Eccoci qui!!!! 1

Sono in corso le iscrizioni alla 4° edizione del Corso sulle Scienze Forensi che ti terrà all’Università eCampus da Gennaio a Maggio 2020. Sono previste due giornate formative esterne: all’Istituto di Medicina Legale dell’Università A. Gemelli ed al laboratorio di indagini Biologiche “Genoma”. Per informazioni: [email protected] o chiamate l’ 800271789 Un abbraccio a presto Armando Palmegiani

Sommario (1) Dal Dna il volto dell'assassino (2) Alessia Logli, figlia di Roberta Ragusa (3) La storia di Billy Milligan (4) La banda della “uno bianca”: chi sono? (5) Introduzione al satanismo (6) USA attacco con machete nella casa di un rabbino a Monsey (7) 1973 la strage di Fiumicino (8) Libri (9) Link (10) Raccomandazioni ed arretrati

(1) Dal Dna il volto dell'assassino

Da www.panorama.it/

Dal Dna il volto dell'assassino 2 Sono ora a disposizione del Ris, il reparto delle investigazioni scientifiche dei Carabinieri, metodi che permettono di risalire dal Dna lasciato sulla scena del crimine all'identikit del presunto assassino

Foto: Uno dei Carabinieri del Ris di Parma al lavoro in laboratorio – Credits: Alessandro Di Meo/Ansa Luca Sciortino 12 dicembre 2019 Se l’assassino mente, il Dna dice la verità. Decifrarla è stato da sempre un obiettivo difficile da raggiungere, ma oggi la genetica forense è entrata in una fase decisiva. La possibilità di predire le fattezze fisiche del viso e la provenienza etno-geografica di un presunto colpevole sulla base delle tracce del Dna lasciate sul luogo del delitto è ormai concreta. Si stanno sperimentando diversi metodi, tra i quali il cosiddetto “Dna Phenotyping”, che mira a un identikit il più possibile preciso sulla base delle informazioni genetiche, in previsione di una possibile futura applicazione nei kit a disposizione delle forze di polizia di molti Paesi, e in particolare dei reparti del RIS, il reparto di investigazioni dell’Arma dei Carabinieri deputato a svolgere accertamenti tecnico-scientifici. Da molti anni, l’identificazione di un presunto colpevole viene fatta comparando le informazioni ricavate dal materiale genetico trovato sul luogo del delitto con quelle di un possibile sospettato o di soggetti presenti nella Banca Dati Nazionale del DNA. Vi sono infatti nel genoma alcune sequenze ripetute per un numero di volte che varia da individuo a individuo e che possono essere utilizzate per identificare un colpevole. Anche se questo metodo resterà un punto di riferimento nella ricerca, i suoi limiti sono evidenti: se il presunto colpevole non è già conosciuto dagli investigatori, o se il suo profilo del DNA non è mai stato censito, il metodo della comparazione del Dna è un’arma spuntata. Il Maggiore Filippo Barni, biologo della Sezione di Biologia Forense del

Reparto Investigazioni Scientifiche (RIS) di Roma, dice: “Ci sono due importantissimi sviluppi nella ricerca genetica forense che già oggi permettono di facilitare le indagini. Il primo è frutto di una ricerca condotta in collaborazione tra RIS di Roma, il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie "Charles Darwin" della Sapienza Università di Roma e il Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Torino che sarà a breve pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Forensic Science International: Genetics e che, rispetto ai sistemi commerciali attualmente a disposizione, è in grado di migliorare notevolmente l’accuratezza di predizione dell’origine etnica e geografica di un 3 individuo fino ad un livello di oltre il 90%.Per fare un esempio: riusciamo a sapere se una traccia di Dna appartiene a una persona originaria dell’Europa dell’est o del sud o se viene dal nord Africa o se è asiatico». L’individuazione della discendenza etnica e dell’origine geografica con questo metodo si basa sulla cosiddetta “analisi statistica multivariata” che viene effettuata – e questo è un ulteriore grande vantaggio di questo approccio – utilizzando i dati di tipizzazione del DNA comunemente impiegati nella identificazione personale. Si cerca, in particolare, di valutare le differenze tra le strutture genetiche esistenti tra popolazioni “diverse”, cioè che appartengono a differenti etnie ed origini biogeografiche, per poter predire a quale di questi gruppi appartenga un individuo ignoto il cui DNA è stato rilevato sulla scena di un crimine. È evidente che tanto maggiori saranno le differenze genetiche tra popolazioni, quanto più sarà possibile predire la provenienza di un individuo. Popolazioni molto divergenti tra loro in termini genetici (ad es. le popolazioni africane sub-sahariane, le popolazioni asiatiche, etc.) consentiranno una risoluzione ed una attendibilità di classificazione molto migliore rispetto a popolazioni che si sono “geneticamente mescolate” tra di loro oppure differenziate in tempi recenti. «Un secondo importante sviluppo della ricerca genetica forense riguarda il phenotyping, una nuova tecnica che ci consente di predire il colore degli occhi, della pelle e dei capelli» aggiunge il Maggiore Barni che precisa «questa stessa tecnica permetterà a breve di risalire ad altre caratteristiche come la morfologia dei capelli (ricci o lisci), la presenza di calvizie e di lentiggini, la stima dell’altezza, e nei prossimi anni, a caratteristiche cranio- facciali come la forma del viso, del naso e della bocca». Alcune di queste caratteristiche antroposomatiche sono attualmente già analizzabili mediante sistemi di analisi prodotti da diverse aziende straniere, come la Thermo Fisher Scientific o la Illumina, che produrranno presto versioni più evolute. « Il kit che permette l’attribuzione etno-geograficae il colore degli occhi e dei capelli è in nostro possesso da pochissimo e, vista la complessità e l’onerosità di tale approccio, potrà essere usato in casi giudiziari solo dietro esplicita richiesta delle autorità competenti» conclude il Maggiore Barni. Uno dei biologi che ha collaborato allo studio degli scienziati del RIS, Fulvio Cruciani, professore della Sapienza nel Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”, spiega:« Il punto chiave di queste ricerche risiede nel fatto che gran parte della variazione fenotipica umana è determinata geneticamente. In particolare, la diversità dei caratteri visibili dipende principalmente da polimorfismi per singolo nucleotide, ovvero delle variazioni di una singola unità della catena del Dna. Analizzando specifici polimorfismi del Dna è quindi possibile dedurre i tratti somatici di un ignoto a partire da un qualsiasi reperto forense». Il problema è che la genetica non determina totalmente le caratteristiche fisiche di un individuo, in quanto queste sono modulate anche da fattori ambientali. Per esempio, l’altezza raggiunta in età adulta è influenzata dall’alimentazione, lo stress e altri fattori ambientali. «Quindi la tecnica del phenotyping è molto precisa per quelle caratteristiche, come il colore degli occhi, che non dipendono dall’ambiente e meno precisa per quelle

caratteristiche come l’altezza, dove la predizione è complicata sia dal numero elevato di geni coinvolti che dalle influenze ambientali. Il colore dell’iride oggi può essere predetto con un’accuratezza maggiore del 93 per cento, mentre siamo molto lontani dal riuscire a predire anche in modo approssimativo un carattere complesso come l’altezza» conclude Cruciani. Per comprendere quanto queste nuove ricerche potranno essere utili, se accoppiate a quelle di comparazione già in uso, si può citare un episodio avvenuto nella contea inglese del Leicestershire, nel 1983, quando in una zona isolata fu ritrovato il corpo di una 4 giovane donna di nome Lynda Mann. Dalle analisi del liquido seminale ritrovato e analizzato con le tecniche allora disponibili si comprese che poteva appartenere al 10 per cento della popolazione. Il caso rimase irrisolto finché un’altra ragazza coetanea di Lynda fu uccisa e non fu ritrovato lo stesso Dna sul luogo del reato. Nel frattempo un diciassettenne del luogo si dichiarò colpevole, ma la comparazione dei due Dna rivelò che si trattava di un mitomane. A quel punto, data la gravità del caso, le autorità decisero di prelevare un campione di sangue a circa cinquemila uomini residenti nella contea. Purtroppo, nonostante l’enorme dispendio di denaro ed energia, il profilo genetico dell’omicida era diverso da tutti quelli prelevati. Il caso sembrava ormai irrisolto quado nel 1987 ci fu la svolta nelle indagini: un tale si vantò di aver accettato duecento sterline da un amico, Colin Pitchfork, uomo sposato e con figli al di sopra di ogni sospetto, per fornire al suo posto un campione di sangue. Le analisi comparative del Dna identificarono Pitchfork come l’assassino, che fu poi condannato all’ergastolo per duplice omicidio aggravato. Questa storia insegna che, quando le informazioni genetiche del colpevole non possono essere comparate con altre disponibili nella banca dati dei sospetti, solo un colpo di fortuna può talvolta aiutare gli inquirenti. In questi casi, sapere che un individuo ha, per esempio, occhi azzurri, pelle chiara, lentiggini, calvizie, capelli ricci e altezza di uno e novanta, può essere una discriminante importante per concentrare le analisi degli investigatori laddove sia necessario. Metodi della genetica piuttosto simili stanno dando risultati eccellenti nella ricostruzione delle origini evolutive della nostra specie. Qualche anno fa uno studio su Science ha determinato le caratteristiche somatiche di due individui Homo neanderthalensis analizzando un loro gene e ha stabilito che avevano pelle chiara e capelli rossi, caratteristiche molto divergenti dalle nostre. Un ulteriore indizio che non ci siamo evoluti dagli uomini di Neanderthal. Insomma questi ultimi sono solo nostri cugini. Ma ancora più eclatante è il caso di Homo di Denisova, un gruppo di umani vissuto circa 40mila anni fa di cui è stato ricostruito il volto con una tecnica che, sebbene diversa dal phenotyping, pur sempre indaga quali geni sono espressi in un reperto di Dna antico. Queste stesse ricerche testimoniano come sia possibile trovare Dna ancora non deteriorato, quando le condizioni ambientali lo permettono, dopo migliaia di anni permettendo così importanti conclusioni. Un monito per tutti quelli che criticano le ricostruzioni sulla base del Dna nei delitti che hanno recentemente acceso il dibattito sui media. Dai casi del delitto dell’Olgiata fino a quelli di Yara Gambirasio a Chiara Poggi e molti altri, in tutti questi casi sono state inflitte condanne anche sulla base dei tradizionali accertamenti di tipizzazione del DNA. Ma altri delitti aspettano una soluzione. È lecito supporre che nel futuro sarà sempre più difficile sfuggire alla maglia degli inquirenti.

(2) Alessia Logli, figlia di Roberta Ragusa

Da www.corriere.it

Alessia Logli, figlia di Roberta Ragusa, il 5 tatuaggio e il messaggio d’amore: «Mamma, sei tutto per me» La 19enne fino alla scorsa estate aveva difeso il padre Antonio (condannato per l’omicidio). Ora, per la prima volta, sceglie di esternare i propri sentimenti di Fabrizio Peronaci

Una figlia, una mamma scomparsa, il papà accusato di omicidio. E portato via da casa con un ordine di arresto. Per essere trasferito in carcere. Tra i tanti risvolti della tragedia di Roberta Ragusa, l’imprenditrice di Gello (Pisa) svanita nel nulla il 13 gennaio 2012 e mai più ritrovata, ce n’è uno che ha il volto di una ragazza bionda, dagli occhi grandi e scuri: Alessia, appunto, la secondogenita oggi diciannovenne di Roberta e Antonio Logli. Aveva 11 anni, la bambina, quando a lei e al fratello Daniele, di tre anni più grande, crollò il mondo in testa: la mamma che viveva per loro, premurosa, sempre disponibile, finì sui giornali, in tv, nei programmi sui fattacci di sangue, ma intanto a casa non tornava. Uno choc. Una sofferenza indicibile. Davanti alla quale soprattutto la piccolina rimase muta, chiusa in se stessa. Fino ad oggi.

6 Roberta Ragusa, scomparsa da otto anni. Il marito Antonio Logli è stato condannato per omicidio

Per la prima volta, dopo la condanna definitiva del padre (lo scorso luglio, in Cassazione) a 20 anni di carcere, Alessia Logli ha infatti cominciato a esternare i propri sentimenti. E l’ha fatto sui social, come normale tra ragazzi. Con un doppio messaggio pubblico: il primo è consistito nel mostrare la foto del tatuaggio con la scritta «Roberta» e un cuoricino che si è fatto disegnare sul fianco sinistro, mentre il secondo è condensato nel testo postato in basso, di poche righe. Parole commoventi: «Una mamma ti insegna a vivere; a rialzarti quando cadi; a lottare con tutte le tue forze in ciò in cui credi. Ma soprattutto una mamma ti ama incondizionatamente, un amore che dura per sempre, un po’ come l’inchiostro di un tatuaggio impresso sulla pelle. A te, mamma, che eri, sei e sarai sempre parte di me».

Antonio Logli Dopo chissà quante lacrime, la figlia di Roberta, rimasta con il fratello e la nuova compagna del padre (l’ex babysitter Sara Calzolaio) nella vecchia casa di famiglia, ha quindi rotto gli indugi. Il legame con il genitore, dalla scorsa estate rinchiuso nel carcere «Le Sughere» di Livorno, si è forse affievolito, se non altro per la lontananza fisica. Ma di certo, in questi mesi, l’amore a lungo compresso per la madre è affiorato, si è imposto come una carezza dolce e insieme come una necessità, inducendola a farsi coraggio, ad aprirsi. Anche a costo di scontentare la figura paterna. Intervenendo alla trasmissione «Quarto grado» la scorsa estate, alla vigilia del verdetto della Cassazione nel quale Logli tanto sperava, sia Alessia sia Daniele lo avevano difeso. «Scatti d’ira del babbo? Nella norma. Non esiste la famiglia del Mulino Bianco - aveva detto la ragazza - . Ci sono delle discussioni, delle incomprensioni, però nulla fuori dal normale. Difetti? E’ un po’ pignolo, spesso un po’ troppo. Io sono più permalosa di lui. Se è vendicativo? No. Io litigo con lui perché sono adolescente e non condivido il suo modo di vedere le cose, come le può vedere un genitore».

7 Il tatuaggio di Alessia

Poi, rispondendo alla domanda su dove pensava fosse la madre, la ragazza aveva preso posizione anche sull’iter giudiziario quasi concluso: «Io non ho un’idea su cosa possa essere successo. Spero fermamente che stia bene e che non si sia rifatta una vita senza di noi, perché egoisticamente una figlia spera non che la mamma se ne vada a farsi un’altra vita. La verità? Sicuramente non è stata uccisa dal mio babbo: questa è l’unica certezza che ho». In studio c’erano gli avvocati del padre. L’intervista era stata lungamente preparata e concordata. Quale poteva essere lo stato d’animo di Alessia, sotto le luci delle telecamere, con il pubblico pronto ad applaudire o a criticarla, e il pensiero di parlare in diretta a tanta gente davanti alla tv? Facile immaginarlo. Farsi tatuare il nome della mamma e, soprattutto, condividere l’immagine su Instagram è stata forse la sua prima risposta. Un voler dire a tutti: voglio tornare padrona della mia vita e per farlo ho bisogno di ripartire da lei, da chi la vita me l’ha data, e dal mio sentimento più bello. ([email protected]) 3 dicembre 2019

(3) La storia di Billy Milligan

Da https://ladisillusione.com/

BILLY MILLIGAN: LA STORIA DI COLUI 8 CHE VISSE 24 VOLTE

Avrete sicuramente visto o sentito parlare di “Split”, il film uscito nel 2016, sceneggiato e diretto da M. Night Shyamalan, la cui interpretazione del protagonista principale è stata affidata a James McAvoy. Alcuni di voi avranno anche letto “Una stanza piena di gente”, scritto da Daniel Keyes nel 1981; libro che valse all’autore una nomination al premio Edgar Allan Poe Awards. Meno scontato è invece sapere che ambedue le opere, in modo più o meno ispirato (“Una stanza piena di gente” è una vera e propria biografia), raccontano la storia di William Stanley Milligan, meglio conosciuto come Billy Milligan, il caso mediatico che negli anni Settanta portò alla luce il disturbo dissociativo dell’identità. Billy Milligan, infatti, fu il primo americano ad esser stato dichiarato non colpevole di gravi crimini per riconosciuta infermità mentale. La sua condizione venne alla luce nel 1977 quando, all’età di ventidue anni, viene arrestato con l’accusa di aver rapito, rapinato e stuprato tre studentesse dell’Ohio State University. Se inizialmente sembrava si trattasse di un comune caso di violenza sessuale, nel corso degli interrogatori nascono i primi dubbi. Ad ogni colloquio con il Pm, Billy sembra una persona completamente differente. A volte appare come un bambino indifeso e fragile, altre come un uomo risoluto e saldo, altre ancora apatico e passivo, a volte risulta aggressivo. Viene diagnosticata una forma acuta di schizofrenia, ma un’analisi più approfondita attraverso indagini psichiatriche, risonanze magnetiche ed elettroencefalogrammi mostrò i segni inequivocabili di uno dei casi di disturbi dissociativo d’identità più complesso di sempre: vengono identificate 24 personalità diverse per sesso, età, carattere, nazionalità, quoziente intellettivo.

Ma cosa è il Disturbo dissociativo d’identità? Il disturbo dissociativo d’identità (DDI o DID – Dissociative Identity Disorder) un tempo noto come “disturbo di personalità multipla” è caratterizzato da uno sconvolgimento e/o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozione, percezione, rappresentazione del corpo e comportamento. La conseguenza è la disgregazione dell’identità in due o più stati di personalità distinti. Le identità prendono il controllo in maniera ricorsiva e il passaggio da una all’altra avviene spesso in seguito ad un evento stressante. Un sintomo importante associato al DDI è l’amnesia dissociativa, ovvero l’incapacità di ricordare informazioni importanti della propria storia di vita, ma anche lacune considerevoli nel richiamo di azioni e compiti quotidiani. Un importante fattore di rischio per lo sviluppo del DDI è la presenza di traumi infantili, soprattutto se gravi e prolungati. In particolare i sopravvissuti a traumi infantili che presentano sintomi dissociato hanno riferito: abuso sessuale (57,1 % – 90,2 %) abuso fisico (62,9 % – 82,4 %) abuso emotivo (57,1 %)

A tal proposito alcuni studiosi sono arrivati a definire il DDI come un fattore di “resilienza evolutiva”: come se l’individuo, vittima delle forme più estreme di violenza cronica e incessante, costretto ad adattarsi a un contesto insopportabile, trovasse in questa separazione la salvezza, l’unico modo per resistere.

La storia di Billy L’infanzia di Billy non è stata per nulla facile: a solo un mese di vita rischia di morire per un tumore all’esofago, da cui riesce a sopravvivere. Era il figlio del secondo matrimonio di sua 9 madre, Dorothy, donna assente presa dal suo lavoro; suo padre, Johnny Morrison, soffriva di depressione ed alcolismo e si suicidò quando lui aveva solo quattro anni. Proprio a questa età, come meccanismo psicologico di difesa, Billy comincia a sviluppare le sue prime persoalità dissociate. Uno dei successivi mariti della madre ( ne ebbe quattro in tutto), Chalmer Milligan, si dimostrò un pessimo marito e padre: fu accusato di abuso e tortura del piccolo Billy. Da adolescente viene ricoverato in diversi ospedali psichiatrici, ma ancora non viene riconosciuto il disturbo dissociativo di cui è affetto. A 16 anni tenta il suicidio, ma una delle sue personalità prende il controllo e gli impedisce di uccidersi. A 22 anni compie il reato per cui è conosciuto.

Le 24 personalità di Billy “Ci troviamo in una stanza buia. In mezzo a questa stanza, sul pavimento, c’è una chiazza di luce. Chiunque faccia un passo dentro la luce esce sul posto, ed è fuori nel mondo reale, e possiede la coscienza. Questa è la persona che gli altri – quelli fuori – vedono e sentono e a cui reagiscono. Gli altri possono continuare a fare le solite cose, studiare, dormire, parlare o giocare. Ma chi è fuori, chiunque sia, deve fare molto attenzione a non rivelare l’esistenza degli altri. È un segreto di famiglia”. Così Billy spiegava come le personalità prendevano il controllo della coscienza. Tra di esse si stabilisce un codice comportamentale da seguire rigorosamente:

Non dire bugie Proteggere le donne e i bambini Osservare la castità Mantenersi intellettualmente attivi Non violare la proprietà delle altre personalità Le personalità si dividono in principali e indesiderabili.

Le prime dieci sono quelle principali, che emergono sin dai primi interrogatori:

William Stanley Milligan: 26 anni, è l’identità centrale, quella originale. Arthur: 22 anni, londinese, studia biologia e medicina, legge e scrive molto bene la lingua araba. Ragen Vadascovinich: 23 anni, iugoslavo, conosce la lingua serbo-croata. È definito “il guardiano della rabbia”, è esperto di karate, è una personalità violenta e l’unica autorizzata ad usare le armi, ma è anche quella che deve proteggere le altre identità e occuparsi del loro sostentamento. Allen: 18 anni, suona la batteria e dipinge ritratti. È una delle personalità che più interagisce con l’esterno, quella che costruisce le relazioni sociali. È anche l’unica identità a fumare sigarette. Tommy: 16 anni, esperto di elettronica. È colui che prende il controllo quando si tratta di liberare Billy da corde, manette e camicie di forza grazie alla sua capacità di controllare bene ossa e muscoli delle mani.

Danny: 14 anni, ha due fobie incontrollabili; quella per gli uomini (poiché era quello che emergeva durante gli abusi sessuali di Chalmer, il padrino di Billy, subendoli al suo posto) e la terra (da quando Chalmer costrinse Billy a scavarsi una fossa per seppellirlo vivo). Gli piace dipingere nature morte. David: 8 anni, definito “il guardiano del dolore”. È colui che rompe il patto con le altre personalità e rivela la loro esistenza alla psichiatra. Christene: 3 anni, è la prima personalità ad emergere, quando Billy aveva quattro anni. Christopher: 13 anni, fratello di Christene 10 Adalana: 19 anni, timida, scrive poesie. È l’unica personalità ad avere la capacità di sostituirsi a quella emergente, è quella che commette materialmente gli stupri. Diverrà successivamente una personalità indesiderabile. Le altre personalità sono, appunto, le indesiderabili, quelle bandite perché giudicate pericolose per la libertà e la sopravvivenza delle altre. Hanno il divieto categorico di “uscire dal posto”, ma nei momenti di confusione ne approfittano ed escono all’esterno.

L’ultima personalità, la ventiquattresima, prende il nome de “Il Maestro” ed è la fusione delle sue 23 diverse personalità, attuata in maniera conscia da Billy con l’aiuto del dottor George Harding.

Purtroppo durante il processo, il puzzle ricomposto da Billy si frantuma di nuovo portando il ragazzo in uno stato di depressione, con un tentativo di suicidio e fuga. Non resta che il manicomio criminale.

Nel 1988 torna in libertà poiché ritenuto non più socialmente pericoloso. Muore di cancro nel 2014, all’età di 54 anni.

Da http://www.psychondesk.it/

Il curioso caso di Billy Milligan Di Marco Angelillo 24 personalità. 24 persone diverse, completamente differenti l’una dall’altra, un solo ed unico corpo per contenerle tutte quante. Potrebbe sembrare l’incipit di un intrigante romanzo fantasy, in realtà è una brevissima e cruda descrizione di William Stanley

Milligan, il primo individuo nella storia degli Stati Uniti a essere stato dichiarato non colpevole di gravi crimini per ragioni di infermità mentale. La sua “malattia”? Un disturbo dissociativo d’identità o, “volgarmente”, un disturbo di personalità multipla. Ma partiamo dal principio, con calma. Il piccolo Billy nasce a Miami Beach nel 1955, ed è un bambino come tanti altri; sua madre, però, ha da poco lasciato il suo primo marito e convive con Johnny Morrison, un comico con problemi d’alcol e di gioco d’azzardo. Nel 1959, all’età di soli quattro anni, è costretto a trasferirsi altrove in seguito al suicidio del padre. È in questo momento che Billy inizia a mostrare i primi segni di dissociazione; è in 11 questo momento, secondo le più note teorie psicodinamiche, che il suo Sé decide di frammentarsi per la sua salvezza. D’ora in poi, ogni rappresentazione traumatica, sarà relegata ad un compartimento mentale differente. Il conflitto non è ammesso, il suo Sé deve difendersi, deve distanziarsi da un trauma incontenibile. Il suo Sé comincia a disgregarsi per sopravvivere e proteggere il suo mondo interno, seppur in forma scissa. Un bel paradosso. Per quanto già sconcertante, è solo la prima crepa in un muro fatto di silenzi e solitudine. L’intero quadro andrà in frantumi qualche anno più tardi, nel 1963, quando la madre si sposa con Chalmer Milligan, un uomo alquanto disturbato che presto comincia ad abusare sessualmente di Billy. Arthur, 22 anni, l’Inglese, il razionale; Ragen, 23 anni, lo jugoslavo, il guardiano dell’odio; Allen, 18, l’artista del raggiro; Tommy, 16, il mago della fuga; Danny, 14, il ragazzo spaventato; David, 8, il guardiano del dolore; Christene, 3, una bambina dislessica; Christopher, 13, il fratello di Christene; Adalana, 19, la lesbica che si occupa della casa per tutti…e tanti, tanti altri…Queste singole personalità di Billy non si limitano a cedersi il posto al centro del palcoscenico, del posto “cosciente”, ma crescono con lui, anno dopo anno, maturano progressivamente e, come se non bastasse, cominciano in maniera straordinaria a interagire tra di loro. Non è semplice convivere con se stessi, figurarsi con una marea di gente in testa…Billy trascorre un’adolescenza in uno stato di perenne confusione, forse è comprensibilmente depresso. A quindici anni viene ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico, il Columbus State Children’s Hospital, dove il dottor Harold T. Brown gli diagnosticò una “nevrosi isterica con aspetti passivo-aggressivi”. Gli scorci di “lucidità” diventano sempre più rari, e causano per di più sensazioni di forte disorientamento. D’altronde, l’alternarsi di gente sempre nuova, lo porta a fare i conti con un’amnesia dissociativa, che lo mette nelle condizioni di vivere una marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni. L’unica “salvezza” diviene il suicidio…o un tentativo, quantomeno. La prima volta accade a sedici anni, quando sale sul tetto della scuola per gettarsi di sotto. In quell’occasione una delle personalità prima citate, Ragen, prende il controllo totale della sua coscienza, di quel Billy “non integrato” e stanco, impedendogli di uccidersi. In seguito a quello spiacevole episodio Billy viene tenuto per ben sette anni in un completo stato di incoscienza dalle sue personalità “dominanti”, evitando che possa mettere in atto altri atti inconsueti. Per questo lungo periodo i vari soggetti continuano ad alternarsi nel suo stato di coscienza, conducendo al suo posto la vita sociale che gli spetta, manifestandosi singolarmente a seconda delle situazioni da affrontare. In tutto questo trambusto interno, riesce persino a sviluppare un piccolo sistema di leggi interne per provare a gestire in maniera coerente tutto quell’andirivieni di gente che si affollava in lui. Ogni alter è obbligato ad attenersi, pena il divieto di prendere possesso della sua parte cosciente. I “comandamenti” più rigidi e inflessibili prevedono che tutti osservino una totale castità, siano rispettosi di ognuna delle altre personalità, proteggano in primis donne e bambini, si concentrino nel costante sviluppo della propria area di competenza e, cosa quanto mai surreale, non dicano mai bugie.

Sembrerebbe bastare per tenere a bada una vita così travagliata, ma un nuovo e sconvolgente episodio di cronaca (“grazie” al quale ci è permesso di conoscere la sua storia) sconvolge definitivamente il già precario “equilibrio” instauratosi con tanta fatica nella sua mente. Nel 1977, all’età di ventidue anni viene arrestato con l’accusa di aver rapito, rapinato e stuprato in pieno giorno tre studentesse della Ohio State University. Durante il lungo processo, gli avvocati della difesa riescono a dimostrare che non può essere ritenuto responsabile dei crimini di cui è imputato, poiché ostaggio di una delle personalità 12 (Adalana, per la precisione). Durante gli anni passati tra istituti psichiatrici e tribunali, al dottor George Harding il merito di averlo aiutato a fondere in maniera conscia le sue 23 diverse personalità per scoprirne una nuova e definitiva che prende il nome di Maestro. Quella pace, però, non troverà mai completezza. “William Stanely Milligan è un uomo travagliato che vive un’esistenza travagliata. O è un impostore che ha ingannato la società evitando una condanna per crimini violenti, o è vittima – una vittima autentica – di un disturbo di personalità multipla. In ogni caso, è una brutta storia… Solo il tempo potrà dirci se Milligan si è fatto beffe del mondo intero o se è una delle sue vittime più disperate…” Durante il processo il mosaico di Billy si frantuma di nuovo portando il ragazzo a sprofondare nuovamente in uno stato di depressione, con tanto di tentativo di suicidio e fuga. L’ultima soluzione resta il manicomio criminale. Torna in libertà solo nel 1988, ritenuto non più socialmente pericoloso. Negli anni ’90 si trasferisce in California dove fonda una propria casa di produzione, la Stormy Life Productions. Muore di cancro nel 2014, all’età di 59 anni.

Bibliografia: Keyes D. (2009), Una stanza piena di gente, Casa editrice Nord. Gabbard Glen O. (2015), Psichiatria Psicodinamica, Raffaello Cortina Editore, Milano. Marco Angelillo

(4) La banda della “uno bianca”: chi sono?

Da www.repubblica.it

Stragi della Uno Bianca, a Natale 13 permesso premio per Alberto Savi

Una recente commemorazione della strage al Pilastro, 4 gennaio 1991, in cui morirono tre giovani carabinieri (foto Michele Lapini/Eikon studio)

E' uscito dal carcere di Padova per trascorrere qualche giorno coi famigliari. La presidente dei famigliari delle vittime: "La nostra una battaglia contro i mulini a vento". Oggi a Bologna si ricorda la morte di tre carabinieri

04 gennaio 2020 BOLOGNA - Alberto Savi, il più giovane dei tre fratelli della banda della Uno Bianca (gli altri sono Roberto e Fabio), che tra il 1987 e l'autunno del 1994 fece 24 morti e oltre 100 feriti, durante le vacanze natalizie ha usufruito di un permesso premio, potendo trascorrere qualche giorno a casa con i familiari. L'ex poliziotto killer, che sta scontando l'ergastolo, è già rientrato nel carcere di Padova, come ha confermato la sua legale, avvocata Anna Maria Marin. Una notizia che arriva nel giorno in cui, oggi, 4 gennaio, a Bologna si ricorda la strage del Pilastro del 1991 e il sacrificio dei carabinieri Mauro Mitilini, Otello Stefanini e Andrea Moneta. "La nostra è una battaglia contro i mulini a vento, più diciamo che non riusciremo mai a perdonare i killer della Uno Bianca e più li fanno uscire", commenta "amareggiata, ma non meravigliata Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione dei famigliari delle vittime della Uno BIanca. "Sono convinta che non sono pentiti, alcuni feriti ancora mi chiamano per dirmi che hanno paura di poterli incontrare in strada. La nostra non è una battaglia personale, ma in difesa della società civile". "Capisco che chi ha rubato un pezzo di pane

possa usufruire di permessi per uscire o di altri benefici in carcere - ha aggiunto Zecchi -, ma per gli assassini non dovrebbe essere così, questo non è possibile. Già è uscito Marino Occhipinti, che è definitivamente libero, ora prima o poi lo faranno tutti. Ma la giustizia dov'è?"

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Permesso negato al fratello Fabio Non è la prima che Alberto Savi usufruisce di un beneficio, era già successo nell'aprile del 2018, quando aveva ottenuto tre giorni e mezzo di permesso per le feste, con la possibilità di uscire a pranzo il giorno di Pasqua, e ancor prima nel 2017, quando gli erano state concesse 12 ore da trascorrere in una comunità protetta. "Sta continuando in maniera regolare i permessi premio - ha spiegato l'avvocata Marin - e il suo comportamento viene valutato costantemente. In carcere prosegue a lavorare con una cooperativa". Ogni volta, però, si sono levate le polemiche dei familiari delle vittime, contrari a qualsiasi tipo di beneficio per i membri della banda, che proprio domani si vedranno a Bologna per la cerimonia commemorativa del 29/o anniversario dell'eccidio del Pilastro, quartiere dove vennero uccisi tre carabinieri. Circa un mese fa, invece, il magistrato di sorveglianza ha rigettato la richiesta di Fabio Savi, detenuto nel carcere milanese di Bollate, di poter lavorare all'interno dell'istituto penitenziario. "Sta già facendo dei corsi in carcere - ha spiegato l'avvocata che lo assiste, Fortunata Coppelli -, ma nonostante le relazioni sul suo conto siano positive la richiesta di lavoro è stata respinta".

Da www.misteriditalia.it

La banda della “uno bianca”: chi sono?

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Cinque poliziotti, un aspirante tale ed una donna.

Tutti qui gli esponenti di una banda che per sette anni e mezzo ha insanguinato due regioni italiane? Stando alle sentenze della magistratura, cioè al massimo dell’ufficialità, la banda della “Uno bianca” è stata addirittura meno di questo, molto meno. Stante le sentenze, infatti, Eva Mikula, la donna di Fabio Savi, con la banda non c’entra per nulla. E oltretutto ha ampiamente collaborato con gli inquirenti. Scarse e relative le responsabilità anche di altri tre componenti: i poliziotti Luca Valliccelli, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti. Anche Alberto Savi, il più giovane dei tre fratelli della morte, avrebbe partecipato solo a poche azioni, anche se alcune mortali. Quindi – per sottrazione – i veri artefici della gang criminale sarebbero solo gli altri due fratelli Savi: Roberto e Fabio, l’uno poliziotto, l’altro no, ma che avrebbe tanto voluto diventarlo. Tutto qui? Ecco, in sintesi, le biografie di sette personaggi – è proprio il caso di dirlo, parafrasando Pirandello – ancora oggi in cerca di autore.

Roberto Savi, "il monaco" In Questura lo chiamavano "il monaco", ma a bassa voce, per non farsi sentire da lui. Far irritare Roberto Savi non era cosa piacevole per nessuno. Nessuna sfuriata, per carità. Lui la calma non la perdeva mai. Ma quando ti fissava con quegli occhi freddi, vuoti, simili a quelli di uno squalo, la sensazione non era certo delle più gradevoli. Ma a parte il suo carattere taciturno e un po' spigoloso, che lo faceva apparire, più che un poliziotto, un travet dell'ordine pubblico, metodico e puntuale, Roberto Savi, quarant'anni, per tutti era davvero un agente modello. Serio, pacato, scrupoloso, anonimo. Forse un tipo un po' troppo intransigente sul lavoro, a volte perfino zelante, ma comunque sempre un capetto. I poliziotti che lo hanno avuto come capo pattuglia, a bordo della "volante 4", incaricata del controllo del territorio nel quartiere Barca, assieme al Pilastro una delle zone più malfamate della città, lo ricordano così, "il monaco". Una piccola carriera, tutta fatta in silenzio quella di Roberto Savi. Diciott'anni di servizio, in Polizia nel 1976, a Bologna dall'anno successivo. Comincia come semplice agente, quando lo arrestano è assistente capo in servizio nella sala operativa, quella che riceve le segnalazioni di allarme, che smista le auto della Polizia, un punto caldo, un osservatorio privilegiato da cui è possibile

controllare tutta la città. E’ senz’altro considerato un poliziotto molto efficiente Roberto Savi che ai suoi uomini raccomanda sempre freddezza e nervi a posto. Tra il novembre del '91 e il giugno del '92, in quanto capo pattuglia, lo chiamano a tenere un corso per allievi delle Questure italiane. Le lezioni teoriche si svolgono al Jolly hotel di Bologna: 500 allievi che in otto mesi devono imparare a diventare bravi poliziotti, capaci di eseguire un fermo, una perquisizione, sostenere una sparatoria, svolgere il pattugliamento sulle volanti, ma sempre nel pieno rispetto della legge. Roberto, che da quattro anni, oltre che un poliziotto è diventato anche uno spietato killer (ha già sulla coscienza ventun morti 16 ammazzati) e un freddo rapinatore, sale così in cattedra. Lui la legge la conosce. Da una parte, ma anche dall'altra della barricata. Nel suo curriculum solo due note negative: un colpo in pancia ad un "topo d'auto" e quel tossicodipendente a cui aveva deciso di tagliare i capelli, così, per sfregio. Per questo secondo episodio arrivò prima la sospensione dal servizio e poi il trasferimento alla centrale operativa. Un posto più comodo, orari più tranquilli, sei ore senza troppi imprevisti al terzo piano del palazzone di piazza Galileo. E tanto tempo in più per studiare e pianificare le rapine in banca, quelle sì lucrose davvero, non come quando andava con i suoi due fratelli Fabio ed Alberto ad assaltare caselli autostradali e pompe di benzina per tirar su, se andava bene, un paio di milioni. E la sua vita privata, la vita privata di Roberto Savi? Grigia e monotona come è stata la sua giovinezza durante la quale, dopo il diploma di perito elettrotecnico e prima di entrare in Polizia, ha lavorato come portiere di notte in due alberghi di Riccione. Una moglie, Anna Ceccarelli, sposata undici anni prima, che per far quadrare il bilancio di casa, per integrare i due milioni al mese del marito, va a fare le pulizie. Un figlio di nove anni, Simone. E un appartamento di trentotto metri quadri a Borgo Panigale, in via Signorini, palazzoni tirati su lungo l'argine del fiume Reno, l’aeroporto a due passi e gli aerei che ti fischiano sulla testa giorno e notte. Trentotto metri quadri: due camerette, un bagnetto, l’angolo cotura. Il tutto per 22 milioni con un mutuo interminabile. Unico lusso una Lancia Thema sedici valvole. Vacanze in tenda in Toscana, a Talamone, dove ha comprato anche una barchetta per pescare. Per anni sempre lo stesso camping, dove nessuno ricorda di averlo mai visto scambiare quattro chiacchiere. Cupo, introverso. Ma le ore e ore davanti ai videogame, quelle sì, le ricordano in molti. E la politica? Nessuna partecipazione ad attività di partito se si esclude un'assidua frequentazione, negli anni Settanta, degli ambienti di destra e del Fronte della gioventù, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale. Prima di arrestarlo, la Polizia fruga nel garage di casa sua e trova un arsenale sterminato: pistole, fucili, polvere da sparo, esplosivo, munizioni di ogni tipo, parrucche e barbe finte e anche 230 milioni in contanti. Una miseria, se si considera che quello è il denaro che resta dopo sette anni e mezzo di rapine. Da qualche tempo però Roberto Savi era cambiato. Aveva lasciato la moglie, si era messo a vivere con una bella ragazza nigeriana, Stella Okonkwo, ventun anni, ex sartina di Lagos, in Italia senza permesso di soggiorno a cercare fortuna. Per lei aveva affittato anche un appartamentino a Pontecchio Marconi. Ma per far sì che la ragazza non se ne andasse, le aveva sequestrato il passaporto. Chi è Stella Okonkwo? Così di lei parla, durante un interrogatorio, suo fratello Fabio: «Roberto si è messo con la nigeriana dieci giorni prima del suo arresto. L'ha comprata, l'ha pagata dieci milioni ai protettori. Me l'ha detto lui. Tra l'altro l'ha detto a tutti, quindi non era un segreto». Quando lo arrestano, la sera del 21 novembre 1994, Roberto Savi non si mostra affatto sorpreso. E’ al lavoro. Un paio di suoi colleghi lo invitano ad uscire dalla sala operativa, poi lo perquisiscono, gli sequestrano le due pistole che ha indosso e gli fanno scattare le manette ai polsi. Lui non si scompone più di tanto. Di certo, ormai, se lo aspetta. Prima una frase beffarda, minacciosa: «Potevo farvi saltare tutti in aria ... ». Poi il sollievo della cattura: «Meno male, un incubo è finito. Ero dentro un ingranaggio più grande di me». Già, appunto, l'ingranaggio.

Fabio Savi, “il Rambo” Un lungo racconto. Così Fabio Savi fa verbalizzare, davanti ai magistrati di Bologna che lo interrogano, le sue ultime ore: «Il giorno in cui venne arrestato Roberto, ricordo che di mattina notai di essere seguito prima da una Fiat Panda rossa e successivamente da una Fiat Tipo bianca, nonché da altre autovetture. Dopo varie manovre, riuscii a seminare i miei controllori. In tarda mattinata tornai a casa tranquillamente con la macchina di Roberto, una Lancia Thema, ma non trovai nessuno e per nessuno intendo la Polizia. Insieme a me ad Eva c'era Roberto, che sarebbe poi stato arrestato quella sera. 17 Pensammo di far sparire tutto, anche le armi. Lui disse che non voleva far uscire dal proprio garage i soldi e che quindi era inutile fare sparire le armi perché, trovando il denaro, saremmo stati identificati come gli autori delle rapine, come se avessimo avuto ancora le armi. (…) Dopo i fatti descritti, tutti e tre tornammo a Bologna. Notammo che c'erano delle auto della Polizia nei pressi dell'abitazione di Roberto. A bordo di una di queste auto civetta, Roberto riconobbe un collega. Roberto ribadì il concetto che secondo lui la Polizia era lì per altre persone. Dopo poco egli si recò a lavorare. Io tornai a Torriana con Eva a bordo della mia vettura Peugeot rossa. Giunto nei pressi di casa, vidi che c'erano anche lì diverse auto civetta. Sono tornato allora verso Bologna per cercare Roberto. Lo chiamai anche sul suo cellulare, ma non rispondeva nessuno. Eva a tutti i costi voleva tornare a Torriana per prendere le sue cose. Non ho aderito ovviamente alla sua richiesta. Ci siamo diretti in autostrada, fermandoci nell’area di servizio di Cantagallo. Io ho dormito un paio d’ore. Poi in macchina abbiamo raggiunto Forlì. Da Forlì a Faenza siamo andati in taxi. Da Faenza a Milano in treno. Da Mestre a Pontebba sempre in treno, quindi da Pontebba a Tarvisio in autobus e successivamente da Tarvisio a Pontebba di nuovo in autobus. Dalla fermata dell’autobus abbiamo proseguito a piedi fino all’area di servizio, accedendovi da un cancellino girevole che permette di passare dalla statale all'autostrada, in zona area di servizio. Mi recai nell'area di servizio perché avevo l'intenzione di salire su di un camion e passare in tal modo il confine. Sono stato nell'area di servizio dalle 21.30 fino alle 00.30 (nella notte tra il 22 e il 23 novembre, NDA). In quelle ore ho avuto parecchie discussioni con Eva, la quale non voleva tornare definitivamente in Ungheria. Dopo le discussioni ho pensato ai miei cari e a tutti i problemi che una mia latitanza avrebbe loro provocato. Ho pensato a mio figlio. Fatto sta che ho rinunciato all'idea di espatriare, non potendo sopportare un distacco definitivo dai miei affetti. Ero sicuro che prima o poi nell'area di servizio sarebbe arrivata la Polizia. Così è accaduto. Quando sono stato fermato, la pistola l'avevo riposta dalla cintola dei miei pantaloni nella borsa che avevo con me». Vero o falso che sia questo racconto e il vorticoso giro di spostamenti da lui descritto, Fabio Savi viene catturato, assieme alla sua compagna Eva Edit Mikula, giovedì 24 novembre 1994, alle 2.35 di mattina nell'autogrill della stazione di servizio di Fella, sulla A 23, esattamente a ventisette chilometri di distanza dal confine con l'Austria. Ha perso ogni speranza di raggiungere l'Ungheria, l'unico posto dove conosce qualcuno in grado di aiutarlo. Eva non vuole seguirlo. Per nulla al mondo, dopo essere arrivata in Italia, tornerebbe a casa. Fabio non spiccica una parola di ungherese. Senza Eva sarebbe perduto. Si arrende. Ma chi è davvero Fabio Savi? E’ proprio lui il killer più spietato, il vero Rambo della banda della Uno bianca? Trentaquattro anni, fisico massiccio ma atletico, lineamenti marcati, un fare spavaldo, la sua donna, Eva, lo ha dipinto ai magistrati come un uomo dal temperamento nevrotico, capace di grandi tenerezze e improvvisi slanci, ma anche di ire funeste. A guardarlo non sembra neppure il fratello di Roberto e difatti i due hanno un legame di sangue solo da parte di padre. La vera madre di Roberto muore quando il bambino ha appena due anni. Suo padre, Giuliano, si risposa e dalla nuova unione nascono Fabio ed Alberto. Per tenere unita la famiglia, Giuliano, non racconterà mai ai figli la verità. La scopriranno loro, una volta arrestati. Come Roberto però, anche Fabio ha un carattere chiuso. Da ragazzo non ama la compagnia dei suoi

coetanei, lascia la scuola al primo anno di Istituto magistrale. Niente discoteche, poche ragazze, quasi nessun amico. I suoi veri amici sono i suoi fratelli, specie Roberto. Studi, pochi. Poi subito a lavorare, prima come carrozziere in autofficina, poi cerca di mettersi in proprio ma non ce la fa. Lavora come cameriere, poi come imbianchino quindi prende a viaggiare sui camion. Ma anche quel lavoro dura poco. Nel 1980 fa domanda per entrare in Polizia: scartato per un difetto alla vista. A chi lo conosce dice di fare il rappresentante di prodotti per auto. La sua seconda passione sono le moto di grossa cilindrata. Con i primi soldi delle rapine ne compra una, una Suzuki 1.100 sedici valvole rosso fuoco. La 18 sua prima passione, quella vera, sono invece le armi. Racconterà la moglie, Maria Grazia Angelini, sposata nel 1985, che quelle armi il suo Fabio le accarezzava, le vezzeggiava, a volte ci parlava. Frequenta il poligono di tiro di Rimini ed è bravissimo, un tiratore scelto. Nel 1989 gli nasce un figlio e torna a vivere nella casa paterna di Villa Verucchio, non lontano da Rimini, ma tre anni dopo il matrimonio è già finito. In un viaggio in Ungheria, Roberto ha conosciuto una romena di origine ungherese, Eva Mikula. La donna lo raggiungerà in Italia nell'aprile del 1992 e insieme andranno a vivere in uno squallido residence di Torriana, sempre vicino a Rimini: tre stanze, quella da letto senza finestre. Il suo rapporto con Eva non è un rapporto facile. Lei ai magistrati lo descrive come un uomo fondamentalmente violento, brutale, essenzialmente sadico, dai gusti sessuali perversi, ossessionato dal passato della sua donna, oppressivo ed ossessivo. A lei, Eva Mikula, Fabio ha raccontato tante cose. Eccone un repertorio, ricavato dall'interrogatorio di Eva del 3 dicembre 1994: «Per quel che concerne l’appartenenza di Fabio Savi ai servizi segreti italiani, così come ho già riferito nel corso dell’interrogatorio del 26 novembre 1994, debbo dire che, durante il viaggio che abbiamo compiuto nel sud d’Italia, mentre ci trovavamo a nord di Napoli, Fabio mi ha confidato di essere stato recluso nel carcere militare di Gaeta. Come ho già detto, Fabio non mi ha mai indicato il periodo in cui è entrato e quello in cui è uscito dal carcere. Ricordo però che fin da quando giunsi a Torriana, il 2 aprile 1992, Fabio nascondeva nel garage dell'abitazione un vecchio paio di anfibi e una cintura militare. Fabio mi diceva che un tempo era in possesso anche di una tuta mimetica. Fabio mi ha detto che utilizzava questi oggetti quando faceva parte dei servizi segreti. Ogni volta che Fabio accennava all'argomento mi diceva che i fatti della banda della Uno bianca non erano nulla in confronto a ciò che aveva fatto nei servizi segreti. Ricordo che nell'aprile del 1992 giunse una telefonata che Fabio ricevette sul proprio cellulare. Ricordo il particolare in quanto non avevamo ancora allacciata la linea telefonica della Sip. I discorsi tra Fabio e il suo interlocutore non erano chiari, parlavano in codice e il suo interlocutore gli chiese se avesse voluto tornare a fare il camionista. Successivamente Fabio mi spiegò che quella frase stava a significare che lo invitavano a tornare a far parte dei servizi segreti. Mi raccontò inoltre che ha cessato ogni sua attività coi servizi segreti nel febbraio del 1992, ma che aveva ancora persone dietro in quanto era a conoscenza di codici riservati. Quando tra l'agosto e l'ottobre 1993 sono stata a Budapest, Fabio mi ha detto, una volta tornata in Italia, che aveva tentato di entrare a far parte di un altro servizio segreto, ma non ne fece più nulla. (…) Dopo la cattura di Roberto Savi e la nostra fuga verso il Tarvisio, in diverse occasioni, quando io cercavo di convincerlo a fermarsi, Fabio mi diceva che io non mi rendevo conto di cosa significa stare in carcere, diceva questo come se effettivamente vi ci fosse già stato. In un'occasione, al fine di farmi capire a cosa servissero i servizi segreti, mi disse che le stragi che sono successe in Italia sono state volute dallo Stato per rinforzare la fiducia della gente nella Polizia e nei Carabinieri». Soltanto vanterie di uno spaccone che vuole far colpo sulla sua ragazza? Stando a quanto dichiara, appena tre giorni dopo, lo stesso Fabio Savi ai magistrati sembrerebbe proprio di sì: «Quando conobbi Eva, non sapendo come dirle che svolgevo attività illegali, mi inventai una storia relativa ad una mia appartenenza alla Polizia e al fatto di aver ucciso quattro tossicodipendenti che stavano violentando una

ragazza. Fui incarcerato per tale motivo e dopo circa sei o sette mesi fui rilasciato ed inserito nei servizi segreti. Ciò al fine di giustificare le mie continue assenze a qualsiasi ora del giorno e della notte. Per altro Eva, dopo essere giunta in Italia, un po' alla volta, ha capito il mio vero lavoro, ma io non le ho mai detto che era una storia inventata». Ma se effettivamente Fabio avesse qualcosa da nascondere, perché ammetterlo davanti a magistrati? Non è meglio, per lui e quelli della banda della Uno bianca, cercare di passare per dei semplici rapinatori, certo un po' troppo sanguinari, ma pur sempre dei rapinatori, con poco bottino, ma senza reconditi fini? L'aspetto più nascosto della personalità di Fabio 19 sta comunque nei legami che lo stesso ha intrecciato nel corso dei suoi numerosi viaggi nei Paesi dell'Est europeo, Ungheria e Romania soprattutto. Qui certamente Fabio è entrato in contatto con un personaggio assai misterioso, Tamas Somogyi, un pluripregiudicato, ritenuto dall'Interpol un trafficante di armi. Quello che è certo è che Somogyi, che è stato anche in Italia, forniva documenti falsi a Eva e armi a Fabio. Ecco come di Tamas Somogyi ha parlato Fabio Savi in due interrogatori: «Poiché mi si chiede se io sappia nulla del traffico di mercurio rosso, devo dire che effettivamente vi è stata una persona che mi ha offerto del mercurio rosso». Si dà atto che il pm (è il sostituto procuratore di Bologna Spinosa, NDA) scrive su un foglio il nome di Somogyi Tamas ed il Savi dichiara: «Effettivamente è costui la persona che mi ha offerto il mercurio rosso che peraltro ho rifiutato. Questo nome vi è stato Eva che era molto amica del summenzionato Somogy. Infatti Eva abitava con la famiglia di Somogyi, il quale aveva una ditta di import- export. Il traffico si svolgeva attraverso un aereo privato che faceva gli scali settimanali a Milano Malpensa o almeno così credo. Inoltre ho ospitato il Somogyi e la di lui famiglia giunti in Italia per un periodo di vacanza, tuttavia la nostra amicizia è venuta meno in quanto mi ero reso conto che il Somogyi, a mia insaputa, aveva indotto Eva a ritornare in Ungheria. In effetti Eva mi lasciò e tornò in Ungheria presso Somogyi; tuttavia qualche settimana dopo mi telefonò, chiedendomi di riandarla a prendere». (Interrogatorio del 25 novembre 1994). «Sono preoccupato per la mia integrità in quanto sono a conoscenza di un traffico internazionale di mercurio rosso. Con riguardo a quest'ultimo posso affermare che lo stesso proviene dalla Russia. Conosco chi lo compra e chi lo porta. Tuttavia la mia conoscenza è limitata alle fattezze fisiche. Non essendo in grado di indicare i nomi, sono in grado di indicare i luoghi. Sono stato contattato circa un anno fa e mi hanno proposto di entrare nel traffico di mercurio rosso. Il mercurio rosso proviene dalla Russia, attraverso l'Ungheria, mediante un aereo privato che atterra ogni sabato all'aeroporto di Budapest da cui riparte poi per Milano o il giorno stesso o la notte seguente. Questo aereo è dotato anche di un laboratorio chimico. Il mercurio rosso, come d'altra parte le armi, gli esplosivi, i carri armati ed altro, provengono dalla Russia e precisamente da arsenali militari. Sono destinati in parte al Medio oriente, in parte all'Italia. Esiste un'organizzazione internazionale volta al traffico di mercurio rosso. Tuttavia, come ho detto sopra, non sono in grado di fare dei nomi. Conosco solo i volti delle persone le quali, in parte, sono di nazionalità russa. Mi viene data lettura delle dichiarazioni rese da mio fratello Roberto in data 28-29 novembre 1994 con riguardo al traffico di mercurio rosso. Mio fratello non conosce nessuno. Sa solamente quello che io gli ho raccontato. Tamas e Csaba sono due pedine nell'ambito di tale organizzazione. Con riguardo ai viaggi settimanali dell'aereo privato di cui ho parlato sopra, preciso che ogni viaggio forniva un fatturato di circa 150- 200 milioni di lire. Il suddetto aereo privato era nella disponibilità di una persona pulita, molto in allo, di Milano». (Interrogatorio del 29 novembre 1994)

Eva Mikula e il suo doppio Il vero elemento misterioso in tutta questa terribile storia è proprio lei: Eva Edit Mikula. Subito dopo la sua cattura, assieme a Fabio Savi, Eva ha cominciato a collaborare con i magistrati. E per mesi e mesi non ha fatto altro che riempire pagine e pagine di verbali.

Questo le ha assicurato, oltre a una scorta di uomini armati che ha vegliato su di lei per diverso tempo, una completa impunità che, salvo sorprese, non la porterà mai dietro le sbarre. Eppure la bionda Eva dell'attività della banda ha sempre saputo tutto: luoghi, date, morti ammazzati. Fabio mente quando dice di aver dovuto inventare strane storie sui suoi legami con i servizi segreti per non far insospettire Eva. Lei ha sempre saputo tutto, anche perché era Fabio, nel suo folle esibizionismo, a raccontarle per filo e per segno le sue pazze e sanguinarie imprese. Spesso la conduceva sui luoghi dei massacri e le mimava il modo in cui lui aveva sparato. Eva ha sempre saputo tutto. Perfino il tipo di armi usate 20 dalla banda. E poi di armi nel residence di Torriana ce n'erano ovunque. Durante l'udienza del processo per la strage del Pilastro che l'ha vista per una mattinata intera sorridente e ammiccante protagonista, Eva Mikula, in un italiano perfetto e senza incertezze, ha sfoderato una conoscenza delle armi degna di un perito balistico. Ma non è tutto: Eva Mikula parla alla perfezione, oltre al romeno, all'ungherese e all'italiano, altre tre lingue. Per l'anagrafe, al momento dell'arresto, aveva soltanto diciannove anni (la data di nascita che dichiara è il 18 agosto 1975). Fabio la conosce a Budapest, all'inizio del '92. In uno dei suoi più recenti interrogatori afferma che lei lavorava in un bordello e di lei fornisce un quadro impietoso: puttana, ladra (gli avrebbe sottratto 100 milioni), viziata, capricciosa, egoista, interessata solo al denaro. Di certo il passato di questa donna è ancora avvolto nell'ombra. Si sa soltanto che, nativa di Baia Mare, una poverissima località della Romania che di balneare ha soltanto il nome, appena quindici anni lascia la sua famiglia di origine ungherese, ma trapiantata in Transilvania: il padre contadino e la madre una povera donna in balia della violenza del marito, un fratello di otto anni più grande. Non avendo passaporto, a piedi, attraverso i campi, fugge in Ungheria. Senza voler prendere per oro colato ciò che della sua vita passata racconta il suo compagno, resta da capire come abbia vissuto a Budapest una ragazzina senza documenti. Concorda con la tesi di Fabio («Eva in Ungheria faceva la prostituta») un giornalista ungherese, Laszlo Posztobanyi, che ha da poco scritto un libro sulla prostituzione nel suo Paese (Lànyok a szalònbol, "Ragazze nel salone"): sostiene di aver incontrato Eva in una casa di piacere di Kiskuhnalas, a sud di Budapest, nel novembre del 1992, quando, dopo l'ennesimo litigio con Fabio, la donna era scappata da Torriana. Lei lo smentisce e ripete di aver lavorato come sguattera in un ristorante, fino a quando, per strada, assieme ad un'amica, nel gennaio del '92, ha incontrato Fabio e un suo amico di San Marino, in vacanza nella capitale magiara. In aprile è in Italia. Fabio le ha chiesto di andar a vivere con lui e lei ha accettato. Quando l'arrestano di documenti però ne ha due. Entrambi falsi. Per il primo è una cittadina romena, di diciannove anni. Per il secondo una magiara di ventiquattro. Per tutti e due la sua residenza è in Bulgaria. Un'informativa del Sismi, il servizio segreto militare, per la precisione la nota n.14544 del 3 dicembre 1994, redatta in romeno, sostiene che la donna non si chiama Eva Edit Mikula, ma Edit Mikula, ha ventiquattro anni, è stata l'amante di un ufficiale dei servizi segreti dell'Urss, oggi dell'Ucraina, il colonnello Valeri Popov, e sarebbe collegata a un giro di trafficanti di armi. Il 7 dicembre 1994, incalzata dalle domande del sostituto procuratore di Bologna Walter Giovannini, che lavora attorno all'ipotesi che esista un livello superiore nella banda della Uno bianca, per la prima volta Eva vacilla, balbetta, sembra in difficoltà: «Ora che ci penso meglio ricordo che, quando conobbi Fabio egli, fra le altre cose, mi disse che prima di me aveva conosciuto un'altra ragazza ungherese. Con lei si frequentò per quasi due anni. Questa ragazza lavorava come danzatrice presso un locale notturno di Rimini, il Crazy Love. Fabio disse anche che la ragazza non l'aveva mai fatta conoscere ai suoi genitori, né ai suoi fratelli. Mi disse anche che una volta, mentre era in compagnia di questa ragazza, incontrò suo fratello Alberto e gliela presentò con il nome ed il cognome. Cioè la presentò come Mikula Edit. In pratica quella ragazza, a detta di Fabio, si chiamava come me, ma senza il mio secondo nome Eva. Fabio mi descrisse anche la ragazza come un po' più alta di me e con

capelli lunghi, lisci e biondi. Più o meno la conoscenza fra questa ragazza e Fabio dovrebbe risalire fra il 1990 ed il 1991. A tale proposito posso aggiungere che, quando io giunsi in Italia e conobbi i familiari di Fabio, tempo dopo Fabio mi disse che suo fratello Alberto diceva in famiglia che io ero già stata in Italia tempo prima, che conoscevo già la lingua italiana e che in pratica io ero quella ragazza che Fabio gli presentò casualmente una sera a Rimini. Naturalmente quando Fabio mi raccontò questo pettegolezzo rimasi molto male, perché non era vero. Prendo atto che mi viene chiesto per quale motivo, nel corso dei numerosi e precedenti interrogatori, non ho mai riferito quanto sopra detto. Non 21 l'ho fatto perché nessuno mi aveva mai chiesto se esisteva un'altra donna a nome Mikula. Posso solo concludere dicendo che Fabio mi disse che la Mikula Edit era più grande di me come età di circa quattro anni. Presumo che Alberto mise in giro quel pettegolezzo perché non era contento dell'avvenuta separazione di Fabio dalla moglie. Ricordo anche che Fabio mi disse di essere rimasto molto male quando la mia quasi omonima scomparve improvvisamente senza alcuna spiegazione. Il cognome Mikula non è frequente in Ungheria, né tantomeno in Romania». Fabio Savi, Interrogato sull’esistenza di questa doppia Eva, ha confermato tutto: «Era più alta, con qualche anno in più e più bella». Le ricerche fatte presso il Crazy Love di Rimini, un locale molto frequentato da poliziotti e carabinieri, non hanno dato alcun esito. Nicola Monaco, titolare del locale, nega che una donna con quel nome e di quella nazionalità abbia mai lavorato al Crazy Love. Un rapporto dell'Interpol smentisce quello del Sismi. Eva Mikula dice la verità. Ha l'età che dichiara ed è fuggita con la sua famiglia in Ungheria durante la dittatura di Ceausescu, quindi prima del 1990, anno della caduta del Conducator. Ma su questo a sbagliare è l'Interpol, perché Ludovie Mikula e sua moglie Jiuliannas Kiss non hanno mai abbandonato la Romania. Insomma il mistero di Eva Mikula e del suo doppio continua. L'unico dato certo è che è stata Eva Mikula a mettere in contatto Fabio Savi e Tamas Somogyi. Ecco come del misterioso ungherese parla Eva Mikula nel corso dei suoi interrogatori: «L'amico ungherese di Fabio, Tamas Somogyi, come già riferito ai magistrati, è un trafficante di armi provenienti anche dall'ex Unione Sovietica. Infatti tutte le armi, escluse le due Beretta e quelle regolarmente denunciate da Fabio e Roberto, erano state procurate dal predetto Somogyi, munizionamento compreso. Il primo kalashnikov fu portato in Italia direttamente da Roberto verso la fine della primavera scorsa, il quale giunse a Budapest a bordo della sua Lancia Thema di colore nero ed alloggiò nell'albergo alla periferia della città ove io e Fabio eravamo già giunti due giorni prima. In quell'occasione Roberto e Fabio si allontanarono ognuno con la sua autovettura, per poi ritornare circa un'ora dopo. Durante questo lasso di tempo il kalashnikov è stato spostato dalla Lancia Thema di Fabio a quella di Roberto, il quale, dopo aver riposato qualche ora, ripartì per l'Italia. Tra la fine di luglio e l'inizio di agosto dello scorso anno sono venuti a trovarci a Torriana Somogyi e sua moglie. Il giorno dopo il loro arrivo, Fabio e Somogyi sono partiti per l'Ungheria, a bordo della Lancia Thema di Fabio, per andare a prendere un altro kalashnikov. Infatti ritornarono dopo due giorni circa. Seppi poi da Fabio che l'arma in argomento era stata nascosta sotto il sedile posteriore della Thema. Posso affermare con certezza che anche il Somogyi era a conoscenza di alcuni episodi criminosi commessi da Fabio e Roberto, sconoscendo però l'identità degli altri. Infatti anch’egli aveva espresso la volontà di partecipare. Ciò non avvenne perché Fabio non lo riteneva all'altezza. Inoltre il Somogyi, d'accordo con Fabio, in più occasioni mi minacciò di morte se avessi fatto parola con qualcuno. Ho sentito dire, nella mia qualità di interprete tra Fabio, Somogyi e Csaba Sucsik, un altro cittadino ungherese, che entrambi trafficavano in mercurio rosso proveniente dall'ex Unione Sovietica. Questo materiale ed altro di cui non so il nome è stato offerto a Fabio, il quale però ha rifiutato». «Preciso che Roberto Savi non ha mai visto il cittadino ungherese sopracitato, neppure quando questi venne in Italia... Sempre nell'ambito della mia funzione di traduttrice tra i due, cioè tra Fabio e l'ungherese, ho

appreso che Fabio aveva chiesto al Somogyi quali armi gli poteva procurare. Ricordo che chiese anche dei lanciamissili cosiddetti CD usa e getta». Un termine molto appropriato - da vero esperto di armi - questo utilizzato da Eva, tanto perfetto da suggerire ai magistrati che stanno interrogando la donna di aggiungere questa postilla al verbale: «Si dà atto che il termine usa e getta è stato utilizzato dalla dichiarante».

Alberto Savi e gli altri poliziotti Al giornalista della Repubblica, che lo intervistò subito dopo l'arresto di suo fratello 22 Roberto, aveva dato l'impressione di un uomo distrutto dalla vergogna: «Se è davvero lui il killer della Uno, farebbe bene a spararsi un colpo in testa». Alberto Savi, ventinove anni, detto Luca, in Polizia dall'83, in servizio prima a Ferrara, poi all'aeroporto di Miramare e quindi al Commissariato di Rimini, dopo la cattura anche di Fabio, l'altro fratello, era sembrato a tutti il buono della famiglia, distrutto dal dolore. Alberto Savi: il poliziotto buono. Quando la mattina del 26 novembre lo ammanettano sotto la pensilina della stazione, stava partendo per Roma assieme al cognato, il fratello di sua moglie, anche lui in Polizia. Doveva andare al ministero dell'Interno per discutere il suo trasferimento. A Rimini non voleva più restare. Soprattutto voleva lasciare la casa patema di Villa Verucchio dove viveva con Antonella, sua moglie, e suo figlio, il piccolo Michael. Una volta in Questura, prima ancora di essere interrogato, Alberto ha una crisi di nervi. Lui non è come i suoi fratelli. Nessuna freddezza, nessuna arroganza. Scoppia in lacrime, si dispera, nega qualsiasi omicidio: «Ho fatto solo qualche rapina, fino al '90, poi mi sono sposato ed ho smesso. Io con la banda della Uno bianca non c'entro». Non è vero. I suoi fratelli hanno già confessato che, invece, al Pilastro, la notte della strage dei carabinieri, c'era anche lui e anche lui ha sparato. Alberto Savi è indubbiamente l'anello debole della catena di morte che unisce i tre fratelli. E’ un succube, debole di carattere, indeciso, anche un po’ pasticcione. «Un coglione», lo definiva suo fratello Fabio. Una volta raccontò ad Eva che, durante una rapina ad un supermercato, i suoi fratelli, al momento di fuggire, non lo trovavano più: era nascosto dietro un muretto, piangeva e tremava. Chi lo conosce dice che per Roberto e Fabio, Alberto nutriva un'autentica venerazione. Era lui il vero gregario, insomma. «Luca? Un vero ignorantone», dice di lui il cognato, subito dopo l'arresto. «Non ha mai letto un libro in vita sua, non professava alcuna ideologia. Chissà, forse si può considerare vagamente di destra, nel senso che aveva sulle palle i vu' cumpra', ma esattamente come tanti altri». Esattamente come suo fratello Fabio, ma soprattutto come suo padre Giuliano, che stando a molte testimonianze avrebbe fatto presa sul carattere di Alberto, molto più profondamente che su quello degli altri due. Tant'è vero che Alberto, anche se voleva andar via, era l'ultimo figlio che ancora vivesse con lui, con suo padre. Già, fin qui lo abbiamo trascurato Giuliano Savi, un vero patriarca, di quelli che una volta la società contadina sfornava con metodica regolarità. Quando, dopo l'arresto dei suoi tre figli, la Polizia per qualche ora lo dichiara in stato di fermo per poi rilasciarlo, sono in molti a Villa Verucchio a scommettere che, in qualche modo, con la banda della Uno bianca c'entra anche lui, papà Giuliano, un uomo famoso in paese per il suo carattere violento e la sua repulsione, sempre sbandierata, per zingari e persone di colore. Iscritto al MSI, amante delle armi, racconta agli inquirenti di aver desiderato a lungo di entrare a far parte dell'organizzazione clandestina di Gladio di cui, a suo dire, faceva parte suo fratello Giovanni. Si vanta anche di suo padre, fondatore dei fasci di combattimento del suo paese che aveva partecipato alla Marcia su Roma. Per molti la chiave per capire il delirio sanguinario dei suoi ragazzi è proprio lui. Originario di San Giorgio Piacentino, Giuliano Savi, con la prima moglie Rosanna Foschi, si trasferisce nel 1944 a Forlì. Cerca fortuna in quella città, "inventata" dal fascismo e che durante il ventennio aveva assunto una certa importanza, ma che, sul finire della guerra, aveva ben poco da offrire, se non un buon commercio di bestiame e la produzione dello zucchero con l'Eridania. A Forlì, Giuliano

Savi apre un laboratorio di pasticceria a due passi da piazza Saffi, il cuore della piccola città. Molti ricordano ancora oggi il suo principale prodotto: una cioccolata cremosa, venduta in barattoli, molto simile alla Nutella. A Forlì i Savi rimangono diciassette anni. Nel 1954 nasce Roberto. Poco dopo Rosanna chiede la separazione da Giuliano a causa delle liti diventate sempre più frequenti, ma muore due anni dopo. Giuliano si risposa quasi subito con Renata Carabini e nel 1960 nasce Fabio. Poi, l'anno dopo, la famiglia Savi si trasferisce a Cesena, dove Giuliano continua la sua attività di pasticcere. Nel 1965 arriva Alberto. Nel 1977 il tracollo finanziario della sua piccola impresa lo costringe a lasciare 23 anche Cesena, prima per Misano, dove papà Savi lavora come artigiano meccanico, e poi per Villa Verucchio, dove decide di trascorrere la sua vecchiaia, prima anche con la famiglia di Fabio, e poi, dopo la separazione di quest'ultimo, assieme a sua moglie Renata e alla famiglia di Alberto. E con i suoi inseparabili venti fucili da caccia, infilati nella rastrelliera che fa bella mostra all'ingresso di casa. Dei suoi figli che «sparano da Dio perché sono stato io a insegnarglielo», Giuliano Savi è sempre andato molto fiero. Ma il giorno prima che anche Alberto Savi cada nella rete, un altro poliziotto è già stato arrestato. E’ Pietro Gugliotta, 34 anni. Vive con la moglie e le due figlie, nove e cinque anni, a Vignola, in provincia di Modena. Anche lui ha lavorato sulle volanti, assieme a Roberto Savi. Catanese, Gugliotta, in Polizia dal 1982, si è trasferito a Bologna a metà degli anni Ottanta, dopo aver prestato servizio prima a Milano e poi a Firenze. Il giudizio dei suoi colleghi è unanime: «Scrupoloso e generoso». Gli stessi raccontano che una volta, dopo una rapina, si fermò ad aiutare una donna caduta a terra. La massaggiò, assistendola, fino a quando non giunse l'autoambulanza. Diverso il parere del questore di Bologna Aldo Gianni: «Gugliotta? Un minus, poco più di un minorato». Già, ma se è così, come ha fatto ad entrare in Polizia? Lo arrestano nella villa dei suoceri, a Marano, quattro case e un'osteria famosa nella zona per lo gnocco fritto e la selvaggina. E’ lì che si è rifugiato. Per chi lo conosce Gugliotta è davvero un insospettabile. Il tempo libero? Tutto dedicato alla cura della casetta che ha comprato e al suo hobby: la pesca subacquea. Ma c'è anche chi sussurra che Gugliotta frequentasse un night della zona e che avesse avuto una tormentata relazione con un'entraineuse russa. Ad incastrarlo un video amatoriale, una videocassetta trovata a casa di Roberto Savi. Un nastro motto misterioso. Ufficialmente si tratterebbe di un videotape oscurato che originariamente conteneva scene pornografiche. Per cancellarlo, Roberto e Pietro non hanno trovato di meglio che farlo girare in una telecamera puntata contro una parete. Le immagini sono scomparse, ma sono rimaste incise le voci dei due che parlano di rapine, sopralluoghi e appostamenti. La seconda versione viene invece soffiata ai giornalisti da chi quel nastro lo ha invece visionato e con cura. Contiene una specie di depliant per il traffico delle armi, con tanto di sottotitoli in lingua slava, dove però si sentirebbe proprio la voce di Gugliotta, con il suo accento ancora marcatamente siciliano. Solo fantasie? Appena arrestato Gugliotta crolla. E confessa subito una strage evitata per un soffio: l'assalto all'ufficio postale di via Emilia Levante a Bologna, con impiego del tritolo: un morto e quarantacinque feriti, quasi tutti anziani che attendevano di ritirare la pensione. Ma c'è invece chi, come Eva Mikula, ha raccontato dell'iniziazione di Pietro Gugliotta, così come gliel'aveva riferita Fabio: «Roberto lo aveva individuato. A Fabio aveva detto: «C'è un mio collega che dice di avere sangue freddo e vuole entrare nel gruppo. Può essere dei nostri». Fabio e Roberto allora, il 2 gennaio del 1990, lo conducono in auto verso la periferia e gli dicono di sparare: «Dai, se vuoi essere dei nostri, devi far fuori quel negro». Gugliotta abbassa il finestrino e apre il fuoco su un marocchino, Driss Akesbi. Ferito gravemente, l'uomo si salverà dopo un lungo ricovero. Martedì 29 settembre gli ultimi due arresti. Anche loro sono poliziotti. Marino Occhipinti, ventinove anni, è romagnolo, di Santa Sofia, nel forlivese. Sposato, due bambine di tre e sei anni, da dieci anni in Polizia, diploma dell'Istituto alberghiero, è vice- sovrintendente alla Questura di Bologna. Lo prendono a casa sua, a Castelmaggiore. Ha

lavorato prima sulle volanti, assieme a Roberto Savi, e da quasi tre anni è in forza alla Squadra mobile, sezione narcotici. Descritto dai colleghi come «un investigatore di grande talento», di lui si fidavano ciecamente i suoi superiori, ma anche diversi magistrati della Procura che con lui avevano lavorato a lungo, fianco a fianco. In passato Occhipinti ha svolto anche attività sindacale come delegato del SAP, il sindacato autonomo di destra. Il suo arresto crea sorpresa in Questura molto più degli altri. Lui è considerato un cavallo di razza, una pedina vincente. Perché l'ha fatto? Perché è entrato in quella banda di folli sterminatori? Interrogato subito dopo l'arresto, spiega: «Roberto Savi se ne andava in giro 24 mostrando delle mazzette di denaro di piccolo taglio, voleva vedere come reagivamo. Cominciammo a parlare di rapine così, per scherzo, poi passammo a compierle davvero. Io stavo per sposarmi, avevo bisogno di soldi». Occhipinti ammette di aver fatto parte della banda della Uno bianca quando questa era ancora chiamata la banda della Regata, per il modello di auto usata nell'assalto ai caselli autostradali. Ma solo tra il febbraio e il settembre del 1988. Roberto lo accusa invece di un attacco cruento, quello alla Coop di Casalecchio, il 19 febbraio dello stesso anno, in cui trovò la morte la guardia giurata Carlo Beccari. Anche se Marino Occhipinti ha davvero lasciato la banda così presto, perché, di fronte al crescendo di morti ammazzati, ha taciuto per altri sei interminabili anni di orrore? Anche l'ultimo degli arrestati è un perfetto insospettabile. Luca Vallicelli, trentuno anni, di Meldola (Forlì), scapolo, diploma di perito termotecnico, da dieci anni in Polizia, agente scelto in servizio al Caps, il centro addestramento della Polstrada di Cesena, la scuola dove si formano gli agenti della Polizia stradale. Anche Vallicelli viene però dalla Questura di Bologna, dove dal 1986 ha prestato servizio al reparto mobile. E pure lui viene considerato un bravo agente. Unica innocente mania: i concorsi televisivi. E’ stato ospite delle trasmissioni su Canale 5 di Davide Mengacci e Rita Dalla Chiesa. Lo ammanettano mentre sta uscendo da un bar del suo paese, assieme alla fidanzata. Era appena tornato da una vacanza sul mar Rosso. Fino a poco prima ha scherzato con gli amici che, davanti alle pagine aperte dei giornale, lo sfottevano, dicendogli: «Ma non farai parte anche tu della banda della Uno bianca?». Ma quanti sapevano dell'esistenza di quella banda del terrore? Quanti sapevano che i fratelli Savi avevano fatto da catalizzatore per una congrega di pazzi assassini? Certamente due donne. Eva Mikula, a cui Fabio raccontava le sue azioni per filo e per segno. Eva, che ha taciuto per almeno due anni e mezzo e che si difende affermando che Fabio la minacciava di morte se solo avesse rivelato qualcosa. Lei obbediva, taceva, ma intanto gli sfilava i soldi delle rapine e li affidava al suo amico, l'ambiguo Tamas Somogyi. Non si sa mai, bisogna pensare anche al futuro senza Fabio. Ma sapeva anche un'altra donna, Maria Grazia Angelini, moglie separata di Fabio Savi, che in realtà raccontò tutto al suo nuovo compagno, Riccardo Mazza, amico dei fratelli Savi: «Mi confidai con il mio uomo, con Mazza, ma non mi credette». Anche Mazza è un poliziotto

(5) Introduzione al satanismo

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Il satanismo è un fenomeno che desta attenzione e preoccupazione in numerosi ambienti. Nella letteratura giornalistica, è spesso confuso con fenomeni diversi come la magia cerimoniale, la neo-stregoneria, il neo-paganesimo, la corrente “thelemita” che origina dalle idee dell’esoterista inglese Aleister Crowley (1875-1947), da cui va invece rigorosamente distinto. Nella letteratura giornalistica qualsiasi ritrovamento di residui rituali – candele rosse o nere, pupazzi, calici – è spesso immediatamente riferito al satanismo, mentre potrebbe trattarsi appunto di altre forme di magia o di religiosità. Il satanismo in senso stretto è un movimento che si interessa al personaggio chiamato Diavolo o Satana nella Bibbia, e ne fa il punto di riferimento principale della sua ritualità. “Satana” può essere considerato semplicemente uno stato di coscienza superiore dell’uomo – come nel satanismo “razionalista”, che talora tende verso l’ateismo militante –, ovvero un personaggio preternaturale (satanismo “occultista” o “teista”): ma la centralità di Satana nel discorso e nel rituale – diversa da qualche semplice riferimento metaforico di carattere anticristiano, che si ritrova in numerosi gruppi – è essenziale perché si possa parlare di satanismo. Il satanismo si muove nella storia secondo un andamento che può essere definito “pendolare”. Piccoli gruppi di satanisti salgono all’onore delle cronache. Poiché l’adorazione esplicita del Male è, per definizione, intollerabile, la presenza dei gruppi satanisti – per quanto piccoli – determina reazioni che si manifestano rapidamente come sproporzionate, e che attribuiscono ai gruppi che praticano il satanismo una dimensione, un rilievo, una capacità di influire sulle vicende anche sociali e politiche che in realtà non hanno. Questo anti-satanismo organizzato – fra l’altro facilmente infiltrato da millantatori – finisce per essere screditato dai suoi stessi eccessi. Il discredito in cui cade l’anti- satanismo permette il riemergere di nuovi gruppi di satanisti, per un certo periodo di tempo tollerati dalla società, finché si determina una nuova reazione, e così via. Il satanismo si manifesta per la prima volta nel gruppo attivo ai margini della corte del re di Francia Luigi XIV (1638-1715) intorno a Catherine La Voisin (1637?-1680) e ad altre cartomanti e veggenti, parte di un sottobosco magico fiorente nella Parigi dell’epoca. Questo sottobosco conta anche sull’aiuto di sacerdoti cattolici rinnegati, come l’abbé Étienne Guibourg (1603-1686), che forniscono le ostie consacrate ritenute essenziali per il successo dei riti. Se si crede ai documenti di polizia dell’epoca – che possono contenere esagerazioni, ma appaiono nel complesso attendibili e vanno letti nel contesto della subcultura magica del XVII secolo – la La Voisin avrebbe organizzato per dame di corte, fra cui Françoise Athénaïs, marchesa de Montespan (1640-1707), favorita

del re, le prime “Messe nere” (l’espressione nasce appunto in questa occasione) nelle quali il Diavolo sarebbe stato adorato per ottenere favori o vantaggi materiali. Dopo la scoperta, la repressione – affidata a un tribunale speciale detto “Camera ardente” – si arresta per timore di indagini troppo approfondite sulle dame di corte: la La Voisin, insieme ad altre veggenti, è comunque condannata a morte, mentre Guibourg muore in carcere. Questo episodio scandaloso ma circoscritto acquista un’enorme notorietà europea grazie alle gazzette, in un’epoca in cui la stampa comincia a diventare socialmente importante. Così sorgono, sia pure in proporzioni modeste, imitatori. Cerimonie sataniche sono 26 celebrate nel Settecento in Italia – nel Ducato di Modena, ai margini più discutibili dell’eresia quietista –; in Inghilterra, fra i libertini che si riuniscono all’abbazia di Medmenham intorno a sir Francis Dashwood (1708-1781), che danno tuttavia al satanismo un’impronta ludica, razionalista e anti-clericale; e forse in Russia, dove peraltro le fonti sono scarse. In ogni caso, questo proto-satanismo determina una prima epidemia di anti-satanismo, che finirà per attribuire all’azione occulta dei satanisti due fenomeni a diverso titolo sconvolgenti per il mondo cristiano: la Rivoluzione francese e lo straordinario successo dello spiritismo. Naturalmente, occorre distinguere fra interpretazioni – che, sul piano metafisico e teologico, hanno certamente un carattere del tutto serio – che considerano l’azione del diavolo causa remota della Rivoluzione francese e dei successi spiritisti, e tesi più immediate che vedono dietro ogni giacobino e ogni spiritista l’azione diretta del demonio tramite i suoi agenti, i satanisti, che rimarrebbero nell’ombra. La letteratura secondo cui una congrega segreta di satanisti ha diretto in modo sotterraneo i principali avvenimenti dell’epoca della Rivoluzione cade così facilmente in semplificazioni di tipo “complottista” e in eccessi grotteschi. Questo stile di pensiero va dalle opere anti- rivoluzionarie del sacerdote Jean-Baptiste Fiard (1736-1818) fino ai testi paradossali di Alexis-Vincent-Charles Berbiguier (1764-1842), che vede dietro ogni evento negativo l’opera di satanisti capaci di trasformarsi in farfadet, in “folletti” invisibili. Secondo l’effetto “pendolare” cui si è fatto cenno, l’anti-satanismo è così sufficientemente screditato perché negli anni che vanno dal 1850 al 1890 possa forse sorgere in Francia e in Belgio, relativamente indisturbato, un piccolo movimento satanista. Le informazioni su questo movimento sono incerte e ambigue, e provengono spesso da personaggi che – pure avendo veramente indagato nella subcultura occultista – talora ne fanno in qualche modo parte, ovvero mescolano la fantasia con la realtà, come il giornalista Jules Bois (1868-1943). Quest’ultimo è uno dei principali informatori del romanziere Joris-Karl Huysmans (1848-1907), che nel 1891 pubblica il romanzo Là-bas (“Nell’abisso”). Questo testo contiene la più famosa descrizione letteraria di una “Messa nera”, che è servita da modello a numerosi satanisti in carne e ossa del Novecento. Si sa oggi che, nel romanzo, Huysmans ha utilizzato – certo rielaborandole – informazioni relative a vere o presunte esperienze negli ambienti satanisti della sua amica Berthe Courrière (1852-1916), in seguito alle quali egli riteneva credibili le accuse rivolte al sacerdote belga Louis Van Haecke (1829-1912) – la cui effettiva colpevolezza costituisce ancora oggi argomento di fervente dibattito fra gli storici – di celebrare Messe nere e di essere un importante capo satanista. Le attività dei satanisti francesi e belgi denunciate, a torto o a ragione, da Huysmans determinano – ancora seguendo lo schema “pendolare” – un’ondata di anti-satanismo particolarmente virulenta. Ai satanisti – riuniti in una misteriosa setta, il palladismo – sono attribuite in particolare tutte le attività della massoneria, all’epoca impegnata in un duro scontro con la Chiesa cattolica. Léo Taxil (pseudonimo di Marie-Joseph-Antoine-Gabriel Jogand, 1854-1907), un massone autore di virulente opere anti-clericali di carattere pornografico, nel 1885 annuncia la sua clamorosa conversione al cattolicesimo. Dopo la pubblicazione di Là-bas di Huysmans, produce, con alcuni collaboratori, in pochi anni

decine di opere e migliaia di pagine in cui rivela le attività dei palladisti che, ispirati direttamente da Satana, guidano segretamente la massoneria e controllano numerosi governi europei. Molti avversari della massoneria gli credono, ma non tutti; altri – nello stesso mondo cattolico – sospettano un inganno. Finalmente, di fronte alle pressioni, Taxil annuncia una conferenza pubblica in cui chiarirà tutti i dubbi. A Parigi, il 19 aprile 1897, confessa di avere semplicemente simulato la sua conversione e di avere completamente inventato la storia del palladismo per prendersi gioco dell’estrema credulità dei cattolici. La vicenda di Taxil rimane problematica e oscura – è certo che abbia abilmente mescolato 27 documenti veri e falsi, mentre rimane un dubbio sulle sue motivazioni ultime – ma, per quanto riguarda il satanismo, il prevedibile effetto è quello di fare riemergere satanisti autentici che – per paura di essere confusa con le provocazioni del famoso impostore – la stampa, nei primi anni del ventesimo secolo, tratta con indulgenza e perfino con simpatia. È il caso di Maria de Naglowska (1883-1936), che apre a Parigi un Tempio di Satana, descritto con singolare indulgenza dalla stampa e giustificato da una complessa quanto bizzarra teologia. Pressoché contemporanee sono le attività in Danimarca di Ben Kadosh, pseudonimo di Carl William Hansen (1872-1936), il cui satanismo “luciferiano” – che trae forse ispirazione anche da Taxil – rimane per decenni ignoto fuori del suo Paese, fino alla fondazione nel 2005 di una Chiesa Neo-Luciferiana che s’ispira alle sue idee, presente in Danimarca, Svezia e Stati Uniti. In Polonia il letterato Stanisław Przybyszewski (1868- 1927) elabora il primo sistema satanista organico dal punto di vista dottrinale, ma è dubbio che i suoi seguaci abbiano mai dato vita a movimenti organizzati. Sono anche questi gli anni in cui si esercita sull’ambiente satanista l’influenza di Aleister Crowley. A rigore non satanista – e anzi polemico con i satanisti –, Crowley scrive nella sua opera Magick (Samuel Weiser, York Beach [Maine] 1974, p. 296 e p. 220) che “il Diavolo non esiste. È un falso nome inventato dai Fratelli Neri per implicare un’Unità nella loro ignorante confusione di dispersioni” e che i satanisti praticano solo “una forma pervertita di magia”. Secondo Crowley, i satanisti sbagliano perché credono che il Diavolo esista veramente come persona. Per questo – come scrive nella sua autobiografia – i satanisti dell’Ottocento “con tutta la loro pretesa devozione a Lucifero o Belial (…) erano nel loro spirito sinceri cristiani, e per di più cristiani inferiori, giacché i loro metodi erano puerili” (The Confessions of Aleister Crowley. An Autohagiography, Routledge & Kegan Paul, Londra-Boston-Henley 1979, p. 126). D’altro canto, per quanto riguarda i rituali, Crowley rimane una fonte continua di ispirazione per tutto il satanismo successivo. Alcuni gruppi di derivazione crowleyana si avvicinano al satanismo, come avviene nel caso della Fraternitas Saturni in Germania, almeno nella sua prima fase. Un anello di collegamento importante tra Crowley e il satanismo successivo è costituto da John Whiteside Parsons (1914-1952), un ingegnere e scienziato californiano, celebre esperto di esplosivi, che elabora nella Loggia Agapé le idee dell’esoterista inglese trasformandole in un culto dell’Anticristo. Con Parsons ci troviamo alla vigilia del vero e proprio satanismo contemporaneo, che nasce con un cineasta underground di Hollywood, Kenneth Anger, e con il suo amico Anton Szandor LaVey (pseudonimo di Howard Stanton Levey, 1930-1997), fondatori nel 1961 di un’organizzazione chiamata Magic Circle e nel 1966 della Chiesa di Satana. Negli stessi anni Mary Ann Maclean (1931-2005) e suo marito Robert de Grimston Moor (nato nel 1935 e tuttora vivente) fondano a Londra The Process, un’organizzazione – oggi non più esistente ancorché, dopo la separazione del 1974 fra i due coniugi, dal gruppo che segue Mary Ann origini Best Friends, un gruppo di protezione degli animali con sede a Kanab, nello Utah, che conserva tuttora elementi e dirigenti dell’originario The Process – costruita intorno a una teologia “luciferiana” particolarmente sofisticata. Alcuni ritengono che il satanismo moderno inizi, prima della fondazione della Chiesa di Satana, con il gruppo Our Lady of Endor Coven of the Ophite Cultus Sathanas, che il barbiere e medium

spiritista Herbert Arthur Sloane (1905-1975) avrebbe fondato a Toledo, nell’Ohio, nel 1948. Non ci sono però prove che il gruppo di Sloane abbia introdotto elementi satanici nella sua letteratura e rituali prima del 1968, cioè dopo la fondazione della Chiesa di Satana e presumibilmente sotto la sua influenza. I primi anni della Chiesa di Satana di LaVey sono quelli del maggiore successo giornalistico, grazie all’adesione di personalità di Hollywood, che permette di raccogliere qualche migliaio di aderenti in diversi paesi del mondo. La Chiesa di Satana è peraltro piagata, sostanzialmente sin dalle sue origini, da problemi interni ed esterni. All’interno si 28 sviluppa una tensione tra il satanismo “razionalista” di LaVey, che – pure con qualche concessione alla magia e all’occulto – interpreta sostanzialmente Satana come l’“indulgenza in luogo dell’astinenza”, il simbolo di una rivolta razionalista e atea contro la religione e la morale, e un’ala “occultista”, il cui leader è il luogotenente stesso di LaVey, Michael Aquino (all’epoca colonnello dell’esercito americano, specializzato in guerra psicologica e disinformazione). Queste tensioni porteranno nel 1975 allo scisma di Aquino, che fonderà il Tempio di Set, tuttora esistente e diffuso in vari Paesi. Quanto alla Chiesa di Satana, ha avuto un inatteso revival negli anni 1990 e 2000 grazie a Internet, reclutando adepti soprattutto in Scandinavia, ma ha dovuto fare i conti con la morte di LaVey nel 1997 e con le successive dispute anche giudiziarie sulla sua eredità, che hanno prodotto anche qualche scisma. Dal 2002 Peter H. Gilmore (nato nel 1956) è il nuovo leader della Chiesa di Satana, nella cui veste di Gran Sacerdotessa è stata cooptata la moglie Margaret “Peggy” Nadramia, che succede alla compagna di LaVey, Blanche Barton (nata Sharon Densley, nel 1961) – madre del figlio avuto nel 1993 dal fondatore, Satan Xerxes Carnacki LaVey –, la quale oggi ricopre il ruolo di Magistra Templi Rex e presiede il Consiglio dei Nove. Le due figlie dello stesso fondatore hanno preso strade diverse. Karla LaVey ha fondato la Prima Chiesa Satanica, e Zeena LaVey – che aveva rotto con il padre fin dal 1990 – è prima diventata Gran Sacerdotessa del Tempio di Set, quindi ha intrapreso con il marito Nikolas Schreck una carriera esoterica autonoma, che mescola riferimenti a Set – cioè, secondo le idee di Aquino, Satana – e al buddhismo tibetano. Il nome a dominio per Internet churchofsatan.org è rimasto alla Prima Chiesa di Satana, diretta dal discepolo dissidente Daemon Egan (pseudonimo di John Dewey Allee), che riprende la tradizione dell’ultimo LaVey dedicandosi soprattutto alla vendita di diplomi “satanici” per corrispondenza, benché il contenuto dei suoi insegnamenti si allontani dalla Chiesa di Satana avvicinandosi al satanismo “occultista”. Il satanismo “razionalista” di LaVey, anche attraverso organizzazioni che non aderiscono formalmente alla Chiesa di Satana, rimane ampiamente presente e maggioritario su Internet, smentendo le previsioni secondo cui non sarebbe riuscito a sopravvivere alla morte del fondatore. Non mancano tuttavia organizzazioni “occultiste” o “teiste”, la cui presenza su Internet appare in crescita. Sul piano esterno, gli omicidi commessi da aderenti alla comunità raccolta attorno a Charles Manson (nato Charles Milles Maddox, 1934-2017), la “Famiglia” nel 1969, e il successivo clamoroso processo del 1972 avevano procurato inizialmente un’ampia pubblicità al satanismo, ma ultimamente hanno determinato una forte reazione sociale. Gli specialisti del caso Manson concordano oggi sul fatto che gli elementi “satanici” della sua comunità sono stati introdotti in gran parte da un Manson intento a reinventarsi come personaggio più importante di quanto non fosse in realtà mentre si trovava in carcere, dopo gli omicidi, e prontamente utilizzati dal rappresentante della pubblica accusa, il procuratore Vincent Bugliosi (1933-2015), per costruirsi a sua volta una importante fama politica (e più tardi letteraria). Il caso Manson tuttavia convince l’opinione pubblica americana che i satanisti non sono degli eccentrici innocui, ma possono essere collegati alla violenza e all’omicidio. Ne nasce la maggiore ondata di anti-satanismo della storia moderna, che va dal 1980 al 1990. In

questa ondata si inseriscono psichiatri e psicologi, i quali credono alla realtà fattuale dei racconti dei loro pazienti – chiamati survivor, “sopravvissuti” – che, sotto ipnosi, ricordano di avere subito violenze sataniche (in genere a sfondo sessuale). Agli stessi racconti – che lascerebbero intendere l’esistenza di un vasto network di abusi rituali satanici, perpetrati soprattutto su bambini, da organizzazioni di satanisti clandestini e insospettabili – prestano fede anche ambienti protestanti fondamentalisti e – particolarmente in Inghilterra, ma talora anche in Italia – assistenti sociali. Come spesso avviene in occasione delle ondate di anti-satanismo, i resoconti relativi all’esistenza di “abusi rituali satanici” – che 29 provengono da “memorie ritrovate” sul lettino dello psicoterapeuta dopo molti anni, o da incerte testimonianze di bambini più o meno “istruiti” da assistenti sociali – sono accolti con crescente scetticismo. Nel 1994 due rapporti ufficiali – uno inglese, commissionato dal governo alla sociologa Jean La Fontaine, e uno statunitense del National Center of Child Abuse and Neglect – danno un colpo fatale alla credibilità della tesi relativa all’esistenza di “abusi rituali satanici”. Secondo il rapporto americano, su dodicimila denunce di presunti abusi rituali satanici neppure un solo caso ha potuto essere sostenuto da prove, anche se in un piccolo numero di casi si è potuto stabilire che singoli pedofili isolati o coppie – ma non organizzazioni – dichiarano di avere rapporti con Satana o usano questa pretesa per spaventare le vittime. Anche se casi isolati che si verificano in diversi paesi, non soltanto di lingua inglese, mostrano che la leggenda urbana degli “abusi rituali satanici” è ancora diffusa in alcuni ambienti – particolarmente fra le assistenti sociali, la cui credulità in genere era duramente criticata nel rapporto inglese –, l’ondata di anti-satanismo dei primi anni 1990 sembra essere cessata verso la fine del decennio. Come sempre, per l’effetto “pendolare”, si è resa così possibile la nascita di nuovi gruppi satanisti. Oltre alla Chiesa di Satana e al Tempio di Set – quest’ultimo oggi in una fase “post- satanista” dove gli originari riferimenti al satanismo sono messi in secondo piano – la maggiore organizzazione satanista mondiale è l’Order of Nine Angles (ONA), le cui origini risalgono al 1970 e il cui fondatore si nasconde sotto lo pseudonimo di “Anton Long”. La maggior parte degli studiosi, e oggi anche voci interne al movimento, concordano nell’identificare “Anton Long” con il neonazista inglese David William Myatt, la cui carriera politica ed esoterica è peraltro complessa e comprende prima una vera o simulata conversione all’islam e successivamente una svolta verso una forma di ermetismo neo- pagano ispirato all’ethos delle tragedie greche. I temi legati al satanismo, compresa una versione della Messa nera, rimangono centrali nella dottrina e nel rituale, ma coesistono con riferimenti eclettici all’esoterismo occidentale o orientale e con un razzismo a forte connotazione antisemita. Direttamente o attraverso organizzazione satelliti – tra cui White Star Acception, Tempel (sic) ov (sic) Blood e Temple of THEM – l’ONA conterebbe su qualche migliaio di aderenti, alcuni presenti anche in Italia. Il condizionale è d’obbligo, perché l’ONA – che propugna il terrorismo e non esclude l’omicidio come gesto che avrebbe una speciale valenza iniziatica – è per definizione un’organizzazione segreta, ancorché i suoi testi fondamentali siano facilmente disponibili sia a stampa sia su Internet. L’ONA può essere considerato parte della tendenza “occultista” – dove nel ventunesimo secolo si sono affermate anche altre organizzazioni, tra le quali Joy of Satan, di cui alcuni ammiratori in Italia hanno aperto un sito Internet in lingua italiana, e la Church of Azazel di New York – mentre un gruppo che ha avuto una discreta diffusione internazionale, l’Order of the Left Hand Path – che dal 1994 al 2007 aveva adottato il nome di Ordo Sinistra Vivendi –, fondato in Nuova Zelanda e noto in particolare per i corsi per corrispondenza diffusi dal suo Collegium Satanas, è partito dal “razionalismo” di LaVey proclamando però che occorre superarlo attraverso l’immissione in un contesto satanista di elementi tratti dalla filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900).

In particolare, i corsi del Collegium Satanas sono stati seguiti da diversi musicisti della corrente Heavy Metal, nell’ambito della quale – in particolare nel sotto-genere Black Metal –, accanto a semplici provocazioni, sono emerse ricerche e progetti effettivamente interessati al satanismo. Mentre la cosiddetta prima ondata del Black Metal – le cui origini si fanno in genere risalire all’album Welcome to Hell (1981) del gruppo inglese Venom – si ispirava spesso a LaVey, la seconda ondata – che viene alla ribalta nel 1981 con l’apertura a Oslo del negozio Helvete (“Inferno” in norvegese) da parte di una figura centrale della corrente, Euronymous (Øystein Aarseth, 1968-1993) – rifiuta il 30 “razionalismo” della Chiesa di Satana, ma rifiuta anche le forme correnti di satanismo “occultista” in cui Satana è visto come un liberatore e un amico dell’umanità. Al contrario, la seconda ondata del Black Metal assume la narrativa cristiana su Satana e la rovescia, venerando il Diavolo come cifra della morte, della distruzione, e dell’odio contro l’umanità e il mondo stesso. Questa tendenza produrrà vere forme di violenza – lo stesso Euronymous sarà assassinato nel 1993 da un altro musicista, Varg Vikernes, responsabile con altri anche dell’incendio di numerose antiche chiese in legno norvegesi – e anche una nuova forma di satanismo, detto “anticosmico”, il cui gruppo principale è lo svedese The Misanthropic Luciferian Order (MLO), più tardi ribattezzato Temple of the Black Light, e originariamente collegato al complesso musicale Dissection creato da Jon Nödtveidt (1975-2006), anche se dopo il suicidio rituale di quest’ultimo nel 2006 ha cercato di prendere le distanze dagli ambienti della musica Heavy Metal. Si parla oggi anche di una terza ondata del Black Metal, che evolve dal satanismo verso forme neo-pagane e di spiritualità celtica o nordica, anche se il riferimento a temi satanici non è totalmente scomparso. Quanto si è mosso e si muove a margine del mondo Black Metal rende più sfumata, anche se non elimina, la distinzione fra il satanismo degli adulti, che si articola in gruppi che hanno una continuità dottrinale e rituali, capi identificabili, sedi, talora anche pubblicazioni – il fatto che i capi siano adulti, o giovani adulti, non esclude che talora alle attività possano partecipare anche minori – e il satanismo giovanile (talora chiamato satanismo “acido”, per la sua associazione assai frequente con la droga). Quest’ultimo è composto da gruppuscoli di minorenni – molto raramente con la presenza di qualche adulto –, privi di una continuità organizzativa e rituale e di contatti con i gruppi del satanismo organizzato, che mettono in scena rituali satanici “selvaggi” o caserecci sotto l’influsso di film, trasmissioni televisive, fumetti, e di una certa subcultura musicale. Le statistiche sul satanismo degli adulti possono essere ricostruite in modo piuttosto preciso: è impossibile – nonostante miti giornalistici diffusi in materia – che un gruppo organizzato di una certa consistenza capace di perdurare nel tempo sfugga completamente al rilevamento da parte, se non degli specialisti, della polizia. Le statistiche sul satanismo giovanile o “acido” sono invece, per definizione, ipotetiche e fluide perché molti gruppi possono essere rilevati soltanto in occasione dell’incidente o del reato la cui scoperta finisce per distruggerli, com’è avvenuto in Italia nel 1994 con gli omicidi commessi nella zona di Varese dal gruppo denominato Bestie di Satana. Nel mondo gli adepti dei gruppi organizzati del satanismo degli adulti non sono più di qualche migliaio, molti peraltro in contatto con questo o quel gruppo solo via Internet. Le organizzazioni più importanti si trovano – oltre che in Italia, dove i Bambini di Satana Luciferiani fondati da Marco Dimitri erano arrivati, prima di un calo di consensi dovuto a problemi con la giustizia, a un numero di adepti stimato fra i cento e i duecento, un risultato non piccolo in un panorama satanista internazionale dove molti gruppi sono piccoli o piccolissimi – negli Stati Uniti, Scandinavia, Grecia, Polonia, Australia e Nuova Zelanda, con qualche presenza anche in Germania e in Francia. Occorre qui guardarsi, in particolare, dal prendere per buone le statistiche fornite da alcune delle organizzazioni sataniste più “pubbliche”, come la Chiesa di Satana fondata da LaVey, che fanno

riferimento a indirizzari dove sono registrati anche i semplici curiosi che si sono limitati a inviare una lettera di richiesta di informazioni al movimento, e non a veri e propri “membri”, e alle stime diffuse da giornalisti e da organi di polizia che talora rubricano tra i satanisti, impropriamente, tutti i frequentatori di concerti Black Metal. I gruppi giovanili del satanismo “acido” sono molto più difficili da censire e anche più pericolosi: non tanto per una maggiore intrinseca violenza ma per una minore possibilità di sorveglianza da parte delle autorità di polizia. Si tratta di gruppi di adolescenti che mettono in scena riti satanici “copiati” da fumetti, film, o ispirati da una certa musica. 31 Questi gruppuscoli non sono in contatto con tradizioni e rituali – e sono insieme disprezzati e tenuti a distanza dai gruppi degli adulti – e il loro rituale tipico non è, normalmente, la Messa nera. Si tratterà di sacrifici di animali, di atti sessuali accompagnati dalla rottura di un crocefisso o di un altro simbolo cristiano, di profanazione di chiese e – più spesso – di cimiteri. Nei gruppi giovanili è più facile che sia completamente perso il senso del limite fra metafora e realtà, e che quindi – spesso sotto l’influsso della droga – si trascenda in atti di violenza carnale, e in casi molto rari, ma non inesistenti, si verifichino anche omicidi. Quasi tutti i crimini gravi attribuiti al satanismo – se si parla di omicidi, ce n’è in media uno all’anno nell’America del Nord secondo dati dall’FBI – possono essere ricollegati ai gruppi giovanili. Oltre gli Stati Uniti i paesi più coinvolti sono l’Inghilterra, la Germania, la Scandinavia, la Russia; in Francia ha destato scandalo la profanazione di cimiteri – in particolare di cimiteri ebraici, dal momento che alcuni gruppi giovanili associano satanismo e nazismo –, ricollegata peraltro a gruppuscoli di meno di dieci aderenti. Il fenomeno del satanismo giovanile appartiene più al mondo della devianza che a quello vero e proprio della religione. Gruppi di questo genere, non organizzati, compaiono di tanto in tanto anche nelle cronache italiane, fino alla tragedia di Chiavenna (Sondrio) del 2000, dove però le tre ragazze che hanno brutalmente ucciso una suora, la serva di Dio suor Laura Mainetti (1939-2000), di cui è iniziata nel 2008 la causa di beatificazione, fra slogan satanisti e anticattolici desunti da una certa musica e da Internet sembravano, più che fare già parte di un “gruppo”, coltivare il vago desiderio di fondarne uno, e al grave episodio lombardo delle Bestie di Satana. In Italia sono anche presenti meno di duecento persone che appartengono a gruppi organizzati, alcuni dei quali – dopo un periodo di notorietà alle cronache – sembrano ora avere cessato l’attività. È questo il caso del Tempio di Pan – chiamato dapprima Impero Satanico La Luce degli Inferi, poi Chiesa del Grande Ordine di Satana –, un gruppo “luciferiano” – per cui, cioè, Satana è in realtà una personificazione del Bene e della conoscenza – il cui fondatore, che si faceva chiamare Maestro Loitan e operava nell’Italia centrale, ha deciso nel 1998 di sciogliere il movimento e di convertirsi al cattolicesimo. Anche la CEDG (Confraternita di Efrem del Gatto), detta talora anche Chiesa Nera Luciferina o Luciferiana, attiva a Roma fin dal 1980, sembra avere cessato l’attività dopo la morte nel 1996 del suo fondatore Efrem Del Gatto (pseudonimo di Sergio Gatti, 1945- 1996), e aveva del resto sempre tenuto a presentarsi come gruppo “luciferiano” e non “satanista”, nel senso che considerava Satana un simbolo del bene e non del male. La rivista Black Star dietro a cui agiva – o dichiarava di agire – un gruppo Satanael – Universale Fratellanza della Luce Nera a Santeramo in Colle (Bari) sembrerebbe pure avere cessato le pubblicazioni. Sono però nati nuovi gruppi diffusi soprattutto – secondo una tendenza comune ad altri paesi – su Internet, tra cui l’Unione Satanisti Italiani, di tendenza “occultista”, e Satanismo Razionalista, ispirato a LaVey ma autonomo rispetto alla Chiesa di Satana. Per completezza – accanto ai primi rappresentati rispettivamente dai gruppi organizzati e dal satanismo giovanile “fai da te” – si possono menzionare altri due quadranti del satanismo. Un terzo è composto da pervertiti sessuali che, senza credere né a Dio né al

Diavolo, si servono di pretesti e mascherate “sataniche” per attirare giovani ingenui alle loro attività. Dopo tutto, se qualcuno si apposta fuori da un liceo e propone alle ragazzine di andare a casa sua dove saranno drogate e violentate è difficile che qualcuna lo segua. Se invece si presenta come “reverendo” di una qualche Chiesa satanista e propone un rito satanico, su centinaia di studentesse non è escluso che ne trovi una o due interessate, com’è successo in fatti di cronaca, anche se talora l’elemento satanico nel passaggio dalle prime croniche giornalistiche ai processi si è molto ridimensionato. Ci sono anche pervertiti feticisti che entrano in contatto con criminali per ottenere ossa trafugate in cimiteri e, nei 32 casi più gravi, parti del corpo di persone assassinate. La letteratura internazionale conferma che casi di questo genere sia esistono, sia sono molto rari. Talora i pervertiti sessuali del terzo quadrante cercano di entrare in contatto con le bande di balordi del secondo quadrante – ammesso che riescano a identificarle – perché lì trovano persone disposte a lasciarsi coinvolgere nelle loro attività. Ma questi pervertiti non vanno confusi con i satanisti organizzati del primo quadrante, che considerano il satanismo una vera e propria religione, né sono a loro volta in grado di “coordinare” o organizzare le bande del secondo livello. Il quarto quadrante, infine, si riferisce al folklore di ambienti della malavita organizzata che celebrano riti magici, talora con incantamenti o filastrocche dove si menziona il Demonio, come scongiuri in funzione propiziatoria per il successo delle loro imprese criminali. In questi riti entra talora l’uso di parti del corpo di nemici uccisi, e di sangue. Episodi di questo genere si sono verificati soprattutto nell’ambiente della criminalità organizzata latino-americana, ma qualche sospetto è corso occasionalmente anche in Italia, senza che sia stato possibile giungere a conclusioni sicure.

B.: Per una prima introduzione cfr. M. Introvigne, Il satanismo, Elledici, Leumann (Torino) 1997; più ampiamente: Idem, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo [seconda edizione ampliata di Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994], Sugarco, Milano 2010; ancora più ampiamente: Idem, Satanism: A Social History, Brill, Leida 2016, che contiene fra l’altro una vasta sezione sul Black Metal. Sulla storia del satanismo si vedano anche Ruben van Luijk, Children of Lucifer. The Origins of Modern Religious Satanism, Oxford University Press, Oxford – New York 2016, e – soprattutto per quanto riguarda il secolo XX –Asbjørn Dyrendal – James R. Lewis – Jesper Aagaard Petersen, The Invention of Satanism, Oxford University Press, Oxford – New York 2016; nonché, con un’attenzione particolare al “satanismo” di letterati e artisti ma con dettagli su gruppi poco conosciuti, Per Faxneld, Satanic Feminism. Lucifer as the Liberator of Woman in Nineteenth-Century Culture, Molin & Sorgenfrei, Stoccolma 2014. Sulle origini del satanismo alla corte di Luigi XIV, l’opera di riferimento è quella di Lynn Wood Mollenauer, Strange Revelations. Magic, Poison, and Sacrilege in Louis XIV’s , Pennsylvania State University Press, University Park (Pennsylvania) 2006. Sulla geografia del satanismo contemporaneo, cfr. soprattutto J.R. Lewis, Satanism Today. An Encyclopedia of Religion, Folklore, and Popular Culture, ABC-Clio, Santa Barbara (California) 2001; J.R. Lewis – J.A. Petersen (a cura di), The Encyclopedic Sourcebook of Satanism, Prometheus Books, Amherst (New York) 2008; J.A. Petersen (a cura di), Contemporary Religious Satanism. A Critical Anthology, Ashgate, Farnham (Surrey) – Burlington (Vermont) 2009; P. Faxneld – J.A. Petersen (a cura di), The Devil’s Party. Satanism in Modernity e il numero speciale sul satanismo dell’International Journal for the Study of New Religions, vol. 4, n. 2, novembre 2013. Sulle controversie: James T. Richardson – Joel Best – David G. Bromley (a cura di), The Satanism Scare, Aldine de Gruyter, New York 1991; Jeffrey S. Victor, Satanic Panic. The Creation of a Contemporary Legend, Open Court, Chicago – La Salle (Illinois) 1993. Sul ruolo di Jack Parsons, cfr. John Carter (pseud.), Sex and Rockets. The Occult World of Jack Parsons, Feral House,

Venice (California) 1999; e (con molte riserve) George Pendle, Strange Angel. The Otherworldly Life of Rocket Scientist John Whiteside Parsons, Harcourt, New York 2005. Di Anton Szandor LaVey, cfr. La Bibbia di Satana, trad. it., Arcana, Roma 2007; per una biografia del fondatore della Chiesa di Satana, cfr. Blanche Barton, The Secret Life of a Satanist. The Authorized Biography of Anton LaVey, Feral House, Los Angeles 1990; del suo successore alla guida dell’organizzazione, Peter H. Gilmore, cfr. The Satanic Scriptures, Scapegoat Publishing, Baltimora (Maryland) 2007. 33

(6) USA attacco con machete nella casa di un rabbino a Monsey

Da www.repubblica.it

Usa, attacco con machete nella casa di 34 un rabbino a Monsey: 5 feriti di cui due gravi. Arrestato un uomo

La casa del rabbino assalita

L'aggressione nello Stato di New York a 50 chilometri dalla città mentre si festeggiava la festa di Hanukkah 29 dicembre 2019

NEW YORK - Entra in casa di un rabbino e semina il panico durante la festa per la settima giornata delle celebrazioni di Hannukah. Con il viso coperto in parte con una sciarpa e armato di machete ferisce almeno cinque persone, tutti ebrei chassidisti, di cui due sono in condizioni gravi. L'attacco è avvenuto a Monsey, a circa 50 chilometri a nord di New York. Secondo i media americani l'autore, che era riuscito a scappare dall'abitazione limitrofa alla sinagoga nonostante i vari tentativi di fermarlo (anche con un piccolo tavolo per bloccargli il passaggio), è stato arrestato dalla polizia dopo una breve fuga nella zona di Harlem; mentre la polizia sta intanto eseguendo un mandato di perquisizione in un'abitazione a Greewnwood Lake, località non lontana da Monsey. Probabilmente la casa del sospetto dell'attentato. In un primo momento si è parlato di un attacco in una sinagoga, ma successivamente l'Orthodox Jewish Public Affairs Council ha precisato in un tweet che è stata presa di mira l'abitazione di un rabbino.

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https://twitter.com/ojpachv/status/1211128362195988480 …

OJPAC Hudson Valley Region@OJPACHV At 9:50 this eve, a call came in about a mass stabbing at 47 Forshay Road in Monsey (Rockland County; 30 miles North of NYC). It's the house of a Hasidic Rabbi. 5 patients with stab wounds, all Hasidic, were transported to local hospitals.

04:34 - 29 dic 2019

Al momento le ricostruzioni sono tutte parziali: si sa che alcuni dei feriti sono stati colpiti ripetutamente, uno almeno sei volte, un altro in pieno petto ed è quello nelle condizioni peggiori. Un'altra persona è rimasta ferita solo leggermente a un dito.

L'episodio si inserisce in una serie di attacchi antisemitici che si sono verificati negli ultimi giorni a New York: incidenti che hanno fatto alzare la guardia e rafforzare i controlli di polizia nell'area di Brooklyn, quella più colpita. "Un atto spregevole e codardo". Così il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, commenta l'attacco. "Voglio essere chiaro: l'antisemitismo e l'intolleranza sono ripugnanti e abbiamo assolutamente tolleranza zero per tali atti di odio", mette in evidenza Cuomo. "Monitoriamo le informazioni che arrivano da Monsey", afferma la polizia anti-terrorismo di New York. Condanna l'attacco anche il procuratore di New York, Letitia James: "C'è tolleranza zero per atti di odio di qualsiasi tipo, continueremo a monitorare la situazione" a Monsey.

"Dopo gli attacchi dell'ultima settimana a Brooklyn e Manhattan spezza il cuore vedere ancora violenza. La comunità ebraica ha bisogno di maggiore protezione", afferma il numero uno dell'Anti-Defamation League.

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(7) 1973 la strage di Fiumicino

Da www.ilgiornale.it

"Sono io il poliziotto misterioso che sparò 37 ai terroristi palestinesi" Nel 1973 la strage di Fiumicino ad opera di un commando di palestinesi. Parla l'ex agente Antonio Campanile: "Qualcuno ha voluto tenere nascosta questa storia" Giuseppe De Lorenzo 29/12/2019

"Quando ho sentito l'esplosione, i terroristi erano già entrati". Sono le 12.51 del 17 dicembre 1973. Nell’area transiti dell’aeroporto di Fiumicino un commando di cinque palestinesi fa irruzione carico di armi ed esplosivi. I fadayyin esplodono raffiche tra la folla e prendono in ostaggio sei agenti. È l'inizio della più sanguinosa strage terroristica in Italia, dopo quella di Bologna: 32 morti e 17 feriti.

Un eccidio firmato "Settembre Nero".

Se anche quest’anno non avete sentito parlare di quei drammatici eventi, non dovete stupirvi. È una pagina di storia carica di domande senza alcuna risposta e misteri in parte ancora coperti dal "segreto di Stato". Tra questi, oggi ne spunta un altro. È la storia di tre proiettili, di una foto, di un conflitto a fuoco. Antonio Campanile, ex guardia di P.S., dopo 46 anni racconta la sua versione: "Nessuno ne ha parlato, non so perché. Ma la polizia quel giorno ha risposto al fuoco dei palestinesi. E a sparare sono stato io". Fiumicino è un inferno. Dopo l’irruzione il commando di fedayyin si divide in due: un gruppo si dirige verso un Boeing 707 della Pan American in partenza per Teheran e getta due bombe al fosforo nell’aereo già carico di passeggeri. Tra le fiamme muoiono 30 persone (tra cui 4 italiani). Mentre il velivolo brucia, la seconda parte del commando raccoglie altri ostaggi e si impadronisce di un aereo della Lufthansa in attesa di partire per Monaco. "Dopo l’esplosione - racconta Campanile - sono andato nell’ufficio del comando e dall’armadietto blindato del maresciallo ho preso un MB con quattro caricatori. Insieme ad altri due poliziotti sono salito sul terrazzo che affaccia all’interno dell’aeroporto". Di fronte c’è il volo Lufthansa sui cui sono stati fatti salire gli ostaggi. A bordo ci sono i due gruppi

di fedayyin e 14 persone, tra cui i sei agenti e l'equipaggio. Dopo qualche minuto scendono un terrorista, il comandante, un tecnico dell’ASA e un giovane finanziere. Si dirigono verso la coda dell’aereo per "staccare il tubo del rifornimento carburante e chiudere il bocchettone di presa" in vista del decollo. Il militare si chiama Antonio Zara, è corso sul posto dopo l'allarme diramato dalla sala di controllo e ha provato a reagire: sarà la 31esima vittima. "Dallo sportello posteriore - racconta Campanile - un palestinese sparava contro le vetrate, sparava dappertutto. L’ho visto mentre colpiva alle spalle il povero finanziere. Poi ha iniziato a esplodere raffiche anche verso di noi. A quel punto ho 38 risposto al fuoco".

Copertina di Epoca del 30 dicembre 1973

In realtà, sull'uccisione di Zara la versione dei documenti ufficiali e quella di Campanile non collimano. Una foto storica (seconda al premio Pulitzer nel 1974) ritrae il militare 19enne agonizzante a terra. Secondo la relazione inviata all’allora ministro Emilio Taviani, a sparargli "con crudeltà un colpo alle spalle" sarebbe stato il terrorista che era sceso con gli ostaggi in terra. Non quello rimasto a bordo, come sostiene Campanile. Quel che è certo, però, è che anche la Commissione ha potuto accertare "in modo inequivocabile" che, nonostante fosse stato diramato l’ordine di non sparare, una azione di fuoco "è stata esercitata dalla polizia dal terrazzo dell’aerostazione". Esiste anche una fotografia, scattata da Elio Vergati per l'Ansa, che mostra due poliziotti distesi a terra. "Quello con il Mab sono io", assicura Campanile. "Ho esploso tre colpi, il terrorista si è sentito minacciato e si è rintanato dentro all’aereo. Lo tenevo sotto tiro e mi dicevo: ‘Appena esce, gli sparo un’altra volta’".

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Ma il terrorista non si è più affacciato. Anzi. Chiusi i portelloni, il volo Lufthansa decolla e inizia un assurdo pellegrinaggio nei cieli del mondo. Fa prima tappa ad Atene, dove resta per 16 ore e dove i palestinesi gettano sulla pista il corpo esanime del tecnico dell’Asa, Domenico Ippoliti. Poi vola verso Beirut. Le autorità libanesi negano l’atterraggio, così come Cipro. I fedayyin trovano allora riparo a Damasco per il rifornimento di carburante e concludono la loro folle corsa a Kuwait City. Arrestati e condotti in segreto in una base aerea, la loro estradizione verrà sempre negata all’Italia: saranno rilasciati e consegnati all’OLP. Di loro, da quel giorno, non si è saputo più nulla.

L'allegato ad un appunto sulla strage di Fiumicino La sorte degli autori della strage non è l’unico buco nero di questa vicenda. Su quel giorno si adombrano le nubi nere dei presunti depistaggi, di allarmi non tenuti in considerazione e, soprattutto, delle intese italo-palestinesi. Gli accordi segreti tra governo italiano e settori della resistenza palestinese, che prevedevano il passaggio di armi in Italia in cambio dell'impegno dei terroristi di non colpire il Belpaese, erano già in atto? Oppure il "lodo Moro" era solo in fase di trattativa? E ancora: ci fu davvero dietro la mano della Libia? Le

molte domande restano oggi, come allora, senza risposta. E lentamente l’episodio è finito nell'oblio. Quella di Fiumicino è una "strage dimenticata", così come la storia di chi quel giorno si trovò a fronteggiare l’inferno. "Nessuno mi ha mai interpellato - dice Campanile - Era diventata una questione top secret. Nessuno faceva domande. Mi dicevano che era una cosa che dovevo tenere per me".

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L’Allievo Guardia di P.S. Antonio Campanile – 1972

Eppure la sua testimonianza, se confermata, può essere un tassello importante di un puzzle ancora incompleto. Per il figlio Luigi, papà Antonio con la sua azione avrebbe bloccato o almeno ridotto l’attacco terroristico. Dopo il decollo del volo della Lufthansa, Campanile riconsegna l'arma e dichiara ai superiori di aver esploso tre colpi. "Quei bossoli sono andato a prenderli da terra insieme a un altro poliziotto, sono stati infilati in una busta gialla e consegnati al comandate dell'aerostazione". L’agente scrive una relazione di servizio (che però "non si trova più"), viene portato in caserma alla Magliana e tenuto in consegna per sei giorni. "Non potevo uscire - racconta - né contattare i miei familiari. Un giorno sono stato portato alla Guido Reli per parlare con l'ispettore Ugo Macera. Ho spiegato di aver aperto il fuoco per legittima difesa, visto che il terrorista non smetteva di spararci addosso. E ho aggiunto di non aver insistito perché c'era il rischio che una pallottola potesse bucare l'ala carburante". Dopo quel colloquio, "non ho più visto i tre bossoli". Solo il 24 dicembre a Campanile viene concessa una licenza breve per tornare a casa, la fine di quello che considera un "sequestro" operato dallo Stato: "Non avevo fatto niente di male e mi hanno trattato come un delinquente". Dopo 46 anni Campanile ha deciso di raccontare la sua storia. Un libro è pronto per la pubblicazione, non appena un editore vorrà farsene carico. Si intitola: "Lo sparatore sono io". Alcuni si chiedono perché non abbia mai parlato prima d'ora. "Ho deciso di farlo dopo aver letto un libro sull’attentato dove si citava di tutto, tranne la nostra azione. Non mi ritengo un eroe, ma mi ha dato fastidio che nessuno abbia cercato di interpellare quell’agente con il Mab sul terrazzo". La relazione ufficiale parla della "azione di fuoco di alcuni agenti di Ps", senza però indugiare oltre. E nessuno ha mai seguito questa pista. È lei l’agente misterioso che ha sparato al terrorista palestinese? "Sì, certo che sono io. Ma qualcuno ha voluto tenere nascosta questa storia".

(8) Libri

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La paura non perdona Di Luigi Leonardi Marsilio Editore

(9) Link

www.blogo.it/

(10) Raccomandazioni e arretrati Come di consueto, invito tutti i destinatari a segnalarmi eventuali persone che vogliano essere inserite nella mlist. Con l'occasione vi invito a spedirmi materiale, inerente gli argomenti trattati, per la successiva divulgazione nella mlist AI (anche segnalazioni di articoli usciti su giornali on line ecc...). Questa Mailing List non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene inviata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della 42 legge n° 62 del 7.03.2001. L’autore non è responsabile del contenuto degli articoli che vengono presi da internet, viene citata ove possibile sempre la fonte e l’autore. La proprietà intellettuale del materiale inserito rimane del loro autore e dei siti dove è stato pubblicato. Questa mail è stata inviata a 4675 persone.

Arretrati: [ID_01] tesi di laurea su "Il valore probatorio delle indagini tecniche in tema di confronto di immagini"di Magda Zignani, Università degli Studi di Bologna, [ID_02] articolo in PDF: "Ear Biometrics"; di Mark Burge e Wilhelm Burger (in Inglese) [ID_03] articolo della Polizia Ticinese, comm. Emilio S. Baggi e Isp. Massimo Passamonti, sulle tracce di scarpe (in Italiano) [ID_04] locandina della ditta Seret che pubblicizza un prodotto sul controllo accessi (riconoscimento forme); [ID_05] manuale sulla "Fotografia digitale" di BenLong, Apogeo [ID_06] bollettino di ricerca di Denise ed immagini divulgate della Celentano [ID_07] Articolo di Computer Gazette sulla ricostruzione 3D della scena del crimine [ID_08] Il sopralluogo di Emilio S. Baggi della Polizia del Canton Ticino [ID_09] La figura del tra diritto e criminologia di Gianluca Massaro. [AI_10] Corso di fotografia applicato all'archeologia [AI_11] Argomenti: Vanacore (intervista), Cogne (nuovi indagati), l'interrogatorio di Bilancia, libri sulla crittografia, prima parte della storia della criminalistica [AI_12] Argomenti: Narducci, Balordi e Banditi di G.Bocca, Cogne, Compressioni all'avanguardia Wavelete ed FC [AI_13] Argomenti: Theodore Bundy, terza parte storia della Criminalistica, il formato JPG (prima parte), Cogne, Cesaroni, intervista a Picozzi su Erika ed Omar [AI_14] Argomenti: Theodore Bundy, quarta parte storia della Criminalistica, il formato JPG (seconda parte), Vanni parla in carcere, Serial Killer donne di Cinzia Tani [AI_15] Argomenti: Serial Killer donne di Cinzia Tani (seconda parte), impronte digitali, bandito Giuliano, il formato JPG (terza parte), ritrovamento Narducci [AI_16] Argomenti: DVI Identificazione vittime del tsunami, Lesioni chimiche l'avvelenamento, Colore, Mostro di Firenze, Teorie sul crimine di Lombroso [AI_17] Argomenti: Thailandia, La morte ed i fenomeni cadaverici, Novi Ligure, Privacy e Biometria,la teoria della Gestalt nella composizione fotografica [AI_18] Argomenti:Ti Mangerei, Frameline magnetism, Esplosivi, Una bomber, Picozzi su Lisboni [AI_19] Argomenti: Baby Lindbergh, Esplosivi, Una bomber, Il Crimine si aggiorna, Cogne [AI_20] Argomenti: Baby Lindbergh, Gestalt: figura e sfondo, Il Rimbalzo nella Balistica, Luminol, Bestie di Satana [AI_21] Argomenti: Cogne, Vizzardelli, Jeffrey Dahmer, unabomber, serie TV, il SK sadico e poeta [AI_22] Argomenti: Izzo, Verzeni, Jeffrey Dahmer, Immagini (da C a BN), Novi Ligure (1), Lo squartatore Francese

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[AI_283] SULLA SCENA DEL CRIMINE di N. Gallo e J. Ochs [AI_284] I BUONI LO SOGNANO I CATTIVI LO FANNO di R. Simon [AI_285] MOSTRI CRIMINALI di M. Centini [AI_286] L’ULTIMO GIORNO CON GLI ALAMARI di F. Amendolara e M. Tuzi [AI_287] IMPRONTE DIGITALI di A. Giuliano [AI_288] CARO AMICO TI HO UCCISO di A. Accorsi e D. Ferro [AI_289] LA SECONDA VITA DI MAJORANA di AA.VV. [AI_290] ANTICHI DELITTI di F. Caravetta 62 [AI_291] CHI HA UCCISO RINO GAETANO di B. Mautone [AI_292] I PASCIA’ di S. Minieri [AI_293] ANATOMIA DEL CRIMINE di V. McDermid [AI_294] PADRINI E PADRONI di N. Gratteri e A. Nicaso [AI_295] ACCADDE ALL’IDROSCALO di F. Sanvitale e A. Palmegiani [AI_296] MARTA RUSSO di M. Valentini [AI_297] PROFILER di M. Picozzi [AI_298] IL RAGIONEVOLE SOSPETTO di V. Abate e C. Calabretta [AI_299] COLPEVOLI DI OMICIDIO di Danner Darcleight [AI_300] CRIMINOLOGIA ESOTERICA di Giulio Perrotta [AI_301] REPERTORIO DEL DELITTO ITALIANO di Roberta Mercuri [AI_302] L’ARTE DEL CRIMINE IN 100 MAPPE di Fabrice Colin [AI_303] NON SIAMO STATI NOI di Paola Pagliari [AI_304] IL CASO MATTEI di Vincenzo Calia e Sabrina Pisu [AI_305] DELITTI FOLLI, DELITTI DI FOLLI di Ugo Fornari [AI_306] COSE DI COSA NOSTRA di G. Falcone e M. Padovani [AI_307] MOBBING di Luca Figua Diaz [AI_308] LA RESA di M. Zornitta [AI_309-310] LE BESTIE DI SATANA di G. Moroni [AI_311] L’ISTINTO DI MORTE di J. Mesrine [AI_312] THE TRUMAN BOSS di V. Balli e G. Lo Bianco [AI_313] GELOSIA di V. Volterra [AI_314] C'ERAVAMO TANTO ARMATI di Gian Ettore Gassani [AI_315] Bisogni e aspettative dei detenuti in vista del loro rientro in società: uno studio esplorativo di Elena Rossi [AI_316] LAGGIU’ TRA IL FERRO di Nicodemo Gentile [AI_317] LA SINDROME DI MEDEA di P. Pietrini e D. Veneruso [AI_318] SATANISMO TRA MITO E REALTA’ di C. Chiamerani, P. Lombardo e F. Sanvitale [AI_319] I PASSI PERDUTI di F. Bertè [AI_320] IL FENOMENO MAFIOSO di M. La Rosa [AI_321] UNO DI NOI di A. Seierstad [AI_322] IL CASO VERSACE di M. Orth [AI_323] GLI EROI DI VIA FANI di F. Boni [AI_324] DOVEVA MORIRE di F. Imposimato e S. Provvisionato [AI_325] AMOK. LE STRAGI DELL’ODIO di C. Lucarelli e M. Picozzi [AI_326] IL LIBRO DEL CRIMINE di AA.VV. [AI_327] VOLEVO FARE IL COMMISSARIO di Ruggero Perugini [AI_328] JOHNNY LO ZINGARO di Renilde Mattioni [AI_329] UNO DI NOI. LA STORIA DI ANDERS BREIVIK di Åsne Seierstad [AI_330] NARCISISMO PATOLOGICO di AA.VV. [AI_331] MALACARNE di Annacarla Valeriano [AI_332] DEI DELITTI E DELLE PENE di C. Beccaria

[AI_333] LE INDAGINI MEDICO LEGALI di G. Bolino [AI_334] DONNE SERIAL KILLER di V. Giacometti [AI_335] MORTE DI UN BRANDO RAGAZZO di P. Gentili [AI_336] AMNESIE di A. Palmegiani e F. Sanvitale [AI_337] MIRELLA GREGORI di M. Valentini [AI_338] LE STRADE DEL MISTERO E DEI DELITTI DI ROMA di M. Bartolazzi [AI_339] IL CASO E’ CHIUSO. LA VERITA’ SULL’OMICIDIO SIANI di R. Paolo [AI_340] CASAMONICA di N. Trocchia 63 [AI_341] IL KILLER DEL GREEN RIVER di J. Jensen e J. Case [AI_342] MORTE DEI PASCHI di E. Lannutti e F. Fracassi [AI_343] LA PENA DI MORTE ITALIANA di S. Di Persio [AI_344] SQUADRA MOBILE PALERMO di A. Chiolo [AI_345] NELLA SETTA di F. Piccinni e C. Gazzani [AI_346] AL POSTO SBAGLIATO di B. Palermo [AI_347] LA DONNA CHE UCCISE IL PRICIPE di F. Selmin [AI_348] #CYBERCRIME di C. Prediani [AI_349] MALAPUGLIA di A. Leccese [AI_350] UN GIOCO INFAME. LA BANDA DELLA UNO BIANCA di M. Polidoro [AI_351] LA VERITA’ DEL FREDDO di R. Fanelli e M. Abbatino [AI_352] AMNESIE di A. Palmegiani e F. Sanvitale [AI_353] DELITTI E VECCHI MERLETTI di G. Moroni [AI_354] IL CASO ELISA CLAPS di F.Sanvitale e A. Palmegiani [AI_355] L’ARTE DELL’INGANNO di Kevin Mitnick [AI_356] NEROVERONESE di N. Ruffo e C. Begnini [AI_357] IL CASO ELISA CLAPS di F.Sanvitale e A. Palmegiani [AI_358] CASAMONICA LA STORIA SEGRETA di F.Bulfon

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