Dove La Mafia Non Ha Vinto. Il Riutilizzo Sociale Dei Beni Confiscati Alla Camorra

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Dove La Mafia Non Ha Vinto. Il Riutilizzo Sociale Dei Beni Confiscati Alla Camorra XXVIII Convegno della Società Italiana di Scienza Politica 2014 Perugia 11-13 Settembre Economie alternative e movimenti sociali. Tra resilienza, resistenza e innovazione in tempi di crisi Chairs: Massimiliano Andretta, Riccardo Guidi Dove la mafia non ha vinto. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla camorra di Vittorio Martone Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Napoli Federico II [email protected] Premessa «La mafia non ha vinto» è il titolo del recente saggio di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca che rimette in discussione la cd. «trattativa» Stato-mafia negandone sostanzialmente la sussistenza. La ricostruzione esposta nel saggio centra nella strategia di prevenzione patrimoniale uno degli strumenti più efficaci nel contrasto alle mafie: vedendosi sottrarre i propri possedimenti, gli affiliati a diverse organizzazioni mafiose tentano una mediazione con lo Stato con esiti che sono tuttora da accertare in sede processuale. Non è un caso che l’antimafia giudiziaria, nel recente documento Per una moderna politica dell’antimafia (2014), confermi la prevenzione patrimoniale quale riferimento strategico del contrasto. Una scelta che, a poco più di trent’anni dalla sua introduzione, ha portato al sequestro, alla confisca e al riutilizzo di migliaia di beni: ad oggi sono circa 13 mila gli immobili e le aziende confiscati, nell’80% dei casi situati nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (Calabria, Campania e Sicilia). Si tratta di un patrimonio che, quando intercettato dal movimento dell’antimafia civile, ha favorito esperienze di riutilizzo e trasformazione della ricchezza mafiosa in bene comune. È quanto accade nella cosiddetta Campania «intermedia», l’area a nord di Napoli compresa tra il nolano, il litorale domitio e l’agro aversano. Qui ha agito e agisce il cartello noto come Clan dei Casalesi, una delle «camorre» che esprime la più spiccata vocazione imprenditoriale, reinvestendo ampiamente i proventi dei traffici illeciti nell’economia legale. Riuniti in una federazione di clan, con guida verticistica e ramificazioni territoriali, i clan casalesi sono riusciti a colonizzare interi settori dell’economia locale, privilegiando quelli che maggiormente si connettono al controllo del territorio: agricoltura, agroindustria, filiera casearia-bufalina, edilizia e opere pubbliche, grande distribuzione e smaltimento dei rifiuti. La forza della regolazione criminale dell’economia locale si consolida attorno a un capitale sociale consolidato: un tessuto connettivo e di consenso diffuso che, a partire dal controllo delle pubbliche amministrazioni e tenendo dentro interi segmenti della società, è riuscito a far sì che l’economia criminale sia divenuta prassi. Le conseguenze devastanti di un tale fenomeno non compromettono solo la tenuta del corpo sociale, ma trasformano anche la fisionomia ambientale dell’area, prima sottoposta a cementificazione sregolata e poi a proliferazione di siti di stoccaggio e sversamento di rifiuti. Dopo quarant’anni di dominio dei clan casalesi sostenere che in questi territori «la mafia non ha vinto» può apparire un eufemismo. Eppure, a cavallo del Duemila, dopo una efficace repressione giudiziaria coincisa con il cd. processo Spartacus, alcuni vertici dei clan vacillano, subiscono sequestri e confische (ad oggi circa 1.600 beni tra Napoli e Caserta) e finiscono nel cono dell’attenzione mediatica. Questa circostanza si accompagna a un importante fermento della locale rete di associazionismo, sinora celata da una coltre di omertà diffusa, che al recupero di centralità nel dibattito pubblico affianca un orientamento spiccato al proficuo riutilizzo dei beni confiscati. Questa rete multiforme e variegata di attori della società locale (associazioni di promozione sociale e culturale, cooperative agricole e del terzo settore, imprenditori, associazioni di migranti, parti 1 sociali ecc.) sottrae ai clan intere porzioni di territorio e interi settori avviando importanti esperienze imprenditoriali. Anche sull’onda dell’entusiasmo alcuni studi ravvisano, al riguardo, una progressiva strutturazione di un vero e proprio distretto dell’economia sociale, basato sulla riconversione agroalimentare dei terreni confiscati alla camorra e veicolato dal locale movimento antimafia. Tuttavia, sradicare un’economia criminale basata su un capitale sociale mafioso tanto consolidato e riconvertirla in economia sociale non è affatto un percorso lineare. Obiettivo del presente paper è mettere in luce alcune dinamiche di questa tentata riconversione a partire dall’analisi delle esperienze di riutilizzo di beni confiscati nella filiera agroalimentare in Campania. Il materiale da cui parte l’analisi è l’esito di una ricerca empirica, basata su un’osservazione partecipante e su interviste a testimoni qualificati (gestori, attivisti, istituzioni e cittadini). Il materiale raccolto è stato poi circostanziato e arricchito con l’analisi della documentazione di progetto, letteratura e cronaca locale, mettendo in luce le pratiche messe in atto per l’attivazione di reti tra associazioni e imprese attive sul territorio, per aumentare le esternalità positive e le economie di scala dei progetti, le argomentazioni adottate dagli attivisti e il dibattito pubblico nel quale si situano1. Il paper si suddivide in quattro paragrafi. Nel primo si delinea l’evoluzione di quello che potremmo definire il «movimento antimafia» italiano, descritto in stretta correlazione con le azione di policy dirette alla repressione patrimoniale della criminalità economica. Nel secondo paragrafo si approfondisce il quadro criminale della Campania e della provincia di Caserta, sottolineando la vocazione imprenditoriale della camorra di provincia. Nel terzo si propone una rassegna generale dell’associazionismo antimafia del casertano, specialmente per quanto concerne simboli, discorsi e prassi attivate in tema di riconversione dello sviluppo locale verso l’economia sociale. Nel quarto paragrafo si propone un approfondimento su due casi esemplari, il «Consorzio Agrorinasce» e la Cooperativa «Le Terre di Don Peppe Diana», mostrando gli elementi che ne definiscono le buone prassi, ma anche gli ostacoli e le resistenze ambientali che inevitabilmente si presentano. 1. Le politiche e i movimenti sociali contro le mafie Il contrasto patrimoniale rappresenta senza dubbio uno dei principali strumenti delle politiche antimafia e segna un mutamento nelle strategie repressive prendendo di mira la dimensione economica e imprenditoriale delle organizzazioni criminali. Un orientamento di policy che va fatto risalire all’introduzione della Legge Rognoni-La Torre2, che oltre ad introdurre la fattispecie del 416bis3 e affronta le mafie nella loro componente economico-finanziaria. Oltre a una maggiore efficacia repressiva, questo strumento mira a distinguere efficacemente il settore legale da quello illegale per scoraggiare il reinvestimento di proventi illeciti nell’economia legale (Arlacchi e Dalla Chiesa 1987). La legge del 1982 prevedeva che i beni mobili e immobili, crediti, azioni e aziende sequestrate venissero genericamente devolute al patrimonio dello Stato. A partire dagli anni 1 Il materiale analizzato è stato raccolto nel corso di una recente indagine su «I beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali nelle regioni dell’Obiettivo Convergenza: dalle strategie di investimento della criminalità all’impiego di fondi comunitari nel riutilizzo dei beni già destinati», finanziato dal Ministero dell’Interno e sviluppato dal centro di ricerca Transcrime. Chi scrive ha preso parte al Team regionale Campania, curando la ricerca su tre studi di caso, con il coordinamento di Michele Riccardi e di Marco Dugato (Università Cattolica - Transcrime). Un primo draft con i risultati dell’indagine sono in Transcrime 2012. Il materiale è stato da me aggiornato da materiale qualitativo proveniente da una serie di interviste tra il 2013 e il 2014 e sulla base di nuove acquisizioni degli ultimi mesi. 2 Legge 646/1982. La normativa precedente si concentrava sugli strumenti di prevenzione personale (sorveglianza speciale con obbligo o divieto di dimora) che traevano principale ispirazione in letture culturaliste: riconoscendo una sostanziale comunanza di valori tra mafie e contesti sociali di appartenenza, tali strumenti miravano a sradicare gli indagati dai luoghi di origine e a spostarli verso territori connotati da presunte «tradizioni civiche» distanti e refrattarie (Becchi 2000). Una strategia che ha notoriamente favorito – anche se non in maniera sistematica – l’emergere di fenomeni criminali nelle aree di arrivo (sia all’interno del Mezzogiorno che nel centronord Italia) mostrando come «non ci siano territori immuni dal contatto mafioso» (Sciarrone 2014, p. 9). 3 Il 416bis fornisce al reato di «associazione di tipo mafioso» una autonoma rilevanza penale: l’argomentazione giudiziaria si concentra ora sull’organizzazione e sulle attività all’interno della quale si situano i singoli fatti delittuosi o le singole posizioni di reato degli affiliati. 2 Novanta, a seguito di diffuse iniziative in seno alla società civile, viene varata la legge che prevede il loro riutilizzo ai fini sociali4. Sancire che ogni ricchezza accumulata illecitamente dalle mafie debba essere destinata al riutilizzo per scopi collettivi, oltre all’efficacia repressiva ed economica, presenta ovviamente un elevato valore simbolico: l’aggressione ai patrimoni permette di scalfire il prestigio o la capacità di un gruppo mafioso di condizionare le realtà socio-economiche nelle quali esercita
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