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I percorsi dell’ Irredentismo e della Grande Guerra nella Provincia di Trieste a cura di Fabio Todero Volume pubblicato con il contributo della Provincia di Trieste nell’ambito degli interventi in ambito culturale dedicati alla “Valorizzazione complessiva del territorio e dei suoi siti di pregio” e con il patrocinio del Comune di Trieste

Partner di progetto: Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Trieste Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia Istituto regionale per la cultura istriana, fiumana e dalmata Associazione culturale Zenobi, Trieste

© copyright 2014 by Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia

Ricerche fotografiche: Michele Pupo Referenze fotografiche: Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte del Comune di Trieste; Michele Pupo; Archivio E. Mastrociani, F. Todero; Archivio Divulgando Srl Progetto grafico: Divulgando Srl

Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia Villa Primc, Salita di Gretta 38 34136 Trieste Tel. / fax +39 040 44004 www.irsml.eu e-mail: [email protected] I percorsi dell’ Irredentismo e della Grande Guerra nella Provincia di Trieste a cura di Fabio Todero 2| Indice

Introduzione I percorsi dell’Irredentismo e della Grande Guerra di Fabio Todero

1. Le Rive di Fabio Todero

2. Il Palazzo della Prefettura di Diego Caltana

3. Il Colle di San Giusto di Fabio Todero

4. Il Civico Museo del Risorgimento e il Sacrario Oberdan di Fabio Todero

5. Il Liceo-ginnasio Dante Alighieri di Fabio Todero

6. I cimiteri di S. Anna e di Servola di Fabio Todero

7. I cimiteri austroungarici di Prosecco e di Aurisina di Roberto Todero

8. La Grotta Azzurra di Samatorza di Roberto Todero

9. Il comprensorio del Monte Hermada di Roberto Todero

10. Il comprensorio di San Giovanni di Duino di Fabio Todero

|3 4| Introduzione I percorsi dell’Irredentismo e della Grande Guerra di Fabio Todero

La città di Trieste – all’epoca una delle più importanti del vasto Impero austroungarico – fu da subito coinvolta insieme al suo territorio nella tragedia della Grande guerra, scoppiata nella torrida estate del 1914. La città aveva potuto assistere a un macabro antefatto del conflit- to quando, la sera del 1° luglio, nel golfo della città giuliana giunse la squadra navale che scortava le salme di Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria Ungheria e della consorte Sofia, assassinati a Sarajevo il 28 giugno. Il giorno dopo, di primo mattino, in un clima di lutto genera- lizzato, un corteo funebre accompagnò i feretri delle illustri vittime at- traverso la città per raggiungere la stazione della Ferrovia meridionale; da qui sarebbe continuato il loro viaggio per Vienna, dove si sarebbero svolte le esequie ufficiali, e poi per Arstetten, loro ultima dimora. Alcune settimane dopo, il 28 luglio 1914 fu la volta della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, e ben presto il conflitto si allargò alle maggiori potenze del continente. In tutto l’Impero vennero perciò emanati i ban- di della mobilitazione generale che investì anche il territorio di Trieste: i suoi uomini furono avviati verso il lontano fronte galiziano e quello bal- canico, e sin dai primi giorni di guerra si fecero sentire le conseguenze economiche e sociali del conflitto. Un ulteriore aggravamento della si- tuazione fu determinato dall’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915. L’avvicinarsi delle operazioni militari portò infatti a una più ampia militarizzazione del territorio – ma il porto di Trieste era stato minato

|5 già nell’estate del ’14 – e anche il Carso triestino ne subì le conseguen- ze: la popolazione civile dei villaggi della cintura carsica più prossimi al fronte – come ad esempio Ceroglie o Malchina – dovette abbandonare le proprie case; furono approntate opere di difesa; antichi manufatti fu- rono trasformati in osservatori d’artiglieria; siti un tempo utilizzati da piccole comunità di cacciatori preistorici come la Grotta Azzurra di Sa- matorza furono riscoperti, in quella prima guerra della modernità, quali improvvisati ospedali: non a caso alcuni storici hanno confrontato le condizioni di vita dei soldati della Grande guerra a quelle degli uomini delle caverne. In quella drammatica primavera del 1915, caratterizza- ta tra l’altro da moti e proteste, un numero consistente di cittadini del Regno d’Italia abbandonò la città allora ancora austriaca. Sin dall’estate del 1914 un certo numero di giovani – e meno giovani – triestini e giulia- ni affascinati dall’irredentismo, avevano varcato il confine per arruolarsi volontariamente nelle file dell’esercito italiano. Ciò aprì in diverse fami- glie dolorose lacerazioni. Una consistente zona dell’attuale Provincia di Trieste fu trasformata in un’autentica fortezza naturale come il monte Hermada; contro di essa le truppe italiane furono reiteratamente e inutilmente mandate all’as- salto. Altri luoghi come San Giovanni di Duino, dove il Timavo rivede la luce terminando il suo corso in gran parte sotterraneo, assistettero a imprese sanguinose e compiute da soldati dell’una e dell’altra parte: migliaia di vite travolte dall’uragano della prima guerra di massa della storia. Il territorio della Provincia di Trieste ospita numerosi resti di quei drammatici eventi: trincee, camminamenti, cavità naturali e artificiali segnano ancora il paesaggio carsico e costituiscono i muti testimoni di una guerra di posizione aspra e sanguinosa, combattuta in un terreno inospitale e per lo più privo di acqua. Moltissimi sono però anche i segni

6| della memoria della Grande guerra: ne sono testimonianza monumenti, cimiteri, lapidi, istituzioni museali, scuole e ricreatori dedicati a figure di volontari irredenti. Allo stesso tempo però quella memoria, della quale ben presto il fascismo si appropriò, escluse dal ricordo collettivo la re- altà delle migliaia e migliaia di figli di questo territorio, italiani e slove- ni, che avevano prestato servizio nelle file dell’esercito o della marina asburgici, non di rado senza far ritorno dai fronti o dalle unità sui quali erano stati impiegati. L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, grazie alla collaborazione della Pro- vincia di Trieste, in occasione del centenario dello scoppio della Grande guerra, ha così ritenuto di proporre alcuni dei molti possibili percorsi le- gati all’irredentismo – inteso come uno dei fattori che formarono parte dei giovani di questo territorio, inducendoli alla scelta del volontariato nelle file dell’esercito italiano – e al primo conflitto mondiale. L’intento è quello di offrire a scolaresche, operatori del mondo dell’informazione, turisti, appassionati e curiosi uno strumento per accostarsi a luoghi che spesso sfuggono all’attenzione o che sono visti con occhi distratti o in- consapevoli. Monumenti, lapidi, cimiteri, caverne o trincee, pur nella loro diversità costituiscono invece altrettanti testimoni di un avvenimento che mutò per sempre le sorti di queste terre e della memoria che ne venne costruita: sono altrettanti luoghi della memoria e punti di so- sta di un potenziale grande museo diffuso, capaci di parlare alla nostra intelligenza e alla nostra sensibilità. Luoghi e nomi che rimandano ad altrettante tragedie, passaggi emblematici del faticoso cammino della storia del ventesimo secolo al quale proprio la Grande guerra impresse una svolta decisiva.

|7 Le Rive, monumento ai e alle ragazze di Trieste 1. Le Rive di Fabio Todero

Le rive, il tratto di strada compreso tra i moli del Porto nuovo (il Porto vecchio di oggi) e quello della Lanterna, sono state e continuano ad es- sere uno dei luoghi più frequentati dai triestini per le loro passeggiate. Lo spettacolo che se ne può ammirare è in effetti straordinario tanto nelle giornate invernali, rese limpide dalla bora, quando all’orizzonte si staglia il profilo delle montagne, quanto d’estate, quando vi si può apprezzare la frescura della brezza che spira dal mare. Splendidamente cantate da Scipio Slataper come luogo di lavoro e di amore, le rive furono allargate dalle autorità cittadine tra il 1906 e il 1919; a percorrerle era una linea ferroviaria ferroviaria che congiungeva i due porti cittadini. Pochi anni dopo queste innovazioni, esse furono involontarie testimoni di eventi che avrebbero cambiato per sempre il destino della città e di queste terre. Tutto ebbe inizio nella serata del 1° luglio 1914, quando in porto attraccò una piccola flotta di navi da battaglia dell’imperial accompagnate da alcune altre unità. Vi era, tra quelle navi, la corazzata «Viribus Unitis», sulla quale giacevano le bare dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria Ungheria, e della consorte Sofia Chotek, assassinati a Sarajevo il 28 di giugno. Con un rito macabro e lento, nella mattina del 2 luglio, da una maona vennero sbarcati i due sarcofaghi, successivamente issati sui catafalchi posti sul tratto delle rive antistante Piazza Grande – oggi piazza Unità d’Italia –; dopo la be- nedizione impartita alle salme dal vescovo di Trieste, monsignor Andrea

|9 Karlin, un imponente corteo si mosse attraverso una città parata a lut- to, tra una folla carica d’ansia per un futuro che si presentava denso di ombre e che tale si sarebbe rivelato alla fine di quel mese drammatico. Infatti, allo scoppio della guerra, da Trieste come dalle altre località del Litorale austriaco e dell’Impero, partirono in migliaia per combattere nelle file dell’esercito austroungarico sul lontano fronte della Galizia e su quello dei Balcani. Con l’ingresso nel confitto dell’Italia, avvenuto nel maggio 1915, la guerra si avvicinò. Essa poteva essere ascoltata e vista dalle rive cittadine: sul golfo infatti si compivano le evoluzioni dell’asso dell’aviazione asburgica Goffredo de Banfield, «l’aquila di Trieste», che a bordo del suo idrovolante duellava in aspri combattimenti con gli aerei italiani che spesso si affacciavano sulla città, recandovi talora la morte. A fare la sua comparsa nel cielo del golfo fu anche Gabriele D’Annunzio, che il 22 agosto del ’15 lasciò cadere sul capoluogo alcune bombe, ban- dierine tricolori e messaggi di propaganda patriottica. E la guerra che si svolgeva sul non lontano altipiano carsico, con i suoi bagliori e i suoni delle artiglierie che dalle rive potevano essere colti con nitidezza, diven- ne uno spettacolo tanto affascinante quanto terribile, perché foriero di morte e distruzione. Il 3 novembre 1918, finalmente, accolta da una grande folla esasperata da oltre quattro anni di guerra, vi giunse una squadriglia della marina militare italiana che, gettate le ancore al molo San Carlo – il Molo Audace di oggi, nome del primo cacciatorpediniere che vi attraccò –, vi sbarcò un reparto di bersaglieri e, soprattutto, il ge- nerale Carlo Petitti di Roreto che assunse il governatorato militare della Venezia Giulia. A ricordare questi ed altri avvenimenti sono oggi alcuni monumenti, a partire dalla rosa dei venti collocata sulla punta del molo, caratterizzata da un’iscrizione opera di Silvio Benco. Sulla Scala reale della riva Caduti per l’italianità di Trieste, si trova il

10| monumento dei «Bersaglieri e delle Ragazze di Trieste». Opera dello scultore todino Fiorenzo Bacci, il gruppo bronzeo raffigura tre ragazze triestine intente a cucire il tricolore che primo sarebbe sventolato dal campanile di San Giusto il 30 ottobre 1918; dalla Scala reale si staglia invece la figura di un bersagliere recante un tricolore. L’opera è sta- ta inaugurata in occasione del cinquantesimo anniversario del ritorno dell’amministrazione italiana a Trieste, avvenuto il 26 ottobre 1954, quando le rive si riempirono di una folla festante per la conclusione del lungo e problematico secondo dopoguerra giuliano. Sul lato di piazza Unità che guarda al mare – un tempo chiuso da un giardino – vi sono invece i due pili di tradizione veneta, alti oltre 30 metri, inaugurati il 24 maggio 1933 alla presenza del duca d’Aosta Amedeo di Savoia e del- le più alte autorità cittadine, in occasione dell’adunata nazionale degli Autieri. Il bozzetto della parte scultorea, che rappresenta 4 autieri, fu elaborato da Attilio Selva. Infine, proseguendo la passeggiata in direzio- ne della Lanterna e della vecchia stazione di Campo Marzio, davanti alla Stazione Marittima, sulla quale una lapide ricorda lo sbarco dei bersa- glieri, è stata collocata la statua in bronzo di Tristano Alberti che ricorda il marinaio capodistriano Nazario Sauro, volontario irredento giustiziato dagli austriaci a Pola il 10 agosto 1916 e inaugurata in occasione del 50° anniversario dell’avvenimento.

|11 12| |13 Il Palazzo della Prefettura 2. Il Palazzo della Prefettura di Diego Caltana

La prefettura di Trieste fu costruita tra il 1901 e il 1905 come luogotenenza generale per il Land del Litorale austriaco sul sito della precedente luogotenenza teresiana, non più rispondente alle accresciute esigenze dell’amministrazione e ai parametri tecnico-igienici del nuovo secolo. La luogotenenza doveva rappresentare direttamente l’autorità degli Asburgo nel loro porto più importante, così come nella terza città più grande della parte austriaca della monarchia. Della progettazione dell’edificio fu incaricato lo Hochbaudepartement (dipartimento di edilizia) del ministero degli Interni. Il progetto fu redatto dall’architetto ministeriale Emil Artmann, sotto la supervisione dell’influente Emil Förster, direttore del dipartimento. Artmann era noto per le sue competenze ingegneristiche, grazie alle quali riuscì a risolvere in maniera magistrale la delicata questione statica della fondazione dell’edificio in un lotto lambito dal mare. I progettisti avevano a disposizione un lotto relativamente stretto, nonostante ciò furono realizzate tre corti interne, una principale e due secondarie. L’ingresso e lo scalone d’onore erano imperniati sulla corte principale, dove erano collocate anche le rimesse. Nel piano nobile trovavano posto i saloni di rappresentanza, tra cui la grande sala da ballo a doppia altezza, gli appartamenti del luogotenente e le stanze per la famiglia imperiale. Nel piano terreno, nel mezzanino e nel secondo piano erano ospitati gli uffici. Sopra il moderno tetto piano era addirittura previsto un giardino pensile a disposizione

|15 del luogotenente. Elemento architettonico fortemente caratterizzante era ed è ancora oggi il doppio loggiato posto al centro della facciata principale, che - nelle intenzioni dei progettisti - doveva rispondere alla duplice necessità di proteggere la sala da ballo dal riverbero dei raggi solari e di offrire un palco al governatore in occasione di discorsi alla popolazione. La fastosità dell’edificio era da attribuire alla sua funzione rappresentativa ma anche al prestigio e al rango del governatore (i tre ultimi luogotenenti – conte Leopold Goëss, principe Konrad Hohenlohe-Schillingsfürst, barone Alfred Fries-Skene – appartenevano alla nobiltà austriaca). Dell’articolato apparato decorativo previsto dal progetto furono realizzati i mosaici, probabilmente influenzati dalla contemporanea riscoperta delle decorazioni musive esterne della basilica di Parenzo oltre che legati a un rinnovato interesse per l’arte bizantina, e i due gruppi scultorei situati alle estremità della balaustra posta a coronamento del loggiato. I puttini nel loro delicato intreccio reggevano la Rudolfskrone (la corona adottata nel 1804 da Francesco I per la sua incoronazione a imperatore d’Austria) e si presentano oggi monchi, poiché le corone furono rimosse, così come i mosaici furono ritoccati per cancellare i riferimenti asburgici all’indomani del passaggio di Trieste all’Italia. In quel periodo fu anche aggiunta una lapide, posta sulla facciata laterale prospiciente le Rive, con il testo del bollettino della vittoria redatto da .

L’ex luogotenenza è un «testimone storico» particolarmente importante, essendo stato l’unico tra gli edifici dell’attuale Piazza Unità d’Italia a subire delle modifiche; da questo punto di vista l’attuale palazzo del governo può essere considerato paradigmatico dei cambiamenti occorsi successivamente alla Grande guerra a edifici,

16| simboli e monumenti riconducibili all’Austria. Un’operazione in realtà capillare di cui oggi è difficile farsi un’idea. Nel corso del Novecento l’attuale palazzo del governo ha ospitato i rappresentanti delle diverse realtà statuali cui Trieste si era trovata a essere parte. Dopo essere stato residenza degli ultimi tre luogotenenti austriaci, alla fine del 1918 l’edificio aveva accolto il governatore militare della Venezia Giulia Carlo Petitti di Roreto e, dalla costituzione della provincia di Trieste nel 1922, la sede della prefettura. Nel periodo dell’occupazione tedesca il palazzo aveva mantenuto la sua funzione di sede del prefetto, carica ricoperta dal collaborazionista Bruno Coceani. Tra le poche immagini note di quel periodo è rimasta famosa una cupa istantanea che riprende Coceani, il Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer e il loro seguito intenti a risalire lo scalone principale. Nel periodo del Governo militare alleato, dopo il settembre 1947, vi ebbe sede il Consiglio di zona finché nel 1954 l’edificio ritornava a ospitare il prefetto, questa volta in rappresentanza della giovane repubblica italiana. Nelle immagini di grandi adunate che hanno riempito piazza Unità d’Italia durante il Novecento il palazzo del governo è quasi sempre protagonista. Di particolare effetto le inquadrature fotografiche effettuate nel marzo 1921 quando Trieste diventava ufficialmente italiana, e del 26 ottobre 1954, giorno del ricongiungimento di Trieste all’Italia dopo gli anni di amministrazione alleata: in quest’ultima occasione la moltitudine straripante era assiepata anche lungo tutta la facciata della prefettura e, sfruttando bugnato, inferriate e davanzali delle finestre del piano terreno, persone si ergevano anche al di sopra del resto della folla.

|17 3. Il Colle di San Giusto di Fabio Todero

Il Colle di San Giusto – il nome del Santo patrono di Trieste – è senza dubbio il simbolo per antonomasia della comunità e della storia citta- dina: sulle sue pendici era cresciuta la città romana – vi sorgevano la basilica e il foro – e intorno ad esso si abbarbicava la città medieva- le. Qui i triestini eressero la propria cattedrale e qui venne costruito il solido quattrocentesco castello, simbolo del potere asburgico. Assurto a simbolo della città «irredenta» nella propaganda interventista e poi bellica, dalla torre campanaria della cattedrale di San Giusto il 30 ot- tobre 1918 sventolò un tricolore che, al suono delle campane rispar- miate dalle requisizioni, celebrava la fine della lunga e gloriosa storia del governo asburgico della città. Il 4 novembre, un giorno dopo l’arrivo delle truppe italiane, su un altare eretto sul sagrato della cattedrale si svolse una solenne cerimonia di consacrazione delle armi, mentre nella torre campanaria fu dispiegato un altro tricolore, cucito segretamente da alcune donne triestine. Nei travagliato periodo dell’immediato dopo- guerra il Colle fu il teatro di diverse cerimonie militari di commemora- zione e di conferimenti di onorificenze ma anche luogo di dolore: negli ambienti angusti e malsani del castello furono infatti rinchiusi i soldati austriaci di rientro dal fronte, da caserme e depositi dell’esercito au- stroungarico dopo la catastrofe finale delle armate imperiali; tra loro vi erano numerosi soldati giuliani, per un centinaio dei quali la prigionia si protrasse fino al 1920, mentre già si presentava il problema degli ex prigionieri adriatici in Russia di ritorno in patria dopo lunghe peripezie. Il Colle andava intanto trasformandosi nel luogo per eccellenza della

18| memoria cittadina della Grande guerra. Il 24 maggio 1921 vi fu celebra- to il rito dell’infiorata – l’avvenimento fu immortalato dal pittore Ugo Flumiani – in memoria dei caduti sul Carso: sulla colonna che reca sul- la sommità il cosiddetto «melone», simbolo della città, fu depositata una tale quantità di fiori da formare un’autentica piramide floreale. Un anno dopo, a perenne memoria, veniva affissa sulla facciata del cam- panile antistante il piazzale una lapide con il testo del Bollettino della Vittoria firmato dal generale Armando Diaz. Nel maggio di quell’anno un nuovo avvenimento consacrava il legame tra San Giusto e la memoria del conflitto: sul Colle fu recata la bara contenente le spoglie di Enrico Toti, accompagnata da un corteo che le cronache dell’epoca definiro- no «interminabile». Riesumata dal cimitero di Monfalcone e destinata alla sepoltura a Roma, la salma fu vegliata in Cattedrale da drappelli di bersaglieri, combattenti e giovani cattolici; lo stesso Toti, secondo la testimonianza del padre, aveva vagheggiato di poter raggiungere il colle dopo il congiungimento all’Italia di Trieste. Il 24 maggio 1925 un nuovo imponente corteo, caratterizzato dalla pre- senza di manipoli della Milizia fascista, raggiungeva il Colle per inau- gurarvi il Parco della rimembranza, rendendo omaggio innanzitutto all’albero dedicato a Guglielmo Oberdan. Sorti in tutta la penisola su idea di Dario Lupi, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, ai Parchi del- la rimembranza e agli alberi che vi sarebbero stati piantati era stata affidata la memoria dei caduti della Grande guerra. Quello di Trieste è oggi ripartito in campi numerati dall’1 al 26, che ospitano lapidi e pie- tre carsiche sulle quali sono scolpiti i nomi dei caduti. I campi dedicati alla Prima guerra mondiale sono quelli numerati dal 16 al 25. In quello stesso 1925 lo scultore Attilio Selva (1888-1970), volontario di guerra e quindi uno dei fondatori del fascio di Trieste, presentava alle autorità comunali il bozzetto di un monumento ai caduti della Grande guerra per la cui collocazione fu scelto due anni dopo – inizialmente si era pensato

|19 al cimitero di Sant’Anna – proprio il Colle di San Giusto. Iniziarono così imponenti lavori di risistemazione dell’area, dichiarata zona archeologi- ca dopo l’annessione all’Italia, che portarono intanto all’apertura della via Capitolina, unico accesso automobilistico al sito. Il 3 novembre 1929, il Duca d’Aosta inaugurò l’Ara della III armata da lui comandata durante la Grande guerra, opera dell’architetto Carlo Polli (1894-1931). La mole quadrangolare dell’Ara sorge su un piedistallo di pietra grigia e sui suoi riquadri di pietra bianca sono riprodotte due panoplie, di chiara impron- ta neoclassica, fatte di mitragliatrici e di fucili che stilizzano «le armi dei moderni eserciti», insieme a due scudi. Sui quattro lati del monumento è riprodotta la seguente epigrafe: «La vittoriose armi qui consacrò la III Armata al comando di Emanuele Filiberto di Savoia». Alcuni semplici tratti forniscono sommarie indicazioni sui campi di battaglia – dall’Ison- zo al – dove l’unità era stata impegnata agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia. Finalmente, il 1° settembre 1935, alla presenza del re d’Italia Vittorio Emanuele III e di diversi esponenti del fascismo, tra i quali , e Carlo Del- croix, grande mutilato di guerra, fu inaugurato l’imponente monumento ai caduti della Grande guerra di Attilio Selva. Esso rappresenta tre guer- rieri che sostengono un loro compagno caduto, protetti da una quarta figura; alte più di cinque metri, le statue, dalle forme classicheggianti, si erigono su di un basamento in pietra bianca d’, progettata dall’ar- chitetto Enrico Del Nebbio, autore tra l’altro del Foro Italico a Roma. A poca distanza l’una dall’altra, ma ben diverse nella mole, vanno ricorda- te ancora due lapidi affisse ai bastioni del Castello; la prima è dedicata ai volontari irredenti caduti, che era andata parzialmente distrutta du- rante il bombardamento alleato del 10 giugno 1944; l’altra, di ben più modeste dimensioni, collocata il 12 maggio 1996, ricorda invece i caduti triestini nelle file dell’esercito austroungarico durante la Prima guerra mondiale. La lapide, caratterizzata dallo stemma della Mitteleuropa e

20| dalla croce di ferro germanica, e sulla quale campeggia il motto imperia- le «Viribus Unitis», reca un testo «Ai caduti triestini guerra 1914-1918» davvero troppo laconico per onorare quanti, partiti da questa città e da queste terre, perdettero la loro vita combattendo nelle file dell’esercito austroungarico. Allo stesso tempo, tuttavia, questa piccola targa ne co- stituisce a tutt’oggi l’unico ricordo.

Colle di San Giusto, monumento ai caduti

|21 4. Il Civico Museo del Risorgimento e il Sacrario Oberdan di Fabio Todero

CIVICO MUSEO DEL RISORGIMENTO

Il nucleo originario del Civico Museo del Risorgimento è costituito dalle raccolte che il patriota e letterato Filippo Zamboni (Trieste, 1826-Vienna, 1910), già volontario del 1848, donò al Comune di Trieste. Ne nacque, nel 1910, un primo Museo cittadino di Storia Patria collocato in Villa Basevi le cui sale, allestite alla meglio nel 1911, venivano aperte occasionalmente alle visite di scolaresche, nel quadro di una formazione in chiave italiana delle giovani generazioni. Dopo la chiusura dell’istituto durante il periodo bellico, esso fu solennemente riaperto nella sua vecchia sede l’11 apri- le 1922, in occasione dello svolgimento a Trieste del X Congresso della Società nazionale per la storia del risorgimento, con la nuova denomi- nazione Museo di Storia Patria e del Risorgimento; la consegna ufficiale del sito al primo cittadino di Trieste avvenne il 20 dicembre 1925, quando si celebrava il 43° anniversario del sacrificio di Guglielmo Oberdan. Una volta realizzata la Casa del Combattente, opera dell’architetto triestino Umberto Nordio, sorta in quello che avrebbe dovuto essere il cuore della Trieste fascista, le collezioni del Museo di Storia Patria venivano destina- te ad un’altra sede ed il Museo del Risorgimento iniziò la sua vita autono- ma il 29 aprile 1934 sotto la direzione di Piero Sticotti. Intanto, le nume- rose donazioni provenienti dalla famiglie dei volontari irredenti andavano arricchendo l’esposizione. La sala principale del Museo infatti, una volta

22| soffermatisi sui cimeli di Guglielmo Oberdan e visitati gli spazi dedicati al 1848 triestino e ai garibaldini giuliani delle campagne risorgimentali e balcaniche, caratterizzate tra l’altro come le altre dalla presenza di alcu- ne pregevoli opere pittoriche, è consacrata alla memoria del volontariato della Grande guerra. Analogamente a quanto andava accadendo nelle omologhe istituzioni museali italiane, il termine ad quem del Risorgimen- to era infatti prolungato alla fine della Grande guerra, il conflitto che ave- va portato a compimento il processo di unificazione nazionale. Il salone dei volontari è dominato dai grandi affreschi di Carlo Sbisà (1899- 1964) che raffigurano figure di soldati delle diverse armi, e più piccole figu- re femminili rappresentanti le città redente e l’irredenta Zara. Al centro e lungo le pareti, in vetrine realizzate dallo stesso architetto Nordio, cimeli, ricordi, ordigni bellici, buffetterie e uniformi ricordano alcuni dei perso- naggi che avevano animato il movimento dei volontari giuliano-dalmati: tra gli altri, vi fanno spicco i nomi di Ruggero Timeus e di Scipio Slataper, tra i protagonisti della vita culturale e politica del primo Novecento. Come già nelle sale dedicate all’esperienza garibaldina, gli oggetti e le imma- gini dei personaggi che vi sono ricordati si ponevano come altrettante immaginette sacre e reliquie del culto laico della patria, già alimentato dall’irredentismo e successivamente esaltato dal fascismo che della Pri- ma guerra mondiale aveva fatto il perno della propria mitologia. Superata la sala dei volontari, si raggiunge quella dedicata alle medaglie d’oro; vi sono ricordati quanti tra essi furono decorati con la massima onorificen- za militare: Ugo Polonio, uno dei più giovani tra i volontari, Carlo e Giani Stuparich, promessa l’uno e protagonista il secondo della vita culturale italiana, Giacomo Venezian, Spiro Xydias, Guido Brunner, Ugo Pizzarello, Fabio Filzi e Nazario Sauro – entrambi catturati e giustiziati dagli austriaci –, Guido Corsi, Guido Slataper fratello di Scipio, Francesco Rismondo. L’ul-

|23 tima sala, caratterizzata tra l’altro da un grande bronzo che ritrae il re Vit- torio Emanuele III – vi è collocata anche la bandiera del cacciatorpediniere «Audace», che primo toccò il Molo San Carlo oggi appunto Molo Audace – celebra la fine del conflitto e l’arrivo via mare delle truppe italiane. Vi sono infine brevemente ricordati gli avvenimenti che condussero al ritor- no della città all’amministrazione italiana (1954). Alcuni ritocchi, apportati nel 2012, hanno reso più accattivante la visita alle sale del Museo.

SACRARIO OBERDAN

Celebrata nelle sale del Museo con due bacheche che ne conservano ci- meli e ricordi, la memoria di Guglielmo Oberdan – giovane irredentista che aveva progettato un attentato alla coppia imperiale e per questo fu condannato al capestro – è al centro del Sacrario. La struttura, realizza- ta tra il 1931 e il 1935, sorge all’esterno della Casa del combattente, nel luogo in cui egli fu giustiziato il 20 dicembre 1882. Il sito custodisce infatti l’anticella e la cella – decorate all’esterno dai simboli delle città italiane che concorsero alla realizzazione dell’opera – nelle quali il giovane irre- dentista triestino fu rinchiuso dopo la traduzione dal Carcere dei Gesuiti fino al giorno dell’esecuzione; sono i soli resti di quella che era stata la Ca- serma grande della città di Trieste, abbattuta dal fascismo per fare spazio alla piazza dedicata a Oberdan, nel quadro di un più complesso quadro di risistemazione dell’area urbana che aveva condotto, tra l’altro, alla demo- lizione di una gran parte del ghetto ebraico. Lo spazio del Sacrario è dominato dalla statua bronzea del Martire, opera di Attilio Selva (1888-1970), che venne qui collocata dopo interminabili polemiche; la possente figura di nudo che lo ritrae è attorniata da due im- magini femminili che rappresentano la Patria e la Libertà. Una lapide ri-

24| porta il testo della lettera indirizzata da Oberdan «Ai fratelli italiani»; sulle altre pareti, altre grandi lapidi con i nomi dei volontari giuliano-dalmati delle guerre del Risorgimento, il bollettino della Vittoria di Diaz e quel- lo di Thaon di Ravel, ma anche opere che, denunciando il periodo della realizzazione del Sacrario, ricordano i caduti per la rivoluzione fascista, della Guerra di Spagna e in Africa orientale. Per successivo intervento, a denunciare la complessità del sito, vi sono ricordati anche i caduti della Resistenza.

Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan: ingresso alla cella di Oberdan

|25 26| |27 5. Il Liceo-ginnasio Dante Alighieri di Fabio Todero

Il 15 settembre 1863, a coronamento di una lunga battaglia politica per l’apertura di una scuola in lingua italiana, nasceva a Trieste il Ginnasio italiano comunale, la cui prima sede veniva collocata in casa Ritter, in piazza della Dogana (ora piazza Vittorio Veneto). Nel 1883 esso fu tra- sferito nella nuova sede di piazza dei Carradori – ora largo Panfili – e fu in questo edificio che si formò un’intera generazione di giovani che, ispirati dai dettami dell’irredentismo sia pur nelle sue diverse declina- zioni, nella primavera del 1915 avrebbero compiuto la scelta dell’arruo- lamento volontario nelle file dell’esercito italiano. All’apertura dell’anno scolastico 1894-95 nell’atrio era stato collocato anche il busto di Dante, opera di Ettore Ferrari, cui dal 1913 la scuola sarebbe stata intitolata e che rappresentava uno dei simboli dell’italianità della scuola. A più riprese Giani Stuparich – alunno prima, insegnante poi dell’ istituto – ha ricordato questo luogo immortalandolo in alcune sue opere, una scuola che svolse come poche la funzione di formare in chiave di educazione nazionale filtrata attraverso lo studio dei classici e della tradizione let- teraria e culturale italiana, le future classi dirigenti triestine: «La tradi- zione della nostra scuola classica, durante il periodo dell’irredentismo, – ha scritto Giani Stuparich – era fondata su un impegno d’onore. E in questo allievi e insegnanti concorrevano a far sì che il Ginnasio comu- nale di Trieste rendesse testimonianza della serietà con cui su questa sponda si perseguivano gli ideali della cultura e della civiltà che avevano fatto grande l’Italia nel mondo».

28| Lo stesso Stuparich ha sottolineato il ruolo che diversi insegnanti a partire da Baccio Ziliotto – molti di loro erano tra l’altro di origine trenti- na – ebbero nella formazione dei giovani, un’educazione basata su una solida etica e capace di trasmettere nei limiti del possibile «lo spirito patriottico, per un’azione nazionalmente feconda». Per questi banchi passarono così tra gli altri Guido Corsi, Guido Devescovi, Giorgio Reiss Romoli, Scipio Slataper, Alberto Spaini, Carlo e Giani Stuparich, Rugge- ro Timeus, Giacomo Venezian, Guido Zanetti, Spiro Xydias, protagonisti della vita culturale e politica giuliana ma anche del movimento dei vo- lontari giuliani della Grande guerra: ben 400 di loro erano stati o erano allievi del Liceo e 52 di essi caddero nel conflitto. Sette i decorati di me- daglia d’oro e 60 le medaglie d’argento al valor militare, a testimonianza di come i modelli educativi che vi venivano impartiti condussero molti giovani a seguire con coerenza quegli insegnamenti, non di rado fino alle estreme conseguenze. Eppure, nel ricordare i caduti del «Dante» in un discorso del giugno 1923 lo stesso Giani Stuparich, che nel conflit- to aveva perduto in drammatiche circostanze il fratello minore Carlo, metteva in guardia le nuove generazioni dalla guerra: «nessun popolo della civiltà può proporsi più come fine d’educarsi a popolo guerriero, e nessun uomo può più desiderare la guerra, se non con malvagio cuore». L’edificio nel quale nel 1936 il Liceo «Dante Alighieri» venne trasferi- to, per esservi ospitato ancora oggi, accoglie al suo interno alcuni im- portanti segni che ricordano la Grande guerra e i caduti della scuola. Nell’Aula Magna, una targa bronzea, ricavata dalla fusione di un canno- ne austriaco, disegnata da Umberto Nordio – a sua volta ex allievo del Liceo – e realizzata nel 1921 dallo scultore Gianni Marin, con un’epigrafe del docente Enrico Aubel, ricorda i caduti del Dante. Altre targhe ricor- dano Guido Corsi, Carlo e Giani Stuparich – ma anche i caduti in circo-

|29 stanze più tarde, a testimonianza del ruolo sempre mantenuto dalla scuola nella formazione patriottica dei giovani triestini. Infine, una lapi- de del 1937, collocata nel cosiddetto Famedio della nuova sede del Liceo ricorda a sua volta i nomi dei 58 caduti della «Guerra di redenzione».

30| Il Liceo ginnasio Dante Alighieri, oggi

|31 6. I cimiteri di S. Anna e di Servola di Fabio Todero

CIMITERO DI S. ANNA

Nel 1825 le autorità municipali triestine, per far fronte alla crescita demografica della città e alle nuove esigenze che questa poneva, in- dividuarono in un’area allora assai poco popolata posta alla periferia meridionale di Trieste, tra i colli di Servola e le pendici di Coloncovez, lo spazio adatto alla realizzazione del nuovo camposanto cittadino, cre- sciuto poi mano a mano e abbellito di una sua zona monumentale, con il concorso delle più importanti famiglie della città. Negli anni Venti, in uno spiazzo che si apre lungo uno dei viali che conducono alle tombe monumentali, fu individuato il sito nel quale ricavare la cripta destinata ad ospitare le salme dei volontari giuliani caduti. Nella cripta qui realiz- zata, il 17 giugno 1923, con un’imponente manifestazione di massa che consacrava il culto dei caduti della Venezia Giulia, già collaudato dalla cerimonia del Milite ignoto e dell’ultimo viaggio delle spoglie di Enrico Toti, 37 salme di volontari caduti in diversi settori del fronte, dopo aver attraversato in un imponente corteo la città, vennero inumati insieme ai resti di Guglielmo Oberdan, celebrato quale fratello maggiore dei vo- lontari giuliani. In quello stesso luogo, dove peraltro era stata ipotizzata la costruzione del monumento ai caduti poi collocato a San Giusto, il 26 maggio 1929 fu inaugurata l’Ara dei Caduti del Cimitero di Sant’An- na, opera dell’architetto Carlo Polli (1894-1931), destinata a ricoprire il precedente ossario. Vi riposano i resti di settantadue volontari giuliani,

32| le cui salme erano state traslate in diversi momenti da diversi cimiteri di guerra (quelle di Ezio De Marchi e di Michele Bacchetti provenivano da cimiteri della Macedonia e dell’Albania). Di alcuni, come nel caso di Giuseppe Vidali, furono racchiuse le ceneri. Il monumento, ad indicare un modello di comportamento eroico che richiedeva ai cittadini il sa- crificio della vita per la propria patria e, a un tempo, l’onorabilità della morte in guerra, reca l’epigrafe «Come gli eroi di Sparta tornammo sugli scudi». A saldare il ricordo della Grande guerra, al presente dell’Italia fascista e alla tradizione classica, secondo un canone ben consolida- to, erano le forme stesse dell’opera, caratterizzata dalla riproduzione di elmi greci, di armi moderne e di aquile imperiali. Collocata a poca di- stanza dall’Ara dei volontari sorge la tomba di famiglia in cui riposano Carlo (1894-1916) e Giani Stuparich (1891-1961); essa fu realizzata per volontà di Giani dallo scultore triestino Ruggero Rovan (Trieste, 1877- 1965), amico dello scrittore. Essa consiste di un arco in pietra del Carso, la cosiddetta «porta dell’eternità», sul quale sono incisi i nomi di quanti vi riposano; al centro, si trova la grande roccia del monte Cengio a riparo della quale Carlo, sottotenente dei granatieri di Sardegna, circondato con il suo plotone dagli austriaci, si suicidò con un colpo di rivoltella il 30 maggio 1916, nelle convulse giornate della Strafexpedition. Ritrovata dal fratello dopo dolorose ricerche e riconosciuta grazie alle chiavi della cassetta d’ordinanza ritrovata negli abiti, la salma di Carlo fu dapprima sepolta nel cimitero di Tresché Conca, sull’altipiano di Asiago; poi, il 30 maggio 1929, essa fu inumata nel Cimitero di S. Anna dopo che una grande cerimonia funebre ebbe attraversata tutta la città.

|33 Il Cimitero di S. Anna: l’ara dei volontari caduti

34| CIMITERO DI SERVOLA

Nel cimitero che si trova sulle pendici del colle di Servola, dove sorge un popolare rione allora prevalentemente abitato dalla comunità slovena, una modesta stele ricorda invece i nomi dei nove civili – tra loro 5 bam- bini – che rimasero vittime del bombardamento italiano del 20 aprile 1916, in una delle numerose incursioni aeree che gli italiani compirono sul cielo di Trieste e che provocarono anche altre perdite; non a caso le autorità luogotenenziali avevano provveduto a diramare alla popola- zioni precise disposizioni in caso di bombardamenti nemici. I funerali si svolsero con grande concorso di folla il 23 aprile, in una giornata grigia e piovosa, con la partecipazione di tutte le autorità cittadine; la messa, celebrata nella chiesa di San Lorenzo, fu accompagnata dal suono del Dies irae ma anche dallo straziante dolore dei familiari delle vittime, «inumate per unanime consentimento delle famiglie», come recita una cronaca dell’epoca, in una sola fossa. La stele, pur se priva di più precise informazioni sule circostanze di quelle morti, è anche l’unico monumento a ricordo delle vittime civili della Grande guerra elevato in provincia di Trieste.

|35 36| CIMITERO DI SERVOLA

Nel cimitero che si trova sulle pendici del colle di Servola, dove sorge un popolare rione allora prevalentemente abitato dalla comunità slovena, una modesta stele ricorda invece i nomi dei nove civili – tra loro 5 bam- bini – che rimasero vittime del bombardamento italiano del 20 aprile 1916, in una delle numerose incursioni aeree che gli italiani compirono sul cielo di Trieste e che provocarono anche altre perdite; non a caso le autorità luogotenenziali avevano provveduto a diramare alla popola- zioni precise disposizioni in caso di bombardamenti nemici. I funerali si svolsero con grande concorso di folla il 23 aprile, in una giornata grigia e piovosa, con la partecipazione di tutte le autorità cittadine; la messa, celebrata nella chiesa di San Lorenzo, fu accompagnata dal suono del Dies irae ma anche dallo straziante dolore dei familiari delle vittime, «inumate per unanime consentimento delle famiglie», come recita una cronaca dell’epoca, in una sola fossa. La stele, pur se priva di più precise informazioni sule circostanze di quelle morti, è anche l’unico monumento a ricordo delle vittime civili della Grande guerra elevato in provincia di Trieste.

|37 7. I cimiteri austroungarici di Prosecco e di Aurisina di Roberto Todero

CIMITERO AUSTROUNGARICO DI PROSECCO

Già dopo lo sfondamento di Plezzo-Tolmino (Bovec-Tolmin), la batta- glia di Caporetto (Kobarid), i vertici dell’esercito austroungarico intra- presero un riordino dei cimiteri che le undici battaglie dell’Isonzo ave- vano lasciato sul territorio carsico iniziando così quel lavoro di bonifica terminato, a guerra finita, dai reparti del Regio Esercito. Dismissione di tanti piccoli cimiteri reggimentali, raccolta di salme rimaste disperse nelle trincee, nelle pieghe del terreno, nelle caverne abbandonate e in tante sepolture singole, con caduti identificati o ormai privi di un nome. Nel territorio della Provincia di Trieste rimangono oggi solamente due grandi cimiteri creati durante il conflitto e messi allora al servizio, per così dire, degli stabilimenti sanitari militari. Il primo si trova vicino al paese di Prosecco-Prosek, in una grande e profonda dolina. In realtà la zona cimiteriale si estendeva anche alle doline attigue, ma con il tempo le salme vennero raccolte nella sola dolina centrale. Oggi vi si accede lungo un incerto sentiero che si stacca dalla strada provinciale del Car- so. Al momento attuale (estate 2014) non esiste un parcheggio dove i pur numerosi visitatori possano lasciare l’automobile o il pullman per raggiungere in sicurezza la scalinata di accesso. Il sentiero originario è però ancora riconoscibile: raggiunta la scalinata infatti si vede sulla destra un basso muretto a secco che raggiunge con una dolce curva

38| un prato vicino; è quanto rimane della traccia del sentiero dell’epoca. Sulla spalletta destra della scalinata nell’anno 2012 è stata applicata una targa in vetro a ricordo dei lavori di restauro e recupero svolti a cura dei Giovani pompieri volontari della Stiria guidati da un gruppo di adulti, appartenenti a gruppi di Vigili del Fuoco volontari stiriani. Scendendo la scalinata e valicato il cancelletto, ci si ritrova accanto a una grande fos- sa comune che raccoglie i caduti esumati dalle doline vicine all’attuale cimitero; il basamento del monumento è contornato da tabelle con i nomi dei caduti. Anche altre fosse analoghe sono presenti nel cimitero, prive di nomi singoli e con la sola indicazione del luogo di provenien- za dei caduti: cimiteri di Doberdò, di Lucinico e via dicendo. Il cimitero raccoglie i resti di 5733 caduti ma soltanto 578 sono ancora segnalati con nome e cognome. Nonostante il tempo trascorso e l’incuria di chi avrebbe dovuto vigilare su questi siti, alcune storie arrivano sino a noi: la prima è quella raccontata dalla piccola croce in pietra che incontriamo nel viale centrale. La scritta ormai quasi illeggibile recita così:

ALLA CARA MEMORIA DI ANTONIO BERNARDIS DI ANNI 49 DA TRIESTE PERITO ACCIDENTALMENTE IL 30.6.1917 LASCIANDO NEL DOLORE L’INCONSOLABILE CONSORTE CHE IN SEGNO D’AFFETTO QUESTO RICORDO POSE R.I.P. - INFANTERIST TRAIN D(ivison). D(er). LST BAON 418 1242

|39 Si tratta di un anziano riservista triestino, conducente o comunque addetto ai trasporti, morto accidentalmente nel giugno del 1917. La collocazione del monumento nel viale centrale lascia però capire come non di una sepoltura si tratti, bensì di un ricordo voluto dalla famiglia. Ignoriamo dove il fatto sia accaduto e dove in realtà riposi Antonio Ber- nardis. A sinistra della scalinata sono raccolte alcune delle lapidi che originalmente ornavano le fosse, e ognuna di esse racconta la storia di una fine. Al centro del viale si erge una grande croce metallica e dietro di essa altre fosse comuni. Una seconda storia viene narrata da uno Sterbebeild, una memoria funebre, recuperata a uno dei tanti mercatini dell’antiquariato: è la memoria di Sebastian Hartl, artigliere, morto il 28 agosto 1917 all’età di 20 anni per fatiche di guerra. La memoria segnala il numero della tomba, 1394 e il luogo: Prosecco. Una ricerca tra i nomi ancora presenti ha dato buon esito, la tabella con il nome c’è ancora e sembra essere un simbolo per le truppe della duplice monarchia. Se- bastian Hartl, austriaco, nato a Kraxenberg nella parrocchia di Kircheim riposa in una sepoltura multipla con un caduto polacco, uno ungherese ed uno boemo o forse slovacco. Segnalato il ritrovamento alla Öster- reichische Schwarze Kreuz, la stessa si è attivata cercando eventua- li discendenti che sono stati trovati e hanno portato, senza trombe e fanfare, un piccolo ricordo sulla croce del loro avo, non più dimenticato.

40| Il cimitero austroungarico di Prosecco

|41 Il cimitero austroungarico di Duino-Aurisina

42| CIMITERO AUSTROUNGARICO DI DUINO-AURISINA

Come la grande maggioranza dei cimiteri militari anche quello di Du- ino Aurisina-Devin Nabrežina è sito in una dolina. Vi vennero sepolti 1934 caduti dell’esercito austroungarico. Diversamente che a Prosecco, il cancello attraverso il quale si entra nel cimitero non è disposto sull’as- se principale, costringendo così il visitatore a un giro attorno alle croci per poter raggiungere il monumento ricordo; su di questo la particolare sagoma di un incavo ci fa capire come all’epoca vi fosse stata posta una lapide riproducente il distintivo della Isonzo Armee, scomparso come tanti nomi di caduti. Anche in questo cimitero vi sono alcune delle lapidi originali. Il sito si può raggiungere tanto dal centro del paese quanto da un sentiero che si stacca sulla sinistra della strada che porta alla sta- zione ferroviaria. Attorno al cimitero evidenti resti di baracche ricordano come qui fosse stato costruito anche un ospedale da campo. Il cimitero di Aurisina, rinnovato nell’anno 2010 dalla Österreichische Schwarze Kreuz, versa oggi in pessime condizioni: alcune croci sono divelte, molte targhe con i nomi, ricollocate nel 2010 sono state tolte e l’erba cresce rigogliosa, come accade anche in quello di Prosecco, rinnovato nel 2012. Nonostante i trattati internazionali obblighino i paesi nei quali vi sono cimiteri militari con caduti di altra nazionalità alla cura e al manteni- mento dei siti l’incuria regna sovrana e solo di tanto in tanto, di solito in prossimità di cerimonie, viene praticato uno sfalcio speditivo dei siti, non sempre con esiti felici: nel novembre del 2013 infatti è stato grave- mente danneggiato il ricordo posto a Prosecco dalla famiglia Hartl. Mol- te sono le famiglie austriache e tedesche che, in vacanza nella nostra regione fanno una visita a questi luoghi, così come molte sono le lettere di protesta che raggiungono puntualmente gli uffici della Croce Nera d’Austria. Un problema che deve trovare una giusta soluzione.

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8. La Grotta Azzurra di Samatorza di Roberto Todero

La Grotta Azzurra di Samatorza è descritta nell’opera 2000 Grotte di Bertarelli e Boegan, edita nell’anno 1926 per conto del Touring Club Italiano e della Società Alpina delle Giulie con queste parole: «caverna presso Samatorza – nome indigeno Pecina na leskoucah – … Quota in- gresso m. 270 – Prof. m. 42 – Lungh. totale m. 216 … Letteratura: bol- lettino Società Adriatica di Scienze Naturali Trieste, vol. XIII, 1891; Mar- chesetti, Atti del Museo Civico di Storia Naturale IX (v. II n. serie) 1895, pag. 249; Moser L. K., Der Karst, ecc., Trieste, 1900. – Durante la guerra fu utilizzata come riserva d’acqua». Poche note per questa famosa ca- vità facilmente visitabile da chiunque dato che la discesa, possibile sul sentiero di guerra almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, si compie oggi parzialmente sulla maceria che dall’ingresso accompagna il visitatore fino all’ampio spiazzo dove la caverna sembra terminare; in realtà c’è ancora un ramo, leggermente ascendente e scomodo da percorrere. Nota a escursionisti e speleologi con il nome di Grotta Az- zurra di Samatorza, nome attribuitole da Carlo Marchesetti per il fatto che giunti sul fondo è ancora possibile vedere il colore del cielo, porta il numero 34 del Catasto Regionale e il numero 257 VG del catasto locale. Accatastata nel gennaio del 1969, la caverna fu indagata più volte nel tempo, a cominciare dal Moser che effettuò degli scavi già nel 1892. È ormai dimostrato che essa venne usata sin da epoca preistorica, men- tre nella zona dell’ingresso si stabilì una nutrita comunità addirittura per qualche millennio. Citata nel 1909 nella Guida dei dintorni di Trieste

|45 della Società Alpina delle Giulie, prefazione di Silvio Benco, con le paro- le «chiamata dal dottor Machesetti la “grotta azzurra” nella quale egli scoprì, in varie riprese, importanti oggetti dell’epoca neolitica», è invece completamente ignorata da una successiva guida, sempre della Socie- tà Alpina delle Giulie (SAG) dal titolo Itinerario di escursioni e salite ne’ dintorni di Trieste. Una nota: il ritrovo per diverse di queste escursioni è posto in Piazza della Caserma, l’attuale piazza Oberdan. Ritroviamo la grotta azzurra in una guida della SAG del 1921, firmata da Nicolò Co- bol: terre appena “redente”; in questa guida infatti svariate escursioni partono da Piazza Oberdan, già della Caserma. Il terreno rimane però lo stesso, così… sul versante sud-ovest del monte (S. Leonardo, n.d.a.) esiste una grotta che il Marchesetti chiama la grotta azzurra nella qua- le vennero scoperti oggetti dell’epoca neolitica… La guida, redenta pur essa, battezza Samatorca come Samatorizza, creazione che per fortu- na non ha avuto seguito nella toponomastica locale. La successiva guida della SAG a cura di Gustavo Cumin pubblicata nel 1919 (VII) dedica alla grotta qualche riga, ma più ancora una nota di guerra, presente in quasi tutte le successive pubblicazioni: «ad ovest di Samatorza a circa un chilometro si apre la Grotta Azzurra dove si rinvennero numerosi oggetti neolitici, la grotta venne utilizzata durante la guerra per riserva d’acqua…». Nonostante la presenza del numero romano VII, anno dell’era fascista, è scomparso l’orrendo toponimo Sa- matorizza; non si dice però quale esercito fruisse della citata riserva d’acqua. Nel secondo dopo guerra sarà Tullio Catalan, nel suo sin troppo poetico volumetto Le meraviglie del Carso a ricordarci come «le caverne che sono state abitate dai primi uomini (trogloditi o cavernicoli) sono: la Grotta Azzurra di Samatorza», cui segue poi un elenco. Dobbiamo però arrivare agli anni Sessanta per trovare delle note finalmente complete

46| su di questa cavità ed il suo uso nel corso della prima guerra mondia- le; sarà ancora una volta la SAG che pubblicherà la Guida dei dintor- ni di Trieste a cura di Carlo Chersi: «a ovest di Samatorza, circa 1 km. dall’abitato, nella “Leskovska Dolina” (vallecola dei noccioli) si apre la GROTTA AZZURRA di Samatorza (n.257 del Catasto Grotte), descritta per la prima volta dal dott. Carlo Marchesetti, dove sono stati trovati numerosi oggetti dell’epoca neolitica e vari esemplari di fauna fossile. La grotta, utilizzata durante la prima guerra mondiale dagli austriaci quale ricovero per 500 uomini e quale riserva di acqua presenta un gioco di luci: dal fondo della maggior sala sotterranea, attraverso la stretta apertura dell’ingresso, si scorge un breve tratto di cielo; un esile raggio di luce arriva fino al fondo». Finalmente sappiamo chi creò la vasca e la condotta idrica ancora presenti e funzionanti nel lato sinistro della galleria di accesso: l’esercito austroungarico. Beram, Bock, Trieb, sono nomi oggi quasi dimenticati, ma furono loro a lavorare in silenzio per lo studio e l’utilizzo della cavità naturali a fini militari; a Bock si deve lo studio La tecnica e la guerra mondiale ed è quasi certa l’attribuzione di un manuale militare dell’epoca a questo ufficiale: Der Kavernenbau, edito dalla v Armata austroungarica, l’Isonzo Armee, manuale che rac- coglie le esperienze fatte dando ogni genere di disposizioni per i lavori di scavo e adattamento di grotte. Trieb fu il creatore – tra le altre cose – del Nanos Wasserleitung, l’acquedotto militare che, captando l’acqua ai piedi del monte Nanos, raggiungeva l’altopiano di Comeno-Komen. Oggi come cento anni orsono nella grotta azzurra di Samatorza l’acqua dello stillicidio viene convogliata verso la grande vasca in cemento che è ornata, nella parte superiore del muro di contenimento dalla scritta: «Erbaut 10/7 1917 von Herrn Oblt. H. Bock» (costruita il 10 luglio 1917 dal signor tenente H. Bock).

|47 48| |49 Il Monte Hermada 9. Il comprensorio del Monte Hermada di Roberto Todero

Il Monte Hermada (Ermada o Grmada) oggi noto particolarmente per la sua cima, la Quota 323, è in realtà un insieme di basse colline che con andamento normale alla costa digradano verso la Slovenia raggiungen- do il vallone di Brestovica, profondo ed ampio solco che lo separa dall’al- topiano di Komen e dalle quote dello Stari Loqua. Sede di osservatori e di artiglierie, quello che possiamo chiamare il massiccio dell’Hermada venne direttamente investito con maggior forza ed intenzione nel cor- so delle ultime due offensive italiane, la Decima e l’undicesima battaglia dell’Isonzo. Mai infatti le fanterie attaccanti giunsero sulla sua quota principale, fermate dalla precisa reazione dell’artiglieria schierata nel 1917 tra il vallone di Brestovica e Sistiana-Visogliano. Le quote princi- pali non videro mai gli scontri tra le opposte fanterie; questi avvenne- ro alle sue pendici in settori di combattimento come quello del Casello Ferroviario nei pressi del Burrone delle caverne o sulla dorsale del Flon- dar che partendo dal paese di Medja Vas-Medeazza raggiunge la quo- ta 135 soprastante l’ex valico di Jamiano-Jamlje. Il monte venne reso invalicabile mediante la creazione di un complesso sistema trincerato che è oggi ancora in gran parte riconoscibile sul terreno: tutto quanto è rimasto – e non è poco – è originale, risponde alle carte dell’epoca. Si può dire a ragion veduta che la zona del monte Hermada è per il Carso l’unico esempio dove ancora si possono studiare gli accorgimenti tattici per creare le sacche tra le linee in cui convogliare le ondate avanzanti (Riegelstellung), si possono cercare gli angoli morti studiando le apertu-

|51 re delle caverne ed il loro orientamento, l’avanzare dei camminamenti (Laufgraben), i ripari. Nelle doline sono ancora ottimamente visibili le tracce degli accampamenti, basse casette di sasso e legno raramen- te impreziosite da lapidi nelle varie lingue dell’Impero nei cui pressi si possono ancora leggere – e trovare – i segni di quella che è stata la vita quotidiana negli anni di guerra per migliaia di uomini. Il Monte Hermada è un unico, grande museo all’aperto; accompagnati da esperti è possi- bile addentrarsi nelle sue viscere, nelle tante caverne naturali adattate per l’uso di guerra e capaci di offrire un sicuro ricovero a centinaia di soldati, o nelle ancor più numerose caverne-ricovero scavate nelle trin- cee e nelle doline per offrire riparo a una squadra di soldati o poco più. Pur essendo il monte nel suo insieme un luogo di notevole interesse storico – si pensi che nel primo dopoguerra era stato proposto quale Zona sacra come fatto poi per il Sabotino o per il San Michele – i lavori di valorizzazione e messa in luce dei manufatti hanno riguardato sinora solamente alcuni settori. Va riconosciuto però che i lavori svolti sono stati molto complessi e portati avanti da un esiguo numero di volontari. In particolare il settore del Nad Kokem-Monte Cocco è stato fatto og- getto di una ultradecennale campagna di scavi che ha rimesso in luce le casematte osservatorio dalle quali veniva diretto via telefono il tiro dell’artiglieria; è stato anche disostruito un sistema di gallerie che met- tono in comunicazione le varie casematte, anche se lo stato di questi lavori fa pensare ad un lavoro tardo e mai portato a termine, dati gli avvenimenti legati allo sfondamento di Plezzo-Tolmino (Bovec-Tolmin), la battaglia di Caporetto (Kobarid). Oggi questi tunnel sono percorribi- li con molta attenzione e solo nelle stagioni asciutte; alcune infatti si allagano e l’acqua che vi si raccoglie rimane anche per intere stagioni raggiungendo in alcuni tratti un livello superiore al metro. Altri lavori

52| sono stati fatti attorno alla vera cime del monte, la quota 323 segnata da un cartello riportante l’altimetria, mentre su di un sasso, fatta con la vernice, si trova l’indicazione Hermada. Questo anche perché molti ritengono che la cima sia quella dove sino a pochi anni orsono c’era una baracca militare legata al periodo della guerra fredda; oggi ne rimane solo il basamento in cemento che molti però già confondono con i resti della grande guerra: sovrapposizioni storiche che andrebbero chiarite con tabelle didattiche messe in loco. Le escursioni sull’Hermada, an- che se fatte per necessità in stagioni fredde, saranno comunque per noi un piacevole diversivo, diversamente da come la pensava il tenente Fritz Weber, che nel suo Das Ende einer Armee –tradotto in Tappe della disfatta – così si espresse quando la sua batteria venne destinata al Carso: «apro l’ordine sigillato: dobbiamo prender posizione a Quota 323. C’è solo una quota, che si possa prendere in considerazione, da queste parti, una quota dal nome dolce e nello stesso tempo terrificante: L’Her- mada. Ci guardiamo bene dal parlarne».

|53 54| |55 Il cippo Randaccio e il monumento ai Lupi di Toscana 10. Il comprensorio di San Giovanni di Duino di Fabio Todero

Percorrendo la strada statale 14 che conduce a Monfalcone, al bivio con la strada regionale 55 – la strada del Vallone che conduce a Gorizia – ci si imbatte nella località di San Giovanni di Duino, Štivan in slove- no, posta al limite del territorio della provincia di Trieste. Al bivio, sulla destra, lasciandosi alle spalle Trieste, vi si notano un’ara e una chiesa; sulla sinistra, alla base e sulla sommità di un roccione carsico, un in- sieme di monumenti. Tutti questi manufatti, qui collocati in momenti diversi, ricordano la Grande guerra e il paesaggio brullo delle colline car- siche suggeriscono ancora oggi la durezza degli scontri che anche qui si svolsero fino all’autunno del 1917 quando, con la rotta di Caporetto, il conflitto si allontanò dall’altipiano carsico e dal territorio regionale. Proprio in questa zona si dipanarono drammatici fatti d’arme come ad esempio la cosiddetta battaglia del Timavo (maggio 1917) – qui infatti si trovano le foci del fiume carsico – o la battaglia di Flondar, sanguinoso contrattacco sferrato da reparti scelti austroungarici contro le posizioni italiane poste intorno a monte Hermada. A ricordarci questi eventi e questi reparti sono i due monumenti collocati alla base e sulla sommità del roccione carsico – il cosiddetto «roccione di Randaccio» – che domi- na la strada statale e alla base del quale, nel 1930, in occasione del bi- millenario virgiliano, l’architetto triestino Arduino Berlam vi aveva fatto incidere i versi dell’Eneide in cui viene citato il Timavo. Il primo di essi è il monumento ai «Lupi di Toscana», soprannome della brigata Tosca- na, 77° e 78° rgt. Fanteria, che nel 1916 si era reso protagonista della

|57 conquista di monte Sabotino. Esso si erge a poca distanza dal Monte Hermada (v.), punto più meridionale del fronte carsico raggiunto dalle truppe italiane durante la Prima guerra mondiale. Qui la brigata Tosca- na era giunta nella primavera del 1917 per sostenere la brigata Trapani impegnata nella Decima battaglia dell’Isonzo. Un primo monumento, realizzato dal prof. Borgiani dell’accademia di Brera, era stato eretto nel 1938. Nel maggio del 1945, durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste, il monumento venne distrutto finché, per iniziativa del’Associazione Lupi di Toscana di Brescia, un nuovo gruppo bronzeo venne fuso nella città lombarda a opera dello scultore Righetti: un lupo ulula al branco, mentre l’altro si abbassa in agguato per tenere a bada i nemici. L’inaugurazione di questa nuova opera avvenne il 3 novem- bre 1951, quando la questione di Trieste era ancora largamente aper- ta, durante una solenne cerimonia, occasione per sottolineare i legami sussistenti tra la città giuliana e l’Italia, consacrati dai sacrifici compiuti durante la Grande guerra. Nella stessa occasione, fu restaurata e ricon- sacrata l’antica chiesa dedicata a San Giovanni Battista che per cinque secoli aveva conservato reliquie del Battista e che era andata distrutta durante il primo conflitto mondiale. Il secondo monumento, a lato della rupe, è il cippo dedicato al mag- giore Giovanni Randaccio, comandante del 2° battaglione del 77° rgt. fanteria, caduto in un sito prossimo a San Giovanni di Duino – quota 28, recentemente individuato da alcuni ricercatori – il 28 maggio 1917, durante la Decima battaglia dell’Isonzo. Gabriele D’Annunzio, che era stato con Randaccio e con i Lupi sul Veliki e il Faiti, partecipò e ideò l’azione finalizzata al passaggio del Timavo e all’occupazione di quota 28: l’intento era quello di raggiungere il castello di Duino per issarvi un tricolore che si sarebbe potuto vedere da Trieste. Con la sua colonna,

58| il trentatreenne maggiore Randaccio raggiunse la quota, ma fu colpito all’inguine in seguito a un contrattacco nemico. Intanto si consumava la tragedia dei fanti del 149° rgt. della brigata Trapani che, presi dal pani- co, si arresero o cercavano di retrocedere e sui quali D’Annunzio avreb- be ordinato di fare fuoco. Questi posò quindi la testa del comandante Randaccio, riportato ancora ferito tra le linee italiane, sulla bandiera tricolore in seguito utilizzata come simbolo nel corso della spedizione di Fiume. Il cimelio è oggi conservato al Vittoriale di Gardone mentre Giovanni Randaccio, inizialmente inumato nel cimitero di Monfalcone, riposa nel Cimitero degli Eroi di Aquileia. Il piccolo monumento invece era stato originariamente collocato nel punto in cui era caduto Randac- cio. Sulla destra della strada, per chi provenga da Trieste, si trova invece l’Ara ricordo della III armata, posta all’inizio della strada del Vallone che avrebbe dovuto diventare una «via sacra» destinata ad unire questo luogo alla città di Gorizia. «Rispettate il campo della gloria e dell’onore» è l’ammonizione che si legge sul monumento realizzato dal Corpo au- tomobilistico dell’esercito.

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