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Beato Angelico

Luce divina e ambienti reali

Nato a Vicchio nel 1395 Angelico è un frate domenicano di umili origini, con un grande talento per la pittura che mette al servizio della fede, creando immagini per la preghiera e la meditazione. Poco dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1455, è già conosciuto da tutti come l'Angelico e con il passare dei secoli la gente inizia persino a chiamarlo Beato Angelico, la Chiesa nel 1982 lo proclamerà beato.

Attorno alla figura del frate pittore sono nate molte leggende. Si racconta che non dipingesse senza prima aver pregato e non correggesse mai le sue opere, perché era convinto che ogni pennellata avesse un'origine divina. Per tutta la vita dipinge soggetti sacri

Beato Angelico, Particolare dalla Pala di Fiesole (1424-1425 circa), Fiesole, Chiesa di San Domenico. L'opera è considerata la prima conosciuta dell'Angelico Quando l'Angelico, che aveva cominciato come miniatore, iniziò a dare prove pubbliche della sua arte, era morto, era a Padova, Gentile da Fabriano a Roma.

Nel 1434 giunse a Firenze il papa Eugenio IV. Con lui era .

L'incontro con le forze vive della città scosse profondamente Leon Battista, che scrisse allora il primo trattato teorico sulla pittura, dove nomina : , , , Maso di Bartolomeo, non nomina Angelico perché ne rispetta i voti di umiltà, era l'Angelico. BEATO ANGELICO

Caratteristica delle opere dell'Angelico è il cromatismo delicato e l'uso di una illuminazione piena; nelle sue prime opere aderisce evidentemente all'arte di Masaccio, ma si rapporta anche a Domenico Veneziano per il sapiente uso della luce

Raggiunge un equilibrio tra passato e presente

Beato Angelico, La Madonna della Stella, ante 1434, tempera su tavola Firenze, Museo di san Marco Beato Angelico, Tabernacolo dei Linaioli, dal 1433, tempera su tavola, Firenze Museo di San Marco Prima della realizzazione degli affreschi del convento di San Marco a Firenze che avvenne tra il 1438-1446, l'Angelico esegue alcune opere considerate suoi capolavori: L'incoronazione che oggi si trova al Louvre, la Deposizione di Santa Trinità e il Trittico di Perugia, questi ultimi oggi al museo di San Marco.

Beato Angelico, Incoronazione della Vergine, Firenze, Galleria degli Beato Angelico,Incoronazione della Vergine, 1434-35, Firenze,Uffizi L'opera proviene dalla chiesa del convento di san Domenico a Fiesole dove l'Angelico era monaco.

Innanzitutto è scomparso il fondo oro in favore di un più realistico cielo azzurro, e la composizione spaziale è molto più ardita, memore della lezione di Masaccio.

Il pittore qui costruisce infatti un ricchissimo ciborio con trifore gotiche, impostato su una serie di gradini in marmi policromi (in scorcio vertiginoso), sotto il quale avviene la scena dell’ Incoronazione della Vergine . Il tabernacolo gotico presenta colonnine tortili e degli inconsueti pilastrini sopra i capitelli che, saranno presenti inseguito a Roma nella cappella Niccolina. Gli angeli e i santi disposti a cerchio attorno alla scena, sono collocati in collocazione nello spazio in modo preciso, la novità è nelle figure adoranti di spalle.

Beato Angelico, Pala dell’Incoronazione della Vergine, 1434-1435,Parigi, Musée du Louvre Rispetto all'Incoronazione degli Uffizi in quest'opera si registrano dei grandi cambiamenti. Innanzitutto è scomparso il fondo oro in favore di un più realistico cielo azzurro, e la composizione spaziale è molto più ardita, il dipinto accostabile agli esempi di Domenico Veneziano attorno al 1440, tanto da ipotizzarne la collaborazione nelle soluzioni prospettiche del pavimento.

Memore della lezione di Masaccio il pittore qui costruisce iun ricchissimo ciborio con trifore gotiche, impostato su una serie di gradini in marmi policromi (in vertiginoso scorcio ), sotto il quale avviene la scena. Il tabernacolo gotico presenta colonnine tortili e degli inconsueti pilastrini sopra i capitelli che, assieme alla triplice faccia, li fanno assomigliare parecchio ai tabernacoli dipinti sopra i Padri della Chiesa negli affreschi della Cappella Niccolina in Vaticano (1446-1448).

Beato Angelico,Incoronazione della Vergine, 1434-35, Parigi, Museo del Louvre Tra i santi di destra si riconoscono s.Egidio il primo al centro san Nicola di Bari, san Bernardo di Chiaravalle, san Tommasp d’Aquino Domenico, san Giovanni evangelista san Pietro, ecc. Tra le sante di sinistra si riconoscono per prima Maria Maddalena, col tipico vestito rosso e l'ampolla, poi anta Caterina d'Alessandria, con la ruota, e altre; più in alto si vedono san Lorenzo con la graticola, santo Stefano e san Giacomo Maggiore.

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La composizione dovette rappresentare un notevole sforzo inventivo per l'Angelico che, nel tentativo di superare i suoi modi tradizionali per essere all'altezza delle innovazioni attorno a lui, rinunciò al semicerchio di santi, usando un sistema prospettico più ardito, con un punto di osservazione più basso, in modo da non dover digradare le figure troppo nettamente sul piano orizzontale, per non mettere troppo in evidenza quelle in primo piano rimpicciolendo quelle più vicine a Gesù e la Vergine, che concettualmente erano più importanti.

La soluzione fu un compromesso, dove il punto di convergenza delle linee prospettiche non conduce ad alcun elemento significativo (cade sulla gradinata) e l'unico elemento che cade sulla verticale centrale è il calice degli unguenti della Maddalena Predella Miracoli di san Domenico, al centro la Resurrezione di Cristo, Nella notevole costruzione in prospettiva delle mattonelle del pavimento.

I santi, i patriarchi e gli angeli musicanti formano una variopinta moltitudine, disposta gerarchicamente più o meno vicino a Dio. Ciascuno è ritratto individualmente e scolpito volumetricamente dalla luce, che accende anche i colori brillanti delle stoffe, accordandoli in un'orchestrazione di grande sontuosità.

L'illuminazione proviene da sinistra, si basa su un uso più ricco di lumeggiature che di ombre illumina coerentemente tutte le figure.

Un interesse verso la resa dei fenomeni luminosi portò l'Angelico, nella sua fase matura, ad abbandonare l'illuminazione indistinta e generica in favore di una resa di luci e ombre più attenta a razionale, dove ogni superficie è individuata dal suo "lustro" specifico. Al sognante misticismo dello stuolo di santi, disposti con una simmetria derivata dalle cadenze gotiche, si contrappone il rigore geometrico della prospettiva, che conduce l'occhio dello spettatore fin nella profondità della rappresentazione, dove si svolge l'Incoronazione vera e propria. Le scene della predella, come in altre opere dell'Angelico, mostrano un'arditezza prospettica ancora maggiore e un interesse sperimentale che non si riscontra nelle figurazioni principali delle pale. Gli episodi, ricchissimi di spunti narrativi, si susseguono ordinati dalle cadenze delle architetture, che determinano un magistrale ritmo di pieni e vuoti, di interni ed esterni, di prospettiva spaziale e luminosità . A sinistra si vede il Sogno di A sinistra si vede il Sogno di Innocenzo III con san Domenico che risolleva la Chiesa mentre sullo sfondo una stanza aperta mostra il papa dormiente all’ ombra di una voluminosa costruzione che ricorda Castel S. Angelo segue la scena dell’apparizione dei santi Pietro e Paolo a Domico ambientata in una basilica stupendamente scorciata con punto di fuga laterale e poi la Resurrezione di Napolene Orsini evento ambientato in un portico in prospettiva.

Nel Museo di San Marco a Firenze, un singolo dipinto racchiude la testimonianza della più profonda rivoluzione della pittura italiana. È la pala della Deposizione, che Palla Strozzi, ovvero il committente dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, aveva ordinato a , alla morte del quale fu affidata all'Angelico.

Le cuspidi realizzate da Lorenzo Monaco non distano dieci anni dal mondo messo in scena dall'Angelico eppure sembrano venire da un tempo assai lontano. Raccontano tre episodi successivi alla crocefissione: l'incontro del Risorto con la Maddalena, le Marie al sepolcro, e, al centro, la Resurrezione. Le linee sinuose delle figure si profilano ritagliate sul fondo oro, accompagnate da minimi elementi allusivi a un paesaggio di rocce simili a onde pietrificate. Beato Angelico, Deposizione dalla Croce, tempera su tavola, 176 × 185 cm - Firenze, Museo di San Marco

La Deposizione vera e propria, è organizzata secondo con uno schema piramidale al centro, che ha come vertici i due dolenti inginocchiati alla base.

L'effetto è quindi di uno sviluppo verticale al centro (evidenziato anche dal braccio destro di Nicodemo che abbassa il corpo e dalla figura eretta di san Giovanni), al quale si contrappone, armonizzando, uno sviluppo orizzontale in profondità dei lati. Su questo schema ortogonale si imprime la figura per lo più diagonale di Cristo (le braccia, la testa reclinata, il corpo obliquo), che spicca con forza. La scena del Cristo deposto dalla croce si svolge tutta in primo piano : l'uso di colori limpidi, luminosi e brillanti, accordati in una delicata armonia tonale, che

richiama il concetto dei san Tommaso d'Aquino della luce terrena quale riflesso del " lumen" ordinatore divino.

La rappresentazione resta in bilico tra il tono di gravità che si addice alla scena sacra e la vivacità pittoresca nella ricreazione ambientale. Nonostante la salda volumetria delle figure, soprattutto quella del Cristo nudo modellato anatomicamente, manca una rappresentazione convincente del peso e dell'azione, con le figure sulle scale che sembrano lievitare nell'aria. Notevole è invece l'attenzione al dettaglio, come i segni delle frustate sul corpo di Gesù, o la dettagliata resa delle fisionomie dei personaggi Per l'Angelico, non vi era contraddizione tra la rappresentazione oggettiva delle cose, tra l'evocazione del creato e la santità dell'immagine.

Nella pala, anziché confinare le luci nel fondo oro, l'Angelico creò un intero paesaggio luminoso. L'opera venne dipinta (tempera su tavola) per il convento dei padri domenicani il dove era frate lo stesso Angelico ed era una delle tre grandi pale d'altare di sua mano che decoravano la chiesa, con la Pala di Fiesole sull'altare maggiore (la più antica, 1424- 25, e l'unica ancora in sede) e l’Incoronazione della Vergine del Louvre (1424-1435 circa). entrò poi nelle collezioni reali della monarchia spagnola e da qui al Prado.

l punto di fuga è all'interno della casa invece che all'esterno, concentrando maggiormente l'attenzione dello spettatore sull'Annunciazione.

Beato Angelico Annunciazione 1435, Museo del Pardo a Madrid TEMPERA La pittura a tempera (lat. temperare – mescolare) è una tecnica che si avvale dell'uso di un colore preparato mescolando pigmenti in polvere con un legante formato da un’emulsione in fase acquosa (parti oleose in minoranza che "nuotano" sospese in forma di piccole gocce nell’acqua) Le parti solubili in acqua dell’emulsione che costituiscono il colore a tempera sono uovo, caseina, colle animali, gomme vegetali, amidi; quelle insolubili sono olii (olio di lino, di noce, di papavero, anche in forma pre-polimerizzata), resine, cere, lacche. Per quanto riguarda l’uovo viene utilizzato intero, oppure solo il tuorlo o solo il bianco. I supporti utilizzati, analogamente alla tecnica ad olio e ad altre tecniche, vengono preparati con una imprimitura che impegna entrambi i lati del supporto per evitare deformazioni causate da un differente grado di umidità tra le due superfici.

A seconda delle sostanze utilizzate si parla di tempera all’uovo, alla caseina, alla gomma ecc. Tutte queste possono essere macinate come tempere “magre” o “grasse”. Il diluente utilizzato per la “tempera magra” è sempre e solo l’acqua mentre per la “tempera grassa” nella quale prevalgono le parti oleo-resinose, può essere lo spirito di trementina. Rispetto ai colori ad olio le tempere presentano il vantaggio di asciugare rapidamente, rimanendo in alcuni casi insolubili all’acqua e di avere tinte più stabili nel tempo. Uno svantaggio è rappresentato dalla variazione di tono che subentra tra il momento della stesura e l'asciugatura. A prescindere dalla composizione del legante, si può distinguere in tempere verniciate – molto simili nel loro aspetto a pitture ad olio – e tempere non verniciate, dall’aspetto piatto e opaco. Il significato attribuito al termine tempera è mutato corso della storia dell’arte. La pittura a tempera origina nell’arte delle civiltà di Egitto, India, Cina, Giappone e dell’America centrale (con i Maya). In Europa raggiunge un ruolo predominante durante il medioevo. Pur essendo progressivamente sostituita dal XV secolo dalla pittura ad olio, per altri trecento anni circa verrà comunque utilizzata una combinazione di entrambe le tecniche ..Per molte pitture antiche come quelle fiamminghe, venete o fiorentine, nelle quali i primi strati venivano eseguiti con una sorta di tempera e completati poi con velature di olii e resine, sarebbe più appropriata la definizione di tecnica mista. Cennino Cennini parla nel suo trattato della tempera anche per pitture murali e infatti, assieme all’ affresco, la tecnica “a secco” fu di sovente usata durante il Rinascimento italiano (Mantegna, Leonardo). Meno evidenti Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre

Essi, si muovono in una giardino fiorito allusivo alla verginità di Maria ( hortus conclusus ) popolato da una moltitudine di piante e pianticelle dipinte con grande cura.

La presenza di Adamo ed Eva sottolinea il ciclo della dannazione dell'umanità, ricomposta tramite la salvezza in Cristo, resa possibile dall'accettazione di Maria

Tra le specie legate a valori simbolici si riconoscono la palma, che ricorda il futuro martirio di Cristo, e le rose rosse, che richiamano il sangue della Passione di Cristo.

. Dall'angolo in alto a sinistra scende un raggio di luce divina che, attraverso la colomba dello Spirito santo va ad illuminare la Vergine, che si piega accettando remissivamente il suo incarico. Essa è seduta su un seggio coperto da un ricco drappo che funge anche da tappeto, ed ha sulle ginocchia un libro aperto, simbolo delle Scritture che si avverano.

Beato Angelico Annunciazione 1435, Museo del Pardo a Madrid La scena si svolge in un portico rinascimentale con arcate leggere scorciate con sapienza in prospettiva che rimanda le architetture di L'Annunciazione ora al Prado, allora in San Domenico a Fiesole, manifesta il programma di uscita dal mondo gotico.

Il giardino fiorito raccoglie un intero erbario gotico, ma la palma vi svetta in perfetta prospettiva, mentre il portico, sotto cui si trova la Vergine, è sorretto da archi a tutto sesto su capitelli che cercano d'immaginare come sarebbe un classico capitello composito. Il : dettaglio Fiori e piante sono presi dalla realtà Angelico si colloca sul confine fra due epoche: il Trecento ‒ un secolo in cui ancora è viva la tradizione medievale che esalta le stoffe preziose e usa gli sfondi dorati ‒ e il

La pala ha un'impostazione transitoria tra tardo gotico e Rinascimento: risente fortemente delle novità masaccesche, presenta per la prima volta il particolare uso della luce diafana, che avvolge la composizione, esaltando i colori e le masse plastiche delle figure in modo da unificare l'immagine e che divenne una delle caratteristiche più evidenti del suo stile. Nella stessa opera, in secondo piano, appaiono le figure di Adamo ed Eva, a simboleggiare i primi peccatori a redenzione dei quali Dio si è fatto uomo, ma anche a sottolineare che Maria, assentendo all'Ave dell'angelo, trasforma il nome di "Eva" (Eva/Ave): Maria, dunque, è la nuova Madre dell'umanità. L'Angelico fu protagonista di quell'irripetibile stagione artistica che, sotto il patronato dei Medici, ebbe il culmine nel 1439 con il Concilio di Firenze e che vide grandi opere pubbliche tra cui lo stesso convento di San Marco Alcuni frati di San Domenico di Fiesole nel 1435 presero sede a Firenze, un anno dopo, nel gennaio 1436, ebbero la sede di San Marco. Qui nel 1438 Michelozzo, su incarico di Cosimo de’ Medici iniziò la costruzione di un nuovo convento, all'avanguardia sia dal punto di vista funzionale e architettonico.. Il Museo nazionale di San Marco, che ha sede nella parte monumentale di un antico convento domenicano , capolavoro dell’architettura di Michelozzo

Il convento di San Marco a Firenze, venne consegnato ai frati domenicani di Fiesole da papa Eugenio IV. Che lo fece restaurare da Michelozzo.

Le celle furono le prime a subire quella rivoluzionaria trasformazione che, per ordine cronologico, poi toccò al chiostro di Sant'Antonino, alla sala capitolare (da documentazione certe terminata nel 1442) ed alla biblioteca (1444). Nel frattempo veniva riedificata la chiesa, che già nei primi del 1443 era completata e pronta alla consacrazione. Il secondo chiostro venne trasformato in tempi successivi.

L'atmosfera che pervade i dipinti del convento di San Marco è serena, pacata, dolce, le figure non aderiscono fino in fondo al realismo masaccesco, prediligendo la contemplazione divina piuttosto che la rappresentazione delle cose terrene.

Il convento sarebbe stato per l'Angelico la sua preghiera quasi quotidiana, con l'invenzione per ogni cappella di un modo diverso e personale di accostarsi al Vangelo. A nessun altro artista fu mai dato di immedesimarsi a tal punto nelle meditazioni dei confratelli. E fu proprio qui che Cosimo de' Medici volle una cella per sé come ritiro dalle fatiche della vita pubblica.

San Domenico adorante il crocifisso, Gli affreschi furono affidati a Beato Angelico – indicato da autorevoli fonti – che iniziò quasi subito e pressoché parallelamente ai lavori di Michelozzo, decorando le stanze che via via venivano strutturalmente trasformate. L'Angelico vi lavorò con costanza fino al 1446-47, periodo in cui partì per Roma. Forse il periodo di esecuzione è più ampio un periodo di partecipazione ancora più ampio (1438 - 1446/50). Per quanto riguarda la cronologia dei dipinti, tutti gli studiosi convergono sul fatto che sia difficile stabilirne una precisa successione nella realizzazione delle singole composizioni, dal momento che queste riportano episodi tra essi non collegabili. Le celle, le cui raffigurazioni sono a tratte dal Vangelo, si trovano al primo piano, nei tre lati del chiostro di Sant'Antonino. Per quanto riguarda l'autografia dell'Angelico, questa è stata oggetto di accesi dibattiti nel corso dei secoli, e molti studiosi misero in dubbio addirittura la poderosa entità degli interventi di collaborazione dell'artista, e non soltanto la completa

attribuzione Beato Angelico: Affreschi di San Marco - Natività Beato Angelico: Affreschi di San Marco Annunciazione Gli affreschi furono affidati a Beato Angelico che iniziò parallelamente ai lavori di Michelozzo, decorando le stanze che via via venivano strutturalmente trasformate.

L'Angelico vi lavorò fino al 1446-47, periodo in cui partì per Roma. Forse il periodo di esecuzione è più ampio (1438 - 1446/50).

Per quanto riguarda la cronologia dei dipinti, è difficile stabilire una precisa successione dal momento che queste riportano episodi tra essi non collegabili. Le celle, le cui raffigurazioni sono a tratte dal Vangelo, si trovano al primo piano, nei tre lati del chiostro di Sant'Antonino.

Beato Angelico: Affreschi di San Marco - Natività Beato Angelico,Cristo deriso ,Firenze San Marco

Nel 1440 Cosimo il Vecchio affifò all’Angelico la direzione della decorazione pittorica del convento e la prima prova documentaria della presenza del pittore in San Marco risale al 22 agosto 1441 Tra le tracce documentarie dell'Angelico a San Marco ci sono la partecipazione in Capitolo nell'agosto 1442 e nel luglio 1445, quando firmò con altri l'atto di separazione della comunità fiorentina da quella fiesolana di origine. Nel 1443 fu "sindicho" del convento, una funzione di controllo amministrativo. Michelozzo, lasciò ampie pareti bianche da decorare, e fu un lavoro organico, che interessò tutti gli ambienti pubblici e privati del cenobio: dalla chiesa al chiostro , dal refettorio alla sala capitolare ai corridoi fino alle singole celle. Alla fine il risultato fu la più estesa decorazione pittorica mai immaginata fino ad allora per un convento. La decorazione prevedeva in ogni cella dei frati un affresco con un episodio tratto dal Nuovo testamento o una Crocifissione dove la presenza di san Domenico indicava ai frati l'esempio da seguire e le virtù da coltivare (prostrazione, compassione, preghiera, meditazione, ecc) Per gli autori del Medioevo, quasi tutti uomini di Chiesa, il colore non rappresenta una questione di sensibilità, ma un problema teologico. Per la teologia medievale infatti, la luce è la sola parte del mondo sensibile che sia insieme visibile ed immateriale. Essa costituisce la visibilità dell'ineffabile e, come tale, emanazione divina. Il colore è una frazione della luce, esso partecipa ontologicamente del divino, perché Dio è luce. Cercare di estendere quaggiù il posto del colore, vuol dire diminuire quello delle tenebre, estendere quello della luce e quindi di Dio. Ricerca del colore e ricerca della luce sono quindi indissociabili,

. Beato Angelico,Trasfigurazione, 1440-45, Firenze, Convento di San Marco Profondamente appropriato il termine "angelico" usato per la prima volta da Domenico Corella nel 1469 per descrive il carattere di un artista pieno di umanità e devozione. »

Quell'ineguagliabile abilità di Beato Angelico nella rappresentazione di una precoce resa prospettica si unisce ad una costante ricerca nel tentativo di unire i nuovi principi rinascimentali, quali la costruzione prospettica e l'attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, come la funzione didattica dell'arte e il valore mistico della luce. Il perfetto connubio fra forma e contenuto, geometria e simbolo testimoniano il raggiungimento di un'intima sintesi fra umanesimo e religione, fiorita dal cuore sensibile di un artista a cui non interessò né fama né ricchezza.

Giorgio Vasari, che fu il primo a scrivere di lui cento anni dopo la sua morte, ci riporta:

"Se avesse voluto, avrebbe potuto vivere nel mondo in modo molto agiato e diventare ricco grazie alla sua arte, poiché fin da giovane era già un maestro. Invece, essendo devoto di natura, scelse di entrare nell'ordine domenicano". "Essendo non meno stato eccellente pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l'una e per l'altra cagione che di lui sia fatta onoratissima memoria".

Vasari inoltre ci informa sul modo di dipingere dell'artista riferendoci di un fare pittura quasi senza pentimenti: "Avea per costume non ritoccare né raccorciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per credere che così fusse la volontà di Dio". 4. Beato Angelico 5. Beato Angelico e collaboratori e collaboratore Battesimo di Gesù Crocifissione con la Vergine, Aaffresco con lo schema la Maddalena e san Domenico delle giornate Affresco con lo schema Firenze, Museo delle giornate di San Marco, cella 24. Firenze, Museo di San Marco, cella 25.

IV V Beato Angelico, Noli me tangere, Firenze, San Marco Nella cultura del colore vi è la dottrina di Alberto Magno fondamento della spiritualità domenicana e quindi particolarmente incisivo nel pensiero di .

In particolare nel De Anima e nel De Intellectu et intelligibili ove raccoglie l'eredità del pensiero di Aristotele, a sua volta autore di opere specifiche dal De Anima al De sensu et sensato. Dice Alberto Magno:"Visibile est color (...) in se ipso habet causam essendi visibile(...) nihil est visibile sine lumine, sed omnino unisquisque color per lumen visibile est" e ancora "Omnia corpora colore partecipant".

Il colore è dunque la qualità dei corpi che per mezzo della luce si rende visibile all'occhio umano e rende quindi percepibili i corpi stessi ai quali inerisce, così come affermava Dante:" è da sapere che propriamente. È visibile lo colore e la luce, sì come Aristotile vuole nel secondo de l'Anima”. L'artista nel 1446 è a Roma dove per Papa Eugenio IV affresca una cappella in Vaticano che oggi è andata perduta, successivamente a Orvieto inizia la decorazione della cappella di San Brizio nel Duomo, ancora dopo verrà richiamato a Roma dove decora per Papa Niccolò V la cappella Niccolina raffigurando le Storie di Santo Stefano e San Lorenzo. Prima del 1449 esegue anche i dipinti per gli sportelli degli armadi della Santissima Annunziata che oggi si trovano al museo di San Marco. Il Beato Angelico morì a Roma nel 1455. Beato Angelico venne venne chiamato a Roma nel 1445 da papa Eugenio IV,

Del periodo tra il 1445 e il 1446 non restano tracce documentarie del lavoro dell'artista, che dovette riguardare una cappella nell'antica basilica di San Pietro, poi distrutta

Con l'elezione al soglio pontificio di Niccolò V sono registrati tre ordini di pagamento. Nell'estate del 1447 l'Angelico e il suo team ricevettero una dispensa per recarsi temporaneamente a lavorare ad Orvieto, nella Cappella di San Brizio, dove lasciarono due affreschi in altrettanti spicchi della volta, per fare ritorno a Roma a metà settembre. Entro la fine del 1448 la decorazione della cappella doveva essere terminata e il 1º gennaio Angelico-Cappella Niccolina 1447-1448

La cappella Niccolina è a pianta rettangolare e consta di tre pareti, decorate ciascuna nel registro superiore da un grande lunettone con un affresco unico composto da due Storie di santo Stefano; il registro mediano è invece composto da due scene separate per parete con Storie di san Lorenzo, Le pareti sono di dimensioni uguali, ma l'arcone di entrata e quello che incornicia la parete centrale hanno uno spessore voltato a botte che dà origine alla forma rettangolare del pavimento; qui si trovano affrescati a grandezza naturale otto Padri della Chiesa sotto nicchioni architettonici dipinti (Tommaso d'Aquino, Ambrogio, Agostino e Bonaventura/Girolamo), mentre nel sottarco sotto l'altare si trovano i santi Atanasio, Leone Magno, Gregorio Magno e Giovanni Crisostomo. Il Vasari descrive anche come sull'altare si trovasse una pala con la Deposizione, ma non si hanno tracce di quest'opera oltre la sua menzione.

La cappella Niccolina è a pianta rettangolare e consta di tre pareti, decorate da due Storie di santo Stefano nel registro superiore ; il registro mediano è invece composto da due scene separate per parete con Storie di san Lorenzo, tranne la parete sinistra, con le finestre, che contiene una sola storia; Beato Angelico, San Lorenzo consacrato diacono 1445-49, Città del Vaticano, Cappella Nicolina Sullo sfondo di un broccato rosso scuro con motivi floreali, dalla ricca punzonatura d'oro, Maria è rappresentata a mezza figura, col Bambino che gioca seduto su un cuscino e con le gambe appoggiate su un ipotetico parapetto che coincide con il bordo inferiore del dipinto. Si tratta di uno dei più antichi esempi di questo motivo in Italia, derivato dall'esempio dei Primitivi fiamminghi. I tipi fisici della Madonna e del Bambino rimandano all'opera del pittore, così come la luce chiara, la delicata stesura degli incarnati, l'attenzione al dettaglio, come il velo trasparente sulla fronte della Madonna, il tono intimo e tranquillo, con un complesso scambio di gesti e sguardi così come il ricco trattamento dell'oro, ora inciso, ora punzonato, ora applicato a rilievo come nei motivi decorativi della veste di Maria. Le aureole sono già in prospettiva, uno stilema che venne poi ripreso da .

La ricchezza dello sfondo con punzonatura in oro rimanda a opere di Gentile da Fabriano, come Domenico Veneziano: la Madonna dell'Umiltà di Pisa, Madonna Berenson, 1435 circa, Tatti a Settignano Maria porge al Bambino un bocciolo o forse un piccolo pero, allusione al Peccato originale che Cristo laverà col suo sacrificio. Questo gesto dovette ispirare anche Leonardo, nella sua Madonna Benois. Anche il motivo del melograno nello sfondo simboleggia la Resurrrezione Si tratta di uno dei più antichi esempi di questo motivo in Italia, derivato dall'esempio dei Primitivi fiamminghi. la luce chiara, la delicata stesura degli incarnati, l'attenzione al dettaglio, come il velo trasparente sulla fronte della Madonna, il tono intimo e tranquillo, con un complesso scambio di gesti e sguardi, il ricco trattamento dell'oro, ora inciso, ora punzonato, ora applicato a rilievo come nei motivi decorativi della veste di Maria.

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Domenico Veneziano, Madonna Berenson, 1435 circa, Villa Tatti a Settignano La Pala di Santa Lucia de' Magnoli (Sacra conversazione coi santi Francesco, Giovanni Battista, Zanobi e Lucia) di Domenico Veneziano è una tempera su tavola (210-215 cm), conservata agli Uffizi di Firenze e databile al 1445 circa. È firmata OPVS DOMINICI DE VENETIIS HO[C] MATER DEI MISERERE MEI DATVM EST sul gradino inferiore. La pala è l'opera più importante per comprendere il ruolo fondamentale di Domenico nella pittura rinascimentale fiorentina, dopo la perdita del ciclo di affreschi che realizzò nella chiesa di Sant'Egidio con Andrea del Castagno.

Domenico Venziano Pala di Santa Lucia dè Magnoli, 1445, Firenze, Uffizi DomenicoVeneziano, (Venezia 1410-Firenze 1461 .

L'uso di colori chiarissimi, impregnati di luce, sarà punto di partenza per Piero della Francesca, inoltre da lui partirà la tendenza lineare, di Andrea del Castagno e Antonio e Piero del Pollaiolo. Formazione veneziana a contatto con la pittura fiamminga. Tra il 1445 e il 1447 eseguì Il suo capolavoro, la Pala per la chiesa di Santa Lucia de' Magnoli a Firenze: è una Sacra Conversazione, con la Vergine col Bambino in trono attorniata dai santi Francesco, Giovanni Battista e Zanobi protovescovo di Firenze e Lucia. Le figure sono inserite in una loggia aperta, costruita con una prospettiva simulante la forma di un trittico. Dietro, attraverso un'apertura, si intravedono le fronde di tre aranci su cielo azzurro.

L'elemento lineare viene cancellato dalla luce chiara naturale, come quella del mattino, che proviene da destra in alto mettendo in risalto i profili dei Domenico Veneziano, Pala di Santa Lucia dè Magnoli, 1445, personaggi e schiarendo i colori. Firenze, Uffizi Le figure sono inserite in una loggia aperta, costruita con una prospettiva a tre punti di fuga e simulante la forma di un trittico. Dietro, attraverso un'apertura, si intravedono le fronde di tre aranci su cielo azzurro. L'elemento lineare viene cancellato dalla luce chiara naturale, come quella del mattino, che proviene da destra in alto mettendo in risalto i profili dei personaggi e schiarendo i colori. Al posto dei toni scuri e brillanti alla Gentile sono ora presenti tonalità più chiare e delicate, intonate a riflessi color pastello Domenico Veneziano, predella pala santa Lucia dei Magnoli

Della predella fanno parte le tavole con San Francesco riceve le stigmate e San Giovanni Battista nel deserto conservate a Washington; l'Annunciazione e il Miracolo di san Zanobi di Cambridge e il Martirio di santa Lucia di Berlino. Si tratta di scene fortemente innovative, in cui si fonde una vivace narratività con spunti ora di realismo e espressionismo (Miracolo di san Zanobi), ora di incantata astrazione (come le montagne a prisma dei primi due scomparti).

Annunciazione, 27 x 54 cm, Cambridge, Fitzwilliam Museum,

San Giovanni Battista nel deserto Washington L'opera si ispira, per eleganza, sontuosità e tono fiabesco della rappresentazione, alle opere tardogotico, in particolare a Gentile da Fabriano. e Pisanello, ma vi si trovano perfettamente fusi elementi nuovi del Rinascimento, come la padronanza spaziale e dei volumi, la fisicità reale dei personaggi, l'uso unificato della luce, che coinvolge nella medesima visione sia i dettagli più minuti in primo piano che il paesaggio più lontano. Le colline più lontane sono chiarissime per effetto della foschia, e rivelano un'assimilazione precoce delle novità della pittura fiamminga, che in quel periodo erano già oggetto di collezionismo a Firenze. Scrisse Roberto Longhi a proposito dell'opera: «Pari ai fiamminghi nella verità lenticolare delle "province", pari a Masaccio nella presa di possesso dello spazio, pari all'Angelico nei colori "amichevoli", è una delle opere più esemplari della formazione del maestro». La limpida struttura è rivestita da tutte le accattivanti qualità che Alberti richiedeva dalla pittura: varietà, "amistà", piacevolezza

Domenico Veneziano Adorazione dei Magi, 1440 circa, Berlino

Fra Filippo di Tommaso Lippi (Firenze 1406-Spoleto1469)

Fu, con Beato Angelico e Domenico Veneziano, il principale pittore attivo a Firenze facente parte della generazione successiva a quella del Masaccio. All'età di otto anni, (1414) , venne messo insieme al fratello dai frati carmelitani del convento del Carmine L'8 giugno del 1421, Filippo prese i voti, mantenendo lo stesso nome di battesimo. Nel 1424 assisté alla decorazione, da parte di Masolino da Panicale e Masaccio, della cappella Brancacci , che ebbe un ruolo fondamentale nella sua vocazione artistica. Altri modelli su cui il ragazzo si formò furono le novità scultoree di Donatello e Brunelleschi. Dopo un periodo iniziale, di stretta aderenza masaccesca, arricchita di spunti tratti dalla vita reale, come nelle opere coeve di Donatello, Lippi si orientò gradualmente verso uno spettro più ampio di influenze, che comprendeva anche la pittura fiamminga. In seguito il suo stile si sviluppò verso una predominanza della linea di contorno ritmica su tutti gli altri elementi, con figure snelle, in pose ricercate e dinamiche, su sfondi scorciati arditamente in profondità. Il suo stile, nell'età laurenziana, divenne predominante in area fiorentina, costituendo le basi su cui pittori come Botticelli crearono il proprio stile

Madonna Trivulzio 1429-32, Milano Pinacoteca del Castello Sforzesco Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, 1437, Roma, Palazzo Barberini

A Firenze, aprì una propria bottega nel 1437.In quell'anno dipinse la cosiddetta Madonna di Tarquinia, per il cardinale Giovanni Vitelleschi (opera datata), sia la Pala Barbadori per la chiesa fiorentina di Santo Spirito In queste opere la componente lineare acquista maggiore importanza, le figure si allungano e addolciscono, senza perdere in plasticità, e vengono avvolte e non più sbalzate dalla luce.

Nel 1438 è citato in una lettera di Domenico Veneziano a Piero de' Medici in cui Filippo Lippi viene equiparato a Beato Angelico come migliore artista attivo in città. L'opera è datata con un cartiglio sul trono "A.D. M. MCCCCXXXVII" ed è uno dei pochi punti fermi nella cronologia delle opere del Lippi. Risale al rientro a Firenze del pittore dopo il soggiorno padovano e fu commissionata da Giovanni Vitelleschi, capitano militare dell'esercito papale e arcivescovo di Firenze dal 1435 al 1437, che in quegli anni tornava alla sua città natale, Tarquinia, per farsi costruire un palazzo a cui forse era destinata la tavola. La Madonna è ritratta in trono marmoreo (una Maestà quindi), mentre stringe affettuosamente a sé il Bambino, che fa per abbracciarla teneramente. Al risalto plastico derivato da Masaccio ed al gusto per i gesti familiari e gli scorci di Donatello, Filippo Lippi aggiunse alcune suggestioni desunte dalla pittura fiamminga, che quasi certamente aveva avuto modo di osservare a Padova Caratteri fiamminghi: l'attenzione per l'ambiente e gli effetti luminosi, con lo spazio costruito a grandangolo (si noti il letto fortemente scorciato a destra) e una finestra aperta sul paesaggio. Notevole è la resa del "lustro", cioè del riflesso della luce, sulle stoffe e sui gioielli, oppure la resa delle screziature del marmo o la resa del libro sul bracciolo. Una precisa citazione fiamminga è poi il cartiglio con la firma appoggiato alla base del trono. Lo sfondo sapientemente illuminato fa risaltare il volto della Vergine e ne fa il centro della scena. Il Bambino è reso in maniera moderna, avvicinandosi per potenza plastica e resa naturalistica alle sculture della cantoria donatelliana del Duomo. La cornice è originale e, con la sua forma cuspidata, dimostra il rispetto della tradizione tardogotica, nonostante le caratteristiche estremamente innovative e moderne del dipinto Pala Barbadori, 1438 Parigi Louvre Pala Barbadori, 1438 La tavola si dispiega unitaria, ma vi è un accenno alla forma Parigi Louvre tradizionale dei trittici negli archi della parte superiore e nella tripartizione tramite colonne. Lippi innovò profondamente l'iconografia della cosiddetta Maestà (Madonna in trono col bambino) facendo alzare in piedi la Vergine, in un rinnovato rapporto tra madre e figlio, e facendo della sua figura il perno dell'intera composizione. L'insieme può sembrare a prima vista dispersivo, ma a un'osservazione attenta si snoda simmetricamente sui lati, con precise corrispondenze. L'unità della composizione è data quindi dall'andamento ritmico delle linee di contorno, un elemento sul quale si focalizzerà sempre maggiormente la pittura del Lippi, affievolendo gradualmente la lezione masaccesca nel dare forte sbalzo volumetrico alle figure, quasi come fossero statue. Il Lippi si ispirò anche alla statuaria a lui contemporanea : l'angelo sulla sinistra, intento a rialzarsi la veste, è ripreso dal gruppo statuario dei Quattro Coronati di Nanni di Banco a Orsanmichele . I santi inginocchiati sono a destra da sant’Agostino e a sinistra da san Frediano messi in posizione obliqua. A sinistra, dietro la balaustra, comparirebbe un autoritratto del pittore nella figura del monaco fanciullo Nanni di Banco Santi quattro coronati, 149/17 circa

Firenze Orsanmichele Chiesa museo di Orsanmichele in Firenze Pala Barbadori, 1438 NICCHIA DEL S. MATTEO Parigi Louvre Pilastro nordovest - Facciata ovest La nicchia, realizzata da Lorenzo Ghiberti per l’Arte del Cambio fra il 1419 ed il marzo del 1423,

Le ombre sembrano avvolgere morbidamente le figure e modulare i colori con molti passaggi intermedi, dando un effetto di rilievo più delicato. Originale, per quegli anni, è anche la sostituzione del fondo oro con una quinta architettonica, operata in quegli stessi anni anche da beato Angelico , con una finestra che si apre sul paesaggio collinare esterno derivata dalle opere fiamminghe La nicchia a conchiglia sullo sfondo, elemento tipico del Quattrocento fiorentino e di Lippi in particolare, venne ispirata dalla nicchia del tribunale della Mercanzia in Orsanmichele, L'affresco è un'antichissima tecnica pittorica che si realizza dipingendo con pigmenti generalmente di origine minerale stemperati in acqua su intonaco fresco: in questo modo, una volta che nell'intonaco si sia completato il processo di carbonatazione, il colore ne sarà completamente inglobato, acquistando così particolare resistenza all'acqua e al tempo.

Si compone di tre elementi: supporto, intonaco, colore.

Il supporto, di pietra o di mattoni, deve essere secco e senza dislivelli. Prima della stesura dell'intonaco, viene preparato con l'arriccio, una malta composta da calce spenta o grassello, sabbia grossolana di fiume o, in qualche caso, pozzolana e, se necessario, acqua, steso in uno spessore di 1 cm circa, al fine di rendere il muro più uniforme possibile. L'intonaco (o "tonachino" o " intonachino") è l'elemento più importante dell'intero affresco. È composto di un impasto fatto con sabbia di fiume fine, polvere di marmo, o pozzolana setacciata, calce ed acqua. Il colore, che è obbligatoriamente steso sull'intonaco ancora umido (da qui il nome, "a fresco"), deve appartenere alla categoria degli ossidi, poiché non deve interagire con la reazione di carbonatazione della calce. La principale difficoltà di questa tecnica è il fatto che non permette ripensamenti:, la carbonatazione avviene entro tre ore dalla stesura dell'intonaco. Per ovviare a questo problema, l'artista realizzerà piccole porzioni dell'affresco (giornate). Eventuali correzioni sono comunque possibili a secco, ovvero mediante tempere applicate sull'intonaco asciutto: sono però più facilmente degradabili.

Un'altra difficoltà consiste nel capire quale sarà la tonalità effettiva del colore: l'intonaco bagnato, infatti, rende le tinte più scure, mentre la calce tende a sbiancare i colori. Per risolvere il problema, è possibile eseguire delle prove su una pietra pomice o su un foglio di carta fatto asciugare con aria o vento di scirocco ossia aria calda. Paolo di Dono, ovvero Paolo Doni, detto Paolo Uccello (1397 – Firenze, 1475),

Tra i protagonisti della scena artistica fiorentina della metà del XV secolo Secondo quanto racconta Vasari nelle sue Vite, Paolo Uccello «non ebbe altro diletto che d'investigare alcune cose di prospettiva difficili e impossibili», sottolineando il suo tratto più immediatamente distintivo, cioè l'interesse, quasi ossessivo, per la costruzione prospettica. Questa caratteristica, unita con l'adesione al clima fiabesco del gotico internazionale, fa di Paolo Uccello una figura di confine tra i due mondi figurativi, secondo un percorso artistico tra i più autonomi del Quattrocento. Secondo Vasari fu soprannominato " Paolo Uccelli" perché amava soprattutto dipingere animali, e in particolare gli uccelli: avrebbe amato dipingerli per decorare la propria casa, non potendo permettersi animali veri. dal 1407e fino al 1414 fu, assieme a Donatello e altri, nella bottega di Lorenzo Ghiberti. Tra il 1425 e il 1431 soggiornò a Venezia nel 1431 ritornò in patria, dove trovò i colleghi di gioventù alla bottega di Ghiberti ormai lanciati verso una carriera affermata, quali Donatello e Luca della Robbia, a cui si affiancano due monaci già pienamente coscienti della portata della rivoluzione masaccesca, quali Fra Angelico e Filippo Lippi. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, 1438 , Firenze, Galleria degli Uffizi La caratteristica più appariscente delle opere della maturità di Paolo Uccello è l'ardita costruzione prospettica, che però, a differenza di Masaccio , non serve a dare ordine logico alla composizione, entro uno spazio finito e misurabile, ma piuttosto a creare scenografie fantastiche e visionarie, in spazi indefiniti. Il suo orizzonte culturale restò sempre legato alla cultura tardogotica , anche se interpretata con originalità. Le opere della maturità sono contenute in una gabbia prospettica logica e geometrica, dove le figure sono considerate volumi, collocati in funzione di rispondenze matematiche e razionali, dove sono esclusi l'orizzonte naturale e quello dei sentimenti. L'effetto, ben percepibile in opere come la Battaglia di san Romano è quello di una serie di manichini che impersonano una scena con azioni congelate e sospese, ma proprio da questa imperscrutabile fissità nasce il carattere emblematico e onirico della sua pittura. L'effetto fantastico è accentuato anche dall'uso di cieli e sfondi scuri, su cui risaltano luminose le figure, bloccate in posizioni innaturali. Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini,1438, National Gallery di Londra Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini,1438, National Gallery di Londra,particolare

Il dipinto raffigura un episodio storico, la battaglia tra fiorentini e senesi combattuta a San Romano il 2 giugno 1432. I senesi, guidati da Bernardino Ubaldini della Carda, erano in netta superiorità, ma i fiorentini, comandati da Niccolò da Tolentino, dopo essersi spinti per una ricognizione presso la torre di San Romano (Torre Giulia), nei pressi di Montopoli in Val d', decisero di attaccare improvvisamente. Quando lo scontro volgeva ormai a sfavore di Firenze, ecco che dall'altra parte del fiume sopraggiunse la colonna dei rinforzi del capitano generale delle milizie fiorentine Micheletto da Cotignola. I senesi allora, ormai stremati dalla battaglia, si diedero precipitosamente alla fuga. Le due tavole sono ottimi esempi delle ardite sperimentazioni prospettiche di Paolo Uccello, per le quali era famoso anche tra i contemporanei. In queste opere non usò la perspectiva artificialis, quella di Brunelleschi, riconducibile ad un unico punto di fuga centrale, ma la perspectiva naturalis, con più punti di fuga. Si crea così una veduta duplice, almeno nei pannelli di Londra e Firenze, che separa nettamente la parte anteriore della battaglia dallo sfondo, dove si muovono figure dalle proporzioni irreali e di gusto prettamente tardo gotico L'insieme intricato infatti ricorda gli arazzi, un bene che all'epoca aveva un valore superiore dei dipinti I cavalieri infatti indossano armature più da torneo che da battaglia, e ciò vale anche per le finiture dei cavalli. La tecnica usata prevalentemente è quella della tempera diluita con tuorlo d'uovo, sebbene in alcuni punti l'artista sperimentò leganti oleosi per ottenere alcuni effetti particolari. Diffusa è inoltre l'applicazione di metallo in foglia, sia oro che argento, con alcuni dettagli a rilievo, in pastiglia. Paolo Uccello, Storie di Noè, 1447 circa, affresco, Firenze, , Chiostro Verde Vasari nelle Vite lodò la perfezione a cui Paolo Uccello aveva condotto l'arte della prospettiva, ma lo rimproverò di esservi dedicato "fuori misura", tralasciando lo studio della resa di figure umane e animali: «Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e capriccioso ingegno che avesse avuto, da in qua, l'arte della pittura se egli si fusse affaticato tanto nelle figure et animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva»[ Questa limitata visione critica venne difatti ripresa da tutti gli studiosi successivi fino al Cavalcaselle, che, sottolineando come lo studio scientifico della prospettiva non impoverisce l'espressione artistica, dette il via a una comprensione dell'arte di Paolo Uccello più completa e ragionata[ prospettiva frammentaria di alcune opere, legata ad una interpretazione personale di tali principi, all'insegna di un maggiore senso "astratto e fantastico" Per Paolo la prospettiva rimase sempre uno strumento per collocare le cose nello spazio e non per rendere le cose reali, come è specialmente evidente in opere come il Diluvio Universale. Mantenendosi a metà strada tra mondo tardogotico e novità rinascimentali, Paolo Uccello fuse "antiche idealità e nuovi mezzi d'indagine" Paolo Uccello,Storie della Genesi, 1447 circa, Firenze, Santa Maria Novella, Chiostro Verde Paolo Uccello, San Giorgio uccide il drago, 1456 Londra National Gallery L 'opera ritrae San Giorgio cavaliere mentre dall'alto del suo cavallo sta trafiggendo lo spaventoso drago. Secondo il racconto della legenda Aurea san Giorgio, dopo averlo ferito, invita la principessa a legarlo senza timore con la sua cintura perché la segua in città "come una mansuetissima cagna", dove verrà poi ucciso dal santo per convertirne la popolazione al cristianesimo. San Giorgio è l'emblema della ragione che trionfa sulla bestialità e della fede che vince il male Lo sfondo è composto dalla grotta dove il drago ha il suo antro e di un sereno paesaggio con un turbine di nuvole sopra San Giorgio, a simboleggiare il suo vigore guerriero. Il ciclone dietro san Giorgio è composto da un vortice di nubi, che sembra anticipare gli studi dal vero di Leonardo. Il suolo è composto da siepi quadrangolari disegnate secondo le regole della prospettiva lineare centrica, della quale Paolo Uccello fu uno dei primi maestri. Nonostante l’impianto prospettico lo spirito è ancora tardo gotico; l’artista rivela una sua natura creativa appartenente ad una transizione culturalmente non pienamente matura rispetto ai canoni rinascimentali. Sembra quasi che la prospettiva sia un esercizio virtuosistico. La verità prospettica, astratta e matematica

Sulla cassa si legge l'iscrizione : IOANNES ACVTVS EQVES BRITANNICVS DVX AETATIS SVAE CAVTISSIMUS ET REI MILITARIS PERITISSIMVS HABITVS EST. La firma dell'artista Paolo Uccello Monumento equestre a Giovanni invece si trova sul bordo dell'altare: PAVLIVGIELLI OPVS. Acuto, 1436, Firenze, Santa Maria del Fiore Il grande affresco mostra un monumento equestre ispirato vagamente alla di Marco Aurelio a Roma punto di riferimento per tutte le statue equestri rinascimentali. Eseguito a monocromo (o verdeterra), per dare l'impressione di una statua bronzea. Mostra il , col bastone del comando, su un cavallo che tiene con le briglie e la sella, elementi della cavalcatura moderna che rivelano l'aggiornamento rispetto ai modelli della scultura romana. Il cavallo procede all’ ambio per cui alza contemporaneamente le zampe dallo stesso lato, il destro; per VASARI ciò era un errore perché il cavallo non avrebbe potuto stare in piedi, ma la correttezza della posizione fu ribadita da altri autori come Baldinucci e Cicognara. L'irruenza del cavallo, trattenuta senza fatica dal condottiero, è tra gli elementi che sottolineano l'abilità del cavaliere ripresi poi da Donatello nel monumento equestre al Gattamelata. L'affresco è impostato secondo due diversi impianti prospettici, uno per la base, scorciato dal basso, e uno frontale per il cavallo ed il cavaliere, che rendono la rappresentazione irreale ed enigmatica. La base ricorda un alto altare, con gli stemmi del condottiero, sopra il quale si trova il sarcofago dipinto, a sua volta sormontato dal monumento equestre. Le figure risultano curate, auliche, con un realismo di tipo "analitico", cioè con un'attenzione più rivolta alla somma delle parti che all'insieme sintetico della figura. Vi si nota inoltre una tendenza alla geometrizzazione delle forme, che dà all'insieme un effetto di raffinata astrattezza: Paolo Uccello Monumento equestre a Giovanni Acuto è è un condottiero simbolico e ideale, piuttosto che un personaggio reale. Acuto, 1436, Firenze, Santa Maria del Fiore Lo storicismo volontaristico di Andrea del Castagno ( Argan)

L'iscrizione riporta: «HIC QUEM SUBLIMEM IN EQUO PICTUM CERNIS NICOLAUS TOLENTINAS EST INCLITUS DUX FLORENTINI EXERCITUS».

Andrea del Castagno, Monumento a Nicola da Tolentino, 1456, Firenze Duomo Il monumento equestre è dipinto a monocromo per imitare una scultura in marmo. Su di un sarcofago-piedistallo classicheggiante, impostato secondo una prospettiva perfezionata per una visione dal basso e affiancato da due ignudi con armi araldiche, si trova il grandioso monumento equestre, isolato dallo sfondo tramite il contorno netto. Esso segue una prospettiva diversa dal sarcofago, che è impostato su una visione da sotto in su. L'effetto che ne risulta è quello che il cavallo stia come per cadere sull'osservatore, accentuato anche dalle due zampe di sinistra sollevate contemporaneamente nell'andatura d’ ambio del cavallo. L'animale è enorme e dall'apparenza indomita, ispirata alla testa antica del Cavallo Riccardi , e al monumento equestre al Gattamelata di Donatello, completato pochi anni prima a Padova visto attraverso , numerosi disegni in circolazione che lo riproducevano. Come nel Gattamelata o in altre statue equestri antiche il condottiero appare fisso e fiero, per niente preoccupato dall'irrequietezza dell'animale, sottolineando virtù militari quali l'attitudine al comando, la determinazione e la concentrazione. L'ampio cappello o alcuni dettagli ornati, come la coda del cavallo sinuosamente svolazzante o il mantello che si muove nell'aria, sono esempi di come, verso la metà del secolo, il gusto fiorentino si stesse orientando verso un maggiore ricorso ad elementi decorativi eleganti e raffinati, in contrapposizione con l'austera sinteticità degli artisti della prima metà del secolo, come appare chiaro al confronto col vicino affresco di paolo Uccello . Tipica di Andrea del Castagno è poi la sapiente resa anatomica e il chiaroscuro forte e incisivo, che dà effetti grafici stridenti e metallici, Andrea del Castagno, Monumento a Nicola da Tolentino, criticati dal Vasari . 1456, Firenze Duomo Andrea del Castagno, Monumento a Nicola da Tolentino, Paolo Uccello Monumento equestre a Giovanni Acuto, 1436, 1456, Firenze Duomo Firenze, Santa Maria del Fiore Le ville medicee sono dei complessi architettonici rurali, venuti in possesso in vari modi alla famiglia dei Medici fra il XV e XVI secolo, nei dintorni di Firenze e in Toscana Oltre che luoghi di riposo e svago esse rappresentavano la " reggia" estiva sui territori amministrati dai Medici e il centro delle attività economiche agricole dell'area in cui si trovavano. l'insieme di 14 ville è patrimonio dell’Unesco Il sistema delle ville medicee costituisce un vero e proprio microcosmo attorno al quale si svolgevano i rituali della corte medicea. Spesso sorte al posto di antichi castelli, tali ville esprimono al massimo l'alto livello di architettura rinascimentale e barocca raggiunto in Toscana , permettendo confronti sull'evoluzione degli stili. Tutto questo differenzia notevolmente le ville medicee dalle più " semplici" case rurali toscane. Le ville potevano essere ereditate, acquistate, sequestrate o fatte costruire appositamente dai Medici. Alla fine del il sistema territoriale delle ville, dalle forti valenze economiche e strategiche, consisteva in almeno 17 tenute principali, secondo un profilo storico-artistico. A queste vanno aggiunte altre secondarie, d'interesse per lo più agricolo oppure tenute dai Medici per pochissimo tempo, per un totale di circa trenta ville vere e proprie. Molto più numerose furono poi le fattorie medicee e gli innumerevoli casini di caccia sparsi in tutta la Toscana.

La stagione delle ville medicee si concluse con Ferdinando I che acquistò Montevettolini e Artimino, mentre ampliava anche l'Ambrogiana, la Petraia e Castello Michelozzo: villa medicea di Cafaggiolo, dal 1451 Le prime ville medicee sono quelle del Trebbio e di Cafaggiolo il severo aspetto fortificato trecentesco e legate esclusivamente al controllo dei fondi agricoli nella zona del Mugello, della quale erano originari i Medici. Nel 400 Cosimo il Vecchio fece edificare da Michelozzo le ville di Careggi e Fiesole, edifici ancora severi nelle forme, ma dove iniziano ad essere presenti degli elementi di svago: cortili, logge, giardini. Lorenzo dei Medici era solito risiedere per lunghi periodi a Careggi, qui soleva far riunire l’Accademia Neoplatonica e il Cenacolo di , e sempre qui lo colse la morte nel’ 1492. Gradualmente i Medici "accerchiarono" Firenze con le loro ville, mentre nel periodo granducale, di pari passo con lo svilupparsi dei loro interessi in tutta la Toscana, si assiste a una costellazione di queste strutture architettoniche anche in zone lontane dalla capitale del Granducato. Le ville medicee sono rappresentate in una famosa serie di lunette dipinte nel 1599 cira Giusto Utens nela villa della Petraia e che sono un insostituibile documento di come apparivano queste residenze nei secoli passati, particolarmente prezioso per quelle modificate in seguito oppure nel tempo perdute, come la . Ogni membro della famiglia Medici possedeva una sua tenuta come luogo di piacere e di rappresentanza, mentre il Granduca si spostava da una villa all'altra: per la caccia si recava a Pratolino, al Trebbio e a Cafaggiolo, in primavera soggiornava all'Ambrogiana, mentre ad Artimino, che si trova in collina, passava le giornate di luglio in frescura. I giardini per le quali le ville sono famose hanno un primo esempio nella , dove Cosimo I fece realizzare quello che è il prototipo del giardino all’italiana da Niccolò Tribolo, autore in seguito anche del giardino di Boboli. Oggi le ville hanno varie destinazioni: alcune sono veri e propri musei (La Petraia, Poggio a Caiano, Cerreto Guidi), altre sono occupate da istituzioni (come a Castello dove il giardino è un museo, mentre la villa è la sede dell'Accademia della Crusca. Michelozzo: la villa medicea di Poggio a Caiano, dal 1455 Michelozzo: cortile del palazzo Medici-Riccardi, 1444-64