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studi interculturali 3/2013 issn 2281-1273 Mediterránea - centro di studi interculturali dipartiMento di studi uManistici - università di trieste

Studi Interculturali 3/2013

Blas Infante Pérez

Studi interculturali 3/2013 «Identità e Modernità»

«Ma allora accade un fenomeno curioso, non avvertito dagli storici. O protetti dai signori, a cui servivano contadini, o senza alcuna protezione, aggrappati al suolo della Patria, gli andalusi corrono a nascondersi. Quelli che sapevano par- lare bene il castigliano in luoghi dove non erano conosciuti; quelli che non riu- scivano a dissimulare la parlata o l’accento moresco, nelle montagne e in luoghi inaccessibili. Più ancora: la maggioranza di coloro che erano stati effettivamen- te espulsi torna nel suolo patrio».

Studi Interculturali #3/2013 issn 2281-1273 - isbn 978-1-291-59885-8

MEDITERRÁNEA - CENTRO DI STUDI INTERCULTURALI Dipartimento di Studi Umanistici Università di Trieste

A cura di Mario Faraone e Gianni Ferracuti

Grafica e webmaster: Giulio Ferracuti www.interculturalita.it

Studi Interculturali è un’iniziativa senza scopo di lucro. I fascicoli della rivista sono distribuiti gratuitamente in edizione digitale all’indirizzo www.interculturalita.it. Nello stesso sito può essere richiesta la versione a stampa (print on demand). © Copyright di proprietà dei singoli autori degli articoli pubblicati: la riproduzione dei testi deve essere autorizzata. Le fotografie originali sono di Giulio Ferracuti; nel saggio di Rosanna Sirigna- no le fotografie sono dell’autrice: si ringrazia il Palestine Exploration Fund per l’autorizzazione. Mediterránea ha il proprio sito all’indirizzo www.retemediterranea.it. Il presente fascicolo è stato inserito in rete in data 18.10.13

Gianni Ferracuti Dipartimento di Studi Umanistici Università di Trieste Androna Campo Marzio, 10 - 34124 Trieste

SOMMARIO

L’ANALISI

Pier Francesco Zarcone: Turchia, minoranze e laicità ...... 7

STUDI

Raffaele Federici: Tecnica e cultura fra modernità e identità. L’uno e i molti fragili ...... 41

Mario Faraone: «¿Por qué seguimos leyendo (y escribiendo) novelas?»: la contemporaneità interculturale di Arturo Pérez-Reverte, Javier Marías ed Eduardo Mendoza ...... 57

BLAS INFANTE, ANDALUSISMO, FLAMENCHISMO A CURA DI GIANNI FERRACUTI

Gianni Ferracuti: L’autonomismo andaluso e Blas Infante ...... 101

Blas Infante: Ideale andaluso ...... 123

Blas Infante (et al.): Manifesto della nazionalità ...... 137

Blas Infante: Origini del flamenco e segreto del cante jondo ...... 149

CULTURAL STUDIES

Rosanna Sirignano Mother and child in palestine: the artas material in Hilma Granqvist nachlass at the pa- lestine exploration fund ...... 159

Mustafa Kemal Atatürk

TURCHIA: MINORANZE E LAICITÀ PIER FRANCESCO ZARCONE

Per la pronuncia dei termini in lingua turca: la ü si legge come la u francese di sur; la ğ non ha suono proprio e si limita a prolungare la vocale che la precede; la ı senza il puntino è una vocale muta, assimilabile a una specie di e ap- pena abbozzata; la ş si legge come in scena; la c equivale alla g di gioia; la ç si legge come in cena; la g è dura; l’h è aspirata; la j si legge alla francese; la ö è come il dittongo francese di jeu; la z è una s dolce. L’accento tonico, semplifi- cando, in linea di massima va sull’ultima sillaba.

Il trattamento delle minoranze etniche e religiose in Turchia e il mantenimento della sua lai- cità costituiscono a tutt’oggi irrisolti problemi di politica interna ed estera, e sono fonti di diffi- coltà sia per la normalizzazione della vita democratica di quel paese, sia per i riflessi che hanno in

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ordine alla sua ipotetica integrazione europea. Fermo tuttavia restando che ai fini di quest’ultima la vera pietra d’inciampo non è tanto la questione delle minoranze o della difesa della laicità, quanto il trattarsi di un paese musulmano, a prescindere dal fatto che l’impero ottomano fu par- te integrante della storia europea per secoli e che la Turchia come paese - quanto meno per via della Tracia - fa parte anche dell’Europa. Indipendentemente da quale sarà l’esito finale del pro- cesso di integrazione, peraltro, un miglioramento dello stato di questi due problemi - per non parlare della loro auspicabile soluzione - andrebbe a tutto vantaggio della società turca.

LA QUESTIONE DELLE MINORANZE NELL’IMPERO OTTOMANO

In merito al trattamento delle minoranze nell’impero ottomano bisogna distinguere fra quelle considerate solo sotto il profilo religioso, cioè le non musulmane e le sciite, essendo sunnita l’impero e Califfo il suo Sultano (Padişa) e quelle essenzialmente etniche, quand’anche non scol- legate dalle religioni di appartenenza. Fino al secolo XIX il problema delle minoranze di natura prevalentemente etnica in pratica non esisteva poiché le popolazioni dell’impero erano conside- rate - politicamente e giuridicamente - in base alla loro appartenenza religiosa. Per esempio, i Cri- stiani ortodossi «europei» (i Rumi) per lunghissimo tempo costituirono una comunità unica posta sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli e in cui rientravano greci, Bulgari, Valacchi, Tran- silvani ecc. Nella nostra trattazione cominciamo dalle minoranze islamiche (cioè non sunnite), la cui sto- ria è notevolmente travagliata, anche perché sono sempre del tipo peggiore le «liti in famiglia» e il sangue scorre a fiumi quando la «famiglia» ha natura religiosa. D’altro canto lo Sciismo costitui- sce una vera e propria antitesi rispetto al Sunnismo. Riguardo alle minoranze non musulmane, invece, l’impero ottomano fu per secoli un’isola di ampia (seppure utilitaristica) tolleranza e di nuova vita per tutti i dissidenti religiosi (cristiani ed ebrei) che riuscirono a trovarvi rifugio. Inol- tre le popolazioni cristiane che vivevano nei territori conquistati dagli Ottomani non furono mai sottoposti a campagne di islamizzazione forzata di massa. Il che spiega molte cose in merito alla base popolare utilizzabile dalle insorgenze di greci e Slavi nel secolo XIX. Poiché l’impero era maggioritariamente sunnita, e nell’Islam sunnita non esiste un clero (a differenza di quel che poi è avvenuto nell’Islam sciita), ma solo dei Dottori della Legge, i Sultani- Califfi per esigenze politiche e religiose li organizzarono in un’élite di funzionari statali, in modo da avere il controllo della predicazione durante il culto e del sistema di insegnamento dell’epoca. Per conseguenza - come ha sottolineato Şerif Mardini - il governo ottomano fu sia islamico sia bu- rocratico, e burocratico nel senso che era obiettivo fondamentale dei funzionari ottomani (di tut-

i Şerif Mardin, Religion and secularism in Turkey, nell’opera collettiva curata da Ali Kazancigil ed Ergun Özbudun, «Ataturk, Founder of a modern State», C. Hurst & Company, London 2009, p.194.

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ti) la preservazione dello Stato. Un movimento che mettesse in pericolo questa costruzione sta- tuale diventava ipso facto eretico, e quindi da combattere per entrambe le ragioni.

a) Le minoranze sciite

La loro è una storia notevolmente complicata e assai antica, i cui protagonisti sono stati i tur- comanni Ak Koyunlular, (quelli del «Montone Bianco») sunniti, e Kara Koyunlular (quelli del «Montone nero») sciiti: due confederazioni tribali che dominarono nei secoli XIV e XV Azerbai- jan, Anatolia orientale e Iran occidentale, schiacciate tra l’impero ottomano e quello safavide di Persia. Vanno pure ricordati i Qizilbaşlar («Teste Rosse»), sciiti turcomanni dell’Anatolia orientale e del Kurdistan, così chiamati per il loro berretto rosso a 12 punte a ricordo dei 12 Imām dello Sciismo duodecimano. La dinastia ottomana nella sua lotta a oltranza contro gli Sciiti anatolici unì ben volentieri il suo ruolo di campione della fede islamica «ortodossa» alla contingenza di combattere forze inter- ne alleate con il nemico persiano, o comunque da esso utilizzabili. Per la lunghissima durata dell’inimicizia tra l’impero ottomano e la Persia, gli Sciiti anatolici sono sempre stati visti e tratta- ti con ostilità nei momenti peggiori, e con diffidente discriminazione in quelli «migliori». Contro costoro furono di volta in volta praticate la scelta fra conversione forzata e morte, la deportazione in più tranquille zone periferiche, il controllo dell’educazione. Tuttavia non si deve pensare che il Sultanato - al di là dell’esigenza di conservazione dell’impero - intendesse er- gersi a custode della più rigida e intollerante ortodossia sunnita. Ad attestarlo non è tanto la nota passione dei Sultani per il buon vino, quanto l’indisturbata e massiccia diffusione di confraternite religiose umaniste e alquanto eterodosse come la Mevleviyye (fondata da Jalal ad-Din Rūmī, detto Mevlana, nostro signore; n. 1203) e quella più eterodossa ancora dei Bektaşiler (fondata da Haci Bek- taşi Veli; n. 1209), le quali però non si schierarono for- malmente nel campo sciita pur incorporandone elementi insieme ad altri non islamici. Anzi quella di Haci Bektaşi diventò presto la confraternita preferita dai Giannizzeri, vale a dire l’élite dell’esercito, almeno fino al secolo XVIII.

b) Le minoranze non musulmane

Le minoranze non musulmane sono diventate un pro- blema politico nel periodo compreso fra il secolo XIX Qizilbaş e la prima metà del XX, che in Europa è stato caratte-

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rizzato - fra l’altro - dall’esplosione e del dilagare dei nazionalismi. E i nazionalismi significano inevitabilmente conflitti armati, poiché - utilizzando l’espressione di Cardini e Valzania - «Imma- ginare opposizioni irriducibili e contribuire a radicalizzare quelle esistenti rappresentano buone strade per arrivare a uno scontro violento».ii La loro forza virulenta ha squassato dall’interno, e indebolito all’estremo, gli Stati imperiali multinazionali del continente, con particolare riguardo agli imperi asburgico e ottomano. Per quest’ultimo fu un’autentica e sanguinosa tragedia, poco evidenziata dai libri di storia occidenta- li, per lo più scritti nell’ottica dei popoli (e/o delle loro minoranze) che si ribellarono al Sultano di Costantinopoli (Kostantiniyye). Questo, con la duplice conseguenza di occultare i vari aspetti positivi dell’esperienza storica ottomana e di ignorare disinvoltamente gli atroci massacri e le pu- lizie etniche patite, ad opera dei «cristiani» balcanici, dai sudditi ottomani di religione islamica. La prima sanguinosa manifestazione del nazionalismo nell’impero ottomano fu l’insurrezione in Grecia durante gli anni 1821-32, presso di noi nota (quando lo è) solo nell’ottica del filo- ellenismo ottocentesco e di suggestionanti immagini tipo «I massacri di Scio» del pittore Dela- croix. In precedenza non esisteva nei domini del Sultano un problema delle minoranze analogo a quello che poi avrebbero conosciuto gli Stati «nazionali» (europei e non), in misura quantitativa- mente e qualitativamente variabile. Nella storia del mondo islamico e dell’Europa orientale l’impero ottomano ha costituito una delle più estese e potenti entità politiche «plurali», cioè multi-etniche e multi-religiose. Per quanto dai primi del secolo XVIII il Sultano fosse anche Califfo dei Musulmani sunniti - l’ordinamento giuridico dell’impero non si riduceva certo alla sharī’a (in turco şeriat). D’altro canto nessuna realtà politica islamica è mai stata retta solo da essa, né poteva esserlo. Pur essendo custode del rispetto della legge religiosa, il Sultano con i suoi dignitari legiferava e amministrava in tutti gli ambiti e settori non toccati da previsioni della sharī’a, dando origine alla formazione di un diritto secolare (kanun) accanto a quello religioso. In questa società plurale i soggetti collettivi non musulmani avevano una connotazione reli- giosa e non etnica, e dal secolo XIV erano organizzati in milletler, cioè comunità confessionali do- tate ciascuna di un proprio specifico status per sé e per i membri. Era un modo come un altro per includere i sudditi non-musulmani nella vita dell’impero, in assenza del principio di uguaglianza formale e astratta dei cittadini, ancora da venire. Questo assetto rappresentò una rilevante inno- vazione rispetto al mero sistema di tolleranza incarnato dal regime di protezione della «gente del Libro» (in arabo ahl al-Kitāb), di matrice coranica, giacché attraverso il millet si attribuiva a popoli e gruppi religiosi conquistati una notevole autonomia amministrativa e giudiziaria gestita dalle rispettive autorità religiose. Non fu un sistema statico, bensì sempre in evoluzione, anche sul piano numerico. In certi periodi effettivamente l’integrazione ci fu e non di secondaria impor- tanza: per esempio, i marinai della flotta ottomana che subì una battuta d’arresto con la battaglia

ii F. Cardini, S. Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Mondadori, Mila- no 2007, p. 17.

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di Lepanto erano in grande maggioranza greciiii liberi; e come ulteriore ma significativo esempio si può citare l’originaria ostilità dell’élite greca di Costantinopoli (i cosiddetti Fanarioti) verso l’insurrezione nella penisola ellenica. Il subbuglio nazionalistico non poteva non suscitare effetti anche nelle élite ottomane di religione islamica, e taluni settori diventarono consapevoli dell’esigenza di adeguarsi al cambiamento politico-culturale determinato dal nazionalismo delle popolazioni cristiane, tanto più che il virus cominciava a manifestarsi anche in settori arabi dell’impero, travalicando l’unità religiosa islamica. Il che in buona sostanza voleva dire che la condivisa appartenenza alla comunità musulmana (umma; in turco ümmah) non costituiva più un collante sufficiente. L’adeguamento a questa ormai insuperabile situazione centrifuga si inserì nel processo di modernizzazione dell’impero, a un certo punto promosso dagli stessi Sultani.

iii Parliamo di battuta d’arresto perché ormai i contemporanei storici europei più autorevoli hanno ri- letto la portata di quella vittoria ispano-genovese-veneziana-pontificia: l’anno successivo la flotta ottomana era stata ricostituita al completo, ma gli interessi marinari del Sultano si spostarono verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, a motivo del rilevante pericolo costituito in quelle acque dalla flotta portoghese, sovente collusa con la Persia sciita, il nemico orientale dell’impero ottomano.

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IL PERIODO OTTOMANO DELLE RIFORME

Il periodo delle riforme ottomane iniziò con i regni di Selim III (1789-1807) e Mahmud II (1808-1839), per culminare nel XIX secolo, nei Tanzimat (riorganizzazione), ovvero le grandi ri- forme, precedute nel 1808 dal Sened-i Ittifak, ovvero Documento di Consenso, che sanciva - quan- to meno potenzialmente - l’autorità dello Stato e apriva le porte allo Stato di diritto. Nel 1839 ci fu il vero e proprio pacchetto di riforme del Tanzimat Fermanı (decreto di riorganizzazione), segui- to nel 1856 dall’Islahat Fermanı (decreto di riforma), il quale ultimo dava spazio ai diritti dei sud- diti non musulmani. Il grande periodo riformatore fu quello dei regni di Abdülaziz (1861-1876) e Mürat V (1876). Il 23 dicembre 1876, agli inizi del regno di Abdülhamid (1876-1909) fu promul- gata una Costituzione ispirata a quella belga del 1831, che dal punto di vista religioso sanciva l’Islam come religione dello Stato. La sconfitta subita a opera della Russia nel 1878, fornì a que- sto Sultano (politicamente piuttosto reazionario) l’occasione per sospendere la Costituzione (che tuttavia non fu abrogata). Questa fase rappresentò una sconfitta anche per la fazione detta dei «Giovani Ottomani» che si opponeva all’occidentalizzazione implicata dal Tanzimat, ma propu- gnava una specie di sintesi islamico-liberale mediante l’inserimento nella cultura della società ot- tomana di concetti costituzionali e politici liberali. Nel 1908 la vittoriosa rivoluzione dei cosid- detti «Giovani turchi» (in realtà Comitato per l’unione e il progresso) aprì la via al tentativo di dare all’impero un sistema politico moderno, che però fu bloccato da ben tre guerre (l’italo-turca, le 2 balcaniche, e il I conflitto mondiale). I Giovani turchi puntavano (a differenza della Lega per l’iniziativa privata e la decentralizzazione che chiedeva una federazione dei vari popoli dell’impero) a uno Stato-nazione unitario egemonizzato da quei settori ottomani che confusamente cercavano un’identificazione turca e non più islamica tout court. In tutto questo complicato periodo era stata imboccata la strada per l’affermazione dei diritti e delle responsabilità dei sudditi ottomani, musulmani e non. Una volta introdotto il concetto di cittadinanza, si puntò al superamento delle diversità religiose mediante il Codice Civile (Mecelle) del 1876, in seguito completato nel 1917 dal Decreto sul diritto di famiglia (Aile Hukuku Karar- namesi), che includeva le norme islamiche, ebraiche e cristiane in materia. L’epoca del Tanzimat fu sia l’inizio di una risposta a una profonda crisi dell’impero, sia una fase essenziale del processo per l’avvento di uno Stato moderno, poi portato a compimento dalla Repubblica di Atatürk. Può dirsi tranquillamente che di siffatto Stato furono indispensabile pre- supposto le grandi trasformazioni operate nella riorganizzazione del sistema giuridico, delle Forze Armate, della burocrazia e del sistema scolastico durante il Tanzimat. Per la sua maggior com- prensione la svolta riformatrice va contestualizzata nel più ampio quadro economico e politico del mondo circostante. Il problema della salvezza dell’impero era sorto già ben prima del Tanzimat, e se ne trova forse la prima traccia nel Risale (Dissertazione) di Mustafa Koçu Bey al Sultano Murat IV, cioè nel lon- tano 1631. Detto in sintesi, l’impero ottomano - che era stato costituito come formazione auto- noma, anche economicamente, rispetto all’Europa degli Stati cristiani - a un certo punto si trovò coinvolto, in modo sempre più accelerato, nel processo di espansione del mondo capitalista e

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delle interrelazioni fra gli Stati, avviandosi - al pari di tutte le formazioni autonome - verso l’inevitabile periferizzazione. Nel 1830 il Grande Ammiraglio Halil Paşa senza mezzi termini fece presente che, continuando il ritardo dell’impero nell’imitazione dell’Europa, non ci sarebbe stata alternativa al regredire verso l’Asia. Ovviamente periferizzazione e subordinazione di una formazione autonoma sono conseguen- za del suo indebolimento. Situazione che l’impero ottomano cominciò a conoscere dal secolo XVII in una concomitanza di vari fattori causali: esplosione demografica; aumento dei prezzi; de- clino della manifattura e del commercio urbano a motivo della disorganizzazione delle corpora- zioni controllate dallo Stato; diminuzione dell’efficacia dei sistemi amministrativi; fine dell’espansione territoriale e inizio della retrocessione di fronte alle offensive russe e asburgiche anche a causa del mancato rinnovamento dell’organizzazione militare, degli armamenti e delle tattiche belliche; crisi fiscale; dissoluzione del sistema del tımar (beneficio economico territoriale, erroneamente considerato feudalesimo da taluni storici occidentali); degenerazione del ceto bu- rocratico patrimoniale (kapıkulu - fatto di persone giuridicamente schiave del Sultano); progressi- va eliminazione dei monopoli di Stato ottomani. Fra il XVII secolo e gli inizi del XX la ricerca di mezzi finanziari divenne la principale preoccupazione della burocrazia ottomana. Sul piano eco- nomico importanti furono le concentrazioni terriere in regime di proprietà privata e la ristruttu- razione della produzione agricola per il mercato mondiale, il che si realizzò con l’intermediazione di mercanti europei:

I processi strettamente correlati attraverso cui lo Stato ottomano cominciò gradualmente a sciogliere il suo controllo sui meccanismi produttivi, distributivi e amministrativi, e l’agricoltura ottomana divenne commerciale e legata all’economia-mondo capitalista furono strumentali per la completa periferizzazio- ne della formazione sociale verso il 1840. [...] Una volta maturato questo processo verso gli anni ‘40, l’impatto dell’economia-mondo capitalista distrusse rapidamente le manifatture ottomane e portò al controllo dell’economia ottomana da parte delle potenze occidentali, in particolare attraverso l’Amministrazione Ottomana del Debito Pubblico, creata nel 1881.iv

Di modo che l’epoca del Tanzimat rappresenta la concretizzazione, in parte delle élite ottoma- ne, della consapevolezza che si sarebbe potuto evitare la colonizzazione (economica e politica) dell’impero e mantenerlo indipendente solo per via della creazione di uno stato moderno basato sul nazionalismo, sul principio di cittadinanza e sul secolarismo (o laicismo che dir si voglia). Programmaticamente la presa del potere da parte dei Giovani turchi puntò in una prima fase a instaurare un ottomanismo capace di battere in breccia il virus nazionalista attraverso l’uguaglianza giuridica di tutti i sudditi dell’impero a prescindere dalla religione (aspetto fonda- mentale, invece, in uno Stato musulmano). L’esperimento, tuttavia, non ebbe successo, tanto più che gli mancarono dopo la sconfitta nelle Guerre balcaniche del 1912-13 i necessari presupposti

iv Ali Kazancigil, The Ottoman-Turkish state and Kemalism, nell’opera collettiva curata da Ali Kazancigil e Ergun Özbudun «Atatürk, Fouder of a modern State», C. Hurst & Company, London 2009, pp. 42-3.

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socio-culturali: la possibilità del radicamento di una non meglio specificata identità ottomana era stata ridotta ai minimi termini dall’intenso grado di esclusione verso l’esterno raggiunto dal sen- timento identitario (etnico e religioso) operante tra le popolazioni cristiane greche e armene - an- cora massicciamente presenti a Costantinopoli, in Anatolia e nelle isole egee - nonché l’enorme afflusso in Tracia e Anatolia di profughi musulmani scampati ai massacri compiuti da greci, serbi e bulgari nei Balcani, e quindi animati da un comprensibile odio feroce verso i Cristiani in quan- to tali. La cosa era tanto più grave in quanto la scelta effettuata dal Sultano Abdülhamid, prima dell’avvento dei Giovani turchi, in favore di una rinnovata enfasi sull’Islam come cemento dell’impero già appariva priva di vera efficacia ai fini del rafforzamento della compagine statale, come poi concretamente avrebbero dimostrato nel 1914 e anni seguenti la mancata risposta all’appello alla guerra santa fatto dal Sultano-Califfo di Costantinopoli da parte degli islamici sot- to dominazione anglo-francese, e poi la rivolta di tribù beduine organizzata dalla Gran Bretagna nell’Arabia ottomana. Per il governo di Costantinopoli diventava quindi inevitabile ricorrere a un differente ele- mento unificatore (effettivo o meno, non interessa, giacché gli stessi nazionalismi europei si sono basati per lo più su tradizioni identitarie inventate, seppur dotate di un’innegabile presa nell’immaginario collettivo). Non esistendo altro a disposizione, diventò obbligato il rifarsi alla vetusta realtà degli antichi conquistatori dell’impero bizantino: cioè al passato dei nomadi turchi riattualizzato artificialmente. Da qui poi il mito del pan-turanismo, ovvero dell’unione politica di tutti i popoli turchi provenienti dalla mitica terra di Turan. Qualifichiamo artificiale tale scelta perché da tempo ormai la maggior parte dei sudditi otto- mani islamici - per via delle tante unioni miste (forzate e volontarie) realizzate nel corso di alme- no 5 secoli con genti iraniche, caucasiche, indoeuropee e semite - non era più definibile «turca» in senso etnico (a parte la minoranza dei nomadi turcomanni), atteso che gli antichi turchi (dall’arabo türk, forza), in origine provenienti da una zona dell’Asia compresa fra l’Altaj, i monti Tien Shan e il lago Bajkal, probabilmente non erano molto dissimili dai mongoli. Come del re- sto è attestato dalle antiche miniature. Inoltre, il predetto orientamento turchizzante implicava un salto culturale non da poco, in quanto da tempo ormai i benpensanti ottomani non si consideravano turchi (pur se così da sem- pre erano visti dagli Europei), bensì attribuivano tale denominazione a quelli che spregiativamen- te potremmo definire gli «zotici» dell’Anatolia. Nasceva così il nazionalismo turco, tutt’altro che unificante per la sua specifica forza escluden- te rispetto agli altri popoli dell’impero, e semmai proiettato verso l’esterno, in quanto i popoli «turanici» (ben più turchi degli Ottomani) erano tutti fuori dai confini imperiali. A quel punto il nazionalismo turco non poteva non indurre i primi germi analoghi anche in etnie finora rimaste immuni dal sogno di uno Stato per ciascun popolo (come tra i curdi).

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Cosa restava dell’impero ottomano nel 1914

LE CONSEGUENZE DELLA SCONFITTA OTTOMANA DEL 1918

Se prima del 1918 la Turchia ancora non esisteva di fatto - e probabilmente nemmeno a livel- lo di sentimento popolare diffuso (nonostante gli sforzi dei Giovani turchi) - tuttavia cominciò a manifestarsi subito dopo la sconfitta con il distacco da Costantinopoli delle aree di lingua araba (tutte occupate e riorganizzate dagli anglo-francesi). Del vecchio impero, infatti, restavano solo territori di lingua turca, col rischio che non fossero nemmeno tutti, a motivo delle palesi mire spartitorie degli Alleati (Gran Bretagna, Francia e Italia) e dell’invasione greca dell’Anatolia favo- rita dal governo britannico di Lloyd George. A far veramente nascere la Turchia fu l’azione del generale Mustafa Kemal Paşa (poi denomi- nato Atatürk, padre dei turchi), che vinse la Guerra di indipendenza (1920-23) contro l’esercito greco che tra l’altro aveva occupato Smirne (Izmir) e parte dell’Anatolia, e altresì obbligò britan- nici, francesi e italiani a sgomberare le zone da essi presidiate. A completare le strutture di base dell’indipendenza turca sarebbero in seguito intervenuti l’abolizione del Sultanato e del Califfa- to, la proclamazione della Repubblica laica - il cui motto qualificativo e programmatico è la frase di Kemal «ne mutlu Türküm diyene» (fortunato chi può dirsi turco) - e in fine lo scambio di popola- zioni convenuto fra Atatürk e il premier greco Eleftérios Venizelos; scambio avvenuto sulla base del solo elemento religioso (invio forzato dei Cristiani in Grecia e dei Musulmani in Turchia) e a scapito di quello linguistico. Il nazionalismo turco aveva realizzato la sua definitiva vittoria.

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COSA RIVELA LO SCAMBIO DELLE RISPETTIVE MINORANZE FRA TURCHIA E GRECIA

Lo scambio delle minoranze effettuato fra Turchia e Grecia negli anni ‘20 del secolo scorso, dopo la vittoria kemalista nella Guerra di Indipendenza (1920-23), deve essere considerato sin- tomatico della fragilità degli slogan ideologici che lo motivarono. Coerente con il principio car- dine della sua politica estera - non avere nemici alle frontiere - Kemal si accordò col Primo Mini- stro greco Eleftérios Venizélos per il reciproco scambio delle minoranze etniche continentali, in modo da porre fine al contenzioso turco-greco. Una decisione generalmente considerata saggia, pur presentando gli ineliminabili caratteri della pulizia etnica concordata. La concretizzazione di questo accordo ha palesato la debolezza di base dei rispettivi nazionali- smi, poiché emerse con pregnante chiarezza l’impossibilità di effettuare lo scambio su basi etni- che, e quindi si evidenziò - per gli smaliziati - la labilità o in esistenza di queste stesse basi. L’ostacolo avrebbe potuto essere facilmente aggirato ricorrendo a un criterio peraltro corrispon- dente proprio al principio fondante della costruzione politica kemalista: il criterio linguistico. Ma così non fu. Invece di mandare coattivamente in Grecia gli abitanti di lingua greca della Turchia, e viceversa, vi si mandarono quelli di religione cristiana quand’anche turcofoni, quand’anche fi- gli di albanesi, circassi, bosniaci, arabi e curdi. Dal canto loro i musulmani grecofoni furono mandati in Turchia - o vi rimasero se già lì esistevano - volenti o nolenti. Il tutto con gli intuibili, inevitabili e drammatici problemi sociali ed esistenziali. Nel territorio della Repubblica sarebbero rimasti solo pochi cristiani ellenofoni e armeni a Istanbul; e pochi musulmani turcofoni sarebbe- ro rimasti nella Tracia greca. Per quanto laicista e agnostico Kemal tutto sommato non poteva fare diversamente, a pre- scindere dall’incoerenza ideologica del criterio scelto. Mantenere in Turchia i turcofoni cristiani avrebbe significato lasciare nel paese una minoranza religiosa in contrasto con la maggioranza islamica e con il passato identitario di essa. Ugualmente può dirsi per la Grecia in termini rove- sciati. Quindi, la turchicità della Repubblica turca - in virtù dell’inesistenza attuale di un’etnia turca (turcomanni e azeri a parte) - non si fondava, in realtà, sulla sola e ufficiale comunanza lin- guistica, bensì implicava - dietro le quinte, ma visibile - l’appartenenza all’Islam. Ma allora di che laicità si tratta? Una laicità particolare per forza di cose, definibile in «salsa turca». E che qualcosa di stridente ancora ci sia lo dimostra il fatto che non solo nei documenti personali viene indicata la religione, ma i Musulmani vi sono definiti semplicemente «turchi», mentre gli altri sono de- nominati «cittadini turchi». Mustafa Kemal volle creare una Turchia moderna, liberandosi di tutto quanto del passato tale non fosse, con particolare riguardo al ruolo svolto dalla tradizione islamica nell’arretratezza dell’impero ottomano, ma non senza una carica di astrattismo degno dell’Illuminismo europeo del secolo XVIII. Ad ogni modo il forte volontarismo kemalista si dovette confrontare con un «però», con un ostacolo che non avrebbe tardato a farsi sentire con tutto il suo peso e per un semplice motivo: gli esperimenti radicali di ingegneria socio-politico-culturale (belli o brutti che appaiano) non nascono mai nel nulla, bensì hanno alle spalle la sedimentazione di un passato il quale - sulla base della sua durata e intensità - non è facilmente eliminabile; al massimo viene

Pier Francesco Zarcone: Turchia: minoranze e laicità 17

compresso in varia misura, ufficialmente occultato, ma resta vivo nella memoria storica popolare, con una forza propria laddove sia fondamentale per l’identità di un popolo. Nel nostro caso Kemal ha sì inserito la Turchia nel contesto moderno, ma senza tuttavia po- terne cancellare passato e identità, radicati nell’animo popolare. Passato e identità che inevita- bilmente appartengono alla storia dell’espansione islamica in Europa e al suo consolidamento nel Vicino Oriente e nell’Africa settentrionale. Piaccia o no, il passato selgiuchide e il passato ot- tomano appartengono all’anima dei turchi di Turchia ed è normale che esercitino una contro- spinta verso il presente. Semmai ci si dovrebbe meravigliare del contrario. È sintomatico che l’affermazione della laicità turca non sia avvenuta con immediatezza, bensì in modo graduale nel corso di un decennio; lentezza motivata dall’esigenza di creare nella dimen- sione turca una comunità nazionale su basi ben diverse dalla umma islamica. Difatti la prima Co- stituzione kemalista, del 1924, stabiliva ancora che la religione dello Stato era l’Islam; disposizio- ne abrogata solo nel 1928. Comprendere e condividere sono due momenti conoscitivi distinti, e il più importante è il primo di essi. Ebbene, quando si parla di problemi interni della Turchia va seriamente conside- rato un aspetto in genere trascurato: non si tratta per nulla di un paese omogeneo, innanzi tutto sul piano etnico, giacché nel suo territorio oltre alla consistente minoranza curda troviamo tur- comanni, genti di origine slava, circassi, azeri, arabi siriaci, una minoranza israelita e la perma- nenza di greci e armeni (per lo più a Istanbul). L’elemento unificante scelto da Atatürk per la sua Turchia turca è stato in definitiva solo uno, almeno ufficialmente: la nuova lingua turca autorita- tivamente scritta in alfabeto latino, che ha preso il posto dell’ottomano (un misto di turco, per- siano e arabo) in caratteri arabi ed è stata pressoché totalmente depurata dagli elementi linguisti- co-sintattici arabi e persiani sostituiti alla bisogna anche ricorrendo a profonde innovazioni. An- cora una volta vanno citati Cardini e Valzania:

L’unificazione linguistica è stata uno dei grandi obiettivi degli Stati nazionali, perseguito a livello teo- rico con la formalizzazione delle lingue moderne, a volte con la loro invenzione quando non esisteva quella giusta, e con la centralizzazione dell’insegnamento scolastico la cui finalità unificante era consi- derata primaria.v

Inoltre, essere musulmani, sia pure come fatto privato e controllato dallo Stato, era cosa non solo assai gradita. L’impresa - pur se azzardata per le sue fondamenta non granitiche - è riuscita, ma con la forzata turchizzazione delle minoranze, se non volevano essere costrette ad andarsene. Da tutto quanto detto deriva la totale impreparazione (psicologica e politica) delle classi diri- genti della Repubblica turca a gestire il problema del riconoscimento dell’identità culturale e po- litica delle minoranze, e soprattutto di una minoranza consistente come quella curda. Si può ag- giungere un ulteriore elemento: la memoria storica di queste classi dirigenti è palesemente domi- nata dal complesso dell’assedio da parte di potenze nemiche intenzionate a disgregare e a ridurre

v Ibid,, pp. 65-6.

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la presenza turca a una piccola parte dell’Anatolia. Di modo che il sospetto è dominante e la rea- zione violenta, appena si abbia sentore del pericolo, fa parte della mentalità turca. Effettivamente non mancano ancor oggi le latenti rivendicazioni - per il momento solo teori- che - da parte di paesi confinanti; latenti e teoriche versando essi in condizioni tali da farle risul- tare ridicole di fronte alla potenza militare ed economica della Turchia. In proposito ricordiamo che nell’immaginario collettivo greco (si tratta di fenomeno psicologico tipico dell’Oriente) le nostalgie bizantine non sono affatto morte, Istanbul resta la perduta Costantinopoli, Edirne è l’Adrianopoli che la Grecia non poté annettere dopo la Grande Guerra, i turchi sono gli unni o i mongoli che non si è riusciti a ricacciare nelle steppe dell’Asia centrale, esiste il contenzioso su Cipro e sull’estensione delle acque territoriali egee (per il controllo di risorse energetiche sotto- marine); dal canto suo l’Armenia, se solo potesse, si impadronirebbe con gioia dei territori ex armeni della Turchia orientale, cacciandone in massa i turchi (cioè i loro superstiti, dopo la puli- zia etnica di prammatica); infine la Siria volentieri metterebbe le mani sul vecchio sangiaccato di Alessandretta, ceduto dalla Francia, durante il periodo del suo mandato, alla Turchia di Kemal. Degli stessi alleati attuali la Turchia non si fida molto, vigendo sempre il principio (peraltro spe- rimentato nella Storia) che nei rapporti internazionali «il solo amico del turco è turco».

La Turchia odierna

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Alla luce di tutto quanto detto non ci si deve stupire se il tema dell’identità nazionale - ovvero della difesa della turchicità - risulta essere, nel medesimo tempo, un tabù e un’ossessione. Il che porta a occultare, ovvero a presentare ad usum delphini, episodi vergognosi e la discriminazione- diffidenza verso le minoranze, etniche e religiose, quand’anche contro queste situazioni sempre più numerose e moralmente autorevoli si levino le voci e le opere di storici, artisti e intellettuali turchi. Su tutti esiste la spada di Damocle del famigerato art. 301 del Codice Penale, che prima puniva la denigrazione della turchicità, e dopo la riforma (puramente formale) del 2008 (essendo stato giudicato, nella Ue, il testo originario una violazione della Convenzione Europea sui Diritti Umani) punisce la denigrazione della «nazione turca». Sai che differenza! E difatti esso resta uno strumento persecutorio sia per chi voglia rivisitare pagine nere del passato e del presente, sia per chi critichi il governo di Recep Tayyip Erdoğan.

LA REPUBBLICA KEMALISTA

Rispetto alla situazione precedente, la portata sovvertitrice delle riforme kemaliste tra il 1923 e il 1932 non può essere negata: abolizione del Sultanato e del Califfato; abolizione dei tribunali religiosi; purificazione della lingua dagli elementi arabi; abolizione delle Confraternite religiose; introduzione del calendario europeo; proibizione del fez, del turbante, degli abiti tradizionali e del velo femminile; obbligo di usare il turco per la chiamata alla preghiera; impulso alla traduzio- ne del Corano in turco; abolizione dell’insegnamento dell’arabo nelle scuole; forte ostilità verso le manifestazioni di pietas islamica tra le fila delle Forze Armate; introduzione del calendario oc- cidentale; abolizione della şeriat, sostituita da una Costituzione laica e da una codificazione di ti- po europeo; spostamento del giorno festivo settimanale dal venerdì islamico alla domenica; sepa- razione fra potere politico e religioso; abolizione della poligamia; uguaglianza di diritti fra i sessi; voto alle donne. Inoltre, con l’instaurazione di un sistema giuridico del tutto statale e laico, e con la riforma dell’istruzione, erano scomparse sia le medrese (scuole coraniche) sia i Dottori della Legge islamica (in arabo sing. ‘ulamā’, pl. ‘ālim). Non stupisce quindi che i turchi con forte senti- mento religioso ritenessero caduto il paese nelle mani di una banda di atei (ed effettivamente tali per lo più erano, oppure agnostici, i maggiori dirigenti kemalisti). Ma attenzione: qui c’è da fare un parallelismo analogo a quello rimarcato da Alexis de Toc- queville per il passaggio dall’ancien regime all’assetto post-rivoluzionario: in entrambi i casi la rot- tura con il passato è avvenuta nel solco della continuità. Mustafa Kemal rappresenta l’ultimo atto - per quanto incisivo e drammatico - di un processo di riforme modernizzatrici iniziato dai Sulta- ni circa un secolo prima e il cui effetto sui tradizionalisti locali fu deflagrante. Le riforme di Kemal semplicemente completarono e perfezionarono (non a caso Kemal vuol dire perfetto) quel processo sia pure estremizzandone la logica interna. La Repubblica fu originariamente animata da 6 principî (le cosiddette «6 frecce», che ancora oggi sono il simbolo del partito kemalista): repubblicanesimo e sovranità nazionale; nazionali- smo; populismo, cioè cooperazione sociale fra tutti i ceti sociali (quindi niente più gruppi separa-

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ti giuridicamente); rivoluzionarismo, cioè applicazione delle riforme per via immediata e senza evoluzione; laicismo, cioè netta separazione fra organizzazione statale e organizzazione religiosa; statalismo economico. Come ben si vede, il kemalismo non presenta un quadro ideologico uni- voco, atteso che i 6 principî sono suscettibili di diverse interpretazioni, cioè sia di destra sia di si- nistra, e da qui la possibilità di varie anime all’interno del fronte laico. Sul piano culturale Kemal - dopo aver stabilito il collocamento dell’identità nazionale entro i confini dell’Anatolia e della Tracia - in una sorta di alternativa o contrapposizione rispetto al pas- sato islamico - cercò di far stabilire connessioni (un po’ improbabili, a dire il vero) con le civiltà pre-elleniche dell’Anatolia (e con gli ittiti in particolare) mediante un uso nazionalista dell’archeologia, ma ovviamente senza molto successo tra le masse musulmane; difatti il kemali- smo trovò larga adesione essenzialmente tra i ceti medi urbani. Tra le fonti di ispirazione ideologica del kemalismo bisogna annoverarne anche una in genere poco considerata, o addirittura ignorata. Ci riferiamo ai cosiddetti Dönmeler (convertiti) i criptici ed endogamici epigoni di Shabbatai Zevi, il messia giudeo eretico del secolo XVIII, poi converti- tosi all’Islam per salvare la testa. Al pari di Zevi i Dönmeler (ancora oggi esistenti) si pongono for- malmente come musulmani, ma sono tutt’altra cosa su quello interno. Forti a Salonicco (città natale di Kemal) ai primi del ‘900 erano un’élite progressista e notevolmente occidentalizzante legata in modo stretto con la Massoneria turca, a sua volta collegata con quella internazionale. Secondo alcuni Kemal era un Dönme, ma di prove non se ne hanno, per cui si rimane nella sfera del mero sospetto. Sta di fatto che essi dettero un grosso contributo ai Giovani turchi e poi allo stesso Kemal nella lotta contro i sostenitori (religiosi e non) del Sultanato, e uno di essi, Tevfik Rustu Arak, fece parte di un suo governo.

LAICITÀ DELLA REPUBBLICA, O SUO CONTROLLO SULLA RELIGIONE?

Le Costituzioni, come tutte le carte legislative, non sono mai autosufficienti, richiedendo in primo luogo di essere interpretate. Inoltre, a integrare il testo scritto - e comunque a incidere su di esso - oltre all’interpretazione c’è sempre la prassi attuativa, che può essere anche ben più «in- sidiosa». Essa non è vincolante per i cittadini, ma lo è per la pubblica amministrazione - cioè per quell’organismo che emana ed esegue una gamma sterminata di provvedimenti tenendo il meta- forico coltello dalla parte del manico. E nella prassi della Repubblica turca è rimasto l’orientamento di base per il quale il turco è musulmano e il non-musulmano non è turco fino in fondo. La conclusione è stata (ed è) che, pur senza essere rimasta in vigore la sharī’a (legge religio- sa islamica), l’Islam resta come elemento costitutivo dell’identità turca insieme alla lingua. Magari restando confinato nella sfera del privato, ma pur sempre sussistendo ed esistendo. Poiché il peso del passato - antico e recente - si fa sentire, seppure a fianco però del «nuovo», anch’esso inelimi- nabile, ecco che le contraddittorie tensioni fra questi due elementi fanno parte di una sorta della dialettica politica originaria del kemalismo.

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Il cemento usato da Mustafa Kemal per la sua costruzione politica si sostanziava in tre ele- menti, tutti funzionali a fare della giovane nazione turca una realtà unitaria: unità di lingua, uni- tà di ordinamento giuridico uguale per tutti, unità culturale. Quest’ultimo elemento non poteva che sostanziarsi in un Islam «delegificato», cioè senza sharī’a; tuttavia - in ragione di quanto di ne- gativo aveva rappresentato in precedenza - doveva restare legato agli altri due e da questi doveva essere limitato e controllato. Doveva cioè essere utile allo specifico disegno politico di Kemal, ma senza poter svolgere alcuna funzione politica autonoma. Difatti fu istituita, per il controllo e la disciplina delle attività religiose la Direzione degli Affari Religiosi incaricata di controllare (e di- sciplinare, se del caso) il culto e la predicazione, oltre che di amministrare le istituzioni religiose. Un organismo senza dubbio anomalo in uno Stato laico, ma espressione dell’interazione tra Sta- to e religione, che la Costituzione ha sancito insieme alla subordinazione della religione allo Sta- to. Una chiave di lettura consiste nella paura della repubblica kemalista per la possibilità di re- surrezione dell’Islam politico, cosa tutt’altro che difficile per una religione che contiene tutti gli elementi per la sua proiezione egemonica nella sfera sociale e pubblica. Palesemente la laicità kemalista si è ispirata a quella francese per l’acuta coscienza della necessità, per lo Stato, di difen- dersi dalle ingerenze religiose in politica, ricorrendo a una supervisione costante delle attività di predicazione e di culto. Che la laiklik turca (laicità) risulti sbilanciata da questa esigenza e dalla sostanziale identità fra turco e musulmano, lo dimostra la questione delle minoranze religiose nel paese. Quindi la rivoluzione kemalista ha introdotto una laicità dello Stato che non si risolve affatto nell’estraneità di esso dalla sfera religiosa, bensì nella mera esclusione della religione dall’ambito pubblico e nell’assoggettamento del culto alle direttive dello Stato, il tutto in una cornice di forte nazionalismo, ragion per cui la religione non resta fuori dallo Stato, ma al suo interno in posi- zione subordinata e regolata.

IL RUOLO DELLE FORZE ARMATE

Dall’avvento della Repubblica le Forze Armate si sono poste come garanti della sua laicità e baluardo contro le tentazioni di ritorno al passato. Questo, grazie anche all’immenso prestigio da esse conseguito nella vittoriosa lotta per l’indipendenza turca, cumulabile con le antiche glorie militari. Poiché durante la II Guerra mondiale la Turchia era riuscita a rimanere neutrale (salvo l’ininfluente dichiarazione di guerra alla Germania nel 1944) le sue Forze Armate non avevano patito né riduzioni di prestigio, né di consistenza; anzi quest’ultima si accrebbe in virtù del pas- saggio alla Guerra Fredda e dell’ingresso del paese nella Nato sul delicato fronte orientale. Oggi le Forze Armate turche sono le più potenti nell’area del Vicino Oriente (nucleare di Israele a par- te). Note per periodici colpi di stato volti a interrompere le turbolenze interne della politica turca e a garantire il rispetto dei principi kemalisti, queste Forze Armate hanno assunto un ruolo in-

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terventista (e autoritario) che in fondo era nella logica delle cose. Non va infatti dimenticato che la rivoluzione kemalista è venuta ed è stata imposta dall’alto, del tutto a prescindere dalla volontà popolare: se quest’ultima avesse avuto modo di imporsi, la Turchia sarebbe stata ugualmente na- zionalista ma ancora col Sultano e con un radicamento islamico ben più consistente di quello at- tuale con Erdoğan al potere. Le Forze Armate sono anche una potenza economica, giacché posseggono una holding - la Oyak - che controlla una trentina di grandi imprese operanti in vari settori: turismo, industria automobilistica (il 49% della produzione di Renault Megane), assicurazioni, banche, settore im- mobiliare) e beneficia dei contributi versati dai militari (il 10% dei loro guadagni). Nella presente fase, il governo islamista «moderato» sta attuando con un certo successo e con una certa intelligenza un lungo braccio di ferro con le Forze Armate (anche con epurazioni e pro- cedimenti giudiziari dal dubbio fondamento) con l’obiettivo finale di eliminarne l’influenza poli- tica. In questo modo Erdoğan e il suo partito puntano al doppio risultato di eliminare la spada di Damocle di essere rovesciati da un ennesimo golpe con la motivazione della deriva islamista; accontentare l’Unione Europea, che aveva chiesto il ritiro dei militari dalla scena politica turca come condizione per l’apertura dei negoziati di adesione. Ufficialmente le Forze Armate non so- no ostili all’Ue, ma si trovano in una posizione «a doppia faccia» nei confronti delle democrazie liberali europee: se da un lato è indiscutibile il vantaggio della loro opposizione senza se e senza ma ai tentativi e progetti egemonici dei settori religiosi musulmani, da un altro lato i militari so- no di oggettivo ostacolo alle riforme liberali volute da Bruxelles e le loro modalità repressive (tor- ture incluse) rendono assai difficile la cosmesi in cui il governo di Ankara si è impegnato. Qui l’Europa gioca una carta assai rischiosa perché sembrano passati i tempi del complesso di inferiorità delle società musulmane verso l’Occidente, e non vi è dubbio che un indebolimento politico estremo delle Forze Armate turche e la loro completa estromissione dalla sfera politica viene a creare un vuoto difficilmente colmabile dalle presenti forze laiche, e anche la Turchia po- trebbe finire travagliate da un’instabilità politica non più fra destra e sinistra, come negli anni ‘70 e ‘80, ma fra laici e islamisti. A seguito di un referendum costituzionale vinto dal governo, effettivamente la strada dell’estromissione delle Forze Armate dalla vita politica turca è stata decisamente imboccata, e sul futuro del paese (e della sua laicità) grava un’incognita che prima non esisteva, tanto più che tut- to il Vicino Oriente è più che mai una pericolosa polveriera e il governo turco ha deciso di gioca- re la pericolosissima carta dell’appoggio a un’opposizione armata siriana che ormai è sicuramente nelle mani dei jihadisti. Resta un dato di fatto: seppure le Forze Armate non abbiano più il vec- chio ruolo istituzionale, esse tuttavia sembrano mantenere una certa compattezza, e sarà delicato compito del corpo ufficiali evitare il diffondersi del virus islamista nelle caserme. Se ci riusciran- no, tutto bene; se no, non si può escludere per la Turchia (a parità di situazione) un periodo di sanguinosa turbolenza politica e di prodromi di guerra civile. A quel punto, è inutile farsi illu- sioni: si vedrà se le Forze Armate, pur avendo perduto la «ragione kemalista», manterranno la for- za. Certo è che il contesto dell’area è tutt’altro che positivo: problema curdo, questione palestine- se, sostegno delle monarchie arabe all’estremismo islamico, dissidenze sciite nella penisola araba,

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guerra civile siriana, nuove spinte centrifughe in Libano, instabilità irachena con lotta fra Sciiti e Sunniti, crisi per il nucleare iraniano e minacce di Israele e Usa all’Iran. Un immenso pasticcio politico in cui l’evoluzione di ognuno dei problemi esistenti interagirà (e non si sa come) con tut- ti gli altri. Gli anni a venire diranno se il kemalismo - indipendentemente dal suo attuale stato di salute - sia riuscito, o no, a ricondurre l’Islam politico al rispetto del quadro di base della demo- crazia borghese.

LE MINORANZE RELIGIOSE NON MUSULMANE OGGI

Con la Repubblica - turca, turchizzante, con uno sfondo cripto-islamico e una popolazione musulmana al 98% - per le minoranze lo spazio è giocoforza assai ridotto, per non dire inesisten- te. Non è casuale (anche alla luce di tutto quanto sopra detto) che in recenti edizioni dei libri scolastici siano presentati come spie, traditori e barbari armeni, greci del Ponto e cristiani siro- ortodossi (ossia assiro-aramaici); e che sinagoghe, chiese e scuole per le minoranze appaiano come istituzioni dannose. Il problema non è dei più rilevanti (o urgenti) sul piano meramente quanti- tativo, se si considera che oggi in Turchia i non-musulmani non vanno al di là dello 0,6% della popolazione (invece un secolo fa erano almeno il 25%). Grosso modo la minoranza più consi- stente è quella armena-ortodossa (almeno 80.000 persone), ci sono poi circa 2.000 armeno- cattolici, circa 3.000 greco-ortodossi e 10.000 arabo-ortodossi, 300 caldei, 15.000 romano- cattolici, 1.250 siro-cattolici, 10.000 siro-ortodossi, 20.000 israeliti e 15.000 di altre confessioni. Queste minoranze sono concentrate, al 95%, a Istanbul. Il problema è invece rilevante sul piano qualitativo, sia all’interno, per quanti sentono l’esigenza di un maggior rispetto per i diritti uma- ni; sia all’esterno ai fini dell’ipotetica (e sempre meno vicina) integrazione europea. La fonte giuridica di tutela delle minoranze non musulmane impegnativa per la Repubblica turca resta il Trattato di Losanna del 1923, in base al quale la Turchia si impegnò salvaguardarne religione e cultura. Queste minoranze sono distinguibili in tre gruppi: quelle previste da tale Trattato, quelle ivi non previste pur essendo già presenti nel paese, quelle giunte in Turchia dopo la firma del Trattato (cioè alcune confessioni protestanti e i testimoni di Geova). Il Trattato, all’art. 39, stabiliva che

i cittadini turchi facenti parte delle minoranze non musulmane godranno degli stessi diritti civili e poli- tici dei Musulmani. Tutti gli abitanti della Turchia, senza distinzione di religione, saranno uguali da- vanti alla legge. Le differenze di religione, di credenza o di confessione non debbono, per nessun cittadi- no turco, avere conseguenze negative nel godimento dei diritti civili e politici, soprattutto per l’ammissione a impieghi, funzioni od onori pubblici, né per l’esercizio delle differenti professioni od in- dustrie.vi

vi Il testo del trattato è consultabile all’indirizzo ; cfr. anche .

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Norma poi confermata nel documento di «partenariato» del 2001 per l’adesione della Turchia all’Unione Europea. Pur tuttavia le discriminazioni esistono. Per esempio, ancor oggi essere ar- meno non vuol dire avere vita facile, e la quantificazione sopra data sul loro numero è assoluta- mente imprecisa, poiché non tiene conto del non piccolo numero di discendenti degli armeni, costretti nel ‘900 a convertirsi all’Islam e turchizzarsi, ma che in segreto continuano a essere cri- stiani e a custodire la propria cultura. La loro ricorrente stima di almeno 1.000.000 di persone non è ovviamente accertabile. Inoltre, mentre le comunità non musulmane devono fare fronte alle proprie necessità ricor- rendo a mezzi propri - quando e se li hanno - invece le istituzioni musulmane godono oggi dell’abbondante sostegno burocratico e finanziario dello Stato: la Direzione per gli Affari Religio- si (dipende dal Primo Ministro) mantiene circa 123.000 membri di quello che impropriamente chiamiamo «clero» musulmano, sostiene le spese per la costruzione e la manutenzione delle mo- schee, per l’istruzione dei predicatori islamici, per le scuole coraniche e le facoltà universitarie islamiche, nonché per i pellegrinaggi alla Mecca. Qui la laicità non vale, mentre riemerge in tutto il suo vigore quando le istituzioni bisognose sono cristiane. Come pure quando esse devono ri- correre alla burocrazia statale, e allora gli ostacoli frapposti servono solo a complicare la vita e non fare raggiungere gli obiettivi che si prefiggono (come nei casi di aperture-riaperture di semi- nari e luoghi di culto).

Il premier Erdoğan col Patriarca Ortodosso Bartolomeo

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Chiaramente l’eventuale integrazione della Turchia nell’Ue porterebbe a molte modifiche del- la situazione, ma l’integrazione è tutt’altro che certa. In Europa ci sono i noti oppositori, ma c’è da chiedersi fino a che punto la cosa interessi e convenga ancora alla Turchia, paese da sempre geloso della propria sovranità. Comunque, la storia non si ferma.

L’ATTUALE (E APERTA) FASE DI TRANSIZIONE POLITICA

La vittoria elettorale di un partito islamico definito «moderato» ha avuto dietro di sé una lun- ga preparazione, quand’anche tale esito non rientrasse nei desideri dei politici che allentarono le maglie del kemalismo duro e puro. Nel 1950 la conquista della maggioranza parlamentare da parte del Partito Democratico di Adnan Menderes e il passaggio all’opposizione del partito kema- lista a suo tempo guidato da Ismet Ïnönü dette il via a politiche di maggior apertura verso le istanze religiose popolari, e si ebbero vari arretramenti rispetto alle riforme kemaliste, a comin- ciare dall’abolizione della chiamata alla preghiera in turco, per poi arrivare alla riammissione del- le Confraternite religiose, all’insegnamento della religione musulmana sunnita nelle scuole, fino all’attuale ripristino massiccio dell’uso del velo (turban; in arabo hijab) a copertura del capo fem- minile. Se anche qui contestualizziamo le predette controriforme, ci rendiamo conto che avevano una logica politica ben precisa, in aggiunta all’essere rimaste estranee al laicismo veste masse popolari. Siamo in piena guerra fredda, con la Turchia saldamente inserita nella Nato e bastione orientale di questa alleanza: la religione serviva come supporto ideologico antisovietico e altresì verso le si- nistre interne, sempre più radicali. L’ondata di violenze politiche degli anni ‘70, con scontri san- guinosi fra opposte fazioni, portò al colpo di stato del settembre 1980 e a un governo militare durato fino al 1983. Intanto era stata varata una nuova Costituzione approvata con referendum nel 1982, la quale rendeva l’insegnamento della religione obbligatorio nelle scuole superiori, probabilmente con l’intento di contrastare le spinte politiche estremiste tra i giovani. Con que- sto, però, si avviava - con una nuova impostazione dell’ideologia ufficiale della Repubblica - una nuova sintesi turco-islamica. Ma il risultato di essa non fu statico, bensì si concretizzò in un nuo- vo dinamismo giacché i settori che in vario modo si identificavano con la religione islamica co- minciarono ad avanzare pretese nella sfera politica, rinnovando così la tensione fra lo Stato laico e la religione. La situazione si sviluppò in maniera tale che un politico accorto come il premier Turgut Ozal (dal 1989 al 1993) diceva essere venuto il momento per la Turchia di porre fine alla sua guerra santa per imporre la laicità alla società, e di favorire la riconciliazione della laicità con la società, sia pure con i sacrifici da essa implicati quale prezzo per la stabilità politica e la pace sociale. L’avvento al potere dell’Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) di Erdoğan nel 2002 e il passaggio all’opposizione del laico Chp (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Repubblicano del Popolo) ha determinato un allontanamento dai canoni della repubblica kema- lista assai più accentuato rispetto alla seconda metà del secolo scorso. Siamo in presenza, cioè, di

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una fase di transizione dall’approdo ancora non definito: per gli oppositori laici si tratterebbe dell’islamizzazione della società turca, strisciante e continua; mentre per gli osservatori occidenta- li (non si sa fino a che punto interessati a blandire un governo apparentemente più propenso all’integrazione europea di quanto non lo siano i partiti laici) si tratterebbe invece del passaggio dalla laicità «alla francese» alla laicità «all’italiana» (cioè a una prassi più o meno analoga a quella della defunta (?) Democrazia Cristiana italiana). Durante il governo dell’Akp la Turchia ha conosciuto una rilevante crescita economica, con la formazione di un dinamico ceto imprenditoriale e la prevalenza delle piccole e medie imprese a conduzione familiare nelle province anatoliche. È quindi l’espressione politica di una borghesia islamica affermatasi dagli anni ottanta, diversa dal vecchio elettorato politico del precedente par- tito islamico di Erbakan, che era costituito essenzialmente da piccoli commercianti anatolici. Tuttavia riguardo alla base di questo partito nella stessa Turchia non sussistono idee chiare: per i laici questa base non sarebbe espressione dell’Islam urbano, bensì dell’Islam popolare di origine contadina. Da qui la preoccupazione proiettata nella sfera politica, giacché il partito al potere poggerebbe sugli strati più ignoranti e retrogradi della società, e proprio l’Islam popolare era stato oggetto degli sforzi di emarginazione di Mustafa Kemal. Tale interpretazione, invece, è stata giu- dicata fuorviante dal sociologo Ihsan Yilmaz sulle pagine del giornale Today’s Zaman (Tempo di oggi) in un articolo dell’aprile 2008. Egli vede nell’Islam popolare un fatto più di costume e di tradizione che non di ortodossia religiosa, e anzi lo considera abbastanza liberale nel culto e nelle credenze, spesso di origine non islamica. In aggiunta contesta la tesi dei laici in basse alla quale il radicamento urbano degli immigrati dalle campagne comporterebbe un’attenuazione della forza dell’Akp e un rinnovato trionfo della laicità anche su questo strato della popolazione. La polemi- ca è importante ai fini della migliore comprensione della riemersione islamica in Turchia. In realtà l’elemento islamico di punta e di influenza politica dell’Akp è urbano, e non rurale, è inse- rito nella borghesia vera e propria, in ceti benestanti e acculturati e nel mondo studentesco uni- versitario. Sarebbe quindi a prova di urbanizzazione. Senza dubbio la politica di Erdoğan ha apportato mutamenti nel sistema politico e giuridico della Turchia ampliando di fatto l’ambito democratico, dando spazio all’emergere di nuove istan- ze e operando per ridurre la sfera di intervento dei militari. Inoltre sta costringendo kemalisti e laici in genere a orientarsi verso un rinnovamento delle loro politiche. Se son rose fioriranno, anche se non è facile prevederne gli esiti e, per un osservatore laico, superare le diffidenze a mo- tivo del dubbio che esista nella testa di Erdoğan & C. una «agenda segreta» per riportare piena- mente la Turchia nello spazio islamico. Comunque l’ostilità è forte nelle grandi città roccaforti della mentalità laica (come Istanbul e Izmir). Tuttavia esiste il margine per alcune considerazioni. In Turchia i partiti laici e di centro-sinistra a motivo della loro rigidità ideologica non hanno mai saputo giocare bene, o appieno, le carte a disposizione; e questo in politica sia interna sia estera, indipendentemente dai maggiori margini di «affidabilità» per l’Occidente. La conclusione è stata il sorpasso dell’Akp, i suoi maggiori successi in politica interna (favoriti anche da una congiuntu- ra economica propizia) e l’aver fornito a chi di dovere quell’immagine di Islam «moderato» su cui

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giocare politicamente, pur senza con ciò farsi aprire le porte dall’Europa (quanto l’integrazione effettivamente convenga al popolo turco è altro discorso). A riaprire uno spazio politico all’Islam furono le conseguenze del colpo di stato del 1960: nel 1969 Necmettin Erbakan fondò il Partito dell’Ordine Nazionale (Mmp - Milli Nizam Partisi), poi sciolto dalla Corte Costituzionale nel 1971. Anche le formazioni successive durarono poco, fin- ché non si è giunti alla fondazione dell’Akp nel 2001. Quest’ultimo partito - a differenza dei pre- cedenti - ha abbandonato la posizione di scontro aperto col secolarismo kemalista e di ostilità verso l’Occidente, puntando alla maggiore democratizzazione della società turca, ivi compresi i diritti umani e individuali, assumendo una posizione finora centrista, cercando una specifica sin- tesi turca tra mercato capitalista e valori comunitari, e addirittura fra religione e secolarismo. Il successo ottenuto con i programmi di liberalizzazione politica ed economica ha dato all’Akp una stabilità al potere su cui pochi avrebbero scommesso. Ovviamente le liberalizzazioni hanno con- ferito maggiore visibilità e spazi all’Islam nella vita pubblica, ma a latere c’è stato anche il raffor- zamento della società civile e della borghesia, una maggiore apertura verso l’estero. Sulla concreta libertà dei mass-media si potrebbe discutere a motivo delle pulsioni autoritarie del premier Er- doğan. La forza politica e il radicamento sociale dell’Akp gli hanno dato un supporto e una sicu- rezza ben diverse da quella dei settori laici; questo porta (almeno inizialmente) a mutamenti nella prassi verso le minoranze religiose, che si affiancherebbe all’ammorbidimento politico verso i curdi, completando la cosmesi liberal-democratica effettivamente attuata dall’Akp. La vera svolta - a prescindere da ogni previsione di merito, ovviamente prematura - si avrebbe qualora l’Akp alle prossime elezioni ottenesse in Parlamento i numeri necessari per modificare la Costituzione (in- cubo per i laici); numeri che finora gli sono sempre mancati. In relazione a quanto già detto sui caratteri della laiklik kemalista, emerge il dubbio circa la fondatezza della riduzione dello scontro politico nella Turchia di oggi a una lotta fra maggioranza islamica e laici; e altresì viene spontanea la domanda se non sia più corretto parlare di scontro fra nazionalisti in posizione di chiusura verso le minoranze in quanto tali e riformisti, sia pure di matrice islamica, più liberali e portatori di una loro laicità fondata su una maggiore tolleranza (il concetto è tutt’altro che d’avanguardia, ma rappresenta un innegabile passo avanti). Indipenden- temente dalle simpatie o antipatie suscitabili dall’Akp, resta il fatto che altresì in vigenza del suo governo la Turchia resta laica nel senso che il suo diritto è di fonte secolare e improntato alla tradizione giuridica europea e al diritto romano, e non già alla şeriat. Detto per inciso. Si tratta di un elemento fondamentale contro quanti hanno elevato (e ancora elevano) panegirici sull’applicabilità del modello turco ai paesi teatro dell’ormai defunta «primavera araba», giacché sia le forze al potere in Egitto sia la maggioranza degli oppositori in Siria e Yemen - ispirati dai Fratelli musulmani o ad essi legati - vogliono che sia la legge islamica la fonte primaria del diritto. Lo ripetiamo: le simpatie e antipatie ideologiche devono essere poste fra parentesi, e si deve prendere atto dell’esistenza di prese di posizione non collimanti con certi schemi occidentali da parte di gente che continua a stare pericolosamente in prima linea: giornalisti e intellettuali tur- co-armeni. Per esempio, il defunto Hrant Dink - direttore del settimanale bilingue Agos, ucciso nel 2007 da un giovane nazionalista - ebbe a dichiarare in un’intervista del 2006 alla rivista ita-

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liana Tempi: «Il processo di democratizzazione che il paese sta vivendo è merito del governo islamico, e que- sta è una chance per la Turchia e per il mondo. Il vero pericolo non è l’islam, ma il nazionalismo». E lo scorso anno il successore di Dink alla direzione di Agos, Rober Koptas (anche lui turco-armeno, e sinistreggiante) non solo ha giudicato di matrice nazionalista e non religiosa gli omicidi di Dink, di don Andrea Santoro e di mons. Luigi Padovese, ma ha anche dichiarato che

l’Akp è la voce della gente musulmana, dimenticata dal processo di modernizzazione della Turchia. Oggi quella parte della società si sta a sua volta modernizzando; l’Akp vuole dimostrare che anche i musulmani possono essere dei veri democratici. Questo aiuta la nostra condizione: i valori della demo- crazia liberale si stanno facendo strada. Fino a oggi nel discorso pubblico turco gli armeni e i cristiani sono considerati dei nemici, ma quel «discorso» sta cambiando. È un cambiamento sociologico, non solo politico. [...] Il linguaggio dei nazionalisti/ modernisti è quello dell’odio - contro l’Akp, contro l’Islam - e non riescono più a capire il cambiamento in corso in Turchia. [...] Oggi ci sono diversi intellettuali «di sinistra» che si trovano dalla stessa parte dell’Akp sui temi della democrazia e della libertà. [...] L’Akp offre un’altra strada, magari più conservatrice sul piano religioso ma più liberale su quello della società e della politica. La scelta è tra nazionalisti autoritari e conservatori liberali: molti intellettuali hanno scelto il versante civile contro quello militare. [...] La realtà è che oggi in Turchia siamo tutti un po’ più liberi. È ridicolo sostenere che l’Akp voglia introdurre la Sharia, o cose del genere. Sono musulmani, sono mu- sulmani praticanti, come la gran parte di questo paese. Oggi quella parte del paese vuole essere presen- te in parlamento, nelle università, ed è molto «sano» che lo voglia.

Di recente ci sono stati taluni fatti significativi. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu si è esibito in pubblicizzate visite ufficiali sia al Patriarca greco-ortodosso Bartolomeo I sia a quello armeno, concretizzando qualcosa che - come ha osservato su Today’s Zaman Orhan Kemal Cengiz - non era mai avvenuta nella storia della Repubblica turca. Vero è che le parole dei politici il più delle volte valgono meno dell’aria che le sostiene, ma è pur vero che sentire da uno dei più in- fluenti membri del governo turco che il Patriarcato greco-ortodosso è «una delle nostre istituzioni religiose più antiche, una tradizione molto forte in se stessa. È un principio basilare per noi che in Turchia tutte le confessioni religiose possano vivere e condividere le loro culture in un’atmosfera di pace». Forse co- stituisce ben più di un segnale: costituisce, vale a dire, un vero e proprio precedente. Nel 2011 il governo turco ha emanato un decreto che stabilisce la restituzione di migliaia di proprietà sequestrate nel ‘36 a fondazioni religiose non musulmane, cioè cristiane ortodosse, cal- dee cattoliche, armene ed ebraiche. Le cattoliche latine non rientrano fra le minoranze ricono- sciute dal Trattato di Losanna: infatti per fondazioni religiose non musulmane si intendono quelle riconosciute dai vari trattati internazionali firmati dalla repubblica turca dopo il 1923. Il decreto prevede: la restituzione delle proprietà come esse furono recensite e registrate nel 1936 e successivamente confiscate alle fondazioni religiose dalle varie amministrazioni della Turchia re- pubblicana; la restituzione della gestione dei cimiteri appartenenti alle fondazioni non musulma- ne, che erano state cedute a vari municipi; la restituzione degli immobili dai titoli di proprietà non definiti (monasteri e parrocchie non riconosciuti dalla Repubblica come enti giuridici; il congruo compenso per le suddette proprietà se alienate o cedute dallo Stato a terzi. Dovrebbe

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trattarsi di circa 1000 immobili ortodossi; 100 armeni; un numero imprecisato per i caldei catto- lici e gli ebrei.

GLI ALEVITI: LA MAGGIORE MINORANZA ISLAMICA

Il dramma degli aleviti in Turchia, seppure quantitativamente meno sanguinoso del massacro armeno, pur tuttavia costituisce un’ulteriore esempio di come la storiografia ufficiale - anche re- pubblicana - abbia la tendenza a coprire i misfatti di massa con versioni auto-assolutorie. Gli alevi- ti sono una minoranza religiosa pressoché sconosciuta in Occidente, ma si aggirano sui 15 milioni di persone, e quindi risultano essere la maggiore minoranza religiosa della Turchia sunnita. Sono considerabili una gruppo eterodosso dello sciismo duodecimano, al pari degli alawiti di Siria (con i quali però non devono essere confusi a motivo delle profonde differenze di credenza e culto fra loro esistenti). Comunque nel 1970 l’Ayatollah Ruhollah Khomeini ha riconosciuto gli aleviti come appartenenti a pieno titolo allo Sciismo. Essi effettuano una sorta di deificazione dell’Imām ‘Alī ibn Abī Tālib (genero del Profeta e quarto Califfo) nel quadro di un modello di tipo trinitario basato su Allāh, Muhāmmad e ‘Alī; praticano un’interpretazione gnostico-allegorica (bātin) del Co- rano, al di là del mero dato letterale (zahir), consumano liberamente alcool, non considerano ob- bligatori o necessari le cinque preghiere quotidiane e il pellegrinaggio alla Mecca; il loro luogo di culto (detto in turco cemevi) non è la moschea, bensì una sala assembleare; le donne non sono te- nute a coprirsi il capo e pregano insieme agli uomini; i rituali comprendono musiche e danze ri- tuali, in genere vietati dagli altri musulmani, con l’eccezione delle confraternite mistiche dei Sufi. Trattandosi di minoranza sottoposta spesso a persecuzioni, gli aleviti quando necessario - e al pari degli altri Sciiti - praticano la taqiyya, cioè la dissimulazione della propria identità e credo religiosi. Uno degli insegnamenti aleviti fondamentali è espresso nella formula «sii padrone delle tue mani, sii padrone dei tuoi sensi, sii padrone della tua lingua». E, rara avis nel mondo islamico, sono ri- spettosi delle idee altrui e politicamente orientati a sinistra. Gli aleviti hanno un duplice obiettivo: ostacolare i rinascenti focolai di radicalismo sunnita in alleanza con le forze laiche (ma non tutto il Chp è pronto a questo) e i Sunniti non estremisti; e soprattutto ottenere dallo Stato il riconoscimento dell’alevismo come comunità musulmana a pieno titolo a fianco del Sunnismo. Un aspetto interessante - ma indigeribile per i Sunniti - ri- guarda il rapporto fra alevismo e Corano. Sullo sfondo si intravede l’accusa sciita ai Sunniti di alterazione del sacro testo a scapito dei diritti di ‘Alī al vertice della comunità islamica, tuttavia essa viene assai dilatata dagli aleviti, nel senso di investire aspetti rituali importanti: da qui l’accusa alevita di alterazione del Corano originario che non avrebbe stabilito né le cinque pre- ghiere quotidiane né la frequentazione della moschea né il pellegrinaggio. Inoltre, gli aleviti ri- tengono che sia di origine araba - ed estranea al carattere turco - la ristrettezza mentale dei Sunni- ti, per cui attribuiscono al carattere arabo i problemi di arretratezza delle società sunnite, e vedo- no nel legalismo religioso il nemico del libero pensiero. Forti sono i loro legami con la eterodossa confraternita sufica fondata nel XIII secolo da Haci Bektaş Veli. Aleviti si nasce, non si diventa.

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Circa il 60% degli aleviti sono considerabili turchi; per il resto sono curdi e kazaki, e circa il 25% dei curdi e zazaki di Turchia sono aleviti. Comunità alevite esistono anche nel Kurdistan e nell’Azerbaijan iraniani. Votano in genere per i partiti laici e di sinistra. Il resto del mondo islamico guarda con sospetto la loro eterodossia, e nonostante il carattere «laico» della repubblica turca sono sottoposti a discriminazioni e sovente abbandonati alla furia assassina dei Sunniti estremisti, per quanto fin dall’inizio avessero appoggiato Atatürk e le sue riforme. Fin dall’epoca dell’impero ottomano gli aleviti sono stati una minoranza ora perseguita- ta anche sanguinosamente, ora assai discriminata, per l’appartenenza alla famiglia sciita, che tra- dizionalmente finisce col guardare alla Persia-Iran.

Zone alevite in Turchia

Abbiamo già detto che con l’avvento della Repubblica non è venuto meno il retaggio del pas- sato islamico sunnita, con l’aggiunta dell’ideologia nazionalista che ha reso malagevole il rappor- to con le minoranze (tant’è che secondo taluni osservatori uno dei maggiori problemi della Tur- chia non sarebbe il radicalismo islamico, bensì l’alto tasso di nazionalismo, a volte cieco), e in conclusione gli aleviti sono rimasti il bersaglio. A volte bersaglio in senso stretto con eccidi di massa e scontri di una certa rilevanza, tanto che si è parlato di una «repressione a bassa intensità» contro di loro. Le regioni più «calde» sono quelle di Kahramanmaras, Malatya e Gaziantep. Fa- moso è rimasto l’eccidio di Dersim, del 1937-38, compiuto dall’aviazione contro curdi e aleviti, causando migliaia di morti. Di recente Erdoğan ha chiesto ufficialmente scusa per il crimine. Nel

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1978 a Kahramanmaras i famigerati «Lupi Grigi» (Bozkurtlar) massacrarono 150 aleviti, tra cui donne e bambini. Ci fu poi nel 1992 il massacro di Sivas, dove fu incendiato l’albergo in cui era in corso un congresso di aleviti, e almeno 40 persone persero la vita. Nel 1995, vari attentati col- pirono un quartiere di Istanbul con forte presenza alevita (nonché altre città) e risultò che alme- no 17 persone erano state uccise da colpi sparati da poliziotti: solo due furono condannati ma poi le pene vennero ridotte rispettivamente da 96 a 6 anni e da 43 a 3 anni! Nel 2012 la comuni- tà alevita di Mersin non ha potuto ottenere il riconoscimento del proprio centro di preghiera e, cosa assai grave, le porte di molte abitazioni di aleviti di Adıyaman sono state contrassegnate in modo particolare, come per farne prossimi bersagli. La politica di Erdoğan verso gli aleviti è altalenante, a volte ambigua e sempre elettoralmente demagogica, come ha spesso sottolineato Kemal Kılıçdaroğlu, alevita e capo del maggior partito di opposizione, il laico Chp (Cumhuriyet Halk Partisi). Ma anche Kılıçdaroğlu ha i suoi problemi all’interno del Chp, in quanto la forte ala nazionalista ancora non è disposta a un atteggiamento più liberale verso la minoranza alevita. Da qui lo scarso attivismo di Kılıçdaroğlu sulla questione, tanto che ha dovuto ingoiare l’accusa di rinnegamento delle proprie origini lanciatagli da Er- doğan. Sulla genuinità delle sue scuse per i fatti di Dersim in Turchia molti sono diffidenti, rite- nendo che in realtà esse fossero strumentalmente destinate a mettere in difficoltà Kılıçdaroğlu all’interno del suo partito e sul piano storico. Sotto quest’ultimo profilo Erdoğan, nel suo discor- so su Dersim, ha avuto buon gioco a sottolineare proprio le responsabilità del Chp nei sanguino- si fatti dell’epoca; e per quanto riguarda la situazione interna del Chp va registrata l’espulsione da quel partito di Muzaffer Değer, presidente proprio del Chp nella provincia di Diyarbakır, per il fatto di essersi azzardato a scusarsi pubblicamente, a sua volta, per il massacro di Dersim. Co- munque sono contrastanti gli attuali segnali sulla questione alevita. Se il ministro dell’Istruzione Faruk Celil ha disposto che dall’anno scolastico 2011-2012, e a partire dalla quarta classe, l’alevismo sia oggetto di studio scolastico con testi accurati, tuttavia il 17 aprile di quest’anno si è avuto un episodio poco promettente: essendo stato invitato a partecipare a una conferenza go- vernativa sul massacro di Kahramanmaras, Okkes Sendiller - uno dei responsabili dell’eccidio - il capo di una organizzazione alevita, Ali Kenenoğlu, «colpevole» di aver equiparato quell’invito alla partecipazione di Hitler a un incontro sugli ebrei, è stato condannato a pagare una multa pari a 1.500 euro. Evidentemente c’è ancora molto da fare.

I CURDI: LA PIÙ CONSISTENTE MINORANZA ETNICA

Arriviamo ora al più grave e irrisolto problema etnico della Turchia contemporanea. I curdi sono notoriamente un popolo senza Stato proprio, diviso fra più Stati, perseguitato in vario modo a seconda dei paesi e costretto a una forte emigrazione (riguarda almeno un milione di persone stanziatesi in Germania, Scandinavia e Stati Uniti; esistono piccole comunità curde anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afghanistan e Pakistan). Si tratta di un popo- lo che numericamente si aggira fra i 35 e i 40 milioni di persone. Probabilmente discendono da-

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gli antichi Medi, etnicamente sono affini alle popolazioni dell’altopiano iranico e appartengono al ceppo linguistico indoeuropeo ma non hanno una lingua unitaria: la cosiddetta lingua curda è un termine che comprende vari linguaggi (i principali sono il Kurmanji in Turchia e il Sorani in Iraq, ma ne esistono altri ancora) fra loro imparentati. Sul piano religioso sono in maggioranza musulmani sunniti, ma esistono anche minoranze sciite, cristiane e anche israelite. In Turchia sono il 18-20 % della popolazione, in Iraq circa il 12%, in Siria più del 5%, in Iran il 4% e in Armenia l’1,3%.

Oltre alla divisione territoriale i curdi hanno al loro passivo storico anche una forte e radicata disunione all’interno delle stesse singole realtà regionali, con faide politiche e non. Si pensi - ne parleremo in seguito - al fenomeno del collaborazionismo armato col governo turco da parte di miliziani curdi organizzati nelle guardie di villaggio, oppure alle sanguinose contese che contrap- posero in Iraq il clan Barzani al clan Talabani, nonché ai non facili rapporti fra Kurdistan ira- cheno e Pkk. Non è detto, comunque, che un’eventuale unità curda (ipotetica, al momento) faci- literebbe la lotta per la formazione di uno Stato curdo unitario, giacché darebbe luogo a una po- derosa coalizione anti-curda, facilitata dalla geografia politica. A motivo del carattere nomade e tribale della società curda, non si realizzò mai un’organizzazione politica unitaria. Tuttavia il territorio del Kurdistan fino al secolo XVI fu go- vernato da principi locali pur trovandosi tra due colossi imperiali: la Persia e l’impero ottomano. Questo finì nel 1514 con il Trattato di Gialdiran e nel 1639 col Trattato di Kasiri-Sirin, i quali sancirono la definizione dei confini fra questi due imperi e quindi la prima spartizione del Kur- distan. Le forme di autonomia che i curdi erano riusciti a mantenere nel periodo ottomano co- minciarono a essere ristrette durante il Tanzimat, che fu anche un tentativo di centralizzazione

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del potere sultanile. Furono di questo periodo le prime rivolte di potentati curdi: esse, per quan- to non coinvolgenti tutto il Kurdistan ottomano, possono comunque essere considerate i pro- dromi di quello che sarà il consapevole nazionalismo curdo. Prima della riscossa di Kemal, gli Alleati - attuando un utilitaristico divide et impera - avevano «pensato bene» di fare ai curdi un regalo, magari all’epoca da essi poco richiesto, a scapito del Sultano: e così il primo Trattato di pace firmato dallo sconfitto impero ottomano a Sèvres nel 1920, aveva illuso i curdi prevedendo la formazione di un Kurdistan anatolico indipendente. Che non fu mai realizzato, in quanto questo accordo fu poi messo nel dimenticatoio della politi- ca a seguito della grande vittoria kemalista e fu sostituito nel 1923 dal Trattato di Losanna che ignorava del tutto qualsiasi ipotesi di Kurdistan. Un esito bruciante per la giovane minoranza na- zionalista curda. Negli ex territori ottomani a maggioranza di lingua araba, a seguito della politica imperialista, finirono divisi in misura quantitativamente diversa fra Armenia, Iraq e Siria. In Iran, come detto, già c’erano. In quasi tutti questi Stati per loro si apriva una fase di persecuzione in misura e con modalità variabili. Riguardo ai curdi anatolici la politica di Atatürk si sviluppò all’insegna del più puro opportu- nismo in base alle contingenze. Si può dire che l’aiuto curdo alla lotta contro l’invasione greca fu essenziale per la vittoria finale; è un dato di fatto non eliminabile dalla considerazione che la ri- sposta massiccia all’appello di Kemal da parte dei vilayetler (distretti) di Erzurum, Bitlis, Van, Mus e Erzincan ricevette una spinta di rilievo dal pericolo che quelle zone fossero annesse dall’Armenia, e che Kemal distribuì le proprietà armene ai capi tribù curdi. La prima grande As- semblea Nazionale kemalista contava più di 1/3 di delegati curdi. Fino alla firma del Trattato di Losanna (24 luglio 1923) Atatürk mantenne un atteggiamento più che aperto verso i curdi, addi- rittura parlando - nello stesso anno - di possibilità per essi di un certo grado di autonomia (lette- ralmente, «bir tür yerel özerklik»). Con la Repubblica turca, per i turchi e con i suoi abitanti che dovevano turchizzarsi qualora già non lo fossero il quadro mutò a 360º. Nella Turchia repubblicana durante gli anni ‘20 scoppiarono due grandi rivolte curde: la pri- ma, guidata da Şeikh Said nel 1925, fu stroncata sul nascere; la seconda, detta dell’Ararat, coin- volse più stati, ebbe anche l’appoggio esterno armeno, durò dal 1927 al 1930 e venne stroncata da un massiccio impiego delle Forze Armate con la tacita collaborazione dell’Iran e dell’Urss. Si parla di qualche milione di morti. In base ai presupposti ideologici repubblicani non stupisce che con la fine del sultanato i cur- di ufficialmente non furono più tali, bensì «turchi della montagna» (diventati poi «turchi orienta- li» nel 1980). Fin qui niente di male, almeno se si aderisce al detto shakespeariano «sotto un altro nome la rosa profuma lo stesso». Ma le cose non si limitarono al formalismo del nome, bensì giunsero a includere le sfere linguistica e culturale; vale a dire gli elementi di base di quel che de- finiamo «nazionalità». Di modo che quando i curdi di Turchia cominciarono a rivendicare se- riamente la propria identità etnica e culturale fino al desiderio di indipendenza, la repressione sanguinosa e implacabile non fu inaspettata ma - per così dire - nella logica delle cose. I primi a non doversene stupire avrebbero dovuto essere proprio i curdi, avendo entusiasticamente e spon-

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taneamente partecipato al grande massacro di armeni ordinato durante la Grande Guerra da Ta- laat Paşa ed Enver Paşa. Poiché di un analogo massacro invece non era stata vittima la minoranza greca dell’impero (la Grecia non faceva parte del fronte bellico degli Alleati) era di tutta evidenza che la tragica decisione assunta dal governo dei Giovani turchi nasceva dall’intenzione di disfarsi di una minoranza palesemente orientata in senso filorusso e filo francese, e quindi pericolosa per l’unità dell’impero. L’esperienza armena avrebbe dovuto allertare sul fatto che né l’autonomismo curdo, né a maggior ragione l’indipendentismo, l’avrebbero fatta franca. Inquadrare il sanguinoso precipitare della situazione nella sola ottica della crudeltà o dell’intolleranza fine a sé stessa sarebbe tuttavia riduttivo. In realtà il problema è più ampio e complesso e si riallaccia alle non granitiche basi della costruzione kemalista di cui si è già parlato. Da tutto questo è derivata, sul piano politico e giuridico, la messa al bando della lingua e del- la cultura dei curdi, con le consequenziali persecuzioni verso i dissidenti: cioè a dire la formazio- ne di un problema curdo che nell’impero ottomano non esisteva. L’aver attivamente partecipato i curdi alla Guerra di indipendenza non poteva costituire un titolo di merito di tale portata da determinare un’eccezione nella generale turchizzazione del paese. Negli anni ‘40 il governo di Ankara, per realizzare un’assimilazione rivelatasi più difficile di quanto desiderato, oltre a impiantare scuole turche in ogni paese e villaggio e vietare di parlare curdo, ricorse alla sottrazione di bambini alle famiglie, con l’obbligo di frequentare le scuole fino a 16-17 anni e con la possibilità di incontrare i genitori solo una volta o due l’anno. Normalmente i tentativi di forzato sradicamento dell’identità culturale e linguistica di una popolazione hanno cattivo esito e provocano reazioni violente e rivendicazioni politiche orientate - nella migliore delle ipotesi - all’autonomia, con la richiesta di indipendenza sempre dietro l’angolo. Così è stato per i curdi di Turchia. Dal 1974, con l’organizzarsi di una parte dei curdi nel Partito del lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkerên Kurdistan Pkk), formalmente di orienta- mento marxista, guerriglia e repressione militare hanno devastato la Turchia orientale, con varie provincie messe in stato d’assedio, massacri da ambo le parti, 4.000 villaggi distrutti, torture e circa 35.000 morti, 3 milioni di profughi e almeno 10.000 prigionieri politici, un enorme costo economico della repressione, che ha impegnato almeno 300.000 militari, più 50.000 miliziani curdi organizzati e pagati da Ankara. Da notare che il Pkk è forse l’unica formazione curda su cui si è appuntata l’ostilità dell’Occidente ed è considerata gruppo terrorista, a differenza degli ira- cheni Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e Unione patriottica del Kurdistan (Upk), degli iraniani Partito democratico del Kurdistan Iraniano e il Partito per la libertà del Kurdistan. La particolare durezza nella conduzione della lotta contro la guerriglia da parte delle Forze Armate governative non deriva solo dalla tradizionale «mancanza di tenerezza» da parte loro ma sia dalla consapevolezza di concretizzare la loro missione istituzionale di difesa dell’integrità del paese, sia dall’altrettanta durezza applicata fin dall’inizio dal Pkk, con la conseguenza di incro- ciarsi di efferatezze da cui nessuna delle parti in causa (nemmeno i curdi sempre presentati come le uniche vittime dai media occidentali) emerge immacolata. Pur con tutto il suo violento rigore, il governo di Ankara non ha realizzato il perseguito obiet- tivo unitario, ed è certo che oggi come oggi un ipotetico ritiro dell’esercito turco dai territori

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curdi porterebbe alla formazione di un Kurdistan anatolico indipendente. Il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha allentato la pressione culturale sui curdi, anche e soprattutto per le esigenze di cosmesi imposte dall’Unione Europea al fine del fantomatico ingresso della Turchia, e forse il caso della deputata curda finita in galera per aver usato la propria lingua nell’aula parlamentare appartiene al passato. Ma non è detto. La concessione dell’autonomia a un Kurdistan turco resta ancora una misura non facilmente digeribile dalla politica turca e dalle Forze Armate e tutto sommato non è agevolata dalla recente formazione di un Kurdistan iracheno dall’amplissima au- tonomia, a seguito dell’occupazione statunitense dell’Iraq. In Turchia il problema curdo resta aperto e senza soluzione sullo sfondo. Qui comunque si può porre un problema politicamente scorretto e quindi in genere poco af- frontato, preferendosi fare il tifo per questo o per quello: fermo cioè restando che le repressioni alla maniera turca hanno il controproducente effetto di rafforzare il nazionalismo e le rivendica- zioni anche meno realistiche, c’è da interrogarsi su quale sarebbe l’effettiva presa di tale naziona- lismo in fasi e ambienti definibili più «normali». Il dubbio nasce dal fatto che in metropoli come Istanbul e Ankara le azioni del Pkk non siano mai riuscite a creare un clima di tipo nordirlande- se, mentre in questi luoghi i curdi abbondano, vivono e lavorano. Certo, diversa è la situazione a Dyarbakır, città della regione curda, resa ultranazionalista dalla repressione, ma ci si può chiedere se il ribellismo curdo non sia tanto questione di una minoranza etnica, quanto di minoranza in una minoranza. Esempio di un’impostazione diversa (e forse più coi piedi per terra) è il grande vecchio delle lettere turche, Yaşar Kemal, che si considera curdo di espressione turca. Ben poco dicono le percentuali di curdi che, anche all’estero, pagano il «pizzo» al Pkk, giacché qui siamo al confine fra la «tassa rivoluzionaria» e l’estorsione para-mafiosa, non essendoci possibilità di scelta. Poiché anche le previsioni per il futuro prossimo sono estremamente aleatorie, spingersi più avanti non è consigliabile. Si può solo dire cosa si legge nei dati di fatto attuali. Essi ci dicono che - a parte la presente, e fragile, autonomia curda dell’Iraq - altrove i curdi hanno poco da aspettar- si. Saranno fortunati se in Turchia otterranno ulteriori margini di riconoscimento. Qui però c’è un elemento a doppia faccia, che si aggiunge all’ideologia di quella Repubblica: il fallimento so- stanziale della lotta armata curda è suscettibile di portare il governo di Ankara ad ammorbidire ancor di più la sua politica, ma anche di distoglierlo da ciò, proprio per le conseguenze del falli- mento del Pkk. Il caso iracheno è stato del tutto particolare, poiché senza l’intervento imperiali- sta di Washington con tutta probabilità non si sarebbe arrivati alla situazione attuale. D’altro canto i dirigenti curdi iracheni non hanno molto spazio per fungere da punto di agglutinazione per altre realtà regionali curde, a motivo dei rapporti e tutto sommato buoni che hanno attual- mente con la Turchia (e anche con l’Iran): infatti è significativo che la Turchia resti assolutamen- te ostile alla costituzione di un’autonomia curda in Siria. Il massimo conseguibile in Turchia è forse il mantenimento degli spazi ottenuti (per lo più culturali). L’autogoverno rivendicato da certi settori della dissidenza curda (alla maniera di baschi e catalani in Spagna) rimane velleitario di fronte a una nazione turca tutt’altro che pronta ad accettarla.

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I territori ex armeni in Turchia

LA QUESTIONE ARMENA

Una tragica questione ancora aperta a motivo del rifiuto della Repubblica turca di riconoscere che il massacro di armeni ordinato dal governo ottomano dei Giovani turchi durante la I Guerra Mondiale fu un genocidio, di assumersene le responsabilità chiedendo scusa. Per gli oppositori all’ingresso della Turchia nell’Ue la questione fa parte degli ostacoli irrisolti, e di recente l’Assemblea Nazionale francese ha approvato una legge che configura come reato il negazionismo di tale genocidio, e per chi pubblicamente sostenga che il massacro non arrivò a configurare un genocidio sono previsti un anno di prigione e 45.000 euro di multa. L’incontrovertibile dato di fatto è che una notevole parte degli armeni dell’Impero ottomano fu vittima di una specie di «grande gioco» (nel senso dato da Kipling al termine) gestito da Russia e Gran Bretagna per i propri obiettivi imperialisti, a far tempo dalla guerra russo-turca del 1877- 78. La Russia voleva acquisire lo sbocco al Mar Mediterraneo per la propria flotta e quindi essere presente nel Vicino Oriente; la Gran Bretagna voleva controllare (o avere chi controllasse in ve- ste subordinata) le vie terrestri dal Caucaso all’India alla cui frontiera afghana era in corso il «grande gioco» principale fra il suo imperialismo e quello russo. Nel mezzo, e nella morsa, c’erano sia l’impero ottomano, teatro di mal sopportate ingerenze straniere, sia dentro questo impero gli armeni portatori di un nazionalismo attizzato e strumentalizzato - in modo opportunistico e irre- sponsabile - da chi fingeva di aiutarli senza poterlo né volerlo fare.

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Inevitabile era quindi lo scontro violentissimo fra il nazionalismo armeno, virulento ma debo- le, e un montante nazionalismo turco, virulento ma forte. E purtroppo laddove il nazionalismo ha operato all’interno di ambienti multinazionali, o multietnici che dir si voglia, il massacro del diverso ha sempre costituito la tragica «normalità»; normalità da cui non sono stati immuni i tur- chi (cosa fin troppo notoria), ma nemmeno gli armeni (cosa assai meno nota). A differenza di greci, serbi, bulgari e rumeni, gli armeni - quando cominciarono a ostilizzare l’impero ottomano - si trovarono alle prese con due avverse situazioni non superabili: in nessuna regione dell’impero erano maggioritari; non trovarono, anche per questo, nessuna potenza europea disposta ad aiu- tarli davvero. Forse la più attiva in questa tragica commedia fu la Russia zarista, ma con il suo al- talenante atteggiamento fece agli armeni un dono avvelenato: avendo essi l’appoggio di un seco- lare e tenace nemico dell’impero ottomano, al governo del Sultano fu facile additarli come tradi- tori. Naturalmente si susseguirono atroci rappresaglie reciproche in cui si ebbero - come sempre accade in casi del genere - armeni vittime innocenti e armeni carnefici di innocenti. Lo stesso di- casi per i turchi, con i loro criminali ma pure con le loro vittime delle rappresaglie e del terrori- smo armeno. Propaganda e storiografia armene fanno risalire la loro accusa di genocidio alla fine dell’Ottocento, e quindi vari decenni prima della Grande Guerra, durante cui si ebbe il massacro di proporzioni maggiori. È fuor di dubbio che negli ultimi 25 anni del secolo XIX in varie regioni dell’impero fu percepito il ruolo di quinta colonna straniera da parte del nazionalismo armeno; e anche il governo del Sultano si rese conto di quel pericolo specifico che ne aggravava la debolez- za. Tuttavia sembra erroneo vedere negli eccidi localizzati di quel periodo l’antefatto o il prologo del grande massacro del 1915-16, non essendoci stata alcuna scelta politica globale del governo ottomano in tale direzione. Semmai fino al 1908 la politica governativa fu orientata alla preserva- zione di situazioni di convivenza pacifica tra le varie etnie e religioni dell’impero. L’avvento al potere dei Giovani turchi mutò del tutto il quadro, e con la I Guerra Mondiale e l’intervento ottomano al fianco di Germania e Austria/Ungheria, la questione armena diventò un problema di sicurezza del fronte interno con la presenza di reparti armeni nelle truppe russe che avevano iniziato l’invasione dell’Anatolia, col corredo di massacri di popolazioni musulmane. I due veri padroni dell’Impero - Enver Paşa e Talaat Paşa - pensarono di risolvere con una specie di «soluzione finale» ante litteram, fatta di indiscriminati massacri sul posto e deportazioni verso la morte. Il fatto di non essersi trattato di uno sterminio sistematico in tutto il territorio imperiale, e quindi totalizzante, costituisce uno degli argomenti dei turchi che negano l’accusa di genocidio. Sta di fatto, però, che i massacri del periodo bellico furono l’esecuzione di un progetto ideato dai massimi vertici governativi, peraltro inserendosi nell’incipiente programma di turchizzazione su- bentrato dopo il 1908. L’aveva ben capito l’ambasciatore austro-ungarico a Costantinopoli, il quale osservò che il massacro armeno era un mezzo per la creazione di uno stato nazionale turco mediante l’eliminazione fisica di elementi stranieri. A questo riguardo va detto subito che entrare nelle sabbie mobili dell’esegesi giuridica del concetto di genocidio secondo il diritto internazionale è perfettamente inutile ai fini morali (per- ché ormai di questo solo si tratta), poiché ognuna delle tesi in campo è argomentabile. Resta tut-

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tavia il fatto che si trattò di un massacro di enormi proporzioni; che tale resta al di là del balletto delle cifre contrapposte presentate dalle parti in causa - giocando al ribasso estremo i turchi (500.000 morti, in buona parte attribuiti a combattimenti e alle deportazioni) e al rialzo estremo gli armeni (1.500.000 morti). Immediatamente dopo la fine della Grande Guerra il governo del Sultano - sia pure obbligato dalle potenze vincitrici - iniziò a processare i responsabili, ma si trattò di un corso giudiziario pre- sto interrotto dagli sviluppi di quel periodo, cioè dalla vittoria di Mustafa Kemal. A quel punto la questione armena andava archiviata per vari motivi: non rientrava fra le urgenze della nuova Turchia repubblicana; non conveniva affatto ai Giovani turchi che si erano riciclati come kemali- sti; infine contro gli armeni si era dovuto combattere dopo il 1918 per riconquistare i territori dell’Anatolia orientale - dove esisteva una notevole popolazione turca - che le potenze vincitrici avevano attribuito a un’Armenia indipendente, ridottasi poi a una piccolissima repubblica inseri- ta nell’Urss. Nel secondo dopoguerra il negazionismo turco è stato sostenuto nei fatti sia da Gran Breta- gna sia dagli Stati Uniti: se alla prima non conveniva che si andasse a scavare troppo sulla sua po- litica estera del tempo, ai secondi non conveniva urtare la suscettibilità di un alleato custode del- la delicata frontiera antisovietica sulla linea che dalla Bulgaria va per il Mar Nero al Caucaso. Notoriamente, parlare di genocidio armeno ancora oggi provoca in Turchia reazioni trasversa- li assai negative. Ragion per cui per quanti senza essere armeni tirano fuori l’argomento la rea- zione ufficiale scatta immediata anche con procedimenti giudiziari. C’è da chiedersi per quale motivo la Turchia reagisca in questo modo, mentre sarebbe probabilmente diversa la reazione di un successore di Gengis Khan o di Tamerlano. Oltre a quanto in precedenza detto nell’ottica ideologica e psicologica, non deve essere trascurata l’esigenza, fortemente e diffusamente sentita, di difendere l’identità turca mediante l’autostima. Autostima che viene colpita dagli attacchi - quand’anche non campati per aria - di nazioni straniere peraltro specializzate in massacri che hanno riempito le pagine della Storia e continuano a essere effettuati. Ma anche questo non ba- sta. Qui va fatto un parallelo con la Germania del secondo dopoguerra. In linea generale le classi politiche tedesche andate al potere dopo la sconfitta non hanno avuto nessi di continuità con il recente passato nazista (per quanto non siano mancate coperture politiche e giudiziarie per vari criminali di guerra). Orbene, per la Turchia va detto tutto il con- trario, nel senso che esiste una chiara continuità fra responsabili e autori del massacro armeno e parte della classe politica kemalista. La guerra d’indipendenza contro greci e Alleati non sarebbe stata possibile - sul piano organizzativo - senza l’appoggio della rete della polizia segreta dei Gio- vani turchi e senza la partecipazione diretta di persone con le mai sporche di sangue armeno e le metaforiche tasche piene di quanto rubato ai massacrati. Mustafa Kemal inizialmente aveva par- lato di «atto vergognoso», ma poi dopo la vittoria non proseguì l’azione giudiziaria contro i re- sponsabili degli eccidi iniziate dai tribunali del Sultano. Si sospetta che Kemal volesse usare l’iniziale atteggiamento negativo verso i colpevoli dei massacri come una specie di moneta di scambio verso gli Alleati per ottenere un trattamento della Turchia ben più favorevole di quello che in realtà strapperà a Losanna. Così non fu: salvò l’Anatolia peraltro da lui già liberata con le

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armi e la Tracia turca, ma nulla più: perse Aleppo, Mossul con le zone petrolifere e in una fase iniziale anche il Sangiaccato di Alessandretta (temporaneamente affidato alla Francia come man- dataria sulla Siria). Il rigore sul massacro armeno non serviva più come moneta di scambio per la politica estera e, in quelle condizioni, volerlo mantenere per la pulizia interna penale ed etica avrebbe significato aprire una pericolosissima contrapposizione con i suoi sostenitori provenienti dai Giovani turchi o collusi con essi. Oggi irrigidirsi dall’esterno nell’imputare ai «turchi» - in modo indifferenziato storicamente e collettivamente - il massacro armeno durante la Grande Guerra serve solo a irritare il governo di Ankara e la sua popolazione senza apportare alcun beneficio proprio all’Armenia. In più questa crociata dall’esterno - oltre a implicare apoditticamente l’immutabilità delle identità collettive e a voler corresponsabilizzare i contemporanei per crimini compiuti in costanza di generazioni del passato - non tiene conto del fatto che poi a doversela vedere con la Repubblica turca di oggi è l’attuale Repubblica di Armenia; ben più degli armeni della diaspora (ormai radicati in altri paesi a prescindere dalla conservazione di tradizioni proprie, e per i quali può dirsi quel che si diceva per gli aristocratici russi fuggiti dalla Rivoluzione: nulla hanno dimenticato ma nulla hanno im- parato). Molto meglio sarebbe lasciare ai diretti interessati (cioè Ankara e Erevan) l’incombenza di dirimere la questione. Su questo versante i segnali positivi non mancano affatto, quand’anche non siano stati ancora ratificati i protocolli turco-armeni di Zurigo dell’ottobre 2009, volti ad av- viare la normalizzazione dei reciproci rapporti. E allorquando qualcosa si muove, qualcosa poi succede. Inoltre - sul piano interno della società turca - la cosa davvero importante è che si conso- lidino sempre di più gli spazi democratici e liberali per la libertà d’espressione: alveo da cui solo può nascere un libero dibattito turco, fatto da turchi, su quella tragica pagina di storia.

Illustrazione da Francisco Pi y Margall, Francisco Javier Parcerisa, Recuerdos y bellezas de España: Reino de Granada, Madrid 1850

TECNICA E CULTURA FRA MODERNITÀ E IDENTITÀ. L’UNO E I MOLTI FRAGILI

RAFFAELE FEDERICI

Prima però che egli giunga a una fine radicale, gli vengono aperti gli occhi in un modo che per ora non voglio indicare. Chiaramente gli viene spiegato dove era la causa di tutto. E cioè in lui stesso, già si incomincia a comprendere in tutta la sua maniera di vivere, che aveva l’aria di niente, ma che all’improvviso assume tutto un altro aspetto, non più semplice e ovvia, ma piena di superbie e di incoscienza, prepotente, e insieme vile e piena di debolezze. Alfred Döblini

i A. Döblin, Berlin Alexanderplatz (1929), Rizzoli, Milano, 1998, p. 15.

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1.1 IL TEMPO DELLA RAZIONALIZZAZIONE EPISTEMOLOGICA

Il XX secolo, per i progressi raggiunti sul piano della ricerca scientifica e dell’innovazione tec- nologica, per la sua tendenza ad unire le periferie del globo con i centri del sistema-mondo e renderli nodi di una unica rete totale, ha visto prodursi un articolato corpus di visuali, punti di osservazione e paradigmi che hanno dato forma e contenuto a svariate ipotesi di periodizzazione e di interpretazione del secolo stesso. Quello che si ravvisa è, con altre parole, la «molteplicità» come uno dei tratti caratteristici della modernità. Fu Simmel che rilevò a partire da «Le metropo- li e la vita dello spirito» la molteplicità degli stimoli, legata all’accelerazione dei tempi, a determi- nare la graduale superficializzazione dell’esperienza, in un cambiamento della sensibilità indivi- duale che rappresenta l’unica salvezza di fronte alla quantità eccessiva di impressioni, sollecita- zioni, messaggi, immagini, e relazioni quotidiane, a cui non è più possibile rapportarsi in modo corretto. Per il Berlinese, tale atteggiamento di «neutralità oggettiva con cui si trattano uomini e cose»ii è quello tipico dell’«economia monetaria» e che individua un rapporto di Wechselwirkung o di causalità circolare tra molteplicità, desensibilizzazione e organizzazione tecno-economica del mondo, nel quale il pensiero calcolante appare come la modalità elettiva di governo della molte- plicità. Di fronte ai complessi edifici critici del contemporaneo ritrovare le parole, i pensieri e le ri- flessioni dei classici nel tempo appena passato diventa una necessità perché le persone sembrano immerse nella banalità, nella riduzione di tutto a luogo comune, alla perdita di orientamento, alla ricerca di impossibili alternative idealiste e materialiste. Un tale percorso sembra opportuno di fronte al generale «spaesamento» che gli studiosi vivono, precipitati nelle grandi trasformazioni di una modernitàiii che non sa più raccontarsi perché l’esito della metamorfosi è spesso improba- bile, ma i cui effetti sono diretti sulla vita vissuta. Siamo di fronte a un tecno sistema «sconosciu- to», nichilista,iv di cui si ha una immagine e una conoscenza spesso generica ed è, per questa ra- gione, indispensabile recuperare e accogliere la dimensione quotidiana. In tale sentiero ritrovare i classici del pensiero sociologicov significa riflettere sull’oggi, sul divenire, sul mutamento, opera- zioni intellettuali in cui è necessaria quella umiltà che dovrebbe caratterizzare qualsiasi ricerca scientifica ri-partendo dalla costruzione sociologica del pensiero. In particolare ricordo che il paradigma della modernità ha trovato nei concetti di progresso e di sviluppo le definizioni operative del cambiamento. La prospettiva che si è successivamente pa-

ii G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di. P. Jedlowski, Armando, Roma 1995, p. 38. iii P. Wagner, Modernità. Comprendere il presente, Einaudi, Torino, 2013, p. 5: «La visione più comune, an- che se niente affatto scontata, della modernità ritiene che questo termine si riferisca a un nuovo tipo di società emersa dalla sequenza di rilevanti trasformazioni che hanno investito l’Europa e il Nord America, culminate nelle rivoluzioni industriale e democratica del tardo XVIII secolo e degli inizi del XIX». iv Cfr. M. Magatti, La libertà immaginaria. Le illusioni di un capitalismo tecno nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009. v Cfr. B. Accarino, «Simmel ritrovato», in Aut-aut, n. 231, 1989, pp. 115-19

Raffaele Federici: Tecnica e cultura... 43

lesata ha declinato nel processo dinamico tecnico e tecnologico la «sua necessità», dimenticando però che la persona dell’età della tecnica ha la sua origine culturale dall’essere mortale per cui Prometeo ha rubato il fuoco e a cui ne ha fatto poi dono, rendendolo così costruttore, attraverso la tecnica del suo destino. Da tale vertice si comprende come l’attore sociale sia, nello stesso tempo, figlio della tecnica e della natura e trovi in questa rappresentazione la sua identità e sia il risultato e l’esito di una oggettivizzazione dell’esperienza. Se è vero che si può studiare, analizzandola, ogni espressione fenomenica del vivere delle per- sone nel «nostro» tempo saturo e complesso, trovare una chiave di volta dell’osservazione diventa una impresa scientificamente e culturalmente «difficile». Un percorso che deve tenere conto del passaggio all’eurocentrismo, culturale, scientifico, economico, demografico e politico e del piano mondiale che ha fatto nascere i nuovi centri nervo-connettivi nelle Americhe e nel sud est asiati- co. Uno spostamento non solo dei «poteri» ma che, in qualche modo, rappresenta l’emergere di nuove soggettività e di nuove forme di capitale culturale e economico. Sono forme che presenta- no in un forma nuova il tema dell’identità poiché se l’altro sguardo, per dirla con Canetti,vi è quello che regge il sistema quando l’altro confine perde certezza, si dissolve, l’esperienza si fa in- definibile, non riconoscibile, e il sistema dei valori si sposta nel suo asse.

1.2 IL CONTRIBUTO DELLA SOCIOLOGIA TEDESCA

Una trasformazione che la sociologia tedescavii ha letto, negli anni a cavallo fra XIX e XX seco- lo, con strumenti non solo quantitativi ma, soprattutto, qualitativi nella ricerca di una antropo- logia «post-filosofica» della modernità,viii tentando di cogliere la formazione e la saturazione delle «nuove» classi sociali. Una lettura che avviene nel tempo dell’affermazione del mondo della Seku- rität economica che, proprio sul finire del XIX secolo, raggiunse il suo culmine esasperandosi nel-

vi E. Canetti, Massa e potere (1960), Adelphi, Milano, 1981, p. 30. vii Un elemento che ha forse permesso questi unici percorsi critici, oltre alla complessità e ricchezza del- le diverse scuole sociologiche, economiche, filosofiche e politiche, risiede anche nella lingua. Il tedesco era, alla fine del XIX secolo, estremamente diffuso: dalla Grande Russia all’Adriatico. Hobsbawm ha osservato: «Il tedesco era la soglia della modernità. In occasione del centenario della nascita di Schiller, il poeta che rappresentava la classica voce della libertà morale e politica per il comune studioso di tedesco nel XIX secolo, Karl Emil Franzos scris- se un racconto, Schiller a Barrow, che illustra meravigliosamente tutto ciò. In questa storia, un piccolo e mal stampa- to volume di poesie di Schiller diventa il mezzo grazie al quale un monaco domenicano, un giovane maestro di scuola ruteno e un povero bimbo ebreo di uno shetl sito in quella regione chiamata livosamente “mezza Asia” (Albs-Asien) scoprono la liberazione offerta dalla istruzione e dalla cultura moderna del XIX secolo». E. Hobsbawm, La fine della cultura. Saggio su di un secolo in crisi di identità, Rizzoli, Milano, 2013, p. 81. viii Scrive Bauman: «Quando è nata la modernità? La questione è controversa: non c’è accordo sulla datazione, né su ciò che bisogna datare. […] Possiamo dire che l’esistenza moderna nella misura in cui si biforca in ordine e caos. L’esistenza è moderna nella misura in cui contiene l’alternativa fra ordine e caos». Z. Bauman, Modernità e ambiva- lenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, pp. 14-17.

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le nuove forme del capitalismo industriale e delle nuove «sensibilità» culturali. Un processo e un mutamento che vedeva venir meno la sicurezza nel criterio di giudizio, la possibilità di orientarsi nei propri rapporti con le cose e le persone e che, un secolo dopo, ha paradossalmente spostato la riflessione al tempo della Unsicherheit come problema e della Risikogesellschaft come forma. Come nella pittura l’espressionismo portò l’insicurezza nello spazio immaginario euclideo, nella musica l’atonalità e la dodecafonia spostò il pentagramma fuori della sicurezza compositiva tradi- zionale, così il mondo sociale ha trasfigurato le sue certezze nella ricerca di un altro ordine elimi- nando ogni possibile ritorno all’ordine del passato. Con altre parole si potrebbe osservare che lo stesso passaggio fra il secolo XIX, in cui dominava il dualismo «aut-aut», ovvero la tendenza alla suddivisione e alla specializzazione compreso nello forzo di inquadrare il mondo entro criteri e indici univoci e costanti, e il secolo XX, caratterizzato dall’«e» ovvero dall’incertezza, dalla molte- plicità e dalla coesistenza, è meno deciso e netto di quanto si possa pensare nonostante le tante macro definizioni proposte, così come è avvenuto nelle partiture di Webern o di Schönberg.ix Tutti percorsi che «tornano» così profondamente e prepotentemente «alla ribalta» di fronte alle imponenti e caotiche trasformazioni in atto in questi primi lustri del XXI secolo, l’età della fragi- lità totale. È certamente difficile individuare tutti i punti di una periodizzazione così complessa. È tutta- via possibile osservare nei luoghi più densi del pianeta alcuni punti di passaggio fondamentali. Le città,x infatti, sono i luoghi «più densi» del mondo sociale sia demograficamente sia da un punto di vista tecnologico e culturale. Sono i simboli di un tempo inedito, diverso qualitativamente e quantitativamente dai precedenti e per questa ragione immortalati in un processo di razionalizza- zione, autonomizzazione che si è, in qualche modo, cristallizzato nel paradigma dell’ateleonomia tecnica. Alla base del rinnovamento urbano premeva la questione demografica,xi l’esigenza di programmare un abitata razionale per le masse inurbate, perché senza la consapevolezza sociale e l’impegno urbanistico era impossibile formulare un linguaggio «moderno» specialistico. Le vicen- de sono note. Nel 1801 la Gran Bretagna contava meno di nove milioni di abitanti; nel 1911 aveva superato i trentasei. Nello stesso periodo, dal 1800 al 1910, la Germania vedeva i suoi ven- tiquattro milioni moltiplicarsi fino a toccare i sessantacinque. In Italia, in settant’anni, dal 1861 al 1931, si passa da venticinque milioni a quarantuno e mezzo.xii Tuttavia l’incremento demogra-

ix Schönber scriveva in musica i «volti che si lamentano», una visione della tragedia della cultura. L. Ro- gnoni, La scuola musicale di Vienna, Einaudi, Torino, 1966. x Secondo Habermas, che individua in Hegel la prima riflessione sulla modernità, le città diventa pa- rametro stesso del moderno, la realtà nel tutto (Wirklichkeit im Ganzen). J. Habermas, Der Philosophische Dis- kurs der Moderne: zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt a/M, 1986. xi Per un approccio al tema dell’esplosione demografica e della durata media della vita umana si veda: A. Golini, La popolazione del pianeta, Il Mulino, Bologna, 1999. xii José Ortega y Gasset per spiegare le premesse del cambiamenti utilizzò alcuni dati statistici citati da Werner Sombart (1927), in cui l’incremento sempre più accelerato della popolazione rappresentava il mec- canismo cruciale e maggiormente responsabile della comparsa dell’uomo massa (hombre-masa), individuo

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fico è fenomeno quasi secondario rispetto alla distribuzione sul territorio: il trauma dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento consiste soprattutto nell’affluenza di immense fol- le contadine nei centri industriali, quindi nel dilatarsi delle città.xiii La metropoli fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo diventò così il luogo della ri- flessione degli Autori del pensiero sociale tedesco (e non solo), uno spazio che ha costituito un laboratorio della riflessione della più recente Kultur occidentale. La Großstadt può essere così vista come lo spazio paradigmatico in cui la formazione sociale e identitaria della modernitàxiv nelle sue manifestazioni più estreme,xv ambivalenti e paradossali, si è manifestata in maniera più evidente e meglio si è lasciata cogliere nella sua essenza.xvi

che si trovava nella necessità di dare libera espansione ai sui bisogni vitali, anche secondarizzati, psicologici e, quindi, della sua persona. Un attore sociale che sembra caratterizzarsi attraverso una radicale ingratitu- dine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza, ovvero nei confronti del passato, della tradizione, della società, sensu latu, della cui organizzazione razionale non si occupa a causa della sua «bar- baridad». J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Nuove Edizioni Italiane, Roma, 1945. xiii La vera differenza tra la grande emigrazione ottocentesca e i flussi che l’hanno preceduta è infatti fat- ti dovuta alla trasformazione dei soggiorni di lavoro in trasferimenti definitivi. Nell’antico regime ci si muoveva molto, ma stagionalmente o comunque temporaneamente: ogni anno, oppure ogni cinque, dieci, venti anni si tornava a casa, magari per poi ripartire di nuovo. J. Lucassen, Migrant Labour in Europe 1600- 1900, Croom Helm, London 1987. xiv Kracauer già negli anni venti del XX secolo osservava: «I centri delle metropoli di scala mondiale, che sono pure luoghi dello splendore, si assomigliano sempre più l’uno all’altro. Le loro differenze scompaiono». S. Kracauer, «Analisi di un piano urbano», in Strade a Berlino e altrove, Pendragon, Bologna, 2004, p. 19. xv Si pensi alla guerra del 1914-1918 che «distrusse i mondo di ieri non tanto perché fu una guerra di mai viste proporzioni, la prima guerra, appunto, mondiale, quanto perché la sua particolare inumanità fu resa possibile dalla nuova tecnica e dalla nuova scienza, che avevano già profondamente cambiato, esse medesime, il mondo di ieri, ne avevano già scosso le fondamenta; sicché la guerra stessa fu soltanto lo scoppio violento ed ormai incontenibile di una profonda e multiforme crisi, i cui sintomi premonitori si erano già chiaramente manifestati assai prima del 1914. Alla crisi politica e sociale del fine secolo si era infatti aggiunta una crisi causata dai grandi progressi, benefici, ma nello stesso tempo pericolosi, della tecnica e delle scienze che avevano progressivamente cambiato la maniera di vivere e quindi anche la visione della vita dell’umanità intera, portando nel dominante senso della sicurezza un senso di dina- mismo, che era esaltante e a un tempo angosciante, un senso cioè di sostanziale insicurezza». L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dalla fine del secolo alla rappresentazione (1960), Einaudi, Torino, 2005, p. 1153. xvi Nel panorama culturale ed architettonico della Vienna della fine del XIX secolo spicca la figura di Otto Wagner che ha saputo legare il proprio nome alla capitale austriaca nella quale ha vissuto ed operato, per la capacità di configurare materialmente ed operativamente la forma urbis attraverso temi progettuali riferiti alla scala architettonica e urbana e risolti nell’ambito di una visione d’insieme portavoce delle istan- ze della collettività. L’Autore definisce così l’architetto: «...il coronamento dell’uomo moderno, perché esso rias- sume in sé idealismo e realismo. Purtroppo l’unico a sentire la verità di questa definizione è l’architetto stesso: l’ambiente che lo circonda rimane indifferente, standosene in disparte». O. Wagner, Architettura moderna (1912), Zanichelli, Bologna, 1980, p. 49.

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1.3 LA CITTÀ COME ESPERIMENTO

La Berlinoxvii di Simmelxviii e di Kracauer,xix la Vienna di Freud,xx Gumplowicz, Kraus e Musil, la Parigi di Benjamin e Michels,xxi conoscono, fra la fine del XIX secolo e l’avvento del XX secolo, una serie di mutamenti urbanistici, tecnologici e culturalixxii in cui non si ravvisa solo la «nascita» della «nuova sensibilità moderna»xxiii ma si racconta di un tempo dove l’identità entra in una spi- rale di continua ri-scrittura.xxiv Oltre tali riflessioni in questi Autori ho cercato di immaginare lo

xvii Nella Berlino degli ultimi trenta anni del XIX secolo la nuova edilizia urbana fa «saltare» non soltan- to la fisionomia della città ma anche la scala e le proporzioni preesistenti. Wolf Jobst Siedler ha osservato che Berlino è stata distrutta in epoca Guglielmina: «La città fu cancellata nel breve passaggio nel breve lasso di tempo intercorso fra la guerra franco-prussiana e la prima guerra mondiale da una nuova febbrile attività costruttiva che si prefiggeva di dare risalto architettonico al paesaggio da città del reame a metropoli imperiale». La forza motrice di tali trasformazioni è, in primo luogo, il veloce processo di industrializzazione e di urbanizzazione. Una grande quantità di nuovi progetti su larga scala sono previsti nelle città. A Berlino per l’albergo Adlon vie- ne sacrificato il palazzo barocco Redern, mentre il palazzo Raczynski di Strack viene raso al suolo per far posto al parlamento. Vi è poi la volontà politica di rappresentatività: viene demolito, nel 1871, il duomo a Lustgarten e vengono edificati gran parte dei nuovi edifici monumentali con la conseguente scomparsa di buona parte dell’eredità urbanistica storica. È una trasformazione culturale non solo urbanistica, spirituale, politica che troverà poi nella prima guerra mondiale il suo «punto di non ritorno». W. J. Siedler, Phoenix im Sand: Glanz und elend der Hauptstadt, Propyläen Verlag, Berlin, 1998, pp. 60 e seguenti. xviii M. Picchio, «Georg Simmel: un classico nostro contemporaneo. Per una introduzione», in M. C. Federici, M. Picchio, Pensare Georg Simmel: eredità e prospettive, Morlacchi, Perugia, 2012, pp. 9-97. xix S. Kracauer, «Il gruppo come sostenitore di idee», in S. Kracauer, La fabbrica del disimpegno, L’Ancora, Napoli, 2002, pp. 109-34. xx E. R. Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Raffaello Cor- tina, Milano, 2013. xxi R. Michels, Sociologia di Parigi e della donna francese, (con un saggio introduttivo di R. Federici), Mor- lacchi, Perugia, 2013 (in corso di stampa). xxii Musil, Benjamin, Schönberg, Kafka, Mann, Krakauer, fra gli altri, vivono la loro giovinezza «nel pe- riodo della sicurezza del pieno espansionismo reso possibile dalla Sammlungspolitik, politica di concentrazione eco- nomica iniziata nel 1896 con l’accordo fra i grandi industriali e gli Junker agrari, fra la ricca borghesia imprenditoria- le e la nobiltà terriera». L. Bazzicalupo, Il sismografo e il funambolo. Modelli di conoscenza e ideali del politico in Thomas Mann e Robert Musil, Liguori, Napoli, 1982, p. 70. xxiii È interessante leggere una riflessione sulla città di Parigi di Alfredo Niceforo scritta nei primi anni del Novecento: «L’individuo.[…] ha un nuovo scudo, un balsamo, una armatura tutta d’un pezzo, che sapranno di- fenderlo dai colpi spietati che il dolore e lo sconforto sembrano recargli. È l’ironia. È la contemplazione ironica della vita sociale, dei conflitti sociali, dei conflitti individuali». A. Niceforo, Parigi, una città rinnovata, Bocca, Torino, 1911, p. 380. xxiv Vi è una tensione fra il sentire tedesco e il sentire nell’Impero Austro-Ungarico. Infatti in Germania il tedesco non è una lingua oppressiva «minacciata» dalla frantumazione linguistica delle altre comunità nella regione danubiana e italiana, ma è il ceppo-madre del linguaggio fedele a se stesso e nella sua com-

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spazio critico della vita quotidiana in una altra luce, non solo per recuperare gli strumenti inter- pretativi di un tempo culturale «tecno-moderno» sempre più difficile da tracciare o per tentare di immaginare «altri strumenti» e «altre ipotesi», ma anche per mettere in luce i chiaroscuri visuali che tale idea rimanda. È, in qualche modo, lo stesso spazio descritto da Thomas Mann nei Bud- denbrook,xxv in cui i borghesi percepiscono il peso per essere oppressi dall’angoscia di un compito sociale inteso come dovere e sottoposto alla pressione di una dissoluzione della sua reale esistenza sociale,xxvi in cui i termini Kultur e Zivilisation diventano «impossibili» poiché rappresentano, in estrema sintesi, una contraddizione, anzi un assurdoxxvii in chiaroscuro. Si contrappone all’angoscia della insicurezza una ricerca della verità per la sopravvivenza. Ricordo, a questo pro- posito, che lo spazio della critica sociologica si è sviluppato proprio verso il tema dell’inconscio, quello che Durkheim «chiamava con linguaggio ancora ottocentesco la cerebrazione oscura o la co- scienza oscura»xxviii o quello che Pareto ha efficacemente definito «residuo». È anche lo spazio della paura come reazione di ciascun soggetto di fronte alla varietà degli eventi che possono verificarsi in un mondo che cambia. L’opzione che vorrei percorrere tende a sottolineare, nel senso più vasto possibile, come la ri- flessione fra identità e modernità, fra tecnica e cultura, fra civiltà delle genti e meccanizzazione, non debba essere chiusa in qualche ristretta storia del progresso tecnologico ma possa essere este- sa alla nascita dell’età dell’inconscio, un tempo di riflessione «globale» che attraversa, in primis, le genti della città. In particolare l’osservazione dovrebbe «superare» la Großstadtkritik per orientare il pensiero al senso di smarrimento, del «sentirsi tagliato fuori» (Ausserhalb-Bleiben) della persona nella sua identità e, più in generale, nel tentativo di riconoscere i limiti possibili della sua provin- cia finita di significato. Rammento che negli stessi anni in cui «Freud pubblicava L’interpretazione

plessità, decisamente unitario. La tradizione culturale della Germania in età Guglielmina è tesa ad afferma- re l’esigenza dell’unità e della sistematicità. In campo strettamente sociologico è interessante tale influenza nella declinazione del pensiero di Tönnies, ovvero l’interpretazione della idea di società propriamente det- ta (Gesellschaft) unitaria e sostanzialmente artificiosa, borghese e intellettualistica e la comunità (Gemein- schaft), organica, intuitivamente spontanea. F. Tönnies, Comunità e società (1897), Laterza, Bari, 2001. xxv T. Mann, I Buddenbrook, decadenza di una famiglia (1901), Einaudi, Torino, 2006. xxvi Lo spazio delle metropoli, in particolare quello di una grande città molto giovane come Berlino, sembrava rispondere ai canoni della razionalità astratta che ha prodotto la modernità: spazio geometrico, povero di qualità simbolica e riducibile a formule che ne progettano la quantità. Ecco, proprio l’apparente trasparenza razionale che governa il disegno della metropoli moderna entra in collisione con l’imperfetta creaturalità della natura umana che fatica ad adattarsi ad esso, alla sua astratta rigidità, così che la tensione generata da questo contrasto, non riuscendo a trovare composizione nello spazio sociale, si manifesta come patologia individuale. xxvii Per Mittner i Buddenbrooks è una «opera di quasi paradigmatico significato, che riassume, per il suo contenu- to psicologico e sociale, per la sua geniale architettura e per la sua stessa impostazione stilistica, tutto l’Ottocento bor- ghese e lo prolunga fino alla soglia dell’età nuova, per dissolverlo e annullarlo in essa». L. Mittner, op. cit., p. 1050. xxviii A. Russo, La sociologia di Freud. Una lettura de Il disagio della civiltà, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 10.

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dei sogni, Arthur Schintzler dava il suo contributo a una moderna visione della mente introducendo nella letteratura austriaca il monologo interiore».xxix Sono anni convulsi, in cui anche nei sociologi coabita il Sozial-Ethiker, ovvero la capacità di astrarre dall’osservazione gli atteggiamenti e i profili caratte- ristici del tempo che cambia. In quegli anni Franz Reuleaux ha scritto: «Chiunque prenda in esame lo stato attuale della civiltà non può fare a meno di accorgersi della grande influenza esercitata dalla tecnica a base scientifica dei nostri giorni, e del fatto che essa ci ha permesso di ottenere risultati materiali infinita- mente superiori a quelli che l’umanità poteva realizzare fino a qualche decennio fa».xxx Negli stessi anni in cui Reuleaux scrisse i suoi lavori intorno a Tecnica e Cultura, Karl Kraus, il temuto e autoritario direttore della rivista «Die Fackel», pubblicò il suo opus magnum Gli ultimi giorni dell’umanitàxxxi «la cui connotazione idealtipica, che segna l’inizio di ciascun atto, è rappresentata dal Sirk-Ecke, l’angolo fra la Ring-Straβe e la Kärnterstraβe dove si ritrovava tutta la Vienna alla moda per la passeggiata quotidiana. Il suo cosmo era un microcosmo»,xxxii un microcosmo che conteneva, come un ologramma, l’intero co- smo, uno dei tratti essenziali della modernità. Kraus legge il dramma della modernità in una sele- zione di parole pertinenti che sembrano attraversare l’opera di Karl Marx, aggiungendo conti- nuamente l’anima della trovata continua, del Witz, della sorpresa, della trasformazione incessante del dramma stesso. Il fil rouge che collega tali Autori sembra costituirsi nella storia degli influssi e degli effetti (Wirkung Geschichte) in cui si dovrebbe tenere conto anche delle situazioni pregresse nella prospettiva delle successive e inedite trasformazioni. Michels, ad esempio, ha tentato una precisa e ordinata contestualizzazione storico-biografica dell’idea di modernità e di progresso «ri- prendendo le osservazioni di Max Weber in cui il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammen- to più importante di quel processo di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni».xxxiii Ricordo che per Weber la

sociologia […] cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all’analisi causale e all’imputazione di azioni di formazioni, di personalità individuali che rivestono una importanza cul- turale. L’elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale, in forma di modelli, essenzial- mente anche se non esclusivamente, dalla realtà dell’agire che sono rilevanti pure dal punto di vista della ricerca storica.xxxiv

xxix E. R. Kandell, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 89. xxx F. Reuleaux, «Kultur und Technik», in C. Weine, Franz Reuleaux und seine Kinematik, Julius Sprinter, Berlin, 1925, p. 65. xxxi K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità (a cura di Roberto Calasso), Adelphi, Milano, 1996. xxxii E. Hobsbawm, «Gli ultimi giorni dell’umanità», in La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità, Rizzoli, Milano, 2013, p. 147. xxxiii R. Federici, «Introduzione alla lettura», in R. Michels, Intorno al problema del progresso, Armando, Roma, 2011, p. 9. xxxiv M. Weber, «Concetti sociologici fondamentali», in Economia e Società, Vol. I, Edizioni di Comunità, Milano, 1999, pp. 8-9.

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Anche Simmel aveva osservato che «il predominio dei mezzi sui fini trova la sua espressione concen- trata e culminante nel fatto che la periferia della vita, le cose che si trovano al di fuori della sua spiritualità, si sono impadronite del suo centro, cioè di noi stessi».xxxv Il Berlinese comprese come la «forza» del dena- ro trasferiva alla vita sociale quell’autonomia di fronte alla natura stessa della scienza a vantaggio di una tassonomia produttiva intellettuale. Gropius, dal suo vertice, ricordò il primo lustro del XX secolo come un periodo esplosivo, violento, in cui «ogni individuo pensante sentiva la necessità di un mutamento di fronte intellettuale».xxxvi Un tempo incerto, fragile, in cui il rapporto fra mezzi e fini metteva in crisi le logiche di interdipendenza nelle vite delle persone.xxxvii La fragilizzazione come permanenza nelle istituzioni sociali sembra essere così il risultato di un tempo incoerente fra mezzi e fini. Un tempo delle specializzazioni, dai linguaggi alle tecniche, caratterizzato da grandi discrepanze fra l’elevatissimo potere di una élite e lo stato di indigenza della gran parte della po- polazione.

1.4 TECNICA E IDENTITÀ

In questo contesto sociale e culturale, di fronte al trionfo della tecnica, si manifesta l’idea che la mente umana sia ampiamente non logica, nell’accezione che fu di Pareto,xxxviii e, inoltre, sia ca- ratterizzata dalla presenza di conflitti anche inconsci. Il risultato di questa prima combinazione di intuizioni scientifiche di diversa origine, fra la sociologia e la psicoanalisi, «produce» l’idea che la società sia il risultato di un delicato e forse impossibile equilibrio di azioni non logiche e logiche di esseri umani che si definiscono razionali. Da tale orizzonte teorico, che potrebbe essere decli- nato dualisticamente con categorie contrapposte come Mondo e Anima (Welt-Seele), Spirito e Vi- ta (Geist-Leben) o Meccanizzazione e Cultura (Mechanisierung-Kultur), manca, come osservato da Robert Musil, la ricostruzione di una genealogia dell’irrazionalità di fronte alla dirompente ra- zionalità specialistica del tempo. Ancora, è assente, come ha scritto Döblin,xxxix l’accettazione

xxxv G. Simmel, «Die Herrschaft der Technik,» in Philosophie des Geldes, Bunker und Humblot, Leipzig, 1900, p. 520. xxxvi W. Gropius, Architettura integrata (1955), Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 24. xxxvii Per Simmel ogni personalità è la risultate dell’intersecarsi «in un punto» di una pluralità di cerchie sociali, da quelle naturali e casuali a quelle più eterogenee, fondate su «relazioni di contenuto». G. Simmel, Sociologia, Comunità, Milano, 1989, pp. 347 ss. xxxviii V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Barbera, Firenze, 1916. xxxix Nel romanzo di Döblin ogni nodo della rete metropolitana o è un frammento simmeliano che im- plica l’intero contesto, ma non è possibile dare un ordine gerarchico a questi nodi, manca il codice che permetta la decifrazione; soltanto da qui, da questa assenza è possibile parlare di un ombra metropolitana. La metropoli non va in crisi per questa assenza, la sua logica spaziale e funzionale si regge su una sistema in movimento che per definizione non è unificabile dallo sguardo di un soggetto: è questa l’esperienza

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dell’idea stessa dell’ordine e del disordine: «Ma l’ordine o anche la sola forma e l’esistenza non sarebbe- ro reali senza il disfacimento negatore e la distruzione effettiva».xl Insomma quello che manca è l’idea di una ricostruzione del pensiero della tecnica in rapporto con le altre dimensioni della storia della cultura come la verità, la giustizia e la bellezza,xli Il valore della tecnica non è più, da almeno un secolo, un valore intermedio poiché è proprio dalla fine del XIX secolo che la tecnica non è più solo un vettore di civiltà ma è anche un eccezionale vetto- re di cultura. Si pensi, solo per un istante, a quello che scrisse Victor Hugo:

Quello che nel secolo scorso vi avrebbe fatto rinchiudere a Charenton, nel 1867 ha il posto di onore al palazzo dell’Esposizione internazionale. Tutte le utopie di ieri sono le industrie di oggi. Andate a vede- re: fotografia, telegrafia, apparecchio Morse, che è il geroglifico, apparecchio Hughes, che è l’alfabeto ordinario, apparecchio Caselli, che in pochi minuti spedisce il vostro scritto a duemila leghe di distan- za, filo transatlantico, sonda artesiana, che applicheremo al fuoco dopo averla applicata all’acqua, macchina da scavo, vettura-locomotiva, carro-locomotiva, nave-locomotiva, elica nell’oceano, in attesa dell’elica nell’atmosfera.xlii

Se la cultura consiste nell’arte, nel diritto, nelle scienze, nella religione, nei saperi e nelle pra- tiche quotidiane è proprio con l’improvviso divenire della tecnica come espressione della vita che l’idea stessa di tecnica diventa cultura, ovvero di cultura delle macchine. La meccanizzazione del mondo descritta da Walter Rathenau appare al lettore contemporaneo come meccanizzazione della vita:

Le trasformazioni del sistema produttivo, della società e del mondo si ripercuotono nella vita individua- le; esse le procurano nuove idee, problemi, crucci e piaceri e formano la personalità allo stesso modo in cui la macchina, durante il rodaggio, conferisce alle sue parti la giusta duttilità, in modo che gli ele- menti con il minimo attrito, con la massima utilizzazione delle forze disponibili, e con il massimo ri- sparmio di tempo e di materiale, si inseriscano docilmente, durevolmente e completamente nel processo di produzione di massa e contribuiscano, per la loro parte, al suo aumento incessante.xliii

Una meccanizzazione della vita che ha «liberato» ed emancipato la persona dalla fatica, dal tempo e dal luogo nel senso più lato ma che ha anche «legato» e condizionato l’essere umano alla sola dimensione tecno-economica della vita. Ha scritto Werner Sombart:

dell’ignoto metropolitano che genera angoscia per coloro che non hanno imparato ad abbandonarsi alla corrente e ad essa anzi resistono. Döblin, Berlin Alexanderplatz (1929), Rizzoli, Milano, 1998. xl A. Döblin, Il mio libro (1932), Berlin Alexanderplatz, Rizzoli, Milano, 2010, p. 505. xli E. Zschimmer, Philosophie der Technik, Mittler, Berlin, 1917. xlii A. Finkielkraut, Noi moderni, Lindau, Torino, 2006, p. 163. xliii W. Rathenau, «Die Mechanisierung der Welt», in Zur Kritik der Seit, S. Fischer Verlag, Berlin, 1912, pp. 86-87.

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Se il principio evolutivo della tecnica è la libertà, il principio evolutivo dell’economia è il condiziona- mento. Ogni sviluppo delle condizioni economiche si risolve nel mettere in relazione un numero sempre maggiore di uomini la cui collaborazione è necessaria al conseguimento del risultato economico deside- rato. Ciò è stato espresso anche dicendo che lo sviluppo dell’economia è una crescente differenziazione e integrazione delle funzioni dei singoli; la nostra economia civilizzata ha acquistata a poco a poco una struttura sempre più complessa e si fonda sulla necessaria cooperazione di innumerevoli particolari […] l’uomo della civiltà moderna è sempre meno libero e sempre più condizionato dal punto di vista econo- mico.xliv

Una relazione che Freud successivamente declinò nell’idea di Modifikation des Lebensprozessesxlv ovvero di una discontinuità con il mondo del vivente, un disagio dato dal condizionamento delle organizzazioni.

La convergenza scientifica fra Sombart, Simmel, Musil e Freud, fra gli altri, solleva diversi in- terrogativi: questi pionieri erano consapevoli che si stavano muovendo lungo linee parallele? In realtà questi Autori hanno tutti più o meno indirettamente interagito fra di loro, hanno collegato piste di ricerca diverse e declinato, grazie allo studio e alla ricerca, la critica verso una possibile consapevolezza del sentimento del moderno. Si pensi alle letture di Freud: il Nostro aveva certamente letto le opere di Le Bon, di Durkheim e di Simmel così come Sombart ha attra- versato con una sensibilità «altra» la sociologia di Simmel, di Weber, di Tőnnies fra gli altri. Mi- chels ha valicato tutto lo scibile sociologico del tempo fino alla storia delle idee e alla psicologia sociale. Simmel e Freud, in tempi e luoghi diversi, hanno tentato di collegare l’arte e la scienza. Gli scritti di Simmel su Michelangelo,xlvi Rembrandtxlvii e Rodinxlviii o quello di Freud sull’infanzia di Leopardi da Vincixlix conducevano il lettore verso forme di conoscenza particolarmente innova- tive e, soprattutto, verso una nuova metodologia ovvero intorno all’applicazione sistematica del pensiero scientifico alla critica dell’arte orientata verso nuove forme di conoscenza. Ho altrove messo in luce il rapporto di Simmel con Kandinskjil e sono evidenti le contamina- zioni fra l’arte come intuizione e la riflessione degli intellettuali come critica del tempoli che aveva

xliv W. Sombart, Technik und Wirtschaft, Zahn und Jaensch, Dresden, 1901, pp. 5-7. xlv Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, Opere, Vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1967. xlvi G. Simmel, G. Luckàcs, Michelangelo, Abscondita, Milano, 2006. xlvii Cfr. G. Simmel, Rembrandt. Un saggio di filosofia dell'arte, Abscondita, Milano, 2007; G. Simmel, Studi su Rembrandt, Abscondita, Milano, 2006. xlviii G. Simmel, «Rodin», in Philosophische Kultur, Klinkhardt, Leipzig, 1911, pp. 185-206. xlix S. Freud, Un ricordo di infanzia su Leonardo da Vinci (1910), Skira, Milano, 2010. l R. Federici, «A Kandinsky Perspective, Dissertation on the Social Aesthetics of Georg Simmel», in International Review of Sociology, Vol, 15, 2, 2005, pp. 277-89. li In Germania nel 1911 venne fondato da Wassily Kandinskij, Alexej von Jawlensky, Marianne von Werefkin, Franz Marc, August Macke e Gabriele Münter il gruppo espressionista: il Blaue Reiter («Cavaliere azzurro»).

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la sua origine nel Kulturpessimismus della Germania guglielmina. Tutti percorsi che tentavano di risolvere la difficoltà di comprensione del progresso con l’elaborazione di contrapposizioni rite- nute fondanti e perciò in grado di fornire una chiarificazione, seppur non neutrale, dei fenomeni della modernità. Una critica del tempo che cercava un «ponte» interpretativo fra le scienze e le arti. Si pensi, solo per un istante, alle suggestioni che provengono dal gruppo Die Brücke (Il pon- te) costituito da Kirchner, Heckel, Bleye e Schmitt-Rottluff. Il nome del gruppo rappresentava una metafora: un possibile collegamento dell’arte verso nuove piste di ricerca. Fu proprio Kirch- ner nel 1906 ad incidere nel legno il programma:

Confidando solo nel progresso, in una generazione capace di creare ma anche di godere, convochiamo tutta la gioventù, che in quanto gioventù è portatrice del futuro, rivendichiamo di fronte alle vecchie forze costituite la libertà di agire e di vivere. È con noi chiunque direttamente e genuinamente sappia esprimere quell’impulso che lo spinge a creare.lii

Insomma la sociologia come scienza e le nuove arti sembravano trovarsi in perfetta sintonia attraverso una enfasi particolare sulla soggettività e la «scoperta» dell’inconscio, un punto di os- servazione che contribuì a spostare la riflessione sulla conflittualità da un asse prevalentemente storico-politico e filosofico all’area del funzionamento mentale e delle caratteristiche dinamiche della personalità. Infatti, se in Hegel il tragico è sempre dialettica di eticità, opposizione tra legge divina e legge umana, e in Goethe si fonda su una opposizione non ricomponibile, ad esempio tra dovere e volere, per Simmel si ha un destino tragico quando le forze distruttrici che si rivol- gono contro un essere scaturiscono dagli strati più profondi di questo stesso essere.liii

1.5 UNA MODERNITÀ E LE SUE MASCHERE

La metropoli, con le sue tecniche, i suoi simboli e le sue immagini possiede una maschera, un travestimento, l’idea, con altre parole, di una identità aleatoria, la percezione di una modernità forse effimera. La fugacità nella percezione dello spazio e del tempo, si pensi all’idea del cinema- tografo, dei nuovi trasporti urbani, della meccanizzazione del lavoro, alla moda, alla pubblicità, all’intensificazione della vita nervosa, per dirla con le parole di Simmel, si traduce in una conce-

lii D. Elger, Espressionismo. Una rivoluzione dell’arte tedesca, Benedickt Taschen, Koln, tr. it. di Paola Pac- chioni-Becker, 1990, p. 17 liii Per Mittner: «Il risultato è che la filosofia, la quale dovrebbe cercare una verità per tutti valida, si trasforma sottomano o sottobanco in una Weltanschauung sempre relativistica, perché necessariamente determinata dalla sog- gettività di chi ha o presume di avere una propria visione (Anschaaung) della verità sia dei singoli fatti, sia dell’esistenza nel suo insieme, un proprio modo di percepirla, di esperirla, di viverla o anche, più semplicemente e con- cretamente di guardarla (Anschauen)». L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dalla fine del secolo alla rappre- sentazione (1960), Einaudi, Torino, 2005, p. 875.

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zione diversa, nuova, inedita, dei rapporti sociali. La persona è più «sola perché libera dalle cerchie sociali. E questa solitudine è condizione necessaria affinché si possa sognare e divertirsi di più rispetto all’antico».liv Le coordinate tradizionali scompaiono e l’attore sociale sembra precipitare in una crisi ontologica in un mondo in continuo progresso, conseguenza di uno svilupparsi senza prece- denti delle strutture sociali, soprattutto economiche, non più «a misura di persona», ma indipen- denti dalle persone. I limiti del nuovo «mondo-linguaggio» delle città sembravano essere soffo- canti rispetto alle possibilità che offrivano, rispetto alle possibilità che la persona sentiva di avere in sé. Ha scritto Simmel:

Pretendere di vincere e dominare la natura è una idea del tutto infantile, che presuppone una resisten- za, un momento teleologico nella natura stessa, una ostilità della natura verso di noi, laddove essa non è che indifferente, e tutta la sua docilità ai nostri scopi non cancella e non intacca la sua legalità au- tonoma, mentre tutte le idee di dominio e di obbedienza, di vittoria e di sottomissione, hanno un senso solo se si presuppone che una volontà avversa è stata spezzata. Questo modo di esprimersi fa riscontro a quello che l’azione delle leggi naturali imporrebbe alle cose una costrizione e una necessità ineluttabi- le.lv

Un «estratto» che oggi può apparire lontano dalla «nostra contemporaneità» eppure, a ben ri- flettere, le parole sembrano metaforicamente trasferire il lettore su di un aereo e guardare dall’alto le città, le fabbriche, i nuovi centri del consumo, insomma è come vedere e, al tempo stesso, immaginare, le trasformazioni del sistema e come queste si ripercuotano eccentricamente sulla vita individuale. Ancora nello stesso solco fu Rathenau a descrivere questo «allontanamen- to» dell’ombra e della coscienza dall’individuo: «L’uomo, che, nel meccanismo complessivo, funge in- sieme da macchinista e da macchina, ha, in uno stato di tensione e di surriscaldamento crescente, ceduto il suo quanto di energia al volano dell’economia mondiale».lvi L’Autore sembra pensare ad una modernità della tecnica come l’evento chiave di una nuova dimensione universale in cui una parte dell’umanità non sembra più impegnarsi nel prendere in considerazione la sorte e il destino dell’altra parte dell’umanità.

È un vero Neue Welt che ha fatto riflettere molti Autori «classici» intorno al significato delle parole, un esercizio che ancora oggi dovrebbe spingere i sociologi nella ricerca di parole pertinen- ti per studiare e descrivere i fenomeni del tempo che c’è. Dessauer, Lux, van de Velde, Zschim- mer, Michels, Weber si sono più volte interrogati sul significato di tecnica, di identità, di pro- gresso e di scienza, un esercizio che «sentivano» come necessario di fronte allo spaesamento del

liv A. Rafaele, Da Simmel immagini dalla teoria dei media, Liguori, Napoli, 2007, p. 18. lv G. Simmel, «Die Herrschaft der Technik», in Philosophie des Geldes, Dunker und Humblot, Leipzig, 1999, pp. 521-22. lvi W. Rathenau, «Die Mechanisierung der Welt», in Zur Kritik der Seit, S. Fischer Verlag, Berlin, 1912, p. 93.

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tempo vissuto, il fisico e biologo Friedrich Dessauerlvii tentò la strada di una fenomenologia della tecnica, Sombart ha circoscritto i rapporti fra tecnica e economialviii e fra tecnica e cultura,lix Kra- cauerlx si concentrò intorno agli spazi vuoti e nostalgici prodotti dalla modernità. Ed è forse il pensiero critico di questo ultimo Autore che può rappresentare il punto di svolta della riflessio- ne. Un pensiero che si manifesta in una forma compiuta in un periodo particolarmente felice, da un punto di vista intellettuale, quando fra il 1915 e il 1920 Kracauer seguì quella che fu successi- vamente definita la fase «teologica» e «romantica»: «teologica» per l’importanza della religione come «reazione» allo svuotamento del senso del trascendente che, in qualche modo, caratterizze- rebbe lo spazio vuoto dell’epoca moderna (Leeren Raum) e «romantica» in quanto marcata da an- tagonismi e da paradossi: tecnologia, scienza e capitalismo, indifferenti al «che cosa» delle cose. Suggestioni che diventano particolarmente efficaci nella recensione alla Teoria del Romanzo di Lu- kàcs in cui l’Autore definisce l’epoca moderna un «edificio in frantumi» di cui «niente più resta che possa ancora essere disgregato».lxi Un edificio in frantumi che cresce si sviluppa si connette grazie alle tecniche, in cui le identità sono dei «tracciati» in dinamici percorsi. È il mondo delle stazioni fer- roviarie, della sinfonia della Großstadt di Ruttmann. Ed è proprio il film Berlin, Symphonie einer Groβstadt (1927) di Walter Ruttmann che offre allo spettatore le immagini di una trasformazione continua che inizia con uno specchio d’acqua ondeggiante che pian piano muta grazie ad una sequenza di forme astratte e parallele che inclinandosi vengono poi di nuovo trasformate in real- tà, vale a dire nelle barre del passaggio a livello che aprono la via al treno diretto verso la stazione di Berlino. Il regista realizza la trasposizione della realtà in pura forma e poi della pura forma nell’oggettuale tecnico-metropolitano. Se il fascino della metropoli nasce dall’effetto emergente nelle interazioni sociali che ne definiscono il suo paesaggio, Ruttmann offre le implicazioni cul- turali e psicologiche. Ed è in questo doppio intreccio fra la densità delle interazioni sociali e le intensità della tecnica che può leggersi la tensione fra la tecnica e la cultura attraverso la compo- sizione degli atteggiamenti anche contraddittori di molti Autori del tempo, articolati fra scelte di impegno e di azione nella società. Si pensi, ancora, alle osservazioni di Walter Benjamin e al rifu- gio nella ricerca individuale o, Kracauer, che osservando la stazione di Charlottenburg, ha cerca- to nell’idea stessa di «contrapposizione» nella formazione della paura:

È proprio la contrapposizione fra il sistema costruttivo, compatto e imperturbabile, e il confuso dilegua- re degli esseri umani a suscitare il terrore. Da un lato il sottopassaggio: un’unità stabile e ben pondera- ta, in cui ogni bullone e ogni mattone se ne sta al suo posto e partecipa dell’intero. Dall’altro gli uomi-

lvii F. Dessauer, Philosophie der Technik, Cohen Verlag, Bonn, 1927. lviii W. Sombart, Technik und Wirtschaft, Zahn und Jaensch, Dresden, 191, pp. 3-24. lix W. Sombart, «Technik und Kultur», in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, 33, 1911, pp. 305- 47. lx Cfr. S. Kracauer, Strade di Berlino e altrove, Pendragon, Bologna, 2004 lxi S. Kracauer, «Georg von Lukács Romantheorie», in Neue Blätter für die Kunst und Literatur, Jg. 4, 4.10.1921, (1921/1922), pp. 117-23.

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ni: parti e particelle sempre scisse l’una dall’altra, inconciliabili schegge di un intero che non è mai da- to. Sanno stabilire una connessione tra muri, archi e pilastri, ma sono incapaci di organizzare se stessi in una società. Vista attraverso quel perfetto sistema di morta materia, la caotica imperfezione del vi- vente si rivela impressionante.lxii

Fra i fotogrammi in movimento di Ruttmann e il passaggio delle parole di Benjamin e di Kra- cauer si manifesta quella tensione incompiuta fra modernità, tecnica e identità in cui la speranza di libertà e di «ragione» diventano, ancora una volta, una serie infinita di domande: che rapporto intercorre fra la libertà della persona e la libertà del consumatore? Cosa implica la disaffezione rispetto al sistema per la sostenibilità della contemporaneità? Tutte domande spesso mal formula- te che hanno attraversato tutte le scienze e, in particolare, la sociologia che, proprio fra le strade di Berlino,lxiii di Vienna e di Parigi, i luoghi e gli spazi in cui la tecnica e la cultura erano mag- giormente visibili, ha cercato e cerca ancora oggi la sua sfida. Ed è fra queste strade, fra questi marciapiedi, fra le vetrine e le mode, che si comprende come il compito della sociologia sia quel- lo di studiare la complessità emergente nelle relazioni sociali e, in particolare, delle loro trasfor- mazioni dopo le rivoluzioni tecniche e culturali. È necessario per la sociologia critica ri-leggere i classici, attraversare le parole degli Autori che hanno costruito l’edificio sociologico, un edificio che oggi, sempre più spesso, sembra essere soggetto ad una prematura decomposizione. Un eser- cizio scientifico indispensabile per ritrovare l’idea stessa delle mete scientifiche da raggiungere in tempi in cui la meta stessa sembra dimenticata, anzi è spesso avvolta, come la stessa identità umana, nella paura ed è costitutivamente fragile.

lxii S. Kracauer, «Il sottopassaggio», in Strade di Berlino e altrove, Pendragon, Bologna, 2004, p. 53. lxiii All’inizio del XX secolo la sicurezza del progresso aveva il suo centro nella città di Berlino e in solo trenta anni, come ha scritto da Mann, il tono di certezza si trasformò in «ebbrezza, poi insicurezza, infine pani- co». L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dalla fine del secolo alla rappresentazione, cit., p. 1494 e ss.

Illustrazione da Francisco Pi y Margall, Francisco Javier Parcerisa, Recuerdos y bellezas de España: Reino de Granada, Madrid 1850

«¿POR QUÉ SEGUIMOS LEYENDO (Y ESCRIBIENDO) NOVELAS?»: LA CONTEMPORANEITÀ INTERCULTURALE DI ARTURO PÉREZ-REVERTE, JAVIER MARÍAS ED EDUARDO MENDOZA

MARIO FARAONE

[… L]as historias no pertenecen sólo al que asiste a ellas o al que las inventa, una vez conta- das ya son de cualquiera, se repiten de boca en boca y se tergiversan y tuercen, nada se cuenta dos veces de la misma forma ni con las mismas palabras, ni siquiera si el que cuenta dos veces es la misma persona, ni siquiera si el relator es único para todas las veces […] Javier Marías, Mañana en la batalla piensa en mí (1994)i

i Javier Marías, Mañana en la batalla piensa en mí, , Debolsillo, 2006, p. 176

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1. PARA RELATAR LO QUE NO HA SUCEDIDO. INTRODUZIONE

Siamo moderni o contemporanei?ii Il quesito ha una lunga tradizione in ambito umanistico e, ovviamente, diverse epoche e diversi autori hanno dato risposte eterogenee e spesso tra di loro conflittuali. Anche perché il significato di questi due termini è mutevole, non solo con il trascor- rere delle epoche ma anche all’interno di uno stesso periodo. Attestare la nascita della modernità alla cosiddetta «scoperta dell’America» nel 1492, come accadeva ancora nella seconda metà del XX secolo, appare oggi un’affermazione pochissimo sostenibile. E tale appare anche considerare punto di svolta la transizione culturale, storica e sociale segnata dal Rinascimento europeo, pure attestata come vero e proprio momento epocale a esempio dall’intero teatro Elisabettiano, e dalle opere di William Shakespeare in particolare. Certo, sono punti di svolta, segni di precisi cambiamenti, eppure gli eventi storici e i movi- menti culturali da soli non bastano a denotare la trasformazione del pensiero e della società. Co- sa, allora, può aiutarci a comprendere meglio la nostra posizione nei confronti dell’epoca in cui viviamo? Nel 1963, il poeta Stephen Spender pubblica The Struggle of the Modern, titolo tradotto argutamente in italiano come Moderni o contemporanei?, una serie di riflessioni personali sui valori della letteratura e dell’arte del XX secolo, frutto in buona misura (anche se non completamente) di una serie di conferenze tenute da Spender nel 1959 alla University of California at Berkeley. Nel definire delle coppie oppositive come moderni e contemporanei, che definisce anche recogni- zers e non-recognizers, lo scrittore afferma che «The contemporaries […] see the changes that have taken place in civilisation as the result of the developments of scientific technology, and think that, on the whole, the duty of writers is to enlist their art to support the cause of progress. The moderns, on the whole, distrust, or even detest, the idea of progress, and view the results of science as a catastrophe to the values of past civi- lization; […]».iii Nell’affermazione di Spender, mutatis mutandis, è contenuta una delle chiavi per districarsi nel labirinto di due termini che condividono la radice etimologica e che sono spesso considerati veri e propri sinonimi nei dizionari. L’idea generale che sembra emergere dall’analisi della letteratura del XX secolo, è quella di una sottile (eppure sostanziale) differenza nel modo di porsi nel confronto del passato, non solo quello individuale, ma anche di un’intera generazione,

ii Il titolo di questo studio e i titoli delle sezioni 1 e 5 provengono da Javier Marías, «Lo que no sucede y sucede», epilogo a Mañana en la batalla piensa en mí, cit., pp. 351-5. Le sezioni 2, 3 e 4 di questo studio sono state precedentemente pubblicate, in forma embrionale, senza note e senza ulteriori approfondimenti, sulla rivista PULP, (ISSN: 1591-4070), numeri 98 (luglio-agosto 2012), 102 (marzo-aprile 2013) e 103 (maggio- giugno 2013), rivista che purtroppo ha recentemente cessato le pubblicazioni, dopo quasi ventanni di pre- stigiosa ed encomiabile opera di divulgazione e di approfondimento del panorama letterario mondiale. Colgo l’occasione per ringraziare l’editore della rivista, Fabio Zucchella, e l’amico e collega Umberto Rossi, per l’opportunità concessami di contribuire a questa bella esperienza, e portare alla conoscenza del pubbli- co di lettori, tra gli altri miei contributi, l’opera di Arturo Pérez-Reverte, Javier Marías ed Eduardo Mendo- za. iii Stephen Spender, The Struggle of the Modern (1963), London, Methuen, 1965, p. x.

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di una civiltà: la modernità è uno sforzo consapevole di rifiutare il passato per produrre nuove istanze con modalità diverse, alla ricerca di nuovi e diversi risultati; la contemporaneità consiste soprattutto nell’essere nel presente e interagire con esso, senza rifiutare per forza il passato e sen- za cercare di essere nuovi a tutti i costi. È piuttosto una ricerca di modalità diverse per rileggere il passato, al fine di comprendere meglio il presente. Il XX secolo ha consegnato all’uomo contem- poraneo moltissimi strumenti per favorire questa rilettura, e multidisciplinarietà e interculturali- tà sembrano essere probabilmente i più poderosi per individuare queste nuove vie. Il panorama letterario della Spagna post-franchista offe numerosi esempi di autori che hanno concentrato i propri scritti - siano essi narrativi o drammaturgici, saggistici o poetici - nel riflettere non solo sulla condizione della Spagna contemporanea ma anche su quella del mondo contem- poraneo, e dell’uomo contemporaneo, attingendo a diverse modalità interpretative e rappresen- tative. Il ritorno in auge del romanzo storico, ad esempio, non è limitato a un semplice vagheg- giare un passato identitario ormai perduto, con nostalgia e malinconia, ma piuttosto a individua- re e porre in risalto dinamiche sociali, politiche e artistiche che quel passato ha in comune con il presente, studiare meglio quello al fine di comprendere meglio questo. Allo stesso modo si può comprendere la riscoperta della picaresca, genere tipico del lontano periodo del Siglo de Oro, ma che permette analisi e denuncia delle disfunzioni della società contemporanea. E rifarsi ad autori di altre letterature e a generi letterari collaudati altrove, come il romanzo poliziesco e lo speri- mentalismo narrativo, permette analisi intertestuali molto acute che aprono nuove vie e offrono nuove possibili soluzioni artistiche e sociali proprio grazie al ricorso ai paradigmi multidisciplina- ri e interculturali che il mondo contemporaneo sembra offrire. Il presente studio offre l’analisi, certo limitata dalle dimensioni del contributo, di tre degli au- tori più rappresentativi del panorama contemporaneo spagnolo. Arturo Pérez-Reverte, Javier Marías ed Eduardo Mendoza sono tre autori, principalmente (ma non solo) romanzieri, che hanno conseguito un vasto successo anche grazie alla loro capacità di porre in discussione le cer- tezze artistiche ricevute in eredità dal passato letterario; di mettere alla prova tecniche e generi tradizionali importandone di nuovi o cambiando le regole consolidate; di intuire nuove modalità di lettura della storia e della cultura della società spagnola contemporanea; e di comprendere che questa storia e questa cultura non è, e non può essere, separata da un’interpretazione intercultu- rale del mondo attuale.

2. «LA AMARGURA DE SER ESPAÑOL»: I DETECTIVE E I SOLDATI IN PRIMA LINEA DI PÉREZ-REVERTE

Ho incontrato Arturo Pérez-Reverte alla Casa Culturale dell’ambasciata di Spagna presso l’Istituto Cervantes, a Piazza Navona a Roma. Me lo ricordo allegro e sorridente, gioviale e spiri- toso. In un pomeriggio primaverile assolato ma non caldissimo. Era la metà degli anni Novanta, il suo nome cominciava a essere noto nel panorama culturale spagnolo, mentre in Italia lo si co- nosceva appena, soprattutto negli ambienti universitari e in quelli dei corsi di lingua che proprio

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in quegli anni riscuotevano grande successo. Era venuto a tenere una conferenza su El club Du- más, il suo quarto romanzo uscito nel 1993, e subito divenuto caso letterario di notevole risonan- za in terra iberica. E ricordo che dopo la conferenza si trattenne disponibile e sempre allegro a rispondere alle nostre domande, forse lui stesso incuriosito dal nostro interesse. La trama di questo romanzo, come quelle de El maestro de esgrima del 1988, e La piel del tambor del 1995, ha contribuito al fatto che Arturo Pérez-Reverte sia tutt’oggi considerato uno dei prin- cipali autori di detective stories di lingua spagnola, tradizione che nella seconda metà del XX secolo ha visto il suo maggior interprete in Manuel Vázquez Montalbán, con i romanzi dedicati all’investigatore di Barcellona Pepe Carvalho. Ma, ovviamente, Pérez-Reverte è anche molto altro e, soprattutto, molto di più. Per il particolare stile e l’ambientazione storica, gran parte della sua narrativa si colloca anche nel filone novecentesco di rinnovamento del romanzo storico, un ge- nere letterario che risale allo scozzese Walter Scott - autore di molte grandi prove, tra le quali Iva- nhoe (1820),iv ambientato nell’Inghilterra del XII secolo - e all’americano - il cui testo più noto è certamente (1826),v la cui vicenda si svolge ai tempi della guerra franco-indiana, verso la fine del XVIII secolo; senza dimenticare l’esempio più eclatante di autore del genere in lingua spagnola, il messicano Vicente Riva Palacio, con il suo Martín Garatuza (1868),vi ambientato nel Messico dell’epoca coloniale agli inizi del XVI secolo.

iv Walter Scott (1771-1832), romanziere, drammaturgo e poeta scozzese, uno dei nomi di spicco dell’intero panorama letterario europeo del XIX secolo. Molti i titoli che hanno contribuito alla sua fama, e che ancora oggi vengono continuamente ristampati e letti: oltre Ivanhoe, notevoli sono The Lady of the La- ke (1810), Waverley (1814), Rob Roy (1817), The Heart of Midlothian (1818) e The Bride of Lammermoor (1819). Fu impegnato politicamente nella causa scozzese. Avvocato, giudice e amministratore, ma è soprattutto la sua capacità di ricercare, individuare e far confluire la tradizione locale e la storia scozzese nei suoi scritti il motivo per il quale è entrato a far parte del panteon mondiale della letteratura. Il suo genere narrativo è quello del romanzo storico, del quale Waverley viene spesso considerato il vero e proprio documento fon- datore. v James Fenimore Cooper (1789-1851), romanziere americano, la maggior parte dei suoi scritti è com- posta da romanzi storici sulla vita di frontiera e sul rapporto con le popolazioni indiane nei primi decenni della neonata repubblica statunitense. I suoi scritti beneficiano spesso del periodo trascorso nella marina militare. Il suo capolavoro è certamente proprio The Last of the Mohicans, che fa parte della cosiddetta serie dei Tales, cinque romanzi che seguono la vita e le vicende del protagonista , un esploratore, cercatore di piste e trapper cresciuto tra gli indiani, attivo nella zona di confine negli anni 1740-1806. I romanzi del ciclo sono i seguenti: : or The Sources of the Susquehanna (1823), The Last of the Mohicans: A narrative of 1757 (1826), (1827), The Pathfinder, or The Inland Sea' (1840) e The Deerslayer: or The First Warpath (1841). vi Vicente Riva Palacio (1832-1896), politico, militare, uomo di legge e romanziere messicano, fu anche un valente giornalista dotato di acume critico e animo satirico. La maggior parte della sua attività di ro- manziere si concentra tra il 1868 e il 1870, e il genere da lui prediletto è il romanzo storico che indaga sul passato coloniale del Messico, argomento che l’autore scevera con grande capacità e sagacia, aiutato anche dal poter accedere agli archivi dell’Inquisizione. Le sue opere maggiori, tutte di notevoli dimensioni, sono

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Detective story e romanzo storico: gran parte dell’opera di Pérez-Reverte mostra la natura ibrida di questi due generi letterari popolari, e trova giusta collocazione nel filone tardo-novecentesco in cui altri autori praticano questo stesso tipo di scrittura, autori che, per fare solo qualche esempio, vanno da Stephanie Barron e la «sua» Jane Austen,vii investigatrice dilettante attiva tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, ad Anne Perry e il suo acutissimo detective William Monk,viii che risolve casi intricatissimi nella Londra Vittoriana. L’autore nasce il 24 novembre 1951 a Cartagena, cittadina della costa mediterranea con un grande passato storico - terra che ha dato i natali a diversi grandi autori, come il romanziere Mi- guel Espinosa o la poetessa Dionisia García - ed è attivo sin dal 1986, anche se non immediata- mente come romanziere. Infatti, nei primi anni Settanta Pérez-Reverte lavora nella marina mer- cantile sulle petroliere, avendo così la possibilità di girare il mondo. Ma nel 1973 diventa giorna- lista, lavorando fino al 1984 per il quotidiano madrileno Pueblo, occupandosi di inchieste negli ambiti del terrorismo, del traffico internazionale di stupefacenti e di conflitti scoppiati in vari paesi, per poi divenire reporter impegnato in prima linea. Il ventaglio di eventi bellici ai quali Pérez-Reverte ha avuto occasione di assistere è veramente impressionante, e infatti, dal 1985 al 1994 ha lavorato come inviato della televisione spagnola «coprendo» conflitti praticamente in tutto il mondo: Cipro, Libano, l’allora Sahara Occidentale, Guinea Equatoriale, El Salvador, Ni- caragua, Falkland / Malvinas, Ciad, Libia, Sudan, Angola, Mozambico, Croazia, Sarajevo, il col- po di stato in Tunisia, la rivoluzione in Romania e la prima guerra del Golfo. Un curriculum di tutto rispetto che gli ha permesso di affinare il suo stile e di confrontarsi con la quotidiana espe-

Monja y casada, virgen y mártir (1868), il suo seguito Martín Garatuza (1868), e Calvario y Tabor (1868), l’unica che esplora anche la vita militare. vii Stephanie Barron è il nom de plume di Francine Mathews (nata nel 1963 a Binghamton, New York), scrittrice di gialli e polizieschi, con un passato di analista della CIA. Con il nome di Mathews, ha scritto una serie di quattro romanzi polizieschi la cui protagonista è Meredith «Merry» Folger, ufficiale di polizia attiva a Nantucket, villaggio di pescatori nel Massachusetts, celebre per essere il porto di partenza della cac- cia alla balena bianca in Moby Dick (1851) di Herman Melville, e il luogo da cui inizia la straordinaria e tra- gica avventura di Arthur Gordon Pym (1838) di Edgar Allan Poe. Con lo pseudonimo di Stephanie Barron, invece, l’autrice ha scritto una serie di ben undici (finora) romanzi storici gialli, la cui protagonista è ap- punto l’investigatrice dilettante Jane Austen, la celebre autrice, tra l’altro, di Sense and Sensibility (1811), Pri- de and Prejudice (1813) e Northanger Abbey (1818). viii Anne Perry è il nome assunto dalla romanziera britannica Juliet Marion Hulme (nata a Londra nel 1938), dopo aver scontato la condanna per complicità in omicidio. Autrice prolifica, Perry scrive ben due serie di romanzi storici gialli, entrambi ambientati nel periodo Vittoriano: in una, le cui vicende si svolgo- no per lo più negli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo, i protagonisti sono il detective privato Wil- liam Monk che soffre di amnesie, e la sua compagna Hester, crocerossina reduce dalla Guerra di Crimea; nell’altra, le cui vicende accadono soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, i protagonisti sono Thomas Pitt, ispettore e poi sovrintendente della polizia londinese, e sua moglie Charlotte. Entrambe le serie vedo- no spesso comparire in scena letterati, politici e personalità del periodo Vittoriano, come buona norma nel romanzo storico classico.

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rienza della guerra che, per sua stessa ammissione, aveva sempre considerato un’avventura inte- ressante, ma che ben presto gli ha mostrato la natura sempre orribile, disumana e inutile di ogni conflitto. E la guerra come teatro dell’azione umana, come naturale canale di sfogo di appetiti politici, ragioni di stato, sopraffazioni materiali e morali è lo scenario deputato in praticamente tutti i romanzi di Pérez-Reverte, come ad esempio accade nel primo, El húsar, pubblicato nel 1986, am- bientato durante la Guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814), contro la presenza in Spagna dell’esercito d’occupazione bonapartista e la sua ingerenza nella difficile diatriba sulla successione al trono iberico. Ma la guerra, che è presente in varie modalità e con varia intensità anche in tutti i romanzi della serie del Capitano Alatriste, non è mai un argomento fine a se stesso, né mai un semplice sfondo storico su cui imbastire la vicenda narrata: invece è uno strumento di analisi so- ciale e psicologica dell’essere umano e della società spagnola, sia quella del Siglo de Oro, classista e fortemente basata sulla divisione tra chi esercita il potere e chi lo subisce, sia quella contempora- nea del periodo a cavallo del nuovo millennio, che per certi versi presenta vizi e condizioni atavi- che. Avvalendosi dello scenario storico di volta in volta evocato e ricostruito sulle pagine dei suoi romanzi, Pérez-Reverte parla della Spagna contemporanea, ne analizza la struttura sociale, ne illu- stra il carattere egocentrico e manipolatore. In questo senso, la passione dell’autore per argomenti spesso curiosi e scarsamente trattati nella narrativa contemporanea, mostra un’altra delle sue qualità, ovvero la capacità di utilizzare strumenti inconsueti per entrare nella psicologia dell’animo umano e raccontarne la storia da un punto di vista originale. Don Jaime Astarloa, il maestro di scherma del romanzo omonimo del 1988 - coinvolto per amore nel mondo degli intrighi e dei tradimenti politici della Spagna della seconda metà del secolo XIX - e Julia, la giovane restauratrice di quadri de La tabla de Flandes del 1990 - che, incuriosita da una strana scritta «Quis necavit equitem?», «chi ha ucciso il cavaliere» che è nascosta sotto il dipinto che sta restaurando e che mostra una partita di scacchi, decide verso la fine del XX secolo di indagare su un possibile mistero accaduto quasi 500 anni prima - hanno questo in comune: la scherma e gli scacchi sono strumenti logici e razionali, con i quali l’autore esplora e ragiona sulla società sua contemporanea. Nel 1994, profondamente pessimista a proposito della condizione umana in seguito agli orro- ri che gli è toccato vedere - e in qualche caso anche vivere in prima persona, tanto che nel ven- tennio trascorso come corrispondente di guerra più volte si è trovato a rischiare la vita e a dover combattere lui stesso per uscir dal pericolo - Pérez-Reverte decide di lasciare il giornalismo per dedicarsi interamente alla narrativa. Nel 1994, infatti, pubblica Territorio Comanche, romanzo ba- sato sull’esperienza vissuta come reporter dal fronte tra il 1973 e il 1994, e concentrato in parti- colar modo sul periodo tra il 1992 e il 1994 come corrispondente di guerra in Bosnia a Sarajevo, incarico per il quale era stato premiato nel 1993 con il premio Asturias de Periodismo. Si tratta di una tappa importante, naturalmente alla base della scelta di dedicarsi alla narrativa. Infatti, in

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Diego Velázquez, La rendición de Breda o Las lanzas (1634-5), Madrid, Museo del Prado

un’intervista del 2000 con Diego Barnabé,ix Pérez-Reverte dichiara che la sua intenzione non era solo di narrare i fatti nudi e crudi, ma soprattutto di comunicare nelle sue parole l’intera espe- rienza della guerra, gli sguardi dei soldati, le memorie, le sensazioni, gli odori e, soprattutto, la percezione della solitudine: il romanzo, che genera scandalo, è esattamente questo, un’analisi del-

ix Diego Barnabé, «El español Arturo Pérez-Reverte presenta La carta esférica, su última novela», Radio El Espectador Uruguay, EN PERSPECTIVA, Martes 16.05.00 - Hora 09.10. L’intervista è consultabile online all’URL: .

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le implicazioni fisiche, morali e psicologiche della guerra, splendidamente realizzata grazie alla struttura autobiografica. E, per forti divergenze con la direzione di TVE, lascia anche l’impiego alla televisione spagno- la, per la quale sin dal 1993 aveva condotto Código uno, programma di attualità e di giornalismo militante, che spesso aveva trasmesso scene crude e violente della guerra in cui era stato corri- spondente, ma che per insieme di contenuti e modalità del format televisivo era rapidamente sci- volato in quello che l’autore ha definito «contenitore di immondizie».x L’autore aveva inoltre cu- rato per la radio Nacional La ley de la calle, altro programma di giornalismo da prima linea, occu- pandosi degli emarginati nella società spagnola, anche in questo caso premiato nel 1993 con il Premio Ondas. Ma i premi non si limitano alla sua attività di giornalista. Anche i romanzi di Pérez-Reverte riscuotono molto successo: ad esempio, nel 1988 El maestro de esgrima - divenuto nel 1992 un pregevole film, per la regia di Pedro Olea, con Omero Antonutti nel ruolo del pro- tagonista, Assumpta Serna e Joaquim de Almeida - riceve il Premio Goya per il miglior adatta- mento cinematografico; e nel 1995, El club Dumás (distribuito anche con il titolo La sombra de Ri- chelieu) vince il Gran Prix de la littérature policiére. Proprio grazie a questo romanzo - che a sua volta diviene film nel 1999, con il titolo La nona porta, per la regia di Roman Polanski, e con Johnny Depp, Frank Langella e Lena Olin tra gli in- terpreti - il successo di Pérez-Reverte è ormai assicurato, e i suoi romanzi iniziano a essere tradot- ti, e quindi letti, fuori dalla Spagna. Ovviamente, sin dal titolo è evidente che Les trois mousquetai- res (1844) di Dumas padrexi rappresenta una delle chiavi strutturali del romanzo, che di fatto è il più intertestuale e metaletterario dell’autore: il protagonista è Lucas Corso, cacciatore di libri rari

x La frase forte dell’autore, e il conseguente abbandono dell’impiego, provocano ovviamente delle fero- ci polemiche che si protraggono per parecchio tempo, generando lettere di spiegazione, dichiarazioni e pre- se di distanza dell’emittente, che certo non ne esce positivamente dallo scontro con il suo ex giornalista. Una rassegna stampa, con una buona selezione di questa corrispondenza, è disponibile su iCorso - Foro sobre Arturo Pérez-Reverte, consultabile online all’URL: . xi Alexandre Dumas padre (1802-1870), romanziere e drammaturgo francese, Maestro del romanzo sto- rico e del teatro romantico, padre di Alexandre Dumas figlio, anch'egli scrittore. Dumas padre è famoso soprattutto per i capolavori Le Comte de Monte-Cristo (1845-1846) e la trilogia dei moschettieri formata da Les Trois Mousquetaires (1844), Vingt ans après (1845) e Le Vicomte de Bragelonne (1847-50). Capace di creare grandi personaggi d’invenzione come d’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis, ed Edmond Dantès, Dumas padre eccelle soprattutto nel genere del romanzo d'appendice (o feuilleton), pubblicato a puntate sui giorna- li, quello che è stato considerato l’antesignano dei moderni sceneggiati televisivi (e infatti tutte le sue opere sono state «ridotte» per il piccolo schermo) o radiofonici. Al feuilleton e a Dumas, l’intero XIX secolo e la cultura contemporanea debbono molte delle tecniche narrative e descrittive ancora in vigore, come ad esempio quella che in inglese è definita cliffhanger, capace di creare, nel lettore/spettatore, l'attesa impa- ziente per la puntata successiva, tecnica nella quale eccelle anche Charles Dickens. Il ciclo dei moschettieri è soprattutto basato sul genere «cappa e spada», romanzi di avventura con molto movimento e continui colpi di scena, elementi che si ritrovano in tutti i romanzi di Pérez-Reverte, soprattutto nella saga di Alatri- ste.

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su commissione, amico di Flavio La Ponte al quale il ricco e anziano collezionista Enrique Taille- fer ha dato l’incarico di vendere «Il vino d’Angiò», un capitolo manoscritto proprio de Les Trois Mousquetaires. Ma prima che la vendita abbia luogo, Taillefer muore, forse suicida. Le indagini portano Corso a dover rintracciare un altro libro rarissimo, Le nove porte del regno delle ombre di Aristide Torchia, e a confrontarsi con un mistero intricatissimo che vedrà i due libri rari uniti secondo modalità inquietanti. Un libro che rimanda ad altri libri, dunque: e infatti, un altro dei personaggi, Boris Balkan, a sua volta appassionato di libri antichi, a un certo punto prende in mano un libro dal titolo El caballero del jubón amarillo, scritto da Lucus René, che altri non è che lo pseudonimo usato dal padre di Pérez-Reverte, autore proprio di un romanzo mai pubblicato con questo stesso titolo, alcuni brani del quale sono presenti nelle pagine de El club Dumás. Se poi consideriamo che nel 2003 Pérez-Reverte scriverà proprio El caballero del jubón amarillo, la quinta avventura del Capitano Alatriste, ci si renderà facilmente conto di come l’intertestualità sia continuamente presente sia nella trama che nei personaggi. La qualità metaletteraria, il riferirsi esplicitamente o implicitamente ad altri autori e opere, è un tratto distintivo della prosa ricca e sofisticata di Pérez-Reverte: avido lettore sin dall’adolescenza, tanto che si dice abbia letto migliaia di libri già prima dei diciottanni, è sempre stato interessato alla Spagna del Siglo de Oro e al romanzo spagnolo ottocentesco, ma anche alla storia francese, italiana, europea in genere. Nel 1999, intervistato da Alix Wilber,xii ha rivelato che in base a una ricerca compiuta da studenti dell’università di Salamanca, El club Dumás fareb- be riferimento in modo esplicito o implicito a circa 500 titoli di opere di vario genere, cifra che ha stupito l’autore stesso che candidamente ha confessato di esserne inconsapevole e di non es- sersene reso conto nel corso della scrittura. E metaletteratura di sofisticato spessore è presente in quasi tutti i romanzi di Pérez-Reverte: basti pensare alla saga del Capitano Alatriste, romanzi che annoverano tra i personaggi Luis de Góngoraxiii e Francisco de Quevedo,xiv i due massimi poeti

xii Alix Wilber, «The Accidental Author: A Conversation with Arthuro Pérez-Reverte», intervista esclu- siva rilasciata per Amazon.com nel 1999, in occasione della pubblicazione de El maestro de esgrima in lingua inglese, ora consultabile online all’URL: . xiii Luis de Góngora y Argote (1561-1627), poeta e drammaturgo, massimo esponente della corrente let- teraria in seguito conosciuta con i nomi di culteranismo o gongorismo, uno stile molto simile al marinismo ita- liano o all’eufuismo inglese, in effetti grosso modo contemporanei: si tratta di stili che ricorrono all’esasperazione del costrutto tramite un uso labirintico della sintassi, un leziosismo delle parole, una rei- terazione dei concetti, un uso smodato delle figure retoriche e dei cultismi, non per chiarire meglio un concetto, ma per produrre impressione e confusione nell’ascoltatore e nel lettore. Autore di poesie e satire che però non pubblicò mai personalmente, Góngora è noto soprattutto per le Soledades, componimenti particolarmente oscuri e cultisti, contro i quali si scagliarono sia il poeta Francisco de Quevedo, che il drammaturgo Lope de Vega. xiv Francisco Gómez de Quevedo (1580-1645), uno degli ingegni maggiori delle lettere ispaniche, poeta soprattutto, ma anche narratore e drammaturgo, spesso in polemica con Luis de Góngora. L’originalità dell’opera di Quevedo, che ha esercitato una forte influenza sull’epoca sua contemporanea e anche sulle

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della Spagna barocca, e contengono spesso poesie e brani letterari, talvolta reali e altre volte in- ventati di sana pianta, ma comunque scritti in una lingua spagnola molto simile a quella del Siglo de oro. Curiosa l’origine dell’idea di questi romanzi:xv l’autore racconta di non sentirsi soddisfatto del trattamento riservato alla storia della Spagna del Seicento nei testi scolastici dell’adolescente figlia Carlota, da cui la decisione di scrivere egli stesso un romanzo storico sull’argomento. Per far que- sto, chiese alla figlia di fare delle ricerche per suo conto, ricerche che fruttarono il materiale da cui nel 1996 nacque appunto El capitán Alatriste, l’unico titolo nella saga del quale la figlia risulta co-autrice. Ovviamente, tutto va preso per quello che è, una dichiarazione d’intenti fatta a poste- riori: il livello di conoscenza storica e culturale che traspare dai romanzi di Alatriste, soprattutto dal secondo in poi, è molto sofisticato perché la semplice collaborazione della figlia possa esserne completamente responsabile. Accanto alle ricerche di Carlota, che comunque risultano essere state molto ricche e precise, è poi intervenuto il «mestiere» di Pérez-Reverte, capace di integrare lo scenario storico con altri materiali e di imbastire storie coinvolgenti ed estremamente realistiche. Diego Alatriste y Tenorio - leonese, soldato dell’esercito spagnolo che deve il suo titolo di «capi- tano» non a una nomina ma all’avere preso il comando del suo reparto nel corso di una battaglia in seguito alla morte dell’ufficiale al comando - è coadiuvato nelle sue avventure e scorribande in giro per l’Europa da un gruppo di soldati a lui fedelissimi, e come lui veri e propri «fegatacci» quando si tratta di combattere e di intraprendere missioni pericolose. I più importanti sono Íñi- go de Balboa y Aguirre, basco, giovanissimo figlio di un amico di Alatriste, accolto dal capitano come un figlio dopo la morte dell’amico; Sebastian F. Copons, aragonese, compagno del capita- no in mille battaglie e, come lui, reduce dalle campagne delle Fiandre; Aixa Ben Gurriat, dai compagni ribattezzato «Gurriato», moro di Orano in Marocco, appartenente alla tribù dei Beni Barrani, taciturno e coraggiosissimo, micidiale con i nemici ed estremamente leale verso gli amici e commilitoni. Alatriste, per carattere e dedizione, senso dell’onore e del dovere, praticità e rapidità nel prendere le decisioni, è l’alter ego dell’autore, e molte delle sue imprese e delle sue riflessioni so-

successive, è certamente nello stile peculiare dei suoi componimenti poetici. Infatti, Quevedo è il vero e proprio codificatore (e, in gran misura, l’inventore) del cosiddetto conceptismo barroco basato sulla concisio- ne, sull’ellissi, e su ingegnosi giochi di parole che si avvalgono di un uso spesso estremizzato dell’anfibologia o anfibolia, discorso o espressione contenente un’ambiguità sintattica o semantica e dunque interpretabile in modi diversi a seconda del modo di leggerla. Se le sue opere di maggior spessore sono soprattutto poeti- che, come le raccolte El Parnaso español (1648) e Las Tres Musas Últimas Castellanas (1670), non è possibile ignorare il suo Historia de la vida del Buscón llamado don Pablos; ejemplo de vagamundos y espejo de tacaños (1626, ma forse rimaneggiato fino al 1640), comunemente chiamato Buscón, pilastro della narrativa picare- sca e, come vedremo, punto di riferimento per gli scritti di Eduardo Mendoza. xv Per un’analisi di buon livello sulla saga di Alatriste, si veda Guillermo Altares, «Las patrias de Alatri- ste», El País, 22 octubre 2011, consultabile online all’URL: .

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no influenzate proprio dalla sua ventennale esperienza di corrispondente al fronte. Pérez-Reverte ha sempre espresso massima ammirazione per questo suo militare di carriera che si muove tra complotti, cospirazioni, guerre e situazioni pericolose, avendo dalla sua solo coraggio, dignità e onore. Nel 2006, presentando Corsarios del Levante l’autore ha dichiarato: «Alatriste era un merce- nario, un asesino a sueldo, un personaje poco recomendable, pero tenía su ética, sus reglas del juego. Ahora, sería un proscrito, porque nadie entendería esas actitudes en un mundo como este donde palabras como di- gnidad, reputación, decencia, vergüenza torera y honradez se manipulan continuamente».xvi La Spagna e l’Europa a cavallo tra il XVI e il XVII secolo sono il teatro delle azioni di Alatriste, avventure che nel corso dei vari episodi della saga - giunta sinora a sette romanzi - hanno visto battaglie in cam- po aperto, intrighi e complotti di corte, omicidi su commissione, per limitarci ad alcuni esempi. E tramite il carattere di Alatriste, chiuso e spesso insondabile, a tratti melanconico ma sempre determinato, l’autore seguita nelle sue personali riflessioni sulla Spagna del passato per capire meglio la Spagna del presente perché, come ha affermato in una conferenza del 2011, «somos lo que somos porque en el XVI y XVII fuimos lo que fuimos».xvii Pérez-Reverte ha dichiarato che la Spagna è un paese in cui le illusioni scompaiono rapidamente, gli inganni si accumulano, e gli spagnoli si rendono conto che c’è più di qualcosa che da secoli sta lentamente crollando, producendo per questo «un cansancio histórico».xviii Secondo l’autore, è la consapevolezza di questa stanchezza, una «lucidez cansada» come la definisce lui, a contagiare profondamente i suoi personaggi. Alatriste è certamente il più «stanco» dei personaggi di Pérez-Reverte, stanco per le troppe speranze trasfor- matesi troppo spesso in delusioni; stanco per aver visto troppe volte la sua fiducia nei potenti tradita dalla realtà della loro meschinità. Il capitano è un uomo amareggiato, soprattutto per es- sere spagnolo, e in questa amarezza Pérez-Reverte vede riflettersi quella della Spagna contempo- ranea, che l’autore ha spesso dichiarato priva di speranza perché priva di cultura:

Esa tragedia de ser español, esa amargura, está reflejada en los libros de Alatriste. Cuando uno tiene memoria histórica de la de verdad, comprende que ser español no es fácil [… No creo que él sea pareci- do al D'Artagnan de Alejandro Dumas]. Alatriste es más complejo. Dumas no quería mostrar la amar- gura de ser francés y yo sí he querido reflejar la amargura de ser español.xix

xvi «Alatriste sería hoy un marginado total», El País, Sección Cultura, 12 diciembre 2006. L’articolo è consultabile online all’URL: . xvii «Pérez-Reverte. La educación y la cultura están en manos de ministros incultos», Público.es, EURO- PAPRESS, Sevilla 24 noviembre 2011. L’intervista è consultabile online all’URL: . xviii «Pérez-Reverte. La educación y la cultura están en manos de ministros incultos», cit. xix «Alatriste sería hoy un marginado total», cit.

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E trascina stancamente il suo coraggio e la sua determinazione di battaglia in battaglia, di congiura in complotto, senza però mai perdere la speranza che le cose cambino. Ama il suo re e il suo paese, anche se vive in un periodo storico buio, tormentato da guerre di religione e di potere. L’autore parla dell’esistenza di un forte scarto culturale e politico tra l’Europa che, dopo il conci- lio di Trento, ha scommesso su un «Dios moderno, que permitía el progreso y los libros, y hacia posible un mundo moderno»,xx e la Spagna che ha invece puntato tutto su «Dios oscuro, reaccionario, de sacri- stía, un Dios que nos ha mantenido fuera de la modernidad durante mucho tiempo»,xxi situazione che a suo parere dura tuttora. Come molti personaggi di Pérez-Reverte, anche Alatriste e i suoi soldati fedeli e disperati sono fortemente vincolati al concetto di memoria e a quello di appartenenza a un gruppo, a una co- munità, a un’idea. Sono disposti a qualunque sacrificio per la causa e soffrono quando scoprono che questa è spesso tradita dagli stessi committenti, abbandonata da coloro che la promossero e nel segreto organizzarono, salvo poi disattenderla e disconoscerla per la feroce e ineluttabile ra- gione di stato. Così in El capitán Alatriste (1996), l’abilità di spadaccino del capitano è richiesta nientedimeno che dal conte-duca di Olivares,xxii valido del re Filippo IV, per aggredire due miste- riosi viaggiatori inglesi, derubarli, senza però giungere a ucciderli. Incarico che viene subito ribal- tato dal tribunale della Santa Inquisizione, che richiede l’uccisione degli inglesi perché considera- ti eretici. Alatriste accetta il cambiamento a denti stretti, controvoglia, e si accinge all’agguato in- sieme a Gualterio Malatesta, abilissimo spadaccino siciliano, che diventerà il suo nemico deputa- to. In Limpieza de sangre, è addirittura il poeta Francisco de Quevedo a incaricare Alatriste di re- carsi in un convento per salvare una giovane che subisce continue molestie dal padre confessore,

xx «Pérez-Reverte. La educación y la cultura están en manos de ministros incultos», cit. xxi ibidem. xxii Gaspar de Guzmán y Pimentel Ribera y Velasco de Tovar (1587-1645), nato a Roma, nobile e politi- co, divenne noto come «conde-duque de Olivares». Uomo scaltro e astuto, sapiente manipolatore nell’ombra, in pochi anni da gentiluomo di camera del futuro re Felipe IV (1605-1665) che salì al trono nel 1621, scalò i vari gradini della politica cortigiana, fino a divenire valido del rey, un incarico non ufficiale, ma figura politica di alto rilievo nell’antico regime della monarchia iberica. Confidente del re in ogni que- stione temporale (per quelle spirituali esisteva un apposito padre confessore), condivideva con il sovrano le decisioni politiche anche di alto profilo e, di fatto, giunse a governare in vece del re, concentrando nella propria figura gli enormi poteri della monarchia autoritaria tradizionale. Addossatosi un enorme numero di responsabilità, Olivares intraprese un ardito e necessario programma di riforme, ma dovette però al con- tempo impegnarsi nel far fronte alle esigenze causate dai continui scenari bellici della corona spagnola - il maggiore dei quali è rappresentato certamente dalla Guerra dei Trentanni (1618-1648) - e confrontarsi spesso con la politica espansionistica della Francia di Richelieu. Pur riuscendo a ripulire la corte dalla cor- ruzione delle politiche cortigiane precedenti, tuttavia Olivares fu nepotista e familista a sua volta. Resosi conto che la corona spagnola era progressivamente svenata dai numerosi conflitti, cercò di imporre il pro- gramma di riforme in modo autoritario ma, di sconfitta militare in fallimento economico, progressivamen- te Olivares perse sempre più potere, fino ad essere licenziato da Felipe IV nel 1643, in seguito alla sconfitta riportata dall’esercito spagnolo nella battaglia di Rocroi, contro i francesi.

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il quale attenta alla sua virtù sicuro di poterla fare franca perché la famiglia della ragazza è di ori- gini ebree e quindi sprovvista di quella «limpieza de sangre» che le garantirebbe uguali diritti. E an- che questa volta un tradimento trasforma la missione in un’avventura pericolosissima. In El sol de Breda, Alatriste è nelle Fiandre, nell’esercito al comando dell’acuto stratega genovese Ambrosio Spinolaxxiii quando nel 1625 conquista, dopo lunga e perigliosa lotta, la città di Breda nell’ambito delle Guerra dei Trentanni: anche in questo romanzo sono presenti personaggi illustri, ed è in base alla descrizione della battaglia che Iñigo de Balboa una decina di anni più tardi fa all’amico Diego Velázquezxxiv che il pittore immortalerà lo storico momento nel suo quadro La resa di Bre- da, noto anche come Las lanzas, nel quale sul lato destro, come afferma Pérez-Reverte, accanto al cavallo è raffigurato proprio il capitano Alatriste… Se in El oro del Rey Alatriste deve organizzare la difesa dell’oro dei galeoni che vengono dalle colonie, è proprio la persona del re, Filippo IV, che deve proteggere in El caballero del jubón amarillo, mentre la trama di Corsarios de Levante lo vede sul palcoscenico delle guerre condotte dal regno di Spagna contro i corsari turchi, inglesi e olandesi che infestano il Mediterraneo. In El puente de los asesinos, settimo romanzo della serie, il senso del complotto e del tradimento è molto forte e tutti i personaggi ne vengono coinvolti. Alatriste e i suoi sono contattati dal poeta Quevedo e dal conte di Oñate,xxv ambasciatore di Spagna a Roma, per una missione che definire suicida parrebbe un eufemismo: in parte per forti motivazioni politiche, in parte per vendicare

xxiii Ambrosio o Ambrogio Spinola Doria, marchese di los Balbases, (1569-1630), generale genovese al servizio della Spagna di Filippo IV, partecipò con valore e con molti successi a molte battaglie della Guerra delle Fiandre, nell’ambito della molto più lunga Guerra degli Ottant’anni (1568-1648), che vide le Provin- cie Unite ribellarsi al dominio spagnolo, ottenendo alla fine l’indipendenza. Spinola conseguì soprattutto l’importante presa di Breda dopo un lungo assedio (28 agosto 1624 - 5 giugno 1625), malgrado la strenua resistenza del comandante delle repubbliche olandesi Maurizio di Orange-Nassau (1567-1625). xxiv Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599-1660), universalmente noto come Diego Velázquez, uno dei massimi esponenti della pittura spagnola del Siglo de Oro e della pittura mondiale di tutti i tempi. Fu grande ritrattista, soprattutto per ricchi e potenti committenti dei quali godette anche protezione e favori, quali il sovrano Felipe IV, e il conte-duca de Olivares. xxv Iñigo Vélez de Guevara (1597-1658) detto el mozo per distinguerlo dal padre omonimo, fu il settimo conte di Oñate e quarto conte di Villamediana, personaggio di spicco del regno di Filippo IV (1605-1665). Fu protagonista di un'intensa carriera politica che lo vide ricoprire gli incarichi di ambasciatore in Inghil- terra e a Roma e di vicerè a Napoli. Dopo aver pacificato il regno partenopeo reduce dalla rivolta di Masa- niello (1647-48), tornò in Spagna, entrò nel Consiglio di Stato e ricevette il titolo di marchese di Guevara. Nominato governatore del ducato di Milano nel 1658, morì poco dopo senza avere la possibilità di eserci- tare l'incarico. Si veda la voce relativa in ENBACH, European Network for Baroque Cultural Heritage, consul- tabile online all’URL: . Maggiori informazioni su questo importante diplomatico spagnolo si trovano in G. Galasso, Napoli spa- gnola dopo Masaniello. Politica, cultura, società, Firenze 1982, e in A. Minguito Palomares, Nápoles y el virrey conde de Oñate. La estrategia del poder y el resurgir del reino (1648-1653), Madrid 2011.

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un affronto veneziano a un potente molto vicino a Filippo IV e a Olivares, l’ambasciatore sta or- ganizzando nientemeno che un colpo di stato a Venezia, dove quattro gruppi d’azione agiranno coordinati per distruggere la flotta veneziana all’Arsenale; prendere possesso di San Marco e del Palazzo Ducale; uccidere il doge durante la messa di Natale del 1627 per sostituirlo con un sena- tore politicamente vicino alla corte di Spagna;xxvi e incendiare il ghetto per gettare la colpa di tut- to sugli ebrei. Ovviamente ad Alatriste e ai suoi viene affidato l’incarico più difficile, la distruzio- ne dell’Arsenale, in cui è possibile entrare grazie alla corruzione di uno degli ufficiali di guardia, ma da cui è molto difficile, e comunque rischiosissimo, uscire una volta iniziata la sommossa. L’incarico chiave, quello di uccidere il doge, è affidato al nemico personale di Alatriste, Gualterio Malatesta tanto abile quanto infido. Ma qualcosa cambia: il piano, minuziosamente preparato e attentamente organizzato, viene annullato dall’ambasciatore a pochissimo dalla realizzazione, per cui viene meno il ruolo della corona spagnola nell’acquisire il controllo dell’odiata Venezia e nel

xxvi Il doge dell’epoca, novantaseiesimo della Serenissima, era Giovanni I Corner o Cornaro, in carica dal 4 gennaio 1625 al 23 dicembre 1629. prima di divenire doge, tra l’altro malvolentieri visto l’enorme costo economico che la carica imponeva, Corner era una figura di secondo rango nel panorama politico veneziano. Una volta assiso alla carica, si dimostrò nepotista e familista, ma comunque pusillanime perché suo malgrado al centro di una consorteria famigliare che continuamente chiedeva (e otteneva) onori, pre- bende e incarichi proficui. Proprio nel 1627, l’anno del «complotto spagnolo» immaginario raccontato da Pérez-Reverte, Corner passo il segno nell’abusare i suoi poteri, e venne pubblicamente accusato da Renier Zen (Raniero Zeno), avversario politico dei Corner, che denunciò i soprusi e chiese di revocare cariche e privilegi concessi ai familiari di Corner. Zen, che comunque apparteneva a una fazione politica molto simi- le a quella dei Corner anche se meno oligarchica, riuscì a dare così tanto fastidio ai Correr, che questi de- cisero di vendicarsi e toglierlo di scena. Il 30 dicembre 1627 Giorgio Corner, assieme ai suoi servi, attese lo Zen fuori da casa sua e tentò di pugnalarlo. Zen si salvò a stento, gettandosi a nuoto in un canale, e nel 1628 riprese le pubbliche accuse, con comizi di piazza. Lo stallo tra le due fazioni, i filo-Corner, papalisti e oligarchici, e i filo-Zen, anti papalisti e più aperti alla nobiltà «povera», continuò e rischiò di divenire guerra civile, ma poi rapidamente si sgonfiò, «bruciando» politicamente di fatto entrambi i partiti avversari. Cor- ner, indebolito pubblicamente e fisicamente da questo scontro, divenne ancora più passivo sulla scena po- litica, imbarazzato, indeciso. Nel Monferrato si stava approssimando una nuova guerra ma lui non era più in grado di governare. Morì il 23 dicembre 1629. Per maggiori informazioni, si consulti la voce relativa nel Dizionario Biografico degli italiani - Volume 29 (1983), consultabile online all’URL: . Molti i riscontri storici nel romanzo di Pérez-Reverte. Il «complotto spagnolo» del romanzo prevede in- fatti un sostegno politico alle pretese spagnole da parte di fazioni veneziane, scontente proprio a causa del malgoverno di Corner e della sua famiglia. Inoltre, nel 1627 si stava effettivamente profilando il pericolo di una guerra nel Monferrato, ma per motivi connessi al ducato di Mantova. La guerra di successione di Mantova e del Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), scoppiò alla morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga e vide contrapporsi il Sacro Romano Impero, la Spagna e Carlo Emanuele I di Sa- voia alla Francia e alla Repubblica di Venezia, che appoggiavano la successione del duca Carlo Gonzaga di Nevers, sostenuto anche da papa Urbano VIII. Lo scontro si innestò nel quadro generale della Guerra dei Trent'anni.

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soccorrere e recuperare gli uomini che ha inviato, e che stanno rischiando la vita certo per dena- ro, ma anche per fedeltà agli ordini. Così, Alatriste e i suoi si trovano in una situazione pericolosa, ben nota nel genere letterario delle storie d’avventura, di guerra e di spionaggio, una situazione a metà tra quella dei mercenari del colonnello Allen Faulkner - che, in The Wild Geese (1977) di Daniel Carney,xxvii vengono inca- ricati da una potente multinazionale di liberare dalla prigionia Julius Limbani, ex presidente de- mocratico di uno staterello africano ricco di materie prime, e tramite lui sostituire il dittatore al potere, salvo poi essere abbandonati a se stessi quando intercorrono nuovi accordi tra la multina- zionale e il dittatore, e lasciare il paese per salvare la pelle - e i paracadutisti francesi del maggiore Jacques de Glatigny - che, in Les centurions (1960) di Jean Lartéguy,xxviii dopo essere sopravissuti all’inferno di Dien Bien Phu nell’Indocina francese, vengono inviati in Algeria per soffocare il movimento indipendentista locale, e, coinvolti nella guerra partigiana e terroristica e nella batta- glia di Algeri, sono costretti loro malgrado a praticare la tortura per piegare la resistenza dei ribel- li, salvo venire poi abbandonati politicamente (se non militarmente) allorquando, in seguito a forti pressioni e a un referendum, il generale De Gaulle si trova costretto a dichiarare l’indipendenza dell’Algeria e ritirare le truppe impegnate. Il romanzo di Pérez-Reverte trova quindi spazio in un filone molto noto e prolifico di storie di tradimento e di abbandono, dove il valore del singolo che decide comunque di onorare la mis- sione, deve sopperire al vuoto lasciato dalla fredda ragione di stato e da biechi intrighi di palazzo.

xxvii Daniel Carney (1944-1987), romanziere nato a Beirut e poi naturalizzato rodesiano. Nel 1963 si stabilisce in Rhodesia e si arruola nella British South Africa Police, dove rimane per tre anni e mezzo. The Wilde Geese è noto in Italia con il titolo I quattro dell’oca selvaggia grazie a un popolare film del 1978 con cast stellare, diretto da Andrew V. McLaglen e con Richard Burton, Roger Moore, Richard Harris e Hardy Krüger nei ruoli principali. La trama del romanzo è articolata, mentre il film punta molto sull’aspetto pit- torico della natura africana e sull’angoscia della missione disperata. Sir Edward Matherson convoca in se- greto il colonnello Allen Faulkner al quale chiede, dietro compenso, di liberare Julius Limbani, ex presi- dente democratico di un paese africano, prigioniero del dittatore Endova, salito al potere dopo un colpo di stato. Faulkner accetta, organizza un corpo di spedizione di cinquanta mercenari, e il gruppo riesce a libe- rare Limbani. Purtroppo, nel frattempo Matherson si è accordato con il dittatore in cambio di vantaggiose concessioni minerarie e richiama indietro l'aereo lasciando i mercenari a terra in balìa delle forze africane. E a dover organizzare una via di fuga. xxviii Jean Lartéguy (1920-2011), romanziere e giornalista francese, partigiano della prima ora, esule in Spagna, pluridecorato, corrispondente di guerra per Paris Match e Paris-Presse, è attivissimo su molti fronti bellici della seconda metà del XX secolo, in questo assomigliando molto a Pérez-Reverte: Azerbaïdjan, Pale- stina, Corea, Indocina, Algeria, Vietnam, America Latina. Politicamente anti-comunista, nei suoi scritti giornalistici e narrativi sostiene con passione le forze armate francesi, pur mettendo in luce i lati oscuri e vergognosi del colonialismo. Alcuni suoi romanzi si occupano proprio del processo della decolonizzazione: è il caso di Les centurions, noto soprattutto per il bel film di Mark Robson del 1966, che in italiano porta il titolo Né onore, né gloria, e che vanta un cast di assoluto rispetto, con Anthony Quinn, Alain Delon, George Segal, Michèle Morgan, Maurice Ronet e Claudia Cardinale.

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Cosa sarà successo? Alatriste e i suoi sono soldati, non politici: non sanno spiegarselo con certez- za, sanno solo agire nel modo migliore possibile. E seguendo l’istinto e la folle idea di Malatesta, che afferma di non avere mai ucciso un doge o un re e di volere vedere cosa si prova in una simi- le esperienza, Alatriste e i suoi decidono di andare avanti, fino in fondo, costi quello che costi. Dotato di una bella e ricca prosa discorsiva, El puente de los asesinos è strutturato secondo la tecnica della doppia voce narrante, ormai usuale per i romanzi di Alatriste: infatti, a raccontare la vicenda si alternano il giovane Iñigo - che vive i fatti in prima persona, ma che non è sempre ammesso nelle stanze di potere dove si prendono le decisioni che contano, e che per Venezia si muove spesso da solo, non sapendo cosa stia contemporaneamente facendo Alatriste - e il tradi- zionale narratore onnisciente, che compensa appunto le mancanze dovute all’assenza di Iñigo, e che illustra motivazioni politiche, trame occulte ed espone i ragionamenti profondi del capitano. Un ritmo sempre più incalzante per le calli, i campielli e gli squeri della Serenissima, come è tipi- co dei romanzi di «cappa e spada»; una sensazione angosciante (e angosciata) nel capire che il no- stro destino non è nelle nostre mani ma in quelle di oscuri giocatori che, all’occorrenza, sono di- sposti a barare con la vita altrui; una percezione della Storia dell’individuo come sorella della Storia delle nazioni, madre dell’attuale condizione dei popoli, figlia di meccanismi complessi e di dinamiche perverse: tutto questo fa di Arturo Pérez-Reverte un grande scrittore, sicuramente uno dei maggiori della narrativa contemporanea in lingua spagnola.

3. ERRAR CON BRÚJULA: LO SPERIMENTALISMO INTERCULTURALE DI JAVIER MARÍAS

Immaginate un’isola tropicale disabitata, larga poco meno e lunga poco più di un chilometro. E immaginate che questa isola già nel 1865 venga dichiarata regno indipendente da un predica- tore americano di origini irlandesi, dietro richiesta a sua graziosa maestà la regina Vittoria, che graziosamente la concede perché l’isola non rappresenta alcun pericolo per l’impero britannico. E immaginate che questo regno singolare, privo di sudditi e di qualunque forma di attività, passi di mano in mano per oltre un secolo, per essere governato dal 1997 fino ai nostri giorni da re Ja- vier I. L’isola di Redonda non è imparentata con la Macondo di Gabriel García Márquez,xxix né

xxix Gabriel García Márquez (nato ad Aracataca, in Colombia, il 6 marzo 1927), romanziere, scrittore di racconti, sceneggiatore, giornalista, Premio Nobel per la Letteratura nel 1982. Certamente uno degli scrit- tori di lingua spagnola più conosciuto, più letto e più popolare al mondo, Marquez fa capo tra l’altro al cosiddetto real maravilloso, un genere letterario nato in ispanoamerica nel XX secolo, che si colloca nell’ambito della letteratura fantastica e che annovera autori del calibro di , , , Julio Cortázar. Molte le opere di grande spessore scritte da Márquez, tra le quali è possibile annoverare La hojarasca (1955), El coronel no tiene quien le escriba (1961), Cien años de soledad (1967), El otoño del patriarca (1975), Crónica de una muerte anunciada (1981), El amor en los tiempos del cólera (1985), El general en su laberinto (1989). Definito dall’autore «no […] tanto un lugar como un estado de ánimo» in Plinio Apuleyo Mendoza García e Gabriel García Márquez, El olor de la guayaba. Conversaciones con Gabriel

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con la Yoknapatawpha di William Faulkner,xxx ma è un luogo geografico realmente esistente dell’arcipelago di Antigua e Barbuda, «governato» con sagacia e grande senso dell’umorismo da Javier Marías, una delle voci più brillanti e più innovative delle lettere ispaniche degli ultimi de- cenni.

Javier Marías Franco nasce il 20 settembre 1951 a Madrid nel popolare quartiere di Chambe- rì, dove risiede a lungo seppure in modo discontinuo. Ed è figlio d’arte. La madre Dolores Fran- co Manera è una scrittrice. Il padre Julián Marías Aguilera è un noto filosofo, a lungo incarcerato durante il franchismo a causa della sua politica filo-repubblicana, e inibito per lungo tempo all’insegnamento nelle università spagnole. A causa di questa proibizione, Julián è costretto a in- segnare all’estero, soprattutto negli Stati Uniti allo Wellesley College nel Massachusetts e alla Ya- le University nel Connecticut, portando spesso con se la famiglia. Per questo motivo, il giovane Javier ha occasione di trascorrere diversi anni formativi in ambiente bilingue e cosmopolita, una formidabile freccia per l’arco professionale e umano del futuro scrittore, il quale infatti ha per lungo tempo tradotto in spagnolo classici inglesi e americani, tra i quali Sterne, Conrad, Steven- son, Wallace Stevens, Faulkner, Ashbery, Auden, Isak Dinesen, Sir Thomas Browne, Hardy e Yeats. Questo lungo elenco non è solo una voce curriculare di grande rilievo, ma un indizio sulla so- lidità del rapporto tra la cultura spagnola e quella anglosassone, sempre presente in diversa misu- ra nell’opera di Marías. Infatti, l’autore ha anche insegnato per un periodo in università inglesi, e in gioventù ha avuto contatti continui e intensi con la cinematografia anglofona, soprattutto tra il 1968 e il 1971 quando, iscritto alla Complutense di Madrid, collabora come traduttore, sce- neggiatore e comparsa con gli zii Jesús e Ricardo Franco, cineasti di buon livello nel panorama spagnolo del tempo. Nel 1969, si trasferisce a Parigi: come lo stesso autore afferma nella nota all’edizione del 1987 de Los dominios del lobo, non si tratta di una fuga dettata da motivazioni poli- tiche, ma dalla fascinazione per l’arte cinematografica. Infatti, diviene assiduo frequentatore della

García Márquez (1983), Norma, 2005 - Macondo è un villaggio immaginario, inizialmente basato sul paese natio di Aracataca, ma poi ampliato geograficamente e culturalmente, nel quale l’autore ambienta diversi suoi scritti, come La hojarasca e Cien años de soledad: basato sull’evoluzione magica della parola, che lo rende tangibile ogni volta che si leggono le sue avventure, questo villaggio ha ben presto conquistato la fantasia dei lettori, entrando a buon diritto nella geografia mentale della letteratura mondiale. xxx William Faulkner (1897-1962), scrittore, sceneggiatore, poeta e drammaturgo statunitense, Premio Nobel per la letteratura nel 1949, è generalmente considerato uno dei più importanti romanzieri statuni- tensi, autore di opere spesso provocatorie e complesse. Faulkner è uno dei pilastri del Modernismo nove- centesco, fine sperimentatore di stili, temi e strutture narrative. Tra i suoi capolavori, sono sicuramente da annoverare i romanzi The Sound and the Fury (1929), As I Lay Dying (1930), Sanctuary (1931), Absalom, Absa- lom! (1936) e Go Down, Moses (1942). Queste e molte altre sue opere sono ambientate nella contea imma- ginaria di Yoknapatawpha, che si ispira geograficamente e culturalmente a Lafayette County, nel Mississip- pi. In Absalom! Absalom!, l’autore include una mappa della contea, da lui stesso disegnata.

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Cinémathèque Française di Henri Langlois,xxxi il tempio della Nouvelle Vague. Una permanenza che dura appena un mese e mezzo, ma che permette a Marías di appassionarsi al cinema americano degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, e vedere ben ottantacinque pellicole. Questo bagaglio culturale si dimostrerà importante per la trama e il trattamento del suo pri- mo romanzo. Los dominios del lobo (1971) è infatti un omaggio competente a molti generi holly- woodiani allora in voga: commedia, melodramma, noire e gangster movies. La trama è complessa e l’esposizione della storia non è unitaria e lineare, ma diacronica e organizzata in undici blocchi narrativi, attraverso la tecnica del punto di vista multiplo. La vicenda segue i trascorsi della fami- glia Taeger, soprattutto i tre figli Milton, un gangster, Edward, uno studente, e Arthur, un attore. Anche se gli eventi che li riguardano si concentrano tra il 1922 e il 1935, il romanzo copre il pe- riodo dal 1861 al 1962, cioè esamina anche quello che è accaduto prima per comprendere quello che accade e, infine, assistere a quello che accadrà in seguito. L’azione esposta dai molteplici punti di vista si concentra sulla Guerra civile americana, sul periodo del proibizionismo, sull’età d’oro hollywoodiana, sull’epoca del musical. La narrazione, affidata a un narratore onnisciente, freddo e meticoloso nei particolari, coinvolge un numero estremamente alto di personaggi, quasi un centinaio tra protagonisti e comprimari, per le 250 pagine circa del romanzo. Inoltre, muo- versi avanti e indietro nel tempo, laddove costituisce un elemento di fascino notevole e lega sal- damente la narrativa di Marías allo sperimentalismo modernista, presenta anche delle oggettive difficoltà sia per la comprensione profonda della trama che per l’elaborazione delle vicende, che passano in rassegna a tutto il repertorio tipico dei film dei generi di cui l’autore è appassionato: regolamenti di conti tra bande rivali, massiccia presenza di femmes fatales, taglieggiamenti, corru- zione, doppio gioco, ricatto, omicidio, periodi trascorsi in prigionia, tesori nascosti, avidità, sesso. Amicizia e amore sì, ma anche mancanza di morale e opportunismo. Ogni episodio, pur inseren- dosi in un contesto generale ben delineato, è anche una piccola storia in sé, dotata di cronologia interna e coerenza di unità spaziale per cui il narratore onnisciente, che impersona di volta in volta il punto di vista dei vari personaggi, oltre ad accompagnare per mano il lettore temporal- mente nell’arco di un secolo, lo sposta spazialmente su e giù per il grande paese americano, un concetto esteso di spazio che in quei generi di film la fa da padrone e rappresenta per lo spettato- re degli anni Sessanta e Settanta un atlante geografico potente sul quale costruire l’immagine col- lettiva e individuale degli Stati Uniti: da New York a San Francisco, da Los Angeles a Baltimora,

xxxi Henri Langlois (1914-1977), nato a Smirne, in Turchia, e poi naturalizzato francese, è un vero e proprio pioniere della conservazione e della restaurazione delle pellicole cinematografiche. Funzionario di stato, nel corso della Seconda Guerra Mondiale salvò decine di pellicole durante l’occupazione nazista del- la Francia. Insieme a Georges Franju, nel 1935 fondò la Cinémathèque française, un’associazione privata in buona misura finanziata dallo stato francese, la cui finalità è di conservare, restaurare e diffondere il patri- monio cinematografico. Con più di 40.000 film e migliaia di documenti e oggetti legati al cinema, essa co- stituisce il più grande archivio del mondo dedicato alla cinematografia. Il sito ufficiale dell’associazione è consultabile online all’URL: .

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passando per la California, il Minnesota, l’Illinois, la Louisiana, il Mississippi e l’Alabama, gli spazi del grande cinema e del grande romanzo americani ci sono un po’ tutti. Terminata l’esperienza parigina, Marías torna ai suoi studi e non pensa di pubblicare il ro- manzo, che considera piuttosto un divertissment dedicato ai suoi generi preferiti. Ma l’incontro con Juan Benet,xxxii uno dei maggiori autori spagnoli del Novecento, lo spinge a cambiare idea e infatti Los dominios del lobo è dedicato proprio a Benet,xxxiii nel cui cenacolo intellettuale aperto a giovani scrittori Marías decide di entrare. Si tratta di un’altra esperienza seminale di grande im- portanza, perché l’autore entra in contatto con altre menti brillanti del romanzo post-franchista, tra le quali Juan García Hortelano, Eduardo Chamorro, Antonio Martínez Sarrión, Félix de Azúa e Vicente Molina-Foix. Sin da questo periodo, l’autore mostra uno dei tratti caratteristici della sua prosa futura: infatti, Marías si distingue dal resto del romanzo post-franchista per la so- stanziale assenza di esplicite motivazioni politiche e di riferimenti precisi a fatti storici che hanno contraddistinto la storia di Spagna del secondo Novecento, mostrando invece interesse per il so- ciale e per l’animo umano. Anche il suo secondo romanzo, Travesía del horizonte (1973), è ambientato all’estero e i suoi personaggi non sono spagnoli. Struttura e stile sono decisamente più sofisticati e articolati che ne Los dominios del lobo, rispetto al quale, infatti, le influenze sono decisamente più letterarie che ci- nematografiche, e compaiono echi ed eredità di grandi innovatori della forma del romanzo come Henry James e Joseph Conrad. La qualità imitativa e parodistica è più solida rispetto alla prova precedente, ed è possibile affermare che Travesía del horizonte ricorda molto i romanzi del periodo edoardiano. Ma l’imitazione, che caratterizzerà sempre l’arte di Marías soprattutto nelle opere di- rettamente imparentate con Shakespeare, non deve essere intesa come sterile riproduzione di strutture, trame e percorsi già noti, bensì come elaborazione delle lezioni dei grandi maestri su impianti e tematiche decisamente pertinenti alla cultura spagnola. Il romanzo è anche metanarra- tivo. Infatti, è incentrato sulla lettura del manoscritto de «La travesía del horizonte», e sugli eventi che questa lettura accompagnano, concentrando la suspense narrativa sull’autore del testo nel testo. Questo romanzo parla a sua volta di un romanziere che partecipa a una spedizione al Polo

xxxii Juan Benet Goitia (1927-1993), ingegnere di professione, è considerato uno degli scrittori più in- fluenti e più innovativi nel panorama letterario spagnolo del XX secolo. Artista poliedrico, è drammaturgo, giornalista, saggista, romanziere e scrittore di racconti. Tra le sue opere, spiccano certamente Volverás a Re- gión (1967), che mostra l’influenza di William Faulkner, che Benet ha sempre considerato uno dei maestri della propria narrativa; Una meditación (1969); El aire de un crimen (1980), romanzo poliziesco che riscuote un successo formidabile. Ma importanti sono anche i suoi saggi, tra i quali La inspiración y el estilo (Revista de Occidente, Madrid, 1966), vera e propria dichiarazione di quello che Benet considera letteratura di alto profilo e che quindi rappresenta per lui la cifra inconfondibile del proprio stile personale xxxiii Così come per Benet Faulkner rappresenta il maestro par excellence, per Marías è proprio Benet a incarnare questo ruolo. Cfr. Inés Blanca, «Javier Marías habla de Juan Benet», intervista del’8 febbraio 1993, El Ojo de la Aguja, IV, 4, primavera de 1993. L’intervista è consultabile online all’URL: .

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Sud, e mano mano diviene ossessionato da un incidente misterioso capitato a un altro passegge- ro, ma di fatto la narrativa non offre alcuna spiegazione ai vari misteri del libro, e la trama si li- mita a illustrare solo una breve crociera nel Mediterraneo. Anche in questo caso Marías fa ricorso alla tecnica delle storie complementari già impiegata nel primo romanzo, che amplificano la qua- lità di storia di avventura, tuttavia contribuendo alla generale atmosfera di ambiguità. Il romanzo è quindi metaromanzo, una riflessione sull’arte di scrivere narrativa nel mondo moderno. La creazione dell’incertezza e dell’ambiguità sono però finalità ben precise nelle intenzioni dell’autore, il quale lo ribadisce in «Desde una novela no necesariamente castiza» (1984),xxxiv teo- rizzando anche sulla volontà, soprattutto nei suoi primi romanzi, di fare letteratura tramite l’imitazione di generi e stili ben noti, al contempo rifiutando la schematica adesione al realismo, tratto dominante della letteratura spagnola del tempo. Imitazione e percorso autonomo contri- buiscono al tono generale di cosmopolitismo a cui si accennava, e a far uscire la letteratura spa- gnola dalle pastoie passatiste. Nel 1973 Marías si laurea con una specializzazione in letterature di lingua inglese, e nel 1974 si trasferisce a Barcellona, dove inizia la collaborazione con l’editore Alfaguera in qualità di con- sulente letterario. Dal 1977 iniziano invece altre due attività di notevole importanza per la sua formazione artistica: quella di traduttore dall’inglese, alla quale si è già accennato, e che gli pro- cura il prestigioso premio Fray Louis de León per la versione in spagnolo del Tristam Shandy di Lawrence Sterne; e quella di articolista e saggista per diversi quotidiani di rilievo, attività che l’autore continua ancora oggi. Questi scritti sono stati in seguito raccolti in diverse antologie, la maggior parte delle quali è tuttora inedita in lingua italiana. La sua terza opera narrativa, El monarca del tiempo (1978), anch’essa inedita in italiano, non è un vero e proprio romanzo, perché dotata di una forma ibrida: cinque sezioni narrative organiz- zate in forma di racconto, un saggio e una breve pièce teatrale. Ma anche se è stato definito «libro» proprio in virtù di questa natura, Marías lo ha pubblicamente chiamato «romanzo» perché è con- vinto che questo genere sia elastico e ricettivo, e che quindi sia in grado di offrire continuamente nuove tipologie di strutture per veicolare le intenzioni dell’autore, in questo mostrando tanto l’influenza dell’Ulysses (1922) di James Joyce, romanzo strutturato infatti su diversi generi artistici, quanto quella di The Sea and the Mirror (1944) di W.H. Auden, riscrittura e riflessione poetica in varie forme metriche di The Tempest di William Shakespeare. Le varie sezioni de El monarca del tiempo hanno come finalità unica l’esplorazione della realtà e il modo in cui questa si relaziona al presente narrativo, e i diversi generi mostrano questo concetto da una varietà di punti di vista e con una serie di trame indipendenti. Il saggio, ad esempio, approfondisce la ricerca della verità, accostando a una riflessione analitica della stessa l’esame della parte finale del terzo atto di Julius

xxxiv Javier Marías, «Desde una novela no necesariamente castiza», conferenza del 16 novembre 1984 al simposio New Ibero American Writing della University of Texas at Austin, successivamente inclusa nella rac- colta Literatura y fantasma, Madrid, Alfaguara, 2001, pp. 51-69.

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Caesar di Shakespeare, dove si confrontano i due discorsi oratori di Bruto e Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Nel 1979 Marías inizia a scrivere per El país, e nel 1983 pubblica il suo quarto romanzo, El si- glo, anch’esso tuttora inedito in italiano. Il romanzo presenta una narrazione di tipo tradizionale, ma la sua struttura rivela ancora una volta l’interesse per lo sperimentalismo e per la ricerca di nuove soluzioni stilistiche. Il punto di vista, infatti, oscilla tra la prima persona nei capitoli dispa- ri, e la terza persona onnisciente in quelli pari, e ritornano molti dei personaggi de El monarca del tiempo. I capitoli pari raccontano la storia di Casaldáliga, ricco magistrato in pensione, persona priva di spina dorsale che, spinto dal padre a trovare un proprio ruolo nella vita, dapprima si sposa e poi cerca di diventare un eroe della Guerra civile, per trasformarsi in un delatore della causa repubblicana. I capitoli dispari, invece, sono narrati dallo stesso protagonista il quale, avvi- cinandosi alla fine della vita, riflette sulle scelte che l’hanno condizionata. Marías non offre solu- zioni definitive, spinge ogni lettore a riflettere e cercarne in prima persona. La struttura della narrazione presenta una simmetria perfetta e una forma circolare, mostrando ancora una volta il forte debito nei confronti della narrativa in lingua inglese, in special modo le teorie moderniste sul tempo narrativo, e il ciclo di dodici romanzi di Anthony Powell dal titolo complessivo A Dan- ce to the Music of Time.xxxv Lo stile è lirico, talvolta astratto, molto più spesso concreto, come nell’individuare la delazione del protagonista come centro fondamentale dell’azione, un episodio in buona misura autobiografico, perché il padre di Marías fu incarcerato proprio a causa di un delatore. Tramite la Guerra civile, l’autore si avvicina alla Spagna e alla sua storia come argomen- ti della narrazione. Nel 1983 Marías ottiene un incarico di tre anni come lettore di cultura spagnola e traduzione all’università di Oxford, e nel 1984 trascorre un semestre allo stesso Wellesley College dove aveva insegnato il padre. Dimessosi da Oxford, dal 1985 passa un biennio a Venezia, città che lo stimo- la in molti modi nella stesura del suo quinto romanzo, El hombre sentimental (1986), il primo che vede un’influenza consistente delle opere di Shakespeare nella narrativa di Marías.xxxvi Il romanzo,

xxxv A Dance to the Music of Time, opera di dimensioni enormi e di intensità incredibile, pubblicata tra il 1951 e il 1971, ispirata al dipinto omonimo (1634-1636) di Nicolas Poussin (1594-1665), non è una saga ma una sequence, composta da dodici romanzi che, tramite la tecnica delle reminiscenze di derivazione mo- dernista, seguono la vita di Nick Jenkins, il protagonista, dagli inizi del 1922 all’autunno del 1971. Per un’analisi della complessa struttura e dell’eterogeneità dei contenuti dell’intera sequenza, si veda Mario Faraone, «“I Go to Dances… in the Season, that is”: scorrere del tempo e ciclo delle stagioni come struttura ritmica in A Dance to the Music of Time di Anthony Powell», pp. 71-88 in La musica delle stagioni: fenomenolo- gia del tempo nelle letterature inglese e italiana, a cura di Leo Marchetti e Paola Evangelista, Napoli, Liguori, 2007. xxxvi A proposito dell’influenza di Shakespeare negli scritti di Marías, si veda Sandra Carofiglio, «“Mañana en la batalla piensa en mí, cuando fui mortal, y caiga herrumbrosa tu lanza”: Shakespeare come elemento unificatore di tre romanzi di Javier Marías», pp. 387-99 in Scorci improvvisi di altri orizzonti: sguardi

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infatti, trae lo spunto dal tema principale dell’Othello, ma l’azione si svolge a Madrid. Il narratore è noto solo con lo pseudonimo, el León de Nápoles, tenore d’opera già comparso sia ne El monarca del tiempo che ne El siglo: sono la sua storia e il suo punto di vista di quello che vede e vive a costi- tuire il centro della narrazione. Non è un romanzo autobiografico nel senso stretto del termine, ma fa parte di quella che è stata definita «nueva autobiografía», un genere specifico dell’arte di Marías, che si avvale di piccoli dettagli, nomi ed episodi per costituire un’atmosfera di credibilità intorno al proprio argomento e ai propri romanzi. Il Leone sogna, e così facendo replica quello che ha vissuto: uomo dal forte temperamento edonistico, si infatua perdutamente di Natalia Manur, splendida donna sposata intravista sul treno, e decide che farà di tutto per ottenerla, an- che a costo di distruggersi o distruggere il marito. Il Leone è la moderna versione di Iago, il quale del resto annovera il desiderio per Desdemona come uno dei possibili motivi per distruggere Otello. La realtà della narrazione diviene indistinguibile dal sogno che la produce: le due dimensioni si contaminano a vicenda, il narratore non riesce più a districarle. In un saggio del 1992,xxxvii Marías definisce questo processo creativo «errar con brújula», vagare / sbagliare seguendo la busso- la, termine che nella stessa ambiguità semantica racchiude il significato della tecnica con la quale Marías crea le sue storie:

Me temo que lo principal es que carezco enteramente de visión de futuro. No sólo no sé lo que quiero escribir, ni a dónde quiero llegar, ni tengo un proyecto narrativo que yo pueda enunciar antes ni de- spués de que mis novelas existan, sino que ni siquiera sé, cuando empiezo una, de qué va a tratar, o lo que va a ocurrir en ella, o quiénes y cuántos serán sus personajes, no digamos cómo terminará.xxxviii

Scrivere e creare cammin facendo, come una stanza con mille aperture: narrare come un atto aperto, privo di metodo, anzi un atto che produce e crea esso stesso il metodo con cui verrà rea- lizzato. In questo Marías si pone come innovatore della narrativa e segue, amplificandolo e raffi- nandolo, uno dei percorsi disposti dal nuovo romanzo ispanoamericano della seconda metà del Novecento: il metodo già impiegato in Rajuela (1963) da Julio Cortázar,xxxix il quale struttura la

interculturali su letterature e civiltà di lingua inglese, a cura di Mario Faraone, Martina Bertazzon, Giovanna Manzato e Roberta Tommasi, Morrisville, NC, LULU Enterprises, INC, 2008. xxxvii Javier Marías, «Errar con brújula», El Urogallo, septiembre-octubre 1992, successivamente incluso in Literatura y fantasma, cit., pp. 107-10. xxxviii Javier Marías, «Errar con brújula», cit., p. 107. xxxix Julio Cortázar (1914-1984), scrittore di romanzi e di racconti, poeta, drammaturgo, traduttore e in- tellettuale argentino, nato in Belgio e in seguito naturalizzato francese. Mente brillante ed eclettica, innova- tore di stili e di tecniche, uno dei massimi esponenti della letteratura fantastica che, dai paesi latino ameri- cani, riuscì a stimolare moltissimo il genere del romanzo, Cortázar ha prodotto una bibliografia sterminata, all’interno della quale spiccano certamente le raccolte di racconti Bestiario (1951), Final del juego (1956), Las armas secretas (1959), Todos los fuegos el fuego (1966), Octaedro (1974) e Alguien que anda por ahí (1977); i poemi in prosa Historias de cronopios y de famas (1962) e Un tal Lucas (1979); e i romanzi Los premios (1960),

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Nicolas Poussin, La Danse des Saisons, ou l'Image de la vie humaine (1634-6), Londra, The Wallace Collection narrativa come una sequenza di capitoli indipendenti e tuttavia tra loro legati dai personaggi e dalla trama, spingendo il lettore a rileggere più volte l’opera, cambiando l’ordine dei capitoli, co- struendo così nuovi insiemi che possono, oppure no, portare alla stessa conclusione. Dal 1987 al 1992, tornato a Madrid, Marías insegna Literatura Española y Teoría de la Tra- ducción alla Complutense. Nel 1989 pubblica Todas las almas, che l’anno seguente riceve il pre-

Rayuela (1963), 62 Modelo para armar (1968) e Libro de Manuel (1973). Lo sperimentalismo dell’autore rag- giunge il suo apice con Rayuela e con 62 Modelo para armar: quest’ultimo, infatti, trae spunto proprio dal capitolo 62 di Rayuela. Se Rayuela è formato da capitoli che possono essere letti anche secondo l’ordine de- siderato dal lettore, in 62 Modelo para armar i capitoli spariscono del tutto, lasciando spazio a dei segmenti narrativi di lunghezza eterogenea, divisi tra di loro tramite appositi spazi bianchi, che possono essere messi in ordine a piacere dal lettore. Inoltre, la narrazione si alterna tra Parigi, Londra e Vienna, e i personaggi parlano in inglese, francese, spagnolo e altre lingue ancora.

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mio Ciudad de Barcelona. Il protagonista è un narratore in prima persona privo di nome, torna- to in patria dopo aver insegnato lingua e letteratura spagnola all’università di Oxford. Come si vede, l’argomento attinge espressamente all’esperienza personale di Marías: tra i personaggi vi so- no docenti e studiosi universitari, rappresentati anche con una buona dose di ironia e umorismo, perfettamente inquadrati nel loro ambiente, e trasudanti un’angosciosa percezione della propria temporalità e insignificanza. Il narratore soffre di un qualche disturbo, che dissemina la sua nar- razione di elementi digressivi, nell’ambito dei quali egli esamina se stesso e l’atto di raccontare. Ancora una volta, perciò, il processo creativo viene messo in scena dalla narrativa stessa: la tecni- ca dell’indeterminazione, già impiegata ne El hombre sentimental e che tornerà ancora, fa sì che non si possa tracciare una linea precisa tra ciò che il narratore solo ipotizza e ciò che è veramente accaduto. Nel 1992 è la volta di Corazón tan blanco, un’altra opera in qualche misura ispirata a Shake- speare, visto che il titolo è infatti tratto dal Macbeth: «My hands are of your colour; / but I shame to wear a heart so white» (II.ii.82-3).xl Il romanzo è strutturato in sedici capitoli, l’azione è principal- mente ambientata a Madrid, tutti i personaggi sono spagnoli. Ma il narratore in prima persona, Juan, è un interprete che viaggia spesso, attività che sposta in parte l’azione a Cuba, New York e Ginevra. Il romanzo inizia con una donna che, di punto in bianco, si reca nel bagno della sua abitazione e si suicida sparandosi al cuore. Questa morte, apparentemente inspiegabile, è specu- lare a un’altra parimenti assurda nel penultimo capitolo, e i due episodi forniscono la struttura narrativa intorno alla quale l’autore sviluppa una trama di misteri, segreti, e incertezze. L’importanza della casualità nel determinare vita e morte di una persona è un tema caro a Marías, e tornerà anche nei romanzi seguenti. L’osservatore è passivo, restio a esplorare il passato per indagare le cause, eppure Marías insiste sulla interconnessione tra passato e presente nella vita dell’individuo. La superstizione, che era una delle chiavi anche de El hombre sentimental, e il senso di presagio costituiscono uno degli assi portanti del romanzo, e l’atmosfera di premonizio- ne è ulteriormente rinforzata grazie a numerose allusioni e citazioni più o meno esplicite dell’opera shakespeariana di riferimento, Macbeth appunto, che contribuiscono a delineare le coppie oppositive di colpa e innocenza, segreto e conoscenza. Questi elementi tornano - con maggior potenza espressiva e con uno stile narrativo ancora più coinvolgente perché basato su un protratto senso di suspense - in Mañana en la batalla piensa en mí (1994), che considero il miglior romanzo dell’autore in assoluto. C’è tutto Marías: il titolo viene da un’altra opera di Shakespeare, Richard III, in particolar modo dalla celebre scena nella tenda durante la notte prima della battaglia finale, quando i fantasmi delle vittime della perfidia spietata di Riccardo vengono a trovarlo annunciandogli la sconfitta finale: «Tomorrow in the battle

xl I versi sono pronunciati da Lady Macbeth, quando Macbeth, subito dopo aver ucciso il re Duncan, torna da lei con le mani insanguinate, reggendo ancora i pugnali con cui ha ucciso il sovrano: la moglie gli stringe le mani, che grondano sangue, e così facendo trasferisce il sangue reale anche sulle proprie, facen- dole divenire dello stesso colore. Tuttavia, la Lady non ha commesso fisicamente l’omicidio, e prova vergo- gna che il suo cuore sia ancora immacolato.

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think on me, / And fall thy edgeless sword; despair, and die!» (V.iii.164-5).xli Come per Corazón tan blanco, anche in questo romanzo Marías adotta una struttura circolare, iniziando con una morte e terminando con un’altra. Il protagonista e narratore in prima persona Víctor Francés, uno sce- neggiatore che vive a Madrid, incontra per caso in un locale Marta Téllez, una donna sposata. Tra i due nasce un’attrazione improvvisa e, mentre sono a casa di lei e si accingono ad avere un rapporto sessuale, la donna muore improvvisamente e Víctor, pur potendo allontanarsi e dimen- ticare senza problemi, è ossessionato dall’idea di scoprire chi fosse veramente la donna. In un crescendo di suspense, un’indagine condotta a metà tra il realistico e la costruzione immaginaria, il protagonista rimane sempre più ingarbugliato in una ragnatela di domande senza risposta e di indizi che lo portano ad altri indizi, fino alla scena finale, in un confronto tragico e simbolico con il marito di Marta, un finale a sorpresa capace di sconvolgere il lettore e di fargli riconsidera- re ogni singola tappa. Segreti della vita della donna si accavallano a digressioni e pensieri di Víc- tor, nello stile ben noto di Marías, per giungere a rivelazioni finali che, in fondo, sono solo l’inizio di una nuova indagine che il protagonista incessantemente conduce su se stesso, nella propria mente e nel proprio cuore. Madrid è protagonista continua della narrazione, la sua storia soprattutto nel periodo della Guerra civile e gli spazi urbani assurgono a una dimensione indivi- duale e collettiva, capace di legare passato e presente, indizi e prove, misteri e verità. Nel 1997 Marías diviene «re di Redonda», come si diceva. Riceve l’isola dal «re» precedente, Jon Wynne-Tyson, che l’aveva ricevuta dal terzo sovrano, John Gansworth, che è uno dei perso- naggi protagonisti di Todas las almas. Come si vede, realtà e finzione si mescolano sempre nella vita e nell’opera di Marías, spesso con risultati buffi e divertenti. La storia delle successioni com- pare in Negra espalda del tiempo (1998), un «falso romanzo» come è stato definito, perché sostan- zialmente basato sulla ricezione critica e di pubblico di Todas las almas, e quindi di nuovo realtà e finzione si mescolano: la narrazione seguita a indagare su se stessa, a descrivere l’atto creativo come riflesso speculare. Dal 1997 Marías, con gusto goliardico e fine ironia, crea baronie e con- tadi sulla sua isola francobollo, assegnando titoli ad amici e colleghi del mondo delle arti, come Pedro Almodovar, A.S. Byatt, Francis Ford Coppola, Eduardo Mendoza, Arturo Pérez-Reverte,

xli In una celebre e curiosa nota finale al romanzo, l’autore stesso chiarisce, se non il significato di que- sta citazione, almeno il perché essa non compaia come epigrafe, e quindi l’origine della stessa non sia im- mediatamente riconoscibile. Un’affermazione che mostra in pieno il modo sornione e spassoso con il qua- le Marías «gioca» con i suoi lettori. Cfr. Javier Marías, Mañana en la batalla piensa en mí, cit., p. 357: «El títu- lo de esta novela, como el de Corazón tan blanco, procede de Shakespeare. Si nunca se dice a las claras a lo largo del texto es por una tácita apuesta. Fueron numerosos los críticos que al reseñar Corazón tan blanco - cuyo origen no se ocultaba - hablaron de la “célebre” cita de Macbeth como si hubieran estado familiarizados con ella toda la vida, cuando esa cita ni siquiera es o era muy conocida, aunque sí la escena a la que pertenece. Tuve curiosidad, así, por ver cuántos sabios reconocían la frase “Tomorrow in the battle think on me”, que se repite varias veces en la Escena III del Acto V de Ricardo III, y mucho más célebre que aquella otra de Macbeth. Y lo cierto es que nadie dijo nada en los periódicos nacionales. El crítico César Pérez Gracia, sin embargo, de El Heraldo de Aragón - y según parece no sin ardua pesquisa-, dio con la referencia exacta».

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Francisco Rico, Jonathan Coe e Juan Villoro; e con essi e altri ancora fonda un’accademia che ogni anno assegna un premio letterario, che annovera tra i vincitori Coetzee, Magris, Munro, Bradbury ed Eco. Oltre a pubblicare in diverse raccolte molti dei racconti comparsi su riviste e quotidiani, tra il 2002 e il 2007 Marías realizza la sua opera finora più ambiziosa, una trilogia di romanzi dal titolo Tu rostro mañana, storia unica ma divisa in sette parti in tre diverse uscite: 1. Fiebre y lanza, (2002); 2. Baile y sueño (2004); 3. Veneno y sombra y adiós (2007). Il protagonista è lo stesso di Todas las al- mas, romanzo che come si vede ossessiona Marías e ciclicamente compare nei suoi nuovi scritti. Ma questa volta ha un nome: Jacques Deza, docente universitario spagnolo che ha già lavorato a Oxford e che ora ci ritorna dopo un periodo trascorso a Madrid. Il suo impiego alla BBC è in realtà una copertura per la sua vera attività nel MI5, i servizi segreti inglesi, dove lavora per un misterioso agente segreto come «interprete delle vite», uno che ha l’abilità non solo di delineare il profilo e il carattere di una persona, ma anche di prevederne i comportamenti futuri. Tornano, con stile più intenso e più raffinato, molti dei temi cari all’autore, che abbiamo visto essere cen- trali in Corazón tan blanco e in Mañana en la batalla piensa en mí: la delazione e il tradimento; la parola e il silenzio; i segreti e le rivelazioni; il rapporto strettissimo tra passato e presente. Lo sce- nario storico di questo grande affresco è quello attuale, con numerose incursioni nella Gran Bre- tagna e nella Spagna dei tempi della Guerra civile e della Seconda guerra mondiale. Il tono è meditativo e digressivo, solo parzialmente autobiografico. Una volta completata e pubblicata la monumentale trilogia de Tu rostro mañana, Marías è stato definito da più parti come il nuovo Marcel Proust. Senza voler indagare nel dettaglio sulla correttezza o meno di questa definizione, è certo che, qualunque cosa egli dica, con l’autore francese Marías condivide la progettualità e il senso di unità ottenuto attraverso una quantità di tecniche e di temi. Trama investigativa e rapporto con il mondo della cultura sono al centro anche dell’ultimo romanzo pubblicato (finora), Los enamoramientos (2011): infatti, la protagonista e voce narrante della vicenda è Maria Dolz, impiegata di una casa editrice, primo protagonista femminile nella narrativa dell’autore, la quale ogni mattina incontra casualmente una coppia di perfetti scono- sciuti, con i quali ha un rapporto di simpatia in pratica senza scambiare una parola. Viene a co- noscenza del nome dell’uomo, Miguel Desvern, perché legge sul giornale che è stato assassinato e, in modo del tutto casuale, entra in possesso di un’informazione che potrebbe svelare il perché di questa morte incomprensibile. Il romanzo scava territori profondi, introspettivi: con taglio in parte filosofico, l’autore indaga su come amore e morte possano influire sulla vita quotidiana e sulla comprensione ultima di noi stessi e del nostro rapporto con gli altri. Anche in questo ro- manzo, Marías mostra gli elementi che finora lo hanno fatto ritenere il maggior scrittore di lin- gua spagnola: uno stile molto personale e innovativo, una voce individuale, la capacità di analiz- zare temi di grande importanza per l’uomo moderno sono tra gli elementi che gli hanno permes- so di riscuotere un grande successo anche in campo internazionale e quindi contribuire a far uscire le lettere spagnole dalle pastoie dell’isolamento culturale in cui erano finite dopo la Guer- ra civile, e in cui erano rimaste per tutto il periodo del franchismo.

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4. «MI HISTORIA NO PUEDE RELATARSE EN UNOS MINUTOS»: STORY-TELLING E NUEVA PICARESCA IN EDUARDO MENDOZA

Un pazzo. Un pazzo come quelli che nel passato venivano rinchiusi in un manicomio, anche se spesso e sovente pazzi non erano per nulla. Anzi, erano fin troppo intelligenti. E davano fasti- dio a famiglie e conoscenti, per cui sparivano negli sgabuzzini creati dalla società per liberarsi dal- le vergogne e dalla consapevolezza di essere essa stessa basata su follia e morbosità. Ed è proprio un pazzo, senza nome, il protagonista di El enredo de la bolsa y la vida, il più recente romanzo di Eduardo Mendoza, il quarto della saga dedicata al suo detective loco, investigatore pazzo appunto, il quale si aggira per la Barcellona di inizio millennio, tra mille azioni stralunate, recitando in- sieme a compagni bislacchi e divertentissimi un altro capitolo della sua vita allegorica e picaresca, nell’inarrestabile necessità di svelare un nuovo mistero che lo porta nell’insidioso territorio del terrorismo internazionale, per sventare un piano diabolico che coinvolge Angela Merkel, aiutare una bambina in difficoltà. E riuscendoci, a modo suo, ovviamente.

Eduardo Mendoza Garriga nasce l’11 gennaio 1943 a Barcellona, figlio di un avvocato e di una casalinga, integrato perfettamente quindi nella borghesia catalana nella quale trascorre gran parte della vita, e all’ombra dei cui valori, rigidi e codificati, cresce frequentando scuole cattoli- che e laureandosi in legge grazie a una borsa di studio prestigiosa, al fine di proseguire la carriera paterna. Una volta laureato, però, nel 1965 riesce a convincere la famiglia a finanziarlo per tra- scorrere un periodo all’estero, viaggiando in Europa e frequentando, senza grande successo, la facoltà di sociologia a Londra. L’episodio, tuttavia, si rivela molto utile per la preparazione di Mendoza il quale, già fluente in catalano e in francese, può apprendere molto bene l’inglese di- mostrando competenze linguistiche notevoli, che gli saranno molto utili nel corso della carriera letteraria. L’esperienza londinese, inoltre, apre i suoi orizzonti culturali molto ristretti dal pano- rama della Spagna franchista, generalmente chiusa a qualsiasi influenza straniera, e gli permette di sperimentare nuove libertà e acquisire maturità politica altrimenti negate in patria. Rientrato a Barcellona, dal 1968 al 1972 lavora per uno studio legale, esperienza durante la quale entra in contatto con materiali e documenti che gli permetteranno di sviluppare la trama e creare i perso- naggi della sua prima prova letteraria, La verdad sobre el caso Savolta, romanzo che del resto aveva già iniziato durante il soggiorno londinese. Nel 1973 Mendoza supera gli esami di ammissione al contingente di traduttori in forza presso l’ONU, e il 1 dicembre parte per New York dove si trat- terrà nel nuovo impiego fino al 1978. Molti i motivi per i quali Mendoza decide di lasciare la Spagna alla volta degli Stati Uniti: l’autore, d’indole allegra e scherzosa, ironizza dicendo che quello che lo ha spinto è stata la chiusura del suo bar preferito a Barcellona, evento che ha reso per lui la città noiosa e insipida. Quel che è certo è che l’animo inquieto e curioso di Mendoza male sopporta l’asfittica atmosfera culturale della Spagna franchista, per cui la decisione è in li- nea con le sue necessità di crescita intellettuale e professionale. Il titolo iniziale de La verdad sobre el caso Savolta (1975), avrebbe dovuto essere Los soldados de Cataluña, ma l’autore è costretto a cambiarlo per sopravvenuti problemi con la censura franchista

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che, nell’ottica della «castiglianità» di Spagna, non può tollerare titoli che riportano il nome di una comarca che ha sempre rappresentato una spina nel fianco. Si tratta di un’opera prima di grande rilievo, che mostra subito l’abilità di Mendoza nell’utilizzare strutture discorsive e stili narrativi molto diversi tra loro, che vanno dal pastiche al pamphlet di propaganda, dal romanzo storico all’opera umoristica, abilità che tornerà sempre nella sua produzione e che gli permette sin da subito di riscuotere un notevole successo. Infatti, riceve il Premio della Critica come il primo romanzo che annuncia la transizione democratica e che scuote la società spagnola dal suo torpore quarantennale, e compare solo pochi mesi prima della scomparsa del dittatore Francisco Franco. La trama è basata su loschi fatti effettivamente accaduti nel periodo tra le due guerre mondiali, alle quali, come è noto, la Spagna non partecipa. Tuttavia, nell’ambito del commercio d’armi e della mal gestione di una compagnia barcellonese che si occupa di elettricità e trasporti, un oscuro e spregiudicato finanziere maiorchino, Juan March, non esitò di fronte a nulla, ricor- rendo anche all’omicidio su commissione pur di arricchirsi e controllare il potere. La ricostru- zione della storia è condotta da Mendoza proprio durante il suo periodo di lavoro presso lo stu- dio legale, e la bieca figura di Juan March compare spesso nei personaggi delle opere successive dell’autore, come rappresentante dell’arrogante borghesia catalana, talvolta come sinistro perico- lo, altre volte come parodia di se stesso, come ad esempio nei romanzi della saga del detective loco. In La verdad sobre el caso Savolta, March è Savolta, uno spregiudicato barone industriale, che si è arricchito commerciando armi illegalmente durante la Grande guerra, e che impone la sua legge del terrore in modo spietato, facendo uccidere da sicari prezzolati i sindacalisti e gli attivisti anar- chici che cercano di boicottare i suoi loschi affari. Ma, all’inizio del romanzo, Savolta è già stato ucciso: infatti, la narrazione è costituita in gran misura dal racconto di diversi personaggi che con lui hanno avuto a che fare in occasione del processo dieci anni più tardi, insieme a verbali pro- cessuali e rapporti della polizia che ha indagato sull’assassinio. La vicenda ha luogo soprattutto nella Barcellona del 1918, terrorizzata da assassini politici e da rappresaglie padronali nei confronti della classe lavoratrice che cerca di difendere le proprie rivendicazioni salariali e lavorative. Tra i testimoni del processo c’è Nemesio Cabra Gómez, il cui nome è ispirato a Mendoza dal quasi omonimo licenciado Cabra, uno dei protagonisti del Buscón (1626)xlii di Francisco de Quevedo, una delle opere massime della picaresca, il genere per antono- masia nella letteratura spagnola del Siglo de oro, genere che rappresenterà sempre per Mendoza una grande fonte di ispirazione sia tematica che strutturale. Cabra ha problemi mentali ed è sog- getto alla manipolazione che su di lui esercitano gli anarchici e la stessa polizia: è l’unico a cono- scere l’intera verità, ma proprio per la sua non totale affidabilità e per essere manipolabile, non viene mai ascoltato, in questo assomigliando al Don Chisciotte di Cervantes, che nella follia cela

xlii Il titolo completo dell’opera - ben più lungo in sintonia con la moda dei secoli XVII e XVIII prati- camente in tutta Europa - è sintomatico della natura ironica e umoristica di tutta la narrativa picaresca, ed è specchio della morale della civiltà della Spagna barocca: La vida del Buscón (o Historia de la vida del Buscón, llamado don Pablos; ejemplo de vagamundos y espejo de tacaños).

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la tragica verità della società in cui vive. Tra gli anarchici che lo manipolano, c’è Domingo Pajari- to de Soto, giornalista e reporter il quale, incurante dei rischi che corre, fa di tutto per denuncia- re gli affari criminali di Savolta e dei suoi complici, giungendo persino a ricattarli, con questo firmando la propria condanna a morte. Gli omicidi, eccellenti e no, si susseguono a ritmo in- quietante, soprattutto quando l’impresa rischia di fallire in seguito all’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Anche Paul André Lepprince, nuovo ricco e arrampicatore sociale, anima nera e ma- rito della figlia di Savolta, suo intermediario negli omicidi e suo possibile assassino, muore miste- riosamente nell’incendio della fabbrica. Altrettanto misteriosamente muore il commissario Váz- quez che aveva indagato con un comportamento ben lungi dall’essere integro e rispettoso della legalità, riannodando i fili della matassa, e rivelando molti dei misteri a quello che risulterà essere «the last man standing» alla fine del romanzo, ovvero Javier Miranda, altro arrampicatore sociale ma privo di quella malizia e di quella ferocia che contraddistinguono il suo ambiente. Miranda si rifugia negli Stati Uniti ma poi è coinvolto nel processo Savolta e nell’incendio doloso della fab- brica, per cui in tribunale racconta tutti gli eventi e ricostruisce l’intera storia. L’atto di racconta- re, dunque, rappresenta sia lo stimolo che la struttura stessa di questo straordinario romanzo, che si avvale della tecnica del flashback per costruire un puzzle che deve essere composto dal let- tore, in questo mostrando una prospettiva decisamente cinematografica, tanto che nel 1978 è stato adattato per il grande schermo per la regia di Antonio Drove, con Omero Antonutti, Char- les Denner, José Luis López Vazquez ed Ettore Manni nei ruoli principali. La città di Barcellona è protagonista anche di un altro grande successo editoriale di Mendoza, La ciudad de los prodigios (1986), nella quale l’autore propone un ritratto vivido e dinamico dell’evoluzione sociale ed economica della capitale catalana dal 1888 al 1929, gli anni delle due Esposizioni Universali. Anche se la struttura del romanzo - che viene generalmente considerato il progetto più ambizioso di Mendoza - è saldamente basata sugli eventi storici, non si tratta di un romanzo storico, come lo stesso autore fa presente nel prologo, ma di una trasposizione in forma narrativa della memoria collettiva di una generazione di barcellonesi, attraverso la quale Mendo- za può allestire sulla sua scena l’evoluzione di una società che risulterà essere una delle più dina- miche del panorama europeo nostro contemporaneo, dalla costituzione iniziale allo sviluppo economico, industriale e umano. Filo conduttore dell’intera, complessa e articolata vicenda, è il personaggio di Onofre Bouvila, umile e povero contadino giunto a Barcellona nel 1887, rappre- sentante delle aspirazioni delle fasce povere della popolazione di un grande centro urbano: parti- to come semplice attivista anarchico che distribuisce volantini politici, Onofre ben presto smarri- sce il senso di solidarietà che condivideva con la sua classe di appartenenza e, grazie ai propri sforzi e a una progressiva perdita di inibizioni morali, diventa uno degli uomini più ricchi e in- fluenti dell’intera Spagna. Il prezzo è altissimo: personaggio sordido, crudele, privo di scrupoli, smanioso di conquistare e mantenere in tutti i modi il potere, Onofre ha in se elementi di Lep- prince, Miranda e Pajarito, personaggi che come si è visto rappresentano un panteon umano va- riegato in La verdad sobre el caso Savolta. La scalata sociale di Onofre è aiutata moltissimo da tre donne, molto diverse tra loro, che contribuiscono sia al suo arricchimento economico che alla sua maggiore complessità caratteriale, l’incontro con le quali viene profetizzato al protagonista da

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una maga: una che lo renderà ricco, una che lo aiuterà ad elevarsi socialmente, e una che lo ren- derà felice. Come si vede, accanto all’impianto storico, Mendoza conferisce al suo romanzo an- che quello epico e allegorico. Dagli scontri con la polizia a causa della sua politica anarchica, Onofre passa prima ad aderire e poi comandare un’organizzazione criminale di struttura mafiosa; sposare la figlia dell’avvocato che difende i suoi loschi interessi; ordinare diversi omicidi per mantenere il potere del clan e tradire amici e nemici; divenire un impresario cinematografico con scarsissimo successo nella Spagna del 1923, all’epoca del colpo di stato di Primo de Ribera; scap- pare in esilio in un paesino rurale dove comunque si trova al centro di nuovi affari criminali. Come si vede, anche nel caso de La ciudad de los prodigios, la struttura narrativa vive di forti emo- zioni e di scelte tipiche della picaresca, e il succedersi rocambolesco e spasmodico degli eventi ha permesso di trarne un adattamento cinematografico del 1999, per la regia di Mario Camus e con Olivier Martinez nel ruolo del protagonista, e del resto il romanzo ha ricevuto diversi premi, ed è stato finalista del Grinzane Cavour. Negli anni Ottanta Mendoza viaggia molto per la sua attività di traduttore per l’ONU: Gine- vra, Vienna, ma anche Venezia, città che lascia il segno nel suo immaginario artistico, tanto da spingerlo ad ambientarvi La isla inaudita (1989), romanzo che rompe in un certo modo con il procedimento storico finora applicato da Mendoza ai suoi scritti. Infatti, lo sfondo non mostra alcun grande evento e il protagonista è un uomo qualunque, per certi versi anche noioso e ano- nimo: Fábregas, impresario di Barcellona, è stanco della quotidiana routine della sua esistenza e dei problemi finanziari che colpiscono la sua azienda, e decide di recarsi in viaggio nella città del- la laguna. Qui incontra Maria Clara, che si rende disponibile per fargli conoscere la città, ma che poi senza alcun motivo si allontana e scompare. L’alone di mistero che la donna lascia dietro di sé spinge Fábregas a prorogare la sua permanenza nella città, per la quale si aggira sempre più coinvolto e, suo malgrado, sempre più innamorato della donna. A un certo punto conosce la fa- miglia di Maria Clara, e si rende conto che ciascun componente nasconde un qualche mistero. Incontri casuali, avvenimenti imprevisti, lo portano a rendersi conto che la realtà in cui vive sog- giace a leggi occulte e imperscrutabili: la sua fuga da Barcellona era dovuta a un senso tutto mo- derno del male di vivere, ma la permanenza a Venezia lo spinge a confrontarsi con se stesso, a sfiorare la follia, a chiedersi se dopo tutto non abbia bisogno proprio di Maria Clara per com- prendere a fondo se stesso e la vita che si appresta a vivere. Anche se accadono molte cose, di fat- to non accade nulla: La isla inaudita è un romanzo di riflessione e non di azione, e Mendoza rie- sce a conferire al lettore la sensazione di muoversi insieme a Fábregas per la città di Venezia, sen- za una meta precisa, interessandosi a personaggi, spesso antipatici ed egoisti, che appaiono essere false piste nella ricerca esistenziale del protagonista. Un microcosmo che sembra essere in grado di riprodurre il macrocosmo disumanizzato in cui vive l’uomo moderno. Sempre nel 1989 Mendoza scrive insieme alla sorella Cristina Barcelona modernista, testo ibri- do tra la guida e il catalogo e che passa in rassegna il periodo dell’Art Noveau a Barcellona tra l’esposizione universale del 1888 e lo scoppio della Grande guerra, un tassello fondamentale per comprendere l’ossessione sociale e artistica che lega l’autore alla sua città natale. Nel 1990 com- pare invece Sin noticias de Gurb, un romanzo sperimentale che ricalca la moda del secolo XIX di

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pubblicare romanzi a puntate sui quotidiani, in questo caso El País. La trama è di fantascienza e la sua elaborazione è comica: Gurb è un extraterrestre che è atterrato poco fuori Barcellona nel periodo in cui questa si appresta a ospitare i Giochi Olimpici del 1992. Gurb ha assunto l’identità di Marta Sanchez, nelle cui vesti osserva e descrive la Catalogna contemporanea, in un’esplorazione per la quale si rende conto di non essere stato preparato a sufficienza, tanto da perdersi e scomparire. Chi racconta, però, non è Gurb, ma il suo comandante alieno che si lan- cia alla sua ricerca, assumendo diverse identità, tra le quali quella del conte-duca di Olivares, per- sonaggio storico che abbiamo già incontrato trattando di Pérez-Reverte. Il libro è estremamente comico e per molti versi ricorda Un marziano a Roma, testo umoristico del 1960 scritto da Ennio Flaiano: nel romanzo di Mendoza, il diario del comandante alieno riporta tutto con dettagli ma- niacali, come l’ora di ogni avvenimento, ma mostra come anche il suo redattore sia ben lungi dall’avere le idee chiarissime e cambi idea e scopo della missione praticamente di continuo. Lo stile tuttavia è molto naturale, ed è permeato di parodia e satira, attraverso le quali Mendoza pur parlando della sgangherata missione dei due alieni, di fatto mette in luce il vero volto dell’essere umano contemporaneo. Tra il 1990 e il 1992, Mendoza si dedica a scrivere per il teatro in lingua catalana, ottenendo un discreto successo. Nel 1992, pubblica El año del diluvio, romanzo di impianto realista, ambien- tato negli anni Cinquanta a Sant’Ubaldo, un villaggio catalano governato e tiranneggiato dal classico funzionario falangista di turno, don Augusto Aixelá de Collbató. La protagonista è suor Constanza Briones, religiosa piena di buone intenzioni ma con scarsa conoscenza del mondo rea- le fuori dal proprio convento: il suo progetto più importante è quello di riconvertire il locale ospedale che cade in rovina, per trasformarlo in una casa di riposo per anziani. Per finanziare tale progetto, si rivolge proprio a don Augusto, donnaiolo impenitente il quale, invaghitosi della per- sonalità della religiosa, decide di appoggiare il progetto anche presso il governo franchista madri- leno. Tra i due nasce una reciproca attrazione che sfocia in un incontro di passione. La vicenda si complica ulteriormente quando suor Constanza viene coinvolta da una banda di fuorilegge, mili- tanti repubblicani al tempo della Guerra civile. La scomparsa misteriosa di don Augusto mette fine alla loro relazione, ma non impedisce a suor Constanza di realizzare il proprio progetto e di proseguire nella sua attività benefica. Tornata a Sant’Ubaldo, molto anziana e in fin di vita, viene a scoprire che il falangista è poi ricomparso ed è morto in povertà proprio nell’ospizio da lei or- ganizzato. Il romanzo è strutturato secondo una classica tripartizione, per cui a una prima parte di frenetica attività pratica della costruzione dell’ospizio e della passione amorosa, corrisponde una terza parte di attività solo narrativa nella quale suor Constanza viene a conoscenza dei fatti accaduti a sua insaputa; la seconda parte è caratterizzata dall’aiuto di Suor Constanza ai fuorileg- ge, alla scomparsa di don Augusto, e alla realizzazione dell’ospizio. Lo stile è ricercato e molto cu- rato, basato su descrizioni espresse con un registro linguistico alto, mentre il linguaggio dei per- sonaggi non rivela sostanziali differenze di classe. L’argomento è molto elaborato e permette a Mendoza un’indagine introspettiva nei motivi umani e politici della società spagnola degli anni Cinquanta, figlia nel bene e nel male della sanguinosa e fratricida guerra civile. Il romanzo è sta- to adattato per il cinema nel 2004, in una coproduzione italo-franco-spagnola diretta da Jaime

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Chávarri, e sceneggiata dallo stesso Mendoza, con Fanny Ardant e Darío Grandinetti nei ruoli protagonisti. Tra il 1995 e il 2001 Mendoza insegna nella scuola di interpreti e traduttori all’università Pompeu Fabra di Barcellona, impegno che non gli impedisce di continuare l’attività di scrittore: per esempio, nel 1996 pubblica Una commedia ligera, romanzo tuttora inedito in lingua italiana, ambientato nella capitale catalana negli anni successivi alla Guerra civile; e tra il 1998 e 199 ri- mane a lungo coinvolto in una feroce quanto sterile polemica letteraria per avere dichiarato - all’epoca, ultimo tra i tanti - «la morte del romanzo».xliii Nel 2001, Mendoza ripete sempre su El País l’esperimento di «romanzo serializzato», pubblicando El último trayecto de Horacio Dos, roman- zo tuttora inedito in italiano, favola sarcastica incentrata sulle avventure picaresche di un co- mandante di astronave che affida a un diario il racconto di avventure strampalate e inverosimili che hanno per protagonisti personaggi che rappresentano allegorie di individui semplici e politici smaliziati, secondo una tecnica espositiva che ricorda molto Gulliver’s Travels (1726) di Jonathan Swift.xliv Il genere parodico sembra essere quello preferito dall’autore, soprattutto negli ultimi an- ni, perché nel 2008 pubblica El asombroso viaje de Pomponio Flato, pure inedito in italiano, parodia del genere epistolare: il romanzo narra le gesta di Pomponio Flato, un filosofo romano, il quale si trova a Nazareth e riceve l’incarico da Gesù bambino per indagare su strani fatti e salvare la vita a suo padre Giuseppe, condannato a morte. Il romanzo è un ibrido tra i generi poliziesco e noir, ed è basato sui fatti della vita di Gesù, narrati però senza alcun rigore storico, in questo paro- diando a sua volta il recente boom di romanzi pseudo-storici come The Da Vinci Code (2003) di Dan Brown.xlv Nel 2010, Mendoza si concede una chicca: vince infatti il prestigioso Premio Pla-

xliii Si tratta principalmente di due saggi: «La novela se queda sin épica», El País, 16 de agosto de 1998; e «La muerte de la novela o el arte de no saber callar a tiempo», catálogo de Seix Barral, enero-marzo de 1999. Entrambi sono consultabili online sul sito ufficiale dell’autore agli URL: ; e . xliv Jonathan Swift (1667-1745), saggista, satirista, poeta, autore di pamphlet politici, religioso e persino decano della cattedrale di San Patrizio a Dublino. Una delle massime voci del Settecento anglofono ed eu- ropeo, autore di molti testi fondamentali per comprendere la cultura e il pensiero del suo periodo: per fare solo qualche esempio, A Modest Proposal (1729, saggio), A Journal to Stella (1710-1713, corrispondenza), Drapier's Letters (1724-5, saggio), The Battle of the Books (1697, satira), An Argument Against Abolishing Chri- stianity (1708-1711, saggio), e A Tale of a Tub (1694-7, satira). Gulliver’s Travels, forse la sua opera più nota, è una satira feroce e ironica sulla natura umana, che parodizza sia la forma del romanzo che quella dei reso- conti di viaggio, due generi molto popolari nelle lettere inglesi dell’epoca. xlv Dan Brown (nato il 22 giugno 1964), autore statunitense di thriller che hanno riscosso ottimi succes- si commerciali, seppur sprovvisti di grande qualità letteraria. La sua opera più nota è proprio The Da Vinci Code, divenuto immediatamente un best-seller, e continuamente ristampato. Come molte altre opere di Brown, anche questo romanzo è sostanzialmente una sorta di caccia al tesoro, frenetica e ricca di colpi di scena, e include temi cari all’autore quali la crittografia, il simbolismo, le teorie cospiratorie, l’impiego smodato di codici e relative chiavi per decifrarli. Occupandosi di argomenti strettamente connessi alla reli-

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neta… ma con lo pseudonimo di Ricardo Medina, supposto autore di Riña de gatos. Madrid 1936, romanzo poliziesco ancora inedito in italiano, che racconta la storia di Anthony Whitelands, gio- vane inglese esperto di pittura spagnola, convocato per una espertise su un quadro recentemente ritrovato, forse attribuibile nientemeno che a Diego Velázquez. Ambientato nella primavera im- mediatamente precedente allo scoppio della Guerra civile, il romanzo si occupa con ironia e sar- casmo di molti fatti che condurranno allo scoppio del sanguinoso conflitto fratricida, e fa incon- trare a Whitelands parecchi dei personaggi storici protagonisti di quegli anni tremendi, come Primo de Ribera e Francisco Franco. Ironia, parodia, romanzo poliziesco-investigativo: sono queste le frecce più acuminate dell’arco narrativo di questo straordinario scrittore che ha sensibilmente rinnovato e arricchito il panorama letterario della cultura ispanica, rappresentando un punto di riferimento ben chiaro per le nuove generazioni di autori. E i testi che meglio rappresentano queste sue capacità sono i quattro (finora) romanzi della saga del detective loco senza nome, una sorta di moderno Everyman sarcastico e stralunato che mette alla berlina vizi (molti) e virtù (pochissime, seppure ci sono) del- la società moderna e del ruolo occupato in essa dall’essere umano, una satira feroce che ricorda sia quella di Guzmán de Alfarache (1599 e 1604) di Mateo Alemán,xlvi che quella di Lazarillo de Tormes (1554),xlvii storici prototipi della narrativa picaresca. Per meglio comprendere il progetto

gione Cristiana e al cattolicesimo, The Da Vinci Code ha generato vibranti proteste da parte del Vaticano, e polemiche sulla presunta intenzione dell’autore di screditare la religione. Il romanzo è stato inoltre al cen- tro di numerose cause per plagio, dalle quali l’autore è finora sempre emerso vincente. Ben altro discorso, ovviamente, è quello delle inesattezze storiche e dei grossolani errori teologici e scientifici, che sono alla base della scarsa qualità artistica di cui si diceva. xlvi Mateo Alemán y de Enero (1547-1614), uno dei maggiori scrittori del Siglo de Oro. Nativo di Siviglia, è sostanzialmente noto per il suo romanzo picaresco Guzmán de Alfarache, pubblicato in due parti, nel 1599 e nel 1604. Il romanzo codifica i tratti strutturali e tematici tipici della picaresca: pessimismo malinconico, forte ironia e satira dei costumi e della civiltà contemporanea, volontà di riscattarsi da una vita di truffe e inganni, ma incapacità di farlo e continua ricaduta nel vizio e nel peccato. Guzmán, molto divertente e pa- recchio coinvolgente per ritmo e tematiche, ha due caratteristiche che spesso vengono ignorate: può essere considerato il primo best seller della storia, perché venne subito tradotto in inglese, italiano, tedesco e fran- cese, riscuotendo un grande successo e influenzando moltissimo la cultura europea contemporanea; e può essere considerato il primo romanzo moderno, titolo che spesso viene attribuito a Don Quijote di Miguel de Cervantes Saavedra, pietra di volta della letteratura universale, ma le cui due parti risalgono al 1605 e al 1615, quindi successive a entrambe le parti del Guzmán de Alfarache, che tra l’altro risulta essere una delle fonti di ispirazione del capolavoro di Cervantes, come afferma Edmond Cros. Cfr. ad esempio Miguel Pra- das, «Sin Mateo Alemán, El Quijote no sería hoy lo que es», El Mundo, 31 de julio de 2009. L’articolo è consultabile online all’URL: . xlvii La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades, è un romanzo epistolare anonimo, strut- turato come un’unica lunghissima lettera. Benché di volta in volta lo si sia attribuito a numerose personali- tà letterarie dell’epoca, come il frate Juan de Ortega o il poeta e diplomatico Diego Hurtado de Mendoza,

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sistematico che esiste dietro a questa saga, è meglio ricordare che ciascun titolo originale riporta un termine che indica, in stile con i romanzi di avventura e il genere picaresco, la natura del ro- manzo stesso: i termini aventura, misterio, laberinto, enredo alludono a diverse dimensioni dell’ignoto o del non ancora conosciuto, buone metafore per riflettere sull’apparente incompren- sibilità dell’esistenza contemporanea. Il primo capitolo, El misterio de la cripta embrujada, compare nel 1979 e costituisce una rottura con la Spagna violenta e amara de La verdad sobre el caso Savolta. Mendoza afferma che scrivere sul loco lo riempie di allegria e lo diverte come pochissime cose riescono a fare, e non è difficile cre- derlo: il protagonista è un malato di mente, senza nome, rinchiuso in un istituto psichiatrico per un qualche motivo che non si riesce mai bene a comprendere, e tormentato dall’inumano com- portamento del dottor Sugrañes. Il loco è contattato (e ricattato) dal commissario Flores, della Brigada de Investigación Criminal, il quale chiede il suo aiuto per ritrovare una fanciulla scom- parsa da un collegio di suore, e per far questo lo fa uscire con uno stratagemma dall’istituto e lo invia per le strade di Barcellona a indagare. Ben presto, come in tutti i capitoli della saga, il caso si rivela una matassa tanto ingarbugliata quanto inverosimile per l’insieme di stralunati elementi che la contraddistinguono: misteriosi uomini svedesi che altrettanto misteriosamente muoiono, altre bambine scomparse dal collegio, ricchi industriali catalani senza scrupoli. Il loco dopo cin- que anni di istituto è certamente migliorato ma, in perfetta sintonia con i picari Seicenteschi, suoi modelli letterari, non esita a mentire, assumere false identità, rubare e ricattare pur di risol- vere il caso e ritrovare la bambina, in questo aiutato da un panorama di personaggi grotteschi e divertentissimi, come sua sorella Cándida che fa la prostituta per vivere pur avendo un corpo de- forme, o la ex-collegiale Mercedes Negrer verso la quale nutre un tenero sentimento. Con proce- dimento farsesco e tra mille roccambolesche (e assolutamente inverosimili) peripezie, il loco rie- sce ad annodare i capi della matassa e a intuire la soluzione, che lo porterà a scene finali rivelatri- ci in una misteriosa cripta dalla quale parte un’altrettanto misteriosa (e inverosimile) funicolare. Ma, alla fine della fiera, non ci sarà alcuna redenzione: l’improvvisato e spassoso investigatore verrà comunque nuovamente rinchiuso nell’istituto psichiatrico. Il secondo capitolo della saga, tuttora inedito in lingua italiana ma curiosamente tradotto in lingua sarda, ha per titolo El laberinto de las aceitunas, e compare nel 1982: il loco viene rapito dall’istituto da spietati sicari del commissario Flores, e costretto a consegnare per conto di un ministro una preziosa valigetta ricolma di danaro. Ovviamente, la valigetta gli viene rubata e vie- ne accusato dell’omicidio di un cameriere. Il loco indaga, capisce di essere stato incastrato e si

in realtà non vi sono certezze assolute, se non che l’autore fosse comunque un simpatizzante delle idee ri- formiste di Erasmo da Rotterdam. L’opera può essere considerata un vero e proprio antesignano della pica- resca, che come abbiamo visto verrà codificata solo circa mezzo secolo dopo. Eppure, tutte le principali ca- ratteristiche, che ritroviamo del resto anche in Eduardo Mendoza, sono già presenti nel Lazarillo: realismo, narrazione in prima persona, struttura itinerante dell’azione, sudditanza economica, ideologia moralizzan- te, visione pessimistica della società e dei valori da essa rappresentati, condanna delle false apparenze e dell’ipocrisia di chi detiene il potere e abbandona il popolo al suo destino.

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lancia in una frenetica avventura per risolvere il mistero, il che lo porterà a scontrarsi con l’amante del ministro e con una banda di ricattatori privi di scrupolo. Insieme alla solita carrella- ta di personaggi strampalati, il loco concluderà la sua investigazione in un monastero di monache il cui ordine è ormai sul punto di sciogliersi e in una improbabile base spaziale nei pressi di Bar- cellona. Prima di essere, ovviamente, di nuovo chiuso nell’istituto. Il terzo capitolo, La aventura del tocador de señoras, compare nel 2001. Come si vede, il titolo originale porta il termine aventura: infatti questo è un’avventura elettrizzante e mozzafiato. Il loco finalmente esce dall’istituto, ma non certo per meriti: infatti, il terreno viene venduto e trasfor- mato in area edificabile per gli appetiti di spregiudicati costruttori. Grazie a Vidriato, marito del- la sorella Cándida, trova lavoro in un negozio di bellezza e parrucchiere per signore, il quale ov- viamente si rivela un’impresa traballante e sull’orlo del fallimento per la scarsità di clienti. Il loco rimane coinvolto nel furto di preziosi documenti di un’importante impresa e nell’omicidio del suo presidente. La sarabanda di personaggi briosi e divertenti questa volta vede ben due donne chiamate Ivet, il che causa continui fraintendimenti e molto umorismo; Magnolio, autista miope e di colore; l’alta nobiltà e persino il sindaco di Barcellona, oltre a diversi altri personaggi bizzarri, un panteon che in diversa misura contribuirà alla soluzione del misterioso enigma. Il quarto capitolo, recentemente edito in italiano con il titolo O la borsa o la vita, rappresenta la vetta della capacità ironica e parodica di Mendoza. Il titolo originale porta il termine enredo, in effetti di difficile traduzione posto che contiene sia il significato di «inganno, menzogna» che quello di «complicazione, traversia». Il loco questa volta, sopravvivendo a stento grazie allo sgan- gherato negozio di parrucchiere, si trova a dover rintracciare un vecchio amico e compagno dell’istituto, Rómulo el Guapo, per conto di una bambina, la deliziosa Marigladys soprannomi- nata «Quesito» («Formaggino», nella versione italiana), che «potrebbe» essere figlia dello scompar- so. Questa volta, il protagonista agisce con maggiore capacità organizzativa e arruola una piccola armata Brancaleone costituita da un gruppo di «statue viventi» che popolano le Ramblas di Bar- cellona: el Pollo Morgan («Flint il Dritto», in italiano), personaggio stordito che impersona Eleo- nora del Portogallo, personaggio sconosciuto ai turisti che dovrebbero omaggiarlo; Kiwijuli Ka- kawa, detto Juli, albino proveniente dall’Africa occidentale, che impersona un altrettanto scono- sciuto istologo premio Nobel; la Moski, russa attivista della gioventù stalinista, rifugiatasi a Bar- cellona dopo la caduta del muro e divenuta suonatrice di fisarmonica, che porta con sé in ogni tappa dell’investigazione. Il commissario Flores è morto, ma il loco viene comunque tiranneggia- to dalle forze dell’ordine, nella persona della viceispettrice Victoria Arrozales, soprannominata «Malaspulgas» («Caratteraccio», nella traduzione italiana), che la dice lunga sule sue intenzioni. Allo strampalato panteon, si aggiunge anche nonno Siau, anziano di una apparentemente simpa- tica famigliola cinese che sembra volere aiutare in tutti i modi il loco, ma che punta solo ad ac- quisire il suo negozio per trasformarlo in ristorante. Dietro alla scomparsa di Rómulo c’è un vero e proprio intrigo internazionale, perché il «noto» terrorista arabo-ebreo Alí Aroón «Pilila» («Pisto- lino») sta progettando un attentato in occasione della visita di Angela Merkel a Barcellona e il lo- co e la sua squadra hanno pochissimo tempo per sventare un incidente che potrebbe portare a un conflitto mondiale. La satira di Mendoza colpisce senza pietà il mondo post 9/11, generatosi

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dalla vittoria dell’economia liberista e dalla crisi finanziaria che ha sconvolto l’intero occidente, e a questo crollo di valori sociali l’autore sembra rispondere con il valore eterno rappresentato dall’arte, anche quella umile che si rappresenta per le strade: sono proprio il loco e la sua la stra- lunata, impossibile, ridicola ma anche dolcissima armata Brancaleone delle statue viventi, i nuovi picari del XXI secolo, a salvare Angela Merkel, Barcellona e il mondo contemporaneo dalla di- struzione innescata proprio da questo stesso mondo contemporaneo, lanciato in modo scellerato verso il neo-liberismo, la globalizzazione e la mancanza di valori etici e umani.

5. PARA RELATAR LO QUE PASÓ EFECTIVAMENTE. CONCLUSIONI

A lo largo de mi existencia me he visto obligado a resolver algunos misterios, siempre forzado por las cir- cunstancias y sobre todo por las personas, cuando en manos de éstas estaban aquéllas. Pero vocación de investigador nunca tuve, y menos aún de aventurero. Siempre anhelé y musqué un trabajo regular con el que vivir sin apreturas y sin sobresaltos. Pero ahí estaba yo, a mi edad, sudando la gota gorda por la remota posibilidad de obtener una información nimia que, unida a otras de similar calibre, me permi- tiera extraer una conclusión a la que probablemente habría preferido no llegar.xlviii

Questa riflessione del detective loco mentre indaga per rintracciare Rómulo el Guapo, potrebbe essere condivisa da quasi tutti i protagonisti dei romanzi esaminati in questo studio, ed essere considerata una metafora per descrivere l’arte dei tre autori. Un giornalista impegnato nella pri- ma linea del fronte che contesta la deriva sociale del mondo attuale; un professore e traduttore dedito alla ricerca di come raccontare una storia e mostrare i risvolti tormentati dell’animo uma- no; un umorista e intellettuale militante che si fa beffe della società da dietro la maschera di per- sonaggi stralunati: anche in questo modo si possono descrivere Arturo Pérez-Reverte, Javier Marías ed Eduardo Mendoza, tre autori straordinari, tra i più espressivi e innovativi non solo del- le lettere spagnole ma anche dell’intero panorama culturale contemporaneo. Non tutti parlano (almeno espressamente) di politica e di storia, ma per tutti la «politica» e la «storia» sono impor- tanti chiavi di lettura per comprendere perché viviamo così, e come ci siamo arrivati. Nel già cita- to The Struggle of the Modern, Stephen Spender acutamente indica le caratteristiche «politiche» (e non ideologiche) e «storiche» (e non cronachistiche) che a suo parere un intellettuale e un artista deve avere per essere contemporaneo:

The contemporary belongs to the modern world, represents it in his work, and accepts the historic forces moving though it, its values of science and progress. By this I do not mean that he is uncritical of the world in which he finds himself. On the contrary, he is quite likely to be a revolutionary. For the social scene is one of conflicts, and in reflecting its events and values the contemporary will be taking sides in these conflicts but doing so on terms - of whichever side - laid down by society. The contemporary is a

xlviii Eduardo Mendoza, El enredo de la bolsa y la vida, Barcelona, Seix Barral, 2012, pp. 119-20.

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partisan in the sense of seeing and supporting partial attitudes. […] When writers become engaged in conflicts […] they tend to be «contemporary» rather than «modern».xlix

Pur nella limitazione di essere questa solo una tra le tante possibili formulazioni e per cercare di rispondere alla domanda iniziale, ecco quindi come l’artista diviene contemporaneo. La con- temporaneità attinge a piene mani dalla modernità, crea un continuum culturale e artistico che spinge a innovare forme e a recuperare antichi generi letterari come il romanzo storico, la picare- sca, la narrativa psicologica, il romanzo di cappa e spada, la detective story. Ma poi si avvale anche di strumenti offerti da nuovi contesti come l’interculturalità, la multidisciplinarietà, l’intertestualità, la dimensione metaletteraria, l’ibridismo strutturale, e non esita a piegare nuove e vecchie forme, alla ricerca di nuove possibili letture della società e del mondo in cui vive e ope- ra. Così la pensa anche Pérez-Reverte:

The fact is, all my novels have some historical aspect. For me, history is an instrument, an enigma, a mystery to be resolved, something that when applied to the present allows us to obtain answers to the problems of present-day people. The Fencing Master is a falsely historical novel. Indeed, the action takes place at the end of the last century in Spain, but the problems that it poses are contemporary pro- blems. As with today, 19th-century Spain was a world dominated by money, where everything could be sold and everything could be bought; The Fencing Master is the story of the last honorable man.l

Questo perché l’intellettuale, l’artista e lo scrittore della contemporaneità rifiutano a priori la torre eburnea prodotta dalla letteratura fin de siècle a cavallo del XIX e XX secolo, l’arte fine a se stessa propugnata dal Decadentismo e poi ereditata e cristallizzata dal Modernismo. La realtà multidisciplinare e interculturale che l’artista vive è il libro dal quale attinge la sua conoscenza e forma la sua Weltanschauung, che poi a sua volta trasforma in narrativa, e registra nelle sue opere:

Sí, es verdad, estoy herido por el mundo. Mi vida ha sido una sucesión de haitís... Y de Haití es tan culpable el azar como la estupidez de los hombres... y en mi vida, en mis artículos y en mis libros inten- to ajustar cuentas con el uno y con el otro. Porque a mí me han hecho los libros que he leído y las cosas que he visto. Y los libros me han servido para digerir e interpretar las cosas que he visto. Sin los libros no habría podido sobrevivir personalmente a muchas de esas tragedias que he visto, a Sarajevo del 92, al Beirut del 76, a Eritrea del 77. Esa colección de fotos, de fantasmas, de haitís que tengo en la me- moria, sin esos libros como analgésico, como clave, me habría sublevado, estaría disparando contra la gente. Los libros me han dado cordura. Me han hecho digerir lo indigerible. Sin todos esos libros, estaría perturbado seriamente, sería una persona muy desagradable.li

xlix Stephen Spender, The Struggle of the Modern, cit. p. 77. l Alix Wilber, «The Accidental Author: A Conversation with Arthuro Pérez-Reverte», cit. li Blanca Berasátegui , «En España nos faltó la guillotina: Entrevista con Arturo Pérez-Reverte», El Cultu- ral, 26/02/2010. L’articolo è consultabile online all’URL: .

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Un elemento che accomuna l’opera dei tre autori, e che è aspetto sempre più corrente nell’arte contemporanea, è certamente l’atmosfera di incertezza e ambiguità che contraddistingue l’azione e il pensiero di molti dei loro protagonisti. Cosa ci comunicano, se ci comunicano dav- vero qualcosa, gli innumerevoli riferimenti intertestuali e interculturali ne El club Dumás di Pérez- Reverte? Ed è indubbio che i soldati dei tercios viejos che seguono il capitano Alatriste nella peri- colosa missione veneziana sappiano cosa devono fare, ma non che ne comprendano esattamente il motivo, né perché improvvisamente la missione viene annullata. In Mañana en la batalla piensa en mí di Marías, Víctor Francés crede di avere ricostruito la storia di Marta Téllez, la donna morta tra le sue braccia mentre i due si accingevano a consumare un rapporto sessuale occasionale, ma alla fine della vicenda scopre di aver sempre ignorato i motivi reconditi per capire cosa è accadu- to. Il León de Nápoles sogna o vive la sua travolgente storia di morbosa attrazione per Natalia Manur? O la vive proprio perché la sogna? È impossibile avere certezza di cosa sia esattamente ac- caduto nel caso Savolta narrato da Eduardo Mendoza, proprio a causa dell’inaffidabilità degli atti processuali, delle testimonianze e della memoria di chi racconta. E il suo picaro moderno, il de- tective loco senza nome, può certo offrire una visione stralunata e satirica della Spagna contempo- ranea, esattamente come ha potuto fare l’hidalgo Don Quijote nel romanzo di Cervantes: ma, esattamente come il cavaliere del Siglo de Oro, anche l’improvvisato detective contemporaneo può farlo solo perché è malato di mente, e proprio per questo il suo racconto non è mai del tutto af- fidabile. Così come in Pérez-Reverte il passato in genere e la civiltà del Siglo de Oro sono solo pretesti per raccontare storie che hanno per protagonisti noi tutti; in Marías la Guerra civile e il Franchi- smo non sono argomenti fini a se stessi, ma hanno lo scopo di riflettere soprattutto su disfunzio- ni politiche e sociali della Spagna contemporanea; e i moderni picari e astronauti alieni di Eduardo Mendoza ci fanno divertire e talvolta ridere a crepapelle, ma attraverso queste risate fanno penetrare in noi l’amarezza di percepire che in fondo ci troviamo come gli spettatori de Las meninas di Diego Velázquez: di fronte a uno specchio che in pratica ci restituisce la nostra stessa immagine di uomini e donne della contemporaneità. La soluzione, una possibile soluzione cioè, sembra essere offerta dall’arte, certo non fine a se stessa o elevata a culto del bello e quindi distante dalla società, ma come strumento di indagine e di conoscenza della società, baluardo per la difesa della condizione umana nel mondo attuale. E lo sa bene il detective loco e la sua simpatica e stravagante squadra di statue viventi, versioni moderne e contemporanee di Sherlock Holmes e degli «irregolari di Baker Street», i suoi ragazzini vagabondi che vivono per le strade della Londra Vittoriana aiutandolo nelle investigazioni e nello svelare intrighi e misteri, veri e propri emargi- nati proprio come le statue viventi di Mendoza. Il loco sta comunicando ai suoi «irregolari» che ha perso le speranze di risolvere il caso e preferisce abbandonare, ma Flint il dritto, in un soprassalto di dignità, dichiara che la squadra rifiuta e che l’indagine, e l’avventura, vanno avanti fino in fondo:

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No es por indisciplina. Y menos aún por interés personal. […] Si no queremos abandonar es por otra razón. Por pundonor, en parte. Por curiosidad intelectual, en parte. Pero, sobre todo, porque no somos mercenarios, ni siquiera profesionales. Somos artistas. Nuestras acciones están al margen de coyunturas y tendencias, y nos entregamos a nuestro trabajo sin escatimar sacrificios ni horas ni esfuerzos, sin de- jarnos amedrentar por el calor ni el frío ni la lluvia, incluso torrencial, como la de esta tarde, porque si no lo hiciéramos así, no sólo incurriríamos en absentismo laboral, sino en una grave responsabilidad moral, social y ética. Trabajamos porque el mundo nos necesita. ¿Qué sería del mundo sin artistas? ¿Qué sería de Barcelona sin estatuas vivientes?lii

BIBLIOGRAFIE DI RIFERIMENTO DEI TRE AUTORI:

Per ciascun titolo si riporta la prima edizione ufficiale in lingua spagnola e la prima traduzio- ne ufficiale in lingua italiana, segnalando i titoli ancora inediti.

ARTURO PÉREZ-REVERTE a) Saga del Capitano Alatriste

1. El capitán Alatriste, Madrid, Alfaguara, 1996; Capitano Alatriste, Salani, 2001. 2. Limpieza de sangre, Alfaguara, 1997; Purezza di sangue, Milano, Tropea / Salani, 2002. 3. El sol de Breda, Alfaguara, 1998; Il sole di Breda, Milano, Tropea / Salani, 2002. 4. El oro del rey, Alfaguara, 2000; L’oro del re, Milano, Tropea, 2006. 5. El caballero del jubón amarillo, Alfaguara, 2003; Il cavaliere dal farsetto giallo, Tropea, 2008. 6. Corsarios de Levante, Alfaguara, 2006; Corsari di Levante, Milano, Tropea, 2009. 7. El puente de los asesinos, Alfaguara, 2011; Il ponte degli assassini, Milano, Marco Tropea, 2012. b) Altre opere di narrativa

El húsar, Torrejón de Ardoz, Akal, 1986; L'ussaro, Tropea, 2006. La tabla de Flandes Madrid, Alfaguara, 1990; La tavola fiamminga, Milano, Bompiani, 1994. El maestro de esgrima, Madrid, Mondadori,1988; Il maestro di scherma, Milano, Tropea, 1998. Territorio Comanche, Ollero y Ramos, 1994; Territorio Comanche, Milano, Tropea, 1999. El club Dumás / La sombra de Richelieu, Madrid, Alfaguara, 1993; Milano, Tropea, 1997. La sombra del águila, Madrid, Alfaguara, 1993; L'ombra dell'aquila, Milano, Tropea, 2002. La piel del tambor, Madrid, Alfaguara, 1995; La pelle del tamburo, Milano, Tropea, 1998. La carta esférica, Barcelona, Círculo de Lectores, 2000; La carta sferica, Milano, Tropea, 2000. La Reina del Sur, Madrid, Alfaguara, 2002; La Regina del Sud, Milano, Tropea, 2003.

lii Eduardo Mendoza, El enredo de la bolsa y la vida, cit., pp. 159-60.

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El pintor de batallas, Barcelona, Círculo de Lectores, 2006; Il pittore di battaglie, Milano, Tro- pea, 2007. El asedio, Barcelona, Círculo de Lectores, 2010; Il giocatore occulto, Milano, Tropea, 2010. c) Adattamenti cinematografici tratti da alcune sue opere

Il maestro di scherma, Pedro Olea (1992) La tavola fiamminga, Jim McBride (1994) (Titolo inglese: Uncovered) Cachito, Enrique Urbizu (1995) (dal racconto «Un asunto de honor», inedito in lingua italia- na) Territorio comanche, Gerardo Herrero (1997) ) (inedito in lingua italiana) La nona porta, Roman Polański (1999) (adattamento de El club Dumás) Il destino di un guerriero. Alatriste, Agustín Díaz Yanes (2006) (romanzi del capitano Alatriste) La carta esférica, Imanol Uribe (2007) (inedito in lingua italiana) Quart. El hombre de Roma, Jacobo Rispa (2007) (serie televisiva di Antena 3, tratta da La piel del tambor) ) (inedito in lingua italiana) La reina del sur, (2011) (serie televisiva di Antena 3, inedito in lingua italiana)

JAVIER MARÍAS a) Romanzi

Los dominios del lobo, Barcelona, Edhasa, 1971; I territori del lupo, Torino, Einaudi, 2013. Travesía del horizonte, 1973; Traversare l'orizzonte, Torino, Einaudi, 2005. El monarca del tiempo, Madrid, Alfaguara, 1978. [Inedito in lingua italiana] El siglo, Barcelona, Seix Barral, 1983. [Inedito in lingua italiana] El hombre sentimental, Barcelona, Círculo de Lectores, 1987; L’uomo sentimentale, Torino, Ei- naudi, 2000. Todas las almas, Barcelona, Anagrama, 1989; Tutte le anime, Torino, Einaudi, 1999. Corazón tan blanco, Barcelona, Círculo de Lectores, 1992; Un cuore così bianco, Roma, Donzelli, 1996. Mañana en la batalla piensa en mí, Barcelona, Anagrama, 1994; Domani nella battaglia pensa a me, Torino, Einaudi, 1998. Negra espalda del tiempo, Madrid, Alfaguara, 1998; Nera schiena del tempo, Torino, Einaudi, 2000. Tu rostro mañana, Madrid, Alfaguara, 2002-2007: 1. Fiebre y lanza, (2002); Il tuo volto domani: 1. Febbre e lancia, Torino, Einaudi, 2003. 2. Baile y sueño (2004); Il tuo volto domani: 2. Ballo e sogno, Torino, Einaudi, 2011.

Mario Faraone: Por qué seguimos leyendo... 97

3. Veneno y sombra y adiós (2007); Il tuo volto domani: 3. Veleno, ombra e addio, Torino, Einaudi, 2012. Los enamoramientos, Barcelona, Círculo de Lectores, 2011; Gli innamoramenti, Torino, Einaudi, 2012. b) Raccolte di racconti

Mientras Ellas Duermen, Barcelona, Anagrama, 1990; seconda edizione ampliata, Madrid, Al- faguara, 2000. [Inedito in lingua italiana] Cuando fui mortal, Madrid, Alfaguara, 1996; Quand’ero mortale, Torino, Einaudi, 2001. Mala índole, Barcelona, Plaza & Janés, 1998; Malanimo, Torino, Einaudi, 2001. Los intérpretes de vidas (in appendice all’edizione economica di Veneno y sombra y adiós, 2008) Interpreti di vite, Torino, Einaudi 2011. Mala indole. Cuentos aceptados y aceptables, 2012. [Inedito in lingua italiana] c) Articoli e saggi

Pasiones pasadas, Barcelona, Anagrama, 1991. [Inedito in lingua italiana] Vidas escritas, Madrid, Siruela, 1992; Vite scritte, Torino, Einaudi, 2004. Literatura y Fantasma, Madrid, Siruela, 1993. [Inedito in lingua italiana] Vida del fantasma: Entusiasmos, bromas, reminiscencias y cañones recortados, Madrid, Aguilar, 1995. [Inedito in lingua italiana] Mano de sombra, Madrid, Alfaguara, 1997. [Inedito in lingua italiana] Miramientos, Madrid, Alfaguara, 1997; Sguardi, Reggio Emilia, Mavida, 2010. Seré amado cuando falte, Madrid, Alfaguara, 1999. [Inedito in lingua italiana] Vida del fantasma: Cinco años más tenue, Madrid, Alfaguara, 2000. [Inedito in lingua italiana] Salvajes y sentimentales: letras de fútbol, Madrid, Aguilar, 2000; Selvaggi e sentimentali: parole di calcio, Torino, Einaudi, 2002. A veces un caballero, Madrid, Alfaguara, 2001. [Inedito in lingua italiana] Harán de mí un criminal, Madrid, Alfaguara, 2003; Faranno di me un criminale, Bagno a Ripoli, Passigli, 2007. El oficio de oír llover, Madrid, Alfaguara, 2005. [Inedito in lingua italiana] Donde todo ha sucedido: al salir del cine, Barcelona, Círculo de Lectores, 2005; Dove tutto è acca- duto: all'uscita dal cinema, Bagno a Ripoli, Passigli, 2008. Demasiada nieve alrededor, Madrid, Alfaguara, 2007. [Inedito in lingua italiana] Lo que no vengo a decir, Madrid, Alfaguara, 2009. [Inedito in lingua italiana] Los villanos de la nación. Letras de política y sociedad, Barcelona, Los Libros del Lince, 2010. [Inedito in lingua italiana] Ni se les ocurra disparar, Madrid, Alfaguara, 2011. [Inedito in lingua italiana]

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EDUARDO MENDOZA a) Saga del detective loco

El misterio de la cripta embrujada, Barcelona, Seix Barral, 1979; Il mistero della cripta stregata, tra- duzione di Gianni Guadalupi, Milano, Feltrinelli, 1990. El laberinto de las aceitunas, Barcellona, Seix Barral, 1982 [Inedito in lingua italiana]; Su labirin- tu de sas olias, Nuoro, Papiros, 2011. [Traduzione in lingua sarda] La aventura del tocador de señoras, Barcelona, Seix Barral, 2001; Il tempio delle signore, Milano, Feltrinelli, 2002. El enredo de la bolsa y la vida, Barcelona, Seix Barral, 2012; O la borsa o la vita, Milano, Feltri- nelli, 2013. b) Altre opere di narrativa

La verdad sobre el caso Savolta, Barcelona, Seix Barral, 1975; La verità sul caso Savolta, traduzione di Gianni Guadalupi, Milano, Feltrinelli, 1995. La ciudad de los prodigios, Barcelona, Seix Barral, 1986; La città dei prodigi, Milano, Longanesi, 1987; Firenze e Milano, Giunti, 2009. La isla inaudita, Barcelona, Seix Barral, 1989; L' isola inaudita, Milano, Feltrinelli, 1989. Sin noticias de Gurb, Barcelona, Seix Barral, 1991; Nessuna notizia di Gurb, Milano, Feltrinelli, 1992. El año del diluvio, Barcelona, Seix Barral, 1992; L' anno del diluvio, Genova, Le mani, 1994. Restaurazione, introduzione e traduzione di Cecilia Galzio, Messina, A. Lippolis, 1996. L' incredibile viaggio di Pomponio Flato, Firenze, Giunti, 2008. c) Saggistica

Nueva York, Barcelona, Destino, 1986. Barcelona modernista, Barcelona, Planeta, 1989. Baroja, la contradicción, Barcelona, Omega, 2001. ¿Quién se acuerda de Armando Palacio Valdés?, Barcelona, Galaxia Gutenberg, Círculo de Lecto- res, 2007.

Delegati delle province andaluse all’Assemblea di Ronda (1918). Al centro Blas Infante (da: Juan An- tonio Lacombra, Blas Infante, La forja de un ideal andaluz, Fundación Blas Infante, Sevilla 1983)

DOSSIER: BLAS INFANTE, ANDALUSISMO, FLAMENCHISMO

A CURA DI GIANNI FERRACUTI

«La musica con cui vengono cantati questi romances è ancora un ricordo mo- resco. Solo in pochissimi paesi delle montagne di Ronda o delle terre di Medina e Jerez si conserva questa tradizione araba, che pian piano si va estinguendo e sparirà per sempre. La mancanza di comunicazione che caratterizza questi paesi di montagna e il fatto che vi si trovano famiglie conosciute come discendenti di moriscos spiegano la conservazione di questi ricordi». (Serafín Estébanez Calderón)

L’AUTONOMISMO ANDALUSO E BLAS INFANTE GIANNI FERRACUTI

L’esistenza di una cultura andalusa, differenziata rispetto alla castigliana, alla catalana, o alla gagliega, è oggi normalmente accettata, sia che la si prenda a fondamento di una rivendicazione autonomista o separatista, sia che la si consideri nel quadro unitario della tradizione spagnola. Però la sua riscoperta, o la sua definizione, è avvenuta attraverso un processo lungo e molto complesso, in parte influenzato da fattori, per così dire, esterni (come il romanticismo, con la sua rivalutazione delle tradizioni popolari, o la polemica contro le politiche centraliste, con la sua ri- vendicazione di autonomia regionale o provinciale), e in parte da fattori interni, come il recupero di una memoria storica perduta, o rimossa. La tradizione andalusa, nei suoi aspetti storici, e non nelle mitologie, è nata prima ancora che esistesse la Spagna - quindi prima ancora che l’Andalusia fosse una parte della Spagna - e, fino a tempi piuttosto recenti, ha trovato nella Spa- gna un interlocutore ostile. Così, il processo di formazione di ciò che possiamo intendere oggi per cultura andalusa ha attraversato fasi e problemi che non trovano sempre riscontro nei casi analoghi di recupero delle identità tradizionali. Basti pensare che la nostra idea attuale dell’Andalusia nasce da una riflessione avviata nel Settecento, sotto la spinta di una visione del

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mondo - l’illuminismo - che in teoria sarebbe la meno adatta alla comprensione delle tradizioni popolari. Come chiarirò tra breve, non intendo l’identità come la costruzione di un’immagine statica e immutabile, e se parlo di tradizione andalusa o cultura andalusa non è per darne una definizio- ne, ma per seguirne la storia e per trovare le ragioni storiche degli eventi; tuttavia, ciascuna per- sona può essere consapevole o inconsapevole del passato del paese in cui nasce, e non si tratta di una differenza da poco. Poi, avendone consapevolezza, niente e nessuno la obbliga ad adeguarsi agli stili di vita che si presumono tradizionali. Anche il recupero della memoria e la ricostruzione (o costruzione) dell’identità tradizionale hanno una storia, e sostanzialmente è di questa che mi occupo. Nel processo di formazione dell’idea odierna dell’Andalusia ci sono alcuni momenti significa- tivi, di cui anticipo un semplice elenco: 1. la rottura della solidarietà con Madrid, con la Spagna ufficiale (ammesso che sia mai esistita pienamente): non da parte di formazioni banditesche organizzate o nuclei di guerriglia, ma da parte di esponenti (soprattutto politici) della legalità; 2. il radicamento del pensiero autonomista; 3. la trasformazione dell’autonomismo in andalusismo; 4. la riscoperta andalusista di un passato che, progressivamente, si estende fino all’al-Ándalus musulmana, a quella Spagna delle tre culture, la cui esistenza politica e istituzionale cessa con la caduta del regno di Granada nel 1492. In questo contesto acquista un rilievo importante il dibattito sulle origini del flamenco, per due ragioni fondamentali: anzitutto, perché, nella seconda metà dell’Ottocento, il flamenco risul- ta essere il più appariscente elemento differenziatore della cultura andalusa rispetto al resto della Spagna; poi perché la lunga gestazione del flamenco permette di affermare una ininterrotta con- tinuità culturale tra l’Andalusia del presente e quella precedente la riconquista (o conquista, come si diceva senza ipocrisie nel XVI secolo) castigliana.

AUTONOMISMO, ANDALUSISMO, NAZIONALISMO

Come ha precisato Ortega y Gasset, federalismo indica un progetto politico nel quale alcuni stati sovrani convengono di dar vita a un organismo unitario, la federazione, mediante la cessio- ne di quote di sovranità: la federazione - il governo federale - sarebbe dunque un’entità nuova che si aggiunge alle preesistenti; invece autonomismo è un termine per indicare il processo in base al quale uno stato sovrano, già esistente, devolve quote di sovranità ad alcune sue parti (regioni, provincie). Di fatto, se ci si concentra sul risultato finale, cambia poco: in entrambi i casi si ha un governo centrale con un minimo di competenze, ed entità periferiche con il massimo di auto- nomia possibile. Ora, nel caso della Spagna è evidente che uno stato sovrano esiste già, e dunque

Gianni Ferracuti: L’autonomismo andaluso... 103

tutte le tendenze anticentraliste non possono che rientrare nell’autonomismo o in un progetto di secessione.i Bisogna poi distinguere tra autonomismo e andalusismo. La cessione del potere decisionale dal centro alla periferia può essere un fatto meramente amministrativo, o una semplice questione di organizzazione; oppure è possibile che la periferia, ad esempio una regione, oltre a richiedere competenze e poteri decisionali sul suo territorio, rivendichi anche una propria personalità cul- turale, una tradizione ben definita e diversa da quella di altre regioni o del centro del paese; in questo caso l’autonomia si pone al servizio di questa tradizione culturale, che vuole salvaguardare e potenziare. Andalusismo è appunto l’integrazione della rivendicazione autonomista in una concezione della tradizione andalusa come cultura completa, vigente, ed espressione di un popo- lo che rivendica sovranità. Com’è evidente, i due termini non sono equivalenti: uno potrebbe essere autonomista e ritenere insopportabile il flamenco, mentre non è possibile essere andalusi- sta e rinunciare all’autonomia decisionale in materia di lingua, istruzione, difesa della cultura popolare e sovranità sul territorio. Nelle fonti, e anche nella letteratura critica, il concetto di andalusismo è legato spesso all’ambiguo termine nazione: si parla di nazione andalusa anche nell’opera di pensatori importanti, come Blas Infante. In questo caso l’equivoco nasce, in buona misura, dal proiettare su testi di fi- ne Ottocento e primo Novecento un’idea di nazionalismo che si forma nei decenni successivi. Il cosiddetto nazionalismo andaluso non ha nulla in comune con i nazionalismi europei, a parte il nome. Si tratta di una realtà politica collocata all’estrema sinistra, in rapporto con i partiti socia- listi, l’anarchismo e il pensiero repubblicano, mentre i coevi nazionalismi europei vanno a collo- carsi all’estrema destra e teorizzano uno stato centralista e fortemente autoritario. Un’espressione come «nazione andalusa» fa riferimento alla terra e alla cultura dell’Andalusia come luogo in cui si nasce. Si nasce in un paese che ha una storia, una memoria storica, una mitologia, un folclore, un sapere organico, un sistema di credenze, una lingua, e si apprende il tutto nell’educazione, si adottano gli stili di vita proposti dalla tradizione. Nulla di tutto questo è automatico: dalla tradi- zione ci si può staccare, o si può aderire ad essa provenendo da un’altra cultura, ma nella maggior parte dei casi è normale che la nascita sia l’inserimento nella cultura che diventerà la propria, so- lidale o affine alla cultura delle altre persone che vivono nello stesso territorio, pur essendo in- terpretata attraverso il filtro della propria personalità. Questo è il significato del termine nazione, in riferimento all’andalusismo. In questo contesto, lo studio della patria andalusa e della sua tradizione culturale spinge a evidenziare alcuni elementi caratteristici e fattori che, essendo presenti con una relativa costanza nella storia della regione, ne definirebbero il carattere o potrebbero delineare il tipo andaluso idea- le. Si tratta di ciò che si potrebbe chiamare «teoria dell’Andalusia» (un titolo effettivamente usato in un saggio di Ortega), come tentativo di descrivere l’identità andalusa. Farò tra breve alcune

i José Ortega y Gasset, «Federalismo y autonomismo», in Rectificación de la república, Obras completas vol. IV, Taurus, Madrid 2004, pp. 831-36.

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precisazioni sul concetto di identità, spesso usato in modo equivoco; al momento mi interessa precisare un altro termine legato appunto alla ricerca dell’andaluso ideale. Questi esercizi di teo- ria dell’Andalusia sono spesso liquidati, nella letteratura critica, come inaccettabile essenzialismo: si ritiene, cioè, che il sottinteso di una costruzione teorica dell’Andalusia ideale o autentica sia l’esistenza di una sorta di essenza metafisica e metastorica, che caratterizzerebbe un popolo, in- combendo su di lui come un destino inevitabile, una vocazione, una missione da compiere. Que- sto essenzialismo si trova (ammesso che si trovi) nel pensiero romantico, quando si parla di spiri- to dei popoli o genio delle nazioni; fuori dal romanticismo, e particolarmente in epoca moderni- sta, non esiste più. Ogni tradizione culturale nasce e si trasforma nella storia - e d’altro canto, se anche esistesse un’idea divina o platonica o un’essenza dell’andaluso, fuori dal tempo e dallo spa- zio, noi non potremmo mai averne conoscenza diretta: potremmo solo affermarla o negarla per fede cieca, rendendola così una nozione inutile. Questo però non implica affatto l’impossibilità di elaborare una teoria dell’Andalusia. Senza intervento di essenze metafisiche, piaccia o non piaccia, un popolo non può cambiare radicalmente qui ed ora tutte le sue forme di vita. Può cambiare di molto, ma nell’arco di tempi lunghi, attraverso lente trasformazioni che debbono essere assorbite e fatte proprie dal corpo so- ciale. Piaccia o non piaccia, l’inserimento dell’individuo in una tradizione culturale non forma solo le sue idee, il suo modo di vedere il mondo, ma contribuisce anche alla formazione del ca- rattere e alla trasmissione di stili di vita e modelli di comportamento che, visti con l’occhio del sociologo, possono evidenziare tratti costanti, marcate tendenze psicologiche, e tipi umani: non un’identità metastorica a priori, bensì, a posteriori, la storia di un’identità, dalla sua formazione iniziale, alla sua maturazione, al suo sviluppo fino al momento presente. Intesa in questo senso, e senza metafisica, è perfettamente possibile una teoria dell’Andalusia: negarlo equivarrebbe a ri- cadere nel vecchio razionalismo astratto e nell’individualismo, incapace di valorizzare realtà im- materiali come la cultura e l’appartenenza a una comunità dotata di un suo profilo. E, in defini- tiva, il fatto che non esistano le essenze metafisiche non ha alcuna influenza sull’esistenza dei progetti e degli ideali: una teoria dell’Andalusia potrebbe anche essere una proposta per il futuro, elaborata sulla scorta della propria storia. Anche il termine identità deve essere chiarito, data la sua estrema ambiguità. L’identità non è una realtà statica, e non ha senso dare un elenco di caratteristiche e fattori immutabili che la de- scrivono. Al contrario, si tratta di una realtà dinamica, vivente, della quale sottolineo due caratte- ristiche: la continuità storica e la sovranità di decidere chi si vuole essere. Analogamente a ciò che avviene alla persona umana, i popoli cambiano nel tempo. Ciascuno di noi oggi è molto diverso da quando era bambino, ma la continuità fa sì che, volgendoci indie- tro, ci riconosciamo: riconosciamo la continuità della nostra vita e le ragioni che ci hanno indot- to a compiere delle scelte, che, insieme alla nostra volontà, ci hanno determinato il carattere. Il «chi siamo ora» rappresenta la fase attuale di un percorso unitario, che da un lato è un risultato del passato, dall’altro è il punto di partenza verso l’inedito. Ripeto spesso un esempio che mi sembra chiarificatore: l’adesione alla religione cristiana ortodossa è un tratto caratteristico dell’identità del cittadino della Serbia: lo è, grazie al fatto che i serbi, in un certo periodo storico,

Gianni Ferracuti: L’autonomismo andaluso... 105

hanno avuto la sovranità di cambiare la loro identità precedente (pagana), costruendosi un altro pro- getto e scegliendo un nuovo cammino; altri popoli slavi, con lo stesso esercizio di sovranità, si sono costruiti un’identità cattolico-romana. La stessa cosa vale per qualunque popolo: si ha un’identità, una tradizione, perché si ha il potere di costruirla o sceglierla. Se questa sovranità, di cui godevano i nostri antenati, viene negata a noi, condannati, quasi, a ripetere la loro cultura senza nulla innovare, allora si ha una tradizione castrata, impotente, amputata della creatività: una condizione che non si chiama «tradizione», ma conservatorismo - l’esempio più chiaro del quale sono i popoli cosiddetti «primitivi».ii

QUANDO CI SI ACCORGE DI AVERE UN’IDENTITÀ?

Evidentemente non è mai esistito un periodo nel quale il cittadino andaluso non sapesse di essere andaluso; il problema è: che valore dava a questa sua origine regionale? Un sivigliano del XVII secolo era soltanto uno spagnolo nato a Siviglia? Prendo come esempio di una maniera di intendere l’origine dall’autonomismo andaluso il saggio, peraltro di buona fattura, di Antonio Luis Cortés Peña, El último nacionalismo: Andalucía y su historia, secondo cui una prima definizione della coscienza collettiva andalusa avviene per in- fluenza dell’immagine che della regione diffondevano i viaggiatori romantici europei del XIX sec. Scrive: questa immagine «fungeva da specchio in cui molti andalusi cominciarono a contemplarsi come un popolo con caratteristiche definitorie originali».iii Però, a dire il vero, se uno si riconosce in un ritrat- to, vuol dire che constata la corrispondenza tra la descrizione e la sua realtà, che conosce già (e che peraltro era già ampiamente descritta nella tradizione letteraria del costumbrismo).iv Diversa- mente non potrebbe riconoscersi. Sarei, perciò, portato a distinguere tre realtà diverse:

ii Cfr. Gianni Ferracuti, «Identità personale, identità culturale ed equivoco tradizionalista in Ortega», in Aa. Vv., Le due sponde del Mediterraneo: l'immagine riflessa, Edizioni dell'Università di Trieste 1999, pp. 169- 240. iii Antonio Luis Cortés Peña, «El último nacionalismo: Andalucía y su historia», in Manuscrits, n. 12, 1994, pp. 213-43, p. 216. iv In letteratura e in pittura il costumbrismo, iniziato alla fine del Settecento e diffuso nella prima metà dell’Ottocento, presta attenzione ai costumi tipici dell'Andalusia: amore, gioia di vivere, libertinaggio, pro- stituzione e miseria, ritratti di toreri, gitani, contrabbandieri. Più che un fenomeno influenzato dal roman- ticismo (il costumbrismo ha inizio in epoca precedente e, per certi versi, comprende anche l’opera di Goya), influenza esso stesso la visione romantica della Spagna, accentuando gli aspetti pittoreschi e folclorici. Con il tempo, questo filone degenera e diventa ripetitivo, ma nel frattempo le tradizioni andaluse sono diventa- te oggetto di studi seri e su base scientifica: nella seconda metà dell’Ottocento, identificare la cultura anda- lusa con gli stereotipi descritti nel costumbrismo sarebbe stato indice di un’analisi non aggiornata. L'idea di una peculiarità della cultura e dell'anima andaluse era già pienamente formata in epoca barocca (natu- ralmente ciò non significa che l'immagine della regione fosse pienamente corrispondente alla realtà dei fat- ti), e costituisce la base su cui poggiano in seguito testi come i Racconti dell'Alhambra, di Washington Irving,

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a) il modo in cui sono, di fatto, gli andalusi, ovvero le caratteristiche della loro cultura; b) il momento in cui si accorgono che tale cultura è diversa da quella di altre re- gioni spagnole (questo, probabilmente, lo vedono da sempre); c) il momento in cui questa diversità va ad alimentare un progetto politico andalusi- sta.

Su questo ultimo punto farei un’ulteriore specificazione. La percezione di una diversità anda- lusa alimenta immediatamente un progetto andalusista? Guardando la storia della regione, riten- go di no, e penso che si possano distinguere due fasi:

1) la differenza andalusa si esprime all’interno di categorie politiche nazionali, o anche, più genericamente, europee; ad esempio, la maggior presenza in Andalusia del pensiero illuminista (di minore rilievo nel resto della Spagna), o il maggior radi- camento del suo liberalismo, come indice di una diversa sensibilità, alimentata pro- prio dalla tradizione storica della regione; 2) la successiva trasformazione di questa sensibilità in istanza andalusista, sia perché illuminismo e liberalismo sono duramente repressi dalla monarchia assoluti- sta, sia per l’influenza del romanticismo e della sua rivalutazione delle tradizioni po- polari e delle piccole «nazionalità», sia per la progressiva degenerazione dello stato centralista.

In questa prospettiva si dovrebbe dire che l’autonomismo e l’andalusismo, relativamente re- centi, sono il prodotto di un’identità molto più antica: una tradizione che tenta di riprendere in mano il suo destino e di riaffermarsi nei tratti culturali che riconosce (o progetta) come propri. Quando questo avviene, a partire dalla rivoluzione liberale del 1868, l’Andalusia rivendica il suo intero passato e riscopre l’importanza del periodo arabo di al-Ándalus, concluso nel 1492 con l’occupazione del regno di Granada ad opera delle truppe castigliane dei re cattolici. Occorre chiedersi se questo richiamo ad al-Ándalus (ovvero epoca andalusí) sia una sorta di mito fondativo, o se invece esista un effettivo legame o una continuità storica (ripeto: continuità, non identità) con l’Andalusia moderna. Per rispondere a questa domanda occorre analizzare dati culturali molto complessi. Scrive ancora Cortés Peña:

o i racconti di Théophile Gautier. Personaggi come la Carmen di Prosper Merimée (base dell'opera di Bi- zet) presentano caratteristiche che si trovavano già in opere come La Lozana andaluza di Francisco Delicado o La gitanilla di Cervantes. Tenendo conto di questa complessa tradizione letteraria, risulta poco probabile che l’identità andalusa si sia modellata sull’immagine di viaggiatori romantici stranieri. Nella storia della regione non si trova un solo decennio in cui l’Andalusia non abbia caratteristiche peculiari che la differen- ziano dalle altre regioni spagnole.

Gianni Ferracuti: L’autonomismo andaluso... 107

Nella formazione dell’Andalusia storica [...] rientra anche l’eredità andalusí, anche se la cosa essenzia- le e determinante sarebbero stati gli ingredienti apportati dai castigliani conquistatori, che crearono una comunità incorniciata dentro le coordinate della società europea dell’epoca.v

A questa affermazione si possono fare alcune osservazioni. In primo luogo, essa descrive, nella sostanza, un processo di colonizzazione subito dall’Andalusia, cosa che normalmente non avviene senza resistenze: incorniciare dentro la cultura europea una società che ne vive fuori - per sua libe- ra scelta. In effetti, resistenze vi furono - altrimenti non avrebbe avuto senso l’espulsione dei mori- scos nel 1609 - e durarono almeno fino alla metà del secolo,vi perché l’esodo dei moriscos non si realizzò in una settimana. In secondo luogo, queste «coordinate della società europea» sono abbastanza difficili da indivi- duare nello specifico spagnolo e andaluso. La conquista del regno di Granada avviene nel 1492: in che misura la Spagna del Cinquecento e del Seicento è dentro le coordinate culturali dell’Europa? In Europa non si verifica la pulizia etnica che ha per oggetto prima gli ebrei, espulsi nel 1492, poi gli alumbrados (catalogati in massa come protestanti), infine i moriscos (formalmente ex-musulmani cristianizzati); né vi è traccia del conflitto tra cristianos viejos e cristianos nuevos, né mi sembra possibile assimilare alle coeve esperienze europee il ruolo dell’inquisizione, né la mi- stica della nobiltà di sangue, che assume i connotati di un vero e proprio razzismo con gli estatu- tos de limpieza de sangre. Ciò che la Castiglia introduce in Andalusia è un’azione di costante di- struzione della cultura locale, compresa la distruzione dei monumenti architettonici, nel tentati- vo di un vero e proprio genocidio culturale. Il problema è sapere fino a che profondità quest’azione corrosiva penetra nella cultura popolare.vii In terzo luogo, ci si dovrebbe chiedere se l’Andalusia, per le caratteristiche della sua tradizione culturale, non fosse già molto più «europea» di quanto non lo fosse la stessa Castiglia - per non parlare della sua connessione con il mondo mediterraneo. Se si osservano le culture popolari e gli stili di vita comuni, è difficile non notare differenze profonde tra la Spagna del centro-nord e quella mediterranea: la condizione della donna, la sua possibilità di intraprendere attività com-

v A. L. Cortés Peña, El último nacionalismo: Andalucía y su historia, cit., p. 236. vi Ad esempio, nel 1641 si ha una cospirazione indipendentista in Andalusia, con a capo il duca di Me- dina Sidonia, che viene scoperta prima che i cospiratori entrassero in azione. vii Cfr. G. Ferracuti, L’amor scortese: fanatismo, pulizia etnica, trasgressione nell’epoca dei re cosiddetti cattolici, La Goliardica, Trieste 1998 (disponibile anche in edizione digitale all’indirizzo: ). Su al-Ándalus, la caduta del regno di Granada e la repressione dei moriscos cfr. G. Ferracuti, al-Ándalus / Andalucía: la Spagna delle tre culture (ovvero: teoria e forme delle altre Spagne), in «Mediterránea», 7/2009, pp. 9- 82 (). Il nome alumbrados indica una varietà di forme di cri- stianesimo popolare, devozionale, marcatamente erasmista, con una certa tendenza mistica, che l’inquisizione assimila a forme di protestantesimo e reprime duramente. Non è estranea a questa repres- sione la forte presenza di convertiti tra i praticanti di queste devozioni. Cfr. Antonio Márquez, Los alum- brados: orígenes y filosofía (1525-1559), Taurus, Madrid 1980; Marcel Bataillon, Erasmo y España, Fondo de Cultura Económica, México 1950.

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merciali, la vita sociale diurna e notturna delle città andaluse, ben descritte dai viaggiatori del Cinquecento, non sono affatto il risultato della colonizzazione castigliana, ma esattamente lo stile di vita che il bigottismo castigliano cerca di sradicare. In ogni caso è certo che la cultura ufficiale, elaborata dal governo centralista di Madrid, alimenta un’immagine della Spagna depurata dagli elementi prettamente andalusi e normalizzata. Fino a che punto questa immagine incide nel mo- do d’essere, nel carattere tradizionale, della gente della regione? Certamente incide, ma non al punto di cancellare la memoria del passato. Può essere interes- sante, come mero esempio, la segnalazione di Demetrio E. Brisset Martín, circa la persistenza an- che nell’attualità di feste, di origine musulmana, dette zambra:

Attualmente ciò che si considera eredità diretta degli ispano-musulmani è la musica andalusí (quale si è conservata nel Nord-Africa) e le zambras (ad opera delle famiglie gitane). Anche se per zambra si conoscono certe cuevas con una o più stanze, dalle pareti imbiancate con vasi di rame scuro e cerami- ca locale, dove si offrono bevande, canto e ballo accompagnati dalla chitarra, per il dizionario della Real Academia Española la parola deriva dall’arabo samra, «festa notturna, veglia», e viene descritta come «Festa tipica dei moriscos con grida, allegria e ballo (...) Festa simile dei gitani dell’Andalusia». Essendo nota l’abitudine al nomadismo del popolo gitano, da quando a metà del XV secolo comincia- rono ad arrivare in Andalusia le grandi famiglie dei «conti del piccolo Egitto», non risulta fuori luogo supporre che si unissero a loro molti moriscos che si dedicavano a mestieri come mulattieri, trasporta- tori, fabbri, stagnini, che permettevano loro una mobilità adeguata a sfuggire al crescente controllo e agli ordini di espulsione. Così, nelle carovane di gitani e moriscos si sarebbe perpetuata l’arte musicale ispano-musulmana nella sua versione popolare, dando origine al flamenco tramite la confluenza con le tradizioni dei gitani.viii

L’autore sottolinea, con apparente stupore, che queste feste erano illegali, essendo state proi- bite dalle leggi dell’epoca:

Risulta difficile capire l’odio suscitato dal divertimento della zambra. In una pragmatica del 1566, Fe- lipe II si oppone ai tratti culturali differenziali dei suoi vassalli moriscos, tra l’altro con proibizioni quali: «Che nelle nozze, veglie e feste simili seguano i costumi cristiani aprendo finestre e porte senza fare zambras né leilas con strumenti e canti moreschi anche se questi non fossero contrari al cristiane- simo». E perché nessuno lo dimenticasse, per moltissimi anni è stato pubblicato nelle chiese spagnole, dopo la messa della terza domenica di quaresima, l’Editto delle delazioni della santa inquisizione, con- tenente come motivo di denuncia, tra gli altri, che «qualcuno si sia sposato con rito o usanze di mori. O che abbia cantato canti di mori, o fatto zambras o leylas con strumenti proibiti». E nonostante tutto le zambras hanno continuato ad esistere.ix

viii «Las fiestas de la Granada musulmana. Análisis de las fiestas de Granada, 5», in Gazeta de Antropolo- gía, 5, 1987, . Le cuevas erano grotte, trasformate poi in abitazioni e in locali pubblici dai gitani; tutt’ora visibili nei dintorni di Granada e in al- tre località, sono diventate abitazioni, a volte di lusso, e locali alla moda. ix ibidem.

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Personalmente non ho alcuna difficoltà a capire questo odio verso i «tratti differenziali dei vas- salli moriscos», che mi sembra molto coerente con il progetto fanatico avviato dai re cattolici, e l’utilizzo della religione cristiana come strumento identitario nazionale, per rendere effettiva l’unione dinastica tra Castiglia e Aragón. Probabilmente, Felipe II non voleva avere vassalli mori- scos.x

L’ANDALUSIA ILLUMINISTA E LIBERALE

Nel XVIII, nell’Andalusia «normalizzata» e «depurata» dalle sue componenti eterodosse (ebrei, moriscos e alumbrados), dopo un paio di secoli di politica della limpieza de sangre, la diversa sensibi- lità della cultura regionale si manifesta nella buona diffusione del pensiero illuminista, in forma più consistente rispetto al resto della Spagna. Si tratta - è vero - di un fenomeno elitario, sia per la natura stessa dell’illuminismo, sia per la massiccia diffusione dell’analfabetismo nelle fasce sociali più basse della regione. Alla fine del Seicento viene costituita un’associazione, la Sociedad Regia Filosófica y Médica de Sevilla (poi Regia Sociedad de Medicina y demás Ciencias), cui seguiranno la Real Academia Sevillana de Buenas Letras, la Real Escuela de las Tres Nobles Artes, e altre iniziative analo- ghe, ispirate alle idee illuministe. Delle 108 accademie fondate nel paese, 33 sono in Andalusia, peraltro in buona parte per iniziativa di cattolici. Questo embrionale illuminismo porta alla diffusione della cultura e della lingua francese co- me segno di modernità, ed è in Andalusia che nasce il primo partito filo-francese di Spagna. In questo quadro, Justino Matute presenta nell’Academia de los Horacianos la sua Memoria de la escue- la poética arábigo-sevillana (1793).xi Disgraziatamente, l’invasione della Spagna da parte delle truppe francesi, allo scopo di mette- re sul trono Giuseppe Bonaparte, crea una frattura nell’illuminismo andaluso, separando quanti sono favorevoli all’occupazione da quanti, pur essendo illuministi, difendono l’indipendenza del- la nazione, come Blanco White. Di fatto, nessuno dei due gruppi avrà vita facile, con il ritorno della monarchia assoluta.xii Nel corso del Settecento, la politica centralista della dinastia borbonica porta alla cancellazio- ne delle istituzioni autonome locali; tuttavia, nel contesto di un ampio programma di riforme so- ciali, economiche e del sistema educativo, ispirate ai valori illuministi, in Andalusia viene attuato

x Su ciò cfr. G. Ferracuti, L’amor scortese..., cit. La leila è un’antica festa con ballo notturna dei moriscos. xi Justino Matute y Gaviria (1764-1830) fonda l’Academia de los Horacianos e, successivamente, l’Academia Particular de Letras Humanas. Fu filofrancese, cosa che gli costò il carcere, ed ebbe problemi con l’inquisizione. Cfr. José Vázquez y Ruiz, Biografía del erudito sevillano Don Justino Matute y Gaviria y noticia de sus obras literarias, Madrid 1888; Rafael Rodríguez Gómez, Del viejo arrabal: Justino Matute editor de periódicos, . xii Cfr. Vicente Llorens, Liberales y Románticos. Una emigración española en Inglaterra, 1823-1834, Castalia, Madrid 2006.

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un progetto di riorganizzazione e ripopolazione di vaste aree (Nuevas Poblaciones), sotto la direzio- ne di Pablo de Olavide:xiii ciò comporta un certo miglioramento delle condizioni economiche del- la regione che, almeno nella parte più benestante della popolazione, favorisce una maggiore par- tecipazione alla vita politica. È verosimile pensare che i germi seminati nel periodo illuminista diano come frutto la notevole diffusione del pensiero liberale nel secolo successivo, con la sua politica autonomista e antiassolutista. Le Nuevas Poblaciones di Andalusia e Sierra Morena, create nel 1767, costituirono la quinta provincia andalusa fino alla soppressione nel 1813. Il progetto era stato elaborato da Campoma- nes, e la sua realizzazione affidata a Olavide. Si mirava a popolare vasti territori disabitati, per fa- vorire la sicurezza nei movimenti delle persone e delle mercanzie, minacciati dalla diffusione del banditismo. Personaggio piuttosto ambiguo e irregolare, Pablo de Olavide (Pablo Antonio José de Olavide y Jáuregui, 1725-1803) era nato a Lima, città che aveva lasciato, insieme a una certa quantità di debiti, per recarsi in Spagna. Qui, dopo varie vicissitudini, che suscitano anche l’interesse dell’inquisizione, ha una buona carriera politica nel bando illuminista, stroncata dall’inquisizione, che lo arresta nel 1776. Condannato a 8 anni di reclusione in un convento, con la proibizione di leggere libri profani, riesce a fuggire in Francia, dove viene protetto da Di- derot e Voltaire. Torna in Spagna, grazie a un’amnistia, solo nel 1798. All’inizio dell’Ottocento, l’Andalusia contribuisce efficacemente alla guerra di indipendenza contro le truppe francesi che avevano invaso la Spagna. La prima sconfitta dei francesi avviene in terra andalusa, nella battaglia di Bailén. A seguito dell’invasione, il governo spagnolo si rifugia in Andalusia, e vengono convocate a Cadice le Cortes che il 19 marzo 1812 proclamano la prima Costituzione liberale della storia di Spagna, volgarmente chiamata La Pepa. La Costituzione viene giurata dal re Fernando VII, ma questi, una volta tornato a Madrid e scampato il pericolo france- se, compie una decisa svolta in senso assolutista, rinnegando tutti gli impegni presi con i liberali. Con le Cortes di Cadice si costituisce in forma organizzata il movimento liberale spagnolo, che ha caratteristiche particolari, non sempre adeguatamente messe in evidenza dalla storiogra- fia.xiv

xiii Adolfo Hamer, La Intendencia de las Nuevas Poblaciones de Sierra Morena y Andalucía, 1784-1835. Go- bierno y administración de un territorio foral a fines de la Edad Moderna, Universidad de Córdoba y CajaSur Pu- blicaciones, Córdoba 2009. xiv Ad esempio, la voce liberalismo dell’Enciclopedia Treccani, almeno nell’edizione online, cita Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia, Stati Uniti, ma non la Spagna. La cosa è singolare, visto che gli spagnoli rivendicano il merito di aver coniato il termine liberal: esso compare già nel 1280, con il significato di tolle- rante, generoso; nel senso moderno viene usato per la prima volta a Cadice nel 1810, in documenti prepa- ratori della Costituzione, per poi passare alla Francia e all’Inghilterra, secondo eruditi come Antonio Alca- lá Galiano (Cfr. Francisco Arias Solís, La palabra liberal, in ; José Luis Abellán, Historia crítica del pensamiento español: Liberalismo y ro- manticismo, Espasa-Calpe, Madrid 1979, pp. 56, 354. Cfr. anche Miguel Artola (ed.), Las Cortes de Cádiz, Marcial Pons, Madrid 2003). All’indirizzo è

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Con la svolta assolutista di Fernando VII, si apre un periodo di sei anni detto sexenio absoluti- sta, durante il quale la resistenza liberale in Andalusia è molto accanita. Il regno di Fernando VII è abitualmente diviso in tre periodi: il sexenio absolutista, il trienio libe- ral, e la década ominosa. La prima fase assolutista si conclude quando, il 1 gennaio 1820, il tenente colonnello Rafael de Riego fa un pronunciamiento, proclamando la restaurazione della Costituzio- ne del 1812 (la Pepa) e del regime costituzionale. Il golpe, dopo un tiepido appoggio iniziale, vede crescere il consenso del paese, ma il triennio liberale 1820-23 non è un periodo di stabilità, so- prattutto per le divisioni interne del fronte liberale, verosimilmente alimentate dal re, che aspira al ritorno all’assolutismo. Le elezioni del 1822 vedono la vittoria della fazione più radicale tra i liberali nelle nuove Cortes, presiedute da Riego. Il re tenta di parare il colpo istigando la ribel- lione della Guardia Real, neutralizzata dopo aspri scontri a Madrid. Questo tentativo provoca un’ulteriore radicalizzazione del governo liberale, che a sua volta alimenta una reazione filomo- narchica e la formazione di bande armate controrivoluzionarie. Tuttavia il governo liberale, le cui riforme sono peraltro piuttosto timide, non viene abbattuto da una crisi interna, bensì da una nuova invasione: nel 1823, su decisione della Santa Alleanza (Prussia, Austria, Russia e Francia) la Spagna viene invasa da circa 100.000 soldati dell’esercito francese, definiti per l’occasione «centomila figli di San Luigi», che attraversano i Pirenei senza incontrare resistenze significative. Il governo, con il re sostanzialmente preso in ostaggio, si rifugia ancora a Cadice, che viene asse- diata fino agli accordi di resa, in base ai quali Fernando si impegna a rispettare la Costituzione. L’impegno, ancora una volta, non viene mantenuto, e il re restaura l’assolutismo (década ominosa, 1823-33). I liberali vengono epurati o giustiziati; molti scelgono l’esilio. Lo stesso Riego viene impiccato il 7 novembre 1823 a Madrid. Alla morte di Fernando, il liberalismo andaluso riprende forza e, nella guerra civile per la suc- cessione tra la regina designata, Isabel II, e il pretendente don Carlos, si schiera contro il bando carlista che, pur essendo fortemente ostile all’assolutismo, ha un profondo radicamento nel cat- tolicesimo popolare e, quindi, una marcata ostilità verso il laicismo liberale.xv L’autonomismo li- berale approfitta comunque della crisi del governo centrale e avvia la costituzione di giunte auto- nome provinciali, che nel 1835 si confederano nella Junta Suprema de Andalucía, schierata a soste- gno di una nuova costituzione (Andújar, 2 settembre 1835). La Junta Suprema organizza un eserci-

disponibile il testo della Costituzione del 1812, che definisce il governo della Spagna come una «monarchia moderata ereditaria» (art. 14). Non si può dire che sia molto spinta in direzione dell’autonomismo: su questo terreno era molto più avanzato il carlismo (a dispetto della sua fama, abbastanza immeritata, di movimento reazionario). xv Prima guerra carlista, 1833-1840; si conclude con un trattato siglato a Vergara nel 1839 tra il generale Espartero (Joaquín Baldomero Fernández-Espartero Álvarez de Toro) per la fazione isabellina, e il generale carlista Rafael Maroto Yserns, che viene sconfessato dai suoi: Ramón Cabrera y Griñó, il generale che in- sieme a Maroto aveva guidato le truppe carliste, denuncia l’accordo come tradimento e continua la guerra resistendo per un altro anno.

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to di circa 30.000 effettivi, in funzione anticarlista, e il movimiento juntero ottiene importanti suc- cessi politici immediati, ma sul medio periodo i cambiamenti non sono rilevanti. Questo movimiento juntero rappresenta un indubbio salto di qualità rispetto al pallido auto- nomismo della Costituzione del 1812, che lasciava il monopolio della legislazione nelle mani del re e delle Cortes, non prevedendo alcun limite effettivo ai poteri del governo centrale. In realtà, intorno alla metà del secolo è proprio l’anticentralismo la questione politica più dirimente: è il tema su cui il partito liberale va a giocarsi tutta la sua credibilità come forza rivoluzionaria - per- dendola. Anche la rivoluzione liberale del 1868 (La Gloriosa) ha inizio a Cadice, da dove si estende per tutto il paese, dando inizio al cosiddetto Sexenio revolucionario, poi alla proclamazione della Prima Repubblica (che dura dal febbraio 1873 al dicembre 1874) e alla Revolución cantonal (12 luglio 1873), di carattere federalista, di cui il Cantón de Cádiz rappresenta uno degli esempi più signifi- cativi. Pochi anni prima, nel 1861, si era avuto in regione un tentativo rivoluzionario, ad opera di Rafael Pérez del Álamo, di ispirazione socialista («socialismo indígena»). Pérez del Álamo partecipa poi alla rivoluzione del 1868, insieme a Ramón de Cala y Barea, che è uno dei primi promotori del socialismo andaluso. Anche in questo caso la rivoluzione inizia con un pronunciamiento militare, ad opera di Juan Bautista Topete, comandante delle forze navali di stanza a Cadice, che poi ottiene il sostegno dei civili. Il fronte rivoluzionario è composito: militari monarchici, Juntas più radicali e tendenzial- mente repubblicane, contadini che aspirano a una rivoluzione sociale. All’interno del liberalismo è virtualmente latente fin dall’inizio il conflitto tra un’anima moderata (liberale, ma centralista) e un’ala più radicale, marcatamente autonomista. La rivoluzione è appoggiata dalla maggior parte dell’esercito e ha consensi molto vasti, soprat- tutto nel sud della Spagna; persa la partita, la regina Isabel sceglie la via dell’esilio in Francia. Nel caos politico, tra repubblicani e monarchici in cerca di un nuovo re (sarà scelto Amadeo di Sa- voia, che regna per due anni e quattro mesi), viene redatta la Costituzione del 1869, di imposta- zione marcatamente liberale. Nello stesso anno, repubblicani e liberali andalusi firmano il Pacto Federal de Córdoba, che raggruppa tutte le provincie della regione, e confluisce poi nel Pacto confe- deral del los pueblos de España, firmato il 9 luglio 1869, secondo un progetto sostenuto dal più im- portante teorico federalista dell’epoca, il catalano Francisco Pi y Margall. Di fronte all’ostilità del governo, fermo su rigide posizioni centraliste, si sviluppa il movimen- to cantonale, che inizia a Malaga e coinvolge poi Siviglia, Cordova e Cadice. Per una singolare ironia della storia, nel breve periodo della repubblica, il movimento cantonale si trova in conflit- to con il governo di Pi y Margall che, nel tentativo di gestire una situazione politica molto preca- ria, spinge per la realizzazione di un federalismo «dall’alto», sulla base di un progetto di costitu- zione federale (1873), e frena di fatto il federalismo «dal basso» dei cantoni (peraltro in contrad- dizione con le sue stesse posizioni teoriche). Di fronte all’accelerazione imposta alla rivoluzione dal movimento cantonale, alla guerra carlista (terza guerra carlista, 1872-1876), alla guerra di Cu- ba (prima guerra di indipendenza, 1868-1878), Pi y Margall rassegna le dimissioni, perdendo l’occasione per realizzare la rivoluzione che aveva predicato per tutta la vita. Il 3 gennaio 1874,

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mentre le Cortes stanno votando per eleggere il suo successore, un colpo di stato militare pone fine alla prima repubblica spagnola e spiana la strada alla reazione monarchico assolutista. La Costituzione del 1868 viene sostituita con un nuovo testo (1876), che costruisce un sistema poli- tico bloccato, grazie a un bipartitismo finto e sterile.xvi

Se si eccettuano alcune zone come Malaga, per tutto il XIX secolo l’Andalusia è caratterizzata dal sottosviluppo e dalla diffusione della disoccupazione e della fame: questo può contribuire a spiegare la notevole ampiezza dell’impegno politico e la diffusione dell’attivismo. Il processo di decolonizzazione dei paesi americani, culminato con la sconfitta della Spagna nella guerra di Cu- ba (1898), aggrava la situazione economica della regione, i cui commerci sono strettamente legati ai territori d’oltremare. In Andalusia si assiste a una recrudescenza del banditismo (fenomeno endemico nella regione) e ad un arretramento delle condizioni di vita, rispetto al resto del paese. Si verifica un rallentamento dei processi di modernizzazione, che determina il perdurare di una struttura sociale con caratteristiche feudali e il forte peso politico del caciquismo.xvii Caciquismo indica un sistema di poteri non istituzionali, ma reali (tra il feudale e il mafioso), in grado di controllare pacchetti di voti nelle elezioni politiche (al punto da rendere prevedibile il risultato), di influenzare l’assetto politico delle campagne e controllare, anche con il ricorso a me- todi violenti, il conflitto sociale. Sul caciquismo si appoggiano sia il governo centrale, sia i due par- titi, liberale e conservatore, che si alternano al governo secondo turni concordati, a volte anche prefissando l’esito delle votazioni. La sostanziale assenza di una dialettica politica nelle istituzioni porta a radicalizzare il conflitto sociale: si diffonde un anarchismo ben diffuso a livello popolare e, a volte, violento, non privo di elementi romanzeschi, come nel caso della Mano negra.xviii Un altro elemento che, in Andalusia, viene in primo piano nel dibattito politico del XIX seco- lo è la radicalizzazione degli atteggiamenti anticlericali. A partire dai primi fermenti liberali si percepisce un’identificazione tra chiesa e controrivoluzione. D’altronde, il mondo cattolico aveva preso nettamente posizione contro ogni forma di modernizzazione, dietro la quale vedeva, con frequenza, un complotto contro la religione ordito dalla massoneria (in realtà, il ruolo della mas- soneria in Spagna risulta inferiore a quello svolto in altri paesi europei).xix La radicalizzazione del conflitto va di pari passo con la crescita della mobilitazione popolare, che era già apparsa in dimensioni notevoli nel corso delle complesse vicende politiche del secolo, a partire dalla ribellione antifrancese del 1808. La partecipazione popolare è altissima sia nel

xvi Il testo del progetto di Costituzione federalista di Pi y Margall è disponibile all’indirizzo . xvii Sul caciquismo, cfr. José Ortega y Gasset, La redención de las provincias, in Obras completas IV, cit., pp. 671-745. xviii Nome di una presunta banda terrorista anarchica che avrebbe operato negli Anni Ottanta del XIX secolo, la cui esistenza reale non è mai stata dimostrata. xix Jean-Philippe Luis, Cuestiones sobre el origen de la modernidad política en España (finales del siglo XVIII- 1868), in .

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bando liberale sia in quello assolutista e la mobilitazione delle masse risulta imprescindibile per arrivare alla vittoria sull’avversario. Inizialmente il popolo partecipa per difendere le libertà poli- tiche contro lo stato centralizzatore, o per sostenere la monarchia contro il liberalismo laico; pe- rò, verso la metà del secolo, grazie anche ai primi sviluppi dell’industria, l’intervento delle masse assume un carattere più marcatamente ideologico e si orienta verso progetti di riforma sociale. Questa tendenza rivoluzionaria va ben oltre la capacità di rappresentanza del partito liberale, che non sostiene le nuove istanze sociali, provocando, in un certo senso, la loro radicalizzazione e il ricorso a forme violente di protesta. Sulla base di questo tessuto insurrezionalista avviene, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, la diffusione di movimenti anarchici e socialisti.

L’AUTONOMISMO LIBERALE E L’ANDALUSISMO

Nel giugno 1883 il Partido Republicano Federalista riapre la questione, proponendo un progetto di Costituzione federale della Spagna, che nell’ottobre dello stesso anno dà luogo in Andalusia alla cosiddetta Constitución de Antequera: un patto federale dei cantoni andalusi, che proclama l’indipendenza dell’Andalusia come Repubblica cantonale, in vista di una federazione delle re- pubbliche cantonali spagnole.xx Il progetto si ispira al pensiero di Pi y Margall, ed è molto avanza- to nei suoi principi: rappresenta un momento importante di riorganizzazione del movimento au- tonomista andaluso, dopo la sconfitta del cantonalismo del 1873. Il primo articolo stabilisce che «Andalucía es soberana y autónoma; se organiza en una democracia republicana representativa, y no recibe su poder de ninguna autoridad exterior». Vengono formulati i diritti personali dei cittadini, che com- prendono: la libertà di espressione, il diritto al lavoro, la libertà nell’insegnamento, il diritto all’istruzione gratuita fino ai massimi livelli della formazione, la libertà di circolazione e domicilio nel paese, l’inviolabilità della corrispondenza, la tutela giuridica, l’assistenza per i disabili, e il suf- fragio universale... Questi diritti sono garantiti in quanto si tratta di formulazioni giuridiche della fondamentale «autonomía humana», che nessun organismo politico può limitare o coartare. Ven- gono inoltre riconosciuti l’indipendenza civile e sociale della donna, il diritto di sciopero, le pra- tiche di resistenza solidale nelle vertenze di lavoro, e viene abolita la pena di morte. Ne risulta un testo dal marcato carattere personalista, dove il dettato giuridico non crea il diritto, bensì lo rico- nosce come intrinseco alla natura umana, e lo trascrive. Si tratta di un elemento molto importan- te sul piano dottrinario, perché supera i limiti del liberalismo classico, dove il diritto è prodotto dal- la legge e i cittadini sono subordinati allo stato.

Il regionalismo, o autonomismo, andaluso nasce, dunque, nella seconda metà dell’Ottocento, analogamente a ciò che avviene per altri regionalismi spagnoli. Lo alimenta, inizialmente, la rea- zione contro il centralismo, poi anche la rivendicazione della propria identità culturale. Infatti, in

xx Si veda il testo in .

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parallelo con le rivendicazioni politiche di autonomia, si sviluppano anche studi e ricerche sulla cultura tradizionale andalusa, che risultano fondamentali per la costruzione (o ricostruzione) dell’identità della regione. Si segnalano i nomi di studiosi come Mario Méndez Bejarano, Anto- nio Machado Núñezxxi e suo figlio Antonio Machado Álvarez,xxii che sono alla testa del movimen- to andalusista verso gli anni sessanta dell’Ottocento, Isidro de las Cagigas. Si tratta di un lavoro culturale importante, perché mira a depurare la tradizione regionale dalle deformazioni folclori- che e dall’aneddotica: viene pubblicata una prima storia generale dell’Andalusia, ad opera di Joa- quín Guichot, che assegna una grande importanza al periodo islamico;xxiii sul finire del secolo si diffondono anche i primi studi scientifici sull’islam spagnolo con storici come il sivigliano Pa- scual Gayangos y Arce (1809-1897), Eduardo Saavedra y Moragas (1829-1912, autore di un Estu- dio sobre la invasión de los árabes en España, Madrid, 1891,xxiv e La mujer mozárabe, Madrid, 1904) e

xxi Antonio Machado y Núñez (Cádiz, 1815 - Madrid, 1896), antropologo, zoologo e geologo; di orien- tamento liberale, partecipa alla rivoluzione del 1868, diventando poi governatore della provincia di Sivi- glia. Cfr. Antonio Machado Núñez, Páginas escogidas, Ayuntamiento de Sevilla 1989. xxii Antonio Machado Álvarez (1848-1893) è conosciuto con lo pseudonimo Demófilo. Di tendenza libe- rale, legato alla filosofia krausista, insegna nell’Institución Libre de Enseñanza, occupandosi di folclore e lette- ratura popolare. È il padre dei poeti Antonio e Manuel Machado. Membro importante della Sociedad An- tropológica Sevillana, pubblica, con il krausista Federico de Castro, Cuentos, leyendas y costumbres populares (1872). Fondatore della società El Folclore Andaluz, a lui si deve la prima raccolta di testi flamenchi intitola- ta Colección de cantes flamencos (1881; successivamente come Cantes flamencos recogidos y anotados), che rap- presenta l’inizio degli studi moderni su questa tradizione poetica e musicale. Cfr. Antonio Machado Álva- rez («Demófilo»), Colección de cantes flamencos recogidos y anotados, Signatura, Sevilla 1999. Il testo è dedicato all’Institución Libre de Enseñanza. Su Demófilo cfr. Daniel Pineda Novo, Antonio Machado Álvarez, vida y obra del primer flamencólogo español, Cinterco, Madrid 1991. Il krausismo è una scuola filosofica idealista, di orientamento liberale in politica, che prende il nome dal filosofo tedesco Karl Christian Friedrich Krause, la cui opera viene introdotta in Spagna da Julián Sanz del Río intorno alla metà dell’Ottocento. L’importanza della scuola krausista non sta tanto nell’originalità della speculazione filosofica, quando nell’opera di formazione di future élites. In particolare, la Institución Libre de Enseñanza, organizzata secondo i valori laici e pedagogici del krausismo, è stata la più importante istituzione culturale e formativa laica del paese. Viene fondata nel 1876 da Giner de los Ríos, dopo che un decreto del governo aveva tolto ai professori il diritto di scegliere liberamente i testi di insegnamento delle proprie discipline. Annovera tra i collaboratori famosi intellettuali come Gumersindo de Azcárate, Joaquín Costa, Bertrand Russell, Henri Bergson, Charles Darwin, John Dewey, Santiago Ramón y Cajal, Miguel de Unamuno, María Montessori, León Tolstoi, H. G. Wells, Rabindranath Tagore, Juan Ramón Jiménez, Gabriela Mistral, Benito Pérez Galdós, Emilia Pardo Bazán, Azorín, Eugenio d'Ors o Ramón Pérez de Aya- la. Cfr. Vicente Cacho Viu, La Institución libre de enseñanza, Rialp, Madrid 1962; José Luis Abellán, Historia del pensamiento español, de Séneca a nuestros días, Espasa-Calpe, Madrid 1996, pp. 429-438. Sul krausismo andaluso cfr. Juan Ramón García Cué, Aproximación al estudio del krausismo andaluz, Tecnos, Madrid 1985). xxiii Joaquín Guichot (1820-1906): Historia general de Andalucía, 1869-1871, consultabile all’indirizzo . xxiv Testo in .

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Francisco Codera y Zaidín (1836-1917) che riscoprono l’influenza di al-Ándalus sulla cultura ispanica. Di rilievo internazionale sono gli studi di Julián Ribera y Tarragó (1858-1934), Historia de la música árabe medieval y su influencia en la española (Madrid, 1927), e del sacerdote gesuita Mi- guel Asín Palacios (1871-1944),xxv il primo a studiare la filosofia e la teologia musulmane. Il suo discepolo Emilio García Gómez (1905-1995) si dedica allo studio della letteratura arabo- andalusa, realizzando importanti edizioni, come Poemas arábigos andaluces (1928: testi delle jar- chas), e El collar de la paloma di Ibn Hazm (1952). Asín Palacios e García Gómez fondano la Escue- la de Estudios Árabes di Madrid e Granada e la rivista Al-Ándalus (1933-1978), dedicata a studi sul- la Spagna musulmana. Agli inizi del XX secolo l’autonomismo andaluso si rivela maturo e complesso. Una data as- surta a simbolo è il 1915, anno di pubblicazione dell’Ideal andaluz di Blas Infante, dove viene ri- vendicata la personalità unica della regione. Blas Infante diventa la guida del movimento andalu- sista, che nell’Asamblea de Ronda, nel 1918, adotta lo stemma e la bandiera dell’Andalusia, tuttora in uso.

BLAS INFANTE

Come si accennava in precedenza, nella seconda metà dell’Ottocento si verifica il passaggio da un autonomismo in chiave meramente amministrativa (sostanzialmente come decentramento de- cisionale, legato al liberalismo) a un autonomismo andalusista, basato sulla rivendicazione della specificità andalusa, ovvero della «nazione» andalusa. Diversamente da ciò che accade in Catalogna, l’Andalusia non può contare su una classe bor- ghese e imprenditoriale vincolata alla tradizione regionale: per varie ragioni di carattere economi- co, questa classe si indebolisce nella seconda metà dell’Ottocento, lasciando il passo a una bor- ghesia agraria e latifondista, poco interessata al regionalismo. Per questo motivo, l’andalusismo nasce come espressione della piccola borghesia e del proletariato. Questa origine determina alcune caratteristiche del movimento andalusista, e in particolare il suo solidarismo, le cui radici ideologiche risalgono all’illuminismo. Tali radici sono evidenti in Blas Infante:xxvi per Infante, che si muove nell’ambito del socialismo, le riforme economiche e la dittatura del proletariato non sono in grado di cambiare automaticamente il carattere delle per- sone e costruire l’anima di una società socialista:

xxv Tra le sue opere più importanti: Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904); La escatología musulmana en la Divina Comedia (1919, testo in ; El Islam cristianizado (1931); La espiritualidad de Algazel y su sentido cristiano (1934). xxvi Pedro Molina García, «El nacionalismo solidario andaluz y sus orígenes ilustrados», Gaceta de Antro- pología, 1992, 9, artículo 07 .

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L’anima della società socialista non può essere opera di un potere ordinato dalla coscienza particolarista di una classe sociale. Come opera conducente al compimento dei destini dell’umanità, deve essere animata dall’ampia ispirazione della coscienza, vincolata non ad individui della specie spronati dal rigido imperativo della coscienza di una classe sociale, ma al destino dell’umanità intera.xxvii

Blas Infante Pérez nasce a Malaga nel 1885. Laureato in giurisprudenza, l’esercizio della pro- fessione notarile lo porta in un paese della provincia di Siviglia, dandogli modo di frequentare l’Ateneo sivigliano e di entrare in contatto con il dibattito culturale della città. Il suo percorso intellettuale parte dai movimenti repubblicani e federalisti dell’Ottocento, cui aggiunge la consa- pevolezza che non basta un semplice decentramento amministrativo, ma occorre mettere in pri- mo piano la peculiarità della tradizione andalusa e della sua anima. L’autonomia politica si pone dunque come espressione di una cultura, cioè di una concezione dell’Andalusia come «nazione». I termini nazione e nazionalismo risultano, però, piuttosto ambigui e, nel significato attuale, non rendono pienamente giustizia alle reali posizioni di Infante. Nazione va inteso piuttosto in senso etimologico, come indicazione del luogo in cui si è nati, della tradizione culturale in cui si co- mincia a vivere, e della storia che si ha alle spalle. Nel 1915 pubblica Ideal andaluz,xxviii (il titolo è ripreso dal testo di una conferenza del ‘14 te- nuta all’Università di Siviglia) dove fornisce un’interpretazione dell’Andalusia, che diventa la ba- se della sua iniziativa politica. Nel 1918 partecipa all’Asamblea de Ronda, dove si gettano le basi dell’andalusismo posteriore, e, su sua proposta, vengono scelti il simbolo e la bandiera della re- gione, tuttora in uso. Nel ‘19 firma il Manifiesto andalucista de Córdoba, che definisce l’Andalusia come nazionalità storica, nella cornice di una Spagna federale.xxix La sua attività politica entra in conflitto con il sistema dei poteri locali, in particolare con il caciquismo, che ne impedisce l’elezione a deputato. Nel 1924 si converte all’islam, adottando il nome di Ahmad: i testimoni, previsti dalla professione di fede musulmana, sono due discendenti di moriscos. Il suo rifiuto di collaborare con la dittatura di Primo de Rivera comporta, per rappre- saglia, la chiusura dei Centros Andaluces, da lui fondati nel 1916. All’avvento della Repubblica, presiede la Junta Liberalista de Andalucía e si candida alle elezioni politiche nelle liste del Partido Republicano Federal. La candidatura non ha esito e Infante entra in dissenso con il modo in cui il governo della Repubblica affronta la questione andalusa: nel ‘31 pubblica in proposito il libro La verdad sobre el complot de Tablada y el Estado libre de Andalucía.xxx

xxvii Blas Infante, La dictadura pedagógica, Fundación Blas Infante, Sevilla 1989, 12, cit. in P. Molina García, El nacionalismo solidario, cit. xxviii Blas Infante, El ideal andaluz, Consejería de Cultura de la Junta de Andalucía, Sevilla 1982. xxix Testo in . xxx Blas Infante, La verdad sobre el complot de Tablada y el Estado libre de Andalucía, Fundación Blas Infan- te, Granada 2005.

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Fallisce anche una successiva candidatura, nel ‘33, con la coalizione Izquierda Republicana Andalu- za formata dal Partido Republicano Radical Socialista e dalla Izquierda Radical Socialista. Allo scoppio della guerra civile del ‘36 viene arrestato e fucilato dai falangisti, senza processo: l’esecuzione viene... legalizzata a posteriori nel 1940, con la motivazione che «formó parte de una candidatura de tendencia revolucionaria en las elecciones de 1931 y en los años sucesivos hasta 1936 se si- gnificó como propagandista de un partido andalucista o regionalista andaluz» (attività peraltro legali in quegli anni). Il testo dell’odierno inno ufficiale dell’Andalusia è stato scritto da Infante sulla musica di un canto religioso tradizionale dei contadini andalusi. Nel 1980, il parlamento autonomo dell’Andalusia lo ha proclamato Padre della patria andalusa.

La concezione «nazionalista» di Infante, come si diceva, non ha nulla in comune con i nazio- nalismi europei del primo Novecento, ed è una posizione politica nettamente schierata nel cam- po della sinistra. Manca al movimento di Infante un radicamento nella classe borghese, soprat- tutto per la presenza nella regione di una borghesia dominante, che basa la sua ricchezza sul lati- fondo e appoggia l’idea di uno stato centralista e autoritario. Di fronte a essa, l’autonomismo di Infante si presenta piuttosto come un blocco sociale costituito dagli esclusi del sistema, da intel- lettuali autonomisti e pochi imprenditori estranei all’oligarchia. El ideal andaluz sostiene la necessità di una europeizzazione della Spagna, in sintonia con le esigenze espresse dal modernismo, soprattutto nella sua fase novecentista: è nel contesto europeo che deve trovare spazio la rinascita del popolo andaluso. Nella conferenza del 1914, Infante tenta di dare un fondamento filosofico al sistema di autonomie politiche e culturali, la cui legittimità viene rivendicata contro l’assolutismo e la concezione centralista della monarchia. L’impianto dell’argomentazione è dato dalla filosofia idealista, nella forma particolare che si diffonde in Spa- gna a seguito dell’introduzione del pensiero del filosofo tedesco Karl Christian Friedrich Krause: un pensiero idealista abbastanza moderato e riveduto alla luce di alcuni aspetti caratteristici della tradizione spagnola. xxxi Nella visione di Infante, l’universo consiste in un intrinseco dinamismo, un movimento indi- rizzato verso un punto finale di «perfezione». È un processo di evoluzione che, con la comparsa dell’uomo, diventa consapevole e, cosa molto importante, cessa di essere meccanico, spontaneo, per diventare storico. Con l’uomo inizia un’evoluzione morale il cui presupposto è la libertà: dunque, essa avviene attraverso atti storici, che l’uomo può liberamente compiere o non compie- re, così come può effettuare scelte contrarie al «Fine della Vita», allontanandone la realizzazione: contemplando l’ideale umano, «l’uomo può [...] rispondere agli imperativi della coscienza o alle esigenze dell’istinto; accettare i dolori del parto creatore, le cui esplosioni elevano fino alle altezze dell’Ideale, o ab-

xxxi Per il krausismo, corrente filosofica a cui si ispira il testo di Infante, cfr. Juan Ramón García Cué, Aproximación al estudio del krausismo andaluz, Tecnos, Madrid 1985.

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bandonarsi al sogno di non creare, con il quale gli esseri discendono fino all’abisso dell’essere incapace di opera creatrice».xxxii Questa dialettica tra la spinta verso un punto finale di perfezione e la libertà di contribuire a realizzarla, introduce nel sistema di Infante un’apertura alla trascendenza, che costituisce, a mio avviso, il secondo punto rilevante del saggio. Il fine di perfezione - riassumendo in breve ciò che riguarda la tematica andalusista - consiste nel raggiungere l’unità del genere umano, non attraverso un processo forzato e una costrizione, bensì attraverso la libertà. Questa unità, proprio perché presuppone la libertà personale, non equivale alla costruzione di una collettività uniforme, ma si manifesta nel coordinamento della varietà e nell’articolazione delle differenze. Al livello di partenza c’è la libertà dell’individuo; poi, in una progressiva complicazione, la creazione di organismi complessi: la famiglia, il comune, la regione, la nazione, la super-nazione. In ciascuno di questi organismi complessi la varietà dei ca- ratteri e delle strutture sociali rappresenta una risorsa attraverso la quale il singolo individuo in- tegra le sue mancanze e amplia gli strumenti con cui vivere la propria vita. La prima conseguenza importante di questa concezione è il rovesciamento della concezione liberale dell’autonomismo della prima metà dell’Ottocento. In ambito liberale l’autonomia è ri- vendicata dalle regioni è concessa dallo stato nel quadro di un decentramento amministrativo; nella prospettiva di Infante, la regione precede lo stato e possiede in proprio, per sua stessa natura, autonomia e personalità: lo stato non ha il diritto di concedere o non concedere autonomia, e piuttosto si muove lui nello spazio che gli viene assegnato dalle regioni; ogni comportamento di- vergente da tale linea lo trasformerebbe in uno stato oppressore. In secondo luogo, Infante vincola molto strettamente l’idea di regione e l’idea di nazione: se, infatti, sono le regioni a costituire la nazione, ciò avviene perché esse trovano questa costruzione sensata, vantaggiosa, o significativa sul piano ideale; dunque non ha senso che le regioni entrino in conflitto con la nazione, se questa viene realizzata in modo corretto e fedele al progetto origi- nario. Anzi, la nazione può essere tanto più forte, quanto maggiore è il peso delle regioni che la alimentano e che la spingono a entrare in costruzioni sovra-nazionali, conservando la sua interna struttura plurale. Negli anni successivi il pensiero di Infante accentuerà la componente anarchica, già visibile in questa concezione, e renderà più esplicita la componente religiosa del suo pensiero; tuttavia la conferenza del 1914 conserva la sua importanza e testimonia un punto di svolta: l’anno dopo, pubblicata insieme ad altri saggi nel volume El ideal andaluz, diventerà uno dei principali punti di riferimento dottrinali nel processo di ricostruzione e liberazione dell’Andalusia. Dunque, in relazione a questa fase del pensiero di Infante, non è esatto attribuirgli l’idea di una Andalusia ideale concepita come un’essenza intemporale o una sorta di idea platonica. Al massimo si può vedervi un progetto, un’anima della storia, che tende a manifestarsi nel tempo, se

xxxii Blas Infante Pérez, Ideal andaluz: varios estudios acerca del Renacimiento de Andalucía, Fundación Públi- ca Andaluza - Centro de Estudios Andaluces, Sevilla 2010, pp. 12-29, p. 15.

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lasciata alla sua spontaneità. Si tratta di una formulazione discutibile, anche se non si può negare che secoli di tradizione producono una cultura con caratteristiche sostanzialmente stabili, non- ché una psicologia, un sistema di valori vigente, un complesso di modelli di azione e di sensibili- tà: è chiaro che il carattere tradizionale non è imposto a nessuno, e che ogni persona è sempre libera di rifiutarlo, o di sviluppare la sua personalità lungo altre direzioni; però costituisce l’ambiente culturale che si respira fin dalla prima infanzia. La tradizione produce una sorta di og- gettivazione dello spirito di un popolo. Così, ad esempio, un popolo che per sette secoli non ri- tiene necessario combattere gli infedeli, e anzi accetta di vivere con una società multiculturale in cui operano tre religioni, è un popolo tollerante e aperto: lo è oggettivamente, come carattere tradizionale, anche se nel suo seno possono nascere dei fanatici. Infante, vista la situazione di mi- seria in cui versa la sua regione, dice semplicemente che non è quella presente l’Andalusia vera: non lo è, al confronto con altre epoche in cui, non essendo pressato dalla fame e dall’ingiustizia, l’andaluso ha potuto esprimere la sua cultura e i suoi sentimenti. Nell’esaminare le cause della decadenza dell’Andalusia, Infante individua giustamente il pro- blema del latifondo: pochi proprietari e grandi masse di lavoratori a giornata, nell’assenza di una classe media agraria.xxxiii L’abbondanza di mano d’opera rende i salari estremamente bassi e con- sente un tenore di vita ai limiti della sopravvivenza. Sarebbe, dunque, necessaria la formazione di una classe media capace di rappresentare un punto di equilibrio e imporre rapporti economici più giusti. Quanti più individui raggiungono l’indipendenza economica, tanto maggiore sarà la possibilità di sviluppare la cultura del paese e migliorare, anche dal punto di vista intellettuale, la qualità della vita. Questo progetto risulta, però, irrealizzabile finche la proprietà della terra resta concentrata nelle mani di pochi latifondisti. Le riforme sociali, per Infante, non possono prescindere da un urgente lavoro di formazione culturale della regione, che presenta un tasso elevatissimo di analfabetismo, e quest’opera non deve essere solo scolare, ma deve accompagnarsi a una vera e propria formazione professionale, in stretta relazione con i bisogni e le caratteristiche dell’economia regionale. Da qui la ferma condanna del caciquismo. In sintonia con la sua visione democratica, Infante ritiene che l’abbattimento del caciquismo non sia praticabile attraverso il ricorso a un uomo forte, ma nel quadro ampio di una rigenerazione dell’intera Spagna.xxxiv Infante è anche uno dei primi studiosi a rivalutare l’importanza di al-Ándalus nella formazio- ne della tradizione andalusa e a teorizzare la necessità di recuperarne la memoria storica: dedica all’argomento un libro, Motamid, último rey de Sevilla.xxxv Per conoscere meglio il mondo islamico

xxxiii È il tema della quarta sezione di Ideal andaluz il volume del 1915, già citato, che comprende la con- ferenza dell’anno precedente, in part. alle pp. 85-107. xxxiv L’impegno ad abbattere il caciquismo è uno dei punti programmatici che contribuiscono maggior- mente al consenso popolare verso la dittatura del generale Primo de Rivera. xxxv Blas Infante, Motamid, último rey de Sevilla, exposición dramática del reinado del príncipe Abul-Kasim- Mohamed Ibn Abbad-el Billah, Editorial Avante, Sevilla 1920. Si tratta di un testo letterario, non di un sag- gio, disponibile all’indirizzo . Di in-

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impara l’arabo (restano numerosi scritti suoi, inediti, in lingua araba), adoperandosi con le Juntas liberalistas per la costruzione di una moschea a Siviglia (1931, progetto non realizzato).xxxvi È forse il primo a formulare seri dubbi sull’effettiva dinamica della cosiddetta invasione musulmana del- la Spagna e sull’idea di una conquista della Penisola nel 711 d. C. Per Infante, sostanzialmente, si sarebbe trattato di un processo di liberazione del popolo andaluso, aiutato da Tariq e dal suo contingente berbero, che apre una fase di libertà e splendore culturale: l’Andalusia libera, una condizione opposta a quella moderna di schiavitù.xxxvii Conquistata dalle truppe cristiane, dopo la caduta del regno di Granada, l’Andalusia subisce l’oppressione e la miseria, le sue terre sono di- stribuite in grandi porzioni, formando estese zone a latifondo, a nobili che non sanno farle frut- tare e si limitano a riscuotere le rendite dei coloni. La repressione dell’inquisizione,xxxviii il seque- stro delle ricchezze con motivazioni apparentemente religiose, la pulizia etnica e culturale produ- cono un vero e proprio genocidio e la distruzione della cultura andalusí. È qui che la grande storia di al-Ándalus e del regno di Granada si congiunge con la storia del flamenco, a cui Infante dedica Orígenes de lo flamenco y secretos del cante hondo (1929-1933), libro

fante cfr. anche: Fundamentos de Andalucía, pubblicato postumo a cura di Manuel Ruiz Lagos, Fundación Blas Infante - Grupo Editorial Sur, Sevilla 1984; Id., La dictadura pedagógica un proyecto de revolución cultural, Fundación Blas Infante, Sevilla 1989. xxxvi Manuel Ruiz Romero, Al-Ándalus según Blas Infante, . xxxvii Posteriormente, l’idea di una invasione araba della Spagna, concretizzatasi in una occupazione mili- tare, è stata criticata da Ignacio Olagüe, La revolución islámica de Occidente, Fundación Juan March, Barce- lona, 1974 (prima edizione in francese, nel 1969, col titolo Les arabes n'ont jamais envahi l'Espagne). Per l’interpretazione tradizionale della presenza musulmana in Spagna si veda Évariste Lévi-Provençal, Histoire de l’Espagne musulmane, Maisonneuve & Larose, Paris, 1950, 3 voll.; Id., España musulmana hasta la caída del califato de Córdoba, tradotto da Emilio García Gómez nella Historia de España diretta da Ramón Menéndez Pidal, Espasa-Calpe, Madrid 1965; Pierre Guichard, al-Ándalus. Estructura antropológica de una sociedad islá- mica en Occidente, Barcelona, 1986. xxxviii Cfr. Hernando del Pulgar, storico ufficiale dei re cattolici: «[i giudaizzanti] vennero bruciati in varie volte e in alcune citta e paesi, fino a duemila uomini e donne; ed altri furono condannati al carcere perpetuo, e ad altri ancora fu data come penitenza che per tutti i giorni della loro vita fossero segnalati con grandi croci colorate messe sui vestiti e sulle spalle [=avanti e dietro]. E proibirono a loro e ai loro figli ogni pubblico ufficio di fiducia e stabilirono che uomini e donne non potessero vestire né portare seta, né oro, né tessuti di cammello, sotto pena della morte. Ugualmen- te si indagava se quelli che erano morti entro un certo lasso di tempo avevano giudaizzato; e siccome se ne trovarono alcuni che in vita erano incorsi in questo peccato di eresia e apostasia, furono fatti processi contro di loro per via giuri- dica e furono condannati, le loro ossa furono tratte dalle sepolture e furono bruciati pubblicamente; e proibirono ai loro figli di avere uffici e benefici. Di questi ne fu trovato un gran numero, e i loro beni e i benefici furono presi e versati all'erario del re e della regina» (Crónica de los señores reyes católicos don Fernando y doña Isabel de Castilla y Aragón, in Crónicas de los Reyes de Castilla desde Alfonso el Sabio hasta los Católicos Reyes don Fernando y Doña Isabel, ed. di Cayetano Rosell, B. A. E., Madrid 1953, III, pp. 223-511, p. 332a).

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scritto a partire da un’intuizione avuta ascoltando in Marocco una nuba.xxxix Quest’opera rompe con le interpretazioni precedenti del cante flamenco, che viene inteso come canto dell’esilio di un popolo: una musica che, proscritta dalla società, da corale si trasforma in canto individuale e se- greto, e sopravvive emarginata, nella comunità gitana che ha accolto i moriscos in fuga o ribelli, dopo la loro espulsione nel 1609.xl

xxxix Blas Infante, Orígenes de lo flamenco y secreto del cante jondo (1929-1933), Junta de Andalucía 2010, . xl Si veda in particolare: Gianni Ferracuti, «Deblica barea: la tradizione segreta del flamenco», in Studi Interculturali, n. 1, 2013, pp. 56-86.

IDEALE ANDALUSO BLAS INFANTE

MEMORIA PRESENTATA ALLA SEZIONE DI SCIENZE MORALI E POLITICHE DELL’ATENEO DI SIVIGLIA, LETTA IL 23 MARZO 1914i

Signori Accademici:

Il problema è questo: l’Andalusia ha bisogno di una direzione spirituale, un orientamento po- litico, un sostegno economico, un piano culturale e una forza che apostolizzi e salvi. Vi presenterò un lavoro fatto in fretta, da chi peraltro non avrebbe potuto realizzare grandi creazioni neppure con molto tempo, molta calma e prolisso studio. Esporrò alcune semplici veri- tà, indotte da fatti la cui osservazione e analisi sono alla portata delle intelligenze più semplici. Difenderò la virtù di aspirazioni ideali già note, a cui arriva la reazione dello spirito dopo

i Testo originale: Blas Infante Pérez, Ideal andaluz: varios estudios acerca del Renacimiento de Andalucía, Fundación Pública Andaluza - Centro de Estudios Andaluces, Sevilla 2010, pp. 12-29, traduzione di Gian- ni Ferracuti.

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l’impressione prodotta su di lui dalle realtà contrastate; e abbozzerò, con un elementare criterio politico, la concrezione circostanziale di quei principi in formule pratiche, modellate dalle esi- genze attuali della Storia, segnalando tra i procedimenti che possono condurre alla loro attuazio- ne, quelli meno gravati dalle difficoltà del momento sociale. In questa impresa di affermare le coscienze di tutti per la grande opera che aspetta tutti noi, metta ciascuno il suo granello di sabbia, come io pretendo di fare ora, con la modesta intenzione di uno sforzo umile.

1. L’IDEALE

Voi tutti concepite e sentite l’ideale: Ascoltate una povera definizione di come io lo concepi- sco e lo sento.

IDEALE DELLA VITA

La Vita è latente per creare la Perfezione Assoluta. La Vita è il Relativo che cammina verso l’Assoluto nel veicolo della Forma.ii Tutto ciò che produce perfezione, è un avvicinamento nel cammino che conduce al fine. In definitiva, trionfano solo i perfetti; e tutti gli esseri sentono il loro destino nel trionfo della loro essenza. Il Processo Totale si scopre e si comprende apprezzando lo sviluppo parziale di qualun- que sua manifestazione, retta come tutte dalla Legge che, nella varietà, conserva la Sovrana Ar- monia dell’Universo.iii Linfa di perfezione è la Lotta. Come le piante lottano, aspirando a estendere nel trionfo del fiore il riassunto di aromi e co- lori acquistati, conquistando la loro essenza ai sorrisi della luce e al profumo delle brezze, così la vita dell’Universo riassume la lotta di tutti gli esseri, che aspirano a estendere le loro conquiste nel trionfo maestoso e definitivo dell’Eternità. Cioè della Perfezione Assoluta. La vita, dunque, ha un ideale assoluto: l’Eternità; e un ideale prossimo: la perfezione relativa; e una base di difesa immediata: la conservazione della perfezione e della vita-conquistata. Al primo risponde il destino sentito dagli esseri. Al secondo e all’ultima, fino a quando l’essere arriva all’uomo, l’istinto che li trascina alla lotta per il trionfo e per la vita.

IDEALE UMANO. LA SUA GENESI. I SUOI ASPETTI. IL SUO MODO DI OPERARE

Così la Legge che anima nell’essenza tutto ciò che è, ha impresso a ciascuno e a tutti gli esseri che costituiscono l’universo un movimento diretto alla crescita della Vita. Sulla Terra la rappre-

ii N.d.t.: la forma è l’aspetto materiale, sensibile, della realtà. iii N.d.t.: uno dei punti fondamentali dell’idealismo filosofico di Infante è che l’unità dell’universo con- siste in una articolazione armonica della varietà dei singoli componenti.

Blas Infante: Ideale andaluso 125

senta l’Uomo, che è la vita che arriva alla coscienza e alla libertà. Quando l’essere si conobbe come liberoiv divenne uomo; e da allora è figliov soprattutto delle proprie opere. Perché la libertà è l’unzione con cui la legge ha consacrato la sua sovranità. Ma l’uomo arriva a conoscere la ragione della libertà (poter creare o lottare, per libero amore), e quando ormai, più che presentire, penetra la ragione del suo destino creatore (perfezionare la creazione, continuando l’Opera), va incontro a tale destino, accettandolo, grato alla Creazione che lo ha prodotto, e per amore alla sua stessa di- gnità che lo spinge a creare, e alla perfezione in cui si rivela l’attività creatrice della vita, offrendo- gli visioni e godimenti parziali, come barlumi dell’Opera nel Fine. E allora, con rispetto agli esse- rivi ingranditi grazie a quella conoscenza, non è più necessaria la religione del Timore. Essi agi- scono e creano per amore cosciente. Conoscono se stessi come sforzi sovrani della vita universale, come il risultato libero, in quanto perfetto, del processo svolto dalla lotta depuratrice, e non ignorano la dignità né la responsabilità del proprio rango direttivo, come rappresentanti della Vi- ta nei suoi avamposti. Perciò la amano come se stessi, sentendo la loro fraternità con gli esseri della loro specie, con gli esseri e le forze del loro mondo, e con tutti gli esseri, e tutte le forze e tutti i mondi; e per questo, come per se stessi, offrono i loro amori sull’altare della Vita Universa- le, soggiogando, per compiere il loro destino, in Virtù del loro sforzo cosciente, le forze cieche (esterne o interne, istinti), che trascinano, dopo una lotta gigante, incatenate al carro splendido dei loro trionfi gloriosi. Ecco in che modo l’opera Creatrice, per essere perfetta e continuare a progredire nella Perfe- zione, ha prodotto l’effetto meraviglioso di un Essere Creatore, che avrà la sua gloria nel godi- mento della propria Creazione, come la Vita, attraverso i suoi rappresentanti, la possiede già, nel godimento della sua.vii

iv La conoscenza della nostra libertà è acquisita gradualmente. È ancora molto imperfetta. O meglio, la nostra libertà è molto imperfetta, perché il suo antecedente è la conoscenza. Ignoriamo la trascendenza di molte cause, la cui stima è resa ogni giorno più possibile dal Progresso, aumentando così la sfera della Li- bertà. v L’Essere, finché non raggiunge il Fine, sarà, principalmente però mai in assoluto, soltanto figlio delle sue opere, perché fino a quando la conoscenza, e di conseguenza la libertà, non saranno assolute, la Legge continuerà ad agire per la forza cieca che sostiene il dinamismo biologico e che si condensa nell’istinto, anche se giorno dopo giorno la sua influenza diminuisce nella crescita del termine libero dell’Evoluzione. La conoscenza genera amore e libertà, e l’amore libero sostituisce l’istinto. La Lotta non è più per la vita, ma contro la sua imperfezione, e si vive per superarla. Il risultato è l’Essere più perfetto, figlio della Libertà. vi Anche se solo un’infima minoranza tra gli uomini conosce la ragione della sua libertà e quella del suo destino creatore, parlo della specie in generale, per non distinguere diverse sfumature o gradualità di uomo, e perché indubbiamente è un progresso della specie quello raggiunto da questi suoi rappresentanti. vii Soprattutto grazie all’uomo, sulla terra, la vita oggi gode dell’opera della propria evoluzione, ricrean- dosi nella perfezione delle forme, delle essenze dei mondi, degli esseri creati dall’evoluzione della vita, rias- sunti della perfezione da essa raggiunti in questo momento del mondo. Al di là di questo, godrà anche del- la perfezione acquisita nel momento universale. Ma l’uomo non gode solo dell’opera della vita, godimento

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Incatenare le forze cieche, ordinandole al compimento del Destino Umano, è creare forza co- sciente.viii Il Pensiero, a questo scopo, idea, esplora e scopre la nuova conquista che è necessario realizza- re. La Lotta cosciente, la lotta creatrice, risponde all’ideazione del pensiero. Così l’uomo avanza su nuovi livelli, dai quali scopre orizzonti nuovi nella rotta del suo Fine. Perché la conoscenza del Fine non può essere assoluta. L’Essere umano conduce la vita a par- tire dall’istante fugace del presente, che, come diceva Carlyle, palpita nel punto in cui conflui- scono due Eternità, ma da questo balcone non arriva a scoprire il Principio, occulto nel folto del- le ombre che pesano sul seno fecondo dell’Eternità passata; né il Fine, nascosto dietro i fumosi veli di speranza, che coprono il seno vergine dell’Eternità futura. Riesce a vedere solo una porzione definita del cammino; cioè, la perfezione si presenta con- cretizzata in una formula che potremo paragonare al limite dell’estensione scoperta; ad essa con- ducono altre porzioni, che sono come ideali più prossimi e secondari, livelli o gradi completi di perfezione. A questa concrezione circostanziale del Fine corrisponde un amore ugualmente con- creto, condensazione del sentimento del destino che anima tutte le condensazioni della vita univer- sale. Da quanto si è detto deriva che l’ideale umano è diverso dall’ideale assoluto della vita (l’Eternità), e dall’oggetto immediato che questa realizza attraverso tutti gli esseri (la Lotta). È un ideale lontanamente mediato per dare un ampio margine alla libertà. L’uomo può, contemplan- dolo, rispondere agli imperativi della coscienza o alle esigenze dell’istinto; accettare i dolori del parto creatore, le cui esplosioni elevano fino alle altezze dell’Ideale, o abbandonarsi al sogno di non creare, con il quale gli esseri discendono fino all’abisso dell’essere incapace di opera creatri- ce.ix

che in un certo senso si può attribuire anche agli altri esseri. L’uomo gode, inoltre, della propria opera o creazione, elaborata dal suo speciale progresso. viii La possibilità di regressione delle forze cieche diminuisce in proporzione con la crescita della coscien- za, cioè della possibilità di essere per il progresso, quando le forze cieche sono ordinate o sacrificate a un fine di perfezione. Questo stesso effetto di crescita della coscienza produce l’ordinamento anche delle forze cieche esterne all’uomo, per il compimento del destino umano, non solo perché l’opera di perfezione di questa natura (qualunque monumento artistico o organismo materiale che traduca conquiste dell’Arte o della scienza) ha i suoi antecedenti nella depurazione dell’essere che l’aveva diretta o creata, ma anche per- ché nel rioperare di ogni opera perfetta (naturalmente non parlo di perfezione assoluta) sullo spirito degli uomini, si produce l’effetto di accrescerlo, mirando a svegliare in esso la coscienza del destino e il desiderio di realizzarlo. In tal senso abbiamo assicurato che, direttamente o indirettamente, incatenare o ordinare le forze cieche al compimento del destino umano è creare forza cosciente. ix N.d.t.: questo è un altro punto molto interessante della filosofia idealista di Infante, perché mostra che il progresso verso il fine ideale non è un processo meccanico, una evoluzione retta da una legge imma- nente, ma è un movimento storico: è il frutto di scelte libere compiute dall’uomo, che potrebbe anche non compierle o, addirittura, compierne di contrarie, ostacolando il cammino verso l’assoluto. La tendenza in-

Blas Infante: Ideale andaluso 127

Essendo mediato, l’ideale umano è concreto, cioè formale, per stimolare tutte le forze esistenti nell’uomo: quelle del cervello, quelle della fantasia, quelle del cuore. Non c’è idea paragonabile a quell’idea che folgora nella scintilla generata dal pensiero quando strappa le ombre della Storia e si libera cercando la radiosità del Fine, come, nostalgico del sole perduto, parte, ansioso della lu- ce lontana, l’insetto immerso nell’oscurità della campagna. Non c’è sentimento paragonabile a quel sentimento che offre all’idea un trono d’amore. Così il vago sentimento del destino si con- centra per rendere culto all’ideale; come l’amante, incontrando l’essere amato, raccoglie in un nucleo di fervori tutte le energie del suo amore fornite dalla Natura. Non c’è fantasia paragonabi- le alla fantasia che l’idea forgia al calore di questo sentimento; né forza gigante che possa opporsi alla forza invincibile dei fantasmi gloriosi che, ribelli al Tempo, accorrono, invocati dal Futuro, pugnando per accendere nella loro luce le tenebre del Presente nemico che le soffoca. Nulla pos- sono le lacerazioni di tutti i martiri; nulla le carezze di tutti gli amori. I fantasmi dell’ideale gal- leggiano, trionfanti, sul sangue delle ecatombi umane. Il loro grido di battaglia si erge vittorioso sugli echi di tutte le voci possenti. Muoiono i profeti... periscono gli apostoli... ma, fino al Fine, i profeti risorgeranno. Cristo resusciterà sempre dai morti. La sua sacra insegna alzerà in ogni tempo la pesante pietra del sepolcro, gettandola sui guardiani spaventati. Ma, fino al Fine, gli apostoli sopravvivranno. Finché l’ascia del boia sarà affilata, troverà sempre la testa di un aposto- lo che aspetta appoggiata sul legno della morte. Io credo nella fatalità della morte per la vita. Solo essa esiste come condizione vivificante. La vita trionfa attraverso i cataclismi, con la rinascita. Così tra gli uomini trionfa sulla tirannia con la libertà, sugli egoismi attraverso l’amore. Perciò perirà l’Umanità prima che l’Ideale non trovi una voce in cui modulare il suo eterno canto alla perfezione umana. Finché esisterà un solo uo- mo, esisterà un’anima generosa in cui scolpire un altare per fare offerta del sacrificio.

SIGNIFICATO OGGETTIVO DELL’IDEALE

Consideriamolo ora nel suo significato oggettivo, nella contemporaneità, così come riesce a scoprirlo la miopia della mia intelligenza. L’Ideale può concretizzarsi in una formula ampia, espressiva non solo di sostantività ideali, prossime o lontane, che si percepiscono più o meno confusamente nel cammino del Fine, ma anche espressiva dell’ambiente, la cui pratica conduce sempre ad esso. Spiritualizzare la Forma. Formalizzare lo Spirito. In questa sintesi superiore si fon- dono tutti gli ideali. La scienza, l’arte, la morale aspirano a penetrare il mistero degli arcani, che sono dominio dell’eterna sapienza; e a incarnare nella Forma, trasferendo alla terra il Potere, la Bellezza, la Giustizia, le cui forze furono credute un giorno attributo esclusivo di un centro di Gloria, posto nel cielo. Così, fino ad esso innalzano la Forma, spiritualizzata dall’incarnazione del

trinseca alla vita verso la perfezione e la libera volontà dell’uomo collaborano, e questo implica una apertu- ra alla trascendenza.

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Potere, della Giustizia, della Bellezza. Trasformare la Terra in Cielo, cioè portare la Terra al Cie- lo: ecco l’opera creatrice riservata al Titano.

IDEALE DEGLI INDIVIDUI E DEI POPOLI

Questo ideale degli individui è proprio anche dei popoli.x Nel criterio che presiede alla conce- zione moderna della storia si apprezza nel presente quanta virtù ha questa verità che si intravede chiaramente. Si cerca solo il risultato della depurazione dei fatti storici, concretizzata in questa sintesi: «Spazio percorso da questo sentiero (scienza, arte, morale, civiltà) che è il sentiero del progresso». Gesù ebbe coscienza di questo ideale, chiaramente definito nei tempi moderni, che santifica la vita e vivifica la Santità, quando chiese nella sua semplice orazione che la volontà eterna, Fonte dei Poteri, della Bellezza, della Giustizia, cioè della Suprema Gloria, imperasse in cielo come in terra, e quando profetizzava ai suoi discepoli: «Si avvicina il regno di Dio».

IDEALE DELLE NAZIONI

Un combattimento costante è latente e si svolge tra gli individui, aspirando tutti, nella realiz- zazione dell’Ideale umano, a ampliare, ciascuno nella propria sfera, il trionfo della sua personali- tà. La stessa cosa accade alle nazioni. In queste, come negli individui, attraverso le convulsioni interne che le agitano, si scoprono come ultimo risultato movimenti antitetici della coscienza collettiva, impulsori della lotta o san- zionatori della quiete e anche dell’abdicazione. A volte l’anima nazionale ha tragici scatti, quando si sveglia trasportata dall’ansia del trionfo, davanti allo spettacolo di questa lotta sostenuta senza posa dagli altri popoli della terra.

IDEALE DELLA SPAGNA

La Spagna, nel combattimento delle nazioni, non fa pesare la sua potenza creatrice. Il trionfo della civiltà moderna non è spagnolo. Non sono gli echi poderosi della voce della Spagna a vibra-

x Gli individui e i popoli vittime delle aberrazioni possono perseguire accidentalmente ideali, o meglio: aspirazioni e fini contrari all’ideale. Ma tali aspirazioni non possono essere chiamate propriamente ideali umani, bensì il contrario. Sono fini regressivi, il cui trionfo implicherebbe, lungi dall’esaltazione, la perdita del rango conquistato dall’essere, mediante ciò che ho cercato di sintetizzare nella formula: «Formalizzare lo spirito, spiritualizzare la forma». La Storia esiste per questo ideale. Attraverso i fatti storici si scopre l’umanità che avanza faticosamente verso di esso.

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re nel grido di vittoria che afferma nel pianeta soggiogato il progresso della specie. Tuttavia, nella gara civilizzatrice l’assenza della Spagna si nota. Questa vittoria deve essere saturata dalla sublime essenza di un idealismo cavalleresco. La Spagna si è dissanguata in un rude battagliare di secoli, dietro i fantasmi svaniti di un ideale equivocato. Nonostante centinaia di sconfitte, vive nel fondo dell’anima spagnola un’ansia pe- renne di robusta idealità. La civiltà ha bisogno del nutrimento di questa anima, come l’equilibrio presupposto dalla vita mondiale ha bisogno del termine necessario di un idealismo incorruttibile. Forse per questo, per questo istinto conservatore del bene, che facendoci soffrire davanti alle grandezze cadute, ci parla della necessità della Virtù della Grandezza, le nazioni contemplano la resurrezione della Spagna con rispetto e simpatia. Ecco la ragione dell’immortalità della nostra razza. Non diamo al mondo solo Chisciotte folli. Possiamo anche offrire all’Ideale Chisciotte saggi. La Spagna è la patria di Alonso Quijano, ma anche dei Rodrigo Díaz. La civiltà, il concerto delle nazioni, ha bisogno di un popolo che incarni lo spirito di un Cid, posto su un livello un gradino al di sotto della sublime follia dell’Ideale, a volte tragica, a volte comica, ma sempre eccelsa. Manca uno spirito di abnegazione e giustizia che combatta per Amore e che, lungi dal disperdere la costanza e le forze necessarie per le sue grandi imprese, prodighi in queste, senza posa, le energie inesauribili del Tesoro della sua fede. Per que- sto è necessario che la Spagna non muoia: per questo è necessario che il Cid torni a cavalcare, non per vincere battaglie campali, ma per vincere la Grande Battaglia del futuro, dove tutte le nazioni competono. Nella Grande Battaglia per il Progresso. L’ideale della Spagna sta dunque nel fare rotta verso questa contesa tra le nazioni, con forze sufficienti a sigillare col suo trionfo la realizzazione dell’Ideale Umano. In questa formula sono inclusi un Ideale prossimo e un altro remoto, mezzo e fine che essa dovrà praticare o perire. Bisogna uguagliarsi nella forza alle nazioni che competono; e si tenga presente che la forza, quando si parla dell’Ideale, è la forza della cultura Morale e Fisica, è la forza della Civiltà; non la forza bruta, ad essa subordinata, e della quale essa si deve valere come strumento, per oltrepassa- re ostacoli storici che non possono essere rimossi altrimenti. Solo in questo senso si può ammet- tere la necessità di europeizzare la Spagna: nella necessità di alzare il suo livello culturale, il suo livello di civiltà all’altezza delle prime nazioni del mondo. Ma solo nell’intensità, non nella quali- tà: quest’ultima deve essere opera esclusiva della nostra razza, come lo sarà anche l’innalzarsi a questo livello e superarlo, per conseguire il trionfo su tutte le altre nazioni. Il processo chiamato europeizzazione deve limitarsi a dotare la Spagna della civiltà europea (o meglio, dei popoli più ci- vilizzati del mondo, perché ormai l’egemonia sfugge dalle mani dell’Europa), ma solo in ciò che tale civiltà ha di Universale, vale a dire in quanto contiene elementi di forza indispensabili per la realizzazione dell’Ideale Umano. Il genio che deve sviluppare e dare impulso a questa forza, quali- ficandola nei toni di una creazione originale, lo possediamo noi. Importarlo da fuori equivarreb- be ad annullamento, a morte per indegnità, a negare la missione storica, sostantiva e indipenden- te della nostra razza, o, in altri termini, a misconoscere la giurisdizione della sua personalità crea- trice. Il genio spagnolo è il sacro deposito che ci è stato affidato dalla Natura e dalla Storia come stimolo alla nostra vita, vincolata alla santa aspirazione di dispiegare la sua gloria nell’ora supre-

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ma del trionfo definitivo; e questo trionfo non sarà nostro se, anziché ostentare nella lotta il ca- rattere di fattori attivi e originali, rinunciamo alla nostra personalità e ci convertiamo in stru- menti delle ispirazioni di un’anima straniera.

MODO DI COMPIERE L’IDEALE SPAGNOLO

Per compiere questo ideale prossimo, questo grado completo di perfezione raggiungibile uguagliandosi alle nazioni più forti, la Spagna ha bisogno della creazione e dello sviluppo di forze proprie sufficienti. Le unità super-organiche sono costituite dalla somma delle forze individuali più affini, e han- no per scopo irrobustire tale somma, grazie al rioperare della stessa sui suoi componenti per la realizzazione dell’Ideale Umano. In tal modo, la forza generale, l’energia della coscienza generale, è il complemento superiore delle debolezze particolari. E ciò che succede agli individui, relativamente all’unità super-organica più immediata (la fa- miglia), capita a questa, relativamente alle unità super-organiche superiori, fino ad arrivare alla Società Nazionale, alla Supernazione e all’Umanità. Le famiglie saranno forti se lo sono gli indi- vidui; i municipi, se lo sono le famiglie; le regioni, se lo sono i municipi; le nazioni, se lo sono le regioni. In ultima analisi, la forza di tutte queste somme è quella dei loro componenti, fino ad arrivare agli individui, così come il fine di costoro (l’ideale umano) è la ragione della loro esistenza. Ma per supplire, con questo obiettivo, alle debolezze particolari, gli elementi individuali convergono nel seno delle unità super-organiche, e queste nel seno delle loro componenti superiori. Perciò i componenti hanno bisogno della loro reciproca varietà. Solo se nella somma sono rappresentate tutte le tonalità, queste potranno trovarvi il loro complemento. Inoltre, senza varietà la vita, che nel suo aspetto secondario è un contrasto di forze generatrici del movimento, non esisterebbe nel seno delle unità super-organiche. In tal modo, rispetto ai composti sociali, il progresso opera e si mantiene per differenziazione, conformemente alla legge di Spencer. («Ogni causa produce più di un effetto; ogni forza più di un movimento»). Senza di essa, senza la varietà, o meglio: senza il suo risultato convergente, le creazioni sarebbero omogenee, per il fatto di essere isolate; il progresso sarebbe privo di moventi,xi i quali, nella materia di cui ci stiamo occupando, non sono altro che strumenti creati dall’ambiente sociale. I composti, di conseguenza, sono ricchi sia per intensità che per qualità.

xi Perfino l’atomo alimenta l’eterogeneità convergente, madre della vita. Le moderne scoperte sulla ma- teria radiante sembrano confermare questo postulato. L’elemento più semplice, l’elettrone, cioè l’omogeneità isolata, presuppone il termine di un ciclo di combinazioni, cioè la disgregazione e la morte della materia.

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Da quanto si è esposto si induce che se ai composti importa la forza dei fattori, che è la loro propria forza, a questi importa non di meno quella del composto, che rioperando li rafforza. Ab- biamo però visto, incidentalmente, e ora affermiamo direttamente, che tra i composti sociali esi- ste un legame più o meno immediato, prodotto di una graduale subordinazione naturale, che co- stituisce l’alveo attraverso cui, in modo naturale e normale, ascende o discende la vita che man- tiene la relazione tra loro. In questa scala, ogni unità è ricettiva e generatrice di forze che comu- nica alle più vicine; ed è chiaro che sono queste a doversi relazionare primariamente per il conse- guimento dei fini.xii Le nazioni sono unità che debbono essere costituite immediatamente dalle forze regionali più affini, con l’oggetto e il fine già detto trattando, in generale, dei composti super-organici. Di conseguenza, normalmente ad esse importa in modo immediato il rafforzamento delle re- gioni, che implica quello delle altre unità, fino ad arrivare agli individui, primo anello della serie; così come a questi interessa il rafforzamento della Nazione, che presuppone anche quello delle unità intermedie. Dato che tendere alla Normalità, cioè all’impero della Natura, è tendere le braccia alla vita, la Spagna, per realizzare il suo ideale prossimo, deve cercare di trovare la forza necessaria nel raffor- zamento delle regioni.

IDEALE DELLE REGIONI SPAGNOLE

Ma questo non accadrà se le regioni non aspirano a rafforzare la Spagna; perché l’anima spa- gnola non è altro che il risultato della convergenza, nella somma, delle energie regionali. Quando queste sono forti e definiscono vigorosamente gli imperativi della propria coscienza, allora la Spagna, irrobustita, riopera con energia potente sulle regioni e l’imperativo della coscienza na-

xii Diciamo che debbono esserlo, perché la Storia, contravvenendo la legge naturale, dimostra molte volte che le nazioni non sono costituite dalle forze regionali più affini. Per contravvenire la Natura, l’opera delle nazioni così formate (ad esempio l’Austria) non può essere tanto efficace come l’opera di quelle composte da tali forze. In primo luogo lo impedisce la naturale antisolidarietà e la divisione latente all’interno delle stesse: l’inimicizia e la guerra conseguente. In secondo luogo, le creazioni propriamente nazionali, o l’unità di forza richiesta da un entusiasmo autenticamente nazionale, non possono esistere ordinando il trionfo del proprio genio. E sarà così finché la storia comune fonderà nel suo crogiuolo (mescolanze di razze, isti- tuzioni comuni, ecc.) le disuguaglianze esistenti. Il futuro appartiene a nazioni, come Italia e Germania, composte da elementi affini, i cui componenti hanno reclamato in modo spontaneo la loro unità. Soprattutto continuità di territorio e affinità di fondo psicologico (senza negare l’influenza più secondaria di tradizioni, sangue, lingua e credenze comuni) sono condizioni che richiedono (pur potendo restare a volte incompiute nella pratica) la convergenza di elemen- ti immediatamente vincolanti per i composti nazionali. La compresenza delle due condizioni determina la necessità della nazione. In Natura le forze più affini per qualità e più vicine nello spazio formano la solida- rietà dei composti.

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zionale si imporrà dentro e fuori del paese. Pertanto le regioni non debbono aspettare di essere redente dalla nazione, ma al contrario da esse deve salire la forza iniziale con la virtù della quale sarà redenta la patria. Eliminata la speranza nell’aiuto estraneo, nascerà la fiducia nella propria virtù; ma questa, nel fissare la meta del suo sviluppo, non deve oltrepassare il seguente limite: «Vivere, da [por] sé, per [para] la Spagna». Una regione spagnola che volesse vivere direttamente come nazione, subito si illanguidirebbe, o sarebbe incorporata a un’altra nazione entrando al massimo nel suo armonico ingranaggio re- gionale; e allora, come elemento estraneo, privo del necessario complemento, trascinerebbe una vita miserabile. In primo luogo, per la tendenza all’omogeneità dell’individualità isolata; per la necessità di contrasti e di complemento reciproco in tutti gli elementi che costituiscono questa società naturale di regioni chiamata Spagna, creata dall’influenza reciproca della Geografia, della Psicologia e della Storia, che hanno determinato e compenetrato le affinità più prossime; in se- condo luogo, perché nelle circostanze attuali della storia internazionale, queste associazioni natu- rali superiori, oltre al fine permanente del progresso, rispondono a quello transitorio della difesa, proteggendo i loro componenti da possibili ruberie. Il Portogallo ha violato il sacro suolo della patria Iberica, non emancipandosi, bensì rompendo i legami naturali che lo tenevano nel seno comune della grande famiglia ispanica. Ha rinnegato la Natura, si è collocato fuori dalle sue Leg- gi che richiedono doveri imperativi, ed è caduto nel circuito fatale delle sue sanzioni. E il Porto- gallo che, come dice uno scrittore, non volle esser membro di una grande famiglia, è caduto nella schiavitù di un gran signore. Il fatto è che in Spagna le regioni potranno dirsi nazioni solo se la Spagna viene considerata super-nazione. Perché le regioni avrebbero potuto essere nazioni in un’epoca in cui l’esser nazio- ne non richiedeva l’eterogeneità interna che caratterizza la complicazione regionale [=dello stato nazionale]; ma che diremmo di chi oggi pretendesse di rompere i legami di subordinazione che uniscono le famiglie rispetto alle città, e le città rispetto alle nazioni, invocando la ragione della loro antica o ancestrale indipendenza? Se il progresso opera per differenziazione, gli organismi delle sue epoche ultime non saranno forse più complessi di quelli delle precedenti? Le regioni possono essere più o meno determinate geograficamente in questa Spagna che fu un giorno un continente in miniatura, secondo una frase dell’illustre Costa; ma in nessun’altra parte della superficie terrestre la natura ha segnato in modo così distinto il territorio di una grande nazione. In differenti regioni può esser stata predominante una razza determinata; ma se l’uomo fonde le razze (o meglio, i tipi antropologici), non potrà forse fonderle la Storia? Ciò che fu compiuto, ad esempio, da Manco-Capac in Perù, da Maometto in Arabia, non l’avranno realizzato, in un territorio delimitato dalla sua topografia con tratti vigorosi, tanti secoli di lotte per un ideale co- mune, con l’antecedente di una comune origine nel sedimento generale dei popoli iberici e degli strati etnici depositati da diverse dominazioni complete? Può esistere un crogiuolo più potente? Da alcuni meno potenti, dalla fusione di popoli e razze più diverse, è sorto uno spirito nazionale.

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Non esistono, dice Topinard (Antropología, cap. X),xiii la razza tedesca, o francese o inglese, ma so- lo tedeschi, francesi, inglesi. La stessa Francia, la cui nazionalità è così omogenea, di quante razze differenti non consta? Ascendenza di cimbri nel Nord, di germani a Est, di normanni a Ovest, di celti nel centro, di baschi nel mezzogiorno, per non contare altre sue differenziazioni etniche. E si può dire per questo che in Francia esistono diverse nazioni? Tutte le regioni potranno avere uno storia nazionale, ma la storia dello spirito spagnolo, la Storia della Spagna, sta al di sopra di tutte, alita su tutte le storie regionali. I colori delle bandiere saranno diversi, ma unico è il genio che trionfa con il Campeador, con il grande Pedro III, con Gonzalo de Córdoba, con Hernán Cortés. Tutti costoro hanno conquistato regni senza soldati, perché sono soldati scelti dell’Ideale, e per trionfare gli è sufficiente la fede. Se ai re mori di Valencia fosse giunta la leggenda di un uomo (Pedro III) capace di raccogliere il guanto gettato da un principe innocente (Corradino), iniquamente giustiziato dai più alti pote- ri spirituali e temporali della terra, e di difendere e conquistare da solo, abbandonato dai suoi e da estranei, contro tali poteri, da alcune rocce, il nobile regno conquistato dal sangue dei suoi antenati, quei re avrebbero assicurato che tale gigante era il Cid. Se un Filippo il Temerario,xiv o un Martino IV, o qualcuno dei famosi crociati difensori del Re Cappelloxv avessero saputo di un Cavaliere che, per difendere la giustizia dall’ombra di un crimine (il Cid di Santa Gadeaxvi) aveva accettato di essere straniero in patria, tuttavia conqui- stando per lei, nell’esilio, regni e città, con il solo sforzo del suo braccio invincibile, tutti avrebbe- ro convenuto che quel cavaliere capace di sviluppare tanta forza non poteva che essere Pedro d’Aragona. Se nella Grecia del IV secolo fosse stato profetizzato che, con l’andar del tempo, in remote lontananze, un centinaio di uomini doveva conquistare per la loro Nazione l’immensità di un Grande Impero (Messico e Perù), la Grecia avrebbe assicurato che esistevano solo alcuni titani capaci di tale impresa. I catalani vendicatori di Roger de Flor.xvii

xiii N.d.t.: Paul Topinard (1830-1911), pubblica nel 1876 L’Anthropologie e, nel 1885, Éléments d’anthropologie générale, opere di grande importanza e diffusione nel periodo iniziale degli studi antropologi- ci. xiv N.d.t.: Filippo II di Borgogna, detto l’Audace per la sua partecipazione alla battaglia di Poitiers (1356) all’età di quindici anni. xv N.d.t.: Carlo di Valois, figlio di Filippo III di Francia, (1270-1325). Non riuscì a conquistare il regno di Aragona, pur avendo usato le insegne reali, la principale delle quali consisteva nell’ornamento del co- pricapo: da qui il nome di re cappello. Cfr. Amalio Marichalar, Cayetano Manrique, Historia de la legisla- ción y del derecho civil en España, vol. V, Imprenta Nacional, Madrid 1862, p.5. xvi N.d.t.: Secondo una leggenda medievale, nella chiesa di Santa Gadea il re Alfonso IV deve prestare giuramento di non aver ucciso suo fratello Sancho II, a ciò obbligato dal Cid Campeador. La leggenda non ha fondamento storico. xvii N.d.t.: Roger de Flor (1266-1305), catalano, grande capitano di ventura a servizio dell’impero bizan- tino.

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E se laggiù, negli imperi di Montezuma e degli Incas, si fossero cantate le leggendarie prodezze di un pugno di eroi (i catalani in Grecia) che, battendosi tra Imperi nemici dove non arriva il soccorso della propria nazione, e però sì i combattenti di altre, hanno ancora la forza di conqui- stare il centro stesso dell’antica patria dell’arte e della Civiltà, Messico e Perù avrebbero ferma- mente creduto che tali titani potevano essere solo gli spagnoli di Pizarro e Cortés. Si veda se esistono sulla superficie terrestre nazioni o regioni rette da uno spirito uguale e al- trettanto elevato. Le regioni spagnole, quand’anche fossero situate nei punti più opposti del pia- neta, mostrerebbero ugualmente la loro unità in virtù di queste loro chiare e possenti affinità. In tutti questi rappresentanti del genio spagnolo si scopre la stessa fede infrangibile che carat- terizza la psicologia nazionale nel trionfo dell’Ideale, che loro hanno posto principalmente nel re e nella patria, su cui, una volta completata la riconquista, la Castiglia assicurò l’Ideale Cattoli- co.xviii L’individuo cede all’apostolo. L’ingratitudine incontra sempre la lealtà. Ad Alfonso VI succe- de Fernando V, a Ruy Díaz de Vivar, Gonzalo Fernández de Córdoba.xix «Difenderò Vostra Altezza fino ad essere ridotto allo scheletro di Gonzalo Fernández», diceva al Re Cattolico il Grande Capitano. E davvero, per difendere il suo ideale tra tutte le nazioni, a questo si è ridotta la Spagna, allo scheletro di un semplice e oscuro soldato delle ultime file, di- retto e non direttore. Ma questa è una ragione per distruggere quel che resta della sua personali- tà, o è solo un motivo per aspirare alla rinascita della sua gloria e della sua grandezza, ad onore e vantaggio di tutti?

xviii Questa capacità degli spagnoli di sacrificare gli stimoli individuali in vista di un ideale collocato al di sopra di tutto è la causa del fatto che, al nostro interno, le divisioni di tipo feudale non hanno trovato un terreno fertile - e non l’incapacità di governare la vita individuale, come irriflessivamente è stato detto da qualcuno. Nella relazione di interessi, da individuo a individuo, da tribù a tribù, da città a città, la caratte- ristica dell’idiosincrasia spagnola, fin dai tempi più remoti, è stata l’isolamento. Leggendarie e perfettamen- te note sono le nostre divisioni, che non hanno ceduto nemmeno davanti al pericolo comune e che, tutta- via, sono finite e sono state deposte davanti al comune ideale. Perfino la divisione tra nazioni, che perma- ne fintanto che il nemico resta nel nostro territorio, cessa quando, scomparso il nemico, il pericolo si al- lontana e rimane solo l’ideale. Queste paradossali determinazioni sono caratteristiche della psicologia idealista, che costituisce il fondo del carattere spagnolo. Così, non essendoci più mori da combattere nella Penisola, una volta salvata la pa- tria, resta la Religione: questa, se deve essere rispettata all’interno, deve essere difesa all’esterno, imponendo in tal modo l’assolutismo del carattere nazionale. Allora le regioni abbandonano le loro endemiche risse e vanno insieme a difendere quell’ideale, motivo ultimo delle determinazioni dello Stato nell’ordine interna- zionale e in quello nazionale, e spirito della colonizzazione spagnola, come dimostrano le leggi delle Indie, dove si invoca tale ideale come ragione suprema dell’azione dei colonizzatori. Diversamente, forse il ma- trimonio di Fernando e Isabel non sarebbe stato il motivo occasionale di una unione permanente. xix N.d.t.: Gonzalo Fernández de Córdoba, detto il Gran Capitán, combatté nella guerra di Granada, trattando la resa finale dell’ultimo sovrano musulmano di Spagna, re Boabdil.

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Comunità di razza e storia, agendo in uno stesso ambito geografico, hanno prodotto l’anima spagnola in questo glorioso territorio di Iberia. Le regioni potranno rinnegare la casa comune, la tradizione, il sangue, tre affermazioni nette con cui la natura difende gli ultimi palpiti della vita, e assicura la rinascita di questo genio necessario al Progresso della civiltà; ma, dal triste e vivo esempio della regione, nonostante tutto, sorella, del protetto Portogallo, possono sapere come l’eterna giustizia trovi sempre un esecutore delle sue supreme sentenze, come non manchi mai un Inglese o un Francese, insomma uno strumento per castigare gli attentati di questa natura, nei popoli così come negli individui. In Spagna, dunque, esistono solo regioni. Possono esistere solo regioni. Alle regioni si presen- ta immediatamente come fine, al quale debbono ordinare le loro energie, il rafforzamento nazio- nale, nello stesso modo in cui il fine dell’unità super-organica immediatamente superiore si pre- senta sempre a quella inferiore, fino ad arrivare all’individuo, base primaria di ogni forza sociale. In tutte queste unità il fine [superiore] è tale perché è, non in modo esclusivo e accidentale, ma collettivo e permanente, aspirazione a raggiungere, compiendolo, la conquista di uno strumento superiore per la realizzazione dell’ideale Umano. Per soddisfare tale aspirazione le regioni debbo- no cercare di irrobustire il carattere particolare del proprio genio regionale. Questo risultato ha come punto di partenza lo sviluppo di tutte le energie vitali proprie alle regioni e il loro ordinato indirizzamento, perché esse debbono sboccare naturalmente in questo termine; e ha una conse- guenza: lo sviluppo di forze spirituali corrispondenti a tale carattere particolare e la loro tendenza all’espansione nell’intero ambito nazionale; a sua volta questo comporta necessariamente il con- trasto di tutte quelle forze - le altre realtà - che lotteranno per imporre ciascuna il sigillo della propria originalità all’anima della nazione e per trionfare nel trionfo del Progresso Patrio. In tal modo si restaureranno le energie nazionali e se ne creeranno di nuove; energie fisiche, con cui le regioni possano dotare il loro genio della forza necessaria alla vittoria, ed energie morali, per l’intensità degli elementi diversi che debbono essere contrastati, per l’intensità del contrasto, che corrisponde a quella della luce, del calore e della vita. Ed ecco in che modo la natura, nel sancire, in questo ambito delle scienze sociali, gli stessi principi che abbiamo mostrato negli altri ordini, ne determina l’Ideale delle regioni, concretizzandolo in una formula analoga a quella proposta nell’occuparci delle nazioni, in relazione alla sfera più elevata in cui queste debbono svolgere la loro attività. Cioè: «Trionfare nella Contesa scatenata tra loro per il progresso della Spagna». La regione che vincerà in questa Contesa (e nella storia non esistono vittorie definitive) imporrà il carattere particolare del suo genio al progresso della nazione. Presiederà le espansioni dell’anima nazionale. Così la regione più spagnola sarà quella che porterà più in alto il nome della Spagna, quella che più innalzerà il livello di grandezza della patria comune. Ma questo - l’Ideale Comune - è Ideale Comune a tutte le regioni spagnole. È ideale dell’Andalusia come Regione, che deve concorrere con le altre regioni nella contesa per il pro- gresso della società che tutte costituiscono, e non come realtà sostantiva e indipendente: il primo è il mezzo [= l’ideale di Andalusia come regione], l’altro [= il progresso] sarà il Fine. L’Andalusia deve avere come Ideale, come Regione Spagnola, il primato della sua qualità come ispiratrice dell’opera del Progresso Spagnolo: il trionfo in questo Progresso del suo dogma essenziale; in una

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parola, deve avere come Ideale imporre il suo Ideale nella contesa con le altre Regioni, affinché, in virtù del suo impero, il Progresso Spagnolo si innalzi più di quanto potrebbe fare qualunque altra regione e, con lui cresca il progresso del mondo, e pertanto il nome della Spagna.

MANIFESTO DELLA NAZIONALITÀ

TESTO ELABORATO DAL DIRETTORIO ANDALUSO DI CORDOVA IL 1° GENNAIO 1919 E APPROVATO DALL’ASSEMBLEA AUTONOMISTA RIUNITA A CORDOVA IL 25 MARZO DELLO STESSO ANNOi

Ai rappresentanti nelle Cortes, Deputazioni provinciali, Comuni, Università, Istituti e Scuole, Centri operai, Musei, Camere e Associazioni Culturali, Agricole, Industriali e Commerciali e a tutti gli abitanti del territorio andaluso:

i Testo originale tratto da . Tradu- zione di Gianni Ferracuti.

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Cittadini andalusi:

La nostra voce vuole riempire di imperativi di vita clamorosa e palpitante il silenzio di morte delle vostre coscienze tacite; vuole fondere gli spiriti di tutti voi in un potente vibrare ispirato dal- la nostra permanente affermazione. Sentiamo giungere l’ora suprema in cui si dovrà consumare definitivamente la fine della vec- chia Spagna, destinata a svanire come un’ombra prima che si concluda questo istante della vita mondiale: ponte tra l’eternità di un passato di follia, macchiato di sangue e vestito di artificio, e l’eternità di un futuro cosciente della finalità creatrice della vita universale, al cui compimento si ordineranno, con intensi fervori, le risorse pure delle energie umane. Dinanzi al fatale avvento di quest’ora decisiva, noi vogliamo intensificare in questo territorio deserto e silenzioso, cimitero abitato da spiriti spenti, la nostra opera creatrice di popolo vivo, rumoroso e felice, che irradierà con la sua attività le potenzialità progressive a beneficio delle nuove ere. Noi, coscienti della nostra missione vitale, invitiamo con fervore tutti gli andalusi affinché, ri- cordando come uno sprone la loro gloriosa storia, non di guerre, bensì di meravigliose civiltà passate, collaborino alla nostra battaglia; affinché sentano un’intensa e possente ansia di vita propria e diversa, considerandosi ciascun individuo un fattore attivo della Storia nuova; affinché fondino, senza timore per il sacrificio, quest’ansia di eternità, che costituisce il fondo ultimo di tutti gli esseri, con il fine di una posterità trionfante, la quale sola potrà perpetuare la nostra vita, depurata dal dolore, dignificata dalla libertà e santificata dalla giustizia. Per questo chiediamo a tutti gli abitanti di Andalusia di proclamare e difendere con veemenza i seguenti fondamenti:

PRIMO: ABOLIZIONE DEI POTERI CENTRALISTI

È necessario conservare e fomentare risolutamente la tensione generale raggiunta dagli spiriti di tutti gli spagnoli durante gli eventi di giugno e agosto 1917 e quelli del marzo 1918,ii così co- me quella creata successivamente, a seguito degli ultimi avvenimenti politici nazionali, aspirando

ii N.d.t.: nel luglio 1917, 48 deputati catalani si riuniscono in una Assemblea autoconvocata a Barcel- lona, chiedendo la convocazione di Cortes costituenti per un’organizzazione autonomista della Spagna; come risposta, Barcellona venne occupata militarmente; nell’agosto dello stesso anno il sindacato socialista UGT proclama a Barcellona uno sciopero generale, appoggiato dal sindacato anarchico (CNT, maggiorita- rio in Catalogna), che si estende alle più importanti città spagnole. Le agitazioni vengono duramente re- presse con l’intervento dell’esercito. Nel marzo 1918, con appoggio delle sinistre, si forma in Spagna un governo di unità nazionale, presieduto da Maura, con il compito di mettere fine all’influenza politica dei militari organizzati in Juntas de defensa nel precedente governo di Eduardo Dato.

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a un rinnovamento integrale della vita spagnola. Scuotiamoci dal nostro sonno secolare. Abbia- mo socchiuso gli occhi per alcuni istanti e intravisto orizzonti di dignificazione. Abbiamo sentito varie volte un’attesa salvatrice, premessa di una rivoluzione purificatrice. Non torniamo a dormi- re nell’abiezione della nostra esistenza passata. Tutti i popoli del mondo hanno sentito straziate le loro viscere e hanno prodotto con dolore una vita nuova. Si strazi anche la vecchia Spagna. Siamo forze impetuose, elaboratrici, nell’interna agitazione di una nuova vita, sorella di quella che trionferà nel mondo. Siano quali siano i metodi di cui si avvarranno i Poteri Centralisti depredatori per mantenere il loro dominio, questi Poteri dovranno, con umiliazione, essere aboliti. Dichiariamo i rappresentanti del regime attuale e i loro metodi incompatibili in assoluto, per la loro incoscienza e l’insopportabile contumacia, con le aspirazioni generose di rinnovamento. Una barriera impenetrabile di interessi politici o partitici e plutocratici, consustanziale alla con- servazione di dinastie arcaiche e di oligarchie immonde, impedisce l’avvento delle nuove condi- zioni, contraddittorie di assurdi privilegi. Rifiutiamo i rappresentanti di uno Stato che ci disonora, sostenendo regimi arcaici e feudali in tutti gli ordini dell’Amministrazione: nell’Industria, nell’Insegnamento, nella Giustizia; Poteri che conservano Codici che sanciscono barbari costumi privati, attraverso i quali la società selvag- gia di questo territorio esercita una tirannia spirituale, mille volte peggiore di quella economica e di quella politica, sugli uomini colti che si chiedono se questo paese è una patria o una stalla. Dichiariamoci separatisti da questo Stato che, rispetto a individui e popoli, conculca senza freno i diritti (fueros) della giustizia e dell’interesse e, soprattutto, i sacri diritti (fueros) della liber- tà; da questo Stato che ci squalifica dinanzi alla nostra stessa coscienza e dinanzi alla coscienza dei popoli stranieri. Vergogniamoci di aver sopportato, e condanniamolo al disprezzo o a perire; cioè, al vuoto della dimenticanza assoluta, dove si estingue il ricordo del male, alle castrate gene- razioni precedenti, che ci hanno trasmesso il disonore di questo Stato, non avendo concepito né compiuto nella loro incoscienza, nella loro codardia o nella loro malvagità, lo sforzo generoso ri- chiesto loro dalla speranza di un futuro felice. Rinneghiamo padri che hanno disprezzato i figli, vivendo con la Spagna antica la storia, sterile per il progresso umano, di un popolo ispirato da dogmi oscuri di morte, in una crociata contro la natura e la vita, procurando alla Spagna e agli spagnoli di oggi pregiudizi e disprezzo universali. Bisogna rompere la barriera secolare, e bisogna romperla ora o mai più. Badate che, pur es- sendo infima la cultura e le capacità del popolo, molto minore è quella degli uomini che rappre- sentano i regimi imperanti. Rifiutate la tirannide interna, la più degradante delle tirannidi.

SECONDO: ANDALUSIA LIBERA

In tutte le regioni o nazionalità peninsulari si osserva un incontrastabile movimento di rifiuto dello Stato centralista. Non funziona più il difendere i suoi miserabili interessi con lo scudo san- to della solidarietà o unità, che dicono nazionale.

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Anche le regioni che maggiormente amano la solidarietà, come l’Andalusia, si stanno ren- dendo conto che i veri separatisti sono loro: quelli che diffondono sospetti sui popoli vivi, come Catalogna o i Paesi Baschi, per l’orrendo delitto di voler governare da sé i loro interessi peculiari. Che direste di un individuo, o di una famiglia o di un popolo qualunque, che affermasse la sua volontà di vivere, di governare il suo patrimonio, di far uso della propria lingua, di definire rego- le private per la gestione della sua casa, e che nello stesso tempo affermasse il suo desiderio di so- lidarizzare con gli altri individui, famiglie, città o popoli, conservando l’unità o la società per i fi- ni sociali, come la rappresentanza esterna, come i servizi o gli affari che non riguardano solo uno, bensì tutti in egual modo? Sareste così dementi da chiamare un individuo o un popolo che agisse così, egoista, criminale o antisolidarista? Ebbene questo è ciò che fanno i centralisti con le regioni che vogliono sviluppare la propria vita fuori dall’azione negatrice di uno Stato incapace. Lo Stato oligarchico le attacca, proprio perché queste regioni vogliono procedere alla riforma della loro organizzazione per rendere compatibili la libertà e il diritto di tutti, e perché tutti siano rappresentati degnamente. Nello stesso modo questi Poteri hanno calunniato e vessato il Portogallo, e il Portogallo è fug- gito via dal seno della famiglia ispanica. Hanno fatto la stessa cosa con l’America del Sud, e l’America del Sud ha negato la solidarietà, sottraendosi alla tirannide della madrepatria; hanno fatto questo con Cuba, e Cuba ha cercato appoggio nella libera America del Nord contro la Spa- gna; questo vogliono fare ora con le regioni che chiamano separatiste; indirizzando verso di loro odi e differenze affettive, premesse della disgregazione. Un individuo lo si chiude in una prigio- ne, e appena può, ne scappa; una famiglia, come succede nei nostri comuni andalusi, la si perse- guita con il cacique,iii le si negano i mezzi per vivere con giustizia e dignità, e si allontanerà, come si allontanano tante, maledicendo il comune e il gregge di codardi che consente tali crimini. Con questi modi si disintegreranno tutte le nazionalità vive della Spagna. Non potrà contenere le loro ansie di libertà l’azione repressiva dei Poteri Centrali, perché questi non rappresentano alcuna essenza, mentre i nazionalisti di tutte le regioni sono mossi da una fervida essenza di liberazione, e sono impotenti le armi e gli eserciti davanti alla forza assoggettatrice, incontrastabile, che espande gli ideali di liberazione oppressi. L’Andalusia resterà sola. Le altre nazionalità si vanno affermando e anche l’Andalusia si vedrà nella necessità di vivere da sé, cioè di cercare la sua vita e il suo progresso, se non vuole essere vi- lipesa più ancora di quanto non lo sia stata finora. Andalusi: l’Andalusia è una nazionalità perché una necessità comune invita tutti i suoi figli a lottare uniti per la loro comune redenzione. Lo è perché la Natura e la storia ne hanno fatto una parte ben individuata nel territorio ispanico. Lo è anche perché, in Spagna come all’estero, la si

iii N.d.t.: caciquismo indica un sistema illegale di poteri mafioso-clientelari, sostanzialmente non diverso dalla mafia siciliana negli anni Venti del Novecento, che controlla il territorio, assegna o impedisce il lavo- ro a giornata nei campi, contrasta l’azione politica e le rivendicazioni popolari, e controlla il voto nella cir- coscrizione, trattando con partiti e istituzioni legali, che se ne servono per manipolare le elezioni.

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indica come un territorio e un popolo diverso. La degenerazione dell’Andalusia sarà la degenera- zione di tutti voi. Un popolo abietto e codardo è un mero composto di individui ugualmente in- degni e codardi. Per questo noi siamo pienamente d’accordo con l’espressione dell’Assemblea Regionalista di Ronda che proclamò l’Andalusia come una realtà nazionale, come una patria (patria è un gruppo umano che sente le stesse necessità e deve lavorare per soddisfarle in comune), come una patria viva nelle nostre coscienze. Anche per questo vogliamo rendere effettivo quanto è prescritto nel primo articolo della Co- stituzione Andalusa, votata dall’Assemblea Federalista di Antequera del 1883, che aspirava a co- stituire in Andalusia «una Democrazia Sovrana e Autonoma», che desse sostegno esclusivamente alle necessità disattese di questo territorio e al progresso concreto dei suoi abitanti.iv Per questo abbiamo deciso di rivolgere ai Poteri Centrali la seguente petizione:

I sottoscritti, interpretando le aspirazioni degli andalusi consapevoli, che non si sentono rap- presentati dalle Deputazioni provinciali, dai Consigli comunali andalusi, Municipi in mano al cacique, tenute degli oligarchi di Madrid, al Presidente del Consiglio di Governo, con tutto il ri- spetto chiedono:

1. Che nella riforma della Costituzione spagnola in senso autonomista non si privi di tale di- ritto la Regione Andalusa, alla quale si dovrà assegnare una sovranità uguale in intensità a quella sollecitata dalla Comunità Catalanav nel suo ultimo messaggio al Governo. 2. La facoltà di costituirsi come Democrazia autonoma, ordinatamente, organizzando i propri Poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, seguendo in questo l’orientamento suggerito dalla Costituzione per l’Andalusia presa in considerazione nell’Assemblea Federalista di Antequera del 1883 e dall’Assemblea Regionalista di Ronda del gennaio del 1918, mediante accordo dei Muni- cipi andalusi in una Assemblea, convocata allo scopo, integrata da rappresentanti eletti per suf- fragio diretto. Non si respinga come estemporanea questa petizione, accusando l’Andalusia di non essere in grado di usare la sua libertà. Questo è l’argomento che si usava per difendere il mantenimento della schiavitù individuale, sostenendo che gli schiavi non erano capaci di essere uomini liberi. Poiché l’Andalusia non è mai stata responsabile di se stessa, dopo la conquista e la domina- zione cristiana, venuta ad assorbire le nostre linfe vitali e a sterilizzare il nostro genio creatore, non si può dire che l’Andalusia sia incapace di governarsi nelle nuove condizioni. Quando è stata

iv N.d.t.: all’indirizzo è consultabile il te- sto della Costituzione di Antequera. v N.d.t.: Mancomunidad Catalana: organismo formato dall’unione delle quattro provincie catalane; crea- to nel 1914, l’istituto fu soppresso nel 1925.

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libera, la nostra regione ha creato le uniche civiltà meravigliose esistite in Spagna. Nel suo ultimo periodo di libertà, al-Ándalus ha salvato dalla barbarie europea la cultura occidentale e ispirato all’Europa la civiltà che oggi ha nel mondo. Non si risponda che, per concedere autonomia a questa Regione, bisogna che prima abbia co- scienza della sua personalità. La personalità dell’Andalusia, nonostante sia stata negata dalla bar- bara dominazione, emerge oggi in modo più forte di quella di ogni altra nazionalità ispanica. Per avere coscienza o visione chiara della sua personalità ha bisogno solo di solitudine per sentirla e di poteri per liberarla. L’Andalusia non è un popolo di matti e imbecilli interdetti. La sua inter- dizione non è altro che il giogo del cacique a cui l’oligarchia di Madrid la assoggetta, impedendole di pensare alle potenzialità che, senza tale giogo, potrebbe dispiegare. La tirannia economica e politica che si è sviluppata fin dalla conquista di questo popolo non è paragonabile con nessun’altra al mondo. Gli andalusi oppressi hanno perso la speranza della loro libertà e l’hanno persino dimenticata. Ma questo non vuol dire che, se si presenta la possibi- lità di esercitarla, coloro che sono stati oppressi e vilipesi non siano capaci di dimostrare che, se è esistito un popolo creatore in Spagna, questo è stato l’andaluso, come ben mostra la sua storia, sepolta dai dominatori e dissepolta oggi da molti suoi figli entusiasti, che trovano ispirazione nel- la grandezza della regione. 3. La facoltà che questa assemblea costituente possa concedere ai Municipi andalusi la più ampia autonomia. Noi non riteniamo che i Poteri Centrali oggi costituiti siano capaci di mutare il regime dell’organizzazione generale, pertanto, in modo alternativo, nel caso che tale sia l’intenzione del Governo, chiediamo che esso, rendendosi conto della sua situazione e del pericolo per la futura federazione ispanica legato alla concessione di autonomie straordinarie o all’atteggiamento di certe nazionalità, che giustamente dovranno prendersi da sé le libertà loro negate, consigli al Po- tere Regolatore la convocazione di Assemblee (Cortes) generali in cui, rappresentate tutte le Re- gioni, si possa pattuire la federazione spagnola. Cordova, 1 gennaio 1919

Tutti gli andalusi debbono aderire a questa petizione, sia rivolgendosi ai Poteri Centrali diret- tamente, sia inviandoci la loro adesione. Quando vi spingono a lottare contro le regioni sorelle, lottate per la libertà dell’Andalusia. Vogliamo libertà, perché i Poteri Centrali non risolveranno mai i nostri problemi urgenti. Li abbiamo formulati e risolti nella nostra Costituzione del 1883. Vogliamo risolvere il problema della fame in Andalusia, trasformando il bracciante in agricol- tore e ponendo fine al latifondo e alla barbarie delle terre incolte. Pertanto, conformemente a quanto votato nell’Assemblea Regionalista di Ronda, aspiriamo ad assorbire a beneficio della comunità municipale il valore sociale della terra, negando la proprietà privata di tale valore; a co- stituire con esso il Patrimonio naturale del pubblica utilità, assicurando la permanenza nel pos-

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sesso privato delle coltivazioni, edificazioni o miglioramenti, come di ogni manifestazione del la- voro individuale sulla terra. Vogliamo che ogni Municipio abbia l’obbligo di mantenere un istituto di intermediazione commerciale dei beni di consumo, che, senza danno per l’iniziativa privata, andrà a socializzare questa manifestazione dell’attività, istituti che costituiranno una sorta di cooperative municipali di consumo. Vogliamo che i Municipi utilizzino a proprio profitto imprese di ogni tipo, agricole e indu- striali, sostenendo fattorie e costruendo fabbriche e officine, lasciando la libera iniziativa indivi- duale a chi voglia usarla per tali scopi. Per la municipalizzazione del valore sociale della terra e l’istituzione forzosa di cooperative municipali di commercio e lo sfruttamento di imprese ed entità agricole municipali, verrebbe realizzata la socializzazione di tutte le attività, senza pregiudicare l’iniziativa privata, che potrebbe continuare a sviluppare le sue potenzialità. Sarebbe impossibile a un privato competere con un’impresa municipale, e pertanto si realizzerebbe la socializzazione e, nello stesso tempo, rimar- rebbe libera l’attività privata, con incentivo per lo sfruttamento di nuovi campi. Questa soluzione armonizza tutte le credenze ed è il vero orientamento da seguire per risolvere i problemi sociali considerati insolubili, i quali verrebbero ridotti a problemi di amministrazione. Vogliamo stimolare la nascita della coscienza collettiva municipale e mettere fine all’ignominia del caciquismo: 1. Per la libertà economica, risultante come conseguenza dell’applicazione delle precedenti di- sposizioni. 2. Per l’instaurazione di un sistema di democrazie pure di tipo svizzero, che consacra il diritto di petizione e le iniziative dei cittadini: con l’obbligo generale di ogni Comune di discutere i temi importanti del Municipio in luoghi come la pubblica piazza, con turni di intervento e discussione per il popolo. 3. Per l’autonomia di ciascun paese o municipio, anche per stabilire, con i soli limiti già detti e il rispetto dei diritti individuali, le loro rispettive costituzioni politiche e le loro leggi elettorali. Vogliamo creare in ogni capoluogo andaluso scuole pratiche di Arti, Agricoltura e Ingegneria, in armonia con le necessità della Regione. Vogliamo dotare di assoluta autonomia i Centri di Insegnamento; istruzione gratuita in tutti i gradi, e insegnamento obbligatorio imposto con severe sanzioni. Vogliamo che lo Stato Regionale abbia un esercito di maestri e professori, con soggiorni pe- riodici all’estero, che prestino servizio nelle scuole e nei centri di insegnamento della Regione, per apportarvi gli sforzi civilizzatori dell’Europa. Vogliamo che lo Stato Regionale abbia un esercito di medici e igienisti, che abbiano cura del- la salute dei bisognosi e veglino sulla salute dei Municipi e della Regione. Vogliamo la riforma degli arcaici codici spagnoli, per modellarli sul carattere andaluso e per l’espansione degli spiriti liberi. Vogliamo dare dignità alla donna schiavizzata da un Diritto barbaro, che ha trovato in Roma la sua ispirazione e che ripugna al genio umano e generoso dell’Andalusia che, quando fu libera,

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anche sotto il regime musulmano, ha dato alle sue donne considerazioni, libertà e rispetto simili a quelli di cui oggi godono nei paesi più progrediti del mondo. Vogliamo riconoscere, in base agli articoli 14 e 15 della Costituzione citata, l’indipendenza ci- vile e sociale della donna. Ogni subordinazione per lei stabilita dalle leggi sarà derogata a partire dalla maggiore età. Vogliamo la giustizia gratuita, la deroga delle leggi processuali civili vigenti e la loro sostitu- zione con l’arbitrato obbligatorio e l’istituzione di un corpo di magistrati incaricati dei Registri civili delle persone o delle cose. Vogliamo l’istituzione dei Poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, secondo quanto prescrit- to nella citata Costituzione, vale a dire: Camera legislativa, composta da deputati per elezione popolare o di corporazione o di classe. Ministri designati dal Parlamento. Potere giudiziario indipendente, affidato a un Tribunale supremo. Andalusi: per questo vogliamo la nostra libertà, per fare dell’Andalusia il paese che è sempre stato: il più civile e felice d’Europa, il più valente esercito di creatori della civiltà o della vita.

TERZO: LA FEDERAZIONE ISPANICA

Di ciò si avvantaggeranno l’Andalusia e la Spagna. Amiamo la fratellanza con tutte le nazionalità peninsulari, incluso il Portogallo, che soltanto insieme formeranno una potente supernazione, quando saranno tutte libere all’interno dell’unità, come lo sono gli Stati tedeschi, dentro la federazione tedesca, o gli Stati americani dentro la Federazione degli Stati Uniti del Nord America, o i cantoni svizzeri dentro la libera Fe- derazione Elvetica. Libertà e federazione, per il fine progressivo di tutti i popoli del mondo. L’insegnamentovi gigantesco della guerra mondiale è stato la consacrazione di questo principio. Si badi che non può esistere unità o solidarietà senza amore, né amore senza rispetto recipro- co o libertà. Si badi che la Spagna uniformista è nata morta, perché si è fondata sulla negazione delle linfe vitali tipiche delle nazionalità ispaniche, che hanno costituito l’anima potente della Spagna federata. Da allora, da quasi quattro secoli, la nazionalità spagnola è stata un’ombra di nazionalità, aleggiante su un territorio inerte, iniquamente sfruttato da dinastie straniere, con la collabora- zione rapace di cacique e oligarchi. Andalusi di tutti i campi e partiti: collaborate a questo compito, uomini delle idee più oppo- ste, uniti dall’ideale di un’Andalusia grande e redenta.

vi N.d.t. alumbramiento: cfr. Diccionario de la Real Academia, nell’edizione 1925, s. v. alumbrar punto 7, in rete: .

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Ci rivolgiamo tutte le classi, principalmente quelle operaie, che hanno la forza riformatrice del Potere all’ordine della loro volontà, tutte tranne la pseudo intellettualità andalusa e spagnola, dallo spirito castrato e dall’anima vile, che ha abdicato al rango di classe dirigente e serve solo per intorpidire l’ideazione generosa e l’azione coraggiosa. E diciamo alle classi agiate: Badate che nell’ordine politico e sociale offriamo ordinatamente i progressi di un’evoluzione fatale. Badate che la fame del popolo ruggisce; che la sua organizzazio- ne è già realizzata in quasi tutti i paesi andalusi; che tutti gli operai si sono ormai associati per l’aggravarsi, negli ultimi tempi, della fame e dei nuovi venti di liberazione. Se non vi affrettate a fare giustizia, verrà il giorno luttuoso in cui i rancori di sprigioneranno in ineluttabili vendette. E diciamo agli operai: l’ultimo Congresso Socialista ha votato la difesa delle autonomie regio- nali e locali e del principio federativo. La democrazia lavoratrice d’Oriente organizza la Repubblica federale russa, costituita sulla ba- se della libera federazione di regioni o nazionalità, organizzate in soviet regionali e locali. Sindacalisti: venite a difendere con la liberazione della Terra l’unico strumento che avete per avviarne lo sfruttamento con i sindacati operai e con l’istituzione dell’intermediazione mercantile municipale, l’unico strumento esistente per utilizzare questa manifestazione dell’attività umana a beneficio di tutti, in ciò che diventerebbe un Sindacato municipale. Vengano gli operai, soprattutto i contadini, a difendere l’applicazione del sacro principio di terra e libertà. La nostra voce convoca principalmente i rudi pastori delle vallate perché vengano a formare l’esercito liberatore dell’Andalusia, insieme agli affamati dei campi recintati. Contadini andalusi: siete la guida dell’Andalusia pura, che nelle città ha mescolato il suo san- gue con quello di gente straniera. La vostra storia è la storia dell’Andalusia. I vostri padri fecero di questa triste patria nostra un delizioso giardino, dove i frutti più dilettevoli erano a disposizio- ne di tutti, dove tutti sapevano leggere e scrivere: un giardino presieduto dalla gloriosa città da cui eleviamo la nostra voce: da Cordova, la città che condensò lo spirito andaluso accumulando- lo in ottanta Università e Biblioteche importanti, quante non esistono nella Spagna odierna; e lo distribuì generosamente all’Europa, dando inizio alla sua civiltà. Da qui è uscito lo spirito che ha fondato le Università europee. Qui la civiltà ha trovato un asilo inespugnabile, minacciato dalla barbarie medievale. E infine è venuta questa barbarie a dominare l’Andalusia. E allora i dominatori si sono distri- buiti in grandi porzioni il suolo patrio e hanno espulso i nostri padri, generosi e creatori, fino al- le spiagge inospitali dell’Africa rude, e hanno costretto coloro che erano rimasti ad abdicare al loro genio ribelle e creatore, chiudendoli come schiavi in queste carceri di schiavi che chiamano case coloniche, dove l’Andalusia dei braccianti, la vera e triste Andalusia, soffre ancora il suo martirio.

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I caciques del territorio e i politici, attraverso l’alienazione forzosa,vii per mezzo di contributi, hanno poi completato la rovina del piccolo contadino, che coltivava intensamente le sue terre, creando così, accanto allo stato nobiliare, i moderni latifondi. Mentono quanti dicono che l’Andalusia ride. Il riso andaluso è il ghigno del genio impazzito per il martirio, debilitato dalla fame, di un genio che ha avuto, ed ha, come fondo un ottimismo creatore, una santa gioia di vivere, oggi resa caricaturale da una lunga tragedia di miseria e soffe- renza. È cento volte più terribile del pianto il riso tragico del degrado. L’Andalusia non ride, piange. Piange vedendo i suoi figli traballare di fame e di dolore, intraprendere l’amaro cammino che conduce all’emigrazione, cercando terre che essa non può dare loro, perché alcuni signori l’hanno schiavizzata; piange quando vede i suoi bambini braccianti che mirano con ansia un pez- zo di pane, con la loro infanzia consumata nelle rudi fatiche dei campi; piange quando contem- pla le sue donne braccianti che implorano nelle case desolate rimedio alla miseria e alla morte, nei tristi giorni d’inverno, e quando tutto ciò viene fatto presente, non si può rispondere con il sostegno dato dalla prostituzione per mano di signorini abituati ai bordelli, padroni della terra ed eredi di nobili scansafatiche; piange quando vede deformarsi i loro corpi giovanili in bestiali fati- che contadine, inadatte persino a uomini forti; piange quando conta il 90% della sua popolazio- ne schiavizzata dal barbaro latifondo; quando in questo 90% di braccianti si contempla essa stes- sa, umiliata e affamata nella sporca casa colonica. Dicono che i canti andalusi sono invocazioni alla morte: quale altro rifugio, se non il disono- re e la morte, hanno lasciato a questa eccelsa dea umiliata, che si chiama Andalusia? L’Andalusia non ride: piange. Gli spagnoli non lo vedono; gli stranieri sì. Contadini andalusi: lo scandalo della vostra esistenza miserabile ha oltrepassato la frontiera e, denunciato da scrittori stranieri, è la vergogna più tragica della Spagna e dell’Andalusia. In alto i cuori! Non emigrate, combattete! La terra dell’Andalusia è vostra. Recuperate la terra che vi ha strappato la dura do- minazione! Muoia la casa colonica e abbia l’Andalusia una casa ridente e felice nella fattoria puli- ta degli appassionati contadini! Siete voi che dovete redimervi. La vostra redenzione è quella del- la nostra patria. Organizzatevi all’appello della nostra voce. Non costituitevi in bande disorganiz- zate, ma in un esercito regolare.

vii N.d.t.: Desamortización: processo, iniziato alla fine del Settecento e durato fino agli Anni Venti del Novecento, con cui si espropriavano terre e beni delle cosiddette manos muertas (Chiesa e ordini religiosi) e le terre comuni dei municipi, che venivano poi vendute. Nel XIX sec. a queste misure ricorsero i liberali, allo scopo di favorire la nascita di un ceto borghese; ma nel sud della Spagna favorirono il latifondismo, non esistendo in Andalusia un ceto di piccoli proprietari che potesse partecipare alle aste per l’assegnazione delle terre. La vendita delle terre comuni privò inoltre i contadini di una risorsa importante, aumentando la precarietà, la fame e l’emigrazione. I proprietari dei latifondi, normalmente, vivevano nelle città, e delegarono di fatto il controllo del territorio a strutture di tipo mafioso (aggettivo appropriato se si pensa alla mafia dell’Ottocento) quali appunto il caciquismo.

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Andalusi tutti: è giunta l’ora di riannodare la vostra storia interrotta. L’Andalusia è la Betica che ha prodotto per l’umanità i migliori uomini di scienza e gli imperatori più umani e filosofi; è al-Ándalus, che ha salvato la civiltà del mondo, creata dall’Andalusia primitiva. Siate degni della grandezza passata. Organizzatevi, e come gli andalusi del 1835, con la Giunta Regionale di Andúcar, imponete la riforma dei Poteri Centrali spagnoli; prendete la vostra propria libertà; concordate le misure per la vostra redenzione e siate il popolo più efficiente negli Stati Uniti di Spagna. Sia vostro grido di battaglia e di vittoria; Per l’Andalusia, per la Spagna e l’Umanità! Cordova, 1 gennaio 1919

Blas Infante. Per il Centro Regionalista Andaluso di Jaén: Inocencio Fé, Emilio Alvárez, Juan García Jiménez, Manuel Rosi (Segretario). Per il Centro Regionalista Andaluso di Cordova: Dionisio Pastor, Eloy Vaquero, Francisco Azorín, Franci- sco Córdoba.

Illustrazione da Francisco Pi y Margall, Francisco Javier Parcerisa, Recuerdos y bellezas de España: Reino de Granada, Madrid 1850

ORIGINI DEL FLAMENCO E SEGRETO DEL CANTE JONDOi

BLAS INFANTE

Questo libro è il risultato di una ricerca svolta avendo inizialmente come fine pratico soddi- sfare la mia personale curiosità davanti a un enigma che mi ero posto da tempo, soprattutto quando ero riuscito a formularlo più o meno in questi termini: Perché la musica delle canzoni andaluse, chiamate flamenche o jondas (profonde), fino al rinascimento ben inoltrato era lirica (equivalente a corale - Newmannii), mentre ora è drammatica o restia alla socializzazione presup- posta dalla polifonia? È chiaro che, per la mia pigrizia mentale, mi sarei accontentato di soddisfare la mia curiosità

i N.d.t.: Blas Infante, Orígenes de lo flamenco y secreto del cante jondo (1929-1933), Junta de Andalucía, Consejería de Cultura 2010, all’indirizzo . Traduzione di Gianni Ferracuti. ii N.d.t.: Ernest Newmann (1868-1959): critico musicale inglese.

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con spiegazioni immaginarie o soggettiviste, con le quali è abituale risolvere, almeno provviso- riamente, questo tipo di questioni in persone per le quali i motivi sentimentali dell’elaborazione artistica popolare appaiono fattori isolati esclusivi - o magari concomitanti con cause oggettive, ma comunque suscettibili solo di interpretazioni intellettualiste. Interpreti tali esprimono i loro giudizi con ipotesi arbitrarie o presunzioni proposte quasi con la spontaneità e l’immediatezza del giudizio estetico conseguente alla contemplazione delle opere d’arte - come una semplice aggiunta pseudoriflessiva a questo giudizio. In tal modo si è ritenuto possibile placare l’inquietudine, che mi sono spinto ad esporre nelle citate domande, con una di queste due soluzioni aprioristiche: la Musica delle canzoni andaluse è individualista perché lo è anche il popolo andaluso; oppure, se- condo il modo in cui alcuni musicologi spiegano questa caratteristica, tale musica è il risultato dell’ostentazione o dell’esibizionismo virtuosista degli andalusi; io, però, non potevo credere che solo in virtù di queste due caratteristiche aprioristiche, o di una di esse, si fosse determinato il fenomeno per cui la sobrietà delle canzoni andaluse medievali, o le possibilità corali o socialiste di tali strutture meliche si sono scomposte in modulazioni e cadenze melismatiche,iii code e gor- gheggi interminabili che incidono sulla fluenza originale della linea melodica, complicandola, serpeggiandola, o tagliandola nella sua traiettoria antica. Perché, accettando la prima spiegazione, l’Andalusia risulterebbe l’unico popolo individualista, forse, nel quale la musica popolare non tiene conto di organismi espressivi polifonici o corali; senza contare che in tutti i popoli proprio la musica è il linguaggio meno privato, tanto che, conoscendo il suo carattere socializzatore, non ci stupiscono fatti significativi come, ad esempio, che la musica andalusa medievale (secondo il risultato indiscutibile delle sapienti ricerche svolte da un geniale musicologo spagnolo) si è diffu- sa fino a diventare dominante in lontani paesi europei. E quanto alla seconda soluzione, che col- lega al virtuosismo la causa del fenomeno, uomini di tutte le classi sociali liberano, o hanno po- tuto liberare qualche volta, nelle loro strane canzoni, uno stato sentimentale che grava, in modo permanente e misterioso, con sorprendente identità, nel seno profondo dell’anima di tutti gli andalusi. Ad ogni modo, è anche vero che tali spiegazioni abituali non implicherebbero altro che una variante meramente formale o dilatoria della questione proposta, perché dover accertare la causa delle caratteristiche attuali delle canzoni andaluse è un problema tanto quanto accertare la causa del presunto individualismo o virtuosismo che, repentinamente e in ambito cronologico ben de- limitato (principalmente il XVII secolo), hanno determinato questi esiti nella musica popolare andalusa, mentre nei secoli precedenti questi stessi fattori non avevano conseguito la virtù di produrli. Ho dovuto, dunque, cercare una soluzione più laboriosa e oggettiva al problema, il cui conte- nuto misterioso stimolava la mia curiosità con la massima tensione, decidendomi all’impresa con

iii N.d.t.: Melisma è, nel canto, l’esecuzione di varie note su una sola sillaba del testo; nella composizio- ne musicale è un fraseggio veloce che unisce due note di una melodia. In entrambi i casi si tratta di un vir- tuosismo.

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la timidezza del fabbro che aspira a forgiare un’opera notoriamente sproporzionata rispetto alla quantità di combustibile immagazzinato e alla capacità dei mantici, il cui soffio dovrebbe mante- nere acceso il fuoco necessario nel grembo della fucina. Alcune fronde di erudizione rappresen- tavano il mucchio informe della mia legnaia, e mancavo completamente di vento, o soffio creato- re. Cioè mi mancavano, e mi mancano, le condizioni senza le quali un uomo, sotto pena di cade- re nel ridicolo, non può riuscire a penetrare i problemi semplici o intricati sopra indicati, e men che meno risolverli. Il concetto di virtuosismo sembra escludere il concetto di solitudine. Il vir- tuosismo, almeno secondo la sua nozione corrente, ha un’essenza filotimica,iv che per esistere ri- chiede un auditorio di cui l’artista vuole riuscire a destare ammirazione. Nella solitudine il vir- tuosismo equivarrebbe a narcisismo, concetto che non esclude l’ingenuità o la sincerità. Ma le canzoni andaluse del melosv flamenco generalmente si sviluppano nella solitudine. C’è qualche andaluso che non le abbia a volte modulate, invitato proprio dalla solitudine che, nel suo silenzio comprensivo, accoglie queste coplasvi frementi come il fremito di un’ultima orazione? E non si di- ca che i virtuosi di professione hanno trasmesso l’insegnamento ai profani, i quali hanno conti- nuato, in modo ingenuo, la loro ostentazione, espressa in alcune strane caratteristiche della mu- sica andalusa flamenca o honda. La comparsa del cantaó [cantante] professionista flamenco è un fatto nuovo. D’altra parte, l’imitazione del virtuosismo non cessa di essere a sua volta virtuosi- smo, e fa appello alla società come l’ingenuità reclama ambienti solitari. Inoltre, io non riesco a comprendere l’esistenza di un popolo di virtuosi, anche perché il vir- tuosismo è un’idea che si confonde, o almeno è contigua con l’idea della professionalità. E la ve- rità è che in Andalusia chiunque - e più in campagna che in città - scrive storia: un capitale note- vole di conoscenze erudite (isolato, a molti chilometri dai luoghi in cui avrei potuto trovare gli strumenti di consultazione sufficienti, ho dovuto acquisire la gran maggioranza delle opere che figurano in bibliografia insieme al materiale musicale necessario per le mie prove, soprattutto di- schi grammofonici nazionali ed esteri, di cui ho riunito una raccolta notevole, anche se non ab- bastanza completa, per completare la sperimentazione. O per completare le analisi a fondamento delle mie induzioni); e, cosa ancor più importante: mi mancava e mi manca ciò che non può es- sere acquisito con i normali strumenti della laboriosità, ciò che nasce con la persona dello stori- co, qualcosa di carismatico, senza il quale dono sono inutili tutte le erudizioni - vale a dire una rapida e luminosa intuizione anticipatrice, per dirla con Epicuro, che si manifesta nella forma del- la perspicacia capace di compiere, con isolati o incompleti resti archeologici, il miracolo di resu- scitare integralmente i morti, restaurando, con elementi disgregati dei corpi disfatti dal soffio dei secoli, non solo la loro forma vitale, ma anche la pienezza dei loro stati di coscienza.

iv N.d.t.: in greco antico, filotimìa indica l’ardente desiderio di onori; sostanzialmente, Infante sta obiet- tando che, se la musica andalusa è virtuosistica, non può essere individualista e privata, e viceversa. v N.d.t.: melos, in greco antico significa canto. vi N.d.t.: copla è il testo della canzone flamenca, consistente in una strofa (appunto copla) di breve esten- sione, il più delle volte dai tre ai cinque versi.

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Ma credo di aver avuto fortuna. La tragedia presupposta da ogni in-formazionevii artistica (con- flitto - già osservato dai trattatisti di Estetica - tra la necessità dell’espressione, che è essenza illimi- tata, e la forma precisa, che è estensione o limite), che raramente la tecnica riesce a risolvere in modo accettabile, intravista nelle espressioni flamenche o jondas, mi ha messo sulla via di una so- luzione. Infatti, le trasformazioni flamenche operate nella musica andalusa sopra il suo fondo an- tico lirico o corale, hanno dovuto obbedire, in base a quella legge, alla necessità di esprimere nuovi stati sentimentali o di coscienza, e il bisogno di espressione corrispondente a questi nuovi stati ha dovuto sperimentare la sua tragedia informativa, sviluppandola nell’elaborazione di una struttura o forma appropriate e di una tecnica corrispondente alla novità di questa stessa forma.viii Questa, e non altra, doveva essere la causa del fenomeno flamenco che, con la sostanza del materiale me- lico antico, riuscì a combinare gli elementi di questo materiale in un diverso modo (mediante al- terazioni di ritmo, modulazioni e diverso trattamento dei gradi tonali o suoni che integrano le scale). E se, ad esempio, nelle strutture letterarie l’intuizione estetica popolare è riuscita a trovare le forme più adeguate all’espressione dei pensieri concettuali, perché non pensare a questo stesso espediente tecnico per l’elaborazione delle forme espressive dei suoi pensieri sentimentali? In tal caso, le caratteristiche di queste forme dovrebbero corrispondere alle caratteristiche di questi pensieri e, pertanto, la tristezza esagerata, l’individualismo scontroso o irriducibile, espressi nei melismi o modulazioni cromaticheix (identificazione e nomi a cui sono giunto più avanti, stu- diando seriamente il melisma flamenco), e la trasformazione dei ritmi antichi non risultavano es- sere, come indicano i musicologi, finzioni virtuosistiche, né la traduzione del carattere perma- nente individualista di un popolo, ma espressioni di vissuti effettivi, corrispondenti a un periodo della storia del popolo o dello Stile di Andalusia - un modo accidentale o storico con cui questo stile si trasmette o si interrompe in forme culturali adeguate. Ed è chiaro che, al tempo in cui si è realizzato questo cambiamento della musica andalusa, hanno dovuto corrispondere dei vissuti fluenti in espressioni prima allegre o malinconiche, ma liriche e corali, poi individualiste e solita- rie. Insomma, la musica andalusa flamenca, o jonda, ha dovuto corrispondere nelle sue origini a pratici stati storici di solitudine e tristezza, o a tremende disperazioni, a stati antisociali, disartico- lanti gli individui nella relazione con il gruppo umano in cui, in precedenza, poteva trovare un

vii N.d.t.: così nel testo originale (in-formación), per indicare il processo che dà forma estetica all’ispirazione. Il bisogno di esprimere artisticamente un intimo vissuto conduce ad elaborare una forma (un’opera) che lo esprima. Mentre l’opera formata ha dei contorni precisi, l’ispirazione, di per sé, precede tale forma e non ha limiti. viii N.d.t.: allude al trauma dell’espulsione dei moriscos (1609): la perdita della terra e del loro mondo culturale è un vissuto fortemente traumatico che, nel momento in cui si esprime attraverso la musica e il canto (= prende forma artistica) non riesce ad adattarsi ai moduli preesistenti, ed anzi ha bisogno di stravol- gerli perché l’espressione sia adeguata all’ispirazione. ix N.d.t.: le modulazioni cromatiche si riferiscono ai semitoni: probabile allusione all’uso dei quarti di tono conservati nel canto flamenco.

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naturale complemento. Dunque, bisognava cercare nella Storia i motivi oggettivi che hanno determinato nel popolo andaluso l’atteggiamento sentimentale citato, di cui diventava un nudo correlato la nuova espres- sione musicale o la nuova tecnica che, esercitata sulla base dell’antico fondo melico, era venuta a produrre le nuove forme. La tragedia della in-formazione, per questa volta, doveva implicare in definitiva la in-formazione musicale di una storia tragica o della storia di una tragedia. Di conseguenza, se, nell’indagine sulla storia andalusa, fossi giunto a un periodo nel quale quegli stati citati di coscienza erano vigenti, sarei arrivato a percepire le cause oggettive determi- nanti tali stati; e se la comparsa del fenomeno flamenco fosse coincisa con l’inizio o l’azione di tali cause, allora la mia curiosità sarebbe risultata pienamente soddisfatta, perché avrei scoperto non solo le origini cronologiche o la data di produzione del fenomeno, ma anche, cosa più im- portante, le sue cause, la cattura del segreto, la cui esistenza è suggerita dal mistero di queste can- zoni inquietanti. In questo modo sono riuscito a mettermi in cammino, a intravedere una dire- zione e un modo di procedere. Ma il problema iniziale era più trascendente di quanto sembrava a una prima formulazione, ingenuamente intesa come domanda sulle cause che hanno determina- to il fenomeno implicito nella variazione della musica, o meglio della tecnica musicale andalusa. Si presentava ora nientemeno che come problema relativo alle origini di un organismo estetico, «Origini del [de lo] flamenco»,x dato che «flamenco» è il genere e il canto flamenco la specie. E, ancora, la portata della mia ricerca doveva comprendere un’estensione più ampia e profonda. Un organismo estetico è un fatto culturale, espressione, a sua volta, del divenire di uno Stile. Che Stile poteva essere questo, la cui attività sotterranea si rivelava in questo fatto culturale spurio (di- sprezzato, considerato pittoresco, inferiore, cioè corruttore del dinamismo di un termine svaluta- to nella considerazione del popolo spagnolo, e principalmente delle sue classi colte)? Quale in- fluenza storica occulta potevo io riuscire a cogliere qui? Erano così attraenti queste prospettive che sulla coscienza della mia incapacità venne ad erger- si una modesta, ma ferma, volontà indagatrice, che non si accontentava delle assurde presunzioni aprioristiche esistenti fino ad allora per spiegare le origini del flamenco. Io volevo godere piena- mente dei piaceri che avrebbe potuto finalmente offrirmi un giudizio completo sul flamenco. Ma perché questo piacere fosse autentico, dovevo riuscire a sperimentare, come diceva Averroè, una sensazione naturale delle cose, quali che fossero; e per questo dovevo soprattutto scoprirle. Il lavoro sostenuto da quella volontà è stato portato a termine. Se ho visto giusto o no, giudi- zio che compete solo al critico, io non posso saperlo. So unicamente che la mia curiosità è stata soddisfatta, e che la teoria, che in questo libro viene elaborata, deve essere teoria, perché mi è servita efficacemente, come il lettore osserverà, come strumento di interpretazione di tutti i fatti del fla- menco o con esso relazionati; ho sottoposto tutti questi fatti, come materiale probatorio, alla spiegazione fondamentale unitaria imposta dalla Teoria, e nessuno di essi ha opposto resistenza

x N.d.t.: lo flamenco, con l’uso dell’articolo neutro lo, significa: tutto ciò che è flamenco, cioè non solo canto e musica, ma anche abbigliamento, costumi, stili di vita.

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alla spiegazione secondo questa chiave interpretativa. È anche chiaro che, dopo aver costruito questa Teoria, un massimo di rappresentazioni (Edith Kalischerxi) è venuto ad arricchire il mio piacere critico: la loro presenza nelle forme meliche po- polari dell’Andalusia. Per la mia modesta comprensione (e ora debbo limitarmi a esporre dogma- ticamente la mia idea su questo argomento), i vissuti che l’arte aspira a esprimere non sono quelli che nascono nell’impressione primaria, provata dall’artista, al contatto del mondo. Credo che l’arte sia riconvenzionexii della realtà (né fuga da questa, né semplice sua rielaborazione), ispirata dal sentimento di una realtà superiore provata dall’artista. Tra quel vissuto primario e i suoi motivi esteriori sorge la riconvenzione, che a volte aspira a correggere o regolare, e altre a sostituire tali motivi con loro derivati o simili in ordini puri della realtà. Riflessi di un mondo in un altro mondo. Un accadere spiacevole si trasforma in un accadere piacevole se si riesce ad averne espe- rienza nello specchio dell’altro mondo; nel mondo puro del suono, del colore, del movimento, retti dal sopra-mondo del ritmo. A questo secondo tipo appartiene, come riusciremo a vedere, la riconvenzione espressa dal flamenco. [pp. 13-22] [...]

Nello stesso giorno in cui sto scrivendo queste righe ho anche intervistato un meticcio. È El Pajarito, di Isla Cristina, figlio di madre gitana e padre andaluso. L’ho interrogato su uno degli argomento dell’indagine che ho realizzato con gitani, castigliani e meticci: «Che ti sembra che sia il flamenco?». Risposta: «Canto..., ballo...». Domanda: «Tutti i balli e i canti sono flamenchi?». Risposta: «Tutti no, solo quelli che si ballano e cantano qui, quelli che hanno tale forma».xiii Domanda: «Un uomo vestito con un bolero corto, camicia arricciata, cappello e pantalone attillato, è flamenco?». Risposta: «Può esserlo... se non è privo di grazia»...xiv Ha ragione El Pajarito. Ci sono canti flamenchi e ci sono abiti flamenchi, ma il flamenco, prima di un vestito o un cante, è uno spirito, una grasia, come direbbe Pajarito. E perché le cose siano flamenche, debbono essere la jechura [forma] viva di quello spirito, o di questa grazia. È possibile che le induzioni che partono da queste affermazioni del Pajarito siano quelle che ci por- teranno alla verità. La parola flamenco non è potuta nascere da una considerazione particolaristi- ca o di dettaglio, non ha potuto cominciare con l’essere la designazione di un abito, di un cante, ecc., che poi avrebbe esteso il suo significato fino a includere cose diverse come un modo di par-

xi N.d.t.: Edith Landmann-Kalischer, Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst, I: Grundlegung der Äs- thetik, II: Die Ästhetische Betrachtung und die bildende Kunst, Hamburg und Leipzig, Leopold Voss, 1903-06 xii N.d.t.: reconvención, termine tratto dal linguaggio giuridico, indicante il chiamare in giudizio chi pre- cedentemente aveva chiamato noi e, come derivato, il rispondere a una domanda ponendo un’altra do- manda. In sostanza, Infante afferma che ci sono dei motivi che provocano dei vissuti e l’arte, non limitan- dosi a descrivere tali motivi, o a fuggirne, si interroga su di essi e li rielabora, trasformandoli in oggetti este- tici. xiii N.d.t.: «Toh no, Na mah que loh que bailan y cantan por ahí..., loh que tiéen jechura» (=todos no, nada más que los que bailan y cantan por ahí..., los que tienen hechura). xiv N.d.t.: «Pué sehlo... sino eh un esaborío!» (=puede serlo... si no es desabrido).

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lare, un modo di camminare, un ballo, un modo di suonare, ecc. Ha dovuto battezzare un fatto generale, un fenomeno matrice di una serie di fatti di specie diversa, ma caratterizzati o qualifica- ti da uno stile comune. Ha dovuto cominciare ad essere usata senza l’intenzione di battezzare prodotti già creati, ma per annunciare una situazione madre di questi prodotti. Però... a me non è permesso immaginare, ora che mi propongo di rendere oggetto di ragione ciò che fino ad ora è stato solo oggetto di immaginazioni. [pp. 59-60] [...]

1. I creatori del flamenco dovettero essere uomini erranti. 2. Dovettero essere ispirati da un’idea culturale o stile fondamentale di esorcizzare la natura con l’evanescenza dei suoi contorni materiali in una forma prossima all’essenza, o idea del ritmo, raggiunta con una disintegrazione dell’elemento materiale nei suoi elementi più piccoli, e da una combinazione estetica di questi elementi. Questo significa la modulazione cromatica. 3. Uomini erranti dovevano ridurre le loro espressività estetiche ordinandole lungo una sola via, la melica, come canale esclusivo o principale per il corso o la realizzazione della loro idea cul- turale. L’insistenza disintegratrice del suono non significa altro. 4. Dovettero sentirsi limitati nei loro movimenti, timorosi di un potere esterno. L’ambito ri- dotto delle loro melodie, le loro progressioni alternanti, andare e venire, in un recinto stretto: lo spazio delle loro danze non significa altro: uomini in prigione o vicini ad esserlo. 5. Dovevano essere profondamente tristi: il ritmo, come le ore della pena. E a volte disperati, come dimostrano le proteste liriche trasportate dalle coplas. Ora abbiamo altre caratteristiche da aggiungere alle congetture sul gruppo parlante con strane parole. Solo che ora non sono congetture, ma fatti certi, comunicati dai pensieri infallibili con- tenuti nella struttura delle coplas. Chi potevano essere questi uomini? Procediamo con pazienza, ché ormai ci stiamo avvicinan- do. È lo splendore che precorre la luce che verrà ad illuminare il quadro della nascita del flamen- co. Ci stiamo ormai avvicinando alla soluzione, perché possiamo ora riuscire a porci il problema in termini molto concreti. Lo studio del flamenco ci ha condotto ad avvertire una distinzione fondamentale: a) Struttura melica. b) Tecnica. Il flamenco è il risultato dell’uso di questa tecnica, che fu applicata a quella struttura melica adeguata. Accertare quando, dove e perché è stata suscitata questa tecnica, ed è stata applicata a quella struttura, è il problema la cui soluzione porta con sé la scoperta delle «origini del flamen- co». Bisogna, dunque, separare le due cose deplorevolmente confuse, e la cui confusione ha de- terminato la perplessità dei ricercatori più illustri, che si trovano davanti a un problema la cui so- luzione immediata e diretta, come quella di tutti i problemi, è impossibile. I problemi debbono essere ridotti, e questa operazione consiste in una serie di formulazioni previe, approfondendo i

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termini della proposizione generale superficiale, cosa che dà come risultato la loro sostituzione con altri più concreti, più profondi o meno semplicisti. [pp. 157-158] [...]

Che le origini indicate non possano essere espresse nelle coplas, si comprende facilmente. La- fuentexv dice che in ogni momento si creano migliaia di coplas che fanno dimenticare le preceden- ti. Inoltre, le coplas individuali, eterodosse, in tempi di rigorosa persecuzione, non avrebbero po- tuto arrivare ad essere trasmesse. Ciononostante, ve ne sono alcune che alludono espressamente all’Espulsione, cantate nel XIX secolo (V. Machado, Coplas de expulsión).xvi Forse il testo di alcune di queste canzoni fu comunicato dal morisco al gitano. Osservo che gli autori di raccolte classificano le coplas distribuendole in base al carattere este- riore dell’argomento. C’è una classe di quelle che parlano d’amore, un’altra di quelle morali, un’altra ancora di quelle religiose... Ma questo è come classificare gli uomini in base ai loro sen- timenti. Questo criterio è assolutamente superficiale. Ciò di cui si deve tener conto, per trovare una più esatta distribuzione delle coplas, è il senso intimo di ciascuna di esse. Le coplas si produ- cono in un ambiente sociale, ed è necessario osservare con attenzione il senso delle loro relazioni con tale ambiente, e contemporaneamente la loro funzione espressiva di un temperamento indi- viduale. Non bisogna perdere di vista il fatto che in una canzone amorosa si può esaltare o con- dannare una politica religiosa, ad esempio, o un costume, o un concetto sociale o giuridico. Que- sto lo si può fare direttamente o in modo equivoco. Seguendo questo metodo riusciremmo a percepire nelle canzoni una fonte insospettata di informazioni su concetti giuridici, religiosi, ecc., sostenuti dal popolo, al margine della realtà ufficiale. Vale a dire che, prestando attenzione al contenuto di queste canzoni in un certo momento, verremmo informati non solo sulla psicologia popolare (informazione molto difficile e dai risultati sempre paradossali), ma anche dei suoi de- sideri pratici relativi alle istituzioni della sua vita sociale. Dall’esposizione storica precedente appare che la Musica andalusa del Medioevo, lirica e cora- le, ci si presenta con caratteri uguali nei secoli XV e XVI, dopodiché se ne perdono le tracce, fin- ché non riappare alla fine del XVIII, alterata da una strana tecnica e in potere dei gitani. Abbiamo dunque ridotto l’ambito cronologico al cui interno dovremo cercare la nascita o la produzione del fenomeno flamenco. Questo ambito si concretizza in un periodo di circa due se- coli, approssimativamente: dal secondo quarto del XVI secolo all’ultimo quarto del XVIII. Per orientarci in questo ambito abbiamo bisogno di una bussola. E questa non sarà una Teo- ria o espediente strumentale, ma possiamo formularla in questo modo: Date le caratteristiche di una produzione estetica, determinare i vissuti in essa espressi, cioè gli stati d’animo o sentimenta- li che hanno raggiunto un’adeguata rivelazione nel fenomeno estetico: una canzone allegra ci cer- tifica uno stato di allegria; un’altra, triste o disperata, uno stato di solitudine. Una trasformazione

xv N.d.t.: Emilio Lafuente Alcántara, Cancionero popular, Madrid 1865. xvi N.d.t.: allude all’antologia di «Demófilo», Antonio Machado Álvarez, Colección de cantes flamencos (1881; successivamente come Colección de cantes flamencos recogidos y anotados, Signatura, Sevilla 1999).

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come quella sperimentata dalla musica andalusa e medievale, da lirica e corale, non drammatica a irriducibilmente monodica, deve manifestare una perturbazione sociale, disarticolante o ato- mizzatrice, disgregante l’insieme sociale al quale dovette servire da espressione. Guardiamo se è accaduto qualcosa di simile in Spagna durante questo periodo o ambito: la Musica, o struttura melica che abbiamo denominato flamenchizzabile, è entrata nei palazzi regali durante il Rinascimento, così come ha cantato lodi alla Vergine durante il medioevo. Ma, in quanto musica popolare, era conservata dal popolo musulmano da cui proveniva; infine, nel se- colo trascorso, dal popolo da poco convertito dalla pressione dell’intolleranza iniziata da Isabel. In primo luogo troviamo questo popolo sottoposto a una persecuzione che raggiunge il culmine dopo il trionfo di don Giovanni d’Austria e dopo le terribili spoliazioni che fecero dire a Már- molxvii che i soldati del re erano truppe di delinquenti. Ma dopo questo fatto le persecuzioni vengono mitigate. I cristiani nuovi, moriscos e mudeja- res,xviii designati ormai entrambi con questi nomi, possiedono ancora la poca terra che poterono salvare dalla conquista e continuano a coltivare tutta la terra che era destinata a tale scopo in Andalusia. Per la precisione, la politica vacillava ancora, prima di decidersi all’espulsione dei vin- ti, perché questi coltivavano la terra e questa sarebbe diventata un deserto, con una conseguente penuria per lo Stato, se fosse stata adottata alla fine la misura radicale. L’abbondantissima biblio- grafia posteriore all’espulsione, anche quella letteraria, coincide nell’affermare questo fatto evi- dente. Il Contadino andaluso, come quello valenciano, era morisco. Ma all’inizio del XVII seco- lo, i Poteri Pubblici spagnoli decidono di espellere quegli spagnoli eterodossi rispetto al genio eu- ropeo, impulsore, in definitiva, della Conquista. Le statistiche degli espulsi variano da trecentomila a un milione. È chiaro che restavano in Spagna i convertiti di antica data, ormai vetero-cristiani. Si tenga presente che solo il regno di Granada contava 5.000.000 di abitanti, e il resto della Spagna 6.000.000. Si vedano gli attuali braccianti. Ma allora accade un fenomeno curioso, non avvertito dagli storici. O protetti dai si- gnori, a cui servivano contadini, o senza alcuna protezione, aggrappati al suolo della Patria, gli andalusi corrono a nascondersi. Quelli che sapevano parlare bene il castigliano in luoghi dove non erano conosciuti; quelli che non riuscivano a dissimulare la parlata o l’accento moresco, nel- le montagne e in luoghi inaccessibili. Più ancora: la maggioranza di coloro che erano stati effetti- vamente espulsi torna nel suolo patrio. Ci sono testi che lo dimostrano incontestabilmente: tra questi il Memoriale-denuncia dell’Alcalde de los Vélez, che informa il Re che tutti i moriscos

xvii N.d.t.: Luis del Mármol Carvajal (Granada, 1520 - Vélez-Málaga, 1600), Historia de la rebelión y castigo de los moriscos del reino de Granada (Málaga, 1600), all’indirizzo: . xviii N.d.t.: mudéjar è il musulmano passato a vivere sotto l’autorità politica cristiana a seguito della recon- quista. Moriscos sono, formalmente, i convertiti al cristianesimo (anche attraverso battesimi di massa forza- ti), e il termine viene dall’espressione cristianos nuevos de moros.

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espulsi tornano in patria. Ricote, che lo rivela a Sancho. xix Ma questi moriscos, questi andalusi fieramente perseguitati, rifugiati nelle grotte, espulsi dalla loro Società spagnola, questi atomizzati della Società andalusa - fermenti inorganici di una nazio- nalità perduta - trovano nel territorio andaluso uno strumento per legalizzare, per così dire, la lo- ro esistenza, evitando la morte o una nuova espulsione. Alcune bande erranti, perseguitate con furore, ma sulle quali non pesa l’anatema dell’espulsione e della morte, vagano ora di paese in paese e costituiscono comunità dirette da capi e aperte a ogni disperato peregrino, espulso dalla Società per disgrazia o per crimine. Basta compiere un rito di iniziazione per entrarvi. Sono i gitani. Gli ospitali gitani errabondi, fratelli di tutti i perseguitati. I più disgraziati tra tutti i figli di Dio, come direbbe Borrow.xx Fu dunque necessario rifugiarsi presso di loro. A gruppi entravano quegli andalusi, gli ultimi discendenti degli uomini venuti dalle culture più belle del mondo; ora contadini fuggiti (in arabo felahmengu significa contadino fuggito o espulso). Capite ora perché i gitani di Andalusia costitui- scono, secondo gli scrittori, il popolo gitano più numeroso della terra? Capite perché il nome flamenco non è stato usato nella letteratura spagnola fino al XIX secolo, e perché, esistendo da al- lora, non è passato all’uso generale? Una denominazione araba doveva essere perseguita fino a condurre alla denuncia del gruppo di uomini, eterodossi rispetto alla legge dello Stato, che si va- leva di tale nome. Comincia allora l’elaborazione del flamenco ad opera degli andalusi esiliati o fug- giti sui monti dell’Africa e della Spagna. Questi uomini conservavano la musica della Patria, e questa musica servì loro per analizzare la propria pena e per affermare il loro spirito: il ritmo len- to, lo sfinimento cromatico. [pp. 161-167]

xix N.d.t.: «Las malas noticias que no cesaban de llegar a Madrid parecían darle toda la razón. El 22 de febrero el gobernador de Ceuta, el Marqués de Villarreal, advirtió del creciente número de moriscos que llegaban a Ceuta, empu- jados allí por los bereberes que los echaban de sus tierras después de haberles robado todo lo que llevaban, aviso que repitió el 18 de abril. Más o menos al mismo tiempo, el alcalde del Peñón de Vélez de la Gomera escribió informando de que había dado permiso a varios lotes para volver a España. En junio el Maestro de Campo Gaspar de Valdés noti- ficó desde Larache que aunque se le había ordenado no dejar entrar a los moriscos españoles por si utilizasen la plaza para volver a España, a él le gustaría emplear a unos 30 “para trabajar en las obras de aquella plaza”. Está claro, por tanto, que los moriscos estaban utilizando todas las plazas españolas del norte de África - Ceuta, Tánger, Larache, Pe- ñón de Vélez de la Gomera, Orán— como refugio, primero, de los ataques de sus supuestos correligionarios, y platafor- ma, segundo, para poder volver a su tierra» (Trevor J. Dadson, «El regreso de los moriscos», in Aa. Vv., Cartas de la Goleta: Actas del Coloquio Internacional «Los moriscos y Túnez», Embajada de España en Túnez, 2008, 83- 106, 96-97). Cfr. anche un’informazione di Pedro de Arriola a Felipe III, secondo cui l’alcalde del Peñón de los Vélez lasciava rientrare liberamente i moriscos in Spagna (cfr. Manuel Danvila y Collado, La expulsión de los moriscos españoles; conferencias pronunciadas en el Ateneo de Madrid, Madrid 1998, 318). Ricote è, nel Don Chisciotte, un morisco compaesano di Sancho, che torna clandestinamente in Spagna travestito da pel- legrino tedesco. xx N.d.t.: George Borrow, The zincali, or an account of the gipsies of Spain, Murray, London 1841, 2 voll.

Hilma Granqvist takes part in the harvest, Artas, Palestine.i

MOTHER AND CHILD IN PALESTINE: THE ARTAS MATERIAL IN HILMA GRANQVIST NACHLASS AT THE PALESTINE EXPLORATION FUND ROSANNA SIRIGNANO

Most part of the following article an extract from my BA and MA research work about the re- nowned anthropologist Hilma Granqvist’s contribution to our knowledge of Palestinian Arabic. Hilma Granqvist died in 1972 in Helsinki. Shortly after her death the Palestine Exploration Fund (PEF), with the valuable help of Shelagh Weir, acquired all the material resulting from Granqvist’s fieldwork in Palestine. Granqvist’s research represents an important contribution to ethno-anthropological studies of Palestine, because of the richness of the content and the detailed description of women’s lives, with particular attention to their linguistic practices. Hilma Granqvist learned Palestinian Arabic because she was aware of the importance of speaking the language of the culture she was re- searching. As anthropologist the worldview of each human being is transmitted through his lan- guage, and so attention to linguistic practices allows us to develop a better understanding of the complexity of a given social system.

i Karen Seger, Portrait of a Palestinian village, the photographs of Hilma Granqvist, London, The Third World Centre for Research and Publishing. (1981)

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This selection of examples show that our knowledge of Palestinian Arabic could be extended even through indirect sources, such as ethnographical works. Anyway, Granqvist’s accurate description of a Palestinian small village daily life will ever have a unique and special place in Middle East anthropology. In 1972 the anthropologist Shelagh Weir, whose help has been invaluable to me, visited Granqvist’s house in Helsinki to go over her papers: «Her living room was lined with files and books; she had obviously spent years sorting, annotating and labelling her precious research materls ia ».ii

HILMA GRANQVIST: BIOGRAPHY AND WORK

Hilma Granqvist was born in 1890 in Sippo. Her family was Swedish-speaking Finn, a minor- ity group in Finland. In 1911, having finished her schooling at a girls school in Helsinki, she be- gan to study at Ekenäs Seminarium. She received a teaching diploma there in 1914 together with Helena Westermarck.iii Helena was the elder sister of Edward Westermarck (1862-1939), who was to become fundamental to the career of Granqvist in the years that followed. In 1921 Granqvist obtained a master’s degree in pedagogy, childy ps chology and philosophy at Helsinki University. Then she decided to continue her studies with the Associate Professor of Practical Philosophy, Gunnar Landtman, who assigned her a thesis on «Women and the Old Testament». In order to acquire more knowledge about this issue, Granqvist went to Berlin where she attended a course in Old Testament Studies at the university. Then she moved to Leipzig where she studied archaeology and theology.iv Granqvist soon realised that the material available to write her book was not sufficient, so she decided to go to Palestine in order to study the lives of women. She left for the field work for the sake of her personal interests, without the support of any academic institution. Granqvist’s tutor in Berlin, the theologian and biblical scholar Professor Ernst Sellin (1867-1946), felt that any woman of the generation preceding Granqvist’s wishing to carry out field research in Middle East would have been considered «mad».v So even a great Professor of the 19th century Berlin stressed her pioneering role. In 1925 Hilma Granqvist obtained a scholarship from a the Finnish students union Nylandska Nationen. In the summer of the same year she left for Palestine. In Jerusalem she studied Palestinian archaeology, taught by Professor Albrecht Alt (1883-1956) at the Deutches In-

ii Shelagh Weir, «A pioneering anthropologist in Palestine», The Middle East in London, vol 8, N. 4 April- May 2012, pp. 16-17. iii Suolinna, Kirsti, «Hilma Granqvist: a Scholar of Westermarck school in its declineœ», Acta Sociologica, 43\4, p. 318. (2000) iv Suolinna 2000. v Shelagh Weir, «Hilma Granqvist and Her Contribution to Palestine Studies», Bulletin of the British So- ciety for Middle Eastern Studies, 2\ 1, 6 (1975).

Rosanna Sirignano: Mother and child in Palestine 161

stitut fur Evangelische Altertumswissenschaft des Heiligen Landes (DEIAHL).vi At the end of this course Granqvist began her research in Artas.vii She remained in the village until March 1927. She got a chance to return again three years later, thanks to an international scholarship from The Association of American University Women.viii Between the two stays in Artas, she followed a course in sociology at the London School of Economics, taught by Professor Westermarck. Here Granqvist had the privilege to meet one of the most important 20th century anthropologists, Bronislaw Malinowsky (1884-1942) and she at- tended one of his courses in 1938. The research which Hilma Granqvist undertook between 1925 and 1931 provided her with most of the material, that later became the content of her published work. In 1931 she published Marriage conditions in a Palestinian village vol. 1 and in 1935 the second volume appeared.ix These two volumes offer a detailed description of marriage stages and some aspects of family life. In 1939 Granqvist published Arabiskt Familjeliv. Thanks to this book, she won a prize in a Scandi- navian competition, that used to reward scientific work.x Based on the lsmater co ia llected during the years from 1925 to 1931, the two volumes dedi- cated to childhood, Birth and childhood among the Arabs (1947) and Child Problems among the Arabs (1950),xi offer a complete overview of children’s way of life of the Palestinian village Artas, start- ing from the phase of pregnancy. In the first book the author describes the customs and traditions regarding conception, preg- nancy, birth and post-natal practices, such as social and religious education, training and circum- cision. The second book deals with the health and care of the child, examining issues such as in- fant mortality and devoting a large part of the description to rituals that ward off evil forces. It also provides a detailed list of names that were actually chosen for children, with several tables divided by gender and derivation. The two books can be considered a continuation of the previ- ous publications of the author, Marriage conditions in a Palestinian village volumes I (1931) and II (1935), which concern the same group of people and give a complete picture of the family in the community of Artas. During the Thirties, Hilma Granqvist tried to find new funding in order to be able to go back to Artas, without any success. In 1959, twenty-eight years after her last stay in Palestine, she re- turned to the village thanks to the support of the Elin Wagner Foundation of Stockholm.xii In 1965 she published the results of her last period of research: Muslim death and burial. Arab customs

vi She was the first women to be accepted by the DEIAHL. vii The Arabic transliteration is Arṭās but for reason of convenience and to make the toponym recog- nizable I will use the current trasliteration «Artas». viii Weir 1975, p. 7. ix For reasons of convenience the two book will be initialled respectively: MC I and MC II. x I was unable to find any further information about this competition. xi For reasons of convenience the two book will be initialled respectively BC and CP. xii Weir 1975, p. 7.

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and traditions studied in a village in Jordan.xiii Here she describes customs and beliefs about illness and death. Even though her work was highly valued, Hilma Granqvist has never had the academic pro- fessional career that she could have deserved.xiv Her application for a senior lectureship was re- jected by Helsinki University.xv This was probably due in part to her choosing her own country to carry on an academic career, since Finland was not a country that dedicated much time and at- tention to anthropological research.xvi Moreover, at that time it was not easy for a woman to have an academic career. But on the other side, being a woman allowed her to explore the Muslim world in a way which would have been impossible for a man. As Professor Westermack stated: «Oriental women can be properly studied by women only».xvii Paradoxically, being a woman was both a great obstacle to Hilma Granqvist’s career, and, at the same time, it gave her a unique possibility to have access to women’s spaces.

ARABIC HANDWRITTEN NOTES

The analysis of the Arabic handwritten notes acquired by the PEF gave me the possibility to explore Artas women world more closely and to give them a evoic . The PEF gave me the permis- sion to access Granqvist’s archive which is composed by field notes, journals, pictures and per- sonal letters. When I began to be interested in Hilma Granqvist’s works in 2009, I came across an article entitled Hilma Granqvist and her contribution to Palestine Studies by Shelagh Weir. This article included a report on Hilma Granqvist’s material by professor Emanuel Marx with a short description of the contents of the files. Thanks to this list, I was able to select the files more suit- able for my research. I examined twenty two of over seventy files.o I spent tw weeks at the PEF taking more than five thousand photographs of all the Arabic texts and of the reviews of Granqvist’s works. Because of time constraints, only manuscripts used for Birth and Childhood among Arabs (1947) and Child problems among Arabs (1950) were transcribed and analysed from a linguistic perspective. To better organize my work, I divided my pictures according to the different subjects. I fol- lowed the chapters and paragraphs to which the handwritten notes refer to. Unfortunately, the

xiii After the 1948 war Artas became part of Jordan. For reasons of convenience the book will be initial- led DB. xiv Shelagh Weir, «A pioneering anthropologist in Palestine», The Middle East in London, vol. 8, N. 4 April-May 2012, p. 17. xv Suolinna 2000, p. 319. xvi Cf. John E. Owen, «Sociology in Finland», American Sociological Review, 19\1, pp. 62-68, (1954) and Rabier, Jean-Claude, «La sociologie en Finlande», Revue Française de Sociologie, 18\1, pp. 109-131. (1977) xvii Hilma Granqvist, Marriage Conditions in a Palestinian Village, vol. I, Helsinki, Societas Scientiarum Fennica, Commentationes Humanarum Litterarum. (1931)

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papers contained in the files are not individually numbered: each piece of Arabic text is accom- panied by a page and line reference to the English book in which it has been translated and ana- lysed. Probably the number of the page was added later by Hilma Granqvist as can be seen (cir- cled) in the pictures below.

Courtesy of the Palestine Exploration Fund.

After the construction of a digital archive as personal working tool of digital archive, I began to analyse and transcribe the manuscripts in a scientific transliteration of Colloquial Arabic. Un- fortunately, I could only guess the right transcript ion because of a number of difficulties I faced. First of all, I have never heard the Artas dialect spoken, so it would be worthwhile to go to the village in order to compare Granqvist’s texts with contemporary, living speech in Artas. Apart from interesting linguistic issues, many valuable aspects of the Palestinian oral literature and folklore have emerged. I will start with the analysis of the different types of handwritten notes found at the PEF, then some lullabies not documented before, and finally some linguistic issues will be presented. However, first ofl al it must be remembered that the richness and accu- racy of Granqvist’s studies are actually the result of the efforts and determination of a special «Scientific Committee» composed of four women.xviii Let me introduce them and give a brief ac- count of their biographies: Louise Baldensperger (1862-1938) was the daughter of an Alsatian missionary, Henry Balden- sperger, who had settled in Jerusalem in 1848. Like other Europeans at that time, the Balden- sperger family was principally attracted to Palestine because of its biblical heritage and its im- portance to the Christian faith. They bought a plot of land in Artas, where Louise would go to

xviii Hilma Granqvist, Birth and Childhood Among The Arabs. Studies in a Muhammadan village in Palestine, Helsingfors, Sӧderstrӧm & Co. Fӧrlagsaktiebolag, 1947, p. 25.

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live for the rest of her life. The whole family was interested in Palestinian culture: Louise’s brother, Philip, wrote the famous book entitled The immovable East.xix Another brother of her, Emile, became a beekeeper and, thanks to his travels across Palestine, collected Palestinian prov- erbs and folklore. Sitt Louisa, as the inhabitants of Artas used to call her, spoke fluent Palestinian Arabic and lived like the villagers, sharing every aspect of the daily life with them. She introduced Hilma Granqvist to two excellent «sources of information»: cAlya and Ḥamdīye. The information that these two women revealed about Palestinian culture was translated and, without adulteration, became part of the five monographs on Artas. I would like to quote a passage from Hilma’ s writ- ing to show her research attitude: «I needed to live among the people, hear them talk about themselves in Artas, make records while they spoke of their lives, customs and ways of looking at things. For that reason I decided to remain in Palestine».xx This is confirmed by the words of the anthropologist Annelies Moors: Granqvist «was a listen- er, more than an observer».xxi Her attitude to fieldwork was mirrored by her relationship with the informants. cAlya and Ḥamdīye followed a fixed schedule: they went to Sitt Louisa’s home first thing every day, when the villagers were more relaxed and full of energy. From eight o’clock in the morning to noon, they would go around the village visiting the fellaḥīn (peasants) and finding out the day’s events. In the afternoon all the data collected were patiently rewritten, translated and orderedxxii with the help of Sitt Louisa. It is also interesting to say something about the lives of cAlya and Ḥamdīye: cAlya was born af- ter her father’s death. Her father had married two women. She married a Bedouin when she was still a child, but some time later he left the village and never came back. cAlya had a child who lived only forty days. Then she left for Bethlehem, where she became the wet-nurse of the French consul’s son. She followed them to Jerusalem and then Beirut, until the child became independ- ent. After she had come back to the village, she became the second wife of the sheikh Nofal. She never got along with her co-wife and The death of her daughter, Raḥma, further increased her suffering. By the time Granqvist met her, she was a widow and a blind woman. During her un- happy second marriage, she had learnt many aspects of the Bedouin life, including some of its songs. Ḥamdīye was also a widow by the time Hilma Granqvist arrived in the village. She was work- ing as a maid for Louise Baldensperger. During her first marriage, she became a ḥardāne, a term which describes a woman who has taken refuge in her father’s house because of the abusive be-

xix Philip J. Baldensperger, The Immovable East, studies of the people and customs of Palestine, London, Sir Isaac Pitman & sons, LTD. No. 1 Amen Corner, E. C., 1913. xx Hilma Granqvist, Marriage Conditions in a Palestinian Village, vol.II, Helsinki, Societas Scientiarum Fennica, Commentationes Humanarum Litterarum, 1935, p. 2. xxi Cf. Inge E.Boer, Uncertain Territories. Boundaries in Cultural Analysis, Amsterdam-New York, Editions Rodopi B. V., 2006, pp. 219-37. xxii Granqvist 1935, p. 20.

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haviour of her husband.xxiii After the birth of a child, she rejoined her husband. When he died, she married a Bedouin with whom she lived in Transjordan. She came back to the village, where she lived with her family, after being widowed again. Being aware of some aspects of the lives of these three women is of particular importance for the textual analysis of the Arabic manuscripts of the Hilma Granqvist Nachlass. It seems that most of the Arabic quotations are from cAlya and were re-written by Louise Baldensperger, who could be a faithful transe crib r of the Palestinian vernacular, since she did not know any Classical Arabic. Louise Baldensperger’s papers are written in Latin letters and follow a personally elaborated system of transliteration. Hilma Granqvist probably added an interlinear English or German translation to some of Sitt Louisa’s manuscripts later. These papers are written in red ink, are written in red ink sometimes alternated to black lines, which gives them an aesthetical value as well. Louise Baldensperger, as I said above, used her own criterion to transcribe the sounds which did not exist in her own language. Since she was Alsatian, it is presumed that she spoke both French and German. This is reflected in the characters she uses for consonantal sounds. For ex- ample, in some of her handwritten texts «sch» indicates the voiceless palatal sibilant, which ac- cording to the scientific transcription of vernacular Arabic is «š»; «ch» to indicate the voiceless ve- lar fricative instead of «x» or «ou» to indicate the long vowel «ū». Only a small part of the notes were written by Hilma Granqvist herself. Probably this is due to her limited knowledge of Arabic at the beginning of her field work in Palestine. The fact that Granqvist uses some diacritical marks in her written texts (below) suggests that she copied Sitt Louise’s notes in her own writings. In her last work about Artas, she explained why she cared about coping and preserving her Arabic field notes: «Notes in language of the culture studied are al- ways of value in themselves. My notes in Arabic (dialect) will be handed over to a library to be available for students interested in the subject».xxiv

xxiii Granqvist 1935, p. 218. She devotes an entire chapter (IX) to this problem, quite common in Pales- tine, by analysing specific cases and giving biblical parallels. xxiv Hilma Granqvist, Muslim Death and Burial: Arab Customs and Traditions Studied in a Village in Jordan, Helsinki, Societas Scientiarum Fennica, Commentationes Humanarum Litterarum, 1965.

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Louise Baldensperger’s manuscripts Courtesy of the Palestine Exploration Fund

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Hilma Granqvist's handwritten note. Courtesy of the Palestine Exploration Fund.

Hilma Granqvist learned Palestinian Arabic from Mr Wahby (whose first name remains un- known), a Palestinian Arab who spoke English. He was educated in Russia where he met his wife Olga, who was the Head of Schools for the West Bank under the Jordanians. Mr Wahby was a scholar and had a good library. Before 1948 he and his family lived in the suburbs of what is now West Jerusalem. In 1948 the Jewish forces gave them twenty-four hours to leave and they fled to Beit Jala. The Israelis confiscated Wahby’s library, which is probably now in the Hebrew Univer- sity Library.xxv The manuscripts in Arabic characters were written by two of Granqvist’s friends: Elias Had- dad and Judy Farah Docmac. The Christian scholar Elias Nasrallah Haddad taught Arabic at the teacher’s Seminary of the Syrisches Waisenhaus in Jerusalem. Together with Hans Henry Spoer he wrote a Manual of Palestinian Arabic for self-instruction, which is often mentioned by Hilma Granqvist. He was also the author of many articles about Syrian-Palestinian folklore. It seems that he helped Ms Granqvist in the understanding of Palestinian proverbs, formulas etc.xxvi It is presumed that Haddad and Docmac re-wrote the texts basing their work on Louise Baldensper- ger’s transcriptions. Apparently, Haddad helped Granqvist in the early period while Docmac

xxv I received this information in an e-mail sent to me by Shelagh Weir on last April, 3rd h. 6:10 pm. She personally visited the Wahby family in 1967. xxvi Granqvist 1931, p. 21.

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helped her when she went back to Sweden after the war.xxvii Judy Farah Docmac was the head- master of the Lutheran School of Bethlehem.xxviii He rewrote most of Granqvist’s material in Ar- abic letters in 1959 and assisted Granqvist in checking difficult terms and dialectal forms. Granqvist describes stimulating conversations with other Arab intellectuals at Mr and Mrs Docmac’s house, where she learnt many new things about Palestinian customs and traditions.xxix Granqvist’s correspondence confirms that there was a close relationship between her and the Docmac family. She only kept in touch with Docmac after her return to Sweden in 1965 and was sure to ask about their mutual friends, such as Wahby, Tawfiq Canaan and others. In his written texts, Docmac tends to standardise the Arabic dialect of the Artas peasantry

Docmac 32 (A) It is a handwritten notes re-written by Docmac in 1959. Courtesy of the Palestine Exploration Fund.

because of his high level of education, a scholarly tendency which remains still widespread in this field. When I found myself to deal with all the lexical material which I culled from Hilma Granqvist’s work, I have collected in a glossary. Then I have checked all the glossary entries in

xxvii Information received in an email by Shelagh Weir sent to me on last April 3rd, h. 6:10 pm. xxviii PEF archive: Docmac 28 (B). xxix Granqvist 1965, p. 11.

Rosanna Sirignano: Mother and child in Palestine 169

three Neo-Arabic dictionaries concerning the Levantine area: the invaluable dictionary of Levan- tine Arabic by Adrien Barthélemy published in 1935-69,xxx its following integration by the is- lamologist Claude Denizeau (1960),xxxi the small but nonetheless invaluable German-Arabic dic- tionary by Leonhard Bauer (1957)xxxii and The Olive Tree by Elihay (2009). Then the entries were checked against the eight volumes of Arbeit und Sitte in Palaestina by the theologian, philologist and palestinologist Gustav Dalman (1855-1941),xxxiii which contain a large quote of Arabic terms. Finally I consultedest the Pal inian Arabic Dialect Dictionary by ʿAbd al-Laṭīf Barġuṯī (1987- 2009)xxxiv and the two glossaries which accompany the collections of contemporary Palestinian Arabic texts by Ulrich Seeger: Der Arabische Dialekt von il- Xalīl (1996) and Der Arabische Dialekt der Dörfer um Ramallah (2009).xxxv In the paragraphs that follow I will focus on some content of the manuscripts, showing their value from a sociolinguistic point of view.

This is probably a handwritten note by Haddad. The tāʾ-šīn group (circled) in the picture seems to be an attempt to render the rural pronunciation of the letter kaf. One can assume that Haddad tried to write the colloquial dialect pho- netically to help Hilma Granqvist. Courtesy of the Palestine Exploration Fund.

xxx For reason of convenience from here on I will use abbreviations: Barthélemy 1935: B. xxxi Abbreviated: De. xxxii Abbreviated BA. xxxiii Abbreviated Dal. I-VIII. xxxiv Abbreviated: Bgh. xxxv Abbreviated respectively S. 96 and S. 09.

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SHAME AND HONOUR IN ARTAS: EUPHEMISMS AND FEMALE ISSUES

In all societies people resort to linguistic euphemisms when they have to speak about some- thing perceived as embarrassing or disgusting. Linguistic taboos are used especially to talk about sexuality or intimate parts of the body in a way that is considered as more acceptable. It seems that this phenomenon is more widespread among women than men. In BC Hilma Granqvist gives an example of a linguistic taboo: There are several verbs which can be translated as «to give birth». They are used with different nuances in meaning and i n different contexts. The verbs xallaf - ğāb - ͨ aqab mean «to give birth» and they are used in the same way. They are used to talk about a genealogy since they literally mean «to leave behind». cAlya used the verb caqab in the following case: «How many boys has he left? He has left four boys. He who has sons born to him does not die. The house is built up. Ahmad Jedallah left only four daughters. The house is ruined».xxxvi Unfortunately, only one version of this text written in Arabic letters by Docmac has been found in the archive. The verb ǧāb from the root Ǧ Y B simply means «to carry» and by extension it becomes «to carry in the womb» and then «to beget». The verbs xallaf - ğāb - ͨ aqab are used mainly by men. They can still be used by women, but on- ly in the sense of «to give birth» and never in the sense of «to beget». In contrast to Classical Arabic, in their dialect the Artas villagers do not use the verb walada to mean «beget». cAlya said: «The verb walada is not used of a man but of a woman». In other words, «it is not a word that a woman likes to utter when she speaks to a man».xxxvii It seems that women prefer to use a synonym of this verb which is wadac, that is not, according to cAlya states, considered shameful. According to cAlya herself, the usage of these verbs could be classified as follows, from least to most shameful: 1. wadac: this is more honourable for a woman to utter in the presence of a man. It also means «to overcome». 2. caqab: this is acceptable. Used by women also to mean «to leave». 3. xallaf: this is acceptable. Used by women also to mean «to follow». 4. ǧāb: this is acceptable. Used by women also to mea n «to beget». 5. walad: this is actually shameful and used only among women and never in the presence of a man. It is used to mean «to give birth».

The linguistic taboos found in BC and CP, but in translated form, are analysed, from the previously unpublished Arabic, below:

xxxvi Granqvist 1947, p. 29. xxxvii Granqvist 1947, p. 29.

Rosanna Sirignano: Mother and child in Palestine 171

MENSTRUATION

The taboo surrounding menstruation is due to the impure state of the women during those days of her cycle. Women cannot perform their ritual duties, such as the five daily prayers, fast- ing and pilgrimage.xxxviii

cāde: this literally means «habit, custom». It is a common term and sometimes combined with the adjective aš-šahriyya, meaning «monthly».xxxix

‘SHE IS MENSTRUATING’

All the expressions ibtīǧīha il-cāde (PEF), iǧat hal-cāde, ṣār macha l-cāde (OT) and calēha il-cāda (Ritt-Benmimoun-Prochàzka 2009) mean «she is menstruating».xl

illī c aleyha id-damm (p. 78): this literally means «the one who has the blood».xli

AFTERBIRTH

The afterbirth is called il-uxt, il-uxxett, which literally means «sister» or il-rfīqe, rafīqe, which lit- erally means «the companion».

The same phenomenon is registered in Iraq, where besides the words «sister» and «compan- ion», the word «neighbour» (ǧāra) is also used. Assyrians (Nestorians) used the word ǧimma «twin» or ḥawarta «female likeness or double». Mandeans used the word «sister» and «neighbour» but al- so the word ǧuft «pair, partner» and «cuṣṭun» support.xlii

xxxviii Fatima Sadiqi, Women, Gender and Language in Morocco, Leiden-Boston, Brill, 2003. xxxix See for other Arabic dialects Ritt-Benmimoun-Prochàzka, «Female issues in Arabic dialects: Words and expressions related to the female body and reproduction», in Estudios de Dialectología Norteafricana y Andalusí edited by J. Aguadé, F. Corriente, Á. Vicente, Y. M. Meouak, Zaragoza, Instituto De Estudios Islámicos y del Oriente Próximo, 2009, p. 34. xl In Syria (Damascus, Aleppo) I personally heard the expression mā caleyy ṣalat «I am not praying» which was a way of saying «I am menstruating so I cannot pray». Ritt-Benmimoun-Prochàzka (2009, p. 37) indicate two examples of this kind of euphemism, but only from Ṣanaa (mā calayya ṣala\ṣiyām) and from Baghdad (mā cindi ṣala). W. Marçais, «Nouvelles observations sur l’euphémisme dans les parlers arabes maghribins», in Annuaire de l’Institut de Philologie et Histoire Orientales et Slaves, 13, 1953, Melange Isidore Lévy, 1955, p. 357, relates that in Tunisia and southern Algeria a similar expression is used (ḥurmet or ḥaṛmān -eṣṣlā «l’interdiction de la prière»). xli Cf. Ritt-Benmimoun-Prochazka 2009, p. 35. xlii Stephana Drower Ethel, «Woman and taboo in Iraq», Iraq, 5\2, 1938, pp. 105-17.

172 Studi Interculturali 3/2013

According to Ethel Stephana Drower, there might be a connection between the afterbirth and the qarīna. As I said above, the terms qarīna and tabica indicate a companion, someone who fol- lows. It might be possible that the magical practices surrounding the afterbirth come from its as- sociation with evil spirits. In Iraq, as in other cultures in the world, the afterbirth is believed to have a special status and power. It is also called xalaṣe, which literally means «end».

ANUS

In Hilma Granqvist’s handwritten notes we find the expressions:

bāb il-nafs: this literally means «the door of breath»xliii or «the door of the soul»,xliv bāb il-xātem: «door of the ring», bāb il-badan: «door of the body» to refer to the anus. It is said that immediately after the delivery, the child’s anus must be closed. This is done for fear that his or her spirit leaves it. For this reason it is called a «door» from which the spirit could exit.xlv It is also called: ṭaraf: «end» i.e. «the end of the body» or ṣurrum: «last breath». According to Docmacxlvi the verb ṣurim means «to breath one’s last, i.e. to edi ».

DELIVERY

xallāṣ: This literally means «the end» i.e. «the end of the birth separation».xlvii The laqemt il- xallāṣ is a bite of food given to the mother soon after the delivery.xlviii

MASCULINE GENITALS

ḥōbar w ṣnōbar: It seems to be an expression without meaning. ḥōbar could be a word that re- places something that is too shameful to utter and is meant to be understood within the context in which it is spoken. Anyway, it refers to a pair. The text which follows is part of the description of the circumcision of Khalil Mustafa’s sons, in which this term is used. It is customary to give a gift to the circumcised boy. It can be a cow or some other animal or, as in this case, a bride:

xliii Granqvist 1947, p. 73. xliv Docmac’s translation. xlv Granqvist 1947, p. 73. xlvi Docmac’s handwritten note n. 63 (A). xlvii Docmac’s handwritten note n. 86 (A). xlviii Granqvist 1947, p. 89.

Rosanna Sirignano: Mother and child in Palestine 173

p.201, ll. 17-21xlix

yōm biqaddmu la-l-imṭhher biqul when (the boy) is offered to the circumciser he says: c hōbar yā ṣnōbar yā ammī Aḥmad genitals, my father’s brother Aḥmad biqūlo ibṣer yā walad he says to him: speak, my son ilak bintī (aw dābe aw maṣārī) for you my daughter (or an animal or money) išadu yallī ḥāḍrīn in bintī aǧato I testify that you are present that my daughter is to be for him abū il-walad biqūl ana qabbālha the father of the boy says: I accept her! mā biḥōṭeš fēd No bride price is given

Hilma Granqvist gives this example to show that there is a possibility that circumcision was originally performed as an initiation rite for marriage. She underlines that Muslims in Palestine believe that it is not proper for a man to get married if he has not been circumcised.l

FEMININE GENITALS

farraǧ, farreǧ: I did not find this term in any other source which I consulted. It seems to be a loan from Classical Arabic faraǧ, furūǧ opening, aperture, gap, breach, pudendum of the female, vulva. Granqvist translates «shame» and only once she translates «flesh». The rwo d laḥem (flesh) is also used.

TO HAVE SEXUAL INTERCOURSE

ṭāḥa\yṭīḥ (B.), yiṭḥi, yeṭḥi (OT) To step down, to descend to sb.\sth (B.\Ba.\Bgh.), to cover (a fe- male), to jump (an obstacle) (B.), to walk down, to flow down, to mature (S.96\09), to fire, to sack, to give (someone) the boot (OT).

aǧa-iǧa-iǧi\yiǧi-yīǧi to come (S.09) (as in to enter the marital bedroom).

PREGNANCY

The abstract noun «pregnancy» is often used: ḥable, ḥibla, ḥibbla, ḥebbla, with the pharingealiza- tion of «b» and the verb ḥabal\yiḥbal. The feminine singular active present paip rtic le of the verb ḥamal\yiḥmil to carry, ḥāmle, is used as well as in several other Middle Eastern dialects.li

xlix Granqvist 1947. l Granqvist 1947, p. 201. li Ritt-Benmimoun-Prochàzka 2009, p. 41.

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A word which is not found in the list of the words to denote «pregnant» published by Ritt- Benmimoun- Prochàzka 2009 is:

nāqel: active present participle of the verb naqal\yǝnqol (B.), yunqul (S.09) to carry (B.\S.09), to move, to transfer (B.\OT), to transcribe, to copy (B.), to convey (OT).

Granqvist states that naqlat means «conception» or «to move from one place to another» (BC 34). It is presumed that it used only by women.lii

Finally the expression fīha walad\wlād literally means «there is a child or there are children in- side her».

LABOUR PAINS

Words fmro the root Ṭ L Q are used:liii ṭalqa labour pain, and ṭalaq\yiṭlaq, to be in labour.

BREASTS

bizz: the original meaning is «nipple». It is common in several Arabic dialects such as Egyptian and Yemeni Arabic. Words derived from the root b-z-lliv are probably etymologically related to bizz-buzz. The onomatopoeic bizz reproduces the sound of the child who sucks from their mother’s breast. In Syrian Arabic baby talk the word zǝzz (Aleppo and Damascus) means «breast».lv One’s attention may be easily driven to the colloquial Italian zizza. I would suggest that bizz (pl. ibzāz, bzāz) is a lexicalisation of children babbling in a particular way.

Ibzāz: This plural form is recorded once in a popular saying: ibzāz iz-zlām fihunneš laban. macanatu mā fīš imhinniye: «the breasts of men have no milk. It means that men have no mercy».lvi

bzēz: It is found in the expression: bzēzi il-yamīn w qlabī ḥazīn «by my right breast and by my heart is sad»lvii which expresses a vow or promise.

lii Granqvist 1947, p. 34. liii Cf. Ritt-Benmimoun-Prochàzka 2009, pp. 45-6. liv Ritt-Benmimoun-Prochàzka 2009, p. 48: words derived from the root b-z-l are widely used in Maghri- bi dialects of both the Hilāli and pre-Hilāli types. Two examples are bazzūl (Maṛāzīg) and bazzūla (Tunis). lv Charles A. Ferguson, «Arabic baby talk», in Structuralist studies in Arabic Linguistic. Charles A. Ferguson’s Papers, 1954-1994 by R. Kirk Belnap and Niloofar Haeri, Leiden Brill, 1956, pp. 179-97, p. 181. lvi Granqvist 1947, p. 155.

Rosanna Sirignano: Mother and child in Palestine 175

MIDWIFE

As in most Syro-Palestinian, Egyptian and Sudanese dialects the Persian loanword dāyalviii is used, pronounced dēye, with imālah (inflection).lix

BARRENNESS

In the texts analysed for this work, a word for barrenness has not been found. Barrenness is mentioned only once in the text which follows:

p. 98, ll. 3-5

lāzem tindaffon iktēr camiq bass niswan it should be buried very deeply only by women so that dogs do not eat it for fear that she be- la-yōk linho il-kalāb la xōf lamma tiḥball comes barren

Instead of saying explicitly «for fear that she becomes barren» the verb ḥabal, «to become pregnant» is put in the negative. la xōf amma tiḥball means «for fear that she does not become pregnant (again)». A similar linguistic behaviour is found in Damascus, in Baghdad, in Ṣanaa and in Ceuta (Spanish Morocco).lx I would like to suggest that the fear of barrenness is shown by the fear and unwillingness women have to pronounce the appropriate word. I have given much attention to euphemism and female issues because these themes have been so far rather neglected in lingui stic work about Palestinian Arabic. This work, as it can be seen, in some way completes and expands upon Ritt-Benmimoun-Procházka’s (2009) fascinating article about female issues in Arabic dialects.

LULLABIES AND BABY TALK

In every culture lullabies are sung to rock a child to sleep. In all the languages of the world lullabies express mothers’ feelings toward their children: love, hope, fear etc. Lullabies are so dif- ferent from folk songs, that they are recognisable even if the language of the «singer» is different from that of the listener. Most of the people remember till adulthood the soothing melodies and the soothing words which someone sung to them in their infancy. Rhythm, and the simple struc- ture of lullabies, help children to shape and control their emotions. Mothers sing faster to attract

lvii Hilma Granqvist, Child Problems among the Arabs, Copenhagen, Munksgaard, 1950, p. 156. lviii Ritt-Benmimoun-Prochàzka 2009, p. 47. lix It is a phonetic phenomenon which consists in the shifting of the long vowel ā towards ē (sometimes towards ī). lx Ritt-Benmimoun- Prochàzka 2009, p. 49.

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the attention of their child, and slow down instead to keep hold of their attention. The children respond to those emotions by smiling, cooing, or moving their limbs. Even if they do not under- stand the meaning of the words, they are perfectly able to grasp the emotional meaning.lxi Artas women seem to have been instinctively aware of the great importance of singing lulla- bies. Granqvist wrote: «It is really touching to think that a peasant woman in spite of all the work she has to do can find time to sing to her child».lxii Granqvist givesi the Engl sh translation of ten lullabies heard in Artas. Fortunately the original texts have been found in PEF archive. In 1932 Stephan Hanna Stephan collected several Palestinian nursery rhymes and songs. He explicitly thanked Louise Baldensperger and cAlya Ṣaleḥ for having given him some rhymes.lxiii The lullabies collected by Hilma Granqvist, which I found in the archive, should be added to this invaluable collection of these special kinds of folk songs. Only one of the lullabies quoted in Stephan’s collection resembles one I found in the PEF ar- chive: the rest are new, and so far unstudied.

PEF archive (Song 10, p. 120)lxiv Stephan 1932, 65

yā aṣfūr-t il-xalle yā aṣfūr(i)t il-wādi Thou bird of the wildernesslxv O bird of the valley hatī il-nōm fī kurtalla hāti-n-nōm la-l-iulādi bring sleep in a little basket! bring sleep to the children yā aṣfūr-t il baḥrēn ya aṣfūrt(i) ǧ-ǧbāl(i) Oh bird of the two lakes! O bird of the mountains hatī il-nōm lal-cinōn hatī n-nōm bi-r-rṭāl(i) bring sleep for the eyes bring sleep in roṭls yā aṣfūr il-wādē ya aṣfūr(i)t il-xalle Oh bird of the valley! O bird of the dell hātī il-nōm al-wlāde hatī-n-nōm bi-s-salle bring sleep for the little boy bring sleep in baskets yā aṣfūr-t il-qaca ya aṣfūr il-baḥrēn Thou bird of the plain! O bird of the two seas hātī il-nōm fī saca hātī n-nōm la-l-cinēn Bring sleep quickly! Bring sleep to the eyes

lxi Dean Falk, Finding our tongues. Mothers, Infants and the Origin of Language, New York, Basic Books, 2009, p. 59. lxii Granqvist 1947, p. 120. lxiii St. H. Stephan, «Palestinian Nursery Rhymes and Songs», Journal of the Palestine Oriental Society, 12, 1932, 62, fn.1. lxiv Granqvist 1947, p. 120. lxv Translation from Granqvist 1947, p. 120.

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yā aṣfur-t il-bistān ya aṣfūr(i)t il-qāca Oh bird of the gardens! O bird of the hill-side hātī nōm fīl-finǧān hāti n-nōm (i)b-sāca Bring sleep in a cup! Bring sleep at once

As it can be seen from the synopsis above, Granqvist and Stephan seem to have collected dif- ferent versions of the same lullaby. Some verses are exactly the same but are arranged in a differ- ent order. Probably different versions of the same lullaby circulated in the area. Here the child is compared to a little bird and a delightful scene is evoked by this lullaby. One can imagine a mother who rocks her child outside in the fresh air and sings this lullaby looking at the birds fly- ing past in the sky.

Song 9, p. 120lxvi

nām ya ḥabībī nāmlxvii sleep, my darling, sleep ta adbaḥlak ṭēr il-hamām so that I may kill for you the pigeon ya hamama lā tixāfī you pigeon, fear not baḍḥak ca l-baby ta yinām I am only joking with the baby, so that he may sleep

The mother asks the child to sleep so that she can kill a pigeon for him or her. When she sees the pigeon getting fearful, she comforts it, saying: «No, pigeon, do not be afraid, I am only joking with the baby».lxviii She has tender feelings toward the pigeon as she has toward her child. The mother is also compared to a bird: she protects her child in the same way a bird protects their chick with their wings.

Song 1, p. 118lxix

hakk lall xallak lall ṭēr ǧinḥān it is the right for the Creator to furnish a bird with wings ṭiflōn ball imo kiīf yinām a baby without his mother how can he sleep

xalaq lall Allāh lall ṭēr it is the right to have created the bird ciš ṭiflōn balla immo kīf taciš a baby without his mother how can he live?

lxvi Granqvist 1947. lxvii It is presumed that these opening words are very common in lullabies. Cf. in Palestine: (Stephan 1932, p. 80): nāmi ya ḥabībti nāmi; in Upper Egypt (Giovanni Canova, «Immagini e motivi ricorrenti nelle ninnananne dell’Alto Egitto», Annali Ca’ Foscari, 19\3,1980, p. 18): nām nām ya ḥabībī nām. lxviii Granqvist 1947, p. 119. lxix Granqvist 1947.

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In the next one the mother is prepared to do anything for her child: seven camels may be loaded for her child. This is probably a common expression to suggest generosity and kindness.lxx

Song 8, p.120lxxi

bahalillak bahalillak I sing you, I sing you 7 ǧimāl baḥammillah seven camels I load for you

It is presumed that «bahalillak bahalillak» or bihalillo originally means «repeating the Muslim declaration of belief in oneness of God lā ilāha illa-llāh.lxxii Bahalillah is the first person of the im- perfective of the delocutivelxxiii verb hallala. Probably Granqvist translates «I sing you, I sing you» because it is a common formula used for praising and singing.lxxiv

Sitt Louisa’s handwritings. Granqvist added a note about the meaning of the verb «hallala». Courtesy of the Palestine Exploration Fund.

lxx I found a similar expression in an Arabic lullaby still popular today called «Seven camels»: Here seven camels are loaded with different nuts used to celebrate every child’s new tooth. (Taghreed Najjal, illustrat- ed by Hiba Farran, Musical Tickles Set (3 Books and audio CD), Al-Salwa Publishers. 2013.) lxxi Granqvist 1947. lxxii Stephan 1932, p. 67 fn. and Granqvist PEF handwritten notes n. P1020661. lxxiii Cf. the best known delocutive verb in Arabic, basmala «to invoke the name of God». lxxiv Stephan 1932, p. 67 fn. 11.

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A MIXED BAG OF LEXICAL ISSUES

I will list here some apparently unrelated examples of words culled from Granqvist Nachalss and not previously documented in glossaries and dictionaries of Levantine Arabic. The following words can be found in Granqvist’s published texts and, together with an analysis of her hand- written notes, show once again how much attention she showed to linguistic aspects and her heightened sensibility to them. This little lexical choice will present the reader with a short sym- bolic journey in the daily life (and perception of it) of a small Palestinian village.

burnus: a thin membrane in which the newborn child is enveloped (BC 71) Normally burnus means, «ample manteau sans manches se fermant au cou par une agrafe» (B.) «Every cloth which covers the head or a part of it which is linked to the head». (Bgh.)

fēd: bride price, filly (MC I 30, 118, 119, 131, 139, 144\ II 275, 282, 294, 304\ BC 33) The usual word for bride price mahr has the same root as muhra, which means female foal or mare. The word fēd, when used by Artas villagers, describes the fillies which must be given to the former owner of a thoroughbred horse in compensation for his agreeing to part with it.lxxv The obligatory gifts from a bridegroom to his bride’s parents’ brothers (balṣa) are compared to this.lxxvi When a man asks for a bride, he often uses this formula: «I wish for a filly (muhra). He is asked: «A filly which eats with its hand or its mouth? He answers: «A filly which eats with its hand». As Granqvist assumes, it may be that there is a pun on this word, because of the similarity between mahr «bride price» and muhra «filly».lxxvii Muhra is also used as the name of a woman because a woman is often compared to a thor- oughbred horse.lxxviii

buxnuq, baxnūqa\ baxānīq head-cloth for new-born children (BC 99), cap, head kerchief tied under the chin (De.) Barghuthi describes it as follows:

Something which is wrapped round the head and the neck, tied in front. Piece of wool which is worn on the head so that it covers the entire head and the neck. There is only an opening for the face. (Collo- quial Arabic buxnaq, buxnuq, buxnak, bunaq; Classical Arabic: it notes «a head veil or a little bur- nus»).

heṭaliye: sweet food (BC 106) Sitt Louisa gave the recipe to Hilma Granqvist:

lxxv Granqvist 1931, p. 144 and 1947, p. 33. lxxvi Granqvist 1931, pp. 127, 131 and 1947, p. 33. lxxvii Granqvist 1931, pp. 144-145. lxxviii Granqvist 1931, p. 144 and 1950, p. 36.

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Wheat is crushed a little in a mill; it is then put into water where it lies for two or three days. Then it is pressed and the starch falls to the bottom and the husks float on the top. These are taken away and given to the hens or other animals. Then the starch is cooked in milk with sugar or honey, and butter is added. It is very good.lxxix

ġēl: milk of pregnant woman (BC 109) I did not find this term in any source which I consulted. It seems to be a loan from the Clas- sical Arabic ġayl which means « breastfeeding during pregnancy, milk of a pregnant woman». The root Ġ Y L in its first form means «to feed, to nurse». The term is cited in Granqvist’s work with the diphtong -ay- subject to monophthongization. Canaan also mentions the ḥalib ġēl which im- plies the belief that it is very dangerous to suckle from the breast of a pregnant woman. It is be- lieved that pregnancy changes the composition of the milk.lxxx Regarding the milk of a pregnant woman a story is told:

p.109, ll. 13-14

maṯalan Ẓarīfe Ṣāleḥ hī ḥibblā w bintha for example Ẓarīfe Ṣāleḥ was pregnant and her daughter bitšrabb ḥalīb ġēl ḥarām callēha drinks the milk of a pregnant woman. It is a sin. māhī mīte il-bint The girl was half-dead

ll. 21-24

ḥalīb il-ġēl bumkubh ca rakabīn il-xēl milk of a pregnant woman it shows in the rid- c maṯalan yaṭla u ǧabbal ers c c c w in faza u yiǧru bi qabb anhom for example by climbing a mountain c biqulu rāḍe ḥalīb ġēl and they are in a hurry they delayed it is said he drank the milk of a pregnant wom- an

laban immo: his mother’s milk (BC 264, n.5) It is a dish which consists of the flesh of a young sheep or a young goat boiled in milk.

manūha: the best goat (BC 165, n. 6). This term could come from the classical root N W H, which means « to raise, to elevate, to praise, to laud, to extol, to acclaim etc.».

lxxix Granqvist 1947, pp. 245-246 n. 48. lxxx Canaan 1927, p. 171.

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malake: this literally means «the queen». It is the main dress of the outfit of the bride used also for other celebrations (MC II 44, 177\ BC 186).

ġulfe: foreskin (BC 207). The same is found in Standard Arabic.

abū ġulfe: This is an insult for an uncircumcised man. In Standard Arabic the word aġlaf, which means «uncircumcised», also describes a «rude, uncivilized man».

These few examples can only begin to scratch the surface of the potential research at hand. To better understand the immense importance that should be attached to the cultural recovery of Hilma Granqvist’s Arabic notes I will quote a statement by Simon Hopkins, Professor of Arabic language and literature at the Hebrew University in Jerusalem:

Since the Holy Land has been studied so intensively for so long, and since the Arab-Israeli conflict has brought the area into the focus of concentrated world attention, it might be thought that Palestinian Arabic is a very well known and very well documented language. This, however, is not at all the case. New facts are being discovered all the time.lxxxi

It is thanks to Granqvist that Artas is the most documented village in Palestine today and thanks to her work that Musa Sanad was inspired to found the Artas Folklore Centre in 1993. The aim of this centre of research is the preservation of peasant culture and the restitution of dignity to an oppressed and ignored people. This was also what a patient, courageous and pains- taking researcher as Hilma Granqvist did. She gave voice to people who normally lacked the power of speech, and she also spoke of people’s relationship to the earth and to their own free- dom.

lxxxi Simon Hopkins, «Notes on the History of the Arabic Language in Palestine», LiCCOSEC 20, 2012, pp. 50-73, p. 59.

MARIO FARAONE è dottore di ricerca in Letterature dei Paesi di Lingua Inglese (Università di Roma «La Sapienza» - Istituto Universitario Orientale, Napoli), e Fellow della Christopher Isherwood Foundation at the Huntington, Los Angeles. Ha insegnato «Letteratura Inglese» e «Letterature dei Paesi di Lingua Inglese» all'Università di Trieste, e alle università di Roma, Cassino, Pescara e Foggia. Ha pubblicato Un Uomo Solo, studio monografico su narrativa autobio- grafica e rinnovamento spirituale nell'opera di Christopher Isherwood; saggi su arte e politica negli anni Trenta, sulla narrativa di viaggio, sulla diaspora indiana nel Regno Unito, e studi su Shakespeare Emerson, Beckett, Joyce, Eliot, Beckford, Meredith, e Powell. Ha recentemente pubblicato L’isola e il treno, studio monografico su impegno politico e produzione artistica nell'opera dell'intellettuale marxista britannico Edward Upward; Il morso del cobra, studio sulla ri- cezione artistica della religione Vedanta negli scritti di Christopher Isherwood; e Su il sipario, Watson!, la prima edizio- ne critica e annotata dei drammi teatrali di William Gillette e Arthur Conan Doyle su Sherlock Holmes.

RAFFAELE FEDERICI nasce in Umbria nel 1959 dove vive e lavora. Da anni pratica una pittura segnica, ricca di ef- fusioni cromatiche legate alle terre, inconfondibile rispetto a qualunque altra visione informale. Coniuga la ricerca artistica alla ricerca intellettuale nella costante definizione di parole e immagini pertinenti al tempo vissuto. Ha espo- sto in diverse città italiane, in Russia e in Francia. I suoi quadri sono presenti in molte collezioni sia in Italia sia all’estero. È docente di Sociologia dei Processi Culturali e della Comunicazione all’Università degli Studi di Perugia, presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale. Studioso del pensiero simmeliano e orteghiano ha tradotto in italiano alcune opere di Robert Michels. Si occupa di sociologia dei processi culturali, sociologia della comunicazio- ne, sociologia dell’arte e del paesaggio e sociologia e antropologia della salute. Su questi temi ha pubblicato, fra l’altro: L’esperienza della città - introduzione alla Sociologia di Parigi di Robert Michels (Perugia, 2013), Sociologie del segreto (Milano, 2012), «Introduzione alla lettura» di Intorno al problema del Progresso di Robert Michels” (Roma, 2011), Farmaci, farmaci- sti e anziani. Il farmaco come se la persona contasse (con R. Garzi) (Perugia, 2009), Le prospettive relazionali nella ricerca socio- logica della salute (con R. Garzi) (Milano, 2006), Elementi sociologici della creatività (Milano 2006). È membro del Centre Interdisciplinaire d’Analyse des Processus Humains et Sociaux presso l’Università Rennes 2 (Francia) e del Centro di Studi della Sicurezza Umana di Narni.

GIANNI FERRACUTI insegna Letteratura Spagnola all’Università di Trieste. Svolge ricerche sulla letteratura e la società del rinascimento e del barocco e sul periodo modernista. Ha realizzato diversi studi e traduzioni su Ortega y Gasset e la filosofia spagnola contemporanea, tra cui Traversando i deserti d'occidente: Ortega y Gasset e la morte della filoso- fia, «Mediterránea», 13 /2012 (volume monografico). Ha fondato e dirige il Centro di Studi Interculturali «Mediter- ránea» (Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste), che pubblica le riviste «Mediterránea» e «Studi Interculturali». Gestisce dal 1998 il sito «Il Bolero di Ravel», www.ilbolerodiravel.org, dove sono disponibili le pubblica- zioni del Centro.

ROSANNA SIRIGNANO è dottoranda in Studi Semitici presso l'Università «Ruprecht Karl» di Heidelberg. Si è lau- reata all'Università «L’Orientale» di Napoli in Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo con una tesi in Dialettologia Araba. Lo scopo della sua ricerca è ampliare la conoscenza dell’arabo palestinese attraverso fonti indirette, come le opere etnografiche. In particolare, si occupa del recupero e dell'analisi dei testi in arabo raccolti dall’antropologa sve- dese Hilma Granqvist (1890-1972) per la redazione delle sue cinque monografie sul villaggio palestinese di Artas.

PIER FRANCESCO ZARCONE (1947), laureato in Giurisprudenza e dottore in Diritto Canonico, ha svolto un’intensa attività di ricerca su tematiche di storico-religiose, teologie cristiane, filosofia, dottrine politiche, ed è autore di numerose monografie, tra cui: Rousseau totalitario (Ege), Il lato oscuro della democrazia (Il Cerchio), Portogallo anarchico e ribelle (Samizdat), Los amigos de Durruti nella rivoluzione spagnola (Samizdat), Gesù profeta rivoluzionario (Macrolibrarsi), Gli anarchici nella rivoluzione messicana (Massari), Dopo il quinto sole. Il Messico e le sue rivoluzioni (Massari), Spagna libertaria (Massari), Islam. Un mondo in espansione (Massari). È in fase di pubblicazione Yeshu bar Yoseph. Il Messia armato (Massari). Collabora regolarmente col blog «Utopia Rossa», con articoli sui cristianesimi e commenti alle vicende del mondo islamico.