ALDO GRASSO Storia Della Televisione Italiana
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ALDO GRASSO Storia della televisione italiana (prefazione di Beniamino Placido) Quarant'anni della nostra storia raccontati attraverso il piccolo schermo: per capire come sono cambiati la nostra società, le ore delle nostre giornate, il nostro immaginario. Tutte le informazioni e i commenti essenziali, anno per anno: - dall'Eiar alla Rai, dal boom delle private all'applicazione della legge Mammì: l'evoluzione istituzionale e politica della Tv in Italia; - i programmi che ricordiamo (e quelli da ricordare): in totale oltre 600 schede con dati tecnici, cast e giudizio critico; - il meglio della Tv: i programmi dell'anno da Un, due, tre (1954) a Twin Peaks (1991), con un breve saggio; - «A video spento», antologia della critica più autorevole, tra notazione di costume e analisi massmediologica; - le biografie di 91 personaggi, dagli intramontabili Arbore e Baudo, Bongiorno e Carrà, all'inafferrabile «Famiglia Auditel», da precursori come il professor Cutolo e Padre Mariano agli eroi della neo-Tv Chiambretti e Ippoliti; - «Cronache», ovvero gli eventi televisivi dell'anno: curiosità, scandali, polemiche, mondanità, tragedie, frivolezze... - le classifiche dei programmi più visti, un'accurata bibliografia, i film sulla Tv. - Inoltre, sezioni speciali su: la preistoria della televisione, divulgazione, cinema e sport in Tv, l'Europa delle televisioni. - Tre ampi indici per facilitare la consultazione: oltre 1200 titoli di programmi, circa 3500 nomi di grandi protagonisti e oscuri comprimari, un inventario delle «cose notevoli». L'enciclopedia della televisione italiana dalle origini ai giorni nostri. Aldo Grasso insegna Teoria e tecnica dell'informazione presso la Facoltà di lingue dell'Università Cattolica di Milano e scrive critiche televisive per il «Corriere della Sera». Ha ideato e condotto vari programmi televisivi e radiofonici, tra cui la fortunata serie «A video spento». E' autore di L'irrealismo socialista (1973), S'M' Eisen- stein (1974), Linea allo studio (1989) e Le televisioni in Europa (1990), ricerca condotta per la Fondazione Agnelli. 47 Prefazione - E l'Italia fu unita nel nome della televisione, di Beniamino Placido La televisione e gli italiani: per capire come la nostra televisione è nata, che cosa è diventata, e perché, occorre andare in biblioteca e cercare due articoli di trent'anni fa (pressappoco). Le nostre biblioteche purtroppo non sono accoglienti. In fatto di giornali, di riviste, di settimanali vecchi sono addirittura scoraggianti. Ed è forse per questo che nessuno dei giovani studiosi ai quali mi è accaduto di dare questo suggerimento l'ha mai seguito. Dovete accontentarvi allora del riassunto che di quei vecchi articoli sto per farvi io, sulla base del ricordo che è ancora vivo, malgrado sia passato tanto tempo (quanto per andare in biblioteca per cercarli e fotocopiarli, insisto: lo facciano i giovani studiosi che devono scrivere il libro per il dottorato di ricerca: io il dottorato non ce l'ho, e ai miei tempi non c'era). Il primo di questi due articoli reca la firma di Paolo Monelli. Apparve su «Tempo», il bel settimanale che era diretto allora (primi anni Cinquanta) da Arturo Tofanelli. Diceva il giornalista-scrittore Paolo Monelli (Le scarpe al sole; Mussolini piccolo borghese): sta arrivando anche da noi la televisione. E in giro si sente dire: non è il caso di preoccuparsi. Noi italiani siamo vivaci, indipendenti, individualisti: irriducibilmente «piazzaiuoli». Non abbandoneremo certo le nostre piazze, le nostre strade, le nostre passeggiate per passare la sera davanti a quell'apparecchio. Bugie: commentava Monelli. Noi siamo stati - ma chissà quanto tempo fa - vivaci, indipendenti, individualisti, irriducibili, eccetera. Non lo siamo più. Siamo dei falsi individualisti; degli anarcoconformisti. Ci piazzeremo davanti all'apparecchio televisivo e ci staremo quanto tutti gli altri. Più di tutti gli altri. Sono andate così le cose? Non sono andate così? Lascio al lettore la facilissima risposta. Il secondo articolo in questione apparve su «Il punto», il non dimenticato settimanale diretto da Vittorio Calef. L'aveva scritto Pier Emilio Gennarini, un uomo 48 che era appena entrato nella appena nata televisione di Stato, e vi sarebbe rimasto in posizione di comando - a formarla, a dirigerla, a caratterizzarla - per i successivi venticinque anni. Pier Emilio Gennarini - uomo estremamente intelligente e colto, fervidamente cattolico - aveva capito subito che cosa la televisione poteva essere, che cosa poteva fare. Non doveva, non poteva nemmeno diventare una cattedra o un pulpito. Doveva unificare il Paese. Doveva entrare in comunicazione con quel fondo di idee, di umori, di giudizi e di pregiudizi comuni ai quali nessuno sapeva dar voce. Doveva svolgere - a beneficio dell'Italia sommersa - un compito di intrattenimento e di coesione sociale. Anche qui: non è forse andata così, non è questo che accadde? Il nostro Paese si ritrovò riunito intorno a Lascia o raddoppia?, al Canzoniere, a Canzonissima. C'è chi sostiene (anche in sedi scientifiche autorevolissime) che questa è la natura vera, intima della televisione. Che essa deve fatalmente cercare un collante, un minimo denominatore comune nell'intrattenimento facile. Che altro può fare? Che quiz, canzoni, concorsi a premi sono i suoi punti di forza. Non so se sia vero. So che il nostro popolo, così vivace, indipendente, individualista, eccetera, stette al gioco. Le famiglie si riunirono la sera intorno all'apparecchio televisivo come si erano riunite prima intorno al rosario. Forse per cercarvi le stesse cose. Qualche santo a cui votarsi - o con cui identificarsi - per avere un po' di fortuna. Un Mario Riva, un Mike Bongiorno, una Bolognani in ogni casa. Se fosse bene o male non so. E non conosco nessuno che lo sappia con sicurezza. Chi può dire (e in base a che cosa?) che recitare sciattamente il rosario (le donne), o stravaccarsi sciattamente in osteria (gli uomini), passeggiare nevrastenicamente per il corso della propria cittadina (tutti) era meglio che seguire i programmi di Mario Riva? Posso invece dire qualche cosa di più preciso - e di più severo - a proposito degli intellettuali italiani, e dell'atteggiamento che assunsero nei confronti della televisione. Posso dirlo perché fu il mio atteggiamento. E solo Hemingway (che Dio l'abbia in gloria) mi salvò da contraddizioni maggiori. Siamo agli inizi degli anni Sessanta. La televisione è nata da sei, sette anni. Ho una casa, una occupazione, una famiglia. Persino una macchina (una 500 Bianchina comprata di seconda mano). Ma non ho una televisione in 49 casa. Non si può. Non si deve. Che intellettuale sarei se ce l'avessi? Cederei alla società di massa, alle comunicazioni di massa, all'industria culturale. Adorno mi guarderebbe male. Horkheimer mi rimprovererebbe. E non oso pensare che cosa ne penserebbe Lukàcs. Fu così che per far contenti Adorno, Horkheimer e Lukàcs non vidi quando dovevo la Canzonissima di Nino Manfredi («fusse che fusse la vorta bbona») che è ancora ricordata come un eccellente esempio di intrattenimento popolare. Fu così che perdetti anche molti Caroselli, che erano proprio belli: come ognuno sa. Poi Hemingway si suicidò (siamo quindi nel 1961) e qualcuno mi telefonò per chiedermi se volevo scrivere il commento ad una trasmissione da preparare in suo onore. Dissi di sì, con emozione. Dopo qualche giorno però mi resi conto che dovevo chiedere ospitalità a qualche amico più semplice, a qualche parente più bonario di me: se volevo vedere la trasmissione che io stesso avevo preparato. Perché io non ce l'avevo, no, un apparecchio televisivo in casa. Né intendevo comprarlo. Ci sono delle circostanze in cui bisogna proprio pensare, anche se non se ne avrebbe nessuna voglia. In quella circostanza mi trovai costretto a pensare che ci doveva essere qualcosa di contraddittorio in chi da una parte spregiava la televisione, dall'altra correva a collaborarvi, se qualcuno ce lo chiamava (e quanto alla scusa: ma si tratta di una trasmissione culturale - be' non ero tanto ingenuo da imbrogliarmi così, comunque non sarei riuscito a imbrogliare Adorno, Horkheimer e i loro allievi, i quali erano convinti che la televisione faceva un male del diavolo, indipendentemente dai suoi contenuti occasionali). Così il primo televisore, piccolo e modesto, entrò in casa. Devo dire - se mi guardo intorno - che non tutti furono altrettanto fortunati. Non a tutti venne in soccorso Hemingway. Ciò che è anche giusto, in fondo: non tutti avevano per Hemingway la stessa ammirazione che avevo, ed ho, io. Molti altri come me continuarono a dire peste e corna della televisione, in quegli anni: salvo a trepidare alla sola idea di essere chiamati a collaborare. E così arriviamo al «caso» Pier Paolo Pasolini: il quale propose apertamente, clamorosamente («Corriere della Sera», 18 ottobre 1975) di abolire insieme la scuola dell'obbligo e la televisione. Comincio a capire perché le biblioteche non funzionano, o funzionano male, da noi. 410 Perché conviene a qualcuno che non funzionino. Se si potesse andare in biblioteca tranquillamente e consultare senza fatica i giornali di dieci anni fa, quanti intellettuali si troverebbero che non solo plaudirono a Pasolini, ma rincararono la dose? Abolire la televisione? Per carità, distruggerla bisognerebbe. E per sempre. «Per fortuna io non ce l'ho. Non la vedo mai». Ma passa qualche anno. Il mondo cambia. E poi Pasolini è morto. Che bei funerali gli abbiamo fatto. Lo possiamo anche dimenticare. Ci sono trasmissioni televisive che rendono popolari. Ci sono programmi televisivi dove ti fanno portare il tuo libro. Sì, proprio il romanzo che hai appena scritto. E lo sai che il giorno dopo in libreria c'è qualcuno che lo va a cercare? Che nel tram ti riconoscono? Che il portiere del tuo palazzo (era ora) ti rispetta? Ed eccoli allora i romanzieri, i poeti, i saggisti che girano contro il muro i ritratti di Adorno, di Horkheimer, di Lukàcs ancora appesi nello studio (un po' come facevano le nostre antenate con i quadri della Madonna, quando stavano per peccare in casa) e che si presentano con il libro sottobraccio, trepidando, alla trasmissione di Maurizio Costanzo.