Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).

Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy. Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.

Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.

Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia, Culture, Religioni - P. le , 5 - 00185 Roma tel. 0649913407 – e-mail: [email protected]

Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice ISSN 1973-9443

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Indice della rivista gennaio – marzo 2015, n. 34

”La visione dei Padri fondatori e la sua attualità nell’Europa di oggi” Padova, 16 dicembre 2014. Atti del Convegno nel centenario della nascita di Luigi Gui p. 4

INDIRIZZI DI SALUTO Francesco Gnesotto p. 5 Flavio Rodeghiero p. 7 Marco Mascia p. 12 Francesco Gui p. 15

*** INTERVENTI La visione dei padri fondatori: la Comunità politica europea eredità di di Daniela Preda p. 26

L’idea internazionalista dal movimento cattolico ai giovani democristiani veneti di Gianpaolo Romanato p. 43

La vision européenne de Robert Schuman di Sylvain Schirmann p. 52

La Democrazia Cristiana tedesca e la costruzione europea: principi, valori e prospettive di Thomas Jansen p. 62

Tra dimensione nazionale e prospettiva globale: il “Comprehensive school project” europeo e la politica scolastica del ministro Luigi Gui (1962-1968)

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di Daria Gabusi p. 69

La formazione dei giovani alla cittadinanza europea di Claudio Piron p. 83 *** INTERVISTA Un lascito ideale e politico valido anche per i nostri giorni Intervista all’on. Flavia Piccoli Nardelli a cura di Francesca Gigli p. 92

CONTRIBUTI Luigi Gui e l’Europa di Cristiano Zironi p. 95 ***

DOCUMENTI Uno Qualunque. La politica del buon senso di Luigi Gui p. 99

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Francesco Gnesotto Prorettore vicario dell’Università degli Studi di Padova

A nome del Magnifico Rettore, ho il piacere e l’onore di dare a tutti i partecipanti un cordiale benvenuto nel nostro Archivio Antico. Questo convegno si tiene nel centenario della nascita del Sen. Luigi Gui e ringrazio particolarmente il prof. Francesco Gui, figlio del senatore e docente di Storia dell’Europa alla Sapienza, insieme al fratello e nostro collega Benedetto Gui, che oggi sono qui con noi a nome di tutta la famiglia. Luigi Gui è a buon diritto annoverato tra i padri fondatori, per la sua visione anticipatrice di come l’Europa avrebbe potuto uscire dalle macerie, materiali ma soprattutto morali, del secondo conflitto mondiale attraverso l’unione politica, già da Lui tratteggiata con grande lucidità in un documento clandestino datato 1944. E padre fondatore ancor di più per la sua incisiva azione politica a livello parlamentare e governativo nei decenni successivi. Credo sia quanto mai opportuno riesaminare oggi, in una prospettiva ormai storica, la visione dei padri fondatori, oggi che, anche a causa della pesante crisi economica, una larga parte dei cittadini dell’Unione Europea, e in particolare i giovani, nutre forti riserve, se non una esplicita avversione, verso le istituzioni comunitarie e perfino verso l’idea stessa di Europa unita. Le ragioni di questi atteggiamenti negativi devono essere attentamente esaminate e vanno individuate con urgenza efficaci azioni correttive, ma senza mai dimenticare che, grazie alla progettualità, alla lungimiranza e all’impegno dei padri fondatori che oggi verranno ricordati, da settant’anni la guerra è stata cancellata dall’Europa, per la prima volta da molti secoli, con la sola tragica ma breve eccezione della guerra nei Balcani. Ed ora, credo anche e soprattutto grazie all’Unione Europea, anche la regione balcanica si sta avviando alla democrazia e alla pace. La pace è frutto della giustizia, affermava Sant’Agostino, ma io credo che sia profondamente vero anche l’inverso, senza pace non si può esercitare la giustizia, come dimostrato ancora una volta proprio nel contesto balcanico a noi così vicino. Un sentito grazie al nostro Dipartimento di Scienze Politiche Giuridiche e Studi Internazionali che, assieme al Dipartimento di Scienze Storiche Geografiche e dell’Antichità e al Centro di Ateneo per i Diritti Umani, ha promosso ed organizzato questo convegno. Ringrazio infine i qualificati relatori

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che porteranno il loro prezioso contributo di analisi e di discussione e auguro a tutti i partecipanti una proficua giornata di studio.

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Flavio Rodeghiero Assessore alla Cultura – Comune di Padova

Desidero portare i saluti più cordiali, miei personali e a nome dell’Amministrazione comunale, a tutti i rappresentanti istituzionali, in particolare stranieri, agli illustri relatori, ai familiari di Luigi Gui, nostro illustre concittadino, e a voi tutti qui presenti. È l’occasione, mentre ricordiamo i cento anni dalla nascita di un emerito rappresentante padovano nelle istituzioni nazionali, per riflettere, come è stato proposto, della visione dei padri fondatori dell’Europa, e di tutta una generazione politica, che ha animato il dibattito politico, in particolare nell’immediato secondo dopoguerra, ed è occasione per sottolineare come queste considerazioni possano opportunamente rappresentare una significativa riflessione sull’Europa di oggi. Le origini del cristianesimo democratico vanno ricercate nei gruppi cattolici, che in diversi Paesi, dalla metà dell'Ottocento, si dedicarono all'organizzazione dei ceti popolari in nome della solidarietà cristiana. In Italia, a differenza ad esempio di Francia e Belgio, il movimento democratico cristiano ebbe difficoltà ad affermarsi, a causa della questione romana. Senza voler entrare nel merito, in questo saluto introduttivo, chiaramente, della questione oggetto della nostra giornata di approfondimento, ricordiamo seppur brevemente Alcide De Gasperi, che, impegnato fin da giovanissimo in attività politiche d'ispirazione cristiano-sociale, difese l'autonomia culturale del Trentino a fronte del Tirolo tedesco, ma non mise mai in discussione l'appartenenza di tutto il Tirolo all'Impero austro-ungarico. Inizialmente De Gasperi sperò che l'Italia entrasse in guerra a fianco dell'Austria-Ungheria e della Germania sulla base della Triplice alleanza. Quando ciò non avvenne, s'impegnò perché fosse almeno mantenuta la neutralità italiana. Si fece fautore del diritto all'autodeterminazione dei popoli. In particolare sul finire della seconda guerra fu l’anima del movimento cattolico che si riorganizzava, quale ultimo segretario del vecchio Partito Popolare disciolto nel 1926 dal fascismo. Vorrei ricordare alcune sue note di quegli anni:

La più efficace garanzia organica della libertà sarà data dalla costituzione delle Regioni come enti autonomi, rappresentativi e amministrativi degli interessi professionali e locali e come mezzi normali di decentramento dell’attività statale.

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Dal libero sviluppo delle energie regionali e dalla collaborazione tra queste rappresentanze elettive e gli organi statali risulterà rinsaldata la stessa unità nazionale.

Per quanto riguardava la ricostruzione dell’ordine internazionale, egli sottolineava come dovesse avvenire secondo giustizia; diceva infatti:

Una «Dichiarazione dei diritti e dei doveri delle Nazioni» dovrà conciliare nazione e umanità, libertà e solidarietà internazionale. Il principio dell’autodecisione sarà riconosciuto a tutti i popoli, ma essi dovranno accettare limitazioni della loro sovranità statale in favore d’una più vasta solidarietà fra i popoli liberi. Dovranno quindi essere promossi organismi confederali con legami continentali e intercontinentali. Le società nazionali rinunzieranno a farsi giustizia da sé ed accetteranno una giurisdizione avente mezzi sufficienti per risolvere pacificamente i conflitti inevitabili.

Dal 1942 al 1993, il cristianesimo democratico, in Italia, è coinciso con il pensiero e l'operato del maggiore partito politico nazionale: la Democrazia Cristiana. Dopo la fine della Democrazia Cristiana, i democristiani italiani si sono divisi in vari partiti politici, ma pur orientandosi ed impegnandosi sia nella destra che nella sinistra, è proprio forse il sentimento europeo, e l’attenzione alla realtà locale, il tratto ancora comune, sia nelle formazioni organizzate che nell’operato politico o di animazione intellettuale personale. Nel ricordare la figura di Luigi Gui, che di questa tradizione democratica cristiana è stato un testimone di primo piano, oggi mi permetto di intervenire anche nella veste di responsabile del Consiglio di Amministrazione del Collegio Universitario di Merito “Nicola Mazza”, che nelle sue sedi di Verona, Padova e Roma fa dell’attenzione agli studenti, in particolare capaci e meritevoli ma privi di mezzi, la sua mission istituzionale. Il 26 aprile 2012 abbiamo intitolato a Luigi Gui la sala teatro del Collegio universitario don Nicola Mazza a Padova, in quanto "promosse politiche per rimuovere ostacoli di ordine economico e sociale e rendere effettivo ai capaci e meritevoli anche se privi di mezzi il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi". Il Collegio “Mazza” di Padova, sito in via dei Savonarola 176, che nel tempo ha incorporato anche il Collegio di San Marco, istituito dalla Serenissima per assistere i giovani veneziani che dovevano prepararsi con gli studi universitari a servire la Repubblica, è l’unico Collegio di Merito del , eretto il 26 ottobre 1954 a Ente di Cultura e Assistenza ai sensi dell'articolo 191 del T. U. delle leggi sull'istruzione superiore. Oggi in Italia i Collegi universitari legalmente riconosciuti sono 14 con 47 sedi, ma permettetemi di sottolineare che solo due, forse tre, tra i quali il Collegio “Mazza” appunto, operano secondo i principi dell’intervento pubblico

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a sostegno del diritto allo studio, previsto dall’art. 34 della Costituzione, e cioè privilegiando il sostegno ai capaci e meritevoli ma privi di mezzi. Un’importante presenza e testimonianza istituzionale a servizio dei giovani. Abbiamo inoltre in questi giorni pubblicato una piccola raccolta di testi, che parte proprio da una serie di momenti di riflessione su temi di attualità europea proposti dal Collegio di Padova, in collaborazione con l’iniziativa “L’Università per l’Europa. Verso l’Unione politica”, promossa e coordinata dal prof. Francesco Gui, della Sapienza Università di Roma, e che vede il coinvolgimento e la collaborazione di molte Università in Italia, tra le quali anche la nostra Università patavina. Abbiamo voluto proporre con questo volume una piccola guida di educazione civica europea pensata proprio per capire quali chance abbiamo per uscire come paese dalla situazione presente. Ed è la relazione annuale del Censis, presentata proprio ieri, che descrive il nostro paese come ripiegato su se stesso, attendista, in parte cinico nell’analisi della situazione presente, un paese vecchio dove in particolare non si ritagliano spazi per i giovani. De Rita ha parlato di “capitale inagito”, cioè del fatto che i numeri, le potenzialità, perfino le risorse, le avremmo per uscire da questa crisi. Ma le teniamo lì. A perdersi, a giacere e a dissiparsi. Teniamo da parte soprattutto le “risorse umane” e “la cultura come fattore di sviluppo”. I giovani, che sono più preparati della generazione precedente, più motivati, più internazionali, con maggiore familiarità con le nuove tecnologie, risultano anche i più emarginati dal lavoro e dalla vita attiva. E poi c’è l’altro grande “capitale inagito”: la cultura. Nel paese che ha più beni culturali di chiunque altro “il numero dei lavoratori nel settore della cultura (304 mila, l’1,3% degli occupati totali) è meno della metà di quello del Regno Unito (755 mila) e della Germania (670 mila) e di gran lunga inferiore rispetto alla Francia (556 mila) e alla Spagna (409 mila)”. Nel 2013 il settore della cultura, fa notare il Censis, “ha prodotto un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (solo l’1,1% del totale del paese) contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia”. Meno fiducia anche nell’istruzione come investimento: tra il 2008 e il 2013 gli iscritti all’università sono diminuiti del 7,2% e le immatricolazione del 13,6%. L’Europa è stata spesso la spinta alla necessaria modernizzazione del paese. Può essere oggi ancora quel contenitore luogo di speranze, soprattutto per i giovani? Ormai siamo destinati a vivere in sistemi di governo multilivello, perché certi fenomeni possono essere governati solo da livelli superiori a quello statuale tradizionale. Stiamo andando verso il superamento dello stato in ciò

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che è stata la sua connotazione essenziale, la sovranità come esclusività del potere. Dobbiamo però chiederci: quale forma di democrazia multilivello possiamo organizzare? Possiamo costruire un modello di democrazia non rousseauviano ma in grado di corrispondere al bisogno di democrazia dei cittadini europei? La politica deve prendere l’iniziativa ed indicare strategie. Le proposte politiche, anche quelle più critiche, hanno un ruolo nel momento in cui ci scuotono e ci impongono una riflessione di ampio respiro e prospettive di lunga durata. Nel volume di «Limes» n. 1 del 2006, dal titolo emblematico L’Europa è un bluff, Lucio Caracciolo, le cui riflessioni critiche abbiamo comunque inserito nel nostro testo, afferma:

Si intendeva pacificare uno spazio martoriato dalle ‘inutili stragi’ della prima metà del Novecento. Emancipandolo dai nazionalismi aggressivi per accordarlo intorno ad interessi, valori, istituzioni comuni. Monnet, Schuman, Adenauer, De Gasperi ed i loro epigoni non si illudevano che le coscienze europee fossero pronte ad una simile mutazione. Per questo puntarono sull’economia. La progressiva integrazione – da un’area di libero scambio al mercato unico e alla moneta unica – avrebbe tracciato il solco da cui inevitabilmente sarebbe un giorno germinata l’Europa politica. L’europeismo finisce così per surrogare l’Europa, anziché farla. Svuotato di prerogative e sovranità dall’alto (Unione Europea) e dal basso (regioni e territori) lo stato nazionale perde senso. Fino a produrre un vuoto di legittimazione che non è facile colmare, perché uno stato non si surroga con un insieme indistinto di regioni o con una pallida architettura comunitaria.

È la storia allora ad indicarci un percorso già tracciato. Ci ricorda Federico Chabod, nel suo volume Storia dell’Idea d’Europa, che la prima contrapposizione, tra l’Europa e qualcosa che Europa non è, è opera del pensiero greco. Tra l’età delle guerre persiane e l’età di Alessandro Magno si forma per la prima volta il senso di un’Europa opposta all’Asia, per costumi, e, soprattutto, per organizzazione politica; un’Europa che rappresenta lo spirito di libertà, contro il dispotismo asiatico. Jeremy Rifkin, nella sua pubblicazione Il sogno europeo, del 2004, contrapponendolo al sogno americano descrive a sua volta il sogno europeo, sostenendo che esso pone l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita, sul gioco profondo più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale di potere. Qui al nord, la più recente emigrazione di ritorno, arricchita dal contatto e dal confronto con un contesto europeo più moderno, un’area di confine che

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naturalmente per secoli sente il richiamo con la Mitteleuropa, ha dato sempre grandi segnali di attenzione a questo sogno europeo. Nella mia esperienza personale, all’inizio degli studi ginnasiali ho avuto la fortuna di avere un professore che era responsabile regionale del Movimento federalista europeo, il quale ha avvicinato noi studenti a questi ideali, e alle figure che li hanno incarnati. Sono le esperienze edificanti di incontro con altre persone e culture, sono i testimoni che smuovono gli ideali e l’impegno dell’uomo. È di questi testimoni, come è stato Luigi Gui, prima ancora che di maestri, che abbiamo bisogno oggi. Davvero, per far uscire il paese dalla situazione presente sarebbe opportuno che ognuno e ogni istituzione potesse fare un passo indietro rispetto a privilegi, interessi corporativi, rigidità di settori, che nel tempo si sono stratificati nel nostro paese, guardando alle esperienze migliori in Europa, per dare spazio e speranze soprattutto ai giovani: quella attenzione alle nuove generazioni che Luigi Gui ha saputo sempre sostenere nella sua attività politica e ministeriale. Buona giornata di riflessione e lavoro.

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Marco Mascia Presidente dell’Associazione Universitaria di Studi Europei

A nome dell’Associazione Universitaria di Studi Europei ho il piacere di portare il saluto agli illustri ospiti, ai colleghi, in particolare a Benedetto e Francesco Gui, agli studenti, a tutti i partecipanti. Nell’odierno perdurante stato di turbolenza economica e finanziaria che caratterizza l’inesorabile incedere di una globalizzazione senza governance, l’UE sembra essersi incagliata in un groviglio di tecnicismi e di subdoli determinismi. Per contrastare questo trend pernicioso, il ricordo dei Padri fondatori deve aiutare a capire che, per un sistema integrativo come quello europeo, originale e innovativo nella storia delle relazioni internazionali, la tensione costituente deve caratterizzare in via continuativa la cultura delle sue leadership politiche e degli stessi cittadini europei. Questa tensione non può che venire da persone che interiorizzano paradigmi valoriali intrinsicamente universali e se ne fanno portatrici all’interno di disegni strategici, consapevoli che per la loro realizzazione occorre consenso, quanto più ampio possibile, e che, in questa dinamica democratica, la pedagogia dell’esempio gioca un ruolo essenziale. Si parla tanto di “radici” dell’Europa, con riferimento, spesso, a valori astratti e a formule ideologiche. Si parla poco dei Padri dell’Europa che con il loro esempio hanno incarnato valori di etica universale, del loro progetto di pace, della loro coerenza morale e politica, della loro lungimiranza politica. Guardando a loro, sarà meno difficile scoprire e convenire sulle radici e, allo stesso tempo, ritrovarsi attivi sulla frontiera aperta del disegno europeo. È il caso di ricordare che uno dei “Padri” esemplari è Altiero Spinelli, che l’Università di Padova annovera tra i suoi laureati honoris causa e che a questa università lanciò un segnale fecondo. Come risulta dal Diario pubblicato da il Mulino, Altiero Spinelli, nel febbraio del 1986, nella intervista telefonica di un’ora con docenti dell’Università di Padova, auspicava che si costituisse “un comitato interuniversitario” con l’obiettivo di mobilitare gli accademici europeisti delle università europee al fine di indurli ad uscire dall’isolamento nelle rispettive università. Così parlava Spinelli:

Vi consiglio quindi di attivare un piccolo comitato italiano che prenda l'iniziativa di instaurare e coltivare rapporti di collaborazione con le Università degli altri paesi europei. Guardate e

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andate fuori d'Italia. Gli umanisti italiani andavano in giro per il mondo, col rischio di farsi bruciare, e alcuni vennero effettivamente bruciati. Adesso non correte più questo rischio, muovetevi dunque, nella convinzione che avete qualcosa da dire agli altri e che volete trovare chi la pensa come voi.

Quell’invito fu subito raccolto. Nel 1987 partì dall’Università di Padova, anche su espresso invito di ambienti della Commissione europea, l’iniziativa di creare in Italia la “Associazione Universitaria di Studi Europei”, AUSE. La prima riunione del Comitato promotore dell'AUSE si svolse presso l'Ufficio di Milano delle Comunità europee il 17 dicembre 1987. L’atto istitutivo fu firmato nella stessa sede il 27 settembre del 1989. Quest’anno ricorre dunque il 25° anniversario di nascita dell’AUSE. In questi cinque lustri l’AUSE ha perseguito due obiettivi principali: promuovere la ricerca e l'insegnamento a livello universitario con riferimento agli aspetti giuridici, politici, sociali, economici e storici dell'organizzazione, del funzionamento e dello sviluppo dei processi e delle istituzioni di integrazione e unificazione europea; cooperare con analoghe associazioni ed istituzioni pubbliche e private operanti in Italia, in Europa e negli altri continenti. Anche negli altri paesi membri dell’allora Comunità europea furono create o sviluppate, se già esistenti come in Francia e in Germania, le associazioni nazionali di studi europei, le quali diedero vita alla “European Community Studies Association”, ECSA-Europe che, nel giro di pochi anni, grazie al Programma Jean Monnet, divenne ECSA-World. Particolarmente significativo è stato il contributo degli storici dell’integrazione europea. È qui oggi con noi la prof.ssa Daniela Preda, mia predecessora alla Presidenza dell’AUSE, che saluto con affetto. A lei va il merito di avere coordinato numerose pubblicazioni nella Collana di studi europei dell’AUSE. È appena uscito per i tipi della Cedam un ponderoso volume da lei curato con Umberto Morelli su L’Italia e l’unità europea. Dal risorgimento ad oggi. Idee e protagonisti. Quest’anno ricorre anche il 25° anniversario del Programma Jean Monnet. Nel 1989, sulla spinta di Jacques Delors, già Presidente della Commissione europea, e di Emile Noel, già Segretario generale della stessa, la Commissione europea lanciò il Progetto comunitario denominato “Action Jean Monnet”, poi divenuto “Programma”, per l’attivazione dell’insegnamento europeo nelle università. Contemporaneamente, veniva insediato a Bruxelles, per iniziativa della Commissione europea, d’intesa con l’allora Conferenza Europea dei Rettori e ECSA-Europe, il Consiglio Universitario Europeo per l’Action Jean Monnet, composto da un Presidente, da quattro Rettori designati dalla loro Conferenza e da quattro Professori designati da ECSA-Europe. Due docenti rispettivamente dell’AUSE e dell’Università di Padova ne fanno tuttora parte.

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Lo scorso 1° ottobre a Bruxelles è stato celebrato il 25° anniversario del programma JM e per l’occasione diffusa una pubblicazione dove, anche in essa, l’AUSE e l’Università di Padova sono in bella evidenza. Il ricordo di Luigi Gui nel contesto del presente convegno sia di auspicio per mantenere alta la tensione ai valori universali quali bussola sicura non soltanto per l’agire politico ma anche per quello accademico, in particolare per l’insegnamento e l’educazione, che furono al centro dell’impegno parlamentare e di ministro di Luigi Gui.

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Francesco Gui a nome della famiglia

… i popoli latini e germanici, che costituiscono la maggioranza dell’Europa, sono fatti per intendersi. Luigi Gui (1944)

Mi sia consentito in primo luogo ringraziare vivamente, insieme ai miei fratelli, Daniele e Benedetto, e all’intera famiglia Gui, tutti gli intervenuti a questo convegno. Esprimo inoltre la nostra più sincera riconoscenza nei confronti dell’Università di Padova e del suo rettore, in questa sede rappresentato dal prorettore Francesco Gnesotto, non meno che al professor Andrea Varsori, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche: non soltanto hanno accettato di ospitarci nella data odierna, ma hanno contribuito a rendere davvero significativo il nostro incontro, incoraggiando la partecipazione di così autorevoli relatori. L’apporto di tante personalità della cultura e della politica ci onora e suscita in noi una commossa gratitudine, che siamo lieti di esplicitare d’intesa con un uditorio sicuramente partecipe. Altrettanto sentiti ringraziamenti desidero rivolgere al Comune di Padova e in particolare all’amico assessore alla Cultura, Flavio Rodeghiero, con il quale abbiamo da tempo avviato una fattiva collaborazione in chiave europeistica. È merito suo, tra l’altro, se a suo tempo è stato istituito il Comitato nazionale per le celebrazioni del centesimo anniversario della nascita di un altro “padre dell’Europa”, sia pure non di scena oggi, quale Altiero Spinelli. Il Comitato ha operato con notevoli risultati ed ampia partecipazione di pubblico dal 2006 al 2010, se non oltre, dando luogo sia a suggestive riflessioni a carattere storico-culturale, sia ad eventi oso dire memorabili in diverse città italiane. Mi sia consentito ricordare inter alia i convegni di Barletta e di Chieti, sedi originarie di una famiglia del Mezzogiorno destinata a proiettarsi sull’Europa ed oltre; l’illuminazione notturna, fra lo stupore dei turisti, della Fontana di Trevi con i colori della Ue a dodici stelle; ovvero la coinvolgente dedica di un’Aida alla neonata Unione per il Mediterraneo, presso le Terme di Caracalla, in un’estiva quanto affollatissima serata romana; ovvero ancora, varcando le Alpi, la conferenza conclusiva nella sede del Parlamento europeo, a Bruxelles. Ma non si dimentichi nemmeno il premio per la cittadinanza europea, istituito in occasione delle suggestive, scenografiche partite a scacchi di

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Marostica, ovviamente con il contributo determinante di Flavio. Il quale Rodeghiero, proprio alcuni giorni or sono, ha pubblicato e presentato in Comune gli atti di un convegno sull’Unione europea tenutosi qualche tempo fa al Collegio Mazza, nel quale mi aveva benevolmente coinvolto. Fraterna e fattiva amicizia ci lega anche all’amico e collega Marco Mascia, accanto al quale si staglia l’amabile, ammirata fisionomia del professore emerito Antonio Papisca. Non solo essi agiscono infaticabilmente come animatori, qui a Padova, del Centro di Ateneo per i Diritti Umani; non solo si dedicano, insieme a tanti autorevoli e motivati colleghi, alle intense attività dell’associazione universitaria di studi europei, l’Ause, attualmente presieduta da Mascia. Ebbene, essi sostengono anche l’iniziativa, o per meglio dire la rete, fra numerosi accademici italiani, chiamata “l’Università per l’Europa. Verso l’Unione Politica”, che abbiamo avviato dal qualche tempo. La rete, beneficiaria dell’autorevole sostegno, tra gli altri, del giudice costituzionale e del presidente , si dedica infatti alla promozione della riflessione in merito al traguardo, diciamo, etico- politico prioritario del nostro tempo: che è appunto l’unione politica europea. Un obiettivo ambizioso, ma ormai riconosciuto come necessario anche da leader europei assai concreti, il quale merita, richiede, esige un’intensa attività di riflessione, di formazione e di proposta. Di fatto, ci troviamo nel contesto della progressiva creazione di una nuova entità di tipo statuale. E pertanto, al contrario di quanto facciano i cultori dell’effimero quotidiano, si impone in tutti noi la interiorizzazione di una vera cultura, in ogni ambito del sapere e della produzione intellettuale. Solo così sarà possibile costruire un completo assetto istituzionale, sostenuto dalla consapevolezza e dalla partecipazione dei cittadini europei, perché tali noi siamo, al di sopra e al di là delle appartenenze nazionali. Non per caso, anzi, è proprio sulla base di siffatti presupposti che è parso opportuno, per non dire doveroso, dedicare ai padri della costruzione europea e all’attualità del loro messaggio questa nostra giornata. Un evento che intreccia, che interseca - mi verrebbe da dire naturaliter - la circostanza della commemorazione della nascita di nostro padre, Luigi Gui (il cui primo scritto politico, clandestinamente diffuso in questa città nel dicembre 1944, era dedicato proprio alla risorgenza del nostro Paese nella prospettiva dell’unità europea) con la stringente necessità, ai nostri giorni, di attingere alle fonti, alle personalità e alle tensioni originarie della nostra vita democratica continentale. Il riferimento, ovviamente, è alle figure eccezionali di “padri dell’Europa” quali Konrad Adenauer, Robert Schuman e Alcide De Gasperi, a cui verranno oggi dedicate, grazie alla nota competenza dei colleghi Thomas Jansen, Sylvain Schirmann e Daniela Preda, preziose ed illuminanti riflessioni. Proprio per

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merito dei tre leader di formazione e confessione cattolica, spiritualmente eredi della mai completamente estinta Respublica Christiana (“carolingia” bisbigliarono oltremanica), si sarebbe espressa l’istanza del definitivo superamento della temperie nazionalistica degenerata nei conflitti novecenteschi. Un superamento perseguito in forza di comuni valori e sentimenti, mai completamente disconosciuti, che si basavano precisamente su fattori umanistici, religiosi, relazionali, capaci di gettare un ponte al di sopra delle diversità etniche, linguistiche, nazionali. Con in più, vale la pena di notarlo una volta ancora, pensando a Metz, Colonia e Trento, quella avvincente contiguità romano-franco-germanico-asburgico-italiana, all’ombra delle rispettive autorità vescovili di antica pertinenza imperiale. Prossimità a distanza, ovviamente, ma che legava l’uno all’altro i tre uomini grandi dell’Europa profondamente continentale, periferica e centrale al tempo stesso, in una dimensione oggettivamente e oseremmo dire felicemente estranea al centralismo nazional- sovranista delle città capitali: Roma, Parigi, Berlino. A tale temperie cristiano-repubblicana si sentiva naturalmente quanto precocemente affine anche l’ex allievo di Padre Gemelli, votatosi alla filosofia alla Cattolica di Milano, nonché energico ex tenente degli Alpini, Luigi Gui. Era entrato nella Resistenza una volta indottosi a “rompere le righe” del proprio reparto dopo il ritorno dalla campagna di Russia, previ episodi di repressione anti-titina in Jugoslavia. Eh sì, perché proprio in quei frangenti era giunta la notizia, per bocca di eccitate soldatesche, che: addì 25 luglio, Mascellone aveva fatto il botto. In originale, “Sior tenente, i gà buttà xó Ganassa”. Gli si apriva dunque allora, appressandosi la crudele stagione della Repubblica di Salò, la scelta dell’opposizione armata, insieme ad un manipolo di coraggiosi riparatisi in fondo ai boschi, alle pendici del Monte Grappa? Allo stato dei fatti, per il pragmatico ex tenente degli alpini quell’esperienza durò poco. Si rischiava di finire assai presto, come difatti avvenne ai suoi un po’ troppo fidenti compagni di avventura, tutti a fronte alta davanti al plotone di esecuzione. Eroico, generoso, incomparabile esempio di dedizione. Sicuramente, ma forse anche troppo acerbo e precoce quel crollare di lì a poco in terra senza vita, impietosamente riversi sulla piazza principale di un paese là vicino. Atroce ricordo delle memorie paterne1. Di qui, di conseguenza, l’opzione per la resistenza urbana, per l’organizzazione di una rete di messaggi, di formazione e scambi culturali clandestini, di pervasive solidarietà a vasto raggio, di informazioni veicolate con il connivente conforto di coraggiose personalità di spessore pubblico od

1 Il testo del libretto clandestino è riprodotto in allegato a questo numero di «EuroStudium3w».

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ecclesiastico, quali don Giovanni Nervo, decisamente antifascista2. L’obiettivo era di suscitare la repulsione diffusa verso l’oppressione del presente e porre le basi per la ricostruzione del proprio Paese, destinata ad affacciarsi come compito sine quo non, una volta ridotto in poltiglia il verro nazi-totalitario sanguinolento. Una ricostruzione da attuare su fondamenti democratici e cristiani, con adeguati strumenti concettuali e saldezza di principi fondativi. E stando bene attenti a non cadere nell’altra trappola totalitaria, quella collettivistico slavofila, verso la quale l’ex tenente con esperienze belliche russe e jugoslave non risultava tenero per niente. Del resto, il trentenne Luigi, nato allo scoppio della grande guerra e scampato per un soffio all’epidemia di “spagnola”, primogenito di una famiglia proletaria danneggiata dalla violenza fascista, piuttosto che ad incrociare le armi, si era eminentemente vocato all’esercizio delle facoltà intellettuali. Come filosofo aspirante professore, appunto. Ed anche con larghezza di vedute, malgrado i conformismi del regime. A riprova, nel recente The Reception of David Hume In Europe, curato da Peter Jones, e in particolare nel saggio a firma di Paola Zanardi, si sottolinea l’importanza degli studi fine anni Trenta di Luigi Gui3. Significativa, tra l’altro, la traduzione dell’Estratto del Trattato della natura umana - in originale Abstract of the Treatise on Human Nature (1740) – data alle stampe dalla notoria, patavina editrice Cedam4. Peccato soltanto che il futuro riformatore dell’istruzione pubblica post-bellica si trovasse ormai in addestramento fra muli, mortai e cappelli con penna nera, sempre che nel frattempo non fosse già salito sul convoglio con destinazione steppe russe. Apprezzabile propensione, a ben vedere, quella di nostro padre per la cultura e la solidità socio-istituzionale di caratura britannica. Propensione non certo acritica, ma che avrebbe contribuito a conferirgli un’apprezzata lucidità di giudizio politico, decisamente orientata ad Occidente. Vale la pena di prenderne atto, senza per questo voler sottacere le sue confessate, seppur sempre scettiche e non certo solitarie palpitazioni di un tempo per l’Italia concordataria divenuta imperiale; ovvero sottovalutare l’impegno patriottico che lo aveva portato in armi verso le menzionate steppe staliniste (fortuna sua

2 Monsignor Giovanni Nervo è stato il primo fondatore e presidente della Caritas italiana. Cfr. Antonio Prezioso, Le politiche sociali in Italia. Una storia, un testimone. Interviste a Giovanni Nervo…, EDB, Bologna 2001; L’alfabeto della carità : il pensiero di Giovanni Nervo padre di Caritas italiana, a cura di Salvatore Ferdinandi, EDB, Bologna 2013. 3 The Reception of David Hume In Europe (ed. Peter Jones), Thoemmes Continuum, Londra-New York 2005, p. 180. 4 Cfr. David Hume, Estratto del trattato della natura umana, traduzione [dall'inglese] di Luigi Gui, Cedam, Casa Ed. Dott. A. Milani, (Tip. Del Seminario), Padova 1941; anche l’edizione successiva, del ’42, presso Cedam.

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che il treno venne bombardato prima dell’arrivo al fronte, cosa che consentì una lenta ritirata costellata di isbe russe, con figure di pope che accoglievano benedicenti5) e pur in presenza di una persistente fedeltà all’idea di uno Stato con religione ufficiale riconosciuta in costituzione. Ma del resto, su questo ultimo punto, del rapporto tra chiesa e istituzioni, anche in Inghilterra… Fatto sta che la conferma degli sguardi paterni rivolti oltre la Manica viene proprio dal citato opuscolo clandestino del ’44, intitolato La politica del buon senso e caratterizzato da un’intenzionale semplicità maieutica a pro del semplice concittadino. Nell’auspicare la nascita di un’Italia democratica inserita all’interno di una “confederazione”, o federazione?, d’Europa, l’anonimo autore dello scritto, che si autodefiniva (ma senza risonanze gianninian-guareschiane) “uno qualunque”, perorava con convinzione la partecipazione inglese alla comune prospettiva unitaria. “Inghilterra compresa”, appunto. Più scettico invece il giudizio sul “polipo” americano, decisamente ammirato sul piano istituzionale, tanto da augurare anche all’Italia democratica un presidenzialismo emancipato dall’anarchia dei partiti, ma comunque “polipo”, ritenuto potenzialmente alquanto invadente. Tant’è che il prossimo costituente Gui, da dossettiano qual era, non avrebbe nemmeno gradito, una volta entrata in vigore la charta, l’adesione italiana al Patto Atlantico, sia pure accettando e rispettando le decisioni assunte6. E lasciamo da parte il persistente attaccamento riservato da nostro padre ad un’Europa a vocazione vuoi colonizzante, vuoi civilizzante nei confronti dei paesi d’oltremare: al giorno d’oggi la cosa non suona particolarmente politically correct, seppure nella prospettiva ideale di una futura unità dei popoli del mondo, o almeno di un’intesa pacifica fra i “grandi” del pianeta. Lasciamolo da parte, quell’attaccamento, anche perché, a ben vedere, esso rivelava notevole consonanza con gli orientamenti dei più eminenti leader postbellici di sentire liberal-democratico del Vecchio Mondo, inglesi o francesi che fossero. Segno e temperie residuale di tutta un’epoca insomma, non troppo fiduciosa negli ammonimenti anticolonialisti kantiani e non soltanto. Ma non che sia facile, neanche al giorno d’oggi, si consenta la digressione, appagarsi di un Europa inerte e indifferente verso quanto accada oltre il Mediterraneo, in varie direzioni. Un qualche ruolo, detto un po’ presuntuosamente, “civilizzatore” sarà impresa ardua scongiurarlo.

5 Sulla realtà russa e del comunismo sovietico, oltre alle considerazioni esposte nel testo clandestino del ’44, cfr. Luigi Gui, Il sole non spunta ancora in Russia, S.E.L.I., Roma 1948, scritto dopo un viaggio compiuto in quell’anno. 6 In argomento si veda tra l’altro la ricostruzione di Sergio Romano, riprodotta in http://archiviostorico.corriere.it/2006/giugno/21/Dossetti_sinistra_Patto_atlantico_co_9_0606211 11.shtml.

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La specificità culturale che qui maggiormente importa rilevare, riprendendo il filo del discorso, è l’atteggiamento di fiducia rivolto da Luigi Gui, pur convinto cattolico, a certe tradizioni di ispirazione sociale, quand’anche laiche, fortemente improntate all’esperienza britannica. Di tutto questo, senza voler rimandare a sviluppi successivi, del tipo centro-sinistra anni Sessanta, fornisce ulteriori conferme l’ormai più volte menzionato libretto “politico”, ragionante sul “dopo” ed aspirante, sia pure con qualche comprensibile ingenuità, al “buon senso”. È interessante annotare infatti come alla funzione di interlocutori privilegiati del partito democratico cristiano, in vista dell’agognato risorgimento nazionale ed europeo, il nostro “uno qualunque” eleggesse chi? Precisamente quei mangiapreti, sia consentita la bonaria ironia, del Partito d’Azione. Ed è altrettanto istruttivo rilevare come nel Partito d’Azione si schierassero allora gli esponenti dell’Italia antifascista laica e democratica più aperti verso i modelli britannico-occidentali a tensione socialmente progressista, con l’aggiunta di un messaggio di coesistenza fra le nazioni. Non a caso, lo stesso Altiero Spinelli, espressione massima del federalismo europeo di casa nostra, un federalismo stoicamente maturato nelle prigioni e al confino durante il regime, si sarebbe trovato molto vicino al Partito d’Azione. Fino al punto di aderirvi proprio nel periodo fra Resistenza e Liberazione. E sempre non a caso quel federalismo, pur non dimentico della tradizione risorgimentale, benché profondamente sensibile alla suggestione di Luigi Einaudi e Benedetto Croce, risultava tuttavia fortemente debitore nei confronti del pensiero inglese, da Richard Cobden a John Seeley, da Lionel Robbins a Philip Henry Wicksteed. Con in più il capitale lascito hamiltoniano, per quanto proveniente dalle parti del polipo, ma presidenziale, statunitense. Dopodiché il cerchio del ragionamento potrà chiudersi soltanto tornando alle figure dei “padri dell’Europa” oggetto di questo nostro convegno. Analogamente alle intese prospettate dal piuttosto preveggente opuscolo ciclostilato del ’44 (e pur tenendo conto delle delusioni di Luigi Gui nei confronti degli azionisti italiani7), a cementare le basi della costruzione unitaria dell’Europa post-bellica sarebbe stata proprio la collaborazione fra i leader cristiano-democratici ed illuminate figure-guida di appartenenza laica: individualità e dirigenti politici non dimentichi dell’89 francese, eppur prevalentemente attenti alla tradizione di pensiero anglosassone, se non in qualche modo sensibili anch’essi al personalismo. Con l’obiettivo,

7 La delusione di Gui per il Partito d’Azione risulta speculare a quella dell’ex comunista Spinelli: anche quest’ultimo, dopo il congresso del ’46, preferì uscirne insieme , e gli altri, nel nome di un repubblicanesimo occidentalista. Poco dopo decise di operare esclusivamente da federalista.

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esplicitamente affermato nella dichiarazione Schuman del 9 maggio ’50, di giungere ad istituire una “federazione” europea. Sulla sponda laico-occidentalista dello scenario, a forte coloritura sociale, ritroviamo pertanto personalità come Jean Monnet, notoriamente “inventore” delle Comunità, o il belga Paul Henri Spaak, o l’olandese Sicco Mansholt, magari il nostro Carlo Sforza, o Altiero Spinelli stesso, molto ascoltato da De Gasperi al tempo della Comunità europea di difesa e della Ced (materia su cui Daniela Preda è arbiter). Ai quali dati si può forse aggiungere la formazione al federalismo statunitense di Walter Hallstein, il primo presidente della Commissione della Comunità economica europea, di cui ci parlerà con acclarata competenza Thomas Jansen, il quale è stato, come sappiamo, segretario generale del Partito popolare europeo. Varrà la pena di aggiungere ancora che fra i “padri” ufficialmente riconosciuti dalla Ue fa capolino anche il premier britannico per eccellenza, Winston Churchill, patrono dello “European Movement” e magniloquente patrono del congresso dell’Aja del maggio 1948, da cui l’intero processo prese inizio. Salvo poi lasciare spazio ad una progressiva reticenza dell’intera società inglese – non ritiro dalla scena, però, caso mai parecchio egocentrismo gestito al bilancino – man mano che i tentacoli d’Oltreatlantico mettevano in crisi le aspirazioni di leadership londinese su un continente acconciamente confederato. Ma lasciamo stare quel qual persistente snobismo britannico, peraltro giustificato dalla potenziale funzione di “réserve de la République” (europea) in caso di derive continentali poco apprezzabili. Luigi Gui, sempre anno ’44, vedeva tra l’altro nella storia inglese la felice conferma delle potenzialità nascenti dall’incontro fra radici germaniche e latine, laddove la Svizzera testimoniava superbe capacità di coesistenza pacifica e costruttiva. Personalmente mi limito a constatare che la nostra Europa, se vorrà avere una lingua franca, dovrà avvalersi precisamente di quell’impasto anglosassone- latino esportato anche al di là dell’Atlantico, a conferma di una communitas che comunque non si può scindere. Anzi, resta fondamentale. Chiedendo venia per la divagazione, mi sia consentito invece, ormai in dirittura d’arrivo, ribadire e ulteriormente rimarcare ciò che costituisce il patrimonio conferitoci dai padri. Che viene troppo spesso colpevolmente dimenticato. La loro determinazione trovava fondamento nell’adesione a fattori identitari sovranazionali, a carattere ideale e spirituale, non meno che nella disponibilità al creativo dialogo con forze “altre”, ma anch’esse addestrate - internazionalismi moscoviti esclusi - a varcare culturalmente le frontiere nazionali. Solo sul basamento di una comunità ideale e culturale, ricca di tradizioni e patrimoni di pensiero consolidati, tanto sul fronte dei credenti che su quello

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socialista e liberale, era possibile erigere con successo – e i “padri” hanno fatto scuola – il vagheggiato edificio comune. Vale a dire: le comunità economiche destinate ad integrare i popoli avviandoli progressivamente verso la realizzazione dell’unità politica, condivisa da un demos - non certo etnico - europeo. La sussistenza, in altre parole, e la promozione di relazioni, di appartenenze, di solidarietà, di militanze, di progettualità sviluppate in comune ha costituito fin dall’inizio, e costituisce ancor di più nel presente, un fattore indispensabile. Indispensabile per conferire finalmente alla pluralità europea - di sicuro non facilmente conciliabile, ma al tempo perennemente centripeta, nella secolare dialettica fra l’uno e il molteplice - un assetto in grado di compenetrare unità e diversità all’interno di istituzioni di tipo federale. Continuare invece, come si fa tutt’oggi, ad operare prevalentemente quanto regressivamente secondo logiche di gratificazione nazionale, ritardando lo sviluppo di partiti sovranazionali; rifiutando testardamente di conferire all’Unione una legge elettorale uniforme, benché già prevista nei trattati originari; imbolsendo le comuni istituzioni con un numero di membri sempre pari a quello degli stati aderenti (oggi 28, domani più di 30, malgrado l’evidente ingestibilità denunciata dai leader stessi); mantenendo altrettanti diritti di veto “nazionale” su una quantità di tematiche; respingendo sistematicamente l’ipotesi di aumentare le risorse comuni; riluttando di fronte all’idea di realizzare i grandi progetti scientifici e tecnologici che dovrebbero costituire l’obiettivo più alto dell’impresa collettiva, anche al fine di metterli a disposizione dei popoli e dei paesi meno fortunati; continuare su questa strada, insomma, non fa che immiserire il clima generale; ridurre ogni aspirazione soggettiva e comunitaria agli allettamenti di una crescita ammaliata di consumismo narcisistico, dimentico della potenziale qualità e suggestività della vita di un’epoca che sia conscia di se stessa; suscitare gli istinti più elementari nei cosiddetti movimenti populisti; demotivare ogni giorno di più l’impresa comune senza fornire di fatto soluzioni alternative. Fortuna che la massiccia integrazione socio-economica e la vasta circolazione di persone avviate in tutti questi anni a partire dal mercato comune, messo all’opera dai “padri” più funzionalisti, per giungere fino all’euro – ma non dimentichiamo nemmeno i meriti di “Erasmus” – rendono poco credibile un percorso di disgregazione. Di fatto si procede in avanti per passi sostanzialmente tecnocratici, incomprensibili ai più, e monnettianamente imposti, che soddisfazione, dalle crisi successive. Che fare, a questo punto? Non che non esistano e, in caso di prolungata stagnazione della maggioranza degli spiriti, non risultino impraticabili soluzioni egocentriche, da parte dei più forti e dei più benestanti. O magari si

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proseguirà invece sul registro della gestione direttoriale, propria dell’asse consolidato franco-tedesco, benché ad oggi parecchio frustrato sul versante parigino e semmai effervescente su quello berlinese. E tuttavia non è facile trascinarsi indefinitamente verso stanchi e nebulosi orizzonti, contraddistinti soltanto da luoghi comuni e uno slabbrato edonismo di fondo, a dimensione di massa. Tanto più che le tragedie, le insidie, i pericoli, le incursioni, i corrispondenti doveri che incombono ai confini del Vecchio Mondo rendono sempre più deprecabili e irresponsabili certi atteggiamenti. La speranza è che il messaggio dei “padri fondatori”, ancora una volta, animi per lo meno gli elementi migliori e più lungimiranti della società europea. Non vorrei dilungarmi ancora, ma diciamo la verità: urge ormai rimetter mano alla costruzione incompiuta, l’edificio iniziato, anzi, magistralmente architettato, all’epoca della Ced e della Comunità politica europea, per poi essere accantonato, poi almeno in parte recuperato, là sì e là no, e non senza crolli, negli anni successivi. Trattasi precisamente del lascito di Adenauer, Schuman e De Gasperi, con il concorso degli “altri”, che reclama i propri diritti di verità, che impone il dovere di esser portato a compimento. Sotto questo profilo, i prossimi anni esigeranno di rivelarsi decisivi. Il processo costituente, ripreso in parte proprio nel 2014 grazie ai criteri di elezione e di scelta dell’esecutivo dell’Unione, in concorso con il neo eletto parlamento dei cittadini europei, ha già prodotto alcuni incoraggianti risultati. Ma la gran parte resta ancora da fare, da progettare; da concepire passando in rassegna i modelli istituzionali esistenti, per poter escogitare la soluzione più idonea e condivisa; da dibattere nelle università e nei media (tuttora assai generici e inconcludenti); da forgiare mediante iniziative coraggiose e contro corrente. Soprattutto chiamando le opinioni nazionali a confrontare, fra partner, i rispettivi pregi e difetti, mettendo a disposizione di tutti i primi ed emendando con determinazione i secondi. Una felice complementarità, insomma, fra specificità nazionali e senso di appartenenza all’erigenda federazione. Ripeto: federazione, come risulta, precisamente, dalla dichiarazione Schuman. Sì, perché, detto scherzosamente per incidens, la parola “unione”, unione europea, piaceva persino a Mussolini, ed anche al governo inglese, al tempo della Società delle Nazioni: nella sua genericità poteva significare più il nulla che il tutto8. Insomma, generosità, competenza, cultura, scienza, rigore concettuale, solidità ed efficienza, fiducia reciproca basata sull’onestà e sul rispetto della legge, elevata concezione dell’uomo, solidarietà, creatività, sostanziale

8 Cfr. Simona Giustibelli, Europa, paneuropa, antieuropa: il dialogo tra Francia democratica e Italia fascista nell'epoca del memorandum Briand (1929-1934), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

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spiritualità dovranno prevalere in vista e in occasione della convocazione della prossima, attesa convenzione costituente. Tutte doti, va da sé, che rimandano ancora una volta ai “padri dell’Europa”, al loro esempio eccezionale. E che per il nostro Paese in particolare saranno il nerbo di un reale compimento del Risorgimento nazionale, di una profonda trasformazione liberatrice da odiose tare ormai purulente, nel nome e nel perseguimento, da protagonisti, dell’unità europea. Nel concludere porgo ancora ringraziamenti “mirati” al collega Giampaolo Romanato, per l’approfondimento sulla formazione dei giovani cristiano-democratici all’idea di unità europea; alla ricercatrice, e mamma, Daria Gabusi, che si dedica da tempo con perizia e sensibilità davvero uniche ai temi della riforma scolastica anni Sessanta in Italia e in Europa; all’assessore Claudio Piron, promotore di tante iniziative di formazione ed educazione alla cittadinanza, locale, nazionale ed europea; e infine all’onorevole Flavia Piccoli Nardelli, magna pars davvero cospicua dell’Istituto Luigi Sturzo, oggi assente (anzi, presente in video registrato) perché impegnata a presiedere la commissione Cultura della Camera, per la disponibilità e l’affetto che ci ha riservato, e che ricambiamo di tutto cuore, sperando di reggere il confronto con il suo. Professor Schirman, unico partecipante ad aver coraggiosamente affrontato i valichi alpini per giungere fra noi!, mi perdonerà se ancora non avevo osannato i suoi meriti fino a questo momento. Per la verità, avrei dovuto dare atto anche a Daniela Preda che il libretto clandestino del ’44 l’aveva segnalato lei, sua sponte, in un suo volume di qualche tempo addietro9. Grazie Daniela. Ma mi sia consentito mantenere lo sguardo sulla città di Argentoratum, Strasburgo, quella che ha dato il nome a piazza Argentina a Roma e che ospita l’importante Institut d’Etudes Politiques, diretto appunto da Sylvain Schirman. Città europea per eccellenza, Strasburgo, non a caso sede del Parlamento europeo e del churchilliano Consiglio d’Europa, con tribunale dei diritti dell’uomo annesso (e da non confondere, come fa di regola la stampa nazionale, con la Curia di Lussemburgo). È curioso il particolare per il quale, quando l’Europa si trova abbastanza unita, le città importanti tornano ad essere quelle centrali, lotaringiche, come al tempo di Carlo V, e viceversa, in tempo di lacerazioni, si trasformano in prede da conquistare e da dividersi. Perché poi si non si tratta certo di realtà secondarie, bensì costitutive dell’identità europea, sorta di asse centrale della comunicazione, degli scambi, della cultura, della politica di coesistenza.

9 Daniela Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Il Mulino, Bologna 2006.

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Non per nulla l’Institut di Strasburgo, diretto dal collega che ci ha fatto l’onore di trovarsi oggi con noi, è parte di una “filière d’excellence, à vocation européenne et internationale” fra numerosi istituti di studi politici francesi. Sicché ci lascia a dir poco ammirati, sia permesso notarlo, come il direttore abbia trovato l’energia per farsi carico di una così importante gestione e proseguire al tempo stesso i suoi sistematici studi sulla storia europea novecentesca, “l’ordre” continentale, e su quella di uomini e istituzioni postbelliche, tra Comunità e Unione. Del resto, anche Thomas Jansen, residente triestino, ha saputo conciliare, come tutti gli riconoscono, impegno politico e ricerca storica. Grazie ancora, insomma, e sinceri complimenti a tutti, non dimenticando mai che l’universitas studiorum, fin dai suoi esordi medievali, ha rappresentato un fattore incomparabile di promozione culturale, formativa, scientifica, di libertas!, per l’intera Europa. Prendendo le mosse proprio da qui: prima Bologna e poco dopo, senza dimenticare la Sorbonne, sì, Padova, universa universis! Padova del Bo’, del Santo e del Palazzo della Ragione. Fra schiere di docenti e studenti delle diverse… nationes.

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La visione dei padri fondatori: la Comunità politica europea eredità di Alcide De Gasperi di Daniela Preda

In un opuscolo del dicembre 1944, Luigi Gui proponeva una lettura della situazione europea e internazionale di grande lungimiranza e attualità. Egli individuava, da un lato, l’emergere di unità territoriali aggregate a livello mondiale – Stati Uniti, Russia, Cina, Impero Britannico – dall’altro, il persistere di un’Europa parcellizzata, anacronistica per i tempi nuovi. A metà del XX secolo l’Europa aveva perso la sua centralità nel mondo e rischiava di essere soggiogata ed emarginata sul piano internazionale dallo strapotere di USA e URSS. Pur vivificato da quella molteplicità di Stati nazionali che nel corso dei secoli avevano mantenuto la loro libertà combattendo contro i ripetuti tentativi egemonici (fossero della Spagna di Carlo V o di Filippo II, della Francia del Re Sole o di Napoleone, fino ai più recenti tentativi tedeschi), il Continente, di fronte alle devastazioni provocate dall’anarchia del sistema europeo degli Stati, era chiamato a trovare un’alternativa valida che conciliasse la necessaria unità con la feconda diversità.

Che fare dunque? – si chiedeva Luigi Gui – Non resta che difenderci e in un modo soprattutto: unendoci. È venuto il tempo di creare una confederazione d’Europa, Inghilterra compresa (…) e poi costituire una più perfetta Società delle Nazioni, per collaborare e dirigere le questioni con i grandi Stati extra europei. Questa è la via del buon senso, dell’interesse e dell’onore. 1

1 Luigi Gui, 1944: pensando al dopo: uno qualunque, la politica del buon senso, dicembre 1944, documenti a cura della FIVL, Padova, Associazione Volontari della Libertà, 1981; ripubblicato in G.B. Varnier, Idee e programmi democratici cristiani nella Resistenza: l’ambiente, gli autori, le prospettive, in «Civitas», XXXV (1984), n. 2 (marzo-aprile), pp. 5-42, pp. 91-104. La citazione trovasi a p. 100.

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Come antidoto alla decadenza, Gui proponeva cioè un ideale antico – l’unità europea, “come hanno sempre sognato i grandi spiriti”, che trovava concretezza nella realtà internazionale del XX secolo – coniugandolo però in una forma, quella “confederale”, che avrebbe consentito il mantenimento di una feconda pluralità. La sua aspirazione non era solitaria. Durante la guerra e nell’immediato dopoguerra l’ideale europeista era vivo nelle élites culturali e politiche più lungimiranti, nonostante la storiografia abbia per lungo tempo confinato i propri studi sul versante delle lotte di liberazione nazionali, non valorizzando l’emergere di quegli aspetti di novità che nell’arco di pochi anni avrebbero portato alla nascita delle Comunità europee. Le idee di pace, solidarietà, unità erano destinate a svilupparsi soprattutto, ma non esclusivamente, nel corso della Resistenza, a stretto contatto con le devastazioni del secondo conflitto mondiale e con le degenerazioni totalitarie a cui aveva portato lo stato nazionale. Impegnati fianco a fianco nella comune lotta contro gli oppressori nazifascisti erano in molti a ritrovarsi al di là delle frontiere non solo per coordinare la loro azione militare per la vittoria, ma anche per studiare i modi per costruire una nuova statualità sovrannazionale che – come auspicava Gui – garantisse pace e stabilità politica, benessere economico e sociale. In ogni Paese si assisteva a una fioritura endemica di scritti, movimenti, azioni, giornali, veri e propri progetti costituzionali2 che ponevano al centro della loro attenzione l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa3, superando i tradizionali steccati politici e ideologici, coinvolgendo socialisti e democratici cristiani, repubblicani e liberali e, in Italia, appartenenti al Partito d’azione. Emblematico in tal senso è il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 a tre mani da Altiero Spinelli, un ex comunista, dal socialista Eugenio Colorni e dal liberale Ernesto Rossi4. Ma si pensi anche, a titolo esemplificativo, al Progetto di

2 Una raccolta preziosa di questi progetti costituzionali è contenuta in L’Unione politica europea: proposte, sviluppi istituzionali, elezioni dirette, a cura di A. Chiti-Batelli, Roma, Senato della Repubblica, 1978; cfr. inoltre D. Preda, First Attempts to found a European Federal State: a Retrospective Glance, in «The European Union Review», IV (1999), n. 1, pp. 107-119. 3 Sulla diffusione degli ideali europei nel periodo resistenziale si vedano W. Lipgens, Europa- Föderationspläne der Widerstandsbewegungen 1940-1945, München, Oldenbourg, 1968; Documents on the History of European Integration, vol. I, Continental Plans for European Union 1939-1945, a cura di W. Lipgens, Berlin-New York, De Gruyter, 1985; La Resistenza e l’Europa, a cura di A. Colombo, Firenze, Le Monnier, 1984; L’idea di Europa nel movimento di liberazione 1940-1945, Roma, Bonacci, 1986; Plans des temps de guerre pour l’Europe d’après-guerre 1940-1947, a cura di M. Dumoulin, Bruxelles, Bruyant, 1995. 4 A. Spinelli – E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, documento redatto e diffuso dattiloscritto nel luglio del 1941, pubblicato con prefazione di E. Colorni, in A. Spinelli - E. Rossi, Problemi della

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costituzione federale europea e interna5 elaborato tra il 1942 e il ’43, assieme ad Antonino Repaci, dal mazziniano, giellista, poi aderente al PdA, Duccio Galimberti, o al volume Stati Uniti d’Europa?6, redatto nel gennaio del ’44 sotto lo pseudonimo di Edgardo Monroe dal federalista valdese Mario Alberto Rollier7 appartenente al PdA dal 1942, che sarà tra gli scritti federalisti più diffusi e capaci di proselitismo. Rollier scriverà anche uno Schema di costituzione dell’Unione federale europea, che è possibile annoverare tra i primi progetti di costituzione europea. In ambito cattolico, su posizioni europeistiche analoghe a quelle di Gui, troviamo Piero Malvestiti8 che, guidando con Gioacchino Malavasi il Movimento Guelfo d’Azione, nel ’41 redigeva un Manifesto programmatico in dieci punti, al primo posto dei quali spiccava l’unità europea. Queste idee sarebbero confluite nel Programma di Milano della Democrazia Cristiana, elaborato tra il ’42 e il ’43, in cui, al primo punto, si chiedeva la creazione di una “Federazione degli Stati europei retti a sistema di libertà”9. Già negli anni Trenta, peraltro, Guido Gonella10 pubblicava ne «L’Osservatore Romano» articoli di stampo europeistico e internazionalistico11 e nel maggio 1943 scriveva

Federazione europea , 1944 e ripubblicato dal MFE, Bologna, Il Mulino, 1970 e 1991, con un saggio introduttivo di N. Bobbio. Il documento si trova anche in Trent'anni di vita del MFE, a cura di L. Levi e S. Pistone, Milano, FrancoAngeli, 1973, pp. 46-65. La traduzione del Manifesto in tutte le lingue dell’Unione è stata pubblicata a Roma, Regione Lazio, 2009. 5 D. Galimberti (Tancredi) e A. Repaci, Il Progetto di costituzione federale europea e interna (1942- 1943), in A. Repaci, Duccio Galimberti e la Resistenza italiana, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971, recentemente ripubblicato Progetto di costituzione confederale europea e interna, con scritti di L. Bonanate, G. Zagrebelsky, L. Ornaghi, Torino, Nino Aragno editore, 2014. 6 M.A. Rollier, Stati Uniti d’Europa?, in «Quaderni dell’Italia libera», n. 15, gennaio 1944, poi ripubblicato, senza il punto interrogativo finale, con una prefazione dello stesso Rollier, Milano, Domus, 1950. 7 Su Mario Alberto Rollier si vedano gli studi pionieristici di Cinzia Rognoni Vercelli, culminati nel volume Mario Alberto Rollier. Un valdese federalista, Milano, Jaca Book. Cfr. inoltre La personalità poliedrica di Mario Alberto Rollier. Ricordo di un milanese protestante, antifascista, federalista e uomo di scienza, a cura di S. Gagliano, Milano, Biblion Edizioni, 2010. 8 Sul pensiero e l’azione europeista di Malvestiti cfr. A.M. Fiorentini, Piero Malvestiti e l’Europa. Storia di un’idea clandestina: dall’antifascismo guelfo all’attività europeista, Milano, Unicopli, 2012. 9 Il Programma di Milano della Democrazia cristiana, 25 luglio 1943, in Atti e documenti della Democrazia cristiana 1943-1959, Roma, Cinque Lune, 1959, pp. 12-15. 10 Sull’europeismo di Guido Gonella, si veda G. Gonella, Lo spirito europeo. Scritti e discorsi, Roma, Logos, 1979 e Verso la seconda guerra mondiale. Cronache politiche «Acta Diurna» (1933- 1940), a cura di F. Malgeri, Roma Bari, Laterza, 1979; Id., Dalla Liberazione alla Costituente. Scritti pubblicati sul quotidiano “Il Popolo” negli anni 1944-1946, Roma, Cinque Lune, 1980. 11 Negli anni Trenta, Gonella pubblicava ne «L’Osservatore Romano» una rubrica intitolata “problemi del giorno”, in cui, anche su suggerimento di De Gasperi, commentava i messaggi pontifici. Gli articoli furono poi raccolti in due volumi: Presupposti di un ordine internazionale: note ai messaggi di S.S. Pio XII, Città del Vaticano, Civitas Gentium, 1942?; Principi di un ordine

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un testo programmatico in cui l’Europa faceva capolino tra le righe quando si accennava alla necessità di creare “strette unioni regionali di natura federativa”12. A sua volta Paolo Emilio Taviani13, nelle sue Idee sulla Democrazia Cristiana, auspicava “il rinnovamento della suddivisione dei continenti in unità federative internazionali che, senza misconoscere le libertà e le autonomie delle nazioni federate, possano meglio adempiere la loro missione attraverso una più vasta collaborazione di masse umane”14. All’inizio del ’44, Teresio Olivelli15 criticava nello Schema di discussione di un programma ricostruttivo a ispirazione cristiana il “nazionalismo esagerato che deifica la nazione”16. Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano Carlo Russo17, Gavino Sabadin, Mariano Rumor18. La proposta europeistica di De Gasperi19 nasce all’interno di questo fertile humus politico-culturale. Per De Gasperi, “nella storia si procede secondo due ali: una è quella della razionalità, ovvero la rappresentanza di interessi; l’altra è quella

sociale: note ai messaggi di S.S. Pio XII, Città del Vaticano, Civitas Gentium, 1944, poi riuniti in G. Gonella, Dalla guerra alla ricostruzione: programmi di un nuovo ordine internazionale, programmi di un nuovo ordine sociale, Roma, Studium, 1983. 12 G. Marcucci Fanello, Documenti programmatici dei democratici cristiani (1899-1943), Roma, Cinque Lune, 1983, pp. 121-135. Sulla politica internazionale della DC cfr. il prezioso contributo di G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996. 13 Sull’europeismo di Taviani mi sia permesso di rinviare al mio articolo “L’Europa di . Dalla Resistenza ai Trattati di Roma (1944-1957)”, in L’europeismo in Liguria dal Risorgimento all’avvio della costruzione comunitaria, a cura di D. Preda e G. Levi, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 161-237; cfr. inoltre Paolo Emilio Taviani nella cultura politica e nella storia d’Italia, a cura di F. Malgeri, Recco, Le Mani, 2012. 14 Idee sulla Democrazia Cristiana, in C. Brizzolari, Un archivio della Resistenza in Liguria, Genova, G. Di Stefano ed., 1984 (1° edizione 1974), pp. 877-886. Si tratta di un fascicolo ciclostilato, diffuso clandestinamente dalla DC ligure, allegato a una lettera di Taviani a Giorgio Bo del 18 febbraio 1945. 15 Su Olivelli cfr. G. Guderzo, Teresio Olivelli a cinquant’anni dalla morte, Pavia, Ibis, 1996; Id., Cattolici e fascisti a Pavia tra le due guerre, Pavia, Istituto per la storia del movimento di liberazione nella provincia di Pavia, 1978. 16 Schema di discussione di un programma ricostruttivo a ispirazione cristiana (noto anche come Libertà e giustizia-solidarietà. Schema di discussione sui principi informatori di un nuovo ordine sociale), scritto durante l’inverno 1943-1944 e pubblicato in seguito su «Il Ribelle», ora in G.B. Varnier, Idee e programmi democratici cristiani nella Resistenza, cit., pp. 51-56. 17 Sull’attività europeistica di Carlo Russo cfr. D. Preda, “L'impegno di Carlo Russo per l'Europa unita”, in Genova, Liguria, Europa. Protagonisti del federalismo ligure nel secondo dopoguerra, a cura di G. Levi, Genova, Genova University Press, 2015. 18 Cfr. Essenza della Democrazia cristiana, documento redatto da Gavino Sabadin e nel dicembre 1944, ora in G. B. Varnier, op. cit., pp. 69-75. 19 Per un approfondimento sull’europeismo di De Gasperi, mi sia permesso rinviare al mio volume Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 808.

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dell’idealismo”20. Nel secondo dopoguerra, per lui, come per Luigi Gui, la scelta europea rappresenta l’amalgama di ragion di Stato e di ideali, meglio ancora una ragion di Stato che coincide con gli ideali. L’integrazione europea costituisce cioè il nuovo quadro in cui anche gli interessi italiani possono essere salvaguardati, superando gli interessi particolaristici nel quadro più ampio dell’interesse europeo. Obiettivo primario è la costruzione della pace, là dove risulta evidente il legame stretto tra idealismo e razionalità:

Qualcuno ha detto – afferma nel ’50 – che la federazione europea è un mito. È vero, è un mito nel senso soreliano. E se volete che un mito ci sia, ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti fra Stato e Stato, l’avvenire della nostra Europa, l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace, se non questo sforzo verso l’unione? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera, sia pure accompagnato dall’eroismo? Ma noi, allora, creeremmo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo mito è mito di pace; questa è la pace, questa è la strada che dobbiamo seguire. 21

Per capire a fondo la sua eredità politica sul piano europeo, è utile gettare uno sguardo, seppur fugace, sulla sua formazione. De Gasperi nasce nel 1881, nell’epoca di un acceso nazionalismo, a Pieve Tesino, in provincia di Trento, in una regione di confine dove vive una minoranza di nazionalità italiana, nell’ambito dell’Impero multietnico austro- ungarico. È un cattolico e rifiuta qualsiasi religione della patria, sulla base di un principio preciso: “prima cattolici e poi italiani”22. Il primato della nazione che veniva instillato nei giovani a cavallo del ‘900 e l’ “egoismo nazionale” che si stava diffondendo tra gli Stati e all’interno degli Stati plurinazionali costituiscono per lui una seria minaccia per la pace. La sua prospettiva è universalistica, solidaristica, sovrannazionale. Allievo del Collegio vescovile e del Regio Imperiale Ginnasio di Trento e poi studente della Facoltà di Filologia moderna all’Università di Vienna, dal 1900 al 1905, acquisisce una conoscenza approfondita sia della cultura italiana

20 Discorso di De Gasperi alla conferenza stampa di Villa Madama del 26 luglio 1952, conservato presso la Discoteca di Stato, trascritto dal filo metallico originale da Maurizio Gentilini e pubblicato da G. De Rosa, in «Avvenire», 1° febbraio 2004, col titolo Alcide e l’Europa dei fatti. 21 Discorso di De Gasperi al Senato della Repubblica, 15 novembre 1950, in A. De Gasperi, Discorsi parlamentari, Roma, Camera dei deputati, 1985, vol. II, p. 795. Il discorso è riportato anche in A. De Gasperi, L’Europa. Scritti e discorsi, a cura di M.R. De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 2004, pp. 100-115. 22 Discorso pronunciato da De Gasperi al congresso cattolico universitario trentino, Trento, 28- 31 agosto 1902, in «La Voce Cattolica», 1-2 settembre 1902, ora in A, De Gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al Parlamento austriaco, a cura di G. De Rosa, Roma, Ed. di Storia e letteratura, 1964, vol. I, p. 26.

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che di quella tedesca, con una spiccata sensibilità per le problematiche sociali, avvicinandosi al movimento cristiano-sociale di Karl Lueger. Nel 1911 viene eletto deputato al Reichsrat, il Parlamento plurinazionale austriaco, dove sostiene i diritti della nazionalità italiana all’interno dell’Impero asburgico, nel nome di quello che chiama “nazionalismo positivo”. “Un italiano anomalo” lo avrebbe definito il «Times» in occasione della Conferenza della pace di Parigi, mentre lui stesso amava definirsi “un trentino prestato all’Italia”. De Gasperi rifiuta però qualsiasi irredentismo, anche quello di Cesare Battisti con cui sosterrà una polemica vivace, e soprattutto combatte contro il Volksbund, il pangermanesimo che si stava diffondendo all’interno dell’Impero. Vive l’irredentismo come appartenenza a una nazionalità, a una cultura, ma nel rifiuto dei nazionalismi contrapposti e di qualsiasi uniformazione. All’interno del Parlamento nazionale austriaco ha la possibilità di andare al cuore del rapporto tra Stato e nazione, nel tentativo di creare basi solide per la convivenza tra le nazioni attraverso la limitazione del potere centrale dello Stato, nella difesa quotidiana dei diritti della nazionalità, delle diversità culturali e religiose, delle autonomie. Si avvicina così, naturalmente, all’essenza stessa del federalismo: conciliare l’unità con la diversità. Con l’annessione del Trentino all’Italia dopo la prima guerra mondiale, De Gasperi diventa cittadino italiano. Il dopoguerra costituisce per lui un momento di forte presa di coscienza dei cambiamenti in corso a livello internazionale. Dopo un primo, breve entusiasmo per le idee wilsoniane, con la Conferenza di Parigi vede delusa ogni speranza che dal conflitto potesse sorgere un “mondo nuovo”. Aderisce al Partito Popolare di don Luigi Sturzo l’anno stesso della sua nascita e, su proposta dello stesso Sturzo, è chiamato a presiedere il primo congresso del partito come rappresentante delle “terre redente”. Nel maggio 1921 è eletto deputato. Dopo la marcia su Roma, superate le iniziali incertezze, ritiene possibile per un breve periodo una collaborazione con i fascisti per favorirne la “normalizzazione”, pronunziandosi a favore dell’ingresso dei popolari nel primo ministero Mussolini, ma assume rapidamente un atteggiamento decisamente antifascista, riconoscendo pubblicamente i propri errori. È tutta una polemica contro lo Stato e la sua pretesa di assolutismo quella che De Gasperi va tessendo nel periodo tra le due guerre. Riconosciuto ormai come aperto avversario del fascismo, ne diverrà presto anche uno dei bersagli privilegiati, trovandosi al centro delle violenze squadriste: nel ’27 verrà arrestato e condannato per delitto contro lo Stato, vedendosi poi ridotta la pena a due anni e sei mesi, che trascorrerà in parte in prigione in parte in una clinica romana.

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Nel ‘29 prende servizio presso la Biblioteca vaticana in qualità di impiegato soprannumerario, una sistemazione modesta che gli darà però di che sopravvivere e gli consentirà di svincolarsi dalla censura fascista. L’apertura sul mondo che gli veniva dalla lettura dei giornali esteri, l’attenzione al panorama internazionale inusuale nel periodo fascista, permettono a De Gasperi di non condividere la chiusura dei cattolici sui temi europei e internazionali. Suoi riferimenti filosofici prediletti sono Maritain, la cui opera era stata diffusa in Italia dall’allora assistente della FUCI Giovanni Battista Montini, e Mounier, esponente del “personalismo comunitario” che conduceva in quegli anni una critica serrata al nazionalismo. Si colloca in questo periodo il suo passaggio dalla concezione transnazionale a quella più impegnativa, e non più esclusivamente cattolica, di un superamento della sovranità assoluta degli Stati nella prospettiva di una loro integrazione. Se nel corso del Ventennio rimane ancorato all’idea confederalistica, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale egli aderirà progressivamente al federalismo. Questa guerra dimostra a De Gasperi non solo che il principio della coincidenza tra Stato e nazione e la divisione in Stati nazionali non erano in grado di garantire quella pace e solidarietà tra i popoli che erano state la grande illusione dell’Ottocento, ma anche che un’organizzazione internazionale stabile come la Società delle Nazioni, basata com’era sulla piena sovranità degli Stati membri, non era sufficiente a raggiungere lo scopo. Occorreva dunque un salto di qualità, una vera e propria rivoluzione del pensiero: occorreva superare il nazionalismo e la tradizionale politica di potenza, limitando le sovranità nazionali e costruendo un’organizzazione non semplicemente internazionale, ma sovrannazionale, che garantisse l’unità nella diversità, secondo il modello federale della divisione dei poteri adottato dalla fine del ‘700 negli Stati Uniti. Nel secondo governo Bonomi (12 dicembre 1944-18 giugno 1945), De Gasperi – che durante il primo era stato ministro senza portafoglio – assume il dicastero degli Esteri, mantenendolo sotto il governo Parri (21 giugno 1945-10 dicembre 1945) e, dopo la caduta di questo, sino al 18 ottobre 1946. Il 10 dicembre 1945, costituisce il suo primo governo, con la partecipazione congiunta dei sei partiti del CLN, accingendosi a guidare il Paese in un momento particolarmente procelloso. I compiti erano immani: ripristinare lo Stato, mantenere nell’alveo democratico le nuove esuberanti forze politiche antifasciste, riprendere un’azione di politica estera, reinserire l’Italia nel consesso internazionale a pari dignità con gli altri Stati, liquidando una volta per sempre la pesante eredità del periodo fascista. Ma si trattava anche di evitare il collasso dell’economia italiana e il caos monetario, assicurare agli italiani le materie prime necessarie per

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avviare la ricostruzione materiale del Paese e la ripresa economica, rimettendo in sesto la viabilità e i trasporti e riallacciando i traffici commerciali venuti meno. L’isolamento italiano sul piano internazionale era completo. A quella ricostruzione, che procedeva in tutta Europa sotto la spinta delle necessità dell’ora, senza un chiaro disegno di politica estera alternativo a quelle che erano state le vecchie aporie se non il ripristino del passato, De Gasperi apporta elementi nuovi. La “lunga vigilia” del periodo tra le due guerre, con gli studi e le riflessioni storico-politiche a livello mondiale di cui era stata intessuta, aveva maturato in lui la convinzione che politica interna e politica estera fossero ormai strettamente correlate e che nel nuovo mondo che stava per aprirsi la lotta per la pace e la solidarietà internazionale dovessero avere il primo posto. Il suo europeismo non è, come per molti, un sottoprodotto dell’atlantismo, né una scelta obbligata e neppure scontata; egli non si porrà semplicemente al traino delle proposte di altri governi, ma seguirà una linea politica europeistica indipendente e trainante. Occorre ricordare anche che, partire dagli anni Quaranta, De Gasperi riserva un’attenzione particolare ai movimenti per l’unità europea, trovandosi in più occasioni in sintonia con essi. Sostiene le iniziative dell’Union européenne des fédéralistes (UEF,) arrivando nel 1948 a interessarsi personalmente del II congresso che si terrà a Roma, su sollecitazione dell’ex ambasciatore a Londra, il federalista Niccolò Carandini; accetta, sempre nel ’48, la presidenza d’onore del Movimento europeo, affiancandosi a Churchill, Blum e Spaak; è lui ad attivare l’iter per la prima costituzione del Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME), sollecitata dal segretario generale del Movimento europeo Joseph Retinger, che avrebbe visto la luce nel dicembre del ’48; è sempre lui a designare personalmente i delegati italiani alla Conferenza economica del Movimento Europeo; fa parte delle Nouvelles Équipes Internationale (NEI), sollecita la formazione di un movimento europeista d’ispirazione cattolica, il Movimento per l’unità europea (MUE), alla cui segreteria pone Michele Camposarcuno, riservando a sé la presidenza d’onore; è in contatto con l’Unione parlamentare europea (UPE) di Coudenhove Kalergi, tramite in particolare Celeste Bastianetto. Nel novembre 1950, firma, con il presidente Luigi Einaudi, la petizione per un Patto di Unione federale europea promossa dal Movimento federalista europeo (MFE) di Altiero Spinelli. Alla ricerca di una soluzione al problema della pace e del nuovo ordine internazionale, di fronte alla latitanza di partiti, sindacati e delle forze politiche tradizionali, in questi movimenti De Gasperi trova risposte adeguate al cambiamento epocale avvenuto con la seconda guerra mondiale. Dopo la svolta del Piano Marshall, che favoriva l’avvio del processo di unificazione europea facendo emergere l’atteggiamento favorevole degli Stati

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Uniti, a partire dal ’48 il governo De Gasperi sposa in maniera sempre più convinta una precisa linea federalistica, superando le proposte associazionistiche di stampo britannico della seconda metà degli anni Quaranta, così come il funzionalismo francese di inizio anni Cinquanta, nella prospettiva della creazione di una vera e propria federazione europea. Al centro della sua attività europeistica si trova la Comunità politica europea: questa è la sua attualità. Se alcune sue scelte possono sembrare contraddittorie, un’analisi attenta delle motivazioni che ne sono alla base ci permette di capire il punto di vista nuovo adottato dallo statista trentino, che lo diversifica da altri uomini politici europeisti del tempo. Emblematica in tal senso è la non adesione dell’Italia, nel marzo del ’48, da molti criticata come esempio di miopia nella condotta della politica estera italiana23, al Patto di Bruxelles. Quest’ultimo, tuttavia, si configurava come un’alleanza militare di tipo tradizionale, non presentando nessuna novità in senso europeistico e risultando una mera giustapposizione di eserciti nazionali, a cui la Germania non era chiamata a partecipare, mentre lo statista trentino era convinto che la pace in Europa passasse attraverso l’inserimento nelle nascenti organizzazioni comuni proprio della nuova Germania “guadagnata” alla forma democratica. Non bisognava, a suo parere, ripetere gli errori del passato, escludendo la Germania dal processo di ricostruzione europea, ma, al contrario, porre al centro di tutti gli sforzi proprio la riconciliazione franco-tedesca. A costo di mettere in discussione i rapporti con le maggiori potenze occidentali, dunque, il governo italiano si attesta su posizioni alternative di politica estera, evitando qualsiasi meccanica identificazione tra atlantismo ed europeismo. Nell’aprile dello stesso anno, il governo De Gasperi si associa invece all’OECE, l’Organizzazione europea di cooperazione economica nata per gestire in comune i fondi del Piano Marshall. La sua adesione non è peraltro passiva né acritica. In luglio, il ministro degli Esteri italiano, Carlo Sforza – scelto da De Gasperi per quel ruolo, nonostante le resistenze all’interno della Democrazia Cristiana – pronunciava a Perugia un discorso a cui avrebbe fatto seguito un memorandum sulla trasformazione dell’OECE, che lo stesso Sforza avrebbe inviato il 24 agosto al governo francese, e un memorandum analogo, inviato il 27 ottobre ai Paesi del Piano Marshall. In questi interventi, Sforza sollecitava una dichiarazione di volontà dei Sedici, nel senso di promuovere una federazione europea, accompagnata ad alcune decisioni: dare carattere permanente all’OECE, indipendentemente dai fondi del Piano Marshall;

23 P. Pastorelli, La politica europeistica di De Gasperi, in «Storia e politica», XXIII (1984), n. 3, pp. 31- 93.

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allargarne l’attività al campo dell’unione doganale ed economica; dare vita a forme di collaborazione sociale, demografica, culturale; creare un Comitato politico composto di rappresentanti dei Paesi aderenti per l’esame in comune delle questioni politiche internazionali; creare una Corte di giustizia europea. L’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, nell’aprile 1949, avviene con una metodologia analoga. De Gasperi riteneva infatti che questa organizzazione non dovesse ridursi a una semplice alleanza militare, ma costituire uno strumento di collaborazione politica ed economica tra i Paesi membri. In particolare, durante le conferenze atlantiche, il Presidente del Consiglio italiano chiede di approfondire l’articolo 2 del Patto, per dare ad esso maggiori contenuti economici e politici, sviluppando i principi presenti nel Preambolo del Trattato. Il mese successivo, il governo italiano entra a far parte del Consiglio d’Europa, e anche in questo caso non si limita ad accettare passivamente la neonata istituzione. Su suggerimento di Altiero Spinelli24, i rappresentanti italiani all’Assemblea Consultiva, in particolare Enzo Giacchero e Ludovico Benvenuti, chiedono sin dalla prima sessione dei lavori la trasformazione dell’Assemblea Consultiva in Assemblea Costituente europea. Nel luglio del ’50, De Gasperi, che non aveva mai mostrato un grande entusiasmo per questa assemblea europea in cui nulla vi era di sovrannazionale, scriveva a Sforza:

Veramente se il Consiglio d’Europa non prende questa volta una sua fisionomia, è la sua morte civile. Converrebbe trovare una formula, che mettendo fuori dubbio la nostra lealtà atlantica, potesse esprimere una concezione attiva europea. 25

Forte della fiducia di De Gasperi, durante la sessione di agosto del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, Sforza avrebbe sollecitato il Comitato – cui era affidata la definizione dell’ordine del giorno dei lavori dell’Assemblea – a invitare l’Assemblea, con un proprio messaggio, ad approvare le misure prese dalle Nazioni Unite in Corea, chiamandola quindi, implicitamente, a trattare di quei temi di carattere militare che le erano da statuto preclusi26. Egli avrebbe messo inoltre in evidenza come il malessere

24 Cfr. il “Promemoria circa l’ordine del giorno dell’Assemblea consultiva europea nella sua prima sessione” di Altiero Spinelli, in Arch. Benvenuti, Ombriano di Crema, cont. “MFE”, b. 1. Si veda inoltre Per trasformare l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa in Costituente: il promemoria di Spinelli dell’agosto 1949, a cura di D. Preda, in «I Temi», IV (1998), n. 15 (dicembre), pp. 35-50. I suggerimenti contenuti nel Promemoria erano largamente fatti propri da Enzo Giacchero, che li avrebbe presentati alla prima sessione dell’Assemblea consultiva. 25 Lettera di De Gasperi a Sforza, 30 luglio 1950, in De Gasperi scrive: corrispondenza con Capi di Stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di M.R. De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1974, pp. 116-117. 26 Sforza invitava il Comitato dei ministri del Consiglio a inserire nel messaggio all’Assemblea un invito così formulato: “Le Comité suggère que l’Assemblée exprime son attachement à la

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diffuso che circondava il Consiglio d’Europa si dovesse in gran parte addebitare alla struttura stessa del Consiglio, alla cui opera veniva a mancare l’apporto fecondo di un rapporto dialettico tra esecutivo e legislativo, non potendo essere considerata l’Assemblea Consultiva come un vero e proprio parlamento27. Dopo l’annuncio di Schuman del 9 maggio 1950, l’Italia partecipa immediatamente alla prima Comunità europea – la Comunità europea del carbone e dell’acciaio – ravvisando nella CECA il primo nucleo di una Comunità politica europea, coerentemente con la convinzione di dover contribuire attivamente alla costruzione dell’unione europea e alla soluzione del problema tedesco28. Sulla decisione del governo italiano non influivano né considerazioni sui vantaggi economici immediatamente perseguibili né osservazioni di opportunità tecnica o commerciale, anche se non mancava un’attenta valutazione degli specifici interessi nazionali e della loro convergenza in quel momento storico con l’integrazione europea29. Superamento del dissidio franco-tedesco e nascita di un potere sovrannazionale europeo sono i due aspetti del Piano Schuman sui quali il Presidente del Consiglio italiano avrebbe posto l’accento in più di una occasione30. Non a caso sceglierà come presidente della delegazione italiana alla

cause de la paix en affirmant à l’unanimité sa solidarité avec l’action entreprise par le Conseil de Sécurité des Nations Unis pour défendre les peuples pacifiques contre l’agression”. Intervento di Sforza, in arch. del Consiglio d’Europa, Comitato dei ministri, quinta sessione, compte rendu de la deuxième séance, 4 agosto 1950. 27 “Le Comité des ministres – affermava Sforza –, au lieu d’avoir recherché auprès de l’Assemblée des sujets d’inspiration, s’en est toujours tenu éloigné avec méfiance. (…) Le Conseil de l’Europe apparaît comme une sorte de vase, auquel il manque un contenu”. Intervento di Sforza, in arch. del Consiglio d’Europa, Comitato dei ministri, quinta sessione, compte rendu de la cinquième séance, 9 agosto 1950. 28 Su questa interpretazione esiste un ampio consenso della storiografia. Cfr., tra gli altri, P. Pastorelli, La politica europeistica di De Gasperi, in «Storia e politica», 1984, pp. 31-93, poi in U. Corsini – K. Repgen (a cura di), Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi: due esperienze di rifondazione della democrazia, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 330-392; M. Telò, “L’Italia nel processo di costruzione europea”, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio. I – Economia e Società, Torino, Einaudi, pp. 131-248; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Bari, Laterza, 1998. 29 Su questo aspetto si sofferma in particolare Sergio Pistone nel volume L’Italia e l’unità europea. Dalle premesse storiche all’elezione del Parlamento europeo, Torino, Loescher, 1982, p. 159 e ss., ponendo l’accento sui limiti strutturali dello Stato italiano tali da renderne particolarmente acuta la crisi storica. 30 Gli faceva eco Taviani: “Il Piano Schuman ha uno scopo essenzialmente politico: esso rappresenta una via concreta verso l’unità dell’Europa e soprattutto rappresenta il superamento della secolare tensione franco-tedesca (…). L’Italia ha evidentemente l’interesse politico che la proposta Schuman si attui. La pace e la sicurezza dell’Italia sono inevitabilmente legate alla pace e alla sicurezza dell’Occidente europeo”. Cfr. Nota di Taviani inviata al consigliere

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Conferenza di Parigi chiamata a elaborare il progetto di Trattato un europeista convinto quale Paolo Emilio Taviani e, in seguito, come rappresentante dell’Italia nell’Alta Autorità della CECA, Enzo Giacchero31, un altro convinto europeista, presidente del Gruppo federalista alla Camera dei deputati. Va detto tuttavia che De Gasperi non porrà molta enfasi sulla Comunità del carbone e dell’acciaio, ritenendola non adeguata a consentire il salto di qualità verso la creazione di un potere sovrannazionale. Sarà la proposta di creare una Comunità europea di difesa, la CED, a creare i presupposti per la sua battaglia politica a favore della federazione europea. A un dato momento, infine – ricorda Paolo Canali, segretario e stretto collaboratore del Presidente del Consiglio –, ogni cosa sembrò convergere verso la causa dell’unità europea, come sul punto focale di tutta una politica. Vi mirammo come alla meta più alta e al mezzo più certo. Vi ravvisammo: la soluzione ai problemi della nazione, l’antidoto ai pericoli del nazionalismo, l’affermazione dei valori della nazionalità32. Nella sua versione iniziale, il Piano Pleven non corrispondeva appieno alle aspettative del Presidente del Consiglio italiano apparendo, per certi versi, come uno strumento dilatorio che rischiava di ritardare l’urgente difesa atlantica, evitando, per altri, di affrontare il problema cruciale di una politica comune europea. Ma le contraddizioni che la sua realizzazione avrebbe fatto nascere creavano i presupposti per il passaggio a una fase costituente.

Dalla primitiva ricerca di mezzi per rafforzare la difesa dell’Occidente – commenterà De Gasperi –, si è a poco a poco venuto delineando un obiettivo ben più ampio: la realizzazione dell’unità europea e l’abolizione degli storici conflitti che da secoli dilaniavano l’Europa occidentale. 33

Dubbi e perplessità emergevano soprattutto con riferimento a un’autorità specializzata che avrebbe dovuto occuparsi nientedimeno che dell’esercito europeo: sarebbe stato possibile creare un esercito sovrannazionale senza creare

Venturini per il ministro Sforza, 30 giugno 1950, in archivio Taviani, Roma, fald. “1950-1951 Piano Schuman. Originali”. 31 Sull’europeismo di Giacchero cfr. A. Canavero, “Enzo Giacchero dall’europeismo al federalismo”, in Europeismo e federalismo in Piemonte tra le due guerre mondiali, la Resistenza e i Trattati di Roma (1957), a cura di S. Pistone e C. Malandrino, Firenze, Leo S. Olschki ed., 1999, pp. 175-193; D. D’Urso, Enzo Giacchero, storia di un uomo, in «Ati contemporanea», n. 11, 2005, pp. 205-246. 32 P. Canali, Procedeva con gradualità, in «Concretezza», 16 agosto 1964, ripubblicato in Processo a De Gasperi, a cura di Giovanni Di Capua, Roma, EBE, 1976, p. 233. 33 Discorso di De Gasperi al Senato, 1° aprile 1952, in A. De Gasperi, Discorsi parlamentari, cit., vol. II, p. 1089.

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nel contempo una Comunità politica europea? L’azione degli ambienti federalisti vicini a De Gasperi e Sforza contribuiva a rafforzare tale atteggiamento critico, indicando la via da seguire34. La federazione diventa da quel momento l’obiettivo più alto della politica di De Gasperi: “Questo è il nostro ideale – affermerà nel ’52 al Senato – la nostra forza”35. Il collegamento dell’esercito europeo a organismi che avrebbero potuto preludere alla creazione di una vera e propria Comunità politica e quindi alla nascita di una patria europea diventava il motivo essenziale degli interventi del Presidente del Consiglio italiano a Strasburgo, sia nel corso dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa, il 10 dicembre, sia durante una riunione dei sei ministri degli Esteri, il giorno successivo. De Gasperi affrontava in particolare il nodo ancor oggi centrale e irrisolto del deficit democratico della Comunità: il trasferimento di competenze nazionali a livello europeo non poteva andar disgiunto, a suo parere, dal contestuale trasferimento di poteri di controllo sovrannazionale alla Comunità. Egli era consapevole della limitatezza delle costruzioni parziali che, “funzionalmente”, si stavano realizzando. Nel suo realismo di uomo politico maturo sentiva d’altra parte che sarebbe stato impossibile raggiungere la federazione in tempi brevi. Ma era convinto che l’obiettivo finale, pur ambizioso, non potesse essere taciuto, che esso dovesse sottendere e dirigere l’azione per la costruzione dell’unità europea, pena l’involuzione e il decadimento della costruzione in strumento d’oppressione e d’imbarazzo. Nel pensiero dello statista trentino, principale pilastro di questo ponte gettato tra le nazioni rappresentato dalla Comunità europea doveva essere un “corpo eletto comune e deliberante” (anche se con competenze limitate alle questioni riguardanti l’amministrazione comune), dal quale sarebbe dipeso un organismo collegiale. Secondo pilastro doveva essere un bilancio comune, che derivasse in larga parte le proprie entrate da un’imposizione direttamente esercitata sui cittadini europei.

È vero – affermava – che alcuni potrebbero desiderare di perseguire questa opera di coordinamento in altri settori più facili, ma ciascuno sente che questa è l’occasione che passa e non tornerà più. Bisogna afferrarla e inserirla nella logica della storia. 36 A Strasburgo, con un’azione tenace e volitiva, il Presidente del Consiglio italiano sarebbe riuscito a far trionfare le tesi più audaci, ottenendo

34 Discorso di De Gasperi al Senato, 3 aprile 1952, ibidem, p. 1102. 35 D. Preda, De Gasperi, Spinelli e l’art. 38 della CED, in «Il Politico», LIV (1989), n. 4, pp. 575-595. 36 Discorso di De Gasperi all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa (traduzione italiana), 10 dicembre 1951, in De Gasperi e l’Europa, a cura di M.R. De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1979, p. 122.

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l’inserimento all’interno del progetto di trattato della CED dell’art. 38, preludio alla stesura di un progetto di Statuto istituente una Comunità politica europea. Affermato l’obiettivo in linea di principio, il 19 giugno 1952, De Gasperi suggeriva di proporre, congiuntamente alla Francia, nell’imminente riunione dei sei ministri degli Esteri, di affidare mediante un protocollo speciale all’Assemblea della CECA il compito previsto dall’art. 38, sino all’entrata in vigore del Trattato CED. Una volta costituita la CED, l’Assemblea di questa avrebbe eventualmente approvato o condotto a termine i lavori già avviati37. Il 23 luglio, un progetto di risoluzione italo-francese in tal senso sarebbe stato presentato al Consiglio dei ministri. In base ad esso, le funzioni previste dall’art. 38 sarebbero state provvisoriamente trasferite all’Assemblea della CECA, integrata sino ad avere lo stesso numero di membri previsti per quella della CED. La proposta specificava con chiarezza le funzioni dell’Assemblea38, i tempi (sei mesi) in cui essa avrebbe dovuto pronunciarsi e la sua composizione. Il 9 settembre, i Sei discutevano il progetto franco-italiano. Ancora una volta era De Gasperi il principale artefice dell’accordo e suoi erano gli interventi decisivi39. Nella riunione serale, appoggiato da Adenauer, chiedeva e otteneva che il documento franco-italiano fosse posto alla base della discussione sull’autorità politica europea, riuscendo ad evitare ogni ulteriore dilazione. Il testo di risoluzione adottato dai Sei il 10 settembre, cui aveva collaborato attivamente Taviani, invitava l’Assemblea della CECA, opportunamente allargata, a elaborare, in un periodo di sei mesi, un progetto di trattato istituente una Comunità politica europea, ispirandosi ai principi contenuti nell’art. 38 del progetto di trattato della CED. Tre giorni più tardi, l’Assemblea comune della CECA accoglieva favorevolmente la richiesta dei governi e si metteva al lavoro, assumendo la denominazione di Assemblea ad hoc. Nell’arco di pochi mesi, la Costituente era diventata una realtà. Ciò che fino a poco prima era sembrato utopistico appariva ormai non solo politicamente realizzabile, ma addirittura urgente. Avviati i lavori nel settembre del ‘52, l’Assemblea ad hoc, guidata da Paul H. Spaak, approvava all’unanimità tranne cinque astensioni, il 10 marzo 1953, entro il termine prescritto di sei mesi dall’inizio dei lavori, il progetto di Statuto della CPE.

37 Telegramma 21/1450 da ministero Esteri, 19 giugno 1952 (firmato Magistrati), Questioni da discutere nella riunione dei ministri degli Affari esteri, in ASMAE, DGAP, cassaforte 600 CED, c. 24. 38 “L’Assemblée de cette Communauté est chargée, suivant les principes de l’article 38 du Traité CED (…) d’étudier et d’élaborer un projet de traité instituant une Communauté européenne politique”. Proposition franco-italienne du 23 juillet 1952, in AMJ 2/4/6. 39 Cfr. Appunto della DGCI, uff. I, e telegramma n. 21/2197, 13 settembre 1952; Rassegna stampa, telespresso n. 850/542 da ambasciata di Parigi a ministero Esteri, 12 settembre 1952; telegramma n. 8773 da Roma, 14 settembre 1952, in ASMAE, DGAP, b. 165.

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Su una linea decisamente spinelliana, De Gasperi chiederà già a partire dal marzo 1953 di mantenere nelle mani dei governi il processo di ratifica della Comunità politica europea, senza passare attraverso le sabbie mobili di una conferenza diplomatica, all’interno della quali gli interessi dei singoli Stati tendono fatalmente a prevalere su quello unitario. Ribadirà queste idee durante una riunione dei Sei, il 12 maggio 1953, dimostrando, con un intervento “volitivo e appassionato”40 di essere il vero elemento propulsore della Comunità. L’appello del Presidente del Consiglio italiano sortirà effetti insperati permettendo ai Sei di raggiungere un’intesa e mettendo in moto, a partire da quello stesso giorno, il processo per il raggiungimento della Comunità politica. Non opponendosi alla convocazione d’esperti, purché assolvessero esclusivamente alle funzioni di loro competenza, De Gasperi esigeva che le scelte politiche spettassero ai ministri degli Esteri e su di loro cadessero le relative responsabilità. Avrebbe poi esortato ad affiancare al potere delle istituzioni federali il rafforzamento di una mentalità europea, a prescindere dalla quale ogni formula istituzionale rischiava di rimanere nient’altro che una vuota astrazione giuridica.

Le istituzioni sopranazionali sarebbero insufficienti e rischierebbero di diventare una palestra di competizioni di interessi particolari, se gli uomini ad esse preposti non si sentissero mandatari di interessi superiori ed europei. 41

Già a partire dal 1952, tuttavia, con il parziale insuccesso alle elezioni amministrative, era cominciata la parabola discendente del Presidente del Consiglio, che sarebbe proseguita rapidamente con la modifica della legge elettorale, il mancato scatto del premio di maggioranza nelle elezioni del 7 giugno, la sconfitta parlamentare del luglio 1953. L’impegno di de Gasperi a favore della Comunità politica non sarebbe scemato neppure nei giorni immediatamente precedenti alla crisi del suo VII governo, ma è un fatto che l’attore europeo più attento alle esigenze dell’unificazione europea e più consapevole dei mezzi per raggiungerla stava ormai per lasciare la scena. Negli ultimi mesi di vita, emarginato nel partito, estromesso dalle più importanti cariche politiche, ad eccezione della nomina nel maggio 1954 a presidente dell’Assemblea comune della CECA, osserverà con apprensione

40 Appunto di Magistrati a ministero Esteri sulla riunione dei sei ministri della Comunità europea, 14 maggio 1953, in ASMAE, DGAP, b. 255. 41 Discorso di De Gasperi ad Aquisgrana in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, settembre 1952, in L’Europa. Scritti e discorsi, a cura di M.R. De Gasperi, cit., p. 173.

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l’attività del governo italiano in politica estera, conservando tutto il proprio entusiasmo per la causa europea. Non gli restava che l’appello accorato ai colleghi di partito, al quale i più rispondevano con parole distaccate e interlocutorie, talora accondiscendenti. Avrebbe comunque continuato in ogni occasione, sino alla fine dei suoi giorni, a perorare la causa della CED e della CPE, pur nell’amara consapevolezza di non aver eredi che con il suo stesso vigore potessero farsi promotori dell’unificazione europea.

Il guaio – commentava – è che abbiamo troppi uomini che non credono nell’unità dei popoli europei. Non hanno fede e una soluzione così grave non verrà fuori soltanto dalle carte (disse scartoffie – ricorda la figlia Maria Romana –) diplomatiche. Anzi è proprio di fronte a certi problemi sostanziali che attorno al tavolo della grande responsabilità bisogna che scompaiano i diplomatici per ritrovarsi gli uomini. E non è possibile servirsi di un problema di sostanza come merce di mercato elettorale, pubblicitaria, o di un do ut des per mantenere in piedi i governi. 42

Così si spiegano le numerose lettere, le esortazioni, le telefonate pressanti ai colleghi di partito che sapeva riluttanti o semplicemente tiepidi assertori di una causa che richiedeva invece forti sostenitori. Il pensiero della CED lo accompagnerà sino all’ultimo43. Ancora il 9 agosto 1954 De Gasperi scriveva a Fanfani, tuonando contro il partito che non aveva assunto una posizione ferma sull’argomento, lasciando che nazionalisti e conservatori francesi distruggessero quell’opera grande e geniale che, con Schuman e Adenauer, era stata avviata: “La mia spina è la CED”44. A metà agosto, telefonava al Presidente del Consiglio Scelba, chiedendogli che gli fosse messo a disposizione un aereo, a Verona, per poter raggiungere Bruxelles e partecipare ai colloqui con Mendès-France. Il giorno prima della morte, telefonava a Paolo Canali spronandolo a rinnovare alcune raccomandazioni, da lui già inoltrate, relative all’atteggiamento che la delegazione italiana avrebbe

42 M.R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Milano, Mondadori, 1964, cit., p. 412. 43 “Prima di morire – afferma Maria Romana De Gasperi – mio padre aveva un chiodo fisso, l’Europa. ‘L’Europa va costruita subito’, batteva e ribatteva, ‘altrimenti passeranno lustri in chiacchiere e le conseguenze le pagheranno i nostri figli’”. S. Cova, L’attentato a De Gasperi, intervista a Maria Romana De Gasperi in «Gente», 7 febbraio 1974, ripubblicata in Processo a De Gasperi, cit., pp. 321-324. La citazione è a p. 324. 44 Lettera di De Gasperi a Fanfani, Sella di Valsugana 9 agosto 1954, in M.R. De Gasperi, De Gasperi scrive, cit., vol. I, p. 334. Rievocando le sue parole, Fanfani commenta: “Questa spina lo punse (…) perché constatava ogni giorno che gli avversari della CED (…) erano in sostanza i timorosi della novità, i mantenitori dello status quo, i beati possidentes, desiderosi di conservare ai propri eserciti o la gloria napoleonica o il frutto di recenti invasioni. (…) In quella crisi ha chiaramente visto una battuta d’arresto non alla costituzione di una coalizione militare, ma alla costituzione di un’unità politica europea”. A. Fanfani, Il suo testamento, commemorazione svolta al Consiglio nazionale della DC, 23 agosto 1954, in A. Fanfani, Ideali e azione di Alcide De Gasperi, Roma, Cinque Lune, 1974, pp. 11-19.

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dovuto tenere a Bruxelles: “Mi raccomando – gli disse –; si tratta dell’avvenire dell’Italia”45. In conclusione, mi sia consentito sottolineare l’oblio in cui l’azione europeistica di De Gasperi è caduta e, con essa, quella dei tanti costruttori dell’Europa unita che nel dopoguerra hanno operato e scritto a favore dell’unità continentale. L’attenzione è stata posta prevalentemente sulla politica interna, il rapporto con la Chiesa, l’atlantismo. Pur riconosciuto nell’immaginario pubblico come padre fondatore dell’Europa, la sua azione europeistica è stata a lungo ignorata e anche ora che, soprattutto a partire dalle celebrazioni del cinquantenario della morte, sono stati pubblicati numerosi volumi sull’argomento46, la sua azione europeistica continua di fatto a rimanere ignota ai più perché relegata alla pubblicistica specializzata. Non emerge il salto di qualità che lo statista trentino ha saputo imprimere al processo di unificazione europea in corso, attraverso il superamento dell’approccio funzionali stico e l’affermazione di quello costituzionalistico. Abituata a utilizzare lo stato nazionale come canone onnicomprensivo d’interpretazione, immutabile e assoluto, la storiografia fatica ancor oggi ad adottare un punto di vista diverso, che sia al passo con i tempi, e a riconoscere i pur evidenti germi della costruzione di una realtà sovrannazionale. Eppure non si può dimenticare che negli ultimi anni della sua vita De Gasperi dedicò grandi energie alla costruzione dell’Europa, non si possono dimenticare i suoi discorsi da cui emerge la sua netta svolta federalistica, non si può dimenticare lo sconforto che lo colpì nel 1953-’54, quando vedeva allontanarsi la ratifica della CED, e i suoi reiterati tentativi presso i colleghi di partito per spronarli alla ratifica almeno in Italia. Così come non si può dimenticare che, ricevuto nel ’53 il premio Carlo Magno che veniva dato ai

45 P. Canali, Sapeva assumersi le sue responsabilità, in «Concretezza», 16 maggio 1974, ripubblicato in Processo a De Gasperi, a cura di G. Di Capua, cit., p. 236. 46 A. Canavero, Alcide De Gasperi: cristiano, democratico, europeo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003; Id., Il trentino che ricostruì l’Italia e fondò l’Europa, Milano, Centro ambrosiano, 1997; D. Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004; G. Quagliariello, La CED, l’ultima spina di De Gasperi, in «Ventunesimo secolo», III (2004), n. 5 (marzo), pp. 247-286; T. Di Maio, Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer: tra superamento del passato e processo d’integrazione europea 1945-1954, Torino, 2004; P. Craveri, De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 2006; P. Pombeni, Il primo De Gasperi: la formazione di un leader politico, Bologna, Il Mulino, 2007; Alcide De Gasperi: un percorso europeo, Annali dell’Istituto storico italo-germanico, Quaderni, a cura di Eckart Conze, Gustavo Corni, Paolo Pombeni, Bologna, Il Mulino, 2005; Alcide De Gasperi: a European from the Future, a cura di M.R. De Gasperi e P.L. Ballini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005; S. Trinchese, L’altro De Gasperi: un italiano nell’Impero asburgico 1881-1918, Roma, Laterza, 2006; De Gasperi, 3 voll., Roma, Rubbettino, 2009 (vol. I, A. Canavero, Dal Trentino all'esilio in patria (1881-1943); vol. II, F. Malgeri, Alcide De Gasperi, Dal fascismo alla democrazia (1943-1947); vol. III, P.L. Ballini, Alcide De Gasperi, Dalla costruzione della democrazia alla “Nostra patria Europa” (1948-1954)).

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grandi europeisti, questo solo volle che fosse posto sul cuscino che doveva seguire il feretro al suo funerale. Qual è, dunque, in sintesi, l’eredità di de Gasperi? Avere un obiettivo preciso, la federazione europea; agire con tenacia e perseveranza e saper cogliere le “occasioni” della storia; volare con due ali, razionalità e ideali; e, infine, saper volare alto, avere il coraggio di abbandonare gli schemi obsoleti del passato e saper cogliere i segnali del mondo nuovo che la seconda guerra mondiale ha aperto.

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L'idea internazionalista dal movimento cattolico ai giovani democristiani veneti di Gianpaolo Romanato

1. Fino alla fondazione del Partito Popolare la prospettiva internazionalista sembra molto lontana dalla sensibilità e dagli interessi dei cattolici italiani. La cosa non deve stupire. Nel primo Novecento il movimento cattolico era pressato da altre urgenze, tutte interne alla vicenda nazionale italiana. La prima e la più grave era la Questione Romana, cioè l'irrisolto problema della posizione del Pontefice nell'Italia unita e della collocazione internazionale della Santa Sede. L'evoluzione del movimento cattolico verso il partito - che pure è una tendenza costante negli anni che vanno da fine Ottocento alla Prima Guerra Mondiale - era stata sempre bloccata dal veto papale, veto espresso e ribadito in numerose encicliche e documenti magisteriali. Dovunque in Europa veniva autorizzata la formazioni di partiti politici cattolici tranne che in Italia, dove la Santa Sede non intendeva cedere a nessun altro soggetto, ancorché di cattolici, la gestione del rapporto con lo Stato1. La seconda preoccupazione dei cattolici organizzati era di natura sociale, riguardava cioè la posizione da assumere di fronte al crescente conflitto fra capitale e lavoro, in specie nelle campagne. Tale preoccupazione era resa particolarmente pressante dallo sviluppo del partito socialista e delle leghe rosse, soprattutto nella Valle Padana. L'organizzazione delle leghe bianche, cioè delle leghe cattoliche, che in varie zone del Veneto, mi riferisco al Trevigiano e all'Alta padovana, non di rado scavalcarono a sinistra i socialisti, quasi monopolizzò le forze cattoliche, dirottandone l'attenzione dal terreno politico a quello sindacal-rivendicativo. Padova fu una delle diocesi a più alto tasso di

1 Leone XIII, Enciclica Immortale Dei, in Enchiridion delle Encicliche, 3, EDB, Bologna, 1997, 515; Pio X, Enciclica Il fermo proposito, in ivi, 4, EDB, Bologna, 1998, 124.

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conflittualità sociale nel periodo dell'episcopato del vescovo Luigi Pellizzo, cioè nel primo ventennio dell'Ottocento. A bloccare la crescita di una sensibilità politico-partitica autonoma era poi l'orientamento del pontefice Pio X, notoriamente diffidente verso i partiti cattolici, per timore che questi trascinassero anche la Chiesa nelle loro divisioni2. In tale contesto, tutto ripiegato sui problemi italiani, l'orizzonte internazionale rimaneva lontano, sfuocato, privo di interesse. Nei documenti importanti di questi anni non ce n'è traccia. Citerò il discorso di Caltagirone di Luigi Sturzo, pronunciato il 24 dicembre 1905, oggi unanimemente considerato il più lucido preannuncio del futuro Partito Popolare, dove non c'è alcun riferimento a problemi che vadano oltre i due citati, e in particolare il primo, la Questione Romana. Dal canto suo, Romolo Murri, il leader più acclamato all'inizio del Novecento, nel discorso che tenne a San Marino il 24 agosto 1902, rivendica il diritto dei cattolici all'autonomia e alla libertà sul terreno politico e intellettuale, ma senza mai porre il problema del quadro internazionale in cui calare la loro azione3. Negli anni che precedono la guerra, insomma, l'ipoteca ecclesiastica e magisteriale teneva in stato di minorità e all'interno di una prospettiva clericale il ragionamento politico dei cattolici

2. Sarà la Prima Guerra Mondiale l'evento traumatico che costringerà a riflettere politicamente in forma autonoma, non più in termini locali ma con sguardo rivolto anche al di fuori dei confini nazionali. Nel manifesto fondativo del Partito Popolare, del 18 gennaio 1919, troviamo infatti enunciato come principio politico irrinunciabile il rigetto degli "imperialismi", il rispetto delle "giuste aspirazioni nazionali", la "tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffattrici dei forti", il riconoscimento del ruolo della Società delle Nazioni4. Il riferimento era alla Nota pontificia alle potenze belligeranti emanata nell'agosto del 1917 e ai Quattordici punti di Wilson. Con l'atto di nascita di un autonomo soggetto politico cattolico, troviamo dunque un primo accenno alla necessità di collocare la vicenda italiana in un contesto internazionale più ampio, seppure senza consapevolezza, mi sembra, del legame organico che lega i problemi interni a quelli esterni. Nessuna proposta,

2 Cfr. G. Romanato, Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo, Lindau, Torino, 2014, pp. 486-493. 3 Il discorso di Caltagirone di Sturzo in L. Sturzo, I discorsi politici, Istituto Luigi Sturzo, Roma, 1951, pp. 351-382; L'intervento di Murri in P. Grassi, Il discorso di San Marino 1902, Centro Studi "Romolo Murri", Testi e Documenti 1, Edizioni Frama's, Catanzaro, 1974. 4 L. Sturzo, op. cit., pp. 3-5.

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ovviamente, dell'idea europeista. Siamo all'indomani della Grande Guerra e l'Europa stava pensando non ad unirsi ma a spartirsi le spoglie dei vinti. Conseguentemente, la politica estera ebbe uno spazio molto marginale nell'azione del Partito Popolare. Lo rilevò lo stesso Sturzo al Terzo Congresso, che si celebrò nel mese di ottobre del 1921, ammettendo che "ci hanno accusato di non fare una politica estera". Replicò rivendicando il fatto che il PP stava avviando l'iniziativa di una "internazionale popolare" e che egli stesso aveva assunto al proposito intese in Germania5. Ma - come è ben comprensibile - le urgenze del momento erano altre, e tutte rivolte verso la situazione interna, che stava spianando la strada alla vittoria del fascismo. Nella relazione al Quarto Congresso, siamo ad aprile del 1923, col governo mussoliniano ormai insediato - relazione che Mussolini qualificò sul suo giornale come "il discorso di un nemico" - Sturzo tornò brevemente sui temi internazionali, rivendicando al PP la "tendenza internazionale nella questione della ricostruzione europea" e criticando la politica seguita dai vincitori in materia di debiti di guerra e di punizioni inflitte alla Germania6. Ma non poté andare oltre questo scarno accenno. In tutta la breve stagione del PP sembra insomma di dover affermare che l'attenzione alle tematiche internazionali fu molto esigua e marginale.

3. Fu negli anni del fascismo che le élite cattoliche cominciarono a pensare politicamente in termini sovrannazionali e con il pensiero rivolto all'Europa, alla sua crisi, alla tragedia che si consumava in Germania. Dall'esilio londinese Luigi Sturzo allargò enormemente l'angolo visuale delle sue riflessioni rispetto a quando operava in Italia a capo dei popolari e si abituò a vedere la vicenda italiana come parte di una vicenda storica più ampia e più complessa. In un suo scritto del 1929 troviamo una prima lucida prefigurazione del destino comune che nel futuro avrebbe atteso i popoli europei e delle tappe che sarebbero state necessarie per conseguire tale risultato. Queste le parole di Sturzo, che meritano di essere citate per intero:

Gli Stati Uniti d'Europa non sono un'utopia ma soltanto un ideale a lunga scadenza, con varie tappe e con molta difficoltà. Occorre anzitutto il risanamento finanziario attraverso la sistemazione definitiva di tutti i debiti di guerra, e il risanamento delle diverse monete. Procedere quindi ad una revisione doganale che prepari ad una unione doganale, con graduale sviluppo fino a poter sopprimere le barriere interne. Il resto verrà in seguito. Non bisogna pensare che ciò sarà accettato contemporaneamente da tutta l'Europa; ma il nucleo centrale del problema risiede nei due stati antagonisti: Francia e Germania; una intesa fra i due, con l'assenso della Gran Bretagna, è la condizione sine qua non della soluzione del problema

5 Ivi, pp. 135-136. 6 Ivi, pp. 335-337.

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europeo, entro il quale necessariamente si inquadrano tutti i problemi più o meno acuti delle molteplici minoranze. Come si vede siamo sul piano della cooperazione internazionale, nel quale anche gli Stati Uniti d'America devono giocare il loro ruolo (...). La soluzione dei problemi economici europei non può ottenersi senza l'intervento degli Stati Uniti (...). Questa politica di cooperazione fra l'Europa e l'America sarà quella che servirà a far orientare in senso internazionale tutte le questioni di nazionalità. Sarà questo il clima nel quale potranno nascere anche gli Stati Uniti d'Europa. 7

Ma Sturzo era ormai un personaggio lontano, tagliato fuori dalla vita quotidiana che si svolgeva in Italia, ignorato dalle giovani generazioni, come scriverà Luigi Gui, ricordando che alla fine della guerra a mala pena se ne conosceva il nome. L'orientamento degli italiani fu influenzato da altri strumenti di conoscenza e di dibattito, fra i quali credo si debba considerare soprattutto l'Osservatore Romano e la rubrica Acta Diurna di Guido Gonella. È noto che l'Osservatore Romano, diretto dal padovano conte Giuseppe Dalla Torre8 e pubblicato al riparo della fragile extraterritorialità vaticana, fu l'unica voce relativamente libera del giornalismo italiano durante il ventennio, raggiungendo tirature altissime e ottenendo audience anche, e forse soprattutto, lontano dal recinto cattolico9. L'autorevolezza e il peso del giornale crebbero molto tra il maggio del 1933 e il maggio del 1940, quando esso ospitò la celebre rubrica Acta Diurna redatta da Gonella10. Buon conoscitore delle lingue e potendo usufruire della finestra internazionale rappresentata dalla Santa Sede, Gonella impostò la sua rubrica soprattutto sui temi della politica estera. In tal modo egli portò nel dibattito culturale dei cattolici italiani un'attenzione al quadro internazionale che fino a quel momento era mancata, ma vi portò anche una sensibilità solidaristica, e quindi europeistica, tanto più forte e marcata quanto più appariva chiaro che l'Europa marciava verso la guerra. Come ha osservato De Rosa, gli interventi di Gonella erano una disincantata e sofferta riflessione sulla crisi della coscienza europea, sulle sue cause, sui suoi esiti, indirettamente anche sui modi per uscirne. Riletti oggi diventano un'anticipazione dolorosa del cammino

7 Opere scelte di Luigi Sturzo. VI. La comunità internazionale e il diritto di guerra, a cura di G. De Rosa, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. XIX. 8 Su Giuseppe Dalla Torre si veda M. Bocci (a cura di), Giuseppe Dalla Torre. Dal movimento cattolico al servizio della Santa Sede, Vita e Pensiero, Milano, 2010. 9 "L'unico giornale nel quale si poteva ancora trovare qualche accenno di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi", come disse Piero Calamandrei intervenendo all'Assemblea costituente nel dibattito sull'art. 5 della Costituzione, poi divenuto l'art. 7 del testo definitivo (seduta del 20 marzo 1947, in http://www.camera.it/_dati/Costituente/Lavori/Assemblea/sed069/sed069.pdf). 10 Su Gonella, uno dei grandi dimenticati della storia italiana postbellica, si veda G. Bertagna (a cura di), Guido Gonella tra governo, parlamento e partito, 2 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007.

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europeistico che inizierà dopo la tragedia della guerra, a partire dall'osservazione che leggiamo in uno dei primi interventi di Gonella: "Nessuno fu buon europeo dal 1914 al 1920". La rubrica è aperta al mondo intero, ma l'attenzione prevalente è per l'Europa, per il suo "pesante malessere", come l'autore intitola un intervento di fine estate 193411. Anche tra il 1920 e il 1940, si ricava dai suoi articoli, nessuno fu buon europeo. Ora, pensando che Luigi Gui in quegli anni era studente all'Università Cattolica di Padre Gemelli, un altro dei luoghi in cui le giovani generazioni respiravano un'aria diversa da quella del regime, dobbiamo pensare che non gli sia sfuggita la rubrica giornalistica di Gonella. E accanto all'Osservatore Romano, va segnalato un altro strumento, sempre dovuto a Giuseppe Dalla Torre, che immise robuste iniezioni di internazionalismo europeistico nelle fibre della cultura cattolica italiana: la rivista quindicinale «l'Illustrazione Vaticana», che si pubblicò dal 1933 al 1938, sulla quale Alcide De Gasperi, con lo pseudonimo di Spectator, tenne una rubrica di commenti intitolata “La quindicina internazionale". Gli interventi di De Gasperi, ripubblicati nella loro interezza una trentina di anni fa in un testo che temo non abbia avuto nessuna circolazione12, sono prevalentemente dedicati ad analisi della situazione europea e della crisi del mondo tedesco - germanico e austriaco - quello che De Gasperi conosceva meglio. Di nuovo, quindi, il lettore cattolico di quegli anni era portato da un testimone privilegiato come il leader trentino a riflettere sugli errori del passato, sul dramma che si stava consumando e sulle prospettive che si aprivano per il dopo, anche se il dopo era al momento un indefinito punto interrogativo in un futuro indefinibilmente lontano.

4. Credo sia questo lo sfondo su cui si innestò e crebbe, dopo la caduta del fascismo, l'idea europeistica nelle giovani generazioni democristiane. I limiti di questo intervento non consentono un discorso più approfondito ed esteso. Mi limiterò quindi a segnalare i cenni che si fanno a questo argomento negli scritti programmatici, fra i quali quello di Gui, del periodo 1943-45, basandomi sulla trascrizione di questi scritti che fu fatta in anni ormai lontani dalla rivista «Civitas», ora scomparsa e allora diretta da Paolo Emilio Taviani13. Tali scritti,

11 Una raccolta degli articoli della rubrica in G. Gonella, Verso la Seconda Guerra Mondiale. Cronache politiche 1933-1940, Laterza, Roma-Bari, 1979 12 Alcide De Gasperi, Scritti di politica internazionale, 2 voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1981. 13 «Civitas», gennaio-febbraio 1982, con il testo integrale del "Codice di Malines" e del "Codice di Camaldoli"; «Civitas», luglio agosto 1984, con il testo del Codice di Camaldoli e vari scritti introduttivi; «Civitas», marzo-aprile 1984: questo fascicolo della rivista è intitolato Idee e

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redatti autonomamente da giovani che non avevano contatti fra loro, sono la fedele testimonianza di un fermento di idee dal basso dal quale usciranno le linee programmatiche della futura Democrazia cristiana e la sua spinta europeistica. A questi documenti va aggiunto il "Codice di Camaldoli", elaborato fra settembre 1943 e maggio 1944, ma pubblicato nel 1945, che fu il punto di partenza di numerose scelte della DC, soprattutto in materia di politica sociale ed economica. Il "Codice" va tenuto presente anche perché, pur affrontando nell'ultimo capitolo il tema della "Vita internazionale", non contiene nessun cenno alla questione europea e alla prospettiva della sua unificazione. Forse perché, quando apparve il documento, incombeva la questione del trattato di pace e non si voleva interferire con auspici che si sarebbero rivelati fallaci o con ripiegamenti che avrebbero potuto nuocere alla causa italiana. La prospettiva europea è presente invece in tutti gli scritti del periodo clandestino, a partire da quello più noto, le "Idee ricostruttive" dovute alla penna di Alcide De Gasperi (luglio 1943). L'autore ne parla all'interno del capitolo su "l’ordine internazionale secondo giustizia", ispirandosi ad un internazionalismo cristiano che avrebbe dovuto essere capace di imporre il disarmo e mantenere l'equilibrio anche ricorrendo all'ausilio di una forza militare soprannazionale. Più generico il cenno contenuto nel testo di Paolo Emilio Taviani, che scrive nell'estate del 1944, ma non meno esplicito nell'auspicare "unità federative internazionali" in grado di garantire "una più vasta collaborazione di masse umane e un più ampio sfruttamento di territori e di materie prime". Tutto pervaso di afflati cattolici è lo scritto dell'altro padovano, Gavino Sabadin, dicembre 1944, che propone una nuova "solidarietà internazionale" animata dai valori della "cattolicità". Partendo dall'esperienza resistenziale di cui era uno dei protagonisti, Sabadin spera nella collaborazione dei tre partiti di massa, cattolici, comunisti e socialisti, i quali, unendosi tra loro in ogni Stato potranno facilitare la ricostruzione dell'unità spirituale dell'Europa nel Cristianesimo applicato alla vita sociale e così, attraverso un più sano concetto di patria, raggiungere un'organica comunità di nazioni e creare le basi di una Federazione degli stati europei che eviti le guerre, favorisca un equo riparto delle materie prime, una dignitosa emigrazione, un libero scambio coordinato con uno stabile regime monetario internazionale". È degno di nota, in queste

programmi della DC nella Resistenza" con testi (non sempre riportati integralmente) di De Gasperi, Malvestiti, Olivelli, Taviani, Rumor, Sabadin, Gui, Dossetti e un'introduzione di G.B. Varnier.

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riflessioni di Sabadin, la visione tutta positiva della funzione Partito comunista, funzione che invece Gui valutava con ben altro realismo14.

5. Questi gli ideali, le speranze, le utopie, di una generazione di giovani (tranne De Gasperi, che aveva già passato la sessantina) che uscivano dal fascismo, dalla guerra e dall'esperienza resistenziale e guardavano al futuro vedendone - tutti - uno dei capisaldi in qualche forma di unione federativa europea capace di superare il nazionalismo, il bellicismo guerrafondaio, l'egoismo economico, le rivalità territoriali. E saldamente attestato su questa linea troviamo anche Luigi Gui, all'epoca trentenne e reduce dalla guerra di Russia. È Gui stesso a ricordare l'origine occasionale del suo opuscolo, redatto sul finire del 1944, tanto occasionale che l'autore non ne conservò copie. Lo scritto sarà ritrovato da altri molti anni dopo. Ed è sempre Gui a ricordarci l'isolamento in cui operavano i giovani che allora pensavano al dopo pieni di speranza: non aveva conoscenze della storia del popolarismo, non aveva mai letto nulla di Sturzo, né aveva potuto conoscere le “Idee ricostruttive” di De Gasperi. Lo scritto di Gui, una ventina di cartelle, è il più organico fra quelli di quel periodo, anche se è evidente anche nel tono la sua finalità pedagogico- didascalica più che programmatica. Il Gui concreto e alieno da astrattezze intellettuali che abbiamo conosciuto c'è già tutto in queste pagine giovanili15. Sul tema dell'internazionalità, che chiude la riflessione, Gui osserva che vi erano allora quattro grandi unità sovrastatuali: Impero Britannico, Stati Uniti, Russia, Cina. E continua: "Rimane l'Europa". Nessuno è mai riuscito ad unificarla e il rischio che incombe è che essa venga inghiottita dall' "orso russo" o dal "polipo americano". "Che fare dunque ?", si chiede l'autore. Non resta che difendersi "unendoci". "È venuto il tempo di creare una confederazione d'Europa, Inghilterra compresa". Credo si debba far notare la prospettiva diversa di Gui rispetto agli altri testi prima segnalati: egli non parte dalla teoria ma dalla pratica, e sul terreno concreto, della convenienza, pone la prospettiva dell'unione. L'unione europea, Inghilterra compresa - si badi - per difendere l'identità del continente, ma anche per salvaguardarne i legittimi interessi, prima che vengano fagocitati da altri. In

14 Su Sabadin si veda L. Scalco (a cura di), Gavino Sabadin nel Veneto del Novecento tra società, politica e amministrazione. Atti della giornata di studio nel ventennale della morte, Padova, 20 maggio 2000, Cleup, Padova, 2001 (il volume contiene, alle pp. 95-104, una mia analisi del saggio di Sabadin qui ricordato). 15 Il testo completo dell'opuscolo di Gui, intitolato La politica del buon senso. Pensando al dopo, si trova in L. Gui, Autobiografia. Cinquant'anni da ripensare (1943-1993), Morcelliana, Brescia, 2005, pp. 141-165.

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fondo, oggi il problema non è molto cambiato.... E gli "altri" che potrebbero ingoiare l'Europa sono gli Stati Uniti, ma soprattutto la Russia sovietica, alla quale Gui dedica una pagina per sburgiardare il suo falso internazionalismo, che in realtà maschera solo la politica di potenza del "comunismo internazionale che ha la sua capitale a Mosca e riceve ordini e denari dal Cremlino". Ben diverso e ancorato alla realtà il ragionamento di Gui, rispetto a quello lirico e astratto di Gavino Sabadin. La sua conclusione è in linea con la concretezza e la lucidità di tutto il testo: "Se è vero - come è vero - che gli slavi e i mongoli non hanno proprio niente da insegnarci, faremo bene a guardarci dall'internazionalismo comunista. La miglior via per giungere nel futuro ad un ordine universale fra i popoli rimane quella di farci forti nell'Unione europea per far passare agli altri popoli la voglia di ingrandirsi a nostre spese, e per poi lavorare da pari a pari per un'intesa fra i grandi stati mondiali". Pagine, queste di Gui, pensate allora in solitudine, nel frastuono della guerra ancora in corso, destinate non ad elaborazioni teoriche ma ad insegnare l'abc della politica ad una provincia ancora largamente povera, rurale, marginale. Eppure pagine nelle quali, in fondo, possiamo ancora ritrovarci settant'anni dopo.

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La vision européenne de Robert Schuman1 di Sylvain Schirmann

Le message européen de Robert Schuman n’est de loin pas un message figé. Si dans les dernières années de sa vie il est resté fidèle aux orientations et aux motivations qui furent les siennes avec le plan de 1950, il n’empêche que le contexte des années 1950 et le début des années 1960 exercent indéniablement une influence sur ses visions européennes. Cet article s’intéressera à la période 1953 – 1963. Schuman quitte le Quai d’Orsay en 1953. Il fut rappelé au gouvernement français quelques mois en 1955 comme ministre de la Justice, puis élu en 1958 par acclamation président de l’Assemblée parlementaire européenne. Ce fut son dernier poste officiel: il l’abandonna en 1960. En 1953, dès son retrait du ministère des Affaires étrangères, Schuman se livra d’abord à une justification de la politique européenne qu’il a menée depuis 19492. Il faut à ses yeux lier le plan qui porte son nom aux initiatives qui prirent forme en 1948, comme le Congrès de La Haye ou le démarrage des discussions pour la création d’un Conseil de l’Europe. Ce qui différencie son plan des autres initiatives parallèles, c’est la dimension supranationale qu’il introduit dans un projet européen. L’Organisation européenne de coopération économique (OECE), tout comme le Conseil de l’Europe baignent dans une atmosphère

1 On peut se reporter à trois ouvrages: M.-T. Bitsch, Robert Schuman. Apôtre de l’Europe 1953 - 1963, Bruxelles, Peter Lang, Cahiers Robert Schuman 1, 2010; R. Poidevin, Robert Schuman, homme d’Etat, 1886 – 1963, Paris, Imprimerie nationale, 1986; F. Roth, Robert Schuman. Du Lorrain des frontières au père de l’Europe, Paris, Fayard, 2008. 2 Sur ces origines, il faut lire les deux Conférences inaugurales de la chaire Robert Schuman au Collège d’Europe de Bruges, les 22 et 23 octobre 1953. La première, le 22 octobre, porte sur "le choix des idées directrices"; la deuxième, le 23 octobre, s’intitule "La méthode et les délais", «Cahiers de Bruges», décembre 1953, pp. 3 -23.

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intergouvernementale. Ces deux organisations sont pour lui davantage une réponse au contexte qu’une réelle naissance du projet européen. L’OECE est une création d’opportunité effectuée dans le cadre du plan Marshall. Elle a favorisé la coopération économique et a abouti à deux succès notoires: l’abolition des quotas et un système de paiement et de compensation monétaire. Ces résultats sont le fruit de la bonne volonté des Etats. Quant au Conseil de l’Europe, Robert Schuman ne lui reconnaît que deux mérites: le premier, c’est d’avoir permis la réintégration de l’Allemagne dans le concert international; le second, c’est la déclaration des droits de l’Homme qui conduisit à la création de la Cour européenne des droits de l’Homme. Ces premiers succès enregistrés, Schuman regretta par la suite la stagnation du Conseil et s’interrogea souvent sur la meilleure façon de le relancer. L’instance strasbourgeoise souffrait à ses yeux de deux défauts congénitaux: la nécessaire unanimité requise pour les décisions du Comité des ministres et l’impuissance de l’Assemblée parlementaire, qui fonctionne comme un laboratoire d’idées. «Le Conseil de l’Europe n’est ni une centrale d’énergie, ni un moteur pour les volontés européennes» pour l’ancien titulaire du Quai d’Orsay. Davantage encore, le Conseil de l’Europe et l’OECE sont inspirés d’une «vision anglo-saxonne de l’intégration», une idée qui doit conduire à l’intégration sans obligations et sans principe de majorité. Une telle voie contient en germe les déceptions. L’intégration européenne ne commence ainsi pour lui qu’avec le plan Schuman. Elle suppose la dimension supranationale, constitue une chance et répond à une nécessité. Schuman expliqua quelque fois par la suite qu’il n’avait qu’une priorité en 1950: dépasser l’antagonisme franco-allemand, surmonter cette ancienne rivalité et cette méfiance systématique entre les deux pays. C’est la raison pour laquelle il a tendu la main à l’Allemagne, accepté sa reconstruction politique et économique. C’est également pour ce motif qu’il souhaita la disparition rapide des mesures prises en 1945 contre l’Allemagne. Il n’y avait ainsi à ses yeux qu’une seule voie: une coopération entre les deux Etats sur la base de l’égalité et de l’intégration dans une Communauté multilatérale. Il s’agissait dès lors de changer l’esprit des relations franco- allemandes et en même temps de sauver, dans le contexte européen de l’après- guerre, l’Europe occidentale. Seul le processus d’unification peut permettre à l’Europe de rester indépendante dans un monde dominé par des blocs (Schuman ne parla pas seulement du bloc américain ou soviétique, mais dans certaines conférences il évoqua également le bloc du Commonwealth, ou un bloc asiatique autour de la Chine ou de l’Inde). Cette intégration de l’Europe est également une chance. L’Etat-nation n’est, aux yeux de Schuman, plus en mesure de régler les principaux problèmes

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économiques: l’approvisionnement en énergie, la modernisation des infrastructures et de l’équipement, la recherche ou encore le chômage. A plusieurs reprises, il insista sur le fait que «seule une Europe unie peut assurer le bien-être». Un grand marché est toujours plus adapté à vaincre les crises et à garantir le welfare, synonyme de paix et de liberté. La construction européenne ramène ainsi de la confiance entre des hommes de plus en plus interdépendants. De ce fait la pensée supranationale n’entre pas en contradiction avec l’intérêt national. Une communauté européenne n’affaiblira, ni n’absorbera la nation. Bien au contraire, «le national s’épanouit dans le supranational»3. Schuman lui-même avoua avoir mis du temps à se familiariser avec le concept de supranationalité. La communauté qui repose sur des transferts de souveraineté, ne devrait ni se transformer en «Super Etat», ni en Etat fédéral. Les Etats ont vocation à continuer à exister et à conserver de la souveraineté. Le chemin sera long et tendu jusqu’à la réalisation de la «Fédération d’Etats» que Schuman appelle de ses vœux. Avec cette vision, la supranationalité est une discipline supranationale acceptée par les Etats et réalisée dans le cadre d’institutions communes. Celles- ci ne peuvent fonctionner que s’il y a égalité des droits entre les Etats et que si une clause majoritaire y est introduite. Ce type d’institutions apporte de l’efficacité, protège les petits Etats et favorise la quête du consensus. Incarnation de ce type d’Europe pour Schuman: la Haute Autorité de la CECA. Elle possède du pouvoir, mais il est contrôlé par l’Assemblée, par la Cour de justice et par le Conseil des ministres. Supranationalité ne signifie pas non plus uniformité. A certaines occasions, Schuman mit en avant l’exemple suisse. Celui-ci prouve qu’il n’y a pas contradiction entre l’unité et la diversité. Il est ainsi essentiel de garantir tout au long du processus les particularités de chaque pays et de veiller au maintien de la pluralité linguistique. Il n’y a pas de culture européenne, mais des affinités entre les cultures des différentes nations. Ces affinités s’expliquent principalement à cause des racines chrétiennes communes. Robert Schuman resta également fidèle à la méthode fonctionnaliste, telle qu’on la retrouve dans la déclaration du 9 mai: «l’Europe ne se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensemble; elle se fera par des réalisations concrètes créant d’abord des solidarités de fait». Ce fonctionnalisme devrait permettre de passer de la CECA à une communauté plus globale.

3 Discours à l’occasion du gala annuel du Cercle français de Genève, le 21 mars 1953, texte du discours à la Fondation Jean Monnet pour l’Europe, Fonds Schuman, 1/3/3.

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En 1953, Robert Schuman reconnut pour la première fois que le projet de Communauté européenne de défense (CED) fut peut-être prématuré. Mais en même temps il insista sur l’utilité d’une telle Communauté: elle favorise la quête de sécurité de la France, permet le réarmement allemand et construit une défense européenne. Elle consolide l’ancrage occidental de l’Allemagne. En 1953 toujours, il se prononça en faveur d’une ratification rapide du traité CED en l’allégeant d’une partie de son dispositif4. Après le rejet de la CED, Schuman critiqua fortement les accords de Paris d’octobre 1954. C’est absurde, à ses yeux, d’avoir permis la création d’une armée allemande indépendante: celle-ci n’apporte aucun avantage à l’Europe. Tout ce qu’il espère du dispositif arrêté à l’automne 1954 dans la capitale française, c’est que «les accords de Paris soient un point de départ» vers la défense européenne. Mais il n’avait pas une grande confiance dans l’Union de l’Europe occidentale (UEO). Il le fit comprendre avec humour: «l’UEO est pareille au mulet, animal utile certes, mais qui n’a pas de fécondité procréatrice»5. Ce n’est donc pas avec cette structure que l’on pourra espérer des progrès en matière de construction d’une Europe communautaire. Au début de l’année 1955, juste avant son retour au gouvernement, Robert Schuman développa à plusieurs reprises sa vision pour relancer le processus de la construction européenne. Il faut prioritairement sauver la CECA6. C’est ensuite aux petits Etats qu’il revient de redynamiser le processus. Les opinions publiques devraient alors exercer une pression sur les Etats. Schuman avait le sentiment que les populations avaient un a priori favorable pour la construction européenne et étaient résolument européistes. Il misait beaucoup sur la jeunesse. Elle ne lui semblait pas paralysée par les peurs, le nationalisme et le protectionnisme. Bien au contraire, elle comprenait à ses yeux instinctivement les avantages d’un processus d’intégration européenne7. Pour mobiliser les populations, il accepta en 1955 la présidence du Mouvement européen. Au même moment, il songea à l’opportunité d’un dialogue Est-Ouest. Il y réfléchit de temps à autre depuis la disparition de Staline. D’un côté une amélioration des relations avec l’URSS apporterait un supplément de sécurité en Europe; mais de l’autre côté la construction

4 Voir l’article publié dans Le Figaro, le 19 août 1954. Il est intitulé "Ce qui est menacé". 5 Sur toutes ces questions, et notamment la citation, voir le Rapport de politique étrangère présenté par R. Schuman au Congrès du MRP, le 13 mai 1956. Il est intitulé "L’Europe et l’Allemagne, en particulier", «Archives départementales de la Moselle», 34 J 31. 6 Communication faite à l’Académie diplomatique internationale, à Paris, le 24 mars 1955, "La Communauté européenne du charbon et de l’acier. Expérience d’intégration européenne", «Archives départementales de la Moselle», 34 J 31. 7 Conférence du 31 janvier 1955 à l’université catholique de Louvain, "Les chances actuelles de l’Europe", «Archives départementales de la Moselle», 34 J 33.

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européenne est à l’Ouest une priorité. Il ne faut pas la sacrifier à une coopération avec Moscou. Il se méfiait des Soviétiques et de leur projet de neutralisation de l’Allemagne, inacceptable pour la sécurité de la France. Cette sécurité ne peut provenir que d’un rapprochement avec l’Allemagne dans le cadre d’une Communauté supranationale. Cela reste valable pour Schuman même dans le cadre d’une éventuelle réunification de l’Allemagne. Mais il réclamait dans le même temps de la détente: il faut tout faire pour éviter une croisade anticommuniste. Cette politique de détente n’est cependant envisageable que si l’URSS se prononce également en faveur de relations pacifiées, développe ses relations commerciales avec l’Europe occidentale et renonce à intervenir dans les affaires intérieures des Etats8. Il ne faut enfin pas oublier le sort des pays de l’Est. Cette perspective est cependant utopique au milieu des années 1950. Il faut alors continuer à approfondir l’intégration des six Etats occidentaux. Elle est prioritaire indépendamment de l’état des relations Est-Ouest. En 1956, Robert Schuman insista plus que de raison sur la nécessité de relancer l’intégration européenne9. Il faut s’appuyer, explique-t-il, sur le succès qu’est la CECA pour approfondir la coopération entre Européens. Le rapport Spaak offre de ce point de vue des perspectives. Le projet de communauté de l’énergie atomique est pour Schuman plus facilement réalisable que le marché commun. Mais Euratom pose le problème de la base étroite sur laquelle on construit l’Europe. C’est la raison pour laquelle il faut mener en parallèle la construction des deux communautés. Euratom assure la sécurité de l’approvisionnement énergétique. Le marché commun accélère l’élévation des niveaux de vie, à travers une concurrence libre et loyale, à travers la liberté de commerce, la rationalisation de la production et une meilleure répartition du travail. Ce marché nécessite de surcroît pour Schuman une politique monétaire commune. A travers le marché commun, on peut envisager une unité économique régionale compétitive entre Etats dont les intérêts sont similaires. Pour éviter un échec, il convient de négocier rapidement afin que les différents mouvements qui y sont opposés n’aient pas la possibilité de mobiliser. Mais il est important également de vendre le projet à l’opinion publique. C’est possible pour Schuman à la condition de ne pas trop renforcer le caractère supranational de la nouvelle communauté. Il s’agit d’éviter d’en faire une copie de la CECA. Il faut donc avancer avec pragmatisme et souplesse. Une communauté de six Etats et

8 Intervention au Conseil international du Mouvement européen à Versailles le 12 juin 1955, Archives historiques de l’Union européenne, ME 1063. 9 Voir son Rapport à la Conférence parlementaire européenne à Vienne, le 5 septembre 1956, intitulé "La relance européenne" in Archives historiques de l’Union européenne, ME 1063.

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de 160 millions de personnes a besoin de mesures de prudence, d’étapes et pauses pour se réaliser. A chaque étape, il est souhaitable d’éduquer les opinions publiques, en particulier la française, en lui montrant comment à travers le processus de la construction européenne les intérêts nationaux sont satisfaits. Ce discours, il faut le tenir à tous les relais d’opinion: partis politiques, Eglises, syndicats… La relance européenne va de pair avec l’intensification de la coopération entre le continent et les territoires d’Outre-mer. Schuman pensait toujours que l’Europe devait participer au développement de l’Afrique. C’est écrit noir sur blanc dans la Déclaration du 9 mai10. Il y revient dans une conférence donnée en 1954. Les territoires d’Outre-Mer ne doivent pas rester en dehors d’une union européenne11. En 1955, il se rallie au concept d’ «Eurafrique». Ce projet est lié à une perspective d’émancipation du continent africain. La France a à l’encontre de cet espace des obligations particulières. Elle se doit d’y modifier sa politique traditionnelle et d’engager ces territoires sur la voie du développement. Cela suppose d’arrêter la politique de l’obole, de l’aide, et de réfléchir à une politique de croissance économique et de développement avec l’Europe. Cette politique commune permettra non seulement la réalisation de l’objectif fixé, mais rendra plus évidente à l’opinion française la nécessité de la décolonisation. Schuman se montre d’ailleurs très optimiste à ce sujet: «l’Eurafrique sera un acte révolutionnaire à base économique. Grâce à lui, l’Europe et l’Afrique se consolideront l’une l’autre dans une entreprise commune de coopération généralisée12». Les événements de l’automne 1956 – Suez, Budapest, impuissance des Nations-Unies – auront beaucoup d’influence sur Robert Schuman. Il ne peut que constater la faiblesse de l’Europe, accompagnée de l’isolement français. Il se convainc alors de la nécessité de donner une dimension plus conséquente au projet européen. Dans la durée et malgré l’intérêt des projets d’Europe de l’atome et du marché commun, seule une communauté politique peut donner du poids aux Européens. L’Europe doit être capable de se défendre par ses propres moyens pour défendre sa liberté. Les institutions internationales existantes (ONU, OTAN) ont été impuissantes dans la crise hongroise de 195613.

10 Cf. l’interview de Schuman dans L’Express, le 27 juin 1953 («Archives départementales de la Moselle», 34 J 38). 11 Conférence prononcée devant le patronat chrétien à Paris, le 1 mars 1954, in «Archives départementales de la Moselle», 34 J 31. 12 Cf. le Rapport de politique étrangère prononcé devant le Comité national du MRP, le 16 décembre 1956, «Archives départementales de la Moselle», 34 J 41. 13 Cf. sa Déclaration faite à La France catholique le 6 novembre 1956 et publiée le 9 novembre 1956, in «Archives départementales», 34 J 38.

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A partir de ce moment-là et surtout pendant sa période de présidence de l’Assemblée parlementaire européenne, Robert Schuman revint fréquemment sur la nécessité d’une Europe politique. A cette fin Schuman fit deux propositions qui étaient censées éviter les désillusions du projet de Communauté politique européenne de 1953. Il préconisa d’abord la coopération entre Etats en matière de politique extérieure à travers des rencontres régulières. Ces consultations devraient être obligatoires avant chaque grande action diplomatique. L’UEO ou l’OTAN pourraient fournir le cadre de ces rencontres. Leur pérennisation donnerait logiquement naissance à un comité des ministres des Affaires étrangères, qui se transformerait en institution permanente et constituerait ainsi «le premier noyau d’un gouvernement européen». Dans ce cadre on peut exposer ses différences, ses oppositions, puis progressivement chercher le compromis consensuel. Dans un second temps, il se prononça en faveur d’une élection du Parlement européen au suffrage universel. Ce parlement pourrait alors exercer un contrôle démocratique sur les institutions; ou encore encourager des initiatives en matière de politique extérieure par ses interpellations du comité permanent des ministres. A côté de cela, il faudrait également créer un conseil économique européen. Celui-ci pourrait prendre la suite de l’Assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe, un Conseil de l’Europe qu’il voit de plus en plus comme une organisation faible. Les campagnes électorales serviraient ainsi pour Schuman à diffuser et étendre l’esprit européen. «L’Europe unie ne serait plus une architecture accessibles aux seuls techniciens, mais deviendrait l’affaire des peuples libres et l’espérance des peuples opprimés». L’oppression de la Hongrie après 1956 et le sort de l’Europe de l’Est préoccupèrent considérablement Robert Schuman. «Il faut faire l’Europe – explique-t-il après les événements de Budapest – non seulement dans l’intérêt des peuples libres, mais aussi pour pouvoir y accueillir les peuples de l’Est qui, délivrés des sujétions qu’ils ont subies…, nous demanderont leur adhésion et leur appui». Chaque être, chaque Etat en quête de liberté a sa place dans une Europe communautaire. Et d’insister: chaque progrès en direction d’une Europe unie à l’Occident, chaque pas vers une solidarité réelle en Europe occidentale est une chance pour l’Europe de l’Est. C’est seulement ainsi que les lourdes responsabilités apportées par une adhésion de l’Europe de l’Est pourront être honorées. C’est un devoir que de continuer à approfondir l’Europe. La seule possibilité d’être prêt le moment voulu. C’est notre devoir!

La crise hongroise l’amena également à ne pas se bercer d’illusions: la perspective de la libération de l’Est se fera dans le très long terme. Il s’agit en attendant de défendre la «petite Europe» à six. Celle-ci est en effet une avant-

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garde, un noyau initial ouvert à tous les Etats libres du continent. Avec le Royaume-Uni, qui n’a pas la culture de la supranationalité et ne l’accepte pas, il faut conclure des accords à l’instar de ce qu’a fait la CECA en 1954. Cela permettra une coopération approfondie entre Londres et la communauté européenne. L’idéal c’est un accord d’association. Au moment de la première tentative britannique d’adhésion en 1961, Schuman resta fidèle à sa ligne. «C’est une grande satisfaction pour la CEE, écrit-il, mais c’est essentiel que ce possible élargissement soit inscrit dans le sens de la construction d’une Europe unie». Il faut dire que l’ancien occupant du Quai d’Orsay avait été plus que réservé face à la proposition britannique d’une grande zone de libre-échange en Europe. Il avait toujours insisté sur la différence entre un marché commun, qui apporte discipline, régulation, limites, et un espace de libre-échange, dominé par les forces du marché. Le marché commun obéit de surcroît à un idéal commun, accepté par les Six, l’intégration. On ne peut de ce fait démanteler le tarif douanier commun et la politique agricole. Davantage encore, les Six ont l’obligation de stabiliser leurs devises, d’harmoniser leur fiscalité et d’accepter la saine concurrence. Il faut dès lors se protéger d’une vaste zone de libre- échange. Comme président de l’Assemblée parlementaire européenne (mars 1958 – mars 1960), Schuman continua à défendre sa vision des Communautés. Il insista bien évidemment sur l’Assemblée dont il avait la charge. Assemblée unique pour trois communautés, elle leur donne bien évidemment de la cohérence. Instrument politique s’il en est, elle est représentative des peuples européens, les protège contre une trop envahissante technocratie, contre la bureaucratie et le centralisme. Elle est un moteur de la construction européenne, car elle peut stimuler la conscience européenne et intéresser les populations à la construction de l’Europe. Si Schuman sut toujours adapter son discours aux événements et au contexte, il n’empêche que dans son propos on peut suivre un fil directeur que l’on retrouve dans pratiquement l’ensemble de ses discours, écrits et conférences. Souvent il fit référence à «l’esprit européen». Les valeurs qu’il met en exergue à travers ce concept sont la paix, la liberté et la solidarité. La paix n’est pas simplement l’absence de la guerre. C’est surtout le souhait de la réconciliation. La liberté est corollaire du projet européen, car seuls des peuples libres peuvent s’y engager. Elle est consubstantielle de la démocratie, sur laquelle reposent les institutions et les systèmes politiques européens. Cette construction n’est pas possible sans solidarité entre les hommes et les peuples. Schuman manifesta à plusieurs reprises sa sensibilité aux problèmes sociaux et à l’amélioration des conditions de vie. Ces valeurs entrent en résonnance avec l’engagement chrétien de Schuman, même s’il y fit rarement

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référence dans ses conférences et discours. Il «sécularisa» la plupart du temps ses propos, insistant rarement sur sa foi. S’il le fait, c’est la plupart du temps devant un public catholique (à l’université catholique de Louvain, dans le cadre des conférences catholiques de Bruxelles, par exemple)14. Dans ces situations, il parle de l’Europe comme d’une terre de civilisation chrétienne, de solidarité humaine et d’amour chrétien du prochain, toutes ces valeurs qui rendent la construction d’une Europe unie possible. Foi en l’Europe et foi chrétienne sont pour lui indissociables. Mais le devoir de construire l’Europe n’est lui pas simplement une obligation pour les chrétiens seuls, mais aussi pour les européens de toutes croyances. Cette posture discrète vis-à-vis des concepts religieux présents dans la construction européenne se retrouve également lorsque Schuman parle des acteurs de cette construction. Une «Europe vaticane» est pour lui un mythe15. La communauté n’est en tous les cas pas un cheval de Troie de l’Eglise. Même s’il est vrai qu’une grande partie des pères fondateurs des années cinquante sont catholiques (Adenauer, de Gasperi, Bech, Schuman), il ne faut pas oublier non plus qu’ils sont hommes des frontières, incarnations des conflits qui ont déchiré leurs Etats souvent voisins. Ces responsables politiques partagent la volonté de les éviter à nouveau, de se forger un avenir commun à travers la construction de l’Europe. Ce souci, ils le partagent avec des athées ou des agnostiques, comme Jean Monnet ou encore Paul Henri Spaak. Si les catholiques sont bien représentés dans ce panthéon initial, c’est tout simplement pour Schuman parce qu’il y a convergence entre les préoccupations chrétiennes et la volonté européiste. Mais les chrétiens n’ont pas le monopole de cette aventure. Parmi les acteurs majeurs de la construction communautaire figure indéniablement la France, aux dires de l’homme d’Etat lorrain. Elle seule put lancer cette initiative en 1950. C’est son destin que de prendre en main dans les périodes troublées les rênes de l’attelage. Si elle ne l’avait pas fait, il n’y aurait pas de construction européenne. C’est la raison pour laquelle, il se fit beaucoup de souci après l’échec de la CED. Ce pays, discrédité, isolé, en proie à des difficultés économiques, financières et coloniales, est en même temps d’une grande

14 Se reporter par exemple à la conférence donnée au Mont St. Odile, le 15 novembre 1954. Elle est intitulée "Le catholicisme en face du problème de l’unification de l’Europe", «Archives départementales de la Moselle», 34 J 31. 15 Sur cette question on peut lire: P. Chenaux, Une Europe vaticane? Bruxelles, Complexe, 1990.

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nécessité pour l’Europe. Sans lui, il n’y a pas d’Europe possible. Mais sans l’Europe également, la France ne peut surmonter ses problèmes16. Les discours de Schuman insistent tous sur la nécessité de donner du sens à la construction européenne. Unifier l’Europe, c’est rompre avec les erreurs du passé: l’égoïsme, la méfiance, la haine de l’autre. C’est également prendre des risques: sacrifier des pans d’indépendance et de souveraineté nationale à la communauté, coopérer avec d’anciens ennemis et de potentiels concurrents. Il s’agit alors d’accepter le principe de la majorité, d’ouvrir ses frontières, d’abolir le protectionnisme, de moderniser l’économie et d’assainir ses finances. Mais le risque est plus grand encore si l’Europe ne se construisait pas. Cela signifierait la fin de l’indépendance et le déclin. L’intégration seule sauvera l’Europe de ses maux. Elle permet des solutions communes, la victoire sur les peurs, la réconciliation entre les nations, la solidarité et la confiance. Cette Europe n’est pas une illusion romantique, mais un défi réaliste et délicat. Comme Schuman l’écrivait lui-même dans la préface de son ouvrage Pour l’Europe en 1963: «Rien de durable ne s’accomplit dans la facilité»17.

16 Interview à La Croix, 15 décembre 1956: "La France ne sera pas sauvée sans l’Europe et il n’y aura pas d’Europe sans la France". Ou encore la Conférence du 29 juillet 1958, publiée dans Les Affaires étrangères, Paris, PUF, 1959: "L’Europe dans la politique extérieure française". 17 Beaucoup de citations et d’analyse empruntent à cet ouvrage. On saura également gré à Marie-Thérèse Bitsch d’avoir rassemblé et commenté les principaux textes de Robert Schuman consacrés à l’Europe depuis 1953 dans l’ouvrage cité en note 1. Cet article lui doit beaucoup.

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La Democrazia Cristiana tedesca e la costruzione europea: principi, valori e prospettive di Thomas Jansen1

Il contributo della Democrazia Cristiana tedesca all’unificazione dell’Europa è legato ai nomi di Konrad Adenauer e di Helmut Kohl. In quanto cancellieri della Repubblica Federale, essi determinarono le linee guida della politica tedesca in un arco temporale di ben trent’anni. Ambedue erano anche presidenti del loro partito, l’Unione Cristiano-Democratica Tedesca (CDU), i cui orientamenti e programmi furono da essi influenzati in modo profondo e duraturo. Konrad Adenauer guidò la Repubblica Federale di Germania senza esitazioni verso l’Occidente, sfruttando ogni possibilità per ancorarla alle strutture politiche, economiche e militari che stavano nascendo dopo la seconda guerra mondiale. Sullo sfondo delle esperienze storiche, l’unificazione dell’Europa era per lui una questione della ragion di stato. Per Adenauer era importante impedire che la Germania venisse a trovarsi una seconda volta tra “l’incudine e il martello”. Già negli anni venti del secolo scorso, quando già ricopriva le due importanti cariche di sindaco di Colonia e di presidente del Consiglio di stato prussiano, aveva preso posizione in modo deciso a favore dell’idea di un mercato comune europeo in vista di una unificazione completa di tutte le nazioni europee. Assieme ai suoi partner congeniali, Robert Schuman in Francia e Alcide De Gasperi in Italia, Adenauer è giustamente definito padre fondatore delle Comunità Europee. L’eredità più importante da lui lasciata alla politica tedesca è la massima della continuità e dell’affidabilità: era soprattutto la fiducia che la politica estera tedesca doveva conquistare e, successivamente, conservare e

1 Testo tradotto dal tedesco da Lorenza Rega.

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rafforzare. Era impensabile che si potesse dubitare del rifiuto tedesco di ogni forma di neutralizzazione o di Sonderweg, di una via speciale tedesca. I molteplici sforzi bilaterali presso i Paesi vicini, soprattutto quelli che più avevano sofferto sotto i nazisti, servirono a questo scopo e crearono anche una rete di relazioni che alla fine facilitò anche la politica dell’integrazione. Helmut Kohl era stato segnato dalle esperienze della guerra che aveva vissuto negli anni della giovinezza. Dopo la guerra fu uno dei giovani europei che presero parte alle dimostrazioni al confine franco-tedesco per chiederne il superamento con la distruzione simbolica delle sbarre di confine e delle barriere. Originario del Palatinato, Kohl era il prodotto di un paesaggio e di una cultura la cui storia era determinata dalla vicinanza al confine e dallo scambio con il vicino francese. La massima di Adenauer della necessità esistenziale di una politica tedesca affidabile e degna di fiducia venne fatta propria da Kohl, il quale, da parte sua, la fece diventare il filo rosso dei suoi sforzi, riuscendo così a realizzare alla fine la riunificazione della Germania come elemento importante della riunificazione dell’Europa. Un’espressione tangibile di questa realtà è il collegamento irrevocabile con i Paesi vicini e i partner della Comunità Europea attraverso l’unione monetaria europea portata avanti da Kohl con forza e contro notevoli resistenze interne.

Molte altre personalità

Ma accanto e assieme a Adenauer e a Kohl, molte altre personalità cristiano- democratiche, politici di diverso grado, funzionari, diplomatici e iscritti al partito impegnati nella causa hanno contribuito in modo importante a fare della Germania un paese membro affidabile delle Comunità Europee, il quale nelle fasi decisive di questo sviluppo si è trovato nell’avanguardia diventando uno dei motori del processo di unificazione. L’esperienza di vivere in prossimità del confine è propria non soltanto di Adenauer e di Kohl, ma anche di altri cristiano-democratici tedeschi, che - nel corso dei decenni in cui l’unificazione dell’Europa cominciò a svilupparsi e a prendere forma concreta - avrebbero contribuito in modo decisivo a questo processo. In questa sede, in cui stiamo parlando dei padri fondatori, mi limiterò a soffermarmi su Heinrich von Brentano e Walter Hallstein, che hanno svolto, rispettivamente, un ruolo particolare nel porre le basi della costruzione europea e dell’unione politica. Heinrich von Brentano, presidente del gruppo parlamentare dell’Unione cristiano democratica (CDU) al Bundestag tedesco dal 1949 al 1955 e successivamente dal 1961 al 1964, nonché ministro degli Esteri dal 1955 al 1961,

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fu un federalista convinto, che si era messo in luce con questa sua idea già durante le consultazioni del Consiglio parlamentare sulla Legge fondamentale (la Costituzione tedesca). In tutte le questioni fondamentali della politica europea si trovò in sintonia con il Cancelliere, con il quale condivideva in particolare la convinzione che formulò nel discorso da lui pronunciato nel gennaio del 1952 in occasione del dibattito del Bundestag sul Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Egli disse infatti “che l’ineludibilità dello sviluppo messo in moto da questo primo passo ci porterà verso una integrazione autentica dei popoli liberi dell’Europa, ivi compresa una Germania libera e non più divisa.” “L’ineludibilità dello sviluppo” che avrebbe portato dall’integrazione nel settore strategicamente importante della politica economica all’integrazione in altri settori e, su questa strada, verso un’associazione più stretta degli Stati europei e, quindi, attraverso il radicale cambiamento della situazione internazionale, alla riunificazione della Germania, divenne il credo dei cristiano-democratici che si impegnarono nella politica europea raccogliendo l’eredità di Adenauer, Brentano e Hallstein. Nel 1952 Brentano assunse la presidenza della Commissione Costituzionale, la cosiddetta Assemblea ad hoc, che era costituita dall’Assemblea della CECA integrata con un certo numero di membri dell’assemblea della UEO. Questa Commissione aveva l’incarico di redigere uno statuto per la Comunità Politica Europea (CPE) pensata come un tetto politico-istituzionale per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) e per la progettata Comunità Europea della Difesa (CED). Nella premessa di Brentano alla bozza di questo statuto da lui presentata nel marzo del 1953, egli illustrò anche il carattere della Comunità Politica:

La Comunità politica non sarà né un’associazione di stati, né uno Stato federale. Essa riunirà i diversi elementi delle costruzioni classiche di diritto pubblico. Essa si distinguerà comunque in modo chiaro e univoco da una coalizione o alleanza basata soltanto su trattati e convenzioni internazionali. Questo tipo di costruzioni lascia sussistere i contrasti ed è dominata dal principio di egemonia. In una Comunità come quella proposta nella bozza si garantisce la vita propria dei popoli e degli Stati che formano la Comunità. Al contrario, è esclusa l’egemonia di uno Stato singolo all’interno della Comunità.

Tra i politici tedeschi impegnati attivamente nella costruzione della Comunità europea, Walter Hallstein, sottosegretario agli Esteri tra il 1951 e il 1957 e presidente della Commissione CEE tra il 1958 e il 1967, ha contribuito più di tutti, con i suoi discorsi e saggi, all’analisi teorica e alla comprensione del processo di unificazione. Adenauer aveva ingaggiato il professore di diritto dell’economia e di diritto comparato all’università di Francoforte per guidare i negoziati del Piano Schuman, nominandolo quindi sottosegretario agli Esteri

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dopo gli eccellenti risultati conseguiti da Hallstein assieme a Jean Monnet in questa sua funzione. Hallstein aveva contribuito alla realizzazione dei Trattati di Parigi e di Roma in modo sostanziale, per cui la sua nomina a primo Presidente della Commissione CEE sembrò un fatto scontato a tutte le persone coinvolte. Egli fu il creatore della struttura amministrativa della Commissione e ne gettò le basi per la sua immagine. Si adoperò con ogni mezzo per assicurare in tempi rapidi la realizzazione delle disposizioni del Trattato, insistendo sull’autonomia della Commissione e difendendo in modo coerente l’indipendenza di quest’ultima davanti alle ingerenze e aspettative dei governi, con la conseguenza di entrare in rotta di collisione soprattutto con il Presidente francese Charles De Gaulle. Terminato il suo mandato di Presidente, Hallstein mise per iscritto le sue esperienze e conoscenze in un volume intitolato Der unvollendete Bundesstaat (Europa: Federazione incompiuta, Rizzoli), che fu più volte ristampato (nelle edizioni successive col titolo Die europäische Gemeinschaft – La Comunità Europea) e tradotto in varie lingue. Egli riteneva che nella Comunità Europea fossero già presenti tutte le caratteristiche essenziali di uno Stato federale, anche se in forme che era necessario perfezionare per il completamento dello Stato federale stesso. Nella sua visione la Comunità Europea era un”organismo dinamico in cui era già insito il futuro”, per cui egli considerava lo sviluppo come un processo in cui era la Sachlogik, la logica delle cose, a far sì che ogni passo, ogni soluzione europea, avrebbe provocato la necessità di altri passi verso l’integrazione. Inoltre egli considerava la Comunità come una creazione del diritto, pertanto una Comunità del diritto che può svilupparsi nel senso della sua vocazione in modo adeguato soltanto se tutte le sue parti rispettano il diritto stabilito di comune accordo.

La concezione del federalismo

Spero che i principi e valori ai quali si ispiravano i cristiano-democratici tedeschi nella loro politica europea e gli obiettivi da essi perseguiti siano stati delineati in modo chiaro in questa breve illustrazione delle più importanti personalità e dei loro contributi specifici. Rimane ancora qualcosa da dire riguardo alle tre condizioni più importanti, essenziali per la politica europea dell’Unione Cristiano-Democratica tedesca, ovvero: - il rapporto tra politica tedesca e politica europea - la sua visione di federalismo, - la collaborazione franco-tedesca.

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Nella concezione di Adenauer e del suo partito, che negli anni Cinquanta e Sessanta aveva le maggioranze più ampie anche grazie alla sua politica tedesca ed europea, la riunificazione della Germania poteva essere realizzata soltanto con l’unificazione dell’Europa, prima dell’Europa occidentale e infine di tutta l’Europa. Per questo motivo i governi guidati dai cristiano-democratici anteponevano sempre una politica attiva dell’Europa a una politica attiva della riunificazione. In questa concezione la politica europea era la migliore politica tedesca, e una politica volta alla riunificazione della Germania non era nient’altro che una politica europea attiva. Infatti, in entrambi i casi, si trattava della libertà, della pace, della sicurezza e della democrazia. Del resto, nell’esperienza tedesca non era lo stato nazionale in quanto tale il male da estirpare o da superare. Il male consisteva piuttosto nell’appropriazione e corruzione dello Stato e della società da parte di ideologie totalitarie, che disprezzavano la persona, da parte del nazionalsocialismo allora e del comunismo adesso. La concezione tedesca del federalismo si basa su una prassi sperimentata e collaudata nella Repubblica federale e prende le mosse dall’idea che la federazione europea può essere soltanto il risultato di un processo di cui sono essenzialmente i Paesi membri a doversi fare carico. Contemporaneamente al processo che vede gli Stati nazionali raggrupparsi nella federazione europea, che quindi si costituiscono in una federazione, deve avere luogo – all’interno di questi Stati – un processo di federalizzazione attraverso il rafforzamento dell’autonomia delle loro Regioni. Ciò spiega anche l’impegno costante a favore del principio della sussidiarietà e della istituzione di un Comitato delle Regioni. In questo modo la sovranità assoluta dello Stato nazionale classico, che si esprime anche in una tendenza al centralismo assoluto, sarà ridimensionata e resa innocua non solo da una divisione dei poteri sovranazionale, ma anche infranazionale. Questa non era soltanto una posizione teorica: essa si basava sull’esperienza che la Germania aveva dovuto fare sotto il nazionalsocialismo. Subito dopo la presa di potere da parte dei nazisti nel 1933, essi avevano proibito non soltanto i partiti democratici, ma anche proceduto all’allineamento forzato dei Länder (Gleichschaltung) e quindi alla loro abrogazione, al fine di tenere direttamente in pugno l’intero Reich. Anche se i comunisti nella Germania orientale avevano avuto bisogno di un po’ di più tempo per compiere un passo analogo, alla fine riuscirono anch’essi gradualmente a completare la centralizzazione della vita politica della Repubblica Democratica Tedesca tra il 1952 e il 1958, liquidando i Länder che si erano nuovamente costituiti dopo la guerra.

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Grazie alla sua importanza in quanto principio strutturale e organizzativo nazionale per lo sviluppo democratico e il rilancio economico della Repubblica federale, il federalismo divenne fondamentale anche per le idee tedesche sulla futura costruzione europea. Ciò era particolarmente vero per i cristiano- democratici, che – non da ultimo per l’importante ruolo svolto nel loro pensiero e nei loro programmi dal principio della sussidiarietà mutuato dalla dottrina sociale cattolica – possono essere considerati il partito del federalismo per eccellenza e che da questo punto di vista si distinguono nettamente dai loro concorrenti, ovvero dal partito socialdemocratico tedesco che tradizionalmente tende al centralismo. Fin dall’inizio la collaborazione franco-tedesca, che rappresenta il simbolo e lo strumento della conciliazione e dell’intesa tra le popolazioni vicine sulle due sponde del Reno, è stato considerata non soltanto in Francia e in Germania il presupposto essenziale per il successo degli sforzi volti a realizzare l’unità europea. Per questo Adenauer e i suoi successori hanno cercato in occasione di ogni iniziativa l’accordo con la Francia, anche se – e certamente anche per l’appunto per questa ragione! – le motivazioni e gli obiettivi di entrambi i partner spesso erano divergenti. Anche i responsabili francesi hanno regolarmente cercato la coesione con i tedeschi. Ciò si è verificato anche quando all’inizio degli anni Sessanta, in una situazione in cui – a causa dell’evoluzione dell’integrazione nell’ambito della Comunità Economica Europea - era improrogabile, seppur impossibile da realizzare, uno sviluppo verso l’unione politica, si tentò di forzare la svolta con un’intesa franco-tedesca. Ed effettivamente la nascita del Trattato franco- tedesco è strettamente collegata con gli sforzi di dare vita all’Unione Politica Europea con l’approvazione di uno Statuto. La speranza che gli altri partner avrebbero seguito l’esempio franco- tedesco aderendo al Trattato non si esaudì, benché da parte tedesca fossero stati fatti tutti gli sforzi possibili per appianare le differenze. Ma Adenauer ha comunque avuto ragione nel suo impegno per questo trattato, che egli verso la fine del suo mandato considerava del resto “l’opera principale della sua attività come cancelliere“ svolta per ben quattordici anni. Da allora questo trattato ha svolto la funzione di pilastro portante della Comunità Europea nelle difficili fasi dell’integrazione. Infatti, al suo interno, si è potuto chiarire più di qualche fraintendimento, superare più di qualche difficoltà nel processo di integrazione e prendere più di qualche iniziativa a favore dell’ulteriore sviluppo della Comunità. Anche questa è una conferma che l’intesa franco-tedesca rimane un presupposto imprescindibile per l’unificazione dell’Europa.

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Un’eredità sempre attuale

Arrivo così alla fine del mio intervento. Anche sotto la guida di Angela Merkel l’Unione cristiano-democratica tedesca si considera il partito tedesco dell’Europa. La cancelliera gode di una così straordinaria popolarità in Germania non da ultimo per la sua politica europea. Con la sua mentalità pragmatica Angela Merkel ha finora rinunciato a formulare una propria visione di politica europea, ma rimane fedele agli obiettivi dei padri fondatori cristiano- democratici. Durante la presidenza tedesca dell’UE (2007) la cancelliera si è adoperata affinché dopo i referendum negativi in Francia e nei Paesi Bassi i contenuti della bozza di costituzione approvata dalla Convenzione europea venissero salvati grazie al Trattato di Lisbona. Quando si trattò di salvare l’Unione monetaria, Angela Merkel assunse la guida assieme a Wolfgang Schäuble, avendo il coraggio di insistere sul principio che ogni Stato membro è responsabile della soluzione dei problemi causati da lui stesso. Questo è il presupposto alla base del risanamento duraturo degli Stati membri in difficoltà. È la condizione alla quale l’Unione Monetaria europea fu stipulata. Il rispetto di questa regola è anche il presupposto per la solidarietà tra i partner. Con la regola della responsabilità propria, che corrisponde al principio della sussidiarietà, e con la conseguente disciplina nella politica di bilancio e finanziaria si dovrebbe impedire che singoli Stati membri si indebitino a scapito di altri Stati membri e quindi a svantaggio della tenuta della Comunità penalizzandola nel suo insieme e pregiudicandone l’esistenza stessa. L’eredità della politica europea lasciata da Adenauer, Brentano e Hallstein è seguita in modo sistematico dall’Unione cristiano-democratica stessa e dalla Fondazione Konrad Adenauer, che impiega i suoi molteplici strumenti (dall’archivio all’Istituto scientifico, alle pubblicazioni, all’Accademia per la formazione politica, fino alle rappresentanze all’estero) anche a questo scopo. La politica europea tedesca plasmata in modo fondamentale dai cristiano- democratici, che mirava a integrare in modo stabile e definitivo la Repubblica federale nella Comunità Europea, è valutata da una grande maggioranza di tedeschi tanto positivamente quanto il prodotto stesso di questa politica, ovvero l’Unione Europea. In tutto ciò si riflette un ampio consenso trasversale ai partiti, che è essenzialmente dovuto alla continuità e alla presenza con cui l’Unione cristiano-democratica si è impegnata dopo Adenauer nel settore della politica europea.

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Tra dimensione nazionale e prospettiva globale: il “Comprehensive school project” europeo e la politica scolastica del ministro Luigi Gui (1962-1968) di Daria Gabusi

Quando facciamo riferimento al cosiddetto “Comprehensive school project” parliamo di un fenomeno che ha coinvolto l’Europa e molti paesi in tutto il mondo, caratterizzato da alcuni elementi comuni individuati e studiati, in particolare, dai sociologi dell’educazione1. In primo luogo, è opportuno definire il periodo e il contesto economico al quale facciamo riferimento, in conseguenza del quale si è parlato di “scuola nell’età d’oro del capitalismo”2, o di “età d’oro dell’istruzione”: siamo cioè negli anni Sessanta, possiamo dire – in estrema sintesi – tra il ‘boom economico’ e la primi crisi petrolifera. Richiamare il contesto economico favorevole risulta fondamentale, proprio perché esso rappresenta la premessa all’ingente quantità di denaro pubblico disponibile.

La ‘scuola comprensiva’: contesto, idealità, realizzazioni

Se portiamo come esempio il caso italiano, alla metà degli anni ’60 si arrivò a investire per la scuola un quinto del bilancio dello Stato. Non mancava di ricordarlo – in più occasioni – il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui:

Il bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione, compresi gli stanziamenti del recente Piano della scuola, comporterà per il 1968 una spesa globale di 1635 miliardi, pari al 21,1% della spesa

1 Mi riferisco qui, in particolare al saggio di Antonio Cobalti, Globalizzazione e istruzione, il Mulino, Bologna 2006. 2 Ivi, p. 33.

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totale dello Stato italiano, e superiore a quella – ormai è un dato consolidato da qualche anno – di qualsiasi altra Amministrazione. 3

Naturalmente, il contesto economico favorevole si poteva tradurre in progettualità politica grazie all’incontro con il patrimonio ideale sul quale si fondavano i governi democratici e i partiti politici nati o rinati sulle ceneri dei totalitarismi. Come mai era successo nelle epoche precedenti, alla scuola venivano così attribuiti nuovi compiti di grande rilievo, connessi alla giustizia sociale, all’avanzamento della democrazia e allo sviluppo economico. Il potenziamento dell’istruzione poteva divenire perciò strumento di integrazione sociale, di riduzione della disuguaglianza, di «rimedio all’emarginazione di gruppi sociali particolari»4, canale di mobilità, e favorire al contempo lo sviluppo economico. In quel periodo – non solo a livello europeo ma anche in alcuni paesi in via di sviluppo – tre aspetti principali contrassegnavano la scuola e l’istruzione:

1. Un contesto di idee favorevoli alla crescita dell’istruzione 2. La razionalizzazione dell’istruzione attraverso programmi di pianificazione 3. L’unificazione dei canali educativi a livello secondario, cioè la “scuola comprensiva o unica”, che, soprattutto nel contesto europeo, costituiva un’importantissima innovazione sul piano della storia delle politiche scolastiche ed educative5.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’istruzione scolastica cominciava a essere considerata un “bene comune”6 e un elemento del welfare, si iniziava a parlare di “capitale umano” e di “istruzione come investimento”, stabilendo quindi una relazione positiva tra le risorse investite per formare competenze ed eventuali incrementi di produttività. Per restare al caso italiano, questo aspetto emerge chiaramente tanto negli interventi pubblici del ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui, quanto in quelli del Presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro, che – tra la fine della terza e nel corso della quarta legislatura (1963-

3 L. Gui, Discorso pronunciato il 24 ottobre 1967 per la «Giornata dell’alfabetizzazione» indetta dalle Nazioni Unite, riportato in L. Gui, Testimonianze sulla scuola. Contributo alla storia della politica scolastica del centrosinistra, Le Monnier, Firenze 1975, p. 492. 4 A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, cit., p. 33. 5 Cfr. ivi, pp. 35-36. 6 Per un’originale rilettura della storia della scuola in età contemporanea secondo la categoria di “bene comune” si veda il saggio di F. De Giorgi, L’istruzione per tutti. Storia della scuola come bene comune, La Scuola, Brescia 2010.

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1968) – sono stati i principali artefici7 di una “politica sociale dell’istruzione”, in relazione alla quale è nata la scuola comprensiva italiana. Nel varare il primo governo di centro-sinistra “organico”, nel dicembre del 1963, l’on. Moro così sintetizzava il suo impegno per l’espansione della scuola, che doveva essere il primo dovere da adempiere, il più importante contributo da dare, sul piano economico e sociale come su quello morale e politico, all’avvenire della Nazione, alla sua prosperità, alla sua modernità. 8

Dal potenziamento delle strutture scolastiche, opportunamente adeguate al dettato costituzionale, sarebbe disceso – secondo i due statisti democristiani – un avanzamento democratico della società, all’interno del quale si sarebbe innescato tanto uno sviluppo sociale e civile, quanto un’espansione economica. Per il secondo punto caratterizzante la scuola negli anni ’60 si fa riferimento ai cosiddetti educational planning (Ep), cioè alla pianificazione dell’istruzione come mezzo per avviare il cambiamento sociale e modificare lo sviluppo economico. Nel 1963 nasceva a Parigi, fondato dall’Unesco per addestrare esperti in pianificazione scolastica, l’International Institute for Educational Planning: sia governi nazionali sia organizzazioni internazionali erano dunque impegnati in questa progettazione, nel cui ambito rivestivano un ruolo fondamentale l’indagine prima e la previsione poi. Anche nel nostro paese, sulla base della convinzione che l’istruzione scolastica fosse determinante per assicurare lo sviluppo, nel giro di pochi anni venivano presentate alla discussione parlamentare tre proposte di pianificazione inerenti il settore scolastico-educativo. Vale a dire: il Piano decennale del 1959 (“piano Fanfani”, presentato dal governo presieduto da quando Aldo Moro era ministro della Pubblica istruzione), il Piano triennale del 1962 (“Provvedimenti per lo sviluppo della scuola nel triennio dal 1962 al 1965” presentati dal ministro Gui come “stralcio” del piano decennale e disposti dalla legge 24 luglio 1962, n. 1073) e il Piano quinquennale del 1966 (presentato sempre da Gui quando Moro era Presidente del Consiglio), dei quali solo gli ultimi due giungevano ad approvazione.

7 Una sintesi dei principi ideali che hanno animato la politica scolastica dei due statisti democristiani si può trovare in D. Gabusi, “La pubblica istruzione in Italia tra valori democratici costituzionali e nuove esigenze sociali: Aldo Moro e Luigi Gui (1958-1968)”, in R. Moro, D. Mezzana (Eds.), Una vita, un paese. Aldo Moro e l'Italia del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 313-335. 8 Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ufficio stampa: Dichiarazioni programmatiche del governo pronunciate dal presidente del Consiglio on. Aldo Moro alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica il 12 dicembre 1963 (Archivio per la Storia dell’Educazione-ASE, Luigi Gui, f. 10 “Per nuovo Governo”).

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Primo e fondamentale frutto del Piano triennale risultava l’istituzione, da parte del ministro Gui, di una “Commissione d’indagine sullo stato della Pubblica istruzione in Italia”: un’esperienza che tutt’oggi – a cinquant’anni di distanza – rimane un unicum nella storia dell’Italia repubblicana. La Commissione ebbe infatti il merito di essere costituita da una felice combinazione di competenze e sensibilità (politici esperti in materia scolastica provenienti da tutto l’arco parlamentare e tecnici rappresentativi di tutti i settori scolastico-educativi), riuscendo così non solo ad analizzare la situazione italiana dalla scuola dell’infanzia fino all’università in tutte le sue componenti (da quelle strutturali a quelle ordinamentali), ma – in un anno di lavori – seppe consegnare al ministro Luigi Gui anche le proposte di riforma maturate al suo interno. L’indagine – sintetizzava il ministro Gui nella primavera del 1965 – era stata indirizzata a un duplice obiettivo: “di individuare le linee di sviluppo della pubblica istruzione sia in rapporto ai fabbisogni della società italiana connessi allo sviluppo economico e al progresso sociale; di individuare il fabbisogno finanziario e le modifiche di ordinamento necessari per lo sviluppo della scuola italiana”9. Sulla base quindi dell’indagine da una parte e della previsione10 di sviluppo scolastico dall’altra, si predisponeva lo stanziamento economico necessario all’attuazione delle riforme. Naturalmente in queste pianificazioni il ruolo dello Stato era fondamentale, dal momento che interveniva direttamente come “attore economico”11. Non a caso l’emergere, alla metà degli anni ’70, di “posizioni sempre meno favorevoli all’intervento dello stato”12, si sarebbe ripercosso negativamente anche sulle politiche scolastiche. Il terzo elemento considerato era la “comprensivizzazione” dei sistemi scolastici: “si tratta di una serie di riforme, soprattutto a livello secondario, che […] rappresentano una reazione al modello di scuola europea, divisa in canali socialmente differenziati, di cui tipicamente solo uno (il c.d. “canale nobile”) porta all’istruzione superiore. All’opposto, la scuola comprensiva è tendenzialmente unitaria”13. Il dibattito che si apriva allora sul confronto tra un modello di scuola comprensiva e uno di scuola selettiva sottendeva anche due

9 L. Gui, Il Piano di sviluppo della scuola per il quinquennio dal 1966 al 1970, presentato alle Camere il 31 marzo 1964, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 268. 10 Sul tema del “fallimento” delle previsioni di sviluppo della popolazione scolastica e del fabbisogno di diplomati e laureati, collegato soprattutto a una non corretta valutazione dell’incremento della disoccupazione intellettuale, si è negli anni scritto molto. Fondamentale risulta ancora l’inchiesta sociologica di M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, il Mulino, Bologna 1974. 11 A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, cit., p. 47. 12 Ivi, p. 48. 13 Ivi, p. 49.

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opposte “filosofie dell’educazione”. Un sistema comprensivo “fornisce istruzione pubblica per tutti i bambini in età di obbligo scolastico”14, inoltre “non sono usate pratiche di differenziazione o raggruppamento degli studenti che determinano definitivamente le successive carriere scolastiche e occupazionali. Ci si prende cura di bambini di tutte le provenienze sociali”15. In un sistema selettivo – al contrario – tramite processi di differenziazione, in un’età precoce della carriera scolastica i bambini vengono avviati a scuole diverse, perlopiù in relazione all’estrazione socio-economica delle loro famiglie. Se nel concreto – a livello europeo – i progetti di scuola comprensiva si realizzavano secondo forme molto differenti, le idealità e le finalità erano tuttavia comuni. In primo luogo, si credeva fosse possibile per un sistema di istruzione promuovere allo stesso tempo eccellenza e uguaglianza di opportunità; inoltre si proponeva, al posto di “un sistema rigido di canalizzazione e selezione, una strada aperta: la posticipazione per quanto di decisioni determinanti per la vita, l’offerta di un’educazione completa per tutti”16. Le manifestazioni più significative del progetto di comprensivizzazione si ebbero, oltre che negli Stati Uniti, nel Regno Unito (soprattutto in Scozia e nel Galles), in Svezia e in Italia. Dopo anni di discussioni e dibattiti, superando resistenze di ordine culturale e ideologico, provenienti da destra e da sinistra, il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui17 (nel IV governo guidato da Amintore Fanfani) conduceva ad approvazione la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, che, rispondendo a un dettato costituzionale, estendeva l’obbligo scolastico fino a 14 anni entro un progetto di legge organico, nelle sue componenti strutturali (investimenti economici: potenziamento dell’edilizia, immissioni in ruolo), nelle linee pedagogico-didattiche (nuovi programmi), negli ordinamenti (esame di licenza media come esame di stato con diploma che apriva l’accesso a tutti gli indirizzi della secondaria superiore). La legge sulla media unica, nel rispondere a un dettato costituzionale, rappresentava un importante elemento di rottura sul piano storico-educativo, tanto con il passato sistema scolastico fascista, quanto, più in generale, con quello ottocentesco di impostazione liberale. Notevole era pure la portata politica: malgrado l’opposizione di parte del mondo cattolico più conservatore, dei comunisti e della destra neofascista, la volontà di riformare il paese

14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ivi, p. 50. 17 Per un approfondimento del riformismo scolastico del ministro Gui nei governi di centro- sinistra (con la relativa bibliografia) rimando a D. Gabusi, La svolta democratica nell’istruzione italiana. Luigi Gui e la politica scolastica del centro sinistra, La Scuola, Brescia 2010.

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prevaleva e la formula di centro-sinistra risultava vincente, recuperando in qualche maniera il ‘patto costituente’ che aveva animato l’intesa tra i politici di ispirazione cristiana e quelli di ispirazione socialista nell’immediato secondo dopoguerra e che i governi di centro-sinistra avevano saputo rinsaldare. Nel suo spirito più profondo la legge, che garantiva l’istruzione gratuita e obbligatoria per tutte le ragazze e i ragazzi di 11-14 anni, si poneva due obiettivi: concorrere a “promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i princìpi sanciti dalla Costituzione” e favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”. La media unica diveniva così la prima realizzazione di quel progetto governativo (condiviso da Aldo Moro, , Luigi Gui e Tristano Codignola) che aveva individuato nel potenziamento della scuola e dell’istruzione il motore non solo dell’avanzamento democratico della società, ma anche – con una lungimiranza che nel Parlamento italiano si è andata nei decenni successivi progressivamente spegnendo – dello sviluppo economico del paese.

Sistemi scolastici omogenei e diffusione della cultura come fondamento dell’unificazione europea e della pace mondiale

La consapevolezza di condividere con gli altri paesi europei (ma anche, tramite l’adesione all’Unesco, con quelli extraeuropei) una progettualità scolastico- educativa finalizzata all’avanzamento democratico e al miglioramento della società emergeva con tutta evidenza in numerosi interventi pubblici del ministro Gui, soprattutto in quelli pronunciati nei consessi internazionali. Tra il 1959 e il 1964 si svolgevano quattro incontri dei ministri europei dell’Educazione, che si riunivano per stilare un programma di cooperazione nell’ambito culturale, educativo e della ricerca. La prima ebbe luogo all’Aja e vi presero parte i ministri di sette paesi: Belgio, Francia, Lussemburgo, Olanda, Regno Unito, Germania federale, Italia; la seconda si tenne ad Amburgo nel 1961 e vi aderirono tutti e quindici i paesi firmatari della Convenzione culturale europea; la terza si tenne a Roma nell’ottobre del 1962 e la quarta venne indetta a Londra per il 1964. Tra il 1962 e il 1963 il ministro Gui rivestiva, dunque, il ruolo di presidente della Conferenza europea dei Ministri dell’Educazione e in tale veste pronunciava, a Roma, il discorso di apertura della terza Conferenza. In quell’occasione Gui richiamava lo scopo principale di quegli incontri, cioè “giungere ad una intesa comune per una sempre maggiore armonizzazione dei diversi sistemi educativi, allo scopo di formare una vera coscienza europea”18. Il

18 L. Gui, Discorso di apertura della III Conferenza dei Ministri dell’educazione, Roma, 8-13 ottobre 1962, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 462.

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Presidente formulava quindi una serie di obiettivi più urgenti e immediati, molti dei quali rimangono tutt’oggi di rilevante attualità:

- Comparazione dei nostri programmi (in vista di una armonizzazione dei programmi di studio e delle nostre organizzazioni scolastiche) - Estensione e miglioramento dell’insegnamento delle lingue straniere - Prolungamento della scuola dell’obbligo - Impiego di nuovi sussidi didattici moderni.

Una riflessione più ampia veniva poi dedicata al tema della “determinazione di una comune politica europea nel settore della ricerca scientifica”, dalla quale discendeva la necessità di formulare un programma di studi che conciliasse le discipline morali e le scienze, fornendo a queste ultime un adeguato contenuto umanistico. Con la sensibilità che gli derivava dall’essere stato a suo tempo docente nella scuola superiore, il ministro Gui si soffermava infine sulla questione del potenziamento della ricerca in materia di educazione, con particolare riferimento alla formazione e all’aggiornamento degli insegnanti19. Conclusa la presentazione degli argomenti che sarebbero stati oggetto dell’intensa settimana di lavori, Gui richiamava con tono augurale il fine ultimo da perseguire con quegli incontri, cioè “il benessere comune dei nostri popoli nel quadro di una Europa armoniosamente unita”20. Intervenendo l’anno successivo, nel maggio del 1963, al Comitato dei ministri e all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa a Strasburgo (ancora nelle vesti di Presidente della Conferenza europea dei Ministri dell’Educazione) l’on. Luigi Gui presentava «questa nuova forma di cooperazione europea»21 affermando:

È innegabile che al complesso travaglio che tende all’integrazione del nostro continente la scuola non potrà rimanere estranea […]. L’Europa odierna è ormai un fatto storico irreversibile ed uno degli elementi essenziali di questa integrazione europea è senza dubbio la scuola. 22

L’augurio espresso a Strasburgo era quindi quello che la collaborazione tra i ministri europei dell’educazione potesse proseguire verso la “realizzazione di un programma di solida cooperazione pratica nel campo educativo per la

19 Ivi, p. 465. 20 Ibidem. 21 L. Gui, Relazione tenuta al Comitato dei Ministri e all’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 6 maggio 1963, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 469. 22 Ivi, p. 473.

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edificazione di un’Europa migliore”23, nella consapevolezza che “La costruzione europea ha bisogno di entusiasmo illuminato, di consensi e di sforzi costanti e pazienti”24. Qualche mese dopo, nel luglio del 1963, al Convegno internazionale per l’istituzione dell’Università europea di Firenze, il ministro Gui auspicava che nel promuovere la “formazione ai valori culturali tipicamente europei”, tale iniziativa dovesse, al contempo, “rappresentare, nella sua realizzazione concreta, una ripresa europeistica”25, che “valga a togliere le istituzioni europee dalla situazione di difficoltà, di relativo rallentamento del loro sviluppo, in cui esse si trovano”26. In occasione della “Giornata europea della scuola”, istituita nel 1954 e giunta nel 1966 alla tredicesima edizione, il ministro Gui affidava le sue considerazioni a un articolo intitolato Educare al civismo europeo, nel quale tratteggiava un parallelismo tra l’educazione patriottica ottocentesca finalizzata al consolidamento dell’unità nazionale e la necessità di una rinnovata formazione europeistica: oggi la scuola, per adempiere il suo compito, ch’è quello di formare cittadini per una società democratica, non può chiudersi nella torre d’avorio di una educazione ristretta alla conoscenza ed al culto del passato […]. Infatti la società, che oggi vediamo così rapidamente rinnovarsi, chiede nuove impostazioni dell’opera educativa; e, come esige una più lunga durata del periodo di studi obbligatorio e la sua estensione a tutti i ceti sociali – anche a quelli che fino a ieri ne erano esclusi –, così richiede una diversa prospettiva degli studi stessi. 27

Era perciò necessario superare “l’educazione ad una concezione nazionale di vita associata”, per arrivare a un “sistema di convivenza associata che oltrepassi i confini delle singole nazioni”, a partire da quelle europee:

Ma per la realizzazione di questa unità è necessaria la persuasione intima di tutte le coscienze, non soltanto la considerazione dei vantaggi economici che questa unione può portare. La realizzazione dell’unità europea è quindi opera di educazione e di riflessione; pertanto opera da affidarsi soprattutto alla scuola. 28

Sistema scolastico e insegnanti erano dunque chiamati dal ministro Gui – almeno a livello ideale – a un nuovo compito: educare le nuove generazioni a

23 Ivi, p. 474. 24 Ibidem. 25 L. Gui, Discorso alla seduta inaugurale del Convegno internazionale per l’Università europea, Firenze 3-6 luglio 1963, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 467. 26 Ivi, p. 468. 27 L. Gui, Educare al civismo europeo, in «Il Mezzogiorno e le Comunità Europee», n. 31 (febbraio 1966), p. 11 (ASE, Luigi Gui, f. 36, “Per la cooperazione culturale fra i popoli”). 28 Ibidem.

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una sorta di ‘patriottismo europeo’ che contribuisse alla costruzione di un’‘Europa dei cittadini’. Insomma – parafrasando il noto motto risorgimentale –, fatta (o ‘in fieri’) l’Europa, bisognava fare gli europei e lo strumento più efficace avrebbe potuto essere – ripercorrendo così lo schema educativo ottocentesco di matrice liberale – ancora una volta la scuola:

È questa che deve preparare i giovani a sentirsi cittadini europei ed a formarsi una mentalità europea, attraverso la conoscenza dei valori culturali, storici, scientifici, artistici, comuni ai singoli popoli dell’Europa […]. Compito dunque importante e non facile questo affidato alla scuola, poiché esige che essa non sia più soltanto la custode di nobilissime tradizioni storico- culturali, ma anche la preparatrice di innovazioni; e compito che, in ultima analisi, chiede agli insegnanti una nuova impostazione del loro insegnamento ed un rinnovamento della loro cultura alla luce di prospettive nuove. 29

In quanto ministro dell’Istruzione di un paese membro non solo di quella che si andava configurando come Unione Europea, ma anche delle Nazioni Unite, Luigi Gui si trovava spesso a intervenire nell’ambito delle celebrazioni e degli incontri internazionali promossi dall’Unesco. In quelle importanti occasioni non mancava di “tradurre” nel contesto mondiale i principi ideali che avevano informato la politica scolastico-educativa e culturale del centro-sinistra a livello nazionale. Al discorso pronunciato alla Conferenza generale dell’Unesco a Parigi nell’ottobre del 1964, mentre rilevava che, per motivi di risorse, si era stabilizzato l’impegno finanziario nei programmi di attività culturali, ribadiva come l’azione dell’Unesco non dovesse mai trascurare la convinzione che “la cultura costituisca l’elemento indispensabile per il successo dell’azione […] nel settore educativo ed in quello scientifico”, ma “anche in settori particolarissimi come quello della lotta contro l’analfabetismo”30. Nell’ottica più generale di un “umanesimo dello sviluppo”, in una fase storica che “esige una razionalità più grande, una coscienza più profonda, un’educazione più difficile”31, Luigi Gui chiedeva con forza che si riaffermasse il posto della filosofia nella società: una “filosofia che scruta i bisogni della realizzazione dell’essere umano, che riconosce in questo sviluppo dell’individuo e della società un processo conforme all’essenza umana”32. I principi ideali espressi in queste occasioni (come in numerose altre, delle quali qui per ragioni di spazio non possiamo dar conto) trovavano una felice sintesi nel discorso pronunciato dal ministro Gui in occasione della Giornata

29 Ivi, p. 12. 30 L. Gui, Discorso pronunciato alla Conferenza generale dell’Unesco, Parigi, 23 ottobre 1964, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 483. 31 Ivi, p. 484. 32 Ivi, p. 485.

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internazionale dell’alfabetizzazione, indetta dalle Nazioni Unite per il 24 ottobre 1967. Riprendendo e sviluppando il messaggio del presidente del Consiglio Aldo Moro inviato all’Unesco, incentrato sulla diffusione del sapere universale come “strumento insostituibile per il consolidamento della pace”, il ministro Gui ricordava lo sforzo finanziario dell’Italia per la scuola e per l’educazione permanente degli adulti, considerata un “grado superiore dell’alfabetizzazione”, in quanto “si propone di tramutare le folle degli adulti in cittadini consapevoli uguali in diritto”33. Seguendo un impianto argomentativo che lo avrebbe condotto a evocare le encicliche di Giovanni XXIII (Pacem in terris) e di Paolo VI (Populorum progressio) da una parte, ma che raccoglieva anche gli echi del kennedyano discorso della “Nuova frontiera”, il ministro Gui andava fin da subito al cuore del problema:

Il mantenimento della pace, lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni, la cooperazione internazionale particolarmente sui problemi di carattere culturale e umanitario sono in sintesi i fini delle Nazioni Unite. E non è chi non scorga a prima vista come questi fini non possano agevolmente conseguirsi se in via preliminare non viene eliminato il più grande ostacolo che si pone sulla strada della comprensione fra i popoli, del rispetto dei diritti umani, della parità tra le nazioni, del riconoscimento delle libertà umane: ossia, se gli uomini di tutto il mondo non vengono innanzitutto liberati dei limiti che provengono dall’ignoranza, che in parte ancora li condiziona. L’ignoranza è il nemico tra i più insidiosi della pace perché impedisce agli uomini di comunicare tra di loro mediante un comune linguaggio ispirato alla tolleranza ed al reciproco rispetto. 34

La Giornata internazionale dell’alfabetizzazione – precisava il ministro Gui – era maturata qualche anno prima, nel 1965, a Teheran, al Convegno dei ministri dell’Istruzione di tutto il mondo, alla quale anch’egli aveva preso parte. Proprio in quell’occasione erano stati elaborati i cosiddetti progetti di “integrazione alfabetica dello sviluppo”, secondo le cui direttive diventava sempre più urgente agire:

Non si tratta perciò, nel programma dell’Unesco, di subordinare semplicisticamente un’azione profondamente umana e spirituale, qual è quella dell’alfabetizzazione, alle leggi dell’economia, bensì di tener conto, di ricordare che i popoli, specie quelli dei Paesi sottosviluppati, hanno una fame composita, una fame cioè che è insieme fame di cibo, di conoscenza e di libertà. L’imperativo che nasce da questa constatazione è di lenire in concreto tutte tre le componenti di questa fame, che è il grande nemico da sconfiggere nell’interesse della pace universale, del progresso, della civiltà. 35

33 L. Gui, Discorso pronunciato il 24 ottobre 1967 per la «Giornata dell’alfabetizzazione» indetta dalle Nazioni Unite, riportato in Id., Testimonianze sulla scuola, cit., p. 490. 34 Ivi, p. 488. 35 Ivi, p. 489.

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Dal momento che, secondo le stime più aggiornate, il 65% o addirittura il 70% della popolazione mondiale avrebbe dovuto essere inclusa negli interventi progettati dall’Unesco, diveniva necessaria una vera e propria: mobilitazione spirituale volta ad impegnare le forze vive di ogni Paese, specie di quelli più ricchi, in una lotta dalla quale non è esagerato affermare che dipendono in larga misura le sorti dell’intera umanità. A questa medesima visione del problema […] si ispira l’alta parola del Pontefice regnante che nella Populorum progressio ricorda il precetto evangelico che pone a carico degli abbienti il dovere di porgere la mano in soccorrevole aiuto ai fratelli bisognosi. 36

La conclusione – secondo quella prospettiva di ‘ottimismo realistico’ che caratterizzava una parte non indifferente degli interventi pubblici tanto del ministro Gui quanto del Presidente Moro – proiettava nel futuro gli esiti positivi di quegli interventi:

Nello spirito degli ideali delle Nazioni Unite e dei voti espressi dall’Unesco, noi consideriamo la cultura come un bene tra i più alti dell’uomo, essa schiude all’uomo, a qualsiasi livello, l’ansia, il gusto della conoscenza, che alimenta nel mondo la tolleranza e la solidarietà, lieviti necessari per realizzare imprese e conquiste che dovranno incidere sui destini dei popoli, sull’avvenire dell’umanità, sulla pace. 37

In qualche maniera, il ministro Gui proponeva di trasferire nel contesto europeo e nell’orizzonte mondiale quella che in Italia si era delineata come politica scolastico-educativa del centro-sinistra, che mirava al contempo allo sviluppo socio-economico del paese (‘politica sociale’ dell’istruzione) e all’avanzamento democratico della società (istruzione e scuola come ‘educazione alla democrazia’). Declinata nei confini europei, essa si traduceva nella volontà di armonizzare i sistemi educativi dei paesi membri e di varare una politica comune nel campo della ricerca, al fine di ridare nuovo slancio al processo di unificazione. Nel contesto mondiale significava invece incrementare gli sforzi finanziari e organizzativi per intensificare le campagne di alfabetizzazione nei paesi in via di sviluppo, nella consapevolezza che solo la diffusione dell’istruzione e della cultura potevano divenire le premesse più solide per uno sviluppo armonico e per una pace globale duratura.

La scuola comprensiva tra ‘missione compiuta’ e ‘missione tradita’

36 Ivi, p. 490. Sulla portata sociale e politica della Populorum progressio (che in più passaggi fa riferimento all’importanza dell’istruzione, dell’alfabetizzazione, delle conoscenze e della cultura in relazione alla tutela della dignità umana e alla nascita di una ‘civiltà solidale’) si rimanda al recente volume di F. De Giorgi, Paolo VI. Il papa del Moderno, Morcelliana, Brescia 2015, pp. 556- 568. 37 L. Gui, Discorso pronunciato il 24 ottobre 1967 per la «Giornata dell’alfabetizzazione» indetta dalle Nazioni Unite, cit., p. 495.

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Se con la legge del 1962 l’Italia si poneva in linea con il “comprehensive school project europeo”, nel decennio successivo il caso italiano si sarebbe molto differenziato, al punto da divenire quasi una “anomalia” nel contesto degli altri paesi europei: l’unificazione raggiunta a livello secondario inferiore (sebbene con alcuni compromessi iniziali, come le classi “differenziali” e “di aggiornamento”) subì infatti una battuta d’arresto e non arrivò mai – come sappiamo – a quello secondario superiore. La necessità di porre mano alla riforma della secondaria di secondo grado38 – lo ricordiamo – era stata avanzata già nel 1963 dalla Relazione della Commissione d’Indagine sullo stato della pubblica istruzione in Italia, che ne aveva posto in rilievo l’urgenza, non solo in relazione alle esigenze dei repentini cambiamenti socio-economici in atto, ma anche in vista dell’immissione di migliaia di studenti “fisiologicamente nuovi”, scaturiti dalla “comprensivizzazione” del grado secondario inferiore. Quando, nell’autunno del 1964, veniva depositato presso le Segreterie Generali della Camera e del Senato il Piano quinquennale di sviluppo della scuola (divenuto legge 31 ottobre 1966 n. 942) relativo alle linee direttive di un piano di sviluppo della scuola, si apriva, nel Parlamento e nell’opinione pubblica, il vivace dibattito sul riordino della secondaria superiore. Le questioni sul tappeto erano molteplici e implicavano – come già era avvenuto con la scuola media unica – non solo cambiamenti di natura strutturale e ordinamentale ma anche modifiche di ordine ideologico-culturale, che coinvolgevano la riforma dei licei, la trasformazione dell’istituto magistrale quadriennale in liceo magistrale quinquennale, l’adeguamento e il riordino dell’istruzione tecnica e della formazione professionale. Resistenze ideologiche (tanto nel “mondo laico” socialista e comunista, quanto nel “mondo cattolico”), unite alle difficoltà che si opponevano al raggiungimento di un accordo all’interno della coalizione di centro-sinistra fecero sì che il testo del disegno di legge sull’Ordinamento del primo biennio delle scuole secondarie di secondo grado venisse approvato solo al Senato e che finisse poi per decadere, non avendo completato l’iter legislativo per la fine della legislatura. Esso prevedeva, all’art. 1, che “Gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, ivi compresi gli istituti professionali, gli istituti d’arte, i licei artistici e la scuola magistrale, iniziano con un corso di studi di durata biennale,

38 Per una ricostruzione complessiva cfr. AA.VV., La scuola secondaria in Italia (1859-1977), Vallecchi, Firenze 1978; G. Gozzer, La riforma secondaria. Storia e documenti 1948-1990, 2 voll., Servizi editoriali, Roma 1990-91; M. Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola secondaria superiore negli ultimi trent’anni, in S. Soldani, G. Turi (Eds.), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 1993, II, pp. 87-127. Nello specifico del ministero Gui si rimanda a D. Gabusi, La svolta democratica nell’istruzione italiana, cit., pp. 307-345.

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cui si accede con la licenza della scuola media”. L’art. 2 stabiliva che, oltre agli insegnamenti comuni a tutti i bienni, in ciascun istituto “si aggiungono gli insegnamenti caratterizzanti”. Lo stesso Gui, ormai lasciato il dicastero dell’Istruzione, nel corso degli anni ’70, avrebbe non senza amarezza osservato che c’era stata una battuta d’arresto e che, arenatasi la riforma della secondaria, l’obbligo si era fermato ai 14 anni. Tutt’oggi – del resto – siamo fermi alla norma “fintamente” estensiva, introdotta per via amministrativa dal ministro Fioroni nell’agosto del 2007 senza prevedere al contempo un riordino dell’istruzione superiore, che prescrive l’ “obbligo di istruzione” “per almeno 10 anni”, cioè fino a 16 anni, obbligo che – di fatto – non viene espletato da chi è già intenzionato ad abbandonare gli studi. D’altra parte, è impossibile negare che la scuola comprensiva presenta oggi, in Italia, non pochi elementi di criticità: tanto le indagini nazionali (prove INVALSI) quanto quelle internazionali (OCSE-PISA, TIMSS) hanno messo in evidenza come le competenze linguistiche e scientifico-matematiche delle studentesse e degli studenti italiani subiscano un brusco crollo nel passaggio dalla scuola primaria al triennio della scuola media. Se infatti ripercorriamo i primi cinquant’anni di scuola media unica, da una parte incontriamo rilevanti obiettivi raggiunti sul piano quantitativo (espansione della scolarità, completamento dell’obbligo, piena scolarizzazione, innalzamento del livello generale di istruzione), che a ragione possono far parlare di missione compiuta, ma anche, dall’altra, alcuni elementi che dobbiamo accorpare nel paragrafo ideale della missione tradita. A questo proposito, il documentato Rapporto della Fondazione Agnelli interamente dedicato alla scuola media unica, pubblicato nel 2011, rilevava: “L’impressionante squilibrio nella presenza di alcuni strati sociali nei diversi indirizzi di scuola secondaria di secondo grado è la più evidente testimonianza del fallimento della scuola media unica come garante del successo formativo di tutti e, dunque, come motore di mobilità sociale”39. Oggi in Italia gli “studenti più esposti al rischio di una carriera scolastica irregolare restano […] quelli di origine immigrata”40 e “un percorso di studi irregolare è spesso associato a comportamenti a rischio”41, come ha mostrato l’indagine HBSC (Health Behavior in School-aged Children), patrocinata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

39 Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2011, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 30. 40 Ivi, p. 33. 41 Ivi, p. 36.

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Tuttavia, è altrettanto opportuno osservare che molti dei fallimenti della scuola media unica sono ascrivibili non al modello di ‘scuola comprensiva’, che rimane valido e attuale, ma agli insegnanti, che, oltre a distinguersi per l’inadeguata formazione didattica, pedagogica e psicologica, per non dire dello scarso aggiornamento, si guadagnano il primato dell’età avanzata: “mentre nei paesi OCSE i due terzi dei docenti alle secondarie di primo grado hanno meno di 50 anni, in Italia i due terzi hanno più di 50 anni”42. I dati riportati nel Rapporto relativi ai “fallimenti sul fronte della qualità degli apprendimenti e dell’uguaglianza delle opportunità educative per gli studenti appartenenti ai diversi gruppi sociali”43 non possono che mostrare l’urgenza di un intervento di politica scolastica finalizzato a riqualificare e rinnovare la missione della scuola media unica (anche attraverso una riorganizzazione del tempo scuola: il famoso “doposcuola” previsto già nel 1962 dal ministro Gui), così come la necessità di porre mano in modo organico alla riforma della secondaria di secondo grado, per una vera estensione dell’obbligo fino ai 18 anni. Occorrerebbe perciò ritornare indietro nel tempo e recuperare lo spirito che animò la riforma della media unica: quello di una “maggiore giustizia sociale”44 per “garantire a tutti l’accesso a un’istruzione di qualità, eliminando i divari di rendimento legati all’origine sociale e orientando le scelte delle superiori il più possibile sulla base del merito, delle attitudini e dell’impegno”45.

42 Ivi, p. 110. 43 Ivi., p. 16. 44 Ivi, p. 149. 45 Ivi., p. 151.

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La formazione dei giovani alla cittadinanza europea di Claudio Piron

Un cordiale saluto a tutti i presenti, agli ospiti, ai famigliari di Luigi Gui che hanno voluto offrire alla città questo appuntamento dove ricordiamo Luigi Gui a cento anni dalla nascita, proponendoci di andare alle radici della nostra Europa, ritornando alla visione dei padri fondatori per guardare oltre e pensare quale impegno oggi spetta a ciascuno di noi. Un grazie - che nasce dal profondo - ai figli di Luigi Gui, per avermi invitato come “già assessore” (forse non tutta la politica è da buttare ?!), e per aver pensato avessi qualcosa di utile da comunicare in questa importante occasione. In realtà ciò procura anche un certo imbarazzo perché non mi riconosco alcun merito, se non quello di aver beneficiato della disponibilità di Luigi Gui a trascorrere alcune giornate con i giovani della città (dal 2005 al 2010) quando da assessore mi occupavo di scuola, giovani, educazione, legalità.

Luigi Gui, un testimone prezioso

E allora, a proposito di attualità dei padri fondatori dell’Europa e del loro contributo, confermo da subito che sino agli ultimi giorni della sua vita, Luigi Gui è stato per noi un testimone prezioso, ci ha spronati e incoraggiati, ha dato obiettivi di impegno civile e politico ai nostri giovani. Luigi Gui, ancora negli ultimi periodi, ha esercitato con autorevolezza quella responsabilità verso il bene comune, venendo in mezzo agli studenti, senza paura di permettersi di arringare con impeto, di suonare la carica, di richiamare tutti - adulti e giovani - ad un impegno diretto, disinteressato, richiamando la responsabilità della cittadinanza, dell’essere parte di una comunità che ci ha accolti nella Pace e nella democrazia da oltre settanta anni e a cui tutti dobbiamo tanto. E lo poteva fare perché era credibile, dimostrava senza ombre la forza dell’onestà, della

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competenza, della credibilità. Doti tanto indispensabili quanto assai rare oggi, purtroppo. E attraverso questi incontri in cui Luigi Gui ci ha fatto dono del suo tempo, della sua energia, della sua esperienza, si è irrobustita un’amicizia con parte della sua famiglia, che rimane per me un prezioso legame a cui fare riferimento nelle situazioni più diverse.

Formare i giovani alla cittadinanza europea

Il tema su cui riflettere che mi è stato assegnato potrebbe rivelarsi un’impresa quasi impossibile, di questi tempi poi…, tanti sono i motivi di difficoltà: - innanzitutto perché non sono professore, né accademico, né sapiente di economia o relazioni internazionali, abituato a praticare più i sentieri del quotidiano che le vie maestre delle grandi speculazioni; - poi per la situazione di fatica e di arretramento delle ragioni di costruzione degli Stati Uniti d’Europa, che registriamo quotidianamente sotto i colpi di una crisi talmente persistente e globale da togliere il respiro a tante famiglie e la speranza a milioni di giovani; - e ancora per quella nebbia che avvolge le istituzioni europee, dovuta soprattutto all’assenza di politici lungimiranti e statisti all’altezza dei tempi e delle sfide epocali depositate nelle nostre mani. Registriamo con sgomento le troppe situazioni in cui la politica sembra abdicare al suo ruolo guida, e quasi di buon grado accettare la sottomissione ai cosiddetti “supertecnici”, all’arroganza della finanza, ai poteri forti, agli scambi di interessi di gruppi sempre più ristretti e sempre più arricchiti …

Uomini e Istituzioni alla dura prova della credibilità

È difficile, molto difficile, parlare con i giovani di cittadinanza europea, di assunzione di responsabilità, quando alcuni tra i principali artefici della politica anche europea compaiono nelle cronache più per i tornaconti di cui sono beneficiari che per le politiche in grado di portare sviluppo, lavoro, benessere sociale. È appena il caso di richiamare il generoso scivolo a spese dell’Unione, previsto per l’uscita dell’ex presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy. Una “indennità transitoria” di ben € 10.000 al mese per i prossimi tre anni, una buonuscita riservata ai parlamentari (e a tutte le figure di spicco delle istituzioni europee). Circa € 350.000 per il reinserimento lavorativo, su cui si applicano le aliquote ridotte della Ue…, il tutto in aggiunta alla pensione di € 4.700 netti al

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mese per l’attività svolta come parlamentare in Belgio (sic!) (cfr. «Eurocomunicazione», 5.12.14). E che dire della fresca nomina a presidente della Commissione Ue di Jean- Claude Juncker, che da ministro delle Finanze (1995-2013) trasformò il Lussemburgo in un paradiso fiscale? Più di 340 grandi società - multinazionali hanno goduto dei benefici di un regime fiscale particolarmente conveniente su temi sensibili come dividendi, royalties, interessi, processi di liquidazione, plusvalenze etc. Il valore delle partecipazioni azionarie in società quotate sui principali listini globali è stimato in almeno 290 miliardi di euro. (cfr. Il Sole 24 Ore, 27.11.14) Non a caso il Lussemburgo ha il primato del secondo Prodotto Interno Lordo pro capite al mondo (circa 44,2 miliardi di euro), dopo il Qatar, con € 80.276 all’anno per ognuno dei circa 550.000 abitanti.

E i giovani arrancano…

Nel frattempo l’Unione europea registra record negativi su tutti i fronti. Riportiamo solo pochi esempi per dare l’idea del peso schiacciante a cui i giovani dell’Unione sono sottoposti: - 25 milioni di disoccupati, dei quali 6 milioni sono giovani tra i 15 e i 24 anni, mentre erano 3,3 milioni solo nel 2007; - 20 milioni di persone a rischio povertà di cui un terzo (7 milioni circa) sono giovani; - l’allarme lanciato da Eurostat (l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea) che indica il 27 % degli under 18 a rischio povertà e di esclusione sociale; - le interviste rilasciate dai giovani che lavorano in studi professionali, di avvocati, notai, commercialisti, ingegneri, architetti, etc. che danno conto di come a 30/35 anni ancora vengono assunti con contratti temporanei (quando va bene), o rimborsati con 500/600 euro al mese, quasi sempre pagati in nero! Nel mettere assieme questi dati, più che come casa comune, l’Europa sembra presentarsi con il volto di una matrigna che ben poco ha a cuore il presente delle giovani generazioni e ancora meno del loro futuro. Di fronte a ciò, e a ben altro purtroppo, come è possibile meravigliarsi se: - paure, chiusure, rischiano di avere il sopravvento e condizionare la democrazia? - prendono sempre più quota in modo impressionante nazionalismi e razzismi? - si innalza il numero di giovani che non vogliono recarsi alle urne per votare?

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Come possiamo chiedere ai giovani di prendere parte attivamente alla vita del proprio paese e dell’Unione, di celebrare la giornata europea, o la giornata internazionale dei diritti umani, e tutte le altre ricorrenze civili?

La forza delle idee e dei testimoni

In questo scenario ci sembra fondamentale innanzitutto selezionare con attenzione le proposte su cui le istituzioni possono lavorare con i giovani, avendo coscienza che c’è bisogno di offerte formative alte, impegnative, scomode perché i giovani ci chiedono di andare all’essenziale, ai valori che stanno a fondamento della vita di una comunità e che soli possono dare senso alla nostra vita. E dunque: Recuperare i profili dei padri fondatori, portandoli ai giovani, rendendo possibile l’incontro tra generazioni, scelta che Luigi Gui ha sempre sostenuto mettendosi a disposizione con ogni risorsa fisica e morale: - per la consegna della Costituzione ai diciottenni sin dal 2005, anno della prima iniziativa; - per le celebrazioni del 50° anniversario dell’istituzione della scuola media unica per tutti, che in prima persona rese possibile attraverso la legge da lui scritta (Legge n. 1859 del 31/12/1962); - nei seminari e nei convegni con i giovani al festival della cittadinanza e ad ExpoScuola; - nel sessantesimo della Costituzione, quando, assieme a mons. Nervo (altro prezioso testimone della nostra storia), consegnò ai giovani copia del suo manuale scritto in clandestinità “la politica del buon senso”. Recuperare gli scritti di questi padri fondatori e proporne ai giovani la lettura: è stata questa un’altra azione che Luigi Gui ci ha aiutato a mettere in atto con migliaia di giovani. Importanti entrambe, scelte fondamentali per un possibile rapporto con i giovani e dalla potenzialità formativa molto forte. Sono queste le occasioni in cui riannodare i fili della storia con quelli delle storie minori, dei nostri territori e con le tribolazioni patite dalle nostre famiglie. Sono i momenti in cui dare profondità alla nostra esperienza presente, per ancorarla su solida roccia, per mettere in fila valori, principi, priorità, scelte… La forza del pensiero e dell’azione di Luigi Gui, e con lui di altri padri della Costituzione e dell’Europa, si sono così dimostrati agli occhi dei giovani vivi e pulsanti nella loro grande attualità. Ecco, dare voce ai loro pensieri, lasciare spazio alle loro parole, metterle in dialogo con gli interrogativi che attanagliano i nostri giovani, si è rivelata operazione ricca di ricadute positive. Parole e pensieri come quelle scritte nel

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1944 da Luigi Gui che spesso abbiamo riletto assieme e che oggi riproponiamo a noi stessi.

L’idea guida: l’umanità una sola famiglia

L’idea guida, forte, chiara, nitida di quella pubblicazione clandestina diffusa durante la Resistenza suona: “è certo l’umanità costituisce per natura una sola famiglia” (pag. 38), da cui discende l’asse centrale quando si parla di democrazia: “non si può non accogliere il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini”(pag. 27), e quindi il tema del bene comune: il modo migliore con cui gli individui possono provvedere al proprio benessere è quello di lavorare per il bene comune. Se ciascuno fa l’egoista e vuole sfruttare gli altri per il suo esclusivo vantaggio personale, ne viene di conseguenza che lo Stato si sfascia” … “e se lo stato non c’è o va male, abbiamo già visto che non si può né vivere né prosperare. Lo stato ha per fine dunque il bene dei cittadini; ma lo scopo dei cittadini, e specialmente di quelli che comandano, deve essere il bene comune. (p. 19).

La consapevolezza del destino comune: l’Europa un continente di minoranze

Un punto fermo, irrinunciabile legato alla comune esperienza vissuta con tanti giovani del suo tempo, nei campi di battaglia, sui fronti della guerra che aveva devastato l’Europa intera, trasformandone il ventre in un campo di sterminio, rendeva assolutamente convincente il tenente Luigi Gui quando riportava ai ragazzi le sue memorie per mettere al bando le guerre ancora disseminate in ogni continente: resta da considerare il rapporto tra gli stati. Le continue e terribili guerre che travagliano l’umanità e specialmente l’Europa devono aver aperto gli occhi ai ciechi ed aver fatto intendere ad ognuno che così non si può andare avanti. (p. 38).

Altrettanto carica di forza dirompente rispetto alle paure, alle chiusure, ai rischi di involuzione si è presentata la convinzione profonda che l’Europa è unica e vincente proprio perché è un continente di minoranze: rimane l’Europa propriamente detta, ossia quella centrale ed occidentale: qui gli stati sono molto numerosi e tra di essi nessuno sovrasta in modo decisivo. Nei secoli andati hanno fatto il tentativo di sottomettere e unificare l’Europa prima la Spagna, poi la Francia e nelle ultime guerre la Germania, ma nessuna è riuscita. La causa sta nella grande vitalità dei singoli popoli europei, tutti attivi, evoluti e civili, di cui ciascuno ha sempre avuto una grande parola da dire al mondo. L’Europa ha civilizzato il mondo proprio perché nessun imperialismo è riuscito a schiacciare le energie delle varie nazionalità, soffocandone le forze geniali. (p. 39).

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La politica del buon senso: praticabilità e progressività

Altro aspetto davvero attuale e ricco di conseguenze pratiche, concrete, perché attinenti al come poter realizzare questo grande progetto, fatto di grandi ideali e di valori universali, è la nitida consapevolezza di dover mettere prima le fondamenta, poi i pilastri, poi le pareti della casa comune da costruire. Con senso del progressivo e inesorabile avanzamento delle idee sostenute da scelte di politiche sociali, economiche, istituzionali: continueremo a beccarci tra di noi come i capponi di Renzo finché non finiremo nella grande pentola russa o americana? Sarebbe veramente cretino. Attenderemo supinamente di essere ingoiati dall’orso russo o dal polipo americano? Oltre che cretino sarebbe anche vile. Che fare dunque? Non resta che difenderci e in un modo soprattutto: unendoci. È venuto il tempo di creare una Confederazione d’Europa, Inghilterra compresa. È una soluzione nobile ed intelligente, degna di popoli civili. (p. 39).

Ecco quindi la proposta che sin dal periodo della clandestinità veniva indicata ai giovani da formare alla democrazia, cui erano destinate le copie dell’opuscolo (sempre clandestinamente distribuite da don Giovanni Nervo, suo grande amico), ovvero ai giovani coinvolti nella Resistenza:

Creare dunque la confederazione d’Europa e poi costruire un’organizzazione internazionale, una più perfetta società delle Nazioni, per collaborare e dirigere le questioni con i grandi stati extra europei. Questa la via del buon senso, dell’interesse e dell’onore. (p. 40).

Quello che possiamo fare noi, educatori, amministratori, istituzioni locali

Se formare vuol dire dare forma, plasmare…, allora ciò presuppone il camminare insieme, lo stare accanto, il dare conto delle nostre scelte e quindi della nostra credibilità. Se cittadinanza europea vuol dire sentirsi parte di una stessa famiglia umana, ritrovare in essa le radici comuni, la nostra identità di cittadini; se sentirsi a casa propria in questa Europa vuol dire conoscersi e riconoscersi reciprocamente tra persone, tra popoli, conoscere le istituzioni dell’Unione, allora… Allora fondamentale è conoscere ciò che di positivo l’Europa sta facendo per i giovani, le opportunità previste per i prossimi anni attraverso il programma e gli Obiettivi della strategia Europa 2020, che indica la prospettiva di un’Europa più intelligente, inclusiva, sostenibile. Quindi le iniziative promosse per: - partecipare ai circuiti europei, la promozione dei giovani artisti europei, gli scambi di buone pratiche di politiche giovanili, i gemellaggi tra città; - portare 4 milioni di giovani almeno una volta in viaggio in un paese europeo;

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- investire 14,7 miliardi per il Programma Gioventù nei sette anni 2014-2020; - sostenere la mobilità come grande investimento di futuro per i giovani. Si tratta di programmi e strumenti predisposti per dare modo, ai giovani in particolare, di: - affrontare i cambiamenti intensi e rapidi (nel 2020 il 30% dei lavori saranno diversi); - innalzare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento (innalzare i laureati al 40%); - incrementare la lotta alla dispersione scolastica e abbassarla al 10%; - innalzare i livelli dell’occupazione sino al 75% della forza lavoro disponibile; - promuovere lo scambiare esperienze, conoscere culture, lingue, religioni; - scambiare le buone prassi tra paesi e città dell’Europa; Anche nei nostri più piccoli comuni è possibile intraprendere alcuni dei percorsi che abbiamo anche noi - nella nostra città - sviluppato con molta convinzione negli anni più recenti. In particolare alcuni che riportiamo brevemente qui di seguito.

I viaggi nella memoria e nella storia

Con migliaia di giovani, almeno 5.000, abbiamo viaggiato in Italia e con 3.000 in Europa per visitare i luoghi significativi dove, nel bene e nel male, sono conficcate le radici dell’Europa. Dai campi di sterminio (Auschwitz, Birkenau, Dachau, Mauthausen e altri ancora) al Parlamento europeo, dal Centro di Documentazione di Norimberga ai musei di cultura ebraica, dal ghetto di Varsavia alle capitali culturali dell’Europa (Budapest, Praga, Cracovia, Berlino ecc.), dalle miniere di Marcinelle e Blegny alle cave di marmo di Mauthausen, dai campi di concentramento di San Saba a Trieste, a Bolzano, a Fossoli al campo di Padriciano per i profughi dall’Istria, alle foibe di Basovizza, ai sentieri nelle Alpi Marittime dove tentarono la fuga gli ebrei riparati a Saint Martin Vesubié, al museo di Vò vecchio, Marzabotto e Monte Sole, all’isola di San Lazzaro o degli Armeni, alla diga del Vajont e alle terre confiscate alle mafie in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia… Con i giovani, fianco a fianco, ci siamo calati nelle profondità più nascoste delle vicende umane per condividere domande, pensieri, speranze.

I giovani di oggi in dialogo con i giovani di ieri

Così ci siamo dati il compito di fare incontrare i giovani e gli educatori di oggi con i giovani di ieri - testimoni significativi - per dare un senso a date, luoghi,

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città in cui si sono consumati fatti che hanno segnato la storia del continente europeo e la vita dell’umanità. Uomini e donne come Luigi Gui, Tina Anselmi, Giuliano Lenci, Giorgio Perlasca e i numerosi altri, pensiamo al sacrificio di Franz Jägerstätter, che questa Europa l’hanno voluta e costruita. Percorsi fatti di esperienze concrete, di contatti fisici, di confronti profondi, che contribuiscono a consolidare una relazione tra generazioni, a trasmettere il senso di appartenenza alla comunità, a rielaborare la storia e la memoria per andare alle radici di un comune legame sociale e civile.

Un patto educativo tra generazioni

Un modo per costruire cittadinanza, per stabilire un patto educativo con i giovani, le scuole, gli ambienti educativi, chiedendo loro di farsi “ambasciatori” della propria comunità (scolastica, civile, nazionale) e al ritorno “testimoni” in una restituzione - attraverso video, foto, giornali di classe, seminari, incontri in istituto, eventi cittadini - di quanto vissuto, dell’esperienza del viaggio, delle relazioni, degli scambi realizzati. Un patto dichiarato che chiede di mettersi in gioco, per mettersi nel solco di quel faticoso processo che ha portato alla conquista dei valori di Libertà, Giustizia, pace, Fratellanza, Solidarietà che stanno a fondamento del Patto di Civiltà tra generazioni e tra i popoli, sancito dalle Carte dei Diritti dell’Uomo e dalla nostra Costituzione, dove Luigi Gui ha portato il suo contributo come uomo delle istituzioni democratiche e come cristiano laico, adulto nella fede. È stato questo anche il nostro piccolo, umile contributo per la formazione dei giovani alla cittadinanza europea e per rafforzare insieme a loro la speranza e la determinazione nel costruire un mondo migliore. Una speranza che trova alimento nelle parole di uno dei centocinquanta giovani che hanno partecipato all’ultimo viaggio a Budapest, Cracovia, Auschwitz, Birkenau, Brno dal 25 al 29 novembre 2013, il quale nel diario di bordo del pullman così scriveva:

Quando abbiamo visto le scarpe sulla sponda del Danubio ho sentito una professoressa dire “Ragazzi in questo viaggio noi vi stiamo passando il testimone”. Ascoltando queste parole ho sentito un miscuglio di emozioni: senso di responsabilità, orgoglio, ma soprattutto paura e senso di colpa. Senso di colpa per quello che accade ancora in giro per il mondo e per quello che potrebbe accadere. Insieme a questo minestrone di sensazioni si è aggiunto anche un senso di impotenza, avrò io il coraggio di fare quello che è giusto? Avrò la forza di oppormi, non per il mio bene, ma per quello delle altre persone, come molti giusti prima di me hanno fatto? Ce l’avremo noi quel coraggio?

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A questi giovani - e a tutti noi - consegniamo un ultimo messaggio del Senatore Gui:

L’'ispirazione cristiana e il sentimento robusto della libertà, la forte carica sociale, l'antifascismo senza riserve, il rifiuto deciso del marxismo, la concezione democratica e personalista sono elementi che considero sempre validi.

Concordia, libertà, uguaglianza, giustizia, autorità e soprattutto uomini onesti e retti deve volere oggi con tutte le sue forze ogni italiano sollecito del bene proprio e di quello comune.

Questo diceva il giovane Gui nel 1944, e questo ribadiva alcuni anni fa, pieno di fiducia in un nuovo Risorgimento nazionale. Poteva essere un'illusione, diceva, ma “era un'illusione che conteneva la speranza di un futuro desiderabile per la sua, e nostra, Patria. Una speranza ancora degna di essere coltivata e che non può morire”. Grazie caro Luigi Gui per questa grande eredità morale, civile, politica e per questo “coraggio della speranza” che cercheremo in ogni modo di consegnare ai nostri giovani.

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Un lascito ideale e politico valido anche per i nostri giorni Intervista a Flavia Piccoli Nardelli

D. On.le Flavia Piccoli Nardelli, vicepresidente della Commissione Cultura della Camera Intanto la volevamo ringraziare a nome dell’Università di Padova e degli organizzatori per il suo intervento nell’ambito di questo convegno che si tiene oggi a Padova, dedicato all’Europa e ai suoi padri fondatori. Qual è il saluto che l’Istituto Sturzo, di cui è stata Segretario generale per più di vent’anni, e che ha patrocinato questo convegno di oggi vuole lanciare?

R. Io devo dire che voglio soprattutto ringraziare tutti gli amici che mi avevano coinvolto e a cui avevo assicurato la mia presenza. Sono mortificata di non esserci, ma, nel momento in cui avevo accettato, non era ovviamente prevista una mia presenza in Commissione Cultura della Camera così impegnativa in termini di tempo e di presenza effettiva, visto che la Commissione non si può riunire senza una Presidenza, sia pure della Vicepresidente. E in questi giorni noi siamo in piena attività perché abbiamo molte questioni sospese che dobbiamo affrontare. Era previsto, in origine, che io chiudessi i lavori di questo Convegno e l’avrei fatto molto volentieri, anche perché molti sono gli amici che oggi parleranno durante l’incontro. Quindi per me ascoltare Antonio Varsori, o ascoltare Daniela Preda o il prof. Romanato sarebbe stato un grandissimo piacere. In fondo con loro, in anni diversi, abbiamo esaminato e portato avanti molte delle ricerche che l’Istituto ha fatto e ha promosso sulle culture politiche del Novecento, che sono e che restano al centro di quella che è l’attività di istituti come lo Sturzo. Quindi per noi, essere presenti a questo convegno, era un dovere, ma era anche un’occasione estremamente importante. Il mio è quindi un saluto, non una conclusione, un augurio di buon lavoro, nell’attesa di vedere quelli che saranno i risultati che da questo convegno usciranno.

D. La visione e il lascito ideale e politico di questi padri fondatori, quanto è presente ancora oggi e soprattutto voi, come parlamentari, come lo portate avanti?

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R. Noi continuiamo ad ispirarci evidentemente a quel tipo di forza, di esperienza, che per il nostro paese sono state straordinariamente importanti. Sono state una spinta, alla fine di un conflitto terribile per l’Europa e per l’Italia, che ci ha consentito di ricominciare ad andare avanti, a vivere, a recuperare quei valori che in fondo sono la base della nostra vita democratica. Noi ci scontriamo tutti i giorni con le difficoltà di far funzionare quelle idee che sono all’origine della Comunità europea, proprio per tirarne fuori quello che è il senso vero, i valori più importanti: il valore della solidarietà, il valore di andare avanti insieme, il valore di mettere insieme le esperienze migliori per riuscire a rendere migliore la vita per tutti i cittadini nostri. Devo dire che il Parlamento questo ce l’ha presente, continuamente presente. E soffre, credo tutto il Parlamento, questa immagine negativa dell’Europa che negli ultimi mesi, nell’ultimo anno, è diventata una specie di luogo comune. Il problema non l’Europa e l’idea d’Europa, è come riusciamo renderla concreta ed attuale, quindi credo l’impegno vero sia proprio questo, di non perdere quello che è stato il senso, del perché è nata l’Europa e del come è nata.

D. C’è un aspetto particolare che vuole evidenziare sempre rimanendo nell’ambito del tema del convegno?

R. Sì, mi fa piacere. Ho pensato a Luigi Gui qualche settimana fa, quando abbiamo presentato, alla sala del Mappamondo, l’indagine conoscitiva sulla dispersione scolastica, fatta dalla settima Commissione, quindi dalla Commissione Cultura della Camera. E non potevo non pensare all’esperienza che Gui ha fatto come straordinario ministro della Pubblica Istruzione durante la IV legislatura, con Moro presidente del Consiglio. A come il legame fortissimo, di tipo personale e ideale che lo univa a Moro, in realtà proprio attraverso questa riforma della Pubblica Istruzione, ha trovato il momento particolarmente significativo. Gui è stato, durante quella legislatura, riconfermato Ministro dell’Istruzione per tre volte, mi pare, perché ci sono state, se non sbaglio, due crisi di governo. Ed è riuscito e ha avuto il tempo, con cinque anni, di portare in porto una riforma della Pubblica Istruzione di straordinaria importanza. Mi pare comunque un’esperienza talmente significativa e mi pare che lo stesso Gui, per come io ricordo, degli incontri che abbiamo avuto all’Istituto Sturzo, considerasse quell’esperienza come comunque un’esperienza importante in un lunghissimo percorso politico, in cui ha ricoperto moltissime cariche ministeriali. Però quella è stata, secondo me, un’esperienza in cui l’esperienza politica e l’ideale che lo aveva animato tutta la vita avevano trovato un punto particolare di incontro.

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D. Forse tra passato, presente, proiettati verso il futuro

R. Sì, assolutamente sì. Io sono convinta che la politica questa debba fare. Deve comunque trovare sempre, da esperienze del passato, quelli che sono gli elementi migliori, e in un contesto completamente diverso, e in situazioni che sono addirittura imparagonabili per molte cose, ma deve trovare il modo di utilizzare quello di ricco e di importante che c’è stato per affrontare i problemi che abbiamo ancora oggi e che sono spessissimo molto simili.

D. Grazie

R. Grazie a lei.

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Luigi Gui e l’Europa di Cristiano Zironi (ex assessore Comune di Padova)

Vedo che viene organizzato per il centenario della nascita del ministro Gui un convegno di studio avente come oggetto l’Europa e il ruolo che questi ha avuto verso la politica europeista. Essendogli stato politicamente a fianco per tanti anni, praticamente dal 1962 in poi, e con lui in vari ministeri fino al 1976, posso portare poche ma credo significative testimonianze sull’argomento. Civis. Ero appena entrato in università ed ero componente della Giunta dell’UNURI, che allora era il “governo di tutti gli universitari”, eletta dagli organismi rappresentativi come il Tribunato di Padova. Gui mi nominò nel consiglio di amministrazione del CIVIS, un ente che, come diceva la sigla, si occupava dei viaggi di istruzione degli studenti. Non viaggi ricreativi di mero turismo, ma al contrario veri e propri stages di scambio formativo e culturale fra paesi europei. Una anticipazione di quello che sarebbe poi divenuto il sistema “Erasmus”, oggi così vitale e importante. Il Civis era presieduto dal sottosegretario Scarascia Mugnozza, aveva un vicepresidente designato dal ministro degli Esteri e un segretario generale proveniente dagli uffici europei (la dr.ssa Gabriella Lepore Dubois). La sede era in via Caetani, dove fu trovato nel ‘78 il corpo di Moro, ma all’epoca il Civis era stato già soppresso con decreto del 1977. L’Erasmus verrà definitivamente istituito nel 1987, preceduto appunto dalle esperienze italiana del Civis e francese dell’Egée. Ora ha una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro. All’epoca il nostro bilancio era a carico della Pubblica Istruzione con uno stanziamento fisso ed inoltre contributi di altri ministeri, università e organismi finanziari, finendo con l’essere abbastanza importante: superiore a 350 milioni annui. Oltre al nome di Moro, il Civis ha un altro riferimento attuale: il referente per la direzione del Tesoro e della Corte dei Conti che esercitavano il controllo su di noi era Padoan, attuale ministro dell’Economia! Il ministro Gui seguiva personalmente le nostre iniziative e ne voleva essere costantemente informato, proponendone di ulteriori e assicurando il sostegno pubblico per quelle programmate, in uno spirito europeista che fondava l’unità europea sulla sua cultura e sulla formazione dei giovani.

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SEC, Società Europea di Cultura. Anche qui si sviluppò l’interesse europeista di Gui da ministro e da parlamentare. L'idea della Società Europea di Cultura nasce nel 1946, quando il “filosofo”, ovvero prof. Umberto Campagnolo, originario di Este, ne presenta per la prima volta il progetto: un'associazione di uomini di cultura di ogni origine, disciplina, convinzione, per un agire civile a livello nazionale e internazionale chiamato "politica della cultura" e volto a favorire il dialogo, la comprensione, la pace, nonostante la “guerra fredda”. La Società viene formalmente costituita nel 1950 a Venezia, dove ha sempre mantenuto la propria sede centrale e internazionale. Con soci di una sessantina di paesi d'Europa, Est e Ovest, e d'America, Nord e Sud, e una quindicina di centri nazionali. Edita la rivista Comprendre di cui sono stati direttori lo stesso fondatore Campagnolo (1950-1976), Norberto Bobbio (1976- 1988) e poi Giuseppe Galasso e Marino Zorzi. Gui la sostenne da ministro della P.I., da semplice parlamentare nel 1970, insieme con i colleghi deputati Romanato, Bertè e Compagna per l’approvazione di una legge di stanziamento fisso di 30 milioni di allora, per riproporla nel 1981 con 100 milioni di contributo, cofirmatari Andreotti, Natta, Gruber, Fortuna, Bozzi e Spitella. Nel 1991 divenne presidente del Centro Italiano della SEC ed organizzò insieme con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana un convegno su “Dinamiche della realtà europea tra est e ovest: cultura, politica, economia. Nuove sfide per la politica della cultura". Alla morte di Campagnolo, il nuovo presidenti della SEC divenne Vincenzo Cappelletti, all’epoca impegnato nella Treccani. In sostanza, costante fu la preoccupazione di Gui di seguire un ente e un processo culturale che fondava la pace fra i popoli nella convivenza e nel dialogo culturale. Convegno AVSR. Nel 1972, temporaneamente libero da impegni di governo, Gui promosse l’Associazione Veneta di Studi Regionali, di cui fui segretario generale, e con l’egida di questa un convegno di studi su “Europa e Regioni” con Giuseppe Petrilli, che era il potentissimo presidente dell’IRI, ma anche del comitato italiano del Movimento Europeo. E che in anni precedenti era stato commissario europeo ed aveva seguito tutta la politica europeista di De Gasperi. De Gasperi non vedeva l’Europa come un fatto tecnico od economico, ma come una comunità politica, ne vedeva l’integrazione della CECA non solo come una esigenza operativa, ma come premessa di una politica energetica comune. Non a caso dopo la caduta della CED (Comunità europea di difesa), che era un fatto enormemente anticipatore sul piano politico e militare e come tale non sufficientemente capita e vista forse come una alternativa all’atlantismo, che all’epoca evidenziava maggiormente la difesa del mondo libero dal pericolo sovietico, De Gasperi si ritirò. Ma il suo testimone passò nelle

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mani dei vari politici democristiani come Fanfani, Moro, Gui e Petrilli, che già intravvedevano il “pensiero lungo” dell’Europa dei popoli (e quindi delle Ragioni più che degli stati nazionali) e pensavano che l’europeismo non fosse solo un fattore di pace, ma anche una comunità in grado di porsi come soggetto autorevole nell’ambito della futura globalizzazione. Un profetismo estremamente attuale anche oggi. Modello di scuola europea. Infine non è possibile non accostare Gui - nella sua lunghissima esperienza di ministro dell’Istruzione - al modello di scuola europea che egli perseguì. Dentro una visione che non era fondata su scimmiottature di tradizioni extra-europee o mutuate da situazioni politiche e sociali profondamente diverse. Che peraltro, quando sono state applicate “nuovisticamente” senza adeguata riflessione, hanno bloccato il nostro Paese per un ventennio. Gui amava ricordare che l’organizzazione degli studi e delle strutture formative - dalla prima infanzia all’università – si differenziava storicamente in due modelli: quello napoleonico, introdotto dal genio del grande condottiero che ha inventato l’organizzazione burocratica dello stato, chiamata prima ancora della potenza dei suoi eserciti a conquistare i paesi. Nel continente europeo la scuola è scuola originata dallo stato, pluralista, ma essenzialmente pubblica anche quando promossa e gestita da privati, in quanto accreditata, come la sanità ed i servizi pubblici. Il suo fondamento è il valore legale del titolo, essenziale per quegli anni in una società che ancora doveva svilupparsi e pervenire ad una coesione sociale e ad un superamento delle sacche di ignoranza e diseguaglianza. Le grandi riforme del ministro Gui sono state la scuola materna statale, la scuola media unica, la istituzione dell’assegno di studio universitario. Anche quelle non maturate, come la legge 2314 per la riforma universitaria o quella secondaria superiore, erano sempre nel segno di una potente ed egualizzatrice scuola statale. Totalmente diverso il sistema anglosassone, svincolato dalla mancanza di un valore legale dei titoli, improntato ad una visione privatistica e imperniato sul controllo dal basso, dalla società civile e dall’utenza. Ma di fatto, come per il sistema sanitario americano, fondata su delle eccellenze costose per pochi e con scuole pubbliche meno prestigiose, per non dire scalercie. Solamente il sistema sanitario inglese è rimasto fuori da questo meccanismo destrutturato, in quanto Lord Beveridge comprese il valore di una sanità universalistica e pubblica, in quanto preposta al bene assoluto della salute della persona. Ed anche qui una testimonianza: infatti Gui, quando divenne ministro della Sanità (nel 1973), avviò con il centro studi del ministero quella che sarebbe diventata poi la riforma sanitaria dell’on. Anselmi (legge 833/78), imperniata sul sistema sanitario nazionale, proprio indicandoci di

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mutuarla da quella inglese. Anche in quesito dimostrandosi fedele pensatore in chiave europea.

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Uno qualunque La politica del buonsenso

Si riproduce qui di seguito la riedizione del testo clandestino di Luigi Gui del 1944, pubblicata a cura dell’Associazione Volontari della Libertà di Padova, nel 2007, con una prefazione dell’Autore. L’opuscolo è consultabile anche online ai seguenti indirizzi: http://www.giuliocesaro.it/pdf/cultura/013%201944%20pensando%20al%20dop o.pdf e www.gregorianum.it Il testo è inoltre riprodotto in Gui, Luigi, Autobiografia : cinquant'anni da ripensare, 1943-1993, a cura di Daria Gabusi, Brescia, Morcelliana, 2005.

Autunno 1944. Padova come tutto il Nord geme sotto l'occupazione: fascisti e nazisti inferiscono sulle popolazioni, mentre le truppe tedesche resistono faticosamente all'avanzata lenta, ahimè quanto lenta!, delle forze alleate e del Corpo di Liberazione Italiano che risalgono dal Sud. Le «fortezze volanti» bombardano le città e le campagne alla ricerca di postazioni militari da distruggere; i «Pippo» alati onnipresenti spiano e bersagliano di notte le strade e i villaggi. Il Colonnello Stevens ogni sera da Radio Londra e di quando in quando dagli Stati Uniti Ruggero Orlando informano sugli sviluppi della situazione. Un altro inverno di guerra, di oppressione e di stenti si profila, più duro di quello già durissimo dell'anno precedente. Intanto i patrioti si organizzano sempre più nonostante le rappresaglie delle SS e le Brigate nere, i Comitati di Liberazione Nazionale (da quello veneto a quello cittadino) intensificano la loro attività e le formazioni militari crescono in consistenza ed aggressività. In quelle circostanze mi fu chiesto da amici di preparare un breve scritto che potesse servire per una prima formazione politica dei componenti delle brigate partigiane d'ispirazione cristiana della provincia. Le formazioni clandestine erano

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numerose: anche in quelle unitarie, come le famose «Damiano Chiesa»1, specialmente nelle provincie di Padova e Vicenza, i cattolici prevalevano nettamente. Altre, denominate «Brigate del popolo», erano di orientamento decisamente democratico- cristiano2. Dipendevano tutte dal Comandante Militare per le Tre Venezie, il colonnello Cesare Galli (Pizzoni). La Direzione politica del Comitato di Liberazione veneto era ormai nelle mani dell'avv.to Gavino Sabadin, vecchio popolare, dopo l'arresto degli altri componenti rappresentanti dei partiti: Concetto Marchesi. Egidio Meneghetti, Giovanni Ponti, il prof. Morin, l'avv. Matter. I padovani avevano avuto gran parte nella promozione del Comitato regionale: in esso e per esso operavano a diversi livelli territoriali e di responsabilità democratici cristiani di grande valore, ma allora pressoché sconosciuti in campo politico3. I cattolici padovani - sacerdoti e laici, uomini e donne - avevano già avuto i loro morti gloriosi, i deportati, i carcerati, i perseguitati. Ricordo fra le intrepide collaboratrici della Resistenza padovana Antonia Carniello, la popolarissima Mamma Romana (Romana Schiavon vedova Giacomelli) e il nucleo generoso che organizzò l'assistenza ai deportati malati dimessi dai campi tedeschi. Pochi di questi fatti erano allora noti, se non quelli clamorosi dell'assassinio di Mario Tedesco (mio professore di liceo) di Luigi Pierobon e del dottor Busonera. Qualche eco, smorzata, giungeva pure dell'imprese coraggiose di Mario Mosconi. Voci circolavano sulle informazioni clandestine che venivano da Palazzo Giusti (per merito dell'intrepido padre Mariano Girotto parroco di S. Francesco Grande), dove la «banda» del colonnello repubblichino Carità teneva imprigionati e torturava molti patrioti emeriti. l'On. Umberto Merlin, il prof.re Giovanni Ponti, la Dott.ssa Ida d’Este, l'avv.to Gallo, Otello Pighin, il prof. E. Meneghetti e tanti altri4. Non ero addentro nell'organizzazione, ma vi aderivo cordialmente. Dopo il 25 luglio del '43 «Sior tenente, i ga' butà xo Ganassa!» gridavano allegri i miei soldati quella sera e dopo l'8 settembre avevo potuto fortunosamente condurre intatto sino a Feltre da Voschia sopra Idria il battaglione Val Cismon del 91 Alpini, di cui ero aiutante

1 V.G. Sabadin, La Resistenza Vicentina e Padovana, Ed. 5 Lune, 1968. 2 V.G.E. Fantelli, La Resistenza dei cattolici nel Padovano, a cura dei Volontari della Libertà, Padova 1965. 3 Tra di essi Mario Saggin (segretario provinciale clandestino della DC, poi deputato), Lanfranco Zancan (poi consultore nazionale), Luigi Carraro (poi segretario provinciale e regionale del partito, senatore e Vice Presidente del Senato), Stanislao Ceschi (poi primo segretario provinciale dopo la liberazione, vice segretario nazionale della DC, Presidente dei Gruppo dei Senatori DC e Vice Presidente del Senato), Giuseppe Bettiol (poi deputato, Presidente del Gruppo dei deputati DC e Ministro), Angelo Lorenzi (poi senatore), Antonio Guariento (poi deputato). 4 T. Dogo Baritolo, Ritorno a Palazzo Giusti: Testimonianze dei prigionieri di Carità a Padova (1944- 45), La Nuova Italia, Firenze, 1972.

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maggiore. Il comandante si era attardato a Gorizia. A Feltre avevamo consegnato il materiale e dato il «rompete le righe», giusto in tempo perché i tedeschi non ci circondassero. M’ero rifugiato ad Alano di Piave presso il mio attendente e poi sul Grappa nella Malga Barbeghera. Lì avevo incominciato a cercare contatti, ma ben presto mi accorsi dell'imprevidenza che regnava fra gli sbandati del luogo, pur generosi, e perciò scesi in pianura. Qualche settimana dopo una ventina di patrioti venivano impiccati in piazza ad Alano. Da Padova, la casa bombardata dagli aerei alleati, m'ero rifugiato con i miei in campagna in una piccola frazione della Bassa, Brusadure di Bovolenta, nella canonica del parroco, il caro e generoso Don Bruno Cremonese. Avevo stabilito collegamenti con amici con i quali ricercavamo informazioni, libri e pubblicazioni che ci potessero servire anche per la nostra formazione storico-politica, limitati come eravamo rimasti entro l'orizzonte ristretto che la censura fascista aveva consentito alle nostre conoscenze. Ci aiutava in particolare il Prof. Giuseppe Billanovich. La barriera della censura era stata più o meno forata in passato dai racconti familiari (mio padre era un operaio, vecchio popolare), dalla consuetudine di vita nella FUCI e nell'Azione Cattolica con i contatti che ci permettevano, dai volumi che trovavamo nelle biblioteche, dai giornali e dalle voci straniere che in qualche modo ci pervenivano. Su alcuni di noi tuttavia ancor più che la conoscenza in positivo della letteratura liberal-democratica ed antifascista, avevano influito le condanne del nazismo da parte di Pio XI, i messaggi di Pio XII e gli Acta Diurna di Guido Gonella. Contro il marxismo e il comunismo, eravamo vaccinati dalla lettura dell'Osservatore Romano del Conte Dalla Torre, dell'Avvenire d'Italia di Raimondo Manzini e dalla stessa cultura storica e filosofica. In negativo, a porci contro il regime, almeno per me, avevano influito soprattutto fatti, cioè i misfatti del fascismo, specialmente in politica estera. L'alleanza con Hitler, l’Anschluss, Monaco, erano divenuti discriminanti insuperabili, cui poi il patto Molotov-Ribbentropp, l'invasione della Polonia, l'entrata in guerra, la partecipazione alla campagna di Russia con la divisione Julia avevano aggiunto, con l'esperienza e con la riflessione in gran parte personale, motivazioni sempre più ricche e articolate. Quando nell'ottobre del '43 incontrai casualmente alla macchia sulle pendici del Monte Grappa il mio vecchio amico e compagno di scuola Domenico Sartor (poi deputato dc) ero pronto per una milizia politica democratica: forse non ancora sostenuta da una grande cultura specifica, ma ormai chiaramente e fortemente radicata. E con Sartor potevamo già intravvedere amaramente il futuro immediato di violenza civile che avrebbe atteso il nostro Paese dopo la fine della guerra per la pratica necessaria della lotta armata contro i fascisti.

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Rientrato in città e datomi alla clandestinità, mi adoperavo dunque anche per completare la mia preparazione. Forse perché lo si era saputo o forse per la mia qualità di insegnante di storia e filosofia, mi venne la richiesta che ho detto. Mi venne attraverso un giovane liceale, coraggioso e deciso, Francesco Simioni, (poi Gesuita, preside del Leone XIII di Milano e titolare nelle scuole statali), nella cui casa avevo portato insieme a suo fratello Giorgio per campi e per argini di canali, sul telaio della bicicletta, una radio. trasmittente americana caduta di notte con il paracadute nel campo del sagrestano di Brusadure e destinata a chissà chi. Mi fu chiesto, per incarico della Democrazia Cristiana padovana clandestina, di collaborare così ad una prima diffusione di orientamenti politici democratici fra i nostri combattenti, specialmente fra i giovani. Stesi un opuscolo di una ventina di pagine dattiloscritte sotto lo pseudonimo di Uno qualunque, posi ad esso il titolo dimesso di La politica del buon senso e portai il manoscritto perché fosse ciclostilato in Via Rogati a Padova, presso il Collegio Barbarigo, consegnandolo a Don Giovanni Nervo, che insieme al Prof. Don Apolloni provvide alla bisogna. Qualche tempo dopo ne ritirai alcune centinaia di copie con l'aiuto dell'amico rag. Nespoli e le portai al pensionato universitario Antonianum, dopo aver avvertito il rettore p. Messori. Vi trovai, incaricato di ritirarle, un giovanotto alto, sospettoso e guardingo, con gli stivali infangati, che non conoscevo. Seppi più tardi che era Marcello Olivi, poi presidente dell'Amministrazione provinciale e deputato dc, sfuggito alle retate fasciste e ai rastrellamenti tedeschi contro le Brigate Garibaldi e la Brigata Piave in provincia di Treviso, e divenuto esponente militare delle Brigate del popolo padovane. Gli consegnai il tutto perché lo facesse pervenire a coloro cui era destinato e non ci vedemmo più sino alla liberazione. Era verso la fine del '44. Fra trasmigrazioni e traslochi finii per perdere ogni traccia dell'opuscolo, di cui non mi era rimasta a guerra terminata copia alcuna. M’era dispiaciuto, ma pareva non ci fosse rimedio. Invece qualche copia era stata conservata chissà come vi era finita nell'archivio del Comitato provinciale della Democrazia Cristiana padovana. Fu il Prof. Gianfranco Bianchi, titolare di storia contemporanea alla Cattolica di Milano, a scoprirla. Per la preparazione di un suo volume5 andò a rovistare nelle sedi delle varie organizzazioni del Veneto e così a Padova trovò una copia superstite. Il segretario provinciale del tempo Prof. A. Prezioso l'informò che l'autore era il sottoscritto. Il Prof. Bianchi ne parla a pag. 160 del suo libro. Venuto a conoscenza di questo per gentile indicazione dell'autore, che ringrazio, ebbi in mano una traccia che

5 V.G. Bianchi, I cattolici nella Resistenza, estratto da Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano 1971.

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mi permise di recuperare anch'io una copia del mio scritto giovanile, entrato poi a far parte della documentazione raccolta dall'Istituto Veneto per la Storia della Resistenza. Ed ora esso viene pubblicato a cura dei volontari della libertà di Padova, di cui è di recente stato eletto presidente proprio l'On. Marcello Olivi. a lui e all’associazione va la mia riconoscenza più viva. Non sta a me illustrare il significato di questo scritto di «educazione civica». Un qualche valore documentario sulla partecipazione consapevole dei cattolici democristiani padovani alla Resistenza lo deve possedere comunque se ha meritato l'attenzione di uno specialista come G. Bianchi. Chi lo stese non aveva allora conoscenza esauriente, come già detto, della letteratura politica del partito popolare e democratico-cristiana. Non aveva potuto leggere Sturzo, di cui conosceva poco più del nome circondato da mitica venerazione, ed allora neppure quelle «Idee ricostruttive» scritte da Alcide De Gasperi (altro nome allora favoloso per noi giovani) durante l'occupazione, che per i più al Nord furono il primo testo d'orientamento per la militanza nella Democrazia Cristiana solo dopo la Liberazione. Le considerazioni e gli orientamenti, per quanto elementari e sommari, contenuti nell'opuscolo sono pertanto frutto di riflessioni soprattutto personali. Un contributo autonomo, libero anche se modesto, alla formazione di quella cultura democratico- cristiana che dopo la guerra alimentò l'azione del partito. Cultura che non fu la semplice riedizione di quella del Partito Popolare. Certamente il filone popolare vi recò un contributo di eccezionale valore, ma non l'unico. Basti ricordare accanto ad esso l'influenza di Maritain, il pensiero di Giorgio La Píra, l'elaborazione scientifica del gruppo dei professori dell'Università Cattolica che facevano capo a G. Dossetti e ad A. Fanfani, il programma dei neo-guelfi milanesi di Malvestiti. A fianco di questi contributi originali maggiori, stanno poi le meditazioni e l'elaborazioni minori di tanti gruppi isolati di cattolici democratici, i quali si andavano organizzando contemporaneamente nella clandestinità, spesso all'insaputa l'uno dell'altro e con consapevolezza assai approssimativa del movimento complessivo, e che pure avevano necessità, per orientarsi e per riconoscersi, di ritrovarsi intorno ad alcune idee, più o meno articolate, frutto quasi sempre di riflessioni e di ricerche improvvisate. Questi piccoli rivoli spontanei sono poi confluiti anch’essi nel grande fiume della dottrina e del programma politico della Democrazia Cristiana ed essi pure ne hanno agevolato il corso ed il fluire nuovo, imponente e fecondo. Tra questi rivoli va collocato pur senza pretese, per la sua origine e per la funzione che ebbe, anche il presente opuscolo. Ripensando al contenuto delle indicazioni e delle scelte di fondo espresse allora – al di là della loro elementarità, ricercata e voluta per adattarsi all'esigenza dei destinatari, quasi del tutto privi di cultura politica cui erano rivolte, e di talune allora

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inevitabili ingenuità – posso concludere che certo non in tutte o nella medesima formulazione mi ritrovo, ma nella maggior parte sì. L'ispirazione cristiana e il sentimento robusto della libertà, la forte carica sociale, l'antifascismo senza riserve, il rifiuto deciso del marxismo, la concezione democratica e personalista sono elementi che considero sempre validi. Visto dopo trent'anni d'esperienza di una prassi politica e costituzionale democratica, la quale, pur con i suoi enormi meriti, ha fatto troppo poco posto all'esigenza di stabilità dell'esecutivo, mi sembra significativo, per esempio, che già allora un giovane avesse intuito la necessità di un ordinamento istituzionale atto a garantire maggiore solidità ed efficienza al governo, carenza di cui l'Italia soffre in maniera sempre più manifesta e che sta all'origine delle tante disfunzioni del nostro Stato. Mi ritrovo in particolare nella chiara propensione verso l'unità europea, che immaginavo allora concretarsi in una salda federazione, Inghilterra compresa. Non potevo prevedere la rapida scomparsa dei possessi coloniali, ma avevo ben viva la consapevolezza – pur non potendo calcolare allora che sarebbe successo dell'URSS e dell'Europa orientale e quindi la minaccia poi così incombente dell'imperialismo sovietico – che l'Europa avrebbe potuto continuare ad essere un soggetto politico mondiale soltanto superando il nazionalismo. Il cammino in questa direzione è stato poi anch’esso inferiore a quello necessario, come l'esperienza della Comunità Economica Europea dimostra. Oggi abbiamo uno stato italiano assai meno organizzato dal punto di vista istituzionale ed operativo di quanto ci occorrerebbe, ed una compagine europea molto meno unita di quanto sarebbe conveniente; cosicché, tra l'altro, posso ancora battermi con coerenza per i miei traguardi politici giovanili, oltreché, naturalmente, per quei valori cristiani, oggi così minacciati, che soli danno un senso e dignità alla vita anche associata. Curiose possono apparire la considerazione e la stima particolari che nel breve scritto vengono riservate al Partito d’Azione, così da equipararlo quasi nelle preferenze alla Democrazia Cristiana e da auspicare che a questi due partiti avessero ad andare le simpatie e il sostegno della grande maggioranza degli italiani. Curiose, ma comprensibili. Allora il Partito d’Azione raccoglieva molta fiducia fra i patrioti impegnati nella lotta e fra i cittadini sensibili al bene della Patria, che nella Resistenza si preparavano alla democrazia. Ed anche molti giovani, cattolicamente educati, guardavano ad esso senza scorgervi troppo grandi differenze con la Democrazia Cristiana. Entrambi i partiti rifiutavano il fascismo e il comunismo, e quindi il socialismo marxista, propugnavano la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, respingevano le concezioni classiste, sia borghesi che proletarie, e sostenevano l'iniziativa privata e il solidarismo economico. Le differenze apparivano perciò poco marcate e sembravano ridursi a quelle dell'ispirazione ultima tra un umanesimo laico creduto non laicista ed uno cristiano non confessionale.

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Forse le cose nel fondo non stavano propriamente così, ma almeno all'inizio non parevano molto diverse. Quest'opinione si è rivelata poi invece in parte astratta e poco informata, visti gli orientamenti successivi del corpo elettorale. La Democrazia Cristiana ha tenuto senza cedere alla sua destra, né dal punto di vista democratico, né da quello confessionale. Non così l'elettorato laico e per lo più dello stesso Partito d’Azione, presto discioltosi e di cui poco è rimasto come eredità anche dopo la diaspora dei suoi esponenti. Non va peraltro dimenticato che quel settore del Partito d'Azione che confluì tra i repubblicani con Ugo La Malfa ha sempre esercitato la sua influenza per mantenere salda l'alleanza politica fra la DC e il PRI, costituendo un esempio pressoché unico di stabilità e di coerenza nel sempre mobile panorama politico italiano del dopoguerra. L'estremismo comunista e il socialismo frontista hanno prevalso nel mondo laico dissolvendo le prospettive di un equilibrio illuminato, il quale potesse consentire sia la stabilità dell'assetto democratico sia l'alternanza al governo di partiti aventi una base ideale comune (o almeno vicina) e programmi politici differenziati ma non radicalmente incompatibili. Il Paese ha potuto essere governato ugualmente con una specie di bipartitismo zoppo mercé il successo della Democrazia Cristiana e la collaborazione dei partiti laici democratici prima e poi del partito socialista riscattatosi parecchio dopo dal frontismo; ma il problema della governabilità non ha potuto ancora essere risolto in maniera stabile e definitiva, come oggi più che mai sperimentiamo. Su questo punto le pagine dell'opuscolo sembrano purtroppo la fotografia dell'Italia del 1981. In sostanza, al comportamento ideologico e politico misurato, non integralista, pluralista e non esclusivista, dell'elettorato democratico cristiano e di quel partito non hanno corrisposto finora – anche se, nonostante tutto, un certo scongelamento è in corso – scelte altrettanto responsabili del mondo laico di sinistra ed un anticlericalismo fuori tempo ha sviato molti fra gli stessi promotori del Partito d'Azione. Ma un giovane non poteva allora immaginarlo; era anzi naturale che nella fiducia di un nuovo Risorgimento nazionale non lo pensasse. S'illudeva: ma era un illusione la quale conteneva la speranza di un futuro desiderabile per la sua Patria. Speranza ancora degna di essere coltivata e che non può morire.

LUIGI GUI

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Testo del mio opuscolo “Uno qualunque: La politica del buonsenso”, pubblicato, ciclostilato clandestinamente in ventuno facciate dalla Democrazia Cristiana di Padova e datato dicembre 1944.

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Due parole di presentazione

Mentre gli alleati stanno gettando le ultime palate di terra sulla carcassa del fascismo che gli Italiani hanno ucciso con le loro stesse mani, in tutta Italia si fa oggi un gran parlare di politica, di governo, di stato e di partiti. Non c'è dubbio che la prima cosa che colpisce di più è la grande confusione delle idee. Ed è fin troppo naturale. Per vent'anni ci siamo lasciati governare da Mussolini, ed ora, abbandonato il duce nefasto, ci ritroviamo nella necessità di provvedere a noi stessi, ma la impreparazione politica, prodotta dal generale abbandono di questi argomenti per più di vent'anni, ha fatto sì che la grande maggioranza si trovi come smarrita: nel frastuono di mille voci non sa come dirigersi. Non si creda, come sostengono taluni fascisti travestiti, che il popolo italiano non sia in grado di governarsi da sé: dal 1861 fino al 1922 i nostri padri avevano saputo reggersi da soli e con risultati lusinghieri. Massimo tra tutti la vittoria luminosa nella guerra del 1915 che dimostrò al mondo la forza e la capacità del popolo italiano. Poi è venuta la tirannide di Mussolini e gli italiani, specialmente i giovani, hanno disimparato a governarsi ed imparato a perdere la guerra. Ora tocca a noi riparare all'immensa rovina e mostrarci degni dei nostri padri, facendo il possibile per non lasciarci ingannare ancora una volta dal primo venuto che faccia la voce grossa; in verità il secondo male sarebbe peggiore del primo. Le pagine che seguono sono state scritte appunto con lo scopo di contribuire alla grande fatica della ricostruzione e si propongono di indicare le conclusioni a cui può arrivare pian piano con il proprio buon senso qualunque uomo onesto e ragionevole. Possano servire ad orientare la grande massa dei cittadini verso alcune idee fondamentali, su cui soltanto sarà possibile quella pace e quel benessere comune, per i quali si sacrificano generosamente ogni giorno tanti fratelli nostri, vittime della canaglia fascista e della barbarie nazista.

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I. Che cosa è lo Stato

Ciascuno di noi non vive isolato, ma insieme con altri uomini e cioè in società. Già la famiglia è una prima e mirabile società, e senza di essa non sarebbe possibile la vita: come potrebbe vivere l'uomo senza la donna? e la donna senza l'uomo? i figli senza i genitori? Ma perché l'uomo possa soddisfare a tutti i bisogni della sua natura (del corpo e dello spirito) non gli basta la famiglia, gli occorre la collaborazione di altri, molti altri uomini, tanto più numerosi quanto più egli è progredito e civile. Come vivrebbe l'agricoltore senza coloro che gli preparano i concimi, gli abiti, le macchine, le scarpe, la casa e così via? E tutti questi che compiono questi lavori come vivrebbero senza l'agricoltore? Come la città senza la campagna e come la campagna senza la città? Come istruirsi senza i maestri? Come la salute senza il medico? Ma come i medici senza le università, senza i libri, ecc. ecc.? La catena si fa sempre più lunga. Se si volesse si potrebbe dimostrare che oggi come oggi un uomo civile non può vivere senza la collaborazione di molti, non solo, ma di tutti gli altri uomini che sono sulla faccia della terra. Sembra strano ma vero. Per esempio: come bere una tazza di buon caffè senza l'opera di quelli che lo coltivano nel Brasile? (vi ricordate Starace che voleva privarcene per sempre?) E come andare in bicicletta senza le gomme? Ma la gomma viene dall'Asia orientale e senza l'aiuto di coloro che abitano colà non potremmo averla. Perciò a voler essere precisi, per bastare a se stesso e soddisfare a tutti i suoi bisogni, l'uomo deve intrattenere relazioni con tutti i suoi simili e formare con essi una società. La vera società è per sua natura universale. Ma in pratica gli uomini non formano ancora una società sola su tutta la terra e tanto meno avrebbero potuto farlo nei secoli passati quando si conoscevano assai poco fra terra e terra, tra continente e continente. Giustamente l'uomo ha cominciato a stringersi in società con quelli che gli abitavano vicino, con i quali aveva contatti più frequenti, che parlavano la sua lingua e avevano i suoi stessi costumi. Così sono sorte moltissime società particolari, i cui membri in ciascuna di essa lavoravano per aiutarsi a vicenda. Sono questi gli Stati, alcuni piccoli, altri grandi, altri grandissimi, un tempo assai più numerosi che ai nostri giorni. Noi, per esempio, facciamo parte di quello Stato che si chiama Italia. Lo stato è dunque una società di uomini che si uniscono, per soddisfare con l'aiuto reciproco ai loro bisogni materiali e spirituali. Così in Italia vi sono città e campagne e uomini di tutti i mestieri e professioni, che lavorano di buon accordo (quando ci riescono), si aiutano per vivere e rendere sempre più progredita la propria esistenza.

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Si capisce subito che, affinché uno stato esista, non basta la moltitudine di individui esistenti nello stesso territorio, ma occorre che tra essi vi sia chi dirige e chi eseguisce, che abbiano leggi, autorità e governo, che provvedano al bene comune dei cittadini, cioè occorre che questa moltitudine sia organizzata. Quando si dice Stato, si dice appunto una società organizzata, ossia regolata da una legge fondamentale che si chiama Statuto o Costituzione, che possiede un'autorità preposta ad emanare le leggi particolari o potere legislativo, un'altra autorità che applica e fa applicare le leggi o potere esecutivo ed una che ne punisce le violazioni o potere giudiziario.

Il Bene comune! Risulta chiaro fin d'ora che lo Stato ha per fine il benessere e il progresso dei suoi membri. Non i cittadini per lo stato, ma lo Stato per i cittadini. È necessario sottolineare questo punto perché i fascisti hanno sempre predicato che lo stato è tutto, che tutto deve essere fatto nello Stato e per lo Stato, con le quali parole volevano dire (ma naturalmente non dicevano) che gli Italiani devono lavorare tutti e solo per la gloria e la ricchezza dei fascisti, da Mussolini ai gerarchi grandi e piccoli. Così purtroppo è avvenuto: ma affinché la lezione duramente pagata non sia stata inutile, sarà bene che gli Italiani, allorché qualche altro si farà avanti a parlare sempre di Stato, o di comunità o di collettività e a predicare ancora che lo Stato è tutto e i cittadini nulla, si ricordino di Mussolini e capiscano subito che quel tale vuole che essi riprendano a lavorare tutti e solo per la pancia e la boria di chi comanda. Ma risulta anche chiaro che il modo migliore con cui gli individui possono provvedere al proprio benessere personale è quello di lavorare per il bene comune. Se ciascuno fa l'egoista e vuole sfruttare gli altri per il suo esclusivo vantaggio personale, ne viene di conseguenza che lo Stato si sfascia, o per lo meno la sua vita si impaluda in continue discordie e divisioni che danneggiano tutti. E se lo Stato non c'è o va male, abbiamo già visto che non si può né vivere né prosperare. Lo Stato ha per fine dunque il bene dei cittadini; ma lo scopo dei cittadini, e specialmente di quelli che comandano, deve essere il bene comune. Tale bene inteso in tutti i sensi, deve essere promosso in tutti i modi più adatti. Così, per esempio, poiché anche l'onestà e la nobiltà dei costumi dei cittadini contribuiscono al bene comune, lo Stato non può disinteressarsene ma cercherà di migliorarli. Ma come lo farà? Pretendendo di inventare le leggi morali ed essere il maestro della virtù come pretendevano i fascisti? Col ben risultato che mai in Italia ci fu tanta disonestà e tanta corruzione come nei venti anni di fascismo, durante i quali, da Mussolini in giù, i gerarchi diedero spettacolo di tutte le camorre e di tutti i vizi. No, ma favorendo e sostenendo l'opera di chi ha per natura la funzione di guidare gli uomini nel campo morale,

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e cioè la Chiesa, i pensatori e gli educatori, la cui opera non può svilupparsi che nella libertà delle coscienze.

La grande difficoltà Quanto è stato detto finora è così chiaro e sicuro che non può dar luogo a dispute e discussioni serie. Le difficoltà, le discussioni e le lotte sorgono, e sono sempre sorte in tutti gli stati, quando si tratti di determinare quali cittadini devono esercitare l'autorità. Questo è il gran problema e la fonte di tutte le discordie. Quelli che parlano di politica nei caffè, nelle piazze e nei giornali, generalmente non discutono sullo Stato; che ci deve essere tutti lo capiscono, ma discutono sulla scelta di chi deve ricoprire le cariche dello Stato ed essere mandato al potere, biasimano le ingiustizie, lodano o criticano i sistemi del governo. Le due cose sono bene distinte. Anche qui però i fascisti hanno tentato di imbrogliare le carte e di confondere le due questioni. Poiché tutti ammettono, come è logico e naturale, che ci siano le leggi e che ci sia il governo, essi pretendevano che tutti gli italiani ammettessero anche come logico e naturale che le leggi le facesse tutte Mussolini e che al governo ci fossero necessariamente i fascisti. Il che invece non era per niente né logico né naturale e le conseguenze si sono viste. Occorre una volta ancora imparare la lezione del passato e guardarsi da coloro che vogliono confondere le due questioni. E ce ne sono sempre. Il problema è, dunque, quello di stabilire chi deve esercitare l'autorità nello Stato e di trovare l'ordinamento che eviti le ingiustizie. Problema vecchio quanto gli stati ma particolarmente sentito ai giorni nostri in cui contrastanti dottrine, sostenute da partiti diversi, si contendono vivacemente il campo. Cercare il bandolo della matassa sarà lo scopo delle pagine che seguono.

II. La grande domanda: come deve essere ordinato lo Stato

Le correnti politiche moderne hanno avuto inizio nel 1700, allorché fu ingaggiata la lotta alla teoria e pratica politica fino allora predominante in Europa da parecchi secoli: voglio dire il sistema dell'assolutismo monarchico. Fino a quel tempo si era ritenuto perfettamente logico e naturale che l'autorità fosse esercitata negli stati da un solo uomo, re o monarca, che la trasmetteva per via ereditaria ai propri discendenti. Il re - si diceva - riceve il potere direttamente da Dio e perciò deve essere assolutamente libero di governare secondo il proprio arbitrio, esente da ogni controllo dei sudditi, cui non toccava che ubbidire. Ogni attività materiale e spirituale dei cittadini era subordinata e diretta dalla volontà del Sovrano, il quale si serviva di ministri e di collaboratori, costituenti la classe privilegiata dei nobili, che esercitavano in suo nome i vari

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uffici, erano tenuti a rispondere a lui solo del loro operato e ricevevano in cambio ogni sorta di onori e di compensi. Per molto tempo gli stati d'Europa furono governati con questo sistema. Ma con il progresso spirituale e civile degli ultimi secoli gli ingegni più acuti ne rilevarono sempre meglio i difetti. Due furono le accuse principali mosse al vecchio regime:

1) La totale subordinazione dei sudditi e il controllo di ogni loro attività da parte dello Stato, (rappresentato in questo caso dal re, fino al punto che uno di questi sovrani, il francese re Luigi XIV, affermò «Lo Stato sono io») è contraria al progresso civile. Sia per lo sviluppo delle industrie e dei commerci come per il fiorire delle arti delle scienze e dei costumi è necessaria la libera iniziativa dei cittadini. Se essi si sentono compressi e soffocati dalla autorità statale, la loro operosità non può essere che smorzata e privata di ogni slancio, mentre la libertà con le gare, la concorrenza, le discussioni, cui essa dà luogo, è invece lo stimolo più effìcace all'applicazione e allo sviluppo di tutte le energie umane. Si formò così la corrente liberale che si propose di attenuare sempre più gli interventi degli organi dello Stato nella vita dei cittadini abbattendo i privilegi del re e dei nobili e di educare gli uomini a vivere facendo a meno dello Stato per quanto più è possibile. Questa tendenza è ancor oggi rappresentata dai partiti liberali. 2) Una seconda validissima critica fu sostenuta da altri scrittori i quali, osservando come per natura tutti gli uomini siano uguali e le differenze sia fisiche che spirituali, per quanto varie e profonde, non siano mai tali da distruggere questa uguaglianza fondamentale, fecero notare che il sistema assolutista, con l'arbitrio strapotente concesso ai re e i privilegi concessi ai nobili, era profondamente contrario alla natura e alla ragione ed avverso al riconoscimento della dignità della persona umana. Se tutti gli uomini sono eguali per natura, negli stati non vi devono essere disuguaglianze radicali ed insuperabili e perciò il potere deve essere riconosciuto alla società dei cittadini, non ad alcuni uomini privilegiati. Devono essere i cittadini tutti ad esercitare l'autorità e, se non è possibile che lo facciano direttamente, devono avere il diritto di farlo a mezzo di alcuni, scelti da loro come loro rappresentanti e responsabili del loro operato di fronte ai cittadini stessi. In una parola: i dirigenti dello Stato devono ricevere il loro potere dal popolo; devono sparire re e nobili e alla monarchia deve essere sostituita la repubblica. Da queste idee nacque la dottrina democratica, sostenuta ancor oggi da tutti i partiti democratici.

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Il regime democratico liberale Le idee e le attività dei liberali e dei democratici condussero ben presto alla rovina l'assolutismo monarchico e guidarono gli stessi europei, dietro l'esempio della Francia che dette il segnale con la sua famosa rivoluzione del 1789, ad adottare quegli ordinamenti che sono più o meno in vigore tuttora nella maggior parte degli stati del mondo e lo furono anche in Italia fino all'avvento del fascismo. Nacque così il regime democratico-liberale che riconosce a tutti i cittadini la libertà di pensiero, di parola, di associazione, di attività economica e l'eguaglianza di fronte alla legge estendendo a tutti il suffragio universale, ossia il diritto di eleggere e di farsi eleggere alle cariche dello Stato. In Italia, la costituzione democratico-liberale che riconosce a tutti i cittadini le libertà menzionate, fu adottata con alcuni compromessi con il regime assolutistico. Soprattutto a causa della parte avuta dalla Casa Savoia nel preparare l'unità nazionale, l'Italia non fu una repubblica ma un regno. Il re conservò la carica onorifica di capo dello Stato e alcuni privilegi, certamente in contrasto con il principio dell'uguaglianza. Attorno a lui si organizzarono poi le forze di quella parte di nobiltà italiana, che non si era ancora rassegnata alla nuova situazione e lottava per conservare almeno le terre e le ricchezze ereditate dai loro padri antichi. Così la monarchia costituzionale fu esposta fin dal principio al pericolo di divenire un centro reazionario di persone, che rimanevano alla testa della nazione con lo scopo antinazionale di servirsi del loro potere per salvare a tutti i costi privilegi e patrimoni, assolutamente contrari allo spirito democratico. Che poi il re mirasse talvolta più ai propri interessi che non a quelli dell'Italia, si vide chiaramente quando Vittorio Emanuele III nel 1922 accordò la propria fiducia a Mussolini che pretendeva il potere non in virtù della volontà popolare, ma con la violenza delle armi. Né mai protestò contro le violenze che i fascisti commisero in gran numero sui cittadini italiani, mentre accettò di gran cuore le corone d'Etiopia, d'Albania e di Croazia. Permise che l'Italia fosse coinvolta in questa pazza guerra, benché fosse evidente che la grande maggioranza non la voleva, e se ne ritrasse con disastroso ritardo solo quando la sorte della sua Casa apparve minacciata direttamente. Comunque, nel secolo scorso, il regime democratico-liberale fu certamente benefico e incrementò enormemente il progresso civile degli stati che lo adottarono, Italia compresa. Ma con l'andare degli anni oltre alla contraddizione della Monarchia, esso rivelò delle gravi imperfezioni che diedero luogo a nuove critiche e a nuove tendenze. Le principali furono le seguenti:

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1) Fu notato anzitutto che il sistema invece di favorire egualmente tutti i cittadini assecondava eccessivamente gli interessi di una classe a svantaggio della maggioranza. Infatti in pochi decenni la borghesia, ossia la classe dei grandi e medi industriali e commercianti, pur essendo poco numerosa, aveva accumulato enormi ricchezze ed ottenuto in pratica la direzione dello Stato. Si produsse così in tutto il mondo il fenomeno del capitalismo e del proletariato: da una parte pochi capitalisti che si facevano sempre più ricchi, dall'altra la grande massa dei lavoratori che si impoverivano sempre più fino a rimanere con la sola prole. È questa la famosa questione sociale. Quale la ragione di questi mali? Gli studiosi indicarono la causa nel fatto che le costituzioni democratico-liberali avevano sì proclamato in teoria l'eguaglianza, ma non si erano preoccupate di eliminare la causa prima di tutte le disuguaglianza economiche e politiche che è il concetto antico e difettoso della proprietà, da esse conservato e sancito nelle loro leggi. Anche nel nuovo regime infatti si continuava ad ammettere che la terra e le risorse naturali, fonte prima di tutte le ricchezze potessero essere proprietà personale ed esclusiva di qualcuno, soltanto perché egli o i suoi padri l'avevano occupata in passato con la forza o con altro o l'aveva ricevuta in dono o comperata da altri che l'avevano occupata in precedenza. Questa è infatti l'origine prima di tutte le proprietà; mentre ognuno può subito intendere che la concezione che l'ispira è barbara ed assai imperfetta. La terra invece non dovrebbe appartenere che a chi la lavora e con l'opera sua la fa fruttare a vantaggio suo o di tutti. Altri studiosi rilevarono che una concezione similmente antiquata ed ingiusta stava alla base dei rapporti tra capitale e lavoro. Nell'antichità il lavoro industriale era esercitato dagli schiavi a tutto vantaggio del padrone. Poi, successivamente la diffusione del Cristianesimo, fece sparire la schiavitù, i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori divennero più umani e fu istituito il salario. Per molti secoli si ritenne così che ogni obbligo della giustizia fosse soddisfatto, ma non si era riflettuto abbastanza che in questo modo l'industriale trattava ancora un uomo eguale a lui come una merce qualunque che si paga e si compera. Pressapoco come si dà il fieno al bue in cambio della sua fatica, così il capitalista paga meno che può l'operaio ed intasca tutti gli utili dell'azienda che ha guadagnato con l'aiuto del primo. L'azienda cresce, gli utili aumentano, il capitalista guadagna sempre di più e l'operaio riceve sempre lo stesso salario. Eppure se gli uomini sono eguali non ci possono essere né padroni né servi, ma solo collaboratori che si spartiscono equamente gli utili dell'azienda. Non c'è dunque da meravigliarsi se una concezione simile della proprietà e dei

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rapporti tra capitale e lavoro ha generato le grandi disuguaglianze economiche e le ingiustizie politiche. Per ovviare a questi mali si affermarono con grande energia le tendenze che invocano la giustizia sociale e nacquero diversi partiti, tra i quali il socialista e più tardi il comunista. Questi credettero di aver trovato il rimedio sostenendo in sostanza che la proprietà è un furto e che perciò deve essere soppressa, rendendo unico proprietario e unico capitalista lo Stato. Così, pensavano essi, tutti i cittadini saranno uguali, tutti lavoreranno e tutti riceveranno i medesimi compensi. Tale sistema prevalse nella Russia dal 1917 in poi, ma negli altri Paesi incontrò forti ostilità per i difetti che vedremo. 2) Il sistema liberale-democratico manifestò inoltre un'altra grave imperfezione. Nei paesi che l'avevano adottato senza possedere una lunga tradizione democratica, come invece hanno specialmente l'Inghilterra e gli Stati Uniti, la libertà di associazione e il diritto di suffragio diedero vita ad una moltitudine di partiti in continua lotta tra di loro, tutti incapaci di assicurarsi una maggioranza stabile e decisiva. In tal modo, oltre ad una continua e pericolosa quanto sterile tensione tra i cittadini, ne venne una grande instabilità nella costituzione dei governi. Essendo il governo sottoposto al controllo delle assemblee dei rappresentanti (Camera dei Deputati e Senato) eletti dal popolo, e non avendo in esse alcun partito una solida maggioranza, per continue, talvolta futili gelosie di partito, i vari governi venivano spesso sbalzati e costretti a dimettersi. Così in Francia si cambiarono talvolta anche 10 governi in un anno determinando una generale decadenza nella vita politica ed un danno di tutti i cittadini. Il male poteva essere alla meglio (ma non per sempre) sopportato dagli stati ricchi e potenti, come appunto la Francia, ma non da stati poveri e deboli (come ad esempio l'Italia e la Germania dopo il 1918 ed anche la Russia dopo il 1917) i quali, travagliati da continue crisi interne, erano sempre sopraffatti nelle implacabili competizioni internazionali dagli altri ricchi, potenti ed ordinati. Era evidente che la radice di questi mali si trovava nel fatto che le costituzioni democratico-liberali ponevano il governo troppo in balia delle assemblee legislative e quindi dei partiti, rendendo impossibile una solida e continuata opera di direzione dello stato e togliendo ogni tranquillità e sicurezza agli uomini chiamati a guidare e a stimolare la vita e lo sviluppo delle attività produttive della Nazione. Si fecero quindi strada le varie tendenze autoritarie che si proposero di aumentare l'autorità del governo a scapito della sfrenata prepotenza dei partiti. Tra queste tendenze si affermarono particolarmente il fascismo in Italia, il nazismo in Germania ed il Bolscevismo in Russia, tutti movimenti ispirati alla

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stessa idea di consegnare il potere dello Stato ad un unico e dispotico dittatore quali furono, Mussolini, Hitler e Stalin.

III. Risposta alla grande domanda

Esposte le varie dottrine che furono escogitate per risolvere e il problema del reggimento dello Stato, quale fu sopra indicato a p. 4, che cosa deve pensare un cittadino onesto, desideroso del bene comune e quindi del proprio vero bene? Che voglia orientarsi con ragionevolezza tra le varie tendenze e le opinioni dei partiti principali? Esaminiamo i singoli punti: 1) La libertà È chiaro che non si può neanche pensare ad una resurrezione dell'assolutismo monarchico, come tentarono in parte di fare Mussolini, Hitler e Stalin, revocando a se stessi tutti i poteri senza controllo alcuno e ricolmando di privilegi i loro sostenitori. Quello fu un sistema buono ai suoi tempi e che per noi è barbaro ed assolutamente antiquato. Le critiche che i liberali ed i democratici gli hanno mosso e con cui l'hanno definitivamente sepolto, rimangono tuttora valide e decisive. Che dire del liberalismo? La rivendicazione della dignità della persona umana, della libertà di pensiero e di parola, di iniziativa materiale e spirituale, sono verità sacrosante a cui non si può rinunciare. Non soltanto la libertà ed il rispetto della persona sono la condizione prima per ogni progresso, come ben dimostra l'esempio dell'Inghilterra e degli Stati Uniti, ma sono anche la prima e principale gioia dell'uomo. Il sentirsi libero ed operare senza legami e catene è la più grande ricchezza dell'uomo e la perdita della libertà la sua più grande infelicità. Perciò tutti i regimi che vogliono negare la libertà materiale e spirituale del cittadino e vogliono trasformare gli stati in enormi caserme, come hanno preteso il fascismo, il nazismo e il Bolscevismo, devono essere respinti. Ma il liberalismo a forza di affermare la libertà l'ha sganciata dalla giustizia trasformandola in licenza sfrenata ed ha tentato, esagerando, di sopprimere ogni intervento dello Stato rendendolo superfluo ed indifferente di fronte ai problemi che agitano la società. Qui sta il suo errore, perché, come si è visto nei primi capitoli, lo Stato è indispensabile per il bene dell'individuo e pertanto esso non può rimanere estraneo a nessuna questione. Gli eccessi del capitalismo sono infatti conseguenza diretta del liberalismo moderno. Quindi si deve esigere la libertà non contro lo Stato, ma nello Stato, e l'ordinamento di questo deve essere tale che gli permetta di intervenire e

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risolvere tutte le questioni più gravi della società, rispettando e anzi valendosi della libertà più attiva dei cittadini.

2) L'eguaglianza Che cosa pensare della democrazia? È chiaro che non si può non accogliere il principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini, perché essa è un fatto naturale ed evidente. Così si deve accettare pure il principio che l'autorità ha la sua base nella collettività dei cittadini e che l'amministrazione dello Stato deve essere sorretta e controllata dalla volontà popolare. Il popolo ha pertanto il diritto di eleggere coloro che devono occupare le cariche pubbliche e questi sono responsabili di fronte a lui. Niente tirannide, niente oppressione, niente individui che pretendono di aver sempre ragione e di avere per natura il diritto di governare quali furono Mussolini, Hitler e Stalin. Costoro non possono essere che dei prepotenti ed ambiziosi, nemici del popolo come i fatti hanno dimostrato. Ma si deve pure riconoscere che il modo come fu applicata la democrazia nel secolo scorso è difettoso e che le critiche che le furono mosse (v. sopra p. 5) sono giustificate ed esatte. È quindi necessario ricercare una democrazia che, educando il popolo alla coscienza dei gravi doveri connessi al diritto di voto, consenta ai migliori di accedere alle cariche pubbliche, che sancisca una effettiva eguaglianza dei cittadini e conceda al governo una tranquillità e libertà d'azione sufficienti a permettergli di svolger seriamente la propria opera e preservarlo dalla tirannide dei partiti.

3) La giustizia Con ciò riconosciamo che le osservazioni e le affermazioni di coloro che propugnano un regime di giustizia sociale sono giustificate e ci fa sottoscrivere. Bisogna farla finita con lo sfruttamento dei lavoratori da parte di proprietari di terra e di capitali. Un uomo non può carpire ad un altro il frutto del suo lavoro incamerando i prodotti della terra e gli utili delle aziende, standosene in città ad oziare o a fare altro mestiere, mentre il contadino lavora in campagna e l'operaio suda nella fabbrica, per l'unica ragione che quella terra gli è stata lasciata da suo padre o perché possiede un certo numero di azioni industriali. I frutti della terra e delle industrie non possono appartenere se non a chi concorre nella produzione col lavoro del braccio o del pensiero. Il vecchio e barbaro concetto di proprietà deve essere perfezionato con uno nuovo e si deve senza indugio procedere ad una migliore distribuzione delle ricchezze, ispirata a criteri di giustizia e di eguaglianza. Hanno dunque ragione i socialisti ed in particolare i comunisti che sono tra di essi i più violenti ed estremisti? Hanno ragione nell'accusare le

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ingiustizie, ma hanno torto nel rimedio che suggeriscono. Essi si comportano come un medico che per liberare i propri malati dalle malattie che li affliggono decidesse senz'altro di ammazzarli tutti. Il rimedio sarebbe evidentemente efficace, ma... eccessivo. Così i comunisti per guarire gli individui dalle ingiustizie di cui soffrono, li opprimono, perché nulla di meno che oppressione dell'individuo è la totale soppressione della proprietà privata a favore dello Stato. In uno Stato che possiede tutto, che interviene in tutto, che è unico capitalista ed unico proprietario è evidente che il cittadino non può essere che uno schiavo, un numero, una semplice rotella dell'immensa macchina e cioè non più una persona umana libera e padrona di se stessa. Giustizia sociale vuol dire rendere, per quanto possibile, tutti proprietari e capitalisti, non nessuno proprietario, nessuno capitalista: questo è il vero desiderio del lavoratore dei campi e delle officine che, ingannato da una propaganda insidiosa, crede di raggiungere la proprietà e il benessere seguendo i comunisti, mentre si prepara la servitù e la miseria. Una significativa conferma di ciò è data dalla condizione di quel popolo in cui il comunismo marxista è stato applicato: voglio dire la Russia. Ivi non soltanto i cittadini hanno perduto la libertà delle terre e delle aziende, ma con esse hanno perduto ogni libertà che non fosse quella di pensare e di vivere come vogliono i padroni. Il popolo russo si è visto impedito l'esercizio della propria fede religiosa; nella famiglia è stato introdotto il divorzio ed i figli sono stati tolti ai genitori per darli alle organizzazioni dello Stato; non si possono esporre opinioni che non siano comuniste; libri, giornali, teatri, cinematografi devono essere tutti e solo comunisti; il denaro, quando non è stato sostituito con le tessere, non può essere speso che come e dove vuole lo Stato; non si può viaggiare e uscire dalla Russia per andare all’estero; i prodotti vengono requisiti dallo Stato; la polizia, la burocrazia, i gerarchi e lo spionaggio scrutano continuamente le case e le riunioni per scovare coloro che sono sospetti di non essere comunisti puri. Ed infine un uomo solo si è impadronito del potere e lo esercita senza alcun controllo, ammazzando allegramente chiunque non sia pronto a servirlo. là un fascismo ancora più esoso ed opprimente, dove sono scomparse libertà e democrazia, che sopra abbiamo detto essere indispensabili al cittadino e allo Stato. Bisogna essere stati in Russia, come chi scrive, per aver visto in quali miseri tuguri di terra e di legno vivono tutti indistintamente i contadini russi ed in quali formicai enormi abitano stipati in promiscuità gli operai, per persuadersi che i nostri paesi non hanno che da perdere nell'imitare un sistema crudele che eguaglia tutti nella miseria.

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E bisogna aver conversato con gli autentici cittadini di quel popolo buono e generoso per aver sentito quale odio essi nutrivano insieme per i tedeschi invasori della loro terra dall'esterno e per Stalin oppressore e tiranno all'interno. È vero che negli ultimi anni egli ha sentito la necessità di far macchina indietro e di promettere almeno un maggior rispetto della libertà personale e di avvicinarsi al ripristino della proprietà. Ciò conferma appunto come dopo aver cozzato contro la ragione e la natura, il buon senso incomincia ad affermarsi, attenuando i principi del comunismo. Noi faremo bene però a non abbandonare mai il buon senso e a risparmiarci tutto il sacrificio di sangue e di miseria che è costato al popolo russo l'esperienza comunista. Il buon senso, dunque, c’impone di accettare l'esigenza della giustizia sociale e della migliore distribuzione delle ricchezze, ma basandoci sul principio della natura funzionale della proprietà della terra non sulla sua soppressione, della superiorità del lavoro sul capitale, non sulla soppressione di questo. La terra a chi la coltiva, la fabbrica a chi lavora, la casa a chi l'abita, non già allo Stato. E poiché la cosa è importante giova insistere.

4) La proprietà Quando si parla di proprietà bisogna distinguere di quali beni s'intende parlare, perché si può intendere la proprietà della merce prodotta dal lavoro umano o beni di consumo oppure la proprietà della terra e delle risorse naturali o beni di produzione. Sono due cose ben distinte e pertanto non da confondere. I primi sono frutto dell'operosa fatica dell'uomo ed è perciò evidente che gli appartengono pienamente, con una proprietà totale. Chi lavora di più e produce di più è ben giusto che possegga di più. Ma i secondi, e cioè la terra e le ricchezze naturali, non sono già frutto del lavoro umano, ma la condizione del lavoro, non sono fatti, ma trovati e ricevuti dalla natura. Di conseguenza il diritto di proprietà in questo caso non può non essere diverso da quello che l'uomo ha nei confronti dei beni di consumo. Vedremo subito che è un diritto limitato e funzionale. I primi appartengono all'uomo perché li ha prodotti, i secondi perché li faccia produrre. Il lavoro sta al centro: al lavoro (delle mani, ma anche della testa, non dimentichiamolo, perché senza il secondo il primo è sterile e vano) si deve dunque guardare per regolare la proprietà. Se i beni di consumo non possono non appartenere che a chi ha lavorato per produrli (o, si capisce, li ha acquistati scambiandoli con altri) i beni di produzione non possono non appartenere che a chi lavora per farli produrre. Ma se i primi una volta prodotti appartengono come abbiamo detto completamente e totalmente a chi li ha prodotti, i secondi non possono invece

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appartenere a chi li fa produrre se non perché li fa produrre e finché li fa produrre. In questo caso dunque la proprietà è legata alla condizione di far attualmente produrre quei beni, cioè alla condizione di svolgere la funzione per cui furono dati all'uomo, che è appunto quella di farli produrre. Ecco perché si disse che in questo caso la proprietà è limitata e funzionale. Uno pertanto che pretendesse, per esempio, di possedere dei campi senza coltivarli affatto o molto poco verrebbe meno alla funzione per cui la terra è data e danneggerebbe i suoi simili impedendo che quei beni fruttassero per soddisfare sempre meglio ai loro bisogni. Un tale contegno non potrebbe quindi essere permesso. Ma facciamo ancora un passo avanti. Siano prodotti o da produrre tutti i beni sono dunque strettamente connessi al lavoro umano che incessantemente ricava i primi dai secondi. Sembra quindi logico pensare che il lavoro – e cioè la persona umana – occupi il posto centrale nell'economia e che ad esso, quasi come a compenso dell'industre fatica, devano attribuirsi le ricchezze, che ne sono appunto il risultato. Anche i beni già prodotti che non vengono consumati ma usati per produrne altri (che con una parola tecnica si chiamano capitale) rimangono evidentemente subordinati al lavoro quali suoi strumenti docili ed obbedienti. Invece tutte le ingiustizie che sono sorte a dar vita alla famosa questione sociale, sono sorte proprio dalla pretesa di negare al lavoro la sua posizione centrale nell'economia, a vantaggio della terra o del capitale. I possessori di terre o di capitali hanno troppo spesso preteso di far fruttare i loro beni coi lavoro altrui senza riconoscere che con ciò stesso chi lavorava acquistava il diritto (secondo i casi), di succedere o di affìancarsi a loro nella proprietà sia delle terre che dei prodotti. Ecco, per esempio, il proprietario di vaste campagne che arruola schiere di braccianti per ricolmare i granai, in cambio di una meschina ed incerta mercede, mentre è evidente che i braccianti sono non suoi schiavi, ma collaboratori e perciò provvisti del pieno diritto di partecipare da a pari a pari all'equa spartizione dei frutti. Ecco, meno ma pure sempre esosi, i contratti d'affìtto e di mezzadria con i quali il capitalista di città sfrutta i lavoratori agricoli, ostinandosi a rifiutare di permettere loro di riscattare, e cioè di comperare a scadenza e con pagamento degli interessi, quella terra i cui frutti loro appartengono totalmente. Si rifiuta di vendere il proprietario, benché non muova un dito per lavorare la terra, perché gli torna troppo comodo assicurarsi perennemente una parte dei beni che gli altri hanno prodotto. Ecco ancora l'industriale che, possedendo le macchine e le materie prime, impone ai suoi collaboratori (tecnici, impiegati ed operai) stipendi e salari

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quanto più bassi è possibile, per assicurarsi in gran copia i frutti del loro lavoro, mentre la giustizia non gli consentirebbe che l'interesse per i capitali ed una ristretta parte degli utili quando presti egli pure la sua opera diretta nella produzione. Ecco infine, forse più oppressive di ogni altra forma di azienda, le società anonime, i cui cosiddetti azionisti non si accontentano dell'interesse per le somme prestate all'impresa, ma pretendono i lauti dividendi ingrossati con i frutti della fatica dei lavoratori. Si potrebbe continuare a lungo e ricordare, per esempio, la cupidigia con cui i proprietari di case rifiutano di cederle agli inquilini con regolari contratti di riscatto, ma impongono pesanti contratti di affitto che fruttano loro indefinitamente ben più dell'interesse legittimo dovuto al capitale prestato. Sono tutte forme di innaturale preminenza della terra o del capitale sul lavoro, che è tempo di abolire e di sostituire con istituti in cui il lavoro abbia la posizione centrale che gli compete. Ad esempio, distribuendo le terre in piccole proprietà familiari o in grosse proprietà associate, trasformando le aziende commerciali ed industriali in aziende artigiane, in cooperative, in forme di comproprietà e di compartecipazione, talvolta anche di nazionalizzazione, sostituendo i contratti di riscatto a quelli di affitto e così via: perseguendo insomma il fine di attribuire sempre la proprietà, limitata se beni di produzione, totale se beni di consumo, a chi lavora. Soltanto così si instaura la vera giustizia, si premia chi lavora con intelligenza e volontà, si evitano gli sfruttamenti e si conserva la proprietà, fonte di gioia e stimolo del progresso. Basta in fine rilevare che, essendo l'uomo individuo che lavora e non lo Stato, è perfettamente assurdo attribuire la proprietà allo Stato che non lavora, e negarla all'individuo. È un altro argomento decisivo contro le pretese del comunismo.

5) L'autorità Quanto all'esigenza di rafforzare l'autorità dello Stato e la solidità del governo, affacciato dai movimenti autoritari, si deve riconoscere che pur essa è giusta e imprescindibile. La debolezza dello Stato e le continue crisi di governo sono una calamità per i popoli che ne sono afflitti. La Francia degli ultimi venti anni ce ne offre un impressionante esempio. Una nazione ricchissima, potente, con un enorme impero coloniale, sorretta da numerosi alleati, è stata ridotta dal disordine dei partiti in tale decadenza da presentarsi svogliata ed impreparato ad una guerra che già da anni si sapeva inevitabile, cosicché i suoi eserciti, un tempo fra i primi del mondo hanno ceduto vilmente e vergognosamente in pochissimi giorni di fronte ad una Germania sola, impoverita, senza colonie, ma sorretta da un'organizzazione salda e da un governo forte. Se non fossero intervenuti gli alleati anglosassoni, oggi la Francia sarebbe cessata per sempre di esistere come nazione libera ed indipendente, nonostante le sue enormi

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risorse ed il glorioso passato. Mentre i paesi anglosassoni, ed in particolare gli Stati Uniti, pur liberali e democratici, ci dimostrano quanto lo Stato possa guadagnare dalla solidità del governo. Negli Stati Uniti l'elezione del capo del governo avviene direttamente da parte del popolo e la sua permanenza in carica è affatto indipendente dalle lotte di partiti, essendo fissata per legge in 4 anni; mentre gli ampi poteri che gli sono conferiti gli permettono di fare del potere esecutivo un ampio ed efficace organo propulsivo di tutta la vita nazionale. Hanno dunque ragione i fascisti, i nazisti, i bolscevichi? Ormai deve essere chiaro che anch'essi hanno adottato un rimedio che è forse peggiore del male. Rafforzare lo Stato e consolidare il potere esecutivo non significa sopprimere la libertà e rinnegare i principi democratici, creando un'assurda tirannide sostenuta con le baionette e le spie, in cui è permesso di emergere soltanto agli inetti e agli adulatori. Come è avvenuto in Italia, dove per venti anni tutti i collaboratori di Mussolini hanno dimostrato tanto servilismo ed assenza di dignità quanta beota incapacità e presunzione cretina. Chi si ricorda di Starace, di Ciano e di tutti i gerarchi alti e bassi, misura subito il grado di obiezione in cui può essere condotta una nazione dalla tirannide. Né può significare creare una colossale quanto inutile costruzione quali furono le corporazioni fasciste, attraverso le quali lo Stato avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi della produzione che invece al momento buono, nonostante la folla di impiegati pagati profumatamente, non si dimostrarono in grado neppure di organizzare l'alimentazione della nazione in guerra. Così che se non fosse ricorso all'esoso eppur indispensabile mercato nero, il popolo italiano sarebbe morto di fame. Riconosciuto, contro i liberali (vedi sopra) il diritto e il dovere dello Stato di controllare dirigere e stimolare l'attività e la vita dei cittadini con i mezzi più idonei (che son sempre quelli ispirati al principio del rispetto della libertà che si esplica dentro e non contro lo Stato) rafforzare lo Stato non significa nulla più che consolidare l'autorità del potere esecutivo ossia del Governo. Ciò non si può ottenere che assicurandogli una sufficiente indipendenza dal potere legislativo e dai partiti. Nel regime democratico liberale i partiti avevano esorbitato dalla loro funzione naturale, che è quella di permettere l'esposizione e la discussione delle opinioni sulle questioni che via via preoccupano la coscienza dei cittadini e di condurre ad una loro soluzione più alta e più comprensiva, ma erano diventati l'organizzazione, la fossilizzazione della discordia permanente. Non più mezzo di elevare la vita dello Stato, s'erano irrigiditi nella lotta ad oltranza arrestando il progresso sociale e civile:

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abbandonata la preoccupazione dell'interesse generale ciascuno si era chiuso nella ricerca esclusiva defl'interesse del partito. Cosicché ogni combinazione ministeriale era difficilissima da realizzare ed era continuamente esposta alle suscettibilità e gelosie del partito e più precisamente dei politicanti di professione che, eletti deputati, erano per 5 anni i veri arbitri della vita nazionale. È questo il famoso deprecato fenomeno del parlamentarismo. Per ristabilire l'equilibrio tra parlamento e governo, prima di tutto si deve restituire al popolo il diritto di eleggere il capo dello Stato o del governo, consentire a questo per legge di rimanere in carica un numero di anni uguale a quello dei deputati e permettergli di scegliersi liberamente i collaboratori dei vari ministeri, responsabili soltanto di fronte a lui del loro operato. In secondo luogo sarà utile aumentare l'autonomia dei comuni e delle regioni deputando le loro amministrazioni a risolvere direttamente i problemi particolari e di limitato interesse. Ma ogni riforma sarà certamente vana, se i cittadini non si sforzeranno di superare l’individualismo ed i partiti non porranno l'interesse generale al di sopra dell'interesse di partito, costituendo nel paese una sostanziale concordia di intenti che renda ordinato o stabile lo svolgimento della vita nazionale.

6) Monarchia o repubblica? Poiché la guerra e la maniera miserabile con cui il Re mise in salvo se stesso ed abbandonò la nazione hanno riportato sul tappeto con vivacità insolita la questione della monarchia, ogni cittadino ragionevole non può più ricusare di formarsi una sua propria opinione fondata sull'argomento. Cerchiamo quindi di dimenticare la figura meschina di Vittorio Emanuele III e di trattare la cosa con animo sereno. Quale vantaggio vedono nella monarchia i suoi sostenitori sinceri e disinteressati? Secondo loro, essa rappresenta sempre, nonostante tutto, un elemento di ordine e stabilità, una salvaguardia dell'autorità dello Stato e dell'unità della nazione e perciò una forza preziosissima. I repubblicani vi vedono invece un rudere del passato, un'offesa al principio dell'eguaglianza, una minaccia permanente di rivalsa da parte della nobiltà e dei grandi capitalisti. A prima vista si sarebbe tentati di dire che hanno ragione tutti e due, in quanto sostengono gli uni l'autorità e gli altri l'eguaglianza, entrambe parimenti indispensabili per la vita di uno Stato ben organizzato. Ma i repubblicani hanno ragioni da vendere quando sostengono che la monarchia costituzionale non serve all'ordine, bensì al disordine. Questo Re che regna e non governa, sembra non fare nulla ed essere un puro simbolo, oppure impedisce al governo di governare ed è l'alleato più forte del parlamentarismo.

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Infatti: o il Re è veramente il capo dello Stato e perciò governa sul serio, ed allora non c'è bisogno di nessun altro capo del governo o presidente del consiglio che dir si voglia e si ha l'ordine, ma non più la democrazia; o è il capo di Stato soltanto per burla e non di fatto e si conserva la monarchia costituzionale, allora il governo viene necessariamente governato dal Parlamento e si ha il disordine permanente. Se vogliamo salvare la democrazia e contemporaneamente l'ordine e l'autorità dello Stato, è giocoforza sostituire il ridicolo Re costituzionale con un Re elettivo o, se si preferisce, con un presidente che faccia da Re. Al posto della monarchia costituzionale, va posto la monarchia elettiva o, il che fa lo stesso, una repubblica monarchica sul tipo di quella degli Stati Uniti e di molte altre repubbliche americane, ed anche dell'antica repubblica romana. Un regime in cui il capo dello Stato venga eletto periodicamente dal popolo (contro le conquiste del potere con la forza e contro la trasmissione ereditaria); che sia assistito e controllato dal Parlamento (contro l'assolutismo), ma che possa governare in virtù di un'investitura ricevuta durevolmente e stabilmente, non legata al capriccio mutevole dei politicanti di partito (contro il disordine e il parlamentarismo). Ma se i repubblicani volessero mutare il regime attuale in una repubblica sul tipo di quella francese, allora preferiamo tenerci la nostra casa Savoia, la quale, se non altro, s'è accumulata nel passato tante benemerenze da controbilanciare almeno in parte le malefatte del presente. Nella repubblica francese, al posto del Re, c'è un Presidente che passa per capo dello Stato, ma in realtà non serve a nulla di buono, tanto quanto un Re costituzionale, perché non governa affatto ed il governo è soggetto agli arbitrii del parlamentarismo più vieto. Contro una simile repubblica avranno sempre buon gioco tutti i monarchici. Se qualcuno volesse poi citare l'esempio dell'Inghilterra che è, almeno in apparenza, una monarchia costituzionale, diremo che agli inglesi la monarchia non serve per la politica interna, ma per quella dell'Impero. La Corona inglese è infatti quasi esclusivamente il vincolo che unifica tra loro e lega alla madre patria i dominii (Canada, Sud Africa, Australia, ecc.), i quali, provvisti di governo vero e proprio ed indipendente, riconoscono tutti su di sé l'autorità non del governo di Gran Bretagna, ma di Sua Maestà Britannica. Come si vede si tratta di un affare ben diverso, che non riguarda per niente l'Italia, la quale purtroppo non possiede alcun dominio ed è probabile che non ne possederà tanto presto.

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Conclusione Riassumendo le nostre riflessioni condotte alla luce dell'esperienza con ragionevolezza ed obiettività, crediamo che chiunque deve essersi orientato verso una conclusione chiara e sicura. Lasciando ai competenti di definire i particolari, deve essere evidente a tutti che la vita dello Stato non potrà riordinarsi a beneficio comune se non attorno a questi presupposti: a) concordia e collaborazione quale prima condizione per il benessere pubblico; b) coincidenza dell'interesse generale con il vero interesse dell'individuo; c) libertà e rispetto della persona umana; d) eguaglianza; e) giustizia sociale; f) consolidamento dell'autorità.

IV. Le relazioni tra gli Stati

Dopo esserci orientati sulle questioni della natura dello Stato e del suo ordinamento, resta da considerare un altro problema: quello dei rapporti tra gli stati. Le continue e terribili guerre che travagliano l'umanità e specialmente l'Europa devono aver aperto gli occhi ai ciechi ed aver fatto intendere ad ognuno che così non si può andare avanti. Occorre sistemare le relazioni internazionali, e poiché anche in questo campo sono varie le tendenze, è necessario che ogni cittadino abbia delle idee chiare anche su questo punto. È certo che l'umanità costituisce per natura una sola famiglia, come abbiamo visto in principio; essa tende nel suo progresso a riunirsi in un solo Stato, come hanno sempre sognato i grandi spiriti. Ma questa è la meta lontana ancora, non il punto di partenza del cammino umano. In pratica gli uomini hanno cominciato col costituire molti piccoli stati nazionali in lotta tra loro. Le guerre disastrose ma anche utili di cui è piena la storia hanno ridotto il numero degli stati e fuse insieme molte nazioni. Oggi l'umanità è arrivata ad una tappa avanzata di questo progresso ed il mondo si trova ripartito nelle seguenti grandi unità: 1) L'Impero Britannico che costituisce una vasta confederazione di stati e di colonie sparse in tutto il mondo. 2) Gli Stati Uniti che stanno organizzando attorno a se stessi tutto il continente americano. 3) La Russia che occupa un sesto del globo nell'Asia sett. e nell'Europa orientale. 4) La Cina che domina gran parte dell'Asia sud orientale e ancor più dominerà dopo la sconfitta del Giappone. Rimane l'Europa propriamente detta, ossia quella centrale ed occidentale: qui gli stati sono molto numerosi e tra di essi nessuno sovrasta in modo decisivo. Nei secoli andati hanno fatto il tentativo di sottomettere e unificare

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l'Europa prima la Spagna, poi la Francia e nelle ultime guerre la Germania, ma nessuna è riuscita. La causa sta nella grande vitalità dei singoli popoli europei, tutti attivi, evoluti e civili, di cui ciascuno ha sempre avuto una grande parola da dire al mondo. L'Europa ha civilizzato il mondo proprio perché nessun imperialismo è riuscito a schiacciare le energie delle varie nazionalità, soffocandone le forze geniali. Ma oggi la situazione è divenuta insostenibile, poiché i grandi stati che circondano l'Europa minacciano di sommergerla. Già gli Stati Uniti insidiano le colonie inglesi e francesi, e già soprattutto la Russia slava e mongolica avanza verso occidente minacciando di schiacciare le libere e fiorenti nazioni europee. Ogni giorno ce ne porta una nuova conferma. Che cosa fare? Continueremo a beccarci tra di noi come i capponi di Renzo finché non finiremo nella grande pentola russa o americana? Sarebbe veramente cretino. Attenderemo supinamente di essere ingoiati dall'orso russo o dal polipo americano? Oltre che cretino sarebbe anche vile. Che fare dunque? Non resta che difenderci e in un modo soprattutto: unendoci. È venuto il tempo di creare una Confederazione d'Europa, Inghilterra compresa. È una soluzione nobile ed intelligente, degna di popoli civili. Così conserveremo il possesso dell'Africa e delle altre colonie e avremo le forze sufficienti per farci rispettare e continuare a svolgere la nostra missione nel mondo. La cosa incontrerà indubbiamente molte resistenze e soprattutto l'Inghilterra sarà perplessa a causa degli stati della sua Confederazione: ma la coscienza dei popoli europei deve convincersi che non esiste altra strada da scegliere e deve imporre di seguirla. Nonostante le apparenze, i popoli latini e germanici, che costituiscono la maggioranza dell'Europa, sono fatti per intendersi. Lo dimostra, oltre che il grande Impero medioevale, il felicissimo sviluppo di quegli stati in cui il loro sangue ed il loro carattere ebbero modo di fondersi armonicamente, e cioè l'Inghilterra, il Belgio, in parte l'Olanda e soprattutto la Svizzera, gemma preziosa incastonata nel cuore del nostro continente, che nei suoi ordinamenti già costituisce il mirabile bozzetto di un'Europa confederata. Creare dunque la confederazione d'Europa e poi costituire un'organizzazione internazionale, una più perfetta società delle Nazioni, per collaborare e dirigere le questioni con i grandi stati extra europei. Questa è la via del buon senso, dell'interesse e dell'onore.

Un'obbiezione A questo punto occorre soffermarsi a discutere un'opinione diffusa tra spiriti nobili, ma ingenui, e sostenuta oggi particolarmente da molti che non sono ingenui e perseguono fini molto meno nobili: voglio dire l'internazionalismo.

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Non sarebbe più semplice abbattere tutte le frontiere degli stati, proclamare l'uguaglianza di tutti i popoli del mondo e creare un solo unico Stato? Non è questo il nobile sogno di tutti i socialisti e comunisti che lottano per la dittatura universale del proletariato? Già sappiamo cosa significa nel campo sociale questa dittatura del proletariato, ma necessita ora considerare un momento l'internazionalismo in se stesso. Già si disse che la società universale dei popoli è l'ultima meta che potrà essere raggiunta soltanto quando si sarà realizzata un'eguaglianza di sviluppo civile presso tutti i popoli ed i popoli desiderino sinceramente tale unità e parità. Ma forse che oggi questa eguaglianza esiste? Forse che bianchi, gialli e neri sono tutti nello stesso stadio di sviluppo ed egualmente idonei a governare il mondo? Forse che i popoli desiderano sinceramente questa unità e parità? Non la desiderano ancora veramente gli europei che sono i più progrediti, figuriamoci gli altri. Andate a chiedere ai Giapponesi se vogliono essere alla pari coi Cinesi, o piuttosto dominarli? O agli Americani se desiderano proprio la parità con gli altri stati e non piuttosto l'egemonia? E così gli altri. Ma almeno essi lo lasciano intendere e non si trincerano ipocritamente dietro la maschera internazionalistica. C'è un solo Stato al mondo che non lo confessa e sbandiera gli ideali internazionalisti ed è la Russia sovietica (e con essa naturalmente i comunisti). Qui occorre essere chiari. L'idea è un'idea sociale e benché, come s'è visto, non si possa consentire con essa, essa merita rispetto e merita che si riconosca che, astrazion fatta dal loro materialismo, gli scrittori comunisti hanno contribuito a rendere viva l'esigenza della giustizia sociale. Così l'internazionalismo, benché oggi ancora ingenuo e utopistico, merita rispetto. Ma il rispetto non deve essere più accordato quando il comunismo e l'internazionalismo diventano strumenti per l'imperialismo di uno Stato e di una razza. Infatti tutti sanno che il comunismo internazionale ha la sua capitale a Mosca e riceve ordini e denari dal Cremlino. Tanto basterebbe perché in uno Stato che si rispetti esso fosse bandito e proibito, giacché i suoi membri lavorano contro gli interessi dello Stato a favore di un altro Stato. E così parecchi stati in Europa ed in America hanno fatto vietando ogni attività ai comunisti. Ma questi protestano che la Russia non è uno Stato imperialista, ma semplicemente il primo Stato in cui s'è realizzata la dittatura del proletariato e che pertanto viene usata quale strumento per affrettarne la vittoria totale nel mondo. Non per la Russia e gli Slavi essi protestano di lavorare, ma per il proletariato. E qui sta l'equivoco. Non discutiarno la buona fede dei comunisti, ma neghiamo che la Russia sovietica non sia uno Stato imperialista e sosteniamo che il comunismo internazionale fornisce i tentacoli di cui l'imperialismo slavo si serve per conquistare il mondo e prima l'Europa.

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Perché Stalin ha ammazzato Trotzki se non perché questi voleva rimanere il comunista puro? Forse che la Russia non ha aggredito la Finlandia nel 1940 come un qualunque imperialista brutale approfitterebbe della sua forza per soffocare uno Stato piccolo, ma libero e tra i più civili del mondo? E il vile mercato stipulato nel 1939 con Hitler, che fu? Un regalo ai lavoratori polacchi? E i Paesi Baltici? E la Romania? E la pressione nei Balcani? È veramente strana questa libertà regalata ai popoli con la prepotenza, i massacri e le deportazioni. E perché mai in Jugoslavia, nazione tra le più arretrate in Europa, il comunismo ha ottenuto tanti aderenti tra i partigiani, se non perché i russi sono slavi come i serbi, i croati, gli sloveni e la vittoria del comunismo è la vittoria degli slavi? Chi ha conosciuto il movimento partigiano jugoslavo, sa che l'odio per il popolo italiano – odio puramente slavo – vi circolava con abbondanza. Questi e mille altri episodi nei confronti della Turchia, della Persia, dell'India e della Cina dimostrano che nella sua politica estera Stalin ripercorre con gli stessi metodi le stesse vie battute dagli Zar, i quali, a quanto risulta, non avevano di mira la dittatura del proletariato. Che la Russia tenti la sua avventura imperialista e che ai suoi fini si serva magari del comunismo e dell'internazionalismo – come Napoleone della libertà e dell'unità e Hitler del fascismo e dell'ordine nuovo – è abbastanza comprensibile; ma che i popoli europei si lascino prendere all'amo e vi siano in essi quelli che si preoccupano di farli abboccare ad occhi chiusi, questo no, non è comprensibile. Oltre che una cattiva politica sociale, il comunismo ci consiglia una pessima politica estera. Se è vero – come è vero – che gli slavi e i mongoli non hanno proprio niente da insegnarci, faremo bene a guardarci dall'internazionalismo comunista. La miglior via per giungere nel futuro ad un'ordine universale fra i popoli rimane quella di farci forti nell'Unione europea per far passare agli altri popoli la voglia di ingrandirsi a nostre spese, e poi lavorare da pari a pari per un'intesa fra i grandi stati mondiali.

V. Un'occhiata in casa nostra

I partiti italiani Una volta esposte le conclusioni alle quali una qualunque persona ragionevole è condotta dal buon senso sulle questioni riguardanti lo Stato, la scelta dell'autorità e le relazioni tra gli stati, resta a vedere quali sono in proposito le opinioni prevalenti tra gli italiani. Il fascismo in 20 anni di infelice governo ha preteso di impedirci di pensare con la nostra propria testa, per sostituire, alla testa di 45 milioni di uomini, quella sola e scentrata di Mussolini. Perciò gli italiani in tutto questo

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periodo non hanno potuto manifestare le proprie tendenze ed ogni partito, che non fosse quello fascista, ha dovuto ritirarsi dietro le quinte. Ma coloro che non si rassegnavano a dare in affitto a Mussolini la propria testa non sono mai mancati e così, sia pure in segreto, i vari partiti hanno continuato a lavorare. Quando poi la barca del fascismo ha cominciato a fare acqua, essi hanno intensificato l'opera loro ed oggi, i principali, uniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, intensamente lavorano sia nell'Italia libera come pure in quella ancora invasa da fascisti e da tedeschi. Riandando alla storia dei tentativi per risolvere la questione della scelta di chi deve esercitare l'autorità dello Stato abbiamo incontrato o discusso varie tendenze. Tutte queste hanno in Italia dei sostenitori e quindi esistono: una tendenza monarchica, residuo delle forze della monarchia e dei nobili che sognano i tempi dell'assolutismo; un partito liberale che si è fermato più o meno alle idee della rivoluzione francese; un partito socialista che propugna la rivoluzione sociale e si ispira al materialismo di Carlo Marx; uno comunista che tende a trasformare l'Italia in un'altra Russia ed in fine, purtroppo! nell'Italia ancora invasa il partito fascista. Noi abbiamo però visto chiaramente nel capitolo precedente che tutte queste tendenze presentano gravi e pericolosi errori ed abbiamo concluso che, conservando il buono e scartando il cattivo di tutti i vari partiti, la via giusta sta nell'accettare i principi della concordia tra tutti i cittadini, della libertà, dell'eguaglianza, della giustizia sociale e della autorità dello Stato. Non esiste nessun partito che contenga queste idee? Sì, in Italia esse sono condivise da larghissimi strati di cittadini e sono sostenute nella loro sostanza principalmente da due partiti forti ed attivi e cioè la Democrazia Cristiana e il Partito d'Azione. Le divergenze tra questi nel campo politico o sociale sono poco rilevanti e riguardano i particolari e dettagli, ma nel fondo esiste tra loro un accordo confortante. Dico confortante perché noi italiani siamo spesso troppo puntigliosi ed attaccabrighe ed invece di lavorare per il bene comune perdiamo più volentieri il tempo a tirarci l'un con l'altro: perciò è confortante vedere che un buon numero di italiani consente attorno a punti fondamentali. A nostro avviso questi ultimi partiti devono attirare attorno a sé le simpatie di tutti i cittadini onesti e formare la grande base comune su cui solo potrà essere ricostruito il benessere di tutti e di ciascuno. Ad essi va tutta la nostra simpatia, perché difendono i principi sani e veri di ogni vita politica e contano tra le loro file uomini capaci e che credono ancora nell'onestà, cui gli italiani potranno affidare con tranquillità il governo della nazione. Il contrasto che distingue tra loro la democrazia cristiana e gli altri partiti non sta solo nel campo politico e sociale, ma anche in quello religioso e morale.

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Mentre infatti la prima, pur non essendo per niente una società religiosa, è formata da uomini i quali credono che alla base di ogni pensiero ed atto dell'uomo deve stare la fede in Dio e perciò si ispirano francamente alla dottrina di Gesù Cristo, che ha insegnato al mondo la dignità spirituale dell'uomo, l'eguaglianza e l'amore; invece gli altri partiti assumono spesso su questo punto un atteggiamento non ben preciso e determinato. Eppure nessuno può esimersi dal prendere posizione anche nel campo religioso tant'è vero che i socialisti, e specialmente i comunisti, negano apertamente Dio e l'altro mondo, proclamano che tutto è materia e che la religione è l'oppio dei popoli. Cioè assumono una posizione contro la religione.

La ricostruzione dell'Italia Individuati i partiti italiani che meritano l'appoggio sincero dei cittadini ci rimane un'altra domanda a cui rispondere: in quale modo si dovrà procedere nella ricostruzione dell'Italia secondo le idee sostenute fin qui? Bisogna dire subito e a gran voce che la violenza dev'essere esclusa. Troppi dolori, troppe lacrime, troppo sangue hanno afflitto l'Italia perché una persona fornita di un minimo d'intelligenza e di cuore possa pensare a ricominciare le stragi e le sofferenze con le lotte di partito. Tutti i partiti aspirano ad ottenere il potere per poter applicare il loro programma; è naturale e giusto. Ma tutti i partiti che non siano composti di ladroni e di banditi devono ammettere che spetta alla volontà dei cittadini designare se la monarchia deve rimanere o no e stabilire a chi tocca il grave onere di governare l'Italia; devono essere le votazioni e le elezioni, libere e tranquille, a scegliere gli uomini che andranno al potere; devono essere i tribunali del popolo regolari gli unici giudici dei criminali fascisti: niente violenza, niente soprusi, niente squadre armate che terrorizzano il popolo. Chiunque volesse rinnovare il sistema della forza e della prepotenza non sarebbe che un novello fascista da esecrare o sopprimere. A questo proposito, ancora una volta bisogna dimostrare il dissenso che ci separa sia dai liberali, indifferenti ai bisogni del popolo e attaccati al passato, quanto dai socialisti e specialmente dai comunisti che predicano la lotta di classe e la violenza armata. Anche in questo essi si rivelano parenti stretti dei fascisti. Mussolini ha conquistato il potere con le armi come aveva fatto Lenin ed ha imparato dal socialismo da cui proveniva i metodi della violenza. Ma questa volta gli italiani non si lasceranno cogliere di sorpresa e resisteranno con tutte le loro forze contro chi volesse ridurli ancora una volta a schiavi. Comprensione reciproca, fraternità, rispetto delle leggi, orrore del sangue devono ispirare gli italiani nel lavoro di ricostruzione.

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In secondo luogo il buon senso e il desiderio del bene comune esigono che per qualche anno i partiti s'interessino più di venire incontro a bisogni economici del popolo, riparando le distruzioni della guerra e procurando a tutti pane, vesti e case che non di riformare le leggi e di inventare programmi. Sarà bene che l'attuale accordo dei sei partiti antifascisti che ha permesso la formazione dei governo Bonomi duri un bel po' ancora per risolvere ancora quei problemi economici. Prima mangiare e... poi fare la politica. Ed una volta fatte le elezioni e riordinato lo Stato vogliamo ancora che l'applicazione delle riforme sociali avvenga gradualmente e intelligentemente. Niente rivoluzioni, ci è bastata quella fascista. Non rivoluzione e non reazione, ma evoluzione, e cioè sviluppo e progresso. Abbiamo già visto che occorre compiere grandi e profondi cambiamenti nel campo della distribuzione delle ricchezze: è giunto il momento di sopprimere le ingiustizie, di fare sparire il proletariato ed il grande capitalismo e di tendere alla trasformazione in piccoli capitalisti, la terra a chi la coltiva, la fabbrica a chi lavora, la casa a chi l'abita, è il nostro programma, ma sappiamo anche che per raggiungere questo ideale bisogna procedere con ordine e senza sconvolgimento. Non vogliamo che si ripeta tra noi quanto è avvenuto in Russia, dove la rivoluzione bolscevica ha portato come prima conseguenza anni di fame spaventosa e di terribile carestia, mietendo milioni di morti tra gli autentici lavoratori. Il fascismo ha già rovinato abbastanza l'Italia perché non siano da considerare delitti ogni violenza ed ogni errore che aumentassero la rovina. Concordia, libertà, uguaglianza, giustizia, autorità e soprattutto uomini onesti e retti deve volere oggi con tutte le sue forze ogni italiano sollecito dei bene proprio e di quello comune; questi sono gli ideali della Democrazia Cristiana che tutti invita a collaborare perché essi diventino presto luminosa realtà.

Dicembre 1944

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