L'unificazione Italiana

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L'unificazione Italiana ISTITVTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI L’UNIFICAZIONE ITALIANA Volume pubblicato con il contributo di ASPEN INSTITUTE ITALIA Capitoli scelti per il sito di Aspen Institute Italia SEZIONE III LE ISTITUZIONI E LA CLASSE DIRIGENTE Capitolo “Governo e Parlamento” di Paolo Pombeni Capitolo “L’Amministrazione centrale” di Guido Melis Capitolo “Partiti e movimenti” di Fulvio Cammarano © riproduzione vietata. Tutti i diritti riservati. Paolo Pombeni Governo e Parlamento Se accettiamo che la forza attrattiva del Piemonte, o meglio del Regno di Sardegna, nel porsi come perno del processo di unificazione nazionale risiedesse in parte non piccola nel suo essere di fatto l’unico Stato della penisola retto su un «modello costituzionale», non possiamo fare a meno di partire, nella nostra riflessione, dallo spazio che si era conquista- ta nell’opinione pubblica italiana quella autentica ideologia della modernità che in politi- ca era il costituzionalismo. Il problema della rappresentanza nella gestione della cosa pubblica e nella legittimazio- ne delle decisioni che venivano prese dagli organi dirigenti non era ovviamente questione ristretta a ciò che il costituzionalismo avrebbe rappresentato dopo la canonizzazione che ne fece in Europa l’esportazione dei principi rivoluzionari francesi sulle baionette napoleoni- che e la conseguente reazione a cui furono costretti i sistemi politici che vollero resistere a quella invasione. Anche i sistemi di antico regime avevano proprie forme di partecipazione e di rappresentanza, certo complicate in Italia dall’intersecarsi di dimensioni locali e dimen- sioni che chiamavano in causa i rapporti dei territori con i sistemi imperiali in cui si trova- vano a volta a volta inseriti (Spagna, Impero asburgico). Tuttavia la diffusione di un dibat- tito sulla riforma del sistema politico, pur avendo avuto dei precedenti, risaliva prevalentemente alle trasformazioni che il nostro paese aveva subìto a seguito della conquista napoleonica. La presenza di una tradizione di «partecipazione al governo» nell’antico regime prima della conquista napoleonica venne rivendicata da una vasta letteratura, che non sfuggì anche a mitizzazioni storicamente discutibili: come, ad esempio, l’assimilazione delle organizzazio- ni municipali del medioevo alle aspirazioni nazional-rivoluzionarie risorgimentali, propria – per citare un caso notissimo – di Giosue Carducci nella sua Canzone di Legnano (che doveva far parte di una più ampia opera significativamente intitolata Il Parlamento), composta nel 1876, anniversario sì della famosa battaglia tra il Barbarossa e la Lega lombarda (con Alber- to da Giussano personaggio mitizzato), ma anche anno, come vedremo, della «rivoluzione parlamentare». Un intervento con intenti più scientifici, ma non meno condizionato dal cli- ma di cui s’è detto, fu la decisione presa dalla Camera dei deputati del Regno d’Italia nel 1911, nel cinquantenario dell’Unità, di pubblicare una collezione di fonti parlamentari, intitolata Le Assemblee del Risorgimento, cui seguì nel 1917 la raccolta, promossa dell’Accademia dei Lincei nel 1913, Atti delle Assemblee costituzionali italiane dal medioevo al 1831. Il parlamentarismo in Italia prima dell’Unità Se si può discutere su quanto le esperienze che si susseguirono in età napoleonica (prima tra il 1796 e il 1799, poi dopo la riconquista francese che si ebbe l’anno seguente) fossero 253 vietata di sola lettura. Riproduzione Documento PARTE SECONDA Le istituzioni e la classe dirigente più o meno foriere di un sistema costituzionale, e quanto già all’epoca accanto all’impo- sizione del modello francese (che non era già più quello della rivoluzione, ma quello più autoritario dell’Impero) circolasse il modello, anch’esso mitico, inglese (specialmente nel- l’esperienza della Sicilia nel 1812-13, influenzata anche dalla Costituzione spagnola di Ca- dice approvata in quello stesso anno), è con i moti liberali del 1820-21 che in Italia si riac- cese, dopo la prima fase della Restaurazione, una dinamica politica che puntava all’istituzione del costituzionalismo e del parlamentarismo in senso moderno. Già la Restaurazione aveva cercato in Europa di non contraddire del tutto la nuova svolta in favore di una legittimazione dei sistemi politici in qualche modo a base rappre- sentativa: la semplice riproposizione dell’assolutismo, per quanto «illuminato», non pote- va più bastare e Klemens von Metternich stesso e gli intellettuali che sostenevano il nuo- vo corso avevano promosso quel modello che si suole definire «monarchia consultiva». Il compromesso era plasticamente rappresentato dalla Charte che il restaurato re Luigi XVIII aveva concesso ai francesi nel 1814, consapevole di quanto sarebbe stato impresentabile un semplice ritorno alla fase prerivoluzionaria. L’Italia fu di conseguenza interessata da questo dibattito intellettuale (talora sotto- valutato dalla storiografia) su quella che si potrebbe chiamare una versione moderata del costituzionalismo, ispirata in parte al pensiero di Benjamin Constant, in parte al fascino che esercitava sempre più il rinvio all’esperienza britannica dove sistema monarchico e parlamentarismo si vedevano uniti in una felice convivenza. Due momenti mostrarono ben presto la forza di queste idee. Il primo fu il biennio 1820-21, quando si verificarono negli Stati italiani moti di natura riformatrice, che sfociarono in brevissime esperienze di parlamentarismo, in seguito destinate ad avere un forte impatto sulla costruzione delle ideologie costituzionali. Citiamo, solo a titolo di esempio, il volumetto del 1829 Essai sur les anciennes Assemblées Nationales de la Savoie, du Piemont, et des pays qui y sont ou furent annexes del barone Ferdinando Dal Pozzo, che era stato ministro dell’Interno nel breve governo costituzionale sabaudo del 1821, sugli antichi Parlamenti di Piemonte, Savoia e Monferrato. Una seconda ondata di moti riformatori si scatenò nel 1830, sulla scia degli avveni- menti parigini, anche qui con la riproposizione del modello costituzionale monarchico rappresentativo (la Charte concessa in quell’occasione non fu che una rielaborazione ag- giornata di quella del 1814). La successiva rivoluzione (liberale) belga del 1831 con la sua Costituzione che rivedeva solo limitatamente la Carta francese avrebbe confermato la bon- tà di quella iniziativa. In entrambi i casi in Italia non vi furono né la forza né l’intelligenza politica nelle au- torità al potere di cogliere l’occasione, anche per l’opposizione dell’Impero asburgico, che iniziava il suo lento percorso di distacco dal riformismo politico che pure aveva conosciu- to nel Settecento. Il fallimento pratico dei moti però non mise fine al dibattito intellettua- le sulla necessità di avere sistemi costituzionali moderni sull’esempio della Francia, ma soprattutto della Gran Bretagna, vero modello in cui sembravano convivere garanzie per i diritti di libertà, partecipazione del popolo e stabilità del sistema monarchico contro ogni pericoloso conato rivoluzionario. Senza tenere conto della forza di questo mito positivo (la cui aderenza alla realtà sto- rica può ben essere messa in discussione), risulta difficile capire il passaggio del 1848, che costituì la vera premessa all’instaurazione in Italia di un regime politico di tipo costitu- zionale rappresentativo. Il fulcro di questo passaggio fu la concessione dello Statuto da parte del re Carlo Alberto: dopo una iniziale resistenza nel gennaio alle pressioni di colo- ro che chiedevano la Carta, il 3 febbraio il «Consiglio di Conferenza» si orientava per la concessione e il successivo 8 febbraio Carlo Alberto emetteva un proclama preannuncian- te le «basi di uno Statuto fondamentale per istabilire nei nostri Stati un compiuto sistema di governo rappresentativo». Il 4 marzo il testo era effettivamente varato e conteneva la 254 vietata di sola lettura. Riproduzione Documento P. POMBENI Governo e Parlamento famosa frase, oggetto come vedremo di interpretazioni divergenti, «lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo» (art. 2). Le molte polemiche susseguitesi specie nel secondo dopoguerra sulla reale portata di questa formula sono tutte dominate da una scarsa conoscenza della storia comparata dei sistemi politici europei dell’Ottocento (inclusa la famosa definizione di Maranini che par- lava di «pseudoparlamentarismo»). Ovunque, in Europa, l’evoluzione del costituzionali- smo fu graduale e dovuta più a trasformazioni politiche che si realizzavano nel tempo, che non a modellistiche istituzionali imposte bell’e fatte in qualche decisione legislativa. Que- sto vale anche per il Piemonte sabaudo e per il suo Statuto che sarebbe diventato la Car- ta costituzionale del nuovo Regno dell’Italia unita. Il sistema poggiava inizialmente su due puntelli: la conquista di una statuizione fon- damentale che inquadrasse diritti e doveri dei cittadini, accanto alla fissazione tenden- ziale dei modi di funzionamento del potere pubblico; il riconoscimento che la legitti- mazione del potere risiedeva nell’origine «rappresentativa» del sistema di controllo, affidato a un «parlamento» scelto attraverso elezioni. Questo metteva insieme il sistema postrivoluzionario inglese del King in Parliament (il re non poteva decidere «sciolto» da questo referente) e il principio della partecipazione al controllo del corpo della nazione nelle forme che esso stesso si dava (qui il principio più banale era il no taxation without representation). Quella che potremmo chiamare la rivoluzione moderna stava tutta qui ed è impro- prio interpretarne
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