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I film italiani sulla Liberazione

Una data di straordinaria importanza per il nostro Paese, mai come quest’anno tornata di moda in periodo di quarantena forzata, causa Coronavirus. Eppure quel benessere, del quale oggi godiamo, quella democrazia tanto agognata e sperata, affonda le sue radici in quel 25 aprile simbolico del discorso di Sandro Petrini, pochi giorni prima che quel 2 maggio 1945 le forze alleate entrassero a Berlino, ponendo così fine alla seconda guerra mondiale.

“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”

Il cinema italiano non si è poi, risparmiato nel raccontare quegli attimi di speranza, di ribellione di un popolo che voleva rinascere, che voleva riprendere la propria vita in mano, pur senza scordare il sacrificio, di uomini, resi eroi dalle circostanze, in nome del futuro della propria Patria e dei propri figli.

Quella “Liberazione” ricordiamo, non avvenne in maniera unitaria in tutta Italia, ma ebbe inizio da quel famigerato 8 settembre 1943, nel quale l’Italia cambiò schieramento firmando l’armistizio con le Forze Alleate, inglesi, francesi, americane e russe, riprendendo la guerra contro l’oppressore nazi- fascista. Fu una Liberazione graduale, dalla Sicilia a salire.

Il gioiello da tesaurizzare, su tutti, che meglio descrive quei momenti è “Tutti a casa”, del 1959, di Luigi Comencini, che inquadra perfettamente il caos di quei giorni, attraverso l’interpretazione memorabile di , il quale veste i panni del sottotenente Alberto Innocenzi, il quale vede squagliarsi la sua compagnia e si mette in marcia verso casa. Visto deportare un compagno dai nazisti, dopo la fuga dal padre (Eduardo De Filippo) che lo vorrebbe arruolato nell’ R.S.I., giunge a Napoli col soldato Ceccarelli (Reggiani) decidendo da che parte stare e cominciando a sparare contro i tedeschi: sono le quattro giornate di Napoli, quelle dal 24 settembre al 28 settembre 1943, quella ribellione del popolo napoletano che portò alla liberazione della città partenopea. Aiutato da un Alberto Sordi a dir poco sublime, conciliando felicemente il tono umoristico con quello drammatico, Comencini contribuisce a spezzare il muro di silenzio calato negli anni ’50 sulla Resistenza, affrontando con efficacia, e ottima precisione storica, un momento cruciale della nostra storia, accuratamente ignorato dal cinema italiano fino a quel momento.

Arriva, dunque il periodo in cui tutta l’Italia è in attesa dell’arrivo delle truppe Alleate, che significa Liberazione dall’oppressore nazi-fascista e la fine della guerra. Il sud-Italia viene già liberato all’alba del fatidico 8 settembre 1943. A Napoli la Liberazione avviene il 28 settembre di quello stesso anno, al termine delle storiche “Quattro giornate di Napoli”. A Roma gli Alleati sarebbero entrati solamente il 4 giugno del 1944, dopo una strenua resistenza tedesca lungo la linea di Gurov, o definita anche Caesar, posta nella zona poco sopra Anzio, dove avvenne lo storico sbarco, che insieme a quello di Norimberga, ha deciso l’esito della seconda guerra mondiale. La Liberazione significava commozione, democrazia, libertà, fu una gioia per tutti. Film come “Napoli milionaria” (1950), nato dalla penna artistica di Eduardo De Filippo, descrivono alla perfezione il sentimento di rinascita del popolo italiano. La voglia di ricostruire, la voglia di raccontare gli scempi della guerra, per costruire un mondo migliore per i propri figli. L’alba di un giorno nuovo, la speranza di una ricchezza d’animo e di una stima reciproca ormai persa. La speranza, il senso della commedia stessa è un messaggio che Eduardo, dapprima rivolge alla sua Napoli ma che poi varca il confine, arriva al mondo, a tutti coloro che hanno subìto e che aspettano che passi la notte.

Altro ritratto magnifico, che ci ricostruisce l’eroismo italiano in chiave “Liberazione” è quello de Il generale Della Rovere (1959), pensato e scritto per , che interpreta magistralmente la figura di un imbroglione che durante la guerra finisce in prigione sotto le mentite spoglie di un generale dell’esercito italiano. Alla fine, l’imbroglione riscatterà la sua misera vita andando a morire con grande dignità, come se fosse veramente il generale Della Rovere, non rivelando importanti notizie che avrebbero messo in serio pericolo di vita partigiani e gente civile.

CI sono altri momenti di storia Patria sulla Liberazione destinati a rimanere nella storia. Uno dei migliori a cogliere gli attimi di attesa che culminano nella gioia della Liberazione è “Il cambio della guardia”, splendido film del 1962, interpretato da Fernandel e Gino Cervi, reduci dal successo della serie di “Don Camillo e Peppone”. La pellicola tratta dal romanzo “Avanti la musica” di Charles Exbrayat, narra la storia di due amici, Mario e Attilio (Gino Cervi e Fernandel) ai tempi dell’arrivo degli alleati a fine seconda guerra mondiale. Se nella saga di “Peppone e Don Camillo”, Cervi ha sempre fatto il comunista e Fernandel il prete cattolico, qui ad Ardea le cose si sono ribaltate. Cervi ha recitato la parte del gerarca fascista e Fernandel dell’antifacista. Nella coproduzione italo- francese – filmata sulla rocca della città – il podestà di Ardea, Mario Vinicio (Cervi), dà i poteri a un antifascista, Attilio Cappellaro (Fernandel), tanto i loro due figli stanno per sposarsi e tutto rimane dunque in famiglia. Ma sorgono degli inconvenienti, perché gli americani tardano ad arrivare e i gerarchi fascisti mettono loro i bastoni tra le ruote. A fine film, finalmente arrivano le truppe alleate e la commedia si chiude con la commozione della Liberazione tanto auspicata.

Possiamo continuare citando altri film a loro modo esplicativi del particolare momento storico: Il partigiano Johnny (2000). Il regista Guido Chiesa gira la versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio con l’attore Stefano Dionisi nei panni del soldato disertore che si unisce alla Resistenza e che insieme a (Ettore) racconta quegli anni, dal 1943 al 1945 circa, da un punto di vista umano e personale.

Il terrorista (1963). Film di Gianfranco De Bosio ed interpretato, fra gli altri, da Gian Maria Volonté, Philippe Leroy e Raffaella Carrà. Il regista si rifà alla sua esperienza nella Resistenza veneta, nella quale ha partecipato a Padova per dare a questo film – come descrive il critico Gianni Rondolino – un impianto ideologico molto forte e uno stile asciutto che racconta la storia di un uomo che prova a fondare un GAP (Gruppo di azione patriottica) a Venezia nel 1943.

Un giorno da leoni (1961). Nanny Loy descrive i sentimenti della Resistenza da un punto di vista umano e popolare. I suoi giovani, i personaggi di Michele, Gino e Danilo, che decidono di abbracciare la lotta oppure no, sono umani, a volte eroici e a volte indifferenti ma molto iconici del clima di quel periodo e delle scelte che fecero molti ragazzi. Per i quali spesso l’adesione alla Resistenza fu anche momento di crescita personale dopo un primo sentimento di naturale paura.

A luci spente (2004). Diretto da Maurizio Ponzi il film racconta l’evoluzione di un set cinematografico romano sullo sfondo della primavera-estate del 1944. Nel cast l’attrice Giuliana De Sio e Giulio Scarpati partecipano ad una storia di trasformazione personale e artistica, dove anche il cinema capisce di non poter più girare lo sguardo di fronte alla realtà della guerra ma deve in molti casi farsi racconto ‘impegnato’ dell’attualità.

La ragazza di Bube (1963). La storia d’amore tra la contadina Mara (Claudia Cardinale) e il partigiano Bube (George Chakiris) vista dal regista Luigi Comencini e tratta dal romanzo di Carlo Cassola. Un ritratto umano e sentimentale di come venivano vissuti i rapporti amorosi divisi dalla guerra.

E poi vorremmo concludere con un piccolo grande miracolo, quello di Vittorio De Sica, di Cesare Zavattini e de La porta del cielo. “La porta del cielo” è un film del 1944 diretto da Vittorio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, e pur non essendo, da un punto di vista tecnico, tra i loro film più acclamati, è però quello che più di ogni altro assume grande rilevanza per capire “l’uomo De Sica” e “l’artista De Sica”. La genesi del film è particolarissima, perché se è facile raccontare i difetti di un uomo grande, grandissimo come Vittorio, è meno facile dare il senso della sua generosità, della sua fantasia e dell’affettuoso sortilegio in cui con il suo carisma era capace di avvolgere chiunque avesse vicino. De Sica e Zavattini con questo film, non solo avevano compiuto un vero e proprio atto eroico, ma erano riusciti, evidenziando nella regia un’attenzione al particolare verista, a dare lo spunto per i loro successivi capolavori neorealisti, ma anche per quelli di Visconti e di Rossellini. De Sica, specialmente, era riuscito a fare quello che altri avevano tentato senza successo: cambiare il cinema per cambiare se stessi. De Sica riuscì attraverso questo piccolo film, commissionato dal Vaticano, a salvare dalla deportazione tantissimi ebrei, se ne contano più di 800: da brividi! Il risultato? uno straordinario, involontario miracolo operato dal cinema, che quando è buon cinema, sa essere più vero della realtà. Le riprese del film iniziarono il primo giorno di marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo, fuori le mura. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati. Lì avvenne il “piccolo grande miracolo”. Il fulcro della trama è la storia di un gruppo di malati in viaggio verso Loreto per chiedere il miracolo della guarigione alla Madonna.

De Sica impose la presenza del suo grande amico e sceneggiatore di sublime livello Cesare Zavattini, con il quale scriveva i suoi film e avrebbe scritto i capolavori futuri. La sceneggiatura della “Porta del cielo” fu redatta da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, imposto dalla produzione vaticana e ben introdotto nella Curia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, prevalse l’irruenza delle idee del grande Zavattini, sostenute ovviamente da De Sica. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di quell’ateo e ingegnoso Zavattini? Ma il vero miracolo si compì e fu un altro. Poche sere prima dell’inizio delle riprese, nell’ultima decade di febbraio per la precisione, mentre De Sica e Zavattini mettevano a punto gli ultimi accorgimenti di sceneggiatura, assistettero ad una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi, dalla mattina dopo, nella splendida Basilica di San Paolo, sotto la protezione della bandiera vaticana: alla fine erano più di 800 persone, che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita firmata Città del Vaticano. Tra questi ovviamente anche De Sica e Zavattini. Ed anche la Mercader.

L a l o c a n d i n a d e l f i l m “ L a p o r t a d e l cielo” del 1944 diretto da Vittorio De Sica.

Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione ( le notizie che arrivavano per radio, davano le truppe alleate ad un passo da Roma, ed esortavano la popolazione a resistere che la liberazione era vicina), la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Bunuel, in cui le persone erano praticamente costrette, in maniera quasi claustrofobica, dalle persecuzioni che avvenivano all’esterno a rimanervi tappate dentro. C’erano un sacco di ebrei dentro, alcuni famosi come Piperno, Lattes e addirittura Carlo Levi, e poi Modena, e tanti tanti partigiani. Le autorità nazi- fasciste erano perfettamente a conoscenza di ciò che stava succedendo all’interno della Basilica, ma non potevano intervenire per l’extraterritorialità di quella Basilica, a tutti gli effetti territorio vaticano. De Sica era stato anche informato da Monsignor Montini, di prestare attenzione, perché le autorità fasciste sapevano perfettamente cosa stava accadendo là dentro. Arrivò poi un’alba, quella del 4 giugno 1944, e le riprese continuavano quella mattina, stranamente presto, molto presto. Roma era ferma e calma quella mattina. Ma nell’aria si avvertiva un’atmosfera diversa e mentre, come da un mesetto a questa parte De Sica continuava a girare senza pellicola e avrebbe continuato anche per mesi in attesa della liberazione, si udirono da fuori i rumori dei carri armati americani, delle grida della gente in festa: le truppe alleate avevano sfondato, era finita, gli americani erano entrati nella Capitale, Roma era stata liberata, almeno nella Capitale la guerra era finita. E la commozione ebbe il sopravvento, la grande paura era passata e gli 800 ebrei poterono dire grazie all’intuizione e all’eroismo di De Sica, di Zavattini e di tutta la troupe.

Si compì il miracolo di un film nel film, il miracolo di una nazione che rifiorisce dalle miserie, partendo dalla descrizione realistica degli scempi causati dalla guerra: era nato il Neorealismo. Anche il grande scrittore Ennio Flaiano, rimase commosso ed estasiato dalla maniera in cui si svolse il film, e cosa accadde intorno al film stesso, rimase anch’egli estasiato dal miracolo che si compì, uno scritto dello stesso Flaiano, apparso il 6 maggio 1945 sul settimanale “Domenica” dice:

“La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo, mi sembra, è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso. Basterà ricordare che il 3 giugno scorso, mentre a pochi chilometri di distanza si decideva la battaglia per Roma, 800 persone tra comparse e tecnici vari erano agli ordini del regista nell’interno della Basilica di San Paolo, intenti a girare, mostrando un disprezzo per la guerra che soltanto Archimede avrebbe condiviso. De Sica raccontava che gli aveva chiusi praticamente a chiave, altrimenti qualcuno sarebbe anche, stoltamente, potuto scappare. E rideva come di uno scherzo riuscito. Il film è stato girato a Roma durante i mesi dell’occupazione tedesca. Probabilmente sarebbe rimasto incompiuto se non fosse stato di proposito una risposta a quell’occupazione, agli atti che la caratterizzarono, e addirittura alla filosofia che l’aveva fatalmente provocata come episodio di una guerra diretta più contro l’Uomo che contro determinate nazioni”.

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Sono solo fantasmi - Il Film

Sono solo fantasmi di Christian e Brando De Sica, è una curiosa contaminazione tra horror e commedia brillante, un po’ sulla falsariga di alcuni esempi ibridi tipo Tempi duri per i vampiri (1959), dove il comico nostrano era inserito in una bizzarra parodia degli horror movies della Hammers con Christopher Lee nel ruolo di Dracula. Ma ancora di più Sono solo fantasmi guarda a Ghostbusters (1983) di Ivan Reitman, per gli effetti speciali e agli zoombie movies. Ma ancora di più è debitore, nella leggerezza e nello stile, allo splendido Fantasmi a Roma (1961), di Antonio Pietrangeli. Ma è ancora di più un omaggio di Christian De Sica alla figura del padre Vittorio; ma non passi inosservato neanche che il personaggio interpretato da Gianmarco Tognazzi si chiami Ugo.

La sequenza finale, in bianco e nero, con Christian De Sica che assume le sembianze del padre, è da pelle d’oca, mentre sulla discesa del palazzo del Giudizio Universale, saluta il pubblico nella classica posa del padre. Scopri il nuovo numero > Il Natale che verrà La trama è presto detta. E’ la storia di tre fratelli: Thomas (Christian De Sica), Carlo (Carlo Buccirosso) e Ugo (Gianmarco Tognazzi), i quali alla morte del padre, Vittorio De Paola (!!! neanche questo un caso), scoprono che lui aveva sperperato al gioco tutte le sue ricchezze. Per salvare l’antico palazzo di famiglia, scelgono quindi di sfruttare la superstizione popolare degli abitanti di Napoli per mettere in piedi una redditizia attività di acchiappafantasmi.

Molto scettici in principio, strane apparizioni e voci convincono presto i fratelli a prendere molto più sul serio l’intera faccenda, arrivando a intuire che la profezia del risveglio di una terribile strega – la janara del folklore locale – arsa viva secoli prima e pronta a scatenare la sua furia su Napoli, sia tutt’altro che da prendere sotto gamba. Saranno aiutati dal fantasma del loro padre (sempre Christian De Sica), sconfiggeranno la maledizione e salveranno la città partenopea dalla distruzione. Un film insolitamente serio: potrebbe essere definito un black-umor, che in alcuni casi addirittura sorprende, sia per l’ambientazione, sia quando il film si fa serio. Ma anche quando il film verte sul più classico lato “comedy”, sembra azzeccato, soprattutto nel connubio dell’insolito trio composto dallo stesso Christian De Sica nei suo soliti ruoli da fanfarone; da Carlo Buccirosso, il fratello trapiantato a Milano, che vive all’ombra del ricco suocero; e da Gianmarco Tognazzi, il fratello “ritrovato”, tontolotto e perennemente in bilico tra il grottesco e il tragicomico.

Per tutte queste ragioni il film è da vedere, impreziosito dallo squarcio di poesia finale, che dà davvero l’impressione che quello sullo schermo sia Vittorio, cui De Sica-figlio dà il corpo, la somiglianza, le movenze e la voce, quasi come se fossimo di fronte ad un Ghost di casa nostra. A chi ha amato e ama De Sica-padre, forse una lacrimuccia ci scapperà, riscattando magari il giudizio sul film, che, per la verità, anche avulso da questo commovente omaggio, non è affatto deprecabile.

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Cinema italiano, politica e censura

Domenico Palattella (122)

Nel rapporto ormai centenario tra Cinema e Politica, ha sempre avuto una posizione predominante la cosiddetta censura cinematografica. Un istituto quello della censura, che mai come in Italia, in 100 anni di storia, è riuscita a segnare profondamente il nostro cinema, attraversando le epoche, i regimi, gli anni della democrazia cristiana, la liberalizzazione post-sessantottina, i “mitici” anni ’80 arrivando fino ai giorni nostri. La storia di un istituto che ha visto nel corso degli anni, allargare sempre di più le sue maglie austere che hanno imbrigliato il cinema soprattutto a cavallo degli anni del regime fascista, fino agli inizi degli anni ’60. Ma la censura è stata quasi sempre un mezzo di ingerenze politiche essendo il complesso di procedimenti attraverso il quale una autorità o un ente attuano il controllo preventivo, in itinere, o successivo all’ uscita di un’opera cinematografica, limitando o negando la sua proiezione in pubblico. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l’ordine pubblico. U n a s c e n a del film Sciuscià del 1946 di Vittorio De Sica.

E così produttori, registi e sceneggiatori hanno sempre dovuto averci a che fare, e in alcuni casi i più scaltri, impararono anche a confrontarsi. Numerosi sono i mezzi con cui operava la censura democristiana: dal ritardo nella concessione del visto per l’esportazione (“Sciuscià-1946, di Vittorio De Sica), al fermo in tutte le sale cinematografiche (“Adamo ed Eva”-1950, con Macario) in virtù dei tabù religiosi e di scene che rappresentavano donne in abiti succinti. Era l’Italia morale e moralizzatrice dei primi anni ’50, quando un bacio non poteva durare per più di tre secondi e le parolacce erano completamente bandite, come anche i nudi di donna. Lo spettacolo tuttavia, tentava ogni tanto di prendersi timide vendette. All’amante del suo predecessore Pepé, che risentita delle sue domande in atteggiamento comicamente pretesco gli chiede “Ma che fai?”, Totò le Mokò risponde: “Il democratico cristiano: censuro la tua anima”, assolutamente geniale! Era il 1949 di “Totò le Mokò”, una delle migliori totoate in assoluto.

L’asfissiante censura cinematografica, che nella maggior parte dei casi coincideva con l’effettuazione di tagli censori, che snaturavano il significato intrinseco del film, si sarebbe attenuata a partire dalla metà degli anni ’60. L’allentamento dei freni censori allargò le maglie della censura in maniera definitiva, netta e irreversibile. In quegli stessi anni le ingerenze politiche, non erano finalizzate soltanto nel bloccare eventuali attacchi eversivi scaturiti dalle pellicole, ma in alcuni casi le pellicole stesse erano finanziate o create dalla politica stessa. Il caso più importante, e forse anche il più misconosciuto, riguarda il film “Ho scelto l’amore”, del 1953, recitato da Renato Rascel e commissionato dalla Democrazia Cristiana, in persona. Stavolta l’ingerenza politica determina il risultato della pellicola stessa, non deve intervenire per evitare che ciò avvenga. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene ( guarda caso ) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese ( l’Italia ) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo- americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50.

I l r e g i s t a E l i o Petri.

Negli anni ’70, con l’allentamento definitivo dei freni censori, non è più la politica a condizionare le opere cinematografiche con l’istituto della censura, ma è il cinema che si erge a denunciare le corruzione dilagante della politica stessa. Il cinema d’autore degli anni ’70 effettua il proprio percorso affrontando tematiche differenti. Dalle regie di Maestri come Francesco Rosi e Elio Petri. si emancipa una nuova visone autoriale che vede nel cinema un mezzo ideale per denunciare corruzioni e malaffare, sia del sistema politico che del mondo industriale. Nasce così la struttura del film inchiesta che partendo dall’analisi neorealista dei fatti, aggiunge a essi un conciso giudizio critico, con il manifesto intento di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica. Tale tipologia tocca volutamente questioni scottanti, spesso prendendo di mira il potere costituito, con l’intento di ricostruire una verità storica il più delle volte negata o celata. Il simbolo attoriale di tale genere, diventa Gian Maria Volonté, che con la sua recitazione duttile e spontanea, conquista le platee italiane.

I l g r a n d i s simo attore Gian Maria Volontè.

Uno dei punti di arrivo del percorso artistico di Francesco Rosi è senz’altro Il caso Mattei (1972); un rigoroso documento in cui il regista cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano: l’Eni. La pellicola, con Gian Maria Volonté protagonista, vince la Palma d’oro al festival di Cannes e diviene un vero modello per analoghi film di denuncia civile prodotti nei successivi decenni. Ormai Gian Maria Volontè è l’attore più richiesto da entrambi i registi ed è assolutamente strepitoso nel film di Elio Petri, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”(1970), il capolavoro del genere, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Volonté ottenuta la notorietà (Felice Laudadio lo definì “il più grande attore italiano del suo tempo”), decide di dedicarsi ad un tipo di cinema politicamente impegnato, recitando nel corso degli anni ’70 e ‘80, in film come “Uomini contro” di Francesco Rosi (1970), “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo (1971), “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio (1972), “Il caso Moro”(1986), di Giuseppe Ferrara. Ma è soprattutto con Petri e con Rosi che Volonté ha modo di esprimere in piena libertà il suo talento, dando vita ad una miriade di “uomini illustri” rappresentanti una dura critica alla classe dirigente dell’epoca, divenendo quindi un punto di riferimento del cinema d’impegno civile italiano. Parallelamente alla sua carriera d’attore, Volonté vi accosta un assorto attivismo politico portando avanti numerose battaglie, manifestazioni e scioperi per i diritti dei lavoratori.

Il rapporto tra Cinema e Politica dunque, ha attraversato anni di scontri, collaborazioni, tagli censori, ed è per gli studiosi una vera e propria miniera, per capire la società italiana attraverso il Cinema, che come è noto è lo “specchio della società”. Arte Contemporanea e Cinema: un legame imprescindibile

Domenico Palattella (122)

L’illusione ottica del cinema, come arte delle immagini in movimento, è cruciale nella storia del XX secolo. Questa illusione ottica si ottiene con 24 fotogrammi al secondo impressi su pellicola magnetica. Dunque il cinema non è altro che l’evoluzione dell’arte della fotografia, che era stata a sua volta l’evoluzione della pittura, che a sua volta deriva dall’architettura. Il cinema è però la completa evoluzione di tutte le altre arti, la definizione del Maestro giapponese Akira Kurosawa, peraltro rimasta nella storia, aiuterà a definire davvero cosa è l’arte del cinema:

«Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica.»

(Akira Kurosawa)

I l r e g i s ta Akira Kurosawa.

Il cinema con la fusione in esso di tutte le altre arti ha il potere di creare una “magia”, il pathos, una carica di emozioni che scaturiscono dai suoi vari elementi. Il pathos, che affonda le sue radici agli albori della nostra civiltà, e precisamente nella Grecia classica, patria del sapere occidentale. In Grecia esso corrispondeva alla parte irrazionale dell’animo, mentre oggi con lo stesso termine si fa riferimento proprio alla carica emotiva data da alcune opere artistiche. Il pathos è generato dall’insieme di suoni e immagini che compongono il film. In realtà ognuna delle varie Arti ha un “suo” pathos, e nel Cinema, che è un’unione delle Arti stesse, si ha un insieme di emozioni provenienti ognuna da una di esse.

Cinema e Arte hanno da sempre intrecciato i loro percorsi, costruendo relazioni proficue e articolate all’insegna di uno scambio reciproco di specificità e suggestioni, all’insegna di una contaminazione tra ambiti culturali paralleli e, in qualche caso, complementari. Gli artisti, a partire dalla nascita della “Settima Arte” e sempre più frequentemente nel corso del XX secolo, si sono avvicinati al mondo cinematografico per coglierne l’essenza caratterizzante e per poi rielaborarne le influenze. Viceversa i cineoperatori hanno subito il fascino della Storia dell’Arte, in particolar modo quella contemporanea, portando sul set la biografia dei grandi artisti o rielaborando, attraverso il filtro particolare del video, le suggestioni provenienti dalle loro opere.

S i m m e t r i e : F r ancesco Hayez, Il bacio, 1859 e Luchino Visconti, Senso, 1954.

In Italia le prove più evidenti della commistione tra Arte Contemporanea e Arte cinematografica, si compirono negli anni d’oro del nostro cinema, dapprima con i capolavori neorealisti di Luchino Visconti, e Vittorio De Sica, e poi con la susseguente nascita della commedia all’italiana. La capacità di esprimere in pochissime immagini l’essenza di un’epoca è stata raggiunta, ai massimi livelli, da un esiguo numero di pellicole, dirette però da veri e propri Maestri dell’arte cinematografica. I risultati migliori in tal senso, nel nostro Paese, sono stati raggiunti da Luchino Visconti, sia in “Senso”(1954) che nel “Gattopardo”(1963), splendide ricostruzioni dell’epoca di passaggio dalla Sicilia borbonica alla creazione del Regno d’Italia; in “Policarpo, ufficiale di scrittura”(1959) di Mario Soldati, nella descrizione dell’epoca della Roma umbertina di inizio novecento; e nel capolavoro di Federico Fellini, “La Dolce Vita”(1960), lo splendido affresco del benessere economico italiano degli anni ‘60. Non solo paragonati ad un quadro d’arte per aver immortalato l’essenza dell’epoca di riferimento, ma anche ineccepibili dal punto di vista storico, e addirittura epocali per le musiche che li adornano. La perfezione sarà poi raggiunta da Pier Paolo Pasolini e la sua personalissima commistione tra cinema, Arte e letteratura, nel cortometraggio “La ricotta”, episodio del film lungo “Ro.Go.Pa.G.”(1963). O r s o n W e l les e Pier Paolo Pasolini sul set del film “La Ricotta” del 1963.

Pasolini giunge a uno dei più intensi risultati del rapporto del suo cinema con l’arte, del gusto per l’immagine e della ricerca storica. Qui Pasolini, utilizzando come modello la pittura di Rosso Fiorentino, con la celeberrima opera “La deposizione di Cristo”, sintetizza la propria visione della società capitalistica italiana affermatasi con la modernità. Il regista dunque, rappresenta un caso particolare e certamente il più emblematico del Novecento di come cinema e letteratura possano essere il prodotto alto di un solo autore. Curioso è poi il caso Alberto Sordi, con l’episodio “Vacanze intelligenti”, del film corale “Dove vai in vacanza?”(1978), che prende di mira l’arte contemporanea, in un film che è un piccolo gioiello dell’arte comica e dissacrante dell’Albertone nazionale. Sordi riesce ad ironizzare con classe e grande maestria, sulla Biennale d’arte di Venezia che aveva appena consacrato le correnti neoastrattiste, concettuali, poveriste e iperrealiste, troppo lontane però, dal gusto del cittadino medio.

U n a s c e n a del film “Le vacanze intelligenti” del 1978, di e con Alberto Sordi.

L’attore e regista romano dunque, prende di mira un pò tutto l’impianto culturale italiano, negli strepitosi panni di un fruttarolo romano, sempre accompagnato dall’ingombrante moglie (una deliziosa Anna Longhi). Tra vacanze snob, diete, tombe etrusche e Biennale, un film intransigente, che diverte con fervido gusto del dettaglio e dissacrante autoironia. Il miglior risultato del Sordi autore. Sul lato internazionale poi, non si può non parlare di Alfred Hitchcock e del suo personalissimo modo di intendere il cinema. Lui è un maestro della messa in scena: nulla nei suoi film è estemporaneo o gratuito. All’epoca della loro uscita, molti film di Hitchcock furono criticati proprio per l’inverosimiglianza delle situazioni; ma un giudizio di questo tipo si basa su un errore di prospettiva. A Hitchcock infatti non interessa tanto riprodurre “realisticamente” eventi e personaggi, quanto suscitare emozioni tramite un racconto. I l r e g i s t a Alfred Hitchcock e l’artista Salvador Dalí sul set del film Io ti salverò (Spellbound) del 1945.

Riprodurre insomma quel pathos che è parte integrante dell’Arte a tutti i suoi livelli e in tutti i suoi generi. In ultimo poi, l’etica e l’estetica dell’Arte raggiungono il loro massimo con Stanley Kubrick, uno dei più importanti cineasti del XX secolo. Nel guardare le sue opere, stupisce la sua espressività lontana dai canoni hollywoodiani e la sua capacità unica di esplorare la gran parte dello spettro dei generi, senza farsi dominare dalle convenzioni, ma anzi trasfigurandole. La sua è una cura ossessiva per i particolari dell’immagine, per la prospettiva e l’illuminazione, per la posizione degli attori e degli oggetti di scena, tanto che ogni suo film è studiabile in ogni fotogramma come “album di inquadrature”. A livello mondiale, paragonabile a lui, per questa attenzione maniacale al dettaglio, c’è solo l’altrettanto grande Luchino Visconti.

U n a s c e n a del film “Barry Lyndon” del 1975, di Stanley Kubrick.

Tornando a Kubrick, il senso estetico dei suoi film è però il risultato di un lavoro di integrazione fra diversi canali comunicativi: il contesto reale delle sue storie è infatti un tessuto d’immagine e musica, elemento fondamentale per veicolare emozioni nello spettatore. Nelle pellicole il regista prende ispirazioni dalla storia dell’arte di ogni secolo: da Jack Torrance abbandonato sulla sedia di lavoro che richiama “Il sonno della ragione genera mostri”, un’acquaforte e acquatinta di Goya, ai magistrali piani sequenza di Barry Lyndon, continue citazioni dei quadri inglesi tra il Seicento e il Settecento.

E’ dunque questo, il quadro della commistione tra Arte contemporanea e Cinema, intesa ai suoi livelli più alti e capace di suscitare quel pathos che è parte integrante dell’emozione che un’opera d’arte deve necessariamente conferire per essere definita tale.