; b) Sconfitta elettorale in Assia, problemi interni del partito: domanda 7; c) Coalizione con i verdi e addio all’atomo: domande 8–9; d) Politica europea. La Germania in seno all’Ue: domande 10–25; e) Kosovo, NATO e collaborazione con gli USA. Domande 26–30; ne restano nella versione italiana soltanto tre: a) Disoccupazione e problemi relativi al mondo del lavoro: domande 1–2 (3 e 5 nel testo originale); b) Sconfitta elettorale in Assia, problemi interni del partito: domanda 3 (7 nel testo originale); c) Politica europea. La Germania in seno all’Ue: domande 4–11 (nell’ordine 10, 22, 23, 12, 13, 15, 20, 21 nel testo originale). Le riduzioni riguardano sia le domande che le risposte; si osservano spesso nel caso delle domande definite da Schwitalla “Fragen mit Fragenvorberei- tungen und -begründungen” (1979, 267), nelle quali non appare la parte ini- ziale, cioè quella introduttiva:4

Es gibt neue Mitglieder im Verein für deutliche Aus- Signor Kohl, l’attuale go- sprache: Ihr Nachfolger als Bundeskanzler spricht verno si sforza di far senti- eine unverblümt-deutliche Sprache. Ob es ums deut- re la sua voce senza pro- sche Geld geht, um die Besetzung der EU-Kom- blemi. Prova invidia? mission oder um Deutsch als Verhandlungssprache: Die derzeitige Bundesregierung gibt sich ziemlich unbekümmert. Empfinden Sie da auch ein wenig Neid? Hätten Sie sich auch manchmal gewünscht, auch so geradeaus zu reden? (Kohl, Süddeutsche Zeitung, 11/9/1999) (Kohl, La Repubblica, 11/9/1999)

————— 4 In questo e negli esempi seguenti sono riportate in corsivo le sequenze non tradotte.

380 Anche nelle risposte vengono eliminate sequenze argomentative probabil- mente ritenute non indispensabili alla comprensione del testo. Il risultato è una riformulazione del contenuto privato ora di elementi attenuativi, esplica- tivi e valutativi: Ich habe den Krieg mit all seinem Schrecken und Io ho vissuto la guerra con Grauen erlebt und dann als 15-Jähriger das Kriegs- tutti i suoi orrori, e nel ’45 ende. Die Erfahrungen dieser Zeit haben mein wei- avevo quindici anni. Que- teres Leben tief geprägt. Mir wurde vor allem klar, sta esperienza mi ha segna- dass die Zeit der Kriege in Europa beendet werden to: il tempo delle guerre muß, dass wir eine politische Ordnung in Europa doveva finire per sempre in schaffen müssen, die das friedliche Zusammenleben Europa, dovevamo costrui- dauerhaft sichert. Ich habe als Jünger von Konrad re un nuovo ordine politico Adenauer den Satz gelernt, die Trikolore, die fran- tale da garantire durevol- zösische Flagge, dreimal und die Bundesfahne ein- mente la coesistenza paci- mal zu grüßen. Das war nicht ein Mangel an Re- fica. Da giovane [sic!] im- spekt vor der Bundesflagge. Konrad Adenauer parai il motto di Adenauer, brauchte da keine Nachhilfe. Es geht um das Sich- “saluta tre volte il Tricolore Einfühlen in das Selbstverständnis der Nachbarn, die francese e solo una volta la sich als Grande Nation verstehen. Nun kann man bandiera tedesca”. Ci era e natürlich über ein solches Selbstverständnis streiten ci è necessario calarci nel und fragen, ob das noch stimmt. Aber das ist doch sentimento che il vicino ha gar nicht die Frage. Wir wollen gemeinsam Zukunft di sé: vogliamo costruire il bauen, und darum brauchen wir die Partner. Wir sind futuro insieme, ci vogliono das Land mit den meisten Nachbarn und den längs- i partner giusti. Quello che ten Grenzen. Und jeder Ton von uns wird, auch noi tedeschi diciamo viene wenn uns das noch so ungerecht erscheinen mag, registrato con più sensibili- sensibler registriert als bei anderen. Und deshalb tà di quanto dicono gli altri. sind die starken Reden, die bei Nachbarn als laute I discorsi forti vengono re- Reden empfunden werden, falsch. Zu uns passen cepiti dai vicini come alza- sehr gut die leisen Töne; es sind die erfolgreichen te di voce. E chi alza la vo- Töne. Im übrigen, ist es eine Lebenserfahrung, dass, ce è un debole. wer laut auftritt, schwach ist – sonst hätte er solches Gebaren nicht nötig. (Kohl, Süddeutsche Zeitung, 11/9/1999) (Kohl, La Repubblica, 11/9/1999)

L’aggiunta di informazioni quale procedimento esplicativo (Koller 19975, 267s.) interviene nel caso di eventi, istituzioni e personaggi del mondo tede- sco di cui si ritiene improbabile la conoscenza da parte del lettore italiano5 e avviene in maniera più o meno palese come indicano gli esempi seguenti:

————— 5 Le informazioni aggiunte sono sottolineate.

381 Wenn 2002 immer noch zehn Prozent Arbeitslose da sind ... Che cosa farà se nel 2002, a fine legislatura, sarà ancora del 10 per cento? (Schröder, Süddeutsche Zeitung / La Repubblica 11/2/1999) Herr Gauweiler und ich haben in dieser Gesprächsreihe zuletzt mit Oskar La- fontaine in Saarbrücken geredet. Di recente abbiamo intervistato a Saarbrücken (l’ex ministro dell’Economia socialdemocratico) Oskar Lafontaine. (Kohl, Welt am Sonntag / La Repubblica 7/11/1999) ... keiner von uns hat eine Politik gemacht nach dem Motto “am deutschen Wesen soll die Welt genesen”. Mai ci siamo ispirati allo slogan “am deutschen Wesen soll die Welt genesen” (è un motto del Kaiser, vuol dire “lo spirito tedesco guarirà il mondo”). (Kohl, Süddeutsche Zeitung / La Repubblica 11/9/1999) Un altro procedimento esplicativo riguarda invece il tipo di interazione tra i locutori e si realizza nella traduzione delle forme del vocativo. Il vocativo viene utilizzato “per identificare il destinatario di un atto comunicativo e per rivolgergli la parola” (Mazzoleni 1995, 380). Una sequenza usata come voca- tivo può essere composta da un pre-titolo e/o da un titolo, dal nome proprio o dal cognome e da eventuali aggettivi. Quando il rapporto tra parlanti non è contrassegnato da familiarità il tedesco prevede che ci si rivolga all’interlocu- tore con il cognome preceduto obbligatoriamente dal titolo Herr/Frau, even- tualmente dal titolo accademico e da quello professionale. Ciò vale anche per l’intervista ai politici, vista l’asimmetria situazionale di intervistatore e inter- vistato, pur se, rispetto al passato, sembra che tale norma non venga più ap- plicata in maniera molto rigida (Schwitalla 1979, 242; Weinrich 1993, 882). Diverso è il caso dell’italiano: “signore” usato davanti a un titolo pro- fessionale segnala un rapporto di inferiorità rispetto all’interlocutore, pari grado ed esterni usano soltanto il titolo (Mazzoleni 1995, 396). Le forme di vocativo osservate spesso nelle interviste a politici italiani apparse sui quoti- diani La Repubblica e Il Corriere della Sera sembrano contraddire questa norma: sebbene in tale situazione tra intervistato e intervistatore ci sia un rapporto di superiorità situazionale (Vanelli/Renzi 1995, 365), troviamo fre- quentemente forme di vocativo come le seguenti, che sembrano segnalare una maggiore familiarità fra i parlanti o annullare la suddetta asimmetria: Cofferati, il dibattito sulla Finanziaria è condizionato da un rischio: l’inflazio- ne si surriscalda, i tassi tornano a salire ... (Cofferati, La Repubblica, 2/9/2000) Ministro, che cosa farà per migliorare il salario dei professori? (De Mauro, La Repubblica, 4/9/2000)

382 Nelle traduzioni dei vocativi tedeschi si osserva invece la tendenza a lasciar trasparire l’originale, nel senso di una overt translation (House 1997a, b), l’italiano infatti non prevede la seguente forma: Herr Dr. Kohl, einer der Gründe für die Niederlage der Union im September ... war Signor Kohl, nel settembre scorso il suo partito venne sconfitto... (Kohl, Welt am Sonntag / La Repubblica 7/11/1999)6 Non vanno più annoverati tra gli interventi esplicativi gli spostamenti di inte- ri segmenti di testo nella traduzione i quali in casi estremi giungono anche ad orientare la ricezione in una direzione non sempre corrispondente a quella dell’originale. Non va poi dimenticato il pericolo di perdite di coerenza dove agli spostamenti di sequenze non corrisponda un’adeguata modifica dei con- nettivi. Tutti i tipi di interventi citati influenzano la scelta del titolo regolata an- che nella lingua di arrivo dagli stessi meccanismi osservati in quella di par- tenza. La selezione di temi determina la scelta di titolo e sottotitoli, raramente quindi troviamo un titolo corrispondente all’originale: “Europa aus der Welt der Träume in die Realität führen:” (Schröder, Süddeutsche Zeitung, 11/2/1999) “Non è detto che la Germania rinunci alla presidenza Ue” “Schröder: I tedeschi non hanno alcun motivo di rinunciare in anticipo a por- re questioni di politica delle candidature. ... Prima di allora non ha senso che la Germania lasci cadere richieste cui ha diritto anche secondo i partner”. (Schröder, La Repubblica 11/2/1999, 5)

Schröder: 2002 nur noch 3,5 Millionen Arbeitslose! (Schröder, Bild am Sonntag, 20/8/2000) “Al bando i neonazisti. È un atto di pulizia politica.” “La Npd ... dovrebbe essere messa fuorilegge?” Schröder: “Se la commissione ... bisogna farlo. È anche un modo di fare puli- zia in politica.” (Schröder, La Repubblica, 20/8/2000, 2)

————— 6 Ovviamente in una situazione analoga l’intervistatore italiano si sarebbe rivolto al politico con il titolo di “onorevole”: “Onorevole Cohn-Bendit, il suo amico Fi- scher rischia il posto?” (La Repubblica, 5/1/2001)

383 5. Conclusione. L’intervista scritta: traduzione o elaborazione? Il presente studio limitato a pochi aspetti tipici dell’intervista scritta e basato su un corpus dalle dimensioni ancora ristrette non permette per il momento di giungere a dei risultati rilevanti, ma rivela piuttosto delle tendenze che an- dranno ulteriormente verificate. L’analisi dei testi consente tuttavia di ri- spondere alla domanda posta all’inizio: pur trattandosi, nel caso delle intervi- ste, di un genere testuale standardizzato, la cui traduzione deve essere recepi- ta come un originale nel senso di una covert translation (House 1997a, b) e richiede quindi certi interventi da parte del traduttore, in genere non si può tuttavia parlare di equivalenza funzionale tra testo di partenza e di arrivo. La funzione di appello, che nel testo di partenza ha un’importanza almeno pari se non superiore a quella informativa ed è segnalata ad esempio dagli e- lementi valutativi contenuti soprattutto nelle argomentazioni degli intervista- ti, perde molta della sua importanza perché proprio tali elementi risultano frequentemente eliminati nel testo di arrivo. Quali ne siano i motivi – esage- rata sollecitudine o addirittura sottovalutazione7 delle capacità di compren- sione o del livello di informazione dei destinatari (Thome 1998, 64; Schrei- ber 1993, 186), oppure più semplicemente problemi di spazio sulle pagine del giornale – tali interventi privano anche il lettore più interessato a fatti e persone del mondo politico tedesco della possibilità di recepire il testo nella sua completezza. Da quanto è stato detto finora si pone allora la questione se nel caso delle interviste scritte si tratti di traduzioni o non piuttosto di elaborazioni dell’originale. Secondo Schreiber (1993, 104) la traduzione prevede una sola possibilità di “varianza”, il cambiamento di lingua, mentre restano invarianti gli altri elementi; si ha invece elaborazione in presenza di una “proprietà di invarianza”,8 cioè nel caso del mantenimento di almeno un elemento testuale individuale (come ad esempio il tema o caratteristiche formali “inconfondibi- li”) e di “varianza” per quanto riguarda gli altri elementi. In base al tipo di “varianze” si può stabilire se un testo di arrivo sia una traduzione o un’elaborazione: se vanno ricondotte a differenze intrinseche al- le strutture delle lingue in questione, se sono di natura interculturale, se sono necessarie per mantenere un’invarianza gerarchicamente più importante, o nel caso si tratti di errori di traduzione esse vengono considerate come “über- ————— 7 Schreiber (1993, 186) considera il rischio della sottovalutazione del destinatario maggiore rispetto a quello della sua sopravvalutazione. 8 Per i concetti di “Varianz”, “Invarianz”, “Varianzforderung” e “Invarianzforde- rung” si veda Schreiber 1993, 104, 125; Albrecht 1990.

384 setzungstypische Varianzarten” (Schreiber 1993, 129). Dove i cambiamenti sono intenzionali si ha invece elaborazione.9 I diversi tipi di deviazione rispetto all’originale descritti nel presente stu- dio compaiono frequentemente all’interno dello stesso testo: si tratta sia di “übersetzungstypische Varianzarten”, come nel caso delle aggiunte di ele- menti esplicativi o di eventuali errori, sia di cambiamenti intenzionali quali gli spostamenti o l’eliminazione di intere sequenze dialogiche. Dove predo- minano questi ultimi si parlerà perciò di “adaptierende Bearbeitung” (Schrei- ber 1993, 279) in quanto l’originale viene adattato a un nuovo scopo o a un altra categoria di recipienti. L’analisi di un corpus più vasto permetterà di stabilire se ci sia un’interdi- pendenza – e di quale genere – tra il genere di intervista (Haller 19972, 152ss.) e il tipo di trasposizione nella lingua di arrivo.

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————— 9 Sulla distinzione fra “traduzione” e “elaborazione” cf. Koller (19975, 196ss., 250).

385 -are -ere -ire 2. *-amo -amo -imo 35. *-imo -emo -imo 54. *-iamo -iamo -imo 46. *-iamo -emo -iamo

Il nostro modello (e la nostra predizione 1) offre il motivo dell’impossibilità di tali distribuzioni. Poiché i verbi in -ere e in -ire appartengono alla stessa macroclasse II, mentre quelli in -are costituiscono la prima macroclasse, ne consegue che le classi verbali si possono influenzare reciprocamente solo all’interno della stessa macroclasse. Così, una forma della prima macroclasse può assimilarsi ad una forma omogenea di tutta la seconda macroclasse, ma difficilmente potrebbe omogeneizzarsi con una forma di solo una delle sue classi. Il fatto che un siffatto livellamento analogico improbabile non si sia realizzato in nessun dialetto italoromanzo offre una preziosa prova diacronica per la coesione interna delle due macroclassi e per la dicotomia del sistema verbale pan-italiano in due macroclassi, che molto probabilmente risale già all’epoca proto-romanza. Quindi, le due macroclassi si influenzano analogi- camente l’un l’altra solo se la seconda macroclasse è già omogeneizzata. Questa linea di ragionamento ci porta, perciò, ad escludere come impossibili anche le distribuzioni inesistenti 1, 3, 4, 6, 9, 14, 17, 20, 24, 26, 27, 31, 40, 51, 52, 53. e) Il nostro modello, dunque, predice correttamente che possano esistere le seguenti distribuzioni: 5. -amo -emo -emo Reatino 4. -amo -imo -imo Lucano, Altamurano e altri dialetti meridionali (cf. Lüdtke 1979, Loporcaro 1988, 1997, Rohlfs 1968) Rimane, tuttavia, il problema secondario di chiarire perché esistano più dia- letti che presentano la distribuzione n. 4 anziché quella n. 5. La nostra spiegazione si fonda sulla rilevanza della produttività, come il- lustrato dal nostro modello e dalle nostre predizioni 1–6. Si noti, poi, come rispetto al conflitto tra i parametri di biunivocità e trasparenza morfotattica tali distribuzioni riflettano una soluzione in cui si ha allomorfia solo secondo le due macroclassi. f) Al contrario, a prima vista un problema di maggior peso sembra essere quello dell’inesistenza di: 45. * -iamo -emo -emo. 48. * -iamo -imo -imo.

401 Questa lacuna fra i dialetti italiani ci sembra essere fortuita. Ricordiamo che -iamo è presente come indicatore della 1. pl. del presente indicativo della prima macroclasse solo in fiorentino, dove poi si è esteso agli indicativi della seconda macroclasse. Quindi, non esistono né esistevano altri dialetti con l’antica distribuzione

10. -iamo -emo -imo. Né, d’altra parte, ci si potrebbe aspettare che un unico dialetto si scinda in quattro “sottodialetti”, dei quali il primo sarebbe diacronicamente mutato co- sì come storicamente attestato (v. sopra), il secondo avrebbe invece mantenu- to la distribuzione 10), e il terzo e il quarto, invece, sarebbero evoluti fino a presentare le distribuzioni inesistenti 45 e 48. Ecco perché l’assenza delle di- stribuzioni 45 e 48 ci sembra essere una lacuna fortuita (accidental gap). g) Per quel che riguarda il caso dell’estensione analogica di un unico indica- tore, il nostro modello inoltre predice correttamente che possano esistere dia- letti con

8. -iamo superstabile (Italiano Standard) 3. -amo superstabile (Bolognese, dialetti laziali di San Felice del Circeo e Veroli) h) Ma perché l’indicatore -imo superstabile (9) si trova solo in un unico dia- letto locale (quello corso di Corte, cf. Dalbera-Stefanaggi 1997)? La ragione è la stessa indicata precedentemente (al paragrafo e)), cioè la differenza nella produttività. Infatti la prima macroclasse è pienamente pro- duttiva, mentre nella seconda macroclasse solo la microclasse del tipo finire, finisco presenta una lieve produttività. I verbi in -ere, invece, sono improdut- tivi e rappresentano il non-default della seconda macroclasse. i) Ora, secondo il ragionamento appena fatto (al paragrafo h) bisognerebbe escludere l’esistenza di dialetti in cui la desinenza -emo dell’indicativo della seconda macroclasse si sia potuta estendere alla prima macroclasse. Tuttavia, vari dialetti presentano un -emo superstabile nell’indicativo (2). È da rilevare come questi dialetti siano privi del congiuntivo (tranne il milanese, che pre- senta soltanto nella macroclasse II le forme di 1. sing. e di 2. pl. del congiun- tivo presente, che per il resto è omofono con l’indicativo; nella macroclasse I il cong. pres. è totalmente omofono con l’ind. pres., cf. Massariello- Merzagora 1988: 23–24, Rohlfs 1968). Quindi, per difendere la nostra argo- mentazione dobbiamo provare che l’origine dell’indicatore superstabile -emo non si trovi nell’indicativo.

402 Ora, come è noto, la 1. pl. del congiuntivo latino aveva la doppia funzio- ne di congiuntivo e di esortativo. Dunque, per quel che riguarda il fiorentino, si può spiegare l’espansione di -iamo dal cong. all’ind. come un caso di in- versione di marcatezza tipico del linguaggio infantile durante il primo perio- do dell’acquisizione, perché appunto in questa fase le prime occorrenze della 1 pl. appaiono di frequente come forme esortative (cf. Makovec- Černe/Dressler 1997). Di conseguenza, l’origine dell’indicatore -emo può es- sere individuata nella 1. pl. dell’esortativo della macroclasse I. Questa spie- gazione si applica anche alle distribuzioni esistenti 6) e 7) e chiarisce la si- tuazione (apparentemente) paradossale di 6. -emo -emo -imo. dove, contrariamente a quanto da noi asserito al paragrafo d), sembrerebbe che la forma di 1. pl. del pres. ind. della macroclasse II si sia estesa alla ma- croclasse I. Tuttavia, a nostro avviso, l’indicatore -emo della prima macro- classe proviene dall’antico congiuntivo latino con funzione esortativa, mentre solo l’indicatore -emo della seconda macroclasse proseguirebbe l’analoga forma dell’indicativo latino. j) Ci resta da motivare l’esclusione delle distribuzioni inesistenti 5. *-amo -emo -iamo. 11. *-amo -iamo -imo. 18. *-emo -emo -iamo. Ragionando conformemente alla nostra argomentazione esposta in d), pos- siamo assumere che la 1. pl. del pres. cong. non possa sostituire la 1. pl. del pres. ind. di una sola classe della macroclasse II, perché il pres. cong. di tutta la macroclasse II era già del tutto omogeneo. k) Inoltre, le distribuzioni 5, 11, 18 devono essere scartate come teoricamente impossibili per le stesse ragioni per cui occorre rigettare le seguenti distribu- zioni (cf. anche il paragrafo c): 12. *-amo -iamo -iamo. 37. *-imo -iamo -iamo. A nostro avviso, infatti, era “necessario”, per così dire, che la forma di 1. pl. del pres. cong. -iamo (in funzione esortativa) sostituisse quella del pres. ind. prima di tutto nella macroclasse I. La motivazione è psicolinguistica e si trova, ancora una volta, nel processo d’acquisizione del linguaggio. Infatti, i bambini estrag- gono e/o formano regole innanzitutto per la produttiva e molto trasparente ma- croclasse I (con l’eccezione dei paradigmi isolati dare, stare) piuttosto che per la quasi del tutto non produttiva e meno trasparente macroclasse II.

403 8. Conclusione In conclusione vorremmo sottolineare che: 1. la variazione morfologica non è caotica, e quindi è un oggetto degno dell’investigazione teorica ed empirica; 2. anche nella variazione sincronica e diacronica dobbiamo e possiamo dif- ferenziare tra potenzialità e normatività; 3. la teoria della morfologia naturale come da noi intesa fornisce strumenti adeguati per tali indagini. Le nostre spiegazioni sono funzionaliste, e dunque si distinguono fortemente da quelle formaliste elaborate da An- drew Carstairs-McCarthy (1998) riguardo al sincretismo. Per mancanza di spazio non possiamo discuterle qui; lo faremo in altro luogo.

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406 407

408 Standarddeutsch in Raum und Zeit: veraltete und neue nationalstaatliche Varianten Margrit Wetter

1. Einleitung Die vorliegende Arbeit beschäftigt sich mit einem diachronischen Aspekt der nationalen Varietäten1 der deutschen Sprache, und zwar geht es um veraltete, veraltende und neue lexikalische Varianten vor allem der schweizerischen, aber auch der österreichischen und, in kleinerem Rahmen, der (bundes)deut- schen Varietät der deutschen Standardsprache. Es handelt es sich um einen ersten Versuch, herauszufinden, ob und wie sich der Wortbestand der natio- nalstaatlichen Varianten ändert, und ob sich spezifische Tendenzen erkennen lassen. Die deutsche Sprache ist eine plurizentrische Sprache.2 Sie erstreckt sich über mehrere Staaten, innerhalb derer sie die offizielle nationale Amstsspra- che ist und je über eine spezifisch ausgebildete Standardvarietät verfügt. Bei den sprachlichen Besonderheiten der drei Nationalvarietäten – den Austria- zismen, Helvetismen und Teutonismen3 – handelt es sich demzufolge um standardsprachliche Varianten und nicht um Mundartausdrücke, es sei denn, diese seien von der jeweiligen Standardvarietät aufgenommen worden, wie z.B. Müesli/Müsli. Die drei Varietäten weisen merkliche Unterschiede auf, wobei die konstanten Elemente bei weitem überwiegen.4 Wie erkennt man Helvetismen, Austriazismen und Teutonismen? (Aus- sprache-Varianten werden in dieser Arbeit nicht berücksichtigt.) Man unter- scheidet zwischen kodifizierten Varianten und Gebrauchsstandard. Kodifi- zierte Varianten sind in einem oder mehreren von den Normautoritäten der jeweiligen Länder anerkannten Wörterbüchern aufgeführt. Aber lange nicht alle Varianten sind kodifiziert. Zum Gebrauchsstandard gehören die nicht ko- difizierten Varianten, die aber dennoch regelmäßig von Modellsprechern und ————— 1 Die Begriffe Variante (“einzelne Einheit”) und Varietät (“System”) werden hier im Sinne von Ammon (1995, 64) verwendet. 2 Mehr zu diesem Begriff in Clyne (1992), Ammon (1995, 95–100), Muhr (1995). 3 Es ist hier nicht möglich, die Begriffe Helvetismen, Austriazismen, Teutonismen ausführlich zu definieren. Genaue Definitionen findet man in Ammon (1995: Hel- vetismen, 251–253; Austriazismen, 142–148; Teutonismen, 330–333). 4 Bichsel (1998, 49) hat im Duden (199621) ca. 900 Helvetismen gezählt, was weit weniger als 1% des im Duden enthaltenen Wortbestandes ausmacht.

409 -schreibern gebraucht werden. Vergleicht man z.B. eine schweizerische Ta- gesschau mit einer österreichischen oder deutschen, oder stellt man österrei- chische, schweizerische und deutsche Zeitungstexte, die über das gleiche Thema berichten, nebeneinader, dann kann man auf verschiedene Varianten stoßen, die (noch) nicht kodifiziert sind. Vor allem neue Varianten (aber nicht nur, vgl. §3) sind (noch) nicht kodifiziert, sie gehören in den Bereich des Gebrauchsstandards.

2. Der Wortschatz als Spiegel unserer Zeit Die Sprache verändert sich ständig. Sie spiegelt die Geschichte, die Kultur, das Bewusstsein einer Sprachgemeinschaft. Alle Veränderungen beeinflussen direkt oder indirekt die Sprache, und zwar in erster Linie den Wortschatz ei- ner Sprache, morphosyntaktische Veränderungen brauchen in der Regel län- ger. Wörterbücher müssen Veränderungen des Wortschatzbestands durch Aufnahmen neuer und Ausschluss veralteter Wörter Rechnung tragen, wobei mit den Neueinträgen gezielt Werbung getrieben wird, veraltete Wörter hin- gegen ganz still aus dem Wörterverzeichnis gestrichen werden. So soll die im August 2000 erschienene 22. Aufl. des Duden gegenüber der 21. Aufl. rund 5.000 Neueinträge verzeichnen. Dennoch begegnen wir im täglichen Leben immer wieder neuen Wörtern, die darin nicht aufgeführt sind, wie z.B. Kick- board. Für dieses Gerät – ein Turnroller – ist in der Schweiz die Variante Trottinett wieder aufgekommen, die einen Gegenstand bezeichnet, der die letzten 15 Jahre ein Schattendasein fristete. In den 50er und 60er Jahren machten Deutschschweizer Kinder zuerst mit dem Tricicle, dann mit dem Trottinett und schließlich mit dem Velo die Gegend unsicher; die später ge- borenen Kinder übersprangen die Roller-Phase und fuhren nach dem Dreirad direkt mit einem kleinen Fahrrad, das am Anfang noch zwei Hilfsräder hatte. Zur Zeit ist dieses Fortbewegungsmittel wieder aktuell, aber Schweizer Kin- der nennen es genau wie ihre deutschen und österreichischen Altergenossen Kickboard. Nur ihre Eltern verwenden noch den älteren Helvetismus Trotti- nett. Dieses Beispiel belegt übrigens auch, wie rasch sich eine Bezeichnung innerhalb einer Generation ändern kann. Hinsichtlich veralteter Wörter muss unterschieden werden zwischen ver- alteten Ausdrücken, die in der heutigen Sprache normalerweise nicht mehr vorkommen, die heute jedoch noch dann anzutreffen sind, wenn sie zur Er- zielung von Zeitkolorit, dichterischer, altertümelnder, gehobener, oder auch ironischer Stilwirkung dienen, wie z.B. Barde: veraltet im Sinne von “Sänger

410 und Dichter”, abwertend ironisch für “lyrischer Dichter”.5 Davon zu unter- scheiden sind Ausdrücke, die einen heute nicht mehr existierenden Sachver- halt benennen. In diesem Fall ist nicht das Wort, sondern der Inhalt veraltet. Solche Wörter braucht man heute noch, wenn man einen Sachverhalt aus vergangenen Zeitepochen beschreibt, wie z.B. Buhurt (“mittelalterliches Kampfspiel”). Andere Wörter haben im Laufe der Zeit ihre Bedeutung geän- dert. So brauchte Goethe noch das Wort Bube im Sinne von “Schuft”.

3. Veraltete und veraltende nationale Varianten N. Osman (1999, 11) beginnt sein Kleines Lexikon untergegangener Wörter mit den Worten: “Das Problem des Wortuntergangs im Deutschen ist sehr stiefmütterlich behandelt”. Noch viel stiefmütterlicher sieht es hinsichtlich veralteteter und veraltender Helvetismen, Austriazismen und Teutonismen aus. Der Hauptgrund liegt wohl darin, dass das Studium der nationalen Va- rietäten des Deutschen ein relativ junges Forschungsthema ist, das erst seit rund 40–50 Jahren systematisch erforscht wird, vor allem seit den theoreti- schen Arbeiten von Clyne (1984). In den letzten Jahren haben sich verschie- dene Germanisten intensiv damit befasst, so u.a. von Polenz (1990), Ammon (1995), Muhr (1995, 1996a, b, c), Wiesinger (1988, 1995) und Haas (1982). Bei früheren Arbeiten handelte es sich vor allem um vereinzelte Untersu- chungen, wie die 1918 von Kretschmer erschienene Studie Wortgeographie der hochdeutschen Umgangssprache. Noch bis in die 20er Jahre des 20. Jh. wurden viele nationale Besonderheiten kurzweg als Fehler eingestuft. Das bezeugen die Arbeiten von Lewi (1875), Blümner (1892) oder Stickelberger (1914). Erst nach dem Ersten Weltkrieg – und für Österreich vor allem nach dem Zweiten Weltkrieg – bildete sich allmählich ein klar definiertes nationa- les Sprachbewusstsein heraus,6 das in der Folge auch die eigenen sprachli- chen Besonderheiten aufwertete, und zwar im Sinne, dass die eigene Stan- dardvarietät die politische und kulturelle Identität, das Leben eines Landes in

————— 5 Es gibt Wörter dieser Kategorie, die nicht im ganzen deutschsprachigen Raum veraltet sind: z.B. Blust wird in Süddeutschland und der Schweiz noch immer ver- wendet, gilt jedoch in den übrigen deutschsprachigen Gegenden als veraltet, wird dort aber noch poetisch für “Blütezeit, Blühen” gebraucht. 6 1948 erschien von C. F. Hrauda Die Sprache des Österreichers. Diese Schrift, die schon 1938 fertig zum Druck vorlag, richtete sich gegen das Preußisch-Deutsche und verteidigte die Verwendung von österreichischen Besonderheiten der deut- schen Standardsprache.

411 Gegenwart und Geschichte spiegelt.7 Ein wichtiger Schritt in der Entwick- lung der österreichschen Varietät ist die Veröffentlichung des Österreichi- schen Wörterbuchs (ÖWB) im Jahr 1951 (199737). Österreich hat somit eine eigene Kodifizierung seiner Varietät, eine Binnenkodifizierung. Die Lage in der Schweiz ist anders. Die Schweiz gab nach der gescheiter- ten Orthographischen Konferenz von 1876 kein eigenes Wörterbuch heraus, sondern anerkannte 1892 – überdies so wie Österreich auch – offiziell das von K. Duden herausgegebene Orthographische(s) Wörterbuch der deut- schen Sprache. Seither hat der Rechtschreib-Duden in der Schweiz immer noch Gültigkeit, d.h. die Schweiz orientiert sich (staatlich gesehen) haupt- sächlich an einer Außenkodifizierung. Wenn es auch nicht allzu schwierig ist, veraltete nationale Varianten zu erkennen, die noch bis Ende des 19., Anfang des 20. Jh. in Gebrauch waren, so ist es schon schwieriger, noch ältere Helvetismen, Austriazismen und Teu- tonismen zu identifizieren, denn, wie schon erwähnt, fehlte damals noch ein klares einzelstaatliches Sprachbewusstsein. Austriazismen und Helvetismen wurden darum oft als Fehler eingestuft und von den Wörterbüchern nicht o- der nur mangelhaft berücksichtigt. Obwohl Österreich sich 1879 entschloss, ein eigenes Rechtschreibwörterbuch Regeln und Wörter-Verzeichnis für die deutsche Rechtschreibung herauszugeben, enthielt es kaum lexikalische Austriazismen. Österreichische Varianten wie z.B. Marille oder Paradeiser fehlten (Ammon 1995, 121). Spätere Rechtschreibwörterbücher wie das Wörterbuch für Volksschulen von Wittgenstein (1926) verzeichneten Austri- azismen wie Karfiol, Marille, Obers, jedoch nicht die entsprechenden Vari- anten Blumenkohl, Aprikose, Sahne. Auch beim ÖWB ist es so, dass Austria- zismen nicht speziell als österreichische Varianten gekennzeichnet sind, hin- gegen sind die nur in Deutschland geläufigen Wörter entweder mit einem hochgestellten Asterisk oder mit D markiert (Helvetismen mit einem hochge- stellten CH), die eigenen Besonderheiten sind jedoch nicht hervorgehoben. Auch im Rechtschreib-Duden lässt sich das gleiche beobachten: österreichi- sche, schweizerische und regionale Besonderheiten sind markiert, aber die bundesdeutschen Varianten, die “Teutonismen”, nicht. Es ist oft auch schwierig, Mundartausdrücke von nationalen Varianten zu unterscheiden, vor allem dann, wenn es sich um veraltete Wörter handelt. Das betrifft Wörter in nichtliterarischen wie auch literarischen Texten. So handelt es sich z.B. bei G. Keller, J. Gotthelf oder J. P. Hebel um Schriftstel- ————— 7 So liegt in Österreich eine Zeitspanne von rund 15 bis 20 Jahren zwischen dem Bedürfnis der Anerkennung einer eigenen Varietät und ihrer Beschreibung, dank der die Varietät an Einfluss und Kraft gewinnt.

412 ler, die nicht nur schweizerische Varianten, sondern ein mehr oder weniger stark mundartlich gefärbtes Hochdeutsch verwenden, wie z.B. “…, wenn er ein Gütterlein verheite” (“ein Fläschlein zerbrach”, J. P. Hebel, Der Star von Segringen). Eine zuverlässigere Hilfe für die Darstellung der veralteten und veralten- den Helvetismen sind Blümners Zum schweizerischen Schriftdeutsch – Glos- sen eines Laien zu Wustmanns Schrift Allerhand Sprachdummheiten (1892) und Stickelbergers Schweizerhochdeutsch und reines Hochdeutsch – Ein Ratgeber in Zweifelsfällen bei Handhabung der neuhochdeutschen Schrift- sprache (1914). Beide Schriften enthalten Wörter, die zur damaligen Zeit üb- lich waren, sonst hätten sie die beiden Autoren nicht in Betracht gezogen. Verschiedene noch von Blümner und Stickelberger aufgeführte Ausdrücke – seien es nun solche, die sie als richtig ansahen und deren weitere Verbreitung sie förderten (z.B. flöchnen), seien es Ausdrücke, die sie als falsch betrachte- ten, und deren Verwendung sie zu verhindern suchten (ferggen oder köstlich im Sinne von “was viel kostet”) – sind heute nicht mehr gebräuchlich. Auch Meyers Wie sagt man in der Schweiz (1989) verzeichnet Stichwörter, die mit “früher, veraltend” oder “althergebracht” gekennzeichnet sind. Der Recht- schreib-Duden enthält ebenfalls Wörter, die nur in der Schweiz üblich waren. Sie sind an der in Klammern gesetzten Erklärung “schweiz. früher”, “schweiz. veraltet” oder “schweiz. veraltend” erkennbar. Aufschlußreich ist ein Vergleich zwischen den verschiedenen Auflagen (196115, 199621, 200022): so steht z.B. bei Bauernsame in den Aufl. von 1961 und 1996 nur der Zusatz “schweiz.”, erst in der Aufl. von 2000 steht zusätzlich noch “frü- her” (s. Tabelle 1). Die Darstellung der schweizerischen Wortvarianten in Ammon (1995, 259–279) führt nur einen einzigen veraltenden Helvetismus auf (Auswindmaschine). Tabelle 1 enthält Helvetismen, die entweder eindeutig veraltet oder obso- leszent eingestuft werden. Die in Klammern stehenden Angaben “früher, ver- altet, veraltend” usw. wurden von Meyer (1989), Rechtschreib-Duden (1961, 1996, 2000) und Ammon (1995) übernommen. Die Angaben in den Wörter- büchern stimmen hinsichtlich des zeitlichen Vorkommens nicht immer über- ein.8

————— 8 So bezeichnet Meyer (1989) das Wort Daktylographin als veraltet, die Dudenaus- gaben von 1961 und 1996 führten dieses Wort als “schweiz.” ohne Angabe einer zeitlichen Gültigkeit auf, in der Ausgabe von 2000 fehlt das Wort ganz.

413 Veraltete/veraltende gemeindeutsche heutige Ent- dokumentiert in:9 Helvetismen: sprechung: allenfallsig allenfalls Bl. armengenössig auf Sozialhilfe angewiesen Me. (fr.) Auswindmaschine Wäscheschleuder Me. (fr.)/Am. (va.) Bann Gemeindegebiet Me. (va.)/Du. 61 Bauernsame Bauernschaft Bl./St./Me. (va.)/Du. 61, 96 (CH)10/Du. 00 (CH vat.) beklagtischerseits von Seiten des Angeklagten St. Benefiz Überschuss (der Einnahmen Me. (va.)/Du 61 (vat.) und Ausgaben) beschlagen betreffen, angehen Me. (va.) betreffs was … betrifft St. daherig darauf fußend St. Daktylographin Maschinenschreiberin Me. (vat.)/Du. 61, 96 (CH) dasig anwesend St. diesfällig, diesfallsig in diesem Fall Bl. Droschkier Droschkenkutscher St. ferggen abfertigen, fortschaffen; St./Du. 61, 96 (CH)/ hausieren Du. 00 (CH fr.) Fergger Spediteur Du. 61, 96 (CH)/Du. 00 (CH fr.) flöchnen flüchten, fliehen Bl./St. gewirbig tätig, emsig im Gewerbe St. habhaft vermögend Bl./St. kommlich bequem Bl. köstlich kostbar, kostspielig Bl./St. künden kündigen Me. (va.) Kundsame Kundschaft Bl./Du. 61 (CH vat.) sammthaft insgesamt, sämtlich Bl. Teilsame Korporation Me. (althergebracht) Umhang Vorhang St. Ürte Zeche, Kosten St./Du. 61 (CH va.) vergönnen missgönnen St./Me. (va.), Du. 61 wünschendenfalls im besten Fall, bestenfalls Bl. Tabelle 1: Veraltete und veraltende Helvetismen

————— 9 Aus Platzgründen werden folgende Abkürzungen verwendet: Bl. = Blümner (1982), St. = Stickelberger (1914); Me. = Meyer (1989), Am. = Ammon (1995), Du. = Duden. Die deutsche Rechtschreibung, (61=1961, 96=1996, 00=2000); fr. = “früher”, va. = “veraltend”, vat. = “veraltet”. 10 Die Abkürzung CH bedeutet, dass das Wort im Du. als Helvetismus markiert ist. Nicht immer werden die hier aufgeführten Wörter im Du. als Helvetismen be- trachtet, so z.B. Bann, im Sinne von “Gemeindegebiet”, das mit dieser Bedeutung im Du. von 1961 steht, jedoch ohne den Zusatz, dass diese Bedeutung nur in der Schweiz üblich ist oder war.

414 Interessant ist unter anderem auch, wenn man den Bestand der Helvetismen in den verschiedenen Auflagen des Rechtschreib-Dudens auf Änderungen untersucht. Im Vorwort zur 4. Aufl. (1893) erwähnt K. Duden, er habe “eine Anzahl guter schweizerischer Ausdrücke” mit aufgenommen (Bichsel 1998, 48). Davon sind einige heute immer noch gebräuchlich, z.B. Ammann, Gant, Gülle, heimelig, Putsch, strählen, Werre. Bei anderen schweizerischen Vari- anten, die auch anläßlich der 4. Aufl. aufgenommen wurden, steht heute der Zusatz veraltend, so z.B. bei einstmals oder Kilt (südwestdt. und schweiz. für “das Fensterln”). Andere ebenfalls 1893 aufgenommene Helvetismen fehlen in der Aufl. von 2000, z.B. Ürte (noch im Rechtschreib-Duden 1961, s. Ta- belle 1), kommlich (fehlte schon in der Aufl. von 1961). Tabelle 2 enthält eine Auswahl an veralteten und veraltenden österreichi- schen Varianten. Quellen sind Ebner 1998 (= Eb.), ÖWB (1997), Recht- schreib-Duden (1991, 1996, 2000) und Ammon (1995). Falls in den ver- schiedenen Wörterbüchern nicht anders vermerkt ist, werden hier jene Wör- ter, die eventuell nur in einem Teil Österreichs üblich sind, nicht besonders gekennzeichnet.11

Veraltete/veraltende gemeindeutsche heu- dokumentiert in:12 Austriazismen: tige Entsprechung: Arztens-, Architek- Arzt-, Architekten- Eb. (va.)/ÖWB (†)13 tensgattin gattin Back Verteidiger Eb./Am. (va.)/Du. 96 (CH,A) /Du. 00 (CH,A vat.) Dezimalpunkt Komma Eb. (va.) Equipage elegante Kutsche Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 61 (fr.)/Du. 96, 00 (A vat.) fatieren Steuererklärung Eb. (va.)/ÖWB/Du. 61, 96 (A)/Du. 00 (A vat.) abgeben Half Verbindungsspieler Eb. (vat.)/Am. Identitätskarte Personalausweis Eb. (vat.)/Du. 61 (A)/Du. 96 (A, CH)/ Du. 00 (A vat., CH) Indian Truthahn, Puter Eb./ÖWB/Am. (va.)/Du. 61, 96, 00 (bes. A) interurban fern- Eb. (vat.)/ÖWB †/Du. 61 (A vat.)/Du. 96 (va.) Inwohner Mieter Eb. (va.)/Du. 61, 96, 00 (A vat.) Kalier Mantelinnentasche Eb. (vat.) Karbonpapier Kohlepapier Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 61, 96 (A)/Du. 00 (selten) ————— 11 Dem ÖWB, wurde oft vorgegeworfen, es sei ost- bzw. wienlastig (Moser 1995). Daraufhin nahm das ÖWB in seiner 38. Aufl. vermehrt westösterreichischen bzw. außerhalb Wiens verwendeten Wortschatz auf (Wiesinger 2000). 12 Die Abkürzung A bedeutet, dass das Wort im Rechtschreib-Duden als Austriazis- mus betrachtet wird; alt. = “altertümelnd”. 13 Das ÖWB markiert veraltete Ausdrücke mit †; Wörter, deren Referent veraltet ist, sind in ÖWB durch Vermerke wie “früher” gekennzeichnet (ÖWB 1997, 16).

415 Kleiderrechen Kleiderhaken, -ständer Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 96 (A) Kontumaz Quarantäne Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 61, 96, 00 (A vat.) Kracherl Limonade, Sprudel Eb. (va.)/ÖWB/Du. 61, 96, 00 (A) Kräutler Gemüsehändler Eb./Am. (va.)/ÖWB †/Du. 61 (A)/Du. 96 (A va.) Ladnerin Verkäuferin Eb./Am. (va.)/ÖWB/Du. 61 (A)/Du. 96 (A va.) Lehrkanzel Lehrstuhl Eb./ÖWB (fr.)/Du. 96, 00 (A)/Am. (va.) Pneumatik, die Luftreifen Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 61, 96, 00 (A) Pomeranze Grapefruit, Orange Eb. (vat.)/ÖWB/Du. 61, 96, 00 Postarbeit Terminarbeit Eb. (va.)/ÖWB/Du. 96, 00 (A) Wittib Witwe Eb. (vat.)/ÖWB (†)/Du. 61 (A alt.)/ Du. 96, 00 (A vat.) Wittiber Witwer Eb. (vat.)/ÖWB (†)/Du. 61, 96, 00 (A vat.) Tabelle 2: Veraltete und veraltende Austriazismen Tabelle 3 enthält eine Auswahl an veralteten und veraltenden Teutonismen, d.h. an Lexien, die vor und nach 1990 dominant in der Bundesrepublik Deutschland verwendet wurden bzw. werden. Die Abgrenzung zur Bestim- mung der Teutonismen fällt nicht leicht, denn während Helvetismen u.a. in Meyer (1989) und Austriazismen in Ebner (1998), und beide im Recht- schreib-Duden als nationale Varianten kodifiziert sind, fehlt im Moment noch eine explizite Darstellung der Teutonismen (Ammon, 1994).14

Veraltete/veraltende gemeindeutsche heutige dokumentiert in: Teutonismen: Entsprechung: Inste Gutstagelöhner Du. 61, 69, 00 (fr.) Kannegießer politischer Schwätzer Du. 61/Du. 96, 00 (va. ironisch)/ ÖWB (†*)15 Ohm Onkel Du. 61 (vat. aber noch mdal.)/ Du. 96, 00 (vat.)/ÖWB (*†) Prima 8.+ 9. Klasse Gymnasium Du. 61/Du. 96, 00 (va.)/Am./ÖWB (D†) Range, der unartiges Kind Du. 61, 96, 00 (selten)/Am./ÖWB † Sekunda 6.+7. Klasse Gymnasium Du. 61/Du. 96, 00 (va.)/ÖWB† (in D) Sekundaner Schüler der 6.+7. Klasse Du. 61, 96, 00/ÖWB(†, in D) Stellmacher Wagenmacher Du. 61, 96, 00/ÖWB (†, in D) Witman Witwer Du. 61, 96, 00 (vat.) Tabelle 3: Veraltete und veraltende Teutonismen

————— 14 Ein Forscherteam der Universitäten Duisburg, Innsbruck und Basel arbeitet an der Erfassung aller nationalen und regionalen Varianten des standardsprachlichen Wortschatzes. Ziel ist die Herausgabe eines entsprechenden Wörterbuchs der deutschen Sprache. 15 Im ÖWB zeigt der nach einem Lemma hochgestellte Asterisk an, dass das betref- fende Wort in A im Allgemeinen ungebräuchlich oder erst seit kurzem gebräuch- lich ist (ÖWB 1997, 14). Bei diesen Wörtern handelt es sich um Teutonismen.

416 Die Listen der veralteten und veraltenden Helvetismen, Austriazismen und Teutonismen haben nur beispielhaften Charakter, belegen jedoch, dass auch der Bestand nationalstaatlicher Varianten Veränderungen unterworfen ist. Für das Verschwinden dieser Wörter gibt es verschiedene sprachexterne und -interne Gründe. Im Allgemeinen handelt es sich um die gleichen Gründe, die auch für den Wortuntergang in der gemeindeutschen Sprache gelten:16 1) Sprachexterne Gründe: Veränderungen der Kultur sind eng mit dem Wortschatz verbunden. Besteht kein Bedürfnis mehr für bestimmte Wörter, weil der bezeichnete Gegenstand oder die Tätigkeit veschwunden sind, gehen sie unter. Beispiele sind: Dakty- lographin, Pennal, Equipage. Auch politische Veränderungen beeinflussen den Wortschatz. Voraussichtlich wird das in der früheren DDR im Sinne von “Angehöriger einer Kinderorganisation” gebrauchte Wort Pionier in dieser Bedeutung bald in den Wörterbüchern als “veraltet” bezeichnet werden. Fer- ner sind viele veraltete nationalstaatliche Varianten durch gemeindeutsche Wörter ersetzt worden. Der heute in Deutschland übliche Sprachgebrauch übt einen starken Einfluss auf denjenigen Österreichs und der Schweiz aus. Die Dominanz der deutsch(ländisch)en Varietät ist wohl einer der wichtigsten Gründe für das Verschwinden vieler schweizerischer und österreichischer Varianten. Aber der Ersatz der A- und CH-Varianten durch gemeindeutsche Wörter ist nicht rein zufällig, sondern hat vielfältige Gründe, die pragmati- scher Natur sein können: z.B. sind Gebrauchsanweisungen oft so formuliert, dass sie im ganzen deutschsprachigen Raum verstanden werden, was zur Substitution der schweizerischen Variante Auswindmaschine durch das ge- meindeutsche Wort Wäscheschleuder führt. 2) Sprachinterne Gründe: • Das Wort verschwindet, weil das Suffix (-same) oder Infix (-ens-) nicht mehr produktiv ist, z.B.: Kundsame, Bauernsame, Teilsame; Arztensgattin; • Sprachökonomische Gründe: Wittib, Witib, Witfrau, Witmann; • Verschiedene Adjektive und Adverbien mit Suffix -ig, -isch und -lich werden durch gemeindeutsche Wörter ohne dieses Suffix ersetzt, z.B.: al- lenfallsig, dasig, diesfällig, köstlich (im Sinne von “was viel kostet”), kommlich. Gleiches geschieht mit -haft und -falls, z.B.: habhaft, samthaft, wünschendenfalls; • ein Präfix wird durch ein anderes ersetzt: Inwohner → Bewohner;

————— 16 Die Gründe werden hier nur in stark vereinfachter und schemenhafter Form wie- dergegeben. Für das Verschwinden gemeindeutscher Wörter s. Osman (1999, 245–255).

417 • Mundartnahe Wörter, die in der Schriftsprache oft als fremd empfunden werden, verschwinden zu Gunsten gemeindeutscher Wörter: ferggen (“abfertigen, fortschaffen”), Fergger (“Spediteur”), Ürte (“Zeche, Kos- ten”), flöchnen (“flüchten”), Kracherl (“Limonade, Sprudel”), Ladnerin (“Verkäuferin”), Kräutler (“Gemüsehändler”), Inste (“Gutstagelöhner”); • Xenismen werden durch deutschstämmige Wörter ersetzt: chargé, Bene- fiz, Agentie, Identitätskarte (1945–1955 in Österreich, nicht aber in der Schweiz), Karbonpapier, Kriminal, interurban. Es handelt sich hier vor allem um Lehnwörter aus dem Lateinischen, verschiedenen romanischen Sprachen und aus dem Englischen: Back, Half. Zusammenfassend kann man sagen, dass immer dann, wenn das betreffende Wort nicht mehr gebraucht wird, weil es einen Gegenstand, einen Zustand bezeichnet, der nicht mehr aktuell ist, die betreffenden einzelstaatlichen Va- rianten durch gemeindeutsche Wörter ersetzt worden sind. Es ist selten, dass eine nationalstaatliche Variante durch eine andere ersetzt wird: so wurde schweiz. allenfallsig durch allfällig ersetzt, das auch in Österreich gebräuch- lich ist. Doch können einzelstaatliche Varianten in Redewendungen weiterle- ben: “mit einem Fuß im Kriminal stehen” (österr. “sich am Rande des Geset- zes bewegen”).

4. Neue nationalstaatliche Varianten Wie bei den gemeindeutschen Neologismen, handelt es sich auch bei den meisten neuen nationalstaatlichen Varianten um keine absoluten Innovatio- nen, sondern um neue Wortkombinationen (Zusammensetzungen, Ableitun- gen, Abkürzungen aus schon bekannten Wörtern) oder um mehr oder weni- ger ans deutsche orthographische und morphosyntaktische System angepass- te Lehnwörter, die heute vor allem aus dem Angloamerikanischen stammen. Bis ein neues Wort kodifiziert wird, dauert es eine Weile (Ebner 1995). Verschiedene interagierende Instanzen (Modellsprecher und -schreiber, Sprachexperten, Normautoritäten, Kodifizierer) entscheiden über eine even- tuelle Aufnahme in ein Wörterbuch (Ammon 1995, 79f.). Wörterbücher bestreiten die Werbung für eine Neuaufl. gern mit dem Hinweis, dass diese so und so viele neue Wörter enthält (s. Rechtschreib-Duden 2000, §1). Die 38. Aufl. des ÖWB erfasst angeblich sogar 25.000 Neueinträge (Retti 1999, 171). Auch in der 3. Aufl. von Wie sagt man in Österreich ist die Anzahl der Stichwörter auf ungefähr 8.000 nahezu vedoppelt worden (Ebner 1998, 6). Schlechter sieht es bei der Kodifizierung schweizerischer Varianten aus. Au- ßer dem Rechtschreib-Duden, der auch für die Kodifizierung schweizerischer Varianten Gültigkeit hat, sind andere Wörterbücher für neuere Helvetismen

418 unbrauchbar: weder Meyers Wie sagt man in der Schweiz (1989), noch der Schweizer Schülerduden (1980), noch Unser Wortschatz (Bigler 1987) sind seither überarbeitet oder erweitert worden. Viele neue (noch) nicht kodifizierte Helvetismen und Austriazismen sind – abgesehen vom täglichen Gebrauch durch die respektive Bevölke- rung – auch in Zeitungen, Zeitschriften, Radio und Fernsehen anzutreffen. Printmedien, die ein großes und nicht unbedingt anspruchsvolles Publikum ansprechen wollen, verwenden naturgemäß eine eher volksnahe Stilebene, die umgangssprachliche und mundartliche Ausdrücke enthält, wie z.B. Heli (“Hubschrauber”), Töfflifahrer (“Mofafahrer”), KV-Stift (“Kaufmannslehr- ling”).17 Hingegen verzichten Medien, die sich an ein Publikum mit höheren Ansprüchen wenden, im Allgemeinen auf Dialektwörter, nicht jedoch auf na- tionale Varianten. Was nicht kodifizierte nationalstaatliche Varianten jüngeren Datums be- trifft, so werden hier nur einige wenige Beispiele aus der Deutschschweiz vorgestellt (Bsp. 1.–7.). Sie stammen meistens aus der auch im Ausland ver- triebenen Neuen Zürchen Zeitung (NZZ). Lexikographisch noch nicht erfasste schweizerische Varianten: 1. Einhausung (“Überdachung eines Autobahnteilstücks um die Lärmbelastung zu reduzieren”): “Für Schwamendingen bedeutet dies die [...] Einhausung der Auto- bahn [...]” (NZZ, 8.11.99, 41). 2. Fiaz (Kurzwort für “Fahren in angetrunkenem Zustand”, vgl. die österr. Variante Alkolenker): “Ausserdem folgt auf jedes Fiaz-Delikt automatisch ein Administra- tivverfahren, das immer einen Führerausweisentzug18 zur Folge hat”. “[…] mehr als 100 Fiaz-Fälle (…)” (Beobachter, Sept. 2000, 26). 3. E-mail (nicht nur im süddt. Raum und in A, sondern auch in CH oft als Neutrum verwendet, wie im Rechtschreib-Duden 2000 vermerkt19): “Indessen scheint es beim E-Mail um die Sicherheit des Datentransfers oft nicht zum besten zu stehen” (NZZ, 22.3.97, 13). 4. Postcard (“Karte zum Geldabheben beim Postomaten”): “Bei diesem System kann ein Chip auf der EC-Karte oder Postcard an jedem Bancomat- oder Posto- mat-Gerät mit maximal 300 Fr. geladen werden” (NZZ, 9.1.99, 27). 5. Postomat (“Geldausgabeautomat bei der Post”): s. Bsp. 4. ————— 17 Blick, 30.8.2000. 18 Führerausweis: schweiz. amtlich für “Führerschein”. 19 Interessant ist, dass die Genera von Lehnwörtern im Telekommunikationsbereich oft verschieden sein können: Fax, in D und A mask., wird in CH meist fem. gebraucht, Telex hingegen, in D und A neutr., ist in CH mask. (Rechtschreib-Duden 2000).

419 6. Snöber, snöben (“Snowboarder”, “snowboarden”): “Am Sonntag wurde ein jun- ger Snöber verwarnt, [...]” (NZZ, 16.2.99, 52). 7. Taxcard (“Telefonkarte”): “Die Bezeichnungen für die nationalen Telefonkarten [...]: in Frankreich heisst die Karte télécarte, in Italien scheda telefonica, in der Schweiz Taxcard, in Spanien tarjeta telefónica, im angelsächsischen Sprachraum phone card” (NZZ, 4.3.99, 72). Wie schon in §1 erwähnt, sind viele nationale Varianten nicht kodifiziert, ob- wohl sie seit langem regelmäßig verwendet werden. Die Bsp. 8.–13. doku- mentieren, dass diese Varianten kursorisch in der Presse oder in der Fach- sprache schweizerischer Institutionen vorkommen. (Noch?) nicht lexikographisch erfasste schweizerische Varianten, die schon lange im Gebrauch sind: 8. Bancomat (der Rechtschreib-Duden 2000 enthält die österr. Variante Bankomat, die schweiz. fehlt jedoch): s. Bsp. 4. 9. Couvert (laut Rechtschreib-Duden 2000 handelt es sich bei diesem Wort um die alte Schreibung für Kuvert. In CH ist diese Variante jedoch immer noch üblich): “Auftrag und Belege stecken Sie ins Gratiscouvert [...]” (Infoschrift Post, 2000, 17). 10. Empfangsschein (“Einzahlungsbeleg”, Teil des Einzahlungsscheins (schweiz. für Zahlkarte, Erlagschein). 11. Generalabonnement (“Jahreskarte für die Bahn”, entspricht der NetzCard in D): “Für ihr Generalabonnement zahlt die ETH-Studentin knapp 2000 Fr. [...]” (NZZ, 9.11.99, 94). 12. Plastic, der (Rechtschreib-Duden 2000: Plastik, das; Meyer 1989: Plastic, das): “[...] wenn der Plastic im heissen Backofen auf dem Blech zu schmelzen begänne [...]” (NZZ, 6.1.1999, 51). 13. Talon (“Kontrollabschnitt”, laut Rechtschreib-Duden 2000 ist diese Variante nur in A üblich): “Der [...] Faltprospekt enthält einen [...] Stadtplan sowie einen Ta- lon, mit dem weitere Publikationen bestellt werden können” (NZZ, 4.11.97, 52). Bei den folgenden Beispielen handelt es sich um Helvetismen, die in der 22. Aufl. des Rechtschreib-Dudens zum ersten Mal verzeichnet sind. Außer bei Fax (“Artikel”), Kapo und Natel handelt es sich um Helvetismen, die schon seit mindestens 15 Jahren gebraucht werden. Da diese Wörter kodifiziert sind, wird auf die Zitierung der Belegstellen verzichtet. 14. Bostitch, der (schweiz. für “Gerät zum Zusammenheften”). 15. Fax, das (schweiz. meist der). Neu: Genusdifferenzierung. 16. Halbtaxabonnement (schweiz. für “Abonnement zum Bezug von Fahrkarten zum halben Preis”, Kurzwort: Halbtaxabo; vgl. BahnCard in D und Vorteilscard in A, beide nicht kodifiziert).

420 17. Kapo, die (schweiz. Kurzform für “Kantonspolizei”). 18. Klevner (schweiz. für “blauer Burgunder”, eine Reb- und Weinsorte). 19. Natel, das (schweiz. neben “Handy”). 20. Spitex, die (schweiz. für “Hauspflege”). Was neue, nicht kodifizierte Varianten aus Österreich betrifft, sollen ledig- lich Städtescheck (“Mehrfahrtenkarte der ÖBB”) und die schon erwähnte Vorteilscard als Beispiele genannt werden. Für die folgenden Beispiele der neu im Rechtschreib-Duden (2000) aufgenommenen Austriazismen kann, wenn nicht anders vermerkt, nicht garantiert werden, dass diese tatsächlich auf dem gesamten Staatsgebiet Österreichs verwendet werden. 21. Alkolenker (österr. für “alkoholisierter Autofahrer”; auch in Ebner 1998; fehlt im ÖWB 1997; vgl. schweiz. Fiaz). 22. neger (ostösterr. für “ohne Geld”; auch in Ebner 1998 und ÖWB 1997). 23. Tatausgleich (österr. für “Wiedergutmachung ohne gerichtliches Urteil”; auch in Ebner 1998, fehlt im ÖWB 1997). 24. Teamleiberl (österr. für “Nationaltrikot”; auch in Ebner 1989, fehlt im ÖWB 1997). 25. treuhändisch (österr. für “treuhänderisch”; auch in Ebner 1989 und ÖWB 1997). Schwieriger sieht es bei den neuen Varianten aus Deutschland aus. Im Recht- schreib-Duden sind – wie schon erwähnt – die Teutonismen nicht als solche gekennzeichnet. Im ÖWB sind die in Österreich im Allgemeinen ungebräuch- lichen Wörter durch einen hochgestellten Asterisk, die in Deutschland gängi- gen, aber auch in Österreich bekannten Wörter durch ein hochgestelltes D gekennzeichnet.20 Aber auch unter ihnen sind keine neue Teutonismen strictu sensu eruierbar. Die Schwierigkeit besteht auch darin, dass man bei einer neuen deutsch(ländisch)en Variante nicht wissen kann, ob sie wirklich nur auf Deutschland (oder einen Teil Deutschlands) beschränkt bleibt, oder sich auch im gesamtdeutschen Raum ausbreitet (so geschehen u.a. mit tschüss). Weitere Beispiele: BahnCard (s. Bsp. 16.), NetzCard (s. Bsp. 11.). Die wenigen neuen Varianten lassen die Tendenz erkennen, dass in der Entwicklung der drei D-A-CH-Varietäten keine markanten Unterschiede festgestellt werden können. Die wortbildungstechnischen Prinzipien sind im Gesamtdeutschen und in den D-A-CH-Varietäten weitgehend identisch: • Zusammensetzung: a. Grundwort und Bestimmungswort stammen aus der dt. Sprache (relativ selten): Tatausgleich; b. ein Teil der Zusammenset- ————— 20 An dieser Stelle möchte ich Herrn Dr. Fussy, Redaktor des ÖWB, für die Zustel- lung der Listen mit den Sternchenwörtern und den von einem hochgestellten D und CH markierten Wörtern meinen Dank aussprechen.

421 zung kommt aus der engl. Sprache (häufiger): Teamleiberl, NetzCard, BahnCard; • Abkürzung: a. Silbenabkürzung: Kapo, Spitex (Spital + extern), Natel (“Nationales Autotelefon”); b. Buchstabenabkürzung: Fiaz; c. partielle Abkürzung: Bancomat, Postomat, Alkolenker; • Präfigierung und Suffigierung: Einhausung. Wie bei der gemeindeutschen Sprache, stammen viele neue nationale Varian- ten aus dem Angloamerikanischen. Es kommt vor, dass die Fremdwörter in D, A und CH verschieden eingedeutscht werden (z.B. andere Genuszuweisung: E-Mail) und so Anlass zum Entstehen neuer nationalstaatlicher Varianten ge- ben. Bei der schweiz. Variante Snöber handelt es sich um eine wortbildungs- technisch durchaus gemeindeutsche Form. Da das Wort Snowboarder oder Snowboardfahrer zu lang ist, wird es abgekürzt. Man nimmt das (betonte) erste Element Snow, wobei der englische Diphthong zu ö monophthongiert wird – die schweizerische Standardvarietät, und vor allem die Mundart, kennt einen häufigeren Gebrauch an Umlauten als die deutsche Varietät (Wetter 2000, 46) –, dann den Anfangslaut b von board plus das -er Suffix (nomen agentis). Nur der Wortanfang sn ist lautlich nicht deutsch; s vor Konsonanz im Anlaut wurde schon in spätmittelhochdeutscher Zeit wie sch gesprochen. Vielleicht wird aus Snöber im Laufe der Zeit Schnöber. Ein Vergleich zwischen den veralteten/veraltenden und den neuen Vari- anten zeigt, dass die neuen Varianten kaum mehr aus dem romanischen, son- dern vorwiegend aus dem englischen Sprachraum stammen. Das Problem ih- rer Anpassung an das deutsche morphosyntaktische System ist nicht neu: auch Fremdwörter aus romanischen Sprachen erfuhren eine entsprechende Eindeutschung, so u.a. was die Genuszuweisung betrifft, wie die/das Malai- se, der/das Bikini (Wetter 2000, 32–33).

5. Schlusswort Die in §4 erwähnten Beispiele zeigen, dass der Plurizentrismus der gesamt- deutschen Standardsprache trotz der Dominanz der homogenisierend wirken- den Diffusion des Angloamerikanischen auch weiterhin als Ausdruck der einzelstaatlichen Identitätsbedürfnisse und -gefühle aufrecht bleibt. Abschließend soll darauf hingewiesen werden, dass eine regelmäßige Ak- tualisierung der Kodifizierung neuer nationaler Varianten für den Sprach- gebrauch unerläßlich ist. Unterbleibt dies, kann es geschehen, dass Sprecher v.a. in CH und A nationale Varianten durch gemeindeutsche Wörter ersetzen, und zwar weil sie glauben, dass die gesuchte Variante, da nicht im Wörter-

422 buch verzeichnet, nicht korrekt sei. In dieser Hinsicht haben die Österreicher dank des regelmäßig aktualisierten ÖWB eine große Stütze. Es muss auch bemerkt werden, dass die Österreicher variantenbewusster sind als die Deutschschweizer: als im Herbst 2000 verschiedene Zeitungen Rezensionen zum neuen Rechtschreib-Duden veröffentlichten, wurde in der österreichischen Presse oft erwähnt, Austriazismen kämen im Duden zu kurz. Im Gegensatz da- zu griff keine einzige schweizerische Zeitung das Thema Helvetismen auf.

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424 Alcuni contributi italiani alla evoluzione della linguistica computazionale Antonio Zampolli

1. La linguistica computazionale Nella linguistica computazionale (LC), si identificano di solito tre aspetti principali:1 – la raccolta, formalizzazione, acquisizione e rappresentazione di dati, de- scrizioni, regole, strumenti di base, etc. che costituiscono la conoscenza, sia generale sia specifica per le singole lingue, in base alla quale il calco- latore può operare sulle lingue naturali; – la ricerca di metodi che consentano di formulare modelli di linguaggio, considerato essenzialmente come un processo, per la produzione o la ana- lisi di enunciati linguistici; – le applicazioni, volte a supportare: 1. attività di discipline che hanno co- me oggetto di studio diversi aspetti e manifestazioni delle lingue; 2. atti- vità di carattere industriale o commerciale, e servizi di carattere sociale ed economico, richiesti dallo sviluppo della “Società dell’Informazione”. È ormai dimostrato e ampiamente verificato nelle più diverse sedi internazio- nali che è estremamente importante, per la efficienza e produttività delle atti- vità sia di ricerca sia di sviluppo, non separare i tre aspetti citati, ma conside- rarli, sul piano scientifico gestionale e organizzativo, come un settore disci- plinare autonomo ed unitario, distinto e non accorpato a una delle discipline che contribuiscono al suo sviluppo oppure utilizzano le sue applicazioni (in- formatica, tecnologia della comunicazione e dell’informazione, linguistica, discipline filologiche e, in genere, umanistiche, etc.). Le maggiori agenzie internazionali e nazionali hanno riconosciuto la lin- guistica computazionale come una disciplina autonoma, che ha sviluppato e sviluppa conoscenze, metodi, tecnologie, strumenti altamente specifici, i qua- li la differenziano nettamente dalle altre discipline dei cui contributi si avva- le, e le hanno dedicato programmi separati e autonomi di ricerca all’interno della propria attività istituzionale. L’utilizzo del trattamento automatico delle lingue ha un carattere che questi programmi definiscono come “pervasivo” o “orizzontale”: il linguag-

————— 1 Questo brano iniziale segue da vicino la mia Introduzione ai “Piani Triennali” dell’ILC (Istituto di Linguistica Computazionale); Zampolli 1999.

425 gio è infatti il mezzo privilegiato per la interazione attraverso la quale si svolge la maggior parte delle attività sociali, economiche, culturali. Poiché l’informazione è veicolata dalle lingue naturali, e oggi risiede es- senzialmente su supporti elettronici, è urgente disporre di strumenti capaci di automatizzare – almeno in parte – le operazioni linguistiche che devono esse- re compiute per produrre, archiviare, ricuperare, accedere, elaborare i conte- nuti e i messaggi linguistici. Strettamente connesso al tema di un accesso “user-friendly” all’informa- zione è il problema del multilinguismo. Fonti autorevoli (come il Presidente Mitterand in un celebre discorso all’Accademia Francese)2 hanno avvertito che le lingue, per le quali non ven- gono sviluppati strumenti adeguati di trattamento automatico, rischiano di perdere gradualmente il proprio posto nella società globale assieme alle cul- ture che esse veicolano, con grave danno per uno dei patrimoni più preziosi dell’umanità, la diversità culturale. Per scongiurare tali pericoli è necessario garantire il supporto per l’auto- nomia delle diverse lingue. È urgente e indispensabile sviluppare anche per l’italiano prodotti e servi- zi, capaci di trattare automaticamente la nostra lingua, se si vuole che la co- munità nazionale possa rispondere adeguatamente alla sfida posta dalla so- cietà globale e realizzare appieno i potenziali benefici che essa promette sul piano sociale, economico, occupazionale. Inoltre la tecnologia del trattamento automatico delle lingue favorisce il sorgere e la crescita dell’industria dei “contenuti”, un settore che apre ampie opportunità per un paese, come l’Italia, tradizionale produttore di industria culturale.

2. Premessa storica3 I primi utilizzi del calcolatore per la elaborazione di dati linguistici si hanno nell’immediato dopoguerra, con due obiettivi principali: 1. assistere diversi tipi di ricerche umanistiche nello studio di testi, attraver- so la produzione automatica di vari tipi di indici e, in particolare, di con- dordanze (HTP: Text Processing for the Humanities);

————— 2 In occasione del 350o anniversario della Académie Française (1635–1985). 3 Questa Premessa segue da vicino l’Introduzione a Zampolli (1998a).

426 2. costruire sistemi per tradurre automaticamente (Machine Translation: MT) i testi da una lingua in un’altra lingua, in particolare a scopi di “in- telligence” nel contesto della “guerra fredda”. Il primo filone si sviluppò lentamente ma costantemente, tanto che la tecno- logia degli spogli elettronici di testi non solo è entrata, gradualmente, nel ba- gaglio metodologico comune delle scienze umane, ma anche in quello della documentazione automatica e dell’ “information retrieval”. I progetti di MT subirono invece una profonda crisi a metà degli anni ’60, quando apparve chiaro che le facili promesse di risultati a breve termine non sarebbero state mantenute. Il ben noto ALPAC Report, che nel 1966 segnò la fine di praticamente tutti i progetti americani e della maggior parte dei progetti europei di MT, at- tribuiva questi insuccessi alla scelta metodologica di concentrare gli sforzi su modelli “in miniatura” della lingua, invece di lavorare con corpora, lessici, grammatiche di larga copertura.4 Esso annuncia il sorgere di una nuova disciplina, che battezza “linguistica computazionale” (LC),5 la quale avrebbe dovuto, operando su dati concreti di dimensioni realistiche, fornire le conoscenze e sviluppare le tecnologie ne- cessarie ad intraprendere grandi progetti applicativi quali quelli di MT. Nei fatti, la LC si sviluppò, sotto l’influsso delle scuole linguistiche allora dominanti, per lo più di matrice nordamericana, perseguendo obiettivi ben diversi da quelli auspicati nel Rapporto ALPAC. Esse erano volte a formula- re, praticamente per la prima volta nella storia della disciplina, modelli for- mali generativi della lingua, e fornivano risposte forti alla esigenza di regole formali, applicabili attraverso algoritmi per il trattamento automatico.6 Que- sto filone della LC è chiamato di solito NLP (Natural Language Processing). Così, per quasi tre decadi, è prevalsa nettamente la tendenza a implemen- tare e testare le ipotesi di queste teorie, il cui interesse era principalmente fo-

————— 4 “Small scale experiments and work with miniature models of language have proven seriously deceptive in the past, and one can come to grips with real prob- lems only above a certain scale of grammar size, dictionary size, and available corpora” (ALPAC 1966, IV). 5 The Chairman of the Committee on Science and Public Policy, in una lettera al Presidente della National Academy of Science, affermò: “the support needs for computational linguistics are distinct from automatic Language translation” (ALPAC 1966, 2). E a p. 29 si legge: “work toward machine translation together with computational linguistics work that has grown out of it”. 6 La ben nota classificazione dei linguaggi formali di N. Chomsky venne infatti ap- plicata anche ai linguaggi di programmazione.

427 calizzato sulla descrizione di pochi fenomeni, scelti perché “critici” per la va- lutazione della capacità esplicativa delle teorie stesse, e a studiare le proprietà computazionali dei modelli linguistici e delle strategie di implementazione, piuttosto che a descrivere estesamente le diverse lingue e ad automatizzare il trattamento della ricca varietà di fatti e fenomeni linguistici che ricorrono nell’uso reale delle lingue, nei processi di informazione e comunicazione.7 È chiaro, date queste circostanze, che i sistemi di elaborazione prodotti dalla LC mal si prestavano allo sviluppo di applicazioni pratiche, le quali de- vono necessariamente trattare estesamente la lingua com’è usata, di fatto, nei compiti cui le applicazioni si riferiscono. Ciononostante, grazie anche ad alcuni spettacolari successi di alcuni si- stemi, dovuti alla coincidenza tra la natura delle particolari operazioni lingui- stiche da svolgere e la maturità raggiunta dalle tecnologie richieste per auto- matizzarle,8 è apparso chiaro, verso la metà degli anni ’80, che la LC avrebbe potuto offrire la possibilità, attraverso sviluppi opportunamente indirizzati, di rispondere ad esigenze profonde ed impellenti della emergente Società dell’Informazione. Il progressivo diffondersi della consapevolezza dell’impatto potenziale, e- conomico e sociale delle applicazioni della LC ha attirato la attenzione di im- portanti Organizzazioni internazionali (quali il Consiglio d’Europa, l’ONU, e, soprattutto, la Commissione dell’UE) e di Agenzie Nazionali (quali DAR- PA e NSF negli USA e MITI in Giappone), le quali decisero di sostenere lo sviluppo del settore con finanziamenti crescenti orientati, inizialmente, alla ricerca e poi, gradualmente, anche al supporto di dimostratori, prototipi, si- stemi innovativi. Contemporaneamente, importanti Compagnie, all’inizio soprattutto mul- tinazionali, operanti in prevalenza nel settore dell’informatica e delle teleco- municazioni, entrarono in gioco, in competizione tra loro. Si inizia così (1986) a parlare del paradigma dell’industria delle lingue,9 indicando con questo termine applicazioni, di interesse economico e com- ————— 7 Una descrizione più approfondita di tale periodo si trova in Zampolli 1997a. 8 Per esempio, il sistema canadese TAUM-METEO, che traduce bollettini meteoro- logici tra inglese e francese, è stato correntemente impiegato nella pratica quoti- diana. 9 Il termine “industries de la langue” (“Language Industries”, LI) venne lanciato al Convegno Internazionale organizzato a Tours dal Consiglio di Europa (Vidal- Beneyto 1986). Esso copre sia le attività nelle quali l’aiuto del calcolatore è uti- lizzato essenzialmente per assistere le professioni “tradizionali” della linguistica applicata (per es. lessicografia, traduzione, insegnamento delle lingue) sia le atti-

428 merciale, basate su sistemi computazionali capaci di compiere automatica- mente, sulla lingua, operazioni e compiti che sono parti essenziali dell’appli- cazione. A questo termine se ne affiancarono via via altri, scelti per attirare la at- tenzione del pubblico su particolari aspetti del settore. Per esempio, nel 3° Programma Quadro Comunitario di Ricerca, il settore era chiamato “language research and engineering”, e poi, nel 4°, “language engineering” tout-court, mettendo in rilievo la necessità di ingegnerizzare la tecnologia per renderla utilizzabile in applicazioni concrete.10 Nel 5° Programma Quadro, e nei più recenti programmi governativi ame- ricani, si parla di Human Language Technology, per evidenziare il ruolo che le tecnologie della LC possono sostenere a favore dello sviluppo di una so- cietà “user-friendly”, centrata sull’uomo. Nella fase di preparazione del 6° Programma Quadro (2002–2006) at- tualmente in corso, che sembra destinato in particolare a potenziare la ricerca europea affrontando temi altamente innovativi e prioritari per lo sviluppo fu- turo della società, il trattamento del linguaggio sembra coinvolto principal- mente in due filoni: – la gestione della conoscenza (in particolare, il “semantic WWW” multi- lingue) – la interattività multimediale e multisensoriale.

3. Alcuni contributi italiani alla evoluzione della LC Mi limito qui a segnalare alcuni contributi della ricerca italiana che hanno in- fluenzato in modo determinante la evoluzione della LC più sopra delineata.

vità dirette a sviluppare nuovi tipi di applicazioni (per es., sistemi di interfaccia uomo-macchina in lingua naturale, traduzione automatica, estrazione dell’infor- mazione). 10 Ricercatori, sviluppatori, agenzie nazionali e internazionali per la ricerca, sono sempre più consapevoli del potenziale strategico, industriale, culturale della Indu- stria delle Lingue che emerge come un settore autonomo nelle industrie dell’informazione (Nagao 1989). Ma si riconosce anche che siamo ben lontani dal saper sfruttare appieno questo potenziale e che è necessario uno sforzo determi- nante di ingegnerizzazione per usare il know-how disponibile e i prototipi esisten- ti per la costruzione di prodotti adeguati alle necessità degli utenti. Così si è venuto imponendo, nel decennio scorso, il termine ingegneria del lin- guaggio (LE), il cui scopo principale è quello di produrre dei componenti robusti, capaci di trattare testi reali, che possano essere integrati in prodotti della LI affi- dabili. La disponibilità di risorse linguistiche (LR) è una condizione essenziale per raggiungere tale robustezza.

429 3.1 Gli inizi dell’HTP Il gesuita italiano P.Roberto Busa S.J. è universalmente riconosciuto come l’iniziatore del filone HTP. I suoi primi esperimenti di spogli elettronici, che risalgono al 1948 (Busa 1951) hanno portato non solo alla pubblicazione del monumentale Index Thomisticus, ma anche alla fondazione del CAAL (Cen- tro per l’Automazione dell’Analisi Linguistica) (Busa/Zampolli 1968) che è servito da modello a centri analoghi sorti in altri stati ed ha operato sin dall’origine su lingue diverse: oltre al latino medioevale e classico, l’italiano delle origini, i Rotoli del Mar Morto, il tedesco (Kant, Goethe), e l’italiano contemporaneo (Zampolli 1960).11

3.2 I rapporti tra NLP e HTP Negli anni ’70 e ’80, come si è detto, i due filoni principali (NLP e HTP) del- la LC divergevano radicalmente, tanto da non riconoscere la appartenenza a un comune settore disciplinare. Pochissimi centri di ricerca al mondo potevano dirsi attivi in entrambi: l’Istituto di Linguistica Computazionale di Pisa (ILC) dichiarava esplicita- mente di operare programmaticamente in entrambi, utilizzando tecniche, me- todi, conoscenze comuni. Alcuni fatti possono essere citati per mostrare come questa presa di posi- zione dell’ILC abbia trovato riscontro in ambito internazionale. − Le Associazioni Scientifico-Professionali che rappresentano i due filoni (ALLC e ACH da un lato, ACL dall’altro) sul finire degli anni ’80 av- viano in collaborazione discussioni sui motivi teorici e sui contenuti tec- nici della cooperazione, organizzano tavole rotonde congiunte nei rispet- tivi convegni, patrocinano iniziative comuni (per es. la TEI), ecc. − Il gruppo ad hoc dello “Standing Committee for the Humanities” della ESF produsse un survey e raccomandazioni comuni ai due filoni (Genet, Zampolli 1992); la stessa attenzione è dimostrata dalla British Library che organizzò un workshop sul tema (Katzen 1991). − L’affermarsi del paradigma delle LI, offrendo la possibilità di accedere a nuovi fonti di finanziamento, di dimensioni fino allora impensabili, co-

————— 11 Laureatomi con l’utilizzo delle macchine del CAEL, “prestato” come consulente all’opera del vocabolario dell’Accademia della Crusca, mi trovai – assunto presso il Centro Scientifico IBM-CNUCE di Pisa – a gestire la parte informatica dei due progetti, cui seguirono ben presto molti altri, tanto che nel 1968 il CNUCE mi consentì di fondare la Divisione Linguistica, che nel 1978 divenne Laboratorio e nel 1980 Istituto del CNR.

430 stituisce uno stimolo molto efficace alla elaborazione di progetti in co- mune (es. MEMORIA).12 − Oggi, nel quadro della società globale multilingue basata sulle tecnolo- gie della comunicazione e dell’informazione, la LC e le sue diverse ap- plicazioni, in particolare nel settore delle “digital libraries”, sono indi- spensabili per dare accesso ai patrimoni culturali legati alle diverse lin- gue (Zampolli 2001a).

3.3 Le risorse linguistiche Il gruppo di Pisa (ILC, Consorzio Pisa Ricerche, Università di Pisa-Cattedra di Linguistica Matematica) ha avuto un ruolo decisivo nel formarsi e nel dif- fondersi del nuovo paradigma che caratterizza oggi l’intero campo disciplina- re della LC, il cosiddetto “data-driven approach”, che è fondato sull’utilizzo e sullo studio di estese raccolte di dati linguistici e delle loro descrizioni, le cosiddette “risorse linguistiche”, costituite essenzialmente dalla documenta- zione sulla quale si basa lo studio di una lingua e dalla registrazione analitica dei risultati di tale studio. Questo paradigma si oppone, in un certo senso, al paradigma che in pre- cedenza aveva dominato essenzialmente il NLP, il cosiddetto “rule-based approach”, descritto nel paragrafo precedente. Una sintesi generale dello stato dell’arte nel trattamento sia del parlato sia dello scritto, è fornita dal Survey of Human Language Technology del 1997 (Varile/Zampolli, edd.), e un panorama molto più breve da Zampolli (1998a).13 In tutti i temi trattati dal Survey, è evocata la necessità di disporre di risor- se linguistiche (RL) adeguate e in particolare di corpora rappresentativi e an- notati di grandi dimensioni, lessici il più possibile completi, grammatiche a larga copertura linguistica. In un incontro organizzato nel settembre del 1991 a Torino da ESPRIT e dalla NSF, tra 10 rappresentanti della ricerca europea e 10 rappresentanti della ricerca nordamericana, corpora e lessici orali e scrit- ti vennero indicati come esigenze prioritarie e comuni di entrambe le comuni- tà. Io introdussi (a quanto sappiamo, per la prima volta) il termine “risorse linguistiche” (language resources: LR) per sottolineare il ruolo infrastruttu-

————— 12 Creazione di un posto di lettura intelligente personalizzato collegato in INTERNET a una biblioteca digitale. 13 Una nuova versione del Survey è già in cantiere: in particolare verrà dato spazio ai temi del WWW, del multilinguismo, della gestione della conoscenza, della multimodalità e multisensorialità.

431 rale di questi componenti, paragonandolo a quello delle risorse “di base” (per es. acquedotti, elettricità, strade) necessarie per lo sviluppo industriale di una nuova area geografica. Proposi poi il termine (Zampolli 1991b) al panel Danzin, un panel di esperti costituito dalla CE per delineare il framework ge- nerale, i benefici potenziali, gli obiettivi principali, le priorità per lo sviluppo della LI in Europa. Il rapporto finale del panel (Danzin 1992) accolse sia il termine, che da allora entrò nella terminologia della Commissione e da que- sta nella letteratura corrente del settore, sia l’affermazione della natura infra- strutturale delle RL. Queste risorse sono a giusto titolo considerate, oggi, una infrastruttura in- dispensabile per il progresso delle ricerche e per lo sviluppo delle applicazio- ni: i lessici e le grammatiche forniscono ai sistemi di trattamento automatico del linguaggio naturale la conoscenza necessaria per i diversi processi lingui- stici, mentre i corpora, parlati e scritti, sono fonti insostituibili di conoscenza per costruire modelli adeguati per il trattamento degli usi reali della lingua. Ci possiamo chiedere perché queste risorse, così necessarie, manchino ancora, in maggior o minor misura, praticamente per tutte le lingue, dopo più di 30 anni di storia del settore. Da un lato, la tendenza, prevalente fino a metà degli anni ’80, a privile- giare, come si è detto, il trattamento di fenomeni “critici” studiati dalle teorie linguistiche dominanti, rispetto al trattamento estensivo degli usi reali delle lingue, portava ad utilizzare pochi esempi, spesso costruiti artificialmente, lessici di poche decine di voci,14 grammatiche di copertura molto ridotta. D’altro lato, la costruzione di RL estese ha un costo molto elevato e im- pone uno sforzo organizzativo rilevante. Nell’ultima decade, la nostra comunità è stata però indotta ad intraprende- re la costruzione e l’utilizzo di RL adeguate, da spinte molto forti di ordine sia scientifico-tecnico sia economico-organizzativo. Queste sono alcune delle principali motivazioni di ordine tecnico- scientifico: − il lessico è venuto acquisendo un ruolo sempre più rilevante nei modelli linguistici;15 − si è visto che una sostanziale estensione del sottoinsieme linguistico che si vuole “coprire” comporta spesso modifiche sostanziali ai modelli e al- le strategie dei processi;

————— 14 In un Survey del 1989, Briscoe e Boguraev trovarono che la dimensione media dei lessici computazionali esistenti era (allora) di 18 entità lessicali. 15 Si veda, per esempio, Walker/Zampolli 1989 e Walker et al. 1995.

432 − si è constatata, in molti casi, la necessità di metodi empirici, basati sulla analisi di grandi quantità di dati, per far evolvere modelli e strategie ba- sati su regole, che sembrano avere raggiunto il limite delle proprie pos- sibilità; − mano a mano che l’evoluzione delle tecnologie consente o richiede che vengano affrontati livelli linguistici più “profondi”, diventa urgente i- dentificare, sulla base della documentazione fornita da corpora, nuovi aspetti da trattare, e creare nuovi modelli e categorie per la loro descri- zione. Sul piano delle implicazioni economiche, d’altra parte, alcune tecnologie hanno raggiunto un grado di maturità che potrebbe consentire applicazioni concrete di grande interesse industriale e commerciale, a condizione che la copertura linguistica delle risorse utilizzate venga sufficientemente estesa. Come si è detto, l’impatto potenziale, economico e sociale, delle applica- zioni della LC, in particolare nel contesto dell’emergere della Società dell’Informazione, ha attirato la attenzione di autorità internazionali e di non poche autorità nazionali, che hanno iniziato a investire, in modo prima im- pensabile, nel settore. Il loro interesse è, naturalmente, per tecnologie e sistemi che funzionano, che hanno un senso economico, e che pertanto devono possedere la robustez- za necessaria per trattare gli usi concreti della lingua, siano essi teoricamente “interessanti”, o no. Questa robustezza è condizionata, come si è detto, dalla copertura della grammatica, dalla completezza del lessico, dalla verifica e dalla validazione su corpora adeguati, e spesso dall’utilizzo di conoscenze statistiche e di rego- larità distribuzionali scoperte nei corpora. L’insieme di questi fattori ha fatto delle RL un tema chiave della LC, pro- vocando un fiorire di iniziative che vogliono contribuire a dotare la LC delle RL infrastrutturali necessarie, nonostante le difficoltà e i costi elevati. Il Workshop “On automating the lexicon”, organizzato a Grosseto nel maggio 1986 è universalmente riconosciuto come il punto d’inizio del processo che ha portato a stabilire il settore delle RL quale è oggi. Il Workshop, proposto da Zampolli al CETIL (il primo comitato di Esperti della CE per la LI), passò in rassegna le ricerche, le pratiche correnti, gli sviluppi potenziali delle attivi- tà su lessici e corpora, con particolare riguardo all’ambiente multilingue. Le raccomandazioni finali, trasmesse da Zampolli nel 1987 alla CE, e riportate in dettaglio in Walker (et al. 1995), diedero origine a tutta una serie di pro- getti comunitari (ACQUILEX, ET-7, MULTILEX, MULTEX, DELIS, ecc.: per molti di questi si vedano le descrizioni nel numero speciale di Literary and Linguistic Computing del 1994, curato da N. Ostler e A. Zampolli) e di

433 attività organizzative e di ricerca (per es. la Scuola Estiva Computational Le- xicology and Lexicography, v. Atkins et al. 1994), promosse in particolare da EURALEX, la Società Europea di Lessicografia, come presidente della quale (1988–1990) cercai di promuovere la convergenza tra lessicografia tradizio- nale e lessicologia computazionale, in particolare per la costruzione e l’utilizzo di basi di dati lessicali comuni (Zampolli 1994a). Ciò richiede uno sforzo largamente cooperativo di compagnie, enti di ri- cerca e sponsors, così da evitare duplicazioni e da ripartire i costi e gli sforzi necessari. A tal fine, si richiede che le RL non siano ristrette a un sistema specifico, ma che siano invece riutilizzate da molti utenti (risorse condivisibili nel pub- blico dominio) e per più di uno scopo (risorse multifunzionali). Per comune consenso, le operazioni da svolgere si articolano in tre sotto- settori, che ho chiaramente individuato e descritto per la prima volta in una comunicazione tenuta al Workshop organizzato dalla CE a Santorini nel 1993 sul futuro della LI in Europa. L’avvio delle attività in tutti e 3 questi settori è stato uno dei temi focali della attività del Gruppo di Pisa negli ultimi 15 anni.

3.3.1 Specifiche comuni A livello tecnico e scientifico, la soluzione consiste nel cercare un consenso tra le diverse prospettive teoriche e i diversi approcci al disegno dei sistemi. In caso di successo, ciò permette la formulazione e la adozione di specifiche comuni e di de facto standards per la creazione delle RL che ne assicurino la riutilizzabilità in applicazioni diverse e la armonizzazione a livello interna- zionale e multilingue. La Text Encoding Initiative (TEI) ha prodotto una serie di “guidelines” per la codifica di testi, soprattutto ad uso delle discipline u- manistiche. L’ILC è stato portato dalla natura stessa della propria attività ini- ziale, focalizzata sulla assistenza agli “utenti” umanisti delle tecniche di spo- glio elettronico, a proporre degli standards di fatto sia per la codifica di cor- pus/testi di varie lingue ed epoche (Bindi/Orsolini/Zampolli 1980), sia per le interfacce tra le diverse fasi delle procedure di spoglio, sia per i criteri di lemmatizzazione (Zampolli 1976) e a proporre la costituzione di lessici com- putazionali multifunzionali (Zampolli 1968). Nel 1981, i rappresentanti delle diverse Agenzie nazionali di ricerca fede- rate nella ESF approvarono – unitamente al delegato della NEH (National Endowment for the Humanities degli USA), la raccomandazione (Zampol- li/Quemada 1981), presentata nella seduta conclusiva del Workshop organiz- zato per conto della ESF (Cappelli et al. (edd.) 1983), di definire e adottare

434 degli standards che consentissero lo scambio di testi, corpora, lessici, basi di dati lessicali, tra Ricercatori e Istituti operanti nel settore dell’HTP. Alcuni hanno visto in queste raccomandazioni il primo gradino verso la costituzione della TEI che, come è noto, venne lanciata a seguito della riunione indetta da Nancy Ide a Vassar nel 1987.16 Il progetto comunitario EAGLES (Expert Advisory Group on Linguistic Engineering Standards) raccoglie gli sforzi europei di ricercatori e industrie per la creazione di standards, consensuali, per l’orale e per lo scritto, per cor- pora, lessici, tecnologie del parlato, formalismi e valutazione dei sistemi. La fase attuale di EAGLES (progetto ISLE, finanziato in parti uguali dalla CE e dalla NSF, grazie all’accordo di cooperazione scientifica e tecnica transatlan- tica) si occupa in particolare di standards per lessici multilingui e per risorse multimodali. Il giorno dopo la fine del Workshop di Grosseto, costituii un Gruppo di lavoro “informale” (H. Uzkoreit, N. Calzolari, B. Ingria, B. Bogu- raev e A. Zampolli) per esplorare la possibilità di costruire LR estese, dise- gnate intenzionalmente per essere multifunzionali, cioè capaci di servire, at- traverso interfacce appropriate, una larga varietà di ricerche e applicazioni presenti e future. Un problema cruciale e controverso era quello di definire in che misura era possibile, ed eventualmente desiderabile, rendere le LR “politeoriche”, almeno entro certi limiti, così da essere utilizzabili dalle applicazioni di varie teorie linguistiche. L’opinione corrente era che il “contenuto” dell’informa- zione linguistica da codificare per le entrate lessicali sia così strettamente de- terminato dalle esigenze di una determinata teoria linguistica esplicitamente o implicitamente adottata nei componenti (analizzatore, generatore, etc.) del si- stema per il quale un lessico computazionale viene costruito, che esso non può essere usato altrove. La mia convinzione che queste descrizioni siano largamente basate sulla identificazione delle stesse proprietà linguistiche delle entrate lessicali fu raf-

————— 16 Per evitare che le deliberazioni conclusive di Vassar cadessero nel nulla di fatto, indissi una riunione a Pisa alla fine di quell’anno tra rappresentanti dell’ALLC (A. Zampolli, S. Hockey), dell’ACH (N. Ide, M. Sperberg-Mc Queen) dell’ACL (D. Walker) che di fatto fondò la TEI come impresa sponsorizzata dalle 3 Asso- ciazioni. L’annuncio fu dato nel Convegno ALLC-ACH di Gerusalemme (1988), nel quale l’ACH mise a punto la richiesta di fondi alla NEH per la parte america- na, e potei definire la strategia da seguire per ottenere il finanziamento della CE (complessivamente 600.000 ECU) per la parte europea attraverso contratti con l’Università di Pisa. Attualmente le 3 Associazioni, attraverso un gruppo di “tran- sizione”, hanno affidato la continuazione di TEI a un Consorzio, del quale sono Vicepresidente.

435 forzata dalle discussioni del workshop, così che decisi di esplorare la fattibi- lità di sfruttare questo fatto. Il gruppo informale iniziale fu gradatamente al- largato, col supporto dell’ILC e poi della ACL, e si formò il cosiddetto “Pisa Group”, comprendente i rappresentanti di diverse scuole: government and binding, generalised phrase structure grammar, lexical functional grammar, relational grammar, systemic grammar, dependency grammar, categorial grammar. Il gruppo lavorò alcuni mesi con esempi tratti da lingue diverse e- saminando in dettaglio il modo nel quale le diverse teorie avrebbero trattato un gruppo rappresentativo di verbi inglesi e italiani (Walker et al. 1987). L’esito positivo riportato al CG12, il Comitato di esperti della DG XIII per i problemi linguistici di quegli anni, fece sì che la proposta (Zampolli 1988) di promuovere un progetto per approfondire i risultati del Pisa-Group venne ac- colta, dando luogo al progetto ET-7, il quale confermò la fattibilità di alcuni standards di base per la descrizione di entrate lessicali a diversi livelli lingui- stici (Heid/Mc Naught 1991). Altri progetti nel frattempo ravvisarono la necessità di definire tali stan- dards: per es. ESPRIT-MULTILEX (Khatchadurian et al. 1993), EUREKA- GENELEX (Antoni-Lay et al. 1994), ACQUILEX (Boguraev et al. 1988). Nel frattempo, la comunità europea dello “speech” si era indipendentemente organizzata avviando una attività di standardizzazione, in particolare attra- verso il progetto SAM-ESPRIT (Fourcin/Gibbon 1993). Vedendo il pericolo della contraddizione insita nella moltiplicazione di iniziative miranti a stabili- re – indipendentemente – standards potenzialmente divergenti per lo stesso tipo di RL, convocai a Pisa i coordinatori di questi progetti nella primavera del 1991, e decidemmo di incontrarci ancora, per assicurare le sinergie e la convergenza tra i diversi progetti. Ci rivolgemmo a vari dipartimenti della CE per avere un supporto. Dopo alcuni meetings, i coordinatori rappresen- tanti TEI, ET7, GENELEX, MULTILEX, ACQUILEX, NERC, SAM forma- rono il nucleo iniziale della iniziativa EAGLES, seguendo il suggerimento di R. Cencioni, coordinatore del programma LRE. Questo progetto mirante a preparare degli standards di fatto, basati sul consenso dei maggiori attori pri- vati e pubblici europei, si occupò in una prima fase dei corpora, lessici (a li- vello morfologico e sintattico), formalismi grammaticali, valutazione e spe- ech (v. Gibbon et al. 1997). Oggi il progetto continua sotto il nome di ISLE e vede la partecipazione di europei, americani e asiatici.17 ————— 17 Io coordino la parte europea del progetto nel quadro di un contratto tra la CE e CPR, mentre la parte americana del progetto è coordinata da M. Palmer, dell’Università di Pennsylvania. Esso comprende tre Gruppi di lavoro, rispettiva- mente per il lessico multilingue (coordinatori N. Calzolari per l’Europa, M. Pal-

436 3.3.2 Costruzione delle Risorse A livello organizzativo è necessario assicurare lo sviluppo di nuove RL per le lingue o i domini per i quali esse non esistono, o esistono solo allo stadio di prototipi, o con copertura insufficiente, oppure esistono ma non possono es- sere rese disponibili alla varietà di utilizzatori interessati. La creazione di RL è stata spesso citata come un caso tipico nel quale la applicazione del principio di sussidiarietà tra iniziative nazionali e comunita- rie è assolutamente necessario. La CE, non avendo la possibilità di finanziare per intero la creazione di RL adeguatamente estese per tutte le lingue euro- pee, ha promosso la creazione di nuclei di RL di dimensioni limitate (per es. il progetto PAROLE ha codificato corpora di 20 milioni di occorrenze e les- sici morfosintattici e sintattici di 20.000 entrate lessicali, per tutte le lingue dell’Unione Europea, mentre il progetto SIMPLE ha aggiunto la codificazio- ne di 10.000 sensi.18 Molti paesi europei stanno ora estendendo questi nuclei iniziali con fi- nanziamenti nazionali. Abbiamo proposto il progetto ENABLER, recente- mente approvato dalla CE, che ha lo scopo di creare sinergie e mantenere la armonizzazione tra le RL create dai diversi programmi nazionali europei. In Italia il MURST finanzia due progetti di interesse nazionali (“Infra- struttura nazionale per le risorse linguistiche nel settore del trattamento au- tomatico della lingua naturale parlata e scritta”, legge 46/8, art. 10, e “Lin- guistica Computazionale: ricerche monolingui e multilingui”, legge 488, clu- ster 18) che hanno lo scopo di creare e mettere a disposizione della comunità italiana lessici computazionali, corpora di parlato, corpora annotati a livello sintattico e semantico, un corpus bilingue italiano-arabo, e strumenti per il lo- ro impiego in applicazioni avanzate (v. Zampolli 2001b, in stampa). In particolare, i due programmi, che emergono da una stessa proposta (Zampolli 1996), si propongono i seguenti obiettivi:

mer e R. Grishmann per gli USA), le risorse multimodali (coordinatori N.O. Ber- sen per l’Europa e M. Libermann per gli USA), la valutazione (in particolare di sistemi per la traduzione automatica: coordinatori M. King per l’Europa, E. Hovy per gli USA). 18 I progetti PAROLE e SIMPLE, entrambi da noi coordinati, sono uno sviluppo del progetto NERC (v. Calzolari et al. 1995), uno studio sulla fattibilità di creare un network europeo di corpora e lessici armonizzati tra loro, che ho promosso e co- ordinato negli anni 1991–1993, direttamente preceduto dalle attività di un gruppo di esperti di RL che Vidal-Beneyto – direttore della Divisione Educazione Cultura e Sport del Consiglio d’Europa – mi chiese di formare al Convegno di Tours sulle LI (1986). Alcuni risultati del gruppo sono riportati da articoli pubblicati in Vidal- Beneyto 1991.

437 A. ItalWordNet19 ItalWordNet sarà una risorsa tipo “rete semantica” per l’italiano a copertura relativamente ampia (circa 50.000 entrate). ItalWordNet sarà strutturato se- condo il modello di WordNet (costruito a Princeton, Miller 1990), così come è stato arricchito ed esteso ad altre lingue nell’ambito del progetto europeo EuroWordNet (LE-8328) (Vossen et al. 1998). La risorsa ItalWordNet consisterà in una struttura di relazioni semantiche che collegano i sensi di circa 50.000 unità lessicali italiane. I sensi sono raggruppati in “synsets” (gruppi di sensi sinonimi tra loro, nella terminologia di WordNet), i quali sono collegati da relazioni semanti- che di vario tipo, quali iperonimia/iponimia,20 meronimia, etc.

B. Basi di conoscenze lessicali per il trattamento computazionale dell’italiano21 La risorsa lessicale conterrà informazioni codificate a diversi livelli descritti- vi: fonologico, morfologico, sintattico (per circa 55.000 entrate lessicali), semantico (per circa 55.000 sensi). Le informazioni saranno formulate se- condo il modello PAROLE-SIMPLE. Si veda per una descrizione del model- lo sintattico Ruimy et al., 1998 e per il modello semantico Lenci et al., 2000.

C. Corpus di italiano parlato22 Il corpus sarà costituito da 100 ore di parlato articolate nei seguenti insiemi: a) 10 ore di materiale radiotelevisivo (notiziari, interviste, talk show), b) 60 ore di materiale raccolto sul campo (tramite la tecnica detta map task), c) 5 ore di materiale letto in laboratorio da più parlanti (testi atti a garantire la copertura lessicale di base -LIP/VdB),

————— 19 Responsabile dei lavori per questo tema è A. Roventini (ILC, Pisa). 20 Per relazioni di iponimia/iperonimia si intendono relazioni del tipo “specifico/ge- nerico” fra entrate lessicali: ad esempio cane è iponimo di animale e animale è iperonimo di cane. 21 Questo lavoro viene svolto in parte a Pisa (coordinamento di N. Ruimy, ILC), in parte a Salerno (J. Monti, Thamus). Complessivamente, ci si propone di codifica- re 85.000 lemmi a livello morfologico, 55.000 lemmi a livello fonologico e sintat- tico, 55.000 sensi a livello semantico. Thamus inoltre codificherà 10.000 entrate terminologiche reperite sulla base di testi tecnico-scientifici. 22 Responsabile dei lavori per questo tema è F. Albano Leoni (CIRASS, Università Federico II di Napoli).

438 d) 10 ore di parlato telefonico (con copertura diatopica come in a e in b), e) 10 ore di parlato acquisito per finalità applicative in domini specifici (les- sico economico finanziario, informazioni ferroviarie etc., sia telefonico sia ortofonico).

D. Treebank sintattico-semantico dell’italiano23 Un corpus bilanciato annotato a livello sintattico (80.000 occorrenze in forma di struttura a costituenti; 360.000 occorrenze annotate a livello funzionale) e semantico (80.000 occorrenze).

E. Acquisizione di informazioni linguistiche da corpora24 Disegno e realizzazione di un sistema di acquisizioni lessicali da corpora te- stuali, per arricchire dinamicamente risorse lessicali “statiche” con informa- zioni acquisite (semi)automaticamente da corpora di specialità.

F. Dialoghi annotati per applicazioni di interfacce vocali avanzate25 Verrà registrato, trascritto, annotato a diversi livelli di analisi (morfologica, sintattica, semantica, pragmatico, prosodico) un corpus di 450 dialoghi, metà uomo-uomo, metà uomo-macchina, nel dominio del turismo, per acquisire in- formazioni sui modi di accedere a servizi informativi mediante messaggio vocale.

G. Risorse Grammaticali e Sistema integrato di Supporto allo Sviluppo di Applicazioni (SiSSA)26 SiSSA si propone di creare un sistema, integrante strumenti software e risor- se linguistiche, che assista l’utente finale nella costruzione e validazione di applicazioni che comportano l’utilizzo di conoscenze grammaticali.

————— 23 Responsabile dei lavori per questo tema è S. Montemagni (ILC, Pisa). 24 Responsabile dei lavori per questo tema è N. Calzolari (ILC, Pisa). 25 Responsabile dei lavori per questo tema è Gianni Lazzari (IRST-ITC, Trento). 26 Responsabile dei lavori per questo tema è F. Pianesi (IRST-ITC, Trento).

439 H. Strumenti e ambienti di sviluppo software per interfacce vocali avanzate27 L’obiettivo è di mettere a disposizione dell’utente finale un sistema integrato di strumenti software, motori di riconoscimento/sintesi vocale ed interfacce di comunicazione verso le basi dati ed il mondo esterno, che lo supporti nello sviluppo di applicazioni vocali interattive di tipo complesso, in particolare basate sul parlato continuo ed il dialogo uomo-macchina in linguaggio natu- rale parlato.

I. Supporti alla gestione di conoscenza e testi normativi28 Il risultato specifico cui si mira è la realizzazione di applicazioni dimostrative nelle aree di “authoring” e di sistemi di supporto decisionale normativo, con particolare riferimento alle normative territoriali.

J. Corpus bilingue italiano-arabo29 Corpus bilingue italiano arabo: 10 milioni di occorrenze per ciascuna lingua, 4 milioni delle quali provenienti da testi paralleli allineati. Inoltre 1 milione e mezzo di occorrenze di ciascuna lingua sarà annotato semiautomaticamente a livello morfosintattico.

K. Promozione degli scambi linguistici e culturali con il mondo arabo30 Lo scopo è mettere i corpora così prodotti a disposizione delle diverse cate- gorie di utenti potenzialmente interessati, attraverso metodi intelligenti di ac- cesso su INTERNET, allo scopo di facilitarne l’uso, promuovendo nel con- tempo gli scambi culturali tra l’Italia e il mondo arabo.

————— 27 Responsabile dei lavori per questo tema è D. Clementino (CSELT, Torino). 28 Responsabile dei lavori per questo tema è R. Raffaelli (SYNTHEMA, Pisa). 29 Responsabile dei lavori per questo tema è A. Rossi (Istituto Universitario Orienta- le, Napoli). Responsabile per la parte linguistica dell’analisi morfologica dell’ara- bo è A. Avanzini (Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico, Pisa). 30 Responsabile di questo tema è E. Martuscelli (Istituto di Ricerca e Tecnologia delle Materie Plastiche del CNR, Napoli). E. Picchi (ILC-PISA) è responsabile della parte informatica dei punti J e K, attraverso un riadattamento del sistema DBT (Data Base Testuale).

440 L. Network di operatori italiani della LC31 Riunirà operatori delle industrie, enti di ricerca, Pubbliche Amministrazioni, Associazioni Professionali, Università.

3.3.3 Distribuzione delle risorse È necessario creare delle infrastrutture cooperative per raccogliere, mantene- re, disseminare e mettere a disposizione le RL a beneficio dell’intera comuni- tà di ricerca e sviluppo della LC. Negli USA è stato creato il “Linguistic Data Consortium” (LDC) presso l’Università di Pensilvania. Esso dipende da finanziamenti (ARPA e NSF) e dalle sottoscrizioni di enti utilizzatori. In Giappone è in corso di discussione il progetto di una organizzazione centrale per la ricerca e distribuzione di databases di parlato e scritto. In Europa, a seguito dei risultati dello studio di fattibilità del progetto RELATOR, da noi coordinato, la Commissione della UE ha sponsorizzato la fondazione di ELRA (European Language Resources Association), da me presieduta, che, entrata nel quinto anno di attività, ha nel proprio catalogo con prezzi differenziati per enti di ricerca e industrie, e per soci e non soci, diverse centinaia di risorse, di vario tipo, e per diverse lingue.32

4. Bibliografia “Actes du Colloque International sur la Mécanisation des Recherches Lexicologi- ques”, in: Cahiers de Lexicologie 3 (1961), 1–220. ALPAC Report, Language and Machine: Computers in Translation and Linguistics, Washington, 1966. Antoni-Lay, M.H./Francopoulo, G./Zaysser, L., “A Generic Model for Reusable Lexi- cons: The Genelex Project”, in: Literary and Linguistic Computing 9 (1994), 47– 54. Atkins, B.T.S./Zampolli, A. (edd.), Computational Approaches to the Lexicon, Ox- ford, 1994. ———/Levin, B./Zampolli, A., Computational Approaches to the Lexicon: An Over- view, in: Atkins/Zampolli (edd.) 1994, 17–45. Bindi, R./Orsolini, P./Zampolli, A., Metodologie per gli spogli lessicali automatici, Pisa, 1980, 1–40.

————— 31 Responsabile dei lavori per questo tema è A. Zampolli (ILC, Pisa). 32 Per le attività di ELRA, l’indirizzo http://www.icp.grenet.fr/ELRA/home.html.

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444 5. Abbreviazioni ACH Association for Computers and the Humanities ACL Association for Computational Linguistics ALLC Association for Literary and Linguistic Computing ARPA Advanced Research Projects Agency (U.S. – predecessor of DARPA) CAAL Centro per l’Automazione dell’Analisi Linguistica CE Commissione Europea CETIL Comité d'Experts pour le Trasfert de l’Information entre Langues européennes CIRASS Centro Interdipartimentale di Ricerca per l’Analisi e la Sinte- si dei Segnali CPR Consorzio Pisa Ricerche CSELT Centro Studi e Laboratori Telecomunicazioni S.p.A. CNUCE Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico DARPA Defense Advanced Research Projects Agency (U.S. – successor to ARPA) DG Direction Générale/Direzione Generale EAGLES Expert Advisory Group on Linguistic Engineering Standards ELRA European Language Resources Association ENABLER European National Activities for Basic Language Resources ESF European Science Foundation ESPRIT European Strategic Programme for Research and Develop- ment in Information Technology EURALEX European Association for Lexicography HTP Humanistic Text Processing/ Text Processing for the Humanities ILC Istituto di Linguistica Computazionale (Pisa) ISLE International Standards for Language Engineering ITC Istituto Trentino di Cultura LC Linguistica Computazionale LDC Linguistic Data Consortium LE Language Engineering LI Language Industries LR Language Resources LRE Language Research and Engineering MITI Ministry of International Trade and Industry MT Machine Translation

445 MURST Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica NEH National Endowment for the Humanities NERC Network of European Reference Corpus NLP Natural Language Processing NSF National Science Foundation PAROLE International Association for Resources for Language Engi- neering (Association) PAROLE Preparatory Action for Linguistic Resources Organisation for Language Engineering (Project) RELATOR Linguistic Resources Repositories Network RL Risorse Linguistiche SAM Speech Technology Assessment Methodology SIMPLE Semantic Information for Multifunctional Plurilingual Lexica SiSSA Sistema integrato di Supporto allo Sviluppo di Applicazioni TEI Text Encoding for the Humanities UE Unione Europea

446