Il Terrorismo Il Terrorismo rosso Brigate Rosse Il sequestro Cirillo

QUEL PATTO A TRE CON LA La Democrazia Cristiana, le Brigate Rosse e il Clan di Cutolo. Ecco come i giudici hanno ricostruito il caso Cirillo e il sistema di potere napoletano. «Boss figlio di boss», lo aveva definito l'ex presidente della Repubblica . E è finito in una cella del carcere di Forte Boccea, con l'accusa di associazione mafiosa, per aver stretto rapporti politici e d'affari con la Camorra, lui che, da ministro dell'Interno, aveva il compito istituzionale di coordinare la lotta contro le organizzazioni criminali. Quello che è accaduto a Napoli con l'arresto di Gava, nella notte di San Gennaro, non è soltanto l'epilogo clamoroso di un caso giudiziario pendente da tanto tempo. E’ la resa dei conti di un sistema politico. La caduta di un Muro: dopo Milano e Palermo, anche Napoli ha mostrato pubblicamente, con l'ufficialità dei documenti processuali firmati dai giudici, il volto oscuro di un regime fatto di tangenti, di accordi segreti tra politica e affari, di patti inconfessabili stretti tra gli uomini dei partiti e la criminalità organizzata. Mani pulite a Milano. Cosa nostra e i suoi rapporti con a Palermo. E ora Don Antò e la Camorra a Napoli. «E’ possibile mai che nessuno se ne fosse accorto prima?», si chiede oggi dall'esilio di Hammamet uno dei protagonisti di quel regime, , che con Gava ha in comune almeno il diabete. Domanda che finisce per alzare una cortina di nebbia sugli sforzi di quanti «si erano accorti»: le inchieste giornalistiche sulla corruzione, le ricerche sociologiche (Percy Allum sulla Napoli dei Gava ci aveva scritto addirittura un saggio, negli anni Settanta), le indagini dei giudici puntualmente depistati, intimiditi, sottoposti a procedimento disciplinare. Soltanto la politica, che difendeva se stessa, «non si era accorta». Eppure perfino le vignette satiriche gridavano, quando Gava era diventalo ministro dell'Interno, che per la prima volta veniva sperimentata «una cura omeopatica contro la mafia»: la Camorra per curare la Camorra. Oggi, caduti i Muri, è possibile mettere insieme lutti e frammenti di verità emersi negli anni e ricostruire anche la vicenda di Gava e del suo sistema di potere. Fino al più emblematico e terribile degli episodi che hanno caratterizzato quella stagione: la trattativa seguita al rapimento dell'ex assessore regionale . Sequestrato da un commando delle Brigate rosse nell'aprile 1981, Cirillo, depositario dei segreti del potere di Gava, fu strappato ai suoi rapitori a costo di scendere a patti con i terroristi delle Br, di utilizzare in modo anti-istituzionale i servizi segreti, di promettere denaro, appalti e impunità alla Camorra. Ma i rapporti di Gava con i boss erano iniziati molti anni prima del rapimento Cirillo e sono proseguiti per molto tempo dopo. Le oltre mille pagine dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari Antonio Sensale, che ha fatto arrestare l'ex ministro democristiano, ricostruiscono una carriera politica tutta cresciuta all'ombra delle relazioni pericolose con i boss.

IL BACIAMANO DI DON ANTONIO

Dal loro feudo di Castellammare, i Gava, democristiani venuti dal bianco Veneto dopo la disfatta di Caporetto, nel 1917, nel secondo dopoguerra avevano costruito una rete di potere che a poco a poco aveva avviluppato Banco di Napoli, Iri, Cassa per il Mezzogiorno, Ente porto, Banca Fabbrocini, Provincia. Nei primi anni Sessanta, forti delle loro clientele, avevano dato scacco al vecchio Achille Lauro, il sindaco della distribuzione elettorale della pasta nei vicoli di Napoli, e ne avevano assorbito il potere. I simboli sono importanti, a Napoli e in . Gava lo sapeva. E imponeva «a chiunque lo avvicinasse il baciamano, condotta che aveva ereditato dal padre Silvio». È’ il camorrista , diventato collaboratore di giustizia, a raccontarlo ai magistrati napoletani. Dietro i simboli, gli accordi concreti, stretti fin dagli anni Settanta con il boss emergente di quella stagione, , capo della Nco, la Nuova Camorra Organizzata: «II senatore democristiano Francesco Patriarca e Gava - racconta Galasso - si allearono immediatamente con lui, in particolare tramite uno strettissimo rapporto con Alfonso Rosanova». Rosanova è la mente politica del gruppo di Cutolo, il suo braccio destro addetto ai rapporti con gli uomini dei partiti. L'alleanza che riesce a stringere con Gava è il suo capolavoro. Da vita a un potere fortissimo perché è l'alleanza tra due vincenti: Cutolo dentro la Camorra, Gava dentro la Dc. Oggi un figlio acquisito di Rosanova, Alfonso Ferrara, è testimone di quel rapporto: «All'epoca (1978-1979) mio padre era latitante. Gava - racconta ai giudici - era ministro per i Rapporti con il Parlamento e aveva il proprio ufficio al terzo piano di Palazzo Chigi. Mio padre entrava esibendo un tesserino privo di fotografia, che gli consentiva l'ingresso anche a Montecitorio e alla sede Dc dell'Eur». In quegli stessi anni Gava ha rapporti anche con un altro clan camorristico, quello dei Nuvoletta. Lo afferma nientemeno che , l'ultimo capo dei capi della Camorra, subentrato, negli anni Ottanta, a Cutolo e dopo l'arreslo diventato collaboratore di giustizia: «Avrei dovuto incontrare Gava, e non lo incontrai per puro caso, a Poggio Vallesana, nell’abitazione di Ciro Nuvoletta, in occasione della campagna elettorale per le politiche del 1979». Alfieri è colpito dall’influenza e manda al suo posto un luogotenente, Antonio Malventi, che va, ascolta e riferisce al capo: «Vi erano un centinaio di persone, la maggior parte esponenti della delinquenza casertana e napoletana. C'erano tutti, i Nuvoletta, i Lubrano, Raffaele Ferrara e altri affiliati a Bardellino». Un vero summit politico-mafioso, con decine di boss armati e ufficialmente latitanti, ma lasciati indisturbati dalla polizia, che anzi vegliava sul tranquillo svolgimento degli incontri.

«STRAPPATE CIRILLO ALLE BR, VIVO O MORTO»

Poi, una sera d'aprile del 1981, accade l'imprevedibile. Un gruppo armato delle Brigate rosse sequestra Cirillo. Ore 21.45 del 27 aprile: il commando piomba nel box dell'assessore regionale democristiano, dove è appena arrivata la sua auto blindata, uccide l'autista Mario Cancello e il poliziotto di scorta, il brigadiere Luigi Carbone. Il segretario dell'assessore, Ciro Fiorillo, è «gambizzato». Cirillo è portato via a bordo di un furgone. Subito dopo, la rivendicazione: l'azione è stata compiuta dalla colonna napoletana delle Brigate rosse. Quella comandata da Giovanni Senzani, criminologo passato alla lotta armata dopo essere stato di casa al ministero di Grazia e Giustizia. Gava, che di Cirillo è il grande protettore e il padre politico, non perde tempo: sa che il rapito conosce tutti i segreti della Dc napoletana, anche quelli inconfessabili. Teme che, sottoposto ad un «processo proletario», Cirillo possa parlare. Per questo decide che il sequestro deve finire in tempi rapidissimi: l'ostaggio deve essere liberato oppure deve morire, ma comunque prima che possa cedere. Si mobilitano immediatamente i dirigenti di una Dc che ha già spostato dal Veneto a Napoli la sua capitale: , e, naturalmente, Antonio Gava si incontrano, valutano la situazione, decidono la strategia da seguire. È subito coinvolto anche Flaminio Piccoli, allora segretario del partito. La decisione è: aprire la trattativa segreta con i rapitori. A ogni costo. Per salvare non tanto Cirillo, quanto la Dc. Si cercano canali di comunicazione con i rapitori. La Camorra, per esempio. Cutolo, in quel periodo, è rinchiuso nel carcere di Ascoli Piceno, ma è ancora un boss potente, che agisce all'esterno grazie al suo braccio destro, . Entrano in funzione gli 007. Prima gli agenti del Sisde, il servizio segreto civile, poi quelli del Sismi, il servizio segreto militare.

ARRIVANO GLI OO7 DELLA LOGGIA P2

Entrano ed escono dal carcere di Ascoli. Trattano con Cutolo. Per non lasciare tracce del loro passaggio falsificano i registri dell'istituto di pena. La proposta è chiara: se la Camorra riuscirà a convincere le Br a liberare Cirillo, avrà in cambio denaro, appalti, processi favorevoli. Intanto Gava si dà da fare per raccogliere i soldi del riscatto: 1 miliardo e 500 milioni da pagare alle Br in biglietti da 5Omila. Sono mobilitati soprattutto gli imprenditori edili, a cui la Dc promette di ricambiare il favore con i soldi pubblici dei ricchi appalti per la ricostruzione del dopo-terremoto. Si muovono anche Pasquale Acampora, vicepresidente del Banco di Napoli, e Michele Principe, potente amministratore delegato della Stet. In poche settimane l'obiettivo è raggiunto, anzi superato: vengono messi insieme circa 3 miliardi. Metà andranno alle Br, metà alla Camorra. Così alle 6 del mattino del 25 luglio, dopo poco meno di tre mesi di sequestro e una fitta contrattazione sotterranea, Ciro Cirillo viene rilasciato. Le indagini sul rapimento capitano a due giovani giudici che sono fuori dal controllo Gava. Pubblico ministero è Libero Mancuso, giudice istruttore è Carlo Alemi. L'indagine dura sette anni, dal settembre 1981 fino al luglio 1988. Molti testimoni e imputati che sapevano troppo muoiono. Viene ucciso anche Antonio Ammaturo, dirigente della Squadra mobile napoletana, che stava indagando sulla vicenda: freddato sotto casa il 15 luglio 1982 dalla colonna napoletana delle Br. Alemi e Mancuso scoprono che Piccoli e Gava avevano mobilitato per Cirillo gli uomini dei servizi: Francesco Pazienza innanzitutto, vero capo del Sismi negli anni in cui la P2 aveva conquistato dall'interno molte istituzioni della Repubblica. Hanno avuto contatti con Cutolo, si scopre, personaggi come Giorgio Criscuolo e Raffaele Salzano, funzionari del Sisde, oltre al generale Pietro Musumeci e al colonnello Giuseppe Belmonte, entrambi ufficiali del Sismi, entrambi iscritti alla P2, entrambi coinvolti nei depistaggi seguiti alla strage di Bologna.

IL NUOVO PATTO CON CARMINE ALFIERI

Dopo la liberazione di Cirillo, Cutolo è all'apice del suo potere. Lui e la sua organizzazione hanno avuto denaro, garanzie di subappalti, promesse di riduzioni di pena. Don Raffaele ha trattato da pari a pari con i boss democristiani e i grossi papaveri dei servizi segreti. Ha posto le basi per futuri affari. Ha ottenuto quel «riconoscimento politico» negato alle Br. Ma il successo di Cutolo fu l'inizio della sua rovina. I clan rivali, stretti attorno a Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, temono di essere spazzati via. Allora reagiscono scatenando la guerra. Nel giro di un anno ammazzano uno dopo l'altro i boss cutoliani, compreso il vecchio Rosanova. Ottengono un effetto insperato: non soltanto vincono sul campo la guerra contro la Nco, ma vedono arrivare dalla loro parte Gava e i suoi. Ai padrini politici fa comodo che, da una parte, siano eliminati i testimoni scomodi della trattativa con le Br e, dall'altra, non siano più costretti a mantenere tutti gli impegni presi con loro durante il sequestro Cirillo. Quando il vice di Cutolo, Casillo, salta in aria platealmente, a Roma, dentro un'auto imbottita di esplosivo, il capo della Nco in carcere capisce che è stato ormai stretto un nuovo patto tra Gava e i clan dei suoi avversari. Il giudice Sensale oggi così descrive quel patto: «Permanente sostegno elettorale assicurato dal gruppo criminoso al gruppo politico, in cambio di garanzie d'impunità per gli affiliati e di controllo delle pubbliche amministrazioni e degli appalti da queste gestite». Garanzie e promesse mantenute: il ministro Gava infatti «dimentica» di inserire il nome di Carmine Alfieri nella sua relazione del 5 dicembre I989 al Parlamento sulla criminalità organizzata. Un anno dopo, il 3 aprile 1990, «dimentica» ancora Alfieri nella relazione sull'attività delle forze di polizia. Oggi, dopo più di dieci anni, tramontate le fortune politiche dei protagonisti, sono arrivate le conferme, le testimonianze, i riscontri. I giudici di allora, Alemi e Mancuso, frenati, depistati, minacciati, querelali, indicati come sovversivi, pazzi e comunisti, hanno ottenuto la loro rivincita.

Fonte: L’Europeo, 5 ottobre 1994

NB: Per completezza dell’informazione va sottolineato che la vicenda del sequestro di Ciro Cirillo - per la quale ci furono due tronconi di processo (contro la colonna napoletana delle Br e sulla trattativa - tornò in primo piano nel dibattimento concernente i rapporti di alcuni uomini politici, tra cui lo stesso ex ministro Antonio Gava, con la Camorra. Dopo 5 anni e 4 mesi di udienze il processo di primo grado si concluse con l’assoluzione di Gava. Assoluzione poi confermata in Appello nel 2005. Nel corso del processo di primo grado, così come in Appello, per Gava la pubblica accusa aveva chiesto una condanna a dieci anni di reclusione.