Lo Stato Della Critica E Lo Stato Del Romanzo [Vanni Santoni]

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Lo Stato Della Critica E Lo Stato Del Romanzo [Vanni Santoni] LO STATO DELLA CRITICA E LO STATO DEL ROMANZO: QUATTRO DOMANDE PER SESSANTASETTE CRITICI WWW.INDISCRETO.ORG A CURA DI VANNI SANTONI (2019) Il campo letterario sta vivendo un momento di grave mutazione: da un lato la critica trova sempre meno spazio sui giornali; dall’altro, la rete sopperisce come può a questa chiusura. A partire da tali riflessioni, abbiamo pensato di realizzare una grande inchiesta: raccolti sessantasette critici, gli abbiamo posto quattro domande su questioni chiave intorno al romanzo italiano e alla critica stessa. In copertina un’opera di Cy Twombly Due idee, decisamente concrete, si aggirano per il campo letterario: che ci sia sempre meno spazio per la critica nei medium tradizionali, e che la rete stia sopperendo a questa mancanza, ancorché secondo modalità differenti. Con L’Indiscreto abbiamo allora pensato di incrociare questi due spunti e realizzare una grande inchiesta, convocando i maggiori critici militanti italiani, poi i giovani accademici già convocati da La Balena Bianca per la sua riflessione sui romanzi italiani del decennio passato, e ancora vari giornalisti culturali, scelti tra coloro che hanno lavorato con maggior qualità e consistenza sulla letteratura italiana contemporanea, e abbiamo posto a tutti loro quattro domande su questioni che reputiamo di grande attualità e rilievo intorno al romanzo italiano e alla critica stessa. Prima domanda Scrisse, attraverso un suo personaggio, Pynchon, che nel secolo a venire la critica letteraria sarebbe stata ancor più importante perché si sarebbero prodotti più libri per meno lettori, e dunque la funzione d’indirizzo dei lettori e selezione del canone sarebbe stata decisiva. Concorda? Come crede debba essere interpretata, oggi, questa funzione? Come può reagire la critica al paradosso dell’aumento della sua utilità rispetto alla diminuzione pratica degli spazi espressivi? Simone Barillari: Mi sembra che la perdita di spazi per la critica letteraria sia la misura più semplice e spietata della perdita di importanza della letteratura – e della parola scritta – nella definizione dell’uomo contemporaneo. Gli spazi si sono ridotti sia sui giornali (funzione di indirizzo dei lettori), sia nelle grandi case editrici, che non pubblicano quasi più testi di critica letteraria (funzione di selezione del canone). Quanto alla funzione di indirizzo, la profezia di Pynchon è stata fatta – significativamente – prima dell’avvento di internet, che ha determinato un processo di disintermediazione, e dell’ascesa delle grandi piattaforme digitali, che hanno implementato i sistemi di profilazione. Google, Facebook e Amazon disegnano il nostro profilo di consumatori mentre noi consumiamo – siamo disegnati dalla mano che stiamo disegnando, come in un angosciante quadro di Escher – e ci autorizzano continuamente a essere ciò che siamo, a volere tutto ciò che vogliamo, ci inducono ad attribuire autorevolezza a chi la pensa come noi più che a cambiare pensiero davanti a chi si dimostra autorevole. Google, Facebook e Amazon hanno più potere su di noi di qualsiasi critico, hanno un potere tanto più grande quanto più anonimo e più meccanico, e ci condannano ripetere all’infinito le scelte che abbiamo fatto – come tante marionette algoritmiche mosse da lunghe stringhe di numeri e costrette a rifare sempre gli stessi passi. Quanto alla funzione di selezione del canone, la critica la esercita ancora con forza, ma seleziona un canone che non può più imporre, nemmeno nella scuola, e non esiste una “misura”, un “kanon”, se non è conosciuto e condiviso da tutti, se non è impiegato da tutti come misura del linguaggio, come saggiatore di libri. L’unico canone conosciuto e condiviso è quello selezionato dalle stelline e dalle classifiche, che sostituisce la Statistica alla Storia e premia il giudizio esperienziale su quello esperto. Un libro viene considerato come un qualsiasi oggetto di consumo (e nulla si perverte come un oggetto sacro che diviene oggetto di consumo), e chiunque può giudicarlo per il solo fatto di averlo letto: il consumatore ha diritto al suo giudizio come il cittadino ha diritto al suo voto. Scontiamo nella letteratura e nell’arte le conquiste della democrazia, diceva profeticamente Dwight MacDonald a metà degli anni Cinquanta. Ma all’epoca c’era ancora Lolita in cima ai libri più venduti in America, dopo cinquanta anni c’è stato Il Codice da Vinci, e dopo altri dieci Cinquanta sfumature di grigio. Siamo troppi, ormai, perché l’autorità possa contrastare il numero: «uno per me vale diecimila», diceva Eraclito, ma l’“intelligenza collettiva” varrà presto dieci miliardi. Mi accorgo di aver vagheggiato un’apocalisse, ma sono nato in un mondo scolpito nella pietra che sta crollando così in fretta, come per un tremito della terra, che mi sorprendo a guardare quanto ancora resiste tra le rovine, e a provare gratitudine per averlo potuto testimoniare prima che scomparisse, per averne tratto un ricordo da opporre alla realtà. Credo non alla profezia di Pynchon ma a quella di un altro Grande Vecchio della letteratura americana com’è stato Philip Roth, che disse poco prima di morire che la lettura dei romanzi, nel giro di una generazione, sarebbe diventata qualcosa di simile a un piccolo culto tenuto in vita da una cerchia di devoti – “probabilmente più di quelli che adesso leggono la poesia latina, ma comunque in quell’ordine di grandezza”. Ho anch’io la sensazione che finirà così – ma non è detto che sia un male. Renato Barilli: Primo. Mi sembra che Pynchon abbia sbagliato il suo pronostico. Oggi gli spazi di intervento per la critica letteraria si sono ridotti molto. Quasi non esistono più le riviste periodiche che nei tempi passati ospitavano saggi o anche recensioni di vasta portata. Oggi tutto avviene sulle pagine dei quotidiani, o nei relativi supplementi, ma in forme abbreviate, chi collabora a quei fogli è sottoposto alle forche caudine del numero limitato di battute entro cui stare. Viceversa la produzione di narrativa si è estesa, in definitiva gli stessi critici in molte occasioni saltano il fosso e diventano essi stessi produttori di narrativa. Inoltre questa vive ormai in stretta simbiosi col cinema e la televisione, sia perché ne mutua trame e motivi, sia perché tenta di alimentare direttamente quelle due forme espressive, ricavandone anche le possibilità di successo. Mario Baudino: La critica letteraria mi sembra, in sé, molto emarginata, almeno dal punto di vista della “critica militante”. Si preferisce, sui media, far recensire romanzieri da romanzieri, poeti da poeti, rischiando e talvolta enfatizzando un chiacchiericcio convenzionale (questo accade mi pare anche per una parte significativa della critica accademica, che sembra a volte non voler arrischiare il giudizio, dare per cioè per scontato il punto di partenza, la ragione stessa per cui ci si dedica a un certo autore e non ad altri) È del resto ormai di parecchio tempo fa il provocatorio saggio Eutanasia della critica di Mario Lavagetto (2005), che ne proclamava una morte periodicamente annunciata almeno a partire dalla fine del secolo scorso. Va detto che la critica è sempre “paradossale”, per statuto, nella sua tensione da un testo in divenire a un testo stabilito, nel suo essere il testo di un (particolare) lettore. Si parla sempre più (mi viene in mente Massimo Onofri) di critica della vita, nel solco direi della tradizione garboliana, dello scritto (apparentemente) “servile” che diventa un corpo a corpo con l’’autore, inteso come un tutto, dall’io che scrive all’io che vive. Possiamo chiederci se questo modo di leggere i testi sia ormai in via di cancellazione – nei tempi di Amazon – o rappresenti una forma di resistenza e di testimonianza, quindi pur sempre di riproposizione e costruzione d’un canone. Da non apocalittico propendo per la seconda ipotesi, ma non ho elementi probatori da fornire. Diego Bertelli: Pynchon, da autore per pochi lettori qual è, fa una considerazione funzionale al suo modo di intendere la letteratura. Rispondo con Macedio Fernández, che afferma di quanto tragica sia la ricerca del Libro se l’autore non si attiene all’atteggiamento dei critici. Citazione a parte, non credo, innanzitutto, che saranno prodotti sempre più libri per meno lettori; la Storia della lettura di Cavallo e Chartier ci ha mostrato un trend diverso e più veritiero. Se la presenza sul mercato di “autori difficili” può obbedire a una funzione esclusivamente commerciale, è altrettanto vero che il grado di interazione e diffusione dell’informazione oggi è stato capace di sdoganare “libri difficili” anche in contesti diversi da quelli che ci saremmo aspettati. Detto questo, bisognerebbe distinguere ulteriormente tra critica letteraria e critica militante, individuando con precisione il mezzo attraverso cui si fa critica. I social network hanno mutato in maniera radicale l’approccio alla lettura: un influencer ha una funzione d’indirizzo che un critico non ha, perché è cambiato il rapporto tra luoghi d’informazione e luoghi di diffusione delle informazioni. Per quel che riguarda poi la costruzione (non parlerei di selezione) del canone, la questione è oltretutto diversa: penso che in questo caso la funzione della critica rimanga saldamente ancorata alla sua funzione originale, che è quella della discussione e della proposta. Ma la vera permanenza di un libro nel canone dipende sempre dalla sua capacità di veicolare messaggi universali (con tutte le fluttuazioni possibili in un determinato tempo storico). Federico Bertoni: In linea di principio sì, concordo. Ma mai come in questo caso il principio è il versante sterile
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