Periodico del Centro Anno 4° • 2017 numero 2 Italiano per la Ricerca Storico-Educativa RSE c/o Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia

2 /2017 Università degli Studi di Firenze Edizioni ETS RSE ISSN 2384-8294

Editoriale di Stefano Oliviero Educazione, scuola e consumo

Stefano Oliviero, I consumi e la storia dell’educazione Davide Baviello, Storia dell’educazione alimentare in Italia nel Novecento RIVISTA DI STORIA Elena Marescotti, Tempo libero e qualità del consumo culturale: DELL’EDUCAZIONE aspetti politico-educativi nella Recreational Theory di E.C. Lindeman

Livia Romano, L’educazione familiare e il consumo del cinema negli anni Cinquanta tra Nord e Sud d’Italia

Emiliano Macinai, I diritti dei bambini nella società dei consumi: protezione e partecipazione

Juri Meda, Genesi ed evoluzione dei consumi scolastici in Italia tra Xix e Xx secolo

Graziano Mamone, La mercificazione dell’infanzia nella Guerra di Libia. 1911-1912

Domenico Francesco Antonio Elia, Per una mappatura del consumo degli attrezzi ginnici e sportivi nella scuola italiana: i marchi e i brevetti delle aziende italiane nel Ventennio fascista (1922-1943)

Gianluca Gabrielli, La rivoluzione dei consumi vista attraverso i problemi scolastici elementari Rivista di storia dell’educazione

Maria Cristina Morandini, Il boom economico sulle riviste degli insegnanti: uno sguardo alle pubblicità

Stefania Bernini, Consuming Socialists: Children, Families and the State in Postwar Poland

Georgina Maria Esther Aguirre, Ahorro, educación y modernidad. Ensayos de interpretación en una perspectiva de largo aliento

ISBN 978-884675139-3

9788846 751393

COPERTINA_RSE_2_2017.indd 1 14/12/17 17.24 Rivista di storia dell’educazione Periodico del Centro Italiano per la Ricerca Storico-Educativa

2/2017

Edizioni ETS

00a_pagine editoriali.indd 1 18/12/17 16.03 Rivista di storia dell’educazione

Direzione

Tiziana Pironi (Università degli Studi di Bologna), presidente CIRSE Carla Ghizzoni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), vice-presidente CIRSE Gianfranco Bandini (Università degli Studi di Firenze), segretario CIRSE

Comitato scientifico internazionale

Georgina María Esther Aguirre Lora (Universidad Nacional Autónoma de México) José-Manuel Alfonso-Sánchez (Universidad Pontificia de Salamanca) Hilda T.A. Amsing (Rijksuniversiteit Groningen) Gianfranco Bandini (Università degli Studi di Firenze) Alberto Barausse (Università degli Studi del Molise) Egle Becchi (già Università degli Studi di Pavia) Luciana Bellatalla (Università degli Studi di Ferrara) Bruno Bellerate (già Università degli Studi Roma 3) Milena Bernardi (Università degli Studi di Bologna) Emma Beseghi (Università degli Studi di Bologna) Carmen Betti (già Università degli Studi di Firenze) Francesca Borruso (Università degli Studi Roma 3) Catherine Burke (University of Cambridge, Regno Unito) Antonella Cagnolati (Università degli Studi di Foggia) Luciano Caimi (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Maria Helena Camara Bastos (Pontifícia Universidade Católica do Rio Grande do Sul) Franco Cambi (già Università degli Studi di Firenze) Rita Casale (Bergische Universität Wuppertal) Pierre Caspard (già Institut national de recherche pédagogique – INRP di Parigi) Pietro Causarano (Università degli Studi di Firenze) Hervé Antonio Cavallera (già Università del Salento) Mirella Chiaranda (Università degli Studi di Padova) Giacomo Cives (già Università degli Studi di Roma «La Sapienza») Mariella Colin (Université de Caen) Maria Isabela Corts Giner (Universidad de Sevilla) Antón Costa Rico (Universidade de Santiago de Compostela) Carmela Covato (Università degli Studi Roma 3) Antonia Criscenti (Università degli Studi di Catania) Joaquim de Azevedo (Universidade Católica Portuguesa di Porto) Fulvio De Giorgi (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) María del Mar del Pozo Andrés (Universidad de Alcalá) Inés Dussel (Centro de Investigación y de Estudios Avanzados – CINESTAV del Instituto Politécnico Nacional) Domenico Elia (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti-Pescara) Rosella Frasca (già Università degli Studi dell’Aquila) Luca Gallo (Università degli Studi di Bari) Décio Gatti Júnior (Universidade Federal de Uberlândia) Angelo Gaudio (Università degli Studi di Udine) Carla Ghizzoni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Angela Giallongo (Università degli Studi di Urbino) Gerald Gutek (già Loyola University di Chicago)

00a_pagine editoriali.indd 2 18/12/17 16.03 José María Hernández Díaz (Universidad de Salamanca) José Luis Hernandez Huerta (Universidad de Valladolid) Tomáš Kasper (Institut für Pädagogik und Psychologie di Liberec) Panagiotis G. Kimourtzis (University of the Aegean - Rodhes) Terciane Ângela Luchese (Universidade de Caxias do Sul) Justino Magalhães (Universidade de Lisboa) Charles Magnin (già Université de Genève) Eva Matthes (Universität Augsburg) Christine Mayer (Universität Hamburg) Juri Meda (Università degli Studi di Macerata) András Németh (Eötvös Loránd Tudományegyetem – ELTE di Budapest) Attila Nobik (Szegedi Tudományegyetem) Gabriela Ossenbach Sauter (Universidad Nacional de Educación a Distancia – UNED di Madrid) Joaquim Pintassilgo (Universidade de Lisboa) Tiziana Pironi (Università degli Studi di Bologna) Edvard Protner (Univerze v Mariboru) Fabio Pruneri (Università degli Studi di Sassari) Bela Pukansky (János Selye University, Slovakia) Geert Thyssen (John Moores University of Liverpool) Giuseppe Tognon (Libera Università degli Studi Maria SS. Assunta – LUMSA di Roma) Serge Tomamichel (Université Lyon 2) Giuseppe Trebisacce (Università della Calabria) Angelo Van Gorp (Universiteit Gent) Diana Gonçalves Vidal (Universidade de São Paulo) Carlos Eduardo Vieira (Universidade Federal do Paraná) Antonio Viñao Frago (Universidad de Murcia) Ignazio Volpicelli (Università degli Studi di Roma «Tor Vergata») Johannes Westberg (Uppsala Universiteta)

Comitato editoriale

Pietro Causarano (Coordinatore), Lucia Cappelli, William Grandi, Luca Montecchi, Stefano Oliviero, Rossella Raimondo, Giacomo Spampani

Rivista di storia dell’educazione è pubblicata dal Centro italiano per la ricerca storico-educativa (CIRSE). Rivista di storia dell’educazione is a double blind peer reviewed journal. I contributi in questa rivista sono preventivamente valutati anonimamente da esperti interni ed esterni, italiani e stranieri. L’attività di revisione è coordinata dalla direzione della rivista. www.rivistadistoriadelleducazione.it Periodico semestrale autorizzato dal tribunale di Pisa 14/2007

Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 ISBN 978-884675139-3 ISSN 2384-8294

00a_pagine editoriali.indd 3 18/12/17 16.03 00a_pagine editoriali.indd 4 18/12/17 16.03 indice

Dossier: Educazione, scuola e consumo. Analisi e prospettive storico-educative

Editoriale di Stefano Oliviero Educazione, scuola e consumo 7 Stefano Oliviero, I consumi e la storia dell’educazione 13 Davide Baviello, Storia dell’educazione alimentare in Italia nel Novecento 33 Elena Marescotti, Tempo libero e qualità del consumo culturale: aspetti politico-educativi nella Recreational Theory di E.C. Lindeman 51 Livia Romano, L’educazione familiare e il consumo del cinema negli anni Cinquanta tra Nord e Sud d’Italia 69 Emiliano Macinai, I diritti dei bambini nella società dei consumi: protezione e partecipazione 89 Juri Meda, Genesi ed evoluzione dei consumi scolastici in Italia tra Xix e Xx secolo 103 Graziano Mamone, La mercificazione dell’infanzia nella Guerra di Libia. 1911-1912 119 Domenico Francesco Antonio Elia, Per una mappatura del consumo degli attrezzi ginnici e sportivi nella scuola italiana: i marchi e i brevetti delle aziende italiane nel Ventennio fascista (1922-1943) 143 Gianluca Gabrielli, La rivoluzione dei consumi vista attraverso i problemi scolastici elementari 167 Maria Cristina Morandini, Il boom economico sulle riviste degli insegnanti: uno sguardo alle pubblicità 187 Stefania Bernini, Consuming Socialists: Children, Families and the State in Postwar Poland 205 Georgina Maria Esther Aguirre, Ahorro, educación y modernidad. Ensayos de interpretación en una perspectiva de largo aliento 225

Sezione miscellanea

Chiara Gualdi, Elda Mazzocchi Scarzella (1904-2005): una vita al servizio di madri e bambini 245 Gabriella Seveso, Educare all’altro: il rispetto dell’ospite nell’Odissea. Alcune riflessioni pedagogiche 259

00a_pagine editoriali.indd 5 18/12/17 16.03 Anna Scalfaro, Laura Bassi and the method called “ritmica integrale” 273 Anna Maria Colaci, Educare alla povertà: le Clarisse a Galatina 287 Chiara Lepri, Dal Robinson alle Robinsonaden: il mito e le metafore d’infanzia 299 Martino Negri, La ricezione dello Struwwelpeter in Italia 307 Michela D’Alessio, La professione docente in Italia meridionale nel primo Novecento. L’esperienza del maestro Ialenti in Molise 325

Recensioni

• Maria Teresa Moscato, Michele Caputo, Rosina Gabbiadini, Giorgia Pinelli, Andrea Porcarelli, L’esperienza religiosa. Linguaggi, educazione, vissuti, Milano, FrancoAngeli, 2017 (Hervé A. Cavallera) 343 • Claudia Pancino, La natura dei bambini. Cura del corpo, malattie e medicina nella prima infanzia fra Cinquecento e Settecento, Bologna, Bononia University Press, 2015 (Loredana Magazzeni) 345 • Paolo Alfieri, Le origini della ginnastica nella scuola elementare italiana. Normativa e didattica di una nuova disciplina, Lecce-Rovato, Pensa multimedia, 2017 (Domenico F.A. Elia) 346 • Dario De Salvo, La pedagogia del reale di Vincenzo Cuoco (1770-1823), Lecce, Pensa MultiMedia, 2016 (Silvia Annamaria Scandurra) 349 • Mario Gecchele, Simonetta Polenghi e Paola Dal Toso (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Milano, Edizioni Junior, 2017 (Juri Meda) 351 • Mauro Casadei Turroni Monti, Cesarino Ruini (a cura di), Musica ed esperienza religiosa, Milano, Franco Angeli, 2017 (Hervé A. Cavallera) 352 • Pablo Álvarez Domínguez (coord.), Los Museos Pedagógicos en España. Entre la memoria y la creatividad, Sevilla, Ediciones Trea – Editorial Universidad de Sevilla, 2016 (Fabio Targhetta) 354

Notizie

VIII edizione della Summer School Internazionale dei dottorandi di Storia dell’Educazione ad Alghero, di Lorenzo Alba 359 Imágenes, discursos y textos en Historia de la Educación, di Anna Debè, Carlotta Frigerio 360 Conference Report - ISCHE 39, Buenos Aires, July 17-21, 2017, di Luana Salvarani 362

00a_pagine editoriali.indd 6 18/12/17 16.03 dossier: Educazione, SCUOLA e consumo. ANALISI E PROSPETTIVE STORICO-EDUCATIVE

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Editorial Education, school and consumption Editoriale Educazione, scuola e consumo

Fin dalla sua comparsa sul pianeta terra, l’uomo, seppur in forme assai diverse nello spazio e nel tempo, ha sempre consumato e i consumi rappresentano dunque senza dubbio una delle lenti principali attraverso cui ricostruire la storia dell’umanità (Trentmann 2016). La ricca e recente storiografia nazionale e internazionale sui consumi, letteralmente esplosa negli ultimi trent’anni, ha infatti ampiamente dimostrato quanto essi siano stati, a lungo, centrali nell’evoluzione delle società, nonché nella definizione dei rapporti, delle relazioni e delle classi sociali e nella costruzione delle identità nazionali, generazionali e di genere. In altre parole la storiografia economica, sociale e culturale, complice il progressivo declino della centralità della civiltà della produzione, ha cominciato ad emanciparsi da una lettura deteriore e negativa dei consumi, per sposare una prospettiva libera dalla contrapposizione lavoro/consumo e quindi potere osservare il fenomeno in tutta la sua complessità e polisemia. In Europa, ad esempio, a cominciare dalla fine del Settecento anche l’abbigliamento, l’arredamento delle case, il consumo del caffè… hanno contribuito a definire e diversificare classi sociali come quella operaia e quella borghese, classi poi viceversa riavvicinate, ancora dai consumi e nei consumi nella crescente diffusione di un onnicomprensivo ceto medio, già a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento con l’evoluzione del sistema distributivo delle merci e la diffusione dei grandi magazzini (Capuzzo 2006). Un processo che alla fine del Diciannovesimo secolo prende lentamente il via per poi invece sbocciare nel corso degli anni Sessanta del Novecento quando inizia ad assestarsi una fascia di consumatori che oltre alla piccola borghesia comprenderà anche settori sempre più ampi della classe operaia. Oppure, sempre per ricordare esempi notissimi, pensiamo a quanto lo stile di vita americano almeno fin dagli anni Trenta del Novecento sia stato legato ai consumi (gli elettrodomestici, la mobilità, la moda, la musica, i supermercati…) e alla misura in cui l’american way of life a sua volta abbia inciso sull’Europa del secondo dopoguerra. Sembra poi impossibile, più o meno opportunamente e senz’altro solo prima della globalizzazione, separare alcuni consumi alimentari da

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 9-12 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i1.89 Stefano Oliviero, [email protected] (Università degli Studi di Firenze)

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altrettante identità nazionali, regionali o culturali (come l’Italia e gli spaghetti), per non parlare dello stretto legame, non a caso ultraindagato, fra i consumi (jeans, rock n’ roll, scooter…) e i giovani degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso (Capuzzo 2003; Scarpellini e Cavazza 2006). I consumi insomma definiscono e hanno definito ciò che siamo e che siamo stati e contribuiscono dunque da sempre alla nostra formazione. Consumare è un processo (formativo) che parte dal desiderio di un bene materiale o immateriale, per passare al suo acquisto e/o al suo utilizzo fino ad arrivare alla trasformazione di questo bene in un rifiuto che può essere infine riciclato. Un ciclo continuo che appunto educa (e addestra) le persone attraverso l’esperienza diretta ma anche in modo implicito tramite il bagaglio infinito di valori, positivi e negativi, di cui l’universo dei consumi è carico. Un valore formativo divenuto più evidente nel corso del Novecento con la progressiva affermazione dei consumi di massa e la nascita della cosiddetta società dei consumi. Tuttavia la storiografia educativa non sembra aver colto la rilevanza di questo dibattito tanto da averlo quasi del tutto ignorato. D’altro canto bisogna dire anche che, più in generale, gli studi pedagogici hanno dimostrato scarso interesse per il fenomeno del consumo a differenza invece delle altre scienze umane e sociali, come la psicologia, la sociologia e l’antropologia. Un disinteresse che ha in qualche modo pesato, insieme ad altri motivi, sulla mancata attenzione del fenomeno in prospettiva storico-educativa. Allo stesso tempo però, come vedremo nel mio articolo, che avrà una funzione introduttiva, non sarebbe corretto sostenere che la pedagogia abbia del tutto trascurato questo importante aspetto della nostra vita. Spesso se ne è occupata solo per giudicarlo quale fonte di alienazione, contrapponendolo al valore etico-formativo del lavoro, altre volte lo ha sfiorato, intrecciato o corteggiato senza però andare mai del tutto a fondo nella reciproca conoscenza. In ogni caso sembra evidente che il consumo abbia piena cittadinanza nel campo educativo ed è dunque opportuno iniziare ad indagare questo fenomeno come processo formativo nel presente e nel passato. Questo numero monografico si occupa intanto del passato e tenta di muovere i primi passi per studiare il rapporto tra educazione, scuola e consumo, spaziando dai contesti formali a quelli informali, dai supporti didattici all’editoria scolastica, dal tempo libero all’alimentazione, dall’educazione nazionale a quella sui banchi di scuola. Articoli dunque piuttosto eterogenei che, anche sotto questo aspetto, danno la cifra della complessità e della varietà del tema. Il contributo di Davide Baviello ci accompagna così in un viaggio sull’educazione alimentare tra scuola e società nel corso del secondo Novecento, mentre Elena Marescotti pone lo sguardo sul consumo culturale e sul tempo libero con uno spaccato sulla produzione di Eduard C. Lindeman fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Del cinema come bene di consumo tra centro e periferia nell’Italia degli anni Cinquanta si occupa invece Livia Romano, in particolare cercando di individuare gli elementi di educazione familiare nel cinema e del cinema italiano fino al Miracolo Economico. Non mancano poi alcuni affondi su altre realtà del mondo: Esther Aguirre sull’educazione al risparmio in Messico e Stefania Bernini sul ruolo decisivo giocato in campo educativo dal consumo nella

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Polonia socialista del secondo dopoguerra per la definizione e ridefinizione dei valori politici, sociali e culturali del paese. Più orientati invece, in modo esplicito o implicito, ad offrire spunti e piste di ricerca intorno al tema di fondo del fascicolo, gli articoli di Emiliano Macinai e Juri Meda. Il primo imposta infatti un ragionamento sulla emancipazione dell’infanzia dal lavoro e quindi sulla partecipazione e sulla mancata partecipazione attiva del bambino nei processi che determinano i consumi di massa e dai processi da essi innescati. Il secondo invece, fra le altre cose, invita ad una riflessione sulla produzione di massa di strumenti e supporti didattici come processo produttivo e di consumo che è andato di pari passo con l’incremento della scolarizzazione fra Otto e Novecento, offrendo peraltro una florida pista di ricerca sul ruolo dell’insegnante da produttore (di libri) a vettore di consumo. Del rapporto fra consumi e infanzia parla poi anche Graziano Mamone, il quale concentra l’attenzione sulla partecipazione indiretta dei bambini italiani alla guerra di Libia del 1911-12, coinvolti nella costruzione dell’identità nazionale anche attraverso il mercato dei quaderni scolastici, dei giocattoli e dei costumi in maschera con un esplicito richiamo al conflitto coloniale. Sulla produzione di attrezzature scolastiche fra età liberale e fascismo torna anche Domenico Elia, in particolare sull’evoluzione dell’industria ginnica e sportiva, con una sorta di censimento dei marchi brevettati nel Ventennio. Gianluca Gabrielli esplora invece il consumo sui banchi di scuola, per così dire più in profondità con un’analisi del tema nei problemi di aritmetica a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Sempre nell’ambito scolastico Cristina Morandini dà finalmente un primo quadro del ruolo e della funzione della pubblicità in alcune riviste per insegnanti fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, argomento di grande interesse rimasto a lungo in ombra nelle ricerche sull’editoria scolastica. Infine il mio contributo, che apre il fascicolo con la speranza di introdurre il tema in tutta la sua vastità grazie ad alcune battute sul rapporto tra consumi e storia dell’educazione. È utile infine ricordare che un assaggio di buona parte dei contributi presenti nel fascicolo monografico è stato presentato in occasione del convegno tenuto lo scorso giugno a Livorno, in Fortezza Vecchia, nell’ambito del Festival Educazione, scuola e consumo promosso, sotto la mia direzione, dal Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università di Firenze con il partenariato di vari Enti pubblici e di soggetti privati1. L’evento ha visto alternarsi convegni, seminari, workshop, laboratori per bambini, spettacoli teatrali, concerti, mostre e tanto altro con il fine di coniugare la ricerca scientifica sull’educazione al consumo con le attività pratiche e rendere accessibile il sapere scientifico a tutti i cittadini. In particolare, il convegno ispirato a questo fascicolo monografico ha permesso di muovere i primi passi nella scoperta di un filone di ricerca, come accennato, ancora poco frequentato in ambito storico-educativo ma che promette ampi margini di sviluppo, come è emerso

1 Per consultare il programma del Festival: https://issuu.com/dida-unifi/docs/libretto_programma_issuu; per il programma del convegno goo.gl/NPgFLM; pagina Facebook @educazionescuolaconsumo 15 ottobre 2017-

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nella vivace discussione pubblica di quei giorni e come credo sia confermato dai contributi presenti in questo numero speciale di RSE, articoli ricchi di contenuti e soprattutto propedeutici a nuovi approfondimenti e studi. Dodici articoli per tentare di arare un terreno in parte incolto ma per niente arido, nella convinzione che per salvaguardare il nostro futuro e quello del pianeta nel quale viviamo sia necessario conoscere e capire come siamo arrivati ad essere ciò che siamo.

Bibliografia

Capuzzo, Paolo. 2003. Genere, generazione e consumi: l’Italia degli anni Sessanta. Roma: Carocci. Capuzzo, Paolo. 2006. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino. Scarpellini Emanuela e Cavazza Stefano. 2006. Il secolo dei consumi: dinamiche sociali nell’Europa del Novecento. Roma: Carocci. Trentmann, Frank. 2016. Empire of things: How we became a world of consumers, from the fifteenth century to the twenty-first. Penguin UK. Kindle edition.

Website

https://issuu.com/dida-unifi/docs/libretto_programma_issuu 15 ottobre 2017 goo.gl/NPgFLM 15 ottobre 2017 @educazionescuolaconsumo 15 ottobre 2017

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consumptions and the history of education

I consumi e la storia dell’educazione

The article proposes an introductory reflection on the special issue and offers a historical perspective of the relationship between consumption and education, with particular attention to the evolution of historiography and to the pedagogical studies published in Italy between the Fifties and Seventies. L’articolo propone una riflessione introduttiva al numero monografico e offre uno sguardo sul rapporto tra consumi e educazione in prospettiva storica, con un’attenzione particolare all’evoluzione della storio- grafia e agli studi pedagogici pubblicati in Italia fra gli anni Cinquanta e Settanta. Key words: Consumption, social history of education, leisure, consumerism, affluent society. Parole chiave: Consumo storia sociale dell’educazione, tempo libero, consumismo, società affluente.

Un concetto polisemico

Nel corso dei secoli il verbo consumare e la parola consumo hanno avuto molte- plici significati e sfumature e sono stati soggetti a svariate interpretazioni etimologi- che, diverse da una lingua all’altra e talvolta perfino tra loro contrastanti. Con il ver- bo consumare si può infatti alludere al comprare, al mangiare, al finire, distruggere, e persino sprecare. Con il mutare dei tempi, del contesto culturale o geografico, i consumi possono infatti esser letti e interpretati sia come indice di benessere di una società sia anche, nel contempo, come termometro della sua crisi e del suo disagio. Consumare può essere inteso altresì come compiere, quindi alla stregua dell’atto fi- nale (il momento più alto) di un percorso, finito e quindi completato; oppure può essere riferito a qualcosa che è arrivato alla fine del suo percorso e che non esiste più perché logorato, esaurito, consumato appunto. Non è certo questo il contesto adatto per avventurarsi in un’approfondita analisi filologica, semantica o lessicale del termine, analisi che peraltro non sapremmo ne- anche condurre dovutamente perché privi delle competenze necessarie. Ci interessa piuttosto sottolineare subito il carattere complesso e polisemico del concetto stesso di consumo e tentare di fare qualche riflessione sulla sua evoluzione storica in cam- po educativo. Come accennato nell’editoriale (a cui rimandiamo), a partire dagli an- ni Settanta del secolo scorso, la storiografia economica, sociale e culturale ha infatti

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 13-32 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.91 Stefano Oliviero, [email protected] (Università degli Studi di Firenze)

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ormai ampiamente riconosciuto un ruolo di primo piano ai consumi nell’evoluzione delle società e delle relazioni umane: i consumi hanno dato un rilevante contributo alla costruzione e determinazione delle identità di genere, di quelle generazionali e nazionali, nonché di quelle delle classi sociali. La storia dei consumi in altre parole si è progressivamente emancipata dai margini della produzione storiografica, per gua- dagnare un posto accanto alla storia politica, sociale, culturale, etc., fino a diventare uno dei filoni di ricerca emergenti nel panorama internazionale (Capuzzo 1999, Ca- puzzo 2006, Scarpellini 2007a, Trentmann 2016)1. Gli studi storico-educativi, invece, sono stati finora prevalentemente latitanti in questo filone di ricerca, sulla scorta forse delle incertezze e della prudenza con cui la pedagogia ha trattato il tema, in virtù di una visione sostanzialmente parziale del fenomeno, sconfinata spesso in un giudizio negativo o addirittura di condanna. È altrettanto corretto però sostenere che il dibattito pedagogico ha risentito, forse più che altri ambiti di studio, anche della diffidenza con cui furono accolti i primi passi della cosiddetta società dei consumi nel nostro paese. Diffidenza che ha portato fre- quentemente anche a confondere i consumi con il consumismo, ovvero a confondere una pratica che inevitabilmente ha scandito, e da sempre scandisce, la nostra quoti- dianità (ognuno di noi mangia, compra, si veste…) con gli eccessi, spesso indotti e comparsi solo più recentemente, legati a quella pratica. Monica Ferrari, aprendo il convegno di cui in questo fascicolo compaiono alcuni contributi relativi agli interventi svolti2, per storicizzare il tema di fondo, ha fatto non a caso opportunamente riferimento alla definizione della parola consumo che compare sull’edizione del 1971 del dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, ov- vero «impiego che comporta un graduale esaurimento di energia, di materiali o di sostanza varie […]» e, come seconda definizione, «il processo economico di distri- buzione dei beni per l’appagamento dei bisogni» (DeVoto e Oli 1971). Descrizioni che riflettono la visione e la percezione all’epoca correnti del concetto di consumo, ancora ben lontano dal cogliere ed evidenziare la poliedricità della pratica e dell’uni- verso dei consumi. D’altro canto la scarna estensione del lemma che insiste sul con- cetto di logoramento ed esaurimento, la possiamo ritrovare anche in alcuni celebri dizionari pubblicati nei secoli precedenti come ad esempio nel Tommaseo (1861) o nel vocabolario della Accademia della Crusca; in quest’ultimo peraltro la voce con- sumo appare solo a partire dalla quarta edizione del 1729-38. La voce «consumare» (che invece compare già nella terza edizione della Crusca del 17 secolo), rimanendo sempre sui tre dizionari citati, offre un ventaglio assai più vasto di significati da cui traspare già in buona parte la complessità, le contraddizioni e la polisemia che emer- geranno mano a mano nel tempo3. Emblematico in questo senso la confluenza in un

1 cfr. anche la bibliografia http://www.bbk.ac.uk/history/our-staff/academic-staff/professor-frank-trentmann/ BibliographyEmpireOfThingsDec2015.pdf, 15 settembre 2017. E le recensioni al libro di Trentmann http://www. bbk.ac.uk/history/our-staff/academic-staff/professor-frank-trentmann/empire-of-things-reviews-articles-radio-and- talks 15 settembre 2017. 2 per il programma del convegno cfr goo.gl/NPgFLM 15 settembre 2017. 3 per consultare i dizionari citati: http://www.tommaseobellini.it/#/items 20 agosto 2017, http://www.lessico- grafia.it 20 agosto 2017.

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unico termine per assonanza, nella lingua italiana, dei due verbi latini consumare (fi- nire) e consummare (compiere), dal quale è poi derivata la duplicità del termine cui facevo cenno in apertura che ha inciso non poco sulla nostra cultura unitamente, è ovvio, ad altri svariati fattori. Del resto non si può non rievocare, sia pure en passant che la settima parola pronunciata da Cristo in croce (o comunque a lui attribuita) fu, come è noto, «consummatum est», cioè “è compiuto” (Gv 19.30), frase da secoli e ancora oggi occasione di dibattito storiografico, teologico e non solo (Gaeta 2006). Tornando invece alla parca definizione del Devoto-Oli del 1971, va detto che nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta i consumi presero gradualmente a diventare di massa fra lo stupore ed anche un certo disorientamento misto a timore, provocato dalle grandi novità e dai mutamenti indotti dal cosiddetto Miracolo economico che trasformò in breve tempo, non senza contraddizioni ed anche in modo disomoge- neo, un paese, nel complesso povero, in una potenza industriale (Crainz 2005). In altre parole sarebbe stato sostanzialmente antistorico poter leggere su un dizionario di allora una descrizione più articolata, che avesse tenuto conto della poliedricità del fenomeno all’epoca ancora poco o niente indagato in prospettiva storica. Quella del Devoto-Oli era una definizione in linea con i tempi o in altri termini, storicamente determinata. Ma se da una parte il Devoto-Oli offre una definizione asciutta ed essenziale di consumo, non manca però, sempre in linea con il periodo in cui fu pubblicato, di dar spazio all’interno della stessa voce anche al lemma «Civiltà dei consumi», mu- tuato dalla sociologia, in cui si legge: «propria di una civiltà che, ritenendo di aver raggiunto il soddisfacimento dei bisogni essenziali, lascia corso indiscriminato al soddisfacimento di quelli accessori, senza né ritegno, né programmi, né ideali, né prospettive d’avvenire» (Devoto e Oli 1971). Questi sono infatti gli anni in cui si discuteva molto dell’avvento della società affluente, sull’onda di alcune recenti e sti- molanti pubblicazioni come The affluent society (Galbraith 1958), o L’uomo consu- matore di George Katona (1960) pubblicato quest’ultimo da noi nel 1964, a seguire, fra gli altri, Consumi e società di Alberoni (1964), fino a La società dei consumi di Jean Baudrillard del 1970. Anni in cui il concetto di americanizzazione della società come sinonimo di espansione delle culture consumistiche pareva indiscutibile, salvo poi esser messo di recente in crisi soprattutto grazie agli studi di Victoria de Gra- zia (2006) e Frank Trentmann (2016), ma in modo particolarmente evidente grazie a quelli riguardanti i paesi non occidentali (Dikötter 2006, Garon and Maclachlan 2006, Gerth 2003, Russell 2004). Parallelamente, nel corso degli anni Sessanta, ri- scosse un’attenzione crescente la dura critica marxista alla società dei consumi e al suo potere totalitario e alienante, con testi assai severi come ad esempio L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, molto letto e discusso (1967). Così l’accento, nel dibattito pubblico italiano, cadde prevalentemente sugli aspet- ti deteriori e sul giudizio morale. È ormai nota infatti la diffidenza per i consumi di buona parte dell’establishment politico e culturale italiano di allora, anche di differenti fronti ideologici. Consumi letti quasi unicamente come “eccesso” quindi confusi tout court con il consumismo. Gli esempi sono svariati come ormai lo è la

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storiografia specifica (Colarizi 2006, Cavazza 2013, Capuzzo 2014, Casalini 2010). Basta pensare al prolungato silenzio della Chiesa sulla società dei consumi associato al tentativo di moralizzazione della modernità e della tecnologia (Marchi 2013), o al monito a più riprese di Pier Paolo Pasolini (Pasolini 1975)4 che metteva in guar- dia dall’aridità e, sulla scorta di Marcuse, dal totalitarismo dei consumi5. Interessante peraltro, proprio per sottolineare questa linea di tendenza, anche una celebre inter- vista rilasciata da Pasolini a Enzo Biagi in cui attaccava con il suo stile cordiale e pa- cato gli intellettuali integrati, ma diceva che anche lui era un consumista, se pur cri- tico, confondendo o forse preferendo la parola consumista a consumatore6. Per non parlare poi della demonizzazione dei consumi, almeno dal punto di vista formale, effettuata dal Partito Comunista Italiano o dal suo competitor, la Democrazia Cri- stiana già dagli anni Cinquanta e Sessanta (Casalini 2010), oppure di quella evocata dai principali osservatori di allora, come ben testimoniano i quotidiani o i settimanali dell’epoca (Cavazza 2013). Nel Paese persiste e viene celebrata, quale effetto delle restrizioni del passato elevate a virtù, una intransigente etica anticonsumistica, orien- tata alla parsimonia, riscontrabile anche nella vita privata e nelle scelte degli italiani (Asquer 2011, Aliberti 2003). È pur vero tuttavia che i timori e la diffidenza furono poi progressivamente superati, sconfitti dal desiderio di possedere nuovi beni e ser- vizi che, non senza contraddizioni, accumunava ampi strati sociali, fino ad arrivare all’entusiasmo per i consumi cresciuto nel corso degli anni Settanta che ha raggiunto il proprio culmine negli anni Ottanta (Fumian, Bernardi e Asquer 2014). Ma fu un entusiasmo che non prescindeva comunque dal giudizio morale, marcatamente ne- gativo, sui consumi eccessivi, giudizio che ha continuato a condizionare la lettura del fenomeno lasciando in ombra l’analisi del valore e del potere dei consumi nella trasformazione della realtà e dei soggetti sociali.

Definizioni pedagogiche

è stato dunque lungo e graduale il cammino compiuto dal fenomeno del consu- mo per poter esser riconosciuto nella sua polisemia e complessità, e non stupisce affatto che anche la storiografia abbia impiegato molto tempo per riuscire ad os- servarlo attraverso una nuova lente; un ritardo, si è detto, ancor più accentuato in campo pedagogico. Chissà se Don Milani, che come è noto alle parole e alla loro etimologia ha dedicato moltissimo tempo nella sua attività didattica, ha mai speci- ficatamente analizzato e approfondito l’origine di questi due vocaboli con i suoi ra- gazzi a Barbiana? Di certo, se lo ha fatto, non sarà stato tenero nell’esprimere, nel

4 cfr. in particolare Pasolini, Pier Paolo. 1973. “Sfida ai dirigenti della televisione”. Corriere della Sera 9 dicem- bre: 3 http://media2.corriere.it/corriere/pdf/2015/CORSERA_19731209_L_NAZ_NUL_03_00_A.pdf 6 novembre 2017 5 cfr. il documentario Pasolini e… la “forma della città” https://youtu.be/btJ-EoJxwr4, http://www.teche.rai. it/2015/01/pasolini-e-la-forma-della-citta-1974/ 15 ottobre 2017 6 per il video dell’intervista cfr. https://youtu.be/zlU0rf58ajA 10 ottobre 2017.

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corso della discussione, il suo parere, considerato come il priore fosse tutt’altro che ben disposto nei confronti della nascente società dei consumi. Basta pensare, tanto per fare un esempio fra gli altri, alle pagine di Esperienze Pastorali sulla ricreazione, nonché al libello Anche le oche sanno sgambettare o alla glorificazione della cultura contadina, fondata sul risparmio, che ha celebrato in tutta la sua opera pastorale e rievocato anche in Lettera a una professoressa (Milani 1957; Milani e Galeotti 1995, Scuola di Barbiana 1967, Santoni Rugiu 2003, 48-50). Ma su questi aspetti del pen- siero donmilaniano torneremo più avanti. Sorge invece spontanea e urgente un’altra domanda: quale spazio e considerazio- ne hanno riservato al consumo i dizionari pedagogici? Ai primi del Novecento, nel Dizionario illustrato di pedagogia diretto da Antonio Martinazzoli e Luigi Credaro, punto di partenza ineludibile, non compare né la parola consumo né il verbo consu- mare, assenza affatto anomala. Ma senza dubbio va segnalata la voce «Cose (lezioni di)» nella quale i due celebri pedagogisti parlarono del problema dell’insegnamen- to tramite gli oggetti e sugli oggetti, aspetti su cui Monica Ferrari, Matteo Morandi ed altri studiosi hanno concentrato più di una delle loro ricerche senza ovviamente mancare di far riferimento al lemma del dizionario, e sul quale quindi ora non ci sof- fermeremo (Ferrari 2011a, Ferrari 2011b, Ferrari Morandi e Platé 2011). Un ampio spazio sul dizionario illustrato è dedicato anche alla voce «Casse di risparmio scola- stico», voce nella quale, fra le altre cose, i compilatori danno ampio risalto al valore moralizzatore ed educativo del risparmio, valore che sarà a lungo rilanciato e soste- nuto nel corso del Novecento, come abbiamo avuto modo di argomentare altrove (Oliviero 2015, Santoni Rugiu 2003). «L’uomo educato al risparmio» si può leggere infatti «non fa spese inutili e nocive, e le spese inutili o nocive hanno origine da un difetto o da un vizio» (Martinazzoli e Credaro 1894-1908, vol. 1, 31). Passando invece rapidamente agli anni che più ci interessano, ovvero quelli in cui presero il via i processi di modernizzazione del paese, nel Dizionario di pedagogia, psicologia, storia dell’educazione edito nel 1958, la voce consumo e il verbo consu- mare non compaiono, come pure nel Nuovo dizionario di pedagogia diretto da Flo- res d’Arcais, pubblicato nel 1982. Un’assenza riscontrabile anche sull’Enciclopedia pedagogica diretta da Mauro Laeng (1989). Occorre giungere agli anni Novanta per riscontrare che il lemma trova spazio nel Dizionario di pedagogia e scienze dell’educa- zione di Piero Bertolini con la particolarità, assai significativa, di risultare accorpato alla voce «Consumismo». Così alla voce «Consumismo-Consumo» possiamo leggere: Se il termine consumo fa riferimento semplicemente all’utilizzazione di un bene di cui si ha bisogno, e se indubbiamente la quantità e la qualità dei consumi possono essere giusta- mente considerati come gli indici significativi dell’appartenenza ad una determinata classe sociale; il termine consumismo rappresenta una sorta di deviazione dal normale e necessa- rio consumo […] Il consumismo è indotto dalla pubblicità e dagli altri mass-media, a par- tire dalla televisione, e rappresenta per una corretta prospettiva formativa un ostacolo non indifferente: esso infatti conduce e convince l’individuo, a partire dalla stessa età infantile, che consumare ciò che piace o ciò che viene indicato come piacevole e valido è un diritto acquisito che non comporta nemmeno la fatica di appropriarsi di quei beni […] la cultura

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consumistica suggerisce molte volte, in particolare ai genitori, un comportamento largamente ricattatorio in quanto essi fanno dipendere il consumo di beni pervicacemente propagandati dall’assunzione dal parte del figlio di un determinato comportamento o di un determinato atteggiamento indipendentemente dal fatto che questi siano o no intimamente accettati dal figlio medesimo. Infine, evocando di fatto il pensiero economico classico, a partire da Smith e Ri- cardo, chiosa: «la quantità e la qualità dei consumi in una comunità sociale (in una Nazione) è per gli economisti uno degli indicatori più significativi del suo stato di benessere» (Bertolini 1996). Si tratta, in sostanza, di una definizione principalmente ispirata da una lettura pedagogica dei comportamenti e degli aspetti devianti legati ai consumi, quindi dal consumismo, a scapito di una analisi più libera del fenomeno. Non pare infatti un caso che il pedagogista bolognese abbia scelto di accorpare le due definizioni, rie- cheggiando così l’orientamento del dibattito accesosi alcuni decenni prima, cui ab- biamo fatto poc’anzi cenno, tendente talvolta a sovrapporre i due termini e/o con- cetti. Vale infatti la pena ricordare che le fonti bibliografiche a cui rimanda la voce sono La danza delle cose del sociologo Domenico Secondulfo, uscito nel 1990, e il noto studio pionieristico sul tema di Francesco Alberoni Consumi e società, pubbli- cato (in versione aggiornata) nel 1967 (ma del 1964). In definitiva lo spazio e il taglio riservati alla parola consumo nei Dizionari peda- gogici offrono di per sé un quadro articolato e un’idea eloquente sul rapporto epi- stemologico intercorso negli ultimi decenni fra pedagogia e consumi, quindi sullo scettiscismo, sulla scarsa attenzione e sul ritardo con cui il fenomeno è stato, pur con qualche eccezione, prevalentemente osservato. Rapporto che analizzeremo in seguito più diffusamente.

Storia, storia dell’educazione e consumo

Prima di soffermarci sul dibattito pedagogico sviluppato a partire dagli anni Cin- quanta, è opportuno volgere un rapido sguardo all’evoluzione storiografica sui con- sumi con specifico riferimento al campo educativo. Come ho avuto occasione di scri- vere altrove (Oliviero, 2016), l’interesse storiografico per l’universo dei consumi ha iniziato a muovere i primi passi con l’emergere della società affluente per diventare poi via via sempre più evidente. È stato un cammino iniziato negli Stati Uniti, pro- seguito in Europa e infine approdato anche in altre zone del mondo. The affluent society di John Galbraith, uscito nel 1958, fece un po’ da apripista alla lettura criti- ca della società, in continua crescita anche per effetto di bisogni artificiali e indotti, libro a cui in qualche modo fece da contro-altare il celebre The stages of economic growth: A non-communist manifesto, di Walt Whitman Rostow, uscito poco dopo (1960). Ma fu soprattutto fra gli anni Settanta e Ottanta che comparvero alcuni im- portanti contributi di questo filone di ricerca. Fra i primi studi volti a rivedere la pe- riodizzazione della storia dei consumi anticipandone l’analisi all’era pre-industriale,

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segnaliamo: Economic policy and projects: the development of a consumer society in early modern England di Joan Thirsk (1978), The birth of a consumer society. The commercialization of eighteenth-century England di Neil McKendrick, John Brewer, e John H. Plumb (1982), e Civiltà materiale, economia, capitalismo di Fernand Brau- del (1982). Questo cambiamento di prospettiva comportò anche una revisione della lettura, allora prevalente, secondo la quale la diffusione dei consumi nella società era quasi esclusivamente conseguenza della produzione di massa, o era addirittura rele- gata al periodo in cui le culture consumistiche stavano diventando di massa, ovvero gli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi sembra infatti ormai sempre più condiviso e ade- guato, interpretare la storia dei consumi come una lunga storia, di cui l’avvento del- la cosiddetta società affluente ricopre solo uno dei più recenti sviluppi (Trentmann 2016). La stessa metafora della nascita della società dei consumi sembra, a dire il vero, come nota lucidamente Trentmann, del tutto infelice «because, unlike a baby, consumption was not set on a natural, almost universal path of growth and deve- lopment. In the course of modern history, it was moulded by states and empires and responded to changes in culture and society, with resultant shifts in lifestyles, tastes and habits, prompting new identities and relationships» (Trentmann 2016). Dunque, a partire dagli anni Novanta, grazie al paradigma di lunga durata, alla scelta di riferimenti geografici più ampi e globali e non ultimo al clima post-guerra fredda7, gli studi storici sui consumi hanno avuto un andamento via via crescente, fino ad arrivare alla recente complessità di cui ha tentato di dare ragione proprio Frank Trentmann nel suo ponderoso volume più volte citato Empire of thinghs (2016). Oggetti, cultura materiale, genere, vita privata, quotidianità, cibo… sono so- lo alcuni fra i temi affrontati dalla storiografia sui consumi, peraltro intrecciati con la storia dei vari paesi del mondo, in differenti regimi politici e calati in altrettante epo- che. Esplosione di studi e ricerche di cui, come accennato, ho dato conto altrove e su cui non mi dilungherò quindi oltre (Oliviero 2016). Tuttavia è opportuno soffer- mare lo sguardo (se pur fugacemente) sul contesto storiografico italiano in cui l’inte- resse per i consumi, complici il ritardo e le modalità con cui il paese è andato moder- nizzandosi a partire dal Miracolo economico, è maturato più recentemente. Interesse che non a caso ha concentrato l’attenzione in prevalenza intorno agli anni del boom e che è andato dunque ad incrementare, oltre ai lavori di sintesi sulla storia del pa- ese, la storiografia specifica sul Miracolo economico e sui soggetti sociali e le novità emersi in quel periodo (Donne, giovani, alimentazione, migrazioni, supermercati, la- voro, moda…). Per un quadro dell’evoluzione e della varietà degli studi italiani vale però la pena ricordare, fra tutti, i numerosi lavori di Paolo Capuzzo e i quattro vo- lumi editi dal Mulino nel 2013, risultato della ricerca collettiva Consumi, benessere e legittimazione politica in Italia negli anni Sessanta-Novanta coordinata da Emanuela

7 cfr. a questo proposito Chernyshova, Natalya. 2013. Soviet Consumer Culture in the Brezhnev Era, Abingdon: Routledge; Vihavainen Timo Juhani e Bogdanova Elena (a cura di). 2015. Communism and Consumerism. The Soviet Alternative to the Affluent Society. Leiden-Boston: Brill; Crew, David F. 2003. Consuming Germany and the Cold War. Oxford: Berg.

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Scarpellini8, studiosa prolifica in questo ambito di ricerca (Scarpellini 2001, Scarpel- lini 2007b, Scarpellini 2008), in cui peraltro ha rinnovato il suo impegno da pochi mesi dando alle stampe anche una pregevole storia della moda (Scarpellini 2017). Per quanto riguarda invece gli studi storico-educativi, pare che il ritardo generale italiano abbia avuto in questo campo un peso specifico particolare. Oltre alla diffi- denza della pedagogia per la società dei consumi, di cui parleremo tra poco, l’indagi- ne storico-educativa è stata infatti gravata dalla forte e duratura influenza della storia delle idee e delle teorie e di quella politico-organizzativa, sia nella scelta dei temi da studiare che nell’impostazione di fondo (Betti 2016, 51-52). Tanto che fino ad oggi quello dei consumi è rimasto un territorio quasi del tutto inesplorato tranne qual- che incursione isolata (Scoppola 1988, Hengst 2001, Hengst 2002) e un unico lavoro monografico, La pedagogia del consumismo di Santoni Rugiu (2003), che riflette però i limiti del contesto in cui si muove. Il lavoro di Santoni infatti è una ricostruzione a maglie larghe sul passaggio dall’epoca in cui prevaleva l’etica del risparmio a quella del consumismo imperante, ricostruzione dalla quale di fatto i consumi, e il relativo dibattito storiografico, rimangono in buona parte esclusi, o comunque filtrati da una chiave interpretativa schiacciata sulla critica alla civiltà consumistica, richiamata op- portunamente anche nel titolo. D’altro canto il tema dei consumi rimane in buona parte ignorato anche in tutta la produzione storico-sociale, sebbene sia, al contrario, proprio orientata alla riflessione sugli aspetti informali e non-istituzionali dei proces- si formativi. Perfino il ponderoso volume Storia sociale dell’educazione, riconosciuta pietra miliare nel suo genere, uscito per la prima volta nel 1979, dedica meno di due pagine su oltre 750 al tema che ci interessa, per di più parlando indirettamente di società fluente; così come è in sostanza trascurato anche nel Piccolo dizionario per la storia sociale dell’educazione (Santoni 2010). L’universo dei consumi, insomma, ha incontrato di rado la storia dell’educazio- ne, di fatto impegnata a lungo in ricostruzioni teoretiche o politiche, ma anche più in generale distratta o disinteressata nei confronti di questo tema. Difficile trovare un cenno ai consumi, ad esempio, nelle varie storie della scuola e delle istituzioni educative, anche in quelle assai mature e fresche di stampa come Tutti a scuola! di Monica Galfré (2017). Come pure rimane altrettanto complicato rintracciarne anche solo cenni nelle ricostruzioni sull’extra-scuola. Perfino in recentissime e pregevoli pubblicazioni collettanee, come L’educazione extra-scolastica in Italia (Zago 2017), il tema gioca in assoluto un ruolo di secondo piano, rimanendo solo implicito e sullo sfondo in alcune trattazioni. Ma di consumi non troviamo traccia neanche in un fi- lone di ricerca che dalla fine degli anni Novanta per almeno 15 anni ha primeggiato, anche per quantità di contributi, su molti altri, ovvero la storia dell’editoria scolasti- ca, la quale offre, al contrario, molteplici spunti e fonti per una storia dei consumi in

8 scarpellini, Emanuela (a cura di). 2013. I consumi della vita quotidiana, Bologna: Il Mulino; Anania, Francesca (a cura di). 2013. Consumi e mass media. Bologna: Il Mulino; Cavazza, Stefano (a cura di). 2013. Consumi e politica nell’Italia repubblicana. Bologna: Il Mulino; Battilani, Patrizia e Benassi, Claudio (a cura di). 2013. Consumare il welfa- re. L’esperienza italiana del secondo Novecento. Bologna: Il Mulino. Per le pubblicazioni di Paolo Capuzzo cfr. https:// www.unibo.it/sitoweb/paolo.capuzzo/pubblicazioni 6 novembre 2017.

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campo educativo. Più attenta invece la storia dell’infanzia, la quale in qualche modo ha intercettato parte del dibattito comune alla storiografia sui consumi laddove ha indagato gli oggetti e la cultura materiale, a cominciare ovviamente dai lavori di Egle Becchi (2010). Ancora tutta da scrivere però la storia della mercificazione dell’infan- zia, che pur avrebbe da anni anche un modello cui ispirarsi nel volume The commo- difcation of childhood di Daniel Thomas Cook (2004). Sulla cultura materiale bisogna invece sottolineare il crescente impegno di diver- si studiosi in questi ultimi anni, fra cui ricordiamo le ricerche di Monica Ferrari, il monografico Per una storia dei luoghi della materialità educativa pubblicato nel 2014 nel Nuovo Bollettino Cirse (predecessore della Rivista di Storia dell’Educazione) e il recentissimo Mezzi di educazione di massa. Saggi di storia della cultura materiale della scuola tra XIX e XX secolo di Juri Meda (2016), libro che pure ha il merito di offrire uno sguardo dell’intero dibattito storiografico nazionale e internazionale su questo tema. Un impegno testimoniato in specie nel corso della III Conferenza Internazio- nale sulla Cultura Materiale della Scuola tenuta a Macerata nel settembre del 2017, culminata nella fondazione della Società scientifica per il Patrimonio educativo, la SIPSE9, impegno che lascia quindi di fatto immaginare buone opportunità di incon- tro e di sviluppo anche per il campo di studi di cui parliamo in queste pagine.

Pedagogia, tempo e consumo

Ma torniamo alla difficile relazione intercorsa nel passato fra pedagogia e consu- mi, dalla quale possiamo capir meglio le ragioni delle lacune nelle indagini storico- educative e allo stesso tempo possiamo iniziare ad indicare alcune piste di ricerca da seguire. In particolare andremo a cercare tracce di questa relazione, che abbiamo detto esser stata poco coltivata, negli anni in cui la società affluente andò mano a mano affermandosi. Vale però anzitutto la pena sottolineare che qui avanziamo solo ipotesi fondate più sull’effettivo mancato sviluppo di un filone di ricerca, piuttosto che sull’assenza di singoli contributi sul tema, molti dei quali magari ci saranno caso mai sfuggiti. In altre parole lo scopo delle pagine che seguono non ha la pretesa di costituire un bi- lancio esaustivo, quanto, piuttosto, l’avvio di una riflessione che peraltro dovrebbe e potrebbe esser condotta in futuro, a nostro avviso, solo in modo corale e non in soli- tudine. Una discussione di questo tipo implica infatti l’attenzione ad una molteplice varietà e complessità di intrecci difficilmente districabili senza una approfondita e pluridirezionale ricerca. Solo per elencarne alcuni, da una parte abbiamo una disci- plina, la pedagogia appunto, ancora profondamente impegnata a percorrere la strada dell’emancipazione per farsi prima scienza e poi scienza autonoma; dall’altra il paese attraversa la nota fase di straordinaria e “miracolosa” trasformazione e modernizza-

9 http://www.unimc.it/it/unimc-comunica/comunicati-stampa-1/2017/nasce-a-unimc-la-societa-italiana-per-il- patrimonio-storico-educativo 15 ottobre 2017.

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zione che investe le strutture sociali, economiche e politiche, spaziando dalla sfera pubblica a quella privata e quotidiana (Crainz 2005). Trasformazione di cui peraltro i consumi, com’è noto, furono da un lato la principale causa e dall’altro, nello stesso tempo, consentaneo effetto; consumi che poi divennero subito oggetto di giudizi pe- rentori fra apocalittici e integrati, tanto per usare quella che ormai è diventata, non a caso, un’espressione di uso comune. Poi i processi di scolarizzazione di massa, che scorrono rapidi già dalla seconda metà degli anni Cinquanta, e la ridefinizione dei giovani come soggetto sociale omogeneo (Piccone Stella 1993), nonché l’evoluzione del lavoro e del lavorare (Musso 2011, Causarano 2000), quindi le battaglie per i di- ritti e il tempo libero e liberato. In ogni modo per cominciare il discorso anche in questo caso dobbiamo fare rife- rimento a una riflessione già impostata e in parte avviata in altre occasioni (Oliviero 2016)10, la quale muoveva dalla debolezza epistemologica della pedagogia degli anni Sessanta stigmatizzata da Santoni Rugiu come «povera e nuda», che «riceve su molti canali ma non ritrasmette» (Santoni 1968, 124), per poi individuare nel dibattito sul tempo libero, sviluppato soprattutto fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, uno de- gli ambiti in cui andare a cercare cenni di eventuali riflessioni pedagogiche sui con- sumi. La debolezza della disciplina e la sua difficoltà nel farsi scienza, furono senz’altro fra i motivi che la videro poco attrezzata per affrontare, in modo autonomo, tutte le novità dei processi di modernizzazione del secondo Novecento, fra le quali, ap- punto, l’esplosione dei consumi. Non va dimenticato che, allo stesso tempo, la pe- dagogia era poi concentrata assiduamente sulle discussioni teoretiche o circoscritte alle questioni scolastiche, con scarsa attenzione per gli aspetti informali e sociali e comunque prediligendo, in ogni caso, un approccio di studio che potremmo defini- re scuola-centrico (si parla spesso infatti di educazione scolastica o extra scolastica). Come abbiamo avuto modo di accennare già nella rapida analisi relativa ad alcuni dizionari pedagogici, la disciplina da una parte ignorò il tema e dall’altra privilegiò in qualche misura un atteggiamento di prudenza e diffidenza. Tuttavia, anche se il consumo come argomento di meditazione e ricerca non pare esser stato in cima ai pensieri di molti pedagogisti, molti di loro lo incontrarono però giocoforza perché in certo senso costretti a misurarsi con la rapida evoluzione della società e in quell’occasione spesso lo giudicarono, perlomeno di primo acchito, es- senzialmente come una minaccia da combattere o quantomeno da contenere. Dalla fine degli anni Cinquanta i consumi iniziarono infatti a popolare l’immagi- nario e la quotidianità degli italiani con la graduale diffusione di beni durevoli come gli elettrodomestici o le automobili e conquistarono anche il loro tempo libero, sul quale appunto parte della pedagogia italiana posò lo sguardo. Il tempo del cosid- detto loisir, come veniva di regola definito allora, divenne così grande emergenza, riconosciuta come tale anche da coloro i quali, in campo educativo, fino ad allora

10 cfr. anche http://www.saperecoop.it/libri/Atti%20del%20seminario%20Coop%20con%20la%20scuola_ no%20link.pdf 15 ottobre 2017.

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avevano avuto occhi e orecchie prevalentemente per le questioni teoretiche e scola- stiche. Il tempo libero difatti era anzitutto una diretta conseguenza della crescita del lavoro industriale più organizzato, più ordinato e contenuto negli orari rispetto al passato; una conquista raggiunta con la lotta, un tempo strappato quindi al lavoro a cui dunque il lavoro andava anteposto in modo dicotomico; un tempo che si espan- deva di pari passo all’incremento dell’istruzione, un tempo infine dedicato allo svago e sempre più farcito di beni materiali (Tv, moda, scooter…) e immateriali (musica, cinema, divertimenti…) (Corbain 1996, Fanelli 2014). Compito della pedagogia fu quindi quello impegnarsi a trovare e suggerire una chiave interpretativa per orienta- re ad un uso adeguato e creativo del tempo libero, tale cioè da renderlo un’occasione formativa piuttosto che uno spazio alienante, ossia un momento di sola o prevalente distrazione e in quanto tale votato appunto al puro e semplice consumo, con il ri- schio, a loro giudizio, di risolversi in un tempo fondamentalmente sprecato. Di con- seguenza però i consumi furono intrappolati in questo dibattito che ne limitò forte- mente la lettura, la quale fu dunque in ogni caso filtrata dall’accoppiata dicotomica lavoro-tempo libero e lavoro-consumo. Lamberto Borghi ad esempio aveva in mente un tempo libero che mirava allo sviluppo individuale e sociale del singolo e di riflesso allo sviluppo della comunità, un tempo libero strettamente legato a quello di lavoro a cui era più integrato che contrapposto. L’umanità e la creatività, ingredienti a suo giudizio necessari per ren- dere le attività produttive formative, dovevano perpetuarsi nelle attività di svago e viceversa (Borghi 1962, 216). «L’uomo faber non può esser separato radicalmente dall’homo sapiens e dall’homo ludens» (Borghi 1962, 218). Il tempo libero dunque per Borghi era condizionato dai rapporti di produzione e dall’industria culturale, ma poteva e doveva farsi tempo di libertà attraverso la realizzazione della deweyana co- munità educante (Borghi 1962, 229). In sintonia in qualche modo con la posizione di Borghi troviamo Raffaele Laporta che insisteva sul superamento della contrappo- sizione tra lavoro e loisir per parlare invece di «tempo unico», dunque di formazione globale dell’uomo (Laporta 1964, 12-15). Dubbiosi sul valore educativo del tempo libero erano invece Giovanni Marina Bertin e Luigi Volpicelli. Se il secondo però intravedeva una possibile strada nella unità dialettica di un tempo unico, ovvero di un tempo di lavoro umanizzato, onde evitare il conformismo di un tempo libe- ro alienato (Volpicelli 1970, 54, 59), Bertin appariva decisamente preoccupato dalla mercificazione dello svago e dal potere alienante e disumanizzante dell’industria del loisir. Il tempo libero poteva assumere per lui un valore positivo e educativo solo se orientato verso attività stimolatrici del pensiero, attività volte alla crescita culturale dell’individuo, ad esempio attraverso l’impegno in attività associative e politiche e non di pura evasione e/o divertimento (Bertin 1964, Bertin 1975). Qualche anno do- po Franco Frabboni, allievo di Bertin, radicalizzò questa prospettiva e criticò fron- talmente l’universo dei consumi mettendoli senza esitazioni sul banco degli imputati. Il tempo libero, scriveva Frabboni, si porta appresso […] l’ipoteca di un’indissolubile relazione con un ‘tempo’ che lo pro-

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crea e lo tutela. Un pesante cappio al collo dal quale non si libererà mai più. Anzi, che lo stringerà progressivamente in un abbraccio mortale con l’avvento della società tecnologico- consumistica di marca capitalistica, dove il tempo libero subisce violentemente gli effetti ‘consumistici’ del fenomeno della superproduzione, trasformandosi in cassa di risonanza di bisogni da soddisfare, di beni fittizi, di oggetti di lusso e di sperpero artificialmente indotti, ampiamente gratuiti e superflui» (Frabboni, Guerra, Garagnani 1976, 12). E rilanciava: «il sottile veleno della ‘persuasione occulta’ […] investe dunque un uomo-consumo svilito a spettatore impotente di fronte alle incursioni di codici as- siologici manipolati e distorti, di un’informazione unilaterale e di parte, di istanze sociali cosparse di falsi bisogni e di falsi miraggi esistenziali» (Frabboni, Guerra, Ga- ragnani 1976, 15). Frabboni insomma in questo contributo in sostanza escludeva in prima battuta i consumi di massa dai processi educativi e di socializzazione. «L’uo- mo contemporaneo», insisteva ancora il pedagogista, trovandosi nella condizione di non potere più realizzare la propria personalità nelle ano- nime e reificanti attività della produzione (…) ricerca freneticamente un nuovo terreno di li- bertà in ciò che appare come l’assoluto contrario del regno dell’imposizione, e cioè nelle con- fezioni consumistiche degli svaghi di massa. Senza accorgersi che tali consumi, fruiti come oggetti di identificazione e appiattimento collettivo, non costituiscono che l’altra faccia della medaglia» (Frabboni, Guerra, Garagnani 1976, 16)11. Un sistema che secondo Frabboni incentivava quindi un tempo libero fatto di consumi materiali e immateriali superficiali, come lo stadio, la tv, il cinema. Sistema a cui concorreva pure la famiglia, che «tende ad orientare precocemente il bambi- no alla fruizione massiccia dei loisir adulti, a cominciare dalle emissioni TV», e la scuola, che «nega dignità didattica e rango culturale al gioco come espressione di personalità e cultura» e «perseguita ostinatamente quelle strutture extra-scolastiche (campi-gioco, centri ricreativi, atelier di quartiere, botteghe culturali etc) nelle quali i discenti potrebbero arricchire di uno spessore ‘creativo’ il proprio tempo libero» (Frabboni, Guerra, Garagnani 1976, 18); sistema al quale la pedagogia poteva pro- vare a porre rimedio solo dopo una riorganizzazione della scala di valori, una sco- larizzazione di massa e un’equa distribuzione dei redditi, per poi riempire il tempo libero di contenuti culturali attraverso adeguate strutture (come l’Arci e l’Uisp) che potessero garantire «l’emancipazione culturale e la partecipazione sociale del lavora- tore al proprio tempo libero» (Frabboni, Guerra, Garagnani 1976, 30). In estrema sintesi, nelle analisi dei pedagogisti citati finora, il tempo libero, per divenire educativo, doveva emanciparsi dall’essere un semplice svago o pura evasio- ne, per risultare invece orientato a favorire la crescita umana e culturale del singolo, unitamente a quella della comunità di appartenenza. I consumi di per sé non rien- travano indistintamente in questa categoria e quindi non potevano affatto avere au- tomatica valenza formativa. Il loisir insomma andava organizzato mediante attività

11 e aggiungeva: gli stessi «beni di consumo del tempo libero risultano prodotti e controllati (gestiti) dallo stesso Leviathan industriale» (Frabboni, Guerra, Garagnani 1976, 17)

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culturali e sottratto alle sconfinate mire di profitto proprie della società industriale. Si trattava di una linea piuttosto diffusa e in qualche modo trasversale sia agli am- bienti laici che a quelli cattolici. In questi ultimi, tuttavia, per superare l’accettazione passiva dei condizionamenti della società, al lavoro creativo di ispirazione marxista si preferiva, ovviamente, l’educazione integrale in vista della salvezza, della fratellanza e del rapporto con Dio, in altri termini in vista di una finalità di ordine superiore, tesa alla vita eterna di ciascuno (Volpi 1976, 210-11). Sempre sul fronte cattolico, don Milani fu invece assai più radicale e risolse il problema a monte: «alle persone normali il tempo manca, a quelle anormali invece avanza», il tempo libero e lo svago quindi non avevano ragione di esistere e accettarne l’esistenza avrebbe comportato «bestemmiare il tempo» perché «la vita è un bel dono di Dio e non va buttata via» (Milani e Galeotti 1995, 16). Don Milani affrontò a più riprese questo argomento e lo fece in maniera artico- lata ed esplicita già in Esperienze Pastorali dedicando come già accennato un intero capitolo alla ricreazione. Qui ci limiteremo però, anche per ragioni di spazio, solo a due o tre note. D’altro canto il pensiero donmilaniano è conosciuto: ogni gesto e ogni azione devono essere utili a qualcosa, devono fare crescere la persona, mentre il divertimento, lo sport, il cinema… tengono i ceti più deboli lontani dalla scuola e dal sindacato e sono funzionali quindi solo al padronato (Milani 1957, 128-129). In altri termini le differenze di classe non sono di certo colmabili con il livellamento dei gusti attraverso un più largo accesso ai consumi (Fallaci 2007, 159). Celebre e spesso ricordato in varie occasioni l’aneddoto in cui il priore gettò tutti gli “attrezzi” utili a divertirsi (racchette, fioretti, pallone etc) nel pozzo (Fallaci 2007, 163). Il lavora- tore manuale peraltro, a suo giudizio, non aveva neanche la necessità fisiologica di svagarsi col pallone o col calcetto perché già duramente impegnato nell’esercizio fi- sico durante le ore di lavoro. Semmai avrebbe dovuto «ritornare un po’ uomo con lo studio e non di conservarsi con una sterile ricreazione quella bestia che è diventato col lavoro fisico» (Milani 1957, 134). Le attività ricreative insomma per don Milani dovevano avere una loro valenza istruttiva per esser accettate e praticate, requisito, questo, che non riusciva affatto ad intravedere nelle proposte di intrattenimento, un po’ sotto tutte le forme, diffuse nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta: «cine e te- levisione (così come sono ora) si propongono lo svago come fine supremo. Esistono quasi solo in funzione del divertimento di milioni di uomini che non sentono su di sé la chiamata imperiosa a usarlo bene questo breve tempo d’esame che Dio ci ha dato» (Milani 1957, 156). Al di là delle analisi e delle denunce provocatorie del priore, nonché del suo inti- mo e viscerale disprezzo per lo svago fine a se stesso, la posizione del priore di Bar- biana era in certa misura in linea con la tendenza prevalente del pensiero pedagogico dell’epoca, perlomeno per quanto riguarda lo spreco del tempo, in specie se consa- crato ai consumi. Nella ruvida conversazione che ebbe nel 1965 con alcune alunne delle scuole medie di Borgo San Lorenzo sulla questione del ballare in classe, più tardi trascritta con il titolo Anche le oche sanno sgambettare, don Milani condannò senza mezzi termini il potere dei consumi e la mercificazione del tempo libero e non

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solo. «Un ballo se è bello o brutto», disse fra le altre cose «non importa. Quello che impongono è quello che pigliate. Se fissano a New York che quest’anno ballate l’Aida, voi ballate l’Aida, se fissano che ballate la messa da morto, ballate la messa da morto […]. Purtroppo la mia previsione è che sarete pecore, che vi piegherete com- pletamente alle usanze, che vi vestirete come vuole la moda, che passerete il tempo come vuole la moda» (Milani e Galeotti 1995, 34). D’altra parte abbiamo già ricordato il continuo richiamo nel suo sacerdozio al valore del sacrificio e del risparmio e all’omaggio alla civiltà contadina a cui anche la Lettera a una professoressa dedicò non poco spazio. A questo proposito, sempre in Esperienze pastorali don Lorenzo era stato inequivoco anche sull’uso del denaro: «non è bello educare i ragazzi a spendere senza motivo e per il proprio piacere. È facilissimo abituarli a non spendere affatto, oppure a spendere in opere buone o in acquisti utili. […] Tanto più grave è lo spendere invano quando i soldi li ha guada- gnati il babbo» (Milani 1957, 140). Per Padre Balducci, in questo modo di pensare ed esprimersi di don Milani traspariva una indubbia «tendenza manichea», tendenza che non riguardò solo il tempo libero in sé e quello eterodiretto dalla società dei consumi, ma che si estese anche a tutte le forme organizzative dello svago, per così dire popolari, diffuse nella Toscana di quegli anni, come le Case del Popolo e gli Oratori (Milani 1957, Santoni 2007, 74). In questo don Milani si discostava dall’at- teggiamento fiducioso con cui alcuni esponenti del pensiero pedagogico del nostro Paese guardavano alle associazioni e ai centri esistenti a livello territoriale. In verità va detto che molte di queste associazioni fornivano soluzioni non più stimolanti e critiche di quelle proposte dall’industria culturale, come ad esempio il ballo, le tom- bole, il calcio balilla, il pallone e via dicendo, in cui don Milani non intravedeva effi- caci antidoti contro l’alienazione e il consumismo. Siamo costretti a non attardarci sul tema, invero assai interessante, delle organiz- zazioni formali del tempo libero e dei consumi culturali, ossia sul mondo associativo, ricreativo e politico, laico e cattolico, su cui peraltro non manca un’abbondante e varia letteratura, in quanto ci allontanerebbe dal discorso che abbiamo intrapreso. Ritornando invece alle accennate posizioni dei pedagogisti di quel periodo, è ne- cessario dare almeno un rapidissimo sguardo al campo dell’educazione permanente che sui consumi e sull’attività culturale sviluppò un innovativo cambio di prospettiva ragionando del tempo di lavoro e di non-lavoro nella loro unitarietà. Fu in partico- lare Filippo Maria De Sanctis, nel corso degli anni Settanta, a sottolineare con forza, partecipando all’intenso dibattito coevo, che tutta l’attività culturale non si sottraeva, ne fosse consapevole o no, ai meccanismi dell’alienazione. «Il capitalismo del secolo scorso» scrive de Sanctis «poteva trovare il suo profitto nelle dodici ore di lavoro in fabbrica, ma quando il lavoratore sfruttato aveva terminato la fatica, il suo corpo era esausto, ma la sua mente poteva cercare un divertimento che era relativamente indipendente dall’industria per la quale lavorava. Quando, però, il lavoro in più del proletario viene sostituito dal cosiddetto «tempo libe- ro» del consumatore, un altro sfruttatore del salariato diventa l’industria, sotto la forma cul- turale e ricreativa» (De Sanctis 1975, 16)

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Ne conseguiva che la tendenza ad indicare l’attività culturale come antidoto per il superamento dell’alienazione era a suo parere tanto erroneo quanto inefficace. An- che il tempo libero infatti «da un punto di vista educativo, è il frutto ideologico di una realtà di rapporti di produzione in cui il lavoratore è forza-lavoro […] un modo di produzione — magari sub specie consumistica — in una realtà globale onnilavo- rativa» (De Sanctis 1975, 49). «Non sarà continuando a suddividerci in due comportamenti, «di produzione» e «di con- sumo» (uno critico e l’altro acritico; uno attivo e l’altro passivo; uno creativo e l’altro sterile) che le strutture economiche verso le quali siamo critici, attivi e creativi nelle lotte potranno modificarsi se – in contemporanea – continueremo ad essere acritici, passivi e sterili verso i «prodotti culturali». […] Insomma la produzione produce il consumo sia creandogli il ma- teriale, sia determinando il modo di consumo, sia la propensione al consumo» (De Sanctis 1975, 127) In altre parole De Sanctis insisteva per superare le false antinomie lavoro/consu- mo e lavoro/tempo-libero, «spiegando il consumo come produzione» per poi collo- care il «pubblico», ovvero il fruitore adulto dell’industria culturale come il cinema o la TV, all’interno del processo produttivo così da trasformarlo in «agente modifican- te» e non solo «modificabile» del processo produttivo stesso; per dare in altre parole un ruolo attivo al «pubblico» nel processo della produzione culturale (De Sanctis 1975, 145) In verità già qualche anno prima anche Francesco De Bartolomeis era andato al di là della ricorrente denuncia dell’alienazione per proporre un cambiamento di pro- spettiva e invitare perciò, in controtendenza rispetto agli altri pedagogisti, a non sot- tovalutare la «vitalità innovatrice del consumo» (De Bartolomeis 1965, 52). D’altro canto De Bartolomeis era impegnato oramai da tempo nella costruzione di una pe- dagogia come scienza (De Bartolomeis 1953), così in particolare in Cultura lavoro tempo libero e in Formazione tecnico-professionale e pedagogia dell’industria usciti en- trambi nel 1965, aveva offerto parecchi spunti per delineare una diversa concezione del rapporto tra pedagogia e consumo. A suo parere il consumo non era affatto solo legato ad «alienazione e passivizzazione» perché, affermava, «in esso si delineano no- vità in fatto di atteggiamenti e di comportamenti che hanno conseguenze culturali positive». Si trattava, in sostanza, di «operare anche nel consumo e non solo contro il consumo, di accogliere gli aspetti di innovazione e di creazione che sono in esso» (De Bartolomeis 1965a, 52-53). Il consumo implica una risposta attiva dell’individuo di fronte a una nuova disponibilità strumentale, e quindi occorre che l’individuo faccia qualcosa e, in certa misura, inventi. L’in- dustria può creare lo scooter ma non predeterminare tutte le esperienze e tutti i significati a cui questo strumento dà accesso. È sul piano dell’esperienza, dell’uso, del consumo appunto, che l’individuo si riprende, per così dire, la rivincita e crea per suo conto, afferma le sue pro- pensioni e il suo gusto (De Bartolomeis 1965b, 67) In sintesi De Bartolomeis venne proponendo una revisione radicale in campo pe- dagogico del rapporto lavoro/tempo libero e lavoro/consumo; una revisione libera

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da rigide imposizioni ideologiche, capace cioè di oltrepassare, come sosterrà pure De Sanctis, una interpretazione semplicistica di quel rapporto che fino ad allora non aveva contemplato, pur esistendo, «gli aspetti produttivi e inventivi del consumo stesso» (De Bartolomeis 1965b, 153). Tuttavia, come più volte accennato, nonostante questi interventi senz’altro fuori del coro, il consumo come processo formativo in sé, non è stato diffusamente ap- prezzato né molto corteggiato e non pare avere avuto neanche molta fortuna come argomento di studio e di approfondimento, mentre diverse realtà extra accademiche, negli anni successivi, seppero coglierne il significato e trarne occasione per realizzare valide occasioni educative. Ci riferiamo, in particolare, al mondo delle cooperative di consumatori che dalla fine degli anni settanta misero in piedi rilevanti progetti intesi a muoversi proprio in quella direzione (ANCC 2010), sulla cui validità ed esclusività (in quegli anni) non mancò neppure il plauso del mondo pedagogico ed anche di quello accademi- co (Frabboni Guerra Scurati 1999). Si tratta però di un capitolo di cui abbiamo già dato conto, seppur parzialmente, altrove e che, meritando un adeguato autonomo approfondimento, non mancheremo in futuro di riprendere. Qui ci limitiamo a sot- tolineare che allorché si verificò l’intento di far opera di educazione al consumo da parte delle COOP, siamo all’alba degli anni Ottanta, una stagione carica di rilevan- ti novità e particolarità nell’universo dei consumi che si riverbereranno prepotente- mente anche in campo educativo e scolastico. Crediamo che la discontinuità che si è determinata in quel periodo, con l’emergere di sotto-culture giovanili totalmente definite dai consumi come ad esempio i “paninari” o all’invasione dell’industria e del mercato nella scuola con i prodotti di cartoleria e gli strumenti didattici legati ai grandi marchi di moda o a marchi di giocattoli tratti a loro volta da serie animate televisive, giustifichi la chiusura di questo nostro contributo proprio alla vigilia di quella nuova stagione, che apre, data l’accennata svolta, un periodo a sé, e che pro- prio in quanto tale necessita di un separato e autonomo approfondimento.

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History of the Nutrition Education in Twentieth Century Italy

Storia dell’educazione alimentare in Italia nel Novecento

In the twentieth century the central position for nutrition education belonged to the family, where children learned the fundamentals of food. The school played an important role, not for consumption education but for keeping the traditional gender difference on nutrition. Furthermore, the class difference in food habits was very deep, at least until the economic boom. To face the lack of food, during the first world war, the propaganda opposed the common convictions about nutrition. Fascism turned to women, giving special importance to home economics, because they had to cook Italian products and to spare. Italian people were largely educated to be frugal, but from the Sixties the advertising asked Italians to consume more. In the first half of the century food habits were especially influenced by the political propaganda. In the second half of the century, business advertising was predominant and the image of food became more impor- tant than the contents of product. The absence of consumption education substituted the lack of food as threat to Italians’ health. The early consumer associations undertook to promote nutrition education, while the State action was insufficient and inadequate. Attention for consumption education and its teaching at school increased only after the methanol wine scandal (1986). Nel Novecento il posto centrale per l’educazione alimentare fu occupato dalla famiglia, in cui i bambini acquisivano le principali indicazioni sul cibo. La scuola svolse un ruolo importante non tanto nell’edu- cazione al consumo quanto nella conservazione delle tradizionali distinzioni di genere riguardo all’ali- mentazione. Anche le differenze di classe negli stili alimentari furono particolarmente forti, almeno fino al boom economico. Per fronteggiare la scarsità di cibo, nella prima guerra mondiale la propaganda po- litica contrastò le convinzioni più diffuse sull’alimentazione. Il fascismo si rivolse soprattutto alle donne, attribuendo particolare importanza all’economia domestica, perché dovevano usare in cucina i prodotti italiani e risparmiare il più possibile. La popolazione era stata educata a essere parsimoniosa, ma a partire dagli anni Sessanta attraverso la pubblicità gli italiani furono invitati a consumare sempre di più. Nella prima metà del secolo le abitudini alimentari erano state influenzate soprattutto dalla propaganda politica. Nella seconda metà del secolo la propaganda commerciale acquisì la posizione centrale e l’immagine dei prodotti alimentari diventò più importante del loro contenuto. L’assenza di educazione al consumo prese il posto della mancanza di cibo come minaccia alla salute degli italiani. Le prime associazioni dei consumatori si impegnarono per promuovere l’educazione alimentare, mentre l’azione dello Stato fu insufficiente e inadeguata. L’atten- zione per l’educazione al consumo e il suo insegnamento a scuola aumentò soltanto dopo lo scandalo del vino al metanolo (1986). Key words: Nutrition education – Home economics – Fascism – Consumerism – Advertising – Childhood. Parole chiave: Educazione alimentare – Economica domestica – Fascismo – Consumerismo – Pubblicità – Infanzia.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 33-50 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.58 Davide Baviello, [email protected] (Università degli Studi di Firenze)

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L’educazione alimentare come disciplina scolastica non ha trovato spazio nella scuola italiana del Novecento. Solo nel 2003, con la legge n. 53 (Riforma Moratti), è stata introdotta nei programmi didattici nell’ambito del percorso formativo interdisci- plinare di convivenza civile. Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione dei governi nel favorire scelte alimentari sane, improntate alla valorizzazione della qualità, al rispetto dell’ambiente e alla scoperta dell’identità collettiva attraverso la cultura alimentare (Squillaci 2017, 48). Nel secondo dopoguerra, più della scuola furono le associazioni dei consumatori a svolgere un’azione importante per educare alla corretta alimen- tazione. Come nel resto d’Europa l’associazionismo dei consumatori iniziò a fiorire negli anni Cinquanta, con l’avvio della fase di massima espansione economica e dello sviluppo dei consumi di massa. Nella prima metà del Novecento le scelte alimentari erano orientate prevalentemen- te dalle abitudini familiari, in parte condizionate dalla volontà politica delle autorità statali e, riguardo ai ceti più abbienti, dalla pubblicità. La comunicazione pubblicita- ria riguardava in particolare gli alimenti, che assorbivano una quota molto più ampia della spesa rispetto ai paesi economicamente più avanzati dell’Europa e soprattutto agli Stati Uniti. Nella società americana a partire dal periodo tra le due guerre e nelle società europee dal secondo dopoguerra, grazie alla diffusione del benessere tra la po- polazione, la percentuale di consumo alimentare rispetto al totale sarebbe diminuita sempre di più1. Dagli anni Sessanta aumentò l’attenzione della storia sociale per l’alimentazione, valutata quantitativamente per spiegare le condizioni di vita delle classi popolari (Bil- tekoff 2012, 179). Per l’età contemporanea gli storici si concentrarono sui cambia- menti alimentari nel passaggio dalla società rurale a quella industriale. Con la «svol- ta linguistica» nella storiografia degli anni Ottanta, l’alimentazione diventò un tema importante per spiegare dal punto di vista culturale la realtà storica (Kamminga and Cunningham 1995; Levenstein 2003). Sebbene anche in Italia siano stati compiuti stu- di storici approfonditi sul tema, resta poco indagata l’educazione alimentare (Capatti, De Bernardi and Varni 1998). Per ricostruire la storia dell’educazione ai consumi alimentari nel Novecento ho utilizzato diversi tipi di fonti primarie: dati statistici; testi dell’Ufficio di propaganda per la disciplina dei consumi; pubblicazioni delle associazioni patriottiche; manuali di economia domestica; campagne pubblicitarie; inchieste parlamentari; documenti a stampa delle associazioni dei consumatori; riviste specializzate; film; indagini scienti- fiche; guide sull’educazione alimentare destinate alle scuole. Ho rivolto una particolare attenzione al modo in cui si trasmettevano all’infanzia le indicazioni su cosa e come mangiare. Tanto per i bambini quanto per gli adulti erano presenti differenze di classe nelle abitudini alimentari. I significati simbolici del cibo consumato dalle famiglie più abbienti si riflettevano nei canoni estetici, che nel corso del secolo cambiarono assieme al mutamento degli stili alimentari.

1 anche dopo il boom economico in Italia la percentuale di consumi alimentari sul totale dei consumi privati interni continuò a essere maggiore a quella di molti altri paesi industriali (Istat 1967, 24).

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Nei periodi bellici e durante il fascismo la propaganda si rivolse soprattutto alle donne, per il loro ruolo centrale nell’alimentazione delle famiglie. Nel periodo tra le due guerre da un lato la propaganda politica cercava di favorire il consolidamento delle basi del regime fascista, dall’altro la propaganda commerciale si impegnava nella diffusione sul mercato di nuovi prodotti. Dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto in seguito al boom economico, nei consumi alimentari ci furono profondi cambiamenti ma anche significative continuità con il passato. Le conoscenze scientifiche erano ancora insufficienti a garantire una corretta alimentazione. La nascita delle prime associazioni dei consumatori destarono l’opinione pubblica dal torpore che pesava sulla società italiana in tema di educazione al consumo, mentre lo Stato continuò a svolgere un’azione debole nella sicurezza ali- mentare e inefficace nell’istruzione scolastica. Con lo sviluppo del sistema dei consu- mi di massa la pubblicità acquisì un potere centrale nell’orientare le scelte d’acquisto.

Differenze di classe e valore simbolico del cibo dei ricchi

Prima che si affermasse il ruolo dominante della comunicazione pubblicitaria nelle abitudini di consumo, in base alle esigenze di un regime di abbondanza e anche di spreco alimentare, i bambini venivano educati a mangiare quello che era possibile, nell’ambito di una società con risorse nutritive limitate per la maggioranza della po- polazione. Nell’infanzia si apprendeva attraverso la tradizione orale, l’osservazione e l’esperienza quali fossero i cibi considerati buoni per la salute e quelli irraggiungibili per le famiglie più povere. Filastrocche, ninne nanne e racconti popolari, conteneva- no riferimenti ai desideri alimentari delle classi più povere. Spesso la storia narrata si concludeva con un banchetto in cui i protagonisti mangiano carne e pasta, fortemente ambite dalla popolazione che nella realtà era costretta ad alimentarsi prevalentemente di pane nero e verdure (Teti 1999, 90-91). Per gran parte del Novecento, poiché gli studi sulle proprietà nutritive erano anco- ra insufficienti, si confondevano gli stili alimentari dei ceti abbienti con quelli migliori. Quello che mangiavano i ricchi veniva considerato dalla popolazione ciò che c’era di meglio da mangiare. Anche nella medicina era diffusa l’idea che i contadini mangias- sero non per nutrirsi ma per rendere pieno lo stomaco, in modo da ingannare la fame. In questo senso alle classi popolari bastava riempire il piatto e la pancia, determinan- do una sazietà illusoria, possibile grazie al consumo di cibi vegetali, come polenta e legumi (Sorcinelli 1998, 454). Le distinzioni di classe nell’alimentazione dall’inizio del Novecento fino al boom economico erano molto nette. La dieta delle classi agiate era naturalmente abbon- dante e comprendeva generi assenti nei piatti delle classi povere. Pane bianco, carne e pesce fresco distinguevano la cucina dei ricchi. Pane nero, verdure e pesce conser- vato invece erano consumati dai poveri. Per i ceti popolari il pane bianco, fatto con la farina di grano, era un miraggio. Inoltre i poveri erano considerati sostanzialmente erbivori, in contrapposizione ai ricchi, grandi mangiatori di carne. Tra i ceti popolari

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al posto della carne si poteva mangiare pesce conservato, quindi salato o essiccato. Per esempio baccalà, stoccafisso, ma anche sarde o aringhe. Un’altra differenza sociale era data dalla disponibilità di acqua potabile. Ancora all’inizio del Novecento molti capoluoghi di provincia erano privi di fontane pubbliche (Teti 1999, 55-57). La diversità degli stili alimentari in base all’estrazione sociale si intrecciava alle differenti abitudini relative all’area geografica in cui si viveva. Mentre nell’Europa centro-settentrionale prevaleva l’uso dei grassi di origine animale, i paesi mediterranei erano contraddistinti dall’olio d’oliva, in Italia presente soprattutto al Sud. Nell’Italia settentrionale era più diffuso il burro che però, come l’olio d’oliva, costava molto. Per- ciò tra le classi meno abbienti si ricorreva largamente allo strutto, un grasso di maiale (Scarpellini 2014, 94-95). La concezione delle differenze di classe nell’alimentazione si rifletteva anche nei canoni estetici. La magrezza fisica era associata alla miseria, la grassezza al benessere. La popolazione più povera desiderava i cibi dei ricchi non solo per il loro valore nutri- tivo ma anche per il loro valore simbolico. Anche nei detti popolari si rintraccia l’idea che la magrezza non corrispondesse a un’idea positiva né per l’uomo né per la donna («Uomo di panza, uomo di sostanza»). Analogamente l’ideale filiforme dell’immagine femminile di oggi fu assente fino agli anni Settanta. La pubblicità esaltava la «grassez- za» e condannava la «secchezza», che infatti era considerata l’antitesi della bellezza, come si vede nella réclame per un tonico sulla prima pagina di Scena illustrata. Rivista quindicinale di letteratura, arte e sport del 1° settembre 1899 (Sorcinelli 1998, 455).

Il ruolo educativo delle donne nelle guerre e nel fascismo

Nelle famiglie l’educazione alimentare era in mano alle donne. Nella casa il lavoro femminile riguardava soprattutto la preparazione del cibo. Saper cucinare era una delle più importanti qualità della donna. Perciò le madri insegnavano alle figlie le re- gole della cucina. Questo processo di apprendimento coinvolgeva le bambine, le quali iniziavano a comprendere i metodi di preparazione degli alimenti attraverso l’osser- vazione del lavoro domestico svolto dalla madre (Muzzarelli and Tarozzi 2003, 109). Il ruolo centrale della donna emergeva con più evidenza nei momenti di crisi, come durante la guerra. Negli anni della prima guerra mondiale si chiese alla popolazione di mangiare meno. Naturalmente per i ceti più abbienti un’alimentazione minore non costituiva un problema, ma per i più poveri significava mangiare pane quasi privo di farina. L’Ufficio di propaganda per la disciplina dei consumi2 si rivolse in particolare alle donne, per invitarle a ridurre il più possibile l’alimentazione delle loro famiglie. Questa campagna coinvolse soprattutto politici, funzionari pubblici e insegnanti. Fu pubblicato un decalogo che comprendeva le più importanti indicazioni alimentari alla popolazione (Ufficio di propaganda per la disciplina dei consumi presso il Ministero

2 istituito nel Ministero dell’agricoltura, aveva il compito di gestire la propaganda per limitare i consumi e gli sprechi alimentari durante la guerra.

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dell’agricoltura, maggio 1917). Le indicazioni del Governo non esitavano a capovol- gere molte idee radicate nel senso comune: il pane bianco era meno nutritivo di quello ordinario, il burro meno nutritivo della margarina, le differenze fra olio d’oliva e olio di semi erano trascurabili. Mangiare il meno possibile fu l’imperativo che emerge- va dalla propaganda governativa durante il periodo bellico (Muzzarelli and Tarozzi 2003, 121-122). Sin dall’inizio del conflitto la propaganda invitò la popolazione a limitare l’alimen- tazione. Nel disegno in una pubblicazione del Comitato bolognese pro-patria del 1915 (20 settembre 1915), un pugnale prende le tagliatelle contenute in un cappello da bersagliere. Sotto compare lo slogan «Tagliatelle grigio-verdi… senza sugo». I co- lori quindi richiamano quelli delle divise militari, perché la pasta deve essere unita alle verdure ma non condita con il sugo. La propaganda era portata avanti tanto dalle autorità governative quanto dalle as- sociazioni patriottiche. Si moltiplicarono le pubblicazioni che spiegavano la necessità di consumare il meno possibile e i modi per riuscire a farlo. Questi testi entravano nelle scuole, in cui gli insegnanti dovevano far capire agli alunni il bisogno di accetta- re i sacrifici subiti per il bene della patria. Sia nelle letture sia nei dettati il messaggio trasmesso ai bambini era sempre lo stesso: mangiare poco e non sprecare niente. In tutta Europa la guerra aveva spinto le autorità statali a intervenire significati- vamente nel settore dei consumi alimentari. Dopo la fine del conflitto, i governi si interrogarono sull’opportunità di continuare l’intervento pubblico in questo campo, naturalmente in base a finalità diverse da quelle belliche, dalle quali aveva avuto ori- gine (Helstosky 2000, 1582). I regimi totalitari del periodo tra le due guerre, come il fascismo, riproposero l’azione statale nell’alimentazione a fini propagandistici, per rafforzare le basi del proprio potere nella società. Con l’avvento del regime fascista fu dato uno spazio sempre maggiore all’economia domestica, come disciplina insegnata alle donne nelle scuole post-elementari di avviamento al lavoro, nei corsi ambulanti nelle campagne, nei corsi del dopo-lavoro tenuti alla sera e durante i giorni festivi. Presenti già nei programmi didattici del periodo liberale (Bosna 2011, 125), le lezioni di economia domestica diventarono un canale fondamentale per l’indottrinamento fascista, rivolto in particolare alle donne delle classi popolari. Uno degli argomenti principali trattato in questi corsi era proprio la cucina (Cosseta 2000, 33). In alcuni casi i corsi di economia domestica erano organizzati dai fasci femminili, in altri casi dalle parrocchie. Nei manuali di questa disciplina in quegli anni era assente la coscienza alimentare attuale, per la quale ogni cibo apporta nutrimenti utili all’orga- nismo umano. Gli alimenti in quel periodo invece erano distinti tra sostanziosi e non sostanziosi. In un libro di economia domestica del 1928, ad esempio, nella sezione intitolata “Utilità e grado di sostanza che portano con sé certi cibi”, patate e verdure erano definite poco nutrienti. Venivano invece indicati come alimenti sostanziosi latte e miele. Le uova erano considerate un ottimo cibo per sostituire la carne. Il manuale di economia domestica invitava a rendere di uso comune le uova in tutte le famiglie (Scuola serale Buona Massaia di S. Giovanni 1928, 101-103). Nello stesso periodo la pubblicità continuava a promuovere prodotti immessi sul

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mercato negli anni precedenti per favorire nuovi consumi alimentari: per esempio la pastina glutinata, definita così perché era aggiunta una dose di glutine nella pasta. La pubblicità presentava questo prodotto come particolarmente energetico e consigliato ai bambini. Al centro del manifesto pubblicitario di Federico Seneca per la pastina glutinata Buitoni (1929), c’era la testa paffuta di un bambino (Codeluppi 2013, 58). Gran parte del fascismo fu contraddistinto da periodi di difficoltà economica che chiedevano alle donne uno sforzo ancora maggiore nell’economia domestica. La cri- si economica dei primi anni Trenta, le sanzioni internazionali dopo l’invasione del- l’Abissinia e infine la guerra, provocarono la drastica riduzione della disponibilità di alimenti. Allo stesso tempo il regime voleva ridefinire le abitudini alimentari in base ai principi dell’autarchia. I periodici di quegli anni erano pieni di indicazioni alle donne per gestire efficacemente la cucina, spiegando in particolare come preparare buoni piatti con ingredienti sempre più scarsi e differenti da quelli del passato. La donna doveva impegnarsi per riuscire a occultare nella cucina la penuria di generi alimentari. Anche all’estero l’economia domestica stava acquisendo un ruolo fondamentale nel mobilitare le donne per fronteggiare la crisi successiva al 1929. Il nazismo affidò all’associazione femminile del regime (Frauenschaft) il compito di promuovere l’e- ducazione alimentare attraverso un laboratorio istituito a Dresda (den Hartog 2010, 221). In Olanda l’educazione alimentare come responsabilità del governo ebbe inizio nel 1941, durante l’occupazione nazista (den Hartog 2011, 183). Negli Stati Uniti, negli anni Trenta, l’educazione al consumo attraverso l’economica domestica fu uno dei principali strumenti di intervento pubblico del New Deal, per rispondere alle conseguenze sociali della crisi (Babbitt 1997, 151-162). Il regime fascista in Italia organizzò corsi speciali per diffondere i prodotti autar- chici e portare avanti la campagna contro gli sprechi. Il fascismo aveva l’ambizione di contrastare le opinioni comuni sull’alimentazione, cercando di modificare i principi della tradizionale cultura alimentare. L’idea che solo la carne avesse le migliori pro- prietà nutritive fu accusata di essere un pregiudizio popolare. Gli italiani dovevano capire l’importanza di altri nutrimenti, come legumi, uova, frutta e verdura. Il pane divenne l’alimento al centro delle tavole italiane: al mattino nel latte, a mezzogiorno nel sugo, alla sera nel brodo. E non doveva essere sprecato. Risparmiare il più possibi- le, sia nel consumo di pane sia in quello degli altri alimenti. Quando arrivò la guerra, per garantire questo imperativo fu necessario il tesseramento. La paura nella società italiana aumentò notevolmente nel momento in cui la tessera alimentare fu estesa al pane. Se non era più possibile neppure consumare sufficientemente questo alimento significava che le condizioni dell’Italia avevano toccato il fondo (Muzzarelli and Ta- rozzi 2003, 123-124). In un manifesto del 1928 di Osvaldo Cappelli per la campagna a favore del pane, era stata inserita una frase firmata dallo stesso Mussolini, che riprendeva il contenuto di una sua poesia pubblicata sui libri di scuola: «Italiani: onorate il pane! Gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita». Nel manifesto, sovrastato dallo slogan «Non sciupate il pane», si vede una donna che si china a prenderne un pezzo che era stato buttato a terra, prima che un uccello se lo mangi (Falabrino 2001, 104-105). Il

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manifesto è dominato dall’arancione e dal giallo, colori che richiamano la luce del sole e l’immagine della natura, in particolare dei campi di grano. I consigli di economia domestica dati dal regime fascista durante il periodo bellico naturalmente spiegavano come rimediare all’assenza di molti prodotti alimentari. Per esempio si indicava come raccogliere la panna che affiora sul latte bollito e trasfor- marla in burro. Oppure come sciogliere il grasso animale per preparare un prodotto che sostituisse il burro. Si indicavano inoltre i vari modi per cuocere i cibi senza usare grassi. Testi di questo tipo contenevano anche indicazioni su come limitare il consu- mo delle uova nelle frittate, visto che servivano a sostituire la carne. L’acqua di cottura della pasta e delle verdure doveva essere riutilizzata per preparare altre pietanze, come minestre e sughi. I testi di economia domestica contenevano ricette per preparare gli alimenti nel modo più economico possibile (Baldassarre 1941, 7-20).

Cambiamenti e continuità con il passato nel secondo dopoguerra

Quello che il regime fascista non avrebbe mai ammesso pubblicamente, fu mostra- to dall’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia pochi anni dopo la fine della guer- ra: gran parte della popolazione italiana era immersa in condizioni di estrema povertà e l’alimentazione delle classi popolari si rivelava insufficiente3. Fu la prima indagine condotta in Italia in base non ai consumi medi di tutta la popolazione ma alle differen- ti classi di consumo. Perciò furono individuati tre prodotti – carne, zucchero e vino – che consentivano di valutare le differenze di classe nel tenore alimentare (Salsano 2009, 247). Dall’inchiesta emerse che un terzo della popolazione non consumava mai o quasi mai questi prodotti. Dato naturalmente ancora più alto nelle aree più povere del paese, come le regioni del Sud (Oliviero 2014, 236). La carenza di alcuni principi nutritivi nelle fasce sociali più povere si accompa- gnava a una cattiva alimentazione nelle fasce sociali più ricche, in cui si mangiava eccessivamente. L’educazione alimentare era scarsa tanto tra i poveri quanto tra i ricchi. Complessivamente la dieta italiana era povera di zucchero e proteine animali, se confrontata con i regimi alimentari degli altri paesi europei (Baviello 2011, 43). Si presentava anche molto diversa da quella americana. Subito dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti fu avviato il National School Lunch, un programma gover- nativo che prevedeva un pasto caldo per i bambini in età scolare, costituito da carne, burro, vegetali e latte. Con questo provvedimento il Governo americano intendeva da un lato garantire il benessere alimentare dell’infanzia e dall’altro favorire il consumo dei prodotti delle aziende agricole e d’allevamento nazionali (Sealander 2005, 173). Con il miracolo economico, grazie all’aumento dei redditi, i consumi alimentari iniziarono a spostarsi anche in Italia dai generi semplici e poco costosi, come il pane, a quelli più vari e ricchi, come la carne. Comunque anche dopo il boom la dieta italiana

3 i risultati dell’inchiesta condotta dalla Commissione parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per com- batterla furono pubblicati in 12 volumi nel 1953.

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rispetto agli altri paesi della Comunità europea continuò a essere meno calorica, ricca di cereali, legumi, frutta e verdura. Ma in quegli anni non c’era ancora la consapevo- lezza che proprio questo modello alimentare fosse il più sano ed equilibrato, come avrebbe spiegato il Seven Countries Study. Questo studio, avviato nel 1958 dall’ame- ricano Ancel Keys, dimostrò l’importanza della dieta mediterranea comparando sette paesi: Italia, Grecia, Jugoslavia, Paesi Bassi, Finlandia, Stati Uniti e Giappone. Il cambiamento degli stili di consumo nella società italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta tendeva a essere caratterizzato da un aumento più della quantità che della qualità dell’alimentazione, nell’ambito di un contesto culturale dove le conoscenze scientifiche erano ancora insufficienti per garantire la corretta educazione alimenta- re delle persone. Come nel resto d’Europa, anche in Italia nel secondo dopoguerra nacque la prima associazione dei consumatori, l’Unione nazionale dei consumato- ri (Unc), fondata nel 1955 da Vincenzo Dona, che descrisse il consumatore italiano come «gigante addormentato dell’economia», isolato e sprovveduto di fronte al po- tere del sistema produttivo e della forza persuasiva della pubblicità. L’associazione si proponeva di promuovere l’educazione al consumo, al fine di difendere i consumatori dalle frodi alimentari, che si stavano aggravando proprio con l’affermarsi dei consumi di massa e delle nuove industrie alimentari. La chimica e le nuove tecnologie produt- tive erano allo stesso tempo alleate e potenziali nemiche dei consumatori. Infatti da un lato consentivano di avere prodotti di rapida preparazione e lunga conservazione, dall’altro potevano minacciare la salute dei cittadini. Era sempre più difficile capire cosa fosse presente nei prodotti consumati. Ecco come un dirigente dell’Unc, Aldo Diani, descrisse la prima colazione: Caffè e latte per colazione. Ma il latte può essere annacquato, scremato, deacidificato anche grossolanamente, perfino con soda caustica, o trattato con chissà quali conservanti. Aggiun- giamoci il caffè con gli idrocarburi, due biscotti con derivati poliossietilenici, un tocchetto di burro con grassi idrogenati, un bel cucchiaio di marmellata di zucche con gli immancabili co- loranti ed eccoci a posto. Possiamo affrontare la nuova giornata di lavoro (Diani 1962, 183)4. L’Unc, pochi mesi dopo la sua nascita, consegnò all’Ansa un documentario intitola- to L’educazione alimentare del popolo, problema urgente che può essere risolto. L’Ansa diramò il documentario ma nessun giornale lo prese in considerazione. Il fatto che tutti i giornali italiani avessero ignorato l’iniziativa dell’associazione dei consumatori dimostrava l’assenza di sensibilità dell’opinione pubblica verso il tema. Il ruolo della stampa sarebbe stato fondamentale nel diffondere la consapevolezza di una sana ali- mentazione. Poco tempo dopo, proprio grazie all’iniziativa di un nuovo settimanale, «L’Espresso», fondato nel 1955, fu avviata una campagna di stampa sulle frodi e sofi- sticazioni alimentari in Italia. Di fronte alle difficoltà economiche negli anni Trenta e soprattutto nella seconda guerra mondiale, il fascismo aveva evitato di battersi contro i reati nella produzione e vendita degli alimenti. Le pene per questo tipo di reati

4 aldo Diani era anche consigliere del Bureau européen des Unions de consommateurs, organo che riunisce le principali associazioni dei consumatori in Europa.

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furono abbassate dal regime fascista, perché i generi alimentari erano scarsi ed era importante che la gente mangiasse qualcosa, sebbene la qualità dei prodotti non fosse buona. Con lo sviluppo del mercato negli anni Cinquanta, i casi di frodi alimentari si moltiplicarono. «L’Espresso» denunciò che grassi animali, destinati alla produzio- ne del sapone, erano invece utilizzati per produrre oli vegetali, destinati al consumo alimentare. Anche alcuni quotidiani, come «Il Giorno» di Milano, «La Stampa» di Torino e «Il Messaggero» di Roma, contribuirono a rendere nota la grave diffusione di pratiche scorrette nella produzione degli alimenti. Di fronte a questa campagna di stampa, il governo nel 1960 presentò il disegno di legge sulla sicurezza alimentare. Approvata nel 1962, la legge non fu pienamente attuata, perché i regolamenti di attua- zione furono emanati dopo ben 18 anni, nel 1980 (Baviello 2011, 40-67). I primi governi di centro-sinistra, all’inizio degli anni Sessanta, si presentarono con l’ambizione di compiere le riforme necessarie per un paese che nel giro di pochi anni si stava trasformando profondamente. Come la disciplina sulla sicurezza alimenta- re, anche la realizzazione della scuola media unificata nel 1963 fu parte di questo progetto riformista, presentando però alcuni caratteri anacronistici, in particolare le applicazioni tecniche differenziate in base al sesso degli alunni. In tal modo l’econo- mia domestica, non più presente come disciplina specifica, confluì nelle applicazioni tecniche e continuò a essere riservata alle alunne. Al contrario, gli alunni nelle ore di applicazioni tecniche dovevano svolgere attività manuali diverse da quelle femminili. D’altra parte c’era la necessità di mantenere in servizio le insegnanti di economia domestica e gli insegnanti tecnico-pratici, che avevano lavorato nelle scuole di av- viamento professionale e nelle vecchie scuole medie, prima della riforma del 1963 (Santamaita 2000, 154). Le applicazioni tecniche avrebbero dovuto compensare la soppressione della scuo- la di avviamento, mantenendo nella scuola media unificata forme di educazione al lavoro pratico, in modo da offrire un tipo di formazione non esclusivamente teorica nel nuovo sistema didattico (D’Amico 2015, 412). La scuola media nata nel 1963 si proponeva quindi di dedicare spazio anche al lavoro inteso come mezzo educativo, sostenuto dai pedagogisti della scuola attiva, in cui la cultura degli alunni non deriva solo dallo studio dei libri ma dipende anche dalle attività pratiche nella classe, vista come laboratorio (Splendore 2013, 92). La differenziazione in base al sesso delle applicazioni tecniche conservò i tradizio- nali stereotipi di genere, per i quali i ragazzi dovevano essere preparati al lavoro che avrebbero svolto fuori casa, mentre le ragazze dovevano imparare a gestire le attività domestiche, come la cucina. Questa differenziazione nella scuola media italiana sa- rebbe stata superata solo nel 1977, sostituendo le applicazioni tecniche con la nuova disciplina dell’educazione tecnica, non più diversificata in base al sesso degli alunni. Per favorire l’uguaglianza di genere, nei paesi scandinavi tra gli anni Sessanta e Set- tanta fu prevista l’estensione dell’economia domestica agli studenti di sesso maschile. In Svezia sin dal 1962 questa disciplina era obbligatoria tanto per le ragazze quanto per i ragazzi (Schiff 1973, 111). Anche in Finlandia, negli anni Settanta, l’insegnamen- to della disciplina fu esteso ai maschi (Mäkelä 2005, 152).

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Sicurezza alimentare, potere della pubblicità e ruolo della scuola

Dopo la diffusione del benessere nella società italiana, la maggior parte della po- polazione continuava a non seguire una sana alimentazione, non più per ragioni eco- nomiche ma perché l’educazione alimentare era ancora assente (De Marzi 1971, 11)5. Sulla scia dei movimenti di contestazione giovanile iniziati nel 1968 e di fronte alla crisi energetica degli anni Settanta, nacque una nuova associazione dei consumatori, il Comitato di difesa dei consumatori. Fondato nel 1973, fu uno dei primi movimenti attivi nella diffusione di una visione critica del consumo, testimoniata anche dal titolo della propria rivista, «Altroconsumo». Nel 1976 prese il posto dell’Unc nel Bureau européen des Unions de consommateurs, che riuniva le associazioni indipendenti dei consumatori in Europa (Altroconsumo 1977, 1). Oggi, con il nome Altroconsumo, è la maggiore organizzazione dei consumatori italiani6. La rivista «Altroconsumo» negli anni Settanta pose in evidenza i gravi ritardi italia- ni nella protezione del consumatore, in balia degli interessi dell’industria alimentare e del potere della pubblicità, nella totale assenza di attenzione da parte delle istituzioni. L’avvento delle Regioni e il decentramento anche riguardo alle funzioni di controllo alimentare, furono usati come nuovi pretesti per continuare a rimandare l’emanazio- ne dei regolamenti attuativi della legge sulla sicurezza alimentare, varata nel 1962. Non fu applicata neanche la legge del 1971, che affidava al Ministero dell’Agricoltura il compito di esercitare attività per l’educazione del consumatore. Intanto si erano affermati nuovi stili di consumo, in particolare con la diffusione degli alimenti pre- confezionati. Non era verificata neppure la qualità degli alimenti per bambini, come gli omogeneizzati e le merendine confezionate. Né era indicata la data di scadenza su questi prodotti. Grazie all’iniziativa della Comunità europea fu possibile il miglioramento dell’in- formazione ai consumatori. La direttiva comunitaria del 1979 stabilì l’indicazione sui prodotti alimentari della data di scadenza e degli ingredienti in ordine decrescente di peso. L’anno dopo furono finalmente emanati i regolamenti attuativi della legge italia- na sulla sicurezza alimentare, approvata nel 1962. Queste misure si rivelarono tuttavia insufficienti.I n Italia nel 1986 scoppiò lo scandalo del vino al metanolo. 19 persone morirono e 15 persero la vista per aver bevuto vino al quale era stato aggiunto metano- lo, per aumentarne la gradazione alcolica. Si comprese che per la sicurezza alimentare non bastavano misure repressive. Per difendersi dalle frodi alimentari era indispensa- bile l’educazione al consumo, alla quale invece la legge introdotta nel 1962 non aveva rivolto alcun interesse. Dopo lo scandalo del vino al metanolo, il governo approvò un

5 Guido De Marzi, presidente dell’Istituto di tecnica e propaganda agraria, intervenne alla tavola rotonda “L’educazione del consumatore nel quadro di una politica alimentare”. I risultati del convegno furono riportati in L’alimentazione italiana. Rivista mensile per l’educazione alimentare, rivista edita dall’Istituto di tecnica e propaganda agraria, sotto gli auspici della Direzione generale dell’alimentazione del Ministero dell’agricoltura e delle foreste, dell’Istituto nazionale della nutrizione, dell’Unione nazionale consumatori. 6 con sede nazionale a Milano, l’organizzazione di Altroconsumo è articolata in sedi regionali e rappresentanti locali. L’associazione non è legata ai sindacati e conta più di 370.000 soci.

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decreto che per la prima volta prevedeva un consistente investimento nell’educazione e nell’informazione alimentare, con il coinvolgimento delle associazioni dei consuma- tori (DL 18 giugno 1986, n. 282, art.14). La crescente sensibilità verso la sana alimentazione, nella seconda metà degli anni Ottanta, trovò espressione anche in nuove iniziative della società civile. Lo stesso anno dello scandalo del vino al metanolo nacque Slow Food, associazione fondata dall’e- nogastronomo Carlo Petrini, con l’obiettivo di recuperare stili di consumo schiacciati dall’omologazione delle abitudini alimentari, basate sempre di più sui prodotti delle multinazionali. Slow Food ha contribuito a mantenere vivi modelli di alimentazio- ni alternativi a quelli consumistici, difendendo i valori del gusto, della salute, delle differenti identità locali, dell’ambiente, delle condizioni di lavoro per i contadini e i commercianti (De Bernardi 2015, 508). L’associazione promuove anche programmi per l’educazione alimentare e ambientale nelle scuole, con lo scopo d’insegnare ai bambini a mangiare meglio (De Grazia 2005, 472). Il benessere e le maggiori disponibilità alimentari contribuirono anche nella società italiana alla diffusione di malattie legate a scorretti stili di consumo. Negli anni Ottan- ta aumentò la consapevolezza che per la prevenzione e cura di questi problemi di sa- lute fosse decisiva l’educazione alimentare. Allo stesso tempo arrivarono sul mercato i dolcificanti per sostituire lo zucchero e nuovi marchi di prodotti dietetici (Chiaricati, 2011). L’Italia negli anni Novanta continuò a presentare un sistema d’informazione del consumatore molto disorganico, frammentato tra svariate iniziative delle istituzioni pubbliche, delle associazioni private e dei mezzi di comunicazione di massa. Gran parte delle informazioni relative all’educazione alimentare era poco obiettiva, condi- zionata ancora da differenti interessi economici e politici. Le scelte di acquisto e con- sumo dei prodotti alimentari erano determinate più dalla pubblicità che dalle cono- scenze di carattere scientifico. Allo stesso tempo gli italiani desideravano aumentare il loro livello di educazione alimentare, quindi mostravano una significativa sensibilità verso il tema della consapevolezza di ciò che mangiavano (Ismea 1991, 185). Dagli anni Sessanta in poi la pubblicità ha insistito particolarmente sulla genuinità dei prodotti alimentari. Il sistema di comunicazione pubblicitaria presentava i prodot- ti dell’industria alimentare come naturali e sani. Questi prodotti erano associati alle virtù della natura, ormai perdute nella moderna vita urbana, che si consolidò in Italia dopo il boom economico. In una scena del filmLa vita agra (1964) agli aspiranti pub- blicitari si spiega come il contenuto reale dei prodotti sia ormai secondario rispetto all’importanza dell’apparenza. L’immagine prevale sulla realtà, in base a un principio culturale dominante nella società economicamente avanzata. I sapori il pubblico li deve sentire con le orecchie, con la vista, col tatto. Il palato non serve. Non serve il vero burro, il vero grasso, non serve l’uva nel vino. Le sostanze naturali nell’industria moderna sono destinate a scomparire. L’importante è che non scompaia nella mente dell’uomo moderno il desiderio di consumare vero vino, vero burro, vero latte. E que- sto principio vale per tutta la produzione, non solo per quella alimentare (La vita agra 1964).

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Dopo gli anni Settanta, con l’emergere di atteggiamenti più critici verso il consu- mo e la diffusione dei valori ambientalisti, si rafforzò ulteriormente la tendenza della pubblicità a esaltare la naturalità dei prodotti alimentari. Esemplari sono state le cam- pagne pubblicitarie con cui si è affermato sul mercato il marchio «Mulino Bianco», con lo slogan «Mangia sano, torna alla natura» (Falabrino 2001, 260). Questa strategia di marketing è durata fino a oggi. In una pubblicità della birra Peroni nel 1999, la testimonial Jennifer Driver diceva di essere naturale, come il prodotto pubblicizzato. Ormai si interveniva non solo per modificare artificialmente i prodotti alimentari, ma anche per cambiare l’aspetto fisico delle persone, attraverso la chirurgia estetica. Non c’era più niente di autentico, né tra i prodotti industriali né tra le persone. Nelle pub- blicità di questo tipo – come quelle del Mulino Bianco e della Peroni – sono ricorrenti i colori giallo e arancione, presenti anche nel manifesto del periodo fascista contro lo spreco del pane, perché richiamano l’immagine della natura e della vita. L’uso del corpo femminile per promuovere la vendita di prodotti alimentari si lega al mutamento dell’impiego dei sensi in rapporto al cibo, con l’aspetto visivo che fini- sce per prevalere sul contenuto di cibi e bevande. Allo stesso tempo richiama stereoti- pi sessisti particolarmente diffusi nella comunicazione pubblicitaria, dove mangiare e bere diventano metafore dell’appetito sessuale in relazione all’immagine della donna (Baviello 2013, 249-250). Da un’indagine pubblicata dall’Ismea nel 1991, nei due terzi dei casi l’inizio o l’au- mento del consumo di un prodotto alimentare era dovuto alla pubblicità. Prendendo in considerazione le persone conosciute dalle quali si seguivano consigli alimentari per iniziare a mangiare un nuovo prodotto, soltanto il 12% era rappresentato da medici e dietisti. La maggioranza dei suggerimenti proveniva invece da familiari e parenti (54%) oppure da amici, colleghi e vicini di casa (34%). Il dato relativo ai medici e ai dietisti non era molto differente riguardo alle classi di reddito dei consumatori. Tra i ceti abbienti il livello saliva al 15% mentre nelle classi di reddito basse scendeva al 10%. I consigli scientifici erano maggiormente seguiti per decidere di abbandonare il consumo di un prodotto. In questo caso il 26% dei suggerimenti proveniva da medici e dietisti. Riguardo alle persone conosciute il ruolo della famiglia rimaneva tuttavia prevalente, visto che la metà degli intervistati dichiarava di decidere di non mangiare più un alimento dopo il consiglio di familiari e parenti. L’indagine dimostrò il bisogno di educazione alimentare, confermato dagli stessi consumatori. Tre su quattro dichiararono di voler essere più informati sull’alimen- tazione. Emergeva d’altra parte un forte disorientamento di fronte alle informazioni sull’argomento. Infatti il 70% degli intervistati diceva che sull’alimentazione «non si capisce niente; un giorno dicono una cosa, il giorno dopo dicono il contrario» (Ismea 1991, 124). La situazione dell’informazione sul tema dell’alimentazione dimostrava che era ne- cessaria una maggiore attenzione verso l’educazione alimentare nella scuola. Le abitu- dini si formano in gran parte nell’età scolare, perciò è più facile correggerle in quell’e- tà. Inoltre i giovani possono essere molto utili nel modificare le abitudini alimentari nelle famiglie. Quindi l’educazione alimentare a scuola consente sia di insegnare ai più

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giovani i principi della corretta alimentazione sia di migliorare attraverso i giovani la consapevolezza alimentare degli adulti nella famiglia. Il rapporto tra scuola e famiglia tuttavia era delicato, perché il tema dell’alimenta- zione riguardava la salute dei bambini, considerata naturalmente molto importante dai genitori. La scuola, in un sistema democratico, non deve imporre dall’alto gli stili alimentari, rischiando di ricevere come risposta dalle famiglie un atteggiamento di chiusura nei confronti delle indicazioni scolastiche. Si rivelava indispensabile cercare il confronto e la collaborazione con i genitori. I programmi del 1985 per la scuola elementare prevedevano l’educazione alla tutela della salute e, nell’ambito dell’insegnamento delle scienze, facevano riferimento in modo specifico all’educazione alimentare. Sulla scia dei metodi pedagogici più re- centi, anche in questo settore educativo gli insegnanti dovevano proporsi di fornire agli alunni gli strumenti necessari per imparare ad apprendere. Dunque non limitar- si a trasmettere determinate nozioni, ma far acquisire ai bambini la consapevolezza dell’importanza di proteggere la salute attraverso l’alimentazione. In questo senso l’infanzia a scuola doveva essere educata a raccogliere e interpretare le informazioni relative al consumo alimentare. Un canale d’apprendimento importante era rappresentato dalla refezione scola- stica, intesa non semplicemente come luogo in cui alimentarsi ma anche quale op- portunità di educazione alla salute. La mensa si rivelava un’opportunità per fornire ai bambini i nutrienti di cui avevano bisogno, compresi quelli che assumevano meno frequentemente a casa. All’inizio degli anni Ottanta l’alimentazione degli italiani era ormai abbondante. Anche i bambini in molti casi assumevano più calorie del necessa- rio. I genitori di solito invitavano i figli a mangiare il più possibile. Comunque alcuni alimenti non era consumati sufficientemente, come uova, latte, ortaggi, patate e legu- mi. Attraverso le mense scolastiche si poteva educare l’infanzia a stili di consumo più equilibrati. Un aspetto spesso trascurato dagli adulti e conseguentemente dai bam- bini era l’importanza della prima colazione, mentre durante l’intervallo delle 10:30 gli alunni mangiavano merendine confezionate, dolci o focacce ricche di grassi. Nel pranzo fornito dalla refezione invece era possibile correggere le abitudini sbagliate che le famiglie trasmettevano ai più piccoli (Foppiani 1981, 31-35). I bambini attraverso l’apprendimento scolastico potevano comprendere anche che l’alimentazione possiede una dimensione culturale. Perciò si rivelava importante spie- gare le diverse tradizioni alimentari locali, proprio per mostrare che le abitudini di consumo sono differenti a seconda del contesto culturale in cui si collocano. Inol- tre era interessante dedicare alcune unità didattiche al modo in cui l’alimentazione presenta caratteri diversi nel tempo e nello spazio. Dunque far vedere ai bambini le caratteristiche dei regimi alimentari nel passato oppure il problema della fame ancora presente in molte parti del mondo contemporaneo (Bissolati et al. 1988, 14, 17, 21, 84-118). Attraverso gli assessorati alla sanità, le Regioni potevano dare indicazioni alle scuo- le su come valutare il livello di educazione alimentare degli alunni e intervenire per correggere stili di consumo sbagliati. In Veneto gli insegnanti venivano affiancati da

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operatori sanitari nelle attività scolastiche sull’argomento. Innanzitutto era necessario valutare i comportamenti alimentari degli alunni. Per farlo si ricorreva a vari stru- menti, soprattutto il questionario. Poteva rivelarsi utile anche la discussione in aula. Riguardo ai bambini si dovevano privilegiare metodi ludici, quindi cercare di capire attraverso alcuni giochi come si alimentavano. Quali informazioni dovevano essere raccolte sull’alimentazione degli alunni? So- prattutto le seguenti: la prima colazione; il consumo di dolci e zuccheri; di grassi e proteine di origine animale, in particolare carne, salumi, uova e formaggi; frutta e verdura; alcool; attività fisica. Su quest’ultimo punto si doveva fare attenzione alla scarsa attendibilità del senso di trascorre del tempo nei bambini, soprattutto riguardo al tempo passato davanti alla televisione (Regione Veneto – Assessorato alla Sanità 1991, 29-32). Uno degli obiettivi più importanti da raggiungere nell’educazione degli alunni era insegnare la decodificazione dei messaggi pubblicitari, in modo da fornire gli strumen- ti necessari a evitare di essere soggiogati dalla forza persuasiva della pubblicità. Gli studenti dovevano imparare a scomporre le varie parti del messaggio pubblicitario e indicare lo scopo di ognuna di esse. In particolare era necessario riuscire a distinguere nel medesimo messaggio la parte informativa da quella suggestiva. Infatti la pubblicità spesso limita l’informazione sui principi nutritivi dell’alimento, privilegiando invece la suggestione del pubblico attraverso elementi che non rivelano i contenuti reali del prodotto pubblicizzato (Bissolati et al. 1988, 119-120). Il crescente potere persuasivo della pubblicità si legava alla graduale trasformazio- ne del sistema di distribuzione al dettaglio, sebbene il piccolo commercio tradizionale in Italia continuasse a essere più diffuso rispetto agli altri paesi europei (Baviello 2010, 284-301). Con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa e lo sviluppo della grande distribuzione, si ridimensionò il ruolo del venditore, che presentava rapporti sempre più deboli con i consumatori. In passato nella piccola bottega il commerciante confezionava personalmente il prodotto e orientava le scelte dei clienti. Invece con la diffusione della televisione e delle moderne imprese distributive, i clienti iniziarono ad acquistare nei punti di vendita i prodotti confezionati dalle aziende alimentari e pub- blicizzati dai nuovi mezzi di comunicazione, senza avere più bisogno dei suggerimenti del dettagliante. A conferma dell’importanza ed efficacia della comunicazione pubblicitaria, le gui- de per l’educazione alimentare a scuola a volte suggerivano di prendere a modello proprio le tecniche alla base dei messaggi della pubblicità, in modo da trasmettere al meglio i contenuti agli alunni. Infatti i messaggi d’educazione alimentare nelle scuole dovevano essere pochi, chiari e ripetuti spesso, quindi comunicati in maniera simile a quanto faceva la pubblicità (Regione Veneto – Assessorato alla Sanità 1991, 59).

Conclusioni

Nel Novecento il posto centrale per l’educazione alimentare fu occupato dalla fa-

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miglia, in cui i bambini e le bambine acquisivano le principali indicazioni su ciò che potessero mangiare. La scuola svolse un ruolo importante non tanto nell’educazione al consumo quanto nella conservazione delle tradizionali distinzioni di genere riguar- do all’alimentazione. L’educazione domestica e il mantenimento della differenziazio- ne in base al sesso degli alunni nelle applicazioni tecniche, fino al 1977, proponevano un modello formativo in cui sin dall’infanzia il maschio doveva imparare a diventare bread-winner, colui che nel lavoro fuori casa guadagna il denaro necessario al mante- nimento della famiglia, mentre la femmina doveva acquisire tutte le nozioni e abilità necessarie a preparare il cibo da mangiare nella famiglia. Oltre alle differenze di genere, almeno fino al boom economico furono partico- larmente forti le differenze di classe negli stili alimentari. Il cibo dei ricchi era ambi- to non solo perché si pensava fosse più nutritivo, ma anche perché rappresentava il benessere, assente nella maggioranza della popolazione. Analogamente nell’aspetto fisico la magrezza era associata alla miseria, mentre le forme rotonde richiamavano l’idea della salute e della ricchezza. Nella prima guerra mondiale la propaganda politica cercò di contrastare le convin- zioni più diffuse sull’alimentazione, al fine di far fronte alla scarsità di cibo. Un com- portamento analogo sarebbe stato tenuto dal regime fascista nel corso della seconda guerra mondiale. Durante il fascismo la propaganda si rivolse soprattutto alle donne, che dovevano usare in cucina i prodotti italiani e risparmiare il più possibile. Fu attri- buita particolare importanza all’economia domestica, che diventò uno dei principali canali d’indottrinamento per le donne, legate al tradizionale ruolo di casalinghe tanto dalla cultura fascista quanto da quella cattolica. Nel secondo dopoguerra l’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia rivelò il grave stato di carenze nutrizionali diffuso in gran parte della popolazione. Non erano ancora comparsi gli studi in cui sarebbe stato spiegato che la dieta mediterranea è la più sana ed equilibrata. Dopo il boom economico iniziò a essere capovolto l’imperati- vo che aveva dominato la società italiana sia nel periodo tra le due guerre sia negli anni Cinquanta. Mentre per gran parte del Novecento la popolazione era stata educata a essere il più possibile parsimoniosa, a partire dagli anni Sessanta sotto la comunica- zione martellante della pubblicità gli italiani furono invitati a consumare sempre di più. Comunque il consumismo di massa in Italia subito dopo il boom economico si radicò nell’immaginario della popolazione, non tanto nella realtà. Frenato dalla crisi economica degli anni Settanta, il moderno sistema dei consumi si affermò veramente solo dagli anni Ottanta. Con il benessere diffuso e l’introduzione sul mercato dei nuovi prodotti dell’indu- stria alimentare, la dieta degli italiani migliorò più sotto il profilo della quantità che della qualità, nell’ambito di un sistema dove la comunicazione pubblicitaria acquisì un ruolo fondamentale. Mentre nella prima metà del Novecento le abitudini alimen- tari erano state influenzate soprattutto dalla propaganda politica, nella seconda metà del secolo fu la propaganda commerciale ad assumere una posizione centrale. Dei prodotti alimentari diventò più importante l’immagine che il contenuto. Il pericolo per la salute degli italiani era non più la scarsità degli alimenti ma l’assenza di educa-

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zione al consumo. Negli anni Novanta l’inizio o l’aumento del consumo di un prodot- to alimentare era dovuto nei due terzi dei casi alla pubblicità. La società civile, attraverso le associazioni dei consumatori, si impegnò nell’educa- zione alimentare. L’azione dello Stato invece fu insufficiente e inadeguata. In seguito a una intensa campagna di stampa alla fine degli anni Cinquanta, venne approvata la legge sulla sicurezza alimentare, ma solo nel 1980 ne furono emanati i decreti attuativi. Soltanto dopo lo scandalo del vino al metanolo, nel 1986, aumentò l’attenzione per il tema dell’educazione al consumo, fondamentale per la stessa sicurezza alimentare. Si rivelava indispensabile l’istruzione a scuola, in cui i giovani possono imparare i corretti stili di consumo e trasmettere nelle proprie famiglie le conoscenze acquisite.

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LEISURE AND QUALITY OF CULTURAL CONSUMPTION: POLITICAL AND CULTURAL ISSUES IN THE RECREATIONAL THEORY BY E.C. LINDEMAN

TEMPO LIBERO E QUALITÀ DEL CONSUMO CULTURALE: ASPETTI POLITICO-EDUCATIVI NELLA RECREATIONAL THEORY DI E.C. LINDEMAN

The article focuses on the characteristics and dynamics of the so-called “cultural consumption” just as they have been identified by Eduard C. Lindeman (1855-1953) in the US context after the end of World War II. In fact, the quality of recreational dimension – of individual, of family and of community as a whole – is an essential aspect in the Lindeman’s conceptions, in order to put into effect a democratic social order, in contrast to increas- ing standardisation pressures and trends of leisure time activities that are suggested and carried out. Therefore, the article considers some Lindeman’s writings which directly address this topic – e. g. Youth and Leisure (1937); Recreation and Moral (1941); Ideals for Family Life after the War (1942) – including the Italian translation of one of his most relevant articles in this field: The Dynamics of Recreational Theory (1948). The latter is a short essay, in which he addresses the homogenization of consumer-facing recreational activities, and their social, political and educational causes and effects. This in-depth analysis – which also aims to contribute to disseminating Lindeman’s thought and works, in the Italian context – can be interesting and useful both to understand the proposals by an author who is considered one of major founders of Adult Education in the modern perspective, more generally, and, in particular, to explain the emergence of the “American way of life”, highlighting some of its specific features. L’articolo focalizza l’attenzione sulle caratteristiche e sulle dinamiche del cosiddetto “consumo cultura- le” individuate da Eduard C. Lindeman (1885-1953) nel contesto statunitense all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale. La qualità della dimensione ricreativa – del singolo, del nucleo familiare, della comunità nel suo complesso – rappresenta, infatti, nelle concezioni di Lindeman, un aspetto impre- scindibile per il concretizzarsi di un assetto sociale democratico, in contrasto con le crescenti pressioni/ tendenze di standardizzazione delle attività, intitolate a scopi di lucro, proposte per e svolte nel tempo li- bero. L’articolo prende dunque in considerazione alcuni scritti di Lindeman che affrontano direttamente l’argomento – ad esempio: Youth and Leisure (1937); Recreation and Moral (1941); Ideals for Family Life after the War (1942) – ed include la traduzione in lingua italiana di un suo lavoro particolarmente significativo al riguardo: The Dynamics of Recreational Theory (1948). Si tratta di un breve saggio, in cui si entra nel merito non solo delle derive omologanti e consumistiche delle attività ricreative ma anche e soprattutto delle cause e delle implicazioni sociali, politiche ed educative del fenomeno. Questo appro- fondimento – che risponde anche all’intento di contribuire alla disseminazione culturale del pensiero e dell’opera di Lindeman nel contesto italiano – pare utile e interessante sia per comprendere, più in generale, l’impostazione e le proposte dell’autore che è considerato uno dei più importanti “padri fon- datori” dell’educazione degli adulti in senso moderno, sia, in particolare, per interpretare l’emergere e l’affermarsi della cosiddetta “American way of life”, disvelandone alcuni dispositivi peculiari. Key words: E.C. Lindeman, recreational theory, recreation, leisure time, cultural consumption, education, consumerism, adult education. Parole chiave: E.C. Lindeman, teoria delle attività ricreative, ricreazione, tempo libero, consumo culturale, educazione, consumismo, educazione degli adulti.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 51-68 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.68 Elena Marescotti, [email protected] (Università degli Studi di Ferrara)

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Considerazioni preliminari

Il tema del tempo libero – e, di conseguenza, delle implicazioni sociali, politiche e, non ultimo, segnatamente formative che si accompagnano alla sua organizzazione e fruizione – è un tema che è sempre stato presente nelle riflessioni di Eduard C. Linde- man (1885-1953), il quale, a seguito del suo The Meaning of Adult Education (Linde- man 1926), è stato consacrato il fondatore teorico dell’educazione degli adulti in sen- so moderno. Tale riconoscimento è ancora oggi ribadito dalla comunità degli studiosi americani e, più o meno direttamente e consapevolmente, dalla più estesa comunità in- ternazionale, se non altro per l’attribuzione di tale ruolo a Malcom S. Knowles (1913- 1997) che di Lindeman fu allievo, ed erede per ciò che concerne la struttura portante e i punti salienti del suo noto “modello andragogico” (Knowles 1970, 1973, 1984). Assumere Lindeman quale “principale filosofo dell’educazione degli adulti” (Brookfield 1987, 119), “vero padre dell’educazione degli adulti” (Finger and Asun 2001, 29) o comunque uno dei più influenti teorici nell’ambito dell’educazione dei lavoratori e dell’educazione degli adulti (Thompson 2009, 477) apre a motivi di in- dubbio interesse per indagare, nelle sue riflessioni, quale caratterizzazione, e quale peso, egli abbia dato al tema in questione. E questo nella prospettiva di un assetto sociale democratico, ove le tensioni tra il senso di libertà (di scelta, di gestione ecc.) evocato dalla nozione stessa di “tempo libero” e le incipienti derive di standardiz- zazione imposte sia dalla crescente urbanizzazione sia dallo sviluppo del modello di produzione e di consumo tipicamente industriale iniziavano a manifestarsi in tutta la loro complessità e pregnanza, incidendo sul livello di quotidiana qualità della vita dei cittadini americani. Il contesto in cui ci si colloca con l’analisi di alcuni suoi scritti, infatti, è quello che va dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta del Novecento, e in par- ticolare dell’immediato dopoguerra, quando prende forma e comincia ad espandersi il cosiddetto stile di vita statunitense, l’American Way of Life, di cui, da una parte, si esaltano i tratti intitolati alla democrazia, alla libertà e alle possibilità di realizzazione individuale in termini di affermazione e benessere (il “sogno americano”) e, dall’al- tra, si deplorano quelli riconducibili all’individualismo, al nazionalismo aggressivo e, non ultimo, al possesso e al consumo di beni come preponderante metro di misura della felicità e del “successo”1. Se tale dicotomica interpretazione si spiega con rela- tiva facilità laddove l’una e l’altra enfatizzazione provengono, rispettivamente, dalle fila politiche, sociali e culturali statunitensi o filo-statunitensi, per un verso2, e av-

1 Non si può non riproporre la sintetica quanto efficace espressione di Zygmunt Bauman “dal meglio al di più” (Bauman 1998/2004, 39), con la quale il noto sociologo ha stigmatizzato la prevalenza della quantità quale indicatore di “ricchezza”. 2 Un esempio paradigmatico: “I semi di quella che oggi chiamiamo democrazia americana sono stati piantati in terra coloniale più di trecento anni fa. I nostri antenati hanno piantato non solo il seme del governo rappresentativo, ma anche il seme della libertà religiosa. Mentre questi semi cominciarono a crescere, i primi americani vedevano la necessità di piantarne un terzo. Questo era l’ideale dell'unione per uno scopo comune. È stata necessaria un’unione di colonie o di stati per proteggere la nostra crescente democrazia dai pericoli interni e dagli attacchi provenienti dall’Europa” (Underwood Faulkner, Kepner, and Merrill 1950, 47, traduzione mia).

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versarie o quantomeno critiche e disincantate nei suoi confronti, per altro verso3, è senz’altro un ulteriore e significativo motivo di interesse riscontrare in Lindeman – americano, sia pure di seconda generazione, e convinto sostenitore dell’ethos demo- cratico e liberale, in senso progressista – posizioni molto dure circa l’espandersi dei consumi come modello sociale dominante e pervasivo. Tuttavia, sebbene interessante, ciò non stupisce affatto: la fede democratica di Lindeman – le cui concezioni di fondo aveva mutuato da John Dewey – infatti, è autentica nella misura in cui si oppone logicamente, e strenuamente, a qualsivoglia fenomeno ascrivibile all’alveo dell’imposizione, della sopraffazione, della discrimina- zione e, di qui, dell’appiattimento delle diversità individuali su modelli unici e stan- dardizzati che inibiscono l’espressione di intelligenze. È quanto lo spinge, dunque, a commentare con deciso scetticismo gli indotti e gli orientamenti, ai suoi tempi in- calzanti nella loro evoluzione e sempre più evidenti, dello sviluppo economico ame- ricano, preoccupato del rischio di svuotamento di senso in cui sembrava incorrere la stessa democrazia. La crescente produzione di beni, la riduzione a “bene di consumo” di tempi e situazioni di vita, e la qualità stessa dell’atto del consumare che i ritmi produttivi ri- chiedono, pena il loro contrarsi, veloce, accondiscendente e incessante, infatti, com- portano sempre più la sottomissione alla “legge del profitto” di crescenti ambiti esi- stenziali, ivi incluso quello del tempo libero, dello svago, della socializzazione, della cura e coltivazione dei propri interessi e relazioni, in una parola della ricreazione, per usare il pregnante termine – anche in prospettiva etimologica, che sottolinea sia il momento del ristoro dalla fatica e del recupero delle energie, fisiche e mentali, sia quello del rinvigorire, vivificare, crescere e generare – scelto da Lindeman4. Riflettere su una simile questione, e in esplicita e stretta connessione con la ten- sione educativa – che, per Lindeman, deve connotare l’intera esperienza di vita, e massimamente l’adulto quale soggetto politico, in senso lato –, può non solo gettare luce sulla figura, sul pensiero, sulla temperie storico-culturale del Nostro ma, anche e soprattutto, fornire ulteriori punti di osservazione e sollecitazioni interpretative per affrontare il problema nella contemporaneità. La prospettiva non pare peregrina se il noto studioso Jean Baudrillard (1929- 2007), nel proporre la sua lettura del consumismo occidentale, ha dedicato una ri- flessione di tutto rilievo al tempo libero, il cui consumo assume la fisionomia del dramma, della tragicità, del paradosso e della contraddizione: Nella profusione reale o immaginaria della “società dei consumi”, il tempo occupa una

3 Basti ricordare l’“iper-romanzo” di Gore Vidal, Duluth (Vidal 1983, 1984, 2007) che, in forma distopica e sur- reale, offre un ritratto tragicomico dell’American Way of Life nel suo apice degli anni Ottanta, disvelando con passione polemica “ciò che si potrebbe definire l’antropologia dell’America nell’era della cultura di massa” (Calvino 1983, 11). Non a caso, nella prima edizione italiana, il romanzo fu sottotitolato Tutta l’America in una città (Vidal 1984). 4 Dal latino recreatio, con le accezioni di guarigione, recupero, ripresa, ma anche di diversione, divertimento, svago, rinvigorimento, ritorno alla vita, creazione, sino ad approdare ad una definizione di ricreazione come insieme di scelte e attività contraddistinte dalla volontarietà e dalla motivazione ad appagare bisogni fisici, intellettuali o sociali (Skeat 1993, 99; McLean and Hurd 2015, 17-18).

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specie di posto privilegiato. La domanda di questo bene del tutto particolare bilancia quasi quella di tutti gli altri beni presi assieme. Non vi è certamente più uguaglianza di possibilità, di democrazia rispetto al tempo libero di quanta ve ne sia per gli altri beni e servizi. Del resto è noto che la contabilizzazione del tempo libero in unità cronometriche, se è significativa di un’epoca rispetto a un’altra, non lo è più assolutamente per noi e presa come valore assoluto: la qualità di questo tempo libero, il suo ritmo, i suoi contenuti, il fatto di essere o non essere residuale rispetto alle costrizioni del lavoro o “autonomo”, tutto ciò ridiviene distintivo di un individuo, di una categoria, di una classe nei confronti dell’altra (Baudrillard 1970/1976, 219, corsivo nel testo). E ancora: Il tempo non potrebbe essere nulla di diverso dal prodotto di una certa cultura, e più precisamente di un certo modo di produzione. In questo caso è necessariamente sottomesso allo stesso statuto di tutti i beni prodotti o disponibili nel quadro di questo sistema di produ- zione: quello della proprietà, privata o pubblica, quello dell’appropriazione, quello dell’og- getto, posseduto e alienabile, alienato o libero, e partecipe, al pari di tutti gli oggetti prodotti secondo questo modo sistematico, dell’astrazione reificata del valore di scambio (Baudrillard 1970/1976, 220, corsivi nel testo). Il tempo libero è coatto nella misura in cui dietro la sua apparente gratuità riproduce fe- delmente tutte le costrizioni mentali e pratiche proprie del tempo produttivo e della quoti- dianità asservita (Baudrillard 1970/1976, 225). Ora, tali “costrizioni mentali e pratiche” Lindeman le ravvisava proprio nell’of- ferta sempre più standardizzata, eterodiretta ed indirizzata al consumo (più che alla fruizione) delle attività ricreative: non è neppure un caso, allora, che egli abbia inteso utilizzare pressoché sempre questa espressione, e suoi derivati, anziché tempo libero (ossia recreation anziché free time, spare time o leisure), imprimendo, cioè, un’acce- zione ben precisa a tutto il suo discorso. Le attività ricreative, dunque, divengono un modo di intendere ed agire l’impie- go del “tempo liberato” al fine di renderlo “libero” (non dagli impegni, ovviamen- te, bensì dalle imposizioni, dalle mode ecc.) e valido per accrescere la “libertà” (di scegliere, di partecipare consapevolmente ed attivamente agli assetti politico-socia- li-culturali) dell’individuo, ma sempre alla luce di un progetto esistenziale inten- zionale e, quindi, autonomamente finalizzato. L’orizzonte di senso che Lindeman pone a tale esercizio di libertà è un orizzonte educativo, ove il “bene” del singolo individuo si definisce in relazione al “bene” collettivamente inteso: ritornando così alla sua concezione di democrazia come “esperimento continuo”, ed “epico”, di relazioni interpersonali.

Le attività ricreative: funzione educativa, sociale, politica

Già nel summenzionato The Meaning of Adult Education, Lindeman dedica un passaggio al valore delle attività che gli adulti svolgono nel tempo libero, nella misu-

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ra in cui esse sono intraprese in vista dell’autoespressione e della progressiva costru- zione di sé come personalità “intera”, sottolineandone in particolare la creatività, la ludicità e, quindi, la gratuità (Lindeman 1926, 58-61; Marescotti 2013, 63-68). Ma è soprattutto in alcuni saggi successivi che egli avrà modo di affrontare l’argo- mento con analisi maggiormente dettagliate e critiche. Al riguardo, è paradigmatico un suo articolo dedicato alle prospettive culturali (in senso lato: istruzione, lavoro, relazioni sociali ecc.) dei giovani, ove argomenta l’assoluta rilevanza del tempo libe- ro, in termini qualitativi e quantitativi, in stretta correlazione al progressivo sviluppo tecnologico: I modelli di base della cultura ruotano attorno al comportamento umano che si esprime in: (a) esecuzione del lavoro, (b) organizzazione dei rapporti familiari e comunitari, (c) cul- to, (d) formazione dei giovani e (e) impiego del tempo libero. Nel modello culturale, questi cinque elementi – lavoro, famiglia e comunità, religione, educazione, ricreazione – si stan- no continuamente modificando nei termini di una loro reciproca influenza. La religione era senza dubbio l’agenzia centrale per la determinazione dei valori culturali nel Medioevo, ma non ha più questa preminenza. Il modello culturale delle moderne società industriali può es- sere facilmente analizzato in termini di relazione tra il primo e l’ultimo dei suddetti elementi, vale a dire tra il lavoro e il gioco. La sfera ricreativa aumenta la sua influenza culturale in modo direttamente proporzionale all’avanzamento della tecnologia nel determinare i modi di svolgere il lavoro. La qualità dell’esperienza (cultura) delle persone che vivono in società industriali è destinata a essere condizionata, dunque, dal tempo libero in una scala sempre crescente (Lindeman 1937, 59, traduzione mia). Il problema – va sottolineato – non si esaurisce in riferimento al tempo libero dell’adulto lavoratore, nella fattispecie dell’operaio addetto al funzionamento delle macchine e, quindi, al fenomeno dell’alienazione che, appunto nel tempo libero, può trovare occasioni di risarcimento o compensazione5, bensì al tempo libero di tutti gli individui che affidano alle macchine porzioni significative delle loro attività e rela- zioni: Coloro che lavorano alle macchine, coloro che vengono trasportati dalle macchine, coloro che comunicano tramite dispositivi meccanici e infine tutti coloro che sono soggetti all’im- patto delle macchine (i cittadini della civiltà delle macchine), ritengono necessario sviluppare sia l’organismo sia la personalità nel tempo libero. L’effetto della macchina è quello di fra- zionare l’esperienza; l’attività ricreativa deve essere finalmente ben organizzata per riuscire a

5 Va chiarito, al riguardo, che in alcune sue esternazioni Lindeman lascia intendere che le attività svolte nel tempo libero, in particolar modo dagli operai del settore industriale, siano da intendersi come una sorta di riscatto o di chance altra a fronte dell’impossibilità di intervenire e trasformare, in senso migliorativo, il momento del lavoro; un’impostazio- ne, questa, di discutibile valore nella misura in cui accetta e legittima una suddivisione manichea del tempo esistenziale, riservando al tempo libero il ruolo di “parentesi”, “valvola di sfogo” o analoghi. Ad esempio, in The Meaning of Adult Education, Lindeman affermava che “Per gli operai addetti alle macchine automatiche le possibilità di arricchire le atti- vità lavorative in sé sono notevolmente ridotte. Se anche costoro devono godere appieno della vita, una vita permeata di significato e gioia, dovrà essere garantita loro la possibilità di esprimere la propria personalità in maniera più completa di quanto richiedano le macchine. La loro vita sarà ravvivata da attività creative nella misura in cui impareranno a mette- re a frutto il tempo libero” (Lindeman 1926, 8, traduzione mia). Successivamente, Lindeman preciserà che le attività del tempo libero non possono esaurirsi nel loro essere in qualche modo consolatorie, piuttosto dovranno accompagnarsi a rivendicazioni di migliore qualità della vita in senso ampio e pervasivo (Lindeman, 1941, 405).

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ripristinare l’interezza organica all’esperienza (Lindeman 1937, 60, traduzione mia). È dunque in questa prospettiva che Lindeman considera il tempo libero come opportunità educativa, che si esplica nella partecipazione alla vita pubblica, nell’ap- prezzamento estetico, nell’esperire la bellezza e la varietà del mondo naturale, al fine di un benessere individuale e collettivo che si nutre anche dello sviluppo di nuove e ulteriori competenze. Le principali implicazioni educative del tempo libero, deri- vanti da tale impostazione, sono fondamentalmente due: la necessità di educare le generazioni future per il completo godimento, tanto culturale quanto fisico, del tem- po libero; e la necessità di formare nuove figure di leader, organizzatori, progettisti e amministratori delle attività ricreative (Lindeman 1937, 61). La portata politica delle argomentazioni prospettate non è di poco momento: sia riguardo l’uso che del tempo libero hanno fatto e fanno i governi dittatoriali, in ter- mini di irreggimentazione, propaganda e controllo, sia relativamente alla questione razziale (un argomento molto sentito da Lindeman, che in più occasioni ha denun- ciato la disparità di opportunità e trattamento tra bianchi e neri, anche nel settore qui considerato), sia, infine – e venendo alla prospettiva che qui più direttamente interessa – circa la tendenza mercificatoria e, quindi, consumistica del tempo libero, alla stregua di qualsiasi altro “prodotto” industriale: Sono costretto a chiudere il mio appello per un nuovo tempo libero per la gioventù ame- ricana con una critica rivolta alle nostre attuali ingiustizie. Il tempo libero per i giovani delle nostre classi privilegiate resta in netto contrasto con quello di cui godono i figli e le figlie dei lavoratori e degli agricoltori. Per la mancanza di opportunità di partecipare a ciò che ho chia- mato tempo libero culturale, questi giovani della classe operaia sono sfruttati da divertimenti commerciali e sono diventati vittime delle arti volgari. Se dobbiamo pianificare un tempo libero veramente democratico, dovremo presto prendere provvedimenti per offrire strutture e supervisione per il tempo libero dei giovani che vivono in comunità industriali e agricole (Lindeman 1937, 66, traduzione mia). Qualche anno dopo, in un contesto tematico ed argomentativo diverso (il ruolo delle attività ricreative nel “tenere alto il morale” dei cittadini americani in tempo di crisi, intendendo, con la apparentemente semplicistica espressione utilizzata, un insieme assai più complesso di disposizioni: un atteggiamento motivato e fiducioso verso il futuro, la capacità di comportarsi in modo efficiente sotto pressione, la pro- spettiva che accetta gli eventi tragici come una realtà da cui nessuno può sfuggire), Lindeman ribadirà i concetti di cui sopra, insistendo in particolar modo sulla neces- sità di una coerenza tra ideale democratico e “stile” ricreativo, e di converso stigma- tizzando la standardizzazione, la specializzazione e la meccanizzazione indotta dal si- stema industriale come tratti che possono inficiare anche la qualità del tempo libero, svuotandolo di significato esistenziale: Dal momento che il tempo libero è una categoria culturale, sembra legittimo sperimentare tutti i programmi di attività ricreative secondo dichiarazioni culturali e obiettivi specifici. Ad esempio, noi affermiamo che siamo una democrazia e pertanto è giusto chiedersi se la nostra vita ricreativa sia compatibile o meno con questo ideale. Ho già indicato vari modi in cui il

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criterio democratico può essere utilizzato, ma una considerazione problematica è stata omes- sa. Oltre ad essere una società tradizionalmente democratica, la nostra è una civiltà che su- bisce l’influenza di molte forze che non hanno nulla a che fare con gli ideali democratici. La “macchina”, ad esempio – un sinonimo di tecnologia e scienza – tende a produrre maggiore standardizzazione, specializzazione e meccanizzazione. Queste sono influenze che potrebbe- ro essere in conflitto con l’ideale democratico. Il loro effetto è quello di distruggere l’unità organica dell’esperienza. Le nostre vite diventano più frammentarie e le nostre esperienze più segmentate. Non riesco a vedere un modo efficace di superare queste conseguenze, ad ecce- zione di un programma ricreativo che ristabilirà gli equilibri e fornirà opportunità per espe- rienze più organiche. Ogni responsabile delle attività ricreative dovrebbe chiedersi all’inizio di ogni programma che inaugura: è probabile che questa attività possa portare o allontanare a/da una vita equilibrata? (Lindeman 1941, 401, traduzione mia) per arrivare a concludere che Non ci può essere un morale robusto senza un senso di dignità, e la dignità deriva da in- dividui giusti che cercano una buona vita in una buona società. Coloro che sono specialisti del settore ricreativo e allo stesso tempo non ci aiutano a portare la nostra democrazia ad un maggiore compimento in tutte le sfere dell’esperienza alla fin fine falliranno. La funzione del tempo libero è essenziale nella società moderna, ma non dovrebbe diventare compensativa. Colui che fornisce attività ricreative ai poveri e non si sforza di eliminare la povertà è già ca- duto in uno smarrimento profondo (Lindeman 1941, 405, traduzione mia). La valorizzazione della dimensione ricreativa della vita – per la funzione educa- tiva, sociale e politica in senso democratico che la sostanzia – non si limita, nella concezione sistemica di Lindeman che lega indissolubilmente e in necessaria bi-dire- zionalità il vissuto individuale con quello collettivo, ad un livello macro di politiche ricreative, ma riguarda in primo luogo anche il nucleo familiare, la sua vitalità e coe- sione e il ruolo propulsivo che può rivestire per l’intera comunità. Tanto che, a poche settimane dal coinvolgimento effettivo degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, Lindeman affrontò questi argomenti in relazione non tanto all’influenza della guerra sulla vita familiare, quanto, soprattutto, al tipo di fa- miglia desiderabile in tempo di pace. Tra gli ideali propugnati, non mancò di soffer- marsi, ancora una volta, sull’importanza di garantire le condizioni per consentire agli individui di vivere in modo significativo esperienze ricreative autentiche, ovvero non standardizzate bensì scelte e agite per la qualità delle relazioni e degli apprendimen- ti, in senso lato, che stimolano: Mi rendo conto, naturalmente, che la nostra società industrializzata e meccanizzata ha trasformato “lo scorrere liscio della felicità domestica” in un mare grosso e turbolento, ma, ancora una volta, io sostengo che se quelli di noi che insistono nel credere nel progetto fa- miliare per la vita dovessero tradurre i nostri desideri in realtà, potremmo trovare i modi per restituire la funzione ricreativa alle famiglie anche nelle città e nelle comunità industriali. Mi perdonerete, spero, se a questo punto introduco una nota personale. È successo che, proprio questa settimana, noi, la famiglia Lindeman, anzi, i coniugi Lindeman senza la loro famiglia, ci trasferiremo lasciando la città dove abbiamo risieduto per due decenni. La se- guente lettera, scritta da un giovane, ci è arrivata pochi giorni fa:

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Ricordando che presto lascerai la nostra comunità, non posso permettere che queste va- canze si concludano con un semplice biglietto di auguri. Naturalmente io e tanti altri senti- remo la tua mancanza. Quello che io ricorderò sempre è quanto hai fatto per i bambini e i ragazzi della nostra città. Probabilmente avremmo passato il tempo alla sala da biliardo o al negozio sotto casa, invece abbiamo giocato a tennis sui tuoi campi, siamo venuti in contatto con buoni libri e buone riviste... Per me sei stato colui che mi ha fatto riprendere gli studi – un vero e proprio punto di svolta della mia vita (Lindeman 1942, 9, traduzione mia). Non svaghi fine a se stessi, dunque, ma attività ricreative che, in quanto tali, ol- tre che divertire, ristorare, far trascorrere piacevolmente il tempo, possano ravviva- re l’esistenza dell’individuo, consentendogli di fare esperienza di attività e relazioni significative anche per gli indotti che provocano in altre sfere, sul piano della con- sapevolezza di sé, di ciò che si predilige e si desidera fare, di ciò che si ritiene quali- tativamente di valore. In questa prospettiva, non c’è e non ci deve essere separazione o addirittura giustapposizione tra il “tempo libero” e gli altri tempi/spazi/attività esi- stenziali, alla luce di una finalità educativa che permea l’intera gamma esperienziale del soggetto, né, tantomeno, va legittimato uno stile consumistico – sia pure di cifra culturale – dai tratti standardizzati, tali da rendere meccanica, vacua ed eterodiretta la fruizione di beni, servizi e situazioni di varia natura ma tutti riconducibili nell’area della “ricreazione”. Al riguardo, vale la pena riportare integralmente il testo del breve saggio ove Lin- deman ebbe modo di individuare ed analizzare i principali fattori e dinamiche di una teoria delle attività ricreative e, in un secondo momento, procedere ad un esame delle ragioni del rischio di deriva consumistica ed omologante delle attività ricreative e delle implicazioni sociali, politiche ed educative del fenomeno.

Teoria e organizzazione delle attività ricreative: gli elementi determinanti

L’articolo in questione – intitolato The Dynamics of Recreational Theory – fu scrit- to nel 1948, due anni prima del suo pensionamento, quando Lindeman era ancora docente di Filosofia sociale alla “New York School of Social Work” della Columbia University, e pubblicato sulla rivista The Journal of Educational Sociology, alla quale aveva iniziato a collaborare nel 1932 presentando alcuni scritti sui temi della forma- zione genitoriale, della leadership in relazione all’assetto democratico e dell’educa- zione degli adulti (Lindeman 1932, 1944, 1945). Il periodico, organo della “American Sociological Association”, fondata nel 1905, iniziò la sua attività nel 1923; dal 1963 mutò testata in Sociology of Education, ed è tuttora attivo come uno dei più accreditati a livello internazionale (Rhoades 1981; Rosich 2005). La competenza politica nella definizione del comparto intitolato alle attività ricreative, da non confondersi con la competenza riguardante la loro realizzazione concreta, richiede un orientamento che si rinnovi di continuo. Lo iato tra teoria e pratica in questo campo, come in

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tanti altri, è in parte dovuto al fatto che le attività ricreative tendono a diventare stereotipate, ridotte ad abitudine. Una relativamente nuova forma di attività per il tempo libero, il cinema, ad esempio, ha già inaugurato modelli abitudinari: le famiglie designano una serata alla setti- mana come “serata-cinema”, standardizzando così una parte del loro svago. Le vacanze sono diventate talmente ritualizzate che in alcune aree, in particolare nelle comunità urbane, certe attività e servizi sono decimati o abbandonati durante la stagione estiva. Ovviamente, non vi è nulla di sbagliato nell’assuefazione ricreativa, tranne il fatto che essa riduce le possibilità di avviare nuove pratiche sulla base di nuove teorie. Ancora più grave, però, è la probabilità che la standardizzazione del tempo libero inibisca i teorici nel dare attenzione a quei fattori di civiltà e di cultura ai quali dovrebbe puntare la revisione teorica. In questo breve saggio, il mio scopo è quello di indicare alcune delle forze che tendono a stimolare nuove modalità e opportunità di ricreazione, e, tra l’altro, far notare qua e là alcune delle implicazioni teoriche coinvolte. La forza di cambiamento più potente nella società moderna, in particolare nella società americana, è, palesemente, quella trinità implacabile composta da scienza, tecnologia e in- dustria. La scienza porta all’invenzione, l’invenzione porta a nuove imprese e processi pro- duttivi e, infine, l’industria determina come gli uomini e le donne svolgono il loro lavoro. È ormai consuetudine combinare questi elementi separati in un unico simbolo, vale a dire la Macchina (tanto quanto gli antropologi utilizzano il mais come simbolo delle prime culture Maya) e far discendere una serie di dinamiche da questo fatto centrale. Colui che comprende la Macchina, così procede l’assunto, e ha qualche cognizione circa le sue qualità dinamiche, comprenderà altresì la cultura di cui la Macchina si pone a simbolo. Un’implicazione teorica dell’argomentazione di cui sopra è certamente chiara, e cioè che le attività ricreative dovrebbero in qualche modo fungere da complemento al tipo di lavoro che richiede la Macchina. Se, per esempio, la Macchina richiede una forma persistente di attenzione e quindi è probabile che esiga una tensione nervosa da parte del lavoratore, allora appare chiaro che le attività ricreative dovrebbero, in questo caso, fornire rilassamento. Fino- ra abbiamo prodotto solo un esiguo fondamento teorico per questa fase della cultura dell’era della Macchina, e soprattutto nel campo degli studi sulla fatica e sulle sue conseguenze. È evidente che l’aumento dei mezzi e della velocità di trasporto influenzano il tempo li- bero delle persone. Questo è solo un altro aspetto (dinamica) della Macchina, ma è uno di quegli aspetti che finora non ha portato a principi teorici di base per le attività ricreative. L’automobile ha modificato in molti modi come gli americani vivono il tempo libero, ma le maggiori conseguenze finora raggiunte nella pianificazione delle attività ricreative sono la maggiore fruizione dei parchi nazionali e statali e l’accelerazione del turismo. Non è chiaro se l’economia debba essere considerata come una fonte di fattori determi- nanti, ma il teorico delle attività ricreative che rimane ignaro di fatti economici, come la di- stribuzione del reddito nazionale, sarà sempre in arretrato rispetto alla sua teoria. Si sono sprecati sforzi per porre basi teoriche di un tipo di svago che la gente non può permettersi. La politica pubblica è una fonte di dinamiche culturali e può anche, ahimè, fungere da motivo di staticità. I responsabili preposti all’organizzazione delle attività ricreative non han- no, in passato, sfruttato al meglio quell’ambito della politica pubblica corrente che viene sin- tetizzato nel termine “stato sociale”. In teoria, uno stato sociale è quello che si basa sull’as- sunto che la stabilità politica è possibile solo quando i cittadini ritengono che il loro governo non permetterà una degradazione del loro tenore di vita. Nelle sue fasi iniziali uno stato so- ciale cerca di affrontare questioni come la disoccupazione, la sicurezza sociale, le varie assi-

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curazioni ecc. ma una volta che questo passo è stato intrapreso l’intero tenore di vita della popolazione viene messo in discussione. Se possiamo supporre che il tempo libero è libertà che il lavoratore si è conquistato perché ha faticato, e se il governo si assume un grado di responsabilità nello stabilire il diritto al lavoro, perché non dovrebbe essere ragionevole sup- porre anche che il governo debba prendersi qualche responsabilità circa il modo di disporre di tale libertà guadagnata? Il problema che discende da questa domanda non è così semplice come può sembrare, in particolare quando lo stato sociale è anche uno stato democratico. La libertà che il lavoratore guadagna attraverso il suo lavoro non appartiene allo Stato, come è stato ipotizzato, ad esem- pio, dai nazisti in Germania. Là il tempo libero delle persone è stato “catturato” dallo Stato e utilizzato per scopi di irreggimentazione. In condizioni democratiche è essenziale che lo Sta- to fornisca opportunità di ricreazione, ma il modo in cui queste opportunità sono utilizzate dalle persone deve essere del tutto compatibile con i valori democratici. Quello che i cittadini fanno del loro tempo libero è di primaria importanza per la cultura dello Stato, ma in una na- zione democratica questa importanza deriva dal fatto che la libertà così espressa è autentica. Questa breve trattazione di politica pubblica indicherà quanto diventa necessario per i teorici delle attività ricreative e per i politici comprendere il pieno significato di questa pa- rola benedetta ma vulnerabile: “democrazia”. La democrazia è un esperimento epico nelle relazioni umane e dato che è un esperimento i suoi valori non dovrebbero mai diventare fissi o statici. Tuttavia, ciò non significa che dobbiamo essere vaghi e confusi circa quei valori che in un dato momento della storia diventano strategici per la salvaguardia e il miglioramento del vivere democratico. Se le attività ricreative possono diventare un potente alleato per il verificarsi dell’esperienza democratica, coloro che ne hanno la responsabilità politica devono essere in grado di descrivere tale esperienza in solidi termini teorici, ma anche di tradurre i suoi significati in termini di realismo pratico. La Macchina, lo stato sociale e la disciplina democratica: queste sono le fonti delle dina- miche di una moderna teoria delle attività ricreative. La Macchina rende necessario per l’uo- mo moderno un utilizzo del suo tempo libero in modo che esso compensi il suo progressivo distacco dalla natura e dagli equilibri di vita più primitivi. Lo stato sociale non può compiere la sua missione a meno che non pianifichi il tempo libero tanto quanto il lavoro. La disciplina democratica può essere usata come pietra di paragone culturale, in base alla quale i valori al cui servizio si pongono le attività ricreative sono resi chiari e istruttivi. La teoria può essere testata anche alla luce di altri fattori, come la relativa mobilità di una data popolazione, le pressioni professionali, gli sviluppi dell’edilizia residenziale pubblica, le disposizioni fiscali che interessano gli stanziamenti e le spese sia pubbliche sia private, la fles- sibilità degli imprenditori commerciali il cui profitto dipende dal tempo libero delle persone. Si tratta, senza dubbio, di fattori di minore importanza per il teorico rispetto alle categorie di cui sopra, eppure meritano di essere inclusi. La mobilità della popolazione è causata direttamente dall’industria. I lavoratori devono spostarsi verso i luoghi in cui sono disponibili posti di lavoro. Ma questo è uno di quei casi in cui l’effetto di un’epoca diventa a sua volta la causa qualcos’altro. Le persone che si spostano di frequente possono, in definitiva, giungere ad apprezzare lo spostamento e, quindi, cercare opportunità di spostamento quando potrebbe essere vantaggioso rimanere dove sono. Non ci preoccupano ora le cause della mobilità delle famiglie e degli individui americani, quanto, piuttosto, le sue conseguenze. Se, per esempio, una famiglia si trasferisce sette volte in un decennio (e questo non è insolito per molte famiglie americane), in che modo questo fatto

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influenza le attività del tempo libero dei suoi componenti? Come dovrebbe essere svolta la pianificazione ricreativa per queste famiglie instabili e dove risiede la responsabilità di tale pianificazione? Le pressioni professionali comportano due tipologie di implicazioni, una che si riflette nelle istituzioni educative e l’altra nel mercato del lavoro. In certi periodi e in alcune comu- nità la paura dell’insicurezza economica è così grande che l’intera offerta educativa è pensata quasi esclusivamente alla luce del suo rapporto con le professioni. Io ho vissuto in queste co- munità e in tali circostanze, e ho notato che la vita ricreativa delle persone motivate dall’insi- curezza spesso tende a diventare di tipo violento. Qui, senza dubbio, si cela un indizio per il teorico. I giovani sono costretti a concentrarsi sul guadagnarsi da vivere proprio nel momen- to della vita in cui le loro inclinazioni naturali potrebbero portarli ad esplorare la natura e le varie arti; in tal modo una potenziale risorsa ricreativa per gli anni a venire viene ad essere trascurata e forse perduta. Gli sviluppi dell’edilizia residenziale pubblica offrono molteplici opportunità per la speri- mentazione di forme familiari di ricreazione. Purtroppo, queste opportunità raramente sono poste in essere perché la maggior parte degli esperti del settore immobiliare ragionano sol- tanto in termini di costruzione di alloggi, e non di comunità, quando pianificano le aree abi- tative. Questo fatto, vale a dire l’ottusità e la mancanza di orientamento sociologico da parte degli amministratori dell’edilizia residenziale, è doppiamente importante perché gli sviluppi di nuove abitazioni prima di tutto si impongono su e “disgregano” i quartieri già consolidati, distruggendo così le strutture ricreative esistenti e le abitudini, sovrapponendo ad esse nuove strutture di vicinato e nuove esigenze per il tempo libero. I regimi fiscali influenzano la vita in modi peculiari. Una certa percentuale del reddito di ogni famiglia va agli esattori delle tasse locali, di contea, statali e federali. La nostra politi- ca storica è stata quella di ridurre tale percentuale quando il reddito è alto e di aumentarla quando il reddito è basso, una procedura che è ovviamente sbagliata. Errori fiscali di questo tipo influenzano direttamente la possibile qualità di vita dei cittadini. Per esempio, come può una famiglia pianificare un programma ricreativo adeguato sapendo che sarà obbligata a pa- gare di più in tasse nel momento in cui il suo reddito sarà più basso? Ciò è in parte dovuto all’imbarazzante fatto fiscale secondo il quale gli Stati Uniti hanno pubblicamente sostenuto il miglior programma ricreativo mai goduto dalla sua popolazione durante l’ultimo periodo di recessione. Un altro problema fiscale appare quando ci si rende conto che la maggior parte delle citta- dine e delle città americane stanno ancora cercando di svolgere le loro funzioni comunali at- traverso fondi derivanti dalla tassazione dei beni di proprietà. Il limite di tassazione dei beni di proprietà è presto raggiunto e al di là di tale limite ogni penalità applicata al proprietario, in particolare al proprietario di immobili abitativi, tende a distruggere la morale comunitaria e minaccia la stabilità politica. Le richieste di spese a favore delle attività ricreative devono essere avanzate alla luce di questa paradossale situazione fiscale e devono competere con al- tre richieste analoghe a favore dell’istruzione, della sanità, dei trasporti ecc. Per questo mo- tivo si scoprono comunità che una volta sono state ben fornite di strutture ricreative, ma che ora non lo sono più, e, naturalmente, la pianificazione ricreativa a lungo termine, in queste circostanze, è resa impossibile. Dunque, come può il teorico delle attività ricreative ottenere che queste siano incorporate nel bilancio locale, provinciale, statale e nazionale? Allo stesso modo, come possono sopravvivere ed espandersi quelle agenzie private che svolgono servizi eccellenti per la democrazia attraverso i loro servizi ricreativi?

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Spesso si pensa che l’adattabilità da parte di imprenditori commerciali al servizio delle esi- genze ricreative sia un riflesso diretto della qualità dinamica della cosiddetta economia della libera impresa, e questa affermazione non è priva di validità. La crescita degli intrattenimenti sportivi è senza dubbio un sottoprodotto della motivazione al profitto. Le partite serali di baseball, per esempio, non sono progettate per soddisfare le preferenze dei giocatori; la loro crescente diffusione è evidentemente riconducibile al fatto che aumentano i profitti dei pro- prietari dei club di baseball. Perché la motivazione intitolata al servizio sociale non dovrebbe portare a invenzioni simili da parte di quei leader preposti alle attività ricreative i cui obiettivi sono qualcosa di diverso dai profitti? La risposta più frequente che viene data è che questi funzionari della pubblica amministrazione non sono in competizione e, quindi, sono privi di quelle qualità che inducono inventività. C’è un’altra risposta, e cioè che il funzionario pubbli- co è impegnato in una forma superiore di concorrenza, non per i profitti, ma per la felicità e una cultura più umana; ma non ha imparato a rendere questa forma di concorrenza attraente come la competitività tipica dell’ambito materialistico. Il senso di quanto è stato scritto sopra si trova, in ultima analisi, nel vaglio della formazio- ne che viene attualmente offerta ai giovani che desiderano dedicare la loro vita al progresso delle attività ricreative. Da qualche parte nei piani di studio progettati per questi studenti si dovrebbero trovare corsi di natura nettamente sociologica e culturale, corsi che elevano la formazione in ambito ricreativo al di sopra del livello tecnico, corsi che preparino gli studenti ad utilizzare prospettive culturali e filosofiche (Lindeman 1948, 263-269, traduzione mia).

Ad una prima lettura, ciò che di queste note salta immediatamente all’attenzione è una serie di parole alle quali Lindeman, in relazione alle attività ricreative (ma non solo), attribuisce una marcata valenza negativa: termini come “abitudine” e “assuefa- zione” non meno che aggettivi quali “stereotipato”, “standardizzato” e “ritualizzato” sono impiegati per stigmatizzare i principali tratti di un tempo libero che, paradossal- mente, con l’esercizio e con la promozione della libertà dimostra di non avere nulla a che fare. L’adeguamento dell’offerta delle attività di svago (dal cinema alle vacanze allo sport, per riprendere gli esempi di Lindeman) ai canoni commerciali derivanti dalla produ- zione imperniata sulla “trinità implacabile” composta da “scienza, tecnologia, indu- stria”, che si fondono nella “Macchina”, ne determinano uno svilimento tanto più gra- ve quanto più riesce a fagocitarne anche la dimensione di senso in prospettiva cultura- le e filosofica che, per Lindeman, ha e deve avere sempre una connotazione educativa. In primo luogo, è determinante, per chi si occupa di attività ricreative (a vario ti- tolo e a vari livelli: il teorico, il politico, l’amministratore, gli imprenditori, gli opera- tori), implementare un approccio che abbia piena contezza del sistema complesso in cui queste si inseriscono; di qui, l’individuazione delle “fonti”, principali e derivate, delle dinamiche che agiscono a determinarne le qualità: la “macchina”, in quanto implica un tipo di produzione e, quindi, di lavoro; lo “stato sociale”, in quanto il governo politico è responsabile della regolamentazione lavorativa; e la nozione stessa di “democrazia”, che Lindeman assume a “pietra di paragone culturale” per tutte le attività umane e sociali. Tuttavia, non si può non notare che, così impostata, la questione del tempo libero e delle attività ricreative parrebbe definirsi non in auto- nomia, bensì solo ed esclusivamente come contro bilanciamento in risposta ad un

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lavoro dato come elemento fisso: a compensazione e complemento di un lavoro che genera stress nell’individuo, le attività ricreative svolte nel tempo libero dovrebbero fornire rilassamento. In secondo luogo, soffermandosi su altre variabili che discendono ed interagisco- no con le principali, diviene necessario considerare la mobilità della popolazione, le pressioni professionali, il reddito disponibile e il regime fiscale, la conformazione ur- bana, poiché influiscono ognuna tanto sull’offerta quanto sulla domanda di attività ricreative, esplicitando possibilità e bisogni, ma anche vincoli e limiti. Anche in que- sto caso, però, il tempo libero parrebbe definirsi solo per sottrazione o quale conse- guenza inevitabile di situazioni di fatto e strade già imboccate. Quale può essere, dunque, una “via d’uscita” in grado di attribuire al tempo libe- ro e alle attività ricreative un ruolo autonomo e attivo, anziché meramente residuale e indotto? Lindeman la individua nell’adozione di un orizzonte di senso – che, reali- sticamente, non può non contemplare e fare i conti con il criterio del profitto – im- perniato su obiettivi che però sono e devono essere diversi dal profitto, perché volti a perseguire “la felicità e una cultura più umana”. A partire dalla formazione professionale degli addetti ai lavori, le attività ricrea- tive devono essere messe nella condizione di sottrarsi dalla morsa del mero livello tecnico, e svilupparsi sulla base di “prospettive culturali e filosofiche”. A questo sno- do cruciale, ove sono le finalità di stampo democratico perseguite che prescrivono la pianificazione delle attività ricreative, Lindeman affida la possibilità di scardina- re il circolo vizioso della standardizzazione delle attività ricreative, provocata dalla e in guisa della standardizzazione dei prodotti e dei consumi tipica di un sistema industriale su larga scala e in progressiva espansione. L’umanizzazione della cultura, e della stessa felicità, cui il Nostro allude, non può che nutrirsi di relazioni interper- sonali significative: questa, in definitiva, è e dovrebbe essere la cifra distintiva delle attività ricreative e, quindi, il parametro per la loro progettazione. La vita della famiglia, del quartiere, della comunità locale circoscritta sono con- sustanziali della vita sociale in senso ampio e, al tempo stesso, la cartina al tornasole del suo stato di benessere, ma anche le dimensioni in cui prima e con maggiore inci- sività si manifestano e si possono cogliere orientamenti di più ampia portata; di con- verso, rappresentano altresì contesti preferenziali, oltre che di analisi, di intervento. Vale a dire che l’osservazione attenta di come una famiglia organizza i momenti di svago dei suoi componenti, delle attività che sceglie di fare, delle rinunce o delle pre- ferenze che esprime per “ricrearsi” può fornire spie importanti a livello macro in ter- mini di condizionamento, ma anche testimoniare, e reclamare, uno stile di vita che si ispira a valori di coesione, pluralismo, spirito critico.

Considerazioni conclusive

Passare dal primo dopoguerra, le cui prospettive economiche (negli Stati Uniti, ma non solo) erano un tutt’uno con la crescita, lo sviluppo, la produzione e, quindi,

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il consumo (Fasce 2010, 138), alle odierne proposte – o alla “rotta dell’utopia con- creta”, per dirla con Serge Latouche (2010/11, 54 ss.) – facenti capo alla nozione di decrescita rappresenta sicuramente un salto storico-culturale non di poco momento, da tenere in debito conto pena l’incorrere in ingenuità interpretative e in anacroni- stiche forzature. Eppure, è un salto che non destabilizza se nelle parole di Lindeman si colgono le preoccupazioni – precoci ma ampiamente suffragate dall’analisi dei fenomeni ri- scontrati – per la curvatura consumistica che andava imprimendosi anche alle attivi- tà ricreative, depauperandole nel loro significato e nelle loro potenzialità relazionali- educative. Mutatis mutandis, in questo accostamento affiorano ulteriori analogie: Lindeman riservava grande attenzione all’urbanistica e all’edilizia residenziale, intese quali veri e propri elementi di una teoria delle attività ricreative nel loro rispecchiare e favori- re (o non-rispecchiare e non-favorire) la nascita e il funzionamento di comunità e, quindi, di relazioni umane direttamente o indirettamente educanti; Latouche, nella sua visione “umanistica” dell’economia, non può trascurare quel versante dell’edu- cazione che si esprime e passa attraverso la relazione con un ambiente depositario di contenuti e, quindi, di messaggi, valori, concezioni del mondo:

Secondo gli antichi, la formazione del cittadino, la paideia, la sua trasformazione in mem- bro della polis, passa innanzitutto per la sua edificazione. Bisogna disciplinare la hybris (la di- smisura), controllare le passioni tristi (avidità, sete di potere, egoismo, desideri sfrenati ecc.) e canalizzare le energie in direzione dell’armonia e della bellezza. In questo senso, Platone di- ce che i muri stessi della città educano il cittadino. Ma nel mondo di oggi, a che cosa possono educare i muri delle nostre città e delle nostre periferie? Che cosa possono formare se non, nel migliore dei casi, dei consumatori frustrati o, nel peggiore, dei “selvaggi” ribelli? Nella stragrande maggioranza dei casi, uno sviluppo urbano orribile e senza anima, una pubblicità aggressiva e onnipresente non contribuiranno certo a formare degli eroi delle Termopili, né personalità forti capaci di resistere all’aggressione mediatica e all’invasione della propaganda politica, che ne è diventata il sottoprodotto. Al contrario, quello che viene stimolato è, oltre alla frenesia consumistica, lo scatenamento della violenza, la sete di potere e di denaro, il ri- sentimento e il desiderio di rivalsa (Latouche 2010/2011, 115-116, corsivi nel testo). Non meno immediato è stato il riecheggiare delle riflessioni di Marta C. Nussbaum relativamente alla crisi (e alla necessità di un rilancio autentico) della cul- tura umanistica e, più in generale, al dominio del criterio del profitto, cui si affianca- no quelle di economisti quali Joseph E. Stiglitz, Amartya K. Sen e Jean-Paul Fitoussi sul disallineamento tra aumento del reddito e miglioramento della qualità della vita umana, globalmente intesa, che richiede l’adozione e la valorizzazione di altri indici e criteri, quali la felicità (Nussbaum 2010; Stiglitz et alii 2010). E ancora – con un altro salto, stavolta al nostro recente passato – suonano più familiari i moniti espressi da Franco Frabboni negli anni Settanta parlando di loisir come tempo di libertà “truccata”:

L’uomo contemporaneo trovandosi nella condizione di non potere più realizzare la pro-

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pria personalità nelle anonime e reificanti attività della produzione (a lui del tutto estranee) ricerca freneticamente un nuovo terreno di libertà in ciò che appare come l’assoluto contrario del regno dell’imposizione, e cioè nelle confezioni consumistiche degli svaghi di massa. Senza accorgersi che tali consumi, fruiti come oggetti di identificazione e appiattimento collettivo, non costituiscono che l’altra faccia della medaglia (Frabboni et alii 1976, 16, corsivi nel testo) e ancor prima le riflessioni di Giovanni Maria Bertin, Lamberto Borghi e, non ultimo, Mario Valeri, mossi sia dalla necessità di conferire ed argomentare senso e condizioni delle attività ricreative come atti di libertà e di educazione sia, al contem- po, di disvelarne il lato oscuro dell’omologazione, dell’assenso ad uno status quo su- bito passivamente e (mal)sopportato, dell’ingannevole illusione (Bertin 1962; Borghi 1964; Valeri 1979). Queste conclusive suggestioni – forse apparentemente rapsodiche e in ordine sparso, ma attraversate da un fil rouge intellettuale e accomunate dal riferirsi al- la “società dei consumi” in luoghi, epoche e da angoli visuali diversi con sensibilità educativa – mostrano la necessità di un’attenzione e di una vigilanza pedagogica ad un fenomeno/problema che non è quello del consumo in quanto tale. Piuttosto, e massimamente, quello del consumo la cui funzione di appropriazione ed arricchi- mento è estrinseca o addirittura inconciliabile con la valorizzazione dell’umano, e le cui redini sfuggono di mano proprio quando il contesto proclamato democratico in cui si vive rassicura dell’esatto contrario6.

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6 Sono al riguardo illuminanti le parole di Antonio Santoni Rugiu a conclusione del suo saggio su pedagogia e consumismo: “Il consumatore già maturato nel vortice del consumismo e ormai ad esso pienamente conformato, anche inconsapevolmente subisce una ‘coazione a ripetere’, non concepisce nemmeno di potersi comportare diversa- mente. Si sente gratificato dal fatto che del prodotto in quel momento desiderato esista una scelta sempre più ampia, così che esercitando le proprie opzioni sarà convinto di avere affermato in modo originale la propria personalità, anche se si tratta di prodotti [di] larghissimo consumo. Tutto però senza riflettere che gli è preclusa la scelta pregiudi- ziale di scegliere o di non scegliere affatto o quella di fermarsi se, chissà mai, una volta si sentisse veramente soddisfatto di ciò che ha acquistato” (Santoni Rugiu 2003, 138).

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FAMILY EDUCATION AND CONSUMPTION OF CINEMA IN THE 1950s BETWEEN NORTH AND SOUTH OF ITALY

l’educazione familiare e il consumo del cinema negli anni cinquanta tra nord e sud d’italia

In this paper, the cinema of the 1950s is investigated as a mean of consuming and as a family education prac- tice. Following the history of Italian cinema in the “longest decade of the short century”, from neorealism to melò to comedy, it became clear that this cinema was coming into the italian’s families, redesigning identities and building new imaginers. The heterogeneous geography of family consumption of cinema reflects the con- tradictions and the separations of the Italy after the war. Italy was divided between innovation and tradition: between the north and south there were different opinions and attitudes about the films of the 1950s that reflected the changes in the roles and the identities into the Italian family. Cinema interpreted the new needs of the women and of the young people, helping them to build new educational styles and opened their eyes to unprecedented educational horizons. In questo articolo, il cinema degli anni Cinquanta viene indagato come mezzo di consumo e come pratica educativa familiare. Seguendo la storia del cinema italiano nel «decennio più lungo del secolo breve», dal neorealismo al melò alla commedia, emerge che il cinema entrava nella vita delle famiglie italiane plasmandole, ridisegnando identità e costruendo nuovi immaginari. La presenza di una geografia del consumo familiare di cinema eterogenea, rispecchia le contraddizioni e le separazioni che attraversavano l’Italia del dopoguerra, che era divisa tra innovazione e tradizione: in particolare, tra il Nord e il Sud d’Italia si registrano opinioni e atteggiamenti diversi nei confronti della filmografia di quegli anni che riflettono i cambiamenti in elaborazione dei ruoli e delle identità all’inter- no della famiglia. Il cinema si fece infatti interprete dei nuovi bisogni che emergevano soprattutto fra le donne e i giovani, contribuendo a costruire stili educativi nuovi e aprendo lo sguardo verso orizzonti di formazione inediti. Key words: cinema, the fifties, family education, consumption, economic miracle. Parole chiave: cinema, anni Cinquanta, educazione familiare, consumi, miracolo economico.

Cinema e famiglia negli anni della Ricostruzione

Trova oggi consenso unanime interpretare gli anni Cinquanta come il «decennio più lungo del secolo breve» (Dagrada 2016, 7): si tratta infatti di un periodo di lunga durata che affonda le sue radici nella metà degli anni Quaranta e che si prolunga fino agli anni Sessanta. È quindi un arco di tempo che supera i dieci anni e che nella sua fase iniziale, con l’entrata in vigore nel 1948 della Costituzione della neonata Repubblica, fu caratterizzato da una polarizzazione ideologica in linea con lo scenario mondiale

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 69-88 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.57 Livia Romano, [email protected] (Università degli Studi di Palermo)

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fortemente conflittuale della guerra fredda (Dagrada 2016, 8). L’immediato dopo- guerra fu un periodo attraversato da profondi mutamenti politici, sociali, economici, culturali e vide l’Italia impegnata nella costruzione dello stato democratico «facendo gli italiani» attraverso nuove pratiche educative (De Giorgi 2016). Protagoniste di questo difficile lavoro di ricostruzione civile e morale degli italiani furono la famiglia e la scuola, che si confrontavano con la diffusione di nuovi media, con modelli culturali alternativi e con nuove forze politiche consapevoli del peso che il mondo della cultura poteva avere nella costruzione del consenso e nell’orientamento dell’opinione pub- blica (Dagrada 2016). Le due istituzioni erano divise tra il vecchio e il nuovo: infatti, di fronte alla crescita dell’industria culturale e all’allargarsi dell’offerta mediale grazie alla diffusione della radio, della stampa periodica e della televisione, mostravano il più delle volte resistenze al cambiamento e una timida apertura al nuovo. La scuola, se si escludono alcune sperimentazioni didattiche1, continuava a pro- muovere un’educazione autoritaria, un’istruzione selettiva e una didattica rigida fon- data sulla disciplina di impostazione ancora fascista; d’altra parte erano molti i docen- ti che, addestrati durante il ventennio fascista a un insegnamento ispirato all’ideologia del regime, facevano fatica a sintonizzarsi con il nuovo progetto democratico. La fa- miglia italiana viveva le stesse resistenze alla trasformazione, anche se mostrava una certa apertura alle novità rappresentate dalla società dei consumi: essa, in tal senso, giocò un ruolo decisivo nella ricostruzione dell’Italia democratica aprendosi, dopo il protezionismo degli anni Trenta e dopo il periodo bellico, a una nuova società e ridefinendo al proprio interno ruoli, identità di genere, relazioni intergenerazionali (Sani 2003, 35). La famiglia italiana degli anni Cinquanta non aveva ancora iniziato la sua parabola discendente, che si sarebbe avviata negli anni Sessanta; essa infatti era sopravvissuta alla caduta del fascismo e «mostrava tutta la sua forza trainante» (Volpi 2014, 11), continuando ad avere un ruolo di protagonista nell’educazione e nell’istruzione dei figli, come recitava l’articolo 30 della Costituzione (Cavallera 2006, 13). Essa visse, nel corso di questo decennio così ricco e intenso, delle profonde trasformazioni in primo luogo economiche, avviando il passaggio da una condizione di miseria, molto sentita al Sud e nelle periferie, a una condizione di diffuso benessere che riguardava maggior- mente il Nord e i centri urbani: tra queste, un posto di rilievo ebbero le trasformazioni avvenute nei consumi, non solo sul piano economico, ma anche sulla mentalità e sulla vita quotidiana delle famiglie (Liguori 1996, 666). La Ricostruzione, con la ripresa della produzione e dell’economia, provocò la cre- scita del reddito medio pro-capite e un generale clima di euforia, imprimendo una spinta propulsiva che aumentava i consumi e incrementava la domanda di beni volut- tuari, avendo introdotto nella vita familiare degli italiani il tempo libero (Fanchi 2016, 228). Fra i beni di consumo che negli anni Cinquanta proliferavano e che gradualmen-

1 Si pensi ad esempio ai Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva (CEMEA) e al Movimento di Cooperazione educativa (MCE) che nacquero entrambi all’inizio degli anni Cinquanta e che si dedicarono alla forma- zione e all’autoaggiornamento continuo degli insegnanti.

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te invadevano il quotidiano familiare, c’era anche il cinema, destinato a diventare in pochi anni «il medium più popolare in Italia» (Fanchi 2016). Diffusosi nel primo Novecento, il cinema era stato esaltato come mezzo di propa- ganda e di controllo delle masse da Mussolini, il quale aveva creato nel 1937 gli stabi- limenti cinematografici di Cinecittà come risposta al cinema americano di Hollywood, che era stato tenuto volutamente nascosto alle famiglie italiane (Zagarrio 2004; De Berti 2012)2. Nel giro di pochi anni, il pubblico popolare italiano fu riconquistato dall’industria del cinema che dal 1946 al 1954 registrò un aumento degli incassi dal 13% al 34%, riuscendo a competere con l’egemonia del cinema americano grazie a un progetto che collocava la produzione nazionale dentro un orizzonte europeo (Bru- netta 2009)3. Fonte storica privilegiata nel ricostruire l’educazione familiare (Polenghi 2005) di questi anni dinamici, il cinema può essere considerato «uno degli indicatori più significativi della volontà di rinascita e ricostruzione e della crescita del paese» (Bru- netta 2009), poiché decifra l’immaginario familiare di quegli anni, le strutture cul- turali e i significati simbolici che rispondevano a precise domande educative. A ben guardare, nel corso degli anni Cinquanta tra il pubblico e il cinema si instaurò un dialogo senza precedenti ed un’interazione che oggi si è persa, che rese l’andare al cinema delle famiglie una pratica educativa (e non solo ricreativa) e un importante veicolo di modelli culturali e di valori. Il cinema, in quegli anni, si caratterizzò come «agente di storia» (Ortoleva 1991), perché ebbe il potere di trasformare le famiglie italiane del secondo dopoguerra che, attraverso la fruizione dei film, da un lato ap- prendevano nuovi stili di vita, dall’altro lato diventavano consapevoli di una nuova identità che era tutta da ricostruire. Il cinema degli anni Cinquanta viene qui riscoperto insieme come fonte storiografi- ca e come un bene di consumo contenente una grande forza trasformatrice: esso fece la storia delle famiglie italiane del secondo dopoguerra, le trasformò insegnando loro nuovi valori e nuovi modelli educativi, rispondendo anche al problema dell’analfabe- tismo diffuso soprattutto nel Mezzogiorno.

2 Per influenzare la popolazione, il fascismo promosse lo sviluppo del cinematografo come industria attraverso tutta una serie di enti appositamente creati: il Centro Sperimentale di Cinematografia, il LUCE (L’Unione Cine- matografica Educativa) e la Mostra del Cinema di Venezia. Si trattava di tre istituzioni attraverso cui il regime gestì politicamente e culturalmente il cinema italiano, formando nuove leve di registi, attraverso il Centro Sperimentale, e pubblicizzando i propri prodotti mediante i cinegiornali del Luce e di una Mostra concepita come vetrina dell’Italia fascista all’estero. 3 «Il cinema italiano – sottolinea Brunetta – ben consapevole della propria debolezza produttiva, ha cercato di compensarla, fin dal primo dopoguerra, progettando un gioco di squadra continentale, ipotizzando la nascita di un cinema europeo, che ha sviluppato per alcuni anni il sogno utopico del “fronte unico europeo per la cinematografia”, che potesse agire da scudo contro la massiccia invasione hollywoodiana, avviando accordi di coproduzione che, nel medio e lungo periodo, hanno portato ad alcuni positivi rovesciamenti dei rapporti di forze nei confronti dell’ege- monia del cinema americano» (Brunetta 2009). Va inoltre aggiunto che la crescita e la diffusione del cinema furono sostenute anche dalla critica attraverso la pubblicazione di riviste specializzate come Cinema nuova serie, Cinema Nuovo, Filmcritica, La rivista del cinematografo, La Rassegna del film.

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Il Neorealismo e l’educazione familiare all’identità nazionale

Negli anni dell’immediato dopoguerra (1945-1950) si ebbe l’affermazione culturale del cinema neorealista, un genere che ricevette un certo consenso, anche se mai di massa. Il neorealismo non piaceva a tutte le famiglie italiane, anche perché ritenuto politicamente di sinistra, ma aveva un grande successo all’estero: proprio in ragione del suo riconoscimento internazionale, era necessario farselo piacere, come lo stesso Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo dal IV governo De Gasperi, affermava, difendendo la «“nuova scuola ci- nematografica italiana”, che lui chiamava ancora “neoveristica”» (Dagrada 2016, 9). Si trattava di film che avevano uno scopo didattico: rompere col passato presentan- do il reale, ovvero proponendo una serie di tematiche, ambienti e storie che il fascismo aveva rimosso (Morreale 2011, 3). Era inconcepibile per il cinema dei “telefoni bian- chi” rappresentare qualcosa di sgradevole, elementi come la povertà, la conflittualità, la morte, la guerra vista nelle sue atrocità, come avveniva invece in film come Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini e Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica. I film neorealisti «esploravano con un nuovo linguaggio tematiche sociali, soprat- tutto con riferimento alle classi più svantaggiate dell’Italia martoriata dalla guerra» (Fonzari 2009, 171), avevano uno scopo morale, distinguendosi anche dalla produ- zione cinematografica americana e volendo trasmettere valori nuovi. Il neorealismo voleva essere l’arte del presente, descrivendo la realtà «in maniera oggettiva», come affermava il regista Roberto Rossellini (1953), e nei suoi aspetti negativi, allo scopo di coinvolgere il pubblico dei cittadini italiani in un cambiamento della società dal basso. Fu un’operazione che in parte fallì, poiché il neorealismo non ebbe successo come bene di consumo, non fece breccia nel cuore delle famiglie italiane, che preferivano altri generi come il melodramma e la commedia. Tuttavia, alla scuola neorealista va riconosciuto il merito di avere voluto per prima contribuire alla Ricostruzione, diffon- dendo tra le famiglie italiane i valori della libertà, della pace e della democrazia. C’era, nei personaggi dei film neorealisti, prevalentemente maschili, la rappresen- tazione di una crisi che riguardava non solo la sfera culturale, ma anche l’identità in- dividuale e nazionale, alla quale faceva da sfondo lo spazio cittadino ancora ingombro di macerie: l’ambiente della strada, il più delle volte preferito dai registi neorealisti, aveva il compito di registrare in modo drammatico la devastazione che la guerra aveva portato nel paese in ogni aspetto (Fonzari 2009, 172). Un esempio di tale tendenza a raffigurare la crisi attraverso personaggi dall’identità incerta, è dato dal film Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, riconosciuto come uno dei più rappresentativi della stagione neorealista, oltre che uno fra i più conosciuti e apprezzati nel mondo. Qui il protagonista Antonio, che vaga per tutta Roma in compagnia del figlio Bruno alla ricerca disperata di una bicicletta che gli è stata rubata, ben rappresenta un’iden- tità paterna fragile, insicura, e divisa tra il vecchio e il nuovo, il cui ruolo educativo all’interno della famiglia è incerto. Attraverso la descrizione del rapporto padre-figlio, il film esprime da un lato «la crisi della virilità maschile» (Fonzari 2009, 176) e del principio di autorità amplificata dal protagonismo femminile durante il conflitto mon-

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diale, dall’altro lato la crisi del sentimento di identità nazionale. Infatti, l’Italia dell’im- mediato dopoguerra era una nazione contraddittoria e divisa tra il vecchio e il nuovo, che cominciava a mettere a dura prova il modello educativo-familiare patriarcale e autoritario: il figlio Bruno agisce in maniera più lucida ed efficace del padre poiché rappresenta il nuovo, così come i ragazzini che nel film Roma città aperta camminano in gruppo dopo avere assistito alla fucilazione del sacerdote () «sono le uniche figure a cui si può affidare il compito di aprire nuove strade» (Brunetta 1995, 29), in ragione della loro innocenza. Quindi nelle coscienze individuali e collettive, cioè nelle famiglie italiane del se- condo dopoguerra che consumavano il cinema neorealista, si insinuavano, in senso positivo, i valori della democrazia e l’idea della nazione non più identificata con la patria di Mussolini ma con la nuova Italia della Repubblica. I film neorealisti educavano le famiglie all’«italianità» e al «sentimento di apparte- nenza alla nazione» (Fonzari 2009, 177), veicolando lo sviluppo di una nuova identità nazionale: trasmettevano un messaggio di profonda crisi, che rispecchiava la crisi del Paese, ma lasciavano uno spiraglio aperto di solidarietà, incoraggiando gli spettatori a ricostituire un sentimento di identità nazionale. Le famiglie affluivano nelle sale, si identificavano con i personaggi ormai familiari, ricostruendo, allo stesso tempo, la mappa dell’immaginario collettivo della propria nazione e un comune senso di italia- nità (Fonzari 2009, 178). Anche se non incontrò il favore del pubblico di massa, il neorealismo ebbe il me- rito di tentare un’operazione, non del tutto riuscita, di mediare fra l’intellettualità e la gente comune; infatti ciò che voleva rappresentare era spesso la condizione di miseria delle famiglie del ceto popolare. È in questo poco successo di pubblico che va ricercata la ragione di quella che è stata definita la «disseminazione dell’esperienza neorealista» (De Giusti 2003) o la «degenerazione del neorealismo» (Miccichè 1978), cioè il diffondersi, nel corso degli anni Cinquanta, di generi cinematografici più popo- lari, tanto da far parlare di “neorealismo rosa”: il melodramma, la commedia, il film comico, erano film più apprezzati dalle famiglie italiane, poiché riuscivano a coniuga- re elementi provenienti dal neorealismo, strutture narrative dei generi più popolari e aspetti della nuova cultura, soprattutto di provenienza americana, che si stava affer- mando (De Berti 2000, 122). Il primo film che inaugurò la disseminazione del neorealismo fu Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, che rappresentava la cultura popolare dell’epoca con tutte le sue contraddizioni, cercando una mediazione tra «i codici alti di una tradizione cine- matografica e culturale e i codici popolari bassi» (Brunetta 1993, 256), tra la cultura alta del neorealismo e la cultura bassa del fotoromanzo (De Berti 2000, 127). Il film, che ebbe un grande successo di pubblico (quinto nella classifica degli incassi) grazie alla capacità di rappresentare una cultura popolare in trasformazione ben interpretata dalla nuova diva maggiorata Silvana Mangano, che leggeva Grand Hôtel e ballava il boogie-woogie, disoccultava in maniera violenta e provocatoria debolezze, carenze e cadute che si stavano verificando anche nella classe operaia e nelle masse bracciantili […] indicando tutti i mo-

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menti di inquietudine, di ripiegamento individualistico e di scivolamento in senso già consu- mistico e neocapitalistico che si sarebbero manifestati – anche all’interno delle masse lavora- trici – nel decennio avvenire (Lizzani 2009, 87). Il cinema diventava una finestra virtuale aperta su nuovi mondi alternativi possibili che ridisegnavano l’immaginario individuale e collettivo, introducendo nella vita quo- tidiana delle famiglie nuovi desideri e nuovi processi identitari.

Il melò nell’educazione familiare al femminile

Oltre al cinema americano e ad eccezione dei film comici con Totò, il genere più amato dalle famiglie italiane fin dai primi anni Cinquanta era il melodramma, ovve- ro il melò (Morreale 2011). Paragonato ai maternal melodrama americani, quali ad esempio i film del regista Douglas Sirk4, ma in realtà molto diverso, il cinema melò costituisce una fonte preziosa per comprendere il rapporto delle famiglie italiane con la società e con la cultura del tempo, oltre che essere una chiave di lettura dei compor- tamenti e delle relazioni interpersonali agiti all’interno dei contesti familiari. Inoltre, esso va interpretato come «crocevia delle diverse forme di cultura popolare e di massa del decennio» (Morreale 2011, 6), poiché elaborava tendenze culturali già popolari, quali il romanzo d’appendice ottocentesco, l’iconografia cattolica popolare, la lettera- tura rosa, la lirica, la sceneggiata napoletana, dialogando con il fotoromanzo e con la canzone, espressione di una cultura di massa. Ma ciò che più caratterizza questo genere è di essere uno spazio prevalentemente femminile, non solo per le sue protagoniste ma anche per il pubblico a cui si rivolgeva, invitato a identificarsi con la vita dei personaggi in modo simpatetico (compassione- vole) e catartico (commuovendosi). Si trattava di film strappalacrime che suscitavano forti emozioni nel pubblico, emozioni che rimandavano ai difficili rapporti tra uomo e donna all’interno delle famiglie borghesi del periodo, oltre che alle dinamiche tra classi sociali diverse: è stato detto che il melò è «la moderna tragedia borghese» o «il dramma borghese per eccellenza» (Morreale 2011, 24). Esso era una finestra sui cambiamenti sociali che il decennio stava attraversando: con gli spostamenti di masse contadine dalle periferie ai centri urbani e con le massicce migrazioni dal Sud al Nord, le famiglie proletarie si imborghesivano, ricostruendo la propria identità sul modello educativo familiare piccolo-borghese che le pellicole me- lodrammatiche offrivano al loro pubblico nei suoi eccessi e nelle sue contraddizioni. Basti pensare ai film del maestro del melò, Raffaello Matarazzo, come Catene (1949), Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Chi è senza peccato (1952), La schia- va del peccato (1954), Torna! (1954), L’angelo bianco (1955), tutti film che ebbero grande successo di pubblico e che descrivevano le relazioni familiari a partire da una ideologia che la critica ha definito «democratica-populista, in cui le vicende dei singoli

4 Tra i film più celebri di Sirk ricordiamo: Magnificent Obsession (1954), Written on the Wind (1956), There’s Always Tomorrow (1956), Imitation of Life (1959).

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sono schiacciate da ostacoli individualizzati e ben riconoscibili, ma soprattutto da una sorta di determinismo e fatalismo» (Morreale 2011, 24). Si trattava di racconti che ingannavano lo spettatore popolare attraverso il mes- saggio democratico che l’amore rende uguali e vince sulle differenze sociali, che in realtà nascondeva una ideologia a favore del potere patriarcale e dell’ordine piccolo- borghese. Le famiglie spettatrici dei film melò venivano educate ai valori tradizionali, a un’idea di famiglia che non corrispondeva alla realtà dei fatti, in ragione dei muta- menti storici di cui si è già detto; la famiglia era il fulcro visivo di questi film, ma la casa, il focolare domestico, veniva descritto come un luogo chiuso, anzi “sbarrato”, come lo erano i luoghi frequentemente rappresentati come il carcere, il monastero, l’ospedale, quasi a volere alludere alla forte separazione tra la casa e il mondo, tra la famiglia e la società (raramente veniva mostrato l’ambiente esterno). Lo sguardo che veniva scelto per rappresentare questi luoghi ambigui, contraddittori e misteriosi, era quello femminile. A ben vedere, tutto il cinema degli anni Cinquanta era abitato da figure femminili (Cardone 2016, 191-197) che, portandosi oltre il modello cinematografico del periodo fascista (Grignaffini 2002), acquistavano ora uno spessore inedito, tanto da far parlare di «personagge» (Tessitore 2014, 214-219), per sottolineare il vistoso protagonismo di queste donne che esprimevano le proprie emozioni con molte lacrime e avevano comportamenti a volte eversivi rispetto ai ruoli tradizionali. Quindi, come sarà ancora più dirompente nella commedia, le figure femminili dei melò consegnavano alle famiglie di spettatori l’angoscia dell’epoca e soprattutto la contraddittorietà del mondo femminile, un mondo a cui la società prestava poca at- tenzione: anzi, le politiche di genere del secondo dopoguerra, sia democristiana sia comunista, concordavano nel volere «ricondurre le donne al loro ruolo di vestali della casa e di angeli del focolare» (Fanchi 2016, 229) dopo il periodo bellico che le aveva viste nei luoghi di lavoro, protagoniste della Resistenza in cui avevano avuto un ruolo attivo quasi dimenticato anche dal cinema5, a svolgere il ruolo di capofamiglia mentre gli uomini si trovavano al fronte. Nell’immediato dopoguerra infatti migliaia di donne furono espulse dalle fabbriche e dai posti di lavoro, costrette a ritornare alla sfera pri- vata: «gli uomini concepirono il loro contributo solo come una straordinaria parente- si, riproponendo all’indomani della liberazione la divisione tradizionale dei ruoli, con il ritorno delle donne nei ranghi domestici» (Scaraffia 2001, 65-66). I film melò ben rappresentano questo ritorno delle donne alla sfera privata fami- liare e la volontà di creare spazi chiusi e tracciati da confini precisi, una tendenza che coincide con la diminuzione delle famiglie estese, tipiche del mondo contadino, e con l’aumento delle famiglie nucleari, al passo col processo di industrializzazione e di urbanizzazione di quegli anni6. La donna dei film melò non è una donna emancipata, anzi è rappresentata come

5 Un film dedicato al protagonismo femminile durante il periodo bellico fu Due lettere anonime di Mario Came- rini del 1945. 6 va ricordato che il cambiamento non riguardò tutte le famiglie italiane e che, soprattutto nelle periferie e al Sud, esistevano ancora molte famiglie allargate con struttura patriarcale.

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una peccatrice che deve redimersi, che deve tornare a casa, e viene descritta attraverso un codice maschile, attirando l’attenzione più sul conflitto o sull’estraneità che non sull’armonia dei ruoli di genere: si trattava quindi di film femminili e destinati a un pubblico femminile, che pure lo apprezzava, ma si faceva portavoce di un maschile che, dopo la guerra e dopo la caduta del fascismo, aveva bisogno di ricostruire la propria identità e di chiarire il proprio ruolo di marito/padre all’interno del nucleo familiare. Non sorprende dunque che il pubblico di questi film fosse costituito non solo da donne, ma anche da moltissimi uomini: utilizzando non unicamente i dati Siae, ma anche altre fonti quali le prime ricerche di mercato, emerge un’«audience segmentata […] che, soprattutto dall’inizio del decennio subisce un processo di genderizzazione: nel passaggio dagli anni Quaranta agli anni Cinquanta, infatti, la presenza delle donne al cinema comincia a diminuire» (Fanchi 2016, 234). Si trattò di un fenomeno che è stato definito «la mascolinizzazione del pubblico di cinema» (Fanchi 2016, 233-235), dal momento che nel corso degli anni Cinquanta le sale cinematografiche (soprattutto nelle province e nei centri urbani minori) erano affollate più da uomini che da donne, le quali sembravano preferire altre forme di spettacolo (radio, fotoromanzo e, dopo il 1954, la televisione). Le lacrime che i film melò suscitavano nel pubblico non erano dunque esclusivamente femminili, ma si offrivano sia agli uomini che alle donne come uno «strumento di evasione, consolazione e rispecchiamento» (Morreale 2011, 98)7.

Educazione familiare e consumo del cinema tra tradizione e innovazione

Verso la metà degli anni Cinquanta, anche in ragione della disseminazione del ne- orealismo di cui si è già detto, accanto al melò si diffusero altri generi di cinema, dai film neorealisti rosa ai film comici, dalle commedie ai film storici. Fra questi, il genere che ricevette più consenso da parte del pubblico fu la commedia, che nel giro di pochi anni divenne il cinema più popolare sostituendo, prima gradualmente e poi definitivamente, il melodramma larmoyant (Lietti 1995, 329) e realizzando «la prima produzione seriale di immaginario popolare» (Grande 1986, 149): se si considerano gli incassi dei due generi di film, commedia e melò, fra il 1949 e il 1959, vediamo che la commedia raggiunse il 41% contro il 17% del melò, mantenendo il primo posto nella classifica dei generi più consumati dalle famiglie italiane anche nel decennio successivo (Lietti 1995, 329). Quali le ragioni di un simile successo? Si trattava in primo luogo di film caratteriz- zati da leggerezza e disimpegno rispetto ai film strappalacrime del cinema melò e che, attraverso la descrizione della nuova classe media, interpretavano in modo diverso una cultura popolare in transizione, ben rappresentando i conflitti interni alla famiglia

7 È significativa, a tal proposito, una scena del film di Tornatore del 1988 Nuovo cinema Paradiso, in cui tutti piangono guardando il film Catene e il regista si sofferma su un volto maschile pieno di lacrime (Tano Cimarosa), tipico contadino siciliano degli anni Cinquanta (tutti piangevano!).

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e alla società, divise tra tradizione e innovazione, tra pubblico e privato, tra ricchi e poveri, tra uomo e donna, tra comunisti e cattolici8, tra città e campagna, tra vecchi e giovani (De Berti 2000, 128-129). Essi inoltre radicalizzavano il protagonismo femminile già dei film melò, dando però voce al bisogno di emancipazione che in quegli anni incominciava ad acquistare una nuova consapevolezza tra le donne che, all’interno della famiglia, assumevano il ruolo di consumatrici e di «mediatrici delle trasformazioni sociali a livello quotidia- no» (Saraceno 1988, 53): i processi di modernizzazione infatti trasformavano la socie- tà rurale in una società dei consumi, urbana e industriale, coinvolgendo sempre più la popolazione femminile e rendendo la donna un soggetto che consumava e fruiva. Questo spiega perché la commedia si differenziasse dal neorealismo dell’immediato dopoguerra, che aveva dato maggiore spazio a mondi maschili e che aveva preferito sostare sulla sfera pubblica: piuttosto che scegliere tematiche sociali e politiche, la commedia prediligeva il privato, uno spazio per tradizione prevalentemente femmi- nile (Carrano 1977, 66). Era quindi lo spazio della famiglia medio-borghese ad essere rappresentata, anche idealizzata e descritta con atteggiamento ottimistico, per rispon- dere a un bisogno di evasione e di nuova progettualità che caratterizzavano il pub- blico dei consumatori del secondo dopoguerra: i personaggi di questi film avevano infatti il compito di risolvere nella finzione i conflitti che la famiglia viveva nella realtà (Dyer 1987). Le commedie degli anni Cinquanta davano spazio anche ai giovani, che in questi anni venivano per la prima volta «riconosciuti come soggetti distinti, con diritti, biso- gni, desideri e consumi» (Fanchi 2016, 237), tanto da far parlare di «cultura giovanile» (Tovaglieri 2014): si trattava di uno spostamento dell’attenzione «dai contrasti dram- matici della vita sociale sul più innocuo terreno della lotta di generazioni» (Spinazzola 1985, 102) ed era forse di difficile previsione il movimento di protesta giovanile che sarebbe esploso alla fine degli anni Sessanta. Un tema, questo dei conflitti generazionali, che anche il cinema americano elabora- va negli stessi anni: i film Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray e La valle dell’E- den (1955) di Elia Kazan9, entrambi interpretati dall’attore James Dean, ad esempio, descrivevano una generazione di giovani sbandati e il loro difficile rapporto con il mondo adulto. Non a caso furono film che incontrarono un grande successo in Italia soprattutto tra i giovani. A tal proposito, a testimonianza dell’interesse crescente per la questione dei teddy boys (ragazzi difficili), esplosa nelle periferie delle grandi città italiane nel 1958, la RAI mandò in onda una puntata dal titolo significativo Gioventù

8 Rappresentativa di questa contrapposizione ideologica fu la saga di Don Camillo, una serie di film tratti dai racconti sul Mondo piccolo scritti da Giovannino Guareschi (1948) che furono veri e propri campioni d’incasso: Don Camillo del 1952 e Il ritorno di Don Camillo del 1953, entrambi di Julien Duvivier, Don Camillo e l’onorevole Peppone del 1955 e Camillo monsignore…ma non troppo del 1961 di Carmine Gallone, Il compagno Don Camillo del 1965 di , erano film che puntavano su una visione rasserenante e “distensiva” della lotta politica che domina- va il clima politico italiano di quegli anni. «Il successo della saga dipese senza dubbio da una visione consolatoria (e, per certi versi, edulcorata) della realtà, proponendo la possibilità di una “terza via” al di là della lotta fra comunisti e cattolici» (Paolella 2016, 57). 9 I titoli originali erano rispettivamente: Rebel Without a Cause e East of Eden.

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bruciata che presentava alle famiglie italiane i risultati di un’inchiesta sul disagio gio- vanile. Le cause di tale disagio venivano ravvisate nell’individualismo della famiglia, di cui si condannavano i metodi educativi e l’assenza di dialogo tra genitori e figli (Romano 2016, 40). Il conflitto generazionale, che nella prima metà degli anni Cinquanta non metteva ancora in discussione valori e ruoli del mondo adulto10, si radicalizzò grazie ad alcuni cambiamenti storici: – il cosiddetto baby boom, ovvero l’esplosione delle nascite, nel giro di dieci anni portò ad un considerevole aumento di giovani; – la scolarizzazione di massa determinò un inedito prolungamento dell’età giovanile, rinviando l’ingresso nel mondo del lavoro; – il miracolo economico, con la produzione di massa di nuovi beni di consumo e i nuovi mezzi di comunicazione, fornivano ai giovani diversi modi di trascorrere il tempo libero (Tovaglieri 2014). Tra questi modi, l’andare al cinema, e preferibilmente a vedere film americani, fu tra i più diffusi: i giovani erano i principali destinatari dell’«americanizzazione dei costumi e del cinema», che aveva su di loro un effetto omologante (De Santi 2016, 98)11. Furono proprio i giovani, com’è stato notato, quando il cinema aveva perso la sua centralità come bene di consumo sul finire degli anni Cinquanta, «a tenerlo vivo e a traghettarlo verso il nuovo decennio» (Fan- chi 2016, 237) facendone un luogo educativo dove elaborare nuove identità e dove «progettare un diverso futuro» (Fanchi 2016, 238). La gioventù dunque era una meta- fora del cambiamento della società degli anni Cinquanta e un terreno su cui misurare paure e resistenze che appartenevano anche alla comunità adulta. Se, nell’immediato dopoguerra i giovani erano stati costretti a crescere velocemente, schiacciati nella loro condizione di quasi adulti, negli anni Cinquanta invece agli adolescenti poveri e soli, così frequenti nei film del neorealismo, si sostituirono giovani vogliosi di divertirsi e di benessere; alle figure di giovani uomini e giovani donne disperati e miseri se ne sovrappongono altre di ragazzi e ragazze alla ricerca di una quotidia- nità “normale”, arricchita di gioie e denaro. Un passaggio che registra soprattutto lo strut- turarsi di una società di massa in cui erano sempre più centrali il consumo, il tempo libero, il movimento dei corpi per quanto nel segno di una Lambretta e di una persistente povertà materiale (Capussotti 2004, 19). La commedia degli Cinquanta fu quindi espressione di una «società verde ascensio- nale», cioè caratterizzata dallo sviluppo e dal movimento di una collettività «giovane» (Grande 1986, 67-100). Infatti, furono molte le commedie dedicate agli adolescenti, che mostravano giovani inquieti e ribelli un momento prima dell’ingresso nella vita adulta, portatori di nuovi modelli di comportamento12.

10 Si pensi a tal proposito all’attore Maurizio Arena che in Poveri ma belli (1953) di era la perfetta incarnazione del bravo ragazzo dei primi anni Cinquanta. 11 Nel 1956 si diffusero i primi jeans; nel 1957 il rock & roll; nello stesso periodo il jukebox nei bar (nel 1960 erano 10.000) e il flipper, tutte mode americane amate dai giovani, ma che cattolici e comunisti non accolsero con favore. 12 Le diciottenni (1955) di Mario Mattoli, Guendalina (1957) di Alberto Lattuada, Souvenir d’Italie (1957) di , Camping (1958) di Franco Zeffirelli, Nata di Marzo (1958) di Antonio Pietrangeli, Esterina (1959) di Carlo Lizzani, Le ambiziose (1960) di Tony Amendola, I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada.

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La commedia si faceva quindi interprete dei conflitti dell’epoca, puntando l’atten- zione sul disagio provocato dall’avvento della società dei consumi e sulle conseguenti trasformazioni delle famiglie italiane, ma anche sul bisogno del mondo femminile e giovanile di un nuovo immaginario con cui identificarsi e che, una volta fruito, tra- sformava la vita degli spettatori e delle spettatrici con un «forte effetto modellizzante» (Canova 2004, 260). Essa, infatti, consegnava al pubblico l’immagine di una famiglia nuova, anche se ancora legata a valori tradizionali; era una famiglia in transizione, all’interno della quale andavano lentamente e timidamente cambiando ruoli (che an- cora erano rigidamente divisi), identità di genere, gusti, abitudini e comportamenti. Da un’ottica pedagogica, le soggettività maggiormente rappresentate dalla com- media erano quella femminile e quella giovanile, mentre il maschile rimaneva un po’ nell’ombra. Tuttavia, come già osservato, il pubblico di consumatori di cinema era prevalentemente maschile: c’era una fetta di pubblico di uomini che ammirava le mag- giorate, si identificava con il maschio virile e seduttore, o anche con il capo-famiglia che viveva nell’illusione di essere ancora “il padrone della famiglia”. Ciò che era cam- biata era l’interazione tra il mondo maschile e i mondi femminile e giovanile, e il cinema era uno dei medium di questo cambiamento, che rispecchiava i nuovi scenari posti in essere dalla modernizzazione della società e della cultura che diventavano di massa. A ben guardare, si può ipotizzare che le protagoniste femminili e i giovani di- ventavano gli attori di un nuovo immaginario familiare che andava cambiando i propri connotati, senza la partecipazione attiva e consapevole del protagonista maschile. Il genere della commedia ebbe due stagioni: la prima fu definita «neorealismo rosa» in senso dispregiativo (Farassino 2003, 203-222) e coincise con la cosiddetta «commedia paesana», mentre la seconda prediligeva un’ambientazione cittadina, preparando la dif- fusione, negli anni Sessanta e Settanta, della «commedia all’italiana» (Giacovelli 2015). Il neorealismo rosa fu inaugurato dal film Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani, seguito dalla serie dei film Pane amore e…13. Si trattava di un cinema di ambientazione prevalentemente rurale che esprimeva «i valori di una società arcaica idealizzata, in cui si agitava un popolo povero ma felice, composto da donne dall’e- rotismo prorompente ma puro e da uomini inveterati seduttori e allo stesso tempo innocui» (Capussotti 2004, 157). Questi film, similmente ai melò, si collocavano nel filone populista dominante nella cultura italiana, rilanciato dalla cultura di massa. A questo proposito è stato notato che la centralità narrativa che la figura femminile assume nei due generi forti del cinema ita- liano degli anni Cinquanta (il melodramma e la commedia), deriva da una centralità più pro- fonda, legata alla capacità della figura femminile (per definizione e per convenzione creatura della terra, luogo della natura e non della cultura) di respirare in sintonia con il paesaggio, di farsi segno visibile di un’Italia che voleva ricominciare, cancellando dalla propria immagine tutte le tracce della sua storia recente (Grignaffini 1992, 126). Oltre a rappresentare un contesto sociale contadino e povero, il neorealismo rosa

13 Pane amore e fantasia (1953), Pane amore e gelosia (1954) di Luigi Comencini, Pane amore e… (1955) di Dino Risi, Pane, amore e Andalusia (1958) di Javier Setò.

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dipingeva spesso il personaggio femminile come una ragazza “semplice” ancora mol- to legata ai valori tradizionali e al tempo stesso caratterizzata da una sensualità sponta- nea e non maliziosa, interpretata dalle cosiddette maggiorate del cinema italiano come Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Veniva così creato un divismo nostrano che aveva lo scopo di risollevare le sorti dell’industria cinematografica allargando il pubblico di cinema: queste star raccoglievano nella propria figura le tensioni di cui già si è detto, proponendo alle famiglie un modello in cui questi contrasti erano risolti (Dyer 1987). Le maggiorate reificavano i valori della cultura nazionale e proponevano un’im- magine femminile materna e buona; si trattava di protagoniste femminili giovani e in qualche modo ribelli, attorno alle quali ruotavano altre figure, le madri, la gente del paese, il prete, fidanzati, mariti. Questi film invitavano il pubblico a riflettere sul dif- ficile incontro tra maschile e femminile che caratterizzava le relazioni educative fami- liari del tempo, dando al femminile uno spazio molto ampio14. Anche se sembravano rimpiangere i valori tradizionali della famiglia legati al mondo contadino, in realtà mettevano in crisi i ruoli familiari stereotipati, ad esempio la passività e la sottomis- sione della donna all’uomo (Carmela e la Bersagliera scelgono un uomo e gli “danno la caccia” fino ad ottenere di sposarlo). Il fine era sempre lieto, il più delle volte il matrimonio, ma si lasciava intuire che, una volta sposati, il rapporto tra la moglie e il marito non sarebbe stato poi così scontato15. La famiglia era la vera protagonista di questi film e rimaneva il valore fondante della piccola comunità, facendosi garante del rispetto dei valori tradizionali che, nella realtà dei fatti, iniziavano a vacillare. In seguito, dagli anni Sessanta, non solo si andò perdendo il protagonismo fem- minile, ma anche questo tipo di ambientazione e di racconto: non vi sarebbe stato più alcun tipo di vagheggiamento del mondo contadino: campagna, miti rurali, in parte ereditati dal fascismo, avrebbero perso i connotati positivi per divenire sinonimi di ignoranza, sottosviluppo, arretratezza sociale e culturale, ritardo. Questo spiega il successo che ebbero, negli anni Cinquanta, anche le commedie con ambientazione urbana, che gradualmente spostavano l’attenzione dai ceti popolari a quelli medio- borghesi, come il filone di film interpretati da Marisa Allasio, un personaggio femmi- nile in cui convivevano in equilibrio perfetto tradizione e innovazione16. Comunque, quella degli anni Cinquanta fu soprattutto una commedia del privato, che metteva in risalto la figura femminile, ritraendola in modi svariati: vi erano le do- mestiche17, le donne dello spettacolo, primo fra tutti il varietà18, le casalinghe e le don-

14 In Pane amore e fantasia, ad esempio, il Maresciallo diceva ad Anna: “Adesso siamo pari: io voto alle elezioni e voi pure votate!”. 15 Nel corso del decennio questa tipologia di protagonista femminile sarebbe gradualmente scomparsa: era an- cora presente, oltre che negli altri della serie “Pane, amore e”, nel primo Don Camillo, in Giorni d’amore (1954) di Giuseppe De Santis, in Il medico e lo stregone (1957) di Mario Monicelli, in La nonna Sabella (1957) di Dino Risi e in Amore e guai (1958) di Angelo Dorigo. 16 Poveri ma belli (1957) di Dino Risi, primo negli incassi nella stagione 1956-1957, Susanna tutta panna (1957) di Steno, Marisa la civetta (1957), per ricordarne alcuni. 17 Cameriera bella presenza offresi (1951) di Giorgio Pastina, Villa Borghese (1953), Camilla (1954) di Luciano Emmer, Tempo di villeggiatura (1956), Guardia, ladro e cameriera (1958) di Steno. 18 Miss Italia (1950), Bellezze in bicicletta (1951) di Carlo Campogalliani, Luci del varietà (1951) di Alberto Lat-

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ne che lavoravano19, le malafemmine20. Si trattava di diverse tipologie che, soprattutto alla fine degli anni Cinquanta, rappresentavano una generale conservazione dei valori dominanti, ma si facevano anche portatrici di segnali innovatori nei comportamenti, dando voce ai desideri di autoaffermazione e di realizzazione delle donne nello studio, nel lavoro e nella famiglia degli anni Cinquanta (Cutrufelli 2001, XII) che ne veniva profondamente trasformata.

Cinema, educazione e famiglie tra Nord e Sud d’Italia

Quelli del secondo dopoguerra furono gli anni della «massificazione dell’audien- ce», che videro cioè un aumento vertiginoso del consumo di cinema da parte delle famiglie italiane (Fanchi 2016, 228); molti furono i fattori di shock che ridisegnarono il profilo del pubblico di cinema, estendendone i confini, precisandone identità e ri- configurandone gusti e pratiche educative (Fanchi 2016, 227). La storia dell’audience negli anni Cinquanta permette di meglio comprendere le modalità attraverso cui il cinema veniva fruito dalle famiglie italiane grazie alla crescita dei consumi, all’intro- duzione del tempo libero e alla diffusione di un maggiore benessere. Dal confronto con i risultati di alcune indagini sui rapporti tra pubblico e cinema in Italia negli anni Cinquanta, si comprende come il corpo dell’audience si presentasse tutt’altro che omogeneo e come l’esperienza familiare dell’«andare al cinema» si carat- terizzasse in modo piuttosto diversificato (Hipkins, Culhane et alii 2016, 215), rispec- chiando le profonde divisioni tra Nord e Sud d’Italia. In particolare, la crescita dell’au- dience al Sud non rispecchiava una effettiva modernizzazione in quelle zone depresse: «per quanto il numero delle sale aperte al Sud a metà decennio fosse proporzional- mente superiore a quello dei nuovi esercizi avviati nelle regioni centrali e settentrionali, tale impulso non saldava lo scarto tra Settentrione e Meridione. […] In secondo luogo, molte delle sale aperte al Sud avevano vita brevissima» (Fanchi 2016, 235). Va notato, a questo proposito, come le politiche di investimento sul Mezzogior- no volte al recupero delle zone depresse d’Italia (Cassa per il Mezzogiorno e Piano

tuada e Federico Fellini, Viale della speranza (1953) di Dino Risi, Siamo donne (1953), I vitelloni (1953), Ci troviamo in galleria (1954) di Mauro Bolognini, La ragazza di via Veneto (1955) di Marino Girolami. 19 Una pelliccia di visone (1956) di Glauco Pellegrini, Belle ma povere (1957) di Dino Risi, Ladro lui, ladra lei (1958) di Luigi Zampa, Scuola elementare (1954) di Alberto Lattuada, Le ambiziose (1960) di Antonio Amendola, Camilla (1954) di Luciano Emmer; I pappagalli (1955) di Bruno Paolinelli, Le cameriere (1959) di Carlo Ludovico Bragaglia, Le dritte (1958) di Mario Amendola, Lo scapolo (1955) di Antonio Pietrangeli, Mariti in città (1957) di Luigi Comencini, Le signorine dello 04 (1954) di Gianni Franciolini, Amore e guai (1958) di Angelo Dorigo, Le dritte (1958) di Mario Amendola, Una vergine moderna (1954) di Marcello Pagliero, La via del successo con le donne - Io Piaccio (1955) di Giorgio Bianchi, I dritti (1957) di Mario Amendola, Lo scapolo (1955) di Antonio Pietrangeli, Carmela è una bambola (1958) di Gianni Puccini, Mogli pericolose (1958) di Luigi Comencini, La ragazza di Via Veneto (1955) di Marino Girolami, Tre straniere a Roma (1958) di Claudio Gora, Madri pericolose (1960) di Domenico Paolella, La fortuna di essere donna (1956) di Alessandro Blasetti, Le ambiziose (1960) di Tony Amendola. 20 Persiane chiuse (1951) di Luigi Comencini, La spiaggia (1954) di Alberto Lattuada, l’episodio di Teresa (Sil- vana Mangano) ne L’oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini, Adua e le compagne (1960) di Antonio Pietrangeli.

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Vanoni)21, pur allargando il numero dei consumatori di beni voluttuari, non erano riuscite a superare la divisione tra «i due paesi» (Fanchi 2016, 228): nel Mezzogiorno la produttività del lavoro era molto bassa e un’alta percentuale della popolazione era ancora dedita all’agricoltura. Le innegabili trasformazioni che il Mezzogiorno conob- be negli anni successivi al 1950, non riuscirono quindi a sanare gli squilibri sociali ed economici delle regioni del Sud, né a colmare il dislivello nei confronti delle regioni settentrionali. Anzi, lo sviluppo delle aree industriali del Nord, fornendo nuove occa- sioni al lavoratore meridionale, favorì l’esodo dal Mezzogiorno e incoraggiò l’esten- dersi dell’emigrazione dal Sud al Centro-Nord Italia (soprattutto verso le città di Mi- lano, Torino e Genova) e al Nord Europa (verso la Svizzera, il Belgio e la Germania), ma anche dalle campagne alle città: una conseguenza di questo fenomeno migratorio fu una nuova composizione della società italiana, cui corrispose un modo diversificato di consumare il cinema. I risultati della prima fase di un progetto di ricerca dal titolo Italian Audiences, dedi- cato alla memoria collettiva circa l’esperienza dell’andare al cinema in Italia negli anni Cinquanta (Hipkins, Culhane et al. 2016, 215), registrano alcuni dati che riflettono i mutamenti in corso nella geografia del consumo di cinema: dal 1948 al 1962, lo confer- mano i dati Siae (Morreale 2011, 89-90), si assistette ad una crescita vertiginosa senza precedenti delle sale cinematografiche e degli incassi non solo nelle zone centro-set- tentrionali, ma anche nelle isole e al Sud (Fanchi 2016, 230-233; Morreale 2011, 89)22. Qual era la tipologia di pubblico che negli anni Cinquanta consumava cinema? Quali generi apprezzava maggiormente? C’era una differenza tra il pubblico maschile, femminile e giovanile? Tra il pubblico del Nord e il pubblico del Sud vi erano distin- zioni significative? Questi alcuni tra gli interrogativi che hanno guidato i ricercatori del progetto Italian Audiences a formulare un questionario da sottoporre a un campio- ne di uomini (448) e donne (566) di età compresa tra i 60 e i 90 anni e appartenenti a otto regioni italiane (Hipkins, Culhane et al. 2016, 214)23. Dalle interviste effettuate, sono emerse alcune utili indicazioni che riguardano l’importanza che il cinema aveva soprattutto per quelle famiglie italiane che vivevano ancora ai margini della società, nel Sud, nelle zone rurali e periferiche, influenzando anche i modelli educativi che ne

21 La Cassa per il Mezzogiorno, istituita con la Legge 10 agosto 1950, n. 646 recante: Istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale (Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, 1 settembre 1950, n. 200), era un ente che aveva il compito di predisporre programmi, finanziamenti ed esecuzione di opere straordinarie dirette al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale, da attuarsi entro un periodo di 10 anni (1950-1960). Il Piano Vanoni era lo Schema di sviluppo del reddito e della occupazione in Italia nel decennio 1955-1964. Fu il primo tentativo di risolvere il fondamentale problema di debolezza della struttura economica e sociale italiana, superando l’alto livello della disoccupazione e della sottoccupazione attraverso un razionale impiego dell’aumento del reddito nazionale e favorendo lo sviluppo del Mezzogiorno e il pareggio della bilancia dei pagamenti. 22 Ecco alcuni dati Siae (cfr. Cinespettacolo, 10, 4, 1954): nel Nord le sale aumentano fra il 1948 e il 1950 da 3891 a 4585, e dal 1950 al 1954 a 5409; la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia e la Toscana sono le regioni con il maggior numero di sale. Al Sud, invece, hanno il maggior numero di sale la Sicilia (da 406 nel 1951 a 460 nel 1952 a 506 nel 1953) e la Campania. Per quanto riguarda gli incassi relativi al consumo di cinema, nel 1948 la cifra è 42703, nel 1954 è 105172, mentre nel 1955 la crescita raggiunge la cifra 116691. 23 Le regioni coinvolte nell’indagine erano: Toscana, Lombardia, Piemonte, Lazio, Sardegna, Campania, Sicilia e Puglia. Le città selezionate, Bari, Roma, Torino, Milano, Palermo, Napoli, Cagliari e Firenze, erano affiancate da località di provincia (zone rurali e piccoli centri della periferia urbana).

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venivano profondamente cambiati. Ad esempio, nei ricordi di due donne, una sicilia- na di 73 anni che viveva a Mondello, una frazione di Palermo, ed una sarda di 69 anni che viveva a Silius, l’esperienza dell’andare al cinema era connessa col movimento, con la possibilità di aprire nuovi orizzonti, di conoscere ambienti solitamente poco frequentati: «mi recavo fuori!» – racconta la prima – «dovevamo spostarci per andare a vedere un film!» – ricorda l’altra. Allo stesso tempo, emerge anche la difficoltà degli spostamenti non solo da una zona all’altra, ma anche all’interno delle città, sia al Nord che al Sud: «andavamo al cinema di zona perché era il più vicino a casa» – ricorda una donna di 69 anni di Firenze –; «andare in centro, prendere il tram, era come andare all’estero» – testimonia una donna milanese di 90 anni; «solitamente andavo nel mio paese perché i collegamenti tra città erano poco agevoli» – ricorda un uomo pugliese di 70 anni che abitava ad Andria; «non avevo possibilità di spostarmi!» – dice altresì un uomo campano di 75 anni che viveva a Torre del Greco (Hipkins, Culhane et alii 2016, 219). Da queste testimonianze si intuisce come il cinema rappresentasse per molti una finestra aperta su mondi fino a quel momento sconosciuti: come già detto, nuove figure femminili, nuove modalità relazionali tra uomini e donne, tra genitori e figli, venivano offerti al pubblico, destabilizzando vecchi modelli culturali ed edu- cativi. In maniera più evidente al Sud e nelle zone rurali, questo fenomeno dovette scontrarsi con la mentalità patriarcale tipica del mondo contadino: a questo proposi- to, è stato notato (Morreale 2011, 90) come la fine della fortuna del melò a vantaggio del genere della commedia, che secondo i dati Siae avvenne dopo la prima metà degli anni Cinquanta, era il segno dei cambiamenti di mentalità in elaborazione all’interno delle famiglie. Se dapprima il melò e i film con Totò avevano avuto successo al Sud e, in generale, presso il pubblico popolare (Sannita 1954, 59-67) per la loro capacità di rappresentare «il rifiuto dei valori dell’industrialismo capitalistico» (Morreale 2011, 90), alla fine del decennio avvenne un’inversione di tendenza che era il segno di una trasformazione della struttura familiare che si avviava a diventare nucleare24. Altro importante fattore collegato al cinema inteso come una finestra virtuale aper- ta su un altrove, era la predilezione delle famiglie che abitavano in piccoli centri iso- lati, soprattutto quelle del Sud e delle isole, per il cinema americano: «lo schermo era per me come uno spazio limitato con una finestra aperta sul mondo» – dice un uomo piemontese di 75 anni che abitava a Ciriè; viene quindi ricordata la distanza o il senso di esclusione che lo spettatore provava dinanzi alla pellicola, ma anche l’opportunità che il cinema offriva di avere accesso a possibili mondi alternativi, e uno di questi mondi veniva rappresentato dalla cinematografia americana: dice a tal proposito una donna sarda di 77 anni che viveva a Silius: «preferivo il cinema americano, perché vivendo in un paese sperduto in mezzo ai monti, rappresentava un mondo che pen- savo impossibile»; ricordo condiviso anche da una donna sarda che abitava a Uras, la quale racconta: «abituata alla vita di paese, il cinema rappresentava un sogno che

24 Non è un caso che proprio in questa fase il pubblico di cinema tendesse a diminuire, e non solo a causa dell’in- troduzione della televisione nelle case delle famiglie (Casetti, Fanchi 2002, 141), e che si creasse una separazione tra coloro che lo vivevano come una forma di evasione e coloro che ne facevano un «momento esplicito della formazione culturale e come elemento di identità generazionale» (Morreale 2011, 89; Casetti, Fanchi 2002, 146).

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speravo prima o poi si potesse realizzare» (Hipkins, Culhane et al. 2016, 221). Dal- le testimonianze che stiamo brevemente passando in rassegna, emerge un elemento educativo che riguarda sia la costruzione dell’identità nazionale sia la possibilità di conoscere un modello culturale alternativo come quello offerto dalle pellicole statuni- tensi, che alimentava anche la voglia di viaggiare. Una donna siciliana di 82 anni che viveva a Cefalù ricorda di avere amato il filmVacanze Romane25 perché ambientato a Roma, «città bellissima – dice – che desideravo conoscere»; un uomo pugliese di 67 anni che viveva a Conversano dice di avere preferito il cinema americano perché gli «sarebbe piaciuto emigrare in America» (Hipkins, Culhane et al. 2016, 223). A que- sto proposito, è bene sottolineare come l’americanizzazione del cinema, operata dalla filmografia statunitense al fine di imporre il proprio modello culturale ed economico, non fosse così diffusa come si è soliti pensare. Essa fu tra l’altro presa di mira dallo stesso cinema italiano che, come ad esempio nel film Un americano a Roma del 195426, tentava di smantellare e di riproporre «in forme diverse alcune formule narrative del cinema hollywoodiano» (De Santi 2016, p. 98), mettendo in evidenza come il film Vacanze Romane rappresentasse una «Roma da cartolina» molto diversa dall’Italia reale, così alle prese con la ricostruzione bellica e ancora lontana dal boom economico (De Santi 2016, 99). Tuttavia, nei ricordi di molti, quei film proposti dalla produzione americana rappresentavano un’esperienza nuova che «condizionava il modo di vede- re le cose» – dice una donna sarda di 79 anni che viveva a Goni. Era soprattutto un pubblico trasversale, costituito da giovani di tutta Italia, a vedere in quelle pellicole la risposta al proprio bisogno di nuovi «referenti simbolici»: le attrici americane come Cyd Charisse, Ginger Rogers, Betty Grable – ricorda una donna toscana di 73 anni di Fiesole – «rappresentavano la libertà, perché, mai, nei film, c’erano madri o famiglie in mezzo, che potessero impedire loro di avere un appuntamento» (Hipkins, Culha- ne et al. 2016, 223)27. Era il segno che, negli anni Cinquanta, l’educazione familiare riceveva dal cinema nuovi stimoli e modelli educativi alternativi che ponevano in luce le tensioni relazionali già esistenti all’interno delle famiglie, preannunciando una sta- gione di proteste che avrebbe portato, con il movimento studentesco, il femminismo e il referendum sul divorzio, ad una crisi dell’istituzione famiglia mai pienamente su- perata (Cavallera 2006, 131-165; Bellingreri 2014, 19-57).

Conclusione

Si è andato fin qui chiarendo lo stretto rapporto che intercorse, negli anni Cinquanta, tra il consumo del cinema e l’educazione familiare. Si trattò, a ben guardare, di un modo

25 Roman Holiday, film di William Wyler del 1953. 26 Film di Steno del 1954 interpretato da . 27 Occorre ricordare la diffusione negli anni Cinquanta, soprattutto tra le giovani adolescenti, del divismo o fenomeno del fandom. Si trattava di un vero e proprio culto dei divi, fatto di «compilazione (di album, schedari, diari, ecc.), collezionismo (di fotografie, autografi, figurine, biglietti, ecc.) e corrispondenza (con il divo, altri fan, le riviste specializzate, ecc.)» (Vitella 2016, 87).

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piuttosto diversificato di vivere l’esperienza dell’andare al cinema, un modo che rispec- chiava le contraddizioni e le separazioni che attraversavano l’Italia del dopoguerra. Non si può infatti parlare di pubblico di cinema al singolare, ma della presenza di «diversi pubblici» (Fanchi 2016, 236), cioè di audience articolate secondo il sesso, il censo, l’oc- cupazione, l’età e il contesto geografico: «pubblici d’élite e pubblici popolari; maschili e femminili; di sinistra e di centro; adulti e giovani, per citare le dorsali lungo le quali in questi anni comincia a strutturarsi l’esperienza del cinema» (Fanchi 2016, 237). Il cinema era amato dalle famiglie italiane, ma non allo stesso modo: i film d’autore erano preferiti da un’élite di intellettuali ed esponenti della borghesia medio-alta; i melodrammi, lo abbiamo visto, piacevano ai ceti popolari e soprattutto alle famiglie del Sud; le commedie erano seguite da un pubblico trasversale e di massa. Inoltre, nel constatare la presenza di una geografia del consumo di cinema eterogenea, si è eviden- ziato come tra il Nord e il Sud d’Italia si registrassero opinioni e atteggiamenti diversi nei confronti della filmografia di quegli anni. E questa varietà di pubblico, che sarebbe aumentata nei decenni successivi, permette di interpretare il fenomeno dell’andare al cinema come un pratica educativa familiare che contribuì alla trasformazione della famiglia e della società italiana. I tre generi di film presi in esame, il neorealismo, il melò e la commedia, che ben rappresentarono questa eterogeneità di pubblico, intrat- tennero un dialogo costruttivo con le famiglie italiane, fornendo loro immaginari fino ad allora impensabili e stili educativi nuovi che mettevano in discussione quelli offerti dalla tradizione, aprendo lo sguardo verso orizzonti di formazione inediti.

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CHILDREN’S RIGHTS IN THE CONSUMER SOCIETY: PROTECTION AND PARTICIPATION

I DIRITTI DEI BAMBINI NELLA SOCIETÀ DEI CONSUMI: PROTEZIONE E PARTECIPAZIONE

The contribution intends to reflect, through a historical-critical approach, around the links that in the last dec- ades of the 20th century have come to be established between rights of protection and rights of active participa- tion, in the cultural debate on the figure of the child-citizen of the present democratic and complex society. The question is not marginal: there is a “paradoxicality” inherent in the very idea of first generation rights extended to a younger age subject, that needs to be adequately resolved. There still are serious prejudices that push the child to be seen as an “unfinished” subject (Moro 1991): its own characteristics make him incapable of acting in the social contexts, producing changes (Baraldi 2008). When the focus is put on the relationship with the mass media, then the preponderance of protection, with respect to participation, becomes almost absolute. Special attention has been given to issues relating to the risks of early adultization, commodification and, more generally, the symbolic violence inflicted on childhood in the consumer and technology society (Postman 1982; Popper, Condry 1996; Bourdieu 1997). The “apocalyptic” view (Eco 1964) must be circumscribed, to propose some critical elements that may be useful for promoting an educational approach aimed at restoring the active role of the child-citizen-consumer. Il contributo intende riflettere lungo una direttrice storico-critica intorno ai nessi che nell’ultimo scorcio del secolo XX si sono venuti a instaurare tra diritti di protezione e diritti di partecipazione attiva all’in- terno del dibattito culturale sulla figura del bambino-cittadino dell’attuale società democratica e com- plessa. La questione non è marginale: vi è una “paradossalità” insita nell’idea stessa dei diritti di prima generazione estesi a un soggetto minore d’età che deve essere ancora adeguatamente risolta: entrano in gioco pesanti pregiudizi che ancora spingono a ritenere il bambino un soggetto “incompiuto”, per usare il termine impiegato da Moro (1991), ossia incapace per le proprie caratteristiche costitutive di agire nei contesti sociali producendo cambiamenti (Baraldi 2008). Quando poi il problema si sposta sul piano del rapporto coi mass media, allora la preponderanza della dimensione della protezione, rispetto a quella della partecipazione, diventa pressoché totale: posta particolare attenzione alle questioni riguardanti i rischi dell’adultizzazione precoce, della mercificazione e, più in generale, della violenza simbolica cui è sottoposta l’infanzia nella società dei consumi e delle tecnologie (Postman 1982; Popper, Condry 1996; Bourdieu 1997), si cercherà di circoscrivere la visione “apocalittica” (Eco 1964) per indicare alcuni elementi critici che possano risultare utili per la promozione di un approccio educativo finalizzato a restituire protagonismo attivo al bambino-cittadino-consumatore. Key words: Childhood Education, Childhood History, Children’s Rights, Childhood and Work, Consump- tion and Childhood. Parole chiave: Pedagogia dell’infanzia, Storia dell’infanzia, Diritti dei bambini, Lavoro e infanzia, Consumi e infanzia.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 89-102 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.63 Emiliano Macinai, [email protected] (Università degli Studi di Firenze)

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Premessa

I diritti dei bambini, al pari dei diritti dell’uomo, hanno una storia. Come tutti i prodotti umani, essi sono il risultato di un processo di elaborazione e di trasforma- zione che, nel passare del tempo e col mutare delle condizioni di vita materiale e culturale, vede prima l’emergere di idee nuove e poi l’incessante evoluzione del loro significato. Non è questa la sede per ricostruire il percorso storico che ha preso il via con la prima formulazione dei diritti naturali dell’uomo, alla fine del secolo XVII, è passato attraverso la fase dei diritti universali nel corso del secolo XVIII, per giunge- re fino alla contemporaneità con l’idea dei diritti fondamentali, apertasi alla fine del secolo XX. È però necessario affrontare questo punto importante per capire perché i diritti si siano progressivamente allargati fino a comprendere soggetti che in un pri- mo momento ne parevano esclusi. Il fatto è che i diritti non sono e non saranno mai espressi in una forma definitiva, poiché il loro contenuto è e sarà destinato a cambiare di pari passo con le esigenze, i bisogni, le aspettative e gli interessi espressi dall’uma- nità nei diversi momenti della sua storia. I diritti dunque sono un prodotto umano, stanno dentro una cornice culturale e sono alimentati dalla storia: non saranno mai codificati una volta per tutte e vi saranno sempre soggetti diversi che imporranno l’attenzione su nuovi bisogni da trasformare in nuovi diritti. Questo processo ha coin- volto l’infanzia durante tutto il Novecento, ma il riconoscimento pieno e puntuale dei diritti specifici dei bambini potrà compiersi solo sul finire del secolo. Lo stesso può dirsi di altri soggetti, precedentemente esclusi, che nel corso del secolo XX conquista- no il diritto ad avere riconosciuti i propri diritti (Ulivieri 2014): le donne, le persone con disabilità, i migranti, i popoli indigeni. Altri gruppi, invece, ancora attendono di vedersi riconosciuta pienezza di diritti, come per esempio le persone omosessuali. Occorre distruggere il luogo comune che ci porta a ritenere che i diritti siano scritti nella nostra natura umana o nel nostro destino: essi sono il frutto di conquiste, devono essere difesi e costantemente ripensati, negoziati reciprocamente e rinnovati mano a mano che cambiano le nostre condizioni di vita, i nostri bisogni e le nostre aspirazioni. Il Novecento è stato da questo punto di vista il secolo dei diritti; il processo di negoziazione dei diritti fondamentali durante il secolo XX ha imboccato una duplice strada: quella dell’allargamento orizzontale attraverso l’inclusione nei diritti fonda- mentali di soggetti e gruppi precedentemente esclusi; e quella della differenziazione verticale attraverso l’individuazione di diritti specifici relativi a soggetti portatori di bisogni particolari. L’infanzia è uno dei soggetti che nel corso del Novecento viene interessato da questo duplice processo: 1) il bambino è incluso al pari dell’adulto nei diritti fondamentali; 2) i diritti particolari del bambino ricevono un’adeguata specifi- cazione in base ai bisogni e alle caratteristiche peculiari dell’infanzia.

Infanzia e diritti umani fondamentali: inclusione giuridica, esclusione sociale

L’infanzia è dunque uno dei soggetti che nel corso del Novecento assume piena vi-

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sibilità giuridica; apparso sulla scena come un soggetto a lungo ignorato, adesso viene compreso finalmente nella sua dignità umana e al tempo stesso scoperto come portato- re di bisogni specifici: questo duplice riconoscimento, la dignità umana del bambino e i suoi bisogni particolari, apre una nuova fase nel processo di allargamento e di speci- ficazione dei diritti fondamentali. Con un paradosso che il Novecento non è stato ca- pace di risolvere e che consegna all’attuale cultura dell’infanzia: il bambino, “oggetto” di tutela e destinatario di protezioni speciali è proclamato “soggetto” attivo di diritti, capace di esercitarli in forma autonoma, consapevole e responsabile (Moro 1991). Tale processo, che qui ovviamente non è possibile ricostruire in dettaglio (Maci- nai, 2013), non si presenta come un percorso lineare e privo di contraddizioni. Per comprendere lo sforzo concettuale che, almeno in parte, la cultura novecentesca ha compiuto per riconoscere con pienezza i diritti dei bambini e delle bambine basta tuttavia considerare un elemento. Il documento da cui il discorso sui diritti umani fondamentali prende avvio, inaugurando la fase matura della loro codificazione e ri- vedendo profondamente la versione che traeva origine dalle concezioni giusnaturali- stiche e positiviste dei diritti umani (Bobbio 1990; Peces-Barba Martinez 1993; Cas- sese 2000; Facchi 2007; Flores 2008; Ferrajoli 2008; Rodotà 2012), è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR) del 1948. Che rappresentazione dei diritti dei bambini è possibile rinvenire in tale documento? In effetti, in tutto il documento vi è una sola menzione del termine “infanzia” all’articolo 25, laddove si afferma che la maternità e l’infanzia hanno il diritto a tutele e protezioni speciali (Macinai, 2006). Non vi è altro. Rispetto alla presenza, appare molto più rivelatrice, allora, l’assenza; in particolare quella che non si può fare a meno di notare nel testo dell’articolo 2, un articolo fondante dell’intero documento, poiché in esso si esprime in maniera letterale il principio di non-discriminazione, cardine della stessa idea contemporanea di diritti fondamentali (Besson 2005). Nell’articolo 2 si afferma positivamente che tali diritti appartengono a ogni essere umano, indipendentemente dalle differenze che possano determinare motivi di discriminazione: caratteristiche fisiche, genere, cultura, etnia, condizione familiare ed economica, religione. Tutte, ad eccezione dell’età. I bambini restano dunque esclusi dal godimento dei diritti umani fondamentali. In un certo senso, la stessa Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (CRC) del 1989 viene a confermare, quarant’anni più tardi, la concezione secondo cui i bambi- ni facciano parte di un gruppo umano separato, distinto e particolare rispetto all’uma- nità adulta. Nel Preambolo alla Dichiarazione Universale viene impiegata una metafora illuminante, a questo proposito. Parlando di universalità dei diritti fondamentali, si fa infatti riferimento alla “famiglia umana”. Il buon senso spinge a ritenere ovvio e scon- tato che, come i bambini fanno parte della famiglia, così l’infanzia faccia parte di questa umanità retoricamente raffigurata attraverso la metafora della famiglia. Ma esplicita- mente non lo si afferma e questo non-detto esprime molto dei significati che ancora caratterizzano la visione adulta del bambino. Da quella banale omissione, discendono più o meno volute una conseguenza ideologica: l’infanzia continua ad essere largamen- te invisibile; e una conseguenza giuridica: l’infanzia è esclusa dal godimento dei diritti umani fondamentali. In una parola, l’infanzia è discriminata (Freeman 2008).

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A livello sociale, gli effetti di questo duplice cortocircuito sono concreti e chia- ramente osservabili. I bambini sono minorenni, l’infanzia segna una condizione di minorità: i soggetti che rientrano in questo gruppo umano sono di fatto esclusi da una serie di diritti non tanto perché si ritenga esplicitamente che siano sprovvisti di requisiti indispensabili, ma difficilmente verificabili (capacità e competenza), per il loro esercizio, quanto più semplicemente e pragmaticamente a causa della loro età. L’età e non altro è dunque la condizione che determina un comparto normativo di- stinto per l’infanzia (Qvortrup 1996; Ronfani 2001; Lister 2007). Ancora una volta è il buon senso che guida in tale direzione, spingendo a ritenere ovvio e scontato che non possa essere diversamente da così: i bambini hanno bisogni specifici legati alla loro condizione di vulnerabilità e di incompletezza, che li rende soggetti deboli e fragili. Da questo riconoscimento derivano il complesso dei diritti di protezione e, da questi, le leggi che tutelano l’infanzia, ritenuta condizione critica e particolar- mente esposta a rischi, data l’immaturità che l’età minore denuncia. La società dun- que protegge i bambini. E al tempo stesso protegge sé stessa dai bambini. Infatti, in nome della protezione dell’infanzia, si realizza l’esclusione dei bambini dai luoghi della complessità sociale, in cui i diritti si negoziano, vengono agiti e si esercitano; e ne vengono esclusi “per il loro bene”. Si tratta dell’argomento che classicamente giustifica e alimenta i processi di marginalizzazione sociale, attraverso atteggiamenti di tipo paternalistico. In altri tempi e in altre situazioni, si è parlato del “fardello dell’uomo bianco”. In questo contesto, e in rapporto al tema che stiamo affrontan- do, quello dell’esclusione a fin di bene dei bambini dalla scena sociale intercettata dai diritti fondamentali, si potrebbe parlare del “fardello dell’uomo adulto”: gli adulti si caricano della responsabilità di proteggere i bambini dalla società degli adulti, escludendoli per il loro bene. Il paradosso della CRC sta tutto nel fatto che i diritti che essa esprime toccano per la prima volta in maniera chiara ed esplicita, non soltanto la dimensione della prote- zione (protection) e della provvisione (provision), ma anche quella della partecipazio- ne (participation). Si determina dunque un cortocircuito tra una visione dominante sul piano culturale, ideologico e politico di infanzia come condizione di minorità, e il principio di pari dignità umana che l’attribuzione dei diritti di partecipazione attiva al bambino estende all’infanzia. Questo è un punto fondamentale: le tre dimensioni (3P) sono strettamente interconnesse tra di loro (Cantwell 1992; Verhellen 1994). Sinteticamente, potremmo dire in questo modo: si deve provvedere ai bisogni del bambino e lo si deve proteggere da qualsivoglia possibile minaccia per permetter- gli di partecipare attivamente, come agente sociale competente, alla vita in tutta la sua pienezza relazionale, comunitaria e sociale (Alanen 1988; Corsaro 1997; James, Prout 1997; Baraldi 2008). In altri termini, quello che nella CRC si stabilisce è l’e- stensione all’infanzia di quel complesso di diritti che prefigurano la partecipazione diretta dei bambini a quelle sfere della vita dalle quali durante il XIX e il XX secolo il mondo adulto illuminato ha lottato e combattuto per allontanarli ed isolarli “per il loro bene”: i diritti economici, sociali e culturali. Vale a dire in quegli ambiti in cui l’esercizio dei diritti fondamentali apre al conflitto e alla sempre difficile negoziazione.

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Se il bambino è soggetto incompleto e in divenire, l’estensione della partecipazione dell’infanzia a tali dimensioni risulta indispensabile per la sua crescita e il suo benes- sere. Non si tratta semplicemente di estendere sulla carta, traguardo già conquistato nel 1989, le cosiddette libertà fondamentali: si tratta di assumere quegli obblighi che da tale estensione derivano, e precisamente di lavorare per una equa distribuzione tra tutti i cittadini, bambini inclusi, delle risorse economiche, sociali e culturali necessarie per permettere l’esercizio reale, quotidiano e concreto, di quelle libertà. Prendiamo la libertà di espressione. Nella CRC sono cinque gli articoli (12-16) dedicati a sviluppare questo principio, che sta evidentemente a fondamento dell’idea stessa dei diritti dell’infanzia (Macinai 2017): il diritto del bambino di essere ascoltato (Calaprice 2016; Calaprice, Nuzzaci 2017). Se dal punto di vista soggettivo, tale diritto esprime il proprio contenuto nella lettera stessa della sua formulazione, a livello socia- le, cioè nei contesti ove tale diritto passa dalla carta alla realtà, esso indica un elemento critico che coglie più in profondità quel retaggio di discriminazione legato alla visione adulta ancora dominante dell’infanzia, di cui dicevamo più sopra: la concretizzazione del diritto del bambino di essere ascoltato significa in primo luogo rendere non tanto il bambino X o la bambina Y, quanto l’infanzia come “categoria collettiva” visibile sul piano economico, sociale e culturale, e non come condizione meramente anagrafica o, peggio ancora, biologica (James, Jenks, Prout 1998). Questo sforzo, se condotto a buon fine, permetterebbe, per esempio, di porre finalmente attenzione non solo ai casi particolari (come vive quel bambino X?), ma a un’intera collettività di cittadini (come vivono i bambini e le bambine in Italia?). Torna anche sul piano sociale (e dunque pedagogico) la questione che all’inizio del contributo si è accennato guardando al piano giuridico: la scomparsa dei bambi- ni all’interno della famiglia. Pensare che i bambini vivano esclusivamente all’interno della sfera familiare tende a fare scomparire questioni importanti riguardanti la vita dell’infanzia. Jens Qvortrup ha definito questo processo di scomparsa come una sorta di “familizzazione dell’infanzia” (1996). Mi pare che si sia in qualche modo verificata l’evoluzione o forse il completamento di quel processo storico-sociale che Egle Bec- chi ha definito con l’espressione “privatizzazione dell’infanzia”, in atto a partire dalla seconda metà del XIX secolo (1976). I bambini finché restano dentro alla famiglia rimangono invisibili, e l’infanzia risulta inosservata e non percepita come collettività sociale. In quanto totalmente dipendenti dai propri genitori, le condizioni di vita dei bambini restano oscurate da quelle dei “due” membri adulti della famiglia (le virgolet- te non sono casuali). Prova ne è il fatto che i bambini tornano ad essere socialmente e politicamente visibili e visti solo quando la struttura familiare ritenuta “normale” va in- contro a cambiamenti e trasformazioni. Il caso delle cosiddette famiglie omogenitoriali è eclatante: i bambini conquistano loro malgrado protagonismo sulla scena pubblica, sebbene scontando le conseguenze del pregiudizio paternalistico della protezione e della salvaguardia; “che ne sarà dei bambini? Quando affrontiamo il tema delle fa- miglie omogenitoriali, pensiamo prima di tutto ai bambini; i bambini stanno bene?” (Contini 2011). O più in generale, si pensi alla povertà. Finché la povertà continuerà ad essere “misurata” attraverso l’indicatore della povertà familiare, la povertà infantile

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resterà non vista, o nella migliore delle ipotesi sottovalutata1 (Gruppo CRC 2012). Ma soprattutto, ed è quello che più interessa qui, ciò che resta invisibile è una parte impor- tante e cospicua della vita dei bambini. Non sappiamo, per esempio, come i bambini usano il proprio tempo, le attività che compiono quando sono da soli in casa e che importanza e significato esse abbiano per loro. Piuttosto, ci si preoccupa che restino molto tempo da soli mentre i genitori lavorano fuori da casa: un tempo misurato quan- titativamente ma non qualitativamente studiato a sufficienza (Baraldi 2010). I bambini, inoltre, passano sempre più tempo fuori da casa: potremmo allora domandarci che visibilità abbiano nei contesti extrafamiliari in cui vivono, a scuola, nei luoghi educa- tivi, nelle società sportive e nei contesti ricreativi, nei luoghi di lavoro o di formazione al lavoro. Potremmo insomma chiederci quanto venga presa in considerazione la loro presenza in tali contesti e quanto tale considerazione incida davvero sul piano organiz- zativo, logistico, relazionale, materiale. In una sola domanda: quanto conosciamo dei mondi che i bambini vivono? In conclusione: conosciamo davvero i bambini? Dicevamo più sopra della povertà. In generale, la condizione economica della po- polazione è misurata sul nucleo familiare. In estrema sintesi, è possibile affermare che dagli inizi degli anni Novanta sia noto e sotto gli occhi di tutti il fatto che le condizioni di vita delle famiglie stiano relativamente peggiorando in ogni società occidentale e fin dai primi anni Duemila è emerso un sempre più problematico conflitto intergene- razionale in materia di welfare (Hinrichs 2002). Si sente molto spesso raccontare che le famiglie con figli debbano sopportare uno standard di vita relativamente inferiore rispetto alle coppie senza figli2 (Istat 2014; Unicef/Innocenti 2014). La percezione dif- fusa è che tale realtà sia in qualche modo ovvia e scontata, per certi versi un fatto “na- turale”. Se uniamo questi due argomenti, siano essi basati perlopiù su fatti o perlopiù su percezioni poco cambia, quello che otteniamo è la seguente conclusione: i bambini come collettività sociale hanno sperimentato negli ultimi venti-venticinque anni un relativo peggioramento della loro condizione di vita. Sul piano economico, sociale e culturale. Nel senso comune, questo elemento si traduce nella convinzione che: i figli sono costosi, molto spesso un lusso. Per le famiglie e per la società. Nel migliore dei casi, si interviene con incentivi economici alla natalità e con interventi a sostegno delle coppie con figli3 (Gruppo CRC 2016), ma non ci si domanda se e quanto tali misure possano avere effetti sul benessere dei bambini (Conti, Heckman 2014). Questa sinte- tica catena costituita da tre anelli: a) avere figli abbassa lo standard di vita dei genitori;

1 Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.­ 2102. “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. 9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della CRC in Italia 2015-2016”. Ultima consultazione: 5 agosto 2017 www.gruppocrc.net/IMG/pdf/5o_Rapporto_di_aggiornamento__Gruppo_CRC.pdf 2 Istat 2014. “La povertà in Italia. Anno 2013”. Ultima consultazione: 5 agosto 2017. http://www.istat.it/it/ archivio/128371 Unicef/Innocenti. 2014. “Rapporto. Figli della recessione. L’impatto della crisi economica sul benessere dei bambini nei paesi ricchi”. Ultima consultazione: 5 agosto 2017. http://www.unicef.it/Allegati/Figli_della_recessio- ne_RC12.pdf 3 Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. 2016. “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. 5° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della CRC in Italia 2011-2012”. Ultima consultazione: 5 agosto 2017. www.gruppocrc.net/IMG/pdf/ixrapportocrc2016.pdf.

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b) permettersi un figlio diventa sostenere spesso costi troppo elevati; c) distribuire aiuti economici alle coppie incentiva e sostiene le nascite di bambini; determina e rafforza nel senso comune quanto segue: i) i bambini sono un peso; ii) la visibilità pubblica dei bambini è sempre più connessa a variabili di tipo economico (famiglia, istruzione, sanità…); iii) gli investimenti sull’infanzia sono a fondo perduto, essendo per definizione dura a morire il bambino solo costo e non “risorsa”. Una prospettiva storica è sicuramente utile a questo punto per sviluppare e appro- fondire l’analisi delle due questioni finora sollevate: 1) l’invisibilità sociale dei bambi- ni; 2) la discriminazione economica, sociale e culturale dell’infanzia.

Una storica discriminazione economica dell’infanzia: consumo come minaccia, consumo come liberazione

Da tale prospettiva, e con un margine di schematizzazione accettabile, è possibi- le rintracciare una linea di cambiamento all’interno di dinamiche economico-sociali complesse e articolate che hanno caratterizzato, nel tempo storico, una sorta di mo- vimento dialettico di lunga invisibilità, conquista di sofferta e sofferente visibilità e progressivo, ma deciso, ritorno nell’invisibilità dell’infanzia come collettività sociale in seno alle società occidentali. La schematizzazione di cui sopra è tale da far sì che il discorso non sia articolabile nel senso di una scansione storico-diacronica per fasi distinte, quanto piuttosto come rappresentazione di fenomeni di transizione tra mo- delli di organizzazione sociale ed economica che hanno determinato le condizioni per la trasformazione della percezione dell’infanzia e della sua lettura nel gioco delle relazioni intergenerazionali che stanno alla base del tessuto familiare e sociale (San- din 2014). Detto questo, potremmo fare riferimento a tre differenti rappresentazioni dell’infanzia caratterizzanti tre diversi momenti di tale storia. Vi è un lungo, lunghissimo tempo, che per brevità potremmo definire tradizionale o pre-capitalistico o ancien regime, nel quale i bambini e le bambine erano rapida- mente integrati nella società, quasi per osmosi, insieme agli adulti (Ariés 1968; Elias 1988; Cunningham 1991; Becchi, Julia 1996). I mondi esistenziali, per così dire, era- no largamente sovrapposti e la differenza di età non ostacolava affatto l’inclusione precoce dell’infanzia attraverso il lavoro e le attività economiche manuali. Bambini e adulti condividevano gli stessi luoghi di vita, che si caratterizzavano per un alto gra- do di promiscuità e per stretti rapporti di prossimità familiare e intergenerazionale. Il lavoro in età infantile era considerato non solo normale, ma ovvio e scontato, alla luce delle esigenze legate alla sussistenza o alla sopravvivenza stessa della famiglia. In questa fase, caratterizzata dalla predominanza di modelli economici di tipo familiare e contadino, i bambini sono una presenza largamente diffusa e visibile nell’ambito familiare-domestico, ma anche nei contesti del lavoro esterno alla dimensione privata. I bambini abitano e vivono insieme agli adulti, lavorano insieme agli adulti e si adul- tizzano a stretto contatto con gli adulti, condividendone i ruoli, i compiti e i tempi di lavoro. I bambini in carne ed ossa sono presenza costante e ben più che visibile negli

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scenari quotidiani di quel mondo stretto e promiscuo; del tutto invisibile, come è stato ampiamente argomentato, è l’infanzia intesa come condizione esistenziale di vita e di sviluppo, separata e da separare rispetto all’età e alle faccende adulte. Nel corso della rivoluzione industriale capitalista, quel modello tradizionale di eco- nomia familiare entra in crisi, frantumandosi durante la fase della prima espansione del lavoro industriale, mano a mano che la manifattura e la fabbrica soppiantano la terra. È noto che la sussunzione del lavoro infantile nel processo economico che ha consentito il decollo e l’espansione del sistema capitalistico ottocentesco abbia avuto un ruolo decisivo (Cunningham 1995). Al punto che, dalla metà del secolo XIX, le anime più progressiste ed avanzate di quella società (filantropi, educatori, politici, imprenditori) reagiscono di fronte alla miseria e allo sfruttamento dell’infanzia prole- taria urbana e si lanciano nel salvataggio dei bambini che soffrono il costo maggiore del processo di industrializzazione. L’avvio dei programmi di scolarizzazione di massa obbligatoria rivolti a bambini e bambine si giova di queste spinte ideali e morali e si configura, nella storia dell’infanzia, come la prima misura istituzionale promossa su larga scala per la protezione e la tutela di quello che da lì in poi sarà considerato il soggetto debole per antonomasia. Le modalità con cui tale intervento si è venuto re- alizzando nel corso dei cinque decenni successivi sono state studiate dagli storici con cura e dettaglio. Tra il 1870 e il 1930, guardando agli Stati Uniti, e fino agli anni 1950- 1970 nei paesi europei atlantici, il sistema della scolarizzazione pubblica obbligatoria giunge a piena maturità, permettendo la realizzazione dell’obiettivo della protezione del bambino dal lavoro precoce e dallo sfruttamento economico. Altre conseguenze di tale processo, però, hanno ricevuto particolari attenzioni a partire dalla metà degli anni Ottanta, dopo la pubblicazione dello studio fondamen- tale Pricing the Priceless Child di Viviana Zelizer (1985). È interessante richiamarle, essendo evidentemente i fattori che hanno determinato la scomparsa del bambino in carne ed ossa, oscurato e colonizzato da un’idea di infanzia carica di pesanti contenuti morali e sentimentali (Cook 2012). Questa idea di infanzia illustra la cultura otto-no- vecentesca, mentre al tempo stesso relega nell’invisibilità sociale il bambino e ne de- termina di fatto la discriminazione economica, sociale e culturale. L’infanzia nell’idea è un’infanzia da proteggere e da salvaguardare; è un’infanzia debole, perennemente sotto minaccia; è un’infanzia idealizzata nella sua incompiutezza, da nascondere al mondo finché non sarà sbocciata mantenendo la sua promessa. L’adulto si ammanta dei panni del salvatore di un’infanzia letta come assoluto bisogno, dipendenza, insuf- ficienza. L’orizzonte della protezione assorbe per intero l’attenzione verso il bambino, che pian piano scompare perché rinchiuso nell’abitazione di famiglia, prima, nelle aule scolastiche subito dopo. Si realizza una sorta di “strumentalizzazione affettiva” dell’infanzia, per usare l’espressione di Antonietta Censi (2001). Nella fase postin- dustriale, per così dire, l’infanzia è stata totalmente espulsa dal mondo del lavoro e i bambini rappresentano una collettività sociale assolutamente priva di reddito. Nella società che sia avvia a diventare la società dei consumi di massa, il bambino risulta estraneo non solo ai processi che determinano la produzione dei beni da consumare, ma anche e soprattutto dai processi in cui il consumo di beni viene agito come ambito

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di esercizio del diritto di autodeterminazione e di partecipazione attiva alla società stessa. Ma andiamo con ordine. Al di là della retorica della protezione, il processo di allontanamento dell’infanzia dal lavoro ha corrisposto a ben altre esigenze, niente affatto morali. In estrema sintesi, tale allontanamento ha di fatto permesso l’espulsione in massa di un’ampia fascia di lavoratori ormai obsoleti rispetto alle esigenze del sistema produttivo (Zelizer 1985; Qvortrup 2004): un serbatoio di manodopera che aveva ormai esaurito la sua funzione e risultava non più utile né redditizio come invece lo era nelle fasi precedenti, quella pre e proto-capitalistica e quella di espansione del sistema di fabbrica (Wintersberger 2006). Nel sistema industriale maturo dei primi decenni del Novecento, quel tipo di lavoratore non ha più ragione di impiego: la sua scarsa produttività, la sua nulla spe- cializzazione determinano la sua inutilità. Il lavoro manuale che il bambino è in grado di garantire non è un lavoro redditizio dal punto di vista economico. Fu lo sviluppo stesso dei modi di produzione e le trasformazioni del sistema economico a determina- re l’allontanamento dei bambini dal lavoro, e non le leggi che estendevano le tutele, tanto meno l’introduzione e la progressiva estensione dell’obbligo scolastico. Ma le leggi, e soprattutto il clima culturale da cui scaturivano, crearono i presupposti per il passo decisivo verso la definitiva espulsione dell’infanzia dal lavoro: le occupazioni manuali dei bambini diventarono moralmente inappropriate e infine riprovevoli. Il lavoro visibile dei bambini è diventato infine un tabù (Macinai, 2012): i bambini ne sono dispensati, ma ciò si è reso possibile solo dopo che tale lavoro venne ritenuto obsoleto e non redditizio. Parallelamente, quello che si viene a determinare è dunque la perdita di visibili- tà dell’infanzia sulla scena pubblica. In particolare, il lavoro precoce, sia in ambito domestico e privato, sia in ambito esterno alla dimensione familiare, continua ad esi- stere, ma resta nell’ombra. E nell’ombra restano i bambini che tali attività svolgono. Si assume che l’infanzia sia l’età della scuola, della crescita e degli apprendimenti e tutti i bambini che non trascorrono la propria infanzia in classe scompaiono dalla vista. In un certo senso, e più in generale, mentre il lavoro manuale diventava attività moralmente esecrabile, e quindi giuridicamente illecita, quella società sanciva, non esplicitamente ma decisamente, come esecrabile il guadagno dei bambini. Il denaro è il nuovo pericolo da cui l’infanzia deve essere protetta. Simbolicamente, la scuola obbligatoria veniva a legittimare questa espropriazione (Qvortrup 2009): l’istruzione e lo studio sono le attività che hanno da impegnare i bambini, i quali adesso hanno un “dovere” assoluto, quello di imparare e di crescere, possibilmente facendo i bravi. I benefici economici (il compenso) per questa occupa- zione (lo studio) sono rinviati a un futuro che appare indefinito; nel presente, i voti e le lodi (successivamente i crediti) diventano la moneta, solo simbolica, con cui la società paga le ore e la fatica che il bambino impiega per questa occupazione a tempo pieno, di cui la società non può fare a meno (Wintersberger 2006). Sul piano sociale, l’infanzia, o meglio: i bambini in carne ed ossa, vivono segregati. I mondi adulti e i mondi bambini si separano nettamente ed inesorabilmente. Il proces- so di valorizzazione dell’infanzia, avviatosi in seno alla famiglia borghese ottocentesca,

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si completa e generalizza a tutti gli strati sociali: il figlio è un valore e un bene prezioso che fornisce una rendita futura (non nel presente) commisurata all’investimento che il genitore può o vuole realizzare nel presente. E come ogni tesoro, per proteggerlo occorre nasconderlo agli occhi del mondo. Oggi ancor più che nel secolo XIX. Diversamente da ieri, oggi gli adulti possono decidere se e quando mettere al mon- do un figlio, possono pianificare la sua nascita in base al bilancio economico familiare disponibile nel presente e nel medio periodo: un bambino è prima di tutto un costo da sostenere. Il fatto che questa affermazione suoni quanto meno provocatoria, dà la misura di quanto profondamente si sia instillata nella cultura e nella mentalità l’idea di un’infanzia sentimentale, un’infanzia di sogno. Viceversa, e in estrema sintesi, il figlio è un bene di consumo, spesso in concorrenza con altri. Se manteniamo questa prospettiva, un altro aspetto della condizione economico- sociale dell’infanzia potrebbe essere posto sotto una luce meno nitida di quella che solitamente riceve. Sul finire degli anni Ottanta, all’apice della cultura cosiddet- ta consumistica, nei discorsi pubblici e in letteratura si assisteva all’avvento di una nuovissima figura sociale di bambino: il bambino-consumatore. Ovviamente, l’agget- tivo intendeva portare all’attenzione nuove minacce e nuovi pericoli per l’infanzia da tutelare. Affrontiamo di nuovo la questione ricorrendo alla coppia protezione/ discriminazione. A partire dal testo forse più noto e citato del periodo, quello di Neil Postman (1982), si comincia a diffondere un allarme crescente rispetto a un problema sempre più emergente in una società dominata dalla televisione commerciale, dalla pubblicità e dal mercato: il ritorno in auge dei processi di adultizzazione precoce dell’infanzia e un preoccupante riavvicinamento tra mondi. Il principale bersaglio, come detto, era allora la televisione. L’onda di quella preoccupazione è giunta fino ad oggi, amplificata, e le attenzioni degli “apocalittici” considerano l’ampia gamma dei cosiddetti nuovi media, mass e soprattutto self. Molti autori hanno problematizzato questa vera e propria “ansia da rischio” (Belotti 2008). Alcune ricerche suggeriscono il dubbio che stiamo ancora una volta sottovalutando i bambini: i bambini capiscono, comprendono, decidono, desiderano, vogliono, raccolgono informazioni, analizzano, elaborano strategie, progettano (Roedder John 1999). Invece, si parla con molta fa- cilità di bambini sottoposti quotidianamente e diffusamente a messaggi che si ritiene non siano capaci di intendere e correttamente decodificare; messaggi che plagiano e plasmano uno spettatore inconsapevole e immaturo secondo modelli consumistici, edonistici e simbolicamente violenti; messaggi che fanno leva su una sensibilità facil- mente suggestionabile per via della giovanissima età e delle acerbe capacità analitiche, critiche e riflessive. Si mette con molta decisione l’accento su un linguaggio iperstimo- lante che approfitta della fantasia e dell’ingenuità dei bambini: si paventa, infine, la minaccia di una strumentalizzazione dell’infanzia per finalità di profitto economico. Torna insomma d’attualità una figura ottocentesca: quella dello sfruttamento econo- mico dell’infanzia, dei bambini da strappare alle grinfie del mercato malvagio. Siamo precisamente sul confine del tabù che il Novecento ha elaborato: infanzia e lavoro, se intendiamo il consumo come un vero e proprio lavoro per i giovani e giovanissimi, come sostiene Jette Benn (2004), o, più pragmaticamente, infanzia e denaro. La pub-

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blicità, il mercato ha individuato circa trent’anni fa un nuovo target verso cui rivolgere le proprie attenzioni, una fascia di potenziali nuovi consumatori senza portafoglio, ma con un accesso diretto a quello dei genitori. Questo si è verificato soprattutto per un motivo: perché evidentemente i pubblicitari hanno compreso per primi che i bambini non sono affatto passivi spettatori incompetenti e si sono sforzati di costruire un lin- guaggio fatto apposta per entrare in relazione con i loro mondi (Cook 2000). Occorre dunque proteggere i bambini da tutte le possibili ricadute negative della mercificazio- ne dell’infanzia (Contini, Demozzi 2016), ma dimostrando fiducia verso i bambini. Occorre forse capire meglio quel linguaggio, decostruirlo (Cook 2007), ma elaborare al contempo strategie pedagogiche che evitino il rischio di una “infantilizzazione as- soluta” dell’infanzia, se così possiamo dire, perché è da questa che nasce l’ansia da rischio. Il rischio vero che i bambini corrono è che la tutela dell’infanzia dalle nuove minacce della società si traduca nell’ansia di proteggere i bambini da loro stessi, dallo loro stessa immaturità. La prospettiva della differenza rischia insomma di condurre fuori strada, se ap- plicata in maniera astratta e ideologica nei confronti dei bambini. Ci potremmo, per esempio, domandare: e gli adulti no? Non hanno anch’essi bisogno di essere tutelati dal bombardamento incessante che spinge al consumo acritico? Solo i bambini devo- no essere protetti da una minaccia di questo tipo? E che cosa significa proteggere, in questo caso? Significa quello che ha sempre significato quando l’adulto si è impegna- to per la protezione dell’infanzia: significa escludere. Piaccia o no, il mondo, questa realtà non esiste senza i media che la comunicano, la rappresentano e la trasformano o persino distorcono. Ancora una volta i bambini rischiano di essere penalizzati per l’incapacità degli adulti di gestire e ordinare la complessità della realtà e del mondo, in modo tale da permettere ai bambini di poterci stare. La reazione più semplice è quella che nei confronti dei bambini è in atto da un paio di secoli a questa parte: chiudiamo i bambini in un posto sicuro, allontaniamoli dai pericoli del mondo allontanando essi stessi dal mondo. Sullo sfondo, vi è la solita paura adulta di sempre: la paura del bam- bino che pensa, che desidera, che vuole, che fa, che sogna diversamente da ciò che l’adulto pensa, desidera, vede, fa e sogna per lui, al posto suo.

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GENESIS AND EVOLUTION OF SCHOOL CONSUMPTION IN ITALY BETWEEN 19TH AND 20TH CENTURIES

GENESI ED EVOLUZIONE DEI CONSUMI SCOLASTICI IN ITALIA TRA XIX E XX SECOLO

The purpose of this article is to describe the process of mass schooling in Italy between the second half of the 19th century and the first half of the 20th century, referring only to the primary schools and with changing speeds according to local contexts, by analysing the evolution of pedagogical models, educational practices and the material needs determined by them, with the proliferation of teaching aids and items that went to make up a student’s equipment and the start of their manufacture on an industrial scale. Il presente articolo si propone di descrivere i processi di scolarizzazione di massa in atto nella società ita- liana tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, riferibili al solo grado primario e con velocità mutevoli in base ai contesti territoriali di riferimento, analizzando l’evoluzione dei modelli pedagogici, delle pratiche didattiche e dei bisogni materiali da essi determinati, con la proliferazione dei sussidi didattici e degli oggetti concernenti il corredo dello scolaro e l’avvio della loro produzione su scala industriale. Key words: history of education; history of teaching; individual method; collective method; material culture of school. Parole chiave: storia dell’educazione; storia della didattica; metodo individuale; metodo collettivo; cultura materiale della scuola.

Premessa

Nel corso degli ultimi anni s’è progressivamente affermato all’interno del dibattito scientifico internazionale un nuovo indirizzo di ricerca, relativo alla materialità dei dispositivi di insegnamento e dei processi di apprendimento, che – nel tentativo di fornire il proprio contributo alla definizione della cosiddetta «cultura empirica della scuola» (Escolano Benito 2016) e delle pratiche educative realmente svolte in classe – ha contribuito a ricalibrare i paradigmi euristici della storia dell’educazione. Non è mia intenzione, in questo contesto, dar conto complessivamente degli esiti storio- grafici prodotti dalle ricerche incentrate sul tema della cultura materiale della scuola, già ampiamente descritti all’interno dell’introduzione a un recente saggio, al quale ri- mando (Meda 2016, 19-38). Questi studi hanno fino a questo momento contribuito a definire la crescente incidenza della materialità sulle pratiche educative attuate all’in- terno dei contesti formali di apprendimento a cavallo tra il XIX e il XX secolo – a

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 103-117 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.76 Juri Meda, [email protected] (Università degli Studi di Macerata)

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scapito delle tradizionali prassi d’insegnamento, fondate sulla trasmissione verbale dei contenuti da parte dell’insegnante per mezzo di precisi espedienti retorici e sulla loro assimilazione da parte degli alunni –, palesata dall’ampio assortimento di sussidi di- dattici e dispositivi pedagogici progressivamente entrati nell’uso scolastico quotidiano in quel particolare lasso di tempo. Questi stessi studi, tuttavia, allo stesso tempo, non si sono sufficientemente soffermati sulla definizione delle cause profonde della proli- ferazione dei sussidi didattici e della loro definitiva affermazione all’interno di un con- testo come quello educativo che nei secoli precedenti aveva funzionato senza di essi, con la significativa eccezione di alcuni circoscritti contesti elitari1. Il presente studio si propone di formulare alcune ipotesi interpretative in merito alle cause del progressivo superamento del tradizionale rapporto binomico insegnante-alunno, dell’esogenizza- zione dei processi di apprendimento rispetto al tale rapporto in seguito all’adozione di un numero sempre maggiore di mediatori didattici e della conseguente affermazione della «materialità educativa»2, caratterizzata dalla centralità dei dispositivi pedagogici rispetto al fattore umano. Alla base di questo fenomeno, a nostro modo di vedere, c’è lo sviluppo di sussidi didattici sempre più raffinati a supporto dell’insegnamento al fine di migliorare i processi di mediazione didattica in precedenza affidati esclusiva- mente all’insegnante, preservandoli dai malfunzionamenti derivanti da suoi eventuali deficit culturali e/o emotivi e rendendoli il più oggettivi possibile3.

Prime ipotesi di ricerca sulle possibili interrelazioni tra la definitiva affermazione del metodo simultaneo, la massificazione dell’istruzione primaria e la proliferazione dei materiali didattici

La prima causa della complessa dinamica sopra descritta può essere individuata

1 Gli studi di Monica Ferrari hanno dimostrato l’utilizzo in età moderna di dispositivi didattici negli itinerari formativi di principi e principesse in alcune corti europee, individuandone le modalità d’uso e le funzioni pedagogiche ad essi assegnate (in particolare, si veda: Ferrari 2011 e 2012). 2 L’espressione è stata coniata dal pedagogista Riccardo Massa, il quale – prendendo le mosse dal materialismo storico di matrice marxista – ha teorizzato in alcuni suoi studi come le prassi educative adottate all’interno dell’aula in età contemporanea afferissero a rapporti materiali di produzione, a forze socio-economiche e a istanze politiche e di potere caratterizzanti la società nel suo insieme e incidenti in diversa misura sui processi formativi. In riferimento a queste teorie, in particolare, si vedano: Massa 1975 e 1986. Più in generale, su questo fenomeno in prospettiva storica e pedagogica, si vedano: Lawn e Grosvenor 2005, Sørensen 2009. 3 I sussidi didattici cui si fa qui riferimento consistono in lavagne, quaderni, penne e strumenti di scrittura e sono da considerarsi a tutti gli effetti come vere e proprie «proto-tecnologie didattiche», in quanto – diversamente da quanto si è abituati a considerare – l’impiego nei processi di istruzione di apparati strumentali e tecnologici non data alle «macchine per insegnare» preconizzate dal teorico dell’istruzione programmata Burrhus Frederic Skinner fin dal 1954 (Skinner 1970) né alle prime sperimentazioni sulle possibili applicazioni educative delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), ma trae origine nel contesto storico sopra descritto (su questo tema, cfr.: Cuban 1986) e consiste nell’impiego sempre più massiccio di questo genere di sussidi, inerti o tuttalpiù meccanici. Lavagne, quaderni, penne e strumenti di scrittura costituiscono oggi dei veri e propri «fossili didattici», tuttora uti- lizzati – per quanto ammodernati – all’interno d’una scuola sempre più tecnologicizzata ma sostanzialmente incapace di strutturali cambiamenti di mentalità, in quanto gli insegnanti – come già notato anche da Bruner – si adeguano alle riforme scolastiche adottando di volta in volta quelle pratiche didattiche che consentono loro di mantenere invariato il proprio modo di insegnare (su questo tema, cfr.: Cuban 2013).

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nella definitiva affermazione nel nostro paese nel corso della seconda metà del XIX secolo del metodo simultaneo o collettivo a discapito di quelli individuale – che era stato fino a quel momento quello più diffuso – e mutuo – che pure ebbe una certa diffusione nella prima metà del XIX secolo, per poi essere progressivamente abbandonato4 –, che impose lo stile d’insegnamento e il modello di organizzazione dello spazio di appren- dimento maggiormente funzionali ai processi di scolarizzazione di massa richiesti dal nuovo stato unitario5. Questo metodo – infatti – consentiva di trasmettere contempo- raneamente i contenuti dell’apprendimento a una molteplicità di destinatari, seduti ad ascoltare la lezione impartita dall’insegnante e a eseguire ordinatamente i compiti loro assegnati. Sono stati numerosi negli anni passati gli studi che hanno descritto la rapida diffusione nel nostro paese del metodo simultaneo, per cui basterà rimandare ad essi (Morandini 2003; Pruneri 2006; Chiosso 2011; Piseri 2012); in particolar modo, Si- monetta Polenghi ha messo ampiamente in luce come il prevalere dell’altrimenti detto metodo normale fu reso possibile dalla sua introduzione dapprima – nel decennio giu- seppino – nelle scuole della Lombardia austriaca, quindi alla sua successiva estensione alle scuole del Regno d’Italia napoleonico e infine alla sua prescrizione per legge all’in- terno delle scuole del Regno Lombardo-Veneto, dove divenne modello per i sistemi scolastici degli altri stati pre-unitari e poi per quello italiano (Polenghi 2012). I molteplici vantaggi derivanti dall’adozione del metodo simultaneo erano efficace- mente presentati dal pedagogista Domenico Santucci nella sua «Guida dei precettori d’ambo i sessi e padri di famiglia per le scuole elementari comunali e private» (1843), nella quale era invece criticato quello individuale, il quale – secondo l’autore – poteva essere lodato solamente da quei precettori che, vittime di inveterati pregiudizi, si van- tassero di poter arrivare «a trar profitto della loro alta missione colla ferola alla mano, col cignone o frusta» (Santucci 1843, 54). Osservava Santucci: Tutti gli allievi che compongono la scuola, con questo metodo [simultaneo], si divido- no in classi, secondo il loro grado d’istruzione, leggono, scrivono, calcolano e dicono la loro lezione tutt’insieme [...] Il tempo che s’impiega alla classe è più profiguo al progresso degli allievi, e l’emulazione, ch’è la molle potentissima del cuor umano, vedesi sensibilmente ser- peggiare nel cuore degli stessi. Una scuola organizzata sul piano di questo metodo, permette

4 Il metodo mutuo è quello in cui l’insegnamento non viene impartito simultaneamente a tutti gli alunni, ma viene impartito inizialmente a un gruppo ristretto di essi, individuati come monitori, che a loro volta comunicano agli altri allievi – divisi in base al proprio livello d’istruzione e alle proprie capacità cognitive – quanto hanno appreso. Il metodo – altrimenti noto come lancasteriano, dal pedagogista inglese Joseph Lancaster che tra i primi lo applicò nella scuola per bambini poveri di Southwark – ebbe certa diffusione durante il primo Risorgimento nel Ducato di Parma, nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie, mentre si diffuse ampiamente in Toscana ad opera di Girolamo Bardi, Raffaello Lambruschini, Enrico Mayer e Cosimo Ridolfi e in Lombardia ad opera di Giovanni Arrivabene, Federico Confalonieri e Giacinto Mompiani. Sulla diffusione di questo metodo, in particolare, si vedano: Napolitano 1986; Campagnari 1979; Ascenzi e Fattori 2006; Sindoni 2016. 5 Converrà specificare – al fine di evitare travisamenti – che l’intima connessione rilevata tra il successo del metodo simultaneo e il processo di massificazione dell’istruzione nella seconda metà del XIX secolo non prescinde dal fatto che tale metodo fu introdotto da Jean-Baptiste de La Salle nelle sue scuole popolari alla fine del XVII secolo e successivamente divulgato dalla Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane in tutta Europa, ma ne coglie la definitiva legittimazione da parte degli apparati amministrativi statali e l’adozione all’interno dei moderni sistemi di istruzione pubblica, che lo utilizzarono per promuovere processi di nation building.

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che tutte le classi restano occupate, ed oltre questi vantaggi, videsi osservato l’ordine e la disciplina della scuola, perno su cui gira il progresso degli allievi. […] Il metodo individuale d’insegnamento, in verità, arreca noia, disgusto, e perdita di molto tempo sì per parte de- gli allievi, non che de’ precettori. Esso merita d’essere eliminato dal santuario dell’istruzione pubblica e privata, se il pregiudizio del pedantismo non lo sostiene ancora. Il metodo aureo simultaneo mutuo, che differisce nel fatto, dagli anzidetti metodi, è l’unico metodo che ot- tenne il suo trionfo, ed i suoi applausi in tutte le scuole cosmopolite, ed anche in quelle di perfezionamento, e classiche. Gli allievi che ricevono, con questo metodo, la lezione che dal solo precettore, ed in sua presenza in tutto il tempo dell’istruzione, la classe vedesi con voglia rivalizzare e profittare con l’impegno scambievole, tutto opposto al metodo individuale, in cui gli allievi restano privi delle cure del precettore, senza disciplina e senza ordine (Santucci 1843, 55-57). Colpisce come nella descrizione offerta dal Santucci l’aspetto dirimente per l’ado- zione d’un metodo piuttosto che di un altro sia di carattere disciplinare e non squisita- mente pedagogico. Il principale vantaggio del metodo simultaneo, infatti, è quello del mantenimento della disciplina all’interno dei locali scolastici, condizione preliminare per l’ordinato svolgimento delle lezioni e per la sistematica opera di inculturamento dei alunni6. Se il metodo individuale annoia gli alunni per la sua eccessiva lentezza, in- ducendoli ad atteggiamenti d’insofferenza, insubordinazione e scherno e provocando la comminazione da parte dell’insegnante di provvedimenti disciplinari e punizio- ni corporali7, il metodo simultaneo invece garantisce ordine e disciplina all’interno dell’aula, con gli alunni divisi in classi in base al loro grado di istruzione e costante- mente occupati per tutta la durata delle lezioni. Il metodo simultaneo, in definitiva, è presentato come un sistema in grado di mantenere l’ordine in classe riducendo sen- sibilmente gli interventi disciplinari da parte dell’insegnante, caratteristici invece del metodo individuale, in cui l’insegnante era spesso costretto a ricorrere all’uso di stru- menti di correzione per rimportare l’ordine. Questa lettura, tuttavia, risulta parziale,

6 Il termine inculturamento è da intendersi nella sua accezione antropologica (Kroeber 1983, 269-270). 7 Non è pertanto un caso se nelle rappresentazioni pittoriche di aule e altri spazi d’apprendimento realizzati in età moderna l’insegnante è frequentemente raffigurato con in mano i più svariati strumenti di correzione (come ad esempio, verghe, sferze o ferule, il martinet francese, il paddle inglese, la palmatória iberica e molti altri ancora), mentre gli alunni sono altrettanto frequentemente raffigurati nell’atto di farsi scherno dell’insegnante o di esserne brutalmente puniti di fronte all’intera classe, a dimostrazione che i locali all’interno dei quali si tenevano le lezioni all’epoca non erano spazi di per sé disciplinanti e l’ordine vi doveva dunque essere periodicamente riportato dall’insegnante, tramite busse e castighi. Stando al Santucci, d’altronde, i precettori che adottavano il metodo individuale erano «nello stato di far osservare la disciplina, dirigere de’ gastighi agl’impertinenti, alzar la lor voce maestrale, per acchetarli un po’, o disprezzarli ove la bisogna l’esige, ed in ultima analisi, dirigerli de’ severi gastighi per essere obbedito» (Santucci 1843, 58). In tal senso, le scene di vita scolastica ritratte dal pittore umbro Francesco Bergamini (ca. 1850-1910) in numerose tele dipinte sul finire del XIX secolo sono da considerarsi – oltre che testimonianze visive delle miserabili condizioni di vita in cui versavano le scuole elementari rurali delle regioni meridionali – la riprova della sopravvivenza del metodo individuale in quelle medesime scuole, tanto che – ancora nel 1925 – Umberto Zanotti Bianco riportava all’interno del proprio resoconto dell’indagine svolta nelle scuole calabresi per conto dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia le seguenti impressioni: «Quando c’è il sole i bimbi sono in campagna al servizio dei genitori o del padrone. Ecco perché v’è grande sperequazione fra gli iscritti, i frequentanti e i promossi. Le famiglie non sanno rassegnarsi all’orario obbligatorio pei figliuoli. Preferiscono l’insegnamento individuale per avere subito a disposizione i bimbi che mandano al prato con gli armenti o in comitiva per la raccolta delle olive» (Zanotti Bianco 1925, fig. 10). Sulle potenzialità euristiche di dipinti e incisioni anche in ambito storico-educativo, in particolare, si vedano: Dekker 2015; del Pozo Andrés e Braster 2017.

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in quanto quello che potrebbe sembrare un metodo basato su un significativo decre- mento del livello di disciplinamento dei contesti d’apprendimento si basa in realtà su una nuova e più sottile forma di disciplinamento di quegli stessi contesti, fondata sul disciplinamento anatomico dei corpi degli alunni attraverso il loro inserimento in un rigido dispositivo panottico (l’aula)8 e sulla trasmissione di quel «curriculum implicito» al quale hanno fatto riferimento numerosi studiosi9. In questo contesto, pertanto, l’espressione del potere non avveniva più attraverso l’esercizio della violenza fisica10, ma attraverso la distribuzione dei corpi in uno spazio dotato di determinate caratteristiche, in base a precisi criteri di organizzazione gerarchica11. Come già nota- to anche da Michel Foucault, infatti, «la disciplina è il procedimento tecnico unitario per mezzo del quale la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza “politica”, e massimalizzata come forza “utile”» (Foucault 2005, 169-170). Non a caso, pertanto, il metodo simultaneo non implicava unicamente il ricorso a una specifica metodica didattica da parte del maestro, ma anche l’adozione di speci- fiche dotazioni materiali, indispensabili per consentire l’apprendimento simultaneo di determinati contenuti da parte di una molteplicità di individui, facendoli lavorare all’unisono: il banco per offrire ai singoli una superficie di lavoro e anche – costringen- do i corpi in una posizione fissa – per coadiuvare il maestro nel governo della classe; il quaderno per offrire un supporto cartaceo versatile per gli esercizi individuali; il libro di testo – ma anche i tabelloni murali, tipici del metodo normale così come del mutuo – per offrire contenuti standardizzati in base alle disposizioni governative; la lavagna per verificare periodicamente le conoscenze acquisite e per esporre eventualmente al pubblico ludibrio coloro i quali non avevano appreso correttamente. In questo contesto, particolare rilevanza è attribuita agli arredi adottati all’interno di questi mo- derni ambienti di apprendimento. Nell’opera precedentemente citata, nel paragrafo

8 Sull’organizzazione dell’aula come spazio egemonico, cfr.: Meda 2016 (in particolare, il paragrafo «L’aumento della popolazione scolastica, la necessità d’una regolamentazione morale e la riorganizzazione degli spazi attraverso la disposizione dei banchi», 48-51). 9 La locuzione «curriculum implicito» (in inglese «hidden curriculum») fa riferimento ai valori culturali domi- nanti, ma anche agli stereotipi e ai pregiudizi, trasmessi implicitamente all’interno dei contesti formali di apprendi- mento, pur senza rientrare negli obiettivi educativi da essi dichiarati. Sentimenti sociali come la deferenza nei confron- ti dell’autorità e l’accettazione della morale vigente fanno parte di questo curriculum. Se già nel 2005 la storica inglese Catherine Burke aveva sottolineato come «l’edificio scolastico, le sue molteplici stanze, i muri, le finestre, le porte e gli arredi» non potessero essere considerati «come un contenitore neutrale o passivo» ma piuttosto «parte attiva nel mo- dellare l’esperienza della scuola e la comprensione della formazione» (Burke, 2005, 489-490), da una prospettiva più squisitamente sociologica Jon Prosser nel 2007 evidenziava come l’organizzazione di spazi, oggetti e arredi costituisse la manifestazione materiale della «cultura visuale della scuola», ovvero lo spirito stesso dell’istituzione scolastica, che affidava ai suoi assetti organizzativi, al clima relazionale e alla configurazione stessa dell’ambiente di apprendimento la trasmissione implicita di contenuti, significati e valori (Prosser 2007). Più in generale, su questi aspetti, si vedano anche: Marcus 1996; Depaepe et al. 2000. 10 Già il pedagogista Johann Ignaz von Felbiger – chiamato da Maria Teresa d’Austria a sovraintendere alla ri- forma delle scuole normali ed elementari asburgiche – aveva teorizzato come la disciplina non dovesse essere imposta con la forza fisica, se non nei casi estremi, bensì dovesse essere interiorizzata dai fanciulli, attraverso una forma di autocontrollo di matrice illuministica e kantiana; su queste teorie pedagogiche, nello specifico, si veda: Polenghi 2001. 11 Fulvio De Giorgi ha giustamente notato in proposito: «Il banco non poteva certo da solo instaurare la disci- plina, ma imponeva una costrizione fisica che l’autoritarismo severo del maestro sapeva poi sfruttare al meglio» (De Giorgi 2005, 13).

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dedicato a «Locale e mobilia della scuola», Domenico Santucci specificava infatti che: Le tavole della scuola dovranno essere larghe un mezzo metro e disposte tutte in faccia della tavola del precettore. Viene inibito a’ precettori di servirsi delle tavole larghe su le quali possono situarsi due ordini di allievi gli uni di rimpetto agli altri, dal perché la sorveglianza sarà difficile ad eseguirsi. I panchi dovrebbero essere attaccati alle tavole, e se fosse possibile, assodati nel panco stesso (Santucci 1843, 114). Il necessario orientamento dei banchi (in realtà ancora semplici tavole fornite di panche) verso il centro della stanza, dove era simbolicamente collocata la cattedra dell’insegnante, conferma la natura panottica dell’aula scolastica, finalizzata al poten- ziamento della vigilanza su coloro i quali erano sottoposti a processi di inculturamen- to12. L’organizzazione dello spazio tuttavia non è l’unico espediente che – nel contesto storico sopra descritto – caratterizza la modernizzazione dei processi di apprendimen- to: anche l’organizzazione del tempo è fondamentale13. La continuità garantita al «tem- po dell’istruzione» dal metodo simultaneo è infatti altrettanto centrale: se i corpi degli alunni sono disciplinati e tenuti in posizione anche per mezzo della distribuzione degli arredi nello spazio, le loro menti devono essere mantenute costantemente vigili, con un elevato livello d’attenzione, per recepire al meglio i contenuti dell’apprendimento. Siamo di fronte a quella che Inés Dussel e Marcelo Caruso hanno efficacemente definito nel 1999 «l’invenzione dell’aula» (Dussel e Caruso 1999)14, ovvero la con- figurazione di uno spazio di apprendimento standardizzato, organizzato in base alle pratiche pedagogiche che in esso dovevano svolgersi e facilmente riproducibile. A questo fenomeno sottendeva una concezione capitalistica dell’istruzione pubblica ti- pica delle società borghesi, che puntava a massimizzare i risultati dell’attività didattica svolta in classe dagli insegnanti, rendendo il processo di apprendimento sempre meno macchinoso e sempre più efficace, fondato cioè sul principio del massimo profitto col minor spreco di energie possibile, tipico dei sistemi economici massificati. Pro- prio come aveva indicato Foucault il disciplinamento dei corpi e la razionalizzazione delle tempistiche dell’insegnamento imposti da questo particolare metodo avevano prodotto la riduzione della «forza politica» degli alunni (comportamenti devianti e resistenza ai processi di inculturamento)15 e la massimalizzazione della «forza utile» (trasmissione dei valori e apprendimento dei contenuti) in conformità alle tendenze di efficientamento dei processi produttivi tipiche dei sistemi economici capitalistici. Il quadro che ne usciva era quello di una scuola fortemente trasmissiva, fondata

12 Analizzando la morfologia e la simbologia dell’aula, Fulvio De Giorgi ha recentemente ipotizzato la teoria della genesi formale del banco scolastico dalle panche ecclesiastiche, sottolineando le similitudini esistenti tra ambienti di apprendimento e ambienti di culto (De Giorgi 2014). 13 Si tenga presente che la sottile interconnessione tra organizzazione dello spazio e del tempo nella scuola di massa era già stata indicata in: Ragazzini 1997. 14 Sulle modalità di organizzazione dell’istruzione elementare in età contemporanea è tornato recentemente – con una prospettiva marcatamente comparativa – Marcelo Caruso (Caruso 2015). 15 Sulla natura dell’antagonismo scolastico di matrice prepolitica (ovvero precedente alla cosiddetta «stagione dei movimenti») e sulla crescente insofferenza maturata tra XIX e XX secolo nei confronti dei modelli tradizionali di istruzione si vedano le ipotesi da me formulate nella recensione al volume «La scuola come maneggio del sistema. Breve storia di un manifesto antiautoritario» di Antonio Gibelli (Meda 2017, 727).

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sulla lezione frontale condotta secondo il metodo simultaneo, che consentiva di tra- smettere contemporaneamente i contenuti dell’apprendimento a una molteplicità di destinatari, seduti ad ascoltare e ad eseguire ordinatamente i compiti loro assegnati; una scuola al cui interno l’applicazione dei paradigmi etici tipici dei processi produt- tivi industriali ai processi di apprendimento scolastico avrebbe provocato una sorta di «meccanizzazione della didattica»16. La lenta ma incessante affermazione del principio dell’obbligatorietà scolastica nel- le scuole del neonato stato post-unitario e il faticoso ma costante aumento della popo- lazione scolastica all’interno delle scuole elementari crearono nei decenni successivi le condizioni per la definitiva massificazione di questo modello, seppur con velocità mutevoli in base ai contesti territoriali di riferimento, con marcati squilibri tra scuole urbane e scuole rurali e tra il sistema scolastico pubblico dell’Italia settentrionale e quelli dell’Italia meridionale e insulare.

Prime ipotesi di ricerca sulle possibili interrelazioni tra sviluppo dei consumi scolastici e industrializzazione della produzione dei materiali didattici

Se è vero come ha osservato Fulvio De Giorgi che «la scuola pubblica ottocentesca nasceva col banco» (De Giorgi 2005, 13), è altrettanto vero che essa fu tenuta a batte- simo dal quaderno e dal libro, il cui uso massiccio consentì materialmente la simulta- neità dell’apprendimento dei contenuti da parte d’una pluralità di soggetti, in quanto – cadendo l’esclusività dell’azione pedagogica messa in atto dall’insegnante propria del metodo individuale – si rese necessario l’ausilio di sussidi didattici. Fu dunque la simul- taneizzazione dei processi di apprendimento introdotta dal metodo normale a rendere necessaria la materializzazione della didattica, al fine – non potendo rendere ubiquo l’insegnante – di consentire agli alunni di leggere contemporaneamente lo stesso testo (direttamente sul libro, anziché leggendo uno alla volta a voce alta dal libro del mae- stro) ed esercitarsi contemporaneamente nella scrittura (direttamente sulle lavagnette di ardesia17 o sul quaderno, anziché scrivendo uno alla volta alla lavagna).

16 Già nel 2001 – ricordando come prima del XIX secolo la scuola fosse stata una istituzione sostanzialmente estranea ad ampi strati della popolazione – Pablo Pineau, Inés Dussel e Marcelo Caruso avevano definito la scuola di massa come una máquina de educar ovvero una tecnologia replicabile e massiva di acculturazione (cfr. Pineau, Dussel e Caruso 2001, e in particolare, il capitolo ¿Por qué triunfó la escuela?, o la modernidad dijo: “Esto es educación” y la escuela respondió: “Yo me ocupo” di Pablo Pineau, 27-52). La scuola di massa, insomma, nata nel contesto politico degli stati liberali nati in Occidente con l’ascesa della borghesia e in quello economico dell’economia di mercato, si configura come una sorta di «catena di montaggio» delle mentalità e delle coscienze, conforme – sarebbe interessante comprendere quanto scientemente, in una società classista in cui le élites politiche ed economiche erano interdipen- denti e interessi pubblici e privati si sovrapponevano in maniera sistematica – ai principi di organizzazione scientifica del lavoro enunciati nel 1911 da Frederick W. Taylor nel suo «The Principles of Scientific Management» e informati alla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, raggiunta attraverso la scomposi- zione e parcellizzazione dei processi di lavorazione nei singoli movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. Una «macchina per educare» funzionale alla nascente società industriale e all’immensa mole di profitti che essa avrebbe determinato per le sopraccitate élites politiche ed economiche. Se letta in questi termini, la scuola – o meglio, questa scuola – costituì per le borghesie europee sicuramente un ottimo investimento. 17 L’evoluzione dell’utilizzo in classe di questo sussidio – usato tra i primi dal Pestalozzi nella scuola di Yverdon –

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In tale contesto, è interessante dedicare qualche considerazione anche alla lavagna, che sopravvisse al progressivo abbandono del metodo individuale, del quale costituiva una delle poche dotazioni materiali, e fu riciclata in quello collettivo18. Nell’ambi- to del primo metodo, infatti, gli insegnanti verificavano la corretta assimilazione dei contenuti d’apprendimento e correggevano gli errori dei propri alunni, in tempo re- ale, durante le loro esercitazioni individuali alla lavagna. La cosiddetta «tavola nera», dunque, era utilizzata per far compiere esercitazioni pratiche di scrittura e di calcolo agli alunni che non disponevano di altri supporti per la scrittura, sia per mancanza di disponibilità economica sia per la carenza – riscontrabile anche in stampe e dipinti dell’epoca – all’interno degli ambienti di apprendimento primo-ottocenteschi di su- perfici di lavoro atte a consentirne l’uso (Meda 2016, figg. 1-4), ovvero di banchi su cui appoggiarli; inoltre per le amministrazioni comunali cui era demandata la gestione delle scuole era meno costoso rifornire i maestri di gessetti che non di inchiostro, la cui fornitura per le esercitazioni individuali di tutti gli alunni – con l’adozione del me- todo collettivo – avrebbe inevitabilmente aggravato gli oneri di gestione a loro carico. L’introduzione del metodo collettivo, invece, fece sì che il quaderno divenisse il supporto delle esercitazioni individuali e che la lavagna si evolvesse in uno strumento di verifica periodica delle conoscenze acquisite dagli alunni, esposti dal maestro al pubblico ludibrio se non erano in grado di portare a termine i compiti loro assegna- ti19. In qualche misura, perciò, l’introduzione del quaderno costituì un elemento di

deve ancora essere studiato approfonditamente. Nel 1826, il Peitl scriveva in proposito all’interno della terza edizione della sua metodica per le scuole elementari del Lombardo-Veneto: «Sul principio gli scolari non debbono scrivere colla penna e coll’inchiostro, ma sibbene colla creta o col gesso sulla tavola nera, o su tavolette incerate o di lavagna, e ciò pei seguenti motivi: 1. Lo scrivere sulla tavola nera riesce meno difficile ai fanciulli, perché hanno meno cose da os- servare, e quindi si predispongono in modo aggradevole allo scrivere sulla carta; 2. Sulla tavola nera tutto si scrive più in grande, e quindi l’occhio dei fanciulli più chiaramente e facilmente può riconoscere la giusta forma delle linee che compongono le lettere. 3. La mano degli scolari, che scrivendo sulla carta riesce pel troppo minuto e rigoroso esercizio dura e stentata, scrivendo sulla tavola acquista pieghevolezza e scioltezza» (Peitl 1826, 84). Se Peitl citava le «tavolette incerate», nella «Guida per le scuole di reciproco insegnamento», tra i materiali necessari per una scuola di reciproco insegnamento erano previste «tavolette nere verniciate e rigate in rosso per scrivere col gesso liquido o biacca» (Gui- da 1830, 60), mentre nel «Manuale di educazione ad ammaestramento per le scuole infantili» di Ferrante Aporti si leggeva che: «Per avviare con sicurezza all’arte del bello scrivere i fanciulli di 4 anni si eserciteranno a condurre delle linee parallele col gesso sopra tavolette di lavagna rigate» (Aporti 1846, 115). Lo studio della cultura materiale della didattica della scrittura, analizzata in connessione alle dinamiche economiche connesse alla scolarizzazione di massa, consentirebbe di comprendere meglio le dinamiche analizzate in questo articolo. 18 La lavagna, allo stesso modo, non è ancora stata oggetto di indagini storiche approfondite nel nostro paese, mentre vent’anni fa lo storico francese Henri Bresler aveva già avviato una ricostruzione storica dell’impiego didattico della «tavola nera» nelle scuole francesi, recentemente ripresa da Sylvain Wagnon, per la quale si rimanda a: Bresler 1985 e 1993. 19 Anche in questo caso, sarà utile notare come alla progressiva riduzione delle punizioni corporali all’interno delle aule scolastiche preconizzata dai sostenitori del metodo simultaneo, cui abbiamo fatto ampiamente riferimento in precedenza, non corrispose una paritetica riduzione delle altre forme di castigo all’interno delle classi, come le pene d’esclusione (per esempio, l’espulsione dalla classe, la sosta in classe al termine delle lezioni, etc.) o quelle d’umiliazio- ne (per esempio, l’applicazione del cappello dell’asino o di altri contrassegni di biasimo, etc.), a testimonianza di un solo apparente processo di de-disciplinamento degli spazi d’apprendimento. Tutto ciò, ovviamente, a dispetto della normativa, che vietava espressamente l’uso di questo genere di punizioni nelle scuole, come si legge nel Regolamento scolastico del 15 settembre 1860, art. 98: «Sono vietate le parole ingiuriose, le percosse, i segni d’ignominia, le pene corporali, come il costringere a star ginocchioni o colle braccia aperte ecc., i pensi, quando non siano la semplice ripetizione di un lavoro mal fatto».

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razionalizzazione dei «tempi di produzione scolastici», in quanto nel medesimo lasso di tempo impiegato per una singola esercitazione individuale alla lavagna si potevano compiere ennesime esercitazioni individuali sui quaderni, stando al proprio posto, e procedere quindi successivamente a una periodica verifica alla lavagna, che assumeva in tal modo anche funzioni correttive e disciplinanti. Questo elemento, pertanto, come già da me ipotizzato nel recente «Mezzi di educazione di massa», confermerebbe la mutuazione da parte della «scuola di massa» di logiche tipiche dei sistemi economici capitalistici, miranti al massimo efficientamento dei processi produttivi. La necessità da parte di una «scuola di massa» vincolata all’impiego del metodo simultaneo di adottare i sopraelencati sussidi didattici impose l’ingresso all’interno della scuola d’una «cultura dei consumi» opposta alla cultura del saper fare pedagogi- co, autarchica e artigianale, tipica della scuola pre-capitalistica, nella quale il maestro non era solo l’erogatore dell’azione insegnante, ma anche il principale artefice dei dispositivi pedagogici utilizzati nell’espletamento di tale funzione. Lo studio della cultura materiale della didattica della scrittura conferma questa ipotesi di ricerca. Recentemente abbiamo già ampiamente descritto il processo di co- dificazione formale del quaderno, dal «cartolare»20, prodotto in genere dal maestro o dagli stessi allievi piegando a metà alcuni fogli di carta e rilegandoli a filo refe, al qua- derno scolastico com’è comunemente inteso ancora oggi, prodotto in serie in quantità industriali (Meda 2016, 65-124). È lecito affermare che tale processo fu innescato dal tentativo di esonerare insegnanti e alunni dall’incombenza della produzione in proprio di questo sussidio, inizialmente da parte di singoli professionisti, quindi di piccole imprese artigianali e infine di industrie specializzate. Facciamo alcuni esempi concreti. Nel 1843 il calligrafo Angelo Audifredi pubblicò sulla «Gazzetta Piemon- tese» una lettera aperta ai maestri comunali, in cui si pubblicizzava il proprio corso di scrittura in dodici modelli prescritto dalla «Guida del maestro elementare», consi- stente in «12 cartolari di 5 fogli ciascuno di carta bianca lineata», e aggiungeva: [Il corso è] precipuamente indirizzato a risparmiare ai suddetti la notabile perdita di tem- po e fatica, cagionata dal dover lineare e modellare un’immensità di cartafacci. L’esperienza di questi tre anni comprova quanto ne furono vantaggiati gli allievi, giacché con tale presidio può il maestro consacrare all’insegnamento e all’istruzione religiosa un tempo prezioso che per l’addietro si sprecava in un lavoro improbo e manuale, senza poter vigilare sopra gli atti e i discorsi degli allievi (Audifredi 1843, 4)21. Il risparmio di tempo – elemento caratteristico dei processi produttivi nei sistemi economici capitalistici – e la circoscrizione delle funzioni dell’insegnante al mero lavo- ro intellettuale sono due delle principali argomentazioni utilizzate da coloro i quali –

20 In un dizionario della lingua italiana dell’epoca se ne fornisce la seguente definizione: «Libro di memorie, diario, annali o simile» (Dizionario 1835, 514); «cartolari» erano in particolare denominati i registri su cui gli scrivani delle imprese commerciali dovevano annotare conti e memorie, a testimonianza – come osservato anche da Marina Roggero nel suo L’alfabeto conquistato: apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento (1999) – di quanto la scuola moderna fosse ancora funzionale alla formazione di professionisti della scrittura e della computazione. 21 Dello stesso autore, si veda anche: Audifredi 1839 (se ne conserva una copia presso la Biblioteca dell’Accade- mia delle Scienze di Torino).

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nel corso del tempo – iniziano a guardare alla scuola pubblica come un nuovo fiorente mercato commerciale. Qualche decennio più tardi, a testimonianza della lunga durata di questo processo, nelle sue indicazioni agli insegnanti delle scuole rurali ascolane Sebastiano Gàrgano raccomandava: Per evitare la perdita di tempo che si richiede per rigar ciascun quaderno, sarebbe gio- vevole l’uso della carta rigata. Il maestro faccia provvedere dal Municipio una risma o due di carta rigata alla macchina in diverso modo secondo la diversa abilità dei suoi scolari. Con questa faccia egli stesso i cartolari, e così con risparmio di spesa e di tempo si può provvedere ciascun scolaro di quaderno e sfuggir anche lo sconcio che molti non scrivano per mancanza di carta (Gàrgano 1894, 19). Il passaggio da una fabbricazione domestica dei supporti per la scrittura scolastica ad una loro produzione in serie, d’altronde, è il medesimo cui si assiste anche per gli strumenti di scrittura, come nel caso del passaggio dalla penna da scrivere prodot- ta manualmente incidendo con un temperino una penna d’oca al pennino metallico prodotto in serie da ditte specializzate e utilizzato dall’apprendista della scrittura22. A tal proposito, è interessante vedere come nel 1843, nella guida dei precettori più volte citata, Santucci rammentasse come il taglio delle penne fosse a cura degli allievi, i quali dovevano essere muniti delle penne tagliate prima di entrare in classe e alle tecniche di taglio della penna era dato eccezionale rilievo, in quanto dalla qualità del taglio dipendeva la qualità della scrittura (Santucci 1843, 106). Queste considerazioni – per quanto ancora generiche e abbisognanti di ulteriori conferme – ci consentono di congetturare le dinamiche in virtù delle quali le piccole manifatture artigianali prima e la grande industria scolastica poi si siano progressiva- mente sostituite agli insegnanti e agli allievi nella preparazione e nella realizzazione dei loro strumenti di lavoro quotidiani: da un lato, sfruttando le innovazioni tecnologiche consentite dalle sempre più sofisticate tecniche di lavorazione delle materie prime23 e proponendo loro oggetti irriproducibili artigianalmente (se la realizzazione di una penna da scrivere era alla portata di tutti, la matita così come le cannucce lignee con

22 Si tenga presente che la matita – composta da impasto trafilato di grafite e argilla racchiuso tra due pezzi di legno – fu inventata nel 1812, il pennino metallico nel 1830, la penna stilografica nel 1884 e la penna a sfera soltanto nel 1938. 23 In tal senso, è possibile affermare che l’idea stessa di innovazione è uno strumento di marketing, in quanto l’imposizione prima nell’immaginario collettivo e poi sul mercato di prodotti innovativi o quantomeno interamente ri- qualificati rispetto a quelli precedentemente impiegati per svolgere determinate mansioni causa la progressiva dismis- sione di questi ultimi; com’è noto, ovviamente, i meccanismi di innovazione all’interno della società pre-industriale erano più lenti e più dilazionati nel tempo e rendevano meno traumatici i processi di ammodernamento in questo come in altri settori. Si tenga presente come – sulla scorta delle ricerche promosse da Diana Gonçalves Vidal e Vera Lucia Gaspar da Silva in merito alla retorica educativa in base alla quale sarebbe dovuto esistere un rapporto diretto tra l’acquisto dei moderni sussidi didattici dal sistema scolastico brasiliano e la qualità dell’insegnamento da esso erogato – Wiara Rosa Rios Alcântara abbia recentemente osservato come le réclame pubblicitarie e i riconoscimenti ricevuti nell’ambito delle grandi esposizioni universali fecero dei «banchi scolastici igienici» dei veri e propri oggetti del desiderio, muniti – oltre che di un valore commerciale – di un surplus culturale che li presentava come dotazioni indispensabili per i sistemi scolastici moderni, assicuranti già di per sé il miglioramento delle pratiche didattiche e l’in- cremento delle prestazioni scolastiche di insegnanti e alunni (Rios Alcântara 2014, 272). Sono convinto che se questi studi fossero estesi anche ad altri sussidi didattici, le dinamiche sopra descritte ne uscirebbero confermate.

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l’innesto per il pennino metallico richiedevano tecniche di lavorazione di cui né in- segnanti né allievi erano in grado); dall’altro, inducendoli lentamente ma inesorabil- mente a dismettere le competenze tecniche necessarie per la produzione in proprio di tali strumenti e creando in tal modo i presupposti per la creazione d’una doman- da a cui far seguire una specifica offerta. L’utenza si dovette adattare gradualmente ai nuovi ritrovati didattici introdotti dall’industria, mantenendo ancora per qualche tempo le proprie abitudini e infine adeguandosi del tutto all’uso dei prodotti da essa immessi in sempre maggiori quantità sul mercato scolastico, che divennero così og- getti di largo consumo. Emblematica in tal senso la sopravvivenza della pratica della rigatura manuale dei fogli utilizzati a lezione su un arco temporale che va dal 1843 al 1894, precedentemente documentata, o anche l’impiego del temperino per appuntare làpis e matite ben dopo la scomparsa delle penne da scrivere dalle aule scolastiche, poi definitivamente sostituito da temperamatite e appuntalàpis meno pericolosi, ma soprattutto di appannaggio diretto non di generiche coltellerie ma dell’industria sco- lastica, che acquisiva in tal modo una sorta di privativa industriale illimitata su un altro oggetto scolastico di largo consumo. La longa manus dell’industria, poi, si estese dagli oggetti di comune consumo più comuni (libri, quaderni, penne, inchiostro, etc.) ai sussidi didattici più raffinati, anch’essi inizialmente progettati e realizzati artigianalmente dagli stessi insegnanti e quindi prodotti in serie a livello industriale. A questo proposito, è interessante ripor- tare un altro stralcio dalla già citata guida di Domenico Santucci: L’esercizio di scrittura facilita il progresso della lettura. A tale oggetto i nostri amati allievi della 1a classe vengono esercitati su la lavagna, e quindi per essere maggiormente occupati, passano a scrivere delle sillabe o frasi su la sabbia. [...] Per la classe che scrive su la sabbia, pensammo di costruire un lapis di legno guarnito di una punta di ferro, sul quale lapis ven- gono tre intagli destinati a ricevere i tre diti servibili alla tenuta della penna; la costruzione di questo lapis di legno dispone gli allievi ad abituarsi a tener bene la penna nella scrittura (Santucci 1843, 113). Allo stesso modo, poco più avanti si apprende che all’interno dello stesso Istituto «Santucci» di Capodimonte era in uso una «scatola tipografica» (in pratica niente altro che un alfabetiere a tessere lignee mobili), utilizzato in classe per l’insegnamento dell’alfabeto, a testimonianza che in epoca pre-industriale i sussidi didattici erano spesso frutto dell’ingegno degli insegnanti operanti all’interno delle medesime isti- tuzioni educative ed erano da essi realizzati artigianalmente per essere impiegati nel corso delle proprie lezioni. Gli esempi potrebbero essere infiniti, da quelli più noti come i sussidi didattici di vario genere sviluppati nell’ambito di particolari metodi didattici (come i doni fröbeliani, i materiale di sviluppo cognitivo montessoriano, etc.) o i cosiddetti sussidi tiflodidattici (alfabetieri mobili e sensoriali, casellario Romagnoli, cubaritmo, etc.), fino a giungere a sussidi – come il «lapis da sabbia» o la «scatola ti- pografica» del Santucci – rimasti in uso a lungo in contesti ristretti senza assurgere agli onori della cronaca. L’industria scolastica – che aveva già iniziato a trarre grandi pro- fitti dalla commercializzazione degli oggetti scolastici di più largo consumo – iniziò a

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interessarsi alla moltitudine di suppellettili scolastiche e sussidi didattici «indispensa- bili» per le scuole, allestendo specifiche linee di produzione (Meda 2016, 147-156)24. In altra sede abbiamo già ampiamente descritto questo fenomeno di «proliferazione dei sussidi didattici», direttamente riscontrabile all’interno dei cataloghi del materiale scolastico prodotto dalle grandi case editrici scolastiche circolanti a partire dall’inizio del XX secolo, invasi di sussidi didattici utilizzati per insegnare le materie più varie, come la scrittura (alfabetieri, quaderni prestampati a completamento per l’avviamen- to alla scrittura e modelli di calligrafia), l’aritmetica (abachi, pallottolieri, regoli e altri strumenti di calcolo), la geografia (carte geografiche, globi terrestri, mappamondi e planetarî), la storia (atlanti storici, carte murali), la scienza e l’igiene (tabelloni didat- tici, modelli in cera e in plastica, campionari di pesi e misure e raccolte scientifiche di vario genere), ma anche degli oggetti e degli articoli che componevano il corredo dello scolaro (cartelle scolastiche, grembiuli, uniformi e distintivi scolastici) e degli stessi arredi scolastici (cattedre, lavagne e banchi)25. Analizzando sommariamente questi sussidi, emerge un dato che non è ancora sta- to indagato a sufficienza, se non per il settore dell’editoria libraria, ovvero quello del protagonismo degli insegnanti nella ideazione e progettazione di buona parte di questi prodotti dell’industria scolastica. Se la prolifica stagione di studi sulla manualistica sco- lastica avviata a partire dall’inizio del nuovo secolo nel nostro paese ha consentito di mettere in luce il ruolo non certo secondario avuto dagli stessi insegnanti nella realizza- zione dei libri di testo adottati nelle scuole, ancora poco infatti si sa del contributo dato dalla classe magistrale nella ideazione di alfabetieri, abachi, tabelloni e carte geografi- che. Un contributo che pure ci fu, come testimoniato dalla presenza di un discreto nu- mero di insegnanti tra gli autori dei brevetti industriali registrati presso l’Ufficio della proprietà industriale del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio. In qualche modo, dunque, anche dopo l’industrializzazione della produzione di quei sussidi che erano stati per lungo tempo loro esclusivo appannaggio, un manipolo di insegnanti non si rassegnò al ruolo di cliente delle ditte specializzate nel settore scolastico e non rinunciò alle proprie doti demiurgiche, continuando a trarre intelligentemente spunto dall’esperienza quotidianamente condotta in classe per ricavarne nuove idee, brevet- tando sussidi e vendendoli alle industrie affinché fossero prodotti in serie e messi in commercio. Questo anche se il sistematico processo di massificazione cui fu sottoposta l’istruzione pubblica nel corso della prima metà del XX secolo – con uno scarto crono- logico non trascurabile tra le zone più industrializzate e quelle più depresse del Paese – assoggettò quasi completamente la classe magistrale alle case editrici e alle imprese industriali specializzate nella produzione di materiali scolastici e sussidi didattici di vario genere, facendone consumatori più che inventori e costruttori.

24 È utile considerare come il processo di standardizzazione dei sussidi presenti un altro vantaggio, che è quello di esponenzializzare le capacità didattiche del maestro, la quale può ancora una volta essere letta nell’ottica capitalistica dell’efficientamento dei processi produttivi (massimo profitto col minore spreco di energie possibile), ritenuta aprio- risticamente applicabile ai processi d’apprendimento. 25 Un’ampia collezione di tali cataloghi commerciali, utilizzata nella stesura del presente articolo, è stata raccolta da chi scrive presso il Museo della Scuola «Paolo e Ornella Ricca» dell’Università degli Studi di Macerata.

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Conclusioni

È in tale contesto che si stabilisce un’unità d’intenti tra le istituzioni politiche – che hanno la necessità di enormi quantitativi di sussidi in grado di omologare i metodi di insegnamento, dare uniformità ai contenuti educativi e riqualificare costantemente le pratiche didattiche, mettendole al passo coi tempi – e le imprese private – che hanno interesse a produrre su scala industriale sussidi omologati in base alle direttive mi- nisteriali per renderli più competitivi a livello commerciale e standardizzati a livello formale (spessore, formato, etc.) per rispondere alle esigenze imposte dall’automatiz- zazione dei processi produttivi industriali e per facilitarne trasporto e distribuzione, mantenendo così i prezzi alla portata dei propri clienti. La distribuzione di questi sussidi su larga scala da parte delle imprese industriali ne determinò la sempre più raf- finata codificazione formale, mentre le crescenti esigenze di normalizzazione didattica espresse dagli organi centrali della pubblica istruzione determinarono i presupposti per la proliferazione di sussidi in grado di orientare in tal senso le pratiche educative degli insegnanti, la cui storica libertà d’insegnamento fu pertanto circoscritta, con propositi di guida, ma anche di controllo.

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Commercialisation of childhood during the Libyan War. 1911-1912

La mercificazione dell’infanzia nella guerra di Libia. 1911-1912

The aim of this essay is to analyse the deep relationships between consumerism, education and national iden- tity in the Italian childhood during the Libyan War. A mass mobilisation that involved every interest of the growing generations, from literature to advertising, from cinema to toys, from traditions to school system. Childhood was forged at school in the name of the conquer; for this reason, the proliferation and circulation of illustrated notebooks was essential in order to understand the diffusion of stereotyped depictions of the military campaign. Even the school papers could highlight the quality of synergies between introjection of war and the vision given by the school system. Alongside the school, the childhood commercialisation was a fundamental part of the nation building process; for the first time, children were a tool of consumerism for a rising petit-bourgeois society. The evocative potential that the colonial conflict had on children was immedi- ately perceived by many commercial companies, which considered the war a model and an occasion for gain. Il presente contributo ha come obiettivo studiare le profonde relazioni che sussistono tra consumismo, educazione e identità nazionale nell’infanzia italiana alle prese con la guerra di Libia. Una mobilitazione di massa che ha abbracciato ogni singolo interesse delle generazioni in formazione, dalla letteratura alla pub- blicità, dalla cinematografia ai giocattoli, dal costume fino alle istituzioni scolastiche. Sui banchi di scuola l’infanzia viene forgiata in nome della conquista: la proliferazione e la circolazione di quaderni scolastici illustrati sul tema della guerra sono per questo motivo centrali al fine di comprendere la diffusione di rap- presentazioni stereotipate della campagna militare. Anche gli elaborati scolastici possono rivelare la qualità delle sinergie tra introiezione del fenomeno bellico e l’immagine offerta dall’istruzione. Al pari della scuola, è la mercificazione dell’infanzia al centro del processo di nation building: per la prima volta il bambino di- venta veicolo potenziato di consumismo per una società piccolo borghese in ascesa. Il potenziale suggestivo che il conflitto coloniale ha sui bambini è percepito istantaneamente da diverse aziende commerciali, le quali vedono nella contingenza bellica un modello e un’occasione di profitto. Key words: childhood, colonialism, consumerism, school, Libya, advertising, mobilisation. Parole chiave: infanzia; colonialismo; consumismo; scuola; Libia; pubblicità; mobilitazione.

Lo stato degli studi

La campagna coloniale per la conquista della Libia ha investito la società italiana in ogni suo aspetto quotidiano, includendo per la prima volta in maniera massiccia l’infanzia nel processo di creazione dell’identità nazionale. Nel 1911-1912 i più piccoli diventano veicolo consumistico nell’ambito di una mobilitazione di massa inedita e per- vasiva. La ricerca storiografica ha sostanzialmente ignorato questo fenomeno, tendendo

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 119-141 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.67 Graziano Mamone, [email protected] (Università degli Studi di Genova)

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a preferire un’indagine basata sulla mobilitazione bellicista dell’infanzia, con particolare attenzione ai processi di nazionalizzazione attivati dalla Prima guerra mondiale o esaspe- rati dal fascismo per il caso italiano (Audoin-Rouzeau 1993; Heywood 2001; Montino 2004; Gibelli 2005; Gabrielli 2016). Inoltre soltanto una minima parte di questi studi ha studiato le relazioni tra propaganda patriottica e gioventù in ambito coloniale e ancor più rari sono stati gli approfondimenti dedicati alla guerra di Libia. L’argomento è inol- tre trattato da singole prospettive metodologiche o interpretative che fuggono da una sintesi capace di restituire la complessità della questione. Lacuna assai insolita se pen- siamo alla persistenza della propaganda colonialista rivolta ai più piccoli nel contesto di quella guerra e alla dimensione totalizzante del coinvolgimento giovanile. Un primo approccio alla materia era stato fornito nel 1994 da Rosalia Franco che analizzava la rappresentazione della guerra di Libia tramite le pubblicazioni de «La domenica dei fanciulli» con l’intento di descrivere la fisionomia piccolo-borghese del- le famiglie di lettori (Franco 1994). Attraverso la caratterizzazione dei personaggi, l’insistenza sul conformismo e l’interpretazione dicotomica male-bene, Franco dimo- strava come la rivista veicolasse un messaggio educativo ben definito, dove il selvaggio era posto alla stregua di un deviato e dove l’inferiorità poteva essere riscattata solo con la sottomissione all’Italia civilizzatrice. Il tutto confezionato non senza compiacente brutalità, con la proposizione di immagini violente allo scopo di innescare orrore e facili sentimentalismi. In quegli stessi anni Mario Isnenghi descriveva «L’infanzia nazionale» in un fon- damentale studio sull’identità italiana durante il regime fascista (Isnenghi 1996, 216- 217). Soffermandosi su «Orlando e Rinaldo in Libia», romanzo educativo firmato Maria Savi-Lopez ed edito nel 1919 dalla Salvatore Biondo di Palermo, lo storico sottolineava l’importanza di un’opera capace di mescolare armoniosamente elementi della tradizione popolare e della modernità, il tutto riletto in un’ottica colonialista. Risale al 1998 un contributo assai interessante di Andrea Fava dedicato alla com- prensione dei meccanismi di strumentalizzazione dell’infanzia in contesto bellico (Fava 1998). Pur non affrontando direttamente la questione libica, il testo suggerisce alcune riflessioni metodologiche avanguardistiche dove la rappresentazione infantile è intesa nel suo processo di incorporazione patriottica progressiva. Sull’impatto della stampa periodica giovanile nella costruzione di una coscienza nazionale rifletteva nel 2001 Juri Meda, il quale rimarcava l’influenza del «Corriere dei Piccoli» sulla gioventù italiana borghese e sui modelli di comportamento proposti in occasione delle guerre del Novecento (Meda 2001). Meda si concentrava inoltre su orientamenti e temi del «corrierino» durante la guerra di Libia pur ammettendo la necessità di un approfondimento. Nel 2003 il panorama degli studi si arricchiva con uno studio curato da Nicola Labanca sul colonialismo italiano in Libia letto attraverso i manuali scolastici dal 1911 al 2001. Una ricerca importante che indagava la continuità e le rotture della rappre- sentazione coloniale negli strumenti didattici. Nel merito il volume rimarcava la tem- pestività – se non persino l’istantaneità – con cui la guerra di Libia era stata accolta nei manuali e la persistenza della sua stereotipizzazione. In questo senso il biennio

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1911-1912 registra un’uniformità totale nelle modalità del racconto nei libri per la scuola: mutano soltanto gli accenti, che indugiano ora sullo scontro di civiltà, ora sul diritto storico alla conquista (Labanca 2003, 26). L’anno successivo Enzo Laforgia produceva un’interessante analisi sul rapporto tra colonialismo e formazione identitaria infantile (Laforgia 2004). Il saggio inquadrava gli stilemi narrativi della letteratura per ragazzi alle prese con il colonialismo in Libia in una prospettiva longue durée. Per Laforgia gli editori hanno cavalcato un ben de- finito genere di consumo che si è dimostrato sempre più fortunato, dove l’esotismo e il fascino per l’ignoto hanno fornito il retroterra ideale per interpretare la conquista. Il testo individuava in ultima analisi tematiche importanti nell’economia dell’editoria infantile alle prese con la conquista libica ma si avvaleva di un numero esiguo di fonti, soprattutto romanzi d’avventura. I tempi storiografici sembravano maturi per un’opera di sintesi che infatti arrivava nel 2005 con il Popolo bambino di Antonio Gibelli, testo che coglieva l’estrema im- portanza del rapporto tra infanzia e mobilitazione patriottica, dove ad una naziona- lizzazione della gioventù era fatta corrispondere una parallela infantilizzazione delle masse. Nello specifico la guerra di Libia era intesa come prima accelerazione nel fe- nomeno di arruolamento – mentale e fisico – dell’infanzia a livello massivo in Italia (Gibelli 2005). Sulla stessa linea d’onda si attestava Francesca Cesari che nella sua Nazione figu- rata tentava di misurare il grado di influenza degli illustratori per la stampa infantile nello sviluppo di una coscienza nazional-patriottica (Cesari 2007). In questo volume la guerra di Libia era sì compresa nella riflessione, ma non era intesa come prepon- derante punto di partenza. Essa costituiva soltanto un prologo dove sono presenti in nuce alcuni motivi tipici della propaganda nazionalista della Grande Guerra. Cesari parlava insomma di «prove di seduzione» dell’infanzia nella guerra coloniale laddove sarebbe stato forse più pertinente discutere di rapporto oltremodo consumato. Un contributo non marginale allo studio di alcuni aspetti della questione giungeva poi da saggi diversi, come quello di Paolo Alfieri sul ruolo della rivista «L’Eco degli Oratorii» nell’educazione patriottica della gioventù cattolica tra il 1907 e il 1917 (Al- fieri 2008). Lo studio dedicava alla guerra di Libia diverso spazio mettendo in risalto da un lato le attività assistenziali dei cattolici italiani in Libia, dall’altro la glorificazio- ne dei salesiani arruolati nella fila dei cappellani militari. Nel 2010 la ricerca si ampliava abbracciando la questione dei quaderni scolastici, in particolar modo l’estetica e i messaggi patriottici veicolati dalle copertine illustrate. Luigi Marrella affrontava la questione ponendo l’accento sul valore mediatico del quaderno nell’indottrinamento infantile (Marrella 2010). La sua era un’analisi ricca che si basava su un ampio numero di quaderni ma che non si spingeva oltre la de- scrizione delle copertine. Mancavano pertanto gli elementi per un approfondimento sul ruolo degli editori, gli illustratori e le tirature di stampa. Sull’argomento tornava l’anno successivo in una monografia che per la guerra di Libia vantava un eccezionale campionario di soggetti e temi (Marrella 2011). Ancora nel 2010 era Luisa Lombardi a contribuire con un approfondimento del

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tutto particolare sulle proiezioni luminose (diapositive, film) come strumento di sup- porto alla didattica. In questo contesto la guerra di Libia era descritta come prima occasione di applicazione pratica della proiezione con finalità educative (Lombardi 2010). Il centenario della guerra nel 2011 non ha determinato – salvo in rare occasio- ni – una rilettura problematica del conflitto per la conquista della Libia, e ciò si è riverberato anche sulla (mancata) riconsiderazione della mobilitazione dell’infanzia nel 1911-1912. Allo stato presente della ricerca storiografica si avverte un interesse crescente verso la materia ma l’assenza di una sintesi che ponga l’assoluta centralità della questione nell’ambito dello sviluppo di una coscienza patriottica di massa. Costituisce un’eccezione l’attenzione che Gabriele Proglio ha dedicato all’infanzia nel suo Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, dove una parte consistente del lavoro è incentrata sul mondo scolastico ai tempi del conflitto e sulla letteratura per bambini e ragazzi (Proglio 2016). Proglio sembra in questo senso aver colto piena- mente l’importanza dell’infanzia nel processo di nation building italiano, esaminando analiticamente il trasferimento di valori dal mondo degli adulti a quello dei bambini. Una disamina delle pedagogie di guerra attraverso la stampa periodica dedicata alla scuola ha altresì fornito all’autore gli strumenti per comprendere politiche didattiche e finalità patriottiche del sistema educativo italiano alle prese con la guerra di Libia.

Il retroterra ideologico

Prima di addentrarci nelle strategie di mercificazione dell’infanzia nel contesto del- la guerra di Libia, è essenziale calarci nello spirito del tempo cercando di cogliere qua- li siano i motivi della propaganda colonialista dedicati alle nuove generazioni e quale sia il retroterra ideologico nel quale si innesta la spinta consumistica. Il conflitto è stato presentato agli occhi dell’opinione pubblica come una passeggiata militare, una facile impresa capace di sublimare desiderio di conquista, eroismi romanzati e avven- tura. Tale proiezione è assimilata dai combattenti che in molte delle loro produzioni testuali descrivono la chiamata alle armi come occasione di crescita individuale a sfon- do ludico. In questo senso il fronte rappresenta una sorta di iniziazione, un rituale di passaggio che si concretizza con il battesimo del fuoco e il ritorno vittorioso in patria. Se la guerra è un gioco da ragazzi, allora a buon titolo i bambini possono esserne i protagonisti. Il potenziale suggestivo della campagna militare si dimostra trascinante, e l’entusiasmo dilaga tra i più piccoli che iniziano ad interessarsi costantemente alle vicende belliche, accalorandosi ad ogni vittoria italiana o sdegnandosi di fronte al martirio degli eroi (“Piccoli patriotti”, in Corriere dei Piccoli, n. 4/1912). La volontà irrefrenabile di partecipare alla conquista diventa un motivo ridondante nella stampa giovanile, la quale veicola istinti bellicisti che non hanno limiti di età. Per prendere parte alle operazioni militari i giovanissimi sono pronti a tutto, persino a fuggire di casa e nascondersi nella stiva di un piroscafo diretto verso la Quarta Sponda. Sottrarsi al rigidismo familiare e scolastico è eccezionalmente possibile: l’infrazione delle regole

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è tollerata ed anzi per certi versi stimolata da un immaginario patriottico che voleva una madre senza lacrime né rimpianti per i figli diretti al fronte. Il contributo dei più piccoli alla causa colonialista assume anche forme di mu- tualismo economico, soprattutto in occasione delle feste natalizie del 1911 quando i fanciulli d’Italia – «rinunciato al balocco e al divertimento desiderato con ardore» – offrono i loro risparmi ai soldati (Fortuzzi 1912, 59). Anche le bambine vengono ar- ruolate nel grande processo di mobilitazione dell’infanzia, affascinate soprattutto dal desiderio di emulare la duchessa d’Aosta, impegnata come crocerossina a bordo della nave ospedale Memphi. La volontà di strappare ai maschietti il dominio assoluto sul gioco-guerra si trasforma così in opportunità di legittimazione sociale: se nella realtà della campagna militare le donne hanno un ruolo necessariamente marginale, «nella guerra per ischerzo, alla donna – o meglio alla bambina – tutto è permesso. Se un giorno le viene in mente di travestirsi da bersagliere e simulare assalti alla baionetta e fuochi micidiali, nessuno pensa ad impedirle l’innocuo divertimento» (“La guerra in gonnella”, in Corriere dei Piccoli, n. 24/1912).

Figura 1. Il travestimento a tema libico di alcune bambine. Fonte: “La guerra in gonnella”, in Corriere dei Piccoli, n. 24/1912.

Il dato interessante è in tal senso l’uniformità tra il linguaggio della propaganda uf- ficiale e quella infantile. Si registra quasi sempre una netta semplificazione delle cause belliche per renderle chiare e ovvie agli occhi dei bambini e non solo. Le spiegazioni sulla natura del conflitto sono pertanto ridotte ad una risposta necessaria e automatica di un paese civile nei confronti delle barbarie. Un altro motivo topico è legato alla ri- spettabilità della nazione italiana, attaccata e infangata perché ritenuta debole. Ne La Guerra di Libia narrata ai fanciulli le ragioni dell’intervento italiano sono riconducibili alla difesa dell’onore patrio, alla naturale espansione mediterranea del Bel Paese, alla spinta civilizzatrice degli eredi dell’antica Roma (Fabiani 1914).

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L’insistenza sull’inevitabilità della guerra ritorna anche nelle storie divulgative de- stinate alla gioventù. Questo aspetto emerge chiaramente da In Libia. Letture per Gio- vinetti dove l’autore ambisce a far comprendere ai ragazzi «il perché di questa guerra, e […] se essa era giusta e se valeva la pena che noi spendessimo denaro e sangue per quelle terre lontane» (Fortuzzi 1912). Nel volume è dunque spiegata la necessità di un’impresa militare inquadrata in un contesto educativo dove la geografia, la storia e l’economia della Tripolitania e della Cirenaica sono tutti elementi validi a giustificare la partenza dei soldati. Una narrazione semplicistica ed un’impostazione divulgativa hanno garantito an- che la fortuna editoriale di Angelo Magni che nel 1912 dava alle stampe La gloriosa conquista proprio mentre il suo precedente Tripoli nostra! raggiungeva le quaranta- mila copie tirate. Così la casa editrice «Libreria Scolastica Nazionale» pubblicizzava il piccolo best seller: Dopo la conquista della Libia, sorge in tutti il dovere di conoscere un po’ la nuova provin- cia italiana. Ai ragazzi specialmente queste nozioni sono indispensabili. Essi devono saperne qualche cosa più di quanto ne dicono e non ne dicono i manualetti di geografia. E bisogna pure che abbiano qualche notizia di quella gente lontana, bianca, nera, olivastra, che viene in certo modo a far parte della cittadinanza italiana; sapere il suo costume, le sue abitudini, le sue virtù, i suoi difetti, quello che ama, che non ama affatto, che dovrebbe amare di più. (Magni 1912, 77). È indirizzato ad un pubblico apparentemente più puerile La conquista della Libia narrata ai giovani di Orazio Pedrazzi ed edito per i tipi Bemporad. Il taglio letterario sembra infatti adatto ad un target giovanissimo, al quale l’autore rivolge spiegazioni banalizzanti e pienamente tipizzate. Con la stessa casa editrice è inoltre pubblicata La guerra libica descritta nelle lettere dei combattenti di Baccio Bacci (Bacci 1912). Si tratta di una raccolta di lettere provenienti principalmente dal «Nuovo Giornale» di Firenze. Il fatto che numerosi testi siano tratti da un giornale per adulti conferma il livellamento narrativo che agisce su un pubblico indistinto composto da adulti-bam- bini e bambini-adulti. Il piano dell’opera è messo per iscritto nelle preliminari «Poche considerazioni che non saranno inutili» dove il libro viene descritto come un insieme di pagine umili ma sincere, vergate sul campo si battaglia da fanti più avvezzi al fucile che al lapis (Bacci 1912, V). In quel contesto Bacci ammette di non aver migliorato i testi più sgrammaticati al fine di far emergere la presunta genuinità degli scritti. L’espediente delle lettere non corrette aumenta l’interesse del lettore-scolaro alle prese con una disciplina della scrit- tura momentaneamente sospesa per un ideale più grande. Nel volume i soldati italiani vengono presentati con tutti i cliché del caso, rimarcando l’allegria e la spensieratezza del loro agire bellico (Bacci 1912, VII). Non mancano i riferimenti alla violenza e alla guerra che l’autore prontamente si preoccupa di giustificare. In particolare tenta di spiegare la «bramosìa di uccidere» di taluni combattenti in quanto risposta natura- le contro un nemico crudele ed empio (Bacci 1912, VII). Nel tentativo di superare l’imbarazzo, Bacci invita infine i piccoli lettori a concepire la crudeltà come scelta indispensabile (Bacci 1912, XV).

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Civiltà e barbarie

L’elemento che più sovente caratterizza la retorica colonialista dedicata ai minori è la rappresentazione del conflitto come scontro tra civiltà e barbarie. Tale imposta- zione dicotomica offre una lettura semplificata delle contingenze belliche e garantisce una più spontanea adesione alla campagna militare. L’immagine che viene fornita ai bambini è quella di un popolo libico inferiore per razza, concentrato di mancanze e vizi, incapace di pensare o di esprimersi ragionevolmente. L’alterità viene de-umaniz- zata e in alcuni casi persino bestializzata allo scopo di legittimare la violenza contro di essa. L’espressione fisica della grettezza degli arabi sarebbe inoltre data dalla loro scarsa pulizia: la propaganda igienica rivolta agli infanti fa così da sfondo alla cele- brazione della civiltà italiana diventando ulteriore pretesto per l’occupazione militare (Proglio 2016, 272-283). La Gloriosa conquista di Angelo Magni, per esempio, è presentata agli occhi dei bambini come una vittoria del progresso sull’arretratezza, fardello dell’uomo bianco che ha il dovere di educare gli abitanti della Quarta Sponda e «farli onesti e buoni, tut- ti, anche coloro che scorrazzano oggi per il deserto nutrendosi di rapine e di sangue» (Magni 1913, 76). Nell’argomentazione colonialista la guerra è dunque mossa in nome della civiltà e per questo deve essere bene accolta dalle genti locali che fino a poco tempo prima si trovavano assoggettate alla Sublime Porta e «angustiate dalla miseria, dal fanatismo religioso, dalle malattie e dal sudiciume […]» (Bacci 1912, XIII). L’in- curia ottomana nei confronti della Tripolitania e della Cirenaica ha ripercussioni anche sulla fertilità del terreno, abbandonato e insterilito dai turchi che «oppressero sempre la popolazione e la impoverirono, invece di creare strade e ferrovie e di incrementare l’agricoltura; ma dipende anche dalla ignoranza degli abitanti e dalla vita quasi barbara che essi conducono» (Fabiani 1914, 3). Le stesse tradizioni arabe sono percepite come stravaganti, palesi espressioni di una sensibile deficienza culturale. A tal proposito, nel- le sue Letture per giovinetti dedicate all’impresa coloniale, Godoleva Fortuzzi descrive le pratiche rituali islamiche come «usanze bizzarre» (Fortuzzi 1912, 38). A configurare la costruzione dell’alterità libica è soprattutto il famigerato cliché del «tradimento» innescato dalla rivolta di Sciara Sciat, vicenda intorno alla quale la stam- pa periodica italiana ha edificato una potente mitologia dell’attacco vile e inaspettato. L’elemento topico non può che esercitare un fascino charmante anche sui bambini, facilmente impressionabili di fronte a colpi di scena e spannung narrativi. Viene così a crearsi una sorta di italianità per contrasto, dove a spiccare nettamente sono le doti civilizzatrici del Bel Paese, la sua superiorità tecnologica, l’invincibile eroismo dei suoi soldati. Permane la visione di una guerra-gioco almeno fino a Sciara Sciat, una dimensione ludico-bellica capace di far leva sul piccolo pubblico affascinato dalla leggerezza e dalla gioia combattiva dei militari. Giovani «impavidi, coraggiosissi- mi, mattacchioni» che non temono nulla, valorosi guerrieri capaci persino di estrarsi le pallottole dalle carni (Fabiani 1914, 14). Il nemico è di conseguenza rappresentato sempre in termini di inferiorità, irriso da soldati che sono eroi e burloni al contempo. Emblematico il racconto su alcuni bersaglieri che, utilizzando un fantoccio di paglia,

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stuzzicano la trincea turco-araba (Fabiani 1914, 20-21). Trasformata la guerra in uno scontro tra civiltà e barbarie, la stampa colonialista per bambini accentua il proprio carattere razzista con l’incedere della campagna mi- litare. Dalle colonne del «Corriere dei Piccoli», per esempio, emergono diverse rico- struzioni ad uso e consumo dell’infanzia dove la violenza sul prossimo si trasforma in gioco divertente. La voglia di uccidere i turchi anima in questo senso il piccolo Franco Trevisini che corre ad appostarsi dietro un muracciolo ed aspetta do poter ‘macciare il tucco’. Aspet- ta… fino al passaggio di qualche lucertola che lo mette in fuga come un turco autentico. Ma il guerriero non confessa mai queste sue fughe: ‘Son scappato – egli dice – pelchè elo stanco d’aspettale il tucco’. (“La guerra in Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 34/1912). In un altro articolo del settimanale milanese dedicato al ruolo degli animali in guer- ra, viene inserita quale «creatura di nuovo genere» un sudanese intento a rovistare nella spazzatura dell’accampamento italiano: chi scrive si augura possa trovarvi del sapone per potersi finalmente lavare (“La guerra e i quadrupedi”, in Corriere dei Pic- coli, n. 22/1912).

L’immagine dell’infanzia libica

Prendersi cura dei bambini arabi, educarli secondo i costumi e le tradizioni italiane, impartire loro le più elementari norme igieniche: nella retorica colonialista la stra- da verso una colonizzazione totale passa attraverso l’indottrinamento di ogni aspetto della quotidianità. Nelle argomentazioni utili ad avvallare l’impresa, i fanciulli della Tripolitania e della Cirenaica sono infatti i più disposti «a comprendere la bontà e le affettuose intenzioni di chi si offre come amico» (“I piccoli amici dei nostri soldati”, in Corriere dei Piccoli, n. 4/1912). In questa chiave interpretativa sono essi a percepire immediatamente la generosità di un corpo di occupazione che si dedica a loro con trattamenti sanitari, offerte di cibo e vestiti, istruzione scolastica. L’apoteosi di questo processo di acculturazione imperialista è costituita dall’ado- zione di alcuni bambini libici da parte dei soldati italiani. Dalle colonne dei giornali piovono casi di gesti compassionevoli, come quello «della piccina che bisognò strap- pare con la forza al bersagliere che l’aveva adottata, e da cui essa non voleva più di- staccarsi a nessun costo […] [oppure del] ragazzetto arabo che seguì il suo protettore italiano fin sul piroscafo che doveva ricondurlo in patria» (“I piccoli amici dei nostri soldati”, in Corriere dei Piccoli, n. 4/1912). I piccoli abitanti della colonia devono insomma essere eternamente riconoscenti nei confronti dei nuovi arrivati. Soltanto loro sono in grado di superare la diffidenza dei padri e imparare ad amare l’Italia che «insieme con i cannoni ed i soldati, ha portato una civiltà che farà fiorire il loro paese finora miserrimo» (“Italiani a Tripoli e Tripolitani in Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 11/1912). In quest’ottica, i combattenti instaurano con i minori in Libia rapporti ambigui, a metà tra l’attrazione umanitaria e la repulsione razzista. Si veda il caso esemplificativo

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del sergente maggiore Martinez, il quale, in una lettera alla famiglia, comunica che da qualche giorno «possiede» un piccolo sudanese. Il bambino lo pedina costantemente quasi fosse un cane, e nonostante dalla corrispondenza del militare traspaia un sen- timento genuino, in ultima istanza egli commenta: «se tu lo vedessi è un vero orrore, brutto, il vero tipo del scimione, fra qualche giorno mi farò fare una istantanea insie- me al mio fido Alì del quale al contrario poco mi fido» (Duncan 2012, 26). Discorso simile per il soldato Polcri che ha maturato con un piccolo arabo un rap- porto ambivalente tra solidarietà e diffidenza. Ai suoi occhi il bambino rassomiglia ad «un cagnolino che salta sempre alle gambe del padrone e fa e chiede le carezze», ma al tempo stesso rappresenta di fatto l’unico affetto di Polcri «in questa terra di Caino: è il fiorellino gentile di questo letamaio»1. Meno compassionevole sembra essere il sentimento che l’infermiera Vittorina Gni- fetti della nave ospedale Memphi rivolge a una giovanissima araba accolta a bordo. La piccola è ritratta come un essere brutto e sospettoso per natura, cattivo geneticamen- te, capace solo di comportamenti irrazionali e smisurati. Le sue stesse fattezze paiono dimostrarne il carattere demoniaco. Si configura così una rappresentazione contra- stante che vede da una parte il disordine e l’eccesso dell’alterità, dall’altra l’azione ordinatrice italiana (Gnifetti 1911, 39-40). In quest’ottica lo strumento di italianizzazione per eccellenza è costituito dall’isti- tuzione scolastica. Il governo militare si preoccupa dell’istruzione dei piccoli libici insegnando loro l’italiano affinché possano diventare sudditi del regno a tutti gli effetti (“Scuole arabe nella nuova Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 15/1912). Nell’immagi- nario della conquista educare i piccoli libici è fondamentale: mentre la loro fiducia si può ottenere o comprare, i loro genitori rimangono traditori, e benché «non sapranno forse spiegarsi il perché della diffidenza che è nei loro parenti, e tanto meno compren- deranno la ostinata inimicizia di molti contro di noi», gli scolaretti si applicano con costanza allo studio dell’italiano (“Piccoli sudditi della nuova Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 30/1912). Questa visione pedagogica non esula tuttavia dal persistente giudizio etnocentrico che continua a dipingere l’infanzia libica con tutti i suoi connotati di scarsa pulizia, povertà ed opportunismo. La nuova generazione è infatti composta da «adolescenti sporchi e laceri fin che si vuole, ma intelligenti e birichini che giuocando e razzolando tutto il giorno fra la polvere delle strade, offrono i loro piccoli servigi […] e trovano altri cento pretesti per speculare sul vostro buon cuore e carpirvi qualche soldo che in mancanza di tasche solitamente nascondono in bocca» (“La piccola banda del Ga- rian”, in Corriere dei Piccoli, n. 41/1912). È in sintonia con questa immagine anche la rappresentazione dell’infanzia libica che emerge da Il volto della guerra di Luigi Lucatelli, dove i fanciulli sono descritti come «angioletti sudicioni» capaci di insinuarsi ovunque, rimediando però più pedate che consigli. Permane in loro solamente una «diffidenza selvatica» che accomuna gli infanti a bestie impaurite (Lucatelli 1912, 149-150).

1 archivio Diaristico Nazionale, Epistolario Polcri Aldo, E/86.

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Una vicenda esemplare

Costruita l’alterità libica e per contrasto l’identità italiana, la mobilitazione dell’in- fanzia ha ora bisogno di un caso esemplare che assurga a modello di sacrificio pa- triottico per le giovani generazioni. La storia ha una fortissima carica patetica: Carlo Fenili, orfano di padre e madre, vive solo e in condizioni indigenti per le strade di Ancona. Tramite l’interessamento delle autorità, viene accolto in riformatorio benché non abbia commesso reato alcuno. Buono e generoso, Carlo si dedica intensamente agli studi ed entra nelle grazie del direttore, il quale decide di adottarlo. Per la condot- ta ammirevole e i risultati scolastici raggiunti, ottiene un riconoscimento ufficiale ed un premio in denaro che a sorpresa decide di devolvere per i soldati italiani in Libia. Pochi giorni dopo il gesto encomiabile, il ragazzo si ammala e muore precocemente. Sin da subito la stampa lo consacra ad esempio di amor patrio per l’intera infanzia italiana, commemorandone la figura in ogni suo aspetto (“L’eredità di un orfano ai soldati d’Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 11/1912). Il processo di celebrazione di Fe- nili assume infine carattere monumentale tramite un complesso marmoreo da erigersi all’interno della Casa di correzione e finanziato da una sottoscrizione pubblica (“Un monumento a Carlo Fenili”, in Corriere dei Piccoli, n. 33/1912).

Figura 2. La copertina di un libro in memoria di Carlo Fenili. Fonte: Guatteri, Gualtiero. 1912. L’Eredità di un orfano ai soldati d’Italia. Con un’epigrafe di Giovanni Rosadi. Firenze: Tipografia G. Ramella.

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Fenili lascia dunque alla comunità due eredità: una pecuniaria destinata ai combat- tenti, ed una morale rivolta ai coetanei. Anche Baccio Bacci ne La guerra libica descrit- ta nelle lettere dei combattenti vuole ricordarlo in quanto simbolo della «generosità del popolo italiano» (Bacci 1912, XVI). La larga eco della vicenda si deve soprattutto alla pubblicazione de L’Eredità di un orfano ai soldati d’Italia di Gualtiero Guatteri, che nel 1912 poteva contare già diciotto edizioni. La piccola biografia romanzata si apre con una dedica significativa rivolta «Ai ragazzi d’Italia perché l’esempio di Carlo Fenili germogli e fiorisca nell’avvenire» (Guatteri 1912, 2). La costruzione dell’exem- plum passa attraverso la descrizione dei primi anni di vita del ragazzo alle prese con la prematura scomparsa della madre ed un padre violento e alcolizzato, anch’egli desti- nato a soccombere poiché travolto fatalmente da un carro dopo una serata di eccessi. Inizia così «l’odissea del piccolo martire», costretto a elemosinare per un anno finché non viene affidato ormai dodicenne al riformatorio (Guatteri 1912, 7). «Faccia maci- lenta e sparutina», Fenili riscatterà una vita miserabile attraverso la buona volontà e l’abnegazione, distinguendosi per un indefesso «culto dell’onestà e della delicatezza» (Guatteri 1912, 7 e 23). La storia esemplare di Carlo Fenili rappresenta un modello affascinante di purezza e forza d’animo. Un altro elemento narrativo interessante è l’insistenza sul suo analfa- betismo originario: l’ignoranza e la semplicità sono funzionali ad accrescere l’impatto del grande gesto caritatevole di cui sarà protagonista. Per la buona volontà e l’impe- gno Fenili dunque migliora, diventa «soldato dello studio ed un alunno esemplare» (Guatteri 1912, 49). L’elevazione rispetto ad una condizione di partenza umiliante è lo spunto per la lotta contro le avversità. Si preparano insomma tutti gli elementi affin- ché la monumentalizzazione del personaggio – figurata per ora, marmorea in seguito – sia completa. Sarà infine la morte ad eternare il suo gesto: Fenili è ora «il simbolo più schietto di questo ringagliardirsi di amor patrio nella gioventù italiana» (Guatteri 1912, 63).

Sui banchi di scuola

Per completare il complesso quadro della preparazione dell’immaginario infanti- le nell’ambito del circuito propaganda-consumo, è infine indispensabile gettare uno sguardo sulle istituzioni scolastiche. La proliferazione di quaderni illustrati sul tema della guerra di Libia e la loro straordinaria circolazione tra gli alunni delle scuole per l’infanzia, sono state già oggetto di studio soprattutto per ciò che concerne l’aspet- to grafico (Marrella 2011). Emergono rappresentazioni stereotipate della campagna militare e un grande utilizzo di simboli e allegorie che mostrano la contaminazione di modelli figurativi tra cartoline illustrate e copertine. Tra i temi più ricorrenti tro- viamo episodi eroici, battaglie vittoriose, marinai, bersaglieri, ascari, rovine romane, tricolori, aeroplani e dirigibili, bombardamenti navali e aerei, immagini tipizzate della popolazione libica. Un’altra fonte privilegiata per indagare la percezione infantile della guerra e la pro-

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fondità della propaganda coloniale nei bambini, sono gli elaborati scolastici. Temi, dettati e racconti possono infatti rivelare la qualità delle sinergie tra introiezione del fenomeno bellico e l’immagine offerta dell’istruzione. A titolo esemplificativo posso- no essere considerati i quaderni di Teresa Dutto, alunna delle scuole elementari di Borgo San Dalmazzo (Cuneo)2. In essi troviamo compiti ed esercitazioni narrative che richiamano l’impresa libica e che possono contribuire a comprendere quale ruolo abbia avuto la guerra nell’educazione e nella fantasia della bambina. In uno di que- sti, alla scolaretta viene chiesto di comporre un breve racconto sul passaggio di un suonatore di organino per le vie del paese. Nell’economia dello scritto il riferimento all’artista di strada funge soltanto da pretesto narrativo ma è interessante la caratte- rizzazione che l’autrice conferisce all’organino «che suonando faceva passare i quadri della guerra Italo – Turca»3. L’accenno è marginale ma significativo poiché restituisce un episodio che ha evidentemente colpito l’immaginario della scrivente. In particolare la performance accompagnata dall’esibizione di alcuni quadri con soggetto bellico rimanda ad una narrazione codificata e scenografica ad uso e consumo dei più piccoli. In un’altra esercitazione scritta, all’autrice è chiesto di scrivere una lettera ad un inquilino del proprio appartamento per ottenere un aumento del canone di affitto. Lo svolgimento è interessante perché proietta le difficoltà economiche innescate dalla guerra nell’immaginario di Teresa. Nell’esercizio la maggiorazione è infatti dovuta alla campagna coloniale, al caroviveri e alla crescita della disoccupazione. Dall’indigenza alla sofferenza, la guerra di Libia invade implicitamente anche la dimensione del lutto. Alla richiesta di un tema incentrato sul motivo del dolore di una bambina durante le feste di paese, Teresa immagina: Ritornano da Tripoli i valorosi eroi. Tutto il piccolo paese di Roccaforte è in festa. Da tutte le finestre e dei balconi sventola il tricolore; le strade sono affollate di gente, la musica suona la festa e una pioggia di fiori cade sui baldi eroi. Tutto il paese è in festa ma nella casa di Paolina si piange. Essi ricordano il triste giorno in cui ricevettero il telegramma che an- nunziava la triste sorte toccata all’amato fratello che combattendo da leone contro quei neri traditori nella battaglia di Ain Zara rimase vittima sul campo di battaglia. I suoi compagni sono ritornati lieti e con grande onore. Ed ora! Ora il caro perduto non c’è più dorme laggiù nel camposanto sotto le zolle straniere, senza né fiori né una visita dai suoi cari. Che triste giorni! Povera famiglia!4.

Gioco e simulazione

La partecipazione dell’infanzia alla guerra di Libia si concretizza con l’adattamento dei giochi e dei contesti ludici ai motivi della propaganda coloniale. Giocare alla guer- ra è un divertimento irresistibile che vede i più piccoli trasporre immaginari collettivi

2 archivio Ligure della Scrittura Popolare, Fondo Scuola, FSMisc. 1, Quaderno scolastico di Teresa Dutto, Borgo San Dalmazzo, 1913. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

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nei loro passatempi quotidiani. Viene così a formarsi una sorta di campagna militare in miniatura utile per «dar sfogo all’entusiasmo bellico di una generazione troppo gio- vane per poter prendere parte alla guerra vera» (“La guerra in Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 34/1912). Per rendere più credibile la rappresentazione, occorre procurarsi gli strumenti adatti: non mancano perciò la «rivoltellina da cinquanta centesimi», i finti cappelli da bersagliere, i mantelli arrotolati ad armacollo, le corazze di cartone e i manici di scopa a colorare numerosi battaglioni di bambini-soldati (“Se anche i bambini…”, in Corriere dei Piccoli, n. 3/1912). Insomma una popolazione mascherata che fornisce prova di patriottismo con tra- vestimenti pittoreschi. Nasce un vero e proprio mercato dei costumi, moda che si dif- fonde negli ambienti borghesi soprattutto grazie alla spinta reclamistica della stampa periodica. Nella grande imitazione guerresca, la violenza non è trascurata e se i bambini «aves- sero un piccolo turco per le mani, farebbero forse sul serio, ma turchi non ne hanno, né grandi né piccini e allora si sfogano sui nemici immaginari» (“I precoci delle belle arti”, in Corriere dei Piccoli, n. 1/1912). Forte è l’immagine di un maschietto di quattro anni talmente infervorato dall’idea di combattere il nemico da costringere il padre a fornirgli un «Maometto di carta, perché lo uccidesse a suo piacere» (“Se anche i bam- bini…”, in Corriere dei Piccoli, n. 3/1912). Non potendo partecipare fisicamente alla guerra, le giovani generazioni devono pertanto trasporla su un altro piano, sia esso il gioco, la scrittura o persino il sogno. Fingersi un combattente ben si presta al contesto carnevalesco inteso come un grande gioco di ruolo dove emergono rappresentazioni tipizzate della guerra. Tra esse spicca una Libia-bambina fortemente sessualizzata, volubile e pronta per essere conquistata.

Figure 3-4-5. Un carnevale dedicato alla guerra di Libia. Fonte: “Carnevale patriottico”, in Corriere dei Piccoli, n. 9/1912.

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La personificazione dell’alterità è decisamente danneggiata durante il carnevale: la difficoltà con cui i bambini accettano di interpretare l’arabo è indice di un rifiuto tota- le del diverso, il quale viene così escluso dalla dimensione ludica (“Carnevale patriot- tico”, in Corriere dei Piccoli, n. 9/1912). Se l’infanzia si rispecchia nel conflitto degli adulti, allora le trattative di pace e la cessazione delle ostilità sono percepite come una sciagura dai bambini che guardano «con terrore al giorno in cui si farà la pace e non ci sarà più una guerra, una vera guerra, da copiare» (“La guerra in Italia”, in Corriere dei Piccoli, n. 34/1912). Pace è dunque fatta ma i bambini vogliono ancora giocare alla guerra e «non si rassegnano ancora a deporre le armi» (“La guerra dopo la pace”, in Corriere dei Piccoli, n. 44/1912). Ecco allora un fanciullo scontento di non potersi più esercitare con lo schioppo e la sciabola allo scopo, un giorno, di «ammazzare tutti i turchi!» (“La palestra dei lettori”, in Corriere dei Piccoli, n. 45/1912).

Sogno e avventura

Una modalità di mobilitazione bellica dell’infanzia nella guerra di Libia è costituita dall’immedesimazione fantastica. Il tema del sogno emerge per esempio ne La meda- glia di Giulietto dove il piccolo protagonista, impressionato dalla cronaca quotidiana, partecipa in sonno alla conquista militare (“La medaglia di Giulietto”, in Corriere dei Piccoli, n. 11/1912). Nonostante la paura e una certa resistenza iniziale, il richiamo estremo al dovere ne determina l’arruolamento. Si compie così il coinvolgimento emo- tivo delle nuove generazioni alla causa nazionale. La vicenda culmina con un Giulietto nuovo, destato dal sogno e divenuto finalmente uomo e guerriero. Ha connotazione fantastico-avventurosa anche Patria in Libia di Leopoldo Barboni (Barboni 1914). «Patria» è un’automobile, già protagonista di altre avventure itine- ranti (Barboni 1913). Le sue sono gite «patriotticamente istruttive» perché innescano domande e risposte sulla geografia, la storia e la cultura italiana (Barboni 1914, 7).

Figura 6. Sognare la guerra. Fonte: “La medaglia di Giulietto”, in Corriere dei Piccoli, n. 11/1912.

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Lo stesso impianto narrativo è utilizzato per questa versione libica. L’opera declina cliché colonialisti con piglio pedagogico, tra cui spicca l’immagine negativa del mo- vimento antimilitarista contrario alla campagna bellica. Ecco allora che la ricorrenza del 1° maggio diventa «l’ormai consueta festa delle passeggiate igienico-democratiche, dei discorsi mangia-cristiani, delle sassaiole, dei gozzoni e sergezzoni alle guardie di sicurezza, dei banchetti fraterni fraternissimi e delle sbornie» (Barboni 1914, 2). Non mancano scene di violenza dove uno dei protagonisti è colpito al cranio dai dimo- stranti contro i quali aveva ingaggiato un duello a «pugni negli stomachi e pedate negli stinchi […] e giù sangue a catinelle!» (Barboni 1914, 31). La contaminazione tra modello avventuroso e guerra di Libia si concretizza in Pi- stacchio alla guerra di Libia, che racconta la partecipazione al conflitto del piccolo burattino, variante del più celebre Pinocchio (Bencivenni 1914). Attraverso avventure rocambolesche e diversi colpi di scena, anche grazie all’ausilio di personaggi fantastici come Pulcinella e Arlecchino, Pistacchio affronta turchi e arabi, riuscendo infine a so- praffarli. Sempre nell’ambito della letteratura per ragazzi si contano altri due volumi firmati Vittorio Lucatelli che hanno questa volta come protagonista Pinocchio stesso. Nel primo di essi, Pinocchietto soldato a Tripoli, il burattino antropomorfo è un ricco possidente di terreni, sposato, generoso con amici e conoscenti (Lucatelli 1912b). Chiamato alle armi, finirà in Libia a fronteggiare un nemico selvaggio e traditore. Maggiore caratterizzazione bellica ha il secondo volume, Pinocchietto a Sciara Sciatt: qui il soldato eroe contrasta il nemico in un’escalation di violenza che aggredisce il giovane pubblico del libro. Sentì un urlo di dolore, fissò lo sguardo quasi spento: poco lontano da lui due Arabi con dello spago cucivano le palpebre ad un soldato. […] Pinocchietto fu staccato dal palo e but- tato così alla rinfusa in quella fossa da dove uscivano i gemiti che laceravano il cuore. Erano quasi tutti mutilati quei poveri infelici, e Pinocchietto dimandava come mai non gli avessero staccato le braccia o le gambe. (Lucatelli 1912a, 22-23). Il comportamento inumano del nemico giustifica la brutalità della vendetta italiana mentre le ferite riportate in guerra da Pinocchietto gli provocheranno una cancrena e la conseguente necessità di amputazione del femore (Lucatelli 1912a, 22-23).

Pubblicità e guerra

Il potenziale suggestivo che il conflitto coloniale ha sull’infanzia è percepito istan- taneamente da diverse aziende commerciali, le quali vedono nella propaganda bellica un modello e un’occasione di profitto. Il brand «italo-turco» si presta così a trascinare le vendite di numerosi prodotti dedicati ai bambini e non solo. Infatti benché queste merci siano reclamizzate sulla stampa periodica per ragazzi, esse riguardano soprat- tutto i genitori, ossia i veri acquirenti. Non è casuale il fatto che nello stesso contesto vengano proposti articoli dedicati agli adulti. Tinture per i cappelli, dadi da cucina, rivitalizzanti: anche in questo caso la guerra di Libia traina le vendite, come accade

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per esempio per una lavatrice a vapore, la cui pubblicità fa leva sul noto concetto di civiltà da esportare: «Abbasso i sistemi Turchi! Chi non usa ancora la LAVATRICE A VAPORE deve paragonarsi ai nostri nemici neghittosi di ogni sano principio di civiltà» (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 36/1912). Sempre in quest’ottica, l’immagine del vigore e dell’energia dell’esercito italiano è magistralmente piegata ai fini pubblicitari dalla «Compagnia Liebig», azienda pro- duttrice di estratto di carne. Attraverso l’emissione di sei cromolitografie tematiche, la Liebig utilizza la guerra come spot. Le «figurine» esercitano così attrazione nei confronti dei fanciulli i quali le collezionano ed ambiscono a possedere l’intera serie. L’operazione commerciale è volta a colpire immediatamente l’immaginario dei lettori già predisposto dalla propaganda per la campagna militare. L’alimentazione diventa così argomento per la retorica colonialista, fattore culturale di superiorità, veicolo promozionale. «RAGAZZI! Ecco il più bel ricordo della nostra conquista in Libia! […] DITE AI VOSTRI GENITORI di comprarvi questa ricca, elegante e artistica collezione di 12 cartoline che non costa che L. 2»: in questa pubblicità relativa alla commercializzazio- ne di dodici supporti postali a tema, si fa esplicitamente leva sul potenziale persuasivo dei più piccoli (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 33/1912).

Figura 7. Reclame di una serie di cartoline dedicate alla guerra. Fonte: Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 33/1912.

Genitori ma soprattutto figli: in primo luogo sono i giocattoli ad essere adattati alle contingenze storiche, dai pupazzi al gioco dell’oca, dagli indumenti militari ai teatrini di cartone, dai burattini fino alle armi ad aria compressa. In occasione delle festività natalizie del 1911, la Società «Unione Internazionale» di Milano, offre un ampio ventaglio di giochi incentrati sulla guerra. La caratterizzazio- ne degli oggetti che viene offerta in sede reclamistica risponde pienamente ai cliché

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alimentati in continuazione dalla stampa. Tra essi troviamo un bersagliere di stoffa di trentacinque centimetri capace di suonare piatti «col viso raggiante di gioia e d’entu- siasmo», e un turco con fez, anch’egli dotato di piattini, che «cerca di dissimulare la sconfitta agli arabi» ma viene tradito dal «suo volto rabbioso» (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 33/1912). Spicca un sofisticato giocattolo meccanico che riproduce un attacco di un bersagliere con scimitarra sottratta al nemico, e un turco che indietreggia davanti al coraggio del combattente: con movimento automatizzato l’italiano avanza e ferisce mortalmente il nemico che tenta invano di difendersi (Inser- to pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 33/1912). Talvolta il nesso tra guerra e pubblicità non è affatto esplicito. In alcune storie com- parse sul «Corriere dei Piccoli» per esempio, il richiamo alla guerra di Libia identifica un ordine significante legato alla forza e alla vitalità capace di «predisporre» i poten- ziali lettori-acquirenti. Una di queste narrazioni vede protagonista un bambino restio ad assumere l’olio di merluzzo (“Piccoli patriotti”, in Corriere dei Piccoli, n. 4/1912). La madre, facendo leva sull’entusiasmo del piccolo per la guerra d’oltremare, spiega al bambino che qualora avesse bevuto il ricostituente, sarebbe diventato un bersagliere forte. Così il piccolo si convince e «ogni mattino si guarda nello specchio per scorgere sul suo visetto le tracce del benefico effetto della cura» (“Piccoli patriotti”, in Corriere dei Piccoli, n. 4/1912). Ecco allora che molte pubblicità dedicate ai ricostituenti sono richiamate da vicende romanzate di questo tenore. Rendere i bambini robusti per prepararli alla guerra: è il caso, per esempio, del Lecitone, ovvero «l’oro dell’uovo, fosforo fisiologico, alimento di tutte le cellule del corpo umano» (Inserto pubblicita- rio, in Corriere dei Piccoli, n. 7/1912), o della «gustosissima» Eutrofina dell’Istituto Neoterapico di Bologna, soltanto per citarne un paio (Inserto pubblicitario, in Corrie- re dei Piccoli, n. 12/1912).

Figura 8. Pubblicità della Compagnia italiana del grammofono. Fonte: Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 22/1912.

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Largamente piegato alla propaganda bellica è anche tutto il comparto della musica, con dischi patriottici e grammofoni che offrono la dimensione sonora della vittoria italiana. Interessante è in questo senso la pubblicità della «Compagnia italiana del grammofono» di Milano che affida la propria immagine ad un bambino intento a giocare con i soldatini. Da evidenziare la rappresentazione tipizzata della battaglia che emerge dalla semplice disposizione dei giocattoli: i bersaglieri-pupazzi sono in piedi, mentre i turchi giacciono caduti a terra. Tutto ciò accade mentre un grammofono in primo piano emette le note patriottiche di Caruso e Isabeau (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 22/1912). Su questa linea è la reclame del «Panthéfono» la quale mette in vendita dischi con le ultime canzoni, tra cui la celeberrima «A Tripoli» nella versione della star italiana Jole Baroni, già interprete di canzonette di varietà napoletane. Insieme ai dischi sono venduti alcuni supplementi cartacei, che riproducono «scene dal vero della guerra di Tripoli». E ancora si segnala la pubblicità dei «Dischi Patriottici Pathé», in particolare delle due canzoni «A Tripoli» e «Sangue Italiano» incise con la voce dalla famigerata Gea della Garisenda (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 38/1912). Se il patriottismo stimola l’acquisto di prodotti legati all’ambito musicale, è la vio- lenza simulata a sospingere la vendita del «Bersaglio del Turco» (Inserto pubblici- tario, in Corriere dei Piccoli, n. 29/1912). Con sole 3,25 lire i fanciulli possono così appassionarsi nel tentativo di uccidere il nemico, decapitandolo con un unico colpo di pistola. La reclamizzazione del giocattolo rappresenta la sublimazione di istinti brutali ed efferatezze: Quest’impianto veramente geniale è rappresentato da un Turco alto circa cm. 25 che vie- ne fissato all’estremità di qualunque tavolo, sedia o altro sostegno. Con testa in celluloide, fez di panno rosso, fiocco, è il bersaglio più divertente che vi sia per ragazzi, giovinetti, i quali, mediante apposita pistola automatica, uso Brovning, in metallo nero, tirano contro il Turco e se viene colpito dal proiettile proprio nel collo, la testa salta in aria segnando così il centro; altrimenti il Turco colpito in altra parte fa dondolare tutto il corpo avanti e indietro in modo goffo destando l’ilarità del tiratore e dei presenti. La testa si ricolloca poi sul collo per i tiri successivi. Bersaglio adatto anche per sala, essendo interessante per gare di tiro. Completo con Turco e pistola uso Brovning, con proiettile eterno, in elegante scatola L. 3,25 franco. (Inserto pubblicitario, in Corriere dei Piccoli, n. 29/1912)

Immagini in movimento

L’influenza della dimensione guerresca nella definizione di un immaginario e di un mercato infantile passa anche attraverso la moltiplicazione di immagini creative. Una certa produzione iconografica si ravvisa per esempio nelle cartoline illustrate dove l’ampio utilizzo di soggetti puerili legati alla guerra di Libia restituisce un entusiasmo ed una partecipazione visuale non trascurabile. Chiarezza, immediatezza, suggestione: linee guida semplici che consentono al mondo dei bambini di incontrare felicemente l’immaginario bellico. Sono molte le immagini postali di questo tenore, alcune sono state già inserite in un recente catalogo dedicato alla guerra coloniale (Bassi, Labanca

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e Sturani 2011). Tra i motivi che più ricorrono il tema geografico riveste un ruolo di primaria importanza: la cartolina ha funzione educativa perché permette di familia- rizzare con la fisica dei nuovi possedimenti, spesso sanciti dalla presenza dei bambini.

Figura 9. Cartolina illustrata dedicata all’infanzia. Fonte: Collezione privata

La potenza dell’immagine assume carattere figurativo attraverso alcune storie a fu- metti capaci di veicolare istanze belliciste e contribuire alla mobilitazione massiva. Le più fortunate sono due avventure a puntate uscite sul «Corriere dei Piccoli» del 1912, ambedue firmate Antonio Mussino. Nella prima protagonista è Nello, un marinaretto indisciplinato che vuole andare in Libia ad ogni costo. Le vicende seguono tutte lo stesso canovaccio, e vedono il piccolo tentare ogni volta una soluzione diversa per riuscire a raggiungere la Quarta Sponda, finché un imprevisto gli impedisce di por- tare a termine il piano (Corriere dei Piccoli, 1912, nn. 11, 12, 15, 17, 20, 22, 29, 33). Sconsolato ma mai rassegnato, il marinaretto non desiste nonostante ammonimenti e punizioni. Attore sul teatro bellico è invece Gian Saetta, un bersagliere che con furbi- zia cattura i nemici e li conduce all’accampamento italiano. Egli rappresenta agli occhi dei bambini la celebrazione dell’ingegno italico ma in controluce serve a descrivere la presunta stupidità e ignoranza dei turco-arabi. Dalla matita di Mussino nasce anche Schizzo, un personaggio controcorrente che veicola temi antipropagandistici quali la pace e la fratellanza tra i popoli. La forza dell’immagine raggiunge il massimo del proprio potenziale suggestivo nel- le rappresentazioni cinematografiche. Il nuovo medium e il suo indotto economico si avvicinano istantaneamente alla guerra di Libia e non a caso sono diversi i film dedi-

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cati alla campagna coloniale che hanno come protagonisti o come tema centrale figure infantili. Questo si evince per esempio in Cabiria di Pastrone, pellicola destinata ad un pubblico adulto che celebra la romanità proprio all’indomani della vittoria italiana nella guerra di Libia. I riferimenti traslati con l’attualità sono continui e il processo di identificazione dei cartaginesi con i nemici turco-arabi immediato. In questo contesto l’infanzia viene utilizzata come strumento propagandistico e la piccola Cabiria, desti- nata ad essere barbaramente sacrificata al dio Moloch, viene salvata da Fulvio Auxilia e Maciste (Baratieri 2010).

Figura 10. “Nello”, fumetto per l’infanzia dedicato alla guerra di Libia. Esce a puntate nel «Corriere dei Piccoli» del 1912 ed è ideato da Antonio Mussino.

Anche il noto regista Luca Comerio – che ha dedicato diversi documentari alla guerra di Libia in cui emerge il valore dell’esercito italiano e la gloria per la conqui- sta – si avvicina al mondo dei più piccoli. Nel 1912 gira infatti Cocciutelli va in guerra (Kelly in battle, Milano films 1912), soggetto comico che offre una visione demitizzata della campagna coloniale. Il plot esilarante rende il film particolarmente adatto ad un pubblico bambino, ma non mancano costruzione negative dell’alterità, valga ad esempio un piccolo libico trattato letteralmente come un oggetto e posto dentro una valigia soltanto per dimostrare la reale presenza di Cocciutelli in Libia. Dello stesso tenore è Le medaglie di Bidoni di Enrico Guazzoni, prodotto dalla Cines nel 1912 (Baratieri 2010). Bidoni, è un distratto ma affettuoso attendente. De- stinato a partire per la guerra, riceve da Claretta – piccola figlia del colonnello a lui molto affezionata – una medaglia e la raccomandazione di proteggere il padre. Una volta al fronte, il colonnello deve prendere parte ad un’imponente battaglia ma ordina a Bidoni di attenderlo al campo. Quest’ultimo, memore della promessa fatta a Cla- retta, abbandona il campo e corre in suo aiuto salvandolo da morte certa. Per questo gesto Bidoni riceverà una medaglia al valore sul campo che va ad aggiungersi alla più cara ricevuta direttamente dalla piccola Claretta prima della partenza.

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Altri film strizzano l’occhio alla «claque» dei bambini, come Pik Nik odia il turco o Pik Nik vuole andare a Tripoli, ambedue prodotti dell’Aquila Films nel 1912 (Baratieri 2010). Particolarmente interessante è infine la «Guerra Italo turca tra scugnizzi napo- letani» di Nicola Notari. Ambientato nel quartiere Stella della città partenopea, sede degli studi cinematografici della Dora Films, la pellicola vede la troupe assalita dalle madri dei bambini inferocite perché i fanciulli si sono calati troppo realisticamente nella rappresentazione dello scontro armato.

Conclusioni

Sul finire del suo La guerra di Libia narrata ai fanciulli, a pochi mesi dall’inizio della Prima guerra mondiale, Guido Fabiani rivolge un interessante accenno a «Le guerre che dovremo combattere». Nel volume la possibile partecipazione del Paese ad una guerra è presentata come un’eventualità dolorosa ma necessaria. Una triste evenienza alla quale i ragazzi sono ora preparati grazie alla cultura del sacrificio per la patria. E «se domani, suo malgrado, l’Italia fosse costretta a ricorrere un’altra volta alla spada per difendere i suoi diritti», loro saranno i primi ad agire (Fabiani 1914, 32). Immedesimazione, preparazione, azione: l’esperienza della campagna coloniale per la conquista della Libia ha dunque forgiato l’infanzia con la sua mobilitazione massiva. Questo processo formativo, già di per sé oggetto di un’attenzione storiografica mo- desta, non è stato ancora posto in relazione al fenomeno del consumo. In realtà una serie di fattori concomitanti come la formazione dell’identità nazionale in contrasto con l’alterità coloniale, l’ascesa della società borghese e l’incedere della produzione industriale, hanno contribuito a modellare sulla campagna d’oltremare educazione, modelli e costumi. L’attenzione di moltissime aziende commerciali verso il fenomeno Libia dimostra la parallela contaminazione tra linguaggio propagandistico e pubblicità. Pur non po- tendo affermare che il consumismo abbia generato di per sé un’identità nell’infan- zia italiana del 1911-1912, è senz’altro riscontrabile il processo inverso: è infatti la formazione identitaria che ha originato consumi su scala maggiore. Siamo di fronte all’esordio di processi commerciali autonomi in grado di suggestionare in maniera significativa mercati e gusti di quella porzione di società che poteva permettersi i pro- dotti reclamizzati (Gundle 2008). Un mercato sempre più ampio che vede la “libizzazione” della letteratura infan- tile, del gioco, degli strumenti didattici, del costume, della musica, delle immagini e dell’immaginario. Alla base di questa convergenza sottende il medesimo meccanismo del “desiderio”. Tutta la campagna coloniale è in questo senso una metafora del con- sumismo: come la propaganda nazionalista crea il desiderio di conquistare la Quarta Sponda, così il mercato innesta nell’infanzia il desiderio di acquistare oggetti che ri- mandano alla Libia italiana. Un medesimo universo di valori investe i più piccoli, li avvicina idealmente al mon- do degli adulti e ne fa veicoli più o meno consapevoli di mercificazione. Il consumo di-

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venta così un processo formativo non secondario nella nazionalizzazione dell’infanzia, soprattutto grazie all’esordio di nuovi media. Ad esempio la carta stampata, infantile e non, è determinante nella creazione di un sistema di valori largamente condiviso e capace di produrre entusiasmo e partecipazione. La circolarità tra messaggio pro- pagandistico e seduzione commerciale crea in ultima istanza una straordinaria forza centripeta capace di suggestionare le menti di grandi e piccoli.

Bibliografia

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06_MAMONE_119_si_stampi.indd 141 20/12/17 10.34 06_MAMONE_119_si_stampi.indd 142 20/12/17 10.34 Domenico Francesco Antonio Elia

mapping the consumption of gymnastic and sport equipment in Italian school: Trademarks and patents of Italian companies in the age of fascism (1922-1943)

Per una mappatura del consumo degli attrezzi ginnici e sportivi nella scuola italiana: i marchi e i brevetti delle aziende italiane nel Ventennio fascista (1922-1943)

This research aims at investigating Italian sport industry trademarks in the age of fascism through the patented series of the Office of Industrial Property (Ministry of Agriculture, Industry and Commerce; Italian Central State Archives). The research question at the basis of the inquiry are: which gymnastic and sport equipment was available to the organizations of the totalitarian state in charge of physical education in schools (consumers mediators) and to their members (product consumers); which physical and gymnastic activities were promoted to the detriment of others; whether Italian production expanded or not in comparison with the former period. Il presente lavoro di ricerca si prefigge l’obiettivo di indagare le serie brevettuali conservate nell’Ufficio della proprietà industriale (Ministero d’agricoltura, industria e commercio) presso l’Archivio centrale dello stato (Acs) allo scopo di censire i marchi brevettati dall’industria sportiva nel Ventennio fascista e di offrire una risposta ai seguenti interrogativi: quali attrezzature ginnastiche e sportive fossero offerte alle organizzazioni dello Stato totalitario preposte all’educazione fisica nelle scuole (mediatrici del consumo) e ai loro iscritti (consumatori del prodotto); quali attività ginnico-sportive promuovessero a scapito di altre; se, rispetto all’Età liberale, la produzione italiana si fosse ampliata o meno rispetto ai marchi esteri. Key words: patents, sport, sport industry, fascism, material culture. Parole chiave: brevetti, sport, industria sportiva, fascismo, cultura materiale.

Un’introduzione metodologica: verso una storia materiale dei brevetti

Questo saggio prosegue lo studio già avviato nell’articolo Uno strumento di ricerca per la storia materiale sportiva: la banca dati dell’Ufficio italiano brevetti (Elia 2016) e si inserisce all’interno di un filone di ricerca avviato dallo storico David Hamil- ton (Hamilton 2009, 303-310), che mostrava la possibilità di ricostruire i processi evolutivi degli arredi scolastici attraverso lo studio dei brevetti industriali e che è proseguito – per lo studio degli arredi scolastici e dei sussidi didattici negli anni del Fascismo – nella ricerca di Giacomo Spampani Material History of the School. Evo- lution and changes of the classroom in Italy (Spampani 2016, 365-376). Il regime fa- scista, infatti, attribuì maggiore importanza, rispetto a quanto era accaduto durante i governi liberali, alla standardizzazione dei materiali scolastici (Spampani 2016, 372- 373), investendo alte cifre per i sussidi didattici utilizzati nelle classi «that explains the central role that objects had in the life of that period» (Spampani 2015, 233). Il

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 143-166 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.53 Domenico Francesco Antonio Elia, [email protected] (Università degli Studi G. D’Annunzio Chieti-Pescara)

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presente contributo terrà conto dei pregi e dei limiti di tali fonti storiche, seguendo le indicazioni offerte recentemente da Meda, il quale ha dimostrato come i brevetti non siano in grado di indicare il reale utilizzo degli strumenti didattici nelle scuole, né quali pratiche didattiche siano state promosse dagli insegnanti tramite il loro utilizzo; ciò nonostante, incrociando in modo critico queste fonti con quelle più “tradizionali” lo storico «dovrebbe puntare a determinare la domanda alla quale la realizzazione di quel dato oggetto tentava di rispondere, la sua effettiva diffusione e dunque la sua reale incidenza pedagogica» (Meda 2016, 161). Gli studi sulla cultura materiale, avviati a partire dagli anni Ottanta del secolo scor- so, hanno dimostrato come i manufatti didattici non siano inerti o statici; al contrario, come hanno sottolineato Lawn e Grosvenor, essi rivestono un importante ruolo di mediazione reciproca, all’interno di un insieme di relazioni organizzative, culturali e sociali che attribuiscono valore all’oggetto, con la conseguenza che quanti ne usu- fruiscono sono profondamente influenzati dall’oggetto: «they are not independently active in relation to it» (Lawn e Grosvenor 2005, 9). Il modello teorico sviluppa- to da Lawn e Grosvenor presenta affinità con la «cultural-historical activity theory (CHAT)», concepita da Vygotsky. In particolare, tre concetti riguardano entrambi i campi di indagine: first, CHAT accepts that “mass schooling” is a “historical activity”, like farming and com- merce, that has contributed to the maintenance of human societies; second, it claims that the “object of activity…exists twice” – first as a “material entity in the world and second as a vision or image”; and finally, CHAT gives prominence to the role that artefacts play in the mediation of the “subject-object relation” (Roth e Lee 2007, 198-199). Come lo stesso Vygotsky aveva compreso, tuttavia, esiste un altro aspetto della materialità scolastica: molti degli artefatti, infatti, non lo sono in senso letterale; essi includono, infatti, parole, segni e simboli che sono stati acquisiti e interiorizzati nel corso della storia umana. Per tale ragione Hamilton preferiva una definizione di mate- rialità dell’insegnamento che avesse un doppio aspetto: «once as the material culture of schooling and then as the associated words, signs and symbols that, as Lawn and Grosvenor acknowledge, render any technology as a “social construction”, a com- bination of the actual and the ideal» (Hamilton 2009, 305). Studiare la materialità richiede quindi un approccio che vada oltre lo studio di singoli artefatti isolati rispetto al contesto scolastico entro il quale sono situati: per questa ragione, conclude amara- mente Hamilton, «that historians “shy away” from acknowledging and studying the “dominant role of classroom artefacts”» (Hamilton 2009, 305). L’atteggiamento degli storici nei confronti della cultura materiale è ambiguo: men- tre gli studiosi delle civiltà preletterarie dimostrano di tener in conto le fonti materiali, per gli storici contemporanei la documentazione scritta assume un’importanza mag- giore rispetto alle altre (Borish e Phillips 2012, 468). Alle fonti visive e ai potenziali intrecci che potrebbero svilupparsi in relazione con lo studio sui brevetti è dedicato il saggio di Huggins e O’Mahony Prologue: Extending Study of the Visual in the Hi- story of Sport. Gli autori, dopo aver rilevato come lo studio della dimensione visuale

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in relazione allo sport sia ancora sottosviluppato, nonostante le grandi potenzialità sottese, evidenziano i rischi nei quali potrebbe incorrere la ricerca condotta su tali fonti, dipendenti, per esempio, dalla mancata contestualizzazione delle stesse: «col- lections of images can be broken up, decontextualising the original significance of a given body of work, and reassembled to suggest alternative significatory processes» (Huggins, e O’Mahony 2011, 1092). Le possibili interconnessioni con lo studio dei brevetti si sviluppano lungo l’analisi delle immagini incluse nei fascicoli depositati all’Acs: è emblematico, sotto questo punto di vista, per esempio, che digitando come parola chiave “sport” all’interno del motore di ricerca del sito http://dati.acs.benicul- turali.it/mm/local/ si ottenga un numero di aziende molto vasto, perché comprensive anche di quelle che, pur non offrendo brevetti tecnicamente compatibili con il sistema sportivo, sfruttarono la popolarità raggiunta nel Ventennio fascista dalle discipline e dai campioni italiani per pubblicizzare i propri marchi. La valenza simbolica di que- ste immagini ricorda quella delle “carte povere” dello sport (Bertieri 1993, 63-67), intese come «figurine e cartoline, quaderni e agendine, giochi e calendarietti [che] testimoniano esemplarmente il radicarsi dello sport, e in particolare del calcio e del ciclismo, nell’immaginario collettivo nazionale» (Grozio 2009, 194). I loghi connessi a tali marchi risultano molto interessanti per una storia della pubblicità durante il Ven- tennio, tuttavia rischiano di deviare il tracciato di ricerca incentrato sulle aziende che si specializzarono, oltre che sul marketing sportivo, anche sulla produzione sportiva: un rischio, quest’ultimo, al quale si può fare fronte controllando i singoli marchi e brevetti e incrociando i dati raccolti con altre parole chiave che restringano la ricerca. Questa considerazione, tuttavia, non deve indurre a dimenticare l’impatto positivo che lo sport ha esercitato a livello di immagine nel secolo scorso: una lettura delle sole annotazioni presentate dalle ditte per registrare i propri marchi e brevetti, infatti, non sarebbe in grado di approfondire debitamente questo aspetto; si potrebbe perciò, ingenuamente, essere convinti di una rilevanza minore del fenomeno. Affidandoci al solo testo scritto, dunque, si correrebbe il rischio denunciato in conclusione allo studio di Huggins e O’Mahony: «if the written text has been overestimated in the stu- dy of sport’s past, then the visual has been underestimated» (Huggins, e O’Mahony 2011, 1101). Sulla necessità di contestualizzare gli oggetti all’interno della storia materiale si sof- ferma il saggio di Giorgio Riello, pubblicato all’interno dell’opera collettanea History and Material Culture (2009, 40). Lo storico sviluppa perciò una metodologia inno- vativa che si articola all’interno di tre approcci diversi, che hanno però in comune il rapporto fra gli oggetti e la storia. Il primo indirizzo, che chiamerò “Storia derivata dagli artefatti”, considera l’oggetto come una fonte primaria, al pari di un documen- to scritto; il secondo, invece, definito come “Storia degli artefatti” si concentra sulla storia delle relazioni fra oggetti, individui e le loro rappresentazioni, e risulta l’indiriz- zo metodologico attualmente più praticato; infine, un terzo indirizzo, che potremmo definire “Storia e Artefatti” considera gli oggetti al di là della storia: in questo modo, secondo l’autore, gli artefatti sono liberi di raccontare il passato, senza passare ne- cessariamente attraverso la lingua scritta degli storici. Quest’ultimo indirizzo meto-

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dologico, tuttavia, non è facilmente accettato dalla comunità storica internazionale. Riello suggerisce, inoltre, di non compiere l’errore metodologico di considerare la giustapposizione di un’immagine o il riferimento a un oggetto all’interno di una fonte scritta come un dialogo proficuo fra fonti; al contrario è necessario integrare le fonti documentarie (archivistiche) con quelle materiali (artefatti) e le rappresentazioni vi- suali (Riello 2009, 45). Il secondo indirizzo trova una conferma nel saggio di Escolano pubblicato nel 2007, all’interno di un volume uscito in occasione del centenario della Junta para la Ampliación de Estudios, nel quale sottolinea la presenza di un nuovo settore di ricerca: dedicato allo studio degli “oggetti materiali della scuola”, non però unicamente polarizza- to in senso storico-tecnologico, ma in grado di analizzare quegli oggetti nelle loro significa- zioni culturali e comprenderne le modalità d’impiego, le relazioni esistenti tra essi, gli attori del processo di apprendimento e le pratiche educative concretamente messe in atto all’inter- no delle scuole, così come la loro collocazione fisica negli spazi dedicati all’apprendimento scolastico (Meda 2016, 24). Strettamente connessa alla storia degli artefatti è quella dei consumi: non è una coincidenza, dunque, che questo indirizzo di ricerca nasca nello stesso periodo del primo, ossia negli anni Ottanta del secolo scorso, con l’opera The Birth of a consumer society, scritta da Neil McKendrick, John Brewer e Jack Plumb nel 1982; la loro nar- razione è stata strutturata intorno all’idea di una rivoluzione dei consumi, avvenuta nel Regno Unito nel corso del Diciottesimo secolo, «based non just on an increasing income and wider supplies of cheap consumer goods, but also on emulative forces of a Vebelerian nature» (Riello 2009, 49). Tali orientamenti sono stati poi messi in discussione in studi successivi, tuttavia hanno avuto il merito di approfondire le no- stre conoscenze sulla storia del consumo in Età moderna. Nell’ultimo decennio due orientamenti hanno caratterizzato la narrazione della rivoluzione dei consumatori: in primo luogo, un’analisi più approfondita dei manufatti, resa possibile dalle reti di convegni e progetti di ricerca che hanno visto collaborare insieme istituzioni museali e università; in secondo luogo, il paradigma della rivoluzione dei consumi è stato rivi- sitato sia in senso diacronico (allargando l’indagine a un arco temporale che inizia dal Medioevo per terminare all’età contemporanea), sia in senso sincronico e geografico, abbandonando l’originale area d’indagine costituita dalle isole britanniche per spazia- re sull’intera Europa e America settentrionale. Gli interessi della storia del consumo, dunque, sono gli oggetti che sono stati pro- dotti, acquistati e consumati per soddisfare esigenze fisiche, relazionali e psicofisiche degli acquirenti: «history of consumption – scrive Riello – is quintessentially a history of things, as what it wishes to explain is whys, how and what becomes part of material world that surrounds humans beings» (Riello 2009, 49).

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Una serie di dati inaspettata? Un confronto con il modello di produzione americano

La ricerca dei brevetti in campo ginnastico e sportivo si scontra, nello specifico, con una resistenza da parte degli storici sportivi nei confronti degli aspetti economici e politici; i ricercatori, al contrario, si mostrano più interessati, invece, ad approfondire i caratteri sociali della storia sportiva (Vamplew 2014, 9). La denuncia di Vamplew, tuttavia, non deve lasciare intendere l’assenza di un indirizzo di ricerca interessato alla materialità ginnico-sportiva: fin dal 1986, grazie agli studi pionieristici condotti negli Stati Uniti da Hardy, infatti, è stata teorizzata una metodologia di ricerca sul prodotto sportivo inteso come “merce triplice” secondo l’accezione marxiana del ter- mine; per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso all’altro, a cui serve come valore d’uso, mediante lo scambio (Marx 1989, 73). Lo sport, quindi, secondo Hardy diviene merce nel momento in cui i suoi produttori trasferiscono questo, attraverso lo scambio commerciale, a un gruppo separato di consumatori (Hardy 1986, 17). Il pro- dotto sportivo, quindi, è considerato dallo studioso americano come composto da un aspetto che può essere definito formale (le regole dell’attività sportiva o del gioco), da uno istituzionale (le ricadute dello sport al di fuori della performance) e uno materiale (beni sportivi). Nell’articolo pubblicato nel 2009, scritto in collaborazione con Loy e Booth, Hardy proponeva una prima classificazione della cultura materiale sportiva:

Playing Equipment (e.g. balls). Venues (e.g. arenas). Training Equipment and Sport Medicine Technology (e.g. treadmills). Sportswear. Prizes (e.g. certificates). Symbolic Artifacts (e.g. flags). Performance Measurement Technology (e.g. stop watches). Ephemera and Detritus (e.g. discarded ticket stubs). Memorabilia (collections of any of the above) (Hardy, Loy, Booth 2009, 132).

All’interno di tale elenco non figurano i brevetti; questa assenza, nonostante lo stesso Hardy avesse avvertito che «no classification scheme can completely capture the vast material world of sport» (Hardy, Loy, Booth 2009, 132), è indice non solo della scarsa attenzione che lo studio dei brevetti ha ricevuto negli ultimi trent’anni, ma anche della difficile inclusione in una categoria d’analisi di questa fonte storica, la cui natura complessa la situa a metà tra l’ambito della materialità, lo studio delle immagini e le più tradizionali fonti archivistiche. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che considera i brevetti come strettamente connessi con l’aspetto tecnologico della cultura materiale dello sport, poiché essi certificano i progressi compiuti nella produzione di beni spor- tivi (Borish e Phillips 2012, 465). Lipsey individua cinque fattori che possono influenzare il mercato dei beni sporti- vi, sui quali l’industria ha scarso peso: le tendenze della moda; il cambiamento degli orientamenti culturali; le pressioni politiche, sociali e di prezzo esercitate dalla produ-

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zione estera; i fattori stagionali e climatici; i comportamenti degli atleti (Lipsey 2006, 8). A questi fattori vorrei aggiungerne almeno altri due, più strettamente correlati con il mondo scolastico e militare: introduzione di modifiche nei programmi scolastici e sviluppo di nuove tattiche di guerra che richiedono l’utilizzo di alcuni muscoli a scapito di altri. Lo studio dei programmi scolastici, all’interno di quest’ottica meto- dologica, si mostra di grande utilità nel comprendere come questi abbiano mutato gli orientamenti del mercato, considerando i prodotti dell’imprenditoria sportiva come un settore specifico dei mezzi di educazione di massa, secondo la definizione formu- lata da Meda. Un oggetto di consumo scolastico cessa di essere tale e diviene un “mezzo di educazione di massa” nel momento in cui viene sottoposto ad un processo di codificazione formale con fini omologanti e inizia ad essere distribuito su larga scala da grandi imprese industriali (Me- da 2016, 12). Il fattore bellico aveva già esercitato una determinante influenza al termine della Prima guerra mondiale, per una serie di concause tra loro interconnesse, che avevano determinato l’attrattiva del settore sportivo per le aziende in cerca di redditività a lungo termine: in primo luogo i programmi di formazione dei soldati si soffermaro- no particolarmente sulla preparazione fisica e atletica dei soldati, favorendo così la diffusione e commercializzazione degli articoli sportivi; in secondo luogo, la guerra consolidò ulteriormente la convinzione che lo sport avrebbe dovuto nutrire e svilup- pare tratti virili, provocando così (terzo fattore) l’aumento della domanda interna per tutti i tipi di attrezzatura sportiva (Fielding, Pedersen, e Pitts 2011, 62). Gli anni Venti del Novecento, così negli Stati Uniti, come in Italia, rappresentarono un momento particolarmente felice per la vendita di attrezzatura sportiva: non è un caso, dunque, che i brevetti in quegli anni crescano in relazione a tutte le discipline sportive, come dimostra il seguente grafico:

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Il picco del numero di brevetti registrato in età fascista, infatti, è attestato per l’an- no 1924 (oltre 250 brevetti). Un dato che si ricava, invece, dall’analisi della nazionalità dei brevetti riguarda l’assoluta preponderanza di quella italiana (oltre 900 brevetti): nettamente distaccate tutte le altre nazioni, con la seconda, quella statunitense, ferma ai 150 brevetti. Si tratta della conferma dello sviluppo di un sistema di produzione sportivo, che, strutturatasi già nel primo dopoguerra, si afferma compiutamente fra gli anni Venti e Trenta del Novecento (Elia 2016, 147-148):

La convinzione nutrita dagli imprenditori sportivi secondo la quale la domanda di articoli sportivi sarebbe cresciuta dopo la conclusione del conflitto in Europa com- portò tre conseguenze: in primo luogo, condusse a migliorare le tecniche di produ- zione per far fronte a quella che si riteneva sarebbe stata una domanda accresciuta rispetto al passato; in secondo luogo molte aziende, attratte dal facile business rappre- sentato da un mercato di attrezzi sportivi in ascesa, si convertirono alla produzione dei beni materiali sportivi al termine della guerra; in terzo luogo, infine, aumentarono e si diversificarono i punti vendita nei quali erano esposti gli articoli sportivi (Fielding, Pedersen e Pitts 2011, 62). Questa ascesa del mercato dei prodotti sportivi, tuttavia, entrò in crisi già a metà del decennio; non è un caso, dunque, che il primo grafico se- gni un brusco declino dei brevetti registrati dopo il 1925: a causa delle nuove aziende operanti nel mercato, infatti, l’industria sportiva era diventata altamente competitiva e, di conseguenza, aveva perso redditività. A metà del decennio, dunque, si erano così create le premesse per una crisi di sovrapproduzione, alla quale gli industriali fecero fronte ricorrendo a pratiche di concorrenza rovinosa, come il taglio di prezzi. Posti dinanzi a queste difficoltà del settore, gli imprenditori sportivi statunitensi si resero conto che erano necessarie pratiche di cooperazione, che conobbero il loro punto più alto con la costituzione, nel 1929, della National sporting goods association; in Italia, al contrario, non vengono compiuti tentativi di accentramento corporativo in tal senso. I vantaggi di questa scelta cooperativa erano numerosi:

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these practices increased the individual and collective knowledge about the sporting goods industry. Competitors gained better understanding about the effects of competitive strategy on industry members and overall profitability. Cooperative efforts were used to in- crease market size and to gain better understanding of the industry (Fielding, Pedersen, e Pitts 2011, 63). Nel ventennio compreso fra il 1920 e il 1940, i singoli stati dell’Unione approvava- no leggi che richiedevano l’educazione fisica nelle scuole, incoraggiando lo sviluppo di programmi atletici nelle scuole superiori e nelle università americane. In Italia, al contrario, ove il dibattito sulle sorti dell’educazione fisica aveva, nello stesso periodo, finito con l’allontanare l’educazione fisica dalla scuola, con la riforma Gentile e l’isti- tuzione dell’Ente nazionale educazione fisica (Enef), le cui competenze erano state poi assorbite dall’Opera nazionale balilla (Onb, fondata il 3 aprile 1926) e, in seguito, a partire dal 1937, dalla Gioventù italiana del littorio (Gil), le industrie sportive non seppero opporre la stessa unità d’intenti manifestata oltre oceano. Nel 1925 Musso- lini istituì la Commissione Reale per lo studio di un progetto relativo all’ordinamento dell’educazione fisica e della preparazione militare del Paese, affidata alla presidenza del generale F.S. Grazioli (Elia 2013, Vol. I, 685-686). Questa commissione, per le cui vicende si rimanda alla recente opera di Landoni Gli atleti del Duce. La politica spor- tiva del fascismo 1919-1939 (Landoni 2016, 70-75), procedette, senza fortuna, «alla formulazione di un possibile schema di finanziamento inerente sia alla realizzazione di palestre, campi sportivi e campi gioco e relativa manutenzione, con particolare riferimento agli arredi, alle dotazioni igieniche e agli attrezzi, sia alla loro quotidiana gestione». L’Enef, come spiegato dal presidente Giunio Salvi (Lucchese 2013, vol. II, 463), aveva concesso gratuitamente i propri attrezzi e locali a più di cinquanta società ginnastiche incaricate di provvedere all’educazione fisica degli studenti italiani. «Nel solo anno scolastico 1925-26 – annotava Salvi – sono stati distribuiti nuovi attrezzi per la somma complessiva di lire 845.563, così ripartiti: dotazioni complete n. 60; dotazioni parziali n. 200» (Salvi 1926, 31). In realtà, il Regime intendeva proseguire un processo, già avviato negli anni Venti dalla Regia federazione ginnastica italiana, per incrementare la pratica della ginnastica artistica o acrobatica fra gli atleti, inse- rita nel 1933 tra le discipline olimpioniche e dunque resa parte integrante di quello sport-spettacolo che il fascismo favoriva, ma fallì miseramente: non solo le società ginnastiche diminuirono dalle 503 del 1925 sino alle 205 del 1934 (Ferrara 1992, 247), ma gli atleti, pur disponendo «di palestre fornite di grandi attrezzi, trascura[va] no completamente la ginnastica attrezzistica per dedicarsi ad altri sports, spesso non olimpici» (Ginnasta 1934, 1-2), perché le difficoltà tecniche insite nella ginnastica ar- tistica erano tali da scoraggiare i giovani, che abbandonarono le società ginnastiche, provocandone così la crisi demografica e quindi economica. Il terzo grafico, relativo ai brevetti registrati per la produzione di articoli per la ginnastica in età fascista, di- mostra una significativa novità, soprattutto in relazione alla loro nazionalità, rispetto al precedente periodo storico.

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Mentre in Età liberale il rapporto era, infatti, di 3 brevetti a 1 a favore delle aziende tedesche (Elia 2016, 143), durante il Ventennio fascista tale proporzione si inverte: a fronte di sette brevetti italiani, infatti, si annoverano solo due brevetti di origine tede- sca. La loro distribuzione temporale segue un andamento più complesso da interpre- tare: ben sette su dieci brevetti complessivi, infatti, sono stati censiti a partire dal 1933, ovvero all’inizio di quel percorso che avrebbe portato il regime a investire maggiori risorse sulla ginnastica acrobatica/artistica, sia pure con i risultati sopra descritti: la presenza di brevetti tedeschi per l’anno 1938, potrebbe essere intesa come una prova, in campo commerciale e ginnastico, del riavvicinamento delle due Nazioni, culminato nella visita di Hitler in Italia nel maggio e nella Conferenza di Monaco nel settembre di quell’anno. La recessione economica seguita alla crisi del 1929, d’altro canto, aveva portato conseguenze diverse in Italia e negli Stati Uniti: mentre oltre oceano lo sport era ser- vito come volano per aumentare i consumi, in Italia, al contrario, si prestò più atten- zione agli spettacoli sportivi che alla produzione industriale, riservando ai primi il compito di compensare gli effetti della recessione economica, agendo come mezzo di distrazione di massa (Dogliani 2000, 333). Una recente riflessione di Meda sul ruolo propagandistico – teso alla «colonizzazione delle coscienze» (Bodei 2002) – svolto durante il Ventennio da «un’ampia gamma di oggetti scolastici, omologati e omolo- ganti, come il “libro unico”, il “diario unico”, il “banco ministeriale” e […] il “qua- derno unico”» (Meda 2016, 11) pone un interessante interrogativo sulla possibilità di includere, all’interno di questa categoria, anche gli attrezzi per l’educazione fisica. La risposta, allo stato attuale delle conoscenze storiche, non può che essere positi- va: nonostante l’esclusione di tale disciplina dal novero di quelle scolastiche, infatti, le aziende produttive di attrezzatura ginnico-sportiva furono comunque costrette ad attuare un processo di incontro/scontro con quelle politiche di «standardizzazione dei sussidi didattici e dei materiali scolastici, per renderli formalmente più flessibili e logisticamente più controllabili, in pieno rispondenti alle sue esigenze ideologiche» (Meda 2016, 11) che, in questo caso, si trasformò in una uniformazione alle misure

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regolamentari approvate dal Comitato olimpionico nazionale italiano (Coni) nell’ot- tobre del 1934 (Ginnasta 1935, 18) posto alle dirette dipendenze del Partito nazionale fascista e «organizzato come organo preposto all’inquadramento di tutte le attività relative all’educazione fisica» (Ferrara 1992, 224). Lo scoppio della Seconda guerra mondiale causò la difficoltà di ottenere materie prime indispensabili per la produzione di articoli sportivi sia negli Usa che, in misura più pesante in un paese, come l’Italia, che ne era storicamente privo. Nuove solle- citazioni all’industria sportiva, tuttavia, pervennero dall’accresciuta importanza data alle forze armate, in particolare, per ciò che concerne il caso italiano, agli Alpini, i cui uomini erano stati adoperati in diversi teatri bellici (campagna di Francia, fronte greco-albanese e campagna di Russia). Tali sviluppi si inserirono all’interno di un contesto che, già negli anni pre-bellici, aveva favorito lo sviluppo degli sport invernali: «la pratica dello scialpinismo risente di un vero e proprio processo di idealizzazione che ne accentua il carattere spirituale e, soprattutto, antiborghese» (Durante 2004, 71). I cataloghi delle maggiori ditte italiane specializzate nella produzione di scarponi da sci e altre attrezzature da montagna – L’Alpina, La Dolomite, Munari e Nordica – offrirono prodotti specifici per le donne interessate allo sci: essi, pur non presentando differenze dovute alle specifiche anatomiche del piede femminile, ma solo tendenze cromatiche diverse, testimoniano a ogni modo una presenza non trascurabile di scia- trici sulle montagne italiane. Nel corso degli anni Trenta l’influenza degli atleti sulla produzione sportiva ottenne come effetto una profonda modifica nella progettazione delle calzature da sci: «nel sapere artigianale radicato da decenni nel territorio si in- nesta la consapevolezza dell’importanza di analizzare le sollecitudini subite dal piede e dagli arti inferiori durante la sciata, anche alla luce delle nuove tecniche in auge. Per far questo ci si avvale del supporto sia di campioni e maestri di sci, ma anche di studiosi ed esperti in medicina» (Durante 2004, 76). Non solo nel campo degli sport invernali le innovazioni furono rese possibili dalla collaborazione tra imprenditori sportivi ed esperti del settore: il tappeto Italia Pirelli, per esempio, fu brevettato dalla omonima ditta di Milano «in collaborazione con un tecnico dell’educazione fisica Na- zionale il Commendator Prof. Manlio Pastorini, Direttore dell’Istituto per l’educazio- ne fisica in Firenze, [che] ha risolto al cento per cento la questione dell’arrivo soffice per il salto e per gli attrezzi nelle palestre e per il pugilato, la lotta greco-romana e la lotta giapponese» (Il Ginnasta 1935, 17). Durante, infine, spiega come la possibilità di adottare le calzature da sci sia per fini militari che civili evitò per le aziende del bellunese una conversione dalla produzione civile a quella militare, che si era invece verificata negli Stati Uniti e in Germania (Du- rante 2004, 78). L’elevato numero di brevetti attinenti gli sport meccanici fu un’altra conseguenza dell’influenza del fascismo sul sistema sportivo italiano: «motociclismo, motonautica, automobilismo, aviazione – scrive Ferretti, giornalista e presidente del Coni – abituano l’uomo al pericolo, alla lotta contro gli avversari e gli elementi, al dominio della materia, spesso sorda e ribelle ai richiami del pilota. Inoltre essi hanno il duplice fine nobilissimo e utilitario di promuovere il progresso meccanico e di pre- disporre l’attrezzatura della Nazione per i bisogni della guerra» (Ferretti 1928, 203).

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Queste attività sportive, richiamando un folto pubblico, ricoprivano un’importanza essenziale a livello propagandistico non solo per l’immagine dell’italiano nuovo voluta dal Regime, ma anche per l’industria nazionale: in occasione della trasvolata oceanica compiuta fra il 1930 e il 1931, con destinazione Brasile, la stampa sottolineò orgoglio- samente come «dall’apparecchio al motore, dalle candele ai magneti, dalle batterie agli accessori tutto è di concezione e fabbricazione nazionale» (Fabrizio 1976, 70). I grafici confermano questo trend: i brevetti registrati per la produzione di articoli per l’aviazione in età fascista, infatti, segnano un primo picco, comune a quello di altre specialità sportive, nella prima parte degli anni Venti, per poi scendere fino a risalire in occasione degli interventi bellici nei teatri europei prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale, toccando il loro apice nel 1938:

Un trend simile mostra il grafico relativo ai brevetti registrati per la produzione di articoli per lo sci: pur non presentando alcun brevetto sino alla fine degli anni Venti, esso mostra una graduale crescita degli stessi che raggiunge il vertice nel 1938:

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Un percorso diverso, invece, caratterizza i brevetti registrati per la produzione di articoli per l’automobilismo, motociclismo e ciclismo: in questi casi il picco di registra- zione si raggiunge nel 1924, per poi declinare in modo vistoso negli anni successivi:

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Difficile ipotizzare una causa che spieghi questa tendenza, soprattutto se si para- gonano questi dati a quelli relativi all’aviazione, altro importante settore con finalità militari, oltre che civili: un’ultima considerazione a tale proposito può solo rilevare come, anche in questi ultimi settori, la produzione italiana sia preponderante e tenda anzi a soppiantare quasi del tutto quella degli altri Paesi; una svolta, quest’ultima, dovuta anche alle scelte autarchiche imposte all’Italia dopo la Guerra d’Etiopia. Un confronto con brevetti riguardanti altri settori produttivi, sotto questo punto di vista, potrebbe fornire nuovi dati utili alla contestualizzazione della registrazione di brevetti in ambito sportivo all’interno di un contesto più ampio. Le sanzioni, comminate all’Italia per la campagna d’aggressione intentata ai danni dell’Etiopia nell’ottobre del 1935, si trasformarono, inoltre, in occasioni di esperimenti industriali: per far fronte alla penuria di carburante per la celebre competizione auto- mobilistica delle Mille Miglia, la ditta italiana Shell elaborò «una sorta di carburante nazionale composto all’85 per cento di alcool etilico e metilico con l’aggiunta di un po’ di etere di petrolio e di benzolo» (Provvisionato 1976, 32). Alcune Federazioni presero provvedimenti drastici: il presidente della Federazione Italiana Tennis, per esempio, in un comunicato pubblicato sul Popolo d’Italia il 19 novembre 1935, «dispose che tutti i giuocatori affiliati usino palle, racchette, scarpe e qualsiasi indumento di giuoco di produzione nazionale. È tollerato l’uso del materiale proveniente da Stati non sanzio- nistici»; l’Unione Ippica, d’altro canto, come riporta un articolo de La Gazzetta dello Sport del 7 novembre 1935, raccomandò ai suoi affiliati di non «valersi di prodotti non nazionali, servendosi per le specialità veterinarie e per sellerie e quanto, insomma, oc- corre per l’uso di scuderie, esclusivamente della produzione nazionale». Mentre per gli sport ippici non sono registrati brevetti e marchi di ditte operanti in quel settore, e non è possibile perciò verificare le conseguenze di tali raccomandazioni a livello industriale, appare invece chiaro che esista una stretta connessione fra i brevetti registrati per la produzione di articoli per il tennis in anni precedenti al 1936 – nei quali si nota una pre- minenza di marchi inglesi – e quelli relativi ad anni successivi alle sanzioni economiche, nei quali, al contrario, restano e crescono di numero solo quelli italiani:

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Mentre mancano o sono carenti dati sulla produzione di attrezzi ginnastici, sono presenti, nelle pubblicazioni dell’epoca, una serie di dati sulle strutture sportive: nel 1934 erano stati edificati 128 Case Balilla, 205 Palestre, 70 campi sportivi; erano in costruzione 61 Case Balilla, 172 palestre e 108 campi sportivi; rispetto al 1928 erano stati realizzati oltre 4000 palestre e campi sportivi (Sport fascista 1935, 162; 169). Sebbene, dunque, manchino dati sulla commercializzazione dei prodotti sportivi, è possibile, comunque, soffermarsi su alcuni dati presentati all’interno delle pagine del volume Sport fascista che possono offrire ipotesi interessanti sulle cause che portarono alla riduzione dei brevetti in campo sportivo nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento: il Concorso Dux, istituito nel 1929 per i fanciulli dell’Onb, fino al 1932 era a carattere sportivo, annoverando «una serie di esercizi obbligatori a corpo libero il cui insegnamento era stato fatto durante l’anno scolastico, nelle rispettive sedi: inoltre erano incluse nel programma una gara di marcia, corse a ostacoli, getto della palla del ferro, evoluzioni al cavallo fisso ed altri esercizi, buona parte dei quali erano stati impartiti nell’annata» (Sport fascista 1935, 164). A partire dal 1934, invece, «il carattere della manifestazione [fu] reso decisamente a carattere militare» (Sport fascista 1935, 164), sconfessando lo spirito sportivo che fino a quel momento l’aveva caratterizzato. Nello stesso anno, a conferma di un processo normativo tendente a rendere militarizzata l’educazione scolastica dei soggetti maschili, fu introdotto, con la legge 31 dicembre 1934, n. 2152, l’insegnamento obbligatorio di cultura militare per gli studenti delle scuole medie e superiori italiane (Morandi 2014, 106).

Il declino della ginnastica educativa in età fascista e l’affermarsi del paradigma ginnico-sportivo

Le ricerche storiche, a partire dagli anni Settanta (Fabrizio, 1976), hanno messo in

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evidenza la presenza di due strategie perseguite dal regime in materia sportiva, cor- rispondenti ad altrettante suddivisioni cronologiche: la prima, che affondava le sue radici nella Prima guerra mondiale, aveva dimostrato come «l’antica ginnastica mili- taresca, meccanica e ripetitiva, tendente soprattutto a disciplinare autoritariamente il corpo e lo spirito e a rafforzare gli arti superiori, quelli più necessari alla tradizionale maniera di combattere» (Giuntini 2003, 27) fosse ormai del tutto inadeguata per far fronte ai mutamenti occorsi nel grande conflitto, nel quale lo sviluppo tecnologico aveva posto al servizio della difesa mezzi migliori di quelli offerti all’attacco. La se- conda, invece, divenuta rilevante a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, ave- va assistito alla nascita dello “sport-spettacolo”, un fenomeno che pur non essendo esclusivo dell’Italia fascista «qui più che in qualsiasi altro paese europeo il fascismo ha contribuito a far nascere» (Milza 1991, 250). In questa seconda fase, «all’elemento ginnico-ricreativo-sportivo dell’Onb si viene […] ad aggiungere una maggiore conno- tazione sportiva e militare» (Ferrari, Morandi 2015, 36). L’esperienza fascista costituisce uno dei tratti caratteristici dell’area sportiva latina, teorizzata da Tomlinson e Young, «comprising Spain, Italy, France and Portugal, and consisting of a particular combination of common traits […] such as: the politiciza- tion of sports due to the interference of political parties and the Catholic Church; the importance of cycling culture; and the proximity of Fascist, pro Franco, Vichy and pro-Salazar sports policies» (Tomlinson e Young 2011, p. 495). Il seminario “Tem- po libero, sport e fascismo”, svoltosi a Siena nel 2014, ha poi ribadito tale concetto, sottolineando come i regimi di Mussolini, Salazar, Franco e Vargas avessero posto «le basi per una teoria comune circa la funzione del loisir nel contesto dei fascismi» (Serapiglia 2016, III). La storia dell’educazione fisica in età fascista si inserisce dunque nel processo di edificazione dello Stato totalitario, tendente a inquadrare politicamente la gioventù italiana (Scotto di Luzio 2004, 57). La scelta di sottrarre l’educazione fisica alla scuola media (lasciandola però nell’ordine primario e in quello magistrale) da parte di Gen- tile nel 1923 deve essere interpretata, dunque, alla luce di un’imposizione di una rigo- rosa gerarchia tra discipline scolastiche, alcune delle quali non sarebbero più state di specifica competenza dell’amministrazione scolastica, sollevando così il personale di ruolo occupato presso le scuole medie da qualsiasi incarico. In questo modo, come ha riconosciuto Landoni, «il governo Mussolini era convinto di poter non solo […] con- seguire un importante risparmio, ma anche e soprattutto ottenere più rapidamente ed efficacemente l’obiettivo della fascistizzazione delle nuove generazioni nell’attesa che la scuola, nel suo complesso, si adattasse ai nuovi precetti del farraginoso armamenta- rio politico-ideologico mussoliniano» (Landoni 2011, 53). Il fascismo, tuttavia, non ri- solse quello iato, che l’istituzione dell’Enef, portando al di fuori del sistema scolastico l’educazione fisica, aveva istituzionalizzato e che la costituzione del Sottosegretariato per l’Educazione fisica e giovanile nel 1929, presso il Ministero dell’educazione nazio- nale aveva solo parzialmente risolto «dal momento che il Governo fascista avrebbe in realtà continuato a garantire a un’istituzione formalmente estranea alla burocrazia sta- tale, come l’Onb, una competenza esclusiva sul fronte dell’organizzazione dei servizi

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didattici relativi principalmente all’insegnamento dell’educazione fisica e nell’ambito della formazione, della selezione e del reclutamento dei futuri docenti di questa disci- plina» (Landoni 2011, 69). «L’Educazione fisica – concludeS cotto di Luzio – si colle- ga dunque ad una struttura culturale che mentre si appella al linguaggio dell’eroismo e al codice della fama sancisce di fatto la scomparsa del singolo dentro la dimensione anonima e collettivizzata della comunità politica» (Scotto di Luzio 2004, 62). Lo stesso funzionamento dell’Onb, nonostante si fondasse su un’idea originale e mo- derna, che puntava «all’organizzazione del tempo libero dell’infanzia e dell’adolescenza in vista dei fini pedagogici di massa che la scuola non poteva assicurare» (Betti 1984, 178), fallì per l’ambiguità e la superficialità con le quali il progetto fu portato avanti, anche per responsabilità di una politica sociale del Fascismo che non riuscì a risolvere il divario esistente fra centro e periferia, province settentrionali e meridionali. L’Onb – definita anche come «l’intervento di politica pedagogica più congeniale al nuovo regi- me» (Santoni Rugiu 1987, 638) – aveva un obiettivo ambizioso: codificare un progetto pedagogico per dare vita a una concezione dell’uomo alla quale nel corso degli anni si sarebbe dovuta adeguare non solo la comunità di fanciulli che ivi militavano, ma anche l’intero corpus sociale (Zapponi 1982, 600). I giovani, secondo l’analisi di La Rovere, avrebbero dovuto essere forgiati a immagine e somiglianza di quanti avevano contribu- ito alla rivoluzione fascista: questo processo sarebbe stato reso possibile attraverso la pratica sportiva, considerata «lo strumento essenziale per instillare nei giovani le qualità dell’uomo fascista: la tenacia del carattere, il gusto per la sfida, il disprezzo per la “vita comoda”, la passione della lotta per il primato» (La Rovere 2002, 54). La ginnastica negli anni del Ventennio conobbe una crisi profonda, che risultò ancora più accentuata dalla presenza di altre discipline sportive alle quali il Fasci- smo dedicò le proprie attenzioni, quali atletismo, nuoto, tiro a segno, sci (Fabrizio 1976, 43). Il Regolamento tecnico-disciplinare per l’esecuzione della legge 3 aprile 1926, n. 2247 sull’Opera Nazionale Balilla, al capo V, art. 27, stabiliva che «l’educazione ginnico-sportiva è impartita secondo i programmi in uso per gli alunni delle scuole medie del regno» (Ferretti 1949, 275). Eugenio Ferrauto, principale ispiratore del metodo ginnico-sportivo, non mancava di sottolineare la profonda connessione tra questo e Mussolini: «il sistema di educazione fisica prettamente italiano e fascista […] si può considerare a ragione come suscitato dal DUCE, in quanto permeato tutto da principi educativi fascisti» (Ferrauto 1940, 31). Nella teoria di Ferrauto si univano i precetti scientifici di Baumann e quelli igienici, fisiologici e sportivi di Mosso, con il risultato di istituzionalizzare un sistema «ginnico, ricreativo, pre-sportivo e sportivo» (Di Donato 1998, 194) di primaria rilevanza scientifica. Il metodo ginnico-sportivo era strutturato come una «felice combinazione della preparazione fisica generale con le esercitazioni sportive e di graduale avviamento alla specializzazione e all’agonisti- ca» (Gotta 1953, 175). Il suo eclettismo, secondo le osservazioni di Tanga e Gori, rappresentò il primo esempio a livello italiano «di un’opera di riflessione, sostenuta da profonda cultura, intesa a dare unità d’indirizzo alle varie formule “nei soggetti a seconda dell’età, nonché le interferenze tra queste e l’ambiente nel quale egli agisce”» (Tanga e Gori 2005, 93).

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L’affermarsi del paradigma ginnico-sportivo può considerarsi come una delle cau- se che condussero all’abbandono di importazione di strumenti ginnastici tedeschi, già iniziato durante gli anni della Prima guerra mondiale per ragioni militari ancor- ché pedagogiche, un fenomeno, quest’ultimo, che accomuna il settore produttivo ginnico-sportivo all’industria scolastica nazionale (Meda 2016, 151-156): nel primo dopoguerra, tuttavia, esso si rafforzò, parallelamente a un processo che, sia pure in forme lente e contrastate, rappresentava il superamento di metodi e sistemi di origine prevalentemente tedesca «recalcitranti ad ogni possibilità di avvicinarsi o di accogliere orientamenti ed elementi di modernismo» (Gotta 1953, 187).

Lo studio dei modelli di fabbrica

Nella sua ricerca sui brevetti registrati in Inghilterra a partire dal XVII secolo, Hamilton poneva in guardia i ricercatori sui limiti cui andavano incontro nell’inter- pretazione delle fonti brevettuali, individuandone tre: first, the patent record is merely the record of patent applications; it is not a record of inventions, adaptations or modifications, particularly those made before 1855. […] Second, the applications merely describe artefacts that could be manufactured; they rarely describe such artefacts in terms of the practices which they are intended to mediate. […] Third, very little indication is given about the intended users and purchasers of new artefacts; it is diffi- cult, therefore, to locate them socially and economically as well as technically or chronologi- cally (Hamilton 2009, 307). Mentre il primo appare legato principalmente ai criteri adottati dalla struttura in- terna dei brevetti raccolti presso l’Ufficio brevetti di Londra, gli altri due sono meri- tevoli di essere ripresi in questa sede. Una parte dei limiti connaturati ai brevetti può essere superata grazie allo studio dei modelli, anch’essi depositati presso l’Acs: una prima ricognizione fra i modelli di attrezzi da ginnastica e i palloni, ad esempio, ha permesso di rilevare una serie di dati relativi alle tecniche adoperate per la loro fab- bricazione, come dimostra la seguente presentazione: la presente domanda di modello di fabbrica [presentata da Martino Pastore di Torino] ha per oggetto una corazza per palloni da giuoco, caratterizzata dal fatto che risulta dalla riunio- ne di pezzi elementari di forma tale da assicurare al pallone un aspetto originale ed elegante non disgiunta da una buona solidità, resistenza ed assoluta sfericità1. Inoltre – e questo è forse più rilevante – appaiono evidenti, dalle descrizioni ripor- tate, le finalità alle quali erano destinati, che si collegano ai modelli sociali e culturali imperanti nel Ventennio fascista. Emblematica, sotto questo punto di vista, è la de- scrizione di un apparecchio da ginnastica inventato dal Paul Weiland (Lussemburgo) e importato in Italia nel 1932.

1 acs, Marchi di fabbrica dell’Ufficio italiano brevetti e marchi del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, b. 39, f. 5192: “Pastore Martino” 15 marzo 1926.

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L’oggetto per cui si richiede la prestazione è un apparecchio di ginnastica che serve a fare una cura semplice, costituita da una cultura del corpo e dello spirito, per guarire gli omoses- suali ecc. dalle loro inclinazioni. Gli esercizi con l’apparecchio vengono eseguiti secondo una istruzione e tavola di esercizi speciali adoperando dischi sonori portanti inciso un testo. L’apparecchio è caratterizzato da manubri (a) attaccati alle maniglie (b) e provvisti sul lo- ro lato interno di occhielli (c) che servono al fissaggio di molle a spirale (d)2. Nonostante l’Italia non si fosse dotata, nemmeno dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali nel 1938, di leggi speciali contro l’omosessualità, il fascismo si adoperò per combatterla duramente, in quanto l’omosessuale doveva essere annoverato fra i nemici dello Stato: «sia perché non bellicoso combattente […] sia perché sterile nei suoi rapporti sessuali, in una Nazione che abbisogna invece di soldati e di sempre più soldati» (Lualdi 2016, 13). La possibilità di guarire gli omosessuali – anche attraverso l’uso di una macchina per esercizi ginnastici – derivava dall’affermarsi di un modello scientifico che riteneva essere vera la natura fisiologica dell’omosessualità e necessario curare coloro che ne erano affetti (Benadusi 2005, 55-58). Significativo, pur non essendo incluso tra i fascicoli dei modelli conservati presso l’Acs, è il caso di studio rappresentato dal pallone adottato per il campionato mondia- le di calcio del 1934, disputato in Italia. Il pallone Federale 102, prodotto dall’Ente centrale approvvigionamenti sportivi (Ecas), nonostante il suo utilizzo continuasse ad affiancarsi a quello dei palloni di produzione inglese, avrebbe dovuto simboleggiare la qualità dei prodotti italiani all’interno di una vetrina commerciale mondiale rappre- sentata dall’evento agonistico del football: nel 2006 Tara Brabazon sviluppava un’a- naloga riflessione, imperniata sul pallone utilizzato durante la finale del campionato mondiale di calcio del 1966, disputato in Inghilterra; l’analisi della studiosa, partendo da una prospettiva di «cultural studies», nella quale il pallone «is considered variously as a relic of material culture, a venerated object, a record of one game, a unique si- gnifier of the particular match and a retrieved memory» (Brabazon 2006, 76-77), of- fre un interessante esempio di ricerca innovativa che «exemplifies the vast range of source material available to sports historians and points to possible new directions for research» (Osmond e Phillips 2010, 42-43). In qualità di reliquia della cultura materiale, infatti, il pallone rappresenta la convergenza tra marketing, scienza e sport; come oggetto di venerazione incarna l’innovazione, la cultura degli anni Sessanta e il senso di appartenenza inglese, reso più forte dalla consapevolezza che in quel preciso momento storico l’Inghilterra assurgeva alle vette del calcio mondiale; come dispo- sitivo di memoria, infine, contiene molteplici significati che, per gli osservatori, sono modellati da esperienze personali e da grandi quadri sociali e interpretativi (Brabazon 2006, 84-87). Assumendo come centrale, dunque, l’oggetto materiale costituito dal pallone italiano, cosa può affermarsi in merito al suo utilizzo e alla sua produzione? Si è già scritto in precedenza dello scopo propagandistico che il pallone incarnava; esso era il simbolo di un binomio vincente, rappresentato dalla vittoria nella competizione

2 acs, Marchi di fabbrica dell’Ufficio italiano brevetti e marchi del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, b. 64, f. 8989: “Weiland Paul” 29 aprile 1931.

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mondiale della squadra italiana e dell’affermazione di un prodotto locale – il cui nome era strettamente legato alla terminologia fascista – all’interno di una competizione internazionale, sino a quel momento legata indiscutibilmente all’area anglosassone. Infine, in terzo luogo, il palloneF ederale 102, rappresentava un successo anche da un punto di vista tecnologico e bio-medico: le 13 pezze che ne componevano la corazza esterna, infatti, «erano cucite tra loro mediante morbidi lacci di cotone marrone anzi- ché con quelli, più duri, di pelle comunemente in uso, ciò che permetteva ai calciatori di colpire la palla di testa evitando impatti dolorosi e fastidiosi infortuni»3. I brevetti registrati per la produzione di articoli per il foot-ball non confermano, tuttavia, il trend di maggiore diffusione e apprezzamento di quello sport che le vittorie delle società nostrane e della nazionale italiana avrebbero dovuto suscitare: sono segnalati, infatti, solo otto brevetti, distribuiti, per altro, tutti negli anni Venti del secolo scorso:

anche ampliando il campo di indagine, includendo i brevetti registrati per la pro- duzione di articoli per i giochi con il pallone, il quadro risulta solo leggermente mo- dificato, annoverando la presenza di quattro brevetti negli anni Trenta, nessuno dei quali, tuttavia, registrato negli anni delle edizioni della Coppa Rimet (1934 e 1938):

3 http://www.treccani.it/enciclopedia/federale-102/

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Non è facile ipotizzare le cause di questa apparente discordanza: si può immaginare, tuttavia, una certa discrepanza nelle fonti archivistiche, confermata dalla registrazione dell’Ecas come ditta produttrice di «attrezzi ginnastici, articoli di maglieria, indumen- ti da sport tessuti, calzature per sport»4, ma non di palloni da foot-ball, in contrasto con quanto sopra riportato. Degna di rilievo, comunque, rimane la presenza, tra i marchi censiti, di quello relativo alla Ditta Luigi Cevenini, (registrato erroneamente come Levenini), celebre giocatore dell’Internazionale di Milano negli anni Venti, che scelse, ironicamente, come marchio di fabbrica della propria ditta «per contraddi- stinguere corazza di cuoio per foot-ball, scarpe per foot-ball […] ed in genere articoli sportivi»5 il soprannome che aveva ricevuto durante la sua carriera agonistica, “Zizì”, per via del suo modo di giocare, insistente e pungente come una zanzara. Si tratta di un primo esempio importante di conversione dall’atleta all’imprenditore, tanto più significativa se si considera che avveniva all’interno di un settore, quello calcistico, che Cevenini doveva conoscere certamente molto bene. Nell’anno 1934, in occasione dei Mondiali di calcio disputati in Italia, fu pubbli- cato un manifesto che invitava perentoriamente tutte le società di calcio italiane a «sostituire i palloni stranieri con questo genuino prodotto della tenacia e del lavoro nazionale»6. Nell’anno della conquista dell’Etiopia e della proclamazione dell’Impero i prodotti sportivi divennero uno dei simboli materiali della resistenza alle sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni per la guerra aggressiva condotta contro lo stato africano, come dimostrano alcuni manifesti pubblicitari apparsi nel 1935: in una foto pubblicata nel dicembre di quell’anno sulla rivista Lo Sport fascista un motocicli- sta, Pietro Taruffi (1906-1988) montava la Rondine, un modello prodotto in Italia in quegli anni a partire da un progetto di Carlo Gianini e Giovanni Bonmartini. Il titolo della fotografia era emblematico: «risposta dello Sport fascista alle sanzioni». Nella pagina seguente un manifesto invitava lo sportivo italiano a privilegiare indumenti fabbricati in rayon, basato sull’utilizzo della “canna comune” (Arundo donax) per emanciparsi dall’importazione della cellulosa: «egli – precisava la reclame – oltre a proteggere sé stesso igienicamente, protegge la Nazione da importazione straniera».

Conclusione

Allo stato attuale della ricerca, molti interrogativi restano ancora senza risposta. Non è possibile dimostrare, ad esempio, quali conseguenze hanno apportato le indu- strie sportive proprietarie dei brevetti sullo sport: ne hanno stravolto l’indole ludica, come suggeriva Hardy, limitando le scelte degli atleti all’interno della gamma di sport disponibili e le modalità di gioco, attraverso una serie di logiche commerciali tese a privilegiare alcune attività e regolamentazioni sportive a scapito di altre? (Hardy 1986,

4 «Ente centrale approvvigionamenti sportivi società an.» in http://dati.acs.beniculturali.it/mm/local/ 5 «Luigi Levenini» in http://dati.acs.beniculturali.it/mm/local/ 6 manifesto pubblicitario Pallone “Ecas” Tipo federale 102, 1934. [collezione privata dell’autore].

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33). Alle tre domande iniziali si è cercato di offrire una risposta esaustiva tenendo con- to dei limiti che caratterizzano le fonti rappresentate dai brevetti; se, da un lato, non è stato possibile elencare una serie di modelli specificatamente adottati nelle scuole ita- liane durante il Ventennio, dall’altro la ricerca intrapresa in questa sede ha permesso di individuare una serie di oggetti il cui utilizzo è stato ricondotto a particolari prati- che educative o a specifiche valenze simboliche, che hanno contribuito a ricostruire le interazioni fra soggetti, oggetti e la loro specifica rappresentazione visuale. Più sempli- ce, invece, è stato cercare di offrire una risposta agli altri due quesiti posti al principio di questo saggio: in ambito formativo è stata riconosciuta la preminenza di un modello pedagogico di educazione fisica ginnico-sportiva basato sulle teorie di Ferrauto, così come sono state indicate quali attività sportive erano sostenute dal Regime e le con- traddizioni insite nel tentativo di renderle popolari, come, ad esempio, nel caso della ginnastica acrobatica. L’analisi dei diversi grafici, relativi a specifici settori agonistici, unita allo studio delle réclame pubblicate all’interno delle riviste sportive dell’epoca, infine, hanno reso possibile accertare come, proseguendo un percorso già iniziato in Età liberale, la produzione italiana si fosse ormai emancipata da quella estera, rice- vendo, in alcuni settori, un notevole impulso dalle politiche autarchiche operate dal Regime nel corso della seconda metà degli anni Trenta. La storia dei brevetti, dei modelli e dei marchi sportivi non può essere, dunque, disgiunta da una storia materiale e dei consumi: gli oggetti cui fanno riferimento, tuttavia, non possono e non devono essere semplicemente inseriti all’interno di con- testi già storicamente determinati, altrimenti si ricaverà solo un effetto puramente illustrativo, o peggio ancora, ridondante della loro funzione. Gli oggetti, al contrario, devono essere posti al centro di un dialogo con altre fonti, nel quale coesistano diverse narrazioni della storia stessa. (Riello 2009, 59).

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http://www.treccani.it/enciclopedia/federale-102/. Ultimo accesso 7 giugno 2017 http://dati.acs.beniculturali.it/mm/local/. Ultimo accesso 7 giugno 2017

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The development of consumptions seen through the arithmetic «word problems»

La rivoluzione dei consumi vista attraverso i problemi scolastici elementari

Since the 19th century the elementary arithmetic, especially the word problems, has devoted space to the world of the economy. This both to prepare the students to the world of the job and the trading, both to educate them to consumption of goods (and to savings) that were considered essential for the education of the young genera- tions. The paper intends to use the source “word problems” to follow the changes of the economic sphere that emerge from the mathematical curriculum between the 1960s economic boom and the present. L’aritmetica elementare, soprattutto nella forma dei problemi, fin dall’Ottocento ha dedicato spazio al mondo dell’economia, sia nella prospettiva di preparare gli allievi e le allieve al mondo del lavoro e della compravendita, sia per educarli ad un orizzonte di consumi (e di risparmi) che venivano ritenuti indi- spensabili per condurre una vita sociale attiva e moralmente regolata. Il saggio intende utilizzare questa fonte – il problema scolastico – per seguire i mutamenti della sfera economica che emergono dal currico- lo matematico desumibile da un corpus di sussidiari editi tra gli anni del boom economico e il presente. Key words: Consumption, Mathematics, Word Problem, Job, XX-XXI century, Elementary/primary school. Parole chiave: Consumo, matematica, problema scolastico, lavoro, XX-XXI secolo, scuola elementare/ primaria.

Nella scuola elementare non esiste una materia specifica dedicata (o che sia sta- ta dedicata in passato) specificamente all’insegnamento delle conoscenze di base dell’economia. Alcuni aspetti di questo campo del sapere sono trattati indirettamen- te all’interno di settori disciplinari dedicati ad altre tematiche: nella geografia, nelle letture, nella storia, o in alcune esperienze collegate alla recente “quasi-disciplina” Cittadinanza e Costituzione1; in questi ambiti disciplinari gli elementi dell’economia entrano saltuariamente come contenuti accessori o parziali, utili a completare la trat- tazione di altri argomenti altrimenti incomprensibili. Aspetti importanti dell’econo- mia compaiono anche nella matematica, in particolare sono trattati nell’insegnamento dell’uso del denaro e nelle attività di esercizio e di verifica collegate ad esso, in special modo nella forma dell’esercitazione chiamata «problema». Il tema del convegno, “educazione, scuola e consumo”, apre un campo di indagini per la storiografia dell’educazione che pone questioni metodologiche e di imposta-

1 legge 30 ottobre 2008 n. 169 e legge 23 novembre 2012 n. 222.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 167-186 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.59 Gianluca Gabrielli, [email protected] (Università degli Studi di Macerata)

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zione della ricerca. La moderna economia di mercato (capitalistica) si articola infatti (semplificando e rimanendo nell’ambito della teoria neoclassica) in sistema della pro- duzione, sistema del consumo, sistema creditizio, nonché il mercato come spazio in cui i diversi soggetti si incontrano e competono per soddisfare bisogni e realizzare il massimo profitto. Il settore del consumo quindi, anche se analizzato nell’ambito della pratica didattica, va compreso all’interno dell’articolazione complessiva del sistema economico, cercando – se possibile – di pesare l’importanza relativa che assumono i diversi settori. Oltre a questo sguardo d’insieme, è certamente utile analizzare le articolazioni interne che il tema del consumo assume traducendosi in pratica didat- tica, studiando quali aspetti emergono con più forza, quali sono tralasciati, le ragioni (didattiche, pedagogiche, ideologiche) per cui alcuni contenuti trovano più spazio e più attenzione di altri. Nel presente saggio quindi provo ad indagare la sfera economica del consumo all’interno della rappresentazione didattica del sistema economico che emerge dalla rassegna dei problemi aritmetici nella scuola primaria. Ritengo che i «problemi scola- stici» possano venire utilizzati con profitto nella ricerca storico-educativa come fonti sui generis. La fonte «problema scolastico» va quindi letta con alcune cautele metodo- logiche, ma può offrire interessanti opportunità2. Prima di tutto essa consente di con- durre una ricerca di tipo quantitativo. Poiché nell’intreccio narrativo di questi pro- blemi possono rientrare – in linea teorica – tutte le sfere della vita economica, la loro quantificazione permette di raccogliere dati per trarre indicazioni sul peso specifico di ogni settore. Occorre poi tenere presente che gli elementi non aritmetici presenti nei problemi (e tra essi quelli economici) sono scelti dagli autori spesso in maniera involontaria e quindi ciò che rappresentano ha a che fare più che con espliciti progetti educativi riguardo all’economia, con la dimensione involontaria del senso economico presente nella mente dell’autore del libro e agìta (anche se non esplicitamente elabo- rata per questo fine) come didatticamente emblematica per allieve ed allievi. I perso- naggi, i contesti in cui vengono fatti agire, le situazioni, gli oggetti che compaiono nei «problemi» sono rivelatori di un’idea di società complessa e dalle molte sfaccettature. Quello che possiamo trarre da questa analisi quindi non è tanto un esplicito cur- ricolo didattico della materia virtuale “economia”, quanto un insieme di implicite convinzioni economiche degli autori e autrici dei libri di testo che si traducono in esercitazioni didattiche matematiche, costruendo un ambiente virtuale di vita (una vera e propria società semplificata, un prototipo matematico della società economica) in cui allieve e allievi sono invitati ad entrare mentalmente, a muoversi, ad operare, a maturare competenze, a radicarsi. Occorre aggiungere un’altra riflessione. L’analisi delle fonti si limita in questo caso ai libri di testo e non si estende a corpus di quaderni. Ne deriva che la quantificazione e l’analisi dei problemi dei sussidiari non ci fornisce indicazioni su quali di questi pro- blemi siano stati realmente assegnati in classe. L’analisi che segue perciò ci racconta

2 alcune precedenti indagini che si sono servite prioritariamente della fonte “problema aritmetico”: Gabrielli e Guerrini 1999; Gabrielli 2001; Gabrielli 2010.

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qualcosa principalmente riguardo all’orientamento dell’autore del libro; è però inne- gabile che il sistema di adozione dei libri di testo (in questa fase della storia d’Italia lasciato alla scelta dei docenti) ci suggerisce una certa corrispondenza tra idee degli autori e idee didattiche dei docenti che li adottano, e quindi fa presupporre una certa omogeneità tra il sussidiario e la pratica didattica. Sicuramente, per rendere più completa e produttiva l’indagine, sarebbe utile con- frontare l’immagine della sfera economica e del consumo sottesa ai problemi arit- metici con quella che emerge nelle altre materia citate come capaci di trasmettere immagini e suggestioni sul sistema economico. Lo spazio del saggio presente non lo ha per adesso consentito; i parziali risultati conseguiti con questa ricerca quindi costi- tuiscono solo la prima tappa di un’indagine che andrà approfondita e completata con altre tipologie di fonti. In questa prima formalizzazione della ricerca ho deciso di limitare l’analisi ad al- cuni sussidiari emblematici, sottoponendo i problemi ad uno sguardo qualitativo e quantitativo. Nel fare questo ho dovuto cercare degli elementi sufficientemente uni- voci nel testo dei problemi sulla base dei quali decidere se annoverarli nella categoria «problemi di carattere economico» oppure no. Ho valutato due ipotesi. La prima considerava problemi di carattere economico quelli che si riferivano esplicitamente nel testo a somme di denaro. Questa formula – più restrittiva – ha il limite di escludere una serie di problemi descrittivi di attività tipiche della produzione di merci, come l’allestimento dei negozi o il calcolo del peso delle messi, che fanno parte a pieno tito- lo del processo economico, anche se non comportano l’uso del denaro. Considerare anche questo insieme di problemi avrebbe quindi allargato il campo dell’analisi ma avrebbe presentato molte situazioni diversificate, problemi aritmetici la cui interpre- tazione non si presentava univoca, tanto che non sarebbe stato facile prendere decisio- ni sulla loro inclusione o esclusione. Per questo primo sondaggio quindi ho deciso di considerare il criterio più restrittivo, riservandomi in futuro di elaborare una casistica utile a tenere conto anche dei problemi economici non monetari. Comunque, dove mi è parso utile, ho aperto piccole finestre per dare conto di aspetti non monetari del processo economico che mi parevano interessanti.

I “problemi” dell’Ottocento

Iniziamo da un testo di fine Ottocento rivolto agli allievi di quarta e quinta classe (Silvestri 1877-1881). Diciamo subito che i problemi di tipologia economica presen- tano situazioni molto articolate e diversificate, tanto da non permettere una facile classificazione.P ur con questo limite, si può fornire una sommaria suddivisione. La maggior parte di essi (46) descrive situazioni di commercio e compravendita; tra que- sti occorre distinguere i 17 che riguardano la compravendita di merci prodotte da un artigiano che è anche commerciante del proprio manufatto. Eccone un esempio di queste due tipologie:

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Un droghiere comperò 700 Mg. Di caffè a lire 32 il Mg., e lo rivendé a lire 38. Si cerca […] (Silvestri 1877-1881, 19). Un calzolaio fece per un medico un paio di stivali di vitello di Francia per lire 35,80; un paio di scarponcelli a doppia suola per lire 18,15; ed un paio di stivaletti di pelle verniciata da lire 25,75. Quanto dev’egli ricevere in tutto?(Silvestri 1877-1881, 11). Il secondo gruppo in ordine quantitativo (23 problemi) riguarda il consumo nell’ot- tica del consumatore, cui forse si possono aggiungere anche altri problemi (9) sulla riduzione a prezzo unitario che per le cifre monetarie e le quantità di merce trattate possono essere riferiti a prezzi al dettaglio. Un terzo gruppo (14 problemi) si riferisce all’economia agricola intesa nell’ottica del produttore diretto. Un quarto gruppo (11) presenta quesiti sulla remunerazione del lavoro salariato (operai, muratori) visto dal punto di vista del lavoratore, cui sono da aggiungere due problemi (senza formulazio- ne di valori economici) sulla ripartizione dei carichi di lavoro. Accanto a queste tipologie più frequenti compaiono altre casistiche più sporadiche che comunque è interessante citare perché danno l’idea di una presentazione della matematica economica molto differenziata e articolata, che probabilmente cercava di dare conto degli svariati e ancora poco codificati ruoli presenti nel mondo del lavoro in una società economica multiforme e in rapida trasformazione. Due problemi trattano situazioni di piccola imprenditoria (un fornaio e una grande officina di mobili), tre quesiti presentano problematiche relative alla compravendita di terreni. Otto problemi sono organizzati sulla ricerca dei prezzi unitari o complessivi e rimandano al mondo dei grossisti e dell’approvvigionamento dei negozi, anche se ciò non è formulato esplicitamente e si può supporre solo dai quantitativi delle merci prese in considerazione. Tra i problemi compaiono anche sottoscrizioni di solidarietà, calcoli sul risparmio e sulla beneficenza, la carità e la «limosina», un problema sull’en- tità di un debito, alcuni sulle divisioni ereditarie: I 2/3 di 60000 lire vennero distribuiti ai poveri di 36 parrocchie; il resto fu diviso tra 12 istituti di beneficenza. Quanto toccò a ciascuna parrocchia? Quanto a ciascun istituto? (Sil- vestri 1877-1881, 67). Dei problemi dedicati al consumo ben 5 hanno come protagonista la «mamma» che acquista l’occorrente per confezionare camicie di cotone, camiciotti di velluto, stoffa per confezionare vestiti per le figlie. Due problemi presentano il bilancio familiare di due famiglie, una con rendita, l’altra con salari, che devono bilanciare entrate e uscite. Nella remunerazione del lavoro entrano anche remunerazioni occasionali in natura, attestazione di una economia informale ancora molto presente: Un proprietario, a tre uomini che lo aiutarono a scaricare una carrata di fieno, diede a be- re 1 litro di vino. Quanto ne avrà bevuto ciascuno? (Silvestri 1877-1881, 38). Oppure nelle remunerazioni rientrano attività compiute dalle donne a casa per in- tegrare il bilancio familiare, come l’allevamento di bachi da seta (Silvestri 1877-1881, 40); una colletta di solidarietà offre l’esempio di una forma di autoorganizzazione

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dei lavoratori a metà tra il solidarismo cattolico e le nuove forme mutualistiche delle nascenti camere del lavoro: Fu aperta una sottoscrizione a favore di 25 operai senza lavoro; quanto ebbe ciascuno se la somma raccolta fu di L. 580,75? (Silvestri 1877-1881, 40). In un problema gli studenti vengono anche invitati a calcolare l’entità teorica dell’in- casso dello Stato attraverso le imposte sui terreni agricoli (Silvestri 1877-1881, 35). La dimensione crescente dell’emigrazione intercontinentale è il contenuto di un problema in cui un emigrante converte la propria valuta in oro per prepararsi al viaggio: Un giovane che vuole emigrare in America converte lire 500 in tante pezze d’oro da lire 20. Quante saranno le pezze? (Silvestri 1877-1881, 25). Due quesiti presentano il consumo settimanale di pane in un collegio e in una fa- miglia, base del bilancio alimentare dell’epoca, assieme all’acquisto dei tessuti per il confezionamento dei vestiti – compito casalingo svolto dalle donne. Compaiono problemi di conversione interne alla divisa monetaria italiana (lire e «scudi», cioè monete da 5 lire, ad esempio (Silvestri 1877-1881, 25), oppure lire e «marenghi», cioè monete in oro da 20 lire). Come si vede l’ambito del commercio e della compravendita, associato in parte all’attività artigiana, è il più rappresentato e costituisce la matrice educativo econo- mica che svetta in modo netto sulle altre. Gli altri settori economici maggiormente rappresentati sono tre : quello del consumo, pratica di riproduzione della vita eco- nomica domestica; quello agricolo, che all’epoca costituiva ancora una dimensione quotidiana di lavoro e di vita per una alta percentuale della popolazione; quello della remunerazione del lavoro salariato, fonte di denaro per le famiglie e quindi ingre- diente fondamentale del bilancio familiare. Potremmo affermare che la società di fine Ottocento riferita alla popolazione scolastica di quarta e quinta classe dell’epoca (una minoranza, composta da ceti popolari e soprattutto dalla piccola borghesia in for- mazione) prende forma in modo equilibrato, prospettando occupazioni relative alla compravendita, all’artigianato, alle attività agricole, in parte al lavoro salariato, con esempi di solidarietà tradizionali o innovative. In basso il confine era rappresentato dall’emigrazione all’estero o dal lavoro pagato in natura, in alto dalla compravendita di terreni, dall’imprenditoria agricola, dall’attività dei grossisti.

Cosa dicono i programmi?

Come si vede la quantità di problemi con l’uso del denaro è notevole, in questo volume su un totale di 241 problemi ben 151 rientrano nella categoria economica se- condo i criteri sopraesposti. Viene quindi da chiedersi quale siano state nel tempo le indicazioni ministeriali relativamente ai programmi di aritmetica e matematica e spe- cificamente ai «problemi», in particolare occorre verificare se esistessero indicazioni chiare rispetto alla loro matrice economica (poiché, come detto, non è mai esistita per

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la scuola primaria, una materia specificamente dedicata agli aspetti economici della relazione sociale, se non nelle classi postelementari). Facciamo una rapida carrellata. Nei programmi del 1860 per la quarta classe troviamo l’indicazione di insegnare il «modo di tenere i libri dell’azienda domestica»3 e nelle Istruzioni relativamente alla Seconda classe troviamo la raccomandazione che i problemi «si aggirino […] sovra oggetti che sono d’uso comune nella vita, e tali da mettere in luce o i benefizi del lavoro, o le norme di una saggia economia, o i pregi della beneficenza, od altri cosif- fatti argomenti». Per differenziare il curricolo sulla base del genere degli allievi, nella sezione delle scuole femminili si legge che rispetto «ad esempi affatto estranei alle occupazioni femminili si preferiranno quelli che si riferiscono a casi di domestica eco- nomia, a spese, a lavori consueti, ed attinenti a cose famigliari»4. In effetti il volume di Silvestri sembra rispondere puntualmente a queste indicazioni, redigendo un alto numero problemi relativi all’economia e declinandone una parte secondo esplicite finalità morali ed edificanti. I programmi del 1888 risultano più sintetici, ma mantengono riferimenti che pos- siamo leggere in continuità con i precedenti: riguardo alle operazioni si consiglia di prendere le mosse da «piccoli quesiti tolti dall’azienda domestica e dalla vita» e per la quinta classe è incluso come ultimo punto: «applicazioni ai conti di interesse e di società»5. In continuità anche la riscrittura del 1894: «Ogni alunno divenga pronto e sicuro nel calcolo […] e sollecitamente lo applichi ai casi vari dell’economia domesti- ca e delle piccole aziende industriali e commerciali»; si formi un «complesso di cogni- zioni e di attitudini così disposte che […] porgano subito alle famiglie, alle officine, ai traffici, ai campi una contribuzione indispensabile di ordine e di previdenza»6. Nel 1905 troviamo una più dettagliata differenziazione nei programmi di quinta e sesta classe, organizzati in maniera professionalizzante e con indicazioni distinte sulla base del genere. Nel programma di quinta classe di Aritmetica e geometria entrano le «Nozioni pratiche di rapporti e proporzioni semplici (interesse, sconto, aggio, tara, senseria)» mentre il programma, sempre di quinta, di Computisteria pratica compren- de (maschile) la «tenuta dei libri a partita semplice di una piccola azienda domestica o privata», oppure (femminile) i «conti domestici». In sesta classe troviamo in arit- metica i «computi commerciali. Ragguaglio sul sistema monetario italiano coi sistemi dei più importanti Stati esteri ed applicazioni commerciali», mentre in Computisteria maschile «esercizi di scritturazione a partita semplice di una piccola azienda agricola ovvero commerciale, secondo i luoghi», mentre in quella femminile continuano gli «esercizi di tenuta di conti domestici»7. Il testo dei programmi del 1923, firmato da Giuseppe Lombardo Radice, ritorna ad essere sintetico sull’argomento. Nelle indicazioni per la seconda classe vengono

3 Programmi per la scuola elementare annessi al regolamento, 15 settembre 1860 (Catarsi 1990, 188). 4 Istruzioni ai Maestri delle Scuole primarie sul modo di svolgere i Programmi approvati. Decreto 15 settembre 1860 (Catarsi 1990, 192, 196). 5 Riforma dei programmi delle scuole elementari, RD 25 settembre 1888, n. 5724 (Catarsi 1990, 215, 218). 6 rd 29 novembre 1894, n. 525, Istruzioni generali (Catarsi 1990, 227, 228). 7 Programmi per le scuole elementari, Rd 29 gennaio 1905, n. 45 (Catarsi 1990, 264, 265).

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citate le “monete” insieme alle altre unità di misura, mentre in terza vengono prescrit- ti «problemi, a voce e per iscritto, miranti a chiarire i concetti di guadagno, perdita, ripartizione», ed è la prima volta che questa formula della compravendita compare in maniera distinta e precisa nei programmi. In quinta ritroviamo l’argomento classico delle «semplici scritture contabili»8. Nella riscrittura “fascistizzata” del 1934 com- paiono alcune modifiche: rimangono in seconda le «monete di uso più comune ed esercizi relativi». In terza i problemi diventano «facili […] per la cui risoluzione si ri- chieggano non più di due operazioni, con particolare riguardo a quelli diretti a chiari- re i concetti di guadagno, perdita, ripartizione». Il tema viene ribadito in quarta «Pro- blemi orali e scritti, con particolare riguardo a quelli che servono a fissare i concetti di costo, guadagno e perdita, ripartizione di spese e guadagno, peso lordo e netto, tara». In quinta, con intento professionalizzante, troviamo «percentuali, interesse semplice […] Semplici scritture contabili: nota delle entrate e delle spese domestiche, note di lavoro e note di vendita; ricevuta e quietanza. Presentazione e conoscenza dei moduli più usati per le spedizioni di valori e di merci per mezzo della posta. Il risparmio e le Casse postali di risparmio»9. I programmi del 1945 mantengono il riferimento – che pare ormai acquisito nel canone della aritmetica elementare – alla compravendita, ma lo contestualizzano, come mai era avvenuto prima, nella complessità delle situazioni che costituiscono la vita economica della società, proponendo una didattica fecondata dall’attivismo deweyano e valorizzando il carattere comunitario della vita scolastica. Si raccomanda infatti che gli insegnanti puntino sulla «qualità degli esercizi» più che sull’abbondanza numerica, e si suggeriscono i temi economici come matrici per una vasta gamma di problemi: «le idee di spesa, ricavato, guadagno e dei rapporti relativi a quelle riguar- danti l’entità di un lavoro, il numero delle persone ad esso adibite, il tempo necessario all’esecuzione e i rapporti tra tali dati, ben determinate che siano, costituiranno il mezzo sicuro per la risoluzione di ogni questione affine». E il testo così continuava: «Nella formulazione di problemi ed esercizi, lavoro da farsi anche questo possibil- mente dagli scolari, gioverà utilizzare, correggendole se è il caso, le conoscenze che i fanciulli hanno sui prezzi delle cose, sulle tariffe di trasporto, sui salari, sugli stipendi, sui compensi della mano d’opera, ecc. perché possa anche così stabilirsi una piena aderenza tra la scuola e la vita. Ciò che più importa, nella pratica dell’aritmetica, è di farne intuire il valore sociale, mettendo l’alunno in condizione di vivere reali situazio- ni di carattere economico, affinché possa padroneggiarle. Particolarmente indicate per questo sono le forme di cooperativismo scolastico». E ancora, poco oltre: «Come appare ovvio, il disegno e il lavoro dovranno largamente sussidiare l’insegnamento della geometria e della computisteria. Così ancora taluni motivi morali e sociali, insiti nella computisteria (previdenza, risparmio, assicurazione, onestà negli affari, benes- sere economico, ecc.) si collocheranno per importanza al di sopra della conoscenza

8 Programmi per le scuole elementari, Rd 29 gennaio 1905, n. 45 (Catarsi 1990, 264, 265). 9 Programmi di studio. Norme e prescrizioni didattiche per le scuole elementari, in “Bollettino Ufficiale del Mini- stero dell’Educazione nazionale”, 1934 (Catarsi 1990, 353-354).

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stessa delle scritture contabili, pur dovendo anche ad essa la loro formazione e il loro consolidamento». Questa ventata di novità, di investimento etico e di apertura all’attivismo si sente molto anche nelle indicazioni per le classi; per la quarta trovia- mo «Esercitazioni elementari di contabilità (conti della cooperativa scolastica, della bibliotechina, del giornalino della classe, ecc.)», e in quello di quinta «Pratici esercizi di contabilità e scritturazioni varie. Compilazione di un modulo di vaglia, di conto corrente, di una distinta di versamento bancario, di una ricevuta commerciale. Lettera di commissione, nota delle spese, fattura, quietanza, ecc. Bilancio domestico. Scrittu- razioni contabili varie in relazione al cooperativismo scolastico»10. Nei programmi Ermini del 1955 rimarrà ben poco di questo spirito. Nelle indica- zioni per le classi terza, quarta e quinta leggiamo che «Anche l’insegnamento della matematica andrà in questo ciclo differenziandosi sempre più, ma senza perdere il collegamento con gli altri insegnamenti e quindi sempre a strettissimo contatto con la vita pratica, e in relazione agli interessi del fanciullo. Si darà per questo massima importanza ai problemi, che andranno proposti con la naturalezza che deriva dalle effettive occasioni pratiche, ma al tempo stesso con rigorosa costante gradualità. Oc- corre soprattutto concretezza e aderenza alla realtà quotidiana, ricorrendo anche al casi più comuni della contabilità familiare e commerciale»11. Gli ultimi interventi ministeriali, volutamente a carattere indicativo per lasciare alle programmazioni dei docenti (introdotte nel 1977)12 la maggior parte della scelta e della declinazione dei contenuti, sono stati poco generosi sul carattere economi- co della matematica elementare. Nel testo del 1985 ai problemi viene dedicato un paragrafo del programma di matematica affermando che «Il pensiero matematico è caratterizzato dall’attività di risoluzione di problemi” e che «le nozioni matematiche di base vanno fondate e costruite partendo da situazioni problematiche concrete, che scaturiscono da esperienze reali del fanciullo», ma nella scelta dei contenuti non viene fatto cenno, nemmeno come esempio, a quesiti di tipo economico, né alla compraven- dita13. Nelle Indicazioni del 2002 riferite al ministro Moratti l’unico accenno che si legge (nel primo biennio) raccomanda che «è bene usare diversi problemi, riferendoli alla rappresentazione di situazioni che richiedono differenti modellizzazioni (uso del denaro, misure del tempo)»14. Nel 2007 le nuove Indicazioni del ministro Fioroni non cambiano molto le cose: «Caratteristica della pratica matematica è la risoluzione di problemi, che devono essere intesi come questioni autentiche e significative, legate spesso alla vita quotidiana”; inoltre, tra gli obiettivi specifici per la classe prima, si può leggere l’invito ad «effettuare misure per conteggio (per esempio di passi, mo- nete, quadretti, ...)»15. Ancora meno troviamo nella versione 2012 delle Indicazioni,

10 Programmi, istruzioni e modelli per le scuole elementari e materne, DM 9 febbraio 1945. 11 Programmi didattici per la scuola primaria, DPR 14 giugno 1955, n. 503. 12 Legge 4 agosto 1977, n. 517. 13 Programmi didattici per la scuola primaria, DPR 12 febbraio 1985, n 104. 14 Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola Primaria (6 novembre 2002); Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nelle scuola primaria (9 ottobre 2002), collegate alla Legge 28 marzo 2003, n. 53. 15 Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, DM 31 luglio 2007.

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riferimento attualmente vigente, dove tra gli Obiettivi di apprendimento al termine della classe quinta della scuola primaria troviamo «Passare da un’unità di misura a un’altra, limitatamente alle unità di uso più comune, anche nel contesto del sistema monetario»16. Come si vede dai testi dei programmi possiamo comprendere che la dimensione economica dei problemi è sempre stata espressa fin dai primi programmi dell’Italia unita, divenendo esplicita soprattutto nelle classi professionalizzanti o nel contesto tutto particolare del 1945. La «contabilità familiare e commerciale», come si esprimo- no sinteticamente i programmi del 1955, rimane il fondamento generico di riferimen- to: nella parte “commerciale” il tema viene precisato come «spesa, ricavo e guadagno» (almeno dal 1923 al 1955), mentre nella parte “familiare” il tema rimane più vago a sottintendere la spesa domestica oculata e il risparmio. Negli ultimi trent’anni invece questi riferimenti si sono rarefatti, anche se non sono stati esplicitamente contrastati: l’effetto è stato di lasciare maggiormente la scelta ai docenti e soprattutto agli autori dei libri di testo. Ma ora è il momento di mettere a confronto queste sparute indicazioni program- matiche con alcuni testi scolastici, a partire dagli anni Sessanta.

Gli anni del boom economico

Iniziamo dai sussidiari per la quinta classe compilati da Guido Petter (Petter 1966) e Alberto Manzi (Manzi 1966). Nel manuale di Petter, considerato all’epoca come innovatore del panorama editoriale17 – anche se precedente i grandi cambiamenti indotti dalla stagione della contestazione studentesca – la distribuzione dei problemi nei diversi settori economici mantiene un certo equilibrio. Nel dettaglio troviamo 14 problemi che hanno come protagonisti degli agricoltori, 17 che coinvolgono commer- cianti, 13 che riguardano consumatori, 12 problemi riguardano la remunerazione di lavoro prestato da operai, muratori o donne nel lavoro domestico. La predominanza della sfera del commercio è quindi ancora presente, anche se le differenze quantitative con gli altri settori sono ridotte. Nel lavoro remunerato troviamo quesiti sulla paga oraria e giornaliera, sulle ritenu- te, sugli straordinari, sul risparmio che si può accumulare nel tempo e sul bilancio fa- miliare. Due esercizi spostano il punto di vista sull’erogatore della paga («direzione» e «impresario»), mentre la differenza di genere emerge chiara giustapponendo il lavoro domestico della donna che prepara calzettoni con il telaio con il problema che invita a calcolare il contributo al bilancio famigliare del padre e del figlio: In una famiglia il padre guadagna mensilmente L. 97.500; un figlio L. 33.9000. Se in quel-

16 Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, DM 254 del 16 no- vembre 2012. 17 maria Luisa Tornesello parla di “caso Petter nelle elementari” che raggiunse le 250mila/300mila adozioni in tre anni (Tornesello 2006, 127).

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la famiglia si spendono in media L. 108.000 al mese, quale sarà il risparmio mensile? Una donna lavorando in casa, con un piccolo telaio, riesce a confezionare 72 paia di cal- zettoni in 6 giorni. Quanto guadagna al giorno se per ogni paio prende L. 380? Quanto gua- dagnerebbe in un anno se potesse lavorare 295 giorni? (Petter 1966, 314).

L’acquisto di una radio a rate mostra la connessione con la sfera del consumo de- clinata su una formula, quella dell’acquisto a rate, la cui diffusione si era ampliata fin dai primi anni del boom. In questo panorama risultano significativi dell’intento di educare alla previdenza i 5 problemi dedicati al bilancio familiare (spesa giornaliera di pane, settimanale di vitto e annuale di carne, bilancio trimestrale entrate/uscite) e l’in- vito alla gestione accorta del rapporto tra remunerazione del lavoro e spese familiari. Il sussidiario di Manzi, pubblicato dalla casa editrice cattolica Ave, mostra una situazione differente. Su un numero totale di problemi più ampio, i due gruppi più numerosi sono il commercio (72, più 6 problemi riconducibili al lavoro dei grossisti) e il consumo (60). Il settore agricolo è rappresentato in 12 quesiti, semplificato per ragioni didattiche attraverso l’invenzione di due personaggi che si ripetono: Meco il contadino e Titta il pastore-allevatore. Il lavoro salariato è presente in 12 problemi, due dei quali sono presentati dal punto di vista dell’imprenditore che deve calcolare le paghe. Si tratta per la maggior parte di operai, ma anche di un trattorista, un falciatore e un muratore. Viene presentata anche una «mamma» che percepisce un salario (poco più della metà di quello del «papà»). Le differenze di genere emergono comunque con maggiore evidenza nella sfera dei consumi, dove troviamo la figura del padre che deposita denaro nella Cassa di risparmio, dà i soldi alla figlia per la gita e acquista tre libri per il figlio maggiore, paga l’affitto mensile, compra il televisore, mentre la madre acquista sale, frutta, carne, patate (risparmiando), farina all’ingrosso, stoffa, tela per fazzoletti. Da notare anche alcuni problemi (5) dedicati a lavori pubblici (costruzione di strade e stesura dell’asfalto su una piazza da parte dell’amministrazione comunale, pavimentazione del cortile di una scuola, messa a dimora di alberi in un viale) o co- munque lavori relativi alla collettività (restauro di una chiesa). Infine ben 17 problemi riguardano l’acquisto o la vendita di terreni, boschi, orti, formando una tipologia di problemi che intreccia l’agricoltura e la compravendita: Titta, avendo comprato un terreno, ne ha venduto uno di forma quadrata con il lato di dam 6. Se ha ricavato complessivamente L 5.760.000, a quale prezzo ha venduto ogni metro quadrato di terreno? (Manzi 1966, 320). Inoltre occorre segnalare che nel paragrafo (immancabile nei manuali di aritmetica elementare fin dall’unità d’Italia) che spiega la tematica della compravendita (spesa, ricavo, guadagno o perdita) come forma economica di base, la materia viene trattata senza schematismi matematici, accennando la complessità della formazione dei prezzi anche negli stadi che precedono la compravendita, cioè la produzione dei beni: «dalla fabbrica al consumatore la merce percorre un lungo cammino e il suo prezzo aumenta continuamente», si legge nella didascalia di un disegno che, dal mucchietto di materie

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prime illustra il passaggio attraverso la fabbrica, il grossista, il negoziante, per giun- gere infine nelle mani della bambina acquirente finale. Troviamo lo stesso sforzo di dare conto della complessità del processo in un disegno che illustra il percorso dalla raccolta della barbabietola all’acquisto dello zucchero da parte della bambina. In en- trambe le illustrazioni però sono rappresentati come persone gli acquirenti finali, i commercianti, i grossisti e i contadini, mentre del passaggio industriale è visibile solo l’icona dell’opificio, un involucro esterno, anonimo, privo delle immagini del lavoro operaio, mentre nel testo che descrive questo passaggio si legge che va aggiunto «il costo delle macchine e della mano d’opera» (Manzi 1966, 288-290). Passando agli anni Settanta ho scelto di analizzare i problemi inclusi in due volu- mi, Evviva (Paciotti, Volpati e Meloni 1978) e Uomo come (Solari et al. 1976), che mantengono la struttura tradizionale del sussidiario, mostrando però nei contenuti di aver preso atto della stagione della contestazione, durante la quale furono fortemente criticati i libri di testo tradizionali per l’astrattezza e la retorica passatista18. In Evviva per la quinta classe troviamo 23 problemi di compravendita e 19 proble- mi relativi al consumo (di cui 2 acquisti a rate). Questa prevalenza leggera della com- pravendita va temperata considerando che nei volumi di terza e di quarta i rapporti numerici tra i due gruppi si invertivano, come se la compravendita costituisse una tematica da potenziare nel tempo, dopo aver acquisito una abilità di base attraver- so esercizi di semplice consumo19. Per contro solo tre problemi tematizzano salari e stipendi20, un problema ha come protagonista un agricoltore, un quesito verte sulla compravendita di terreni. Il bilancio familiare compare in quattro problemi che invitano a calcolare la spesa media per le bollette e a tenere il bilancio tra entrate e spese. Tra i problemi dedicati al consumo è interessante notare il problema che invita l’allievo o l’allieva a calcolare incidenza del costo del cioccolato nel prezzo finale di un uovo di Pasqua: un tema, quello dello sguardo disincantato sulla formazione dei prezzi delle merci, che fa parte a pieno titolo di quella categoria che oggi chiamiamo “consumo critico”. In questo panorama che sembra proporre l’egemonia dei settori del consumo e della compravendita, colpisce il contenuto di alcuni problemi, in particolar modo in quelli sul salario. Uno presenta il bilancio delle entrate familiari composto dagli sti- pendi di padre e madre, anche se la madre con un impegno lavorativo a metà giornata; un altro quesito ha un carattere quasi sindacale, invitando a calcolare l’entità della tredicesima tenuto conto della sua composizione in 17/20 dello stipendio mensile («Il papà spiega che a dicembre non c’è esattamente uno stipendio doppio, ma [...]») (Paciotti, Volpati e Meloni 1978, 296); il terzo propone di scomporre lo stipendio sottraendo dall’entità lorda i contributi. L’impressione è che gli effetti delle grandi agitazioni seguite al Sessantotto siano penetrati come contenuti in alcuni ambiti, ma le linee di fondo della struttura dell’aritmetica economica elementare abbiano conti-

18 ad esempio: Alberti et al. 1972; Bonazzi e Eco 1972. 19 i rapporti tra compravendita e consumo sono 29 a 18 nel volume di terza classe e 49 a 32 nel volume di quarta classe. 20 anche nei volumi di terza e quarta sono presenti solo 2 problemi sul lavoro salariato ogni anno.

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nuato una evoluzione lenta che aumentava l’attenzione sulle sfere del consumo e della compravendita, lasciando l’ambito della produzione e quello della remunerazione del lavoro meno rappresentati che in passato. Questa sensazione viene confermata anche da Uomo come, dove nel volume di quinta troviamo della sfera del consumo rispetto alla sfera della compra- vendita (28 a 8)21. La retribuzione del lavoro vivo è il soggetto di cinque problemi, tra i quali troviamo il confronto tra la paga mensile degli operai e quella degli impiegati in una fabbrica (ma dal punto di vista di chi deve remunerare i lavoratori) (Solari et al. 1976, 265) e la richiesta di calcolare l’aumento di stipendio per effetto dell’aumento del costo della vita22. L’agricoltura compare in un solo problema che comunque non parla di somme di denaro; l’industria viene chiamata in causa nella proposta di inter- pretazione di un grafico che confronta la produzione di autoveicoli in Italia nel primo semestre del 1974 e del 1975 (Solari et al. 1976, 259). Ancora un salto in avanti, alla fine del secolo. Analizziamo i volumi per la quinta classe Orizzonti (Amulfi et al. 1999) e Voglia di conoscere (Amulfi 1997). In entrambi i testi è confermato il sorpasso: consumo e compravendita sono ancora una volta gli ambiti dominanti, ma in entrambi i sussidiari il consumo è il tema più frequente (23 a 18 in Orizzonti e 19 a 13 in Voglia di conoscere). In Orizzonti scompaiono operai e impiegati mentre ricompaiono problemi a tema agricolo (9). Tre quesiti descrivono problematiche industriali mentre un testo invita a calcolare la spesa pubblica neces- saria per asfaltare una piazza. Tra i problemi di confine ne compare uno sulla vendita di merce usata. In Voglia di conoscere troviamo tre problemi relativi alla remunerazione del lavoro dipendente, due da mettere a confronto con le spese da sostenere e uno che prende in considerazione lo stipendio mensile di una donna. Un testo riguarda il lavoro agricolo e uno riguarda un’azienda con 170 dipendenti.

I “problemi” del presente

Infine analizziamo alcuni materiali didattici dell’ultima generazione: da una parte un rapido sguardo ai test Invalsi per le quinte classi; dall’altra una serie di sussidiari consultati nelle edizioni che andranno in adozione nell’anno scolastico 2017-18. I test Invalsi sono stati introdotti nella scuola italiana in forma sperimentale nel 2001 per poi divenire obbligatori negli anni successivi. Questi test negli ultimi anni hanno assunto una influenza crescente sulla didattica esercitata dai docenti, dovu- ta probabilmente al collegamento che più volte è stato annunciato da esponenti del

21 i rapporti tra compravendita e consumo sono 14 a 9 nel volume di quarta e 17 a 23 nel volume di quinta. 22 «Il papà di Michele guadagna mensilmente L. 250.000. Per l’aumento del costo della vita anche il suo stipendio ha un aumento del 7%. Qual è dunque il nuovo stipendio del papà di Michele?» (Solari et al. 1976, 253). A p. 258 gli alunni vengono invitati a fare una statistica per scoprire le professioni dei genitori: «operai, contadini o impiegati»; in questi inviti all’inchiesta si percepisce la volontà di recepire le spinte alla curiosità sociale emerse nel decennio trascor- so, che entravano però a fatica nella struttura del curricolo consolidato di aritmetica.

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ministero tra i risultati dei test e i protocolli di valutazione della qualità delle scuole e dei docenti. Nel caso che prendiamo in considerazione queste prove consistono in batterie di test di matematica da risolvere in un tempo limitato che vengono sommi- nistrate annualmente in modalità censuaria alle quinte (o quarte) classi di tutta Italia. Le batterie comprendevano nei diversi anni da 20 a 34 quesiti per una media di 29. Analizzando queste 15 batterie emerge che sul totale di 436 quesiti, quelli di tipo eco- nomico sono stati 28, di cui 23 relativi al consumo (due di essi chiedono di comparare i prezzi per fare la scelta più economica), un problema nell’ottica del commerciante, due presentano domande su regali in denaro ricevuti dai bambini, due esercizi per la conoscenza del denaro e due propongono domande sul cambio di valuta. Come si vede il peso dei problemi economici supera di poco il 6% del totale mostrando come la concezione ministeriale della matematica sia oggi poco connessa alla dimensione economica. La grande maggioranza dei quesiti economici sono relativi al consumo. Non compaiono invece quesiti sulla retribuzione del lavoro. Passando all’esame dei sussidiari (si tratta di una decina di testi o eserciziari, poiché ormai il sussidiario viene fornito quasi sempre suddiviso tra testo ed eserciziario e spesso ulteriormente suddiviso negli opuscoli delle diverse materie), in questi ultimi anni si assiste alla diminuzione di centralità della forma classica del problema, in gran parte sostituita da esercitazioni matematiche formulate in modalità diverse, spesso a partire da immagini, grafici, tabelle, diagrammi.D ’altronde tale trasformazione è rallentata dalla abitudine degli insegnanti che ricercano nei libri da adottare elementi della loro formazione didattica, quindi ai problemi classici rimane ancora uno spa- zio significativo; un discorso simile potrebbe essere riferito al tema specifico della “compravendita”, scomparso dalle indicazioni programmatiche dal 1955 ma ancora presente nei sussidiari, anche se con uno spazio sempre più ridotto. È quindi ancora possibile raccogliere dati quantitativi attendibili riferiti ai problemi inclusi nei testi e ciò che ne risulta è interessante relativamente allo scopo di questa indagine. In Pensare perché (Carai et al. 2016) troviamo 15 problemi di consumo, 6 di com- pravendita, 2 con le attività di un grossista, 4 del mondo agricolo (imprenditoria agri- cola), uno del mondo dell’industria, uno di un lavoratore autonomo (un meccanico che ripara una catena di montaggio). I problemi relativi al consumo sono più nume- rosi di tutti gli altri problemi economici considerati insieme. La proporzione appare anche più evidente nell’eserciziario allegato dove compaiono 11 problemi relativi al consumo, uno nell’ottica di un grossista e uno in quella di un agricoltore (Cigolini e Molinari 2015). Alcuni problemi sono evidentemente strutturati per invitare ad un consumo criti- co, come questo sull’alimentazione ecologica dell’automobile: Marta vuole cambiare la sua auto per comprarne una a metano che inquina di meno. L’au- tomobile nuova costa € 13.450 e la sua vecchia auto viene valutata € 3.050. Marta versa su- bito € 3.400, il rimanente lo pagherà in 25 rate mensili. Quale sarà l’importo di ogni rata? (Cigolini e Molinari 2015, 55). Uno dei problemi relativi al settore agricolo viene etichettato come «compito di

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realtà», una categoria di situazioni problematiche che, secondo la didattica per com- petenze, dovrebbero spingere gli allievi ad uscire dalla retorica astratta della didattica per aprirsi alla concretezza del reale (Carai et al. 2016). Questa declinazione – nono- stante le intenzioni – produce un esercizio evidentemente troppo complesso e astratto per allievi di questa età; la tensione verso la concretezza viene realizzata nei termini dell’educazione allo «spirito di iniziativa e imprenditorialità» (come si legge nella nota sullo stesso sussidiario), sollecitata più volte dai ministri negli ultimi quindici anni: Io agricoltore. Hai ereditato un uliveto di 40 000 m2 di cui solo 10 000 m2 sono coltivati. All’anno, il ter- reno coltivato ha un costo di gestione di € 8 000 e rende 3,5 Mg di olive da tavola, vendute a 2 €/kg, e 2 Mg di olive da olio da cui si ricavano ogni 100 kg 15 l di olio, venduto a 12 €/ l. Esegui i calcoli necessari per capire se è vantaggioso coltivare l’intero campo. Motiva la scelta in un documento da presentare ai contadini che lavorano il campo (Carai et al. 2016). Nei testi di quarta e quinta classe di Camillo Bortolato, che hanno la forma degli eserciziari e che hanno riscosso un significativo successo tra i docenti come esempli- ficativi di un sedicente «metodo analogico», le proporzioni tra i problemi economici sono esemplari del nuovo corso ormai affermato (Bortolato 2011; Bortolato 2012). In quarta classe di contro a 170 problemi sul consumo incontriamo 19 problemi di compravendita e 1 solo problema che include la paga oraria di una studentessa che si mantiene gli studi facendo la pizzaiola (Bortolato 2011, 75). In quinta i rapporti diventano 41 a 11 a 2. Il sussidiario Uno per tutti super! (Raimondi e Bardi 2017) con relativo quaderno operativo (Secchi 2017) presenta 38 problemi di consumo (20 nel testo e 18 nel qua- derno operativo) di cui uno sulla spesa (probabilmente pubblica, ma non è esplicitato) necessaria alla recinzione di un’aiuola cittadina. I problemi di compravendita sono 10 (8 e 2). Fuori da queste categorie abbiamo un allevatore di pecore (ma senza esplicita citazione del denaro)23 e lo stipendio di un impiegato (Raimondi e Bardi 2017, 250), mentre le uniche altre acquisizioni di denaro al di fuori delle pratiche della compra- vendita sono legate a due vincite alla lotteria, a due “paghette” e ad una eredità: Il bisnonno Arnoldo divide la sua eredità di € 20 000 in 12 parti uguali […] (Secchi 2017, 76). Eugenio decide di donare ad un’associazione di beneficenza 1/6 dei soldi che ha vinto alla lotteria […] (Secchi 2017, 62). Giulia ha vinto € 250.00 a una lotteria [...] (Raimondi e Bardi 2017, 270) (Raimondi e Bar- di 2017, 270). Francesca riceve € 20,00; li mette nel salvadanaio insieme ai soldi risparmiati […] Quest’anno Alessandro ha messo nel salvadanaio € 5,00 ogni settimana […] (Raimondi e Bardi 2017, 266).

23 «Il pastore Giuseppe possiede 315 pecore. Dopo un mese acquista il 20% delle mucche di un allevatore che ne possiede ben 1250. Quanti animali ha ora Giuseppe?» (Secchi 2017, 71).

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La fenomenologia dei problemi sul consumo è varia. Il genere di consumo più frequente è l’abbigliamento, con sette problemi, di cui due in occasione di sconti; tre problemi riguardano teatri o musei e tre si occupano di giocattoli o regali, due quesiti trattano l’acquisto di generi alimentari, poi un problema rispettivamente su materiali scolastici, libri, occorrente per il cagnolino, biglietto aereo per il Messico e parrucchiera. Anche La fabbrica dei saperi per la quinta classe conferma la tendenza incontrata. Tra testo di matematica (La fabbrica… 2017) ed eserciziario (La fabbrica… Quaderno 2017) incontriamo 45 problemi relativi al consumo (30 e 15) e 26 relativi alla compra- vendita (23 e 3). Troviamo la remunerazione del lavoro in due problemi: la ripartizio- ne del compenso tra due imbianchini e la percentuale di risparmio mensile di Lucia sul suo stipendio. Tre problemi formulano quesiti sul denaro percepito dai bambini: un regalo della nonna, una paghetta mensile ricevuta dai genitori e la remunerazione del nonno per l’aiuto prestato nella conduzione dell’orto in estate. Stessa situazione in Giramondo di quinta, testo (Gandolfi e Puggioni 2017) e «qua- derno delle competenze» (Ricciardi 2017), dove troviamo 39 problemi dedicati al consumo (23 e 16) e 19 alla compravendita (11 e 6). Un problema si occupa dello stipendio di una madre (calcolare i 2/11 destinati al risparmio); alcuni operai compa- iono al lavoro per asfaltare strade ma senza che si esplicitino le loro remunerazioni; una fabbrica viene citata per quanto riguarda il confezionamento dei cioccolatini che produce (problema di geometria). Qui possiamo notare una grande attenzione alle forme che assume il consumo con- sapevole relativamente al confronto tra i prezzi sulla base degli sconti applicati. Ad esempio: Paolo all’inizio della stagione a comprato due camicie che costavano € 39,56 l’una e un maglione da € 75,43. Quanto avrebbe risparmiato se avesse aspettato i saldi con lo sconto applicato del 30%? (Gandolfi e Puggioni 2017, 256). Oltre ai calcoli dei risparmi relativi ai saldi, altri problemi propongono confronti tra lo stesso prodotto con prezzi e sconti diversi in diversi negozi, ribassi o aumenti dei prezzi, confronti tra i prezzi di confezioni dal peso diverso. In pratica è la crescente complessità del ruolo del consumatore in una società dei consumi che diviene un im- portante capitolo dell’ambito centrale della matematica economica elementare. Anche Nautilus, testo e quaderno operativo (Laquitana et al. 2017; Bonfigli e Ro- mano 2017), per la quinta classe conferma lo stesso scenario. I problemi sul consumo sono 56 (33 e 23), quelli sulla compravendita 13 (8 e 5), quelli sul lavoro dipendente 7 (5 e 2), di cui uno relativo ad una pensione (zia Giuditta, che festeggia il primo asse- gno). Un problema riflette sulla percentuale della retribuzione impiegata per l’affitto, un altro su quella impiegata per pagare una vacanza, si calcola il costo de pasto nella mensa aziendale e in un problema sulla tinteggiatura della scuola compare il costo della manodopera («Per la manodopera Rocco chiede € 3,50 al m2») (Laquitana et al. 2017, 344). Un altro problema tratta della retribuzione del lavoro dipendente anche se l’ottica è quella dell’imprenditore:

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Un imprenditore, per pagare gli stipendi ai suoi dipendenti, preleva dalla banca 32 000 euro. Ognuno dei 23 operai riceve 1 089 euro, i 3 impiegati ricevono 1 240 euro ciascuno, il direttore dei lavori riceve 2 495 euro. Quanti soldi avanzano all’imprenditore? (Laquitana et al. 2017, 277). Scorrendo le caratteristiche dei problemi sul consumo si nota facilmente come il grado di complessità degli acquisti proposti agli scolari sia alto. Non si tratta di un consumo ancorato esclusivamente alle esperienze di vita dei bambini, ma fortemente caratterizzato dai gusti e dagli interessi degli adulti. Ecco due esempi: La nonna di Serena ha rinnovato alcuni elementi dell’arredamento di casa. Ha comprato una nuova cucina a 4 360 euro, un tavolo per la sala a 770 euro e un materasso matrimoniale a 545 euro. Se la nonna aveva sul suo libretto di risparmio 18 000 euro, di quanto denaro po- trà ancora disporre per altre spese? (Bonfigli e Romano 2017, 95). Lucio vive a Milano ma un giorno al mese si reca a Roma per lavoro. Per ogni viaggio di andata e ritorno spende: 23,60 euro di taxi per raggiungere e tornare dall’a- eroporto; 89,90 euro per il biglietto aereo di andata e ritorno; 36 euro per il noleggio giornaliero di un’auto. Quanto spende in 12 mesi per i suoi viaggi a Roma? (Laquitana et al. 2017, 277). Sembra che l’ambito dei problemi sui consumi sia diventato il campo per fare esercitare gli allievi e le allieve su un arco ampio di esperienze economiche, a partire da un’introduzio- ne elementare all’uso del denaro sino ad arrivare senza remore ad un uso tipico della vita di un adulto, senza escludere i problemi impostati sul consumo critico, anche in questo sussi- diario inteso come confronto tra prezzi diversi e capacità di comprendere l’opzione più eco- nomica, o anche semplicemente come capacità di acquistare in periodi di sconti: Approfittando di una svendita in una profumeria, Asia compra 3 boccette di pro- fumo a 32,90 euro l’una, 6 flaconi di latte detergente a 8,50 euro l’uno e 7 confezioni di sali da bagno a 3,90 euro l’una. Paga tutto con una banconota da 200 euro. Quanto riceve di resto? (Laquitana et al. 2017, 277). Anita vede esposta la stessa felpa in due negozi diversi. [in figura:] Negozio 1, 45,00 €; nego- zio 2, 50,00 €, sconto 10%. In quale negozio conviene comprarla? (Laquitana et al. 2017, 299). Nulla cambia anche in Tanti modi per capire e studiare (GRD 2017), con 35 proble- mi sul consumo, 9 sulla compravendita e 3 sulla remunerazione del lavoro dipenden- te. Qui la distribuzione dei problemi sul consumo vede otto quesiti su alimentari, otto sull’abbigliamento, cinque sui libri, cinque su cd o videogiochi, tre su teatri o musei, due sui giocattoli, due su tv o computer, due su vacanze (ancora il Messico), due sulle automobili, e uno sulla spesa pubblica per noleggiare le luminarie cittadine di Natale. In Sapere è favoloso! (Carta et al. 2017a; Carta et al. 2017b) si incontrano 28 pro- blemi inerenti al consumo (20 e 8), sei sulla compravendita (2 e 4) mentre nessun problema tematizza il guadagno del lavoro dipendente (un quesito presenta le ore di lavoro giornaliere di un operaio ma non si occupa di denaro). Qui sono da notare i problemi sui buoni acquisto; nel volume di quarta classe i buoni sono i premi riservati al primo classificato in una gara scolastica e lo scolaro viene invitato a calcolare l’entità

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complessiva del premio ricevuto dal vincitore: La scuola ha organizzato una gara di corsa. Andrea ha vinto la gara e ha ricevuto dei buo- ni acquisto da spendere nei negozi del quartiere: € 50 nel negozio di alimentari, € 30 dal ma- cellaio, € 25 dal cartolaio e € 70 nel negozio di abbigliamento. A quanto ammonta il premio incassato dal primo classificato? (Carta et al. 2017c, 12). Questo problema pare emblematico di un processo in cui non ci sono più media- zioni tra denaro e consumo, ma la capacità di produrre consumo diviene la forma stes- sa del denaro. Il fatto che tali «buoni» circolino in forma di premio alla prestazione atletica scolastica sembra chiudere il cerchio e suggerire un corto circuito che collega direttamente la scuola al supermercato, tagliando fuori gli ambiti della produzione e i settori della società impegnati in essa, come il lavoro dipendente24.

Conclusioni provvisorie

Questa prima panoramica condotta sui problemi elementari dedicati all’economia mostra da un lato che la consuetudine di organizzare una frazione considerevole del- le esercitazioni aritmetiche su quesiti di tipo economico ha accompagnato tutta la storia della scuola italiana. La conferma si trova nei pur rapidi cenni che compaiono nei programmi ministeriali; infatti i riferimenti risultano così limitati da lasciare gli estensori dei libri di testo abbastanza liberi di miscelare secondo le loro convinzioni l’importanza e lo spazio attribuito ai diversi settori e attori economici, aspetti che nel tempo sono mutati significativamente. La sfera della compravendita, assurta presto a paragrafo autonomo del curricolo matematico nell’immancabile formula: «spesa, ricavo, guadagno o perdita», in passa- to ha rappresentato la tipologia più ricorrente nei problemi aritmetici, sopravanzan- do i quesiti relativi ad altri settori economici e garantendosi uno spazio nelle pagine di spiegazione. Questa sopravvalutazione della figura del commerciante come homo oeconomicus scolastico è già presente nel libro di testo ottocentesco che è stato ana-

24 seppure uscendo dal tema specifico del saggio, può essere utile, per conoscere il contesto contemporaneo tra scuola ed extrascuola, segnalare due iniziative proposte alle scuole primarie nel presente anno scolastico che tenden- zialmente annullano – a mio parere pericolosamente – la distanza tra pubblicità, invito concorrenziale al consumo e aspetti etici legati al consumo. La prima, declinata secondo il logo di numerose catene di grande distribuzione, invita i genitori e i bambini a fare la spesa nei propri esercizi in cambio dell’elargizione di punti da consegnare a scuola che sono validi per richiedere materiali di consumo e sussidi per la didattica. Esselunga, Il gigante, Conad, Coop, A&O, Pan, Famila, (gli ultimi tre attraverso la Giunti) e altri supermercati quindi intervengono in questo modo, sulla base della cronica scarsità di materiali delle scuole pubbliche, a contendersi i clienti sollecitando la volontà di bambini e bambine, genitori e insegnanti di dotare in modo efficiente la propria scuola. Un secondo esempio, molto più diretto, riguarda l’iniziativa di “La Fabbrica spa”, un cartello sostenuto da varie aziende interessate a farsi pubblicità nella scuola (INGBANK, Fondazione Coca Cola, Milan calcio, Cassa di risparmio di Cuneo, Samsung, Dixan, ecc.) attra- verso azioni educative proposte agli insegnanti, spesso connotate da temi etici (l’esempio del Dixan è emblematico: «Il Professor Dix consegna agli studenti una busta: dentro, un libro illustrato con la divertente e istruttiva storia degli ‘abiti dimenticati’ e un campione gratuito di Dixan: le mamme sono invitate a utilizzare il prodotto per lavare vecchi abiti non più utilizzati, da donare con un grande gesto di solidarietà ai bambini meno fortunati». Data ultima consul- tazione: 30 luglio 2017. http://www.lafabbrica.net/it/works/dixan-la-scuola-dixan.

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lizzato, anche se i problemi di compravendita includono spesso anche situazioni di artigianato in cui il produttore della merce è anche colui che la commercializza. Le altre sfere economiche più rappresentate sono l’agricoltura, il lavoro dipendente e il consumo, mentre altre accezioni meno frequenti danno comunque uno spaccato composito e significativo della complessa sfera economica dell’epoca, anche se non necessariamente omogeneo rispetto alle connotazioni sociali degli studenti. L’analisi dei problemi aritmetici ottocenteschi ha però avuto, nel presente saggio, soprattutto la funzione di sondaggio preliminare per tarare la metodologia adottata piuttosto che il fine di affondare l’analisi in quel periodo storico o di estenderla fino ad esso. Il vero periodo iniziale di questo lavoro è il boom economico, la trasformazione della società italiana a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento, mentre il terminus ad quem è il presente con i sussidiari attualmente in adozione. Nei sussidiari degli anni sessanta i problemi di compravendita mantengono ancora la propria egemonia quantitativa sulle altre tipologie, anche se già allora la dimensione del consumo è si è attestata come il secondo gruppo più numeroso, mentre mantiene una certa frequenza anche la sfera del lavoro salariato e in parte anche il settore agricolo. Nella seconda metà degli anni settanta troviamo una situazione in forte cambia- mento. La sfera del consumo erode importanza a quella della compravendita addi- rittura sorpassandola numericamente in uno dei due sussidiari analizzati. Il numero di esercizi dedicati all’agricoltura cala rapidamente e l’attenzione sociale agli aspetti sindacali del lavoro salariato entra nel testo dei problemi ma non si traduce in una cre- scita quantitativa. Nei sussidiari degli anni novanta il sorpasso della sfera del consumo sulla sfera del commercio appare concluso e consolidato. I due settori rimangono quelli più importanti numericamente, mentre permangono sporadici quesiti sul lavo- ro dipendente, sul lavoro agricolo, sul bilancio familiare che combina salari e spese, ma la loro frequenza appare limitata e quasi residuale. Passando ai numerosi sussidiari in adozione per il presente anno scolastico, queste trasformazioni appaiono ormai consolidate. La sfera economica del consumo è oggi la dimensione centrale del curricolo matematico implicito nei problemi scolastici della scuola primaria, a partire da una valutazione meramente quantitativa. All’interno di questa maggioranza di problemi dedicati al consumo emergono diverse articolazioni, tra cui anche quella relativa al consumo critico inteso come comparazione di prezzi, come riflessione sulle caratteristiche economiche dei prodotti, e – ma molto minori- taria – come attenzione alla dimensione ecologica ed etica. La maggioranza di questi quesiti sono però formulati come semplice invito alla capacità di spesa, calcolando correttamente prezzi e resti. Un’altra trasformazione che appare consolidata e il cui sviluppo sembra essere for- se anche anticipato agli anni settanta è quella relativa ai problemi sulla sfera della pro- duzione. Nel passato l’attenzione, e quindi la frequenza, di problemi relativi a questa dimensione dell’economia era costante anche se non predominante. La presenza di lavoratori dipendenti che percepivano denaro per le loro prestazioni d’opera garanti- va uno sguardo generale al sistema economico in cui il commercio o il consumo non fossero privi di un ancoraggio al mondo della produzione e del lavoro subordinato.

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Negli anni settanta in alcuni manuali la crescita di attenzione manifestatasi nella socie- tà per l’attività di lavoro subordinato non sembra tradursi in una crescita quantitativa di questo tipo di problemi, ma piuttosto nella tematizzazione di aspetti sindacali. Nei libri di testo attuali invece questa sfera sembra divenuta residuale e tende a scompa- rire. Il peso quantitativo dei problemi sul guadagno di denaro legato al lavoro subor- dinato in alcuni casi ha lo stesso peso dell’accumulo di denaro originato dalle vittorie alla lotteria oppure dalla paghetta settimanale. Da una parte si può collegare questa tendenza ai processi di infantilizzazione che stanno mutando i contenuti dei libri di testo della scuola primaria, tanto che si considera la sfera del lavoro subordinato come qualcosa di troppo astratto per i bambini di questa età e quindi se ne riserva la presen- tazione solo al ciclo successivo, quasi si trattasse di una involontaria riarticolazione in verticale del curricolo implicito riservato all’economia. Accanto a questo indubitabile elemento, credo che i cambiamenti siano anche il riflesso di una trasformazione avvenuta nella società, quando l’affermazione delle poli- tiche neoliberiste ha comportato la svalutazione dell’importanza del lavoro e una ten- denziale scomparsa del punto di vista del lavoro subordinato, proponendo al posto di queste tematiche l’attenzione quasi esclusiva alla sfera del consumo, considerata come il nucleo centrale del funzionamento della macchina economica. Così il lavoro diviene invisibile, scompare non solamente nelle varianti con meno addetti per effetto dell’automazione e della divisione internazionale del lavoro, ma nella stessa accezione del lavoro mancato (disoccupazione, precarietà, pensionamento) che con sempre più frequenza costituisce la realtà della composizione sociale ed esperienziale dei genitori di alunni e alunne. Nell’egemonia attuale della sfera del consumo quindi si fondono i cambiamenti della composizione sociale del mondo del lavoro e i cambiamenti rela- tivi all’ideologia e alla percezione di questo mondo da parte di mass media, orientati sempre più a vedere e a mostrare solo una faccia della realtà in cui viviamo. In alcuni momenti, scorrendo le pagine dei sussidiari dei nostri giorni, viene veramente da chie- dersi da dove arrivino quei soldi che in decine di esercizi vengono spesi con maggiore o minore oculatezza.

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The economic boom in journals for teachers: taking look at advertising

Il boom economico sulle riviste degli insegnanti: uno sguardo alle pubblicità

In this article, I focus on the Italian economic boom of the 1950s and 1960s via analysis of the advertising mes- sages featured in two leading contemporary journals for teachers that were representative of distinct religious/ cultural perspectives: «Scuola Italiana moderna», linked to Catholic movements based in Brescia and «I diritti della scuola», a publication informed by the thinking of secular radical-democratic circles. It is interesting to note that, in both cases, the new general emphasis on consumption was strongly reflected in both the quantity and variety of products advertised, which ranged from foodstuffs to baby care items, with advertising cam- paigns often based on competitions run by leading national producers; from healthcare and beauty products to clothing and luxury accessories; from furniture to electrical appliances offered via hire purchase plans. Nor were teaching materials overlooked, as borne out by the large number of ads for films and projectors, pens and markers, records and globes. The editors of the Catholic journal displayed a concern with fostering a mindful and balanced approach to assimilating progress, as borne out by a series of regular columns offering sober, down-to-earth advice on the themes of fashion and redesigning the home, sometimes in the form of replies to specific questions submitted by readers. Il contributo intende focalizzare l’attenzione sul periodo del boom economico in Italia attraverso l’a- nalisi dei messaggi pubblicitari apparsi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, su alcune delle principali riviste che, rivolte agli insegnanti, sono espressione di differenti orientamenti religiosi e culturali: «Scuola Italiana Moderna», legata ai circuiti cattolici bresciani, e «I diritti della scuola», au- torevole interprete degli ambienti laici d’ispirazione democratico-radicale. È interessante notare come, in entrambi i casi, la nuova generale tendenza al consumo sia presente in maniera significativa, sotto il profilo quantitativo, in una logica che spazia dalla proposta di generi alimentari ai prodotti per l’infanzia con specifico riferimento ai concorsi a premi indetti dalle grandi aziende nazionali; dagli articoli di salute e bellezza ai capi di vestiario, agli accessori di lusso; dall’arredamento agli elettrodomestici secondo il sistema della vendita rateale. Non è escluso nemmeno il materiale didattico come testimoniano le nu- merose pubblicità relative all’acquisto di filmini e proiettori, di penne stilografiche e pastelli, di dischi e mappamondi. Nei redattori del giornale cattolico si avverte la preoccupazione e la volontà di favorire un approccio consapevole ed equilibrato nei confronti del progresso come si evince dalla presenza di una serie di rubriche fisse in cui vengono dati, in modo sobrio e misurato, consigli sulla moda e sulla riorga- nizzazione degli spazi domestici anche sotto forma di risposta a specifiche domande rivolte dalle lettrici. Key words: Italian economic boom, teacher magazines, advertising messages, fashion and furnishings. Parole chiave: boom economico italiano, riviste insegnanti pubblicità, moda e arredamento.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 187-203 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.66 Maria Cristina Morandini, [email protected] (Università degli Studi di Torino)

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Premessa

Come noto, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, definiti nel linguag- gio comune come «favolosi», «straordinari», «magnifici», si registra nella penisola una fase, unica ed eccezionale, di progresso e di crescita economica. Alla ricostruzione postbellica, lenta e difficile, segue, infatti, un periodo di rilancio e di sviluppo del sistema produttivo nazionale e di ampliamento della domanda dei consumi: se da un lato, infatti, si assiste, per la prima volta, al superamento degli addetti del settore agri- colo da parte di quelli impiegati nell’industria, dall’altro si riscontra un aumento del volume della spesa degli italiani con significative trasformazioni dei luoghi di vendita (apertura dei supermercati nelle grandi città) e delle modalità di acquisto (per corri- spondenza in provincia). Ne deriva, come sottolineano numerosi studi storiografici, un miglioramento della qualità della vita, destinato a incidere profondamente sulle abitudini e sui costumi sociali1. Il fenomeno del boom economico interessa anche il mondo della scuola: sulle riviste degli insegnanti compaiono inserzioni pubblicitarie che fanno leva sulla nuova tendenza a spendere il denaro in beni di uso quotidiano e in beni superflui ed accessori per assicurarsi un migliore e più elevato tenore di vita. La mia attenzione si è focalizzata, nello specifico, su «I diritti della scuola» e su «Scuo- la Italiana Moderna» negli anni compresi tra il 1957 e il 1965, quelli che, grazie anche all’ingresso del nostro paese nel Mercato Comune Europeo, coincidono con la fase di massima espansione degli scambi commerciali. La scelta dei due periodici scolastici è stata dettata da un triplice ordine di fattori: l’ampio grado di diffusione presso la classe insegnante; la presenza ormai consolidata nei circuiti della stampa magistrale; l’espressione di orientamenti religiosi e culturali contrapposti. «I diritti della scuola» (1899-1994), con oltre dieci mila abbonati fin dai primi numeri, è stato, tra Otto e Novecento, autorevole interprete «di un laicismo d’intonazione democratico-radicale» che rifuggiva da qualsiasi adesione a partiti o movimenti politici in nome di una rivendicata autonomia di giudizio (Tognon, 1997, p. 236). «Scuola Italiana Moderna» (1893-continua), il settimanale con una tiratura di oltre ottantamila copie nel periodo preso in esame, dà voce al mondo cattolico bre- sciano, riunito attorno alla casa editrice La Scuola (Chiosso, 1997, p. 626)2. All’analisi delle inserzioni pubblicitarie ho affiancato quella delle rubriche dedicate alla moda e all’arredamento nel tentativo di individuare analogie e divergenze nella posizione assunta da entrambe le riviste nei confronti del boom economico3.

1 ricca è la storiografia su questo decennio, volta a metterne in evidenza, accanto ai successi, limiti e contraddi- zioni. Tra i testi più recenti segnaliamo: Crainz 1996; Fantino, Milanetto 2004; Vidotto 2005; Cardini 2006. 2 per ulteriori approfondimenti sul ruolo della rivista nella formazione e nell’attività didattica degli insegnanti si rimanda a: Cattaneo, Pazzaglia 1997. 3 uno studio analogo è stato condotto da Luigi Sefusatti nella tesi di laurea discussa, presso la Facoltà di Ma- gistero dell’Università degli Studi di Torino, nell’anno accademico 1988-1989. Egli ha preso in esame le pubblicità pubblicate, negli anni del boom economico, sulla rivista di fotoromanzi «Grand Hotel», rivolta, prevalentemente, ad un pubblico femminile.

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Un vasto campionario

Le pubblicità, pubblicate sulle riviste prese in esame, differiscono per una moltepli- cità di aspetti: dalle dimensioni alla frequenza di pubblicazione; dall’elemento croma- tico alla tipologia di linguaggio utilizzato; dall’individuazione di un modello standard, identico e ripetitivo nel tempo, ad una proposta d’acquisto soggetta a frequenti cam- biamenti nel linguaggio verbale e/o in quello iconografico. Possono, infatti, comparire in un piccolo riquadro oppure occupare lo spazio di una colonna o di un’intera pagi- na: figurare in maniera costante in quasi tutti i numeri della rivista o essere circoscritte al periodo di promozione del prodotto o alla durata del concorso ad esso abbinato. Si tratta, in prevalenza, di pubblicità in bianco e nero sebbene non manchino esempi a colori nella quarta di copertina o come inserto centrale. Pochi sono gli annunci che si avvalgono del solo testo scritto: si predilige, nella maggior parte dei casi, l’uso combi- nato della parola con l’immagine al fine di catturare, in modo immediato, l’attenzione del lettore, di trasmettere efficacemente il messaggio e di consentirne la memorizza- zione. La stessa scelta di variare la veste grafica risponde all’esigenza di rendere accat- tivante l’offerta del prodotto per il potenziale bacino di acquirenti. In questa prospettiva vanno letti gli accorgimenti adottati nella redazione del testo che affianca, di volta in volta, l’illustrazione: se il carattere tipografico differisce nel formato e nella tipologia (maiuscolo/minuscolo, tondo/grassetto) in ordine al gra- do di priorità delle informazioni veicolate, la presenza ricorrente di slogan è volta a promuovere un rapporto con i lettori all’insegna della familiarità. Non a caso, nel lin- guaggio, si opta, preferibilmente, per l’utilizzo della seconda persona plurale dell’in- dicativo presente o dell’aggettivo possessivo che ad essa si riferisce. Non si disdegna l’utilizzo del fumetto se la comunicazione è rivolta ai ragazzi, come si evince dal se- guente esempio:

La tendenza a inserire frequenti domande e punti esclamativi è indice della volontà di favorire il coinvolgimento diretto dei destinatari anche a livello emotivo. Accurata è la descrizione del prodotto e delle sue possibili funzioni e/o proprietà in relazione al benessere psico-fisico delle persone con un esplicito richiamo a una serie positiva di

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variabili: bontà/genuinità; qualità e convenienza, intesa in termini sia di vantaggio eco- nomico sia di utilità nelle numerose situazioni di vita quotidiana, presentate in maniera convincente nelle loro molteplici e concrete sfaccettature. Non mancano precise istru- zioni relative alle modalità di partecipazione all’estrazione dei premi (raccolta punti, compilazione di cartoline, indirizzo di spedizione) né puntuali riferimenti all’identità dei sorteggiati con l’intento da un lato di attestare l’avvenuto svolgimento del concor- so, dall’altro di porre l’accento sulla reale possibilità di vincita per tutti, attraverso la pubblicazione dei nomi e delle fotografie della gente comune a cui ha arriso la fortuna.

Le pubblicità, relative non solo a noti e grandi marchi aziendali, riguardano le sfere della vita personale in relazione ai contesti di appartenenza. L’ambito agroalimentare è ampiamente rappresentato: dall’Ovomaltina a Ecco, soluzione solubile nella tazza; dalla pastina Buitoni alle zuppe Cirio, alla carne Simmenthal; dalla margarina Galbani ai brodi Knorr, Star e Liebig; dal cioccolato Nestlé, alle merendine Motta, ai biscot- ti Plasmon; dall’acqua frizzante e digestiva Idriz ad una bevanda dissetante come il Tamarindo. Non sorprende la presenza ricorrente, tra le inserzioni pubblicitarie, di alcune tipologie di medicinali (Formitrol, Cibalgina, Veramon) particolarmente indi- cati per i disturbi connessi all’attività d’insegnamento e alle fatiche dello studio: dalle pastiglie contro il raffreddore, il mal di gola e il mal di testa ai ricostituenti, ricchi di fosforo. Interessante è lo spazio riservato, quasi in ogni numero, agli articoli di lusso, ai capi di abbigliamento e ai prodotti di bellezza che denotano la progressiva tendenza alla ricerca e alla valorizzazione del superfluo all’interno di una società come quella italiana caratterizzata, fino ad allora, da uno stile di vita sobrio, essenziale e impronta- to al risparmio, proprio della cultura contadina: alle sei ditte che reclamizzano orologi

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e gioielli se ne affiancano tre che vendono impermeabili, pellicce e calze e due che operano nel settore dei profumi e delle creme. La proposta di aspirapolveri, lucidatrici, lavatrici, frigoriferi, ferri da stiro e macchine da cucire, sempre più all’avanguardia, risponde alle esigenze di una moglie e madre moderna, chiamata a conciliare casa e lavoro4. L’utilizzo degli elettrodomestici, non solo comporta un minore dispendio di energie a fronte di una più efficace pulizia degli ambienti e di una migliore gestione della vita quotidiana, ma consente di circoscrivere a poche ore il disbrigo delle faccende domestiche che, in precedenza, occupavano l’in- tera giornata. La donna si trova, così, a disporre di tempo libero che può impiegare in uno degli innumerevoli modi suggeriti dagli annunci pubblicitari pubblicati su «Scuola Italiana Moderna» e su «I diritti della scuola»: lettura di periodici femminili («Grazia», «Gioia», «Madre») di cui si consiglia l’abbonamento; studio delle lingue con una prefe- renza accordata all’inglese (corsi della British Broadcasting Corporation di Londra); viag- gi con la proposta di itinerari turistici in Italia e all’estero, organizzati anche dalle riviste stesse; coltivazione di hobbies come la musica (dischi/fisarmoniche), la fotografia e la dattilografia (macchine fotografiche e macchine da scrivere); soggiorni in case per ferie gestite dai colleghi con turni speciali riservati agli insegnanti. La scelta di diverse ditte di inserire televisori e automobili tra i premi a estrazione rivela come nell’immaginario collettivo il possesso di oggetti, emblema della modernità, cominciasse a costituire una sorta di status simbol. Siamo in presenza di una trasformazione economica, destinata, come accennato, a modificare, in breve tempo, le abitudini di vita e i costumi della so- cietà, promuovendo una vera e propria rivoluzione culturale.

4 non mancano offerte di casalinghi (stoviglie, batteria da cucina) né di corredi di biancheria. Nell’arredamento si pubblicizzano le cucine in formica, materiale destinato a sostituire il mogano o il ciliegio fino ad allora in uso.

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Il fatto che i beni, particolarmente costosi, non siano pubblicizzati dalle stesse azien- de produttrici, ma possano essere vinti solo grazie al sorteggio di una cartolina o di un coupon di oggetti di valor ben più modesto è un chiaro indice dell’ancora limi- tato potere d’acquisto della classe docente: d’altra parte le stesse inserzioni relative agli elettrodomestici cominciano a comparire agli inizi degli anni Sessanta a riprova di un lento, ma progressivo aumento di disponibilità finanziarie da parte dei maestri.I n questa prospettiva, non sorprende il ricorso ad altre forme di incentivo oltre a quella tradizionale del concorso: dal pagamento a rate con prova gratuita a domicilio e spedi- zione in qualunque parte d’Italia (impermeabili Bagnini) alla proposta di agevolazioni e di prezzi scontati ad esclusivo appannaggio degli abbonati della rivista (macchina fotografica Optima-Agfa, stoviglie in acciaio e porcellana della smalteria metallurgica veneta) o, più in generale, della categoria insegnante (tappeti e stoffe della prestigiosa ditta Haas, mobilio Imea di Carrara) con la richiesta di indicare la scuola in cui si presta servizio o la direzione didattica a cui si afferisce. Un’altra strategia è quella di prevedere un omaggio per coloro che acquistano un quantitativo minimo del prodotto. È il caso, ad esempio, della ditta «mille Aghi» di Milano che alle clienti, disposte a ordinare tre paia di calze, offre la possibilità di scegliere un regalo all’interno di un ricco campiona- rio (fazzoletto di seta, portacipria, collana di perle, guanti, babbucce): l’aggiornamento del catalogo premi è funzionale a mantenere inalterato, nel tempo, il successo della vendita per corrispondenza5. Allo stesso modo la raccolta e la spedizione di sei etichet- te delle zuppe Cirio permette di ricevere gratuitamente, presso il proprio domicilio, un libro a colori per la casa con ricette da cucina, calendario e notizie utili. Esistono anche esempi di sponsorizzazione di iniziative a carattere culturale: nel 1958 la già ricordata Simmenthal mette a disposizione premi, del valore complessivo di dieci milioni di lire, nell’ambito del concorso sul mercato comune europeo, bandito da un’associazione milanese per i giovani nella fascia d’età compresa tra otto e vent’anni6. Al fine di assicurare la liquidità necessaria a coprire le spese, banche S( anto Spirito di Roma, Cassa di Risparmio delle Province Lombarde) e compagnie finanziarie delle diverse zone d’Italia offrono, a statali e a parastatali «improtestati», prestiti in denaro di differente durata (5 o 10 anni) e dal tasso d’interesse superiore al 5%: nei numerosi annunci, pubblicati sulle pagine delle due riviste, si precisa che la restituzione della somma erogata può avvenire attraverso la cessione di un quinto dello stipendio o il pagamento di rate mensili. Particolare è il caso della Società per Azioni Consorzio Finanziario (Confital) che emette buoni in tagli fissi (50-100-500-1000), utilizzabili, senza maggiorazione di prezzo, come contanti nei negozi e negli alberghi delle città in cui è presente una sua filiale. L’innovazione e la logica del consumo caratterizzano anche il mondo della scuola: proliferano le offerte di bic e stilografiche, di pastelli e tempere di varie marche, di materiali come il Pongo e il Das particolarmente adatti allo svolgimento di attività di

5 Talvolta l’omaggio è annesso direttamente al prodotto: ad esempio le donne che acquistano la brillantina Linetti trovano, nella confezione, un sacchettino di lavanda. 6 al tema della collaborazione europea è dedicato anche il Premio Minerva d’oro che, offerto sempre dalla Simmenthal, è assegnato agli alunni dei licei artistici e delle accademie d’arte italiane.

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manipolazione. È sufficiente citare la pubblicità della Lamposcuola, la penna feltro che permette ai ragazzi di realizzare con facilità le più sorprendenti combinazioni di colori. Agli insegnanti sono proposti nuovi e più aggiornati sussidi con specifico riferimento ai contenuti delle singole discipline (mappamondo, tombola magica, al- fabetiere luminoso), oltre a una serie di strumenti (proiettori, fotocopiatori) utili ad innalzare il livello di qualità della didattica: dai moderni e sofisticati apparecchi Ma- linverno per diapositive e filmine al duplicatore ad alcool Saba in grado di «riprodurre velocemente originali dattiloscritti, manoscritti e disegni a uno o più colori» (Diritti della scuola, 1958-59, 703).

I destinatari del messaggio pubblicitario

Le pubblicità, presenti sulle pagine delle due riviste, non sono esclusivamente rivol- te alla categoria insegnante di cui, per altro, si offre un profilo non circoscritto all’am- bito lavorativo: gli alunni rappresentano, infatti, una voce altrettanto significativa nelle scelte di mercato delle aziende. La stessa scuola, intesa nella duplice veste di luogo fisico e di comunità educante, occupa un posto non secondario nelle inserzioni pubbli- citarie. La classe docente, destinataria delle innumerevoli proposte di acquisto, è, per lo più, quella femminile, nettamente prevalente, anche in termini numerici, all’interno del corpo magistrale: non mancano, tuttavia, rari casi in cui si ricorre a soggetti maschi- li, di diversa età, per reclamizzare, soprattutto, medicinali o capi di abbigliamento. La donna diventa oggetto di una campagna sistematica che ne mette in luce e ne valorizza

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la pluralità dei ruoli: mamma; maestra; moglie e/o fidanzata; perno della casa e della famiglia. Come madre è attenta alla salute, alla crescita fisica e allo sviluppo intellet- tuale dei figli come attesta la costante ricerca di una sana e corretta alimentazione. Le tre immagini della pagina precedente, selezionate nella vasta gamma di quelle proposte da Ovomaltina, focalizzano, in maniera efficace, l’attenzione riservata a questo aspetto: nel primo appare un bambino gracile, di altezza e peso inferiore alla norma; nel secon- do un bambino svogliato e privo di energie; nel terzo un bambino inappetente. Se la soluzione solubile all’istante suggerita da Ecco consente di preparare veloce- mente la colazione quotidiana e, quindi, di correre in fretta in ufficio o di dedicare qualche istante agli affetti nella consapevolezza che, come recita lo slogan, «la felicità sta nelle piccole cose», la prevenzione dei malesseri influenzali con le pastiglie Formi- trol è la garanzia per godere appieno della compagnia degli amici nel tempo libero. Non mancano i riferimenti a prodotti che, con facilità, tempestività e precisione, age- volano la donna nel compito di pulizia e di gestione della casa: dalla macchina da cu- cire Singer con la tastiera «magica» che, azionata da semplici levette, «inventa» mille originali ricami, al detersivo Supertrim, ideale per ogni bucato; dal ferro automatico Sunmbeam che stira senza peso alla lucidatrice lampo che, come si evince dal nome, fa brillare rapidamente, come uno specchio, qualsiasi pavimento. È interes- sante notare come, in alcuni casi, la consumazione o l’assunzione del prodotto sia associata a quadretti di vita familiare, caratterizzata da momenti di condivi- sione, di dialogo e di unità attorno alla figura femmi- nile. Significative a riguardo sono la pubblicità del ri- costituente Tonergil e quella della margarina Flavinia.

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Destinatari delle inserzioni pubblicitarie sono, diret- tamente e indirettamente, anche gli alunni nella con- sapevolezza del potere di persuasione esercitato dai figli sulle scelte di acquisto dei genitori e delle persone adulte che li circondano: possono limitarsi ad essere il soggetto dell’accattivante disegno che affianca il testo scritto oppure svolgere un ruolo attivo, evidente nella decisione di affidare loro il compito di descrivere carat- teristiche e benefici del prodotto reclamizzato. Ecco un paio di esempi:

Se nel primo caso l’immagine del ragazzo accasciato sul banco veicola, in ma- niera efficace, l’idea della necessità di un ricostituente, nel secondo il riferimento, abbastanza esplicito, a una ragazzina studiosa (i libri sotto il braccio) e obbediente («Ha ragione la mamma») costituisce un forte richiamo al modello di figlia ideale. Nel concorso dei pensierini Star, che campeggia a tutta pagina sui numeri di en- trambe le riviste, gli allievi sono coinvolti in veste di protagonisti. All’interno di ogni scatola del brodo è riprodotta una figurina di soggetto vario (persona, fiore, frutto, animale, paesaggio) a cui ispirarsi per comporre, su un foglio di quaderno, uno scritto non superiore alle sei righe: è chiesto di indicare la classe frequentata in considerazio- ne del fatto che il premio attribuito agli elaborati più originali, da una commissione presieduta dallo scrittore Giovanni Mosca, è in relazione all’età. In un linguaggio fa- miliare ed amichevole, con il frequente ricorso alla seconda persona singolare o plu- rale dell’indicativo presente, non si perde occasione per sottolineare i vantaggi, eco- nomici, di prestigio e di notorietà, connessi alla vincita: dalla molteplicità dei premi, in denaro (tre libretti di risparmio da un milione ciascuno) e in giocattoli (diversificati per maschi e femmine), alla gioia personale e della famiglia per la pubblicazione del proprio ritratto sui giornali. Talvolta, come nel caso seguente, è proposto all’attenzio-

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ne dei lettori il testo del pensierino. Si tratta di una divertente composizione in rima sull’asinello, inventata da un’alunna cagliaritana di prima media:

Tu sei brutto? Tu sei bello? Sei istruito o ignorantello? Sei cocciuto o sei paziente? Sei signore o sei pezzente? So di te una cosa sola: che hai un banco nella scuola (Scuola Italiana Moderna, 1956-57, quarta di copertina)

L’opinione dei bambini è il fulcro anche dell’inchiesta Motta sugli alimenti dolci, inchiesta volta a promuovere la partecipazione non del singolo, ma della classe nella duplice componente allievo/insegnante. Alla scolaresca delle elementari e delle medie che spedisce il maggior numero di «carte d’identità» del panettone e delle merendi- ne sono offerti viaggio e soggiorno gratuiti a Milano con gita ai laghi lombardi. La decisione di pubblicare i nominativi dei plessi vincitori nelle edizioni precedenti è interessante perché dà la possibilità di conoscere le aree geografiche in cui maggiore è l’impatto del messaggio pubblicitario: colpisce la prevalenza di scuole del Mezzo- giorno a fronte di un prodotto tipicamente milanese, a riprova della validità della scelta di ricorrere a riviste che, diffuse in modo capillare sul territorio, consentono di raggiungere il corpo docente dell’intera penisola. Analoga è la promozione dei pastelli torinesi Colombo: i maestri sono invitati a convincere i propri allievi a spedire dei di- segni con accluso il talloncino della confezione di colori acquistata. La ditta promette un premio a tutti gli insegnanti che convincono almeno dieci alunni a prendere parte al concorso. Funzionale ad uno scopo didattico è l’iniziativa della Nestlé, denomina- ta «Le meraviglie del mondo». Si tratta di una raccolta di figurine su argomenti che spaziano dalla scienza alla tecnica, dai viaggi alle grandi invenzioni, dalle imprese sportive ai misteri dell’universo: incollate su album rilegati, costituiscono una piccola e divertente enciclopedia che, oltre ad appassionare gli allievi e ad accrescere il loro desiderio di conoscenza, può rappresentare un utile strumento per approfondimenti e ricerche svolte in classe. Non mancano pubblicità che guardano alla scuola come a uno spazio abitativo cui assicurare una struttura stabile e solida oltre ad arredi confortevoli e adatti, per materiali, dimensioni e design, allo svolgimento delle attività didattiche: se i prefab- bricati Pasotti, montabili in sette giorni con l’ausilio di squadre specializzate, sono una garanzia per scuole che durano nel tempo, i banchi e le sedie Palini sono il frutto di mezzo secolo di esperienza a servizio dell’insegnamento. Particolarmente efficace è il messaggio veicolato dall’azienda vicentina, produttrice dell’«adattabile Meneghello»: alla fotografia dell’alunna, seduta sul banco con l’espressione serena che denota un senso di benessere e di comodità, è affiancata una descrizione, per punti, delle carat- teristiche dell’arredo scolastico (proporzionabile, sedile girevole, piano inclinabile, schienale oscillante), volta ad evidenziarne i pregi anche per quanto concerne la cor- retta postura degli allievi con l’invito finale ai genitori a chiedere il parere del medico.

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Un diverso approccio al fenomeno

In ogni numero di entrambe le riviste figurano, in media, dalle dieci alle venti in- serzioni pubblicitarie, collocate, preferibilmente, nelle pagine di copertina. Dagli inizi degli anni Sessanta, si registra una lieve flessione, destinata a coincidere da un lato con il venir meno dei grandi concorsi a premi, dall’altro con un maggiore spazio riservato alla reclamizzazione dei prodotti legati al mondo della scuola. Su «I diritti della scuo- la» e su «Scuola Italiana Moderna» compaiono, sostanzialmente, gli stessi marchi, ri- prodotti, talvolta, in maniera identica sia nella parte testuale sia in quella iconografica. L’unico elemento distintivo è rappresentato dalla considerevole presenza sul giornale cattolico di offerte di sussidi audiovisivi (proiettori, filmini, dischi, giradischi) e di materiale didattico (schede, albi colorati, quaderni attivi), non a caso voce significativa del catalogo de La Scuola, casa editrice bresciana che pubblica «Scuola Italiana Mo- derna». Si tratta di inserti di più pagine a colori e/o in bianco e nero, proposti ai lettori durante il periodo delle festività, tempo tradizionalmente deputato agli acquisti: come incentivo alla vendita sono previsti doni che variano in base al genere di ordinazione o al raggiungimento di un importo minimo indicato. Sui due periodici scolastici, come accennato, compaiono anche rubriche che illu- strano, in modo particolare alle lettrici, le ultime novità nel settore della moda e in quello dell’arredamento. Curate da una o più collaboratrici della rivista7, rappresen- tano, accanto alle inserzioni pubblicitarie, un canale attraverso cui viene incentivata la propensione al consumo della classe insegnante. Le intitolazioni pressoché analoghe di questi spazi di approfondimento (Tra e noi e la casa su «Scuola italiana moderna» e Grazie ed eleganze femminili, poi La moda e la casa su «I diritti della scuola») denota- no la trattazione di temi e aspetti comuni. Sono, per lo più, un paio di pagine con ca- denza irregolare, diversa a seconda delle annate: la parte scritta è corredata da disegni e fotografie che offrono un quadro d’insieme di ambienti domestici e riproducono, talvolta in modo stilizzato, il vestito di cui si propone la realizzazione. Nel caso dell’abbigliamento, le puntuali e precise indicazioni non si limitano alla scelta del materiale e del colore, al taglio e alla foggia dell’abito, ma contengono pre- ziosi suggerimenti circa l’appropriato utilizzo di ciascun modello in ordine al con- testo, alla circostanza e alle caratteristiche della persona, destinata ad indossarlo: si spazia dai capi eleganti in occasione delle cerimonie (matrimonio, prima comunione) ad indumenti pratici per il periodo delle vacanze. Se per le bambine e i bambini si consigliano gonnelline arricciate e calzoncini con pettorina e bretelle, per le giova- nissime, in fase di sviluppo, si ritengono particolarmente adatti soprabiti lineari. Alla generazione adulta vengono presentate le nuove tendenze per quanto concerne i tes- suti e la fattura degli abiti, in particolare le gonne, accorciate rispetto al passato e con forma a tubo o a palloncino. Non mancano gli abbinamenti con gli accessori: dalle scarpe alle borsette; dagli orecchini alle collane; dai cappellini alle sciarpine; dagli

7 la rubrica de «I diritti» è curata da Rossana. Tra noi e la casa di «Scuola Italiana Moderna» è, invece, a doppia firma: Rezia figura come responsabile della pagina della moda, Felicita di quella dell’arredamento.

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ombrellini ai guanti; dalle cinture alle cravatte. Rossana, su «I diritti», si sofferma ad analizzare quello che definisce lo «stile-mae- stra» nella convinzione che ogni donna abbia «nel vestire e nel comportarsi uno stile particolare che corrisponde alla sua posizione sociale e alla sua attività»: a giudizio della redattrice, l’insegnante deve privilegiare la linea alla ricerca di «particolari pe- santi e vistosi», un amore per la semplicità che non disdegna il ricorso alla «roba nuo- va» perché se è vero che non bisogna farsi guidare totalmente dalla moda è altrettanto vero che «un vestito confezionato quattro anni fa» può «esporre a qualche sorriso di commiserazione». È opportuno scegliere con cura l’abito che si indosserà più volte nel corso dell’anno scolastico con una preferenza per quello intero, particolarmen- te adatto ad accentuare «agli occhi degli scolari l’altezza della persona» e, quindi, a conferire maggiore autorità alla figura del docente. (Diritti, 1958-59, 951). Piuttosto rari appaiono i riferimenti al mondo maschile: è interessante notare come, spesso, il destinatario di tale messaggio sia la donna, considerata, come moglie, responsabile del guardaroba del marito. Particolare attenzione, nelle rubriche, è rivolta agli stili e agli oggetti d’arredo. Nu- merose sono le proposte per il rinnovamento degli ambienti che prevedono la ritin- teggiatura delle pareti, la riorganizzazione degli spazi e l’acquisto di mobili funzionali alle esigenze della vita moderna: dalle stanze in cui si trascorre gran parte della gior- nata (cucina, salotto/studio) a quelle utilizzate, principalmente, per il riposo (camere da letto); dalle zone di passaggio (corridoio, scale, anticamera) al guardaroba. Nulla viene lasciato al caso, come attesta la cura di ogni particolare: dai lampadari ai quadri; dai tendaggi ai tappeti; dai soprammobili alle composizioni floreali. Figurano anche consigli relativi all’acquisto del corredo per la casa, all’abbellimento della tavola per momenti di convivialità con parenti e amici, alla pulizia dei pavimenti con l’indicazio- ne dei prodotti adatti all’eliminazione di qualsiasi macchia. Alcuni approfondimenti sono dedicati, in modo esclusivo, ad oggetti che, alla fine degli anni Cinquanta, cominciano ad entrare nelle case degli italiani. Nella pagina dal significativo titolo Il frigorifero non è un lusso, apparsa su «Scuola Italiana Moderna» nel giugno del 1958, si sottolinea la presenza indispensabile di questo elettrodomesti- co in una cucina «efficiente, razionale, aggiornata». In uno dei numeri successivi della rivista si arriva addirittura ad affermare che la «sistemazione funzionale ed estetica» del televisore, presente ormai in ogni famiglia, «richiede una nuova organizzazione del gruppo soggiorno»: si propongono un paio di soluzioni, corredate da immagini8. Particolarmente curiosa, infine, è la descrizione di un mobile da salotto che contiene, al suo interno, l’angolo bar, la libreria, il grammofono, la televisione e la «discoteca»: una struttura unica, articolata e composita, ideata per fare posto alle novità che carat- terizzano la vita della gente comune. La presenza delle stesse pubblicità e di rubriche analoghe, dedicate alla moda e

8 i dati di quegli anni sembrano confermare la tendenza degli italiani ad acquistare questi beni di consumo: le vendite del frigorifero passano da 370.000 nel 1959 a un milione e mezzo nel 1963. Ampia è anche la diffusione dell’apparecchio televisivo come attesta il considerevole e costante aumento del numero di abbonati: un milione nel 1958, due nel 1960, cinque nel 1965.

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all’arredamento, potrebbe indurre a ritenere che tra «I diritti della scuola» e «Scuola Italiana Moderna» non esistano sostanziali differenze nel giudizio, più o meno espli- cito, sulla nuova tendenza ad un consumo di massa. In realtà, ad una lettura attenta appaiono alcune significative sfumature, espressione del diverso orientamento religio- so e culturale delle due riviste. I redattori del giornale cattolico sembrano animati dalla preoccupazione e dalla vo- lontà di promuovere nei lettori un approccio consapevole ed equilibrato nei confronti del boom economico al fine di conciliare cambiamento e tradizione. La decisione di affiancare alla descrizione dei capi di abbigliamento disegni e bozzetti, non immagini di modelli firmati, riflette da un lato un’idea di sobria eleganza, dall’altro il desiderio di proporre abiti che, pur ispirati alle nuove tendenze nella foggia e nell’utilizzo dei tessuti, siano facilmente realizzabili in ambito domestico. D’altra parte l’apertura alle novità non implica, come si sottolinea sulle pagine del periodico, l’assunzione di un atteggiamento di sudditanza nei confronti dei dettami della moda. Emblematico al riguardo è il seguente passaggio: Segnalare il «nuovo» – scrive Rezia – non vuol dire rivoluzionare il guardaroba dei nostri uomini. Essi continueranno ad essere ben vestiti anche con i loro non nuovi abiti a quadret- tini minuti bianconeri: abiti di grisaglia grigia, d’intramontabile tweed, di principe di Galles bianco nero con un rigolino o verde o rosa (Scuola Italiana Moderna, 1957-58, 61). Le curatrici della rubrica Tra noi e la casa sono responsabili anche di un angolo della posta in cui rispondono a varie e innumerevoli domande su questioni relati- ve all’arredo, al quotidiano disbrigo delle faccende domestiche, all’organizzazione di particolari eventi, all’abbinamento di capi di vestiario9. Nello spazio loro affidato, presente in quasi tutti i numeri della rivista, dispensano consigli, indicano possibili soluzioni, offrono suggerimenti e semplici rimedi con uno stile misurato e un taglio pratico: dalle norme del galateo a tavola ad un’idea regalo in occasione di feste e compleanni; dalla composizione del corredo al set di bauli e valige per un viaggio; dal rivestimento dei pavimenti alle tonalità per il soffitto; dalle fodere di divani e poltrone alle cornici degli specchi. La scelta di ricorrere alle stesse persone assicura una linea di continuità e un approccio uniforme ai temi trattati: non a caso si insiste, quando pos- sibile, sull’opportunità di ammodernare, con piccoli accorgimenti, gli oggetti che già si possiedono invece di acquistarne dei nuovi10. Attraverso questa forma di scambio e di dialogo a distanza, diretto con chi scrive e indiretto con i lettori, si genera un rap- porto di familiarità e di fiducia che consente alla rivista di rappresentare per i propri abbonati una voce autorevole e una guida sicura nei rapidi processi di trasformazione socio-culturale all’insegna di una visione moderata del progresso, incline al rispetto

9 sul giornale non viene pubblicato il testo della domanda: la risposta è preceduta da una serie generica di in- formazioni che consentono di identificare il mittente e, talvolta, anche di comprendere l’oggetto della richiesta. Ecco alcuni esempi: «Arianna, in attesa. Mammina in aprile»; «Fulvietto a tavola»; «Impacciata di Cefalù»; «Abbonata n. 80.092»; «Romagnola 1937». 10 così scrive Rezia a una donna astigiana, madre di tre figlie: «Gli abiti di cui mi ha mandato i disegni non sono affatto fuori moda; quasi tutti si possono aggiornare con un breve ritocco. Perché metterli da parte se ci stanno bene?» (Scuola Italiana Moderna, 1959-60, 81).

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dei tradizionali cliché di comportamento. In tale prospettiva non sorprendono le pa- role di rimprovero rivolte ad alcune quindicenni che, come si evince dalla risposta, desiderano, con un ritocco nell’aspetto, apparire più grandi: Che voglia di parer d’età «maggiore» v’ha mai preso, care ragazzine? Vi rispondo, per il vostro bene, con dei no: no ai tacchi alti, no al rossetto, no alle scollature, noi ai profumi penetranti, no ai capelli sciolti lungo le spalle; no alle due trecce leziosamente portate davanti lungo il busto: incrociatele invece dietro fermandone le estremità presso l’una e l’altra tempia con un bel fiocco di nastro (Scuola Italiana Moderna, 1957-58, 91)11. «Scuola Italiana Moderna» svolge un’azione, anche in qualità di intermediario, nell’acquisto di alcuni prodotti come si evince dall’invito a spedire all’ufficio propa- ganda della rivista stessa il buono sconto insegnanti per ricevere la merce, pagabile a rate o con il contrassegno. A queste particolari condizioni di vendita vengono pub- blicizzate, nel 1963, un’offerta speciale di biancheria (oggetti di corredo per la casa e indumenti personali) e il catalogo, a prezzi vantaggiosi, di Haas, antica ditta specializ- zata in tappeti, stoffe per arredamento, tendaggi e coperte. Nella direzione dei «I diritti» non si scorge l’analoga volontà di accompagnare e so- stenere la donna nella gestione della vita moderna, complessa e frenetica. L’idea di un angolo della posta, in cui rispondere alle domande dei lettori, caratterizza solo i primi numeri del periodico scolastico. Circoscritta alla fine degli anni Cinquanta è anche la presenza della già richiamata rubrica Grazie ed eleganze femminili: in essa, inoltre, la tendenza a proporre qualche fotografia di abiti di stilisti italiani e stranieri, riflette una particolare attenzione anche per un gusto dai toni raffinati, confermato dalla scelta di dare spazio, sulle pagine del giornale, ai giudizi espressi da riviste internazionali di moda. Nel settembre 1959 compare il seguente trafiletto, fedele traduzione di un brano desunto da Le Jardin des modes: Alla purezza del nuovo stile corrisponde una linea più stretta, più aderente, che si aggiusta ai contorni del corpo senza accusarli, che li addolcisce imitandoli. Una linea saggia che ac- cenna appena le caratteristiche della persona, ma lascia all’attitudine tutta la sua importanza: essa mette in valore i gesti e il portamento (Diritti della scuola, 1958-59, 951). È un atteggiamento che sembra coniugarsi con una prospettiva di emancipazione femminile, come si evince dalla pubblicazione, sui numeri dei primi anni Sessanta, della pubblicità del C.D. Indicator, un prodotto che, approvato dalla Chiesa, con- sente alla futura madre di conoscere i giorni mensili favorevoli al concepimento. Le conquiste del gentil sesso sono oggetto di specifica trattazione in una pagina ad esso dedicata12: è sufficiente citare, a titolo di esempio, i sentimenti di soddisfazione e di orgoglio, espressi dalla curatrice della rubrica, per la presenza all’Onu di numerose

11 dello stesso tenore è la risposta alla giovane che definisce «antiquata» la mamma perché le proibisce di fumare per strada (Scuola Italiana Moderna, 1961-62, 105). 12 si tratta della Pagina della donna, firmata da Maria Remiddi. La curatrice della rubrica prende spunto da inda- gini statistiche (percentuale delle donne che leggono il giornale) o dalla presentazione di proposte di legge (pensione per le casalinghe) per richiamare l’attenzione, anche del genere femminile, sulla necessità del riconoscimento di una serie di diritti etico-civili e sul dovere di esercitarli.

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donne, delegate dei rispettivi governi. Dalle sue parole emerge una chiara consapevo- lezza in merito al segnale di svolta rappresentato dall’eccezionalità dell’evento nella fiduciosa speranza che possa tradursi in una prassi comune anche per il nostro paese: Stiamo attraversando, per la prima volta, da quando si è iniziata la nostra vita, un’epoca che ben può dirsi nostra […], l’era in cui le donne hanno raggiunto la parità con gli uomini in quasi tutti i pubblici uffici e raggiungeranno a breve scadenza quei pochi posti che sono ad esse ancora preclusi […]. Non si può impedire di credere che ognuna di queste donne ha lasciato nella propria pa- tria decine e decine di altre donne che avevano le loro stesse capacità e che potevano sedere, altrettanto degnamente, ai loro scranni. E come mi si può impedire di credere che il Governo Italiano non possa trovare dall’Alpi alla Sicilia una sola donna capace di far buona figura vi- cino a Taki Fugita [Giappone] o a Maria Espinola [Repubblica Domenicana]? (Diritti della Scuola, 1959-60, 459). È considerata di buon auspicio, in tal senso, la nascita, a Roma, della sezione italiana della Lega Internazionale Femminile per la Pace e la Libertà a cui le lettrici sono sol- lecitate ad aderire, in qualità di madri e di insegnanti: non si perde, infatti, occasione di sottolineare come l’impegno rivolto all’educazione delle giovani generazioni sia, ai fini della cessazione delle violenze e dei conflitti armati, decisivo al pari di quello delle personalità politiche, chiamate a firmare un trattato o una convenzione tra Stati13. Questa visione di moderato ottimismo contrasta con la condizione della donna dell’epoca, soggetta nella vita quotidiana, familiare e lavorativa, a discriminazioni e a evidenti disparità rispetto al genere maschile. Sotto il profilo legislativo, gli anni successivi all’avvento della Repubblica, grazie anche all’affermazione del principio di uguaglianza tra i sessi stabilito dalla Costituzione, coincidono con il riconoscimento di alcuni fondamentali diritti sociali e civili: elettorale (1946); tutela fisica ed economica della lavoratrice madre (1950); abolizione della regolamentazione della prostituzione che decreta la chiusura delle case di tolleranza (1958). Si tratta, tuttavia, di provve- dimenti, destinati, molto spesso, a rimanere lettera morta: se è vero che, tra il 1955 e il 1961, aumenta di oltre un milione il numero delle donne, occupate in tutti i settori industriali e nel terziario, è altrettanto vero che permangono i casi di licenziamenti per matrimonio e la mancanza di garanzie sui minimi salariali. Nei costumi e nelle abitudini si continua a riscontrare un accentuato maschilismo che induce la maggior parte delle future spose a rinunciare all’impiego a beneficio della famiglia: d’altra par- te è ancora in vigore l’obbligo per la moglie di seguire il marito ovunque egli creda opportuno stabilire la residenza.

13 dalla lettura del testo della rubrica si evincono ulteriori informazioni: il nome del presidente (Bianca Gallone), l’indirizzo della sede (via Panisperna 28) e la bozza del programma, finalizzato a formare, nell’immediato futuro, un «cittadino pacifico» che creda nell’arte della persuasione.

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Conclusioni

L’analisi delle pubblicità, alla luce del diverso approccio de «I diritti della scuola» e di «Scuola Italiana Moderna» nei confronti del fenomeno del boom economico, mette in evidenza un interesse crescente delle aziende verso il mondo scolastico, individuato come ricco e ampio bacino di potenziali acquirenti. Non disponiamo di elementi certi per una verifica in merito alla reale incidenza di questo battage pubblicitario sulle tendenze all’acquisto e al consumo della categoria magistrale. È possibile, tuttavia, avanzare qualche ipotesi sulla base di alcuni accenni contenuti nei testi dei prodotti reclamizzati: non sono infrequenti i casi in cui si fa riferimento al successo della pro- mozione, attestato da numeri record di partecipazione e dalla quantità di premi, di- stribuiti a cadenza periodica. Si pensi, ad esempio, al già richiamato concorso sui pen- sierini Star che, ogni trimestre, mette a disposizione degli alunni, oltre a ragguardevoli somme di denaro, ben mille giocattoli. D’altra parte la scelta della maggior parte delle ditte di assicurare, sulle pagine di entrambe le riviste, una presenza costante di inser- zioni a pagamento induce a presumere un positivo riscontro in termini di vendita; una scelta dettata anche dalla consapevolezza che il notevole grado di diffusione dei due periodici consente di rendere familiare alla classe docente dell’intera penisola i principali marchi dell’industria italiana. È sufficiente scorrere la rubrica della posta di «Scuola Italiana Moderna» per rendersi conto del vasto pubblico di lettori, della loro appartenenza alle diverse aree geografiche italiane e del rapporto di lunga data che li lega al giornale cattolico: nelle indicazioni generiche, riferite al mittente, figurano, in- fatti, il nome della località di residenza oppure il numero dell’abbonamento o ancora l’anno in cui il maestro o la maestra hanno cominciato ad acquistare, con regolarità, una copia della rivista. Una fonte che varrebbe la pena di analizzare è quella rappre- sentata dai diari e dalle narrazioni autobiografiche degli insegnanti in linea di conti- nuità con lo studio condotto da Patrizia Gabrielli sul fenomeno del boom economico attraverso la lettura degli epistolari e delle memorie maschili e femminili conservate presso l’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano: i racconti di vita, umana e pro- fessionale, consentono di cogliere l’effettivo grado di benessere raggiunto e rivelano lo stato d’animo e le sensazioni, talora anche contradditorie, che accompagnano il processo di cambiamento14. L’articolo non ha la pretesa di esaurire, in poche pagine, un tema complesso, su- scettibile di ulteriori analisi e approfondimenti. Mi limito, in conclusione, ad indicare alcune possibili piste di ricerca: lo spoglio degli archivi delle aziende commerciali promotrici dei concorsi a premi e il confronto con le pubblicità pubblicate, negli anni Cinquanta e Sessanta, sui giornali di intrattenimento e di informazione/formazione rivolti all’universo femminile nell’intento di individuare analogie e differenze nella costruzione dell’immagine di una donna moderna, chiamata a vivere in una società in profonda e rapida trasformazione.

14 in merito allo studio delle memorie delle insegnanti si vedano i contributi di Morandini 2016 e 2017. Sul più ampio quadro della «cultura materiale» della scuola si rinvia a Meda 2016 e Meda, Badanelli 2013.

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CONSUMING SOCIALISTS: CHILDREN, FAMILIES AND THE STATE IN POSTWAR POLAND

CONSUMATORI E SOCIALISTI: BAMBINI, FAMIGLIE E STATO NELLA POLONIA DEL SECONDO DOPOGUERRA

Based on ordinary people’s life stories, the article discusses the relationship between children and consumption in 1960s and 1970s Poland, exploring the different meanings attributed to child consumption, at the crossroad of private and public narratives. The article treats children as important economic actors, of crucial importance for our understanding of the meaning of consumption. As the narratives discussed in the article show, in socialist Poland children provided a privileged terrain for the negotiation of private desires and public expec- tations. Far from representing merely an ‘extra expense’ or an addition to the household budget, children’s consumption represented an essential dimension of the renegotiation of the relationship between state and citizens that took place in socialist Poland, informing the way in which both parents and the state articulated their responsibilities and roles. Utilizzando le storie di vita pubblicate in Polonia fra gli anni ’60 e ’70, l’articolo discute la relazione fra bambini e consumo in un momento di profonda trasformazione politica e sociale. L’articolo esplora i diversi significati attribuiti al consumo infantile, sia all’interno della sfera domestica che nel discorso politico, guardando ai bambini come a importanti attori economici, essenziali alla comprensione del consumo e del suo significato in diversi contesti sociali e politici. L’articolo dimostra che il problema di come integrare il consumo nello sviluppo di una educazione socialista capace di garantire lo sviluppo sociale della Repubblica Popolare Polacca divenne un tema centrale della politica degli anni ’60-’70 e del tentativo di elaborare un nuovo rapporto fra cittadini e stato che si svolse in quegli anni. Key words: consumption, childhood, family, education, state, Poland, real socialism. Parole chiave: consumo, bambini, famiglia, educazione, stato, Polonia, socialismo reale.

Both children and consumption are inextricably associated with normative stances and moral judgements. As a variety of actors, from parents and teachers to psycholo- gists and priests, typically have an opinion on what is good or bad for young people, what children consume and how rarely goes uncontested. The moral values according to which children’s relationship with consumption is understood are ingrained in the social relations intrinsic to everyday life and vary depending on the historical context (Cook 2005; Linn 2004; Pugh 200; Sparrman, Sandin and Sjoberg 2012). The ways in which the position of children in relation to consumption is interpreted, therefore, cannot be separated from the specific value system in which interpretations and judgements take place. This article explores the relationship between children and consumption in 1960s

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 205-223 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.60 Stefania Bernini, [email protected] (Università degli Studi Ca’ Foscari Venezia)

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and 1970s Poland. This is a rich and complex historical context, in which both the no- tion of childhood and that of consumption carried multiple and contradictory mean- ings. Based on ordinary people’s life stories, the article explores the different meanings attributed to child consumption, at the crossroad of private and public narratives. It is argued that the question of children’s consumption offers a key perspective for the understanding of the political and social transformations that took place in postwar Poland, and that conversely, the specific framework provided by the People’s Republic forces us to rethink some strong assumptions about the nature and meaning of consumption in the postwar era. I suggest that children’s consumption represented an essential dimension in the renegotiation of the relationship between state and citizens that took place in social- ist Poland, informing the way in which parents articulated their responsibilities and roles. Furthermore, children’s consumption highlighted the transformations taking place within Polish families, both in the relationships internal to the household and in those taking place between households and society. Far from looking at children as mere “extra-expenses” or as «little bodies, nagging purchase requests», this article looks at children as important economic actors, of crucial importance for our under- standing of the meaning of consumption (Cook 2008, 222). In Daniel Cook’s words, putting children into the picture «disrupts individualistic assumptions about economic action». Within this article, children are looked at in the context of what could be thought of as “family consumption”, an approach that underlines how the purchasing of goods and services answered not only individual needs and desires, but also collective expectations. Throughout the article, consumption is discussed not only as an economic mat- ter, but also as a political and symbolic affair. As consumption assumed a growing political relevance in ‘60s and ‘70s Poland, what children consumed and why became an important indicator not only of their parents’ spending capacity, but even more of their ideological stance and of their achievements as educators. At the same time, children themselves became part of the way in which postwar couples measured their achievements in life. Similarly to material goods, children marked the attainment of particular life stages and allowed parents to write their stories into a desirable/norma- tive collective narrative of growth.

Recovering children’s and parents’ voices

While the history of childhood has reassessed the role of children as social mem- bers and actors in society, and while consumption has occupied an increasingly im- portant space in analyses of postwar Eastern Europe, the specific position occupied by children in socialist societies, particularly in relation to consumption, has only recently started to attract the attention of historians (Cunningham 1995; Hendrick 1990; Prout and James 1990; Jenks and Prout 1998; James and James 2004).

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This article contributes to this exploration taking as its main source a particular type of ego-document, located at the intersection of private and public discourse, and crossing both private desires and public expectations. The ego-document discussed in the article are the solicited life stories collected and published in large numbers throughout the 1960s and 1970s, in the context of different editorial competitions (in Polish konkursy). This type of memoir (in Polish pamiętniki) could be considered as a specific genre, used in Poland since the beginning of the twentieth century as a privileged means of sociological investigation, thanks to the pioneering work of Florian Znaniecki. (Markiewicz-Lagneau 1976; Miller 2000, 6-12; Thompson 1979). The pamiętniki collected and published in the 1960s and 1970s provide a precious source of information on family life, as well as on individual desires and aspirations. Collected in the context of different research and editorial projects, the pamiętniki dealt with several aspects of family life, from marital and gender relations in the home, to parenting and the economic role of women. Interestingly for our perspectives, the voice of young people was sometimes captured in the life stories too, also through oc- casional initiatives specifically dedicated to their experience. What renders the postwar pamiętniki a particularly interesting source, is both the content of individual life stories and the very nature of their production. Not only the memoirs were written in response to specific research questions, but their publica- tion was the result of a selection process aimed to highlight a particular path of social transformation. Collection after collection, the pamiętniki combined the subjective value typical of ego-documents with a public and pedagogical function: they did not only describe family life in socialist Poland, but also taught (or sought to teach) Poles about desirable ways of living. From sexual relationship to domestic hygiene, gender relations and parental practices, the cumulative (selected) experiences narrated by ordinary Poles provided a guide to a desirable socialist domestic and public life1. As Donna Haraway showed, all knowledge is situated in a particular context and cannot be properly understood without taking that context into account (Haraway 1991). In the case of the pamiętniki, the material collected had the explicit aim of gaining information on ordinary people’s life in post-war Poland. The sort of knowl- edge they produced, however, is inseparable from the particular political and insti- tutional framework in which the pamiętniki originated. While telling us about indi- vidual desires and expectations, the pamiętniki also remind us that no life story can be separated from the collective narrative of which it is part. In relation to consumption, the pamiętniki give us a glimpse into the materiality of

1 Three main themes stood out in the collections of life stories published in postwar Poland. The first is the role of new social and professional groups, such as doctors, miners, nurses and teachers. The second, concerns social relations in the new territories acquired by Poland after WW2, namely in Upper Silesia and Warmia and Masura (the former East Prussia region), which is in the so-called “recovered lands”. The third major theme is the transformation/ modernisation of domestic relationships; it is from this third group of publications that most of the material used in this article originates. The titles of the collections give a sense of the attention given to transformations taking place in different aspects of family life: My parents, My children, My childhood, Myself as a Husband, Myself as a Wife, My grandparents, My Family, Then and Now, to quote only a few.

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family life, as well as into values and expectations. As Sanding and Sparrman noted, «studying children’s positions in markets, as well as their relations to consumption, gives rise to discussion and understandings of the notions of children and consumption, but more importantly to discussions on how the two are related» (Sparrman and Sandin, 10). This applies also to societies that constructed themselves in (at least theoretical) opposition to the very notion of mar- ket. As the pamiętniki show, in socialist societies as in capitalist ones, children and consumption stood in a crucial relation; the character of such relationship depended on the specific contexts in which it took place.

Socialism, consumerism, and the state

Similarly to its Eastern European sisters, the People’s Republic of Poland con- structed its postwar socialist identity in antithesis to the model of capitalist consum- erism of the west. Anti-consumerist rhetoric (also a shorthand for anti-americanism) accompanied and supported an economic strategy dominated by investment in heavy industrial production at the expenses of services and consumer goods. In the 1940s and 1950s, the efforts put into the rebuilding of infrastructures devas- tated by the war and the tight ideological control exercised by Stalinist leaders man- aged to put forward an idea of progress (and modernity) independent from consump- tion. By the 1960s, however, the shortcomings of the planned economy had become difficult to hide, as empty shops and recurrent shortage crises regularly reminded Poles of the inefficiencies of the system. In Poland, as elsewhere in Eastern Europe, the impossibility to buy much needed or much desired goods rapidly became a daily source of frustration for most ordinary people. This had significant political conse- quences. In an atmosphere of growing disenchantment with the promises of real so- cialism, the inability of the socialist state to provide goods and services testified the state’s broader failure to respond to its citizens’ needs and expectations, including those of the young families on which the future of the country rested. In the history of postwar Poland, the years between 1956 and 1970, are usually seen as a period of relative liberalisation; a long decade during which the country left behind the worst of Stalinist repression to embark on a “national road” to socialism, under the leadership of Władysław Gomułka. The concessions to popular demands that marked the Polish thaw included the recognition of an independent Catholic Church, the abandonment of land collectivisation, and the introduction of a political pluralism of sort. In the economy, however, Gomułka pursued a strategy of austere self-sufficiency, which could do little to offset the growing disappointment of ordinary Poles. The unsustainable political cost of economic and industrial policies that con- demned the country’s living standards to a frustratingly slow rise had become obvious by the end of Gomułka’s reign. In 1970, the new party secretary Edward Gierek tried to counter political turmoil by abandoning the self-sufficiency goal pursued by his

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predecessor and substituting it with a bold plan for economic modernisation based on large-scale import of foreign capital and technology. While the recipe would prove fatal on the long run, the immediate result was a wave of ’fake prosperity’ engineered from the top and based on raised wages and freezing food prices. As the Polish state started to realise the political dangers posed by its stale econo- my, new narratives about consumption also started to appear. Rather than rejecting the very notion of consumption as a capitalist perversion, growing attention started to be given in the 1960s and 1970s to the development of a notion of ‘socialist consump- tion’ in which people’s changing needs and expectations could be channelled into an appropriate model of socialist transformation. The pamiętniki can be read both as testimony of the shortcomings of the socialist economy and as a map of how to achieve a successful life in the given conditions. Families and children played an important role in the effort to put forward an ap- proach to consumption able to keep together socialist ideology, economic constraints, and the unstoppable appeal of the rising international consumerist culture. By the 1960s, the first Poles who had reached adulthood in the aftermath of WW2 were forming their own families, bringing up the first generations of children born in the People’s Republic. On the behaviour of these young parents and their children, in- cluding as young consumers, the state could measure its ability to forge new socialist citizens. In Poland as elsewhere in Eastern Europe, and to an even greater degree in the So- viet Union, the socialist state tended to place children’s matters at the core of its politi- cal legitimacy. The state not only claimed the expansion of education and health care as the centre pieces of the socialist revolution, but it also boasted the merit of having allowed children “to be children”, guaranteeing them the possibility of remaining “non-productive” members of society for expanding parts of their lives. In countries in which child labour had been common and widespread, providing child care, health and education could be presented not only as a question of public welfare, but as part of a programme of social modernisation that saw children as a key component (Kelly Kirschenbaum 2001; Rodden 2002). The centrality of the child to socialist modernisation programs determined not only the nature of children’s consumption but also the changing value of the child. In a classic book published in 1985, Viviana Zelizer argued that children’s values changed in the US between 1870 and 1930 because of a rationalisation of the labour market that rendered children’s labour redundant. No longer economically valuable, children acquired an emotional value, which in turn led to the establishment of a new market value of the emotional child (Zelizer 1985). The reassessment of the social role of children and of their position in society and in the family accompanied the tumultuous economic and social transformations un- dergone by Poland in the aftermath of WW2. As a largely agrarian country rapidly morphed in an industrial one, the economic value attached to children in the rural household gave way to a redefinition of childhood as a time for learning and play. In the postwar rhetoric, the hardship endured by the peasant children of the pre-war

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years was set against the modernity of the new era, in which the benevolent socialist state guaranteed the right of the child to be a child. The transformation of children’s value from an economic to an emotional one brought with it a strong political dimen- sion. To be children in postwar Poland meant the right/duty to pursue an education and enjoy good quality play. The guarantee of a ‘non-productive’ time in life was as an investment, expected to deliver the well performing socialist workers and citizens of the future. Investing in children’s right to be children had a very strong relevance in terms of the educational policy pursued by the postwar Polish government. As the new com- munist leaderships quickly understood that no radical project of social transformation could thrive without the participation of the youth, the creation of new generations of citizens educated in the values of socialism became a primary goal for the state since the early postwar years. New curricula and study programmes were introduced since the late 1940s, often in open competition with the traditional educational out- look pursued by the Catholic Church. Their explicit aim was that of forming a new socialist personality, able to understand the value of the collective and to contribute to it, through hard work and the adherence to appropriate moral and political val- ues. Against the dogmatism of the Church and the obscurantism of pre-war parents, the new educational mantra advocated young people’s emancipation through love of learning and scientific enquiry. Both of which should bring them to see the superior values of the current political system.

Children’s value: economic, emotional, and political

For the generation born in the 1930s, the parents of the children born in the ‘50s and ‘60s, poverty and work had been common childhood experiences. «My life, like that of thousands of other children was to sweat in agricultural work», remembered Krystyna Malinowska, who had been put in charge of the family small stock of poultry at the age of five, before «graduating to look after the [neighbours’] cow» when she turned seven (Malinowska 1977, 22-24). Although already an adolescent in 1945, Krystyna described the possibility of fi- nally going to school in the aftermath of the war as the real beginning of her life, start- ing with the recovery of her «previously denied» childhood. Throughout her memoir, Malinowska presented a common narrative of hard work, deprivation, and lack of communication between parents and children. No sense of nostalgia is to be found in Malinowska’s early childhood memories. On the contrary, she unambiguously cel- ebrated the socialist state as the father-saviour, which, through dedicated teachers and student grants, had recognised and promoted her intellectual ambitions and abilities. A gifted student, she had graduated in pedagogical studies and had gained a speciali- sation in sexual education, in itself a marked sign of “modernity” in postwar Poland. Educating children and young people had informed her private and professional life. As an adult, Malinowska had gone through two painful divorces. While recalling

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them as very difficult times, her memoirs indirectly paid tribute to a legal innovation introduced by the socialist government, which had allowed her and her two children to escape unloving and potentially abusive environments. Against the considerable social stigma that accompanied divorce in postwar Poland, Malinowska emphasised that her single mother household had offered her children a more supportive home than the formally “complete” family of her childhood. The quality of the relationships that bound the members of the family, she held, carried a far greater value than its institutional/legal form. Against a traditional preoccupation with the integrity of the family as an institution, strongly supported by the Catholic Church, Malinowska’s narrative put forward a vi- sion of family life that privileged emotional ties, in an implicit answer to the ongoing battle over divorce engaged by Catholic authorities since 1945. My children did not have a normal family, in the sense of having always mother and father with them. Their father loved them only in theory, and kept no real contact after divorce. He was not missed in the family. My second husband, on the contrary, wanted to love all and could be very kind, but he had other problems, so that the children experienced a difficult atmosphere in the home. However, I never gave up the effort to give them a supportive envi- ronment (Malinowska 1977, 24-25) Malinowska’s story provided an alternative pedagogy to that traditionally offered by Catholic authorities. Although based on different principles, her narrative was also informed by a central moral aim: to bring up her children to be «good citizens and workers», passing on «a socialist morality as a good start in life». At the core of Malinowska’s parenting philosophy laid the conviction that chil- dren should be involved in all aspects of domestic life. By sharing in domestic work and being involved in decision-making, they would become aware of what running a household entailed, therefore gaining a skill that any conscious and responsible citi- zen should have. Consumption represented a central part of her children’s education. Remembering how her parents’ poverty and lack of interests had made her feel lonely and misun- derstood, Malinowska had taken care to include children’s consumption in her family budget. Moreover, she had tried to foster common interests with her children since their earliest age, engaging them in discussions of «films and books», as well as on cur- rent political matters. Finally, Malinowska had made sure that her son and daughter felt comfortable talking to her about any matter, including when asking «questions on intimacy and sexuality», which she made a point of answering «seriously and natu- rally», never giving the impression that this was anything out of the ordinary. The emphasis put by Malinowska on the near perfect harmony of the relationship she had with her children did not leave any space to discuss the extent to which children themselves had agreed to the consumption choices that she had made for them. In Malinowska’s account, they fully shared and appreciated the education they received and quickly developed a love of books, the most common present that she bought for them.

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Unsurprisingly, here as in several other accounts, books represented the object considered most essential to children’s virtuous upbringing. Anna Filek, who had herself worked hard to overcome male prejudice in order to gain an engineering degree while pregnant, adopted “a Spartan attitude” towards her son, but went to a great length to answer his curiosities and questions. Seeing educa- tion and the cultivation of children’s interests as the most valuable element of their upbringing, Filek made a point of answering «seriously and responsibly» any question her son posed. When she herself did not know the answer, Filek did not hesitate «to go out to buy books». In their daily routine, moreover, she used any available opportunity to «teach him how to look out for information, from books, TV, radio, film, posters». At the same time, she tried «to teach him how to distinguish between good and bad», making sure to turn daily event into an educational opportunity (Filek 1977, 53). In the pedagogical project represented by the pamiętniki, not even the most dif- ficult material circumstances, should prevent parents from pursuing an education that made their children «physically and morally healthy, giving them a love of learning». Zbojniczka (The Trouble Maker) had brought up three daughters alone in a remote mountain area after the early death of her husband; although striving for material subsistence, she had nonetheless found resources to buy «books of psychology and pedagogy, dedicated to the education of children». Similarly to Malinowska, she had involved children in domestic work, which in her case involved rural activities. I gave each of my children a duty to help in the home. The eldest, from the age of 8 helped me with the farm, looking after the geese, and the cows… the middle one started the fire, prepared the food and looked after the youngest daughter (Zbojniczka 1974, 46). If to the reader, those tasks could appear not so different from those that the young Malinowska had so resented, the context made all the difference from the point of view of the writers. In postwar accounts, domestic and even rural duties were pre- sented not as exploitative work, but rather as part of a civic and political education, which included an appreciation of domestic responsibilities. Moreover, unlike in the pre-war households, in the postwar home no amount of material hardship could justify slacking standards in education. Despite the material struggle that she had to confront every day, “Zbojniczka”, who was herself a primary school teacher, had found time to teach her daughters to read even before they started school, and «helped them with homework from the first to the third class». Her ef- forts paid off, as from then on she «never had to ask about homework, because they attended to it as soon as they got home» (Zbojniczka 1974, 46).

Children as markers of modernity in family life

We have been married for ten years, with much love. We are both well-adjusted to mar- riage, we have already an apartment, a television, an electric floor polisher, and a coffee mak- er, as well as a seven year old boy, who is in the first year of school (Piotr 1976, 10).

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Piotr, a 35 year old doctor from Warsaw, married to another doctor of the same age, could be seen as the perfect example of a new urban socialist “middle class”, characterised by high professional status, an equal marriage, and a certain spending ability. Piotr’s memoir touches one of the central themes of postwar social modernisa- tion, which is the transformation of the model of family and matrimonial life. Several Polish sociological studies published throughout the 1960s and 1970s tried to map the transformation from an agrarian society, in which the patriarchal/rural household characterised by rigid gender roles and high fertility had been prevalent, to an urban society, distinguished by the predominance of equal marriage and lowering reproduc- tion rates. A study conducted in the new industrial town of Nowa Huta in 1970 found that having two children had become the norm even among workers with relatively low levels of education, while younger and more educated couples showed an even lower propensity towards reproduction. Several interviewees explained the decision to have no more than two children with the greater importance they had acquired: «once upon a time, the child was nothing in the family. Now, it is everything; no one cared for us the way we care for our children» (Adamski 1970, 31). For most inter- viewees, economic considerations and the fear of being unable to make ends meet guided their reproductive decisions. Economic considerations were also paramount in the autobiographical narratives of the new educated urban middle classes; the fear of a life of poverty was given here a positive spin and presented as the desire to be able to satisfy children’s ever-growing needs and expectations. Taking care of children’s expanded desires and needs was not a purely materialistic matter. In the good-socialist-parent narrative, paying at- tention to children’s wishes was the mark of a “modern” parent-child relationship. Against the authoritarian and distant model that had dominated in the homes of their childhood, postwar parents presented themselves as the vanguard of a new type of in- tergenerational relationship based on communication, mutual respect and the desire to fulfil children’s potentialities. The same logic also justified the acquisition of goods destined not directly to chil- dren, but to the improvement of “quality family time”. Although motorbikes and cars did not constitute children consumption per se, they figured highly on the list of goods that young families wished to acquire for the good of the children, providing a good reminder that much of children’s consumption needs to be understood in the context of family consumption. In a memoir published in the mid-1970s Nina recounted the long struggle she and her husband had fought to secure a «comfortable life» to their family. The transition from what Nina described as a «very basic» life style to a comfortable one was marked by some key purchases for the home - a modular kitchen, a Polar-80 fridge, and a carpet - all bought on credit. Having achieved the modern home that Nina had long wished for, the couple had decided to spend another 10,000 zloty to buy a second- hand motorbike. This Nina saw as the sign that the family had finally achieved some much desired quality free time. As she pointed out, the motorbike was used for two

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main purposes: taking the children to the lake on Saturdays and Sundays and, by her husband alone, to go fishing. The latter, Nina saw as a «privilege» that he had gained through his good performance as father and husband: he was «a good and helpful man, who help[ed], g[ave] all the money [to the family], and absolutely [did] not drink».

Zbojniczka, was even more open as to the pedagogical value of quality recreational time. Her daughters «got presents for good behaviour» and the mother made sure to choose objects likely to stimulate her daughters’ interests and skills: «once a camera, Druh, once a projector Bajka and some movies, and most often books with a dedica- tion from their mum» (Zbojniczka 1974, 46-47). Unable to afford the money and time to take the girls on long holidays, she made sure to invent mini-vacations for them, usually taking them on Sunday trips to the near ski resort of Zakopane, where they would watch skiing competitions and eat a «nice meal, little cakes, or ice creams». Similarly determined to feed her children’s abilities, Kamila choose presents that would fit her family’s musical interest. From a young age, her children received musi- cal instruments and records; in their free time, the family would get together to play the piano and the guitar, would listen to the music collection assembled by the par- ents or would attend concerts. Kamila’s husband, on the other hand, passed to the children his passion for photography, giving them a camera and teaching them how to take and develop pictures. Kamila noticed that this was «a somehow complicated hobby, because they have to use the bathroom as dark room, but the satisfaction is great» (Kamila 1974, 200). For the holidays, Kamila took the children camping in the Tuchola Forest, a lake region in northern Poland. Here, Kamila and the children spent a month fishing and enjoying the good air of the region. «The children love to go fishing; we then eat to- gether with great appetite, sitting under the tent». Her husband, who had to continue working through the summer, joined them at the weekends.

The value of things - or the continuum between children and objects

In all these narratives, consumption appear as an integral part of children’s devel- opment, and as an important part of family life. In some cases, children appear not only as consumers, but also as part of the “goods” acquired by the family. They are written into a narrative of family growth and consolidation in which both children and “things” come to represent markers of prosperity. With two children, a renewed home, and some money to spend in quality recreation, the picture of the desirable modern urban family seemed complete. «Now, we had everything – wrote a satisfied Nina – a beautiful two-room apart- ment, nice furniture, beautiful, healthy children». At first sight, Nina’s juxtaposition of children and furniture might appear strange, even perhaps a devaluation of the former. In fact, her remark is a reminder of the importance occupied by objects in the construction of individual narratives and iden-

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tities (Appadurai 1986; Miller 2005, 2008). Both children and desired objects allowed Nina to rejoice in a successful family life and to express her relief that the adventure started as a very young woman had turned out well: Today, when I look back, I must recognise that we were not ready for marriage. I had not yet finished agricultural school, I had one dress, I was 18 years old and four months pregnant, of which we were very happy. I came from a poor family, on whose help I could not count and from whom I did not receive anything. Lukasz was 18 and had a guitar, from which he never parted, and a great heart, which was the most important. […] We started from nothing, or rather from a son, but we were full of hopes and plans that after ten years of marriage have come through (Nina 1974, 26-27). The juxtaposition of children and objects in narratives of material and personal growth is a recurrent theme in the pamiętniki. Discovering a pregnancy was often the reason for a couple’s first common pur- chases. Nothing was new or prepared in the apartment so, based on our modest means, we had to prepare something. We bought a few furniture and a new big wardrobe. I was very proud of those new things, and when after a few days I opened the door of the wardrobe, I found my name burned into it - a sign of love from my husband. I was speechless, despite all the other signs that he loved me, it made me happy (Kamila 1974, 198). The significance that parents-to-be attached not only to the purchase of the few ob- jects directly destined to children, something most parents had to reduce to the very essential, but also to the decorating of the home in which the child would be born, remind us that a child’s consumer life usually start before its birth (Clarke 2004). For the many couples who started a married life at a young age, not rarely while still at university, the arrival of a first (often unplanned) child marked a brusque passage to adulthood. Being able to buy at least essential daily items represented both a practical necessity and a sign of independence. By redecorating a home or adapting makeshift dwellings to the needs of a new-born, parents created not only environments more suitable to the need of a child, but new family spaces, in which a new existence (of the family as well as of the child) would take place. The arrival of a second child, especially when planned, marked in many narratives a further move from a condition of precariousness to the stability expected of adults. The determination to «give our sons a full, calm, family home» motivated purchases that although costly seemed worthwhile and necessary. As Kamila explained, it was the determination to create a home free from the sense of want and insecurity that she and her husband had experienced as young people that made them happy to in- cur in expenses, and to buy on credit. Together with reading stories from books and answering any questions children might have, providing good material surroundings and quality time was essential to good parental practice. The very existence of children, moreover, could provide the necessary (if not al- ways sufficient) condition for the family’s achievement of a home of their own. In a country plagued by housing shortage and with large part of his housing stock man-

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aged by the state, the size of the family very often determined the size of the apart- ment. As couples planned their families’ size, their awareness of social policy norms represented an important matter (Czeczerda 1969; Adamski 1977). Expanding and reducing the size of the household, not only by having or not having children, but also by inviting in-laws and other family member to share an apartment, represented an important aspect of the negotiations taking place between citizens and the state. TP illustrated with lively irony the negotiation and banter that could take place around the very serious issue of housing. Having lived with unwelcoming in- laws for several years, TP and her husband only managed to get access to independent housing in the aftermath of the birth of her first child. In May 1963, we finally found an apartment in a new building. Beautiful. For sure, every- one wonder why two rooms for three people. At the beginning there was with us my mother, and after her death my mother in law. When they told me that with only one child I had no right to such apartment, I assured the official that for sure I will give birth to other five chil- dren, is they only let me have the apartment (TP 1974, 112). The idea that material comfort increasingly defined “normal” family life found con- firmation in the few testimonies of young people who admitted to live in poverty. This was for instance the case of Ola and Marzena, two young sisters, who in 1967 described their family as «atypical from a material point of view». The illness of their mother meant that the household could not enjoy the modern comforts associated to the two-earner family model: «we have none of the things that are normal in today’s homes – wrote Ola and Marzena – we don’t have a fridge, nor a television, nor a wash- ing machine» (Ola and Marzena 1967, 34-35). The two sisters admitted that many of their consumption aspirations were incompatible with the socio-economic conditions of their family. Having had to contribute to the running of the home since an early age and with little money to spare, they had ‘missed out’ on social life and on the fun enjoyed by their friends. Although the state was not mentioned in the memoir, their testimony provided a heartfelt reminder of the inability of the socialist welfare to in- tervene in cases of need. Ola and Marzena’s warm words for the loving atmosphere of their home and the educational efforts of their parents was only partial compensation for their implicit critique of the shortcoming of the state.

The dangers of consumption

Not everybody subscribed to the idea that consumption played an important and positive role in the life of contemporary Polish families. A father from southern Poland sent his memoir for a competition entitled The Con- temporary Man as Father and Husband, under the pseudonym of Odmienec (Proteus). Having grown up in a «traditional family» dominated by his father’s silent presence, his childhood memories were not much different from those of several other writers. Despite admitting to the shortcomings of his own upbringing, however, Odmienec

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criticised the «lenient progressive» approach to children’s education that seemed to dominate in contemporary Poland. It was an attitude, he noticed, that verged «on the border of absurd», particularly as consumption was concerned. Contemporary parents, were unable to say no to their children, and their own «snobbism» made them want to buy for their offspring «all the most beautiful things, especially those that none of their friends still had». One of his colleagues, after having searched for a pushchair for his son «in all the shops of the main cities of the country» had ended up importing one from abroad, just to make sure that he bought something «worth the admiration and envy of his friends» (Odmienec 1976, 26-27). Even more astonishingly, another acquaintance had let his son play with his watch- es and break two of them; far from being upset, he had simply declared that «the child was dearer to him than those watches». «Is giving in to every whims of our children prove of our love?» wandered Odmienec. This seemed to him to be the prevailing mood among contemporary par- ents, who wished to give their offspring all the things they had themselves not had as children. The consequence was that contemporary kids were getting «everything they want[ed], if necessary, even recurring to blackmailing». It could therefore hap- pen that a woman worker had to ask for financial help from the state company for which she worked, because the request of her children were driving her to bankruptcy (Odmienec 1976, 28). Although in less dramatic terms, Marta, a professional woman of 38, also offered a glimpse of the tensions that could rise between parents’ financial possibilities and children’s expectations. Writing in 1967, Marta observed that her two children had «everything they need and maybe more: bicycle, guitar, camera, a record player». Still, they were not satisfied: «Agata says that any girl must have at least four pair of stock- ings […] Pawel dreams of a scooter […] when we tell them to be patient, they tell us that it’s our fault, that other parents are more resourceful» (Marta 1967, 12-13) Marta read the different appreciation of goods between her and her children in generational terms: the youth of today had no memories of hardship and had not experienced the war, therefore they could not appreciate the contemporary material comforts in the way their parents did. In Odmienec’s eyes, on the contrary, the problem laid mostly with contemporary parents, who not wishing to replicate the educational model of their families were nonetheless unable to find an alternative way of rising their children. While he agreed that there was nothing to be missed in an upbringing based on «sour fathers, rigidly hierarchical family structures and from time to time the belt», expensive objects did not provide a viable alternative. Rather, Odmienec advocated greater involvement in children’s lives, and constant dedication to their moral upbringing. In his own home, he had broken conventional gender roles in order to take the lead on children’s education since their very early age. He had «put up entertainment for them, making sure that I never dominated the play, but always made it into a real partnership». He had helped them with homework, but always in a way that promoted their independ- ent and autonomous thinking. In every occasion, he had strove to teach the children

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«what they could and could not ask for, and why» (Odmienec 1976, 29). Odmienec’s search for a new way of bringing up a family reflected the dilemma of the new Poland in which he lived. He and his wife, as many of their contemporaries, struggled to combine new social and economic roles and unchanged duties of care, largely left by the state in the hands of families. As many other couples, they both had taken up shift work «to ensure that the children did not have to stay without care for a long time». Both Odmienec and Marta, moreover, confirmed what the sociologist Franciszek Adamski described as the «frequent paradox» of the modern industrial family, in which «in order to buy goods to be used in their free time, such as cars and TVs, peo- ple limit[ed] their free time» by taking up extra work. In a country characterised by low salaries and rising living costs, providing the family with material comforts forced parents, and fathers in particular, to reduce the time spent with their children. Moreo- ver, observed Adamski, after long shifts in heavy industrial work, all people wished for when they finally returned home was «some holy quiet». This was a legitimate desire, noted the sociologist, but hardly conducive to the “quality time” that families were supposed to spend together (Adamski 1970, 31).

Consumptions and gender roles

At the basis of Adamski’s observation were s series of interviews conducted in Nowa Huta in the late 1960s. A model new industrial town built in the 1950s to house the workers of a newly built steel mill (the very symbol of postwar economic strategy) and their families, Nowa Huta was a microcosm of the new Poland. The city, in the proximity of Cracow, was largely composed of workers who had migrated from the countryside in order to take up industrial work; its population was characterised by a high percentage of working women, and by a broad distribution in terms of both age and education. As a new town, moreover, Nowa Huta represented an interesting test of what the state had been able to achieve in its effort to provide a suitable environ- ment for the new socialist generations (Lebow 2013). Crucially, Nowa Huta provided precious material on the critical question of how women’s work influenced family relations. As the inquiry published in 1970 con- firmed, this remained a sore issue in many families, as working class men adamantly refused to take up new duties within the home, and in many cases declared themselves hostile to their wives working outside the house. Moreover, while a minority of the youngest and better-educated women declared to consider work essential to their development as individuals and citizens, the majority of women saw working only as a means «to ensure the survival of the family» or to «increase its standard of living». Providing for children’s needs figured as one of the main reasons for taking up work. Adamski had to conclude, that while there were signs that the «traditional model of wife as domestic worker» was transitioning towards the “contemporary model” of female emancipation through work, it was nonetheless evident that «the participa-

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tion of married women to professional work [could not] be treated solely as a sign of women’s progress in the People’s Republic of Poland» (Adamski 1970, 60-61). Con- sumption played a greater role in encouraging women’s work outside the home than their desire for emancipation. The pamiętniki confirmed the fears and resistances created by changing gender relations and the growing expectation that husband would share in domestic chores, as well as the strong connection that linked consumption and changing gender roles. As many life stories highlighted, the purchase of certain objects not less than the roles that men, women and children assumed within the home, delineated a specific idea of family life and a particular understanding of society. While sociological studies pointed out the slow progress made in Polish house- holds towards a more equal division of domestic tasks, several respondents used the pamiętniki to proclaim their adherence to the new “equal marriage” ideal. Even posi- tive tales of social and familial success, however, could do little to hide the anxieties and tensions produced by social and economic transformations, including the new encouragement to spend that confronted the Poles in the 1960s and even more in the 1970s. The already mentioned Piotr adamantly described his marriage as a prototype of modernity: two young successful professionals, living in the capital and enjoying the full comfort of available domestic appliances. His recollection of a small domestic drama having children as main protagonists, however, perceptively captured both changing cultural norms and the conflicts that accompanied the transformation. Coming back from work one evening, Piotr found his seven year old son playing husband and wife with a girl of the same age. I realised that it was morning and after the ceremony of breakfast and goodbyes, the little girl left the room, saying that she was going to work. My son, instead, busied himself beat- ing something, mixing, and talking to himself. «Don’t you go to work?» I asked him; «No, I prepare lunch», he answered calmly. «But do you work at all?», «No, Ania works, so there isn’t anyone to look after the child» he said, indicating a teddy bear, who, as it became clear, played the role of the son. «So, you see, I have to stay with the child», he added with a sight. I told this to my wife. She smiled and said that really we are bringing up a contemporary man. Her light-heartedness irritated me, and this was the beginning of a long discussion on marriage and marriage roles (Piotr 1976, 11). In his account, Piotr consciously stressed the idea that he and his wife represented a prototypical couple in contemporary urban Poland, «identical» to many others in the same social bracket, which is the educated professional sector, in terms of life style and material circumstances. Their consumption patterns as much as their ad- herence to the principle of a systematic and equal division of domestic duties and parenting roles, defined their self-proclaimed modernity. Still, Piotr could not agree with his wife that the gender roles played out by his son and his friend were wholly unremarkable «and that there was nothing to comment about it». Piotr saw in the play a powerful reflection of the remarkable transition that had taken place during his life span. The objects with which contemporary children played also highlighted the transformation. Piotr could not remember instances when he played with his sister’s

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dolls, nor «her with my soldiers and pistols»; on the contrary, «if there was a moment when I started to play with her things, my mother or my father would intervene saying that those were not for boys». In Piotr’s recollection of growing up in what he called a “traditional family”, com- mon play between boys and girls was limited to either gender neutral activities, such as paper cut outs or drawing, or to games in which they could play different and well delineated roles. For instance, he would play «Indian, fighter, explorer, soldier», while his sister would be «the wife of the Indian, the cook, the nurse, the porter». In Piotr’s own words, when he and his sister played together «there was always a clear difference in function, responsibility and prestige» (Piotr 1976, 11-12). Although not elaborating on the types of toys that he and his wife bought to their son, Piotr’s narrative highlighted the importance of objects and their use in the con- struction of identities. The objects that surrounded children’s play, as much as the caring relations that took place around them, marked the complicated renegotiation of gender boundaries that was unfolding in postwar Poland.

Conclusions

In a defining contribution to feminist scholarship, Barrie Thorne argued in 1987 that the invisibility and marginality to which both women and children were con- demned in most social analyses was not coincidental, but stemmed from the same structures of power that made them marginal in society (Thorne 1987; Oakley 1994). Women and children have often shared social destinies and conceptual treatments, both when they have been marginalised and ignored and in the rarer cases in which they have been studied as a necessary protagonist of social processes. In fact, some of those who have more strongly and persuasively argued for the need of bringing children and mothers into the picture, have sometimes done so at the risk of further reinforcing the essentialist idea that children are women’s matter. This has been the case also in much consumption literature2. Both women and children occupied an interesting and ambiguous position in post- war Poland. They stood at the centre of a narrative of social transformation that found in women’s economic activation and in the protection of childhood by the state two defining themes. As such, women and children stood at the centre of one of the long- est lasting tensions generated by socialist transformations, which is that between the new economic position of women and unchanged expectations around care work. Such tension informed the relationship between citizens and the state, consumption, and gender relations within and outside the household.

2 Daniel Cook, for instance, has strongly emphasised that putting children into the picture necessarily bring mother in too, since «as dependent beings», children rely «usually, but not exclusively, on mothers – for almost every- thing in their lives. It is largely mothers’ work that provides for them – materially, socially and emotionally» (Cook 2008, 231).

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While in capitalist societies, caring work immediately brought into the picture the marketplace, where both goods and services are largely purchased, things were more complicated in socialist Poland. While the socialist revolution did not manage to wipe out market dynamics, both the availability of private goods and services and the finan- cial ability to buy them were in short supply. Far from detracting from the significance of consumption, the increasingly obvious inability of the state to deliver made the issue of purchasing a matter of great political relevance. It was within the family and in relation to young children that most of those tensions played out. As women’s newly found economic independence questioned traditional male authority and started to challenge deeply held assumption about care, families became the place in which new roles and expectations had to find accommodation. When the Polish state tried to revive its ailing economy through the promotion of consumer spending, the question of what should be bought, how and by whom, be- came important cultural and political questions. Was investing into the pleasures of an increasingly comfortable home detrimental to the political collective engagement that postwar mobilisation had advocated? Was taking up two jobs or working extra- time a commendable worker’s effort or the dangerous sign of a greedy acquisitive culture? Was it better to be less at home to pay for children’s growing demands and expectations or follow the path of socialist austerity? None of those questions had easy answers and the solutions found depended on ideological and political stances as much as on material possibilities. As the pamiętniki show, as “socialist consumers” Poles had to mediate between different and contradictory messages. What Poles’ experiments with consumption showed, however, was that consuming was not the simple activity of single social actors, but the outcome of multiple and po- tentially conflicting interests. Far from telling us about individual needs, desires and economic possibilities, Polish consumption suggested complicated patterns of obliga- tions and reciprocity, which engaged individuals, families and the broader society of which they were part. As the narratives discussed in this article show, children provided a privilege ter- rain for the negotiation of private desires and public expectations. In relation to con- sumption, children did not represent merely an ‘extra expense’ or an addition to the household budget; on the contrary, they were integral in creating the meaning that sur- rounded “the world of goods” from which familial and national narrative depended.

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Saving, education and modernity. Interpretation essay in long term perspective

Ahorro, educación y modernidad Ensayos de interpretación en una perspectiva de largo aliento

The purpose of this text is to approach the analysis of the way in which saving was constructed as an edu- cational practice that emerges immersed in the program of modernity, the way in which the panacea of​​ the Western civilization project is constituted, with economic-educational policies promoted by the credit institutions and the routes by which it transits to the school. It is interesting to point out some of the most significant transformations that these practices have experienced in the course of time. For this, the analysis I propose is located in a long time perspective that covers the nineteenth and twentieth centuries that is when they are built, at the pace imposed by modernity and the secularization of society, practices related to the learning of savings in general and of the forecast, as conditions of progress and overcoming one’s own deficiencies. The intention is to account for some of them, from their own complexity, as well as the ways in which they splice, intersect, resist to disappear. El propósito del presente texto es aproximarme al análisis de la manera en que se construyó el ahorro como práctica educativa que emerge inmersa en el programa de la modernidad, la manera en que se constituye en la panacea del proyecto civilizatorio occidental, con políticas económico-educativas promovidas por las instituciones crediticias, así como los modos en que estas prácticas y saberes transitan hacia la escuela. Interesa señalar algunas de las transformaciones más significativas que han experimentado en el curso del tiempo. Para ello, el análisis que planteo se ubica en una perspectiva de tiempo largo que abarca los siglos XIX y XX que es cuando se construyen, al ritmo impuesto por la modernidad y la secularización de la sociedad, prácticas referidas al aprendizaje del ahorro en general y de la previsión, como condiciones de progreso y superación de las propias carencias. La intención es dar cuenta de algunas de ellas, a partir de su propia complejidad, así como de los modos en que se empalman, se entrecruzan, se resisten a desaparecer. Lo scopo di questo testo è quello di avvicinare l’analisi di come è stato costruito il risparmio come una pra- tica educativa che emerge immersa nel programma della modernità, il modo in cui la panacea di progetto di civiltà occidentale costituisce, con politiche economico-educative promosse dagli istitutizioni di credito e così come queste pratiche e saperi transitano verso la scuola. Voglio mettere in rilievo alcune delle tra- sformazioni più significative che hanno sperimentato nel corso del tempo. Per fare questo, prendo l’analisi di lungo tempo che attraversa i secoli XIX e XX che è proprio quando si costruiscono sul ritmo imposto dalla modernità e secolarizzazione della società, pratiche che riguardano all’apprendimento del risparmio in genere e della previdenza, come condizioni di avanzamento e superamento delle proprie carenze. Voglio impostare un approccio che prenda in analisi elementi della propria complessità così come i modi in cui vengono assemblati in parallelo, si intrecciano, si rifiutano di scomparire.

Key words: Modernity – Industrial Revolution – Construction of subjectivity – Savings Banks – School Savings Banks.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 225-241 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.73 georgina María Esther Aguirre, [email protected] (Universidad Nacional Autonoma de Mexico)

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Palabras clave: Modernidad – Revolución industrial – Construcción de la subjetividad – Cajas de Ahorro – Cajas de Ahorro Escolar. Parole chiave: Modernità – Rivoluzione industriale – Costruzione della soggettività – Casse di Risparmio – Casse di Risparmio Scolastico.

El deseo de saber algo acerca de la historia es inseparable de la necesidad de querer saber algo sobre uno mismo. Esto hace que el saber histórico no sea sospechoso, sino insustituible. Ernst Cassirer

El puerquito es, por lo demás, uno de los objetos que ha atravesado la vida de di- versas generaciones de mexicanos; a la fecha, confeccionado en distintos materiales, sigue presente en nuestros espacios de la vida diaria (mercados, ferias artesanales, tiendas populares, rincones familiares) y constituye la forma predilecta de represen- tar simbólicamente el ahorro1. Esta vivencia me remite a uno de los tantos textos de Antonio Santoni Rugiu, que me ha resultado particularmente sugerente, en el que trabaja el tema de la alcancía y del ahorro como modelos educativos (Santoni Rugiu, 1988); se trata de un artículo publicado en 1988, que tradujimos en México y, dada su vigencia y relevancia, publicamos en más de una ocasión (Santoni Rugiu, 2007, 2015). En él se aborda la alcancía y el ahorro aprehendidos como modelos educati- vos, prácticas que devinieron indicio de profundas y complejas transformaciones so- ciales acontecidas entre los siglos XIX y XX en el contexto de la modernidad euro- pea impulsada, primero, por las revoluciones industriales; después, por los períodos entre guerras. Los cambios fueron de tal naturaleza que se proyectaron a distintas esferas de la vida social. A lo largo de esos años paulatinamente el ahorro, como práctica educativa privilegiada, por distintas circunstancias, se fue desplazando hacia el otro polo de tensión, con una valencia contraria, la del consumismo. Se trata de una temática original y reveladora, a la fecha escasamente trabajada por los historiadores de la educación, salvo honrosas excepciones. Cito, al respec- to, cuatro trabajos que destacan por su rigurosidad y sus aportaciones: 1) la tesis monumental de Manuel Menor Curras (1999, 2003), cuya indagación se nutrió de una exhaustiva revisión de fuentes documentales y de otras referencias dando como resultado un volumen de 1416 páginas, cuyo propósito es explicar a profundidad las transformaciones del ahorro en España desde una perspectiva que integra varias dimensiones de análisis; 2) el artículo de Susana Sosenski (2014), donde la autora da cuenta de políticas, instituciones y prácticas que se articularon en torno a los progra- mas de ahorro escolar que impulsara la Secretaría de Educación Pública; 3) el artícu-

1 ya desde las antiguas culturas el cerdo representaba la abundancia y la prosperidad. Para las familias, sobre todo las de escasos recursos constituía una suerte de ahorro, un recurso del que se podía echar mano en caso de ne- cesidad. También estaba previsto engordarlo durante el año para matarlo durante el invierno y proveer de alimento e ingresos por su venta; significó la forma de ahorro y previsión posible.

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lo de Stefano Oliveiro (2015), quien analiza, desde el horizonte abierto por Santoni Rugiu en relación al consumismo, la publicidad y la educación de masas, un análisis que rebasa el exclusivo ámbito de lo escolar, y 4) el artículo de Juri Meda (2016), donde la recuperación de las prácticas referidas al ahorro escolar se indagan en el contexto de las políticas culturales y educativas del despliegue del fascismo en Italia, para incursionar en los sentidos del modelo de infancia y juventud que se puso en movimiento. Al margen de estos trabajos, puede decirse que, en realidad, el grueso de indagaciones referidas a las prácticas del ahorro proceden del campo de estudios económico-administrativos, de los estudios jurídicos, de los estudios contables, de los estudios agrarios y de algunas historias institucionales y de la vida cotidiana, pero no del campo educativo. Mi propósito es incursionar en el campo de la historia de la educación propia- mente dicha (no circunscribirme a la historia de la escolarización ni a la historia de la pedagogía como tales), cuya mirada se dirige a lo educativo, entendido como un campo de prácticas histórico-culturales que influyen la producción de formas de pensar, actuar, sentir y “ver”; es decir, sistemas de razonamiento que inciden en la construcción de la subjetividad (Popkewitz, Franklin & Pereyra, 2003, 10). Asumo, con Santoni Rugiu, que lo educativo está presente en la vida de todos y cada uno a lo largo de la vida, en todos los ámbitos y esferas de la vida social, sin circunscri- birse a las cuatro paredes de la institución escolar, pues podemos distinguir por lo menos tres de los modos en que se dan estos procesos: 1) el de las instituciones ad hoc, que se despliegan en el terreno de la llamada educación formal; 2) el propio de las comunidades familiares o sociales, públicas o privadas, y 3) el que procede de la influencia educativa ejercida por personas, eventos, circunstancias de la vida de cada quien, poblada por múltiples actores y relaciones inéditas (Santoni Rugiu en Aguirre, 2001, 27-31). En el entramado de las prácticas educativas referidas al ahorro también encontra- mos en la vida cotidiana indicios de imágenes y representaciones sociales, en la me- dida en que generan formas de pertenencia colectiva donde los sujetos se perciben a sí mismos como ciudadanos, con obligaciones y responsabilidades (Chartier, 1992). Con estos elementos abordo la emergencia del ahorro como una de las experiencias educativas medulares que, desde contextos no formales, como lo serían las promovi- das por las instituciones crediticias y otras iniciativas similares, y formales, como las que se desprenden del ámbito escolar propiamente dicho. Son experiencias y políticas mediadas por múltiples voces, actores e instituciones que revelan formas de compor- tamiento y valores promovidos por la encrucijada de proyectos económicos, sociales y culturales en los que subyace la intención de formar a los nuevos ciudadanos. Estructuro el artículo en tres ejes: 1) El que se refiere a la emergencia de la prácti- ca moderna del ahorro para amplios sectores sociales; 2) El de los procesos de secu- larización que la transforman, con su innegable potencial educativo; 3) La pedagogi- zación del ahorro. A lo largo de los tres ejes me interesa señalar algunas referencias al caso mexicano.

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Ahorrar para progresar, atisbos de regeneración social

La modernidad, con sus vientos renovadores, navegaría sobre la marejada de las revoluciones industriales, emblemáticas del movimiento económico y las nuevas for- mas de organización social y del trabajo que impactarían profundamente el plano de la vida cotidiana, de las expectativas, del modo en que personas y grupos sociales se percibirían a sí mismas, de las fracturas entre el campo y la ciudad, de la compo- sición social. Por otra parte, la Ilustración, como movimiento intelectual, político y cultural que impulsaron las élites (algunos aristócratas, algunos burgueses en ascen- so, algunos clérigos), marcaría el rumbo de los programas y de las políticas que se pondrían en marcha desde mediados del siglo XVIII2. El panorama que se presentó era sumamente complejo y movedizo; abría fractu- ras y campos de tensión nuevos en relación con situaciones que ya se venían ges- tando desde años anteriores. La primera revolución industrial (Gran Bretaña, 1760- 1860), con el poder de las máquinas movidas primero con la fuerza hidráulica y después a vapor, lograría una producción a gran escala, promotora de la apertura de nuevos mercados y requeriría el desarrollo de nuevas vías y medios de comunica- ción, lo cual redundaría en importantes e insospechados intercambios económicos y culturales. La sociedad experimentó un gran cambio en su composición en términos del surgimiento de las clases (alta, media, trabajadora) en la cual se polarizaron las diferencias, de modo que se visibilizaron los dueños del capital, de las fábricas, los dadores de empleo (una parte de la aristocracia, algunos sectores de la burguesía), y los trabajadores a su servicio (obreros y proletarios). Las circunstancias del “sistema de fábrica”, si bien remitían a un aumento de la población, indicio del mejoramiento de la alimentación y control de enfermedades, aparentemente con mayores oportunidades de trabajo, también estuvo expuesta a otros desafíos, quizás mayores: por un lado, la mayor concentración de la riqueza en manos de unos cuantos; por otro, el abandono del campo y el resquebrajamiento de la estructura familiar por la expectativa del trabajo en la industria. Hombres, mu- jeres y niños en calidad de asalariados con condiciones de trabajo y calidad de vida verdaderamente deplorables, e incluso rondados por el fantasma del desempleo; la población se hacinaba en zonas segregadas, caóticas, de donde eran cooptados por el trabajo en las fábricas y tenían que entrar a su rígida disciplina marcada por el funcionamiento de las máquinas (Santoni Rugiu, 2004, 147-169). La situación resultó alarmante y llevó a los pensadores y políticos a tratar de ex- plicarse, desde distintos ángulos, lo que se llamaría la ‘cuestión social’, proponiendo algunas salidas, pues lo que se empezaba a visualizar era el agravamiento de las con- diciones sociales y económicas en las cuales la distancia y conflicto entre los sectores

2 Se trata de un movimiento que, partiendo de Inglaterra con la discusión sobre las nuevas formas de producción industrial, se introduce en Francia por Voltaire (1694-1778) y da lugar al grupo de enciclopedistas tales como Diderot (1713-1784), Montesquieu (1689-1755), D’Alembert (1717-1783), Rousseau (1712-1778), entre otros. A España, y a través de ella, a sus virreinatos, lo ponen en marcha los Borbones (Fernando VI, Carlos III); Alemania, por su parte, aporta al Iluminismo, inicialmente a través de Kant (1724-1804).

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sociales resultaría cada vez mayor3. En el núcleo de teorías políticas y sociales que comenzaron a gestarse en los países anglosajones, al margen de la Iglesia Católica y en el terreno de las Iglesias reformadas, surgieron pensadores inscritos en los pri- meros trazos del liberalismo, tales como Adam Smith (1723-1790), Jeremy Bentham (1748-1832), David Ricardo (1772-1823), Thomas Robert Malthus (1776-1834), quienes abonaron a la discusión con obras referidas a puntos nodales sobre el va- lor del trabajo como mercancía, la noción de ganancia en el capitalismo industrial, el control del crecimiento de los pobres y su morigeración, el uso de la educación como forma de control de las masas, el peligro del crecimiento desmedido de la po- blación frente a la hambruna, la noción de libre mercado, la diferencia entre trabajo productivo e improductivo, la inequidad social, los vericuetos del salario, la felicidad de los pueblos, entre otras cosas (Santoni Rugiu, 2004; Díaz, 2008). La cuestión so- cial, además de impulsar la reflexión para entender el fenómeno, también fertilizó las utopías sociales, donde el componente educativo tenía una función decisiva, co- mo veremos más adelante. Por otra parte, la otra punta de la madeja era el pensamiento ilustrado, gestado desde arriba para el pueblo, como ya lo decía Voltaire, “Para el pueblo, sin el pue- blo”. De la Ilustración, para los fines de este texto, me interesa destacar dos de sus directrices: 1) la que tiene que ver con el impulso que se le da a la economía con el propósito de reactivarla con distintas medidas sustentadas, a su vez, en el liberalismo económico, pero también otras que remiten a perspectivas filantrópicas, como la re- comendación de establecer Cajas de Ahorro y fomentar los Montepíos para luchar contra la usura y la pobreza, que en el caso particular de España y de sus Virreinatos fueron medidas propuestas tanto por organizaciones católicas como por las Socieda- des Económicas de Amigos del País, y 2) a la preocupación, por distintos motivos, de hacer extensiva la instrucción a diversos sectores sociales, al establecimiento de nuevas instituciones educativas y, sobre todo, al amplio programa de regeneración social, de civilización desde la óptica de higienización y de la moralización social sus- ceptible de combatir los vicios derivados de la ociosidad y promover actitudes de- seables como la del trabajo, el ahorro y la previsión, en una nueva perspectiva de aprovechamiento del tiempo. En todos los casos persistirán móviles que se irán de- finiendo en el imaginario social: la fe en el progreso, la creencia en la prosperidad posible, la confianza en el trabajo como medio de promoción social, la felicidad al alcance de todos. Las transformaciones actuadas y las deseadas generarían un nuevo lenguaje y la ac- tualización del que ya existía, el cual impregnó los ambientes europeos y americanos: riqueza, productividad, medios de producción, capital, crédito, interés, maquinismo, progreso y felicidad, ciencia, razón, tinieblas, ignorancia, revoluciones, economía, in- dustriosidad, trabajo, civilizar, regenerar, moralizar... Sin lugar a dudas, como lo he-

3 en el curso de los años, algunas de ellas se tradujeron en programas tales como los propuestos en términos de socialismo, comunismo, anarquismo, doctrina social de la Iglesia, cada cual fuente de utopías de cambio social y de proyectos civilizatorios que atraviesan el siglo XIX y abarcan el siglo XX.

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mos aprendido con Koselleck, el nuevo léxico nos habla de la emergencia y cristaliza- ción de conceptos que son indicios de las preocupaciones y prácticas de la época4. Éste será el sustrato del que se nutran las innovadoras Cajas de Ahorro y la persis- tencia de los antiguos Montes. Ambas prácticas portarán consigo un auténtico pro- grama civilizatorio, educativo en el más amplio sentido del término. En este contexto, Montes y Cajas de Ahorro pasarán a formar parte de una pers- pectiva salvacionista, paulatinamente secularizada. Al respecto, es importante no perder de vista que los Montes de Piedad eran una iniciativa de los católicos, del franciscanismo propiamente dicho, mediada por el concepto de caridad cristiana, doctrina que no coincidió con otras perspectivas ideológicas que comenzaban a vis- lumbrarse. Por ejemplo, en Francia los Montes se fundaron en 1777 y escasos años después la Revolución Francesa los desmanteló sustituyéndolos por las cajas de prés- tamos, dominadas por la usura (Portolés, 2010, 281). En países como Alemania, In- glaterra, Bélgica, Holanda, Austria, entre otros, que formaban parte del territorio de las Iglesias Evangélicas, la práctica del préstamo fundado en prendas de distinto tipo no estuvo regulada y continuó siendo terreno fértil para la usura. De hecho, es po- sible que la paulatina sustitución de los Montes por las Cajas de Ahorro obedeciera también al rechazo de la Iglesia reformada hacia el sustento caritativo y misericor- dioso de la propuesta y se pensara más bien en términos de mejoramiento de la cali- dad de vida de trabajadores y campesinos (Idem, 283-284). Son los ingleses, específicamente Bentham5, quienes recomiendan las Cajas de Ahorro como apoyo para las clases más necesitadas, viendo en ellas “un instru- mento de mejora de las condiciones de vida de las clases trabajadoras, a través de la remuneración del ahorro, lo que proporcionaba un nivel de seguridad econó- mica superior”6. Así, su origen se marca en la Gran Bretaña a partir de la segunda mitad del siglo XVIII, desde donde se difundirán por diversos lugares de Europa y de Occidente en general, en el curso de los años subsecuentes hasta mediados del siglo XIX: Alemania, Suiza, Bélgica, Italia, Francia, España y sus virreinatos; la preocupación por los lugares donde se pudieran resguardar y usufructuar la ganancias a partir de pequeñas sumas de dinero de los sectores más necesitados, marcará una tendencia en la profunda transformación que se estaba dando en la vida social y económica bajo el signo de la revolución industrial. Con la propaga- ción de las Cajas de Ahorro, en algunos casos como el español, los Montes de Pie-

4 reinhart Koselleck ha sido el autor pionero en la línea de historia conceptual al hacer hincapié a la manera en que la dimensión conceptual deviene un indicador de la transformación social y cultural de una época dada. Los cam- bios de conceptos, los deslizamientos semánticos, las nuevas palabras o bien los nuevos usos de las palabras antiguas, nos hablan de lo que se está moviendo en una época dada (Koselleck, 2003). 5 Sus aportaciones se orientaron hacia el utilitarismo y la propuesta del placer, frente al ascetismo de la moral, extensivo a toda la sociedad; un dato por demás interesante es que, de acuerdo con las indagaciones de Aguilar Rivera, Bentham, el 13 de noviembre de 1808, le escribió al Barón Holland House, muy reconocido en el medio político espa- ñol, que abogara por él para, a la manera de Humboldt, visitar la Nueva España y escribir sobre todo lo que pudiera ver en ella, autorización que le fue negada. La carta se publicó en el volumen 7 de sus obras completas (Oxford, 1988), cfr. José Antonio Aguilar Rivera, “Jeremy Bentham: Para viajar a México” [http://www.nexos.com.mx/febrero 2013/ p=15184, consultado el 3 de julio de 2017]. 6 https://es.wikipedia.org/wiki/Monte_de_Piedad [Consultado el 7 de julio de 2017].

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dad se fusionan; en otros casos se diluyen o bien declinan. En este horizonte abierto hay cambios fundamentales que atañen a la perspectiva civilizadora y al vasto programa de modelaje del comportamiento de las masas que ya hemos anunciado: cambia el concepto de pobre, que aunado a la noción de trabajo y ahorro, esfuerzo y mérito personal, se traduce en la posibilidad de superar las propias condiciones, bajo la impronta de origen puritano que asociaba la pobreza con la culpa cristiana7. Ser pobre ya no será la virtud preconizada por los católicos, a imitación de Jesucristo, sino una condición que con el propio esfuerzo y la voluntad se puede cam- biar, de modo que al trabajo se suma la capacidad de ahorro y de previsión. Todo lleva a ejercer nuevas formas de clasificación de la gente con escasos recur- sos: ahora el pobre, que puede vivir de su trabajo y que puede ayudarse a sí mismo, está en una condición muy diferente del miserable, que no tiene nada y cuya situa- ción puede ser causa de múltiples problemas sociales, de degradación moral, de per- versión de las costumbres, dando lugar a todo tipo de atropellos: estamos frente a la criminalización de la pobreza extrema y las necesarias medidas de limpieza social con instituciones ad hoc: hospitales, hospicios, asilos, normativas contra la vagancia, la mendicidad, el hurto y la ociosidad; establecimiento de formas diversas de vigilancia8. En estos términos, las Cajas de Ahorro ofrecían, se pensaba, una de las soluciones más socorridas para afrontar la cuestión social y pronto serían conocidas también en las regiones católicas, donde la noción de caridad cristiana y la actitud piadosa de socorrer al más necesitado, la dádiva de la limosna, sufrían una transmutación más reemplazándose por la de beneficio social, aunque la antigua actitud propia de la caridad cristiana formara parte de las sedimentaciones históricas. No es fortuito que, algunos años después, en el contexto del Primer Congreso Internacional de las Cajas de Ahorros (Milán, 1924), se estableciera el Día Mundial del Ahorro, que seguiría celebrándose sin interrupción no obstante el desgaste de su sentido originario.

Algunos indicios en el caso mexicano

Movimientos y teorías que se gestaron alrededor de la cuestión social que desen- cadenó la expansión de la Revolución industrial se conocieron en México. Los so-

7 “La burguesía británica, sobre todo por influencia puritana, había exaltado la concepción según la cual se es- tablecía casi una ecuación entre culpa y pobreza. En otros términos, ser pobre, verdaderamente pobre, se consideraba como un castigo de Dios, lo mismo que las enfermedades y las desgracias. Por otra parte, ¿no era tal vez la miseria una mezcla de enfermedad y desgracia (es decir, de falta de gracia divina)? Si la laboriosidad y el éxito en los negocios se consideraban como un signo del favor, casi un premio divino, qué maravilla que sus contrarios, la ociosidad y la miseria, fueran vistos como el fruto de alguna culpa que había que expiar. Así, la ideología burguesa presentaba al trabajo como un medio de expiación y de promoción que se ofrece al pobre…” (Santoni Rugiu, 2004, 149). 8 desde el siglo XVI ya hay antecedentes de este tipo de preocupaciones y de planteamientos, enraizados en la caridad cristiana, en la actitud piadosa de socorrer a los más necesitados. Juan Luis Vives, el humanista español interesado en la educación, escribió el Tratado del socorro de los pobres (1526) con ese sentido, a la vez que proponía medidas estrictas contra los viciosos. Puede profundizarse en Martin, 1985; De la Torre, 2010).

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cialistas utópicos con sus propuestas gestadas alrededor de una sociedad armoniosa y cooperativa entre algunos de los círculos letrados; por lo menos, podemos hablar de dos intentos de poner en marcha en México experiencias vinculadas con el socia- lismo utópico con la clara intención educativa tendiente a ‘regenerar’ a la sociedad: una fue la de Robert Owen (1771-1858), seguidor de la filosofía de benthamista. Como empresario y socialista conocía de cerca el problema de las fábricas; él mis- mo, dueño de una fábrica escocesa de textiles en New Lanark, después de hacer una serie de transformaciones para los trabajadores de su propia fábrica con resultados muy positivos, logró establecer contacto con el gobierno de México; en el norte de México (Topolobampo, Sinaloa, 1828) organizó una comunidad de trabajadores pa- ra poner en práctica los principios del cooperativismo y su perspectiva integral de la educación, experimento que se vio interrumpido debido a que los factores climáti- cos y las enfermedades tropicales que actuaron en su contra. No obstante, a lo largo del siglo, entre varios sectores cundió el deseo y la esperanza de mejorar la vida en todas sus esferas (Santoni Rugiu, 2004, 171-180). Por otra parte, la apuesta de Charles Fourier (1772-1837), crítico mordaz del ca- pitalismo que se avizoraba el establecimiento de unidades autosuficientes de pro- ducción y consumo que asumieran el cooperativismo como base de su organización, se trató de los falansterios, ejerció gran influencia en el anarquista griego Plotino C. Rhodakanaty (1828-1890), quien llegó a México en 1860 entusiasmado por las Leyes de Reforma que emitiera Benito Juárez. Un año después de haber llegado editó su Cartilla socialista en la que desarrolló el modelo de las comunas campesinas de Fou- rier y Proudhon y las pone en práctica fundando en Chalco, Estado de México una escuela falansterio (1869) para los campesinos indígenas (1869), lo cual se proyectaría en la organización del Círculo de Obreros y la difusión del cooperativismo en distin- tas esferas en el curso de los siguientes años (Santoni Rugiu, idem; Arteaga, 2005). Por otra vertiente, pero que se cruza en algunas tendencias de la época, el ahorro continúa siendo una de las prioridades de la época: en el México recién independi- zado, con una economía fracturada, deteriorada y situaciones de miseria y desigual- dad social agudizadas, también circuló la experiencia de las Cajas de Ahorro, posi- blemente a través de los mismos ingleses que a raíz de la Independencia de la Nueva España (1810) se introdujeron en el negocio de la explotación de minas de plata. De hecho, la primera Caja de Ahorros en territorio mexicano data de 1839 (Orizaba, Veracruz); para 1850, además de tres Montes de Piedad, existían tres Cajas de Aho- rro (Ludlow & Marichal, op. cit., 11). Estas prácticas se difundieron a través de la prensa mexicana; sintomática en este sentido es la publicación que al respecto se hi- zo en el Semanario artístico, publicación que impulsaba la Junta para el Fomento de Artesanos en México, que circulaba entre trabajadores y artesanos con el propósito de difundir ideas y prácticas que los ayudaran a mejorar su trabajo y a cambiar su comportamiento. En un artículo de 1844 se plantean las Cajas de Ahorro práctica- mente como remedio para todos los males sociales bajo el influjo de la modernidad: A tres clases de personas pueden ser especialmente útiles las cajas de ahorros, a los criados domésticos a quienes ofrecen un depósito seguro… Las mujeres juegan menos a la lotería y

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los hombres frecuentan menos las vinaterías; el arreglo, la fidelidad, la paz y la economía se aumentan en las familias… Los jornaleros y artesanos se moralizan con ellas disminuyendo los almuerzos, las bebidas y la pérdida de un día a la semana, del san lunes, y con el ejemplo de algunos compañeros honrados y prudentes, llegan a persuadirse de que es preciso economizar cuando son jóvenes y pueden trabajar… Las cajas de ahorros son escuelas de moral, en donde el trabajo, fundado sobre el interés personal, domina a los vicios y a las pasiones del hombre9. Las Cajas de Ahorro, de este modo, ofrecían una alternativa organizada para que los pobres, con el fruto de su trabajo, reunieran pequeñas sumas que, en un espíritu de colaboración, les resultaran redituables, pero ésta fue una iniciativa que principal- mente se emplazó en las zonas urbanas. El campo, por su parte, también estaba urgi- do de iniciativas de este tipo por los problemas que enfrentaba; éstas vendrían por el lado de Alemania. En 1848, para paliar la crisis del agro, con campesinos agobiados por las deudas y los usureros, Hermann Schulze-Delitzsch (1808-1883) y Frederic Raiffeisen (1816-1888), coinciden, desde la perspectiva cooperativista, que es el pro- pio pueblo el que ha de proveer sus sistemas de financiamiento mediante el acopio de pequeñas sumas. La iniciativa de Schulze-Delitzsch derivó en la propuesta de un sistema urbano de bancos populares, en tanto que la de Raiffeisen, en una perspec- tiva filantrópica cristiana, se consolidó como un sistema cooperativo de crédito rural que tuvo amplia difusión hacia la segunda mitad del siglo XIX bajo el nombre gene- ralizado de “Cajas Raiffeisen”. Así lo encontramos en la prensa local; en el caso de México, ya para finalizar el siglo XIX, se proponían como la solución para el campo: … miembros solidariamente responsables del compromiso contraído por la Sociedad. To- dos se conocen y saben de su competencia para pagar. Se deja una prenda, hipoteca, etc. En garantía, pero con intereses módicos y a un plazo mayor. Los fondos proceden de los depósi- tos que recibe. Se sabe qué se presta y cómo se emplea. Las garantías son morales y reales10. Serán los católicos, imbuidos en la Doctrina social de la Iglesia11, quienes, a par- tir de los tres primeros congresos católicos nacionales (1903, Puebla; 1904, Morelia; 1906, Guadalajara) promoverán el establecimiento de las cajas catolicas rurales de ahorro y prestamo de acuerdo con el modelo aleman Raiffeisen, como una medida dirigida a mitigar los problemas más graves del momento, medida con la cual la Igle- sia Católica se proponía ocupar un lugar protagónico en las reformas sociales, sin modernizarse del todo12.

9 “Cajas de Ahorros”, 1844: 1-2. La difusión de estas iniciativas se siguió dando en los años sucesivos en perió- dicos de distinta orientación político-ideológica; Se trataba de hablar de sus bondades y señalar los países en que se establecía, como fue el caso, por ejemplo, de “Cajas de ahorros de Washington para libertos”. 1870. El Siglo XIX, VIII, 68: 1; “Las Cajas de ahorro de Chile”. 1907. La voz de México, 54: 1. 10 “El crédito agrícola. El problema de México resuelto en Alemania”. 1894. El Universal, XII, 40: 1. 11 el impulso renovador de los círculos católicos había sido estimulado por la Encíclica de León XIII, De Rerum Novarum (1891), donde había un pronunciamiento contra la usura y la explotación de la clase trabajadora, así como el impulso hacia la unidad y la cohesión, marca de la comunitas christiana. 12 precisamente en 1903, en el Congreso de Puebla, Miguel Palomar planteó la iniciativa de fundar organizacio- nes cooperativas de crédito y ahorro de acuerdo con el modelo alemán (De la Torre, Renée y otros, 2005, 131 y ss. AHUNAM, Fondo Miguel Palomar Vizcarra, Serie Congresos Católicos, Caja 63, exp. 263, 264; Serie Cajas Rurales Raiffeisen, Caja 39, exp. 273, ff. 1062-1124).

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Ambas propuestas, Cajas de ahorro y Cajas rurales, estaban dirigidas a los sec- tores más desprovistos del campo y de la ciudad; quienes tenían otros recursos, de sectores medios hacia arriba, contaban con el sistema crediticio de la Banca que cada vez se regulaba con mayor eficiencia. Por su parte, también en México, el Montepio, ya para 1821 como Nacional Mon- te de Piedad, había tenido un despliegue interesante, muy ligado a la vida cotidiana de los sectores marginales y la clase media en ascenso: se trataba del recurso, más en calidad de préstamo que de ahorro, que tenía el trabajador para completar un exiguo salario, las amas de casa para reunir el gasto diario, las familias para aspirar, aunque sólo fuera transitoriamente, a otro nivel de vida. Además de esta institución, consolidada, en varios barrios de la ciudad de México, durante el siglo XIX exis- tieron distintas opciones de casas de préstamo: se contaba con las pulperías (1818- 1825), con las casas de empeño (a partir de 1840), propiedad de usureros de distinta calaña, y con las sucursales del Monte de Piedad (desde 1860)13, cada una de estas opciones con distintos montos de interés y exigencias en relación con el valor de los objetos empeñados (Lee, 2005, 81, 93). Todo esto también modeló la subjetivi- dad del mexicano; se aprendió en la familia a pedir prestado para poder gastar, en las prácticas cotidianas, para solventar gastos de modo contrario a la perspectiva del ahorro, pues implicaban el endeudamiento sobre prenda para resolver otras situacio- nes de necesidades básicas o bien de pequeños lujos y comodidades (Lee, 2005). Ahora bien, en este vasto programa civilizador de Occidente, hay un sujeto al cual volverían los ojos los reformadores sociales, la mujer, cuya participación empezó a percibirse central en relación con la preocupación y acciones tendientes a mejorar las condiciones materiales y morales de los sectores populares. En el caso mexicano, al inicio de la segunda mitad del siglo XIX, en torno a 1867, bajo el gobierno liberal de Benito Juárez, se llevó a cabo una reforma integral de la instrucción pública des- de parámetros acordes con la modernización que planteaba el momento; las pers- pectivas, y expectativas en relación con las niñas se replanteaban a fondo ofrecién- doles otras posibilidades: se había instituido en el plan de estudios de la Escuela Na- cional Secundaria de niñas, antecedente de lo que será la formación de maestras de primaria, la materia de Economía doméstica al lado de la de Higiene (1869), lo cual representó una avanzada en la medida en que amplió el espectro de posibilidades anteriormente limitadas a las labores manuales y resultó más coherente con los pro- cesos que se vivían a nivel nacional e internacional. La materia, paralelamente a la publicación de la temática en algunos libros y artículos en revistas y en los diarios de mayor circulación (Meneses, 1998, 201 y ss.), continuó impartiéndose en la Escuela Normal para Maestras desde 1890. Dolores Correa Zapata (1853-1924), a cargo de la materia Economía doméstica y deberes de la mujer, tenía el propósito de crear otra imagen de mujer, activa, que contribuyera, desde la administración del hogar, a modelar otros comportamientos de modo que el ahorro y la previsión; el control

13 es interesante señalar que fue el gobierno de Maximiliano el que tuvo la iniciativa de abrir estas sucursales en barrios populares (Lee, 2005, 87).

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de los gastos superfluos y la canalización de recursos hacia necesidades importan- tes, redundarán en una vida familiar armoniosa y feliz, como alternativa a los males sociales que se trataban de combatir14. Laura Méndez de Cuenca (1858-1928), reco- nocida por su cualidad de escritora en diversas publicaciones de la época, también incursionó en la temática e hizo libros para las alumnas (1907). De hecho la Econo- mía doméstica se constituyó en un campo en el convergían distintos saberes relacio- nados con el hogar, tales como higiene, urbanidad, medicina, cocina, alimentación, elección de la habitación, arreglo de la casa, gestión y otros más, con los cuales se fa- vorecía la moralización de los distintos sectores sociales y se fortalecía ese núcleo del nuevo proyecto de nación, que era la familia (Jiménez, 1987, 135-139; Bazant, 2006, 109, 156). Se trataba de un programa educativo en el más amplio sentido del térmi- no que rebasaría la pedagogización del ahorro que ya se visualizaba, pues desborda- ba los límites de la escuela; en él se confrontaba, sustentada en los principios de la Ciencia Económica que dominaba en la época, la Economía con mayúscula, propia del hombre en su condición productiva, cuyo espacio era público, con la economía doméstica, actividad reproductiva, como territorio recluido en el mundo privado de las mujeres que, aun cuando no generaran recursos por su condición ‘improductiva’, podían participar como sujetos activos racionalizando los gastos y disponiendo los recursos familiares de la mejor manera para el logro de la felicidad y prosperidad na- cionales (Carreño & Rabzas, 2010, 56-58; Menor, 1999, 1209 y ss.). Fue con esa nueva mentalidad con la que se formó un dinámico grupo de mujeres que a la vez que apoyaba la enseñanza de la materia a las jovencitas, se rebelaban con su propia participación en los programas educativos y culturales revolucionarios, por sacar a las mujeres de su condición ‘invisible’.

El ahorro emigra a la escuela

En una transformación de tal envergadura como la que se estaba cristalizando a partir de la Revolución Industrial, la escuela no podía quedar al margen, con sus propias posibilidades, de contribuir a resolver la ‘cuestión social’ y se buscó inducir en ella el ahorro, con la carga simbólica que pesaba sobre él, por cuantas vías fuera posible. No es casual que sean los barrios manufactureros de Londres, donde al la- do de las Savings Banks15 y de las bancas populares, surgieran las primeras cajas de ahorros escolares (1822), que eran una especie de alcancía donde todos los alumnos podían guardar sus escasas monedas y obtener de ello alguna ganancia (Santoni Ru- giu, 2007, 89). La iniciativa no tardó en difundirse a todas las regiones de Occidente, con ma- yor o menor celeridad, pero se trató de experiencias aisladas. Hay, sin embargo, un

14 de esta actividad surgió su libro La mujer en el hogar, 1900. 15 hay antecedentes de la Saving Bank en Hamburgo (1778) y en Berna (1787); la de la Gran Bretaña se estable- ció en 1861.

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personaje cuyo nombre es recurrente al respecto: el profesor de derecho civil de la Universidad de Gante, Monsieur Laurent, quien no sólo estableció la práctica en al- gunas escuelas de su localidad y dio una conferencia al respecto en la propia Univer- sidad (1866); a partir de entonces continuó difundiendo la experiencia por distin- tos países e incluso escribió un pequeño texto, con un título parecido, “Conferencia sobre el ahorro” (1879), que se tradujo a varios idiomas, entre ellos al español, y se puso a la venta para su mayor divulgación16. Sin lugar a dudas, cada región tradujo a su propia idiosincrasia la propuesta. En el caso de España, país católico por excelencia, a las Cajas de Ahorro Escolar conven- cionales, propias de los “hijos del trabajo”, de las cuales se obtenía un interés anual acumulado, iniciativa que se vinculaba con las Cajas de Ahorro generales, se integra- ron las Cajas de Socorro Escolar, propuesta dirigida a niños con suficientes recursos, quienes iban acumulando ahorros a partir de estampas o imágenes que compraban en la escuela hasta reunir una cierta cantidad y después cambiarla por ropa o bonos alimenticios, que entregaban al niño más necesitado de la clase (Fernández, 1889, 802-805). Esta práctica, instalada en clases bien diferenciadas entre pobres y ricos, entre trabajadores y pudientes, respondía a los viejos preceptos de la caridad cristia- na actualizados en el Socorro Mutuo de los católicos sociales, que se le hacía pasar a los niños como “prueba de compañerismo, acordándose de los que sienten frío y de los que pasan hambre” (Fernández, op. cit., 805). En unas, las Cajas de Ahorro Escolar, el propósito era futurista en términos de previsión y ganancia; en otras, las de Socorro Escolar, ante todo se trataba del ejerci- cio de la caridad cristiana del rico con respecto al menesteroso. Esto se justificaba y se aprendía a lo largo de la vida escolar. Con respecto a América Latina, las propuestas dirigidas al ahorro escolar, si bien dieron lugar a ensayos como el de los bancos escolares que se desplegaron parale- lamente a la red de instituciones crediticias de distinto nivel, en el curso de las pri- meras décadas del siglo XX encontramos prácticas que apuntan directamente a la legitimación y consolidación del ahorro en el ámbito de la escuela. En México esto aconteció en el contexto de los gobiernos posteriores al movi- miento armado conocido como Revolución Mexicana (1910-1920)17. Son gobiernos en los cuales si bien existieron diferencias fundamentales que se tradujeron en su concepción de política, educación y cultura, también es posible percibir ciertas lí- neas de continuidad y un fuerte compromiso con el programa de educación popular, la del campo y de la ciudad, la de los niños, los campesinos, los obreros y los adultos en general. Son años en que se transitaba de un periodo de reconstrucción nacional

16 Su traductor, Federico Gillman, a escasos años, escribió Diálogos sobre el Ahorro Escolar. Guía práctica para profesores y profesoras de enseñanza primaria (1881. Madrid: Gras y Compañía.), a lo que siguieron otras publicacio- nes en la misma línea, por ejemplo, uno de los principales promotores de esta iniciativa en España (Antón Ramírez, Braulio. 1885. Cajas de ahorro generales y escolares y Montes de Piedad. Su origen, objeto e instrucciones para su plan- teamiento. Madrid: Sucs. de Rivaneyra). 17 es decir, los de Álvaro Obregón (1920-1924), Plutarco Elías Calles (1924 -1928), a lo que se conoció como Maximato (presidencias de Emilio Portes Gil, 1928-1930, Pascual Ortiz Rubio, 1930-1932, y Abelardo Rodríguez, 1932-1934); Lázaro Cárdenas (1934- 1940).

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al de modernización económica, social y cultural, con miras a la incipiente indus- trialización del país. En este contexto, correspondió al General Plutarco Elías Calles (1877-1945) el establecimiento de las políticas de ahorro escolar y la realización del programa inicial. Calles recibió un país con agudos contrastes entre la alta burguesía, empresariado, terratenientes y el proletariado y la marginación del campo, con un fuerte endeuda- miento a nivel internacional, con importantes zonas de producción explotadas por ex- tranjeros, con una estructura bancaria urgida de una reconstrucción (Loyo, 1988, 218 y ss.). Con el interés por conocer de cerca otras modalidades de organización econó- mica y política viajó a Europa y visitó Alemania donde entró en contacto con las cajas rurales de Raiffeisen y los bancos populares de Schultze-Delicht y quedó maravillado por la experiencia de las sociedades cooperativas, como alternativa para la crisis que aquejaba al país, al mundo18. Esto influyó mucho sobre su proyecto de construir una nueva política económica tendiente a desarrollar la industria nacional, articulada con la educación y particularmente con la promoción de los sectores populares. Calles, con su Ministro de Instrucción Pública Puig Casauranc (1888-1939), planteó lo que consideraba un programa de educación integral, sustento de la re- generación moral y material de toda la sociedad, motivo de políticas y novedosas campañas. Se trataba de combatir la ignorancia por todos los medios, promover la alfabetización de amplios sectores, fortalecer el higienismo en todos los espacios y niveles, combatir el alcoholismo y cualquier otro vicio, renovar el sistema escolar a profundidad. Muy importante en medio de estas tendencias modernizadoras era la perspectiva económica dirigida a la formación de los niños, quienes habrían de ad- quirir el lenguaje económico y la habilidad para manejar operaciones crediticias. En este contexto surgiría el programa del Ahorro Escolar mexicano. De modo que el 1º de enero de 1926 se inauguró, con bombos y platillos, la Ca- ja Nacional Escolar de Ahorros y Préstamos, recurso privilegiado para enseñar con acciones prácticas el ahorro y la previsión (Meneses, 1986, 498-499). Sobre la base de una normativa muy detallada se reguló cómo funcionaría el programa: inicialmen- te se dirigía a la población escolar de jardines de niños y escuelas primarias plan- teándoles la obligación, a los niños, de depositar cinco centavos a la semana; a los maestros, un día de sueldo al mes. Estaba anunciado que los niños no retiraran sus ahorros hasta después de diez años, de modo que el capital se moviera y fuera usado por las sociedades cooperativas que así lo requirieran. El cuidadoso registro lo lleva- ría cada maestro de grupo, quien, a su vez, lo reportaría al director para que, por su conducto, se resguardara en el Banco de México (Sosenski, 2014, 652-655). Si bien a los pocos meses las autoridades estaban muy entusiasmadas porque se ha- bían logrado reunir con esos cinco centavos de los niños de primaria la espectacular

18 la simpatía hacia el movimiento cooperativista ya tenía importantes antecedentes en México: después de 1870 entre los obreros, pero también en las clases media y alta, existió tal convencimiento de que podía ser una vía para superar el nivel de vida de todos, que el gobierno de PorfirioD íaz se vio en la necesidad de reconocer la existencia de las sociedades cooperativas en el Código de Comercio de 1889. Calles, por su parte, en 1926 emitió la Ley de Coope- rativas (Rojas, 1984, 286).

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suma de noventa y cinco mil pesos (Meneses, op. cit., 499), el programa atravesó por todo tipo de dificultades. Generó un campo de tensión donde entraban en conflicto, mediados por procesos de negociación francamente conflictivos, maestros, padres de familia, autoridades escolares y las propias fuerzas del Estado (Sosenski, op. cit., 651 y ss). Los préstamos se dieron a diestra y siniestra y no siempre se restituyeron. En los años siguientes las normas se fueron flexibilizando y perdieron su inicial carácter de obligatoriedad, también se dio un pequeño giro para hacer hincapié, sobre todo, en el carácter social del proyecto, en el sentido educativo del cooperativismo, más en la perspectiva de una proyección hacia lo social (no es casual que en 1938, a raíz de la expropiación petrolera impulsada por el General Lázaro Cárdenas, se emitieran “Bo- nos Escolares de Redención Nacional” para apoyar la deuda que se contraía a partir de la Expropiación Petrolera). Puede decirse que el programa, con sus altibajos, su adecuación a los gobiernos en turno y la proyección de las políticas más amplias re- feridas a los sistemas crediticios, renovó sus estrategias donde entraron en juego car- teles, cartillas, timbres con distintos diseños entre los que pululaban las alcancías en forma de cerdito y las simbólicas espigas, regalos, y aun organizaciones bancarias pú- blicas y de particulares, y se mantuvo vigente hasta la década de los setenta. En medio de los vaivenes, y frente a la notoria necesidad de afianzar la regulación social de estas prácticas, en 1945 se formuló la “Ley del Ahorro escolar” (1945), ya bajo la presidencia de Manuel Ávila Camacho, en la que quedaba claramente esta- blecido que: “El ahorro escolar forma parte de la función educativa del Estado, es de interés público y obligatorio para todas las escuelas oficiales y particulares” (“Ley del Ahorro Escolar”, 1945, 15) estableciendo una serie de minuciosas prescripciones relacionadas con la papelería que se habría de utilizar proporcionada por la Secre- taría de Educación Pública (libretas ad hoc, cupones o estampillas), a la vez que in- troducía la banca privada para resguardar los ahorros y hacerlos trabajar, de modo que produjeran el 4% de interés anual a invertir en el mejoramiento de las propias condiciones de la escuela. Una de las últimas iniciativas de esas décadas fue la promoción de un progra- ma dirigido a los ahorradores de escasos recursos, los Bonos del Ahorro Nacional (1950), que tuvo su réplica en los pequeños escolares, los Bonos del Ahorro Escolar (1951-1968), organizados con libretas y estampillas de veinte centavos que, una vez reunidos diez pesos se canjeaban por bonos que se depositaban en el Banco gene- rando jugosos intereses al término de diez años19.

A modo de cierre

Todo parece indicar que a partir de esas décadas (60-70) empezó a diluirse el pro- yecto del Ahorro escolar; en medio del despliegue del boom económico se entraba en la era de bienestar, del excedente de producción y de las medidas para promover el

19 http://www.bansefi.gob.mx/AcercaDe/Pages/Antecedentes.aspx [Consultado el 3 de septiembre de 2017].

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consumo. El ahorro y la previsión dejaban de percibirse como un comportamiento virtuoso, como el modelo educativo válido para otras generaciones, para derivar en el consumismo, extensivo a los distintos sectores sociales (Santoni Rugiu, 2007, 86 y ss.). Los años recientes, marcados por la óptica del mercado, tienden a revivir el tema diversificando las formas de ahorro bancario dirigidas a los niños. Hoy, con el pro- pósito de generar una población cautiva, los distintos Bancos compiten entre sí por atraer a los pequeños, potenciales ahorradores. Se ha llegado incluso al extremo de plantear las Afores infantiles, propuesta fuera de lugar en la medida en que las Afo- res están vinculadas con el sistema de jubilación, pero así dice la publicidad de algún conocido Banco: “Para cuando te jubiles de ser niño”. Entramos de lleno en la ópti- ca del neoliberalismo que desbordó la vida escolar; el adelgazamiento del Estado lo llevó a desentenderse de las utopías educativas marcadas por el cooperativismo, el ahorro y la previsión como condiciones para el mejoramiento de la vida social, de la confianza depositada en los pequeños para transformar, de raíz, a la sociedad. El ahorro, hoy como ayer, sigue siendo la punta del iceberg cuyo trasfondo son las complejas transformaciones de la vida social. Una lectura de largo aliento sobre estas prácticas, en el medio escolar pero también como circulación de saberes que educan en un amplio espectro, posibilita ver continuidades y quiebres, cambios de orientación, reposicionamientos, pero también creencias sedimentadas que aún com- partimos.

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Elda Mazzocchi Scarzella (1904-2005): A LIFE DEDICATED TO MOTHERS AND CHILDREN

Elda Mazzocchi Scarzella (1904-2005): una vita al servizio di madri e bambini

This essay examines the personal and professional life of Elda Mazzocchi Scarzella (1904-2005), a figure associated with the Villaggio della Madre e del Fanciullo, an organization founded in Milan in 1945 and cre- ated with the purpose to assist pregnant women, mothers and children. L’articolo prende in esame il percorso biografico e professionale di Elda Mazzocchi Scarzella (1904- 2005), figura legata al Villaggio della Madre e del Fanciullo, un ente sorto a Milano nel 1945 per dare accoglienza a gestanti e mamme con i loro bambini. Key words: Scarzella, Villaggio della Madre e del Fanciullo, mothers and children, single mothers, Milan. Parole chiave: Scarzella, Villaggio della Madre e del Fanciullo, madri e bambini, madri nubili, Milano.

Presso l’Archivio per la Storia dell’educazione in Italia1 è possibile consultare le carte appartenute a Elda Mazzocchi Scarzella, figura legata alla nascita del Villaggio della Madre e del Fanciullo di Milano, sorto nel 1945 per dare accoglienza a gestanti e mamme con i loro bambini. Il trasferimento della documentazione è avvenuto in più fasi, in un periodo com- preso tra il 2001 e il 2014, sulla base degli accordi pattuiti, in un primo tempo, tra Elda Mazzocchi e il professor Luciano Pazzaglia, direttore dell’Archivio e, in un se- condo tempo, come testimonia il carteggio conservato in ASE, tra il figlio della si- gnora e il medesimo professore. Mi preme precisare che, nella stesura del presente saggio, oltre al ricco materiale documentario manoscritto e a stampa e all’autobio- grafia della Scarzella, Percorso d’amore, ho avuto modo di consultare il testo della relazione presentata dal professor Pazzaglia al convegno “Elda Mazzocchi Scarzella e il Villaggio della Madre e del Fanciullo. Una storia milanese”, organizzato a Mila- no il 15 ottobre 2015 (Pazzaglia 2015)2. Il lavoro di ricerca ha consentito non solo di tratteggiare il profilo biografico e l’opera di una donna sicuramente protagonista nel campo educativo-assistenziale,

1 l’Archivio per la Storia dell’educazione in Italia, d’ora in poi ASE, ha sede presso la sede bresciana dell’Uni- versità Cattolica del Sacro Cuore. 2 Nell’esprimere il mio vivo ringraziamento al professore per la cortesia manifestatami, desidero altresì ricor- dare che la citata relazione uscirà nel volume in onore del professor Salvatore Agresta, dell’Università degli studi di Messina, a cura di Caterina Sindoni.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 245-257 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.79 Chiara Gualdi, [email protected] (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano)

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bensì di dare un contributo allo sviluppo dell’importante capitolo relativo alla condi- zione femminile e al servizio sociale, con particolare riguardo alle madri e ai bambini in difficoltà, nell’Italia del secondo Novecento.

Infanzia, adolescenza e giovinezza di Elda Mazzocchi

Oltre un secolo fa, nasceva a Milano Elda Mazzocchi3, da Cesare, architetto e do- cente presso la Società Umanitaria4 e Isabella Bossi, maestra elementare. La madre di Elda, donna intelligente e sensibile, discendente da un ramo dei conti Bossi di Azzate5, aveva ricevuto una borsa di studio presso il Collegio Reale delle Fanciulle di Milano, istituito nel 1808 da Napoleone I allo scopo di «dare un’educazione utile e distinta alle figlie di coloro che avevano reso importanti servigi nella carriera delle armi o delle magistrature» (Lalatta Ronzoni 1993, 7). Il padre Cesare, come avreb- be ricordato Elda nella sua autobiografia (Mazzocchi 1998, 8), «era repubblicano convinto, ma di spirito mite e profondamente democratico» e aveva acconsentito al matrimonio in chiesa per ottenere l’approvazione del futuro suocero, sospettoso da sempre verso lo «spirito anarchico» dei Mazzocchi (ibidem). Dopo aver frequentato le scuole elementari presso l’istituto del professor Mauri- lio Salvoni (Lombardi 2013), fautore dell’attivismo pedagogico, Elda Mazzocchi ab- bracciava gli studi ginnasiali presso una scuola pubblica di Milano, ma li sospendeva nel giro di breve tempo per proseguirli privatamente presso la propria abitazione. Ai corsi di tedesco e francese, si sarebbero affiancate lezioni di pianoforte, recitazione e ballo «necessarie al completamento dell’educazione di una donna destinata a fre- quentare la società» (Mazzocchi 1998, 14). Nell’estate del 1919, in occasione delle vacanze trascorse a Millesimo, Elda Maz- zocchi conosceva i sei figli del sindaco Alberto Scarzella e in particolare Enzo, inge- gnere minerario e tenente di cavalleria appena rientrato dal conflitto. Qualche anno più tardi i due decidevano di sposarsi e di trasferirsi a Domusnovas, nell’Iglesiente, dove gli Scarzella amministravano un tenuta. Tuttavia, nell’estate del 1922, Elda la- sciava temporaneamente il villaggio sardo e rientrava Milano per dare alla luce la primogenita, chiamata Isabella in onore di sua madre6. Durante la permanenza in Brianza, aveva modo di visitare il giardino d’infanzia dell’Umanitaria ispirato al me- todo Montessori (Pozzi 2015) e la scuola Rinnovata di Giuseppina Pizzigoni (Rossi Cassottana 2013; Scotto di Luzio 2015) alla Ghisolfa, concretizzando così il suo inte- resse per l’educazione infantile. Tornata a Domusnovas nell’inverno del 1923, si de- dicava alla creazione di una scuola materna comunale7, nel cui comitato promotore

3 la nascita di Elda (14 dicembre 1904) fu seguita da quella di Paola e di Maurizio. 4 istituzione fondata da Prospero Moisè Loria nel 1893, attiva su diversi fronti e pertanto capace di coniugare assistenza, lavoro, impegno sociale, istruzione ed emancipazione (Nannini 2013; Pellegrino 2014). 5 isabella era «di famiglia lombarda, dei Bossi di Azzate» (Mazzocchi 1998, 7). 6 cinque anni più tardi, sarebbe nato a Milano anche il secondogenito, Alberto. 7 aSE, Fondo Scarzella (FS), serie 6, Scritti di Elda Mazzocchi Scarzella, b. 39, fasc. 49, Autobiografia (s.d.). Nel

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era entrato a far parte anche il marito Enzo (Mazzocchi 1961, 8). Forte dell’esperien- za milanese, fece conoscere alla maestra dell’asilo il metodo didattico della Rinnova- ta, ponendo particolare attenzione all’utilizzo dei materiali offerti dalla natura e alla promozione dell’attività agraria. L’insegnante, entusiasta della proposta, avviava la sua attività in un locale vicino all’abitazione degli Scarzella, con arredi colorati for- niti dal comune e uno spazioso cortile per far vivere i bambini all’aperto, secondo i nuovi orientamenti pedagogici. Elda Mazzocchi avrebbe gestito personalmente l’or- ganizzazione della mensa, dando a tutti i bambini e alle mamme, durante il periodo di allattamento, una minestra di verdura e cereali preparata seguendo le indicazioni di validi specialisti. Ma nel 1933, dopo aver inaugurato la nuova sede della scuola d’infanzia, marito e moglie lasciavano Domusnovas e si stabilivano definitivamente in Lombardia. Enzo, infatti, aveva pianificato tutta la sua attività lavorativa a Mila- no, tanto che «gli sarebbe stato sufficiente ritornare in Sardegna due volte all’anno» (Mazzocchi 1998, 54).

Il periodo della maturità e l’assistenza ai reduci

Rientrata nel capoluogo milanese e ripresasi da una febbre malarica contratta po- co tempo prima di lasciare la Sardegna, la Scarzella cominciava a prestare il proprio aiuto presso le case minime della Trecca, nel sobborgo di Taliedo, uno dei complessi abitativi realizzati dall’Istituto Case Popolari alla periferia della città come «soluzio- ne transitoria per alloggiare le famiglie sfrattate dagli sventramenti del centro storico e quelle […] di contadini meridionali, che immigravano in cerca di lavoro» (ivi, 62). Al complesso erano annessi una mensa per le madri e le gestanti, sposate e nubili, un asilo nido e una sala parto, che avrebbe permesso alle donne di «partorire vicino alla loro casa» (ibidem). Nel frattempo, grazie alla collaborazione del padre cappuc- cino Genesio da Gallarate (Nigris 1997) entrava a far parte del Ceppo, un centro di volontariato istituito fin dal 1931 presso il convento dei frati minori «che procurava pasti ai poveri e […] si occupava anche dell’assistenza alle famiglie dei perseguitati per motivi politici o razziali» (Mazzocchi 1998, 66). Tra i volontari del Ceppo, El- da Mazzocchi aveva modo di stringere amicizia con Marcello Candia, futuro missio- nario laico in Brasile (Torelli 2006) e Ryšia Toeplitz, figlia del consigliere onorario dell’ambasciata polacca in Italia. Attraverso la collaborazione della giovane, «dota- ta di uno straordinario talento organizzativo e un coraggio altrettanto eccezionale», molti ebrei e deportati politici ebbero la possibilità di espatriare oltralpe, avvalendo- si di documenti falsificati (Mazzocchi 1998, 67). Nel 1941, ricoverata presso la clinica Evangelica per un intervento chirurgico, ri- ceveva la visita dell’avvocato Edoardo Majno, figlio dell’avvocato Luigi (Trombetta

1928 Elda Mazzocchi avrebbe contribuito anche alla realizzazione di un asilo infantile a Musei, località non distante da Domusnovas. Cfr. ASE, FS, serie 2, Personale, b.4, fasc. 16, Documenti personali - Curriculum vitae ([30/09/1976]- 08/05/2005).

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2006) e di Ersilia Bronzini (Demi 2013), amici di casa Mazzocchi. Luigi Majno era stato uno dei più noti penalisti di Milano, mentre la moglie Ersilia, annoverata tra le principali attiviste italiane del primo Novecento, aveva fondato nel 1899, con la collaborazione di altre donne, l’Unione femminile nazionale, finalizzata alla salva- guardia delle lavoratrici e all’affermazione del valore sociale della maternità (Gaballo 2015). Ai due coniugi è legato anche il nome dell’Asilo Mariuccia (Buttafuoco 1985), un istituto laico volto al recupero delle vittime di violenze e abusi, sorto in memoria della loro figlia tredicenne morta di difterite. Venuto a conoscenza del sostegno dato dalla Scarzella alle persone in difficoltà, Edoardo Majno le proponeva di utilizzare lo studio appartenuto alla madre Ersilia presso la sede dell’Unione, per proseguire il soccorso «ai clandestini» (Mazzocchi 1998, 68). All’indomani della Liberazione, Elena Fischli Dreher, Assessore all’assistenza di Milano (Nubola 2016, 56-57), invitava la Scarzella ad accogliere personalmente i re- duci che giungevano alla Stazione Centrale della città dai Lager nazisti tedeschi e po- lacchi (Mazzocchi 1985, 19-21). Accettato l’incarico, Elda Mazzocchi istituiva presso l’Unione femminile, in corso di Porta Nuova, il Centro di assistenza ai rimpatriati, avvalendosi dell’aiuto di diversi volontari, tra cui figuravano il figlio secondogenito Alberto e il marito Enzo8. Sollecita da sempre nel tutelare la maternità e l’infanzia in difficoltà, come avevano dimostrato l’esperienza sarda e quella milanese presso le case della Trecca, si dedicava in particolare all’assistenza delle donne provenienti dai campi di concentramento, molte delle quali accompagnate dal figlio concepito durante la prigionia: «Affluivano, come redivive, le superstiti […]. Si presentavano anche mamme con un bimbo nato in Germania» (Mazzocchi 1998, 87). Madri so- le, spaventate dalla prospettiva di un possibile ritorno nella famiglia d’origine e allo stesso tempo contrarie all’idea di entrare in un istituto, «portare una divisa, […] non poter uscire» (ibidem). L’attività avviata nei confronti delle reduci la spinse pertanto a progettare una struttura per accogliere gestanti e ragazze madri con i loro bambini. Furono Antonio Greppi, il primo «sindaco socialista» (ivi, 81) della città da poco liberata, e il dottor Ghiringhelli, ingegnere del comune, ad appoggiare la sua iniziativa. Grazie alla loro collaborazione, fu possibile installare nei giardini di Palazzo Sormani sei prefabbri- cati, da tempo abbandonati nei magazzini comunali, e dare vita, nell’ottobre 1945, al Villaggio della Madre e del Fanciullo, «come lo chiamò, con un nome un po’ pom- poso, ma appropriato, l’ingegner[e]» (ivi, 94).

Il Villaggio della Madre e del Fanciullo

Alla realizzazione del progetto contribuirono il Comune di Milano, il Ministero dell’assistenza post-bellica (Mazzocchi 1950a, 29), nonché numerosi amici e sosteni-

8 Enzo fu solerte nel procurare «casse di divise fasciste» che sarebbero servite per realizzare «abiti caldi» (Maz- zocchi 1998, 83).

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tori di Elda, come i volontari del Ceppo e le esponenti dell’Unione femminile, ma il sostegno più convinto giunse dalla stessa Scarzella che lasciava la propria abitazione per trasferirsi stabilmente presso i giardini di Palazzo Sormani. Uno degli obiettivi principali della fondatrice fu quello di creare un centro che potesse dare alle donne la possibilità di vivere la gravidanza e la maternità in un am- biente simile a quello familiare9. Per questo motivo, le mamme non erano costrette a indossare una divisa, vivere in una «camerata, essere chiamate con un numero»; Elda non avrebbe mai permesso che la sua realtà fosse «il ghetto delle madri nubili [e] povere» (Mazzocchi 1998, 111). Il progetto trovava una conferma nella struttura stessa del Villaggio: non un massiccio Istituto, ma varie casette in un accogliente giardino […]. Non una co- munione grigia e penosa e una forza spersonalizzante, perché ogni ospite ha la sua cameretta, che le viene consegnata senza accessori affinché ciascuna possa ravvivarla con le cose sue e secondo il proprio spirito […]. Non isolamento né delle assistite fra loro né verso l’esterno: perché la stessa costituzione del Villaggio tende a creare comprensione e solidarietà recipro- ca nel segno della maternità, e sono ammesse le visite e le uscite. Ognuna delle ospiti può quindi pensare e sentire di avere in quel piccolo mondo un posto suo che lascerà solo quan- do avrà trovato o ritrovato il proprio punto d’appoggio (Mazzocchi 1950a, 8). Le ospiti partorivano presso l’Asilo materno o la clinica Mangiagalli, accolte da un’ostetrica che aveva compiuto un tirocinio presso il Villaggio (ivi, 18); ma l’aspetto più significativo fu l’eliminazione della direzione medica, in modo che ognuna di lo- ro, seguita dall’assistente sanitaria, si rendesse personalmente responsabile della pro- pria creatura, contribuendo alla promozione di un clima sereno e accogliente. Que- sta considerazione indusse la Scarzella a realizzare nei giardini di Palazzo Sormani un asilo nido con l’aiuto di Elinor Sinnot Goldschmied, assistente sociale psichiatri- ca diplomata presso il dipartimento di salute mentale della London School of Eco- nomics. Affascinata dal pensiero di Anna Freud10, Susan Isaacs11 e Donald Woods Winnicot12, essa aveva dedicato buona parte della propria attività a studiare i danni derivanti dalla mancanza di una relazione stabile tra madre e figlio. Una volta giunta in Italia, affiancava Elda Mazzocchi nell’osservazione dei bambini fino a tre anni di età (Goldschmied 1950, 1995; Goldschmied e Jackson 1996) e organizzava corsi per il personale educativo (Mazzocchi 1957a, 210) finanziati dall’American friends ser- vice committee13. Inoltre, su richiesta esplicita del Villaggio contribuiva alla realiz- zazione di tre filmati: Lasciatemi almeno giocare, relativo all’importanza dell’attività ludica nello sviluppo motorio e psico-affettivo del bambino in situazioni di disagio; L’adulto nel mondo dei più piccoli, sul ruolo dell’educatrice; Infanzia, diritto di ogni

9 a questo riguardo è bene precisare che la presenza delle comunità di tipo familiare si sarebbe affermata sempre più come una delle principali realtà educative del secondo dopoguerra (Debè 2013; De Maria 2015). 10 clifford 2000; Malberg e Raphael-Leff 2012. 11 Petrelli 2007; Graham 2009. 12 Kahr 1996; Nunziate Cesaro e Boursier 2005. 13 associazione quacchera fondata nel 1917. Si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli e presta il proprio aiuto a profughi, rifugiati e vittime di guerra (Austin 2012; Macrì 2014).

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bambino, volto ad approfondire l’impostazione del lavoro nel nido14. Contestualmente all’attività avviata al Villaggio, la Scarzella dava vita a un Osser- vatorio di assistenza (Mazzocchi 1961, 13) nell’unica sala agibile di Palazzo Sorma- ni15, dove organizzava colloqui individuali o riunioni di gruppo con le ospiti. Il la- voro svolto presso tale struttura le offrì la possibilità di studiare da vicino il rapporto tra madre e bambino e di comprendere come la gravidanza e il parto, affrontati po- sitivamente, rappresentassero un fattore di arricchimento interiore e di responsabi- lizzazione16. In questo senso, una delle sue più grandi preoccupazioni fu quella di aiutare le mamme, sin dai primi mesi della gestazione, a liberarsi dai sensi di colpa e di inadeguatezza che inevitabilmente finivano per interferire con l’accettazione del bambino e influenzavano negativamente il suo sviluppo ancor prima della nascita. Nella primavera del 1946, Elda Mazzocchi iniziava a frequentare anche i giovani presso il carcere di San Vittore. La situazione in cui molti di essi versavano, la spinse a chiedere l’aiuto di Majno per realizzare un ente finalizzato al sostegno dei minori e delle loro famiglie. A questo riguardo, vale la pena ricordare che in Italia esistevano da alcuni anni i tribunali per i minorenni, istituiti con R. D. 20 luglio 1934, n. 1404, ma l’idea di un servizio che potesse assistere i ragazzi «finiti nelle maglie della legge» (Pazzaglia 2015, 8) non era stata ancora concepita. Il momento in cui si discusse per la prima volta del problema dell’assistenza sociale fu il convegno organizzato a Tremez- zo, in provincia di Como, dal 16 settembre al 6 ottobre 1946 (Stefani 2012). Nel comi- tato organizzativo figuravano il Ministero dell’assistenza post-bellica, l’Onmi17 la Cro- ce rossa italiana, l’Ordine di Malta, nonché la missione Unrra18 e la sua delegazione italiana. Il convegno internazionale, a cui parteciparono politici ed esperti di scienze sociali, ebbe il merito di «accrescere la consapevolezza che l’assistenza doveva consi- derarsi una responsabilità collettiva e come tale una funzione dello Stato, non più me- ro soccorso al povero» (Bistarelli 2012, 31). All’incontro, il primo di una lunga serie, prese parte anche la Scarzella, accompagnata da Majno19. L’avvocato, nel corso della sua relazione, d’accordo con la fondatrice del Villaggio, proponeva la creazione pres- so ogni Corte d’appello di un Ente ausiliario del Tribunale per i minorenni20 (Majno

14 aSE, FS, serie 4, Vita al Villaggio, b. 21, fasc. 32, Anni Cinquanta (02/10/1951-[31/12/1959]); ivi, fasc. 33, Anni Sessanta (06/01/1960-[31]/12/1969). Cfr., inoltre, amicidielinor 2017. 15 il palazzo era stato devastato dai bombardamenti, ma erano rimasti pressoché intatti un salone, la piccola cappella patrizia e il giardino. 16 aSE, FS, serie 3, Assistenza minori, poveri, reduci, b. 17, fasc. 25, Osservatorio di assistenza ([01/01/1947]- 10/12/1951). 17 Minesso 2007, 2015; Bettini 2008. 18 l’Unrra, United nations relief and rehabilitation administration, è la sigla con la quale è conosciuta l’organiz- zazione internazionale costituita dal 9/11/1943 al 30/06/1947 dalle Nazioni Unite per il sostegno economico e civile delle popolazioni colpite dalla guerra (Mazower e Feldman 2011). 19 aSE, FS, serie 5, Convegni, lezioni, incontri, b. 28, fasc. 39, Anni Quaranta ([16/09]/1946-[31/12]/1950); ivi, serie 2, Personale, b. 4, fasc. 16, cit.: «Dal 1° Convegno di studi sull’Assistenza Sociale, nel 1946 a Tremezzo, fino al 1995, con un documento in tedesco ad Heidelberg e uno francese a Sion, Elda Scarzella ha portato il suo contributo in 95 congressi in Italia e 52 all’estero». Nell’articolo si darà conto solo dei principali incontri. 20 aSE, FS, serie 3, Assistenza minori, poveri, reduci, b. 17, fasc. 26, Ente ausiliario del Tribunale per i minorenni di Milano (16/06/1947-[30]/06/1965). Nel 1951, la Scarzella avrebbe dato vita anche al primo servizio sociale presso il reparto Neurodeliri dell’ospedale Niguarda.

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1947) per assistere i «ragazzi sottoposti a misure di sicurezza non detentiva» (Pazza- glia 2015, 9). I minori in questione necessitavano di un trattamento diverso rispetto a quello riservato agli adulti, poiché i loro reati erano prevalentemente il «risultato di sfavorevoli circostanze familiari e d’ambiente di fronte alle quali essi si presenta[vano] come vittim[e]» (Mazzocchi 1950b, 1). Non si trattava quindi di reprimere un illecito «astrattamente considerato», ma di identificare le cause che avevano influenzato nega- tivamente la loro condotta, facendo «tutto il possibile per correggerle ed eliminarle» (ibidem). Per una significativa coincidenza, mentre si svolgevano i lavori congressuali, i pa- dri costituenti, in seguito al referendum del 2 giugno 1946 che sancì la vittoria della repubblica sulla monarchia, erano impegnati nella stesura della legge fondamentale del nostro Stato e predisponevano un sistema di protezione e sicurezza sociale rivol- to all’intera collettività, sulla scorta dei più evoluti sistemi di welfare21. Come ricorda Rita Cutini (2004, 213) «alle spalle c’era il dramma della guerra, del fascismo, davan- ti le speranze e le attese di una ricostruzione materiale e morale dell’Italia, con gli ancora giovani e fragili valori democratici da innestare e da far crescere nel lacerato tessuto sociale della popolazione». La fine del convegno organizzato a Tremezzo fu seguita, nel giro di qualche mese, dalla nascita dell’Ente ausiliario del Tribunale per i minorenni, con sede presso l’Os- servatorio del Villaggio. La realtà della Scarzella si configurava quindi come un’i- stituzione destinata ad accogliere non solo le mamme e i loro bambini, ma anche i minori in difficoltà e svantaggio, oltre ovviamente a discutere e affrontare i numerosi problemi tipici dell’età infantile e adolescenziale. A questo riguardo merita ricordare che, a partire dal 1947, Elda Mazzocchi avviava «tirocini e corsi teorici»22 destina- ti alla formazione di centosessanta allieve, le «prime assistenti sociali»23, mentre, a qualche mese di distanza, avrebbe dato vita al corso di perfezionamento di durata triennale per assistenti giudiziari24. Nel frattempo, l’esperienza del Villaggio si diffondeva in Italia e all’estero. Nel 1947, a due anni dalla sua inaugurazione, Elda partecipava a un corso organizzato a Losanna dalle Semaines internationales d’étude pour l’enfance victime de la guerre (Boussion 2015; Manacorda 2015, 259), l’anno successivo prendeva parte, come rap- presentante del Comune di Milano, al consiglio dell’Associazione nazionale Cesare Beccaria25, mentre il 5 dicembre riceveva la medaglia di benemerenza civica per la creazione del Villaggio della Madre e del Fanciullo. Nel settembre 1951, giungeva

21 la Sottocommissione sui diritti e doveri economico-sociali non discusse solo di assistenza, ma anche dei rap- porti tra uomo e donna, dell’istituto familiare, dell’istruzione dei minori. Il confronto portò all’elaborazione degli articoli 29, 30 e 31, quest’ultimo, in particolare, dedicato al tema della maternità e dell’infanzia, e 38, relativo all’ assistenza (Minesso 2013). 22 aSE, FS, serie 2, Personale, b. 4, fasc. 16, cit. 23 Ibidem. 24 Sulla costante attenzione rivolta alla formazione degli operatori del settore sociale, cfr. ASE, FS, serie 3, Assi- stenza minori, poveri, reduci, b. 16, fasc. 24, Assistenti sociali ([01]/09/1946-[07/06]/1990); ivi, serie 6, Scritti di Elda Mazzocchi Scarzella, b. 39, fasc. 49, Autobiografia, cit. 25 aSE, FS, serie 3, Assistenza minori, poveri e reduci, b. 17, fasc. 27, Associazione nazionale Cesare Beccaria ([01]/11/1948-12/04/1953). Cfr., inoltre, Mazzocchi 1998, 134-135.

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dal British Council l’invito a partecipare a un corso di otto giorni sui probation of- ficers, i funzionari incaricati di seguire i casi difficili di ragazze e ragazzi. Durante il soggiorno, non perdeva occasione di visitare alcune strutture sociali per minori, come il St. Claire Hostel di Londra, un pensionato di ragazze colà inviate dal Tribu- nale e la Maladjusted Home, un centro di accoglienza per giovani in difficoltà. Rien- trata da Londra partiva per Washington, dove il Dipartimento di Stato americano le commissionava una ricerca sulle strutture assistenziali presenti in dieci Paesi, con particolare riguardo ai problemi della delinquenza minorile e alla condizione delle madri nubili26. Nei quattro mesi di permanenza negli Stati Uniti, aveva modo di ri- scontrare l’efficienza del sistema assistenziale, «fondato sulla stretta collaborazione tra le associazioni di studio psicologico e sociale e gli istituti nei quali questi avanzati esiti scientifici trovavano poi la più proficua applicazione» (Mazzocchi 1998, 141), notando tuttavia una scarsa attenzione al tema della maternità illegittima, motivo per il quale si impegnava a diffondere «l’esperienza unica e nuovissima» promossa a Mi- lano, riscuotendo numerosi consensi: «Ne raccontai la nascita, lo spirito che l[a] ani- mava, la vita», scriveva (ibidem). Di ritorno in Italia, proseguiva senza sosta l’attività di studio e di approfondimen- to delle problematiche relative all’infanzia, all’adolescenza e alla maternità. A questo riguardo non è possibile non menzionare il corso di igiene mentale del bambino fi- no a tre anni, organizzato a Bellagio nel 1953 con il patrocinio dell’American frien- ds service committee di Roma, che aveva peraltro accettato di finanziare, su richie- sta della Scarzella, un nuovo corso di formazione per assistenti sociali. L’impegno proseguiva con la promozione, a due anni di distanza, del II corso residenziale di Belgirate, in collaborazione con l’Ente ausiliario del Tribunale per i minorenni, dal tema Carenza affettiva nei primi tre anni di vita e manifestazioni antisociali dell’età evolutiva27. Al dibattito presero parte specialisti provenienti da tutt’Italia e «per la prima volta [nel nostro Paese], operatori per la prima infanzia si succedettero allo stesso tavolo con operatori dell’età pubere e giudici minorili e del tribunale ordi- nario» (ivi, 172). Degno di nota anche il convegno nazionale sui problemi dell’irre- golarità della condotta nell’età evolutiva, organizzato a Roma nel 1956, al quale la Scarzella presentò una relazione dal titolo La situazione della minorenne traviata ge- stante nei riguardi amministrativi, sul piano sociale, sulla famiglia (Mazzocchi 1957b). Tuttavia, proprio negli anni in cui si dedicava con costanza all’attività di studio, si trovò costretta a gestire l’ormai improrogabile trasferimento della sede del Villaggio. A partite dal 1953, infatti, l’amministrazione cittadina l’aveva invitata ad abbando- nare Palazzo Sormani, dove sarebbe sorta la nuova biblioteca comunale. Per questo motivo, nell’estate di quell’anno, raggiungeva ad Arcore il cugino Alessandro Casati, consigliere del Villaggio, e otteneva la possibilità di spostare temporaneamente l’Os- servatorio e l’Ente ausiliario del Tribunale per i minorenni presso gli uffici del Patro-

26 cfr. le lettere inviate alla Scarzella durante il suo viaggio negli USA da alcuni membri del Villaggio (settembre- dicembre 1951). Cfr. ASE, FS, serie 1, Corrispondenza, b. 2, fasc. 6, Anni Cinquanta (03/01/1950-25/12/1959). Nella serie in oggetto figura altresì il carteggio con il regista Nelo Risi, cugino di Elda. 27 aSE, FS, serie 5, Convegni, lezioni, incontri, b. 28, fasc. 40, Anni Cinquanta (30/04/1950-02/12/1959).

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nato scolastico e del cinema Arti. In quello stabile, un tempo «cinéma d’essai», svolse la propria attività dall’ottobre 1954 alla primavera del 1957 (Mazzocchi 1998, 165). Risolto il problema dell’Osservatorio e dell’Ente ausiliario, bisognava trovare un nuovo alloggio per le mamme e i loro bambini. Su proposta del Comune di Mila- no di trasferire il Villaggio presso il Quartiere sperimentale dell’Ottava Triennale (QT8), in zona San Siro, la Scarzella sollecitava il figlio Alberto e Fabio Mello, lau- reati in architettura, a elaborare il progetto per la nuova sede. La «posa della pri- ma pietra» (ivi, 181) avveniva nel maggio 1957 e solo cinque mesi più tardi Elda Mazzocchi poteva inaugurare il nuovo Villaggio, ubicato in via Francesco Goya 60, e tutt’oggi attivo28. Costituito da «diverse unità interdipendenti»29 ospitava gli ap- partamenti delle mamme, chiamati focolari, il nido, la casa del parto, la cappella, con una Via Crucis di Gio e Arnaldo Pomodoro, uffici per le assistenti sociali, la presi- denza, la segreteria e la biblioteca. Infine «spaccio, magazzini e club per la ricrea- zione collettiva» (ivi, 173). Negli anni Sessanta sarebbero stati inaugurati la scuola artigianale, aperta anche all’esterno, con l’appoggio dei coniugi Elekecs, «due abili artigiani ungheresi» (ivi, 221) e il pensionato Betulla, destinato a quelle mamme che, pur avendo acquisito un’autonomia lavorativa, erano «ancora rifiutate dalla famiglia e dalla società» (ivi, 223). Nel 1976, in seguito all’entrata in vigore del D. L. 29 luglio 1975, n. 405, sarebbe stato «ufficializzato il Consultorio Familiare»30.

Gli ultimi anni

Dopo aver inaugurato la sede di via Goya, la Scarzella trovava di nuovo il tempo per proseguire le attività di studio all’estero. Nell’estate del 1959 partiva alla volta della Danimarca per un viaggio organizzato dal Centro Studi Danese. L’esperienza si rivelò particolarmente importante, dal momento che vide «confermate, nell’orga- nizzazione sociale di quel popolo, parecchie delle [sue] convinzioni» (ivi, 193): «La Danimarca – avrebbe scritto nella sua autobiografia – dava la chiara dimostrazione di come la coordinazione dell’operato dei servizi sociali, della polizia, dei centri di osservazione, delle scuole popolari attentamente organizzata, potesse accrescere e potenziare le energie umane» (ibidem). Tuttavia, doveva ammettere con rammarico che, in un paese così emancipato, non ci fosse «nulla che assomigliasse al Villaggio, nessuna struttura che affrontasse il problema dei bambini, così come noi lo affronta- vamo» (ivi, 193-194). Rientrata in Italia, riceveva una richiesta dal «dottor Milhaud, capo dell’ufficio europeo dell’assistenza tecnica» (ivi, 221), per la pianificazione, nel cantone di Vaud, di un programma volto al sostegno delle madri nubili. Il suo lavoro le permetteva di ricevere, nello stesso momento, importanti riconoscimenti. Nel 1963, le giungeva un

28 villaggiodellamadre 2017; Pallotta 2012. 29 Mazzocchi 1998, 173. 30 ASE, FS, serie 2, Personale, b. 4, fasc. 16, cit.

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premio dalla Lane bryant international volunteers award di New York, assegnato a tutti coloro che in Europa avessero «liberamente continuato a prestare la [propria] opera volontaria contribuendo alla soluzione dei problemi generati dall’incompren- sione umana»31. Di lì a poco, a Milano, sarebbe stata insignita della medaglia d’oro per aver «ideato e attuato nuovi metodi di assistenza alla maternità e all’infanzia»32. Nel frattempo, in virtù del Decreto presidenziale 10 maggio 1964, n. 417, il Vil- laggio otteneva il riconoscimento della personalità giuridica. Ma a partire dagli anni Settanta esso era destinato ad attraversare una lunga fase di rovesci finanziari, che portarono il consiglio di amministrazione a deliberare la chiusura di due dei tre fo- colari, della casa del parto e della scuola artigianale. In un secondo tempo sembrò che la situazione dovesse migliorare, per merito anche del sostegno economico di- mostrato da una benefattrice, che avrebbe donato cinquanta milioni all’anno per cin- que anni, consentendo in questo modo di ripristinare tutte le attività del Villaggio. Ma gli anni Ottanta si aprivano con un «bilancio sconcertante» (ivi, 237) e nel 1985, a quarant’anni dalla nascita, la chiusura sembrava l’unica via praticabile. Il rischio venne scongiurato dall’intervento della provincia che, preso atto dell’aggravarsi del- la situazione, nel 1986 siglava un accordo con il Villaggio per «salvaguardar[n]e il patrimonio umano, teorico e tecnico» (ivi, 239). Tre anni più tardi, l’International society for pre and perinatal psychology and medicine, in occasione del IX congres- so internazionale tenutosi a Gerusalemme33, tributava alla Scarzella un importante riconoscimento per l’impegno dimostrato in campo assistenziale ed educativo. Recuperate le forze, in seguito a problemi di salute che l’avevano costretta a tra- scorrere alcuni giorni in ospedale, Elda Mazzocchi riceveva numerose attestazioni di stima in occasione della celebrazione del cinquantenario del Villaggio, organizzato nel 1995 dalla Provincia di Milano e dall’Associazione internazionale per la psicolo- gia prenatale attraverso un convegno dal titolo Ecologia della vita prenatale. Il Villag- gio della Madre e del Fanciullo: risposta d’amore e laboratorio di ricerca34. Raggiunta la soglia dei novantaquattro anni, pubblicava la sua autobiografia, Per- corso d’amore, che le consentiva di ricevere nel giugno 1998 il premio nazionale Al- ghero Donna di letteratura e giornalismo. Nello stesso periodo, dopo sessant’anni di assenza, si recava a Domusnovas. Per l’occasione, il comune realizzava l’opuscolo Domusnovas a Elda (Amm.ne comunale 1998) e ricordava i momenti più significativi dell’attività svolta a favore degli abitanti del villaggio sardo. Alla soglia degli anni Duemila, pur rimanendo presidente onoraria del Villaggio, si ritirava gradualmente a vita privata e si spegneva a Milano il 6 maggio 2005. Di lì a poco la giunta comunale le avrebbe tributato gli onori del Famedio annoverandola tra le personalità più in vista della città.

31 Su attestati di riconoscimenti e premi, cfr. ASE, FS, serie 2, Personale, b. 4, fasc. 15, Attestati, premi, beneme- renze (23/12/1967-06/06/1998). 32 aSE, FS, serie 2, Personale, b. 4, fasc. 16, cit. 33 aSE, FS, serie 5, Convegni, lezioni, incontri, b. 36, fasc. 43, Anni Ottanta (09/02/1980-04/12/1989). 34 Ivi, b. 38, fasc. 44 (04/03/1990-27/03/1999).

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Fonti archivistiche

Archivio per la Storia dell’educazione in Italia, Fondo Scarzella (Università Catto- lica del Sacro Cuore, Brescia).

Bibliografia

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EDUCATION TO THE OTHER: THE RESPECT OF THE GUEST IN THE ODYSSEY. Some paedagogical reflections

EDUCARE ALL’ALTRO: IL RISPETTO DELL’OSPITE NELL’ODISSEA. ALCUNE RIFLESSIONI PEDAGOGICHE

The following paper analyses the subject of respect for the guest in Homeric poems, especially in the Odyssey: this theme can be a key to reading the adventures of the protagonist. The centrality of this theme reveals that it is a fundamental value within educational message of the poem. The principle of the respect for the guest is part of an archaic ethic, wich is not based only on warlike areté. This value is a hub of the heroic model and with this also the education of the later epochs will have to face. Il contributo analizza la tematica del rispetto dell’ospite presente nei poemi omerici e in particolare nell’Odissea, tematica che si rivela fulcro e possibile chiave di lettura delle avventure del protagonista. La centralità di tale tematica dimostra che essa costituisce un valore fondamentale all’interno del messaggio educativo paradigmatico di cui il poema si fa portatore: il precetto del rispetto dell’ospite innerva un’e- tica arcaica evidentemente basata non solo sull’aretè guerriera e resta come cardine di un modello eroico con il quale dovrà fare i conti anche l’educazione delle epoche successive. Key words: archaic education; Homeric education; education and hospitality in Ancient Greece; education and foreigners in Ancient Greece; respect of guest. Parole chiave: educazione arcaica; educazione omerica; educazione e ospitalità nella Grecia antica; educa- zione e stranieri in Grecia antica; rispetto dell’ospite.

Nella cultura greca antica l’atteggiamento nei confronti di colui che viene da lon- tano/da fuori è un tema estremamente ricorrente, che innerva molte testimonianze letterarie e iconografiche, così come il tema della definizione delle identità, propria e altrui, che si costruisce proprio attraverso il confronto con l’alterità1. Nei racconti mitici che riemergono nelle manifestazioni artistiche, culturali, rituali, il tema dell’es- sere estraniati dal proprio contesto (familiare, sociale) e dell’essere forestieri, speri- mentando la condizione di ospite costituisce una parte di un vero e proprio itinerario formativo: la biografia mitica dell’eroe si costruisce attorno ad alcune tappe principali che prevedono l’allontanamento (all’interno di una successione stereotipata che pre- vede generalmente nascita, esposizione o allontanamento, educazione in contesto lon- tano e/o differente, ritorno e riconoscimento). Per l’eroe, quindi, lo sperimentare di essere straniero sembra necessario per giungere ad una piena maturità e formazione.

1 Il concetto di identità nel senso psico-sociologico del termine è moderno. Per quanto concerne una riflessione sulla costruzione di questo concetto, rimandiamo all’approfondimento proposto da David Asheri 1996.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 259-272 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.37 Gabriella Seveso, [email protected] (Università degli Studi Milano Bicocca)

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Giasone, Peleo, Edipo, Teseo, Achille, Eracle, Oreste vivono la condizione di stranie- ro e ospite, o per traumatico allontanamento o per autoesilio o per necessità di fuga2. Il topos del viaggio e del vissuto della condizione di ospite ritorna nella cultura antica anche nelle biografie, reali o mitiche, dei grandi personaggi ritenuti fondatori, portatori di sapienza e/o legislatori, filosofi, condottieri. Solo a titolo esemplificativo, ricordiamo che Solone compie numerosi viaggi, durante i quali è ospite di celebri sovrani (Creso, nei confronti del quale si dimostra mentore e consigliere), oppure di culture differenti e più antiche e complesse: la permanenza in Egitto e l’incontro con i sacerdoti di quella terra lo portano ad accorgersi che la sua cultura di provenienza, greca, risulta più recente e più ingenua di quella egiziana, come appare evidente dal- la narrazione di questo incontro che possiamo ritrovare in Erodoto (Storie, II, 143 e sgg.) e Platone (Timeo, 22b)3. In queste sede, ci sembra necessario affrontare la tematica dell’ospitalità da una prospettiva specificamente pedagogica. Intendiamo dunque focalizzare la nostra analisi sulle modalità con le quali questa tematica è declinata all’interno dei poemi omerici poiché essi costituiscono il testo formativo per eccellenza per la cultura gre- ca antica: essi da un lato costituiscono una testimonianza, seppure idealizzata e ro- manzata, dell’educazione di epoca arcaica; dall’altro lato, hanno svolto la funzione di consolidare una tradizione e di trasmettere nei secoli successivi dei modelli educativi estremamente pregnanti e duraturi, anche in età classica ed ellenistica (cfr. Havelock 1982; Lorè 1999). Dobbiamo infatti ricordare che sulla trascrizione dei poemi ome- rici si formavano i futuri cittadini ateniesi, poiché essi erano il testo scolastico per antonomasia e il testo maggiormente conosciuto nella cultura del tempo. Appare, quindi, interessante indagare il tema del precetto dell’ospitalità presente in queste testimonianze e in particolare nell’Odissea, che si costruisce proprio come narrazione dei differenti, vorticosi per certi versi, affascinanti incontri del protagoni- sta (straniero, ospite) con gli altri. In queste sede, ci sembra necessario introdurre dapprima alcuni chiarimenti ter- minologici ed etimologici, che permettono di riflettere con maggiore chiarezza ed attenzione sulla tematica in questione. Il termine che in greco antico definisce colui che giunge dall’esterno è costitui- to dalla parola xenos: come sovente accade, la traduzione in italiano risulta ardua, poiché il campo semantico definito dal greco è molto ampio e complesso. Pierre

2 Della biografia mitica dell’eroe fa parte anche molto spesso il topos dell’innamoramento per una donna straniera: questo tassello dell’intreccio si modula in maniera varia, poiché a volte la donna tradisce la propria famiglia e la propria cultura e segue l’eroe assecondando o favorendo il superamento di prove e il ritorno e rinunciando definitivamente al proprio passato, non sempre con esiti felici (Arianna, Medea); in altri casi, la donna è addirittura appartenente ad un’alterità più complessa e può costituire un pericolo o un traviamento rispetto alla mèta (Circe, Calipso). Certamente, lo statuto della donna è di estranea alla cultura (e non di colei che sperimenta provvisoriamente l’estraneità ed è ospite) e rimanda alla condizione specifica, all’educazione, al ruolo delle donne nella cultura greca antica. 3 Resta celebre la definizione dei Greci che i sacerdoti del tempio egiziano di Sais propongono a Solone: «So- lone, Solone, voi Greci siete sempre bambini (paides) […] non avete alcuna antica opinione che provenga da una primitiva tradizione e neppure alcun insegnamento che sia canuto per l’età» (Timeo, 22b). Il passo è significativamente riportato da Platone in un racconto che prosegue con la descrizione di Atlantide, terra mitica antenata dei Greci stessi, ma della quale non hanno ricordo.

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Chantraine nel suo Dizionario, scrive che «il senso originale è quello di ospite, le- gato da relazioni reciproche d’accoglienza confermate da doni, cosa che può legare i discendenti […] può dirsi di colui che è ricevuto e di colui che riceve […] da qui, “straniero” e nel vocabolario militare “mercenario, raramente alleato”» (Chantraine 1968-1990, 735; traduzione nostra)4; lo studioso aggiunge che «xenos (il cui campo semantico copre in parte quello di philos, phileo, xeinizo, poiché a volte sono vicini l’uno all’altro in Omero) è un termine istituzionale capitale il cui significato si è dete- riorato dalla nozione di “ospite” a quella di “straniero” e “mercenario”» (Chantraine 1968-1990, 736)5. L’ampiezza del campo semantico e il significato originario di ospite legato da rela- zioni di accoglienza resta evidente in alcuni sostantivi derivati: la xenia, ad esempio, è l’ospitalità, o è il patto che regola le relazioni amicali fra due città. Anche Émi- le Benveniste (1976, 69-70) sottolinea come il termine xenos «indica delle relazio- ni dello stesso tipo tra uomini legati da un patto che implica obblighi precisi che si estendono anche ai discendenti. La xenia, posta sotto la protezione di Giove Xenio, comporta scambio di doni tra i contraenti che dichiarano la loro intenzione di legare i loro discendenti con questo patto». è comunque molto difficile disambiguare il significato di xenos, poiché – aggiun- ge lo studioso – «la nozione di straniero non si definisce nelle antiche civiltà con cri- teri costanti, come nelle società moderne. Qualcuno che è nato altrove, a condizione di essere legati a lui da certe convenzioni, gode di diritti specifici, che non possono essere riconosciuti ai cittadini dello stesso paese: è quello che dimostra il gr. xenos “straniero”, “ospite”, cioè lo straniero che beneficia delle leggi dell’ospitalità. […] Non esistono quindi “stranieri” in sé. Nella diversità di queste nozioni, lo straniero è sempre uno straniero particolare, colui che è sottoposto a uno statuto distinto. In- somma, le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre entità distinte – semantiche e giuridiche – presentano strette connessioni nelle lingue indo- europee» (Benveniste 1966, 276-277). Il termine barbaros appare invece molto più tardi: inizialmente con allusione alla parlata (colui che balbetta, parla male), poi utilizzato nel significato di straniero con- trapposto a greco, in quanto parla un’altra lingua; solo in un secondo tempo, il ter- mine assume anche il significato di rozzo, brutale, rude: le prime attestazioni sicure sono quelle presenti in Eschilo e in Erodoto, quindi in età classica. Questa difficoltà nel disambiguare il termine xenos appare e risulta affascinante nella lingua e nella trama dei poemi omerici, in particolare all’interno dell’Odissea: Odisseo è colui che viaggia ed approda presso popoli o presso esseri differenti e quindi si qualifica come ospite e come straniero, a volte come nemico, ma al tempo stesso egli incontra degli ospiti e degli stranieri.

4 Sull’intreccio fra campi semantici connessi con la xenia e con la philia, si veda Maria Intrieri 2013. 5 Un’analoga complessità caratterizza l’hospes e poi l’hostis latino: lo slittamento dal primo al secondo termine appare difficilmente ricostruibile; è da ricordare, però, che hostis non è comunque lo straniero in generale, ma colui al quale sono riconosciuti diritti uguali a quelli dei cittadini romani e quindi nei confronti del quale vige un legame di reciprocità.

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L’ospitalità dei Feaci

«Ma tu, dimmi ancora, e parla sincero: dove sei stato errando, a quali paesi sei giunto d’esseri umani; e dimmi di loro e dei loro borghi ben abitati, e quanti eran violenti, o selvaggi o senza giustizia, quanti ospitali e avevano mente pia verso i numi …» (Odissea, VIII, 572-576) (Calzecchi Onesti 1969, 156): questa è la richiesta che Alcinoo fa ad Odisseo quando si accorge della profonda commozione del suo ospite. Il re dei Feaci ordina all’aedo di corte di sospendere il suo canto e invita il nuovo arrivato a raccontare le sue origini e i suoi viaggi. Si tratta di un passo fondamentale del poema dal punto di vista strutturale poiché dà il via alla narrazione delle peregri- nazioni dell’eroe, narrazione che costituisce il nucleo centrale dell’opera. In questo lungo episodio cruciale diviene il tema dell’ospitalità: Odisseo è giunto alla reggia indirizzato da Nausicaa, che lo ha ritrovato presso il mare e che lo ha ac- colto ricordando alle sue ancelle, spaventate dalla vista del naufrago, che gli ospiti sono inviati da Zeus. La principessa ha quindi provveduto a confortarlo, invitando le ancelle stesse ad offrirgli cibo e bevande, e a lavarlo (VI, 204-210). Entrato al pa- lazzo reale, l’eroe è stato accolto e rifocillato, ha dormito ed è stato invitato a un sontuoso banchetto con danze e gare, ma non ha ancora rivelato la sua vera identità: viene ora esortato a raccontare finalmente le sue vicissitudini. Odisseo è dunque ac- cettato e ricevuto in nome delle leggi dell’ospitalità; Alcinoo a sua volta lo invita a narrare le sue avventure catalogando gli esseri umani incontrati proprio secondo la categoria dell’ospitalità, intesa come dovere etico e religioso, come si rivela dalle sue parole: chi rispetta l’ospite è pio, contrapposto a chi è violento, selvaggio, ingiusto. È il dono dell’ospitalità e dell’accoglienza che spinge l’eroe a ricapitolare le sue esperienze, cosa che ancora non aveva avuto modo di fare, e a dare un senso alla sua narrazione, finendo per descrivere tutti gli incontri accaduti nel suo peregrina- re. Il racconto parte ed è sollecitato dal re, che si accorge delle lacrime versate dallo straniero nell’udire il cantore: la rivelazione della propria identità e la riflessione dolorosa sulle proprie avventure, quindi, sono rese possibili dall’instaurarsi di un dialogo empatico, che non si era verificato in altre circostanze e presso altri ospiti. Il protagonista è ritratto mentre piange anche in altri episodi del poema (per esem- pio, sulla spiaggia dell’isola di Calipso, o presso Circe, o durante l’incontro con l’a- nima di Agamennone, o per la sepoltura di Elpenore, e così via), ma in questo caso per la prima volta il pianto è associato alla vergogna e significativamente è parago- nato alla reazione della donna che si dispera per la morte del proprio marito e per l’imminente sorte di schiavitù (VIII, 521-540). Laura Faranda (1992, 130 e segg.) sottolinea, a questo proposito, che Odisseo avverte in questo momento il proprio corpo piangente come oggetto, avverte lo scarto fra io e mondo e fra intenzione e azione, non riesce a controllare e cerca di celare: egli giunge quindi al pudore, co- me rivendicazione di sé anche nella sofferenza, come richiamo alla propria identità (Natoli 2002)6. In questo senso, il pianto di Odisseo è un momento di un itinerario

6 Sul tema delle emozioni si veda: David Konstan 2007. L’autore dimostra l’intreccio fra emozioni e possibilità di

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conoscitivo, che gli è concesso proprio all’interno dell’episodio in cui è accolto co- me ospite e può finalmente ricostruire la sua storia di fronte ad un interlocutore che manifesta rispetto e capacità di reale ascolto. Mentre, infatti, Polifemo aveva chiesto a Odisseo di rivelargli l’identità al solo fine di distruggerlo, Alcinoo è interessato a conoscere, mostra di voler comprendere al fine di accogliere e di offrire conforto e aiuto. Questo aspetto appare particolarmente significativo, poiché qualifica l’in- contro con lo straniero (sia che consideriamo stranieri i Feaci, sia che consideria- mo Odisseo lo straniero di fronte ai Feaci) come un incontro fruttuoso e utile se fondato sul reciproco rispetto e sulla capacità di ascolto: l’eroe può ricostruire la sua storia perché è all’interno di una relazione, può dare senso alle sue vicissitudini proprio all’interno del dialogo7. Il rispetto della legge di ospitalità consente una ricostruzione che è riconoscimen- to di sé e dell’altro e permette di comporre una storia. Questo aspetto, da un punto di vista del messaggio educativo, è cruciale anche perché è all’interno di una vicenda (la guerra di Troia e il ritorno degli eroi) che si dipana intorno al tema della trasgres- sione della legge di ospitalità (Paride ospite di Menelao ne tradisce la fiducia rapen- done la moglie) e al conseguente sanguinoso e distruttivo conflitto. La centralità della legge di ospitalità emergeva del resto già in alcuni episodi dell’Iliade, poema differente riguardo al modello di areté proposto, più connesso ai valori della supremazia e della valentia nel combattimento: è possibile, infatti, rin- venirlo sia in alcune digressioni (il racconto autobiografico di Fenice, che ricorda il suo essere accolto come ospite da Peleo: IX, 440 e sgg.: cfr: Seveso 2010), sia in alcuni episodi significativi e cruciali del poema, quali l’incontro fra Priamo e Achille per la restituzione del cadavere di Ettore (XXIV, 480 e sgg.), o ancora lo scontro fra Diomede e Glauco (VI, 119 e sgg.). Quest’ultimo passo è molto interessante poiché mostra i due guerrieri pronti a combattere senza esclusione di colpi, come appare evidente dalla breve descrizione iniziale («avidi di combattere», v. 120; «marciando l’uno contro l’altro», v. 121). Di fronte alla richiesta di presentarsi, Glauco ricapi- tola con un affresco ampio e appassionato la storia della sua famiglia, a partire dai più lontani antenati, concludendo con un’affermazione che sottolinea l’ideale eroico: «Ippoloco m’inviò a Troia e molto e molto mi raccomandava, ch’io fossi fra gli altri il migliore e il più bravo» (VI, 207-208). A questo punto, la tensione per la batta- glia è altissima, ma Diomede – eroe caratterizzato nel poema dalla ferocia e dalla sfrenatezza – al posto di lanciarsi sul nemico, pianta con gesto rapido e risoluto la lancia per terra rifiutandosi di iniziare il combattimento perché riconosce nel nemico che lo affronta il discendente di un uomo ospitato da suo nonno: «ma tu dunque sei ospite ereditario e antico per me» (VI, 215). Diomede si rivolge allora al nemico con parole commosse, ricordando come gli antenati si siano scambiati «splendidi doni ospitali» (v. 218) e conclude il suo accorato discorso con l’invito a considerarsi ospiti

simbolizzazione e sottolinea come per gli antichi Greci le rappresentazioni delle emozioni fossero differenti da quanto accade nella cultura occidentale attuale. Cfr. anche David Bouvier 2011. 7 la costruzione dell’identità e della storia come itinerario relazionale all’interno di un dialogo è una riflessione costante nella cultura greca antica: si veda in proposito soprattutto le opere platoniche.

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vicendevolmente e rinnovare questo patto: «… ed ecco che un ospite grato ora per te, laggiù nell’Argolide io sono, e tu nella Licia, quand’io giungessi a quel popolo; dunque evitiamo l’asta l’uno dell’altro anche in battaglia […] e scambiamoci le armi l’un l’altro; anche costoro sappiano che ci vantiamo di essere ospiti antichi» (vv. 224- 226; 230-231). L’episodio è estremamente significativo dal punto di vista del messaggio educa- tivo che veicola, poiché il poema è tutto centrato su un’etica eroica che prevede lo scontro e la conquista di una fama costruita proprio sulla forza e sulla vittoria nel conflitto: il valore impersonato dalle figure esemplari degli eroi è quello della supre- mazia nel combattimento. Tale valore viene considerato inferiore a fronte della leg- ge dell’ospitalità, che vincola al rispetto dell’altro, al di là dell’appartenenza ad uno schieramento, e che si dimostra valida addirittura di generazione in generazione: lo scambio di doni avvenuto fra gli antenati dei due combattenti ferma la dimensione del conflitto inesorabilmente, spinge Diomede e Glauco a trasformare il momento della lotta cruenta in un momento di conoscenza, di incontro e di ulteriore scambio di doni (l’episodio si conclude infatti con la reciproca offerta delle armi). La legge dell’ospitalità, dunque, porta a vedere l’altro nella sua veste di xenos in- teso come persona che ha diritto ad essere accolto e non di xenos inteso come stra- niero/sconosciuto. L’importanza di questo precetto, del resto, appare chiara anche da altri testi let- terari appartenenti all’epoca arcaica: Pindaro, narrando l’infanzia e l’educazione di Achille, ricorda come il centauro Chirone, maestro di tutti i più celebri eroi, insegna- va il triplice precetto, del rispetto per gli dèi, per i congiunti, per gli ospiti (Pythica, VI, 33). Esiodo, nelle Opere e i giorni descrive la degenerazione delle stirpi dei mor- tali sottolineando come essa sarà evidente dall’empia trasgressione del rispetto per i familiari, gli dèi, gli ospiti: ma Zeus distruggerà anche questa stirpe di uomini mortali, quando nascendo avranno già bianche le tempie; allora né il padre sarà concorde con i figli, né i figli col padre; né l’ospite all’ospite, né l’amico all’amico e nemmeno il fratello caro sarà come prima; ma ingiuria faran- no ai genitori appena invecchiati; a loro diranno improperi rivolgendo parole malvagie, gli sciagurati, senza curare degli dèi la vendetta; né ai genitori invecchiati renderanno il dovuto; il diritto sarà nella forza … (Opere e giorni, vv. 180-189) (Arrighetti 1998, 247). Ed è proprio la legge del rispetto dell’ospite, così sottolineata in queste testimo- nianze letterarie, a costituire il perno della narrazione delle vicende di Odisseo, che è viaggiatore «suo malgrado» (Hartog 1996), perseguitato da Zeus, (dio protettore degli ospiti) anche se interessato conoscitore e curioso indagatore: le peregrinazioni partono quindi da un’esigenza di purificazione e da una punizione, così come il di- ritto/dovere di ospitalità ha una giustificazione religiosa (è un dovere che supera le appartenenze etniche, sociali).

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Popoli ospitali, popoli inospitali

La ricostruzione di Odisseo sollecitata da Alcinoo si dipana secondo un asse dia- cronico, a partire dalla conclusione della guerra di Troia e risulta interessante analiz- zare come le sue relazioni con i popoli che incontra si costruiscono attorno al tema dell’ospitalità: come osserva Attilio Privitera, il protagonista si trova ad usare le armi e a combattere in mondi ove sovente le armi non gli sono utili o non sono sufficienti (Privitera 1991); le sue avventure risultano segnate dal rispetto o meno dell’altro, da parte sua o di chi incontra, cifra che condiziona l’esito più o meno felice delle impre- se e causa anche in alcuni casi la necessità o meno di espiazioni o di risarcimenti. Odisseo, nella sua narrazione, dapprima sbarca presso Ismaro, terra abitata dai Ciconi, con l’unico scopo di approvvigionarsi e lo fa depredando la città e seminan- do distruzione, senza alcun rispetto per le leggi dell’ospitalità; poiché, però, i compa- gni si attardano a gozzovigliare, vengono assaliti a loro volta dai Ciconi stessi. Odis- seo ha modo, in realtà, di godere dell’ospitalità, poiché Marone, sacerdote di Apollo, in segno di riconoscenza per essere stato risparmiato, gli offre in dono un cratere d’argento e dodici anfore di vino, collocandosi all’interno del rituale tipico dell’ospi- te, cui spetta, secondo la tradizione antica, di offrire cibo e alloggio e di far omaggio di doni. Nel racconto (IX, 39-70) non compaiono notazioni paesaggistiche né temporali; la narrazione restituisce con rapidità il saccheggio immediato, la scelleratezza dell’im- presa, la vendetta degli assaliti, che appaiono come un popolo compatto, unito dalla volontà di difesa. L’incontro è segnato solo dalla conflittualità e dalla totale estranei- tà fra i contendenti e Odisseo appare, in questa occasione, non tanto curioso, quanto semplicemente rapace; egli non rispetta la legge dell’ospitalità e si ritrova in un con- flitto sanguinoso, che genera una notevole perdita fra le fila dei suoi compagni. A seguito della fuga precipitosa e resa luttuosa dalle perdite umane, le navi gre- che giungono alla terra dei Lotofagi: questo popolo, che si rapporta ad Odisseo e ai compagni con socievolezza, offrendo il frutto del loto, è descritto esclusivamente attraverso il tipo di alimentazione, elemento che li rende immediatamente estranei, nonostante l’atteggiamento pacifico. È da sottolineare come, all’interno di tutto il poema, il tipo di alimentazione è l’aspetto che qualifica gli esseri umani e la con- divisione del cibo e delle bevande uno dei gesti fondanti la legge dell’ospitalità: il protagonista si chiede sempre, quando giunge in una terra sconosciuta, se gli abitan- ti sono «mangiatori di pane»; Polifemo, nella sua mostruosità è descritto come un essere che si nutre di formaggi e prodotti caseari, oltre che di carne; al contrario, i Feaci appaiono come coltivatori di grano e intenti a macinarlo. L’alimentazione fon- data sul pane richiama, infatti, anche la coltivazione della terra e la panificazione è segno distintivo della civiltà. Nel caso dei Lotofagi, l’unico tratto culturale distintivo è proprio dato da questa alimentazione sorprendente, che costituisce anche l’unica modalità di relazione che essi intrattengono con il mondo esterno: infatti, si mostra- no pacifici e offrono il cibo ai compagni di Odisseo. Questo invito a banchetto non rappresenta, però, un’occasione di confronto e di comunicazione, come avveniva in-

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vece presso i Feaci, poiché il fiore rende gli ospitati totalmente dimentichi del loro passato e della loro meta. Il cibo è dunque veicolo di scambio, ma si rivela inganne- vole, perché esso annulla qualsiasi ricordo: la perdita della memoria è perdita del- la propria identità; l’ospitalità è all’interno di una cultura inconsapevole, immatura, non civile, pur nella sua scellerata innocenza. Odisseo è costretto a trascinare via con la forza i compagni che, sotto l’effetto del loto, sono dimentichi della loro me- ta. In questo caso, la cultura altra produce un’assimilazione immediata perché fon- data sulla perdita dell’identità e quindi l’apparente ospitalità e l’offerta amichevole di cibo sono stravolte dalle loro conseguenze nefaste: la legge dell’ospitalità, invece, prevede il rispetto dell’altro e l’accoglienza della sua identità e della sua storia, come dimostra la relazione con i Feaci. La narrazione prosegue evocando l’approdo alla terra dei Ciclopi: mentre i com- pagni esortano Odisseo a sottrarre furtivamente alcuni formaggi e a fuggire, il pro- tagonista decide di fare sosta e di conoscere chi abita in questa terra, anche confi- dando nelle leggi dell’ospitalità. Infatti, a Polifemo il protagonista si rivolge subito invocando il suo status di ospite, che gode della protezione di Zeus: «ora alle tue gi- nocchia veniamo supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti ci regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, i numi, siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici, Zeus ospitale, che gli ospiti ve- nerando accompagna» (IX, 266-271). Ma Polifemo gli risponde con disprezzo, pro- clamando di non avere alcun rispetto per questa legge né per gli dèi, poiché i Ciclopi si sentono forti. L’episodio ci mostra, quindi, degli esseri che sembrano incarnare la radicalizzazione della legge eroica dei guerrieri (la forza è l’unica modalità di rela- zione che conoscono). Chi non rispetta la legge dell’ospitalità, come i Ciclopi, rive- la caratteristiche sub umane nel comportamento, caratteristiche che si rispecchiano anche nella tipologia di paesaggio all’interno del quale vivono: la terra di Polifemo è selvaggia, non lussureggiante (quale poteva essere quella abitata da Circe o Calip- so), è boscosa, non arata nè seminata, pur producendo grano, orzo e vite, e sarebbe molto florida poiché il terreno è umido e grasso, ma resta incolta (IX, 109 e sgg.). A questo disordine nella cura della terra corrisponde un disordine sociale e politico, poiché i Ciclopi vengono subito definiti «violenti e ingiusti» (XI, 106), «non hanno assemblee di consiglio, non leggi, ma gli eccelsi monti vivono sopra le cime in grotte profonde; fa legge ciascuno ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura» (IX, 113-115). Lo spazio non coltivato, quindi, è anche non socializzato e fa da specchio ad una totale mancanza di relazioni: La mancanza di rapporti interpersonali, – scrive Domenico Musti – le aggregazioni solo di tipo naturale, la mancanza di leggi, cioè di strutture politiche, caratterizzano l’habitat selvag- gio del Ciclope (anzi, dei Ciclopi, che, se costituiscono una genìa umana, o sovrumana, non sono però una comunità, una società umana, una polis) (Musti 2008)8.

8 l’autore propone un’interessante analisi della corrispondenza fra strutture del paesaggio, strutture della città antica e strutture politiche e sociali.

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Polifemo, oltre a rispondere con disprezzo a Odisseo, afferra e inghiotte alcuni compagni, dimostrandosi anche mangiatore di carne umana. è significativo che que- sto personaggio, privo del rispetto della legge dell’ospitalità, si mostri anche incivile nel gesto di bere vino puro, atto che lo qualifica come lontano dagli usi e costumi sociali: si tratta, infatti, di una pratica percepita come al di là di qualsiasi norma, poi- ché per i Greci il vino poteva essere gustato solo mescolandolo con dosi di acqua e all’interno di una precisa ritualità che rendeva il simposio un momento conviviale e relazionale molto significativo9. Chi non sa rispettare l’ospite, dunque, è al di fuori della civiltà e dell’umanità. A fronte di questo comportamento trasgressivo e scellerato, Odisseo dovrà utilizzare non le armi ma l’astuzia, e dovrà celare la sua vera identità, perché non è possibile una relazione autentica. Dopo la fuga il protagonista approda presso Eolo, che dimostra di essere acco- gliente e dona al suo ospite l’otre in cui ha imprigionato i venti avversi: proprio il mancato rispetto del divieto di aprire questo dono ospitale da parte dei compagni di Ulisse, fa sì che la nave venga risospinta verso lidi sconosciuti. La narrazione pro- segue con la descrizione dell’ultimo popolo incontrato da Odisseo e dai compagni, i Lestrigoni, esseri umani di proporzioni enormi che vivono dove notte e giorno «sono vicini»: in questo caso, la descrizione del paesaggio è dettagliata, con l’immagine del porto e delle strade percorse da carri che portano legna; non c’è segno di coltivazio- ni, ma piuttosto di attività legate alla pastorizia, come nel caso dei Ciclopi; non esi- stono piazze, elementi che caratterizzano una comunità umana equilibrata; il porto si mostra come molto fortificato, costruito con grosse pietre, e angusto, con aspetto da un lato minaccioso, dall’altro fortemente difensivo. Di fronte ad un unico segnale di terra abitata, ovvero il fumo, Odisseo invia alcuni compagni in avanscoperta ed essi incontrano una fanciulla con una brocca d’acqua. Si tratta di una sorta di immagi- ne speculare in negativo di Nausicaa: entrambe si rivelano le principesse del luogo, sono il tramite per l’incontro con la nuova popolazione, sono impegnate in attività tipicamente femminili attinenti all’acqua (lavare, riempire le brocche). La principes- sa dei Lestrigoni, però, contrariamente a Nausicaa, non si presenta, non mostra pre- occupazione per la cura dei nuovi arrivati, né cita le leggi dell’ospitalità; si limita a indicare loro la reggia paterna, con gesto quasi meccanico e conscio della situazione di pericolo per gli ospiti; non offre ai nuovi venuti i mezzi che potrebbero garantire loro un incontro amichevole, così come invece aveva fatto Nausicaa. La reazione dei Lestrigoni e in particolare del loro re Antifate è immediata nella sua ferocia, priva di qualsiasi pensiero o incertezza, descritta con il gesto fulmineo dell’afferrare e del divorare uno dei Greci. I Lestrigoni, dunque, come già i Ciclopi, si rivelano empi nel

9 la caratteristica di Polifemo di bere vino puro è molto sottolineata nelle rappresentazioni iconografiche dell’e- pisodio: esse tendono a mostrarlo con la coppa in mano e con una gestualità che richiama quella dei Satiri ubriachi: cfr. Raffaella Bonaudo 2010. Sul rito del bere vino e sul simposio come occasione formativa e di incontro, si veda l’ap- profondito testo di Maria Luisa Catoni 2010. L’autrice analizza con ampiezza di dettagli la pratica del simposio come momento conviviale ed educativo, sulla scorta di testimonianze sia letterarie sia artistiche, con particolare riguardo alla ceramografia. Il fatto stesso che il simposio fosse concepito come pratica separata dal momento del pasto dimostra la particolare importanza e ritualità che lo caratterizzava.

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mancato rispetto della legge dell’ospitalità e infatti la loro città è caratterizzata dalla mancanza di istituzioni civili e di opere che testimoniano la socialità umana e la cul- tura (piazze, luoghi di culto). I Ciclopi e i Lestrigoni paiono una sorta di doppio in negativo dei Feaci, che in- carnano invece la legge del rispetto dell’ospite, e sono fin da subito descritti come popolo che ha una storia, una civiltà, una cultura: prima che Odisseo giunga alla loro reggia, apprendiamo che il loro fondatore, Nausitoo ha dato origine a una comunità, con i tipici atti che contraddistinguono la convivenza civile, ovvero una difesa/occu- pazione del territorio, abitazioni ben costruite, la fondazione di riti e di una religione condivisa basata sul rispetto per le divinità, la coltivazione ordinata della terra: «di mura circondò la città, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre» (VI, 9-10). Lo spazio e il tempo dei Feaci, quindi, sono dimensioni ordinate e armoniose alle quali corrisponde una comunità che si fonda su un’autorità, riconosce un ruolo agli anziani o agli eroi, è laboriosa (coltiva olio, vino, frumento, costruisce navi infal- libili, realizza tessuti), è coesa attorno a un culto, a una religiosità basata sul rispetto delle divinità. Il popolo dei Feaci sembra incarnare la polis ideale, con un richiamo evidente ad alcuni elementi che rappresentano il vivere civile, primo fra tutti la piaz- za come simbolo della capacità di dialogo fra cittadini e il tempio come segno di un credo comune e di un equilibrio fra umano e divino10. È quindi interessante notare come il popolo che dimostra maggiormente il rispetto del precetto dell’ospitalità, è descritto come comunità ideale.

Il ritorno: Odisseo ospite nella sua terra

Infine, sembra opportuno riflettere sul prosieguo del poema, che narra del ritorno ad Itaca di Odisseo, proprio accompagnato dalla nave dei Feaci. Quando, infatti, l’eroe sbarca sull’isola che ha lasciato, da principio non la ricono- sce e si rende conto di esservi giunto solo dopo una lunga e dettagliata descrizione da parte di Atena; poi camuffa la propria identità, divenendo vecchio e mendican- te, grazie alle arti della dea, che gli ricorda «ti renderò irriconoscibile a tutti» (XIII, 397): l’eroe, quindi, sperimenta il cambiamento e l’alterità perfino di ciò che gli è più caro e conosciuto, di ciò che ha cercato, la terra natia, e finisce per identificar- la attraverso la rappresentazione fornitagli dall’altro per eccellenza (la dea). Infine, diviene un altro/uno straniero, celando la propria identità, a cominciare dall’aspet- to fisico che viene deturpato («gli avvizzì la bella pelle sulle agili membra, i biondi capelli fece sparire dal capo, una pelle da vecchio antico gli fece intorno alle mem- bra, rese cisposi gli occhi bellissimi», XIII, 430-433), per finire con i tratti che de- notano il ruolo e lo status (nasconde le suppellettili preziose che i Feaci gli hanno donato, veste una pelle di cerva spelata, ha un bastone e un brutta bisaccia, che lo

10 l’ordine e l’armonia dello spazio e del tempo riflettono l’ordine delle relazioni umane, in una concezione tipica della cultura greca, come già ricordato sopra: cfr. a questo proposito, Vernant 1971.

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identificano come mendico e povero). Non riconosciuto e quindi straniero a tutti (eccetto che al cane Argo), Ulisse compie una sorta di ultimo viaggio dentro la sua terra, per riappropriarsi della propria identità, della propria famiglia, del proprio status di sovrano, viaggio che è insieme itinerario nello spazio, ma anche itinerario nel tempo, alla ricerca di chi, durante la sua lontananza, ha mantenuto la fedeltà: in ciascun incontro, con il figlio, con i servi, con il padre, con i Proci e perfino con la moglie, Odisseo è straniero, provocando reazioni contraddittorie e molteplici con la sua estraneità e la sua mendicità, reazioni che variano dall’accoglienza pietosa ma prudente, al sospetto, al rifiuto, al disprezzo. Si può dire, anzi, che i personaggi del poema, di fronte al suo ritorno in incognito, si collochino lungo un asse che non è solo quello della fedeltà all’eroe partito tanto tempo prima, ma anche e soprattutto della capacità di rispettare una norma così importante nell’etica omerica quale quel- la del rispetto dell’ospite/straniero: essa viene enunciata con semplicità proprio dal primo che incontra Odisseo sotto mentite spoglie, ovvero Eumeo: «Straniero, non è mio costume (themis) – venga pur uno più malconcio di te – trattar male (atimesai) gli ospiti: tutti da parte di Zeus vengono gli ospiti e i poveri» (XVI, 56-58). Questa caratteristica che segna in maniera palese il ritorno dell’eroe conferma la centralità del tema del rispetto dell’ospite all’interno del poema.

Conclusioni

Odisseo sperimenta dunque tutte le condizioni che corrispondono ai diversi signi- ficati compresi nel termine greco xenos: egli è, infatti esule, poiché costretto a viag- giare, ospite, poiché accolto o non accolto da altri, nemico, nel momento in cui si pone in una relazione di predazione o in cui gli altri si pongono nei suoi confronti con atteggiamenti di sopraffazione. Per quanto concerne la sua condizione di esule e ospite, il poema illustra con chiarezza che esistono sacre leggi dell’ospitalità e specifici rituali che le regolano e permettono di metterle in atto. L’arrivo e la permanenza presso i Feaci mostrano tali rituali in maniera ampia e sottolineata: lo straniero/ospite ha diritto ad essere accol- to (con soddisfazione dei bisogni primari: essere lavato, vestito); è ammesso al ban- chetto inteso come momento di compartecipazione e di condivisione del cibo, ma anche della convivialità; in questo contesto, è ascoltato, con attenzione, con capacità di condivisione delle emozioni e con rispetto di quanto narra, secondo un principio di auralità che caratterizza l’akroasis (il vero ascolto)11; può assistere a gare o danze in suo onore; riceve dei doni, che costituiscono il suggello del legame di ospitalità e che lo accompagneranno nel prosieguo del suo viaggio. Questa ritualità, descritta nel poema, è percepita e rappresentata come segno distintivo di civiltà e come norma di giustizia al di sopra dell’appartenenza a un genos o a una definita comunità: ciò spiega anche la stretta connessione, presente nel linguaggio omerico, fra il termine

11 Sul concetto di akroasis si sofferma Plutarco (L’arte di ascoltare). Si veda in proposito: Dario Costantino 2005.

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xenos, straniero e il termine philos, il cui campo semantico estremamente complesso richiama la nozione di amicizia, possesso, amore: «la nozione di philos – scrive Émile Benveniste – enuncia il comportamento obbligatorio di un membro della comunità nei confronti dello xenos, dell’”ospite” straniero» (Benveniste 1966, 262)12. Chi non rispetta l’ospite, secondo questa concezione, si qualifica comunque come empio: si veda, a questo proposito, il giudizio espresso da Odisseo alla nutrice, al termine del- la strage dei Proci, che egli definisce degni di morte violenta, prima ancora che per la loro avidità, proprio perché non hanno saputo rispettare chi veniva presso di loro (XXXIII). La centralità della tematica dell’ospitalità rende quest’ultima un valore fondamen- tale all’interno del messaggio educativo paradigmatico di cui il poema si fa porta- tore. L’Odissea costituiva nell’antichità e costituisce ancora una testimonianza com- plessa e poderosa dell’etica arcaica: tale etica certamente propone il valore dell’areté guerriera, ma evidentemente presenta anche altri valori ritenuti fondamentali e im- prescindibili, fra cui emerge con chiarezza quello del rispetto della legge dell’ospita- lità. In questo senso, il modello dell’eroe è caratterizzato non solo dal coraggio e dal- la volontà di combattere, ma anche dalla capacità di accogliere lo xenos che chiede ospitalità, seguendo precise regole e precisi rituali. Con questo modello dovrà inevi- tabilmente fare i conti anche l’educazione delle epoche successive. Sarà l’età classica, a seguito dello scontro con i Persiani, a spostare gradatamene il baricentro semantico dello xenos verso lo straniero più che verso l’ospite, verso chi suscita paura o rifiuto più che verso chi ha diritto di asilo, non senza crepe e non senza contraddizioni.

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12 l’autore si sofferma poi sulla complessa ricostruzione dell’etimologia e degli slittamenti di significati che hanno interessato il termine philos.

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Laura Bassi and The Method Called “Ritmica integrale”1

Laura Bassi e il metodo chiamato “ritmica integrale”

The essay focuses on the figure and the work of Laura Bassi (1883-1950), a preschool teacher operating in a number of Italian kindergartens between the first and second half of the twentieth century. Ms. Bassi de- veloped a method of child education based on the musical rhythm. This essay reconstructs the life of Bassi, illustrates her method called “Ritmica integrale”, focuses on the reception of this method at the time and the difficulties in divulging her pedagogical and didactic concepts. Il saggio si sofferma sulla figura e sull’operato di Laura Bassi (1883-1950), maestra giardiniera attiva in numerose scuole dell’infanzia italiane a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento. Bassi ideò un metodo di educazione infantile basato sul ritmo musicale. Il saggio ricostruisce la vita di Laura Bassi, illustra in dettaglio il metodo denominato “Ritmica integrale”, si sofferma sulla recezione di questo all’epoca e sulle difficoltà da Bassi incontrate nel divulgare le proprie concezioni pedagogico-didattiche. Key words: Laura Bassi, Pedagogy of Music, Didactic of Music, Early Childhood Education, Musical Rythm. Parole chiave: Laura Bassi, Pedagogia musicale, Didattica della musica, Educazione infantile, Ritmo mu- sicale.

Integral Rhythmics is a childhood education method, formulated and improved by Laura Bassi (1883-1950) starting from the 1920s. Along with the better-known music teaching methodologies of Émile Jaques-Dalcroze and Carl Orff, Integral Rhythmics belongs to the family of ‘active methods’, which place the conscious participation of learners at the centre of the knowledge acquisition process. The underlying concep- tual premise shared by these active methods is the idea of learning by doing: pupils learn through conscious, thoughtful ‘doing’, which helps them build and consolidate their knowledge (Bottero 2014; Dauphin 2002). Laura Bassi’s method does not stop at active aesthetic expression, but aims at pro- moting several different aspects of children’s physio-psychology, such as discipline, memory, balance, and sociability. According to Annamaria Princigalli, who studied the Bassi method in the early 1950s, Integral Rhythmics can be linked to the experi-

1 i would like to give a heartfelt thank you to Tiziana Pironi, for providing me with ample material on Laura Bassi – letters, unpublished manuscripts, photos, newspaper articles –, which was entrusted to her years ago by Gian Luigi Zucchini. An exhibition room on Laura Bassi’s Integral Rhythmics, curated by Tiziana Pironi and myself, is currently being prepared as part of the MOdE (Museo Officina dell’Educazione), and will make use of most of these documents. It is expected to release even my article in Italian on the same subject.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 273-286 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.42 Anna Scalfaro, [email protected] (Università degli Studi di Bologna)

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ments of the active schools, but at the same time it moves along the lines of traditional school education. Bassi’s method condenses «the positive aspects of two sets of op- posing pedagogical trends: those that rely on free expression and on the spontaneity of children, and those that advocate some form of control or educational guidance, of aided, guided activity». The rhythmic pulse, felt and recreated by children «through drawing, movement and word, awakens the activeness of children in all forms: motor, perceptual, and intellectual» (Princigalli 1953, 4)2. In Italy, educationalists such as Rosa Agazzi, Maria Montessori and Giuseppina Pizzigoni laid the emphasis, in different ways and degrees, on the teaching of mu- sic for pre-school and primary school children. Laura Bassi did not limit herself to emphasize the teaching of music, in particular of rhythm. She thought of musical rhythm as a primary element, on which to build a comprehensive educational activity. Moreover, compared to the methods of Jaques-Dalcroze and Orff, whose purpose is to impart a good musical education, the method of Laura Bassi, despite being based on rhythm, has as its ultimate goal the integral, not specifically musical, education of the individual. In a typewritten document from the personal archive of Laura Bassi’s sister, Emma Pampiglione, Olivier Chennevelle, a professor at Sorbonne University, claims that with- out Jaques-Dalcroze Laura Bassi could not have developed her own method. However, the two didactics researchers had started out from different approaches: the educa- tionalist from Geneva, and Conservatory teacher, had set himself the primary aim of teaching music and dance, whereas Laura Bassi, a kindergarten educator, had in mind the needs of early childhood education, and pursued more general goals: to ensure the development of children’s personality; to develop their skills in all sectors; and to allow them to experience the joy of spontaneous expression (Chennevelle 1946).

The life of Laura Bassi

Born in the Province of Perugia in 1883, Laura Bassi moved with her family to Luc- ca when she was 10 years old. Here she enrolled at the local teacher training school, where she earned her teaching diploma in 1904. In 1905 she also obtained a diploma as “maestra giardiniera”, or kindergarten teacher. In the same year, her younger sister Emma earned a piano diploma with full marks at Bologna Conservatory, under the guidance of maestro Filippo Ivaldi. Laura, too, had started studying the piano in the same conservatory, but had quit because she disapproved of the way in which solfeg- gio was taught there. Her father Giuseppe Bassi was a well-known, successful physi- cian. Her mother had studied singing and piano with Giuseppe Respighi, the father of Ottorino, and had passed on her passion for music to her daughters (Bellini 2003; Pampiglione Bassi N.D.b; Zucchini 1982).

2 The article is reproduced as a typewritten copy, signed by Annamaria Princigalli, from the personal archive of Emma Bassi Pampiglione.

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From her very first years as a teacher in the kindergartens of several Italian cities (Lucca, Mistretta, Lagonegro), Laura began including music in her teaching. The ear- liest organized experiences of her method, which at the time was called ‘Scuola viva’ (living school), go back to her teaching years in Oneglia (1913-1920), and then back again in Lucca (1920-1927). In 1927 she was recruited as a kindergarten teacher by Giardino d’Infanzia “S. Spirito” in Perugia. In 1931 she was entrusted with a prestig- ious task: contributing to the establishment of the first Italian kindergarten in Geneva. Laura therefore left for a one-year stay in the Swiss city, where she attended a course in Musical Rhythmics for teachers held by Émile Jaques-Dalcroze. Her acquaintance with the Swiss educationalist, and the in-depth study of his method, were very impor- tant for Laura: in this method, she found a confirmation of her intuition about the im- portance of developing a sense of rhythm in the early musical education of children. It was indeed Laura who advised her teacher to try out the method of calisthenics, known as ‘rhythmic gymnastics’ in Italy, not only on 10-12 year-olds, but on small children, too (Zucchini 1982). Back in Italy, Bassi made the most of what she had learned and started to build, and write down, the principles of her own method, which she variously referred to as ‘scuola viva’, ‘dinamica musicale’ (musical dynamics) or ‘cinetica musicale’ (musical kinetics). The definition ‘Integral rhythmics’, still in use today, was coined by Gi- useppe Lombardo Radice, who praised Bassi’s method in a lecture he held in Locarno in 1938, seeing in it a new, promising educational trend (Bassi 1971, Parte I). In the second half of the 1930s, Emma Pampiglione (nee Bassi) began to take an interest in Laura’s work. Until 1933 the two sisters had mostly lived far apart: Emma lived in Bologna, then moved to Paris and later to , while Laura lived in the cities where she taught. In the following statement, Emma offers an affectionate memory of the strong, genuine passion, which Laura put in her teaching work: I got to know Laura as an educator-artist in 1933. I was coming back from a trip to Paris, and had made a detour to Perugia, to give her a surprise. I found her only hours before a benefit display with children at the “Morlacchi” theatre. For me it was a revelation. I used to think she was exalted, ambitious (even in the way she dressed), restless, tragic, and of course I recalled her success as a young girl in Lucca, acting in “La madre ebrea” and in “L’Ave Maria” (the latter composed for her by Renato Macarini Carmignani, Esq.), and her passion- ate desire to follow in the steps of Eleonora Duse, and the words Ermete Novelli spoke to our father to convince him that Laura, then a girl, should turn to acting. But I would never have thought that she would be able to create such a perfect, uplifting and moving show, in which children did not represent, but actually experienced the things they expressed, and where every detail – orchestra, costumes, light, had been taken care of with sophisticated art- istry (Pampiglione Bassi N.D.c; Zucchini 1982, 315-316). From 1934 to 1940 Laura worked in , at the “Littoria” teacher training school, and from 1937 to 1950 in Rome, at the “Margherita di Savoia” teacher training school. Towards the end of the 1930s she began to organize and supervise educational activities at the gymnasium of Centro Sperimentale “Scuola Franchetti”, directed by Luigi Volpicelli and Mario Mazza, first occasionally and then, from the 1940s on-

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wards, on a regular basis. “Scuola Franchetti” could rely on notable teachers, and one of them was Laura Bassi, who proposed educational experiments in various fields. It was in this school that Emma began working side by side with her sister on a regular basis. Together, they organized many public and benefit displays with pupils from several Roman schools (Zucchini 1982). In 1940 Ricordi published Laura Bassi’s main printed work, the two volumes of Rit- mica integrale. Gioco e movimento nella prima educazione musicale [Integral Rhythmics: play and movement in early music education]. Given the prestige of the publishing house, one could have expected this work to enjoy wide circulation among Italian teach- ers. Sadly, however, the copies kept at the Ricordi warehouse were destroyed by aerial bombings during the war. Ricordi only reprinted the work as late as 1971 (Bassi 1936). The Bassi method received two main acknowledgements before fading into virtual oblivion: in 1949 the General Director of Arts, Guglielmo De Angelis d’Ossat, noti- fied to the Conservatory of S. Cecilia the appointment of Laura Bassi as a teacher of Integral Rythmics courses. This was a sign of the strong need for renewal felt at the time in the educational-musical sector. What was particularly significant was that the teacher appointed to the chair had dropped out of the conservatory in her youth, precisely because of the teachings she had received there. Laura, however, could only do this job for a short time: she died on October 31, 1950. The chair was assigned to her sister Emma, the only one who was able to continue teaching the Integral Rhyth- mics method. In 1964 Emma published the small volume La ritmica integrale di Laura Bassi, which condensed the basic principles of the method in a sleek, fluent format, aimed at an easier circulation among teachers (Pampiglione Bassi 1964). The same year saw the publication of an explanatory album of rhythm-based drawings created by Laura Bassi, and edited by Maurizio Gasparotto (Il ritmogramma). The second acknowledgement came posthumously, in 1975, when the Minister of Public Education awarded the Bassi sisters the gold medal of merit in education, cul- ture and the fine arts. Emma was forced to quit teaching at the Conservatory in 1956, having reached retirement age, much to the regret of then director Guido Guerrini. The latter, in a certificate issued on July 16, 1957, expressed the wish that Signora Bassi would be given «the possibility to hand down the Method in verbal form to other teachers, so as not to deprive Italian schools of one of the most ingenious and useful didactic and educational systems» (Guerrini 1957, 1). Emma tirelessly kept on spreading her sister’s method, organizing and directing courses for both pupils and teachers, as well as taking part in exhibitions, lectures and conferences, in Italy and abroad, until her death in 1973.

Main features of the method

In her preface to the first volume of Giuoco e movimento nella prima educazione musicale, Laura Bassi explains that «My work is inspired by a childlike, joyful view of

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education. I have always been guided by the belief that children have the right to be happy, and that the task of educators is to give them happiness. This belief led me to the revelation of how important music really is in education» (Bassi 1971, Parte I, 1). Bassi thus openly talks about her idea that childhood is ‘happy’, and that teaching should be just as happy. The constrained didactic experience she went through dur- ing her conservatory years, coupled with her awareness of, and opening to, what was happening outside of Italy, led Bassi to design a method based on free, playful and fun learning: It seemed to me that modern attempts at putting colour and life in school had not giv- en enough importance to music, so I tried to let it seep into every corner of my kindergar- ten. My admiration for the thought of Dalcroze led me to the idea of imparting preliminary knowledge of music to children through games that amused them, and tuned into their men- tal and physical characteristics (Bassi 1971, Parte I, 1). For Bassi, musicality is innate in children, and can only be developed beneficially through active teaching and learning that involves the whole person, not just one part of the body and mind (as is the case with children forced to sit still and motionless at the piano for hours on end). In order to learn music, it is not necessary to start from abstract theory or instrumental practice: many aspects of music can be acquired through movement. Bassi therefore developed a series of rhythmic games aimed at representing the elements of music in different modes. More specifically, she identi- fied four rhythmic-motor activities: – musical activity, which involves singing or playing instruments; – graphic activity, the translation into graphic signs of the music being listened to; – choreographic activity, consisting in rendering a sound or musical phrase through body gestures; – oral activity, which involves inventing word games, nursery rhymes, or even just rhythmic-noise effects. By the term “Integral Rhythmics”, Lombardo Radice meant precisely the use of rhythm in its various aspects: musical, graphic, choreographic and verbal. Gian Luigi Zucchini, too, as an admirer of Laura Bassi, emphasizes that the most valuable feature of the method is the integrated rhythm-gesture-sign system. These elements are not separable, and the effectiveness of the method depends on their mutual relationship and interdependence. To carry out an Integral Rhythmics session, besides classical instruments such as the piano, a set of special objects is necessary, including five dolls that represent the first five musical values; (1) the father, calledA T , corresponds to the crotchet; (2) the girl, TE, to the quaver; (3) the puppy, TI, to the semiquaver; (4) the grand- father, BUM, to the minim; (5) the crane, GRU, to the semibreve. The purpose of the dolls is to accompany children in a cheerful way as they study musical values. In terms of graphics, Bassi contrived what she called ‘rhythmograms’, or procedures for translating musical values into graphic signs, as a preliminary stage to the ensu-

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ing acquisition of actual rhythmic writing: Under the impulse of music, the hand follows the rhythmic trace, flitting about on the they have heard, to represent them through different ‘gaits’, to beat out the rhythm with a small paper: this is how a ‘rhythmogram’ is created.instrument, In order and toto “rhythmograph”accurately reproduce the dolls. The the rhythmic musi- experience is thus explicated in the cal values, a set of corresponding, easy signs isverbal, introduced, gestural and which graphic canmodes. be written simultane- ously to the unfolding of the sounds. This set of signs constitutes our ‘rhythmic writing’. The rhythmographic signs assigned to musical values are designed in such a way that children can compose them easily while listening to music and, at a later stage, go back over them and correct them. The advantage is clear: with traditional notation you cannot possibly do a dic- tation in time with the music (Bassi 1971, Parte I, 20-21). To give an example, simple graphic signs such as long or short lines, are paired respectively to the dolls Ta and Te, which correspond to the crotchet and the quaver. Then the children are asked to do a rhythmic dictation using these signs, which are termed ‘rhythmograms’. As a variation, teachers can have children listen to a music piece and ask them to pronounce the names of the rhythmic dolls they have heard, to representthey have themheard, tothrough represent differentthem through ‘gaits’, different to ‘gaits’, beat toout beat the out rhythmthe rhythm with with a smallsmall instru- ment,instrument, and toand “rhythmograph” to “rhythmograph” the the dolls. dolls. The Therhythmic rhythmic experience experience is thus explicated is thus in theexplicated in verbal,the verbal, gestural gesturaland graphic and modes. graphic modes.

Scheme of dolls and musical values

SchemeScheme of dolls of dolls and musical and musicalvalues values Rhythm Rhythm as expressed as expressed in three forms: in percussion three forms: - drawing percussion - movement - drawing - movement

One- or two-hand rhythmograms come in four different forms: (1) free: 5 children can draw the signs as they prefer, as long as they take into account phrasing, accents and the intensity of the music they are listening to; (2) framed: the signs are drawn within pre-determined frames shown on the blackboard; (3) organized and (4) or- namental. The difference between the latter two types of rhythmogram seems to be limited to their degree of difficulty. Both should actually be carried out using pencils

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Rhythm as expressed in three forms: percussion - drawing - movement

5 One- or two-hand rhythmograms come in four different forms: (1) free: children can draw the signs as they prefer, as long as they take into account phrasing, accents and the intensity of the music they are listening to; (2) framed: the signs are drawn within pre-determined frames shown on the Laura Bassiblackboard; and The (3) Me organizedthod Call anded “ R(4)itm ornamental.ica integra lThee” difference279 between the latter two types of rhythmogram seems to be limited to their degree of difficulty. Both should actually be carried out of different colours, usingwith thepencils two handsof different moving colours, simultaneously with the andtwo inhands opposing moving di -simultaneously and in opposing rections, while closelydirections, adhering while to the closely rhythm adhering of the piece to the performed rhythm of theon piecethe piano. performed on the piano. One very interestingOne aspect very isinteresting that both aspecthands isare that drawing, both handsso that are the drawing, left hand so is that the left hand is no longer no longer subordinate,subordinate, in an attempt in an at attempt achieving at achieving symmetry symmetry of movement. of movement.

Rhythmogram drawn by a girl while listening to a Mozart piece Rhythmogram drawn by a girl while listening to a Mozart piece When focusing on verbal skills, children are invited to choose words, or even just combinations of syllables,When focusingand use themon verbal to beat skills, out children the rhythm are invited of the to piece choose being words, or even just combinations of performed on the piano,syllables, and to and accompany use them rhythmicto beat out gestures the rhythm and movements.of the piece being performed on the piano, and to The perception andaccompany translation rhythmic of rhythm gestures into andgestures, movements. drawings, and words, can be beneficial to the Thechild perception provided thatand thetranslation activities of arerhythm governed into gestures,by strict drawings,discipline: and words, can be beneficial to the child provided that the activities are governed by strict discipline: In motor exercises it is indispensable that the movement perfectly match the rhythm that underlies it. You cannotIn motormove exercisesan arm orit isa indispensableleg whenever that you the feel mov likeement it, perfectlybut only match at a certain the rhythm that underlies it. You cannot move moment, and in a certainan arm order. or a Therefore,leg whenever these you feel exercises like it, butrequire only at constant a certain controlmoment, andand inten a -certain order. Therefore, these exercises sion. Integral Rhythmicsrequir teachese constant order, control first ofand all tension. through Integral rhythm, Rhythmics which conveysteaches order, its intrinsic first of all through rhythm, which conveys its order to the child (Graziosointrinsic 1977, order 12). to the child (Grazioso 1977, 12). Bassi was a harsh Bassicritic wasof passive, a harsh memory-basedcritic of passive, learning memory-based (such as learning learning (such little as learning little tunes by heart), tunes by heart), but wasbut evenwas even harsher harsher towards towards all forms all forms of spontaneous of spontaneous activity, activity, which which she regarded as uncontrolled, she regarded as uncontrolled,self-referential, self-referential, and therefore and useless. therefore useless. Discipline is also helpedDiscipline by anis alsooriginal helped teaching by an device,original again teaching conceived device, by again Bassi: conceived by Bassi: the ‘musical the ‘musical commands’,commands’, short musical short musical phrases phrases played playedon the onpiano, the whichpiano, promptwhich prompt children to immediately children to immediatelyperform perform what what the teacher the teacher is asking is asking for. for. Rhythmic educationRhythmic also contributes education toalso the contributes development to th ofe developmentsocial skills, teachingof social skills, teaching children how to children how to behavebehave in relation in relation to others. to others. This This is why is why the therhythmic rhythmic exercises exercises pro proposed- by Bassi always have a posed by Bassi alwaysplayful have aside, playful as in side, a group as in game a group: game:

Through the exercisesThrough in which the exercises children in actwhich together, children and act together,those in andwhich those the in taskwhich to the be task to be completed is divided among completed is divided amongparticipants participants,, children realize children that realizethey are that part ofthey a whole, are part and ofought a whole, to do the and best they can to contribute to the success ought to do the best theyof the can group to contribute. To each child, to the what success their classmate of the group. is doing To acquires each child, the same what importance as what they themselves are their classmate is doingdoing acquires (Grazioso the 1977, same 12) importance. as what they themselves are doing (Grazioso 1977, 12). 6

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The second part of Integral Rhythmics addresses the notion of ‘measure’. In order to let children understand the organization of accents in measured bars, Bassi suggests to use a set of everydayThe second gestures: part theof Integral hammering Rhythmics of the addresses smith theon notionthe anvil of ‘measure’. provides In order to let children an example of upbeatunderstand attack (thethe organization smith first of lifts accents the inhammer measured and bars, then Bassi lets suggests it fall onto use a set of everyday the iron); on the contrary,gestures: an the abrupt hammering punching of the movementsmith on the isanvil similar provides to a andownbeat example ofat -upbeat attack (the smith first lifts the hammer and then lets it fall on the iron); on the contrary, an abrupt punching tack (first you delivermovement the punch is similar and thento a downbeat let your attackarm fall (first down). you deliver The titlesthe punch of these and then let your arm fall exercises, which aredown). all numbered, The titles oftenof these refer exercises, to categories which are of allworkers: numbered, «the often mowers», refer to categories of workers: «carpenters shoving»,«the etc. mowers», Children «carpenters are also shoving», taught toetc. perform Children movementsare also taught with to perform their movements with their arms, similar to thosearms, of ansimilar orchestra to those conductor. of an orchestra conductor.

Children performing an improvised rhythm, guided by a classmate Children performing an improvised rhythm, guided by a classmate Some of these rhythmic exercises seem to be aimed at producing small plays (acting had been the first, greatSome ofpassion these rhythmicof Laura exerBassi):cises for seem example to be aimed exercise at producing no. 110, small entitled plays (acting had been the «Il suonatore girovago»first, (thegreat wanderingpassion of Laura player), Bassi): is a fortune example in ¾ tempo, exercise with no. 110, a waltz-like entitled «Il suonatore girovago» accompaniment in the(the leftwandering hand andplayer), a wave-like is a tune in melody ¾ tempo, in with the aright. waltz-like On accompanimentthis music, in the left hand and played by the teacher:a wave-like melody in the right. On this music, played by the teacher: A child impersonatesA child a barrel impersonates organ a barrelplayer organ turning player turningthe crank the crank handle handle as as he looks looks around around and up to the higher floors of the buildings. When a coin falls he stops playing, picks up the coin, slips it into his pocket then resumes playing. Coins are and up to the higher floorsthrown byof histhe classmates buildings.. The When accompanist a coin interrupts falls he the stops music playing, each time picks the player up thestops turning the handle (Bassi coin, slips it into his pocket1971, Parte then II, 23) resumes. playing. Coins are thrown by his classmates. The accompanist interrupts the music each time the player stops turning the handle (Bassi 1971, Parte II, 23). As we can see, these are “animation” games aimed at conveying musical rudiments through forms of play, in which social interaction is essential. As we can see, theseAll thisare “animation”gets pupils used games to music aimed from at childhood,conveying which musical for rudimentsLaura is important first of all for through forms of play,cultural in which reasons social: «We interactiondo not need thousandsis essential. of pianists, violinists, composers, etc. in order to uplift All this gets pupilsthe used musical to music culture from of the childhood, popular classes, which we for need Laura thousands is important of good, firstpassionate music listeners» of all for cultural reasons:(Bassi 1971,«We Partedo not I, 2). need With thousands these words of Laura pianists, Bassi violinists, voices a strong compos democratic- concern, namely that music can and should be a precious, gratifying good for all citizens, regardless of whether they ers, etc. in order to possesuplift technical-performance the musical culture skills of the (Scalfaro popular 2014). classes, we need thou- sands of good, passionate music listeners» (Bassi 1971, Parte I, 2). With these words Laura Bassi voices aReviews strong anddemocratic positive opinions concern, namely that music can and should be a precious, gratifyingBetween good for the all1940s citizens, and 1950s, regardless Laura and of whetherEmma organized they posses a great technical- number of public displays as part performance skills (ofScalfaro their educational 2014). activity for “Scuola Franchetti”. Enthusiastic accounts of these events appeared in magazines during those years.

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Reviews and positive opinions

Between the 1940s and 1950s, Laura and Emma organized a great number of pub- lic displays as part of their educational activity for “Scuola Franchetti”. Enthusiastic accounts of these events appeared in magazines during those years. Teacher Ersilia Liguori writes that she once witnessed a demonstrative lesson and was astounded by it. What struck her most was the imagination-discipline duality that characterizes the method. In the games, children were able to retain their autonomy and freedom, by creating gestures or words that expressed the values they had identi- fied, and by acting independently one of the other. Moreover, Integral Rhythmics ac- customs children to use their hands and feet independently. Liguori hoped that Bassi would be allowed to fulfil her dream of establishing her own method-based school for kindergarten educators, authorized and funded by the State (Liguori 1945a, 1945b, 1954). Giovanna Dompè and Fausto Coen also gave positive reviews of the Integral Rhyth- mics displays they attended. Dompè gives an account of the final demonstration of a course, held under the aegis of the Italian Red Cross and of the United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), describing at length the diversity and complexity of the rhythmic-gestural-graphic activities performed by girls: At a signal the girls got up one after the other, and chose on their own, with surprising promptness and accuracy, the doll that matched the rhythm, and with the help of the doll they followed the rhythm itself. […] They also spoke, and spontaneously spelled out, the syl- lables of words that corresponded to the measure, for example “puppy” or “chocolate”, etc. Then the exercise got more complicated, changing from individual to collective, and started to look more like a curious, fun game. Musical phrases became longer and more complica- ted, and many more little feet appeared on the floor; the rhythm was beaten out with small instruments, which replaced the dolls; two girls went to the blackboard and with airy, quick grace translated the rhythm into graphic sings, one of them accurately accompanying the mu- sic with special graphic signs, the other blissfully drifting as she traced lines, angles, and cur- ves to create a free drawing (Dompè 1946, 4-5). Fausto Coen recounts the beautiful story of Vincenzina, a ten-year-old girl who, on the notes of a Chopin Polonaise, drew strange, beautiful flowers on the blackboard: She explained that these were the Awakening flowers. What a smart musical interpreta- tion! And she even added that “they show how Miss Bassi awakened me”. The miracle has really happened, and is condensed in the joy that emanates from these children, a joy that never lapses into nervous coarseness (Coen 1947, 1). As can be seen, Coen also emphasizes this mixture of freedom and discipline, im- agination and self-control. Emma kept a sheet on which she used to write down the most positive opinions expressed on her sister’s method by prominent figures of the music world, and of culture in general. Many of them insist on the ‘Italian’ quality of Laura Bassi’s ped- agogic-didactic proposal, not without a touch of pride: Mario Mazza maintains that

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the method does honour to pedagogy in Italy; Riccardo Allorto describes Integral Rhythmics as unique and effective, much more so than many other methods that were popular abroad; Giorgio Colarizi, along much the same lines, praises the method for doing away with the complications that are typical of a part of Northern European pedagogy. Even some foreign educationalists believed that the method of Laura Bassi brought prestige to our Country: for Wilhelm Gebhardt, for example, «it is hearten- ing to see that Italy, which has neglected the teaching of music in schools for such a long time, has now found in Integral Rhythmics a contribution to music educa- tion, which may lead to a fruitful exchange of experiences with Germany and other Countries» (Pampiglione Bassi N.D.a). Among the most significant statements, one in particular stands out: that of Carleton W. Washburne who, in a 1945 letter, shares his favourable impression about Bassi’s work with the mayor of Rome, and supports her request to establish a school for the method: Dear Prince Doria: Miss Laura Bassi asked me to write to You, and share my impres- sions about her work, in relation to her request to obtain the use of rooms, in which to carry out her program. I talked to Miss Bassi, read some of her publications, and attended one of her displays: I do not hesitate to warmly recommend her to Your attention. She provi- des children with basic tools to understand and appreciate music, she teaches them rhythmic control of their bodies, which is at the same time an excellent physical exercise, an expres- sion of grace, and an introduction to dance. She also gives them an artistic sensibility by ha- ving them do free rhythmic drawings. All this is carried out by Ms. Bassi very naturally, and elicits spontaneous and joyful responses from children. Education in Italy seriously needs the qualities that characterize the program of Miss Bassi. Therefore, it seems to me that it would be very beneficial to establish here, in Rome, a training Course for teachers, and a school for demonstrative purposes. I hope that You will be able to support this project. My very best wishes (Washburne 1945).

The sad twilight of the method

Laura Bassi’s greatest aspiration, to open a school for training teachers in her Inte- gral Rhythmics method, never became real. The State refused to grant her the spaces and means she needed to carry out the project. The reasons for this rejection are not entirely clear, and probably depended on several factors. As reported by Zucchini (1982), the idea of a joyful growth process, of a happy ‘expansive’ development of children, was not in contrast with the neo-idealistic edu- cational vision of the time, embodied by Lombardo Radice, who effectively valued and highlighted the work of Bassi. The ‘Integral Rhythmics’ method, however, also contained many innovative aspects: it stressed body and motor abilities, rediscovered the importance of physical space for good learning, encouraged graphic expression through the original invention of the rhythmogram; just as innovative was the linguistic education it proposed, based on the analysis of rhythm and word accent. Such a high concentration of innovative and modern elements, coupled with the need for specific, suitable spaces and didactic tools, which were not always easy to find (for instance, a

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large number of blackboards was needed to let all children draw at once), may partly account for Laura’s failure to raise her method to an official academic status. Admittedly, Laura Bassi was very ambitious. According to Emma, her insistence and exaggerated requests turned out to be detrimental to the chances of the project being realized. For Laura, a small space was not enough: the school she dreamed of had to be not only big, but it actually had to be located in the park of Villa Borghese. Laura had an authoritarian, surly temperament, as can be gathered from several accounts, and this did not help her, either. Emma writes that one day her mother had to quell a fight between Laura and the directress of the kindergarten where she was working, in Mistretta. Giorgio Grazioso also recalls Bassi’s continuous requests: Everywhere she went she wanted to revolutionize things, starting from the infrastructure in which she had to work. She asked for wide rooms, a garden, a vegetable garden, bathro- oms for washing children and dressing them up, gymnastics mats, small beds for the afterno- on nap, a piano, instruments of all sorts, a gramophone, an impossible number of blackbo- ards and even… a private beach (Grazioso 1977, 12). This side of her temperament made her an unwelcome presence, at least to head- masters: Her constant requests, which she addressed directly to the national Department, entirely disregarding the hierarchical communication channels, were regarded as insubordination, and irritated her immediate superiors, who eventually issued formal complaints, asking that she be moved elsewhere (Bertini 1979, 651). Her sister also remembers that Laura used to drag her down the halls of the Public Education Department building and, after a long wait outside office doors, Emma had to listen to her imprecations: «burn everything here!» Laura therefore must not have been easy to get on with, and probably lacked the precious gift of diplomacy. She pleaded her case with anybody, submitting requests and applications, and seeking the support of people in powerful positions. However, despite the interest and mediation of influential personalities such as Luigi Volpicelli, the answers she received were all negative, sometimes even harsh. In a letter dated 27 October 1942, the then General Director of the national Department of Education, Aleardo Sacchetto, urged Volpicelli to restrain Bassi and her requests: Dear Volpicelli, I received you message of the 17th of this month, to which you attached a copy of the letter sent to me on the 3rd of this month by Ms. Laura Bassi. And, while I con- firm that I have given to Bassi the possibility to fully apply her method in the 1942-43 school year, in a kindergarten in Rome, I think you will entirely agree that it would be inappropriate to present this method in an academic form, as suggested by Bassi. This would lead to the method locking itself up in an aristocratic conception, which contrasts with the fundamental guidelines of Fascist education. Moreover, I am convinced that only through long practice in a standard kindergarten will it be possible to determine whether the method proves to be widely applicable or not, if it meets the deepest needs of the multitudes of our children and suits the inner qualities of female educators, and therefore if it warrants the adoption of further measures. Finally, let me add that it will only be possible to authorize a teacher-

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training course once the experiment has completed its course of development. In sharing this information with you, I would also ask you to please inform Miss Bassi that further insistence along the lines of her previous requests would be ultimately useless as well as inappropriate (Sacchetto 1942). After the war, Bassi received higher consideration. In 1947, following the highly positive judgment of a new research committee, the Minister of Public Education, Guido Gonella, asked the State Accountancy for a five-million allocation to establish a school of Integral Rhythmics: This Department has been informed about the importance of the musical educational sy- stem of Mrs. Laura Bassi, which is aimed at awakening the rhythmic and musical sensibility of children. A special Committee has recognized the qualities of this new teaching method, which consist in the richness of its contents and of the means it employs for artistic and mu- sical education. In order to achieve the above-mentioned goals, it is necessary to set up a special School, and the estimated sum, which includes only basic necessities, would rise to five millions. I kindly request this Department to consider the possibility of supporting the establishment of the above school, and provide the corresponding funds, given the excep- tional qualities of the method, which is regarded as a major factor in the preliminary music education of the young (Gonella 1947). Having received no response, Gonella forwarded a second request the following year, again unsuccessfully: no funds were earmarked for an Integral Rhythmics school. Meanwhile, the method received further validation of its effectiveness. For example, there was a proposal by the Conservatory of S. Cecilia to introduce an Integral Rhyth- mics course in its program. This was not exactly the kind of school that Bassi had wished for, but was nonetheless a remarkable achievement. As mentioned above, Laura was only able to teach at the Conservatory for a few months, for she died prematurely in 1950. Her chair was therefore entrusted to Emma, who held it until 1956, when she was forced to go, having reached retirement age. As Guido Guerrini, director of the S. Cecilia Conservatory, regretfully recalls, in 1956 there was no one, except for Emma, who could teach the Integral Rhythmics method, so the course was discontinued. The problem was indeed to establish a school to train educators in this method. Without it, Integral Rhythmics would fade away, as was actually the case. Until the last days of her life, Emma Pampiglione Bassi tried in every way to carry out her sister’s project to set up a school for the method, but did not succeed. A glim- mer of hope seemed to appear in the 1960s, with a proposal by educationalist Burno Ciari. He had been favourably struck by the method, which he had become acquainted with thanks to Emma’s compendium, La ritmica integrale di Laura Bassi, published in 1964. In 1965 Ciari confided to Emma that he wanted to include the Integral Rhyth- mics method in the second edition of the book Le nuove tecniche didattiche, of which he was the editor. Ciari, however, made an even more interesting proposal to Emma: in October 1965 the educationalist was going to be appointed director of the public City schools of Bologna: «about 200 kindergartens, several hundreds recreation cen-

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tres, and up to two officially recognized junior high schools». And he was determined to introduce Integral Rhythmics at all school levels, citywide: The success of such an extensive, comprehensive experience could form an excellent basis for spreading this technique to other parts of Italy. Of course we should train our staff, and your help will be indispensable in this. I will soon see, when I’ll talk to the councillor for Pu- blic Education of Bologna, whether it is possible to organize summer courses in musical and rhythmic training. I do not know whether this will be possible, given that there are already so many initiatives, and the summer months are full of conferences, courses, etc. (Ciari 1965; Zucchini 1981) Ciari kept his promise and included Bassi’s method in his book, but did not suc- ceed in introducing Integral Rhythmics in the public City schools of Bologna. What is left of Integral Rhytmics in 2016? Basically, the reference publications mentioned in this article. And yet, not without a slightly polemical attitude, we should ask ourselves what it would have been like if, instead of Italy, the method had been developed in another Country. Perhaps today Integral Rhythmics would not only be a ‘historical method’ to be remembered, but would still be applied in educational settings, with appropriate updates and adjustments, just like Laura had aimed for. Al- though the Integral Rhythmics method was not specifically aimed at music education, but rather at the integral education of children through rhythm, solid technical-musi- cal competence was required of the educator: and it cannot be denied that acquiring such competence used to be, and still is, quite difficult for a preschool educator.

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Educating to Poverty: the Clares monastery in Galatina

Educare alla Povertà: le Clarisse a Galatina

This study of an old female monastic communities, present in Galatina from the early seventeenth century up to nineteenth century, is proposed to certify as to inside of the flourishing monastery Capuchin Poor Clares, which has been able, for centuries, to educate young girls to a poor lifestyle, through fasting and corporal mortification, as well as through sacred reading and prayer, imitating and celebrating the Sequela Christi. Therefore, in spite of their name Clarisse, which immediately recalls Saint Clare and her ideal of “absolute poverty”, personal and community, will emerge as this privilegium both been married only under a strictly educational profile. Il presente studio, condotto su un’antica comunità monastica femminile, presente in Galatina dai primi anni del Seicento sino all’Ottocento, si propone di attestare come all’interno del florido Monastero di Clarisse Cappuccine, essa abbia per secoli educato giovani fanciulle ad uno stile di vita povero, attraverso digiuni e mortificazioni corporali, oltre che attraverso la lettura sacra e la preghiera, imitando e celebran- do quella Sequela Christi. A dispetto della loro denominazione di Clarisse, che richiama immediatamente Santa Chiara e il suo ideale di “povertà assoluta”, personale e comunitaria, emergerà come tale privile- gium sia stato sposato solamente sotto un profilo strettamente educativo. Key words: Clares, education, poverty. Parole chiave: Clarisse, educazione, povertà.

Introduzione

Lo sguardo all’indietro effettuato da un punto di vista pedagogico e sull’asse por- tante dei valori positivi della povertà, ha fatto sì che l’attenzione ricadesse in primis sull’operato di Santa Chiara d’Assisi. E, come ha affermato B. Vetere, «scrivendo una sua Regola Chiara, di fatto, diventa, come Francesco, depositaria (eserci- tandolo) di magisterum [...]. E proprio nella tradizione benedettina la regola è detta magi- stra, in quanto codificazione del magistero dell’abate, il quale deve [...] docere [...]. L’abate in quanto depositario di doctrina, doceat, e i monaci, in quanto discipuli, vale a dire in quanto fruitori di disciplina, discant» (Vetere 1997, 134-136). Chiara, dunque, pur riconoscendo la paternità della sua forma vitae a Francesco, scrive una Regola in cui è avvertibile immediatamente la qualità di disciplina, so- prattutto se si tiene conto dei congiuntivi esortativi usati per le disposizioni riguar-

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 287-298 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.41 Anna Maria Colaci, [email protected] (Università degli Studi del Salento)

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danti tutti i momenti e modi della vita comunitaria; «in quanto disciplina, conse- guentemente, suppone il soggetto che apprende (qui discit), e il soggetto che insegna (qui docet). Scrivendo la sua Regola, Chiara, quindi, docet!» (Ivi, 136). Tuttavia, la pedagogia di Santa Chiara rappresenterebbe solo il punto di partenza per la ricerca vera e propria effettuata, dal momento che quel messaggio clariano di amare il Cristo povero attraverso quell’“educare alla povertà”, nonostante le varie modifiche canoniche che subì la sua Regola originale e autografa dopo la sua morte, rimase, e rimane, scolpito nel cuore di molte comunità monastiche che si sono susse- guite nel tempo. Prime fra tutte, le cosiddette Clarisse, la cui denominazione richia- ma immediatamente Santa Chiara e il suo ideale di povertà. La grande diffusione sul suolo italiano, ed europeo, di Monasteri di Clarisse soltanto nel corso del tardo Medioevo e in Età Moderna coinvolse anche Terra d’Otranto (Massaro 1997)1. Tuttavia, attraverso l’imposizione papale a tutte le comunità “damianite”2 della cosiddetta Seconda Regola, ossia la Regola voluta nel 1263 da papa Urbano IV, ve- niva di fatto capovolto del tutto l’ideale clariano di “povertà assoluta”, dal momento che tale Regola prevedeva, tra l’altro, l’uso di beni immobili e di rendite, possibilità vietata dalla Regola di Santa Chiara. Nasceva così, l’“Ordine di Santa Chiara” pro- priamente detto, o l’“Ordine delle Clarisse”, altrimenti dette Clarisse Urbaniste (Al- berzoni 1998, 191; Rusconi 1980, 308-309). Dunque, pur proponendo una disciplina e una pedagogia improntata al valore della povertà, attraverso la pratica di drastici digiuni e varie mortificazioni e, quindi, presentando la figura di Chiara quale ideale monastico di santità femminile, non ne riprendeva l’autentica e originale forma vi- tae, ossia quel vivere secondo il Vangelo, nell’assoluta povertà monastica e persona- le. Tuttavia, bisognerebbe esporre una precisazione, e cioè, che, a partire dagli anni trenta del Cinquecento, grazie all’opera della nobile napoletana Suor Maria Lorenza Longo, nacque una nuova comunità di Clarisse, dette Cappuccinelle, le quali ripre- sero alla lettera il privilegio di povertà assoluta caratterizzante, come si è detto, la Regola di Santa Chiara (Coco 1935, Vol. 3, 204). Tali comunità si diffusero in tutta Italia, compresa Terra d’Otranto, ma la loro Regola originaria, detta appunto Regola delle Clarisse Cappuccinelle, non si mantenne inalterata nel corso dei decenni e nelle diverse zone in cui fu adottata. Ne è un esempio, come si vedrà, il caso delle Clarisse Cappuccinelle di Galatina. La ricerca su tale comunità monastica salentina si è fon- data su fonti, per lo più inedite, conservate presso l’Archivio Diocesano di Otranto,

1 a tal riguardo, C. Massaro ha osservato che, stando alle fonti disponibili, ancora negli anni trenta del Trecento, la provincia otrantina, nonostante la presenza in essa di numerosi conventi francescani maschili, «risulterebbe estranea alle spinte innovative provenienti dal francescanesimo femminile», a differenza delle zone umbra e toscana, e anche delle vicine Terra di Bari e area materana. E, soltanto dal secondo Cinquecento, in concomitanza al forte aumento demografico locale, si avrà una diffusione più consistente del Secondo Ordine (Massaro 1997, 254-255; 274). 2 così definite tutte le comunità che adottarono la Regola di Santa Chiara, basata sul privilegio della “povertà assoluta”, cioé di una povertà sia personale che comunitaria, in quanto lo stesso Monastero doveva essere privo di ogni bene materiale. (Musardo Talò 2006, 299). Maria Pia Alberzoni, a proposito di una più Chiara denominazione, dichia- ra di preferire il termine “clariana” o “damianea” per riferirsi alla comunità di San Damiano, poiché con Damianite, a partire dall’entrata di Chiara nell’Ordine di Gregorio IX, si vuole indicare appunto le pauperes moniales reclusae, cioé le religiose dell’Ordine fondato appunto da Ugolino (Alberzoni 1998, 178).

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quali le Visite Pastorali, gli Acta Monialia, le Esclaustrazioni e le Carte Varie, tutte provenienti dall’ex Monastero delle Clarisse di Galatina. Tra le Visite selezionate è risultata di maggiore utilità quella effettuata dal Monsignor Morelli nel 1793, la cui relazione manoscritta contiene, tra l’altro, la dichiarazione esplicita del nome delle religiose di Galatina (Cappuccine dell’Ordine di S. Chiara) e della rispettiva Regola adottata, oltre che interessanti accenni alla storia del Monastero in questione (pur essendo limitata agli anni immediatamente successivi alla fondazione)3.

Cenni storici e Regola

Con la Bolla4 del 9 maggio 1618 papa Paolo V, accettando la richiesta pervenu- tagli da parte di una confraternita galatinese, detta “della Maria SS. Annunziata”, diede disposizione di erigere un Monastero di monache Cappuccine dell’Ordine di Santa Chiara «congiunto alla detta Chiesa della prefata Confraternita [...] sotto il ti- tolo della Chiesa della SS. Annunciata»5. E pochi anni dopo, grazie ad un’ulteriore

3 archivio Diocesano di Otranto (ADO), Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vincenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale; u.a. 27, fasc. 27/d, ff. 1v-8r. Tale manoscritto del 1793, che sopra è stato definito relazione della Visita del Mons. Morelli, in realtà, potrebbe non essere la relazione effettuata dallo stesso arcivescovo in conseguenza all’atto della visita vera e propria del mona- stero, in quanto non è possibile leggervi in esso la rispettiva firma, dal momento che il suddetto manoscritto risulta quasi bruscamente interrotto e le ultime due pagine sono del tutto albe; inoltre, esso è conservato in un fascicoletto a parte, pur essendo incluso nel fascicolo generale contenente la Visita Pastorale effettuata nella Diocesi di Otranto dall’arcivescovo Morelli nel 1793. Stando, però, al titolo di tale manoscritto, Delle notizie che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vincenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale, potrebbe trattarsi di un manoscritto scritto “da altri” e indirizzato al Morelli. In realtà, infatti, secondo gli studiosi che si sono interessati della generale struttura di una Visita Pastorale “tridentina”, primo fra tutti il De Aste, erano cinque le fasi di una Visita completa: innanzitutto l’Annuncio della Santa Visita, cui seguiva, secondo la prassi tridentina, l’invio di un Questionario o Catalogo di domande rivolte ai parroci in previsione della Visita, riguardanti la situazione pastorale delle rispettive parrocchie. Poi la Visita propriamente detta, che, basata sulla struttura tripar- tita di persone, luoghi e cose, consisteva nel sopralluogo di ogni struttura religiosa (chiese, cappelle, monasteri...) e prevedeva un interrogatorio “in actu visitationis”, tuttavia, sulla base del Questionario già precedentemente inviato. (Parte finale di tale Visita era costituita dalla cosiddetta Visita personale, ossia la verifica personale con il vescovo, e convisitatore, cui ogni singolo sacerdote doveva sottostare). Seguiva, l’emanazione per ogni parrocchia visitata, una Notificazione Pastorale, scopo della Visita stessa, la quale conteneva alcune disposizioni per l’avvio della riforma, soprattutto riguardo la “cura delle anime” e “disciplina del clero”. L’ultima fase della Visita era rappresentata dal Notamento di ciò che si era, o non si era, effettuato circa le disposizioni contenute nella suddetta Notificazione; esso era inviato all’arcivescovo dai singoli parroci, alcuni mesi dopo la Visita (De Aste 1706; Mengoli 2004, 55-80). Dunque, il manoscritto in questione potrebbe essere la risposta del parroco di Galatina al Questionario inviatogli dal vescovo in previsione della Visita, e non, quindi, il verbale, la relazione, della Visita al Monastero effettuata del Mons. Morelli. Ad ogni modo, le informazioni in esso contenute restano fondamentali per la presente ricerca. 4 anche il Papadia, come farà Coco, parla di una Bolla di Paolo V, ma senza specificarne l’anno di emanazione, e annotando solamente di averla consultata poiché presente nell’archivio del convento clariano galatinese. Dunque, tale Bolla “non datata”, fino al 1792 era conservata nel suddetto archivio monastico; ma al giorno d’oggi non è presente nell’Archivio diocesano otrantino, dove sarebbe dovuta pervenire insieme a tutte le altre fonti provenienti dal mona- stero di Galatina. Pertanto, al momento risulterebbe irreperibile (Papadia 1792). 5 ado, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vin- cenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale; u.a. 27, fasc. 27/d, f. 1v.

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concessione papale «nel dì otto di novembre 1620 si fece l’ingresso delle Monache e novizie nel suddetto Monistero»6. Dunque, dal 1620, anche a Galatina poté prendere avvio, non solo una vita mistica femminile, ma anche un’attività di educandato. La denominazione della comunità è importante per poter risalire alla corrispettiva Regola, dalla quale, quindi, far emergere la valenza pedagogica e, insieme, i metodi impiegati per quell’“educare alla povertà”. Infatti, come lo stesso Coco ci illumina, «la gran famiglia di di S. Chiara venne ed è tuttora divisa in due rami: le Povere Clarisse, che osservano la Prima Regola, alcune delle quali sono dette Colettane, perchè in Francia seguono la Costituzione di S. Coletta, altre Cappuccine perché seguono le costituzioni date loro dai Cap- puccini; e le Clarisse Urbaniste che osservano la Seconda Regola» (Coco1935, Vol. 3, 6)7. Circa gli avvenimenti strettamente storici del Monastero della SS. Annunzia- ta delle Clarisse Cappuccine di Galatina, bisogna premettere che, dal tempo della fondazione e da quello ad essa immediatamente prossimo in poi, pochissimo è stato possibile reperire sia dai pochi studi settecenteschi concernenti la comunità religiosa galatinese, sia dai più recenti studiosi, quali Coco e Vincenti, sia dalla consultazio- ne delle diverse visite pastorali presenti nell’Archivio Diocesano di Otranto, le quali, salvo pochissime eccezioni, si limitano generalmente a descrivere la struttura interna

Stando alle affermazioni del Papadia bisognerebbe pensare che già nel 1605, in previsione di una futura pontificia concessione di edificazione del Monastero, l’università, come tanti altri cittadini, volle elargire del denaro: «questa università di Galatina contribuì ducati mille per la fabbrica del convento nel 1605, alla qual somma aggiungesi diverse elemosine, venne la fabbrica interiamente a terminarli nel 1620, essendosi ottenuta Bolla da Paolo V per questa ere- zione» (Papadia 1792, 60). 6 ado, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vin- cenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale; u.a. 27, fasc. 27/d, f. 1r. Notizia riscontrata anche nel manoscritto settecentesco di A.T. ARCUDI, Biblioteca Provinciale di Lecce “N. Ber- nardini”, Sezione Manoscritti, A.T. ARCUDI, Relazione di S. Pietro in Galatina, vol. 19; f. 32; rinvenuto dal Vincenti (2009, 121, nota 6). 7 Erroneamente, però, Coco annovera il Monastero delle Clarisse di Galatina tra quelli che adottarono la Regola di Urbano IV, ritenendo, dunque, le monache che lo abitarono delle “Clarisse Urbaniste” (Coco1935, Vol. 3, 168). Tale notizia è contraddetta dal manoscritto del Monsignor Morelli, dove esse sono definite Cappuccine dell’Ordine di S. Chiara, denominazione che corrisponderebbe, quindi, a quella di Clarisse Cappuccine voluta dal Coco. ADO, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vincenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale; u.a. 27, fasc. 27/d, f. 1r e f. 6r. E anche nel Tasselli, tra le righe, si può leggere che le Clarisse galatinesi furono “Cappuccine”, e non “Urbaniste”, dal momento che vi si legge che le prime due monache vi giunsero dal Monastero di S. Maria degli Angeli di Brindisi, Suor Bonaventura di Gallipoli, per guardiana, o meglio, per superiora, e Suor Adrianella di Brindisi per maestra di novizie, le quali furono diciotto (Tasselli 1693, 486). Notizia presente anche nel già citati manoscritti Relazione di S. Pietro in Galatina di A.T. ARCUDI, vol. 19, f. 32 e Relazione di S. Pietro in Galatina ed altre Memorie, vol. 15, n. 4, f. 6r. (Vincenti, 2009, 121, nota 4). Quindi, dal momento che il suddetto convento brindisino fu in tutta Terra d’Otranto, un modello fondamentale per la (ri)fondazione di Monasteri di Clarisse Cappuccine (e si badi che è, tra gli altri, lo stesso Coco a presentare il Monastero di S. Maria degli Angeli come il promotore delle altre comunità salentine di Clarisse Cappuccine (Coco 1935, Vol. 3, 206), parrebbe scontato che, essendo stato avviato dalle citate monache brindisine, la nuova comunità femminile galatinese ne avesse adottato la corrispettiva Regola. Infatti, come si legge dal Papadia, ancora alla fine del Settecento le monache galatinesi «sieguono a vivere nel di loro santo istituto, conformi alle prime religiose loro madri» (Papadia 1792, 60-61).

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del convento, il numero e il nome delle suore, i beni e le suppellettili presenti all’in- terno, la Regola adottata, senza tuttavia specificarne i punti8. A detta di Coco, il Monastero fu soggetto alla soppressione napoleonica, ma dallo studioso non viene specificato con esattezza né l’anno di chiusura, né quello di riatti- vazione che, probabilmente, sarà avvenuta poco dopo il ritorno al trono di Napoli di re Ferdinando VII di Borbone, intorno al 1815, quando «molti monasteri riebbero la loro proprietà» (Coco 1935, Vol. 3, 173). L’ipotesi che il Monastero sarebbe tor- nato ad essere attivo già nel 1815, o comunque poco tempo dopo, potrebbe essere avvalorata dal fatto che nell’Archivio otrantino è conservata una copia di un Rego- lamento (che contiene disposizioni sulla dote, sui beni e sulle rendite e proveniente dal Monastero di Galatina), che riporta appunto la data del 1815 ed è firmato dal re Ferdinando9. Tuttavia, il Monastero delle Clarisse di Galatina dovette riavviarsi per bene se da una visita pastorale, effettuata nel 1841 dal Monsignor D. Andrea Gran- de, si legge che la comunità era «veramente ordinata e ben messa che aveva più di 32 Suore Clarisse. Il coro però era pic- colino e aveva solamente 18 stalli. Nel dormitorio delle educande vi era la maestra. In quello delle Monache stavano i posti per 4 o 5 educande ma divise con semplice muro. Nel dormito- rio delle novizie dormivano alcune converse, per la mancanza di spazio. Le officine erano tutte a pian terreno e ben messe tanto che il Prelato rimase contento» (Coco 1935, Vol. 3, 173)10. Nel 1866 il monastero galatinese fu investito dalla generale soppressione sabau- da11 e rimase completamente abbandonato sino all’ultimo decennio dell’Ottocen- to; negli anni Trenta del Novecento risulta adibito a scuole elementari, mentre la contigua Chiesa «ben pulita e ordinata, è oratoria della pia Associazione di S. Luigi Gonzaga» (Coco 1935, Vol. 3, 173). Oggigiorno, la Chiesa mantiene ancora la deno- minazione in onore di S. Luigi (abbandonando così quella originaria di “Chiesa della Santissima Annunziata), mentre il Monastero delle Clarisse, che è stato di recente restaurato, è un centro diurno per minori. Stando a quanto riferisce il Mons. Morelli, dunque, sin dalla fondazione del Mo-

8 valga da esempio la Visita Pastorale del Mons. Vincenzo Andrea Grande, 1841. ADO, Fondo Curia Arcive- scovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita Pastorale di Vincenzo Andrea Grande, Arcivescovo di Otranto, 1841; u.a. 36, ff. 12v-12r. Ad una tale struttura espositiva fa, comunque, eccezione la relazione del Monsignor F. Andrea Mansi, scritta in seguito alla visita pastorale da questi effettuata nel 1819, in cui, tra l’altro, dichiara «ci siamo avvertiti di esserci bisogno di non poca riforma e di una maggiore osservanza nei doveri religiosi, riservandoci in altro tempo più propizio di dare una più stretta norma di vivere e un metodo necessario per l’osservanza della vita monastica». Indicando anche alcune disposizioni disciplinari, fra cui il divieto per ogni religiosa di presentarsi alla porta, neppure per ricevere i parenti, con i quali si doveva parlare solo in parlatoio; e l’imposizione alle educande di parlare solo con i genitori e in presenza della maestra. ADO, Ivi, Visita Pastorale del Mons. Fr. Andrea Mansi, 1819, u. a. 32, f. 10. (Tale manoscritto attualmente è in fase di restauro). 9 ado, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Carteggio-Monastero S. Chiara di Galatina, Sottoserie Carte Varie, Regolamento (1815), u. a. 3. 10 ado, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita Pastorale di Vincenzo Andrea Gran- de, Arcivescovo di Otranto, 1841; u.a. 36, ff. 12v-12r. 11 Per un approfondimento generale sulla soppressione sabauda in Terra d’Otranto cfr. O. MAZZOTTA, La soppressione sabauda dei conventi nel Mezzogiorno (1861-1866). Il caso di Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo», Rivista della Società di Storia Patria, Panico, Galatina, 1998, pp. 217-228.

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nastero, la comunità religiosa cenobitica di Galatina fu composta da monache Cap- puccine dell’Ordine di Santa Chiara. Ma quale ne fu la Regola? Quali i metodi edu- cativi adottati? Si potrebbe pensare che esse dovettero rispettare e conformarsi alla Regola generale e originaria dell’Ordine delle Clarisse Cappuccine, che, come si è già detto sopra, riprendeva alla lettera, tra l’altro, e salvo alcune modifiche discipli- nari, il punto focale della Regola di Santa Chiara, cioè quel Privilegio di Povertà asso- luta, cenobitica e personale, e quella pedagogia finalizzata ad educare alla povertà, al vivere nella miseria più totale12. Ma, come è emerso dalla presente ricerca, le Clarisse Cappuccine di Galatina, a dispetto della loro denominazione, non rispettarono in toto la suddetta Regola originaria, infatti, si trattò di una ricca comunità monastica, in cui le religiose, come si vedrà, venivano soltanto educate a vivere come povere. E come povere vissero. In altri termini, queste religiose avrebbero vissuto poveramen- te, ma all’interno di un’istituzione monastica che risulterebbe proprietaria di beni mobili e immobili, frutto di donazioni, e produttrice di rendite economiche. Basti pensare che, le stesse religiose, provenienti da benestanti famiglie del loro tempo13, all’inizio della loro “professione” di suore claustrali, dovevano elargire una “dote” personale al convento14.

12 l’istituzione delle Clarisse Cappuccine ha origine in Italia e si fa risalire al 1538 grazie all’operato della nobil- donna Maria Lorenza Longo, giovane sposa dell’allora cancelliere reale di Napoli, che, rimasta vedova e guarita da gravi problemi di salute in seguito ad un pellegrinaggio a Loreto, con la proprietà ereditata effettuò molte opere di carità e volle anche fondare «un monastero di vergini dame, che lodassero continuamente il Signore e che chiamò, con licenza del Papa Paolo III, S. Maria di Gerusalemme», detto popolarmente “Delle Trentattré”. Fu la stessa abitazione napoletana della donna a costituire l’edificio monastico, in cui si trasferirono le prime donne, alle quali la nobildonna Longo propose di adottare strettamente l’osservanza della Prima Regola di Santa Chiara, già riabbracciata da Santa Coletta. Col passare del tempo, molte nobili napoletane si unirono a tale comunità, perciò Paolo III non tardò a dichiararsi prottettore del nuovo istituto, a nominare Superiora Suor Maria Lorenza e a concedere alle monache ivi presenti di professare la Prima Regola di Chiara, assoggettandole alla direzione spirituale dei Padri Cappuccini, «i quali diedero ad esse alcune norme per vivere santamente» (Coco 1935, Vol. 3, 6). Interessante a tal riguardo e utile a comprendere come si traduceva nella vita pratica la legislazione chiarista-cappuccina codificata dalla Longo, risulta interessante l’opera curata da G. Rocca (2000). Un manoscritto della seconda metà del XVI secolo, conservato nel Monastero fondato da Suor Maria Lorenza, riporta la legislazione osservata a Napoli che prevedeva l’osservanza della Prima Regola di Santa Chiara (quella approvata da Innocenzo IV nel 1253), le costituzioni approvate da Santa Coletta (approvate da Pio II nel 1454), alcune norme sulla clausura volute dalla Longo ed altre disposizioni conferite dai frati Cappuccini (Mastroianni 2012). 13 ciò è chiaramente deducibile dai cognomi delle suore che si leggono nel fascicolo degli Acta Monialia conser- vati nell’archivio diocesano otrantino, anche se riguardano un periodo che va dal 1729 al 1859. ADO, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero di S. Chiara di Galatina, Sottoserie Acta Monialia, (1729-1859), u. a. 1-83. 14 ma chi, per così dire, autorizzava le monache di Galatina a modificare, con la richiesta delladote , il punto sulla “povertà assoluta” qual era espressa nella Regola originale delle “Clarisse Cappuccine”? A tal riguardo, torna utile la già menzionata Visita Pastorale del Monsignor Morelli, in cui si legge che papa Paolo V, con la Bolla del 9 maggio 1618, «ordinò doversi erigere il Monistero di Religiose Cappuccine dell’Ordine di S. Chiara sotto il titolo della Chiesa della SS. Annunciata con una Abbadessa, o sia Prioressa, e con dodici Monache, e che in tutto fossero tredici Religiose Numerarie; talmente ché ricevendosi altre di più di detto numero, si dovessero considerare Sopranumerarie, le quali dovessero contribuire al Monistero doppia dote. La dote delle Religiose Numerarie è di duc: 200, delle Sopranumera- rie è il doppio. Si rileva dalla Bolla sudetta di Paolo V» [f. 1v]. Dunque, stando alla relazione del Monsignor Morelli, la modifica circa il punto sull’originaria “povertà assoluta” avvenne dall’“alto”. E, così modificato, esso continuò ad essere osservato ancora negli ultimi anni del Settecento, dato che nello stesso manoscritto del 1793, in riferimento alla dote, il Morelli afferma che allo stato attuale «per la Monacazione delle tredici Religiose Numerarie si pagano ducati 200. le Sopranumerarie contribuiscono per la dote il doppio delle Numerarie, cioè ducati 400; tutto ciò si è sempre

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Metodo educativo e salute delle Clarisse

Purtroppo, per l’assenza di documenti d’archivio che testimoniano l’effettivo me- todo educativo adottato da ogni singola Maestra e Superiora susseguitesi nel corso del tempo nel monastero in questione, è stato possibile delineare solo in parte l’azio- ne educativa, grazie all’opera settecentesca di Padre Bonaventura da Lama (De San- tis 2002; S. Bonaventurae 1898)15. Basterà ivi riportare come esempio il caso di due monache seicentesche: Suor Marta Muccia e di Suor Chiara Congedo. La prima dopo poco tempo dal suo ingresso in tale convento, «divenne in questa Scuola Maestra [...]. tanto divota della Passione, che meritò avere ne’ piedi due cicatrici [...]. Portava continuamente una catena grossa in tré ordini, flagellandosi ogni notte con discipline di ferro e alle fiate a sangue. Non volle mai strapontini di lana, ma un semplice pagliariccio, né mangiò mai nella menza, come l’altre Monache, ma su la nuda terra. Baciava i piedi alle Suore, lavava le scudelle, e gli utensili, e si faceva calpestare la fac- cia, accusandosi gran peccatrice[...]. Zelava sopra modo l’onore di Dio, e voleva che le Mo- nache, sbrigate le faccende del Monastero, si ritirassero in Choro per lodarlo, e ringraziarlo. Non s’intesero mai dalla sua bocca parole oziose, ma sempre discorreva delle virtù de’ Santi, per mezzo delle quali stanno ora in Cielo. Mentre fu Superiora, fece più delle altre spiccare la Carità [...], giacendo sempre in letto sì per il dolore grande, che sentiva ne’ piedi, per le due cicatrici, sì anche per la Vecchiaia, gionta all’anni novanta dell’età sua [...], cogli occhi fissi in Cielo, senz’agonia placidamente spirò nell’anno 1683» (De Santis 2002, 301-303)16.

osservato fin dalla Fondazione; ed in parte si rileva dalla Bolla di Paolo V» [f. 7r.]. Ed ancora, il Monastero, non si li- mitava a richiedere la dote alle religiose per la loro Monacazione, ma esigeva una somma di denaro anche dalle Novizie, durante l’anno del loro Noviziato, e dalle Educande per tutto il tempo del loro Educandato [f. 8v.]. E, probabilmente, anche questa disposizione fu stabilita dalla menzionata Bolla di Paolo V. Inoltre, proprio grazie a varie donazioni fondiarie, e non solo, da parte di benefattori (a tal riguardo: «Nel Monistero èvvi un libro voluminoso» [f. 8r.]) il Mo- nastero galatinese produceva rendite non indifferenti, attraverso cui provvedeva al sostentamento comunitario delle religiose ivi presenti [f. 6r.], comprese le Monache vere e proprie, nonostante esse percepissero anche un personale vitalizio [f. 8v]. Inoltre, il Monastero era tenuto anche al pagamento dello stipendio dei cappellani (che erano otto, tra cui il Confessore ordinario, il Custode della Clausura, il Procuratore del monastero, il Sacrestano, l’Organista e il Padre Lettore o Confessore Straordinario), tutti tenuti altresì a celebrare messe in giorni stabiliti, per le quali il Monastero versava anche dell’elemosina ai singoli Cappellani [ff. 5r-6v]. Del resto, se ci si sofferma sul fatto che il Procuratore, oltre a ricevere lo stipendio ordinario come unico Amministratore e Contabile del monastero, ne perce- piva anche uno straordinario per la Cavalcatura «dovendo in qualche circostanza portarsi nei Poderi del Monistero» [ff. 6v-6r, 8r.], si potrebbe, allora, avere un’idea più chiara dell’esteso patrimonio fondiario del convento galatinese! ADO, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor D. Vincenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua prima Visita Apostolica in ordine al Temporale; u.a. 27, fasc. 27/d. 15 l’accento sulla “parzialità” del metodo educativo riscontrato nel testo del Da Lama va spiegato col fatto che, senza nulla togliere al suo merito, questi ha trattato solo di quelle Maestre e Superiore che si sono distinte, tra le altre, per aver avuto la fama di “sante”, in quanto ritenute capaci di effettuare o di ricevere miracoli. Ciò che qui si vorrà mettere in evidenza è, tuttavia, il loro metodo estremo di educare ad un rigido modo di vivere in povertà, dal momento che esse stesse adottarono, fungendo da esempio per le altre sorelle, una forma vitae improntata rigorosamente alla povertà e alla penitenza, a volte oltrepassando i limiti imposti dalla stessa osservanza. 16 della stessa Monaca, come del resto farà delle altre, il Da Lama non manca di riferire azioni miracolose, come quando «ella raccolse delle rose fuori stagione per adornare il Bambin Gesù che aveva in cella», o quando prestò il proprio mantello al confessore per ripararsi dalla pioggia ed esso non si bagnò neppur minimamente (De Santis 2002, 301-303; Coco 1935, Vol. 3, 168-170).

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La seconda, Suor Chiara Congedo, rappresentava un «vero ritratto dell’Umiltà» e durante «la Quaresima di tutti i Santi non mangiò mai né Pietanza, né altro, ma si mantenne con solo granato ogni giorno. Si disciplinava più volte la settimana à sangue, costretta dall’Ubi- dienza a cessare, per non estenuare tanto il corpo, debole per l’astinenza. Essendo Superiora vide più volte l’olio cresciuto, moltiplicato il pane» (Ivi, 303; Coco 1935, Vol. 3, 170-171). Da quanto appena esposto, dunque, appare sufficientemente evidente la rigidità del metodo educativo adottato dalle Clarisse Cappuccine galatinesi, basato soprattut- to su una dieta alimentare per nulla sana ed equilibrata e sui frequenti digiuni, oltre che su non lievi mortificazioni corporee. Del resto, un simile metodo educativo non sarebbe risultato salutare non solo per le Superiore o per le Maestre che lo impartiva- no, come testimoniano i casi di malattia che caratterizzarono, come si è visto, la vita delle monache trattate dal Da Lama, ma esso, come parrebbe ovvio, dovette nuocere anche alla salute delle altre suore e, soprattutto, delle giovani educande presenti nel monastero galatinese. A tal riguardo, risultano interessanti alcune fonti archivistiche che testimoniano alcuni casi di richieste e permessi di Esclaustrazioni per motivi di salute, che, per la maggior parte dei casi, riguardano appunto le educande17. Ed ecco, dunque, tra gli altri, il caso dell’Educanda Maria Addolorata Angelini, in favore della quale, nel 1859, la Superiora espose all’allora papa, una richiesta di Esclaustrazione per motivi di salute, poiché le era stato prescritto dai medici di effet- tuare dei bagni marini18. Ma il legame tra vita claustrale e salute, e, dunque, tra quel rigido metodo di educare alla povertà, è meglio testimoniato dal seguente caso di religiosa inferma, la quale si ammalò già da quando entrò nel Monastero in qualità di Educanda, e continuò a soffrire il suo male anche quando divenne Monaca. Suor Marianna Con- gedo, infatti, fu torturata da una malattia chiamata dai medici, guarda caso, Morbo Cenobitico, il quale le procurava dolori in ogni parte del corpo e la rendeva “schele- trica”. Di conseguenza, come rimedio a tale malattia le era stato prescritto di uscire dal Monastero, in modo da soggiornare per lunghi periodi fuori da esso. Tutto ciò è

17 ado, Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero S. Chiara di Galatina, Sottoserie Esclaustrazioni (1800-1867), u. a. 1-11. Il fascicolo contenente le suddette Esclaustrazioni riguarda ben undici religiose, tutte vissute nel corso della prima metà dell’Ottocento, ed è l’unico a testimoniare il fatto che le religiose claustrali di Galatina non furono esenti da problemi di salute. Tuttavia, se, da una parte, si può osservare che quel rigido metodo di “educare alla povertà”, molto probabilmente causa dei mali di molte religiose, continuò sino all’Ottocento, dall’altra, non si dovrebbe escludere che anche alcune Clarisse galatinesi vissute nei secoli precedenti all’Ottocento, seppur essendo assenti nel suddetto Archivio le fonti a tal riguardo, avessero avuto problemi di salute. Ipotesi, d’altronde, confermata dai già visti casi, trattati dal Da Lama, di Maestre e Superiore “sante” vissute nel Seicento, le quali, al fine di impartire, adottando esse stesse, una rigida disciplina, improntata ai più alti valori di povertà e penitenza, finirono con l’ammalarsi. 18 «Reverendissimo Padre. La Priora e Religiose del Monastero di S. Chiara in Galatina, Diocesi di Otranto, umanamente espongono alla S. V. che la loro educanda donna Maria addolorata Angelini per causa di salute e per consiglio dei medici fu obbligata di uscire dalla clausura per far uso dei bagni marini. Desiderando però la ridetta dopo i bagni di rientrare nello stesso Monastero, così si fanno a supplicare la S. V. perché voglia degnarsi concedere loro le opportune facoltà onde poterla novamente ricevere nella stessa qualità di educanda. Clarisse». ADO, ivi, Richiesta di Esclaustrazione per Maria Addolorata Angelini (1859), u. a. 10, f. 1v.

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ben riferito dalla richiesta di Esclaustrazione in favore della detta religiosa, scritta nel 1818 dal Confessore Ordinario e rivolta al papa19. E, ancor più, l’attestazione della malattia di Suor Marianna Congedo da parte dei medici, ci porta a riflettere su come la vita condotta nel Monastero delle Clarisse di Galatina e la rigida disciplina ivi adottata sarebbero alla base di tale infermità:

Attestiamo noi qui sottoscritti anche col nostro giuramento, se sarà necessario, come Don- na Maria Anna Congedo monaca claustrale in questo nostro Monastero di Santa Chiara sul fiore degl’Anni suoi fù assalita da grave offesa nel sistema nervoso di sua macchina; motivo per cui si vide inabilitata non solo negl’esercizi di sua professione; ma ben anco assogettita a gravi dolori ora in una parte, ed ora in un altra, da quali incommodi nasceva non indifferente travaglio a tutta la Comunità. Domandò in questo stato gli aiuti dell’Arte salutare, né furono pochi li Professori, che posero mano a questa minestra tanto ricercati dalla Provincia, quanto dalla Capitale. Ma perché Morbus si in nervis permanerit, robaratur, & quiescit, quasi niente ricavò da tanti soccorsi somministrati con lungo stento, e con assidua assistenza. Fù obbligata finalmente con loro consiglio di ricorrere alle legitime potestà, affine di ottenere un affaccio all’aria libera, e campestre, e così mutare lo stato di sua posizione giusta quel canone fuge caelum, quod morbum fecit […]. Questo è un rapporto a Lei; ma venendo a ciò, che noi dobbiamo giudicare, non possiamo fare a meno di non distoglierla da questo sistema, come quello, che unicamente conduce alla sua salute; anzi siamo di uniforme sentimento, che seguitasse pure ad affacciarsi in ogni tem- po, e di quando in quando alla campagna per non vederla languire con pericolo della vita, come minaccia costituita in ristretto, e nella cella. E per esser questa la verità, perciò richiesti in fede del vero, abbiamo fatta la presente di nostra propria mano sottoscritta. Galatina li 20 novembre del 1818. Io Carlo Cesari Medico Ordinario attesto come sopra. Gioacchino Toma Medico Straordinario attesto come sopra20.

Per concludere

Da quanto è emerso dal presente studio, le Clarisse Cappuccine della comunità

19 «Galatina, li 3 Ottobbre 1818. Veneratissimo Monsignor mio[...], S. Marianna Congedo [...]. Questa Infelice da più anni, e quasi fin dà principj della sua Professione contrasse una seria malattia, che non le dava tregua, ed ad ora ad ora le minacciava la vita; cosicché dopo replicate cure rese inutili le venne prescritto dà Medici, tra quali anche da D. Domenico Cotugno di Napoli, che fu consultato, e che caratterizò il Morbo della Paziente: Morbo Cenobitico, di dover uscire dal chiostro interpellatamente per respirare l’aria aperta, unico rimedio escogitato per conservarle la vita. Monsi- gnor Morelli di S. M. dopo varie consulte convinto di tale indispensabile necessità, le accordò il permesso di uscire ogni giorno, ritirandosi la sera in Monastero, e quindi nelle stagioni di Primavera, e di Autunno, principiando d’Aprile per tutto Giugno, e poi da Settembre per tutto Novembre le permise ancora di trattenersi in qualche casa, o di Città, o di Campagna di suoi stretti Parenti, o di Gentiluomini accreditati, ed in tal frattempo per sollievo dell’anima sua, volendo confessarsi, e comunicarsi potesse rientrare nel Monastero, e verso la sera poi ritornare d’onde fosse venuta […]. Io spero Monsignor mio, che Vostra Santissima Illustrissima, e Reverendissima persuasa dal pressiante bisogno di questa Infelice (che per l’interruzione cotanto lunga di tal rimedio, soffre moltissimo nel suo malore, non essendovi parte nel suo corpicciuolo, che non abbia il suo particolar dolore, divenuta perciò quasi scheletro) voglia compiacersi, conceden- dole il suo beneplacito, di ridonarle quasi la vita[...]. Divotissimo obbligatissimo Sanctissimo Domenico Vignola». ADO, ivi, Richiesta di Eslaustrazione per Marianna Congedo (1818), u. a. 2, ff. 1v-1r. 20 ADO, ivi, Attestazione dei Medici, u. a. 2, ff. 1v-1r.

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monastica femminile di Galatina non adottarono il Privilegium Paupertatis proprio di S. Chiara, adottato in toto dalla Longo, la fondatrice, per l’appunto, dell’Ordine delle Clarisse Cappuccine (Coco 1935, Vol. 3, 6), altrimenti dette «Cappuccine», che vissero «sotto l’osservanza strettissima della regola di s. Chiara», quali vengono de- finite benanco nell’opera curata da G. Rocca (2000, 367-368). Le Clarisse di Galati- na, in altri termini, pur vivendo in un monastero riccamente dodato, vivevano in un regime austero sino alla mortificazione. D’altro canto, gli studi condotti sulla storia del Monachesimo femminile in Italia (Scaraffia e Zarri 1994, 22-36), attestano come, oltre alle donne che volontariamente, e per diversi motivi, si consacravano alla Ver- ginità (Duby, Perrot 1991, 134), fu soprattutto a partire dal IX e X secolo che i geni- tori esortavano le figlie ad entrare in convento per intraprendere la professione mo- nastica (Ivi, 228), spinti proprio, il più delle volte, da motivi patrimoniali e finanziari (Groppi 1994; 1998); e come, parallelamente, causa i costi elevati della pensione in monastero, nel corso dei secoli esso divenne «un luogo virtuale di educazione per una minima frangia di ricche, aristocratiche e altoborghesi» (Ivi, 133). Risvolto, del resto, ben dimostrato dall’estrazione sociale delle nostre Clarisse di Galatina. Pertan- to, tenendo presente la rigidità di quel metodo educativo, che, come è provato, fiac- cava il corpo delle religiose galatinesi, ciò che, in questa sede preme più sottolineare è il fatto che anche qui si trattò di un mondo in cui tali religiose d’élite incontrarono «un cambiamento radicale nei rapporti umani» (Ivi, 179) e, soprattutto, una sorta di rieducazione improntata al valore della Povertà individuale.

Bibliografia

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Archivi e manoscritti

Archivio diocesano di Otranto (ADO)

Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Monsignor D. Vincenzo Morelli, 1793; Delle notizie, che si danno all’Illustrissi- mo e Reverendissimo Monsignor D. Vincenzo Morelli Arcivescovo di Otranto nella sua pri- ma Visita Apostolica in ordine al Temporale; u. a. 27, fasc. 27/d. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita Pastorale del Mons. Lucio de Morra, 1607, u. a. 5. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita Pastorale di Vincenzo An- drea Grande, Arcivescovo di Otranto, 1841; u. a. 36. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Visite Pastorali, Visita Pastorale del Mons. Fr. Andrea Mansi, 1819, u. a. 32.

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Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero S. Chiara di Galatina, Sottoserie Esclaustrazioni (1800-1867), Richiesta di Esclaustrazione per Maria Addolorata Angelini (1859), u. a. 10. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero S. Chiara di Galatina, Sottoserie Esclaustrazioni (1800-1867), Richiesta di Eslaustrazione per Marianna Congedo (1818), u. a. 2. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero S. Chiara di Galatina, Sottoserie Esclaustrazioni (1800-1867), Attestazione dei Medici, u. a. 2. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Monastero di S. Chiara di Galatina, Sottoserie Acta Monialia, u. a. 1-83. Fondo Curia Arcivescovile, Sezione 1, Serie Carteggio-Monastero S. Chiara di Galatina, Sot- toserie Carte Varie, Regolamento del 1815, u. a. 3. Biblioteca Provinciale di Lecce “N. Bernardini” (B. P. L.)

Sezione Manoscritti, MANOSCRITTO ANONIMO, Relazione di S. Pietro in Galatina ed altre Memorie, vol. 15, n. 4. Sezione Manoscritti, A. T. ARCUDI, Relazione di S. Pietro in Galatina, vol. 19.

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From Robinson to Robinsonadens: myth and childhood metaphors

Dal Robinson alle Robinsonaden: il mito e le metafore d’infanzia

The article considers the Robinson Crusoe’s myth as the founder of the modern novel that, during the nine- teenth century, emerged as a strategic reading within a project of acculturation of the middle-class childhood. In order to understand the extraordinary and long-lasting appeal that the work still has on the young readers, in its various adaptations and rewritings, it is necessary not only to illustrate the fascination related to the pleasure of adventure, discovery and primitive contact with the land, but also to explore the powerful meta- phors of childhood and growth that the novel communicates, remaining strongly impressed in the childhood imagination today as in the past. L’articolo esamina il mito del Robinson Crusoe quale capostipite del romanzo moderno che si configu- ra, nel corso dell’Ottocento, come una lettura strategica nell’ambito di un progetto di acculturazione dell’infanzia borghese. Per comprendere la straordinaria e durevole attrattiva che a tutt’oggi l’opera esercita sui giovani lettori, nelle diverse riduzioni e nelle numerose riscritture, è necessario non solo illustrarne il fascino legato al piacere dell’avventura, della scoperta, del contatto primitivo con la terra, ma anche sondare le potenti metafore d’infanzia e di crescita che il romanzo comunica, imprimendosi fortemente nell’immaginario infantile oggi come ieri. Key words: Children’s Literature, Classics, Myth, Childhood Metaphors. Parole chiave: Robinson Crusoe, Letteratura per l’infanzia, Classici, Mito, Metafore d’infanzia.

«Ma io non volevo saperne d’altro che di andare per mare» D. Defoe

Una premessa

Pubblicato a Londra nell’aprile del 1719 dall’editore W. Taylor nell’ambito di una produzione libraia popolare che si rivolgeva a un pubblico di «donnette, riven- duglioli, osti, camerieri, marinai, soldati» (Calvino 2015, 106), La vita e le sorpren- denti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio1 riscuote un immediato suc-

1 il titolo completo dell’opera, di tipo “argomentativo”, per usare una categoria di Genette (1989, 71), e desti- nato ad una necessaria riduzione nelle riedizioni, nelle traduzioni e nelle rielaborazioni successive, in lingua italiana è La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio, che visse ventott’anni completamente solo in un’isola deserta sulle coste dell’America, presso la foce del gran fiume Orinoco, essendo stato gettato a riva da un naufragio, nel quale tutti perirono lui escluso, con una relazione sul modo in cui fu alfine altrettanto stranamente liberato

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 299-306 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.55 Chiara Lepri, [email protected] (Università degli Studi Roma Tre)

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cesso di critica (celebri le letture di Rousseau, di Kant, di Marx2, tra le altre) e di pubblico. In Italia, le riscritture ad uso dei ragazzi del Robinson si collocano lungo tutto l’Ottocento, in particolare nella seconda metà del secolo, in anni caratterizzati dalla diffusione della stampa educativa e dal ruolo sempre più emergente della bor- ghesia: il romanzo appare, infatti, più che mai strategico nell’ambito di un progetto di acculturazione dell’infanzia borghese, alle cui letture, intrise di precettismo e di conformismo educativo, si affianca una narrativa capace anche di intercettare gli au- tentici desideri di evasione e di svago dei giovani lettori e che più efficacemente – si ritiene – soddisfa la dimensione legata all’iniziazione, alla fantasia, al gioco. Del Robinson Crusoe voci autorevolissime hanno già scritto molto e approfondi- tamente nei diversi ambiti disciplinari: come ricordano Ascenzi e Sani, l’opera è da più parti considerata il capostipite del romanzo moderno, «il quale, rivolto in ori- gine a soddisfare il gusto dell’avventura e la passione per i viaggi e per l’esotismo della borghesia mercantile inglese in rapida ascesa, grazie all’espansione dei traffici marittimi e degli imperi coloniali, avrebbe finito ben presto per divenire una delle letture più apprezzate dalla gioventù dei nuovi ceti urbani di tutta l’Europa, nonché un’opera riguardata con crescente favore dagli stessi educatori moderni per la vera e propria esaltazione che in essa si faceva del modello di vita borghese e dei valori che lo caratterizzavano» (2017, 257). Così come a lungo è stato dibattuto del mito che il personaggio del naufrago incarna, sino ad una recente e attenta disamina che indaga il rapporto tra il Robinson, la letteratura per l’infanzia e la cultura popolare compiu- ta dallo studioso canadese Andrew O’Malley (2012). Ma perché ebbe tanto successo tra i giovani lettori? Quali i motivi per cui l’opera è annoverata a pieno titolo tra quei romanzi di cui l’infanzia si appropriò – insieme al Don Quijote di Cervantes (1615) o ai Gulliver’s Travels di Swift (1726) – in maniera durevole e pervicace, sino a su- birne il fascino ancor oggi? Perché, domanda Giorgio Manganelli, «una generazione dopo l’altra, ci lasciamo irretire da queste avventure che imparammo a conoscere nelle massicce edizioni infantili, e che ci appaiono sempre inedite; e cerchiamo e pa- ventiamo i solenni terrori, le angosce solitarie, i tremori e le misurate audacie del ma- rinaio di York? Noi sappiamo: non soccomberà sotto l’aggressione delle magnifiche,

dai pirati; scritto da lui medesimo. È noto che in principio non comparve il nome dell’autore, poiché si doveva credere che fossero le vere memorie di un naufrago. 2 rousseau, come vedremo, dichiara nell’Emile (1762) che sul Robinson dovrebbe fondarsi la formazione dell’uomo nuovo del Settecento; Kant, nelle Congetture sull’origine della storia (1786), fa del Robinson un simbolo dell’etica progressista, «perché significa l’uomo moderno nostalgico d’inesistenti età dell’oro, d’impossibili ritorni alla vita naturale, però cosciente d’aver messo in moto lui stesso un processo di civilizzazione che gl’impedisce di rientrare nell’antico stato d’innocenza; un uomo consapevole che l’innocenza non può bastargli, che lui stesso non la desidera veramente, e così rispecchia le vere caratteristiche della natura umana e del percorso umano “che va dal peggio al meglio, non dal bene al male”»; Marx scrive nell’introduzione a Per la critica dell’economia politica (1859) e nel Ca- pitale (1867) che Robinson ha «tutte le caratteristiche del borghese del ’700. È un uomo che dice di credere (come gli economisti pre-marxisti) alla Provvidenza, alla “mano invisibile”, ai meccanismi naturali del processo produttivo, come se il mondo fosse uguale nelle società primitive e in quelle moderne. Ma in effetti poi mostra che nelle società moderne anche l’individuo isolato agisce all’interno di una società nella quale i rapporti sociali s’incrociano con la cosiddetta natura. Infatti in Robinson isolamento e dipendenza dalla società si sovrappongono. Nell’isola deserta egli diventa imprenditore di se stesso: “salva dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, e comincia da buon inglese a tenere la contabilità della vita, persino della Provvidenza”» (Cavallari 1993, 13-14; 17-19).

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impersonali ondate; non perirà nell’isola, preda di belve e selvaggi; eppure sempre la storia smuove in noi intatte emozioni» (1985, 108).

Le metafore d’infanzia

Si evidenziano diversi processi che hanno sicuramente contribuito al radicamento dell’opera tra le migliori letture giovanili: quand’anche amena e ricreativa (e per que- sta si attinge a piene mani dai modelli stranieri che più dei nostrani “osano”, narrando di mondi fantastici e di straordinarie avventure3), per tutto l’Ottocento, come si è già osservato, la letteratura per l’infanzia risponde a istanze prioritariamente educative. Il Robinson costituiva un exemplum poiché consentiva di esaltare i valori di vita borghe- se, quali la fiducia nella ragione, l’operosità, lo spirito di sacrificio, l’intraprendenza, la determinazione vòlta al raggiungimento di un obiettivo. Lo testimonia anche una prefazione di Achille Mauri, politico e patriota italiano e autore, tra l’altro, del testo didattico Il libro dell’adolescenza (1835)4, a Le avventure di Robinson Crusoe ridotto ad suo della gioventù, stampato a Milano nel 1959 dal libraio Serafino Majocchi: Questa operetta destinata particolarmente a promuovere l’istruzione per la via del dilet- to ha pienamente raggiunto lo scopo prefissosi dall’egregio suo autore signor Foe col porre sott’occhio ai fanciulli ed al popolo, quanto grande sia la provvidenza divina, mercè [sic] la quale l’uomo di cui leggerete le strane ed interessanti avventure seppe lottare contro la per- versa fortuna che per tanti anni continuamente lo bersagliava. (Mauri 1859, V) Più avanti, nel giustificare il romanzo quale genere letterario non “pernicioso” per i giovani, Mauri precisa anche che: Il romanzo intrinsecamente è una letteraria composizione delle più dilettevoli. Esso corri- sponde a un bisogno della nostra intelligenza, che vuole un pascolo per quella preziosa facol- tà dell’immaginativa, che ne è fonte inesauribile di tanti innocentissimi piaceri. (VII) E in seguito ancora aggiunge, con parole illuminate: Signori miei […] l’immaginazione è congiunta con nodi fortissimi alla ragione: ella ci crea il bisogno di sollevarci oltre i limiti della realità, ma non ci permette però di ammettere, di credere alcun che di contrario, di opposto a questa stessa realità. (VIII) Queste ultime precisazioni di Mauri ci consentono di delineare un altro, natura- le motivo per cui il Robinson si impose con facilità tra le letture giovanili: indubbia-

3 «La riduzione sancisce o propone il passaggio di un testo dalla sfera adulta a quella infantile. […] Nel caso dei romances originali avviene una serie di trasposizioni e aggiustamenti che permettono il passaggio dal romance tradi- zionale a quello infantile. Le due modifiche più importanti sono: a) abbassamento dell’età del protagonista. Volendo si può passare anche a un animale perché, come il bambino, rappresenta il non pienamente umano; b) censura degli aspetti più sensazionalistici e più lontani dalla visione idealizzata della realtà infantile: niente sesso, niente allusioni esplicite alla morte, niente immagini troppo perturbanti». (Zanotti 2001, 73) 4 inizialmente stampato da Pirotta e C., Milano, il libro viene pubblicato sino al 1876 (edizione ampliata con brani scelti di autori contemporanei, Giocondo Messaggi, Milano).

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mente esso rappresenta una potente metafora d’infanzia capace di nutrire l’immagi- nario giovanile e sin dalle prima battute: ricordiamo che il padre, espressione di una media borghesia mercantile e fautore del middle station of life, spinge il figlio a farsi una posizione degna del proprio status, orgogliosamente acquisito e da mantenere, senza «nulla […] desiderare di ciò che è necessario, senza essere troppo elevato da destare invidia» (De Foe 1959, 15). Come scrive Leonardo Trisciuzzi, «il contrasto tra Robinson e il padre si riflette nel diverso valore che essi attribuiscono al nuovo status economico-sociale» (1970, 24), ma il giovane Robinson, sappiamo, è già oltre: egli vive appieno il conflitto tra l’ideale interclassista e l’incessante evoluzione sociale ed economica in atto, è perciò lacerato da emozioni contrastanti e a questo tormento sono dedicate, nell’edizione originale ed integrale, numerose pagine, in parte riprese anche nelle riduzioni per l’infanzia: il ragazzo alterna al timore l’ardente desiderio, l’impulso urgente e inderogabile a viaggiare, a conoscere come un Odisseo moderno, per evadere dall’universo familiare e protetto; al contempo, tuttavia, prova angoscia per il dolore che sa di procurare nei genitori, come si legge nel libro di lettura e di premio stampato presso la Libreria editrice di educazione e istruzione di Paolo Carra- ra in Milano (1875): Io bruciava di voglia di andare sul mare, e tale inclinazione mi rendeva tanto ostile alla volontà e perfino agli ordini del padre, mi faceva così sordo alle rimostranze, alle preghiere di mia madre e di tutti i parenti, che fin d’allora avrebbesi potuto congetturare che una specie di fatalità trascinavami secretamente verso uno stato di patimenti e di miseria. […] Una mat- tina mi chiamò nella sua camera […] e mi parlò con calore. […] Fui sinceramente tocco da quelle tenere parole, e però risolvetti di non pensar più ai viaggi e di seguire invece i consigli di mio padre. Ahi! Quella buona disposizione fuggì come un lampo […]. Un anno dopo fug- gii dal tetto paterno. (De Foë 1875, 6-8) È già questa inquietudine, questa spinta a lasciare il “guscio materno”, una me- tafora dei sommovimenti non indolori che interessano la crescita umana. Crescita che riguarda tanto la «facoltà dell’immaginativa», per usare le parole di Mauri, tanto la corporeità, qui espressione di quella tensione sprigionata da una dimensione che Celati ben definisce di «intensità libere», entro cui erompe «la violenza che risulta dal desiderio» e al tempo stesso «il terrore che sorge dalla fascinazione […]: è l’espe- rienza straordinaria vivibile solo a quel limite che è il corpo, perché il corpo sta oltre le soglie rituali della società» (1986, 28). L’inquietudine del Robinson è allora anche slancio eversivo (e perciò: eccitante, invitante) da un disciplinamento del corpo che costringe la stessa infanzia borghese destinataria del romanzo, privatizzata e amma- estrata nelle passioni, standardizzata e uniformata nelle posture: la rappresentazione del contatto col proprio corpo, teso ed esperito sino ai limiti delle sue potenzialità e della sua resistenza, e del contatto del corpo con la terra selvaggia, in Robinson Cru- soe rompe con una repressione degli impulsi corporali sui quali l’educazione formale post-unitaria esercitava un rigido controllo ed una capillare regolamentazione. Vi è, certo, in questa direzione, quasi una contraddizione: la propulsione all’attività fisica non è qui aspetto secondario, ma anzi, come riconosce Magris, investe la vita intera del personaggio, sino a restituire un piacere quasi sensuale attraverso «i ruvidi abiti

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sulla pelle, il calore del fuoco, gli odori della foresta» (Magris 2004). Tuttavia questi elementi, insieme con la costruzione della casa nel bosco, l’esplorazione dell’isola, la caccia, la paura, le preghiere, laddove non c’è il denaro, né il valore di scambio, non sono che la ‘partita doppia’ – non va dimenticato – dell’epopea borghese alla con- quista del mondo conosciuto, da colonizzare e vivificare economicamente, e costitui- scono un «Progetto, disegnato razionalmente e vissuto con passione» (Magris 2004). Ma vi sono altri aspetti che fanno del Robinson, storia menzognera e dalle eviden- ti e numerose incongruenze e illogicità, una potente metafora d’infanzia: già Rousse- au nel terzo libro dell’Emilio lo elegge a unica lettura per l’educazione dell’intelletto nel fanciullo dai dodici ai quindici anni per quelli che Calvino riconosce gli elementi «della paziente lotta dell’uomo con la materia, dell’umiltà e difficoltà e grandezza del fare, della gioia di veder nascere le cose dalle nostre mani» (Calvino 2015, 109) e che sono universalmente seducenti. Del resto la dovizia di particolari cui Defoe si dedica con metodo, così realistica, restituisce all’esperienza di lettura, ieri come oggi, un nitore tale da consentire un intenso processo di identificazione. Scrisse opportu- namente Paul Hazard che «tutto ciò che dice Robinson ha l’aria di perfetta verità; non si saprebbe dubitare della parola di un uomo così minuzioso, così preciso. Egli riferisce così bene le circostanze, moltiplica così abbondantemente i dettagli che dà alla sua storia immaginaria il carattere di realtà. […] Ci farà vedere tutto minuziosa- mente, i suoi animali, le piante del suo giardino, le mura della sua capanna, i fossati, i bastioni, le sue armi, le sue casseruole, i suoi vasi. Ogni avvenimento della sua vita prende un aspetto quasi storico; noi ne conosciamo le circostanze dettagliate, la da- ta, l’anno, il mese, il giorno. Quell’accento di scrupolosa ingenuità seduce i giovani lettori e dà loro un’impressione di sicurezza. Non dubitano più, debbono soltanto seguire il loro piacere. Non si domandano più se De Foe ha compiuto le navigazioni delle quali parla e che si possono seguire sulla carta allegata al volume: lo credono sulla parola. Distinguono appena l’autore dal libro stesso: colui che ha scritto le av- venture di Robinson, è Robinson» (Hazard 1983, 48-49). Vi è, poi, la dimensione che più di tutte appaga l’immaginazione: il topos dell’iso- la, «una sorta di spazio magico, circoscritto e verificabile nell’analisi dell’esplorazio- ne e nel racconto letterario, piccola e perfetta lente attraverso la quale osservare il mondo nella sua compiutezza» (Ruggieri 2015, 14) (Jonathan Swift, in questo senso, insegna). L’isola è indissolubilmente legata, sul piano dell’immaginario e nelle diver- se declinazioni (vicina/lontana, realistica/fantastica), all’avventura e al desiderio lu- dico-conoscitivo di esplorazione: e «l’esplorazione è – appunto – una necessità, ma è anche un divertimento. Come dice Long John Silver a Jim, egli assaporerà “the joy of exploration”. L’esplorazione è la gioia infantile di appropriarsi di un mondo nuovo, non condizionato dagli adulti» (Zanotti 2001, 12). Ma oltre questo aspetto forse più intuibile e scontato, connesso alla formazione di un immaginario ampio e variegato, va detto che l’isola è «un luogo connotato anche da risonanze pedagogiche. Ad un’i- sola si può pensare come a una metafora pedagogica, per il raccoglimento, per la se- paratezza, per l’autonomia e per la chiusura su se stessa che solo l’isola evoca» (Faeti 1986, 8). E senza dubbio la spazialità delimitata consente il misurarsi con le molte-

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plici opportunità che la realtà fisica insulare offre, opportunità non solo connesse al “farsi da sé dal niente”, ma anche all’isolamento che genera un irrinunciabile lavoro di introspezione. È necessario ricordare anche che l’isola di Robinson, pur mantenendo il fascino legato alla metafora, non è l’isola del Tesoro di Stevenson, né quella fantastica di Gulliver o – ancora – di Peter Pan. Essa ha precise coordinate geografiche: si trova nell’Oceano Atlantico, non lontano dal delta dell’Orinoco, in una zona che era parsa alla South Sea Company e allo stesso Defoe particolarmente adatta all’insediamento di una colonia inglese per le sue potenzialità commerciali (Ferrari 2007, 469). È dun- que un’isola concreta, tangibile, a tratti minacciosa. E pone il naufrago a dura prova, tanto da essere appellata da Crusoe alternativamente «Isola della Speranza» o «Isola della Disperazione». Ciò rende il mito ancora più efficace e persuasivo. E a questo certo contribuiscono un linguaggio diretto e uno stile diaristico, che avvincono e fa- cilitano lo stabilirsi di un rapporto immediato col lettore, letteralmente catturato dal- la narrazione e coinvolto in un’avventura tutta da vivere nel gioco vibrante dell’im- medesimazione: se è vero che nelle riduzioni per i fanciulli si rinvengono registri e rivisitazioni contenutistiche edulcorati (è interessante notare come l’asprezza dei toni nei dialoghi col padre, connessa al febbrile turbinìo delle emozioni in Robinson che leggiamo nell’edizione originale, nelle edizioni ridotte lascia il posto a parole senz’al- tro più condiscendenti; inoltre, se nella versione originale al rientro di Robinson in Inghilterra, dopo ben ventotto lunghi anni, i genitori sono morti, nell’edizione di Giovanni Gnocchi, Milano, 1873, Il piccolo Robinson Crusoè. Viaggi ed avventure narrati ai fanciulli, si approda a un finale consolatorio che va a ricomporre l’integri- tà della famiglia: si parla infatti, nell’ultimo capitolo, di «teneri abbracciamenti di suo padre»), tuttavia permane la narrazione in prima persona, tipica dei resoconti di viaggio. Ed è attraverso questo periodare concreto, povero di figure retoriche e vicino alla lingua comune che va riconosciuto all’autore il merito di aver costruito, anche attraverso le funzioni linguistiche e stilistiche, un personaggio straordinaria- mente efficace perché tratteggiato nelle sua complessa identità, viva e conflittuale.

Il mito: dalle Robinsonaden alle persistenze di oggi

Quanto al mito, in quegli anni e negli anni a venire, il Robinson Crusoe si impose come uno dei miti più fecondi (un mito multiforme e sfaccettato: mito del “buon selvaggio”, mito del self-help, mito dell’uomo economico, mito dell’individualismo moderno, mito dell’esotismo…). E, come mito, il personaggio ci ha dominato «non dilettandoci con una mera narrazione di eventi, ma guidandoci a taluni nodi di pri- vilegiato sgomento e rivelazione», ha felicemente osservato Manganelli (1985, 108). Dall’anno della sua pubblicazione, il Robinson vide numerosissime ristampe e tra- duzioni (in Italia la prima versione si ebbe nel 1745 dal francese, presso Domeni- co Occhi, Venezia, senza l’indicazione del nome di Defoe, giacché – appunto – si supponeva fosse l’autobiografia d’un vero naufrago). Alla fine dell’Ottocento, il li-

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bro era ormai tradotto in tutte le lingue del mondo, compreso il turco, il finnico, il bengalese, il gaelico, il neozelandese, l’estone (Faeti 1992, 6). Furono così chiama- te Robinsonaden le innumerevoli imitazioni che fiorirono inizialmente in Germania, dando avvio ad un genere letterario che si diffuse più debolmente anche in Italia (si pensi solo a I Robinson italiani di Emilio Salgari, 1897) e che per tutto il Novecento e a tutt’oggi mantiene intatto un immutato fascino, legato al piacere dell’avventu- ra, della scoperta, del contatto primitivo con la terra: pur ‘reincarnandosi’ all’infini- to, persino in «sempliciotti adattamenti» (Magris 2004), il personaggio di Robinson conserva inalterati alcuni dei propri tratti, anche nelle versioni più recenti al femmi- nile: basti pensare al racconto in chiave moderna di Bianca Pitzorno Sette Robinson su un’isola matta (1973)5, in cui la natura non è incontaminata, poiché nell’isola ci sono i segni di una civiltà avanzata e consumistica (un supermercato ben fornito e un distributore di benzina, seppur disabitati), e al cartone animato di successo Flo, la piccola Robinson, anime giapponese del 1981 ispirato a Il Robinson svizzero di Jo- hann David Wyss (1812). La letteratura per l’infanzia in particolare sembra attingere con persistenza ai topoi del naufragio, dell’isola, della natura florida e rigogliosa, ora amica, ora avversa, a dimostrazione di un mito dell’immaginario che si è nel tem- po stratificato e adattato ai diversi contesti socio-culturali per incarnare i desideri di un’infanzia sempre bisognosa di evasione e di avventura: per Trisciuzzi è possibile parlare di un naturale «contenuto pedagogico del mito». Evidentemente esso, nel- la letteratura per l’infanzia, «rappresenta l’esemplificazione di alcuni valori psichi- ci fondamentali […] in un modo forse primitivo, ma sempre spontaneo e urgente» (Trisciuzzi 1970, 1). Antonio Faeti, nel presentare la prima edizione italiana di un’al- tra straordinaria ‘robinsonata’, L’isola dello Zio Robinson di Jules Verne (1861)6, da noi conosciuta solo nei primi anni Novanta del Novecento, scrive che «sembra dun- que che i ragazzi ritrovino, in Robinson, quel loro strano desiderio che nessuno sa comprendere, quella voglia di ricominciare tutto da capo, di essere davvero prota- gonisti, di rifare il mondo, di radicalizzare le modifiche riportando tutto all’inizio, al livello zero, dove si è davvero sicuri che nulla sia ipotecato, stabilito, preordinato, or- ganizzato, determinato» (1992, 9). Primordialità, spontaneità e urgenza di costruire si delineano come paradigmi e si sostanziano, anche a dispetto dei rifacimenti più scadenti, sino a depositarsi, attraverso la storia d’un uomo solo su un’isola deserta, nell’immaginario giovanile di ieri e di oggi suscitando una inesauribile, straordinaria attrattiva e trepidazione.

5 il rifacimento di Pitzorno, inizialmente pubblicato da Bietti, Milano, esce poi dal 1988 presso Juvenilia, Ber- gamo, e dal 2000 presso Mondadori, Milano. A titolo esemplificativo, si contano le seguenti recenti edizioni per l’infanzia: narrate dal personaggio d’invenzione Geronimo Stilton, Le avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Milano: Piemme, 2011; D. Defoe, Robinson Crusoe, tradotto e adattato da F. Casa, Roma: Biancoenero, 2016 (edizioni a caratteri grandi, con CD audio, in linea con il Progetto Alta Leggibilità, che rende la fruizione più accessibile a chi ha specifiche difficoltà di lettura); inoltre vi sono le edizioni: Firenze: Giunti, 2013; Milano: De Agostini, 2015; S. Dorligo della Valle (TS): EL, 2015, riduzione di Tommaso Percivale; Milano: Nord-Sud, 2017. Tra le variazioni sul tema, si ricordano i quattro volumi di Guido Sgardoli sui Gemelli Robinson (L’isola dei misteri, Caccia al tesoro, Rotta verso la salvezza, Arrivano i nostri, Milano: Mondadori, 2016). 6 la prima edizione italiana di L’Oncle Robinson esce da Mondadori, Milano, nel 1992 nella collana “Libri per ragazzi”.

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Bibliografia

Anonimo. 1873, Il piccolo Robinson Crusoè. Viaggi ed avventure narrate ai fanciulli. Milano: Gio. Gnocchi Editore. Ascenzi, Anna, e Sani, Roberto. 2017, Storia e antologia della letteratura per l’infanzia nell’Ita- lia dell’Ottocento. Milano: Franco Angeli. Calvino, Italo. 2015, “Robinson Crusoe, il giornale delle virtù mercantili”. In Perché leggere i classici. Milano: Mondadori, 2015. Cavallari, Alberto. 1993, “L’isola della modernità”. Introduzione a Robinson Crusoe di Da- niel Defoe. Milano: Feltrinelli. Celati, Gianni. 1986, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura. Torino: Einaudi. De Foe, Daniel. 1859, Le avventure di Robinson Crusoè ridotte ad uso della gioventù e con prefazione di Achille Mauri. Milano: Majocchi. De Foë, Daniel. 1875, Vita e avventure di Robinson Crusoè. Libro di lettura e di premio, Vol. I. Milano: Libreria editrice di educazione e istruzione di Paolo Carrara. Defoe, Daniel. 1998, Le avventure di Robinson Crusoe seguite da Le ulteriori avventure e Serie Riflessioni. Torino: Einaudi. Faeti, Antonio. 1986, I tesori e le isole. Infanzia, immaginario, libri e altri media. Torino: Ei- naudi. Faeti, Antonio. 1992, “Il crudo e il cotto”. Introduzione a L’isola dello Zio Robinson di Jules Verne. Milano: Mondadori. Ferrari, Anna. 2007, Dizionario dei luoghi letterari immaginari. Torino: UTET. Genette, Gerald. 1989, Soglie. I dintorni del testo. Torino: Einaudi. Hazard, Paul. 1983, Uomini, ragazzi e libri: problemi di letteratura infantile, ieri e oggi. Roma: Armando. Magris, Claudio. 2004, “Siamo tutti Robinson Crusoe”. Il Corriere della Sera, 28 novembre. Manganelli, Giorgio. 1985, “Isole volubili”. In La letteratura come menzogna. Milano: Adelphi. Mauri, Achille. 1835, Il libro dell’adolescenza. Milano: Pirotta e C. Mauri, Achille. 1859. Prefazione a Le avventure di Robinson Crusoè ridotte ad uso della gio- ventù e con prefazione di Achille Mauri di Daniel De Foe. Milano: Majocchi. O’Malley, Andrew. 2012. Children’s Literature, Popular Culture and Robinson Crusoe. New York: Palgrave Macmillan. Pitzorno, Bianca. 1973. Sette Robinson su un’isola matta. Milano: Bietti. Ruggieri, Franca. 2015. “Dopo Itaca e Atlantide”. In Polisemie dell’isola di Franca Ruggeri (a cura di). Roma: Anicia. Trisciuzzi, Leonardo. 1970, Cultura e mito nel «Robinson Crusoe». Firenze: La Nuova Italia. Zanotti, Paolo. 2001, Il giardino segreto e l’isola misteriosa. Luoghi della letteratura giovanile, Firenze: Le Monnier.

Un sentito ringraziamento va al personale della Biblioteca Federiciana di Fano, della Biblioteca Nazio- nale Braidense di Milano, della Biblioteca Palatina di Parma e della Biblioteca Statale Isontina di Go- rizia per avere tempestivamente consentito la consultazione delle edizioni ottocentesche del Robinson.

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the reception of the Struwwelpeter in Italy

La ricezione dello Struwwelpeter in Italia

This essay deals with the editorial history and the reception of Struwwelpeter [Pierino Porcospino] in Italy. The analysis examines historical documents, literary texts and critical reflections developed over almost two centuries, and intends to show the ambiguity of Hoffmann’s work, seemingly exemplary for what concerns the 19th-century authoritarian and repressive bourgeois education but, at the same time, its deep, perhaps unconscious, critique. Il presente saggio ha come oggetto la storia editoriale e la ricezione in Italia dello Struwwelpeter, il nostro Pierino Porcospino. L’analisi prende in esame documenti storici, testi letterari e riflessioni critiche svilup- patesi nell’arco di quasi due secoli e intende mostrare l’ambivalenza dell’opera di Hoffmann, apparen- temente esemplare rispetto ai canoni dell’educazione borghese ottocentesca, autoritaria e repressiva, ma al tempo stesso sua intima, per quanto forse inconscia, critica. Key words: Struwwelpeter, Pierino Porcospino, children’s literature, picturebook history, history of educa- tion. Parole chiave: Struwwelpeter, Pierino Porcospino, letteratura per l’infanzia, storia dell’albo illustrato, storia dell’educazione.

Oh, che schifo quel bambino! È Pierino il Porcospino: egli ha l’unghie smisurate, che non furon mai tagliate. I capelli, sulla testa, gli han formato una foresta, densa, sporca, puzzolente. Dice a lui tutta la gente: Oh che schifo quel bambino È Pierino il Porcospino.

La storia editoriale dello Struwwelpeter in Italia – e con essa la storia della sua rice- zione – inizia con una quarantina d’anni di ritardo rispetto alla sua comparsa in Ger- mania, ma inizia significativamente negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando vengo- no gettate le basi, a paese da poco unificato, di una moderna letteratura per l’infanzia: nel giro di una manciata di anni Collodi pubblica Pinocchio, a puntate sul “Giornale per i bambini” (1881-2) e poi in volume (1883), mentre Salgari e De Amicis danno

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 307-324 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.78 Martino Negri, [email protected] (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

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alle stampe, rispettivamente, Le tigri di Mompracem (uscito a puntate su “La Nuova Arena”, tra 1883 e 1884, col titolo di La tigre della Malesia) e Cuore (1886). Pierino Porcospino esce nel 1882, per i tipi dell’editore-libraio milanese Ulrico Hoepli. In Italia l’opera di Hoffmann non incontrò mai un successo paragonabile a quello ottenuto nel suo paese d’origine e in altri paesi europei come Gran Bretagna e Olan- da, Svezia e Norvegia, ma ebbe i suoi lettori e non fu privo di estimatori eccellenti, nonché di imitazioni e riletture. Ripercorrere criticamente, oggi, la storia della sua ricezione in Italia offre innumerevoli spunti di riflessione non solo per chi studia la storia della letteratura per l’infanzia, ma anche per chi si occupa di storia dell’educa- zione, perché rappresenta un’occasione per riattraversarne, da una prospettiva lette- raria, alcune specifiche stagioni.

suoi lettori e non fu privo di estimatori eccellenti, nonché di imitazioni e riletture. Ripercorrere Le storiellecriticamente, allegre oggi, di laHeinrich storia della sua Hoffmann ricezione in Italia offre innumerevoli spunti di riflessione non solo per chi studia la storia della letteratura per l’infanzia, ma anche per chi si occupa di storia dell’educazione, perché rappresenta un’occasione per riattraversarne, da una prospettiva letteraria, Struwwelpeteralcune specifiche o Pierino stagioni. Porcospino, come è noto in Italia fin dalla sua prima ap- parizione1, è la prima vera icona della letteratura per l’infanzia in quanto letteratura espressameneLe storielle intesa allegre per di Heinrichun pubblico Hoffmann specifico di lettori, i bambini. È un’icona dalle forti tinte Biedermeier,Struwwelpeter o Pierino appartenente Porcospino, come a èun’epoca noto in Italia ormai fin dalla lontana,sua prima apparizione non solo1, è lada un pun- to di vista primastorico, vera icona ma della anche letteratura estetico per l’infanzia e pedagogico, in quanto letteratura eppure espressamene è senza intesa dubbioper un un’ico- pubblico specifico di lettori, i bambini. È un’icona dalle forti tinte Biedermeier, appartenente a na, impostasiun’epoca fin ormaidalla lontana, sua primanon solo apparizioneda un punto di vista nella storico, storia ma anche dell’immaginario estetico e pedagogico, collettivo, non solo tedescoeppure è masenza europeodubbio un’icona, e mondiale, impostasi fingrazie dalla allasua primaforza apparizione raggiante nella e storiaipnotica della dell’immaginario collettivo, non solo tedesco ma europeo e mondiale, grazie alla forza raggiante e sua immagine.ipnotica della sua immagine.

Fig. 01. H. Hoffmann, Pierino Porcospino, Milano, Hoepli, 1891. Fig. 1. H. Hoffmann, Pierino Porcospino, Milano, Hoepli, 1891. L’opera alla quale il personaggio dà il nome è un libriccino costituito da dieci brevi storie in versi corredate da immagini in sequenza che raccontano le trasgressioni, per lo più severamente punite, di 1 il nome,altrettanti più precisamente, personaggi: eraotto “bambini,Pierino Punaorco-Spino”, bambina e un come adulto si evinceche, pur da non una avendo recensione trasgredito al volume ad pubblicata sul “Corriere dellaalcun sera”divieto, di ègiovedì a sua volta 21 dicembre “castigato”. 1882. Scritto e illustrato dallo psichiatra francofortese Heinrich Hoffmann, il volume si inserisce nella tradizione letteraria delle “Storie di disgrazie infantili”: una tradizione che affonda le proprie radici negli exempla medievali e che avrebbe subito una precisa

1 Il nome, più precisamente, era “Pierino Porco-Spino”, come si evince da una recensione al volume pubblicata sul “Corriere della sera” di giovedì 21 dicembre 1882. 2

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L’opera alla quale il personaggio dà il nome è un libriccino costituito da dieci bre- vi storie in versi corredate da immagini in sequenza che raccontano le trasgressioni, per lo più severamente punite, di altrettanti personaggi: otto bambini, una bambina e un adulto che, pur non avendo trasgredito ad alcun divieto, è a sua volta “castiga- to”. Scritto e illustrato dallo psichiatra francofortese Heinrich Hoffmann, il volume si inserisce nella tradizione letteraria delle “storie di disgrazie infantili”: una tradi- zione che affonda le proprie radici negli exempla medievali e che avrebbe subito una precisa trasformazione in epoca illuministica, come osserva Dieter Richter nel suo fondamentale studio sulla nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo borghese (Richter 1992). Sebbene collocabile all’interno di una tradizione consolidata e in un’epoca preci- sa, dominata da una letteratura di stampo apertamente edificante, non solo in Ger- mania ma anche nel resto d’Europa, Italia compresa2, l’opera di Hoffmann rappre- senta tuttavia qualcosa di nuovo e di singolare: un oggetto letterario destinato a di- ventare il modello di tantissimi albi illustrati pubblicati nel XIX e nel XX secolo. Un modello estremamente pervasivo e persistente, da emulare e da sfruttare, ma anche da parodiare e per parodiare, prestandosi, nella sua singolarità ed esemplarità squi- sitamente letterarie – nel senso che ai due termini dà Anna Maria Bernardinis (1998, IX) – a letture e interpretazioni anche diametralmente opposte, incarnando le ten- sioni di contrastanti visioni del mondo e dell’educazione. A rendere Pierino Porcospino al tempo stesso singolare ed esemplare è l’atmosfe- ra onirica che ne avvolge e permea la maggior parte dei racconti. Un’atmosfera alla definizione della quale contribuiscono in egual misura diversi fattori, iconografici, linguistici e concettuali: dalla deformazione caricaturale delle figure alla sommarietà, più o meno accentuata, della rappresentazione degli ambienti, per altro non priva di attenzione ai dettagli narrativamente rilevanti di spazi, oggetti e personaggi, sempre esageratamente enfatizzati, fino alla sproporzione tra colpe e punizioni, tra scelte e conseguenze delle proprie scelte, che in alcuni casi conduce a situazioni macabre di gusto granguignolesco e che trova nei versi un ulteriore elemento di amplificazione nel segno dell’iperbole e dell’ironia. Aspetti che contribuiscono a rafforzare l’ipotesi di una ricezione dell’opera avvenuta fin da subito in chiave parodistica, che giustifi- cherebbe l’apprezzamento che il pubblico infantile gli ha sempre tributato. Nonostante il mutarsi dei tempi e delle visioni educative, estetiche e letterarie, le storie raccolte nello Struwwelpeter non hanno mai smesso di essere lette e discus- se, soprattutto in Germania, ora diventando oggetto di biasimo, ora di culto. Per lo psicanalista e scrittore Georg Groddeck, al contrario di quanto credono i più, Hoffmann non avrebbe affatto scritto un «libro di favole per bambini» quanto «il Cantico dei cantici dell’inconscio per adulti» (Stoccoro 2016, p. 7). Forse questo le- game con la dimensione dell’inconscio è la chiave per spiegare il mistero di un suc-

2 nel 1837, giusto una manciata di anni prima, infatti, era uscito il Giannetto di Parravicini, che sarebbe rimasto il libro più letto dai giovani italiani fino all’arrivo di Pinocchio e di Cuore (Boero e De Luca 1995, 3-4 e 12-14; Ascenzi e Sani 2016, 77-94).

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cesso tanto duraturo: in fondo sono gli adulti ad acquistare libri – come Pierino Por- cospino – espressamente destinati a lettori tra i 3 e i 6 anni. Di certo, Hoffmann offre ai bambini, al posto di storielle realistiche ed edificanti, assai poco avvincenti da leg- gere, vicende dove il confine tra reale e surreale è sottile e dove lo scivolamento dallo spazio del quotidiano a quello del fantastico assume tratti – a seconda dei casi – in- quietanti, crudeli o semplicemente onirici (come è proprio, anche, di molte fiabe) e questo rende unico e memorabile lo spazio letterario che dischiude agli occhi del lettore (Faeti 2013, 33-34 e 36).

Le traduzioni Hoepli

Pierino Porcospino si affaccia sulla scena italiana nel 1882, grazie all’intuizione di Ulrico Hoepli, libraio ed editore milanese di origini svizzere che all’epoca ave- va già alle spalle una decina di anni di esperienza nell’ambito dell’editoria tecnica e della manualistica in particolare (Decleva 2001, 29-43), e che proprio in quell’anno avviava la sua “Biblioteca per la gioventù italiana”, con autori italiani contempora- nei e classici stranieri tradotti come La capanna dello zio Tom e I viaggi di Gulliver, assumendo al contempo la consuetudine di «predisporre per Natale un nucleo di strenne da destinare alle varie fasce d’età» (Decleva 2001, 44-45). E proprio come strenna natalizia per il 1882 Pierino Porcospino vide la luce, inserendosi coerente- mente in un catalogo che, privilegiando edizioni tecniche rivolte a un pubblico non particolarmente colto, serbava una particolare attenzione agli apparati iconografici a corredo dei testi confidando nell’efficacia didattica delle immagini. Emblematico risulta in questo senso il titolo d’esordio di Hoepli nell’ambito della letteratura rivol- ta ai ragazzi, Il mondo dipinto, di pochi anni precedente, che rimanda direttamente all’Orbis sensualium pictus di Comenio, pubblicato più di due secoli prima e fondato appunto sulla consapevolezza del supporto alla comprensione garantito dalle figure (Farné 2002, 2-8 e 24-41). La pubblicazione di Pierino Porcospino è dunque intimamente coerente con la filosofia editoriale di Hoepli, soprattutto se si considera l’importanza che lo stesso Hoffmann attribuiva alle immagini per la loro capacità di colpire l’immaginazione e incidersi nella memoria del lettore, soprattutto se bambino: Il bambino impara semplicemente attraverso gli occhi e comprende unicamente ciò che vede. Non sa che farsene dei divieti e delle prescrizioni morali. Gli ammonimenti – Sii pulito! Sta’ attento coi fiammiferi e lasciali stare! Sii ubbidiente! – sono parole vuote per il bambi- no. Ma la raffigurazione di un bimbo sudicio, l’abito in fiamme, il bambino disattento a cui capita una disgrazia – queste scene si spiegano da sole attraverso la visione, da cui scaturisce anche l’insegnamento. Non a caso dice il proverbio: il dito bruciato insegna ad aver paura del fuoco. (Hoffmann 2016, 106)3

3 traduzione di Antonello Negri.

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Né deve stupire la scelta di proporre per primo al pubblico italiano lo Struwwel- peter se si considera che nei paesi di lingua tedesca, tra i quali anche la Svizzera, il volume era un classico già da decenni, vantando edizioni innumerevoli: dato non irrilevante per un editore che ha sempre avuto l’accortezza di partire dalla propria esperienza di libraio, e dunque da un’attenzione non superficiale ai gusti e alle ri- chieste dei clienti, con un occhio sempre volto alle esperienze editoriali straniere, tedesche e svizzere in particolare (Decleva 2001, 43). Pierino Porcospino fu originariamente tradotto nel 1882, ma è solo nel 1891 – quando in Germania si era già alla 170° edizione – che Hoepli pubblica la versione italiana divenuta poi classica, ovvero quella di Gaetano Negri, letterato di vasti inte- ressi umanistici e scientifici, nonché patriota e uomo politico di fermi ideali, prima deputato, poi sindaco di Milano, tra il 1884 e il 1889, e infine senatore del Regno. Proprio da senatore, nel 1891, avrebbe steso la felice versione definitiva della tradu- zione, tuttora in circolazione, come racconta Augusta Del Vecchio Veneziani: Pierino Porcospino è nato così. Nell’estate 1891, il Negri, villeggiando in Svizzera con la famiglia, veniva assillato dalle domande del suo piccolo Antonio, incuriosito dalle figure del- lo Struwwelpeter, capitatogli fra le mani in un albergo. Il padre si prese il divertimento di co- minciare a tradurre il libro in versi italiani; tornato a Milano, mostrò la traduzione all’editore Hoepli, e fu da lui incoraggiato a finirla; compiuto il lavoro, lo giudicò puerile ed avrebbe voluto, pubblicandolo, serbare l’incognito. Ulrico Hoepli riuscì a vincere la sua riluttanza; e lasciò cadere, per il Pierino del Negri, un precedente meno felice Pierino, tradotto da una donna. (Del Vecchio Veneziani 1934, 315-316) Sebbene il volume della Del Vecchio Veneziani abbia un sapore spesso apologe- tico, il passo qui trascritto è oltremodo interessante, non tanto per la dimensione aneddotica che lo caratterizza, collocando il lavoro di traduzione del Negri in un tempo di sosta estiva e di disimpegno rispetto a più austere occupazioni, quanto piuttosto per il fatto che introduce nella storia editoriale italiana dello Struwwelpeter un personaggio rapidamente finito nell’oblio, un donna di cui nemmeno è menzio- nato il nome, e una traduzione di cui si è persa ogni traccia. L’impossibilità di re- perire copie delle edizioni precedenti alla settima del 1935 non consente tuttavia di valutare quanto la traduzione originale differisse da quella di Negri, che ha avuto il merito di saper preservare la felicità ritmica dei versi hoffmanniani e la loro memo- rabilità, trovando soluzioni a volte davvero geniali ai problemi posti dalla traduzione del testo, anche, e anzi soprattutto, quando meno fedele all’originale. Pare tuttavia certo, come dimostrano i cataloghi dell’editore, che il nome che ha reso il personag- gio celebre in Italia – Pierino Porcospino – non sia da attribuire a Negri ma alla pri- ma misteriosa traduttrice dell’opera di Hoffmann, risultando come titolo dell’opera fin dal 1882. L’alta deperibilità dei libri per bambini unita al disinteresse che per lungo tempo ha caratterizzato l’atteggiamento degli studiosi rispetto a questo tipo di oggetti cultu- rali rende purtroppo impossibile ragionare su altre due opere legate al personaggio e pubblicate da Hoepli nell’ultimo decennio dell’Ottocento: il promettente I dodici

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figliuoli di Pierino Porcospino in casa di Ulrico Hoepli, del 1891, e il Pierino Porcospi- no vivente, traduzione del Lebendige Struwwelpeter (1895) di Gustav Weises, ancora una volta effettuata da Negri, al quale anzi il volume, pubblicato nel 1898, è addirit- tura attribuito. Quest’ultimo, oggi quasi introvabile4, era un libro animato con otto grandi figure mobili sul quale lo stesso Negri aveva non poche riserve, come si evin- ce da unaragionare gustosa su altre lettera due opere del legate1897: al personaggio e pubblicate da Hoepli nell’ultimo decennio dell’Ottocento: il promettente I dodici figliuoli di Pierino Porcospino in casa di Ulrico Hoepli, del 1891, e il Pierino Porcospino vivente, traduzione del Lebendige Struwwelpeter (1895) di Gustav NerviWeises – C,apolungo, ancora una 18volta luglio effettuata da Negri, al quale anzi il volume, pubblicato nel 1898, è addirittura attribuito. Quest’ultimo, oggi quasi introvabile4, era un libro animato con otto grandi Carissimofigure mobili Sig. Hsuloepli, quale lo stesso Negri aveva non poche riserve, come si evince da una gustosa i versilettera del del nuovo 1897: Pierino li ho qui. Ma prima di mandarglieli, le domando se ella è dispo- sto a pubblicarlo senza il mio nome. In primo luogo, la cosa è troppo bambinesca, perché io Nervi – Capolungo, 18 luglio ci possa, senza cadere nel ridicolo, mettere il mio nome. E poi, questo secondo Pierino è mol- to menoCarissimo spiritoso Sig. Hoepli, ed originale del primo, il quale, nella sua rozza ingenuità, non era privo di i versi del nuovo Pierino li ho qui. Ma prima di mandarglieli, le domando se ella è disposto a pubblicarlo senza il mio un certonome. sapore In primo letterario. luogo, la cosa I èl tropposecondo bambinesca, è una perché riscrittura io ci possa, consenza caderepoco nel sale. ridicolo, Modestia mettere il mioa parte, nome. il sale E poi, questo secondo Pierino è molto meno spiritoso ed originale del primo, il quale, nella sua rozza ingenuità, non era gliel’hoprivo messo di un certoio, saporenon traducendo,letterario. Il secondo ma è una inventando, riscrittura con poco quasi sale. Modestiaintieramente, a parte, il sale il gliel’hotesto, messoma èio, sempre un salenon di traducendo,qualità scadente.ma inventando, D quasiunque, intieramente, la condizione il testo, ma perè sempre avere un salei miei di qualità versi scadente. è che Dunque,si pubblichino la condizione per avere i miei versi è che si pubblichino anonimi, la seconda condizione è ch’ella mi largisca quel largo anonimi,compenso la seconda che mi ha promessocondizione nella sua è lettera,ch’ella e che, mi in realtà,largisca mi merito quel per largola grande compenso fatica che ho fatta. che […] mi ha promes- so nella sua lettera, e che, in realtà, mi merito per la grande fatica che ho fatta. […] Suo affez. Gaetano Negri5 Suo affez. Gaetano Negri5

Fig. 02. G. Weises, Lebendige Struwwelpeter [Pierino Porcospino vivente], 1895. Fig. 2. G. Weises, Lebendige Struwwelpeter [Pierino Porcospino vivente], 1895.

4 4 n eNe esiste esiste un’edizione un’edizione successiva, sempre sempre pubblicata pubblicata da Hoepli da H maoepli non ma datata non e datata col titolo e col mutato titolo in mutatoPupazzi invivi P upazzie vivi allegri. Otto quadri movibili con storielle in versi, di cui è conservato un esemplare nel Fondo Reggi della Biblioteca e allegri. delOtto Centro quadri API CEmovibili - Archivi con della storielle parola, in dell’ versiimmagine, di cui e èdell conservatoa comunicazione un esemplare editoriale dell’nel UniversitàFondo R eggidegli dellastudi di Biblioteca del CentroMilano. APICE - Archivi della parola, dell’immagine e della comunicazione editoriale dell’Università degli studi di Milano. 5 La lettera è pubblicata nel già citato volume di Del Vecchio Veneziani su Gaetano Negri (1934, 316-317). 5 la lettera è pubblicata nel già citato volume di Del Vecchio Veneziani su Gaetano Negri (1934, 316-317). 5

17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.indd 312 20/12/17 11.15 La ricezione dello Struwwelpeter in Italia 313

Segnali di incontro Segnali di incontro Sebbene non diffuso quanto nei paesi nordici, anche in Italia Pierino era letto, Sebbenecome non testimoniano diffuso quanto i lavori nei paesi di molti nordici, studiosi anche dellain Italia prima Pierino metà era del letto, Novecento, come testimoniano dove i lavoril’opera di molti di studiosiHoffmann della trova prima spazio metà soprattuttodel Novecento, in forzadove dellal’opera sua di popolarità,Hoffmann trovaunani spazio- soprattuttomemente in forza attribuita della sua alla popolarità, semplicità unanimemente dei versi e a quellaattribu itavena alla comica, semplicità nel deisegno versi dell’e e a quella- vena comica, nel segno dell’esagerazione iperbolica, che tutti gli riconoscono (Fanciulli e Monaci sagerazione iperbolica, che tutti gli riconoscono (Fanciulli e Monaci Guidotti 1928, Guidotti 1928, 121-123; Tibaldi Chiesa 1944, 311-312; Lugli 1960, 149-151), anche quando se ne 121-123; Tibaldi Chiesa 1944, 311-312; Lugli 1960, 149-151), anche quando se ne critica, come pure capita (e non solo in anni di regime), il gusto: è il caso di Giuseppe Fanciulli, per il qualecritica, la tragicità come puredegli capita insegnamenti (e non solomorali, in anniaffidati di regime),alle storielle, il gusto: rimane è il «del caso tutto di Giusep ostica -per il nostrope gusto», Fanciulli, fondandosi per il quale su «invenzioni la tragicità grossolane, degli insegnamenti lontanissime morali, dalla nostraaffidati anima alle storielle,e dalla nostra tradizione»rimane (Fanciulli «del tutto e Monaciostica per Guidotti il nostro 1928, gusto», 122-123). fondandosi su «invenzioni grossolane, Che lontanissimeper tutta la prima dalla metà nostra del anima Novecento e dalla Pierino nostra fosse tradizione» ancora molto(Fanciulli noto etra Monaci i bambini, Gui -come rappresentazionedotti 1928, 122-123).del bimbo sudicio al quale guardare con riprovazione, è dimostrato da una plaquetteC hepubblicitaria per tutta la del prima Borotalco metà del Roberts Novecento uscita P ierinonegli fosseanni ancoraTrenta, moltoche presenta noto tra –i con l’esclusionebambini, della come figura rappresentazione di Corrado che sidel succhia bimbo i pollicisudicio – tuttial quale i personaggi guardare di conHoffmann, riprova in- una traduzionezione, inè dimostratoprosa, anonima da una e molto plaquette libera, pubblicitaria ricca di tagli del e diBorotalco aggiunte, R rigorosamenteoberts uscita neglinel segno dell’ammonimento:anni Trenta, che presenta – con l’esclusione della figura di Corrado che si succhia i pollici – tutti i personaggi di Hoffmann, in una traduzione in prosa, anonima e mol- Conosceteto libera, Pierino ricca Porcospino? di tagli e No? di aggiunte, Bene, ragazzi, rigorosamente non vi auguro nel di segno assomigliargli. dell’ammonimento: Nessuno vuole andare insieme a lui e tutti lo guardano con ribrezzo… Sfido io! Da quando è nato non si è mai tagliato i capelli e la sua testaC sembraonoscete ora P unaierino selva, Porcospino? in cui egli ficcaNo? Bene,a volte ragazzi, le sue unghie non vi smisurate. auguro di Perché assomigliargli. neppure questeNessu -hanno mai conosciutono vuole andarele forbici! insieme Figuratevi a lui ecome tutti sonolo guardano lunghe e con nere! ribrezzo… Nessuna meravigliaSfido io! D chea quando la gente è sinato mostri a dito unnon ragazzo si è mai così tagliato sporco ie capelli lo chiami e la Pierino sua testa Porcospino! sembra ora (Hoffmann una selva, 1936, in cui 1) egli ficca a volte le sue unghie smisurate. Perché neppure queste hanno mai conosciuto le forbici! Figuratevi come I testisono in lungheprosa sonoe nere! accompagnati Nessuna meraviglia da alcuni che ladei gente disegni si mostri di Hoffmann, a dito un ragazzo anche cosìse lasporco natura e del rapportolo chiami esistente, Pierino nell’originale, Porcospino! tra (H sequenzaoffmann 1936, delle 1) figure e versi non viene rispettata: il fatto però che un’azienda di prodotti per l’igiene lo abbia arruolato con altri eroi della letteratura per l’infanzia I testi in prosa sono accompagnati da alcuni dei disegni di Hoffmann, anche se la come Peter Pan e il Barone di Munchausen – subito sopra il titolo, compare la dicitura N° 7, che alludenatura appunto del a rapporto una serie esistente, di riferimento nell’originale, – dimostra tra che sequenza anche in delle Italia figure l’icona e versidi Pierino non viene godeva di una certarispettata: fama. il fatto però che un’azienda di prodotti per l’igiene lo abbia arruolato con

Fig. 03. Brochure pubblicitaria Roberts (1936 circa). Fig. 3. Brochure pubblicitaria Roberts (1936 circa). Nel 1945 le Grandi Edizioni Sonore Durium pubblicano Viaggio al paese di Pierino Porcospino, «fiaba su quattro dischi infrangibili», narrata e dialogata da Alidor, musicata da Gino Negri e illustrata da Vittorio Accornero. Il racconto è costituito da quattro parti – una per ciascuno dei dischi – accompagnate da altrettante tavole a colori a piena pagina e narra del viaggio di un gruppo di bambini al paese di Grullandia, dove incontrano i personaggi del libro di Hoffmann in carne ed 17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.inddossa. La crudezza esagerata 313 delle punizioni originariamente inflitte ai disubbidienti è 20/12/17qui 11.15 decisamente addolcita, stemperata dal più bonario umore mediterraneo dell’autore dei testi e si 6 314 Martino Negri

altri eroi della letteratura per l’infanzia come Peter Pan e il Barone di Munchausen – subito sopra il titolo, compare la dicitura N° 7, che allude appunto a una serie di riferimento – dimostra che anche in Italia l’icona di Pierino godeva di una certa fama. Nel 1945 le Grandi Edizioni Sonore Durium pubblicano Viaggio al paese di Pie- rino Porcospino, «fiaba su quattro dischi infrangibili», narrata e dialogata da Alidor, musicata da Gino Negri e illustrata da Vittorio Accornero. Il racconto è costituito da quattro parti – una per ciascuno dei dischi – accompagnate da altrettante tavo- le a colori a piena pagina e narra del viaggio di un gruppo di bambini al paese di Grullandia, dove incontrano i personaggi del libro di Hoffmann in carne ed ossa. La crudezza esagerata delle punizioni originariamente inflitte ai disubbidienti è qui decisamente addolcita, stemperata dal più bonario umore mediterraneo dell’autore dei testi e si intreccia a reminiscenze pinocchiesche, tra le quali spicca, nell’ultima ta- vola, il tribunale degli animali, presieduto da un asino, che è chiamato a giudicare le colpe dei personaggi del libro di Hoffmann e a comminare adeguate ed eque puni- zioni. L’opera non è particolarmente innovativa sul piano dei contenuti, proponen- do un impasto di motivi e situazioni all’epoca già consumati dall’uso; di maggiore interesse è la forma assunta dall’insieme, con le musiche di Negri e le illustrazioni di Accornero ad accompagnare e integrare il racconto connotandone l’atmosfera – in anni in cui, ben prima delle fiabe sonore e degli audiolibri degli anni Sessanta e Set- tanta, il commercio di fiabe e testi per l’infanzia da ascoltare su supporti fonografici muoveva nel nostro paese i primi passi (Piazzoni 2007, 95) – e offrendo una testua- lità fondata sull’intreccio di tre diversi linguaggi: parole, note, immagini. Sebbene il mondo dei figurinai, da tempo sul viale del tramonto, fosse ormai sostanzialmente scomparso, soppiantato da nuove forme dell’immaginario derivanti dai modelli di- sneyani (Faeti 2013, 358-360), le tavole di Accornero hanno la qualità e le specifici- tà proprie dei migliori lavori dei costruttori di immagini della tradizione italiana tra Otto e Novecento. Sono immagini che sembrano appartenere a un’epoca più lonta- na di quella in cui apparvero: immagini che sfidano quanto detto dalle parole, nel rispetto dell’accordo segreto coi bambini intuito da Benjamin e studiato da Faeti, come dimostrano la prima e l’ultima tavola del libro. Nella prima vediamo Pierino Porcospino fuggire dal negozio del barbiere: dovrebbe avere una «capigliatura lunga e arruffata» e portare indosso «tutto il suo sudiciume», ma i capelli, ancorché lun- ghi, non sono affatto arruffati ma fluenti come un meraviglioso cespuglio subacqueo e non c’è segno di sudiciume sul suo viso angelico, né sui suoi vestiti; nella quarta tavola – dove la corte deve stabilire, per quanto riguarda la punizione di Corrado, se «tagliargli i pollici o dargli da succhiare quelli dell’oca che lo difende» – vediamo bene che i pollici son già recisi, come nell’originale. Accornero, insomma, non pare preoccuparsi troppo di quanto dicono le parole, scegliendo soluzioni che sembrano assai meno accomodanti o in linea con le intenzioni degli adulti.

17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.indd 314 20/12/17 11.15 intreccia a reminiscenze pinocchiesche, tra le quali spicca, nell’ultima tavola, il tribunale degli animali, presieduto da un asino, che è chiamato a giudicare le colpe dei personaggi del libro di Hoffmann e a comminare adeguate ed eque punizioni. L’opera non è particolarmente innovativa sul piano dei contenuti, proponendo un impasto di motivi e situazioni all’epoca già consumati dall’uso; di maggiore interesse è la forma assunta dall’insieme, con le musiche di Negri e le illustrazioni di Accornero ad accompagnare e integrare il racconto connotandone l’atmosfera – in anni in cui, ben prima delle fiabe sonore e degli audiolibri degli anni Sessanta e Settanta, il commercio di fiabe e testi per l’infanzia da ascoltare su supporti fonografici muoveva nel nostro paese i primi passi (Piazzoni 2007, 95) – e offrendo una testualità fondata sull’intreccio di tre diversi linguaggi: parole, note, immagini. Sebbene il mondo dei figurinai, da tempo sul viale del tramonto, fosse ormai sostanzialmente scomparso, soppiantato da nuove forme dell’immaginario derivanti dai modelli disneyani (Faeti 2013, 358-360), le tavole di Accornero hanno la qualità e le specificità proprie dei migliori lavori dei costruttori di immagini della tradizione italiana tra Otto e Novecento. Sono immagini che sembrano appartenere a un’epoca più lontana di quella in cui apparvero: immagini che sfidano quanto detto dalle parole, nel rispetto dell’accordo segreto coi bambini intuito da Benjamin e studiato da Faeti, come dimostrano la prima e l’ultima tavola del libro. Nella prima vediamo Pierino Porcospino fuggire dal negozio del barbiere: dovrebbe avere una «capigliatura lunga e arruffata» e portare indosso «tutto il suo sudiciume», ma i capelli, ancorché lunghi, non sono affatto arruffati ma fluenti come un meraviglioso cespuglio subacqueo e non c’è segno di sudiciume sul suo viso angelico, né sui suoi vestiti; nella quarta tavola – dove la corte deve stabilire, per quanto riguarda la punizione di Corrado, se «tagliargli i pollici o dargli da succhiare quelli dell’oca che lo difende» – vediamo bene che i pollici son già recisi, come nell’originale. Accornero, insomma, non pare preoccuparsiLa ricezione troppo dello di Struwwelpeterquanto dicono le parole, in Italia scegliendo soluzioni che315 sembrano assai meno accomodanti o in linea con le intenzioni degli adulti.

Fig. 04. Viaggio al paese di Pierino Porcospino, Milano, Durium, 1945. Fig. 4. Viaggio al paese di Pierino Porcospino, Milano, Durium, 1945.

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Figg. 05-06. Viaggio al paese di Pierino Porcospino, Milano, Durium, 1945. Figg. 5-6. Viaggio al paese di Pierino Porcospino, Milano, Durium, 1945.

Le riletture contestatarie degli anni Sessanta e Settanta Le riletture contestatarie degli anni Sessanta e Settanta Gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo segnano per Pierino Porcospino – «sessantottino con centovent’anni di anticipo», secondo la felice definizione di Sergio Stocchi (1986, 18) – un momentoGli anni di riscossa. Sessanta La e suaSettanta carica delpotenzialmente XX secolo eversiva, segnano chiara per Paiierino bambini Porcospino fin dalla sua– comparsa«sessantottino e già nel con 1847 centovent’anni emblema di una di anticipo»,posizione radicale secondo anche la felice in ambito definizione politico 6di, assume Ser- nuovegio Stocchi forme: (1986,ora offrendosi 18) – un comemomento un’occasione di riscossa. per Lmetterea sua caricain discussione potenzialmente la dimensione ever- fortementesiva, chiara repressiva ai bambini dei modelli fin dalla educativi sua comparsa tradizionali, e oragià come nel 1847 un’impietosa emblema messa di unain scena posi del- difficilezione radicalerapporto traanche adulti in e ambito bambini politico – tra logica6, assume degli adulti nuove e logicaforme: dei ora bambini offrendosi – e della come crisi dell’autorità paterna, spesso ridicolizzata, sebbene nell’ottica di una possibilità di riconciliazione nel segno dell’utopia. A partire dalla fine degli anni Sessanta, infatti, il classico tedesco ha visto il fiorire,6 nancheel 1847, in nel Italia, clima dieffervescente riletture chee riscritture, preludeva ai variamente moti rivoluzionari riuscite del 1848, da un un puntogiornale di umoristico vista estetico di larga e letterario,diffusione, mail Fliegende estremamente Blätter aveva interessanti pubblicato inuna quanto caricatura segnali di Pierino di uninteso più come ampio radicale discorso, (Der Struwwlpeter intensamente als politico, di contestazione di alcuni aspetti caratteristici dei modelli educativi tradizionali, figli dell’ideologia borghese ed espressione di un rapporto tra adulti e bambini fortemente sbilanciato a favore delle ragioni dei primi rispetto a quelle dei secondi. Sono anni di svolta culturale, anche nell’ambito della letteratura per l’infanzia: con l’uscita delle opere più felici di Rodari e la multiforme attività di Munari, ma anche con la nascita della Emme Edizioni di Rosellina Archinto, 17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.inddche ebbe un ruolo di 315fondamentale importanza, non solo nel rinnovamento dell’editoria rivolta20/12/17 11.15 all’infanzia, soprattutto per quanto riguarda la forma dell’albo illustrato, ma anche in quello della riflessione pedagogica più avanzata e coraggiosa (Farina 2013). In un contesto tanto effervescente e attraversato da una tensione verso il cambiamento nel segno dell’utopia, della liberazione dell’umano in tutti i suoi aspetti e di una rinnovata attenzione nei confronti dei bambini e dei loro diritti, anche in relazione al genere7, Pierino Porcospino pare assumere tratti e funzioni differenti. Per un verso continua a circolare come classico, sia nelle

6 Nel 1847, nel clima effervescente che preludeva ai moti rivoluzionari del 1848, un giornale umoristico di larga diffusione, il Fliegende Blätter aveva pubblicato una caricatura di Pierino inteso come radicale (Der Struwwlpeter als Radikaler) e l’anno seguente lo stesso Hoffmann pubblicò uno scherzoso Handbüchlein für Wühler, oder kurzgefasste Anleitung, in weningen Tagen ein Volksmann zu werden [Manualetto per agitatori, ovverossia corso accelerato per diventare in pochi giorni un perfetto proletario] firmandosi Peter Struwwel. 7 Penso a esperienze editoriali come quella di Adela Turin, fondatrice di una casa editrice, nel 1975, il cui nome – Dalla parte delle bambine – non è solo una dichiarazione di poetica, ma un grido di battaglia. 8 316 Martino Negri

un’occasione per mettere in discussione la dimensione fortemente repressiva dei mo- delli educativi tradizionali, ora come un’impietosa messa in scena del difficile rap- porto tra adulti e bambini – tra logica degli adulti e logica dei bambini – e della crisi dell’autorità paterna, spesso ridicolizzata, sebbene nell’ottica di una possibilità di ri- conciliazione nel segno dell’utopia. A partire dalla fine degli anni Sessanta, infatti, il classico tedesco ha visto il fiorire, anche in Italia, di riletture e riscritture, variamente riuscite da un punto di vista estetico e letterario, ma estremamente interessanti in quanto segnali di un più ampio discorso, intensamente politico, di contestazione di alcuni aspetti caratteristici dei modelli educativi tradizionali, figli dell’ideologia bor- ghese ed espressione di un rapporto tra adulti e bambini fortemente sbilanciato a favore delle ragioni dei primi rispetto a quelle dei secondi. Sono anni di svolta cul- turale, anche nell’ambito della letteratura per l’infanzia: con l’uscita delle opere più felici di Rodari e la multiforme attività di Munari, ma anche con la nascita della Em- me Edizioni di Rosellina Archinto, che ebbe un ruolo di fondamentale importanza, non solo nel rinnovamento dell’editoria rivolta all’infanzia, soprattutto per quanto riguarda la forma dell’albo illustrato, ma anche in quello della riflessione pedagogica più avanzata e coraggiosa (Farina 2013). In un contesto tanto effervescente e attraversato da una tensione verso il cambia- mento nel segno dell’utopia, della liberazione dell’umano in tutti i suoi aspetti e di una rinnovata attenzione nei confronti dei bambini e dei loro diritti, anche in rela- zione al genere7, Pierino Porcospino pare assumere tratti e funzioni differenti. Per un verso continua a circolare come classico, sia nelle edizioni Hoepli (l’undicesima è del 1969), sia come figura letteraria ormai appartenente all’immaginario collettivo, come testimonia la sua presenza nel primo volume dell’opera enciclopedica I quin- dici: i libri del come e del perché, di vastissima diffusione presso il pubblico italiano dell’epoca, dove compare significativamente nella sezione “Così per ridere”, tra i li- merick di Edward Lear e i versi di Antonio Rubino. Per l’altro, Pierino assume si- gnificati inediti, diventando una vera e propria icona della contro-educazione conte- stataria di quegli anni: non è un caso se, nel 1972, il volume antologico sul tema del monello nel fumetto curato da Marcelo Ravoni e Valerio Riva ha per titolo I cento volti a fumetti di Pierino la peste e presenta l’eroe di Hoffmann già nel frontespizio, come una vera e propria icona, figura mitica dell’origine. Se è la Emme Edizioni ad aprire la strada a una rilettura della figura di Pierino e dei suoi fratelli ribelli, con Marcellina e i mostri (1968) e con Pierino e i suoi amici (1976), sono però le Nuove Edizioni Romane a pubblicare quello che rappresenta forse la riscrittura più coerentemente rappresentativa di quella stagione e al tempo stesso anche la sua chiusura: l’Anti-PierinoPorcospino di Waechter. Mentre Marcellina e i mostri è un albo dalla struttura narrativa e verbo-visuale

Radikaler) e l’anno seguente lo stesso Hoffmann pubblicò uno scherzoso Handbüchlein für Wühler, oder kurzgefasste Anleitung, in weningen Tagen ein Volksmann zu werden [Manualetto per agitatori, ovverossia corso accelerato per diventare in pochi giorni un perfetto proletario] firmandosi Peter Struwwel. 7 penso a esperienze editoriali come quella di Adela Turin, fondatrice di una casa editrice, nel 1975, il cui nome – Dalla parte delle bambine – non è solo una dichiarazione di poetica, ma un grido di battaglia.

17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.indd 316 20/12/17 11.15 edizioni Hoepli (l’undicesima è del 1969), sia come figura letteraria ormai appartenente all’immaginario collettivo, come testimonia la sua presenza nel primo volume dell’opera enciclopedica I quindici: i libri del come e del perché, di vastissima diffusione presso il pubblico italiano dell’epoca, dove compare significativamente nella sezione “Così per ridere”, tra i limerick di Edward Lear e i versi di Antonio Rubino. Per l’altro, Pierino assume significati inediti, diventando una vera e propria icona della contro-educazione contestataria di quegli anni: non è un caso se, nel 1972, il volume antologico sul tema del monello nel fumetto curato da Marcelo Ravoni e Valerio Riva ha per titolo I cento volti a fumetti di Pierino la peste e presenta l’eroe di Hoffmann già nel frontespizio,La comericezione una vera e dello propria icona, Struwwelpeter figura mitica dell’origine. in Italia 317 Se è la Emme Edizioni ad aprire la strada a una rilettura della figura di Pierino e dei suoi fratelli ribelli, con Marcellina e i mostri (1968) e con Pierino e i suoi amici (1976), sono però le Nuove Edizioni Romane a pubblicare quello che rappresenta forse la riscrittura più coerentemente estremamenterappresentativa semplice di quella e regolare,stagione e al tempoavendo stesso per anche protagonista la sua chiusura: l’ Anti-PierinoPorcospinouna versione al femmini- le del personaggiodi Waechter. di Hoffmann, Marcellina, che vive un’esperienza di trasgressione e Mentre Marcellina e i mostri è un albo dalla struttura narrativa e verbo-visuale estremamente rivolta lungasemplice una e giornata,regolare, avendo i testi per diprotagonista François una Rversioneuy-Vidal, al femminile adattati del apersonaggio partire dadi quelli di Hoffmann,Hoffmann, e le illustrazioni Marcellina, che vivedi Cun’esperienzalaude Lapointe, di trasgressione non e rivolta nuovo lunga a unariletture giornata, ipoliticizzate testi di di François Ruy-Vidal, adattati8 a partire da quelli di Hoffmann, e le illustrazioni di Claude Lapointe, grandi classicinon nuovo per a riletturel’infanzia politicizzate, rendono di grandi P classiciierino per e l’infanziai suoi amici8, rendono un Pierino oggetto e i suoi letterario amici deci- samente piùun oggetto complesso letterario decisamentee interessante più complesso nella estoria interessante della nella riscossa storia della di riscossa Pierino di Pierino Porcospino. Porcospino.

Fig. 08. F. Roy-Vidal, C. Lapointe, Pierino e i suoi amici, Milano, Emme Edizioni, 1976. Fig. 7. F. Roy-Vidal, C. Lapointe, Pierino e i suoi amici, Milano, Emme Edizioni, 1976. Pur rispettando l’architettura del volume ottocentesco, le dieci storie indipendenti attualizzano le scene proposte da Hoffman, ora rilanciandone la morale originale ora assumendo nuovi significati e Pur rispettandodischiudendo prospettivel’architettura inedite sul del rapporto volume tra mondo ottocentesco, degli adulti e mondo le dieci dei bambini. storie Nelle indipenden - ti attualizzanostorie che le appartengono scene proposte al primo gruppo da H a offman,cambiare sono ora sostanzialmente rilanciandone solo ambientazioni la morale e originale

ora assumendo8 Emblematico, nuovi in questo significati senso, il Pollicino e illustrato dischiudendo per le edizioni E.Elle prospettive nel 1974. inedite sul rapporto tra mondo degli adulti e mondo dei bambini. Nelle storie che appartengono9 al primo gruppo a cambiare sono sostanzialmente solo ambientazioni e aspetto dei personag- gi, che vantano abiti e acconciature anni Settanta, mostrando a distanza di più di un secolo quanto il libro di Hoffmann rappresentasse in fondo anche un «divertente manuale del buonsenso», per dirla con Jack Zipes, dove è illustrato attraverso im- magini eloquenti cosa succede esattamente ai bambini che non si comportano come dovrebbero (Zipes 1999, 8). Altre storie, invece, mutano profondamente, a testimonianza di un nuovo clima cul- turale. Risultano esemplari, in questo senso, le storie di Pierino, di Corrado e di Ber- nardo. Pierino assume le fattezze di una vera e propria icona hippy: scalzo, la chioma lussureggiante sul capo, indossa abiti variopinti dal taglio vagamente orientale e siede sul ramo di un albero difendendolo dalla minaccia delle ruspe. Il «no!» che grida ai suoi avversari condensa meravigliosamente il coraggio della sua posizione: Pierino è an- ticonformista, «combatte i regolamenti» e per questo «è scandalo delle genti», ma vibra

8 emblematico, in questo senso, il Pollicino illustrato per le edizioni E.Elle nel 1974.

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in lui anche un animo ecologico che, sebbene assente nel personaggio di Hoffmann, era già emerso in altre riletture, tra cui quella offerta da Fried Stern nel 1914 col suo Struwwelpeter von Heute [Il Pierino Porcospino di oggi]. Altrettanto indicativa è la ri- visitazione della storia di Roberto che vola, qui diventato “Bernardo il contestardo”; come Roberto, Bernardo è portato via dal vento durante il temporale, ma la sua spari- zione viene ora letta come metafora di una posizione politica inadeguata: Nel punto esatto della sparizione murarono questa iscrizione: «Bernardo rifiutava ogni concessione. Il vento se l’è portato via. È stata un’ottima soluzione». Ma l’indomani un burlone corresse così la dizione: «Sparire è sempre una pessima solu- zione. Bernardo avrebbe fatto meglio a fare la rivoluzione». (Roy-Vidal e Lapointe 1976, 38) È però la “Storia crudele ma coerente di Corradino succhiapollici” a illustrare nel modo più esplicito la problematizzazione del rapporto tra adulti e bambini, se- gnato com’è dallo stigma della più profonda ipocrisia: gli adulti, infatti, pretendo- no dai bambini comportamenti – nel segno di un sacrificio del principio di piacere – che loro per primi non sono in grado di assumere. Corrado, come nell’originale di Hoffmann, non riesce a rinunciare a succhiarsi i pollici e pagherà il fio della sua colpa, anche se solo in sogno, con la tradizionale mutilazione/castrazione, qui perpe- trata da un sarto che ha assunto i panni di un inquietante super-eroe con maschera, mantello e tutina colorata: dove lo stratagemma dello spostamento della parte più crudele della storia in una dimensione pianamente onirica ha una funzione normaliz- zante, ovvero di riconduzione nell’alveo della razionalità degli elementi più surreali e perturbanti presenti nel racconto originario. E la morale della storia, formulata da Corrado al risveglio, e rimarcata dai fregi che incorniciano l’ultima tavola, si configu- ra come un impietoso atto d’accusa nei confronti degli adulti: Per far contenti i genitori, questa è la formula: bisogna smettere di succhiare, e mettersi a fumare. Il buon esempio è facile a indicare, più difficile a dare. Tanto che presto o tardi, è capitato, è il giudice a trovarsi giudicato. (Roy-Vidal e Lapointe 1976, 25)

Fig. 8. F. Roy-Vidal, C. Lapointe, Pierino e i suoi amici, Milano, Emme Edizioni, 1976. Fig. 09. F. Roy-Vidal, C. Lapointe, Pierino e i suoi amici, Milano, Emme Edizioni, 1976.

Passaggi come questo sono particolarmente utili in una prospettiva di tipo storico che abbia a cuore il problema della ricezione, perché pongono in maniera netta la questione del destinatario dell’opera. Chi sono i veri destinatari del libro? I bambini o gli adulti? Almeno in linea teorica dovrebbero essere i bambini, ma chiusure come quelle che caratterizzano la storia di Corrado e di Bernardo non parrebbero rivolgersi a dei lettori bambini, e men che meno dei bambini dai 3 ai 6 17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.inddanni ai quali le storie 318 erano originariamente dedicate. D’altra parte anche il volume originale di 20/12/17 11.15 Hoffmann sembrava rispondere a esigenze diverse e complesse: gli adulti lo hanno per lo più considerato un libro educativo – ora celebrandolo, ora criticandolo – ma i bambini ne hanno sempre tratto, semplicemente, spavento e divertimento, a testimonianza della problematicità costitutiva degli oggetti letterari riconducibili all’universo della letteratura per l’infanzia e dell’imprevedibilità, quanto a effetti, di ogni autentico atto di lettura. Il ruolo di Pierino in quanto eroe della contestazione trova in quegli anni anche altre e più radicali forme, soprattutto in Germania, dove già nel 1969 era uscito Der Struwwelpeter neu Frisiert [Il Pierino Porcospino appena stato dal parrucchiere], in cui il personaggio di Hoffmann assume le fattezze dello studente berlinese Rainer Langhans, tra i protagonisti della lotta studentesca e della comune di Berlino, nella prospettiva di una critica alla società dei consumi, intesa come evoluzione novecentesca della società borghese all’interno della quale l’opera era nata, ai cui simboli allude fin dal frontespizio. È in questo contesto che, pochi anni più tardi, nel 1978, esce Der Anti- Struwwelpeter [L’Anti-PierinoPorcospino] di Friedrich Karl Waechter, presto tradotto anche in italiano, che muove da una lettura estremamente critica del modello originario – di cui non pare cogliere la costitutiva ambivalenza e che intende, semplicemente, come «uno dei libri per bambini tra i più terribili che siano stati scritti», come chiosa Luca Tosti nella postfazione del volume (1978, 53) – diventando però occasione per la formulazione di un contro-discorso educativo figlio di tempi mutati e di nuove prospettive pedagogiche. Più che essere oggetto di parodia, le storie di Hoffmann offrono a Waechter lo spunto per racconti concepiti per rovesciare la pedagogia autoritaria e repressiva di cui lo Struwwelpeter era, ai suoi occhi, la cruda icona, puntando al contempo su una visione del mondo pacifica, ecologista e antirazzista, dai tratti decisamente rodariani, nella quale i bambini giocano il ruolo dei saggi, di coloro che, nella sorda lotta che li contrappone agli adulti, hanno la visione del mondo più aperta, lungimirante e gioiosa. Le storie di Waechter non hanno però solo il sapore di un’epoca precisa, di contestazione e di rivolta, rispetto ai valori della società borghese, diventata ormai pienamente consumistica, e alle forme tradizionali dell’educazione che la caratterizzano, mettendo al centro del discorso proprio la guerra combattuta da adulti e bambini – 11 La ricezione dello Struwwelpeter in Italia 319

Passaggi come questo sono particolarmente utili in una prospettiva di tipo storico che abbia a cuore il problema della ricezione, perché pongono in maniera netta la questione del destinatario dell’opera. Chi sono i veri destinatari del libro? I bambini o gli adulti? Almeno in linea teorica dovrebbero essere i bambini, ma chiusure come quelle che caratterizzano la storia di Corrado e di Bernardo non parrebbero rivolger- si a dei lettori bambini, e men che meno dei bambini dai 3 ai 6 anni ai quali le storie erano originariamente dedicate. D’altra parte anche il volume originale di Hoffmann sembrava rispondere a esigenze diverse e complesse: gli adulti lo hanno per lo più considerato un libro educativo – ora celebrandolo, ora criticandolo – ma i bambi- ni ne hanno sempre tratto, semplicemente, spavento e divertimento, a testimonianza della problematicità costitutiva degli oggetti letterari riconducibili all’universo della letteratura per l’infanzia e dell’imprevedibilità, quanto a effetti, di ogni autentico at- to di lettura. Il ruolo di Pierino in quanto eroe della contestazione trova in quegli anni anche altre e più radicali forme, soprattutto in Germania, dove già nel 1969 era uscito Der Struwwelpeter neu Frisiert [Il Pierino Porcospino appena stato dal parrucchiere], in cui il personaggio di Hoffmann assume le fattezze dello studente berlinese Rainer Langhans, tra i protagonisti della lotta studentesca e della comune di Berlino, nel- la prospettiva di una critica alla società dei consumi, intesa come evoluzione nove- centesca della società borghese all’interno della quale l’opera era nata, ai cui sim- boli allude fin dal frontespizio. È in questo contesto che, pochi anni più tardi, nel 1978, esce Der Anti-Struwwelpeter [L’Anti-PierinoPorcospino] di Friedrich Karl Waechter, presto tradotto anche in italiano, che muove da una lettura estremamente critica del modello originario – di cui non pare cogliere la costitutiva ambivalenza e che intende, semplicemente, come «uno dei libri per bambini tra i più terribili che siano stati scritti», come chiosa Luca Tosti nella postfazione del volume (1978, 53) – diventando però occasione per la formulazione di un contro-discorso educativo figlio di tempi mutati e di nuove prospettive pedagogiche. Più che essere oggetto di parodia, le storie di Hoffmann offrono a Waechter lo spunto per racconti concepiti per rovesciare la pedagogia autoritaria e repressiva di cui lo Struwwelpeter era, ai suoi occhi, la cruda icona, puntando al contempo su una visione del mondo pacifica, ecologista e antirazzista, dai tratti decisamente rodariani, nella quale i bambini gio- cano il ruolo dei saggi, di coloro che, nella sorda lotta che li contrappone agli adulti, hanno la visione del mondo più aperta, lungimirante e gioiosa. Le storie di Waechter non hanno però solo il sapore di un’epoca precisa, di contestazione e di rivolta, ri- spetto ai valori della società borghese, diventata ormai pienamente consumistica, e alle forme tradizionali dell’educazione che la caratterizzano, mettendo al centro del discorso proprio la guerra combattuta da adulti e bambini – sempre contrapposti quanto a visione del mondo – e la necessità di una liberazione dei bambini dalle pa- stoie castranti dell’educazione borghese: l’oppressione esercitata dai grandi sui pic- coli – soprattutto nelle figure della maestra, della guardia, del dottore e dell’Uomo Nero, sempre alleati dei genitori – è presente in tutte le storie ma è dichiarata aper- tamente fin dal principio, nelle due immagini che aprono il libro nel doppio fron-

17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.indd 319 20/12/17 11.15 sempre contrapposti quanto a visione del mondo – e la necessità di una liberazione dei bambini dalle pastoie castranti dell’educazione borghese: l’oppressione esercitata dai grandi sui piccoli – soprattutto320 nelle figure della maestra, Martinodella guardia, Negri del dottore e dell’Uomo Nero, sempre alleati dei genitori – è presente in tutte le storie ma è dichiarata apertamente fin dal principio, nelle due immaginitespizio, che mostrando aprono il unlibro bambino nel doppio prima frontespizio, schiacciato mostrando e poi liberato un bambino dall’ingombrante prima schiacciato e poifardello liberato degli dall’ingombrante adulti. fardello degli adulti.

Figg. 9-10.Figg. 09F.K.-10 Waechter,. F.K. Waechter, L’Anti L’AntiPierinoPorcospinoPierinoPorcospino, Roma,, Roma, Nuove Nuove Edizioni Edizioni Romane, Romane, 1978. 1978.

Il rifiuto dell’ordine e della produttività nel nome della felicità e dell’ozio, la natu- Il rifiutorale apertura dell’ordine dei bambinie della produttività a chi è diverso nel nomeda sé neldella nome felicità del e gioco, dell’ozio, la ridicolizzazione la naturale apertura dei bambinidi certe a chiargomentazioni è diverso da osé costuminel nome adulti, del gioco, tra i qualila ridicolizzazione anche l’imbarazzo di certe rispetto argomentazioni al o costumiproprio adulti, corpo tra nudo, i quali sono anche alcuni l’imbarazzo dei temi rispetto principali al proprio di questa corpo rilettura nudo, delsono classico alcuni dei temi principalidi Hoffmann di questa e rimandano rilettura del in classicomaniera di molto Hoffmann precisa e rimandanoalle questioni in manierapedagogiche molto più precisa alle questionivive e discussepedagogiche in quegli più vive anni. e Bastidiscusse pensare in quegli al tentativo anni. Basti di superare pensare l’autoritarismoal tentativo di superare l’autoritarismodella formazione della tradizionaleformazione tradizionale attraverso i attraverso principi dell’autonomia i principi dell’autonomia e dell’autogestione e dell’autogestione propugnatopropugnato da Georgesda Georges Lapassade Lapassade (1971; (1971; 1973) 1973) o alla o messaalla messa in discussione in discussione – a opera – a ope di Ivan- Illich (1972)ra di –Ivan della Illich scuola (1972) stessa – della in scuolaquanto stessa istituzione in quanto concepita istituzione per concepitauna professionalizzazione per una dell’individuo,professionalizzazione funzionale dell’individuo, solo al potere funzionalecostituito, soloda sostituire al potere con costituito, forme di da apprendimento sostitui- più informalere con formee diffuso di apprendimentoin diversi momenti più informalee ambiti della e diffuso vita sociale, in diversi nell’ottica momenti di euna ambiti «formazione umanadella e vita sociale sociale, di ogni nell’ottica uomo, chedi una lo prepari«formazione a vivere umana in modo e sociale “conviviale” di ogni conuomo, gli altriche uomini» (Cambilo prepari 2005, a 146-147),vivere in modooppure, “conviviale” ancora, ai contemi glidella altri pedagogia uomini» (dellaCambi differenza 2005, 146- – intesa a «riscoprire147), oppure, e potenziare ancora, la ai differenza temi della dell’infanzia, pedagogia della affermandone differenza i –diritti intesa in amodo «riscoprire radicale» e (Cambi 2005,potenziare 149) – lae didifferenza René Scherer dell’infanzia, in particolare affermandone (1976; 1979), i diritti che in modovede nelradicale» bambino (C am«un- modello umanobi 2005, più libero,149) – perverso-polimorfo,e di René Scherer in più particolare comunicativo (1976; e anticonformistico 1979), che vede nel(con bambino i suoi desideri di fuga,«un di modello vagabondaggio, umano più con libero, le sue perverso-polimorfo,pulsioni erotiche non più contrassegnate comunicativo in e sensoanticonfor esclusivamente- genitale)»mistico (Cambi(con i suoi 2005, desideri 148). di fuga, di vagabondaggio, con le sue pulsioni erotiche non contrassegnate in senso esclusivamente genitale)» (Cambi 2005, 148). Pierino Porcospino oggi

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Pierino Porcospino oggi

È ancora pubblicato e letto oggi, in Italia, il libro di Hoffmann? E cosa rappresen- ta per i lettori contemporanei? È sempre difficile rispondere a domande relative alla ricezione di una determina- ta opera, perché i dati meramente quantitativi legati al numero delle edizioni o alla vendita non offrono informazioni precise rispetto agli effetti reali, a livello indivi- duale e collettivo, che un determinato libro ha avuto sui suoi lettori. Ci sono però altri strumenti e strategie che consentono di raccogliere indicazioni significative: te- stimonianze dirette, ad esempio in testi di natura autobiografica, riferimenti presenti in altre opere letterarie, trasposizioni cinematografiche e teatrali, riletture, parodie e gadgets. Soprattutto se consideriamo queste ultime tipologie di documenti, possia- mo affermare che in Europa e nel mondo Pierino Porcospino e gli altri personaggi di Hoffmann sono ancora vivi nell’immaginario collettivo, figure letterarie capaci di condensare significati e di far vibrare le corde dell’immaginazione, figure dell’infan- zia potremmo spingerci a dire, come lo sono i bambini degli Ingrandimenti benjami- niani: figure storicamente e culturalmente connotate che nella loro ambivalenza se- mantica ancora oggi dicono qualcosa sul rapporto complesso, problematico e spesso conflittuale tra mondo degli adulti e mondo dei bambini. In Italia la situazione è un po’ diversa. Pierino Porcospino è ancora in commercio nella traduzione di Gaetano Negri, sia nell’edizione classica Hoepli, sia in quella, più recente, della Salani, e dal 2008 esiste anche una nuova traduzione, decisamente li- bera, a opera di Franco Fava. Pare tuttavia esaurita la sua capacità di farsi leggere, naturalmente, in quanto classico o quella di rappresentare un’occasione feconda di ri- flessione pedagogica, come era invece stato, anche in Italia, negli anni Sessanta e Set- tanta. Nel 1986 era uscito il già citato volume a cura di Sergio Stocchi, Il porcospino ragionato, nel quale era proposta al pubblico italiano una nuova traduzione dell’ope- ra, seguita da quella di uno dei suoi primi seguiti, il Pentimento e conversione di Pie- rino Porcospino di Karl Ludwig Thienemann (1851), sancendone di fatto la statura di classico. Sebbene Stocchi, nel presentare l’opera di Hoffmann, sia attento a mostrare l’intima vitalità e duttilità simbolica del personaggio, dimostrandosi talvolta addirit- tura illuminante nelle sue analisi, il volume, anche per la veste editoriale assunta, pare già rivolto a un pubblico di lettori colti o di bibliofili: segnale di un’uscita di scena, ormai prossima se non già compiuta, dall’immaginario collettivo popolare, nonché dalla riflessione pedagogica del periodo, e al tempo stesso indizio di un mutato cli- ma culturale orientato verso un ritorno all’ordine. Come dimostrano anche le forme della sua persistenza nel mondo dell’odierna scuola dell’infanzia, dove circola ancora in versioni edulcorate, lontane anni luce del modello originario hoffmanniano e spo- gliate di ogni carica eversiva, al servizio dell’ordine costituito in un’ottica grettamente pragmatica, ovvero per insegnare l’igiene ai bambini. Di tale inversione di rotta nel- la lettura del personaggio ci dà una testimonianza chiara, per quanto sorprendente, una riscrittura anonima dei primi anni Novanta, uscita comunque col titolo di Pierino Porcospino, dove le storie ambivalenti e inquietanti di Hoffmann sono ambientate nel

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presente e trasformate in raccontini edificanti privi del benché minimo guizzo artisti- co o letterario e tanto intrisi di tensione moraleggiante e didascalica da far impallidire, al confronto, le Novellette morali di Francesco Soave (Hoffmann 1993). E questo è un peccato, perché la ricchezza delle storie in versi di Hoffmann risiede proprio nel- la loro costitutiva ambiguità, sospese come sono tra tensione educativa e dimensione estetica, intenzioni dell’autore ed effetti sul lettore. Se non è lecito mettere in dubbio l’obiettivo che Hoffmann si era posto quando ha iniziato a scrivere e disegnare le sue «storielle allegre», va tuttavia riconosciuto al- la sua opera di essere al tempo stesso un esempio particolarmente eloquente di libro educativo per bambini, esemplare rispetto ai canoni dell’educazione borghese otto- centesca, autoritaria e repressiva, e una sua intima e profonda critica, inconscia for- se, ma non per questo meno rilevante o degna di attenzione (Zipes 2002, 116); dimo- strando al contempo quanto stratificati e complessi, ambigui e seducenti possano es- sere, anche per dei lettori adulti, i libri per bambini e gli albi illustrati in particolare, oggetti culturali che ancora oggi vengono troppo spesso liquidati, dal senso comune, come letteratura minore, cose “per bambini”: dove l’espressione “per bambini” è utilizzata nel suo senso più superficiale e deteriore, fondamentalmente ingannevole.

Bibliografia

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Tosti, Luca. 1978. “Qualche spiegazione…”. In L’AntiPierinoPorcospino, di Friedrich Karl Waechter. 53-54. Roma: Nuove Edizioni Romane. Triverio, Carlo, cur. 1922. Catalogo cronologico e alfabetico delle edizioni Hoepli, 1872-1922: mezzo secolo di vita editoriale. Milano: Hoepli. Van der Linden, Sophie. 2006. Lire l’album. Le Puy en Velay: L’atelier du poisson soluble. Van der Linden, Sophie. 2013. Album[s]. Paris: Editions De Facto/Actes Sud. Waechter, Friedrich Karl. 1978. L’AntiPierinoPorcospino [1973]. Traduzione di Daniela Camboni. Roma: Nuove Edizioni Romane. Zipes, Jack. 1999. “Struwwelpeter and the Comical Crucifixion of the Child”. In Struwwel- peter. Fearful Stories & Vile Pictures to Instruct Good Little Folks, di Heinrich Hoffmann, 1-21. Los Angeles: Feral House. Zipes, Jack. 2002. Oltre il giardino. L’inquietante successo della letteratura per l’infanzia da Pinocchio a Harry Potter [2001]. Traduzione di Francesca Lazzarato. Milano: Mondadori.

17_NEGRI(miscellanea)_307_si_stampi.indd 324 20/12/17 11.15 Michela D’Alessio

The teaching profession in the early twentieth century in Southern of Italy. The experience of the teacher Ialenti in Molise

La professione docente in Italia meridionale nel primo Novecento. L’esperienza del maestro Ialenti in Molise

Looking at the education, the pedagogical culture and the work of Italians elementary teachers, the contribu- tion aims to examine the teaching profession in a southern scholastic area, towards a gradual recomposition of the “geography of education” in Italy in the twentieth century. In the process of conservation, enhancement and study of historical-educational heritage, the fund kept at Ce.SI.S. of the University of Molise includes some different types of documents belonging to the teacher Giuseppe Ialenti (1881-1915), a state of service, twen- ty school themes and some professional correspondence. These sources offer the opportunity to reconstruct Ialenti’s personal training course and his career, as well as original information on text books and school culture of the teacher. Some diaries and school records allow to get involved in real educational practice in the early twentieth-century southern classrooms. The work adds a contribution to the studies about the work of Italian elementary teachers (Chiosso 2007; Ghizzoni 2003; Covato 1996) within the history of professional- ism and teachers culture (Di Pol 2003; Bertilotti 2003; Soldani 1993; De Vivo 1986; De Fort 1984), as well as a collective prosopography of Italian educators (Chiosso e Sani, 2013; Zago 2016; D’Alessio 2016), giving light about a professional teaching model at the beginning of the national cultural and pedagogical twentieth century. Incrociando lo sguardo storiografico rivolto alla formazione, alla cultura pedagogica e al lavoro dei maestri elementari italiani, il contributo si propone di esaminare la professione docente in una periferia scolastica meridionale, verso una graduale quanto auspicata ricomposizione della “geografia dell’edu- cazione” nell’Italia del Novecento. All’interno, in particolare, del processo di conservazione, valoriz- zazione e studio del patrimonio storico-educativo, il fondo giacente presso il Ce.SI.S. dell’Università del Molise annovera una variegata tipologia di materiali documentari appartenuti al maestro Giuseppe Ialenti (1881-1915), tra cui uno stato di servizio, venti temi scolastici e la corrispondenza professio- nale. Attingendo a tali fonti, l’approfondimento del caso di studio offre l’opportunità di ricostruire il personale percorso formativo dello Ialenti e l’intera sua carriera professionale, oltre che informazioni originali sui testi di preparazione magistrale e sulla cultura scolastica attinta alle riviste pedagogiche e magistrali. Alcuni diari e registri scolastici consentono di addentrarsi nella reale pratica didattica ed educativa svolta nelle aule meridionali primonovecentesche. Il contributo si appoggia pertanto sugli studi interessati a ricomporre il lavoro dei maestri elementari italiani, all’interno della storia della pro- fessionalità e della cultura magistrale, oltre che a una prosopografia collettiva degli educatori italiani: documentando esemplarmente un modello professionale docente agli esordi del Novecento culturale e pedagogico nazionale. Key words: teachers, pedagogical culture, elementay and normal shools, Southern Italy, XIX-XX centuries. Parole chiave: maestri, cultura magistrale, scuole elementari e normali, Italia meridionale, XIX-XX secolo.

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 325-340 Corresponding author: ISSN 2384-8294 – doi 10.4454/rse.v4i2.85 Michela D’Alessio, [email protected] (Università degli Studi della Basilicata)

18_D'ALESSIO(miscellanea)_325_si_stampi.indd 325 19/12/17 15.17 326 Michela D’Alessio

Le coordinate storiografiche

Il caso di studio1 mette a frutto, sul piano metodologico della ricerca, l’orienta- mento storiografico che attinge a fonti diversificate sulla formazione, la cultura peda- gogica e il lavoro dei maestri elementari italiani, qui esaminati in una periferia scola- stica meridionale a cavallo del XIX e del XX secolo. Il raggio d’interesse ricade nel cono di luce che negli ultimi decenni la ricerca storico-educativa ha indirizzato al passaggio dal mestiere alla professione magistrale (Chiosso 2007, 2009): con riguardo quindi al rapporto tra maestri e processi dell’i- struzione (Covato 1994, 1996; Sani e Tedde 2003); alla legislazione relativa alla for- mazione degli insegnanti elementari dalla legge Casati in poi (Bertilotti 2003; Soldani 1993; De Vivo 1986; De Fort 1984); al ruolo associazionistico nelle rivendicazioni professionali e sindacali per il loro riconoscimento giuridico-economico e sociale (Pazzaglia 1999; Barausse 2002); alla specifica cultura pedagogica e professionale del maestro italiano (Di Pol 2003; Ghizzoni 2005, 2007, 2009), sottratto alla dimensio- ne letteraria che l’aveva a lungo circonfuso2 e piuttosto esaminato storicamente at- traverso le vicende delle diverse scuole normali nell’Italia postunitaria (Miceli 2013; Palombarini 2009; Bertilotti 1995). Discende da questi presupposti l’attenzione ri- condotta qui alla professione docente in Italia meridionale nel primo Novecento, at- traverso il ricorso alle collezioni conservate presso il Centro di documentazione e ricerca sulla storia delle istituzioni scolastiche, del libro scolastico e della letteratura per l’infanzia e il Museo dell’educazione popolare dell’Università del Molise (Andre- assi, Barausse e D’Alessio 2016). L’orizzonte d’investigazione che è andato sensibilmente ad alimentare il tema dell’istruzione e della formazione dei futuri maestri elementari italiani si concentra oggi, in particolare, sull’accesso al vissuto dei tanti protagonisti dell’istruzione e alle pratiche scolastiche aderenti agli assunti fissati da Dominique Julia (1996) nello stu- dio della cultura scolastica3. Ne scaturisce uno slargo sulla conoscenza del passato educativo proprio di singole realtà locali e volto ad una graduale quanto auspicata ricomposizione della “geografia dell’educazione” in Italia. Invertendo pertanto lo sguardo degli storici della scuola che è stato a lungo proiettato dall’alto e dal centro con quello portato piuttosto dal basso e dalla periferia, s’intende favorire un approc-

1 il saggio amplia e approfondisce la relazione su Il “bagaglio” di un maestro tra Otto e Novecento. Cultura pedagogica e pratica professionale nell’esperienza del molisano Giuseppe Ialenti portata al Convegno Nazionale Siped Scuola Democrazia Educazione. Formare ad una nuova società della conoscenza e della solidarietà (Lecce, 27-29 ottobre 2016), nel Gruppo di lavoro “Maestri e professori, maestre e professoresse nella storia d’Italia”, i cui atti sono in via di pubblicazione. 2 le fonti letterarie sono da valutare piuttosto come una opportunità conoscitiva della rappresentazione data dei maestri e quindi della scuola attraverso le loro pagine, e a lungo filtrata nell’immaginario collettivo sociale, che occorre quindi recuperare su un piano complementare alla ricostruzione più propriamente storica, verso cui si è mossa negli ultimi decenni la ricerca storico-educativa intorno alla professione docente. 3 una storia della scuola che abbracci in termini più ampi i nuovi versanti e itinerari d’indagine – tra cui l’appro- fondimento della varietà e pluralità delle dinamiche locali, dei metodi didattici, dei tempi, dei contenuti, dei manuali scolastici e della concreta attività d’insegnamento – si colloca di diritto «come parte della più generale storia della vita sociale e dei processi di modernizzazione civile e culturale del paese» (Sani 2011, 358-359).

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cio non certamente localistico o municipalistico, ma attento a vagliare i contributi dati alla storia scolastica nazionale dalla varietà di storie della scuola italiana (D’Ascenzo 2016). Ne deriva la possibilità di sondare più da vicino l’impatto dei mutamenti poli- tici generali sui diversi tempi e sulle reali modalità di scolarizzazione nelle tante aree del Paese. La pluralità delle situazioni locali incrocia le dinamiche di lungo periodo che hanno accompagnato, tra Otto e Novecento, lo sviluppo nazionale dell’istruzione elementare e normale. In tale ottica, gli inventari di singoli fondi librari locali, i car- teggi, i registri, i fascicoli riguardanti gli insegnanti si qualificano fonti documentarie di irrinunciabile interesse per la ricostruzione delle tante fisionomie di una invoca- ta biografia collettiva degli educatori italiani degli ultimi due secoli (Chiosso e Sani 2013), così come per un’incursione nella vita scolastica reale e quotidiana. All’interno, quindi, del processo di conservazione, valorizzazione e studio del patrimonio storico-educativo (Barausse 2010), il fondo “Giuseppe Ialenti” giacen- te presso il Ce.SI.S. dell’Università del Molise annovera una variegata tipologia di materiali documentari. Alcuni sono riconducibili ai membri della famiglia originaria del maestro4. Gli altri riguardano più da vicino l’iter personale e professionale del- lo stesso. Tali fonti ci consegnano lo specifico bagaglio pedagogico e professionale dell’insegnante molisano grazie alla ricchezza informativa sul percorso d’istruzione dello studente; sulla carriera professionale; sulle carte personali e sui sussidi didattici del maestro; sui libri di studio e di preparazione magistrale; sulla cultura scolastica attinta alle riviste pedagogiche e magistrali.

Diventare maestro nell’Italia di fine Ottocento: la formazione e i primi incarichi

Giuseppe Ialenti nasce il 14 maggio 1881 a Petrella Tifernina, in provincia di Campobasso. Dal matrimonio celebrato il 9 luglio 1910 con Ermelinda Di Lallo (na- ta il 9 gennaio 1888) nascono due figli, Domenico (il 26 aprile 1911) e Mario (il 5 settembre 1912). Ialenti muore precocemente nel 1915. Tra i materiali relativi al percorso d’istruzione dello studente è stato rinvenuto un quaderno appartenuto all’alunno Giuseppe all’età di dieci anni (sulla copertina Luigi Battei Parma, Anno scolastico 1891-92 – I. Mastronardi)5. All’interno, nella prima parte si trova un programma dettagliato per le classi dalla 1a alla 5a suddiviso per sin-

4 ce.SI.S., Archivio delle Memorie, Fondo Ialenti (d’ora in poi AMCesis, FI), b. Quaderni scolastici. La com- posizione del fondo Ialenti presso il Centro di documentazione dell’Ateneo molisano scaturisce da un lungo percorso di ricerca e investigazione in cui alle iniziali donazioni della famiglia si sono aggiunti alcuni fortunati ritrovamenti di altri materiali presso antiquari locali. Vi rientrano n. 1 quaderno di Domenico Ialenti – Ragioneria (Personaggi storici Collana Cart. Binda – Capitano De Cesari); n. 5 quaderni Collana La Marina Italiana – Economia, Ragioneria, Diritto; n. 2 quaderni senza copertina (1 solo con il retro) – Diritto; n. 1 Album per disegno, Tintoretto (Copertina firmata da Magliacchetti P.); n. 12 quaderni – Appunti di Ragioneria e Diritto, senza a.s. e n. 4 quaderni anno 1953. Sul ricco fondo documentario dei quaderni conservati dal Ce.SI.S., per lo più appartenuti ad alunni molisani, cfr. D’Alessio (2010). L’inventariazione del fondo è ancora in corso, per cui si segnala che la segnatura è provvisoria. Si ringrazia la disponibilità di Alberto Barausse direttore del Centro dell’Ateneo molisano per aver comunque consentito l’acccesso a tutti i materiali del Fondo Ialenti. 5 aMCesis, FI, b. Quaderni scolastici, f. Quaderno a.s. 1891-92.

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gole materie scolastiche a firma di Illuminato Mastronardi, con riferimenti ai libri di testo e all’orario per la scuola unica rurale di S. Pietro in Valle frazione di Frosolone. Nella seconda parte sono raccolti venti temi svolti dall’alunno dal 16 aprile 1891 al 10 ottobre 1892, sotto la correzione di un maestro a Petrella Tifernina e con le relati- ve note di valutazione. Una fonte rilevante è offerta da un quaderno che si presenta, a cominciare dalla copertina su cui si legge “Miscellanea Anno Scolastico 1897-98”6, uno zibaldone di lavoro. Il quaderno comprende compiti, temi, esercitazioni, pensieri e materiali di studio di prima mano, di grande interesse: i luoghi e le date individuate rimandano a Campobasso, 1897 e a Velletri, 1899. Le due indicazioni sono particolarmente signi- ficative in quanto comprovano l’itinerario che, dopo le elementari nel suo paese e i primi anni nella Scuola Normale a Campobasso, videro Ialenti trasferirsi a Velletri, a causa della chiusura dell’istituzione maschile nel capoluogo molisano7. Il caso dell’insegnante molisano consente pertanto di leggere in controluce le vi- cende dell’istruzione normale nazionale – caratterizzata come è noto da una produ- zione normativa ambigua e frammentaria fin dalle origini dei provvedimenti d’istitu- zione delle scuole magistrali, dapprima emanati dalla legge Casati –, nelle ricadute su singoli ambiti territoriali. La parabola del maestro Ialenti diventa in qualche modo esemplare del percorso concreto di costruzione dell’identità magistrale in Italia tra Otto e Novecento, per alcune ragioni che si andranno meglio ad illustrare sulla scor- ta dei dati ricavabili dai materiali raccolti intorno al destino professionale del molisa- no. In questa sede si intendono sottolineare principalmente alcuni aspetti d’interesse che emergono dal primo tratto di questa vicenda individuale che naturalmente va intrecciata con quella collettiva della condizione magistrale in area meridionale. In primo luogo, emerge la possibilità di leggere la strada intrapresa dall’allievo maestro Ialenti nella sua qualificazione culturale e professionale, dentro il clima di rinnovamento della politica scolastica che specie negli ultimi anni dell’Ottocento fa leva proprio sull’incremento e la formazione dei maestri italiani per ottenere mag- giori risultati contro l’analfabetismo, il miglioramento della scuola elementare e la diffusione dell’obbligo scolastico. Ialenti frequenta a Campobasso la Scuola Nomale Maschile che, fondata il 16 no- vembre 1872, nella stagione postunitaria vede le amministrazioni locali assegnare maggiore impulso all’ampliamento della rete scolastica. Dopo gli anni di affermazio- ne e buona prova condotta dal direttore Fongoli, che assicurò il suo apporto conti- nuativo quale elemento determinante nel successo della scuola, e dall’intero corpo docente, con un incremento di allievi tra gli anni 1876 e 1880, si fece tuttavia più animato il dibattito tra le fila del ceto politico amministrativo provinciale intorno alla opportunità culturale e alla sostenibilità finanziaria delle spese per l’istituzione formativa per i maestri nel capoluogo. La scuola, divenuta governativa nel 1888, re-

6 aMCesis, FI, b. Quaderni scolastici, f. Miscellanea a.s. 1897-98. 7 un’attenta ricostruzione delle vicende della Scuola Normale di Campobasso è stata proposta di recente dagli studi interessati alla formazione dei maestri e delle maestre nella regione molisana: cfr. Miceli 2011, 2013, 2015.

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gistrò tuttavia i primi segni di crisi che, nel tornante degli anni Novanta caratteriz- zato dalla svolta degli orientamenti nazionali con ripercussioni locali, videro cedere il campo alla scelta «di un intervento radicale orientato ad abolire la scuola norma- le maschile per favorire un migliore adeguamento della Scuola normale femminile» (Miceli 2013, 143). Dietro quindi la vicenda dello Ialenti che evidentemente per concludere il ciclo di studi deve lasciare Campobasso e recarsi a Velletri si leggono le scelte più larghe motivate dal riordinamento di fine secolo operato per la Scuola Normale, come pure il riflesso delle motivazioni di natura anche sociale che avevano accompagnato la strada dei futuri maestri, i quali spesso per ripiego, rispetto alle col- leghe maestre, intraprendevano la carriera magistrale con poca convinzione e ancor minori aspettative sul piano economico. Al contrario, andrà forse meglio posto in rilievo come la traiettoria del vissuto di Ialenti dal Molise al Lazio induca a riflettere su alcuni snodi storici e politico-edu- cativi. Dà conto, infatti, delle dinamiche scolastiche che accompagnarono la defini- zione della fisionomia dell’insegnante elementare nell’ultimo lustro dell’Ottocento – ricordiamo nel 1895-96 si contavano 148 scuole normali con 24.152 maestri (Di Pol 2003) –. In modo particolare rimanda alla persistente disomogeneità di distribuzione territoriale delle normali che occorre far risalire alla modalità con cui al loro primo nascere furono aperte nei diversi comuni che ne fecero richiesta e agli orientamenti della politica scolastica successiva, interessata ad aumentare il numero delle scuole – in risposta all’emergenza di disporre di un consistente novero di maestri rispetto alla crescita dell’istruzione guardata quale obiettivo fondamentale –, anche in centri distanti da quelli urbani principali. Infatti, nella risposta nel 1909 del Ministro Rava all’interpellanza sulla crisi magistrale si legge che le scuole normali in Italia sono nate da condizioni storiche, sono state distribuite in modo molto empirico, presso i comuni che primi le hanno chieste; sono state collocate, specialmente le maschili, fuori dai capoluoghi ed hanno dato un risultato numerico non favorevole per i maschi (Bertilotti 2003). Tra le scuole che avevano dato «risultati ben miseri» si ricordava, ad esempio, proprio Velletri «che è la scuola di Roma» con 119 elementi licenziati. Qui la Re- ale Scuola normale fondata nel 1872, proseguendo una tradizione educativa molto antica, fu stabilita dal 1891 in un ex-convento dei Padri Francescani e dotata di una scuola elementare annessa per il tirocinio, oltre che di un convitto che accoglieva giovani provenienti dalle regioni limitrofe. Lo scarso numero delle scuole maschili era quindi riconducibile alla scelta di apri- re qualche scuola secondaria anche in piccoli centri8. Questo aveva determinato un ridotto grado d’interesse per la carriera magistrale a cui, specie nelle grandi città, si preferivano scelte dirette verso altre amministrazioni. Tornando più da vicino al maestro Ialenti, sembra, al contrario, di poter sostenere come proprio il dato che lo vede conseguire la licenza normale e il diploma a Velletri fornisca alcuni interessanti

8 si era così creata la condizione per cui «la regia scuola normale maschile della provincia di Udine bisogna cercarla a Sacile, borgata di circa duemila abitanti, quella di Alessandria, a Casale, quella di Teramo, a Sant’Angelo; [...] quella di Avellino, a Lacedonia; [...] di Roma, a Velletri» (Bertilotti 2003).

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spunti d’analisi circa le ragioni del suo trasferimento in quella sede. Da un lato, la scelta d’intraprendere il percorso di studi appare suggerita da una aperta convinzione nell’abbracciare una ben definita carriera professionale, a riprova pertanto di come si andasse a fine Ottocento affermando l’autonomia, specificità e in qualche modo dignità del lavoro magistrale, nella sua fisionomia lontana dalla inizia- le dimensione di “mestiere” e in ragione del nuovo riconoscimento sociale attribuito alla categoria professionale degli insegnanti. D’altro canto, il percorso dello Ialenti induce a interpretare il modello professio- nale magistrale che incarna, quale frutto di uno specifico contesto socio-economico, il Mezzogiorno più arretrato nelle sue strutture produttive, entro cui per una fami- glia di condizioni medioalte di un piccolo paese della provincia di Campobasso – non pertanto del centro cittadino –, la carriera magistrale appare in qualche misura adeguata ed anzi appetibile dal punto di vista sociale. In tal senso tratteggiare un circuito educativo che collega la scelta professionale alle ragioni di attrazione sociale del profilo docente appare non privo d’interesse e va ad alimentare le convinzioni già esposte per il passato circa i modi e gli itinerari attraverso cui si tentò di afferma- re «la centralità rivendicata all’autorevolezza educativa “maschile”» (Chiosso 2007, 98) ancora a metà degli anni Ottanta, in cui le maestre in servizio erano già più nu- merose: secondo peraltro la persuasione che il maestro, più che la maestra, dovesse essere espressione di quel ceto popolare a cui avrebbe poi rivolto i suoi insegnamenti sul piano educativo e istruttivo. In chiaroscuro può anche leggersi la convinzione di fine secolo circa la richiesta di una specifica abilità professionale del maestro. In tal senso la breve ma, forse proprio per tale ragione, particolarmente esempli- ficativa esperienza del giovane maestro molisano diventa una importante cartina di tornasole dei processi culturali collegati all’affermazione della professionalità docen- te nel territorio meridionale, nell’imprescindibile interazione tra le direttive ministe- riali centrali e le ricadute sulle situazioni scolastiche locali. A Velletri quindi Ialenti conseguì la licenza normale e il diploma. È giunto fino a noi anche il tema – su un foglio protocollo con l’intestazione: Velletri, 22 aprile 1899, Giuseppe Ialenti 3a normale (votazione 8/10) –, svolto dal futuro maestro in occasione della licenza Normale sulla traccia tratta da un pensiero di Pestalozzi che fu assegnata quell’anno9. La Miscellanea rinvenuta consente inoltre di addentrarci nella preparazione e ne- gli indirizzi ricevuti dallo Ialenti nella Scuola Normale di Velletri, proprio in una sta- gione cruciale dal punto di vista dei cambiamenti che attraversarono la cultura peda- gogica di fine Ottocento. È in tal senso significativo, portando solo qualche rapido esempio, come accanto alle tracce e ai temi che ci informano ancora sugli elementi di natura etica e religiosa ereditati dalla cultura magistrale tradizionale, andasse affer- mandosi la cultura pedagogica innervata dalla matrice positivista e neoherbartiana.

9 la traccia era la seguente: «L’educazione e l’opera della natura. L’uomo non diventa vero uomo che mediante l’educazione, ma questa guida che noi abbiamo, che ci imponiamo da noi stessi deve a sua volta checché essa faccia e per quanto essa ci meni lontano, seguire fedelmente il semplice andamento della natura».

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In modo particolare dal prospetto delle lezioni riportate dall’allievo maestro si de- sume lo stretto adeguamento ai programmi Baccelli del 1883, con la presenza dello studio della pedagogia a carattere sperimentale, a cui si affiancano le esercitazioni pratiche. Tra le materie d’insegnamento (scienze, storia, disegno, matematica, cal- ligrafia, lingua, canto, ginnastica) si ritrova, infatti, l’ampio spazio rivestito dalla pedagogia (distribuita dai programmi governativi nei tre anni di corso), insieme al tirocinio e alle conferenze. Da alcuni sunti di Ialenti sulle lezioni tenute dagli allie- vi maestri per le esercitazioni pratiche è facile dedurre il mutamento dei contenuti disciplinari segnati dalle acquisizioni della cultura pedagogica e didattica di stampo positivista. Conferme in tal senso provengono dalle pagine dello zibaldone che accolgono nu- merosi appunti di studio intorno alla lezione di cose: Concetto – La lezione oggettiva mira a svolgere le facoltà di osservazione, ed a nutrire la mente di cognizioni reali, facenti appello all’esperienza, e fermando l’attività su cose materia- li, mediante la conversazione moderna. Nel riassunto della lezione sul baco da seta e le sue metamorfosi nell’industria, tenu- ta a Velletri il 20 gennaio 1899 dall’allievo maestro Marchionne, sono contenute alcu- ne osservazioni dello stesso Ialenti intorno alla qualità della lezione che «sarebbe riu- scita più bella se avesse usato come ho detto la forma dialogica ed espositiva insieme». Molte pagine sono in tal senso particolarmente illuminanti sullo studio del metodo didattico che, come scrive l’allievo Ialenti «è l’arte di far passare l’alunno dal sentire al conoscere e chiarire, ordinare e completare le conoscenze. Più brevemente è il nome di formare negli altri il sapere» e richiama il dettato dei programmi del 1883 sullo stu- dio delle sue leggi generali e nella sua applicazione ai diversi rami dell’insegnamento elementare (diversi sono gli schemi sul “campo didattico”). Gli appunti di studio rin- tracciati rimandano puntualmente alla nuova cultura magistrale impiantata sull’osser- vazione diretta e sulla riflessione intorno alla natura del fanciullo e alle stesse materie d’insegnamento, oltre che alle leggi pedagogiche e didattiche che ne derivano. Molte tracce dei temi, inoltre, (“A che serve il leggere e lo scrivere? Quando so maneggiar la lima e tirar lo spago non ci abbisogna di altro per guadagnar da vivere – così suole esclamare. Come al [...] che le ha sentite dimostrategli la necessità e il vantaggio dell’i- struzione e dell’educazione”; “Sono gli sciocchi che dicono che la gioventù è fatta per divertirsi”; “Giovandosi di esempi tratti dalla storia dimostrate come la perseveranza fu spesso cagione di grandi cose”; “Cogliendo una occasione favorevole dimostrate ad un amico che cosa sia di maggior danno alla gioventù se la continua lettura di libri cattivi o il non saper leggere”) insistono sul compito della scuola e dello studio come fattore formativo del carattere individuale e nazionale. A tale riguardo è significativo il pensiero che Ialenti riprende da Villari e riporta di suo pugno: Lo scopo fondamentale della scuola dovrebbe essere: formare dei giovani forti d’animo e di corpo, dei caratteri leali, indipendenti, onesti disciplinati con l’intelletto educato e culto. Per noi invece essa è solo un’officina di studio, né si pensa che la separazione tra questi due fini è ciò che rende impossibile conseguirne alcuno veramente buono.

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Pertanto dai molti esercizi, dagli svolgimenti in brutta copia di temi e pensieri, così come dai sunti di storia e geografia della Miscellanea si ricavano i fili del cano- vaccio sui cui andava a tessersi la preparazione didattica e professionale del futuro maestro molisano, grazie all’incursione diretta nel vivo della didattica praticata a fine Ottocento nelle aule normali italiane. Dopo la licenza conseguita nel 1899 Ialenti torna in Molise dove, già nell’anno successivo, assume il suo primo incarico in una scuola rurale di un piccolo paese del- la provincia di Campobasso. In soccorso alla ricostruzione del percorso professionale del molisano ci viene un prezioso stato di servizio10. Il documento consente non solo di risalire con precisione alle notizie riguardanti l’insegnante e la sua famiglia, ma anche a tutti i passaggi della sua carriera: grazie all’indicazione puntuale della sede della scuola, della qualifica, delle deliberazioni assunte dai consigli comunali (per nomine e conferme), dei decre- ti d’approvazione del Consiglio scolastico, della durata del servizio con la percezione dello stipendio. Apprendiamo così che Ialenti prese servizio nella Frazione di S. Pie- tro in Valle a Frosolone dal 15 ottobre 1900 al 15 ottobre 1901 ed ebbe la conferma del ruolo dal 15 ottobre 1901 al 28 febbraio 1902. Svolse quindi il servizio militare dal 28 febbraio 1902 al 31 ottobre 1904. Ebbe in seguito la nomina d’ufficio a Ta- venna dove restò dal primo novembre 1904 al 15 ottobre 1905 e dopo a Guardial- fiera dal primo dicembre 1905 al 15 ottobre 1906. Condusse poi il più lungo perio- do d’insegnamento nel proprio paese d’origine Petrella con incarichi dal 15 ottobre 1906 al 30 giugno 1911; fu confermato, con innalzamento di stipendio, dal primo lu- glio 1911 al 15 ottobre 1912 e infine dal 16 ottobre 1912 all’11 dicembre 1915, anno in cui si concluse la sua breve esistenza, a causa probabilmente di problemi di salute. La parabola esistenziale e professionale dello Ialenti s’inscrive perfettamente, a ben vedere, nell’arco del quindicennio giolittiano e sotto questo profilo sollecita – nell’interrogazione delle fonti a disposizione – alcune riflessioni sull’evoluzione dell’identità docente in tale tornante di tempo. La vicenda dell’insegnante molisano offre, infatti, la possibilità di ricostruire un tassello molecolare di un più ampio reticolo magistrale meritevole di essere riportato alla luce, in una nuova «prosopografia dal basso» dei reali artefici dell’istruzione in Italia (Zago 2016). Lascia inoltre appurare in concreto cosa significasse essere mae- stro sotto il profilo non solo didattico ma anche istituzionale, nelle relazioni intrat- tenute con le autorità scolastiche locali. Favorisce pertanto uno sguardo che, muo- vendo dallo sfondo generale degli orientamenti di politica scolastica nazionale, si concentra sulle reali ripercussioni sulla scuola in atto, nelle diverse realtà periferiche. In tal senso acquistano rilievo alcune lettere conservate nel fondo del Centro di documentazione molisano, poiché appartengono alla corrispondenza professionale del maestro. Tra queste, una lettera del 14 dicembre 1904 è indirizzata all’insegnante

10 aMCesis, FI, b. Carte di servizio, f. Stato di servizio dell’insegnante Sig. Ialenti Giuseppe. Mod. 66- Cat. IV (Art. 58 lettera c dal regolamento approvato con R. Decreto 25 aprile 1897, n. 160), settembre 1900. Roma: Tip. Nazionale di G. Bertero.

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dal sindaco del municipio di Tavenna del Circondario di Larino: questi interviene a favore dell’iscrizione dell’alunno Mauretta Giovanni «che non era stato accolto do- po che non si era presentato» quando la scuola aveva preso avvio. Vi si trova anche raccolto un processo verbale datato 6 agosto 1906 per lo scrutinio finale nella classe prima maschile nelle scuole elementari di Guardialfiera, relativo all’anno scolastico 1905-06, con l’indicazione della Commissione di scrutinio (il presidente Giuseppe Lembo, l’insegnante della classe femminile Teresa Pagani e l’insegnante della classe maschile Giuseppe Ialenti): vi compaiono i 22 nomi degli alunni con i rispettivi vo- ti riportati. Un’altra lettera del 15 luglio 1906 a firma di tre insegnanti delle scuole elementari del Comune di Guardialfiera – tra cui lo stesso Giuseppe Ialenti –, è in- dirizzata al Regio Ispettore scolastico di Larino per la trasmissione dei verbali di esa- me. Una relazione finale del maestro, sul lavoro svolto nella scuola maschile di classe prima ancora nel comune di Guardialfiera per l’anno scolastico 1905-06, contiene dati puntuali sulla scuola, le lezioni e le discipline scolastiche. Apprendiamo che le lezioni avevano preso inizio l’11 dicembre per terminare il 4 agosto, che la classe era composta di 32 alunni tra i 6 e i 9 anni, di cui assidui erano in 22 e promossi in 15. Tra le annotazioni del maestro, si legge peraltro che l’insegnamento fu impartito «in base ai programmi vigenti e il programma didattico svolto completamente, quantun- que la scuola si fosse aperta con due mesi di ritardo» e «10 degli iscritti abbando- narono le lezioni alcuni colpiti da febbre di malaria». Il maestro rileva inoltre che nonostante le difficoltà «il profitto fu soddisfacente nella frequenza», non tanto «per volontà dei genitori ma per le esortazioni continue dalle singole autorità cui è pre- posto l’insegnamento elementare». Un altro documento del 13 agosto 1905 relativo all’“esame di proscioglimento” contiene l’indicazione dei nomi delle alunne e degli alunni licenziati a Tavenna quell’anno11. Sono queste, evidentemente, tracce minute di uno spaccato periferico, dal punto di vista dell’ambiente sociale e scolastico, soprattutto rurale, che lasciano emergere il ruolo svolto dalla dirigenza amministrativa locale, anche su esortazione dei mae- stri, nel difficile progresso dell’istruzione elementare e popolare. Queste scritture di natura ufficiale restituiscono, infatti, notizie dirette e circostanziate sulle modalità e i canali attraverso cui il maestro, per obbligo d’ufficio e iniziativa personale, entrava in relazione con le amministrazioni municipali di cui veniva alle dipendenze, guar- dando spesso al miglioramento delle condizioni materiali d’insegnamento della sede in cui lavorava. La lettera rivolta il 5 marzo del 1905 al sindaco del Comune di Tavenna ci in- forma, ad esempio, sull’intervento diretto dello Ialenti, motivato da sentite ragioni d’ordine didattico, nella richiesta degli arredi occorrenti – banchi, cattedre, stufa, ca- lamai, armadi chiusi, quadro delle norme per prevenire malattie infettive –, insieme ad altro materiale scolastico, per lo svolgimento di un “proficuo insegnamento”: un alfabetiere mobile; cartelloni per la lettura; numeratore; pallottoliere e frazioniere; carte geografiche; museo oggettivo; il corpo umano; quadri di storia naturale; quadri

11 aMCesis, FI, b. Corrispondenza professionale 1905-12.

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di scene famigliari, di vita reale e nozioni varie; quadri di storia romana e del Risorgi- mento italiano. Scrive il maestro: Mi onoro far presente alla S.V. Ill. che essendo questa Scuola Elementare maschile sprov- vista totalmente di arredi scolastici e materiale didattico e non potendo senza questi ultimi ottenersi dall’insegnamento un serio risultato, credo opportuno proporre l’acquisto di questi oggetti che più urge il bisogno, sicuro che l’amministrazione presieduta dalla S.V. accoglierà benevolmente la mia proposta e senza perdita di tempo acquisterà tutto ciò che io segnerò qui appresso come indispensabile alla serietà di un’aula scolastica ed al proficuo insegnamen- to. La Casa Paravia12 concede dilazioni nei pagamenti ed il ministro contribuisce sul terzo della spesa, basta rivolgere domanda corredata da copia del bilancio comunale13. La corrispondenza costituisce un termometro della sensibilità maggiore che negli anni giolittiani vide crescere «la “cultura della scuola” in seno alle classi dirigenti municipali e locali» (Sani 2011, 383). Le suggestioni di lettura abbracciano le poli- tiche delle amministrazioni comunali negli stimoli dati all’avanzamento delle condi- zioni materiali e sociali dell’istruzione nei paesi del Mezzogiorno, pur alle prese con gravi ritardi, e comunque non distanti dalle direttive scolastiche che specie nell’avvio del Novecento tentarono di riformare e ammodernare il panorama educativo nazio- nale, intervenendo positivamente nel settore della formazione degli insegnanti ele- mentari (Sani 2011, 395-407). La pratica quotidiana del lavoro traspare con evidenza da questa corrispondenza, assumendo i tratti netti di un esercizio professionale.

I diari scolastici, le riviste, la biblioteca pedagogica del maestro

Oltre alla corrispondenza conservata, che solo per ragioni non facilmente sonda- bili è pervenuta fino a noi, una sezione particolarmente interessante del fondo è co- stituita da alcuni diari scolastici del maestro. Questi rientrano nella ricca collezione dei registri e diari di scuola conservata presso il Museo dell’educazione molisano, certamente una delle più rilevanti per la conoscenza della cultura scolastica e dei co- stumi educativi circolanti nel territorio più definito della scuola italiana meridionale (D’Alessio 2014)14. I diari scolastici sono tre: due riguardano gli anni scolastici 1912-

12 i cataloghi commerciali delle case tipografico-editrici impegnate non solo nella pubblicazione dei testi scolasti- ci ma anche nella fornitura degli arredi e dei sussidi didattici rappresentano una fonte di recente meglio esplorata, per penetrare nelle dinamiche di tipo imprenditoriale e produttivo interne allo sviluppo della “industria dello scolastico”, a partire dall’unificazione del sistema d’istruzione nazionale: cfr. Meda 2011. Sul tema dello studio e investigazione del patrimonio storico-educativo, entro cui si colloca anche lo sguardo agli aspetti produttivi delle forniture scolastiche, è stata recentemente incentrata la “III International Conference on School Material Culture, Production, Use and Circulation of School furnischings and teaching aids between Europe and Latin America in XIX e XX centuries” (Macerata, 12-13 settembre 2017), con una opportuna proiezione alla contemporanea storiografia internazionale. 13 aMCesis, FI, b. Corrispondenza professionale 1905-1912, f. Lettera del 5 marzo 1905 al Sig. Sindaco di Tavenna. 14 la consistenza patrimoniale complessiva – materiale e digitale – dei registri e dei diari posseduti dal Centro ammonta intorno alle 900 unità e abbraccia un arco temporale che va dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento. I documenti provengono da diverse aree e da differenti contesti scolastici locali – Larino, Agnone, Petrella Tifernina, Jelsi – e per lo più meridionali, tra cui soprattutto Molise, Puglia e Basilicata.

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1315 e 1913-1416, mentre un terzo dalla copertina rossa è relativo all’anno scolastico 1914-15 per le classi 2a e 3a maschile17. Contengono, a riprova «del lavoro coscien- ziosamente compiuto, del cammino fatto, dei risultati ottenuti» secondo «la trama della tela che va tessuta a scuola dall’insegnante sull’ordito del programma partico- lareggiato» – come si legge tra le note di premessa su Il perché del diario18 – l’orario delle lezioni19, lo svolgimento progressivo e puntuale delle discipline con riassunto sommario della lezione e del lavoro mensile, insieme alle osservazioni del maestro, a cominciare dal primo giorno di scuola. Altre importanti indicazioni – dai libri di te- sto20 al tipo di quaderni adottati per le classi rurali21 – contribuiscono a gettare luce sui sentieri educativi lungo cui si muoveva il Molise scolastico negli anni precedenti il primo conflitto bellico. I registri scolastici e i diari dei maestri rientrano, come si è avuto modo d’illu- strare in passato, nella categoria degli ego-documenti dal carattere ibrido (D’Alessio 2014, Vignão Frago 2002) che nella considerazione della forma materiale e testuale – a metà tra supporto cartaceo a stampa e diario manoscritto – ondeggiano in bili- co tra dimensione personale (spontanea) e dimensione pubblica (orientata). Si tratta per questo di una fonte certamente “speciale” che consente di dare ascolto all’“io personale” degli insegnanti: i maestri parlano di sé e della propria professionalità do- cente, ma rispondono allo stesso tempo ad un obbligo normativo che li porta a de- scrivere, esporre e anche a giustificare le proprie pratiche didattico-educative. Nelle annotazioni dello Ialenti nel mese di dicembre del 1913 si rinvengono, ad esempio, alcune notizie sulla prassi di correzione delle forme dialettali per l’insegna- mento della lingua italiana: 23 dicembre – Lingua italiana – Gli alunni sono irrequieti e ciò deriva perché oggi si met- teranno in vacanza: ci vuole gran fatica a tenerli relativamente quieti. [...] si correggono le letterine d’augurio ai genitori; 29 dicembre – In luogo della correzione si fa conversazioni, facendo manifestare a tutti come sono passate le vacanze, correggendo gli errori dialettali di parole o di pronunzia. [...] La scolaresca è distratta e poco attenta.

15 i diari rientravano tra gli stampati per l’istruzione obbligatoria approntati dalla Casa Editrice Rocco Carabba di Lanciano. AMCesis, FI, b. Diari scolastici, f. Diario scolastico a.s. 1912-13. 16 stampato presso Alterocca di Terni. AMCesis, FI, b. Diari scolastici, f. Diario scolastico a.s. 1913-14. 17 di formato ridotto 13x18. AMCesis, FI, b. Diari scolastici, f. Diario scolastico a.s. 1914-15. 18 il curatore G. Grilli aggiunge: «La mancanza di preparazione da parte del Maestro, ingenera disattenzione e disordine durante la lezione, crea lacune nocive e sovrabbondanze stucchevoli, rende arido ed infecondo l’insegna- mento, fa spesso, odiare lo studio e il Maestro. Il diario scolastico, o giornale di classe che dir si voglia, è sussidio didattico valevole, ed elemento essenziale di ordine, disciplina e profitto. Il diario è un buon consigliere e guida sicura pel docente». 19 l’orario procede, dall’ingresso alla rivista all’appello, con tre ore d’insegnamento nella mattinata, alla pausa di 15 minuti di ricreazione «possibilmente all’aperto», fino all’ora e mezza del pomeriggio. 20 apprendiamo che il maestro utilizzava i testi di Emilio Scaglione, Semenza d’oro; di Raffale de Taranto per l’aritmetica, insieme al manuale per la terza di Alberto Cavezzali; i libri sussidiari di Francesco Vespa e Luigi Berga- maschini; Il comporre di Antonio Petrini. Si tratta di informazioni preziose sulla circolazione reale dei libri di testo e per la scuola, da incrociare con le acquisizioni recenti degli studi condotti sulle fonti normative: cfr. Barausse 2008; Chiosso e Sani 2013. 21 a due righe con guida intermedia.

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Occorre ricordare come siamo in linea di continuità con i programmi del 1905, fortemente ostili alla presenza del dialetto nella scuola, e di come pertanto le pagine del diario diano prova della pratica d’insegnamento dell’italiano contro “la malerba dialettale” ampiamente abbracciata dai maestri elementari, specie negli ambienti ru- rali lontani dai contesti cittadini. L’attività docente scolastica viene così sondata nel vivo della quotidianità operativa del maestro attraverso queste memorie istituzionali professionali al sottile confine tra accertamento delle scritture personali diaristiche e resoconti informali più propriamente ufficiali. Il Diario scolastico del 1914-15 registra nella pagina iniziale del primo ottobre il clima con cui prende avvio il nuovo anno scolastico: Le scuole si sono riaperte regolarmente il 1o ottobre. L’iscrizione iniziata ai primi di otto- bre è andata man mano regolarizzandosi e completandosi non però con quella sollecitudine come avrebbe dovuto e come si desiderava, poiché non poche famiglie hanno avuto bisogno di solleciti per l’invio dei ragazzi a scuola, ma finalmente il 9 novembre tutti coloro che pre- sumibilmente erano obbligati a frequentare queste classi erano iscritti. Ciò non pertanto si sono trattenuti i presenti, non molto numerosi, poiché col bel tempo anche gli iscritti mari- navano la scuola per attendere ai lavori campestri, in conversazioni istruttive per conoscere l’indole l’inclinazione ed anche per far loro imparare a manifestare i propri pensieri. La let- tura sul libro dello scorso anno non si è mai trascurata come pure gli esercizi di dettato ed il calcolo mentale. [...] Ho fornito a tutti libri e quaderni stabiliti in modo che le classi ora sono in perfetto ordine. [...] Chi sa se mi sarà possibile ottenere quello che mi son proposto e mas- simo la disciplina la quale lascia molto a desiderare. Farò del mio meglio. Emergono annotazioni pregnanti sulla realtà educativa molisana (Barausse 2008), alle prese con i ritardi nella diffusione dell’obbligo dell’istruzione e nell’applicazione delle leggi che l’avevano stimolata da Coppino ad Orestano, specie nei mesi estivi che vedono la maggiore riluttanza delle famiglie verso la scuola per il coinvolgimento degli alunni nei lavori campestri. Si apprendono, altresì, i buoni propositi dell’inse- gnante circa la formazione e la disciplina da trasmettere alla sua scolaresca, attraver- so il superamento di quelle forme di diffidenza e quasi resistenza delle famiglie del posto verso la scuola, i maestri e l’istruzione. Un altro squarcio significativo sulla preparazione del maestro molisano deri- va dalla presenza, tra gli altri materiali conservati nel fondo a lui intitolato, di al- cuni numeri di riviste pedagogiche e magistrali (Chiosso 1993, 1997) appartenenti ai preziosi “ferri del mestiere” dell’insegnante. Si tratta della «Rassegna Settimanale Universale»22, de «Il Giornale della Scuola»23 e della diffusa e fortunata rivista «I Diritti della Scuola»24: vere e proprie guide giornaliere, anche per i seguitissimi in- serti specificamente dedicati alla preparazione delle lezioni che ne fecero delle pub-

22 aMCesis, FI, b. Riviste magistrali, Rassegna Settimanale Universale, n. 10, 7 marzo 1897. 23 aMCesis, FI, b. Riviste magistrali, Il Giornale della Scuola, n. 2, 16 ottobre 1909. 24 AMCesis, FI, b. Riviste magistrali, I Diritti della Scuola, n. 1, 11 ottobre 1908; n. 42-43, 15 agosto 1910; n. 4, 6 novembre 1910; n. 44-45, 30 agosto 1911; n. 46-47, 15 settembre 1911. Qui compaiono notizie non solo sul Congresso magistrale nazionale tenutosi a Torino ma sotto la rubrica “In giro per l’Italia - Corriere molisano” anche un articolo da Campobasso (Frusta), sul Congresso del capoluogo.

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blicazioni professionali «apprezzate principalmente in quanto strumenti di lavoro, di orientamento e aggiornamento didattico» (Dei 1994, 158-159), oltre che di presa di coscienza e partecipazione ai dibattiti per il riconoscimento dei diritti della categoria magistrale (Chiosso 2007, 102; Barausse 2002). Infine la formazione e l’aggiornamento professionale sono documentati da quella che può considerarsi una piccola biblioteca educativa, pedagogica e scolastica appar- tenuta al maestro e di cui non può che darsi una descrizione sintetica ma sufficiente a documentare il “bagaglio” portato con sé dall’insegnante nell’esperienza tra i ban- chi molisani (D’Alessio 2011). Sono presenti, in particolare, testi di preparazione e studio, tra cui alcune fortu- nate grammatiche dell’Ottocento (Buonsanto, Melga), saggi e “spunti pedagogici” (Portoghese), annuari e manuali scolastici tratti dai supplementi a «I Diritti della scuola» (Caselli), insieme ad alcuni cataloghi di case editrici (in particolare quello relativo ai «libri di testo per tutte le materie di insegnamento nella scuola primaria rurale» dell’attiva sigla siciliana Sandron per l’anno scolastico 1909-10). Non man- cano testi pertinenti l’insegnamento delle singole discipline, specialmente di avvia- mento al comporre (corsi soprattutto di «copiatura, dettato e di memoria secondo i programmi didattici del 1905»), oltre a sillabari e libri di lettura (Curami, Marcati e altri), storia, geografia e nozioni varie (Segalini, Molena, Boni), aritmetica e geome- tria (Cavezzali). Sono inoltre rinvenibili numerosi testi di legislazione scolastica, regolamenti e di- sposizioni ministeriali sulla posizione e la conduzione dell’attività didattica dei ma- estri (leggi sul Monte Pensioni25, per gli esami26, sull’adozione dei libri di testo27) che danno prova del costante aggiornamento sui provvedimenti inerenti la profes- sione docente e ancora una sensibile conferma del grado di consapevolezza circa la normativa in materia di maestri e istruzione primaria promulgata a livello centrale ma, in un più avvertito spirito di categoria, riguardante l’identità e lo stato politico- economico e giuridico-previdenziale, oltre che sociale, di tutta la falange magistrale operante nei più lontani luoghi di scuola in Italia.

Gli esiti di studio

L’esperienza magistrale del molisano è stata sondata attraverso tracce e indizi all’incrocio di più prospettive d’analisi, che dall’itinerario della formazione ricevuta dallo studente vanno all’intera carriera professionale abbracciata nel 1900, fino alla

25 aMCesis, FI, b. Legislazione scolastica, f. Disposizioni intorno alla nomina e al licenziamento dei Direttori didattici e dei Maestri elementari. Modificazioni alla Legge 30 dicembre 1894 sul Monte Pensioni 1903. Firenze: Bempo- rad; f. Regolamento per l’applicazione delle leggi sul Monte Pensioni per gli insegnanti nelle scuole pubbliche elementari approvato con R.D. 23 giugno 1904, n. 635 1905. Napoli: E. Pietrocola Succ. P.A. Molina. 26 aMCesis, FI, b. Legislazione scolastica, f. Regolamento per gli esami nelle scuole medie ed elementari approvato con R.D. 13 ottobre 1904, n. 598 1905. Torino: Paravia. 27 aMCesis, FI, b. Legislazione scolastica, f. Ministero della Pubblica Istruzione 1900. Libri di testo per le scuole elementari, estratto dal Bollettino Ufficiale, n. 39, 27 settembre 1900. Roma: L. Cecchini.

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conoscenza della cultura magistrale in suo possesso ed alla concreta pratica didatti- ca, nei quindici anni d’insegnamento svolto nei paesi rurali molisani. Per tali ragioni, il recupero del volto e dell’identità professionale di Ialenti va a inscriversi nell’indagine interessata alla ricostruzione della storia scolastica locale nel Mezzogiorno d’Italia. Consente, in particolare, di seguire i circuiti formativi meridio- nali che condussero il molisano a conseguire il titolo per diventare maestro, lontano dalla propria regione, attraverso una scelta verso tale professione dettata tanto dall’e- strazione personale familiare quanto dal contesto socio-culturale di provenienza. Fa luce inoltre sui rapporti dei maestri con i comuni dell’Italia liberale, nel corso delle mutazioni politiche e dei processi di nazionalizzazione che agirono sulle dinamiche tra i centri di potere e le periferie educative. Riflette la trasformazione delle culture scolastiche a cavallo di due secoli, con riguardo alla preparazione, il destino profes- sionale e le collegate pratiche didattiche degli insegnanti. Il contributo si appoggia pertanto sul sostrato di studi interessati a ricomporre il “lavoro” dei maestri elementari italiani, all’interno della storia di una professione docente e di una prosopografia collettiva degli educatori dell’Italia scolastica lonta- na (D’Alessio, 2016): documentando uno dei modelli di magistralità, nel passaggio dall’ultimo Ottocento all’avvento del Novecento culturale e pedagogico nazionale.

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19_Recensioni_341_si_stampi.indd 341 18/12/17 16.11 19_Recensioni_341_si_stampi.indd 342 18/12/17 16.11 Maria Teresa Moscato, Michele Caputo, Rosina Gabbiadini, Giorgia Pinelli, Andrea Porcarelli, L’esperienza religiosa. Linguaggi, educazione, vissuti, Milano, FrancoAngeli, 2017, pp. 368.

Il volume è scaturito da una analisi, coordinata da Maria Teresa Moscato dell’Università di Bologna, promossa nel 2010 attraverso la somministrazione di un articolato questionario (pre- sente in allegato al volume, con altre tavole) sulla religiosità e la formazione religiosa. Come scrive la coordinatrice, «la prima parte del volume contiene, subito dopo questa introduzione, il report analitico articolato in quattro capitoli successivi, curati dai diversi altri componenti del gruppo di ricerca (Caputo, Pinelli, Gabbiadini, Porcarelli), relativamente alle diverse parti del questionario utilizzato. L’ultimo capitolo […], curato ancora dalla scrivente, opera una prima rilettura di sintesi di tutti i dati ottenuti. La sezione successiva contiene i contributi di valutazione critica che abbiamo ricevuto da colleghi accademici [E. Becchi, A. Bellingreri, C. Belloni, L. Cantoni, S. Cicatelli, M. Corsi, P. Dal Toso, G. Filoramo, M. Fiorucci, M. Ti- baldi]» (p. 14). Se le illustrazioni dei curatori sono estremamente misurate, come è bene che fossero, gli interventi sollevano varie problematiche. Bellingreri sottolinea come le «microcomunità pos- sono in effetti diventare luoghi di apprendimento e di formazione, quando la condivisione di un ideale di vita riesce nel riconoscimento di un orizzonte di senso più vasto delle vedute personali» (p. 259). Particolarmente interessante è poi l’intervento di Giovanni Filoramo che individua nelle risposte al questionario una sorta di panteismo “strisciante” e un non tanto sottinteso anticlericalismo, rilevando tra l’altro l’assenza della percezione del Male e della credenza nel diavolo. In realtà, nella riflessione sintetica conclusiva la Moscato compendia una serie di aspetti, emersi dalle risposte al questionario, che vanno ben tenuti presente: il Dio venerato è quello cristiano, amorevole e provvidenziale e però collocato in una sorta di teologia processuale (p. 183), come vi è una particolare attenzione alla natura umana di Cristo (p. 188). La coor- dinatrice rileva altresì (p. 194) nelle risposte una spinta alla simbolizzazione e una riduzio- ne del realismo. Inoltre pare che l’immaginazione della Chiesa come mediatrice religiosa sia prevalente rispetto alla stessa pratica religiosa (p. 198), come risulta importante il ruolo della preghiera, della fede nella mediazione della Madonna e della devozione al culto dei santi e ai luoghi di pellegrinaggio. In questo caso la tipologia è determinata «non da una classificazione oggettiva della natura dei luoghi, ma dal collegamento stretto e diretto che il soggetto opera fra il

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 343-355 ISSN 2384-8294

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luogo individuato e citato e la propria esperienza di vita» (pp. 216-217). Emerge pure l’impor- tanza di rinforzare una “pedagogia del testo sacro” (p. 221). Da quanto sopra, si vede come il testo, non potendo né volendo essere conclusivo, rivela modalità di pensiero e una visione spesso incerta della propria esperienza religiosa che pur si vuole collocare all’interno della tradizione cristiana. In altri termini, la fenomenologia della religione (credenza, rito e mito) mentre manifesta la sua complessità, indica altresì le evidenti potenzialità educative tuttora presenti nella dimensione religiosa, la quale però non appare sempre ben delineabile. E tuttavia proprio questo apre un altro problema che merita adeguata considerazione. È fuori dubbio che esista in Italia una diffusa adesione alle confessioni cristiane e in partico- lare al cattolicesimo, come è fuori dubbio che l’accettazione di un “credo” implichi o dovrebbe implicare una sua osservanza con relative conseguenze educative. Ma è altrettanto vero, come del resto si evince dalle risposte al questionario preso in esame nel testo, che esiste una varietà di “intendere” la fede, con una esperienza religiosa che si configura come molto soggettiva. D’Altronde, secondo la Moscato, «la ricerca scientifica e filosofica non può indagare nulla della sfera del trascendente in sé, né in termini negativi, né in termini positivi, e può studiare solo la dimensione umana dell’esperienza religiosa, vale a dire la sua concretezza psichica, fatta di immagini, rappresentazioni, parole, e anche convinzioni e orientamenti razionali, “passioni” intellettuali e morali, nonché di un mondo di relazioni e appartenenze sociali e culturali in cui le persone religiose si inseriscono» (p. 23). Mi sembra di poter aggiungere che la naturale “soggettività” dell’esperienza religiosa si è, storicamente accresciuta, per quanto riguarda i cattolici, in seguito al Concilio Vaticano secondo (1962-1965) che molto aprendosi al sociale ha indebolito la preesistente fenomenologia della religione. Si può constatare che la preesistente osservanza non è travolta (basti pensare al rispetto dei comandamenti mosaici), tuttavia il processo di secolarizzazione è innegabile. L’allontanamen- to (se non proprio la diffidenza) dalla gerarchia (il cosiddetto anticlericalismo), connesso con la forte esigenza del sacro in una società molto edonistica e relativistica, genera così delle forme di esperienza religiosa abbastanza differenti, con conseguente difficoltà di una “pedagogia del testo sacro”. D’altra parte proprio tale situazione induce a forme di riflessione o di militanza confessionale che possono essere non scontate e sinceramente vissute. Lo stesso variegato im- pegno sociale di molti credenti potrebbe sollevare l’esigenza di una nuova evangelizzazione per ridare una unità teologica a fedeli che riducono, per così dire, il loro impegno solo all’inter- no della dimensione temporale, senza affrontare in maniera organica ed adeguata il problema dello spirituale, il quale invece dovrebbe essere preminente nell’homo religiosus. Tenendo presente tutto questo, il volume L’esperienza religiosa non solo offre, con le natu- rali incompletezze, un quadro estremamente interessante del presente, ma stimola un discorso storico-educativo che dovrebbe evidenziare come è andato cambiando il vissuto religioso a partire dal Concilio, quali esigenze si stanno imponendo e in che modo si possa delineare una dinamica educativa che non riduca l’esperienza religiosa ad un impegno sociale e faccia riflettere sui capisaldi dottrinali che vengono talvolta percepiti in maniera ambigua. Tutto ciò consentirebbe anche di comprendere in che misura veramente si vive la propria religiosità.

Hervé A. Cavallera Università degli Studi del Salento [email protected]

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Claudia Pancino, La natura dei bambini. Cura del corpo, malattie e medicina nella prima infanzia fra Cinquecento e Settecento, Bologna, Bononia University Press, 2015, pp. 445.

Presentato a Bologna, nella Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio nel maggio 2016, La natura dei bambini si configura come il libro della maturità della storica Claudia Pancino, una sorta di autobiografia scientifica, transdisciplinare e complessa, ricca di un apparato iconogra- fico che agisce attivamente con il testo, ne accompagna i percorsi e le strade in cui trova spazio una storia sociale dell’infanzia di livello europeo. In questo libro le immagini sono utilizzate come fonti, e analizzate prestando attenzione ad aspetti che gli storici dell’arte spesso trascu- rano: vita quotidiana, scene sacre o popolari che hanno per soggetto putti, infanti, bambini, donne partorienti, Madonne intente ad allattare o ad accudire, non ultimo il dolore della per- dita, mostrato in copertina da una bambina che stringe nella mano il suo uccellino morto, in un quadro di Scuola fiamminga. La perdita e l’impermanenza (l’uccellino morto) sembrano configurare fin dalle prime pagine l’immagine dell’infanzia attraverso i secoli. La salute dei bambini è l’ospite preziosa e attesa di questo lungo studio attorno alla storia della cura e della malattia infantile, e del percorso che va dal loro mondo impenetrabile e cadu- co (la mortalità infantile era altissima fino al secolo scorso) alla scoperta di una scienza che que- sto stato di morte cercava di arginare, la pediatria. Come si è detto, questo libro rappresenta il coronamento della piena maturità di Claudia Pancino, perché riprende e approfondisce tutti i temi cari alla studiosa: la costruzione dell’idea di corpo in epoca moderna, il riconoscimento dell’importanza della nascita e la conseguente attenzione all’infanzia a partire dal momento fondamentale e critico del parto, le rappresentazioni del feto. Nei primi anni Settanta Claudia Pancino era allieva di Chiara Saraceno a Trento, presso la cattedra di Sociologia della famiglia, all’interno di una facoltà viva, dove l’interdisciplinarità era praticata quotidianamente, come ricorda Giuseppe Olmi, sottolineando che il suo debutto nella ricerca, con Il bambino e l’acqua sporca (1984), “fu il debutto innovatore di una giovane storica che amava focalizzare temi scomodi e rivoluzionari”. Marzio Barbagli, sociologo e storico della famiglia, rileva a proposito dei temi centrali del libro, come il tema dell’allattamento o dell’uso delle fasce e della tinozza, che essi riportano ai cambiamenti famigliari e nei rapporti figli-genitori che iniziarono in Europa alla fine del ‘600, e videro flussi non lineari nelle rappresentazioni e nelle pratiche che avevano per soggetto il bambino, un essere molle, le cui membra erano da modellare come cera, un essere senza parole per dirsi, che non lasciava memoria di sé. Il corpo del bambino non parla, non racconta la sua malattia: è un corpo segreto, difficile da interpretare e vissuto come prolungamento del corpo della madre. La mortalità infantile altissima (solo il 50% dei bambini arrivava ai 10 anni e so- pravviveva, e lo ricordano le danze macabre sui muri delle nostre chiese) condizionava l’idea stessa di infanzia. Un famoso proverbio francese recitava: “chi ne ha uno ne ha nessuno”. Ma c’era una differenza fra le cure che ricevevano i principini e i rampolli dell’aristocrazia (spesso seguiti da un medico personale, osservati e curati con attenzione) e i bambini delle classi po- vere, che avranno diritto a cure simili solo tre secoli dopo. Ed è nel corso del Settecento che la medicina si fa politica, il pediatra diventa filantropo, fonda dispensari, ambulatori e ospizi. La lezione metodologica è quella di Philippe Ariès, le cui lezioni Claudia Pancino ha fre- quentato a Parigi, ricavandone la consapevolezza della doppia velocità della storia e delle sue fluttuazioni in diversi contesti. Uomini, donne, bambini, anziani sono visti nelle loro vite pri- vate, davanti alla morte, alle patologie, ai rapporti famigliari, intrecciando osservazione delle

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fonti iconografiche e fonti testuali di diverso tipo (trattati medici, ricette, vocabolari, romanzi, diari), in rapporto dialettico con l’oggi. Un aspetto innovativo è l’inserimento di memorie personali nel libro, che dialogano con le fonti e ne giustificano la presenza. La storica ricollega le fonti all’oggi e alla necessità di quei per- corsi, svela segreti, guida il lettore, come fa Alfred Hitchcock nei suoi film, ha rilevato Giovanni Brizzi. Segue lo sviluppo dell’opera pedagogica di personaggi come Silvio Antoniano, Alessan- dro Piccolomini, aggiunge ricettari ed esamina tipi diversi di fasce, culle, girelli, richiama rimedi attraverso scritti e trattati di medici come lo svedese Nils Rosen von Rosenstein, considerato il padre della pediatria, o di Giovan Battista Palletta e George Armstrong, che compiono osser- vazioni nei brefotrofi. Un glossario e ricche note monografiche sugli autori trattati completano il libro e offrono ulteriori spunti di ricerca, assieme alle fonti che vanno dal II sec. d.C., con le indicazioni per la cura dei bambini di Sorano d’Efeso, alla Practica puerorum dello scienziato persiano Rhazes (IX sec.), ai rimedi di Trotula (XI sec.) al Trattato sui vaioli e i morbilli di Jaco- po Tronconi (1578), a brani da Jean Jacques Rousseau che dedica a neonati e fasce un capitolo nell’Emilio o dell’educazione, alle indicazioni dell’Encyclopédie sui termini Fasciare e Tempera- mento. L’infanzia come tempo del non essere, età senza voce e senza parola diverrà più tardi in Occidente l’età perduta e dell’oro, cui si aspira a ritornare, anche se altrove nel mondo le con- dizioni di incuria e mortalità infantile rimangono impressionanti. Un libro dunque ricchissimo, che aggiunge un importante tassello alla costruzione dell’idea stessa di infanzia.

Loredana Magazzeni Università degli Studi di Bologna [email protected]

Paolo Alfieri, Le origini della ginnastica nella scuola elementare italiana. Normativa e didattica di una nuova disciplina, Lecce-Rovato, Pensa multimedia, 2017, pp. 184.

La ginnastica è stato oggetto della ricerca in ambito pedagogico nelle pubblicazioni degli ultimi anni, che, da un lato, hanno messo in evidenza l’importanza del corpo non più inte- so solo come corpo anatomico (Körper), ma alla luce delle riflessioni di Husserl, concepito come Leib, corpo proprio e vissuto; dall’altro, tuttavia, hanno denunciato una grave carenza metodologica, che tende a ritenere i fondamenti dell’educazione fisica solo di natura tecnica- metodologica. Refrigeri, ad esempio, nel suo studio del 1989 Scienza e pedagogia dell’educazio- ne fisica denunciava la mancanza di uno statuto teorico e pedagogico dell’educazione fisica, invitando gli studiosi a valorizzarne la dimensione educativa, vero e proprio fulcro attorno al quale si struttura questo sapere. L’educazione fisica è ancora un «sapere minoritario» come l’ha definita Zedda nel saggio Pedagogia del Corpo. Introduzione alla ricerca teorica in educa- zione fisica, una disciplina scolastica tesa alla ricerca di un suo statuto epistemologico. In una prospettiva storica, se è vero, come rileva Bonetta nei suoi scritti Corpo e Nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale (1991) e Il tempo storico di Pierre de Coubertin (2003), che la ginnastica nell’Ottocento «si trasformò in un agente efficace di sviluppo dello spirito patriottico, dei legami sentimentali con la patria, ora riscoperta e valorizzata» (Bonetta 2003, XXV), essa ha corso il rischio di essere, a livello contenutistico, «l’emanazione di scelte politiche e di visioni del mondo, anziché derivare da un’analisi obiettiva, libera da pre-giudizi

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e, quindi, scevra da condizionamenti che poco o niente hanno a che vedere con le vere esigenze formative» (Zedda 2006, 98). Il volume di Alfieri si pone, al contrario, l’obiettivo di ricostruire per la scuola primaria italiana ottocentesca un modello di teoria ginnastica scolastica espressione di una volontà politica di riforma, a suo parere scarsamente innervata di spirito etico-militaristico. L’autore circoscrive dunque la sua analisi alle numerose fonti letterarie e normative all’interno di una prospettiva diacronica molto precisa – dalla fine del Settecento al penultimo decennio dell’Ot- tocento – e in relazione a un ambito scolastico rappresentato dal grado d’istruzione primario italiano. La scelta di privilegiare l’analisi alla scuola elementare risponde a una specifica volon- tà d’indagine, tesa non solo a restituire un punto di vista interno alla scuola, ma soprattutto a privilegiare il ciclo d’istruzione primario rispetto a quello secondario «in cui – annota l’autore – come nell’esercito e nell’associazionismo ginnastico, si riflettevano in modo diretto le luci e le ombre di quella temperie culturale e politica che, sviluppatasi al di fuori del contesto sco- lastico, garantì in modo esplicito un sicuro riconoscimento al valore formativo dell’esercizio motorio» (p. 17). È un ambito già indagato in precedenti ricerche da Bonetta, Ferrara (1992) e Magnanini (2005), orientate «all’educazione fisica in modo generalmente eccentrico rispetto ai dinamismi della scuola primaria e ai criteri euristici con cui essi richiedono di essere esaminati» (p. 17). La ricerca di Alfieri si pone sulla scia degli studi di alcuni autori, Manacorda (1998), Ragazzini (2001) e Ferrari-Morandi (2015) i quali, a partire dalla fine del secolo scorso, hanno delimitato la propria indagine al campo della storia della disciplina scolastica dell’educazione fisica all’interno della cornice della più ampia storia scolastica, «mettendone in luce, in parti- colare, l’aspetto educativo, ovvero il contributo che essi han dato alla definizione, in Italia, di una “cultura scolastica” e, insieme, di una “cultura fisica”. Del corpo, si potrebbe dire, a scuola e attraverso la scuola» (Ferrari-Morandi 2015, 17-18). Lo studio di Alfieri si compone di quattro capitoli, all’interno dei quali l’autore si propo- ne di far dialogare le due direttrici di indagine, «ovvero quella che si propone di delineare il profilo normativo della ginnastica come disciplina scolastica e quella che mira a far emergere i risvolti didattici del suo insegnamento» (p. 21). Dopo aver, nel corso del primo capitolo, rag- giunto quello che l’autore, sulla scorta delle più recenti tendenze della storiografia scolastica, individua come uno degli obiettivi fondanti della ricerca storica sulle discipline scolastiche, ovvero indicare la sua comparsa (Polenghi 2014, 640) all’interno dei piani di studio, nel secon- do capitolo la ricerca si sofferma sulla politica scolastica della Destra storica e sugli effetti che questa comportò nel reputare l’insegnamento ginnastico come non prioritario all’interno dei piani di studio degli istituti di primo grado – solo in parte compensati dall’azione educativa e formativa della Società ginnastica di Torino (pp. 51-65) – e su alcuni esperienze locali, già analizzate da Tricomi (2014), D’Ascenzo (2010) e Ghizzoni (2014), che mostrano «quell’etero- geneità di situazioni che caratterizzò la storia delle attività motorie scolastiche in un momento in cui non esisteva un chiaro riferimento legislativo che le normasse all’interno del sistema di istruzione primario del nostro paese» (p. 23). Il terzo capitolo si sofferma sulla legge De Sanctis del 1878 (7 luglio 1878), che contribuì a integrare la disciplina scolastica dell’educazione fisica all’interno dei programmi di studio, sod- disfacendo – almeno in linea teorica – le tre condizioni elencate da Arnaud nel 1989 per con- siderare integrata una disciplina scolastica nuova all’interno dei programmi scolastici (finalità della disciplina, rappresentatività culturale e riconoscimento istituzionale). Il provvedimento legislativo proposto da De Sanctis, inquadrato all’interno della «nuova identità formativa del- la scuola elementare voluta dalla Sinistra storica specialmente attraverso la legge Coppino»

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(p. 24), fu completato nei mesi successivi con l’istituzione dei corsi autunnali di ginnastica (cir- colare 24 agosto 1878) che permettevano ai maestri in servizio di acquisire quella preparazione necessaria per insegnare la nuova disciplina obbligatoria. L’autore considera questo documen- to normativo, insieme ai Programmi e Istruzioni diramati nel dicembre dello stesso anno, come un vero e proprio manifesto della ginnastica per la scuola primaria «perché esprimeva gli indi- rizzi programmatici con cui il Ministero introduceva la nuova disciplina nella scuola elementa- re, indirizzi che De Sanctis volle direttamente partecipare alla classe magistrale e ai vertici dei singoli istituti, contribuendo così a delineare, per la prima volta, una cultura scolastica ufficiale intorno all’educazione fisica scolastica» (p. 118) La circolare, inoltre, «rimarcava il carattere pedagogico della ginnastica che veniva introdotta nel primo ciclo di istruzione con finalità che lambivano solo marginalmente quelle prebelliche, ma piuttosto […] la valorizzazione della dimensione corporea degli alunni, il temperato incanalamento della spontaneità infantile, il principio dell’alternanza tra attività intellettuale e attività motoria» (p. 120). L’autore, inoltre, si sofferma sui manuali adottati dagli insegnanti delle scuole elementari, scritti da Valletti, ispettore centrale per conto della Minerva per la ginnastica, che furono pubblicati tra il 1879 e il 1884 e che «in ragione della posizione istituzionale del loro autore […] rappresentano una importante testimonianza di come l’amministrazione scolastica centrale volesse accompagnare l’introduzione dell’educazione fisica nella scuola elementare» (p. 25). Il quarto capitolo, infine, si sofferma sulle reazioni dei maestri dinanzi alla promulgazione della legge De Sanctis, descrivendone le resistenze alla nuova disciplina scolastica, e sulla pri- ma riforma subita dalla disciplina scolastica della ginnastica nella scuola elementare, così come fu determinata dalla promulgazione dei programmi scritti da Baumann e Valletti nel 1886. La disamina critica rivolta alla Guida illustrata per l’insegnamento della ginnastica nelle Scuole nor- mali ed elementari maschili, scritta dagli autori dei programmi del 1886, sottolinea gli elementi di discontinuità presenti all’interno dei nuovi programmi, in gran parte proposti da Baumann, collegandoli ai programmi del 1888 della scuola elementare scritti da Aristide Gabelli. Nelle Istruzioni generali che precedevano i programmi, l’autore nota come tra le finalità richieste al sistema scolastico elementare nazionale apparisse «il dar vigore al corpo» (Catarsi 1990, 207): le osservazioni contenute nel documento, infatti, legittimavano l’educazione corporea «attra- verso le medesime argomentazioni fisico-igieniche e pedagogiche che avevano ispirato soprat- tutto i programmi di ginnastica del 1886» finalizzati «alla formazione del carattere e, quindi, alla costruzione di una tempra morale capace di contrastare le difficoltà della vita» (p. 173). L’analisi storica dell’autore si arresta alla promulgazione dei programmi compilati da Gabel- li per la scuola elementare del 1888: alla base di tale originale scelta di cesura – rispetto ad altre importanti rotture provocate, ad esempio, dalla promulgazione dei programmi del 1893, che introdussero per la prima volta a livello normativo il termine educazione fisica in sostituzione della ginnastica, e che si basarono su nuovi orientamenti normativi e contenutistici a carattere ludico e igienico rispetto a quelli passati – si sottolineano le «inedite affermazioni di principio a favore di una possibile integrazione dell’educazione del corpo nel curriculo del primo grado d’istruzione, chiamato, in quel decisivo passaggio del suo rinnovamento, a garantire alla gin- nastica una più esplicita legittimazione didattica ed istituzione» (p. 27). Tale scelta, dunque, garantisce così un punto cardine ad quem rispetto alle finalità che caratterizzano il volume fin dal principio delle narrazione, ovvero la ricostruzione delle interconnessioni fra la storia della istruzione tout court e della disciplina ginnastica, nel tentativo di superare la “scotomizzazio- ne” tra gli aspetti fisici e intellettuali dell’educazione, che già Manacorda denunciava con forza nel suo saggio di fine millennio L’unità scotomizzata di istruzione e ginnastica (1998).

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Le premesse metodologiche poste dall’autore all’interno del suo volume sono meritevoli di essere approfondite, non solo come suggerisce egli stesso, all’interno di un contesto diacroni- co più ampio «facendo emergere […] l’intreccio tra il profilo istituzionale di questa disciplina delineato dalla normativa ministeriale e le concrete modalità didattiche con cui si realizzava il suo insegnamento» (p. 180) ma, soprattutto, in relazione a una ricerca storica che privilegi non solo il contesto normativo dell’ordinamento scolastico italiano, ma che sia pronta a ri- volgersi all’ampia documentazione archivistica, tutt’oggi ancora in gran parte sottoutilizzata o addirittura ignorata, costituita dai fascicoli delle carriere degli insegnanti di ginnastica con- servata parte nell’Archivio Centrale di Stato a Roma, parte negli Archivi delle scuole italia- ne. Scopo di questo approfondimento diverrebbe, dunque, quello di verificare, attraverso la ricostruzione dei curricula dei docenti di ginnastica, molti dei quali ottennero incarichi di insegnamento sia nelle scuole primarie, che in quelle secondarie, l’eventuale presenza, all’in- terno del loro percorso formativo, di esperienze maturate al di fuori del contesto prettamente scolastico – come quelle militari, ad esempio – che potrebbero averne influenzato la didattica della disciplina. Proseguendo la ricerca avviata in tale direzione da Ferrara all’interno della documentazione conservata presso l’Archivio Centrale di Stato in Roma, dunque, diverrebbe estremamente interessante comprendere quale simbiosi possa essere stata sviluppata tra una serie di normative di insegnamento della ginnastica nelle scuole primarie che, come ricostru- ito nel volume di Alfieri, non sono riconducibili necessariamente a un orientamento etico- militaristico, e i percorsi formativi degli insegnanti, che potrebbero, invece, avere adattato ai principi e alle competenze maturate in ambiti non esclusivamente scolastici, i programmi e i regolamenti emanati dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nel ricostruire la storia di una disciplina scolastica, infatti, è innegabile che i suoi confini siano tracciati da quella degli insegnanti stessi: come ricordato da Polenghi in un suo recente saggio, per tracciare la storia dei programmi scolastici, è necessario capire come fossero stati applicati nel contesto scola- stico dagli insegnanti: «school actor are not merely executors, they are active interpreters of pedagogical theories and school policy» (Polenghi 2014, 637). Sarebbe necessario indagare, perciò, sulla figura dell’insegnante di ginnastica che – ancora in una petizione che risaliva al 1890, dodici anni dopo la promulgazione della Legge De Sanctis – era percepito, nelle lamentele inviate al ministro Boselli dagli stessi docenti di educazione fisica, non come un educatore «ma un operaio, un altro bidello, uno, infine, che presta un lavoro manuale nello stabilimento d’istruzione. Così col decoro del Maestro se ne va il prestigio della Ginnastica». (Ferrara 1992, 138).

Domenico F.A. Elia Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara [email protected]

Dario De Salvo, La pedagogia del reale di Vincenzo Cuoco (1770-1823), Lecce, Pensa MultiMedia, 2016, pp. 150.

Nell’attuale clima di rinnovata attenzione pedagogica al ruolo dell’istruzione e della educazione quali strumenti rivoluzionari di democratizzazione del popolo, il testo di Dario De Salvo si inserisce come prezioso strumento di analisi del legame, dialettico e sinergico, esistente

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tra pedagogia e politica, storia e cultura, patrimonio ideale ed istruzione. L’autore rilegge l’opera pedagogica di Vincenzo Cuoco tenendo conto della volontà del pedagogista di sanare il dualismo lacerante esistente tra individuo e stato, tra libertà ed autorità, tra cittadino e uomo, colmando, in tal modo, «la mancanza di un adeguato corpus critico sul suo sistema pedagogico e dei relativi approfondimenti sulla formazione della libertà dell’individuo, e per l’altro l’assenza, quasi assoluta, di studi relativi alla teorizzazione di una pedagogia del reale» [Ivi p. 11]. L’identificazione, all’interno della teoria cuochiana dell’educazione popolare, tra educazione e formazione politica del popolo italiano e la consapevolezza che «l’individuo perverrà alla libertà morale e spirituale attraverso la scuola, l’istruzione e l’educazione impartite dallo stato» [Ivi p. 15] ci permette di riconoscere all’interno degli scritti del pedagogista molisano tutte le fondamentali suggestioni che caratterizzano il difficile processo di unificazione politica italiana e specificano la questione risorgimentale come questione educativa e politica. L’originale progetto politico educativo proposto rimane incomprensibile se non lo si contestualizza all’interno del periodo storico di riferimento. Per tale motivo, nella prima parte del testo, il nostro autore propone un’analisi storica del decennio francese di governo nell’Italia meridionale, in particolare del biennio giuseppino (1806-08), caratterizzato da una seria di provvedimenti tesi a introdurre un nuovo ordinamento dello Stato e porre le basi per una nuova organizzazione sociale. Ampio spazio, all’interno del testo, è dedicato anche allo studio degli anni della formazione di Cuoco e alle influenze storico-culturali, filosofiche ed ideologiche che definiscono il pensiero del pedagogista molisano. Tra queste, di fondamentale importanza deve essere considerata la matrice vichiana: la fede nella vita come progresso storico, sorretta da una concezione provvidenziale della storia stessa, finalizzata al miglioramento dell’umanità, rappresentano, infatti, il presupposto che conduce Cuoco a progettare una scuola Universale, Pubblica e Uniforme. Dopo una accurata sezione bibliografica che presenta un corpus di scritti di e su Vincenzo Cuoco [Ivi pp. 81-88], trova spazio nel testo un’appendice ove vengono presentati i due principali documenti testimonianti le vicissitudini storiche che portarono alla promulgazione del Decreto organico per l’instruzione pubblica del 29 Novembre 1811 nel Regno di Napoli che contiene specifiche indicazioni per la vigilanza del Governo del Regno sull’istruzione, per l’organizzazione ed il funzionamento della Direzione Generale della Pubblica Istruzione e per l’organizzazione concreta del sistema scolastico nei suoi vari gradi ed ordini. L’ampio spazio dedicato alla sezione antologica è giustificato dall’importanza dei testi riportati considerati documenti fondamentali per la successiva storia pedagogica italiana. L’attenta analisi critica dell’opera cuochiana qui svolta, ci permette quindi di ritrovare, attraverso una ricostruzione storica e storiografica puntuale, l’importanza della funzione sociale e politica della scuola e la necessità di considerare l’istruzione quale strumento di crescita morale e sociale dell’uomo. Silvia Annamaria Scandurra Università degli Studi di Catania [email protected]

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Mario Gecchele, Simonetta Polenghi e Paola Dal Toso (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Milano, Edizioni Junior, 2017 (collana «Storia dell’educazione in Europa»), pp. 463.

È recentemente stato dato alle stampe il primo volume della collana «Storia dell’educazione in Europa», diretta da András Németh, Simonetta Polenghi e Cristina Yanes, che si propone l’ambizioso obiettivo di pubblicare una serie di volumi in grado di mettere a fuoco i principali snodi della storia dell’educazione europea, avvalendosi di molteplici metodi di ricerca, adoperando focus interdisciplinari e prendendo in esame – da una prospettiva di lungo periodo – le persistenze e le transitorietà che hanno caratterizzato sistemi scolastici e processi educativi nei paesi del nostro continente. Il volume si basa su una considerazione di fondo: dopo un’ampia fase nella quale all’infanzia – intesa come fase dello sviluppo umano – non era riconosciuta alcuna specificità, proseguita per l’intera età moderna, il XX secolo si è aperto con previsioni ottimistiche nei confronti dell’infanzia, assecondate dai continui progressi in campo igienico-sanitario, dal notevole impulso impartito agli studi pedagogici, psicologici e pediatrici e dal crescente benessere socio-economico. Nonostante ciò, è ancora possibile affermare – secondo la nota definizione fornita da Ellen Key nel 1906 – che il XX secolo fu il «secolo dei bambini»? Il «sentimento dell’infanzia» è cambiato o s’è mantenuto inalterato nel corso del cosiddetto «secolo breve»? Il libro si pone queste domande e propone un’ampia riflessione sul ruolo dell’infanzia e dell’idea di infanzia affermatasi durante il secolo scorso, in un continuo gioco di rimandi incrociati tra «cultura infantile» e «cultura per l’infanzia» e tra «infanzia ideale» e «infanzia reale», che rientrano all’interno di un quadro in costante evoluzione. È possibile, infatti, comprendere questi processi e interpretare i profondi mutamenti avvenuti all’interno della nostra società in maniera molto più approfondita adottando una prospettiva di lungo periodo, in grado di storicizzare i fenomeni captando analogie e differenze nei differenti contesti. Per questa ragione, numerosi studiosi – italiani e stranieri – sono stati invitati ad approfondire alcuni aspetti specifici della vita di bambini e bambine (così come la stessa idea d’infanzia) presenti nelle varie società europee nel corso del XX secolo. La parte introduttiva si caratterizza per un taglio eminentemente storiografico, con i contributi di Egle Becchi e Simonetta Polenghi. La seconda parte del volume è dedicata alle condizioni dell’infanzia nei diversi contesti storico-sociali e include i contributi di Hugh Cunningham sul Regno Unito, Michel Ostenc sulla Francia, Carla Ghizzoni sull’Italia fascista, Heidi Rosenbaum sulla Germania nazista, Guadalupe Trigueros Gordillo e Juan Luis Rubio Mayoral sulla Spagna franchista, Dorena Caroli sull’Unione Sovietica, Gabriella Baska e Judit Hegedűs sull’Ungheria comunista e Oana Pavel sulla Romania comunista. I capitoli seguenti – dopo questo primo ampio inquadramento internazionale – si dedicano a ricostruire esclusivamente il contesto italiano e si concentrano su alcune tematiche specifiche, nell’ambito di due categorie fondamentali: i mass media e i diritti dei minori. La terza parte, infatti, è dedicata alla complessa relazione esistente tra i bambini e i mezzi di comunicazione di massa, con i contributi di Ilaria Mattioni su fumetti e giocattoli, Sabrina Fava sui periodici per ragazzi, Alberto Agosti sul cinema e Alessandra Carenzio sulla televisione. La quarta e ultima parte è invece dedicata ai diritti dei minori, così come al loro abuso fisico e maltrattamento psicologico («luci e ombre», proprio come indica il titolo di questa sezione) e include i contributi di Paola Dal Toso sul processo di affermazione dei diritti dell’infanzia, Natale Filippi sul lavoro minorile, Paolo Alfieri sull’educazione religiosa, Anna Debè sull’assistenza

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all’infanzia, Maurizio Millo sull’istituto giuridico dell’affidamento ai servizi sociali, Andrea Bobbio sull’educazione infantile e Lorena Milani sul disagio infantile. Mario Gecchele e Simonetta Polenghi – nelle proprie conclusioni – tentano infine di ricomporre i diversi volti del bambino novecentesco tratteggiati all’interno dei contributi precedenti all’interno di un ritratto multiforme e sfaccettato. Il volume ha il merito di presentare un’analisi storico-educativa del secolo passato che non si limita a esprimere perplessità (le aspettative iniziali sono state rispettate oppure conflitti, regimi totalitari, consumismo e globalizzazione ne hanno impedito il compimento?) e rilevare contraddizioni (oggi l’infanzia è scomparsa – come profetizzato da Neil Postman nel 1982 – o semplicemente l’idea che nutriamo di essa è cambiata?), ma tenta di mettere a fuoco alcune possibili linee di sviluppo.

Juri Meda Università degli Studi di Macerata [email protected]

Mauro Casadei Turroni Monti, Cesarino Ruini (a cura di), Musica ed esperienza religiosa, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 148.

Il volume, frutto di un Seminario tenuto presso l’Università di Bologna, ha lo scopo, come spiegano i curatori nella Presentazione, di «definire e interpretare il rapporto musica/religio- sità, nella consapevolezza che la comprensione di tale rapporto può gettare nuova luce sui processi educativi in genere, e non solo sull’educazione religiosa» (p. 10). Di qui una serie di contributi che attraversa il tempo (dall’antica Grecia ai giorni nostri) e lo spazio (dall’Italia al Giappone). Così Renzo Tosi, trattando della musica e della religione nel mondo greco-romano, rileva che la musica a corda, di cui era considerato sommo maestro Orfeo, «poteva armoniz- zare gli opposti, ripristinare l’armonia della mitica età dell’oro» (p. 19) e quindi pacificare ras- serenando. In questo caso assumeva chiaramente un valore formativo poiché volta a ristabilire l’ordine delle cose. Tale funzione unificatrice è del resto presente nella musica di rito orientale di ispirazione bizantina, ove si ritiene, come sottolinea Serena Facci, che il «canto sacro nato dall’ispirazione divina ha un suo potere sull’animo dei fedeli» (p. 79). In questo senso la mu- sica è insieme mezzo e fine in quanto unifica le creature con lo spirito creatore. Al contrario, annota Enrico Fubini, «nella cultura ebraica diasporica la musica è sempre stata considerata solo un mezzo e non un fine e questo principio rappresenta un po’ come la barriera che divide la musica ebraica da quella del mondo cristiano-occidentale» (p. 93). Invero di indubbio interesse è il libro tutto con i contributi di Cesarino Ruini sulla musica nel Medioevo, di Paolo Gozza sull’educazione musicale del sentimento religioso, di Antonio Serravezza su musica e senso religioso nell’Ottocento, di Mauro Casadei Turroni Monti sulla musica nell’Italia postrisorgimentale, di Raffaele Mellace sul ruolo della musica nella chiesa lu- terana, di Silvia Bruni su religiosità e musica nel Marocco, di Andrea Giolai sul canto liturgico buddhista giapponese. Da parte sua Maria Teresa Moscato affronta in chiave pedagogica il tema di musica ed esperienza religiosa. La studiosa rileva che «il fatto che la musica possa amplificare, intensifica- re o trasformare l’esperienza umana, costituisce un elemento di grande e immediata rilevanza,

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che non solo spiega l’uso di essa nei rituali religiosi, ma suggerisce come essa, intensificando un’esperienza (per esempio la preghiera contemplativa) possa intervenire direttamente nella formazione religiosa, in quanto può ampliare l’intuizione di elementi esperienziali propri della religiosità» (p. 125). Di qui, ricordando suggestioni mitiche, la Moscato tratta del «trasfor- marsi della musica/canto […] in creazione, ma anche del trasformarsi dell’udito in vista, cioè in conoscenza/comprensione che succede ad una creazione» (p. 135). Nella fantasia mitica il linguaggio divino crea nell’esprimersi musicalmente per poi contemplare. Da questi rapidi cenni si può ben capire che il volume non solo è un attento sguardo sto- rico sul rapporto che in diversi culti lega la musica alla religione, ma di conseguenza apre il discorso, in particolare col contributo della Moscato, su un tema mai appieno affrontato e chiarito: quello del valore educativo della musica. E qui il discorso dovrebbe allargarsi anche sugli effetti nefasti di alcune manifestazioni musicali, in special modo dei tempi nostri, ma ciò naturalmente non rientra in Musica ed esperienza religiosa, in cui, invece, le analisi tendono a cogliere un nesso che non può che essere educativo se per educazione si intende il superamen- to dell’attaccamento al mero contingente. Se infatti è difficile pensare ad una religione o a un rito religioso che non utilizzi la musica, se è facile cogliere nella storia, attraverso le loro diver- sità, musiche che esprimono temi religiosi, se è evidente il “contagio” emotivo che la musica sa generare, da tutto questo è chiaro che la musica ha una fortissima valenza educativa. Nello specifico, la musica connessa all’esperienza del sacro non può esserne esente, anzi diviene una modalità di trasmissione formativa eccezionale in quanto non implica un discorso razionale, che richiede codici condivisi, bensì emozionale, che tocca l’interiorità. Invero la prof.ssa Moscato, dopo aver rilevato che il sentimento e l’emozione sono connessi alle paleo-strutture della psiche, giudica che si possa «assumere, per quanto riguarda la prassi educativa, che la musica entri e debba entrare (e dunque essere introdotta in maniera funzio- nale) anche nell’educazione religiosa, ferma restando, poi, la grande varietà delle sensibilità e delle attitudini personali e dunque della esperienze effettive dei singoli» (p. 141). Si tratta di un punto di arrivo interessante e che va preso in debita considerazione. Se la maggior parte dei contributi ha sottolineato, come è giusto che sia, il rapporto tra alcune musiche e la religione, mostrando come l’animus religioso possa anche esprimersi musicalmente, la studiosa rovescia o meglio completa la prospettiva: non è solo la religione a “servirsi” della musica, ma attraver- so la musica si può accedere alla dimensione religiosa. Che non è, si capisce, considerazione errata in quanto la musica sa parlare un linguaggio tutto suo e comunica sensazioni ed emo- zioni. In tal modo l’azione del discorso educativo entra in un ambito di estrema suggestione e importanza. Di questo si era già resa conto nel Cinquecento la Congregazione oratoriana. Infatti, «la musica nell’Oratorio romano (che poteva contare su compositori di prestigio come Animuccia, i fratelli Anerio, lo stesso Palestrina) – scrive Gozza – affiancava una vasta opera- zione pastorale incentrata sul potere taumaturgico del canto, della preghiera, della predica e della schola per raggiungere le anime dei peccatori educandole all’amore di Dio» (p. 35). Non si dimentichi, del resto che lo stesso Marin Mersenne scrisse il Traité de la voix et des chants. Sotto tale profilo, Musica ed esperienza religiosa non solo è un’indagine che illustra e recu- pera un rapporto non sempre evidenziato, ma conferma un percorso di analisi che lo storico dell’educazione non può ignorare.

Hervé A. Cavallera Università degli Studi del Salento [email protected]

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Pablo Álvarez Domínguez (coord.), Los Museos Pedagógicos en España. Entre la memoria y la creatividad, Sevilla, Ediciones Trea – Editorial Universidad de Sevilla, 2016, pp. 260.

Il volume curato da Pablo Álvarez Domínguez è l’esito di un significativo sforzo corale volto a presentare un quadro accurato dei principali musei pedagogici spagnoli, come vengono generalmente chiamati in terra iberica i musei dell’educazione, della scuola e della didattica. Suddiviso in 16 capitoli (più un’interessante introduzione firmata dal curatore dell’opera), il libro presenta altrettante strutture museali, raggruppandole secondo un criterio geografico, quello delle comunità autonome. Non si tratta, è bene evidenziarlo subito, di una mappa dettagliata di tutti i musei pedagogici o i centri di raccolta della memoria educativa presenti in Spagna – una cinquantina circa, elencati e suddivisi anch’essi per area geografica – ma solamente di quelli più rappresentativi e conosciuti. I contributi che compongono il volume sono scritti dai principali studiosi del patrimonio storico educativo e della museologia pedagogica spagnola, non di rado docenti universitari strutturati presso gli atenei cui afferiscono gli istituti descritti. Ogni capitolo raccoglie in maniera analitica le principali informazioni relative alla struttura, corredandole di immagini fotografiche e di riferimenti bibliografici: origini del museo, finalità, sviluppi nel corso degli anni, progetti in corso, attività didattica, espositiva e di ricerca. Il risultato è una ricognizione molto interessante dello stato dell’arte in Spagna, un paese che negli ultimi vent’anni ha conosciuto un intenso sviluppo delle iniziative legate alla ricostruzione storica della memoria educativa. I musei sorti in questi anni, rinnovando l’eredità del Museo pedagógico Nacional, attivo tra il 1882 e il 1941, sono nati con l’obiettivo di diventare «uno spazio intergenerazionale aperto e dinamico, in grado di favorire lo studio, la catalogazione, l’esposizione, l’investigazione, la conservazione, la salvaguardia, le finalità didattiche e la diffusione del patrimonio storico-educativo». I risultati del cammino intrapreso tra gli anni Ottanta e Novanta sono evidenti e tali da aver proiettato la Spagna ai vertici di quelle comunità di ricerca da tempo impegnate nella valorizzazione e nello studio del ricco patrimonio legato alla cultura materiale della scuola e dell’educazione. Anche grazie al ruolo di stimolo alla riflessione ricoperto dai musei pedagogici, negli ultimi anni sono infatti state avviate nuove e feconde linee storiografiche in un ambito di ricerca di notevole interesse per il nostro paese. Nonostante questi lusinghieri risultati, lo sforzo, come ricorda Pablo Álvarez, non può considerarsi concluso, ma deve puntare a valorizzare la funzione culturale ed educativa dei musei pedagogici, destinati a diventare riconosciuti centri culturali di ricerca, insegnamento, interpretazione e divulgazione del sapere storico educativo. Il curatore del testo, dimostrando di aver svolto un’ampia riflessione intorno al tema, illustra in 13 tappe il cammino che ogni museo dell’educazione deve intraprendere per conseguire questi risultati. I principali tra questi, per l’importanza che assumono anche agli occhi degli operatori museali italiani, meritano di essere almeno citati: avviare ovunque la catalogazione del ricco patrimonio storico educativo conservato, operazione fondamentale per collegare istituzioni museali e mondo della ricerca, e, aggiungo io, creare delle banche dati nazionali o internazionali che permettano la ricerca di specifici oggetti (quaderni, pagelle, quadri murali, arredi scolastici, etc.); incentivare l’avvio di progetti europei volti a far dialogare queste istituzioni; rafforzare il legame con il territorio per rendere i musei un servizio alla comunità (se il pubblico non va in museo, bisogna andare a cercarlo, se serve nel quartiere o nei centri minori); digitalizzare le collezioni, così da offrire

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specifici percorsi di visita virtuale; ampliare le proposte didattiche, differenziandole per destinatari e, per quanto riguarda le scolaresche, creando evidenti connessioni con i contenuti curriculari dei differenti livelli scolastici; rafforzare – o creare ex novo – il legame tra queste istituzioni e gli studenti di Scienze della formazione primaria, perché i futuri insegnanti dovrebbero essere i primi visitatori dei musei pedagogici. Come si può evincere da questi brevi cenni, il volume rappresenta non solo un’occasione preziosa per conoscere il ricco panorama dei musei pedagogici spagnoli, ma anche un utile strumento per rilanciare nel nostro Paese la riflessione intorno a queste tematiche. In Italia non mancano apprezzati musei dell’educazione, molto attivi sia sul fronte della ricerca che su quello didattico; tuttavia non è ancora stata creata una specifica Società che, sulla falsariga dell’iberica SEPHE (Sociedad Española para el Estudio del Patrimonio Histórico Educativo), sappia coordinarne le attività, indirizzandole verso obiettivi condivisi e comuni. L’auspicio è che la lettura di questo volume e la diffusione delle buone pratiche intraprese in Spagna siano di stimolo per l’avvio di una nuova, feconda stagione per i musei dell’educazione italiani.

Fabio Targhetta Università degli Studi di Padova [email protected]

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20_Notizie_357_si_stampi.indd 357 18/12/17 16.12 20_Notizie_357_si_stampi.indd 358 18/12/17 16.12 VIII edizione della Summer School Internazionale dei dottorandi di Storia dell’Educazione ad Alghero

Situata a poche centinaia di metri dall’acqua e immersa nel Parco Naturale di Porto Con- te, l’ex colonia penale di Tamariglio – a qualche chilometro da Alghero, trasformata oggi in centro ricerche, area congressi e museo – ha ospitato, dall’8 al 10 giugno 2017, l’VIII edizione della History of Education Doctoral Summer School (HESS), patrocinata dalla fondazione Stichting Paedagogica Historica, dalla britannica History of Education Society, dalla Euro- pean Educational Research Association (EERA), dall’International Standing Conference for the History of Education (ISCHE) e dal Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari. Vi hanno partecipato 30 dottorandi di diverse nazionalità (19 per l’esattezza: Italia, Argen- tina, Svizzera, Spagna, Brasile, Inghilterra, Belgio, Portogallo, Lituania, Austria, Finlandia, Francia, Germania, Cina, Australia, USA, Svezia, Olanda e Giappone) in rappresentanza di 30 differenti istituzioni educative. In un contesto fortemente internazionalizzato, si sono succedute 4 coppie di sessioni pa- rallele, all’interno delle quali gruppi di 3 o 4 dottorandi hanno brevemente presentato la loro ricerca, per poi scambiarsi domande, osservazioni e suggerimenti, sotto la guida dei tutor. In apertura e chiusura delle due giornate 4 degli 11 tutor hanno esposto i risultati delle loro per- sonali ricerche (Iveta Kestere, Propaganda in education: classroom culture under Communism and Nazism in Latvia (1940-1956); Stephen Parker, Faith on the air: religious education on radio and television for children in Britain. Contextual, methodological and analytical issues) o tenuto lezioni sulle novità della ricerca storico-educativa (Eckhardt Fuchs, The transnational dimension of History of education; Kristen Nawrotzki: Collaborative writing for historians of education: technologies, temperaments and teamwork). Durante le discussioni, suddivise per temi (politics and movements; gender; schooling, po- litics of knowledge and identity building; far-right regimes and youth radicalization; media and methodology; educators and educational innovation; body, disability and child care; education, citizenship and state building) è emerso un interesse per le fonti iconografiche, dalle immagini (i.e. Maria Luce Schelvis-Sijpenhof: Teachers, textbooks and black identity: color-blind racism in Dutch education. 1968-2017), al materiale audiovisivo (i.e. Fernanda Franchini, Education on the screen: circulation and appropriation of the newsreels. 1940s -1950s). Accanto a studi più tradizionali, situati nell’ambito della storia biografica (i.e. Luisa Ceccarelli, Ellen Key:

Rivista di storia dell’educazione, 2/2017, pp. 359-364 ISSN 2384-8294

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an european intellectual between Reform pëdagogik and Education nouvelle), o della storia delle politiche educative (i.e. Lorenzo Alba, The Italian communist party’s education policy. 1955-1980), sono emerse soluzioni più innovative, con una netta predominanza della micro- storia (i.e. Augustin Adrián Assaneo, The Aldea Escolar from Villa Llanquin; Carmen Cerdá Mondéjar, The rural school in Murcia during the Second Spanish Republic), spesso rivolte alla scoperta del nesso tra educazione e formazione delle identità di vario tipo, da quella nazionale (i.e. Kathryn Heintzman, Administrating the animal veterinary education and the making of the domestic French. 1761-1814) a quella di classe (Arun Krumar, The promise of education: wor- ker’s nights and childhood). Grande importanza è stata infine assegnata alla metodologia, come hanno testimoniato alcune presentazioni incentrate unicamente su questo aspetto della ricerca (i.e. Lisabeth Matzer, Grasping realities? A methodological approach to research on Nationalist Socialist Youth Organization; Pieter Dirk van Rees, Cases and causes in history of citizenship education). La prossima edizione della HESS, che avrà luogo in Lettonia a Riga, sarà, per gli appassio- nati di Storia dell’educazione, un’occasione imperdibile per cimentarsi con la fetta più vivace della ricerca internazionale di settore.

Lorenzo Alba Scuola Normale Superiore Pisa [email protected]

Imágenes, discursos y textos en Historia de la Educación: cronaca del convegno della società spagnola SEDHE (El Escorial, 19-22 settembre 2017)

Dal 19 al 22 settembre 2017 si è svolto a San Lorenzo de El Escorial (Madrid) il XIX Coloquio de Historia de la Educación, organizzato dalla Sociedad Española de Historia de la Educación (SEDHE), in collaborazione con l’Universidad Complutense de Madrid (UCM), l’Universidad de Alcalá (UAH) e l’Universidad Nacional de Educación a Distancia (UNED). Obiettivo del convegno, dal titolo Imágenes, discursos y textos en Historia de la Educación. Retos metodológicos actuales, era quello di stimolare una riflessione e una discussione intor- no alle nuovi fonti e metodologie adottate dalla ricerca storico-educativa negli ultimi anni, a seguito di un ripensamento storiografico che nella penisola iberica ha trovato alcuni dei suoi più solerti promotori. Facendo dunque il punto della situazione rispetto a questo processo di rinnovamento, che nel tempo ha coinvolto un numero sempre maggiore di studiosi dentro e fuori Europa, le relazioni dei partecipanti sono state ordinate secondo tre macro-categorie tematiche, ovvero le immagini nella storia dell’educazione, i discorsi e il loro impatto sulla pratica educativa e i testi come fonti di ricerca storico-educativa. Più nello specifico, le diverse prospettive euristiche abbracciate dai ricercatori intervenuti hanno spaziato dalla storia delle emozioni al mondo dell’audiovisivo (radio, cinema, pubbli- cità, propaganda); dall’utilizzo di fonti come fotografie, immagini e illustrazioni, all’analisi dei discorsi politici e del loro impatto sulle pratiche didattiche; dalla storia concettuale allo studio

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dei testi e degli scritti scolastici quali strumenti di accesso alla quotidianità interna all’aula scolastica. Punto di contatto fra le differenti questioni è stata l’attenzione precipua agli aspetti metodologici della ricerca, sui quali si è altresì spesso concentrato il positivo confronto in chiusura a ogni comunicazione. A far da cornice alle relazioni degli studiosi, presentate nel corso di sessioni parallele, il pro- gramma del convegno ha previsto due conferenze in plenaria. La prima è stata quella di Ber- nardo Riego Amézaga, dell’Università di Cantabria, il quale, con un intervento su Las imágenes come fenómeno cultural: una necesaria mirada en etapas para abordar los retos actuales, si è soffermato sullo studio delle immagini come sfida interpretativa per gli storici dell’educazio- ne. La seconda, dal titolo Más allá de la fascinación del archivo. Reflexiones sobre las imágenes de infancia a partire de un álbum amateur sobre juegos infantiles (Argentina, 1902), ha invece avuto come relatrice Inés Dussel, del Dipartimento di Ricerca Educativa del CINVESTAV (Messico), ed è stata dedicata alla presentazione di una ricerca da lei promossa su una serie di fotografie di bambini coinvolti in attività ludiche, ampliata nel contempo a un più generale discorso dal taglio metodologico. In aggiunta alle comunicazioni dei singoli ricercatori e alle due conferenze, il convegno è stato caratterizzato anche dalla proposta di quattro simposi, durante i quali sono stati illustrati gli sviluppi di altrettanti progetti di ricerca, tuttora in corso di svolgimento. Al centro del primo simposio, intitolato El control del profesorado no universitario en España (1857-1931) e legato alla ricerca coordinata da Isabel Grana Gil dell’Università di Málaga, sono stati posti alcuni studi condotti in merito al controllo ideologico esercitato da Stato e Chiesa sui docenti spagnoli tra il XIX e il XX secolo, tematica affrontata tramite l’analisi di fonti legislative, riviste, memorie scolastiche e collezioni fotografiche. In connessione al progetto di ricerca diretto da Antonio Francisco Canales Serrano, dell’U- niversità de La Laguna, si è invece svolto il secondo simposio, su La frontera entre ciencia y política y la ciencia en la frontera: instituciones y disciplinas de frontera en la españa de la primera mitad del siglo XX. Nell’ottica di sondare il rapporto tra scienza e politica nei primi decenni del Novecento, i relatori hanno presentato da un lato l’esperienza di due importanti istituti di ricerca spagnoli (la Junta para la Ampliación de Estudios e Investigaciones Científicas e il Consejo Superior de Investigaciones Científicas) e dall’altro il processo di istituzionalizzazione vissuto da alcune discipline definite “di frontiera”, perché sensibilmente influenzate dal conte- sto politico del tempo, tra cui ad esempio la pedagogia. Differentemente da quest’ultimo simposio, il terzo seminario, dal titolo O projeto inovar – roteiros da inovação pedagógica: escolas e experiências de referência em portugal no século XX: reflexões em torno das fontes e das metodologias de pesquisa, ha presentato alcuni esiti del progetto di ricerca diretto da Joaquim Pintassilgo, dell’Università di Lisbona, e ideato con lo scopo di analizzare e mappare l’ampia gamma di scuole ed esperienze educative innovative sviluppate in Portogallo nel corso del XX secolo. In particolare, durante il simposio sono stati presentati alcuni studi inerenti a quattro di queste realtà (il Centro Infantil Helen Keller, il Jardim Infantil Pestalozzi, la Cooperativa A Torre, la Escola Oficina n. 1 e la Sociedade A Voz do Operário), avvicinate attraverso fonti quali i giornali scolastici, i materiali prodotti dagli studenti, le testimonianze orali e le fotografie. L’ultimo simposio del convegno, infine, è stato coordinato da Maria del Mar del Pozo An- drés, dell’Università di Alcalá, coordinatrice del progetto MIRADAS, che coinvolge ricercato- ri di alcuni atenei spagnoli (Isole Baleari, Complutense, UNED, Alcalá), ma anche dell’Univer- sità di Macerata e di Rotterdam. Durante il simposio, i relatori hanno promosso una riflessione

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sul tema Renovación y tradición escolar en España a través de la fotografía (1900-1970), prestan- do dunque attenzione alle immagini fotografiche come rilevanti fonti di indagine storico-edu- cativa, relativamente alle quali sono state avanzate alcune proposte metodologiche e delineate interessanti prospettive di ricerca per il futuro. Si segnala l’intervento, all’interno di questo simposio, di Juri Meda, dell’Università di Studi di Macerata, che ha presentato un lavoro, condotto in collaborazione con Marta Brunelli, su Las orejas de burro: génesis cultural y origen icono-genético de una práctica punitiva escolar. Gli organizzatori delle giornate di studio spagnole hanno poi voluto prendere in esame un aspetto in genere non messo a tema dai convegni scientifici, vale a dire la messa a punto di una didattica universitaria che faccia tesoro dei nuovi indirizzi della ricerca nel campo della storia dell’educazione. Nel corso del workshop dal titolo Propuestas didácticas para la enseñanza- aprendizaje de la Historia de la Educación, coordinato da Andrés Payá Rico dell’Università di Valencia, è stato possibile condividere modalità d’insegnamento della storia dell’educazione ritenute adatte a incentivare la partecipazione e la motivazione degli studenti universitari. I circa 180 relatori provenienti non solo dalla Spagna, ma anche da diversi paesi europei, nonché dall’America del Sud, hanno assicurato all’evento una dimensione internazionale, che ha consentito di approfondire tematiche di comune interesse secondo punti di vista e approcci metodologici eterogenei. In questo clima di proficuo scambio, la nutrita delegazione italiana – formata da A. Bergomi, P. Bianchini, P. Dal Toso, D. De Salvo, G. Genovesi, C. Ghizzoni, J. Meda, M.C. Morandini, S. Polenghi, F. Targhetta e da chi scrive – si è fatta apprezzare spe- cialmente per l’originalità e l’accuratezza dei contributi proposti. È infine interessante notare come l’inserimento della lingua italiana fra quelle ammesse al convegno dimostri il crescente interesse del mondo accademico spagnolo nei confronti delle ricerche promosse all’interno del nostro contesto nazionale, condotte con sempre maggior attenzione e apertura al dibattito internazionale.

Anna Debè, Carlotta Frigerio Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano [email protected], [email protected]

Conference Report ISCHE 39, Buenos Aires, July 17-21, 2017

«Even though, in Latin America, we are celebrating two hundred years of political independ- ence, decolonization is still cause for struggle and debate. It is in the framework of concepts and experiences bound to transculturation, hybridization, and acculturation that we enjoy the op- portunity to add other geographies and temporalities to our historicization of the past and of the present in a process that will undoubtedly prove rich and productive». With this words, Ana Diamant and Luis Garcés, Co-convenors of the ISCHE 39 in Buenos Aires, presented on the printed program the rich and overarching theme of the conference: “Education and Emancipation”. The title itself prompted countless possibilities of debate and reflection, being a century- old problem in education its potentialities as a pathway to emancipation or, conversely, as an instrument of conformism and oppression. History is indeed the discipline that can best con-

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sider this dichotomy in all its scope and diverse incarnations in human societies of all eras (of which a notable portion was represented at the Conference, with studies from Middle Ages – on Thomas Aquinas – to contemporary times). But in the vibrant context of Latin America and especially Buenos Aires, where political debate is still lively (I could see around the city public discussions, demonstrations, political rallies during all my ten days of permanence there) and where the public and civic role of education stands firmly at the center of the stage, the confer- ence theme assumed an even stronger significance, highlighting the multiple possibilities of historical-educational research in public engagement and emancipation advocacy. A political agency all the more emphasized by the passionate and memorable welcome address of the Rector of UMET (Universidad Metropolitana para la Educación y el Trabajo), the institute hosting the conference. All these preconditions prepared the best terrain for further developing ISCHE’s strengths: the multidisciplinary approach to History of Education – historians, sociologists, educators, and teachers, among others, presented papers –; the multilingual and multicultural exchange; the atmosphere of openness and dialogue, where national academic traditions are compelled to confront themselves in a broader and more generous battlefield. And the 2017 conference fully exploited all these premises, offering an invaluable occasion of growth for all participat- ing scholars. In the ISCHE tradition, works were opened by several Preconference Workshops: Educa- tion, aesthetics and visual culture: images in the production of sensitivity; Archives and Museums about the history of education with a view to emancipatory processes; The Visual and History Practice in the Digital Age. The focus on perception, the culture of perception and the memory of (often volatile) educational processes provided a consistent guidance to trace a personal path through the hundreds of papers presented in parallel sessions, while the keynote address- es by Alicia Civera (CINVESTAV, México), Julie Mc Leod (Melbourne School of Education, Australia), Adriana Puiggrós (Universidad de Buenos Aires, Argentina) and Crain Soudien (University of Cape Town, South Africa) refocused during the whole event the emancipatory instances inspiring the program. A Tertulia – inspired to the Spanish tradition of animated intellectual debates to be held in cafés – was organized by the Executive Committee Panel (Karin Priem as chair, Marcelo Caruso, Kevin Myers, Daniel Perlstein, Myriam Southwell) on the subject History of Education and the Rise of New Populisms, and offered the opportunity to discuss and compare both historiographic hypotheses and lines of conduct. It is, of course, impossible to give a complete account of the over 100 panels, each contain- ing from three to five papers: here we will provide an overview of the more represented sub- jects in panels and acknowledge the Italian participation to the conference. Seven panels focused on Gender, Sex and Bodies in the Processes of Emancipation and/or Colonization, further developing the themes of the 2016 Chicago conference (Education and the Body) and emphasizing how instances regarding gender and equality are strongly resented in the educational debate, while six panels about Teachers, Scholars, and Knowledge Institu- tions in Processes of Emancipation and/or Colonization offered a wide range of social, historical and methodological issues about the role of schools and universities in cultural exchange or mechanism of subjugation. Five panels were devoted to Educational Policies and Actors in the Processes of Emancipation and/or Colonization, organized with an extensive international perspective: Nigeria, Portugal, France, Canada, the Baltic Countries, India, Holland, Denmark, Israel, Great Britain were among the countries studied in the papers, in addition to Latin American countries.

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The topic Displaced Identities, Migrations and Exiles in the History of Education hosted six panels, and naturally the subject of “displaced identities” was especially appealing to Italian scholars, three of which presented papers on this topic: Paolo Bianchini’s paper on Italian schoolbooks, Letterio Todaro’s paper on Pino Puglisi and my paper on early American school- books were all proposed during these panels, prompting a fruitful debate with other present- ers on topics such as colonization processes, segregation and desegregation, and laicism and religion in education. A panel was specially built around Italian emigration, a crucial phenomenon in the cultural development of countries as Argentina and Brazil: History of Education and Italian (Im)mi- grants: a Complex History, containing a paper on Italian primers in Brazil by Alberto Barausse, who also presented a paper on “Italianness” in the Rio Grande do Sul and, with Michela D’Alessio, a paper at the Preconference on Archives and Museums. Once more on the crucial issue of gender and equality, the first five female professors in Italy were the subject of the paper presented by Simonetta Polenghi in the panel she organized on The Role of Educational Careers in Women’s Emancipation; Polenghi also chaired the session on Art, Monuments and Museums. Towards a Multisensorial History of Education and, above all, represented Italian educational-historical research as a member of ISCHE’s Executive Committee. The 2017 Conference has proven itself inspirational for the whole Italian group and prompted an even more active engagement in the international dimension of scholarship, fa- cilitating the creation of new networks and, most of all, remembering to each of us the neces- sity of drawing ambitious research plans, while endlessly training our methodological tools in the light of all human sciences and disciplines.

Luana Salvarani Università degli Studi di Parma [email protected]

20_Notizie_357_si_stampi.indd 364 18/12/17 16.12 Periodico del Centro Anno 4° • 2017 numero 2 Italiano per la Ricerca Storico-Educativa RSE c/o Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia

2 /2017 Università degli Studi di Firenze Edizioni ETS RSE ISSN 2384-8294

Editoriale di Stefano Oliviero Educazione, scuola e consumo

Stefano Oliviero, I consumi e la storia dell’educazione Davide Baviello, Storia dell’educazione alimentare in Italia nel Novecento RIVISTA DI STORIA Elena Marescotti, Tempo libero e qualità del consumo culturale: DELL’EDUCAZIONE aspetti politico-educativi nella Recreational Theory di E.C. Lindeman

Livia Romano, L’educazione familiare e il consumo del cinema negli anni Cinquanta tra Nord e Sud d’Italia

Emiliano Macinai, I diritti dei bambini nella società dei consumi: protezione e partecipazione

Juri Meda, Genesi ed evoluzione dei consumi scolastici in Italia tra Xix e Xx secolo

Graziano Mamone, La mercificazione dell’infanzia nella Guerra di Libia. 1911-1912

Domenico Francesco Antonio Elia, Per una mappatura del consumo degli attrezzi ginnici e sportivi nella scuola italiana: i marchi e i brevetti delle aziende italiane nel Ventennio fascista (1922-1943)

Gianluca Gabrielli, La rivoluzione dei consumi vista attraverso i problemi scolastici elementari Rivista di storia dell’educazione

Maria Cristina Morandini, Il boom economico sulle riviste degli insegnanti: uno sguardo alle pubblicità

Stefania Bernini, Consuming Socialists: Children, Families and the State in Postwar Poland

Georgina Maria Esther Aguirre, Ahorro, educación y modernidad. Ensayos de interpretación en una perspectiva de largo aliento

ISBN 978-884675139-3

9788846 751393

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