MERIDIONE Sud e Nord nel Mondo

MIGRANTI AFRICANI DI

a cura di Valerio Petrarca

ANNO XVI ✦ NUMERO 3 ✦ LUGLIO-SETTEMBRE 2016 MERIDIONE Sud e Nord nel Mondo Rivista trimestrale Anno XVI - n. 3, 2016

Comitato scientifico Mario Agrimi, Raffaele Cananzi, Massimo Capaccioli, Ottorino Cappelli, Zeffiro Ciuffo- letti, Ermanno Corsi, Girolamo Cotroneo, Tullio D’Aponte, Biagio de Giovanni, Mario De Lucia, Giulio de Martino, Giuseppe Di Taranto, Giuseppe Ferraro, Giorgio Fiore, Massimo Galluppi, Ernesto Guidorizzi, Antonio Jannazzo, Bruno Jossa, Ugo Leone, Amedeo Lepore, Enrico Mascilli Migliorini, Luigi Mascilli Migliorini, Ernesto Paolozzi, Gaetano Pecora, Pietro Perlingieri, Genny Sangiuliano, Rossella Savarese, Sergio Sciarelli, Francesco Soverina, Fulvio Tessitore, Maurizio Torrini

Comitato scientifico internazionale: Isabel Falcón, Rafael Narbona

Comitato editoriale: Luigi Mascilli Migliorini, Ciro Raia, Mario Rovinello

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REDAZIONE Giuseppe Selo 80121 NAPOLI, via Chiatamone, 7 - Tel. 081/7645443 pbx - [email protected]

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Guido DʼAgostino Editoriale [1] Valerio Petrarca Introduzione [3] Alfonso Caprio Cronache castellane. Immigrati africani di Castel Volturno: 1975-2012 [23] Luigi Gaffuri Africani di Castel Volturno, se è permesso [82] Fabiana DʼAscenzo Disfunzioni migratorie e territorio: gli africani di Castel Volturno [109] Antonello Ciccozzi Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno [149] Anna Amoruso Nascere «stranieri» a Castel Volturno [192] Chiara Brocco Razzismo e antirazzismo nel casertano. Studio di caso sul Centro Sociale Autogestito Ex-Canapificio [206]

Bibliografia [226]

EDITORIALE

Ai migranti africani di Castel Volturno è dedicato questo numero della nostra rivista. Un numero ‘speciale’, davvero speciale, sotto molti aspetti e da vari punti di vista. Intanto, per la lunga gestazione che ne ha preceduto e accompagnato la realizzazione, il compimento effettivo: in termini di un paio di anni, almeno, da quando Valerio Petrarca (un tempo fra i miei più valorosi e cari allievi, poi divenuto amico e via via quasi-figlio o quasi-fratello minore) aveva preso a parlarmene facendomi balenare la prospettiva di un fascicolo di «Meridione. Sud e Nord nel mondo» sul tema. Si tratta di un primo segnale da riferire alla difficoltà dell’argomento e alla intensità dell’impegno profuso da quanti hanno po- sto mano all’impresa. Quindi, a seguire, per la complessa trama di idee, di pratiche, di di- namiche umane e sociali che si stabilisce tra società ospitante e comunità migrante, africana in particolare, e che nei saggi raccolti nel volume viene analizzata, descritta, raccontata con straordianria partecipazione, anche emotiva. Peraltro mi sembra di poter affermare che è ben difficile ritro- vare eguale rispondenza, quale balza agli occhi in questo caso, tra la ma- teria trattata e lo spirito e la lettera stessa della denominazione della ri- vista in cui è richiamato l’incontro/scontro tra gli opposti poli geografici, con le connesse, e non meno antagoniste polarità sociali, culturali, ideali e politiche. In terzo luogo per l’insistito – e giustamente – riferimento alla pecu- liarità e insieme emblematicità dello spicchio di territorio – nel casertano, ma in ogni caso, assai vicino a Napoli, nel cuore di Terra di Lavoro – divenuto nel corso di qualche decennio, una sorta di modello, uno “spa- zio-mondo” in cui sono venuti a concentrarsi fenomeni, caratteri, com- binazioni di aggregati umani che danno forma a uno tra i più impel- lenti e drammatici eventi-problemi del nostro tempo. Credo non occorra soffermarsi su quanto viene portato ogni giorno dinanzi ai nostri occhi e al nostro ascolto; potrebbe bastare riandare un attimo all’immagine del- l’interminabile muro di ferro che si sta completando tra Stati Uniti d’A- merica e Messico per iniziativa dell’appena eletto presidente Trump. A Castel Volturno il quadro è certamente diverso, ma non meno

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© Edizioni Scientifiche Italiane1 ISSN 1594-5472 Editoriale sconfortante, quanto appropriata, è la considerazione di Valerio Petrarca, eccellente curatore del presente lavoro, sull’involuzione e sulla regressione drammaticamente in atto dell’intero umanesimo occidentale, dei fonda- menti culturali e giuridici della civiltà stessa dell’Occidente. È questo il problema profondo che i migranti sollevano e rappresentano, la questione di fondo a cui non sappiamo rispondere. Eppure a leggerli con raccolta attenzione i contributi di Caprio, Gaffuri, D’Ascenzo, Ciccozzi, Amo- ruso e Brocco, ci incoraggiano almeno rispetto al dato che ricerche, in- dagini, analisi che diventano anche pratiche di intervento concreto sono il primo positivo passo da cui far partire un percorso lungo, e difficile, ma indispensabile per tutti e da parte di tutti. In chiusura, mi è caro ri- cordare che lo stesso tema, con lo stesso ottimo curatore, è già presente in questa rivista, n. 2, a. X (aprile-giugno 2010). Guido D’Agostino

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ISSN 1594-54722 © Edizioni Scientifiche Italiane INTRODUZIONE

Sia letargo bestiale o vile scrupolo | a farci pen- sar troppo sulle cose | (un pensare che, se di- viso in quattro, | è saggezza soltanto per un quarto | e bassa codardia per gli altri tre), | io mi chiedo perché passo la vita | a ripetermi: «Questo s’ha da fare», | quando per farlo ho causa, volontà, | e forza e mezzi. Ed a spro- narmi a tanto | ci sono esempi grandi come il mondo. (Amleto, IV, 4)

1. Castel Volturno 2006-2015

Tra la primavera del 2006 e l’inverno del 2015, gli autori di questo volume hanno soggiornato nelle comunità dei migranti di Castel Vol- turno, in provincia di , facendo base al Centro Immigrati «Fer- nandes» (d’ora in avanti Fernandes), un centro dedicato in quegli anni all’accoglienza dei migranti in maggiore difficoltà1. Da quest’esperienza ha preso avvio la ricerca di cui si pubblicano qui alcuni risultati. Prima di presentarli, accennerò al contesto di vita vissuta in cui hanno avuto origine, per lasciarne testimonianza e per elencare qua e là temi il cui svolgimento si è dovuto eludere o rimandare. D’altra parte, i maggiori protagonisti del contesto non compaiono come autori in questo primo rendiconto. Si tratta soprattutto di Antonio Casale, direttore del Fer- nandes, che ci ha istruiti sui luoghi e sulle persone che abbiamo fre- quentato, e Annamaria Travaglino, che ha curato e tenuto i corsi di lin- gua italiana per molti migranti, alcuni dei quali ci hanno poi introdotti nel loro mondo.

2. Il tè e i biscottini

Ho cominciato il lavoro individualmente, dedicandomi alla raccolta

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© Edizioni Scientifiche Italiane3 ISSN 1594-5472 Introduzione delle storie di vita di migranti provenienti dall’Africa occidentale, per lo più ospiti del Fernandes. Con poche eccezioni, nei primi anni di lavoro i risultati sono stati deludenti. Le storie che riuscivo a raccogliere si la- sciavano disporre grosso modo in due opposte tipologie: una silenziosa, l’altra ridondante e ripetitiva. Molti migranti, soprattutto quelli di re- cente approdo, benché si esprimessero nella lingua europea per loro più familiare, rispondevano con monosillabi alle mie domande, chiedendo talvolta alla prima occasione: «Posso andare?». «Andare» significava as- sentarsi, sedersi o sdraiarsi in solitudine da qualche parte, in attesa che qualcosa accadesse. Altri, quelli che avevano maggiore esperienza e che spesso erano in grado di parlare anche in italiano, riferivano le loro av- venture senza risparmio di parole, ma raccontavano tutti la stessa sto- ria, vera o falsa che fosse. Forse adeguavano i loro racconti alle attese della società di approdo: la fuga dalla guerra, dalla fame e dalle malat- tie. I migranti che avvicinavo, per lo più privi del permesso di soggiorno, erano in grado di distinguermi dal personale governativo, soprattutto quando gli incontri si svolgevano negli spazi del Fernandes, ma la rela- zione che con essi provavo a stabilire era compromessa dalle nostre op- poste posizioni nei confronti del ricordare. Gli intervistati avevano bi- sogno di non pensare al passato. Il silenzio o il ricorso alle frasi già fatte da altri erano modi opposti per raggiungere gli stessi risultati: «gelare le parole»2 e sospendere la memoria. Le immagini dei loro cari lasciati nel paese dell’esodo, da cui magari avevano ricevuto aiuto per partire, si le- gavano alla realtà di non poter fare quasi nulla per loro e per se stessi. Ricordare era per i migranti che avvicinavo motivo di lacerazione di fronte alle prove del quotidiano, come se l’incertezza dell’avvenire ri- chiedesse un arresto o un’attenuazione dell’autocoscienza della loro pro- pria storia. Non c’erano insomma condizioni di reciprocità tra intervi- stato e intervistatore, quasi nessuna comunicazione sollecitava un senti- mento prossimo al piacere di parlare e di ascoltare. Mi sono domandato se avevo qualcosa da offrire ai migranti che fre- quentavo in cambio delle loro storie, perché essi sciogliessero, per così dire, le loro parole gelate. Le parole in italiano sono strumenti preziosi per ogni migrante per non farsi sommergere nelle contrattazioni quoti- diane in cerca di un lavoro retribuito. Sono nati così dei corsi di ita- liano atipici, in cui l’apprendimento e l’insegnamento di una lingua co- mune diventavano il fine e il mezzo di relazioni basate sul racconto della nostra vita. Dopo diverse esperienze, ho chiesto aiuto ad Annamaria Tra- vaglino, insegnante di lingua straniera nelle scuole dell’obbligo, e insieme abbiamo formalizzato dei corsi d’italiano che hanno assunto regolarità a partire dal 2009 e soprattutto nel 2010, sempre presso il Fernandes. I

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ISSN 1594-54724 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca corsi prevedevano due incontri per settimana: uno collettivo di tutta la classe con due docenti e uno individuale con un solo docente. Le riu- nioni collettive si svolgevano di pomeriggio, nella sala più ampia e me- glio arredata del Fernandes. Ognuno sceglieva come parlare di sé e del suo passato, recentissimo o lontano, e come informarsi della vita degli altri. L’unico obbligo riguardava l’uso dell’italiano. Ci facevamo inter- preti e suggeritori l’uno dell’altro, le conoscenze linguistiche che i mi- granti accumulavano rapidamente erano soprattutto lessicali, ma alla fine ci capivamo e rafforzavamo, proprio attraverso il racconto della nostra vita, la coscienza del percorso che ci aveva portato al nostro presente. Grazie a un abbonamento telefonico on line, i migranti potevano par- lare con i parenti e gli amici rimasti nei luoghi di esodo. In alcuni casi, le comunicazioni tra migranti e parenti si sono formalizzate in appun- tamenti telefonici periodici e regolari. Dopo qualche mese, la classe è di- ventata una sorta di micro-società, con le sue abitudini e i suoi piccoli riti. Quello immancabile riguardava il «Tè e i biscottini», che è l’e- spressione, affettuosamente ironica, con cui il direttore del Fernandes sintetizza oggi questa prima stagione del nostro impegno, anche perché spettava a lui preparare e servirci ogni cosa. Altre piccole cerimonie hanno riguardato gite di piacere a Napoli e cene di fine serata prepa- rate al Fernandes. Una ha sancito per noi la scoperta di una pietanza di grande bontà, che merita anche un’oggettivazione scritta: il ragù d’i- gname3. I documenti sonori di tali corsi d’italiano non si lasciano facil- mente trasformare in testi: le storie e la vita si confondono troppo in- timamente, le testimonianze richiedono un lunghissimo lavoro di con- testualizzazione che ho dovuto rimandare. Più avanti fornirò inciden- talmente un esempio di questa difficoltà di documentazione, perché evoca un problema di interesse generale, ma le amicizie nate durante i corsi atipici d’italiano sono state la forma di conoscenza per me più impor- tante, e da essa è nata anche l’idea della ricerca collettiva qui pubblicata.

3. Piccole scene sociali totali

La prossimità con i migranti e con i castellani accanto a cui essi vi- vono ha nello stesso tempo arricchito e impoverito la ricerca. L’ha ar- ricchita perché facevo esperienza dell’infinita molteplicità e varietà indi- viduale racchiusa nella nozione di «migrante», dunque di una realtà de- cisiva del fenomeno che intendevo studiare. L’ha impoverita perché pro- prio tale prossimità metteva alla prova le categorie con cui ciascuna di- sciplina costruisce il suo «oggetto» di studio, categorie che devono ne-

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© Edizioni Scientifiche Italiane5 ISSN 1594-5472 Introduzione cessariamente obbedire a qualche astrazione unificante, grazie alla quale in ogni singolo testimone si possono documentare dimensioni dell’agire e del pensare di estendibilità non individuale. In un certo senso, più rav- vicinata e partecipata era l’esperienza sul terreno, più complicato è stato per me, e poi per noi, stabilire una gerarchia della rilevanza qualitativa e quantitativa dei problemi che la vita vissuta faceva emergere; e più complicato ancora è stato valutare l’opportunità di comunicare i risul- tati del lavoro nella realtà della contemporanea discussione civile e po- litica, cui più avanti dedicherò attenzione. Approfitto invece di queste prime pagine del lavoro per selezionare temi e problemi che non si è potuto approfondire, ma di cui è preferibile lasciare sin d’ora traccia. Li riferisco in forma embrionale, attraverso il racconto di alcuni fatti di vita vissuta che hanno la caratteristica di mettere in scena, sinteticamente e implicitamente, la totalità delle relazioni ideali e pratiche (emotive, cul- turali, sociali ed economiche) tra micro-società migranti e società ospi- tante, dove la relazione migrante-ospitante racchiude anche la relazione tra migranti e società di origine e ospitanti e società locale castellana. Manipolando ai miei fini nozioni ben altrimenti concepite, tali fatti di vita vissuta potrebbero essere definiti come «piccole scene sociali totali»4.

a) Nel corso atipico d’italiano è capitato spesso che, durante i dia- loghi telefonici con i parenti rimasti a casa, i migranti raccontassero loro diverse bugie su come passavano la vita a Castel Volturno. Dice- vano, per esempio, che avevano trovato casa e lavoro, che tutto an- dava bene e presto avrebbero mandato qualche soldo in più a casa. Le bugie venivano accompagnate da gesti, sguardi e risa degli astanti, di difficile trascrizione, come per dire che chi stava parlando «le sparava grosse». Quando si provava a commentare le ragioni di tali bugie, al- l’interno o all’esterno dei corsi d’italiano, in pubblico e in privato, si ottenevano sorrisi e scuotimenti di testa. Non serviva insistere: ciò che in fondo ci veniva richiesto era una sorta di complicità. Non sono in grado di esibire statistiche attendibili per tutta l’area considerata, ma per circa cinquanta migranti dell’Africa occidentale, tra i partecipanti ai corsi atipici d’italiano nel 2009 e nel 2010, le bugie per rassicurare i parenti (e incrementare l’esodo dal loro villaggio o dalla loro città) erano consuetudine, confermata anche da altri migranti estranei alla classe d’italiano. Soprattutto in occasioni involontarie o casuali, sono stato testimone del dramma di moltissimi migranti, anche non più gio- vani, che confessavano di sopportare a Castel Volturno umiliazioni che non avevano mai così intensamente sperimentato nella società di ori- gine. E tuttavia, anche solo il pensare di tornare indietro era da loro

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ISSN 1594-54726 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca avvertito come una sconfitta decisiva, che li avrebbe segnati definiti- vamente.

b) In un giorno della primavera del 2010 ero in coda, presso un mo- dernissimo negozio di ferramenta di Castel Volturno, per comprare dei chiodi e un martello. Il proprietario, di origine castellana, si lasciava aiu- tare da due giovani migranti neri. La coda era formata da una ventina di persone quasi tutte di origine africana. Quando sono passato alla cassa per pagare, il negoziante castellano mi ha invitato a firmare una peti- zione in cui si chiedeva «allo Stato l’espulsione dei migranti per non de- stinare i cittadini castellani a fare la stessa fine degli indiani d’America». Ho guardato negli occhi il proprietario, poi mi sono girato verso le per- sone in coda e lui ha capito. Ha lasciato la postazione di fronte alla cassa e mi ha invitato a seguirlo verso l’uscita, mentre diceva: «Voi al- lora non siete di qui, adesso vi faccio vedere e capirete». Una volta sul- l’uscio del negozio, viste le buone maniere del proprietario, gli ho ri- cordato anche a voce che i suoi acquirenti erano tutti o quasi tutti mi- granti e che lui stesso si serviva di manodopera africana. Mi ha rispo- sto dicendo che i suoi aiutanti erano «buoni ragazzi»; e i suoi clienti, «buoni pagatori». Mi ha invitato però a guardare fuori, a far caso a chi passava a piedi o in macchina lungo la strada della Domiziana, aggiun- gendo: «Ci vogliono dieci minuti per vedere passare un bianco e un quarto d’ora per vedere un castellano». La gentilezza del proprietario del negozio di ferramenta ha avuto la meglio sulla mia iniziale repul- sione alla vista della petizione che mi invitava a firmare. Lui mi ha per- messo di parlare con i suoi aiutanti e ho dovuto ammettere che nutri- vano affetto e gratitudine per il loro datore di lavoro. Uno mi ha detto che il suo chef era come un «padre che mantiene le promesse», inten- dendo dire che a fine giornata lo «pagava veramente». Posso affermare, per informazioni indirette, che la paga non superava 15-20 euro per 12 ore di lavoro continuativo (dalle 8.00 alle 20.00).

Le due scene, è ovvio, non sono connesse direttamente; né la se- conda documenta un’indistinzione tra sfruttatori e sfruttati, tra chi su- bisce e chi esercita una violenza. Fanno emergere però una sorta di «falsa coscienza complementare», con cui la comunità migrante e la comunità ospitante metabolizzano sul piano ideologico il mercato condiviso, un mercato allo stato puro, non disturbato dalla legalità, che obbliga en- trambe le parti a mentire, almeno un po’, proprio nei confronti della società di provenienza e di appartenenza, per adeguare il senso delle loro azioni ai valori culturali di cui restano portatori: i migranti nel dire a

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© Edizioni Scientifiche Italiane7 ISSN 1594-5472 Introduzione chi è rimasto nella società di esodo che tutto va bene, che hanno avuto successo (ponendosi come modello per altri giovani e incrementando l’e- sodo); gli ospitanti nel dire che tutto va male, perché i neri sono più numerosi dei bianchi (accrescendo, attraverso la minaccia di espulsione e in presenza di mano d’opera sovrabbondante, la debolezza dei mi- granti e dunque la loro docilità allo sfruttamento). La complementarità tra diverse forme di «falsa coscienza» riguarda moltissimi campi, in cui trovano espressione le relazioni tra le comunità migranti e le comunità locali, dal mercato degli affitti delle «case» a quello della mano d’opera, lungo pratiche che vanno dall’illegalità alla crimina- lità vera e propria. In una lunga e illuminante conversazione avuta con il colonnello Carmelo Burgio nel giugno del 2008, avevo appreso, per esempio, che alcuni castellani fanno da prestanome, ricavandone profitto, nell’intestazione di carte di circolazione per automobili guidate da mi- granti sprovvisti del permesso di soggiorno (si può arrivare anche a due- cento auto per un solo prestanome). E tuttavia l’arricchimento che i mi- granti permettono non entra in contraddizione, sembrerebbe soprattutto nei castellani che ci guadagnano sul piano economico, con l’idea di es- sere invasi dagli stranieri e con la retorica della minaccia d’espulsione. Questi aspetti, interpretabili come dinamiche usuali della contempo- ranea economia-mondo5, dove la supremazia del mercato governa e rende complementari i dislivelli territoriali, sociali ed economici indipendente- mente dai confini statali, hanno delle articolazioni palpabili nell’osserva- zione ravvicinata. Negli anni qui considerati si sono succedute a Castel Volturno diverse giunte comunali, la cui maggioranza è stata ora «filo- migranti» ora «anti-migranti», ma non si sono notate differenze signifi- cative tra i due schieramenti amministrativi che non riguardassero l’ora- toria a favore o contro i migranti, ora per la campagna elettorale ora per la propaganda a sostegno di chi amministrava: i «filo-migranti» non hanno potuto fare quasi niente per aiutarli; gli «anti-migranti» non hanno fatto niente per espellerli, anche in presenza di leggi che lo avrebbero permesso. Semplificando ancora: perché i migranti che a Castel Volturno ammettono di vivere peggio che a casa loro non vi fanno ritorno e anzi alimentano l’esodo, non dicendo la verità a chi è rimasto a casa? Per- ché i castellani che si arricchiscono grazie ai migranti dicono di volerli mandare «a casa loro»? Si dice che «l’economia vuole i migranti e la so- cietà no»6, ma come si articola questo paradosso nella vita vissuta dei protagonisti? Come viene giustificato? Come viene gestito dalla politica? E soprattutto: che ruolo vi hanno i nostri discorsi sui migranti e sul- l’immigrazione? Alimentano o contrastano l’ideologia necessaria al «buon funzionamento» del mercato? Ho sperimentato una discordanza tra i di-

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ISSN 1594-54728 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca scorsi sui migranti (la polemica tra chi ne auspica l’accoglienza e chi ne invoca l’espulsione), i discorsi dei migranti (il risentimento o la gratitu- dine verso i castellani, a seconda dell’accettabilità o meno della loro si- tuazione) e il comportamento quotidiano, dove in sostanza tutte le parti vanno d’accordo, per così dire, indipendentemente dai significati che i singoli vi attribuiscono. Accennerò più avanti, in quest’introduzione, alle forme del discorso sui migranti e all’articolazione della memoria pub- blica che li riguarda. Colte su grande scala (cioè attraverso l’osservazione di piccole comunità residenti in delimitate porzioni di territorio), le con- nessioni tra l’assetto politico-sociale dei migranti e l’ordine del discorso che su di essi si costruisce fanno emergere problemi di carattere gene- rale, la cui esplicitazione può contribuire ad allargare l’autocoscienza del nostro lavoro.

4. Le agognate carte, la strage del 18 settembre e i veri corsi d’ita- liano

Il primo giugno del 2008 la strada Domiziana, nei pressi del Fer- nandes, era invasa da migliaia di neri che tentavano di dirigersi verso la vicina traversa dove sorge una casa dei padri Comboniani. Erano giorni difficili a Castel Volturno per gli effetti delle voci riguardanti il cosid- detto «pacchetto sicurezza» («per contrastare i fenomeni di illegalità dif- fusa collegati all’immigrazione illegale»), che il Governo aveva appena presentato in Parlamento e che sarebbe stato convertito in legge nel lu- glio dell’anno seguente. Le voci sul «pacchetto» avevano portato dispe- razione e paura tra i migranti, disfacendo in poche ore alcune abitudini che si erano faticosamente consolidate, come quella di farsi visitare e cu- rare in ospedale e di iscrivere e accompagnare i figli alle scuole dell’ob- bligo. Ho cercato di informarmi su quell’insolita processione chieden- done ragione ai migranti in coda, ognuno dei quali stringeva tra le mani varie copie della propria fotografia. Le risposte ottenute sono state di tre tipi: a) «i Comboniani danno le carte del permesso di soggiorno»; b) «i Comboniani danno certe carte contro le espulsioni»; c) «Non so quali carte danno i Comboniani, ma le voglio anch’io». Arrivato il mio turno, ho potuto fotografare le due carte che sta- vano per essere messe nelle mani di un migrante. La prima consisteva in un foglio A 4 dove era scritto:

Parrocchia | S. Maria dell’Aiuto | (Immigrati) | Via Matilde Serao 8 – 81030 Castelvolturno (Ce). |

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© Edizioni Scientifiche Italiane9 ISSN 1594-5472 Introduzione

Castelvolturno 1 giugno 2008 | Io, Padre [Nome e Cognome] | Missiona- rio Comboniano | di S. Maria dell’Aiuto, | rappresentante nazionale a Roma, | presidente dell’Associazione “Blak and Withe”, | scrivo che | [NOME CO- GNOME del migrante] appartiene alla Chiesa Cattolica con sede | in via Matilde Serao, 8 – Parrocchia di S. Maria dell’Aiuto | ed è sotto questa giu- risdizione | [Nome del migrante] è uno dei miei ragazzi che è stato nel pro- gramma con | il servizio di Assistenza sociale di Castel Volturno. La sua si- tuazione è stata | definita. | Per eventuali problemi, vi prego di | telefonare al mio numero [n. del telefono cellulare] | [timbro e firma autografa del- l’estensore] | [Fotografia del migrante sovrascritta col timbro della parroc- chia].

La seconda carta aveva la forma di quella d’identità: sotto la foto del migrante, sovrascritta con il timbro della parrocchia, comparivano le in- dicazioni del Nome, del Cognome, della nazionalità, della data di na- scita e del numero di passaporto. La lunga teoria dei migranti in cerca di carte è durata tre giorni, dalla mattina alla sera. Si è interrotta per un incidente occorso a uno degli estensori. Salito sul terrazzo della casa, per disciplinare il flusso dei migranti, la ringhiera cui si appoggiava ha ceduto e lui è caduto giù, fi- nendo in ospedale con spalla e braccio fratturati e il volto tumefatto. Il clima sociale inaugurato nel 2008, destinato a incrudelirsi dopo la cosiddetta strage dei ghanesi del 18 settembre dello stesso anno7, ha de- terminato un cambiamento di rotta nei modi di coniugare studio e azione civile. Si può dire, con semplicità, che si sono sempre più separati. L’ap- plicazione del «pacchetto sicurezza» dava rilievo, per ottenere il per- messo di soggiorno, ai diplomi che documentassero la conoscenza del- l’italiano da parte dei migranti. Così i corsi atipici d’italiano, benché si fossero formalizzati proprio in quel clima, hanno man mano ceduto il posto, su richiesta dei migranti stessi, a quelli veri e propri, secondo i programmi ministeriali. Si è progressivamente svuotata la sala dell’inse- gnamento atipico e si sono riempite le aule dedicate ai corsi regolari, sempre presso il Fernandes, con banchi, lavagna, libri, quaderni, penne e test di verifica per i cosiddetti livelli A e B. Alla fine del 2010, i corsi atipici sono terminati definitivamente e quelli tipici hanno richiamato sempre più migranti, africani e non africani, provenienti anche da aree lontane da Castel Volturno. Li abbiamo svolti ogni anno da novembre a giugno, nelle aule del Fernandes, con l’aiuto soprattutto di Anna Ma- ria Travaglino, poi nel 2011 anche presso l’Associazione Miriam Makeba (fondata e diretta da Mary Osey), nel 2013 e 2014 presso la sede di Ca- stel Volturno della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, su invito del pastore Davide Malaguarnera, e ancora continuano oggi in altre sedi della

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ISSN 1594-547210 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca periferia napoletana. Abbiamo chiesto volta per volta aiuto ad altri in- segnanti e ricercatori (soprattutto a Mariella Masucci dell’Associazione Insegnanti senza Frontiere, Renata Venditti e Lucia Greco, docenti nelle scuole dell’obbligo). In tutte le circostanze abbiamo seguito i programmi e i testi sperimentati dai docenti della Comunità di Sant’Egidio. Sotto la loro supervisione, soprattutto di Francesco Dandolo, Carmen Manna e Dario Spagnuolo, abbiamo potuto svolgere le prove d’esame e conse- gnare ogni anno centinaia di diplomi che, come molte altre carte, quasi mai si sono trasformati in permessi di soggiorno. Nella speranza di organizzare meglio il nostro lavoro, nel novem- bre 2010, Antonio Casale, Annamaria Travaglino, io e altri nostri amici, tra cui gli autori di questi saggi, abbiamo fondato l’Associazione Terra di Incontro Onlus, con sede a Castel Volturno, che ha per scopo la co- noscenza e la buona convivenza tra persone di lingue, culture e religioni differenti. Il nome dell’associazione contiene l’augurio per un territorio perché possa associare la vocazione storica dell’area, detta anticamente Terra di Lavoro, con la sfida del presente. L’associazione non ha pro- dotto un incremento delle attività, ma ha favorito la frequentazione di altre associazioni8 e l’applicazione di alcuni risultati delle ricerche in un’e- sperienza educativa finanziata dal ministero degli Interni, attraverso i co- siddetti bandi FEI9. In questo caso, alcuni autori di queste pagine, so- prattutto Alfonso Caprio, Anna Amoruso e io, siamo stati impegnati da dicembre 2012 a giugno 2013 in un progetto educativo, destinato agli studenti delle scuole medie inferiori, incentrato sull’individuazione, l’e- spressione e la risoluzione del conflitto originato da abitudini culturali di diversa origine. Abbiamo proposto agli studenti il seguente soggetto: l’odore che si sprigiona, dal primo all’ultimo piano di un condominio, per la preparazione di un pasto nella cucina di una famiglia, è percepito come fetido dai componenti di tutte le altre famiglie dello stabile10. Ab- biamo negoziato con gli studenti lo sviluppo del soggetto (l’alimento da scegliere, i tipi di protagonisti, se l’affare doveva risolversi in una rissa, cruenta o meno, o in un dialogo all’origine della ricerca di una situa- zione di compromesso), che Alfonso Caprio ha sceneggiato e fatto re- citare ai suoi studenti con la sua regia11.

5. Discorso e memoria dei migranti

Più familiarizzavo con i migranti di Castel Volturno più mi sem- brava che i discorsi prevalenti sui «migranti», della politica e del dibat- tito civile, non avessero con essi quasi niente a che vedere. Le incertezze

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© Edizioni Scientifiche Italiane11 ISSN 1594-5472 Introduzione che rallentavano il lavoro di ricerca tendevano a trasformarsi in presun- zione negli interventi del dibattito civile, dove pensavo di poter dire «le cose come stavano», denunciando la malafede e l’ignoranza diffuse, e quasi pretendevo la prima scena, nella convinzione di conoscere i mi- granti meglio di chi ne parlava nelle sedi deputate del dibattito civile e politico regionale. Quasi ogni giorno capitavano a Castel Volturno epi- sodi che dal mio punto di vista avrebbero meritato la scena nazionale. Capitava, per esempio, che una donna priva del permesso di soggiorno, in presenza dei figli, fosse cacciata via di casa a calci e a pugni dal pro- prietario, perché morosa, e che non potesse denunciarlo senza autode- nunciarsi come «clandestina»; che un giovane venisse espropriato di tutti i suoi risparmi perché affidati a terzi, non avendoli potuti depositare in banca, sempre perché «clandestino»; che molti altri migranti non aves- sero possibilità legale di esigere il dovuto da datori di lavoro con cui si erano accordati sulla parola. Fatti come questi, gravi e continui, trae- vano sempre e comunque origine dalla subalternità giuridica dei migranti, una subalternità più pesante e decisiva di quella economica. Ho speri- mentato una condizione emotiva che mi dettava cosa pensare indipen- dentemente dalla volontà di conoscere analiticamente i problemi che in- tendevo studiare. Una volta deciso da che parte stare, finivo per non in- terrogarmi più, selezionando di conseguenza ciò che era utile comuni- care. Parlando e scrivendo le parole si usuravano, avevo bisogno di ri- correre a termini sempre più estremi, che facessero scandalo, per così dire, alimentando quella stessa retorica simmetrica che avrei voluto com- battere con la ragione e con l’azione. Mi sono poi chiesto se questo prendere parte alla disputa non fosse di alimento a un meccanismo ideo- logico perverso, dove la difficoltà di capire e agire si risolve in una mi- tologia espressa con retoriche contrapposte. E se così fosse, significhe- rebbe che le parti della società «ospitante» sono immerse in un ordine del discorso, la cui logica impersonale tenderebbe a ribadire più che a modificare la situazione di fatto. Quasi si trattasse, sulle spalle dei migranti, di articolare una disputa tutto sommato interna, non avendo i migranti la forza necessaria per prendervi parte come tertium datur, se non facendo eco all’una o all’altra parte12. La debolezza giuridica dei mi- granti si traduce nella loro sostanziale passività nell’ordine del discorso che li riguarda. Tanto è vero che quelli di Castel Volturno, al pari dei migranti più svantaggiati, si fanno sentire più da morti che da vivi. La stampa regionale s’interroga per la prima volta sulla condizione dei migranti nell’area napoletana il 23 novembre del 1980, in occasione del ritrovamento del cadavere di un giovane somalo nel porto di Napoli. Da allora in poi, il discorso pubblico e la memoria sui migranti hanno

MERIDIONE Sud e Nord nel Mondo

ISSN 1594-547212 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca avuto i momenti di massima articolazione sempre e comunque in con- nessione con le morti violente dei giovani. Uno spoglio accurato e siste- matico della stampa regionale e nazionale dedicata a Castel Volturno lo conferma senza possibilità di equivoco, nei suoi aspetti statistici e nelle sue retoriche comunicative13. Qui, più che presentare la lista del necro- logio migrante, come puntualmente si è costretti a fare nelle occasioni cerimoniali, è sufficiente ricordare i casi più noti, anche perché sono di- ventati occasione di memoria rituale: l’assassinio di Jerry Masslo, avve- nuto a il 25 agosto 1989, e l’eccidio di Castel Volturno del 18 settembre 2008, allora rubricato e ancor oggi ricordato come «La strage di San Gennaro»14. Questi due eventi bastano a fare emergere sintetica- mente i temi di riflessione che pongo all’attenzione, non perché – ripeto – siano gli unici fatti di sangue, ma perché esemplificano i tratti domi- nanti con cui si costruiscono i discorsi e la memoria sui migranti. Nessuna delle figure celebrate aveva funzione pubblica. Jerry Essan Masslo, del Sudafrica, non sintetizzava nella sua persona discorsi e azioni sociali a nome degli altri migranti. La sua biografia lo predisponeva piut- tosto a essere iscritto in una catena vittimaria che prima di lui aveva ri- guardato il padre e la figlia, uccisi in Sudafrica durante una manifesta- zione per i diritti dei neri. Anche le vittime del 18 settembre (Kwadwo Owusu Wiafe, Ibrahim Alhaji, Karim Yakubu (Awanga), Kuame Antwi Julius Francis, Justice Sonny Abu, Eric Affun Yeboah “Taller”, Joseph Ayimbora) non erano figure pubbliche non erano figure pubbliche15. Le uccisioni di questi giovani, dunque, non hanno interrotto un discorso e un progetto civile o politico proveniente dai migranti. E forse non è un caso che la memoria delle loro figure non ha dato vita a identificazioni simboliche e ad azioni sociali durature da parte dei migranti, nella co- struzione di una loro identità collettiva di parte. La reazione dei mi- granti a questi attentati è stata emotiva e occasionale (lo sciopero nel caso di Masslo, la rivolta e qualche celebrazione nel caso delle vittime del 18 settembre). Le morti ingiuste e violente dei migranti hanno dato impulso, invece, soprattutto alla nostra memoria dei migranti. Masslo e gli altri sei africani sono stati considerati pressoché uni- versalmente come vittime innocenti e la loro morte implicitamente o esplicitamente classificata come «sacrificio». L’espressione «Strage di san Gennaro» riassume bene tale costruzione del discorso. La vicinanza della data dell’eccidio (18 settembre) con quella della liquefazione del sangue di San Gennaro (19 settembre) è stata l’occasione per un’associazione simbolica densa, che ha il suo nucleo semantico, non nominato ma sog- giacente, nel sangue versato di un martire. A Castel Volturno, come al- trove, sono morti ammazzati molti migranti. Le morti però che meglio

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© Edizioni Scientifiche Italiane 13 ISSN 1594-5472 Introduzione si organizzano come discorso e memoria dominanti sono quelle che più si lasciano classificare in un ordine prossimo al «sacrificio». Senza diminuire l’estrema gravità dei fatti che diventano luoghi e mo- menti di articolazione della memoria sui migranti, sposto l’attenzione su un problema diverso: quali caratteristiche devono avere i fatti dei migranti per essere privilegiati nel discorso pubblico e nella memoria? È vero, come si ripete, che il «sacrificio» di Masslo «è servito» perché in Italia ci fosse finalmente una legge sull’immigrazione16, ma perché una legge nazionale, su un fenomeno sociale così importante, ha avuto bisogno del sangue di un innocente? Anche nel caso dei migranti di Castel Volturno e di al- trove, il passaggio tra fatto, discorso pubblico e memoria non è innocente, esprime piuttosto una logica che risiede nell’ordine impersonale del di- scorso in cui siamo tutti immersi, tutti quelli che hanno parola, indipen- dentemente dalle nostre diverse posizioni ideali e politiche. Quasi tutte le memorie collettive affondano in fatti di sangue, il sa- crificio è l’atto ritualizzato più condiviso dalle memorie sociali17. L’as- sociazione tra sangue e memoria è frequentissima anche se considerata sul piano etnologico, ma le distinzioni tra vari tipi di connessione tra miti e riti sacrificali non sono qui necessarie. D’altra parte, anche le me- morie laiche non funzionano diversamente, come per esempio nel caso dei martiri del Risorgimento, delle Guerre Mondiali, della Resistenza. I testimoni e gli eroi fondatori, in forma personale o anonima, sono scelti quasi sempre tra i sacrificati, tra chi ha dato la vita per quelli che si ri- promettono, facendone memoria, di continuarne il progetto sociale che la morte ha violentemente interrotto. Nel caso dei migranti, però, si tratta di simboli che ribadiscono la loro passività, una condizione non ancora sociale, né tantomeno politica, ma appunto antropologica, nel senso elementare e universale del termine. Nel caso delle religioni, come delle fedi politiche, la costruzione della memoria assicura identificazioni sociali profonde e fondanti, cioè sacre, perché è opera di gruppi già at- tivamente impegnati in un progetto di autoaffermazione riguardante gli aspetti profani della vita sociale. Si può dire anzi che nelle religioni, come nelle fedi politiche, i simboli del sangue e del sacrificio sono l’occasione per tessere una parentela ideale, nel contesto sacro e in ogni caso rituale, come continuità di valori e azioni che già pervadono, non ritualmente, la vita sociale in tutti gli aspetti in cui essa può essere individuata. Proprio in occasione del ricordo di «Jerry Masslo a 25 anni del suo assassinio», il filosofo Aldo Masullo ha auspicato una «cittadinanza umana» a proposito dei migranti18. Masullo ha un culto per l’esattezza delle parole e si tratta dunque di una provocazione che tocca il cuore del problema qui posto. La cittadinanza è un fatto politico, non uni-

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ISSN 1594-547214 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca versalmente umano, appartiene alla volontà e alla possibilità di essere e agire come persona dotata di diritti e di doveri all’interno di una società e di uno spazio definiti, dunque non è umanamente generalizzabile. L’e- spressione «cittadinanza umana» evoca perfettamente l’elementarità cui siamo costretti a ricorrere in un discorso dipendente dai rapporti di forza che si sono creati tra società «ospitante» e migranti, rapporti che pos- sono riflettersi, in un certo senso a nostra insaputa, nell’ordine del di- scorso che alimentiamo19. Si tratta di problemi che hanno provocato silenzio e ritardo nella prosecuzione del lavoro qui pubblicato. Mi rendo conto che parliamo sempre dei migranti morti perché essi continuano a morire, ma il ra- gionamento può essere rovesciato. Se per parlare dei migranti c’è biso- gno sempre e comunque di «sacrifici», di sangue versato o di morti an- negati, significa che l’ordine del discorso in cui siamo immersi, nostro malgrado, classifica i migranti come umanità non sociale. Senza nulla to- gliere ai buoni sentimenti che ci animano e alla nostra capacità di com- muoverci, il discorso sui migranti ci dice che la nostra società, proprio quando li celebra, li riconosce più come esseri viventi che come persone, tanto è vero che l’attenzione mediatica e politica a essi rivolta pretende, con regolarità e ripetitività, istantanee di un immaginario elementarmente umano: partorienti, lattanti, bambini, vecchi, morti, cioè le immagini dei tratti comuni di qualsiasi forma di umanità. Mi sono chiesto (e davvero non so rispondere): i nostri discorsi sui migranti rischiano di essere so- lidali, nostro malgrado, con l’ordine che non concede loro tutte quelle differenze attive che si riferiscono all’idea di persona giuridicamente e politicamente concepita? Quando s’insiste su questi simboli elementari, nella costruzione della nostra memoria dei migranti, rovesciamo o con- fermiamo quell’ordine del discorso e del potere che li tiene sottomessi20? I simboli elementari si appellano a sentimenti e a identificazioni ele- mentari e li modellano: la colpa nella società ospitante, per il sangue in- nocente versato; la persecuzione e il risentimento nelle microsocietà ospi- tate. L’una e gli altri alimentano un discorso e una pratica sociale che tende a ripetersi ritualisticamente e mitologicamente? Ci separano da quella complessità del reale e della storia che siamo chiamati a decifrare analiticamente? L’usura delle nostre parole ci segnala che il nostro di- scorso non è estraneo all’ordine che vorremmo modificare? Siamo l’al- tra parte, quella dei «buoni»21, di una macchina mitologica dove fatti e parole si ripetono ritualisticamente e si richiamano incessantemente gli uni con le altre in un circolo vizioso? Accenno a due topoi della nostra retorica, cui sembra quasi impossibile sottrarsi, nella speranza di artico- lare con altri esempi lo stesso problema.

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© Edizioni Scientifiche Italiane15 ISSN 1594-5472 Introduzione

Quando affermiamo che i migranti sono una risorsa per l’economia, un tesoro per il nostro benessere materiale, diciamo cose vere e accer- tate; ma, così facendo, non accettiamo anche il primato dell’economia, come lucro egoistico, che tiene sottomessi territori e persone che vor- remmo difendere? E dipende dall’altruismo il fatto che poi auspichiamo una distribuzione territoriale più allargata dei migranti? Vogliamo con- dividere con altri questo privilegio? O vogliamo distribuire equamente un peso? E se fra qualche anno o già subito le statistiche dovessero di- mostrare che i migranti sono un «peso» per il nostro benessere mate- riale, noi cosa risponderemo? L’altro cliché dei nostri discorsi riguarda l’immancabile associazione tra gli emigrati italiani dei decenni scorsi e gli immigrati che ora «ospi- tiamo». Ripetuto come una giaculatoria anche da me, in varie occasioni, un bel giorno mi è apparso sinistro, quando ho pensato al fatto che le ex vittime diventate poi carnefici sono legione. Non faccio esempi per- ché sarebbe difficile non dimenticarne qualcuno di clamoroso e perché è un fatto che la società italiana di ex emigrati (soprattutto nelle regioni più interessate dal fenomeno) si dimostra sorda e impreparata (nella legge, nella cultura, nella politica, nell’economia e nella burocrazia) di fronte ai problemi così complessi posti dall’immigrazione. Ripetere il cliché dei nostri antichi emigrati alimenta al massimo il sentimento elementare della colpa, che provoca rimozione del problema in chi ha deciso cinicamente di pensare ad altro e una certa «ossessione» in chi già se ne fa carico, con azioni individualmente concepite, che infatti non mancano, soprat- tutto nelle aree più abbandonate dallo Stato. Temo che la retorica mi- grante, se non è ripensata criticamente, rischia di alimentare il discorso binario e totalizzante sui migranti, che vede come protagonisti della di- sputa i «buoni» (detti talvolta “poeti” o “anime belle”) e i «cattivi» (detti talvolta «duri» e «realisti»). A contarli, come fanno i politici prima delle elezioni, sembrerebbe che i secondi, non solo in Italia, siano più nume- rosi dei primi. Il problema che i migranti sollevano è innanzitutto quello dei diritti e dei valori dell’Occidente, diritti e valori che regolano anche la nostra convivenza interna. Più nominiamo questi valori, concepiti dal nostro umanesimo come generalizzabili, staccandoli dalla praticabilità dei diritti, più le nostre parole si usureranno, più saremo costretti a sermoneggiare. L’inclinazione di moltissimi migranti a conservare qualsiasi «carta», an- che quelle a breve scadenza come un biglietto del treno con impresso il loro nome e cognome, esprime simbolicamente il nocciolo della que- stione.

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ISSN 1594-547216 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca

6. La ricerca

Gli studi qui pubblicati riguardano un tempo breve e un piccolo ter- ritorio. Questa scelta, come in un cono capovolto, discende però da una considerazione molto generale. L’umanesimo occidentale, negli aspetti giuridici che lo sostengono, da Bartolo da Sassoferrato22 alla Dichiara- zione universale dei diritti umani, è indissociabile dalla sua tensione uni- versale, tensione che ha «giustificato», in età moderna e contemporanea, l’espansione della civiltà occidentale fuori d’Europa. Se questi fondamenti culturali e giuridici vacillano, di fronte alla domanda delle persone pro- venienti da quei territori il cui dominio da parte dell’Europa è coevo alla gestazione dell’umanesimo interno, significa che questo ha esaurito il suo corso proprio dinanzi al mondo che ha determinato; che ha ri- velato il suo telos nella supremazia e idolatria del mercato e del profitto materiale, ammantato degli ideali umanistici universali che avevano ve- lato il dramma della sua espansione. La vita sociale di Castel Volturno testimonia una regressione dell’umanesimo occidentale e ci è sembrato utile descrivere i fatti, i luoghi e i discorsi in cui essa si attua, come con- tributo a una discussione che non rifugge dalle contraddizioni che il fe- nomeno dell’immigrazione comporta. Ho «costretto» Alfonso Caprio, nato e vissuto a Castel Volturno, a scrivere una storia di «corta durata», una cronaca del suo paese scandita sul ritmo delle brevi esistenze individuali23. Ciò permette di accostare la prospettiva storica a quella delle altre ricerche qui pubblicate, tutte ba- sate sull’esperienza vissuta. Le pagine di Alfonso Caprio, cioè, percor- rono, sull’asse dello svolgimento diacronico, lo stesso registro del vis- suto in cui sono maturati gli altri saggi, che privilegiano, in modo di- verso, l’asse sincronico. Sono testimonianza, insomma, di una storia vis- suta e scritta «a caldo», dove gli accadimenti generano echi che si acca- vallano e si confondono nei vari generi del discorso, ognuno dei quali ha la sua propria lente di selezione e distorsione: nella stampa, nel Con- siglio comunale, nella vita dei partiti politici e nelle voci di strada. La subalternità giuridica dei migranti di Castel Volturno si traduce immediatamente in fatti quantitativi. Non si sa quanti sono. Ho colla- zionato i numeri che vengono dati, di tanto in tanto, sulla stampa o an- che negli interventi oratori di giornalisti, politici e cultori della materia. Oscillano del 400 per cento: si va da un minimo di cinquemila a oltre ventimila. Mi è sembrato dunque utile contare i migranti, quelli che hanno il permesso di soggiorno e quelli che non lo hanno, per misu- rare i loro flussi nell’area considerata. Luigi Gaffuri si è assunto questo compito di estrema difficoltà. Comparando i dati da lui raccolti sul ter-

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© Edizioni Scientifiche Italiane17 ISSN 1594-5472 Introduzione reno con quelli degli archivi ufficiali (ISTAT, Ministero dell’Interno, INAIL, ASL, Ministero dell’Istruzione e presidi scolastici del territorio, Caritas nazionale), ha ricostruito le cadenze dei flussi migratori a Castel Volturno negli ultimi tre decenni, fornendo stime attendibili sulle aree di provenienza dei migranti e sull’incidenza delle persone sprovviste del permesso di soggiorno. Fabiana D’Ascenzo ha descritto e problematizzato i luoghi dove vi- vono i migranti. Si tratta di una storia e di un assetto socialmente orien- tato del territorio di Castel Volturno che consentono l’esame puntuale di un segmento geografico di piccole dimensioni (nove chilometri di strada). Il metodo utilizzato permette di cogliere analiticamente come e perché Castel Volturno sia diventato un polo mondiale dell’immigra- zione: la grande scala geografica (cioè il concentrarsi su porzioni limi- tate di territorio) è modellata per mostrare come in un piccolo mondo si riflettano modelli di relazione di estensione planetaria. Il saggio rife- risce gli esiti di una negoziazione informale, e in fondo di un’«integra- zione» fortuita, tra dinamismi territoriali di origine locale e dinamismi mondiali. I modi di abitare, le forme del lavoro, i luoghi d’incontro e di culto e ogni aspetto della vita sociale trovano una loro evidenza con- creta, suscettibile d’essere cartografata. Si tratta sempre e comunque di dinamismi legati al riuso, nel senso che i migranti usano e danno nuovi significati a «relitti» (come luoghi fisici e come abitudini culturali), che un passato recente e meno recente aveva creato ma non formalizzato. I luoghi fisici diventano l’evidenza, per così dire filologica, di pratiche dove si invera la totalità dei rapporti sociali tra migranti e società ospitante. L’intero territorio presenta i segni evidenti e massicci, non solo di ca- rattere edilizio, di consuetudini e progetti non coordinati e non svilup- pati, che hanno lasciato spazi e pratiche reinterpretabili informalmente, attraverso incessanti negoziazioni tra gli attori sociali, tra cui c’è anche lo Stato24. Antonello Ciccozzi ha studiato ciò che si potrebbe chiamare, sem- plificando, la «retorica popolare»: le generalizzazioni nei discorsi dei mi- granti (riguardanti se stessi, i castellani, gli italiani e gli europei) e le ge- neralizzazioni nei discorsi dei castellani su se stessi e sui migranti. Il piano dell’osservazione è parallelo a quello della «retorica ufficiale», cui prima accennavo. Le pagine di Ciccozzi segnalano, sul piano della produzione del discorso, lo stesso processo di riuso e di negoziazione che riguarda i luoghi, di cui parla Fabiana D’Ascenzo. Al pari delle strade e dei ma- nufatti edili, anche i nomi e le nozioni vengono riusati e risemantizzati dai migranti e dai castellani. Una parte del lavoro di Ciccozzi mira a re- stituire la dimensione che, sul modello della linguistica, viene detta «emica»

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ISSN 1594-547218 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca nella tradizione degli studi antropologici: la documentazione dei processi e dei criteri con cui i protagonisti interpretano la stessa scena presa in considerazione dallo studioso. Cosicché possiamo avere accesso al signi- ficato che i protagonisti danno, o comunque intendono comunicare, a proposito dei problemi cui questa ricerca collettiva è dedicata. Le esperienze più confortanti del lavoro sul terreno hanno riguar- dato le scuole di Castel Volturno, soprattutto quelle dell’obbligo, dove l’impegno quotidiano degli insegnanti ha preservato questi presidi dello Stato italiano dall’informalità generalizzata che li circonda. Anna Amo- ruso anticipa qui qualche risultato di una ricerca in corso, cominciata appunto nelle scuole elementari di Castel Volturno, dove ha familiariz- zato con il mondo dell’infanzia, per poi percorrerne alcuni problemi an- che al di fuori del contesto scolastico. L’autrice si mette «dalla parte dei bambini» e ne documenta alcuni drammi, come quelli derivanti dagli «affidi informali» dei figli dei migranti presso le famiglie castellane. Se non altro, il suo studio ha il merito di segnalare problemi che riguar- dano chi ha meno voce di tutti gli altri, problemi che le continue emer- genze della cronaca rischiano di lasciare nel silenzio. I temi e i problemi in vario modo affrontati nei singoli saggi tro- vano una ricapitolazione sintetica nel lavoro di Chiara Brocco, dedicato alla politica di un centro sociale autogestito, il così detto «Ex-Canapifi- cio di Caserta». Come tutti i «centri sociali», anche questo di Caserta nasce come impresa «illegale» ai fini della giustizia sociale. In questo spi- rito, di estrema compatibilità con il territorio casertano, riusa in autoge- stione spazi lasciati in abbandono: si appropria prima di un ex-macello, poi di un ex-canapificio. La tecnica del riuso riguarda sia il luogo fisico (l’Ex-Canapificio) sia le idee che muovono la politica del centro, in cui ha grande peso l’«antirazzismo». Se è vero che le teorie razzialistiche (l’i- dea che ci sia una connessione deterministica tra patrimonio genetico e comportamento appreso) non hanno più credito, né in ambito scienti- fico né forse in quello popolare, ciò non significa che non agiscono più gli esclusivismi culturali e sociali legati alle differenze fisiche, linguisti- che, culturali e religiose. Il «razzismo», insomma, sopravvive alle «razze». È dunque plausibile che l’Ex-Canapificio si dedichi alla salvaguardia dei diritti dei migranti, alla costruzione della loro «coscienza» politica, at- traverso la lotta contro i «razzismi» e i «razzisti». Anche in questo caso, il territorio casertano esprime una certa modernità e rappresentatività ri- spetto ai grandi fenomeni di estensione mondiale. Come nelle grandi aree una volta dette del «Terzo Mondo», anche nel casertano il programma- tico ridimensionamento degli ambiti di gestione diretta dello Stato de- manda la risoluzione dei più grandi problemi sociali alle organizzazioni

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© Edizioni Scientifiche Italiane19 ISSN 1594-5472 Introduzione non governative, che di fatto devono collaborare, proprio come nel caso dell’Ex-Canapificio, con quelle stesse istituzioni governative ritenute col- pevoli dei guasti contro cui esse combattono25. Il mio lavoro è stato dedicato alle testimonianze di vita dei migranti, testimonianze che però pubblicherò a parte in un’altra occasione, per dare autonomia a ciascuna storia e a ciascun testimone. Si tratta di testi che si sviluppano lungamente, ma che permettono di cogliere in una sola esperienza di vita le conseguenze degli accadimenti della grande storia. Sono il risultato di incontri periodici, alcuni dei quali si sono sviluppati negli anni, il cui resoconto scritto è frutto di decisioni negoziate tra in- tervistatore e intervistato.

1 Fatta eccezione per Alfonso Caprio, che vive e lavora a Castel Volturno, gli altri autori di questo volume vi si sono stanziati periodicamente: per due anni, di cui uno in permanenza continua (Fabiana D’Ascenzo); per quattro mesi distribuiti in tre anni (Luigi Gaffuri); per due mesi distribuiti in tre anni (Antonello Ciccozzi); per due mesi in un solo anno (Chiara Brocco); in media due giorni per settimana nei dieci anni considerati (nel caso di Anna Amoruso e mio). Tutti hanno messo in comune i risultati del loro lavoro discutendone in incontri seminariali annuali iniziati nel 2010. 2 La figura delle «parole gelate» presenta attestazioni anche narrative, che Alberto Varvaro ha esplorato nella letteratura (a partire da Rabelais, Pantagruel, 4, LV-LVI) e nella mitologia: Varvaro 2014, pp. 1371-1379. 3 L’igname «mantiene la cottura» e può essere sottoposto, insieme con gli altri in- gredienti, alle ore di fuoco lento richieste dal ragù napoletano. 4 Mi riferisco alla nozione di «fatto sociale totale», che si deve a Marcel Mauss (v. per es. Mauss [1923-24], 1965, p. 157). 5 Sassen 1996. 6 Bolaffi 2001, p. VIII. 7 Il lettore trova l’elencazione dei fatti nel saggio di apertura di questo volume. 8 Il mondo delle associazioni del così detto volontariato meriterebbe attenzione esclusiva in ambito antropologico, non tanto come aiuto degli studiosi per far conoscere i fatti culturali e sociali di cui esse si occupano, ma per studiare sul terreno le associa- zioni stesse, dove spesso si coniugano, in forme di grande interesse, idealità pure e duro senso pratico. Per tale studio potrebbe essere preso a modello il lavoro pionieristico di Laëtitia Atlani-Duault (2015), dedicato alle ONG operanti nei territori delle ex repub- bliche sovietiche. In questo volume si è comunque dato spazio al tema, presentandone un caso. 9 Comunità Europea – Ministero Italiano degli Interni, Fondo Europeo per l’Inte- grazione di Cittadini di Paesi Terzi 2007 – 2013 Annualità 2011. Progetto Genti in dia- logo, capofila «Credito senza Confini»; partner «Comunità di S. Egidio», «Dipartimento di Discipline Storiche» dell’Università di Napoli «Federico II», «Terra di Incontro». 10 Mi sono ispirato ad alcune pagine di La misère du monde, per esempio quelle di Abdelmalek Sayad, Une famille déplacée, in Bourdieu 2000, pp. 51-75, p. 60. Il soggetto si adattava bene alle nostre classi, perché avevamo appreso dai docenti che la difficoltà di distinguere tra il cattivo odore di chi non si lava e i diversi odori naturali della pelle

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ISSN 1594-547220 © Edizioni Scientifiche Italiane Valerio Petrarca aveva generato problemi tra gli studenti e imbarazzo tra gli insegnanti, al punto che molti di questi ultimi convenivano sulla necessità di reprimere qualsiasi allusione degli alunni alle percezioni olfattive riguardanti i corpi dei compagni di classe. 11 Molte scuole di Castel Volturno sono il vero e proprio presidio dello Stato in un territorio dove l’area di illegalità è molto spesso quantitativamente prevalente su quella legale. La loro frequentazione è stata la sorpresa più positiva e più carica di speranza di questi anni. Il progetto ha riguardato le scuole medie “Giuseppe Garibaldi” (dove Alfonso Caprio insegna le materie letterarie), “Castel Volturno-Villaggio Coppola” (dove Rosalba Scafuro, che pure insegna le stesse materie, ha reso possibile e fruttuoso il nostro la- voro) e “Castel Volturno Centro”. L’esempio sopra riferito si riferisce all’esperienza fatta nella prima scuola. 12 L’estrema debolezza giuridica dei migranti di Castel Volturno non favorisce la co- scienza di un comune stato che si traduca in un’intenzione associativa di parte. Favori- sce piuttosto una tendenza mimetica, che li porta a sostenere, talvolta con la sola pre- senza fisica, talvolta con i discorsi, le retoriche delle parti sociali: politiche, religiose e associative. Tale predisposizione si palesa in modo più sottile anche in diverse testimo- nianze delle loro storie di vita, in cui il testimone tende a captare il punto di vista del- l’intervistatore per potervisi, per così dire, adeguare. 13 Visone 2011. 14 Si deve soprattutto alla Comunità di S. Egidio e al Fernandes l’impulso che ha fatto di queste due ricorrenze un appuntamento rituale che coinvolge ogni anno le isti- tuzioni locali. 15 I nomi e i luoghi di provenienza delle vittime, comparsi nella stampa e che an- cora circolano nei siti via internet, sono per lo più sbagliati. A difesa almeno della me- moria dei giovani ganesi uccisi a Castel Volturno, trascrivo qui il testo dalla targa in bronzo deposta sul luogo della strage dal Movimento dei Migranti e dei Rifugiati: 18 SETTEMBRE 2008 | Strage di Castel Volturno | In ricordo dei sei fratelli afri- cani vittime innocenti dell’odio razziale e della violenza camorristica | In Memory of six african brothers innocent victims of racial hatred and ’s violence | KWADWO OWUSU WIAFE | Nkroanza (Ghana) 05/05/1980 – Caslel Volturno 18/09/2008 | IBRAHIM ALHAJI | Kumasi (Ghana) 16/08/1989 – Castel Volturno 18/09/2008 | KARIM YAKUBU (AWANGA) | Nkroanza (Ghana) 09/06/1980 – Castel Volturno 18/09/2008 | KUAME ANTWI JULIUS FRANCIS | Nkroanza (Ghana) 24/11/1977 – Castel Volturno 18/09/2008 | JUSTICE SONNY ABU | Ku- masi (Ghana) 01/12/1982 – Castel Volturno 18/09/2008 | ERIC AFFUN YEBOAH, “Taller” | Kumasi (Ghana) 12/09/1983 – Castel Volturno 18/09/2008 | and | JO- SEPH AYIMBORA | The only survivor. | Thanks to his courage, witness and de- position the killers have been arrested | THE STRUGGLE GOES ON | AND THE MEMORY OF YOU MAKES US STRONGER! | LA LOTTA CONTI- NUA | E IL VOSTRO RICORDO CI RENDE PIÙ FORTI! | Movimento dei Migranti e dei Rifugiati | Castel Volturno (Ce) 18/09/2010. Joseph Ayimbora, anch’egli ganese, gravemente ferito in occasione dell’eccidio, è morto nel 2012; il suo nome è stato dunque aggiunto sulla targa a deposizione già av- venuta. 16 Si tratta della così detta «Legge Martelli», che nel 1990 convertiva un precedente decreto, dello stesso ministro, risalente al dicembre dell’anno prima.

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© Edizioni Scientifiche Italiane 21 ISSN 1594-5472 Introduzione

17 Il pensiero va subito al cristianesimo, dove nel rito della consacrazione viene espli- citamente ricordata la connessione tra sangue e memoria. 18 Comunità di S. Egidio, Jerry Masslo: 25 anni di storia (Villa Literno e Napoli, 8 e 9 maggio 2014). Si tratta di un’iniziativa cominciata sulla tomba di Jerry Masslo a Villa Literno e proseguita a Napoli in due sessioni di un convegno di studi. 19 L’idea di «sacrificio», qui ricordata nella sua forma «forte» (l’uccisione della vit- tima), agisce anche nelle sue forme «deboli», come nel caso dell’oratoria civile e reli- giosa che ha dato vita a Castel Volturno alla memoria di Miriam Makeba, lì morta per un malore nel novembre 2008. Quando a Castel Volturno si parla di Mama Afrika non si insiste sulla sua statura di artista, ma sul fatto che è morta a Castel Volturno e sul fatto che è morta perché aveva disobbedito ai suoi medici, restando troppo a lungo in compagnia del pubblico, pur sapendo di essere malata. Naturalmente non metto in dub- bio la realtà dei fatti (le cose sono andate proprio così); sottolineo piuttosto che la mac- china «mitologica» (il mito si alimenta anche di fatti reali) orienta la selezione della me- moria sui migranti di Castel Volturno in modo solidale con un ordine del discorso che li riconosce uomini pressoché esclusivamente nel sacrificio, perfino quando si propon- gono identificazioni con personaggi d’impatto mondiale, come appunto la cantante Mi- riam Makeba. 20 Faccio mia, nei suoi aspetti più elementari, la nozione di Michel Foucault intorno all’«ordine del discorso», inteso come relazione tra l’organizzazione del potere e l’orga- nizzazione del dicibile, della parola che ha possibilità di iscriversi nell’ordinamento lo- gico-discorsivo accreditato o previsto: Foucault 1971. 21 Rastello 2014. 22 Bartolo da Sassoferrato (1313-1357 circa), «uno dei più grandi giuristi di ogni epoca e di ogni paese», distingueva nella persona umana uno «statuto personale», come condizione giuridica che la persona ha diritto a vedere osservato ovunque essa si trovi, e uno «statuto reale», riguardante i beni, a cui essa è tenuta a obbedire secondo l’ordi- namento del luogo dove si trova a vivere. Cfr. Calasso 1954, p. 557. 23 È «le temps court», stigmatizzato da Fernand Braudel, di cui lo storico dovrebbe diffidare, ma che abbiamo accettato, con una vaga coscienza «de nos illusions», per farci documento a beneficio di chi verrà dopo di noi. Cfr. Braudel 1958, p. 728. 24 Il lavoro di Fabiana D’Ascenzo è stato svolto grazie a un assegno biennale del- l’Università degli Studi di Napoli «Federico II», per una ricerca da me diretta dedicata a Migranti africani in : reti sociali, culturali e territoriali. L’autrice ha pubbli- cato più ampiamente i risultati del suo lavoro in un libro che può essere considerato il lavoro più accurato oggi disponibile sull’immigrazione africana a Castel Volturno: D’A- scenzo 2014. 25 Dozon [2008] 2013; Atlani-Duault [2009] 2015.

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ISSN 1594-547222 © Edizioni Scientifiche Italiane MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Cronache castellane. Immigrati africani di Castel Volturno: 1975-2012* ALFONSO CAPRIO

Una casa per tutti: il fantasma del Piano urbanistico comunale

Castel Volturno acquistò un volto nuovo quando furono comple- tati il ponte sul fiume Volturno (1954) e la statale Domiziana, che

* Per la stesura di questa Cronaca, oltre agli articoli e ai testi citati in nota, sono stati utilizzati articoli di: Abbate G., Altieri V., Amato A., Ammaliato E., Ammaliato V., Anconetani D., Angeli M., Arduini A., Baiguera R., Bertolotto E., Bertone M., Biondi R., Blasi G., Boni C., Bruni S., Buffa F., Buffardi V., Cacciapuoti M., Capacchione R., Caputo M., Carli G., Carli R., Carrano D., Carusone A., A., Casella R., Ca- terino M., Ceci A., Cennamo A., Cerreto M., Cervasio S., Chierchia A., Ciaccio E., Coltra F., Coluzzi C., Conca A., Contarino A., Crolla M., Cuoco G., De Robbio F., De Simone V., Del Colle B., Dell’Aversana S., Di Nicola A., Di Primo M., Di Somma A., Di Tammaro E., Romano E., Esposito L., Fabbri C., Ferrante L., Fusco A., Gatta V., Gentile S., Giannattanasio A., Giuliano C., Grande M., Grimaldi T., Landolfi F., Lau- disi A., Linda R., Lombardi A., Luise M., Maragnani L., Marchesano A., Massarelli L., Massarelli R., Melone C. A., Minati A., Monaco C., Montanaro S., Moretti B., Mori- gna S., Morra C., Nettuno A., Ottolenghi S., Palmieri R., Paolomba T., Parente P., Pa- scarella C., Passaretta L., Pastore A., Pellegrino M. G., Penna D., Periz E., Petraroli V., Piscopo F., Poli U., Prisco F., Ricciardi A., Riccio D., Rinaldi A., Rosati A., Rossi A., Ruocco A., Russo F., Salvati B., Sannino C., Santoro A., Sardo R., Scalzone T., Sco- gnamillo P., Siniscalchi D., Spierto F., Stancanelli B., Terracciano A., Todisco T., Vaca- lebre F., Viccaro Theo L., Vigliotti S., Virno C., Visco A., Visconti S., Volpe R. Gli ar- ticoli sono usciti, fra il 1975 e il 2012, sui seguenti quotidiani e periodici: «Black and White»; «Corriere di Caserta»; «Cronache di Caserta»; «Corriere della sera»; «Cento- città»; «Castri Maris News: Periodico di informazione del Comune di Castel Volturno»; «Il Golfo», «Il Giornale di Caserta», «Gazzetta di Caserta», «Informare», «Il Mattino. Caserta»; «Nuova Gazzetta di Caserta»; «Panorama»; «Pro Loco Litorale Domizio»; «Il quotidiano di Caserta»; «la Repubblica»; «Roma»; «Spazio Libero».

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© Edizioni Scientifiche Italiane23 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio diede un notevole impulso allo sviluppo del turismo di massa, ma an- che agli appetiti speculativi dei palazzinari. In poco più di un ven- tennio, per la mancanza di un Piano regolatore generale, sorsero nella zona migliaia di costruzioni abusive che cambiarono volto al territo- rio. La costa domizia, prevalentemente agricola, subì un massiccio pro- cesso di urbanizzazione che depauperò l’attività agricola e diede linfa all’imprenditorialità edilizia. L’esempio maggiore di questa trasforma- zione furono la costruzione del complesso turistico Villaggio Cop- pola-Pinetamare (otto casermoni di più di dieci piani, l’Hotel Royal, la Darsena) e il proliferare di ville e villette nel verde della pineta, ap- partenenti ai più facoltosi esponenti della politica e dell’economia della provincia di Napoli e Caserta1. Imprenditori edili costruirono migliaia di seconde case a Baia Verde e Pinetagrande. Lo stesso fecero piccoli privati in Destra Volturno, Bagnara e Pescopagano, in zone di go- lena2. Con l’avallo dei politici locali, che facevano capo ai “baroni” della provincia di Caserta, gli imprenditori continuarono a costruire indistur- bati, anche sotto la pressione di una popolazione che era cresciuta a di- smisura per l’arrivo dei terremotati da Napoli, nel 1980, e degli extra- comunitari. Il numero degli abitanti passò dai 4.628 del 1976 ai 15.495 del 1992. I nuovi arrivati, per la maggior parte appartenenti al sotto- proletariato urbano, immisero nella struttura sociale di Castel Volturno il tipico malessere cittadino. In una realtà dove mancava una rete di ser- vizi per accoglierli ed era carente il controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, si diffusero rapidamente attività illecite. Questo de- grado incise pesantemente sull’economia turistica. Coloro che, negli anni Sessanta e Settanta, si erano costruiti una casa al mare e nella pineta, lontana dal traffico e dai rumori, col tempo le hanno chiuse e si sono diretti verso lidi più ameni e tranquilli. In tutti questi anni le varie amministrazioni di Castel Volturno non sono riuscite a fare approvare il Piano urbanistico comunale. Ovunque nel territorio del Comune si nota un serrato e disorganico abusivismo edilizio. Secondo i dati Istat, nel 2001 le abitazioni erano 24.708 e gli abitanti residenti 18.639, che nel 2011 diventeranno 22.882, di cui 2.933 cittadini stranieri (1.810 africani), attratti anche dall’alto numero di abi- tazioni disponibili. Durante il periodo estivo la popolazione raggiunge anche le 100.000 unità.

Oggi Castel Volturno – ha scritto Dimitri Russo – è un caos abitativo dove vivono vari gruppi familiari provenienti da aree disparate. Le diverse zone del territorio sono così geograficamente e culturalmente distanti che è man-

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cata l’integrazione socioculturale, il condividere la stessa memoria storica. Elementi, questi, necessari per creare una comunità di diritti, capace di far sentire la sua voce allo Stato quando questi è assente3.

1975: Primissimi africani a Castel Volturno

Mario Luise, ex sindaco di Castel Volturno, ha ricordato che «già verso la metà degli anni Sessanta la camorra “forniva” extracomunitari, i quali lavoravano clandestinamente nei cantieri abusivi». Il loro numero crebbe negli anni successivi, senza che si registrassero fenomeni di «raz- zismo o d’intolleranza. Lavoravano nei cantieri, e anche nei ristoranti e presso i lidi. Solo gli edili erano preoccupati perché rappresentavano una manodopera a bassissimo prezzo»4. Gli operai extracomunitari, sottopagati e sfruttati dall’imprenditoria non solo locale, rimasero senza lavoro. Dopo anni si resero “visibili” e confluirono nella manovalanza dedita allo spaccio della droga e alla ge- stione della prostituzione, soprattutto dopo il terremoto del 1980, che portò a un consistente incremento demografico dell’area5.

1988: Dare i numeri

La maggior parte dei migranti, provenienti dall’Africa (Ghana, Ni- geria, Senegal, Costa d’Avorio, Togo, Repubblica del Benin, Alto Volta, Camerun, Etiopia, Tunisia, Algeria, Egitto), erano certamente spinti dal bisogno, ma anche dalla lotta contro i regimi che a trent’anni dalla de- colonizzazione non avevano saputo offrire di meglio alle masse popo- lari. Tutti erano in cerca di un diverso destino e di una vita nuova, so- gnata più che realizzata. Le lingue maggiormente parlate erano le varietà arabe, tra cui l’“olof”, e quelle nazionali ereditate dai paesi coloniali: in- glese, francese e portoghese. Le religioni più diffuse erano quella catto- lica, cristiane-protestanti e mussulmana. Il livello di scolarizzazione era medio alto e corrispondeva al diploma di scuola media superiore. Erano in genere maschi celibi e in misura minore donne nubili, con età media tra i 20 e i 33-35 anni. I dati delle presenze non erano attendibili. L’uf- ficio anagrafe del Comune di Castel Volturno registrava un totale di 1.508 stranieri tra residenti e trasferiti dal 1988 al settembre 1990. Il nu- mero totale dei cittadini stranieri iscritti presso l’ufficio di collocamento cittadino era, sempre a settembre 1990, di 756. I dati forniti da Angelo Luciano, allora direttore del Centro immigrati Campania della Caritas

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© Edizioni Scientifiche Italiane25 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio di , operante presso l’ex orfanotrofio Opera Don Guanella (oggi Centro Fernandes), che funzionava come centro di prima accoglienza, rivelarono che vi erano 1.064 extracomunitari nel 1988 e circa 3.000 nel 1989. Il Centro avendone contattato, nello stesso anno, come esterni al- tri 2.000 circa, il totale salì a 5.000 stranieri. Gli immigrati extracomunitari erano utilizzati, soprattutto in estate, per lavori di manovalanza nei campi, e pagati poche lire l’ora. Nel 1989 cominciarono a manifestarsi anche episodi d’intolleranza, e non solo «nell’inferno domiziano», ma in numerose città e paesi della Campania e del resto d’Italia6. L’unica istituzione che alleviò le sofferenze degli extracomunitari, so- prattutto africani, e fornì loro un ben che minimo aiuto fu appunto la Chiesa. In mancanza di risposte certe da parte dell’amministrazione sta- tale, don Antonio Palazzo, parroco di Pinetamare, si attivò subito, in- sieme con altri pochi collaboratori, per il bene delle comunità straniere che si stanziavano, sempre più numerose di anno in anno, a Castel Vol- turno7.

1989: L’uccisione di Jerry Essan Masslo a Villa Literno

Il 25 agosto 1989 fu ucciso a Villa Literno Jerry Essan Masslo, un rifugiato sudafricano arrivato in Italia nel marzo 1988 e accolto presso una struttura della Comunità di Sant’Egidio a Roma, la “Tenda di Abramo”. Nell’estate di quell’anno Masslo si recò a Villa Literno per la raccolta dei pomodori e poi ritornò a Roma. L’anno successivo vi andò di nuovo. Di notte dormiva, insieme con altri ventotto immigrati, in un capannone di via Gallinelle, dove la sera del 24 agosto si presentarono quattro banditi armati a chiedere il guadagno della loro giornata di la- voro. Alcuni diedero subito i soldi, altri si rifiutarono di farlo e tra que- sti Masslo, che fu freddato con tre colpi di pistola all’addome. Sull’onda di una grande commozione suscitata in Italia da quell’assassinio, la Cgil chiese e ottenne i funerali di Stato per il lavoratore sudafricano. Alla ce- rimonia, alla quale presero parte tantissime persone e fu trasmessa in di- retta dal Tg2, partecipò il vicepresidente del Consiglio Gianni De Mi- chelis. Della morte di Masslo, che ebbe una grande risonanza mediatica in Italia e all’estero, si occuparono anche Papa Giovanni Paolo II e il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il 20 settembre si tenne a Villa Literno il primo sciopero dei lavoratori immigrati contro il ca- poralato e il 7 ottobre a Roma una grande manifestazione contro il raz- zismo, alla quale parteciparono oltre 200.000 persone. La morte di Mas-

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ISSN 1594-547226 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane slo, al quale è stata dedicata un’associazione, spinse il Parlamento ita- liano a emanare il 30 dicembre un decreto legge, conosciuto come “de- creto Martelli”.

1989: L’attenzione del Pci per i nuovi arrivati

Le forze politiche di Castel Volturno iniziarono a preoccuparsi del- l’immigrazione extracomunitaria solo a partire dalle elezioni ammini- strative del 1989, quando ormai il fenomeno cominciò a produrre forte disagio nella collettività. In precedenza, alle elezioni amministrative del 1983, i programmi dei partiti non avevano riportato specifiche indica- zioni sulla popolazione migrante. Alle elezioni amministrative del 28 e 29 maggio 1989, fra i pro- grammi delle cinque liste presentate, solo quello del Pci, guidato dal can- didato a sindaco Mario Luise, fece cenno al problema immigrazione, in particolare a quella di colore. Il Pci propose di «disciplinare la presenza dei neri a tutela dei loro diritti e per evitare episodi di malcostume»8.

1989: L’impegno delle istituzioni scolastiche

La scuola fu, tra le poche se non l’unica tra le amministrazioni sta- tali, a mettersi subito a disposizione per migliorare le condizioni di vita dei migranti e per dare loro l’opportunità di trovare lavoro, grazie a un titolo di studio, benché minimo ma appropriato. Il 28 luglio il Provveditorato agli studi di Caserta istituì «i primi corsi per “lavoratori studenti extracomunitari” al fine di facilitare l’inse- rimento e l’integrazione autorizzati dal M.P.I.»9. I comuni casertani nei quali si svolsero i primi corsi furono Castel Volturno, Cancello Scalo e Villa Literno, dove maggiore era la concentrazione di extracomunitari. Gli insegnanti che presero parte al corso, a conclusione di quella espe- rienza, affermarono che la scuola fu per la maggior parte dei migranti «un mezzo per inserirsi più rapidamente nella realtà sociale del paese» che li ospitava e aveva «creato in loro nuove speranze» e «aperto nuovi orizzonti»10. L’affollata partecipazione di extracomunitari ai corsi per lavoratori e la loro sempre più massiccia presenza sul territorio di Castel Volturno spinse gli italiani residenti, e tra questi gli studenti delle scuole soprat- tutto superiori, a porsi domande sui nuovi venuti: chi erano? da dove venivano? le persone del luogo erano preparate ad accoglierli?11 I primi

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© Edizioni Scientifiche Italiane27 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio enti statali che si distinsero nella cooperazione per aiutare gli extraco- munitari furono il Provveditorato agli studi di Caserta, il Distretto sco- lastico n. 18 di , insieme con l’Usl n. 14 di Capua, il Co- mune di Castel Volturno e la Caritas diocesana di Capua, i quali sotto- scrissero, per l’anno scolastico 1989-90 e per i due anni successivi, un Protocollo d’intesa, «in materia di collaborazione, utilizzo delle risorse professionali, sanitarie e finanziarie disponibili, secondo le specifiche com- petenze, per l’inserimento degli stranieri nella scuola materna e dell’ob- bligo e per l’esercizio del diritto allo studio»12.

1990: Primi massacri

Il decreto legislativo n. 416 del 30 dicembre 1989 (“decreto Mar- telli”), in seguito convertito con modifiche nella legge n. 39 del 28 feb- braio 1990, stava suscitando, per la delicatezza della materia trattata, un ampio dibattito politico in Italia e in Europa. A Castel Volturno e nel resto d’Italia l’enorme massa di extraco- munitari clandestini mise a disposizione delle attività economiche mi- lioni di braccia da poter utilizzare senza tutele contrattuali. Questi uo- mini, malpagati e sfruttati, lavoravano come braccianti per la raccolta di pomodori e ortaggi, come mandriani negli allevamenti bufalini, come operai nell’edilizia, come sguatteri nei ristoranti e negli alberghi. Face- vano quei lavori che gli italiani si rifiutavano di fare. La massiccia presenza di extracomunitari in una comunità come quella di Castel Volturno, impreparata ad accoglierli, suscitò ben presto i primi sentimenti d’intolleranza che, in alcuni casi e col passare del tempo, si trasformarono in vera e propria xenofobia. Il “nuovo razzismo” nasceva dalle attività illegali, come lo spaccio di droga e la prostituzione, che molti extracomunitari avevano intrapreso. La Domiziana si trasformò in un supermercato a cielo aperto: spacciatori e prostitute, a tutte le ore del giorno e della notte, occupavano i bordi della carreggiata, ancora priva di marciapiedi. Uno spettacolo che creò sconcerto nei residenti lo- cali e fece registrare i primi episodi di violenza. Mentre giovani donne si davano alla prostituzione, numerosi giovani uomini s’inserivano nelle attività di spaccio della droga ed entravano in contrasto con le bande di spacciatori legati alla camorra, che da sempre deteneva la piazza delle attività illecite. Evidentemente i rappresentanti della malavita locale, dopo qualche avvertimento verbale, che non era servito ad allontanare gli spac- ciatori di colore, passarono alle vie di fatto e il 24 aprile organizzarono la prima missione punitiva contro gli extracomunitari. Un killer, dopo

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ISSN 1594-547228 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane essere entrato in un bar di Pescopagano e avere ucciso a colpi di pistola un tunisino e un meccanico padre di sei figli e ferito sette persone, tra cui un tredicenne, proseguì indisturbato la sua sparatoria in strada, dove freddò tre tanzaniani in un’auto13. Secondo le indagini condotte degli in- vestigatori due degli africani trafficavano in diamanti. Il massacro inten- deva bloccare sul nascere una possibile “African connection”. Nei giorni successivi alla strage aumentarono i controlli da parte delle forze dell’ordine alla ricerca di possibili spacciatori infiltrati nella co- munità extracomunitaria, perché la tragica vicenda aveva esposto tutti gli immigrati al rischio di criminalizzazione. Gli stessi immigrati, riuniti in assemblea, decisero di invitare sei spacciatori extracomunitari ad allon- tanarsi dalla zona, che furono poi arrestati dopo qualche mese.

1992: Fatima Yusuf, nasce in strada la seconda generazione extraco- munitaria di colore

A febbraio Castel Volturno balzò alla ribalta delle cronache locali e nazionali per la vicenda dell’extracomunitaria Fatima Yusuf, una somala che, colta dalle doglie nei pressi del bar Mexico sulla Domiziana, par- torì in strada, aiutata da alcune donne italiane, e subito dopo fu tra- sportata da un’ambulanza alla clinica Pineta Grande. Quantunque la donna fosse stata assistita, i medici della clinica furono accusati di raz- zismo. Il caso umano suscitò enorme scalpore, anche per le accuse di razzismo rivolte in generale agli abitanti di Castel Volturno, tanto da di- ventare persino l’argomento della trasmissione televisiva Samarcanda, condotta da Michele Santoro. La donna fu in seguito arrestata per spac- cio di droga. Nel 1994 ebbe un altro figlio, ma questa volta «fu assistita con molta attenzione e premure, e non mancarono manifestazioni di grande sensibilità nei confronti suoi e del bambino da parte di tante per- sone», ha raccontato Mario Luise14. La seconda generazione di extracomunitari, nata a Castel Volturno, stentava a essere inserita nelle classi, per cui «i figli degli immigrati di colore» restavano «ancora lontani dalle […] scuole» pubbliche. Eviden- temente molti genitori, essendo clandestini, avevano seri problemi a en- trare in rapporto con l’istituzione scolastica del territorio.

1992: la “Thema” bianca

Nel 1992 iniziarono i primi raid armati contro le prostitute di co-

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© Edizioni Scientifiche Italiane29 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio lore, di cui i quotidiani pubblicarono prontamente la notizia: «la Re- pubblica» scrisse il 28 luglio: una «“Tema” bianca ha compiuto il primo raid a Castelvolturno. È qui che la macchina si è avvicinata a un gruppo di sei ragazze, ha rallentato, poi, improvvisamente, è sbucato dal fine- strino il fucile con cui un killer ha sparato»15. La strage fu evitata per miracolo, ma l’avvertimento era stato chiaro. Il governo nazionale, intanto, emanava leggi per disciplinare il per- messo di soggiorno, il più delle volte di difficile interpretazione da parte di coloro che dovevano fare domanda per ottenerlo.

1993: Le proposte dei partiti politici

I programmi delle liste che si presentarono alle elezioni amministra- tive del 21 novembre 1993 riportarono il fenomeno dell’immigrazione tra le problematiche da affrontare perché era aumentato l’afflusso dei nuovi venuti ed erano aumentate le attività illecite e i contrasti con la criminalità organizzata locale. Il fenomeno fu affrontato o nell’ambito dell’ordine pubblico (Mario Luise, appoggiato dalle liste Alleanza per Castel Volturno e Io amo Castel Volturno) o dei servizi sociali (Bruno Di Domenico, lista Rinnovamento e progresso) o semplicemente ana- lizzato sociologicamente (Silvana Noviello, Movimento sociale destra na- zionale).

1993: Prime manifestazioni a sfondo razziale

Le prime manifestazioni contro la comunità extracomunitaria, so- prattutto di colore, da parte dei cittadini e degli amministratori locali iniziarono a Castel Volturno nell’estate 1993. Con una serrata totale e un folto corteo di cittadini, guidato dal sindaco democristiano Pasquale Sementini, cominciò la ribellione di Castel Volturno contro i “neri”. La situazione appariva ormai insostenibile. Lo Stato, attraverso le forze del- l’ordine, corse ai ripari: «Venti fogli di via alla settimana, passaporto da Castelvolturno senza ritorno. Un centinaio di coloured rispediti a casa a forza ogni mese».16 I quotidiani iniziarono a registrare episodi a sfondo razziale, a partire dalle sassaiole contro le case degli immigrati17, mentre la destra soffiava sul fuoco «al grido di “via i neri”»18.

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ISSN 1594-547230 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

1996: La rivolta per Baba Seidu

Il 19 dicembre l’onorevole Rosanna Moroni di Rifondazione comu- nista presentò al ministro dell’Interno un’interrogazione, nella qualche chiedeva di essere messa a conoscenza della vicenda di un extracomuni- tario di colore, Baba Seidu, proveniente dalla Costa d’Avorio, deceduto qualche giorno prima e della cui morte erano accusati i carabinieri di Castel Volturno.

1997: Fiamme a Pinetamare

Gli immigrati extracomunitari erano, tra l’altro, anche vittime di alcuni rappresentanti delle stesse forze dell’ordine. A gennaio «due fi- nanzieri» furono arrestati e «altri quattro militari e cinque agenti di polizia sospesi dal servizio»19 per aver eseguito arresti illegali di ex- tracomunitari nella zona di Castel Volturno. Dall’indagine risultò che in alcuni casi i militari, per ottenere avanzamenti di carriera, avevano dato sostanze stupefacenti a tossicodipendenti per accusare gli extra- comunitari. Episodi a sfondo razziale si registrarono a Castel Volturno agli inizi del 1997. Parallelamente si organizzarono corsi di alfabetizzazione per immigrati e iniziarono ad aprire i primi negozi per soli extracomunitari, dove si vendevano prodotti alimentari esotici. Intanto, poiché continua- vano gli attentati contro gli extracomunitari, gli inquirenti si misero sulle tracce di un commando, che operava come gruppo eversivo, del quale facevano parte, secondo le accuse, Luigi Russo, consigliere comunale di An, Enza Falco e suo figlio Raffaele Gravante.

1997: Proposte politiche amministrative

Alle elezioni amministrative del 16 novembre 1997 il programma elettorale del sindaco uscente Mario Luise, appoggiato dalle liste Impe- gno per andare avanti e Insieme verso il 2000, propose, tra le condizioni essenziali per la rinascita del territorio comunale e delle sue attività, la repressione della malavita organizzata locale e di quella extracomunita- ria, e un’«adeguata normativa del flusso migratorio per le zone a ri- schio»20. L’amministrazione guidata da Luise, che aveva svolto un ruolo positivo nei confronti dell’immigrazione extracomunitaria con la «Ri- strutturazione della donazione “Fernandes”»21, rivendicò un primato:

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© Edizioni Scientifiche Italiane31 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio

«Nell’arco di tre anni la presenza dei clandestini si ridusse da 13.000 a circa tre migliaia di persone»22. Nel programma elettorale del candidato Antonio Scalzone, sostenuto dalle liste di Forza Italia, Alleanza nazionale, Città nuova e Centro cri- stiano democratico, si parlava solo genericamente di sicurezza, ambiente, sviluppo e dignità, senza citare mai esplicitamente il problema extraco- munitario. Scalzone divenne sindaco, ma la sua Giunta fu sciolta nel set- tembre 1998 per condizionamento malavitoso. La commissione prefet- tizia, inviata per gli affari correnti del Comune, indisse le elezioni am- ministrative per il 16 aprile 2000.

1998: Ordine pubblico?

Anche nel 1998 la comunità extracomunitaria di colore continuò a svolgere attività illecite, soprattutto spaccio di droga, prostituzione, furti, contrabbando e atti di violenza. Tutto ciò spinse il sindaco Scalzone a convocare un Consiglio comunale straordinario sull’ordine pubblico per proporre un’unità di crisi per il litorale domizio. Mentre lo Stato cen- trale proponeva una sanatoria per gli extracomunitari clandestini, il sin- daco dichiarò che nel suo Comune non c’era razzismo, ma la presenza di 5.000 extracomunitari, su una popolazione di 15.000 abitanti, poteva certamente far crescere l’intolleranza, soprattutto se si considerava che tra gli extracomunitari aveva preso piede la criminalità.

1999: Tra Chiesa e società civile

L’ultimo anno del Novecento fu, per il territorio comunale, all’inse- gna del “degrado”. A Castel Volturno gli extracomunitari, soprattutto nigeriani e albanesi, erano 8.000, mentre i locali 19.000. La maggior parte degli extracomunitari viveva nel Parco Lagani, il cosiddetto “ghetto nero”. Il teatro delle loro attività era la Domiziana, i nigeriani smerciavano droga per conto dei “casalesi” e gli albanesi gestivano il giro della pro- stituzione e i regolamenti dei conti fra bande. I giornali riportarono quasi quotidianamente le condizioni drammatiche in cui versava la cittadina domizia. Mentre le forze dell’ordine eseguirono più capillari controlli, le scuole (I Circolo didattico, e la Scuola media statale “G. Garibaldi”) e le associazioni (AGE, Centro Laila) organizzarono giornate inter- culturali e multietniche. Alcuni comuni del litorale domizio (Mondra-

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ISSN 1594-547232 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane gone, e Cancello Arnone) allestirono corsi d’informatica, di lin- gua inglese e italiana per stranieri, nei quali furono coinvolti il II Cir- colo didattico di Castel Volturno, il Centro Laila e il Centro Fernan- des, con i quali si proponevano di andare incontro alle esigenze degli extracomunitari. I circa duecento posti disponibili furono assegnati in brevissimo tempo. Il problema immigrazione fu affrontato anche dalle parrocchie. Don Antonio Palazzo e don Ernesto Branco si fecero promotori di un in- contro con i rappresentanti del mondo politico locale, perché, a loro giudizio, bisognava fare di tutto per evitare che gli “ultimi” cadessero nella rete della malavita. Il fenomeno della prostituzione spinse i cittadini residenti a creare un comitato di lotta in difesa della civile vivibilità e si organizzarono marce per la pacifica convivenza. L’argomento “degrado” a Castel Vol- turno divenne anche oggetto della trasmissione televisiva La vita in di- retta, condotta da Michele Cucuzza. Il 18 marzo iniziò, intanto, il processo a carico di Luigi Russo, Raf- faele Gravante ed Enza Falco, accusati di aver incendiato diverse auto di extracomunitari a Pinetamare.

2000: Prima condanna per istigazione all’odio razziale

A fine gennaio l’associazione Risanamento del litorale domizio or- ganizzò l’ennesima protesta contro lo spaccio di droga e la prostituzione sulla Domiziana, le pratiche che più indignavano e spingevano i resi- denti bianchi a non accogliere favorevolmente gli africani a Castel Vol- turno e a chiedere un massiccio intervento dello Stato centrale e delle forze dell’ordine per il ripristino della legalità. Nello stesso anno si con- cluse anche il processo contro Enza Gravante, che fu assolta, Luigi Russo e Raffaele Gravante, che furono invece condannati a venti mesi di re- clusione, ma in seguito assolti anch’essi dalle accuse.

2000: Proposte per le elezioni amministrative del 16 aprile 2000

Il programma dei due schieramenti che si presentarono alle elezioni, quello guidato dal sindaco Antonio Scalzone, sostenuto da Alleanza na- zionale, Centro cristiano democratico e Movimento sociale italiano, e quello guidato da Daniele Papararo, sostenuto dai Democratici di sini- stra e dalla Federazione di centro, accennarono solo genericamente a

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«Iniziative tese a favorire l’integrazione e la solidarietà sociale»23. Per quanto riguardava il problema extracomunitario, fu, invece, affrontato in Consiglio comunale il 13 giugno dal sindaco Scalzone, alla presentazione degli indirizzi generali di governo, solo sul piano dello spaccio della droga e della prostituzione e, quindi, solo in termini di sicurezza e or- dine pubblico. Il capogruppo dei Democratici di sinistra, Alfonso Caprio, in me- rito a questa problematica, sottolineò di non aver mai ascoltato dal sin- daco la parola “solidarietà”. I padri Comboniani che operavano a Castel Volturno, in vista delle imminenti elezioni amministrative, posero all’attenzione dei cittadini un loro “programma elettorale”, nel quale sostennero che gli extracomuni- tari potevano diventare, con l’aiuto delle istituzioni e del volontariato, una risorsa per il territorio se si fosse adottata una radicale politica del- l’integrazione e creato lavoro e se si fossero aperte scuole professionali per stranieri.

2000: Sostegno alle proposte xenofobe di Jörg Haider

A fine 2000 il sindaco Scalzone che, come si è detto, già in vari in- terventi aveva dato l’allarme per lo spaccio di droga e per la prostitu- zione cui erano dedite le extracomunitarie, entrò pesantemente nella po- lemica tra il presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi e il lea- der ultranazionalista austriaco Jörg Haider. Scalzone condivise l’affer- mazione di quest’ultimo secondo la quale il governo italiano non faceva niente per fermare il transito irregolare degli immigrati clandestini, anzi addirittura era solidale con essi.

2001: Progetti per la redenzione

A giugno il Centro Fernandes inaugurò una nuova ala della strut- tura, alla presenza del vescovo di Capua, del prefetto e del questore di Caserta, in modo da offrire più servizi agli extracomunitari in difficoltà. Si arricchì di una nuova realtà, la casa per le donne “S. Maria dell’Ac- coglienza”, animata dalle suore della Congregazione Sacred Heart of Je- sus di Benin City, chiamate in Italia dal vescovo Bruno Schettino, con l’intento di soccorrere le donne immigrate vittime dello sfruttamento della prostituzione. La Federmediterranea si fece promotrice, insieme con l’Osservatorio, istituito dall’Unione europea nel 1997, e la Commissione

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ISSN 1594-547234 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane europea contro il razzismo e l’intolleranza, di una rete territoriale di os- servatori e soggetti locali per studiare i fenomeni del razzismo e della xenofobia in provincia di Caserta. Le strategie, le finalità e i programmi dell’iniziativa furono presentati a Castel Volturno nel settembre 2001. L’Asl CE 2, l’Asl Na 2, il Centro Fernandes e l’Associazione Jerry Mas- slo, con il concorso di mediatori culturali, realizzarono, nel novembre 2001, il progetto “Estrella”, che mirava al recupero delle prostitute e dei tossicodipendenti immigrati. Antonio Casale, direttore del Centro Fer- nandes, annunciò che presso il suo istituto sarebbe stato aperto un Cen- tro di ascolto e potenziato l’ambulatorio medico.

2001: Tra polemiche e ripristino della legalità

Nell’estate 2001 alcune dichiarazioni del sindaco Scalzone provoca- rono la reazione del giornalista Enzo Palmesano e di Alberto Merenda, presidente dell’Associazione immigrati di Castel Volturno, che accusa- rono apertamente il primo cittadino di razzismo. S’innescò una pole- mica nella quale il sindaco, ritenendo che le sue dichiarazioni fossero state travisate, minacciò di querelare Palmesano. Nei mesi successivi il sindaco affermò che sarebbe stato necessario legare la presenza degli ex- tracomunitari al rispetto della legge e alla possibilità di un lavoro. Nel mese di settembre lo stesso sindaco si pose a capo di una squa- dra composta di agenti della polizia municipale e da dipendenti comu- nali e, con un’operazione singolare, si recò a Parco Lagani per control- lare personalmente gli inquilini della zona.

2002: Sindaco contro vescovo

I dati delle attività illegali riscontrate nel Comune di Castel Volturno (19.107 abitanti), relativamente al 2002, forniti dal locale Commissariato di polizia, danno un quadro reale di quella che era la situazione venu- tasi a creare anche per la presenza di extracomunitari in città: 246 per- sone arrestate, 182 persone straniere espulse perché legate al fenomeno della prostituzione, 638 persone denunciate in stato di libertà, 1.308 con- travvenzioni contestate, 321 irregolarità amministrative, 547 sequestri, 105 proposte di fogli di via obbligatori. Il sindaco Scalzone rispose polemicamente al vescovo di Caserta Raf- faele Nogaro per le critiche rivolte alla legge Bossi-Fini, che il governo nazionale stava varando per regolare l’immigrazione clandestina. All’ac-

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© Edizioni Scientifiche Italiane35 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio cusa del vescovo che Castel Volturno era diventato un “Comune anti- cristo”, il sindaco gli ribatté che la Chiesa non doveva interferire con le decisioni dello Stato. La legge Bossi-Fini, a suo giudizio, non era un provvedimento contro gli extracomunitari ma, al contrario, aiutava quelli che erano in regola e volevano lavorare in Italia. Il Centro Fernandes si adoperò, invece, per aiutare soprattutto gli extracomunitari che avevano bisogno di urgenti cure mediche. Proprio per questa finalità s’insediò nella struttura un centro medico tenuto dai volontari dell’Associazione Jerry Masslo. A giugno Scalzone chiese al ministro degli Interni Claudio Scajola, in vista della stagione estiva, un potenziamento delle forze dell’ordine sul territorio del suo Comune. A luglio un avvenimento mise in grande apprensione la popolazione di Castel Volturno. Un extracomunitario senegalese risultò affetto da leb- bra, il secondo caso registrato in Italia. Ad aumentare il panico fu la dif- fusione della notizia che il 54,4% delle prostitute che frequentavano la Domiziana aveva contratto il visus dell’Hiv. Questo stato di cose e la pressione della popolazione spinsero le forze dell’ordine ad agire per il ripristino della legalità nel territorio comunale. Per fornire aiuto ai loro concittadini e sostenerli là dove più forte era la loro presenza, le rappresentanze dei paesi extracomunitari africani trasferirono la loro sede a Castel Volturno. Il Consolato nigeriano, ad esempio, aprì alcuni uffici al Centro Fernandes. Nel periodo natalizio i padri Comboniani polemizzarono con le au- torità locali per l’abbattimento di alcune serre che avevano installato, con l’aiuto degli extracomunitari, per la coltivazione di ortaggi. A fine anno, Riccardo Ventre, presidente della Provincia di Caserta, visitò il Centro Fernandes per fare gli auguri alle ragazze ospitate nella struttura e per siglare una convenzione con l’Arcidiocesi di Capua, che prevedeva la realizzazione del progetto “Speranza”, simile al progetto “Estrella”, per il recupero dei tossicodipendenti.

2003: Mario Borghezio a Castel Volturno

Nel 2003 le attività illegali svolte dagli extracomunitari di colore re- sidenti a Castel Volturno (20.100 abitanti) sembrarono aumentare e i me- dia locali ne davano conto con dovizia di particolari. Il 10 gennaio il sindaco Scalzone scrisse una lettera al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro degli Interni e al prefetto e al questore di Caserta sull’emergenza e la sicurezza pubblica a Castel Vol-

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ISSN 1594-547236 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane turno. In essa denunciò, tra le altre cose, che il suo Comune era «in- teressato a una diffusa immigrazione di extracomunitari clandestini», che rimaneva tale a ogni sanatoria. Una massa enorme di persone, della quale solo pochissime lavoravano onestamente, mentre il 95%, «pur regolarizzando la propria permanenza in Italia», rimaneva «regolar- mente ad esercitare la propria attività delinquenziale soprattutto nel traffico di sostanze stupefacenti, nell’esercizio e nello sfruttamento della prostituzione»24. L’alto numero di extracomunitari era dovuto anche ai numerosi al- loggi, che potevano essere messi a loro disposizione grazie alle seconde case estive non occupate, i cui proprietari scendevano poi in piazza per protestare contro il degrado e i trasferimenti di extracomunitari clande- stini dalla Sicilia al territorio costiero casertano. A marzo le amministrazioni dello Stato che avevano il controllo sul territorio comunale stabilirono di dislocare a Castel Volturno 120 tra ca- rabinieri, poliziotti e vigili urbani per salvaguardare, durante il periodo estivo, la sicurezza sul litorale domizio. Le spese furono a carico del Comune. Ad aprile gli immigrati clandestini manifestarono contro la legge Bossi-Fini, alla quale partecipò, per placare gli animi esacerbati, anche il vescovo di Capua Bruno Schettino. Il sindaco Scalzone temette una ri- sposta violenta dei residenti bianchi alle proteste dei “neri” ma, al con- trario, i residenti esasperati chiesero le dimissioni del prefetto Schilardi e dello stesso sindaco per la loro incapacità a tutelare l’ordine pubblico. Le associazioni locali, come il Centro Fernandes e l’Officina Volturno, dovettero difendersi, intanto, dalle accuse di incoraggiare l’immigrazione clandestina e proposero un’integrazione pacifica. Il prefetto Schilardi in- contrò Scalzone, al quale promise una più incisiva azione di contrasto, e invitò i cittadini a collaborare con le forze dell’ordine che, passando al setaccio interi quartieri, controllarono 257 persone, ne arrestarono 8 e denunciarono 12. Ai primi di maggio il numero dei residenti stranieri era di 6.000 unità, di cui solo 2.500 regolari. Folta era la presenza dei nigeriani. Nello stesso mese il sindaco Scalzone dichiarò di essere stato minacciato da al- cuni extracomunitari, ricevendo la solidarietà dei partiti che lo sostene- vano. In quei giorni mentre il consigliere della Fiamma tricolore De Si- mone attaccava gli immigrati e la politica dell’immigrazione, il presidente Giorgio Napolitano nominò “cavaliere della Repubblica Italiana” suor Mary, una delle religiose volute dal vescovo di Capua presso il Centro Fernandes per aiutare le extracomunitarie che si prostituivano sulla Do- miziana.

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© Edizioni Scientifiche Italiane37 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio

Le forze politiche di centrodestra decisero di attaccare coloro che si occupavano degli immigrati, in particolare i padri Comboniani, arrivando al punto di chiedere, attraverso il sindaco Scalzone, l’allontanamento di padre Giorgio Poletti dal territorio comunale. Ma il loro vero obiettivo era il Centro Fernandes, che alcuni volevano far chiudere. Scalzone e l’onorevole Nicola Cosentino organizzarono una marcia contro i Com- boniani, che, a loro volta, ne organizzarono un’altra per protestare presso la prefettura di Caserta contro la legge Bossi-Fini. Scalzone non si dette per vinto. Minacciò le dimissioni, partecipò a incontri istituzionali, rivolse perfino l’invito all’onorevole Mario Bor- ghezio, esponente della Lega nord, a visitare Castel Volturno. L’arrivo di Borghezio in città non fece altro che aumentare la tensione fra i partiti e nella società civile. Lo stesso avvenne con la discussione in Consiglio comunale sulla legge Bossi-Fini, alla quale furono invitati anche i padri Comboniani, il vescovo Schettino, i sacerdoti del terri- torio e i parlamentari Landolfi, Novi, Coronella, Cosentino e Zinzi. Scalzone e i parlamentari scrissero una lettera al ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu nella quale chiesero un maggior numero di agenti di polizia per la tutela del territorio e rivolsero un appello al sottose- gretario Alfredo Mantovano per rendere più sicuro il litorale domi- zio.

2003: Il sindaco contro i padri Comboniani

Gli attacchi del sindaco Scalzone contro i padri Comboniani conti- nuarono senza tregua. Il 21 agosto il sindaco indirizzò una lettera al mi- nistro dell’Interno, al prefetto e al questore di Caserta, nella quale at- taccò frontalmente i religiosi, i quali, secondo un articolo apparso il 21 agosto sul «Corriere del Mezzogiorno», erano intenzionati a bruciare al- l’esterno della prefettura gli ordini di espulsione degli extracomunitari e a sostituirli con permessi siglati: “in nome di Dio”. Per Scalzone l’a- zione dei padri Comboniani, guidati da padre Poletti, costituiva non solo «una sfida […], in piena regola, alle leggi dello Stato, alle norme della convivenza civile», ma anche «un atto di provocazione che» mirava «a destabilizzare l’ordine della comunità locale»25. Nello stesso giorno Scalzone querelò padre Poletti per un articolo apparso sul giornale «Black and White», ritenuto «particolarmente of- fensivo e lesivo della propria immagine del ruolo» che ricopriva26. Il 28 agosto scrisse al ministro dell’Interno, al prefetto e al questore di Ca- serta, al vescovo di Capua e al procuratore della Repubblica di S. Ma-

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ISSN 1594-547238 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane ria Capua Vetere, insistendo sul fatto che i padri Comboniani svolge- vano una funzione negativa sul territorio e di contrasto verso le istitu- zioni. Essi avrebbero criticato il suo operato addirittura «durante la ce- lebrazione delle messe in varie zone del territorio»: un «atteggiamento», a suo giudizio, «lesivo e rischioso» per la sua persona, «additata come nemica della solidarietà e dei valori civili»27. Il lavoro dei padri Comboniani fu stigmatizzato anche dai partiti di centrodestra e dai rappresentanti di alcune associazioni (Assoturismo- Federazione italiana del turismo, Associazione risanamento Castelvol- turno, Pro Loco, Spqv Recreando Volturnum, Associazione commer- cianti, Fiba-Federazione italiana imprese balneari, Forza Italia, Alleanza nazionale, Unione di Centro, Fiamma Tricolore, Federcom), che in un comunicato stampa elogiarono l’operazione “Alto impatto” e contesta- rono «duramente la posizione assunta» dai religiosi28. Il sindaco Scalzone, nel tentativo di arginare la presenza di clande- stini in città, mise in campo una squadra, composta da due vigili urbani e tre guardie ambientali, per un primo censimento delle abitazioni date in affitto agli extracomunitari. La lotta dei padri Comboniani contro la legge Bossi-Fini riprese in ottobre con l’iniziativa del rilascio dei permessi di soggiorno “in nome di Dio”. La loro sfida era rivolta sia «al mondo “indifferente” della po- litica» sia ai «cristiani impauriti»29. L’iniziativa riscosse un notevole successo mediatico e suscitò un am- pio dibattito tra le forze politiche locali – anche per la proposta dell’o- norevole Gianfranco Fini di concedere il voto agli immigrati – tra fa- vorevoli e contrari. Agli inizi di giugno un’altra iniziativa dei padri Com- boniani, quella di incatenarsi per protestare contro l’espulsione degli ex- tracomunitari, era stata stroncata dalla polizia che, intervenuta la notte del 4, tagliò i lucchetti delle catene, fra le proteste della Cgil e gli ap- plausi delle forze politiche di centrodestra e di alcuni gruppi di citta- dini, tra cui albergatori e commercianti.

2004: Tra intolleranza e solidarietà

Le attività illecite, che gli extracomunitari di colore esercitavano an- cora nel 2004 a Castel Volturno (21.444 abitanti, di cui 1.225 stranieri, di questi 757 provenienti dall’Africa)30, erano incentrate sullo spaccio di sostanze stupefacenti, sulla prostituzione, sull’evasione dagli arresti do- miciliari, sulle risse e sui pestaggi, sulle rapine, sulle estorsioni, sulle ri- cettazioni e sui ferimenti, a volte con uccisioni e morti.

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L’impegno “politico” dei padri Comboniani continuò anche durante il 2004, soprattutto contro l’amministrazione comunale e la legge Bossi- Fini. Alle loro iniziative si contrapposero i rappresentanti politici del centrodestra. A gennaio il sindaco Scalzone parlò d’interi territori (Pescopagano e Destra Volturno) «letteralmente invasi» dagli immigrati. Invitò pertanto il ministro degli Interni a riservare particolare attenzione a quest’area, altrimenti il litorale domizio avrebbe perso ogni speranza di rinascita. L’afflusso massiccio d’immigrati preoccupò taluni che paventarono il pericolo dell’intolleranza da parte dei cittadini di Castel Volturno. Gio- vanni Pennino, presidente dell’associazione Arca, ritenne, a questo pro- posito, che non bisognasse limitarsi a offrire agli immigrati un piatto caldo, ma trattarli come essere umani. Mentre i padri Comboniani erano sempre più impegnati nel recu- pero delle donne extracomunitarie dedite alla prostituzione, Scalzone continuò ad attaccarli. Questa volta per un servizio trasmesso da Rai2, che gli sembrò talmente parziale e fazioso da scrivere indignato una let- tera di protesta ai responsabili dell’azienda. Per il sindaco era diventato una vera e propria ossessione padre Poletti, che accusò di essere un cat- tivo cristiano. Sulla base di questa sua personale convinzione, era inten- zionato addirittura a protestare presso il Santo Padre. Le forze dell’ordine, intanto, continuarono con l’operazione “Alto impatto” la lotta ai clandestini e il censimento delle abitazioni occupate dagli extracomunitari. La lotta di Scalzone contro coloro che, a suo parere, erano troppo indulgenti con gli immigrati, continuò imperterrita. Decise di non par- tecipare ad esempio a due importanti iniziative pubbliche sull’immigra- zione organizzate da associazioni e organizzazioni Onlus: le conferenze Caratteristiche e prospettive dell’immigrazione nel Casertano (30 marzo 2004) e “Donna tratta…ta” (30 aprile 2004). Gli immigrati residenti sul litorale domizio, intanto, parteciparono, domenica 12 maggio 2004, all’elezione del primo Consiglio provinciale dei rappresentanti degl’immigrati stranieri della provincia di Caserta. I candidati furono quarantasette, divisi in cinque liste, a seconda della loro zona di provenienza. I dati resi noti dalle forze dell’ordine, in merito ai reati commessi da extracomunitari irregolari, spinsero ancora una volta Scalzone a de- nunciare il coinvolgimento degli immigrati nei fenomeni di criminalità e illegalità. Le fonti ufficiali parlavano di 1.200 extracomunitari censiti, ma in realtà sarebbero stati molto di più, e di 120 segnalazioni d’immigrati coinvolti in traffici illeciti, dall’inizio del nuovo anno.

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ISSN 1594-547240 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

Il 13 maggio Scalzone partecipò al dibattito Le amministrazioni lo- cali parlano di immigrazione e territorio, organizzato a Napoli in occa- sione della IV Conferenza regionale dell’immigrazione Campania: nes- sun luogo è lontano. Nel suo intervento ribadì che Castel Volturno era ben disposta ad accogliere gli immigrati con regolare permessi di sog- giorno e intenzionati a lavorare, ma non poteva permettersi l’arrivo di altri immigrati irregolari, che superavano già di dieci volte quelli rego- lari. A queste parole del sindaco, i cittadini delle zone di Pinetamare, via Porchiera, Ischitella e via Domiziana indirizzarono, nello stesso mese, una lettera di protesta al prefetto di Caserta per denunciare la difficile situazione di Castel Volturno. Era necessario che le forze dell’ordine in- tervenissero per reprimere i comportamenti delittuosi, primi fra tutti lo spaccio di droga e la prostituzione, quest’ultima ormai praticata in edi- fici del centro adibiti a vere e proprie case di tolleranza. Gli extracomunitari di Castel Volturno, insieme con altri immigrati e i padri Comboniani, parteciparono invece, sempre a maggio, a una mani- festazione a Caserta, nella speranza di ottenere l’agognato permesso di soggiorno. Carnefici e vittime allo stesso tempo del degrado sociale in cui versava il territorio comunale, gli extracomunitari cominciarono a subire taglieggiamenti ed estorsioni da parte della criminalità organizzata locale. A fine maggio l’Asl Ce2 e il Centro Fernandes organizzavano un convegno dal titolo I diritti di cittadinanza delle donne migranti e iden- tità di genere. A inizio giugno centinaia di cittadini liberiani, in fuga dalla guerra, che imperversava nel loro paese, invasero il litorale domizio, provenienti dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Calabria, dove erano sbarcati e dove ave- vano ottenuto il permesso di soggiorno per motivi politici e un piccolo contributo economico da parte delle prefetture locali. I giovani africani si erano poi diretti verso Castel Volturno, dove avevano trovato poca solidarietà e molta disperazione. Ne erano arrivati già più di cinque- cento, molti dei quali giovani e giovanissimi, diversi dei quali ammalati e alcuni con moglie e figli piccoli. Tutti senza avere «nulla di nulla». E ne sarebbero arrivati ancora tantissimi, aggravando le condizioni di vita di Castel Volturno e aumentando le file della malavita.

2004: Lettera alle istituzioni, contro i provvedimenti regionali

A luglio, il sindaco Scalzone scrisse a Carlo Azelio Ciampi, presi- dente della Repubblica, a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, a

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Pier Ferdinando Casini e a Marcello Pera, presidenti di Camera e Senato, perché contrario alla delibera regionale che prevedeva la possibilità per i dirigenti scolastici di dedicare al Ramadan, al Capodanno cinese o alla Pasqua ebraica uno dei giorni di feste mobili che ogni singola scuola ha a disposizione nell’ambito dell’autonomia scolastica durante l’anno come festività aggiuntive. Nella lettera Scalzone evidenziò, come faceva in ogni occasione pubblica, la situazione esplosiva di Castel Volturno e del ca- sertano per il continuo arrivo d’immigrati (slavi, russi, africani, maroc- chini, tunisini), un fenomeno ormai difficile da gestire, dovuto anche alle ambiguità delle istituzioni politiche italiane e ai governi di centrosinistra. Motivò la sua contrarietà alla delibera, soprattutto per quanto atteneva al Ramadam, con un giudizio sui musulmani fortemente ideologico, secondo cui essi difendevano gelosamente la propria identità e disprezzavano quella dei locali. In altre parole disprezzavano, fino all’uso della violenza, la na- zione nella quale intendevano vivere. A Scalzone rispose Antonio Casale, responsabile del Centro Fer- nandes, che sottolineò come, contro il razzismo strisciante del Comune, il Centro e la comunità dei padri Comboniani facevano di tutto per aiu- tare gli extracomunitari, regolari o irregolari. Da quest’attività era sorta, negli stessi mesi, la “Casa del Bambino” che dava una mano alle donne immigrate, che non potevano mantenere i loro figli da 1 a 5 anni nel- l’arco dell’intera la giornata, e un opuscolo stampato in inglese per in- dicare loro come cercare un’alternativa di vita alla strada. Il presidente Ciampi rispose a Scalzone ricordando che durante il suo mandato aveva sempre seguito la problematica dell’immigrazione e sostenuto il dialogo interculturale e interreligioso, secondo il dettame della Costituzione.

2004: Una realtà, quella extracomunitaria, da documentario

La realtà sociale di Castel Volturno divenne analisi di documentari, come quello presentato al Festival di Bruxelles dal giornalista Rai e re- gista televisivo Paolo Zagari, che in un’intervista affermò: «Il documen- tario è incentrato su problemi come la criminalità, lo spaccio di droga, la prostituzione, l’immigrazione in tutte le sue sfaccettature e infine sul- l’inquinamento ambientale e dei rifiuti»31. Gli stessi immigrati, fatti oggetto di tangenti da parte di connazio- nali o della criminalità organizzata locale, si costituirono in associazione per lottare contro lo sfruttamento dei connazionali, come accadde a set- tembre con l’Associazione nigeriana, presieduta da Eddy Egonwman,

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ISSN 1594-547242 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane che iniziò una campagna contro la prostituzione, in particolare a Castel Volturno. Agli inizi di settembre i dati ufficiali sulla presenza di extracomuni- tari erano preoccupanti: vi erano circa 2.000 irregolari. In realtà a Ca- stel Volturno ve ne erano altri 4.000. La maggiore presenza era quella degli ucraini (5.000), seguiti dagli albanesi (2.500) e dai marocchini (1.500). Rispetto al 2003, c’era stato un incremento del 47%. Come sostenne pa- dre Poletti, gli immigrati a Castel Volturno erano diventati ormai una realtà sociale. A ottobre, Scalzone scrisse ancora al ministro degli Interni, al quale, dopo aver ripetuto le cose dette in occasioni simili, chiese un potenzia- mento degli agenti di polizia. Agli inizi di novembre il Centro Laila, diretto da Angelo Luciano, organizzò, nella ricorrenza del ventennale della sua fondazione, un con- vegno di tre giorni dal titolo Minori immigrati: un futuro da costruire, e alla fine dell’anno, insieme con i giovani di Officina Volturno, un tor- neo di calcio per immigrati dedicato a Jerry Masslo. L’iniziativa fu so- stenuta anche da alcuni assessori dell’amministrazione Scalzone.

2005: Attività malavitose

Nel 2005 lo spaccio di sostanze stupefacenti a Castel Volturno (21.926 abitanti, di cui 1.996 stranieri ufficialmente residenti, di questi ultimi 1.090 provenienti dall’Africa) costituì l’attività prevalente di numerosi ex- tracomunitari africani, tanto da suscitare l’attenzione dei quotidiani lo- cali che fornirono resoconti dettagliati. Oltre alla droga e la prostitu- zione, le attività illegali riguardarono i furti, la ricettazione, la contraf- fazione, l’evasione dagli arresti domiciliari, le minacce e le liti tra gli stessi migranti per regolamenti di conti, che il più delle volte sfociarono in ferimenti e uccisioni, gli scontri con le forze dell’ordine, che coadiu- vate dalla magistratura, arrestarono quelli senza permesso di soggiorno e li espulsero dal territorio nazionale. Una spietata consorteria mafiosa denominata “Eye”, ovvero i “Rapaci”, formata da nigeriani, iniziò a spa- droneggiare a Castel Volturno, imponendo le proprie volontà ai conna- zionali, con rapine, sequestri e sevizie.

2005: Proposte per le elezioni amministrative del 3 e 4 aprile

I candidati a sindaco che si affrontarono alle elezioni amministrative

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© Edizioni Scientifiche Italiane43 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio del 3 e 4 aprile 2005 furono sempre due: da un lato il sindaco uscente Antonio Scalzone, sostenuto dalle liste di Forza Italia, Alleanza nazio- nale e Unione di centro, dall’altro Francesco Nuzzo, sostenuto dalle li- ste di Socialisti democratici italiani, La Margherita, Democratici di sini- stra, Partito socialista liberale autonomo, Progetto per Castel Volturno, Castel Volturno domani. Entrambi affrontarono il problema degli ex- tracomunitari con proposte diverse, ma con toni moderati ed equilibrati. Alla domanda sulla posizione che avrebbe preso la sua amministrazione, Scalzone rispose che avrebbe costituito una consulta, formata non solo dagli immigrati, ma anche dalle forze dell’ordine, dalle associazioni di volontariato, dalla Chiesa e dall’ente locale, capace di aiutare la «povera gente» e debellare il fenomeno della prostituzione e dello spaccio della droga. Nuzzo e le liste di centrosinistra proposero nel loro programma la creazione di un osservatorio permanente sull’immigrazione e anch’essi una consulta per trovare soluzioni al difficile rapporto fra extracomuni- tari e comunità locale. Tutto questo riscoprendo i valori della tolleranza e della persona umana.

2005: Castel Volturno come il Bronx

I controlli promessi dall’amministrazione di centrodestra non die- dero i frutti sperati. Le attività malavitose erano concentrate soprattutto in alcuni quartieri del territorio comunale divenuti simili a un Bronx. Situazione per la quale i residenti si lamentavano, esprimendo, fatto non nuovo, forte disagio per il fenomeno della prostituzione e dello spaccio di sostanze stupefacenti sulle strade, in case private e in locali sulla Do- miziana. I disagi, di cui la popolazione migrante soffriva a Castel Volturno, erano alleviati sia da associazioni religiose, come il Centro Fernandes e la comunità dei padri Comboniani, il cui operato fu anche oggetto di programmi Rai, sia laiche come la Cigl, che nell’aprile 2005 aprì uno sportello informativo a Baia Verde per tutelare i diritti degli extraco- munitari. Il Centro Fernandes fu molto attivo nell’azione per i ricon- giungimenti familiari. Su questo problema organizzò la Giornata della solidarietà e della cultura, alla quale prese parte, oltre al vescovo di Ca- pua e al prefetto di Caserta, anche il neosindaco di Castel Volturno Fran- cesco Nuzzo, che aveva sostituito Scalzone vincendo le elezioni ammi- nistrative del 2005. Nel novembre dello stesso anno l’ex sindaco Scalzone prese spunto

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ISSN 1594-547244 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane dalle proteste delle banlieue parigine per attaccare la Chiesa, il vescovo Nogaro, i padri Comboniani e le forze di sinistra, che criticavano aspra- mente il governo Berlusconi. I gravi episodi che stavano caratterizzando la capitale francese divennero per il sindaco il pretesto per accusare la sinistra italiana di aver incoraggiato l’immigrazione. Le risposte non si fecero attendere. Il segretario del Partito democratico Alfonso Caprio dichiarò che il problema dell’immigrazione clandestina era di portata epocale e che ogni tentativo politico di affrontarlo non poteva prescin- dere dal fatto che riguardava esseri umani, persone in carne e ossa, che venivano da paesi poverissimi dove soffrivano la fame. La presenza di immigrati a Castel Volturno aveva certamente creato disagi ai cittadini ma disagi li vivevano anche loro. Per Caprio il modo migliore per af- frontare la questione immigrazione rimaneva quello del dialogo e della ricerca di soluzioni plausibili. Era comunque ben consapevole che il per- corso non sarebbe stato facile, ma bisognava tentarlo a ogni costo per il bene della collettività. Il numero rilevante di clandestini extracomunitari spinse lo stesso sindaco Nuzzo a far controllare a tappeto dalla polizia municipale gli immobili dati in affitto senza la dovuta comunicazione alle autorità com- petenti. Le dichiarazioni e i provvedimenti del sindaco, a pochi mesi dal- l’insediamento, lasciarono allibiti e abbandonati a loro stessi i residenti delle zone più degradate di Castel Volturno. Molti si chiesero perché in altre città (per esempio la Bologna del sindaco Sergio Cofferati) era stato possibile far rispettare le leggi e a Castel Volturno no. Le associazioni di volontariato, come il Centro Fernandes, nono- stante queste prese di posizioni, tentarono la carta dell’integrazione e or- ganizzarono alla fine dell’anno anche tornei di calcio tra stranieri e forze dell’ordine e raccolte di firme per la concessione del diritto di voto agli immigrati.

2006: Polemiche per l’istituzione di un nuovo centro di accoglienza

Nei primi mesi del 2006 il sindaco Nuzzo si oppose alla possibilità di aprire un nuovo centro di accoglienza per gli immigrati a Castel Vol- turno da parte di un fantomatico Centro internazionale di assistenza, che faceva capo al vescovo Olumide Gbenga Johnson, sostenendo che il buon lavoro svolto dal Centro Fernandes non giustificava l’apertura di un nuovo centro. Lo stesso fece Egowan Nogiemwen, presidente del- l’Associazione nigeriana in Campania. La polemica portata avanti dai rappresentanti locali del centrode-

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© Edizioni Scientifiche Italiane45 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio stra spinse molti, e tra questi l’ingegner Arturo Villano, a ricordare al- l’ex sindaco Scalzone che l’azione della sua amministrazione non aveva portato risultati positivi al problema dell’immigrazione sul litorale do- mizio.

2006: Lotte tra etnie

Il dibattito sulla presenza degli immigrati a Castel Volturno si faceva sempre più serrato. Le istituzioni statali, comunque, si organizzavano per fornire assistenza agli extracomunitari clandestini, nel caso specifico il locale distretto sanitario di Scatozza stabilì che il lunedì e il merco- ledì gli immigrati potevano ricevere assistenza sanitaria come i cittadini italiani, soprattutto per quanto riguardava la dermatologia attinente alle malattie tropicali, la ginecologia e la cardiologia. A incidere negativamente in questo contesto fu, tra l’altro, l’alto nu- mero di azioni criminose, quasi giornaliere, messe a segno dagli immi- grati soprattutto irregolari, senza contare le zuffe e gli accoltellamenti, gli assassini, le aggressioni alle forze dell’ordine e gli atti di guerriglia tra le diverse etnie. E proprio nell’estate 2006 scoppiò, per un debito non pagato, una lotta tra le fazioni nigeriane e ghanese, che provocò nove feriti, due auto sfasciate e due case devastate. I cittadini bianchi residenti a Castel Volturno cercavano di ribellarsi a questo stato di cose e a una convivenza forzata, organizzando mani- festazioni e fiaccolate o protestando contro il prefetto di Caserta. A que- ste manifestazioni molto spesso presero parte anche assessori e consi- glieri dell’amministrazione comunale, ma non il sindaco, che in un suo intervento riprese temi cari al predecessore Scalzone: i «nuovi venuti» dovevano rispettare le leggi come tutti, senza cercare di imporre agli ita- liani i loro modelli culturali. La posizione del sindaco fu contrastata dal consigliere dei Demo- cratici di sinistra Vincenzo Esposito, che chiese di affrontare il problema immigrazione con l’aiuto del sindacato. La scuola locale fu tra le poche voci a ribellarsi a tale malessere; il 26 e 27 maggio il Primo circolo didattico di Castel Volturno si fece pro- motore dell’iniziativa Legalità e intercultura, per costruire una rete so- ciale nella quale dovevano trovare posto le nuove convenienze sociali e individuali e l’impegno di accoglienza a sostegno di tutti. Il 3 e 4 giugno il Centro Fernandes e l’Associazione Jerry Masslo, con il patrocinio del Comune di Castel Volturno, organizzarono il primo “Festival dei popoli”, che si aprì, alla presenza del presidente della Pro-

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ISSN 1594-547246 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane vincia di Caserta Sandro De Franciscis e dell’assessore regionale Rosetta d’Amelio, con un dibattito dal titolo Gli immigrati interrogano le isti- tuzioni, le istituzioni interrogano gli immigrati. La Regione Campania individuò nel Centro Fernandes una struttura adatta per il recupero degli ex detenuti migranti scagionati dall’indulto. A settembre, tenendo conto dell’ammontare pro capite della tassa sui rifiuti, risiedevano nel territorio comunale di Castel Volturno 23.000 abi- tanti, 1.700 stranieri regolari e circa 20.000 clandestini. Intanto cresceva la tensione quotidiana tra italiani e neri. Un gruppo di ragazzi espresse al sindaco la volontà di costituire ronde notturne per regolare i conti con gli extracomunitari. In questo clima difficile i “casalesi” continua- vano a gestire i loro affari: rifornivano di droga i nigeriani, facevano pa- gare il pizzo ai negozi e ormai anche alle abitazioni, gestivano l’affare dei rifiuti. Una situazione che finì sotto i riflettori dei giornali nazio- nali, come il «Corriere della sera», che parlò della grande solitudine di Castel Volturno, una volta considerata la Portofino della Campania. Al- cuni esponenti del centrodestra, che pure criticavano tanto il degrado cittadino per contrastare il sindaco Nuzzo, risposero alle affermazioni del quotidiano milanese affermando che Castel Volturno non era «la riva dei bruti», né il luogo del «made in Africa» in Italia. A fine anno, Salvatore Raimondo, assessore alle politiche sociali, af- fermò, nel suo intervento alla Sesta conferenza regionale sull’immigra- zione, che la questione immigrati a Castel Volturno era una vera e pro- pria anomalia, impossibile da gestire dal solo Comune. C’era bisogno dell’aiuto dello Stato, soprattutto per quanto riguardava la presenza delle forze dell’ordine, sempre insufficienti, e della stretta collaborazione con le associazioni di volontariato, per proporre, insieme con gli altri enti istituzionali, misure per limitare il numero degli immigrati irregolari, fa- cendo smistare una parte di loro in territori capaci di accoglierli.

2007: Tra xenofobia e tolleranza

Nel 2007 le attività criminose, legate alla presenza di cittadini ex- tracomunitari a Castel Volturno (22.796 abitanti, di cui 2.303 cittadini stranieri, di questi 1.126 provenienti dall’Africa) furono raccontate dai giornali locali. L’illegalità diffusa spinse alla protesta i residenti locali, che individuarono negli extracomunitari di colore la causa dell’ulte- riore degrado al territorio comunale. La protesta fu cavalcata soprat- tutto dai politici di centrodestra che speravano di ottenerne un torna- conto al momento delle elezioni amministrative. Numerosi, però, erano

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© Edizioni Scientifiche Italiane47 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio anche i bianchi che facevano affari leciti e illeciti con gli stessi extra- comunitari, a iniziare da coloro che favoreggiavano l’immigrazione clan- destina falsificandone i documenti o spacciando banconote false. Le istituzioni locali sia religiose, come il Centro Fernandes o i padri Com- boniani, sia laiche, come l’amministrazione comunale o i sindacati, erano impegnate nell’aiuto agli immigrati extracomunitari. Antonio Casale, direttore del Centro Fernandes, intervistato da un giornale, alla do- manda se la cittadinanza castellana nutrisse sentimenti xenofobi o ten- denti al razzismo, rispose di no. In ogni caso, criticò le forze politi- che che spesso, per ragioni ideologiche, non fornivano alla popolazione adeguate informazioni, favorendo il fenomeno del razzismo e della xe- nofobia. L’amministrazione comunale e i rappresentanti dei sindacati provin- ciali della Cgil, Cisl, Uil, Coldiretti e Siaab organizzarono la festa del 1° maggio 2007 a Castel Volturno e non a Caserta, come consuetudine. Il corteo sfilò per le vie del centro storico per poi raggiungere piazza Castello, dove il sindaco Nuzzo fece gli onori di casa e affermò che Ca- stel Volturno non si era mai esposta a politiche razzistiche. Gli immigrai di Castel Volturno diventarono anche oggetto di stu- dio da parte di Roberta Girgenti, dell’Università di Venezia, la quale do- cumentò, con una sua ricerca, che il territorio di Castel Volturno era per gli extracomunitari una base di passaggio e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, lasciavano la zona per spostarsi altrove, in par- ticolare al Nord. In ottobre Scalzone, in qualità di consigliere comunale dell’opposizione, scrisse al ministro dell’Interno Giuliano Amato, chie- dendo un suo intervento per il Comune di Castel Volturno, sul cui ter- ritorio, che si estende per 27 chilometri sul litorale domizio, vi erano circa 10.000 extracomunitari, il più alto numero in Italia rispetto alla po- polazione residente.

2008: Il preludio alla “Strage di san Gennaro”

Il 2008 rappresentò per Castel Volturno (23.557 abitanti, di cui 2.376 stranieri, di questi 1.236 erano di nazionalità africana) l’anno horribilis per la “Strage di san Gennaro” di cui fu vittima la comunità africana, parte della quale continuava a sopravvivere grazie alle attività illegali. L’immigrazione extracomunitaria era in continua crescita e ciò in- duceva gli esponenti della destra a intervenire con le solite proposte. Questo mentre il Centro Fernandes ospitava a maggio, in un pubblico incontro, don Ciotti, e, nel mese successivo, Rosalba Scafuro, assessore

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ISSN 1594-547248 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane alle politiche sociali del Comune, esprimeva il suo impegno ammini- strativo in favore degli extracomunitari. Vincenzo Esposito, consigliere di maggioranza, si adoperò per fare aprire un info-point per gli extracomunitari, iniziativa che fu criticata da Scalzone e supportata, invece, dall’assessore Scafuro. Non solo l’ammi- nistrazione laica del territorio si prodigò in favore degli extracomunitari, ma anche i soggetti religiosi come il Centro Fernandes e il vescovo di Capua Bruno Schettino, che a luglio visitò il Parco Ameno per favorire l’integrazione e l’unificazione della popolazione immigrata di Castel Vol- turno. Poiché il Parco Lagani si presentava sempre più come un ghetto dove le “lucciole” e gli spacciatori spadroneggiavano, il sindaco Nuzzo chiese alle forze dell’ordine un controllo più incisivo del territorio ed emanò ordinanze per debellare il fenomeno della prostituzione. A fine maggio il Centro Fernandes ospitò una festa etnica nigeriana. Il preludio, a quella che sarebbe poi stata chiamata la “Strage di san Gennaro”, il delitto di camorra più efferato nei confronti degli extraco- munitari di colore avvenuto a Castel Volturno, fu l’avvertimento in stile camorristico accaduto la sera del 18 agosto 2008, quando un commando, composto da motociclisti su due moto con i volti coperti da caschi e da alcune persone su un furgone Fiat “Scudo”, sparò diversi colpi di kala- shnikov contro la sede dell’Associazione nigeriana campana, in via Ce- sare Battisti n. 1 a Castel Volturno, dove erano riunite quattordici per- sone, tra cui quattro bambini, rimasti illesi solo perché giocavano al- l’interno della casa. L’obiettivo dell’agguato era il presidente dell’Asso- ciazione, Teddy Egonwman, mediatore culturale e interprete per la po- lizia di Stato, che per anni si era battuto contro il racket della prostitu- zione e della droga nel quale era coinvolta una parte della comunità ni- geriana di Castel Volturno, i cui boss erano agli ordini dei “casalesi”. Dopo la strage di Pescopagano del 24 aprile 1990, camorristi locali e mafiosi nigeriani del litorale domizio avevano stretto un patto, che pre- vedeva lo scambio di armi, la garanzia della vigilanza per le case dei la- titanti, la “tassa” pagata ai “casalesi” sul giro di affari di droga e pro- stituzione, la gestione dei “money transfer”. Dagli esami balistici effet- tuati dalla polizia scientifica, in seguito alla strage di Castel Volturno, emerse che il fucile kalashnikov usato nell’agguato, in cui furono ferite cinque persone, compresi Teddy Egonwman e sua moglie Alice, era lo stesso del massacro del 18 settembre dello stesso anno. L’agguato causò il ferimento di sei persone, tra cui una donna, alcune delle quali in modo grave, avendo riportato ferite al capo o al torace, circostanza questa che non lasciò dubbi sui propositi stragisti e omicidi degli autori. La spedi- zione punitiva, composta da Davide Granata, e Gio-

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© Edizioni Scientifiche Italiane49 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio vanni Letizia, fece scalpore e tra la popolazione cominciò a serpeggiare un diffuso sentimento di paura. Nei primi giorni di settembre i quotidiani locali si chiedevano se dare o no il voto agli immigrati, tema su cui il sindaco Nuzzo e Ca- sale, direttore del Centro Fernandes, espressero il loro convinto assenso.

2008: La “Strage di san Gennaro”

Gli stessi autori della sparatoria del 18 agosto 2008 si preparavano intanto a essere i protagonisti della cosiddetta “Strage di Castel Vol- turno” o “Strage di san Gennaro”. La sera di giovedì 18 settembre, un gruppo scissionista del clan dei “casalesi”, che faceva capo a Giuseppe Setola, ammazzò, in due distinte operazioni, a Baia Verde, Antonio Ce- liento32 (gestore di una sala giochi, sospettato di essere un informatore delle forze dell’ordine) e, a Lago Patria, sei immigrati africani33. Si tro- vavano tutte presso la sartoria “Ob Ob exotic fashions”, sulla Domi- ziana. I primi testimoni della strage raccontarono alla Polizia che il com- mando indossava giubbotti antiproiettili con la scritta “carabinieri”. Im- pressionante fu il volume di fuoco, esploso da almeno sette armi di mo- dello e calibro diversi. Il raid stragista, secondo la ricostruzione della polizia, durò meno di trenta secondi. Anche in questo caso gli investi- gatori poterono ricostruire la dinamica e il ruolo degli stragisti Ales- sandro Cirillo, Davide Granato, Giovanni Letizia, Giuseppe Setola e Oreste Spagnuolo. Joseph Ayimbora, colpito alle gambe e all’addome, si finse morto, ma prima di accasciarsi a terra era riuscito a vedere gli assassini. Grazie alla sua testimonianza fu possibile individuare gli au- tori della strage. Le forze dell’ordine setacciarono il territorio e le piazze dello spaccio cittadino, come l’ex Hotel Zagarella, dove arrestarono spac- ciatori di colore. L’eccidio provocò polemiche tra i rappresentanti delle forze dell’ordine ma anche, in seguito ai primi arresti, tra i rappre- sentanti della politica nazionale all’opposizione e i ministri del governo Berlusconi e tra politici locali di opposizione e il sindaco Nuzzo. Gli inquirenti accertarono che nessuno degli immigrati uccisi era coinvolto in attività di tipo criminale e che nessuno di loro era legato alla ca- morra locale né tanto meno alla cosiddetta “mafia nigeriana”, la quale, a qualche chilometro di distanza, presso l’ex Hotel Zagarella, gestiva una delle piazze di spaccio di droga e prostituzione di ragazze afri- cane per conto della potente camorra locale. La strage fu eseguita con modalità che portarono la magistratura a individuare nell’azione dei killer, oltre all’aggravante di avere agito con metodo mafioso e l’in-

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ISSN 1594-547250 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane tento di favorire il clan dei “casalesi”, anche l’aggravante di avere agito con odio razziale e finalità discriminatorie. Fu subito chiaro che la strage era dovuta anche all’avversione del gruppo di Setola per gli im- migrati e al pregiudizio razziale in base al quale l’intera comunità di colore doveva sottostare alla volontà del clan. Altro aspetto, assoluta- mente inedito della strage, fu individuato dall’ufficio del G.I.P. nel- l’aggravante della finalità terroristica, finalizzata a destare panico nella popolazione, a ingenerare paura e incutere terrore nella collettività, at- traverso, appunto, un’azione criminosa e violenta, clamorosa e indi- scriminata, con l’obiettivo di minare la fiducia della cittadinanza nel- l’ordinamento costituito e indebolirne le strutture. L’intera comunità d’immigrati di colore doveva sapere che qualsiasi cosa, lecita o illecita, avesse intenzione di fare, aveva bisogno dell’autorizzazione del clan e doveva sottostare al versamento di una tangente. Il giorno successivo alla strage la comunità d’immigrati di colore manifestò contro la cri- minalità organizzata e le autorità italiane e chiese che gli assassini fos- sero assicurati alla giustizia. Fu un episodio inedito, grave e unico nella storia d’Italia, che si vedrà replicato solo il 6 gennaio 2010 a Rosarno. Il 19 settembre, all’indomani della strage, centinaia di extracomunitari di colore, connazionali delle vittime e no, diedero vita a una vera e propria rivolta popolare, alla quale partecipò gran parte della comu- nità extracomunitaria di colore di Castel Volturno. Tutti i manifestanti ripeterono che non avevano niente a che fare con la camorra e che la- voravano come animali dalla mattina alla sera. A fine giornata cinque delegati dei dimostranti ebbero un incontro con il sindaco Nuzzo che li assicurò «sulla velocità delle indagini»34. Per tacitare gli animi esasperati degli extracomunitari, il sindaco, in accordo con il questore di Caserta Carmelo Casabona, tenne nella stessa giornata un incontro con alcuni loro rappresentanti per riportare i più esagitati alla calma. La violenza scatenata dagli extracomunitari provocò una notevole tensione nella comunità italiana, tanto che si temette qual- che ritorsione contro gli africani. Per fronteggiare la delicata situazione che si era determinata furono emanati provvedimenti urgenti dal mini- stero dell’Interno e dal ministero della Difesa sulla lotta alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina in provincia di Caserta. Prima l’escalation di violenza portata dal clan dei “casalesi” a Castel Volturno e poi l’inaspettata guerriglia urbana scatenata dalla comunità africana spinse il governo nazionale ad assumere provvedimenti eccezionali, con la creazione e l’insediamento di una commissione straordinaria al Vimi- nale il 20 settembre, della quale facevano parte lo stesso ministro degli Interni Roberto Maroni, il capo della polizia Antonio Manganelli e al-

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© Edizioni Scientifiche Italiane51 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio tre personalità politiche e militari. Sul litorale casertano furono inviati 400 agenti speciali e investigatori per il controllo della sicurezza al fine di evitare future stragi. Il ministro Maroni sapeva bene che solo a Castel Volturno vi erano 118 persone agli arresti domiciliari, difficili da controllare, e che, con la strage degli extracomunitari, la camorra aveva «dichiarato guerra allo Stato», che doveva «rispondere con tutti i mezzi» a disposizione35. La strage di Castel Volturno, un vero e proprio atto di terrorismo, riempì le strade delle maggiori città italiane, con manifestazioni contro l’intolleranza e il razzismo. Gli amici delle vittime chiedevano intanto di far svolgere i funerali sul luogo del massacro. A pochi giorni dalla “Strage di san Gennaro”, il 23 settembre, i con- siglieri comunali del Popolo delle libertà di Castel Volturno scrissero una lettera al ministro Maroni e al senatore Gennaro Coronella nella quale facevano il quadro di quanto era accaduto sintetizzabile nella resa delle forze dell’ordine ai dimostranti, definiti «teppisti extracomunitari», e nella capitolazione del sindaco e del questore di Caserta, che avevano accettato l’incontro in Comune. Tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre le indagini delle forze dell’ordine diedero i primi risultati con l’arresto degli stragisti. Il Consiglio comunale di Castel Volturno si riunì il 1° ottobre avendo come argomento: “Ordine e Sicurezza Pubblica: Discussione e Provve- dimenti”. Nel dibattito il consigliere Scalzone affermò che la strage aveva «trovato la sua cultura in una società malata che da tempo» era «abi- tuata a tollerare le piccole illegalità» e che, proprio per questo, non era «sufficiente l’intervento delle forze dell’ordine», ma bisognava cambiare «la mentalità dell’opinione pubblica», che doveva «respingere ogni forma di illegalità». E propose, in conclusione, «di chiudere o trasformare, in CTP, il Centro Fernandes»36. La proposta fu respinta dalla maggioranza, mentre fu accolta quella del sindaco Nuzzo di inserire in un prossimo Consiglio comunale il se- guente ordine del giorno: “Centro Fernandes. Funzioni e ruolo all’in- terno della città”. Anche il documento proposto per l’occasione, ripor- tato qui di seguito, fu approvato dalla sola maggioranza. Governo, Regione, Provincia, insieme a Castel Volturno definiscano un pro- getto credibile che abbia come obiettivo: – Il ripristino di permanenti condizioni di sicurezza per persone, beni, aziende, potenziando in modo definitivo i presidi di forze dell’ordine; – Il completo controllo del territorio da parte dello Stato, con conse- guente espulsione dei traffici e degli uomini della camorra; – Il riequilibrio sociale ed il disinnesco delle ragioni dell’emarginazione e

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ISSN 1594-547252 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

della violenza che essa produce, riducendo drasticamente le presenze di clandestini extra comunitari sul territorio, anche attraverso la espulsione mirata a eliminare attività illegali quali la prostituzione e lo spaccio delle droghe; – La severa valutazione della concessione degli arresti domiciliari sul ter- ritorio del Comune per reati riconducibili alle attività della camorra ed ai reati associativi; – La realizzazione di opere destinate a disinquinare e riqualificare un ter- ritorio profondamente oltraggiato dalle eco-mafie ed il mare continua- mente negato alla città ed al turismo; – Il sostegno della scuola e della sua attività di formazione alla cono- scenza ed alla legalità, anche attraverso la costruzione di nuovi plessi; – L’impegno a sostenere un capillare reticolo di iniziative culturali per- manenti; – La presa d’atto della particolare difficoltà dell’Ente a rispondere ai bi- sogni di un contesto così complesso, autorizzando in deroga alla vi- gente legislazione, il rafforzamento di servizi fondamentali quali la Po- lizia Urbana, i servizi Sociali, i servizi Tecnici e ristorando l’enorme spesa che l’Ente ha sostenuto e sostiene per fronteggiare una generale emergenza sociale, anche prevedendo il passaggio dell’Ente alla classe superiore; – La creazione di un sistema generalizzato di videosorveglianza su tutto il territorio; – Il recupero funzionale degli immobili confiscati a camorristi e il com- pletamento e l’avvio delle attività della fattoria didattica su terreni ex Zaza.

Lo stesso Ente Locale si impegna per:

– Definire una verifica delle condizioni di vita e alloggiative degli extra- comunitari sans papiers, con l’aiuto di forze già operanti, qui, per l’or- dine e la sicurezza; – Rendere rigorosi gli accertamenti per l’ottenimento delle residenze; – Controllare tutte le attività commerciali esercitate in forma ambulante, puntando a regolamentare quelle legittime e impedire quelle senza au- torizzazioni37.

Ai primi di ottobre i cittadini esasperati organizzarono un corteo sulla Domiziana, che ebbe come risposta la proposta di un censimento degli immobili occupati dai clandestini. Intanto il presidente della Pro- vincia di Caserta, Sandro De Franciscis, visitava il Centro Fernandes e il ministro dell’Interno Maroni assicurava l’impegno dello Stato. La madre di tutte le battaglie era per i rappresentanti del centrode-

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© Edizioni Scientifiche Italiane53 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio stra la chiusura o il trasferimento del Centro Fernandes, accusato di at- tirare, con la sua accoglienza, gli immigrati in città. Per il vescovo di Capua Schettino il Centro era invece un luogo che serviva ad alleviare le sofferenze della popolazione immigrata. Trascorsa qualche settimana, il 3 ottobre i consiglieri del centrodestra richiesero alla presidente del Consiglio comunale, Maria Perna, di poter inserire all’ordine del giorno di un prossimo Consiglio la proposta di «chiusura e trasferimento in al- tra sede del centro di prima accoglienza “Don Guanella”»38.

2008: L’ultimo canto di Miriam Makeba

Il 2008 continuò a essere un anno difficile per Castel Volturno. La sera del 9 novembre, dopo essersi esibita in un concerto contro la ca- morra e contro il razzismo, dedicato allo scrittore Roberto Saviano39, si spense a Baia Verde per un attacco cardiaco, la cantante sudafricana Mi- riam Makeba. L’artista, che aveva speso tutta la sua vita nell’impegno ci- vile, spirò nel luogo-simbolo della lotta alla criminalità e alla sopraffa- zione, dove aveva voluto partecipare a tutti i costi, nonostante i forti dolori al petto e le non brillanti condizioni di salute.

2008: Iniziative pro e contro gli extracomunitari

In seguito alla strage dei sei extracomunitari, gli enti amministrativi del territorio avviarono numerose iniziative, tra le quali quella dell’“au- tobus dell’integrazione”. Si trattava di un servizio, coordinato dall’As- sessorato alla pace e immigrazione della Provincia e sostenuto dalla Ca- ritas diocesana, dalla cooperativa sociale “La locomotiva” e il Ctp, per rendere più agevole agli immigrati gli spostamenti tra Napoli e Castel Volturno. La terza edizione, partita subito dopo la strage, assunse nuovi significati: aiutare, attraverso i mediatori culturali (dipendenti dell’Actp e volontari della Caritas di varie nazionalità), gli immigrati, iniziando un dialogo con loro su ogni argomento, dal cibo, all’igiene, alla consulenza legale. La Giunta di centrosinistra si attivò su più fronti: predispose il rien- tro in patria delle salme, approvò il progetto “Eraclea”, che aveva l’o- biettivo di «ridurre le discriminazioni e le conseguenti esclusione sociali, culturali e lavorative»40 degli immigrati, e organizzò il corteo per la le- galità. Tutto questo avvenne mentre l’opposizione di centrodestra av- viava una petizione per la chiusura del Centro Fernandes, alla quale si

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ISSN 1594-547254 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane opponevano i sostenitori della sua apertura e del suo funzionamento in favore degli immigranti. Nella polemica che ne seguì, intervennero an- che il presidente della provincia di Caserta De Franciscis e il vescovo di Capua Schettino, che difesero l’operato del Centro. L’argomento della chiusura del Centro fu affrontato, su richiesta dei consiglieri di opposizione di centrodestra, nel Consiglio comunale del 19 novembre. Il consigliere Scalzone, tra i firmatari della proposta, disse che la richiesta era dovuta alla convinzione che il Centro fosse «diven- tato la causa di una presenza massiccia sul territorio di Castel Volturno di immigrati, in maggioranza clandestini», un coacervo di «povera gente» e «veri e propri delinquenti», che finivano per minare «la convivenza ci- vile del territorio»41. Per Scalzone, che affermò di vergognarsi del fatto che sulla stampa, anche internazionale, Castel Volturno era definita «l’A- frica italiana», bisognava combattere la camorra locale e la mafia degli extracomunitari; e per quanto concerneva il Centro Fernandes, auspicò che fosse trasformato in «centro di assistenza», ma non «di prima ac- coglienza»42. Tra i consiglieri di opposizione intervennero Letizia, Milone, Luise e Petrella. Letizia confermò che il Centro era «un attrattore d’immigrati clandestini», e aggiunse: «L’immigrazione clandestina è un vero e pro- prio reato e si chiede perché non bisognerebbe perseguirla. Il Centro andrebbe trasferito altrove»43. Milone rivendicò, invece, «il diritto dei cittadini di Castel Volturno alla propria identità culturale e a difendersi dalla invasione di culture diverse, che» stavano «massacrando il territo- rio»44. Luise affermò che, divenuto «insostenibile il peso dei clandestini in numero così esorbitante», era «giusto demolire il Centro Fernandes»45. Petrella dichiarò che Castel Volturno non era razzista, ma certamente vi era un problema immigrati, e che il Centro, a causa del suo sovraffol- lamento, andava sottoposto «a monitoraggio per verificare le attività e l’utilizzo del finanziamento»46. Tra i consiglieri di maggioranza inter- vennero Oliva, Di Giunta e Russomando, che difesero il Centro Fer- nandes dall’accusa di essere «causa di tutti i mali»47. Russomando af- fermò: «La richiesta di chiusura di un Centro, non pubblico, ma diret- tamente espresso dalla Caritas diocesana di Capua, rischia di continuare a far male alla città, a destinarle una immagine che per nulla coincide con la generosità della sua gente»48. L’intervento del capogruppo del Par- tito democratico, Dimitri Russo, chiarì, in merito alla problematica af- frontata, non solo la posizione del suo gruppo, ma di tutta la maggio- ranza contraria alla chiusura del Centro Fernandes; egli infatti sostenne che era impossibile cambiare lo scopo del Centro, perché si trattava di «una struttura privata realizzata nel 1996 dalla Arcidiocesi di Capua gra-

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© Edizioni Scientifiche Italiane55 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio zie alla donazione dello stabile da parte della sig.ra Adele Fernandes». E avvisò la minoranza in Consiglio comunale: «Qualsiasi sia il risultato di questa votazione, quindi il Fernandes rimarrà lì e vi possiamo assi- curare che ogni altra iniziativa in merito, raccolta di firme o petizioni, lascerà il tempo che trova e comunque dovrà passare sul secco rifiuto nostro e di questa maggioranza»49. La proposta, dopo un’ampia discussione, fu respinta. Tra i consiglieri presenti otto votarono a favore, nove contro e uno si astenne (Pietro Paolo Giardina), mentre un consigliere prima della votazione si allon- tanò dall’aula (Giuseppe Gravante). Con questo voto, ha scritto Valerio Petrarca, si è persa così l’occasione di mandare un segnale di compattezza politica basata su un’idea comune dello Stato a chi allo Stato attenta. Il fatto è sor- prendente per molte ragioni. L’amministrazione di Castel Volturno, a mag- gioranza di centrosinistra, presenta un documento che esalta l’azione del governo di centrodestra. I consiglieri di centrodestra votano contro, sviando l’attenzione verso il «problema» del Fernandes, una delle poche istituzioni che funzionano con costanza e ordine sul litorale domizio. A interpretare bene le parole di Scalzone, si coglie anche un attacco diretto al vescovo di Capua, Bruno Schettino. La proposta di spostare il Fernandes dal litorale domizio a Capua equivale a dire: se il vescovo vuole gli africani li ospitasse a casa sua. […] Probabilmente perché il desiderio di accrescere il consenso personale supera il desiderio di perseguire un progetto politico comune. Essi hanno captato un’inquietudine collettiva, che ha origini molteplici e complesse, traducendola in una proposta politica xenofoba. Alcuni castel- lani avvertono incertezza e paura e tendono a fissarle simbolicamente sulla presenza dei migranti. Il Fernandes è diventato simbolo di accoglienza dei migranti, cosicché paventandone la chiusura si conquistano voti e si ali- menta quel vento xenofobo che detterà altre iniziative dello stesso tenore, in un circolo vizioso che man mano accecherà anche i capi che intendono giovarsi del favore degli accecati. L’idea di che cosa possa succedere una volta chiuso il Fernandes non fa parte della visione di questo tipo di poli- tica, una politica che non è né di destra né di sinistra e che a rigore non dovrebbe essere chiamata politica50.

Roberto Saviano definì «spontanea» la rivolta extracomunitaria di Castel Volturno, un atto di coraggio degli immigrati, dopo che nei mesi precedenti erano stati uccisi innocenti italiani, senza che mai nessun bianco si fosse ribellato. «Come è possibile che solo gli ultimi degli ul- timi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta ti- rare fuori più rabbia che paura e rassegnazione?»51. Saviano ricondusse

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ISSN 1594-547256 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane la strage di Castel Volturno a un chiaro messaggio che la camorra aveva voluto mandare alle comunità immigrate africane in vista dei progetti di riqualificazione del litorale domizio, un affare di decine di milioni di euro. La camorra voleva creare le condizioni per pilotare investimenti volti a far diventare il litorale un’area turistica. Dietro la strage degli ex- tracomunitari ci sarebbe stata, quindi, la volontà di fare una specie di pulizia etnica della zona, cacciando gli immigrati che non volevano scen- dere a patti con la malavita organizzata52. Intanto le forze dell’ordine, inviate a presidiare il territorio comu- nale negli ultimi mesi del 2008, eseguivano i primi interventi per rista- bilire la presenza dello Stato, a cominciare dal controllo della popola- zione extracomunitaria. Il 20 novembre i carabinieri perlustrarono due volte il cosiddetto “American Palace di Castel Volturno”, prelevando 90 immigrati53. L’opposizione consiliare di centrodestra non si arrese, e nonostante il Consiglio comunale avesse rigettato la proposta di chiusura del Cen- tro Fernandes, continuò la sua battaglia. Questo mentre la maggioranza approvava progetti in favore delle donne immigrate e proprio presso il Centro Fernandes, per le imminenti feste natalizie, si esibivano musici- sti africani e si svolgeva anche una cerimonia per ricordare gli immigrati uccisi. L’attenzione dei media sul “caso Castel Volturno” era diventata oramai quasi quotidiana e i più noti programmi televisivi, interessati agli eventi, effettuavano servizi.

2009: Tra residenti ufficiali e quelli clandestini

All’inizio del 2009 la polemica sull’immigrazione a Castel Volturno (23.870 abitanti, di cui 2.512 cittadini stranieri, 1.284 provenienti dal- l’Africa), tra la maggioranza e l’opposizione in Consiglio comunale ri- prese con vigore. Scalzone, capogruppo del Popolo delle libertà all’op- posizione, dichiarò che gli extracomunitari che arrivavano in Italia e chie- devano, magari coperti da false generalità, il riconoscimento di rifugiati politici, potevano commettere reati di vario genere e poi scomparire in- disturbati. Queste persone, invece, dovevano essere denunciate, come si faceva con i terroristi, per attentato alla sicurezza nazionale. Agli inizi del 2009 i dati ufficiali erano questi: 1.959 extracomuni- tari residenti, 435 immigrati comunitari residenti, 1.300 figli d’immigrati iscritti alle scuole dell’obbligo, dei quali 1.020 usufruivano di mensa e trasporto. Il 18 settembre, quattro mesi dopo la strage, il Comune di Castel Volturno diffuse i dati ufficiali della presenza degli immigrati sul

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© Edizioni Scientifiche Italiane57 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio territorio e ne delineò l’impatto sociale ed economico. Si spendevano per gli immigrati: 300.000 euro per i costi sociali, 50.000 per l’assistenza dei cittadini agli arresti domiciliari, 100.000 per i funerali e i trasporti delle salme di cittadini indigenti, 220.000 per integrare il servizio di tra- sporto pubblico, 10.000 per il mantenimento di minori abbandonati. Fra i dati presentati dal Comune mancava quello del numero degli immi- grati irregolari, che si stimava intorno ai 15.000. Anche i dati sulla eccessiva presenza degli extracomunitari a Castel Volturno divennero oggetto di polemica tra i rappresentanti delle asso- ciazioni e le forze politiche. In particolare Renato Natale, ex sindaco di e presidente dell’Associazione Jerry Masslo, contestò il dato relativo agl’immigrati irregolari, che, in base ai dati forniti dal- l’Asl Ce2 dipartimento salute mentale e dal numero di libretti degli stra- nieri temporaneamente presenti, erano non più di 6.000. Nei primi giorni del 2009 Vincenzo Martino, presidente della Pro loco di Castel Volturno, dopo aver appreso che la Giunta comunale aveva approvato la realizzazione di un progetto di 2.437.000 euro per il potenziamento e la creazione di centri per l’accoglienza e l’assistenza agli extracomunitari, finanziato dalla Regione Campania, si domandava se il futuro di Castel Volturno fosse quello di una cittadina di mare bene at- trezzata, con porto turistico, polo nautico, cantieri navali, campi da golf e villaggi turistici d’eccellenza, o quello di un luogo dove ospitare il più grande centro temporaneo di permanenza o centro temporaneo di ac- coglienza per extracomunitari d’Italia.

2009: L’arresto del capo stragista

Il 13 gennaio 2009 fu arrestato Giuseppe Setola, il capo dell’ala stragista dei “casalesi”, colui che aveva progettato la strage dei sei ex- tracomunitari il 18 settembre 2008. Il processo, a suo carico e degli altri partecipanti all’eccidio, iniziò il 12 novembre presso la Corte di Assise di . I sei imputati Giuseppe Setola, Davide Granato, Antonio Alluce, Alessandro Cirillo, Giovanni Leti- zia e Oreste Spagnuolo (quest’ultimo divenuto nel frattempo colla- boratore di giustizia) erano accusati di strage con finalità terroristica aggravata dall’odio razziale, omicidio e tentato omicidio. La notizia dell’arresto fu accolta con soddisfazione dai numerosi extracomunitari di Castel Volturno.

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ISSN 1594-547258 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

2009: Tra repressione e spesa pubblica

La vittoria delle forze dell’ordine sull’ala stragista dei “casalesi” non arrestò la loro azione nel combattere le attività illecite degli extracomu- nitari. Infatti sette giorni dopo l’arresto di Setola, le forze dell’ordine fe- cero un blitz al Parco Lagani e portarono in questura circa cinquanta immigrati, tutti senza regolare permesso di soggiorno. Il forte afflusso d’immigrazione clandestina incideva pesantemente sul bilancio comunale. Verso la fine di gennaio il sindaco Nuzzo an- nunciò che il Comune era sull’orlo della bancarotta e passava i dati al sottosegretario Alfredo Mantovano. Ma sui dati forniti iniziarono subito le polemiche. Per la Caritas Diocesana, il Centro Fernandes e l’Asso- ciazione Gerry Masslo le cifre risultavano troppo alte. Altre polemiche scoppiarono tra la Rete antirazzista e il Movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta e il questore Carmelo Casabona, che rigettò l’accusa che il blitz della polizia a Parco Lagani fosse stato uno sparare nel mucchio. Parco Lagani, inizialmente un nucleo di vil- lette, era diventato nel corso degli anni un vero e proprio ghetto, abi- tato da numerosi extracomunitari che avevano trovato abitazioni sfitte a buon mercato. Nel Parco era concentrata gran parte dell’attività legata allo spaccio della droga e vi abitavano numerose prostitute di colore. Le spese sostenuto dal Comune per sopperire al mancato introito delle tasse erano addebitate agli extracomunitari clandestini, che usu- fruivano dei servizi pubblici senza versare il corrispettivo dovuto. Que- sta volta a difendere gli extracomunitari furono gli esponenti del cen- trodestra che accusarono la Giunta Nuzzo di non essere stata in grado di recuperare i sette milioni di euro annui di evasione dovuti dai pro- prietari delle seconde case. Il 19 febbraio presso la sala consiliare del Comune si svolse un in- contro organizzato dalla Cgil Campania e dalla Cgil Caserta per ricor- dare l’eccidio dei sei giovani lavoratori immigrati e di tutte le vittime della violenza criminale e per discutere dello sviluppo sociale, economico e pro- duttivo del territorio contro ogni forma di razzismo, intolleranza e ille- galità. Vi parteciparono, oltre a una folta rappresentanza d’immigrati, an- che Michele Colamonici, segretario generale della Cigl, e il sindaco Nuzzo, che richiamò l’attenzione sulle spese ormai insostenibili del Comune per l’alto numero d’immigrati. Monsignor Schettino, arcivescovo di Capua, era del parere che bisognasse concedere il permesso di soggiorno a tutti quelli che avevano «i requisiti umanitari e politici», in modo da potersi cercare un lavoro. In occasione della festa della donna l’8 marzo, il Cen- tro Fernades organizzò una manifestazione dal titolo “Africainsieme”.

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© Edizioni Scientifiche Italiane59 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio

Il dibattito politico tra centrodestra e centrosinistra, tra opposte vi- sioni di intendere anche l’accoglienza dei bambini extracomunitari a scuola, si riaccese sulla proposta avanza in Consiglio comunale dagli esponenti del Popolo delle libertà e da loro approvata in assenza della maggioranza. In sostanza il criterio per assegnare i buoni libri e/o della mensa doveva essere quello della “cittadinanza”, in modo da escludere tutti i bambini stranieri. Il 24 marzo, al di là delle polemiche in corso, fu firmato un “Patto per Castel Volturno”, presso l’assessorato alle Politiche sociali della Regione Campania, dall’assessore Alfonsina De Felice, da monsignor Schettino, dal prefetto Mario Morcone, capo dipartimento per l’im- migrazione e per le libertà del ministero dell’Interno, e dai rappre- sentanti del Comune di Castel Volturno, Asl di Caserta, Asl ex Na- poli 2, della consulta per l’immigrazione, dell’Ex-Canapificio di Ca- serta, del Centro Fernandes e dell’associazione Laila. Gli obiettivi che s’intendevano perseguire erano di disincentivare il flusso di migranti verso Castel Volturno, facilitare il loro transito sul territorio nazio- nale, senza perdere di vista il tema dell’accoglienza, strettamente le- gato al welfare locale. Il 27 marzo il sindaco Nuzzo per debellare il fenomeno della pro- stituzione, esercitato in maggioranza da donne extracomunitarie di co- lore, emanò l’ordinanza n. 114. Il 14 aprile si svolse, presso l’American Palace, una manifestazione dal titolo Stanchi del razzismo. Per un patto sociale di solidarietà. Di- ritti, dignità, permesso di soggiorno per tutti. L’evento, organizzato dal Movimento migrante e rifugiato e dalla Rete antirazzista Campania, trovò l’opposizione del Popolo delle libertà e della Destra sociale e Fiamma tricolore.

2009: La lunga marcia antirazzista

Il 18 aprile si svolse, per quasi 10 chilometri, sulla Domiziana una lunga e imponente marcia in difesa degli stranieri e contro il razzismo, alla quale parteciparono circa duemila persone fra immigrati africani, iscritti alla Cgil e aderenti a organizzazioni politiche di sinistra. Il corteo confluì in piazza Annunziata, dove intervennero monsignor Schettino, deputati del Partito democratico e del Partito di rifondazione comunista e Chri- stopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati. Quarantotto ore dopo il corteo, l’assessore Scafuro intervenne per chiarire ancora una volta che la gente di Castel Volturno non era raz-

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ISSN 1594-547260 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane zista, ma che bisognava emanare presto provvedimenti perché il disagio cresceva ogni giorno di più, sia per gli immigrati sia per i castellani. La risposta del centrodestra alla manifestazione non si fece attendere. Il Popolo delle libertà si organizzò per scendere in piazza con una con- tromanifestazione, non solo contro gli immigrati clandestini, ma anche contro il Centro Fernandes e la camorra. Il mediatore culturale Jean René Bilongo, che operava in ambito lo- cale e conosceva bene le dinamiche socioeconomiche del territorio ca- stellano, dichiarò in un’intervista che a Castel Volturno non c’era razzi- smo, nonostante la difficile situazione sociale e le precarie condizioni economiche. Anche Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissario per i rifu- giati, attuale presidente della Camera dei deputati, denunciò il caso Ca- stel Volturno. Intervenuta a una conferenza stampa nell’aula consiliare del Comune, invitò i presenti a fare del loro territorio, caso unico in Italia, un laboratorio per l’integrazione degli immigrati.

2009: Accordi e disaccordi

Le associazioni di volontariato continuavano intanto a operare in fa- vore degli extracomunitari. Il Consorzio Icaro, tramite la cooperativa “Le Ninfe”, aprì, in un appartamento sequestrato a esponenti della ca- morra, uno sportello per gli immigrati a Pinetamare. Francesco De Rob- bio, coordinatore cittadino del Popolo delle libertà, criticò aspramente questi accordi e le associazioni di volontariato e si appellò al ministro dell’Interno Maroni e al governo Berlusconi per vietare che la cittadina domizia diventasse il centro immigrati della Campania e che vi risie- dessero migliaia di clandestini in attesa da decenni del permesso di ri- fugiati. E denunciò che gli immigrati erano diventati un affare per tutti, fuorché per i castellani. Scalzone scrisse a Maroni per chiedere in so- stanza le stesse misure chieste da De Robbio. L’emigrazione risultava un’emergenza anche nei sondaggi effettuati localmente, come quello proposto dal movimento politico “Liberamente”. Di immigrazione parlò anche il sottosegretario Mantovano, a margine di una manifestazione tenutasi il 15 maggio a Castel Volturno, per inti- tolare una piazza a Domenico Noviello, vittima della camorra. La quinta edizione del festival internazionale “Periferie del mondo- Periferia immaginaria”, che si svolse a fine maggio nel quartiere napo- letano di Scampia, fu dedicata agli immigrati africani trucidati nella “Strage di san Gennaro”.

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© Edizioni Scientifiche Italiane61 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio

I padri Comboniani si schierarono apertamente contro il “pacchetto sicurezza” del centrodestra e insieme con altre associazione organizza- rono una manifestazione il 20 giugno per celebrare la Giornata mon- diale del rifugiato. L’iniziativa della distribuzione dei permessi di soggiorno “in nome di Dio” da parte dei padri Comboniani fu criticata da Paolo Russo, fu- turo candidato a sindaco dell’Italia dei valori alle elezioni amministra- tive del 2010, che affermò di non ricordare passi del Vangelo nei quali si distinguesse la sofferenza fra uomini e uomini. In altre parole non esi- steva solo la sofferenza degli immigrati, ma anche quella dei cittadini lo- cali. La Giunta regionale della Campania, guidata da Antonio Bassolino, contrario alle politiche messe in campo dai rappresentanti politici na- zionali, deliberò la costruzione di una scuola per i figli degli immigrati, intitolandola a Miriam Makeba. A fine giugno il Centro Fernandes organizzò un convegno sulle ma- lattie mentali nella realtà africana, al quale intervenne Grégoire Ahong- bonon, che aveva fatto conoscere e affrontato il problema delle malat- tie mentali in Africa, nascoste e ignorate dalle famiglie e dalle istituzioni. L’approvazione da parte del Senato della Repubblica del Decreto si- curezza, che prevedeva tra le altre misure il reato di clandestinità, la le- galizzazione delle ronde e allungava a sei mesi il periodo di permanenza coatta nei centri d’identificazione, spinse i rappresentanti delle diverse forze politiche a prendere posizione in merito al fenomeno dell’immi- grazione clandestina. Gli esponenti politici del centrodestra appoggia- rono ovviamente le misure del Decreto sicurezza, mentre quelli del cen- trosinistra lo criticarono. Le misure prese dal sindaco Nuzzo risultarono efficaci e quindi ac- colte positivamente dai cittadini. Con tutto ciò il segretario cittadino di Fiamma tricolore, De Simone, ritenne che l’invasione degli extracomu- nitari era causata dagli stessi cittadini di Castel Volturno, che fittavano le loro abitazioni illegalmente agli immigrati, traendone alti profitti. Vin- cenzo Gatta, leader del raggruppamento “Città normale”, sostenne in- vece che lo Stato avrebbe dovuto non solo assistere Castel Volturno, in modo che la zona si sviluppasse armonicamente in un contesto mul- tietnico, ma varare programmi di sviluppo della dignità umana nei paesi di provenienza degli immigrati. Il dibattito sulla nuova legge non impediva che ci fossero proposte in favore degli extracomunitari. Presso il Centro Fernandes si discusse di donne immigrate quali pazienti dei distretti sanitari. Il mediatore cul- turale Jean René Bilongo propose di creare una scuola di giornalismo

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ISSN 1594-547262 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane presso lo stesso Centro, affinché gli immigrati avessero la possibilità di diventare giornalisti. La legge n. 94 del 15 luglio 2009, che introdusse il reato di clande- stinità, spinse gli immigrati irregolari a nascondersi, creando nuovi ghetti. Per il sindaco Nuzzo il problema doveva essere affrontato con l’aiuto del governo nazionale, della Regione Campania e della Provincia di Ca- serta. La nuova normativa sull’immigrazione, che rendeva reato la presenza di clandestini sul territorio nazionale e avrebbe potuto causare reazioni complicate da gestire, specie in territori come quello di Castel Volturno, dove la presenza degli irregolari superava di gran lunga quella degli stra- nieri regolari, spinse il sindaco Nuzzo, il vescovo Schettino e il prefetto Monaco a un incontro in prefettura allo scopo di concordare insieme provvedimenti per regolamentare in modo diverso il fenomeno dell’im- migrazione. Il “pacchetto sicurezza” varato dal governo nazionale diede la pos- sibilità di creare degli organismi di controllo del territorio formati da cittadini e volontari, le così dette “ronde”, ma questa possibilità, paven- tata da qualche residente di Castel Volturno, fu esclusa categoricamente dal sindaco Nuzzo.

2009: Prima commemorazione della “Strage di san Gennaro”

Agli inizi del 2009 la magistratura fissò la data dell’udienza prelimi- nare per il massacro dei sei extracomunitari a Lago Patria. In un primo momento sembrò che la commemorazione dell’eccidio, a un anno dalla strage, dovesse avvenire in tono sommesso; a pochi giorni dall’evento i cronisti descrissero la desolazione e il totale abbandono del territorio in cui era avvenuto la mattanza, dove nessuno aveva voglia di ricordare: i bianchi desideravano solo tornare a casa e i neri si portavano dentro «terrore e dolore». Il giorno della commemorazione, invece, numerose persone parteci- parono alla manifestazione, tra le quali anche religiosi, politici, sindaca- listi e rappresentanti delle associazioni54. La vicenda ispirò alcuni artisti che narrarono la drammaticità dell’e- pisodio e denunciarono la xenofobia che l’aveva accompagnato. Alla fine di settembre la regista e coreografa Erminia Sticchi presentò al Maschio Angioino a Napoli lo spettacolo Kalifoo Ground, ispirato appunto alla strage del 18 settembre 2008. L’arresto degli stragisti e le prime ammissioni delle loro responsabi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane63 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio lità disegnarono un quadro agghiacciante della loro follia omicida. L’or- dine di Giuseppe Setola era stato di uccidere tutti quelli che si trova- vano nella sartoria “Ob Ob Exotic Fashion”, comprese le donne. Un anno dopo cominciò il processo al mandante e ai quattro esecutori. A fine ottobre la Uil organizzò, presso il Centro Fernandes, un con- vegno provinciale dal titolo La parola agli immigrati, con l’intento di far parlare coloro che di solito non erano ascoltati. Il Centro Fernan- des divenne ancora una volta, nonostante tutto l’impegno verso le fasce più bisognose d’immigrati, oggetto di nuove polemiche tra chi ne vo- leva la chiusura e chi invece lo difendeva, per la sua opera meritoria verso i più deboli e anzi ne auspicava il potenziamento. Gli attacchi si rivolsero anche contro il sindaco Nuzzo.

2009: Prima commemorazione per la scomparsa di Miriam Makeba

Il 9 novembre 2009 a Baia Verde, sullo stesso luogo della sua scom- parsa, si svolse la commemorazione della cantante sudafricana Miriam Makeba. Per ricordarla fu posta una stele di marmo con l’immagine del- l’Africa. Alla commemorazione parteciparono, tra gli altri, oltre al sin- daco Nuzzo, Antonio Casale, Corrado Gabriele, assessore regionale al- l’istruzione, e Laura Boldrini, che nell’occasione rimarcò la differenza fra semplici immigrati e rifugiati.

2009: Tra nuovo e vecchio impegno

Alla fine del 2009 presso il Centro Fernandes si svolsero alcuni av- venimenti significativi: la struttura fu trasformata in set cinematografico per la ripresa del film del regista Salvatore Nappa, Non tutti i neri ven- gono per nuocere, con la partecipazione dello scrittore-attore Peppe Lan- zetta; la struttura fu “abbandonata”, dopo otto anni, da Suor Margaret, la religiosa nigeriana nominata Cavaliere della Repubblica per la sua mis- sione tra le donne vittime della tratta; fu sede del convegno Immigrati e nuove schiavitù. Nel dicembre 2009 anche il missionario Comboniano padre Gior- gio Poletti lasciò Castel Volturno e fu trasferito a Novara. I migranti a Castel Volturno non andarono via, anzi restarono e di- ventarono i protagonisti di un progetto di solidarietà, che metteva in scena Le pareti della solitudine, del regista Prospero Bentivenga, al tea- tro Bristol di Pinetamare. I rapporti tra camorra italiana e mafia nige-

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ISSN 1594-547264 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane riana furono, invece, l’argomento di un reportage di Christof Putzel tra- smesso su Sky a fine anno 2009.

2010: Rosarno come Castel Volturno

Gli scontri a sfondo razziale avvenuti, tra il 7 e il 9 gennaio 2010, a Rosarno dopo il ferimento di due immigrati africani da parte di sco- nosciuti e trasformatisi ben presto in una rivolta urbana tra forze del- l’ordine, cittadini e immigrati, coinvolsero anche Castel Volturno per la situazione di grave tensione che si venne a creare. La Caritas locale si attivò per aiutare gli immigrati che fuggivano dalla cittadina calabrese. Le numerose strutture recettive presenti sul territorio comunale fecero ipotizzare un trasferimento di nuovi immigrati clandestini da Rosarno a Castel Volturno, ma in realtà ciò non avvenne. I padri Comboniani continuavano, intanto, a distribuire i permessi di soggiorno “in nome di Dio” e questo indusse in errore numerosi im- migrati, che richiesero permessi convinti che fossero rilasciati diretta- mente dalla Citta del Vaticano. La mancanza del permesso di soggiorno fu una delle cause che portò gli immigrati di colore a procacciarsi il fabbisogno quotidiano anche at- traverso le attività illegali, un fenomeno che allarmava la popolazione in- digena e spingeva le forze dell’ordine a un più capillare controllo del territorio e a reprimere diversi reati. Questo mentre i rappresentanti lo- cali dei diversi schieramenti di centrodestra e centrosinistra interveni- vano nel dibattito sull’immigrazione e sui clandestini più in generale, avanzando proposte che andavano dall’espulsione dal territorio comu- nale all’integrazione. In contrapposizione alle politiche sull’immigrazione e alle leggi della Regione Campania, Scalzone scrisse una lettera al mi- nistro dell’Interno Maroni nella quale dichiarò di essere pronto a difen- dere la propria «città con ogni mezzo» e a organizzare, «come avevano fatto i calabresi»55, perfino la guerriglia. La posizione assunta da Scalzone fu criticata come semplicistica e razzistica dall’arcivescovo di Capua Schettino, del direttore del Centro Fernandes Casale e dell’ex sindaco Nuzzo. In risposta Scalzone accusò Nuzzo di essere stato l’unico sindaco in Italia a protestare insieme ai clandestini. Nei primi giorni di marzo fu sottoscritta una petizione popolare per chiedere il ritorno di padre Giorgio Poletti a Castel Volturno. L’8 marzo, in occasione della festa della donna, il Centro Fernandes organizzò una fe- sta antirazzista. Lo stesso Centro ottenne carne di bufala per gli immigrati

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© Edizioni Scientifiche Italiane65 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio e cento cassette di uva raccolta in un vigneto confiscato alla camorra. Gli ospiti africani formarono un gruppo musicale, con il quale cercarono di combattere l’emarginazione e la perdita di identità. I padri Comboniani, invece, andarono in cerca, in questi primi mesi del 2010, di volontari che li potessero aiutare nel loro lavoro in favore degli extracomunitari, ai quali offrirono anche corsi d’italiano per mamme e bambini immigrati.

2010: Proposte per le amministrative del 28 e 29 marzo Alle elezioni amministrative del 28 e 29 marzo 2010 i candidati a sindaco furono ben cinque, sostenuti da proprie liste e con propri pro- grammi. Ognuno fu promotore di una specifica ricetta in merito al pro- blema dell’immigrazione clandestina. Antonio Scalzone, sostenuto dalle liste Popolo delle libertà, Progetto litorale domizio, Movimento per Scalzone sindaco, Alleanza socialista, Destra-Fiamma tricolore, scrisse nel proprio programma elettorale che la legalità era un «elemento fondamentale ed imprescindibile per co- struire lo sviluppo e la ricchezza di Castel Volturno, non più luogo di degrado, di immigrazione clandestina, dello spaccio di droga e del ma- laffare»56, e propose, per la sicurezza del territorio comunale, di – donare dignità agli immigrati regolarmente e legalmente presenti nel no- stro territorio, conferendo loro maggiore integrazione nell’organizza- zione sociale; – lotta serrata a coloro che entrano in modo clandestino, coadiuvando con le forze dell’ordine la loro immediata espulsione; – censimento degli immigrati; – controllo degli immigrati presenti nei vari centri di accoglienza; – costituzione dello sportello per “l’immigrato”57.

Mentre per le politiche sociali prevedeva l’incentivazione di «progetti di integrazione socio-culturali per cittadini extracomunitari»58. Ferdinando Letizia, sostenuto dalle liste Liberamente, Alleanza di centro, Movimento per le autonomie, Città normale, scrisse nel suo programma elettorale che riteneva «l’istituzione di un Osservatorio dell’immigrazione clandestina necessario a monitorare i flussi migra- tori»: sono benvenuti tutti coloro che hanno un lavoro con regolare contratto, ma dovranno andar via dal territorio tutti coloro che sono sprovvisti di re- golare permesso di soggiorno così come previsto dalle leggi attualmente vi- genti. Castel Volturno non potrà essere la zona franca della Regione Cam-

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pania e il Sud d’Italia dove accentrare gli immigrati, fatto che ha già de- terminato grandi problemi di vivibilità per i cittadini residenti59.

Pietro Paolo Giardina, candidato a sindaco dell’Unione di centro, sostenne nel suo programma la necessita di promuovere «attività di con- trollo per individuare i proprietari degli immobili affittati a extracomu- nitari irregolari» e di creare «una banca dati per reprimere sul nascere l’immigrazione clandestina»60. I punti salienti del programma elettorale di Alfonso Caprio, candi- dato a sindaco del Partito democratico, furono i seguenti: Dialogo costante con le associazioni e le organizzazioni pubbliche e pri- vate tanto laiche che religiose presenti sul territorio comunale per la riso- luzione di problemi e per la difesa dei valori della democrazia e della so- lidarietà. Contribuire insieme ad esse a governare l’immigrazione per non subirla, affinché sia vissuta non come una minaccia, ma come un’opportu- nità. È necessario un patto di cittadinanza con gli immigrati, basato su un sistema chiaro di diritti e di doveri, con al centro i valori fondanti della nostra Costituzione, nella consapevolezza, però, che la presenza eccessiva di cittadini extracomunitari può rivelarsi ostativa ad un sano ed equilibrato sviluppo, soprattutto se lo Stato Centrale non impegna risorse adeguate, che l’Ente locale non possiede e non può mettere in campo, se vogliamo mirare ad una integrazione certa e duratura dei cittadini extracomunitari re- golari, questo perché l’illegalità diffusa non va combattuta solo con i mili- tari che controllano la Domiziana, ma anche con un adeguato organico in pianta stabile presso il locale commissariato di PS61.

Fabio Russo, candidato della lista Di Pietro Italia dei valori, nel suo programma elettorale fece un’ampia disamina del problema extracomu- nitario sul territorio comunale, descrivendone la realtà e proponendo so- luzioni con queste parole:

È fondamentale regolare i flussi migratori, intracomunitari e extracomuni- tari, in base a principi di solidarietà, di effettiva occupazione e di capacità di sussistenza. Per affrontare un fenomeno così importante e significativo come quello dell’immigrazione serve un approccio politico e culturale nuovo, che superi l’idiozia di norme come il reato di clandestinità e di pagliacciate come le ronde. Serve una politica fatta di buon senso e di strumenti ade- guati, a partire dalla riscrittura della legge sull’immigrazione Bossi-Fini. […] Nello specifico, a livello comunale bisogna aumentare l’organico delle forze dell’ordine con un adeguamento salariale ed un razionale impiego delle stesse sul territorio. Bisogna, altresì, coordinandosi strettamente con la task force istituita dal Ministero degli Interni presso la Prefettura di

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Napoli, procedere ad un attento e capillare censimento di tutti gli immi- grati del territorio, accertando chi sono gli irregolari e chi no. Accertare chi ha un lavoro e chi invece no e vive dunque di prostituzione o spac- cio di droga. Accertare coloro che hanno un regolare contratto di fitto e chi non lo ha, denunciando i proprietari che locano le case a nero. Ac- certare che siano rispettate le leggi in materia di edilizia e d’igiene per evitare che piccoli appartamenti diventino accampamenti di decine di clan- destini. Inoltre, è importante, di concerto con le istituzioni e con la cu- ria, ottimizzare e supportare il contributo offerto dal Centro Fernandes, che deve attenersi al regolamento stipulato con il Comune, creando even- tuali ulteriori punti di accoglienza in altre località, ed evitando l’accen- tramento presso un unico punto che determina grandi problemi di vivi- bilità per i cittadini residenti62.

La campagna elettorale per le amministrative, che si svolse a marzo, ebbe anche un finto candidato: un noto clochard di orgine africana, Ja- mes. Dal centro storico a Pinetamare comparvero manifesti con la scritta: «Vota e scrivi James». La provocazione ebbe successo: a chiusura della campagna elettorale James raccolse una cinquantina di voti. Candidato reale alla competizione elettorale provinciale 2010, nel collegio Castel Volturno-Villa Literno, fu invece Benedict Osubor. I 123 voti che raccolse rappresentarono per lui una vittoria, come lo era stata già la sua candidatura con la Federazione della sinistra. Osubor era arrivato in Italia nel 1990, «come tanti suoi connazionali attraver- sando a piedi il deserto del Sahara e il Mediterraneo a bordo di una carretta del mare. I primi anni sul litorale domizio furono per lui estre- mamente duri, trascorsi raccogliendo pomodori a cottimo di giorno e dormendo di sera nei casolari di campagna abbandonati (i tristemente famosi ghetti di via delle Dune). Poi è arrivato il permesso di sog- giorno e la possibilità di aprire un negozio sulla Domiziana. Adesso di attività commerciali ne ha due, e da un anno ha ottenuto anche la cittadinanza italiana. Il balzo nella politica, poi, è stato breve. “Sono orgoglioso di essere cittadino italiano”, ha detto il candidato, gonfian- dosi il petto. Peraltro, i nigeriani che avevano diritto al voto nel suo collegio erano appena quattro»63.

2010: Infinite polemiche

Il lavoro nero, a cui erano sottoposti gli extracomunitari di colore, soprattutto clandestini, era di vera e propria schiavitù, come risultò da un dossier curato da Medici senza frontiera: dai 6.000 ai 13.000 clande-

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ISSN 1594-547268 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane stini ogni giorno lavoravano per pochi euro nei campi su una lingua di territorio di 27 chilometri; vivevano, anche in gruppi di 25-30 persone, in case abbandonate e in garage; mangiavano una volta al giorno, quasi sempre riso o foufou, una polenta di semolino, quasi mai carne; veni- vano maltrattati subendo pestaggi o, nella migliore delle ipotesi, presi di mira con sputi e lancio di uova. Lo sfruttamento lavorativo della manodopera immigrata diventò og- getto di studio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel- l’ambito del progetto “Praesidium”, finanziato dal Ministero dell’Interno. Dal rapporto risultava questa situazione: Nell’area di Castelvolturno risiedono 8-9 mila stranieri, ma in tutto il ca- sertano si calcola che siano 15 mila. Difficile stimare gli irregolari, ma an- che chi ha un regolare permesso di soggiorno viene solitamente impiegato in maniera irregolare: probabilmente, secondo l’Oim, è una delle province con il maggior numero di lavoratori irregolari. Gli stranieri che lavorano irregolarmente a Castelvolturno, secondo il rapporto, possono essere sud- divisi in 3 gruppi: i cittadini sub-sahariani, impiegati nel settore agricolo ed edilizio; i magrebini e gli egiziani; i cittadini indiani e pakistani. Il salario varia dai 15 ai 35 euro a giornata (fino a 11 ore di lavoro), ma talvolta non vengono pagati e subiscono violenze se reclamano il dovuto. Nell’area di Castelvolturno e nelle zone limitrofe, poi, ci sono anche circa 500 donne nigeriane vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, la maggior parte delle quali è arrivata nel 2008 sbarcando a Lampedusa e deve pagare un debito che ammonta in genere a 40 mila euro64.

I dati preoccupanti su un’eccessiva presenza di extracomunitari a Ca- stel Volturno spinsero il sindaco Scalzone a continuare la battaglia di sempre, anzi a ventilare, come detto, una «nuova Rosarno» sul litorale domizio, con conseguenze molto più drammatiche considerando l’alto numero d’immigrati presenti. Appena rieletto subiva, fra l’altro, un’ag- gressione davanti alla sua abitazione da parte di spacciatori di colore; fatto che fece rinfocolare le polemiche. Le preoccupazioni del sindaco, in merito all’emigrazione extraco- munitaria, furono contrastate tanto da esponenti di partito, che dai rap- presentanti delle organizzazioni umanitarie: da Benedict Osobour, pre- sidente dell’Associazione nigeriani in Campania, a don Antonio Bonato, il missionario Comboniano che aveva sostituito padre Poletti; tutti scar- tarono l’ipotesi che nel casertano si potessero verificare episodi simili a quello di Rosarno, sia perché gli immigrati erano nella quasi totalità per- sone tranquille, sia perché la popolazione di Castel Volturno non aveva mai manifestato viscerali atteggiamenti razzistici. Scalzone, sperando di disciplinare la presenza degli extracomunitari,

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© Edizioni Scientifiche Italiane69 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio cercò accordi con altri Comuni della Campania. La sua idea era di “spalmare” gli immigrati di Castel Volturno su tutto il territorio re- gionale. Il 30 aprile, dopo un incontro con il ministro dell’Interno Ma- roni, tenne una conferenza stampa a Caserta nella quale ripetè ai gior- nalisti le cose che diceva da anni: il Comune di Castel Volturno era in ginocchio sotto l’aspetto finanziario e sociale; unica soluzione a questo problema era di dividere i circa quindicimila immigrati fra i 550 Co- muni della Campania. Nel dibattito intervenne anche «carte.org», il principale quotidiano indipendente nazionale online, che ospitò una lettera delle associazioni laiche e religiose che operavano sul litorale. AltroModo Flegreo, Asso- ciazione Jerry Masslo, Centro sociale Ex-Canapificio, missionari Com- boniani, Operazioni Colomba e padri Sacramentini, sentendosi chiamate in causa dalle dichiarazioni di Scalzone, gli scrissero una lettera nella quale difesero il loro operato e lo invitarono a non gettare benzina sul fuoco, evocando i fatti di Rosarno, perché in Italia, ormai nella morsa della crisi economica, non si viveva bene un po’ dappertutto, e non solo a Castel Volturno. Scalzone rispose che a Castel Volturno la popolazione era stanca e bisognava fare qualsiasi cosa per diminuire il numero degli immigrati e si mostrava fiducioso nell’operato del ministro leghista Maroni. La posizione del sindaco, che pretese dal governo nazionale l’espul- sione di tutti gli extracomunitari clandestini dal territorio comunale, ri- cevette forti critiche da Tommaso Morlando, dirigente regionale dell’I- talia dei valori, e dal vescovo di Capua Schettino. Le proposte per l’integrazione furono numerose, anche perché sul litorale casertano si erano create tante micro comunità d’immigrati: ognuna aveva il proprio parrucchiere, il proprio muratore, il proprio meccanico. Certe zone erano diventate veri e propri ghetti (Destra Volturno, Pe- scopagano, parco Lagani e così via). L’unico baluardo dell’integrazione rimaneva la scuola, che poteva tenere uniti italiani e stranieri. Soprat- tutto se si considerava che la mafia nigeriana, imitando la camorra, si ramificava anche sul Litorale Domizio, dove gruppi di armati taglieg- giavano i loro connazionali65. A giugno le Poste italiane iniziarono a sperimentare anche a Castel Volturno il progetto “Sportello amico”, con personale multietnico, per avvicinare la comunità dei cittadini stranieri alle istituzioni italiane. Intanto andava avanti il processo contro il clan di Giuseppe Setola, autore dell’uccisione dei sei ghanesi e il collaboratore di giustizia Ore- ste Spagnuolo ricostruì nei particolari la strategia del terrore. Nel mese di giugno il numero degli immigrati sul litorale aumentò

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ISSN 1594-547270 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane a dismisura; la stagione del pomodoro attirò anche i fuggitivi di Ro- sarno; il Centro Fernandes fu letteralmente «preso d’assalto». Ai primi di agosto Scalzone scrisse al ministro Maroni per ringra- ziarlo della lotta che stava portando avanti contro i clan camorristici, per ricordargli che Castel Volturno era ormai un territorio dove ope- rava, oltre la camorra locale, la mafia nigerina che taglieggiava i conna- zionali, e per comunicargli che ogni iniziativa per arginare il fenomeno immigrazione era osteggiata dalla sinistra, da una parte della Chiesa e “dai professionisti del volontariato”. Nello stesso mese Scalzone rivolse una “singolare” richiesta a Ma- roni, al capo della Protezione civile Guido Bertolaso, al presidente della Regione Campania Stefano Caldoro e al presidente della Provincia di Caserta Domenico Zinzi: chiese, oltre a un “un tavolo tecnico-opera- tivo”, un “sostegno economico” per far fronte al costo del servizio d’i- giene urbana. Se non avesse ottenuto quanto chiesto, l’alternativa sarebbe stata l’espulsione, con partenza dall’aeroporto di , delle mi- gliaia di extracomunitari clandestini presenti a Castel Volturno. A settembre la commemorazione dell’eccidio dei sei ghanesi, a due anni dalla strage, non fu priva di polemiche, per la posizione assunta da Scalzone, che ritenne «inopportuno e improponibile» l’allocazione di una «scultura simbolo di fratellanza contro le camorre e il razzismo», pro- posta dalla Rete antirazzista e da decine di associazioni. La motivazione del sindaco era dovuta al fatto che, secondo notizie di stampa, la sarto- ria della strage era la base logistica di una organizzazione criminale de- dita allo spaccio di droga, della quale facevano parte anche immigrati ghanesi. Mimma D’Amico del Centro sociale Ex-Canapificio di Caserta rimproverò il sindaco di gettare fango su Castel Volturno, perché il pro- cesso in corso stava dimostrando l’innocenza dei ragazzi ghanesi. La deposizione di una targa in ricordo della strage fu di nuovo mo- tivo di scontro tra i fautori del monumento e Scalzone, del tutto con- trario, tanto da non partecipare alla manifestazione e arrivare perfino ad affermare che i cittadini di Castel Volturono, sopraffatti dagli immigrati, avrebbero fatto la fine degli indiani d’America. In quel clima qualcuno accostò il sangue versato dai ghanesi a quello di san Gennaro. L’aspra polemica tra Scalzone e i rappresentanti delle associazioni si trasferì nelle aule giudiziarie, in quanto Renato Natale, presidente del- l’Associazione Jerry Masslo, presentò contro il primo cittadino una de- nuncia-querela ai carabinieri per calunnia e diffamazione, per le parole rivolte all’associazione che presiedeva e che operava da venti anni sul territorio per aiutare gli immigrati. Il coordinamento di Libera Caserta sostenne che la ricchezza che le

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© Edizioni Scientifiche Italiane71 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio associazioni, sia laiche sia religiose, offrivano al territorio avrebbe do- vuto incoraggiare Scalzone a fare di più per la sua città, perché l’unico scopo dei volontari era di migliorare le condizioni di vita della comu- nità di Castel Volturno. Allo stesso modo, don Antonio Bonito, dei padri Comboniani della parrocchia di Santa Maria dell’aiuto, scrisse in una lettera aperta a Scal- zone che lo scopo dei Comboniani non era di far danno a qualcuno, ma di aiutare le persone che soffrivano, di qualunque colore fosse la loro pelle. In nome della solidarietà si sperimentarono nuove forme di acco- glienza e d’inclusione tra locali ed extracomunitari, anche attraverso lo sport. La Rete antirazzista organizzò il primo campionato di calcio a cui parteciparono le squadre delle numerose chiese, cattoliche e no, del litorale domiziano, nonché della moschea di Destra Volturno. Proprio in nome dell’integrazione, don Antonio Bonito affermò che esperienze come quella del campionato di calcio potevano far crescere nel suo com- plesso la società castellana.

2010: Il documento politico sull’immigrazione

Il 24 settembre 2010 il Consiglio comunale di Castel Volturno af- frontò il problema dell’immigrazione con la discussione del secondo punto all’ordine del giorno: Immigrazione. Discussione ed eventuale de- terminazione. La maggioranza di centrodestra propose un Documento politico sull’immigrazione: in esso oltre a ricordare la strage del 18 set- tembre 2008 e il relativo contrasto all’erezione di una targa in ricordo, erano raccontati gli ultimi trent’anni di storia della città e del degrado a cui aveva contribuito anche l’arrivo degli extracomunitari di colore, che non pagavano le tasse sui rifiuti e il trasporto pubblico, guidavano motoscooter sprovvisti di targa e auto senza assicurazione. In pratica il Documento evidenziò che gli immigrati vivevano sulle spalle dei contri- buenti locali. Castel Volturno, che stava sprofondando sotto il peso del problema immigrati, era diventata, a tutti gli effetti, la Soweto italiana. Il Documento si chiudeva con quest’appello al ministro degli Interni Ma- roni:

Per tutto quanto detto […] il Consiglio comunale 1) ringrazia il sig. ministro dell’Interno On.le Roberto Maroni per la straor- dinaria e meritoria opera di contrasto e di lotta alla criminalità orga- nizzata;

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ISSN 1594-547272 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

2) invita il sig. ministro dell’Interno a visitare di persona le condizioni di disagio e di esasperazione in cui la città è costretta a vivere; 3) chiede al sig. ministro dell’Interno l’espulsione dalla nostra città di tutti gli extracomunitari clandestini e di tutti coloro che hanno commesso reati; 4) chiede di potenziare l’organico del commissariato di P.S. presente in un territorio di frontiera come il nostro; 5) chiede di impiegare parte delle forze dell’ordine inviate a seguito della strage del 18/09/2008 esclusivamente per controllare gli extracomuni- tari; 6) infine chiede di ottenere finanziamenti per far fronte a progetti d’inte- grazione gestiti esclusivamente dalla pubblica amministrazione66.

Il Documento, dopo la discussione, fu approvato da diciannove con- siglieri e dai relativi capigruppo. Luigi Petrella del Popolo delle libertà, Pietro Paolo Giardina dell’Unione di centro, Ferdinando Letizia di Li- beramente, Carmine Brancaccio di Alleanza di centro votarono a favore del testo proposto dal Sindaco, unica e sola voce contraria fu quella del capogruppo del Partito democratico Alfonso Caprio. Scalzone si com- piacque del risultato ottenuto e ancora di più del sostegno morale dei consiglieri che avevano dichiarato ufficialmente in Consiglio comunale che, qualora il sindaco fosse stato denunciato, si sarebbe dovuto de- nunciare l’intera assemblea. Con l’approvazione quasi all’unanimità del Documento, il Consiglio comunale di Castel Volturno appoggiò le tradizionali posizioni xenofobe del sindaco Scalzone. L’opposizione, che avrebbe potuto proporre un proprio documento, si ritrovò compatta, a esclusione, come si è detto, del capogruppo del Partito democratico, a sostenere le tesi del centrodestra. Anzi Ferdinando Letizia, capo dell’opposizione, di professione avvocato, si dichiarò pronto a difendere il sindaco da eventuali querele da parte delle associazioni.

2010: Una “Forza nuova” per Cartel Volturno

A sostegno delle posizioni del sindaco, della maggioranza e di buona parte dell’opposizione comunale si cercò di organizzare anche dei cor- tei contro l’immigrazione extracomunitaria clandestina, nonostante l’as- sessore Angela Iacono si affrettasse a respingere l’etichetta di “razzista” e a sostenere che residenti e immigrati ricevevano lo stesso trattamento per quanto riguardava i servizi sociali del Comune. La manifestazione che si voleva in grande stile, a causa del clima di tensione che si era ve-

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© Edizioni Scientifiche Italiane73 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio nuto a creare tra sindaco e rappresentanti delle organizzazioni, che la- voravano a favore degli extracomunitari, fu spostata a Caserta per raf- freddare gli animi. Gli esponenti della destra non si rassegnarono alla decisione della prefettura di Caserta di vietare a Castel Volturno qualsiasi tipo di ma- nifestazione, tenuto conto del clima difficile che si era venuto a creare. Roberto Fiore, presidente nazionale di Forza nuova, definì «inquietante» la decisione presa dalla prefettura di Caserta.

2010: La Rete antirazzista

La maggioranza aveva indetto per il 2 ottobre una manifestazione che avrebbe dovuto avere come slogan: “La legalità per il futuro”. La mancata autorizzazione da parte del prefetto fu la testimonianza di come la situazione sociale a Castel Volturno fosse tenuta sotto particolare con- trollo da parte di chi aveva il compito di vigilare sull’ordine pubblico nella provincia di Caserta. Alfonso Caprio, capogruppo del Partito de- mocratico, preoccupato per quanto stava accadendo in città, sostenne che di solito le manifestazioni di protesta non sono organizzate da chi governa, che, al contrario, dovrebbe cercare di risolvere i problemi. Intanto gli immigrati extracomunitari, che continuavano a condurre una magra esistenza a Castel Volturno, progettarono, per l’8 ottobre, una manifestazione di protesta per ottenere un salario dignitoso. In quel giorno il sindaco Scalzone e gli assessori Angela Iacono e Aldo Porpiglia incontrarono una delegazione della Rete antirazzista gui- data da Fabio Basile, che dichiarò di essere soddisfatto dell’incontro, come lo era il sindaco. L’obiettivo comune era quello di ridurre il nu- mero d’immigrati a Castel Volturno, in modo da far vivere meglio quelli che restavano. Alla manifestazione per protestare contro il lavoro nero dei brac- cianti extracomunitari, che si tenne il 9 ottobre, i lavoratori stranieri si presentarono con questo messaggio: “Oggi, non lavoro a meno di 50 euro”. Il tema dell’immigrazione a Castel Volturno fu dibattuto, in ottobre, tanto in un convegno dei padri Comboniani a Verona, dove intervenne anche , che al Centro Fernandes, dove prese la parola, tra gli altri, anche Valerio Petrarca, professore di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Il 9 novembre il sindaco Scalzone e l’assessore Angela Iacono par- teciparono a sorpresa, alla manifestazione in ricordo di Miriam Makeba,

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ISSN 1594-547274 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane deponendo un fascio di fiori ai piedi della stele che la ricorda in Baia Verde.

2010: Traffici illeciti e inchieste

A novembre, nell’ambito della nona edizione del premio Mediterra- neo “Amici delle Acque”, il “Nettuno 2010” fu assegnato a Jean René Bilongo, un giovane della Costa d’Avorio residente a Castel Volturno. Arrivato undici anni prima, come tanti suoi connazionali, Bilongo si era inserito con tenacia nel complicato contesto del litorale domitio, fino a diventare mediatore culturale, con l’obiettivo di abbattere le barriere esi- stenti tra extracomunitari e italiani. Il 4 dicembre il Centro Fernandes ospitò la presentazione di una ri- cerca dal titolo “Presenza evangelica e pentecostale a Castel Volturno”, diretta dal professor Paolo Naso dall’Università La Sapienza di Roma, e condotta da due ricercatori, i dottori Donato Di Sanzo e Maria An- tonietta Maggio67. Ciò che emerse dalla ricerca era sostanzialmente que- sto: «In più di 20 anni di presenza a Castel Volturno le varie comunità di africani, con lingue, culture e religioni diverse hanno ricostruito un loro microcosmo che rappresenta un unicum a livello nazionale. Di par- ticolare interesse sono le tante chiese evangeliche e pentecostali che ri- petono i modelli delle grandi metropoli multietniche»68. La prostituzione restò una piaga sociale per il territorio di Castel Volturno, nonostante gli arresti effettuati e l’impegno delle associa- zioni di volontariato. Negli ultimi venti anni era diventata uno dei principali business della “mafia nigeriana”. Il sistema era gestito inte- ramente dalle donne: ogni nigeriana protettrice, detta “maman”, aveva a disposizione un gruppo di dieci-sedici ragazze, dai diciotto ai ven- ticinque anni, pagate ai trafficanti d’esseri umani ognuna dieci-quin- dicimila euro. Il Centro Fernandes, per celebrare il Natale 2010, organizzò, insieme con i padri Comboniani, una serie di eventi diretti a tutti ma in primis gli extracomunitari presenti a Castel Volturno.

2011: La tragica fine di Mary Morad

Agli inizi del 2011 (Castel Volturno contava: 22.927 abitanti, di cui 2.933 stranieri residenti, di questi 1.810 provenienti dall’Africa) il sin- daco Scalzone, tenendo conto delle attività delinquenziali che gli extra-

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© Edizioni Scientifiche Italiane75 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio comunitari esercitavano sul territorio comunale, scrisse varie lettere al prefetto e al questore di Caserta, agli onorevoli della sua parte politica in Parlamento, alla sottosegretaria Margherita Boniver, ai propri concit- tadini, sottoponendo alla loro attenzione un problema diventato, per lui, un’ossessione vera e propria. Questo nonostante le forze dell’ordine svol- gessero il loro compito di contrasto contro l’immigrazione clandestina e le associazioni di volontariato fossero sempre pronte a lenire le soffe- renze della popolazione di colore, che voleva vivere onestamente e non farsi risucchiare nel vortice dalle attività malavitose. Le associazioni s’im- pegnarono particolarmente in favore delle donne (la Jerry Masslo con La casa di Alice) e organizzarono (la Casa del bambino dei padri Com- boniani) corsi per l’insegnamento della lingua italiana per mamme e bam- bini immigrati. Il 14 aprile i giudici emisero la sentenza di primo grado della strage di Castel Volturno: furono condannati all’ergastolo Giuseppe Setola, Da- vide Granato, Alessandro Cirillo e Giovanni Letizia. A ventitré anni di reclusione fu condannato Antonio Alluce. I giudici confermarono le tesi dell’accusa per quanto riguardava l’aggravante dell’odio razziale e delle finalità terroristiche, un caso senza precedenti nella storia giudiziaria della camorra. La vicenda divenne anche un film, Là-Bas, del regista Guido Lombadi, premiato alla Mostra del Cinema di Cannes e a quella di Ve- nezia. Un altro efferato fatto di sangue ferì, intanto, la comunità extraco- munitaria di Castel Volturno. A giugno, Richard Osuf, un trentenne ghanese con gravi problemi psichici, uccise a bastonate la piccola Mary di sei anni, figlia di un connazionale e di Bose Akkta, dal quale era se- parato. La bambina frequentava la prima classe della scuola primaria del Villaggio del sole. Il sindaco Scalzone, per la violenza dei fatti, temette una nuova rivolta, ma le associazioni che supportavano gli extracomu- nitari rassicurarono che la situazione era sotto controllo. Anche questo episodio servì al sindaco per ribadire che l’arrivo indiscriminato di pro- fughi e clandestini a Castel Volturno, non attrezzata a tale scopo, era stato un errore; propose pertanto il rimpatrio al massimo entro trenta giorni. A pochi giorni dall’uccisione della piccola Mary scoppiò l’ennesima polemica tra il sindaco e i legali rappresentanti dell’Associazione Jerry Masslo su un immobile sequestrato alla camorra e affidato all’Associa- zione per lo svolgimento di attività sociali in favore degli extracomuni- tari. La polemica, che ruotava intorno al quesito se il bene in conces- sione servisse o no allo scopo per cui era stato assegnato, finì poi po- sitivamente. Intanto cinquanta immigrati erano alloggiati allo Sporting

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ISSN 1594-547276 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

Hotel. Per protestare contro questa “deportazione” nella sua città, il sin- daco Scalzone scrisse al presidente dalla Regione Campania Caldoro e al ministro dell’Interno Maroni. La commemorazione della “Strage di san Gennaro” si svolse, a set- tembre, alla presenza dei rappresentanti di varie associazioni, tra le quali la Cgil e Libera, e di padre Alex Zanotelli. Il neo ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione del governo Monti, Andrea Riccardi, nella sua prima uscita pubblica a novembre, si recò prima al Cimitero di Villa Literno sulla tomba di Jerry Masslo, e poi al Centro Fernandes, rendendo omaggio a due luoghi sim- bolo dell’immigrazione. Gli extracomunitari presenti all’incontro gli chie- sero di appoggiare l’iniziativa che prevedeva il diritto di cittadinanza per i bambini figli d’immigrati nati in Italia. Il ministro non fece promesse, ma affermò: «Io penso che l’Italia ha bisogno di voi e voi avete biso- gno degli italiani. La comunità del futuro bisogna costruirla con intelli- genza con pazienza, ma anche con una certa concreta velocità. Non ho promesse da fare ma vi assicuro la mia disponibilità a camminare in- sieme»69.

2012: Una dura realtà di vita

La comunità extracomunitaria di colore a Castel Volturno, ancora nel 2012, si distinse, nelle cronache locali, per le attività illecite che svol- geva. La stessa comunità, grazie all’aiuto delle associazioni di volonta- riato, partecipava ormai a commemorazioni per ricordare eventi tragici come la scomparsa della piccola Mary Morad e la “Strage di san Gen- naro”, messa anche in scena al Teatro Mediterraneo a Napoli, a gior- nate contro il razzismo, a manifestazioni ambientaliste e alle primarie del Partito democratico per la scelta del candidato primo ministro o dei candidati da inserire nelle liste per l’elezione dei deputati e dei senatori alle elezioni del febbraio 2013. Il 23 giugno si svolse presso la sala consiliare del Comune la “Gior- nata del rifugiato”, organizzata dalla Cgil, alla quale presero parte nu- merose associazioni e rappresentanti delle forze politiche locali e pro- vinciali. Il presidente della commissione straordinaria, che amministrava il Comune di Castel Volturno, Antonio Contarino, nel suo intervento introduttivo ai lavori dichiarò, tra le altre cose, che era «impossibile sti- mare con esattezza le presenze straniere». I dati relativi al 31 dicembre 2011 ammontavano a 3.158 stranieri regolari (nigeriani, ghanesi, ucraini, iraniani), ma se si consideravano i dati relativi alle «richieste di iscrizioni

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© Edizioni Scientifiche Italiane77 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio a scuole, i luoghi di culto, i centri di prima accoglienza, l’accesso ai servi sociali», il loro numero poteva arrivare anche a 15.000 unità. Ben, presidente dell’Associazione dei nigeriani in Campania, sostenne la necessità di assegnare la cittadinanza ai figli degli extracomunitari nati in Italia, ragazzi e ragazze che non avevano mai visto l’Africa. La Cgil s’interessò, tra le altre cose, anche della presenza di un me- diatore culturale presso il poliambulatorio di via Marino di Marzano per coadiuvare i medici specialisti che dovevano visitare i tanti stranieri ex- tracomunitari che ricorrevano alle loro cure. La commemorazione della strage degli extracomunitari di colore del 18 settembre 2008 si svolse alla presenza di numerose personalità poli- tiche e istituzionali. Durante la cerimonia il commissario prefettizio di Castel Volturno comunicò che, «a sostegno di una iniziativa di Libera, aveva chiesto al presidente della Repubblica l’assegnazione di una me- daglia d’oro al merito civile per Joseph Ayimbora, l’unico sopravvissuto alla strage, deceduto a febbraio in seguito a un infarto»70. Il 5 novembre, durante la trasmissione televisiva di Rai 3 Che tempo che fa, presentata da Fabio Fazio, Roberto Saviano propose di attribuire il titolo di «primo cittadino di Castel Volturno» a Yvan Sagnet, l’immi- grato camerunense «protagonista delle rivolte contadine di Nardò» del- l’anno precedente, «nate per la rivendicazione dei diritti minimi dei la- voratori agricoli»71. Le inchieste giornalistiche, tra la fine di ottobre e i primi di no- vembre, disegnavano un quadro fosco ma realistico di quella che era la vita che conducevano molti giovani immigrati clandestini di colore a Ca- stel Volturno. In quest’ultimo scorcio del 2012 due fatti fecero emergere una realtà durissima e senza appello: il violento nubifragio che aveva fla- gellato gran parte del territorio comunale di Castel Volturno e la morte di Iheme Odestus Emeka. Quest’ultimo era un trentenne nigeriano senza fissa dimora con il permesso di soggiorno scaduto, che viveva di espe- dienti, come tanti giovani immigrati che arrivavano in città in cerca di fortuna pensando di trovarvi il Paradiso e invece vi trovavano l’Inferno. Era stato rinvenuto senza vita da un passante all’interno della pineta, crivellato di colpi di fucile, forse vittima di una spedizione punitiva le- gata ai traffici di stupefacenti. Una forte volontà di sopravvivere, una vigorosa spinta ad andare avanti, per ripristinare la giustizia e la legalità sul territorio, dettata dal coraggio della disperazione e dalla dignità umana, si contrapponeva a tutto il degrado che circondava la cittadinanza residente a Castel Vol- turno. Il 13 novembre, presso la IV corte di Assise della Corte di Appello

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ISSN 1594-547278 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane di Napoli, iniziò la prima udienza del processo per la strage del 18 set- tembre 2008. Alla sbarra si ritrovano Giuseppe Setola, Alessandro Ci- rillo, Davide Granato e Giovanni Letizia, che in primo grado erano stati condannati all’ergastolo. Durante l’udienza i difensori degli imputati im- pugnarono l’intera sentenza di primo grado e confutarono l’attendibilità dell’unico sopravvissuto alla strage, Joseph Ayimborah, prematuramente scomparso a febbraio 2008 per cause naturali. La vita che gli immigrati conducevano sul litorale domizio divenne anche una fiction, la “Cultural Video Foundation Napoli” presentò al- l’ex Asilo Filangieri all’interno del quinto Festival del Cinema dei diritti di Napoli il film Castel Volturno: sur-reality. Con il mescolarsi della realtà con la fantasia continuava la vita degli extracomunitari di colore di Castel Volturno, sempre con la speranza di riuscire a trovare migliori condizioni di vita, diverse da quella che avevano lasciato nei loro paesi d’origine, fuggendo la fame e la violenza della guerra.

1 Cfr. Manzi 1970. 2 Cfr. De Jaco 1972. 3 Russo 2008, p. 78. 4 Luise 2001. 5 Cfr. ivi, p. 179. 6 Cfr. ivi, pp. 59-61. 7 Cfr. Intervista 2008, pp. 42-43. 8 Luise 1989, p. 8. 9 A scuola con gli stranieri 1990, p. 9. 10 Ivi, p. 18. 11 Chi sono 1990, p. 13. 12 Protocollo di intesa 1989, p. 1. 13 Per un’analisi sociologica della vicenda cfr. Lamberti 1990; per la vicenda del traf- fico di droga cfr. Piervincenzi 1990. 14 Luise 2001, p. 182. 15 Cavalieri 1992. 16 Cervasio 1993. 17 Capua 1993. 18 Velardi 1993. 19 Incastravano extracomunitari 1997. 20 Luise 1997a, p.1. 21 Luise 1997b, p. 1. 22 Luise 2001, p. 180. 23 Programma 2000, p. 2. 24 Emergenza 2010, pp. 13-14. 25 Iniziative 2010, p. 20. 26 Denuncia querela 2010, p. 21. 27 Attività 2010, p. 22.

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© Edizioni Scientifiche Italiane79 ISSN 1594-5472 Alfonso Caprio

28 Comunicato stampa 2010, p. 23. 29 Di Nicola 2003. 30 Per i dati ufficiali relativi alla popolazione residente nel Comune di Castel Vol- turno, anche straniera, nel 2004 e negli anni successivi, cfr. http://www.tuttitalia.it/cam- pania/52-castel-volturno/statistiche/popolazione-andamento-demografico/. 31 Intervista 2004. 32 Antonio Ciliento: gestore di una sala giochi in via Giorgio Vasari a Baia Verde, con precedenti penali per furto e rapina e affiliato al clan dei “casalesi”, fu colpito verso le ore 21,00 da una sessantina di proiettili davanti al suo esercizio; ricoverato d’urgenza presso la clinica Pineta Verde, morì poco dopo. 33 V. in questa Rivista la nota 15 dell’Introduzione. 34 Strage 2008. 35 Camorra 2008. 36 Ordine 2008, pp. 6-7. 37 Ivi, pp. 3-5. 38 Su richiesta 2008, p. 2. 39 Cfr. Saviano 2010, pp. 31-33. 40 Progetto 2008, p. 4. 41 Su richiesta 2008, p. 2. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Ivi, p. 4. 49 Ivi, pp. 7-9. 50 Petrarca 2008. 51 Saviano 2010, p. 28. 52 Cfr. Saviano 2008a e 2008b. 53 Cfr. Ciambriello, Dell’Aquila 2008. 54 L’Imam di Nasser Hidouri, il sindaco di Castel Volturno Fran- cesco Nuzzo, la senatrice Teresa Armato, Teresa Granata (Cgil), Francesco Dandolo (Comunità di Sant’Egidio), Mimma D’Amico (Centro sociale Ex-Canapificio), Geppino Fiorenza (Libera), Renato Natale (Associazione Jerry Masslo), Emiliano Di Marco (As- sopace), padre Alex Zanotelli e Giorgio Poletti (Comboniani), il vescovo di Capua, mon- signor Bruno Schettino. 55 Signor Ministro Maroni 2010, p. 39. 56 Scalzone 2010, p. 1. 57 Ivi, p. 3. 58 Ivi, p. 4. 59 Letizia 2010, p. 13. 60 Giardina 2010, p. 2. 61 Caprio 2010, pp. 2-3. 62 Russo 2010, p. 5. 63 Ammaliato 2010. 64 «Nuova Gazzetta di Caserta» 2010a, 2010b, 2010c. 65 Cfr. Nazzaro 2013.

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ISSN 1594-547280 © Edizioni Scientifiche Italiane Cronache castellane

66 Immigrazione 2010, pp. 4-7. 67 Cfr. Di Sanzo, Maggio 2010. 68 «Corriere di Caserta» 2010. 69 Sardo 2011. 70 La strage 2008. 71 Ammaliato 2012. Anche l’ex sindaco Mario Luise proponeva in un racconto, am- bientato nel 2040, un sindaco di origine ghanese per Castel Volturno. Cfr. Luise 2010.

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© Edizioni Scientifiche Italiane81 ISSN 1594-5472 MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Africani di Castel Volturno, se è permesso LUIGI GAFFURI

n questo saggio si discutono metodologicamente possibilità e neces- sità di quantificare per meglio qualificare la presenza dei migranti a ICastel Volturno, un contesto nel quale, pur essendo meno agevole il reperimento dei dati, ci si confronta con una sorta di “laboratorio” pri- vilegiato per comprendere i dinamismi migratori su un piano più am- pio, nazionale e internazionale. E, qui come altrove, svolge un ruolo de- terminante il territorio come pietra angolare dei rapporti sociali e cul- turali che, su di esso e per suo tramite, si articolano ed evolvono con- sentendo ai migranti livelli di inserimento e di esclusione nella realtà ca- stellana. Sulla base dei dati raccolti a scale differenti (regionale, provin- ciale, locale), si forniranno indicazioni sulle presenze e sui flussi mi- gratori a Castel Volturno, sfruttando fonti statistiche diverse e infor- mazioni ottenute con le indagini sul terreno. Lo sforzo mirerà poi a fornire anche un calcolo dei migranti che, nei vent’anni tra il secondo e il terzo millennio (1989-2009), sono passati nelle strutture d’acco- glienza che il luogo ha saputo mettere a disposizione dei cittadini stranieri. Migranti spinti nel nostro paese dai push factors che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora le regioni ad alta instabilità, o marcate da grave difficoltà economica, in Africa subsahariana e non solo. Nell’insieme, dunque, l’obiettivo del saggio è quello di offrire un’im- magine complessiva della presenza migrante africana a Castel Volturno, contestualizzata nell’ambito regionale e provinciale di riferimento.

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ISSN 1594-547282 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso

Informazioni scarse e uso dei dati statistici

Conviene partire da qualche domanda inerente al tema di ricerca. Perché è importante, a Castel Volturno più che altrove, quantificare la presenza degli africani sul territorio? Perché in un contesto sociale così particolare si avverte il bisogno di stabilire qualche ordine di priorità, benché strumentale, tra analisi quantitativa e analisi qualitativa? Perché alla sobrietà piena di cautele, tipica dell’inchiesta informale di terreno, sembra qui preferibile affidarsi preliminarmente ai dati statistici? Perché in questo caso la discutibile trasparenza quantitativa di superficie, anche se non intende sostituire in alcun modo una certa opacità qualitativa, fin dall’inizio appare necessaria almeno quanto l’asserita profondità di que- st’ultima? Perché, pur sapendo che nessuna cornice fa il quadro, per i migranti africani a Castel Volturno diventa importante individuare, de- lineare, predisporre una tela di fondo (numerica) adeguata? Che cosa si- gnifica abitare i dati quantitativi, tanto più quando sono scarsi, debol- mente comparabili e spesso inaffidabili? Le domande potrebbero essere molte di più e seguire a cascata, in- terrogando aspetti anche di maggiore dettaglio, ma intanto è bene fis- sare alcuni punti di non ritorno. Anzitutto, sebbene sia qualitativamente assai più povero di una storia di vita, il dato fa comunque di una pre- senza un’esistenza. Contare, soprattutto qui, vuol dire dare rilevanza a persone che non contano e che, proprio per questo, non sono contate. Il numero ha il potere di segnalare, sia alle istituzioni politiche ed eco- nomiche sia agli organismi della società civile, una pressione umana sul territorio, un’incidenza sul tessuto collettivo di una comunità territoriale. In secondo luogo, si può scomodare una constatazione banale ma inag- girabile: un ordine di grandezza, anche grossolano ma attendibile, è sem- pre meglio del continuo rinvio al “si dice” o delle supposizioni fanta- siose che, come tali, si prestano a ogni tipo d’uso e strumentalizzazione. Infine, chi ha avuto qualche esperienza di terreno in Africa si rende im- mediatamente conto che a Castel Volturno, riguardo al reperimento di dati informativi, vale il criterio del maximin, per quanto ribaltato: biso- gna cioè rassegnarsi a produrre il massimo sforzo essendo consapevoli che si otterrà il minimo risultato. In ogni caso, non può sfuggire che tale criterio costituisce un buon viatico per qualsiasi tipo di ricerca, tra- sformando così l’esperienza di terreno in un’occasione di prova che, po- nendo ostacoli, favorisce l’affinamento delle strategie per il loro supera- mento. Lo sforzo di approntare qualche “metodo di misura” relativo alla presenza e all’inserimento sia sociale sia territoriale dei cittadini stranieri

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© Edizioni Scientifiche Italiane83 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri a Castel Volturno innerverà dunque il presente lavoro. E per cogliere in via approssimativa un fenomeno sociale come quello individuato, co- minceremo con l’utilizzazione e la “pulitura” dei dati provenienti da di- verse fonti e con un controllo sulla qualità dei loro prodotti. Abbine- remo poi questo primo passo a un’attenta comparazione come fattore di riequilibrio. Per quanto semplici e di base, queste operazioni possono sorreggere il tentativo di quantificare statisticamente il “peso” dei mi- granti africani a Castel Volturno attraverso una radiografia, non si può davvero dire quanto accurata, della loro presenza e del loro ruolo eco- nomico e culturale nella società e nel territorio considerati. Una tecnica che è accompagnata da un commento inteso per un verso a guidare il lettore nel sommario stock di informazioni prodotte e, per altro verso, a stabilire qualche nesso interpretativo fra i differenti aspetti sottoposti a indagine nello specifico ambito territoriale di riferimento. Nel lavoro che segue, considerando la storia recente della mobilità migratoria in questo territorio e nei suoi dintorni, si tenterà dunque di formulare un’ipotesi sulla presenza e sull’incidenza sociale dei migranti africani a Castel Volturno tramite la valorizzazione di dati parziali re- periti a livello comunale, provinciale e regionale. Riguardo all’incidenza dei migranti africani su un territorio investito da vicende complesse e del tutto specifiche nel panorama italiano, dove il ricorso alle parole in libertà o all’intuizione è diventato nel tempo sempre più frequente da parte della stampa e dei media, non sembra più sufficiente affidarsi ad argomentazioni di buon senso o, ciò che è peggio, ammantare di rigore quelle che pure nella riflessione scientifica sono premesse spesso in- fluenzate da punti di vista o pregiudizi inespressi, anche positivi. In queste condizioni, raggiungere un grado minimo di misurazione della presenza migrante africana a Castel Volturno e del suo inserimento territoriale sarebbe già un passo avanti sia rispetto all’esposizione di- scorsiva di una situazione di per sé problematica, sia rispetto alla pro- posizione tematica di fattori sociali rilevanti ed emergenti nella realtà lo- cale in connessione con i dinamismi migratori – che pur costituiscono requisiti ineliminabili per contraddistinguere e delineare tale fenomeno sociale, territoriale, economico, culturale. Proprio per questo le statisti- che descrittive, condensate nei numeri e nei valori percentuali riportati più oltre, vanno considerate come un primo approccio di base fino a oggi mancante. Definire in termini concreti e in via approssimata una variabile so- ciale non oggettivamente misurabile è perciò lo scopo privilegiato di que- sto saggio; nella convinzione che i dati possano aggiungere qualcosa di nuovo alla conoscenza che, con impegno duraturo ma non sempre me-

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ISSN 1594-547284 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso todologicamente orientato, si sta da tempo costruendo sul fenomeno dei migranti africani a Castel Volturno. È del resto certo che dalla qualità della conoscenza dipende la qualità delle eventuali politiche sociali e de- gli interventi amministrativi a favore dell’inserimento dei migranti afri- cani messi in atto dalle istituzioni pubbliche, dagli operatori privati e, soprattutto, dagli organismi della società civile implicati nell’accoglienza. In questo senso la misurazione, in qualsiasi modo la si voglia intendere, è uno strumento prezioso. Come tutti gli strumenti, in ogni ambito di attività, essa non solo è l’esito di un lavoro fatto, ma è anche una delle condizioni del lavoro da farsi. Pur non essendo neutrale, perché ciò che viene osservato include sempre il punto di vista dell’osservatore, la mi- surazione punta in una direzione foriera di nuove aperture alla com- prensione poiché, si sa, il mondo sociale non si svela al ricercatore per confessione spontanea. Qui il taglio adottato corrisponde a una specifica visione dell’oggetto di ricerca, il fenomeno dei migranti africani a Castel Volturno, che ca- rica di senso i dati nello stesso momento in cui li comunica a un po- tenziale lettore. Sebbene scarsi e debolmente strutturati, tali dati saranno in grado di fornire un’idea meno approssimativa su un fenomeno so- ciale complesso, anche perché si collegano inestricabilmente a quelli su- gli italiani residenti in quel medesimo ambito territoriale: riguardano dunque il nostro essere qui, su uno stesso territorio uguale per tutti ma non accessibile per tutti allo stesso modo; riguardano l’abitare una so- cietà, quella castellana, e l’osservarla come processo di cui, circolarmente, i dati sono parte integrante. Di più: i pochi dati qui raccolti, interpre- tati e proposti alla lettura, giustificano la tensione al rigore con l’aspira- zione a quantificare per meglio qualificare. Hanno cioè la pretesa di informare anche su ciò che di una particolare situazione sociale non è coglibile o si conosce solo in forma probabilistica e problematica.

Contesto nazionale e flussi mugratori in Campania

Negli anni Settanta del secolo alle nostre spalle diventarono restrit- tive le legislazioni dei paesi europei che fino ad allora erano stati uno sbocco per i flussi migratori e l’Italia iniziò a essere considerata una meta appetibile. Quegli anni, nel nostro paese, incarnano la fase della neutra- lità rispetto all’immigrazione, con atteggiamenti da parte della popola- zione autoctona che andavano dalla semplice curiosità nei confronti de- gli stranieri a una quasi completa indifferenza. In mancanza di una le- gislazione specifica, in tale decennio trovarono applicazione le norme di

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© Edizioni Scientifiche Italiane85 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri pubblica sicurezza del 1931 (Regio Decreto del 18 giugno, n. 773, arti- coli 142-152), quando il nostro paese era ancora una realtà culturale in qualche modo omogenea. L’orientamento ambivalente della società fu, comunque, temperato da una propensione positiva del mondo sociale, dai sindacati alle associazioni di volontariato1. In quel periodo la Campania comincia a essere uno spazio di tran- sito interessante per certi profili di migranti. In particolare, sul litorale Domizio si poteva già registrare una presenza temporanea di cittadini stranieri provenienti dal Maghreb, soprattutto marocchini, che durante l’estate erano impegnati come venditori ambulanti sulle spiagge del lito- rale (Calvanese, Pugliese 1991). La stagionalità, però, era la regola, e il previsto rientro al paese d’origine collocava questo fenomeno migrato- rio nel quadro di una mobilità geografica occasionale che i migranti pra- ticavano come attività integrativa, stante il loro basso reddito nei luoghi d’appartenenza. Sul finire del decennio, tuttavia, le presenze stabili a li- vello regionale aumentano e i flussi si diversificano, annoverando nuove provenienze dal Senegal, dalla Nigeria, dal Ghana, dalla Tunisia, che vanno ad aggiungersi ai precedenti arrivi dall’Eritrea e da Capo Verde, già peraltro tendenti a intensificare notevolmente il numero degli ap- prodi. Così, secondo il censimento della popolazione, nel 1981 in Campa- nia si contano ufficialmente quasi 18.500 migranti. Con gli anni Ottanta si assiste a un’ulteriore complessificazione degli afflussi, tra i quali emer- gono anzitutto quelli dallo Sri Lanka e dalle Filippine, ma anche dalla Somalia, dal Perù, dalla Turchia e dalla Repubblica Dominicana. Verso la metà del decennio, in concomitanza con le politiche migratorie re- strittive in Europa, oltre all’aumento delle presenze nei contesti urbani, nella regione si verifica «un cospicuo flusso migratorio verso gli am- bienti rurali ai margini dell’area metropolitana, destinata in seguito a cre- scere con una certa continuità: lo compongono in particolare giovani provenienti dall’Africa centro-occidentale impiegati nelle coltivazioni in- tensive dell’area flegrea, del Casertano, della Piana del Sele e dell’Agro nocerino-sarnese» (Amato 2014, pp. 24-25). A livello nazionale i nuovi arrivi cominciano a far serpeggiare la paura di un’invasione straniera, accentuata dall’attentato a Papa Giovanni Paolo II in piazza san Pietro da parte del giovane turco Alì Agca (13 maggio 1981). Questo clima portò a bloccare le frontiere per proteggersi da nuove assunzioni e fu stabilito anche un numero chiuso per gli stu- denti. Tali misure restrittive finirono per incrementare la presenza irre- golare anziché contenerla, mentre nel frattempo si rendevano più con- sistenti anche i flussi regolari. In questi anni il fenomeno migratorio ac-

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ISSN 1594-547286 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso quisì visibilità e, secondo una costante che caratterizzerà anche in fu- turo il quadro sociale e culturale italiano, atteggiamenti di apertura co- minciarono a convivere con una mentalità restrittiva, di cui sono espres- sione sia il termine vu cumprà, coniato per i migranti dediti al com- mercio ambulante, sia il termine extracomunitario che, utilizzato dalla stessa “legge Foschi” n. 943 del 1986 in una semplice accezione giuri- dica, finirà invece per assumere un significato spregiativo. Mentre il 30 dicembre veniva emanata la richiamata nuova legge dedicata alle sole “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori ex- tracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”, con la quale peraltro si vara la prima sanatoria sul territorio nazionale, il mer- cato riservava sempre più agli immigrati lavori umili e sgraditi agli ita- liani. Non sono esenti da questo processo le aree rurali campane più so- pra richiamate, in particolare quelle in provincia di Caserta, dove irre- golari e clandestini cominciano a creare sacche ad alta concentrazione di migranti senza permesso, scarsamente controllati dagli apparati dello Stato e impiegati senza alcuna tutela in occupazioni stagionali. È qui che, nelle campagne di Villa Literno, dove era confluita una rilevante presenza di lavoratori agricoli africani sfruttati illegalmente, nella notte del 24 ago- sto 1989 alcuni giovani italiani aggredirono un gruppo di stranieri. Il su- dafricano Jerry Essan Masslo rimase ucciso per essersi rifiutato di con- segnare i propri scarni risparmi. L’aggressione venne presa come sim- bolo del potenziale razzismo nel paese e suscitò enorme commozione. Un mese e mezzo dopo, il 7 ottobre 1989, si svolse a Roma una ma- nifestazione nazionale contro il razzismo e sfilarono in corteo più di 100.000 persone, tra le quali molti immigrati. In quel periodo i cittadini stranieri titolari di regolare permesso di soggiorno erano poco meno di mezzo milione in tutt’Italia. Gli studiosi e l’opinione pubblica scoprono così anche l’area di Ca- stel Volturno, poco distante da Villa Literno e caratterizzata dalla me- desima condizione degradante in cui versano i migranti nelle campagne dei dintorni. Della prima sanatoria legislativa a livello nazionale benefi- ciarono gli immigrati inseritisi irregolarmente nel mercato del lavoro, consentendo l’emersione di circa 120.000 lavoratori. La legge Foschi però, come abbiamo accennato, si occupò solo degli aspetti lavorativi e non dell’ingresso e del soggiorno, materia sulla quale interverrà un succes- sivo provvedimento legislativo (n. 39 del 28 febbraio 1990) che convertì una precedente decretazione d’urgenza emanata nel mese di dicembre. Si tratta della cosiddetta legge Martelli che, nelle intenzioni dell’allora vice-premier, doveva essere tollerante e di stampo europeo, prendendo

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© Edizioni Scientifiche Italiane87 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri in considerazione molteplici aspetti: ingresso e soggiorno, lavoro, casa e assistenza, studenti stranieri, abolizione della cosiddetta “riserva geogra- fica” nel riconoscimento dei richiedenti asilo provenienti anche da paesi diversi da quelli dell’Est europeo (gli unici, questi ultimi, che fino ad al- lora avevano visto garantita la loro difficile condizione). Intanto, entro il 1989, la sanatoria aveva avuto effetti importanti pure in Campania, quinta regione in Italia per numero di immigrati regola- rizzati, dove appunto emersero poco meno di 12.000 posizioni irrego- lari, con un’incidenza di circa il 10% sul totale nazionale. Nella pro- vincia di Caserta, dove da sempre risultava rilevante la manodopera stra- niera in agricoltura, continuano tuttavia a perdurare gli aspetti più de- generativi dello sfruttamento dei migranti che conducono una vita mi- serabile, in un quadro di illegalità diffusa caratterizzato dalla presenza di una criminalità organizzata propensa a servirsi di loro per i propri traffici (in specie, nell’ambito della prostituzione e degli stupefacenti). Nelle campagne tra Villa Literno e Castel Volturno, ma anche nei din- torni, le possibilità di lavoro stagionale, per quanto connotate «da ritmi di lavoro estenuanti e da bassi salari, attraggono migliaia di individui grazie alla totale assenza di qualificazione richiesta. Si cumulano in que- sti ambienti il disagio territoriale pregresso con la precarietà e la margi- nalità dei nuovi arrivati: la tensione, che assume i caratteri di una guerra tra poveri, sale e resterà a lungo latente per poi esplodere in anni più recenti» (Amato 2014, p. 26). Più in generale il periodo che va dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta segna un crinale importante, poiché si verifica la prima presa in carico dell’immigrazione come “problema” e iniziano anche ad apparire i primi germi di una vera e propria estraneità svilup- pata nei confronti dei migranti da parte di una frazione significativa della società italiana. È la fase dell’emergenza, momento in cui l’approdo nel nostro paese diventava sempre più appetibile, mentre la normativa esi- stente, concepita sul mero piano formale e scarsamente efficace sotto il profilo pratico, mostrava tutti i suoi limiti mancando di una visione a lungo termine, ma soprattutto restando ancora troppo lontana dalla con- sapevolezza che l’immigrazione, come fenomeno collettivo di natura eco- nomica, demografica, territoriale e culturale, stava diventando una di- mensione strutturale della società italiana. A livello regionale, con la seconda sanatoria conseguente all’emana- zione delle “legge Martelli”, la Campania si colloca al quarto posto per numero di regolarizzati: tuttavia, a fronte dei più di 16.000 migranti emersi, rimane una fetta importante di irregolari impegnati soprattutto nei lavori agricoli stagionali. Nella provincia di Caserta (risultata, insieme

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ISSN 1594-547288 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso a quella di Napoli, tra le prime sette in Italia per domande di sanatoria presentate), in specie sulla fascia litoranea di nostro interesse, la presenza migrante comincia ad assumere un ruolo strategico, svolgendo nell’am- bito dell’agricoltura intensiva, delle coltivazioni industriali e ortofrutti- cole, della produzione casearia i lavori tipici di una manodopera flessi- bile e meno costosa che i cittadini stranieri sono in grado di assicurare, date le loro disperanti condizioni di estremo bisogno. Sul già presente impiego nell’allevamento delle bufale in Terra di lavoro, si praticano nuovi innesti anche nelle aree montane, in particolare quelle demogra- ficamente caratterizzate dallo spopolamento, dove i migranti si dedicano alla pastorizia centrata anzitutto sugli ovini (Amato, Coppola 2009). Nel decennio che si apre muta anche la presenza degli immigrati, diventando sempre più articolata e caratterizzata da provenienze europee, anche per effetto della crisi dei Balcani dovuta sia alla dissoluzione dell’ex Jugo- slavia sia al crollo dell’Albania comunista, ma più in generale alla scom- parsa del regime sovietico e all’affievolirsi della sua influenza sui paesi satelliti del Patto di Varsavia.

L’irregolarità e gli effetti delle sanatorie

In questo contesto prende inizialmente forma un disegno socio-ter- ritoriale, fatto di spostamenti intraregionali e interregionali, che è stato definito “circuito-Meridione” (D’Ascenzo 2014, pp. 107 ss.): una serie di tappe per i migranti che, inseguendo un’occupazione precaria purché in qualche modo remunerativa, lavorano a giornata nel mercato som- merso, spesso a cottimo e in condizione d’irregolarità. All’agricoltura stagionale dell’ortofrutta – come la raccolta estiva dei pomodori a Ca- stel Volturno o a Villa Literno e dintorni, ma anche la campagna au- tunnale degli ortaggi a San Nicola Varco, nei pressi di Eboli – si ag- giungono altre attività fuori regione che comportano lunghi viaggi. In Puglia, nella provincia di Foggia, sempre per i pomodori in Capitanata o per le angurie nel Salento; in Basilicata, nel Potentino presso il con- fine pugliese, a Palazzo San Gervasio, dove i braccianti subsahariani si recano per la raccolta del pomodoro tardivo. In autunno, chi può si di- rige in Sicilia, per la vendemmia nelle terre di Alcamo. Nella fase di transizione verso l’inverno, poi, ci si sposta in Calabria, a Rosarno, dove comincia la “stagione” degli agrumi. La primavera è infine il periodo di un nuovo passaggio in Sicilia, a Niscemi, nelle aree rurali della provin- cia di Caltanissetta, terra di elezione del carciofo violetto senza spine; o a Cassibile, un’importante frazione del comune di Siracusa, dove i mi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane89 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri granti sono impegnati nella raccolta di patate, fragole e ortaggi; o, an- cora, per andare a lavorare nelle serre di cui sono coperte le campagne di Pachino, Vittoria, Licata nell’estremo sud isolano (Galesi, Mangano 2010, p. 17). Alla metà degli anni Novanta, a livello nazionale il governo di Lam- berto Dini propose, con il decreto legge 489 del 18 novembre 1995, una normativa che si collocava a metà strada tra la necessità dell’accoglienza e della tutela del lavoro, da un lato, e la tentazione alla chiusura e all’i- nasprimento delle espulsioni, dall’altro. La sanatoria avviata in conco- mitanza di questo provvedimento, la terza in dieci anni, situa la Cam- pania tra le regioni italiane con maggior numero di richiedenti pronti a regolarizzare la propria presenza (circa 29.000 pratiche d’emersione su un totale di quasi 230.000 in Italia, dove solo Lazio e Lombardia fanno registrare cifre superiori). La differenziazione delle nazionalità si fa an- cora più marcata e, in aggiunta ai migranti dell’Est europeo (provenienti da Albania, Polonia e Romania anzitutto), si mettono in particolare evi- denza i cittadini stranieri d’origine algerina, tunisina, filippina, domini- cana, senegalese, greca, nigeriana, capoverdiana, ghaneana, cinese, burki- nabé, somala, brasiliana e ivoriana. Restano tuttavia primi in graduato- ria i cittadini del Marocco e dello Sri Lanka, a loro volta preceduti da- gli statunitensi, la nazionalità più diffusa in regione (Caritas di Roma 1998, p. 336). Nella seconda metà degli anni Novanta si aprì per l’immigrazione in Italia una nuova fase, potremmo dire di approfondimento, che, dopo un percorso tormentato, portò all’approvazione della legge 6 marzo 1998, n. 40, una normativa finalmente organica sulla condizione dello straniero comunemente conosciuta come legge Turco-Napolitano. Alla fine di quel- l’anno i migranti regolari nella penisola ammontano a 1.250.214, di cui 63.794 residenti in Campania (Caritas di Roma 1999, pp. 348-349). De- gli oltre 250.000 regolarizzati tramite la nuova sanatoria avviata con de- creto dell’aprile 2009, più di 18.000 sono migranti senza permesso di soggiorno che vivono nel territorio regionale campano (Caritas 2001, p. 154). Nonostante la portata di un siffatto sviluppo legislativo e gli ef- fetti della sanatoria, non si assiste a livello nazionale, né regionale e lo- cale, a una riconoscibile maturazione dell’opinione pubblica, la quale, al- lora come oggi, resta spaccata a metà tra apertura e chiusura verso gli immigrati. Non a caso con il nuovo cambio al governo del paese, tor- nato nelle mani dello schieramento di centro-destra nel maggio del 2001, veniva approvata, su proposta della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, una normativa di segno restrittivo rispetto alla precedente impostazione. È la cosiddetta legge Bossi-Fini (n. 189 del 30 luglio 2002).

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ISSN 1594-547290 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso

Paradossalmente con questa legge, che rappresenta un passo indie- tro rispetto alle aperture della Turco-Napolitano, viene disposta una sa- natoria nella quale il numero di domande inoltrate per ottenere la re- golarizzazione (oltre 700.000) risulterà di gran lunga superiore a quello di tutte le precedenti. In Campania, dove le istanze saranno poco meno di 68.000, si manifesta la più alta pressione migratoria di tutta Italia, con 220,2 domande di regolarizzazione ogni 100 lavoratori regolarmente sog- giornanti: per capire comparativamente la situazione basti dire che la Lombardia, regione che fa registrare il maggior numero di regolarizzati in assoluto (158.293), rimane al di sotto della media nazionale con 91 domande su 100 lavoratori dotati di permesso di soggiorno (Caritas e Migrantes 2003, pp. 135-138). In particolare la provincia di Napoli, che a livello regionale svolge un ruolo nevralgico nell’attrarre immigrati, è terza per emersione del lavoro domestico (37.000) e quinta per quello subordinato (24.000). Complessa è poi la situazione nel Casertano, che per le sanatorie si distingue in modo netto dal Salernitano e dal Napoletano. Anche qui, come sistematicamente nei casi precedenti, si è verificato un aumento ec- cezionale delle presenze in concomitanza della regolarizzazione, di cui hanno beneficiato quasi 12.600 migranti (Istat 2005, p. 12), ma questa provincia mostra una più bassa capacità di trattenere i cittadini stranieri sul suo territorio. Al forte accrescimento dei permessi di soggiorno re- gistrato con la sanatoria, infatti, fa da contraltare un marcato decremento negli anni seguenti. Da un lato in provincia di Caserta esiste una più intensa transitorietà delle presenze, «probabilmente causata dalla speci- ficità del tessuto produttivo che consente con minore frequenza un in- serimento regolare e stabile, anche rispetto agli stessi territori circostanti»; dall’altro lato nel Casertano la condizione d’irregolarità dei migranti ha un peso maggiore rispetto alle altre province della Campania (De Fi- lippo, Strozza 2012, p. 38). Emerge dunque come la «legalizzazione del lavoro irregolare extra- comunitario», prevista dalla legge, produca nella provincia di Caserta una forte mobilità dei regolarizzati, inclini a emigrare verso regioni della pe- nisola più dinamiche sul piano economico (anzitutto nel Nord del paese, ma anche nei poli metropolitani centro-meridionali più importanti). In particolare, ciò è segnatamente vero nelle aree di maggior degrado, come nell’Agro Domiziano che, se in ambito urbano è connotato da una forte concentrazione di abusivismo edilizio, nel territorio rurale, dove la ma- nodopera straniera risulta da sempre rilevante, fa registrare una compo- nente importante di irregolari. Qui, nelle campagne comprese in quella sorta di ampio quadrilatero tra Mondragone, Castel Volturno, Casal di

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Principe e Qualiano, ruotante attorno al perno «centrale» di Villa Li- terno, agli inizi del Duemila si producono 500.000 tonnellate di pomo- doro all’anno, con l’impiego di numerosi migranti africani in gran parte senza permesso di soggiorno (Trani, Dente Gattola 2002, p. 406). E lo sfruttamento in questo settore, connotato dal ruolo del caporalato, an- cora oggi si basa su una retribuzione che va dai tre ai quattro euro per riempire di pomodori appena raccolti un cassone da trecento chili (Bi- longo 2014, p. 113). Nella prima decade del terzo millennio, inaugurata dalla Bossi-Fini, si manifesta dunque una fase restrittiva riguardo alle politiche migrato- rie in Italia. Un altro intervento legislativo, sul finire di questo periodo, ridimensiona ancora di più le aperture della Turco-Napolitano, senza tuttavia abrogarla: si tratta della legge n. 94 del 15 luglio 2009, voluta dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni sulla sicurezza pubblica, nella quale furono inserite importanti restrizioni nei confronti dei citta- dini stranieri, tra cui l’introduzione del reato di clandestinità punibile con il carcere in caso di ingresso o soggiorno illegale da parte degli im- migrati, poco meno di due anni dopo bocciato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (Caritas e Migrantes 2009, pp. 146 ss.). Nel corso del decennio in Campania si riduce, per la prima volta, il numero dei permessi di soggiorno rilasciati: dai 68.336 del 1999, si passa ai 65.970 del 2000, ai 61.910 del 2001, ai 58.038 del 2002. Nondimeno ricomin- ciano a salire vertiginosamente nel 2003, quando quasi raddoppiano ri- spetto all’anno precedente (111.596), facendo superare per la prima volta ai migranti in regione le centomila presenze (Caritas e Migrantes 2004, p. 423); crescono poi anche nel 2004, attestandosi a 128.049 (Caritas e Migrantes 2005, p. 468). In questo contesto «Caserta è, senza ombra di dubbio, la più “afri- cana” tra le province campane, anche se è sempre più marcata la pro- gressiva stabilizzazione di cittadini dell’Europa Orientale, in primo luogo ucraini e polacchi. Pur se sotto il profilo dell’inclusione sociale si sono fatti notevoli passi in avanti, restano nel Casertano non poche sacche di criticità. L’agricoltura rimane alla base del fenomeno degli stagionali: molti tunisini nelle produzioni ortofrutticole (soprattutto nell’Aversano e nei comuni della Terra di Lavoro); gli albanesi sono dediti alla rac- colta del tabacco; indiani e pakistani nell’allevamento», in particolare delle bufale (Trani 2005, p. 422). Le sacche di irregolarità, fatte emergere a ca- denze ravvicinate che si ripetono nel tempo, attestano però il fabbiso- gno dell’Italia di forza lavoro aggiuntiva. Non è un caso che, poco dopo l’emanazione del “pacchetto sicurezza”, si disponga l’ennesima regola- rizzazione con la legge n. 102 del 3 agosto 2009. Tale provvedimento,

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ISSN 1594-547292 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso definito “sanatoria colf e badanti” poiché era diretto solo a quelle cate- gorie impegnate nel settore domestico, fece registrare 295.126 domande di assunzione presentate dai datori di lavoro, di cui 222.182 accolte. Con questa sanatoria, mirante a far emergere i cittadini non comunitari im- pegnati nel settore demestico e nella cura alle persone, si scopre che in tre casi su cinque le domande di regolarizzazione riguardano le colla- boratrici domestiche, mentre le restanti sono relative all’assistenza do- miciliare. Napoli è la terza provincia in Italia, dopo Milano e Roma, per istanze di regolarizzazione presentate (24.332, pari all’8,3%), mentre il Casertano si colloca al settimo posto con 6.622 domande, corrispondenti al 2,2% sul totale (Nanni 2010, pp. 114 e 117). A conclusione di questa parte offriamo una brevissima sintesi, prima di passare all’analisi dei dati relativi all’ambito più propriamente locale. In una regione che, da quando l’Italia si è caratterizzata come paese d’immigrazione, ha accolto il maggior numero di presenze straniere in tutto il Meridione, la situazione della popolazione migrante sotto il pro- filo del lavoro può dunque essere così riassunta: agricoltura e turismo sono i settori che assorbono la più gran parte delle occupazioni stagio- nali; la piccola industria è un’impalcatura dell’economia sommersa che impiega cittadini stranieri nei comuni a Nord della provincia di Napoli e nell’area vesuviana interna; la collaborazione domestica e l’assistenza famigliare costituiscono invece il dominio incontrastato delle lavoratrici migranti in tutta la Campania. Con il primo decennio del nuovo secolo, però, «siamo ormai giunti ad una nuova stagione, quella degli assesta- menti dei numeri e dei progetti più consistenti di stabilizzazione […]. Tramonta pertanto l’ipotesi della Campania come regione di transito, ma il suo peso rispetto all’incidenza nazionale diminuisce progressivamente» (Amato 2014, p. 28). Questo processo di assestamento coinvolge anche la provincia di Ca- serta che, tuttavia, continua a vedere una serie di partenze verso ambiti regionali (in particolare Emilia-Romagna e Lombardia) che esercitano sui migranti una maggiore attrattività per le opportunità di lavoro sta- bile offerte e per il livello di efficacia raggiunto dai servizi sociali sul territorio. Ad ogni modo, come la Campania nel suo insieme, fin dal- l’inizio il Casertano è stato tra le prime province italiane a offrirsi come possibile insediamento per gli immigrati (Trani 2007, p. 404). Connota- zioni specifiche di questo territorio, rispetto al contesto regionale, sono l’incidenza più elevata di cittadini stranieri sulla popolazione residente, la quota più alta di presenze irregolari, la percentuale più significativa di immigrati africani subsahariani, un settore agricolo in cui si annida il grosso del lavoro sommerso, spesso a cottimo, accompagnato da un fe-

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© Edizioni Scientifiche Italiane93 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri nomeno analogo nel campo delle attività domestiche e di assistenza fa- miliare, una concentrazione di migranti nel settore delle costruzioni edili e in quello del commercio al dettaglio.

La situazione nel 2015 in provincia di Caserta

Tra le regioni del Mezzogiorno, la Campania ha visto trasformarsi il suo territorio, in anni più recenti rispetto a quanto accaduto nelle aree settentrionale e centrale del paese, da luogo destinato al transito dei mi- granti a luogo d’insediamento stabile dei cittadini stranieri. Dall’inizio degli anni Ottanta del Novecento alle ultime rilevazioni statistiche, le presenze a livello regionale sono aumentate del 1.078%, passando dai 18.463 migranti del 1981 ai 217.503 del primo gennaio 2015. Si tratta di una popolazione prevalentemente femminile (le donne raggiungono il 54,3%, una quota superiore di quasi due punti percentuali rispetto alla media nazionale), distribuita in modo disomogeneo a livello territoriale, tanto che la città metropolitana di Napoli (che dal 2015 ha sostituito la circoscrizione amministrativa della provincia) accoglie esattamente la metà dei migranti in regione. Tuttavia, la maggiore incidenza di cittadini stra- nieri sul totale della popolazione residente si registra in provincia di Ca- serta, con un 4,5%, mentre quella con quota minore di immigrati è il Beneventano (2,4%). Nel Casertano gli immigrati mostrano un’equa ripartizione tra ma- schi e femmine, con queste ultime lievemente superiori (50,6%) rispetto ai primi. Nei comuni più grandi e con maggiore presenza di migranti, Caserta (65,4%) e Santa Maria Capua Vetere (63,7%) spiccano per l’alta l’incidenza delle donne sul totale dei cittadini stranieri (Tabella 1). An- che altri comuni di minori dimensioni, ma con una non del tutto mo- desta residenzialità di immigrati, fanno registrare valori elevati in que- sto senso, come Gricignano di (69,1%), (66,7%), Ca- migliano (63,9%), Curti (63,8%), (63,6%). Ma è nei piccoli e piccolissimi comuni, in via di spopolamento e con scarsa presenza di migranti, che si registrano le quote femminili più elevate – paesi in cui le donne sono anzitutto dedite alle attività domestiche e all’assistenza fa- migliare per gli anziani, mentre gli uomini, soprattutto nelle località a maggior altitudine, sono impegnati nell’allevamento ovino: Valle Agri- cola (85,0%), (76,9%), (75,0%), (71,4%), , seguiti da (66,7%), (66,7%), (66,7%), San Potito Sanni- tico (63,2%). Esistono poi comuni nei quali è invece marcata la presenza

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ISSN 1594-547294 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso maschile, per esempio a Cancello ed Arnone (68,1%), Grazzanise (70,6%), (67,3%), (60,9%), più o meno prossimi all’area d’interesse della nostra ricerca, o molto distanti come Baia e La- tina (65,0%) e (61,7%), mentre la quota maschile raggiunge il suo apice, addirittura l’88,2%, nel piccolissimo comune di , localizzato verso i confini con il Molise2.

Tab. 1 - Cittadini stranieri in provincia di Caserta agli inizi del 2015 N. Comune Totale % su F % F popol. su tot. resid. migranti 1 Castel Volturno 3.854 15,3 1.831 47,5 2 Caserta 3.575 4,6 2.337 65,4 3 Aversa 2.914 5,5 1.626 55,8 4 Mondragone 2.857 10,0 1.261 44,1 5 Santa Maria Capua Vetere 1.453 4,4 926 63,7 6 1.246 5,6 515 41,3 7 Casal di Principe 988 4,6 415 42,0 8 Capua 972 5,1 523 53,8 9 San Marcellino 940 6,8 416 44,3 10 922 2,3 454 49,2 11 900 2,3 422 46,9 12 Villa Literno 900 7,5 340 37,8 13 853 7,5 409 47,9 14 Trentola-Ducenta 758 3,9 379 50,0 15 San Cipriano d’Aversa 721 5,3 317 44,0 16 686 3,1 378 55,1 17 666 2,5 284 42,6 18 655 4,3 361 55,1 19 609 4,5 290 47,6 20 553 5,4 224 40,5 21 Cancello ed Arnone 545 9,6 174 31,9 22 505 3,6 263 52,1 23 438 2,5 212 48,4 24 437 5,8 210 48,1 25 Grazzanise 419 5,9 123 29,4 26 Casapulla 400 4,6 209 52,3 27 388 3,3 268 69,1 28 384 5,5 162 42,2 29 379 5,5 170 44,9 Segue Segue: Tab. 1 - Cittadini stranieri in provincia di Caserta agli inizi del 2015

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N. Comune Totale % su F % F popol. su tot. resid. migranti 30 371 2,9 199 53,6 31 337 4,4 189 56,1 32 328 2,7 181 55,2 33 Sant’Arpino 328 2,3 158 48,2 34 320 4,5 184 57,5 35 318 4,8 158 49,7 36 315 4,3 153 48,6 37 Cellole 312 4,0 169 54,2 38 307 2,9 162 52,8 39 304 2,7 170 55,9 40 300 3,6 120 40,0 41 299 4,6 148 49,5 42 296 3,3 156 52,7 43 292 4,8 146 50,0 44 288 2,0 177 61,5 45 283 3,2 128 45,2 46 Curti 276 3,9 176 63,8 47 Francolise 266 5,4 104 39,1 48 Bellona 257 4,3 136 52,9 49 247 2,5 133 53,8 50 239 4,9 107 44,8 51 226 4,1 120 53,1 52 225 3,0 121 53,8 53 214 4,5 121 56,5 54 200 2,6 108 54,0 55 197 6,5 89 45,2 56 189 3,5 110 58,2 57 Santa Maria la Fossa 168 6,1 55 32,7 58 Alife 165 2,1 76 46,1 59 Cervino 155 3,1 69 44,5 60 138 4,6 75 54,3 61 133 3,5 66 49,6 62 127 2,2 73 57,5 63 118 5,0 56 47,5 64 110 6,3 65 59,1 65 98 2,7 44 44,9 66 96 2,5 51 53,1 67 Sant’Angelo d’Alife 95 4,1 42 44,2 68 Pontelatone 94 5,5 36 38,3 Segue Segue: Tab. 1 - Cittadini stranieri in provincia di Caserta agli inizi del 2015

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ISSN 1594-547296 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso

N. Comune Totale % su F % F popol. su tot. resid. migranti 69 91 2,8 44 48,4 70 89 3,9 47 52,8 71 88 1,6 46 52,3 72 87 4,8 37 42,5 73 Rocca d’Evandro 83 2,5 40 48,2 74 Ruviano 81 4,8 54 66,7 75 72 3,8 46 63,9 76 68 2,5 42 61,8 77 Galluccio 66 3,0 42 63,6 78 64 3,0 32 50,0 79 61 1,7 36 59,0 80 60 2,7 21 35,0 81 58 4,3 29 50,0 82 45 5,2 18 40,0 83 41 2,6 25 61,0 84 41 2,7 23 56,1 85 38 3,2 17 44,7 86 38 2,0 24 63,2 87 34 2,2 17 50,0 88 30 2,2 18 60.0 89 30 2,4 16 53,3 90 Piana di Monte Verna 30 1,3 20 66,7 91 29 6,1 18 62,1 92 Prata Sannita 28 1,8 21 75,0 93 San Gregorio Matese 27 2,7 18 66,7 94 Castello del Matese 26 1,7 20 76,9 95 26 2,8 15 57,7 96 23 3,5 14 60,9 97 21 1,8 12 57,1 98 20 2,2 17 85,0 99 San Pietro Infine 18 1,9 12 66,7 100 Ciorlano 17 4,1 2 11,8 101 14 0,9 8 57,1 102 12 1,4 6 50,0 103 Letino 7 1,0 5 71,4 104 Gallo Matese 4 0,7 3 75,0 TOTALE 41.515 4,5 20.995 50,6 Fonte: nostra elaborazione su dati Istat.

Sotto il profilo dell’appartenenza nazionale, i cittadini provenienti dall’Ucraina costituiscono la comunità straniera più numerosa a livello

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© Edizioni Scientifiche Italiane97 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri regionale (19,5% sul complesso degli immigrati)3, seguita dai migranti originari della Romania (17,4%)4, da quelli del Marocco (8,7%), dello Sri Lanka (6,5%) e della Cina (5,9%)5. Le prime tre nazionalità ven- gono confermate nella graduatoria del Casertano, una provincia in cui, però, i migranti africani occupano livelli più alti nelle successive posi- zioni rispetto a quanto si verifica in Campania (Tabella 2).

Tab. 2 - Nazionalità straniere con più di 1.000 presenze nel Casertano (2015) Numero Nazione Maschi Femmine Totale % su stranieri 1 Ucraina 2.087 6.074 8.161 19,7 2 Romania 3.331 4.078 7.409 17,9 3 Marocco 2.648 1.301 3.949 9,5 4 Albania 1.873 1.099 2.972 7,2 5 Polonia 750 1.805 2.555 6,2 6 India 1.578 485 2.063 5,0 7 Nigeria 761 1.077 1.838 4,4 8 Ghana 1.096 205 1.301 3,1 9 Repubblica Popolare Cinese 673 541 1.214 2,9 10 Tunisia 860 246 1.106 2,7 11 Algeria 903 200 1.103 2,7 12 Bulgaria 360 680 1.040 2,5 13 Senegal 868 143 1.011 2,4 Fonte: nostra elaborazione su dati Istat.

Nella sua versione più estesa, l’area metropolitana di Napoli com- prende i comuni vicini al Cilento e, per quel che qui maggiormente in- teressa, il litorale Domizio, lungo il quale è localizzato anche il comune di Castel Volturno, facente parte della provincia di Caserta. In questo comparto amministrativo l’incidenza degli africani sul totale dei citta- dini stranieri è pari al 28,6%, un valore ben più corposo di quello che si registra a livello regionale (19,1%), vale a dire una quota superiore di otto punti e mezzo percentuali rispetto alla presenza degli africani in Campania sul complesso dei migranti. Non solo: se in regione, nel- l’insieme degli immigrati provenienti dal continente, quelli originari del- l’Africa settentrionale sono poco meno di due terzi (26.111 su 41.629), a livello provinciale sono appena più della metà (6.264 su 11.855). Ciò significa che i migranti subsahariani manifestano una particolare con- centrazione nel Casertano. E tale fenomeno mostra un picco statistico nel comune di Castel Volturno, dove nel 2015 il 61,2% dei cittadini stranieri regolari è di provenienza africana (2.358), mentre in Campa-

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ISSN 1594-547298 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso nia il 54,0% è d’origine europea. Nel comune castellano questi migranti appartengono in maniera schiacciante (93,9%) a paesi della fascia sub- sahariana (solo 144 provengono dal Nord Africa), con una marcata pre- valenza di nigeriani (in maggioranza donne) e ghanesi (in maggioranza maschi). Una siffatta ripartizione in base alle provenienze non vale oggi, ad esempio, per alcuni comuni limitrofi a Castel Volturno. Mondragone, centro in cui la stragrande maggioranza dei migranti è d’origine euro- pea6, ha solo il 27,5% di africani sul totale degli stranieri, con preva- lenza di tunisini, algerini, marocchini, egiziani, contrastati numericamente solo dai ghanesi e in parte dai nigeriani. Villa Literno, dove pure pre- dominano gli immigrati provenienti dall’Europa7, ha una quota più ele- vata di migranti del continente africano (34,9%), ma anche qui i primi in graduatoria per consistenza numerica sono i tunisini e gli algerini, se- guiti a distanza da nigeriani e ghanesi, cui si aggiungono poi i maroc- chini. A Cancello ed Arnone, comune a grande concentrazione di in- diani8, l’incidenza degli africani si riduce addirittura all’11,7%, pratica- mente solo maghrebini (in prevalenza tunisini, seguiti da marocchini e algerini) e con un’unica presenza subsahariana (un maschio burkinabé). Nel comune di Grazzanise, poi, gli asiatici (42,0%) superano gli euro- pei per numero di presenze e sono tutti indiani9, mentre gli africani rag- giungono appena il 19,6% sul totale degli stranieri e, tranne pochi al- gerini, sono pressoché tutti marocchini10. La suddivisione per appartenenza geografica subsahariana piuttosto che nordafricana dei migranti, così caratterizzata a Castel Volturno, non vale nemmeno per realtà di maggiori dimensioni e più urbanizzate, ben- ché inserite in un’area da lungo tempo a vocazione agricola, come Aversa o Santa Maria Capua Vetere, peraltro già più distanti dal comune ca- stellano. Entrambe località importanti dell’antica “Terra di lavoro”, ad Aversa prevale la componente europea (57,1%), ma si registra anche il 30,9% di africani sulle presenze straniere complessive, a maggioranza maghrebina (più numerosi marocchini e algerini, equamente ripartiti, se- guiti a distanza da nigeriani e tunisini). A sua volta Santa Maria Capua Vetere, che unisce in una conurbazione pressoché continua l’odierna Ca- pua11 a Caserta, offre ospitalità a migranti per oltre tre quarti europei e, tra i pochi africani presenti (8,3% degli stranieri residenti), la stragrande maggioranza è di origine marocchina (quasi la metà), cui si aggiungono quelli provenienti dagli altri due paesi del Maghreb, cioè Tunisia e Al- geria12. Una struttura analoga alla ripartizione per provenienze riscontrata a Castel Volturno si verifica invece a Casal di Principe, dove la quota di

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© Edizioni Scientifiche Italiane99 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri africani sul totale dei migranti è abbastanza consistente (31,8%) e quelli provenienti dall’Africa settentrionale sono molto meno di un terzo de- gli africani complessivi, tra i quali risultano maggioritari i burkinabé (terza nazionalità in assoluto, dopo romeni e ucraini), seguiti da ghanesi e da nigeriani. In ogni modo, l’originalità del comune castellano rispetto ai suoi dintorni risulta anche da alcuni, sommari, dati di sintesi. Intanto, Castel Volturno ospita più migranti del capoluogo di provincia, dato che Caserta accoglie 3.575 cittadini stranieri regolari (pari al 4,6% dei resi- denti nel loro complesso); anzi, è il comune del Casertano con il mag- gior numero di presenze in assoluto, vale a dire 3.854 immigrati che rag- giungono il 15,3% della popolazione residente (quasi il doppio rispetto alla media italiana e oltre quattro volte la media regionale)13. Si tratta della più elevata incidenza di immigrati su un territorio comunale in tutta la Campania, oltre che nella provincia di Caserta dove solo Mon- dragone (10,0%), Cancello ed Arnone (9,6%), Villa Literno (7,5%) e Parete (7,5%) hanno quote significative, ma che, comunque, restano di- stanti da quella rilevata nel comune castellano14. Sui 1.838 nigeriani regolari in provincia di Caserta, più della metà risiede a Castel Volturno (957, cioè il 52,1%)15 e il valore sale nel caso dei ghanesi che sono 767 sui complessivi 1.301 del Casertano, pari dun- que al 59,0% delle presenze a livello provinciale. A loro volta i libe- riani, terza nazionalità africana nel territorio comunale, sono più nume- rosi dei residenti romeni e gli ivoriani, dal conto loro, eguagliano gli in- diani, la maggiore nazionalità asiatica di Castel Volturno. I togolesi sono più numerosi degli albanesi e dei marocchini – due comunità straniere, queste ultime, che hanno avuto un’importante storia migratoria in Ita- lia e sono a tutt’oggi la seconda e la terza in graduatoria a livello na- zionale per consistenza di presenze. Per non dire dei sierraleonesi che, da soli, nel comune castellano superano quantitativamente srilankesi, ben- galesi e filippini presi assieme – migranti, anche questi ultimi, di una certa rilevanza numerica sia in Campania sia in Italia. Dove e quando ha preso avvio, dunque, questo notevole flusso di persone provenienti dall’Africa subsahariana? È possibile ricostruire le tracce di una mobilità geografica che ha le sue radici, probabilmente, nei luoghi d’origine dei migranti e in tempi ormai lontani? Nel prosieguo di questo lavoro tenteremo di illustrare ciò che è accaduto negli ultimi 25 anni, un quarto di secolo fondamentale per gli avvenimenti che l’hanno caratterizzato, mantenendo l’attenzione sia sull’Africa sia sul territorio locale di approdo16.

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La prima ondata di cittadini stranieri a Castel Volturno

I dati informali fornitici dal parroco di Pinetamare don Antonio Pa- lazzo, che coprono circa vent’anni dal 1989 al 2009, segnalano per i mi- granti africani una struttura demografica piuttosto definita: pochissimi bambini al seguito, pochi anziani e, per la quota più consistente, una po- polazione prevalentemente maschile e mediamente giovane. Quasi 17.500 persone, distribuite su un arco ventennale, con picchi temporali nei flussi che qui cercheremo di descrivere. In questo caso, a differenza dei numeri finora riportati, si tratta di migranti irregolari, sebbene si possa presu- mere che in buona parte essi siano solo transitati per questo territorio o che, nel corso degli anni, abbiano ottenuto la regolarizzazione. La maggiore concentrazione negli arrivi si ha durante il 1989. In soli nove mesi, da aprile a dicembre, giungono a Castel Volturno esattamente 3.500 migranti. Contrariamente a quanto avveniva nel resto d’Italia nel medesimo periodo, dove si verificava una netta prevalenza degli immi- grati provenienti dal settentrione del continente, qui si tratta in mag- gioranza (81,3%) di africani della fascia subsahariana (2.845). Tra questi sono preponderanti i ghanesi (1.184, pari al 41,6% di tutti gli stranieri originari dell’Africa nera), seguiti dai senegalesi (580, per un 20,4%), dai nigeriani (383, fermi al 13,5%), dai burkinabé (150, 5,3%) e dagli ivo- riani (146, 5,1%). Meno consistenti numericamente, ma ancora signifi- cativi per presenze, risultano i gambiani (89), i togolesi (77), i cittadini del Benin (59), i mauritani (44), i migranti della Guinea Conakry (37), i tanzaniani (28) e i maliani (24). Chiudono il cerchio migranti di po- che altre nazionalità, che non superano ciascuna la decina d’unità, come i cittadini d’origine liberiana (8), keniota (6), congolese, della Repubblica Democratica del Congo (7), bashoto (del Leshoto) (4), sierraleonese (2), congolese (2), etiope (2), nigerina (1), sudafricana (1) e burundese (1). Come giungono a Castel Volturno e perché vi arrivano questi mi- granti? Intanto bisogna subito specificare che, contrariamente a quanto sostengono sia i media sia il senso comune e talora anche certe forze politiche, non si tratta di un’invasione ma solo di una piccola parte di popolazione africana riuscita a superare indenne il Mediterraneo. La mag- gioranza degli africani migra infatti nella stessa Africa, non giunge da noi. Ma è noto che, nel quadro europeo di Schengen, si considerano im- migrati soltanto coloro che varcano un confine dell’Unione. E, del re- sto, non ci sono solo le rotte del mare ad alimentare i flussi. Per avere un’idea di cosa accade nel continente vicino a noi sulla sponda sud del Mediterraneo, basti dire che alla scala dell’Economic Com- munity of West African States (ECOWAS) gli immigrati e gli emigrati

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© Edizioni Scientifiche Italiane101 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri sono decine di milioni. Tra i 15 paesi che ne fanno parte, la Costa d’A- vorio è la nazione che da sempre ospita più immigrati (intorno ai due milioni), seguita dal Ghana, dalla Nigeria e dal Burkina Faso, tutte con incidenze importanti sulla popolazione nazionale, tranne la Nigeria il cui sviluppo demografico da decenni è preoccupante. Il Burkina Faso, a sua volta, è il primo paese per numero di emigrati (attestato da anni a circa un milione e mezzo), che costituiscono una forte quota della popola- zione burkinabé – e ciò fa già intuire la complessità dei movimenti mi- gratori interafricani. Anche il caso della Costa d’Avorio s’inserisce nel medesimo quadro, visto che esporta più di un milione di suoi cittadini al di là delle proprie frontiere. Fanno la stessa cosa il Mali e la Nigeria. Ma è il Gambia a far registrare la maggiore incidenza di cittadini stra- nieri sul suo territorio, mentre Capo Verde è la nazione con la quota più elevata di emigrati. A loro volta, accolgono sul proprio territorio un numero di immi- grati non trascurabile (tra i 200 e i 150mila) la Guinea Conakry, il Be- nin, il Senegal, il Niger, il Togo e il Mali, con incidenze differenziate sulle rispettive popolazioni nazionali, la più alta delle quali si registra in Guinea Conakry. Quote ancora importanti di emigrati (tra gli 800mila e i 400mila) esportano invece paesi come il Ghana, il Senegal, la Gui- nea Conakry, il Benin, la Liberia, il Niger e il Togo, anche qui con in- cidenze differenziate sulle popolazioni residenti di ciascuna nazione, la più elevata delle quali si registra in Togo. In Africa occidentale circa i quattro quinti dei movimenti migratori è diretto verso altri paesi all’in- terno della regione, cioè sette volte di più rispetto ai flussi diretti dal- l’areale ovest africano alle altre parti del mondo. La mobilità geografica dei gruppi umani interna all’area ECOWAS è in massima misura dovuta a migrazioni di lavoro, con occupazioni scarsamente qualificate nel settore informale (che non favoriscono la re- golarizzazione degli immigrati), in particolare nel commercio e in agri- coltura. La principale direzione di tali flussi va da Nord a Sud, vale a dire dai paesi del Sahel ovest africano alle zone minerarie e alle pianta- gioni costiere. Le migrazioni di lavoro nella regione ECOWAS sono sia temporanee che permanenti, sia stagionali (comuni nei grandi spazi agro- pastorali saheliani) che transfrontaliere a breve termine e, in generale, ri- guardano spostamenti da un’area rurale all’altra e da zone rurali ad am- biti urbani. Gli emigrati originari di uno stesso paese tendono a lavorare nei me- desimi settori del mercato occupazionale di destinazione. Per esempio, in Costa d’Avorio i ghanesi svolgono principalmente la loro attività nella pesca, nel commercio e nei servizi, i burkinabé sono impegnati soprat-

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ISSN 1594-5472102 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso tutto nell’agricoltura, così come lo sono i maliani che, però, sono occu- pati anche nella pastorizia, nella pesca, nell’industria, nei servizi e nel commercio. In Liberia, guineani e maliani sono impiegati come piccoli commercianti e artigiani o lavorano nelle piantagioni, diversamente da ciò che fanno in Senegal, dove i guineani lavorano nei trasporti e nel commercio di frutta e verdura, i maschi maliani sono principalmente at- tivi nel mercato della noce di cola e le donne si specializzano nella ven- dita di vernici. Sempre in Senegal, prima che scoppiasse il conflitto con la Mauritania nel 1989, gli immigrati provenienti da quel paese control- lavano una larga parte del commercio al dettaglio, mentre gli ivoriani, i cittadini del Benin e i togolesi svolgono lavori più qualificati. Da ultimo, in Togo pakistani e libanesi gestiscono negozi in proprietà e gli affari connessi a tali attività. E proprio la conflittualità con la vicina Mauritania può aver spinto alcuni senegalesi a mutare il proprio percorso migratorio da interafri- cano a transnazionale, mirando alle coste italiane per poi trasferirsi in Campania e a Castel Volturno in particolare. Anche i ghanesi, benché abitassero un paese con esportazioni pro capite più che doppie rispetto ai paesi ovest africani meno ricchi, nel 1989 vivono ancora sotto il re- gime militare di Jerry Rawlings. Bisognerà aspettare il 1992 perché veda la luce una nuova costituzione e sia introdotto il multipartitismo, dopo che due anni prima la conferenza di La Baule, in seguito al crollo del Muro di Berlino, aveva spinto i venti di libertà dell’est Europa verso sud, cioè in direzione dell’Africa. Anche il Burkina Faso, dopo le ampie riforme sociali volute da Tho- mas Sankara tra il 1983 e il 1987, in quel periodo era retto da Blaise Compaoré che aveva fatto assassinare il leader rivoluzionario con la com- plicità americana e francese. Non è improbabile che lo scontento popo- lare seguìto al cambio di regime abbia inciso sulle decisioni di emigrare dal paese in cerca di un futuro migliore, guardando all’Europa. E ciò vale, a maggior ragione, per gli ivoriani, il cui paese fu travolto da una grave crisi economica alla fine degli anni Ottanta, quando il progressivo crollo dei prezzi del cacao e del caffè sancì la fine del miracolo econo- mico nella “Svizzera” dell’Africa occidentale, creando un terreno fertile per gli espatri verso l’Occidente. Dal suo canto la Nigeria vive in que- gli stessi anni sotto il governo militare del generale Ibrahim Babangida e, nonostante il paese sia un colosso economico, la pressione demogra- fica del paese più popoloso dell’Africa spinge molti giovani a trovare al- trove soluzioni al proprio destino, pensando agli Stati Uniti e alla più vicina Europa. Se nel continente che fronteggia la sponda sud dell’Europa è questa

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© Edizioni Scientifiche Italiane103 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri la situazione all’epoca della prima massiccia ondata di arrivi a Castel Vol- turno, allora non stupisce che in quel comune del litorale Domizio ol- tre quattro quinti dei migranti sia di provenienza subsahariana. A loro volta, i maghrebini (629) raggiungono nel 1989 una quota del 18,0% sul totale dei registrati, con una preminenza dei marocchini (470), seguiti dai tunisini (125) e dagli algerini (34). Il restante è costituito da cittadini delle Barbados (10), dello Sri Lanka (8), della ex Jugoslavia (4), questi ultimi giunti appena prima della sua dissoluzione politica e disintegrazione ter- ritoriale. Arrivano anche dalle Filippine (3), partiti per l’instabilità poli- tica creatasi in quel paese dopo l’uscita di scena del presidente Ferdinand Marcos nel 1986; uno solo, infine, proviene dall’Argentina, come molti altri che in quel periodo giungono o tornano in Italia a seguito della grave crisi economica che, nel 1989, colpì il paese sudamericano. A Castel Volturno, dal mese di gennaio 1990 all’estate gli arrivi si arrestano: ricominciano a metà giugno e poi si intensificano nel mese di luglio. Fino a dicembre giungono a Castel Volturno all’incirca 400 altri migranti, in maggioranza ghanesi (192), seguiti da burkinabé (75), ivo- riani (39), togolesi (24), nigeriani (15), cittadini del Benin (12), maroc- chini (10), tunisini (6), guineani (5), maliani (4), angolani (4), senegalesi (3), somali (3), nigerini (2), algerini (1), kenioti (1), liberiani (1) e un cit- tadino delle Maldive. Oltre al passaparola, vecchio ma sempre efficace strumento di comunicazione e trasmissione delle informazioni, altri mezzi cominciano ad affacciarsi sulla scena per segnalare che questo comune del Casertano è ospitale, cioè consente ai migranti, anche senza per- messo, un insediamento precario ma efficace nei primi tempi di perma- nenza in Italia, un paese straniero che non ha ancora una legislazione adeguata in tema di immigrazione. A questo proposito forse conviene specificare che, sebbene l’Africa possa trovarsi indietro rispetto al resto del mondo in termini di sviluppo tecnologico, quest’ultimo ha avuto una larga influenza sul continente. A partire proprio da quegli anni gli orizzonti dei potenziali migranti si sono ampliati attraverso le TV satellitari, internet e la telefonia mobile, che è penetrata rapidamente nella società africana. I migranti, da qual- siasi posto provengano, cominciano a mantenere legami con i familiari, gli amici, avviando anche contatti d’affari nei loro paesi d’origine e ciò facilita lo sviluppo di relazioni transnazionali attraverso lunghe distanze e per molti anni. Come nel resto del mondo, col tempo anche in Africa i costi di viaggio sono scesi, con una lenta espansione delle reti stradali e delle rotte aeree. E, per quanto lo spostamento aereo resti un fatto esclusivo, le tariffe sono diventate più avvicinabili, comportando mag- giori opportunità per la gente comune.

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ISSN 1594-5472104 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso

In poco meno di due anni e nove mesi, dal 10 aprile 1989 al 31 di- cembre 1991, passano per la parrocchia di Santa Maria del mare circa 6.000 immigrati (per la precisione, 5.981). Dapprima si verifica un flusso consistente di ghanesi, poi, più in là nel tempo, verso il mese di marzo del 1996 giungono molti nigeriani che, a loro volta, cominciano ad at- tenuarsi sul finire di dicembre del 1997. Significativi sono anche gli ar- rivi di burkinabé che, con flussi maggiormente omogenei, sono più o meno importanti in tutti i periodi, ma dagli inizi del 2000 sono in netto aumento. Sul finire di quell’anno, i migranti provengono praticamente tutti da Burkina Faso, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio e, in qualche raro caso, dal Benin. Un’ondata di maliani investe Castel Volturno nella pri- mavera del 2005, afflusso che si ripete con maggiore intensità a partire dall’estate 2006 in avanti. Dal mese di aprile 1989 al mese di dicembre 2009, hanno beneficiato dell’intermediazione di don Antonio Palazzo 17.465 migranti, fornendogli nella più completa fiducia il proprio nome e i loro dati anagrafici, transitando nella parrocchia attorno alla quale ruota il Villaggio Coppola. La chiesa di Santa Maria del mare, a qua- lunque religione appartenessero i cittadini stranieri, è rimasta nella me- moria di ciascuno di loro: e ciascuno qui significa una media annuale di 873 persone, 72 al mese e tra i due e i tre immigrati al giorno. Un flusso più unico che raro in Italia, un caso che non ha riscontri analoghi sul territorio nazionale, se si esclude quello dei recenti sbarchi a Lampe- dusa.

Migranti in relazione e spazi in movimento

I dati statistici consentono una prima uscita dalle opinioni e dai pre- giudizi. Per quanto consapevoli che ogni tensione a precisare, a misu- rare contenga una perdita inevitabile, l’operazione di quantificare la pre- senza migrante a Castel Volturno vale la pena di essere percorsa17. Sono cittadini stranieri in larghissima parte africani e, per di più, non magh- rebini, come invece accade grosso modo nel resto d’Italia. Tutti li ve- dono, nessuno li conosce realmente; molti ne parlano, pochi ne sanno davvero; alcuni li descrivono, pochissimi li studiano; qualcuno da tempo li assiste, altri da molto più tempo se ne servono. In rapporto alla po- polazione locale la presenza migrante proveniente dall’Africa è massic- cia, con l’incidenza più elevata mai fatta registrare in tutta la penisola. Tra chi se ne è occupato o intende occuparsene sul piano della ricerca, si sente dire che potrebbe trattarsi di un “laboratorio” privilegiato per comprendere i dinamismi migratori, ma anche per valutare le modalità

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© Edizioni Scientifiche Italiane105 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri di reazione della comunità territoriale di accoglienza sul piano econo- mico, culturale o più ampiamente sociale. Un ambito di studio privile- giato, dunque, per gettare luce sul possibile futuro in termini di ricadute politiche che il fenomeno migratorio produce a tutti i livelli di scala, fino a quello nazionale, spingendo verso innovatrici, conservative o più restrittive soluzioni legislative e amministrative. Quando però il sapere sui migranti si limita ad accumulare dati, si riduce alle differenziate possibilità di accesso dei ricercatori a quei me- desimi dati o si trasforma nella capacità di scaricare per via telematica il maggior numero di informazioni sull’argomento, immancabilmente ap- pare dietro l’angolo il rischio di non fare presa su quel mondo. Anzi, il pericolo è quello di arrivare alla perdita di senso rispetto all’universo migrante che, come tale, da noi resta ancora “un mondo a parte”. Ogni numero, invece, cela una storia. Storie che le interviste raccolte con le indagini qualitative cercano, forse meno maldestramente, di raccontare. Interviste che andrebbero coniugate a un investimento per comprendere soprattutto il piano delle reti di relazione tra i cittadini stranieri, segna- tamente le relazioni ideali e materiali che legano i migranti ai territori e alle società di esodo, di transito e di approdo. Non solo perché essi sono in connessione fra loro, ma perché ogni migrante è una relazione. Che la persona sia avvolta da relazioni, sia essa stessa un fascio di relazioni, è noto; che il luogo sia a sua volta relazionale è meno evidente. Ed è proprio perché i luoghi, nella loro essenza, sono relazioni che andrebbe compreso secondo quali logiche e aspettative i migranti si muovono nello spazio geografico e sociale. Le storie di vita non mancano, sono le storie dei luoghi a essere rare: le storie del modo in cui un luogo prende forma, la narrazione dei modi con cui i luoghi entrano nella vita di chi li abita, vi transita, li abban- dona18. Quei luoghi che hanno vissuto gli importanti appuntamenti e le grandi paure di ieri, ma anche i territori e le persone che sono prota- gonisti dell’oggi. Luoghi che, nel corso del tempo, hanno assicurato l’ac- coglienza degli uomini, sia i primi che gli ultimi arrivati, e favorito la riproduzione sociale tramite il lavoro della collettività, per trasformare un ambiente naturale, forse non troppo generoso, in un territorio co- struito più funzionale rispetto ai bisogni di ciascuno. Un territorio che, domani, potrà forse essere condiviso più di quanto ora non sia. Perché a Castel Volturno il paesaggio sia urbano sia rurale, metafora della so- cietà, resta ancora attraccato ai moli della crescita potenziale, dello svi- luppo annunciato, mentre stenta a prendere il largo dell’età adulta. E i paesaggi migratori sono parte integrante di questo processo di difficile maturazione sociale. Il territorio, dal suo canto, è metonimia dei rap-

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ISSN 1594-5472106 © Edizioni Scientifiche Italiane Africani di Castel Volturno, se è permesso porti di potere e rivela, anche solo dalla sua crosta di superficie, più di quanto siamo in grado di vedere. E se è vero che «la terre nous en ap- prend plus long sur nous que tous les livres» (Saint-Exupéry 1939, p. 7), allora descrivere il paesaggio e analizzare il territorio come posta in gioco delle relazioni tra migranti e società locale potrebbe essere una non del tutto azzardata scommessa sul futuro. Nostro e loro.

1 Riprendo qui, integrandole alla scala regionale e locale, alcune considerazioni e analisi già proposte per il territorio nazionale in Oim 2012, pp. 21 ss. 2 Infine, tra i migranti residenti si verificano consistenze esattamente uguali di uo- mini e donne a Trentola-Ducenta, Pignataro Maggiore, Dragoni, Raviscanina, Capriati a Volturno, Fontegreca. 3 Nella stragrande maggioranza donne, cioè oltre tre volte il numero degli uomini, esse sono per lo più impegnate nell’assistenza familiare e nelle attività domestiche. 4 Si tratta anche qui di una popolazione prevalentemente femminile (58,2%), ma non in misura così marcata come nel caso delle ucraine. 5 Queste tre nazionalità sono composte soprattutto da maschi, ma mentre tra ci- nesi e srilankesi gli uomini hanno un’incidenza di poco superiore alla metà (55,6% e, rispettivamente, 54,4%), tra i marocchini la quota di maschi raggiunge il 70%. 6 In particolare provenienti dall’Ucraina (18,6%). Prevalenti anzitutto nei comuni del Casertano con popolazione più numerosa ma territorialmente diffusi anche altrove, gli ucraini costituiscono la prima nazionalità straniera a Caserta (38,1%), Carinaro (35,3%), Aversa (34,9%), Santa Maria Capua Vetere (31,5%), Teverola (30,1%), Casagiove (28,4%), Santa Maria a Vico (26,0%), Maddaloni (25,9%), Trentola-Ducenta (25,6%), Pratella (21,4%), San Felice a Cancello (19,4%). 7 Tra i quali primeggiano i romeni (29,2%). In molti comuni della provincia di Ca- serta i cittadini d’origine romena figurano come maggioritari tra gli stranieri, ma supe- rano di gran lunga la metà della popolazione migrante a Raviscanina (74,1%), Fonte- greca (66,7%), Pietravairano (61,6%), Parete (61,5%), Castel Campagnano (61,0%), Roc- caromana (60,0%), Pietramelara (58,9%), Letino (57,1%), Castel Morrone (56,3%), Mar- zano Appio (56,2%), San Pietro Infine (55,6%), Rocchetta e Croce (55,2%), Valle Agri- cola (55,0%), Vairano Patenora (53,8%), Giano Vetusto (52,2%). 8 La consistente presenza di indiani nella zona è motivata dall’impiego che essi tro- vano come mandriani dediti alla mungitura delle bufale, il cui latte viene trasformato nella rinomata mozzarella campana che costituisce una delle eccellenze della gastrono- mia italiana nel mondo. 9 In provincia di Caserta essi arrivano poi a essere oltre la metà di tutti gli stranieri presenti sul territorio a Castel di Sasso (57,9%) e a Santa Maria la Fossa (54,8%), ma costituiscono la prima comunità anche in altri comuni, sebbene con una minore inci- denza. Oltre al già richiamato Grazzanise, Baia e Latina (48,3%), Ruviano (39,5%), Can- cello ed Arnone (39,3%), Dragoni (34,4%), Sant’Angelo d’Alife (31,6%), Alife (29,7%), Capriati a Volturno (29,4)%, Pastorano (28,4%), Falciano del Massico (18,0%) sono paesi in cui essi risultano maggioritari. Ma è a Ciorlano, un piccolo comune di poco più di 450 abitanti localizzato nei pressi del confine amministrativo con il Molise, che

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© Edizioni Scientifiche Italiane107 ISSN 1594-5472 Luigi Gaffuri gli indiani raggiungono l’incidenza più elevata sulla popolazione migrante (70,6%), ben- ché si tratti solo di 12 persone su un totale di 17 stranieri. 10 Nel Casertano i cittadini stranieri maschi provenienti dal Marocco sono più che doppi rispetto alle femmine e, nell’insieme, emergono come prima nazionalità straniera a Cervino (51,6%), dove un migrante su due è marocchino. Essi sono predominanti an- che in molti altri comuni piccoli e medi della provincia, come Cesa (45,2%), Alvignano (37,7%), Orta di Atella (36,2%), San Potito Sannitico (34,2%), Gioia Sannitica (33,7%), Casapulla (32,5%), Succivo (31,0%), Macerata Campania (30,9%), Casaluce (28,8%), Pontelatone (28,7%), Portico di Caserta (28,0%), San Marcellino (26,9%), Marcianise (26,9%), San Prisco (24,7%), Curti (21,7%). 11 Comune nel quale gli albanesi rappresentano il 25,8% di tutti gli stranieri pre- senti sul territorio. Prevalentemente maschi a livello provinciale, i cittadini provenienti dall’Albania sono la prima nazionalità di migranti anche a Sparanise (61,1%), Mignano Monte Lungo (40,7%), Caianello (35,6%), Recale (34,1%), San Marco Evangelista (23,4%), San Tammaro (22,7%), Francolise (20,3%). 12 Appena a sud del capoluogo di provincia, fa eccezione il comune di San Nicola la Strada, dove si trovano concentrati molti senegalesi (520) che costituiscono il 41,7% della popolazione migrante complessiva (1.246): qui, praticamente, un cittadino straniero su due è senegalese. 13 Per trovare incidenze così alte, purtuttavia sempre inferiori a quelle di Castel Vol- turno, bisogna andare nella provincia di Napoli (Terzigno 12,8%, San Giuseppe Vesu- viano 12,3%, Forio 11,2%, Palma Campania 11,1%, Capri 10,6%) e in quella di Sa- lerno (Eboli 12,6%, Capaccio 11,0%). 14 In provincia di Caserta, come si può vedere di nuovo confrontando la Tabella 1, le più basse incidenze di migranti sul totale della popolazione residente si registrano nei piccoli comuni, come Gallo Matese (0,7%), Pratella (0,9%), Letino (1,0%), Piana di Monte Verna (1,3%), Fontegreca (1,4%). 15 Un altro comune del Casertano, lontano da Castel Volturno, in cui i nigeriani sono la prima nazionalità di cittadini stranieri è Gricignano di Aversa, dove costitui- scono pressoché un terzo dei migranti (29,9%). 16 Conviene precisare che l’impostazione metodologica qui adottata, riguardo al fe- nomeno dell’immigrazione, non può prescindere dalla presa in carico della situazione nei territori di provenienza dei migranti, dove si originano, per un insieme di cause com- plesse e mutevoli tra le quali spiccano quelle economiche e demografiche, i flussi in uscita che appunto caratterizzano le dinamiche dell’emigrazione. Con le stesse parole di Sayad: «Non c’è immigrazione in un luogo senza che vi sia stata emigrazione da un al- tro luogo; non c’è presenza da qualche parte che non sia pagata da un’assenza in un’al- tra parte. La denominazione stessa di immigrato rinvia implicitamente a quella di emi- grato, che ne è il corollario» (Sayad, 2008, p. 79). 17 I risultati parziali fin qui raggiunti saranno approfonditi in futuro, da un lato sfruttando al meglio i differenti archivi di dati disponibili, dall’altro utilizzando infor- mazioni “qualitative” e materiali documentari ottenuti con l’indagine di campo. 18 Un’eccezione recente, che sopperisce in parte a questa carenza, è il libro di D’A- scenzo 2014.

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ISSN 1594-5472108 © Edizioni Scientifiche Italiane MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Disfunzioni migratorie e territorio: gli africani di Castel Volturno FABIANA D’ASCENZO

1. Una “città-nastro” per i migranti

Castel Volturno è uno dei quattro comuni – insieme a Mondragone, Sessa Aurunca e Cellole – nei quali si organizza, sotto il profilo ammi- nistrativo, il litorale domizio casertano e costituisce un segmento della conurbazione lineare che avanza lungo la fascia costiera. Il fiume Vol- turno attraversa la superficie comunale e sfocia nel mar Tirreno in pros- simità del vecchio borgo, posto nell’immediato entroterra, dividendolo, di fatto, dalla località di Destra Volturno. Quasi la metà dei circa ven- ticinque km di spiaggia ricompresi nel ritaglio amministrativo castellano è costeggiata dalla pineta. Il comune si colloca sul margine litoraneo della “Terra di Lavoro”, l’antica “Campania Felix” romana, delimitata dal triangolo di Caserta, Villa Literno e Aversa. Verso l’interno il territorio è prevalentemente destinato sia all’agricoltura irrigua sia all’allevamento ovino e bovino, in cui spicca quello della bufala, a sua volta collegato all’industria casearia nota per la produzione dell’omonima mozzarella (Figura 1). Polo di rilievo nella storia antica per la posizione strategica rivestita nelle relazioni commerciali tra Campania e Lazio, ma anche in quella moderna che lo vide protagonista di scontri significativi per la futura storia d’Italia, Castel Volturno sconta ancora oggi gli effetti dovuti alla sua localizzazione. Quasi a metà strada tra Caserta e Napoli e a circa due ore da Roma, il sito è stato travolto da quel processo di litoraliz- zazione che ha toccato, in misura più o meno accentuata, diverse coste del Belpaese. Per restare sul versante tirrenico, vale la pena ricordare al- meno le vicende che hanno coinvolto Lazio e Calabria. Il litorale alle porte di Roma è stato caratterizzato, negli ultimi cinquant’anni, da una

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© Edizioni Scientifiche Italiane109 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo rapida urbanizzazione originata da interessi residenziali, turistici e indu- striali. Ciò ha dato luogo a un miscuglio di insediamenti che vanno da quelli periurbani, a ridosso dei centri storici, a quelli più o meno abu- sivi lungo la fascia costiera. La zona di Anzio, sul Tirreno nella parte meridionale del Lazio, a circa 60 km dalla capitale, è stata classificata urban morphological zone per un terzo della sua estensione (Munafò, Strollo, Zitti, Salvati 2011, pp. 276, 282-283). Nel secondo caso, il pro- cesso di litoralizzazione in Calabria ha comportato un’occupazione del suolo che supera il 26% del territorio regionale. L’esito più evidente è una periferia senza centro spalmata lungo la Statale 18. Castel Volturno appartiene alla tipologia delle “città-nastro”1, artico- landosi sui due lati di un’asse viario, la Statale 7 quater Domiziana. Tale infrastruttura percorre interamente il litorale domizio-flegreo e collega il Garigliano, situato al confine tra Lazio e Campania, con l’area puteo- lana alle porte di Napoli. La scena che si svela all’osservatore attraver- sando la Domiziana è in contrasto con le forme e gli assetti del bel pae- saggio: ciò che si affaccia sulla strada appare come una sorta di “quadro ambientale” dissonante, sciatto, compresso nella fisicità e dispersivo nelle funzioni. La monotonia dell’abitato, cui fanno da contrappunto il pun- tuale ripetersi di piccole attività commerciali e la presenza ricorrente di qualche albergo, è accompagnata dalle intermittenze di relitti megalitici, strutture abortite delle quali restano gli scheletri in cemento armato o le facciate scarnificate, con finestre senza infissi, eternamente aperte, at- traverso le quali è possibile intravvedere interni mai realizzati. È in con- trasto con questo scenario congelato l’andirivieni dei veicoli: un movi- mento più o meno intenso – a seconda degli orari, dei giorni della set- timana, della stagione – ma costante, che lascia sui luoghi una patina di instabilità, opponendosi all’idea di permanenza e trasformandoli in spazi di transito. Il ruolo della Domiziana ha sopperito alle carenze tipiche di un ter- ritorio caratterizzato da un’urbanizzazione repentina e selvaggia, gene- rando un intenso rapporto tra abitanti neo-insediati e asse di penetra- zione che ha determinato una vera e propria dipendenza dalla strada. Le innumerevoli attività commerciali che si srotolano lungo il nastro di ce- mento ne sono una testimonianza. Esse seguono una «logica dell’acco- stamento concorrenziale» riscontrabile nella presenza costante della se- gnaletica pubblicitaria (Lettieri 2008, p. 88): le insegne che contraddi- stinguono tali attività e quelle che le promuovono riempiono lo spazio prepotentemente, accumulandosi o sovrapponendosi le une alle altre in una sorta di lungo caleidoscopio di messaggi e informazioni, aggiun- gendo tautologicamente rumore a una confusione già di per sé caratte-

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ISSN 1594-5472110 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

Fig. 1 - Il territorio comunale di Castel Volturno

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© Edizioni Scientifiche Italiane111 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo rizzata. Tra queste spiccano, sulle facciate di qualche casa, cartelli che invocano improbabili vendite, nel tentativo di disfarsi di ciò che resta di un vecchio investimento, di un lontano sacrificio o di una remota ma- lefatta. D’altro canto, le aree non produttive vengono considerate spazi vuoti, non di rado riempiti da rifiuti ingombranti e no. È il caso della Pineta, cinta da anni con una lunga rete realizzata per impedire le frequenta- zioni notturne e tuttavia costellata da squarci che costituiscono vie d’ac- cesso create ad hoc; è il caso degli spazi che si aprono nelle poche zone più isolate, raggiungibili attraverso qualche strada secondaria che si snoda verso i lidi costeggiando abitazioni abbandonate, case occupate, rifugi di fortuna; è, ancora, il caso di alcuni ritagli di campagna limitrofi alle zone abitate, nei quali ci si imbatte percorrendo le lunghe vie sterrate che s’i- noltrano per i campi di mais e di foraggio, tra le aziende bufaline e i fi- lari di alberi da frutto. Queste tre tipologie spaziali costituiscono anche le sedi deputate allo spaccio e alla prostituzione. La “città domiziana” di Castel Volturno rientra anche, a pieno ti- tolo, nella categoria dei luoghi-flusso e, nella sua fisicità di “città-na- stro”, sembra persino incarnarla. Il pendolarismo, figlio del periurbano a basso costo e dell’espansione scriteriata, l’afflusso stagionale del turi- smo balneare, la presenza di migranti regolari, i prodotti caseari e orto- frutticoli sono le componenti “legittime” del movimento di persone e merci. Al contrario, i migranti irregolari, i clienti dello spaccio di droga e della prostituzione, le ragazze impigliate nella rete della tratta ma an- che il denaro sporco e gli stessi stupefacenti, si configurano come ele- menti costitutivi del flusso che appartengono, però, alla dimensione del- l’illecito, del fuori norma. D’altro canto, soprattutto in contesti ad alta complessità socio-terri- toriale, la schematizzazione è destinata a convivere con una serie di con- traddizioni interne. L’illecito, per esempio, può insinuarsi nelle filiere uf- ficiali, non rivelandosi come fatto esterno al patto sociale. In altri casi lo stesso patto sociale, non riuscendo a soddisfare le esigenze della mag- gioranza, decade come principio generale perché viene corroso da una serie di comportamenti informali che, nel corso del tempo, divengono prassi consolidate. In quanto sforzo di discernimento, tuttavia, ogni sche- matizzazione permette non solo di individuare delle singolarità all’in- terno di eventi che si presentano come indistinti, ma anche di cogliere commistioni e parentele inedite tra fatti che, intuitivamente, non saremmo portati a considerare collegati. All’interno del movimento di merci e persone sopra accennato s’in- serisce il flusso dei migranti subsahariani: immaginando di raffigurarlo

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ISSN 1594-5472112 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio con una linea, esso attraverserebbe verticalmente una serie di livelli, a loro volta generatori di altri flussi, alimentandoli inevitabilmente con il suo contributo, in misura diversa a seconda delle possibilità intrinseche al caso specifico. Questi livelli sono rappresentati dalla produzione or- tofrutticola e casearia, dal turismo, dal commercio, dalla tratta delle donne e dall’esercizio della prostituzione, dal traffico di stupefacenti: vale a dire da attività, presenti sul territorio, che costituiscono flussi in sé e ne com- portano di nuovi. La presenza africana, cioè, entra in relazione con ognuno di questi aspetti nei quali svolge un ruolo attivo, organizzan- dosi in maniera capillare e non restando relegata ai margini del corpo sociale locale. Il territorio in questione appare, oggi, strutturalmente poco integrato al suo interno, mostrandosi diviso in segmenti sotto certi aspetti auto- referenziali e ai quali corrispondono funzioni e fruitori differenti. La presenza africana non è immune da questa organizzazione dello spazio: al contrario, la sua distribuzione conferma un modello territoriale perfor- mativo, che condiziona e orienta le scelte dei nuovi arrivati. Il caso di studio privilegia un determinato tratto della Statale Do- miziana, che si sviluppa per poco meno di nove chilometri: il limite nord è costituito dall’inizio del centro storico di Castel Volturno, mentre quello sud è definito dallo svincolo che consente di proseguire per Licola e Pozzuoli, oppure di immettersi nell’asse mediano della circonvallazione provinciale di Napoli. Questa scelta è motivata da due fattori: uno di ordine pratico, relativo alla necessità di selezionare una scala d’osserva- zione che consentisse il monitoraggio diretto dei fatti quotidiani; l’altro ha invece a che vedere con il riconoscimento di una segmentazione ter- ritoriale già attiva, al cui interno operare tale selezione. A quest’ultimo proposito, dopo un primo tratto che intercorre al- l’incirca dalla località di Licola a quella di Ischitella, se ne snoda un se- condo scandito dalle rotatorie e da un lungo rettilineo parallelo al lito- rale tirrenico: vale a dire, l’epicentro delle attività domizie. Per questo segmento il centro storico di Castel Volturno costituisce una sorta di in- terruzione naturale, soprattutto in relazione alla presenza africana, come si vedrà meglio in seguito. Al di là del corso del fiume il rettilineo della strada riprende in direzione di Mondragone, attraversando le località di Destra Volturno e Pescopagano e marcando un’altra entità rispetto a quella qui presa in considerazione. Sebbene la presenza di migranti africani in termini di residenzia- lità sia più forte nelle due aree di Destra Volturno e Pescopagano, il tratto di strada che si sviluppa dal centro storico fino allo svincolo per Pozzuoli o Napoli è caratterizzato dalla presenza di diverse strut-

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© Edizioni Scientifiche Italiane113 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo ture che sono diventate un punto di riferimento importante nel per- corso d’inserimento degli africani; esse comportano, del resto, anche la frequentazione continua da parte dei migranti che vivono al di fuori della zona in questione. Ciò ha costituito, pertanto, il motivo della predilezione per questo segmento stradale e per la sua delimitazione come area di osservazione, sebbene l’analisi dei fatti sociali così spa- zialmente circoscritti possa, talvolta, varcare tali confini strumental- mente individuati. Il ritaglio territoriale prescelto consiste, pertanto, in un tratto di Do- miziana caratterizzato da una componente residenziale profondamente ibrida e abbastanza mobile, al cui interno è difficile intravedere una qual- che forma di società costituita o embrionale. Questo segmento è rac- chiuso da due entità urbane: una è quella del nucleo storico originario, oggi apparentemente barricata intra moenia, difesa da una comunità au- toctona che, di fatto, sembra esistere ancora in virtù di una cristallizza- zione di se stessa intorno a ciò che era. L’altra è costituita dal Villaggio Coppola, al polo opposto non solo in termini cardinali, ma anche per- ché sezione urbana costruita ex-novo, artificiale2. Odierno spaccato pe- riferico degradato di una metropoli assente, il villaggio gode a sua volta di una collettività residuale, non costituita da autoctoni bensì da napo- letani sopraggiunti qui nella decade degli anni Ottanta, che vive di ciò che resta, ivi compreso il ricordo mitico degli splendori passati. Pur es- sendo caratterizzato da una popolazione prevalentemente non immigrata, per il Villaggio Coppola la presenza africana non è un fatto anomalo: ne sono testimonianza una discoteca dove settimanalmente si svolgono feste nigeriane e almeno un luogo di culto destinato a periodiche fun- zioni religiose3. In un siffatto caso è difficile anche parlare di diverse città all’interno di una città: più realistico sarebbe esprimersi in termini di forme diffe- renti di non-città all’interno di una non-città. Se di Castel Volturno si è appunto detto, in ripetute occasioni, che non è più un paese ma non è ancora una città, allora ci si dovrebbe momentaneamente accontentare di considerare questa località come una non-città. Ciò soprattutto alla luce del fatto che certamente non è più un paese, mentre nulla garanti- sce che un giorno sarà un centro urbano. Per ora resta sicuro che l’u- nico elemento di unitarietà di questo organismo post-moderno è la strada e che la vita dei migranti non solo non è indifferente all’organizzazione del territorio ma, al contrario, ne dipende profondamente. Perciò, nel- l’agire quotidiano, il contesto di riferimento diventa per loro un “testo” che è, insieme, trama e ordito: un tessuto fatto oggetto di posiziona- menti, interpretazioni, risemantizzazioni, trasformazioni, nel mentre le

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ISSN 1594-5472114 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio pratiche transnazionali si traducono in forme localizzate inscrivendosi nel luogo e divenendone, a loro volta, componenti.

2. Presenze africane e tipologie lavorative

A Castel Volturno le presenze straniere cominciano a mostrarsi in forma evidente dopo il 1989: si tratta, da una parte, di coloro che la- sciano i ghetti di Qualiano e Villa Literno, attratti dalla possibilità di abitare in appartamenti a prezzi accettabili (Natale 2003, pp. 27 ss.); dal- l’altra parte, a fianco di questo riflusso di migranti provenienti dai ghetti e già respinti, a loro volta, dalla grande città, si collocano i nuovi in- gressi frutto di sbarchi organizzati in zona. La questione degli sbarchi meriterebbe ulteriori approfondimenti, perché pone una serie di domande che restano senza risposta e che aiu- terebbero a capire meglio la genesi locale del fenomeno. Essi s’inseri- scono, probabilmente, in un sistema di traffici già ampiamente collau- dato, costituendone una delle possibili “evoluzioni”. Nel tracciare una mappa della vocazione all’illecito del litorale domizio, Mario Luise cita, per esempio, il contrabbando di carburante a fine anni Quaranta e gli sbarchi di sigarette negli anni ’70, che per lungo tempo posero Castel Volturno al centro della cronaca. L’autore, inoltre, parla di importazioni di “extracomunitari” sul litorale già a partire dalla metà degli anni Ses- santa, in pieno boom edilizio, quando cioè era richiesta forza lavoro a basso costo nelle costruzioni. Il traffico sarebbe stato gestito dalla ca- morra e gli sbarchi avvenivano di notte, al largo di Ischitella (Luise 2001, pp. 178-179, 49). In questo modo viene spostata indietro di circa un ventennio, rispetto alle versioni correnti focalizzate sugli esiti evidenti della presenza immigrata più recente, una storia della quale sarebbe au- spicabile ritrovare le origini. In ogni caso il potenziale d’attrazione dell’area, nella decade del grande afflusso degli anni Novanta, resta legato principalmente all’esi- stenza di attività agricole che necessitano di manodopera sottopagata, alle possibilità d’impiego nel settore edilizio o nel commercio ambulante, alle opportunità offerte dalla galassia delle attività informali nelle sue molteplici sfaccettature e alla presenza di seconde case sfitte. In princi- pio si tratterà di un’immigrazione prevalentemente maschile, caratteriz- zata dalla preponderanza di provenienze dall’Africa occidentale4. Del resto Castel Volturno, nei progetti migratori, costituisce un luogo di passaggio, lo sfondo di una condizione di transitorietà, l’avamposto della regolarizzazione necessaria per trasferirsi altrove, il limbo prelimi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane115 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo nare all’ascesa geografica e sociale. Negli ultimi anni la presenza immi- grata africana si è riequilibrata in relazione al genere, mentre è andata sempre più affermandosi la prevalenza delle nazionalità ghanese e nige- riana sulle altre. Al suo interno, inoltre, si sono sviluppate delle frange legate alla criminalità organizzata che, nel tempo, sono riuscite a rita- gliarsi spazi di manovra stabilendo accordi con la malavita locale. Pro- prio per questo Castel Volturno occupa oggi una posizione singolare nel panorama nazionale, rappresentando «l’unico caso di insediamento di una criminalità straniera forte in territori controllati dalla criminalità or- ganizzata autoctona» (Bernardotti 2005, p. 147). Il riferimento va allo spaccio di sostanze stupefacenti o alla prostituzione, gestite su base et- nica dalla mafia nigeriana. Questa dimensione dell’illecito, presente tra gli africani a Castel Vol- turno, ha contribuito non poco a sclerotizzare il profilo del migrante subsahariano nell’immaginario collettivo locale. Inoltre, se si tiene conto del fatto che la stessa popolazione locale subisce gli effetti di una stig- matizzazione reiterata, dovuta, da una parte, agli scabrosi episodi di cro- naca che non cessano di coinvolgere queste aree e, dall’altra, all’uso che la stampa fa di tali episodi, non è difficile intravedere nel meccanismo di criminalizzazione del migrante africano il tentativo più o meno in- consapevole, da parte di una fetta consistente della comunità locale, di crearsi un capro espiatorio5. In termini di distribuzione delle presenze, ciò che accade in questa area non è un processo sconosciuto agli studi sulle migrazioni: esso rien- tra infatti nell’eterolocalismo, un fenomeno intrametropolitano della fine del XX secolo caratterizzato dalla dispersione degli immigrati dal cen- tro delle grandi città alle aree periferiche. Tale fenomeno è dovuto, prin- cipalmente, al declino industriale dei paesi cosiddetti avanzati, alla man- canza di impiego e ai prezzi proibitivi degli alloggi. In questa direzione, in diverse parti del mondo, l’agricoltura riserva ancora uno spazio im- portante per la dispersione geografica dei migranti (Samers 2012, pp. 143-145). Ciò vale anche, com’è noto, per il nostro contesto di riferi- mento, dove «la bonifica (comprensoriale e aziendale) – prima, durante e dopo il fascismo – ha cambiato il volto agricolo di quelle che una volta erano le terre dei Mazzoni. La nuova agricoltura intensiva orto- frutticola in terre una volta poco abitate richiede manodopera che deve venire per forza dall’esterno (prima i caporali la portavano da altre zone della Campania). La manodopera straniera migrante (con i suoi dispe- rati bisogni) è quella più adeguata perché più flessibile e meno costosa» (Pugliese 2008). Le zone agrarie del comune di Castel Volturno sono messe a col-

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ISSN 1594-5472116 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio tura con foraggi, mais, verdure e, in secondo luogo, alberi da frutto. La raccolta del pomodoro viene effettuata nel vicino comune di Villa Li- terno, soprattutto durante la stagione estiva. Sebbene i migranti lavorino anche in queste aree, in molti sono costretti a spostarsi quotidianamente su distanze di gran lunga maggiori; inoltre, la ristrutturazione del si- stema agricolo non permette più la stessa distribuzione del lavoro degli anni addietro. Queste attività comportano dunque dei trasferimenti sta- gionali che seguono i cicli di raccolta dei prodotti anche fuori regione, oppure, in alternativa, l’integrazione con altri lavori occasionali. I punti di smistamento, che i migranti in cerca di lavoro hanno ribattezzato ka- lifoo ground, a indicare il luogo nel quale è possibile procurarsi schia- vitù a giornata, coincidono generalmente con rotatorie o bivi, rispon- dendo alle esigenze di accessibilità tanto dei migranti quanto dei pro- cacciatori. Questi mercati delle braccia vengono raggiunti all’alba, con la speranza di essere scelti da un caporale o intercettati da un qualsiasi al- tro cittadino in cerca di un lavoratore a giornata. Nel segmento territoriale scelto come caso di studio, i punti nevral- gici per lo smistamento della forza lavoro sono individuabili in diverse zone, ubicate lungo la strada oppure spostate appena verso l’interno ri- spetto all’asse stradale. Prendendo come punto di riferimento la rotato- ria del “Black & White”, così conosciuta per la presenza di un risto- rante-pizzeria con questo nome, se si lascia la Domiziana e si segue la strada che porta verso il mare, ci si imbatte in un’altra rotonda: questo è uno dei luoghi più importanti del reclutamento di manodopera, ca- ratterizzato, non solo la mattina ma anche durante la giornata, dal via vai di migranti in attesa e di persone in cerca di braccianti e operai oc- casionali (Figura 2). Un punto di concentramento ulteriore si trova nei pressi del bivio per Villa Literno: dal comune limitrofo, infatti, proviene una buona parte delle offerte lavorative. L’alta mobilità e la versatilità contraddistinguono queste figure di mi- granti «transumanti» e «trasversali», connotandone la condizione di mar- ginalità (Amato 2008, pp. 72-73). La brevità dei tempi di contrattazione nei kalifoo, facilitata dalla disponibilità di forza lavoro, richiede la mag- gior quantità di conoscenze possibili e la messa a punto di strategie: lo scambio di informazioni tra migranti e la flessibilità diventano dunque indispensabili per trovare qualche occupazione. Essendo ridotta al mi- nimo la possibilità di scelta, bisogna infatti farsi trovare pronti a tutto e in qualsiasi momento. Ci sono centri di smistamento più lontani, nodi di una rete invisi- bile ma efficace, capace di convogliare i bisogni di una forza lavoro a basso costo e l’interesse di piccoli imprenditori o persone qualsiasi tra

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Fig. 2 - Le attività commerciali africane

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ISSN 1594-5472118 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio le province di Napoli e Caserta. A seconda della distanza e della di- sponibilità di mezzi, queste zone d’incontro tra offerta e domanda di lavoro vengono raggiunte a piedi, in autobus, in bicicletta. Quanto più è necessario dislocarsi per cercare un’occupazione, tanto più il costo della vita aumenta e, per il migrante, si innesca un circolo vizioso difficile da spezzare. Si mettono dunque in pratica una serie di strategie che pun- tano al risparmio, al mutuo soccorso, all’unione delle forze. Dove dor- mire, come mangiare, da chi acquistare qualcosa, dove cercare lavoro, come spendere meno: le informazioni possono valere quanto il denaro, soprattutto per chi è appena arrivato e deve ancora capire quali sono le possibilità di installarsi sul territorio. In questa direzione, inoltre, il feed- back comportamentale degli abitanti locali può entrare in relazione con il progetto in fieri del migrante, al punto da determinarne o meno la riuscita. Negli ethnoburbs, aree residenziali caratterizzate dalla presenza di gruppi di cittadini stranieri prevalenti ma non necessariamente domi- nanti, la relazione privilegiata tra immigrazione irregolare e impiego infor- male assume contorni didascalici: come se una sorta di flusso migrato- rio di secondo livello si dirigesse verso le aree povere del supposto mondo ricco. A Castel Volturno, inteso come cluster suburbano, la nota capa- cità africana del se debrouiller trova un tessuto socio-economico già av- viato in questo senso, sul quale attecchire senza incontrare grossi osta- coli di ordine giudiziario, fiscale o morale. La radicata dimensione lo- cale del “cavarsela” può infatti ricomprendere nelle sue maglie le atti- vità informali africane, mediante rapporti di volta in volta simbiotici o di subordinazione, oppure mantenere la distanza da esse; in ogni caso però riconosce, e quindi tollera, un’attitudine alla sopravvivenza che in queste aree ha ormai acquisito un diritto di esistenza indiscutibile, che va al di là del livello culturale o di qualsivoglia grado di predisposizione all’apertura verso l’altro. Per gli immigrati di Castel Volturno le attività occasionali sono una componente molto significativa, la cui capillarità rende conto di un mec- canismo redistributivo del lavoro e del denaro non dissimile da quello che caratterizza le città africane: questa modalità comporta, da un lato, un inevitabile abbattimento dei costi del servizio, qui accentuato dal fatto che la contrattazione è, in genere, a discrezione di colui che usufruisce della prestazione d’opera; dall’altro, essa mantiene viva la possibilità, per i migranti, di restare sul territorio. Viene cioè organizzata «un’economia informale su piccola scala destinata non solo a ricavare mezzi di sussi- stenza, ma anche a ritagliare uno spazio comunitario di sostegno alla ri- produzione delle migrazioni» (Caruso 2013, p. 150). Inutile dire che in

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© Edizioni Scientifiche Italiane119 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo altre parti d’Italia queste dinamiche non potrebbero innescarsi, non tanto per il ruolo esercitato dagli organi di prevenzione e sicurezza, quanto per il ben più incisivo dispositivo di controllo sociale, per cui certe at- titudini sarebbero inconcepibili alla luce di un sistema di valori diffe- rente e di un diverso codice comportamentale, da lungo tempo incor- porati e metabolizzati. Le mansioni richieste, sulle quali è possibile contrattare un periodo di attività occasionale più o meno lungo, che può andare dalle poche ore alla giornata intera o alla durata necessaria per il lavoro in questione, sono le più svariate: giardinaggio, pulizia di locali, facchinaggio, mano- valanza generica. A loro volta le attività di ristorazione o alberghiere, funzionanti principalmente durante l’estate come capita anche per i lidi, si servono dei lavoratori immigrati occasionali per i lavori più impe- gnativi, soprattutto a inizio e fine stagione. Le strutture che restano aperte tutto l’anno, invece, li impiegano a volte per mansioni che ri- schiano di passare inosservate ma che, nondimeno, rivestono un impor- tante ruolo nello svolgimento delle attività stesse. Un esempio appare significativo: alcuni bar lungo la Statale Domi- ziana, in particolare quelli più grandi, multifunzionali, al cui interno è possibile usufruire di servizi quali tabacchi, ricevitorie del Lotto, paga- mento delle utenze, incaricano talvolta un ragazzo africano come aiu- tante per la gestione dell’afflusso delle automobili dei clienti. Di fatto la linearità dell’asse stradale, per giunta caratterizzato da traffico e velocità sostenuti, comporta una certa difficoltà per gli automobilisti che vogliono parcheggiare o reimmettersi sulla strada, così come per i pedoni che de- vono attraversare. Questa attività può apparire persino banale, ma non lo è in un contesto in cui, a volte, l’impossibilità di fermarsi in un de- terminato bar comporta la necessità di tirare dritto verso il successivo: il che si traduce, semplicemente, in una perdita di clienti. L’informale occasionale subentra proprio in questa fase, con la flessibilità che lo con- traddistingue. Un altro caso molto diffuso è quello del factotum, un africano di fi- ducia che, in linea di massima, è pronto a soddisfare qualsiasi esigenza della famiglia o della persona di riferimento; una figura, questa, simile a quella del boy nell’Africa coloniale anglofona, ma della quale usufruire solo al momento del bisogno. In alcuni casi questi rapporti di lavoro si trasformano da occasionali in continuativi e talvolta possono perfino ar- rivare a inscriversi in un quadro ufficiale. Il settore informale non è forgiato unicamente sull’occasionalità tout court, poiché il tentativo del migrante è di rifuggire a qualsiasi costo dalla precarietà, inseguendo, di volta in volta, condizioni di lavoro che

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ISSN 1594-5472120 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio più si avvicinino a una qualche forma di stabilità. Per questo motivo, appena possibile, molti si cimentano in attività lavorative che, per quanto informali, riescono a garantire loro una qualche continuità. Rientrano in questo ventaglio di occupazioni, che non hanno tanto a che vedere con le esigenze degli abitanti locali bensì con bisogni più espressamente afri- cani, una rosa di attività che gli stessi migranti contribuiscono a creare. Le più diffuse in questo senso sono quelle della parrucchiera “a chia- mata”, della ristorazione all’interno della propria abitazione e del pic- colo commercio informale. Nei primi due casi si tratta di attività esclu- sivamente femminili, mentre tutte si strutturano all’interno di un network creato dal passaparola. Viene così a delinearsi lo spazio per importanti margini di manovra: una siffatta organizzazione del lavoro, infatti, è con- nessa alla massiccia presenza migrante subsahariana e, per questo, di- pende dai bisogni della propria comunità piuttosto che da quelli della società locale. Ciò favorisce lo sviluppo di nuove possibilità previsionali, una maggiore capacità di valutare costi e benefici, la gestione autonoma del proprio business. Sebbene raramente, la ristorazione informale può essere riconvertita in attività più redditizie, come nel caso dell’import-export con il proprio paese, che permette il rifornimento degli afromarket lungo la Domiziana. D’altro canto, quando la condizione lo richiede, anche questa forma di commercio internazionale può essere abbandonata, per esempio a favore di un’attività di vendita stanziale. Altre volte i prodotti della ristorazione informale possono riconfluire all’interno del commercio ufficiale attra- verso un’operazione che recupera l’attività originaria e la inserisce nella nuova: così i cibi, preventivamente cucinati a casa, vengono venduti nel proprio negozio di generi alimentari. In ogni caso, questa varietà di at- tività può rendere l’idea del fermento di iniziative, rimodulazioni e cam- biamenti di rotta che i migranti mettono in atto per migliorare le pro- prie condizioni di vita. Altresì, essa lascia intravedere la dose di deter- minazione che anima queste persone e l’entità del lavoro che affrontano incessantemente. Altre attività, come quella della parrucchiera in casa, si svolgono sia nella propria abitazione che recandosi “a chiamata” presso le abitazioni dei clienti. Esse sono molto diffuse tra le donne africane, le cui elabo- rate acconciature possono richiedere anche diverse ore di lavoro. La per- sona incaricata, generalmente, si occupa dell’acquisto del materiale ne- cessario nei numerosi negozi di prodotti africani lungo la strada statale, oppure comprandolo direttamente dalle donne che commerciano e tra- sportano tali prodotti dal proprio paese d’origine o da Napoli. Lo scam- bio con la vicina metropoli è un’altra forma di attività molto diffusa tra

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© Edizioni Scientifiche Italiane121 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo gli africani a Castel Volturno. La maggiore reperibilità di beni di largo consumo – soprattutto indumenti e scarpe – a prezzi più contenuti ri- spetto ai negozi della zona, fa sì che essi possano essere acquistati e poi rivenduti a domicilio nell’area domizia. Bisogna tener presente, infatti, che molti migranti non hanno il tempo per recarsi altrove a fare acqui- sti per sé o per i loro figli, mentre altri non sono semplicemente di- sposti ad adeguarsi alle condizioni imposte dal mercato locale. Torna così comodo comprare qualcosa, a basso costo e magari su ordinazione, nella propria casa o in quella di un amico. Questo genere di commercio non è prerogativa delle donne e qual- che volta può avvenire alla luce del sole, com’è il caso di un ambulante che periodicamente si reca al “Fernandes”, il centro Caritas di prima ac- coglienza ubicato lungo la Domiziana. La struttura costituisce un punto di raccolta dei migranti, non solo di chi riceve ospitalità temporanea- mente, ma anche di coloro che vi confluiscono per la quotidiana distri- buzione dei pasti, per quella settimanale dei beni alimentari o, ancora, per usufruire dei servizi medici, legislativi e informativi messi a dispo- sizione. Sullo spazio retrostante l’edificio, al centro del cortile, l’uomo dispone per terra un telo sul quale colloca i panni, principalmente ca- micie, maglie, pantaloni. I migranti si avvicinano, esaminano i capi, si informano sui prezzi, contrattano. In questo caso specifico i prodotti sono rivolti a una clientela particolare: tutta maschile, costituita da la- voratori o da persone in cerca di lavoro, la cui condizione è marcata dalla precarietà; la qualità dei capi è piuttosto bassa e i prezzi tentano di avvicinarsi alle possibilità dei potenziali acquirenti. Vale la pena sottolineare un aspetto che riguarda tanto il caso della parrucchiera “a chiamata”, quanto quello del commercio ambulante svolto di casa in casa. Sebbene queste attività si riferiscano al contesto migra- torio africano e subsahariano in particolare, esse sono presenti anche al- l’interno della società locale, dove si esplicano con le medesime forme e attraverso le stesse modalità: passaparola e network di clienti. Così, tali dinamiche sociali, strutturalmente non dissimili per capacità di se-de- brouiller, funzionano parallelamente. Nel caso di altre attività, invece, l’interazione tra comunità locale e africani si rende necessaria e conve- niente per entrambi, arrivando talvolta a favorire «un’integrazione po- vera di last-comers» (Coppola, Memoli 1997, p. 378), quell’integrazione nella marginalità, costituita da diversi livelli, messa in evidenza da Pa- squale Coppola (1999, p. 422) a proposito della mixité nella città di Na- poli: una mixité generata dagli spazi e dai ruoli della precarietà piutto- sto che da quelli del benessere. Il caso dell’import-export è un altro aspetto rappresentativo delle mi-

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ISSN 1594-5472122 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio grazioni contemporanee: queste ultime infatti, pur avendo radici lontane e non costituendo dunque un fenomeno nuovo in sé, si muovono oggi entro un mutato quadro globale. Figli non solo dell’intensificazione dei viaggi e dello scambio di informazioni, ma anche della nuova organiz- zazione del capitale nel mondo e delle strategie economiche post-indu- striali basate sulla compressione dello spazio-tempo (Harvey 1997a, pp. 347 ss.), i migranti transnazionali vengono infatti sempre più trasformati in lavoratori flessibili. La condizione di precariato, con salari bassi e in- termittenti, li costringe ad appoggiarsi a due o più paesi per garantirsi un reddito sufficiente a sostenere se stessi e la propria famiglia (Grillo 2008, p. 12). Alcuni casi mettono in luce le dinamiche interne e le stra- tegie organizzative nelle quali affiora la commistione tra le dimensioni della regolarità e dell’irregolarità e lasciano emergere le modalità coope- rative messe in atto per aggirare gli ostacoli economici e burocratici. Tali modalità utilizzano il meccanismo della redistribuzione sia mediante la partecipazione collettiva alle spese di spedizione, che una volta frazio- nate divengono accessibili al gruppo, sia appoggiandosi a un migrante regolarizzato responsabile dell’intera spedizione. Questo tipo di attività, inoltre, innesca un processo che, nel mettere in connessione due continenti, colloca i migranti all’interno di dinami- smi sociali capaci di attraversare confini geografici, politici, culturali ma anche economici e legislativi. La chiave di volta è la precarietà che ge- nera, inevitabilmente, forme di flessibilità sempre nuove: chi ha investito tutto in un progetto di vita difficilmente si lascerà intimorire dalla man- canza di occupazione o da una situazione di insicurezza, poiché è esat- tamente dall’esasperazione di quelle stesse condizioni che è venuto.

3. Gli esercizi commerciali locali

Come ci ricorda Marc Augé (2007, p. 22), l’irregolare «incarna una sorta di delocalizzazione sul posto», esportando nei territori d’accoglienza gli stessi vantaggi della disponibilità di manodopera low cost che, gene- ralmente, si vanno a cercare nei paesi terzi quando si delocalizza. Tut- tavia, il lavoro sommerso è fonte di ulteriori pregiudizi verso gli immi- grati, non solo “fabbricati per lavorare”, ma anche per farlo in maniera regolare. E ciò a maggior ragione all’interno del quadro legislativo na- zionale relativo alle politiche migratorie, che non poco influenza la no- stra percezione. Nella palese carenza di lavoro che colpisce l’area geografica di Ca- stel Volturno, la presenza numericamente rilevante degli africani non rie-

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© Edizioni Scientifiche Italiane123 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo sce a trovare una giustificazione nell’opinione comune ed è anche per questo motivo che si ricorre facilmente a stereotipi quali quelli dello spacciatore o della prostituta. Tale percezione, che può sembrare para- dossale in una zona dove il settore informale riveste uno spazio impor- tante nella vita degli abitanti in genere e non solo degli immigrati, ri- vela ancora una volta l’incidenza e la capacità rigenerativa delle linee di demarcazione. Così, se a proposito degli abitanti locali in pochi si chie- dono quali attività svolgano o come possano sopravvivere in un conte- sto socio-economico nel quale il problema del lavoro è tangibile, è in- vece raro che non ci si interroghi circa le occupazioni degli africani. Inol- tre, se per i giovani di Castel Volturno è possibile individuare un per- tugio nell’emigrazione verso nord, questa via di fuga non è percorribile per gli africani in condizione d’irregolarità, cioè per la maggior parte di loro. Un motivo in più che induce a pensare a inevitabili implicazioni con l’illecito. Parzialmente diversa si presenta la situazione se si fa riferimento al commercio ufficiale. I negozi dei migranti africani si inseriscono all’in- terno di un tessuto di attività locali già di per sé molto denso, che si è organizzato in maniera lineare seguendo il corso della strada e che vale la pena prendere in considerazione. Sebbene le funzioni commerciali pre- senti sul segmento della Domiziana qui privilegiato siano abbastanza va- riegate, è possibile ricondurle ad alcune categorie classificatorie generali che costituiscono indicatori significativi per l’interpretazione territoriale. Dette categorie, infatti, rivelano indirettamente i bisogni e i consumi de- gli abitanti, nonché le vocazioni del luogo. Generalmente, la tipologia edilizia è già predisposta per l’esercizio commerciale a gestione familiare: il pianterreno è destinato alla compra- vendita e i piani superiori alle abitazioni. Le attività più diffuse sono quelle legate ai generi alimentari, soprattutto nella forma di minimarket. Insieme a qualche supermercato e ai negozi specializzati nello smercio di determinati prodotti – caseifici, panifici, macellerie, pescherie – que- sti punti vendita sono più di cinquanta lungo il tratto di strada osser- vato. Il modello che si impone è comunque quello del piccolo spaccio, nel quale è possibile trovare anche prodotti di uso comune. Conside- rando che dall’altezza dello svincolo della circonvallazione fino all’al- tezza del Villaggio Coppola, cioè per circa quattro chilometri e mezzo, la pineta si affaccia su un lato della strada non concedendo spazio ad alcuna attività commerciale, è possibile ricavare una media superiore ai sette negozi di soli generi alimentari per chilometro lineare. Una per- centuale tanto più significativa alla luce del fatto che si riferisce unica- mente all’asse stradale e non alle aree limitrofe, escludendo, per esem-

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ISSN 1594-5472124 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio pio, l’intero Villaggio Coppola e le zone residenziali interne che si svi- luppano alla destra e alla sinistra della Domiziana. Anche le attività legate all’ospitalità, e ancor più alla ristorazione, oc- cupano un posto importante: circa cinquanta tra bar, ristoranti, pizze- rie, kebab, insieme a una decina di strutture alberghiere, sono dissemi- nati lungo la statale, a testimonianza che la vocazione turistica del luogo non è spenta. Accanto a questi settori più corposi ne spiccano altri due. Il primo è costituito dalle attività che ruotano intorno all’edilizia o, più in generale, alle abitazioni: è il caso di rivendite di materiali edili ma an- che di agenzie immobiliari, ditte di traslochi, negozi di arredamento. Il secondo riguarda invece il mondo delle auto e dei motori, in termini di vendita, servizi o riparazioni, ma anche in relazione al rifornimento di benzina. Ognuno di questi due settori ha tra le venticinque e le trenta attività che lo rappresentano lungo il tratto di Domiziana esaminato. Un cenno particolare va ai distributori di carburante, che sono otto in meno di nove km; in diversi casi i migranti africani sono addetti alle pompe per l’erogazione. Infine, vale la pena riflettere sul basso numero di ne- gozi riservati all’abbigliamento: sullo stesso segmento stradale se ne con- tano cinque, il medesimo numero riscontrato per i casinò e le sale de- stinate alle scommesse. Nel corso dell’ultimo decennio gli africani hanno contribuito alla ri- conversione di diversi locali commerciali lungo la Statale Domiziana. Le attività ricorrenti possono essere classificate in minimarket, negozi di co- smetica e acconciatura, internet point e phone center, agenzie di trasfe- rimento del denaro. Nel ritaglio territoriale preso in considerazione que- ste attività sono all’incirca una trentina, ma non sempre le si individua facilmente sia perché in alcuni casi sono prive di insegne visibili – se- gno chiaro che l’utenza a cui si rivolgono ne viene a conoscenza attra- verso altre modalità – sia perché, talvolta, differenti servizi vengono ac- corpati in un unico negozio, come nel caso più frequente delle agenzie di money transfer, degli internet point e dei phone center. Negli afromarket, com’è intuibile, i prodotti commercializzati sono in larga parte africani; non mancano, tuttavia, beni di uso comune o ali- menti più squisitamente locali, ragion per cui non è raro che a questi punti vendita si rivolgano anche clienti italiani. Alcuni degli empori pre- senti sulla Domiziana potrebbero rientrare nella categoria dell’impresa et- nica allargata, altri in quella dell’impresa tipicamente etnica6. Il boom di negozi africani si è verificato nell’ultimo decennio e le attività commer- ciali, pur assecondando una distribuzione spaziale che segue l’asse stra- dale, si concentrano maggiormente in alcune aree che rispondono a quelle notoriamente più frequentate dalla popolazione migrante. Inoltre, in ge-

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© Edizioni Scientifiche Italiane125 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo nere esse tendono a restare vicine piuttosto che a distanziarsi, fino a ri- trovarsi, in alcuni casi, l’una accanto all’altra. In tal modo iniziano a con- figurarsi delle micro-aree più africanizzate, alle quali può contribuire la presenza di una chiesa pentecostale o di un’altra struttura di riferimento. Questo modello aggregativo di concentrazione territoriale favorisce gli scambi, soprattutto quando offre servizi differenti, poiché, una volta rag- giunto il luogo deputato, si possono sfruttare più opportunità specifiche: per esempio cambiare le extension dalla parrucchiera, inviare denaro al proprio paese, comprare alcuni prodotti alimentari irreperibili altrove. Osservando la carta riprodotta nella Figura 2 è possibile individuare i punti nei quali le attività africane sono maggiormente concentrate: da sud, un primo nucleo di negozi si colloca poco prima del Centro com- merciale Giolì, a partire dalla rotatoria che lo precede; un secondo gruppo, invece, si trova all’altezza del centro Caritas “Fernandes”, sul lato op- posto della strada. Appare inoltre evidente che le attività vanno sce- mando mano a mano che si procede verso il centro storico e ci si av- vicina alla roccaforte “autoctona” del borgo antico. Qui, per l’appunto, la presenza africana è pressoché impercettibile e per lo più si limita alla necessità di fruire delle istituzioni comunali che hanno lì la loro sede. Ciò produce, nell’osservatore esterno, un certo straniamento, soprattutto alla luce del fatto che il centro storico si trova all’interfaccia tra il seg- mento di Domiziana di cui ci stiamo occupando e quello che attraversa le località di Destra Volturno e Pescopagano. Viene così a crearsi una sorta di isola, posta nel mezzo di due zone marcate dalla massiccia pre- senza africana e in contrasto con esse. La distribuzione spaziale dei negozi rispecchia dunque due criteri: da una parte, quello di stabilirsi in prossimità dei punti dove si coagula la presenza africana, favorendo così un ulteriore processo di aggrega- zione. Dall’altra parte, il secondo criterio di localizzazione territoriale è quello di collocarsi in posizioni di second’ordine rispetto al nucleo ori- ginario del paese, posizioni del resto già occupate da empori commer- ciali poco funzionali per i migranti neo arrivati o per quelli che vivono ancora il luogo in una condizione di transito. Si tratta di locali destinati alla vendita di prodotti per l’ufficio, articoli sportivi, materiali edili, at- trezzature per la pesca, ma anche scuole di danza, sale giochi e per le scommesse, enoteche, fiorai, gioiellerie, agenzie di servizi tecnici e per le visure catastali, ditte di espurgo fogne, studi di grafica digitale. In que- sto tratto di Domiziana, più vicino al centro di Castel Volturno, gli unici punti vendita che possono in qualche modo interessare questa tipologia di immigrati sono i minimarket, che si alternano comunque alle attività appena elencate.

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ISSN 1594-5472126 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

Al di là della specificità dei servizi, va però tenuto presente anche il fattore dei costi. A proposito di quei migranti che, non potendo per- mettersi i beni offerti dalla città, si affidano a negozi gestiti da altri mi- granti per acquistare ciò di cui hanno bisogno, Saskia Sassen ha parlato di consumi di massa declassati. Tutto ciò converge nella segmentazione del mercato internazionale del lavoro, la cui connotazione “etnica” oggi cresce indiscutibilmente, ma che sarebbe errato considerare scissa dalla globalizzazione delle attività economiche, culturali e identitarie, conti- nuando a trattare i migranti e la loro appartenenza nazionale unicamente in termini di alterità. Al contrario, riconoscere l’immigrazione e l’etni- cità «come un insieme di processi in cui elementi globali sono localiz- zati, i mercati del lavoro internazionali costituiti e le culture provenienti da tutte le parti del mondo deterritorializzate e riterritorializzate, le pone precisamente al centro, unitamente all’internazionalizzazione del capitale, quale aspetto fondamentale della globalizzazione» (Sassen 2008, p. 112). In generale, dunque, le attività commerciali gestite dai cittadini stra- nieri offrono prodotti e servizi che, essendo orientati a soddisfare la do- manda dei migranti, da un lato sono sempre più connotati dalla di- mensione “etnica”, mentre dall’altro crescono in modo direttamente pro- porzionale all’aumentare delle fasce di popolazione a basso reddito, im- migrate e no. Questo aspetto, già evidente nelle grandi città, sfugge an- cora a Castel Volturno, dove gli abitanti locali non hanno necessità di acquistare nei negozi africani per risparmiare, perché l’alto numero di minimarket italiani disseminati lungo la statale, insieme a un basso po- tere d’acquisto piuttosto diffuso, comportano un certo contenimento dei prezzi, almeno per ciò che concerne i beni alimentari di base. Precisa- mente perché la situazione è questa, si assiste invece a un interessante fenomeno: la forte concorrenza tra i commercianti italiani, dovuta alla frequenza dei punti vendita, e la consistente presenza africana hanno spinto alcuni negozianti ad acquistare cibi “etnici” di largo consumo da- gli stessi africani che si occupano di import, sperando così di allargare agli immigrati il giro dei propri clienti. Se nei centri urbani della penisola a elevato carico demografico gli italiani meno abbienti si trasformano in clienti dei negozi gestiti da im- migrati, a Castel Volturno sembrerebbe che gli italiani abbiano bisogno, piuttosto, di clienti africani – e ciò tanto più durante i mesi invernali, quando l’afflusso turistico è ormai spento. Nondimeno, attraverso que- ste peculiari forme embrionali di riorganizzazione del commercio, il li- torale domizio entra a pieno titolo nelle nuove geografie che, coniu- gando centralità e marginalità, attraversano e insieme superano la vec- chia distinzione tra aree ricche e aree povere del mondo.

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© Edizioni Scientifiche Italiane127 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo

Peraltro, la commistione tra le due dimensioni della regolarità e del- l’irregolarità riguarda anche il settore del commercio ufficiale. Molto spesso il mettersi in proprio è appena una strategia per tutti quegli im- migrati che non riescono a regolarizzarsi attraverso altre modalità. Chi opta per questa strada apre una partita iva e si dedica al commercio am- bulante, in modo da non doversi sobbarcare le spese dell’affitto e della messa in funzione di un locale commerciale. Le strategie di questi attori sociali sono dunque estremamente fles- sibili e non riguardano unicamente la sopravvivenza stricto sensu: una volta risolto questo primo livello del problema, per esempio con un al- loggio e un’attività informale, il migrante cerca una via per la regolariz- zazione. Il permesso di soggiorno diventa allora la nuova priorità, ma ottenerlo non è sufficiente, poiché il documento va mantenuto con un lavoro in regola e stabile. Una condizione, questa, quantomeno utopica in aree a rischio e in tempi di crisi, ma che i migranti tentano di aggi- rare con escamotages che fanno scuola e prassi che, in assenza di altre soluzioni, si diffondono rapidamente.

4. L’abitare migrante

Definire i contorni di presunte aree nelle quali la presenza africana è più marcata rispetto al resto del territorio non è semplice per almeno due motivi. In primo luogo perché gli africani sono distribuiti ovunque, dato che la zona qui analizzata si presta a residenzialità non di confi- namento, come invece accade all’interno di alcune grandi città; la di- sponibilità di case sfitte, al contrario, rende possibile un insediamento capillare o, quantomeno, diffuso. Sfugge a questa regola, come si è vi- sto, il centro storico, per ragioni certamente sociali ma anche strutturali: le case che costituiscono l’antico borgo, infatti, sono abitate dai castel- lani e non rientrano nel pastiche urbano-rurale che ha ridisegnato il li- torale. Il secondo motivo è la mobilità della comunità africana, in parte dovuta a cause intrinseche, quali la ricerca di alloggi migliori o il con- tinuo cambiamento delle zone di lavoro, in parte orientata e dovuta a pressioni esogene, come è per esempio il caso dei blitz della polizia al parco Lagani o all’American Palace che hanno portato all’abbandono progressivo di quelle aree. Attualmente Destra Volturno e Pescopagano costituiscono le due lo- calità nelle quali la presenza africana è più corposa. La seconda, che rien- tra nella maglia amministrativa del comune di Mondragone, è andata in- contro a un intenso processo di riconversione funzionale del patrimo-

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ISSN 1594-5472128 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio nio immobiliare dovuto al graduale abbandono della zona da parte dei villeggianti. Oggi l’area è quasi interamente abitata da immigrati sub- sahariani, principalmente provenienti da Ghana e Nigeria, ed è caratte- rizzata da situazioni di disagio dovute al sovraffollamento delle unità immobiliari, spesso occupate in funzione di dormitorio da decine di mi- granti. Dopo l’interruzione spaziale rappresentata dal centro storico di Ca- stel Volturno, la presenza africana in termini di residenzialità riprende lungo la Domiziana. All’interno del ritaglio territoriale scelto come caso di studio, gli africani si distribuiscono su questa strada statale o nelle aree residenziali di Baia Verde, Villaggio Agricolo, Villaggio del Sole, ma in maniera più marcata nelle zone caratterizzate dall’esistenza di qual- che punto di aggregazione storico. Le strutture deputate all’aiuto, al so- stegno e all’orientamento dei migranti, distribuite lungo la Domiziana, hanno dato luogo a una frequentazione non sporadica di questo terri- torio, contribuendo indirettamente a far sì che la presenza africana fosse continuativa. È infatti chiaro che, soprattutto agli esordi, per chi veniva a trovarsi in un contesto carente di servizi e così socialmente refrattario al forestiero, questi punti d’appoggio costituivano delle oasi alle quali appoggiarsi. Ma c’è anche un’altra componente socio-territoriale che vale la pena tener presente: quando il proprietario di un’abitazione in disuso decide di darla in affitto a un gruppo di migranti, generalmente fa una scelta economica molto chiara, quella cioè di non reinvestire nella manuten- zione dello stabile. Sia quando l’operazione è protesa a facili guadagni speculando sulla condizione degli immigrati, e la casa viene data in af- fitto a un numero di persone superiore a quello per cui è stata pensata, sia quando mira appena al recupero di un introito minimo, difficilmente in futuro quella stessa abitazione verrà ristrutturata e affittata ad altre categorie. Ciò è fondatamente ipotizzabile se si considerano anche le condizioni generali del contesto, nel quale l’offerta di case supera la do- manda al tal punto che resterebbe quasi completamente senza riscontro se non fosse per le necessità di alloggio dei migranti. Questo significa, in buona sostanza, che una zona oggi abitata dagli africani non solo non si riconvertirà domani in termini di residenti, ma anzi, presumibilmente, verrà sempre più “africanizzata” sia per l’arrivo di nuovi migranti che cercano la vicinanza dei connazionali sia per il possibile allontanamento da parte della popolazione locale rispetto, di volta in volta, alla palazzina, all’area, all’intera località. È quello che sta accadendo, per esempio, a Pescopagano, considerata da alcuni abitanti una località “pericolosa”, “isolata”, “lontana”. Tutte aggettivazioni che

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© Edizioni Scientifiche Italiane129 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo si riferiscono, più o meno implicitamente, alla presenza massiccia di mi- granti e, in particolare, di africani. In genere, le abitazioni degradate fino a un punto di non ritorno, cioè che richiedono interventi strutturali im- portanti, oppure quelle rimaste a lungo disabitate, che non si vuole o non si riesce a dare in affitto, vengono messe in vendita perché nessuno dei proprietari è interessato ad accollarsi gli oneri di manutenzione o di una ristrutturazione, in un contesto dove il mercato immobiliare è in forte ribasso e l’intera area soggetta a processi di svalutazione. Per que- sto motivo, lungo tutto il litorale domizio, sulla strada come nelle zone interne e dentro il villaggio Coppola è facile imbattersi in cartelli che annunciano la vendita di case private, villette, intere palazzine o stabili abbandonati. Sul tratto della Domiziana oggetto di questo studio le strutture at- tualmente o storicamente deputate all’ospitalità, al sostegno e all’inte- grazione dei migranti sono quattro: il centro “Fernandes”, che opera come organismo di prima accoglienza della Caritas, l’associazione cul- turale “Miriam Makeba”, la “Casa del bambino” dei padri Comboniani e la parrocchia di Santa Maria del mare all’ingresso del Villaggio Cop- pola (Figura 3). Quest’ultima in particolare, nel ventennio del grande af- flusso e in mancanza di altre strutture, ha svolto un importante ruolo di mediazione tra gli immigrati africani che arrivavano e il territorio, ge- stendo in maniera dapprima spontanea, poi sempre meglio organizzata, la questione dell’accoglienza e del lavoro. Don Antonio Palazzo, parroco di Pinetamare, è stata la prima per- sona a fornire accoglienza agli immigrati, già dalla seconda metà degli anni Ottanta. Tra le strategie ideate dal parroco c’era la messa in rete dei proprietari di case sfitte con la parrocchia, in modo da poter gestire, ponendosi come garante, l’uso a rotazione delle abitazioni vuote da parte di piccoli gruppi di migranti. Il breve periodo di permanenza assicurava che la residenzialità provvisoria non si trasformasse in occupazione. Così, per decenni, nella chiesa di Santa Maria del mare, migranti di ogni pro- venienza e di ogni appartenenza religiosa hanno trovato un punto di ap- prodo: tra le altre cose, qui si potevano lasciare in deposito i propri do- cumenti e i pochi risparmi o ricevere la posta. A sua volta, da quasi un ventennio, il centro Caritas “Fernandes” costituisce un insostituibile sostegno per gli immigrati. E ciò vale tanto per i nuovi arrivati, ai quali fornisce l’accoglienza durante i primi mesi, quanto per tutti gli altri, ai quali offre una serie di servizi, resi possibili dalla collaborazione con una rete di associazioni e privati cittadini, che vanno dalla distribuzione dei pasti a quella dei generi alimentari, dai ser- vizi medici all’assistenza legale. Dal suo canto, la “Casa del bambino”

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ISSN 1594-5472130 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

Fig. 3 - Risignificazioni territoriali

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© Edizioni Scientifiche Italiane131 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo dei padri Comboniani è presente da quasi un decennio con una scuola materna e un doposcuola sulla Statale Domiziana, dove funziona come punto di aggregazione per molte famiglie anche in virtù delle numerose iniziative culturali, sociali, ricreative che promuove7. L’ultima nata nello stesso tratto di strada, appena dietro al “Fernan- des” in via Matilde Serao, è l’associazione culturale “Mondo senza con- fini” che ha sede nel centro “Miriam Makeba” e che, tra tutte, è anche l’unica fondata da un’africana, proveniente dal Ghana, a sua volta im- migrata a Castel Volturno. L’associazione nasce all’insegna del dialogo, ispirandosi alle figure storiche dell’emancipazione nera e del riconosci- mento dei diritti umani, mentre la sua sede, attraverso le iniziative pro- mosse, vuole essere un luogo di richiamo per tutti coloro che deside- rano aprirsi all’incontro con l’altro. Sulla stessa via del centro “Miriam Makeba”, e dunque vicino al “Fernandes”, si trova anche la residenza dei padri Comboniani. In più occasioni, nel corso degli anni, questa zona è stata focolaio di proteste miranti a sensibilizzare l’amministrazione e l’opinione pubblica sulle condizioni degli immigrati. Tali attività, solita- mente, s’inasprivano in seguito a talune azioni di polizia, quali per esem- pio gli sgomberi in diversi stabili occupati, oppure di fronte ai pesanti episodi d’intolleranza razziale che si sono verificati a più riprese a Ca- stel Volturno8. In questo tratto della Domiziana, dunque, si coagula una quota con- siderevole delle presenze africane non solo in termini di transitorietà – dovuta alla fruizione di servizi e alla funzione aggregativa di determi- nate strutture – ma anche di residenzialità stabile; inoltre non è escluso, e al contrario è presumibile, che questo livello di catalisi, insieme alle specifiche condizioni locali, abbia contribuito in qualche misura a defi- nire un’areale di stanzialità. Due strade sono note per l’esistenza di alloggi abitati dagli africani: come si può vedere osservando la Figura 3, entrambe si trovano al di fuori dell’asse stradale, in zone che non hanno relazione tra loro. La prima, via dei Diavoli, è una strada “storica” in questo senso, che man- tiene viva un’etichetta legata più agli anni passati che all’attualità. Inol- trandosi nell’intrico di vie strette tra l’asse stradale principale e le cam- pagne, via dei Diavoli si è prestata bene, infatti, a uno stanziamento più riservato e compatto. Ma il processo, probabilmente, ha raggiunto un li- vello di saturazione trovando in modo autonomo una forma di equili- brio. Più a sud, invece, la strada conosciuta come via della Porchiera, re- centemente ribattezzata via Veneto, accompagna dapprima un’area resi- denziale per poi lanciarsi verso le campagne in forma di rettilineo. Ne-

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ISSN 1594-5472132 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio gli ultimi anni molti africani hanno scelto di risiedere in questa zona che, in effetti, soprattutto in certi tratti, appare abbastanza spersonaliz- zata e poco esposta, quindi presumibilmente più funzionale per gli im- migrati irregolari e meglio gestibile da parte dei proprietari delle abita- zioni. Anche Parco Lagani, un’area residenziale ubicata in prossimità del bivio per Villa Literno, è stata a lungo abitata da migranti africani. Nel gennaio del 2009 però, in seguito a un intervento delle forze dell’ordine, mirante a contrastare l’immigrazione clandestina, vennero identificate de- cine di cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno e per circa trenta persone fu adottato il procedimento di espulsione. Queste vicende se- gnano inevitabilmente la storia dei luoghi, generando epurazioni più o meno lunghe, a seconda dell’entità delle operazioni. In ogni caso le zone colpite non vengono più considerate sicure per tutti quei migranti che, pur lavorando e pagando un affitto, non hanno un permesso di sog- giorno e rischiano quotidianamente di essere esposti a questo genere di episodi.

5. Case in locazione e case occupate

Per quanto riguarda il mercato delle case, è noto che a Castel Vol- turno non è difficile trovare un alloggio. Le difficoltà sono di altro or- dine, e più precisamente possono riguardare il livello di manutenzione, l’indisponibilità da parte dei proprietari a stipulare un contratto, le am- pie dimensioni, raramente adatte a una o due persone, che spingono i migranti ad abitare una medesima unità immobiliare in gruppi più nu- merosi. Di caso in caso, queste condizioni possono apparire più o meno sconvenienti; in genere però, dalla prospettiva di chi arriva senza docu- menti con la speranza di un lavoro occasionale come bracciante stagio- nale, pronto a spostarsi in ogni momento in un altro punto della peni- sola pur di riuscire a rimanere sul territorio italiano, esse si collocano al di qua del livello di accettabilità. Se da un lato c’è il migrante in cerca di una sistemazione, dall’altro ci sono anche immigrati che hanno bisogno di più inquilini per am- mortizzare le spese: la condivisione di spazi e costi permette, infatti, la sopravvivenza e l’avvio di una riproduzione sociale embrionale, garan- tendo la possibilità di muovere i primi passi verso situazioni auspicabil- mente migliori. Ciò comporta continui ricambi e nuove ricomposizioni dei gruppi che, per lo più, si ricostituiscono in termini meramente fun- zionali e non sulla base di una scelta o di un’affinità tra i componenti.

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© Edizioni Scientifiche Italiane133 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo

L’elemento ricorrente, nella questione degli alloggi a Castel Volturno, riguarda la dimensione delle abitazioni: pensate come seconda casa per la villeggiatura o come soluzioni residenziali destinate ai fuoriusciti dal- l’area metropolitana, esse sono in genere molto ampie e hanno una di- visione dello spazio interno plasmata sul modello della famiglia tradi- zionale. In zona è difficile trovare abitazioni dalle dimensioni ridotte ed è praticamente assente il concetto di monolocale o bilocale, perché non c’è stata alcuna riconversione degli immobili e nessun investimento in questo senso. L’unico mercato rimasto aperto, quello degli immigrati, è considerato la fonte privilegiata di guadagno residuale per i proprietari perché, non consentendo margini di rivendicazione da parte degli affit- tuari, permette di ricavare qualcosa a investimento zero. Anche nella ricerca di una casa in affitto vengono ideate apposite strategie dell’abitare, nelle quali la dimensione della regolarità si mescola a quella dell’irregolarità. Come nel settore del commercio, per stipulare un contratto di locazione i migranti tentano di aggirare la legge attra- verso l’ampliamento delle funzioni svolte dal permesso di soggiorno, do- cumento che viene messo al servizio di altre esigenze per un reciproco scambio nel soddisfacimento dei rispettivi bisogni: per esempio il su- baffitto è praticato dai migranti in possesso di un titolo di soggiorno (verso i quali gli italiani proprietari di grandi appartamenti si mostrano più disponibili a stipulare un contratto di locazione) sia perché consente al subaffittuario piccoli guadagni integrativi, sia perché ciò permette agli irregolari di avere un posto dove vivere appoggiandosi a un africano che è in regola con i documenti e con il pagamento del canone. Un discorso a parte meritano le occupazioni abusive di stabili o aree d’insediamento. La frequenza con la quale episodi di questo tipo si sono verificati, e continuano a verificarsi, ha fatto sì che l’argomento diven- tasse un tratto caratterizzante dell’immigrazione a Castel Volturno. Va tuttavia preso in considerazione l’alto numero di alloggi abbandonati a se stessi, non soltanto disabitati ma in stato di evidente degrado. In par- ticolare, nei casi in cui queste case sono più appartate rispetto alla strada, situate all’interno dei campi o nella pineta, è facile che esse vengano prese d’assalto, soprattutto nei periodi di maggiore afflusso di migranti e durante la stagione invernale, quando il vento freddo del litorale e l’u- midità costringono al riparo. La questione delle occupazioni abusive è spesso ripresa dai mezzi di informazione in termini di scoop scandalistico; ciò alimenta e diffonde la convinzione che essa sia legata indissolubilmente all’immigrazione e, più in particolare, alla figura dell’africano. Bisognerebbe invece chiedersi come mai non sia stata occupata, per esempio, la vasta area di Fontana

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ISSN 1594-5472134 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

Bleu, in parte disabitata per quasi tutto l’anno e al cui interno si svi- luppano enormi complessi residenziali fantasma. Il Fontana Bleu, rea- lizzato nel corso degli anni Ottanta, nasce come insediamento turistico attrezzato di grandi dimensioni, che comprende un centro congressi con più di mille posti, alberghi a cinque stelle, ristoranti, locali commerciali, appartamenti, cinema, piscine e si sviluppa su una superfice di circa do- dici ettari (Luise 2001, p. 212). Il quartiere-cittadella affaccia sul lungo- mare ed è caratterizzato da grandi edifici che si dispongono l’uno dopo l’altro con moduli architettonici simili. Oggi la zona è in stato di semi-abbandono, le scritte “vendesi” sui balconi sono ricorrenti, le cabine di vetro della vigilanza all’ingresso dei quartieri sono vuote. Durante la stagione invernale l’area appare deso- lata, priva di pedoni, immersa in un atmosfera post-sismica. Lo scan- dalo, allora, riguarda semmai il fatto che una così ampia disponibilità di abitazioni, in generale e non solo in questo caso esemplare, resti inuti- lizzata, piuttosto che un certo numero di persone, spinte dalla necessità, ne usufruiscano. Probabilmente, però, se non ci fossero degli immigrati all’interno o nei paraggi, la questione delle case abbandonate desterebbe poco interesse e, soprattutto, non scandalizzerebbe nella stessa misura. Motivo primo di attenzione, in genere non solo per il giornalismo d’inchiesta ma anche per certa ricerca sociale, l’argomento delle occupa- zioni abusive riveste ormai un ruolo particolare sia nell’immaginario per- sonale che in quello collettivo. Come nel caso della droga e della pro- stituzione, di fronte a questa ulteriore componente del degrado del luogo ci si pone in genere con due differenti atteggiamenti: da una parte ci sono i migranti, stremati da richieste d’informazione che considerano le- sive della loro immagine e della loro privacy; dall’altra c’è chi, in man- canza di meglio, sfrutta aspetti deteriori del contesto per trasformarli in un contenuto peculiare da promuovere, più o meno consapevolmente, come specifica prerogativa del posto. Conviene sottolineare che, a questo proposito, dal punto di vista del migrante la questione della privacy e della discrezione assume connotati biografici fondamentali. Uno dei problemi maggiori dei migranti che ho avvicinato è quello di testimoniare alla famiglia d’origine la riuscita del proprio progetto migratorio, tanto più che è la famiglia, in genere, a sobbarcarsi le ingenti spese del viaggio verso la speranza di incontrare prospettive migliori. Nell’impossibilità di comunicare le reali difficoltà nelle quali si inciampa durante il processo di integrazione nel nuovo mondo, che verrebbero considerate tout court come un fallimento dal resto della famiglia, i migranti si ritrovano spesso a mentire e finanche a inventare vite immaginarie parallele, condividendo spesso il segreto con

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© Edizioni Scientifiche Italiane135 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo i compaesani espatriati. Quando questo non è più possibile si arriva a prese di posizione drastiche. Collocata all’interno di questo quadro, la preoccupazione che la pro- pria condizione di precarietà possa trapelare da immagini, articoli di gior- nale, resoconti o altro e arrivare in Africa, assume contorni ovviamente drammatici per i soggetti implicati, soprattutto in un contesto dove è relativamente facile venire interpellati. Anche la più generale reticenza degli africani a raccontarsi può essere in gran parte ricondotta all’uso che gli altri potrebbero fare dell’informazione e, più in particolare, al ti- more che essa possa giungere alla famiglia prima del tempo e tradire il fallimento del viaggio. Nella percezione di parenti e familiari che non hanno mai lasciato il proprio paese e il cui immaginario è generalmente colonizzato da icone che dipingono l’Occidente come patria del benessere diffuso, le condi- zioni abitative riflettono lo status del migrante. Per questo motivo viene evitata accuratamente la possibilità di essere ripresi in prossimità di al- loggi precari o di aree in cattivo stato, in modo da non correre il ri- schio di essere visti, tramite i social network e più in generale le nuove tecnologie, dalla propria famiglia. Al contrario, la fotografia pensata per la comunicazione con il proprio paese prevede una certa preparazione: vestiti eleganti e a volte, come sfondo, un’automobile fiammante, non importa a chi appartenga. In questo senso, le aree di occupazione abu- siva, i ghetti, le zone malfamate sono quanto di più temuto dagli afri- cani, a prescindere dal fatto che le frequentino o meno. In queste icone, che incarnano il rovescio della medaglia di quelle più sopra richiamate, si cristallizza il fallimento. Basta una voce, una parola di troppo, una foto sul web, per sgretolare l’impalcatura comunicativa realizzata dal mi- grante – talvolta anche sulla base del silenzio o della menzogna – e, con essa, un progetto di vita in itinere che chiede forme di rispetto spesso comprese e condivise unicamente dai migranti stessi. Tra le aree abusivamente occupate ce ne sono alcune particolarmente note, tanto ai migranti quanto agli abitanti, e che, proprio per questo, concorrono in un certo senso a risignificare “in negativo” il luogo, fa- cendone ormai parte a tutto tondo e connotandolo. Partendo da sud, all’interno del Villaggio Coppola c’è il Parco Saraceno, una ex area re- sidenziale costituita da ventiquattro palazzine di tre piani (Figura 3). Ubicato di fronte alla darsena e originariamente abitato da famiglie be- nestanti o dagli americani che lavoravano per la Nato, questo “villaggio nel villaggio” è oggi in parte occupato abusivamente sia da italiani che da africani, barricati in una sorta di zona franca autoregolantesi nella quale, spesso, l’elettricità viene procurata attraverso gli allacci irregolari

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ISSN 1594-5472136 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio effettuati sui fili dei lampioni pubblici. Accanto a queste palazzine sor- gevano le otto torri di dodici piani e ottanta appartamenti ciascuna, cioè 210.000 metri cubi di cemento, che sono state demolite completamente tra il 2001 e il 2003 (Russo 2003; Erbani 2002). Del parco acquatico adiacente non resta che una recinzione posticcia; l’acqua della darsena, intanto, ristagna e il porticciolo, una volta costellato da barche di ogni sorta, è vuoto. Tornando sulla Statale Domiziana, subito dopo il corso dei Regi La- gni9, in località “Ponte a mare” e all’altezza della rotatoria, si sviluppa una piccola area, in qualche modo storica, della presenza africana carat- terizzata da tre strutture: l’American Palace, l’Ashawo Palace e l’Oba- ma’s House. La prima denominazione, ormai utilizzata anche dagli ita- liani per indicare il palazzo Colella, è un chiaro riferimento ai residenti statunitensi dei tempi in cui il numero degli impiegati della Nato sul li- torale domizio era ancora rilevante. La trentennale presenza degli ame- ricani a Castel Volturno, in particolare al Villaggio Coppola e nella zona di Baia Verde, è stata a lungo un elemento vitale per l’intera area. I la- voratori della Nato, infatti, vivevano con le famiglie in residenze confor- tevoli conducendo uno stile di vita medio-alto. L’abbandono dell’area da parte di questo importante segmento sociale ha contribuito in maniera definitiva al degrado dei negozi del posto, nonché alla scomparsa di ser- vizi di alto livello pensati principalmente per loro. L’American Palace venne in seguito occupato dagli immigrati irre- golari e, nel novembre del 2008, è stato protagonista di un massiccio in- tervento di sgombero dal quale risultò che la maggior parte dei circa novanta lavoratori stranieri identificati pagava un affitto in nero. La strut- tura è oggi in fase di recupero. Tra gli italiani, la zona che si estende intorno all’American Palace è nota anche come “il ghetto americano de- gli africani”, locuzione che, nel ribadire una sorta di extra-territorialità originaria dell’area, ne indica l’attuale ricolonizzazione. A sua volta l’Ashawo Palace, che si trova poco distante, è una co- struzione interamente abitata da migranti subsahariani, principalmente ghanesi e nigeriani. Il termine Ashawo è utilizzato nello slang nigeriano per indicare una prostituta o una persona, più frequentemente donna, dai facili costumi. La licenziosità veicolata dal nome si riferisce al fatto che negli anni passati il palazzo era abitato da prostitute nigeriane che esercitavano in casa. Appena più avanti, infine, c’è una lunga costruzione fatiscente a due piani, abusivamente occupata. Gli africani l’hanno de- nominata Obama’s House, collocandola all’interno di una preesistente dimensione simbolica del luogo e richiamando ironicamente la vocazione statunitense dell’area.

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© Edizioni Scientifiche Italiane137 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo

Un ulteriore spazio, testimone di episodiche occupazioni abusive, si trova a circa cinquecento metri dalle costruzioni appena descritte, all’al- tezza del centro Caritas “Fernandes” ma dalla parte opposta della Do- miziana. Qui sono situati due lunghi edifici gemelli, il cui pianterreno, chiaramente progettato per attività commerciali di vario tipo, è sovra- stato da ulteriori due piani (Figura 3). Anche in questo caso, come in altri, le costruzioni appaiono segnate dal tempo e dal disuso, rendendo poco credibile la scritta “vendesi” che da anni campeggia su uno dei due edifici. Intanto, lo stabile viene stagionalmente occupato dai migranti. Pur trattandosi di una zona particolarmente esposta, questo punto della strada diviene luogo d’incontro per alcuni gruppi di immigrati irrego- lari, senza alloggio o di passaggio che, soprattutto nelle serate invernali, si radunano anche all’esterno intorno a focolari improvvisati. Le aree appena descritte, per quanto restino soggette a occupazione integralmente o parzialmente abusiva, non sono tuttavia caratterizzate dalla dimensione dell’illecito, che può certamente riguardare la condi- zione di alcuni individui ma non prevale nel complesso. Ciò non può dirsi, invece, per due zone calde nelle quali l’aspetto dell’occupazione abusiva si lega a quello dell’uso e dello spaccio di sostanze stupefacenti pesanti, dando così luogo a una triplice situazione di segregazione: spa- ziale, sociale e morale. Si tratta, nel primo caso, dell’ex hotel Boome- rang, noto anche come Zagarella, una volta albergo con ristorante an- nesso e oggi nient’altro che un’enorme struttura disfatta e abbandonata, localizzata appena verso l’interno rispetto alla strada10. L’ex albergo a tre stelle è stato ribattezzato anche “Casa dei nige- riani” e “Hotel eroina”. L’imponente relitto, conosciuto in particolar modo dagli operatori sociali che per anni hanno lavorato alla riduzione del danno, tentando di arginare i problemi collaterali dovuti all’uso di droghe pesanti, è ormai entrato nella storia locale. Nonostante il retag- gio degli anni precedenti si sia attenuato notevolmente, nell’immagina- rio degli abitanti lo Zagarella si configura ancora come un coacervo di negatività, assurgendo a icona del fallimento progettuale del luogo, le cui vocazioni originarie sono oggi irriconoscibili. Il secondo caso riguarda invece un’intera zona denominata dai mi- granti “Junky Area” o, più comunemente, ghetto. Il sito si trova nell’a- rea retrostante l’ex hotel Boomerang, all’interno della pineta e in un punto sufficientemente isolato, caratterizzato dalla presenza di alcune abitazioni abbandonate e apparentemente vuote. A differenza di altri casi di occupazione abusiva, infatti, qui colpisce la cura nel mostrare il meno possibile i segni della presenza. Una cura che, inevitabilmente, tradisce il bisogno di nascondersi. La “Junky Area”, il cui nome non fa segreto

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ISSN 1594-5472138 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio della tipologia di attività che la connotano, è temuta dagli stessi africani, che la considerano una zona pericolosa, frequentata da una particolare categoria di persone e nella quale non avrebbe alcun senso inoltrarsi se non quello di andare in cerca di grane.

6. Il ruolo sociale delle Chiese pentecostali

Molti migranti sostengono di non avere tempo libero, perché i resi- dui della giornata lavorativa vengono spesi per fronteggiare una serie di difficoltà che la loro condizione comporta e che possono essere, di volta in volta, economiche, familiari, organizzative, istituzionali. Per altri, ve- nendo a mancare un’attività lavorativa, è difficile concepire lo stesso con- cetto di tempo libero, poiché la giornata viene interamente impiegata nella ricerca di un lavoro. Qualcuno sostiene di passare le ore di libertà restando a casa senza fare niente o dormendo, qualcun altro dice di re- carsi a casa di un amico. In certi casi appare evidente che il tempo li- bero non viene semplicemente percepito come tale e, pertanto, non può essere trasformato in tempo per sé. Come è già stato evidenziato, la questione della socievolezza, intesa come momento fine a se stesso e piacere dell’incontro, diviene un «nodo politico importante» nel quadro di una società d’approdo che concepi- sce l’immigrato come «puro corpo da lavoro» (Gatta 2012, p. 27). Così, se parlare di tempo libero è poco opportuno in relazione a coloro che sono alla ricerca di un’occupazione a giornata, appare comunque pro- duttivo interrogarsi circa la carenza di luoghi deputati a eventuali mo- menti ricreativi per tutti gli altri; una carenza che inevitabilmente tradi- sce l’impossibilità, l’incapacità o il mancato tentativo, da parte dei mi- granti, di riappropriarsi del proprio diritto a esserci interamente e non solo per la loro metà “funzionale”. A prescindere dalle condizioni personali, tanto lavorative quanto eco- nomiche, lungo la Domiziana le possibilità di svago non sono molte e i luoghi d’incontro pubblici sono inesistenti. I bar, che possono costi- tuire un punto di ritrovo per gli abitanti locali, non svolgono la stessa funzione per i migranti africani che li utilizzano principalmente per i servizi offerti, in particolare per effettuare ricariche telefoniche o pagare le bollette. Il centro Caritas “Fernandes”, che coagula una gran parte dei cittadini stranieri subsahariani disseminati sul territorio in virtù delle di- verse funzioni da esso espletate, diventa talvolta occasione di socialità per alcuni, ma pur sempre non intenzionale, subordinata com’è ai biso- gni per i quali abitualmente ci si reca presso la struttura. L’enorme edi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane139 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo ficio, per quanto deputato all’accoglienza e connesso al mondo esterno, alla realtà sociale nella quale è inserito attraverso scambi e attività, si configura in ogni caso come un’eterotopia di deviazione: appartiene, cioè, a quella famiglia di luoghi eterotopici nei quali vengono collocate le per- sone il cui comportamento appare deviante rispetto alla media e alla norma socialmente dominanti (Foucault 2010, p. 14). In questo senso, difficilmente esso potrà divenire davvero un autentico luogo d’incontro – vale a dire un ambiente che il migrante sceglie per vedersi liberamente con altre persone, senza sentirsi costretto a frequentarlo in mancanza d’altro – perché, come istituzione, non riesce a essere percepita al di fuori della sua cappa estraniante. Il contesto socio-territoriale, coniugato al tipo di vita che media- mente offre, non lascia pertanto molti margini di manovra al di là delle occasioni di incontro legate alla necessità di sbrigare una commissione, per esempio recandosi in un phone-center o in un afromarket. Tuttavia è possibile riscontrare alcune modalità di vivere il tempo libero in ter- mini di scelta, cioè come tempo per sé, autogestito e meno dipendente da fattori esterni. Un primo caso è quello delle feste organizzate, parti- colarmente note quelle nigeriane, che hanno animato per diverso tempo la discoteca “Glamour” all’interno del Villaggio Coppola. Data la loro frequenza settimanale, queste feste sono divenute un momento d’incon- tro ufficiale per gli africani, sebbene lo siano soprattutto per una deter- minata nazionalità. A differenza di altre forme organizzative che si muovono entro una dimensione privata, rivolgendosi inevitabilmente a gruppi più ristretti, in questo caso la comunità nigeriana usufruisce di una struttura già esi- stente inserendosi nella programmazione delle sue iniziative e aprendosi al pubblico, cioè a tutti coloro che hanno la possibilità di pagare l’in- gresso e il desiderio di partecipare a quel momento ricreativo. Ciò, na- turalmente, riguarda solo particolari categorie di migranti e ne esclude altre, attraverso condizionamenti certamente di ordine economico, ma che possono essere anche legati alla fascia d’età e al contesto sociale o familiare di appartenenza, cioè a questioni più specificamente culturali. Un’ulteriore possibilità d’incontro è quella offerta dalla nascita di co- munità africane, associazioni o gruppi di immigrati appartenenti a una stessa nazionalità che condividono una memoria storica e culturale ma anche un vissuto del presente, fatto di carenze, bisogni, reciproco rico- noscimento e operazioni di mutuo sostegno. In quest’ottica, però, la si- tuazione a Castel Volturno appare molto frammentata. Da una parte, in- fatti, non va dimenticato il carattere di transitorietà che connota ancora questa meta migratoria; ci si trova di fronte a un luogo di passaggio che

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ISSN 1594-5472140 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

è tale anche per chi resta, poiché viene attraversato dai più: le comunità, dunque, soffrono di continui ricambi quando non addirittura di conti- nue rinascite. D’altro canto, il panorama migratorio africano di questo territorio è costituito da due nazionalità preponderanti e da una varietà di altre nazionalità minoritarie, che spesso si limitano a riunirsi in pic- coli gruppi senza nemmeno costituirsi in una vera e propria comunità. Inoltre, anche all’interno di una stessa nazionalità possono esserci di- visioni relative ai ceppi delle popolazioni di provenienza. Questa fram- mentazione a monte fa sì che il livello aggregativo risulti già di per sé troppo debole per avere un qualche potere organizzativo; a essa si ag- giungono poi le aspettative individuali che, talvolta, non trovano riscontro in quelle del gruppo di appartenenza. Un posto di rilievo nella gestione del proprio tempo libero sembre- rebbe essere quello occupato dalla dimensione del culto, che può essere ricondotta all’interno del processo di rifunzionalizzazione dei luoghi, poiché si concretizza in una presenza di Chiese pentecostali o carisma- tiche corposa, al punto da costituire, insieme alle attività commerciali, il modello di inserimento più evidente e pervasivo all’interno del territo- rio indagato. Per questa ragione, senza voler approfondire un argomento che meriterebbe spazi di trattazione autonomi, vale la pena operare al- cuni richiami relativi a questo movimento religioso, pertinenti al nostro discorso. Com’è noto, il pentecostalismo ruota intorno al concetto di spirito, che può manifestarsi come irruzione di una presenza divina nella vita quotidiana e di cui ognuno può fare esperienza, individualmente o col- lettivamente, proprio attraverso la liturgia. Le relazioni di queste forme di religiosità con l’Africa hanno origini lontane: il mondo protestante americano, in particolare quello metodista dal quale il pentecostalismo è scaturito, si era infatti già confrontato con i primi movimenti per l’e- mancipazione nera e con la formazione di Chiese afro-americane. In ogni modo, è certo che questo movimento ha attecchito in realtà molto diverse tra loro, compreso il continente africano. Qui, d’altro canto, a partire dal XIX secolo inizia a proliferare una moltitudine di Chiese se- parate o autonome, caratterizzate da tratti comuni quali il sincretismo religioso, la dimensione profetica o messianica, la relazione mistica di- retta, la lotta contro il male (Balandier 1998, p. 43). Una delle peculiarità di queste Chiese è la capacità di riprodursi al di fuori della propria area culturale: oggi, aggregazioni pentecostali gha- nesi e nigeriane si trovano negli Stati uniti, in Asia, in Europa – in par- ticolare in Inghilterra, Germania e Olanda. Talvolta i luoghi di culto ri- guardano “mega-chiese”, più spesso, come nel caso italiano, edifici me-

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© Edizioni Scientifiche Italiane141 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo dio-piccoli, i cui fedeli non superano le ottanta unità. Per quanto ri- guarda il nostro paese, è possibile far risalire l’arrivo delle Chiese afri- cane all’intensificazione dei flussi migratori avvenuta nel corso degli anni Ottanta, mentre la distribuzione sul territorio nazionale rispecchia a grandi linee quella delle maggiori comunità subsahariane. Le due mag- giori polarizzazioni, per questo tipo di aggregazioni, sono costituite da realtà molto differenti: da una parte il Nord-Est, con la presenza di co- munità africane sufficientemente integrate nel mondo socio-lavorativo, e dall’altra il Meridione, dove le possibilità offerte dall’economia informale offrono a molti africani, in condizione di irregolarità, la possibilità di stanziarsi. Il panorama della penisola è caratterizzato sia dalla varietà delle tradizioni cristiane protestanti – metodiste, evangeliche, carismati- che – che dal fatto di essere Chiese di prima generazione, cioè fondate dagli stessi pastori oggi in carica. Nel complesso, si stima che le Chiese africane in Italia, soprattutto nigeriane e ghanesi, siano più di mille (Pace, Butticci 2010, pp. 80-95). Non essendo questa la sede per un confronto relativo ai contenuti rituali o alle pratiche dei luoghi di culto africani presenti a Castel Vol- turno, viene qui utilizzato il termine pentecostale per riferirsi indistin- tamente a tutte le chiese cristiane non cattoliche, frequentate dai migranti subsahariani, individuate sul segmento stradale osservato11. Al riguardo, se per un verso la nascita di chiese pentecostali africane o africanizzate si colloca dentro un contenitore di ben più ampie dimensioni e può es- sere interpretata come il risvolto religioso delle diaspore, per altro verso, a Castel Volturno il fenomeno si configura come fatto sui generis, quan- tomeno per questioni numeriche, ovvero per l’alta frequenza delle chiese nel limitato spazio individuato dalla nostra ricerca. In effetti, lungo un tratto di strada di circa sei chilometri, che va dalla penultima rotatoria prima del centro storico fino a poco oltre l’ingresso del Villaggio Cop- pola, è stato possibile contare dieci chiese pentecostali, vale a dire quasi due per ogni chilometro lineare (Figura 4). Inoltre, è importante sotto- lineare che, focalizzando l’attenzione unicamente sul segmento stradale, non sono state prese in considerazione eventuali chiese pentecostali al- l’interno dei viali che intersecano l’asse principale sui due lati. Allo stesso modo sfuggono alla mappatura quelle ubicate a Destra Volturno e Pe- scopagano o, ancora, a Casal di Principe e Aversa, località nelle quali la presenza di chiese africane è stata più volte segnalata nel corso delle con- versazioni con i migranti. La prolificazione di questi luoghi di culto è stata certamente favo- rita dalla presenza prolungata degli americani che dettero luogo, a Ca- stel Volturno, alla fioritura delle prime chiese pentecostali sin dagli esordi

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ISSN 1594-5472142 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

Fig. 4 - Le chiese pentecostali africane

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© Edizioni Scientifiche Italiane143 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo della loro permanenza, cioè a partire dagli anni Sessanta. Tuttavia, per quanto questo fattore possa aver favorito il processo, facendo sì che gli africani trovassero un territorio già predisposto ad accogliere il loro pen- tecostalismo, esso può solo in parte contribuire a far comprendere il fe- nomeno nelle connotazioni attuali. In primo luogo, infatti, va conside- rato il numero delle chiese che, in un certo senso, parla da sé, nello stesso momento in cui lascia prefigurare una quota di adepti per ognuna di esse; in seconda istanza la loro prossimità, che non fa pensare tanto a un modello di distribuzione spaziale americano, quanto piuttosto a uno africano che ripropone la densità di luoghi di preghiera offerta da molte metropoli del continente nero; da ultimo, il fatto che il boom di chiese africane si sarebbe verificato a partire dalla metà degli anni No- vanta, un’escalation che è, inevitabilmente, connessa alle presenze sub- sahariane nell’area. Sebbene le chiese ospitino anche degli incontri settimanali, il mo- mento aggregativo culminante è quello della celebrazione del culto do- menicale – ragion per cui la Domiziana, ogni domenica, si trasforma at- tirando i gruppi di adepti verso le rispettive chiese, popolandosi di ac- conciature sofisticate e abiti eleganti, ma caratterizzandosi anche per un’allegria insolita. Così, l’immagine dell’africano cambia: per un giorno non è più migrante ma semplicemente fedele. I riti possono essere lun- ghi diverse ore e, anche per questo motivo, molte chiese hanno al loro interno una sala per intrattenere i bambini; spesso, a fine liturgia, si man- gia insieme e si trascorre la seconda parte della giornata con la propria comunità religiosa. Nelle chiese pentecostali, in generale, la preghiera è caratterizzata da una dimensione partecipativa molto marcata, nella quale vengono peral- tro affrontati gli aspetti più comuni della vita dei fedeli; perciò, a Ca- stel Volturno si prega per il rinnovo dei permessi di soggiorno, per sal- vare la comunità dalle macchie della tratta o del traffico di droga, per- ché ci sia lavoro per tutti. Essendo predominanti le due comunità gha- nese e nigeriana, il rito si svolge in lingua inglese, sebbene si possa as- sistere a momenti di lettura della Bibbia nella lingua locale più rappre- sentativa della propria nazionalità, soprattutto quando ci si ritrova in un gruppo omogeneo per provenienza o in una cerchia di persone nume- ricamente più ridotta, come avviene nelle situazioni dedicate alla rifles- sione su un determinato tema biblico. A questo riguardo, prima del- l’arrivo del pastore, in certe occasioni i fedeli si dividono in piccoli nu- clei, dislocandosi in diverse parti della chiesa per discutere insieme de- gli argomenti di volta in volta individuati. La molteplicità delle chiese, continuamente ribadita dai numerosi ma-

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ISSN 1594-5472144 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio nifesti in inglese che pubblicizzano eventi di preghiera, è ancora una volta garantita dalla disponibilità di edifici. Solitamente la sala è costi- tuita da un piano terra preso in affitto, arredato con sedie di plastica, stufe a gas per riscaldare, teli di raso, fiori di plastica o altri elementi più sgargianti per decorare l’ambiente. In genere la sedia del pastore si distingue dalle altre. Gli stabili, così come le spese connesse, vengono pagati attraverso forme di autofinanziamento; talvolta, anche la figura del pastore viene retribuita con la stessa modalità. In ogni caso, se «pro- liferazione, mobilità e vulnerabilità sono le caratteristiche che rendono difficile una rilevazione esatta ed una mappatura precisa» (Butticci 2013, p. 85), ciò è facilmente constatabile nel tratto esaminato della Statale Do- miziana: basti pensare che, in un breve arco di tempo, alcune delle chiese precedentemente rilevate hanno cambiato nome o luogo – com’è il caso della Bethesda, trasferitasi lo scorso anno in località Ischitella – oppure non esistono più12. Il numero e la varietà di chiese vengono visti, da parte dei cattolici, come segno di poca serietà e di inaffidabilità del messaggio religioso, frantumato in approcci personalistici e privo di una base comune che possa garantirgli una qualche universalità. Sono parte integrante di que- sta instabilità il continuo ricambio di pastori e locali adibiti al culto. Tal- volta l’idea di aprire una chiesa viene persino vista come un modo per sfuggire all’inerzia cui costringono le condizioni del mercato occupa- zionale. Voci dal mondo missionario ed ecclesiastico confermano questi convincimenti. Al contrario, per gli africani la molteplicità delle chiese pentecostali, oltre a essere anch’essa un modo per diffondere il messaggio cristiano, costituisce una più ampia opportunità di scelta e garantisce la libertà di cambiare. Soprattutto, esse risponderebbero appieno a una religiosità afri- cana delle origini, che non sempre trova rispondenza nelle modalità di preghiera del cattolicesimo tradizionale. Inoltre, in luoghi marchiati dalla carenza di spazi aggregativi, le chiese pentecostali contribuiscono a creare occasioni di socializzazione e d’incontro in punti diversi del territorio. Sebbene il problema della formazione o delle reali intenzioni del pastore venga posto o riconosciuto dagli stessi interessati, esso non toglie nulla al valore del pentecostalismo che, come qualsiasi altro fatto umano, può essere caratterizzato dal modo più o meno corretto con cui le persone lo affrontano. La questione passa del resto in secondo piano rispetto ai vantaggi offerti da una chiesa versatile e a portata di mano, che sa en- trare nelle gioie e nei drammi dei suoi fedeli perché conosce la materia di cui si compone il loro vissuto quotidiano. Un aspetto rilevante del pentecostalismo è la porosità dei confini re-

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© Edizioni Scientifiche Italiane145 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo ligiosi, permeabilità che permette di accogliere e mettere insieme prati- che quali quelle degli esorcismi, della trance, dell’eucarestia. Con questa flessibilità, per così dire interna, si coniuga una versatilità anche di fac- ciata che riguarda, per esempio, la possibilità che il fedele cambi più volte chiesa e pastore o che la chiesa stessa cambi sede. Questa caratte- ristica, nella quale i non adepti – e i non migranti – riscontrano un tratto di superficialità e di mancanza di serietà, è in realtà profondamente con- nessa alla condizione migratoria dei fedeli e degli stessi pastori, che com- porta precarietà, cambi di residenza, ricerca di locali ad affitti più bassi. Più in generale, il pentecostalismo africano occupa un ruolo signifi- cativo in termini di transnazionalismo, perché costituisce un punto di aggregazione e riconoscimento culturale anche nei paesi d’immigrazione. Ciò vale a dire che, in contesti sociali connotati da condizioni di mar- ginalità, queste chiese contribuiscono alla ricomposizione dell’identità collettiva e, nel fare ciò, favoriscono appartenenze molteplici e diversi- ficate: in terra di immigrazione, infatti, il loro valore sociale appare mol- tiplicato (Pace, Butticci 2010, p. 104). A Castel Volturno è dunque possibile individuare alcune forme lo- calizzate delle dinamiche globali: il commercio (ufficiale e no), le atti- vità religiose (delle Chiese pentecostali), i traffici illeciti (di droga e pro- stitute). Alcune di queste pratiche arrivano talvolta a forgiare veri e pro- pri spazi transnazionali: si tratta, nella maggior parte dei casi, di luoghi già esistenti che vengono rifunzionalizzati, come i kalifoo, gli spazi del commercio o dell’abitare, quelli destinati al culto o ancora all’illecito. Tali elementi geografici, talora rinominati dagli africani – come si è vi- sto per i kalifoo, ma anche per alcune abitazioni o aree abusive –, as- sumono comunque significati nuovi rispetto al passato. Non di rado, al- tresì, essi generano veri e propri prodotti territoriali transnazionali, cioè realtà riconoscibili come artefatti altri rispetto ai preesistenti – laddove un kalifoo o un quartiere più africanizzato non mutano morfologica- mente, restando per l’appunto rispettivamente una rotatoria o un’aera residenziale. È il caso degli afromarket, degli internet point, dei money transfer, di certi spazi abitativi, delle chiese pentecostali, ma anche delle case d’incontro, in cui si prostituiscono le ragazze vittime della tratta, oppure degli alloggi destinati a nascondere le grosse partite di stupefa- centi13. Del resto le nuove toponomastiche, le aree gravitazionali, le gerar- chie dei luoghi tracciano segni territoriali che difficilmente il “dato” ri- vela (Amato, Gallo 2009, pp. 204, 207). Perciò, questa geografia silente va dapprima disvelata e poi interrogata, poiché essa cela, insieme alle proprie sembianze e forse ancor più di queste, il suo significato.

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ISSN 1594-5472146 © Edizioni Scientifiche Italiane Disfunzioni migratorie e territorio

1 Il termine è tratto da Minervino (2010, p. 63), che lo usa parlando della Statale 18, «una strada che oggi è anche l’unica vera grande città della Calabria moderna». 2 Il saggio che qui presento nasce nel quadro di un assegno di ricerca biennale sul tema dei Migranti africani in Campania: reti sociali, culturali e territoriali, finanziato dal Dipartimento di discipline storiche (ora Dipartimento di studi umanistici) dell’Univer- sità degli studi di Napoli “Federico II”. Nel primo periodo di ricerca, grosso modo cor- rispondente all’anno accademico 2011/2012, per portare avanti il lavoro di terreno ho abitato lungo la Domiziana, a pochi chilometri dal centro storico di Castel Volturno. La seconda fase della ricerca, svoltasi nell’anno accademico 2012/2013, ha invece bene- ficiato di una residenzialità meno continuativa, ma più mirata, all’interno del Villaggio Coppola – un punto d’osservazione differente, e in qualche misura complementare, ri- spetto all’asse stradale. In attesa di essere pubblicato, il presente saggio – ampliato, ap- profondito e integrato con intere nuove parti – si è trasformato in un libro uscito nel frattempo per i tipi dell’editore Lupetti di Milano con il titolo: Antimondi delle migra- zioni. L’Africa a Castel Volturno. Desidero qui ringraziare Valerio Petrarca, docente di Antropologia culturale presso il medesimo dipartimento in seno al quale ho potuto con- durre i miei studi e responsabile scientifico del sopra richiamato assegno di ricerca, per aver aperto uno spazio istituzionale che ha materialmente consentito la realizzazione sia di questo lavoro sia del libro. 3 Attualmente è attiva in zona una chiesa pentecostale africana, la Christ Restora- tion Ministries International. 4 Per un quadro d’insieme sulla crescita dell’immigrazione africana verso l’Unione Europea tra il 1985 e il 1993 si rimanda a Robin 1996, p. 59 (planche 13). 5 Un meccanismo che, del resto, ha una valenza più generale, riscontrata a livello nazionale anche nei riguardi di altri migranti (Dal Lago 1999, pp. 63 ss.). 6 Qualora si faccia riferimento alla classificazione tipologica delle differenti forme di attività imprenditoriali intraprese dagli stranieri in Italia, proposta a suo tempo da Ambrosini (2005, pp. 126-129). Su questo argomento, ma più in generale sulla mi- croimprenditorialità dei migranti nello spazio urbano, si può vedere anche Tumminelli (2010, pp. 109 ss.). 7 Tra la fase di stesura del presente saggio e la sua consegna all’editore per la stampa, la “Casa del bambino” si è trasferita in località Destra Volturno. 8 La letteratura relativa ai fatti accaduti sul litorale domizio e all’operato delle as- sociazioni locali è abbastanza nutrita: tra gli altri lavori si rimanda a Iorio 2009. Per un breve spaccato dell’immigrazione a Castel Volturno si può invece vedere Ortano, Ar- turo, Compagnone, 2008, pp. 74-79. 9 I Regi Lagni sono un artefatto idraulico del periodo borbonico, costituito da una serie di canali rettilinei che raccolgono e canalizzano le acque con lo scopo di prevenire le inondazioni. Il reticolo attraversa estese aree di appezzamenti agrari sfociando nel Tir- reno tra Castel Volturno e Lago Patria. Il pessimo stato delle acque convogliate è una delle cause dell’inquinamento del litorale domizio; i Regi Lagni, infatti, vengono utiliz- zati come scarico naturale da numerosi Comuni campani e i sistemi di depurazione sono evidentemente insufficienti ad arginare gli effetti di questa prassi. 10 In seguito alla “Strage di san Gennaro”, lo Zagarella è stato oggetto di attenzione anche da parte della stampa (in particolare, si segnala il reportage di D’Avanzo, 2008). 11 Per una trattazione più puntuale dei termini pentecostale, neopentecostale, cari- smatico, neocarismatico, evangelico, si rimanda a Buttici 2013, pp. 86-87. 12 Al riguardo si può operare un primo confronto, per quanto parziale, tra la Fi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane147 ISSN 1594-5472 Fabiana D’Ascenzo gura 4 di questo saggio, relativa al 2013, e la tabella 9.5 sulle chiese evangeliche a Ca- stel Volturno riportata in Amitrano, Di Giovanni, Di Sanzo, Gandolfi, Macioti, Mag- gio 2013, p. 189. 13 L’illecito tende a produrre spazi transnazionali più che prodotti territoriali tran- snazionali e questo per ovvi motivi: esso tende a rifuggire la visibilità, mentre insegue la funzionalità, l’efficacia, la segretezza. Gli spazi transnazionali prodotti dall’illecito ap- partengono a categorie più difficilmente individuabili di quanto possa esserlo una casa o una piazza: essi si danno nella forma di traiettorie, flussi, reti.

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ISSN 1594-5472148 © Edizioni Scientifiche Italiane MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno ANTONELLO CICCOZZI

La frustrazione dei migranti

«Andiamo nelle case libere da affittare, quelle che loro non vogliono più abitare… facciamo i lavori che loro non vogliono più fare… ognuno di Castel Volturno ha la mentalità camorristica, perché cerca di sfruttare la sofferenza dello straniero in tutti i modi e fuori dalle regole… adesso c’è più gente che lavoro, con la crisi non si trova lavoro e la gente rien- tra la sera e sente la famiglia dall’Africa che chiede soldi, e non ci cre- dono che i soldi non ci sono perché vedono l’Occidente come il para- diso… allora i famigliari accusano chi è venuto qui di cattiveria se non manda i soldi… gente che ha venduto tutto per venire, il sogno che ha avuto è tutto delusione e non si può tornare a mani vuote… quando tu hai lasciato il paese sei un salvatore della famiglia che ti aspetta, invece qui ci trattano tutti come animali, sono tutti razzisti». Questo è il punto di vista di una donna ghanese che, a partire da una serie di generaliz- zazioni, mi racconta il malessere degli africani di Castel Volturno. Lo fa con determinazione e autorevolezza: è Italia da tanti anni, e sa come stanno le cose della sua gente (e ho l’impressione che non si sforzi troppo di nascondermi che, in quanto italiano, faccio parte del problema). Parla come una persona che sa bene quello che dice; è la storia che riferiscono un po’ tutti i migranti, della frustrazione, della rabbia, del risentimento che alberga nei loro pensieri. Si tratta dei temi ricorrenti sulla delusione per aver trovato una vita difficile, molto più difficile di quello che s’immaginava; temi che richia- mano quello che in generale è lo stato d’animo di ogni migrante: sempre a pensare alla famiglia in Africa, al patto di speranza, di riscatto contratto con fratelli, figli, genitori prima di partire. Solo a prezzo di costanti fati-

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© Edizioni Scientifiche Italiane149 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi che e umiliazioni chi è andato via riesce a rimandare qualcosa ai cari che aspettano dall’altra sponda del Mediterraneo, dove pochi soldi diventano molti grazie alla “magia” del cambio monetario, del dislivello economico tra Sud e Nord del mondo; in un sogno di benessere andato troppo meno bene del previsto, soprattutto perché ostacolato dal razzismo dei “bian- chi” che sfruttano i “neri” mentre li accusano di portare degrado. Le ge- neralizzazioni fatte in un certo modo sono, quando non proprio scor- rette, almeno “prepotenti”: costringono le sfumature, le varianti di cui qualsiasi soggettività è portatrice, nella violenza epistemica di una catego- rizzazione al singolare; rivelando una riduzione di complessità solitamente più utile a chi la fa che a chi la riceve. Così, tanto per ricambiare la scor- tesia, generalizzazione per generalizzazione, si può dire che per i migranti africani di Castel Volturno gli autoctoni sono – al pari degl’italiani e de- gli occidentali – tutti razzisti. Prima per il colonialismo, lo schiavismo, per le guerre, ora per lo sfruttamento e la discriminazione di chi oggi è arri- vato in Europa. Generalizzando, i migranti ci detestano. Ci detestano non tanto per il fermentare di un comunemente umano sentimento etnocen- trico “orizzontale” di distanza culturale (che qualche anno di discorsi al- ternativo-borghesi sull’interculturalità, il multiculturalismo, la tolleranza, il riconoscimento reciproco, l’integrazione e via dicendo non può che limi- tarsi a scalfire solo in superficie). Ci detestano perlopiù a partire da una prospettiva “verticale”, di classe: perché abbiamo di più, e perché riten- gono che quel di più sia stato sottratto a loro, in passato come ora. Ci detestano, com’è usuale che i servi detestino i padroni. Ci detestano dal momento in cui vedono in noi l’ostacolo che li separa dal loro sogno, fino alla tappa conclusiva: tornare in Africa arricchiti, potenti, rispettati. Tornare periodicamente o per sempre, in una tensione che si decide pe- rennemente domani tra il migrare in modo permanente o circolare. Tor- nare, dopo aver rimandato per anni il denaro per sostenere la famiglia, per acquistare una o più case, per aprire un’attività. Perché, in fondo, per molti la migrazione in Occidente è un lungo rito di passaggio che riporta a casa, il transito in uno spazio di antistruttura, in un frattempo liminoide da dove rientrare solo dopo aver catturato il successo economico; prece- duti da una lunga scia di rimesse monetarie, per dimostrare la propria forza, per evitare un fallimento esiziale. Una volta partiti – a meno di non perdersi o attecchire definitivamente nei luoghi d’approdo – quando si torna l’unico modo per non sprofondare nella vigile e spietata gerarchia sociale del posto dove si è nati, è arrivare nei paraggi della cima. Non si torna come prima, o si vince o si perde. E per farcela bisogna vedersela con il razzismo dei bianchi. Ma che significa, nell’uso che se ne fa qui e più in generale, la parola ‘razzista’?

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ISSN 1594-5472150 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Un piccolo episodio di discriminazione

A un certo punto della mia ricerca sul campo lungo la via Domi- ziana, un quarantaseienne nigeriano, Tony, mi ha raccontato di quando, già ormai venticinque anni prima, arrivò in Nord Italia, giovane e fre- schissimo di laurea, come studente di un master in economia, ritrovan- dosi qualche anno dopo – per il coincidere della crisi economica in Ni- geria con un intoppo negli studi derivante da una sua personale crisi esi- stenziale – a perdere la borsa di studio, finendo a fare il bracciante a Castel Volturno. È stato uno dei primi, quando i migranti erano ancora pochi, e si affacciavano come una novità alle richieste di lavoro a basso costo delle aree circostanti, prevalentemente agricolo e poi edile, disci- plinato entro un regime di caporalato. Abitava in affitto presso un certo don Michele, il quale rassicurò il vicinato, ancora non abituato alla pre- senza straniera, dicendo che si trattava di uno studente americano. Se quanto restava dell’aspetto da universitario non avrebbe potuto reggere più di tanto, la recita durò ancora meno. Così un giorno Tony entrò nel bar sotto casa, e un cliente in vena di riscontri lo accolse annun- ciandolo (probabilmente con qualche sospetto) in questo modo: «Ah, ecco l’americano di don Michele!». A quel punto Tony, forse dopo aver colto una domanda implicita in quel proferimento, ci tenne a precisare, con un sorriso e una punta di fierezza, che non era americano ma afri- cano. In quel momento intorno a lui nessuno ricambiò il sorriso; e, in risposta alla sua rivelazione, il barista, vedendo confermati i dubbi del vicinato, gli rifiutò la tazzina con cui gli aveva servito l’espresso in quei giorni, riservandogli un bicchierino di plastica. Così Tony si trovò fe- rito nell’orgoglio da un atto di discriminazione rivolto sulla sua persona che, pur in un chiaro sentore di razzismo, non aveva a che fare in modo stretto con il colore della pelle. Questa piccola vicenda è una delle tante dimostrazioni di un atteg- giamento di discriminazione etnica di tipo neorazzista, ossia che si rea- lizza su base prevalentemente culturale-economica rafforzata solo even- tualmente in seconda istanza da una qualche diversità di matrice biolo- gica. Un atto di esclusivismo di classe, appoggiato a un sentimento di rifiuto dello straniero: se essere nero americano vuol dire essere studente ricco di un paese ricco e quindi meritare rispetto come un “padrone”, essere nero africano significa essere bracciante povero di un paese po- vero e ottenere disprezzo come un “servo”. Si tratta di un sentimento che penetra la pelle per arrivare al portafogli passando per la cultura: la discriminazione etnica poggia un lato sulla discriminazione razziale e un altro sulla discriminazione di classe; ma quasi sempre è la differenza eco-

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© Edizioni Scientifiche Italiane151 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi nomica che slatentizza e innesca la repulsione verso il complesso di di- versità di cui l’Altro è portatore. Non aveva cambiato pelle Tony, ma in quell’attimo aveva cambiato status, e tolti i panni dello “studente americano”, si era ritrovato con la sua nuda vita davanti all’ostilità che si riserva ai marginali di ogni risma, scoprendosi qualche tempo dopo, in quanto bracciante africano, con tutta la sua esistenza compressa nel termine di ‘nire’, e nient’altro. ‘Nire’ è una parola dialettale che, nell’uso attuale che se ne fa non solo a Castel Volturno ma in molti altri approdi migratori del Sud Italia, non può es- sere compresa limitandosi al colore della pelle, come tratto di diversità fenotipica che raccoglie e chiama in causa per marcare una differenza. Il riferimento somatico si attiva come segnalatore di differenza a condi- zione che vi sia una provenienza da ambiti subalterni: è la povertà a rendere perturbante l’alterità, perciò la questione non riguarda del tutto la caratteristica fisica da cui prende le mosse. In questo senso ‘nire’ – a partire dal tono di voce dispregiativo e in funzione dei contesti enun- ciativi – è l’autoevidenza che, riverberandosi non ultimo anche nel senso negativo archetipico che, soprattutto nella cultura occidentale, si attri- buisce a questo colore, finisce con il significare incuria, miseria, delin- quenza, spaccio, prostituzione, predazione, violenza. Perciò i migranti africani più si sentono orgogliosi di essere neri meno sopportano che un italiano gli dica, in quella certa maniera, “nire!”. Espressione chiave di un certo razzismo popolare, l’essere “nire” rimanda a un’accusa e a una punizione, è essere “gentaglia”; perché nel linguaggio di strada es- sere una razzaccia vuol dire essere “brutta gente”. Gente che pertanto va allontanata, sanando così, con un muro simbolico, la distanza che ha percorso per arrivare fin qui. Ovviamente, in questa terra, che è anche la terra di Jerry Masslo e della strage di Castel Volturno1, questa vicenda del bicchierino di pla- stica non può che essere considerata come un episodio del tutto minuto. È valso la pena però riportarla perché, come frammento di “folklore se- gregazionista”, tratta di un attimo che rivela una densità simbolica in grado di mostrare, nella banalità del quotidiano, il modo in cui certe tattiche discriminatorie, che si fanno rientrare entro un uso ampio del termine ‘razzismo’, si accendono quando in qualche maniera un sog- getto in movimento supera lo spazio che separa l’appartenenza a ma- cro-ambiti egemonici rispetto a quella a macro-ambiti subalterni. Il bic- chierino di plastica in questo caso è l’elemento significante di un lin- guaggio, il marker occasionale che parla di una procedura spontanea di messa a distanza e di etichettamento inferiorizzante; un codice che si è attivato non solo attraverso il colore della pelle, ma, a voler ridurre la

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ISSN 1594-5472152 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno questione all’osso, quando il barista ha scoperto che Tony non era af- fatto “ricco” come da un americano ci si aspetterebbe, anzi, la sua pro- venienza geografica lo portava a essere classificato, in quanto africano, come ineluttabilmente “povero”. Questo nonostante che, per la preci- sione, Tony provenisse da una famiglia dell’alta borghesia nigeriana (solo in seguito il suo percorso da studente nel Nord Italia a bracciante nel Mezzogiorno lo ha portato ad azzerare il suo status sociale di partenza, e a “proletarizzarsi” rispetto alla situazione di approdo2). Così, dal suo punto di vista, quel barista non ha fatto altro che cer- care di rimettere in ordine il mondo, attraverso una pratica di tipo esclu- sivista. L’ha fatto quando ha appurato che Tony era in fondo un po’ troppo uguale a lui: uno che veniva da un altro “Sud”, quindi anch’e- gli un marginale, un povero. Quando è toccata dalle vicende umane ogni geografia fisica finisce con il frantumarsi nella geografia politica di chi l’attraversa. Così, una volta che Tony ha colmato la distanza che dalla Nigeria l’ha portato ad arrivare in quel bar, lui e il barista sono diven- tati “troppo uguali”, giacché si sono ritrovati entrambi sul crinale che determina la zona di confine tra il Nord e il Sud del mondo. Un con- fine che – nel senso più schematico e generale del termine – va inteso come soglia areale e sfocata che divide un’opulenza sempre più preca- ria da un’indigenza sempre più presente, la fortuna dalla disgrazia, la speranza dalla disperazione; il mondo di chi beneficia del progresso più in termini di emancipazione dal mondo di chi, in attesa che quella pro- messa di emancipazione arrivi e dal momento che non arriva mai, il pro- gresso lo subisce più come motivo di sfruttamento. Un confine che va inteso come il limite che separa i territori verso cui la maggior parte del- l’umanità spera di immigrare da quelli da cui la maggior parte dell’u- manità spera di emigrare3. Solo a quel punto, dal momento in cui uno aveva attraversato lo spazio tra un continente indigente (con sacche di agiatezza) e uno agiato (con sacche d’indigenza), si era reso necessario un dispositivo capace di contrassegnare una differenza che si scopriva altrimenti inconsistente tra due appartenenti alla varia ma comune umanità degli individui subal- terni. In questi spazi “al confine” e “di confino”, i primi, quelli resi- denti nei “piani più bassi” nel Nord del mondo, poiché occupano gli ultimi bastioni di un’agiatezza sempre più in crisi, entrano in concor- renza con i secondi, quelli provenienti dal Sud del mondo in cerca di risorse. Così – assediati dalla loro indigenza, da quella degli altri e dallo stigma di “razzista!” – gli “ultimi nazionali” cercano di mantenere le di- stanze rispetto agli stranieri, gli “ultimi arrivati”, per assegnargli una po- sizione subordinata, attraverso tattiche4 quotidiane fatte di simboli, con-

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© Edizioni Scientifiche Italiane153 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi dotte, interdizioni (dove c’è chi si toglie dall’imbarazzo, e, con una certa dose di strafottenza, inizia a dichiararsi “razzista”). In tutti i modi, una volta che ha scoperto la provenienza di Tony, il barista gli ha seguitato a servire lo stesso caffè, cambiandogli però “pelle”, per segnare e segnalare un divario. Più in generale, le migrazioni da paesi poveri a paesi ricchi fanno emergere, per così dire, una que- stione d’intreccio fra distanze: se normalmente la distanza sociale (“ver- ticale”) è diluita e depotenziata nella distanza fisica (“orizzontale”), le migrazioni annullano attraverso lo spostamento geografico questa “di- stanza tra distanze”. È ciò che innesca, in mille forme, un attrito quo- tidiano che suscita una reazione immunitaria, una “microfisica della fron- tiera” fatta di un insieme ampio di strategie istituzionali e tattiche ordi- narie di esclusione orientate a riprodurre il dislivello esterno che il mi- grante ha superato con il suo approdo, attraverso la sua conversione in un dislivello interno.

Alterità migrante e dislivelli di cultura

È chiaro che in questo evento “molecolare” di contatto culturale tra un “indigeno autoctono” e un “indigeno alloctono”5 oltre a un divario trans-etnico di usi, costumi e visioni del mondo s’intrecciano questioni di classe economica e di status sociale. Alla ricerca di categorie inter- pretative entro cui rendere intellegibile questa situazione, sulla scorta della formalizzazione data da Alberto M. Cirese del concetto di disli- velli di cultura, si può iniziare a considerare che la diversità culturale è solitamente correlata con una componente di differenza economica che in qualche misura sussiste tra le parti in contatto. In concreto questo comporta che le frontiere culturali foriere di maggiori problemi sono quelle che si presentano tra diversificate possibilità di accesso alle risorse, dove cultura ed economia vanno viste come dei fattori inscindibili, due facce della stessa medaglia, nella produzione e riproduzione di differenza sociale. Queste soglie antropologiche tra gruppi umani derivano da una combinazione di distanza fisica e sentimenti di reciproca negazione tra le parti; pertanto al diminuire della distanza materiale tra le parti l’osti- lità tende ad aumentare6. A voler vedere certi fatti dentro quest’ambito di concettualizzazione, un flusso migratorio comporta il superamento di un dislivello esterno (tra nazioni subalterne e nazioni egemoniche nel si- stema mondiale politico-economico transnazionale) che produce un di- slivello interno alla società di approdo (tendendo ad aggiungere un nuovo gradino “in basso” di subalternità, nella gerarchia tra individui che oc-

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ISSN 1594-5472154 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno cupano posizioni subalterne e individui che occupano posizioni egemo- niche in una data nazione). Un migrante, avendo eroso quel dislivello attraverso un viaggio, trova ad accoglierlo una combinazione parados- sale di fattori di chiusura e di apertura, dove – oltre a rade, difficili e relative opportunità di faticosa emancipazione – subisce esclusivismi, di- scriminazioni, sfruttamento da parte dei ceti rispetto a lui egemonici con cui entra in relazione (che, in una gamma crescente di potere economico e di distanza socio-culturale, sono solitamente incarnati prima di tutto dalle classi subalterne residenti), e risponde a ciò con sentimenti e pra- tiche di difesa e di resistenza, rifiuto dell’ordine sociale che scopre nel luogo di approdo; nonché di esclusivismo dal basso7, che può essere espletato anche a vari livelli di aggressività socio-culturale (che possono arrivare a sottendere forme d’imperialismo pulviscolare, fatto di tattiche di conquista di ambiti locali simbolici e materiali). Il tutto in una ricerca di emancipazione, autonomia, e a partire da una finalità di massimizza- zione della sua capacità di approvvigionamento di risorse; in un conte- sto ampiamente ostile seppure punteggiato da sacche di più enfatici che concreti propositi di accoglienza e integrazione. Detta in altro modo il migrante transnazionale – colui che si sposta da nazioni più povere verso nazioni più ricche – oltrepassa un dislivello orizzontale tra società che tende a riprodursi in senso verticale tramite forme di marginalizzazione, di assoggettamento nei luoghi di arrivo: il dislivello esterno di partenza, che era arginato prima di tutto dalla di- stanza fisica, si converte in un dislivello interno di arrivo in cui la so- praggiunta situazione di prossimità slatentizza, fa emergere come evi- denza quotidiana, tanto la distanza sociale rispetto alle classi egemoni- che della società di approdo quanto la ruvida prossimità acquisita ri- spetto a quelle ivi subalterne. Tutto ciò si risolve in forme di concor- renza, attrito, di antagonismo, di conflitto, di lotta che si realizzano in spazi sociali di separazione – aree marginali, periferie, quartieri disagiati, ghetti – in cui i “nostri ultimi” si ritrovano a convivere con chi fugge dagli ultimi luoghi del mondo. Così questi “Sud interni del Nord del mondo” sono diventati habitat culturali di condivisione e conflitto tra chi c’era da prima e i nuovi arrivati, tra i post-proletari occidentali e i neo-proletari extraoccidentali. In luoghi come questi, quello che resta dei “sottoproletari di Pasolini” s’incontra con ciò che arriva dai “dispe- rati di Marcuse”. La dignità certe volte è più sensibile alle sfumature che agl’impatti frontali; sarà per questo che, rispetto all’episodio della tazzina, Tony mi ha raccontato di essersi sentito profondamente offeso come africano, nella sua cultura, nel suo orgoglio, e di aver sentito lì per la prima volta

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© Edizioni Scientifiche Italiane155 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi tutto il dolore della ferita della discriminazione. Peggio di quella che nel frattempo iniziava a sperimentare quotidianamente in più eloquenti ter- mini di sfruttamento lavorativo che partivano da un dato elementare: ri- ceveva una paga giornaliera più bassa di quella dei suoi colleghi italiani di lavoro, che all’epoca erano ancora la maggioranza. Il “padrone” mo- tivava la disparità di trattamento accusandolo d’inesperienza, di lavorare meno e peggio degli altri; lui v’intravedeva una manifestazione di razzi- smo, che gli parve d’intendere meglio qualche giorno dopo, quando si trovò di fronte allo specchio di quella tazzina. Il punto, ormai da tempo noto, è che la base dell’economia capita- lista trae beneficio dalla moltitudine subalterna dei clandestini necessari per coprire le attività lavorative caratterizzate dalla qualità “bassa”, “umile”, “faticosa”, “degradante” del lavoro; necessari anche per il loro accon- tentarsi di una bassa quantità di retribuzione. A oggi gl’irregolari sono in vari ambiti gli stranieri più appetibili per i datori di certi lavori, per- ché lo statuto di clandestinità tende ad azzerare le possibilità di riven- dicazione di diritti lavorativi da parte di soggetti che così non possono che svolgere impieghi «precari, pesanti, poco pagati, pericolosi, social- mente penalizzanti»8. Per questo molte volte agli stranieri, soprattutto se clandestini, più che un’esclusione completa, viene, nei fatti, proposta una forma di «integrazione subalterna»9. Qui la pratica diffusa dello sfruttamento sul lavoro, da discriminazione economica su base etnica, tende ad assumere le sembianze di un atto di beneficenza: ogni mattina i caporali scelgono tra i corpi in eccesso dei migranti chi caricare sul furgone e chi no; e l’essere scelti per otto ore di fatica (che possono lie- vitare fino a dodici) appare un’amara grazia giornaliera rispetto alla cat- tiva sorte di chi resta in strada. Ciò dipende tanto da un’offerta di la- voro sempre maggiore della domanda (dovuta al numero elevato di mi- granti), quanto dai rapporti sociali di produzione che il dislivello di cit- tadinanza e quindi di diritti implica. Così, per molti versi, i flussi mi- gratori che partono dal Sud del mondo non possono essere spiegati uni- camente attraverso fattori autogeni che riguardano individuali desideri di fuga e sogni di emancipazione, ma vanno anche messi in relazione con la forza di attrazione, diremmo “enzimatica”, determinata dalla malce- lata richiesta capitalistica di subalterni, di individui disposti a svolgere attività umili, di fatica e servitù. C’è anche la presenza di questo biso- gno di abbassare il costo del lavoro – dovuto non tanto agli Stati na- zionali quanto a una reazione “fisiologica” delle reti capitalistiche tran- snazionali alla decrescita dei rendimenti – a far lievitare lo stimolo alla partenza dal Sud verso il Nord del mondo.

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ISSN 1594-5472156 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Le trasformazioni della Domiziana

In contesti locali come quello qui in esame, povertà, marginalità so- ciale ed esclusione urbanistica entrano in risonanza amplificandosi a vi- cenda, e alimentano un complesso discriminatorio che è a sua volta in- serito in una dinamica di deterioramento degli spazi sociali prodotta dal- l’inviluppo tra fatiscenza abitativa, abusivismo edilizio, consumo di suolo, cementificazioni, discariche non regolamentari. Si assiste così a un pro- cesso d’interazione e accrescimento reciproco tra forme di marginalità umana e territoriale, tra il degrado dei luoghi e l’umiliazione delle per- sone che li abitano. Questo sistema di feedback positivo innesca in ul- tima analisi una morfogenesi che produce un confine, un dislivello in- terno, rispetto ai luoghi “ordinari” del benessere che le classi egemoni- che cercano in vario modo di conservare attraverso varie procedure, più o meno formali, d’interdizione. Più semplicemente, non esistono dispe- rati senza ghetti come non esistono ghetti senza disperati. Posti come il filamento urbano10 che la Domiziana delinea tra Ca- stel Volturno il limite ovest di Napoli non sono solo frontiere migrato- rie, sono retrovie del progresso occidentale che si scoprono un habitat favorevole alla concentrazione di marginali di cui il sistema produttivo capitalistico transnazionale ha bisogno, non solo fuori dai confini del- l’Occidente; ma, finché non diventano troppi, anche al suo interno, in modo clandestino, limitato ma necessario. Se, nella sua attuale fase di espansione, l’economia-mondo capitalista da un lato ha delocalizzato la produzione industriale in zone del pianeta in cui vi è ampia disponibi- lità di manodopera a basso costo, dall’altro lato il permanere di attività lavorative corporali non delocalizzabili11 ha tacitamente accolto, stimo- lato, prodotto un flusso di migranti che portano in loco condizioni di lavoro da Terzo mondo (implicate da un regime di diritti extraocciden- tali che possono essere mantenuti dentro l’Occidente grazie allo statuto della clandestinità, a vantaggio dei datori di lavoro “basso”, che, tro- vando servi al posto di lavoratori, si salvano da sempre peggiori condi- zioni di concorrenza, dove il grosso del plusvalore viene drenato molto più in alto nella catena di sfruttamento)12. Nello specifico l’area di Castel Volturno in meno di mezzo secolo è stata investita da un processo morfogenetico di consumo di suolo – dato dal peculiare combinarsi di momenti in sé comuni a molti feno- meni di sviluppo delle periferie occidentali – dovuto in parte a con- giunture regionali, nazionali e internazionali, e in parte a una serie di eclatanti episodi di corruzione politico-amministrativa e camorristica lo- cale. Riassumendo si può ricordare che tutto è cominciato quando il li-

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© Edizioni Scientifiche Italiane157 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi torale Domizio ha iniziato a saturarsi di abitazioni costruite nella pro- spettiva di un loro uso turistico. Questo slancio – del tutto viziato da un abusivismo edilizio endemico e feroce – ha prodotto un eccesso in- sediativo, che, tra errori e orrori urbanistici, ha finito con il degradare pesantemente le qualità paesaggistiche che lo avevano motivato. A que- sto scadimento del paesaggio si è sommato un doppio fenomeno d’in- quinamento ambientale: prima quello della costa, causato da un pro- gressivo peggioramento della qualità delle acque del Volturno e del ca- nale dei Regi Lagni, poi quello del territorio circostante, dovuto al pro- liferare di una quantità spropositata di discariche abusive gestite dalla camorra. Mentre questi elementi di deterioramento territoriale s’impo- nevano sempre più sui sogni di prosperità del luogo, negli anni Ottanta gran parte delle abitazioni turistiche del litorale Domizio venivano con- fiscate per ospitare le masse popolari esodate dal napoletano a causa del terremoto dell’Irpinia e del bradisismo di Pozzuoli. Infine, dalla seconda metà degli anni Ottanta, intanto che molti di questi “profughi regionali” andavano via, lasciando sul posto solo i più indigenti insieme a una scia di degrado procurata dalla loro poco civile permanenza, nelle campagne circostanti iniziavano ad addensarsi popolamenti sempre maggiori di mi- granti africani attirati dai lavori agricoli stagionali. A quel punto, visto che i turisti si erano progressivamente rarefatti, sempre più proprietari decisero di affittare le case agli stranieri che, per abbattere gli alti canoni richiesti, le riempivano di connazionali. Nel frat- tempo la produzione agricola delle campagne circostanti si ristrutturava in base alla nuova disponibilità di manodopera giornaliera a costo ab- bassato, con colture ad alta resa che richiedono un’ingente quantità di lavoro manuale stanziale e con cui si tendeva a sostituire le piantagioni di pomodoro bisognose di manodopera di massa solo stagionalmente. Così la congiunta disponibilità quotidiana di lavoro a retribuzione ab- bassata e di abitazioni a basso costo, unite a una sostanziale assenza di controlli normativi che produceva un clima di sospensione delle regole, resero l’area di Castel Volturno un habitat adeguato alla residenzialità stanziale clandestina. In tal modo si è andato a creare un nuovo equili- brio fondato su un contratto sociale implicito tra territorio e migranti che ha stravolto radicalmente il senso del luogo. A voler personificare i luoghi nell’idea di poter cogliere in essi uno spirito, un’essenza storica, si può dire che il territorio della Domiziana, scoprendosi trasformato in una sorta di discarica di abitazioni in seguito a dissennate politiche ur- banistiche, si è, per un fenomeno di eterogenesi dei fini, spontaneamente adattato alle mutate circostanze, evolvendosi in modo tale che, persa la capacità anelata di soddisfare grandi masse di turisti, si è arrangiato per

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ISSN 1594-5472158 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno come si poteva, attrezzandosi come “discarica sociale” verso la possibi- lità di dare alloggio a grandi masse di migranti. Se turisti e migranti sono i due estremi della figura del viaggiatore, l’area di Castel Volturno, non potendo a un certo punto fare di meglio, ha mantenuto la sua sostanziale vocazione di approdo, e l’ha fatto at- traverso un gesto d’inversione con cui ha conservato la possibilità di trarre senso e sostentamento da chi viene da fuori. L’ha fatto conver- tendosi dal desiderio di accogliere i “corpi ricchi” ai quali offrire le bel- lezze del luogo, alla necessità di sopportare i “corpi poveri” da impie- gare in un luogo ameno deturpato dall’intrecciarsi, per certi versi grot- tesco, di una serie di circostanze uniche. Non è per fatalismo apologe- tico e consolatorio, ma a volte si ha la sensazione che nelle esistenze reali – singolari e collettive – l’opzione tra controllo e deriva, tra ordine e disordine, raramente si offra in base a un confine netto, per svolgersi invece in un groviglio che solo a posteriori riusciamo, in certi casi, a presentare come la tessitura di razionalità, programmi, pianificazioni, in- tenzioni. Tuttavia questo qui non basta: lo scenario che si presenta di fronte all’osservatore che si affaccia alla Domiziana suggerisce un trionfo della catastrofe, nel senso più pieno e contraddittorio del termine, tra la chimera della catarsi e la minaccia del disastro. Così a Castel Volturno si è assistito a un processo di mutazione che ha trasformato questo spazio – che per molti versi non ha potuto es- sere altrimenti, e dove permangono corpi che sperano in un modo o nell’altro di poter essere altrove – in quella che potrebbe essere definita tanto un’enclave di strategie di sfruttamento del lavoro clandestino quanto, per usare un termine foucaultiano, un’eterotopia13 che crea uno spazio di comunione tra l’Africa e l’Occidente, da dove si generano e si svi- luppano le tattiche di emancipazione dei migranti. Tutto questo per molti versi non può non derivare da una certa ambivalenza dei fenomeni di ghettizzazione che, mentre creano separazione rispetto al gruppo ege- monico che si vuole immunizzare, producono comunità nel gruppo che concentrano. Così, lo strutturarsi di quest’ambito di esistenza è riuscito nel tempo a secernere una sua storicità, delle relazioni, un senso d’i- dentità, a farsi quindi luogo e a diventare un punto di riferimento verso l’esterno, condensando un suo senso – di sangue, di fatica e di resistenza – nell’immaginario migrante. Pertanto si può dire che la Domiziana si è andata caratterizzando come un luogo del Sud del mondo in uno spa- zio interstiziale del Nord del mondo, dove si va costruendo – in una peculiare vicinanza tra gruppi etnici inesistente nei luoghi di provenienza – un microcosmo comunitario afroitaliano in cui albergano spore di pa- nafricanismo reale (non a caso molti migranti dichiarano che lungo la

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© Edizioni Scientifiche Italiane159 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi

Domiziana si sentono «a casa», che hanno la sensazione di «essere in Africa»). Qui, come avviene in diversi margini dell’Occidente, il discorso car- dinale – e quasi sempre molto teorico – dell’integrazione si gioca in con- creto su due livelli assai poco commensurabili: i migranti chiedono un’in- tegrazione fatta di diritti di emancipazione sociale (come il riconosci- mento della cittadinanza) ed economica (nell’accesso al sistema di be- nessere occidentale, bramato in perenni appetiti verso qualsiasi avere o segno di elevazione di classe, dai cellulari alle automobili, agli elettro- domestici…), volendo mantenere una sostanziale indipendenza culturale. Viceversa, l’integrazione che sono più propensi a offrire gl’italiani ri- guarda la sfera culturale intesa come rinuncia alla propria identità, spe- cialmente dove questa è percepita in contrasto con quella locale e na- zionale; ma prima di tutto contempla la richiesta di asservimento nel- l’accettazione di lavori subalterni e precari. Schematizzando al massimo, vi è la domanda per fare i “signori africani” (restare culturalmente afri- cani con uno status sociale da italiani) a cui corrisponde l’offerta di di- ventare “servi italiani” (diventare culturalmente italiani con uno status sociale da africani). Così quello che emerge da questa incompatibilità di fini è la naturale, consequenziale formazione di un certo astio reciproco più o meno latente. Per cui, stando a due contrapposte affermazioni di strada, se per gl’italiani «questo passa il convento e se non gli sta bene se ne possono andare che già non li sopportiamo più», per gli africani vale il principio secondo cui «noi ormai in Italia ci stiamo e soppor- tiamo gl’italiani, non siamo noi che ci dobbiamo adattare, sono gl’ita- liani che si devono adattare a noi».

Cultura dell’accoglienza e cultura della sicurezza

È chiaro che in simili spazi si gioca un conflitto essenzialmente di classe, in cui la collettività migrante clandestina rivela la sua forza so- ciale in termini di «potenza istituente» che si oppone al «potere isti- tuito»14 dei sistemi di produzione capitalista (avvantaggiati nelle strate- gie di sfruttamento dalle regole imposte dalle istituzioni statali in ter- mini di riconoscimento elementare attraverso l’istituto della cittadinanza, nel loro tacito bisogno di non aventi diritti). È la disumana e arcaica contraddizione tra il poter lavorare e il non poter essere cittadino che, richiamando la condizione primordiale dello schiavo, genera un ambito di discriminazione puro, elementare, che si traduce in un’estetica dello sfruttamento capace di ridare senso a un orizzonte di lotte che, nel crollo

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ISSN 1594-5472160 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno degli assetti Est/Ovest con la caduta del muro di Berlino, con la delo- calizzazione del lavoro operaio, aveva perso la possibilità d’inquadrare un soggetto subalterno ideale da emancipare. Invece, in un simile campo, il migrante clandestino, dal momento in cui accetta l’habitus del brac- ciante irregolare, emerge – aggregato in forma di moltitudine – come soggetto collettivo proletario perfetto. Questo, allorché le tematiche del- l’eguaglianza si sono tradotte nella questione della cittadinanza univer- sale, spiega la puntuale solidarietà che si stabilisce tra la questione mi- grante e il mondo culturale di sinistra, tra intellettuali, partiti, media e associazioni altermondiste e antisistemiche, in una riconfigurazione ge- nerale di apparati teorici e schemi ideologici a partire dall’apporto della critica postcoloniale. Nell’interazione tra la popolazione migrante e que- sti gruppi di sostegno politico si è creato un percorso di lotte ormai de- cennale che rimanda al più ampio affermarsi antropologico di una cul- tura dell’accoglienza, dualisticamente opposta alla cultura della sicurezza, relativa al mondo della destra politica15. Non è questa la sede per approfondire adeguatamente il tema16, ma non si può non notare come la rappresentazione sociale17 del migrante che si delinea nel Nord del mondo tenda a incarnare l’attuale forma sto- rica della lacerazione schismogenetica18 della weltanschauung occidentale tra politiche di sinistra e di destra, a partire dalle quali l’ambivalenza co- stitutiva dello straniero19, il suo produrre sentimenti contrastanti, viene fagocitata e scissa nelle visioni apodittiche, opposte e complementari di senso comune che rimandano in sostanza alle immagini del “buon mi- grante” o del “cattivo clandestino”. Si tratta di un processo di costru- zione sociale di caratteristiche morali generali che avviene ancorando la rappresentazione di matrice rousseauiana del “buon migrante” (porta- tore di risorse e possibilità, sottrattore di problemi) e quella del “clan- destino cattivo” (sottrattore di risorse, portatore di minacce e problemi) su una serie di oggettivazioni variamente supportate da fatti, prove, sta- tistiche, che sono solitamente presentate come “scientifiche” (il migrante che fa i lavori che gl’italiani non vogliono più fare e che sostiene l’eco- nomia, versus il clandestino che sottrae lavoro agli italiani per rimettere denaro nelle sue nazione d’origine; del migrante più corretto e onesto degli italiani versus il clandestino delinquente, ladro, spacciatore, stupra- tore, assassino, e via dicendo). È proprio questo binarismo che va ad alimentare la separazione tra una cultura dell’accoglienza e una cultura della sicurezza, dove il discorso sull’Altro rivela la sua natura di me- dium per contestare o affermare l’ordine costruito in cui esso si realizza. In tal modo si assiste a una specializzazione di ruoli politici che si traduce nei temi dell’ospitalità o dell’espulsione e in retoriche come quelle

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© Edizioni Scientifiche Italiane161 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi dell’“abbattere i muri” o il “fermare l’invasione” (basate su altrettante scissioni: la premessa dell’aiuto contro quella della paura, la percezione della fiducia contro quella del rischio, l’ideale dell’alterità contro quello dell’identità). Queste narrazioni, nel momento in cui si diffondono e si propagano a livello di senso comune, condizionano l’opinione pubblica entro orizzonti culturali xenofobi o xenofili, che vengono vissuti come segno e senso di appartenenza non solo politica ma culturale. Riassu- mendo: oggi cosa si pensa della questione migratoria va a definire l’o- rizzonte antropologico culturale dell’occidentale medio; e tende a pola- rizzarsi in meri termini di accettazione o rifiuto, in una convergenza stretta con apparati concettuali della sinistra o della destra politica. Tut- tavia, al di sotto del piano dei valori collettivi, questa tensione formale tra opposti platealmente inconciliabili basata sul radicale disconoscimento reciproco della controparte politica, si risolve, nella compresenza impli- cata dalla prassi istituzionale, in un equilibrio che produce un sostan- ziale habitat normativo di compromesso tra le opposte istanze ideali di apertura e chiusura totali: nella prassi la cultura dell’accoglienza e la cul- tura della sicurezza tendono alla simbiosi polare, a compensarsi a vi- cenda, producendo un compromesso tra gli aneliti all’apertura e chiu- sura totale che predicano. Il paradosso di questa indiretta alleanza tra estremismi comunitari e immunitari20 consente di rimediare all’impossi- bilità di ciascuna di queste polarità ideologiche di realizzare la loro pro- messa: perché l’emancipazione globale, in base a parametri di benessere occidentale di massa con cui pensiamo il concetto astratto di “egua- glianza”, di 6 miliardi di indigenti (in costante e catastrofico aumento demografico) non è perseguibile con la semplice rimodulazione dei si- stemi di distribuzione della ricchezza (non è possibile per una questione di disponibilità fisica di risorse rispetto a bisogni crescenti); perché la chiusura autarchica dell’Occidente non è praticabile dal momento in cui il modo di produzione capitalistico è in perenne ricerca di ultimi; per- ché siamo una società senza materie prime e che ha da poco esportato la maggior parte delle sue linee di produzione. Comunque, tornando ai gruppi politici che hanno scelto di coniu- gare l’appartenenza a sinistra primariamente in termini di lotta per l’e- mancipazione dei migranti, va rilevato che l’impianto argomentativo dei discorsi di critica radicale all’ordine costituito che essi propongono è in- centrato prevalentemente sui problemi posti dalla discriminazione lavo- rativa su base etnica, determinata dai vincoli di cittadinanza e dallo sta- tuto d’irregolarità. In tal senso la questione dell’integrazione dei migranti è prevalentemente ancorata sul tema chiave, e di grande richiamo ideo- logico, dato dall’antirazzismo variamente militante21.

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ISSN 1594-5472162 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Razzismi espansi

A questo punto è il caso di tornare alla questione posta alla fine del primo capitolo: perché la rappresentazione sociale di questi complessi discriminatori – dati dall’intersezionalità22 tra fattori prevalentemente et- nico-culturali e socio-economici, esperiti primariamente in ambito lavo- rativo – tende ad ancorarsi soprattutto sul termine ‘razzismo’? Fino a che punto è lecito l’uso di questo lemma? La questione riguarda l’af- fermarsi nella cultura progressista di una definizione sempre più ampia del concetto di razzismo, che – a partire dal secondo dopoguerra, da quando la parola si fissò nel vocabolario occidentale in relazione al cri- mine nazista della Shoah, attraverso l’impegno dell’Unesco – è arrivato ad abbracciare qualsiasi comportamento discriminatorio. Questa pro- gressiva espansione dell’ambito referenziale del termine – dai campi di sterminio a qualsiasi forma di discriminazione e oltre – ha determinato un uso del linguaggio per cui oggi si parla di razzismo per definire, se- gnalare e stigmatizzare una gamma molto ampia di processi di esclu- sione sociale, anche senza che vi sia esplicita razzializzazione (rappre- sentazione della differenza a partire da fattori biologici), ma solo chiu- sura o rifiuto nei confronti della diversità culturale, dell’alterità (anzi, dell’alterità subalterna). A titolo di esempio si può citare il “rapporto sul razzismo in Italia”, in cui il razzismo è definito come «ogni teoria, ideologia, idea, atteggiamento, dichiarazione, atto e comportamento che hanno la finalità di legittimare, incitare, istigare o compiere discrimina- zioni, abusi, molestie, minacce, violenze verbali o fisiche nei confronti di individui o di gruppi assumendo a pretesto la loro origine nazionale o etnica, le convinzioni e pratiche religiose oppure il genere, l’età, i tratti somatici, l’orientamento sessuale, lo stato di abilità, la differenza cultu- rale reale o presunta»23. In merito Pierre-André Taguieff evidenzia il contrasto che – dalla seconda metà del Novecento – vede da un lato «l’abuso della parola “razzismo” e la desemantizzazione che l’accompagna» e dall’altro la «de- legittimazione scientifica e politica della nozione di “razza”», spiegan- dolo attraverso l’emergere della consapevolezza, sia a livello di linguag- gio ordinario sia di pensiero comune, che «il razzismo si poteva mani- festare in modo non esplicito», ossia attraverso «delle modalità d’esclu- sione rilevanti una sorta di razzismo senza razza(e)»24. In alcuni casi si usano espressioni come “neorazzismo”, “razzismo differenzialista” o “razzismo culturalista” per specificare che, se il pretesto della differenza biologica come indice di superiorità ha rivelato la sua essenza pseudo- scientifica, la finalità del razzismo (la discriminazione, o meglio la ne-

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© Edizioni Scientifiche Italiane163 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi gazione dei diritti a determinati gruppi umani a scopo di asservimento) ha mantenuto la sua attualità all’interno di giustificazioni variamente am- miccanti alla tutela delle culture, delle identità, delle società, essenzializ- zate come entità omogenee e immutabili. Questo porta alla circostanza in cui si può arrivare a etichettare come razzismo anche sentimenti quali il senso di appartenenza e il desiderio di tutela identitaria (che, special- mente nelle culture di sinistra, se riferiti all’orgoglio nazionale degli Stati occidentali sono severamente stigmatizzati, mentre spesso vengono esal- tati come valori supremi da sostenere e difendere quando riguardano culture extraoccidentali variamente subalterne, etniche e tradizionali). Probabilmente il punto che consente di classificare certe forme di tutela identitaria delle nazioni occidentali come rifiuto della diversità, e quindi in termini discriminatori fino a entrare nel campo semantico di una concezione espansa di razzismo, deriva da una questione di sostan- ziale mancanza di reciprocità: da un lato si rivendica il diritto alla se- parazione, a mantenere la distanza, a un’attitudine proprietaria dell’ap- partenenza territoriale, ma al lato opposto le nazioni dell’Occidente, at- traverso il sistema capitalistico globale, seguitano a praticare perlopiù sfruttamento e negano autonomia ai popoli a cui chiedono distanza, per mezzo di strategie politiche internazionali che seguitano a occultare re- lazioni di tipo coloniale tra Nord e Sud del mondo. In altri termini, l’i- nammissibilità etica di slogan nazionalistici del tipo “padroni a casa no- stra” non deriverebbe tanto dalla più o meno criticabile attitudine alla chiusura che la frase esprime, quanto dalle pratiche di sfruttamento che essa mimetizza, sottendendo, per così dire, un “padroni a casa nostra e vostra, e voi nostri servi qui”. Quindi, a partire da simili visioni, una vasta gamma di fenomeni discriminatori, facendo a meno di prefissi o aggettivi, seguitano a essere denominati con il termine durissimo e sto- ricamente inquietante di “razzismo”. Negli anni però si è andati oltre, arrivando a classificare come “raz- zismo” qualsiasi negazione di riconoscimento positivo nei confronti del- l’Altro subalterno25. Nell’orizzonte percettivo degli studiosi antirazzisti variamente militanti da tempo si è sconfinati in un ambito che mi pare il caso di descrivere come “psicorazzismo”, dove «più un discorso si presenta esplicitamente antirazzista, più questi studi si accaniscono a di- mostrare che è mosso da subdole e profonde intenzioni razziste»26. Così, oggi chi si fa venire dubbi circa una presunta assiomatica, ontologica bontà di ogni soggetto ascrivibile alla categoria dell’“Altro subalterno” rischia di finire nella stessa casella semantica di chi qualche decennio fa sterminò – in nome di un delirante mito di superiorità assoluta che pre- tendeva di legittimarsi a partire dalla biologia – milioni di esseri umani.

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ISSN 1594-5472164 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Le derive ideologiche dell’espansione estrema dell’ambito referenziale del termine “razzismo” non riguardano semplicemente una confusione tra vari livelli di pregiudizio che finisce con il porre sullo stesso piano et- nocentrismi e razzismo; spesso si arriva a un’inversione tra classe ed ele- mento, e il razzismo passa da forma di discriminazione a conio per tutte le discriminazioni. Il problema è l’emergere di un fanatismo antirazzi- sta dove – poiché chiunque non è xenofilo è razzista e quindi non umano – si arriva a una distorsione ideologica, a un bias culturale27, a un “raz- zismo degli antirazzisti” dove, con la colpevolizzazione di qualsiasi forma di chiusura da parte delle culture egemoniche, s’impone un imperio etico dell’alterità subalterna, attraverso un dispositivo discriminatorio che pa- radossalmente si basa sugli stessi codici che combatte, arrivando a un sottile “razzismo antibianco” o “razzismo antioccidentale” (dal momento in cui i destinatari di tali invettive sono gli occidentali, disumanizzati proprio attraverso lo stigma del razzismo non appena esitano a ricono- scere positivamente l’Altro, a prescindere dal suo comportamento e dal contesto di relazione, visto che, una volta affermatosi lo stereotipo po- sitivo secondo cui l’Altro subalterno non nuoce mai ma è sempre una risorsa, chi vi scorge negatività è razzista). Oggi si discute sull’opportunità di parlare di “razzismo antibianco” anche in merito alle idealizzazioni culturali del meticciato (quando non è inteso più come possibilità tra le altre ma come approdo genetico ideale, superiore), o di tacciarlo come vacua trovata ideologica delle de- stre nazionaliste28 (per alcuni, se “razzismo” può essere usato per ogni discriminazione o assenza di riconoscimento positivo, dare del razzista in risposta a qualsiasi negazione è anch’esso un subdolo atto di razzi- smo; per altri il solo ipotizzare che esista un “razzismo antibianco” è una forma bell’e buona di razzismo). La questione non può essere ri- solta qui, ma a mio parere vi è un punto poco opinabile da tenere pre- sente: se il razzismo si combatte con l’antirazzismo, la xenofobia non si combatte con la xenofilia (che se generalizzata, incondizionata, apriori- stica, può fomentare forme di razzismo inverso, dal momento in cui espelle l’eventualità del male dall’Altro, configurandolo così come entità moralmente superiore).

Razzismo e subalternità

Lasciando stare gli eccessi, reali o presunti, della scelta semiotica del- l’espansione dell’ambito referenziale del termine “razzismo” (espansione comunque ampiamente recepita dalle culture progressiste e capace di

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© Edizioni Scientifiche Italiane165 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi produrre un cambiamento del senso comune nei confronti del tema), va considerato che vi è un campo di solide ragioni in base alle quali la di- scriminazione lavorativa su base etnica può essere ricondotta al razzi- smo. Queste ragioni rimandano al nesso storico che sussiste tra il raz- zismo e le forme di differenziazione umana su base economica note come “classismo”: i fenomeni che riguardano il razzismo sono da sem- pre in qualche misura correlati con la produzione di sistemi di gerar- chie che, mentre naturalizzano la stratificazione umana in classi, caste, gruppi “superiori” e “inferiori”, giustificano e legittimano moralmente delle forme di sfruttamento. Perciò, se la diversità culturale è solitamente in relazione con la differenza economica, le differenze economiche – e le popolazioni che abitano le regioni di potere che queste differenze di- segnano – hanno subito storicamente diversi processi di razzializzazione, che hanno anche preceduto nel tempo la formalizzazione su base bio- logica che si pretendeva scientifica del concetto di razza, partita dal Set- tecento. Non a caso già dalla prima metà del Novecento in ambito an- tropologico culturale statunitense iniziava ad affermarsi – in controten- denza rispetto al razzismo scientifico tragicamente ancora dominante in Europa in quegli anni – la consapevolezza che le nette compartimenta- zioni razziali applicate all’uomo non solo sono sostenute da un’episte- mologia pseudoscientifica, ma sottendono un istinto politico-ideologico primordiale atto a gerarchizzare i gruppi umani al fine di garantire una separazione ideale tra dominanti e dominati. Infatti, in proposito Franz Boas già nel 1936 costatava che «l’“istinto razziale” dei bianchi […] è una ripetizione dell’antica paura istintiva del connubio tra patrizi e ple- bei, tra la nobiltà europea e la gente comune e tra le caste dell’India»29. Allora può essere utile ripensare a questi dettagli attraverso la ri- flessione di Etienne Balibar30, il quale constata che classe e razza «co- stituiscono i due poli antinomici di una dialettica permanente che si trova al centro delle rappresentazioni moderne della storia». Se i procedimenti di razzializzazione sono stati dall’origine sempre connessi alla stratifica- zione in forma di differenza gerarchica delle diversità che ritengono di individuare, «la nozione moderna di razza» ha sempre implicato «un si- gnificato di casta» in cui «la rappresentazione aristocratica della nobiltà ereditaria come “razza” superiore» si oppone alla «rappresentazione schia- vistica delle popolazioni sottomesse alla tratta come “razze” inferiori da sempre predestinate alla servitù e incapaci di costruire una civiltà auto- noma». Riguardo a ciò lo studioso francese individua nel corso della storia occidentale un processo di «razzializzazione del lavoro manuale» che è iniziato, ben prima della modernità, dalle «élites filosofiche della Grecia schiavista». Qui, passando per le tappe dell’esclusivismo aristo-

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ISSN 1594-5472166 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno cratico – che ha prototipizzato il razzismo biologico in chiave essen- zialmente nazionalistica attraverso episodi come l’istituzione iberica de- gli “statuti della purezza del sangue” o il mito francese del “sangue blu” – si giunge fino alla rivoluzione industriale dove si è affermata l’idea dell’“uomo-bue” dei Principles of Scientific Management Tayloriani, en- tro cui schiacciare le classi subalterne. In questo razzismo rivolto contro la nascente classe operaia si par- lava di una «predisposizione naturale di alcuni individui per lavori pe- santi, sporchi, ripetitivi, che richiedono forza fisica ma non intelligenza, né spirito di iniziativa». Così, con queste rappresentazioni si è cercato di inventare un’umanità naturalmente disposta per il «lavoro corporale meccanizzato», attivando un processo che «modifica lo statuto del corpo umano», creando degli «uomini-corpo, il cui corpo è un corpo-macchina, parcellizzato e dominato, utilizzato per una funzione o per un gesto iso- labili, distrutto nella sua integrità e feticizzato, atrofizzato e ipertrofiz- zato nei suoi organi “utili”». Pertanto anche oggi «il razzismo di classe (e, a fortiori, il razzismo nazionalista di classe, come nel caso degli im- migrati) tende a produrre l’equivalente di una chiusura di casta» che si traduce nella «chiusura più completa possibile nell’ordine della “mobi- lità sociale”, combinata con la più completa apertura possibile al flusso della proletarizzazione»; e lo fa nella procedura di «marchiare con se- gni generici popolazioni destinate collettivamente allo sfruttamento ca- pitalistico, o che devono essere mantenute di riserva per esso». Non è un caso che «la categoria dell’immigrazione combina oggi lo stigma raz- ziale e l’odio di classe». In questo momento storico, quello che era il ruolo dell’“uomo-bue” tocca per la maggior parte al neo-proletariato globale; che lievita demograficamente nel Sud del mondo, a partire dal- l’enzima dato dalla diffusione di una serie d’innovazioni igienico sani- tare. Gli tocca nella forma della nuova classe operaia planetaria preva- lentemente asiatica, o del migrante impiegato come lavoratore clande- stino negl’interstizi produttivi intraoccidentali, capace di concorrenza ri- spetto ai ceti bassi autoctoni, utile ai flussi di capitale transnazionale al fine di abbassare il costo del lavoro. È questo in fondo che, a livello di macro-scala, fa dei “bianchi” la classe egemonica, e dei “neri” la classe subalterna, entro una generaliz- zazione semplificante massima che ci restituisce il mondo diviso in due, in un binarismo che cancella le differenze interne – i Sud intraocciden- tali e i Nord extraoccidentali – omologando tutta una varietà interna al polo dell’egemonia e a quello dello sfruttamento; per esigenze rappre- sentazionali che semplificano in modo non troppo scorretto (si servono della nettezza di un modello binario per descrivere una realtà che in-

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© Edizioni Scientifiche Italiane167 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi vece è sfocata ma che comunque resta effettivamente differenziata). In ciò si attiva un corto circuito semantico tra cultura etnica, differenza economica e significanti razziali che trovano nella varietà somatica di- sponibile da parte della quasi totalità della massa dei disperati globali un accessorio simbolico funzionale, un referente entro cui dare voce a una sorta di eco storica che non sfugge all’ascolto dell’inconscio collettivo planetario. Può qui essere opportuno riportare qualche momento del ragiona- mento di Immanuel Wallerstein, che riflette sulla proponibilità dell’uso della parola “razza” per interpretare i raggruppamenti di status nella cor- nice globale dell’economia-mondo capitalistica, nell’idea che «status e prestigio nel sistema nazionale non possono venir disgiunti da status e rango nel sistema mondo», dove «nel mondo attuale esiste una divisione fondamentale tra bianchi e non bianchi». Tuttavia questa distinzione non riguarda, se non in minima parte, elementari questioni di somatiche di pigmentazione, poiché «nei confronti di questa dicotomia internazionale, il colore della pelle è irrilevante. “Bianchi” e “non bianchi” sono di- stinzioni che hanno poco a che vedere con il colore della pelle». Non a caso «gli [stessi] africani […] riservano la parola “razza” per una par- ticolare tensione razziale internazionale». Lo studioso conclude che, po- sto che «il rango, più che il colore, determina l’appartenenza allo sta- tus», nel mondo contemporaneo la razza è «l’unica categoria di status internazionale», poiché tale concetto, nel rimandare a «un’indistinta rap- presentazione collettiva di categoria di classe internazionale, quella delle nazioni proletarie», definisce «una particolare forma di status nel mondo contemporaneo, e cioè quella che sta a indicare il rango nel sistema so- ciale mondiale»31. Pertanto, tornando all’esempio del secondo capitolo, Tony si è ri- trovato con la tazzina di plastica quando il barista, scoperto il rischio di finire con lui nella stessa “razza”, ha voluto istintivamente sottoli- neare una differenza. La differenza fondamentale che c’è tra un barista della Domiziana e un bracciante africano inizia a delinearsi probabil- mente a partire dal fatto che, nell’economia-mondo del capitalismo glo- bale, mentre la subalternità individuale entro le nazioni egemoniche si sperimenta perlopiù in termini di privazione relativa (di difficoltà a pro- curarsi i mezzi di sostentamento essenziali per il tenore di vita social- mente ritenuto normale), un individuo che occupa una posizione subal- terna in una nazione subalterna generalmente si trova più spesso a do- ver far fronte a situazioni di privazione assoluta (di difficoltà a far fronte ai bisogni fondamentali di alimentazione, di vestiario e abitativi) 32. È questa essenzialmente la dissimmetria strutturale che sussiste tra i “sel-

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ISSN 1594-5472168 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno vaggi interni” e i “selvaggi esterni”, tra gl’“indigeni autoctoni” e gl’“in- digeni alloctoni”. In fondo, focalizzando la questione in termini di di- slivelli di cultura, queste espressioni rimandano alla differenza chiave che attualmente c’è tra i post-proletari occidentali e i neo-proletari extraoc- cidentali, tra il Nord del mondo rispetto al Sud del mondo, una faglia geopolitica che delinea l’odierno ordine socio-razziale globale. In tal senso, un migrante che supera lo spazio che separa il dislivello interna- zionale tra paesi ricchi e paesi poveri, immettendosi in quello intrana- zionale tra strati inferiori e superiori della società europea, tende a su- bire una reazione di declassamento da parte degli strati più vicini che trova rispetto alla sua posizione, reazione che scaturisce a sua volta dalla paura di venire declassati dallo straniero-povero.

Razzismo e conflittualità

Rispetto al razzismo come reazione alla percezione di una paura di perdita del proprio status determinata dall’accesso dello straniero-povero, Taguieff, rifacendosi a Max Weber, sottolinea che il razzismo populista trae principalmente alimento proprio dalla preoccupazione di perdere i propri privilegi, di trovarsi declassati, dove «l’ossessione etno-classista è la paura di cadere nell’elemento percepito come “inferiore”», quando questo «sembra innalzarsi verso il proprio gruppo per inglobarlo, som- mergerlo»33. In tal senso si può dire che la xenofobia popolare che emerge in luoghi come Castel Volturno trae alimento da un timore, un rifiuto, un odio non tanto dello straniero in quanto tale, ma dello straniero in quanto subalterno che emerge in eccesso entro una situazione di crisi; un rifiuto nei confronti del povero ultimo arrivato covato da altri po- veri arrivati appena prima. In tal caso la paura di perdere il proprio sta- tus, i privilegi che quanto più sono precari e insignificanti tanto più pare essenziale non estendere agli altri per timore di cadere della miseria, pro- duce una pulsione al rifiuto. Questo porta all’immunizzazione nei con- fronti dello straniero-povero che chiede risorse. Allora il migrante è ri- dotto alla possibilità di asilo solo se vuole barattarla con lo sfruttamento, la discriminazione prima di tutto lavorativa. Nelle attuali circostanze so- cio-economiche che vigono in Occidente, ossia in funzione dell’offerta di lavoro “basso”, il rifiuto dell’umanità dello straniero corrisponde spesso all’accoglienza variamente indisposta della sua servitù; ciò almeno fino a prima che anche i “posti da servo” rischino di esaurirsi (per aumento della spinta migratoria rispetto all’offerta di lavoro, e per aumento della concorrenza interna degli autoctoni impoveriti).

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Di sicuro, girando un po’ per questi luoghi, è evidente che da una certa parte della popolazione autoctona i migranti africani sono non tanto accolti, integrati, assimilati o tollerati, quanto patiti e sopportati come contropartita di degrado ineludibile rispetto allo sfruttamento a cui sono sottoposti; considerati alla stregua di un popolamento al limite della be- stialità, al massimo appena al di sopra delle bufale con cui qui intorno si producono le tipiche mozzarelle. Per chi ha attività da mandare avanti gli stranieri sono un’occasione mal tollerata per abbassare il costo del lavoro e togliergli le garanzie; da preferire per questo agli altri bianchi che più o meno quei lavori li svolgevano. Da preferire a quelli che, in questo modo, ora sono saliti al posto di penultimi in questa catena di disumanità, che invece vedono i “nire” come una disgrazia insopporta- bile, ma se lo raccontano quasi sempre a bassa voce per paura di essere tacciati di “razzismo”. Similmente, per chi ha case da affittare gli afri- cani sono diventati l’unico ripiego praticabile in un luogo che ha perso qualsiasi attrattiva turistica. Poi ci sono gl’italiani, residenti e non, che lavorano nelle molte associazioni umanitarie che compongono l’arcipe- lago locale della solidarietà organizzata, variamente protesi a difendere l’umanità e i diritti dei migranti. Spesso lo fanno con cognizione di causa, competenza, costanza e trasporto, raggiungendo in varie occasioni ri- sultati concreti e incisivi; e – poiché, per così dire, “le lotte che facciamo lottano per noi”, poiché “aiutando ci si aiuta” – è meno difficile che utile distinguere l’impegno gratuito, sincero e appassionato dai narcisi- smi samaritani o dalle finalità strumentali, politiche ed economiche, cor- relabili all’affermazione eroica di sé34. È il caso però, passando dai sin- goli protagonisti o gruppi a una visione d’insieme, di segnalare che la sfera dell’associazionismo operante sulla Domiziana pare affetta da un nemmeno troppo strano “tribalismo del mondo degli aiuti umanitari”, che sembra però eccedere le ordinarie dinamiche di rivalità tra pari, de- lineando una gruppalità estremamente segmentaria, rizomatica, essen- zialmente refrattaria a strutturarsi e consolidarsi in un piano d’azione comune, e capace di compattarsi solo raramente di fronte a episodi ecla- tanti, epocali di discriminazione (in tal senso ho assistito spesso alla pra- tica d’imputare alle associazioni concorrenti scarsa capacità o addirittura di opportunismo, accusandole in buona sostanza di usare autopoietica- mente la finalità dell’emancipazione dei migranti come mezzo di so- stentamento, per ottenere contributi economici o per fare carriera poli- tica). Lasciando stare questi attriti, è superfluo stare a sottolineare che, nei discorsi di questi istituti di welfare per migranti, il proposito del- l’integrazione rimanda il più delle volte alla questione della lotta al raz- zismo.

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ISSN 1594-5472170 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Se, come ha recentemente notato Žižek, «la guerra culturale è oggi una guerra di classe indiretta», dove «stiamo entrando in un ordine post- politico capace di riconoscere unicamente conflitti di tipo etnico o cul- turale»35, è chiaro che un’arma con cui si combatte questo conflitto è fornita proprio dall’uso politico e culturale del termine “razzismo”, dal significato esteso e riferito a stigmatizzare – con l’accusa di commettere il peggiore dei peccati della modernità – qualsiasi pratica, oltre che di violenza, d’intolleranza, di sfruttamento, di chiusura e di non riconosci- mento adottata dall’Occidente nei confronti delle masse neo-proletarie extraoccidentali che attraversano i confini nazionali. In questo scenario, se “nero” in fondo vuol dire povero, “razzista” vuol dire sfruttatore (e abbiamo visto che tale semiosi non presenta, in ambito post-moderno, nessun tratto di novità sostanziale rispetto a quanto ha significato il raz- zismo nella modernità europea). Fuori da miti edenici di disponibilità illimitata di risorse, in un mondo che si riempie di gente a caccia di beni limitati, la guerra economico-culturale tra Nord e Sud del mondo si gioca entro le grammatiche quotidiane della tensione tra discriminazione e riconoscimento, del diritto a mantenere la propria posizione contro il diritto di migliorarla, in una linea sempre più segnata dalla accusa mae- stra: “razzismo!”. Così, in situazioni come quelle del contatto tra migranti transnazio- nali e autoctoni che avviene nell’area di Castel Volturno, la gerarchiz- zazione dei gruppi si produce da un meccanismo che se dal lato delle istituzioni statali è formalizzato nel titolo di cittadinanza (e quindi della sua negazione) dall’altro è per molti versi spontaneamente generato an- che da un sentimento popolare di appartenenza, oltre che da varie pra- tiche più o meno implicite di messa a distanza abitativa dell’alterità su- balterna. Questo impianto si applica tanto più quanto più chi prima non c’era arriva “dal basso”, e si attua nel convertire il “prima” in “sopra” e il “dopo” in “sotto”, traducendo il tempo di presenza in grado di po- sizione nella gerarchia sociale. In tal senso, dopo i “forestieri” (gli al- loctoni italiani), gli stranieri (i migranti extraeuropei) sono gli ultimi ar- rivati, e quindi – nelle condizioni di produzione concretamente presenti nel luogo – vanno a formare gli ultimi umani. È in questo modo che la distanza di status sociale finisce con l’amplificare la distanza culturale, facendo emergere una dura verità che vuole che «gli stranieri sono tanto più stranieri quanto più sono poveri»36. E, se si è troppo poveri, si fi- nisce con il diventare così stranieri da trovarsi più vicini agli animali che agli umani.

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La frustrazione dei residenti

Sul versante “orizzontalmente” opposto ai migranti che lavorano nei campi e nell’edilizia, diversi italiani marginali che vivono in queste zone mi hanno riferito in sostanza di sentirsi etnicamente discriminati dal punto di vista lavorativo a causa degli africani, che si sono inseriti in massa nel mercato del lavoro non qualificato accettando bassi salari e garanzie, in termini di concorrenza sleale e di aumento di precarizza- zione37. Anche questo è razzismo contro i migranti? o si tratta di un assai meno disumano risentimento da concorrenza? In un’Italia, dove da anni si assiste a una recessione economica inesorabile, dove povertà e disoccupazione sono già arrivate a livelli più che preoccupanti38, forse è il caso di rivedere la diffusa semplificazione generalizzante secondo cui gli stranieri farebbero lavori che, tout court, gl’italiani non vogliono svol- gere più: da quello che mi ha raccontato la gente che vive qui è chiaro che alcuni italiani quei lavori li avrebbero seguitati a fare, e sempre più italiani vorrebbero farli, ma pochissimi italiani accettano il livello di ga- ranzie e di retribuzione a cui si riescono ad adattare i migranti (che spesso, in relazione alla differenza di cambio monetario, con rimesse re- lativamente modeste riescono a mantenere una famiglia nei paesi d’ori- gine). Così, all’ultimo livello della gerarchia lavorativa occidentale, autoc- toni e alloctoni si sentono entrambi discriminati, l’uno dall’altro. Anche al gradino superiore, oltre all’agile soluzione di trovare linee nette tra vittime e carnefici, va considerato che i datori di lavoro, i “caporali” (che, non a caso, possono essere a loro volta stranieri) si trovano im- mersi nei vincoli di un regime di sfruttamento capitalistico costitutiva- mente proteso a sfruttare questo esercito di riserva con cui riprodurre condizioni di accumulazione originaria39, in un effetto di parallasse che li fa da un lato carnefici di sfruttati e dall’altro vittime di una catena di sfruttamento (seppure comunque posti un gradino più in alto dei loro servi). In tal senso lo schema interpretativo semplicistico secondo cui i residenti sfruttano gli stranieri andrebbe riarticolato considerando la cor- nice macro-economica in cui avviene questa relazione: migranti e resi- denti giocano la loro partita come elementi che difendono i loro inte- ressi di parte – in una situazione poco disposta alla collaborazione, al riconoscimento reciproco ma più spesso tendente reciprocamente all’a- stio, al disconoscimento, alla conflittualità – all’interno della tensione sto- rica tra sfruttamento-emancipazione40 che oggi si dipana sullo sfondo del dominio globale di flussi di capitale transnazionali. Qui anche gli Stati sono al contempo beneficiari e vittime; e le migrazioni, più che un atto

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ISSN 1594-5472172 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno di ribellione contro il capitalismo, appaiono anche un mezzo per il suo rafforzamento, proprio attraverso il processo perverso di abbassamento delle condizioni del lavoro, di erosione delle possibilità di tenuta dello stato sociale, di cui la concorrenza migrante si fa, per necessità adattive d’inserimento, involontaria portatrice. È in questo senso che non mi pare del tutto accettabile la semplifi- cazione degl’italiani (francesi, inglesi, tedeschi…occidentali) che sfruttano i migranti, dove – soprattutto nell’uso sociale derivato da certe analisi, troppo spesso abituate a stimolare sensi di colpa nelle società occiden- tali – si fomenta una rappresentazione generalizzante che criminalizza la popolazione del Nord del mondo, omologata in ogni suo strato sociale a una genia ormai corrotta, indolente, viziata e quindi incondizionata- mente non più disposta a quella fatica che, opportunisticamente armata di un sentimento razzista, riserva ai migranti (all’opposto descritti solo come poveri sfruttati, pazienti e virtuosi). Non si tratta di contestare il tendenzialmente rigido dualismo servo/padrone che ancora sottostà a certe relazioni. Si tratta di rilevare che la parte dello sfruttatore non an- drebbe assegnata tanto al popolo italiano o occidentale, quanto, e in pro- porzione maggiore, alle reti capitalistiche transnazionali. Posto che i mi- granti non sono solo e unicamente vittime41 va specificato che il carne- fice non è semplicisticamente inquadrabile negli strati bassi delle molti- tudini occidentali, che – seppur in minor misura rispetto a quelle del Sud del mondo – in gran parte subiscono l’egemonia del capitalismo globalizzato tra variabili compresenze di situazioni di sfruttamento e promesse di emancipazione. Poi, dal momento che le generalizzazioni inappropriate andrebbero conteste a prescindere dal loro lato di provenienza, nel nostro caso va specificato che – lontano dall’esternazione della prima testimone africana con cui ho aperto questo scritto – i castellani variamente autoctoni, come gli occidentali, non sono tutti dei criminali, sfruttatori e razzisti. In senso più ampio, se, come ricercatori, non ci si accomoda nella facile scorcia- toia massimalista del banalizzare qualsiasi forma di chiusura, del demo- nizzare qualsiasi forma di rifiuto dell’Altro subalterno messa in atto da parte degli occidentali, derubricando ciò a xenofobia, ad atto discrimi- natorio e pregiudiziale di razzismo, ci si dovrebbe fare carico di ascol- tare anche il punto di vista e le storie di vita di molti autoctoni. Allora si scopriranno persone che raccontano di esperire nella loro quotidianità la presenza migrante – che bisogna ammettere in certi casi essere im- ponente e incombente – prima di tutto in termini di disagio; riferendo situazioni, episodi e dettagli vissuti come degrado, insicurezza, paura, violenza. Questo malessere – con i sentimenti di rifiuto, chiusura, fru-

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© Edizioni Scientifiche Italiane173 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi strazione, rabbia, disperazione che lo accompagnano – può essere sem- pre e comunque stigmatizzato come insana manifestazione di intollera- bile razzismo? Si tratta di riconoscere il riemergere, dai margini di una crisi che si rivela sempre meno politica che sistemica, di un soggetto su- balterno intra-occidentale, numericamente esiguo rispetto all’alterità su- balterna del Sud del mondo, ma pur sempre umano. Un soggetto ri- dotto quasi sempre al silenzio: oggi anche a questa gente, per riprendere allo specchio le parole di Said, quasi sempre viene «negata la possibilità di parlare»42. Oggi ai post-proletari dei “Sud interni” non è riconosciuta voce alcuna dalla cultura progressista; oggi la cultura progressista è im- pegnata in un gioco politico di esclusiva spettacolarizzazione mediatica del dolore delle masse neo-proletarie dei “Sud esterni”; in un’ossessione espiatoria della borghesia alternativa che troppo spesso riconosce – e co- struisce – solo l’immagine del migrante-vittima. Con ciò, tornando a guardare a queste vicende a partire dalla Do- miziana, non voglio sminuire il fatto che nelle realtà di lavoro quoti- diane la parte dei servi tocca perlopiù ai migranti, nell’abbassamento di- sumano delle condizioni d’impiego co-prodotto tra la loro domanda di lavoro e l’offerta del caporalato (anche se va ricordato che più si va in fondo alla catena e più gli sfruttatori sono a loro volta degli sfruttati). E in questo senso, rispetto ai migranti transnazionali che lavorano nei campi anche per 20 euro al giorno senza nessun diritto, vivendo in una condizione di miseria spesso peggiore di quella da cui sono fuggiti pur di rimandare qualche euro alle famiglie nei paesi d’origine, è chiara la dissimmetria tra sfruttamento attuato ed emancipazione concessa. Il pro- blema però sta – dopo aver compreso che ci sono anche molti italiani che, quando possono, lavorano per qualche euro in più e a condizioni poco meno indegne – nell’indagare le cause della disuguaglianza fuori da facili dualismi colpevolizzanti, affrontando la questione chiave dell’e- mancipazione facendosi carico della complessità degli attuali rapporti di forza tra capitalismo transnazionale, sistema degli stati nazionali, au- mento demografico catastrofico delle masse globali di subalterni e limiti della disponibilità di risorse planetarie su cui la promessa di emancipa- zione umana globale si gioca. Guardare ai dislivelli di cultura planetari con occhio non ideologizzato significa anche riconoscere che la storia dell’Occidente non è solo una storia di sfruttamento.

Sui limiti di un certo risentimento antioccidentale

Durante la ricerca sul campo mi è capitato più volte di ascoltare le

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ISSN 1594-5472174 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno storie di vita e di confrontarmi con migranti africani con un ragguarde- vole profilo umanistico: spesso tra chi lavora nei campi del Mezzogiorno vi sono ragazzi laureati e coinvolti ideologicamente o impegnati diretta- mente su un piano politico-culturale in un orizzonte di emancipazione locale proiettato sullo sfondo più ampio del continente e del popolo africano. In certi momenti – soprattutto a tarda sera, quando si sta più rilassati e disposti al confronto schietto – dopo qualche conversazione più “diplomatica”, arrivava la lezione del «quello che ci avete fatto», un’epifania che mi pare il caso di chiamare, con esplicito riferimento orwelliano, dei “due minuti di odio”. Si tratta di pesanti accuse ricor- renti – proferite enfaticamente con tono duro e sguardo severo e col- pevolizzante, alla stregua di ovvietà che è già seccante dover stare a ri- badire – su tutto il male commesso ieri e oggi dall’Occidente a danno dell’Africa, sul colonialismo, sulla schiavitù, sulle multinazionali, sulla miseria, sulle guerre. Un discorso di risentimento e avversione che spesso ha come complemento quello sulla superiorità culturale dell’Africa culla dell’umanità, sull’uomo africano che, detenendo il principio morale den- tro si sé (in opposizione all’uomo occidentale che lo trarrebbe dall’e- sterno), è portatore di valori universali (spiritualità, rispetto, umiltà, onore, carità, ragionevolezza, coscienza di fratellanza) che mancherebbero nel- l’uomo bianco (descritto come una specie di handicappato emotivo, freddo, corrotto, debole e ipocrita)43. Volendo trovare degli ascendenti a queste visioni del mondo, direi che si tratta di una cosmologia laica genealogicamente ispirata perlopiù all’ideologia della negritudine44 di Léopold Sédar Senghor, Guy Tirolien e Aimé Césaire, il cui cardine di rivendicazione di orgoglio e superio- rità nera si articola e si rinforza nei taglienti e rabbiosi ideali di riscatto dell’anticolonialismo radicale di Franz Fanon45, nel richiamo all’unione continentale del panafricanismo di Thomas Sankara46 e Patrice Lumumba47, per arrivare ai legami tra questi autori e l’ambito della critica postcolo- niale all’Occidente a partire da Edward W. Said48. C’è anche da dire che, a un livello più profondo, questi temi traggono linfa epistemologica dalla beatificazione dell’Altro subalterno concettualizzata da una lettura pre- valentemente multiculturalista e interculturale di vari momenti del con- tributo dell’antropologia culturale (che – mentre viene accusata o si au- toaccusa prima di legami più o meno involontari con i poteri coloniali, poi di oggettivare l’Altro in essenzializzazioni di culture che reificano implicitamente relazioni di dominio – fornisce una serie di categorie e spunti fondamentali sul contatto culturale e sul superamento antietno- centrico dell’orizzonte occidentale, che alimentano a volte impropria- mente un’estetica della diversità e una politica del disconoscimento to-

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© Edizioni Scientifiche Italiane175 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi tale dell’egemonia del Nord del mondo). Da queste influenze deriva sin- creticamente un’ideologia millenaristica e secolare di riscatto appassio- nato ed essenzialmente contrappassistico, poggiato sul rovesciamento del sentimento moderno di superiorità occidentale in un postmoderno ideale di rivalsa che parte dalla colpevolizzazione capitale dell’Occidente per auspicare la nemesi più vasta del Sud del mondo; intesa come libera- zione unidirezionale globale degli oppressi all’interno di una visione raz- zializzata del conflitto di classe. Questa weltanschauung antioccidentale non pertiene solo all’habitus d’intellettuali di vario livello ed estrazione: anche tra i migranti poco ac- culturati il discorso di colpevolizzazione assoluta dei “paesi ricchi” – seppure meno dettagliato e rilevabile solo in cascami, frammenti o slo- gan estemporanei – è un elemento chiave delle visioni del mondo indi- viduali; un punto cardinale del senso comune, espresso nel livore di as- siomi lapidari dell’Occidente che sfrutta l’Africa, degli occidentali razzi- sti. Qui, più concretamente, è proprio a partire dalla premessa della mac- chia indelebile dello sfruttamento coloniale che si configura l’imperativo morale del dovere espiatorio attraverso l’accoglienza incondizionata, as- soluta dell’Altro subalterno: «ci avete sfruttato, ora ci dovete accogliere!». In queste immagini, complesse o semplici che siano, un riadattamento di strada della dialettica hegeliana servo/padrone – nel suo rigido mani- cheismo d’ispirazione marxista, dove la polarità positiva è del tutto se- parata da quella negativa, in un confine netto tra bene e male – si ri- compone e si storicizza nel rapporto tra Sud e Nord del mondo; inter- pretato primariamente in un macro conflitto di classe tra l’Africa e l’Oc- cidente (e, non a caso, tutto quest’apparato d’accusa è ampiamente con- diviso e ribadito dalla cultura altermondista e antisistemica occidentale). Non sono del tutto d’accordo con questa visione. Non sono del tutto d’accordo non solo perché, in termini astratti e ampi, penso che non sia sufficiente “tagliare la testa al Re” per approdare a un altrimenti interdetto orizzonte edenico di disponibilità illimitata di risorse; o per- ché, proprio al limite, penso che la violenza simbolica di risposta – il risentimento – non possa essere messa sullo stesso piano di quella ma- teriale originaria – lo sfruttamento – solo finché non si generalizza e fin- ché non inizia ad armare cattive intenzioni. Non sono del tutto d’ac- cordo, soprattutto rispetto al nesso tra colpa assoluta coloniale ed espia- zione nell’accoglienza incondizionata, principalmente per tre ordini di motivi: – l’Occidente non è un’entità omogenea che ha portato storicamente solo mali e sfruttamento: presenta dei dislivelli interni e ha espor- tato anche emancipazione;

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ISSN 1594-5472176 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

– non tutti i mali del Sud del mondo vengono dall’azione preda- toria del Nord del mondo; – il più grosso e occultato problema del Sud del mondo, e quindi dell’umanità intera, è il tasso di crescita demografica della popo- lazione subalterna del pianeta. In base a queste premesse credo che il doveroso e pieno riconosci- mento delle responsabilità coloniali dell’Occidente – non solo passate ma anche, per vari versi, presenti – vada integrato e posto nel limite di una serie di consapevolezze. Prima di tutto sono dell’avviso che l’Occi- dente non dovrebbe essere oggettivato, essenzializzato, generalizzato at- traverso una rappresentazione geografica euclidea, che lo descrive come un’entità omogeneamente protesa al solo sfruttamento del suo “esterno”: l’Occidente è più simile a una macro-rete sfocata di località centrali, un’entità che non ha sfruttato storicamente solo i “Sud esterni”, ma an- che e abbondantemente i suoi “Sud interni”. Questa rappresentazione areale e binaria è poi da rigettare poiché il processo storico di diffusione delle innovazioni – per quanto tarato da una perenne incompiutezza, in- quinato dalla produzione capitalistica di paccottiglia finalizzata al con- sumo, e in sé estremamente problematico da un punto di vista della so- stenibilità – ha prodotto oltre allo sfruttamento, sia “internamente” che “esternamente”, anche la possibilità dell’emancipazione, soprattutto a par- tire da un punto di vista igienico sanitario e alimentare; possibilità che si è tradotta in un incremento della speranza di vita individuale (ridu- zione dei tassi di mortalità infantile e aumento dell’aspettativa di vita). Poi, la colpevolizzazione49 radicale e ossessiva dell’egemonia Occi- dentale per i problemi del pianeta, mimetizza, in un dispositivo di ac- cusa scagionante, tutti i mali endogeni del Sud del mondo che concor- rono pesantemente a impedire un’emancipazione della subalternità pla- netaria e che non possono essere giustificati solo con il protrarsi dell’a- zione neocoloniale occidentale: fondamentalismi religiosi, regimi autori- tari, costrizioni etniche, usanze e credenze magico-tribali (che solo na- scondendosi dietro un sordo relativismo assoluto possono non essere definite come disumane; o la cui recrudescenza e aggressività mi pare ri- duttivo, comodo e scorretto attribuire unicamente a risposte reattive di difesa contro il dominio dei colonizzatori). In questo senso il principio cardine postcoloniale enunciato da Said50 può essere letto al contrario: così come l’Oriente è una costruzione stereotipata dell’Occidente, oggi vi è un effetto di ritorno che produce un’immagine stereotipata del- l’Occidente costruita dall’Oriente (o meglio, nel nostro caso, un’imma- gine stereotipata del Nord del mondo costruita dal Sud del mondo). Più di tutto però sono dell’idea che, tra questi mali endogeni del

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Sud del mondo, la questione della crescita demografica delle moltitu- dini subalterne sia già da decenni una delle concause primarie dell’in- digenza della parte povera del pianeta; e quindi, nel nostro caso, una precondizione che, amplificando la probabilità di conflitti e di carestie, determina la quantità di pressione migratoria dal Sud del mondo (prima di elementari, legittimi e decontestualizzati desideri di salvezza, eman- cipazione o affermazione, individuale o collettiva). Per quanto si tratti di una variabile costantemente rimossa dall’informazione mainstream, ciò che rende queste migrazioni storicamente incommensurabili rispetto a quelle precedenti51 è proprio il fatto che la tanto impetuosa quanto rovinosa crescita demografica dei paesi poveri non si limita a sopra- vanzare e vanificare la crescita economica degli stessi; ma, parallela- mente a un modello insostenibile di sviluppo partorito dal Nord del mondo, mina sempre di più la capacità di carico del pianeta, appros- simandoci al punto di non ritorno della catastrofe ecologica globale. Così i paesi poveri, per colpe “nostre” e “loro” – proprio a partire dalla diffusione delle innovazioni igienico-sanitarie occidentali, insieme al permanere di una concezione tradizionale della famiglia e della pro- lificità come segno e strumento di potere – sono sempre più diventati paesi produttori di povertà; una “materia prima” essenziale per il ca- pitalismo transnazionale, i fondamentalismi tribali e le religioni uni- versaliste52 (che non a caso sono nemici del discorso sulla sovrappo- polazione, insieme alla cultura di sinistra, assiomaticamente refrattaria all’idea che il male possa venire “dal basso”, dal popolo, dalle classi subalterne). Una “materia prima” che, reagendo con la lotta per la so- pravvivenza, genera i migranti (sia per fattori di spinta direttamente economici che nella forma di rifugiati di guerra). Basta qualche esempio per esporre l’entità della questione, seppure la comprensione di certi ordini di grandezza tende a sfuggire dall’oriz- zonte percettivo comune (riusciamo a renderci conto che significa qual- cosa come “un miliardo di persone”?). Secondo le ultime previsioni ONU53, l’Africa tra il 2050 e il 2100 raddoppierà e poi quadruplicherà le masse d’indigenti, passando, dall’attuale già oceanico miliardo di abi- tanti, a una catastrofica popolazione di prima due e poi quattro miliardi di persone. La Nigeria, che in 60 anni è già passata da 40 a 170 milioni di persone, nel 2050 conterà mezzo miliardo di abitanti, per sfiorare il miliardo nel 2100. E si tratta delle previsioni ottimistiche: con il tasso di natalità attuale nel 2100 la Nigeria e l’Africa supererebbero rispetti- vamente i 3 e i 17 miliardi di abitanti (la proiezione lineare porta a ci- fre abbondantemente eccedenti anche il più generoso limite apocalittico). Queste stime ad altissima attendibilità ci dicono che, nei prossimi de-

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ISSN 1594-5472178 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno cenni, mentre l’Asia tenderà a stabilizzarsi, l’elevato tasso di natalità afri- cana metterà in pericolo l’Africa stessa e il mondo intero. Quando, all’alba di questo millennio, imperversava l’abitudine alter- mondista di colpevolizzare l’Occidente con il mantra del “miliardo di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno”, sulla terra era- vamo sei miliardi. Oggi, quindici anni dopo, siamo sette miliardi e tre- cento milioni. Ogni anno i paesi poveri sono responsabili di un aumento della popolazione mondiale di ottanta milioni di persone. Il conto della gente che vive con meno di un dollaro al giorno non è stato aggiornato. Se fossero due miliardi, di chi sarebbe colpa? solo dello sfruttamento capitalistico? o anche di un’insostenibile crescita demografica delle masse povere del Sud del mondo? Il problema riguarda solo il fatto che ci sono pochi dollari pro-capite? o questo dipende anche dal fatto che ci sono troppe persone che diventano sempre di più? Pensiamo che se il denaro in mano ai ricchi fosse ridistribuito equamente si tradurrebbe in beni materiali – in cibo, vestiario, case, strade, elettrodomestici, auto- mobili, ospedali – a prescindere dalle risorse necessarie per produrli? Quando si smetterà di fantasticare sulla quantità di popolazione come una risorsa apriori ci si accorgerà di molti aspetti nascosti, scomodi e drammatici che stanno dietro alla narrazione spettacolarizzante della que- stione migratoria globale messa in atto dall’industria della solidarietà. In tal senso sarebbe il caso d’iniziare a comprendere che, quando la cre- scita demografica supera le risorse disponibili, il diritto di tutti a vivere una buona vita54 – valore supremo che da tempi remoti attraversa il pensiero filosofico occidentale alimentando un anelito supremo di egua- glianza umana – si scontra con la materialissima questione della capa- cità di carico del pianeta. In tal senso, un coro di luminari ci avverte che non è il caso di prestare troppa fiducia nella capacità del progresso di replicare delle seconde rivoluzioni tecnologiche (dopo la rivoluzione industriale e quella verde) che ci regalino nuove macchine e cibo per proseguire un ampliamento esponenziale della nicchia adattiva umana, da seguitare a saturare in totale serenità con altri miliardi di persone. Anzi, mentre ci lasciano i loro effetti collaterali in termini d’inquina- mento, queste due rivoluzioni stanno già terminando la loro possibilità di sostenere l’umanità a causa dell’esaurimento di combustibili fossili, materie prime e concimi al fosforo55. Non si può immaginare un’eguaglianza planetaria basata su un’idea di benessere medio occidentale, mentre ogni anno le masse di disperati aumentano in numero pari a quello di due nazioni europee, illudendosi che il prodotto in fondo più richiesto dell’Occidente – i benefici di un progresso scientifico già in sé drammaticamente insostenibili – possa rin-

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© Edizioni Scientifiche Italiane179 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi correre indefinitamente questa fame di risorse materiali e soddisfarla per tutti, solo attraverso una semplice rimodulazione dei sistemi globali di ridistribuzione delle risorse56. Invece chi lancia allarmi ecologici sulla base di dati nettamente preoccupanti è accusato di profetismo delirante, di ammiccare ai peggiori aspetti dogmatici del malthusianesimo, o addirit- tura accostato al nazismo (dove, nei testi che parlano di migrazioni, la questione della crescita demografica dei paesi da cui provengono gli at- tuali flussi migratori è regolarmente bandita, se non addirittura derubri- cata a paranoia razzista57). Da decenni la maggior parte degli studiosi variamente ispirati a un marxismo postcoloniale, seguitando a colpevolizzare l’imperialismo del Nord del mondo come la radice unica di tutti i mali del pianeta, fini- scono indirettamente con il giustificare, il mimetizzare, il fomentare un montante imperialismo demografico del Sud del mondo che – in que- ste condizioni ecologiche – difficilmente potrà andare oltre un dominio della miseria, della fame, della violenza, della guerra; tutto a unico be- neficio del proselitismo che i fondamentalismi religiosi fanno del risen- timento antioccidentale. Personalmente a volte ho l’impressione che espel- lere dal discorso migratorio la fondamentale variabile ecologica di con- testo data dalla crescita demografica dei paesi poveri sia una seria man- canza metodologica che rivela la tara sia ideologica che epistemologica e la deriva pseudoscientifica di molte analisi; che indica la loro natura di più o meno involontari strumenti di propaganda immigrazionista58, mimetizzati nell’alone di scientifica oggettività del saggio umanistico59.Tutto questo alimenta un bias culturale che si risolve nella produzione di ste- reotipi positivi sul Sud del mondo e sui flussi migratori transnazionali che vanno a rinforzare un certo fondamentalismo xenofilo e un massi- malismo della cultura dell’accoglienza, nella sua estrema espressione idea- listica dell’abbattimento “senza se e senza ma” di tutte le frontiere tra Nord e Sud del mondo. In molti casi basterebbe compiere l’atto di cor- rettezza intellettuale di non rimuovere da certe narrazioni il dato del- l’andamento demografico dei paesi del Sud del mondo per intuire che liberalizzando le migrazioni transnazionali non si risolverebbero affatto i problemi di questa gente (mentre – a partire dallo scompenso sempre maggiore dei fattori di spinta rispetto alle possibilità di accoglienza – s’importerebbero problemi sociali, economici, politici e culturali sempre più ingestibili nel Nord del mondo, arrivando all’effetto perverso di una “globalizzazione della miseria”). Invece oggi vanno di moda le storie di vita sull’odissea di singoli casi insieme positivi e tragici, che, mentre enfatizzano il sacrificio del “buon migrante” rappresentato come l’eroe culturale di un’umanità nuova

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ISSN 1594-5472180 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno e più pura rispetto a un Occidente colpevole di essere sfruttatore, in- sensibile ed egoista, stimolano sensi di colpa e visioni generali del mondo totalmente sconnesse dalla macro-cornice ecologica che sottostà – come trama profonda – alla tessitura di certe storie. Così molti lettori e spet- tatori televisivi, sedotti dallo spettacolo del dolore, commossi e appagati dall’atto di accudire la propria sensibilità sulle romantiche nuvole di un anelito di accoglienza universale impedito solo dal brigare disumano dei nemici razzisti, credono di aver inteso tutto. Tutto, non solo sulla mo- rale, ma anche sulla politica e sull’ecologia dei rapporti tra Nord e Sud del mondo60. Di certo, parlando di migrazioni, va riconosciuta ogni storia indivi- duale come storia totalmente umana; ma questo non dovrebbe portare, ancora una volta, all’indiretto e deleterio artifizio ideologico di cancel- lare dal senso comune planetario la tematica della crescita demografica come motore primo dell’insostenibilità dell’impronta ecologica dei paesi produttori di migranti (nella veste di migranti economici o di rifugiati politici). Questa variabile bisognerebbe iniziare ad assumerla in tutta la sua portata, come ombra continentale catastrofica; che sta alle spalle della pur sacrosanta vita di ogni persona che si mette in cammino in cerca di un’esistenza migliore. Non si tratta di farsi irretire dalla paura per mo- tivare chiusure incondizionate, si tratta di non farsi ingannare da una se- rie di limiti ecologici che, prima di questioni etiche, ci separano dalla realizzabilità di molte promesse universali di solidarietà e accoglienza. Per tutto questo, pur riconoscendo pienamente le responsabilità del colonialismo, rifiuto – con rammarico e preoccupazione – la stigmatiz- zazione radicale dell’Occidente come causa unica di tutte le disgrazie dell’umanità subalterna. Per tutto questo, quando m’imbatto in certe conversazioni, mi limito al non troppo difficile esercizio di cercare di essere meno “razzista” di chi ho di fronte. Se sulla questione migrato- ria si sta giocando e si giocherà una partita importante per la definizione futura di un umanesimo globale, credo sia il caso di richiamare la le- zione dell’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, seguendo il quale si comprende che la cura verso la «boria culturale dell’Occidente» non può essere individuata in una contrapposta boria xenofila, in un esoti- smo radicale, in un’attitudine manichea alla stigmatizzazione demoniz- zante del Nord del mondo che finisce con l’istigare all’odio antiocci- dentale. De Martino ci fa capire che la critica all’Occidente dovrebbe comprendere anche il riconoscimento dei suoi primati e delle sue con- quiste, in una tensione culturale dove l’incontro con l’Altro è occasione reciproca per rivedere le proprie categorie, i propri limiti; ma – venendo al nostro discorso – non dovrebbe mai diventare motivo per cadere uni-

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© Edizioni Scientifiche Italiane181 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi direzionalmente nel tranello politico-ideologico del senso di colpa (tan- topiù che la «boria culturale» non è affatto una prerogativa dell’Occi- dente ma il vizio etnocentrico di tutte le culture, che proprio una parte tanto importante quanto dimenticata della riflessione etno-antropologica occidentale ha contribuito a smascherare)61. Coniugare questi principi in concreto, rispetto al tema dei soggetti migranti, vuoi dire accogliere la contraddizione dilaniante tra la ragione delle storie di vita dei singoli e la preoccupazione per la cornice macro- sociale in cui queste s’inscrivono. Vuol dire farsi carico della tensione tra il pari diritto di ogni essere umano a vivere una buona vita e il li- mite di risorse disponibili nel pianeta, in un nord del mondo insosteni- bile tecnologicamente e un Sud del mondo insostenibile demografica- mente. Vuol dire accogliere la lacerazione tra la nostra salvezza e quella degli altri; senza cercare scorciatoie nell’egoismo autarchico del rifiuto dell’altrui sofferenza o dell’illusorio altruismo fondato sull’inganno del mito della disponibilità illimitata di risorse (praticabile facilmente quando si trae reddito dall’industria della solidarietà, o quando l’esperienza reale e quotidiana dell’Altro subalterno si confonde con la rappresentazione sociale idealizzata del “buon migrante”). Vuol dire uscire dal mito del “buon migrante”, per comprendere l’attrito che sussiste tra la speranza dell’emancipazione del Sud del mondo e il timore che l’umanità rimanga schiacciata dalla degenerazione fondamentalista e imperialistica di que- st’irrinunciabile proposito. In attesa che magari una canzone di John Lennon sussuma pienamente la realtà62, se si vuole andare oltre il facile idealismo degli slogan che cantano il “mondo senza frontiere”, il “can- cellare i confini”, l’“abbattere i muri”, va considerato che auspicare il raggiungimento di certi ammirevoli propositi egualitaristi prima di aver smantellato i dislivelli di cultura – le diversità di valori e le differenze economiche – che certi muri contengono, porterebbe molto probabil- mente ad ammazzarsi a sassate con le macerie degli stessi.

1 Dal momento in cui ogni sacrificio è inevitabilmente anche un atto fondativo, è ovvio che quegli episodi estremi d’intolleranza hanno finito con il produrre apparte- nenza e segnare il radicamento di una comunità afroitaliana. 2 Questa vicenda può essere inquadrata come uno dei tanti percorsi migratori di re- trocessione che – solitamente a causa della perdita della regolarità amministrativa provo- cata dal licenziamento – hanno portato molti migranti extraeuropei inizialmente resi- denti nell’Italia settentrionale a una seconda migrazione interna verso Castel Volturno, dove l’affermarsi di un vero e proprio «distretto della clandestinità» garantisce «mag- giore tolleranza e opportunità sociali, lavorative, abitative e relazionali per i migranti ir- regolari» (Caruso 2013).

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ISSN 1594-5472182 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

3 Cfr. Petrarca 2010, p 6. 4 Nel corso del testo l’opposizione strategia/tattica è permutata, in senso ampio, dalla tematizzazione che ne fa Michel De Certeau. Seguendo il pensiero dello studioso possiamo intendere il concetto di strategia pertinente alla dimensione istituzionale, for- male; fondato su un postulato di potere, sul possesso di uno spazio proprio, che ela- bora «luoghi teorici (sistemi e discorsi totalizzanti) capaci di articolare un insieme di luoghi fisici in cui le forze vengono ripartite». La tattica è invece riferita alla dimen- sione quotidiana, comunitaria, è determinata dall’assenza di potere istituzionale, da pro- cedure sviluppate nel tempo, «alle circostanze che l’istante preciso di un intervento tra- sforma in situazione favorevole». Le pratiche quotidiane di vita, intesa come consumo, sono di tipo tattico, derivanti da un abitare culturalmente il mondo che si contrappone alle strategie sistemiche di pianificazione dell’esistenza. In definitiva secondo De Certeau siamo, nella nostra vita quotidiana, come inquilini di un appartamento che operano un mutamento arredando, nel tempo, uno spazio dato istituzionalmente, con i loro gesti e i loro ricordi (cfr. De Certeau 2010). 5 La subalternità intraoccidentale rispetto a quella extraoccidentale a volte viene de- scritta da espressioni evocative come “indigeni autoctoni” rispetto agli “indigeni alloc- toni” o anche “selvaggi interni” rispetto ai “selvaggi esterni”; espressioni adottate nel primo caso da Robert Castel (Castel 2008) e nel secondo Jacques Le Goff (Le Goff 1976). Si tratta di una demarcazione – tra le classi popolari europee rispetto all’élite e tra le popolazioni extraoccidentali rispetto all’Occidente – che rimanda a un uso che si perde nelle origini della modernità occidentale; e in un certo senso rispecchia la distin- zione primigenia coniata dai gesuiti che, avviata la pratica missionaria nei luoghi esotici, iniziarono a chiamare gli ambiti rurali occidentali “Indie di quaggiù”, per distinguere le missioni ad intra dalle missioni ad extra che avvenivano nelle “Indie vere e proprie” (cfr. Broggio 2004). 6 Rileggendo in chiave antropologico-culturale i termini gramsciani di egemonia e subalternità, con il concetto di «dislivelli di cultura» Cirese afferma che «nelle società dette “superiori” le distinzioni, separazioni, stratificazioni e opposizioni sociali tra classi o ceti dotati di diverso potere politico-economico trovano in generale riscontro in certe distinzioni, separazioni, stratificazioni e opposizioni culturali. […] Alla diversità della condizione sociale (politica, economica, ecc.) si accompagna una diversità culturale (e cioè di conoscenze e convinzioni, oltre che di usi e costumi, di osservanze e di gusti, e via dicendo) nella quale si manifesta la diseguale partecipazione dei diversi strati sociali alla produzione ed alla fruizione dei beni culturali» (Cirese 2000, p. 23). A ciò egli ag- giunge che a originare i dislivelli di cultura in una data situazione storica possono es- sere «le difficoltà obiettive di comunicazione, la discriminazione culturale praticata dai gruppi egemonici e la resistenza o il rifiuto opposti dai gruppi subalterni»; dove questi tre fattori di distanza, discriminazione e resistenza (ovvero di separazione e di esclusi- vismo reciproco e complementare dall’“alto” o dal “basso”) «si mescolano, si influen- zano e si condizionano reciprocamente» (ivi, p. 39). Si tratta di riflessioni che Cirese formulò senza nessun nesso rispetto ai flussi migratori transnazionali, bensì in riferi- mento agli aspetti antropologico-culturali della stratificazione sociale intra-occidentale, parlando di «cultura egemonica» e «culture subalterne». Tuttavia proprio l’affermarsi di questi flussi, dal momento i cui i migranti approdano all’interno dell’Occidente, conva- lida l’opportunità di rivedere tali riflessioni, al fine di sottolineare come la diversità cul- turale di cui i migranti sono portatori vede amplificata la sua valenza contrastiva a causa della differenza economica che sussiste tra essi e la popolazione occidentale. Come pure,

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© Edizioni Scientifiche Italiane183 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi la stessa opposizione “Nord del mondo/Sud del mondo” appare alla stregua di un ma- cro-dislivello globale che rappresenta il divario tra i complessi economico-culturali delle nazioni egemoniche e quelli delle nazioni subalterne (e, non a caso, in questo senso la critica postcoloniale ha recepito la nozione gramsciana di ‘subalternità’, estendendo però la sua valenza anticapitalistica in senso prevalentemente antioccidentale, per arrivare, nella messa in discussione del regime di verità imposto al Sud del mondo dal colonialismo occidentale, a suggerire un opposto regime di verità basato sulla colpevolizzazione ra- dicale dell’Occidente). 7 Con il concetto di esclusivismo dal basso Cirese ci aiuta a comprendere che l’e- saltazione del proprio strato sociale come unico portatore di valori culturali positivi non è una sola prerogativa delle élite ma pertiene anche al popolo; ossia i rapporti tra disli- velli di cultura sono caratterizzati da ostilità e disconoscimento non unidirezionali, ma tendenzialmente reciproci, seppure su piani di potere differenziati (cfr. Cirese 1997, pp. 15, 60). Questo discorso, incentrato sui rapporti tra culture egemoniche e culture su- balterne, ha due implicazioni. Prima di tutto, su un piano epistemologico, aiuta a supe- rare il vizio dualistico-manicheo della cultura progressista, mutuato sullo sfondo dell’i- deale rousseouiano del “buon selvaggio”, di schiacciare i rapporti verticali del tipo po- polo/élite, basso/alto, semplice/complesso, e via dicendo, entro l’opposizione morale pri- maria bene/male; ciò porta alla possibilità di comprendere che il negativo non va solo e sempre dall’“alto” verso il “basso” ma può avere anche direzione contraria. Poi, su un piano della geopolitica culturale, va considerato che tale visione è estendibile alla marco-scala della relazione tra Nord del mondo e Sud del mondo, scoprendo così che esiste anche un’ostilità anti-occidentale (e probabilmente proprio nella sottovalutazione di queste dinamiche è rilevabile un limite della critica all’egemonia occidentale d’ispira- zione postcoloniale). Si può inoltre osservare che, se l’etnocentrismo è una tendenza uni- versale “orizzontale” a considerare la propria cultura come la migliore e a farne il me- tro per valutare le altre (cfr. Sumner, 1962), l’esclusivismo è il suo equivalente “verticale”, e compare quando la diversità culturale si mescola e si confonde con la differenza di classe. 8 Se, in ambito anglo-americano, si parla di “3D jobs” (dirty, dangerous, demea- ning), in Italia Maurizio Ambrosini introduce la formula delle “cinque P” per descri- vere la qualità generale del lavoro svolto da chi migra da una nazione povera e arriva in Italia, come caratteristiche discriminanti amplificate nei clandestini rispetto a quelle esperite dai regolari (cfr. Ambrosini 2000). 9 Rispetto alla discriminazione sul lavoro che colpisce i migranti, Laura Zanfrini e Maurizio Ambrosini parlano d’integrazione subalterna per descrivere la tendenza ad ac- cettare culturalmente i lavoratori provenienti da paesi poveri solo nella misura in cui questi svolgono mansioni di basso livello nella gerarchia lavorativa, e più umili rispetto alla loro qualifica formativa (cfr. Zanfrini 2000; Ambrosini, 2001). Questa considerazione è in sé plausibile ma tiene poco conto del rapporto tra domanda e offerta. Da un lato questo vuol dire che la disponibilità di lavori “alti” è solitamente limitata e inserita in contesti di concorrenza già intensi, a prescindere dalla presenza migrante. Dall’altro si dovrebbe considerare che, in concreto, il piano etico delle disposizioni personali verso l’alterità subalterna non è mai del tutto separato dalla cornice macro-economica in cui si realizzano le relazioni di contatto: spesso la discriminazione dipende, più che dal ma- lanimo delle persone verso gli stranieri, dal contesto di penuria strutturale entro cui si dipanano le esperienze di convivenza. 10 Il concetto di ‘filamento urbano’ è usato da Marc Augé, che lo permuta da

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ISSN 1594-5472184 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

Hervé Le Bras, per definire gl’insediamenti lungo le direttrici che uniscono le agglo- merazioni. Sempre sulla scorta delle riflessioni di Augé possiamo notare che i filamenti urbani tendono ad essere percepiti come nonluoghi. Questo nella misura in cui i non- luoghi sono definiti come spazi non identitari, non relazionali e non storici (in op- posizione ai luoghi, che sono identitari, relazionali e storici). Va precisato che l’op- posizione luoghi/nonluoghi non costituisce una polarità netta, ma rappresenta una con- tinuità di situazioni che riguardano il livello di socialità e di simbolizzazione che con- feriscono qualità antropologiche a uno spazio (cfr. Augé 2009). In tal senso andrebbe aggiunta una quarta caratteristica: il luogo è relativo, prospettico, posizionale. Il senso del luogo non esiste in assoluto, ma deriva dai vissuti che si dipanano entro una geo- grafia; questo in un processo interattivo dove lo spazio si fa in qualche modo luogo nella misura in cui gl’individui che vi risiedono si fanno in qualche modo persone. Questo è evidente in casi come quello qui in esame: se, per chi abita a Castel Vol- turno, la Domiziana tende ad essere percepita come un nonluogo – uno spazio cul- turalmente desertico, dove non riconoscono relazioni, storia, identità – è vero anche il contrario: per i migranti che abitano la Domiziana, il borgo di Castel Volturno tende a essere percepito come nonluogo, e la Domiziana tende con il tempo a diventare sempre più un luogo in cui si stabiliscono relazioni comunitarie, dove si va affermando un sentimento di appartenenza entro un’identità migrante afroitaliana variamente clan- destina che – proprio in opposizione agl’Italiani, ai bianchi – si scopre sempre più pa- nafricana. 11 Queste attività lavorative corporali che – prima di tutto in quanto non attuabili su linee di produzione delocalizzabili – possono svolgersi unicamente sul suolo del- l’Occidente, e che sono coperte prevalentemente da immigrati irregolari, riguardano so- prattutto l’agricoltura e l’edilizia (che vedono occupati prevalentemente gli uomini), e la prostituzione e l’assistenza di anziani (che riguarda prevalentemente le donne). È op- portuno notare che in tal modo si produce una singolare divisione del lavoro clande- stino in base al genere. 12 In proposito Marc Augé nota che «la forza lavoro dei clandestini è utile a certe imprese perché incarna una sorta di delocalizzazione sul posto» (Augé 2007, p. 22). 13 Utilizzando la metafora del battello, Foucault definisce le eterotopie come dei luo- ghi che mettono in connessione spazi lontani attraverso sistemi di apertura e di chiu- sura che le rendono al contempo isolate e penetrabili, specificando che esse sono «una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti» (Foucault 2010). 14 Parlando di «potenza istituente» contro il «potere istituito» prendo in prestito degli elementi dal discorso di Michel Maffesoli, il quale – palesando con battagliero im- peto antisistemico una posizione manichea a sostegno della «giusta vendetta dei valori del sud su quelli del nord» – sottolinea «l’importanza culturale dell’estraneità fonda- trice», capace di alimentare l’alternanza tra la fase eroica, divina dei poteri nascenti, fatta di vitalità e effervescenza, di affettività nella comunità emozionale, e il suo opposto con- gelarsi nella strutturazione conseguente al consolidamento istituzionale degli stessi, pen- sato come distacco dall’originaria energia fondatrice (cfr. Maffesoli 2004). 15 In merito può essere utile rilevare che lo storico delle dottrine politiche Carlo Galli sottolinea che la destra, orientata alla sicurezza «nel senso poliziesco dell’ordine pubblico», tende a considerare l’immigrazione una minaccia, una fonte di disordine, men- tre la sinistra è «favorevole ad affrontare il rischio del nuovo e del diverso (gli immi-

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© Edizioni Scientifiche Italiane185 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi grati) con apertura mentale» (Galli 2013, pp. 48-49). Aggiungerei che questa disposi- zione comunitaria della sinistra andrebbe comunque relativizzata, a partire dalla consi- derazione che il diverso in questione (gli immigrati, appunto) è strutturalmente simile al suo soggetto storico perduto (il proletariato); nonché differente, strutturalmente op- posto, rispetto al suo nemico storico (la borghesia). 16 Ho trattato più in dettaglio i temi di questo paragrafo in Ciccozzi 2014. 17 L’uso dei termini ‘rappresentazione sociale’, ‘ancoraggio’, ‘oggettivazione’, ‘diffu- sione’ e ‘propagazione’ è riferito alla cornice epistemologica della teoria delle rappre- sentazioni sociali di Serge Moscovici (cfr. Moscovici 1989) 18 Gregory Bateson ha coniato il termine ‘schismogenesi’ per indicare i processi di fissione culturale derivanti da interazioni cumulative e problematiche, in cui – a vari li- velli, dalla psiche individuale, alla famiglia, dai villaggi alle nazioni e oltre – le unità, i gruppi sociali, tendono a spaccarsi in entità separate in conflitto (cfr. Bateson 1988). 19 Cfr. Simmel 2006. 20 Sulla dialettica communitas/immunitas, cfr. Esposito 2002 e 2006. 21 In proposito il campano Francesco Caruso – in passato leader nazionale dell’at- tivismo antisistemico altermondista e recentemente interessato allo studio della realtà della Domiziana – definisce Castel Volturno come un «distretto della clandestinità», os- sia un luogo il cui sostentamento orbita intorno a «un complesso coerente di pratiche, dispositivi e strategie governamentali per la cattura, l’imbrigliamento, la messa in pro- duzione e la riproduzione dei corpi imprigionati nella condizione d’irregolarità ammi- nistrativa», in modo tale da farne un «sistema socioeconomico integrato e strutturato sull’illegalità e sul razzismo» (cfr. Caruso 2013). 22 Il concetto di intersezionalità – maturato nell’ambito della teoria sociologica fem- minista statunitense – punta a mettere in evidenza come la diseguaglianza sociale derivi dal combinarsi di categorie culturali, sociali e biologiche che agiscono non indipenden- temente, ma si intersecano ed entrano in risonanza alimentandosi a vicenda, disponen- dosi in sistemi di oppressione che riflettono molteplici forme di discriminazione (cfr. Collins, Andersen 2012). 23 Cfr. Aa.Vv. 2009. 24 Taguieff 1999, p. 2. 25 Nella tradizione di studi italiani, come esempio di testi autorevoli che hanno si- stematizzato una concezione ampia di razzismo, si possono vedere: Burgio 2010; Rivera 2003; Siebert 2003. 26 Dei 2012, p. 42; cfr. Van Dijk 1994, 2004. 27 Con il concetto di cultural bias (pregiudizio culturale) s’intendono le distorsioni percettive che avvengono quando il simbolismo di una data cultura impone una con- venzione interpretativa che descrive fenomeni e prescrive condotte a partire da false cre- denze recepite come assiomi indiscutibili. Il cultural bias è, in sintesi estrema, l’errore di valutazione delle situazioni derivante da premesse culturali in qualche modo fuor- vianti (cfr. Douglas 1982). 28 Cfr. Taguieff 1999, pp. 103-109. 29 Boas 1979, p. 220. 30 Balibar 1996, pp. 267-275. 31 Wallerstein 1996, pp. 256-258. 32 Anche per questo tema mi sia concesso il rimando a Ciccozzi 2001. 33 Taguieff 1999, pp. 62-63. 34 Ho discusso questa questione – in termini di ambivalenza del dono tra agape ed

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ISSN 1594-5472186 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno eros e compenetrazione tra etica ed economia – in Ciccozzi 2011. Più un generale, in merito alla commistione tra valori umanitari e interessi materiali nel mondo dell’indu- stria della solidarietà in un orizzonte globale, cfr. Polman 2009. 35 Cfr. Žižek 2005. 36 Enzenberger 1993, p. 26. 37 Ho esposto questa tematica in una prima etnografia che ho svolto sul territorio di Castel Volturno, in Ciccozzi 2015. 38 Secondo le rilevazioni Istat dal 2007 al 2012 il numero d’individui in povertà as- soluta è raddoppiato da 2,4 a 4,8 milioni, avvicinandosi così al 10% della popolazione; e nel 2013 oltre un milione di famiglie non hanno percepito reddito da lavoro (il 56% in più rispetto al 2011). 39 Marx permuta da Adam Smith il concetto di accumulazione originaria rielabo- randolo per indicare il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, l’atto fondativo della produzione della forza lavoro come merce, ottenuto attraverso la con- centrazione della proprietà, la distruzione delle condizioni tradizionali di lavoro, sradi- cando i lavoratori dalla terra e separandoli dal loro prodotto (cfr. Marx 1975). È da tempo evidente che il modo di produzione capitalistico, non riuscendo a compensare la necessità di forza lavoro con l’ausilio totale di macchine, resta perennemente affamato di poveri da impiegare alla base della catena per la produzione di benessere; in un bi- sogno costante, strutturale, di povertà per riprodurre questo momento emergenziale di fondazione. 40 Non ritengo del tutto valida la visione generale, oggi incoraggiata da gran parte della critica postcoloniale, per cui si tende a descrivere i rapporti di egemonia e subal- ternità tra Nord e Sud del mondo in termini di mero sfruttamento unidirezionale, mar- ginalizzando la questione della legittimazione della civiltà attraverso il progresso, ridotto a vacuo tentativo di riscatto rispetto alla violenza coloniale. La relazione egemonica che l’Occidente ha storicamente intrattenuto con gli ambiti che ha reso subalterni – interni ed esterni – è caratterizzata da una dialettica in cui allo sfruttamento si alterna la pos- sibilità di emancipazione. Questa è ottenuta tanto con la resistenza e la rivolta quanto con il riconoscimento, non solo strappandola con le lotte per l’estensione dei diritti ma soprattutto grazie a una pre-condizione necessaria al raggiungimento dei diritti stessi: la capacità – prima di tutto tecnico-scientifica – di ampliare la nicchia adattiva umana at- traverso il processo di produzione d’innovazioni che tendono a diffondersi tra gli strati sociali (entro limiti determinati non solo dalla necessità del potere di mantenere le sue gerarchie, ma anche dalla disponibilità di risorse materiali e dalla crescita demografica). Ho trattato questo tema in Ciccozzi 2001. 41 Se lavori come i dossier promossi dal centro studi Idos (cfr. Aa.Vv. 2012) si sfor- zano di promuovere una rappresentazione positiva delle migrazioni transnazionali spie- gando che i migranti non delinquono più degli italiani; altri studi dimostrano, al con- trario, che vi è un nesso solido tra immigrazione e criminalità, che i migranti comples- sivamente delinquono di più degli italiani, che questo vale ancora di più per gli irrego- lari, per certe categorie di reati, e che alcune nazionalità fanno registrare tassi di crimi- nalità palesemente più elevati di altre (cfr. Barbagli 1998). Ognuno rivendica la scienti- ficità dell’approccio adottato come garanzia di oggettività, ma una delle due conclusioni è certamente falsa. Non è questa la sede per verificare quantitativamente chi ha ragione, chi sbaglia; o se – involontariamente o meno – si perviene a conclusioni errate e stru- mentali a causa bias ideologici (che si concretizzano in premesse o procedure sbagliate le quali finiscono con il forzare la realtà entro finzioni distanti da essa). Pare invece ab-

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© Edizioni Scientifiche Italiane187 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi bastanza ovvio che la devianza può essere, oltre che una scelta aggressiva di tipo pre- datorio (come avviene ed esempio nei casi del terrorismo finalizzato a instaurare dal basso un imperialismo islamista), anche e più spesso una risposta adattiva: i migranti, come qualsiasi gruppo marginale, possono reagire all’asservimento e all’esclusione met- tendo in atto pratiche variamente “brigantesche” (l’alternativa servitù/brigantaggio, come espressione enfatica di una scelta tra sottomissione e ribellione, è l’unica data alle classi subalterne quando una relazione di potere si assesta più sullo sfruttamento ed è avara di emancipazione, come pure la pulsione brigantesca spontanea può incanalarsi nei per- corsi del fondamentalismo religioso). Non si tratta di dare una veste romantica alla de- linquenza; o, men che mai, di pretendere all’opposto di criminalizzare tutti i migranti, stabilendo un nesso ontologico, naturale, tra determinate etnie e determinate pratiche. Si tratta di riconoscere che in certe condizioni – come, per esempio, quando la pres- sione migratoria aumenta rispetto alle possibilità d’integrazione lavorativa, quando i fat- tori di spinta superano quelli di richiamo – è più probabile che qualsiasi gruppo umano approdi all’opzione della devianza, oltre che per antagonismo politico-culturale, per ca- renza di alternative economiche. Ciò per questioni di cornice sociale prima che per orien- tamenti culturali ascrivibili a caratteri etnico-nazionali (che comunque, in una certa mi- sura ed entro una certa variabilità individuale, possono amplificare o ridurre queste ten- denze comportamentali). In tal senso è chiaro che lo stereotipo si annida non solo nella generalizzazione criminalizzante, ma anche nella pretesa d’innocentizzazione aprioristica di taluni gruppi. Come pure è frutto di una semplificazione stereotipica l’abitudine di rovesciare in un’epistemologia dell’indeterminismo assoluto certi pur giustamente supe- rati determinismi culturalisti, al fine di destituire totalmente di senso il nesso tra com- portamento degl’individui, culture e ambienti sociali (disconoscendo in un ormai litur- gico “non c’entra niente la cultura, la responsabilità è solo dei singoli” quella che è in- vece la natura probabilistica, sfocata di tale nesso). 42 Said 2010, p. 333. 43 Per un’analisi storico-sociale dettagliata più generale in merito ai pregiudizi e al- l’odio antioccidentale diffuso nel globo a partire dalla modernità coloniale (spesso so- stanzialmente analoghi a molti di quelli, di matrice postcoloniale, che ho rilevato nel corso della mia indagine etnografica) si veda Buruma, Margalit 2004. 44 Cfr. Carilho 1974. 45 Cfr. Fanon 1962. 46 Cfr. Aruffo 2007. 47 Cfr. Aruffo 1991. 48 Cfr. Said 2010. 49 In merito può essere chiarificatore il riferimento al concetto di blaming intro- dotto nel dibattito antropologico da Mary Douglas per descrivere i procedimenti proiet- tivi di attribuzione della colpa a nemici esterni, al fine di purificare la comunità dal ne- gativo, scaricandone le cause fuori dal corpo sociale. In altri termini, individuare all’e- sterno del gruppo sociale un colpevole totale, puro, consente di farne il capro espiato- rio su cui scaricare tutti i mali, anche quelli interni al gruppo stesso, che in tal modo sono indirettamente legittimati a mantenersi (vale a dire che colpevolizzare l’Occidente, il Nord del mondo, per tutti i mali del pianeta può essere un pretesto per la santifica- zione e l’affermazione di ordini alternativi che, più che subire unicamente tali mali, ne sono spesso variamente concausa). 50 Cfr. Said 2010. Poi, banalmente, il principio foucaultiano che ispira Said, secondo cui i saperi, le narrazioni scientifico-umanistiche non sono mai del tutto neutrali ma sot-

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ISSN 1594-5472188 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno tendono, in misura anche pesante, condizionamenti dati dai contesti di potere in cui si producono, non può non valere solo da un lato. Ossia, bisogna comprendere che, in misura più o meno ampia, la funzione plasmante del potere egemonico attraverso le nar- rative che sostituiscono alla verità una serie di rappresentazioni politicamente funzionali può essere presente anche nel potere della critica (che, in una tensione dialettica tra or- dine e contestazione, può affermarsi a sua volta come nuovo «dominio da disimparare»). 51 Le migrazioni attuali sono un fenomeno storico del tutto inedito perché avven- gono in una fase di soglia dell’antropocene in cui la crescita della popolazione povera del globo, e la pretesa di estendere a essa i già in sé insostenibili standard di vita del- l’Occidente avanzato, stanno erodendo la capacità di carico del pianeta, innescando, a meno di drastici cambi di direzione, un imminente collasso climatico (cfr. Crutzen 2005; Diamond 2005). Contro questi segnali d’allarme vi è una diffusa tendenza al rassicura- zionismo; e al ricorso alla stigmatizzante accusa di chiusura, intolleranza, xenofobia e razzismo qualora vengano sottolineati tali segnali (il che rende difficile guardare alla cre- scita demografica e alle migrazioni transnazionali con le categorie della disastrologia, o di analizzare l’alterità subalterna da una prospettiva dell’antropologia rischio). Poi, sul- l’inconsistenza dell’analogia tra migrazioni moderne e migrazioni postmoderne – che, in un mondo sempre più saturo di umani, pretende di porre sullo stesso piano passati spo- stamenti verso spazi estesi, ricchi di materie prime e tendenzialmente vuoti (non senza la complicità di pratiche di sterminio che speriamo non tornino in altre forme), con spo- stamenti attuali verso spazi assai meno estesi, poveri materie prime e pieni di persone – cfr. Gozzini 2005; Sartori 2000, pp. 46-47. 52 Nello specifico, Jared Diamond nota che la lotta degli integralisti religiosi verso la contraccezione e l’aborto è da porre in relazione alle politiche natalistiche con cui le religioni universalistiche, in concorrenza tra loro, puntano all’espansione e al dominio globale attraverso la crescita demografica dei fedeli (cfr. Diamond 2005). 53 I dati demografici che seguono sono tratti dalla revisione del World Population Prospect dell’ONU, calcolata nel 2012. 54 Cfr. Butler 2013. 55 Tra gli autori principali che trattano il tema della crisi ecologica planetaria in con- nessione alla crescita demografica oltre ai già citati Crutzen 2005 e Diamond 2005, si veda Brown 2012. Si tratta di comprendere che non è possibile una crescita illimitata in un pianeta limitato; ossia che l’umanità è sull’orlo della catastrofe a causa di un pro- gresso che la società occidentale ha avuto la capacità di produrre ma che – dominata da finalità di concorrenza economica più che di benessere sociale – non ha la saggezza di governare nella risonanza che s’innesca dalla concatenazione dei suoi effetti perversi (la crescita demografica delle masse indigenti in corsa per approdare al benessere garantito dalle innovazioni tecnologiche, il consumo di risorse non rinnovabili e l’inquinamento ambientale). 56 Quasi mezzo secolo fa Gregory Bateson ci spronava a riflettere sul fatto che le cause profonde della crisi ecologica planetaria che già allora iniziava a impattare sul ge- nere umano derivano dalla relazione tra insostenibilità del progresso tecnologico, au- mento della popolazione e schemi mentali sbagliati (orientati a isolare unidirezionalmente colpevoli più che a trovare le cause sistemiche della crisi nell’interazione tra le parti). Questo pensiero è ancora di strettissima attualità, di rilevanza massima, ma seguita a es- sere poco considerato (cfr. Bateson 1989). 57 Cfr. Burgio 2010, p. 199. 58 Con il termine immigrazionismo Pierre-André Taguieff ha designato la tendenza

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© Edizioni Scientifiche Italiane189 ISSN 1594-5472 Antonello Ciccozzi a valutare aprioristicamente il fenomeno migratorio come totalmente inevitabile e del tutto positivo (http://ingiagzennay.free.fr/Taguieff-Immigrationnisme.pdf, una versione ri- dotta del testo è stata pubblicata su «Le Figaro» del 9 maggio 2006). Questa definizione non ha avuto finora molto successo in ambito progressista (anzi, è stata aspramente cri- ticata) ma a mio parere aiuta a inquadrare alcuni eccessi ideologici della cultura dell’ac- coglienza nella benedizione incondizionata dei flussi migratori, suggerendo che questi dovrebbero essere contenuti entro limiti quali-quantitativi che riguardano l’effettiva in- tegrabilità culturale e lavorativa di chi approda (compatibilità tra valori culturali ed equi- librio tra push e pull factors). Non è difficile comprendere che quando la presenza mi- gratoria eccede tanto la possibilità d’impiego lavorativo quanto la compatibilità tra i va- lori di chi risiede e di chi approda, aumentano le probabilità che dall’auspicio dell’inte- grazione si passi alla realtà della marginalità, del disagio, della violenza. Essere contro l’immigrazionismo non vuol dire affatto essere contro le migrazioni; significa ricono- scere che, come tutti i fenomeni umani, esse vanno governate, limitate. Significa mettere in relazione il concetto di “migrazioni” con quello di “sostenibilità”. Questo mette in discussione l’implicito principio contrappassistico per cui si risponde a un’aberrazione, quella neoliberista del mercato globale senza limiti di circolazione per merci e capitali, con un’altra aberrazione, l’anelito non solo neocomunista ma anche neocapitalista di abrogare qualsiasi limite alla circolazione delle persone. La libertà di movimento è un diritto che non può arrivare ad assolutizzarsi, e quindi a calpestare i diritti del prossimo (anche se il prossimo in questione abita in nazioni egemoniche, il Nord del mondo, l’Occidente e via dicendo). 59 Ammettendo che, rispetto ai fatti umani, non vi è nessun sapere totalmente im- mune da derive ideologiche, qual è la mia posizione? In sintesi estrema sono contro l’immigrazionismo. Al rifiuto della xenofobia aggiungo il rifiuto della xenofilia. Ritengo che la questione delle migrazioni transnazionali non debba essere affrontata a partire da approcci romantico-enfatizzanti ma attraverso una prospettiva critico-problematica che recuperi la dimensione ecologica del problema. Più che attraccare negli accademicamente sicuri porti politico-ideologici dello “stare dalla parte di”, sono dell’idea che – per com- prendere la violenza del dominio in tutte le sue direzioni senza distrarsi dalle gerarchie che la differenza della sua intensità delinea – occorra avventurarsi nell’indagine del gioco tra le parti (pur nella consapevolezza che anche i discorsi derivati da tale prospettiva potranno essere condizionati o finire in un gioco di potere). 60 Ritengo che un aspetto critico delle storie di vita stia proprio nell’uso sociale che si fa delle loro verità, come conio per fabbricare stereotipi (positivi o negativi che siano). Mi viene da pensare al recente utilizzo mediatico che ho costatato di un libro (subito best-seller nel mondo della cultura dell’accoglienza) che racconta la storia di Samia Yu- suf Omar; una minuta, pura, decisa e coraggiosa ragazza somala appassionata di corsa, la quale – dopo aver partecipato alle olimpiadi di Pechino con uno struggente ultimo posto – prova, per fuggire dalla dittatura, a raggiungere l’Europa in un viaggio della di- sperazione, ma annega tragicamente di fronte all’Italia (cfr. Catozzella 2014). Il testo ha ispirato uno special televisivo (“La tredicesima ora”, RaiTre, 30 maggio 2014) dove l’e- sposizione emozionale della storia dell’eroina – eletta a simbolo di tutti i migranti – ha sortito nel conduttore un’ostentazione plateale di generosa commozione e biblici sensi di colpa. Non ci si poteva non commuovere, certo; ma personalmente, più che da etici sensi di colpa, sono stato assalito da dubbi epistemologici. Questo perché ritengo che anche in simili casi possa valere qualche precauzione ermeneutica che si osservò tempo fa per le etnografie, rispetto al rapporto tra poetiche e politiche (cfr. Clifford e Marcus

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ISSN 1594-5472190 © Edizioni Scientifiche Italiane Dislivelli di cultura e razzismi a Castel Volturno

1997). Voglio dire: nei confronti della narrazione di vissuti tragici come questo non credo che dobbiamo solo toglierci il cappello e abbassare gli occhi a terra come si fa di fronte alla pura verità. Penso che si possa e si debba rispettosamente mantenere anche un oc- chio vigile, nell’idea che delle strategie realiste possono servirsi del potere generalizzante delle storie di vita per mettere in piedi, entro un simulacro di neutralità, rappresenta- zioni sociali fondate su specifiche poetiche (in questo caso su poetiche del sacrificio, del senso di colpa, del dovere di espiazione) e orientate a specifiche politiche (in questo caso a politiche dell’accoglienza incondizionata). È proprio il contenuto di verità delle storie di vita che le rende adatte a produrre delle finzioni, nella generalizzazione mitopoietica dei soggetti elevati a simboli, a eroi culturali. Quando un soggetto umano come Samia si oggettiva come paradigma narrativo, si produce una rappresentazione sociale del fe- nomeno migratorio del tutto ancorata sull’immagine rassicurante del “buon migrante”. Si produce un senso comune manicheo, fatto di barconi pieni solo di angeliche, uma- nissime Samie, nient’altro che respinti barbaramente da orde di disumani razzisti. Que- sto in ultima analisi mutila l’Altro, la sua costitutiva ambivalenza, dall’eventualità umana del male. Il migrante ci viene restituito così sotto forma beatificata, riversando il resi- duo osceno di quel male potenziale sul Noi, sotto forma di senso di colpa. 61 Cfr. De Martino 1977. Banalmente, in un mondo che a Nord è alienato dalla dottrina capitalistica del consumo ossessivo-compulsivo di merce-paccottiglia e a Sud da magismi, fondamentalismi religiosi e tribalismi etnici, ci sarebbe davvero bisogno che le moltitudini si specchiassero nell’Altro da entrambi i lati di questa sfocata linea di con- fine; per sperare in un miglioramento che consenta di buttare a mare il ciarpame cultu- rale che sommerge l’umanità, tanto dall’“alto” quanto dal “basso”, tanto da Nord del mondo quanto dal Sud del mondo. Purtroppo pare che sia più facile prendere recipro- camente dall’Altro quasi sempre il peggio (e anche questo fomenta la crescita dell’odio reciproco). 62 Mi riferisco a “Imagine”, ovviamente (dove, com’è noto, l’Autore auspica un mondo senza confini, finalmente accomodato nella totale fratellanza planetaria).

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© Edizioni Scientifiche Italiane191 ISSN 1594-5472 MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Nascere «stranieri» a Castel Volturno

ANNA AMORUSO

1. La ricerca

Con l’anno scolastico 2011-2012 si è avuto un nuovo balzo in avanti del numero di stranieri tra i banchi di scuola, dopo due anni in cui la tendenza aveva registrato un rallentamento. Stando agli ultimi dati, i gio- vani studenti censiti come non italiani sono quasi 756.000, poco meno del 9% del totale, la cui presenza è più consistente nel cosiddetto «primo ciclo», costituito da scuole dell’infanzia, elementari e medie (MIUR). Si tratta delle cosiddette «Seconde Generazioni», per le quali l’aggettivo «straniero» risulta fuori luogo, essendo tali studenti accomunati con gli italiani per luogo di nascita, residenza, lingua, percorso formativo e si- stema di socializzazione. Questi dati sono la conferma di come in Italia ci sia stato di fatto un passaggio verso l’insediamento permanente degli stranieri. La scuola assume dunque un ruolo fondamentale come strumento di integrazione, perché non può che essere il luogo del dialogo e del confronto. La ricerca di cui qui fornisco i primissimi risultati è stata condotta nella scuola primaria dell’«Istituto Comprensivo Castel Volturno Cen- tro». La scuola primaria è appunto l’occasione più carica di conseguenza per la maturazione dell’identità del bambino, che ha il momento consi- derato più delicato nell’età compresa tra gli otto e i dieci anni, corri- spondente al 3º ciclo (classe 4ª e 5ª). Il mio lavoro si sofferma sulle dinamiche integrative dei bambini di origine straniera. Osservo il loro comportamento, le loro strategie di ac- culturazione, le loro difficoltà, cercando di documentare il punto di vista dei minori stessi. Ho avuto la possibilità di seguire due classi (V E e V F), durante l’intero anno scolastico 2011-2012. Per garantire una maggiore in- tegrazione, l’istituto scolastico, in base alle indicazioni ministeriali, ha pre-

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ISSN 1594-5472192 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno visto la presenza al massimo di due bambini «stranieri» per ogni classe. Nelle due classi da me considerate, formate ognuna di quindici bambini, due (uno per ogni classe) provenivano da famiglie di origine nigeriana. Van Lier (1988), per giustificare l’adozione del metodo etnografico a scuola, afferma che la conoscenza di cosa succede in classe è di solito molto limitata, benché risulti preziosa per l’indagine. Ho provato dun- que a raccogliere i dati lavorando in classe, cercando di calarmi nel con- testo quotidiano, che non è solo un contesto linguistico o cognitivo, ma richiama l’intera gamma del comportamento sociale. Dopo aver raccolto i dati anagrafici dei bambini stranieri e italiani, sono passata alle interviste cosiddette semi-strutturate con le insegnanti. I veri e propri documenti relativi ai bambini consistono in tracce per la composizione di elaborati scritti, nelle quali mi sono servita della tec- nica proiettiva della metafora. Come sottolinea Gabriella Favaro, in tale ambito risulta di grande importanza cercare di far esprimere i bambini con il linguaggio metaforico, così da poter risalire, per altra via, ai loro vissuti di integrazione o viceversa di emarginazione e solitudine (Favaro 2000). Dal modo in cui un bambino figlio di migranti rappresenta se stesso con il disegno, i colori, le frasi, noi possiamo raccogliere infor- mazioni preziose su come si sente, cosa pensa, come vede il mondo, quali legami ha con il passato. Le immagini o metafore sono quindi raccolte attraverso «sollecita- zioni» quali per esempio un racconto immaginario libero («Immagina di compiere un viaggio in un paese lontano: descrivi il luogo e le persone che potresti incontrare»); la reazione a una breve storia («Il racconto di Laura» e «La storia di …»); la creazione di una favola («Gli animali im- maginari»); la risposta a domande tipo: «Chi porteresti con te in viag- gio tra queste persone?». Tali «stimolatori» consentono di ascoltare il non detto dei bambini, figli di italiani e di stranieri, anche rispetto a questioni quali il pregiu- dizio razziale, il rifiuto della diversità, la disponibilità a stare insieme senza paure. Un altro strumento di indagine da me usato è l’ascolto autobiogra- fico, che si prefigge di conoscere le autobiografie d’infanzia, raccontate dai protagonisti di un’esperienza migratoria (Demetrio, Favaro, 1999). Lo scopo è di promuovere la narrazione di sé, aiutando a ricomporre i tratti della propria vicenda personale. Ciò permette anche di cogliere aspetti della vita del bambino che appartengono più esclusivamente al mondo di provenienza o alle consuetudini praticate in famiglia. L’ascolto autobiografico permette anche di raccogliere informazioni utili per l’e- laborazione di questionari o interviste.

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© Edizioni Scientifiche Italiane193 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso

L’intero lavoro di raccolta dei dati si integra con l’indispensabile os- servazione in classe, che è decisiva per contestualizzare e interpretare, sulla scorta del comportamento, tutti i documenti prodotti. La progres- siva familiarità con la vita di classe permette di sintetizzare tutte le infor- mazioni riguardanti la relazione che si crea tra gli studenti e tra studenti e insegnanti. Gli strumenti per documentare i dati provenienti dall’osservazione diretta sono diversi e tutti presentano vantaggi e svantaggi; alcuni con- sentono una registrazione dei dati poco strutturata, altri più struttu- rata. Si usano note sul campo, si tracciano i profili della lezione, si producono cronache dirette, diari di bordo, schede su episodi speci- fici. Alcuni ricercatori si avvalgono della telecamera, come per esem- pio Ana Vásquez-Bronfman (2003) nel suo lavoro di ricerca in una scuola francese e una spagnola. Questa tecnica permette di documen- tare precisamente tutto ciò che succede in classe, ma rischia di creare altre distorsioni, per il fatto che tutti gli attori hanno sempre coscienza di essere osservati. Ho preferito instaurare un rapporto di fiducia diretto con i bambini, senza l’uso di strumenti di supporto. Nel primo mese, una volta che gli insegnanti mi avevano presentato ai loro alunni, ho preferito che questi rivolgessero direttamente a me ogni domanda relativa al lavoro che ci aspettava, stimolando così la loro curiosità e la loro attesa per le inizia- tive che avrei proposto nei mesi successivi. La mia osservazione in classe non si è avvalsa di registrazioni mec- caniche, né sonore né visive. Prendevo appunti, per riportare la durata dell’osservazione e tutto ciò che succedeva, per trascrivere il più fedel- mente possibile le parole dei bambini e delle insegnanti, per annotare le mie impressioni a caldo e i possibili spunti di riflessione. Una volta ter- minata l’esperienza, rileggevo e mettevo in ordine il prima possibile la documentazione raccolta. È stato molto interessante osservare come i bambini reagivano alle mie domande. Talvolta si sono sviluppati dibattiti appassionati, come quelli intorno alla definizione di «straniero» o intorno all’immagine che i locali hanno dei paesi di provenienza dei loro compagni figli di stra- nieri. Il clima di fiducia che si è venuto a creare mi ha permesso di co- noscere nei particolari le storie personali di alcuni bambini. Durante la ricreazione, si parlava degli argomenti più disparati: da come trascorre- vano le giornate, al rapporto con i genitori e con la terra di origine. Ri- cordo con piacere la descrizione che una bambina nigeriana faceva de- gli abiti tipici del suo gruppo, gli Yoruba. Era così entusiasta che tutto ciò potesse interessare, che il giorno dopo si è presentata in classe con

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ISSN 1594-5472194 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno il suo vestito tradizionale yoruba, stimolando la curiosità di tutta la classe, insegnanti compresi. L’osservazione e le conversazioni durante la ricreazione mi hanno permesso di superare non poche difficoltà di interpretazione delle schede proposte ai bambini: non erano pochi infatti coloro che non riuscivano a esprimere nella scrittura i loro pensieri e le loro emozioni. Queste dif- ficoltà sono state riscontrate anche in bambini italiani. La difficoltà di lettura e di comprensione dei testi scritti sono equamente diffusi. Si è trattato per me di adattare i metodi di ricerca, prevalenti tra gli studiosi, con la realtà che avevo di fronte, caratterizzata da ritardi del- l’intera classe rispetto all’ideale previsto dai programmi scolastici. Nelle classi da me considerate, in egual modo per i figli dei migranti e per quelli dei castellani, ho dovuto fare i conti sia con i ritardi dell’istru- zione sia con il precoce apprendimento della «censura» per tutto ciò che riguarda l’illegalità e le cose per così dire sconvenienti: i fatti della ca- morra, la realtà abitativa, le «atipicità» delle vite familiari. Oltre al lavoro in classe, ho avuto modo di osservare e conoscere la realtà extra scolastica presso il centro educativo la «Casa del bambino», dell’associazione Black and White dei padri Comboniani, presente sul territorio da più di dieci anni. Frequentare alcuni bambini anche al di fuori del contesto scolastico ufficiale mi ha permesso di stabilire con loro e con le loro famiglie una relazione più confidenziale, di parteci- pare al loro modo di vivere quasi per tutta la durata della giornata. La scuola e le associazioni di volontariato a Castel Volturno, come in qualsiasi contesto di degrado, hanno un compito difficilissimo e di primaria importanza: educare i giovani alla legalità; fornire loro stru- menti di comprensione; imporre valori che possono essere estranei o concorrenziali con quelli vissuti in famiglia; aiutarli a immaginarsi una vita futura non compresa nei modelli sperimentati in casa. L’esperienza fatta nell’anno 2011-2012, benché circoscritta a sole due classi di quinta elementare, mi ha permesso di apprezzare la professionalità degli inse- gnanti, che sono riusciti a ridurre al minimo le frizioni che si creano tra i bambini a proposito del prolungamento in classe delle abitudini ap- prese in famiglia. Non devo registrare problemi rilevanti nel dialogo tra bambini castellani e bambini di origine straniera. I fatti più critici, che si scaricavano in classe, non erano legati alla differenza culturale o reli- giosa tra i bambini. Erano piuttosto la conseguenza delle lacerazioni so- ciali che caratterizzano Castel Volturno e che toccano pressoché in egual misura, almeno nella mia esperienza relativa alle due classi, tanto i figli dei castellani quanto quelli dei migranti. Il fatto però di aver frequen- tato la scuola, di aver conosciuto studenti e insegnanti, mi ha permesso

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© Edizioni Scientifiche Italiane195 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso di registrare, in modo indiretto, altri tipi di problemi, che sto indagando in modo autonomo rispetto al lavoro svolto nelle due classi elementari. Poiché si tratta di fatti rilevanti, preferisco utilizzare lo spazio a mia di- sposizione per presentarli sin d’ora, prima attraverso l’esposizione del contesto generale e poi con la descrizione di casi particolari.

2. I minori stranieri e l’educazione scolastica

Posta di fronte a un cambiamento repentino del quadro sociale, la scuola deve rispondere a una domanda educativa che diviene sempre più differenziata in base alle appartenenze etniche, religiose e culturali. Ciò richiede il superamento di modelli e tecniche educative tradizionali e l’a- dozione di metodologie, strumenti e contributi professionali adeguati alle nuove e diverse esigenze. Tra gli interventi di programmazione volte a garantire un equilibrato assetto della realtà scolastica, assumono particolare importanza il cor- retto ed esauriente orientamento dei flussi delle iscrizioni tra le varie isti- tuzioni scolastiche dei contesti interessati e l’equilibrata ripartizione de- gli alunni tra le classi. A tal proposito, la circolare dell’allora ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini (n. 2, 8/01/2010), fornisce delle indi- cazioni sul numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole: in ciascuna classe è previsto un tetto del 30% del totale de- gli iscritti, quale esito di una equilibrata distribuzione degli alunni stra- nieri tra istituti presenti sul medesimo territorio. Gli uffici scolastici re- gionali, d’intesa con gli enti territoriali, possono decidere o meno di al- lontanarsi da questo limite, tenuto conto del numero degli stranieri pre- senti sul territorio. A distanza di tre anni, la circolare risulta già larga- mente inapplicata per l’accresciuto e non previsto numero di stranieri nelle scuole. A Castel Volturno il numero dei bambini stranieri iscritti nelle scuole elementari varia di molto a seconda delle zone. Nella distribuzione de- gli stranieri sul territorio di Castel Volturno c’è una notevole differenza tra il centro e i «quartieri» lungo la Domiziana, differenza che si ripro- duce ovviamente nella presenza scolastica dei loro figli. Mentre nella scuola elementare «Castel Volturno centro» abbiamo una percentuale del 16% di alunni stranieri sul totale degli iscritti alla scuola elementare, nelle zone più periferiche, dove c’è una maggiore con- centrazione di immigrati, si sfiora il tetto massimo (per esempio il 28% nella scuola elementare «Villaggio agricolo»)1. Poiché la tendenza della percentuale di stranieri è in continuo aumento, possiamo immaginare

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ISSN 1594-5472196 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno che già nei prossimi anni il tetto stabilito dalla circolare sarà ampiamente superato. Studiare le seconde generazioni a Castel Volturno non è affatto sem- plice, perché entrano in gioco elementi collegati sia con la difficile realtà sociale sia con la variegata composizione etnica che caratterizza il flusso migratorio in questa provincia. La maggior parte dei bambini che ho in- contrato nelle scuole e nelle realtà associative sono di origine nigeriana, essendo quest’ultima la comunità più numerosa sul territorio; seguita da quella ghanese, ucraina, rumena, polacca. Buona parte degli alunni è nata in Italia e di conseguenza il loro stile di vita si avvicina più a quello ita- liano che a quello della famiglia di origine, creando spesso situazioni di conflitto interno ed esterno. In questa prima fase di formazione la scuola risponde a una parte dei bisogni delle famiglie straniere, in particolare a quello di alfabetiz- zazione per i loro figli e a quello di preparazione alla loro affermazione sociale. I genitori hanno affrontato il cambiamento di società spesso privi di qualifiche riconosciute e sono stati costretti ad adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, pur di assumere un ruolo attivo nella società di acco- glienza. Il progetto di avanzamento sociale dei genitori si proietta sui loro figli, attraverso un’aspettativa che li vuole a tutti i costi studenti meritevoli, generando spesso frustrazione nei minori. Tali aspettative familiari possono dar luogo anche a incomprensioni con il mondo scolastico e in particolare con gli insegnanti. Il nostro si- stema scolastico è strutturato su metodi pedagogici che appartengono al mondo occidentale e che regolano le relazioni con gli studenti, con i ge- nitori e con il sapere. Spesso i genitori migranti non conoscono o non condividono questi metodi. Sono consapevoli che a scuola si lavora di- versamente e si tengono a rispettosa distanza. I genitori stranieri che ho conosciuto preferiscono per lo più affidare ad altri il compito di seguire l’educazione scolastica dei loro figli, anche quando hanno una forma- zione culturale adeguata. Insegnanti privati o dei doposcuola pomeri- diani e delle associazioni di volontariato si sostituiscono alle famiglie nel progetto educativo scolastico, fino a partecipare ai colloqui con gli in- segnanti. Questo comportamento di rispettosa distanza, definito da Ma- rie Rose Moro (2007) «benevolenza passiva», viene percepito spesso da- gli insegnanti come disinteresse dei genitori verso la formazione scola- stica dei figli. Nonostante questa rispettosa distanza dal mondo scolastico, non mancano le critiche da parte dei genitori stranieri, in particolare sul ruolo dell’insegnante. La figura ideale dell’insegnante, che essi hanno interio- rizzato, spesso è modellata sui sistemi scolastici di provenienza. Per al-

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© Edizioni Scientifiche Italiane197 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso cuni migranti l’insegnante deve essere autoritario, rigido, pronto all’uso di metodi educativi coercitivi e, se necessario, violenti. Ho avuto la pos- sibilità di assistere a un «dibattito» tra educatori della «Casa del bam- bino» e una madre di origine nigeriana. Alla notizia che il figlio si ri- fiutava di fare i compiti, la madre lo ha minacciato di portarlo in Africa, dove «gli insegnanti si fanno rispettare a differenza di quelli italiani». Un genitore proveniente dal Benin mi ha raccontato di aver autorizzato e incitato le maestre a punire severamente il figlio. Egli era stupefatto di fronte all’imbarazzo delle maestre, che interpretava come debolezza, incertezza e incapacità a svolgere il loro lavoro. Si tratta di un problema non marginale, perché spesso i figli dei migranti hanno di fatto già in- troiettato un’idea dell’autorità che passa attraverso l’uso di punizioni cor- porali. Capita così che i minori si orientino verso due estremi: o consi- derano gli insegnanti come «amici» alla pari, con cui confidarsi e a cui chiedere complicità, o come adulti che, non essendo temuti, non sono nemmeno rispettati. Le norme e le pratiche di socializzazione legate al paese di origine dei genitori, che il bambino sperimenta nella sua vita domestica, si pon- gono così come contraddittorie rispetto ai principi pedagogici della scuola che frequenta. Spesso i bambini fanno fatica, soprattutto nei primi anni, a orientarsi tra questi due modelli di comportamento in cui è iscritta la relazione adulto-bambino. Per quanto riguarda l’uso della lingua, gli studenti imparano presto a distinguere tra l’uso familiare e l’uso scolastico. Sia nelle due classi di cui prima ho detto sia in altri contesti scolastici, ho notato che i bam- bini stranieri, anche quando parlano tra loro, usano sempre e solo l’ita- liano, ma appena fuori di scuola tornano alla lingua materna. Graziella Favaro, riguardo al bilinguismo dei minori di origine straniera, afferma che la lingua familiare mantiene la funzione affettiva, è la lingua della casa, della famiglia, dell’intimità (Favaro 1995). L’aspetto linguistico è quello più indagato dagli studiosi, poiché ri- tenuto l’ostacolo principale all’integrazione e causa dell’insuccesso sco- lastico. In realtà, come osserva Bolognesi (2008), può anche capitare che il problema linguistico assuma connotati più sottili e complicati, come accade spesso a Castel Volturno. I bambini migranti, in genere, appren- dono velocemente la nuova lingua e diventano automaticamente tradut- tori tra gli operatori dei servizi, gli insegnanti e i genitori che non pa- droneggiano l’italiano. Ciò non è sempre un bene sul piano delle rela- zioni educative: i bambini troppo precocemente partecipano a conver- sazioni e decisioni proprie degli adulti e acquistano una centralità e un’au- torità che potrebbe ulteriormente confonderli.

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ISSN 1594-5472198 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno

Se il mondo familiare quindi è il punto di riferimento iniziale per il bambino, con il suo ingresso a scuola inizia un processo di decentramento e relativizzazione della famiglia (Colombo 2004). Spesso i figli sviluppano un atteggiamento critico nei confronti della scelta migratoria, vissuta come una imposizione all’origine delle loro difficoltà nell’apprendimento scola- stico. La continua mobilità geografica comporta un senso di precarietà per il bambino, anche perché non è in grado di apprezzarne gli eventuali van- taggi. Ciò avviene anche quando si tratta di viaggi periodici di ritorno nei paesi di esodo dei genitori, motivati dal desiderio di mantenere vivo il le- game con la terra e la famiglia di origine. Riprenderò questo motivo più avanti, a proposito dell’identità dei bambini stranieri. Qui mi concentro sulle ripercussioni che questi continui spostamenti hanno sull’andamento scolastico. Si tratta infatti di soggiorni che possono durare anche due o tre mesi e che cadono in pieno anno scolastico. Alfred, un bambino nigeriano di otto anni, di ritorno da un viaggio di due mesi nel suo paese, aveva dimenticato elementi base della gram- matica italiana che prima possedeva. Non riconosceva né usava più gli articoli, per esempio. Le maestre lamentavano una difficoltà del bam- bino nel reinserirsi nella sua classe: non riusciva più a seguire le lezioni e spesso si isolava. C’è da dire che nel caso specifico di Alfred a desta- bilizzarlo vi era anche il fatto di esser ritornato a Castel Volturno solo con il padre, e che aveva dovuto aspettare la madre e la sorella per qual- che mese. In altri casi, come quello di Abel, nato e cresciuto a Castel Volturo dove aveva frequentato la scuola fino al quarto anno delle elementari, il viaggio nel paese dei genitori è vissuto come un dramma. Abel non ha fatto che piangere, vivendo il distacco dalla sua classe come una violenza senza ragione. L’emigrazione comporta dei gravi rischi nelle relazioni familiari, so- prattutto nei bambini, che devono sopportare, senza poterli compren- dere, distacchi e riaggregazioni continui, perché molto spesso non tutta la famiglia si può spostare insieme e dunque si procede per separazioni, affidamenti, adozioni temporanee, che rendono ancora più arduo il già difficile inserimento del bambino nel contesto scolastico.

3. Questioni di identità

I bambini stranieri, nel loro percorso di crescita identitaria, possono essere paragonati a degli “equilibristi”, sospesi tra due mondi diversi e tra loro spesso conflittuali. Per crescere il bambino deve far fronte a una

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© Edizioni Scientifiche Italiane199 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso scissione fra il mondo culturale familiare (il mondo dell’affettività) e il mondo esterno come quello scolastico: il mondo della razionalità, del pragmatismo (Moro 2009). Questo dualismo è evidente anche nella scelta, da parte di diverse famiglie africane da me frequentate, di dare due nomi al bambino: uno africano, che lo identifica all’interno della comunità straniera, e uno italiano, che lo identifica nel paese ospitante. In una situazione di doppia appartenenza, il primo bisogno è quello di confrontarsi con le proprie origini. Diverse ricerche hanno analizzato come l’alunno di origine straniera utilizzi strategie molteplici di accul- turazione nei confronti del mondo percepito come avente maggiore pre- stigio sociale: assimilazione, separazione, integrazione, marginalità (Bourhis 2007). Tali strategie non sono solo percorsi individuali ma anche di gruppo, perché coinvolgono il comportamento dei membri della comu- nità ospite e dei membri della comunità immigrate. Si realizza così un processo dinamico e interattivo nel quale l’atteggiamento di un gruppo è fortemente influenzato dall’atteggiamento dell’altro. Secondo il modello di acculturazione interattiva (Interactive Accul- turation Model, IAM) di Richard Y. Bourhis (2007), tali strategie ten- dono a variare in funzione di diversi fattori: il gruppo di origine, la classe sociale, l’età, il sesso, il grado di identificazione con il proprio gruppo etnico di appartenenza, le effettive possibilità di mobilità sociale nel con- testo ospitante. La ricerca si è focalizzata su 3 indicatori al fine di studiare la di- mensione dell’acculturazione: le preferenze culturali e le abitudini dei bambini, il rapporto con il paese di origine dei genitori e il bilinguismo. I bambini stranieri che ho avvicinato sono nati e cresciuti in Italia. Di conseguenza le loro preferenze culturali e le loro abitudini sono molto simili a quelle dei loro coetanei italiani. Amano la stessa musica, fre- quentano gli stessi posti ed entrambi sentono, in egual misura, il peso di vivere in un luogo inadeguato. Dai loro racconti emerge il desiderio di scappare, di vivere in un posto migliore, in cui vi siano spazi per gio- care e correre liberamente, senza spazzatura e senza la presenza costante di «cattive persone». Castel Volturno non è posto per un bambino: se cammina lungo la Domiziana non è raro che venga molestato da pedo- fili in cerca di avventure. Questa situazione spinge molte mamme a rin- chiudere i loro figli in casa. Un esempio è Praise, un bambino di ori- gine nigeriana che frequenta la quinta elementare. La madre è terroriz- zata che gli possa capitare qualcosa e, una volta uscito da scuola, lo chiude in casa senza permettergli di uscire e frequentare i coetanei. Praise è così incapace di stabilire relazioni equilibrate: o se ne sta da solo o aggredisce i coetanei.

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ISSN 1594-5472200 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno

Avere le stesse preferenze culturali e le stesse abitudini dei loro com- pagni di scuola italiani non significa per i piccoli figli di migranti rom- pere completamente i legami con la cultura di origine. Queste sono man- tenute vive dai loro genitori. Abimbola mi racconta con entusiasmo che in famiglia si festeggia il Natale sia all’italiana sia alla nigeriana. Mi parla dell’abbondanza dei cibi natalizi, dove quelli napoletani si aggiungono a quelli nigeriani, e delle combinazioni più riuscite, come, per esempio, l’igname o yam (tubero) cucinato nel ragù. Ogni famiglia straniera cerca di mantenere vivo il legame con la terra di origine, facendovi ritorno possibilmente almeno una volta all’anno. I bambini stranieri presenti nelle due classi in cui ho lavorato sono stati in Nigeria, ma solo uno ricorda il nome della città (Lagos). Dai loro racconti emergono sentimenti contrastanti: da una parte sono incuriositi dal mondo da cui provengono i loro genitori, ma dall’altra ne possono essere anche molto spaventanti. Praise mi racconta di una Nigeria «brutta», dove «si uccidono le persone». Emmanuel ricorda la sua festa di com- pleanno a casa dei nonni, in Benin, come una festa molto bella, «piena di gente», ma poi s’incupisce all’improvviso e dice che lui «odia la po- lizia», perché pretende i soldi dalla sua famiglia. Emerge sempre qual- cosa di oscuro e di pauroso quando i bambini mi parlano dei loro viaggi in Africa, probabilmente perché i loro genitori hanno l’abitudine di mi- nacciarli a fini educativi: «Se non ti comporti bene, ti lasciamo qui e noi partiamo». Il contatto tra mondi e culture differenti, di cui il bambino fa espe- rienza a Castel Volturno, ha un riscontro assai interessante e complesso sul piano linguistico, piano che meriterebbe attenzione esclusiva. Se è vero che per lo più il bambino si trova immerso in una situazione di diglossia (per esempio la varietà linguistica locale africana, parlata a casa dai genitori, di uso circoscritto e di minore prestigio, e l’italiano che si parla a scuola), è anche vero che è esposto alle lingue nazionali dei paesi africani (soprattutto inglese e francese), che sono lingue di prestigio e di insegnamento scolastico. Né si deve dimenticare l’esposizione al napo- letano di cui il bambino pure fa esperienza quando parla con i coetanei al di fuori dell’ambito scolastico. Si tratta di situazioni dinamiche di grande complessità, in cui i bambini migranti non sono sempre attori passivi. Ho notato per esempio che sono entrati nel lessico comune dei bambini da me frequentati espressioni come u de mate, u de cresi («tu sei matto», «tu sei pazzo»), come esiti di uno slang che prevede anche apporti creativi stranieri (Hewitt 1986; Rebughini 2004).

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© Edizioni Scientifiche Italiane201 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso

4. Storie di affido a Castel Volturno

Soprattutto a Castel Volturno, la mobilità del migrante rimane alta anche nel territorio di approdo. Egli deve rincorrere il lavoro nel luogo dove ha speranza di trovarlo, che può essere più o meno lontano da dove ha trovato una casa per la sua famiglia. Si capisce dunque che la famiglia migrante è costretta per periodi più o meno lunghi (misurabili in ore o in anni) ad affidare i piccoli ad altri. A Castel Volturno si sono sviluppate forme assai informali di affidamento temporaneo dei bambini, che vanno dagli «asili» o i «doposcuola» agli «affidi» definitivi o di lun- ghissima durata. In questa sede, anche per la gravità del problema, mi soffermerò sui secondi. Ogni migrante è soggetto ad una rielaborazione della propria iden- tità, che varia a seconda della persona e dei contesti di partenza e ar- rivo. Nelle donne in particolare questo processo si accompagna alla ri- cerca di un nuovo ruolo all’interno della società di accoglienza. La donna sembra più esposta agli effetti della cultura del Paese ospite di quanto non lo sia il marito. Infatti il suo incontro costante con le strutture sociali del Paese […], se le permette da un lato di sfuggire allo spazio li- mitato della casa, dall’altro suscita in lei delle domande di fondo in rela- zione al tempo, allo spazio sociale, agli altri, al posto che occupa in seno alla coppia, dentro e fuori […]. Mi sembra necessario ricordare che […] questa rivendicazione non esprime il desiderio di adottare valori occiden- tali né tantomeno di rompere con quelli della tradizione, essa si pone piut- tosto nell’attesa di una flessibilizzazione di quei punti di repère fondamen- tali che hanno fondato la coppia (Yahyaoui 1997).

È interessante notare come la stessa maternità, inserita in un conte- sto di migrazione, sia soggetta a processi di trasformazione. In tutti i paesi del mondo la donna durante la gravidanza e il parto è accompa- gnata dalla famiglia e, nel caso di moltissime società africane, dall’intera comunità. In particolare le donne della comunità hanno il compito di guidare la nuova mamma. Marie Rose Moro le definisce «co-madri» (Moro, 2009): la madre, la suocera, le sorelle, le cognate, le vicine di casa, ac- compagnano le neomamme nel cammino di crescita del bambino affin- ché impari a essere madre secondo il modello della società di apparte- nenza. Avere un bambino in un paese straniero comporta quindi una condizione di vulnerabilità, perché viene a mancare il sostegno del gruppo esteso. Durante il mio lavoro a Castel Volturno, ho conosciuto molte donne

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ISSN 1594-5472202 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno di origine nigeriana che, trovandosi sole ad affrontare gravidanza e man- tenimento del bambino, hanno chiesto aiuto a famiglie italiane. Le dif- ficoltà di conciliare lavoro ed educazione dei figli porta queste donne ad affidare i propri bambini alla famiglia italiana che ritengono più adatta, dando origine a un sistema di affidi, non regolarizzati dalla legge, e a dinamiche familiari molto difficili anche da descrivere. Riporterò in questo paragrafo le testimonianze di due madri italiane che hanno allevato bambini stranieri e che rappresentano due condizioni molto diffuse sul territorio di Castel Volturno: la prima è la storia di Claudia2, sposata, con due figli naturali e una bambina in affido, Time, la cui madre biologica, di origine nigeriana, vive a Castel Volturno. La seconda testimonianza riguarda Nunzia, che convive con un compagno da cui non ha avuto figli naturali, ma con cui ha cresciuto tre bambini nigeriani di mamme diverse. Claudia era vicina di casa di Joi, madre di Time. Senza marito e con due bambini piccoli, un maschio di pochi mesi e una femmina di quat- tro anni, Joi chiedeva a Claudia di poterle affidare i figli almeno per la notte, essendo impegnata nel lavoro. Claudia accoglieva per lo più solo uno dei due bambini, ma col tempo si affezionò sempre più a Time, che riportava a Joi una volta alla settimana, poi una volta al mese e poi solo per le vacanze estive durante il mese di agosto, benché Joi abitasse e an- cora abiti a Castel Volturno. Sono ormai otto anni che Claudia si oc- cupa di Time notte e giorno, la segue nel percorso scolastico, partecipa ai colloqui con i professori, su delega firmata da Joi, l’accompagna alle visite mediche e si preoccupa del suo futuro, pur non avendo alcun di- ritto legale. Time, che oggi ha dodici anni, si sente parte della famiglia di Clau- dia ed è in contrasto con la madre naturale. Si lamenta di lei molto spesso ed è giunta a identificare il suo malessere attraverso tre situazioni che a suo avviso si ripetono puntualmente: quando la madre naturale le dice di studiare per poter un giorno guadagnare molto e prendersi cura di lei quando sarà vecchia; quando le impone di badare alla casa in sua assenza; quando la obbliga a fare «da madre» al fratello minore. Le in- comprensioni tra madre e figlia sfociano spesso in scontri anche violenti, perché Joi accusa la figlia naturale di essersi «inbiancata», di compor- tarsi come fosse una bianca, e la minaccia di riprenderla con sé per sem- pre. Claudia cerca di gestire con diplomazia questi scontri, sforzandosi di far capire all’adolescente quanto sia importante rispettare la madre na- turale, contro cui lei non può nulla, non essendo stato formalizzato un affido legale, affido ostinatamente rifiutato da Joi. La precarietà emotiva in cui vive Time, la paura costante di poter

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© Edizioni Scientifiche Italiane203 ISSN 1594-5472 Anna Amoruso essere strappata alla sua madre sociale, l’impossibilità di trovare una via di uscita hanno prodotto un rifiuto del suo corpo, del colore della sua pelle e vari tentativi di somigliare fisicamente alla madre adottiva. Claudia pure si trova in una situazione che diventa ogni giorno più difficile. Spera di poter continuare ad avere Time accanto a sé e dunque non può esprimere neanche a se stessa il conflitto con Joi, da cui ac- cetta passivamente comportamenti che non condividerebbe in altre con- dizioni. Tale sua debolezza finisce per rafforzare il comportamento di Joi, le cui pretese educative sono da Claudia considerate un male mi- nore rispetto al rischio di perdere Time. Nunzia ha avuto due storie di adozioni: ha cresciuto, fin dalla na- scita, Junior e Peace, figli di Patrice, e a un anno di età Destiny, figlio di Carol. Entrambe le mamme sono di origine nigeriana. Anche Nun- zia ha conosciuto le due madri come vicine di casa. Patrice, madre di Junior e Peace, viveva col marito a Castel Vol- turno, ma era sola a lavorare. Spesso in viaggio, Patrice si trasferì a Pa- rigi dove iniziò a lavorare come commessa in un negozio. Nonostante la presenza del marito a Castel Volturno, Patrice preferì affidare i figli a Nunzia. Il padre si limitava a controllare che stessero bene. Nunzia racconta che Patrice non faceva mancare niente ai figli, ogni mese inviava soldi a lei, per il mantenimento, e regali per i bambini. I bam- bini sono cresciuti nella nuova famiglia per dieci anni. Poi, due anni fa, Patrice ha perso il lavoro a Parigi, ha fatto ritorno a Castel Volturno e, senza preavviso, si è ripresi i bambini. Per Nunzia è stato uno choc ri- trovarsi senza Junior e Peace. Ha cercato di rintracciarli tramite conoscenti; si è rivolta anche alle forze dell’ordine per denunciare la scomparsa, pur sapendo di non averne diritto. Al momento sa solo che Patrice vive a Mi- lano con Junior e Peace, mentre il marito è rimasto a Castel Volturno. Il percorso di affido di Destiny ha avuto per Nunzia un esito di- verso. La madre naturale, Carol, dopo averle affidato il bambino, fu ar- restata e rimpatriata in Nigeria. Secondo Nunzia si è trattato di una scelta deliberata di Carol, perché al figlio fosse garantito un futuro mi- gliore. La legge italiana prevede che ogni minore non accompagnato debba essere segnalato alla procura della Repubblica, presso il Tribunale dei minorenni, cosa che Nunzia non ha fatto nel timore che il giudice competente non le confermasse l’affido del suo Destiny. Al momento può esibire solo una lettera della madre naturale, Carol, nella quale c’è scritto che le affida il figlio. Un legale attualmente sta seguendo questa storia non solo per far ottenere un permesso di soggiorno per motivi di studio a Destiny, ma anche per regolarizzare l’affido.

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ISSN 1594-5472204 © Edizioni Scientifiche Italiane Nascere «stranieri» a Castel Volturno

Il fine di queste pagine era mostrare sinteticamente, con pochi esempi di vita vissuta, la complessità di situazioni che può nascondersi dietro le difficoltà di inserimento scolastico di un bambino figlio di migranti. Ogni esperienza di affido informale che ho potuto seguire stenta a pro- porsi come modello «riuscito», per presentarsi invece come uno degli infiniti esiti possibili di una negoziazione dove i fatti economici, lavo- rativi, residenziali, familiari si scaricano sulla parte più debole degli at- tori sociali: i bambini e gli adolescenti, non garantiti né dalla legge ita- liana, né dalla legge o dalle consuetudini familiari del paese di origine. Se infatti ci si mette dalla parte dei minori, il bene contrattuale delle loro madri, la fecondità naturale, con cui si risarciscono della loro minorità sociale, non ha mai un esito accettabile. Non ha un esito accettabile quando la madre vede nel figlio un soggetto subalterno, da piegare alle dure necessità della sua vita presente e futura (come nel caso di Joi). E non ha un esito accettabile quando l’emancipazione economica e cultu- rale della donna e della moglie (Campani 2000), moltiplicata dalla sua capacità naturale riproduttiva, la pone in una condizione di «strapotere» nei confronti del marito disoccupato e della madre castellana affidataria (come nel caso di Patrice), perché il minore si vede sottratto improvvi- samente e per sempre a una delle due madri. Ciò che accomuna tutte le storie di affido informale di cui ho espe- rienza è il fatto che la dimensione affettiva dei bambini e degli adole- scenti assorbe la violenza derivante da «soluzioni» basate sempre e co- munque sui rapporti di forza, rapporti che, sottratti alla legge come alle consuetudini socialmente condivise, stentano a tradursi in rapporti di senso. Per quanto ho potuto constatare a Castel Volturno, anche gli espe- rimenti informali, cioè non scolastici, nei modi di prendersi cura dei bambini, attraverso il «reticolo di sostegno e di mantenimento dell’i- dentità» Tognetti Bordogna (1991), cioè secondo reti basate sulla comu- nanza linguistica, religiosa, abitativa, non presentano soluzioni confor- tanti. Se è vero che non producono esiti drammatici, come nel caso de- gli affidi informali, tendono pur sempre a staccare i minori dalle op- portunità di futuro che la scuola italiana potrebbe garantire.

1 Dati forniti dalla scuola elementare «Castel Volturno centro», A.A. 2011/2012. 2 Ovviamente ho dato nomi fittizi alle persone di cui qui parlo.

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© Edizioni Scientifiche Italiane205 ISSN 1594-5472 MIGRANTI AFRICANI DI CASTEL VOLTURNO

Razzismo e antirazzismo nel casertano. Studio di caso sul Centro Sociale Autogestito Ex-Canapificio CHIARA BROCCO

Sin dalla metà degli anni Ottanta la provincia di Caserta è stata at- traversata da fenomeni migratori di notevole rilevanza. Nel 2010 l’Or- ganizzazione Internazionale per le Migrazioni stimava che nel casertano risiedessero circa 15.000 migranti1. Nell’intera provincia essi rappresen- tano il 3,5% della popolazione totale, la percentuale più alta di tutta la regione2. In particolare, la cittadina di Castel Volturno, oltre che un au- mento costante della presenza straniera, vede concentrata al suo interno la densità migratoria percentualmente più elevata3, con una composizione etnica in cui primeggiano le popolazioni provenienti dall’Africa sub- sahariana (nigeriani e ghanesi in testa). È indubbio che un fenomeno di tale portata abbia modificato il pae- saggio urbano e con esso l’insieme delle relazioni che attengono all’e- conomia, alla politica e alla cultura di un territorio dal tessuto sociale complesso e che, nonostante l’enorme potenzialità produttiva, fa i conti con la presenza di vaste fasce di popolazione in condizioni di precarietà e con un sistema di criminalità organizzata che incide sul controllo so- ciale ed economico della zona. Se la produzione giornalistica e divulgativa sulla questione immigrati appare prolifica, soprattutto in corrispondenza di fatti dei cronaca che hanno colpito drammaticamente la comunità straniera nell’area di Ca- stel Volturno, le scienze sociali cominciano solo negli ultimi anni a in- teressarsi allo studio delle migrazioni e dei suoi effetti in quest’area, ma le pubblicazioni esistenti risultano ancora dispersive e scollate da una prospettiva sistemica di studi approfonditi che la dirompenza sociale dei fenomeni osservati richiederebbe.

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ISSN 1594-5472206 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano

L’arrivo e l’insediamento di migliaia di migranti, spesso irregolari, la- voratori a nero nelle campagne o nei cantieri edili della zona, residenti in accampamenti in prossimità dei centri urbani o in case diroccate e ab- bandonate o in appartamenti sovraffollati affittati a canoni al di sopra del prezzo di mercato, ci mettono di fronte una situazione di irriducibile bi- sogno sociale; bisogno a cui le istituzioni sono incapaci di rispondere, se non puntualmente, mettendo in campo operazioni repressive e securita- rie, inefficaci anche per la regolazione del fenomeno nell’immediato. È in questa vacanza istituzionale che sono sorte nel casertano decine di associazioni umanitarie, di ispirazione laica, religiosa, politica e sin- dacale che cercano di supplire, non senza difficoltà, alle carenze delle politiche pubbliche per ciò che riguarda l’accoglienza, l’assistenza e l’ac- compagnamento dei migranti. Tutte le associazioni si caratterizzano per una forte impronta anti- razzista e denunciano le discriminazioni che colpiscono i migranti sul territorio, costruendo talvolta collettivamente iniziative di contestazione. Nel corso degli anni l’associazionismo antirazzista ha consolidato le proprie strutture, diventando da una parte un soggetto sociale di fon- damentale supporto per i migranti, dall’altro un interlocutore ineludibile per le istituzioni locali e nazionali. Con il presente contributo, parziale e non esaustivo, partendo dal presupposto che l’antirazzismo si attiva là dove sono diffuse pratiche di- scriminanti e definibili come razziste, analizzerò dapprima le declina- zioni del razzismo nell’area di Castel Volturno, per poi mostrare i ri- sultati di uno studio di caso, che riguarda l’esperienza antirazzista del Centro Sociale Autogestito Ex-Canapificio di Caserta e del Movimento migranti e rifugiati che ne è una diretta emanazione. La metodologia che ho utilizzato è la ricerca sul campo, che ho ef- fettuato nella struttura nei mesi di maggio e settembre 2012, basata sul- l’osservazione delle attività svolte e sulla raccolta delle testimonianze di alcuni attivisti4. Nello specifico ho inteso indagare i contenuti, le strategie e le forme delle pratiche antirazziste messe in campo; le modalità di interazione co- struite con i migranti; gli esiti che queste azioni hanno sui soggetti a cui esse si rivolgono e su una parte della popolazione autoctona, riuscendo a veicolare una nuova rappresentazione dell’Altro. Dinamiche che rivestono un interesse particolare, poiché sorgono al- l’interno di una struttura, un centro sociale occupato e autogestito, che, date la sua natura e la sua storia peculiari, per legittimarsi e affermarsi ha necessitato di un processo di negoziazione durevole con le istituzioni e con la cittadinanza.

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Nello studio, la prospettiva situazionale5 mi è sembrata la più ap- propriata per individuare chiavi interpretative utili alla comprensione dei fenomeni osservati e alla loro messa in relazione con le nozioni teori- che costruite intorno ai concetti di razzismo e antirazzismo6.

1. Situazioni di razzismo nel casertano

Nelle pagine che seguono analizzerò da un lato i fattori di esclu- sione residenziale, dall’altro quelli di esclusione sociale subiti dai mi- granti nel casertano. Sono infatti questi i presupposti che li rendono og- getto di discriminazione e che denotano come siano attive sul territorio forme di razzializzazione sociale, che non di rado si esprimono attra- verso discorsi e atti violenti, di stampo razzista. L’osservazione del modo di vita dei migranti africani a Castel Vol- turno esemplifica l’esistenza del paradosso razziale, inteso come la con- traddizione in atto tra l’inesistenza biologicamente dimostrata delle razze umane e l’esistenza di gruppi umani razzializzati nella società7. Se la razza non esiste scientificamente, le discriminazioni legate a essa conti- nuano a essere operative socialmente e ci informano sull’efficacia della sua costruzione sociale e sulle trasformazioni che assume in epoca con- temporanea. Oggi la razzializzazione consiste nell’insieme delle pratiche e delle rappresentazioni discriminatorie basate sull’interpretazione di tratti fenotipici, che traducono la comune origine di un gruppo umano. Questo processo è sempre iscritto entro rapporti di dominazione/su- bordinazione regolatori del quotidiano e nasce da un’assegnazione cate- goriale operata dal gruppo dominante. Gli individui parlano e agiscono rispetto ad altri individui come se la razza esistesse. Il processo di razzializzazione, inoltre, si potenzia attraverso le mol- teplici forme su cui si costruiscono le differenze. Oltre all’origine, al co- lore della pelle, al genere, si aggiungono la classe sociale, la religione, la cultura e le loro relative essenzializzazioni. Si tratta di una serie di fat- tori che fabbricano le “frontiere interne” della società, limiti invisibili che designano la nazione non più come territorio geografico abitato da una collettività giuridicamente costituita, ma come spazio simbolico della comunità immaginata che attinge al serbatoio dell’immaginario, gli ele- menti per reificare le differenze tra noi e gli altri8.

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ISSN 1594-5472208 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano

1.1. Esclusione residenziale La situazione abitativa di un gruppo sociale rappresenta un elemento di osservazione suscettibile già di informarci sul grado di adattamento e inserzione del gruppo nel contesto sociale. I primi migranti, soprattutto africani, che arrivarono negli anni ’80 nel casertano trovarono l’unica possibilità di rifugio e di alloggio a Villa Literno, nei pressi della Domiziana, la strada che congiunge il paese a Castel Volturno, in un agglomerato di capanne di lamiera e di vecchie roulotte intorno a due stabili diroccati. L’area, oltre all’assenza di servizi primari, presentava tutti i tratti di una bidonville ed è stata definita “ghetto” sia dai suoi abitanti, sia dal resto della popolazione. Nel corso degli anni ’90 la superficie del ghetto, con l’arrivo di al- tri migranti, aumentò progressivamente, arrivando ad accogliere 2.000 persone. Quella che possiamo definire prima età della migrazione vide Villa Literno come principale insediamento e si caratterizzò altresì per la presenza di profili migratori che diedero vita a una circolazione di manodopera translocale stagionale nel Meridione d’Italia. Il ghetto ha rappresentato il punto di partenza e di ritorno per migliaia di braccianti che, adattandosi al ciclo delle stagioni agricole, percorrevano annualmente un itinerario che li conduceva in Calabria per la raccolta degli agrumi e in Puglia per quella del pomodoro e delle olive. Il ghetto fu, in generale, sempre mal tollerato dalla popolazione lo- cale. I migranti erano sistematicamente vittime di scherno e non di rado di azioni violente. Nell’agosto del 1989 Jerry Essan Masslo, un rifugiato politico sudafricano, fuggito dalle ingiustizie del regime dell’apartheid, fu barbaramente ucciso da un gruppo di giovani locali. L’avvenimento, nella sua drammaticità, ebbe l’onere di riconnettere la dimensione na- zionale di un paese, che proprio in quegli anni si scopriva terra di im- migrazione, con un contesto locale segnato dalla rapida crescita della densità migratoria e dalle enormi conseguenze di disuguaglianza e di- scriminazione sociali a essa correlate. La grande manifestazione antirazzista del 7 ottobre 1989 a Roma, organizzata come reazione immediata all’omicidio di Masslo, fu il sim- bolo della rilevanza nazionale acquisita dai fenomeni migratori e rap- presentò la data storica di nascita del processo di strutturazione del mo- vimento antirazzista italiano. A cinque anni dall’omicidio di Jerry Masslo, il ghetto di Villa Li- terno, dopo un incendio, venne definitivamente sgomberato, acconten- tando così le sempre più pressanti richieste della popolazione locale. Se con l’eliminazione del ghetto gli autoctoni puntavano ad allonta-

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© Edizioni Scientifiche Italiane209 ISSN 1594-5472 Chiara Brocco nare definitivamente i migranti dalla zona, in realtà, questi ultimi si spo- starono solo di pochi chilometri, sempre in prossimità dell’arteria Do- miziana, che attraversa varie frazioni fino a Castel Volturno. Questo passaggio segna la nascita di una seconda età della migra- zione che si mostra ambivalente. Da un lato essa si contraddistingue per una maggiore stanzialità dei migranti, che oltre al bracciantato agricolo sono occupati nel comparto dell’edilizia, dall’altro lato si caratterizza per una sostanziale continuità della loro ghettizzazione residenziale. In quest’area urbana costiera hanno avuto luogo, a partire dagli anni ’60, massicci interventi edilizi speculativi, con la costruzione di svariati hotel, residence e palazzi, molti dei quali abusivi. Ciò corrispondeva al progetto di trasformare Castel Volturno in un centro turistico balneare ad alta ricettività, progetto che naufragò ben presto, lasciando il territo- rio deturpato dalla cementificazione selvaggia e migliaia di alloggi sfitti. Negli anni ’80 molti di questi edifici sono stati requisiti per ospitare temporaneamente le migliaia di sfollati delle crisi bradisismiche di Poz- zuoli e del terremoto dell’Irpinia. Successivamente gli alloggi tornarono a essere abbandonati e quando il degrado urbano si è incrociato con le condizioni di disagio sociale crescenti, molti di questi appartamenti e hotel sono diventati rifugio non solo dei migranti, ma anche di molte famiglie povere della zona. La messa a distanza di certe categorie etniche e sociali è visibile nella disposizione dello spazio urbano: il centro di Castel Volturno è riser- vato alla popolazione locale abbiente, le aree nei pressi della Domiziana ai migranti, in una separazione netta che ne annulla quasi il contatto. Due esempi di come il ghetto di Villa Literno sia stato trapiantato a Castel Volturno sono l’American Palace e l’Hotel Boomerang. Se la forma urbana è diversa: a Villa Literno si trattava di un accampamento, a Castel Volturno di edifici abbandonati e poi occupati, la situazione di degrado, marginalità e ghettizzazione è pressoché la stessa. L’American Palace fu una delle residenze dei militari americani di stanza in Campania fino alla fine degli anni ’80. Successivamente gli ap- partamenti di cui si compone sono stati occupati dai migranti africani senza casa. L’Hotel Boomerang presenta una situazione ancora più com- plessa, in quanto tra i suoi residenti, molti hanno ceduto alla devianza e lo spazio è così diventato zona franca per spacciatori e consumatori di stupefacenti non solo stranieri. Le forme di urbanizzazione fuori norma che si incontrano nell’area di Castel Volturno si accomunano a quei tipi di insediamenti urbani informali e precari (accampamenti, invasions, favelas, bidonville) in cui vive una parte consistente della popolazione nel mondo e ci mettono di

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ISSN 1594-5472210 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano fronte al declino o addirittura alla negazione della città. Se la città si de- finisce nella sua integralità attraverso l’insieme delle relazioni, degli scambi e delle circolazioni da cui è attraversata, la non-città diventa lo spazio della segregazione sociale e razziale e mostra cruentemente lo squilibrio nella distribuzione delle risorse, l’iniquità della pianificazione urbana e la diffusione della violenza come modo di strutturazione dei rapporti tra i suoi abitanti e quelli della città9. Spesso il processo di identificazione esterna di cui i migranti del ghetto sono oggetto induce a scambiare per barriere culturali ciò che in- vece deriva direttamente dall’esito di politiche segregative ed escludenti. Come spiega Michel Agier: «Il rifiuto dell’altro non è dovuto alla cul- tura dell’altro, e dunque alla sua conoscenza, ma a forme di pensiero ed azione, – la stigmatizzazione sociale, il confinamento territoriale e quindi il disconoscimento –, che fissano un quadro a priori di questa alterità»10. Nel contesto di Castel Volturno l’alterità prende le forme della di- versa origine etnica, del colore della pelle, della povertà: stigma che fun- zionano come la razza nel tentativo di ordinare il reale isolando le di- versità.

1.2. Esclusione sociale L’esclusione residenziale, così delineata, è connessa ad un’altra forma di emarginazione che la ingloba: l’esclusione sociale, che colpisce varie e ulteriori dimensioni della vita del migrante. Innanzitutto, le leggi dello Stato negano a gran parte degli stranieri presenti sul territorio di accedere ai diritti di cittadinanza. È sempre più difficile ottenere un permesso di soggiorno sia per coloro che lavorano, sia per coloro che sono fuggiti da situazioni di pericolo nei paesi d’o- rigine e hanno richiesto asilo arrivando in Italia. È sempre più facile per coloro a cui anni addietro era stato ricono- sciuto il diritto al soggiorno, scivolare nell’irregolarità, a causa di norme che esigono sempre maggiori garanzie che i migranti non hanno la pos- sibilità di fornire, soprattutto in anni segnati dalla crisi economica11. Nonostante ciò, gran parte dei migranti irregolari o clandestini la- vorano senza essere dichiarati, in nero. Questo tipo di trattamento dei migranti, che da un lato non vengono giuridicamente accettati sul terri- torio nazionale e dall’altro continuano a essere inclusi, loro malgrado, negli interstizi del mercato del lavoro sommerso, è la spia dell’operati- vità di una sorta di razzismo istituzionale12 che si nutre ed è nutrito, a sua volta, da forme di razzismo popolare, di cui lo studio sui migranti nell’area di Castel Volturno offre un esempio significativo.

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In questo senso, la condizione dei migranti si accosta a quella di non-persone, poiché con la loro esclusione dal sistema giuridico nazio- nale e dall’accesso alla cittadinanza, a essi sono negati i presupposti es- senziali per lo sviluppo della personalità sociale e per il dispiegamento di relazioni e legami sociali su base egalitaria13. Il sistema neoliberale per autoconservarsi e aumentare i profitti uti- lizza la segmentazione del mercato del lavoro, alimentata dallo sfrutta- mento di manodopera precaria, sottopagata e priva di tutele. Il razzismo diventa quindi la “formula magica” per assicurare il po- tenziamento di accumulazione del capitale, perché, da una parte per- mette di rendere minimi i costi della forza lavoro e dall’altra riduce le possibilità di spinte di rivendicazione dei lavoratori14. Per l’incidenza che questo fenomeno ha nell’area di Castel Volturno, essa è stata a giusto titolo definita da Francesco Caruso «distretto della clandestinità», nozione che sintetizza la vitalità di un particolare sistema di produzione diversificato, che valorizza lo sfruttamento di manodopera irregolare attraverso «un complesso coerente di prassi e pratiche legali e illegali» che partecipano alla strutturazione del modello economico15. Tra queste pratiche si annovera il caporalato, una forma illecita di reclutamento e sfruttamento della manodopera migrante, praticata quo- tidianamente dai padroni o dai loro intermediari stranieri (caponeri) che si recano quotidianamente presso le rotonde della Domiziana, ribattez- zate Kalifoo Ground16, per assoldare squadre di lavoratori da impiegare nei campi o nei cantieri edili con una remunerazione che si aggira in- torno ai venti euro a giornata17. In questo senso ciò che definisco razzismo istituzionale, pur in as- senza di una vera e propria ideologia razziale codificata, corrisponde a quel processo che etnicizza il lavoro nero e iscrive i migranti irregolari in posizione di inferiorità all’interno di una logica di gerarchizzazione e sfruttamento. A questa si accompagna la logica di differenziazione che tende a espellere o, quando ciò non è possibile, almeno a separare dal corpo sociale gli stessi migranti, suscettibili di minarne l’integrità18. In una tale situazione è facile per alcuni cittadini locali sentirsi le- gittimati ad attivare quelle forme elementari di razzismo che sono espres- sione del pregiudizio, ma possono giungere a manifestarsi con episodi cruenti di violenza fisica. Come a Villa Literno, anche a Castel Volturno è stato un avveni- mento eclatante nella sua drammaticità a dare un’eco mediatica interna- zionale alla particolare e problematica situazione sociale vissuta da mi- granti e autoctoni. La strage di Castel Volturno del 18 settembre 2008, in cui furono

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ISSN 1594-5472212 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano barbaramente uccisi a colpi di kalashnikov da un comando di camorri- sti sei giovani lavoratori africani, rappresenta il vertice di una parabola di violenze subite dai migranti. Si sono verificati numerosi casi di aggressione contro gli africani, spesso non denunciati, per timore, proprio perché la loro condizione di clandestini li scoraggia persino dall’accedere alle cure mediche. A più riprese, i migranti sono stati bersaglio di violenze con armi da fuoco, di rapine, spesso perpetrate dagli stessi caporali19. Se la sentenza del tribunale ha condannato gli autori della strage con l’aggravante dell’odio razziale, le reazioni dei rappresentanti istituzionali e della società dopo l’eccidio tendevano quasi a minimizzare l’accaduto, riducendolo a un regolamento di conti per il controllo del traffico di droga e insinuando una corresponsabilità da parte delle vittime, definite a torto, “trafficanti”. La verità processuale ha dimostrato che all’origine di quella violenza efferata c’era la volontà di ribadire un ordine sociale gerarchico nel ter- ritorio, fondato sulla razza e sul predominio dei bianchi sui neri che giustificava la distruzione di questi ultimi. A queste forme di violenza razzista spontanee o organizzate, se ne aggiungono altre che rilevano di un piano simbolico e discorsivo, e che, pur essendo meno brutali perché non attentano all’integrità fisica delle vittime, non vanno minimizzate, poiché fomentando il clima di ostilità verso gli stranieri, creano terreno fertile per lo svilupparsi delle aggres- sioni fisiche. L’idea che le vittime della strage fossero anch’esse criminali parte da una credenza popolare, che le stesse istituzioni locali hanno corroborato per lungo tempo. Un documento approvato a larga maggioranza dal Consiglio comunale di Castel Volturno nel settembre 2010, a due anni dalla strage, motiva la contrarietà del sindaco alla deposizione di una scultura commemorativa delle vittime dell’eccidio, asserendo che «[…] una verità definitiva processuale che chiarisca i ruoli esatti dei protago- nisti di questa triste vicenda al momento non esiste e vi sono molti lati oscuri che obbligano un’Amministrazione pubblica ad un comporta- mento prudente»20. Il fatto che alcuni migranti africani nella zona di Castel Volturno siano collusi con reti mafiose locali e internazionali, che gestiscono il mercato della droga e della prostituzione funge, qui, da base conoscitiva parziale per criminalizzare la generalità della comunità migrante. Questo meccanismo traduce la fabbricazione di un vero e proprio pregiudizio razziale21, dato che non esiste un nesso tra l’idea che esso veicola e la conoscenza reale di coloro a cui esso è rivolto.

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Lo stesso documento istituzionale continua sciorinando un coacervo di preconcetti. I migranti sono designati come la causa finale del de- grado del territorio. L’arrivo degli «extracomunitari» viene definito a più riprese un’«invasione» che sarebbe stata dirottata in quella zona «dove il concentramento rendeva alle organizzazioni criminali tutto più facile, per meglio gestire in affari con la camorra il traffico internazionale di droga, il traffico degli esseri umani per ridurli in schiavitù, lo sfrutta- mento della prostituzione […]»22. Quelle attività commerciali (internet point, saloni di acconciatura, sartorie, ecc.), ormai tradizionalmente gestite dai migranti, vi sono ad- ditate come copertura di altre attività illecite. Il documento si chiude con una successione di dati percentuali non scientifici, che riducono la rap- presentazione della totalità degli immigrati a una massa di evasori, de- linquenti e approfittatori del sistema degradato con la complicità delle associazioni antirazziste23. Questo può essere un chiaro esempio di come gli stessi rappresen- tanti istituzionali siano fautori e diffusori di senso comune applicato agli stranieri, cioè di una logica che fabbrica il mondo nel momento stesso in cui lo descrive, nutrendosi di giudizi e valutazioni che, seppur sprov- visti di evidenza scientifica, hanno la capacità di radicarsi socialmente fino a essere creduti veri e indiscutibili. In un tale clima di ostilità il razzismo popolare trova vari spazi per esprimersi. Significativa è l’opinione di alcuni castellani su un autobus che si la- mentano con veemenza della presenza massiccia di africani sui mezzi di trasporto locali, o ancora l’atteggiamento di certi giornalisti che, durante la manifestazione dei migranti successiva alla strage, si rifiutavano di ascoltare le loro testimonianze in inglese, esigendo che si esprimessero in italiano. Se all’interno della comunità migrante gli africani onesti si sentono vittime ingiustamente colpevolizzate a causa di quei connazionali che hanno scelto, per comodità economica, la scorciatoia della devianza e della criminalità, nella percezione e nei discorsi degli autoctoni, invece, l’immigrazione è vissuta come un problema che «occupa molto più spa- zio di quello della camorra, che pure agisce in modo plateale ed è ben radicata in quegli stessi luoghi»24.

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ISSN 1594-5472214 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano

2. L’Ex-Canapificio, spazio sociale autogestito e laboratorio di anti- razzismo

Le associazioni antirazziste nel casertano sono numerose e di diversa ispirazione: religiosa, sindacale, politica, umanitaria. Variegati sono i campi e le modalità di azione a cui ciascuna si dedica quotidianamente. Tra quelle di ispirazione religiosa ci sono il Centro donazione “Fernandes” a Castel Volturno, importante struttura gestita dalla Caritas diocesana, centro d’ac- coglienza residenziale per migranti in situazione di estrema precarietà che offre, tra l’altro, corsi di lingua italiana gratuiti; l’associazione Black and White dei padri Comboniani che si occupa per lo più di minori migranti e figli di immigrati e gestisce una scuola per l’infanzia; la Casa di Ruth a Caserta che accoglie e sostiene le donne vittime della tratta. Tra quelle di ispirazione prettamente umanitaria figura l’Associazione Jerry Masslo che offre assistenza sanitaria ai migranti nei locali del centro “Fernandes”. Delle strutture di ispirazione sindacale fanno parte gli “sportelli immigrati” dei maggiori sindacati italiani, uffici che offrono assistenza legale ai migranti per accompagnarli nel lungo percorso verso l’ottenimento del permesso di sog- giorno. Tra le associazioni politiche sono attive l’Associazione 3 Febbraio, che svolge opera di sensibilizzazione tra i migranti per orientarli verso pratiche di rivendicazione dei diritti, e il Movimento migranti e rifugiati del Centro Sociale Autogestito25 Ex-Canapificio di Caserta su cui si con- centra la mia ricerca. Tutte partecipano a un fine ultimo che è quello del miglioramento delle condizioni di vita dei migranti e, pur mante- nendo ciascuna la propria identità, non di rado esse si sono coordinate, in questi anni, nella costruzione di alcune manifestazioni importanti a difesa degli immigrati. Ho scelto di approfondire lo studio sull’attività antirazzista del CSA di Caserta incuriosita dalle sue peculiarità. La struttura, particolare per la sua natura politica, la sua storia e le pratiche messe in campo, non gli hanno impedito di relazionarsi e integrarsi attivamente con le altre realtà dell’antirazzismo succitate, spesso assumendo un ruolo trainante, e di stabilire un dialogo con le istituzioni. L’Ex-Canapificio, nato nel 1998 a Caserta, dopo un’esperienza pro- dromica di tre anni in un altro luogo, l’Ex-Macello, si iscrive nella tradi- zione storica di quei movimenti sociali italiani di estrema sinistra, che, a partire dalla metà degli anni ’70, diedero vita alle esperienze dei Centri So- ciali Occupati e Autogestiti (CSOA), con l’obiettivo di creare nuove forme di aggregazione e partecipazione popolare, alternative a quelle tradizionali e istituzionali, all’interno di aree dismesse e rivivificate dopo l’occupazione.

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Il CSA Ex-Canapificio, all’attività di promozione della partecipazione cittadina e di quartiere ha unito nel corso degli anni un impegno siste- matico a sostegno dei numerosi migranti presenti sul territorio. L’anti- razzismo, categoria entro cui gli stessi attori del CSA si rappresentano e definiscono la molteplicità di azioni che essi mettono in opera, coin- volgendo direttamente i migranti, costituisce ormai la specificità del per- corso praticato dal collettivo; un percorso che, non senza difficoltà, ha condotto la struttura a essere un punto di riferimento per la società e anche per le istituzioni. Nella parte che segue tratteggerò le fasi salienti, i modi e le forme, attraverso cui l’Ex-Canapificio, in poco più di dieci anni, ha acquisito prima di tutto una legittimazione nella collettività locale, e si è poi con- traddistinto come “laboratorio di antirazzismo” che concepisce il mi- grante come potenziale artefice della sua emancipazione. Si vedrà altresì che il confronto stabilito con le istituzioni, pur po- nendosi come un’ambiguità, data la natura antisistemica e antiistituzio- nale propria dei CSA, può rappresentare in questo caso una mediazione necessaria e utile per il raggiungimento dei fini delle lotte rivendicative dei migranti.

2.1. Ricerca di legittimazione sociale Come la maggior parte dei collettivi che sono alla base della crea- zione dei Centri sociali italiani, anche gli attivisti dell’Ex-Canapificio di Caserta si pongono come artefici del recupero e del riutilizzo sociale di un’area urbana dismessa e abbandonata, che ricorda una fase storica, in questo caso quella della lavorazione industriale della canapa nel caser- tano, ormai superata, dopo il processo di destrutturazione industriale e il passaggio all’epoca post-industriale. Già nel nome lasciato alla struttura sono chiare da una parte l’in- tenzione di fissare nella memoria cittadina ciò che quel luogo è stato e non è più, dall’altra la determinazione degli attivisti a rappresentarsi come trasformatori di quello stesso spazio, proponendone un riuso nuovo e lontano dalla funzione originaria. La storia del Centro sociale di Caserta parte da lontano. Nel 1995 la prima occupazione investì un’altra area dismessa, l’Ex-Macello. Fu questo primo collettivo, formato da studenti universitari e di- soccupati, ad avere l’idea di creare un Centro sociale a Caserta, una città definita dagli attivisti «provinciale, chiusa, che non offre opportunità e arretrata dal punto di vista delle dinamiche di partecipazione». Per rispondere all’esigenza di attivare nuove forme di partecipazione

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ISSN 1594-5472216 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano costruite dal basso, il collettivo promosse una battaglia per riappropriarsi di spazi abbandonati, in cui poter far politica, una politica alternativa a quella dei partiti e che a partire dalla critica totale al sistema capitali- stico, mettesse al centro la crescita della persona attraverso pratiche di aggregazione sociale e di partecipazione diretta, inedite nel territorio. L’Ex-Macello, dopo una vana trattativa con il Comune di Caserta, venne occupato in occasione di un concerto. L’appropriazione dello spa- zio comportò una fase iniziale di rottura della legalità. Successivamente il CSA ha attraversato periodi alterni in cui è stato tollerato da alcune amministrazioni comunali, messo sotto sgombero da altre, fino all’atto di forza repressivo definitivo con cui il sindaco decise di blindare l’edi- ficio e cacciare gli occupanti. Nel 1998, quindi, il collettivo riprese le mobilitazioni alla ricerca di un nuovo spazio, fino a ottenere, appunto quello dell’Ex-Canapificio, che la Regione concesse, più tardi, in como- dato d’uso. Questa prima legittimazione istituzionale, conquistata gradualmente, deriva dal processo di riconoscimento sociale, che, iniziato già ai tempi del CSA Ex-Macello è proseguito e si è consolidato nei primi anni del- l’Ex-Canapificio, e ha configurato la struttura come un’entità che ha di- ritto a esistere e ad agire, pur nella propria autonomia di gestione. Tra le iniziative finalizzate all’inclusione sociale rivolte ai cittadini dei quartieri popolari, ai ceti più deboli e marginali della società casertana, figurano l’offerta di servizi utili alle famiglie come l’assistenza dopo- scuola per i bambini, i progetti di lotta alla dispersione scolastica, la pro- mozione dell’educazione teatrale e di numerose giornate ludiche e ri- creative. Varie sono le azioni proposte a difesa dell’ambiente e del ter- ritorio come l’esperimento di una raccolta differenziata autogestita nel quartiere Acquaviva e il progetto di recupero di un’ampia area militare dismessa nel centro della città, per farne un parco fruibile dalla popola- zione. Altre attività legate alla produzione di cultura alternativa a quella mercificata e di massa coinvolgono un numero importante di frequen- tatori dall’origine sociale più eterogenea che si ritrovano negli spazi del CSA per i cineforum settimanali e i concerti. Tutto questo è espressione dell’innegabile dinamismo della struttura e della sua energia sociale che ne fondano l’apertura verso l’esterno e la sua capacità di attrazione.

2.2. Pratiche antirazziste Sin dai suoi albori l’esperienza del CSA Ex-Canapificio si è con- traddistinta per l’attenzione e le risposte date ai bisogni sociali della po- polazione non solo locale, ma anche di quella immigrata. Il percorso di

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© Edizioni Scientifiche Italiane217 ISSN 1594-5472 Chiara Brocco legittimazione portato avanti rispetto alla cittadinanza e alle istituzioni ha permesso agli attivisti di intensificare azioni a sostegno dei migranti coniugando varie forme di antirazzismo: istituzionale, di mobilitazione e culturale. Il primo incontro che gli attivisti ebbero con la comunità migrante avvenne attraverso l’Associazione dei Senegalesi di Caserta nel 1995. Già allora era attivo nel CSA uno sportello di consulenza per gli stranieri. All’epoca era stato promulgato il decreto Dini, primo provvedimento le- gislativo finalizzato a ridurre l’immigrazione rendendola temporanea e funzionale alle esigenze produttive del paese, un decreto che rappresenta la base dei successivi provvedimenti tesi a contrastare progressivamente l’ingresso di nuovi stranieri in Italia e a rendere sempre più difficile la regolarizzazione di coloro che si trovano sul territorio senza permesso di soggiorno. Di fronte all’attacco istituzionale e legislativo contro i migranti e in un contesto sociale che vede la loro separatezza dagli autoctoni e la dif- fusione di situazioni di razzismo come i fenomeni descritti nella prima parte del testo, il CSA comincia a rappresentare un punto di riferimento per i più vulnerabili. La struttura organizzativa tipica del CSA, non gerarchica ma oriz- zontale e reticolare, che si fonda sulla democrazia diretta e sulla forma assembleare ha permesso ai migranti di scoprire uno spazio inedito in cui sperimentare la capacità di autodeterminarsi. Un passo importante nel processo di autodeterminazione è stato il costituirsi in Movimento migranti e rifugiati, che pur iscrivendosi a pieno titolo all’interno delle molteplici esperienze del CSA, conserva una pro- pria soggettività e un modo di affiliazione gestito dai migranti stessi e formalizzato con la consegna di una tessera. Secondo Pierre-André Taguieff26 il rischio dell’antirazzismo è quello di conferire legittimità al razzismo, limitandosi a combatterlo con la co- struzione di un processo mimetico, che utilizza in senso contrario gli stessi argomenti che si prefigge di contrastare. Difatti, da un lato, nella risposta differenzialista al razzismo, l’atten- zione al rispetto delle differenze culturali, esplicitandosi come un elogio delle culture altre, genera la medesima essenzializzazione che è alla base della razzizzazione sociale, quindi dei discorsi e dei comportamenti raz- zisti; dall’altro lato, gli argomenti usati contro il razzismo universalista, accusando «l’Occidente di essere, per definizione, unico fautore e bene- ficiario del razzismo e di realizzarsi nella storia attraverso la domina- zione imperiale, lo sfruttamento economico, la discriminazione razziale e gli stermini di massa»27, non fanno altro che assolutizzare il pensiero

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ISSN 1594-5472218 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano antioccidentalista in maniera dogmatica con la rinuncia alla riflessione e alle analisi critiche, che sarebbero invece necessarie per uscire dalla sem- plificazione binaria e dicotomica per cui il razzismo è il male assoluto e l’antirazzismo il suo contrario. I risultati della ricerca sul campo, effettuata all’Ex-Canapificio, hanno permesso di capire come le numerose azioni di rivendicazione, e di di- fesa dei migranti, proposte e praticate sistematicamente da anni, pur iscri- vendosi nel perimetro ideale dell’antirazzismo, cerchino di superarne le criticità teoriche. Le pratiche antirazziste messe in campo individuano i loro punti di forza nell’aderenza alla realtà sociale, nell’investigazione e nella conoscenza dei meccanismi che la regolano sul territorio. Il lavoro del CSA, orientato a lottare contro le diseguaglianze so- ciali subite da quelle fasce di popolazione escluse dalla cittadinanza at- tiva, si fonda sulla pratica di indagini conoscitive e etnografiche, svolte localmente dagli stessi attivisti. Ormai da più di dieci anni il CSA promuove settimanalmente uno sportello che oltre a essere di accompagnamento per i richiedenti asilo e i migranti senza permesso di soggiorno, assolve a una funzione di ascolto dei loro principali bisogni. Attraverso questo servizio, un punto di osservazione privilegiato delle vite dei migranti, nei primi anni del 2000, gli attivisti ebbero un primo contatto con gli africani di Castel Volturno. Col tempo il lavoro dello sportello è aumentato sempre più. Sono centinaia i migranti che vi si rivolgono ogni settimana e che partecipano all’assemblea che segue regolarmente l’ascolto individuale. L’assemblea è un momento centrale per la vita del CSA, occasione in cui i partecipanti hanno la possibilità di prendere la parola, informarsi e confrontarsi sulle questioni legislative nazionali che li riguardano e sui problemi più stringenti legati alla situazione locale. Durante le assem- blee i migranti elaborano e costruiscono collettivamente, insieme agli at- tivisti, momenti di mobilitazione, selezionando periodicamente le que- stioni su cui incentrare i processi di rivendicazione, basati sulla strategia della “lotta vertenza”, che sollecita di volta in volta le istituzioni a ri- spondere a determinate richieste di diritti. L’occupazione del Duomo di Caserta fu tra i primi e più incisivi momenti di questo percorso. Organizzata a dicembre 2002 per prote- stare contro la legge Bossi-Fini e l’ulteriore degradamento delle condi- zioni di vita per i tanti migranti che non rientravano nei criteri richie- sti per la regolarizzazione, durò tre giorni e permise al gruppo, dietro l’intensità e la forza simbolica della forma di lotta scelta, di conoscersi meglio, di rinsaldare le relazioni con le altre realtà dell’antirazzismo re-

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© Edizioni Scientifiche Italiane219 ISSN 1594-5472 Chiara Brocco ligioso e laico, di definire una più ampia progettualità per le battaglie future. Grazie alla mobilitazione il movimento riuscì a ottenere una pro- roga per la richiesta delle regolarizzazioni. Questa vittoria contribuì ad avvicinare una parte dei migranti ancora restii a battersi pubblicamente, a causa del timore derivato dalla condizione di fragilità che gli è asse- gnata dai dispositivi giuridici. Gli attivisti del CSA e del Movimento migranti approfondirono la conoscenza degli africani di Castel Volturno e diedero vita a un moni- toraggio che portò alla luce la particolare acutezza della marginalità so- ciale e dello sfruttamento subiti. L’attività dello sportello raccolse nu- merose istanze provenienti da richiedenti asilo in attesa prolungata della decisione delle commissioni territoriali. Il movimento si impegnò, quindi, nell’apertura di un processo vertenziale che, incalzando le istituzioni, dopo vari sit-in e incontri, riuscì a ottenere l’istituzione di una Com- missione territoriale per l’asilo proprio a Caserta. Nel corso degli anni 2000, il CSA ha conquistato vari riconoscimenti dalle istituzioni nazionali e locali e, con l’ingresso nella rete del Sistema di Protezione dei Richiedenti asilo e Rifugiati (SPRAR), promosso dal Ministero degli Interni, è divenuto un soggetto deputato all’accoglienza e all’accompagnamento di queste categorie di popolazione. Tale compito si è arricchito con l’attivazione di numerosi altri progetti che riguardano la sensibilizzazione degli studenti nelle scuole superiori alle problemati- che degli asilanti tramite la narrazione delle storie di vita; il sostegno psicologico e relazionale per i migranti vittime di traumi psicofisici da viaggio (progetto ARCA di ACCRA); corsi di italiano e avviamento al- l’uso dei mezzi di comunicazione orientati all’informazione sulle possi- bilità di accesso ai servizi sociali territoriali e ai corsi di formazione pro- fessionale (progetto ARCA); la sperimentazione di un percorso che in- dividua nuove forme abitative attraverso l’integrazione sociale (progetto DOMUS). L’attività antirazzista dai contorni “istituzionali” non ha depotenziato le pratiche antirazziste di mobilitazione, che anzi si sono intensificate nel corso degli anni 2000. Il Movimento migranti fu tra i promotori di una grande manifesta- zione a Caserta dopo la strage di Castel Volturno nel 2008. Un corteo era già stato programmato, prima della strage, con l’obiettivo di pren- dere posizione contro la recrudescenza di violenze razziste avvenute nel corso dell’anno in diverse città italiane, violenze che avevano colpito non solo alcuni africani ma anche alcuni omosessuali e degli attivisti di un centro sociale. Il tragico eccidio avvenuto pochi giorni prima della manifestazione

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ISSN 1594-5472220 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano ha ineludibilmente accentuato le connotazioni della protesta, che si è tra- sformata in una marcia imponente di 15.000 persone, che esprimevano dolore e rabbia e reclamavano giustizia per i ragazzi uccisi a Castel Vol- turno e per i loro connazionali superstiti condannati a vivere in situa- zioni di esclusione e diseguaglianza sociali ormai da troppo tempo. La manifestazione inoltre denunciava la reazione repressiva del mi- nistero che, dopo la strage aveva inteso regolare il problema degli im- migrati a Castel Volturno militarizzando il territorio, facendo leva altresì sulla stigmatizzazione delle vittime, rappresentate semplicisticamente come obiettivi di un regolamento di conti28. Gli attivisti dell’Ex-Canapificio, forti della rete di conoscenze, stabi- lita nel tempo, con la popolazione migrante, si sono da subito impe- gnati con determinazione a restituire alle vittime la loro reale identità e dignità di lavoratori onesti, fino a costituirsi parte civile nel processo, che ha infine dimostrato la loro totale estraneità alla criminalità orga- nizzata, e l’aggravante di odio razziale che ha spinto i sicari. Nel 2010 un’iniziativa di lotta significativa non solo per i contenuti trasmessi ma anche per l’originalità della forma estetica ideata e appli- cata alla protesta, è stato lo sciopero delle rotonde, promosso dal CSA con l’adesione della Rete delle associazioni antirazziste. Lo sciopero si è svolto nel territorio che va dal nord della provincia di Napoli fino a Castel Volturno, in prossimità delle rotonde (kalifoo ground), dove quo- tidianamente i migranti vengono reclutati dai caporali. Millecinquecento lavoratori con lo sciopero hanno interrotto per un giorno questo sistema di sfruttamento, decidendo dopo mesi di discus- sione di esporsi in prima persona, sfidando apertamente i ricatti dei pa- droni, per dare visibilità a una situazione di abuso conosciuta ma col- pevolmente tollerata, per reclamare il permesso di soggiorno e un lavoro regolarmente retribuito. Nelle piattaforme rivendicative del Movimento migranti e rifugiati la richiesta del permesso di soggiorno è centrale, e questo perché i migranti stessi sono consapevoli che la regolarizzazione è un passaggio ineludi- bile per avere accesso ad altri diritti connessi all’alloggio e al lavoro, che gli permetterebbero di vivere degnamente, sottraendosi ai meccanismi di sfruttamento in cui sono imprigionati. Il lavoro del CSA in questi ultimi anni investiti dalla crisi econo- mica che ha colpito anche molti lavoratori locali, è stato caratterizzato, altresì, dall’elaborazione di iniziative tese a fare emergere percorsi di so- lidarietà interetnica. Il Movimento migranti e rifugiati è stato promotore nell’autunno 2010 di una colletta in favore degli operai dell’azienda FI- REMA di Caserta, senza stipendio da mesi. I migranti, nonostante la

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© Edizioni Scientifiche Italiane221 ISSN 1594-5472 Chiara Brocco loro estrema precarietà, sono riusciti a raccogliere 650 euro e hanno vo- luto consegnarli personalmente a una rappresentanza di operai. Que- st’atto simbolico e carico di senso, riducendo la distanza di una parte dei lavoratori casertani dalle problematiche vissute dai migranti, ha av- viato un processo di reciprocità non scontato all’interno di un sistema basato sul doppio mercato del lavoro (regolare/ irregolare) e, superando le spinte di concorrenzialità possibili tra lavoratori sindacalizzati e non, ha esteso le potenzialità e il campo della lotta antirazzista. Infatti, nelle successive azioni pubbliche per rivendicare il permesso di soggiorno, una maggiore rapidità nelle decisioni sui richiedenti asilo e un maggiore ri- conoscimento delle loro domande, azioni culminate nella manifestazione antirazzista del 15 ottobre 2011, la presenza degli italiani non si è limi- tata solo agli attivisti del CSA, agli studenti o ai rappresentanti del mondo dell’antirazzismo, ma si è allargata notevolmente, grazie alla partecipa- zione degli operai licenziati o a rischio licenziamento, solidali con i mi- granti e convinti nel contribuire alla battaglia per la loro inclusione, con- tro lo sfruttamento del lavoro e per il rispetto e l’estensione dei diritti. Oltre all’antirazzismo istituzionale e a quello di mobilitazione, la pra- tica antirazzista del CSA si declina anche attraverso la dimensione cul- turale. Il gruppo di musica reggae Kalifoo Ground nato nel 2008 subito dopo la strage di Castel Volturno per iniziativa di due ragazzi italiani e tre africani, attivisti del Centro, costituisce l’esempio di un’espressione culturale originale, autoprodotta e indipendente dai tradizionali circuiti commerciali della cultura di massa. Le loro canzoni narrano con realismo le difficili condizioni di vita dei migranti di Castel Volturno e criticano l’assegnazione identitaria di “clandestini”, costruita dai dispositivi istituzionali per relegare nella mar- ginalità una categoria di popolazione funzionale al sistema economico nazionale. Numerosi concerti in tutta Italia hanno contribuito ad esten- dere la diffusione della conoscenza di queste problematiche. Attraverso l’espressione musicale spontanea il gruppo ha avviato quel processo di rovesciamento dello stigma e di opposizione alla ghettizzazione, che av- viene con la creazione di forme di microcultura di cui si fanno artefici spesso i giovani migranti o figli di immigrati nelle periferie urbane delle metropoli29.

2.2. Nuova rappresentazione del migrante Spesso nelle interazioni che si creano tra migranti e operatori delle varie associazioni antirazziste, la figura del migrante proveniente dai co- siddetti paesi in via di sviluppo è relegata a quella di assistito, di utente,

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ISSN 1594-5472222 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano che talvolta beneficia di alcuni servizi come accoglienza residenziale, di- stribuzione di pasti o indumenti, accesso a corsi di formazione, sulla base di criteri fissati istituzionalmente. Questo approccio alle problematiche dei migranti si inserisce nella logica del “governo umanitario associativo”30 che risulta ambivalente, poi- ché, pur muovendosi seguendo intenti umanisti e compassionevoli e svi- luppandosi in termini di contrasto rispetto al contesto globale in cui parte della popolazione è esclusa dalla cittadinanza, dai servizi e dai di- ritti di base, il sistema umanitario si trova in qualche modo a collabo- rare con le stesse istituzioni che determinano con le loro politiche ini- que quel contesto di disuguaglianza. In questo senso l’attività delle associazioni che costituiscono il governo umanitario, parallelamente alla missione caritativa riproduce meccanismi di micropotere che riguardano, per esempio, la scelta selettiva dei benefi- ciari di determinati servizi legali o assistenziali finanziati con le limitate ri- sorse che gli enti pubblici a vari livelli mettono a disposizione. Il CSA non è immune da quest’ambivalenza, dato che tra le molte- plici pratiche antirazziste che esso promuove figurano anche quelle che ho definito “istituzionali”, basate appunto sulla gestione di vari progetti attivati con fondi pubblici. Nel caso specifico, inoltre, l’ambivalenza potrebbe essere letta come un’ambiguità, dato che, prima di essere parte del governo umanitario il Centro sociale autogestito è una struttura per sua natura antiistituzio- nale e fautrice di un modo di organizzazione basato sull’orizzontalità e sulla democrazia diretta, organizzazione totalmente alternativa a quella proposta dalle istituzioni e che regola tradizionalmente i gruppi umani in ogni campo della vita sociale. I risultati della ricerca mostrano che il dinamismo e il pragmatismo rilevati nelle attività e nelle pratiche antirazziste del CSA gli permettono di superare, in parte, le contraddizioni sollevate. Se l’approccio umanitario produce una rappresentazione del migrante come vittima da assistere e soggetto etnico depoliticizzato, nelle azioni del CSA l’approccio politico è prevalente e dà luogo a una rappresen- tazione diversa dei soggetti a cui si rivolge. Il migrante, aderendo alla critica radicale del sistema capitalistico e dell’organizzazione dei rapporti di lavoro, che costituisce lo sfondo ideo- logico in cui si iscrivono le mobilitazioni antirazziste costruite local- mente, si rappresenta pubblicamente come un lavoratore sfruttato e sot- topagato, e recupera, così, la dimensione politica e militante di cui la condizione di escluso lo priva e che l’approccio umanitario, da solo, non ha interesse a restituirgli.

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© Edizioni Scientifiche Italiane223 ISSN 1594-5472 Chiara Brocco

La priorità che nelle mobilitazioni è conferita all’esigenza di eman- cipazione dei “clandestini” costituisce non solo un innalzamento del li- vello delle rivendicazioni ma anche l’espressione di una volontà auto- noma ad avviare un percorso di riabilitazione sociale che scardini la rap- presentazione tesa a criminalizzare l’insieme dei migranti irregolari. Su una parete dell’Ex-Canapificio si legge: «Noi usiamo la parola e la politica come strumento di lotta». Lo slogan, attribuito al sub co- mandante Marcos, evoca le lotte rivoluzionarie zapatiste per l’indipen- denza e la liberazione degli indios del Chiapas e allude a una riconnes- sione possibile tra le contestazioni antirazziste locali e le battaglie dei popoli oppressi nel mondo all’interno di una configurazione globale. L’Ex-Canapificio diventa uno spazio particolare in cui i migranti tro- vano finalmente occasione di agire politicamente, attraverso la presa di parola e l’elaborazione collettiva delle mobilitazioni, elementi fonda- mentali che permettono loro di ripensarsi, pur nell’esclusione sociale e residenziale subita, come soggetti che rifondando la loro partecipazione giorno per giorno ricominciano ad agire sul proprio divenire.

1 OIM 2010. 2 Dati relativi al 2011, da elaborazione su dati ISTAT. http://www.stranieriincam- pania.it/index.php?option=com_content&view=article&id=22:stranieri-in-campania-quanti- siamo&catid=26&Itemid=106 3 Nel solo centro di Castel Volturno nel 2005 i migranti erano il 9,1% dei resi- denti, nel 2010 il 12,1%. 4 Mi sta a cuore ringraziare in particolare Mimma D’Amico e Fabio Basile per la loro collaborazione, indispensabile per la realizzazione di quest’articolo. 5 La prospettiva situazionale, così come l’ha enunciata il suo teorizzatore Clyde Mit- chell, si utilizza nello studio dei contesti urbani e fonda la costruzione dell’analisi su due componenti: la situazione, ossia, la selezione di molteplici avvenimenti che abbiano una coerenza interna e un senso condiviso che ne definisce la percezione sociale, e il setting, ovvero il quadro sociale generale composto dall’insieme degli elementi costrit- tivi, capaci di determinare la situazione, per esempio la composizione etnica del tessuto sociale, la sua stratificazione, i sistemi legislativi, la pianificazione dello spazio urbano, ecc. Cfr. Mitchell 1987, pp. 1-33, citato da Agier 1999. 6 Mi riferirò per lo più ad alcuni studi relativamente recenti che hanno contribuito a ridefinire la letteratura su “razzismo” e “antirazzismo” analizzandoli come categorie socialmente costruite, in assenza di “razze” biologicamente concepite: Balibar, Waller- stein 1997; Taguieff 1991, 1995; Wieviorka 1998; Kilani, Gallissot, Rivera 1991. 7 Poiret 2011. 8 Fassin 2010. 9 Agier 2011 [1999]. 10 Ivi, p. 63. 11 Il Decreto Dini del 1995, la legge Bossi-Fini del 2002, la legge Turco-Napolitano del 1998, costituiscono norme prodotte dalla politica migratoria italiana che si è pro-

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ISSN 1594-5472224 © Edizioni Scientifiche Italiane Razzismo e antirazzismo nel casertano gressivamente contraddistinta per l’intenzione sia di contrastare l’ingresso di nuovi mi- granti provenienti dai paesi poveri, sia di reprimere la presenza sul territorio dei mi- granti irregolari, definiti “clandestini”, prevedendo per gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno periodi sempre più lunghi di detenzione (fino a due mesi) nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), già Centri di permanenza temporanea (CPT). 12 L’ espressione qui non designa un razzismo di Stato ufficiale e avallato e rego- lato da dispositivi giuridici; tuttavia mi sembra efficace per tradurre i meccanismi istitu- zionali e sociali in atto, per cui al non riconoscimento del diritto di cittadinanza di una parte consistente di stranieri si aggiunge lo sfruttamento illegale della loro manodopera, un’illegalità, quest’ultima, poco contrastata dallo Stato. 13 Dal Lago 2004. 14 Wallerstein, Balibar 1997 [1988], p. 48. 15 Caruso 2011, p. 189. 16 Califoo è il nome utilizzato in Libia per identificare i migranti ridotti in schia- vitù. 17 Va ricordato che la pratica del caporalato non è un fenomeno nuovo né nella zona di Castel Volturno né nelle aree agricole italiane. Questa pratica ha subito delle trasformazioni negli ultimi decenni, connotandosi etnicamente e acquisendo una rinno- vata visibilità, sulla scorta dell’incidenza delle migrazioni internazionali sul territorio. 18 Wieviorka 1998. 19 Cfr. Gatti 2008. 20 Documento approvato dal Consiglio comunale di Castel Volturno il 24/09/2010. 21 Wieviorka 1998. 22 Documento approvato dal Consiglio comunale di Castel Volturno il 24/09/2010. 23 Ibid. 24 Petrarca 2008. 25 D’ora in avanti utilizzerò l’acronimo CSA per indicarlo. 26 Taguieff 1995. 27 Taguieff 1989, p. 77. 28 Ivi, paragrafo 2. 29 Augé 2007. 30 L’espressione indica qui l’insieme delle associazioni e organizzazioni non gover- native che lavorano a sostegno dei migranti sul territorio e il complesso di azioni da esse dispiegate nel quadro dell’antirazzismo. Con governo umanitario associativo intendo richiamare, utilizzandola in scala ridotta, la nozione di “governo umanitario”, elaborata da Michel Agier (2008) sulla base di ricerche etnografiche nei campi di rifugiati in Africa e in Medioriente. Il concetto definisce le ambiguità del dispositivo formato dalle ONG e dalle organizzazioni internazionali a cui è delegata la gestione “umanitaria” dei campi, gestione che alterna continuamente volontà di protezione delle vittime, e esercizio di potere e di controllo sulle stesse. Per un approfondimento dei temi relativi al complesso rapporto tra gli attori e le logi- che asimmetriche in campo nei programmi di sviluppo prima, di aiuto umanitario poi, in alcune aree dell’ Africa subsahariana e di come questi problemi sono stati trattati nella letteratura delle scienze sociali si vedano anche il saggio di Laetitia Atlani-Duault e Jean- Pierre Dozon 2011, e il volume di Atlani-Duault 2015 [2009], recentemente pubblicato in traduzione italiana, incentrato, tra l’altro, sul lavoro delle ONG nelle ex Repubbli- che sovietiche.

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