CAPITOLO II L’emigrazione italiana. Il dibattito politico e la fenomenologia sociale

2.1 Il dibattito politico dall’Unità alla prima guerra mondiale

Nel XIX secolo l’emigrazione temporanea non destava nessun proble- ma al mantenimento di sfruttamento del lavoro contadino. Era vista con preoccupazione l’emigrazione permanente verso la fine degli anni 60, espressione dell’opposizione popolare al nuovo governo a seguito del- l’introduzione di tre odiati provvedimenti: una nuova tassa sul macinato, la politica internazionale di libero scambio e il servizio di leva obbligato- rio. I primi ad avvertire la consistenza del fenomeno furono gli agrari per- ché l’esodo contadino minacciava il rapporto tra patti agrari e salari con evidente aumento degli ultimi, lievitando il costo della manodopera. Nella giovane classe dirigente dell’Italia unita emersero contraddizio- ni tra chi chiedeva al Governo un freno dell’emigrazione e chi era favo- revole alla liberalizzazione dell’esodo. I difensori dell’emigrazione consideravano il fenomeno per lo Stato e per la Nazione positivo quando determinato principalmente dal sover- chio crescere della popolazione, negativo quando l’emigrazione assume proporzioni di un esodo di massa con tutti caratteri di una vera e propria mania contagiosa, tale da costituire un pericolo più o meno grave per l’avvenire della nazione. Queste osservazioni espresse Vincenzo Grossi nel 1899 nella introduzione ad uno studio dal titolo “La politica dell’emi- grazione in Italia nell’ultimo trentennio 1868-1898” apparso sulla rivista Marittima e ristampato dalla tipografia del Senato.

37 Nell’ambito del dibattito ottocentesco, fu il settore agrario dei grandi proprietari di latifondi ad avere la meglio in Parlamento, infatti, proprio in gennaio 1868, uscì la circolare del Ministro dell’Interno Raffaele Cadorna che raccomandava ai prefetti di non lasciar partire per l’Ameri- ca e l’Algeria i lavoratori italiani che non dimostrassero di avere “occu- pazione ben assicurata e mezzi sufficienti di sussistenza”1. Egli infatti riteneva che gli uomini sotto padrone fossero protetti e appartenessero a una emigrazione coordinata che avrebbe riportato gli uomini in patria, rafforzando le risorse nazionali anziché esaurirle (Atti della Giunta Parlamentare per l’inchiesta agraria, cit. vol. I pag.III). Paolo Mantegazza futuro deputato del Regno nonché eminente scien- ziato che di lì a poco sarebbe diventato uno dei massimi rappresentanti dell’antropologia positivista ed evoluzionista d’Italia, se non d’Europa, fornisce uno dei primi contributi sull’emigrazione in ambito socio-antro- pologico, contenuti nel volume del 1867 “Rio de la Plata e Tenerife. Viaggi e studi”: per Mantegazza l’emigrazione deve essere considerata positiva in quanto essa rappresenta un meccanismo di autoregolazione delle società, una valvola di sfogo che consente di espellere l’esubero della popolazione. “In quel paese - scrive Mantegazza a proposito dell’emigrazione ita- liana diretta in Argentina - vi è un grande avvenire per tutti quelli che fra noi nacquero nei bassi fondi della povertà o che nel mezzo della vita furono schiantati da una bufera economica o morale. Il cambiar clima guarisce molti mali, così come l’emigrazione purga e guarisce molte nazioni”2. Secondo Mantegazza l’emigrazione espleta una funzione vitale per la sopravvivenza e il benessere di una nazione in quanto consente di espel- lere la popolazione più turbolenta “Povero quel paese – ribadisce – che non abbia una terra lontana e quasi sua, dove possano trapiantarsi i vio- lenti e gli impazienti; dove possano errare le comete della società civile; dove possano guarirvi gli ammalati nel sangue o nel cervello. Quando l’emigrazione non è fuga, né vendetta sociale, né fame, è un divellente che mantien vigoroso ed agile l’organismo delle nazioni”.

1 E. Sori, L’Emigrazione…, cit., pag. 73. 2 P. Mantegazza, Rio de la Plata e Tenerife. Viaggi e studi, Brigola, Milano 1867, pag. 11.

38 L’approccio di Mantegazza si può definire nazional-funzionali- sta ed è l’espressione di una tendenza generale di carattere politico. L’emigrazione è valutata positivamente, quindi legittimata, in quanto essa assicura la fuoriuscita di elementi patogeni che potrebbero compro- mettere l’indennità dell’organismo. L’emigrazione, dice Mantegazza, è “purga” per le nazioni. Due anni dopo la pubblicazione del volume in argomento, dopo che allo stesso Mantegazza veniva conferito il massimo riconoscimento accademico: la prima cattedra di Antropologia in Italia, l’Ufficio della Direzione della Statistica Generali maturava il bisogno, in seguito alla rilevanza che aveva assunto il fenomeno, di dare vita alle prime rileva- zioni sui flussi migratori. Dalle elaborazioni compiute da Leone Carpi nell’anno 1869, risulta- no 119.806 emigranti italiani che lasciano la Patria per i paesi europei o extra europei, che diventeranno 122.479 nel 1871 e 151.781 nel 18733. E sono proprio i dati del 1873 a turbare il mondo politico che senza esi- tazione diede avvio ad una serie di azioni con le quali intendeva vietare, bloccare l’emigrazione. Era la prima volta che la questione dell’emigrazione entrava nelle aule del Parlamento, accendendo il dibattito tra chi era contrario agli espatri e favorevole a risolvere il problema attraverso una politica meramente poliziesca e repressiva e chi criticava il Governo accusandolo di non far niente da un punto di vista pratico. Lo stesso presidente del Consiglio Luigi Menabrea affermava che il Governo non poteva “impedire che i cittadini italiani emigrassero all’estero”, invitando proprietari terrieri e industriali a “dare alla gente del popolo una condizione conveniente, (…) che quella povera gente e coi mezzi di trasporto resi così facili, e colle promesse dalle quali sono allettati, si decidesse di emigrare”4.

3 Questi dati sono tratti da MAIC (Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio), Direzione della statistica della emigrazione italiana all’estero nel 1881 confrontata con quella degli anni precedenti, Roma 1882, pag. V. 4 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata del 30 gennaio 1868, in Ciuffoletti, Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia…, cit.,vol.I pagg.7-13.

39 Ma, poiché l’emigrazione continuava incessantemente a crescere, si giunse, il 18 luglio 1873, all’emissione della circolare Lanza ai prefetti, con la quale si invitavano le autorità di governo nelle province ad impe- dire l’emigrazione clandestina e a frenare con ogni mezzo quella lecita e spontanea. Il documento negava il nulla osta all’espatrio ai giovani che ancora dovevano prestare il servizio militare, ai militari senza congedo assoluto, agli inabili e soprattutto a chi era sfornito di mezzi vale a dire di capitali, colpendo direttamente chi emigrava, perché, appunto, non aveva capitali, favorendo così l’usura e l’espatrio clandestino. Era infine richiesto ai prefetti di pubblicare sui giornali articoli relativi alla cattiva sorte degli emigrati italiani nel tentativo di “(…) distogliere dall’emigra- zione i cittadini (…)”5. Il divieto di natura legislativa traeva vigore e trovava legittimazio- ne proprio sul fronte delle teorizzazioni scientifiche. Se nelle aule del Parlamento si discuteva esclusivamente di come bloccare l’emigrazione, nelle aule universitarie gli studiosi aprivano il dibattito su temi legati ai possibili effetti positivi, solo raramente di carattere economico (legati agli scambi commerciali con i paesi di destinazione) e molto più spes- so di carattere sociale (allontanamento di masse “turbolenti”). Le teo- rizzazioni degli studiosi contenevano elementi di valutazione negativa dell’emigrazione che giustificavano le decisioni politiche e che andava ben aldilà del presunto “spopolamento della nazione”, addotto dai parla- mentari. È evidente che tra il mondo politico e quello accademico si venne a creare una frattura, che fu tuttavia più apparente che reale; una sorta di “frattura relativa” che nascondeva una scienza asservita ad un potere. Il primo studio organico e sistematico sull’emigrazione fu condotto dall’ex deputato prof. Carpi che, nel 1874, diede alla stampa in 4 volumi, per un totale di 2.500 pagine, il suo lavoro dal titolo Delle colonie e dell’Emi- grazione d’Italiani all’Estero sotto l’aspetto dell’Industria, Commercio, Agricoltura e con Trattazioni d’Importanti Questioni sociali, vincitore del concorso promosso nel 1871 dalla Società di Economia Politica, di concerto con il Ministero dell’Istruzione Pubblica, dal titolo “Delle colo- nie moderne d’Italiani all’Estero nei loro rapporti con la Madre-Patria e

5 Idem, vol I, pagg. 30-31.

40 dell’Economia comparata civile e sociale – politica in vista dell’incre- mento degli interessi italiani”. Carpi ribadisce gli aspetti positivi di carattere sociale relativi all’espul- sione della “numerosa caterva di malviventi e degli spostati, tormento e flagello di ogni consorzio civile” come già asserito da Mantegazza e si sofferma su quelli negativi che in seguito diventeranno l’emblema delle rivendicazioni e restrizioni volute dai proprietari terrieri, confluiti poi nei programmi legislativi della Destra Storica. Scrive Carpi: “potrà a buon diritto ritenersi assolutamente dannosa (l’emigrazione), quando fa deserti i nostri contadi e le nostre ricche pia- nure”. Nelle aule universitarie, come in quelle del Parlamento, circolava la paura dell’abbandono delle campagne da parte dei contadini e l’angoscia della lievitazione dei salari causati dalla carenza di manodopera. Era necessario mascherare tale paura e per bloccare l’emigrazio- ne bisognava elaborare una concezione teorica che desse fondamenta all’azione politica e che delegittimasse le ragioni addotte da che difende- va l’emigrazione. Gli economisti contrari all’emigrazione si erano fatti carico di abbat- tere la concezione secondo la quale l’emigrazione fosse causata dalle condizioni di miseria e di povertà e che trovasse ragione d’essere e di persistere nelle deplorevoli condizioni che connotavano la vita delle campagne. Gli economisti, allora, negarono che la causa dell’emigrazione fosse la povertà ed elaborarono una teoria che si basava sul concetto che l’emi- grazione fosse causata da fattori fittizi: “[….] i bisogni fittizi provengono da un certo spirito d’avventura che prevale all’amore della famiglia e della patria, dal desiderio di tentare la fortuna, dall’allettamento d’un salario maggiore guadagnato talvolta con minore fatica”. É evidente che l’emigrazione spinta da bisogni reali è vantaggiosa al paese, quanto è pericolosa quella che si lascia trascinare da bisogni fitti- zi”6. Secondo gli economisti tra i 200.000 individui che lasciavano l’Italia durante la grande depressione del periodo 1873-1896, bisognava distin-

6 A. Caccianiga, L’Emigrazione, in “Italia agricola”, anno III, n. 9, 1872, pag. 21.

41 guere quelli intrepidi e incoscienti che erano spinti unicamente dall’idea di un salario maggiore ottenuto con minore fatica. La concettualizzazione dei bisogni fittizi, quale causa dell’emigrazio- ne, si rese funzionale non solo alla lotta all’emigrazione ma anche alla propaganda post-risorgimentale, tesa a negare l’esistenza della povertà. Questa linea di lotta trova forti consensi sia nella Destra Storia che nella Sinistra Riformista, che addebitava la causa dei cospicui flussi emigra- tori ai “sermoni” proclamati nelle contrade dagli agenti delle compagnie di navigazione che prospettavano alle classi meno colte il miraggio del- l’altrove e non le reali condizioni di disagio in cui la popolazione era costretta a vivere. Il 10 marzo 1886 lo schieramento politico che aveva guidato i primi 15 anni di monarchia perse le elezioni. Il nuovo leader, Agostino Depretis, non seppe ben interpretare il fenomeno dell’emigrazione: lo sottovalutò presentando un progetto che, abolendo la precedente circo- lare Lanza, prevedeva l’introduzione, il 20 settembre dello stesso anno, di una nuova circolare che si limitava ad invitare i prefetti a scoraggiare l’emigrazione alimentata da agenti senza scrupoli. Il progetto si propone- va di regolamentare l’operato delle agenzie di navigazioni e introduceva la possibilità per il Governo di vietare l’emigrazione in determinati paesi. Grossi, nel lavoro sulle politiche dell’emigrazione scrive: “si assog- gettavano gli agenti d’emigrazione all’obbligo di ottenere dal Ministero dell’Interno la licenza di esercizio e di depositare una cauzione; si riser- vava al Governo la facoltà di proibire agli agenti di emigrazione la spe- dizione di emigranti per determinati paesi; si sanciva la pena del carcere da un mese a un anno, e della multa sino a £. 5000 a carico degli agenti non provvisti di licenza nonché a quelli che dessero agli emigranti noti- zie false e inesatte”.7 La crisi politica che condusse la sinistra al potere impedì che il pro- getto di legge, presentato il 10 marzo 1876 dal Governo di Destra, con il quale si conferiva al Governo la possibilità di vietare l’emigrazione venisse discusso in Parlamento. Due anni più tardi, nel 1878, Luigi Luzzati e , esponenti della Destra Storica, presentarono

7 V. Grossi, La politica dell’emigrazione in Italia nell’ultimo trentennio 1868-1898, Forzani, Roma 1899, pag. 9.

42 nel dibattito politico un progetto di legge sull’emigrazione più moderno e liberale, nel tentativo di porre fine a ciò che essi definivano la “politica migratoria meramente poliziesca”, proponendo di sottrarre il controllo dell’emigrazione al Ministero dell’Interno e di passarlo a quello del- l’Agricoltura. Ancora una volta, la reazione del settore agrario fu imme- diata e compatta rendendo vano il tentativo dei due liberali. Cinque anni dopo, nel 1883, l’emigrazione non aveva ancora una sua legislazione ufficiale, se non una legge di pubblica sicurezza del 1865 che “lasciava completamente all’arbitrio del Ministero dell’Interno emanare disposizioni secondo le circostanze e sottoforma di ordinanze alle autorità locali di polizia”8. Fu di nuovo Agostino Depretis, nel corso del suo quarto Ministero, ad emanare il 6 gennaio 1883 una nuova circo- lare che, con l’intenzione di tutelare l’emigrazione, cercava, invece, di contrastarla imponendo una tassa sui passaporti.9 Di idee diametralmente opposte era il deputato che considerava l’emigrazione un potente strumento di colonizzazione, asserendo che era indispensabile una “preziosa valvola di sicurezza” per chi restava e impedire le minacce di disordini di ogni specie”10. Nel corso degli anni ‘80 l’Italia affrontava la crisi agraria, scoppiaro- no le prime agitazioni agrarie e anche l’abolizione della tassa sul macina- to non riusciva a risolvere il problema della disoccupazione. Fu in simili circostanze che si iniziò ad esaminare il fenomeno dell’emigrazione da un’altra angolatura: stava sempre più perdendo l’etichetta di “problema” per diventare invece la “soluzione”. Il dibattito sull’emigrazione si allargò fino a saldarsi in modo organico con quello delle colonie, divenendo un aspetto della questione coloniale. I colonialisti convinti proponevano conquiste nella vicina Africa cer- cando di coniugare esodo e colonizzazione per “[….] avere anche noi il nostro posto al sole [….], ed evitare che la nostra emigrazione si disper- da “sulla faccia del globo”.11

8 Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia…, cit., vol. I, pag. 7. 9 Idem, vol. I, pagg. 110-111. 10Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Interrogazione di Sidney Sonni-no sulla circolare del 6 gennaio 1883; tornata del 7 maggio 1883, vol. I, pagg. 115-125. 11 Idem, vol. I, pagg. 126-127.

43 Nel 1887 muore Agostino Depetris e gli succede come primo ministro che, presentando il suo disegno di legge sull’emigra- zione, tendeva a colpire le avide agenzie d’emigrazione e, sorvegliando il flusso di manodopera dalle singole zona di produzione agricola, dava al tempo stesso alle compagnie di navigazione la possibilità di ottenere le necessarie patenti. Tendeva alla protezione dell’emigrante regolando l’indispensabile, vigilando –così credeva Crispi – sulla libertà di emigra- re.12 Tra gli obiettivi di Crispi vi era, infatti, anche quello di dar vita a un circuito commerciale tra le colonie americane e il nostro settore produt- tivo, trasformando l’emigrazione da elemento di debolezza a un fattore di potenza. A tal fine, promosse un’inchiesta attraverso circolari invia- te ai consoli dei paesi latino–americani con le quali si richiedeva una panoramica delle condizioni di vita dei nostri concittadini, l’importanza dell’aspetto coloniale, l’occupazione dei nostri emigrati, i salari e tutto quanto potesse essere utile per un miglioramento. Nel paese, intanto, l’esodo continuava a crescere, ma in primo piano c’era ancora l’avventura Africana, nonostante l’eccidio di 500 conna- zionali a Dogali nel gennaio del 1887. Ma due anni più tardi, il sogno africano si interruppe o fu sospeso nel 1896 con la coincidente sconfitta di Adua e il riconoscimento della piena sovranità etiopica e le contestuali dimissioni di Crispi. Si riaprirono, allora, le mire ad una espansione com- merciale pacifica nelle “colonie libere dell’Argentina e del Brasile”13, rispolverando la vecchia tesi liberista. Erano tutti d’accordo, persino alcuni settori agrari e l’industria coto- niera, che l’Italia potesse e dovesse esportare la cosa che più aveva in quantità per anni: la manodopera. Mentre negli anni precedenti il dibat- tito politico-parlamentare e quello accademico-scientifico si concentra- vano sui presunti contraccolpi negativi di carattere demografico conna- turati all’emigrazione, ora era diretto verso l’individuazione degli effetti negativi in ambito sociale, familiare, politico. Gli economisti accusavano l’emigrazione del crollo delle fondamenta del mondo contadino e della

12 Z. Ciuffoletti – M. Degl’Innocenti, L’Emigrazione nella storia d’Italia…, cit., vol. I, pag. 154. 13 Z. Ciuffoletti – M. Degl’Innocenti, L’Emigrazione nella storia d’Italia…, cit., vol. I, pag. 306.

44 civiltà agro-pastorale e con essi il mito del paradiso bucolico. Infatti, l’abbandono delle campagne, agli occhi degli economisti, assumeva il significato di vera e propria rottura del sistema culturale; l’emigrazione, dunque, doveva essere combattuta perché comprometteva la struttura sociale, gli equilibri secolari, i sistemi ideologici e i rapporti economici esistenti. Contemporaneamente al dibattito accademico sugli effetti che l’emigrazione avrebbe determinato, gli studiosi erano impegnati nella individuazione delle cause. A tal proposito Ottolenghi, nel saggio L’emigrazione agricola italiana dal 1884 al 1892, elabora un modello causale multifattoriale in cui “lo spirito d’avventura” si contrappone alla mancanza di lavoro, alle ingenti tasse e alla povertà. Queste ragioni di carattere ideologico circa gli effetti negativi dell’emigrazione in ambito sociale e culturale furono tradotti in programmi legislativi repressivi, secondo un disegno di lotta organica all’emigrazione condotto dalla Destra come dalla Sinistra. In questo scenario si colloca l’intervento e il contributo di Giustino Fortunato nell’“Emigrazione e le classi dirigenti” pubblicato nel 1879, che si pone a difesa dell’emigrazione le cui tesi confluiranno poi svilup- pate nell’opera di Nitti. “L’on. Antonibon deplora il morbo morale del- l’emigrazione – scrive Fortunato – ma non risulta chiaro dal suo discor- so quali siano gli elementi che determinano in essa il carattere morbo- so”. Secondo Fortunato l’abbandono delle campagne, la perdita di forza lavoro e di capitale, la rottura dei patti colonici, l’introduzione nelle cam- pagne dell’insubordinazione e della svogliatezza di cui si lamenta l’on. Antonibon, nascondono le vere ragioni poste in antitesi all’emigrazione: la conservazione degli interessi di classe e la paura dei proprietari terrieri della rottura degli equilibri di sfruttamento medioevale. Per Fortunato la causa dell’emigrazione è la povertà, le condizioni di estrema miseria in cui si trovano relegati i contadini, tratti in inganno dall’operato degli agenti di navigazione. “L’emigrazione, scrive ancora Fortunato, dovrà impedirsi se si tratta dell’interesse dei proprietari; se di quello dei contadini, dovrà essere diretta e aiutata”. Questa analisi spinge Fortunato a ritenere che l’intervento dello Stato debba essere di guida, di sostegno e di orientamento. L’emigrazione andava difesa perché era in grado di produrre effetti positivi per la nazio- ne e per la popolazione che restava.

45 La condizione dei contadini che non partivano era destinata a miglio- rare a causa degli aumenti dei salari determinati dalla carenza di mano- dopera e dalla minore concorrenza. Quanto allo Stato, gli effetti positivi andavano individuati nelle ingenti rimesse economiche e nelle relazioni commerciali che si sarebbero instaurati con i paesi di destinazione. Le idee di Fortunato si arricchiranno in maniera più intensa ed organi- ca nel pensiero di Nitti estremamente in continua evoluzione. Il primo contributo è del 1888, nel libro dedicato a Fortunato: L’emigrazione italiana e i suoi avversari, nel quale Nitti si pone come difensore dell’emigrazione, in quanto tutti gli effetti negativi attribuiti all’emigrazione non trovavano alcun riscontro nella realtà e demoliva le istanze demografiche secondo le quali l’emigrazione avrebbe prodotto lo spopolamento del territorio e quelle economiche circa l’abbandono e la svalutazione dei terreni e quelle pseudo-umanitarie circa le cattive condi- zioni degli emigranti all’estero. Secondo Nitti la lotta politica compiuta contro l’emigrazione va ascritta agli interessi dei proprietari terrieri. Nitti cercò di tranquillizzare i gruppi agrari sul fatto che, in Italia, non ci sarebbero stati spopolamenti traumatici a causa dell’emigrazione, perché la nostra densità, pari a 104 abitanti per kmq, era superata in Europa solo da Olanda, Belgio e Gran Bretagna.14 Secondo Nitti, l’emigrazione è una risposta data dai contadini dise- redati, una risposta spontanea provocata dal persistere di condizioni di carattere feudale. Dalla metà degli anni ’90 l’emigrazione aumentò considerevolmente i suoi ritmi, sia per le sconfitte militari che per l’estendersi della crisi agra- ria e la repressione dei fasci nel meridione. Parallelamente aumentarono agenti, subagenti, usurai, locandieri, facchini, vetturini, cambiavalute e tutti quanti potessero in qualche modo arricchirsi a danno degli emigran- ti. Nel dibattito politico un ulteriore passo andava fatto per completare e riformare il fenomeno. Una nuova legge comparve sulla scena sociale nel 1901 sotto il Ministero di . Molto più lunga della precedente,

14 E. Sori, L’emigrazione italiana…, cit., pagg. 74-75.

46 rimase in parte inapplicata. Prevedeva la costituzione di comitati nei comuni di emigrazione per scortare gli emigranti ai porti d’imbarco proteggendoli dalle frodi, un ispettore medico a bordo delle navi, un ufficio di protezione e collocamento all’arrivo, l’assistenza eventuale di ambasciatori e consoli: in più fu delegato il Banco di Napoli per la trasmissione delle rimesse. Il tutto doveva essere garantito dal Fondo Emigrazione, finanziato attraverso la tassa di 8 lire per ogni biglietto venduto e dai proventi delle multe ai vettori. L’obiettivo dello Stato, come puntualizza Ercole Sori, “era quello di non spendere neppure un lira per l’emigrante che non provenisse dalle tasche dell’emigrante stes- so: la grande emigrazione italiana doveva essere un’operazione di tutto guadagno per lo Stato e le classi dirigenti italiane.15 La legge rimase, tuttavia, per lo più sulla carta, fuorché per la presen- za di un medico a bordo e per ciò che più interessava alla classe dirigen- te: la tutela delle rimesse, parte delle quali dal Banco di Napoli finiva nelle classi dell’Erario. L’emigrazione era ormai un fenomeno naturale, voluto e tristemente accettato da tutti. All’inizio del secolo, nell’età giolittiana, l’emigrazio- ne di massa, grazie alle rimesse, divenne uno dei fattori più rilevanti della nostra rivoluzione industriale. Tra il 1896 e il 1912 le rimesse tri- plicarono le riserve auree e nella bilancia dei pagamenti si bilanciarono con il deficit commerciale. La lira, infine, realizzò un apprezzamento nel cambio con le altre valute garantendo all’industria la possibilità di far fronte alla richiesta di materie prime. Una nota, però, doveva far riflettere agli inizi del 1907: quella del Deputato Francesco Nitti, che negli anni 80 era stato un fervente emi- grazionista; quest’ultimo attenuò gli entusiasmi del “miracolo economi- co”, riflettendo “[…] se di fronte a questo fenomeno dell’emigrazione, che tante volte ci ha riempiti di orgogliosa ammirazione, non dobbiamo piuttosto dubitare che esso sia piuttosto motivo di tristezza e di debolez- za.”16 Era, infatti, abbastanza inspiegabile come ci potesse essere la massi- ma emigrazione nel periodo di massima crescita economica.

15 Idem, pag. 270. 16 Idem, pag. 40.

47 2.2 Le conseguenze sociali in Italia

L’analisi del fenomeno migratorio deve, a questo punto, proseguire attraverso la valutazione delle conseguenze, che tale fenomeno ha com- portato nelle zone di esodo17. L’emigrazione scaturì non solo dal desiderio delle classi subalterne di una migliore prospettiva salariale. L’arrivo di somme di danaro spedite o portate da un emigrato orientò il contadino analfabeta verso il sogno di guadagni più facili e abbondanti. Questo desiderio si concretizzò con l’arrivo delle “rimesse”: quella parte del salario e dei guadagni ricavati da attività imprenditoriali all’estero e destinati al sostentamento dei fami- liari rimasti in Italia, oppure di piccole somme inviate a lontani parenti o amici che si trovavano in condizioni economiche disagiate. Infatti un anno di lavoro fruttava 1000-1500 lire al netto dei costi del cambio valu- ta, somma maggiore negli Stati Uniti che negli stati dell’Europa Centrale. Questo spiega il flusso emigratorio maggiore verso gli Stati Uniti che superò quello diretto verso il Sud America, la cui economia presentava una esasperante instabilità dei cambi ed esosità delle pratiche valutarie. Tra le rimesse vi erano le pensioni maturate per il lavoro compiuto all’estero e che l’emigrato riscuoteva in patria al ritorno, con esclusione dei trasferimenti di beni di consumo, in particolare oggetti preziosi18. Le ingenti somme che gli emigrati inviarono in Italia non segui- rono un percorso controllabile e si dispersero in molti “rivoli d’oro”. Nonostante queste difficoltà, la necessità di conoscere l’ammontare delle rimesse indusse economisti e storici italiani e stranieri a compiere stime approssimative. L’andamento del flusso delle rimesse fu influenzato da molti elementi, tra cui: la consistenza del movimento degli emigrati, le sue caratteristiche (sesso, età, professione, etc.), i legami affettivi con i

17 A. M. Birindelli, G. Gesano, E. Sonnino, “Lo spopolamento in Italia nel quadro dell’evoluzione migratoria e demografica 1871-1897”, in F. Balletta (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Centro studi emigrazione, Roma 1978, pag. 190. 18 F. Balletta, Emigrazione italiana, cicli economici e rimesse 1876-1976, in F. Balletta (a cura di), Un secolo di…, cit., pag. 65.

48 parenti e gli amici rimasti in patria, l’entità dei guadagni realizzati, la propensione al risparmio, la congiuntura economica mondiale e infine il cambio delle monete estere con la lira italiana. Per l’esame della congiuntura economica mondiale ci serviremo dei cicli, nel lungo periodo, studiati da N.D. Kondrat’ev e di quelli, nel breve periodo, di C. Juglar. I primi comprendono “onde” successive della durata approssimativa di cinquant’anni e i secondi della durata media di otto anni. I cicli furono costruiti in base ai prezzi alla produzione e ai consumi dei più impor- tanti paesi a economia capitalistica (Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania), cioè gli stessi paesi che accolsero il maggior numero degli emigrati italiani e da dove partì il flusso delle rimesse19. Nel periodo che stiamo prendendo in considerazione si possono indi- viduare due cicli di Kondrat’ev: il primo che va dal 1849 al 1896 e il secondo che dal 1897 si ferma alla vigilia della seconda guerra mondiale. Il numero degli emigrati aumentò, in media, da 109.000 unità nel quin- quennio 1876-1880 a 856.000 unità nel 1891-1895. L’ammontare medio delle rimesse, negli stessi anni, crebbe, in valore costante, da 583 a 1.554 milioni di lire. Non vi fu concordanza tra le fluttuazioni, cioè la produzio- ne e i prezzi diminuirono e l’emigrazione e le rimesse aumentarono. Tale divergenza può essere attribuita a svariate cause: alla crescita degli espatri, alla crisi agricola dopo il 1880 causata dalla concorrenza dei prodotti importati dal nuovo continente, all’attrazione esercitata dalle ricchezze dei nuovi continenti, al miglioramento e al minor costo dei mezzi di trasporto e, infine, alla propaganda degli agenti delle compagnie di navigazione che erano interessati ad aumentare il numero degli espa- tri senza tenere in considerazione le condizioni economiche dei paesi di destinazione. Durante il ventennio 1876-1896 l’emigrazione e le rimesse non subi- rono l’influenza della congiuntura economica dei paesi d’immigrazione20. Dal 1896 al 1940 si ebbe un nuovo ciclo Kondrat’ev costituito da un periodo di espansione fino al 1920 e da una depressione nel periodo suc- cessivo. Il periodo di espansione fu caratterizzato dalla seconda rivolu-

19 Idem, pag. 66. 20 Idem, pag. 78.

49 zione industriale in Europa, dalla straordinaria crescita della produzione agricola e manifatturiera negli Stati Uniti, in Canada e in Brasile, e dalla intensificazione degli scambi commerciali e finanziari in tutto il mondo. Nel ventennio successivo, l’economia dei paesi occidentali attraversò una grave depressione caratterizzata dalla riduzione degli investimenti industriali, dal rallentamento degli scambi internazionali e, di conseguen- za, dalla discesa dei prezzi e della produzione. Gli emigranti aumentarono, in media, da 310.000 nel quinquennio 1896-1900 a 614.000 nel 1920, per poi scendere nel quinquennio suc- cessivo alla metà e precipitare a meno di 50.000 nel 1936-40. Parallelo fu l’andamento delle rimesse spedite in Italia, che crebbero in media fino a 4 miliardi nell’ultimo quinquennio prebellico per poi scendere a 700 milioni nel quinquennio 1936-40.21 Quindi le fluttuazioni dell’emigrazio- ne e delle rimesse concordavano esattamente con all’andamento del ciclo economico. L’andamento delle fluttuazioni dei cicli Kondrat’ev sia nella fase di sviluppo che in quella di depressione si mosse “a singhiozzo”, poiché costellato da momenti di stasi e di ripresa economica: gli anni di crisi si collocano come punti di inversione di tendenza di una serie di onde suc- cessive. Tali fluttuazioni, studiate da Juglar, si manifestarono nel breve periodo, compreso tra sei e dieci anni. Quindi, per analizzare meglio le cause delle fluttuazioni delle rimesse, confronteremo questi cicli con le variazioni del numero degli emigranti e col risparmio inviato in Italia. È opportuno sottolineare che le fluttuazioni dei cicli di ciascun paese, nel lungo periodo, furono quasi sempre parallele, mentre nel caso del breve periodo si manifestarono spesso discordanze dovute al movimento opposto dei cicli delle singole nazioni, oppure alla diversa intensità con cui si manifestarono le fasi di depressione e di ripresa. Nel periodo che stiamo studiando possiamo individuare 4 cicli Juglar, cioè 1876-1885, 1886-1896, 1897-1908, 1909-1922.22 Il primo ciclo comprende una fase di crescita dell’economia, che va dal 1876 al 1882, seguita da tre anni di depressione. Durante la prima

21 ISTAT, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1965, Roma 1968, pag. 30. 22 F. Balletta, “Emigrazione italiana, cicli economici e rimesse 1876-1976”, in F. Balletta (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana…,cit., pagg. 71-73.

50 fase lievitarono i prezzi e la produzione in quasi tutti i paesi europei e negli Stati Uniti. Il periodo di depressione dell’economia, invece, fu dovuto a una crisi di sovrapproduzione, per il rallentamento delle costruzioni ferroviarie. Il flusso degli emigranti e quello delle rimesse non coincisero con l’andamento del ciclo. Nel biennio 1877-78, rispetto all’anno precedente, si registrò un calo dei due flussi. Le cause furono però indipendenti dalla congiuntura economica mondiale. Il governo italiano aveva subordinato il rilascio del passaporto per l’espatrio alla disponibilità di mezzi finanziari necessari al viaggio ed ai bisogni della vita prima di trovare lavoro all’estero. Tale provvedimento fu considera- to come un freno al numero degli espatri, così anche le rimesse diminui- rono. Il secondo ciclo Juglar comprende il decennio 1886-1896, con punto d’inversione nel 1890. Il periodo di espansione fu caratterizzato, negli Stati Uniti, dalla concentrazione delle grandi imprese industriali e finan- ziarie ed in Europa, dall’intensificazione del commercio internazionale e da nuovi investimenti all’estero. Nel 1890 una crisi colpì l’economia europea per i cattivi raccolti agricoli, per la concorrenza nel commercio internazionale e per le difficoltà in cui si trovava il mercato finanziario di Londra. Negli anni successivi la crisi fu aggravata dalla politica pro- tezionista attuata dal governo statunitense, dall’inflazione monetaria e dalle alte tariffe praticate dalle compagnie ferroviarie. La crisi colpì, in particolare, le industrie metallurgiche e delle costruzioni ferroviarie, per cui si diffuse la disoccupazione e il disagio degli operai. Il flusso degli espatri risentì immediatamente di questa depressione, mentre quello delle rimesse diminuì qualche anno più tardi. Nel 1896 la crisi si era risolta e l’anno successivo, grazie all’aumento della produzione di oro, i prezzi cominciarono a crescere. Durante la fase ascendente del nuovo ciclo (1897-1908), aumentarono gli investimenti nelle industrie chimiche, cantieristiche e automobilisti- che. Prima di raggiungere il punto di inversione, la fase ascendente del ciclo fu rallentata da due recessioni minori, nel 1900 e nel 1903, che interessarono in particolare gli Stati Uniti. È invece nel 1907 che una crisi più grave colpì l’economia mondiale e causò l’inversione del ciclo. Essa scoppiò negli Stati Uniti e fu dovuta alla politica del credito facile, che provocò una sovrapproduzione nel settore industriale e il fallimento di alcune banche.

51 La depressione continuò nel 1908 e si propagò in Europa dove scon- volse il mercato finanziario; gli emigrati e le rimesse risentirono sensi- bilmente dell’andamento del ciclo economico mondiale. I due flussi ral- lentarono l’ascesa per la recessione minore del 1900 e anche per quella successiva del 1903, ma la crisi del 1908 fu quella che più sensibilmente colpì l’emigrazione e le rimesse che continuarono a diminuire anche nel 1909.23 Il quarto ciclo va dal 1909 al 1921, con il punto d’inversione nell’anno di inizio della prima guerra mondiale. Superata la depressione del 1908, l’economia mondiale registrò un nuovo slancio, aumentarono gli investi- menti nelle industrie siderurgiche e metallurgiche, crebbe l’importanza del settore automobilistico e chimico e aumentarono gli scambi interna- zionali. Nel 1913 l’evoluzione si fermò bruscamente e fin dal primo anno di guerra l’economia fu sconvolta. Le fluttuazioni dell’emigrazione e delle rimesse furono quasi parallele a quelle del ciclo economico: infatti si ebbe una sensibile crescita dal 1909 al 1913 e un calo nel periodo bel- lico. L’unica divergenza dal ciclo si ebbe nel 1911 quando diminuirono gli espatri e di conseguenza anche le rimesse. Le cause di questa diminu- zione furono essenzialmente tre: la guerra italo-turca, che richiamò alle armi molti italiani in età da lavoro, una piccola recessione che colpì gli Stati Uniti e una vertenza sorta tra il governo italiano e quello argentino sul controllo sanitario degli emigranti. Prima di trarre le conclusioni sul rapporto fra congiuntura economica e fluttuazione delle rimesse, è necessario esaminare l’influenza dell’emi- grazione sul flusso valutario. Confrontando le statistiche degli espatri con quelle delle rimesse, si può notare che le fluttuazioni, nel lungo periodo, ebbero un movimento quasi parallelo; infatti si può dedurre una diretta dipendenza delle variazioni delle rimesse dall’andamento del flusso degli espatri. Anche per quanto riguarda il breve periodo si ebbe, quasi sem- pre, una corrispondenza tra i due flussi. Le divergenze invece furono di due tipi: da una parte la riduzione delle rimesse si verificò con un anno di ritardo su quella dell’emigrazio- ne, dall’altra parte ad una variazione in senso positivo o negativo di un flusso non corrispose una variazione dello stesso segno dell’altro flusso.

23 Idem, pagg. 75-76.

52 Le divergenze del primo tipo non possono considerarsi rilevanti poi- ché, in effetti, si verificò solo un ritardo dell’influenza dell’emigrazione sulle rimesse. Al contrario, sono degne di rilievo le divergenze del secon- do tipo. Esse si verificarono quando sull’invio del denaro influirono le variazioni del cambio delle monete dei paesi di immigrazione con la lira italiana. In conclusione, le oscillazioni dei cambi invertirono il flusso delle rimesse rispetto all’andamento dell’emigrazione; pertanto, è possi- bile sostenere che, per l’80%, i due flussi ebbero un andamento parallelo; cioè, quasi sempre, l’andamento dell’ammontare delle rimesse dipese dal numero degli espatri. Anche quando si verificarono divergenze nel movimento delle due fluttuazioni, anche altri elementi influirono sugli espatri e sull’invio delle rimesse, contribuendo, però, solo ad accentuare o a rallentare le variazio- ni senza invertirne la tendenza.24 Il livello raggiunto dalle rimesse dall’estero in Italia è strettamente legato alla natura della nostra emigrazione proletaria, con scarsa parteci- pazione dei gruppi familiari, principalmente non definitiva e spesso lega- ta ad un’azienda agricola familiare in Italia non autosufficiente, per la quale il risparmio “esterno” era essenziale.25 Questo spiega l’eccezionale afflusso di rimesse quando, tra gli anni ’90 e la prima guerra mondiale, l’emigrazione italiana raggiungerà i suoi livelli massimi. Questo impo- nente volume attivo di rimesse aveva scarsissime contropartite negative nei conti economici dell’Italia. L’emigrazione transoceanica non alimentò i noli passivi, dato che la bandiera italiana riuscì a raggiungere una posizione di primo piano nel trasporto oceanico degli emigranti e che una quota rilevante delle spese di trasporto provenne dall’estero attraverso anticipi, sovvenzioni e, soprattutto, i noti “prepayed tickets” inviati in Italia da amici e parenti già espatriati. Inoltre, questa massiccia emigrazione costava ben poco al bilancio dello Stato in termini di strutture amministrative e assistenza: infatti, quel poco che si fece gravava quasi esclusivamente sul “Fondo emigrazione” che era alimentato da un prelievo sul costo del biglietto e quindi, praticamente, dagli emigranti stessi.26

24 Idem, pagg. 91-92. 25 E. SORI, L’Emigrazione italiana…, cit., pag. 119 26 Idem, pag. 120.

53 Le rimesse giocarono un ruolo strategico nella fase di decollo del- l’economia italiana e evitarono che l’economia venisse compressa dalla bilancia dei pagamenti. L’emigrazione si rese funzionale alla strategia di crescita e permise alle rimesse di contribuire a triplicare le riserve auree tra il 1896 e il 1912, a realizzare un notevole appezzamento del cambio della lira (che giungerà prima a fare aggio sull’oro e a mantenere poi il tasso di cambio stabile), infine ad ottenere una relativa abbondanza di risparmi, condizione questa favorevole all’avvio di una notevole esporta- zione di capitale italiano all’estero. Economisti come J. Virgilio e V. Ellena intravidero fin dagli anni ’70 i possibili vantaggi commerciali che si potevano associare ai primi con- sistenti movimenti di espatrio transoceanici e intravidero la possibilità di trasformare l’emigrazione da elemento passivo (espulsione di forze lavo- ro) a veicolo attivo di sviluppo. Per il commercio di importazione si delineava una sorta di compen- sazione dei noli sulle navi che all’andata trasportavano merce ricca (gli emigranti) e al ritorno merci più povere come pelli e lane. Per il commercio di esportazione bisogna prendere in considerazione alcune merci tipiche dell’esportazione italiana di quegli anni espressa dalle comunità italiane all’estero. Le merci sulle quali si poteva puntare erano essenzialmente le derrate alimentari quali agrumi, vini, olio, bevande alcoliche, paste alimentari, frutta e formaggi. Questi beni di consumo erano scarsamente elastici al reddito, esposti a una forte concorrenza ed a mercati incontrollabili a causa della loro deperibilità; infine, erano sempre in pericolo di essere sostituiti da produzioni locali, le cui tecniche produttive erano prodotte e sviluppate all’estero proprio dagli stessi emigrati italiani. Una sorte analoga a quella del tentativo di legare il commercio estero dell’Italia alla sua emigrazione toccò ai ricorrenti progetti di associare questa a una maggiore presenza italiana nella colonizzazione agricola all’estero. La storia della “più grande Italia” che avrebbe dovuto costituire una via intermedia tra l’espansionismo commerciale e il colonialismo politi- co si trasformò in un mare di parole che dovette fare i conti con la realtà economica nazionale e internazionale. L’emigrazione italiana aumentò la sua forza in una fase in cui il prez- zo di ingresso nell’agricoltura colonizzatrice si era enormemente innal- zato, sia per un più elevato livello tecnologico dell’azienda agricola della

54 frontiera, sia per un crescente accaparramento speculativo dei territori ancora relativamente liberi da insediamenti agricoli.27 L’analisi delle conseguenze sociali dell’emigrazione in Italia non può non tenere conto degli effetti demografici. La scomparsa del maschio adulto nei luoghi di maggiore emigrazione era la diretta conseguenza dell’estrema selettività con cui la domanda di lavoro internazionale lo aveva reclutato. In particolare, negli Stati Uniti gli ultra 45enni erano esplicitamente respinti soprattutto se non dimostravano di avere appoggi familiari all’estero. Dopo alcuni anni dall’inizio dell’emigrazione, cominciarono a pro- dursi rilevanti squilibri nella struttura demografica dei luoghi d’esodo; si trattava di squilibri nella proporzione tra i sessi, nella composizione per classi di età e nella struttura della famiglia.28 Ciò incise sensibilmente sulla posizione delle quote “marginali” delle forze lavoro rurali: donne, fanciulli, anziani. A questo proposito appare evidente un loro più ele- vato impiego nella piccola azienda familiare di proprietà, nella piccola industria, e anche nel settore bracciantile vero e proprio. In questa stessa direzione spingeva anche la progressiva “liberazione” della forza di lavo- ro femminile dall’impiego domestico, soprattutto per quanto riguarda la manifattura domestica rurale ormai praticamente decaduta. I sintomi di emancipazione femminile furono spesso abbastanza evi- denti; infatti le nascite illegittime nei luoghi di esodo erano in diminuzio- ne e per contro aumentò il numero di aborti e di infanticidi: la “corruzio- ne” della donna e l’emigrazione sembravano tra loro intrecciate. Spesso le ragazze madri lasciavano i propri figli presso una “balia” al paese, esponendoli a un elevatissimo tasso di mortalità infantile. Tuttavia, la diminuzione delle nascite illegittime e la crescita delle legittimazioni nelle aree di emigrazione poteva essere interpretata come un profondo moto di emancipazione economica, culturale e sociale. Quindi dall’emi- grazione non derivava soltanto disgregazione familiare ma in realtà si consentiva la nascita di una nuova morale al centro della quale è posta una famiglia più matura e maggiormente fondata su una base volontaria, anche se soggetta a forti pressioni esterne.

27 E. Sori, L’Emigrazione italiana …, cit., pagg. 127-134. 28 Idem, pag. 189.

55 Il bilancio dei costi e dei benefici sociali dell’emigrazione nei luoghi di esodo deve tenere conto di altri elementi essenziali. Le statistiche evi- denziano, nei periodi e nei luoghi di massima emigrazione, una riduzione dei delitti contro l’ordine pubblico e il patrimonio, una riduzione degli omicidi e un sempre minore “ribellismo”. La stasi emigratoria della seconda metà degli anni ’70, a cui seguo- no le cattive annate agrarie e la crisi agraria degli anni ’80, provocò un innalzamento degli indici di “delittuosità” e in particolare del furto cam- pestre. È proprio attraverso l’analisi di tali dati che ci si rende conto di come l’emigrazione permetteva di liberarsi di individui come pregiudica- ti, facinorosi e irrequieti. L’emigrazione aveva largamente influenzato anche i rapporti ideolo- gici e politico sociali. Infatti sembrava strettamente correlata con l’esodo una riduzione della presa ideologica del clero nelle campagne: cresce l’indifferenza religiosa o nasce un anticlericalismo popolare più maturo e meno rozzo di quello che non era altro che un sottoprodotto della vasta egemonia delle strutture ecclesiastiche e del pensiero religioso sulla socie- tà contadina tradizionale. Tra l’altro furono questi fenomeni a spingere la Chiesa a una più attiva presenza nell’emigrazione e tra i rimpatriati.29 Un altro aspetto che dobbiamo prendere in considerazione riguarda l’accelerazione provocata dall’emigrazione di massa sulla decadenza della piccola possidenza agraria non coltivatrice, in quanto grazie al denaro guadagnato all’estero i contadini potevano finalmente coronare il loro sogno di sempre: acquistare la terra su cui lavoravano. In realtà, però, la proprietà contadina che si formò rimase nella mag- gior parte dei casi caratterizzata da una ridottissima dimensione delle aziende e dalla enorme frammentazione dei diversi fondi che la costituiva- no, dalla persistenza delle tradizionali pratiche agrarie, con scarso impie- go di capitali fissi e con una quasi inesistente dotazione tecnologica30. Un moto sociale di tale portata, come la grande emigrazione, metteva, però, a nudo anche gli evidenti problemi che preoccupavano il paese.

29 Idem, pagg. 197-198. 30 G. Massullo, “Economia delle rimesse”, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Le Partenze, Donzelli, Roma 2001, pag. 179.

56 Uno di questi era il livello d’istruzione estremamente basso e i problemi di scolarizzazione e di politica scolastica post-unitari. Sul fatto che gli emigranti italiani fossero quasi esclusivamente analfabeti non vi erano dubbi e ciò dipendeva strettamente sia dalle caratteristiche interne delle regioni da cui la maggior parte degli emigranti veniva reclutato sia da una domanda di lavoro dequalificata e instabile. Il problema dell’analfabetismo assunse un ruolo di primo piano dopo il 1903, quando il movimento restrizionista statunitense introdusse uno strepitoso strumento di selezione dell’immigrazione, cioè il “Literacy test”. Proprio per far fronte a questo nuovo problema, in Italia si cercò di rafforzare l’istruzione di coloro che erano già all’estero o di coloro che aspiravano all’espatrio, istituendo scuole speciali nei luoghi di maggior emigrazione. Infatti dall’estero o da parte dei rimpatriati vengono fatte pressioni sulle famiglie perché facciano studiare i figli, e proprio negli anni della massima espansione dell’emigrazione si ottengono degli effet- tivi risultati e si registra un aumento del tasso di scolarizzazione, soprat- tutto nel Mezzogiorno. Non si può infatti non sottolineare la notevole differenza tra Nord e Sud: gli emigrati provenienti dalle regioni meridio- nali hanno, infatti, tassi di analfabetismo del 51-56%, contro il 12-14% di quelli provenienti dall’Italia settentrionale31. Gli osservatori del tempo definirono le rimesse come “una fantastica pioggia d’oro” distribuitasi in tutta la penisola, e dunque non ci resta che concludere con l’analisi degli effetti che l’immissione di una tale quanti- tà di denaro provocò nei circuiti finanziari italiani. Sicuramente, l’aumentata disponibilità al consumo contribuì ad un aumento della domanda globale di cui poté avvantaggiarsi l’industria set- tentrionale in termini di ampliamento del proprio mercato.32 Inoltre, effet- ti molto positivi furono esercitati, come abbiamo già accennato, anche sulla bilancia dei pagamenti. Infatti, la forte eccedenza delle importazioni sulle esportazioni fu coperta per il 61% proprio dalle rimesse. Le rimesse dall’emigrazione, gli introiti dal settore turistico e quelli dei noli della

31 E. Sori, L’Emigrazione italiana…, cit., pagg. 205-210. 32 G. Massullo, “Economia delle rimesse,” in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di) Storia dell’emigrazione italiana…,cit., pag.168.

57 marina mercantile determinarono, congiuntamente, addirittura un avanzo della bilancia dei pagamenti internazionali che consentì il rientro di una parte dei titoli pubblici sottoscritti all’estero, favorì la riconversione della rendita con la riduzione dell’interesse sul denaro ed esercitò un effetto positivo sui cambi con l’estero. In questo modo le rimesse divenivano un’originale forma di trasferimento di risorse dall’agricoltura all’indu- stria, realizzata mediante la collocazione sul mercato internazionale a prezzi certamente competitivi della “merce” di cui l’Italia sicuramente abbondava: la forza lavoro. Con i “soldi della Merica” i contadini pagarono per prima cosa i loro debiti e la ragione di tanta attenzione al pagamento dei debiti contratti, oltre, ovviamente, ai non trascurabili elementi di pressione nei confronti dei creditori tipici del fenomeno dell’usura, può essere individuata nella particolare forma di controllo sociale che veniva esercitata sul credito e nel ruolo che questo a sua volta svolgeva nella formazione e nella riela- borazione delle gerarchie sociali delle comunità di appartenenza, nella gestione non soltanto delle risorse economiche ma anche di un’altra risorsa fondamentale: il prestigio sociale. La mancata restituzione di una somma dovuta non implicava soltanto l’esclusione futura dai circuiti di credito, ma comportava anche una serie di complicazioni sociali e morali, che potevano portare addirittura all’emarginazione dalla società. Senza contare che restituire un debito significava mostrare il successo della propria esperienza emigratoria e ribadire la propria appartenenza alla comunità.33 Un altro dei canali verso i quali si indirizzò la spesa delle famiglie contadine coinvolte nel fenomeno della grande emigrazione fu certamen- te quello dell’espansione e della differenziazione dei consumi familiari a partire da quelli alimentari. Vi fu, sicuramente, un netto miglioramento nel regime alimentare contadino grazie, in parte, alle migliorate condi- zioni economiche e in parte a un modesto mutamento di mentalità intro- dotto grazie al contatto con la società oltre oceano. Non furono soltanto i consumi alimentari a modificarsi dal punto di vista della loro composizione merceologica: si registrò, infatti, una maggiore propensione ai consumi individuali anche per quanto riguarda

33 Idem, pagg. 172-173.

58 l’abbigliamento, l’arredamento e le attrezzature anche di origine indu- striale. Durante gli anni dell’emigrazione di primo Novecento nelle case contadine si diffuse, per esempio, la presenza di macchine per cucire, aumentarono sensibilmente le rivendite di pane e carne e anche le botte- ghe artigiane di sarti e calzolai. Un ruolo significativo è inoltre rivestito dalle spese per attività devo- zionali: infatti erano frequenti le offerte delle famiglie di emigranti per le feste patronali e per il rinnovo delle chiese parrocchiali. È evidente, però, che il bene in cui furono impiegati la maggior parte dei proventi dell’emigrazione fu senza dubbio la casa. Ogni contadino che inviava denaro in patria voleva, per prima cosa, costruire un’abita- zione nuova e trasformare quella vecchia in una più moderna, più ampia, più igienica e più confortevole. Vennero costruite così nuove casette a due piani, con le pareti imbiancate e le finestre ampie e, naturalmente, con l’immancabile balconcino, elemento essenziale della rappresentazio- ne sociale della nuova ambizione contadina. Su un piano più generale il cambiamento delle abitudini alimentari e le migliorate condizioni abita- tive determinarono, all’inizio del Novecento, un notevole miglioramento della qualità della vita, riscontrabile nella riduzione della mortalità sia in termini assoluti che relativamente alle medie regionali e alla media nazionale34. Dopo la casa, l’acquisto nel quale più frequentemente i contadini impiegarono i loro risparmi fu quello della terra. L’accesso alla proprietà fondiaria costituiva un’antica aspirazione che i contadini italiani, fino a quel momento, avevano potuto coronare in misura molto modesta. Le assegnazioni di quote previste dalle leggi di liquidazione delle terre pre- cedentemente feudali e di proprietà della Chiesa erano state, nel corso del XIX secolo, gli unici strumenti attraverso i quali si poté costituire una piccola proprietà contadina. Le rimesse dell’emigrazione consentirono un accesso dei contadini al mercato della terra senza precedenti e, nel corso del primo decennio del Novecento, i conduttori di terreni propri raddoppiarono il loro numero passando dal 18 al 32%, senza contare che la crescita aumentò anche negli anni successivi, grazie all’ulteriore vantaggio costituito per i conta-

34 Idem, pagg. 175-176.

59 dini dalla fortissima inflazione, che se non altro diminuiva notevolmente il valore reale dei debiti eventualmente contratti. Un ultimo aspetto che dobbiamo analizzare sono i rimpatri. Essi costi- tuirono una componente essenziale dei flussi migratori italiani, non solo per la loro consistenza numerica, ma soprattutto per le conseguenze che hanno avuto sulla società e sull’economia delle comunità d’origine. Per molti emigranti il ritorno ha rappresentato lo stadio conclusivo di un processo che ha avuto nella diversa esperienza nel paese di arrivo la sua principale caratterizzazione. Emigrare ha comportato una separazio- ne da un mondo noto e familiare e il ritrovarsi in un altro mondo, nuovo e sotto molti aspetti sconosciuto e incomprensibile35. Nonostante sia evidente che l’emigrazione italiana fu anzitutto un fenomeno strutturale, cioè scaturì principalmente da condizioni mate- riali di forte disagio economico, di miseria e di indigenza, non tutti gli emigrati di uno stesso gruppo vissero allo stesso modo la loro esperienza migratoria. Al contrario ciascun emigrato, in quanto persona, ha interagi- to con quei condizionamenti individualmente, avendo comunque qualche opzione di scelta secondo le proprie risorse e preferenze. “L’emigrazione di ritorno” può essere così interpretata come uno stadio di un processo di mancata o più o meno riuscita integrazione o assorbimento, nel senso che l’emigrante stesso aveva modo di decidere autonomamente se tornare in patria o meno. Per quanto riguarda lo stato di salute fisica e psichica degli emigrati italiani al ritorno da un periodo più o meno lungo di permanenza all’este- ro, i primi accenni ai possibili problemi di “igiene sociale” dell’emigra- zione italiana cominciano solo a partire dai primi anni del Novecento, quando erano visibili i primi segni “fisici” sui rimpatriati e si poneva quindi anche un problema di contagio del corpo sociale nazionale. Le maggiori preoccupazioni si concentrarono sull’importazione della tubercolosi e della sifilide, soprattutto nelle zone rurali che si vedevano così afflitte da forme di patologia proprie di una società urbana senza, però, averne le caratteristiche strutturali36.

35 F. Cerase, “L’Onda di ritorno: i rimpatri”, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’Emigrazione …, cit., pag. 112. 36 E. Sori, L’emigrazione italiana…, cit., pag. 214.

60 L’entità dei rientri è variata sensibilmente nel tempo, ma, nel comples- so, se si prende in considerazione il secolo che va dall’Unità nazionale al secondo dopoguerra, si è aggirata intorno alla metà delle partenze. Per quanto comprendano anche i casi di persone emigrate e tornate in Italia più volte, tali dati evidenziano chiaramente quanto sia stato cospi- cuo il flusso di individui che, in diversi momenti della loro vita, hanno intrapreso la via dell’emigrazione o quella del ritorno nelle loro comunità di origine.37

37 F. Cerase, L’onda di ritorno: i rimpatri, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione…, cit., pag. 115.

61 62